Occhi di robot

di Rota
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. Due mondi - Discesa ***
Capitolo 3: *** 2. La stanza di metallo - Scontro ***
Capitolo 4: *** 3. Il Maestro - Retroscena tragico ***
Capitolo 5: *** 4. La bambola rotta - Sentimento tutto umano ***
Capitolo 6: *** 5. Piogge acide - Tentativo di fuga ***
Capitolo 7: *** 6. I codici di connessione - Lacrime umane ***
Capitolo 8: *** 7. Occhi di robot - Intimità di metallo ***
Capitolo 9: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Note: Ammetto di non sapere dare valide spiegazioni per tutto questo. Nel senso: sì, era nata come la fic per il compleanno di Shu e sì, ho sviluppato una vecchia idea che avevo in testa da un sacco di tempo.
Il punto però è che non doveva essere tipo una Keito!Centric, non così sfacciatamente almeno *piange&ride* Ma poco importa in realtà, così fatta mi piace e specialmente, il suo punto di vista “esterno” mi ha permesso di sviluppare alcuni dei miei pensieri e delle mie fantasie a riguardo.
Ovviamente, se si parla di un certo Shu, non si può che essere particolarmente drammatici. Se è coinvolto Kuro poi, ancora di più.
L’avviso OOC è sia per Keito sia per Kuro. Entrambi sono molto più “estremi” che nel canon, perché la situazione descritta è in sé molto più “estrema” del canon. Considerando poi la coppia di base che pongo, e la conseguenza inevitabile di questa di “conflitto” tra questi due citati pg, penso di aver trattato uno sviluppo caratteriale quantomeno coerente, ecco.
Inutile dire che ci sarà un seguito *sbrill*
Spero che nonostante tutto questo la lettura sia gradevole per voi, e che traiate qualcosa di buono (L)
​... BUON COMPLEANNO SHU (l)(l)(l)




 

Prologo

 

Lo vede di sfuggita quasi per caso in lontananza, alzando di poco i propri occhiali e il proprio sguardo dal monitor di pulsanti e mille luci: lo riconosce perché ben poche persone, in quel posto, posseggono una chioma di quel tale colore così peculiare. Capisce la direzione in cui è andato e immagina, a quel punto, cosa sia andato a cercare; per questo motivo è tranquillo quando si allontana dalla propria postazione di lavoro e con un cenno rassicura i membri della sua troupe che niente sia stato trovato d’errato o d’estraneo nello stringente sistema di controllo che amministra tutto l’edificio e ciò che esso comanda. Tenendo ben stretta la cartelletta di appunti e codici tra le mani, esce dalla saletta di comando dalle pareti trasparenti, di plastica dura quanto resistente, e cammina lì verso l’incrocio dei corridoi bianchi con passo sicuro e molle.
Lo ferma quando lui sta già tornando in quella direzione, sbuffando piuttosto incollerito.
-Kiryuu.
Kuro sembra invece piuttosto sorpreso nel trovarlo proprio lì - non si aspettava di incontrarlo, forse, né ha previsto di doverlo affrontare in tempi così rapidi. Pare proprio, a conti fatti, che quell’eventualità sia l’ultima cosa che desiderava accadesse.
Mastica piano l’unica parola che gli rivolge: non altro che il suo nome, in tono piatto.
-Hasumi.
Keito non si avvicina troppo a lui, mantiene quella giusta distanza perché lui non si senta né minacciato né accusato preventivamente di qualcosa. Ma si guardano negli occhi senza indugi o tentennamenti.
-Ho sentito che cercavi Kanzaki.
-Sì, dovevo chiedergli un favore.
Keito adocchia il corridoio alle spalle del possente uomo. Diversi metri più in là si trova il laboratorio dove quel giorno Souma Kanzaki, loro esimio collega, avrebbe dovuto svolgere il proprio lavoro di controllo.
Noioso, monotono, per nulla gratificante come quasi la totalità dei lavori che sono costretti tutti a fare, in quei tempi di pace.
Si sistema gli occhiali sul naso, prima di comunicargli quanto egli stesso per primo sa.
-Oggi Kanzaki non c’è, stamattina ha chiesto qualche giorno di malattia. Pare non si sia sentito bene, che abbia un mal di pancia.
Ci sono diversi secondi di tentennamento nello sguardo del suo interlocutore, e questo non fa che rendere più profondi i sospetti dell’uomo, confermando parte dei suoi dubbi. Poi, solo successivamente la preoccupazione acuisce l’aggrottarsi di quelle sue sopracciglia perennemente accigliate, così come il tono della sua voce si fa un poco più grave.
-Dev’essere qualcosa di molto grave per bloccare uno come Kanzaki.
-Ho pensato la stessa cosa.
Kuro abbassa lo sguardo a terra, considerando qualcosa in silenzio. E il suo piede è già pronto al passo veloce, a far scivolare di nuovo gli angoli del lungo camice bianco su piastrelle levigate fino al reparto di sua competenza, per isolarsi ancora fino a quando il loro lavoro non sarà completato, quando ecco che Keito lo precede e lo blocca lì sul posto.
-Quindi dimmi, cosa ti serviva?
Sorpreso, Kuro tenta di rispondere ma ogni tentativo di fuga viene stroncato immediatamente.
-Io dovevo chiedere a Kanzak-
-Kanzaki manca, l’ho appena detto. Ma non c’è cosa che lui faccia che io non possa fare in sua vece.
La Yumenosaki Company è un posto particolarmente silenzioso, specialmente da quando le macchine sono state riportate sotto il controllo umano. Tutto quel bianco, tutto quel silenzio, sembrano risaltare lo spirito umano e i suoi potentissimi sentimenti quasi ci sia un’eco perenne.
Quello, d’altronde, che Eichi Tenshouin, capo indiscusso della potentissima struttura, ha sempre desiderato essere.
Keito quindi non crede alle parole di Kuro, neppure questa volta.
-Non ti devi preoccupare, Hasumi. Non è niente di importante.
-Te l’ho già detto più di una volta, Kiryuu. Ti vedo parecchio sciupato, non è da te.
Kuro assottiglia lo sguardo, sondando il viso e l’espressione del proprio interlocutore.
Keito allora fa gesto di guardare le sue spalle, tutto il suo corpo fino quasi ad arrivare alle gambe, sollevando le sopracciglia come se le parole che sta per pronunciare siano talmente ovvie che solo qualcuno con un grave deficit cognitivo potrebbe non intendere.
-Le tue connessioni hanno superato gli ultimi backup, giusto? Gli esami tecnici e bionici hanno dato qualche risultato interessante?
-Rientra tutto nella norma.
-Esami biologici?
​P
ausa, Kuro prova a sorridere ma ci riesce davvero molto male - non che Keito lo giudichi per la sua incapacità a esprimere qualcosa che non sia un pericolo mortale e immediato, però è sempre stranito dalla smorfia che le sue labbra riescono ad assumere in quei momenti.
-Anche quelli.
Keito sospira e usa la cartelletta tra le proprie mani come un’arma impropria: la picchietta sulla fronte di lui, cercando di essere almeno un poco persuasivo.
-Allora fammi il favore di non finire come Kanzaki. Abbi un po’ di ragionevolezza, prenditi cura di te.
Il tono di Kuro si addolcisce un poco, benché il fastidio per essere stato ammonito è ben presente sullo sfondo del suo tono.
-Non ti devi preoccupare, Hasumi.
E senza più alcuna parola, si allontana da lui rilassando finalmente le spalle soltanto una volta che non lo deve più guardare in viso.
Gli occhi di Keito scattano, roteando su se stessi dietro gli occhiali: focalizzandosi sulla sua nuca, forse cercano qualcosa che non esiste e mai è esistito. Che Kuro e Kanzaki stesso gli stiano nascondendo qualcosa è sicuro, la portata e la pericolosità di questo qualcosa è fino a quel momento relativo.
Presto sarà tutto più chiaro, è solo questione di tempo.
Un ragazzo dalla voce chiara, benché un poco titubante, chiama all’attenzione Keito Hasumi, capo responsabile del controllo permanente della Yumenosaki, perché il lavoro sospeso non può essere più rimandato e nessuno della troupe riesce a leggere codici così complessi come quelli sul monitor. Gli occhi di lui scattano ancora, il meccanismo metallico si rifugia dietro il bulbo bianco e l’iride verde così che forse non spaventi quelli di loro, totalmente umani, che mai hanno visto in un solo corpo la coesistenza perfetta di bionico e biologico.
Torna nel reparto senza indugi, a terminare il proprio lavoro il più in fretta possibile.

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Capitolo 2
*** 1. Due mondi - Discesa ***


1. Due mondi - Discesa



 

Una luce rossa, improvvisa, lo fa quasi sobbalzare sul proprio sedile: deve aver superato un posto di blocco, un appostamento di pattuglia della onnipresente e dilagante polizia. Non si è accorto di essersi appisolato stancamente, dopo quell’ennesima e lunghissima giornata di sfiancante lavoro, e il male leggero alla guancia indolenzita gli suggerisce di aver passato troppi minuti di totale abbandono contro il finestrino della propria vettura.

