I'll Be There For You

di Chiccagraph
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Just friends ***
Capitolo 2: *** I'll be there for you ***
Capitolo 3: *** I held you in my arms ***



Capitolo 1
*** Just friends ***


Just friends




 
Il bar di Joe era considerato una vera e propria istituzione per i medici del Seattle Grace. Non era solo un punto di ritrovo, un luogo dove andare a bere e svagarsi, era qualcosa di più.
Tutti avevano bisogno di staccare la spina ogni tanto e ritrovarsi tra quelle mura li faceva sentire come a casa.
Una casa dove non esistevano malati, non esistevano interventi, paure ed emergenze.
Una bolla d’aria pulita dove poter respirare a pieni polmoni.
Addison era seduta alla fine del bancone, appollaiata su uno sgabello con la sola compagnia di un bicchiere troppo vuoto e una mente troppo piena.
La donna teneva fisso lo sguardo nel suo bicchiere, non era dell’umore di parlare con nessuno, e dopo gli ultimi avvenimenti, nessuno aveva intenzione di avvicinarla.
Possibile che nonostante fosse la donna tradita e umiliata rimaneva pur sempre Satana agli occhi di tutti?
Il filo dei suoi pensieri fu interrotto da una voce alle sue spalle.
 
«Dottoressa Montgomery.»
 
«Dottor Karev.»
 
«Le dispiace se mi siedo qui?»
 
Gli rispose con un cenno del capo mentre Joe ricaricava il bicchiere del suo veleno preferito: puro whisky irlandese, il Tullamore Dew Irish Whiskey, prodotto come Dio comanda nelle verdi terre dell’Irlanda.
Lo studiò attraverso le ciglia abbassate, sembrava esausto. Mark doveva averlo torturato per tutto il giorno.
Tintoria, caffè, pranzo... quell’uomo sapeva come rovinare la vita agli specializzandi.  
Seguì con gli occhi il suo profilo fino a soffermarsi sulle sue mani che stringevano la base di un bicchiere di birra.
Non lo aveva mai considerato un uomo da birra, lui le dava più l’idea di essere uno da bourbon o da scotch. Sicuramente non da birra.
Solitamente riusciva a inquadrare facilmente le persone, fin da piccola si divertiva insieme a suo fratello a servire cocktail agli amici dei genitori. Lei e Archer non sbagliavano mai un colpo.
Con lui invece è stato diverso, il suo primo errore in trentanove anni.
A pensarci bene non lo aveva mai visto con qualsiasi altra bevanda all’infuori di quella, forse a differenza sua, non amava alzare troppo il gomito.
La sbornia del giorno dopo era qualcosa con cui spesso e volentieri aveva fatto i conti.
Mal di testa e fegato ringraziavano per questi ultimi giorni di riposo.
 
Aveva sentito alcune storie su di lui e sul suo passato, ma non era mai stata una donna che dava troppo credito ai pettegolezzi ospedalieri. Le infermiere erano dotate di una fervida immaginazione.
Lei questo lo sapeva bene.
Al Seattle Grace l’unica cosa che si sviluppava più velocemente delle malattie erano i pettegolezzi. Nel secondo esatto in cui varcavi la soglia dell’ospedale, potevi letteralmente sentirne il ronzio.
 
«Lunga giornata?»
 
La sua lo era stata davvero.
 
«Abbastanza lunga» rispose l’uomo stringendosi nelle spalle «sono venuto qui per rilassarmi un po’.»
 
La guardò con la coda dell’occhio, studiandola. «Preferisci che mi sposti?»
 
«No, assolutamente. Non mi dai fastidio.» spiegò, sorridendo debolmente. «Scusa se te lo chiedo ma… perché non sei seduto con gli altri?»
 
Si girò appoggiandosi con un gomito sul bancone del bar per poi appuntare lo sguardo sul fondo della sala dove erano seduti gli altri specializzandi.
 
«Beh, c’è una bella donna seduta sola in un bar... mi sembra ovvio.»  le rispose tornando a guardarla.
 
«Karev.»
 
Non sapeva davvero come comportarsi in presenza di una signora.
Il complimento dozzinale era il suo marchio di fabbrica.
 
«Stai tornando a casa?»
 
Aveva un bicchiere mezzo vuoto davanti a lei. Che fosse un invito per bere qualcosa insieme e poi magari continuare la serata da qualche altra parte?
 
«No, non ora per lo meno. Ma questa è la mia ultima birra, non vale la pena sbronzarsi senza motivo.»
 
«Già.»
 
Lei aveva avuto modo di ubriacarsi poche settimane fa. Una sbronza senza uguali.
Muffin e alcol le avevo assicurato un biglietto di sola andata per il letto di Mark Sloan e sebbene considerasse da sempre catartico il sesso, aveva già avuto la sua dose settimanale di divertimento e non progettava, almeno nell’immediato, di trovarsi un altro compagno di letto.
 
«In realtà, mi piacerebbe rimanere qui se avessi una concreta possibilità di spostarci poi...»
 
«Che cosa?» Addison non lo lasciò finire e si girò a guardarlo con gli occhi sbarrati e le guance leggermente arrossate «Dottor Karev, credo che questa conversazione sia davvero inadeguata.»
 
La guardò sorridendo «Già, così inadeguata… come se non ti fosse mai successo di rimorchiarti qualcuno in un bar» si girò a guardarla felice di vederla imbarazzata «Sono solo sincero, ogni uomo qui dentro vorrebbe uscire da quella porta insieme a te. E per la cronaca, anche io.»
 
«Tu dici?»
 
«Sì, ne sono convinto. Ma io rifiuto l’offerta.»
 
«Io non ti ho chiesto proprio un bel niente.»
 
«Sai, parlare è sopravvalutato.»
 
«Davvero?» contro la sua volontà le labbra di Addison si arricciarono in un sorriso, non appena la rabbia si trasformò in divertimento. «E come mai tu non saresti interessato? Non avrai paura di Mark...»
 
«Stai scherzando? Quell’uomo fa a botte come una femminuccia. Se c’è riuscito il tuo ex-marito, io lo stenderei con un solo sguardo» si guardò intorno per un momento, poi ridacchiò. «Ogni anno c’è uno stagista che va a letto con uno strutturato, è una tradizione. Una sorta di rito di passaggio.»
 
Addison annuì al suo indirizzo, aveva molta familiarità con questa tradizione.
 
«Io voglio essere diverso. Ovviamente so che non potrò essere ricordato come lo stagista più brillante del programma, con Yang e Grey la concorrenza è notevole» si fermò per un attimo prendendo un sorso di birra «Ma ora, dal momento che tutti hanno il loro gran da fare, vorrei cercare di rimanere fuori dal giro. Voglio essere ricordato per la mia professionalità.» posò il bicchiere di fronte a lui. «Te lo dico solo perché tu lo sappia».
 
«Professionale, eh?» Addison sorrise, «E cosa mi dici della storia con quell’infermiera? Com’è che si chiama… ah sì, Olivia.»
 
«Preferirei non parlarne… Non è piacevole essere ricordato per Olivia e la sifilide» Alex rispose colto sul vivo. «La gente ti critica e non sa cosa hai passato».
 
Rimase a guardarlo colta alla sprovvista da quella frase.
Non lo conosceva, se non da un punto di vista puramente lavorativo, eppure aveva ascoltato e creduto a quelle voci di corridoio.
Era stato fin troppo facile dar credito a quelle voci considerando che si riferissero a lui.
Sebbene in quest'ultimo periodo avesse imparato a conoscere un Karev nuovo, non era ancora del tutto convinta di quale lato del suo carattere predominasse in lui.
Un giovane uomo attento e premuroso che forse per timidezza si nascondeva dietro quella maschera di insolenza e aggressività, oppure era davvero un borioso stagista con il complesso di Dio?
Lo aveva fin da subito catalogato come un prepotente, un Mark Sloan in miniatura che doveva essere rimesso in riga; non aveva speso neanche un minuto del suo tempo per pensare che forse, Alex Karev, non era davvero quel mostro arrogante che tutti pensavano.
 
