Will you hold me tight and not let go?

di missiswolf03
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il sole negli occhi, il vento nel cuore ***
Capitolo 2: *** La vita come la conoscevo ***
Capitolo 3: *** Addio Milano, benvenuta Roma ***
Capitolo 4: *** Piccoli passi ***



Capitolo 1
*** Il sole negli occhi, il vento nel cuore ***


31 Agosto 2017

Il rumore delle onde è come un'antica nenia che le risuona nelle orecchie. Il vento le scompiglia i lunghi capelli color del miele e le accarezza il viso, un ultimo saluto prima di dover tornare alla solita routine, il suo annuale "arrivederci". Con gli occhi chiusi si lascia cullare, come una bimba prima di addormentarsi. Il suo sarà un sonno lungo e profondo, lungo come un anno. Praticamente eterno. Non vuole andarsene, non vuole tornare a Milano, è una città così grigia, dove quella nebbia con cui convive da anni ormai non è più solo nel cielo, ma dentro di lei. Spalanca le braccia, sperando con tutta se stessa di poter spiccare, finalmente, il volo, e andare là dove potrà essere felice; ma i suoi piedi restano ancorati alla sabbia, ormai così familiare, di quella piccola spiaggia che tanto ama. Se potesse, si butterebbe in mare e scapperebbe. Ma lei non può; quelle come lei non possono scappare, non possono deludere i propri familiari, non possono provocare scandali e farli finire in mezzo ai pettegolezzi. Non di nuovo. Riapre gli occhi, conscia del fatto che non serve a niente prolungare ulteriormente quel momento, perché non è destinato a durare, nonostante continuerà a sognarlo per tutto il tempo del suo " sonno". Con un ultimo sguardo accarezza la linea dell'orizzonte, dove il sole sta tramontando, e si volta, pronta ad ibernarsi nuovamente. Sorridi e annuisci, non parlare mai troppo, limitati a dire l'indispensabile, ridi alle battute e contieniti sempre. La società non perdona. Proprio mentre sta per aprire la portiera della macchina che la riporterà indietro, un aereo sfreccia sopra la sua testa. Alza gli occhi di scatto; una scia bianca e candida divide il cielo a metà. Le torna alla mente sua nonna, che le diceva sempre che, se un aereo le passava sopra la testa, avrebbe dovuto esprimere un desiderio, e se la sua scia fosse rimasta, quello si sarebbe avverato. Con la mano ancora sulla portiera, chiude gli occhi, come quando era ancora una bimba.
- Soledad! Muoviti!
La voce di sua madre che la chiama la riporta alla realtà. Si affretta a salire e richiudere la portiera, dopodiché suo padre mette in moto. La macchina si allontana veloce, lasciandosi dietro il mare che tanto ama. Sol si guarda i piedi, sforzandosi di reprimere gli istinti e i sentimenti che le dicono di saltare giù dalla macchina e tornare indietro. Si mette le cuffiette, si appoggia al finestrino e chiude gli occhi; il viaggio sarà lungo, e deve prepararsi al letargo. Sopra la macchina, intanto, la scia bianca e candida veglia su di lei dall'alto, vivida come non mai.
 

Angolo autrice:
Salve a tutti!! Eccomi qua con "questa cosa" che ha preso forma nella mia mente e che mi stava dicendo da giorni: - Scrivimi, scrivimi!!
(I know, I've some problems, but fottesega ahah)
Per ora è molto vaga la cosa, non ho ancora inserito gli youtubers, ma dal prossimo capitolo (che forse sarà in prima persona, o forse no, devo decidere) si dovrebbe capire qualcosa di più. Spero che mi lascerete una recensioncina di supporto! Kisskiss,

missiswolf03

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Capitolo 2
*** La vita come la conoscevo ***