Dev’essere stato un momento in cui ha abbassato la guardia, e tutto il peso delle sue occhiaie si è fatto sentire tra palpebre e mal di testa.

Sbadiglia e torna ad appoggiare la spalla infreddolita contro lo schienale morbido della vettura, recuperando la giacca e cercando un poco di calore per le ossa tremanti. Guarda in avanti, verso il traffico del rientro serale.

Neanche ad aver automatizzato completamente tutti i mezzi di trasporto, da quelli pubblici a quelli esclusivamente privati, ha liberato l’umanità dalla piaga dell’ingorgo: è un po’ l’ironia amara che tinge di colore l’umorismo di chi si ritiene sagace.

Lui, di certo no. Trova noioso e alquanto indisponente il fatto di non poter mangiare tutti i giorni alla stessa ora. Ma ecco che l’uomo si rivela proprio lì dove la macchina è sempre stata imperfetta e non ammette sbagli, in quel caos approssimativo che rende l’idea stessa di vita.

Piuttosto che questi pensieri, però, nella sua testa vorticano ancora numeri e sigle, codici infiniti che ha dovuto controllare e ricontrollare un numero infinito di volte nel giro di appena cinque ore. Quel pomeriggio è dovuto accorrere in aiuto di uno dei dirigenti dei piani intermedi - rete fognaria, o qualcosa del genere, si ricorda a malapena davvero poco di quale sia stato il problema iniziale, perché ha dovuto eseguire da solo una serie di scansioni e backup e controlli simultanei su tutto l’impianto idrico della città - e non è stato molto divertente per i suoi nervi già molto provati.

Sotto di lui, di parecchi metri di vuoto, la città propriamente detta. Non si ricorda di quale delle Grandi Macchine è stata l’idea, ma sopraelevare le vie di traffico lasciando così libero l’ambiente cittadino sia dallo smog, risucchiato dagli impianti di aerazione all’altezza delle nuvole, sia dalla vista ugualmente inquinante di autoveicoli e cose simili è stata un’idea a dir poco geniale, lo deve ammettere. Ben pochi pedoni incauti, poi, possono morire con un sistema del genere.

L’idea del vuoto non lo spaventa più, ma c’è stato un tempo in cui non si sentiva a proprio agio a galleggiare senza controllo nell’aria. Non che ora si fidi di più delle macchine, ma certo è che non lascia né lascerà mai più che sia una mente artificiale a controllare ogni singolo aspetto della propria vita.

Perché in quel frangente l’unica cosa umana che può possedere, è soltanto una profonda estraneazione.

Vorrebbe pure guidare manualmente, certe sere. Non questa, perché è davvero troppo stanco e una parte di lui, che neanche ha voce o emette suono, è grata all’insistenza e alla sottile manipolazione che Eichi ha eseguito su di lui imponendogli come obbligo lavorativo d’avere una macchina sempre pronta alle sue esigenze.

Keito non lo ammetterebbe mai, neppure a se stesso, neppure nelle ore più buie della propria solitaria esistenza: non avrebbe testa né corpo per riuscire a guidare la sera, con tutte quelle ore di lavoro sulle spalle.

Adocchia l’esterno della autovettura, una volta abbassato l’oscurante del finestrino con cui è solito isolarsi dal resto del mondo. Ma il cielo è davvero troppo scuro perché lui riesca a scorgere qualcosa del monotono paesaggio e capisca quanto tempo ancora manchi all’arrivo alla propria dimora; ha registrato anche un calo della vista, nell’ultimo periodo, a causa dello stress e dei ritmi sempre troppo frenetici del suo nuovo impiego.

In quel momento, quindi, si allunga verso il cruscotto anteriore, dove con un paio di click ben sapienti si apre una schermata non nel vuoto, ma sopra il vetro appena superiore e gli mostra la strada fatta, la strada ancora da fare, una stima più o meno precisa del tragitto rimanente e anche la temperatura esterna, nella rassicurazione ulteriore che lui sia fornito di ombrello perché molto probabile che persino nella Città Alta inizi una di quelle tempeste acide che non è bene prendere direttamente sulla pelle nuda e debole. L’uomo sospira, finalmente, cercando di liberare buona parte dello stress accumulato, ma nel tornare in posizione perfettamente seduta, schiena contro i cuscini dello schienale, urta leggermente la propria borsa rigida con il gomito: questa si apre appena, nell’aggancio che dovrebbe tenerla sigillata, facendolo sbuffare d’irritazione.

La tiene soltanto in quanto regalo di suo fratello, non per una vera e propria affezione personale.

Tuttavia, questo particolare gli permette di sentire il leggero allarme insistente che un dispositivo situato all’interno di quella sta disperatamente mandando già da diversi minuti. Apre la borsa rigida, rovista per un poco tra i documenti e il resto del lavoro che si è portato appresso per tenersi occupato anche quella notte e trova un piccolo schermo rigido lasciato acceso che trema e manda una luce rossa a intermittenza. Veloce, come se quella cosa avesse spazzato via completamente ogni spossatezza dalle sue membra, lo afferra e con un semplice tocco sullo schermo ne accende tutti i colori e la luce principale.

Una mappa molto stilizzata della città compare ai suoi occhi - perché il puntino rivela una posizione troppo lontana da lui per fare altrimenti - che allargandosi sempre di più finisce poi al di fuori delle mura di confine. E quel piccolo puntino prosegue, prosegue imperterrito fino a scomparire oltre il suo raggio d’azione.

Ben oltre la periferia est, nelle discariche cittadine.

Keito fa una smorfia che contrae completamente il suo viso. Stava aspettando quello sviluppo da giorni e certo non è il momento di lasciarsi sfuggire un’occasione simile, tuttavia è stranito da quanto ha visto.

Senza titubare troppo, che di tempo ne ha già perso parecchio, si china di nuovo in avanti e digita un nuovo ordine alla propria autovettura, una nuova destinazione per il suo viaggio di ritorno.

Questa volta, Kuro Kiryuu dovrà spiegargli diverse cose.

 

Non è fiero di quello che ha fatto, questo è indubbio: programmare, nel sistema della macchina personale del collega, un navigatore che mandasse a lui le coordinate esatte in cui il veicolo si dirigeva e si muoveva all’insaputa del padrone stesso, non era stato facile né a livello morale né a livello materiale. La sua fortuna, in un certo senso, è che Kuro non sembra avere quel certo cuore sospettoso per cui mette in discussione l’integrità altrui.

Se ne vede, semmai, o si nasconde, ma pensare a un tranello teso ai suoi danni sarebbe forse quel balzo mentale in più che qualcuno come lui è incapace di compiere a prescindere. E questo, ovviamente, va a vantaggio dell’altro.

Per giorni Keito ha atteso quest’occasione, sbirciando quel segnale in isolato silenzio. La sera e la mattina, le ore che non era sotto controllo diretto di lavoro o impegni personali: niente, nessuna novità per quasi due settimane.

Però, se il sospetto nel cuore puro di Kuro non ha il permesso di entrare, nel cuore di Keito ha fatto fissa dimora da diverso tempo e gli ha suggerito più e più volte, con una malizia e una perfidia che lo hanno corroso a più livelli, che non era normale.

Certi comportamenti, certe azioni, certi interessi, certi misteri, certe domande che quell’uomo faceva, certe ore e certi interi giorni in cui spariva e ricompariva all’improvviso. Troppo sospetti, per il suo modo di vedere le cose.

In un certo senso, è stato quasi costretto. Non è più il tempo in cui le macchine fungono da ricettacolo di ogni sospetto e tra le fila degli umani ci sono separazioni troppo nette, troppo in contrasto tra di loro riguardante l’etica morale legata al processo tecnologico. Senza contare, in ultima analisi, come Kuro Kiryuu ha sempre con lui condiviso un’opinione ben precisa a riguardo. Ma tutto questo non ha impedito a Keito Hasumi di seguire la propria natura sospettosa.

Natura che lo ha allontanato sempre più non solo dalla propria abitazione, calda e confortevole e con la cena pronta nel forno elettronicamente fin troppo preciso ad aspettarlo, ma anche dal centro della città e pure dalla periferia stessa di quella.

Sempre meno case, sempre meno fabbriche, sempre meno strade da seguire, sempre meno macchine dietro cui nascondersi. Il segnale è comparso ogni tanto per poi sparire altrettanto in fretta - Keito sa che quella è la destinazione giusta, ma pare che Kuro abbia lasciato la macchina in un posto dove ogni segnale elettrico viene interferito da qualcosa e forse è ancora lì, forse no. Keito pretende solo le proprie risposte, non altro.

Il tutto si riduce a un’unica strada, poi. Una corsia che procede, una corsia che torna, per diversi interi chilometri di nulla. Al di sotto dell’autovettura, nella parte inferiore dove le scie elettromagnetiche che permettono ai veicoli di ultima tecnologia di procedere senza l’utilizzo di ruote o altre cose simili, vi sta un nero così profondo che ingloba qualsiasi cosa.