«Nessuno di noi è solo buono o solo cattivo. Siamo luce e ombra. Insieme.» continuò il suo sproloquio rivolto al suo pubblico silenzioso. «Con questo non mi voglio giustificare e non dico di essermi comportato bene, ma io vado a letto con un’infermiera e divento improvvisamente lo stronzo senza sentimenti, Shepherd si scopa Meredith in una stanza dell’ospedale e la sua fedina penale rimane pulita... non è giusto.»
 
Aveva toccato un tasto scoperto, se ne rese conto osservando lo sguardo perso nel vuoto della donna al suo fianco. Il divorzio era stato ufficializzato da una decina di giorni, e anche uno scemo avrebbe saputo che Shepherd era un territorio minato dal quale era necessario tenersi alla larga.
Questa donna era una mina inesplosa.
Una bomba al plastico era annidata sotto i tessuti della sua pelle.
Ormai aveva parlato ed era inutile piangere sul latte versato.
Il suo problema era sempre stato quello di parlare a rotta di collo, non esistevano mezze verità per lui.
I suoi pensieri erano nudi e crudi, nessun filtro veniva applicato per irrorare la pillola.
Gettava le persone in pasto agli avvoltoi come i pezzi di carne sbattuti sul tavolo bianco della macelleria.
 
«Mi dispiace.»
 
«Sì, non farlo.»
 
Aveva una bella scorza questa donna, non poteva negarlo. «Per quanto possa valere, credo che Shepherd per essere un chirurgo del cervello sia l’uomo più stupido sulla faccia della terra» le disse continuando a guardarla, perdendo per un attimo i suoi occhi nocciola in quelli verde smeraldo della donna.
 
Addison abbassò lo sguardo sul tavolo fissandosi le mani. «Non è necessario che tu…»
 
«No, lo penso davvero. Chi uomo sano di mente lascerebbe una donna come te? Capisco che puoi essere particolarmente fastidiosa, a tratti direi quasi odiosa… percepisco la tua aurea di perfezione da qui!»
 
Addison lo guardò sbalordita. Uno minuto la stava elogiando e quello dopo la criticava senza pietà.
Quest’uomo era un pazzo bipolare!
 
«Dovevate mettere un punto a tutto questo. Shepherd è un uomo senza palle, non puoi non avere il coraggio di prenderti le tue responsabilità. Non l'ha fatto né con te né con Meredith, vi ha trascurato e calpestato in parti uguali.»
 
«Sai, prima o poi arrivi al punto in cui il punto lo metti tu.»
 
«È tremendamente vero» iniziò a giocare con gli angoli del tovagliolo al di sotto del bicchiere «e tu sei troppo bella per essere guardata dagli occhi sbagliati.»
 
Addison si ritrovò a fissarlo ancora una volta, colpita dalla sua sensibilità e al tempo stesso divertita al vederlo così concentrato a spezzettare quel pezzo di carta pur di non incontrare i suoi occhi.
Alzò il bicchiere in una sorta di brindisi, accettando implicitamente il suo complimento, poi bevve un sorso della sua bevanda.
 
«Che ne hai fatto del dottor Karev?» disse, cercando di dissipare la tensione che si era venuta a creare.
 
Il ragazzo rise a quell'affermazione improvvisa. La donna non era ancora pronta a parlare del suo ex marito senza sentirsi un groppo in gola, o per lo meno non lo era con lui.
Era contento che avesse accettato silenziosamente le sue parole senza metterlo in imbarazzo.
 
«Mi preferisci sgradevole e arrogante? Lo sapevo che sotto quella corazza da prima donna nascondi la tua vera anima. Hai un debole per me, ammettilo.»
 
«Ecco, ora ti riconosco.» inarcò le sopracciglia guardandolo scettica. «Dopo avermi fatto parlare del mio ex marito nella mia unica serata libera della settimana, credo che il minimo che tu possa fare è raccontarmi come sono andate le cose con quell’infermiera.»
 
Si girò verso la donna pronto a risponderle a tono, era famoso per non andarci troppo leggero con le parole. Nel momento in cui i suoi occhi si poggiarono sul suo sorriso curioso, le parole gli morirono in gola e decise che per questa sera sarebbe diverso.
Sincerità, era quella la carta da giocare per essere ascoltato da questa donna.
 
«Di solito non ho molto controllo in materia. Non sono un ragazzino, non mi tiro mai indietro davanti a richieste di quel tipo. Non potevo sapere che venti minuti di svago mi avrebbero portato in allegato anche la sifilide. Sono caritatevole, che ci posso fare.»
 
Joe lo guardava da dietro il bancone fingendo di asciugare una pila di bicchieri già perfettamente sistemata al loro posto.
Aveva notato da qualche tempo gli sguardi che il giovane dottore rivolgeva a quella donna ed era più che certo che qualcosa sarebbe successo prima o poi tra loro.
I baristi non sbagliano mai!
 
«Chiedi e sarà dato, questo è il mio motto.» si girò verso di lei chinandosi con il busto nella sua direzione. «Sono pronto a soddisfare ogni richiesta ricevuta.»
 
«Sei consapevole di avermi detto esattamente il contrario meno di dieci minuti fa?»
 
«Perché sei tu, è ovvio! Questo non significa che tu non ne vali la pena, ma non ho comunque intenzione di farlo, puoi supplicarmi quanto vuoi, non avrai mai questo specializzando.» puntò le mani sul suo petto mentre si appoggiava allo schienale della sedia con un sorriso soddisfatto dipinto sul volto.
 
«E io che stavo iniziando a pensare che si sbagliassero a chiamarti Lucifero. Non potevi dirmi, che so… che non volevi usarmi per una sorta di rispetto professionale nei miei confronti o perché magari preferisci non trattare le donne come oggetti sessuali?»
 
Ora la donna sorrideva, davvero. Chi lo avrebbe mai detto che Alex Karev fosse meglio del suo whisky!
 
Alex sbuffò l’aria fuori dal naso prima di risponderle. «E tu mi avresti creduto? Io non mento alle persone. Potrei sedurti in un batter d’occhio, lo sappiamo entrambi. Ci vuole poco per iniziare a mangiare alla stessa mensa di Grey, Yang e O’Malley... Ma io non lo faccio.»
 
«Credo che lo prenderò come un complimento, anche se è un po’ ambiguo.»
 
Addison scosse la testa mentre inseriva Alex nella categoria “pericolo” della sua mente. Mise il bicchiere ormai vuoto sul bancone percorrendo con l’indice il perimetro del vetro. «Penso che andrò a casa ora. Grazie Karev, per aver chiarito la situazione.» detto questo si alzò dalla sedia e si infilò la giacca.
 
«Il piacere è tutto mio.» questa volta il ghigno dipinto sul suo volto aveva un contorno ben preciso. «Ah, a proposito...» si girò guardandola serio per un attimo. «Io ti rispetto, professionalmente e personalmente e… sappi che sei sexy, dannatamente sexy. Probabilmente sono l’unico uomo in questo ospedale che non sta facendo a gara per entranti nei pantaloni in un modo o nell’altro. Sarò ricordato per questo, giusto?»
 
Una risata sincera uscì dalla sua bocca mentre si appoggiava con i palmi delle mani sul bancone inchinandosi verso di lui. «Con questo cosa vorresti dire? Che potremmo essere amici?»
 
Fece una smorfia, masticando per un attimo quella parola nelle mente. «Amici. O’Malley deve avermi contagiato se penso che posso essere solo amico con una donna. Ma sì, questo è quello che sto dicendo.» lo sguardo che le diede era pieno di speranza. Vero. «Noi possiamo essere amici.»
 
«Credo che possiamo.»
 
