Vieni con Me

di Celtica
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Vieni con me... ***
Capitolo 2: *** La strada nel bosco ***
Capitolo 3: *** Niente è più lo stesso da quando ci sei ***
Capitolo 4: *** La casa nel bosco ***
Capitolo 5: *** Il matrimonio ***
Capitolo 6: *** La fuga ***
Capitolo 7: *** Sandor Clegane ***
Capitolo 8: *** La casa ***
Capitolo 9: *** A piedi nudi ***
Capitolo 10: *** Era rimasta a guardare ***
Capitolo 11: *** Muro di ghiaccio ***
Capitolo 12: *** Un segreto ***
Capitolo 13: *** Incontri ***
Capitolo 14: *** Neve ***
Capitolo 15: *** Legami ***
Capitolo 16: *** Come una candela ***
Capitolo 17: *** Londra ***
Capitolo 18: *** Di rosso ***
Capitolo 19: *** Io non sono così ***
Capitolo 20: *** Arya Stark ***
Capitolo 21: *** Acqua e Sale ***
Capitolo 22: *** Di nuovo a Casa ***
Capitolo 23: *** So quello che avete Fatto ***
Capitolo 24: *** È solo nebbia ***
Capitolo 25: *** "Vattene" ***
Capitolo 26: *** Per lei ***
Capitolo 27: *** Uccellino ***



Capitolo 1
*** Vieni con me... ***


Vieni con me...

Questa storia è nata come OS grazie a un prompt di Relie Diadamat nella pagina facebook Il Giardino di Efp.

I primi tre capitoli sono da considerarsi come uno solo.
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Trailer


Vieni con Me


n

L

a porta di casa sembra l’unica cosa che ha davanti.
Sansa corre fuori, fuggendo dalle grida di Joffrey, dalle sue mani che, con violenza, si sono strette intorno alla sua gola. Non riesce più a pensare a lui, non riesce a capire come possa essersene innamorata.
Quelle labbra che tanto aveva desiderato le ricordano tanto i vermi, adesso.

Corre lungo le scale, corre per arrivare fuori, sotto il cielo plumbeo, coprendosi il viso con le mani, mentre lacrime salate le rigano il volto. Percorre il marciapiede nel viale alberato, chiedendosi cosa le farà Joffrey quando riuscirà a raggiungerla… Quando lo incontrerà ancora.

Sansa sta tremando.
È primavera, eppure lei trema come una foglia d’autunno, ormai pronta a cadere. Anche Sansa si sente così… Sa di essere perduta. Se Joffrey la mandasse via non saprebbe dove andare, non avrebbe più un posto, una casa…
Non ha più nessuno nella sua vita.

È mentre si stringe i fianchi che l’auto si ferma.

Sansa la riconosce subito: è la vecchia ford di un amico di sua madre.
Sono anni che non lo vede, ne è sicura. I pugni chiusi corrono ad asciugare le lacrime; lei spera che Petyr non si accorga del suo stato.

Dipinge un falso sorriso sul volto prima di cercare il suo viso: è esattamente come lo ricordava, i lineamenti taglienti, il sorriso beffardo, quello sguardo che sembra spogliarle l’anima.

«Sansa» è il suo esordio dopo aver abbassato il finestrino, mentre la fissa negli occhi. «Hai bisogno di un passaggio?»
Lei abbassa il mento, come a rispondere di sì, ma non osa pronunciare quell’unica sillaba. Sa che salire comporterà dei problemi con Joffrey, problemi che non ha nessuna voglia di affrontare.

«Vieni con me» dice Petyr, facendole segno di salire in macchina.
Sansa non sa perché, ma obbedisce. È ciò che ha fatto per tutta la vita: obbedire. Sempre e comunque.

Si sistema sul sedile del passeggero e tiene la testa china.
Vede la mano di Petyr abbassare il freno a mano, sente il motore rombare mentre l’auto comincia a muoversi, ma i suoi occhi rimangono inchiodati sui pantaloni di tela bianchi. Li stringe con le dita, sembra graffiarli mentre una lacrima torna a solcarle la guancia.

Percorrono poca strada, una strada oscurata dalle nubi e dagli alberi folti, quando Petyr si ferma per accostare.
Sansa sente il cuore a mille in quel momento.

Cosa succede? Perché si è fermato?
Non sa cosa pensare, non sa cosa aspettarsi da lui. Ma è Petyr e, anche se lei sa che è sbagliato, sente nascere un barlume di fiducia.

Volta appena il capo, cercando i suoi occhi.
Occhi magnetici, occhi che la scrutano dietro un velo di desiderio. Sansa riesce a sentirlo. Resta immobile a guardarlo, mentre la mano di lui vola verso il suo viso, afferrandole il mento.
Sansa pensa che presto la bacerà, pensa di non riuscire a divincolarsi.

Finché l’espressione di Petyr non cambia…
Sente le dita percorrere la guancia e socchiude gli occhi: è dove Joffrey l’ha colpita, poco prima che fuggisse di casa. Fa male.
E fa ancora più male che Petyr l’abbia notato.

«Perché?» chiede soltanto, percorrendo quel tratto di pelle ricoperto di lividi.
È un tocco caldo, proprio come il calore di cui Sansa sente la mancanza. È lieve, delicato, come una musica suadente.

Sansa frena un singhiozzo, non vuole piangere davanti a lui, ma sente che sta per accadere. Scuote la testa, come a dire che il motivo non c’è, che Joffrey lo fa per puro gusto di picchiarla.
Lo vede avvicinarsi tanto da sfiorarla. Sente le sue labbra sulla guancia, mentre soffia quelle ultime, intriganti, parole.

«Non tornerai più in quella casa.»

È sulle sue labbra che termina.

«Penserò io a te…»
E Sansa resta immobile, pensando che forse, ormai, Joffrey è solo un lontano ricordo.

n

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Capitolo 2
*** La strada nel bosco ***


vieni con me - capitolo 2

Era da tempo che volevo continuare questa storia.
Con un prompt del gruppo
Il Giardino di Efp ho l’occasione per farlo. Ma sappiate che non è ancora finita!
Grazie a tutti quelli che leggeranno.


La Strada nel Bosco

Da quando l’auto ha ripreso la marcia, Sansa è rimasta a quanto accaduto prima con Petyr.
Al suo modo di sfiorarle la guancia, proprio lì dove Joffrey l’aveva colpita, alle labbra di lui che, come nella più tenera delle carezze, si erano soffermate su quel punto dolente.
Si chiede se sia vero: non dovrà più tornare in quella casa? Petyr la porterà lontano, la proteggerà, si prenderà cura di lei?
Come ad aver letto i suoi pensieri, Petyr volta il capo, giusto un istante, il tempo che serve perché quelle parole abbiano effetto.

«Fidati di me.»

Lei osserva le sue mani sul volante, mani che non hanno mai svolto lavori pesanti, mani dalla pelle liscia e dal tocco morbido. È come se Petyr si prendesse molta cura di loro, e a Sansa viene naturale chiedersi se farà lo stesso con lei.
Non ricorda niente di cosa faccia, niente di come viva. Non sa nemmeno se sia sposato.
Non si accorge che l’auto ha svoltato per uscire dalla città. Se ne rende conto troppo tardi, quando riconosce i campi di grano e, in lontananza, il bosco che dà sul lago.
Ha di nuovo paura.

«Dove mi stai portando?»
È un sussurro, ma a lei sembra di averlo gridato.
Si chiede cosa ci sia oltre gli alberi, magari un luogo nascosto dove Petyr vuole farle del male.
Perché, se c’è una cosa che Sansa ha imparato sugli uomini, è che provano piacere a provocare dolore, a terrorizzare le persone, a prendersi gioco delle ragazzine ingenue.
Proprio come lei.

«Ferma la macchina» ordina Sansa, posando la mano sulla maniglia. «Voglio scendere.»
Uno strano sorriso si forma sul volto di Petyr, come se non capisse, come se lei avesse appena detto una pazzia.
«Ma, Sansa…»
«Niente Sansa» dice lei, la voce resa acuta dal tremore. «Fermati. Adesso!»

E Petyr obbedisce.
L’auto si ferma in prossimità del bosco, nel punto dove luce e ombra sembrano rincorrersi, unendosi nel loro gioco d’amore. E un soffio di vento, quello che sembra spingerla a non allontanarsi, percuote le cime degli alberi, facendole tremare.
Anche Sansa sta tremando, ma scende ugualmente, lasciando la portiera aperta dietro di sé.
Non le importa di cosa le capiterà se resta lì, sola. Non le importa di avere paura, di ricordare tutte le minacce di sangue di Joffrey… Le importa solo di essere lontana, di essere in salvo.

L’ombra di Petyr raggiunge la sua, sembra quasi abbracciarla. E Sansa capisce che è dietro di lei.
Si stringe nelle braccia e fissa la sagoma nera sulla strada, come se lo stesse guardando negli occhi.

«Devi fidarti di me!» grida lui, sollevando le mani. «Non ti farei mai del male, Sansa. Mai. Devi credermi!»
«Quando mai non l’ho fatto?»
E si volta con le lacrime agli occhi, abbracciandosi come in un ultimo conforto.

«Vieni con me…» ripete Petyr, avvicinandosi piano, sfiorandole le spalle con le mani. «Vieni.»

Sansa si abbandona alle sue carezze. Avrà tempo di tornare indietro, se vorrà farlo.
Ma non oggi.


n

Note dell'autrice:

Grazie per aver letto questa storia. Contariamente a quanto potrebbe sembrare è una delle mie preferite, tra quelle pubblicate sul sito.
Scriverla è estremamente bello. 
Grazie ancora.

Celtica

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Capitolo 3
*** Niente è più lo stesso da quando ci sei ***


Vieni con me 3

Vi avevo detto che sarei tornata presto!


Niente è più lo stesso da quando ci Sei





Siedi qui
e lasciati andar così.
Lascia che
entri il sole dentro te.
E respira tutta l'aria che puoi…
I profumi che senti anche tu,
sparsi intorno a noi.
(Mediterraneo, Mango)

 

 

S

ui pantaloni di tela, Sansa vede riflettersi giochi di luce e ombra.
Volta il capo verso il bosco, ai lati della strada, e, di nuovo, si chiede dove Petyr la stia portando.
Non riesce ancora a credere di essere fuggita da Joffrey, di non dover più subire le sue mani su di lei… Sfiora con le dita i lati del collo, lì dove si è sentita stringere.
È successo solo un’ora prima, quando ha creduto di morire.
Ora che può farlo, Sansa si trova a chiedersi se davvero lui era pronto a ucciderla. Se non lo avesse colpito fuggendo, cosa ne sarebbe stato di lei?

Guarda il suo salvatore, le mani ferme sul volante, lo sguardo fisso sulla strada che ha davanti.
Troppi se riempiono la sua mente, mentre sente il desiderio di parlargli. Vorrebbe fargli domande, sentire la sua voce, sentirsi dire che andrà tutto bene. Che non dovrà più tornare da Joffrey, che lui non le farà mai del male.
Vorrebbe sentirglielo dire e ripetere, e ripetere ancora, fino alla nausea. Vorrebbe che l’auto si fermasse, che Petyr la stringesse tra le braccia, giusto un momento, solo per poter piangere su di lui.

Quando il mezzo imbocca la strada sterrata, facendola sobbalzare, Sansa ripensa alla città che ha lasciato, chiedendosi quando potrà tornare.
Forse lui vuole solo nasconderla… Eppure, si dice, stringendo le mani sulle gambe, le mancheranno le vie affollate di gente, i palazzi alti che riflettono il cielo. Le luci, che le hanno sempre impedito di guardare le stelle.

«Tutto bene?» le chiede Petyr, allontanando un istante gli occhi dalla strada che ha davanti.
Sansa sente l’auto rallentare, la ventola del motore accendersi, ogni piccolo ostacolo riflettersi sul suo sedile. Sospira, quasi a convincersi della risposta che sta per dare.
«Sì» mormora, facendo un lieve cenno con la testa. «Ora sì.»

Non si volta a guardarlo, eppure sa che Petyr sta sorridendo. È come se la sua espressione fosse impressa in ogni parte dell’abitacolo, nella sua guida tranquilla, nel modo rilassato in cui tende il braccio verso di lei, cercando la sua mano.
Sansa arrossisce quando si sente stringere.
Eppure, eppure quel gesto è la sua salvezza, è più di quanto avrebbe mai potuto sperare di ricevere da Joffrey.
E, quando la mano torna sul volante, è come se qualcuno avesse spento la luce.
Sansa torna a pensare alle cose brutte, ai ricordi dolorosi di ciò che il suo ragazzo le faceva.

In mezzo al bosco appare una piccola radura. Al centro, un lago circondato da cannetti, dalla forma lunga, come se fosse una ferita aperta sul terreno.
È il cuore della terra, pensa Sansa.

«Siamo quasi arrivati» dice Petyr, prendendo un’ulteriore svolta.
C’è una montagna oltre le cime degli alberi. Sansa ne osserva la punta, chiedendosi quanto sia alta.
«È piena di grotte» spiega lui, come ad averle letto nel pensiero. «Un giorno ti porterò lassù.»

Farà freddo, si dice… Ma sarà bello.
In fondo, pensa, Joffrey non l’ha mai portata da nessuna parte, costringendola a rimanere sempre in casa mentre lui usciva.

Quando l’auto si ferma, Sansa vede una baita di legno dai tetti spioventi e le finestre tonde. Ha un che di fiabesco.
Dovrà vivere lì?
Comincia a rimpiangere di essersi fidata di Petyr. Lei non vuole restare lì, non vuole dormire in un bosco, ai piedi di un monte. Vuole tornare in città, sì, vuole andare via.
Potrebbe chiedere scusa a Joffrey, potrebbe andare da qualche parente, tutto pur di non rimanere in quel posto.

«Si tratta di un giorno» Petyr, seduto al suo fianco, inchioda gli occhi ai suoi. «Solo di un giorno. Poi ti porterò a casa.»
«Cosa facciamo qui?»
Dire che ha paura è inutile, Sansa è sicura che lui riesca a leggerglielo in faccia, che non ci sia bisogno di dirglielo.

«Lo faccio per te» continua lui, prendendole la mano. «Tu sai che voglio solo il tuo bene, vero?»
Mille risposte passano nella mente di Sansa, mentre Petyr disegna dei cerchi sul suo palmo.
Un brivido, e un piccolo fuoco comincia ad accendersi dentro di lei.

«Niente è più lo stesso da quando ci sei.»
Lo dice senza pensare, specchiandosi nei suoi occhi che sanno di sale.

 n

 
Note dell’autrice:

Ringrazio Il Giardino di Efp che mi sta costringendo a riprendere sempre questa storia, con le sue sfide e i suoi prompt.
Nel prossimo capitolo scopriremo perché Petyr l’ha portata così lontano. Fatevi sentire, strigliatemi un po’, anche perché arriveranno anche altri personaggi…
Celtica

 

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Capitolo 4
*** La casa nel bosco ***


Capitolo 4

Sorpresa per voi! Trailer



La Casa nel Bosco





 

S

i accorge del vento solo scendendo dall’auto.
Sansa non sa perché lui l’abbia portata lì, non sa cosa voglia Petyr da lei, né cosa succederà dopo. Ha solo paura. E non sapere non fa altro che peggiorare le cose.
«Dove siamo?» domanda, abbracciandosi.
Non può fare a meno di guardarsi intorno, di studiare il modo in cui il sole riflette sulla superficie del lago, e il movimento del bosco di conifere, quasi fosse vivo. La casa, invece, rimane in ombra, ai piedi del monte alto e aguzzo che a Sansa fa tanta paura.
Pensa che se dovesse rimanere da sola, il suo cuore non reggerebbe.
Non potrebbe resistere al grido del vento, al sospiro della notte, al tremore che sembra invaderla, anche adesso. Eppure, pensa, i suoi genitori l’hanno portata spesso in montagna…
Ha sciato, ha camminato lungo i sentieri, ha visto le capriole dei suoi fratelli sull’erba.

Non c’è più nessuno di loro adesso.
O, almeno, così crede lei.

Non sa che fine abbiano fatto da quando si è trasferita nella casa di Joffrey, in città. Ricorda il modo dolce in cui le ha chiesto di uscire la prima volta, i suoi sguardi ammirati, le sue parole dolci.
Per un momento, Sansa torna a chiedersi come abbia preso la sua fuga.
Come avà reagito, vedendola imboccare la porta?
Quando si è accorto che non sarebbe tornata… Che non avrebbe più potuto posare le sue mani su di lei.

«Sansa» la chiama Petyr, raggiungendola alla soglia tra luce e ombra. «Hai freddo?»
La prende per le spalle, tirandola delicatamente verso la casa. Sembra volerla guidare, come a farle capire che d’ora in avanti dovrà ascoltarlo.
O, forse, è lei a vederla così.
È così confusa da non sapere cosa sia giusto e cosa no, ha mille pensieri per la testa, decine di domande che non trovano una risposta. Vorrebbe solo dormire. E dimenticare.
«Vieni dentro.»

Solo allora Sansa sembra ricordare tutto ciò che ha lasciato: l’università, la casa, i pochi amici…
Avrebbe dovuto telefonare a Jeyne quella sera, ma come può pensare di farlo? Cosa potrebbe mai dirle?
E poi, Sansa teme che lei possa riferire a Joffrey, che lui possa venire a cercarla…
Sarebbe orribile.
«Sì…» sussurra, lasciandosi accompagnare sugli scalini dell’entrata. Si ferma a un passo dalla porta, stringendosi nelle spalle. «Perché mi hai portata qui?»

Petyr la guarda.
Occhi attenti la scrutano, mentre lui sembra valutare cosa e quanto dire. Riesce a metterla a disagio, quel sorriso, quello che accompagna ogni sua esitazione.
Sansa non riesce a sostenere il suo viso, così prende a fissare le colonne di legno ai lati della porta. Ci sono delle incisioni e, con orrore, lei legge il nome di sua madre.

Catelyn

È proprio a metà tra Lysa e Petyr. Ma per Sansa è come un tuffo in un passato che avrebbe preferito dimenticare. Sua madre non c’è più… e parlarne non è mai servito a farla stare meglio.
Scorre il dito sulla scritta, come se potesse aiutarla a sapere quando Catelyn è stata in quel posto.

«Te lo dirò» annuncia lui. Per un istante, Sansa si è illusa che fosse la voce del legno… pronta a raccontarle di sua madre. «Ma prima sediamoci. Vieni.»
«No» dice Sansa con voce irremovibile.
Rimane inchiodata lì dove si trova, mentre la mano di Petyr è ancora sul suo braccio.

«Dimmelo adesso» ordina, tirandosi dritta. «Ti prego.»
Vorrebbe tanto fidarsi di lui, vorrebbe sentirsi rassicurare, abbandonarsi alle sue parole giurando di credergli. Ma non riesce.
«Cara…» mormora Petyr, con i suoi soliti sorrisi. Fa un passo indietro e allarga le braccia. «Non voglio farti prendere freddo, ma va bene. Te lo dirò qui.»

Sansa sta già meglio.
Prende un respiro profondo e aspetta, osando di nuovo guardarlo negli occhi. Le dirà la verità? Si chiede. O arriverà a mentirle?
Ogni uomo mente, rammenta lei, mentre il sorriso si spegne sul volto di Petyr.

«Oltre il bosco c’è una chiesetta» comincia, facendo un passo verso la porta. «È piccola, antica, molto romantica…»
Sansa si chiede cosa c’entri… Perché le sta dicendo questo?
«Tua zia Lysa arriverà domattina» confessa infine. «Dobbiamo sposarci.»

È come se il vento si fosse fermato. Come se il sole avesse smesso di illuminare il lago.
Lysa. La sorella di sua madre. La donna che si è rifiutata di raggiungerla per il funerale.
Sansa preferirebbe non vederla… ma non sa come fare. Dove altro potrebbe andare?

«Ah» pronuncia lei, schiudendo le labbra.
Deve aver sgranato gli occhi per lo stupore, perché Petyr è fisso a guardarla. Sente la testa girare e si regge alla colonna, mentre una mano di lui la afferra per il fianco.
«Ti senti bene?»
«No. Io…»
Non termina la frase.

Tutto vortica intorno a lei; il grido di sua madre le perfora le orecchie, e il volto impassibile di suo padre si para davanti ai suoi occhi. Ma sono morti. Sono tutti, irrimediabilmente, morti.
«Sansa!»
Eddard la sta chiamando… Com’è possibile?

Quando la testa smette di girare, e Sansa mette a fuoco il viso che ha davanti, vede Petyr chino su di lei, le sue mani che reggono il suo corpo, scivolato lungo la colonna.
Sono vicini. Respiro su respiro, mentre lui sembra scuoterla.

«Ti porto dentro» dice, aiutandola ad alzarsi. «Devi stenderti.»

Sente le dita di lui sulle costole, una leggera spinta ed è in piedi. È allora che, con il volto nell’incavo del collo di Petyr, Sansa riconosce l’odore di tabacco e menta. Respira sulla lieve barba che gli macchia il viso, mentre gli occhi di lui sono fissi sulle sue labbra.

Non lo conosce affatto, eppure, in quel pochissimo tempo in cui sono stati insieme, Sansa ha imparato a riconoscere quello sguardo.
Sa che sta per baciarla. Lo sente.
E quando lui si avvicina, appena un po’ di più, lei socchiude le palpebre.

Ma non arriva nulla, se non la mano di Petyr a scostarle una ciocca di capelli rossi dal viso. Sorride, in quel modo solo suo, e la accompagna alla porta. È ancora lì a sorreggerla, a guardarla, a sorriderle, quando estrae un mazzo di chiavi dalla tasca della giacca scegliendone una.
Ne ha tantissime, eppure non ha bisogno di osservarle per riconoscere quella che gli serve.

Sansa sente la serratura cedere alla richiesta di Petyr, le basta un istante per ricordare il giorno in cui Robb se n’è andato di casa, anni prima, portandosi via Rickon e Arya.
Non potrà mai dimenticare l’ultima volta che li ha visti, quando lui ha vinto una cattedra a Londra, e i suoi fratelli hanno deciso di seguirlo… Ricorda di aver pianto, di aver stretto Brandon tra le braccia mentre li osservava dalla finestra.
Da quando Joffrey è entrato nella sua vita, non li ha più visti.

“Non mi piace tuo fratello!” Era la frase che ripeteva più spesso, ogni volta che Sansa rispondeva a uno schiaffo con: Robb non lo farebbe mai!

Robb non picchia le donne!

Robb è un uomo!

Erano le sue frasi preferite… Era uguale a colpirlo dritto in viso, rovinando il suo sorriso orrendo.

«Eccola.»
La voce di Petyr, bassa e tranquilla, la riporta nel piccolo chalet, quello con la parete di pietra grezza, con una sedia a dondolo a fianco alla panca rivestita di velluto rosso. Un colore che le ricorda Joffrey.
Sansa odia il rosso adesso.
«Vieni a sederti.»
Lei si guarda intorno, mentre la mano sicura di Petyr le stringe il fianco, accompagnandola proprio dal ricordo del ragazzo che ha lasciato. Appese alle pareti non ci sono fotografie, solo quadri.
Immagini inquietanti.
Leoni che divorano cervi, aquile che stringono tra gli artigli pesci, carcasse di lupi ammucchiate…

Sansa sente la testa girare, di nuovo.
Si abbandona contro lo schienale, striscia le scarpe chiare sul tappeto a righe dorate, cerca di pensare a cosa farà adesso, senza un posto in cui tornare.

“Mi prenderò io cura di te.” Ha detto Petyr. Ma Sansa non ci crede. Non vuole crederci.

Perché dovrebbe, in fondo?
Perché lui dovrebbe occuparsi di lei?

Forse, pensa dopo un momento di esitazione, potrebbe cercare Robb e raggiungerlo al sud… Oppure, e questa idea le piace già meno, informarsi su dove sia finito il suo fratellastro, Jon.
Brandon aveva una teoria su di lui… Diceva che non era davvero figlio di Eddard, diceva che era stato rifiutato da sua madre, e che loro padre aveva insistito per prendersene cura.
Aveva tirato fuori l’ipotesi, assurda, che fosse figlio della loro zia Lyanna, fuggita chissà dove in America quando erano tutti troppo piccoli per ricordare.

Lo squillo di un cellulare sembra farle presente che, ora come ora, Sansa non ha con sé nulla. Non ha documenti, non ha la borsa, non ha il telefono. Non ha soldi.
«Sì?» mormora Petyr al terzo richiamo. Passeggia davanti a lei, scostando la tendina della finestra tonda per guardare fuori. «Sono già qui. Sì, è tutto pronto. Me ne sono assicurato personalmente…»
Con chi starà parlando? Si chiede Sansa.
E quando lui si volta a guardarla, appoggiato con la schiena alla parete, sente un moto di imbarazzo, tanto da abbassare gli occhi.
«Ma certo» continua, con il suo tono enigmatico e allo stesso tempo deciso, inclinando la spalla verso il basso. «Ti aspetto…»
Chiude la chiamata senza toglierle gli occhi di dosso.

«Dove… dove dormirò io questa notte?»
Sansa lo chiede per fargli capire che deve smetterla, che non è bene comportarsi così il giorno prima delle nozze.
«Posso mostrartelo…»
«No» dice Sansa con voce ferma. Si alza in piedi, ravvivandosi i capelli rossi. «Dimmi solo dov’è. Per favore» aggiunge infine, non reggendo il suo sguardo.

Le succedeva lo stesso anche all’università, ogni volta che Loras la raggiungeva in biblioteca per chiederle gli appunti. A Jeyne scappava sempre una risatina… Un suono che Sansa riesce ancora a sentire nelle orecchie.
«Puoi dormire nell’unica camera.»
«E tu?» chiede, troppo in fretta e con un tono troppo ansioso, tanto da far sogghignare Petyr.
«Non preoccuparti per me… Resterò qui sul divano.»
Sansa lancia una veloce occhiata al velluto che ha appena lasciato, ma distoglie subito lo sguardo, imbarazzata.
«Grazie» sussurra.

Raggiunge la prima porta delle tre che ci sono, trovando il bagno e chiudendosi la porta alle spalle. Ha bisogno di una rinfrescata. Ha bisogno di vedere in che stato Joffrey l’ha ridotta, questa volta.
Le serve un momento di coraggio, perché sa che altrimenti scoppierà a piangere, proprio come tutte le volte in cui lui l’ha colpita.
Lo specchio è ovale, dalla cornice nera, e non c’è niente di più di un armadietto di legno scuro in quel bagno, oltre ai servizi. Pavimento e pareti sono identici all’ingresso, e Sansa capisce che tutta la casa dev’essere stata costruita in quel modo.

Finalmente solleva gli occhi, vede se stessa.
Sfiora lì dove Joffrey si è accanito, dove Petyr l’ha baciata. Sullo zigomo dove è comparso un grosso livido violaceo.

E invece ci vado! Aveva gridato lei, alzandosi in piedi.
Non era durata molto…

Ti…prego… Erano state le ultime parole, quando il respiro le era venuto meno, quando ogni frase sembrava un’agonia…

Dopo essersi sciacquata il viso, esce dal bagno e prova la seconda porta, e la trova.
La camera da letto.
Sansa non sa nemmeno di chi sia quella casa. Non sa se appartenga a Petyr o a sua zia Lysa. Non sa chi ha dormito su quel materasso, chi si è coperto con quelle lenzuola nere.
Prima di oltrepassare l’entrata, si volta verso di lui, per vedere cosa sta facendo.

È sempre lì. E la guarda.

La studia come se Sansa non potesse accorgersene, come se non fosse rivolta con il viso verso di lui.
Spinge la porta, lentamente, con gli occhi fissi in quelli di Petyr. Finché non rimane la sua mano sulle tavole di legno. E una strana sensazione dentro di lei.

Tale e quale a Cat.

Non riesce a non pensarlo. Se solo si fosse deciso prima a cercarla, se solo non avesse aspettato tanto… Si è accontentato di Lysa per i suoi soldi, per i suoi capelli rossi ormai sbiaditi, per il sangue che la unisce alla sua Catelyn.

Ma Petyr sa che il loro non sarà un matrimonio lungo…

Chi potrebbe sopportare quella donna?
Eppure, se non avesse chiesto a Varys di tenere d’occhio Sansa, di riferirgli i suoi progressi all’università, mai, mai si sarebbe spinto fino alla città per trovarla.
Un po’ per curiosità, un po’ per un malsano desiderio di rivedere in lei qualcosa di Cat.
E non è servito nemmeno darsi troppo da fare con il vicinato per scoprire i segretucci di quei due ragazzi… Urla ogni sera, piatti rotti, grida di aiuto…
È bastato controllarla un po’ per sapere che, prima o poi, sarebbe dovuto intervenire.
Di certo non si era aspettato di prendersene cura a un giorno dal matrimonio. È pur sempre la nipote di Lysa, e Lysa odia tutto ciò che riguarda Cat. Anche i suoi figli.
Troppo gelosa, troppo possessiva.
Mentre Sansa, Dio, Sansa è uguale a Catelyn! Forse è giusto un po’ più bella di lei, e Petyr non è riuscito a fare a meno di baciarla.
Ma deve trattenersi, adesso… Manca meno di un giorno all’arrivo di Lysa, e dopo, dopo non potrà più guardarla come ha fatto finora, non potrà più desiderarla.
Almeno per un po’…
Almeno finché ci sarà Lysa.

Petyr sa di non essere un santo, sa di avere bisogni incontrollabili, ma ora che ha ritrovato la sua piccola Cat, o una parte di lei, pensa che sarà tutto più facile.
Vuole portarla a casa con loro, anche se è grande abbastanza per vivere da sola. Lysa non potrà dirgli di no, no, proprio non potrà.
Estrae la sigaretta al primo tocco del pacchetto, la porta alle labbra e si avvicina alla porta chiusa dove c’è lei.

È giorno, eppure Sansa sta riposando.
Forse il colpo di Joffrey è stato davvero molto forte… Avrebbe dovuto intervenire prima, lo sapeva, ma sperava di poter aspettare la fine del matrimonio…

Apre la porta e, piano, spinge due dita per guardare oltre la soglia.
Tutto è buio.
La persiana è stata chiusa, e la striscia di luce sembra correre verso il corpo di Sansa. Basta un’altra spinta per illuminarle il volto. Per farle aprire gli occhi.
Petyr soffia via il fumo con il suo mezzo sorriso, riconoscendo la paura in lei.
Vorrebbe poterle dire tutto ciò che ha in mente, tutto le cose che vorrebbe fare, tutti i posti in cui vorrebbe portarla. Ma è troppo presto…
È ancora così innocente, così dolce.

Incrocia le gambe appoggiandosi alla porta, mentre lei si tira a sedere, stringendo le ginocchia al petto. Sembra chiedergli cosa ci faccia lì, e Petyr non tarda a darle una risposta.
«Fumi, Sansa?»
Lei scrolla le spalle, alcune ciocche scivolano lungo il petto, costringendola ad accompagnarle dietro l’orecchio.
«Qualche volta.»

«Fuma con me» aggiunge, facendo alcuni passi per raggiungere il letto. Le offre il pacchetto. «Sono le ultime sigarette che potrò fumare…»

«Perché?»
Sansa ne estrae una dal pacco, gli prende l’accendino dalle mani e una piccola fiamma crea riflessi dorati sul suo viso.
«Non lo sai? Tua zia odia i fumatori.»
«Questo non le ha impedito di sposare te.»
Suona come una sfida, il tono gli ricorda tanto quello di Catelyn. Petyr siede sul letto, un gomito sul ginocchio, e fissa la porta.

«Tu ami mia zia?» chiede Sansa, dubbiosa, come se non ci fosse nessuna linea da oltrepassare.
«Ma certo…»
Lei sembra sul punto di aggiungere altro, ma non lo fa. Sussulta soltanto, quando una mano di Petyr raggiunge il suo viso, tirandolo verso di sé. Si guardano, quando Sansa trova il coraggio di fargli quella domanda. Quella a cui lui non ha nessuna paura di rispondere.
Non con lei.
«Che cosa vuoi?»
«Ogni cosa.»


n

Note dell’autrice:
E rieccomi!
Vi chiedo scusa per la confusione: i primi tre capitoli sono brevissimi, infatti io li considero un unico testo. Una serie di coincidenze mi hanno spinto a scriverli separati.
Ma da questo in poi non credo dobbiate preoccuparvi, questa sarà la media di ogni capitolo!
Grazie mille, grazie per aver letto, per aver aggiunto Vieni con Me alle vostre liste.
Io spero di continuare questa storia insieme. Perché anch’io, come tutti quelli che scrivono e pubblicano su Efp, ho bisogno di sapere che ci siete.
Fatemi sapere cosa ne pensate (anche del trailer). Mi rendereste molto felice!

Celtica

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Capitolo 5
*** Il matrimonio ***


capitolo 5

Trailer


Il Matrimonio





 

N

on è come la ricordava.
Non è nemmeno come nelle foto di sua madre. È una versione imbruttita e invecchiata di Catelyn. Eppure Petyr sorride a braccia aperte, andandole incontro. Sansa lo vede dare un buffetto sulla guancia di Robin, il figlio di Lysa, il cugino che lei non ricorda di aver mai visto.
Ha i capelli neri, tagliati in un ridicolo caschetto, e si stringe a sua madre come un bambino. Ma ha l’età di Rickon… non è poi così piccolo.
È quando gli occhi della zia si posano su di lei, che Sansa sente di nuovo quel tremito. Quello che l’ha legata a Joffrey per tanto tempo… Quello che l’ha fatta sentire come una foglia pronta a cadere.
Sta cadendo, Sansa, lo legge nello sguardo gelido di Lysa, nel modo in cui ha imbronciato le labbra.
Sa di essere stata riconosciuta.

«Petyr» pronuncia, fissandola come se volesse sventrarla. «Posso parlarti un momento?»
Lei rimane ferma dietro la colonna di legno, all’ingresso della casa, con gli stessi abiti del giorno prima. Si tortura un pollice, mentre Robin sembra occupato a studiare la gomma delle ruote nuove dell’auto.

Lysa e Petyr sono poco distanti, le lanciano veloci occhiate, mentre le mani di sua zia sembrano essersi ancorate ai fianchi. Sembra furiosa.
Pazza di gelosia, direbbe Jeyne se ora fosse con lei.
La rimanderanno a casa?
Joffrey accetterà di riprenderla con sé?
No, si ripete Sansa, proprio come ha fatto durante tutta la notte, mai dovrà tornare da lui. Mai e poi mai. Nemmeno se cadesse il mondo.

Quando si riavvicinano, Lysa non la guarda nemmeno, non le parla, si limita a entrare in casa.
«Vieni, bambino mio.»
Robin è proprio come uno di quei cani fedeli: al primo richiamo corre dentro con lei.

Ma è Petyr che Sansa aspetta. Petyr, che deve dirle se restare o andarsene. I loro occhi non si staccano un momento mentre si avvicina pestando l’erba.

«Chi ha fumato qui?!»
Il grido arriva da dentro e serve solo a farla sentire peggio.
«Petyr, non dirmi che hai ripreso a fumare!» Lysa torna fuori come un tornado, spazzando via le poche certezze che Sansa credeva di avere. «Ah, no, dev’essere stata lei. Ma certo! Sei proprio come tua madre!»
«L’ultima sigaretta» mormora Petyr con voce melliflua. «Era la mia ultima sigaretta. Non fumerò più.»
«Me lo giuri? Giuralo, Petyr!»

Sansa sa di aver capito più cose di lui di quante sua zia non potrà mai sapere. Riconosce lo sguardo furbo, il sorriso seducente, le palpebre socchiuse. Sa che sta per mentire. Proprio come ha fatto il giorno prima con lei, quando le ha detto di amare Lysa.
Petyr non può amare sua zia.

«Te lo giuro» pronuncia, portandosi le mani al petto.
«Oh, Petyr…» Lysa gli getta le braccia al collo, lo bacia davanti a Sansa.
Lei ha l’impressione che sia uguale a uno sturalavandini… e prova pena per Petyr.

«E va bene» aggiunge sua zia, staccandosi dalle sua labbra per guardarla. Ha gli artigli conficcati sulle spalle di lui, come se le stesse dicendo che è solo suo. «Puoi rimanere con noi. Un paio di giorni, ha detto Petyr.»
E dopo? Sono le prime parole che vengono in mente a Sansa.
«E la luna di miele?» chiede invece.

Lysa sembrava non aspettare altro… Ride, la mano aperta davanti alla bocca, le dita tra i capelli di Petyr.
«L’abbiamo già fatta. Anni e anni fa.»
«Voi… stavate insieme?» domanda ancora, come se l’occhiata di Petyr non fosse servita ad avvertirla di farla finita.

«Prima di conoscere tuo zio…» spiega Lysa, scambiando uno sguardo con lui. «I giorni più belli della mia vita.»
«Si è trattato di un solo giorno, mia cara...» la corregge Petyr.
«E con questo? Non è forse stato il giorno più bello della tua vita?»
Sansa passa gli occhi da uno all’altra, chiedendosi cosa stia facendo lei lì. Non dovrebbe essere con loro, non dovrebbe sentire certe cose…
«Ma certo…»
«Perché non vi siete sposati?»
Alla terza domanda, Petyr scosta le braccia della sua futura moglie, le fa cenno di volerle parlare. Da soli.

Non camminano molto prima che lui si decida a fermarsi.
La casa si vede da lontano, una macchia scura in mezzo al verde degli alberi. Un falco si abbassa sul lago, infrangendone la superficie con le ali… Sansa pensa di non aver mai visto niente di più bello.

«Che stai facendo?»
È Petyr a fare le domande, ora.
Le prende la mano con dolcezza, intrecciando le dita alle sue.
«Devi fidarti di me» ripete, come ha detto il giorno prima. «Penserò a tutto.»

A cosa? Vorrebbe chiedere, ma resta in silenzio, agognando una di quelle carezze che tanto le sono mancate quando stava con Joffrey.
«Non posso restare con voi…»
«Sì, invece.»
«E dopo? Tra qualche giorno dove andrò?»

Petyr le afferra il viso con entrambe le mani, guardando nei suoi occhi come se potesse leggerle dentro, come se potesse imprimere quelle parole, quelle che sta per pronunciare, a fondo nel suo cuore.
«Ci penserò io. So già dove starai. Verrò a trovarti spesso, non sarai troppo lontana dall’università, vedrai.»
Sansa vuole credergli.
Perché sembra sincero, perché la sta trattando bene. Perché ne ha bisogno.

«Me lo prometti?»
Sente le dita salirle lungo il collo, nel punto dove Joffrey l’ha stretta tanto da ucciderla. Ha la pelle d’oca mentre lo guarda, mentre vede i suoi occhi abbassarsi sulle sue labbra, nel modo che tanto le piace.
«Te lo prometto.»

 

L’ha appena baciata, suggellando il loro matrimonio.

Sorride ai pochi invitati, cerca Sansa seduta tra le prime file, il suo figlioccio Robin stretto vicino a lei. Sono in una piccola chiesa, eppure sembra quasi normale vista da dentro. Lysa ha insistito per riempirla di fiori di ogni colore, per chiamare fotografi e farne un grande spettacolo.
Ma lui si è rifiutato.
Perché avrebbe dovuto accettare? Uno spreco di denaro, nient’altro.
Le ha chiesto lui di sposarsi lì, di chiedere a poca gente di venire, di usare fiori più semplici per addobbare le panche.

Gli istanti successivi scorrono davanti ai suoi occhi senza che la minima emoziona riesca a scalfirlo. Non considera che sia una giornata stupenda, come invece sta ripetendo Lysa. Non grida di gioia mentre esce dalla chiesa tenendole la mano.
Sorride, niente di più.
Ma nessuno potrebbe dire che non sia il suo giorno più bello. Nessuno.
Stanno correndo verso l’auto d’epoca che sua moglie ha tanto insistito per avere.

“Ho aspettato così tanto, Petyr!” Aveva detto, rivedendolo il giorno prima.

È quando salgono, salutando con la mano dai finestrini aperti, che Lysa gli scosta la giacca, aprendo due bottoni della camicia. Sentire il contatto con le sue mani non gli piace, ma si limita a voltarsi e a sorridere, mentre mette in moto.
Non è ancora giunto in momento, Petyr ne è consapevole, ma si tratta solo di qualche mese… Deve sopportarla per poco. Sa già cosa fare di lei.

 

Sansa è rimasta impassibile durante la cerimonia.
Ha battuto le mani, ha sopportato la vicinanza con Robin, ha seguito l’auto per un breve tratto, insieme agli altri invitati. Ha mangiato con loro, ha finto di essere felice di quel matrimonio, ha cercato di accontentare il suo capriccioso cugino in tutti i modi.
Ora che è tutto finito, seduta sul sedile posteriore insieme a Robin, con Lysa e Petyr davanti, Sansa si sente sfinita.

Quando è fuggita da Joffrey non l’ha certo fatto per finire così…
No. Vedere l’amico di sua madre, sentirgli dire quelle parole, sono state come un balsamo per le sue ferite. Quelle che non si vedono, ma che si porta dentro da tanto tempo.
Finché non ha incontrato Lysa…

Pensare di vivere con loro, anche solo per un paio di giorni, la mette a disagio.
Non è più una bambina, potrebbe benissimo vivere in una casa da sola, cercarsi un lavoro, avere altre possibilità.
Ma Petyr ha insistito per occuparsene lui… Ha detto di avere il posto adatto a lei. Un luogo dove solo Sansa potrà vivere.
Non ha soldi per pagare un affitto qualunque, non ha nemmeno i documenti con sé. Dovrà trovare il modo di recuperarli, di riprendere il cellulare, tutto senza incontrare Joffrey…
Finirebbe in tragedia.

Sansa solleva gli occhi, sentendosi osservata. E infatti lui è lì, a guardarla nello specchietto retrovisore.
La mette stranamente in soggezione, come se tutte le sue paure si stessero concentrando sulla zia Lysa. Cosa farebbe, se si accorgesse dei loro sguardi?
Sansa china il capo, i capelli le scendono ai lati del viso, stringe forte le mani.
Ha paura.
Ha paura che tutto ciò che ha vissuto con Joffrey si ripeta.

 

Ha lasciato che fosse Robin a mostrare la casa a Sansa.
Petyr ha preferito non mostrarsi troppo interessato a lei, non dare modo a Lysa di litigare, di lamentarsi ancora. Ma adesso, ora che percorre i corridoi nella luce soffusa, ora che sua moglie sta dormendo, dopo averlo costretto a una notte con lei, Petyr si avvicina alla stanza di Sansa.
Sa che nessuno potrà vederlo, sa che Robin sta dormendo, chiuso a chiave, proprio come l’ha lasciato lui prima di raggiungere Lysa per i doveri coniugali, e sa anche che non dovrebbe farlo.

È bella e dolce come sua madre, ma non è Cat.
Trova la porta semiaperta, la finestra spalancata da cui entra una leggera brezza.
Sansa è sotto le lenzuola, i capelli rossi sparsi sul cuscino, illuminata appena dalle luci della città. I vestiti, che aveva indosso quando le ha chiesto di salire in auto, sono abbandonati su una sedia in fondo al letto, il braccio nudo stretto al cuscino.

“Perché? Perché, Petyr? La vuoi qui perché è la figlia di Cat? Dimmi la verità!”
Lysa lo aveva gridato il giorno prima, quando avevano discusso per Sansa…
“Ho fatto tutto per te! Tutto! E tu ti interessi a una ragazzina… alla figlia di mia sorella!”
Ecco perché avrebbe preferito occuparsi di Sansa con più calma… Senza informare Lysa.
C’è voluto un bacio per convincerla, altri giuramenti, altre promesse.

Petyr scorre l’indice sul braccio scoperto, sente la pelle d’oca, la osserva dormire. Sta sognando.
Lo capisce dal modo in cui stringe le palpebre, da come le dita arpionano il cuscino.
Vorrebbe sapere cosa sta sognando.
Joffrey? Il male che le ha fatto?

Petyr raggiunge la finestra intenzionato a chiuderla: sta per nascere l’alba.
Rimane a osservare la città che si sveglia, i palazzi alti che sembrano ergersi fino al cielo. Guarda dall’alto del loro appartamento, volta il capo in giro, studia le auto che passano sotto casa dal terrazzino.

Un lamento. Sansa si è svegliata.
Non si volta a guardarla, lascia che sia lei ad accorgersi della sua presenza. Qualche istante, e il verso di stupore lo spinge a girarsi.

«Cosa ci fai qui?»
Si porta il lenzuolo fino al mento, stringendolo con due mani. Non sembra intimorita. Non da lui.

«Volevo sapere come hai dormito.»
Petyr fa alcuni passi verso il letto, ignorando il piccolo comò grigio incorporato allo specchio. Ha occhi solo per lei.
«Bene» mormora Sansa, studiando ogni suo movimento.

 

«Oggi vorrei mostrarti la casa vicina all’università. Così da renderla vivibile in un paio di giorni. Ti va di venire con me?»
Sansa vorrebbe tanto dirgli di sì, ringraziarlo e fargli una marea di domande su dove si trovi, quanto spazio avrà, ogni quanto lui verrà a trovarla.
Ma non lo fa.

«Prima devo passare da casa.»
Casa, ha detto, eppure è come se fosse una parola strana nella sua bocca. Ha l’odore del dopobarba di Joffrey, la cucina ha i mobili blu come i suoi occhi, il bagno è giallo come i suoi capelli.
E quelle poltrone rosso sangue… Quelle che Sansa ha tanto insistito per cambiare, senza mai ottenere un sì da lui.
Petyr annuisce con fare pratico.
«Ci andremo oggi.»

Sansa si rende conto che è lunedì, Joffrey tornerà a casa per pranzo. Lei non vuole assolutamente vederlo. Non vuole essere umiliata ancora. Soprattutto, non davanti a Petyr.
«Sì, ma non prima delle tre, ti prego.»
Dallo sguardo di lui, Sansa capisce che sa benissimo perché “non prima delle tre”. Accompagna una ciocca dietro le orecchie, dimenticando, per un momento, che sotto il lenzuolo ha solo l’intimo.
«Non dovresti entrare nella mia stanza così…» aggiunge, stringendo ancora il tessuto contro la pelle. «Se la zia Lysa dovesse scoprirlo… potrebbe pensare male.»
Petyr risponde con il solito sorriso, quello che sembra dire so tutto.

«Ora vorrei alzarmi… e vestirmi.»
Lo dice facendo un cenno verso gli abiti sulla sedia, come a fargli presente che non è vestita. Deve aspettare che esca per poter scendere dal letto, ma Petyr è sempre fermo lì.
«Ti lascio.»
Raggiunge la porta, le lancia una veloce occhiata, e Sansa è di nuovo sola.

 

 

Uno squillo.
Il tempo di infilare la mano nella tasca e ha già smesso.
Petyr osserva lo schermo per vedere chi l’ha chiamato, ma sa già di chi si tratta. Pigia il dito sul cellulare, passa la lingua sulle labbra mentre aspetta di sentire quella voce.
«Pronto?»
«Sì» si limita a dire Petyr, sapendo che Varys aspettava solo quel segnale.
«Baelish… come va la vita matrimoniale?»
Riconosce la risatina all’altro capo del telefono, ma non ha tempo per scherzare. Non ha proprio tempo da perdere.

«Sai perché ti ho chiamato?»

Fa alcuni passi nella stanza, aggira il divano di pelle che Lysa ha conservato dal precedente matrimonio, lancia una veloce occhiata in corridoio per assicurarsi che lei non sia lì a sentirlo.
In genere preferisce uscire per chiamare, fare una passeggiata in città, in mezzo al traffico e al caos, così che nessuno possa sentirlo.
Ma oggi c’è Sansa in casa. Sansa e Lysa, sole, non è un’immagine che riesce a sopportare.

«Puoi averlo fatto solo per due ragioni…» sogghigna Varys, con quel suo fare da prete. «È ancora con te?»
Petyr sorride, si gratta una tempia con fare divertito. Non chiede come faccia a saperlo, sa che il suo “amico” trova sempre il modo di scoprire tutto.
«Ovviamente…»
«Fa che non ci resti a lungo» dichiara Varys, facendosi serio. «Joffrey la sta cercando.»

La giacca leggera di Petyr è appesa all’entrata, sembra riflettere la luce del sole nascente. Non ha bisogno di restare a fissarla per sapere i giochi di luce che inizieranno da quel momento in poi.
Solleva la testa al soffitto, osserva il lampadario di vetro grezzo, ricco di scaglie di pietra. Un dono di Catelyn a sua sorella…

«Lo immaginavo…» risponde lui, ricordando l’espressione severa di Cat, quando le aveva chiesto di non sposarsi. «Oggi dobbiamo passare da casa, però.»
«È una pazzia» esclama Varys, come se non si aspettasse nulla di diverso da lui. «Ha lasciato il suo cane davanti alla porta.»
Un bel modo per avvertirlo della presenza di Sandor Clagane a casa di Joffrey.
Dato il mestiere pubblico di suo padre, Cersei aveva voluto una scorta per la famiglia. E Sandor, Sandor era quello che più spesso faceva visita al suo primogenito.

«Il Mastino?»
«Proprio lui.»

«Preferirei non incontrarlo…» sogghigna ancora Petyr, guardandosi le unghie. Sembra quasi una cosa senza importanza, eppure sa, sa benissimo che con lui non si può scherzare.
«Se vai oggi, l’incontro è certo.»
Sta per ribattere, Petyr, sta per dire che Sansa ne ha bisogno, che ha lasciato i suoi effetti personali a casa, che ha bisogno di riprenderli. Soprattutto i documenti…
Ma il suono della porta lo spinge ad allontanarsi dal corridoio, a rifugiarsi dalla parte opposta del salotto. Pesta il parquet con fare sicuro, mentre si appresta a chiudere la chiamata.
«Ci sentiamo…»

Il pavimento di legno gli rivela dei passi alle sue spalle, ma sono troppo leggeri per appartenere a Lysa. Non si volta, aspettando che lei gli dia conferma della sua presenza. Del suo interesse.
«Chi era?»
Allora Petyr gira la testa, scrutando Sansa con uno dei suoi sorrisi enigmatici. La somiglianza con Cat è così forte che vorrebbe attraversare la stanza e prenderla tra le braccia.
«Sei uguale a tua madre.»
Si avvicina con passo lento, mantenendo il loro contatto visivo, vedendola arrossire appena. Il pericolo è vicino, Lysa è vicina. Ma come potrebbe importargli, proprio ora?
Ora che è così bella.

«Queste guance rosse ti donano, Sansa.»
Ormai è a un passo. Rallenta apposta, per dare modo alla sua preda di velocizzare i battiti. Petyr lo sa, è come nella caccia, sa che basta poco per far sussultare un cuore giovane.
Le sfiora le gote con il dorso della mano, lei non smette di guardarlo.
«Sei ancora più bella di quanto lo era Cat alla tua età.»
Punta le labbra, con gli occhi e con le sue, sa che Sansa non si tirerà indietro, sa che non lo fermerà.
La sfiora appena, sente il sapore di latte e miele, della colazione che non hanno diviso, della pelle morbida sotto la bocca.
Quando si discosta, Sansa è ancora più rossa di prima.
È in quel momento che decide di rischiare. In fondo, cosa potrà mai fargli la guardia del corpo del Sindaco?

Andrà da solo, la lascerà tranquilla qualche ora, aprendosi la strada per la casa di Joffrey. E dopo, dopo tornerà a prenderla, a portarla a riprendere le sue cose.
A lasciare la chiave sul tavolo di Joffrey, magari un biglietto assurdo scritto con la sua penna.
Solo di una cosa è sicuro, solo una cosa non appartiene più al ragazzo.
Petyr ne è certo, perché si tratta di Sansa.
Ora, il suo gioco può cominciare.

 n

 Note dell’autrice:
Grazie mille per essere arrivati fin qui!
Ho intenzione di aggiornare ogni giovedì, di continuare questa storia che, non so perché, mi sta prendendo veramente tanto.
Vorrei ringraziare tutte le persone che hanno aggiunto la storia alle preferite e alle seguite: davvero, mi avete resa felice!
Spero che abbiate visto il trailer, perché rivela molte cose su ciò che accadrà in futuro. Non sarà tutto “latte e miele”, ecco. Ho inserito il genere “thriller” apposta.
Come avrete capito, dal prossimo capitolo entrerà in scena un nuovo personaggio (ma ne arriveranno anche altri, statene certi!).
Fatemi sapere cosa ne pensate, per voi sarà niente, ma per me vuol dire moltissimo!
Celtica

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Capitolo 6
*** La fuga ***


Vieni con me cap 6
Trailer

La Fuga




A

ffacciata alla finestra, Sansa osserva Petyr attraversare la strada, il passo leggermente ciondolante, l’aria furba che non lo abbandona mai.
Sospira, pensando a cosa ne sarebbe stato di lei senza l’amico di sua madre, ora suo zio acquisito, se non fosse intervenuto lui un paio di giorni prima. È stata davvero una stranissima coincidenza: quante probabilità potevano esserci al mondo di incontrare proprio lui sulla strada di casa?
Sansa si morde l’unghia del pollice, guarda le auto fermarsi davanti alle strisce pedonali, lui che si allontana verso il parcheggio.
Ha quasi voglia di chiamarlo.
Se non fosse che non può farlo… Il cellulare è rimasto a casa di Joffrey, e lei non conosce nemmeno il numero di Petyr. E poi, cosa direbbe Lysa se sapesse che si sentono al telefono?

«Vieni, cara» la voce di sua zia sembra arrivare da lontano, quasi come se avesse udito i suoi pensieri. «Vieni di là con me, ci sono dei pasticcini al limone.»
Sansa la raggiunge a passo svelto, con il sorriso di chi comincia a fidarsi.
In fondo, che male potrà mai farle Lysa? È pur sempre sua zia.
«Li adoro» confessa, lisciandosi l’abito verde preso in prestito dall’armadio.

Attraversano la sala, sua zia le prende la mano, Sansa lancia una veloce occhiata a Robin, impegnato con qualche videogioco, cuffie nelle orecchie e occhi fissi sullo schermo.
Sta facendo una strage di nemici, il sangue virtuale vola ovunque, mentre lui grida da vincitore.
«Lasciamolo giocare» dice Lysa, tirandola verso la cucina.
Non ha le mani morbide come sua madre, ma di più… sono unte di crema, un po’ viscide, ed estremamente calde.

«Siedi qui, vicino a me.»
Una sedia viene spostata per Sansa, una sedia rivestita di paglia, su un pavimento azzurro cielo.
Ci sono diversi banconi intorno a lei, tutti dello stesso colore, e un tavolo guarnito di fiori e frutta. I dolci, che lei tanto adora, fanno la loro figura al centro della tovaglia, sopra il disegno di un’aquila in volo.
«Anche tua madre li adorava» racconta Lysa, vedendo Sansa prenderne uno. «Da piccola non faceva altro che ingozzarsi di dolci… Se non si fosse sposata con tuo padre di certo sarebbe diventata una balena.»

Sansa si lecca il dito, posa il dolce sul tavolo con aria colpevole.
Sua madre una balena? Impossibile.
Catelyn era come un giunco e lei non l’ha mai vista mangiare un dolce.

«Davvero, zia? Quando la mamma era viva, lei…» le fa ancora male parlarne, ma in fondo si tratta di sua zia, chi potrebbe capirla meglio di Lysa? «Lei non ci lasciava mangiare molti dolci, giusto una volta a settimana, la domenica. Diceva che potevamo integrare lo zucchero con la frutta.»
Lysa alza gli occhi al cielo, sorridendole.
«Le manie rigide e salutiste di tuo padre!» critica la zia, sporgendosi in avanti, come per invitarla a continuare.
Lei accavalla le gambe sotto il tavolo, tamburella le dita come su una tastiera, è tentata di riprendere in mano il dolce al limone. Ma non lo fa, si limita a fissarlo.
«Sì» ammette Sansa, lanciando una veloce occhiata a Lysa. «Papà era un po’ severo in queste cose… Ma non ci ha fatto mancare mai niente, lui… mi manca. Mi manca tanto, zia.»
Lysa posa la mano sopra la sua, gliela stringe concedendole un sorriso colmo di tenerezza.

«Lo so, mia cara… Lo so» sussurra con fare materno e, per un momento, a Sansa sembra di riconoscere la voce di sua madre. Ma non è lei. «Anche a Robin manca suo padre. È un ragazzo così dolce! Meraviglioso.»
Lei risponde con un sorriso. Non sa cosa dire, non conosce suo cugino, non sa come sia. Ma è in casa sua, ora, non può certo negare quanto sta dicendo sua zia.
«Sarà fortunata la donna che lo prenderà» dice lei, sapendo che è ciò che sua zia vuole sentire.
«Proprio così, Sansa. Molto fortunata.»
Non sa perché, ma le è dispiaciuto cambiare argomento, smettere di parlare dei suoi genitori. Sperava, forse, che Lysa le dicesse qualcosa di nuovo?
Che li facesse rivivere, seppur per un solo istante?

«Puoi prenderlo» continua la zia, facendo un cenno verso il dolcetto. Le sta ancora accarezzando la mano, ma Sansa vorrebbe che smettesse. «Puoi mangiare tutti i dolci che vuoi. Robin non ama il limone.»
«Piacciono a te, zia?»
«Nemmeno.»

La voce di Lysa si è fatta più dura, come se avessero toccato un argomento scottante. Sansa si chiede perché abbiano comprato quei dolci senza l’intenzione di mangiarli.
Le dita di sua zia afferrano le sue, la presa si stringe appena, ma Sansa avverte qualcosa che non va.
«Li ha comprati Petyr» spiega Lysa, guardandola fisso negli occhi. Ha una voce stranamente dolce, stranamente dura, come se stridesse sull’acciaio. «Stamattina. Apposta per te.»
È gelosa.
Non ci voleva un genio per capirlo, eppure Sansa, per un momento, ha creduto che sua zia potesse volerle bene, che potesse voler trascorrere qualche minuto con lei, a parlare di sua madre.
«Petyr è… molto gentile.»
Non sa cosa rispondere, sente la mano di Lysa stringere forte la sua, come se non potesse sfuggirle.
«Sì, Sansa. Come mai?»
Muove leggermente il polso, cercando di liberarsi, di farle capire che non le piace quel contatto, che vuole essere lasciata in pace, che non ha più intenzione di restare lì, in cucina, sola con lei.
«Cosa?» chiede, facendo pressione sulle dita per liberarsi.

«Come mai Petyr è così gentile con te?»

Ha paura, Sansa ha paura. Non ha idea del perché Petyr passasse da quelle parti, perché le abbia offerto di salire in macchina. Non sa come mai sia sceso di prima mattina a cercarle dei dolci al limone. Vuole solo essere lasciata in pace. Perché Lysa non riesce a capirlo?
«Sono tua nipote» tenta infine, sentendo la mano di sua zia uguale a un artiglio nella pelle. «Lo avrà fatto per questo. Per l’affetto che…»

«Tua madre ha cercato di portarmelo via» racconta Lysa, piantando le unghie nella carne.
«Mi stai facendo male… Zia, per favore…»
«Eravamo solo ragazze, Petyr moriva dietro a lei, ma Cat era troppo orgogliosa per volerlo. Credeva di meritare di più» Lysa le afferra il polso con l’altra mano, si avvicina tanto, troppo, e Sansa sente il cuore battere all’impazzata. «Ma c’ero io a consolarlo, povero Petyr… Io. Quando la tua cara madre si è accorta di me e Petyr… beh, voleva raccontare tutto a nostro padre. Ha parlato con lui, gli ha chiesto di lasciarmi.»

Adesso, la tensione che corre nel braccio di Sansa le fa sentire dolore. Le gira la testa, non riesce a capire cosa sia successo, vorrebbe solo andarsene, abbandonare quella casa, non vedere mai più sua zia.
«Per favore…» tenta ancora, ricordando il modo in cui Joffrey le stringeva i polsi per farle del male. Del modo in cui la teneva ferma per i suoi comodi, mentre le lacrime scorrevano sul suo viso udendo la risata crudele di lui.
«Capisci?! È stata lei! È stata Cat a dividerci!»

Lysa ha preso a gridare sul suo viso, il terrore dilaga fuori dagli occhi di Sansa.
«Ti prego! Lasciami, zia!»
«E adesso arrivi tu, proprio ora che possiamo finalmente stare insieme. Perché sei venuta qui, perché? Lo vuoi per te, vero? Sei la sua amante?»
Non sente più la mano, solo tanto dolore, mentre con l’altra cerca di liberarsi. Fa per alzarsi in piedi, la sedia cade sul pavimento, ma Sansa nemmeno se ne accorge.

«No, no!» grida, in lacrime. «Cosa dici? No, zia! Non è così! Per lui sono solo una stupida ragazzina! Ti prego, basta! Lasciami! Dice sempre che sono stupida, che ama te, che ha sempre voluto te! Per favore…»
In un istante si ritrova stretta tra le braccia di Lysa, non riesce a trattenere i singhiozzi, mentre la mano di sua zia le accarezza i capelli. Sansa vorrebbe non sentirla, non saperla vicina, ha solo paura.

 

La casa di Joffrey è in una zona residenziale.
Bei giardini, case grandi, e l’enorme palazzo dove Sansa divideva l’appartamento con lui.

Petyr si appresta ad avvicinarsi al portone, quando lo vede: il Mastino.
Fa la guardia, proprio come un cane. Ha il volto sfregiato, i capelli lunghi che tentano in qualche modo di coprire quella cicatrice, il corpo alto e muscoloso di un buttafuori. Le braccia incrociate sul petto, un lieve accenno di barba, sicuramente mirato a coprire i segni sul viso.
Anche uno stupido capirebbe che è partito tutto da un’idea di Cersei: lei ha sempre creduto di poter comandare gli altri a bacchetta, Petyr lo ricorda bene, anche lui ha lavorato per quella donna.
Bellissima e spietata, sempre attenta a tutto ciò che succedeva.

Lascia la macchina parcheggiata per strada, segue il marciapiede rosso, raggiunge l’entrata del palazzo.
«Clegane!» esordisce Petyr con un sorriso, allargando le braccia. «Sempre di guardia?»
«Baelish…» La voce del Mastino stride, i denti si digrignano quando lo vede. «Che ci fai qui?»
Bambini che gridano correndo alle sue spalle gli lasciano il tempo di pensare a cosa rispondere. Si gratta la tempia, facendo un passo avanti.

«C’è Joffrey? Dovrei parlargli.»

Sandor solleva una mano per fermarlo, ha il volto di un cane rabbioso. Sposta il peso da un piede all’altro con fare nervoso.
Non è mai stato un tipo paziente, Petyr lo ha sempre saputo.
«Dovremmo farci una bevuta, io e te…» mormora lui, come a dirgli che sa benissimo di quanto spesso si ubriachi. «Che ne dici?»
Altro silenzio, il Mastino sembra pronto ad afferrarlo con i denti pur di farlo girare indietro.
Petyr capisce che non c’è modo di farlo spostare da lì, non può portare Sansa a casa, farglielo incontrare. Sa che Sandor la porterebbe dritta da Joffrey, che gliela consegnerebbe come un cane che riporta l’osso al padrone.

Fa per voltarsi indietro, pronto a tornare a casa, quando la voce raschiante del Mastino lo ferma.
«Magari telefona la prossima volta.»
È una battuta, e il sorriso orrendo di Sandor è la più chiara delle minacce.
Il sole mette in risalto le cicatrici, i capelli scuri che cadono a ciuffi per coprirli… Petyr sorride e se ne va.

È tentato di chiamare Varys, di chiedergli come fare per “comprare” il Mastino, ma si risponde da solo: non è in vendita.
Quel poco di dignità che poteva avere è andata a Cersei Lannister, secoli prima.
È troppo tardi per conquistare la fedeltà di un cane. Può solo tornare a casa, sperare che Sansa capisca, che decida di richiedere nuovi documenti, che accetti di farsi comprare un nuovo cellulare.
Raggiunge l’auto con passo sicuro, svelto, apre la portiera senza guardarla nemmeno, i pensieri rivolti altrove.
A una donna che non vedrà più, se non negli occhi di sua figlia.

Mette in moto, guida per un terzo della città prima di raggiungere casa. Spera che Lysa gli lasci un minimo di privacy con Sansa, che non si ingelosisca ancora, che non minacci di nuovo di buttarla fuori dal loro appartamento.
Dopotutto, il piccolo attico è anche suo, ora.
La divisione dei beni è stata sufficiente a fargliene acquisire la proprietà.
Sistema la giacca di pelle scendendo dall’auto, cammina per un breve tratto prima di ritrovarsi davanti alla porta di casa. Ha usato l’ascensore, come sempre, e ora è pronto a infilare la chiave nella serratura.
Ma non ce n’è bisogno…

La trova aperta, socchiusa di due dita appena.
«Lysa?» chiama, chiedendosi cosa possa essere successo durante la sua assenza. «Robin?»
Attraversa l’ingresso: un’unica, enorme, vetrata che si affaccia sulla città. Nel salotto, il suo figlioccio sta giocando a un videogame, Lysa è sdraiata sul divano dietro di lui, intenta a ricoprire di smalto rosso le unghie dei piedi.
«Ho trovato la porta aperta.»
Lei non solleva nemmeno gli occhi, alza le spalle, come se non le importasse, come se non fosse affar suo.