Forse è acqua, forse è cemento, Keito non lo sa.

In quel momento, riconosce solo il rumore della pioggia acida che batte sopra il tettuccio della sua macchina e contro le portiere, e guarda davanti a sè. Un fulmine grande, spaventoso, squarcia l’intero cielo, e mostra il profilo delle montagne di spazzatura di metallo, cemento e ferro che compongono le Discariche della capitale.

 

Il parcheggio per gli autoveicoli privati rimane all’esterno della discarica, dal momento che al suo interno non sarebbero di nessuna utilità.

Una grande quantità di metallo, tutta riunita, potrebbe spaventare chi ha ricordi ancora ben vividi di quella che è stata la Guerra, o Depurazione delle anime ferrose, ma tutti gli animi si calmano nel momento in cui quella tutta massa riunita di metallo in ogni forma è delimitata in uno spazio entro cui niente di bionico può materialmente avere vita: tutta l’area è attraversata da fasce di forza elettromagnetica, rinchiusa e incanalata in tubi metallici dal colore sfavillante, nel caso qualcuno abbia la malaugurata idea di inciamparvici sopra in modo disattento. Questi grandi tubi scorrono anche lungo le mura dell’esterno, risultando minacciosi a chi della prima impressione conserva ben più di un passeggero sentimento.

Ma Keito Hasumi, in quel preciso momento, ha ben altri problemi a cui pensare: come entrare nella Discarica rimanendo riparato dalla pioggia acida, come entrarci senza dover dare una spiegazione che possa poi legarlo alla scena del crimine, come poi cercare Kuro Kiryuu in un luogo dove nessuna tecnologia in suo possesso funziona.

Gli pare evidente, dopo qualche pensiero, che il suo collega sia entrato non dall’ingresso principale, ma da un’entrata secondaria o fatta da lui stesso proprio per evitare questo tipo di problema. Rispetto alla Grande Fornace, che sempre col ventre pieno per merito del duro lavoro degli Addetti alla Fusione Metallica instancabilmente fonde tutto il ferro, l’acciaio e il rame inutilizzati presenti su suolo cittadino, deve aver messo parecchia distanza - o almeno, così gli suggerisce l’animo umano, perché certo anche la parte bionica di Kuro può temere una tale voragine di fuoco e fiamme.

Con questi pensieri in testa, decide di prendere il proprio ombrello elettronico, la propria borsa rigida e uscire all’esterno, finalmente. L’ombrello si apre sopra la sua testa, ciondolando nel vuoto, e crea un campo di forza attorno alla sua persona impenetrabile per la pioggia acida.

Rimane tutto nel buio della notte, eccetto che quel limitato cono entro cui lui stesso sta. Individua con una semplice occhiata l’ingresso principale e la sua torretta di controllo - fari accesi e un po’ troppo rumore proveniente da quella direzione - e quindi comincia a camminare veloce nella direzione opposta, cercando guardare sia avanti sia la strada su cui cammina, per non inciampare in qualcosa.

Sente il rumore del mare in tempesta, in lontananza, e ogni tanto vede ciò che lo circonda grazie all’intervento di uno di quei fulmini verdi che aprono il cielo.

La capitale è davvero lontana, da quell’isola maledetta, e i profili dei grattacieli e di tutte quelle strutture così immense, così tendenti al sole e alla luna, non paiono per niente rassicuranti da quella distanza. Pare davvero che esistano due mondi ben separati.

Dopo diverso insistere, e dopo troppi metri di mura sempre uguali, finalmente trova un piccolo deposito costruito in cemento e tegole scure, sotto cui si trovano parcheggiati una fila molto lunga di navette dalle larghe e spesse ruote tonde.

Non vedeva affari simili da quando aveva poco più di sei anni, ma la loro visione non fa nascere in lui alcun tipo di sentimento nostalgico. Una volta avvicinatosi abbastanza alla piccola struttura male illuminata, e riuscito a guardare meglio quelle strane vetture, si accorge non solo che esse sono assolutamente prive di qualsivoglia controllo elettronico cui lui potrebbe mettere mano, ma anche l’evidente mancanza di una di esse dalla fila ordinata e precisa. Proprio l’ultima, proprio quella messa nell’angolo di confine.

Questa per lui non è che l’ulteriore prova che Kuro è stato in quel luogo e ha prelevato illecitamente mezzi con cui muoversi all’interno della discarica. Non può che fare altrimenti.

Spegne il proprio ombrello e sale, dopo un paio di alti scalini, al livello della portiera di uno di quelli. Tutto l’abitacolo del conducente, posto sull’asse che collega le quattro ruote motrici, è costruito in simil plastica, adatta a isolare sia da eventuali radiazioni sia da eventuali piogge acide. Il braccio meccanico davanti al muso anteriore, utilizzato in altri tempi per prelevare il metallo inutilizzato e trasportarlo fino alla Fornace, cade come una mano morta contro il pavimento, con la bocca larga e aperta e i denti ben in vista.

Keito sospira, guardando un poco sconsolato tutti i comandi manuali sul monitor davanti a sé. Non ha la minima idea di come far funzionare quell’affare, e dubita davvero che da qualche parte ci sia una sorta di manuale d’istruzione. Teme pure che, accesi i propri marchingegni elettronici, questi possano sentire l’influenza delle onde provenienti dalla vicina discarica e per questo vengano danneggiati.

Non può permettersi di perdere giorni e giorni di lavoro per quel motivo.

Sospira di nuovo, si sistema gli occhiali sul naso e, alla fine, si toglie i guanti scrocchiando rumorosamente le proprie dita.

Impiega diverso tempo a comprendere come far muovere quello strano aggeggio. Finisce anche per sfasciare le altre autovetture lì presenti, sia con la fiancata della propria sia col braccio meccanico che l’appesantisce sul davanti. Spie verdi e rosse continuano a lampeggiare di fronte ai suoi occhi, e mille manopoline si intestardiscono a non lasciarsi piegare in alcun modo persino quando, finalmente, riesce a mettere in moto e procedere di qualche metro in avanti. Supera il confine della tettoia del piccolo deposito e non sapendo neppure come fermarsi o girare, per poco non finisce con l’andare sugli scogli e quindi precipitare in mare - fortunatamente, il suo istinto di sopravvivenza e il suo sangue freddo sono ancora in grado di fargli gestire appieno situazioni di pericolo tanto urgente.

Così, riesce ad avere un discreto controllo su quella piccola navetta.

Procede in avanti, nella direzione che ha seguito fino a poco prima, senza esitazione. Le mura di cinta ancora scorrono al suo fianco, instancabilmente identiche, fino a quando pian piano non si abbassano fino a scomparire nel cemento del suolo: in quella zona estrema della piccola isola, era solito in altri tempi far attraccare le navi piene di rifiuti di altre oasi e di altre città, e anche se in quel momento la pratica è in disuso non si corre alcun pericolo: le rocce che compongono gli scogli aguzzi, fieri oppositori di quel mare in tempesta, rifrangono benissimo ogni tipo di onda elettromagnetica, fornendo una barriera naturale a qualsiasi essere bionico abbia la sventurata occasione di capitarvi appresso.

Lì, quindi Keito si introduce illegalmente all’interno del territorio della Discarica.

Come benvenuto, l’ennesimo fulmine verde illumina i profili dei grandi ammassi di metallo, che formano come delle piramidi più o meno ordinate e onde imponenti in un mare immobile quanto angosciante e freddo e sconfinato. L’uomo non ha modo di comprendere dove il proprio collega sia andato, precisamente, e l’unica cosa che gli resta da fare è procedere verso una direzione casuale.

Comincia quindi ad arrampicarsi sul primo livello di rifiuti solidi - le grandi e alte ruote di gomma glielo permettono senza problemi - e continua ad avanzare senza troppi dubbi.

 

Ha quasi toccato il cielo e, per un attimo, si ferma sul crinale ripido di una di quelle montagne artificiali, per guardare in basso. Ma oltre che una superficie incalcolabile di lamiere di ogni tipo, e lontano la bocca sempre aperta e sempre calda della Fornace che aspetta solamente di inghiottire tutto quello, non riesce davvero a scorgere nulla.

Nota, piccoli ed efficienti, i veicoli che portavano lemmi il materiale a sciogliere e a costruire nuove forme, entro un processo di morte e rinascita degno di molta della filosofia umana. Umani, la maggior parte di loro, ma anche diverse macchine prive di Intelletto.

Non pare esserci alcun tipo di controllo ulteriore.

Keito gira quello che ha individuato essere il volante e cerca di tornare indietro, per seguire un’altra strada che lo porti in un posto diverso e gli faccia vedere angoli nuovi - anche se in quella notte eterna pare quasi che tutto sia uguale e niente abbia davvero un aspetto riconoscibile.

Sono soltanto tanti musi di robot, braccia e gambe e torsi bionici di ciò che fortunatamente non è più in grado di far loro nulla.