Così fisicamente vicini poteva sentire il profumo della sua pelle, mischiato a quell’odore di disinfettante e chirurgia che ogni medico aveva cucito addosso.
A quel pensiero sentì una vampata di calore correrle per tutta la schiena e sfociarle direttamente nel ventre.
Non poteva pensare di attraversare la linea con il suo primo amico in città!
Avere un amico sarebbe stato bello, davvero bello.
 
«Molto bene. Allora siamo amici, dottor Karev.»
 
«Alex» la fermò, «sai gli amici si chiamano per nome.»
 
«Alex… Ci vediamo domani, Alex?»
 
«Assolutamente sì, Addison.» lui sorrise e prosciugò l’ultimo sorso di birra posato sul fondo del bicchiere, decidendo di poter festeggiare con una seconda.
Non si guadagnavano amici tutti i giorni.
 
Mentre guardava Addison uscire dal locale pensava che non aveva mai avuto un amico con quelle gambe da urlo e che dannazione non sarebbe stato uno specializzando per sempre!
 
 
 

 
 
Nda:
Eccomi tornata!!!
Che ci posso fare, lontana da Grey’s Anatomy non ci so stare!
Non riesco a capire perché provo a scrivere per giorni e giorni storie che non faccio altro che cancellare e ricominciare da capo e poi un giorno mi viene un’idea, mi si accende la lampadina e in un pomeriggio butto giù quello che non sono riuscita a scrivere per settimane.
In inglese mi è capitato di leggere spesso storie di loro due e per questo ero abbastanza combattuta dal pubblicare o meno questa storia, ma che ci posso fare se ho avuto la stessa idea di una ragazza che vive dall’altra parte del mondo?!
Ho deciso che da oggi in poi non mi farò più fisime mentali e pubblicherò qualsiasi cosa, anche se sulla falsa riga di storie scritte in un’altra lingua. Più che altro perché sparse per il web c’è un numero spropositato di storie su Grey’s Anatomy, e non posso mica passarle tutte al vaglio prima di postare le mie!
 
Sono ferma alla quarta stagione, innamorata persa delle prime tre… non faccio altro che rivedermi quelle puntate che mi hanno fatto tanto amare questo telefilm.
Sono una sottospecie di musa ispiratrice, le guardo e la mia mente inizia a viaggiare.
So che il telefilm è andato avanti – dopo dodici stagioni direi che è il minimo - e ha preso strade diverse da quelle delle mie storie, ma io sono troppo legata a questi personaggi per immaginarmeli diversamente.
 
“Nessuno di noi è solo buono o solo cattivo. Siamo luce e ombra. Insieme.”
È una frase ripresa da Private Practice, mi piaceva tantissimo e ho sempre voluto scrivere qualcosa in cui poterla inserire.
 
Credo di aver detto proprio tutto… e allora passo e chiudo e alla prossima!

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Capitolo 2
*** I'll be there for you ***


I'll be there for you

I'll be there for you
(When the rain starts to pour)
I'll be there for you
(Like I've been there before)
I'll be there for you
('Cause you're there for me too)



 
«Dottor Burke»
 
«Dottor Shepherd»
 
Derek posò la cartella clinica del suo ultimo paziente sul tavolo della caffetteria, incastrandola tra il piatto di patatine fritte e la coca-cola. «Come sta andando?»
 
«Andando cosa?» chiese Preston, rubando una manciata di patatine dal piatto dell’amico.
 
«Ehi, stai mangiando il mio pranzo» disse, spingendo lontana la mano dell’uomo. «Intendevo con Emily, la bambina con la cardiomiopatia aritmogena al ventricolo destro. Meredith me ne ha parlato ieri sera.»
 
Preston afferrò il bicchiere di coca-cola sul tavolo e lo portò alle labbra. «Voi due siete una di quelle coppie che porta il lavoro anche a casa?» prese un lungo sorso e riposò la bibita al suo posto.
 
«Meredith e io siamo una di quelle coppie a cui piace condividere. Condividere sul lavoro, condividere il letto o la doccia. Ci piace molto condividere la doccia, ma… sai cosa non ci piace condividere?» afferrò le sue cose e le posizionò alla sua destra, il più lontano possibile dall’uomo seduto al suo fianco. «Non ci piace condividere il pranzo.»
 
«Oh!» rispose l’uomo sfregando la mano sul tovagliolo di carta per rimuovere il sale dalla punta dalle dita. «Anch’io e Cristina siamo una di quelle coppie, ma a noi piace condividere anche il pranzo con gli amici.»
 
«Ma noi non siamo amici»
 
«Certo che lo siamo!»
 
Derek lo osservò per un momento con uno guardo scettico. «Non ci chiamiamo neanche per nome… a Seattle è possibile essere amici senza chiamarsi per nome?»
 
«A Seattle sono possibili un sacco di cose.»
 
«Certo.»
 
«Comunque per quanto riguarda Emily le stiamo somministrando dei beta bloccanti, vorrei cercare di ridurre i sintomi legati alle extrasistoli, ma dubito che possa bastare» sganciò il cerca persone dalla cintura dei pantaloni e lo appoggiò sul tavolo. Ruotandolo tra le dita. «Ho chiesto a Richard una sala operatoria, l’unica possibilità per quella ragazza è impiantarle un defibrillatore automatico. Con la malattia in una fase avanzata come la sua non vedo altra soluzione.»
 
«Solo sedici anni e un cuore così malato. Che pena»
 
«È deprimente, lo so» rispose Preston, guardando fuori dalla finestra. La giornata era, ancora una volta, buia e umida. Una debole luce grigiastra filtrava dalle vetrate: presagio di un imminente temporale in arrivo. «Questa città… se solo ci fosse un po’ più di sole, aiuterebbe in giornate come queste.»
 
«Sì, beh almeno lo squallore di questo cielo buio e tempestoso aiuta con il sonno» sospirò Derek, passandosi una mano tra i capelli.
 
«Beh, io preferisco il sole alle nuvole» Preston riportò lo sguardo verso la finestra e scosse la testa. Una leggera pioggerellina era iniziata a scendere, lasciando la scia sul vetro.
 
Derek raccolse le sue cose, fermò la cartella sotto il braccio e si incamminò verso la porta. Poi si fermò a fissare il collega, perso ancora con lo sguardo verso il cielo. Ripercorse a ritroso la poca distanza che li divideva e tornò seduto al tavolino. Questa volta alla sua sinistra. «So che non siamo vicini, insomma che siamo amici ma non ci piacciamo, ma… ho bisogno di parlare con qualcuno. Un uomo, ho bisogno di parlare con un uomo.»
 
Preston guardò Derek con la coda dell’occhio. «Cosa? Aspetta, se è qualcosa che ha a che fare con…» rimase in silenzio a fissarlo, «allora non sono il tuo uomo.»
 
«No! No, certo che no, è qualcosa che ha a che fare con il mio rapporto con Meredith. Ma non quel genere di cose che hanno a che fare con lei.»
 
Si voltò verso di lui, un braccio poggiato sul tavolo e l’altro lasciato a penzoloni sulla spalliera della sedia. «Cosa?»
 
«Okay, allora vediamo… a Seattle piove, piove per tutto il tempo. Tutti i giorni. E questo è terribile per un sacco di cose, ma assolutamente perfetto per dormire.»
 
«Ma?»
 
«Non riesco a dormire! Preston, uhm, Dottor Burke, non dormo profondamente da giorni, e quando lo faccio mi sento in colpa.»
 
Preston aggrottò la fronte. «Forse dovresti parlarne con un medico competente. Sai io penso…»
 
«No, no. Il problema non sono io. È Meredith» Derek si mosse sulla sedia per trovare una posizione più comoda. Strinse la mano destra in un pugno, scrocchiandosi le articolazioni flessibili facendo pressione con l'altra.
 
«Ehi, sei un chirurgo, che diavolo stai facendo?» lo fermò, puntando lo sguardo sulle sue mani.
 
Derek allentò la presa delle mani e le lasciò riposare sulle ginocchia: «Lei russa» sussurrò.
 