15 Settembre 2017.

La sveglia martellante sta suonando ormai da cinque minuti buoni, con quel suo bip stramaledetto che stamattina sembra urlare "SCUOLA, SCUOLA, SCUOLA", ma nonostante ciò e i vicini che avranno sicuramente minacciato di denunciarci, per poi ricordarsi " chi siamo", il mio corpo e specialmente le mie gambe sembrano paralizzate. Continuo a contorcermi tra le costose lenzuola di seta realizzate appositamente dal miglior sarto in circolazione, stiracchiandomi fino a occupare tutte le due piazze del mio "lettino", come lo chiama mia madre. Ma, quando sei figlia di uno degli imprenditori europei più ricchi e famosi e di un' ereditiera brasiliana, tutto questo è perfettamente normale. Al lieve bussare alla porta riesco a tirare su la testa, gli occhi impastati dal sonno, e a biascicare un "avanti", per poi crollare con la faccia nel cuscino di piume d'oca. La domestica si affaccia sull'uscio per metà, come se avesse paura di quel che potrei farle se solo entrasse. Le solite seghe mentali dei domestici. Con voce tremolante e la testa bassa, inizia a parlare:
- Signorina Sol, volevo solo informarla che tra dieci minuti l'autista sarà pronto per scortarla a scuola, e che sarebbe meglio se scendesse a fare colazione.
Mi tiro su, sbuffando, e le rivolgo un'occhiataccia.
- Anna, quante volte ti ho detto che non voglio essere chiamata signorina? Ho quattro anni meno di te, così è ridicolo! E poi, quando i miei non ci sono, non voglio sentirmi dare del lei, mi sento vecchia! -, le dico, con un finto tono di rimprovero nella voce. Lei sembra prenderla come un richiamo, perché abbassa ancora di più la testa, annuendo velocemente.
- Ma che davvero? Anna, non ti stavo rimproverando! Dì a Franca che arrivo, dammi il tempo di vestirmi.-, le dico infine, rassegnata; quella ragazza non capirà mai. Anna annuisce e se ne va, chiudendosi la porta alle spalle. Sbuffo sonoramente; qualche anno fa probabilmente avrei riso di questa cosa, ma ora è insopportabile. Per i dipendenti sembro essere di un altro pianeta. In preda a un istinto rabbioso, prendo il cuscino e lo scaglio contro la porta, cercando di non iniziare a prendere a pugni il materasso o a urlare. Passato il momento sfogo, mi decido ad alzarmi, a farmi una doccia veloce e a vestirmi. Metto una camicetta azzurra e dei pantaloni "da ufficio" (terminologia di mia madre, chi la capisce è bravo), raccolgo i capelli in una treccia e mi passo un filo di mascara sulle ciglia lunghe. Guardo il mio riflesso allo specchio; la perfetta figlia modello, nè sciapa nè volgare. Che noia. Esco dalla camera, attraverso i vari salotti e supero le porte delle camere degli ospiti, poi scendo le scale e, finalmente, arrivo in sala, dove una colazione che farebbe impallidire un principe occupa un quarto della tavola. Alzo gli occhi al cielo, afferro velocemente un cornetto vuoto e mi preparo a uscire. Sto per aprire la porta che da sul cortile quando, dallo studio, esce mio padre; il signor Ambrogio Rossi, l'imprenditore che è riuscito a trovare uno dei più grandi giacimenti europei di petrolio proprio davanti alla sua vecchia casa di campagna, lo "Sceicco di Milano", uno degli uomini con più charme in circolazione. Ora, nonostante mi sovrasti col suo metro e novanta, se io lo guardo in faccia vedo solo tanta stanchezza nei suoi occhi. Altro che sex simbol, ormai ha cinquant'anni, e le rughe, nonostante tutti gli sforzi di mia madre e delle estetiste, cominciano a essere molto evidenti.
-Buongiorno, papà, come hai dormito stanotte? Sembri stanco -, osservo io, più per abitudine che per vera preoccupazione; non che non mi importi, soltanto che lui non dorme mai molto, e ormai lo so. Stamattina però sembra diverso.
- Buongiorno, Sol. Non molto bene a dire la verità. Ma non è di questo che voglio parlare.
Anche la sua voce è molto più stanca del solito. Resto stupita; papà che vuole parlarmi di cose serie la mattina, ora del giorno dove di solito si barrica in camera sua e riposa, è come un coccodrillo che si accinge a recitare a teatro; impossibile. Mi sforzo di non mostrare la mia sorpresa, anche se la mia voce un po' mi tradisce.
- A-Ah, okay...- rispondo.
Lui resta impassibile, sta indossando la sua poker face. Con un elegante gesto mi invita a sedermi. Obbedisco, rassegnata ormai al mio ritardo (di cui non importerà a nessuno, visto che la moglie del preside lavora per mio padre), e lo guardo fare altrettanto. Per un po' restiamo così, io che lo guardo e lui che fissa un punto indefinito, la mascella contratta e il pugno stretto, tanto che le nocche sono quasi bianche. Inizio seriamente a preoccuparmi, credevo che volesse parlarmi del lavoro, ma quel cipiglio cupo, vuoto, può significare solo guai. Gli poggio una mano sul braccio e lo scuoto leggermente. Sembra riemergere da un sogno, perché ha un sussulto, poi si volta verso di me, qualcosa simile al dolore addormentato agli angoli degli occhi, e mi guarda.
- Papà... Che succede? -, chiedo, stavolta realmente preoccupata.
- Io... Ecco, vedi...-, balbetta, cercando di prendere tempo; vuole ritardare il più possibile il momento. I peggiori scenari cominciano a farsi strada nella mia mente: rapine, malattie incurabili, rapimenti, omicidi, incendi, incidenti... Mio padre mi scuote leggermente, riportando mi alla realtà.