Ma ecco che qualcosa di imprevisto accade, proprio mentre qualcosa cede sotto la ruota posteriore di sinistra: il veicolo borbotta, annaspa, sotto la pioggia ancora battente emette un singolo singulto di protesta e poi si spegne, per mancanza di carburante.

Keito rimane a fissare il vuoto, ora che neppure le luci dell’abitacolo di plastica che lo inglobano illuminano qualcosa oltre la punta del suo naso, e in un attimo isterico muove a caso più leve di quelle che dovrebbe davvero. Ma nulla, non accade proprio nulla.

Keito non ha neppure il tempo di lasciarsi troppo prendere dal panico perché, con un gridolino acuto, il veicolo comincia a inclinarsi verso destra, dove il crinale di quella strana montagna fredda scende in picchiata.

Pochi secondi e comincia tutto a roteare. La sua testa, la sua spalla, le sue ginocchia vengono sbattute a caso contro tutta quella plastica dura - la sua mano si aggrappa disperatamente alla cintura di sicurezza che è riuscito ad allacciarsi, come unica risposta vagamente istintiva che riesce a dare al tutto.

Rotola, e con quel veicolo rotola anche altro metallo e altre lamiere, espandendo un rumore così assordante e così grave.

La sua folle corsa riesce a fermarsi, ma ecco che dopo la durata di un respiro qualcosa gli cade addosso e schiaccia il veicolo e lo accartoccia quasi. L’abitacolo protegge l’uomo, che da quello scontro non ne riceve alcun danno: urla scaricando in quel modo la paura, urla dietro occhiali rotti e la testa che gli pulsa e gli sanguina dalle tempie.

La sua mano riesce a muoversi, dopo diversi secondi di immobilità assoluta, dove la priorità era riuscire a respirare in modo normale. La cintura però non si slaccia e quindi l’uomo si vede costretto, come può e come il dolore a tutto il suo corpo glielo permette, a scivolare fuori da quella gabbia strisciando, scivolando tra lamiere che lo hanno lasciato vivo.

Non può neanche permettersi di pensare troppo alla pioggia acida che gli cade addosso, quando riesce a fuoriuscire da sotto il veicolo tutto schiacciato. Tocca con mano tremante quello che ha attorno, senza riuscire a vederlo davvero, e solo dopo aver liberato anche il piede completamente storto pensa a cercarsi un riparo - rimane accucciato a terra, tenendosi le gambe, e sotto una lamiera rimane immobile cercando di pensare a cosa poter fare.

Certo, non rimanere lì, dove nessuna tecnologia lo può raggiungere, a disposizione delle interprerie e senza alcun tipo di provvista. Sente la pelle delle mani bruciare e la volontà vacillare come di fronte all’esigenza di un sonno profondo, ma questo non lo ferma.

Affronta la pioggia, coprendosi come riesce con la propria giacca per proteggere almeno il capo; corre come può, evitando lastre o altri spigoli sporgenti da matasse incomposte. Ogni tanto riesce a ripararsi qualche secondo sotto un tetto improvvisato, ma non si ferma troppo.

Ed è in questo suo vagare che, incomprensibilmente, scorge una luce in mezzo a quel mare buio. Corre, corre in quella direzione, inciampa diverse volte e le sue gambe si riempiono di lividi, graffi e tagli.

A pochi metri riconosce quella che dovrebbe essere, circa, la forma di una piccola casa, l’ingresso le pareti e il tetto. Inciampa di nuovo, e quella porta si apre - pare che qualcuno urli mentre lui sviene, mentre lui semplicemente cede al bisogno fisico di arrendersi in quel preciso istante.

-Hasumi!

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Capitolo 3
*** 2. La stanza di metallo - Scontro ***


2. La stanza di metallo - Scontro




 

Apre gli occhi di scatto, ritrovandosi sveglio quasi per caso, e ciò che si ritrova ad osservare, per merito della luce di una lampada storta poggiata sul pavimento, è una stanza scavata tra i rifiuti e le lamiere di metallo. Un semplice spazio aperto ove i muri e il soffitto sono composti dal resto della discarica. C’è un freddo che gli attanaglia le ossa, ma non saprebbe dire se questo è indice di una qualche profondità nel terreno o se semplicemente lui si trovi ancora in superficie e all’esterno continua a piovere ininterrottamente.

Almeno, ciò su cui è stato disteso non è fatto di metallo, così come la coperta di uno strano materiale grezzo e ruvido con cui è stato avvolto.

Prova a mettersi a sedere sul proprio giaciglio, facendo scricchiolare tutta la struttura di quello strambo letto. Riconosce a stento la presenza di un tavolo, una superficie orizzontale sopraelevata, e sopra di quello una serie di strumenti che riconosce con qualche difficoltà, perché da troppo tempo non ha visto tali reliquie.

Un martello, forse, una saldatrice e un cacciavite, diverse forme strane di chiavi inglesi. Cose innominabili sommerse da viti e chiodi, scatole mezze aperte da cui fuoriesce un odore come di plastica bruciata.

Sotto quel tavolo, sono state posizionate più o meno in ordine delle lastre di metallo dalle forme vagamente precise, che siano coni o tubi o semplici lastre piatte dalle forme rettangolari.

Keito si alza piano, perché ancora la testa gli duole. Ha freddo ma non trattiene la coperta a sé, considerandola troppo estranea per riceverne un qualche conforto caldo. Si avvicina al primo muro disponibile, cercando la porta d’ingresso o di uscita dacché non è proprio intenzionato a rimanere in quel posto per più tempo.

Cerca con lo sguardo, istintivamente, qualcosa di assomigliante a una maniglia, ma non trova null’altro che lamiere dalla posizione più o meno composta e tubi pieni di ruggine.

In un angolo, però, parve aprirsi come una grande teca, entro cui è stato agganciato un grande busto dalla forma antropomorfa - con testa e abbozzi di braccia sporte in avanti - che fa fermare Keito qualche attimo, giusto per avvicinarsi maggiormente. Spicca non solo perché ha una conformazione più precisa, ma anche per i colori di materiali particolari che vanno a incastrarsi in meccanismi elaborati.

Keito sta guardando con una certa apprensione il grande orologio nel suo petto, quando ecco che uno di quei bracci si muove e quasi lo tocca. L’uomo fa un balzo all’indietro e grida con quanta aria possiede in corpo.

-Wah!

Nel gesto, va a sbattere contro la parete di fianco, e questa colluttazione provoca non solo diverso rumore ma anche la caduta libera di un pezzo di metallo che si separa dal muro e tutto fa tremare per qualche secondo, dando l’illusione che quella stessa stanza possa accartocciarsi su se stessa da un momento all’altro.

Non succede nulla però, se non l’arrivo piuttosto agitato di una persona, sbucata da un angolo che si è misteriosamente aperto da sè.

-Ehi!

La preoccupazione sul viso dell’uomo dai capelli rossi non smuove molti sentimenti positivi, in Keito, che invece gesticola con entrambe le braccia e cerca in qualche modo di indicare quella cosa strana, quel prototipo di robot ancora al proprio scheletro.

-Kiryuu-

-Hasumi.

-Q-quella cosa si è mossa!

Kuro si sorprende molto di quanto appena ascoltato, e inspiegabilmente per Keito la sua espressione si apre e diventa quasi meravigliata - come se stentasse a credere alle sue parole ma desiderasse davvero farlo. Ma alle sue emozioni dà voce qualcun altro, dietro di lui.

-Davvero? Si è mosso?

Una creatura non particolarmente alta, smilza e dagli strani vestiti stracciati quanto eleganti si è fatta avanti, alle spalle di Kuro. Ha nello sguardo la stessa emozione dell’uomo dai capelli rossi, amplificata di diverse unità.

Keito però pare guardare soltanto quel pezzo del suo viso senza pelle, che espone alla vista un cranio di metallo e un bulbo oculare di plastica dura, del colore dell’oro.

Ogni paura lascia spazio all’ira, nella sua voce.

-Cos’è quello? Un robot?

La creatura additata pure modifica immediatamente i propri sentimenti: nel suo sguardo si fa largo la rabbia, si fa largo una furia omicida senza pari. Keito, incurante dei suoi sinistri che provengono dalla schiena di quello, incalza.

-Vivo?

C’è così tanto veleno in quella singola parola, così tanto disprezzo.

L’uomo sta per fare un passo avanti, in un gesto istintivo che denota la sua natura sempre disposta al comando e all’imposizione, quando quel robot cede alla provocazione e si apre, letteralmente, in due.

Il suo busto si decompone nelle braccia metalliche di una mitragliatrice doppia e i suoi arti anteriori sono canne già pronte a riversare sull’avversario tutto il proprio arsenale di pallottole di piombo.

Kuro fa da scudo umano al proprio collega, e questa è l’unica ragione per cui quell’altro non apre il fuoco - è un urlo fermo quello che gli rivolge, per quanto disperato sia il suo gesto e delicata la sua posizione.

-Kagehira, fermati!

Keito non gli risparmia alcun appunto, perché troppa è l’ira che gli smuove l’animo.

-Kagehira? Lo chiami anche per nome?