Preston strinse le labbra tra loro, in una linea sottile. In un primo momento rimase immobile, poi scoppiò a ridere fragorosamente, attirando gli sguardi dei vicini.
 
«Non è divertente» sibilò Derek.
 
«Sì che lo è, anzi, questo è ridicolo» disse l’uomo, senza riuscire a trattenere altre risate.
 
«Senti, io… io capisco che tu possa trovare ridicolo tutto ciò, e spero davvero che tu capisca la mia posizione. Ne sto parlando con te perché ho profonda fiducia nella tua discrezione.»
 
«O perché non hai nessun altro con cui parlarne.»
 
«No, non è vero. Io ho moltissimi amici qui in ospedale, sono una persona amichevole. Dotato di giovialità affettuosa.» rispose allo sguardo scettico del collega. «Ecco, quindi… stavo dicendo che io… ho BISOGNO di dormire. Ne ho bisogno. Sono un chirurgo, ho bisogno di riposare e… dannazione, russa come un uomo!»
 
«Perché non ne parli con lei?»
 
«Ne abbiamo parlato, ho provato a farle capire che ho problemi a dormire, ma lei ha “problemi di abbandono”» Derek sospirò sconsolato.
 
«Sembra che tutte le donne intorno a te li abbiano» Derek incrociò le braccia al petto, guardandolo di traverso. «Scusa, è stato un colpo basso»
 
Preston avvicinò la sedia a quella dell’amico, provocando un rumore sordo, metallico, dovuto all’attrito con il pavimento. «Non so cosa dirti. Io non ho mai avuto questo tipo di problema fino ad ora. Credo che non puoi far altro che aspettare e cercare di abituarti. Voglio dire, non potrai mica lasciare che il suo leggero russare possa…»
 
«Leggero? È un trombone da tronco segato!» Derek si interruppe e scoppiò a ridere insieme all’amico. «Sì, va bene, questo è ridicolo. Facciamo finta che tutto questo non sia mai successo, okay?»
 
«Basta riposarti in qualche stanza di chiamata. Prova a dormire qui in ospedale, almeno per ora. Ti abituerai prima o poi.»
 
«Lo spero. Meredith mi ha comprato dei tappi per le orecchie, ma il suo russare rompe il muro del silenzio» Derek si aggiustò il camice con una mano mentre con l’altra riposizionava la sedia sotto il tavolo. «Grazie per la chiacchierata. E per il consiglio.»
 
«Nessun problema. È stato molto divertente in realtà» rispose arricciando il naso e riproducendo il grugnito di un maiale.
 
«Molto divertente. Burke, sarebbe meglio non condividere i dettagli di tutto questo con l’ospedale» rispose, facendo un gesto vago con la mano.
 
«Ovviamente».
 
 
*
 

 
 
Derek si diresse verso la stanza di guardia al terzo piano, aveva passato allo scandaglio tutte le stanze precedenti senza riuscire a trovare un letto libero. Entrò in quest’ultima con la speranza di trovare un posticino per riposarsi. Meredith gli aveva dato dei tappi per le orecchie e lui aveva provato in tutti i modi a dormire al suo fianco, ma dopo una settimana insonne aveva necessariamente bisogno di riposarsi: preferibilmente in luogo silenzioso. Stropicciandosi gli occhi e trattenendo uno sbadiglio chiuse la porta alle sue spalle. Una volta dentro la piccola stanza, il buio e il silenzio lo avvolsero. Come sottofondo poteva sentire solamente i respiri pesanti degli occupanti delle cuccette.  
 
Dannazione pensò, mentre guardava alla sua destra; entrambe le cuccette erano già occupate. C’era un’infermiera sulla parte superiore e un giovane stagista sul fondo. Derek guardò alla sua sinistra. Anche queste erano entrambe piene.
 
«Addison?» Derek sussurrò a bassa voce, mentre nella penombra della stanza aveva riconosciuto il tumulo di capelli rossi sparsi sul cuscino della cuccetta inferiore. Si avvicinò lentamente al letto e guardandola da più vicino confermò che fosse lei. Stava dormendo profondamente e tutto quello che poteva sentire era il suo respiro lento e costante. I lineamenti del viso erano distesi, le mani posate accanto al suo volto. Una all’altezza del viso e l’altra nascosta sotto il cuscino. Rimase a fissarla imbambolato, ritrovandosi a rivivere anche solo per quell’attimo i tempi in cui aveva dormito profondamente al suo fianco.
 
«Addison» ripeté, odiandosi per doverla svegliare. Non aveva altra scelta, la fatica ormai era insopportabile e tutto quello che voleva era solo una superficie piana su cui stendersi.
 
Lei si mosse leggermente, sprofondando con il viso ancor più nel cuscino. Derek era solo a pochi centimetri di distanza dal suo viso quando aprì gli occhi. La vide trasalire: gli occhi sbarrati e la bocca semi aperta cercando di trattenere un urlo.
 
«Oh mio Dio, Derek»
 
«Ssh! Ssh! Scusami, non volevo spaventarti. Senti… io ho bisogno di dormire»
 
«Beh, vai a dormire» disse, scuotendo la testa e ritirandosi verso la parete per allontanarsi dell’uomo. «Derek… so che stiamo cercando di essere civili, lo so, e sono contenta, davvero. Oggi però non è proprio giornata. Sono stanca, molto stanca. Lasciami stare e ne riparliamo dopo, okay?» si rannicchiò, portando le ginocchia più vicine al petto.
 
«Sono stanco anch’io. Guardati intorno Addie, non ci sono posti letto e sono entrato in ogni singola stanza di questo maledetto ospedale.»
 
Addison chiuse gli occhi, nella speranza di allontanare il suo ex-marito. «Addison!» i suoi occhi si aprirono di colpo.
 
«Cosa diavolo vuoi che faccia?» Lui rimase a fissarla sorridendole. «Scordatelo.»
 
«Avanti Addie, fatti un po’ più in là» disse, posando un ginocchio sul letto. Il materasso affondò leggermente sotto il suo peso e Addison si ritrovò nuovamente spostata sull’altro lato del letto.
 
«Stai scherzando, vero?» di solito, in qualsiasi altra circostanza, Addison, avrebbe accettato volentieri di dormire al suo fianco. Amava sentirsi stretta tra le sue braccia, il respiro caldo sul collo e la sua forma stampata alla sua. Ma questo non era chiaramente il luogo né tanto meno la situazione giusta per condividere il letto con quest’uomo. Con il divorzio avevano demarcato delle linee ben precise e questo sicuramente sorpassava i confini che pochi mesi fa avevano firmato insieme.
Erano divorziati e Derek non aveva perso mai un’occasione per ricordarle di quanto liberatorio fosse per lui il loro nuovo status sociale. Per questo la parvenza di pacifica e cordiale amicizia che avevano da poco contrattualizzato l’aveva sbalordita, e non poco, dopo le recenti discussioni avute con l’uomo. Questa richiesta, però, andava ben oltre l’immaginazione. Che diavolo gli passava per la testa? Si era forse impazzito?
 
«No, non sto scherzando e non è come se stessimo per andare a fare qualsiasi cosa…» disse, guardandola fissa negli occhi «dobbiamo solo dormire, te lo prometto Addie. Siamo amici.»
 
«Derek...»
 
«Ho davvero bisogno di dormire, Addie, sul serio. Ho un intervento tra poco più di due ore e sono esausto.»
 
Si mosse dalla sua posizione stesa, poggiando un gomito sul letto. «Perché non condividi il letto con quello di sopra?» chiese, scuotendo la testa nel tentativo di tenere gli occhi aperti. Si sentiva turbata dalla sua vicinanza, ma era anche molto stanca. Gli eventi dell’ultima settimana le pesavano sulle spalle come due pesanti macigni. Mark continuava a tenerle il muso, determinato nel suo intento di farla sentire in colpa e il suo specializzando continuava a giocare con la sua testa, facendola letteralmente impazzire. L’ultima cosa di cui aveva bisogno in questo momento era di aggiungere Derek in questo guazzabuglio di sentimenti.
Era stanca e assonnata, non aveva decisamente la forza fisica e mentale per far testa ai capricci del suo ex-marito.
 