- Mio Dio, Sol, non è niente di terribile, non serve che tremi! Scusa piccolina, non volevo spaventarti, è solo che...
Si interrompe di nuovo, come se le parole gli si fossero bloccate in gola.
- È solo che...? -, ripeto, incitandolo a continuare.
Sospira, un sospiro lungo e tremolante, e rilassa il pugno; poi, finalmente, si decide a parlare.
- Non puoi più stare qui.
Il mio cuore perde un battito.
- Ch-Che cosa?
Forse ho capito male, forse ho frainteso, forse papà ha usato male le parole. Sospira di nuovo.
- Devi andare via da Milano. Non è più sicuro per te restare.
Sento la testa che inizia a girare, e se non fossi seduta probabilmente sverrei. Devo andarmene, nessun fraintendimento. Gli occhi iniziano a bruciarmi, la vista si appanna. "Perché?", penso.
- Perché? -, chiedo in un sussurro strozzato.
- Sol, io... Vedi...
Papà non sa più che dire, sembra a disagio. Si lascia cadere sulla sedia, due dita sulle palpebre chiuse, e cerca di riprendere il controllo. Le lacrime che finora avevo abilmente trattenuto iniziano a scendermi lungo le guance, mentre i singhiozzi mi sconquassano il petto. Devo andarmene. Devo lasciare la mia famiglia, unica ancora nel mare in cui sono cresciuta. Papà sospira per l'ennesima volta, ora sembra irritato.
- Sol, ora basta. Va a preparare i bagagli, partirai il prima possibile.
La voce è ferma, è tornata quella di sempre, autoritaria, spaventosa... Fredda. Continuo a singhiozzare, incapace di fermarmi.
- Sol, ho detto basta. Su, non fare la bambina.
Il suo tono si sta alzando, capisco che lo sto facendo arrabbiare, ma non riesco a muovermi, sono inchiodata alla sedia. I singhiozzi diminuiscono, ma non si fermano. Papà sbatte il pugno sul tavolo, arrabbiato.
- FA' COME TI HO DETTO, SOL. -,urla.
Tremo. L'ho visto arrabbiato solo poche volte, ma fa sempre tanta paura.
- V-voglio sa-sapere p-perchè -, riesco a dire alla fine, la voce strozzata. Questo non fa che farlo arrabbiare di più.
- Non è più sicuro, stop. Non devi sapere altro.
Ora sono io che comincio ad arrabbiarmi.
- Non ti credo -, rispondo, con voce ferma, i singhiozzi sono spariti, le lacrime anche. Ora è come se avessi il fuoco negli occhi. Ricevo un'occhiata che raggelerebbe il sangue a chiunque. Ma io sono sua figlia.
- Non osare rispondermi. È così e basta.
Eccolo di nuovo, quel tono alterato. Il tono del signor Ambrogio Rossi, non di mio padre. Non ci vedo più dalla rabbia, so che mi sta nascondendo qualcosa. In preda a un attacco d'ira, esplodo, non riuscendo più a trattenermi.
- BALLE!! -, urlo, alzandomi di scatto e rovesciando la sedia. Inizio a sfogarmi contro di lui, lanciandogli contro tutta la rabbia repressa che covo dentro di me. Ad ogni parola lo vedo scurirsi, preda di quello che sembra dolore. Sta lottando contro se stesso, contro i suoi stessi demoni. Sa che, se me lo dice, qualcosa si spezzerà. Me lo sento, so che è così. Ma la situazione si è fatta insostenibile. So che non mi ha mai detto sempre e solo la verità, ma le carte in tavola non hanno mai avuto a che fare con me, di solito era il lavoro. Ora è diverso. Sono stanca. Basta balle. Nemmeno lui riesce più a mentire, e alla fine cede.
- LUI È TORNATO!! -, urla, per coprire la mia voce.
Mi zittisco subito, sgranando gli occhi. Non posso aver capito bene. La logica mi dice che è impossibile. Lui... Non può essere qui. Eppure... sento che è vero.
- Sol, io...
Non sento le sue parole. Non sento niente. Lui è qui. È tornato. È vivo. La testa inizia a girarmi, e mi aggrappo al tavolo per non cadere.
- Tu... Tu avevi detto che... Tu mi avevi assicurato che...
Non riesco a finire le frasi. È tutto così confuso. Le lacrime tornano a scendere, copiose, e i singhiozzi tornano, più forti di prima.
- Ti prego, Sol, ascolt...
- MI HAI MENTITO!! -, urlo, in preda alla rabbia mista a dolore trattenuta per tutto questo tempo.
- Non capisci, io...
- CAPISCO BENISSIMO!! -, lo zittisco io. Non replica, sembra mortificato, devastato. Ma io non provo nessuna pietà. Mi avvicino, con l'odio negli occhi, finché non siamo a pochi centimetri di distanza. Non riesce a guardarmi negli occhi.
- Guardami -, sibilo, con la stessa freddezza che lui mi aveva rivolto prima. Alza lo sguardo, titubante. È triste. Ma non me ne frega nulla.
- Mi hai mentito. Per un anno. Mi hai rovinato la vita. E ora vuoi che me ne vada. Sai che c'è? Okay. Vado via. Ma sappi che ti odio.
Giro i tacchi e scappo via, lasciandolo lì, sconvolto. Ma ormai è come se non esistesse per me. Apro la porta di camera mia, mi fiondo dentro e la richiudo, sbattendola violentemente. Tiro le tende, spengo la luce e mi butto sul letto, rannicchiandomi sotto quelle coperte che, tra poco, non mi apparterranno più. Abbraccio quel cuscino su cui tante volte mi sono sfogata, su cui ho pianto calde lacrime e ho espresso desideri, come quello di andare via da qui. "Finalmente si è avverato, contenta?", domando a me stessa. La risposta è no. Non è così che volevo succedesse. Non all'improvviso, non per questo motivo. Ma ormai è tardi. Il dado è tratto. Chiudo gli occhi, le lacrime che tornano e che ancora una volta bagnano il cuscino e il letto. "Stai attenta a quello che desideri, Sol, perché potrebbe avverarsi", diceva la nonna. Mentre le palpebre mi si chiudono, penso che avrei dovuto darle ascolto anche stavolta.


