Incontrerai Joaquin Phoenix una Vigilia di Natale

di Simply Yeats
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il mio primo incontro con Joaquin Phoenix ***
Capitolo 2: *** Il sogno americano. ***



Capitolo 1
*** Il mio primo incontro con Joaquin Phoenix ***


Disclaimer: con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di questa persona (Joaquin Phoenix), nè offenderla in alcun modo.

Quando incontrai per la prima volta Joaquin Phoenix avevo appena 14 anni.
 Correva l’anno 1999. Lui era una star semi-emergente, io una studentessa indisciplinata dal futuro incerto.
Joaquin si trovava a Roma per chissà quale evento, ma allora non si era mai troppo informati su ciò che facevano o non facevano i vip, e difatti, non ne ero venuta a conoscenza.
Erano le 15:13 del Luglio ’99 quando lo vidi passare per via Condotti. Con “lo vidi passare” non intendo dire che io mi trovassi a Spagna e da lì lo avessi intravisto tra la folla; intendo dire che alla stessa ora dello stesso giorno e dello stesso anno, io e lui ci incrociammo in quello scorcio di via Condotti; che calpestammo lo stesso suolo a distanza di un secondo l’uno dall’altro e che fra decine di persone che battevano i loro tacchi su quella strada contemporaneamente a noi, soltanto io lo riconobbi.
Ebbi il tempo di girarmi, per assicurarmi di non avere commesso un errore e tornai d’istinto sui miei passi senza in alcun modo riflettere su ciò che avrei voluto dirgli.
-Joaquin! - Lo chiamai, sfiorandogli appena una spalla, ostacolata dal suo passo veloce. E lui si girò.
Quando lo vidi voltarsi e potei finalmente inquadrare il suo volto, a pochi centimetri dal mio, non seppi cosa dire.
- Hi. - esordì lui, con l’aria di chi giustamente si aspettava qualcosa come “una foto e via”.
E invece rimasi muta come un pesce.
Certo che nel frattempo il caos della via non si placava, non si chiudeva a sua volta nel silenzio di quegli istanti... anzi , sembrava farsi più intenso. Cominciai a sentire il mio corpo surriscaldarsi, succede sempre quando si è in imbarazzo, no? Come se tutto il sangue contenuto nel mio corpo stesse iniziando a ribollire, mentre la faccia, presumibilmente divenuta d’un accesso rosso carminio, mi bruciacchiava e mi prudeva come quando ti ha appena punto una zanzara. Dicono sia il sudore a scatenare questa reazione, ma a quell’età, nella mia ingenua ignoranza, mi limitai a dire qualcosa come “è stata colpa di Joaquin Phoenix!” (che di solito pronunciavo Gioachin Fòenics, e grazie al cielo, non lo avevo chiamato per cognome). 
- Hi. - risposi finalmente, dopo svariati istanti di esitazione - You... You-you are - continuai, balbettando esattamente come il maialino dei Looney Tunes. Gli chiesi se lui fosse Joaquin Phoenix. Chiaramente era Joaquin Phoenix, ma nell’ansia del momento e per di più senza conoscere bene la lingua, cosa mai avrei potuto chiedergli? Avrei soltanto voluto scappare e cancellare tutto quello che era successo.
Quando mi rispose con un palesissimo “Yes!”, scoppiai nella risata più forzata ed imbarazzante di tutta la mia vita. E cosa poteva fare quel poveretto? Ricambiò con un sorriso almeno tre volte più forzato del mio, un sorriso che celava pensieri come “Che diavolo vuoi?”, “Posso andare adesso?”, “Fatti fare questo maledetto autografo e finiamola qua.”
Non avevo con me né una penna, né un pennarello, né tantomeno un pezzo di carta. Consapevole soltanto dell’ultimo problema gli tesi d’istinto il mio braccio sinistro e balbettai: “ A-a-autografff?”.  Si, proprio così, un autografo sul braccio.
Mi chiese se avessi una penna. Lo capii dalle parole “have” e “pen” e ricaddi nuovamente in quella sensazione di profondo sconforto di quando si era girato dicendomi “Hi.”.
Non avevo una penna. Non avevo neanche una macchina fotografica. Non avevo niente che mi permettesse di testimoniare quell’incontro.
- Ah... no, I-I don’t have a pen. - Risposi dando finalmente sfoggio delle mie sottospecie di abilità in Inglese.
- Oh, ehm... I’m sorry. - disse lui, insieme a qualcos’altro che non capii.
Lo ringraziai intercalando una serie di “sorry” tra un “Thank you” e l’altro. Ci salutammo velocemente e ognuno riprese la propria strada.
Non lo vidi più, naturalmente. 
Non lo vidi più fino alla Vigilia di Natale di diciotto anni dopo.