«Dov’è Sansa?»

Quando Lysa lo fulmina con lo sguardo, Petyr capisce che è successo qualcosa in sua assenza.
Corre in corridoio, trova la camera aperta, vuota, la finestra spalancata e le tende che si muovono come onde del mare. Ma lei non c’è.
Petyr controlla in ogni stanza, bussa anche in bagno, prima di aprire per vedere se è lì.
Non c’è traccia.

«Dov’è Sansa?»
Stavolta lo chiede con voce dura, stringendo la mano a pugno.
Lysa è capace di tutto, anche di averla buttata giù dalla finestra. È pazza, malata, e questo, Petyr lo ha sempre saputo. Ma aveva bisogno di lei… Aveva bisogno delle sue terre, dei suoi soldi, dell’influenza che ha Lysa su certi uomini di potere.

«Perché la vuoi tanto?» squittisce sua moglie. Ha le lacrime agli occhi, il pennellino ancora in mano che cola smalto sul divano. «È solo una ragazzina, Petyr!»

C’è corrente, ora.
La finestra della camera di Sansa e quella del bagno, con le porte aperte, hanno fatto entrare troppa aria, e Petyr deve sistemarsi i ricci prima di parlare.
Si avvicina, si inginocchia sul tappeto davanti a Lysa, le sfiora la spalla.
«Ho sposato te, non lei.»
«A volte sembri dimenticartene.»

«Un amico mi ha chiesto di prendermene cura… Non mi importa nulla di Sansa.»
Lysa gli sorride, docile.
Sembra pronta a baciarlo, così Petyr si tira in piedi, aspettando che gli dica quanto vuole sentire.
Cos’ha fatto a Sansa?

«Non lo sapevo… Non mi dici mai niente.»

Petyr trattiene il disprezzo per sé: è sempre stato bravo in questo.
Muove una mano per chiederle di continuare, girando attorno al divano, ma Lysa non sembra intenzionata a sbottonarsi tanto facilmente…
Teme il peggio, eppure rimane impassibile, grattandosi la tempia e aspettando che sua moglie si decida a dirgli la verità.

«Abbiamo parlato» confessa Lysa, evitando i suoi occhi. «Lei ha detto qualcosa e… è andata via.»
«Di cosa avete parlato?»
Lysa muove la testa da una parte all’altra, come se non riuscisse a ricordare.
«Cos’ha detto? Dov’è andata?»
Petyr conosce già la risposta, eppure è da sua moglie che vuole sentirla.

Non sembra intenzionata a dirglielo.
Robin non si è accorto di nulla, con le cuffie nelle orecchie e il volto piantato nel televisore. Indossa ancora il pigiama e ha il mento sporco di latte.
Le gambe di Petyr lo conducono alla porta. Esce senza dire una parola.

 

 

È bastato dire a Lysa di volersene andare per ricevere dei soldi per il taxi.
Sansa non ha dovuto nemmeno chiamarlo… Nel momento stesso in cui ha raggiunto il marciapiede, ecco un’auto gialla arrivare nella sua direzione.
Non si sente più coraggiosa, solo… non le importa.
Ora come ora non le importa di cosa dirà Joffrey, non le importa di cosa le farà. Le basta andarsene, recuperare i documenti, il telefono e i soldi sufficienti per raggiungere Robb a Londra.
Ha pensato di andare da Jon, a nord, ma è bastato un minuto per capire che era un’idea stupida.
Sansa odia il freddo, ha seguito il suo fidanzato nel caldo sud apposta…

Mentre il taxi prosegue la sua corsa, lei ripensa a Petyr: cosa dirà di lei?
Ormai non manca molto. Riconosce gli ultimi isolati prima del palazzo, le case con giardino, i bambini che corrono gridando per strada. Il verde degli alberi che, per un momento, la riporta al bosco dove è stata con Petyr, dove lui l’ha baciata…
Dove l’ha consolata per il suo futuro, dove le ha promesso di occuparsi di lei. Sempre.

«Arrivati.»
Il tassista si volta per prendere i soldi, la guarda uscire dall’auto, ma non dice nulla sul livido giallastro che ha sul viso: ha fatto presto a cambiare colore…
Ma è ancora in bella vista. Sansa lo sa.

Quando scende dal taxi sente le gambe tremare: c’è il Mastino davanti al portone.
L’uomo orrendo dal volto sfigurato, che non sorride mai, la cui sola voce basta per metterla a disagio. È vestito di nero, appoggiato con la schiena al muro rosso, le braccia incrociate sul petto.
Anche lui la vede.
Ed è qualcosa che la uccide dentro. Improvvisamente, Sansa non ha più voglia di proseguire, vorrebbe solo voltarsi e fuggire, ma non riesce a muoversi, ha i piedi inchiodati a terra, le braccia ancorate al corpo.
Potrebbe mettersi a gridare, agitare le mani e attirare l’attenzione.
Ma non ci riesce.
È come se qualcuno avesse tolto il volume dalla sua bocca, come se le avesse tolto ogni energia.

E quando vede Sandor fare alcuni passi verso di lei, si sente perduta.
«Uccelletto» dice lui, sovrastandola con la sua altezza. «Non dovevi tornare.»

Sansa sente la mano possente di lui accompagnarla verso il portone, ma le è tutto così estraneo adesso… Come se non lo stesse vivendo davvero, come se qualcun altro stesse per subire quanto toccherà a lei.
«Ti prego» mormora con voce supplichevole. «Non portarmi da lui…»

Sta per piangere, ma qualcosa la trattiene: la speranza che il Mastino non sia il mostro che ha sempre creduto.
Sì, forse ha capito il motivo per cui è tornata… Forse la sta solo scortando dentro l’appartamento, così che possa riprendere quanto le serve e fuggire via.
Forse, pensa ancora Sansa, Joffrey non è in casa.
Sandor sa cosa le ha fatto… Non può voler vedere altri segni sul suo viso, non può voler sentire altre grida, altre suppliche. Non sarebbe umano.

«Non dovevi tornare» ripete il Mastino con voce dura.
Sembra arrabbiato, la tira per il braccio, la sua presa è salda, eppure non la sta stringendo, non le sta facendo male. E con il fisico che ha, basterebbe davvero poco per distruggerla.
«Cosa ti è saltato in mente?»

Sansa non riesce a rispondere… Si chiede come abbia potuto essere così stupida, cosa le sia passato per la testa quando ha abbandonato il rifugio sicuro che era Petyr.
Lui non le avrebbe fatto del male.
Non l’avrebbe riconsegnata a Joffrey…
Lui voleva solo aiutarla.

«Per favore…» sussurra ancora lei, spingendo la mano di Sandor con la sua.
È ruvida e fredda come il ghiaccio, eppure, nello sguardo di lui, Sansa riconosce qualcosa che è abituata a vedere da tutta una vita.
Qualcosa che ha spinto Joffrey a essere geloso, qualcosa che la fa sentire indifesa davanti a un uomo. Qualcosa che ha letto anche negli occhi di Petyr.

Desiderio.

 n

 
Note dell’autrice:
Grazie per aver letto anche questo capitolo!
E vorrei ringraziare un paio di persone per avermi aiutata a cercare la musica per un altro video su Sansa e Petyr (stavolta non moderno): Rita e Fabio. Grazie di cuore! Rita mi ha fatto un elenco completo di musiche perfette per un video… fino a trovare quella giusta!
Spero di leggere presto le vostre impressioni.
Celtica

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Capitolo 7
*** Sandor Clegane ***


Cap 7


Trailer
e sorpresa a fine capitolo.

Sandor Clegane



n





I

l piede affonda nell’acceleratore, le case e i palazzi scorrono davanti agli occhi come su uno schermo. Sembra non accorgersi della velocità, una mano fissa sul volante, l’altra sul cambio, in un gioco che sa di pericolo.
Perché è tornata? Forse Sansa è davvero stupida come ha sempre detto Cersei. Forse ha deciso di farsi malmenare ancora, mandando in fumo i suoi piani di portarla via da quella casa.
Di una cosa Petyr è certo: Cat non sarebbe tornata.
No, Cat non avrebbe lasciato che qualcuno la picchiasse, lui lo sa bene.

Ricorda il giorno in cui ha fatto a botte con il primo ragazzo di Catelyn… Le grida di lei, che voleva farli smettere, i pianti isterici di Lysa, il pugno che gli ha quasi spaccato la mascella…
Non era mai stato capace di fare a botte, ma voleva farlo per lei, per dimostrarle che l’amava, che la voleva, che era pronto a tutto per averla.
Cat non l’aveva presa bene…
Era corsa dal suo ragazzo, in piedi, che si accarezzava il dorso con cui aveva colpito, e aveva abbassato gli occhi su di lui.

Petyr si era sentito morire.

Non c’era niente in quello sguardo che potesse fargli sperare in un lieto fine, non c’era niente degli anni che avevano trascorso insieme, crescendo e giocando, fino alla sera in cui aveva tentato di baciarla…

Avevano ballato insieme tutta la sera, una festa di paese, Lysa in un angolo a guardarli. Ma quando lui si era avvicinato un po’ di più, quando aveva preso a fissarle le labbra, respirando sul suo viso, Catelyn si era scostata, lasciandolo solo in mezzo alla piazza.
Quanto aveva bevuto quella notte!
Tanto da lasciarsi convincere da Lysa a seguirla, a fingere che si trattasse di sua sorella invece che di lei.
Un’altra, al posto di sua moglie, lo avrebbe colpito, insultato, rifiutato. Mentre lei, sentendosi chiamare “Cat”, lo aveva solo stretto più forte, baciato con più foga, concedendosi completamente.

No, Sansa non è come sua madre.

È più accomodante, meno divertente, più dolce e meno dura.
Eppure, ogni volta che la guarda, Petyr vede Catelyn che gli sorride. Baciarla è come tornare ad avere sedici anni, l’età in cui Cat è rimasta incinta la prima volta… Una bambina che si era lasciata incantare da un rude uomo del nord, una bambina che lui avrebbe voluto per sé.
Petyr non le avrebbe permesso di abbandonare gli studi, non l’avrebbe rinchiusa in una casa a sfornare bambini…

Manca poco, i giardini delle villette indicano che è quasi arrivato.
Vuole riprendere Sansa, vuole una seconda occasione.

Vede i bambini che corrono ai lati della strada, un cane dietro di loro, le madri, sedute sulle panchine del marciapiede, intente a parlare. C’è un furgoncino parcheggiato davanti al palazzo, sulla fiancata ha disegnate delle rose.

Di Sansa non c’è traccia.

Che sia già entrata? Che lo abbia già rivisto?
Magari è troppo tardi per salvarla, magari è lei a non voler essere protetta.
Petyr accosta l’auto davanti alle panchine delle madri, inserisce le due frecce e scende, sistemandosi la giacca. Solleva lo sguardo al balcone di Joffrey, vorrebbe sapere cosa sta succedendo là dentro, se Sansa sia con lui…

Guarda ai due lati della strada prima di attraversare, anche se non ce ne sarebbe bisogno. È una strada tranquilla, sempre vuota.
Ma c’è una cosa che Petyr nota prima di raggiungere il portone… L’assenza del Mastino.
È un brutto segno, perché può voler dire solo una cosa.

Cerca il nome Baratheon sul citofono, vede il dito tremare lievemente mentre preme sul bottone, la sensazione che sia troppo tardi annidarsi dentro di lui.
Suona ancora e ancora, ma continua a non rispondere nessuno…
Forse si è sbagliato, forse Joffrey è andato via, forse ha portato con sé Sandor Clegane.

Petyr schiaccia tutti i bottoni a caso, premendo il palmo sulla superficie, finché una voce non parla all’interfono.
«Chi è?»
«Devo fare una consegna.»

Nel momento in cui il portone si apre, Petyr si sente attraversare da un brivido.
È ora.
 

 

Sansa ricorda la prima volta che ha incontrato il Mastino.
Joffrey le aveva preso la mano, le aveva sorriso, l’aveva rassicurata. “Non si muove se non lo dico io.”
Le era sembrata una cosa bellissima, come se il suo ragazzo fosse stato un cavaliere e lei una principessa in pericolo.
Aveva fatto presto a cambiare idea…

Il primo schiaffo in pubblico, lo sguardo raggelante di Cersei, l’impassibilità di Sandor.
Nessuno aveva detto nulla al grido di Joffrey: “Sta zitta! Devi stare zitta quando parlo io, capito?!”
Non una parola per difenderla, non un gesto per dirle che non sarebbe più successo…
Sansa si era illusa che fosse solo un momento di rabbia, che non sarebbe più accaduto, che se fosse rimasta in silenzio più spesso Joffrey non l’avrebbe più toccata.

Ora, mentre il Mastino la trascina per le scale, mentre lei implora di lasciarla andare, che non tornerà più, che non dirà mai nulla che possa rovinare la reputazione di Joffrey, pensa alla promessa di Petyr.

“Non ti farei mai del male.”

Allora perché è tornata? Perché non è rimasta con lui… Sansa non fa altro che ripetersi che arriverà presto a salvarla, che impedirà a Joffrey di toccarla ancora.
Ma sa che non è possibile.
Così come sa di non dover smettere di illudersi. Come potrebbe affrontare quel mostro, altrimenti?

«Lasciami andare!» tenta ancora, quando riconosce il piano di casa sua.
Sandor si ferma un istante, le lancia una veloce occhiata, fa un sospiro pesante.
«Sai che non posso…»
La cicatrice sul suo viso sembra pulsare, le guance si colorano di rosso mentre parla. Allenta appena la presa sul suo braccio, come se l’ultima cosa che volesse fosse riportarla da lui.
«Non contraddirlo, dagli ciò che vuole… Smetti di farti del male.»
«E come?» mormora Sansa mordendosi il labbro. «Come?! Ogni scusa è buona per picchiarmi… E tu non fai niente.»

Lo sguardo che le lancia ora è di rimprovero, come se avesse sbagliato a fare quell’accusa. La prende per le spalle, scuotendola come una bambola di pezza.
«Sono fottuto, ragazzina» ringhia sul suo viso, facendola tremare. «Non c’è niente che mi dia piacere quanto la vista del sangue… Ma cosa pensi accadrebbe se toccassi Joffrey?»

Quando la lascia andare, Sansa pensa al sapore del sangue nella sua bocca, ai lividi sulle braccia, ai segni sulle gambe. È quasi tentata di mostrarglieli, di costringerlo a guardarli, a ripetere quelle parole dopo aver visto ciò che gli abiti celano.
Sandor non è mai stato presente durante quei momenti.
Eppure, Sansa è convinta che abbia sentito tutto, che sia rimasto con l’orecchio attaccato alla porta, a godersi le sue urla di dolore.
«Sei crudele.»
Tutto l’odio che prova per Joffrey, tutta la paura che ha, si tramutano in rabbia verso il Mastino, che è lì davanti a lei, come un prezzo da pagare per le pene che sta per subire.
La sua piccola rivincita, che non sa di niente, Sansa se la prende con lui, guardandolo con astio, scrutandolo con ribrezzo.

«Vieni» ordina il Mastino trascinandola per un braccio.

Stavolta lei lo segue, docile, sapendo che tentare di fuggire sarebbe inutile. Guarda la porta nera, il nome dei Baratheon inciso in caratteri dorati, e i primi ricordi di lei, di loro, le tornano alla mente.
“Ti piacerà, vedrai.” Joffrey usava un sorriso così dolce, a volte… da farla sciogliere. “Ho fatto cambiare la tappezzeria tre volte. Non mi soddisfaceva mai… Hai proprio un bel viso, Sansa.”
E il bacio, il bacio più romantico che le avesse mai dato, proprio davanti all’entrata, un momento prima di attraversare l’uscio e restare incantata dai mobili.

“Guarda!” Aveva gridato entusiasta, mostrandole il pomello a forma di testa di leone. “Ti piace? Lo ha fatto fare mia madre per me.”

Mentre il Mastino posa la mano sulla criniera lucida, Sansa prova un senso di nausea all’idea di rivederlo, di rimettere piede in quell’appartamento.
Le fauci del leone attirano il suo sguardo, mentre Sandor infila la chiave nella bocca aperta dell’animale, ma un istante prima che possa far scattare la serratura, la porta di fronte si apre.

«Sansa!» Margaery si porta una mano sul petto, un’espressione stupita sul viso. «Mio Dio, per fortuna stai bene.»
La scollatura a V mette in risalto il seno, mentre l’abito color crema le scende fino alle ginocchia. Ha due spacchi ai lati, delle rose dorate ricamate in vita, e le spalline corte e svolazzanti.
Margaery era stato uno dei motivi per cui Joffrey l’aveva colpita.

“Ho visto come la guardi.” Lo aveva accusato, Sansa. Ed era stato il suo più terribile errore… “So cosa vorresti…”

Sbam.
Un colpo ed era finita a terra.

“Robb non lo farebbe mai!”
Il pugno di Joffrey aveva preso a torcersi davanti a lei, le venature della mano in bella mostra.

“Robb è un uomo! Non è come te.”

Era stato quando aveva cercato di rialzarsi che lui l’aveva afferrata per la vita. L’aveva stretta a sé con la fretta di un amante, e con una spinta l’aveva gettata contro il tavolo di legno.
E i capelli… quei capelli che Joffrey aveva elogiato al loro primo incontro, erano finiti nel suo palmo, tirati forte fino a farla gridare.

“Che cosa hai detto?” Aveva sussurrato sulla sua guancia. Il tono era lieve, eppure Sansa aveva riconosciuto la crudeltà nella sua voce.

“Non sei un uomo…”

Un colpo sul viso, il tavolo che si era sollevato per affondarle nello zigomo, e le mani di Joffrey, calde e sudate, strette intorno alla sua gola.
Sansa può ancora sentire i pollici che affondano sotto il mento, i denti scoperti di lui, e gli occhi… quegli occhi che la stavano guardando morire. Che volevano guardarla morire.

«Sansa?» chiede Margaery, spostando il peso del corpo in avanti. «È tutto a posto?»
No, come potrebbe? Mi ucciderà. Lui mi ucciderà!
Annuisce.
È come un uccellino catturato da un gatto, senza speranze e senza via d’uscita. Può solo fingersi morta, e sperare che lui abbocchi.

«Sei caduta, di nuovo?» insiste Margaery, studiando il segno sulla sua guancia. «Mi dispiace così tanto… Joffrey mi ha detto perché sei scappata.»
Pochi passi, e la mano della sua vicina è sul braccio. Sorride con finta innocenza, come se non sapesse qual è il vero motivo che l’ha spinta ad andare via.
«Un po’ di gelosia non può rovinare niente. Si aggiusterà tutto, vedrai.»

Quelle parole sono un altro schiaffo. Si aggiusterà tutto? Cosa, dovrebbe essere aggiustato?
Forse che Margaery è convinta che lei sia tornata per restare?
No.
Mai.

«Gelosia?» ripete Sansa, scostandosi dal tocco della sua vicina.
«Sì» spiega, con fare comprensivo. Ai lati delle labbra si formano due piccole fossette. «So tutto, Sansa. Non devi temere: non te lo porterei mai via.»

Sensazioni contrastanti si affollano dentro di lei.
“Non te lo porterei mai via”? Perché no?

«So quanto Joffrey tenga a te.»
Lui non tiene a me, pensa subito Sansa. Sono il suo giocattolo. È come un bambino che non vuole separarsi dal gioco preferito.

Si sentono dei rumori all’interno dell’appartamento. Potrebbe essere Joffrey… potrebbe aver riconosciuto la sua voce.
Sansa lancia una veloce occhiata al Mastino, quasi per implorarlo un’ultima volta. Ma sa che è tutto inutile. Sa che non la lascerà andar via.
«Margaery, posso parlarti un momento?» si sente dire.
Spera che la ragazza la inviti in casa sua a bere un tè, che le dia l’occasione per guadagnare tempo.

«Certo, cara» risponde infatti, raddrizzando la schiena. I boccoli castani si muovono ai lati del suo viso, incorniciandolo come il più bel quadro. «Un tè?»
Non serve nemmeno annuire, Sansa la segue senza guardare il Mastino, lasciandolo lì, impietrito, davanti alla porta. Si è liberata di lui come un topolino che sfugge alle grinfie del gatto, un istante prima di essere mangiato.
Ferito, sì, ma ancora in grado di scappare.

La scritta Tyrell troneggia in lettere dorate sulla porta dell’appartamento, con una piccola rosa incastonata nella T. L’entrata è stretta, ma la sala che segue è una delle più grandi che Sansa abbia mai visto. Librerie e quadri adornano le pareti, mazzi di rose fresche sui tavolini tondi che affiancano le varie poltrone, e un televisore enorme copre in parte la statua di un cavallo di legno.
Sansa calpesta il tappeto persiano, fa un sorriso al gatto a pelo lungo che si ritrova a dover aggirare, e si accomoda in poltrona.

«Oggi sono sola» spiega Margaery con il sorriso sulle labbra. Le prende la mano. «Loras è agli allenamenti e la nonna doveva incontrare tua… suocera.»
Ride di una risata leggera, portandosi le dita sulla pancia piatta.
«Di cosa mi volevi parlare?»

Sansa vorrebbe confidarle ciò che le fa Joffrey, vorrebbe potersi fidare di lei come si è fidata di Petyr. Vorrebbe abbracciarla, chiederle di nasconderla, di non aprire mai al Mastino.
Ma poi pensa ai muri confinanti, alle grida che le hanno raschiato la gola, alle sue richieste d’aiuto a cui nessuno ha mai risposto.
Margaery sa già tutto, deve sapere già tutto. Perché era lì, perché loro erano lì.

«Volevo solo stare un po’ con te… da buone amiche» mente Sansa.
Si costringe a sorridere, ma con il pugno stringe un lembo dell’abito verde preso a casa di sua zia, quasi che sotto ci fosse un coltello pronto a colpire.
«Oh…» Margaery sembra deliziata. Stringe le mani in grembo e le siede di fronte.
Sansa si costringe a pensare a qualcosa da dire, ma viene fermata un istante prima di parlare. O meglio, qualcuno la ferma, qualcuno che ha preso a bussare con insistenza alla porta.

È Joffrey.
Il Mastino deve averlo avvertito, deve avergli detto che è tornata, che si è nascosta in casa di Margaery. Tra poco sarà tutto finito, tra poco verrà trascinata di nuovo nell’altro appartamento, a subire le angherie del suo fidanzato.

«Aspetta» mormora Sansa, afferrando il braccio di Margaery, in piedi davanti a lei, pronta a rispondere. «Non aprire… Ti prego.»

Per un momento, Sansa si illude che Margaery farà quanto le ha chiesto. Per un momento, si convince che ci sarà un altro futuro per lei, che nessuno la costringerà a tornare con lui.
Ma quando la ragazza le sorride, quando cerca di rassicurarla posando una mano sulla sua, Sansa capisce che è tutto inutile.
A Margaery non importa nulla di quanto le accadrà.
Vuole solo assecondare Joffrey.

Ogni passo che le vede fare verso la porta è uguale a udire la propria condanna a morte… Ogni volta che Margery ondeggia i fianchi, spostando il piede in avanti, Sansa sente il cuore rallentare la sua corsa per poi riprenderla di colpo, sempre più veloce.
Si guarda intorno, cerca un nascondiglio, un’arma per difendersi, qualunque cosa possa aiutarla a tenere lontano Joffrey… Ma non c’è un solo movimento che riesca a fare, fatica persino a respirare.
«Arrivo!» cantilena Margaery con dolcezza, il suono più spaventoso che Sansa potesse sentire.
Non vuole più essere picchiata, non vuole essere trovata.
Vuole solo scomparire.

Quando la porta si apre, Sansa si abbandona sulla poltrona, vi affonda come il relitto di una nave in mare aperto. Perché non ha più speranza.
La voce di Margaery finge sorpresa, ma lei si tappa le orecchie, non vuole sentire le parole di Joffrey, la sua risata soddisfatta all’idea di averla di nuovo con sé.
Sansa si stringe le braccia intorno al corpo, come in un ultimo, disperato tentativo di difendersi.

«Sansa» Margaery si affaccia sulla porta della sala, facendole segno di seguirla.
Ma lei non si muove.
Se Joffrey la vuole tanto, che venga a prenderla. Che mandi il Mastino piuttosto.
Socchiude gli occhi, il suono dei passi che attraversano l’entrata non riesce più a ferirla, si sente già morta, è come se ogni alito di speranza fosse scivolato via da lei.

«Sansa.»

Sansa apre gli occhi, vede Petyr al fianco di Margaery, sente il cuore impazzire.
Sposta il peso del corpo in avanti, si aggrappa ai braccioli come se temesse di cadere da un momento all’altro.
Poi, come in un sogno, si alza, corre da lui, gli stringe le braccia al collo. Affonda il viso nell’incavo della spalla, gode delle sue mani sulla schiena.
«Sansa» Immagina il suo sorriso mentre lo sente ripetere il suo nome.
«Sei qui.»
Ha voglia di piangere, di non lasciarlo più andare. Non può pensare di fare un passo senza di lui.
Respira il suo profumo, si lascia inebriare dall’odore di fumo, come se fosse qualcosa che appartiene a loro soltanto, che li unisce, proprio come la notte in cui hanno condiviso una sigaretta.
«Sono qui. Vieni, andiamo.»

Sansa si stacca da lui, ma non lo lascia: rimane aggrappata al suo braccio, e non ha il coraggio di sollevare gli occhi per guardare Margaery.
Sa che riferirà tutto ciò che ha visto a Joffrey.
Sa che non ci sarà perdono per questo, sa anche che per il suo fidanzato quell’abbraccio sarà il tradimento peggiore. Ha firmato la sua condanna.

Non la saluta nemmeno, si lascia guidare alla porta godendo della vicinanza di Petyr, della mano che le circonda il fianco. Delle dita che le sollevano il mento, facendola sperare in un bacio.
Sarebbe pronta a qualunque cosa in quel momento: ad abbandonarsi a lui, a seguirlo ovunque. A fidarsi, come non credeva potesse più succederle.
Sente la tensione crescere a ogni tocco, ogni volta che l’indice di Petyr scivola sulla sua gola, prima di tornare sul suo viso. Sansa piega la testa, socchiude gli occhi, dimentica persino la presenza di Margaery.
Vorrebbe essere sola con lui, lontano da lì.

Quando la mano di Petyr si allontana per posarsi sul pomello della porta, Sansa sente il suo respiro farsi lento, come se non potesse più aspettare.
Si aggrappa alla sua maglia, la stringe con le unghie.

Escono sul piano, imboccano le scale, raggiungono la seconda rampa.
«Sansa!»
Se fossero fatti di ghiaccio, lei è certa che basterebbe quel grido, quella voce, per mandarli in pezzi.
Scaglie gelide che volano ovunque, mutando tensione e brividi dovuti alla presenza di Petyr, in terrore puro.

Joffrey è dietro di loro, ma invece che mettersi a correre, Petyr si volta, mostrandole il volto rabbioso del ragazzo con cui ha vissuto…
«Torna qui, Sansa!» ordina, mentre il Mastino la guarda scuotendo la testa.

È tutto finito.

 n

Note dell’autrice:
Come sempre, grazie mille per aver letto fin qui!
E quindi, ecco la 
sorpresa
Un altro video su Sansa e Petyr, stavolta in tema got.
Celtica

P.S.: ho già i tre prossimi capitoli pronti! Quindi sarò regolare con gli aggiornamenti... A presto!

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Capitolo 8
*** La casa ***


cap 8
Trailer

La Casa





P

etyr arriva al piano giusto in un momento.
Il Mastino è fermo a metà tra i due appartamenti, l’espressione accigliata e le braccia lungo i fianchi, come se aspettasse qualcosa… E lui capisce subito.
Gli basta guardare da che parte è girato, qual è la porta che fissa con insistenza: casa Tyrell.
Se Sansa è davvero tornata, non può che essere là dentro.
«Baelish» È un ringhio, eppure il volto del Mastino non sembra troppo stupito di vederlo.
I passi di Petyr proseguono lungo gli ultimi gradini, lo portano davanti all’entrata con una rosa tra le scritte, e prima che Sandor possa anche solo muoversi, il suo pugno prende a battere con impazienza contro il legno.

«Non ci provare» minaccia il Mastino, avanzando di un piede.

«Arrivo!»
La voce di Margaery è così soave che Petyr non può fare a meno di sorridere. Sistema meglio la giacca, lancia una lunga occhiata a Sandor, come se la partita fosse ormai vinta, e aspetta davanti all’ingresso.
Lo stupore negli occhi della ragazza Tyrell è qualcosa che capisce: aspettava qualcun altro, aspettava Joffrey.

«Oh…» pronuncia lei, portandosi una mano sulla scollatura. «Mia nonna non è in casa.»
A Petyr viene quasi da ridere… Gli affari fatti con Olenna non sono stati dei migliori, ma l’hanno aiutato a liberarsi del lavoro per Cersei.

«Non sono qui per la buona Olenna…» spiega, allargando le braccia, prima di richiuderle con l’ultima frase: «Sono qui per Sansa.»
Lei sembra pensarci un momento prima di farlo passare e, mentre sta entrando, Petyr lancia uno sguardo al Mastino, giusto un istante prima che la porta si chiuda dietro di lui.
Attraversa l’ingresso stretto, con piccole lampade a forma di rosa distribuite lungo la parete, finché non si ritrova nella grande sala dove la vede.

Sansa.

Le braccia strette intorno al corpo, le palpebre socchiuse, le labbra stropicciate dalla disperazione.
Deve essersi convinta che Joffrey abbia bussato alla porta.

«Sansa.»

Quando lei apre gli occhi e lo vede, sembra che il mondo abbia ritrovato i suoi colori. Balza in piedi, lo raggiunge correndo, lo stringe come non pensava avrebbe mai fatto.
E Petyr non può fare a meno di ricambiare quell’abbraccio.
Guarda Margaery per dirle che se ne stanno andando, e la lasciano lì, ferma sul tappeto, infilandosi nell’entrata.

Sansa trema come un cucciolo impaurito tra le sue braccia, e a Petyr viene voglia di baciarla. Le solleva il mento con due dita, studia le sue labbra che sembrano essersi rilassate, gode del respiro lento e grave di lei.
Sente un formicolio lungo la mano mentre le accarezza il collo, e il desiderio cresce dentro di lui.
Deve portarla via da lì, dopo potrà pensare al resto.

Fa per aprire la porta, sente le dita di Sansa stringersi sulla sua maglia, il brivido di eccitazione, e capisce. Capisce che, se in quel momento fossero soli, si abbandonerebbe completamente a lui.
Può durare un attimo, potrebbe finire con il cambiare idea in qualunque istante, ma adesso, adesso è come prendersi una piccola rivincita.

Esce sul piano, scende le scale tenendola per la vita, finché non lo sente.
Il momento di affrontarlo è giunto.

«Sansa! Torna qui, Sansa!»
Nel voltarsi, Petyr sente la pelle d’oca di Sansa, sa che è tutto svanito.
«Joffrey…» pronuncia lui, in un saluto calmo. «Eravamo venuti proprio da te. Sansa ha bisogno di riprendere alcune cose.»

Se lo avesse colpito in pieno viso, capisce Petyr, gli avrebbe fatto meno male.
Joffrey rimane sgomento, cerca con gli occhi il Mastino, stringe i pugni come se fosse davanti a un nemico. Sul bel completo rosso si formano delle pieghe quando decide di muoversi in avanti.

«Sansa, ho detto: torna qui. Non vai da nessuna parte.»

Sembra quasi che non lo abbia visto, che non abbia udito le sue parole, e Petyr capisce di contare per lui quanto uno scarafaggio.
I gradini sono di granito, la ringhiera nera ha dei disegni con strane forme: un cervo intento a saltare, una testa di leone, una rosa ormai sbocciata e una specie di balestra.
Joffrey segue ogni immagine con le dita, ha ripreso sicurezza, e guarda Sansa come se l’avesse già in pugno.
La luce entra dalla finestra alle loro spalle, illuminando il volto crudele di lui, facendogli stringere gli occhi, e tenendo i loro visi in ombra.

«Abbiamo una certa fretta» spiega Petyr, stringendo a sé Sansa. «Ti saremmo grati se ci permettessi di entrare a prendere le cose che le servono. Poi non ti disturberemo più.»
Joffrey sposta lo sguardo su di lui, sembra finalmente accorgersi della sua presenza.

«Tu puoi andare» ordina, mentre i riverberi del sole creano strani giochi di luce sulle sue guance. «Ma Sansa resta.»
È inutile: Joffrey non li farà mai entrare in casa, non la lascerà mai andare.

Margaery si affaccia sulle scale, segue la conversazione come se fosse qualcosa di normale. E lo sguardo di Sansa si solleva su di lei, in una muta richiesta d’aiuto.
Petyr la trascina giù per le scale, sente i passi di Joffrey, quelli pesanti del Mastino, e si ferma un istante prima di arrivare alla porta.

«Fermi. Fermi, ho detto!» grida Joffrey, scoprendo i denti. «Dove la stai portando?»

Sansa sta per mettersi a piangere, forse crede che sia finita. Petyr la osserva mentre solleva gli occhi sugli uomini che ha davanti.
«Lasciami andare… Ti prego!» supplica, anche se sembra più rivolta a Sandor che non a Joffrey.
Petyr scosta il braccio da lei, la lascia indietreggiare, mentre lui resta fermo in fondo alle scale.
Margaery li ha seguiti per un pezzo, ora spia dalla ringhiera, seduta sugli ultimi gradini della seconda rampa. Si attorciglia un boccolo castano intorno al dito.

«Sansa, non lo ripeterò più: TORNA QUI.»

Lei ha già una mano sulla porta, Petyr vorrebbe solo che l’aprisse, che uscisse da lì, per poterla seguire anche lui. In fondo, si dice, non ha più nulla da temere da Cersei: grazie a Olenna ha potuto mettersi in proprio.
Certo, potrebbero distruggerlo economicamente, ma ha sposato Lysa, non dovrebbe avere troppi problemi se anche i Lannister decidessero di mettersi contro di lui.

«Sansa» Joffrey sbuffa adesso, sembra concentrare tutte le energie per mantenere la calma. Eppure Petyr ha la sensazione che l’abbia già persa, anzi, che non l’abbia mai avuta. «Se esci da quella porta… Tu lo sai.»

Joffrey lancia una veloce occhiata dietro di sé, dove Margaery sta ascoltando tutto, e sembra impegnarsi per non minacciare Sansa pubblicamente.
Ma è come se lo avesse già fatto…

Il Mastino scende alcuni gradini, finisce sotto la luce diretta del sole, che mette in risalto i segni orrendi sul suo viso, e posa una mano sulla spalla di Joffrey.
Il ragazzo si volta, non sembra capire.
Ma Sansa invece sì.
Sgrana gli occhi, guarda Sandor come se le avesse appena salvato la vita, nello stesso modo, grato, in cui prima si è rivolta a Petyr, e spalanca la porta, uscendo alla luce del giorno.

I suoi capelli brillano di un rosso delicato che le addolcisce i lineamenti, e Petyr li segue come se fossero la sua guida.
Sa che le sensazioni provate prima sono già finite, sa che Sansa non lo stringerà più come prima, eppure ha idea che sia stato un passo avanti nel loro rapporto.
E sorride.

 

Non riesce ancora a crederci: è libera.
Il Mastino si è interposto per lei, ha fermato Joffrey, è il suo salvatore. Certo, se Petyr non fosse tornato a prenderla, Sandor non avrebbe mai cambiato idea, non sarebbe intervenuto per lei…
O forse sì?
Non può saperlo.
E spera di non scoprirlo mai.

Attraversa la strada, ignora l’abbaiare dei cani dal giardino di fronte, riconosce l’auto di Petyr e si gira, per assicurarsi che sia dietro di lei. Si ferma ad aspettarlo.
«Non ho i miei documenti…»

Lui posa una mano sul suo fianco, cammina con lei, china appena il mento per rispondere.
«Lo so…» sussurra, avvicinando il viso al suo. «Rimedieremo, vedrai.»

Sansa ripensa a ciò che ha provato quando lo ha visto in casa di Margaery, al bisogno che aveva di sentire il suo contatto, alla voglia, cresciuta e morta troppo in fretta.
Non riesce a sentirla, non come prima.

«Tornare qui è stato inutile… Ora Joffrey sa che sono con te.»
Dal modo in cui Petyr annuisce, Sansa capisce che è la stessa cosa che ha pensato anche lui.
«Allontaniamoci da qui.»
Raggiungono l’auto, salgono, partono.
Tornano nella città fatta di palazzi alti, fingendo di non essere mai stati nella via ricca di villette.

«Non voglio tornare da Lysa» dice Sansa, scuotendo la testa.
La macchina rallenta, la mano di Petyr si sposta dal cambio alla sua gamba, accarezzandola.
«Lo so.»

E, infatti, proseguono dritto, ignorando la svolta che dovrebbe riportarli all’attico di sua zia.
Attraversano mezza città, passano davanti a parchi con bambini, a un piccolo maneggio, ai locali più alla moda e ai quartieri che vengono considerati alti, quelli dove vivono le famiglie più influenti.
Sansa vede scorrere anche la cittadella universitaria, come se fosse solo un lontano ricordo.
Si chiede se Jeyne sia là, ora, magari in biblioteca, a puntare qualche ragazzo chino sui libri. Sorride, pensando di essere finalmente libera. Niente più confidenze su Joffrey, niente più pianti o consolazioni, conta solo lei adesso.
Lei e Petyr.

«Vorrei mostrarti la casa prima di risolvere questi problemi. Sei d’accordo, Sansa?»
Lei tiene gli occhi fissi davanti a sé, come se fosse persa tra i suoi pensieri, mentre l’auto accosta.
«Lysa mi ha minacciata…» dice, stringendo i pugni in grembo. Petyr li raggiunge con la mano, sciogliendoli, intrecciando le dita alle sue. «Crede che io sia la tua amante… Lei mi odia.»
«Non ti odia» Petyr le sorride, continuando a tenerla.
«Sì, invece. Mi odiano tutti. Lysa, Joffrey, sua madre Cersei… Per loro sono solo una stupida.»
Si libera della sua stretta, voltando il capo verso il finestrino.
Petyr aspetta un momento prima di parlare.
«E tu cosa credi?»
Quando Sansa si volta, non trova il solito sorriso, ma l’espressione intrigante che tanto la affascina e tanto la spaventa. Abbassa gli occhi, prima che lui la prenda per le spalle.
«Sansa, tu sbagli ad ascoltarli.»
Ci sono rumori fuori, rumori che arrivano dalla strada, dal parco con l’altalena di fronte al piccolo palazzo. E c’è il respiro di Petyr che si fa lento, mentre si avvicina alle sue labbra, parlandole.

«Non hai ancora capito quanto tengo a te?»

È a un soffio dal suo viso, Sansa riesce a sentire il fiato caldo sulle labbra. Si lascia baciare, lascia che le dita scorrano sulla sua gola, che arrivino ad accarezzarle le spalle, ma non è più come prima.
Se Petyr l’avesse baciata in casa di Margaery sarebbe stato tutto diverso…
E, forse, lui se n’è appena accorto.
Si scosta da lei, le sfiora i capelli ai lati del viso, studia ogni suo lineamento, ogni sua espressione, ma non si avvicina più alla sua bocca.
«Vieni» mormora a fatica, come se gli costasse doversi allontanare da lei. «Ti mostro dove starai.»

Quando scendono dall’auto, Sansa sente l’aria scorrerle sulla pelle, e capisce di essere accaldata.
Eppure non se n’è resa conto…
Lo raggiunge a passo lento, senza vitalità, senza voglia di scoprire.
In un altro momento sarebbe stata entusiasta di una casa tutta per sé, ma ora, ora che si è sentita di nuovo sotto attacco da Joffrey, ora che il fuoco si è acceso dentro di lei per Petyr, finendo per spegnersi in fretta, ha la sensazione di aver vissuto troppe cose, come una vecchia che si prepara a morire.
È stanca. Stanca di tutto ciò che è successo.

«Di qua, seguimi.»
Il palazzo in cui entrano ha solo un piano, la parete rivestita di bianco e di grigio, un terrazzo al posto del tetto. Eppure, entrare e sentire odore di limone e lavanda, vedere il pavimento di cotto, i pochi mobili coperti da un telo, la fanno sentire un po’ meglio.
E stavolta, quando le braccia di Petyr la circondano, Sansa sente un brivido.

«Ti piace? È piccola, ma…»
«È perfetta.»

È Sansa a cercare il suo viso, a socchiudere gli occhi, ad abbassare le palpebre vicino a lui. A fargli capire.
Sono anni che nessun uomo è gentile con lei, da quando suo padre è morto e i suoi fratelli si sono trasferiti lontano. Non li vede da molto, ma ora non le importa. Vuole essere lì dov’è, con lui.
Petyr sorride del suo sorriso enigmatico, la stringe un po’ più forte, scorre le dita sulla sua schiena. E quando cerca le sue labbra, baciandola ancora, Sansa appoggia una mano sul suo petto, quasi fosse la cosa più naturale del mondo.
Ma non lo è.
Petyr è suo zio acquisito, è più grande di lei, ha conosciuto sua madre.
E, di certo, suo padre Eddard non approverebbe.

Quando Petyr spinge sulla sua schiena per aderire a lei, Sansa lo allontana, prende un respiro, appoggia la fronte su quella di lui.
Non può.
Non ora, non adesso, non con l’immagine di suo padre nella mente.
Ascolta i sospiri di lui, le carezze lente sulla schiena, ma si tira indietro, allontanandosi.

«La cucina? Mi è venuta fame.»

Petyr incassa il colpo con un sorriso, come se non si aspettasse nulla di diverso, e la guida attraverso una stanza piccola, con un divano bianco, un tappeto con i colori dell’inverno, e una libreria che copre metà parete.
Nel dipinto appeso tra due finestre, Sansa riconosce un branco di lupi grigi nella neve. Sembra quasi che ci sia una torre alle loro spalle, ma potrebbe anche essere un castello.
Non sa perché, ma quel quadro le ricorda tutta la sua famiglia, come se ognuno di quegli esemplari rappresentasse un suo fratello.

La cucina è relativamente più spaziosa.
Ha una fila di banconi, l’immagine di uccellini che volano, il pavimento grigio scuro. E il tavolo con il ripiano di vetro trasparente, su cui Petyr poggia una mano mentre la guarda.

«Il frigo è vuoto.»
Si tiene a distanza, ora, come se aspettasse una sua mossa. Una mossa che Sansa non ha nessuna intenzione di fare…
«Forse dovremmo fare la spesa…»
Ma Petyr sorride, colpevole.
«La farai tu, io non posso restare ancora molto.»
«Non ho i soldi. Non ho i documenti. Credevo avremmo risolto dopo aver visto casa…»
Sansa è sicura che, in un momento diverso, Petyr l’avrebbe presa per le spalle, rassicurandola.
Invece si tiene lontano da lei, limitandosi a mettere dei soldi sul tavolo.
«Tornerò tra un paio d’ore e ci penseremo. Insieme.»
Petyr china la testa prima di voltarsi, ma è nei suoi occhi che Sansa legge il chiaro desiderio di restare con lei, di passare altro tempo in sua compagnia.

«Aspetta» sussurra, giusto un istante prima di non vederlo più.

Avanza piano, pensando a quanto sta per fare, sentendo il cuore rallentare la sua corsa. Lui è fermo, le dà la schiena, eppure Sansa è convinta che è come se la stesse vedendo. Deve sapere esattamente ciò che sta facendo, ciò che sta provando. Nel poco tempo trascorso insieme ha capito questo di lui.
Solleva una mano per sfiorargli il braccio, senza sapere nemmeno lei se voglia solo chiedergli di voltarsi, o se la sua sia una richiesta più esplicita.
Sa solo di aver voglia di essere lì, di guardarlo negli occhi, di lasciar decidere a lui se sia il momento di qualcosa di più.
E quando lui si volta, scrutandola con quello sguardo, il suo sguardo, il cuore di Sansa perde un battito.

L’auto si è fermata, lui le ha chiesto di salire. Vieni con me, ha detto, penserò io a te.
E i giorni successivi scorrono come immagini al rallentatore, soffermandosi sui momenti in cui sono stati più a contatto, come quando Petyr è entrato nella sua stanza con una sigaretta per lei, come quando l’ha portata nel bosco per spiegarle di Lysa, e lì l’ha baciata…

Ha avuto tante occasioni di farle del male, di ingannarla, di approfittarsi di lei. Ma non l’ha mai fatto.
Ogni carezza che ha ricevuto è stata un balsamo per le ferite inferte da Joffrey, ogni sguardo, ogni bacio, il modo migliore per ridarle fiducia.

Socchiude gli occhi quando Petyr le prende il viso tra le mani, aspetta che lui si chini sulla sua bocca, che le dica ancora che la proteggerà sempre. Ma le labbra scendono a sfiorarle la fronte, le dita le sistemano i capelli, e lo sguardo che lui le rivolge sembra dire che non può fare a meno di andare via.
Ma tornerà.
Di questo, Sansa è certa.

 

Il telefono decide di squillare proprio in quel momento.
Petyr ha appena chiuso la porta della casa data a Sansa, l’ha appena lasciata sola. Fa un lungo sospiro mentre estrae il cellulare dalla tasca.

È Robin.

«Zio Petyr!» grida, all’altro capo del telefono. «Mia madre… lei… corri, presto! Sta male. Torna a casa, ti prego, zio Petyr.»
«Sto arrivando.»
Raggiunge il parco di fronte, dove ha l’auto parcheggiata, e guarda in alto, alla finestra dove, come sperava, Sansa è affacciata. Solleva una mano per salutarla.
Non sa cosa sia accaduto a Lysa, anche se ha il sospetto che sia colpa di tutte quelle medicine. La chiamata di Robin è un bell’imprevisto…

Aveva un appuntamento prima di tornare da loro. È costretto a rimandarlo. Preme a casaccio sullo schermo prima di decidersi a chiamare.
Si umetta le labbra, il telefono suona, ma nessuno risponde. Altro imprevisto. Avrebbe dovuto aspettarselo…
Ultimamente le cose non vanno mai come programmato.
Prima Sansa, di cui ha dovuto occuparsi prima del tempo, ora questo. Per non parlare dei guai che gli porteranno i Lannister, ora che Joffrey lo ha visto insieme alla sua fidanzata.
Ciò che desiderava non gli è sembrato mai tanto distante quanto oggi…
Ma passerà. Deve passare.
Dopotutto, lui è Petyr Baelish.

 
 n

Note dell’autrice:

Di cosa si occupa Petyr lo scopriremo più avanti… Così come troveremo altri personaggi che non voglio svelarvi, ma facilmente intuibili.
Come sempre, grazie!
Vi lascio il link alla mia pagina facebook, se avete voglia di dare un’occhiata:
Celtica

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Capitolo 9
*** A piedi nudi ***


Capitolo nove
Trailer

A Piedi Nudi






S

ansa lo aspetta seduta a gambe incrociate in cucina, un vassoio di dolcetti davanti e l’espressione impaziente: non vede l’ora di scorgere il suo viso.
Ha stretto di più il laccio dell’abito dietro la schiena, affinché aderisse meglio alle sue forme, ha lisciato per bene le pieghe, sistemandole in modo che lo spacco resti sulla coscia sollevata, così da mostrare un lembo di pelle.
Ha lasciato i capelli sciolti come al solito, cercando di acconciarli con le dita, sperando di avere l’aria di una donna. Non di una bambina. Non di una mocciosa, come a volte soleva dire Joffrey.
Persino il Mastino la chiamava spesso ragazzina, come se fosse stata poi così piccola…
No.
Sansa è grande ormai, studia all’università e, come tutti, cerca il suo posto nel mondo.
Per un po’ di tempo si è illusa che quel posto fosse al fianco di Joffrey, finché non ha aperto gli occhi: lui non la ama, non l’ha mai amata. E mai l’amerà, per sua fortuna. È in grado di amare solo se stesso, nessun altro.

Guarda l’orologio, consapevole che le due ore siano trascorse da un pezzo, e prende a battere un piede nudo sul pavimento.
Ha tolto le scarpe quando è rimasta sola, si è fatta una doccia, ha strappato via un po’ di teli bianchi da mobili e poltrone, ed è rimasta scalza, senza sapere nemmeno lei perché.
Sa solo che c’entra Petyr.
Che l’ha fatto pensando a lui.

Quando sente la chiave girare nella serratura, è quasi tentata di balzare in piedi e raggiungerlo, di gettargli le braccia al collo e chiedergli perdono. Perdono per averlo allontanato, per aver interrotto il bacio, perdono perché ora vuole stare con lui.

Ma non lo fa.
Resta ferma nella stessa posizione, tirando più dritta la schiena e mantenendo un’espressione seria.
Ormai può fidarsi solo di Petyr… nessun altro farebbe nulla per lei.
Lui sì.
Perché? Si chiede Sansa.

«Sansa» chiama lui, dall’ingresso. «Sono qui.»
«Vieni in cucina» risponde, sperando che si sbrighi.

Petyr entra nella stanza a sguardo basso, forse senza immaginare quanto l’ha fatta penare in quelle ore di assenza. Sansa è uscita da sola, ha trovato una fila di negozi sotto casa, ha comprato dei dolci per dividerli con lui.
E ora, ora che gli occhi si sollevano dal pavimento, risalendo lungo le gambe lunghe di lei, scrutando le sue forme attraverso l’abito verde, Sansa sente un brivido quando arrivano al suo viso.
Non lo sente commentare sul fatto che sia scalza, o su come il vestito si sia adattato meglio alle sue forme, e neppure sui pasticcini in bella mostra sul tavolo.
Petyr avanza a testa alta, prende la sedia di fronte a lei, spostandola a capotavola, forse per esserle più vicino.

«Ho fatto tardi.»
«Hai fatto tardi» ripete lei, distogliendo gli occhi dai suoi.

Basta davvero poco a Petyr per metterla in imbarazzo. Una parola, un gesto, uno sguardo… Eppure è una situazione che le piace.

«È successo qualcosa?»
Vorrebbe chiedergli di prendere un dolcetto, di dividerlo con lei, di stringerle la mano. Ma resta in silenzio, vedendo un’ombra sul suo viso.

«A dire il vero sì.»

 

 

Due ore prima, Petyr è entrato di corsa nell’attico di Lysa.
Si è lasciato guidare da Robin, ha scoperto dell’imminente arrivo del medico, e ha trovato la sua cara moglie distesa sul divano, come addormentata.
Ma non c’era movimento sul suo petto… Non c’era un suono proveniente dalle labbra.

«Io continuavo a chiamarla, a scuoterla. E lei niente! Perché, zio Petyr?»
Robin ha seguito ogni gesto, è rimasto a osservare la mano di lui che tasta la fronte, che tocca il polso, e il viso che, piano, si è chinato sulle sue labbra, per sentire se respira ancora.

«Chiama un’ambulanza, Robin.»

Altro brutto imprevisto… È troppo presto per restare vedovo.
Lysa gli serve ancora. Gli servono i suoi contatti, i suoi amici, la fiducia che viene riposta in lei. Gli serve averla a fianco, almeno per un altro po’.
Il polso è debolissimo, e non c’è stata una sola reazione ai suoi pizzicotti. Nulla di nulla.

«Sì, zio Petyr.»
Ascolta Robin parlare al telefono, la preoccupazione nella voce e un lieve tremore alle mani. Non è più un bambino, eppure non si è ancora reso conto di cosa stia rischiando Lysa.

Non devono aspettare molto.
Il medico non arriva, ma l’ambulanza sì.
Lysa viene portata d’urgenza in ospedale. Codice rosso. Coma vigile. Lei che reagisce ai rumori, che si lascia sfuggire qualche parola dalle labbra, che sembra non accorgersi di nulla di quanto la circonda…
Non ci vuole molto perché Petyr trovi una scusa per allontanarsi. Prende Robin da parte, gli pone una mano su una spalla con fare paterno.

«Ho un appuntamento di lavoro oggi.»
«Lo ricordo.»
«Bravo, ragazzo» Gli batte il palmo sulla spalla e sorride. «Tornerò appena finisco. Chiamami quando sai qualcosa.»

Lo lascia solo nel corridoio della terapia intensiva, e si prepara a raggiungere chi lo aspetta ormai da un pezzo. Non è troppo sicuro di quello che sta facendo, ha certi pensieri nella mente… che non lasciano spazio a certezze.
Ricorda quando tutto è cominciato, i suoi progetti di avere Cat tutta per sé, di liberarsi di Eddard Stark e, magari, anche dei suoi figli. Non che gli importasse dei bambini… Per amore di lei avrebbe anche potuto accettarli.
Ma erano il seme del nord, dell’uomo che gli aveva rubato ogni sogno.
Com’era stato innocente, anche lui… così speranzoso di avere Catelyn tutta per sé, di sposarla, di conquistare il favore di suo padre. Poi aveva capito.

Hanno appuntamento in un bar. Un bar scelto da lui.
Un bar dove, tanti anni prima, Petyr ha scorto Catelyn in compagnia delle sue figlie. Mangiavano un gelato all’ombra, su poltroncine di vimini, e il sorriso impresso sul suo viso… lui non potrà mai dimenticarlo.
Simile a quello che colora il volto di Sansa, forse più maturo, forse più duro. Cat non è mai stata bella come ora è Sansa, eppure non c’è stata donna che lui abbia desiderato di più…

Quando arriva al posto indicato, e riconosce ombrelloni di un colore diverso da quelli che hanno adombrato il viso di Cat, Petyr fa una smorfia.
Sperava che tutto fosse come prima, sperava di portarci Sansa, di godere del suo sorriso, dei suoi lineamenti, degli occhi azzurri e le gote rosse.
Sperava che lei lo aiutasse a dimenticare sua madre, che non gli dicesse di no come aveva fatto lei. Che accettasse di restare con lui.

“Baelish.” L’espressione di Cat era diventata di colpo così severa…
“Cat, che piacere vederti. E queste devono essere le tue figlie…”
Lo sguardo di lei era corso alle bambine con una certa inquietudine. Cosa poteva temere da lui? Non ricordava il suo amore, il suo tentativo di conquistarla?

“È meglio se andiamo. Venite, bambine.”
“Ma mamma!”
Era stata la più piccola a rimanere seduta quando Cat aveva deciso di alzarsi. Non le assomigliava per niente… Aveva i capelli scuri, gli occhi grigi e il fare scontroso di un maschiaccio.
“Non ho finito il gelato.” Aveva brontolato, costringendo Sansa a prenderla per un braccio per metterla in piedi.

Seduto a un tavolo rotondo, con un bicchiere di acqua tonica davanti, c’è Roose Bolton. Sorride in modo enigmatico quando lo vede arrivare.
«Ordiniamo qualcosa di più forte?» esordisce Petyr, sedendo di fronte a lui. Solleva una mano per chiamare la cameriera.
«Io non bevo mai» spiega Roose, muovendo appena le labbra. Non un solo movimento sfugge al suo controllo mentre lo guarda con i suoi occhi di ghiaccio. «Ottunde i sensi.»
«Molti direbbero che si fa per questo…» [1]

«Sei in ritardo.»

Petyr arriccia le labbra, inarca le sopracciglia, e si prepara a discutere con lui. Non è un discorso lungo, si tratta solo di fare una mossa per togliere un po’ di potere a Cersei, all’azienda che dirige, al posto di lavoro che ha lasciato.
Olenna è stata indispensabile per quello.
Senza di lei, Petyr non si troverebbe al tavolo con Roose, ma lo guarderebbe da lontano, chiedendosi che razza d’uomo sia. Immagina l’espressione di Sansa e il commento che farebbe se fosse lì con lui.

“Fa venire i brividi.”
Ma senza Roose, Petyr non può sperare di far salire la sua compagnia ai primi posti.

«I Lannister si sono lamentati di te» mormora a bassa voce Roose, incrociando le dita sopra il tavolo. «Sembra che tu abbia rubato la ragazza Stark a Joffrey.»

Petyr tira la testa indietro, ridendo, e proprio allora sopraggiunge la cameriera…
«Un bicchiere di vino bianco» ordina con un cenno della mano. Poi torna a guardare l’uomo seduto davanti a lui. «È un problema per te?»
«Stark e Bolton arrivano entrambi dal nord. Eddard Stark ha comprato le mie terre quando la mia azienda è fallita» sussurra in modo glaciale. «Le rivorrei indietro.»
«Sono qui anche per questo» Petyr accavalla le gambe e si rilassa sulla poltrona, poggiando un gomito sul bracciolo. «Quando i nostri affari andranno a buon fine…»

«Se andranno a buon fine» lo corregge Roose.
«Se andranno a buon fine le riavrai. Hai la mia parola.»

Per un istante, Petyr ha creduto che scoppiasse a ridere in faccia alla cameriera, arrivata proprio in quel momento a portare il suo bianco. Ma Roose non si scompone, sorride in modo quasi invisibile, e la sua voce soave è come la più terribile delle minacce.

«La tua parola conta meno di uno sputo, Baelish.»
Petyr incassa il colpo in silenzio, come ha fatto per tutta la vita.
«E poi perché la ragazza Stark dovrebbe ridarmi le mie terre?»

«Si fida di me.»

«Allora è sciocca come dice Cersei» Roose affonda colpo su colpo, quasi avesse un fendente tra le mani e un nemico davanti agli occhi. «Ne abbiamo parlato… con Tywin Lannister.»
«Il padre di Cersei?»
Petyr porta il bicchiere alle labbra, stupito del fatto che Tywin si intrometta negli affari della figlia.
«Possiede buona parte dell’azienda» spiega Roose, scorrendo l’indice sul labbro superiore. «Il trentasei percento, a quanto mi dicono.»

Ecco una notizia nuova.
Lui non ne sapeva assolutamente nulla. Era convinto che Cersei, come aveva affermato lei stessa tempo prima, non lasciasse entrare i familiari in certi affari. Evidentemente si sbagliava.

“L’azienda è solo mia”, soleva dire quando camminavano fianco a fianco per i corridoi. “Comando solo io qui, e tu devi fare ciò che dico. Non ci sarà Robert a salvarti se sbaglierai.”
Robert forse no… Ma Olenna Tyrell sì.
Petyr sorride al ricordo della faccia di Cersei quando le ha detto che avrebbe abbandonato l’azienda.

“In proprio?” Lo aveva schernito. “E come faresti, sentiamo. Senza i Lannister non sei nessuno. Come dovrei chiamarti? Lord, forse?”
Cersei aveva riso e riso di lui, la mano inanellata davanti alla bocca carnosa, i capelli biondi tirati indietro dallo chignon. Aveva smesso in fretta… nel momento esatto in cui lui aveva sorriso, fatto un inchino e raccolto le sue cose.

«Con Tywin si può ragionare» commenta Petyr, interrompendosi per bere un sorso. «Ma con Cersei no.»
«Allora dimmi, Ditocorto» Un lampo passa negli occhi di Roose mentre sussurra quel soprannome. «È così che ti chiamano, vero? Dimmi perché dovrei scegliere te, la tua esigua compagnia, invece che una potenza reale come quella dei Lannister…»

Petyr resta a pensarci, scrutando lo sguardo di ghiaccio che ha davanti. Non lo perde un istante, convinto che quel contatto sia tutto, se vuole vincere.
«È vero» ammette, facendo dondolare il liquido ambrato nel bicchiere. «L’azienda dei Lannister è conosciuta, è potente. È guidata da persone forti, che ruggiscono al minimo avviso, facendo strage di nemici.»
Posa il calice sul tavolo e muove le mani nell’aria, come se stesse guidando un’orchestra. Vorrebbe che Sansa fosse lì con lui, ad ascoltarlo, ad ammirare la sua mente.
«Così le piccole aziende spariscono dal mercato o, più semplicemente, falliscono» Petyr sorride, facendo brevi pausa perché il suo discorso entri nella testa di Roose. Sa che non è un uomo stupido, sa che rifletterà su quanto sta sentendo. «Non sono una potenza, sono la potenza. Oggi ti vogliono al loro fianco per distruggere me, la mia… - come l’hai chiamata? - esigua compagnia. Ma domani? Domani non gli servirai più. Domani vorranno tornare a essere la sola e unica potenza.»

Roose resta in silenzio davanti a lui, sembra seguire i suoi movimenti, studiati, mentre riafferra tra le mani il calice di vino bianco, bevendone un sorso.
Petyr vuole dare un’immagine di sicurezza, ma sa che sono bastate le sue parole per convincere l’uomo. Non avrebbe accettato di incontrarlo se non avesse avuto un interesse…
Se non avesse condiviso la sua avversione verso i Lannister.

«Diciamo che voglia crederti…» Le parole pronunciate da Roose sono lente e calme come l’acqua che ha davanti. Afferra il bicchiere, scuotendolo mentre parla. «Come potrei rifiutare una richiesta di Tywin Lannister…»

«Non dovrai, infatti.»
Petyr sorride, è pronto ad alzarsi, pronto a raggiungere Sansa. Ha proprio voglia di stare un po’ con lei… Certe discussioni lo caricano di un’energia particolare.

«Dovrò firmare delle carte.»
«Firmale» conferma lui, sorseggiando il bianco.
«Per affondare insieme a tutta la nave Lannister?»

Petyr scuote la testa, sorride, fa cenno di no con il calice tra le mani. Si guarda intorno prima di chinarsi verso il tavolo. Anche lui prende a sussurrare ora…
«Niente stretta di mano. Niente contratti, niente accordi.»

Il cellulare prende a vibrare nel suo taschino proprio in quel momento. Il nome, sullo schermo, gli porta alla mente un viso tondo, i ricci rossi ai lati del viso, le labbra di fuoco.
«Sì, Ros?»
Riconosce la risata all’altro capo del telefono, sente la voce impastata da una gomma, come quella di una ragazzina.
«È passato Tyrion Lannister… Vuole vederti domani verso mezzogiorno» dice Ros e, conoscendola, Petyr la immagina mordersi il labbro, torturare il rossetto cremisi, guardarsi le unghie dello stesso colore.
«Perché non prima?»

Il giorno dopo Sansa deve tornare a lezione, le ha promesso di andarla a prendere… Non può fare tardi.

«Ha detto che fino a quell’ora dorme…» racconta Ros, ridendo. «Vuoi che lo richiami?»
«No, va bene così.»
Petyr riattacca con la sensazione che il mondo intero sia intenzionato a fargli perdere tempo, ma da una parte è felice di poter finalmente incontrare Tyrion… Erano due settimane che continuava a farlo contattare da Ros.

«Chiudiamola qui, Baelish» La voce di Roose sembra arrivare da lontano.

«Allora abbiamo un accordo?»
Petyr gli porge la mano, la lascia in sospeso sopra il tavolo per un pezzo prima che l’uomo si decida a sfiorarla con le dita.
Quando si alza per raggiungere l’auto, si sente addosso lo sguardo di ghiaccio di Roose, ma non ha bisogno di chiedersi quanto possa fidarsi di lui: conosce già la risposta.

Corre un po’ attraverso le strade, sa di aver fatto tardi e spera che Sansa non sia troppo arrabbiata…
Decide, all’ultimo istante, di comprarle degli abiti per il giorno dopo, e un cellulare nuovo, così da poterla chiamare quando vuole.
Si ferma a pochi isolati dal parco di fronte alla casa di lei, scende e entra nel primo negozio di abbigliamento. Sceglie un completo bianco virginale, con alcune perline bianche sulle maniche, jeans e maglietta nera scollata, e un abito lungo a fiori.
Le due ore sono passate da un po’, ma ha ancora una cosa da fare, la più importante.
Entra nel negozio di fronte, si fa intestare una scheda telefonica e sceglie un modello moderno, bianco, pensando che le piacerà moltissimo.

Raggiunge il palazzo dove vive lei, esaltandosi al solo pensiero di vederla.
E quando entra in casa, abbandonando le borse con gli acquisti sulla poltrona in sala, sente la voce di Sansa.

«Vieni in cucina» risponde lei al suo richiamo.