Angolo autrice:
eccomi subito col primo vero capitolo!! Introdurrò gli youtubers dal prossimo capitolo, poichè ho ritenuto necessario frammentare la storia (don't hate me pliz, dopo mi pregherete di levarveli dalle balls da quanto saranno presenti ahah). Vi piace quest'inizio? Vi prego, fatemelo sapere in modo da correggere eventuali errori o da modificare parti noiose o scritte male. Al prossimo capitolo!!!! Kisskiss,
missiswolf03

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Capitolo 3
*** Addio Milano, benvenuta Roma ***


16 Settembre 2017

Stamattina alzarsi è stata un'impresa. Avevo una voglia pazzesca di chiudermi a chiave nella mia stanza e non uscire più, o di prendere e scappare, andare a casa di qualche amico e far perdere le mie tracce. Poi però mi sono ricordata che non ho mai avuto un vero e proprio amico, che non si avvicinasse a me solo per il mio nome e il mio patrimonio. O almeno, non dopo di lui. Se solo ripenso a quanto ho sofferto credendolo morto... Non so se riuscirò mai a perdonare questa “piccola bugia” a mio padre. Comunque, ciò che è fatto ormai è fatto, e ora sono io quella che ci rimette, sono io che sto per salire su questa maledettissima auto che mi porterà lontano da Milano, lontano dalla mia famiglia, tutto pur di tenermi lontana da lui e da quel segreto che avrebbe dovuto rivelarmi, ma che non è mai uscito fuori da quelle quattro mura della sua stanza. O così credevo. È... è tutto così confuso, la mia vita nell'ultimo anno... è tutto una grandissima puttanata. Sono uscita di casa velocemente, non ho preso che pochi oggetti personali; qualche foto, il mio quadernino, il portatile e dei vestiti, il resto me lo invieranno poi. Non ho nemmeno salutato mia madre, non ne ho avuto l'occasione, si è chiusa in camera sua a piangere da ieri. Anche per lei è dura doversi separare da me, ma non oserebbe mai andare contro il volere di mio padre. Prego con tutta me stessa che stia bene in mia assenza. È l'unica che mi è stata vicina in questo ultimo anno infernale, e ora io non potrò essere lì per lei... Questo non fa che far accrescere l'odio che provo nei confronti di mio padre, che non si meriterebbe di essere definito tale. Mi ha sempre fornito tutto ciò che una figlia potrebbe volere, eccetto la cosa più importante: il suo affetto. La prima volta che mi ha dato un bacio avevo dieci anni ed eravamo ad una cena di gala, la sera del mio debutto nella sua cerchia di “amici”. Lui mi stava presentando a tutti, ricordo che quella sera ha speso parole che non gli ho mai più sentito dire nei miei confronti, parole d'affetto, parole che avevo atteso per dieci lunghissimi anni. Ad un certo punto, una coppia di giovani signori si era avvicinata, ed aveva iniziato a farmi i complimenti. Io non sapevo come comportarmi, mi era stato detto di non aprire bocca, di stare ferma e sorridere. Parlava lui per me, io nemmeno ascoltavo. Dopo poco ho sentito che qualcuno aveva poggiato le sue labbra sulla mia fronte. Appena ho capito chi era, ho provato una sensazione di fastidio immensa, e mi sono scansata. Ero terrorizzata. Mi ha rivolto un'occhiata durissima, ma poi l'ha buttata sul ridere coi suoi amici, rimasti un po' sbalorditi. Non ho mai preso tante botte quante quella sera. Però in compenso non mi ha mai più neanche provato a dare un bacio. Scaccio dalla testa questi pensieri. Non voglio ripensare a lui. Non voglio saperne più nulla di lui. Guardo fuori dal finestrino, cercando di capire dove questo viaggio infinito mi stia portando. In lontananza riesco a scorgere un cartello dell'autostrada. Uscita per Roma. Ecco dov'è la mia prigione. Sposto lo sguardo sulle macchine che ci sfrecciano affianco. Non sono tante, il traffico scorre bene a quest'ora di mattina, o meglio di notte. Un auto rossa ci passa vicino. È una famiglia, coi bambini che dormono e i genitori che fissano la strada. Un particolare cattura la mia attenzione: lui guida e nel frattempo tiene una mano sulla coscia di lei, che giocherella con le sue dita. Deglutisco, mentre le lacrime premono per uscire. Anche lui lo faceva. Distolgo lo sguardo, e mi sforzo di concentrarmi sulle note della canzone che esce dalla radio. Un altro colpo al cuore. Stanno passando “D'improvviso”, di Lorenzo Fragola. E di nuovo tutto mi riporta a lui. È ovunque. Chiudo gli occhi, mi tappo le orecchie e mi porto le ginocchia al petto, tanto l'autista se ne frega altamente. Non voglio sentire, vedere o provare niente, non adesso. Piano piano sento le palpebre farsi sempre più pesanti, finché non c'è più niente che non sia il vuoto.


 

*


 

Apro gli occhi. La macchina è ferma davanti a una palazzina. Non sembra essere nel centro di Roma, forse è una periferia. Fuori dal finestrino riesco a vedere l'autista che conversa animatamente con un uomo che non riconosco. Che sia il mio carceriere? Dalle rughe leggere e i capelli leggermente brizzolati sembra aver passato la trentina ed essere vicino ai quaranta, a metà strada più o meno, forse ha trentacinque anni. Mi sforzo di collegare il suo viso a quello di qualcuno che conosco, ma non ho proprio la più pallida idea di chi sia, e il fatto che porti gli occhiali da sole non mi aiuta. Non riesco a sentire cosa si dicono, così mi limito a fissarli. L'uomo sembra molto arrabbiato, ha una vena che gli pulsa sulla fronte. L'autista è sempre calmo e contenuto, come suo solito, anche se vedo piccole macchie di sudore sul colletto della camicia, segno che proprio tranquillo tranquillo non è. Decido di scendere per vedere di capire che sta succedendo. Apro la portiera con delicatezza, e faccio per alzarmi e uscire dalla macchina, quando le mie ginocchia decidono di cedere. Sento che l'impatto con l'asfalto è vicino, eppure due braccia forti mi fermano prima che mi sfracelli le gambe. Alzo la testa e vedo due occhi azzurri che mi fissano. L'uomo mi appoggia con dolcezza a terra, e poi mi aiuta a rialzarmi. Vorrei sotterrarmi per la bellissima figura appena fatta. Faccio per scusarmi, quando vedo che l'uomo mi sta fissando incredulo. Sembra abbia visto un fantasma.

