ricominciare

di melville
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** domenica ***
Capitolo 2: *** lunedì ***
Capitolo 3: *** martedì ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 - mercoledì ***



Capitolo 1
*** domenica ***


Capitolo I

domenica

 

La luce è spenta e le persiane sono chiuse. La camera è completamente oscurata e il mio dormiveglia totalmente tranquillo e spensierato. La testa è comodamente poggiata sul materasso morbido, proprio nel mezzo dei due cuscini freschi. Sono piuttosto certo che il piede destro sia uscito da sotto il piumone, ma la mia posizione è troppo comoda e la voglia troppo poca, per rimediare a quel senso di gelo che mi sta attanagliando le dita.

Ed ecco che questo momento perfetto viene presto interrotto da una fastidiosissima luce che improvvisamente entra nella stanza, e la voce del mio coinquilino che urla: «Peter dobbiamo essere lì tra dieci minuti! Se non alzi il culo ti mollo a piedi.»

Il risveglio più bello di sempre.

«‘Fanculo, Charles» è l’unica cosa che il mio cervello riesce a far uscire dalla bocca, mentre copro gli occhi sotto uno dei due cuscini.

«Peter non sto scherzando!»

Odio quando le persone mi dicono quello che devo fare come se fossi un dannato moccioso.

Presto le coperte mi vengono tolte da sopra il corpo, così come il mio riparo agli occhi viene scagliato per terra. Adesso posso sentire il gelo impossessarsi del mio intero corpo e inevitabilmente maledico la mia abitudine di dormire in boxer.

Apro gli occhi svogliatamente e metto a fuoco la figura vestita di scuro, con i riccioli color cioccolato acconciati ad opera d’arte con il gel, ritta in piedi davanti a me. Charlie mi sta guardando con un cipiglio severo sul volto, gli occhi verdi inondati di impazienza e le mani poggiate sui fianchi, come una perfetta madre arrabbiata. Potrei essere abbastanza certo di vedere del fumo uscire dalle sue narici, dilatate per il fastidio causato dal mio ‘comportamento immaturo’.

Nonostante i due anni di differenza, i miei ventitré anni e i suoi miseri ventuno, è sempre stato lui quello responsabile. Sempre se ubriacarsi il sabato sera per poi finire a urinare nelle aiuole dei giardinetti possa essere considerato maturo. Ma questa è comunque l’idea comune che la gente ha di noi.

«Peter, possibile che da quando sei tornato dall’Irlanda non fai altro che dormire? Torni da lavoro e dormi, vai a comprare il pane, torni e dormi, vai a studiare, torni e dormi. La tua vita ormai è un letargo con intervalli regolari per i tuoi bisogni primari quali mangiare, fumare, e sì ogni tanto lavarsi e studiare.»

Probabilmente non si è reso conto di aver lasciato sul letto un cuscino perché non è abbastanza rapido da evitarlo quando glielo tiro contro. Ho beccato la faccia: cento punti!

Sospiro e guardo la sveglia ammaccata, poggiata sul comodino. «Cinque minuti e sono pronto.»

«E sarà anche l’ora!», brontola uscendo finalmente dalla stanza.

Gli voglio bene e provo per lui tutto l’affetto che si può provare per un amico che conosci da anni, ma diavolo non ho mai firmato per una seconda madre quando abbiamo decisi di convivere.

Chiudo gli occhi e provo, ma non riesco, a immaginare come se quest’anno non ci sia mai stato. Odio la svolta che ha preso la mia vita in questi dodici mesi: sono diventato un fallito a tutti gli effetti.

E comunque io nemmeno voglio andarci alla dannata festa di laurea della sorella di Charlie. Tralasciando il fatto che mi fa sentire ancora più fallito ricordandomi che io non ho combinato nulla di buono in questi anni, odio le feste e le persone che ci sono alle feste: gente che vedi giusto una volta all’anno, di cui non ti frega niente e ai quali non frega nulla di te, ma inevitabilmente quando vi incontrate a questi tipi di eventi sono subito lì pronti a fare moine e domande, come se davvero fossero interessati. Per non parlare del fatto che la festeggiata e la mia ex ragazza sono come il burro e la marmellata. E onestamente è un anno che cerco di evitare Dianne in tutti i modi, non vorrei che questa serata rovinasse tutto. Certo, magari il mio non è il comportamento più maturo ed esemplare, lo so che non bisognerebbe correre via dai problemi ma sono un sostenitore più che convinto che ognuno ha il diritto di scegliere le proprie battaglie e le proprie ritirate. Quando una persona a cui tenevi più di ogni altra ti ferisce in modo irreparabile, chiunque ha il diritto di scappare da essa, soprattutto quando tutto quello che desideri è dimenticare ma ogni cosa sembra riportarti alla mente quel volto che tanto vorresti odiare ma che non fai a meno di rivolere indietro. So che è contro ogni logica e questo ragionamento fa acqua da tutte le parti, ma io di Dianne ero davvero innamorato ed è proprio perché non c’è giorno in cui non la rivorrei al mio fianco che preferisco evitare ogni contatto con lei. Mi ha già ferito una volta e non ho nessuna indole al masochismo.

Diamine!, mio nonno me lo ripeteva fino allo sfinimento che mai avrei dovuto innamorarmi: «L’amore fa male Peter!» era la sua frase preferita. Ed è vero che l’amore fa male, ed è terribile quando un amore sincero diventa difficile da portare avanti, ma niente mi ha mai fatto sentire vivo quanto l’amore. E ora che se n’è andato mi sento come morto: uno zombie, ecco cosa sono diventato da un anno a questa parte. Un morto vivente che ripete le azioni in modo automatico perché ormai sono inscritte nei suoi geni.

Mi avevano detto che un cuore rotto si cura solo andando avanti eppure io non ho ancora visto risultati, e non è che con questo voglia dare la colpa ad altri per il mio stato d’animo, è solo che ho provato a seguire un consiglio!

«Peter cazzo!», oh mio Dio Charlie deve darsi una calmata.

«Eccomi, calmati dai» rispondo uscendo dalla camera. Subito il suo sguardo ostile mi è addosso: è già accanto all’uscio di casa, tiene la porta aperta con una mano e nell’altra ha le chiavi. Il suo piede sinistro batte impazientemente il tempo per terra e mi scappa da ridere perché Dio mio!, è senza dubbio una situazione esilarante. Mi allungo verso il comò nel corridoio d’entrata e afferro velocemente il portafoglio prima di precipitarmi fuori di casa e correre giù per le scale.

«Charlie dai sbrigati che siamo in ritardo!» gli urlo per prenderlo in giro e oltre al rumore della mia corsa sento le sue imprecazioni che tentano di raggiungermi.

Charlie, quando ancora ne parlavamo, diceva che Dianne era l’unica capace di mettere un freno alla mia linguaccia. Diceva che con lei mostravo sempre la migliore parte di me. Credo sia per questo che ormai mi sono ridotto a essere un cinico bastardo senza la speranza di pulire la mia vita dalle macerie e dalla spazzatura: quando l’ho abbandonata a piangere contro il muro dell’appartamento e le ho lanciato l’ultima occhiata ferita, deve essermi scivolato via qualcosa e oltre alla felpa della Obey –la mia preferita, diamine!- devo aver dimenticato nel nostro appartamento tutto il buon potenziale che c’era in me.

 

In macchina Charles accende la radio e la sintonizza sulla BBC Radio, che sta passando una canzone troppo commerciale anche per le sette di sera.

Prendo il telefono di Charlie, appoggiato in mezzo allo spazio dei sedili e cerco un brano decente nella collezione di album troppo indie che tanto appassionano il mio coinquilino. She’s a rebel dei Green Day finalmente mi pare un’ottima colonna sonora per questo corto viaggio ma il mio pollice non fa in tempo a premere sul titolo che il cellulare vibra e l’icona dell’arrivo di un nuovo messaggio appare in alto sullo schermo. Non è tanto il messaggio in sé a bloccarmi quanto il nome del mittente. Dianne.

Sospiro. Almeno Charlie sa che fine ha fatto. Anche se con me non ne vuole più parlare pochi giorni fa si è lasciato scappare che stasera probabilmente non sarebbe potuta venire: problemi con i turni di lavoro. Io non sapevo nemmeno avesse cominciato a lavorare.

Prendo una Chesterfield dal pacchetto che tengo nella tasca dei jeans e l’accendo con il clipper nero che lascio sempre vicino al cambio dell’auto. Inspiro.