Si chiede se sia riuscita a mangiare, se il frigo vuoto sia stato un problema, ma fa presto a dimenticare tutte queste cose.
Non appena oltrepassa l’ingresso e la vede, l’espressione seria e i capelli rossi intorno al viso, il mondo sembra fermarsi.
È scalza, i piedi nudi dondolano davanti a Petyr, quasi a dirgli che è nervosa. Risale lentamente lungo le gambe accavallate verso di lui, con lo spacco dell’abito a scoprire parte della coscia. Riesce quasi a toccarla con gli occhi, nota il vestito stretto a fasciarle il petto, la linea del collo sottile, sfiorata appena da una ciocca purpurea.
E quando arriva a guardarla in viso ha solo voglia di baciarla.
Nemmeno Cat è mai stata così seducente come ora è Sansa. Nemmeno Cat è riuscita a provocarlo come sta facendo lei.
Se fosse una donna qualunque, Petyr si sarebbe già lasciato andare, cedendo al suo invito.
Ma si tratta di Sansa… ed è troppo presto.
Avanza fino al tavolo, prende una sedia e la sposta a capotavola, in modo da poter vedere ogni centimetro di lei.

«Ho fatto tardi.»
«Hai fatto tardi» Sansa sembra volergli chiedere di più, lo guarda, ancora, come nei momenti in cui si è lasciata baciare da lui. «È successo qualcosa?»

Petyr si chiede quanto possa raccontarle.
Dei suoi piani con Bolton, dell’azienda di Cersei, dell’incontro con Tyrion… Vorrebbe condividere tutto con lei, raccontarle ogni cosa, ogni mossa che è intenzionato a fare.

«A dire il vero sì.»
Sansa inclina la testa di lato, aggrottando la fronte.

«Tua zia Lysa è in ospedale. Credo sia per via di tutti i farmaci che prende» spiega, prima che lei possa fargli qualche domanda. «Se vorrai, domani ti accompagnerò a trovarla.»
Un’ombra passa negli occhi cerulei di Sansa, come se temesse quell’incontro. Abbassa gli occhi un istante prima di rispondere.
«Sì, certo.»
Preferirebbe di no, Petyr lo capisce dal modo in cui ha spostato le mani in grembo, da come ha sciolto le gambe. Raggiunge il palmo di lei e lo stringe tra le dita, scorrendovi l’indice.

«Ho qualcosa per te.»
«Cosa?»

«Vieni con me» Le tiene la mano, accompagnandola in sala.
Ignora le lenzuola ammucchiate sotto la finestra, quelle che fino a qualche ora prima ricoprivano i mobili della casa, e abbassa gli occhi sui piedi nudi di Sansa. È eccitante vederla camminare scalza sul cotto dell’appartamento, non sentire nessun suono a ogni suo passo.

Petyr sorride, fermandosi un istante prima della poltrona dove ha posato le borse.
L’attira a sé, scorre le mani sulle sue spalle, studia la linea delle labbra.
Vorrebbe solo poterla portare sempre con sé.

 n

Note dell’autrice:

[1] Frasi rubate alla penultima puntata della terza serie del Trono.

Grazie per aver letto anche questo capitolo! Mi è stato suggerito di farvi presente gli spoiler… che potrete avere sulla mia pagina facebook: Celtica

Vi aspetto numerosi per discutere insieme del mio adorato Petyr (e di Sansa, ovviamente)!

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Capitolo 10
*** Era rimasta a guardare ***


Vieni con me 10


Trailer

Era Rimasta a Guardare





F

requentare un Corso di Storia le era sembrata la scelta migliore, almeno fino all’anno prima.
Ma oggi, Sansa cammina per i corridoi dell’università con un certo timore. Ha paura di incontrare qualcuno che la conosca, magari un amico di Joffrey pronto a raccontargli ogni suo movimento.
L’unica consolazione è che, alla fine della mattinata, Petyr verrà a prenderla.

Spinge la sacca sulla spalla, si prepara a entrare in aula.
C’è pieno di ragazzi intorno a lei, ma meno di quelli che erano in cortile.
Sansa non fa altro che guardarsi intorno, scrutando con sospetto ogni faccia che incontra.
Si chiede perché la stiano osservando, se siano spie di Joffrey, se arriverà a cercarla.

«Sansa!»

La voce di Jeyne la raggiunge dalla parte opposta del corridoio, il braccio sollevato a mezz’aria e l’espressione stupita di vederla. È vestita come al solito, con una gonna chiara e una camicia azzurra. Porta le solite scarpe con il tacco, quelle che indossa ogni volta che vuole fare colpo su qualcuno.
Sansa si chiede chi sia la vittima, stavolta.
«Sansa, ma che fine hai fatto?»

Jeyne si avvicina per darle un bacio sulla guancia, le sfiora una spalla mentre la squadra dalla testa ai piedi.
«Non ti avevo mai visto questa maglia… Carina.»

Sa che sta mentendo, Sansa lo capisce dal modo in cui ha storto il naso mentre lo diceva, ma a lei non importa. È un regalo di Petyr, e lui ha detto che il nero le dona.
La rende deliziosamente dark, gliel’ha sussurrato il giorno prima, quando Sansa è uscita dalla sua stanza per mostrargli come le stavano gli abiti scelti da lui.
Petyr si è alzato in piedi, l’ha raggiunta per parlarle all’orecchio, facendole provare un brivido.
L’ha fatto con tutti e tre i vestiti che le ha portato, ogni volta che Sansa ha attraversato la sala per mostrarglieli. Per farsi vedere. Per capire la sua reazione.

«Joffrey mi ha chiamato tre volte» le confida Jeyne, passando lo sguardo sul soffitto imbiancato. «Pensava che fossi venuta da me. Ha detto che avete litigato, che eri gelosa della vicina e sei scappata.»

Jeyne sembra studiare ogni sua espressione.
«Era molto preoccupato per te…»
Questa è una bugia, un’enorme bugia. E se Jeyne fosse davvero sua amica non direbbe una cosa simile. Lei sa quello che Joffrey le ha fatto, sa dei lividi sul suo corpo, delle umiliazioni che le ha inflitto.
Era anche presente durante una di quelle che Joffrey chiama liti.

«Dici davvero?»
Lo chiede con candida innocenza, la stessa che Petyr adora.
«Ma certo…»
Jeyne la prende a braccetto, la accompagna lungo il pavimento a scacchi fino all’aula di Storia Romana.
«Cosa devo dirgli?» insiste la sua amica, stringendosi di più al suo braccio. «Quando mi richiamerà, intendo… Ma poi perché non mi hai risposto al telefono?»

Perché è rimasto a casa di Joffrey, insieme ai miei documenti e al mio libretto universitario.

«Io… credo di averlo perso.»
Mente, non sa di cosa abbiano parlato Jeyne e Joffrey, non sa se lui abbia frugato tra le sue cose, trovandolo. Ma non ha più voglia di risponderle.
«Oh» mormora Jeyne, mentre entrano in aula. Salgono a metà della gradinata e si sistemano una accanto all’altra. «Quando tornerai da Joffrey?»
Sansa sta per rispondere, sta per dire mai, è quasi tentata di raccontarle di Petyr, di com’è diverso, di come non le abbia mai gridato contro, mai messo le mani addosso…
Ma poi Jeyne continua.

«Lui ti ha perdonata.»

Per un istante, Sansa la guarda a occhi sgranati, ha quasi voglia di piangere.

Non ricorda le grida di Joffrey, gli insulti davanti a tutti i loro amici?
Non ricorda il modo in cui l’ha strattonata per portarla via dalla sala da ballo, ingelosito dallo sguardo di un altro ragazzo? Il modo in cui l’ha spinta a terra, impedendole di danzare ancora, un momento prima di stringerle forte il polso, rimetterla in piedi e trascinarla via dalla festa.

Jeyne era presente.
Jeyne era rimasta a guardare.
Jeyne l’aveva abbracciata il giorno successivo, quando si erano viste a lezione.
E Sansa l’aveva considerata un’amica, una vera amica. Gliel’aveva anche detto, mettendosi a piangere sulla sua spalla.

Prende a mordersi il pollice, finge di non averla sentita. La ignora, ignora le sue chiacchiere, i suoi pettegolezzi, le domande su dove sia stata in quei giorni.
Si chiede dove sia Petyr, se anche lui la stia pensando…

 

 

 

Ros ha scherzato con Tyrion fino adesso.
Si è piegata in avanti, mettendo in mostra il seno prosperoso, e ha consegnato il caffè nelle mani del nano. Petyr ha seguito il loro breve scambio seduto in poltrona, i gomiti sui braccioli e le dita incrociate.

«Ros, mia cara, tu lo sai che non bevo caffè…» Tyrion le prende la mano, chiudendole le dita intorno al manico della tazzina. «Dicono che faccia male.»
«E cosa gradiresti?» domanda Ros esibendo il suo sorriso migliore.

«Hai del vino?»
Tyrion volta il capo verso di lui, inarca le sopracciglia e lascia andare la mano di Ros.

«Anche il vino fa male…» spiega Ros con estrema dolcezza.

«Oh, qui ti sbagli. Il vino è la cura. Mia sorella ne beve barili, eppure guarda com’è in forma!»
Ros gli lancia uno sguardo rassegnato, senza perdere il sorriso. Osserva anche Petyr prima di voltarsi e uscire dall’ufficio.

«Segretaria adorabile» commenta il nano. «Se non volesse più lavorare per te, mandala da me. C’è sempre posto per un tipetto sorridente.»
«Ero convinto non volessi spie.»

Petyr lo studia, osserva il modo in cui si guarda in giro, in cui ammira la statua dell’aquila vicino alla finestra ad arco, la piccola libreria dove tiene la contabilità, e il computer, rigorosamente spento, in bella mostra sulla scrivania.
Ha anche un piccolo telefono, mai usato, che sembra servirgli solo come fermacarte, e una cornice vuota.

«Spie?» gli fa il verso Tyrion stringendo gli occhi. «Vorresti forse dirmi che la tua bella Ros è una spia? E di chi, se posso chiedere.»
Non puoi, pensa Petyr, ma sorride affabile con un lieve movimento della mano.

«Per ora solo mia» dichiara, vedendola entrare proprio in quell’istante.
Ha un bicchiere di vetro rosso con incisi tanti minuscoli uccellini. Quando lo consegna a Tyrion, è Petyr che guarda.
Esce lentamente, per lasciare il tempo al nano di vederla per bene.

«Bene, Baelish» prosegue il nano, sorseggiando il vino. «Siamo qui per parlare della disfatta della mia cara sorellina… Come intendiamo procedere?»

Petyr torna a intrecciare le dita davanti a sé, come se lo aiutasse a pensare. Si inumidisce le labbra, ripensando all’immagine di Sansa, la sera prima.
Le belle gambe che non ha toccato, i piedi scalzi che avanzavano sul suo pavimento in cotto, lo sguardo di lei, il modo di schiudere le labbra quando i loro occhi si sono incontrati.

«Mi è stato detto che tuo padre possiede gran parte dei titoli dell’azienda di Cersei…»
«Ti è stato riferito… da chi, precisamente?»

Petyr non sa ancora se fidarsi di lui, non può dirgli di Roose e del loro incontro. Tyrion è un Lannister, ha troppo da perdere dalla sconfitta della famiglia per poterla tradire.
Oltretutto, Petyr nota le differenze con Bolton: quanto più Roose è silenzioso e calmo, tanto più Tyrion è chiassoso e allegro. Il primo non beve mai… il secondo sempre.
Quanta fiducia si può avere in un nano ubriaco e chiacchierone?
Sorride e non risponde.

«Ho capito… Non me lo vuoi dire. Presumo ci sia una certa diffidenza nei miei confronti. Posso chiedere perché?»
Petyr resta in silenzio, si limita a fissarlo negli occhi.

«Va bene… Le parole non sono più il tuo forte, vero, lord Baelish?» A un suo sguardo il nano ride. «No, scusami, scusami. È solo che a furia di sentirlo da Cersei… è un soprannome carino, non trovi? Sempre meglio di quello che ha affibbiato a me. Folletto, mi chiama, anche in presenza di nostro padre. È umiliante.»
Tyrion fa un sorriso di scherno e torna a bere lunghi sorsi dal bicchiere rosso.

«A nulla serve che lui le dica di non farlo più. Non appena restiamo soli prende a ripeterlo. Una vera lagna» Beve e beve ancora, poi gli punta contro l’indice. «È vero che hai rapito Sansa Stark e che intendi divorziare da Lysa, per sposarti con lei?»
Prima che lui possa rispondere, il nano scoppia a ridere.

«Menzogne» commenta Petyr con il sorriso. «La ragazza è venuta con me spontaneamente. Joffrey le metteva le mani addosso.»

Finalmente, Tyrion ha smesso di ridere. Scruta dentro il bicchiere come se volesse ammettere qualche colpa.
«È sempre stato un ragazzo difficile. Difficile e crudele.»

«E amante della violenza» aggiunge Petyr stendendosi meglio sulla poltrona.
«Non lo nego» Il nano posa il bicchiere sulla scrivania che ha davanti, quella che Petyr ha voluto nera come l’inchiostro. «E gran parte della colpa è di Cersei… Ha fatto di tutto per viziarlo. Ogni suo capriccio veniva sempre accontentato. E non è diverso ora che è un uomo fatto.»
Petyr non vuole parlare di Joffrey, non ha tempo da perdere con Tyrion… Vuole sbrigarsela in fretta e correre da Sansa, rubarle un altro bacio, guardarla mentre arrossisce.

«Allora, Petyr… posso chiamarti Petyr, vero? Allora, cosa dovrei fare per mettere fine all’impero della mia adorata sorella?»

Il sole proietta un’ombra strana in mezzo a loro, arriva dall’aquila, eppure ha le sembianze di un drago. Lui ripensa a quando era solo un bambino, e insieme a Cat e a Lysa giocava a essere un drago…

Le due sorelle interpretavano la parte delle cacciatrici, lo inseguivano nel bosco, fingevano di lanciargli addosso le lance. Era sempre Cat a raggiungerlo. Una spinta e rotolavano sull’erba, tra le risate.
Forse era stato proprio in quei giorni di pace, nei periodi in cui il padre di Catelyn li portava nella baita sotto la montagna, affidandoli alla custodia del fratello più grande, Edmure, che Petyr aveva cominciato a provare qualcosa per lei…

Erano sempre insieme.

Lysa in mezzo a loro. Lysa, il cucciolo da proteggere, che rideva e piangeva continuamente facendosi abbracciare da Cat. Ma Lysa era un pesce fuor d’acqua in quei boschi… Non era brava a correre, non era in grado di raggiungerlo, scoppiava a piangere ogni volta che li trovava insieme, sdraiati per terra.
Non era solo gelosia, Lysa mostrava già i segni che in seguito l’avrebbero costretta a continue visite mediche, pastiglie su pastiglie, sonniferi e calmanti per dormire.

Mentre Cat… Cat era la cacciatrice.

Cat lo inseguiva, minacciava di uccidere il drago, tanto da spingerlo a rallentare per farsi prendere. Cat lo afferrava per la maglia e lo spingeva a terra, cadendo con lui.
Cat era la vita.
Lysa solo la sua ombra.
Insieme a Cat, Petyr non poteva desiderare di essere da nessun’altra parte, non aveva pensieri per nessun altro gioco. Solo per lei.

«Baelish?» chiede Tyrion, con titubanza. Ha di nuovo il bicchiere in mano, e un’espressione confusa sul volto largo. «Tutto bene?»
No, non va tutto bene. Cat è morta, Cat, che era la vita. Mentre Lysa… Lysa è ancora qui.

«Stavamo dicendo?» chiede con un sorriso che sa di finto.

Cat non c’è più. Ho solo Sansa ormai… Ho solo Sansa da stringere nei momenti di buio. Ho solo Sansa a ricordarmi che sono ancora vivo.

«Che ruolo dovrei svolgere in questo gioco?» Tyrion lo guarda come se stesse cercando di carpire i suoi pensieri. «Contro l’azienda di mia sorella? Contro mio padre. Che cosa dovrei fare?»

Cat non approverebbe.
Cat gli direbbe che non c’è orgoglio in un’azione simile.
Ma Cat ha passato troppo tempo al nord, insieme a suo marito Eddard Stark… Non conosce le regole.

«Assolutamente niente» mormora Petyr, sistemandosi meglio.

 

 

Il cortile interno dell’università è enorme.
Circondato dall’edificio, con tre archi che consentono l’accesso senza dover varcare alcuna porta, riceve la luce diretta del sole, ha due fontane, una a forma di fanciulla intenta a leggere, l’altra con le sembianze di un uomo che ne sta giudicando un altro.
Ma la cosa che Sansa ama di più è l’olmo bianco. Dev’essere alto almeno venti metri, e una volta le è stato raccontato che esiste da prima dell’ateneo stesso…

«Sansa?»
Jeyne non vuole proprio lasciarla in pace. Le lezioni sono finite da poco, ma lei continua a tornare sulla questione Joffrey.

È abbastanza stufa di parlarne. Non vuole tornare a casa, non le importa nulla di lui, non vuole più vederlo. Vorrebbe solo che Jeyne capisse…
E vorrebbe restare in silenzio, seduta all’ombra dell’olmo, a osservare l’acqua che zampilla dalla bocca della fanciulla nella fontana che ha di fronte. Ma non può.
Aspettare Petyr la mette a disagio, la fa sentire sola, e nonostante tutto, nonostante il bisogno di pace, la voce di Jeyne riesce a distrarla.

«Ho conosciuto un ragazzo…» sussurra infine la sua amica, sedendo al suo fianco. Sono le parole che Sansa ha aspettato per tutta la mattina. «Alla fine devo ringraziare te per questo incontro.»
Lei la guarda stranita, come se fosse una cosa assurda da sentire, come se non avesse fatto assolutamente nulla. Si stringe le ginocchia al petto, lascia che i capelli rossi scivolino oltre la spalla, e aspetta una spiegazione.
«Era insieme a un amico di tuo fratello…»

Quale? Vorrebbe chiedere Sansa, ma è a corto di parole.

«Il migliore amico di tuo fratello» precisa Jeyne, decisa a continuare. «Quegli occhi… ti farebbero gelare il sangue, Sansa. Subito mi hanno fatto paura, ma quando mi ha sorriso tutto è cambiato.»
«Dove lo hai conosciuto?» si sforza di chiedere lei.
«Al “Terrore Bianco”, quel pub dove siamo state quando…»

Quando ho conosciuto Joffrey, rovinandomi inevitabilmente la vita.

«Quando Robb e Jon si sono azzuffati per quella ragazza… Igritte» spiega Jeyne con un sorrisetto.
Sansa ricorda ancora la cotta della sua amica per suo fratello Robb.

«Non si sono azzuffati…» la corregge Sansa, poggiando una guancia sulla spalla. «Hanno solo… discusso. È stata quella Ygritte a provocare Jon.»
«Lo ricordo» conferma Jeyne, incrociando le gambe sotto di sé. «Si è messa a gridare “sono libera, faccio quello che voglio, bacio chi voglio”…»
«E ha baciato Robb davanti a Jon… durante un’uscita con lui.»

Alle parole baciato Robb, Jeyne ha smesso di sorridere, prendendo a fissare la fontana. Aveva pianto per giorni dopo quell’episodio.
Sansa ripensa al matrimonio di Petyr, a quando lo ha visto posare le labbra su Lysa, stringerla a sé, sorridere come se fosse il giorno più bello della sua vita.
Non ha provato niente, quel giorno. Niente.
Si chiede, se dovesse riviverlo ora, cambierebbe qualcosa? Piangerebbe come Jeyne, per giorni e per notti, pensando all’amore perduto?
Non sa perché, ma Sansa non riesce a essere gelosa di Lysa. Sa che Petyr non prova nulla per sua moglie, sa che Petyr ama baciare lei, Sansa, e sa che vorrebbe passare più tempo insieme.
Cosa che non accade con Lysa.

«Un po’ mi manca» confessa Jeyne.
«Chi?»
«Tuo fratello… Robb.»

Si guardano e, per un momento, Sansa crede di aver ritrovato la sua amica. Ma sbaglia, e sbaglia a fidarsi.
«Da quanto non lo senti?» insiste Jeyne, guardandosi le unghie smaltate di fucsia.

Troppo tempo. Joffrey non mi ha mai permesso di chiamarlo, dovevo farlo di nascosto da lui.
«Da molto» risponde Sansa, osservando gli occhi marroni della sua amica.
Non ho nemmeno più il suo numero… È tutto a casa di Joffrey. Come farò a sentirli?
Un’idea le attraversa la mente come un lampo in un cielo nero.

Casa. Nord. Jon.

Può chiamare un numero a caso nel luogo dove ha trascorso l’infanzia, magari cercando sull’elenco potrebbe capitare il nome di qualcuno che conosce la sua famiglia, che sa di Jon e come rintracciarlo.
Chiamare lui e farsi dare il numero di Robb le sembra l’idea migliore.
È trascorso molto tempo dall’ultima volta che ha parlato con il suo fratellastro, non sa nemmeno come stia. Potrebbe essersi sposato nel frattempo, potrebbe essersi trasferito…
Sansa pensa che l’unico modo per scoprirlo sia fare quel numero.
Il numero di uno sconosciuto.

«Sarà meglio che vada» annuncia Sansa, alzandosi in piedi. Batte le mani sui pantaloni di jeans, come per scrollarsi di dosso le ultime incertezze, e fa per andarsene.
«Domani ci sei?» domanda Jeyne, imitandola. «Perché non mi dai il tuo nuovo numero? Così ti chiamo.»

Così puoi darlo a Joffrey…

«Non lo so a memoria… Te lo passo questi giorni.»
La saluta con la mano, allontanandosi.

Il cortile è zeppo di gente. Le risate di un gruppo di ragazze, alcuni studenti intenti a fare dei passaggi con un pallone, l’odore di disinfettante che esce dalle finestre al piano terra, mischiandosi a quello dell’erba tagliata di fresco.
Il miagolio di un gatto, che spinge Sansa a guardarsi in giro per individuarlo, il profumo di pizza calda tra le mani di un docente, seduto sulla panchina più vicina all’arco di entrata, tutte cose che la illudono di essere di nuovo in salvo.
Non teme Joffrey. È coraggiosa. Lo odia, odia lui, sua madre, odia persino sua zia Lysa. Ma è forte, si sente così forte da poterli anche perdonare.

Passa sotto la volta dell’arco, vede le auto parcheggiate fuori, alcune persone intente a parlare. Di Petyr nessuna traccia.
Decide di fumare una sigaretta mentre lo aspetta, appoggiandosi al muro di pietra, restando all’ombra dell’arco. È il pacchetto di Petyr, quello che ha deciso di lasciare a casa sua, così da non far insospettire Lysa o Robin.
È il pacchetto che hanno condiviso la sera prima, quando Sansa gli ha chiesto di non andare via.

“C’è Robin che mi aspetta. Non posso lasciarlo solo.”

Sansa avrebbe voluto stringergli le braccia al collo e baciarlo, per convincerlo a non lasciarla sola.
Non le è mai piaciuto restare sola… nemmeno ora che è così in ombra da non essere vista da nessuno.

Può vedere la gente, può osservarla, può addirittura sentirla. Ma non è lo stesso per gli altri.
Fa un altro tiro, lascia che il fumo si sparga nell’aria, anche se sa che è proibito fumare all’interno dell’università. Non le importa.
È coraggiosa adesso, non ha paura. Non…

Una mano si stringe intorno al suo braccio, qualcuno la trascina all’interno di una porta aperta, e Sansa smette di respirare.
Non è vero che è coraggiosa. Non è mai stata coraggiosa. Non ha mai voluto essere coraggiosa.
Vuole solo tornare a casa, vedere il volto rassicurante di Petyr, sentire le sue parole dolci.
Non possono averla trovata, averla presa, non possono di nuovo farle incontrare Joffrey. Sarebbe troppo ingiusto, troppo spaventoso. No, no, non è possibile.

Sansa finisce con la schiena contro il muro. Non c’è luce in quella stanza, eppure basta il riflesso del sole sulla finestra per illuminare la figura che ha davanti, per permetterle di dare un volto a quella voce…

«Non dovresti fumare, uccellino.»
Sandor Clegane, il Mastino, è a un passo dal suo viso.

n

Note dell’autrice:

Scusate, scusate il ritardo! Non sono a casa queste settimane, mi è un po’ difficile aggiornare, ma ci sto provando. Spero che non vogliate abbandonare la storia e che decidiate di aspettarmi. È importante per me!
Celtica

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Capitolo 11
*** Muro di ghiaccio ***


Cap 11


Trailer

Muro di Ghiaccio






R

os ha le unghie smaltate di rosso, si tortura le labbra mentre parla.
Il bel sorriso, quello che è costretta a mostrare sempre, è tornato a essere una lunga linea frastagliata. Un luccichio negli occhi fa capire a Petyr che vorrebbe piangere, e non lo fa.
Non lo fa per paura. Perché sa, Ros sa che le lacrime non farebbero altro che peggiorare la sua situazione.
Eppure non riesce a trattenere un singhiozzo…
… e Petyr ne approfitta per sedere accanto a lei, scorrerle un braccio intorno alle spalle e avvicinare le labbra al suo orecchio, scostandole un riccio cremisi dalla pelle liscia.

«Odio fare cattivi investimenti...»
«Lo-lo so.»

«Avanti, Ros…» Petyr cerca di persuaderla a forza di sussurri. «Cos’hai detto a Varys? Al mio buon vecchio amico?»
Le persiano socchiuse lasciano la stanza nella penombra, e la luce flebile sulla scrivania di Ros riesce appena a illuminarne il volto. Non c’è nessuno con loro, Tyrion è andato via da poco, ma è dalla sera prima che Petyr aspetta di fare quella conversazione.

«Niente» mente, lanciandogli uno sguardo supplichevole.
Stringe tra le dita le frange della gonna, trascinandole verso le ginocchia.

«Questa è una bugia, Ros.»
Al suono di quelle parole, di quel tono così amabile, Ros sussulta vicino a lui, sgranando gli occhi dal terrore. Prende a scuotere la testa, come se in ogni movimento, in ogni espressione del suo viso, fosse impressa la parola “perdono”.

«No, no…»

«Sh…» Petyr le sfiora la guancia con il dorso delle dita, sorride appena. «Raccontami, Ros. Raccontami e non mi pentirò di averti assunta.»
La mano tremante di Ros corre al volto, asciuga le lacrime, sembra darsi un contegno. Si fa coraggio, si prepara a parlare.

«È venuto a cercarti una decina di giorni fa. Tu non c’eri» Ros lo guarda come se fosse colpa sua ciò che è venuto dopo. «Aveva notizie riguardo a qualcosa che gli avevi chiesto di controllare, ma quando gli ho spiegato che saresti stato via per giorni ha chinato la testa e se n’è andato.
«Il giorno dopo squilla il telefono… ed era lui. Gli ho ripetuto le stesse cose, che non c’eri, che non ci saresti stato per giorni! Ha riso… Ha riso e ha detto di essere sbadato. Salvo poi aggiungere che era con me che voleva parlare.»
Ros solleva gli occhi su di lui, Petyr li vede riempirsi di nuove lacrime. Sembra maledirsi per aver risposto al telefono.
«Ha chiamato e chiamato ancora, ogni giorno, per tutta la settimana. Voleva sapere dov’eri, perché non rispondevi alle sue telefonate, se potevamo vederci… Ho sempre detto no» aggiunge con fierezza, sollevando il mento.

Le sue mani tremano, si tortura il labbro e trattiene le lacrime. Eppure mostra fierezza…
Una fierezza in cui Petyr non crede.
Afferra la mano pallida e delicata di Ros, la stringe mentre parla.

«Non sono venuto per perdere tempo» sussurra impercettibilmente, facendola scoppiare in singhiozzi
«E va bene! Gli detto di sì… Quando mi ha chiesto di vederci, gli ho risposto di passare in ufficio, che ero sola. È arrivato dopo dieci minuti.»

Il che significa che era già qui sotto ad aspettare…

«Mi ha detto delle cose… Non il primo giorno, non da molto, ma io non gli volevo credere. Cose che riguardano te. Te e una ragazza.
«Varys afferma che te la sei portata via, che la tieni nascosta, che è il tuo asso nella manica. Lui voleva sapere con chi dovevi incontrarti questi giorni… Ma soprattutto di lei. Dov’è? Mi ha chiesto, ma io non ho saputo rispondere.»

Petyr si inumidisce le labbra, si scosta appena dalla figura di lei, lasciando libera la sua mano.
«Cosa gli hai detto dei miei… amici?»
Ros lo guarda, abbassa gli occhi, lo guarda ancora. Petyr sa che sta per mentire.
«Ho detto solo che dopo essertene andato dai Lannister, sono stati i Tyrell ad aiutarti…»
«Cos’altro?»

Gli basta chinarsi ancora, studiare la linea morbida del naso, perché Ros torni a raccontargli una nuova versione.
«Che mi avevi chiesto di fissarti un appuntamento con Roose Bolton… e con Tyrion Lannister. Proprio qui, proprio oggi.»
Petyr sente il cuore accelerare la sua corsa, giusto un po’, il tempo per lasciarla riflettere.
«Dimmi che non l’hai chiamato.»
Ros solleva gli occhi così in fretta da ricordargli un cerbiatto in fuga. Ma lei non può fuggire… Non ha posto dove nascondersi, solo una verità da barattare.
«No.»
Petyr inarca le sopracciglia, stringe le labbra, aspetta che lei continui.
«No… Sì» confessa poi. «Ma solo un minuto, niente di più. Gli ho solo confermato l’arrivo di Tyrion.»
Non è vero, non del tutto, e Petyr, sfortunatamente per Ros, questo lo sa.
«Cosa gli hai detto dei miei piani?»
«Che non li condividi con me…» Ros si lascia sfuggire un singhiozzo, ma trattiene gli altri. «Che non conosco le tue intenzioni.»

«Ma oggi hai sentito.»

Ros scuote la testa così in fretta da creare un turbine di fuoco davanti ai suoi occhi.
«Ho sentito… ma ho sentito poco.»

È tardi. Sansa lo starà aspettando. Deve sbrigarsi.
Petyr si alza in piedi, sistema la maglia e scrolla le spalle: per lui la questione con Ros è conclusa.

«Hai sentito abbastanza» la corregge, un momento prima di uscire dalla stanza.

 

 

Il muro alle sue spalle sa di ghiaccio.
È molto diverso dal fuoco impetuoso che legge negli occhi del Mastino, mentre la costringe all’angolo come un animale. Sansa vorrebbe fuggire, è vero, vorrebbe non dover più vedere la sua brutta faccia, respirare il suo odore di alcol, sentire le sue mani callose su di sé.
Ma è lì, ormai.
Prigioniera del Mastino, condannata a tornare in catene da Joffrey.

«Sei stata una sciocca a tornare qui.»
Sansa lo guarda male, come se odiasse sentirsi ripetere sempre le stesse cose. Sono parole identiche a quelle usate durante il loro ultimo incontro, quando lei era tornata a casa per riprendere i documenti.

«Che cosa vuoi?» chiede, a denti stretti, ricordando che è stato proprio lui a permetterle di fuggire.
«Joffrey mi ha mandato a prenderti.»

Sansa sgrana gli occhi, non riesce a crederci. Che senso ha avuto salvarla, lasciarla scappare, trattenere Joffrey? Se alla fine è tornato per lei, se alla fine è tornato a prenderla, a riportarla a casa, a torturarla ancora… perché proteggerla una prima volta?
Sente il cuore andare in pezzi.
Tutto ciò che aveva temuto, tutto ciò in cui aveva sperato, sono tornati a essere fumo. Esiste solo la realtà di Clegane, lui che la sovrasta, che le impedisce di scappare.
«Perché?» sussurra Sansa con disperazione.
Vorrebbe solo andare via, non vedere più nessuno, sparire per sempre da quella città maledetta. Da quando vi si è trasferita sono accadute solo cose orribili.
«Ha ricevuto una chiamata e si è messo a sbraitare ordini.»

Una chiamata… una chiamata di chi?

Sansa osserva la mano possente che la trattiene per la spalla, inchiodandola al muro, e solleva gli occhi sul volto sfigurato che ha davanti. Si chiede quanto ci sia di umano sotto quella cicatrice, se davvero Sandor sia intenzionato a riportarla indietro.
«Perché mi hai lasciato fuggire?» chiede invece.
Il Mastino sembra percepire una leggera sfida nella sua voce, perché digrigna i denti e stringe la presa sulla sua spalla.

«Non…»
«Dimmelo» insiste Sansa, interrompendo il ringhio.
«Pensavi che quella fichetta ti avrebbe protetto?» Sandor Clegane distende le labbra in un sorriso di scherno. «Baelish è infido e traditore. Ti avrebbe rivenduto in fretta a Joffrey, pur di salvarsi.»

Sansa stringe gli occhi, lo guarda con tutto il disprezzo di cui è capace.
«Lui mi ha salvata.»
«No» ringhia il Mastino, premendola con più forza contro il muro. Tanto da farle male. «Sono stato io a salvarti, io, non quella fichetta con cui te la fai adesso.»

Sansa prende a dimenarsi, batte un pugno sul torace largo che le impedisce la fuga, e comincia a gridare.
«Lasciami andare! Lasciami, lasciami!»

Sandor si guarda in giro mentre chiude una mano sulla sua bocca, intimandole di fare silenzio. È così rude, così doloroso, che Sansa sente il bisogno di piangere.
Di disperazione. Di rabbia. Di delusione.
Non riesce a credere che Petyr la tradirebbe, non può nemmeno pensarci… È come se Sandor le avesse tolto ogni speranza, ogni remota illusione di poter essere felice.

«Basta! Sta ferma.»
Sansa obbedisce, ma non perché voglia farlo. Sa che sprecare energie è inutile, sa che nessuna mossa, nessun gesto, riuscirebbero a liberarla da quelle grinfie.

«Perché mi stai facendo questo?» domanda ancora.

Il Mastino la guarda, una strana luce gli brilla negli occhi mentre si avvicina a lei. Sansa riesce a sentire il suo alito acre e vinoso, il respiro stranamente grave.
«Sono fottuto» ripete, a un soffio dalle sue labbra. Sansa è sicura che stia per baciarla. «Non ho altra scelta.»
È così vicino da spingerla a sperare che passi in fretta. Il gelo alle sue spalle è fatto di pietra, di intonaco e cemento, ma il calore che ha davanti ha un nome: Sandor Clegane. Il Mastino.
«Il cane di Joffrey» sussurra, lasciandosi sfuggire quelle parole.

Sandor si ferma. È come se qualcuno lo avesse appena risvegliato dal torpore. Le emozioni sembrano inseguirsi sul suo volto, prima una glaciale delusione, poi una rabbia fredda, infine solo pacata certezza.
Si allontana da lei quel tanto che basta a farle estrarre una nuova sigaretta dal pacchetto di Petyr.
Sansa sente i suoi occhi addosso, vede le mani enormi di lui stringersi a pugno, torcersi abbandonate ai lati del corpo. Sa che non la colpirà, eppure ha solo paura…
«Puoi lasciarmi sola, per favore?»
Lo chiede con l’accendino in mano, mentre la fiamma sembra disegnare un contrasto sul volto sfigurato del Mastino.
«No.»

«Vuoi ancora riportarmi da Joffrey, non è vero?»

Lo chiede tra il disperato e l’arrendevole, come se quella fioca speranza rimasta si stesse affievolendo in quello stesso istante.
Lui solleva la testa, la scruta come se la vedesse per la prima volta. Le solleva il mento, rudemente, afferrandolo con la mano, e osserva il segno giallastro sul suo viso.
È il marchio che Joffrey le ha lasciato, la sua dimostrazione d’amore.
È ciò che il Mastino non sembra condividere.

Sansa fa un tiro, poi un altro e un altro ancora, cerca di restare calma, ma è difficile farlo quando qualcuno con il volto di Sandor resta lì a fissarti.
«Non sai che fa male?» ringhia lui.
Sandor Clegane le ruba la sigaretta con le dita e se la porta alle labbra.
«A te non fa male?» lo sfida Sansa, incrociando le braccia al petto.

Ascolta il suono burrascoso della sua risata, il modo in cui stride, facendola tremare. E, di nuovo, gli occhi del Mastino si posano su di lei.
Sansa è abituata agli sguardi carichi di desiderio, ma quelli che Sandor le lancia ora riescono solo a farla vergognare. Non si è mosso, ma è come se l’avesse fatto, è come se l’avesse spinta contro il muro.
Tanto da farle chiedere che sapore avrebbe avuto il suo bacio, se solo lei non lo avesse fermato…
«Cosa dirai a Joffrey?»

Gli dirà che mi ha visto? Inventerà che sono riuscita a fuggire? No… Joffrey potrebbe chiedersi come mai, potrebbe capire che è stato di nuovo il Mastino a lasciarmi andare.

Perché tutto ciò di cui Sansa è sicura è che Sandor non la riporterà indietro.
Assapora a fondo il filtro della sigaretta, e quel gesto, per quanto insignificante, ha per Sansa più significato di un bacio.
La passa da una parte all’altra delle labbra in modo rude, come se al posto della cicca ci fosse la bocca di lei. Sembra qualcosa bramato dal tempo stesso, un contatto violento, un desiderio feroce.
Sansa arrossisce senza accorgersene.

«In culo Joffrey.»
Sono le ultime parole prima di vederlo sparire nel cortile.

 

 

Il campanello suona una volta sola.
La porta, alta e nera, con incisioni di rubino agli angoli, si apre immediatamente davanti ai suoi occhi. Lei è lì, i capelli rossi scivolano sulla lunga vestaglia, il labbro trema appena quando lo vede, giusto un istante prima di sorridere.
«Entra» mormora con la sua voce di velluto, scostandosi per lasciarlo passare.
Lo guida lungo il corridoio, apre la prima porta a sinistra e gli concede di entrare per primo. La sala è quadrata, con un enorme camino spento, due finestre ad arco da cui arrivano i rumori della strada, e due lunghi tappeti persiani. Li percorre fino ad accomodarsi su uno dei due divani a pois.
Lei non si siede, sembra nervosa. Stringe i lacci della vestaglia, le unghie rosse mandano lampi di fuoco verso i suoi occhi, i denti, bianchissimi, mordono il labbro.

«Sei venuto in pace?» chiede, mentre la bocca di porpora trema.
Un cenno del capo e tutto torna apposto.
«Preparo un caffè.»

Lei si allontana, lasciandolo solo. Può guardarsi in giro, ora. Può vedere, capire, scoprire come fare. I lacci delle tende? No, troppo sospetto… L’attizzatoio? La sala messa a soqquadro, la finestra lasciata aperta? No… troppo prevedibile. E troppi problemi.
Sente una vena pulsare sul collo mentre si alza. Tutta questa situazione lo mette stranamente a suo agio. I guanti di pelle nera non gli hanno mai donato come quel giorno, il completo nuovo sembra brillare di luce propria mentre cammina, lento e sicuro, verso il corridoio.

Fuori, il sole è già calato, lasciando il posto a una falce di luna. Non è orario di visite, ma si conoscono da così tanto… e hanno così tante cose da dirsi. Non avrebbe potuto rimandare, perché non c’è momento più adatto di questo.
Accarezza la tasca dove è nascosta, come per assicurarsi che sia sempre lì, pronta all’uso. È un movimento lento, sicuro, come i suoi passi sul pavimento. Sente i rumori provenienti dalla cucina, lei che traffica con qualcosa… Lo scroscio dell’acqua dal rubinetto aperto, il cozzare delle pentole d’acciaio.
Cerca di imprimere ogni suono nella sua mente, ogni odore, come quello del detersivo al limone, e ogni sensazione che sta provando.
Può quasi fiutare la paura, l’eccitazione della morte, la bramosia delle mani su un corpo che non può più reagire…

Lo fa sentire vivo.

Non c’è niente che potrebbe farlo urlare, fargli sollevare la testa al cielo, niente più di quello.
Il potere sulla morte. Il potere sulla vita. Il potere su un altro essere umano.
È meglio del sesso, è la droga più potente che conosca.

Non lo farebbe se non fosse costretto… Non lo farebbe se in cucina ci fosse lei, invece della rossa. Rifiuterebbe di obbedire all’ordine, si godrebbe il suo caffè stuzzicandola con uno sguardo, bramando una sua parola.
Ma della donna nell’altra stanza non gli importa nulla.
Non gli importa dei suoi seni prosperosi, delle sue ciglia lunghe, delle sue ciocche ribelli. Sa che potrebbe averla, sa che si lascerebbe prendere in qualsiasi istante pur di avere un altro giorno, un solo altro giorno di vita.

«È quasi pronto.»
La voce cammina con lentezza fino a lui, come se non avesse alcuna voglia del prossimo passo, quasi come se sapesse cosa la aspetta.
Un sussurro, un grido, un tonfo…
Non c’è altro nel suo futuro. Nulla, se non quell’odore di caffè che si sta spargendo per casa, il sapore del rossetto quando tirerà fuori la lingua per un’ultima frase, l’immagine del suo viso…
No. Questo no.
Non può essere tanto crudele. Lei non lo merita.
Non meriterebbe nemmeno di morire, ma questi sono gli ordini… Non c’è altro modo, questo lui lo sa. Non c’è più fiducia che lei meriti, non può permettere che un’altra parola sfugga dalle sua bocca carnosa, giungendo alle orecchie sbagliate.

Lei non capirebbe…

Se solo provasse a spiegarle, non capirebbe. È inutile spaventarla, farle vivere gli ultimi momenti nel terrore. Non è questo che vuole.
Solo sbarazzarsi di lei.

«Ci sei?»
Esce dalla cucina con il suo portamento altero, reggendo in mano un vassoio con lo zucchero e due tazzine. La ceramica ha l’aspetto di un velo… un velo rosso sangue, striato di bianco.

«Ah, sei qui» sussurra, trovandolo in corridoio. «Vieni.»
Gli fa strada con un certo timore, come se non volesse averlo alle spalle.

Fai bene, pensa lui, studiando la linea perfetta della gambe.
Si accomodano sullo stesso divano, portano la tazza alle labbra nello stesso istante, mentre vige il silenzio.

«Io…» comincia lei, ma basta un cenno per zittirla.

Non vuole sentirla parlare, non di quello. Non vuole che l’ultimo ricordo che ha di lei sia così… inutile.
No, vuole sentirla parlare di sé, della sua infanzia, dei suoi amori. Dei suoi sogni di ragazza, di tutto ciò che non lo riguardi.

«Tornerai a casa?» domanda lui in tono lieve, dandole quell’ultima, dolce, speranza che non credeva possibile.
«Nel nord? Oh, no…»
Ecco che il tono è già cambiato, la voce si è fatta più delicata, più decisa, più felice. Illusioni, non sono altro che questo. Le parole non valgono nulla, non in quella stanza, non in quel momento.

«Vorrei andare a sud… Attraversare il mare, raggiungere il cuore d’Europa.»

E riesce quasi a vederla, la speranza, brillare nei suoi occhi.
È la luce di un sogno, l’alba prima del giorno, la bellezza sognata a un passo da lei.

«Come sarà?» chiede con un sorriso. «Non sono mai uscita dalla Gran Bretagna. Ho girato alcune città, questo sì, ma mai quelle che avrei voluto. Adesso che sono libera penso che tornerò a viaggiare.»
Lo dice con una nota incrinata alla parola “libera”, come se non fosse stata una sua decisione… una sua scelta.

Tutto ciò che facciamo dipende da noi.

È tardi. Non c’è più tempo di parole, non può fare altro per lei, oltre a donarle un ultimo sogno…
Le sfiora la mano, la gola, i capelli di fuoco, così diversi da come vorrebbe che fossero… La stringe a sé, accompagnandola sul suo petto.
Ora che è rilassata è così facile farle voltare il viso di lato, liberare il lato del collo dai boccoli… e pungerla con il suo ago.

Le pupille si dilatano giusto un istante per guardarlo, il corpo si irrigidisce, ma è tardi… È troppo tardi per qualunque reazione.
E quando le palpebre si abbassano, non deve fare altro che caricarsela in spalla e attraversare il corridoio. Là, in fondo, c’è ancora una porta, l’ultima, quella che non avrebbe mai dovuto varcare.
Uno sforzo per aprirla, con il peso di lei a gravare sulla schiena, e le scale che scendono nell’antro oscuro.

La sua corsa è finita.

Non sarà lui a percorrere quei gradini, ad accendere la luce, a scoprire cosa c’è nella cantina buia. Non è più un suo compito.
La guarda ancora una volta, ascolta il suo sospiro mentre se la adagia tra le braccia.
E poi la lascia andare.
 

 n

 
Note dell’autrice:
Vorrei dedicare questo capitolo, per quanto un po’ fuori tema, a due persone che ho conosciuto la settimana scorsa, e con cui ho trascorso delle ore davvero piacevoli. Magari non leggeranno mai questa dedica, ma mi sembra carino farlo comunque!

Cosa importante: grazie, in particolare a _Elthanin_Riddle_ (senza di te, forse, questo capitolo sarebbe arrivato molto più tardi! Ma il tuo messaggio mi ha rincuorato, mi ha fatto capire che c’è chi apprezza, tanto da spingermi a non abbandonare la storia);
A lady dyane (anche il tuo messaggio mi è stato di grande aiuto! Grazie!);
A Diomache (sei tra le poche persone che hanno letto e recensito tutti i capitoli. Grazie! Di cuore.);
E grazie anche a tutti quelli che mi hanno scritto in privato!

Ovviamente non c'è bisogno di citare anche quelle due/tre persone che mi seguono sempre, vero? Grazie mille!

Confesso di aver avuto qualche dubbio sul continuare a pubblicare questa storia… Il mio timore è che questo dubbio torni, quindi grazie a chi ha cercato/sta cercando di farmi capire che Vieni con Me merita di andare avanti!
Spero di sentirvi presto (e vi aspetto sulla mia Pagina per due chiacchiere!).
Celtica


P.S.: vorrei provare a fare un gioco anche qui, un gioco cominciato su Celtica (Fb).
Il gioco dello spoiler.
In genere uso capitoli già pronti, dando, a chi me lo chiede, un piccolo estratto di quanto avverrà in seguito. Al momento però non ho materiale a disposizione, quindi vi lascio la possibilità di chiedermi ciò che volete! Domande aperte naturalmente. Sono tutta vostra!

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Capitolo 12
*** Un segreto ***


Cap 12

Trailer

Un Segreto







A

nche oggi, Sansa ha deciso di non dire a Petyr del Mastino. Proprio come ieri, quando è stata spinta contro un muro, con il suo fiato addosso… Con la certezza che stesse per baciarla.
A Petyr non farebbe piacere saperlo.
Ha quasi paura che possa diventare geloso, come un tempo è stato Joffrey… Che possa arrivare ad alzare le mani su… No. No, si dice, Petyr non lo farebbe mai.
Non a lei.
«Dicono che Lysa si sveglierà presto» mormora, per spezzare quella tensione creata dal silenzio.
E dalle sue bugie.
«Sì, potrebbe essere già sveglia al nostro arrivo.»
Petyr lo dice lanciandole un’occhiata, come per capire se tema quel momento, o se lo aspetti.

La verità è che nemmeno Sansa lo sa.

Non vuole più parlare con lei. Non vuole nemmeno saperla morta, certo… Ma non vuole parlare con lei.
Dover fingere che vada tutto bene, che siano una famiglia felice, dover fingere di essere indifferente a Petyr! No, già una volta, tempo prima, ha dovuto fare una cosa simile.
Adesso basta.

I primi tempi con Joffrey erano stati felici e spensierati, e per un po’ lei si era illusa di poter essere libera di fare ogni cosa.
Aveva conosciuto Loras, il fratello di Margaery, all’università. Frequentava lo stesso corso suo e di Jeyne, ed era stata una gioia scoprirlo. Una gioia anche per Jeyne…

“Tu hai Joffrey”, le aveva detto, il giorno in cui si erano confrontate. “Lasciami almeno Loras.”
“Ti sbagli. A me non importa affatto di Loras.”
Era una menzogna, ma Jeyne aveva bisogno di sentirla.

Lo avevano ammirato giocare a calcio dagli spalti, gridando il suo nome, tifando per il suo trionfo.
E infatti aveva vinto… Era bravo, Loras. Bravo a tirare in rete, a correre in mezzo al campo, respirando l’inno della gente, la loro gioia.
Ed era stato bravo con lei, dopo una partita, quando l’aveva scelta per caricarla in spalla, a mo’ di trofeo.

Jeyne non le aveva parlato per due interi giorni…
E nemmeno Joffrey.
Forse era da lì che tutto era cominciato.

“Sei una lurida puttana!” Joffrey lo aveva gridato in casa, sbattendo i pugni sul tavolo. Non l’aveva toccata, non quel giorno. Solo insultata e offesa, violentata nel suo animo di ragazzina innocente.

Aveva scherzato con Loras, questo sì. Ma non aveva fatto altro con lui, forse nemmeno lo aveva desiderato.
Loras era stato, per lei, l’immagine del principe perfetto, del cavaliere che dona un fiore, dell’uomo da presentare ai genitori.
E se i suoi fossero stati ancora vivi, Sansa avrebbe voluto portare Loras a casa, non Joffrey. Non dopo ciò che le aveva fatto… Non dopo quel primo schiaffo, alla festa di compleanno di Cersei.

“Devi stare zitta quando parlo io!”

Ma cos’è che gli aveva detto? Sansa proprio non riusciva a ricordarlo…
Sapeva solo di aver riso a una battuta di Tyrion, di aver consegnato timidamente il regalo a Cersei, di aver ascoltato la richiesta di un ballo da parte di Tommen, il fratello minore di Joffrey.

«Sei pronta?»

Quelle due parole interrompono il flusso dei suoi ricordi, riportandola a una realtà a cui avrebbe preferito non tornare… Rivedere Lysa, magari anche doverle parlare, non sono cose che attraggono Sansa.
Le fanno venir voglia di fuggire, di aprire la portiera dell’auto e cominciare a correre nella direzione opposta all’ospedale.
Annuisce appena, lasciando che le mani di Petyr avvolgano la sua.

“Andrà bene”, sembra dirle con quello sguardo. Ma Sansa non riesce a crederci…

Scende dalla macchina sentendosi tesa in ogni parte del corpo. Qualunque altro luogo andrebbe bene, tranne questo. Sansa odia gli ospedali, li odia da quando i suoi genitori sono morti, da quando Robb è stato costretto a entrare nell’obitorio per il riconoscimento, mentre lei aspettava seduta fuori.
Arya era abbracciata a Jon, piangendo disperata, battendo i pugni sul suo petto.

Bran e Rickon erano rimasti a casa con Rodrik Cassel, un amico di loro padre… In teoria, ricorda Sansa, Robb aveva chiesto anche a lei e ad Arya di restare con loro, ma non avevano voluto.
La più piccola si era messa a sbraitare, a lanciare cose per aria, implorando Jon – il suo caro Jon – di portarla in ospedale.

“Se viene lei, vengo anch’io”, aveva detto Sansa, incrociando le braccia sul petto.
“Sansa…”
“No, Robb, non dire altro. Erano anche i miei genitori, è giusto che ci sia anche io.”

Era stato Jon a guardare il fratellastro, annuendo appena.
“E va bene… Tanto si sarà trattato senz’altro di un errore.”

Oh, quanta speranza le avevano dato quelle parole! Quanto aveva ammirato Robb, quanto lo aveva ringraziato, nella sua mente, per averle lasciato il beneficio del dubbio!
Erano due anime affini, lei e Robb.
Positive. Soprattutto lui.
Non c’era momento di sconforto per suo fratello, non mancava mai il sorriso sul suo viso…

Jon era stato diverso, invece.
E ora, mentre Sansa attraversa i corridoi freddi dell’ospedale, ha come l’impressione di rivedere il suo volto. Cupo. Scuro. Con la morte impressa negli occhi.
Perché Jon sapeva.
Jon lo aveva capito.

Non c’era stato nessun errore…

I due corpi ritrovati nell’auto erano proprio quelli di Catelyn e di Eddard.
Nessun furto di macchine, nessun prestito, niente che potesse indurli a pensare che fossero riusciti a prendere quell’aereo. Quello che avrebbe dovuto portarli un week-end in Italia, per un affare da concludere.

«Vieni» sussurra Petyr, prendendole la mano. La conduce all’ascensore, sorridendole mentre la guarda salire. Gli basta un movimento per premere il tasto del quarto piano.
Ho paura, vorrebbe dire Sansa. Ma non lo fa.

Resta in silenzio, lasciandosi andare ai ricordi.
Le mani di Jon strette alla giacca di Arya. Le pieghe sul tessuto… Le dita come artigli sulla schiena di sua sorella. Non una lacrima, non un singhiozzo. Non da parte di lui.
Ma il dolore era impresso sul suo volto, nel suo modo di stringere occhi e labbra, quasi si rifiutasse di vedere.

Sansa si era sentita mancare.

Si era alzata in piedi, riconoscendo la verità sul viso di Robb. E in un istante, in un solo istante, aveva sentito le ginocchia cedere sotto di sé, come se qualcuno l’avesse costretta a piegarle con un colpo.
Robb non se n’era nemmeno accorto… Era corso a cercare il medico legale, forse anche per nascondere le lacrime. E Arya gli era andata dietro, come se fosse una notizia troppo sconvolgente per lei.

Nessuno dei due si era accorto di Sansa.
Del suo respiro affannato, del suo cuore impazzito.

Finché Jon non si era piegato accanto a lei per aiutarla a rialzarsi.
“Respira”, le aveva detto, prendendola per le spalle e facendola sedere. “Calmati! E respira. Devi respirare, Sansa. Respira. Sì, brava, così. Respira.”
Era rimasto a fissarla da vicino finché non aveva preso a fare respiri lenti e gravi.
Era stato dopo, che aveva cominciato a tremare…
Sansa può quasi sentire il calore del corpo di Jon quando l’ha stretta tra le braccia, dicendole quelle stesse, identiche, parole che Petyr ha usato poco prima con lei. Parlandole con uno sguardo.

“Andrà tutto bene.”

Ormai Sansa sa fare un’unica associazione con quel tipo di “bene”: pena. Tormento. Male.
E quando si ritrova davanti alla stanza dove riposa sua zia, ora che è stata spostata dal reparto di Terapia Intensiva, non può fare a meno di ricordare la voce di Robb.

“Sansa!

Se lo era ritrovato davanti, nello stesso momento in cui Jon si scostava da lei. E aveva ricevuto anche il suo abbraccio… e quello di Arya, mentre il fratellastro si allontanava da loro.
Eppure erano cresciuti insieme… Eppure, ricorda Sansa, prima di quel momento lo ha sempre detestato. Perché così la pensava sua madre, perché Catelyn non riusciva nemmeno a guardarlo.

«Petyr…»

«Zio Petyr!»
Robin corre da lui, mentre Lysa sorride sdraiata nel letto. Sembra invecchiata di dieci anni.
«Sansa… ci sei anche tu…» Sua zia la guarda con la dolcezza negli occhi, come se non ricordasse nulla di quanto accaduto in precedenza. «Avvicinati, avvicinati, cara…»
Petyr le fa cenno di sì con la testa, ma Sansa riesce a pensare solo a quanti farmaci le stiano dando, per poterla desiderare vicino…
Obbedisce, sfiorando le lenzuola bianche con le dita.

«Ti sono mancata?» mormora Lysa, muovendo la mano a scatti per dirle di avvicinarsi ancora. «Piccola cara… ti fai sempre più bella.»
Sansa non sa se fidarsi, non sa quanta verità possa esserci nelle parole di una donna sotto farmaci… Sa solo di aver paura di sua zia.

«Vi lascio un po’ da sole» dice Petyr, facendo pressione sulla spalla di Robin per farlo uscire.
Lei vorrebbe chiedergli di restare, vorrebbe chiedergli di dirle cosa pensa dei suoi abiti, oggi, di cosa ha intenzione di fare stasera. Vorrebbe dirgli di non lasciarla da sola con sua zia, di non permettere che le faccia ancora del male.
Ma si limita a guardarlo uscire, un solo sguardo, per evitare che Lysa si accorga del modo in cui lo osserva.

«Dammi la mano, Sansa» le chiede Lysa, muovendo appena le dita. «Hai la pelle così morbida…»
Non può fare a meno di pensare a come sua zia non si sia mai fatta viva, dopo la morte di sua madre. A come non si sia offerta di aiutarli, di occuparsi di bambini così piccoli…
Se non ci fosse stato Robb, allora sì che sarebbero stati nei guai.

«Presto potrai tornare a casa, zia» mormora Sansa, incrociando i suoi occhi.
«Ah, sì?»
Lysa sembra domandarsi perché si trovi lì, ma basta un istante perché il suo sguardo cambi.

«È colpa tua» dice. «Finirai per uccidermi, proprio come ha sempre voluto tua madre.»

 

 

«Mi è sembrata diversa» commenta Robin, mentre attraversano il corridoio per raggiungere le scale.
Petyr gli ha appena promesso una barretta di cioccolato e una bibita, devono solo raggiungere l’atrio.
«Chi?»
«Mia madre» conclude Robin, guardandolo di sbieco. «Pensi davvero che volesse uccidersi?»
Un’infermiera sorride, vedendoli, e fa un cenno di assenso a Petyr. Ma ora, ora non ha tempo per questo…

«Tua madre sta molto male, Robin» comincia, fermandosi al primo gradino. Posa la mano sulla ringhiera smaltata di nero prima di riprendere, lasciandogli il tempo di assimilare quelle parole. «La depressione… Lei…»
«No» lo interrompe subito Robin. «Non parlarmi di depressione, zio Petyr. Non aveva mai fatto niente di simile. È cominciato tutto da quando Sansa è venuta a stare con noi.»

È un terreno pericoloso, quello dove si stanno addentrando. E a Petyr il rischio non piace…
Non ora.

«È logico: Sansa le ricorda sua sorella. Tua madre è una donna molto fragile… Non ha ancora accettato la sua scomparsa. È difficile perdere qualcuno con cui si ha trascorso una parte importante della propria vita.»
L’espressione di Robin cambia sul suo volto. Sembra aver capito.
«Non ci avevo pensato…»
Petyr gli sorride, incoraggiante. Posa una mano sulla sua spalla con fare paterno.
«Andiamo, ora.»

Procedono lungo le scale. Tutto sembra essere tornato apposto. Ma Petyr sa che non è così, sa che presto accadrà qualcos’altro, qualcosa che rischierà di dividerlo ancora da Sansa.
Non può permetterlo.
Sa solo questo.

Ricorda il tuffo al cuore, la prima volta che l’ha incontrata dopo la scomparsa di Cat. Ricorda il profumo di limone, nella serra in cui l’aveva spiata, mentre comprava frutta insieme alla sua amica.
Ricorda di essere rimasto in disparte, nascosto, affinché non lo riconoscesse…
E ricorda la sensazione di gioventù che sembrava emanare da lei, il suo desiderio di accarezzarle i capelli, la tentazione di guardarla negli occhi.

Sono io, avrebbe voluto dire. Mi riconosci?

La mano sarebbe scesa lungo la sua guancia, per bearsi di lei, della moltitudine di ricordi, del fantasma che si era trovato davanti.
Invece era rimasto lontano, a spiarne i movimenti, la voce, il modo di sorridere.
Finché non l’aveva vista andare via.

«Un amico mi ha chiesto di dormire da lui tra qualche giorno. I genitori non ci sono.»

Robin lo riporta in quell’atrio vuoto e gelido, che odora di alcol e disinfettante, con il telegiornale in sottofondo, impedendogli di continuare la sua visione.
Eppure sembrava così reale…
Come se fosse tornato indietro nel tempo.

«Chi è questo amico?»
«Non lo conosci, ma è stata mia madre a dirmi di chiedere anche a te. Per lei va bene.»
Guardando Robin, per un momento Petyr ha visto qualcos’altro nei capelli neri del ragazzo… Una sera libera, una notte libera. Da trascorrere dove vuole.
Con chi vuole.
Qualche ora di pace dopo l’inferno che sta vivendo. Tenere in piedi la compagnia, cercare di affondarne un’altra, stringere alleanze e creare spie non è certo qualcosa di semplice…

«Allora? Sei d’accordo?»

Robin fa una smorfia, come se lo trovasse d’improvviso strano. Guarda le macchinette delle bevande facendogli un cenno, e stringendo le labbra.
Gli basta avvicinarsi e infilare la moneta per far tornare il sorriso sul viso del suo figlioccio. Petyr resta a osservarlo mentre preme con sicurezza “uno” e “otto”, esattamente il codice che serve per ottenere una Sprite.

«Se tua madre dice di sì, non vedo perché dovrei smentirla.»

Il suono della lattina che sbatte contro la macchinetta, e il grido entusiasta di Robin, lo illudono di essere sugli spalti, a seguire una partita di calcio.
Con lei lì a fare il tifo.

«Grazie! Grazie, zio Petyr!»

Come la volta in cui l’ha seguita, dopo aver scoperto da Varys che sarebbe andata allo stadio.
Un campo piccolo, cittadino, poche tribune e pochi posti su cui sedersi.
Guardarla esultare, sollevarsi in piedi e splendere nel sole, erano stati momenti di felicità per lui. Gli avevano ricordato Cat, l’entusiasmo che metteva nelle cose da ragazza…

«Quella non è la tua segretaria, zio?»

Senza nemmeno rendersene conto, gli occhi di Petyr seguono l’indice pallido di Robin, puntato contro lo schermo piatto sopra le loro teste.
Il viso di Ros, bello e altero, è lì che l’osserva, come a giudicarlo.

«…È stata trovata dalla donna di servizio, venuta a fare i soliti lavori di casa. Ma sentiamo ora le sue dichiarazioni:
«”È caduta dalle scale, vi dico! Una donna attenta come lei… Come è potuto accadere? Sì, sì, sono entrata – io ho la chiave, me l’ha data la signora – e per prima cosa ho steso fuori i tappeti. Ho trovato il letto intatto, ma non mi è sembrato strano, perché so che a volte la signora dorme fuori. Dormiva! Mi servivano scopa e spazzolone, e lei non li voleva in giro per casa, così li teneva nello scantinato… E io sono scesa. Ho persino rischiato di inciampare in quel… cadavere! Ma vi dico che non è possibile, non è possibile.”»

La mano di Robin si stringe sulla sua giacca, costringendolo a voltarsi. È quasi uno shock ritrovarselo davanti.
«Allora? È la tua segretaria o no?»
Petyr non risponde, troppo preso dal servizio in televisione.

«…La polizia ha scoperto che si trattava di una giovane segretaria, impegnata presso la Baelish Company. Il passato della donna rimane incerto. Nella casa sono state rinvenute solo foto recenti, e un documento di cui si discute la dubbia provenienza. Sembra che le autorità siano impegnate in continui colloqui con le persone che l’hanno conosciuta, per scoprire se avesse mai avuto a che fare con la malavita.»

La temperatura sembra essere scesa di colpo. Petyr riconosce un brivido scorrergli lungo la schiena, come se si fosse ritrovato in una camera mortuaria, con Ros davanti a lui.
Prende un profondo respiro e si stringe nella giacca, cercando di calmarsi: non è il momento né il luogo per lasciarsi andare, non può, non lui, non può perdere per nessun motivo il controllo.

«Zio Petyr…»

Lo sguardo perplesso di Robin sembra dirgli che ogni suo pensiero è stampato sul suo volto. Sembra preoccupato per lui, per come si sente.
Ma non può proprio averne idea…

Tempo prima Ros aveva varcato la soglia del suo ufficio con una minigonna e un top a righe. Masticava una gomma e portava enormi occhiali scuri sopra i capelli di fuoco.
Petyr le aveva sorriso subito.

“Salve”, si era presentata solo con quel “salve” e non c’era stato bisogno di molto altro. Lui sapeva di poter puntare più in alto, di potersi permettere una segretaria migliore…
Ma non la voleva.
Non voleva studi di chissà quale tipo, non voleva menti fini a cui badare. Petyr aveva bisogno di Ros, di un tipo come lei, sveglia solo quando c’era bisogno.
Certo non si sarebbe aspettato il suo tradimento… non dopo tutto quel tempo. Proprio quando aveva iniziato a fidarsi di lei, ecco arrivare Varys a ficcanasare nei suoi affari. Per chi lavorasse davvero, però, non era ancora riuscito a capirlo.
Non certo per i Lannister, o se li sarebbe ritrovati addosso in un baleno.

Lo squillo del cellulare, l’occhiata di Robin e la voce distante del cronista, sembrano avere un effetto balsamico su di lui. Si sente d’improvviso padrone di sé.
Lo estrae dal taschino con una certa calma, come se tutto fosse tornato normale, e quando vede il nome di Tyrion comparire sullo schermo, non può fare a meno di sorridere. Quasi che l’altro possa vederlo…
«Baelish?»
«Sì?» risponde Petyr, come se non sapesse a chi appartiene quella voce.
«Ho appena sentito la notizia…» Tyrion sembra aver perso il solito sarcasmo. La sua voce è venata di tristezza. «Volevo farti le mie condoglianze.»
Il viso altero di Ros gli compare davanti agli occhi, quasi come se ce l’avesse di fronte. Ma Ros è morta, e lui non potrà più vederla. Mai più.
Sogghigna al telefono, come se il tutto lo lasciasse indifferente.