- Signore, si sente be...-, faccio per chiedere, ma lui mi interrompe.

- Soledad...-, sussurra.

Lo fisso, senza capire. Mi conosce? Se si, perché io non conosco lui?

- Scusi, ci conosciamo? Signore?

Sembra risvegliarsi improvvisamente.

- Oh, no, scusa, non mi sono presentato. Mi chiamo Mauricio Vieira, ma tutti mi chiamano Brazo. Non era mia intenzione fissarti, ma sei uguale a tua madre... Scusami, davvero.

Sorrido, sembra davvero simpatico.

- Non deve scusarsi, è tutto a posto, davvero.

- Ti prego, dammi del tu, mi sento vecchio altrimenti.

Sorridiamo entrambi. Se questi sono i presupposti, forse andarmene da quella casa grigia non è poi un gran male... Poi ripenso a mia madre, e un'ombra mi scivola sugli occhi. Cala uno strano silenzio, quasi imbarazzante. L'autista, che fino ad ora era rimasto in silenzio, si schiarisce la gola.

- Bene, io... Prenderei i bagagli, allora...

- Si, la aiuto...

Mauricio, anzi, Brazo, si dirige verso il bagagliaio.

- Sol, tu sali in casa intanto, c'è mia moglie, dille che sei un'ospite.

Annuisco, ed entro nella palazzina. Non c'è l'ascensore. Fantastico. Comincio a salire le scale, poi mi ricordo che non so a che piano è la casa. Così mi fermo al primo e inizio a scorrere i nomi sui campanelli. Fortunatamente lo trovo subito. Almeno le scale sono poche. Suono. Una giovane donna con i capelli neri e gli occhiali mi apre. Sento i suoi penetranti occhi azzurri che mi scrutano. Faccio per aprire bocca, ma lei mi precede.

- E tu saresti...?

- Sono Soledad Rossi, piacere, sono un' ospite di suo marito.

Riesco miracolosamente a non balbettare. Non so perché, ma improvvisamente mi sento a disagio.

-Ah. Non sapevo aspettassimo qualcuno...

“Nemmeno Brazo”, penso.

- Vabbè, ne parleremo poi. Vieni, entra, scusa per il disordine, ma Alice tende a lasciare i suoi giocattoli a giro..

Entro in casa, cercando di evitare i cavallini e le barbie lasciati per terra, e seguo la donna in quella che deduco sia la cucina. È così strano, questa casa è davvero piccola... eppure ci vive una famiglia di tre persone. Questo si che è ottimizzare lo spazio.

- Siediti, che ti preparo qualcosa. Avrai fame a quest'ora della mattina, se come penso arrivi da Milano.

Si mette ad armeggiare con i fornelli. Se prima ero a disagio ora lo sono ancora di più. Mi sta preparando la colazione.

- Non importa, davvero, sto bene...

Mi zittisce con un dito, e mi mette davanti una tovaglietta e una tazza di cappuccino.

- Intanto bevi questo, mentre i pancakes cuociono.

Rassegnata, bevo il cappuccino. Il liquido caldo mi entra nelle ossa, risvegliandomi da quel torpore dovuto al viaggio, e risvegliando, quindi, anche il mio stomaco, che comincia a brontolare. La donna si gira e mi guarda, mentre io vorrei sotterrarmi. Di nuovo una bellissima figura, yeah! Siamo già a due e sono qui da venti minuti. Iniziamo proprio col botto. Mi aspetterei che si voltasse anche lei, disgustata da quel rumore così poco fine e raffinato, invece scoppia a ridere. La osservo, basita, ma poi rido anch'io. Okay, lo ammetto, è divertente. Lei mette il cibo in un piatto, me lo sistema davanti e poi mi si siede di fronte. Osservo quei pancakes, sembrano deliziosi, così non mi faccio pregare due volte e gli do una forchettata. Lei mi guarda mangiare, con un sorriso. Avrà almeno trent' anni, forse di più, ma è comunque una bellissima donna. Ha un piccolo piercing al naso e un paio di tatuaggi. Sembra proprio il tipo di ragazza che sembra buona, ma in realtà è super tosta e testarda. Finisco di mangiare, e appoggio la forchetta nel piatto.

- Era tutto buonissimo, grazie mille...

Mi accorgo di non sapere il suo nome.

- Oh, scusa, non i sono nemmeno presentata, sono Valentina.

- Grazie, Valentina.

Sorridiamo. Sono stupita da come questa famiglia sia così disponibile verso di me, non sanno nemmeno chi sono, non ho fatto niente per loro... Valentina interrompe i miei pensieri.

- Allora, Soledad, cosa ti porta qui? Voglio dire, come ci sei finita in questa periferia?

Non so come rispondere, perché in realtà non so neanch'io come mai sono qui, perciò decido di raccontarle la verità, tutto, persino il fatto che papà mi ha spedito qui per tenermi lontano dalla persona più importante della mia vita, dopo avermi fatto credere che fosse morta... Senza fare nomi. Valentina mi ascolta, in silenzio. Quando finisco il mio racconto, sento che una lacrima sta scendendo lungo la mia guancia. Sembra essersene accorta anche lei, perché mi abbraccia di scatto. All'inizio non so cosa fare. Non la conosco nemmeno. Però poi mi sussurra all'orecchio queste semplici parole:

- Non dovrai più piangere, vedrai...

Me le disse anche mia madre, non appena mi dissero che lui era morto... Non resisto più, così scoppio in un pianto liberatorio, e la stringo forte. E lei non mi lascia, anzi, mi stringe più forte. Dopo un po' riesco a calmarmi, a placare i miei singhiozzi. Ci stacchiamo. Valentina mi sposta un ciuffo di capelli dalla faccia, e mi asciuga una delle ultime lacrime rimaste, sorridendo.