«Dio Peter, almeno abbassa il finestrino che già tutto in quest’auto puzza come le tue dannate sigarette!»

«Hm sì, scusa amico» farfuglio velocemente abbassando il finestrino davanti, e anche quello dietro. Per sicurezza.

«E sistemati i capelli che sembri un barbone!»

Sbuffo e mi tiro il cappuccio della felpa sopra la testa, un cipiglio forzato e imbronciato a dipingermi il volto, «Contento adesso?»

«Peter non fare il bambino» brontola Charlie, mettendo la freccia appena vede un parcheggio libero.

Alzo gli occhi al cielo e mi pettino i capelli con le dita, cercando di sistemarli alla meglio. Forse dovrei tagliarli perché ormai questo ciuffo è ingestibile ed è un miracolo se ancora riesco a vederci, tanto è diventato lungo. Li scosto malamente dalla fronte e cerco di mettere su la mia espressione migliore.

Scendiamo dall’auto e ci dirigiamo verso l’insegna luminosa del pub, affittato da Alice appositamente per la serata.

Charlie, che sta camminando di tre o quattro passi avanti a me, si gira d’un tratto e fermandosi mi guarda serio negli occhi: «Comportati bene. Non insultare, non dire troppe parolacce, sorridi e per favore non fumare dentro!»

«Charlie so come mi devo comportare in mezzo alla società, tranquillo! Non sono diventato improvvisamente un cavernicolo.»

«Be’, ci stai andando vicino.»

Scuoto la testa sorridendo e gli tiro un pugno sul nervo della spalla, lui impreca ma non ribatte: sa di esserselo meritato.

Entriamo nel pub e subito la musica, grazie al cielo nemmeno troppo alta, ci invade le orecchie. Il locale è già straripante di persone, c’è un lungo buffet sul lato sinistro della sala e nell’angolo destro sul fondo un Dj che dirige la musica. Noto qualche faccia conosciuta che mi lancia sorrisi di saluto, ai quali ricambio svogliatamente.

«Vieni, andiamo a congratularci con Alice» mi esorta Charlie, come se oggi non l’avessimo già chiamata abbastanza per farlo.

La sorella del mio coinquilino è ovviamente circondata di gente ma questo non fa demordere Charlie dall’andarsi a congratulare di persona, trascinandosi dietro anche me, ovviamente. Lo seguo bevendo un lungo sorso della Ceres che sono riuscito a prendere dal tavolo delle bibite.

«Charlie, Peter siete finalmente arrivati!» ci accoglie con entusiasmo Alice, abbracciando prima il fratello e poi me. Ho sempre pensato fosse una gran figa ma stasera è proprio bella: i capelli marroni, tendenti al ramato, le scendono lungo il busto, mossi ad opera d’arte. Il viso è raggiante e i suoi grandi occhi verdi oggi sembrano ancora più luminosi. Il vestito viola che ha indossato le fa risaltare le curve dei fianchi, il colore scuro è in contrasto con la pelle chiara.

«Wow Peter, come sei… elegante!» esclama sarcasticamente Alice, guardando il mio abbigliamento casual.

In effetti avevo già notato quando siamo entrati che tutti nella sala sono vestiti eleganti, compreso Charlie, con quella camicia nera senza una piega e i jeans stretti del medesimo colore, e , forse io stono un po’… Ma oh!, già grazie che sono presente! Che poi non sono nemmeno così mal messo: giusto le Vans sono leggermente rotte sulla punta, ma per il resto indosso semplici jeans grigi e una felpa nera con cappuccio. Con un buco sul polsino della manica.

«Dai Ali, almeno sono venuto, non sei contenta?»

«Certo che sono felice Pete! Come potrei non esserlo?», mi risponde con un sorriso sarcastico, stringendomi affettuosamente un braccio con le dita affusolate e ricoperte di anelli. Poi si rivolge a Charlie e i due cominciano a parlare di noiosissime questioni familiari, dalle quali mi ritiro.

Comincio a vagare disperato per la sala quando fortunatamente m’imbatto in Clyde, il mio vecchio compagno di banco durante letteratura.

«Pete cazzo, è una vita che non ci vediamo!», ah Clyde, che bello riaverlo intorno: ammetto che mi è decisamente mancato.

Cominciamo così la conversazione che finisce per dirottarsi verso i bei vecchi anni da adolescenti, mentre noi beviamo sempre più birra e le nostre frasi diventano più strascicate. Mi presenta la sua nuova fidanzata, stanno insieme da un anno e io non ne sapevo nulla. Mi accorgo di aver perso ogni contatto con il passato da un po’ di tempo a questa parte. Mi informo così sui recenti avvenimenti e cambiamenti. Clyde è sempre stato un po’ pettegolo e non è difficile farsi raccontare un po’ di tutto su tutti. E di certo la birra non lo aiuta a tenere la bocca chiusa.

«… L’altra sera sono uscito per una birretta con Dianne, erano secoli che non la vedevo! Tu l’hai più vista?»

Sento il mio corpo avere uno spasmo involontario e irrigidirsi di colpo. La mano destra stringe in modo eccessivamente forte la birra e sento arrivarmi addosso vampate di caldo. Scuoto meccanicamente il capo e Clyde strabuzza gli occhi sorpreso: «Ma dai, davvero? Quindi non la vedi da quando… Si insomma, sai… Ehi ma è qui anche lei l’ho vista prima!»

Lo guardo negli occhi, cercando di capire se sia serio o meno e nel suo viso vedo tutta la sincera innocenza delle parole di un ragazzo alticcio. La sala mi sembra diventare troppo stretta e le persone d’un tratto sono troppe e mi sento soffocare.

Charlie. Lo raggiungo che ancora sta parlando con Alice, gli arpiono prepotentemente un braccio e lo faccio voltare nella mia direzione.

«Peter ma che diamine ti è pr-»

«Dianne è qui. Tu lo sapevi?»

Lo vedo aprire la bocca e spalancare gli occhi come un pesce, poi senza proferire parola richiude le labbra e lancia un’occhiataccia alla sorella che ci guarda apatica.

«Vieni Pete, è meglio se andiamo a casa» dice voltando le spalle ad Alice e trascinandomi via. Cerchiamo di farci largo nella folla il più in fretta possibile. Tengo lo sguardo basso perché non voglio vedere in faccia nessuno, voglio solo uscire da qui e tornare a casa, sotto il piumone del mio letto.

«Peter non potrai scappare per sempre!» sento la voce di Alice urlarmi alle spalle.

Charlie si volta di scatto verso la sorella, ha perso tutto il contegno che mostra solitamente ed esasperato le urla: «Alice piantala! Non lo vedi che non è pronto per affrontarla? Mi avevi detto che non sarebbe venuta, accidenti!»

Vorrei poter dire qualcosa a mia discolpa, riuscire a difendermi da solo e non apparire come un infante disperato, ma sono troppo impegnato ad annegare negli occhi che mi sono ritrovato davanti, uscendo dalla porta.

Dianne è qui, davanti a me. Ed è vera, in carne e ossa, mi sta fissando anche lei e sembra abbia visto un fantasma. Gli occhi sono spalancati e terrorizzati, il viso è pallido e tirato. Le sopracciglia inarcate per la sorpresa e le labbra lasciano uno spiraglio nel mezzo.

«Peter» è tutto quello che le esce dalle labbra rosee, e tutto quello a cui riesco a pensare è quanto il suono della sua voce che pronuncia il mio nome mi sia mancato.

Mi sembra di essere finito in una fotografia: sembriamo congelati da questa situazione, niente intorno a noi si muove, nessuno parla e la musica ormai nemmeno più la sento, vedo solo lei davanti a me.

Tutto questo fa male e fa bene, vorrei urlarle contro ma anche stringermela forte al petto come un tempo. Vorrei piangere perché dopo un anno è davvero di nuovo davanti a me e io capisco che questi mesi non sono serviti a nulla, perché la sensazione che ho nel petto è la stessa che avevo quando uscivo per sempre di casa, dopo che lei mi aveva confessato il suo tradimento.

Mi guarda ed è palese che non sappia come comportarsi, mi guarda e forse si aspetta qualcosa da parte mia. L’unica cosa a cui riesco a pensare in questo momento è che il mio intero corpo si oppone a qualsiasi movimento e tutto quello che il mio cervello riesce a fare e memorizzare ogni piccolo particolare di Dianne.

«Ciao Dianne», riesco finalmente a dire, e forse sono riuscito a non passare per un completo idiota.