Derek scosse la testa inorridito, puntando con il dito alla cuccetta superiore. «No, no… c’è il dottor Larson in quel letto, non ho intenzione di dividere un letto con quell’uomo. Non mi piace condividere un letto con un uomo, lo sai» sibilò.
 
Addison sorrise e annuì, ripensando a tutte le volte in cui aveva dormito tra Derek e Mark, incastrata tra i loro corpi. «D’accordo»
 
«Fiù… per un attimo ho davvero temuto che mi avresti detto di dormire sul pavimento.»
 
«Beh, potresti sempre farlo» gli disse.
 
Derek si piegò completamente sul letto e scavalcò la sua figura stesa sistemandosi sul lato opposto, quello accanto alla parete.
 
«Derek…» Addison protestò debolmente. L’uomo scosse la testa sorridendole, cercando di tranquillizzarla. Era stanco, e anche lei, non sarebbe successo niente di inappropriato, e inoltre era sicuro come l’inferno che non avrebbe mai diviso il letto con William Larson.
 
«Rilassati» le disse, mentre cercava di sistemarsi sul letto. Nel muoversi sentì l’odore del profumo di Addison, e il calore che ancora riscaldava le coperte. Odiava ammetterlo, ma nonostante tutto, gli mancava il suo odore.
 
Addison aggrottò la fronte, chiudendo gli occhi. Derek era disteso al suo fianco, proprio di fronte a lei. Non lo voleva lì, non lo voleva al suo fianco, non lo voleva in nessun posto. Era troppo vicino e lei non riusciva a respirare con il suo profumo che le annebbiava il cervello. Faceva male. Faceva tremendamente male averlo così vicino e al tempo stesso sentire quei pochi millimetri di aria così pesanti, come se ci fosse una voragine a dividerli.
Questo doveva essere sicuramente un sogno. Un incubo.
Finalmente aveva l’unico uomo che voleva al suo fianco, ma non poteva averlo davvero.
Era fermo e immobile, a respirare la stessa aria stantia della stanza.
Era vicino e inafferrabile.
Dormiva al suo fianco, privandola del sonno.
Si voltò a faccia in su e fece un respiro profondo. Avrebbe solo dovuto immaginare di non essere qui, di non trovarsi al suo fianco e di non sentire il calore del suo braccio che delicatamente sfiorava il suo. Avrebbe solo dovuto far finta che questo fosse frutto della sua immaginazione e dire addio al suo sogno ad occhi aperti. Allontanarsi da quel corpo. Allontanarsi da lui che era l’ultima persona a cui avrebbe voluto dire addio.
 
 
*
 

 

Derek poteva finalmente dormire, cullato dagli sbuffi leggeri del sonno dei suoi compagni di stanza e dal calore del corpo steso al suo fianco. Il silenzio voleva dire dormire, dormire voleva dire riprendersi dalla stanchezza accumulata in questi giorni e tutto questo a sua volta significava poter essere al meglio per la craniotomia che lo aspettava quella sera. Tutto questo era incredibile.
Derek rimase immobile assaporando il dolce profumo di Addison, abbracciando il silenzio.
Ma ora un suono, leggero e quasi impercettibile, stava disturbando la sua quiete. Aprì gli occhi lentamente, e una volta messo a fuoco, vide Addison che fissava il letto a castello sopra di loro.
Proveniva da lei quel suono soffocato, stava piangendo. Il suo viso era rosso per lo sforzo di reprimere i singhiozzi e le sue guance erano umide.
 
«Addie?» chiese, preoccupato per la donna. Addison si asciugò rapidamente gli occhi, passando con forza il palmo sulle guance, fece un respiro profondo e si allontanò da lui dandogli le spalle.
 
«Mi dispiace di averti svegliato» disse, cercando di non far tremare la voce.
 
Derek si appoggiò su un gomito sporgendo il suo corpo in avanti. «Ascolta…» iniziò, alzando un braccio per raggiungere la sua spalla e ruotarla verso di lui. «Se vuoi che me e vada, posso andarmene anche subito. Io non credevo che… non mi rendevo conto…  solo che…»
 
«Non essere dispiaciuto, non è colpa tua. Sai… in ogni caso credo che sia meglio che vada a farmi una passeggiata» iniziò ad alzarsi, ma Derek la fermò afferrandole la mano, costringendola a sedersi nuovamente sul letto.
 
«No, non andartene a causa mia»
 
Addison alzò gli occhi al cielo, sbuffando. «Derek, non sei il centro del mio mondo. Possibile che pensi che ogni cosa ti riguardi?»
 
Addison si spostò nuovamente slittando con il busto in avanti e poggiando entrambi i piedi sul pavimento. «Ehi, mi dispiace, okay. Non andartene… Addison io voglio essere tuo amico.»
 
Addison chinò il capo fissando le sue mani nel buio. «Perché sta accadendo tutto questo?» sussurrò a sé stessa, come se fosse stata torturata. «Amici Derek? Sul serio?»
 
«Beh, sì, è il minimo che posso offrirti visto che stiamo condividendo un letto.» Addison si voltò e lo guardò aspramente. Lui le sorrise, un sorriso dolce, sincero. Quello che non vedeva sul suo volto da anni.
 
Stava ancora tenendo la sua mano e la strinse con più forza.
Addison si sdraiò nuovamente sul letto, non tanto perché lui l’avesse sollecitata a farlo, ma più perché aveva bisogno di pensare in questo momento.
 
«Perché stai facendo questo?» lei chiese.
 
«Cosa?»
 
«Questo» rispose, alzando in aria le loro mani intrecciate. «Questo urla scandalo, Derek, e credimi ho già troppi problemi da affrontare in questo momento»
 
Derek lasciò la sua mano scivolare verso il basso, a riposare mollemente tra i loro corpi. Addison continuava a fissare la cuccetta superiore cercando di trattenere le lacrime che nuovamente si erano affacciate ai suoi occhi. Lasciando la presa sulle sue dita le si avvicinò, ruotando completamente il suo corpo verso quello della donna. «Addison, dico sul serio. Voglio solo essere tuo amico. Sono preoccupato per te, non mi sembra che tu… che tu stia bene»
 
Addison girò il volto verso quello dell’uomo, incontrando per la prima volta il suo sguardo. «È difficile» sussurrò lei, non sapendo cosa altro dire.
 
«So che tutto questo sia strano, e so di non essermi comportato bene con te. Ti ho detto delle cose terribili. Non voglio ingannarti, ho solo bisogno di un amico e tu sei la mia migliore amica.»
 
«Hai bisogno di un amico?» chiese, studiandolo.
 
«Lo so, strana scelta la mia, non trovi?» disse, sorridendole complice. «Ho provato anche con Preston, ma sembra che non ci sia la stessa sintonia che c’è tra noi».
 
«Potresti provare con gli stagisti, da quello che so ti trovi molto in sintonia con alcuni di loro» rispose sarcastica, riprendendo a fissare il soffitto.
 
«È sempre tutto così difficile e doloroso con te».
 
«Sei tu che lo hai reso tale».
 
«Non voglio che te ne vai»
 
«Non me ne sto andando»
 
«No, non dico ora» sussurrò debolmente, «non voglio che te ne vai da Seattle».
 
Addison ingoiò il groppo che le si era formato in gola, serrò gli occhi lasciando altre lacrime silenziose scivolarle lungo le guance. «Mi sembra di ricordare che mi volessi fuori da questo ospedale. Che volessi solo Meredith e quella maledetta terra dimenticata da Dio».
 
«Sai che non è così»
 
«Non so più nulla».
 