Ma neppure Mika, che continua a parlare e muovere la bocca da quella testa incastrata nelle proprie stesse lamiere, fagocitata e messa al sicuro all’interno delle proprie spalle allargate.

E se per un attimo è lui, l’interlocutore di entrambi, ben presto si passa al vero nemico diretto.

-Lui è quell’Hasumi, vero? Quello della Yumenosaki!

-Dove ci troviamo esattamente, Kiryuu? Esigo una spiegazione!

-È un insulto che rimanga qui, assieme al Maestro!

-Sei fortunato piccolo sgorbio che io non abbia nessuno dei miei attrezzi con me altrimenti-

-Ti faccio a pezzi!

-Ti estinguo!

Kuro urla ancora, con più decisione.

-Basta!

Questo non calma la loro ira, ma frena il loro diverbio così acceso.

Entrambi i contendenti sanno bene come Kuro sia in grado di terminare entrambi e far concludere in un modo o nell’altro la disputa, anche se forse la loro razionalità è troppo compromessa da qualcosa di più viscerale.

Infatti, Mika non abbassa i propri fucili - Kuro gli si rivolge ancora, cercando di trattenere il proprio impeto.

-Kagehira, ti prego.

Non lo smuove, e allora tenta un’altra soluzione a cui l’altro ribatte prontamente.

-Kagehira, Itsuki non vorrebbe spargimenti di sangue. Lo sai.

-Ma non vorrebbe neppure la sua casa infangata dalla presenza di una persona del genere!

Keito tenta di riprendere la parola, ma viene quasi subito interrotto.

-Come ti permetti-

-Se ne andrà appena finito il temporale.

Lo dice con talmente tanta sicurezza che è per tutti, subito, una rassicurazione e una certezza.

Un poco reticente, Mika torna in forma antropomorfa: braccia, busto e testa al loro posto, ed emozioni vere nello sguardo. In un gesto di stizza, si sistema meglio i propri vestiti sporchi, tirando gli orli di quella giacca scura che lo copre a metà - nel gesto, tende anche lo strappo al fianco e quello vicino al colletto color borgogna, che rivelano così altro metallo grigio.

Keito, al sicuro dalla minaccia mortale, si scaglia contro Kuro e indica, seccato, con una mano piena di bolle e di piaghe quella creatura messa all’angolo.

-Kiryuu! Non ho certo intenzione di aspettare più di un secondo sotto questo tett-

Il collega lo zittisce subito, stroncando ogni minima speranza di salvezza proprio lì, sul nascere della stessa. Comunicandogli quindi, senza neppure guardarlo negli occhi, il destino a cui è indissolubilmente legato, almeno per quel breve periodo che verrà.

-Mi dispiace tenerti bloccato qui, Hasumi. Ma non posso fare altrimenti.

-Dammi il veicolo con cui sei arrivato qui! O accompagnami!

-C’è carburante solo per un viaggio di ritorno, nel serbatoio. Non posso tornare ora né posso lasciarti andare.

Il tono sconfitto con cui pronuncia quelle parole non impietosisce il suo collega ma lo convince a cambiare argomento di attacco, perché su quel fronte pare così sconfitto da non poter addurre altre pretese sul contendente.

-La sola esistenza di una creatura cibernetica di tale complessità è un crimine! Non ho idea di come sia viva, come faccia a camminare e a muoversi, ma tutto questo è assolutamente inaccettabile!

Fa il gesto di sistemarsi gli occhiali sul naso, ma non trova niente: è ancora più stizzito.

-Come d’altronde la tua presenza in questo posto!

Kuro finalmente si volta verso di lui e gli rivolge un’occhiata che ha spesso visto ma mai dovuto sostenere, perché mai è stata nei suoi confronti. Forse è ancora pronto allo scontro, quel breve scambio di parole col robot deve averlo turbato molto.

Tutte cose che, però, a Keito non interessano molto, così neppure come la premura nelle sue parole.

-Se fai così mi rendi le cose difficili, Hasumi…

-Dovrei fare diversamente?

Il suo collega non dice molto, per diversi secondi. Sta trattenendo qualcosa, forse una parte di verità scomoda quanto intollerabile per lui.

Dopo parecchi sbuffi, si pronuncia in una semplice sentenza.

-Kagehira non è completamente bionico.

E questo, secondo l’attuale legge recentemente confermata, gli garantisce la sopravvivenza, perché solo gli esseri bionici in ogni loro parte sono stati banditi dalla capitale e solo i robot dotati dell’Intelletto sono stati condannati alla totale repressione, qualsiasi sia la loro forma. Ma basta avere anche una minima percentuale di cellule biologiche, vive, nel proprio corpo per sfuggire a questa sentenza di morte.

È così che molti di loro si sono salvati e sono riusciti a fuggire.

Keito, ovviamente, esplode in tutta la propria indignazione.

-Era il tirapiedi di una delle grandi Macchine.

Kuro dice qualcosa che ferisce il proprio collega, non tanto perché scopre un punto debole che neanche viene ritenuto tale dall’uomo ma perché, volontariamente, gli si sta opponendo con tutta la propria convinzione.

-Lo sei stato anche tu, diverso tempo fa.

-Prima della Depurazione!

Ma tutto quel sentimento e tutta quella rabbia non fanno bene al suo corpo provato.

L’uomo senza occhiali finisce col piegarsi in avanti, fino quasi a terra, e a tossire freneticamente. La testa gli pulsa ancora e il corpo gli trema tutto.

Kuro subito recupera la coperta da lui abbandonata sul letto e gliela avvolge alle spalle, nel tentativo di scaldarlo un poco.

-Non stai bene, vero? Ti prendo qualcosa di caldo da bere.

Lo solleva senza il minimo sforzo e lo rimette sdraiato sul giaciglio poco distante da lì, guardandolo rilassarsi dopo alcuni secondi di strenua resistenza e tensione.

Keito chiude gli occhi, ogni visione ulteriore lo indispone - sente i due uscire piano e chiudere, dietro le loro spalle, la porta scorrevole di metallo.

 

Sente diversi rumori confusi, alcuni forti altri un po’ meno, ma potrebbe essere semplicemente una delle conseguenze del suo mal di testa. Più di una volta il collo cede e si ritrova quasi col mento ciondolante e basso, in una posizione di abbandono al quale non ha ancora intenzione di concedersi. Tenta di tenersi occupato con mille pensieri, ma questi gli sfuggono via la maggior parte che tenta di acchiapparne uno, o si tramutano in rocambolesche immagini fantasiose tipiche della dormiveglia.

Almeno la coperta che ha addosso ha cominciato a scaldarlo un poco, e le sue gambe hanno smesso di tremare di freddo.

Sente al di sopra delle parole dei due uomini nell’altra stanza, che non hanno smesso di scambiarsi opinioni accese neanche per mezzo secondo, il rombo impetuoso di un fulmine. La tempesta è ancora ben viva, all’esterno, ribadendo la necessità di lui di rimanere ancora per diverso tempo sotto un riparo solido e compatto, che lo protegga nell’interezza del suo corpo dall’acqua acida che cade dal cielo. Basterebbe uscire da quell’abitazione fortuita, da quel rifugio di lamiere e andare verso la Fornace: sicuramente, incontrerebbe qualcuno di umano, una guardia o un lavoratore della zona, e potrebbe quindi tornare al suo mondo.

Se avesse ancora le forze per provare qualche altro sentimento oltre la rabbia, di sicuro nel suo animo monterebbe un’indignazione davvero notevole.

Decide di alzare gli occhi, quando la testa si fa troppo pesante e lui sente concreto il rischio di addormentarsi senza rendersene neppure conto. Con una certa fatica, mette a fuoco la teca incastrata nel muro davanti a sé, il cui interno interno è ben protetto da qualsiasi cosa possa toccarlo o anche solo scalfirlo.

Vorrebbe notare altri dettagli di quella cosa, perché intuisce essere molto importante. Quella particolare posizione glielo suggerisce, così anche la forma tanto particolareggiata.

Probabilmente, è il motivo per cui Kuro si trova in quel posto così particolare.

Keito prova uno strano istinto omicida verso quell’oggetto inanimato, dal viso rivolto verso il basso - come in un inchino agli spettatori, silenzioso ed eterno. Ma un dettaglio nuovo finalmente arriva ai suoi occhi, quando segue la direzione immaginaria dell’ipotetico sguardo del manichino, verso il basso. Un cappello a cilindro, di feltro rosso scuro.

Poi la porta scorrevole di metallo si apre e compare il suo collega dai capelli rossi, che attende un suo sguardo prima di entrare con un vasetto e una tazza da cui esce vapore caldo. Keito lo adocchia e non dice nulla, così che lui possa avanzare e raggiungere il letto dov’è sdraiato.

Gli porge subito la zuppa nella tazza.

-Kagehira si scusa per quello che ha fatto prima. Non voleva davvero reagire a quel modo.

Keito non dà cenno di essere rimasto impressionato dalla cosa: non gli interessano davvero i sentimenti di una macchina, anche se sono di pentimento. Afferra piano la tazza, cercando di non ustionarsi ancora di più le proprie dita, e comincia a sorseggiare piano.