Le sorrido e contengo nell’angolo più oscuro del cervello tutti gli istinti animaleschi che vorrebbero controllarmi, tipo quello che mi consiglia di mettermi a piangere o quello che mi impone di caricarmela in spalla e scappare via.

Voglio cercare di apparire tranquillo, come qualcuno che è riuscito ad andare avanti: non voglio sbatterle in faccia la mia disperazione. Continuo a sorriderle e lei mi guarda con gli occhi grandi spaesati e le sopracciglia leggermente crucciate. Accenna un timido sorriso sulle labbra, che hanno ancora quella tonalità rosea naturale che la rende così semplice e bella.

Apre la bocca per parlare, ma semplicemente voglio andarmene il più in fretta possibile quindi la interrompo forse un po’ sgarbato, ma io odio le situazioni scomode, e: «Scusa, ma io e Charlie stavamo andando a casa» dico, facendo un cenno con la testa verso il mio amico, che per tutto il tempo mi è rimasto di fianco, immobile a osservarci.

Lei chiude la bocca e fa scivolare gli occhi da me a Charlie, si lecca le labbra e poi finge, e sì lo so che finge perché la conosco fin troppo bene, un sorriso tranquillo, congedandosi ed entrando nella sala.

Chiudo gli occhi e sembra sia ancora davanti a me, i capelli biondi lunghi sotto le spalle, la frangetta a coprirle graziosamente la fronte. Gli occhi azzurri che un tempo non si stancavano mai di osservarmi. Non le ho nemmeno detto quanto quel vestito verde chiaro le stesse bene, ho sempre avuto un debole per i suoi vestitini floreali.

«Andiamo a casa» mi sprona Charlie con un sorriso storto e gli occhi stanchi, ma non per il sonno.

Annuisco. Sì Charlie, forse è meglio se andiamo a casa.

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Capitolo 2
*** lunedì ***


Capitolo II

lunedì

 

Suona la sveglia, poggiata sul comodino affianco al letto.

Odio le mattine: il doversi alzare presto, il dover fare tutto di corsa, l’aria fredda che ti prende ogni giorno impreparato quando esci di casa, la colazione trangugiata al bar se hai fortuna oppure lo stomaco vuoto fino a pranzo, le macchine che non rispettano le strisce, i pedoni che non rispettano i semafori e i lavori sulle linee della metropolitana che ti fregano sempre.

Odio così tanto le mattine e sono tanto fortunato –si dice sarcasticamente- da dovermi svegliare tutti i giorni presto, perché quando non devo andare a lezione ho comunque il turno a lavoro e vice versa. La mia vita è un puzzle intricato tra i miei doveri, i miei obblighi, le cose che vorrei e ciò che realmente ho.

Oggi, comunque, le lezioni in facoltà sono nel pomeriggio perciò ho almeno la soddisfazione di poter fare una colazione abbondante e con la necessaria calma, mentre faccio il turno al bar.

Inoltre il bar è solamente a qualche isolato dall’appartamento, quindi posso tranquillamente arrivarci in bici, senza dover fare troppi giri con autobus e metropolitana. Tra l’altro l’app della London Tube dice che oggi la linea nera sarà fuori uso, non oso immaginare il casino che ci sarà in centro.

Mi piace andare in bicicletta perché è salutare, economico e da ecologista. Tutto sommato mi fa sentire una persona migliore, certo poi butto sempre i mozziconi di sigarette per terra e torno ad essere un cittadino di merda, però illudersi per quei dieci minuti di strada non ha mai fatto male a nessuno.

Entro nel bar che è passato un minuto alle sette e Martyn, il ragazzo che fa il turno con me e ha il compito di aprire il locale, mi accoglie con un applauso sarcastico: «Cavolo Pete, sei migliorato: oggi solo un minuto di ritardo!»

«Hai visto che quando mi metto d’impegno posso fare miracoli?» ribatto altrettanto sarcasticamente e Martyn ride allacciandosi il grembiule in vita e andando a girare il cartello alla porta da ‘chiuso’ ad ‘aperto’. E la mattina inizia con un cappuccino e un muffin al limone che nemmeno da Costa li fanno così buoni.

Cominciano a comparire i soliti clienti abituali che vanno presto a lavoro e si fermano per un veloce caffè, poi c’è l’ondata di studenti che con più calma possono anche sedersi ai tavolini e chiacchierare godendosi la colazione, ci sono però anche quelli che arrivano in ritardo e prendono qualcosa da portare vie e: «Non troppo caldo per favore!»

Ci sono le mamme con i bambini seguite da coloro che hanno la pausa a metà mattina a lavoro o che a lavoro proprio non ci sono andati. Arrivano poi un paio di ragazzi stranieri che probabilmente stanno facendo il corso di lingua nella scuola dietro l’angolo, hanno dei pessimi accenti e dei modi di fare esuberanti: entrano e il locale si riempie di chiacchere e gridolini. Mi viene da ridere perché in mezzo a tutti gli inglesi tranquilli risaltano come un arcobaleno su uno sfondo in bianco e nero.

Verso le 11.30, come al solito, il locale è completamente vuoto se non per un gruppetto di gente anziana che dopo aver preso un té verde ha cominciato l’usuale partita di bridge al tavolo, e io posso permettermi di uscire per la pausa sigaretta che sogno da quando ho cominciato il turno.

La strada anch’essa è popolata da pochissime persone, ma sul marciapiede è ritto in piedi a qualche passo da me il ragazzo che si occupa del negozio di dischi affianco al bar. Anche lui sta facendo pausa fumandosi una tabaccata, o almeno suppongo sia solo una tabaccata.

Si chiama Dean, ha i capelli e la barba rossa e l’anellino al naso. Si veste sempre con dei jeans strappati un po’ ovunque e la maglia di qualche band heavy-metal che conosce solo lui, i polsi sono pieni di braccialetti e quando mette le maniche corte si vedono i tatuaggi che scendono dalla spalla destra. Per completare la sua figura da vero rocker indossa sempre dei Dr. Martens nero opachi, giuro di non averlo mai visto senza indosso quegli anfibi.

«Ehi Dean» lo saluto richiamando la sua attenzione.

Mi rivolge un sorriso di sbieco e un po’ stanco, gli occhi azzurri si vedono a malapena sotto le palpebre pesanti.

«Ciao Peter, come va oggi?»

«Bah… Solita storia da lunedì mattina. Novità?»

Mi guarda scettico e butta nel cestino il mozzicone della sigaretta finita, «Se ci fossero novità, ora starei sorridendo» mi risponde con uno sguardo serio.

Ed ecco che con la sua perla di saggezza di metà mattinata e il suo fare enigmatico rientra nel negozio. Adoro Dean: è completamente assente dalla vita comune per gestire la sua sgangherata.

«Peter?»

No. No no no no no. Cazzo. Non è possibile, ma che ho fatto di male per meritarmi questo? Non voglio voltarmi, forse se non mi giro crede di aver sbagliato persona e se ne va… Ma chi voglio prendere in giro non è così idiota!

Mi volto ed eccola di nuovo davanti a me, con i capelli color grano legati in una mezza coda e gli occhi azzurri resi ancora più luminosi da questo sole inaspettato.

«Dianne… Qual buon vento ti porta qui?»

Si morde il labbro inferiore a disagio, «Ieri sera hai dimenticato questa alla festa e ho pensato di riportartela.»

Mi porge la mia felpa nera, mi ero completamente dimenticato di essermela tolta, lasciandola abbandonata su una sedia.

«Non era mia intenzione disturbarti a lavoro, ma ho chiamato Charlie e mi ha detto che a casa non c’era nessuno e lui era a lezione all’università. Allora ho pensato di portargliela lì ma oggi in metropolitana c’è un casino tremendo e lui mi ha dato l’indirizzo del bar e io tanto ho il negozio che è qui vicino e poi ho pensato che magari tu ne avessi bisogno e quindi te l’ho portata qui invece che portarla stasera all’appartamento.»

Finito il monologo prende un profondo respiro e mi guarda rigida, aspettando una mia reazione. Se prima ero infastidito dalla sua presenza adesso vorrei abbracciarla e rassicurarla, accarezzandole le guance.

Contegno Peter, distanza di sicurezza.

«Be’… Grazie, non c’era bisogno ti facessi tutti questi problemi.»

Mi sorride incerta e annuisce, sistemandosi le pieghe della lunga gonna bianca.

«Vuoi un caffè? Offre la casa» le propongo gentile e Dio!, Charlie ha ragione quando dice che lei mi rende una persona diversa: io non offro mai nulla a nessuno, diamine!