Derek raggiunse nuovamente la sua mano e la portò sul suo petto. Allargò le loro dita e le posò insieme all’altezza del cuore. «Io so che ci sei. Come tu sai che ci sono. Nel bene e nel male noi ci saremo sempre l’un per l’altro»
 
Si voltò a guardarlo con gli occhi colmi di lacrime. «Come puoi dirmi che ci sei quando fingi di non vedermi» tirò su con il naso lasciando gli occhi svuotarsi sulla sua pelle arrossata. «Io mi sento sola, Derek. Mi sento come se non avessi più nessuno al mio fianco. Come se non lo avessi mai avuto.»
 
Le afferrò il volto tra le mani asciugandole l’umidità delle lacrime dalle guance. «Guardami» le disse, facendo scorrere i pollici sulla pelle. «Addie, guardami. Non nasconderti, non da me.»
 
Aprì gli occhi, realizzando solo in quel momento della mancanza di spazio tra i loro corpi. «Tu hai tante persone che ti vogliono bene, che ti sono vicine. Hai Miranda, Richard, la dottoressa Torres, la tua equipe medica e… Mark, quel maledetto bastardo. E hai me» le disse, scostandole una ciocca di capelli dal viso. «Come fai a sentirti sola con tutte queste persone al tuo fianco?»
 
«A parte gli stagisti»
 
«Beh, sono stagisti, che ti importa?» Addison lo guardò e sorrise. Si allontanò da lui che istintivamente la tirò contro il suo petto.
 
«Rimarrò per un po’» sussurrò, inclinando la testa verso il basso, per nascondersi ai suoi occhi.
 
«Siamo solo amici» mormorò dietro di lei, cercando di tranquillizzarla e al tempo stesso frenare la folle corsa del suo cuore.
 
Era una strana sensazione. Entrambi avevano quello che volevano, anche se erano ben consapevoli che fosse solo temporaneo. Addison aveva l’uomo di cui era innamorata tra le sue braccia, e Derek la sua miglior amica, nonché unico amore della sua vita, se solo fosse stato sincero con sé stesso.
Nel limbo di quella cuccetta stava scappando dai terribili eventi della settimana, dalle lotte con Mark e dai sensi di colpa che in questi giorni sembravano morderle l’anima; mentre lui stava scappando dalla sua ragazza, dai dubbi e dalle incertezze che in momenti come questi lo attanagliavano, inchiodandolo al suolo.
C’era qualcosa che li teneva insieme, un senso di appartenenza che nessun pezzo di carta avrebbe mai cancellato. Una trazione inerte, che non potevano identificare correttamente, ma che li spingeva l’uno nelle braccia dell’altro.
Le accarezzò la testa, lasciando scorrere le dita nella sua chioma di velluto; inalando ancora una volta il profumo della sua essenza.
 
«Siamo amici» ripeté Derek, dolcemente, poi abbassò la testa e mise un bacio morbido sulla spalla. Si mosse in avanti infilando la testa nella linea delicata del suo collo, baciandole la striscia di pelle ricoperta di piccole lentiggini. La sentì tremare al suo tocco.  
 
Si sdraiò nuovamente al suo fianco, fissando il retro del letto sopra di lui: «C’è qualcosa che posso fare?»
 
«Sì»
 
«Cosa»
 
«Abbracciami» Derek la sentì afferrargli la mano, quella che giaceva mollemente sulla pancia. Strinse le dita tra le sue e la tirò all’indietro contro di lui.  


 




 
NdA:
Sono tooornata!
Dopo un lungo periodo di latitanza eccomi di nuovo qui. Ho deciso di far diventare questa storia una raccolta di one shot incentrate tutte sullo stesso tema: quello dell’amicizia.
Quando ci sono gli Addek di mezzo per me sono tutto fuorché semplici amici, ma qui mi sono impegnata per rimanere fedele al tema. Ho letto una lista di prompt e ho trovato l’ispirazione giusta. Una ragazza aveva scritto di Derek e Addison come due semplici amici che condividevano una cuccetta insieme. Mi piaceva troppo come idea per non farlo anch’io.  
Per chi non lo sapesse è in corso una vera e propria rivoluzione Addek in questi ultimi mesi su FF.net, a forza di leggere storie su questi due polentoni mi sono lasciata trascinare anch’io dall’onda del loro entusiasmo.
Il titolo del capitolo è preso dalla canzone dei The Rembrandts. Questa canzone è stata una vera e propria colonna sonora per questo capitolo, trovo che il testo descriva perfettamente la loro relazione.
 
Spero che questa shot risvegli una scrittrice di mia conoscenza che ultimamente sta facendo la pigra e non si fa più vedere su Efp. Flox vieni fuori!
 
 

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Capitolo 3
*** I held you in my arms ***


I held you in my arms





Quando entri nel bar dell’hotel lei è la prima cosa che vedi: una matassa di capelli rossi sparpagliati sul bancone. Ti guardi intorno cercando un volto conosciuto, ma ciò che trovi sono solo gli occhi del barista che ti sorride cordiale in attesa della tua ordinazione.
L’orologio segna le dieci e quaranta. Sono esattamente due ore e mezza che il tuo turno è finito e, sebbene ti sia ripromesso di riposarti, aspetterai che anche lei sia pronta a farlo.
La stanza è quasi vuota, il pianista accarezza le note di quest’ultima canzone prima di riporre lo spartito; il cameriere sparecchia gli ultimi tavoli dopo aver passato lo straccio sul banco; lei allatta il suo bicchiere di gin.
Tu sei fermo, immobile, sulla soglia. Solo la guardi. Continui a fissarla non riuscendo a deciderti. Potresti girarti e tornartene in camera, lasciarla affogare da sola in questo mare di rimpianto e alleggerirti la coscienza con il frigo bar della tua stanza; ma l’idea di doverla lasciare da sola a scrostarsi di dosso le ferite che questa giornata le ha inciso sulla pelle non ti permette di muoverti.
Ora sei dietro di lei e senti che ha un buon profumo. Questo è l’inizio di tutti i tuoi problemi.
 
«Cosa vuoi?» dice, sbiascicando le parole con la lingua pastosa, incollata al palato.
 
Ti siedi sullo sgabello alla sua sinistra, poggiando il braccio sullo schienale della sua sedia. Hai paura che possa scivolare da un momento all’altro, così ti avvicini il più possibile senza opprimerla con la tua presenza.
 
«Offri da bere anche a me?» le chiedi.
 
«Non ho bisogno di compagnia, ho tutto quello che mi serve proprio su questo bancone» risponde, portandosi alla bocca il bicchiere e ingoiando l’ultimo sorso di solitudine. 
 
«Non è bello bere da soli» le ricordi, poi ti volti verso il cameriere e gli fai cenno con la mano di avvicinarsi. «Uno scotch doppio malto per me, e un…»
 
«Vodka»
 
La guardi con la coda dell’occhio annuendo alla sua richiesta, non sei sicuro se sia in grado di bere ancora per questa sera, ma lei è una Forbes e hai imparato col tempo che l’alcol è iscritto nella cromatina del suo DNA; il suo sangue è costituito dal settanta per cento di alcol e la restante parte di plasma e cellule. Una caratteristica peculiare della sua nobile famiglia. Decidi che non sarà quel bicchiere di troppo a farle rimpiangere la scorpacciata di alcol di questa sera. «E una vodka liscia per la signora»
 
Il cameriere prende nota delle vostre ordinazioni e si dirige nella parte opposta del bancone. Riservatezza e discrezione sono caratteristiche fondamentali per fare il barman in un hotel.
Ti volti verso di lei e la osservi, senza parlare. Con il dito indice della mano destra percorre il bordo liscio del bicchiere. Si muove a tempo con la melodia di sottofondo, e il continuo sfregamento della carne contro il bordo di vetro produce un fischio leggero, generato dall’attrito dei due corpi. La sua testa oscilla pericolosamente verso il piano di legno, poi all’improvviso si accascia e poggia la fronte sul braccio steso, continuando con la mano libera il suo gioco solitario.
 