Ha il sapore di qualcosa di indefinito, ma almeno riesce a scaldargli lo stomaco.

-Come hai fatto ad arrivare fin qui?

-Ti ho seguito, Kiryuu. Ultimamente sembrava che tu stessi nascondendo l’organizzazione di un colpo di stato.

Fa una strana smorfia e alza lo sguardo a lui, severo come sempre. Glaciale come sempre - non gli serve far roteare gli occhi per essere freddo quanto l’acciaio o duro quanto il ferro.

-Invece ti ritrovo qui a non so fare cose. Dentro una discarica, in compagnia di un robot dotato di Intelletto.

Il tono della sua voce non si è addolcito del minimo disprezzo che ha mostrato poco prima, anche perché non ha alcun interesse a nascondere i propri sentimenti. Ha tutte le ragioni per essere indisposto dalla loro esistenza, o quantomeno questo è ciò che ritiene lecito.

Lo sguardo di Kuro si rabbuia e chissà cosa considera, nella profondità dei suoi occhi. Le sue spalle scricchiolano appena, quando lui tende i muscoli - quel tipo di temperatura e specialmente quel tipo di umidità non fanno per nulla bene alle congiunture bioniche del suo tipo, lo sanno entrambi.

Pare molto abbattuto quando gli parla ancora.

-Non ti piacciono proprio, vero?

-Per nulla. Abbiamo già avuto ampia prova di quanto possono essere pericolosi.

-Lo sappiamo entrambi che molte di quelle che tu chiami prove non erano fatti veri.

-Erano fatti veri.

Kuro aggrotta ancora di più le sopracciglia, quasi ringhiando.

-Non completamente.

Hanno entrambi ragioni, per motivi diversi.

Fatti in origine veri, gonfiati in notizie oltremodo grandi e speculative atte perlopiù a esagerare cause e conseguenze e immaginari complotti e chissà quante altre cose la fantasia umana è riuscita a toccare.

E se fosse stato, all’epoca, semplicemente una questione di giusto o sbagliato, l’umanità si sarebbe semplicemente divisa in due e una delle parti avrebbe prevalso sull’altra.

La realtà non è minimamente così semplice.

Keito sputa ancora il proprio rancore, tornando a sorseggiare la propria strana zuppa.

-Ciò non toglie che quell’affare mi ha puntato le sue armi addosso.

Kuro sbuffa, sedendosi meglio su quell’angolo del letto e cercando allo stesso tempo di difendere il proprio compagno, nell’altra stanza.

-Si è sentito minacciato, lui è un vecchio prototipo di macchina per la difesa personale, è costruito apposta per reagir-

-Lo so che cos’è.

Il giaciglio cigola sotto il peso ingente dell’uomo dai capelli rossi, lamentandosi a piena voce.

Kuro rimane accigliato a guardarlo ma poi sospira, abbassa le spalle e pare che tutta la sua figura si faccia più piccola: pare davvero costernato, scontento e sconfortato dalla situazione che sta vivendo.

-Non avrei mai voluto che tu venissi proprio qui, a vedere questo posto.

Un impeto di rabbia, non diretta a Keito ma alla casualità che li ha fatti incontrare, gli fa alzare la voce.

-Men che mai adesso.

Keito lo guarda agitarsi e per qualche minuto lo lascia macerare nel proprio silenzio. C’è una parte del suo cervello che considera tutta la faccenda come un grande tradimento nei confronti della propria fiducia verso l’altro e questo lo infuoca dall’interno.

Più che altro, tutta quell’aura di mistero entro cui Kuro si nasconde e si rifugia, e che lo lascia lontano impossibilitato a capire per bene quanto accade, lo indispone più che mai.

Tuttavia, Kuro rimane Kuro. La forza del suo animo e la capacità di rimanere attaccato a un certo tipo di purezza gli danno la forza di non essere totalmente chiuso al dialogo - almeno, non con lui.

Si lascia andare in un sospiro, prima di parlare stanco.

-Stai lavorando per una delle compagnie a noi avversarie?

-Cosa? No, certo che no. Sono qui per uno scopo personale.

-E proprio qui dovevi farlo?

-Non c’era altro posto.

Sembra abbattuto, ancora. Keito non sa però se desidera davvero sapere come mai sia arrivato a considerare proprio quello l’unico rifugio capace di proteggerlo.

Troppo stanco: la testa gli pulsa ancora.

Gli porge la tazza ormai vuota.

-Mi fanno male le mani.

Kuro gli prende la tazza dalle dita e velocemente gli porge il flacone che ha portato prima.

-Tieni. Questa pomata è fatta apposta. Non ti lascerà cicatrici sulla pelle.

L’uomo si alza qualche secondo per appoggiare la tazza sul tavolo, e quando torna al letto lo vede guardare dubbioso la confezione che fa rotolare tra i palmi.

Sorride appena.

-L’ho testata personalmente, non ti preoccupare.

Ma non aspetta che l’altro gli creda: si siede di nuovo sul letto e, presa il barattolo di pomata, lo apre e comincia a medicare l’altro uomo, spargendo quell’unguento benefico su tutta la superficie delle sue mani. Keito sente subito l’effetto benefico di quella medicina rudimentale, e più sospiri lasciano i suoi polmoni.

-Quanto pensi che durerà la tempesta?

-Non lo so, può durare anche intere settimane. Mi ero preso qualche giorno di ferie per rimanere qui più a lungo.

Gli occhi dell’uomo sono catturati dalla visione delle mani di lui che continuano a massaggiarlo, dito dopo dito, con una premura davvero degna di nota.

Neanche Kuro, a quanto sembra, ha intenzione di chiudersi totalmente a lui, e gli riserva come sempre tutta la bontà e la cura di cui è capace.

Risponde ai suoi gesti, lasciandosi girare e rigirare a piacimento di lui, fino a che il lavoro non è completato appieno.

-Kanzaki c’entra qualcosa con tutto questo?

-No, assolutamente no. Kanzaki è estraneo a quanto accade qui.

-Come mai allora quel pomeriggio lo cercavi?

Kuro tituba qualche secondo - Keito capisce che sta cercando di coinvolgere il meno possibile l’altro collega, il più giovane del loro trio, eppure non ha molta voglia di aspettare la risoluzione dei suoi drammi interiori.

Così, lo incalza con una certa decisione non troppo soffice.

-Kiryuu.

Kuro esala la prima vera confessione di quella giornata, chiudendo gli occhi e tenendo rigide le proprio mani contro le sue.

-Lui ha una certa conoscenza della robotica primordiale che io non posseggo, tutto qui.

Keito sa che è la verità, glielo legge in faccia.

Rimane qualcosa che gli sfugge e che appesantisce tutte le sue parole, non riesce proprio ad afferrarlo, e tra mozzichi di rivelazioni e mezze parole poco comprende e poco reagisce.

Si irrita soltanto, a queste dichiarazioni non complete. Anche quando Kuro pare accorgersi finalmente di un dettaglio non troppo irrilevante.

-Dove sono finiti i tuoi occhiali?

-Li ho persi quando ho avuto l’incidente con quel marchingegno-

-Incidente? Hai avuto in incidente? E quando?

-Dopo essermi introdotto nella discarica con un veicolo a carburante.

Anche questa cosa turba molto Kuro, perché sente di aver sottovalutato qualcosa relativo alla sua decisione di seguirlo e di scoprire la verità che gli nasconde.

Per fortuna, però, Keito è ancora molto pallido e non sembra capace di resistere ancora per molto al sonno che gli rende le palpebre gonfie. Kuro approfitta della propria stessa apprensione e cerca di invitarlo alla calma, a perdere tempo nel silenzio.

-Forse è bene che ora torni a riposare, Hasumi.

Gli lascia finalmente le mani e gli solleva l’orlo della coperta fino a coprirlo quasi a livello del mento. Si alza e fa per uscire dalla porta.

-Io resto qui, nel caso tu abbia bisogno di qualcosa.

Indica la stanza, nel dire queste parole, al di là di quel piccolo ingresso. Keito sente a malapena il rumore di qualcosa che si muove - forse il robot dal nome Kagehira - e gli fa cenno che sì, ha capito davvero quello che gli sta dicendo.

Un’ultima occhiata apprensiva, e Kuro lo lascia di nuovo da solo, in compagnia del Maestro.

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Capitolo 4
*** 3. Il Maestro - Retroscena tragico ***


3. Il Maestro - Retroscena tragico


Si sveglia dopo quelle che, lo sa per certo per colpa della spossatezza e del languore iniziale del proprio corpo, sono state diverse ore di sonno profondo. Lo fa di nuovo di soprassalto, tirando all’improvviso tutti i propri muscoli in uno sforzo notevole, quando alle orecchie gli giunge un suono forte e molto grave prolungato di diversi secondi. Non succede nulla oltre quello, ma Keito rimane comunque immobilizzato su quel letto incapace di fare altro oltre al balzo alto del primo momento.