Mi guarda sorpresa come a voler assicurarsi che non la stia prendendo in giro. Dopodiché si apre in un sorriso felice e annuisce pacatamente: «Mi farebbe piacere un bel caffè, grazie.»

Entriamo e lei si accomoda al bancone, guardandosi curiosamente in torno.

Io intanto prendo una delle tazzine pulite e preparo la macchina del caffè, «Lo prendi sempre macchiato?» le chiedo già pronto a far scaldare il latte.

«Oh no, adesso lo prendo espresso normale.»

La guardo di sfuggita e subito mi volto di spalle per sistemarle la tazzina fumante sul piattino.

E cosa stava a significare quell’adesso? Adesso, ma rispetto a cosa Dianne?

Sembrerà banale, d’altronde è solo del caffè, però mi sento deluso a non sapere più nemmeno le sue abitudini. D’altronde un anno è composto da ben dodici mesi, circa cinquantadue settimane, trecentosessantacinque giorni, è un periodo lungo anche se spesso non ce ne rendiamo conto.

Un anno. Un anno e ora me la ritrovo seduta e impacciata nel bar in cui lavoro, senza che nessuno dei due sappia bene come agire o cosa dire.

Martyn sta leggendo il giornale seduto su uno degli sgabelli posti sotto il bancone e non presta molta attenzione a noi. Dianne sorseggia con calma il caffè nel quale non ha aggiunto zucchero, ed è strano perché lei ne metteva sempre due cucchiai.

Ed è proprio vero che la vita va avanti per tutti. E per lei mi chiedo quanto sia andata avanti. Chissà com’è, il suo ‘adesso’.

«Hai detto di occuparti di un negozio prima, non vai più all’Università?»

«Sì vado sempre: mi piace e finalmente è l’ultimo anno. Poi se la mollassi i miei mi taglierebbero tutti i fondi e sarei costretta a tornare a vivere con loro!», fa una finta smorfia disgustata con la bocca e a me scappa una risata involontaria. «Questo semestre tutti i miei corsi sono pomeridiani, quindi la mattina faccio i turni in una carinissima boutique. Mi ci trovo davvero bene e i clienti sono sempre molto gentili! Oggi dovevano fare dei lavori all’interno i proprietari e mi sono ritrovata la mattinata libera. E tu? Come sei finito a lavorare qui?»

«Be’ con Charlie abbiamo preso un’auto in comune e quindi abbiamo dovuto cominciare a racimolare più soldi.»

«Stai da lui adesso?», si sbilancia e tenta la domanda un po’ più personale, quella che va a rivangare il passato di cui non abbiamo ancora fatto parola.

Annuisco senza guardarla e con uno straccio pulisco il bancone sporco di latte, cercando di frenare l’insistente domanda che mi viene da porle.

«E tu… Tu stai sempre-»

«Sì» m’interrompe bruscamente, prendendo la borsetta poggiata di fianco al suo gomito e alzandosi dallo sgabello. «Sto sempre nella vecchia casa.»

«Ah», non so cos’altro dire. Ma ci pensa lei a concludere questo momento di stallo, prendendo la via della porta e guardandomi un’ultima volta.

«È stato… bello rivederti, Peter. Grazie per il caffè.»

«Sì, be’ ciao Dianne.»

La porta si chiude dietro le sue spalle e finalmente riesco a prendere un respiro profondo che mi fa tornare in funzione l’apparato respiratorio che quasi sembrava essersi bloccato dall’ansia.

«Chi era quella?» chiede Martyn interessato, mettendo il giornale a posto sul bancone.

«È una lunga storia.»

Grugnisce ed è una risposta più che sufficiente per tornare a farmi gli affari miei.

L’unica cosa a cui riesco a pensare è il fatto che ancora viva nel nostro appartamento e mi chiedo come sia ora. Se i mobili sono cambiati e se i quadri sono sempre li stessi. Chissà se usa ancora le forchette blu e i piatti gialli o li ha cambiati tutti. E la camera da letto magari ora è diversa, con un armadio più piccolo e un letto che non è più il nostro.

Chissà.

Ed è così frustrante quando ti rendi conto di non sapere più niente su una persona di cui in passato eri addirittura in grado di prevedere i gesti e le parole. Ed è come una tabula rasa davanti a te, e non sai come comportarti e cosa aspettarti, è anzi, un cruciverba di cui ti accorgi non sapere nemmeno una risposta.

Diamine!

 

«Com’è andata oggi?» chiede Charlie facendo scarpetta con il pane nel piatto intriso del sugo dell’arrosto che ha appena finito di mangiare. Io il mio di piatto l’ho finito da un pezzo.

Se c’è una cosa in cui il mio coinquilino è bravo sicuramente è cucinare, e i suoi arrosti sono una benedizione venuta dall’Eden.

«Bene.»

Lo vedo alzare la testa dal piatto e guardarmi con occhi indagatori, aspettando qualcosa.

Cosa vuole adesso questo?, è il mio primo pensiero. Mi accorgo che la risposta non è così difficile, perché esaminando la giornata di oggi mi rendo conto di un particolare a cui per tutto il tempo non avevo badato: una semplice frase che si era andata a poggiare in un angolo lontano del cervello, soppressa da tutti gli altri pensieri.

Ed è ovvio che mi abbia fatto quella domanda, con quel tono, guardandomi con quell’insistente sguardo, perché lui sa.

È stato lui a dare l’indirizzo del bar a Dianne e se per tutto il giorno non ho dato peso a quelle parole adesso sento montare dentro, la sento proprio graffiare nel mio stomaco, una forza distruttrice pronta a riversarsi su di lui finché non si è placata. Perché a volte davvero non lo capisco diamine! Come non ho mai capito perché per tutto quest’anno abbia fatto carte false affinché io riuscissi a dimenticarla e adesso non capisco perché abbia dovuto prendere lui la decisione di spedirla diretta nel mio territorio, quando le mie difese erano più abbassate.

«A che gioco stai giocando?»
Strabuzza gli occhi e «Non capisco a cosa alludi.»

«Non prendermi in giro Charles, so che sei stato tu a mandarla al bar.»

Si sfrega i palmi delle mani sulle ginocchia e inumidisce le labbra secche: «Credo solo che dobbiate chiarire…»

Lo guardo e mi sento seriamente preso in giro, sento il mio volto deformato da una smorfia d’orrore e guardo il mio migliore amico perplesso.

«È un intero anno che ogni volta che provo a parlarti di Dianne eviti il discorso e onestamente non ho ancora capito perché, nel senso: credi che non parlandone si sia risolto qualcosa? Ho accettato il fatto che tu non ne volessi parlare nonostante io ne avessi bisogno perché la mia ragazza, la donna che amavo, mentre io ero tranquillo a fare il mio stage in Irlanda mi stava tradendo con un pezzo di merda. Ho pensato che magari tu sapessi cosa stavi facendo perché io proprio non ne avevo la minima idea. Abbiamo fatto in modo di non parlarne per mesi, di evitare qualsiasi cosa comportasse lei e poi dopo un cazzo di anno che la situazione è sempre uguale e io sto cercando con tutte le mie forze di andare avanti tu le dici di venire al bar dove io lavoro?»

Mi guarda gonfiando le guance, tamburella i polpastrelli sulla superficie del tavolo.

«Proprio perché, come hai detto tu, in un intero anno la situazione non è cambiata ho pensato che magari stavamo sbagliando tutto: che tu avessi bisogno di un confronto diretto…»

Sono arrabbiato, perché come al solito mi sta trattando da ragazzino senza rendersi conto che qui l’unico bambino è lui.

«Tu non hai nessun diritto di prendere decisioni al posto mio Charlie! Non puoi giocare a fare lo psicologo con me, facendo esperimenti a seconda di come ti gira con i miei sentimenti, non siamo nella tua Università del cazzo e io non sono un tuo fottuto paziente schizzato di testa!»

Sono furioso e lui è offeso, lo vedo dalla piega in mezzo agli occhi e le sopracciglia corrugate. Mi guarda ferito: «Io volevo solo esserti d’aiuto!»

«Be’ nessuno te l’ha chiesto!» urlo come una furia. Mi alzo in piedi. «Dovevi avvertirmi, io- io non lo so se sono pronto ok? Non sto capendo nulla, so solo che ogni volta che la vedo fa così bene da fare anche malissimo perché so che non è più mia. Perché lei mi ha scartato.»

Sospira. «Dovresti sentire cos’ha da dirti.»