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Capitolo 2
*** Il sogno americano. ***


Fin dalle medie ero stata tutt’altro che una studentessa modello. Non perché non fossi intelligente o non mi piacesse nessuna materia, il problema era più profondo: non mi piaceva la scuola.
A quattordici anni, quando misi piede alle superiori, un liceo artistico non distante dalla periferia di Roma, dovetti promettere ai miei genitori che da quel momento in avanti mi sarei impegnata... ma ovviamente non fu così.  Era più forte di me. A casa leggevo moltissimo, mi piacevano Agatha Christie e Stephen King, ma quando si trattava di libri scolastici, vi dirò che talvolta restavano avvolti nella plastica fino a due mesi dall’inizio della scuola.
Un’altra cosa che adoravo era il cinema, al punto che quando le mie compagne di classe parlavano di aspettative di vita future comprendenti un lavoro stabile, un marito amorevole ed una famiglia da sitcom americana... io mi vedevo nella sitcom americana. Si, come attrice.
Non avevo mai recitato, non sapevo neppure se fossi in grado di farlo o se facessi irrimediabilmente pena, ma era così che mi immaginavo e nessuno poteva togliermi dalla testa che un giorno, in un modo o nell’altro, lo sarei diventata.
Un freddo pomeriggio del Febbraio 2002 mi convinsi di dover partecipare ai casting di un nuovo film per la televisione, dal titolo “Oggi più di allora”. Quando lo dissi ad amici e familiari, crederono tutti che stessi scherzando (e come biasimarli? Erano anni che sostenevo di voler recitare senza poi impegnarmi in alcun modo per farlo), ma quella volta non scherzavo affatto. Le possibilità che passassi erano a dir poco minime: non avevo esperienze di alcun tipo, oltre a non essere particolarmente bella, ma a me non importava più di tanto e lo feci per davvero. E volete sapere un’altra cosa?
Mi presero.
Interpretavo un ruolo minore, la cugina della protagonista: bruttina, impacciata e poco abile nell’accaparrarsi uomini. Una specie di Bridget Jones, sotto certi aspetti, e non a caso mi divertii un sacco ad interpretarla. Inoltre in quel periodo, per non rischiare di perdere l’anno scolastico fui costretta a sollevarmi le maniche ed iniziare a studiare. Non avevo molto tempo, facevo quello che potevo, eppure sembravo dare risultati migliori in quelle circostanze che nella normale vita da studentessa sfaccendata.
Alla fine, film andò in onda sul canale 1 nel Settembre 2003 e si registrarono ascolti, a detta del regista del tutto inaspettati: oltre tre milioni di telespettatori.
L’anno successivo a questa straordinaria esperienza fu del tutto decisivo.
Avevo finalmente sperimentato il lavoro dell’attrice sul set e sebbene si trattasse di una piccola parte, mi fece capire che questo era ciò che volevo davvero fare; non era più un’ illusione, un sogno da ragazzina scalmanata,  un desiderio senza fondamento... era soltanto quello che volevo. Sulla base di ciò, a metà dell’ultimo anno delle superiori  convinsi i miei genitori a farmi studiare recitazione in America dopo la maturità.
Perché si sappia: non scelsi l’America poiché migliore dell’Italia, magari sotto consiglio di qualche attore esperiente... niente affatto. Sono abbastanza sincera per dirvi che, molto semplicemente, volli inseguire il mio sogno americano. Il famoso “California dream”, no?
Quando scegli di inseguire il “sogno americano”, non lo fai propriamente per motivi razionali, come, non so... la necessità di una preparazione che solo “quella determinata accademia a San Francisco” può darti ed altre ragioni di questo tipo. Lo fai perché ti va e basta. Perché anche se l’Italia è bella e la rimpiangerai ogni singolo giorno della tua vita all’estero, sai che dentro di te sogni l’America. E allora ci vai, senza darti troppe spiegazioni (quelle al massimo le dai ai tuoi), ma soprattutto, senza promettere di ritornare.
Come diceva il buon vecchio Alfredo di Nuovo Cinema Paradiso: “Non farti fottere dalla nostalgia”.
E con questa frase in mente, una fresca notte d’Agosto del 2004, presi l’aereo da Roma Fiumicino e partii per Los Angeles.
Non dimenticai mai con quanto amore mio padre mi strinse la mano fino ai controlli di sicurezza e lo sguardo attonito con il quale mi salutò in lontananza; sembrava già sapere come le cose sarebbero andate a finire: una prima volta vennero a trovarmi lui e mia madre nel 2006, poi non li vidi più per quasi undici anni.


Note dell'autore: salve lettori. Come forse avrete notato, i capitoli sono piuttosto brevi e riassuntivi. La narrazione non terrà sempre questo andamento in quanto questi primi capitoli rappresentano una semplice introduzione a quello che sarà poi lo sviluppo reale della storia. 

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