Kuro, seduto in maniera più o meno composta al tavolo della stanza, su quella sedie che a malapena lo regge, non sembra neppure sentire qualcosa e rimane placidamente addormentato nella posa tutta rannicchiata che ha assunto.

Come è iniziato, così si acquieta di colpo, ed è di nuovo completo silenzio.

Keito si alza dal giaciglio e si muove velocemente verso la porta scorrevole - non serve che azioni nessun pulsante o nessuna maniglia, perché quella si apre da sola e rivela un’altra stanza, una sorta di piccola cucina male arrangiata, entro cui sta, in piedi presso un lavello, Mika Kagehira.

A lui si rivolge, con fare piuttosto severo e preoccupato.

-Cos’è successo?

Lui sbatte l’unica palpebra molle che gli rimane, mentre il resto del suo viso mostra l’arrotolarsi e l’avvolgersi di un meccanismo simile a quello di un orologio antico. Eppure la voce che esce dalle sue labbra perfettamente integre pare così tanto umana, seppur gracchiante e un poco difficoltosa.

-La Discarica si è mossa.

-Si è mossa?

-Verso la Fornace. Lo fa una volta ogni cinque giorni.

Mika registra lo sbigottimento dell’uomo ma non vi reagisce molto, perché la sua è una reazione normale. Quasi naturale, potrebbe osare.

Lui alza le spalle, spiegandogli noncurante la reale motivazione di quel macchinoso espediente.

-Così da non lasciare indietro nessun rifiuto.

Keito fa scivolare il proprio sguardo sugli oggetti della stanza, cercando qualcosa a cui appigliarsi per poter tornare a pensare razionalmente.

Le pareti sono spoglie degli oggetti essenziali, sono presenti non altro che un lavello e un piano cottura a gas, di quelli pieni di ruggine che usavano forse soltanto i loro nonni da molto giovani; un armadietto basso, lasciato aperto per metà, lasciava intravedere una montagna di cibi precotti e disidratati, pronti al consumo in davvero pochi minuti e con davvero pochi accorgimenti.

Kuro, probabilmente, provvede a riempirlo tutte le volte che ne è in grado.

Keito riesce a guardare di nuovo Mika con più sicurezza, con una mente più salda.

-Di quanto si sposta, ogni cinque giorni?

-Qualche metro, dieci forse.

Aggrotta le sopracciglia, cercando di immaginare cosa questo significhi. Quando ha visto la vastità della discarica, non è stato in grado davvero di misurarne la profondità e la lunghezza, e quel campione così preciso in realtà non significa nulla per lui.

Quindi chiede di nuovo, con più stizza.

-Quanto tempo rimane perché arriviate alla Fornace?

Questo suo sentimento giunge benissimo a Mika, che lo recepisce quasi come una provocazione - per nulla piacevole, dal suo punto di vista, dacché ha sì promesso all’uomo dai capelli rossi né di ucciderlo né di scaraventarlo fuori sotto la pioggia acida, ma non gli è possibile dimenticare così facilmente l’astio che prova per lui.

Strascica di più le parole, segno che è irritato almeno quanto l’altro.

-Ti stai preoccupando per noi?

-Mi sto preoccupando per Kiryuu.

Si guardano con odio, per diversi secondi, prima che Mika sibili di nuovo.

In questi suoi sentimenti, egli espone in maniera perfetta la propria parte umana, così sensibile a certi particolari e a certi moti dell’animo.

Se solo Keito non fosse cresciuto in un’epoca in cui Robot e Umani sono stati così simili, forse ne sarebbe davvero impressionato.

-A te cosa importa, di quello che fa lui? Non riesci neanche a capire quello che desidera davvero!

L’uomo non fa mostra di essere troppo colpito dalle parole pronunciate dall’altro, o dal livore delle sue guance morbide, ma qualcosa si appoggia nelle profondità del suo animo e lì rimane, per un altro uso.

Mika arretra, di fronte alla sua impassività, e abbassa il tono della propria voce.

-Comunque, meno di tre mesi.

Poi, però, non gli dà più retta: gli volge le spalle, camminando verso un punto preciso della stanza. Keito tenta di fermarlo, ma egli si impianta di colpo solo quando la porta dell’ingresso, che da all’esterno della stramba abitazione, si apre di fronte a lui.

-Dove stai andando?

Piove, piove ancora molto forte. Tuoni e fulmini scuotono il cielo, lo aprono e lo illuminano di luci venefiche.

Mika volge soltanto il profilo bionico verso l’uomo, parlandogli al di sopra del rumore della tempesta.

-Fuori, a cercare altro materiale. Ci sono alcuni pezzi ancora mancanti, il Maestro non può rimanere così in eterno.

-Con questa pioggia?

-A me non fa nulla.

Lo vide sorridere malignamente, rimarcando con quella certa malizia la differenza tra di loro. Ed è una cosa piccola, piccolissima, perché quella libertà non è altro che illusoria e fin troppo confinata, ma questo Keito non lo sa.

Il non comprendere diverse cose lo rende ancora più frustrato, più irritato del suo già stato naturale delle cose. Si avvicina di poco a lui, rimanendo comunque riparato dalla pioggia, e stringendosi attorno alle spalle la coperta calda, lo incalza.

-Come fai a muoverti, all’interno della Discarica?

Pare che Mika stesse aspettando proprio quella domanda.

E sotto i suoi occhi, solleva da terra un oggetto pesante, lasciato al di fuori dell’abitazione: una grande scatola con due braccia a uncino e un boccaglio pendente, sul davanti.

-Che roba-

-Il Maestro mi costruì dei polmoni artificiali e tutte le ossa. Per questo sono ancora vivo. Ma queste cose, posso vivere al massimo per cinque minuti.

Sgomento, di nuovo.

Mika indica l’oggetto che ormai tiene tra le mani, con una certa soddisfazione.

-Questo mi fa respirare tre ore.

Ma quel giovane robot non comprende che, in realtà, lo stupore dell’uomo non ha origine tanto in quella tecnologia grossolana, quanto per lo più su alcune delle sue parole.

Lo vede ma non lo guarda davvero mentre infila uno di quei bracci all’interno del proprio fianco, lì all’altezza del taglio del proprio vestito - il suo corpo si apre docilmente e quello si infila in maniera dolce, naturale, come se sempre fosse stato quello il suo post.

Posizionato anche il secondo braccio sulla spalla, circonda la bocca e la testa con il boccaglio, così da poter respirare manualmente.

Spegne la propria parte bionica: metà del suo viso cessa completamente di muoversi, sotto gli occhi di Keito.

-Ci vediamo dopo.

Con un cenno del capo si allontana veloce, superando la barriera artificiale di materiali riflettenti che Kuro stesso ha costruito tutt’attorno all’abitazione, in modo tale che qualsiasi creatura bionica potesse funzionare a pieno regime entro quella limitatissima area.

Keito vede, Keito comprende.

Keito, finalmente, capisce il motivo per cui Kuro si è rifugiato in quel pezzo di Inferno.

 

L’uomo retrocede piano all’interno della piccola cucina. Si volta e lascia cadere la coperta a terra senza opporre la minima resistenza: non gli interessa più granché, anche se le tenaglie del freddo cominciano subito a stringergli i muscoli vivi delle braccia, senza risparmiarlo per neanche un secondo appena.

Rientra nella piccola camera da letto, che ora gli pare decisamente più piccola, decisamente più misera. Il nascondiglio perfetto per un fuggitivo.

Guardando la teca di vetro e il suo interno, finalmente lo vede, finalmente lo capisce.

Il cappello a cilindro era un tratto distintivo suo, che amava vestirsi in una certa maniera quando appariva in pubblico - come averlo potuto dimenticare, pur con il passare degli anni, quella sua arroganza così sfacciata e il suo modo di fare tanto sicuro quanto superbo. Si era sempre vantato di essere un capolavoro dell’arte, della sua personale arte: un essere umano che aveva rinunciato a tutta la porta parte biologica, per essere solo bionico.

Il perfetto robot, così diceva lui, così tanto ossessionato dall’idea di perfezione stessa.

Keito ride appena, pensando a come poi sia finita quel suo estro così particolare, e nel farlo sveglia Kuro.

L’uomo dai capelli rossi stende i propri muscoli indolenziti, sbadiglia apertamente senza coprirsi la bocca con alcunché, ma Keito gli volge ancora le spalle pure mentre parla.

-Così questo è Itsuki.

Kuro si blocca, perché davvero non si aspettava che lo capisse. O forse semplicemente lo ha molto sperato.

E sebbene Keito abbia percepito il suo disagio, non si ferma.

-O quel che ne resta di lui.

Si volta verso di lui con un’espressione non più irritata, e certo senza la minima traccia di pietà.

-Pensavo fosse stato fatto a pezzi. Intendo, completamente.

Qualcosa nel viso di Kuro si tende alla rabbia - un muscolo o due, che serrano la mascella - ma nulla più. E il tono della sua voce è sì duro, eppure non così tanto come ci si aspetterebbe dopo quelle parole.