«Poteva dirmi tutto quello che voleva quando ho fatto la valigia quel giorno. Le ho dato la possibilità di giustificarsi, e sai lei cos’ha fatto? È stata lì ferma a piangere sullo stipite della porta senza far nulla per fermarmi. Come dovrei sentirmi Charlie? Perché davvero, io non lo so più.»

Sposto la sedia ed esco dalla cucina, scappo dal suo sguardo impotente e vado a rifugiare tutta la mia vulnerabilità nella mia camera, dove so di avere ancora qualche certezza.

 

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Capitolo 3
*** martedì ***


Capitolo III

martedì

 

Sono le due di pomeriggio quando entro trafelato nel bar, il viso paonazzo e i capelli imbrogliati a formare una zazzera scomposta sulla mia testa. Oggi il vento non risparmia nessuno e per strada a ogni angolo si possono scorgere londinesi in lite con le correnti d’aria troppo forti o all’inseguimento di oggetti, fogli, sacchetti con cui il vento ha deciso di giocare per un po’.

Martyn sta già impazientemente aspettando che io metta il grembiule per terminare ufficialmente il turno e ricevere da me il cambio, siccome oggi è martedì e i corsi universitari sono al mattino il turno al bar mi prende il pomeriggio. Saluto Delilah, l’altra ragazza che fa i turni pomeridiani e che chissà come faccia, è sempre in anticipo e mi fa fare la figura del ritardatario.

«Buon giorno Peter!», mi sorride allegra come sempre.

Seppur io preferisca i turni del mattino, mi fa piacere passare il tempo con Delilah perché mi trasmette sempre un piacevole senso di felicità e spensieratezza, due aggettivi che sicuramente la rappresentano al meglio. È quel tipo di persona per cui l’aspetto fisico rispecchia al meglio quello caratteriale, o viceversa. Gli occhi verdi smeraldo sono sempre accesi da una luce gioiosa, la bocca larga è sempre distesa in sorrisi rivolti a chiunque, i denti bianchissimi e perfettamente dritti sono sempre in mostra in quei dolci sorrisi che le fanno spuntare due fossette sulle guance paffute e rosee, donandole un’aria fanciullesca e d’innocenza.

Oggi indossa un vestito a stampa floreale, il che non è una gran novità: in questi mesi che la conosco ho potuto notare la sua, oserei dire, ossessione per i fiori, per cui ogni giorno nel quale ci incontriamo ormai mi diverto a trovare quel particolare che rispecchia il suo amore per essi, possono essere scarpe come collane e anelli oppure orecchini e sciarpe, fermacapelli o vestiti, magliette, pantaloni.

Martyn s’infila il cappotto pesante e fa qualche giro con la sciarpa nera intorno al collo.

«Questa mattina è passata la tua amica a cercarti, sembrava parecchio delusa quando non ti ha trovato» mi informa il mio collega con un sorriso furbo e io cerco di capire di chi stia parlando, perché davvero non ho presente. Deve notare la mia espressione confusa perché aggiunge: «Quella che era passata ieri mattina, la biondina tutta elegante a cui hai offerto il caffè.»

Stringo la mascella e perché diavolo Dianne è passata di nuovo al bar questa mattina? Non mi pare di aver dimenticato altri vestiti in giro ieri.

«Ti ha detto qualcosa?», chiedo secco a Martyn e si vede che si sta scocciando perché vorrebbe andare ma le mie domande lo trattengono.

«No, ha preso un té al limone e se n’è andata.»

«E allora come fai a sapere che cercava me?»

Infastidito il mio collega rotea gli occhi al cielo per poi rispondere spazientito: «Perché appena ha visto che al mio fianco non c’eri tu ma quel ciccione di Andrew ha fatto una faccia che dire delusa è un eufemismo!»

Ammetto con un po’ di vergogna che la prima cosa a venirmi in mente è lo stupore che provo nello scoprire che Martyn conosce il significato della parola eufemismo; la seconda cosa a stupirmi è che davvero sia stato in grado di cogliere un’espressione diversa dall’eccitazione sulla faccia di una ragazza. Infine mi meraviglio, e non riesco a capire se positivamente o negativamente, della delusione di Dianne quando non mi ha trovato. Passerà di nuovo? Era davvero venuta per me? Se sì, perché?

E se l’avesse mandata Charlie dopo ieri sera?

Sono ancora piuttosto arrabbiato con lui perché ha sbagliato anche se non vuole accettarlo e finché non lo ammetterà, ripetutamente, non credo lo perdonerò. E poi devo ancora capire come mai non mi ha mai detto di essere rimasto in contatto con lei, perché me lo ha dovuto tenere nascosto.

E diavolo!, è un anno che non la vedo, che cerco di non pensarla e adesso in tre giorni la vedo due volte e il suo nome salta fuori più in questi giorni nelle mie conversazione che in tutto l’anno. Cosa sta succedendo?

«Peter va tutto bene?», mi chiede gentilmente Delilah, gli occhi leggermente preoccupati e le labbra chiuse in un sorriso incerto.

«Certo, tranquilla!» rispondo mettendo in mostra il mio miglior sorriso e accantonando in un angolo oscuro del mio cervello i pensieri che mi stanno tormentando.

 

Chiudo il bar alle sette di sera, con Delilah che è andata via cinque minuti fa perché se no perdeva l’autobus. Solitamente il martedì Charlie viene a prendermi con la macchina dopo essere andato in palestra e spero che nonostante la mia scenata di ieri sera oggi non sia da meno perché a essere sincero non ho la minima idea di dove si trovi la fermata dell’autobus o l’orario in cui passa. Anzi non sono nemmeno del tutto certo del numero che passa sotto la nostra via, azzarderei sul 179 ma non ne sono affatto sicuro e mi toccherebbe farmela a piedi. Rimpiango di aver lasciato la bici in garage, ma per andare all’Università stamattina sarebbe stata solo una scomodità.

Impreco quando comincia a piovere e cerco riparo sotto la tettoia del bar. Oggi non ho neppure la giacca!

Sono le 7.15 di sera e Charlie ancora non è passato e solitamente non ci mette mai così tanto. Sbuffo e tirato il cappuccio sopra la testa m’incammino verso casa. La pioggia fine ma forte mi prende in pieno e nonostante cerchi di ripararmi al meglio sento che ogni centimetro del mio corpo si sta bagnando sempre di più, aumento il passo e giuro che appena arrivo a casa Charlie mi sente, altro che se mi sente quel ragazzino!

Dico, ok può essere arrabbiato con me quanto vuole e fare l’offeso per ragioni che ancora non riconosco come valide, però diamine poteva anche venire a prendermi ed evitarmi tutta questa sofferenza e il raffreddore che sono sicuro mi ritroverò domani mattina. Ho le Vans pure bucate in punta, sento il piede destro sprofondare nella suola bagnata della scarpa e i calzini fastidiosamente incollati ai piedi. Le mani sono riparate, nascoste dentro le maniche della felpa e infilate nelle tasche. Starnutisco fermandomi proprio in mezzo al marciapiede e per un momento mi sembra davvero che abbia improvvisamente smesso di piovere. Alzo lo sguardo da terra e mi accorgo di essere riparato da un ombrello giallo canarino, tenuto saldo dalla mano di Dianne.

Non so se prenderla come una benedizione del cielo e solo come l’ennesima svolta negativa della giornata, rimango diffidente a metà tra queste due emozioni e le rivolgo un sorriso di ringraziamento.

«Sembri un pulcino bagnato» mi informa cercando di trattenere le risate di scherno, ma viene fregata dalle piccole rughe che le si formano ai lati degli occhi, che smascherano il suo divertimento.

«Ho dimenticato l’ombrello a casa» le rispondo con un’alzata di spalle, sfregandomi le mani tra loro per riscaldarle. Bugia per non sembrare un idiota: odio li ombrelli e credo di non averne nemmeno uno.

Lei guarda velocemente la strada, «Sei a piedi?», chiede.

Annuisco, anche se la cosa mi pare abbastanza ovvia.

Mi porge il suo ombrello velocemente e io lo afferro stranito. Non faccio nemmeno in tempo a formulare una domanda che mi interrompe sventolando una mano e allontanandosi sotto l’acqua che subito le bagna i capelli biondi lasciati sciolti.

«Tienilo tu, ne hai più bisogno. Io prendo l’autobus!»

La rincorro, «Dianne figurati non mi serve. Stai tranquilla e riprenditi l’ombrello.»