«Dovrò cercarmi una nuova segretaria.»
Gli sembra quasi di fare un torto alla memoria di Ros, con quelle parole. Ma non è così…

«Ho la ragazza giusta per te» afferma il nano, cambiando tono.
Petyr vorrebbe dirgli che non ne ha bisogno, che può benissimo cercarla da solo. Ma poi ripensa alla gola nivea di Ros, al modo in cui gli ha offerto la tazzina di caffè sul divano… Al modo in cui ha desiderato lasciare l’Inghilterra.
E non è sicuro di essere pronto a rischiare ancora.

 n

 

Note dell’autrice:

Sono tornata a scrivere dopo più di un mese! Spero davvero di non aver scritto sciocchezze, di essere rimasta fedele alla storia e ai precedenti capitoli…
Questo, ad esempio, è solo di passaggio. Spero non sia troppo noioso.
Ci terrei a ringraziare chi mi sostiene sempre… è davvero importante per me.

Sb89, Ladyhawke83, Relie Diadamat, _Elthanin_Riddle_, CaptainKonny lady_diane (grazie per il tuo messaggio!), e i nuovi lettori: Joanna Snow e ghim92.

Ah! Nuovo video per voi… E mi farebbe piacere se lo guardaste (ma solo se avete visto TUTTA la serie completa, altrimenti potreste trovarvi di fronte a una quantità infinita di spoiler…). Questa volta è tutto incentrato sulla mia amata famiglia Stark. Video su Casa Stark

Come vi sembra il nuovo banner? È molto diverso da quelli che avevo creato per questa storia…
Ma vista la presenza di sempre più personaggi mi è sembrato meglio “ampliare”.
E, come sempre, la mia pagina facebook:
Celtica

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Capitolo 13
*** Incontri ***


Capitolo 13

Trailer

Incontri








N

on c’è.
Il Mastino non c’è…
Sansa resta ferma davanti al grande portone dell’Università, ma non lo vede arrivare da nessuna parte. Eppure sperava di vederlo…
Sì, perché conoscendo Joffrey, lei era sicura che avrebbe mandato di nuovo Sandor a cercarla.

«Sansa, che fai? Vieni!» grida Jeyne, spingendo il pomello per entrare.

Ha una lunga treccia a colorare la camicia bianca, e la accarezza un istante prima di attraversare l’ingresso. Si atteggia a… a lei.
Ecco una cosa tipica di Jeyne… manca di originalità.

Sansa ricorda il giorno in cui si è presentata acconciata in quel modo, con una camicia identica.
“Ma cosa sei? Una monaca?”
Può ancora sentire la sua risata fendere l’aria. Ma lei sapeva che sarebbe successo… Sapeva che Jeyne l’avrebbe copiata. È l’unica cosa che sa fare.
Quello, e provarci con i ragazzi sbagliati…

«Vieni, manca ancora un’ora alle lezioni» Jeyne la prende a braccetto. «Passiamo dalla Facoltà di Chirurgia…»
Dal modo in cui lo dice, Sansa capisce subito che c’è qualcuno a Chirurgia, qualcuno di sbagliato. Qualcuno che le dirà di no…

Attraversano diversi corridoi, salgono e scendono scale, mentre fuori il tempo sembra promettere pioggia. Il cortile è immerso in una coltre di nebbia, e Sansa stringe gli occhi per cercare di vedere meglio.
Spera di vedere una figura che le ricordi lui, che le dica non sei sola, ti proteggerò io da Joffrey.
Riesce ancora a sentire l’odore di fumo e alcol, il brivido che ha provato quando le ha tolto la sigaretta dalle labbra. Quando l’ha gustata, quasi come se fosse una donna…

«Ecco, Sansa…» sussurra Jeyne al suo orecchio. «Ci siamo!»
Lei cerca di ricordare cosa ha raccontato la sua amica su questo nuovo ragazzo…

“L’ho conosciuto al Terrore Bianco, Sansa. Dove Robb e Jon…”

Sa benissimo cos’è accaduto tra di loro. C’era anche lei quella sera.
Jon si era presentato con la sua nuova fidanzata, Ygritte, per presentarla a lei e a Robb. Jeyne era andata con loro per suo fratello… per la cotta tremenda che si era presa per lui. Ygritte aveva bevuto molto, e Sansa si era sentita a disagio.
Poi Jon l’aveva presa per mano, portandola a ballare… ma era durato poco. Troppo poco.

«Lo vedi? È lui, Sansa!»

A Sansa viene un colpo.
È Theon, è Theon il ragazzo a cui si riferiva Jeyne? Theon, sparito nel nulla dopo aver confessato i suoi sentimenti a Robb?
Non può essere… Theon è…

“Era insieme al migliore amico di tuo fratello!” Aveva detto Jeyne.

Mentre camminano lente verso di loro, Sansa non può fare a meno di squadrare l’altro ragazzo.
Cos’aveva detto Jeyne?

“Quegli occhi ti farebbero gelare il sangue.”

E nel momento in cui si sollevano su di lei, Sansa capisce cosa intendesse dire. Sembra di specchiarsi in una lastra di ghiaccio, e lei non può fare a meno di chiedersi se riuscirà a cambiare idea, come a suo tempo ha fatto Jeyne.
Ma quando labbra rosse si allungano in un sorriso, Sansa sa con certezza di non riuscire a vederlo come la sua amica… È il gelo. È tenebra. È terrore.
È ciò che Joffrey non sarà mai. Ciò che nessuno tra quelli che Sansa conosce, potrà mai essere.

«Sansa?»
La voce di Theon la porta a distogliere lo sguardo da quei pozzi azzurri, belli e crudeli, che tanto l’hanno colpita.
Ha paura del compagno di Theon. Non sa perché, ma è come se in un passato lontano, un passato che Sansa non riesce a ricordare, lui le avesse fatto del male.

«Sansa!»
Jeyne la tira forte per la manica, lanciandole un’occhiataccia. “Sbrigati”, sembra dirle. “Su, parla, fai in modo che ci presentino!”

«Theon» mormora, come se si fosse appena destata.

«Studi qui?» chiede Theon, che sembra indeciso se mostrarsi in imbarazzo o essere felice di vederla.
«Sì, cioè no, non qui.»
«Storia» si intromette Jeyne, spingendola in avanti e sorridendo. «Noi studiamo Storia.»

«E cosa ci fate qui?» Il compagno di Theon ha una voce sottile, limpida quanto il colore degli occhi. E altrettanto gelida.
Lo domanda con il sorriso sulle labbra, ma è un sorriso che a Sansa non piace. Le mette i brividi.

«Ecco, noi…»
Jeyne si guarda le scarpe, forse in cerca di una soluzione.
«Facevamo una passeggiata» esclama Sansa, tirandola fuori dagli impicci. «Manca ancora molto alle lezioni.»

«Facevate una passeggiata… qui?» il compagno di Theon punta l’indice verso il pavimento, apre la bocca, mostrando una fila di denti bianchi e perfetti, ma non riesce a convincerla.

«Sì» insiste Sansa. «Qui.»
C’è come un momento di tensione tra loro, Jeyne sembra temere il peggio, forse è convinta che se ne andranno senza salutarsi… Senza presentarsi.

Ma poi Theon scuote la testa.
«Non posso credere di averti qui davanti» sembra avere tutt’altro significato, e se Sansa non sapesse dei reali gusti di Theon, forse si convincerebbe di piacergli. «Non è incredibile? Frequentiamo la stessa Università. Noi, cresciuti nel nord.»
In effetti è la stessa cosa che pensa anche lei.

«Ma come sta Robb… Come stanno i tuoi fratelli?» si corregge così in fretta che Sansa non è nemmeno sicura di aver udito quel nome.
«Sono divisi… Jon è tornato a casa» E stavolta, con “casa”, Sansa intende il nord. «Robb non ha resistito dopo la morte dei… Ha preferito partire per Londra. Arya, Bran e Rickon hanno deciso di seguirlo.»

«E tu?» domanda Theon. «Cosa ci fai qui?»

Sansa non sa quanto dire. Jeyne è lì, al suo fianco, e non può correre il rischio che informi Joffrey. Eppure non può nemmeno mentire…
«Durante le vacanze ho conosciuto un ragazzo… e quando è ripartito per il sud ho deciso di seguirlo.»
Ora, più di prima, lo sguardo che il compagno di Theon le regala riesce a farla tremare.
È colmo di interesse. Colmo di interesse per lei.

Theon sgrana gli occhi, si passa una mano dietro il collo e lancia una veloce occhiata a Jeyne.
È allora che Sansa si ricorda.
«Oh, posso presentarti Jeyne?»
Li guarda stringersi la mano e sorridersi, poi è il turno di Theon. Ma un istante prima che possa presentarli, è il suo compagno a farsi avanti.
«Ramsay Bolton, molto piacere.»

Le stringe la mano in modo viscido, e Sansa sposta lo sguardo su Theon, accorgendosi della paura nei suoi occhi. Non è una paura che possa temere anche lei… È solo ciò che accompagna altri sentimenti.
Come la gelosia. O l’amore.

«Jeyne» mormora lei allungando una mano verso Ramsay. Occhi languidi sembrano voler sciogliere il gelo degli occhi, senza riuscirci…
La cosa che più fa tremare Sansa è vederlo sorridere solo con le labbra.

 

 

Negli ultimi giorni, Sansa è stata strana.
Petyr lo ha capito dal modo in cui ha abbassato gli occhi a ogni sua domanda… Dal modo incerto di sorridere, come se fosse con la mente assente.
Gli sta nascondendo qualcosa, ma cosa resta un mistero. Almeno per lui. Ha preso in considerazione l’idea di chiedere a Varys di controllare, ma è bastato pensare a Ros per cambiare idea.
Per chi lavora Varys?
Cosa vuole davvero?
L’unica cosa che Petyr sa con certezza è di non potersi fidare di lui. Voleva sapere troppo, davvero troppo… e a lui non va giù quest’idea.
Ora, seduto al solito tavolo del “Pesce d’Argento”, uno dei ristoranti di ritrovo per Tyrion, aspetta proprio di vedere quest’ultimo, insieme alla famosa segretaria di cui ha tanto parlato.

Fa cenno di no al cameriere, quando lo vede avvicinarsi per prendere la sua ordinazione. Estrae il cellulare dalla tasca e decide di sentire la sua voce.
È sicuro che lo aiuterà a dargli la carica.

«Pronto? Petyr?»
La sente bisbigliare qualcosa e capisce che non è sola. Può udire il suono dei suoi passi sul pavimento, finché non si ferma.
«Non so a che ora finirò oggi.»
«Va bene, prenderò l’autobus» Sansa sospira, come se si fosse già arresa a quell’idea. «Ora devo andare. Ho lezione tra un po’.»
«Aspetta» La verità è che la sente sempre più distante, e ogni giorno è peggio. «Usciamo insieme, stasera?»

Da quando l’ha portata via dalla casa di Joffrey, questa è la prima volta che le chiede di uscire. Hanno passato diverso tempo insieme, è vero, l’ha anche baciata, ma non sono mai stati fuori, in mezzo alla gente, come le persone normali.

«Stasera? Mmh, ok.»
Stavolta Petyr si è sbagliato. Era convinto di farle un piacere, di sentirla felice. Invece, quell’ok freddo ha messo fine a tutte le sue speranze.
«Passo a prenderti io. Facciamo alle sette?»

“Non puoi venire prima?” Si immagina che gli chieda. “Come fai sempre.”

«Va bene, a dopo.»
Sono le parole che Petyr non si sarebbe aspettato. Il segnale di chiamata terminata lo mette a disagio.
Cosa sta succedendo a Sansa?
Possibile che si sia già stancata di lui?

«Baelish» dice Tyrion, avvicinandosi al fianco di una donna slanciata, con ricci capelli neri. «Ho visto che stavi parlando al telefono e ho aspettato al bar. Posso avvicinarmi?»
Lo shock sul volto di Petyr svanisce in un istante. Si alza in piedi, stringe la mano della ragazza che ha di fronte, e cerca di immaginarsela al posto di Ros.

No, non sarai mai come Ros. Non puoi prendere il suo posto.

«Shae, ti presento Petyr Baelish. Potrebbe anche decidere di assumerti.»
Shae sorride con malizia, sbattendo gli occhi scuri, e prende posto di fronte a lui.

«Allora, vogliamo iniziare a discutere di affari?» propone Tyrion, facendo al cameriere di avvicinarsi. «Vino a volontà» ordina.

 

 

Se qualcuno avesse detto a Sansa che avrebbe passato del tempo a pensare al Mastino, si sarebbe fatta una risata. Una risata e un pianto. Perché non c’era nulla, prima, che la spaventasse quanto lui.
Quel volto sfigurato, quelle cicatrici sul viso, le mettevano i brividi.

Ora, a farle provare paura sono soprattutto gli occhi di Ramsay Bolton, l’amico di Theon con cui dovrà uscire una di quelle sere.
L’idea è stata di Jeyne, lei che spera tanto di conquistarlo…
L’unica cosa positiva, pensa Sansa, è che da Theon non ha nulla da temere. A Theon non interessano le donne, soprattutto non lei, sorella del suo migliore amico…

Mentre raccatta i libri per infilarli nello zaino, si chiede se sia il caso di informare Petyr. Dovrebbe dirgli che deve uscire con loro?
Potrebbe ingelosirsi, sapendo che esce con altri ragazzi?
Sansa non sa cosa pensare.

«Grazie, Sansa» sussurra Jeyne, raccogliendo la penna che le era caduta durante la lezione. «Senza di te non so quanto avrei dovuto aspettare prima di conoscerlo…»
La verità è che senza di lei non lo avrebbe conosciuto. E forse, forse sarebbe stato meglio…

«Non lo dirò a Joffrey» dichiara la sua amica, muovendo l’indice sotto il suo naso. «Non temere.»
«Perché mai dovresti farlo?»
Jeyne abbassa gli occhi, lancia un’occhiata alla finestra vicina, poi si volta per prendere il suo zaino.
«Non lo farò, infatti.»

C’è qualcosa che non torna.

Sansa comincia a capire come stanno le cose. Quando la vede uscire dall’aula, le corre dietro. Basta afferrarla per un braccio per farla voltare.
«Ehi!» esclama Jeyne, liberandosi con uno strattone.
«Sei stata tu» dice Sansa.
È un’accusa, vorrebbe tanto sentirsi dire che si sbaglia, ma nel momento in cui Jeyne abbassa ancora gli occhi – contrariamente a quanto fa di solito – lei sa con certezza che è colpevole.
«No, io…»

«Non mentirmi! Sei stata tu, Jeyne! Tu hai chiamato Joffrey! Gli hai detto che ero tornata!»

Jeyne riprende a camminare, poi si blocca e si volta indietro.
«Io… Io non sapevo che non volessi vederlo! Credevo di farti un favore!»
«Mi ha messo le mani addosso, Jeyne! Joffrey mi ha picchiata!»

«Ne parlavi sempre così bene! Dicevi che era il tuo ragazzo ideale!» Ora, la voce di Jeyne è diventata stridula. «Dicevi di non volerlo lasciare, che gli avresti perdonato qualsiasi cosa!»
No, non è così… Non può essere vero. Non può essere stata davvero lei ad aver detto quelle parole.

«Dicevi di amarlo.»

È come se qualcuno le avesse tirato un pugno nello stomaco.
Lei amare Joffrey. Dopo quello che le ha fatto. Dopo ciò che ha detto, dopo averle stretto le mani intorno alla gola…
Scuola la testa, improvvisamente sente pulsare le tempie.
«Io ti avevo detto che non era come Robb… Ma tu continuavi a dire che lo amavi, che volevi stare con lui, che avresti perso tutto, lasciandolo» Jeyne fa un lungo sospiro prima di continuare. «Io pensavo di farti un favore…»

È stata Jeyne. Jeyne ha chiamato Joffrey. Jeyne le ha fatto incontrare il Mastino…

Certo, vedere lui è stata una delle cose più eccitanti degli ultimi giorni. Eppure, nonostante Sansa brami ancora quelle sensazioni che Sandor le ha fatto provare, ciò che ha fatto Jeyne è sbagliato.
«Credevo fossi mia amica.»

La disperazione negli occhi di Jeyne è evidente.
«Lo sono, Sansa! Lo sono. Ho fatto ciò che tu volevi che facessi.»

«Di cosa stai parlando?» Sansa storce la bocca, incredula.
«Non ti ricordi più? È successo dopo aver conosciuto Joffrey. Quando ti sei trasferita qui.»
E, in un momento, le immagini prendono a scorrere davanti al suo viso.

 

Joffrey aveva sorriso a Margaery, quella sera.
Sulla porta di casa, dopo aver dato un bacio sulle labbra a Sansa, si era voltato a guardare la loro vicina.
Non so quando torno” aveva detto, sfiorandole una spalla. “Non aspettarmi sveglia.”

Ma Sansa non riusciva a fare nulla… Lo sguardo d’intesa con Margaery non le era piaciuto. Che stesse cercando di portarglielo via? Si era stretta l’accappatoio addosso, dopo la doccia.
Sansa non aveva mai bevuto in vita sua, ma quella sera, quella sera sentiva di averne bisogno.
Un bicchiere di liquore, uno qualunque dall’armadietto, non le importava nemmeno sapere il nome… Aveva un gusto strano, amaro, e Sansa lo sentì scendere fino allo stomaco, bruciando.

Non le interessava… Aveva bisogno di piangere.

E di sentire Jeyne… Oh, Jeyne! La cara vecchia Jeyne! Lei non l’avrebbe delusa…
Udire la sua voce era bastato a farla scoppiare in lacrime.
Jeyne, ti prego. Ti prego, Jeyne… Vieni qui, passa la notte qui, non lasciarmi sola. Lui non c’è… Lui preferisce un’altra. Promettimelo, Jeyne: giurami che non permetterai mai che ci separino. Giuralo, Jeyne! Sei mia amica, devi giurarlo!”

 

«No…» riesce a sussurrare.
Come ha fatto a rimuovere quel ricordo? Non è possibile. Che fosse solo una scusa di Jeyne? Lei non rammenta nulla.
«Invece sì, credimi, Sansa. Mi hai raccontato tutto al telefono, ogni cosa. La doccia, il liquore, il sorriso di Joffrey… Ogni cosa che so, sei stata tu a dirmela.»
Sansa la lascia da sola, nel corridoio della Facoltà di Storia, dirigendosi verso l’uscita.

«Non puoi avercela con me, Sansa!» grida Jeyne, da lontano. «Non lo merito. Io non lo merito!»

Doveva essere ubriaca, non c’è altra spiegazione.
Si chiede come sia possibile dimenticare tutta una serata… Non succede quasi a nessuno.

Arriva al cortile bianco di nebbia e si guarda intorno.
Spera di vederlo, ne ha davvero bisogno. Oltrepassa l’ingresso a testa bassa, senza speranza. Lui non c’è. Rinuncerebbe alla sua serata con Petyr pur di vederlo, rinuncerebbe all’uscita con Theon e Jeyne, pur di sentirsi di nuovo così… Protetta.

Ma lui non è qui.

Sansa raggiunge la fermata dell’autobus, infila le mani nelle tasche strette dei jeans, e rimane a pensare a tutto ciò che è successo.
Petyr l’ha portata via dalla casa di Joffrey… Petyr le ha trovato un posto dove stare. Petyr è buono, Petyr tiene a lei più di chiunque altro. Ma poi è arrivato il Mastino…
Perché l’ha protetta? Perché non l’ha riconsegnata a Joffrey?
Non riesce a spiegarselo.
Vorrebbe un po’ di tempo per sé, per schiarirsi le idee, tempo da dedicare solo a se stessa. Senza pensare a nessuno. Senza chiedersi chi tenga davvero a lei…

Tutti hanno un secondo fine, questo Sansa l’ha capito. Ma quale possa essere quello di Petyr, questo non riesce a spiegarselo…
Dovrà passare la serata con lui, ridere alle sue battute, illuderlo che tutto vada bene.
Ma tutto non va bene, pensa Sansa. È sola, in un mondo di leoni pronti a sbranarla, a farla a pezzi, a trasformarla in una bambola di pezza. Ciò che lei non vuole più essere…
Non vuole più sentirsi così, non vuole più sottomettersi.
A nessuno.

Quando vede il mezzo arrivare, quasi non se ne accorge. È troppo presa da quella rabbiosa malinconia che vorrebbe riportarla a casa, su nel nord. Ma non c’è più nessuno per lei… Non c’è più la sua famiglia ad attenderla, i suoi fratelli ad abbracciarla.

C’è Jon, è vero. Ma Sansa non sa nemmeno che fine abbia fatto Jon. Non sa se sia sposato, magari proprio con quella Ygritte che tanto lo aveva deluso. Magari non vive più nella loro vecchia casa, magari, senza dirle nulla, Robb ha deciso di venderla.
Partire per il nord sarebbe un errore, pensa Sansa, salendo sull’autobus.
Potrebbe fuggire, certo… Mettere fine all’agonia che le provoca Joffrey, interrompere quel gioco, strano e pericoloso, che sta facendo a tratti con Petyr, a tratti con il Mastino.
Lei non è brava a giocare. E farlo con loro può costarle caro…

Allora perché non parto? Perché resto qui?
Non ho altro posto dove andare…

 n

 
 

Note dell’autrice:

Entrano in scena nuovi personaggi, ma vi avverto: non sono tutti. Piano piano ne vedrete tanti, appartenenti al mondo di got… La storia deve ancora delinearsi.

Vorrei ringraziarvi, di nuovo, e ancora e ancora, perché scrivere è la mia passione più grande, ma senza di voi che bisogno avrei di condividerla su Efp?
Ecco che i più sentiti ringraziamenti vanno a sb89, che non manca mai di farmi sapere cosa pensa di ogni cosa che scrivo (e preme per vedere presto il suo personaggio preferito, con cui è segretamente sposata), Relie_Diadamat, che legge tutto, CaptainKonny, che è riuscita ad apprezzare l’ultimo capitolo, nonostante ci fossero poche cose interessanti, Elthanin_Riddle_, che con i suoi messaggi e recensioni riesce sempre a tirarmi su di morale, Diomache, che condivide con me una certa attrattiva per un determinato personaggio, e Ladyhawke83, che sta recuperando alla velocità della luce tutti i capitoli!
E grazie, grazie anche a chi mette mi piace ai capitoli, è una delle cose che danno le carica, sappiatelo.
Scusate se mi dilungo sempre!
A presto!

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Capitolo 14
*** Neve ***


Capitolo 14

Neve








L

a trova seduta nella penombra del salotto, con addosso un semplice abito nero.
Quando Sansa si muove, finendo con metà del volto sotto la luce, le labbra scarlatte brillano davanti a lui. Non l’aveva mai vista così truccata…
Vede la bocca schiudersi, accartocciarsi come la carta di un cioccolatino, per poi distendersi in un sorriso.
Ed è a quello che Petyr si aggrappa, avanzando verso di lei.

«Sei bellissima.»

Non sa cosa sia successo nell’ultimo periodo, l’ha sentita allontanarsi lentamente da lui, come se avesse smesso di fidarsi.
Perché? Si chiede Petyr, fermandosi a un passo dal divano. Le offre la mano per aiutarla ad alzarsi, sicuro che accetterà. Ma Sansa si discosta appena, mettendosi in piedi senza il suo aiuto.

«Andiamo?»

Petyr sorride, scuote la testa in quel suo modo che anticipa il sì, quasi stesse chiedendo “perché no?” Allarga le braccia, le fa segno verso la porta, la lascia passare.
Sansa è troppo bella per ricevere un no.

Un: “no, adesso ci sediamo e ne parliamo.”

Anche perché tutto ciò che vorrebbe chiederle Petyr è cosa sia successo per farle perdere fiducia in lui…
Raggiungono l’auto senza dire una parola; Sansa cammina davanti a lui, spinge spesso i capelli dietro le spalle, si guarda in giro, come se aspettasse qualcuno.

Chi? Si chiede Petyr.

Domandarlo sarebbe inutile, servirebbe soltanto a metterla in guardia, impedendo a Petyr di scoprire cosa ci sia sotto.
Un ragazzo? Magari qualcuno all’univerisità… un compagno di corso, qualcuno con cui divide il pranzo. Potrebbero esserci mille risposte, e non è detto che ce ne sia una giusta.
La cosa migliore è fare in modo che si senta a suo agio, che ritorni a fidarsi di lui. Allora sarà lei a raccontargli tutto… Deve solo aspettare.

Entrano in macchina, Petyr resta indifferente, lanciandole solo qualche occhiata. Mette in moto e parte, immettendosi nel traffico serale. È un quartiere tranquillo, ma di sera sembra ripopolarsi.
Non deve andare molto lontano… Il ristorante che ha scelto è appena fuori città, con un dehor in uno spazio verde, candele sui tavoli e una lunga vetrata a proteggerli dal freddo. Le stelle non si vedono lì dentro, ma fuori dal locale Petyr scopre Sansa a sollevare gli occhi verso il cielo…
Forse le ricordano casa, nel nord, dove viveva con i suoi fratelli. Forse ricorda un posto senza le luci della città, dove la notte è trapunta di stelle…

«Buonasera, avete prenotato?»
«Baelish» risponde Petyr, all’entrata, posando una mano sul fianco di Sansa per accompagnarla dentro.
«Da questa parte, prego.»

Nel dehor c’è un po’ di gente, ma i tavolini sono distanti l’uno dall’altro, concedendo una certa intimità. Ci sono rose vicino alle candele, piante alle vetrate, da cui si vedono le luci della città.
È molto bello, e Petyr spera che Sansa lo apprezzi.
«Vieni» le sussurra, accompagnandola nel loro angolo… C’è una vista spettacolare da quel punto. È isolato, è perfetto per loro.

«Perché mi hai portata qui?»

«Non ti piace? Se non ti piace noi…»
«È bellissimo» dice Sansa, senza sorridere. «Ma perché siamo venuti qui?»

«Avresti preferito qualcosa di più… semplice?»
Sperava di impressionarla, di riconquistarla, di spingerla ad aprirsi. Ma forse ha solo sbagliato… forse avrebbe dovuto portarla lì per restare un po’ da solo con lei, mentre Robin è a casa del suo amico.
«Forse» mormora lei, sedendo di fronte a lui. Scorre l’indice sul bordo del calice, è distratta da altri pensieri.

“Forse”, sono le parole peggiori. Una risposta decisa sarebbe stata un aiuto, un modo per dirgli cosa può aver sbagliato. Ma quel “forse” si intrufola nell’orecchio di Petyr, dandogli un altro messaggio…

Non vuole restare qui. Ma non è il posto, è per me. Vorrebbe essere da tutt’altra parte.

«Sansa» Petyr allunga la mano sul tavolo, afferra con delicatezza la sua. «Ti ho portato qui perché ho bisogno di parlarti.»
“Di cosa?” Sembrano domandare gli occhi di lei.
«So cosa ti ha fatto Joffrey e voglio fargliela pagare.»

“Come?”
Petyr continua a fissarla, le accarezza il dorso della mano con le dita. Ha deciso di raccontarle tutto, di fidarsi di lei. Di dirle dei suoi piani.
«Prima deve crollare Cersei» dice, sfiorando la carta del menù. «Io lavoravo per lei. Non ti nascondo che ho più di un motivo per volerla distruggere…»

Le labbra di Sansa si stropicciano, libera la mano dalla sua, lo guarda di sbieco.
«È davvero questo ciò che vuoi?»

Petyr scrolla la testa, si china in avanti, le sorride enigmatico, in quel modo in cui sa di piacerle…

«Una villa fuori città, non come la casa dove ti ho portata il primo giorno… Un posto in campagna, un parco intorno, un cancello smaltato di nero. Da dividere con te.»
Lascia l’ultima frase in sospeso, come per concederle il tempo di assimilare quelle parole.
È un grosso passo quello che le sta chiedendo, e forse questo non è il momento giusto per dirglielo, ma non ha altra scelta… è tutto ciò che può offrirle.

«E Lysa?»

Ora è Sansa a non togliergli gli occhi di dosso, scrutandolo in modo torvo.
Petyr sorride, cerca ancora la sua mano, la prende, intreccia le dita alle sue… ma non risponde.

 

Hanno mangiato pies e sono usciti. Lui voleva farle vedere le stelle… di certo, pensa Sansa, non saranno mai come a casa sua. Ricorda una coperta nera sopra la testa, la Via Lattea che sembrava dividere il cielo in due, la voce di Robb, accanto a lei, che le raccontava le leggende legate alle costellazioni…
E Arya, che rimaneva ad ascoltare, ridendo ogni volta che Jon allungava una mano per farle il solletico. Bran, in silenzio, serio e attento a ciò che veniva detto. Rickon, il più piccolo, che non restava mai fermo, vorticando loro intorno.

È tutto finito.
Sansa sa solo questo.
Non ci saranno più nottate a osservare le stelle, non con loro, non nel nord.

«Ti ricorda casa?» chiede Petyr, che sembra leggerle dentro. Sono appoggiati al cofano dell’auto, in una zona boschiva lontana dalle luci, dove possono vedere bene il cielo.

La verità è che le manca il nord, la famiglia da cui è quasi fuggita dopo la scomparsa dei suoi genitori.
Le manca Robb, le manca Arya, le mancano i suoi fratelli, Bran e Rickon. Le manca persino Jon, quello che avrebbe dovuto considerare un fratellastro, senza mai riuscirci.
Sua madre, Catelyn, era gelosa di lui, forse lo odiava… E Sansa ha sempre creduto di dover essere come lei.
Ma non è così.

«Sì» sussurra appena, restando con il mento sollevato verso la notte. «Andavamo spesso a vedere le stelle. Una volta dopo una nevicata… Non riuscimmo a vedere nulla. Robb disse che era colpa del nevischio, ma Jon lo chiamò inverno. “È solo l’inverno”, disse. Io non lo so… So che è successo qualche mese prima dell’incidente. So di aver pensato che fosse un brutto segno.»

In quel momento, Sansa vorrebbe solo essere stretta.
Vorrebbe rivedere i suoi fratelli, ritornare indietro per smettere di litigare con Arya. Vorrebbe tante cose, ma non può averle… Non ora.
C’è Petyr con lei, si fa più vicino, Sansa vorrebbe solo il coraggio di gettarsi tra le sue braccia. Ma non lo fa.

«Torniamo a casa?»
Preferirebbe non chiamarla casa. Casa è nel nord, casa è dove ci sono Robb, Bran, Jon, Arya e Rickon. Casa non è in quella città, non lo è mai stata.

«Va bene» Petyr fa un cenno con la testa, come se lei lo avesse appena interrotto, come se gli avesse impedito la prossima mossa.
«Devo alzarmi presto domani.»

Non è una bugia, ma nemmeno la verità… Non ha più voglia di stare fuori, non ha più voglia di ricordare. Vuole solo infilarsi sotto le coperte e dimenticare.
Dimenticare la città in cui si trova, dimenticare Joffrey, dimenticare persino la sua famiglia… Perché quei ricordi felici non fanno altro che rattristarla.
C’è solo malinconia nel ripensare ai suoi fratelli, è solo neve.

È come quella sera, la notte d’inverno, quando ha avuto la sensazione che qualcosa sarebbe andata male… Ora è la stessa cosa: sa che le cose peggioreranno.
Peggiorano sempre.

 

L’ha accompagnata fino alla porta di casa, è rimasto a guardarla mentre cercava le chiavi nella borsa, mentre gli lanciava continue occhiate preoccupate.

Cosa mi nascondi, Sansa?

Vorrebbe dirglielo, prenderla tra le braccia e baciarla. È da molto che non sente il suo sapore, ne avverte la mancanza. Fa un passo avanti, le sfiora la mano, scostandola dalla borsa.
Risale lungo il braccio, la spalla, segue la linea del collo, arriva al viso. Lo accarezza con il dorso, sulla guancia, lì dove il segno del colpo di Joffrey è coperto dal trucco.
C’è ancora, una pallida traccia giallastra che le colora lo zigomo, ma non si vede.

«Sei molto bella, Sansa.»

China il viso su di lei, la vede socchiudere gli occhi, forse in attesa di un bacio… ma non è ciò che l’aspetta. Le sfiora la fronte con le labbra, poi estrae dalla tasca dei pantaloni le sue chiavi.
È giusto che ne abbia un paio anche lui, in fondo è pur sempre casa sua…
La guarda arrossire, apre la porta e rimane fuori.

«Buonanotte, Sansa» dice, prendendole le mani tra le sue. Le accarezza con le labbra prima di lasciarle andare.
La guarda entrare, si volta e se ne va.

 

«No, sei sicura che Theon abbia detto la verità? Vuole tornare al Terrore Bianco?»

La voce di Jeyne è squillante, tanto da far voltare i ragazzi intorno a loro. Ma Sansa non bada a lei, osserva il cortile della facoltà dalla finestra all’ultimo piano. Il tempo è bello, ma sono giorni che lui non si fa vedere.
Non ci spera più. Nemmeno oggi.

In fondo, pensa, gli uomini sono tutti uguali. Si fanno la guerra uno con l’altro, si ingannano, e nei loro giochi trascinano dentro anche lei… Sandor l’ha messa in guardia da Petyr, Joffrey dai suoi fratelli…
Nessuno si è limitato a difenderla.
Prima si è illusa di essere amata da Joffrey, poi di essere salvata da Petyr, infine di essere protetta dal Mastino.

Ma a nessuno di loro importa davvero di lei. Tutti hanno uno scopo, si ripete.
Persino Jeyne, la sua amica, l’ha usata. Sansa le è stata utile per conoscere Ramsay…

Dovrei sparire, dice tra sé e sé, prendere e andare via, da sola.
Ma sa di non poterlo fare… Non ha un posto, non ha nessuno. Non ha soldi suoi, non ha più niente.
Uno dopo l’altro, quegli uomini le hanno tolto ogni cosa.

Come posso averlo capito solo ora? Si chiede.

«Sansa!»
Jeyne la scuote per un braccio, per farla voltare.
«Sì, Jeyne. Sono sicura. Theon ha parlato del Terrore Bianco» risponde, tornando a guardare il cortile. «Però non so se mi va di venire…»
«Perché?»

Perché avevi ragione su Ramsay, pensa Sansa. Mi fa paura.

«Ti farò sapere, va bene?»
Jeyne non sembra felice. Senza di lei potrebbero decidere di annullare tutto… e non è ciò che vuole. Sansa lo sa bene.
«Ti prego» insiste Jeyne, sfiorandole la spalla. «Non ti chiederò mai più niente. Se manchi tu non verranno nemmeno loro. L’incontro è nato tra te e Theon, ricordalo, in amicizia!»

Lei scuote la testa, non è il momento di sentirsi in colpa.
«Lo so, ma per favore: non insistere. Non ora. Ne riparliamo, ok?»

Sansa prende ad allontanarsi, le fa un cenno con la mano, ignora la voce di Jeyne che la chiama.
«Sansa! Sansa, aspetta!» grida la sua amica. «Sansa!»
Ma lei la ignora, non può fare altro. Non ha nessuna intenzione di tornare indietro, né di continuare a parlarne.
Vuole restare sola, tornare a casa e sdraiarsi sul letto. Cadere in un sonno profondo… e magari svegliarsi altrove, in un posto diverso. Con persone diverse.

Quando si ritrova nel cortile vede Loras in lontananza: è insieme a sua sorella e a quel suo compagno di corso, con cui una volta lei ha seguito Storia Romana: Renly.
Accelera il passo, non vuole che Margaery la veda. Finirebbe con il chiamare Joffrey, magari trattenere lei, per poi godersi lo spettacolo.
Non può permetterlo.

Lancia una veloce occhiata dietro di sé, sente gli occhi di Margaery addosso, sa di essere stata vista.
«Sansa!»

Fingi di non sentirla.

Raggiunge il portico adombrato e tira un sospiro di sollievo. Non le importa di essere stata vista. Non le importa più di niente ormai. È solo stanca.
«Uccelletto» la voce del Mastino la spinge a fermarsi. Si guarda in giro. «Sono qui.»
Dietro la porta dove l’ha trascinata l’ultima volta, è lì che deve entrare. Sansa resta un istante a pensarci… tanto da spingere lui ad allungare una mano e a tirarla dentro.

«Che cosa vuoi?» domanda, sentendo il respiro farsi lento e grave.
Ancora quell’odore di alcol, cuoio e fumo. Quell’odore che la fa sentire prigioniera, che la immobilizza, che la spinge a sfidarlo. Almeno a parole…
Solleva il mento, lascia che la mano di Sandor lo prenda tra le dita, avvicinando la brutta cicatrice al suo viso.

«Non sono qui per giocare, uccellino.»

Sansa sente di nuovo quell’alito che sa di vino, lancia uno sguardo veloce a quegli occhi carichi di desiderio, eppure, pensa, c’è qualcosa.
C’è qualcosa che non va.
Sente di tremare quando capisce… Lui vuole riportarla da Joffrey. Vuole trasformarla nel suo giocattolo.
No, non può accettarlo.
Proprio non può…
«Perché sei qui?» Per un istante, Sansa si è illusa che sia tornato per lei, per vederla, per assicurarsi della sua salute. Per essere certo che sia felice, lì dove si trova, con – come l’aveva chiamato? – quella fichetta di Petyr.

«Non ti piacerà sentirlo.»
Un brivido le attraversa la schiena. È come aveva temuto… il Mastino è venuto a prenderla.

«Vuoi riportarmi da lui?»
Il silenzio che segue quella domanda è la più chiara delle risposte. Allora aveva ragione, rivedrà Joffrey, dovrà subire la sua rabbia, sopportare ciò che vorrà infliggerle.
Sansa fa per andarsene, ma Sandor la afferra per le spalle, e quando lei dà uno strattone per liberarsi, il Mastino la spinge contro il muro.

«Non riportarmi da lui! Andrò via, lo prometto! Ma non riportarmi da lui, ti prego!»

Lo guarda scuotere la testa, sente le lacrime lambirle gli occhi, ha solo paura. Non vuole tornare indietro, è disposta a tutto, a qualsiasi cosa, tranne tornare da Joffrey…
«Ti prego…» implora, un momento prima che il dito del Mastino si fermi sulle sue labbra.
«Aye» dice, ma Sansa non sa a cosa si riferisca. «Devo.»

Devo cosa? Si chiede lei. Riportarla da Joffrey? Lasciarla andare? Sente solo una gran confusione in testa.

«Per favore…» sussurra, sotto l’indice che Sandor tiene premuto sulla sua bocca.
Sente le dita ruvide e callose spostarsi sulla sua guancia, socchiude gli occhi mentre un singhiozzo le sfugge dalle labbra.

«Guardami» dice lui, la voce arrochita.

Sansa si costringe a guardarlo, ma dura un istante, e subito i suoi occhi si chiudono. Ha paura. Ha solo paura.
«Non riesci nemmeno a guardarmi…»
«Non riportarmi da lui, ti prego.»
Quando lo sente allontanarsi, Sansa non sa se sentirsi triste o sollevata. Non vuole più fidarsi di nessuno, è ciò che sta imparando, ma il Mastino ha iniziato a piacerle, ha iniziato a sentirsi protetta da lui… Cosa deve fare?

«Sono qui per un motivo, Sansa.»
La voce è tornata dura, lei non sa cosa gli abbia fatto, sa solo di averlo ferito. In qualche modo… Non l’ha mai chiamata per nome e, forse, è solo l’ennesimo segno che le cose peggioreranno, che la riporterà da Joffrey.

«Non voglio tornare da lui» insiste, tanto da fargli scoprire i denti in un ringhio.
«Ora ascolta, ragazzina» Suona come una minaccia, pensa Sansa, vedendolo tirarsi dritto davanti a lei. È costretta a sollevare gli occhi verso l’alto per poterlo guardare. «Non sono qui per quel fottuto di Joffrey, non sono qui per i tuoi fottuti motivi cavallereschi…»
Il Mastino si china appena su di lei, abbassa la voce, rendendosi ancor più minaccioso.
«Sono venuto qui ad avvertirti.»

Da cosa?

«Che cosa vuoi?» domanda Sansa, con la voce incrinata dalla paura.
Non sapere è la cosa peggiore… Se sapesse cosa sta per dirle, potrebbe farsi trovare preparata, fingersi sorpresa, o mantenere un controllo che, è sicura, perderà presto.

«Joffrey pensa di rivederti presto» dice Sandor. «Pensa che sarai tu a tornare da lui, da brava mogliettina.»
«Noi non siamo sposati.»

«Zitta e ascolta» ringhia Sandor, facendola aderire al muro alle sue spalle. «Joffrey si sbaglia, perché tu non andrai da lui.»

La speranza, quella dolce sensazione che rinasce dentro di lei, la spinge ad allungare le labbra in un sorriso.
«No, io non andrò da lui, lo prometto.»
Basta uno sguardo del Mastino per spingerla al silenzio.

«Joffrey ha qualcosa che potrebbe spingerti a tornare a casa. Non farlo, uccelletto. Non farlo o non potrò più proteggerti.»

Sansa inclina la testa di lato: non le sembra vero…
«Lo so. Documenti, soldi e cellulare. Ho recuperato più o meno tutto. Non preoccuparti, non tornerò da lui. Mai…»

Sandor la sbatte contro il muro, facendola gemere di dolore. Le sta ringhiando in faccia, ma Sansa non capisce perché.

«Tu non ascolti!» grida, a un soffio dal suo viso. «Non sono i tuoi fottuti documenti che Joffrey ha trovato. Sei così stupida da non esserci ancora arrivata?»
Vorrebbe piangere. Quegli insulti le ricordano Cersei, la madre di Joffrey…
No, non ci arriva, non sa nemmeno se vuole davvero saperlo. Se il suo ex è così convinto che basterà a farla tornare… forse è meglio rimanere ignoranti.
«No…» sussurra, stringendo gli occhi alla vista della cicatrice.

Sandor scuote la testa, allenta la presa sulle sue spalle, si allontana appena dal suo viso.
«Il bastardo… quel fottuto fratellastro è venuto a trovarti.»

Jon, pensa Sansa. Jon è qui.

n

 

Note dell’autrice:

Questo capitolo è un po’ mollo, almeno, in alcuni punti. C’è un motivo se Petyr si sente debole: anche nella serie, nel momento in cui Sansa lo rifiuta, lui cambia approccio…
Per quanto riguarda la confusione di Sansa: non sa di chi fidarsi, è “spenta” e io volevo che trasmettesse questa cupezza.
Ringrazio tantissimo chi legge/segue/preferisce, chi mette mi piace (danno la carica, ve l’ho detto), e i miei “fedelissimi”: Relie, sb89, Ladyhawke83, Elthanin_Riddle_, ghim92, Diomache… Insomma: grazie!
Spero di discutere con voi della storia, anche sulla pagina Facebook: Celtica


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Capitolo 15
*** Legami ***


Capitolo 15

Trailer

Legami









P

etyr non sa nulla di Sansa, nulla di quanto gli stia nascondendo.
Vorrebbe chiedere a Varys di controllarla, di spiarla, come ha fatto negli ultimi anni. Ma non lo fa. Non sarebbe giusto, ed è strano il pensiero da parte di un uomo che, nella giustizia, non ha mai creduto. Ma si tratta anche di Sansa, non solo di lui, e concederle del tempo gli sembra l’idea migliore.
A quest’ora dev’essere ancora in facoltà e, forse, si dice, starà finendo le lezioni. Se la immagina alla fermata del bus, intirizzita, più per le sue paure che per il freddo.

È una bella giornata di primavera, con un sole caldo e l’aria gelida, e Petyr si appresta ad attraversare la strada. Dalla parte opposta c’è un ristorante carino, dove vorrebbe organizzare il prossimo incontro con i suoi… amici.

Roose e Tyrion non sanno bene l’uno dell’altro, non sanno di essere, attraverso lui, alleati.

Petyr sogghigna ripensando al loro ultimo incontro, durante una serata organizzata da Cersei: gli sguardi raggelanti di Bolton, le battute sarcastiche di Tyrion, il filo del disprezzo che li legava, tessendo la sconfitta di Cersei…
Era stato durante una di quelle serate che lui, Petyr, aveva deciso di lasciare il posto nell’azienda di lei.

Osserva l’insegna ad arco sopra l’ingresso del ristorante, giusto un istante prima di entrare. È proprio un luogo carino, con diverse vetrate che danno sulla strada, pesanti tende di velluto bianco, e il nome del locale impresso in lettere gotiche sulle lastre delle finestre.
Piante verdi accolgono Petyr, entrando, così come il sorriso della donna che ha davanti.
«Lord Baelish» dice, gelida. «Anche tu qui. Che strana coincidenza.»

Persino lui rimane stupito di vederla.

Cersei è davanti a lui, avvolta in un abito color crema. Solleva il mento, tirandosi dritta, mostrando tutta la sua fierezza. Una ciocca di capelli, bionda e lucida come oro, scivola nel decolleté, costringendo lo sguardo di Petyr a seguirla.
Vista così, con quel portamento, sembra essere una regina.
«Mi stai forse seguendo?» chiede poi, la luce del disprezzo ben impressa negli occhi.

«Chi potrebbe smettere di guardare il sole?»

Il fulmine che attraversa gli occhi di Cersei viene interrotto da una sagoma alle loro spalle: è Roose Bolton, e Petyr non si è mai sentito tanto infelice di vederlo.
Lo saluta con un cenno del capo, mentre l’altro si limita a ignorarlo.

«Vogliamo andare?» domanda Roose, venendo affiancato da un ragazzo.
Nessuno, vedendoli, potrebbe negare la loro somiglianza. Hanno gli stessi, identici, occhi di ghiaccio e, mentre il giovane sorride a Petyr, il padre varca l’ingresso, raggiungendo Cersei.

«Ramsay» esclama lei, felice come se le avessero detto che l’azienda di Petyr sta chiudendo. «Dobbiamo proprio organizzare un incontro con Joff! È dai tempi della scuola che non vi vedete.»

«Assolutamente» dichiara l’altro, con un cenno della mano. «La differenza d’età ormai non si sentirà più. È un ragazzo grande ormai.»
Petyr lo vede allargare la bocca in un sorriso, mostrare i denti bianchi e perfetti. Eppure, pensa, non c’è altro oltre le sue parole, oltre le sue labbra, testimone della sua gioia.

«Volete scusarmi solo un istante?» proclama Cersei, chinando la testa di lato, come se bastasse quel gesto a dire che vuole parlare con lui. Sola.
«Aspettiamo al tavolo.»
«Oh, certo» Cersei si volta, solleva lentamente il braccio per chiamare il cameriere, e ogni movimento sembra studiato per mettere in risalto la sua bellezza. «Accompagnali. Lannister è la prenotazione.»

Lo guarda al di sopra della spalla, squadrando il modo in cui è vestito.
Non è una giornata particolare per lui… e di certo, se avesse intuito quell’incontro, avrebbe badato a cosa indossare. Invece una camicia bianca e un pantalone grigio sono tutto ciò che Cersei può blandire.
E sembra non aspettare altro…
«Carino il tuo… completo. L’hai comprato sul mercatino?» Lei sorride, giunge le mani e fa due passi avanti. Sembra individuare una saletta lontana dai Bolton, dove vengono servite bibite e caffè.
È lì che lo guida.

«O devo pensare che sia un dono?» insiste, sedendo sullo sgabello di cuoio del bar.
«Un dono?»
«Un dono, Baelish, da parte di quella sciacquetta che ti sei portato via.»
Petyr le siede accanto, non perde una parola di quanto sta dicendo, ma la lascia continuare.

«Credi che non lo sappia?» Il ringhio muta in un miagolio, in un sorriso dolce, di sfida.
Di minaccia.

«Due caffè» ordina Petyr al barista, sollevando due dita. Poi torna a scrutare lei, la bella donna che ha davanti, dalle gambe lunghe e scoperte, i tacchi alti, la pelle nivea.
«No» risponde, appoggiando il gomito sul bancone. «Credo che tu lo sapessi già da diverso tempo.»

Cersei inclina la testa, ed è come se un leone si fosse fermato davanti a lui, chiedendosi se fosse il momento giusto di divorarlo. Sorride, scuote la criniera dorata, sembra quasi pronta a ridere di lui.

«Credo, anzi» si corregge Petyr, sporgendosi in avanti e abbassando le palpebre. «di averti fatto un favore. Un grosso favore.»
La guarda sgranare gli occhi per la sorpresa.
«Credo» continua, mellifluo, sicuro di essere sulla strada giusta. «che tu sperassi di vederla sparire. Che il tuo desiderio fosse quello di liberarti di lei.»

«Sansa Stark non mi è mai piaciuta» conferma Cersei, improvvisamente seria. Si volta verso il barista, come se la sola vista del caffè potesse offenderla. «Un bicchiere di vino» lo corregge, e basta uno sguardo per evitare domande.
«Con quella vocetta» dice, stizzita. «Quei modi gentili… Sansa è sempre stata una sciocca. L’ho detto a Joff di lasciarla perdere, di divertirsi e basta… ma non ha voluto ascoltarmi. Convivere insieme! Con lei! Tanto varrebbe che tu diventassi Sindaco.»
Petyr accenna un inchino, prende la tazzina tra le mani e beve un sorso. Tutto, pur di non risponderle.

«Forse ciò che hai detto è vero, Baelish, ma Joff rivuole il suo giocattolo.»

Cersei si accarezza una gamba con fare seducente, finché non si accorge del calice rosso sul banco, pronto per lei. Si aggrappa a quell’oggetto come se non potesse farne a meno, e studia il proprio riflesso nel liquido purpureo un attimo prima di berlo.
Questa, pensa Petyr, è una cosa che Cersei ha in comune con suo fratello Tyrion…

«Cosa mi stai consigliando?» domanda lui, giocando con il manico della tazzina.
Gli occhi di lei lo investono come onde.

«Non ho bisogno di dare consigli, Baelish. Te lo sto ordinando
«Non lavoro più per te, lo sai.»

Una risata, ed è come se mille cristalli andassero in pezzi. Cersei allunga una mano per reggersi al bancone, incrocia le gambe e lo guarda come se davvero non lo credesse così stupido…
«Pensi che non sappia cosa stai tramando?» lo sfida lei, mostrando le unghie curate. «Ti sei divertito abbastanza con quella ragazzina, adesso è ora che torni all’ovile.»

Per un istante, in cui una goccia di sudore freddo gli è scesa lungo la schiena, Petyr ha creduto che lei sapesse.

«Cosa starei tramando?»
«Oh, ma è così logico!» esclama Cersei, sollevando gli occhi al cielo. «Vuoi divorziare da tua moglie – a proposito, come sta Lysa? – e magari ritirarti a vita tranquilla con quella sciocchina.»

Petyr incrocia le dita, sorride con uno di quei sorrisi che solo Sansa sembra capire, e resta in silenzio.
«Potrei anche aiutarti, sai… Rilevare la tua azienda, farti fare un bel guadagno, e permetterti di andartene via…» Sembra che sia ciò che più Cersei desidera, mentre lo dice. «Ma devi lasciare qui la ragazza Stark.»

«Non l’ho mai toccata» si indigna Petyr, con una finta smorfia.
«Ma vorresti.»
«Mi offende anche solo pensarlo.»
«Mmh…»

Petyr batte le mani sulle gambe, un’espressione contrita sul volto, e fa un altro inchino.
«Credo che questa conversazione possa dirsi conclusa, Maestà
«Solo per il momento, Lord Baelish.»

 

Jon è qui. Jon è qui. Jon è qui.

La mente di Sansa sembra ripeterlo come un mantra. Cosa sia venuto a fare in città, perché sia andato a casa di Joffrey, restano domande senza risposta. Ma non conta, ora non conta.
Mentre è sul bus che deve riportarla al suo appartamento – quello che Petyr le ha ceduto come rifugio – non riesce a fare a meno di pensarci.
Non le importa della gomma appesa allo schienale del sedile davanti a lei, non le importa dei due uomini che la fissano con arroganza. Non le importa nemmeno del pianto del bambino alle sue spalle, e dei vani tentativi della madre di calmarlo.

Il mondo va avanti, fuori dal finestrino al suo fianco, e nessuno sembra accorgersi di come il suo si sia improvvisamente fermato.

Sansa era senza famiglia, senza amici, senza protezione. Viveva senza la sua vita. Fino a quella mattina… fino a mezz’ora prima.
Ora, ora che il Mastino le ha dato quella notizia, ora che le ha confessato ciò che Joffrey ha contro di lei – Jon, il suo fratellastro, quello con cui ha avuto il rapporto peggiore, seguendo l’esempio di sua madre Catelyn – nient’altro sembra contare nei pensieri di Sansa.
Nemmeno ricorda il momento in cui dovrà vedersi con Jeyne, Theon e Ramsay, nemmeno desidera ricordare.

Il mondo va avanti, e quello di Sansa torna indietro.

Rivede la neve, le risate di Arya e Bran, le corse di Rickon. Jon e Robb che si inseguivano come ragazzini… E lei, avvolta di pelliccia, che strofinava i guanti e sorrideva guardandoli.
Se si concentra, può ancora sentire le loro voci, Robb che insiste perché vada anche lei a giocare, Arya che le lancia addosso palle di neve… E le sue urla contro di lei, contro quella sorella più piccola, così diversa.

Il mio opposto.

“Prometto che non andrò”, era stata l’ultima frase al Mastino, ma ora, ora che nei suoi occhi e nelle sue orecchie rivive il passato con i suoi fratelli, Sansa è tentata di mancare alla parola data.
Non le importa di Joffrey, di ciò che potrà dire. Ci sarà Jon con lei.

Jon, che non ho mai considerato.

Si alza in piedi, suona il bottone della fermata, e si avvicina all’uscita.
Ha cambiato idea. Ha fatto presto. È bastato ripensare ai suoi fratelli… è bastato chiedersi cosa ci faccia Jon in città.
In realtà, nemmeno le importa di scoprirlo. Vuole vederlo, sapere se è solo, se ha intenzione di raggiungere anche gli altri. Se vuole, forse, riunire il branco.

Potrebbe andare con lui, si dice, mentre il bus frena, mentre le porte si aprono e Sansa si appresta a scendere.
Potrebbe rivedere Arya, e Bran, e Rickon. Potrebbe riabbracciare Robb… sentire qualche storia su sua madre, scoprire qualche avventura di suo padre.
Ci sono così tante cose che Sansa non sa… che non ricorda, e che non ha mai voluto ascoltare.

È un po’ distante dalla casa di Joffrey, e proprio non sa come fare per affrettare le cose… Vorrebbe volare da lui, ignorarlo, prendere Jon e partire per Londra. Vorrebbe tante cose, ma il tempo è poco e, non conoscendo la zona, non sa quali autobus prendere.
Non è mai stata da quella parte della città. Mai con Joffrey.
L’ha attraversata con Petyr, in macchina, e qualche rara volta sui mezzi pubblici…

Sansa pensa di fermare un taxi, di indicare l’indirizzo all’autista e farsi portare nella strada giusta. Solleva un braccio, pronta a imitare le protagoniste di film di successo che, con un solo fischio, riescono a fermare qualunque auto…
Ma non lo fa.

Estrae il cellulare dalla tasca, la mossa più rischiosa che possa fare, nasconde il numero con il privato, e digita quei numeri, mai dimenticati, che la porteranno alla velocità della luce a casa di Joffrey.
È l’unico modo, si dice, mentre lo squillo le rimbomba nelle orecchie.
C’è traffico per strada; Sansa cerca il nome della via in cui si trova, stringe gli occhi mentre aspetta di sentire quella voce. E il cuore sembra mancare un battito quando la sente.

«Pronto?»

Il terrore le impedisce di parlare, costringendola al silenzio. È ferma e immobile come una statua, e sa con certezza che se ora si trovasse in mezzo alla strada, niente e nessuno potrebbero impedirle di farsi investire.

«Pronto?! Ma chi diavolo è!?»
«Pr-pronto, Joffrey?» mormora, vedendo la mano tremare. «Sono Sansa.»
«So benissimo chi diavolo sei.»

Sorpresa. Nemmeno lui se lo aspettava.
Beh, nemmeno io, fino a due minuti fa.

«Puoi farmi venire a prendere?» dice, cercando di mantenere un tono più controllato. Ma è difficile sapendo chi c’è dall’altra parte…
Sansa pensa che Joffrey le urlerà, che si rifiuterà di mandare qualcuno. Immagina la sua risposta carica di disprezzo.

«Dove ti trovi?» chiede invece.
Una risposta sussurrata, il sottofondo del traffico intorno a lei, delle voci della gente, e quella di Joffrey che le domanda di ripetere. Che le ordina di ripetere.
Sansa obbedisce, come ha sempre fatto.

«Il mio Mastino verrà a prenderti. Non muoverti da lì» sibila Joffrey, chiudendo la chiamata.

La tentazione è quella di scappare, di andare via e non farsi più trovare. Di non aspettare Jon, di lasciar perdere Petyr, di prendere il treno e correre a Londra. Di infischiarsene di tutto e di tutti, pensando solo a se stessa. Almeno per una volta.
Non è poi così vero… Sansa ci pensa mentre aspetta il Mastino. È stata egoista seguendo Joffrey al sud, è stata egoista lasciando Robb, solo, con i loro fratelli più piccoli. È stata egoista con Jon… trattandolo come ha sempre fatto sua madre.

Quando il Mastino arriva, alla guida di una BMW nera, Sansa si stringe nelle spalle e sale.
Non ha bisogno di guardarlo in volto per sapere che è infuriato. Per capirlo è bastato vederlo arrivare… un guidatore nervoso si riconosce anche a distanza.
Un guidatore nervoso come il Mastino è inconfondibile.

«Hai perso la testa?» ringhia, mentre Sansa si allaccia la cintura di sicurezza. «Sei impazzita!? No… no, lo sei sempre stata.»

Sansa lo ignora. Si stringe le mani in grembo e preferisce il silenzio.
«Altrimenti non si spiega» prosegue lui, partendo a tutta velocità senza badare alle altre auto. «Sì, è così, devi essere tutta fuori di testa. Sapevo che era meglio non dirti niente, e avrei fatto meglio a tacere. Maledetto me.»
Diversi clacson suonano dietro di loro, Sandor solleva il dito medio davanti allo specchietto retrovisore, e accelera, dando voce al motore.

«Non succederà niente» risponde Sansa, abbracciandosi e mettendo il muso. «Parlerò con Jon e ce ne andremo.»

La frenata del Mastino la spinge a reggersi al cruscotto. I capelli le volano in faccia mentre si porta una mano sul cuore.
Dietro di loro un altro autista nervoso…
«In culo!» comincia a gridare Sandor dal finestrino, lasciandosi sorpassare dalla macchina dietro di loro. «Guarda che mi fai fare.»

«Io!?» Sansa si volta, offesa. «Sei tu che ti comporti come un pericolo pubblico.»
«Ascoltami bene, ragazzina» ripete, come ha fatto più volte mezz’ora prima. «Joffrey non ti lascerà andare da nessuna fottuta parte, è chiaro?»

Riprendono la marcia, il silenzio regna tra loro come un veto, almeno finché Sansa non decide di infrangerlo.
«Tu non conosci Joffrey» spiega, scuotendo la testa. «Non mi toccherà mai davanti a mio fratello. Sa cosa rischia.»
«Tuo fratello?» le fa il verso Sandor, una mano stretta sul cambio e l’altra sul volante. «Sei davvero stupida come dicono tutti? A Joffrey non importa niente del tuo bastardo.»

«Non mi toccherà! È troppo vigliacco per farlo» Sansa incrocia le caviglie, accarezza il tessuto dei pantaloni e prega, prega di avere ragione. Cosa ne sarebbe di me se non l’avessi? «Tu, piuttosto. Dov’è finito il tuo mandare a quel paese Joffrey?»
«Di che parli?»
Sansa emette un sospiro prima di rispondere. Si mangia appena le parole…

«L’ultima volta che ci siamo visti» tenta, arrossendo al ricordo della sua sigaretta tra le labbra del Mastino. «Non te la ricordi?»
Evita di guardarlo, ma basta un’occhiata intorno, le villette sparse, il parco con i bambini, per dirle che sono quasi arrivati. Non c’è più tempo per le parole.

«Eri… molto vicino a me» Una vampata di calore le sale fino al viso mentre pronuncia quelle parole. «E poi…»
«Non andare» la interrompe Sandor, fermando l’auto in mezzo alla strada. «Dirò di non averti trovata.»
Mentre si slaccia la cintura, Sansa sente un moto improvviso di tenerezza. Vorrebbe dirgli di sì, chiedergli di portarla in stazione, di venire con lei a Londra.

«Posso accompagnarti dov…»
Questa volta è lei a interromperlo, prendendogli il viso tra le mani. Chiude gli occhi, non vede la cicatrice, i segni orribili sul volto, non sente odore di cuoio e alcol e fumo. Posa le labbra sulle sue, come se non ci fosse un modo migliore per dirglielo.

Non lo sto ringraziando, pensa Sansa, accorgendosi di come lui sia rimasto immobile. È solo ciò che volevo… dall’ultima volta che l’ho visto.
«Grazie» sussurra, allontanandosi da lui. «Davvero, grazie.»

Scende dall’auto lasciandolo solo, in macchina, a osservarla attraversare la strada. Trova il portone aperto, come un invito a entrare, e sale le scale con una certa calma, come se non avesse fretta di vedere Joffrey.
Quando arriva sul pianerottolo, Sansa si sfiora le labbra, come se il bacio dato al Mastino servisse a darle coraggio.

Perché non l’ho fatto prima? Si chiede, sollevando il pugno all’altezza della porta. Proprio ora, ora che sto per partire, che non lo rivedrò più? E perché lui non ha risposto?

Un tocco, due tocchi, Sansa si schiarisce la voce e si allontana dall’uscio.
Non se lo aspettava… si risponde, giungendo le mani. Non se lo aspettava per niente. Altrimenti avrebbe reagito.

Udire i passi oltre l’uscio non rincuora Sansa. Sapere che sta per rivedere il volto di Joffrey, per sentire ancora la sua voce, faccia a faccia, le fa tremare le gambe.
Avrei dovuto accettare l’invito del Mastino e andare via con lui.

E quando se lo trova davanti, riconoscendo il sorriso del trionfo sul suo viso, sente di poter cedere da un momento all’altro. Che non riuscirà a sorreggersi, a seguirlo dentro, ad affrontarlo.
Finché non lo sente…

«Sansa?»

Jon è cambiato, per quanto gli fosse possibile cambiare. Si è fatto crescere i capelli e, ora, li tiene legati dietro la testa, come un samurai. Ha l’ombra di una cicatrice sotto l’occhio, ma invece che sfigurarlo, riesce solo a renderlo più affascinante. Più maturo.

Si camminano incontro a vicenda, come se Joffrey non esistesse, e Sansa gli finisce tra le braccia.
Jon non è il suo vero fratello, ma in quel momento è come se lo fosse. È sangue di suo padre, di Robb, di Arya, di Bran e di Rickon. È casa.
Quella che ha lasciato nel nord, alla morte dei suoi genitori, restando alla finestra mentre Robb partiva con i suoi fratelli più piccoli.
Jon è la sua famiglia.

«Che cosa ci fai qui?» mormora, scostandosi per guardarlo in viso.
«Come sei… diversa, Sansa» Jon la guarda negli occhi, sembra commosso. «È troppo tempo che non rivedo Robb. Sto andando a Londra, Sansa. Vieni con me, per favore.»
La risata di Joffrey sembra rompere quel momento. Sansa si volta a guardarlo, fa due passi indietro e resta in silenzio.

«Te l’ho detto che non può partire…» dice, con quelle labbra che un tempo Sansa ha amato. «Ci stiamo organizzando. Non può mancare proprio ora.»
Sansa inclina la testa, confusa. Non riesce a seguirlo.
«Ma di cosa stai parlando?»
Il trionfo – o forse è solo pazzia, pensa Sansa – si allarga prepotente negli occhi di Joffrey.
«Ma del matrimonio, Di cos’altro dovrei parlare? È chiaro che siete tutti invitati. Tu e… la tua famiglia» aggiunge, rivolto al suo fratellastro.

Sansa torna a guardare Jon, fa una smorfia.
«Non riesco a seguirti. Di quale matrimoni parli?»
«Ma del nostro! Del nostro matrimonio, Sansa!»
Lei fa alcuni passi indietro, oltrepassa l’uscio della porta. «Tu sei pazzo.»

Il volto di Joffrey torna serio, la guarda con tutto il disprezzo possibile. «Non te lo chiederò di nuovo.»
«Non voglio che tu lo faccia» risponde Sansa, sentendo i muscoli irrigidirsi. È pronta alla fuga… basta una sola parola sbagliata.