- Grazie, ne avevo davvero bisogno.-, le dico con la voce fioca di chi ha appena buttato fuori un dolore represso da troppo senza che qualcuno riuscisse ad alleviarlo.

- Tranquilla,-, mi sussurra – quando vuoi sfogarti io ci sono.

La abbraccio di nuovo, stavolta senza piangere.

- Su, vai a sciacquarti il viso, poi vedremo di sistemare le tue cose. Il bagno è nel corridoio dopo il salotto, la prima porta sulla sinistra. Io vado a vedere che fine ha fatto Brazo, e dove si è cacciata Alice, così te la faccio conoscere...

Annuisco e mi alzo. Riesco a trovare la porta facilmente. Dentro non è grandissimo; c'è un mobiletto con un lavandino sulla sinistra, un bidet lì affianco, un wc sulla destra e una vasca/ doccia in fondo alla stanza. In generale è carino, molto più intimo rispetto al mio enorme bagno personale con tanto di vasca idromassaggio e lettino per massaggi in un angolo. Mi piace. Vado verso il lavandino e guardo la mia immagine riflessa nel grande specchio rettangolare. Ho il mascara sbavato, gli occhi gonfi e rossi, la coda disordinata. Eppure, sto sorridendo, un sorriso sincero come forse non facevo da una vita. Forse, non andrà così male come pensavo...

 

 

 

 

 

Angolo autrice:

 

Buondì (“mamma mamma, vorrei una colazione leggera, decisamente invitante, che...” lancia un meteorite) !!! Okay, tornando seri (più o meno), era una vita che non aggiornavo, ma il mio computer aveva deciso di farsi una vacanza e mannaggia a lui s'era impallato. Ma ora sono tornata, evviva (finge che tutti siano felicissimi di sto fatto) !! Ecco il primo youtuber di questa storia, Brazo. Cosa succederà? Come mai conosce la madre di Sol? Lo scopriremo solo vivendo!! Al prossimo capitolo! Kisskiss,

 

missiswolf03

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Capitolo 4
*** Piccoli passi ***


Sono passate settimane da quando sono a Roma, e ormai mi sono abituata a questa vita movimentata e così diversa dalla mia.

La mattina mi alzo per prima e preparo la colazione, poi do una ripulita e vado a fare una passeggiata.

Ormai conosco il quartiere come il palmo della mia mano.

Quando rientro, aiuto Vale con Alice e la accompagno a scuola, poi faccio un po' di faccende, aiuto col pranzo, e studio, con il maestro privato che “mio padre” ha assunto per me, perché “la tua istruzione deve essere all'altezza del nome che porti”. Umpf.

Dopo di solito mi chiudo nella mia camera, che Brazo e Valentina hanno messo in piedi all'ultimo ripulendo il ripostiglio. All'inizio sembrava davvero una cella, con un letto di seconda mano raccattato Dio solo sa dove, e le pareti grigie. Ora che ci ho messo le mani, però, è molto meglio. Ho dipinto le pareti di bianco e verde pastello, appeso qualche quadretto, rimediato una scrivania, cuscini colorati, un tappeto troppo buffo a forma di Pikachu... Insomma, una camera un po' sgangherata, ma che sa di casa.

Casa... non avevo mai colto appieno le sfumature dietro questa parola, almeno non prima di arrivare qui. In inglese, il concetto è più evidente.

“The house”, l'edificio; “Home”, casa.

Casa tua, il posto che ami e dove tornerai sempre, qualunque cosa accada, perché è li che vive il tuo cuore.

E, adesso, il mio cuore vive qui...

Un quadro cade improvvisamente, riscuotendomi dai miei pensieri. Mi alzo dal mucchio di cuscini dove ero sprofondata, leggendo un libro di cui nemmeno ricordo il titolo... Penso che dovrò ricominciarlo da capo, magari staccando i pensieri stavolta. Mi chino, stando attenta ai frammenti di vetro, e prendo la cornice con attenzione. Appena la volto, però, il mio cuore involontariamente si ferma.

Cazzo.

Potrebbe sembrare solo un misero quadretto con dei fiori, ma la verità è che, nascosta dietro, vi è una foto. Una foto di mia madre, me e Lui, scattata in un giorno di tre anni fa.

La mia mano comincia a tremare, senza che io possa fermarla, e gli occhi si riempiono di lacrime.

Ricordo il passo di un libro, Novecento, che parla di un quadro che cade, all'improvviso, e sconvolge tutto.

Ecco.

Non sono andata avanti, ecco come stanno davvero le cose.

Col cavolo.

Di giorno è facile, mi tengo impegnata e non ci penso, ma la sera, quando spengo la luce... i fantasmi cominciano a correre.

E, diamine, vanno davvero veloci.

Ho nascosto ogni cosa mi ricordasse anche solo lontanamente “prima”, e quando Brazo o Vale provano a entrare nell'argomento, svio i loro discorsi su altro.

Non ho mai aperto un giornale da quando sono qui, per paura di vederci la foto di mamma e papà che sorridono, felici e perfetti...

Senza di me.

Soffoco i singhiozzi nel cuscino, quando il dolore si fa troppo forte, perché non mi sentano dalla stanza accanto, e prendo degli ansiolitici per non avere attacchi di panico.

Bella vita, vero?

Pensavo davvero di superare tutto, di ricominciare da capo, ma la mia forza di volontà non dev'essere molto forte...