Mi sorride e vorrei davvero darle quel dannato ombrello ma non riesco più a muovere un muscolo, perché quel sorriso mi blocca i piedi al suolo e ogni arto si rifiuta di muoversi. Lei sale sull’autobus e se ne va davanti ai miei occhi. Rimango fermo sul marciapiede a guardare dritto davanti a me, riparato sotto l’ombrello giallo canarino.

Dio quel sorriso era più di un anno che non lo vedevo e mi era mancato, tanto.

Dianne faceva quel sorriso quando discutevamo ma sapeva di aver già vinto e che io avrei lasciato perdere. È sempre stato un sorriso furbo, che le formava qualche rughetta ai lati delle labbra e le faceva arricciare leggermente il naso, formando un’increspatura sulla fronte, in mezzo alle sopracciglia. Ho sempre detto di non sopportare quel sorriso di vittoria, ma in realtà mi accorgo ora di quanto lo trovassi confortante: come una garanzia a dire che anche se discutevamo nessuno dei due era arrabbiato davvero e tutto sarebbe tornato a posto.

Non vedevo quel sorriso da prima di partire per l’Irlanda, non l’ha fatto quando abbiamo litigato l’ultima volta. Quando me ne sono andato. Non c’era nessuna garanzia che sarebbe andato tutto bene perché nulla sarebbe tornato a posto quella volta. Io sicuramente non ne avevo la forza e lei era troppo persa nella sua disperazione per provare a lottare.

E forse ha ragione Charlie, forse dovremmo parlarne di quella sera e di quelle precedenti. Degli ultimi mesi passati insieme: di quando le cose hanno cominciato a girare per il verso sbagliato ma noi non volevamo rendercene conto, fino a quando lei ha ceduto facendo molto più male a entrambi di quanto mai avrebbe potuto prevedere.

«Peter!» giro velocemente la testa verso la strada e vedo Charlie agitare una mano dal finestrino per farsi notare. Sorrido, alla fine è venuto a prendermi.

Aspetto che la strada si liberi dalle macchine e lo raggiungo dall’altra parte della strada. Faccio il giro dell’auto velocemente ed entro dalla parte del passeggero. Getto lo zaino sui sedili posteriori e tengo l’ombrello giallo chiuso vicino ai piedi.

«Da quando hai un ombrello giallo?», mi domanda Charlie stupito mentre si immette in strada.

«Ma figurati se è mio idiota!»

Non che abbia qualcosa contro gli ombrelli o il colore giallo canarino ma entrambi non sono sicuramente nel repertorio delle mie cose preferite e Charlie mi conosce da abbastanza tempo per saperlo.

«Ah ecco. Mi sembrava strano.»

Ride leggermente, buttando fuori qualche sospiro leggero dalle labbra e magari è la volta buona che si è accorto di aver detto una cavolata.

Accendo la radio che è già impostata sul canale di Virgin Radio, ‘Teenager’ dei My Chemical Romance spara dalle casse dell’auto e Charlie abbassa prontamente il volume, non è mai stato un fan del rock moderno.

Sbuffo.

«Sembri un bambino, Pete.»

«Sono solo stanco. Come sono andati oggi i tuoi studi da ragazzo intelligente?»

Alza gli occhi al cielo, come se stessi dicendo qualche cavolata tanto per, ma sappiamo entrambi che le mie parole rispecchiano semplicemente la verità. Sin dai tempi della scuola di primo grado Charlie si è distinto per la sua intelligenza spiccata, che lo ha sempre portato ad avere ottimi voti a scuola e la simpatia dei professori. L’unico professore a cui io sono mai stato simpatico è stato il supplente di educazione fisica che al terzo anno ha sostituito la mia prof., che doveva partorire o forse era stata mollata dal marito. Non ricordo. E l’unico motivo per cui gli stavo simpatico era perché ero forte a calcio, e lui amava il calcio tanto da farci fare solo quello per quattro mesi di fila. Inutile dire che la maggior parte degli studenti lo odiava. Per il resto il contatto più amichevole che io abbia mai avuto con un professore è stata la stretta di mano ricevuta dopo essermi diplomato e finalmente aver raggiunto la libertà. E loro si erano finalmente tolti un altro ragazzino idiota dalle loro classi.

Charlie intanto sono ben sei minuti che racconta della lezione di biochimica e io mi sono perso già quando ha detto il nome dell’argomento che hanno studiato quel giorno. Ammetto che a volte non mi impegno proprio nell’ascoltarlo, ma la mia era una domanda di cortesia più che d’altro: non volevo che cominciasse a descrivere minuto per minuto le due ore di lezione del suo pomeriggio.

Ma infondo lo apprezzo anche per questo suo lato da bravo ragazzo. Che poi è l’unico motivo per cui mia madre è stata entusiasta di sapere che avremmo condiviso l’appartamento, sperava mi avrebbe messo la testa a posto dopo che Dianne non ci era riuscita. Inizialmente aveva riposto molta fiducia in lei, per poi rendersi conto che per quanto Dianne avesse un’influenza particolare su di me, altrettanta io ne avevo su di lei e ben presto l’avevo corrotta ai pub periferici e alla birra alla spina.

«Peter non farmi le domande se non te ne frega nulla della risposta.»

Parcheggia davanti a casa.

«Guarda che ti stavo ascoltando», mi difendo con uno sguardo fintamente offeso, mi ha beccato troppe volte ad appisolarmi durante i suoi racconti non posso mica lasciargliela vinta anche questa volta.

Si gira con un sorriso entusiasta, «Menomale Pete, ero sicuro che mi avresti ammazzato! Allora le mando subito il messaggio di conferma.»

Esce dalla macchina e si avvia verso la porta di casa.

Conferma? Cosa?

Lo raggiungo correndo per le scale e arrivo al pianerottolo mentre apre la porta, ho il fiatone e lui è lì tranquillissimo, da quand’è che mi sono rammollito così tanto?

«Ok, lo ammetto non ho sentito nulla di quello che hai detto. Devi confermare cosa a chi?»

Sospira, probabilmente rassegnato dal mio essere così… così, e con un ultimo giro di chiave apre la porta ed entra in casa.

«Oggi in facoltà ho incontrato una ragazza, si è seduta accanto a me durante anatomia.»

Mi sono sempre chiesto quale colpo forte e doloroso abbiamo reso Charlie così fuori di testa da voler diventare psichiatra. Non tanto perché quella è una professione che io non farei mai –non sono abbastanza paziente, altruista, con i nervi fermi, e tutte quelle componenti fondamentali che servono per essere un buono psichiatra-, quanto per la quantità di anni di studio che si trova ancora da dover compiere: chi vorrebbe studiare medicina e poi dover fare ancora la specializzazione in psichiatria? Povero ragazzo intelligente.

«Peter ma mi stai ascoltando?»

«Sì sì, parlavi di lezioni di anatomia!»

Deglutisce e mi guarda negli occhi serio, aspettandosi probabilmente che io mi tolga dalla bocca il ghigno che vi è comparso dopo la parola anatomia, ma non è colpa mia se io riesco a pensare solo a corsi di anatomia pratici. Cerco di ricompormi e tornare serio.

«Questa ragazza mi piace davvero Pete, si chiama Elizabeth e dopo quattro mesi mi ha finalmente notato e oggi si è seduta proprio affianco a me e ha cominciato a parlare proprio con me.»

«Wow, il piccolo Charlie cresce. Sono felice per te amico, ma non vedo come questa cosa possa comprendermi», ancora non capisco cosa c’entri io in tutta questa situazione. Se vuole fare il sottone per una ragazza ben venga, ma onestamente non ho la voglia, o la forza, di stare a sentire delle sue imprese amorose.

«È un’amica di famiglia di Dianne e sta da lei fino a che non trova una sistemazione migliore…», mi guarda e quello sguardo non promette niente di buono, così come il tono di voce che ha pronunciare il nome ‘Dianne’: si è improvvisamente reso più insicuro e fine. «Mi ha invitato a cena. A me e al mio coinquilino.»

Per quanto il divano su cui sono seduto sia comodo mi alzo repentino e prendo svelto la via della cucina.

«Te lo puoi scordare Charles. Vai pure, non m’importa di quello che fai con la tua nuova amichetta ma non trascinarmi con te.»

M’insegue svelto e: «Dai Peter, cosa ti costa venire con me per una sera?»

Stappo la Ceres che ho appena preso dal frigo e prendo un lungo sorso, forse per bloccare il fiume d’insulti che stavano per uscirmi di bocca.

«Capiscimi Charlie, non ne ho voglia. Puoi benissimo andarci da solo e portarti dietro qualcun altro. Io non sono disponibile.»