«Chiunque ne sarebbe onorato
«Allora chiedilo a qualcun altro, io non posso.»

Jon li segue fuori, sul pianerottolo, non sembra capire cosa stia succedendo. «Non puoi?» domanda, storcendo la bocca.
«Non posso» ripete Sansa, appoggiando la mano alla ringhiera di ferro. «Sto andando a Londra.»

Il volto di Joffrey si ricopre di una maschera di rabbia.
«Dov’è il Mastino? MASTINO!»
Sansa gli ride in faccia. «Credo sia andato a parcheggiare la macchina…»

Fa un segno a Jon e scende le scale. Ha quasi paura che Joffrey decida di seguirla da solo, che alzi ancora le mani su di lei, magari davanti al suo fratellastro… Ma sa che non può farlo. Sa che, con la posizione di suo padre – il Sindaco – non può permettersi problemi con la Giustizia.
Sansa non lo avrebbe mai denunciato: aveva troppo da perdere.
Ma con Jon è diverso. E Joffrey, proprio, non ama il rischio.

Con le grida di Joff in sottofondo, con Jon che la segue a distanza, Sansa esce dal palazzo, si sente toccare da un raggio di sole.
Chiude gli occhi e cerca di sentire il sapore di Sandor sulle labbra.

 n

  

Note dell’autrice:

Vorrei chiarire una cosa: questa non è una Jon/Sansa. Preferisco non esprimermi in merito, ma se vorrete sapere di più basterà chiedere.
Questa, nata come una Petyr/Sansa pura, sta diventando anche una SanSan. Spero che non sia un problema. Vi confesso: oscillo tra questi due come sta facendo Sansa dall’inizio di questa fan fiction. Quindi sì, Petyr sta per tornare alla carica – e alla grande, aggiungerei – ma non dimenticatevi di Sandor. Avrà la sua importanza (come avrete capito da questo capitolo).
Grazie a tutti quelli che seguono/preferiscono/recensiscono. Senza di voi non avrebbe senso pubblicare qui.
Celtica

 P.S.: visto che i capitoli stanno diventando tanti, penso che inserirò un titolo per ognuno, perché possiate ritrovarli più facilmente.

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Capitolo 16
*** Come una candela ***


Capitolo 16


Noterete la breve presenza di Sansa in questo pezzo, ma non volevo rendere il capitolo troppo lungo. Spero di essere perdonata!
Trailer

Come una Candela

L

a penna stilografica ha disegni d’oro e d’argento sopra l’acciaio scuro, sembra brillare alla luce della candela. Il resto della stanza è avvolto nell’ombra, così come il volto di Lysa.
“Solo una candela, Petyr”, lo aveva implorato, tornata dall’ospedale. “Come nel nostro viaggio di nozze… Lo ricordi, Petyr? Ricordi come siamo stati bene? Finché Cat non è arrivata a rovinare tutto...”
La punta gratta sulla carta, avanza lenta e inesorabile, disegnando un ampio cerchio lì dove dovrebbe esserci la “g” di Garante. Non vede quasi nulla di ciò che sta facendo, ha solo la luce tenue della candela, così come Lysa ha desiderato.
Quando finisce, posa la penna sulla scrivania di ciliegio, soffia sulla carta e rilegge ciò che ha scritto.

«Petyr, amor mio, hai finito?» Lysa è sdraiata a letto, così come il suo medico di fiducia, Pycelle, ha voluto. «Vieni da me, ora.»
Lui si alza e la raggiunge. Lei protende le braccia verso l’alto.
«Stringimi, Petyr, non lasciarmi dormire da sola.»

«Sta arrivando il medico, è di là con Robin…» sussurra, chinandosi al suo capezzale. «Devi solo firmare questo foglio, e potrò dirgli di entrare. Deve visitarti, mia cara.»
Lysa scuote forte la testa. «Non voglio, Petyr. Non farlo venire. Voglio restare con te! Solo con te! Ho aspettato così a lungo…»
Petyr la bacia, ed è un bacio freddo, distaccato, frettoloso. «Firma» lo dice mettendole la stilografica tra le mani, reggendo il grosso tomo che dovrà farle da scrittoio.
Lysa prende la penna. E firma.

Il sorriso che si forma sul volto di Petyr è qualcosa che lei non è in grado di capire. Lo interpreta male, sorridendogli a sua volta, mormorando quanto sia innamorata di lui…
«Ti chiamo Pycelle» aggiunge. «Resterà un po’ a farti compagnia.»
«Dov’è mio figlio? Fai venire Robin, ti prego.»
Petyr annuisce appena.
Si chiude la porta alle spalle, attraversa il corridoio e raggiunge la sala, dove Robin sta – come al solito – video giocando. Pycelle è voltato di spalle, intento a conversare con la bella brunetta che ha di fronte: Shae. Una telefonata a Tyrion, ed ecco che Shae si è trasformata in una perfetta babysitter.

Non segretaria.

«Pycelle» esordisce Petyr, allargando le braccia. «Solo un momento. Lysa vorrebbe prima vedere Robin. Robin!» chiama, senza nessun risultato.
Shae sorride, china il capo e si avvicina al ragazzo, sfilandogli le cuffie dalle orecchie.
«Non hai sentito?» dice lei, con un forte accento del sud. «Ti stanno chiamando.»

«Sì, Robin. Tua madre vuole vederti.»
Pycelle fa un passo avanti, solleva le mani. «Perché non le presenti Shae? Devo fare due… chiacchiere con il tuo patrigno.»
Petyr solleva un sopracciglio, ma non dice niente. Lascia che i due si allontanino prima di giungere le mani e avvicinarsi al vecchio. A Pycelle, ormai, non sembrano restare più molti anni da vivere… La lunga barba bianca che si è fatto crescere è folta, e non fa altro che invecchiarlo ancora.

«Lysa sta dando di matto» spiega il vecchio, sedendo a fatica su una sedia. Quando Petyr gli indica il divano, Pycelle fa cenno di no con la mano. «Non riuscirei più ad alzarmi. Ah, i miei lombi…»
Lui gli gira intorno, gli siede di fronte.

«Cosa posso fare per te?»
«Avevo bisogno di parlarti, Baelish. Si tratta di Lysa e dei suoi attacchi» Pycelle si accarezza la barba mentre parla. «Capita che perda la ragione e, le cose che racconta… sono un po’ strane, ecco.»
Petyr si piega in avanti, voltando appena il capo. «Strane, come?»
Dalla strada arriva lo strombazzare di un clacson. Sembra quello di un camion, e Pycelle fa una pausa scenica prima di continuare.
«Cose sul suo vecchio marito.»
Lui si alza per chiudere la finestra, in quella calda giornata di primavera. Gli dà le spalle, eppure non perde un solo battito del cuore impaurito dell’uomo.

«Cose su di te.»

Quando Petyr si volta, Pycelle distoglie subito lo sguardo da lui, fissando il pavimento. Potrebbe chiedergli cos’abbia detto Lysa… Potrebbe domandargli il piacere di riferirgli ogni parola.
Ma non lo fa.

«E tu, gran maestro, le credi?»

Il tono di Ditocorto è il più scherzoso e amichevole possibile, Pycelle sembra quasi fidarsi di lui, eppure, eppure Petyr sa che se in quella stanza fosse presente anche Sansa, lei sarebbe in grado di capire cosa realmente stia provando.
«Certo che no» la risposta di Pycelle arriva troppo agitata, e troppo in fretta… «Sono i deliri di una malata, è chiaro!»
Ciò che Petyr si chiede è perché Pycelle glielo abbia raccontato. Se non ci crede, se sono i deliri di un momento di follia, perché riferire a lui?
«Lysa è sempre stata portata a esagerare» mormora Petyr, camminando lentamente verso il suo posto, di fronte al vecchio. «Abbiamo avuto una storia, prima che si sposasse. Lo sapevi?»
Pycelle scuote la testa; forse, pensa Petyr, è preoccupato di ciò che accadrà…

«Cat – ah, la cara vecchia Cat! – ci ha scoperti, e ha minacciato di raccontare tutto a loro padre. Venivo da una famiglia povera… Loro erano ricchi, cariche prestigiose, lavori importanti. Lui non mi avrebbe mai voluto con loro, e Lysa lo sapeva bene.»
La porta della camera che si apre, e la magia finisce. Petyr allunga le labbra in un sorriso, abbassa le palpebre mentre Shae e Robin tornano nella stanza.

«Se sarai ancora qui, al mio ritorno, finirò il mio racconto.»

«Devi uscire, zio Petyr?»
Robin ha già il joystick stretto in una mano, le cuffie nell’altra.
«Tornerò presto» mormora, prendendo la giacca e facendo segno a Shae di badare al ragazzo.

Quando esce, ha nella mente una cosa sola: ritrovare Sansa.

Sono ore, ormai, che ha il cellulare staccato, e a casa non c’è nessuno, ha già controllato. C’è un solo posto dove può essere andata, ed è lì che Petyr è diretto. Prende la ford, attraversa diversi isolati, supera persino l’università – è sicuro che non sia chiusa in biblioteca – e raggiunge il viale più lussuoso della città.
Lì, dove c’è la casa di Joffrey.

Ripensare all’incontro con sua madre è strano: prova sentimenti contrastanti per Cersei.
Da una parte c’è il risentimento, per averlo sempre considerato inferiore, per non avergli dato la giusta importanza; dall’altra tanta ammirazione.
Cersei è una bella donna, eppure non è stato il suo corpo a farla arrivare in alto. Era persino destinata a un altro uomo… e mai, da ragazza, avrebbe immaginato di finire in sposa a quell’ubriacone del Sindaco.
Ma l’azienda è la sua, la sta mandando avanti lei. E bene, anche.

Petyr lascia l’auto vicino al marciapiede, di fronte al palazzo dove risiede Joffrey. È sicuro di trovarla lì. Deve trovarla, come potrebbe fare altrimenti? Sansa è la sua chiave, l’unica in grado di aprire ogni serratura.
Forse, si dice, persino del suo cuore.
Sempre che lo abbia ancora…

Quando arriva al portone lo trova aperto. Ha quasi la sensazione di sentire il profumo dolce di lei, di avvertire la sua presenza. La immagina, mentre posa il piede sul gradino, avvolta da un mantello di paura.

Perché sei tornata? Si chiede Petyr. Cosa sei venuta a fare qui, tesoro?

Sale in fretta le scale, arriva davanti alla porta con il pomello a testa di leone, e la scritta a lettere dorate: Lannister. Bussa, una volta, due, tre, e davanti a lui si para la sagoma mastodontica del Mastino.
«Dov’è Sansa?» domanda senza indugio, mentre l’uomo esce sul pianerottolo, chiudendosi la porta alle spalle.
«E così non lo sai, eh, Baelish?» ringhia Sandor con un sorriso cattivo. «Torna dalla tua mogliettina. Ti darà più soddisfazioni.»
«Che significa?» Petyr fa un passo indietro e solleva il mento. «Non è qui?»

«Aye, e ci stiamo divertendo, tutti soli soletti.»

Il Mastino incrocia le braccia al petto prominente, ed è un lungo sbuffo quello che lascia le sue labbra.
«Dov’è Joffrey?» domanda, ma capisce subito che Sandor provi quasi piacere a tenerlo sulle spine. A sapere qualcosa che lui non sa.

La conoscenza è potere.

Il Mastino sogghigna senza rispondere.
«Tornatene a casa, Ditocorto. Sarà meglio. L’uccelletto è ben ammaestrato per le bugie.»
«Che cosa intendi?»

«Mastino!» Il grido di Joffrey li interrompe, facendo sì che anche Margaery esca sul pianerottolo.
Petyr la vede avvicinarsi, giovane e bella, al ragazzo. «Dove diavolo eri finito!?»
«Stai bene?» domanda lei, quasi che fosse appena tornato da una scazzottata. «Quel bruto non ti ha fatto del male, vero?»
Joffrey scrolla le spalle, sembra infastidito. «Certo che no.»
«Oh, meno male. Ero così preoccupata!» Quando Margaery allunga una mano per accarezzare il braccio di Joffrey, lui la lascia fare. «Ma sapevo che non avrebbe potuto niente contro di te…»

Petyr si accorge subito di come il ragazzo si senta compiaciuto, tanto da dimenticare – quasi – il suo cane sulla porta. Ma è un attimo, e subito gli occhi azzurro cielo tornano a posarsi sul Mastino.
«Ti-avevo-detto-di-portarla-qui» dice, facendo continuamente segno con l’indice verso terra.
«E io l’ho portata.»
Basta un momento perché alle spalle di Joffrey compaia anche Cersei.

Ecco dov’era andato. A chiamare la mammina.

«Quale bruto?» chiede Petyr, rivolto a Margaery.
Il Mastino si fa avanti, quasi come se volesse impedire a lei di rispondere, ma è Cersei a intervenire. Cersei a rubare l’attenzione della ragazza. «Stai bene, cara?»
«Sì» Margaery china la testa con rispetto.
Petyr vede la donna sorriderle, farle un cenno di assenso con il capo, ma capisce che si tratta di una finta. Cersei non sopporta Margaery. Si chiede se questa cosa possa volgersi a suo vantaggio.
«Cosa fai qui, Ditocorto?»
Ora è a lui che si rivolge, accarezzando la criniera leonina. Joffrey batte i piedi a terra, sembra spazientirsi di quella scena, si fa avanti, e il Mastino con lui.

«Digli di riportarmela, mamma. Digli di riportarla qui subito

Il Cane avanza verso di lui, fa scrocchiare le nocche delle mani, e Petyr si irrigidisce. Sandor sembra aspettare un ordine – forse una sola parola – per colpirlo. Il suo sguardo è molto chiaro: “ti farò a pezzi.”
Un solo sguardo sbagliato e, Petyr ne è certo, il Mastino metterà in pratica la sua minaccia.

Ma Cersei solleva una mano. Una mano, liscia e pallida, dalle dita affusolate, e il mondo sembra fermarsi.
Margaery trattiene il respiro, Joffrey si volta a guardarla, Sandor abbassa i pugni.

«Hai sentito, Lord Baelish?» dice, con voce chiara, muovendo le labbra in modo sensuale mentre pronuncia quel nomignolo. «Joff la rivuole. Hai passato diverso tempo con lei… Riportala, e tutto questo sarà dimenticato.»
«Tutto questo?» domanda Petyr.
«Il tuo divertimento… l’aver rapito Sansa. Andiamo, Petyr…» spiega, con tono suadente. «Quando mai una ragazza bella come lei verrebbe con un tipo come te?»

Il Mastino sembra farsi di pietra.

«Sono suo zio» ribatte Petyr, schiudendo appena le labbra. «E non l’ho rapita. È venuta al mio matrimonio, ha vissuto con me e Lysa.»
«E tu vorresti farmi credere che lei sia rimasta? Volontariamente?» Cersei posa una mano sul braccio di Joffrey, sorride, anche a Margaery. «Con te e Lysa?»
Cersei ride, suo figlio sembra tranquillizzarsi, e Margaery rimane attenta e sorridente al fianco di Joffrey. Solo il Mastino sembra desiderare di essere altrove.

«Potresti essere suo padre» ribadisce lei.
«In tutto questo» la interrompe Petyr, facendo un cenno con la mano. «In tutto questo non ho ancora capito dove sia mia nipote.»
«Lei non è Cat» sibila Cersei, sollevando il mento. Il sorriso sembra essersi incrinato nel suo volto.

“Lei non è Cat.”
“Lei non è Cat…”
Cat.

«Non so dove tu abbia sentito certe storie, ma io ho sposato Lysa. Amo Lysa. Ed è stata proprio Lysa a chiedermi di riportare Sansa a casa» Petyr fa presto a riprendere sicurezza. «Non la riteneva al sicuro qui…»
Il bel viso di Cersei sembra deformarsi, come quello di un leone intento a ruggire. «Ma come osi… Non sai chi ho sposato io, invece? Non sai quello che rischi? Clegane, sbattilo fuori. Ora.»
Il Mastino sembra tornare in sé. Sta per afferrarlo per la collottola quando Petyr solleva le braccia.
«Ehi, ehi. Me ne vado da solo.»

È alla seconda rampa di scale che sente la voce di lei, lì dove non può più vederla.
«Seguilo, Sandor. E riporta qui Sansa.»

 

 

Ore intere. Il treno attraversa campi, radure, città. Londra non è mai sembrata più lontana.

Jon è di fronte a lei, intento a guardare fuori dal finestrino. Da quando sono partiti, Sansa gli ha sentito pronunciare poche, strascicate, parole. Per lo più domande sulla sua vita, sulla sua storia con Joffrey.
Sansa ha preferito evitargli la vergogna di conoscere la verità… Non gli ha detto degli schiaffi, degli insulti, dei lividi sul suo corpo. Non gli ha detto nemmeno di come Petyr l’abbia portata via, offrendole un riparo lontana da Joffrey. Ha evitato anche di parlare di Sandor… soprattutto di quello.
È sicura che Jon la riterrebbe una brutta persona se sapesse.
Penserebbe che è una poco di buono, che… che se li sceglie tutti lei.

Sospira, si accoccola contro il sedile, e gli occhi del suo fratellastro si posano su di lei.
«Cosa pensi dirà Robb?»
Lei sorride. «Non lo so, ma immagino quello che farà Arya. Arya! Farà i salti di gioia quando ti vedrà.»

Non si può dire lo stesso di me.

«Anche con te.»
Sansa scuote la testa, giunge le mani in grembo e riprende a guardare fuori.
«Sì, invece. Chissà quanto le sarai mancata.»

La porta si apre, a entrare è una donna. Una donna rossa. A parte la pelle, il resto di lei è rosso come il fuoco. I capelli sono un groviglio scomposto, l’abito è lungo ed elegante. Se non fosse per il baluginio che Sansa le legge negli occhi, troverebbe quella donna bellissima.
Invece ha solo paura.

«Vi disturbo?»
Jon le fa cenno di no, invitandola a sedersi. Sansa accenna un sorriso, il migliore che le riesca di fare.
«Dicono che il tempo sarà tremendo a Londra, questi giorni…» mormora.
«Sta andando a Londra?» domanda Jon, chinandosi in avanti. Al cenno di assenso di lei, si sente invitato a continuare. «Anche noi.»
«Motivi famigliari?»
«Proprio così. Non vedo i miei fratelli da molto tempo. Saranno cresciuti ormai.»

La donna rossa allunga le labbra, sembra sorridere, ma Sansa legge altro sul suo viso. «Uno di loro potrebbe essere… spezzato
Sansa e Jon si voltano entrambi a guardarla. Non riescono a capire.
«Spezzato?»
«Tutto a tempo debito, tutto a tempo debito» dice, alzandosi in piedi. Non sembra intenzionata a rimanere oltre. «Riguardati dalle ombre di tua sorella» aggiunge, rivolta a Jon.

«Prego?» Sansa sembra accigliarsi.
«Ci conosciamo?» chiede lui, facendo segno a Sansa di tacere.
«Forse.»
«Eppure io so di non averla mai vista, signora. Signora…?»
È un sussurro. Lo pronuncia prima di uscire. «Tu non sai niente, Jon Snow

 

 

Il Mastino al volante è uno spericolato.
Petyr guarda la sua auto parcheggiata fuori dal suo attico, affacciandosi alla finestra che divide con Shae. È stata lei a chiedergli di parlare.
«Non ho dovuto fare niente. Robin pensa solo a giocare.»
Lui inclina la testa e sorride. «Meglio così» mormora, prima di allontanarsi.

Lysa è a letto, imbottita di medicine. Pycelle lo sta aspettando nello studio, in quello studio dove solo lui, Petyr, è autorizzato a entrare. La prima cosa che fa è raggiungere il vecchio. Vuole chiarire quella storia.
Vuole sapere.

«Rieccomi, amico mio» Fa il suo esordio chiudendosi la porta alle spalle. Lo trova accomodato sul divano. «No, no, rimani comodo. Mi fa piacere sapere che la tua schiena è migliorata.»
Pycelle borbotta qualcosa di incomprensibile.
«Dovevamo finire il mio racconto, ricordi?»
Petyr si versa da bere, vorrebbe offrirne anche al vecchio, ma lo vede rifiutare.

«Insomma, io vengo cacciato da Cat – la mia amata Cat – e Lysa si sposa con un altro. Lo conoscevi, giusto?» Eravate amici, pensa. Dillo che è così. «Ma non ha mai smesso di amarmi… Qualche anno fa, prima che la dolce Cat perisse in un incidente, è stato il turno del paparino. Infarto, hanno detto i medici. Tu sei un medico, giusto?» Il sorriso di Petyr fa voltare il capo a Pycelle. «Sai com’è facile che il cuore ceda con un’età avanzata…»
Si avvicina lentamente, poi gli siede accanto. Sul bel divano di pelle nera, scostando un paio dei bei cuscini ricamati. Sono circondati da merletti bianchi, e Lysa è sempre stata attentissima a non sporcarli.

«Poi è stato il turno di Ned Stark. E di Cat» Qui la sua voce tradisce una certa emozione. Rammarico, forse? «In realtà, quel giorno in auto avrebbe dovuto esserci solo Eddard… Cat decise all’ultimo minuto di andare con lui.»
Pycelle si fa lontano, rintanandosi nell’angolino del divano. Allora Petyr si alza, un cuscino tra le mani, cammina per la stanza. Raggiunge la porta.
«Io come potevo saperlo?» sussurra, girando la chiave nella toppa. «Avrei agito altrimenti.»

Pycelle sgrana gli occhi, rivolge lo sguardo ai muri spessi – insonorizzati – che Lysa ha insistito tanto per avere.
«Cat dovrebbe essere viva, adesso.»
Fuori, il cielo sembra tingersi di grigio. Un grigio che si riflette anche negli occhi di Petyr.

«Dovrebbe essere qui, con me, al posto di Lysa.»

Pycelle si alza di scatto, pone le mani davanti a sé. «Io… io, non dirò niente.»
Un gesto, la richiesta di sedersi, e il vecchio si lascia cascare sul divano. Petyr dritto davanti a lui, i merletti del cuscino stretti tra le dita.

«Che altra scelta mi rimaneva? Lysa era sposata…» dice, muovendo il capo in maniera teatrale. «Ciò che ti ha riferito è vero, Gran Maestro. Si è liberata di suo marito.»
Solleva la nuvola bianca ricca di ricami, resta a osservarla un istante.
«Le ho detto io di farlo» sussurra, chinandosi sul vecchio, premendogli il cuscino sulla faccia. Lo spinge giù, sul divano, digrigna i denti mentre lo sente agitarsi, mentre le mani rugose cercano un appiglio; carica il peso di tutto il corpo sulle mani e calca sulla stoffa.

Petyr sente una scarica di adrenalina e, pensa, vorrebbe che Sansa fosse lì, insieme a lui. Lei non approverebbe, lancerebbe un gridolino e si coprirebbe il viso con le mani. Magari lo implorerebbe di smetterla…
La verità è che non può farlo. Non può interrompersi, non può permettergli di vivere, di raccontare ciò che Lysa ha fatto. Ci andrebbe di mezzo anche lui, i suoi contatti, il suo futuro. Il suo sogno.
Significherebbe rinunciare a Sansa, e questo, Petyr, non vuole farlo.

Quando le braccia di Pycelle ricadono sul divano e il suono disgustoso della sua bocca termina, Petyr rimane un istante immobile, contempla la sua opera con un brivido, finché non solleva il cuscino. Lo getta dietro il divano, corre ad aprire la porta e comincia a gridare.
«Aiuto! Un medico, chiamate un medico!» si porta una mano sul petto mentre lo dice, mentre Shae spalanca la porta e rimane a fissarlo. «Un colpo. Gli è venuto un colpo… Chiama qualcuno, Shae. Fai venire qualcuno.»

I suoi pensieri corrono a Sansa. Dove sei andata? Perché, Sansa? Perché sei fuggita via? Se qualcuno potesse sentirli, o vedere l’eccitazione che prova, si ritroverebbe in manette nel giro di pochi minuti.
Ma il suo volto è una maschera di tristezza.
«Digli di fare in fretta, Shae» aggiunge. «È probabile che io domani debba partire.»

Dove può essere andata, se non dai suoi fratelli? Magari dal bastardo di Ned Stark, nel nord… o, forse, è più probabile che abbia raggiunto gli altri nel sud.
L’unico che possa aiutarlo è anche l’ultimo uomo disposto a farlo… Il Mastino.

n

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Capitolo 17
*** Londra ***


Capitolo 17

A F.,
che ha saputo apprezzare ciò che io nemmeno capivo.

 Trailer

n




U

n sospiro e scende dal treno.
Sansa si guarda intorno, osservando la gente che affolla la banchina della Waterloo Station: loro non ci sono.

Non possono esserci. Non sanno del loro arrivo, non si aspettano di rivederli.
Ricorda i loro nomi. Robb, Arya, Bran e Rickon.
Sente l’emozione crescere a ogni sillaba, mentre li ripete nella sua mente. Poi vede Jon: è accanto a lei.

«Andiamo?»
Sansa annuisce. Se solo sapessi dove.
Camminano fianco a fianco, escono dalla stazione e la coltre di nebbia che li colpisce spinge Sansa a sfiorarsi le labbra. È ormai sera, e devono ancora raggiungere la Queen’s Walk e aggirare Jubilee Gardens. Jon ha parlato di un appartamento vicino all’acquario…

Nebbia. Il cortile dell’università. Poi, quel nome. Sandor.
E loro due chiusi in macchina, con il Mastino che si stava preoccupando per lei, che la stava implorando di restare… di non entrare in quel palazzo, di non bussare alla porta di Joffrey, di non farsi del male. Non di nuovo…

Il bacio.

Un bacio durato un solo istante, un bacio che Sansa aveva desiderato per giorni. Un bacio che era partito da lei, che lei aveva voluto.
Da quando prendeva l’iniziativa? Quando era stata l’ultima volta che aveva baciato qualcuno?
Niente attesa, niente tensione in attesa di un contatto, aspettando una mossa da parte di qualcun altro.

Solo un brivido.

Poteva riassumerlo così: un brivido che l’aveva attraversata mentre agiva, quasi senza accorgersi di ciò che stava facendo… Ed ecco, in un attimo le sua labbra erano su quelle di lui, le sue mani sul suo volto sfigurato.
Non si era preoccupata della cicatrice e, ora, mentre ci pensa, mentre cerca di rivivere quel momento, Sansa non riesce a ricordarsi di aver provato ribrezzo scostandosi da lui, guardando i segni sul suo viso.
Niente. Solo pace. Solo desiderio.

«Sansa» la chiama Jon, ignaro dei suoi pensieri. Se solo sapesse… «Da questa parte.»
«Sei già stato a Londra?»
«No, ma non è difficile orientarsi una volta che ci sei abituato.»
Il sorriso che le rivolge la fa vergognare. Dei suoi pensieri, del bacio dato al Mastino, di quello ricevuto da Petyr.

Petyr.
Dio mio, Petyr. Lui non sa che sono qui.

Ma è ormai sera, i lampioni illuminano la Queen’s Walk come tante sfere di luce, allungandosi verso gli alberi che, di giorno, adombrano le panchine. Non è l’ora adatta per chiamarlo.
«Sai» prosegue Jon, mentre superano un incrocio, trovandosi ad affiancare il Tamigi. C’è un battello nel fiume, lei lo guarda scivolare sull’acqua. «Da quando ve ne siete andati ho viaggiato molto. Ricordi zio Benjen? Mi ha ospitato in Irlanda.»

Sansa sgrana gli occhi.

«Che cosa? Ero convinta che fosse morto!»
Jon scuote la testa. «Era una casa troppo grande per me solo. Ero… tentato di venire al sud, da Robb, trovarmi qualcosa qui, ma poi ho conosciuto Tormund e abbiamo preso a viaggiare. È stato all’estremo nord che ho sentito parlare dello zio. Una conoscenza in comune. E in un attimo mi sono ritrovato suo ospite in Irlanda…»
Sansa lo guarda stringersi nelle spalle.

«Chi è Tormund?»
Allora Jon si volta e i loro occhi si incontrano. Solo adesso lei si rende conto che si sono fermati, che hanno passeggiato sulle rive del Tamigi, a un passo dai loro fratelli. Si chiede cosa sia accaduto, nel nord, per trasformarlo in quel modo.
Non è più il ragazzo che tirava palle di neve contro Robb, non è più quello che stringeva Arya, sollevandola al cielo.
È cambiato, diverso, non solo nell’aspetto.

«Un amico.»

Non è una risposta sufficiente, ma Sansa annuisce e riprende a camminare. C’è qualcosa di strano in lui, come se avesse fatto o vissuto cose di cui non vuole parlare. Non più.
Forse, si dice, se un tempo fosse stata diversa, se fosse stata più simile ad Arya, ora lui direbbe la verità, si confiderebbe con lei.

Non ho da lamentarmi, pensa. Anch’io gli sto nascondendo delle cose…
Forse per lui è lo stesso. Forse non sa se fidarsi di me.

C’è tanta bellezza davanti a lei. Le luci di Londra, la scalinata che scende fino al London Film Museum, il Big Ben che affianca il Parlamento, e il meglio di tutto: l’acquario, che sembra essersi trasformato nel simbolo della famiglia, di casa, di Robb, Arya, Bran e Rickon. Degli Stark.

«Stai sorridendo» dice Jon, allungando le labbra. Sente la sua presa intorno al braccio. «Anch’io sono felice di vederli.»
«Non pensi che avremmo dovuto chiamare? Proprio non ci aspettano…»
Scendono la scalinata che deve riunirli alla famiglia, e il passo di lui si fa più leggero, come se si sentisse benissimo. Sansa prova lo stesso.

«Per questo» dice Jon, indicando la via in cui si trova il palazzo. «Sarà una sorpresa.»
«E se non rispondessero?» chiede Sansa, più a se stessa che a lui. «È molto tardi.»
Lui si ferma un gradino sotto di lei, le prende le mani. Sorride.
«Ce la caveremo.»

A un tratto Sansa si sente tranquilla. Niente può andare male, non stasera, non nel momento in cui deve rivedere i suoi fratelli. Le sono mancati, tutti, e non vede l’ora di poterli riabbracciare. Uno a uno, godendo dei loro sorrisi, dei loro sguardi, di ciò che hanno vissuto lì, lontano da lei.
E io? Gli sarò mancata? Mi avranno pensato?

Ricorda Petyr, le sue promesse, la protezione che le ha offerto. Il suo bacio controllato, proprio quando non avrebbe dovuto… E Sandor, che l’ha avuta con gli occhi, con il sapore di una sigaretta, con fragili parole che l’hanno portata a baciarlo.
Non sa con chi vorrebbe condividere quel momento…
Forse nessuno.
Nessuno a parte Jon.

«Di qua» dice lui, guidandola fino a un portone grigio, con un anello di ferro smaltato di bianco. Qui vivono loro. Lo sente. «Sei pronta?»
Sansa vede il dito di Jon appoggiato sul citofono ed emette un lungo sospiro prima di annuire.

«Chi è?» la voce all’interfono suona leggermente contraffatta, eppure Sansa vede Jon sussultare.

«Arya?» domanda, quasi con timore. «Sei tu?»
Silenzio.
Poi, come se temesse di svegliare qualcuno, sussurra: «Jon.»

«Jon? Sei davvero tu? O è uno scherzo? Gendry, se è uno dei tuoi scherzi scendo e ti prendo a calci.»

«Chi è Gendry?» si intromette Sansa, avvicinandosi al microfono.
«Ma chi c’è?» La voce di Arya è quasi timorosa. E forse è quello a dare coraggio a Jon.
«Arya, apri. Siamo noi: Jon e Sansa. Abbiamo viaggiato in treno per ore.»
Si scambiano uno sguardo, e lei si fa avanti. «Avanti, Arya. Chiama Robb e apri questa porta. Siamo stanchi di giocare.»
Arya sbuffa. «Puff. Allora sei proprio Sansa.»
Il portone viene aperto, Jon sorride, spingendo con entrambe le mani, e le fa segno di seguirlo. Stanno per salire le scale quando lei nota l’ascensore.

«Il piano!» gridano entrambi, scoppiando a ridere.
Non sanno a quale piano salire… Ma sono così felici da essere pronti a bussare a ogni porta, pur di trovare quella giusta.
Poi sentono delle voci dal primo piano, qualcuno che scende le scale, la luce che viene accesa…

E Robb è lì.
Arya è con lui, aggrappata alla ringhiera di ferro. Sta tremando, Sansa può vederlo chiaramente.

«Arya…» sussurra, finché non vede Jon correre per le scale.
Resta a guardarli, i suoi fratelli, mentre si riuniscono. Mentre la figura elegante di Robb scende, e i suoi occhi azzurri incrociano quelli di Jon; mentre Arya continua a reggersi alla balaustra, come se le gambe non fossero in grado di sostenerla.
A Sansa sembra di vederle gli occhi luccicare, ma non sa se sia possibile… Arya è sempre stata così dura, così determinata… non riesce a credere che stia per piangere.

Pochi gradini che sembrano dividere in due il mondo.
Da una parte c’è lei, Sansa, in fondo alle scale, con Jon che le sta salendo a due a due, file interminabili di granito che separano chi è rimasto solo troppo a lungo da chi ha preferito restare in branco.

Ora il branco è riunito, pensa Sansa. Come vorrebbe nostro padre.
Robb è il primo a raggiungere Jon, lo stringe con forza, e lei gli vede chiudere gli occhi, come se vederlo non bastasse, come se, per ricordarlo, per viverlo, non fosse sufficiente un abbraccio.
È il mondo a essersi riunito. È la metà della mela, che si è riunita all’altra parte, che li ha fatti rincontrare.

Poi è il turno di Arya.
Sansa rischia di perdersi quel momento, perché Robb la sta raggiungendo. Ma non vuole, non vuole rischiare di non vederli, di perdersi le lacrime di sua sorella, i gesti impazienti di suo fratello.
Avviene in modo molto diverso da com’è successo con lei. Non si corrono incontro, non si stringono solo a vedersi.
Restano a studiarsi, come due avversari, come se la pioggia avesse bagnato il viso di Arya, e non il pianto. Come se avessero bisogno di riconoscersi, di guardarsi, di capire cosa ci sia di diverso nell’altro.

E poi accade.
I singhiozzi di Arya sono all’orecchio di Jon, eppure Sansa li avverte dal fondo delle scale, mentre Robb la attira a sé, stringendola, mormorandole parole di affetto.

«Venite a riposarvi» dice Robb, accarezzandole una guancia. «Domani vedrete Bran e Rickon.»
Perché non ora? Vorrebbe chiedere Sansa.
«Sei identica a nostra madre» le sussurra Robb. «Sono felice di vederti.»

 

È mattina.
Sansa apre gli occhi, osserva la luce filtrare dalla finestra, oltre la tenda di raso. Intorno a lei è il caos: lo zaino di Jon, la sua sacca, le loro giacche. E pile traballanti di dischi, libri sparsi sui mobili, giocattoli… Sorride e pensa a sua madre, a Catelyn, che odiava il disordine. Che non li lasciava uscire se, prima, non l’avevano aiutata a rassettare…

E le occhiate che lanciava a Jon… Con lui era diversa.

Sbadiglia, scosta la coperta e scende dal divano – è lì che Arya ha insistito per farla dormire – ripensa a Robb, che voleva mandarli in albergo per mancanza di spazio.
E Arya… Arya che aveva guardato anche lei, Sansa, forse pentendosi delle loro litigate. Arya che aveva passato la serata a piangere, con la mano di Jon sulla schiena e i rimproveri di Robb nelle orecchie.

“Rischi di svegliare Bran.”
“Come sta Bran?”
Era stato Jon a chiederlo per primo.
E i loro fratelli… loro si erano guardati. Arya aveva persino smesso di piangere.

“Lo vedrai domani.”

Ma Sansa aveva provato paura per quella risposta. E ora, ora che manca poco al loro incontro, al rivedere Bran e Rickon, si sente impaziente. È sola in quel salotto disordinato, mentre Jon ha dormito nella camera di Robb.
E poi, un momento prima di uscire da quella stanza, gli occhi di lei si posano sulla sua borsa.

E improvvisamente ricorda.
Prende il telefono, lo riaccende, trova le chiamate di Petyr, i suoi messaggi, e non li legge nemmeno. Lo chiama.
Sarà preoccupato, e non è giusto, non è giusto essere sparita senza avergli detto niente, senza avergli fatto sapere dove sarebbe andata. Lui c’è stato per lei… L’ha protetta, le ha dato un tetto quando non aveva modo di ripararsi, attenzioni quando nessun altro era disposto a dargliele.

Quando il cellulare smette di squillare, e un respiro grave è all’altro capo, lei sente che qualcosa non torna.
Non è il respiro di Petyr, non è lui dall’altra parte, non sentirà la sua voce… È tentata di interrompere la chiamata, ma poi la curiosità è troppo forte. O forse la paura, paura per lui, per non sapere dove si trovi…

«Petyr?»

«Ciao, uccelletto.»
«Sandor!?» Sansa balza in piedi. «Questo non è il tuo telefono.»

«Sempre più sveglia, uccellino…»
Poi sente uno strano rumore, come il rombo di un auto.

«Passami il telefono!» è un’altra voce.
E qualcosa che assomiglia a una zuffa, una specie di colpo, ma è tutto troppo confuso, e alla fine la conversazione sembra interrompersi. Sansa allontana l’apparecchio, lo osserva come se non capisse, e quando lo riavvicina c’è di nuovo una voce.

«Ma che succede?» domanda, portandosi una mano alla gola.
«Stiamo venendo a prenderti.»

 

 

È l’alba.
Il medico legale ha ufficializzato la morte di Pycelle la sera prima. Non c’era niente che potesse fargli richiedere l’autopsia, così, sul suo certificato di morte, Petyr è riuscito a scorgere la scritta “morte naturale”.
E ora, mentre scende le scale di casa, dopo aver chiesto a Shae di restare a controllare Robin e Lysa, pensa al Mastino, e spera che la sua auto sia ancora parcheggiata lì fuori.
Non poteva certo uscire di notte a cercarlo… A chiedergli dove si trovi Sansa, a proporgli di collaborare per ritrovarla.
In fondo, per quanto Joffrey, Cersei e Sandor sappiano dove sia, deve mancargli un tassello… O Cersei non avrebbe detto “Và con lui, riporta qui Sansa.” Si sarebbe limitata a mandare il suo Cane fedele a riportarle l’osso.
Un boccone succulento per il suo cucciolo.

C’è ancora.

Vede la BMW nera, illuminata dai primi raggi del sole. E si avvicina.
Il Mastino sta dormendo seduto sul sedile dell’autista, sul lato destro dell’auto. Ma non sta dormendo, ha un occhio aperto.
Allora lui aggira la macchina, bussa al finestrino.

«Sei rimasto qui fuori tutta la notte» afferma, riconoscendo una scintilla di rabbia nei suoi gesti, una volta che lo sportello è stato aperto. «Posso sapere perché?»
Sandor accarezza il volante e distoglie lo sguardo. «Vogliamo la stessa cosa, Ditocorto. Riportare la ragazza a casa.»

Già, ma quale casa? La mia o quella di Joffrey?

«Io non so dove si trovi.»
«Ma io sì.»
Petyr si guarda intorno, sorride, uno di quei sorrisi che Sansa comprende così bene…
«E io a cosa ti servo? Se già lo sai…»
«Sali in macchina» lo interrompe il ringhio di Sandor. «O dovrò farti salire con le maniere forti.»
«È questo che ti ha ordinato la cara Cersei?» Petyr continua a sorridere, e guarda il pugno del Mastino abbattersi sul cruscotto. «Potrei non esserti di nessun aiuto così…»

«Intendi a pezzi? Di nessun aiuto, se fossi ridotto in tanti pezzettini dentro il bagagliaio?» Sandor non fa nemmeno l’atto di scendere, ride, trasformando la cicatrice in un segno orrendo. «Non tentarmi, Ditocorto.»

Petyr inclina la testa, solleva un angolo della bocca e sta per salire in macchina, quando si ferma.
«E ora che c’è?» domanda il Mastino, con il brutto muso arrabbiato.
«Se accetto di aiutarti, voglio guidare io» afferma Petyr, tornando davanti allo sportello aperto. Incrocia le braccia al petto. «Almeno questo.»
«Scordatelo.»
«E allora niente. E niente me significa niente Sansa.»
Lentamente, si avvia verso casa, arriva fin quasi al portone… e la voce arrochita di Sandor lo ferma.
«Torna qui, maledizione!»

Petyr fa pochi passi, vede la figura imponente del Mastino sporgersi fuori dall’auto.
Fa un gesto molto chiaro, come a domandargli: mi lascerai guidare?
«E va bene» accetta Sandor, salendo dalla parte del passeggero. «Ma al ritorno non aspettarti lo stesso trattamento.»

Lo so, pensa Petyr. Al ritorno speri di essere solo con Sansa. Speri che io venga in treno, o, magari, che sia morto… chissà. Possono accadere tante cose.

«Allora?» domanda, salendo dalla parte destra dell’auto. «Cosa sai? Dov’è?»
Ma soprattutto: perché vi servo?
Il Mastino non sembra incline a parlare, deve fare uno sforzo enorme per distogliere lo sguardo e aprire bocca. «È stato quel suo fratello bastardo» dice. «Ha parlato di Londra.»

Londra. Dove vivono i figli di Cat.

«E cosa posso fare per te?»
Dal modo in cui lo vede agitarsi, Petyr capisce che è accaduto qualcosa. Qualcosa di cui nemmeno Cersei è a conoscenza… «A Londra vive suo fratello.»
«Se sai dov’è…»
«Non so dov’è. E non posso presentarmi laggiù a chiedere di lei.»

Già… Se fossero a conoscenza di ciò che Joffrey ha fatto a Sansa, non te la passeresti bene… E non la troveresti.
«Quindi vuoi che io, in quanto zio, lo faccia al posto tuo.»

Per poi lasciarmi a bocca asciutta.

Allora Sandor si volta, lo guarda negli occhi. È davvero successo qualcosa, ora Petyr ne ha la certezza. Sansa è bella, è possibile che un mostro come il Mastino si sia invaghito di lei? Che la voglia per sé e non per darla a Joffrey?
No, si dice. È un cane fedele.

«Se decidessi io, ora viaggeresti nel bagagliaio» E, dal modo in cui lo dice, Petyr sa che è la verità.
«Intendi dove si tengono i cani
Sandor sembra trattenersi dal strangolarlo, qui e ora. «Sentimi bene: quando la ragazza sarà di nuovo qui, dovrai finirla con le stronzate.»
Petyr inclina la testa e sorride.

 

Sono in viaggio da due ore sulla A1 road. Ne mancano almeno tre prima di arrivare a Londra.
Poi, il cellulare di Petyr inizia a suonare, e lui sa con certezza chi lo sta chiamando.

Sapevo che mi avresti cercato, Sansa.

«Chi cazzo è?» sbotta il Mastino, al suo fianco. Il telefono di Petyr è davanti a lui, nel cruscotto.
«Ora mi fermo e vediamo.»
Ma Sandor non gli lascia il tempo… Afferra l’apparecchio, vede il nome sullo schermo e uno strano sorriso si forma sul suo volto sfigurato. Un sorriso che si trasforma presto in collera.
«Non rispondere» gli intima Petyr, cercando una zona di sosta. «Sto per fermarmi.»
Ma è troppo tardi.
«Ciao, uccelletto.»

Uccelletto?
Pagherebbe per sapere cosa stia dicendo lei.
«Sempre più sveglia, uccellino…»

Finalmente, ecco un posto dove fermarsi. Petyr accosta, gridando: «Passami il telefono!»
Spegne il motore e fa per togliere il cellulare dall’orecchio di Sandor. La mano del Mastino è sul suo braccio, lo stringe così forte da fargli mollare la presa, e l’apparecchio cade in grembo al cane.
«Non riprovarci» ringhia, a voce bassissima.
Petyr si massaggia il punto dolente, e lo guarda riprendere la conversazione con lei.

«Stiamo venendo a prenderti.»
Che le abbia fatto qualcosa? Per questo è fuggita?
«No, ragazzina. Non lo farai. Resterai ferma ad aspettarci, è chiaro?»
«Fare cosa?» chiede Petyr in un sussurro.
Ma poi capisce da solo: crede che ci sia Joffrey con lui… Vuole andarsene.

Poi Sandor gli lancia il telefono in modo brusco, tanto che lui deve chinarsi con due mani per afferrarlo.
«Sansa?»
«Petyr? Stai bene?» mormora, e lui capisce che sperava di sentirlo.
«Cos’è successo? Perché sei andata via in quel modo?»
Vede il Mastino osservarlo in malo modo, come se fosse geloso.
«Io… Jon è venuto a prendermi. Siamo a casa di Robb ora» sussurra, come se temesse di farsi sentire. «Chi c’è con te? A parte Sandor.»

“Sandor.” Da quando lo chiama così?

«Nessun altro» dice, appoggiando il gomito al finestrino. «Siamo solo noi.»
Sente un respiro di sollievo da parte di lei, e vorrebbe averla davanti, vorrebbe portarla via dalla città, via da Londra, lontano dal mondo, in un posto da dividere con lui soltanto.
Chiude gli occhi, cerca di immaginare i suoi capelli rossi, ma è un’altra la sfumatura che vede, un’altra la chioma che sogna.

Cat.

«Sandor ha detto che state venendo a prendermi» prosegue lei. «Perché?»
A questo Petyr non aveva pensato. Cosa dirle?
«Lui non so cosa voglia» mente, lanciandogli un’occhiata fugace. «Ma io voglio sapere che stai bene.»
«Sto bene» dice Sansa, stroncando i suoi progetti sul nascere.
«Vorrei accertarmene personalmente.»

Lei sembra cercare le parole… «Non c’è bisogno, Petyr. Davvero. Bada a zia Lysa, nient’altro. Ti chiamerò io di tanto in tanto…»

«Che dici, Sansa?» chiede, intuendo ciò che desidera. «Non vorrai restare a Londra, vero?»
Una pausa. Un secondo di troppo, e la risposta è già ovvia.
«A dire il vero ci sto pensando, sì.»

Petyr vede il suo progetto crollare come un castello di carte.

Ha mille domande in testa, vorrebbe chiederle di lui, di loro, della casa, dell’università… Vorrebbe sapere cosa pensa, cosa vuole, cosa sia accaduto con il Mastino, e perché non ne abbia parlato con lui… Ma non dice niente di tutto questo.
Non sorride, stranamente non riesce a farlo, nemmeno per trarre in inganno Sandor, intento a studiare le sue espressioni.
Stringe i denti e poi parla. «Permettimi di vederti, Sansa» mormora, quasi come un’invocazione. «Permettimi di sapere che stai bene, che starai bene lì, a Londra.»

Senza di me.

«E va bene» la sente dire, ma non sa a cosa stia pensando, se sia per lui, per il Mastino, o solo perché non ha voglia di lottare, di opporsi alla sua supplica. «Ma non cercare di farmi cambiare idea, Petyr. Non ci riusciresti.»
«Non oserei mai…»

n 

 

Note dell’autrice:

Dunque, confesso che l’incontro sarebbe dovuto avvenire già nel precedente capitolo… Ma Pycelle si è divertito a rubare spazio ai miei piccoli Stark, e abbiamo dovuto rinviare. Idem, come sopra, anche in questo capitolo avevo programmato di inserire più cose – molte più cose – tant’è che la permanenza a Londra sarebbe dovuta durare giusto un capitolo o due.
Avete presente quei libri – testi interi – dove tutta la storia si svolge nel giro di un paio di giorni? Ecco, se pensate a quelli non dovreste avere problemi ad accettare i miei capitoli. XD
Sono successe tante cose dall’inizio della storia, quindi grazie, grazie perché siamo al capitolo diciassette e siete ancora in tanti a seguirla. GRAZIE.
Celtica

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Capitolo 18
*** Di rosso ***


Capitolo 18

Chiedo scusa.
Per essere sparita, per aver dato l’idea di abbandonare la storia.
Non è così.
Ma posso impegnarmi perché non ricapiti.

 
Spero di farmi perdonare, almeno in parte, con questo capitolo (intriso di ship).

n

 

G

uarda il viso di Jon e capisce che è solo il riflesso del suo.
Anche lei è in lacrime, inorridita da ciò che è capitato a Bran. Poi solleva gli occhi su Robb e aspetta.
«Un incidente» ripete lui, prendendo la mano di Sansa. «Non potrà più camminare…»
«Non preoccupatevi» dice Bran. «Ormai ci ho fatto l’abitudine. Non è poi così male…»
Jon lo abbraccia, chinandosi sulla sedia a rotelle. «Chi è stato?»
Ma Robb scuote la testa. «Non lo sappiamo, non con certezza.»

«Che significa?» chiede Sansa, guardando Arya, seduta sul divano in fondo alla stanza. «Avete dei sospetti?»

Arya abbassa appena il capo, ma la sua espressione dura non cambia.
È come se sapesse qualcosa che non vuole dire, come se volesse risolvere tutto da sola.
Sansa attraversa la camera tappezzata di bianco, dal pavimento grigio, dove i libri sono presenti in ogni angolo.

«Posso aiutarti» sussurra a sua sorella. «Se mi dici quello che sai.»
Arya la guarda per un istante prima di parlare. «Posso pensarci da sola.»
Robb batte le mani, e tutti gli occhi si spostano su di lui. «Basta parlare di queste cose. Stasera…»

«No.»

Somiglia a un ringhio, ma è la voce di Jon, e Sansa pensa di non riconoscerlo mentre lo vede alzarsi in piedi.
«Perché non me l’hai detto? Sarei corso qui. Avrei potuto aiutare.»

Lei vorrebbe dire le stesse cose, ma qualcosa la trattiene. Sa che Robb ha voluto proteggerli… sa che ha preferito accollarsi ogni ingrato compito, ogni momento di disperazione, e prova dispiacere per Arya, indurita a tal punto da sembrare un’altra persona.
Quando Robb sta per parlare, Sansa fa un passo avanti.

«Jon» chiama, sollevando il mento. Robb si volta verso di lei. «È inutile parlarne. Ormai è andata così… Ma possiamo renderci utili, ora che siamo qui.»
So quello che provi, vorrebbe dirgli.

«Ho bisogno di sapere» insiste Jon.

Lei ripensa al treno… “Tu non sai niente, Jon Snow”, “Uno di loro potrebbe essere spezzato
“Riguardati dalle ombre di tua sorella.”
Quella donna dai capelli rossi ha detto la verità: hanno trovato un fratello spezzato ad aspettarli…
Ma quali ombre potrebbero far del male a Jon? Quali ombre circondano Sansa?

«No, non ne hai bisogno» ribatte lei.
Hai bisogno di restare lontano da me, se ciò che ha detto è vero.

«Sansa…»
«No, Jon, sai che è così. Ci siamo ritrovati. Finalmente siamo insieme, e tu vuoi discutere? Non te lo permetto.»

Robb si interpone tra loro, mentre Arya resta in silenzio a guardarli.
«Sono felice di avervi qui» dice, voltandosi verso Jon. «Davvero. Siete la mia famiglia, e se non vi ho detto niente è stato per non farvi preoccupare. Avevate la vostra vita e sapevo che raccontarvi di Bran ve l’avrebbe portata via.»

Sansa è tentata di abbracciarlo, ma si trattiene.
Vuole solo trascorrere il resto della giornata con i suoi fratelli, il resto della sua vita al loro fianco.
Non le interessa tornare indietro, riprendere a studiare. Solo restare uniti. Insieme.

C’è stato un tempo in cui ha rischiato di dimenticarli, in cui ha dato più importanza a Joffrey che alla sua famiglia.
C’è stato un tempo in cui ha creduto di poter fare a meno di loro, di averli persi.
Ora sa che non è così.

«Usciamo» propone, guardando Robb. «Mostrateci Londra.»
Suo fratello annuisce, mentre Jon si abbandona sul divano accanto ad Arya.
«Per stasera ho già organizzato. Non vi annoierete.»
Jon solleva gli occhi su di lui: sembra aver perso ogni voglia di vivere. «Non siamo venuti qui per divertirci.»

«Ma lo farete» dichiara Robb, drizzando la schiena. «Non si può venire a Londra e restare in casa. So già dove portarvi.»

Arya sposta il peso del corpo sul bracciolo del divano. Sbuffa. «Non al solito posto.»
«Proprio quello.» 

 
Sandor è impaziente.
Petyr è sicuro che se fosse da solo, irromperebbe in casa Stark per portare via Sansa. Magari se la caricherebbe in spalla, spintonando i suoi fratelli, e riportandola da Joffrey.
Non può permetterlo.
È ormai sera, e per tutto il giorno sono rimasti insieme. Senza di lei.

I fari delle auto illuminano la figura imponente del Mastino, appoggiato all’angolo del vicolo con le braccia incrociate. Non riesce più ad aspettare.
«Calmati» mormora Petyr, in piedi di fronte a lui.

«Calmati un cazzo. Dovrebbero essere già arrivati. La ragazzina ci ha fregato.»

Sansa? Ingannarli? Si vede che non la conosce per niente…
Petyr sorride, mellifluo. «Ha mandato l’ultimo messaggio due ore fa… Arriverà.»
Ma il Mastino ha uno sguardo assassino e, forse, se Sansa dovesse arrivare in quel preciso momento, non sarebbe al sicuro. Non con lui.

Petyr è quasi tentato di andarsene, di riportarlo in albergo, dove hanno prenotato due stanze nel pomeriggio.
Ha capito subito che le cose sarebbero andate per le lunghe, che Sansa non avrebbe ceduto facilmente… e il fatto di aver rimandato il loro incontro a quella sera, è un segnale fin troppo chiaro circa le sue intenzioni.

Vuole restare a Londra. E preferirebbe non vederli. Né lui, né Clegane.
Ma sa che non può evitarli, sa che non andranno via finché non avranno parlato.
Per questo ha scritto, dando loro appuntamento in quel locale affollato, dove saranno presenti anche i suoi fratelli.

«Basta» ringhia il Mastino, facendo alcuni passi verso la strada. «Andiamo a prenderla.»

È la cosa peggiore che potesse dire.
Petyr sta per fermarlo, per convincerlo ad aspettare, ma poi riconosce qualcuno nel parcheggio vicino: è Sansa.
E come si era aspettato, ha con sé tutto il branco. Mancano solo i due fratelli più piccoli.
Anche Sandor la vede, e fa l’atto di raggiungerla.

«Fermo» Petyr lo prende per un braccio, rischiando di beccarsi un pugno. «Ha chiesto di lasciarli entrare, di non farci vedere. Non subito.»
Spaventarla – o irritarla, che sia – non servirebbe ai loro piani.
Meno di un minuto è il tempo sufficiente: eccoli entrare. Il bastardo del nord che tiene la porta, gli altri che seguono.
Fa un cenno al Mastino con la testa, per dirgli di andare, anche se Petyr è tentato di lasciarlo fuori, proprio come un bravo cagnolino.

«Non fare scherzi» gli dice Sandor, quasi ad avergli letto nel pensiero.

Lui sorride ed entrano insieme.
Deve chiudere gli occhi un istante, perché le luci della sala – enorme – sono abbaglianti. C’è gente ammucchiata ovunque, ragazzi che si danno da fare sulla pista da ballo, altri seduti ai tavoli in pose scomode.

Rosso e giallo investono ogni cosa e persona presente.

La musica è assordante, tanto che il Mastino si copre le orecchie con le mani. Digrigna i denti, cosa che Petyr preferirebbe non facesse.
Devono proprio essere una coppia male assortita, visto il modo in cui una cameriera si è fermata a guardarli.
Lui, avanti con l’età, vestito come un uomo d’affari, in compagnia di quello che potrebbe tranquillamente passare per il suo bodyguard. Sì, forse la ragazza si è fatta l’idea sbagliata, forse pensa si tratti di un losco uomo d’affari e del suo tirapugni.
Petyr le sorride. Basta questo per vederla scappare a gambe levate.

«Là» indica Sandor, avviandosi.
Lui gli posa una mano sul braccio, di nuovo – la cosa peggiore che potesse fare – e in un istante il pugno del Mastino è stretto sulla sua camicia.

«Dammi una scusa» lo minaccia, mostrandogli i denti.

Sono così vicini che Petyr riesce a sentire la puzza del suo alito, di tabacco e sigarette, di vino e sudore.
Quando Sandor lo lascia andare, lui si sistema meglio gli abiti.

«Sansa ha chiesto di non farci vedere» ripete, cercando di mantenere un tono calmo.
In realtà vorrebbe essere grosso quanto il fratello del Mastino, e spaccargli quel faccione deturpato.
L’altro lo guarda, poi svanisce nella calca di gente.

 
Da quanto tempo non rideva?
Sansa non lo ricorda, non con precisione.
«Gendry, sei proprio uno stupido!» grida Arya, guardandolo dimenarsi sulla pista.

Poi scoppia a ridere anche lei, e Jon se la tira vicino, baciandole i capelli.
«Mi siete mancati» dice, ma Robb non può sentirlo: è troppo distante. Invece Sansa è accanto a loro, e si diverte a provocare Arya.

«Dove l’hai conosciuto?» le chiede, con sguardo eloquente. Anche Jon si volta a guardarla.

Ma sua sorella non cede… Scrolla le spalle e fissa Gendry sulla pista.
Sembra più grande con quella linea di eyeliner sugli occhi, con quell’abito scollato che sembra fatto di cinte di cuoio, e persino Gendry se n’è accorto. Sansa lo ha visto: non è riuscito a rimanere un solo istante senza guardare Arya.

«Dovresti raggiungerlo» suggerisce Jon, facendo un cenno verso il ragazzo.
Nonostante le luci rosse, Sansa vede sua sorella arrossire.

«Non ci penso neanche» dice a parole, ma il suo sguardo parla diversamente. Sansa lo sa bene: lo ha visto milioni di volte negli occhi delle altre ragazze, accompagnato da timidi sorrisi e frasi indulgenti.

Ma Arya non è come le altre.
Arya non sogna un ballo con Gendry, non spera che le chieda di raggiungerlo, o che le prenda dolcemente la mano.
Arya è tempesta, e lupo, e sangue. È diversa dalle altre, è diversa da lei.

Vuole Gendry, solo che ancora non lo sa.

«Allora non ti dispiace se ballo con lui?» chiede Sansa, sorridendo ambigua.
Ha imparato da qualcuno che potrebbe essere già nella sala, qualcuno che è costretta a vedere. Che la sta aspettando, che forse li osserva da qualche angolo remoto, nascosto in quel mare di gente.
Arya assume un’aria contrita. Le dispiace eccome. «Non me ne importa.»

Sansa sgrana gli occhi, inclina la testa e si alza.
Raggiungere Gendry è la sua scusa, in realtà aveva bisogno di allontanarsi per poter parlare con Petyr. Deve essere decisa, fargli capire che non si muoverà da Londra. Non senza i suoi fratelli.
Attraversa la pista, lancia uno sguardo ad Arya e si allontana.
Nemmeno si avvicina a Gendry. Non ora.

Si guarda intorno, certa che sarà lui a trovarla, e quando si sente afferrare il braccio capisce che è il momento.
Ma la stretta le provoca dolore, qualcuno la sta spingendo oltre la pista, alla parete opposta rispetto ai suoi fratelli. Non può vederli, eppure sa che non è di Petyr la mano che la stringe.
Petyr non le farebbe male, mai. Petyr sarebbe gentile, non la trascinerebbe lontano, in un angolo buio dove Sansa non vuole andare.

«Lasciami!» grida, finendo con la guancia contro il muro. «Ma chi sei? Che vuoi?»

Come ha fatto a non capirlo? Come ha fatto a essere così stupida?
Lui la volta con una sola mossa. Potrebbe farla a pezzi con una sola mano, costringerla a subire qualunque cosa. Ma Sansa si è fidata del Mastino… non ha mai pensato che volesse farle del male.

«Ciao, uccellino.»

Si chiede perché Petyr l’abbia portato.
Nel messaggio era stata chiara: parleremo noi due, da soli. E poi te ne andrai.
O così o niente; perché Petyr non l’ha ascoltata?

Per un istante, mentre vede il sorriso allargarsi sul volto di Sandor, si chiede dove sia Petyr, se il Mastino gli abbia fatto del male.
Arrivare a tanto? Per cosa? Riportarla da Joffrey non dovrebbe essere nei suoi piani.

«Non dici niente?» chiede lui, imprigionandola con il suo corpo.

Avrebbe avuto molte occasioni per tradirla, per riportarla indietro. E non l’ha mai fatto. No, non è venuto per questo, ne è sicura.
Quando sta per abbassare le palpebre, accecata dalla luce forte, Sandor le afferra il mento e lo solleva. «No» È un ringhio basso e acuto, e Sansa prova un brivido. «Guardami.»

Cosa ci fai qui? Vorrebbe chiedere, ma lui si fa ancora più vicino, annullando ogni distanza tra loro.

Sente tutto: il suo respiro lento e grave, l’odore di alcol e fumo, e persino il cuoio del giubbotto contro il petto.
Non può muoversi, è la sua preda.

«Com’è che avevi fatto l’ultima volta?» chiede ancora, soffiandole sulle labbra.

Sansa sente il calore del suo fiato, del corpo di lui contro il suo, della sua mano rovente che scende lungo il collo, imprigionando una ciocca di capelli rossi tra le dita.
Non vorrebbe scappare, ma la sua famiglia è lì, a un passo da lei, da loro, dal vederli insieme.
Pensa a qualcosa da dire, perché tutto finisca in fretta. Perché lui capisca che non lo sta allontanando, che non lo teme, ma che è costretta a lasciarlo, a fuggire da lì, da lui, da quel che potrebbe accadere.

Sandor lascia scivolare la ciocca tra le dita, e risale al suo viso. Le sfiora la guancia con delicatezza, con troppa dolcezza, come se si stesse trattenendo, come se fosse a un passo dal strapparle i vestiti di dosso.
Aspetta solo il suo invito…
…un invito che è costretta a rifiutare.

«Aspetta» sussurra, accorgendosi del fiato corto. È come se avesse fatto una lunga corsa, eppure non si è mossa.

È l’ansia? La paura di essere vista, di essere scoperta?
Ma anche lui si accorge della sua agitazione, e forse era la scusa che aspettava.

«No» ringhia, provocandole un brivido che prende a correre lungo il suo corpo. «Ho aspettato abbastanza.»

Termina la dolcezza, quando Sandor si avventa su di lei. La bacia, non come aveva fatto Sansa in auto, non con quella delicatezza che, fino a un momento prima, si sarebbe aspettata.
Morde e preme la sua pelle, senza concederle respiro, risalendo con l’altra mano lungo il fianco, infilandosi sotto la maglietta.
Sansa cerca di spingerlo via, di gridare, di fermarlo. No! Pensa, senza riuscire a frenarlo.
E quando il Mastino riprende fiato, allontanandosi appena da lei, Sansa preme le mani sul suo petto per porre ulteriore distanza tra loro.

«Basta» dice, respirando con affanno.
Si passa il dorso della mano sulle labbra e scivola contro il muro.

Vorrebbe chiedergli dove sia Petyr, di parlare, ma non riesce a farlo. Non può, dopo quel bacio che Sandor le ha rubato, sapendo che potrebbe rifarlo.
E lei non vuole.
Non lì. Non ora. Non con qualcuno disposto a prenderla in quel luogo affollato, senza nemmeno chiederle il permesso.

Fa alcuni passi nella sala, e lo vede: Petyr la sta guardando. Ha visto tutto.
Sente le guance in fiamme mentre lo raggiunge.

«Ciao» mormora, a un passo da lui, sentendosi in colpa.
Cosa penserà di lei? Cosa penserebbero i suoi fratelli, Robb, Jon, Arya? Sua sorella non riesce nemmeno ad ammettere di avere una cotta; cosa penserebbe di lei se sapesse?
Petyr le lancia un’occhiata confusa. Di certo, tra tutto ciò che si era aspettato, non era compreso uno spettacolo con il Mastino.
«Sansa» sussurra, riprendendo il controllo di sé, a poco a poco.

«Ci hai visti?»

Lo chiede in un miagolio, e quando lo vede annuire si sente morire. Abbassa il capo, e d’improvviso non vorrebbe trovarsi lì, ma solo a miglia di distanza da tutti quelli che la conoscono.
«Non sono stata io» dice, come se fosse tornata la ragazzina spaventata che era un tempo.
Quando Joffrey la picchiava, la insultava, la incolpava di cose assurde, che non avevano niente a che fare con lei.

«Lo so.»

Petyr allunga una mano per avvolgerle le spalle, ed è un gesto così protettivo, così dolce, che Sansa non riesce a dirgli di no.
È Petyr. Non le farebbe del male. Mai.

«Stai bene?» chiede, contrariamente a quanto farebbe il Mastino.