«Da quanto tempo sei qui, Addie?» provi a chiederle, conoscendo già la risposta a causa dei suoi movimenti rallentati.
 
«Non abbastanza»
 
«Non abbastanza… cosa?»
 
«Il tempo. Da non abbastanza tempo»
 
Il cameriere posa sul tavolo le vostre ordinazioni e si allontana un attimo dopo. Lei afferra il bicchiere di vetro e porta la cannuccia alle labbra, senza alzare la testa dal braccio.
Chiude gli occhi e lo assapora: è aspro e pungente. Amaro, come il suo futuro.
 
Tu sorseggi il tuo bicchiere continuando a tenere lo sguardo fisso su di lei. «Dovresti berlo più piano, non è mica un succo di frutta»
 
«Fatti gli affari tuoi» risponde secca.
 
È sempre stata un’ubriaca scontrosa, o forse è una donna scontrosa e basta. Non ama essere contraddetta, non ama essere corretta. Il suo unico timore: essere giudicata.
Il suo lato passivo aggressivo si riaffaccia nel momento in cui apre gli occhi e ti fissa. «Perché sei qui? Non mi sembra di averti invitato»
 
«C’è una festa in atto di cui non ero a conoscenza?»
 
«Sì, sto festeggiando il mio recente divorzio e tu non sei invitato» si tira su, poggiando i gomiti sul tavolo.
 
«Che ne dici se continuiamo a festeggiare di sopra?» le chiedi, rimpiangendo le parole nel momento stesso in cui escono dalla tua bocca. Non voleva essere un invito, ma lei non lo capirà, o fingerà di non capirlo. Delle volte l’ignoranza è la miglior arma per non soffrire.
 
Si volta verso di te e ti guarda con astio. La fiamma dell’odio arde nei suoi occhi opachi. «Non vengo più a letto con te, Mark»
 
«Non ti stavo chiedendo di venire a letto con me» sussurri, stanco di essere additato per quello che non sei mai stato con lei.
 
«Pensi che sia così disperata?»
 
«Penso che tu abbia bisogno di una doccia e di smettere di bere» dici, mentre allontani il bicchiere quasi vuoto dalle sue mani.
 
«Non ho più bisogno di te» dice, sputando fuori le parole come se fossero veleno.
 
Sai che vuole ferirti, vuole offenderti e umiliarti. Farti sentire un miserabile, e sebbene credi di essere ormai immune alle sue offese, la tua corazza cede. Si crepa. C’è una falla nella tua armatura, un buco dove le sue parole trovano la strada per affondare nella tua pelle; pesanti come macigni.  «Puoi continuare a offendermi, ma sappi che non c’è niente che tu possa dire che mi convincerà a lasciarti qui da sola» le menti spudoratamente, sperando che lei non smascheri il tuo doppio gioco.
 
«Guardati, sei qui ad elemosinare la mia compagnia per una scopata… è triste anche per te» le sue parole sono affilate come la lama di un coltello. Scavano in profondità nella tua carne tesa e affondano direttamente nel cuore.
 
Fingi di non sentirla e spostando la sedia ti alzi, muovendoti alle sue spalle. Le prendi il volto tra le mani, portandolo a pochi centimetri dal tuo. «Smettila di essere una tale stronza»
 
Ti guarda a bocca aperta, gli occhi persi nel vuoto e nel momento in cui senti la sua testa poggiare senza resistenza tra le tue mani sai che sei riuscito a convincerla. Anche per questa sera riuscirai a salvarla da sé stessa.
 
Si spinge con il sedere sulla sedia, spostandosi all’indietro. Capisci che ha bisogno di spazio e per questo molli la tua presa e ti muovi al suo fianco pronto a sorreggerla per quando deciderà di alzarsi.
Poggia una gamba a terra, la sinistra, e si dà uno slancio. Il movimento richiede troppo sforzo e coordinazione, la stessa che ha perso dopo il terzo bicchiere della serata. Crolla tra le tue braccia, mentre tu la afferri saldamente passandole un braccio intorno alla vita; senti il calore della pelle nuda della sua schiena, una riga di carne che ti brucia le falangi e intorpidisce i sensi.
Dopo il primo passo vacilla e sposta il peso del suo corpo completamente su di te. La senti indurirsi, pietrificata dalla paura di cadere.
 
«Sta tranquilla, ti tengo io»
 
Annuisce lievemente e incastrando le testa nell’incavo del tuo collo ti permette di condurla fino agli ascensori. Una volta dentro selezioni il ventiduesimo piano, le porte si chiudono e l’ascensore inizia a salire.
La senti respirare, uno sbuffo leggero sulla pelle del tuo collo. Il brivido è immediato ma cerchi di reprimerlo perché lei si merita di più di questo.
Ti lasci cullare del suo respiro regolare, sembra quasi che stia dormendo. Fingi di non essere completamente schiavo di lei; del calore del suo corpo premuto sul tuo; del profumo inconfondibile della sua pelle. Quel profumo che hai cercato su molte donne durante quei mesi di solitudine a New York. Volevi disperatamente qualcuno che potesse sostituirla, ma nessuna fragranza era equiparabile alla sua. Lei sa di Addison ed è il miglior profumo che tu abbia mai sentito.
Il ding dell’ascensore ti risveglia dai tuoi pensieri. Le porte si aprono e sei pronto a portarla a casa.
Scegli la sua stanza, sai che non ama svegliarsi nel tuo letto. Sai che al mattino fuggirebbe via in fretta e furia senza lasciarti la possibilità di parlare.
Le sfili la borsa dal braccio, continuando a sostenerla, e passi la tessera nel lettore della porta.
Una volta dentro ti senti improvvisamente più leggero. Sai che bene o male questa notte passerà e domani sarà un’altra giornata. Addison è sempre stata brava a metabolizzare la sbornia della sera precedente.
 
La trascini fino al bordo del letto e nel momento in cui ti abbassi sul pavimento per slacciarle il cinturino delle scarpe ti parla: «Mark»
 
Non è una domanda. Il tuo nome ha un suono incredibile pronunciato dalla sua bocca. Ti è sempre piaciuto. Forse per via del suo accento del Connecticut, come continuavi a ripeterle per prenderla in giro, o forse perché qualsiasi suono ha una melodia diversa quando proviene dalle sue labbra.
 
Le afferri con una mano la caviglia mentre con l’altra fai scivolare via la scarpa. «Cosa c’è?» le chiedi, poi afferri l’altro piede e ripeti la stessa azione.
 
«Mi dispiace» dice bruscamente, «non volevo essere così stronza»
 
«Tu ami fare la stronza con me»
 
«Lo so» ammette. Ti guarda, registra lo spazio che c’è tra voi, anche se siete seduti a pochi centimetri di distanza, e poi torna alla sua domanda. «Pensi che un giorno smetterà di fare male?»
 
«Sì, Addison. Non so dirti quando, ma so che succederà» le dici, spostandoti dal pavimento al letto per sederti al suo fianco. «Ora mi vuoi dire perché hai cercato di affogarti nell’alcol?»
 
«Credo di aver bisogno di andare al bagno prima» guarda in basso alle sue mani. «Ho bisogno di farmi una doccia»
 
«Vuoi che venga con te?»
 
«No» il terrore che registri nei suoi occhi ti destabilizza. Il cuore ti precipita nello sterno, come se fosse fatto di piombo.
 
«Ho bisogno di un po’ di tempo da sola, Mark» dice lentamente, come se avesse paura di ferirti.
 
«Certo, ti aspetterò qui»
 
Si alza dal letto impaziente. Starle così vicino è un pericolo per entrambi.
 