Charlie adesso è arrabbiato, lo si può notare dalle narici dilatate e dalla mascella contratta.

«Ma sì, tanto è sempre tutto il Peter Hudson Show, o sbaglio? Se tu non vuoi fare una cosa allora devono rimetterci tutti, no? Ho fatto tutto per te in questi mesi, ti sono stato vicino e ti ho consolato per quanto mi fosse possibile, ho rinunciato a un sacco di cose e mi sono fatto in quattro per renderti felice. E tu non puoi per una volta mettere da parte il tuo ingombrantissimo ego?»

Faccio uno o due passi verso di lui e non m’importa se sono più basso e lui mi sovrasta con la testa, lo afferro per la maglia e lo scuoto arrabbiato, il tessuto leggere della t-shirt bianca incastrato tra le mie dita.

«Non è una questione di ego Charlie, ok? Vaffanculo!, non venirmi a dare dell’egoista perché non sei tu quello che dovrebbe andare nel suo vecchio appartamento, quello che condivideva che la ragazza che amava e lo ha tradito. L’appartamento dove ha vissuto per anni, quello che ha dovuto lasciare e che contiene due anni della sua vita. Tu non ti sogni la notte di poterci tornare e far finta che niente sia successo e che tutto va bene!»

Charlie mi afferra calmo la mano e la stacca dalla sua maglia. Mi guarda negli occhi dal suo metro e ottantatré.

«È sempre la stessa storia Pete: non puoi vivere così per sempre. È ora che tu vada avanti.»

Ma Charlie come posso andare avanti se il passato continua a perseguitarmi?

~


 

 
 
 
 
 
 
 
Image and video hosting by TinyPic Peter a sinistra e Martin a destra, sull'account di Peter :)



Spero il terzo capitolo vi sia piaciuto!!!
Fatemi sapere cosa ne pensate, quali personaggi vi stanno simpatici? 
vi piace il personaggio di Dianne?, io personalmente adoro Charlie :)
Voi, al posto di Peter, come vi comportereste?
alla prossima settimana!!
 
 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 - mercoledì ***


Capitolo IV

mercoledì

 

Charlie non mi parla da più di dodici ore e l’ombrello giallo canarino è ancora chiuso dentro il mio zaino, senza essere tornato alla proprietaria, nonostante anche oggi piova troppo.

Questa mattina il bar è stato perennemente vuoto: tutti devono aver preferito uscire il meno possibile da casa o da lavoro viste le condizioni meteo, così io e Martyn abbiamo giocato tutta la mattina a bridge con gli unici clienti presenti: vecchiette del solito gruppo, uniche a non essere state intimorite dalla pioggia scrosciante che oggi ha deciso di invadere Londra. Loro sì che non mollano mai! Ottant’anni e nemmeno i temporali le fanno rimanere a casa; pensandoci bene sono più vitali loro di quanto io sia mai stato, o sarò mai.

Ammetto, comunque, che l’hot dog con sottiletta, maionese e ketchup che ho mangiato a pranzo mi ha risollevato da questa grigia e inutile giornata, e fortunatamente oggi la lezione di lingua straniera non è stata così pesante. Abbiamo visto un film in lingua originale niente male, era ambientato in una scuola tedesca durante un progetto scolastico basato sui regimi. Alla fine un ragazzino moriva pure! Il titolo era qualcosa come ‘Il Mare’, o forse ‘L’Onda’. Be’, una cosa del genere. ‘Che poi il tedesco non mi è mai dispiaciuto.

Oggi comunque è iniziato il mio turno settimanale per la macchina e quindi sono sicuro che almeno starò all’asciutto.

Salgo sul sedile del guidatore e Marie Claire, una ragazza francese che segue il mio stesso corso, sale su quello del passeggero. Le ho offerto un passaggio, siccome sembra piovano patate e lei era a piedi. Visto che abita vicino a noi non mi costa un grande sforzo. La conosco da due anni circa ma prima di qualche mese fa ci scambiavamo solo, ogni tanto, un saluto di circostanza nei corridoi, o in classe quando eravamo troppo vicini per non poteri ignorare.

Ora parliamo regolarmente e non avrei mai detto che i francesi avessero un così buon umorismo o un così raffinato gusto musicale. È, inoltre, una bellissima ragazza, alta e con il corpo atletico, i capelli li porta lunghi fino a metà busto. La pelle color cioccolato la fa sembrare una figura esotica e i lineamenti marcati del viso risaltano la sua bellezza. Credo abbia fatto qualche spot pubblicitario da quando è qui.

Il viaggio è tranquillo, seppur lento perché niente è peggiore dell’ora di punta sotto la pioggia, il traffico scorre lentamente ed io e Marie abbiamo tutto il tempo di parlare fino a finire qualsiasi argomento ci venga in mente.

Abbasso leggermente il finestrino alla mia destra e prendo una sigaretta dal pacchetto, lasciato vicino al cambio.

“Vuoi?”, offro a Marie Claire allungandole il pacchetto.

Annuisce regalandomi un sorriso luminoso, incorniciato dalle labbra carnose e sensuali. Guido tranquillo e nel mentre cerco l’accendino che sono certo si trovi in una delle tasche dei miei jeans; una mano color cioccolato entra nel mio campo visivo, è stretta ad un accendino lilla che scatta e fa partire la fiamma flebile. Accendo la sigaretta incastrata tra le labbra e rivolgo alla mia vicina un segno di riconoscimento con il capo.

“Come stai Peter?” mi chiede, forse più per riempire il silenzio che regna nell’auto più che per vera e propria curiosità.

Alzo le spalle indifferente e prima di rispondere aspiro una lunga boccata di fumo che mi raschia la gola secca.

“Diciamo che si tira avanti.”

Il suo sguardo si appena più serio e le sopracciglia le si aggrottano, formando così una ruga al centro della fronte, che stona con il viso grazioso. Eh sì io dovrei davvero guardare la strada ma la coda è ancora ferma e l’espressività di questa ragazza mi rapisce sempre.

“Periodo difficile?” mi domanda con curiosità, usando quel tono di voce tipico che presuppone la gentilezza di chi vorrebbe sapere ma non vuole apparire insistente.

Le sorrido stanco, “Direi più che è stato un anno complicato e ultimamente sono venuto a che fare con aspetti del mio passato con cui non pensavo sarei rientrato in contatto.”

Lei annuisce non osando chiedere altro e io butto la ciccia della sigaretta ormai consumata fino al filtro fuori dal finestrino e scrollo le spalle.

Devio il discorso perché davvero ora non ne ho proprio voglia.

“Posso farti una domanda?”

“Certo!” mi sorride incoraggiante, e davvero se non fossi così incasinato per i fatti miei probabilmente le chiederei di uscire con me, ma ora come ora non avrei la testa per portare avanti una relazione.

“Ma se tu sei francese”, ‘che tralasciando il nome e il cognome il suo accento è ancora troppo forte per passare inosservato e la sua erre non lascia dubbi, “Come ci sei finita a studiare a Londra?”

E forse e perché ho fatto una domanda stupida, oppure è colpa della mia espressione o della mia voce sempre un po’ troppo acuta, fatto sta che lei scoppia a ridere e sembra non volerla più finire se non quando è costretta, per riprendere fiato. Mi guarda con le lacrime agli occhi e l’espressione che mi chiede scusa per quella situazione.

“Scusa Pete, non volevo scoppiare così a riderti in faccia ma non sono riuscita a trattenermi! È che me l’hai chiesto con un tono un po’ scioccato e gli occhi grandi come se fosse totalmente anormale fare l’università all’estero.”

E forse ha ragione lei e una cosa del genere è davvero totalmente normale, ma non per me. Ok, forse sono io quello strano, un po’ mammone e ancora insicuro, ma vogliamo mettere tutti questi anni universitari in un paese che non puoi chiamare casa, senza amici e punti fermi?

“È solo che io non potrei mai allontanarmi per così tanto tempo da casa.”

Alza le spalle, “A me stava diventando tutto troppo stretto a Le Havre. E poi anch’io inizialmente ero molto titubante a proposito di questa scelta, fatta più per capriccio di fine adolescenza che per altro, ma sono qui da tre anni e se c’è una cosa che ho capito davvero è che casa non è tanto un luogo, quanto più una sensazione. Io l’ho trovata qui la mia casa, a Londra, nell’Università, nell’appartamento che divido con quattro ragazze di altre diverse nazionalità e negli studi che faccio. Non è detto che un giorno non la troverò in altro, o in qualcun altro. Magari in un luogo in cui prima non ero mai stata oppure di nuovo in Francia. Magari in una persona.”