Lei annuisce, in una muta bugia.
Non sta bene, come potrebbe essere il contrario? Suo fratello non camminerà più, i suoi genitori sono morti, Joffrey la considera il suo giocattolo e prima o poi la ucciderà, ne è sicura.
La sua famiglia vive a Londra, lontana da lei, e Sansa non è nemmeno sicura di poter davvero restare.

«È giusto» sussurra Petyr, stringendole la spalla. «Fai bene a rimanere con i tuoi fratelli, è quello che vorrebbe Catelyn. Desiderava che foste uniti e indipendenti…»
Indipendenti. Sansa potrebbe definirsi in tanti modi, ma non certo indipendente.
«E forti» continua lui, guardandola con uno di quei sorrisi che Sansa conosce tanto bene. Poi fa una pausa. «Sai di avere una casa tutta per te, in città. Un corso universitario e un futuro promettente. Ma niente ti impedisce di restare con i tuoi fratelli…»
«Pensi che stia sbagliando?»
Vorrebbe non averlo chiesto, perché è sicura che sia stato lui a guidarla fino a quella domanda.

Ma Petyr non risponde.
Abbassa gli occhi sulla sua spalla, sembra pensarci un istante prima di sollevare lo sguardo su di lei.
«È una tua scelta» dice.
Sansa vorrebbe credergli, ma sa che è solo ciò che vorrebbe sentire… e il peggio è che lo sa anche lui.

«Infatti» sussurra, pronta a tornare dai suoi fratelli. «Resterò a Londra, almeno per un po’. Vuoi indietro le chiavi di casa?»
«Tienile. Ti serviranno quando tornerai.»
Sansa vorrebbe rispondere “se tornerò”, ma non lo fa. China la testa e fa per voltarsi, ma la voce di lui la ferma.

«Sei come tua madre, Sansa.»
«Ma non sono lei.»

Si getta nel mare di gente, scomparendo agli occhi di Petyr. Qualcosa le dice che lo rivedrà ancora a Londra, che non si arrenderà così facilmente, eppure non le importa. Non lo teme.
Riconosce il tavolo, vede Robb ridere insieme ad Arya, mentre Jon si guarda intorno. Si chiede se la ragazza che Robb sta frequentando – quella che vuole presentarle – sia già arrivata.

Ma nel momento in cui riemerge dalla folla, in cui fa l’atto di sollevare un braccio per avvertirli del suo ritorno, qualcuno le si para davanti.
Uno sconosciuto pelato, con una barba grigia. Il suo abito sembra fatto d’oro, tanto che Sansa riesce a chiedersi se sia solo l’effetto della luce.
«Posso offrirti qualcosa?» dice, abbassandosi su di lei.
«No» risponde Sansa, scuotendo la testa, e quando fa per superarlo, l’uomo la afferra per un braccio.

«Andiamo. Solo un bicchiere.»

Lei lancia un’occhiata al suo tavolo, e Jon risponde alla sua richiesta, raggiungendoli. Robb è dietro di lui.
«Ho detto di no» ripete, a voce alta, per farsi sentire dai suoi fratelli.
Arya non si è accorta di niente; sta parlando con Gendry e non fa altro che ridere.

«Hai sentito?» dice Jon, togliendole la mano dell’uomo dal braccio e spingendolo lontano.
«Janos?» mormora Robb, con un sorriso. «Janos Slynt? Lascialo, Jon. Lo conosco. Lavorava come Bobby fino a qualche tempo fa. Come va, Janos?»
Janos sembra ubriaco, solo questo riesce a vedere Sansa.

«Robb! Ehi, Robb! Vieni qui!» grida Arya, richiamando la sua attenzione.

«Dai, lasciatelo perdere e venite. Arrivo!»
Robb torna al tavolo, mentre Jon sfiora Sansa. «Ti senti bene?» le chiede.
Lei arrossisce.
Si domanda cosa sarebbe accaduto se Jon avesse visto Sandor e Petyr… se si fosse accorto del bacio famelico del primo, e del modo in cui la guarda il secondo.
Forse li ucciderebbe entrambi.

«Tu» ringhia Janos, sollevando il dito. Ha le spalle appena incurvate, come se faticasse a reggersi in piedi. «Tu, bastardo! Come ti permetti di toccarmi? Non sai chi sono io? Ero un poliziotto! Brutto…»

Janos si getta su Jon, e Sansa non capisce la fine della frase. Vede suo fratello spingerlo via in un solo colpo, come se non gli costasse nessuna fatica.
L’uomo finisce a terra, tanto da costringere le persone a spostarsi.

«Andiamo» mormora Jon, facendole cenno verso il tavolo.

È un istante.
Sansa vede la scena prima che accada. La lama compare nella mano di Janos come per magia, Jon che gli dà la schiena, guardando lei, che sembra non rendersi conto delle dita dell’uomo sul suo petto, mentre se lo tira addosso, mentre il coltello cala sulla sua pancia in un colpo secco, facendogli sgranare gli occhi.

«NO!»

Sansa grida, si getta sul suo corpo a terra, e tutti i rumori, le luci, i colori sembrano mescolarsi dentro di lei. Sente la testa girare, nausea e vuoto, come sul bordo di un precipizio.
Sta cadendo, Sansa. Cade e grida, mentre la musica e la gente e il mondo sembrano fermarsi, lasciandola sola con suo fratello.
Sono rimasti soli?
Tutto diventa bianco, e silenzio, e distacco.
Janos è svanito tra la gente, i suoi fratelli sono intorno a lei, ma Sansa quasi non li vede.

Osserva solo il rosso delle luci che sembra nascondere la macchia di sangue sul pavimento.
Senza riuscirci.

n

Note dell’autrice:
Se siete ancora qui, devo dirvi grazie. C’è chi si è stancato di aspettare, preferendo togliere la storia da preferiti e seguite.
Quindi: grazie.
Celtica

 Trailer

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Capitolo 19
*** Io non sono così ***


Capitolo 19

 
Trailer


nn


 

T

utti gli ospedali sono uguali, ma ogni volta che Sansa varca quella soglia, prova sensazioni diverse.
Ha voglia di una sigaretta ora, tanto che è uscita fuori dalla camera di Jon e ha attraversato il corridoio per raggiungere l’atrio.
È fuori adesso, a respirare.
Ricorda i suoi genitori, ricorda il giorno in cui Jon, bruciandosi una mano, è stato costretto a passare una settimana in ospedale. Ricorda la volta in cui Arya ha colpito un ragazzo, ricevendo in cambio un pugno in faccia.

C’è gente che parla, gente che telefona e gente che mangia.
Sansa ha voglia di mettere qualcosa sotto i denti, ma solo per soffocare quel desiderio di fumare. Non può farlo vicino agli ospedali, è proibito.
Accarezza la camicia azzurra e pesante, quella che ha rubato dall’armadio di Robb per usarla a mo’ di giacca. L’odore di naftalina le sale alle narici.

È la prima volta che Sansa sente la paura scorrerle addosso.
E il senso di colpa… quell’animale famelico che nutre da anni, e che sperava di aver ucciso.

Si appoggia al muro vicino all’entrata, dove il viavai di gente è insopportabile. Dovrebbe aiutarla a non pensare, ma le voci nella sua testa sono più forti.

Non ha avuto paura quando sono mancati i suoi genitori: c’era Robb.
Né quando Jon si era scottato: Robb aveva detto che era cosa da poco.
Né quando Arya era stata al Pronto Soccorso… si trattava solo di un dente da latte.
Ma ora tutto è cambiato.

Si accarezza le labbra e chiude gli occhi, tenendo una sigaretta invisibile tra le dita.

Sansa ha avuto paura di tante cose, di tante persone e situazioni, ma non ha mai avuto paura per Jon… Non come ora, ora che lo vede disteso in un letto d’ospedale, assuefatto dai farmaci.
Arya è rimasta tutta la notte al suo capezzale, e al mattino è sparita. Non ha versato nemmeno una lacrima, come invece ha fatto lei.

“Occupati di lui”, ha detto, un momento prima di uscire dalla stanza.
“Dove vai? Non resti qui? Arya!”

Ma Sansa sa dov’è andata sua sorella. Non ha bisogno di sentirlo per averne la certezza.
Se Robb si sta occupando della faccenda in modo legale, con avvocati e polizia, è anche vero che Arya sta facendo l’opposto.

Bran è a casa con Rickon, e Sansa è sola con Jon. Non vuole lasciarlo, anche se il primario le ha detto di andare a casa, di riposarsi, ma come potrebbe?
Come può abbandonarlo in un letto d’ospedale, con il rischio che si svegli senza qualcuno vicino?
Senza un volto familiare, una presenza che tenga a lui…
Jon l’ha portata via da Joffrey, l’ha riaccompagnata dai loro fratelli, qualcosa che nemmeno Petyr aveva fatto per lei…

«Uccelletto.»
Ancora tu.

Sansa apre gli occhi e lo guarda. Sente il sangue ribollire nelle vene.

Cosa ci fai qui?
«Non sei ripartito» dice, il respiro lento e grave.

Incrocia le braccia al petto e aspetta, sentendo il corpo irrigidirsi. È ciò che lui le provoca con una sola occhiata.
Inconsciamente, Sansa si sfiora le labbra, lì dove Sandor l’ha baciata. Sente la pelle bruciare.

«Ho saputo…» ringhia sottovoce, appoggiando una mano sul muro di fianco a lei.

Il pensiero di Jon è sufficiente a farla arrossire. Come può fare certi pensieri ora? Mentre suo fratello rischia la vita in un letto d’ospedale?
Sente l’adrenalina scorrerle addosso. Rabbia e angoscia la soffocano, quando ripensa alla notte prima.

È tutta colpa mia.

Se non si fosse allontanata, se non avesse cercato Petyr, se non avesse perso tempo con Sandor… un secondo, forse, sarebbe stato sufficiente a non farle incontrare Janos. E Jon starebbe bene adesso.
Sarebbero insieme, a percorrere Londra e a fare progetti sul loro futuro.
Prenderebbero in giro Arya, cercando di farla arrossire e di farla parlare di Gendry; riderebbero con – e di – Robb, intento a fare lezione anche a loro, a spiegare tutta la storia della città…
Vedrebbero crescere Rickon, e questo pensiero le provoca un tremito.

Se ne rende conto solo ora: Jon non lo vedrà crescere.
Jon non lo ascolterà parlare della scuola, della sua prima cotta; non troverà scuse per non prendergli un cane, come tanto desidera.
E Bran… Oh, Bran! Bran starà sempre peggio, pensando a Jon.

È tutta colpa di Janos.

«Stai tremando.»
È vero. Sansa trema, pensando a tutto ciò che ha perso. Pensando che se non fosse mai partita, ora Jon starebbe bene. Ha un groppo in gola, ma è solo senso di colpa.
Anche Arya è in pericolo, e le viene in mente solo adesso.
Arya è uscita a cercare Janos, ne è sicura. Arya cerca di vendicare Bran, e ora anche Jon. Arya rischia la vita.
È solo una ragazzina…

«Sto bene» mente Sansa, affondando le unghie nella camicia.
«Dovresti tornare indietro con me.»
«Il mio posto è vicino alla mia famiglia.» Ricorda i loro nomi: Jon, Robb, Arya, Bran e Rickon.

«Io potrei tenerti al sicuro…»

Sansa solleva gli occhi su di lui. Capisce a chi si stia riferendo. Joffrey.
Da un intero giorno, la sua mente è stata libera dal pensiero di lui, dall’immagine delle sue mani che si abbattevano su di lei. Dall’idea del suo amore malato.
«Non posso tornare.»
«Perché?»

«Perché non voglio.»

Sansa abbassa gli occhi, sente il respiro del Mastino sfiorarle la fronte.
Lui non può capire.

«Guardami» ordina Sandor, spingendola a obbedire.
Lo guarda, e vede la soluzione ai suoi problemi. O almeno una parte.
Schiude le labbra per parlare, per piegare le parole al suo volere. Ma il suo nome, pronunciato da qualcuno che non è il Mastino, la ferma.
Sansa sgrana gli occhi, cercando la fonte di quella voce. Petyr.

«Ho lasciato la macchina dietro l’ospedale.»
Petyr fa un passo avanti, e d’istinto Sandor ne fa uno indietro. Sansa si trova tra loro, con il muro alle spalle. Non può scappare.

«Non sei partito nemmeno tu» sussurra, sentendosi in trappola.
Non dovrebbe essere con loro, dovrebbe tornare di corsa da Jon, da chi ha bisogno di lei.

«E come avrei potuto…»
Sansa lo guarda, mentre il Mastino le dà le spalle e si allontana. È come se Petyr fosse un repellente naturale per lui.

O forse per me. Per proteggermi.

Quel pensiero le provoca un fremito.
Non appena restano soli, Petyr fa un altro passo, restando ad appena un metro di distanza da lei. Di tutta risposta, Sansa si appiattisce contro il muro, come se avesse paura di lui.

Non è paura...

«Sei venuto per aiutarmi?» chiede, giocando con le parole come gli ha visto fare tante volte.
Non ha bisogno di tendergli una trappola per ottenere quello che vuole. Sa che le basterebbe dirlo… Petyr non le direbbe mai di no.

Mai.

«Sono venuto per te.»

«Che cosa vuoi?»
Me, vuole me. Sansa glielo legge negli occhi, e in un istante dimentica tutto. Jon, l’ospedale, il pericolo che corre sua sorella. Dimentica Londra e la sua intenzione di restare.

«Darti ciò di cui hai bisogno.»

«E di cosa avrei bisogno?»
Di te. Tu potresti risolvere tutto con la tua sola voce.

Petyr non sorride, si limita a guardarla. Ed è tutto ciò che le serve per spingersi ancor più contro il muro, quasi a voler diventare una cosa sola con lui.

«Quando ho sentito la notizia sono corso alla macchina. Sapevo che ti avrei trovata qui. Vicina alla tua famiglia… proprio come vorrebbe tua madre.»
Sentir nominare sua madre le provoca fastidio e senso di colpa, come un pizzicore sulla pelle.

«Perché sei qui?»
Avrebbe preferito non chiederlo. Si sente un mostro, ma avrebbe preferito continuare quel gioco con lui.

Un passo dopo l’altro, e sarebbe arrivata a domandarglielo, mentre ora è costretta ad anticipare la sua mossa.

«Potresti fare una cosa per me» dice, senza lasciargli il tempo di replicare.
«Qualunque cosa.»

Sansa sente torcersi lo stomaco e d’istinto lo copre con la mano.
Non sa perché, ma ogni frase, detta da lui, assume un significato particolare.

«Sei sicuro?»

Vorrebbe risultare decisa, ma sente la voce affievolirsi. Diventa come una carezza, come un soffio sulle labbra, come se il resto del mondo non esistesse.
Due parole, eppure Sansa non sa cosa darebbe per poter fermare il tempo e assaporare l’attesa. Sa cosa le risponderà, e questa consapevolezza le blocca il respiro.

Vorrei sentirmi sempre così. Sull’orlo del precipizio. Pronta a saltare.

«Non dovrei?»

Ma io non sono così, pensa. Gli occhi di Petyr incatenano i suoi, sembrano sondarle l’anima. Io ho paura del vuoto. Voglio certezze, non attese.
«Dimmelo tu.»

Il primo sorriso di Petyr accende un piccolo fuoco nella sua pancia, come se si fosse appena guadagnata il suo rispetto.
«Sono sicuro» dice, superando la poca distanza che li divide.
Poi resta in silenzio, e Sansa sa che tocca a lei. È il loro gioco.

«L’uomo che ha accoltellato Jon… Arya lo sta cercando.»

Fa una pausa, certa che lui abbia già capito cosa si aspetta.
Lo vede abbassare gli occhi sulla sua gola e risalire lentamente il suo viso. Sansa sente ardere ogni punto dove Petyr l’ha appena accarezzata con lo sguardo.
Non può fare a meno di chiedersi cosa accadrebbe, ora, se fosse lei a oltrepassare quella linea invisibile che li separa… Lo lascerebbe senza parole? Lo stupirebbe?
Stringe la stoffa che le copre lo stomaco per non commettere quell’errore.

Non sono così, si ripete.

«Temo per la sua incolumità» dice, riferendosi ad Arya. Eppure sembra parlare per se stessa. «Non so dove sia ora, se sia riuscita a trovarlo… Anche la polizia lo sta cercando.»
Petyr le risponde con gli occhi.
C’è un intero linguaggio che conoscono loro due soltanto. Sansa abbassa il mento, prende a fissare il pugno chiuso sulla sua pancia. Ed è il suo errore.

«Non lo troverà» mormora Petyr.
Non deve nemmeno allungare la mano per prendere la sua: sono così vicini che gli basta muovere le dita per sfiorarla. E la pelle di Sansa diventa bollente dove lui l’ha toccata, avanzando sul suo braccio ed estendendosi su tutto il corpo.

«Ma io voglio che lo trovi» dice Sansa, con un filo di voce.

Ha un lieve sussulto quando lo sente arrivare al polso, sotto la manica della camicia.
La camicia di Robb. È tutto sbagliato…

«Cosa farai di lui?» chiede Petyr in un sussurro.
Non sembra nemmeno una domanda, da tanto è bassa la sua voce. Prende la sua mano delicatamente, racchiudendola tra le sue.
Sansa schiude le labbra quando sente le dita scorrere sul dorso della mano, indugiando a stento sulle nocche prima di intrecciarsi con le sue.

Voglio che muoia.

«Non lo so» mente, vergognandosi dei suoi desideri.
Petyr volta la mano sul palmo, scorrendo un dito dalla manica rigida della camicia fino al suo polpastrello.
«Lo sai» ribatte, interrompendo il loro contatto.

Vuole che sia io a dirlo.

Sansa allunga il mento verso di lui, tanto da non riuscire più a guardarlo negli occhi. «Non posso» sussurra, soffiandogli sulla guancia. Non posso dirlo.
È la prima volta che cerca di provocarlo, che è lei ad avvicinarsi. Si chiede cosa sia cambiato… quando sia cambiata, per arrivare a tanto.

È un invito sufficiente: Petyr la prende per le spalle, percorre lentamente le spalline e il colletto che lo separano dalla sua pelle. Eppure Sansa riesce a sentirlo… a percepire il suo tocco, così diverso dall’irruenza di tutti gli altri.
Petyr non ha fretta, non le mette fretta. Sa aspettare.
E forse è la cosa che più apprezza di lui.

«Sì che puoi» risponde al suo orecchio, sfiorandole il lobo con le labbra.
Non le provoca un brivido, ma un’esplosione di luce, come se non aspettasse altro che potergli confessare ogni cosa, che essere convertita a quel lato oscuro.

Vorrei che morisse, pensa Sansa, gridandolo nella sua mente più e più volte.

«No» mormora, afferrando la mano di lui che sta varcando il limite del colletto. La allontana senza sforzo, sollevandola davanti al viso. «Non posso.»
Sfiora le dita con le labbra, prima di lasciargli la mano.

«Voglio solo che Arya stia al sicuro. Puoi fare questo per me?»
Petyr sa attendere, lo sapeva e ne ha ulteriore conferma adesso che lo vede sorridere, mentre inclina la testa di lato in un muto sì.

«Farò questo… per te.»
«Grazie» dice Sansa, muovendo appena le labbra.

Vede il desiderio negli occhi di Petyr riaccendersi, come se fosse tentato di lasciarsi andare, di sollevare una mano e toccarla, di baciarla, come se intorno a loro non ci fosse niente.
Ma c’è tutto, invece.

 
Sandor fuma una sigaretta, appoggiato alla sua auto.
È primavera, e la brezza ricorda a Petyr il sorriso di Sansa, mentre raggiunge il Mastino. Solleva gli occhi al cielo, osserva un aereo sorvolare Londra, la nebbia abbattersi sulla città.
Gli manca casa, lì dove vorrebbe tornare con Sansa. Sistemare alcuni affari, piegare alcuni nemici, sbaragliare la concorrenza… e poi partire con lei.

Sa già dove portarla.
Ha già in mente tutto.
Una casa isolata, avvolta nel verde, dove tornare giovane al suo fianco. Dove vivere le cose che ha perso, durante la sua scalata al successo.

«Andiamo» dice Petyr, facendogli cenno di spostarsi. Vuole guidare lui.
«Allora sali.»
Petyr sorride, fermandosi davanti all’uomo. «Mi sembrava chiaro ormai: guido io.»
«Oggi no.»

C’è una strana luce negli occhi del Mastino, come se avesse risvegliato qualche demone dormiente. Batte un pugno contro il vetro, come a dire che l’auto è sua, e sua è la decisione.
Cos’è cambiato?
Ma conosce la risposta: Sansa.

«Dobbiamo cercare la sorella di Sansa…» comincia Petyr, sperando di volgere le parole a suo vantaggio.
Ma Sandor non ha orecchie, quando la sente nominare. Allunga le braccia possenti e lo afferra per la collottola, come se fosse pronto a colpirlo.
Petyr lo vede digrignare i denti.

«Me l’ha chiesto lei» insiste, sollevando le mani in segno di resa. «Stava per chiederlo a te, ma poi te ne sei andato.»
Gliel’ho letto negli occhi… se non fossi arrivato, forse non mi avrebbe detto niente.
Il Mastino rafforza la presa, tanto da consentirgli una mappatura precisa della sua cicatrice.

Come ha fatto, Sansa, a stargli vicino?

«Non mi piaci» ringhia Sandor. «E mi piaci ancora meno quando le ronzi intorno.»

«Non faccio niente che non voglia anche lei.» Anche solo con uno sguardo.
Lo dice con un ghigno, ed è consapevole di quanto grande sia il suo errore.
«Ah sì?» Sandor stringe così forte da allargargli la maglia. «Non cerca proprio niente da uno come te.»

«E da uno come te, Mastino? Cosa può volere dal cane di Joffrey?»

Per un istante, sembra che l’altro stia per colpirlo; per divorarlo tra le sue fauci e farlo a pezzi. Renderlo introvabile, così che Sansa non possa più raggiungerlo.
Ma poi Sandor molla la presa e lo spinge via.
«Mi hai stancato, Ditocorto. Trovatela da solo la lupacchiotta, io torno a casa.»
«Lei vuole che ci sia anche tu.»
È un attimo. Sul volto del Mastino si agita una certa indecisione, tanto che Petyr allunga lo sguardo verso l’ospedale, come a dirgli che Sansa è lì dentro, e si aspetta qualcosa da lui.

«Non lo faccio per te» ringhia l’altro, cedendogli le chiavi.
So bene perché lo fai. Per lo stesso motivo per cui sei venuto a Londra.

Petyr sorride, fa un cenno con la testa e sale in auto.
Partono che è ancora mattina, mentre Sandor volge il capo all’edificio che stanno lasciando.

«Non la troveremo» dice, spingendo Petyr a rallentare per guardarlo.

«Invece sì» ribatte, spostando la mano sul cambio. «Sappiamo cosa sta cercando. Trovarla sarà facile.»
«Cosa sta cercando?»
«L’uomo che ha accoltellato suo… fratello.»
«Il fratello bastardo» lo corregge Sandor, estraendo una sigaretta. «Non la troveremo comunque.»

Passano un paio d’ore, Petyr si ferma per fare alcune telefonate, lontano dalle orecchie del Mastino, e scopre dove trovarla.
In fondo, pensa, scovare lei è la parte meno complicata.
Proteggerla sarà più difficile.
La sorellina di Sansa sta cercando Janos Slynt, e un quinto della città sembra esserne a conoscenza.

Quando ripartono, lui guida dritto nell’ultimo punto dove è stata vista, certo di trovarla ancora lì. È la casa di un suo amico… forse qualcuno che potrebbe aiutarla?
Restano fuori dal palazzo, aspettando che la ragazza esca, un po’ come la sera prima hanno atteso Sansa.
E poi, finalmente, Arya Stark è fuori, sola.

«Le parlo io» dice Petyr, certo di poterla convincere.
Fa un passo avanti, ma il Mastino lo anticipa, muovendosi come un cane feroce che ha puntato una preda.
Lei lo vede arrivare, sgrana gli occhi e sembra pronta a reagire, ma Sandor è più veloce; la afferra e se la carica sotto il braccio, come se fosse un cesto di verdura.

Forse ho sbagliato a portarlo. Sansa si arrabbierà con me quando lo saprà…

Arya finisce sul sedile posteriore dell’auto, come se fosse vittima di un rapimento. Comincia a gridare, a cercare di aprire le portiere, a prendere a pugni i vetri.
«Sta zitta!» grida Sandor, salendo dietro con lei.

«Ma che hai fatto?» chiede Petyr, mettendosi al volante. Per una cosa come quella c’è la galera. «Arya, calmati per favore. Ci manda tua sorella.»
«Non ti credo! Non ha mai parlato di voi!»
La ragazza prende ad agitarsi, a battere i pugni contro il torace massiccio del Mastino, tanto da costringerlo a immobilizzarla.

«Tu sei Arya Stark» dice Petyr, voltandosi e appoggiando una mano sul sedile. «È Sansa a mandarci. Vuole che ti aiutiamo a trovare Janos Slynt.»

Lei sembra calmarsi, come se stesse valutando la sua proposta. «Perché?»
«Per ucciderlo.»

 
Robb è al fianco di Sansa e le stringe la mano.
Sono soli con il primario, intenti a capire cosa capiterà a Jon, quali rischi correrà… A dire il vero, Sansa si lascia andare ai ricordi, lasciando che le voci degli altri due sfumino nella sua mente, come i suoi che sbucano dalla nebbia londinese. Suoni che sanno di lontananza…

Come quando suo padre li portava tra i monti, a rincorrersi nella neve. E Robb e Jon si fingevano audaci cavalieri, impugnando i loro bastoni e combattendo davanti ad Arya e Bran.
Rickon era così piccolo… Lui e Sansa restavano al caldo, accanto alla loro madre.

Ricorda i capelli scuri dei suoi fratelli, quando tornavano dentro, e le loro corone di neve.
Ricorda le risate, i giochi, gli sguardi severi che Catelyn riservava a Jon. Gli stessi che Sansa imitava.
Si pente di tutto. Di non averlo mai considerato, di non averlo mai voluto con sé. Si pente di aver dato ascolto a sua madre, unica tra i fratelli.

Sono stata così sciocca… Loro avevano capito tutto.
Mentre ora, ora che Jon si è presentato a casa di Joffrey, ora che l’ha riconosciuto come fratello, sangue del suo sangue, Sansa trema al pensiero che possa essere in pericolo.
Vorrebbe fare qualcosa per lui…

«Sansa?» Robb aumenta la stretta sulla sua mano e la guarda. «Hai sentito?»

Lei sbatte le palpebre, riconosce l’occhiata scettica del medico, il modo in cui sta battendo un piede sul pavimento.
«Beh, vi lascio» dice il primario, allontanandosi.

«Stai male?»
Robb la prende per le spalle, come un paio d’ore prima ha fatto Petyr… Sansa arrossisce al pensiero di essere scoperta.
«No, sono solo stanca.»

«Cosa ne pensi?»

Sansa solleva gli occhi su di lui, specchiandosi nello sguardo ceruleo tipico dei Tully. «Di cosa?»
«Non hai ascoltato, vero?»
Lei fa cenno di no, lasciando che suo fratello si volti verso la stanza dove Jon è in coma farmacologico.

«Tu ricordi niente di quanto diceva nostro padre?»

Sansa osserva la luce giocare con i capelli ramati di Robb, altro dono di Catelyn… Cosa farebbe se fosse qui? Lo lascerebbe morire?
«Riguardo a cosa?»

«Alla madre di Jon.»

Sansa scuote la testa, non riesce a capire. La madre di Jon? Non sanno nemmeno chi sia… C’erano voci, Bran aveva ascoltato telefonate di loro padre, ma niente è certo.
«Jon deve essere trasferito in una clinica per un po’. Ha subito danni che… Dobbiamo trovarla, Sansa.»

Perché? Si chiede, pensando che Robb abbia lo stesso temperamento di Ned.
Riconosce suo padre persino nel modo di parlare, nel modo di ragionare, nella freddezza e nella giustizia che caratterizzano suo fratello.

Nostro padre sapeva… sapeva che Robb ci avrebbe protetti. Voleva che restassimo insieme.

«Dobbiamo trovarla subito» insiste, calcando sull’ultima parola.
«Perché?»
«Jon avrà bisogno di lei.»

 m

 

Note dell’autrice:

Qualcuno ricorda, nei primi capitoli (quelli ambientati nella baita), quando Sansa ripensa alla sua famiglia e a quanto Bran diceva sulle origini di Jon? Finalmente ci stiamo arrivando.
Ho cercato di seminare tante bricioline su questo cammino (non per niente si chiama Vieni con Me, ahah) e se la memoria non mi tradirà, le ritroveremo tutte strada facendo.
Ah, posso dirlo? Posso? “Petyr, mi sei mancato!”
Celtica

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Capitolo 20
*** Arya Stark ***


Capitolo 20

Trailer

n

 

A

rya Stark è una ragazzina. L’opposto di sua sorella Sansa.
Questo, Petyr l’ha sempre saputo, ma ora può accertarsene di persona. E non gli piace.
Non gli piace il modo in cui lei lo guarda – come se fosse solo uno scarafaggio, come se sapesse qualcosa di lui che non dovrebbe sapere, come se fosse pronta a ucciderlo – né il modo in cui gli risponde.
«Janos Slynt è mio» dichiara, come se fosse una legge appena entrata in vigore. Una legge che Petyr non può permettersi di infrangere. «È sulla mia lista.»
Il Mastino la guarda, deridendola. Con un ghigno che pare un ringhio. «Quale lista? Hai una lista?»

E Petyr è sicuro di una cosa: non gli piace Arya Stark.
Non ora che lo guarda come se fosse appena stato messo su quella lista di cui tanto parla.

«Ce l’ho» dice lei, guardandolo attraverso lo specchietto retrovisore. «E c’è ancora posto, se ti interessa.»

Quando Arya interrompe il contatto con i suoi occhi per guardare Sandor, Petyr sente di essere più tranquillo.
Arya Stark lo inquieta in un modo diverso da sua sorella. Non c’è brivido, non c’è eccitazione, ma solo sfida. Prima o poi potrebbero giocarsela, lui e quella ragazzina, e il premio in palio potrebbe essere proprio Sansa.

«Attenta, ragazzina» minaccia Sandor, mostrandole il pugno chiuso.

Non può permetterle di vincere…
«Janos Slynt è tuo» afferma Petyr, mettendo fine ai loro battibecchi e ottenendo la sua attenzione. «Ma avrai bisogno di noi per trovarlo.»

«Io non ho bisogno di nessuno.»
«Ora ce l’hai.»

Petyr fa un cenno verso la strada, come se conoscesse a memoria le vie di Londra. Non si aspetta che lei capisca, ma quando legge una scintilla di comprensione nei suoi occhi – così diversi da quelli di Cat, da quelli di Sansa – si sente soddisfatto.

«Sai dove si trova?»
Lui le risponde con un sorriso, stringendo con più forza il volante.

«Posso cavarmela da sola.»

«Non puoi» ringhia il Mastino. Nella sua voce, Petyr riesce a distinguere qualcos’altro, qualcosa che Sandor non dice: Sansa.
C’è il suo nome nell’aria, come se la sua presenza fosse impressa in ogni cosa e persona all’interno dell’abitacolo.

«Possiamo portarti da lui» insiste Petyr, svoltando in una stradina secondaria. «Ma dovrai permetterci di accompagnarti.»
Di assicurarci che muoia.

«Perché?»
Lui sorride, di nuovo, in quella maniera che Sansa capisce così bene. Fa una pausa prima di rispondere. «L’abbiamo promesso a tua sorella.»

«Cos’altro?»
«Avrai bisogno di aiuto, quando ti troverai sola con lui. E noi possiamo offrirtelo. Non ti fermeremo, non ti impediremo di fare nulla, ma dovrai consentirci di venire con te.»

Petyr scandisce bene le ultime parole, come per lasciarle il tempo di assimilarle. Di capire. Di accettare.
Arya Stark è dura, ma non gli dirà di no. Non può dirgli di no. Deve accettare.
«E va bene» risponde lei, muovendo appena le labbra. «Ma solo se mi porterai da lui ora.»

Ha capito il gioco, pensa Petyr con un ghigno. Non ha parlato al plurale, si è rivolta solo a me.

Lui fa un cenno di assenso, piegando appena la testa di lato. Spinge il piede sull’acceleratore e in un quarto d’ora si trova nel luogo giusto.
«Come fai a sapere che è qui?»
«Contatti, bambina» mormora, scendendo dall’auto. «È sempre utile avere amici, tanti e sparsi.»

«Anche a Londra?» Arya assume un’aria sospettosa.
«Soprattutto a Londra.»

Lei non sembra convinta. Solleva il volto verso i palazzi alti intorno a loro, e ruota la testa al cielo. Nebbia e solo nebbia, come quella che li aspetta sul loro cammino.
Arya si guarda intorno, come se volesse indovinare dove si trova Janos.
Petyr le fa un cenno, indicando un vicolo stretto e buio, che fa contrasto con la strada a cui è collegato. Sembra uscito da un film.

«Io lì non ci entro» dice Arya, scuotendo appena la testa.
«Se vuoi Janos, è lì che lo troverai.»
Lei sembra pensarci, si morde il labbro e fissa il vicolo. Poi fa un cenno di assenso.

«Slynt era un poliziotto; potrebbe essere armato» aggiunge Petyr, allungando un braccio per invitarli a proseguire.
«Io resto qui» ribatte Sandor, estraendo una sigaretta.

«Non volevate accompagnarmi?»

«Lo abbiamo fatto.»
Arya distoglie lo sguardo da lui e punta decisa il vicolo. Non sembra importarle di essere sola, di non avere armi per difendersi, di non sapere nemmeno dove trovarlo…

«Sansa ci ha chiesto di proteggerla» mormora Petyr, prima di avviarsi dietro alla ragazza.
Il Mastino fa un lungo tiro, lascia che una nuvola di fumo si pari tra loro. «Fanculo.»

Arya sta puntando nella direzione sbagliata. Prosegue dritta, e Petyr deve fare un fischio per chiederle di voltarsi e tornare indietro.
Muove appena la testa, indicando una porticina seminascosta dietro dei bidoni dell’immondizia.

Non vorrebbe dover salire da solo. Non vorrebbe doverlo affrontare, doverlo vedere.
Ma Sandor è rimasto fuori, e Arya è solo una ragazzina.

Toccherà a lui.
E se non riuscisse? Se Janos fosse più veloce?
Mentre spinge la porta per far entrare Arya, Petyr si ferma. Rimane immobile, giusto un istante, il tempo di prendere un lungo respiro e chiedersi se sia il caso di seguirla.

L’ho promesso a Sansa.
Ma non è solo questo… E non può tirarsi indietro, non può lasciar salire la Stark da sola. Non può rinunciare a quell’occasione, a quell’aiuto, a cui Sansa resterebbe legata per sempre.

«Non vieni?»
Arya prende a salire le scale senza aspettarlo.

Sansa. È per Sansa che ha fatto tutte quelle cose, è stato pensando a lei che si è permesso di agire, che ora è lì, pronto a fare quanto va fatto.

La segue a passo spedito, lisciandosi la giacca di pelle. Le sfiora appena il braccio per dirle di fermarsi, quando vede la porta.
Arya lo guarda dritto negli occhi. “Come fai a sapere che è qui? Proprio dietro questa porta?”
Petyr sorride nel suo modo.

La conoscenza è potere…

Arya osserva la maniglia, solleva un pugno contro il legno, come se fosse pronta a bussare. Una mano si infila sotto il cappotto, e lui capisce.

È armata.

Si chiede con cosa, perché. Ma poi lei estrae una lama corta e sottile, di quelle presenti in ogni casa, in ogni cucina.
Vorrebbe farle cenno di no, fermarla, impedirle di commettere quell’errore. Un coltello sporca, lascia tracce, attira l’attenzione. Di un coltello bisogna liberarsi, bisogna ripulirsi.

Ma è tardi… Arya è voltata verso la porta, la lama davanti a sé, e ha appena bussato.
Petyr la vede fare un passo di lato, pronta a colpire.
Lui non sa cosa fare, non sa cosa stia facendo lì, su quel pianerottolo lurido, ad aspettare l’uccisione di un uomo che porterà solo problemi. A lui, a lei, a Sansa.
Si sposta, in modo da rendersi invisibile a chiunque aprirà la porta.

E poi questa si apre… e la testa pelata di Janos spunta da sotto lo stipite. Quando i suoi occhi si posano su Arya sembra tardi… La lama lo rincorre, tanto da fargli fare un passo indietro, lo accarezza appena, stracciandogli la canotta bianca e colorandola di sangue.

Lei avanza contro di lui, con un salto gli finisce addosso… ma la mano di Janos si chiude sul suo polso, impedendole di finirlo.
Petyr li sente gridare, non capisce cosa stiano dicendo, e decide di raggiungerli. Gli sembra di non vedere nulla di utile in quella stanza sporca, ma poi si calma, respira e capisce che ogni cosa può diventare utile. Ogni cosa può diventare un’arma.
Arya è ancora sopra di lui, finché Janos non la spinge di lato, scartando la lama.

«Janos!» grida Petyr, tra i respiri affannati degli altri due.
Loro si fermano. Arya è a quattro zampe sul pavimento, il coltello stretto tra le dita, e Janos preme una mano sulla pancia, lì dove la ferita è appena superficiale. Poi alza gli occhi e lo guarda.

«Tu.»

Anche Arya prende a fissarlo, come se si sentisse tradita.
«Janos Slynt… quanto tempo.»
«Lo conosci?» ringhia la ragazzina, indirizzando il coltello nella sua direzione.

Janos si alza, reggendosi al muro, e in quel momento, prima che Petyr possa stordirlo con le parole, prima che possa tentare di ingannarlo, di calmarlo, al suo fianco compare il Mastino, mandando in frantumi ogni istante di pace.
«Traditore! Sei un traditore! Lo dirà a Sansa!» grida Arya, lanciandosi contro di lui, mentre Sandor si mette a urlare di finirla, di stare zitta. Entrambi coprono la voce bassa di Janos, impedendo a Petyr di sentire cosa stia dicendo mentre si avvicina alla finestra.

Scale di emergenza.

«Ferma!» Sandor blocca il braccio di Arya prima che possa colpire Petyr.

Ma certo, come ho fatto a non pensarci.

Li lascia a dimenarsi, inseguendo Janos. Sono al quarto piano, la scala di ferro traballa sotto il loro peso, e loro si trovano uno di fronte all’altro.
Janos potrebbe fuggire – o almeno tentare di farlo – potrebbe aggredirlo o chissà cos’altro.

Dov’è la pistola? Si chiede Petyr, oltrepassando la poca distanza che li separa.
Non è con lui, capisce poi. O avrebbe sparato ad Arya. E a me.

Janos sta per parlare, e dall’interno del monolocale non si sente più niente. Presto arriveranno Arya e Sandor. Non c’è tempo.
«Janos, vecchio mio…» dice Petyr, impedendogli di aprire bocca. «Abbiamo fatto affari insieme, sono stato io a trovarti quel lavoro di bobby quando sei venuto a Londra… Ricordi?»
Janos si appoggia alla ringhiera bassa di ferro, lo guarda come se capisse cosa accadrà di lì a poco. La mano corre al fianco, lì dove non c’è fondina, dove non c’è pistola…

«Potrei aiutarti» sussurra Petyr, allungando una mano verso il suo braccio. «Potrei mettere una buona parola per te, o nasconderti.»
Lo guarda dritto negli occhi, gli sorride. «Ma non lo farò.»

Una spinta e Janos dovrebbe finire di sotto, ma c’è la ringhiera a trattenerlo.
«No!» grida Arya, raggiungendoli con Sandor nell’istante in cui Janos porta le mani al collo di Petyr.

Il coltello di Arya gli si conficca nel fianco, veloce come il morso di un serpente, tanto che la presa sulla sua gola si allenta, e la testa dell’uomo finisce sulla spalla di Petyr. Gli sussurra qualcosa all’orecchio – qualcosa che solo lui può sentire – ma dura un millesimo di secondo, perché il Mastino li divide, prendendo Janos per le gambe e facendogli saltare la ringhiera.
La ringhiera che gli ha salvato la vita… e che ora, mentre è libero nel vuoto, non può più fare niente per lui.

«Via, via di qui!» grida Petyr, massaggiandosi il collo.

«Era mio! Avevi detto che era mio!»
Arya lo dice mentre attraversano la stanza di Janos, ripulendo la lama sulla manica mentre scendono di corsa le scale.

«Lo era, ma poi ti sei lanciata su di me.»

Quando raggiungono il vicolo, Arya punta alla strada opposta, quella dove l’uomo è saltato. Petyr la raggiunge e le afferra una spalla, vedendo ciò che vede lei…
Una macchia rossa che si espande sulla strada, il corpo inerme girato sulla schiena, una gamba curvata in modo innaturale.
Petyr teme che Arya griderà, che si coprirà la bocca con la mano, attirando l’attenzione su di loro.
Invece lei rimane impassibile, tornando nel vicolo insieme a lui.

«Ha avuto ciò che meritava» dice in tono freddo – distaccato – e Petyr, per la prima volta da quando l’ha incontrata, ha un brivido.

«Mi hai reso complice» ringhia il Mastino, quando lo raggiungono. «Sono stato io a spingerlo giù.»
Petyr non dice nulla, e Arya ne approfitta per riprendere a parlare.

«Perché lo conoscevi?»
«Te l’ho detto… Avere conoscenze è utile.»
«Anche una conoscenza come Janos Slynt?»
«Anche una conoscenza come Janos Slynt…»

Arya sembra pensarci mentre si avviano all’auto di Sandor. Ha la manica della giacca sporca di sangue – il sangue di Janos – e non sembra importarle.
«Potete portarmi da Payne?» chiede, facendoli fermare entrambi.

«Payne?»

«Ha investito mio fratello Bran. Ma Robb non lo sa, non sa che l’ho trovato.»
Petyr conosce bene quel nome – così come Sandor – risale all’epoca in cui lavorava ancora per Cersei, nella sua azienda, e ricorda la fedeltà assoluta dell’uomo verso i Lannister.

«Sai dove si trova?»
«Sì, ma non deve saperlo nessuno.»

«Perché?» ringhia Sandor, e Petyr capisce più di quanto dovrebbe…
Sono stati i Lannister… Loro hanno mandato Payne.
Ma perché prendersela con un ragazzino? Perché renderlo invalido? Per quale ragione?

«Robb mi impedirebbe di occuparmene. E io voglio ucciderlo.» 

 
Robb accenna un sorriso, sfiorandole le spalle.
«Hai ancora la mia camicia» mormora. E Sansa fa cenno di sì con la testa. «Sta meglio a te.»
«Cosa accadrà a Jon?»
«Lo trasferiranno in una clinica. Ma prima dobbiamo trovare i suoi parenti in vita.»

Sansa aggrotta la fronte, incerta. «Non siamo noi?»

La presa di Robb si fa più stretta, come se non volesse condividere con lei quella notizia. «A quanto pare non trovano i documenti… non c’è niente che attesti che Jon è effettivamente figlio di nostro padre.»
«Dovrebbero cercarli meglio.»
Robb allunga le labbra in un sorriso pieno, come se provasse tenerezza per lei. «Non sta a loro dimostrare che Jon è nostro fratello… sta a noi.»

«Non è giusto.»

«La vita non è mai giusta» dice lui, baciandole la fronte.
Sansa chiude gli occhi, si lascia cullare da quel contatto, come se arrivasse dai suoi genitori. C’è Ned in quella stretta, c’è Catelyn in quel bacio.

«Vorrei aiutarlo» insiste lei, mentre Robb si volta verso la stanza di Jon.
«Anche io, Sansa. Anche io.»
Per loro è diverso. Se Sansa ha scoperto solo ora ciò che sente per Jon – ritrovando un fratello – Robb invece lo ha sempre saputo.

«Forse…» L’idea che le sfiora la mente è assurda, eppure vuole crederci. Ha bisogno di crederci. «A casa potremmo trovare qualcosa.»
Casa, questa volta, ha un sapore diverso da tutte le altre.
Non è la casa di Joffrey, né quella di Petyr. Non è la casa di Londra, né quella dove Sansa vorrebbe rifugiarsi. È davvero casa, quella in cui è cresciuta insieme ai suoi fratelli, con i suoi genitori, la stessa in cui crede di poter trovare ciò che cerca.

Robb la guarda, e capisce subito a cosa si stia riferendo.
«Sansa… no.»
«Perché no?»

«Io non posso lasciare Londra. E tu… no, non ti chiederei mai di andare fin lassù.»
Lei solleva il mento verso l’alto. «Non devi chiedermelo infatti.»
«Sansa… non puoi andare da sola.»

Ma io non sarò sola.

«Non devi preoccuparti per me. Hai parlato con Bran?»
Robb si appoggia al muro con aria stanca. Fa cenno di sì con la testa. «Non ricorda niente di preciso. Solo voci.»
«Nelle voci può esserci la verità.»
Sansa lo vede piegarsi in avanti, come per raggiungerla. E la sua voce è un sussurro. «Ha nominato Lyanna, Sansa. Lyanna. Non sappiamo nemmeno che fine abbia fatto…»

«Nostra madre diceva che è fuggita in America.» Non potremmo mai rintracciarla.

«Non ha importanza, Sansa. Se trovi quei documenti, noi…»
«Potremo dimostrare di essere suoi cugini. Sempre se è vero» Benjen. Sansa afferra Robb per un braccio, perché ciò che le è venuto in mente potrebbe essere importantissimo. «C’è anche Benjen, Robb.»
Lui scuote la testa. «Zio Benjen? È morto, Sansa.»
«No, non lo è. Jon lo ha incontrato.»
Quando lo vede sgranare gli occhi, Sansa capisce che c’è poco tempo per parlare. Deve partire, tornare a casa. Cercare quei documenti.

«Stai scherzando.»

«No, Robb, ascoltami» Ora è Sansa a guardarlo dritto negli occhi. «Ora non c’è tempo. Hai detto che Jon deve essere trasferito in clinica. Non possiamo parlarne, non adesso. Ti chiamerò non appena arrivata.»
«Vuoi andare subito? Sansa, no…»
«Sì, Robb. Ti prego, ascoltami» mormora, lanciando una veloce occhiata alla stanza di Jon. Sposta il peso da un piede all’altro e socchiude gli occhi. «Non abbiamo tempo… Jon lotta per la vita. E noi dobbiamo lottare con lui.»
Sansa gli posa una mano su una spalla e gli bacia la guancia. «Tornerò» sussurra. Tornerò in tempo per te. Tornerò in tempo per Jon. Aspettatemi.

Si volta e corre fuori dall’ospedale. Si trova il cellulare tra le mani, e in un istante, nel suo orecchio, rimbomba il trillo di attesa.
«Sansa?» È la voce di Petyr.
«Vienimi a prendere» dice, come in una supplica. «Ti aspetto fuori dall’ospedale. Fai presto.»
«È successo qualcosa?»

No, ma succederà presto se non mi sbrigo.

Sansa sospira. «Vieni» dice, prima di chiudere la chiamata.
Improvvisamente, il freddo la attraversa con un brivido. La camicia di Robb non riesce a scaldarla – le sue parole, i suoi incoraggiamenti, le sue speranze – c’è solo il gelo dentro di lei.
Ghiaccio che la riporta a casa, che penetra fino alle ossa. E non è colpa del tempo, non è colpa della primavera fresca… è solo incertezza.
Sansa fa alcuni passi, sperando che Petyr si sbrighi, che accetti di portarla a nord, a casa. Che accetti di aiutarla…
E quando l’auto arriva, e Arya si affaccia al finestrino posteriore, Sansa non si perde in chiacchiere.

«Scendi, Arya.»

«Cosa? Perché?»
Sansa apre la portiera, facendole cenno di allontanarsi.

«Non me ne vado se non mi dici cosa succede.»

«Sansa…» Petyr la raggiunge, lasciando Sandor sul sedile del passeggero. «Che cosa…»
«Dopo» lo interrompe lei, guardando sua sorella. «C’è Robb di sopra. Per favore, vai da lui. Ti spiegherà tutto.»
Ma Arya non si muove, rimane seduta dietro, incrociando braccia e gambe. «Ci stavamo occupando di una cosa» dice, facendo un cenno a Petyr. «Abbiamo interrotto per causa tua.»

«Senti» Sansa prende un respiro per mantenere la calma. Ma è difficile con Arya, è difficile con quello sguardo addosso. Quell’aria di sfida che Catelyn le ha sempre criticato. «Si tratta di Jon. Di salvargli la vita.»
Con un balzo, Arya è fuori. «Posso farlo io.»
«No, non puoi. Devo tornare a casa. E non intendo a Londra.»

Petyr la guarda come se non capisse. E se non accettasse? Se le dicesse di no? Se non potesse accompagnarla?
Ha un’azienda, una moglie, una casa. Perché dovrebbe andare con lei a nord?

«Vengo con te.»

Anche il Mastino scende dall’auto, e Sansa si volta per riprendere il controllo. Non può affrontarli tutti… non lì, non con Jon in quel letto d’ospedale.
«Robb ha bisogno di te qui» dice lei. «E Petyr non ha ancora detto di sì…»
«Cosa accadrebbe» si intromette lui, facendo un passo verso Sansa. «Se rispondessi di no?»
Si guardano, e lei è sicura di avergli già dato quella risposta, quella che si appresta a lasciare le sue labbra.
«Andrei da sola.»
Sandor posa una mano sul cofano con una certa violenza, facendo piangere l’auto.

«Verrei io con te» insiste Arya. «Robb capirà. Ci sarò io con te, qualunque cosa tu debba fare.»
«Arya, no… io…»
«Non ti lascerei andare sola, Sansa, lo sai» sussurra Petyr, a pochi passi da lei.

Non ne dubitavo.

«Ma forse il nostro amico dovrà tornare di corsa da Cersei…» aggiunge, lanciando un’occhiata obliqua a Sandor.
Sansa lo sente ringhiare, come un cane rabbioso pronto a mordere. Posa gli occhi su di lui, e non c’è imbarazzo, nonostante quel bacio che non avrebbe dovuto darle.
«Verrò» risponde il Mastino, sgranchendosi le nocche. Sembra che tra lui e Petyr ci sia qualcosa di non detto, qualcosa che dovranno risolvere, prima o poi.
«Grazie» sussurra Sansa, guardandolo.

«Allora siamo in quattro» interviene Arya, prendendola a braccetto. «Di qualunque cosa Jon abbia bisogno, in quattro faremo prima.»
Sansa fa un sospiro, arrendendosi alla veridicità di quelle parole.
«E va bene» dice, guardando uno alla volta i suoi accompagnatori. «Saremo in quattro. Ma farete solo ciò che vi dirò io.»
Arya fa un sorriso – il primo di quel giorno – e stringe con più forza la presa.

n

 

Note dell’autrice:

Vi avevo detto che avrei ripreso le “voci”, i ricordi di Sansa del… quarto capitolo? Ora mi sorge il dubbio. In ogni caso, Lyanna veniva nominata anche lì, sempre grazie a Bran.
Comunque, almeno per il momento non ho intenzione di viaggi alla Syberia (anche se confesso di averci fatto un pensierino), non credo che le farò attraversare l’oceano per firmare un documento (avete presente la trama del gioco?), ma almeno a nord (!) dobbiamo andare!
È da non so quanti capitoli che aspetto.
Grazie a chi ha recensito, messo mi piace o aggiunto la storia nelle preferite/seguite. Mi avete resa felice, davvero.

Ah, e già che ci sono, posso lasciarvi il link a una storia di un altro fandom (the walking dead), una OS, ambientata in un universo alternativo, che potete leggere tranquillamente senza conoscere personaggi/trama? Ci tengo tantissimo, dal momento in cui l’ho scritta è diventata una delle mie storie preferite, tra quelle pubblicate su Efp. – Fiore d'Inverno
Grazie ancora.
Celtica

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Capitolo 21
*** Acqua e Sale ***


Vieni con me 21
Trailer

n


 

 

S

ono acqua e sale, Sansa e Arya, sorelle che potrebbero completarsi senza riuscirci mai davvero.
Petyr le guarda camminare davanti a sé, mentre salgono le scale per raggiungere Robb.

Lo vedrò anch’io.
Cosa dirà quando lo troverà con loro? Quando saprà del suo ruolo di accompagnatore? Cercherà di impedirglielo? O si sentirà più sollevato…?
«Robb!» chiama Arya, correndogli incontro. «Parto anch’io.»
Il primogenito di Cat ha i suoi stessi occhi ribelli, il colore dei capelli simile a quello di sua madre, eppure, nel suo sguardo, Petyr vede la freddezza degli Stark. E riconosce il sospetto, quando li vede posarsi su di lui.

«Arya? No» mormora, lanciando un’occhiata di rimprovero a Sansa. «Mi servi qui. Chi baderà a Bran? Non posso permetterti di andare.»

«Non puoi impedirglielo.»
Stranamente, a parlare è proprio Sansa, mentre Robb posa ancora gli occhi su Petyr senza riconoscerlo. Poi, finalmente, sembra riuscirci.

«Baelish? Il compagno di scuola di nostra madre, giusto?»
Non solo quello. Petyr fa un cenno con la testa per dire di sì, e rimane in silenzio.

«È con me» riprende Sansa, facendogli segno di restare indietro. «Ma è una storia troppo lunga da raccontare.»
«Robb, non puoi impedirmi di andare!»
«E Bran? Chi si occuperà di Bran e Rickon?»

Sansa posa una mano sul braccio di Robb, e Petyr – senza sapere perché – sente un piccolo moto di gelosia nascergli dentro.
Sono fratelli, dice tra sé e sé, come se servisse a placare quel calore.

«Parlerò con Bran. È grande abbastanza da capire, Robb. E poi ci saresti tu.»
«Io lavoro, Sansa! Come puoi pensare…»
Ma Sansa solleva una mano per interromperlo. «Lo so, ma puoi prenderti una pausa. Chiedere qualche giorno. Noi torneremo presto, te lo prometto.»
«Sì, non devi temere per noi» dice Arya, chiudendo la mano a pugno e spostando il peso da un piede all’altro. Petyr sa a cosa sta pensando, a quale episodio. «E poi ci sarà lui con noi.»

Robb lo guarda, ed è come se gli stesse chiedendo di badare alle sue sorelle, di proteggerle. Senza conoscerlo, senza sapere ciò che ha fatto – ciò che farà – il giovane Stark si sta fidando di lui.
Perché? Si chiede Petyr. Come può essere così ingenuo? Così simile a suo padre?

Lui annuisce lentamente.
Non aveva bisogno della sua richiesta… se ha deciso di partire con Sansa è proprio per poter badare a lei. Per avvicinarsi ancora.

«Saluto Jon» dice Arya, nel momento in cui Robb acconsente. Petyr la vede raggiungere il letto dove riposa il ragazzo, i tubicini che escono da sotto le lenzuola, le macchine a cui è collegato, il cui ticchettio arriva fino in corridoio.

Sansa si avvicina a Robb, china la testa e si morde un labbro. Ha paura, capisce Petyr. E cerca conforto da lui. Li guarda stringersi, socchiudere gli occhi, godere di quella vicinanza di cui si sono privati per tanto tempo.
Non c’è imbarazzo, solo amore per la famiglia e bisogno di ritrovarsi.

Nella stanza in fondo, Arya si è appena chinata sul fratellastro, e Petyr percepisce il bacio sulla fronte senza vederlo, come se ce l’avesse davanti… Le dita che artigliano le lenzuola, le labbra che sfiorano la pelle, come mute promesse di ritorno, di speranze, di aiuto.

Sono diverse, le sorelle Stark, eppure, in fondo, così simili…

Sansa raggiunge Arya, chiudendosi la porta alle spalle, e Petyr perde ogni contatto con quel momento così intimo. Robb sembra volergli parlare, fa un passo avanti e si ferma.
Ha cambiato idea, pensa Petyr, osservandolo tornare indietro e raggiungere le sorelle.
Lui rimane isolato da quel mondo, da quella famiglia a cui ha dato – e tolto – così tanto, per cui si è perso, struggendosi per anni, fino alla resa.

E alla ripresa, quando ho incontrato Sansa.

Quando le ragazze escono, non servono parole per sapere quale sia il prossimo passo prima della partenza.
Sandor sta fumando una sigaretta, e Petyr riesce a scorgere i suoi occhi posati su Sansa mentre si avvicina all’auto. C’è brama, e desiderio, e qualcosa di celato tra loro, che forse lui non scoprirà mai.

Sansa si stringe le mani intorno al corpo, come se quel gesto potesse proteggerla da tutti loro. Ha la stessa camicia che indossava al mattino, quando Petyr è stato così vicino a lei, a un soffio dal baciarla…
Quando ha scorto quella vena di morte, e vendetta, e speranza, sentendo una voglia folle di prenderla e farla sua, anelando alla sua innocenza, a quella sorta di luce e oscurità che sembra caratterizzarla. E che lo fa impazzire.

“Lo voglio morto”, Sansa non lo ha mai detto, eppure Petyr le ha letto quel messaggio negli occhi, l’ha sentita implorare piano, senza bisogno di usare le parole.
E l’ha accontentata.

Non l’ho fatto solo per lei, confessa a se stesso. Ma ricaccia quella verità a fondo dentro di lui, come se non potesse permettersi di lasciarla fuggire.

«Non possiamo andare via!» grida Arya, riportandolo nel tiepido parcheggio dell’ospedale, con gli occhi puntati sul profilo di Sansa. E sul modo in cui il Mastino la guarda…
Sandor sbuffa, come se non ne potesse più di aspettare. Getta il mozzicone a terra e lo calpesta con la scarpa.
«Perché?» domanda Sansa. Ha il volto stanco, come se avesse passato la notte insonne.

«Devo avvertire Gendry. Dovevamo vederci questa sera.»

«Dobbiamo anche passare da casa. Devo controllare una cosa…» spiega lei, prendendo a fissare le ruote della macchina.
«Qualcosa di utile per Jon?»
Le due sorelle si guardano – occhi diversi che si scambiano messaggi diversi – ma Petyr non riesce a comprendere i loro sguardi.
«Forse» sussurra lei, prima di salire in auto.

L’appartamento di Londra non dista molto dall’ospedale, e Petyr fa presto a raggiungerlo. Quando accosta, Arya è la prima a scendere, spingendo contro la porta della macchina, dalla parte di Sandor.

«Voi restate qui.»

Un colpo secco del Mastino allo sportello e la ragazzina è a terra.
«Arya!» grida Sansa, preoccupata. Petyr scende, osservandola raggiungere la sorella. «Ti sei fatta male?»
«No» mormora, rialzandosi. «Ma loro restano qui.»

Sansa non sembra d’accordo; lancia un’occhiata a Petyr come a chiedergli scusa, come a dirgli che è per Sandor – per ciò che ha appena fatto – se non insiste, se li lascia fuori.
Lui fa un cenno con la testa, e le guarda sparire nel portone.

«Non hai detto niente» ringhia il Mastino, con una nuova sigaretta tra le dita. «Ci ha lasciati qui come cani alla catena.»
«Non è una novità per te» sogghigna Petyr.
Sandor gli mostra il dito medio e solleva gli occhi al palazzo alto dove sono appena entrate le ragazze.

Sansa mi avrebbe fatto entrare, pensa lui, chiedendosi da quale finestra potrebbe affacciarsi la figlia di Cat. Se fossi stato da solo… ora sarei di sopra con lei, invece che qui sotto con lui.

Non passa molto che il cellulare di Petyr prende a squillare. Che sia Lysa? Shae avrà avuto problemi con Robin?
O si tratta di affari?
Sandor posa gli occhi su di lui, tanto che Petyr si vede costretto ad allontanarsi. Il numero è sconosciuto, così fa un bel respiro prima di rispondere.

«Sì?»

«Lord Baelish, che sorpresa. Ti credevamo tutti morto.»
Cersei.

Petyr si allontana ancora dal Mastino, prima di rispondere. «A cosa devo il piacere di…»
«Nessun piacere» lo interrompe lei, glaciale. «Almeno, non per me.»

Petyr riesce a immaginarla, mento in alto e schiena dritta, mentre lo guarda con freddezza.
«È un vero peccato…»
«Non credo, Ditocorto» Ora, dalla sua voce, Petyr è certo che lei abbia appena sorriso. «Nemmeno per te è un piacere sentirmi.»
Lui resta in silenzio, si sfiora la gola, quasi come se avesse il nodo di una cravatta da allentare. E aspetta.

«Sai» riprende Cersei, e dal tono sembra pronta a infierire su di lui. «Ci chiedevamo tutti dove fossi finito… Tu e quella stupida di Sansa.»
Lei fa una pausa, e a Petyr sembra di vederla mentre abbassa un momento le palpebre per mantenere il controllo.
«Finché qualcuno non ci ha chiamato… e vi abbiamo trovati a Londra» dice Cersei, gelida. «E il cane… è con voi. Non lo pensavo, non credevo che sarebbe arrivato a tradire. Quanto gli hai offerto, Ditocorto? Quanto gli hai dato per voltarci le spalle?»
D’istinto, lo sguardo di Petyr corre a cercare Sandor, trovandolo appoggiato al muro di fianco al portone. Stringe le labbra prima di parlare.

«Niente.»

Silenzio. Persino Cersei sembra incredula. Non quanto me quando l’ho capito.
«Che significa?»

Che il cane ha cambiato padrone.

«Non ho fatto nessuna offerta. Non ce n’è stato bisogno» sussurra, sapendo che sono le parole giuste per ferirla.
«Che cosa gli hai detto, Ditocorto

Mi basta nominare Sansa per farlo girare in tondo come una trottola. «Perché non lo chiedi a lui, maestà

«Lo chiedo a te.»

Petyr sogghigna, abbassa ancora la voce accarezzandosi il mento con le mani. «Dov’è Payne, Cersei?»
«Payne? Che c’entra, ora?»

Lo sa… o forse no.

«Sembra che si nasconda a Londra. Non era uno dei tuoi?»
«Lo è ancora.»

Petyr sorride, infila una mano in tasca e solleva gli occhi a osservare le finestre del palazzo. Dietro uno di quei vetri c’è Sansa.
«Devo supporre che sia stata tu a mandarlo qui, allora…»
«Ha una commissione da fare. Perché me lo stai dicendo?»
«Sembra che il tuo amico abbia investito il fratellino di Sansa…»
Cersei resta zitta. Non ne sapeva nulla, non è stata lei. Ma questo, pensa Petyr, non gli impedisce di sfruttare quel vantaggio. Anche se non è stata lei…

«Non ti credo.»

«È la verità. C’è chi lo sta cercando…» sussurra, mellifluo, prima di incrociare lo sguardo sospettoso di Clegane. «E quando lo troverà, non c’è bisogno che ti dica chi sarà il prossimo, vero?»
«Maledetto. Sarai tu il prossimo! Jamie ti ucciderà quando saprà delle tue minacce! Verrà a prenderti, Ditocorto, e non c’è bisogno che io ti dica cosa ti farà quando sarai nelle sue mani…»
Petyr prova un brivido. Fa un passo verso il Mastino, chiedendosi chi abbia mandato Payne.

Se scopro questo, Jamie Lannister non potrà toccarmi. E nemmeno Cersei…

«È stato Joffrey» riprende lui, ignorando gli avvertimenti di Cersei. «Non è vero? Quello che mi chiedo è perché colpire un ragazzino. Quale offesa può avergli recato?»
«Tu» La voce di lei è talmente bassa e roca da attraversarlo, come un fulmine. «Tieni fuori Joff dai tuoi intrighi…»

È stato lui… Deve essere stato lui.

«Chiediglielo» risponde Petyr, passandosi la lingua sulle labbra. «E poi richiamami.»

 

Arya sta parlando con Gendry al telefono in camera sua, e Sansa ne approfitta per sgattaiolare nel salotto dove ha dormito, e dove lo zaino e la sacca di Jon sono ancora nel pieno disordine.
Bran è appisolato sulla sedia a rotelle, di fianco al divano.
Lei fa un sospiro, spera di non svegliarlo, e raggiunge le cose del suo fratellastro. Lancia un’occhiata al ragazzino, giusto un istante prima di mettersi a frugare tra quella roba.
Vestiti, scarpe, documenti e una mappa.
Chiavi, acqua, biglietto del treno.
Niente di ciò che sperava di trovare, anche se alla fine, cercando di non farle tintinnare, Sansa infila le chiavi in tasca.

«Che cosa fai?»
Lei si volta, trovandosi sotto lo sguardo attento di Bran. Vederlo su quella sedia fa male, ma non quanto l’idea di Jon in quel letto d’ospedale, non quanto sapere di non poterlo aiutare.
«Dobbiamo andare via» mormora piano, come se lui stesse ancora dormendo e Sansa temesse di svegliarlo. «Io e Arya.»
«Dove?»