Ti muovi verso il mobile bar, accanto alla TV, e attivi la macchinetta per il caffè. Per combattere una pesante sbornia non c’è niente di meglio di una tazza di caffè nero.
Conosci questa stanza come le tue tasche, sai dove sono posizionate tutte le sue cose; sai che sul fondo dell’armadio, nascosta dietro il borsone di pelle, c’è la sua felpa preferita: la felpa del college.
La prendi e la distendi sul letto, posizionando al suo fianco un paio di leggings e calzettoni di lana. Sai che ama indossarla quando qualcosa non va. Hai capito il significato di quella felpa durante l’ultimo anno a New York.
Senza rendertene conto passi con un dito il contorno della scritta in blu, posizionata al centro del petto. Senti il punto in cui la trama cambia cucitura e sorridendo ripensi a quel giorno in cui hai afferrato la sua felpa facendole un buco nella stoffa all’altezza della lettera A di Yale. L’hai fatta riparare il giorno seguente, portandola in un negozio di sartoria sulla Fifth Avenue, da una sarta di abiti da sposa. Continuava a ripeterti che non era il negozio indicato per portare un simile articolo, ma alla fine sei riuscito a convincerla e salvare la felpa. Indossava quella felpa ogni volta che ti fermavi a casa sua dopo il lavoro. L’ha indossata per mesi, consumando il tessuto sui polsini a forza di stringerlo tra le mani, mentre era sdraiata sul divano insieme a te in attesa che Derek tornasse a casa.
Il fischio della moka ti avverte che il caffè è pronto. Ti alzi per versarlo in due tazze e proprio in quel momento Addison esce dal bagno, accompagnata da una nuvola di vapore.
 
«Ti ho preparato una tazza di caffè» dici, rimanendo voltato di schiena, mentre versi il liquido scuro nelle due tazze.
 
Addison si avvicina afferrando la tazza dalle tue mani. «Grazie»
 
Rimane in piedi al tuo fianco stringendo la tazza tra le mani, quasi per assorbirne il calore della bevanda.
La vedi mentre sorride guardando il letto e spostandosi raccoglie i vestiti che hai posizionato con cura sul piumone. Si dirige verso il bagno e con un click sommesso chiude la sicura della porta.
Quando esce dal bagno, con indosso quella felpa, pensi che sia la donna più bella che tu abbia mai visto.
I capelli bagnati le incorniciano il viso, scendono morbidi fino alle spalle, per poi arricciarsi con le punte verso l’alto. La pelle del suo viso è nuda e serica, liscia come una porcellana. È ancora scalza e la pelle dei piedi è arrossata a causa del getto caldo dell’acqua. Ti ricordi delle vostre docce insieme, dell’acqua bollente che arrossava la vostra pelle e vi toglieva il respiro; era il suo modo per sgrassare via il peccato dalla pelle. Per portare via il tocco delle tue mani.
Non sapendo cosa fare accendi la TV e la stanza si riempie del rumore delle voci che vengono dal piccolo schermo. Il canale è impostato sulle previsioni del meteo. Sorridi pensando al suo odio per la pioggia e alla sua testardaggine nel voler comunque vivere nel luogo più umido e bagnato d’America.
Scivoli sul divano e accavalli le gambe, sistemandoti un cuscino dietro la testa.
 
«Mark»
 
Ecco nuovamente la sua voce che ti chiama. Senti i suoi passi che affondano nella moquette sul pavimento, mentre lentamente si avvicina. Improvvisamente sei sopraffatto dal suo odore; quel mix di shampoo e bagnoschiuma che emana la sua pelle e che raggiunge direttamente i tuoi sensi, allertando le tue terminazioni nervose.
Si siede al tuo fianco, arricciando le gambe al petto e nascondendo i piedi sotto al cuscino per tenerli al caldo.
 
«Credo che dovrei ringraziarti»
 
«Per cosa?»
 
«Per esserci».
 
Stringi le labbra insieme, sorridendole. «È un vizio che non riesco a togliermi».
 
Ti sorride, finalmente rilassata, e affonda nei cuscini del divano. «Derek e Meredith sono una coppia».
 
«Lo so».
 
«No, intendo una coppia vera. Per davvero.»
 
Ti giri verso di lei e la osservi mentre si tortura le mani con lo sguardo fisso sul pavimento.
 
«Oggi l’ho visto mentre le portava una cioccolata calda. Ho perso un bambino e Meredith era con me nella mia sala operatoria» apre la bocca e inghiotte l’aria per soffocare un singhiozzo. «Ho perso un bambino e lui ha portato una cioccolata a Meredith, capisci?»
 
«Sono una coppia perché le ha portato una cioccolata?» le chiedi, non afferrando il senso del suo discorso.
 
«No, Mark. Sono una coppia perché lui c’era. Perché lui l’ha notata»
 
Il significato nascosto dietro quelle parole ti trapassa i timpani e ti entra direttamente nel cervello. Sai perfettamente quanto sia difficile per lei. Conosci quel sentimento di dolore e odio; lo conosci perché è lo stesso dolore sordo che ti corrodeva l’anima ogni volta che la vedevi con Derek.
 
«Mi sento di aver vissuto in un limbo per tutti questi mesi, ed ora che è finalmente finita mi meriterei anch’io un angolo di paradiso, e, invece, mi ritrovo catapultata all’inferno».
 
I suoi occhi sono lucidi, colmi di lacrime non versate.
 
«Io all’inferno con te ci verrei».
 
«Mark…»
 
«Mettiamola così: il mio concetto di paradiso è fatto di cose per cui si va all’inferno».
 
Ride di gusto tirandoti un cuscino in pieno viso. La afferri per un braccio trascinandola verso di te; in un primo momento cerca di allontanarti, ma poi, una volta a contatto con il tuo corpo, si rilassa, e la sua forma si modella alla tua come un tempo.
Le passi una mano tra i capelli, districandoli con le dita. I tuoi movimenti sono lenti; le tue mani si muovono su di lei come se lo facessi da sempre. Esegui quell’azione in maniere automatica, una memoria muscolare. Lei sbuffa e tira su col naso, nascondendo il viso nel tuo petto.
 
«Non è solo perché tra noi è finita» espira, «è solo che mi chiedo come possa una firma su un foglio di carta cancellare via tutto. Come può resettare la sua vita in così poco tempo ed eliminarmi? Prima ero triste, arrabbiata… ora sono solo delusa».  
 
«Sai qual è l’unica cosa al mondo che non delude mai?»
 
Addison annuisce. «Questa risposta la so» dice lentamente, come se parlasse con un bambino di quattro anni. «La vodka» annuncia gloriosamente e poi scoppia in un sorriso. 
 
Capisci improvvisamente che non era così ubriaca come avevi pensato che fosse, mentre osservi le lacrime che le circondano gli occhi e senti un coltello affondarti nel cuore.
Non sai come aiutarla, o meglio, sai che non puoi aiutarla; almeno non nel modo in cui lei vorrebbe.
Ti alzi e raccogli la coperta di lana dalla poltrona, gliela sistemi sulle gambe e poi ti risiedi accanto a lei.
Imposti la televisione su un film in bianco e nero – uno dei suoi preferiti – e ti rilassi al suo fianco avvolgendole le braccia intorno alle spalle.
 
«Posso essere la tua vodka, Addie. Posso essere qualsiasi cosa tu voglia» 
 
Ti guarda con gratitudine, passandoti una mano sul volto. «Grazie».
 
Verso metà film si addormenta, la sua testa atterra sulla tua spalla. Tu rimani sveglio. Rimani sveglio perché pensi che lei sia la cosa più bella che tu abbia mai visto, lei profuma di buono.
Le scosti una ciocca di capelli dal viso, accarezzandole la guancia. La sua pelle, liscia e setosa, ti incanta, riportandoti indietro nel tempo; a quei giorni in cui ti era permesso toccarla senza dover chiedere l’autorizzazione a nessuno.
Osservi il suo sonno tranquillo e pensi che come sempre corre da te quando ha bisogno di qualcuno. Quando ha bisogno di colmare il vuoto che Derek le ha scavato dentro. Corre da te perché sei il suo migliore amico. Tu sei la risposta a tutti i suoi problemi. E ti chiedi se, in questo marasma di emozioni, abbia perso di vista il fatto che ne sei anche la causa. 




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