Mi sorride spensierata e io, dopo le sue parole che rispecchiano la felicità che prova, non so più cosa risponderle. Perché forse ha ragione, forse casa non sono quattro mura un soffitto e il pavimento, magari per un periodo è stata mia madre che si prendeva cura di me, magari adesso è Charlie con cui ancora non parlo ma a cui non posso rinunciare. Magari per un po’ è stata Dianne.

Scrollo la testa come a scacciare una mosca, ma in realtà scaccio di nuovo solo pensieri scomodi. Siamo fermi in coda di nuovo, e diavolo che palle! Mancano davvero pochi isolati al palazzo di Marie e io già mi sogno il mio divano comodo davanti alla TV accesa su SKYcalcio e una doccia calda per dimenticare il freddo della pioggia londinese.

Mentre tamburello sul volante con i polpastrelli delle dita e Marie digita velocemente sullo schermo dell’Iphone nero, una figura sul marciapiede attira la mia attenzione. Conosco quelle gambe magre e pallide, sempre coperte da un tipo diverso di gonna, che quel giorno è verde acqua a pieghe e le arriva poco sotto il ginocchio. E vorrei rimproverarla perché come al solito non deve avere guardato le previsioni meteo e si è messa le ballerine, bianche per giunta!

Dianne si stringe come un pulcino bagnato nel suo cappotto nero, che fortunatamente ha il cappuccio perché oggi è senza ombrello e la pioggia la colpisce con forza sui vestiti e sulle parti di pelle scoperta. Basterebbe abbassare il finestrino e invitarla salire per salvarla da quella situazione, o al massimo porgerle l’ombrello che è ancora dentro il mio zaino, posato sui sedili proprio dietro di me. Eppure non mi viene da fare nulla di tutto ciò perché al mio fianco è seduta Marie Claire e io sto provando un senso di colpa che non dovrebbe appartenermi e che non ho assolutamente ragione di provare. Ora più che mai voglio che questo maledetto traffico si smuova e che io possa svoltare a destra e non vedere più quella figura che non mi permette di controllare lucidamente le mie emozioni. La macchina davanti a me si muove troppo tardi perché mentre ancora la sto osservando, Dianne si accorge di me. Sorride notando il mio sguardo e sembra felice, alza la mano come per salutare ma qualcosa nella sua espressione s’incrina e vedo i suoi occhi superare la mia figura, per posarsi sopra la bellissima ragazza seduta al mio fianco. La vedo stringere le labbra dipinte di rosa e portarsi vergognosamente la mano stratta al petto come a voler nascondere il suo gesto, distolgo lo sguardo e premo sull’acceleratore e mi sento in colpa per tutto, anche se non ho colpa di nulla.

Dopo qualche altro minuto lascio Marie Claire sotto casa sua e riparto alla volta del mio appartamento.

Suona il telefono, afferro saldamente il volante con la mano sinistra e con la destra tento di afferrare il cellulare posato sul cruscotto dell’auto. Leggo il nome del mittente di sfuggita e rispondo, incastrando l’apparecchio tra collo e orecchio torno a poggiare la mano sul volante.

“Pronto mamma?”

“Peter, tesoro! Se non ti chiamo io tu non ti fai sentire, come stai?”

Alzo gli occhi al cielo perché mia madre è la solita donna apprensiva: sempre pronta a preoccuparsi per qualsiasi cosa.

“Al solito ma’, lo sai che tra il lavoro e l’università sono molto impegnato. Tu come stai?”

Sospira, “Bene grazie. Le tue sorelle ultimamente sono sempre più esuberanti e Linda è più isterica del solito: sai com’è l’ultimo anno di scuola le pesa sulle spalle.”

Posso immaginare il sorriso stanco di mia madre in quel momento. Il solito che le compare quando parla di noi: stremato ma colmo d’affetto per i suoi figli.

“Salutamela, è tanto che non la vedo. No anzi, meglio se me le saluti tutte e tre ‘che poi sono capaci di offendersi!”

Mia madre fa un verso d’assenso che a malapena riesco a sentire dal microfono.

“Ecco Pete, pensavo: una di queste sere tu e Charlie potreste venire qui a cena, che ne dici?”

Alzo gli occhi al cielo e a quanto pare in questo periodo io e Charlie dobbiamo essere diventati personaggi importanti o che so io, perché tutti ci vogliono a cena da loro.

“Hm- sì, facciamo che ne parlo con lui e poi ti richiamo ok?”

Certo che mia madre ha un ottimo tempismo nel fare queste proposte proprio quando Charlie è così tanto arrabbiato con me proprio a causa di una cena.

“Ok. Come sta andando lo studio? Ce la fai a coprire l’affitto con il lavoro e quello che ti diamo o vuoi altri soldi?, Pete lo sai che per te ci siamo sempre.”

“Mamma davvero: va tutto bene, non devi preoccuparti per me. Adesso arrivo a casa e vedo cosa dice Charlie per la cena: appena troviamo un giorno che vada bene te lo faccio sapere.”

“Ok…”

Sospira di nuovo e sento dal fremito della sua voce la voglia di dirmi qualcosa.

“Mamma, cosa c’è? Perché mi hai chiamato?”

“Ma niente Pete,” eppure le sento la voce incrinarsi leggermente, “è che mi manchi.”

Tira su con il naso e non posso trattenere il sorriso pieno d’affetto che mi spunta sulle labbra.

“Ti vengo a trovare presto, ok? Ora però devo riattaccare perché sono in macchina. Salutami le mie pesti, intesi?”

“E tu salutami Charlie per favore, quel caro ragazzo studia troppo secondo me! Ricordati di farmi sapere quando verrete a cena, avvisate anche all’ultimo momento: non importa. Basta che veniate.”

Schiaccio il pulsante rosso sulla tastiera e faccio manovra con la macchina per entrare nel parcheggio davanti a casa.

E non è possibile che ogni volta che mia madre mi parla di Charlie mi viene da volere ancora più bene a quel ragazzo. Eppure sentirne parlare da lei mi fa tornare alla mente tutti i motivi per cui è sempre stato il mio migliore amico, la persona più fidata che ho. Charlie è colui nel quale ho sempre trovato appoggio e riparo sicuro.

Esco dall’auto e citofono al portone perché stamattina devo avere dimenticato le chiavi. Nessuna voce a chiedere “Chi è?”, solo il portone che viene aperto. Salgo di corsa le scale trovo anche la porta di casa già aperta, semplicemente accostata allo stipite.

Entro in casa e vedo i lunghi piedi di Charlie spuntare dal divano della sala. Lo trovo lì sdraiato sul divano che guarda un documentario sugli animali che abitano in Australia. Mi seggo al suo fianco e lui fa finta di non vedermi. Meno male che ero io l’immaturo tra i due. M’inumidisco le labbra e lo guardo seriamente.

“Quanto ti piace ‘sta tipa?” gli chiedo pacatamente.

Aspetta qualche secondo e poi si volta nella mia direzione, abbassa gli occhi e poi incrocia il mio sguardo.

“Tanto che quando le parlo mi sudano le mani e ho paura di sembrare uno stupido e che non mi voglia più vedere. Quando sono con lei voglio diventare perfetto, esserlo per davvero e renderle impossibile non avere la sua attenzione che su di me.”

Sbuffo perché speravo che la situazione fosse meno seria. Lo guardo sconfitto, “Chiedile quando le mette bene ‘sta cena e non pensiamoci più.”

E Charlie mi guarda incredulo, come se io non fossi capace di compiere un gesto per bontà, poi mi abbraccia: “Grazie Pete, con te al mio fianco mi sentirò più sicuro.”

“Sì be’, cercherò di non farti sfigurare con le mie battute.”

Scuote la testa e mi guarda serio, come a volermi ammonire, poi un sorriso gli scappa e ci troviamo entrambi a ridere insieme.

È difficile portare rancore per troppo tempo verso il proprio migliore amico, soprattutto quando tirate fuori l’uno la parte migliore dell’altro. Perché per quanto ne potesse dire Charlie, è vero, Dianne mi rendeva più buono, forse una persona migliore sotto molti punti di vista, ma lui mi rende me stesso in ogni situazione, e sono sicuro che nonostante le mie mille imperfezioni sia questa la vera parte migliore di me. O di chiunque altro.

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Spero il quarto capitolo vi sia piaciuto!!!
Fatemi sapere cosa ne pensate :)
 
 

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