«A casa.»

È una parola. Eppure Bran sgrana gli occhi, un istante prima di assottigliarli. Come se lei avesse appena nominato suo padre e sua madre, come se gli avesse appena detto che li rivedrà presto.

«Vorrei venire anch’io.»
Ma non puoi…

Sansa annuisce, lo raggiunge e si inginocchia davanti a lui, posandogli le mani sulle ginocchia.
«Torneremo presto.» Torneremo, è il vero messaggio che gli sta dando.
Bran abbassa gli occhi sulle sue gambe; c’è un velo di rimpianto. Come se fosse colpa sua il non poter partire, il non poter camminare. Come se avesse perso qualcosa di più importante della vita stessa.
«Perché frugavi tra la roba di Jon?»

Speravo di trovare risposte.

«Per lo stesso motivo per cui devo andare a nord.»
«Me ne parlerà Robb?»
Sansa fa cenno di sì. «Te ne parlerà Robb.»

 

Dieci minuti e sono di nuovo in strada.
Arya sembra arrabbiata con Gendry, Sandor non le toglie gli occhi di dosso, e Petyr – lui, che Sansa crede di conoscere più di tutti – è strano. Assente.
Mentre sua sorella sale in auto, Sansa si avvicina proprio a lui, tenendosi a distanza dal Mastino.
«È successo qualcosa?» sussurra, trovando nei suoi occhi una risposta vaga. Vuota.
Petyr scuote la testa, poi le sorride. In ritardo, come se davvero avesse qualcosa da nascondere. «Possiamo partire?»

«No» dice Arya, affacciandosi al finestrino. «Devi portarmi da Gendry a dirgliene quattro.»

«Arya…»
«Niente “Arya”, Sansa! Gli ho chiesto di venire con noi e non ha voluto.»

Petyr ne approfitta per salire in auto, evitando di dover rispondere alle sue domande.
«Basta deviazioni» ringhia Sandor, battendo un colpo contro lo sportello.
«Sì, Arya… Pensa a Jon. Non può più aspettare.»

Sansa lo dice sedendole vicino, sui sedili posteriori. Vorrebbe sorriderle, dirle qualcosa di carino, rassicurarla. Ma non si sente tranquilla.
Non con loro tre in auto, non con due uomini di cui non conosce quasi nulla, se non i difetti peggiori. Non con sua sorella… con la persona che se n’è andata insieme a Robb tanto – troppo – tempo prima, quando Sansa ha preferito Joffrey alla sua famiglia.

“Robb non lo farebbe mai!” gridava contro di lui, ogni volta che si sentiva sola. Ogni volta che il suo fidanzato alzava le mani contro di lei.

“Robb non picchia le donne!”
Glielo rinfacciava continuamente. Al minimo insulto, alle prime strette di Joffrey, al suo primo schiaffo.

“Robb è un uomo. Non è come te.”

Era il suo ritornello preferito; mentre il resto della canzone erano umiliazioni e suppliche, Sansa si aggrappava a quelle parole per restare in piedi. Per affrontarlo. Sola.
Quante volte si era pentita di non essere partita per Londra? Quante volte aveva desiderato – sognato – il coraggio di prendere e tornare a casa, anche a costo di non avere nessuno accanto?

«Facciamo una sosta?» chiede Petyr, riscuotendola.
Un pensiero tira l’altro, e Sansa non si è accorta del tempo trascorso. Arya si spinge contro il sedile del guidatore, facendo cenno di sì, mentre lei resta in silenzio.
«Sì» dice Sandor, togliendosi la cintura che Petyr gli ha costretto a mettere. «Devo pisciare.»

Quando si fermano in una stazione di servizio, il Mastino sparisce all’istante. Anche sua sorella, che si fionda a comprare qualcosa da mangiare.
Petyr scende e si appoggia all’auto, accendendosi una sigaretta. Sansa è di fianco a lui.

«Me ne dai una?»

Si guardano e, all’improvviso, tutte le risposte che cercava diventano nulle. Le loro mani si sfiorano mentre Sansa sfila una sigaretta dal pacchetto, mentre spinge la schiena contro il vetro, e Petyr le si para davanti.

Sono così vicini che quando la fiamma dell’accendino prende a bruciare tabacco e cartina, è un altro il fuoco che vede. Negli occhi di lui, nella scintilla – più bella e luminosa – che gli ha visto anche quella stessa mattina.

Aspira e butta fuori il fumo girando la testa di lato, in modo da non colpire lui.
Fumano insieme, come se ci fosse stato altro tra loro, come se stessero condividendo chissà quale segreto. Sono così vicini che quando Petyr appoggia una mano contro il vetro dell’auto – proprio accanto a lei – il respiro di Sansa rallenta, si acquieta, come se servisse a ossigenare quel fuoco che brucia dentro di lei.

«Sei bella, Sansa.»
Quante volte ha sentito quella frase? Persino da Joffrey… Ma nella bocca di Petyr ha un altro sapore. Lo stesso di casa.

«Perché fai tutto questo?»

Non gliel’ha mai chiesto, pur desiderando farlo fin dal primo giorno.
Un altro risponderebbe alla sua domanda con un’altra domanda. Un altro resterebbe in silenzio, fingendo di non aver capito.
Ma Petyr allunga le labbra in un sorriso. In quel sorriso, che Sansa conosce tanto bene. Solleva la mano dal vetro e la posa con delicatezza sulla sua guancia, come in una carezza.
Le sfiora le labbra con il pollice, mentre abbassa lo sguardo.

«Per un sogno.»

 n

Note dell’autrice:

E ce l’abbiamo fatta! A dirla tutta avevo previsto anche l’arrivo a “casa” per questo capitolo, considerando che dovevano solo salutare i fratelli e avvertirli. Pazienza. È leggermente più breve dei precedenti, ma non penso sia un problema.
Adoro Petyr, e contando che scrivo di uno dei personaggi più odiati del fandom, vi ringrazio per continuare a seguire questa storia.
Fatemi sapere cosa ne pensate!
Celtica

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Capitolo 22
*** Di nuovo a Casa ***


Capitolo 22
n


 

C

asa ha il sapore delle cose semplici.
Di quel cancello di ferro arrugginito, che Sansa rimane a guardare prima che Arya si faccia avanti per aprirlo.
«Andiamo» dice sua sorella.
Ma lei rimane immobile a fissare la ruggine, gli alberi alti e verdi che circondano il muro d’entrata. In lontananza, una macchia grigia sembra dirle che l’edificio c’è ancora, che non è crollato, che nessuno è venuto a distruggerlo.
Sansa ha immaginato tante volte di tornare lì. Di piangere guardando casa. Di pensare ai suoi genitori, alle giornate trascorse con loro, ai momenti vissuti con i suoi fratelli.

Ma non sente niente ora.

Non ci sono lacrime sul suo viso, non c’è malinconia nel suo cuore.
Solo un posto vuoto nel petto, simile a un pozzo senza fondo che nessuno sembra in grado di riempire.

«Vieni o no?» chiede Arya, risalendo in auto.
Sansa guarda ancora una volta quel cancello. Poi si volta. «Vengo a piedi. Voi andate avanti.»
Lo sguardo di sua sorella è raggelante. «Stai perdendo tempo.»

Lei non risponde, allunga una mano per accarezzare la ruggine e abbassa le palpebre. Casa. Sono a casa.

«Ed è il tempo di Jon.»

Bastano quelle parole per farla scostare e spingerla a riaprire gli occhi.
L’auto le passa accanto, nessuno la sta guardando, ma Sansa sente i loro sguardi addosso.

Sto perdendo tempo. E Jon non ne ha più.

Eppure, nonostante quella consapevolezza, nonostante sappia che è l’unica cosa certa di quel viaggio, Sansa oltrepassa il cancello con lentezza, come se il primo tocco su quella terra – la terra chiamata casa – meritasse attenzione.

Sono tornata.

«Sono tornata a casa!»

Fa una giravolta su se stessa, guardando il cielo. Intorno a lei c’è solo silenzio.
Attraversa quella porzione di parco che la separa dai suoi compagni di viaggio, e riesce a studiarli oltre il profilo degli alberi.

Qui è dove Bran si arrampicava.

Casa è fatta di pietra, un po’ come il temperamento di suo padre. Di suo fratello. Persino di Jon.
Casa ha finestre lunghe al pianterreno, e una serie scomposta e ovale ai due piani superiori. Casa ha una porta nera, alta quanto quella di una chiesa, con scalini in marmo bianco su cui ora Arya è seduta.
È la statua di un lupo a lato dell’entrata, che guarda in alto a bocca spalancata. I suoi fratelli amavano giocare lì, fingendo che fosse reale.

Sandor ha una lattina in mano, sicuramente qualcosa che ha acquistato durante il viaggio. La beve con avidità, e sembra impaziente.
Ma cosa è venuto a fare?
Sono una strana squadra. Due sorelle e due uomini agli antipodi. Niente li accumuna, niente li unisce. Niente avrebbe dovuto convincerli ad accompagnarla a nord.

«Sansa.»

Petyr.
E infatti, voltandosi, se lo trova di fianco. Vorrebbe restare da sola. Dopotutto è casa sua.

«Stai bene?»

Sansa ha sognato tante volte di tornare in quella casa, con i suoi fratelli. Persino con Jon. Ma ora che Petyr le è vicino, ora che la guarda con preoccupazione, capisce che va bene così.
«Sì» mormora, restando nascosta alla vista degli altri due. «Credo di sì.»

Lui si avvicina, le sfiora il mento. «Credi?»

Vorrebbe piangere. Lì, ora, davanti a lui.
Non ha provato niente davanti a quel cancello, se non il vuoto. Ha sentito un pozzo profondo e impossibile da riempire. Ma non adesso, non adesso che Petyr la guarda e Sansa vorrebbe solo morire.
Perché è tornata? Perché ha creduto di non sentire niente?
Tutto ciò che pensava si sta avverando, ora.
Malinconia, rabbia, tristezza, dolore. Emozioni che la confondono e si mischiano dentro di lei, facendola impazzire.
La testa scoppia, il respiro accelera. I pensieri si fanno cattivi, brutali, e non c’è tempo per cambiarli.
Non c’è modo di evitarli, non si può premere l’interruttore e smettere di pensare.
Sansa si lascia guidare dalla sua mente annebbiata contro il tronco di un albero. Si appoggia, si spinge, sente la corteccia ruvida premere contro il maglioncino con cui ha sostituito la camicia, e Petyr è da lei.

«Sansa!» dice ad alta voce, ma non abbastanza forte perché gli altri possano sentirlo.

Sono soli, e ogni cosa assume per lei contorni sfumati.
Quando si è accorta di stare male?
Quando ha capito che c’era sofferenza in quel vuoto, in quel buco nero nel suo petto?
Le mani di Petyr le tastano la fronte, le sfiorano le guance. Vuole accertarsi che stia bene, ma Sansa non sta bene, non può stare bene.

È a casa.

E non c’è più nessuno.

I suoi genitori sono morti, suo fratello non camminerà più, Jon rischia la vita. E lei, Sansa, ha vissuto piccole tragedie che avrebbe potuto evitare, se solo fosse stata più furba.
Se solo non avesse guardato nel modo sbagliato un ragazzo che non poteva avere, convincendosi di esserne innamorata.

«Sansa, guardami.»
E lei obbedisce. Solleva gli occhi su di lui e lo osserva.

«Respira, Sansa. Fai respiri lenti e profondi. Prendi fiato.»

Petyr la sorregge, e Sansa lo ascolta. Poi, senza sapere perché, senza rendersi conto del suo gesto, di dove l’abbiano condotta i suoi pensieri, si allunga verso di lui, intrecciando le dita dietro la sua nuca.

Baciami. Potrebbe dirlo. Ora, lì, stringendosi a lui. Supplicandolo di darle un po’ di conforto, di dirle che andrà tutto bene.
Ma tutto quello che fa è spingersi avanti per cercare le sue labbra.

Stringe forte gli occhi, sente le mani di lui afferrarla per i fianchi per allontanarla con dolcezza. Ma non demorde.
È solo un rifiuto.
Preme sulla sua bocca, e più lui cerca di separarsi da lei, più Sansa lo esorta a restare. È rimasta sola. Non c’è più nessuno ormai. Una casa vuota – la sua casa vuota – che ha visto tanti sorrisi. A cui sono rimaste solo lacrime.

«Ti prego» sussurra, seguendo con l’indice la linea della sua spalla.

«Sansa… no. Non ora. Non qui.»
Ma gli altri non possono vederli, non possono sentirli. Ne è sicura. Così sicura da tirarlo verso di sé, rimanendo incastrata contro l’albero.

«Solo un istante.»

Non sa se è quello che vuole, non sa perché lo stia facendo. Non sa perché abbia scelto lui, perché non abbia preferito cacciarlo e restare sola in quel parco.
Un bacio per smettere di pensare, per fingere che tutto vada bene, che ci sia ancora amore a Grande Inverno, e non solo fredde pietre e pianti.

«Solo una volta» sussurra sulla sua bocca.

Petyr la stringe ancora per i fianchi, ma non più per allontanarla. È come se avesse messo da parte l’attesa per lei.
È il suo sacrificio. Infrangerla per lei, solo per lei.

Lo sente risalire fino alla vita e poi fermarsi, come se avesse osato troppo. Questa volta è lui a baciarla, un piccolo fuoco che muta in incendio. Si avventa su di lei, una volta soltanto, spegnendo la sua mente per un istante.
E quando si stacca, piano, Sansa riapre lentamente gli occhi.

«Perché sei qui?»

Le mani di Petyr la avvolgono, come se temesse in una sua fuga. Lei lo vede stropicciare le labbra, come se – ancora – volesse sentire il sapore di lei sulla bocca.
Sa cosa sta per dire, la cosa più banale e futile, eppure, nonostante tutto, Sansa ha bisogno di sentirlo. Ha bisogno di lui, di quel momento, di sentirsi protetta. Di sentirsi amata.

«Non lo sai?»
Lei non risponde. Fa scivolare le mani dalle sue spalle, fermandosi sul suo petto. E scuote la testa.

«Ho un sogno, Sansa. E tu sei al mio fianco.»

«Quale sogno?»
Ora è Sansa a staccarsi da lui, adesso che la magia è rotta. Sente le sue dita accarezzarle la guancia e soffermarsi sul suo viso.
«Lo vedrai» sussurra, seguendo lo zigomo con il pollice. «Ti insegnerò io.»

«A fare cosa?»

Per un brevissimo istante, Sansa ha ricordato la sua richiesta. La vita di un uomo sulla coscienza. Ma Petyr non le ha detto niente, non può averlo fatto davvero.
Eppure, ancora, Sansa ricorda lo sguardo di lui carico di desiderio, nel momento in cui ha capito ciò che lei voleva.
Arya non sarebbe rimasta in silenzio, lo avrebbe gridato al mondo se Janos Slynt fosse morto. Glielo avrebbe detto, e lo avrebbe detto anche a Robb. E a Jon.

Petyr sorride, le sfiora la bocca con le dita e non dice niente.
«Vieni» sussurra poi, prendendola per mano. «Torniamo dagli altri.»


 

Grande Inverno.

Un posto dove avrebbe preferito non andare. Il desiderio segreto dei Bolton, il luogo che ha tenuto Petyr lontano da Cat.
Eppure, pensa ora, è proprio questa casa a unirlo a Sansa. Ad averla presa e posata tra le sue braccia.
«Vuoi restare lì?» chiede Arya, mentre sua sorella apre il portone.
Lui le raggiunge in cima alla scalinata, lanciando un’occhiata al Mastino. Sta guardando Sansa.
Quando entrano, l’atrio ha l’aspetto di quelle tenute di buona famiglia, abbandonato dal tempo. Ci sono due scale che salgono ai piani superiori, incrociandosi davanti alle loro teste.

E, ovunque, Petyr riconosce l’impronta di Catelyn.

In alcuni soprammobili, nel lampadario in vetro soffiato, nei quadri che raffigurano animali…
Allunga una mano per toccarne uno, dove un usignolo sorvola le acque di un fiume dove nuotano i pesci.

«Lo ha portato nostra madre» dice Arya, mentre Sansa china la testa. «A me non è mai piaciuto.»
Petyr annuisce. «Gliel’ho regalato io.»
«Davvero?» chiedono in coro le due sorelle Stark.
Lui fa cenno di sì e si infila la mano in tasca, stringendola a pugno. L’ultima volta che ci siamo visti.

Sansa fa un passo avanti, appoggiandosi alla ringhiera delle scale. «È quasi sera. Dovremmo cominciare a cercare.»
«Adesso?» chiede Sandor.
«Prima li troviamo, prima possiamo tornare indietro.»
«Per questa notte potremmo restare qui» dice Petyr, guardandosi intorno.
«Jon non ha tempo da perdere» ribatte Arya, incrociando le braccia al petto.

Guidare di notte non è un problema per Petyr. Ma avrebbe preferito perdersi un momento tra quelle mura, restare a pensare. A ricordare.

«Allora vi aiuteremo a cercare.»
Sansa scuote la testa. «Restate qui. Non sapreste da dove iniziare e non abbiamo tempo per spiegarvelo.»

Arya annuisce con vigore, un attimo prima di sparire su per le scale dietro alla sorella.
Il Mastino prende a girare per le stanze al pianterreno, guardandosi in giro, toccando oggetti impolverati abbandonati sui mobili.
Petyr non fa altrettanto… posa gli occhi su una bella sedia rivestita e si siede, in attesa.
Ha avuto una giornata intensa… e vorrebbe solo chiudere gli occhi e riposarsi. Controlla l’orologio, di continuo, fissando la lancetta dei secondi come se fosse in trance.
«Ci stanno mettendo troppo» ringhia Sandor, aprendo le ante di un armadietto. Continua a rovistare, finché non trova ciò che stava cercando: alcolici. «Un bicchiere?»
Petyr accenna un sorriso e scuote la testa, sollevando una mano. «Passo.»

«Peggio per te.»

A Petyr piace avere la mente lucida; soprattutto se in programma c’è una strada, la notte e… Sansa, seduta sul sedile posteriore dell’auto.
Cosa succederà quando torneranno indietro? Dovranno dividersi? Lei non accetterà di tornare in città… lo ha già detto. Lo ha già deciso.

«Niente» dice Arya, scendendo le scale. «Abbiamo guardato dappertutto, ma di sopra non c’è niente. Ora proviamo qui.»
Sansa è dietro di lei, cupa in volto.

Petyr le osserva entrare in un’altra stanza, e aspetta.
Aspetta che trovino, che tornino da lui, che gli dicano di ripartire.
Ma non succede.

Quando le guarda, non servono parole per capire che hanno fallito. Che non hanno trovato ciò che stavano cercando. E Sandor è già al quarto bicchiere…

«Deve esserci qualcosa. Non è possibile.»
«Non c’è, Sansa» ribatte Arya, incrociando le braccia al petto. «Conviene pensare a un’altra soluzione.»
«E quale? Non sappiamo niente di Jon, o di nostra zia… Non sappiamo nemmeno se è davvero sua madre!»

Petyr abbassa gli occhi sul pavimento. Non sa ancora come, ma forse, forse, quella situazione potrebbe volgersi a suo vantaggio. Se solo sapesse come risolverla… Sansa lo guarderebbe diversamente. Magari sarebbe disposta a tornare in città con lui.

«Hai parlato dello zio Benjen» mormora Arya, raggiungendo la porta. «Conviene raggiungerlo.»
«E come, Arya? Non ho idea di dove sia ora. Magari Jon si è sbagliato, magari è morto…»
«Jon non si è sbagliato. Se ha detto di averlo visto, è così, lo ha visto davvero. Dobbiamo solo trovarlo.»

Sansa china la testa, come se si fosse arresa.
Non sa perché, ma Petyr si sente dispiaciuto per lei.

«Perché non restiamo qui?» propone, cercando i suoi occhi. «Almeno per stanotte. Domani cercheremo il modo di trovare vostro zio.»
Arya lo guarda incredula. «Jon è in un letto d’ospedale.»
Lui inclina appena la testa di lato. «Lo so, ma non vedo come mettersi a viaggiare di notte, senza una meta, possa essergli d’aiuto.»

«Sarà certo meglio che restare qui a non fare niente!»
Sansa allunga una mano e sfiora il braccio di sua sorella, come per calmarla. «Ha ragione» sussurra.
Lo sguardo di Arya è di puro disprezzo.
«Non servirebbe a niente uscire a quest’ora. È già buio.»
E voltando la testa verso la finestra, anche Petyr si rende conto di quanto sia tardi. Il sole è ormai svanito, e il parco della villa si sta colorando di rosso.

«Sei uguale a lui» sibila Arya, prima di sparire su per le scale.

Sansa sgrana gli occhi, lo guarda un istante, poi segue la sorella al piano superiore. Non restano lassù per molto, e dopo un po’, quando ritornano, sembrano entrambe sovrappensiero. Petyr capisce subito dove siano rivolte le loro menti.

«Resteremo qui» mormora Sansa, lisciandosi il maglioncino. Poi, prima di continuare, guarda proprio lui. «Solo per stanotte.»
Sandor posa il bicchierino con forza sul tavolo – dev’essere il settimo – e fa un grugnito. Petyr china appena la testa per dire di sì.
«Jon è stato qui per un po’, controlliamo cos’ha lasciato da mangiare. Di sopra abbiamo tirato fuori lenzuola pulite per tutti e abbiamo rifatto i letti.»
Arya solleva la testa al soffitto, e Petyr capisce: solo Sansa si è data da fare, magari mentre stavano discutendo di qualcosa.

Ma cosa? Si chiede lui.

«Perché dovrebbe aver lasciato qualcosa se poi è partito?»
Sansa scrolla le spalle. «Non sapeva cosa sarebbe successo, forse era convinto di tornare qui con tutti noi.»

La cena è abbastanza povera, interrotta a tratti da Sandor che apre nuove bottiglie di birra, ma nessuno sembra avere molta fame.
Mangiano in silenzio, e quando è ora di salire, Sansa gli lancia una lunga occhiata, come se sapesse.

Cosa si sono dette? Cos’è successo con Arya?
Ha parlato? Le ha confessato ciò che hanno fatto a Janos?
E Sansa come l’ha presa?

«Buonanotte» dice, guidandoli al piano superiore, prima di indicar loro le stanze.
Sandor si ferma a metà corridoio, e non ci vuole molto per capire a cosa stia pensando. È ubriaco, e ha gli occhi puntati su Sansa. Se solo fossero soli, Petyr ne è certo, non esiterebbe a prendere ciò che vuole.
Stringe la mano a pugno, trattenendo la rabbia. La gelosia.
«Buonanotte» risponde, aspettando di vedere il Mastino entrare in camera, prima di fare lo stesso.
E quando Sansa sparisce dietro una porta, Sandor emette un lungo sospiro.

Non è tua, pensa Petyr. Non puoi averla.

Anche lui raggiunge la sua stanza – gli sembra quasi di sentire l’odore di Sansa, ma sa che è solo una mera illusione – e si infila sotto le coperte.
Non riesce a dormire. Non può, non lì, non senza sapere cosa si siano dette, non senza conoscere il proprietario di quel letto.

Chi ha dormito in quella camera? Forse Sansa? Forse il suo caro Robb? Jon?
Petyr si alza in piedi, le calze strusciano sul pavimento; alle pareti, i muri sono spogli. Non ci sono fotografie, né niente che possa dargli un indizio. Solo una treccia di vimini, con al centro una candela, e nient’altro.

Poi capisce.

Nessuno è stato in quella stanza. Né Sansa, né i suoi fratelli.
Ha scelto di dargli la stanza degli ospiti, come se fosse uno qualunque, o come se non si fidasse di lui… Non più.

Petyr siede davanti alla finestra, a godere la vista del parco. È notte, e ci sono solo due luci fuori – i due faretti che illuminano l’entrata – il cielo è nero, ma per lui è come se nevicasse.
Una sottile nebbia attraversa gli alberi, arriva fino alla porta sottostante. È uno scintillio. Come neve.
Come se lui avesse la vista annebbiata e, fuori, il parco fosse ricoperto da un manto bianco.

Un’illusione.

Eppure, in quel momento, Petyr vuole crederci.
Vuole credere di aver baciato Sansa in mezzo alla neve, di aver deciso lui di farlo, di non essersi lasciato supplicare. Vuole credere di essere tornato ragazzo a Grande Inverno, di aver trascorso lì la sua giovinezza, i tempi passati.
Vuole credere che ci sia ancora una speranza.
Per lui, per loro, per Sansa. Per rinascere. Per stare insieme. Per tornare giovane, e avere tutto ciò che non ha avuto.
Finché qualcuno bussa alla porta – è tardi, è notte – e Petyr si alza per aprire.
Il sogno si è infranto? La neve si è sciolta?
E quando gira la manopola e tira verso di sé, è Sansa che si ritrova davanti. Sgrana gli occhi e la guarda, scostandosi appena per lasciarla passare.

«Scusami» sussurra lei, entrando in punta di piedi. Non vuole essere sentita, non vuole che si sappia. Unisce le mani e abbassa il capo. «Avevo bisogno di parlarti.»
La neve non si è sciolta, è ancora fuori, in volo davanti alla sua finestra, come un pulviscolo di stelle. Petyr le sfiora il dorso con le dita e le fa un cenno.

«Vieni con me.»

La guida alla finestra, rimandando quella loro conversazione, quella che potrebbe rovinare quel momento.
«Guarda.»
L’indice incontra il vetro trasparente, si perde nei meandri della nebbia – della neve – e, senza rendersene conto, attira Sansa a sé, stringendola per la vita.

«Sembra neve.»

Non glielo sta chiedendo, glielo sta dicendo. E la vede abbandonarsi a quella visione – perdersi e poi ritrovarsi – come in un sogno.
Sansa è insieme a lui, in mezzo alla neve, in mezzo al nulla. Ci sono solo loro due, nient’altro.
E anche lei sembra accorgersene. Socchiude gli occhi, schiude le labbra, e posa una mano su quella di Petyr – quella che ora è sul suo ventre.

«È vero» sussurra. «Sembra neve.»

 n

Note dell’autrice:

E fino all’anno prossimo non ci vedremo più! Tanti auguri a tutti! E spero di sentirvi!
Celtica

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Capitolo 23
*** So quello che avete Fatto ***


Capitolo 23

Stavolta il capitolo è tutto dedicato a Sansa.
E ai segreti.



n



 

L

enzuola bianche si gonfiano come vele spiegate.
Sansa aspetta che siano loro a posarsi dolcemente sul letto, in attesa che Arya le dia una mano.
Ma sua sorella rimane appoggiata allo stipite della porta, imbronciata.
«Sei uguale a lui» ripete, come ha fatto poco prima al piano di sotto, davanti a Sandor e Petyr.
«Perché?»
Sente qualcosa, come un leggero tramestio nel petto, che sembra metterla in guardia.

«Non ti vedi?» sibila. «Sei diventata fredda. Ti importa solo di te.»

Ma cosa dici? Vorrebbe gridarlo, battere i piedi sul marmo e cacciarla via dalla sua stanza come quando erano bambine.
Ma non lo sono più… e il dolore che Sansa sente dentro la spinge a rimanere. Ferma, immobile. In silenzio.
Socchiude gli occhi e aspetta.

«Siamo qui per Jon» ribadisce Arya, sputandoglielo addosso come se lo avesse dimenticato. «Non per quel tuo…»
«Tuo cosa?»

«Potrebbe essere tuo padre, Sansa!»

Lei si volta, la guarda in faccia e scuote la testa. «Stai sbagliando. Non c’è nulla tra noi.»
«Noi» le fa il verso, chiudendo le mani a pugno. «Ma ti senti?»

Adesso, di nuovo, Sansa vorrebbe prenderla per un braccio e spingerla fuori. Restare sola, in attesa che sua madre entri dalla porta a rincuorarla.
Ma sua madre è morta… e Arya è ciò che le resta di lei.

Arya, Robb, Bran e Rickon.

«Adesso basta, Arya. Petyr ci sta aiutando!»

«Sta aiutando te» la corregge, facendo un passo avanti. «Solo te.»

«E non è la stessa cosa?»
Vorrebbe solo smetterla. Smettere di parlare, smettere di pensare. Smettere di dare spiegazioni. Di cercarle nella sua testa, senza riuscire a trovarle davvero.
Perché sa che sono solo scuse…

«No, non lo è» insiste Arya, portandosi una mano al fianco. «A lui non importa di Jon. Non gli importa di me. Ma a te, Sansa… a te importa? Ti importa di noi, di cosa capiterà a Jon?»
Ora è lei a fare un passo avanti, decisa. «Non dovresti nemmeno chiederlo. Sono qui per lui.»

«Allora dimostralo.»

Sansa sgrana gli occhi, ma resta al gioco. «Dimmi come.»

«Mandali via. Entrambi. Non abbiamo bisogno di loro.»
Lei scuote forte la testa, vede un sorriso di scherno sul volto dell’altra e non sa cosa dire.

«Mandali via» ripete, a bassa voce, come se qualcuno potesse sentirla. «Possiamo farcela da sole.»

«Non abbiamo nemmeno un mezzo per tornare a casa. Ragiona!»
«Siamo già a casa!» grida Arya, scalfendo l’aria con la mano aperta. Poi sembra calmarsi, china appena il capo senza smettere di guardarla. «A Londra…» comincia, interrompendosi subito.

Sansa osserva le sue nocche diventare bianche, si chiede cosa le stia nascondendo. Cosa le stiano nascondendo tutti.
Ma vuole davvero saperlo? E se fosse qualcosa di cattivo, se fosse qualcosa che potrebbe metterla in pericolo, vorrebbe saperlo comunque?

No, si dice. Finché non solleva appena il mento e parla.

«Cos’è successo a Londra?»

Un lungo sguardo di Arya è sufficiente.
Pericolo, paura, sangue. Altro sangue che scorre per quelle strade… e Sansa arriva a chiedersi se ne avesse mai visto – percepito – così tanto, prima di allora.

«Cos’è successo a Londra, Arya?»

Lo ripete a voce alta, come se fosse necessario.
Niente è necessario. Non più. Non più da quando Ned e Cat sono morti, da quando Bran è finito sotto le ruote di un auto e Jon vittima di un pazzo. Solo tentare e sperare di farcela.
Di aiutare suo fratello – sì, è mio fratello! – di farlo stare meglio.

«Non vuoi saperlo davvero.»

Perché? Vorrebbe chiedere, ma l’immagine del sangue – del rosso – torna prepotente nella sua mente, tanto da mostrarle ancora Jon a terra, in un lago purpureo.
Che c’entri proprio lui? Che c’entri Janos? No, come avrebbero potuto trovarlo? Sono spariti per qualche ora, da quando Sansa ha chiesto a Petyr di trovare Arya e di proteggerla.

«Sì, invece.»

Sua sorella fa cenno di no, e prende a fissare le lenzuola bianche stese sul materasso.
Sono così diverse – così abbaglianti – rispetto alla sua immagine di sangue. Come se fossero irreali.

«Lo abbiamo ucciso.»

Non c’è’ bisogno di fare nomi per sapere a chi Arya si stia riferendo.
Sansa si porta una mano alla bocca e aspetta. Non sa perché, ma si sente responsabile.

«Anche Petyr?»

Era convinta di averla solo pensata, quella domanda. Era convinta di non trovare il coraggio di rivolgerla proprio a lei. Perché immagina la risposta… e sa che non le piacerà.
Gliel’ho chiesto io. Sono stata io.

Arya annuisce appena. «Anche lui.»

Vorrebbe chiederle i dettagli, vorrebbe sapere com’è andata, chi si è mosso per primo, chi ha sparato-colpito-ucciso. Chi gli ha dato il colpo di grazia…
Ma poi pensa alle parole di sua sorella: “Sei uguale a lui.”
E non vuole essere come Petyr, non vuole abituarsi alla vista del sangue, non vuole diventare un pezzo di ghiaccio a ogni brutta notizia.
Sansa vuole piangere; vuole essere forte, è vero, ma vuole anche piangere. È così che fanno le ragazze, è così che è giusto comportarsi. È così che deve essere.

«Volevo usare il coltello» dice Arya, come se fosse una cosa naturale. «Come lui ha fatto con Jon. Ma Petyr me l’ha impedito.»
«E poi?»
«Sandor l’ha sollevato di peso e l’ha buttato di sotto.»

«È…» Smetti di fare domande, si ammonisce. «È morto subito?»
Arya annuisce con vigore. «È stato Petyr» aggiunge poi, mentre Sansa si volta per sistemare le lenzuola.

«A fare cosa?»
Una pausa, e lei sente gli occhi di sua sorella sulla schiena. Sembrano sondarle l’anima, proprio come quelli di Petyr, come se attendessero una sua reazione.

«A portarmi da lui. Sapeva dov’era Janos, lo conosceva. E quando gli ho chiesto perché, mi ha risposto che è utile avere conoscenze in una città come Londra.»

Lo conosceva. Due parole che Sansa sente ripetersi nella sua mente, rimbalzando da una parte all’altra del cranio. Le fanno venire il mal di testa, tanto che china il capo e stringe forte gli occhi.
Come faceva a sapere il suo nascondiglio?

“Ma io voglio che lo trovi.”
“Cosa farai di lui?”

Una domanda. Petyr lo aveva chiesto davanti all’ospedale, mentre parlavano di Arya e della sua ricerca di Janos. Mentre erano vicini, tanto che Sansa riesce ancora a sentire quel calore…

«Mi ha portato al suo appartamento» continua Arya, scostandosi una ciocca scura dal volto. «E lui l’ha riconosciuto subito.»

Si conoscevano.

Forse si conoscevano bene. Fin troppo. O forse no?
Sansa prova l’impulso di abbandonare la stanza e scendere al piano di sotto; di mettere Petyr alle strette e farsi raccontare tutto.

Ma lo direbbe, a me?

«Sai cosa significa?»
No, Sansa non lo sa. E non è sicura di volerlo sapere.

«Che Petyr sapeva tutto fin dall’inizio. Che quando ha saputo di Jon, invece che andare alla polizia, ha parlato con te.»

Sansa si volta lentamente, sollevando le palpebre. «Se non lo avesse fatto» comincia, soffiando appena quelle parole. «Ora Janos sarebbe vivo.»
E io non avrei paura.

«Vivo e in galera.»
«Pronto a uscire in pochi giorni…»
Arya muove i piedi in modo nervoso, sposta il peso da una gamba all’altra e incrocia le braccia al petto.

«Quindi approvi?»
«Che cosa?»

Sua sorella la guarda dritto negli occhi prima di rispondere. «Che lo abbiamo ucciso.»

Una pausa. Sansa vorrebbe rispondere di sì, vorrebbe confessare al mondo – e a se stessa – di essere felice di quella vendetta. Di aver ripagato il sangue di Jon.
Ma poi scuote la testa.

«Perché no?»

Non sa cosa rispondere. La verità è che il cuore palpita un sì troppo irruente per poterlo ammettere.
Ma si sono presi troppe libertà.

Lei stessa si è presa troppe libertà. Sbagliando.

«Andiamo di sotto» sussurra, tornando a fare il letto. «Finiamo le camere e torniamo di sotto.»
«Da Petyr.»

Anche da lui.

 

Quando è ora di andare a dormire, dopo aver mangiato, Sansa lo guarda per un lungo istante.
Petyr.
Vorrebbe non dover aspettare, prenderlo in disparte e chiederglielo.
Vorrebbe solo sapere perché. Perché le abbia nascosto Janos, perché non ha lasciato decidere lei.
Perché non gliel’ha detto.

«Buonanotte» mormora, mentre li guida in cima alle scale e mostra loro le stanze.

Non ha voglia di guardarli, di parlare con loro, di pensare a dove siano.
Nella sua casa, nella casa dei suoi genitori.
Non ha voluto farli dormire nelle camere dei suoi fratelli… Non vuole che domani – o chissà quando – arrivino Robb, Bran e Rickon – e Jon, non dimenticarti di Jon – e siano costretti a coricarsi dove ora sono loro.
Sansa entra nella sua stanza, si chiude la porta alle spalle e si abbandona contro il legno.

Vorrebbe piangere, implorare aiuto – per Jon, per Bran, per tutti loro – vorrebbe vedere sua madre, suo padre e lasciare che siano loro a risolvere tutto.
Ma non può…
C’è solo lei a Grande Inverno. Lei e Arya.

Arya ha ucciso un uomo, pensa Sansa. Perché Petyr gliel’ha permesso?

Altri pensieri si librano nella sua mente, mentre si corica a letto.
Un’ora, due ore, non riesce a dormire. Allora si alza e, girando piano il pomello della porta, esce in corridoio.

È tardi, è buio. C’è silenzio.

La camera di Petyr è poco distante dalla sua. La raggiunge in fretta e bussa alla sua stanza.
«Scusami» sussurra, entrando. Spera che Arya non si svegli – che il Mastino non si svegli – che nessuno la senta. «Avevo bisogno di parlarti.»
«Vieni con me» dice Petyr, come il giorno in cui si sono incontrati.
Le sfiora la mano – quella che Sansa ha stretto all’altra – e la guida alla finestra.

«Guarda.»

E Sansa obbedisce, come ha sempre fatto.
Vede la nebbia spargersi nel parco, coprire appena le luci dei fari. Sembra che un manto bianco – di neve, di casa – si stenda davanti a lei.
«Sembra neve» dice Petyr, attirandola a sé.
Sente la sua mano sul ventre e non dice niente. Come potrebbe? Quella visione l’ha riportata indietro nel tempo, a quando vivevano tutti in quella casa.
«È vero» conferma, in un sussurro. «Sembra neve.»
E quando Petyr cerca i suoi occhi – trovandoli a poca distanza dai suoi – Sansa china il mento, scostandosi appena.

«Conoscevi Janos.»

La magia si è rotta. Basta vedere lo sguardo sperso di lui per capirlo.
L’incanto della neve è tornato nebbia, la vicinanza di Petyr solo un’altra mancanza.
Perché Sansa è sola, ormai.

«Lo conoscevo.»
Ha capito, pensa. Ha capito che so.

«Perché non me l’hai detto?»
Petyr si scosta da lei e allarga le braccia. «Non me l’hai chiesto.»
Vorrebbe riservargli uno di quei sorrisi di scherno tipici di Arya, ma si limita a scuotere la testa.

«Come posso fidarmi di te?»

«È stata tua sorella a dirtelo?» sussurra, studiandola.
«Non avrebbe dovuto?»

No, lui non voleva che lo sapessi. Non così.

«Te l’avrei detto io, al momento giusto.»

Sansa lancia un’occhiata alla porta, come se fosse pronta a fuggire via da lì.
Da lui, dalle sue bugie.

«Non c’è un momento giusto. Avete ucciso un uomo.»

«Quell’uomo ha accoltellato il tuo fratellastro…»
È mio fratello, vorrebbe dire. Gridarlo a mondo, tanto forte da non farlo dimenticare più a nessuno.

«Credevo lo volessi» continua Petyr, inclinando la testa di lato.
Ero convinta di volerlo.

«Ti sei sbagliato.»

«Davvero?»

Di nuovo uno di quei sorrisi enigmatici, quelli che riescono a metterle i brividi. Cosa sarebbe in grado di fare, se solo volesse?
Fin dove si spingerebbe un uomo come Petyr?

Ha ucciso un uomo.
Anche Arya, risponde una vocina nella sua testa.

«Torna a dormire» mormora Sansa, prima di avviarsi verso la porta.

Sente il telefono squillare e volta il capo verso il comodino – è tardi, è notte – si chiede chi possa essere a quell’ora.
Non le importa.

«Aspetta.»

Lo sente implorare, un istante prima di aprire. Le basta guardarlo per vederlo improvvisamente invecchiato – la magia è conclusa, l’incanto è finito – come se temesse per lei.
O per sé?

«Dovresti rispondere» dice Sansa, uscendo in corridoio.

Socchiude gli occhi nel buio della casa, nel silenzio sovrano, tanto da chiedersi perché, quando è cambiata, come ha fatto a non rendersene conto?
Arya ha ragione su di lei? Davvero è uguale a lui?
Non ha il tempo di pensarci. Una figura scura e imponente è davanti alla porta della sua stanza, tanto da farle fare un salto.

«Sandor!» dice, tenendo il tono di voce più basso possibile.
Non può vederlo, eppure sente i suoi occhi addosso. Occhi che sanno di colpa.

«Cosa ci facevi da lui
Quel lui sputato con tanto disprezzo le ricorda Arya. In fondo sono simili, lui e sua sorella.

«Dovevo parlargli.» Come dovrei fare con te.

Una risata che ha il sapore di un ringhio, e Sansa sa che il Mastino non le crede.
Non può vederlo, ma le basta… le basta sentire la sua presenza, i suoi occhi addosso, la sua figura imponente.

«Non qui» mormora, aprendo la porta della sua stanza e spingendolo a entrare.

Se ne pente subito, tanto da chiedersi se non sia il caso di uscire e chiuderlo lì dentro.
Avrebbero potuto sentirci, pensa, come se fosse una giustificazione sufficiente.

«So quello che avete fatto» riprende, accendendo una luce e guardandolo finalmente in volto.

È orrendo, come sempre. Eppure anche confortante.
Ha salvato Arya, ha ucciso Janos.
Sandor non ha bisogno di parlare per risponderle. Basta la sua espressione cupa.

«So quello che tu hai fatto» insiste Sansa, sperando di farlo parlare.
Lui fa un passo verso di lei, tanto da farla indietreggiare.

«E tu allora? Che aspetti il buio per sgattaiolare nella stanza di un uomo con il doppio dei tuoi anni?»

Sente le sue accuse scivolarle addosso, come se non fosse vero niente.
Come se Petyr non le suscitasse nulla.

«Cosa vorresti dire? Volevo parlargli» risponde, imbronciata, stringendosi le braccia al petto.
«Voglio dire» Sandor fa un altro passo avanti, minaccioso. «Che dovresti smetterla con le tue bugie…»
«Io non mento. Sono andata da lui per chiedergli di Janos.»

«Nel cuore della notte, mentre tutti dormono?» Ora il tono del Mastino è rude, tanto che Sansa ha paura. «Come una puttana?»

Lo schiaffo lo colpisce in pieno; in una frazione di secondo la paura di Sansa svanisce e ricompare, più forte di prima – cosa le farà ora? – e il volto di Sandor viene deformato dalla rabbia.
Vorrebbe parlare – chiedere scusa, ma per cosa poi? – cancellare il suo gesto.
Tornare indietro e non invitarlo nella sua stanza, lasciarlo fuori, in corridoio, senza nessuna spiegazione.
Ma le mani di Sandor sono veloci – troppo veloci – e Sansa non riesce a scappare.
La stringono per le spalle, la scaraventano sul letto, e quando lei si ritrova il suo viso a un soffio dal suo – per uno schiaffo, per uno stupido schiaffo – resta solo la paura.
Senza la forza di reagire.

«Guardami» ordina, afferrandole il mento. Sansa stringe forte gli occhi, vorrebbe essere da un’altra parte – non aver mai tirato quello schiaffo, non averlo invitato in camera sua, non avergli chiesto di seguirla al nord. «Guardami!»
E Sansa obbedisce. Lo guarda.

«Potrei farlo» ringhia Sandor, come se non riuscisse a trattenere la rabbia. «Potrei fare ciò che voglio. Ma non lo farò.»

Si rialza lentamente, allontanandosi da lei, lasciandola inerme su quel letto bianco.
«Forse Ditocorto lo farebbe, al posto mio. Forse tutte quelle paroline che ti insegna – tutte quelle bugie con cui ti tiene in gabbia – ti faranno aprire le gambe per lui» Ringhia, sputa rabbia contro di lei, ma tutto quello che percepisce Sansa è dolore. «Tanto meglio. Ricordati questo, uccelletto: io ho potuto prenderti e non l’ho fatto. Ma lui…»
«Nemmeno lui» trova il coraggio di rispondere Sansa, restando coricata.

«Questo è quello che lui vuole farti credere.»

Di nuovo, negli occhi del Mastino, lei riconosce sofferenza e rabbia, una miscela esplosiva che potrebbe fargli cambiare idea. Spingerlo ad agire.
Così resta in silenzio.

«Vieni» mormora, mentre la sua voce sembra raschiare contro le pareti del suo cuore. «Andiamo via. Stanotte.»

Sansa muove la testa, impercettibilmente. Un gesto quasi invisibile che riesce a spezzare un uomo.
Sandor.

«Potrei aiutarti. Potrei proteggerti da Joffrey. Lui ti sta cercando.»

«Non lo hai fatto prima» sussurra Sansa, sollevandosi appena. «Perché dovresti farlo adesso?»
Ancora – sempre – è come se lei gli avesse piantato un coltello dritto al cuore.

«Resta con lui allora» ringhia, ancora – sempre – raggiungendo la porta. «Non è quello che credi. Ditocorto parla con Cersei. Si sono sentiti oggi al telefono.»
Se l’avesse insultata le avrebbe fatto meno male.
Perché Petyr dovrebbe sentire lei?

«Non ti credo.»
Non è vero. In realtà gli crede benissimo.
E la cosa fa male.

Un verso di disprezzo, e la porta si apre – ultima speranza, ultimo amico che se ne va. «Farai meglio a credermi, uccellino. Lui non si fermerà come ho fatto io.»
Sansa si solleva dal letto, dritta, in piedi, e stringe il pugno. «Sei crudele.»

«Dimmi, perché pensi che sia venuto qui? Perché pensi che ti stia proteggendo?» Sandor torna indietro, la scuote per un polso. «Vuole qualcosa da te. Pensaci, la prossima volta che sarai con lui.»

E quando il Mastino se ne va, Sansa sente il gelo scendere nella stanza.
Osserva le lenzuola bianche – fredde, sanno di ghiaccio – e sbarra forte gli occhi.

Ora sono sola. Lo sono davvero.

n 

Note dell’autrice:

Primo capitolo dell’anno nuovo!
Quindi, sentiti ringraziamenti vanno a Sb89 (lo sai!), a Stellina1990, a Relie_Diadamat, ghim92 e a BurnTheCandle, che mi fanno sempre conoscere il loro parere.
Vi aspetto nei commenti!

Celtica


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Capitolo 24
*** È solo nebbia ***


Vieni con me 24
n

 

 

N

on ha dormito.
La notte è corsa incontro a lei, volteggiandole intorno, come se fosse solo un desiderio lontano.
Sansa non è riuscita a riposare, a chiudere gli occhi e smettere di pensare.
E ora, mentre scende le scale della grande casa in cui è cresciuta, sente.
Ciò che è successo.
La verità.
La realtà.
Sandor non è più qui. Via, lontano, da lei, da loro, da un mondo che non sembra capire.
Da Petyr. Perché lo odia? Perché le ha detto quelle cose?

Eppure sono vere. Sono tutte vere.
Quando Arya la vede, è un lungo sguardo quello che invade gli occhi di Sansa. Sospetto, dubbio, rancore. Non si fida di lei, forse sa. Forse pensa le stesse cose del Mastino.

«Siamo a piedi» mormora sua sorella, seduta al tavolo della cucina a gambe incrociate. «Sandor se n’è andato.»
Lei non dice niente, si ferma sulla porta, appoggiando la schiena al muro.

«Come lo sai?»

«L’ho visto.»

Sansa fa un passo avanti, scuote il capo. «Cosa ci facevi lì fuori?»

«Non avevo bisogno di essere lì fuori per saperlo» sussurra in modo letale.

Li ha visti. L’ha vista.
Entrare nella camera di un uomo, portarne un altro in stanza… Cosa può aver pensato? Come funziona la mente di Arya, ora?
Anni fa, Sansa ne è sicura, avrebbe frainteso quelle immagini. Ma ora? Sarà forse peggio?

«Cosa pensi di fare?» chiede poi sua sorella.

Non si stacca nemmeno un istante dai suoi occhi, tanto che Sansa si sente costretta ad abbassarli per tornare a respirare.
Non lo sa. Non sa cosa fare. Non sa cosa dire.

«Pensi che Petyr abbia una soluzione?»

Ancora disprezzo, sempre disprezzo. Nei suoi confronti, nei confronti dell’unica persona rimasta ad aiutarle.
Non è giusto, pensa Sansa.

«Come mai non è ancora sceso, a proposito?»
«Non lo so» risponde lei in tono secco.
Non ne può più di domande, di accuse velate, di quegli sguardi. La fanno sentire in colpa, più di quanto non si sentisse già prima di tutto questo.

«Dovresti chiamarlo.»

Sansa alza la testa e stringe i pugni. È arrabbiata ora. Prende un lungo sospiro, e quando è pronta a parlare – a rispondere, a litigare – una mano sulla spalla la avverte che non ce n’è più bisogno.

«Chiamare chi?» chiede Petyr.

Arya incenerisce quel gesto – dita che scorrono sul suo braccio – con un solo sguardo.
Se avesse un’arma, Sansa ne è certa, lo ucciderebbe senza pensare.

«Te» sibila sua sorella, lasciando la sedia.

«Me. Perché me?»

Ora Petyr le gira intorno, tanto che Sansa incontra il suo viso. Non vorrebbe dover essere lei a rispondere. Preferirebbe silenzio, pace, calma.
Zero pensieri e preoccupazioni. Solo questo.
Ma Arya resta in silenzio, braccia incrociate e un piede che tamburella sul pavimento, in attesa.

«Sandor se n’è andato.»

Per una frazione di secondo, Sansa ha scorto un cambiamento nell’espressione di Petyr. Ma è stato così breve, così lesto, che non è nemmeno tanto sicura di averlo visto davvero.
Che si sia sbagliata?

«Andato dove?»

«Via» interviene Arya. «Con la nostra auto.»

«Con la sua auto» la corregge lui. «È venuto a prendermi sotto casa per venire a cercare te.»
Ora è rivolto a Sansa, e lei non riesce a fare altro che spostare il peso da un piede all’altro.
Aveva ragione… Tutto è partito da Cersei, come sospettava.
Altrimenti perché Sandor avrebbe chiesto aiuto a Petyr? Perché si sarebbe spinto fino a lui?

«Per portarmi indietro?»
Petyr resta in silenzio, ma la risposta è eloquente. «Sì» dice infine, studiandola.

«Cos’è successo poi?»

Lui non sembra ben disposto verso quella domanda. Come se non fosse un argomento di cui parlare.
O come se non lo sapesse.

«Ti abbiamo incontrata.»

«Che significa?»

Nonostante Arya, nonostante siano a Grande Inverno e abbiano discusso solo la sera prima, Petyr lascia scorrere la mano sul suo braccio, fino alla mano.
Quando la raggiunge, solleva di colpo il capo e sorride in quel suo modo enigmatico.

«È stato sufficiente. Joffrey, Cersei… ti avrebbero fatto del male. Avrebbero cercato vendetta. Non potevo permetterlo.»

Sansa stringe forte le labbra. «E Sandor?» Perché era d’accordo?
Di nuovo, l’espressione di Petyr muta, si trasforma per un brevissimo istante. Ed è di nuovo lui.

«Il Mastino» la corregge lui. «Non è stato difficile da convincere. Mi serviva che fosse dalla nostra parte. Dalla tua.»

Non sa perché, ma Sansa è sempre più convinta che sia tutta una grande bugia.
Sandor odia Petyr. Perché avrebbe dovuto accettare?
Lo ha fatto per me…
si risponde poi. Solo per me. Non per lui. Petyr non ha avuto bisogno di convincerlo.

«Ti ringrazio» Sansa sorride – impara da lui. “Sei come lui.” – e fa un passo indietro, perdendo il contatto con la sua mano.

«Questo non significa che non desideri ancora il tuo ritorno in città. Protetta, ovviamente.»

Arya fa un verso disgustato ed esce dalla stanza.
Ha ragione. Ma non posso fare altro. Non ora.

«Scusami» sussurra, seguendo sua sorella.

Ha lasciato la porta aperta, e Sansa ne segue le tracce fino alla strada nel parco.
E poi, scorgendo la macchia nera che si sta avvicinando – un’auto, allora è tornato? – si fermano entrambe ai cancelli di Grande Inverno.
Arya intreccia le dita alle sue e stringe gli occhi. Ora, c’è solo da sperare.

 

La notte precedente.

Sansa è appena uscita dalla sua stanza, il telefono sta ancora squillando, ma Petyr aspetta.
Immagina chi possa esserci dall’altra parte, chi possa averlo chiamato.
Vuole davvero affrontare quella conversazione?
Vuole davvero sentirla?
Pochi passi e raggiunge il comodino. Afferra l’apparecchio e lo osserva, come se potesse confidargli ciò che lo attende. Ciò che li attende tutti.
Quando preme il tasto di risposta, si strofina gli occhi, e respira contro il cellulare.
«Sì?»

«Sei sempre vivo, noto.»

«Fortunatamente sì.»
Prende a muoversi nella stanza, raggiunge ancora la finestra. Nebbia e neve; Sansa.
«Sfortunatamente» lo corregge Cersei.

«Punti di vista.»

Un momento di silenzio, e per un istante è la donna bionda che Petyr immagina nella coltre bianca.
Lei, il suo viso diafano, i suoi occhi che ruggiscono come quelli di un leone.

«Hai trovato ciò che volevi?»

Vorrebbe aggiungere maestà, ma si trattiene. Aspetta che sia lei a sfidarlo.
Che ci provi…
Cersei resta zitta, tanto che Petyr allontana il cellulare per controllare che sia sempre in linea.

C’è.

«Non direi, Ditocorto» dice Cersei con voce aspra. Non sembra contenta. «Sai come funziona, vero? Se il cane ti si rivolta contro, va soppresso…»
Lui non riesce a capire se si stia riferendo a sé o al Mastino.
È nella stanza accanto alla sua, non corre pericoli. E Petyr con lui.

«Così come un ragazzo che ama il sangue» ribatte. «Dicono che sia meglio ucciderli da piccoli…»
Un ghigno si forma sul suo volto, e anche se Cersei non può vederlo, è sicuro che riesca a percepirlo, a sentirlo, come se lo avesse davanti.

«Minaccia Joff e sei morto, Baelish. Se provi ad avvicinarti a lui, o anche solo a parlargli… sei morto. Sei avvertito. Jamie non te lo perdonerà mai.»
«Già» esclama lui, certo del suo potere. Perché è stato Joffrey, ha dato l’ordine a Payne; deve essere stato lui! «Che strano rapporto… una sorella e un fratello che proteggono il figlio di lei, più di quanto non faccia il padre.»

E ora, Petyr ce l’ha davanti: riconosce il suo sguardo di fuoco, il modo in cui allunga una mano per puntare il dito contro di lui. La vede.

«Bada…» sibila, ed è come se la terra tremasse in quel momento. Poi fa una pausa, e quando parla, il tono è diverso, stranamente dolce. «Non quanto quello di un uomo rifiutato che si prende cura della figlia di un altro. Speri che sia lei a sostituire Cat?»
No, risponde Petyr nella sua mente. D’istinto, come se fosse necessario. Non più.

«Joffrey ha mandato Payne a Londra» riprende lui, ignorando l’ultimo colpo – che fa male. «È stato lui a investire il fratellino di Sansa, Cersei. E nasconderlo, proteggerlo, non ti servirà. Presto tutti sapranno ciò che ha fatto. E ciò che tu hai fatto per lui…»

Un rumore.
Cersei deve aver stritolato il telefono, e Petyr la sente imprecare, come se servisse a qualcosa.

«È mio figlio.»

Lo so bene, pensa Petyr con un sorriso. E sarà la tua rovina.
La disfatta dei Lannister dipende da questo, da quella telefonata, da quanto riuscirà a giocare bene le sue carte.

«Tienilo fuori da tutto questo.»

«Tu tienilo fuori da tutto questo» risponde lui, sfiorando con le dita il vetro della finestra. Nebbia, è solo nebbia… «E forse potrei dimenticare chi ha mandato Payne… se sei disposta a sacrificarlo, ovviamente.»

Il respiro si Cersei si fa pesante, come se fosse in preda all’ira e si stesse trattenendo dal dargli addosso.
Meglio… Diventa una donna stupida quando è arrabbiata.

«Che cosa vuoi?»
Lo chiede a denti stretti, tanto che Petyr si ritrova a sorridere. Da vincente.

«Ho un elenco di cose… sei disposta ad ascoltare?»

«Un elenco?» Cersei sembra aver ritrovato la solita sicurezza, ma lui capisce che è solo un inganno. La sente ridere. Ancora disprezzo. «Dimmi cosa vuoi. E forse, se tra un minuto sarò ancora di buonumore, non chiederò a Jamie di ucciderti.»
Prima deve trovarmi.

Petyr si schiarisce la voce. «Sansa» mormora, stupendosi lui stesso di averla messa in cima ai suoi pensieri.
«Vuoi Sansa?» Cersei ride, incredula. Come se fosse una cosa troppo assurda. Persino per lui… «Mi avevano detto che eri invecchiato, Ditocorto. Che avevi abbassato la guardia. Ma non pensavo fino a questo punto…»

Petyr chiude gli occhi, cammina verso la porta, la raggiunge.
Accarezza la maniglia come se potesse essere lei, come se fosse ciò di cui ha bisogno.

«Non voglio ciò che non puoi darmi» risponde, facendola zittire. «Ma Joffrey dovrà lasciarla in pace. Dimenticarla. Fallo consolare da Margaery…»

«Quella sciacquetta! Tanto varrebbe lasciarlo in pasto a qualche sgualdrina…»
«Pensi questo dei Tyrell? Dei tuoi… alleati?»
La voce di Cersei si abbassa, scivolando lenta nel suo orecchio. Un misto tra fascino e abnegazione. «So che Olenna Tyrell ti ha aiutato. Non sono stupida, Ditocorto. So che complotta contro di me da sempre. Tutta invidia! Lei e quella serpe di sua nipote… credono di sapere tutto di me. Ma non sanno niente.»

Lui ascolta quelle confidenze in silenzio.
Per un momento, sentendo quelle parole, ha percepito ciò che celano. Ciò che prova anche lui, e che è costretto a nascondere al mondo.
Non sono più così diversi.

«Lascia in pace Sansa» dice, ignorando quei pensieri. «Questa è la prima condizione.»

«La seconda?»
Petyr accenna un sorriso, si allontana dalla porta e si appoggia contro il muro bianco. Nebbia… la nebbia è realtà.
«Smetti di intralciarmi. Smetti di rubarmi i clienti. Smetti di attaccare la mia compagnia… Lascia che ci provi, che tenti di farla crescere. L’azienda dei Lannister è troppo potente per preoccuparsi della mia.»

«È vero» lo interrompe Cersei, compiaciuta. Arrabbiata o compiaciuta, ecco come deve essere. «Siamo troppo importanti per occuparci di te, Ditocorto. Ti lasceremo in pace. C’è altro?»
«Payne» sussurra Petyr, pensando ad Arya. Alla promessa. A Sansa… «Dimmi dove trovarlo.»
Cersei ride per poi tornare seria.

«Vuoi davvero che ti venda uno dei miei uomini? Non sono te.»
No, non sei me… al tuo posto avrei già fatto briciole della mia piccola azienda.
O l’avrebbe inglobata, rendendosi l’unica realtà esistente.

«È la terza condizione, Cersei. E a questa non puoi dire di no.» A nessuna…

«Se ti dicessi di sì, se ti dicessi che Payne è ancora a Londra, ma che sta tornando… Che tra una settimana farà da autista a me e alla mia famiglia, per il discorso del Sindaco?»
«Ti ringrazierei, maestà
Cersei fa l’ennesima pausa, e Petyr è sicuro di averla sentita muovere.
Chiude gli occhi e la immagina seduta davanti a sé, mentre si accarezza una gamba sporgendosi in avanti.

«Ora basta con i tuoi giochetti, Ditocorto. Joffrey è… intoccabile.»

«Hai la mia parola.»

Sguardo cupo, serio, e d’improvviso la risata. «Non mi serve la tua parola, Lord Baelish… Non mi basta. Per bastarmi dovrei fidarmi di te…»
Ora, nella mente di Petyr, Cersei è in piedi; cammina sinuosa verso la porta, come se fosse il momento di salutarsi. Bella e letale.

«Cosa vuoi allora?»

Altra pausa, altro silenzio. Lei è davanti a lui, intenta a pensare a una risposta.
Cosa potrebbe mai chiedere?

«Avrai Payne» dice poi, ignorando la sua domanda. «Ma se ti vedo vicino a Joffrey, se sento anche solo il tuo odore… se penso che tu possa tradirmi… non ci sarà luogo in cui potrai nasconderti, Ditocorto. Jamie ti troverà e ti ucciderà. E Sansa tornerà nelle mani di Joff… e non come fidanzata. Scomparirà agli occhi del mondo; questo te lo posso giurare.»
Petyr stringe i pugni, resta al gioco. «Faresti del male a lei, dopo averla a lungo cercata?»

«Sansa è la chiave del nord. Se…»

«Ti sbagli» la interrompe lui. «Ha diversi fratelli, di cui uno più grande di lei…»
«E gli altri tutti minorenni. Lo so bene.»

Un lampo, e Petyr capisce.
È stato Joffrey a mandare Payne, ma non per il piccolo Stark… un incidente che poteva costargli la vita… e che avrebbe dovuto colpire qualcun altro. Robb.

«Joffrey» riprende lui, scegliendo le parole con cura. «Non voleva colpire Bran.»

Il silenzio di Cersei, questa volta, è la più chiara delle risposte. La immagina fermarsi davanti all’uscita, la vede deglutire… Chiude gli occhi e osserva la sua gola.
«Perché Robb? Per il nord? Per rendere Sansa unica erede? E una volta cresciuti i suoi fratelli… si sarebbe liberato anche di loro?»

«Taci…»

«Ormai possiamo parlarne. L’accordo è concluso…»
Cersei che socchiude le palpebre, che si porta una mano al volto chinando il capo. Quando lo rialza, nella mente di Petyr, è più bella di prima. Più furiosa di prima.

«Non dirai niente a Sansa?»

Non sembra credergli. Ma che interesse potrebbe avere, Petyr, nel dire la verità?
A cosa potrebbe servire?
Sansa starebbe peggio, e Arya vorrebbe vendicarsi anche dei Lannister. No, è un’informazione preziosa… che va svelata al momento opportuno.

«Perché dovrei?»

Cersei sospira, e quella davanti ai suoi occhi ha appena scostato una ciocca dalla spalla. «Joff odiava Robb, lo voleva morto. Ma non per i nostri interessi… Non ha voluto dirmi il motivo, ma ha chiesto a Payne di ucciderlo, di farlo sembrare un incidente…»

Perché? Si chiede Petyr.
Sansa lo saprebbe? Capirebbe cosa può aver scatenato questo odio verso suo fratello? Magari è stata lei… magari, per lei, Robb è intervenuto in sua difesa…

No, Sansa non mi ha mai raccontato niente del genere.

«Avrebbe fatto anche gli interessi della famiglia.»
«Sì» conferma Cersei. «Ma nessuno ne sapeva niente.»

Petyr pensa a Tyrion, a ciò che ha detto di Joffrey… un ragazzo strano, sanguinario, violento.
E Sansa sarebbe tornata da lui…

«Allora l’accordo è concluso?»

Gli sembra così strano, essere lui a voler chiudere la chiamata. Ma la serata non è andata esattamente come avrebbe voluto, e Sansa non è felice.
Non con lui. Non a Grande Inverno.

«Spero per te, Ditocorto.»

La chiamata si interrompe, Cersei esce dalla porta senza nemmeno salutarlo…
Petyr allunga una mano, come se trattenesse tra le dita un calice invisibile. Alla prossima, maestà.

 

Ora.
Sansa e Arya sono appena uscite, lui è tentato di seguirle.
C’è qualcosa che non va… perché il Mastino se n’è andato? Lo ha sentito, stanotte, camminare in corridoio, lo ha sentito scendere le scale, aprire una porta. Ha sentito bisbigliare.
Ma se anche avesse incontrato Sansa, Petyr non riesce a capire cosa sia accaduto per spingerlo ad andarsene.
Contava sul suo aiuto. Contava su di lui per sgominare i Lannister.
Ma adesso? Dove può essere andato?
Di certo, pensa, non sarà tornato da loro… non sarebbe da lui.

Un grido.
La voce di Sansa che lo chiama. Petyr corre fuori, riconosce la sua figura sottile sulla strada sterrata, mentre agita le mani nella sua direzione.

«Che succede?»

Scende la scalinata. Un punto nero in lontananza, un’auto che si fa sempre più vicina.
Che sia tornato? Che sia lui? Che abbia cambiato idea?

«Arriva qualcuno» dice Arya, stringendo la mano di sua sorella. Entrambe corrono verso il cancello.
Petyr le segue, nella bruma del mattino il silenzio è interrotto dal frusciare del vento tra gli alberi, dal cinguettio degli uccelli.