Perciò eccomi qui, accovacciata in un mare di vetri con in mano una vecchia cornice e...

Oh, è sangue quello che mi sta scivolando lungo le gambe?

Poco importa, le lacrime mi hanno offuscato la vista, e tutto ciò a cui riesco a pensare sono tutti i momenti che ho passato con Lui... E poi arriva, quel momento...

Rivedo me, così ingenua, che sfoglio le riviste di moda alla ricerca dell'abito perfetto per la cena del giorno dopo, seduta in soggiorno.

Rivedo mio padre, serio, che entra e, con voce fredda, mi sgretola in pochi secondi

“Sol... È morto. Lui non c'è più.”

Mi rivedo morire, il cuore che si spezza, la testa che gira...

Lancio un urlo, istintivo, viscerale.

È come morire di nuovo, i sensi si appannano, sento il calore del sangue che pian piano scorre sulle cosce, la testa si fa pesante...

- Ti prego, torna da me...

È tutto quello che riesco a dire, poi cado a terra, sdraiata sui vetri. Sento bucarmi la pelle, ma non fa male, non più male del mio cuore ridotto in polvere.

Chiudo gli occhi, esausta.

La porta si apre.

Buio.

 

*

 

Mi sveglio.

Da sotto le palpebre vedo una luce bianca, accecante, come quelle...

Come quelle degli ospedali.

Sono in ospedale.

Frammenti di ricordi mi si affacciano in mente; la foto, i vetri, il sangue... il dolore mi colpisce tutto insieme, sento delle fitte al basso ventre, al fianco destro e alle gambe. Sto per aprire gli occhi e chiamare un infermiera, quando sento due voci; Vale e Brazo.

Mi metto in ascolto.

- Amò, così non può andare avanti... Il giorno ride e sembra star bene, e la sera piange di nascosto... Star chiusa in questo quartiere non la guarirà -, dice Vale.

- Che possiamo fare? Non voglio vederla stare male ancora e far finta di niente...

- Portiamola via, via da qui, lontana... In un posto dove possa rimettersi in sesto... Non so, un posto lontano tipo...

- Amò -, la interrompe Brazo, - lo so io che fare. Il NoidaVoi. La prima data è vicina, potrei portarla con me, presentarla ai ragazzi... E magari potrebbe alloggiare da alcuni di loro per un po', cambiare aria spesso, viaggiare...

- Potrebbe funzionare. Certo, deve decidere lei... Ne parleremo quando si sveglierà, con calma, a casa.

Detto questo, sento delle sedie che si spostano, dei passi, e poi una porta che si chiude.

Ora sono da sola.

Apro gli occhi, piano piano, e, dopo che mi sono riabituata alla luce, osservo la stanza. È una doppia, ma il letto accanto a me è vuoto, nonostante ci siano diverse cose ammucchiate sul comodino. In fondo al letto ci sono le due sedie dove era seduta la coppia.

Per il resto è una normalissima stanza d'ospedale. Mi accorgo solo ora di avere la gola secca, così giro la testa alla ricerca di una brocca d'acqua, ma prima che possa anche solo visualizzare cosa si trova sul comodino alla mia destra, la porta si spalanca di scatto, e delle risate maschili mi arrivano all'orecchio.

Due ragazzi entrano nel mio campo visivo, uno ha le stampelle. Entrambi hanno una mascella molto pronunciata, roba che “Edward Cullen spostati”, e capelli scuri, arruffati.

- Che scemo che sei, Daniè...-, dice quello senza stampelle, che sembra essere il più grande, ridendo.

Poi si accorgono di non essere soli.

Smettono di ridere, e sulla stanza scende uno strano silenzio.

Distolgo lo sguardo, imbarazzata.

Beccata a fissare due sconosciuti. Che figura.

- Ehm... Ciao.

La voce di prima mi arriva alle orecchie.

Ecco, adesso devo fare conversazione.

Riporto gli occhi su di loro, e mi tiro su a sedere.

- Ciao. -, rispondo, un po' titubante.

Non faccio conversazione con un ragazzo da una vita, ormai.

È... strano.

Il tipo sorride e si avvicina.

- Sono Davide, piacere.

Ha un sorriso bellissimo, e una voce nasale, buffa. Gli si addice.

- Sono Soledad, piacere mio.

Non so perché, ma improvvisamente mi sento più a mio agio. Sto parlando con qualcuno che non sa chi sono, chi è mio padre, e che non ha idea di ciò che ho passato. È fantastico.

Davide guarda il ragazzo con le stampelle, e gli fa cenno di avvicinarsi. Il ragazzo, riluttante, lo raggiunge accanto al mio letto.

- Daniele. -, dice solo. È bellissimo. Ha due occhi verdi che sembrano gemme, con qualche sfumatura marrone, e un orecchino all'orecchio sinistro. Sembra un duro, eppure... Scommetto che in realtà è solo timido.

- Che hai fatto alla gamba? -, chiedo, curiosa. Daniele accenna un sorrisetto imbarazzato e distoglie lo sguardo, mentre Davide soffoca una risata.

- Rispondi tu o lo faccio io? -, chiede il secondo. Davide sospira.

- Diciamo che ho passato un po' il limite con la moto e che sono caduto...

- Un po'? Andavi a 120 su una strada con limite 30, diciamo che è molto più di un po', e che sei fortunato a respirare ancora -, ribatte Davide. Mi guarda, e ride. Rido anch'io, mentre Daniele è rosso come un peperone.

- Perché vuoi dare questa cattiva immagine di me alla signorina qui presente? Sei proprio un fratello di merda...