E poi lo vede.
È un uomo, un estraneo. Mai visto, mai conosciuto, dalla faccia poco raccomandabile.
Arya e Sansa indietreggiano quando capiscono che non è il Mastino.

L’auto si ferma, un gigante dai capelli rossi scende e le guarda. Poi esplode una risata che sa di paura, di tremolii sommessi, di violenza.
«Chi sei?» domanda Arya, mentre Sansa le va più vicina.
Oltre le loro spalle, oltre le loro teste, Petyr osserva l’uomo accarezzarsi la barba, smettere di ridere.
«Tormund. Dov’è il ragazzo? JON! Vieni fuori, corvo! Sei stato via fin troppo a lungo…»

Arya solleva una spalla. «Corvo?»

Tormund le guarda, prima una e poi l’altra. «Con quei capelli, come pensi che dovrei chiamarlo?»
Sansa fa appena un cenno, eppure Petyr percepisce la sua paura.
«Jon mi ha parlato di te» esclama poi, sforzandosi di fare un passo avanti. «Mi ha detto che avete fatto visita a nostro zio Benjen.»

Arya resta in silenzio adesso. Incrocia le braccia al petto e si lascia scompigliare i capelli dal vento.
Sansa li trattiene tra le dita, un’immagine che Petyr vorrebbe portare sempre con sé.

«È così» tuona l’altro. «Dov’è? Sta ancora dormendo, scommetto. JOOON.»
«Non è qui» interviene Arya.
«Puoi portarci da lui? Da Benjen?» riprende Sansa. Petyr la vede giungere le mani.

«Il ragazzo. Dov’è?»

Petyr pensa che sarà Arya a rispondere, che sarà Arya a dire cos’è successo a Jon… ma è Sansa che fa un altro passo avanti, sollevando in alto la testa.
Ma prima che lui possa ascoltare la risposta, il suo cellulare vibra, attirando la sua attenzione.
È un messaggio.

Il cane è tornato a casa.
Divertiti nel nord, Lord Baelish.
 

n 
 

Note dell’autrice:

Un po’ in ritardo, ma arrivo! Se seguite The Walking Dead, mi sento di riproporvi Fiore d'Inverno e una nuova long (commedia) che ho iniziato da poco, La prossima Volta.
Grazie a chi legge, recensisce, segue o preferisce.
Celtica

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Capitolo 25
*** "Vattene" ***


Capitolo 25
n


 

P

iena di speranza.
Sansa si sente così: come se il solo trovarsi su quell’auto, con Tormund che preme sull’acceleratore, fosse già una certezza. Trovare zio Benjen, scoprire la storia di Jon, farlo trasferire in una clinica.
È seduta dietro con Arya, ma nota le continue occhiate che Petyr le lancia tramite lo specchietto.
Da quel giorno lontano in cui è fuggita da Joffrey, lui non l’ha più lasciata.
È rimasto al suo fianco, le ha dato conforto, l’ha aiutata.
Il Mastino non può avere ragione. No. Petyr tiene a lei, più di Sandor, che se n’è andato senza una spiegazione.

Gelosia.
Forse è per quello… ma ora, mentre il gigante dai capelli rossi ride per qualcosa detto da Arya, Sansa si abbandona ai ricordi.

“Dov’è il ragazzo? Jon!”

Arya che fa un passo avanti, che solleva il mento, che lo invita a entrare. Arya che gli racconta…
Che rivive quanto accaduto a loro fratello.

“Puoi portarci da lui? Da Benjen?”

Silenzio. Passi pesanti sul pavimento della cucina, il liquido ambrato che trema nel bicchiere tra le sue mani. E un cenno.
Un cenno e una conferma che si trasformano in un fiume di parole.
La corsa in auto… Sansa che ripensa a Sandor, a quanto le ha detto prima di andarsene.

“Lui non si fermerà.”

Eppure, in quel momento, mentre incontra gli occhi di Petyr riflessi nello specchietto, lei allunga le labbra e sorride.
È rimasto, non se n’è andato. E Sansa si fida di lui…
Come potrebbe essere altrimenti?
Joffrey le ha stretto le mani intorno al collo; Petyr ha fermato l’auto e le ha chiesto di salire…

“Penserò io a te.”

Sandor può dire ciò che vuole, ma è rimasto inerte, fuori dalla porta, mentre il ragazzo che amava – che credeva di amare – alzava le mani su di lei.
Petyr le ha offerto una via di fuga: perché non dovrebbe fidarsi di lui?
Arya stringe le dita sulla sua mano: si è accorta di quel sorriso. Forse ha capito a chi era rivolto.

Per il resto del tragitto, Sansa tiene gli occhi fissi sulla strada, mentre la brughiera si fa sempre più tetra. Distese immense e vuote, dove sono solo loro.
Lei che ama i colori… che adora il calore del sole, il profumo del mare, la vita di città.
Mentre lì c’è solo silenzio.

Proseguono, Arya fa una battuta a cui scoppiano tutti a ridere.
L’idea di trovare Benjen sembra aver calmato anche lei.
E poi, dopo ore, Tormund rallenta e indica un punto davanti a loro, così lontano da risultare minuscolo.

«Cairnryan. Da lì prenderemo un traghetto per Belfast.»

«Pensi che lo troveremo in Irlanda?» chiede Sansa, sentendo il respiro farsi irregolare.

Il gigante solleva le braccia e spinge al massimo sul pedale, tanto che persino Petyr cerca dei punti dove reggersi.
Arya, invece, è di nuovo concentrata, come se l’idea di non trovare lo zio si fosse tramutata in certezza.

Da Belfast, Tormund li porta verso Dublino, come se fosse un suo obbligo personale. Eppure Jon non ha mai parlato di lui… Solo un accenno, solo una parola per definirlo: amico.
Nient’altro.

Quando raggiungono la città, è tardi. Sansa pensa di non aver visto niente di tanto bello da troppo tempo… superano la St. Patrick Cathedral, poi Tormund ferma l’auto e li guida a piedi per le strade di Dublino.
Sansa si guarda intorno, ammira i palazzi alti, gli acciottolati, il ponte sul fiume Liffey, e si chiede perché Benjen sia venuto lì. Che cosa fa? Perché non ha cercato la famiglia di suo fratello, i suoi nipoti, perché non è andato da loro?

Petyr cammina al suo fianco, e quando lei si volta – attratta dall’odore di un chips and lips – le prende la mano.
Arya è davanti a loro, al fianco di Tormund. Non può vederli.
Forse è per quello che ricambia la stretta, che china la testa, lasciando scivolare le ciocche rosse sul petto, che gli lancia una lunga occhiata.

Lui fa lo stesso.

Restano a guardarsi, mentre le voci della gente riempiono le strade illuminate dalle luci dei pub.
Poi il gigante si ferma. Arya con lui.
Mentre solleva il capo verso la chiesa, Sansa ritira la mano, giungendola all’altra.

«È qui?»

Arya storce il naso. «In una chiesa?»

Non hanno bisogno nemmeno di entrare. Vedono uscire un prete e Tormund lo raggiunge. Forse, pensa Sansa, vuole chiedere informazioni.
Parlano fitto fitto, e lei non riesce a sentire una parola.
Ma poi, quando solleva gli occhi e lo guarda meglio, riconosce i lineamenti. Lo sguardo. Il sorriso.

È lui.

 

Sono seduti in un ristorante, per la felicità di sua sorella.
Petyr è sulla panca vicino a Sansa, una mano sul bordo del tavolo e l’altra sulle ginocchia. Ha un sorriso – quel sorriso – che sembra dire quanto sia interessato a quel racconto.
Ma lei sa che non è così…

«Non avrei mai pensato di trovarti vestito di nero» dice Arya, scorrendo l’indice sul menù.

«Non lo pensavo neanch’io. Ma era la volontà di mio padre.»

Sansa si china appena in avanti. «Come mai non ne sapevamo niente?»

Benjen scrolla le spalle, beve un sorso di birra. «Dopo l’incidente era doloroso per me pensare di rivedervi. Diciamo che è stato allora che ho trovato la fede.»
Arya scambia uno sguardo con lei, interrotto dal cameriere che poggia un piatto sul tavolo. Sono focacce. Focacce a forma di lupo.

«Dicci di Jon» esclama sua sorella, con la bocca piena del piatto omaggio. «Come vi siete trovati?»

«Amici. Alcuni amici gli hanno detto dov’ero.»

D’istinto, Sansa lancia un’occhiata alla finestra, dove Tormund sta fumando una sigaretta sul marciapiede. Amici.
Non sa perché, ma tutto le ricorda Jon. Tutto. Il modo brutale che ha il gigante di ridere, l’espressione tetra di zio Benjen – come se sapesse già il motivo per cui sono lì – persino il cielo cupo sopra Dublino.

«L’hai riconosciuto subito?»
«Ma certo. Come ho riconosciuto voi.»

Senza volerlo, Sansa coglie un luccichio divertito negli occhi di Petyr. Senza volerlo, sotto il tavolo, allunga il mignolo verso di lui, a toccare la sua mano.

«Sono passati anni» Arya fa una smorfia.
«Eppure vi ho riconosciuto.»

«Magnifico.»

«Ma ditemi» prosegue Benjen. «Non mi avete ancora spiegato come mai Jon non è con voi.»

Uno sguardo, poi Arya comincia a raccontare. Ancora.
Come se rivivere quella notte potesse aiutarle ad accettarla.
E quando finisce di ricordare, l’espressione dello zio non sembra stupita. Non quanto dovrebbe.

«Si è messo nei guai…»

«No» lo corregge Sansa, mentre le dita si Petyr si intrecciano alle sue. «Jon voleva solo proteggermi. Non poteva immaginare che…»

«C’è un motivo se hanno fatto tanta strada» la interrompe Petyr, lasciandola. Appoggia i gomiti al bordo del tavolo e si regge il mento con le mani. «Il ragazzo… ha un problema. Servono documenti, informazioni, un foglio firmato da un parente che permetta lo spostamento in una clinica privata.»
Arya stringe gli occhi e aspetta una risposta da Benjen.

«Cosa posso fare per voi? Perché non se n’è occupato Robb? O Sansa…»
Lei giunge le mani e si sporge in avanti. «Non potevamo, zio. Abbiamo guardato dappertutto… ma non abbiamo trovato niente. Nessun documento di Jon, niente di niente. Come se non fosse nostro fratello…»

Petyr le sorride: ha capito il suo gioco.
Nominare subito loro zia, fuggita chissà dove, non avrebbe portato a niente. Deve essere lui a decidere di parlarne.

«Non bastava una firma, o qualcuno di voi che ne attestasse la parentela…»

«No» dice Arya, facendosi più vicina a Benjen, come se volesse impedirgli di andarsene.

«E avete fatto tanta strada solo per… per cosa?» chiede, dopo una pausa.

Stavolta è Sansa a guardare sua sorella, a stringere le labbra un istante prima di rispondere.
Poi fa un sospiro.

«Speravamo che tu potessi dirci chi è. Chi sono i suoi genitori. Sappiamo che non è davvero nostro fratello» aggiunge, mentendo, come se fosse l’unico modo per ottenere la verità.

«E come lo sapete?»

«Lo sappiamo e basta» dice Arya, voltando tutto il corpo verso di lui.
Benjen abbassa gli occhi, si volta verso la finestra, dove il cielo sembra minacciare pioggia.

Come starà Jon?

«È una storia che non dovreste sapere» mormora.
Poi, comincia a raccontare.

 

Petyr non pensava che avrebbe mai dormito a Dublino, che avrebbe affittato diverse camere per la notte solo per stare vicino a Sansa.
Invece ora è lì che cerca di prendere sonno, l’occhio fisso sulla porta. Come se lei potesse entrare in quella stanza, come se potesse voler stare con lui.

Non è così.

Non stanotte, non dopo quello che ha scoperto. Che possa volgere a suo vantaggio? O a vantaggio di lei, in qualche modo?
Non lo sa, e forse nemmeno gli importa. Non ora, non con lei dall’altra parte del muro, rannicchiata sotto le coperte mentre cerca di dormire.

Forse, se Cat avesse saputo, non avrebbe odiato il ragazzo. Forse lo avrebbe accettato, compatito, forse persino apprezzato.
Petyr ricorda un giorno lontano, in cui l’aveva incontrata. Lei, Eddard e i bambini. Tutti i bambini. Anche il bastardo.
Ricorda il modo in cui lei sembrava escluderlo, il modo in cui allungava carezze e sorrisi a tutti gli altri. Tranne che a lui.

Povera Cat. Se solo avesse saputo…

Se anch’io avessi saputo… le cose sarebbero andate diversamente. Forse ora non ci troveremmo qui.

Un bussare alla porta, la certezza che si tratti di lei.
Petyr balza in piedi, raggiunge l’uscio e lo apre.

«Sansa» sussurra, scostandosi. «Entra.»

Lei china la testa e obbedisce, come se ci fosse abituata.
Quando sono soli, davvero soli, con le luci del corridoio svanite, si lascia andare a un lungo sospiro. E lo guarda.

«Tu lo sapevi?»

«No» risponde, con un cenno della testa. «Certo che no.»
Ed è stata una grave mancanza, la mia…

Sansa resta a studiarlo, incerta. È come se Petyr potesse sentire la sua mente – il suo cuore – mentre decide se fidarsi di lui.
«E ora?» domanda, stringendo gli occhi rivolti alla finestra, da cui entra l’unica luce.

Nella penombra, Petyr scorge i riflessi dei suoi capelli, che appaiono neri.
Non sa nemmeno lui cosa fare, cosa dire.
Cambierà qualcosa, ora?

«Non me lo aspettavo» aggiunge Sansa.

«Nessuno di noi se lo aspettava.»

Benjen si era tirato indietro, contro lo schienale della sedia. “Quattro fratelli, Lyanna sempre tra i piedi… non era come le altre. Ned la ammirava. Tutti la ammiravamo. Amava gli sport, e credo sia per questo che sia io che Ned abbiamo fatto di tutto per non farci superare da lei.
“Da bambini è così che funziona… Competizione.”
Arya aveva sorriso guardando Sansa.
“Ma crescendo… impari che le cose non vanno come ti è stato insegnato.”

Nella penombra, Petyr fa un passo verso di lei, giusto un istante prima che Sansa frapponga una mano tra loro.
«Dovresti andartene» mormora lei con un filo di voce, socchiudendo gli occhi.

«Perché?»

«È meglio per tutti. È meglio per me.»

«Ho fatto qualcosa?»

È la prima volta che si sente così, con lei. Come se la neve vista – immaginata, sognata – a Grande Inverno, la nebbia languida sui fari esterni, fosse penetrata fino alle ossa. E con lei il freddo.
Sansa spinge il palmo contro il suo petto, e fa male, fa male come aver guardato Cat danzare con un altro. Baciare un altro.

«Per favore» insiste, guardandolo negli occhi. «Non farti trovare domattina. Va’ via.»

«Sansa, se potessi cancellare…»

«Non dirlo. Ti credo. Non ne sapevi niente, in fondo chi poteva immaginarlo? Ma voglio che tu te ne vada.»

“E Lyanna aveva degli ammiratori?” aveva chiesto Sansa.
“Oh, sì. Molti. Ma Lyanna ha il sangue del lupo… e tu, Arya, tu le somigli molto.”

«Perché?» Petyr resta immobile, osservandola raggiungere la porta. «Se mi dirai perché, me ne andrò.»

«Non hai bisogno di un motivo… Vattene, per favore.»

Sansa si ferma davanti all’uscio, la mano sulla maniglia e la testa china.
Lui la conosce troppo bene, crede di conoscerla troppo bene, per non capire. Per non sapere.
Un passo, si avvicina a lei, lento come se temesse una sua fuga.

«Continui a dirmi di andarmene…» sussurra, girandole intorno, bloccando l’uscita. «Ma sei ancora qui.»

E quando Sansa sgrana gli occhi, sa di aver visto giusto. Sa che non se ne andrà.
Scorre la mano sul legno, fino alla maniglia. Basta sfiorarle la mano per sentirla sussultare.

«Credevo che tu sapessi. Che fosse colpa tua quanto accaduto a Jon. Credevo fossi stato tu…»

«E mi hai tenuto vicino?»

«Sì» “Come mi hai insegnato” è una frase che rimane sospesa nell’aria tra loro, come un segreto che custodiscono entrambi.

“Lo diceva anche mio padre”, aveva risposto Arya, compiaciuta. “Mi piacerebbe conoscerla…”
“Lei non è qui. Non so dove sia, da quando ha preso a viaggiare nessuno ha più saputo niente di lei. Potrebbe anche essere morta… Ah, Lyanna…”
Petyr aveva inclinato la testa di lato, studiandolo. “Da come ne parli, sembra che tu l’abbia conosciuta
molto a fondo…”
“È sua sorella” era intervenuta subito Arya. “Funziona così tra fratelli, Baelish.”
“Zio” Sansa si era fatta avanti, posando il palmo aperto sul tavolo. “Non siamo qui per la storia di Lyanna, ma per Jon. E non abbiamo… tempo. Jon non ha tempo.”
“Puoi dirci chi sono i suoi genitori? Nostro padre c’entra qualcosa con lui?”
“Sì” aveva sussurrato Benjen dopo una pausa. “Vostro padre sapeva tutto. E li ha protetti…
Ci ha protetti.”

«Perché?» chiede ancora Petyr. «Sei venuta qui per mandarmi via, ma ora sei tu a restare. Perché, Sansa?»
Nel buio, coglie il suo sguardo, ciò che vorrebbe dire e non dice.

«Io… devo andare.»

Un colpo incerto, la maniglia che si abbassa, lasciando entrare la luce del corridoio.
Sansa stringe gli occhi, accecata, mentre lui ritrova i suoi colori, quei colori che ricordano Cat.
In un istante, la mano di Petyr si stringe intorno al suo polso, tirandola dentro.

«No» sussurra, spingendo la porta per richiuderla. «Non devi.»

“È stato… un caso? Dopo una partita di calcio, Lyanna che faceva equitazione lì vicino. Un temporale, la casa vuota… è successo e basta.”
“Cosa intendi?” aveva chiesto Sansa. “Non capisco.”
“Lyanna è la madre di Jon” risponde Benjen, mentre lo stupore si allarga sul volto di Petyr. “E io sono…
dovrei essere suo padre.”
“Per questo sei venuto qui? Per questo non ti sei mai fatto vivo con noi?”
Il cielo scuro riflesso negli occhi, Benjen aveva fatto appena un cenno. “Lyanna è scappata. E io… io ho fatto lo stesso.”

«Non devi» ripete Petyr, tirandola verso di sé. «Non devi andare più da nessuna parte.»

«Ma non capisci? Siamo venuti qui per niente!»

Ora, nella sua voce, riesce a sentire tutto. Tutto ciò che ha provato, il sospetto nei suo confronti, chiedergli di andarsene, di lasciarle sole… pensando che sia tutto perduto.
Fa scorrere le mani intorno al collo, lungo le spalle, fino alle braccia. Si china per baciarla quando qualcuno bussa alla porta.
Sansa si scosta subito, mentre Petyr va ad aprire. È Arya.

«Sansa» chiama, con un’espressione indecifrabile. «Non eri in camera tua, così ti ho cercato qui.»

La vede arrossire, gote e capelli rossi che evidenziano gli occhi chiari.
Se solo non fosse arrivata Arya…

«Cosa c’è?»

Sua sorella sembra arrabbiarsi, eppure, in un momento, un sorriso si allarga sul suo volto.
Come se non potesse trattenersi dalla felicità.

Che abbia sentito Benjen? Che lui abbia trovato dei documenti?

«Jon» dice Arya, concentrandosi solo su Sansa. «Mi ha chiamato Robb. Ha detto che tu non rispondi mai, che ha provato a chiamarti per tutto il pomeriggio…»

«Sì, sì, vai avanti. Come sta Jon?»

Lei sorride, ancora, forse persino più di prima. «I dottori dicono che è fuori pericolo. È salvo, Sansa. Jon ce la farà.»

 n

Note dell’autrice:

Ciao a tutti!
Mi dispiace davvero tantissimo di essere in ritardo. Odio essere in ritardo, ma è un mese che arrivano complicazioni, una dietro l’altra. Spero che il capitolo vi sia piaciuto, anche la mia interpretazione sulle origini di Jon. In fondo, dai libri non arrivano ancora certezze di nulla, no?
Grazie a chi ha letto, a chi vorrà lasciarmi un parere o aggiungere la storia tra preferite/seguite.
Scusatemi ancora per il ritardo.
A presto!
Celtica

 P.S.: vi lascio anche il link a una storica pubblicata da poco: Alba Cosacca. Grazie a chi deciderà di leggere!

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Capitolo 26
*** Per lei ***


Vieni con me 26
Dove eravamo rimasti?

Sansa, Arya, Sandor e Petyr giungono al nord
in cerca di un documento che potrebbe salvare la vita di Jon.
Non lo trovano. Dopo una discussione, Sandor abbandona il gruppo e torna da Cersei.
Tormund, un vecchio amico di Jon,
arriva a Grande Inverno e accetta di accompagnare il trio dallo zio Benjen,
che racconta loro le origini di Jon: è lui suo padre.
Dopo che Sansa ha chiesto a Petyr di andarsene,
Arya riceve un messaggio da Robb: Jon è fuori pericolo.


nn


 

S

embrano passati mesi. Sansa abbandona il capo contro il finestrino dell’auto, improvvisamente stanca. Turmund e Arya stanno parlando, ma lei non ascolta. Petyr è in silenzio.
C’è allegria nell’aria. Eppure lei non riesce a provarla…

“Jon ce la farà.”
Cosa accadrà ora, quando torneranno a Londra? Cosa accadrà quando avranno visto Jon, quando tutto sarà finito?
Di chi può davvero fidarsi? Se è vero che Petyr si sente con Cersei… se è vero che ha uno scopo…

“Non hai bisogno di un motivo… Vattene.”

Respira contro il finestrino, appannandolo. Ciò che è successo dopo quelle parole è confuso nella sua mente, come se lo avesse solo sognato.
Arya che informa zio Benjen. Arya che chiama Tormund. Arya che decide di partire all’alba.

Non ha dormito. E dubita che qualcuno di loro ci sia riuscito.
Benjen li ha salutati, li ha benedetti. Ha chiesto di mantenere il segreto, soprattutto con Jon. Ma Sansa non è sicura, non è sicura di niente ormai… E se avesse mentito? Se avesse mentito come ha fatto loro padre, come fa Petyr?

“Ricordati questo, uccelletto: io ho potuto prenderti e non l’ho fatto. Ma lui…”

Non ha più avuto notizie di Sandor. Vorrebbe che fosse con loro, che rendesse quella situazione reale… Lui direbbe le cose sbagliate, non gli importerebbe nulla di quanto accaduto a Jon.

Sansa ne sente la mancanza. Di cuoio e alcol e violenza. Di una voce rude. Di uno sguardo duro.

Lui sa qualcosa – su Petyr, su Joffrey – che non vuole dire. Ma lei ha bisogno di sentirlo… Ha bisogno di capire, di chiarirsi le idee, di prendere una decisione.
Sente gli occhi farsi pesanti. Li chiude. Un sospiro e cade nel sonno.

 

Quando li riapre, non è più in auto. I boschi la circondano, e una montagna la sovrasta. La terra sembra tremare. Dove sono gli altri?
Sansa gira su se stessa, vede una casa di legno, riconosce il lago. C’è Jon, inginocchiato sulla riva. Lei vorrebbe raggiungerlo, ma ha le gambe così pesanti… Si volta, e la casa è scomparsa. Al suo posto c’è un palazzo alto, con una porta nera e i caratteri dorati: Baratheon, dice la scritta.

La testa di leone.

Osserva con orrore il pomello della porta. Joffrey è qui. Deve averla trovata. Sansa cerca di raggiungere Jon, ma i piedi affondano nel fango e lei viene tirata giù, sempre più giù, finché non riesce nemmeno a respirare…
“Sansa”, chiama una voce. “Sansa…”
Solleva le braccia in alto, annaspa nella terra molle, cerca di gridare. Non interviene nessuno…

«Sansa!»

Sansa apre gli occhi, specchiandosi in quelli di Arya. Il respiro le si ferma in gola. «Siamo quasi arrivati.»

«Ma… eravamo appena scesi dal traghetto… Io…»

«Sì» sospira Arya. «Tu hai dormito tutto il tempo. Stanotte non hai chiuso occhio nemmeno tu, eh?»

Sua sorella sembra stranamente allegra. Come se tutto fosse risolto.
Poi Sansa spalanca gli occhi, guarda l’interno dell’abitacolo.

«Dov’è Petyr?»

Tormund è alla guida dell’auto. Arya è riuscita a convincerlo ad accompagnarle a sud. Ma Petyr?
Non riesce a deglutire.

Arya scrolla le spalle. «Andato. È sceso più di un’ora fa, ha detto che si sarebbe fatto venire a prendere.»

E io?, pensa Sansa. Non mi ha svegliato. Non mi ha nemmeno salutato.
La delusione nei suoi occhi dev’essere evidente, perché Arya continua a fissarla…
Ricorda le parole di Sandor, le promesse di Petyr. Si chiede a chi dei due deve credere… Chi è davvero dalla sua parte?

«Ha lasciato una cosa…» riprende Arya, assecondando i movimenti dell’auto. «Per te.»

«Cosa?»

Immagina una lettera. Lunga, piena di giuramenti, parole che sua sorella non può e non deve leggere.
Le sembra di averla già tra le mani.
Quando una busta compare davanti ai suoi occhi, Sansa ha quasi timore di prenderla. Poi lo fa, se la stringe sullo stomaco.

«Non la apri?»

Lei scuote la testa. Non ancora. Vuole aspettare di essere sola.
La città compare in lontananza, palazzi e brividi, vie affollate, Jon in ospedale… Cosa accadrà dopo? Joffrey continuerà a cercarla? Petyr la proteggerà ancora?

Non devi contare sugli altri.

Quando l’auto si ferma, Arya scende di corsa, sparendo oltre le porte scorrevoli. Tormund lascia la macchina in doppia fila e scende anche lui.
Sansa li segue.

«Sansa!»

Robb sembra felice di vederla. È più bello con la barba curata e i vestiti sportivi. Gli brillano gli occhi.
Lei si lascia stringere, affonda il viso nell’incavo della sua spalla, aspira il suo profumo, l’acqua di colonia che usava anche loro padre, e aspetta.
Aspetta che tutto passi, che l’abbraccio sciolga ogni dubbio, che rimangano solo certezze. Che Robb risolva tutto, che Jon si risvegli e Petyr e il Mastino svaniscano dalla sua vita.
Non vuole più pensare. Vuole solo svegliarsi da quell’incubo. Dimenticare ciò che le ha fatto Joffrey, l’umiliazione e la violenza.

«Andrà tutto bene. Jon si riprenderà, vedrai…»

Arya è già nella sua stanza, china sul suo letto. Gli stringe la mano.
Sansa si fa più piccola tra le braccia di Robb. Sì, può restare lì, a Londra, con la sua famiglia. Può coccolare i suoi fratellini, stringersi a Robb ogni volta che vuole. Fare pace con Arya…

«Lo so» sussurra. Ora ci siete voi.

Trascorre il resto del tempo con lui, alla macchinetta del caffè, a parlare della loro avventura nel nord. Tormund è con Arya nella stanza di Jon.
«E com’è?» chiede Robb, seduto al suo fianco.
«Cosa?»

«Grande Inverno.»

Sansa sorseggia il suo caffè. Neve… Ha la neve nel cuore. «Come la ricordavo… Come quando c’eri anche tu. A parte il cancello arrugginito…»

«Jon ha lasciato arrugginire il cancello?!» Robb sorride di sollievo. «Non lo avrei mai detto.»
«Sì, invece.» Sansa ride con lui. Robb è perfetto. Proprio come ho sempre immaginato Joffrey.

Poi lui solleva gli occhi – gli stessi suoi e di sua madre – verso il soffitto. Sembra tranquillo. «Mi ricordo un giorno d’inverno, tu e Arya che litigavate nella neve… Nostro padre ha riso tutto il tempo senza intervenire.»
Sansa annuisce. «Tu e Jon siete venuti a dividerci. Lo ricordo bene.»
«E tu te la sei presa con Jon» riprende Robb, guardandola. «L’hai chiamato bastardo…»

«Me ne pentirò sempre.» Ma ora è mio fratello. Ora conosco la differenza.

Sì, non vuole più lasciare Londra. Può studiare anche lì, insieme a loro. Cambiare corso e amicizie, restare con la sua famiglia.
Sua madre approverebbe.

Trascorrono un’altra ora a parlare, poi è Robb il primo ad alzarsi. «Devo andare a casa, da Bran e Rickon. Perché non vieni con me? Resterà Arya al capezzale di Jon.»

Sansa sorride come se fosse la prima volta. È felice. Sbottona il primo bottone della camicetta ed è subito in piedi. Fa un cenno verso la camera di Jon, parlando a Robb con gli occhi: devo avvertire Arya.

«Ti aspetto fuori.»

Lo guarda andare via, dritto e bello come non lo ricordava.
Raggiunge sua sorella e le chiede di uscire dalla stanza.

«Robb va a casa. Mi ha chiesto di andare con lui. Non mancheremo molto.»

«È già sceso? Volevo parlargli…»

«Potrai farlo al nostro ritorno.»

Arya la ignora e prende a scendere le scale insieme a lei. Lo vedono parlare con un’infermiera al piano terra. Sansa sorride guardandolo raggiungere la porta.
Ancora pochi gradini. Lo hanno quasi raggiunto.

«Robb!» chiama Arya.

Sansa continua a sorridere, infila le mani nelle tasche dei pantaloni e… c’è qualcosa. La lettera.
I suoi fratelli devono parlare, forse può approfittarne per dare un’occhiata…

Robb è fermo davanti alle strisce pedonali.

Arya accenna una corsa, poi si ferma. Suona il suo telefono.
La carta bianca non è liscia, si accorge Sansa. Come se fosse stata piegata. Apre la busta pensando di trovare centinaia di parole scritte per lei… Invece no. Dentro c’è solo un biglietto.

«Pronto?»

Robb si volta, come per aspettarle. Solleva gli occhi al cielo, in trionfo, e sorride. Come se tutto fosse andato bene, come se la vita si fosse improvvisamente ricordata di lui.
Sansa è felice di guardarlo. Estrae il biglietto.

«Che significa?» La voce di Arya si incrina. Il suo volto sbianca di colpo.

Non centinaia di parole, nemmeno dieci. Sansa inclina la testa di lato, confusa. Non riesce a capire. Rilegge il biglietto con più attenzione.

Attenta ai tuoi fratelli. Sono stati i Lannister.

Solleva la testa di scatto. Arya è a pochi metri da lei. Robb sta per attraversare.
In lontananza risuona la sirena di un’ambulanza.

«No…» Sua sorella barcolla in avanti. «Ci sono i miei fratelli lì dentro…»

«Arya, cosa succede? Arya!» Sansa la afferra per un braccio, la costringe a voltarsi. Cerca Robb con uno sguardo. Sta attraversando la strada. «Robb!» chiama.
L’allarme è sempre più vicino.

«Quando è scoppiato l’incendio?» chiede Arya, gli occhi vacui.

Sansa ha una brutta sensazione. Sente i denti tremare. «Robb!» chiama ancora. Robb, vieni qui. Dimmi che non è vero niente.
Lui si ferma sulle strisce. Si volta. Ha ancora un sorriso stampato sul volto.
L’allarme risuona nelle orecchie, come un avvertimento. Sansa lo capisce troppo tardi. «No! Robb, Robb!»

L’ambulanza compare all’improvviso oltre la curva. Robb è sul suo cammino.

 

Petyr si è fatto lasciare ai confini della città. Non vuole tornare a Londra, forse non può.
Fa una telefonata e aspetta. Poi ne fa un’altra. Alla terza, sente l’animo più pesante e il cuore grave.

Sansa.
Le ha lasciato un biglietto. Non si è perso in chiacchiere, sa che non sarebbe servito a niente.
Passa mezz’ora prima che l’auto lo raggiunga.

«Mi aspettavo chiunque» esordisce Petyr quando il finestrino si abbassa. «Ma non te.»

Tyrion abbassa gli occhiali da sole e lo guarda con il sorriso stampato in faccia. «Mia sorella ha mandato me. A quanto pare hai qualcosa in sospeso con il Mastino… Si può sapere di che si tratta?»
È una giornata di sole. Una giornata che Sansa apprezzerebbe. Petyr sorride e sale in macchina – un’auto fatta apposta per un nano – l’immagine di lei davanti agli occhi.

«No.»

«Certo che siete proprio strani… Prima mi chiami per distruggerla, poi Cersei mi manda a prenderti per un incontro. Che diavolo è successo?»

Tante cose, pensa Petyr mentre l’auto riparte.
Il nano è quasi ridicolo. Vestito tutto di rosso, occhiali scuri, gel nei capelli.

«Oh, questo? L’hai notato» mormora Tyrion, dando gas al motore. «Una scommessa persa…»

«Con chi, se posso chiedere?»

Uno sguardo e la risposta è chiara. «Il Mastino.»
Petyr ride. Non aveva idea che il Mastino avesse una vena ironica. «Che tipo di scommessa?»

Adesso il sorriso di Tyrion si allarga. «Su te e Sansa Stark. Oh, non guardarmi così! Era una scommessa innocente… e fortunatamente non ho perso del tutto. Solo la parte che riguardava te.»
Se Sansa fosse qui…
Cambierebbe qualcosa?

«Illuminami.»

«Alle spalle di mia sorella, ovviamente. Joffrey e Cersei non ne sanno nulla. Uno scherzetto innocente tra me e Clegane… O meglio: tra me e me.»

Petyr inclina la testa di lato, confuso. «Che significa?»
La città è così familiare… come se fosse il paese in cui è cresciuto. Gli alberi hanno smesso di fiorire e i bambini di affollare le strade.
In lontananza c’è l’hotel dove lo attende Cersei…

«Oh, io so tutto sul Mastino… Non siamo poi così diversi nel nostro modo di “desiderare”.» Tyrion rallenta, sembra pronto ad accostare. «Quando ha abbandonato Joffrey ho capito dove fosse diretto… E con chi fosse.»

«L’ha mandato Cersei», lo corregge Petyr.
Tyrion lo guarda negli occhi un istante, soddisfatto. «Questo è quello che ha voluto farti credere.»

«È venuto da me perché lo aiutassi a riportarla indietro.»

L’altro scuote la testa e continua a guidare.
«C’ero quando si sono sentiti.»

Una risata, poi Tyrion riprende a parlare. «In ogni caso… sapevo cosa stava cercando il Mastino. Magari non sapevo dove lo avrebbe trovato… però ero certo che sarebbe successo.»

Petyr abbassa il finestrino. Ha bisogno d’aria.
L’hotel gli sta di fronte, con le sue vetrate azzurre e l’arco all’ingresso, le auto veloci parcheggiate fuori… e lui, Sandor Clegane. Tyrion fa un giro più lungo, aggirando il parco che ruota intorno all’albergo.

«Sansa è incantevole, non è vero? Una fanciulla graziosa. È naturale che anche un uomo rozzo come lui ne sia stato attratto.»

Petyr fatica a parlare. «La scommessa.»

«Oh, sì, giusto! La scommessa.» Tyrion sembra divertirsi un mondo. Non è poi così diverso da Cersei… pensa Petyr. «Ho scommesso con me stesso che Sandor non sarebbe riuscito a… come dire? Conquistare quel fragile cuoricino.» Lo guarda. C’è un mondo in quello sguardo. «E nemmeno tu.»

Sono arrivati nel parcheggio. Petyr non se n’era nemmeno accorto. Cerca di ricordare come si deglutisce.
Poi, lentamente, apre lo sportello e scende.

«Ma sulla seconda parte non ci ho azzeccato. Ecco perché mi sono vestito così. A presto, Ditocorto!»

Tyrion riparte sgommando, lasciandolo nel parcheggio dell’hotel.
Ci sono circa cinquanta metri da lì all’entrata, e Petyr non è sicuro di farcela. Non vuole incontrare il Mastino.
Osserva il viavai di gente che entra ed esce dall’albergo. È indeciso.

Dovrei girarmi indietro e tornarmene a casa. In fondo, pensa, quello che avevano da dirsi è già stato detto. L’incontro con Cersei è più una formalità che altro…
Cammina fino all’entrata, ed è lì che lo trova.

«Non si saluta un vecchio amico?»

Sandor solleva il capo e digrigna i denti. Non sembra disposto a giocare.
Petyr gli gira intorno, pronto a entrare nell’hotel… ed è in quel momento che il Mastino lo afferra per la gola e lo spinge contro il muro, davanti allo sguardo sgomento del portiere.

«Lo sapevo che non c’era da fidarsi» ringhia. Stringe la presa fino a farlo annaspare. «Dov’è?»
Non ha bisogno di chiedere “chi”. Non ne ha nemmeno la forza. Lo afferra per i polsi, ma non riesce a smuoverlo.

«Sei uno sporco traditore.»

Gli manca l’aria. Non può rispondere. Agita una mano per chiedergli di lasciarlo andare.
Il portiere è sparito all’interno dell’albergo.

«Perché dovrei lasciarti respirare? Finiamola qui e ora, tu e io.»

Alle spalle di Sandor compaiono due uomini vestiti da camerieri. Lo afferrano per le spalle, lo tirano, ma Clegane è irremovibile. Gli gridano di lasciarlo andare.
Petyr chiude gli occhi, li riapre un momento dopo. Cerca di pronunciare quel nome… l’unico che potrebbe convincere il Mastino a lasciarlo andare.

San… San… Muove le labbra e un ghigno si forma sul volto dell’altro.
Scuote le mani per scacciare i due uomini, come fossero solo due insetti fastidiosi. E la stretta si allenta, permettendogli di prendere aria.

«Sì. Dov’è? Ti ha cacciato lei?»

La mano di Petyr corre al pollice – almeno quello deve riuscire a spostarlo – tira con tutta la forza che ha in quel momento, fino a liberarsi.
Si accarezza la gola, come a liberarsi da un laccio invisibile.

«No…» Un respiro, poi un altro. L’affanno sembra aumentare mentre fa cenno di no con la testa. «È… è tornata a… a Londra.»
Il volto di Sandor sembra oscurarsi. «Perché sei qui? Perché devi vedere Cersei?»

«Potrei… potrei chiederti la stessa cosa…»

Il Mastino lo spinge ancora contro il muro. Mostra i denti come il cane rabbioso che è. «Vuoi davvero provarci, Ditocorto? Vuoi fare questo gioco con me?»
Petyr scuote la testa, poi la appoggia all’intonaco grigio dell’edificio. «Sansa. Ho fatto un patto con Cersei per lei.»

«Per averla?»

«Per impedire a Joffrey di avvicinarla ancora.»

Sandor spinge il suo corpo contro il suo, torcendogli un braccio. «Perché dovrei crederti? Sei un infame bugiardo.»
Petyr si lamenta e continua a parlare. Non ha altra scelta. «E tu, allora? Sei tornato di corsa sotto la gonna di Cersei…»
Il pugno lo colpisce allo stomaco. Questa volta Petyr ha tutto lo spazio che gli serve per piegarsi a terra e trattenere un conato. Gli uomini continuano a gridare. Uno dice di aver chiamato la polizia.
A Clegane basta una mano per sollevarlo e rimetterlo in piedi.

«Ti ho chiesto: vuoi davvero fare questo gioco con me?»

«No» si affretta a rispondere Petyr. Il dolore è… quasi una novità per lui. Sono anni e anni che non viene colpito da qualcuno. «Ma devi permettermi di difendermi… Tu sei tornato qui, come me…»

«L’ho fatto per lei» lo interrompe il Mastino, rabbioso. Sembra pronto a colpirlo ancora. D’istinto, Petyr porta le mani a coprire viso e stomaco.

«Per Sansa?»

Non gli risponde, ma il suo sguardo è chiaro: “Per Sansa.”
Petyr è troppo intelligente per non capire. Anche Tyrion l’ha capito… Vuole Sansa. E per proteggerla non aveva altra scelta che tornare qui.
Annuisce lentamente, come se fosse stato Sandor a dirglielo.

«Anch’io sono qui per lei. Ho stretto un patto con Cersei.»

Un altro pugno. Stavolta contro il muro al suo fianco. «Che cosa le hai offerto in cambio?»
Te. Vorrebbe tanto dirlo, provocarlo per vendicarsi del suo colpo. Ma ha troppa paura che succeda di nuovo. Il Mastino non ha niente da perdere…

«Il mio silenzio…»

«Su cosa?»
È un’informazione troppo preziosa… Non può sprecarla così. Non ora.
«Su cosa?» Il pugno colpisce il suo braccio, facendolo gridare.

«Su Joffrey! Su Joffrey! È stato lui a colpire Sansa, su questo!»

«Colpire Sansa? Intendi il bastardo? È stato Joffrey a mandare Janos Slynt? Rispondi!»

È un’informazione troppo importante…

«Sì» mente. «È stato lui. Janos è stato mandato da Joffrey. Voleva vendicarsi per avergli portato via Sansa.»

Finalmente Sandor lo lascia andare. Non sembra soddisfatto, come se non gli credesse.
Petyr china il capo, guardandolo dal basso. Fa dei lunghi sospiri per riprendere fiato.

«Va’» ringhia il Mastino. «Vattene da Cersei.»

 n

Note dell’autrice:

Ehm… ciao! Sono sparita per così tanto tempo… da non volervi annoiare con sterili motivazioni.
Questa storia mi mancava, e mi mancava Efp. Solo che me ne sono accorta tardi…

Per quanto riguarda la settima stagione (specialmente il trattamento riservato a Petyr) non mi pronuncio: c’è bisogno di dire che più delusa di così non potrei essere? E non tanto per una certa morte… ma per come è avvenuta, per ciò che l’ha preceduta e per come si è svolta.
Se qualcuno volesse parlarne, sa dove trovarmi.

Per quanto riguarda il capitolo: piano piano torniamo a collegarci con i personaggi e gli eventi della “città” in cui Petyr è tornato.
Spero che qualcuno ci sia ancora, che non abbiate perso la voglia di leggere questa storia.
A presto!

P.S.: quanto mi era mancato il Mastino! E a dire il vero: quanto mi manca ancora… Ma ci rifaremo!
P.S.2: per il riassunto iniziale ho preso spunto dal quinto capitolo della mia long  Catene.


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Capitolo 27
*** Uccellino ***


Capitolo 27

 nn

 

H

a la gola secca.
Si fa accompagnare dal portiere fino alla sala bar. Scrolla polvere inesistente dalla manica, scuote la testa e si prepara ad attraversare il portico.
La luce entra dalle vetrate che circondano i due terzi della sala. Lei è seduta sullo sgabello di velluto blu davanti al bancone, un bicchiere da martini stretto tra le dita affusolate, l’espressione imbronciata.
È sola.
Petyr è pronto a chiamarla, ma non lo fa. Non si fa annunciare. Un giro più lungo, tra i tavoli tondi, le poltroncine comode ed eleganti, la gente di un livello più alto del suo.

«Baelish» esordisce Cersei senza voltarsi.

Solo allora se ne accorge: lo sta guardando attraverso lo specchio dietro il bancone, quello che lui non ha notato. Era troppo impegnato a studiarla.
Petyr fa un inchino. «Maestà

Le belle labbra di Cersei si stropicciano. «Finiamola con i giochetti. Che cosa vuoi?»

«Ammirarti.» Prende posto accanto a lei e fa cenno al barista di servirgli lo stesso cocktail di Cersei.

«Sei sempre stato così infido…» sussurra, il bicchiere che le ruota tra le mani. Poi la voce si abbassa, si fa minacciosa. «Se sei venuto per minacciare Joffrey…»

«Non sono venuto per minacciare Joffrey.»

Lei lo guarda. «Bene. Allora a cosa devo la tua… visita?»

Petyr è abituato al disprezzo. Sorride. «Devi darmi Payne.»

«L’ho già fatto.»

Un bicchiere di martini viene servito davanti a lui. «Non per mettere in dubbio le tue parole… ma ho saputo che Payne deve prendere un aereo… tra due giorni.»

«Tornerà in tempo.»

«Dalla Giamaica?» Petyr si sistema meglio sullo sgabello e beve un sorso. «Non c’è bisogno che ti dica…»

«No» lo interrompe Cersei, brusca. «Non c’è bisogno che tu dica niente. Se provi anche solo a nominare Joffrey…»

«Impedisci a Payne di partire» mormora. Si china in avanti, seguendo la linea perfetta delle gambe accavallate e risalendo fino al suo viso. «Sarebbe un vero peccato se mancasse al discorso del Sindaco…»

Lei digrigna i denti, un po’ come fa sempre il Mastino. Solo che le labbra di Cersei sono piene e invitanti, forse ancora più belle di un suo sorriso.
Petyr sorseggia il suo martini e guarda dritto davanti a sé.

«Non mancherà» ruggisce Cersei. «Ma ora vattene, Ditocorto, se non vuoi che chiami il Mastino.»

Lui si indica lo stomaco, lì dove il pugno gli fa ancora male. «Ci siamo già incrociati.»

«Spero di non doverti mai più rivedere.»

La sala è fresca e calma, come una ventata di primavera. Petyr sorride, finendo in un sorso il suo bicchiere.
Si rimette in piedi con un inchino, ed è in quel momento che sente una vibrazione all’altezza del cuore. Estrae il cellulare dal taschino e vede un messaggio di Sansa.

«Addio, maestà.»

Lei nemmeno risponde. Petyr si affretta a lasciare la sala, ed è all’entrata che si ferma, l’apparecchio stretto tra le mani. Un’altra vibrazione, poi una terza e una quarta.
Sandor compare davanti a lui nel momento stesso in cui sta aprendo il primo messaggio. Gli ruba il telefono dalle mani.

«Ti ho visto» ringhia. «È lei

Non aspetta nemmeno una risposta, cominciando a leggere. Sul suo volto rabbia, gelosia, stupore… espressioni che si alternano deformando la brutta cicatrice.
Poi il Mastino solleva gli occhi su di lui e lo guarda, come se sapesse. Ma non sa niente…

«I ragazzini Stark…»

Petyr inclina la testa e allunga una mano. Un gesto affrettato a cui Sandor risponde lasciando cadere il telefono. Lo pesta con il piede fino a frantumarlo.
Il portiere si allontana sconvolto – di nuovo – come se l’aggressione di poco prima non gli fosse bastata.
Il volto di Petyr rimane impassibile.

«Non mi fido di te, Ditocorto» dice a bassa voce. «Non credo a un cazzo di quello che mi hai detto.»

Petyr solleva le braccia. «E quindi vuoi impedirmi di sentire Sansa?»

Sandor fa un passo avanti, chinandosi su di lui. Ha i denti gialli dal fumo, l’alito che puzza di vino. Gli occhi scintillano di violenza. Sorride, come se gustasse solo il momento in cui potrà colpirlo ancora. Farlo a pezzi.

«È stata Sansa a chiamarmi. Cosa ha scritto dei suoi fratelli?»

La sua voce è troppo sicura, troppo tranquilla. Il Mastino se ne accorge. «Se ti avvicini ancora a lei… Se scopro che l’hai infastidita in qualche modo, o anche solo che l’hai guardata con quei tuoi occhietti del cazzo… non ci sarà un posto in cui potrai nasconderti.»

«Tutto questo per cosa?» insiste Petyr. «Perché ti sei invaghito di lei?»

Sandor si trattiene, eppure sembra pronto a saltargli alla gola. Solleva la testa, come a dirgli di non sfidare la sua imponenza.
In uno scontro diretto non potrebbe mai vincere…

«Pensi davvero che ti vorrà, quando l’avrai liberata di Joffrey? Quando l’avrai liberata di me?»

Il portiere, alle sue spalle, sembra aspettare il primo accenno di violenza per intervenire. È insieme a due uomini, e tutti e tre sembrano pregare di non doverlo fare…

«Una bella ragazza come Sansa… Non pensi meriti di meglio? In fondo, cosa potrebbe mai offrirle il cane di Joffrey?»

A quelle parole il corpo di Sandor scatta in avanti. Lo afferra per le spalle e lo lancia contro il banco della reception. Petyr chiude gli occhi per il dolore, la schiena a pezzi.

Non vede gli uomini che si chinano su di lui, quelli che cercano di spingere fuori il Mastino. Non sente la cameriera che gli chiede come stia, di rispondere, di riprendersi. Non sa nemmeno della presenza di Cersei ai confini della sala bar.
Capisce solo di aver osato troppo, di aver detto le uniche quattro parole che potevano spingere Sandor a reagire.

Il cane di Joffrey.
Non vede e non sente niente in quel momento, eppure la sua mente fa l’unico collegamento possibile: c’entra Sansa. Sansa è la chiave di tutto.

 

È

 vestita di nero. Indossa occhiali scuri, anche se non c’è traccia di sole. Non può permettere che qualcuno veda i suoi occhi privi di lacrime.
Stringe Arya per un braccio mentre escono dalla chiesa, la gente che affolla i gradini e il terreno intorno. Dietro il piccolo edificio c’è un cimitero, ma non è lì che sono diretti.
«Condoglianze.»
Mancano due ore, poi i corpi di Bran e Rickon verranno cremati.

Sansa non sente niente. Solo un buco nel petto che nessuno può più colmare. Nessuno.
Londra era un sogno, ora è solo l’inferno in cui è precipitata.

«Condoglianze… poveri bambini» sussurrano le persone intorno.

Volti senza nome, alcuni familiari, altri che lei preferirebbe non vedere.
La sua vita è finita. Senza Jon, senza Robb a difenderla, Sansa è sola. Il branco è stato scisso, forse distrutto.
Arya la attira a sé, stringendola in un abbraccio. Ma è solo per dirle quelle parole… quelle che continua a ripetere da due giorni.

«Hai fatto bene a dirgli di non venire.»

Sansa sa che ha ragione, eppure la presenza di Petyr la conforterebbe.
Non puoi sapere che non fosse d’accordo con i Lannister…
Il messaggio del biglietto è qualcosa che ha preferito tenere per sé. Arya? Arya sarebbe corsa a reclamare vendetta.

«Zia Lysa non è venuta nemmeno per i nostri genitori…»

Poi sua sorella si stacca. Entrambe chinano i capo.
Gendry – che nei tre giorni passati è stato al loro fianco – fa un cenno ad Arya, e lei si allontana.

«Dopo la cremazione li porterete al nord?» L’uomo, che Sansa non riconosce, si china per baciarle la mano. Gli occhi… sa di averli già visti.
Lo guarda e non risponde. Non subito. Poi fa un cenno di assenso.

«Riposeranno accanto a tuo padre…»

«È il loro posto.»

«Aye. È anche il mio. Il nostro.»

L’espressione sembra dispiaciuta, eppure negli occhi ha il gelo. Ecco dove li ho già visti.
Quando il ragazzo accanto a lui si mette di profilo, Sansa lo riconosce. L’amico di Theon. Jeyne!

«Conoscevi mio padre?» domanda, lo sguardo puntato sul giovane.

«Molto bene.» Un sorriso. «Mi è dispiaciuto non riuscire a rendergli omaggio quando è mancato… Ero all’estero.»

Sansa inclina la testa e lo studia. Calvo, il volto affilato, vestito di scuro. Non lo ricorda. «Grazie per essere venuto oggi. Per i miei fratelli…»

«Bolton, Roose Bolton, Sansa.»

«Grazie.»

Sta per voltarsi e raggiungere sua sorella quando lo vede. Il cuore prende a batterle più forte nel petto.
No, non qui, non ora.

«Ti ricordi di mio figlio?» continua Bolton. Sfiora la spalla del ragazzo, facendolo voltare. «Ramsay, ti ricordi di Sansa?»

Il desiderio di fuggire si fa impellente. Il giovane si volta, solleva le sopracciglia, stupito. E sorride, sorride come non è cortesia fare a un funerale.

«Come dimenticarla? Ci siamo visti nella facoltà di Chirurgia.»

«La conoscevi già, Ramsay. Vi conoscevate da bambini…»

Il ragazzo continua a sorridere. Sansa vuole solo andare via. Lui la sta cercando tra la gente.

Fa un passo indietro, d’istinto, e gli occhi di lui catturano il suo movimento.
Non riesce a parlare, forse nemmeno a respirare.

«Bolton…»

Roose gira il capo e sorride a Joffrey. Anche Ramsay lo osserva. «Come sta tua madre, ragazzo?»

«Tira avanti. Posso rubarvi la mia fidanzata?»

È Ramsay a sgranare gli occhi per primo. E a sorridere, in quel modo orribile che l’ha tanto spaventata il primo giorno. «Fidanzata?»

Sansa è una statua di sale. Joffrey la afferra per la vita, attirandola a sé. Poi annuisce e la trascina lontano.
Lei non sa cosa dire, non sa cosa fare. In quel momento vorrebbe solo morire.

Le dita di Joffrey le accarezzano il fianco, con la stessa dolcezza di quando si sono conosciuti. Ma non è più un principe… non è più il suo principe. E forse è questa certezza a darle la forza di parlare.

«Cosa ci fai qui?»

Lui la lascia, solleva le braccia con sicurezza. «Potevo mancare a un evento così importante per la mia fidanzata?»

«Non sono più la tua fidanzata.»

Stranamente, Joffrey incassa il colpo e non risponde. Il suo volto cela quella punta di rabbia che Sansa avverte così forte dentro di sé. Lo conosce troppo bene.
Un istante, e le labbra di lui si allungano in un sorriso.

«Come sta Robb?»

La gente intorno non se ne accorge, ma Sansa sbianca di colpo. Schiude la bocca per ribattere, ma non ci riesce. La figura massiccia di Sandor ha appena riempito il suo campo visivo.
Joffrey lo vede e sorride.

«Ah, Mastino! Come vedi, non c’è più bisogno che cerchi Sansa. L’ho trovata per conto mio.»

Il cielo è grigio. Sansa toglie gli occhiali da sole e lo guarda. Vorrebbe vomitare.
Vorrebbe prendere lui, il suo cane da guardia e chiuderli in un sepolcro. Sandor distoglie lo sguardo da lei.
Poi Joffrey allunga il braccio davanti a sé e osserva l’orologio.

«Quanto dura ancora questa cosa? Dobbiamo ripartire stasera stessa. Preparati, Sansa.»

«Partire?»

Joffrey sembra un po’ stanco di dare spiegazioni. Non è tutto così ovvio? «Sì, partire. Torniamo a casa.»

«Non vengo.»

Lui sta per rispondere, sta per arrabbiarsi. Sansa lo vede dai muscoli della mascella, dalla linea tesa del collo. Ma un attimo prima che le parole lascino le sue labbra, una mano si posa sulla sua spalla.
Ma non è la mano del Mastino. E nemmeno quella di Petyr.

«Joffrey, amico mio.»

Ramsay, senza saperlo, è corso in suo aiuto. «Un fatto molto originale che dobbiamo rincontrarci proprio qui, in un’occasione così triste… ma così è la vita.»
L’altro si volta per rispondere, ed è in quel momento che Sandor la afferra per un braccio, spingendola lontano. Le fa cenno di andarsene.

«Ma dov’è Sansa? Sansa!» La voce di Joffrey. «Cercala, Mastino. Riportala qui!»

Gli occhi di Sansa cercano disperatamente un rifugio. Non vede Arya, né Gendry. Nessun volto amico. La vista del cimitero la coglie impreparata, e forse è per non dover più pensare che Sansa raggiunge il cancello e lo oltrepassa. Vaga tra le tombe.

«Ti ho detto di andare via.»

Il Mastino è dietro di lei, come se non l’avesse mai persa di vista. Lei scrolla le spalle.

«Cosa mi può capitare di peggio? Morire, forse?»

Parla con noncuranza, lo stesso modo che faceva sempre infuriare Joffrey. Sfiora con le dita la lapide di marmo davanti a sé. È liscia e fredda, come sarebbe la sua pelle se fosse morta.
Dovrei esserlo.

«Qualsiasi cosa è peggio che morire.»

Sansa si volta e lo guarda. Non ha più paura di lui, della sua cicatrice, del suo volto sfigurato. Non teme nemmeno più che se ne vada… L’ha già abbandonata, l’ha già tradita. Non si aspetta e non vuole più niente da lui. Né da nessuno.

«Sei tornato da Joffrey» dice, in un tono che sembra un’accusa.

Non aggiunge altro, non ce n’è bisogno. Sandor non ha bisogno di sentirla per sapere. Lo capisce dai suoi occhi… C’è un’intera conversazione sospesa tra loro, a cui lui non sa come ribattere.
Il Mastino si fa avanti, calpesta la terra che copre una tomba, si ferma a due passi da lei, come se qualcosa gli impedisse di avvicinarsi ancora.

«Mi hai tradita…»

È come un bisbiglio. Un suono sottile, lento, dolce. Una nenia in grado di sconvolgere un uomo. Sandor sembra spezzarsi a quelle parole.
Sansa spera di ricevere una risposta. Almeno un no, un gesto, uno sguardo che dica qualcosa di più di ciò che vi legge ora. Ha bisogno di sentirlo. In quell’istante, la sua vita dipende da quello.

Lui sospira, china gli occhi. Annulla la distanza tra loro. E quando solleva una mano sul suo viso, Sansa resta immobile.
Non dovrebbe. La sua mente ordina di spostarsi, di evitare quel contatto, di rispettare la memoria dei suoi fratelli. Poi si spegne.

Quando Sandor appoggia le labbra sulle sue, Sansa chiude gli occhi e ode solo il silenzio.
È un bacio breve, delicato. Come non avrebbe mai pensato di ricevere da lui.
Il suo cuore traballa.
Poi il Mastino si stacca, il suo respiro caldo ancora sul viso.

«Joffrey non ti toccherà. Ma non farti trovare. Tieniti a distanza da lui.»

Poi si volta, camminando verso il cancello.

«Sandor, aspetta!» Sansa sente il calore salirle fino al collo. Prende un respiro profondo prima di parlare. «Cos’è successo… tra te e Petyr?»

Vede la sua figura irrigidirsi, le mani chiudersi a pugno. Quando se lo ritrova davanti, Sansa smette di respirare.

«Che cazzo ti ha detto?»

Sansa china gli occhi a terra, gioca con i lacci della giacca. «Io gli ho chiesto di non venire… e lui… lui ha detto che l’hai colpito.» Poi lo guarda, vede la mascella rilassarsi sotto la sottile barba. «Perché?»
L’aria è fredda. O forse è solo Sansa a sentirla.

«Ciao, uccellino.»

Sandor si volta ed esce dal cimitero. Quando lei decide di seguirlo, non ha più il terrore di incontrare Joffrey. Riconosce la figura esile di Arya, vede con chi sta parlando… e li raggiunge.

«Theon!»

«Ciao, Sansa.»

Arya li lascia soli, raggiungendo Gendry. Sansa vorrebbe chiedere tante cose – cosa ci fai qui, come hai saputo… con chi sei venuto? – ma Theon la anticipa.

«Sono qui per Robb… Come sta?»

Lei abbassa gli occhi, cerca gli occhiali scuri nella tasca. Quando li trova, solleva le mani e li indossa.

«Come hai… come hai saputo di Robb?»

Theon scrolla le spalle, lancia una veloce occhiata ai Bolton. «Le voci corrono…»

«È in ospedale. Come Jon.»

«Jon… quanto tempo.»

«Già…» Sansa non sa cosa aggiungere, non sa cosa dire. Non vuole domande. «Lui… sta bene. Come può stare bene una persona investita.»

Theon sembra pronto a ribattere, a fare altre domande, magari vorrebbe pure vederlo. Ma Sansa non si sente pronta a tanto… Poi le viene in mente: Jeyne! Lei non sa niente…
Allunga la mano ed estrae il telefono, facendo cenno a Theon di tacere. Scrive un veloce messaggio alla sua amica. Lei aveva una cotta per Robb… come Theon.

«Senti…» comincia Theon. «Pensi che potrei andare a trovarlo?»
Sansa non ha il tempo di rispondere.

«Scusatemi…» dice qualcuno alle sue spalle. «Sansa, sono venuto.»

Lei si volta. «Zio Benjen!»

Si allontanano. «Arya mi ha chiamato… Prima che partiste si è fatta dare il numero della chiesa.»

«Non ne sapevo niente.»

«Nemmeno io.» Zio Benjen sorride, ed è un sorriso diverso da quello che serpeggia sui volti della gente.

«Sono felice che tu sia qui.» Vorrebbe stringerlo, ma non ce la fa. Non con i corpi di Bran e Rickon – loro che nemmeno ricordavano loro zio… - ancora caldi.
Le sembra ingiusto. Non può farsi abbracciare, non può farsi consolare. Non può, perché loro non possono più farlo…

«Sei… sei venuto anche per Jon?»

Ti prego, rispondi di sì.

«Per Jon…» conferma lui abbassando il mento. Il sorriso si spegne sul suo viso. «E per Robb.»

E Sansa piange. Piange come non pensava di poter più fare. Si aggrappa a lui, a quel corpo che sa di casa, di famiglia, di padri assenti e fratelli persi, e si lascia andare.

Non ha versato lacrime quando è successo. Non ha versato lacrime quando Robb è stato investito – anche lui no, ricorda di aver pensato – quando ha saputo – capito – cos’era successo a Bran e Rickon.
Né quando Rickon ha lottato in un letto di ospedale per un giorno intero, da vero lupo, prima che la morte venisse a prenderlo.

«La morte lo ha colpito con le sue frecce» aveva detto il reverendo. «Non poteva sopravvivere.»
Arya lo aveva spinto a terra. Poi era fuggita via.
Sansa non aveva avuto la forza di aiutarlo a rialzarsi… non si era nemmeno scusata.

«Andiamo via di qui» sussurra zio Benjen, prima che Arya li raggiunga.
Ora che ha iniziato, Sansa non riesce a smettere di piangere.

«È stato quell’uomo orribile?» mormora sua sorella. «Quello con cui parlavi prima?»

«B-bolton? No…» Cerca di calmarsi, si stacca da Benjen ed è Arya che guarda. «Sai chi è? Dice di aver conosciuto nostro padre…»

Un cenno di assenso. «Non ha più terre nel nord. Sono nostre. Nostro padre ha comprato tutto per salvarlo dal fallimento.» Arya scuote la testa, osservando Roose da lontano. Benjen raggiunge Rodrick, lasciandole sole. «Non mi è mai piaciuto.»

«Come mai ti ricordi di lui?» Come mai io non lo ricordo?

Il volto di sua sorella muta, come se di colpo fosse arrivato l’inverno. E il gelo. «È venuto a trovarci la sera prima dell’incidente… prima che papà e mamma…»

«Davvero?» la interrompe Sansa. «Perché io non lo ricordo?»

Arya scrolla le spalle. «Andavi sempre ad aprire tu. Quella sera abbiamo litigato e hai mandato me. Tu eri al telefono con Joffrey…»

Sansa sente il calore abbandonare il suo viso. Ha un brivido.
Ho preferito Joff all’ultima sera con i miei genitori…

«Che cosa voleva?»

«Non lo immagini? Rivoleva le sue terre. Diceva di avere un amico disposto a prestargli i soldi per comprarle.»

«Come mai papà ti ha permesso di assistere?» chiede, anche se ha mille domande da farle. Chi è questo amico, cos’ha risposto nostro padre, come si sono lasciati… da amici o da nemici?
E la domanda più importante di tutte, quella che non può permettersi di fare, non ad Arya: c’entra qualcosa con la morte dei nostri genitori?

«Non me l’ha permesso, infatti.» Nonostante tutto ciò che è accaduto, Arya ha un guizzo divertito negli occhi. Ma svanisce subito. «Stavo cercando di acciuffare il nostro gatto…»

«Il gatto?»

«Nostro padre ha detto di no» mormora sua sorella, posando gli occhi sui Bolton. «Ha detto di avergli fatto un favore a comprarle, che l’ha tirato fuori dai guai… E ha chiesto chi fosse questo amico…» Poi la guarda, ed è come se il buio fosse sceso all’improvviso.

«Chi era?»

«Non lo sai?»

Perché dovrei saperlo?
Sansa non ne ha idea, eppure il suo corpo reagisce per lei. Il suo ventre capisce. Un brivido, poi calore che si snoda nel petto. La chiesa, la gente, tutto prende a vorticarle intorno.

«Petyr Baelish.»

Stavolta non c’è disprezzo nella voce di Arya. Non c’è nemmeno il sospetto. Solo una cupa e calma certezza.
Le gambe di Sansa cedono sotto di lei. E d’un tratto il cielo si spegne.

 n

Note dell’autrice:

Ecco che ci ricolleghiamo con i primi capitoli (all’incontro tra Petyr e Roose), e piano tornano i vecchi personaggi. Spero che il capitolo via sia piaciuto! Fatemi sapere cosa ne pensate!
A presto!
Celtica

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