Gli da una piccola botta con una stampella, poi gli fa una linguaccia.

Davide lo guarda, e, con aria divertita, gli tira un lieve cazzotto sul braccio.

Lieve, si fa per dire.

Se lo avessero dato a me, mi sarebbe venuto il livido sicuramente, ma mister occhi belli sembra non sentirlo nemmeno, e ride.

Perfetto, ho un compagno di stanza pazzo, con un fratello altrettanto pazzo. Ci sarà da divertirsi.

Dopo un paio di botte amorevoli, riportano l'attenzione su di me. Stavolta è Daniele a parlare. Sembra essersi rilassato anche lui.

- Soledad, eh? Che nome strano. Di dove sei?

- Mia madre è brasiliana, ma io sono nata in Italia, come mio padre.

Pronunciare queste parole fa male. Fa tanto male. Però mi sforzo di non darlo a vedere, non voglio mostrare questo mio lato depresso.

Chiacchieriamo ancora per un po', sto bene con loro.

Parliamo del più e del meno, cose futili principalmente, come si fa di solito con chi si è appena conosciuto.

Sono davvero divertenti, e hanno quella cadenza romanaccia che mi fa impazzire, uguale a quella di Brazo e Vale.

Ad un certo punto, Davide riceve un messaggio. Lo legge, poi ci guarda.

- Devo andare, c'è Catia che mi aspetta, non voglio fare tardi. -, dice a suo fratello. Poi si rivolge direttamente a me.

- È stato divertente chiacchierare con te, alla prossima!

Ed esce, lasciando me e suo fratello da soli.

- Catia è la sua ragazza? -, chiedo, impicciona come sempre.

Daniele annuisce, ma sembra diventato freddo, come a voler nascondere un dolore di qualche tipo. Forse sono solo paranoica, ma è esattamente ciò che faccio io quando qualcuno nomina mia madre, o peggio ancora, Lui.

- Ho toccato qualche nervo scoperto? -, indago, cautamente.

Il giovane sospira.

“Ecco, lo sapevo, sono stata indelicata come sempre, ora si chiuderà e non mi parlerà più...”.

E invece, Daniele mi sorprende. Non sono per niente brava a giudicare le persone.

- Famme spazio. -, mi dice. Sposto le gambe con attenzione e, con altrettanta cautela, lui si siede sul letto. Sembriamo due vecchietti in un ospizio, e la cosa mi fa ridere, considerando che in realtà siamo tutto l'opposto. Però mi trattengo, non voglio sembrare irrispettosa, di nuovo...

Daniele guarda il lenzuolo. I suoi occhi sono qui, ma chissà dov'è la sua mente. Sposto lo sguardo per la stanza, evitando il suo. Non che io non voglia sapere cosa, o in questo caso chi, affligga i pensieri di questo ragazzo bello e tormentato, il classico “bad boy”.

Sto seriamente iniziando a pensare che non dirà più niente, che ormai si sia perso, quando la sua voce roca interrompe i miei pensieri.

-Se chiamava Greta. Me faceva 'mpazzì, roba da matti proprio. Però a 'n certo punto la cosa c'è sfuggita de mano, e diciamo che lei è 'mpazzita pe' davero... Ha 'ncominciato a annà 'n giro a dire peste e corna de me, ecco. Senza motivo. Però... Però io ancora la amo, la amo 'na cifra...

Non riesce più a continuare. Gli si sono arrossati tutti gli occhi.

Ora, io non so se sia senso del dovere perché lui si è aperto con me o semplicemente voglia di condividere finalmente questo dolore, ma non riesco a frenarmi e sputo fuori la mia storia.

-Anch'io ho perso una persona importante. O meglio, non so come siano realmente andate le cose. Un giorno mi disse che doveva assolutamente parlarmi e mi diede appuntamento al nostro solito posto. L'ho aspettato un paio d'ore, poi me ne sono tornata a casa, incazzata nera. Quando però mio “padre”-, pronuncio la parola con disprezzo, - è tornato a casa, mi ha detto che era morto.

La voce si riduce a un soffio, mentre sento lo sguardo di Daniele su di me. Percepisco che sta per dire qualcosa, così mi affretto a continuare.

-Circa un mesetto fa, in una mattina qualunque, “papà” mi ha detto che dovevo lasciare casa mia, andarmene, senza volermi spiegare il motivo. Dopo una furiosa lite, mi ha detto che Lui era tornato. Mi aveva mentito. Mi aveva fatto credere che fosse morto. Ti rendi conto?

Ho paura di stare per piangere, ho paura di scoppiare di nuovo, eppure non lo faccio. E credo che le braccia di Daniele che mi stringono a lui siano il principale motivo.

-Non vojo chiedette altro, penso che avemo parlato de ste robbe tristi già abbastanza. Famo che mo me fai n'soriso e ce annamo a prenne 'n cafè?

Si stacca piano, e mi guarda, sorridendo, e ha un sorriso così contagioso che inevitabilmente faccio quello che mi ha detto.

-E caffè sia.-, rispondo ridendo.

-E brava regazzì, me stai sempre più simpatica.

Poi, con la stessa cautela con cui ci siamo messi in questa posizione, ci alziamo e, dopo che lui mi ha aiutata a sedermi sulla sedia a rotelle che mi hanno lasciato in dotazione, date le ferite a gambe e busto, ci dirigiamo verso la macchinetta dell'ospedale.

Mentre ridiamo e scherziamo, aspettando un caffè che sarà sicuramente schifoso, una nuova consapevolezza si fa strada dentro di me: mi sono appena fatta un nuovo amico, e l'ho fatto da sola.

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