Proprio lì sta la loro differenza di visione: cosa considerare vita, e quindi degno di umana compassione, e cosa no.

-Kagehira ha portato in salvo la sua scatola cranica e parte del suo busto. Non ha permesso che fosse distrutto.

-Contravvenendo agli ordini del suo stesso padrone.

-Per fortuna.

Kuro abbassa lo sguardo, sperando che questa resa implicita dia una conclusione a quello scambio che lo mette davvero molto a disagio. Le sue spalle scricchiolano ancora, per il freddo e la posizione scomoda assunta in quel breve riposo, rimarcando quanto l’emozione sia, persino per quelli come lui, un fattore oltremodo anche fisico oltre che psicologico.

Keito gli dà solo qualche secondi di tregua, tornando a guardare la carcassa di quello che dovrebbe essere, poi, della forma di un robot completo. Guarda con astio gli ingranaggi, guarda con astio i tubi di congiunzione, i lineamenti facciali e i bulbi bianchi e viola incastrati nel viso.

Poi torna a seviziare il proprio collega di lavoro.

-Perché stai cercando di ricostruirlo? E soprattutto, perché proprio qui.

Kuro sospira e continua a guardare il pavimento. Non è riuscito neanche ad alzarsi dalla sedia, da quando si è svegliato.

Keito non ha bisogno di mettergli troppa pressione addosso - non ne avrebbe, almeno, ma questo non comprende la sua volontà di farlo o meno - perché è sempre stata una figura autorevole per l’altro. Un po’ la coscienza, un po’ la parte che segue la legge della giustizia più che ogni altra cosa.

Per quello che lui fa parte dell’Akatsuki, per quello che ha deciso tanti anni addietro di lavorare per gli organi di controllo degli esseri bionici. E anche in quel momento, Kuro sente tutta l’autorità di lui gravargli sul capo.

Oltre che al proprio personale rispetto, è legato a lui da molteplici fattori, e non può proprio mentirgli.

Sospira. Persino i suoi capelli lunghi paiono afflitti, e gli cadono tutt’attorno al viso, rendendo più triste la sua figura.

-Non volevo che la Compagnia avesse dei guai per questo. È solo per mio interesse personale che sono qui.

Gesticola, indicando spesso l’oggetto della sua prima preoccupazione - e forse Keito si sbaglia, ma pare che il suo sguardo sia diverso, sia più attento tutte le volte che incrocia la direzione di quella carcassa inutile, nel proprio vagare inconsulto.

-Non potevo né costruirlo sul luogo di lavoro né a casa per questo. E poi, qui in Discarica si possono trovare tanti materiali molto utili, perché qui sono state gettate tutte le componenti dei robot smontati o spenti.

Abbassa la mano e il braccio che ha alzato, tornando più o meno composto sulla sedia. Non guarda né Keito né quello che rimane di Shu, guarda il cappello a cilindro che rimane immobile a prendere altra polvere.

Piano, qualche parola serpentina esce dalle labbra dell’altro uomo, a rompere il silenzio.

-È lodevole che tu abbia pensato a questo. D’altra parte, Itsuki era un criminale.

E il suo tono diventa ancora più velenoso, persino quando Kuro gli risponde e non cede al suo odio né ne viene sottomesso: qualcosa di inspiegabilmente fiero lo anima dal petto, anche se continua ad ammettere atrocità passate.

-Uno della peggior specie.

-Già, è proprio così.

-Lui e le altre quattro Grandi Macchine sono stati condannati per crimini contro l’umanità. Te lo ricordi, Kiryuu?

-Me lo ricordo perfettamente.

-L’avanguardia dell’umanità, il genio quasi divino che avrebbe dovuto consacrare noi tutti alla perenne pace e alla perenne salute.

Il dito indice di Keito si alza a indicare Shu, impietoso, esattamente come l’espressione dipinta sul suo viso.

-Invece non erano altro che mani lorde di sangue.

Ha gli occhi sgranati, il fiato corto. Ma ha osato troppo, e Kuro si alza e quasi gli urla addosso - non si rende conto di star urlando lui per primo, quando il collega dai capelli rossi alza il volume della propria voce.

-Ora basta!

-Ti fa arrabbiare che io ricordi la verità?

-Ogni giorno della mia vita ricordo quale sia la verità!

-Il fatto che tu conoscessi Itsuki dall’infanzia non cancella nessuna parte della sua colpa.

-Lo so perfettamente, Hasumi!

-Tu sei conscio, vero, che nessuna delle sue parti era più biologica?

Kuro è vicino, abbastanza perché lui senta il freddo del ferro delle sue braccia.

È quello forse che lo rende così glaciale: la presenza di tutto quel metallo attorno, dei ricordi sgradevoli che quel cappello gli hanno rimescolato nel cervello.

-Il suo suicidio, così come lo volete chiamare, è uguale a quando si spegne un aspirapolvere.

E accade qualcosa di inaspettato, di terribile.

Kuro è una furia quando si avvicina a lui e alza il pugno, scaraventando lui contro il muro e le proprie dita appena distante dal suo viso, aprendo un cratere in quello. Keito rimane terrorizzato al proprio posto, immobile senza neanche riuscire a tremare.

Più che rabbia, nell’espressione di lui ormai così vicina, riesce a leggere dolore.

Prima che riesca a dire qualcosa, prima di chiedergli cosa lo spingesse a tanto e per quale ragione riservi tanto amore per una creatura del genere, ormai spenta per sempre, Kuro si allontana da lui in fretta. Sguardo basso e piedi veloci.

Solo una volta raggiunto l’esterno e sotto la pioggia battente, sapendo che Keito era impossibilitato a raggiungerlo, si ferma immobile e guarda in alto, verso il cielo.

Lancia un grido più alto di qualsiasi tuono, mentre la sua parte bionica si spegne per colpa dei tubi elettromagnetici.

 

Keito scivola lentamente sul pavimento, fissando ancora il vuoto. Rimane incredulo, in silenzio, per lunghissimi secondi, a contemplare il significato più o meno implicito di quanto appena accaduto.

Non che Kuro non gli abbia mai risposto né gli abbia risparmiato la potenza delle sue decisioni o dei suoi pensieri - il loro rapporto si basa su stima e fiducia reciproca, che li porta a un livello pari senza alcun tipo di sgarbo - ma mai ha portato la cosa su un approccio fisico, di quel genere. Mai è stato così scosso dal confronto con lui da reagire come una bestia in gabbia, pronta a uccidere per la propria sopravvivenza.

La propria o quella di qualcuno a lui così dannatamente caro.

Keito ingoia saliva, cercando di ammorbidire la gola secca. Questo pensiero lo ha già fatto parecchie volte, nel suo passato, eppure mai ha trovato la forza di approfondirlo più del dovuto: lavoro e vita privata sono due cose nettamente separate, per lui, per quanto non si renda conto dell’ipocrisia di chi cerca di fare di quest’idea una poetica e per primo basa tutta la propria influenza su sentimenti profondi quanto potenti.

Ha sempre desiderato capire Kuro, per tutta l’aura di mistero che lo circonda. D’altronde, è sempre stato interessante per lui sapere il motivo per cui un esemplare misto del genere, figlio naturale di una delle pioniere della robotica e leader indiscusso dell’ingegneria dedicata al settore, almeno fino a quando è stata viva, ed uno dei primi esperimenti ben riusciti di incastro tra bionico e biologico, sia finito alle sue dipendenze.

Al controllo e alla repressione dei prodotti di nicchia di tutto il lavoro materno: i Robot con Intelletto.

E allo stesso tempo, ha sempre desiderato ignorare ciò che lo legava proprio a questi grandi Robot, cercando di riflettere il proprio odio nelle azioni di lui. In un’operazione mentale naturale quanto contraddittoria.

Si domanda, per qualche secondo, se il Kuro che ha gridato non fosse semplicemente la macchina nel suo corpo e non il semplice uomo - ma anche questa fu una domanda pericolosa, atta a salvaguardare il proprio modo di pensiero.

E sente una voce, all’improvviso.

-Non sembra tu sia stato molto educato.

Sobbalza e volta veloce la testa, verso il robot nella teca. In quel momento, è rivolto a lui - pare lo stia fissando con coscienza.

-Tu parli.

-E sento e vedo, anche.

Keito sgrana gli occhi: troppe sorprese per lui in troppo poco tempo.

Striscia di nuovo contro il muro e si rialza, mentre lo sguardo di quel robot mutilato lo segue con pigrizia e curiosità assieme. L’uomo avanza verso la teca, fissando le palpebre di quello che si muovono piano.

Sbuffa, molto contrariato.

Tutto il disagio che ha provato nei confronti di Kuro svanisce in fretta, di fronte a quel robot, perché pensa che l’altro gli abbia nascosto di essere riuscito nel proprio intento. E quindi, gli ha mentito.

-Kiryuu ti ha riparato davvero, allora.

-Oh no. Ryuu-kun e Mika-chan stanno cercando Shu-kun, non me.

-Shu-kun?

Non ha molto badato al tono della voce del robot, preso dai propri sentimenti.

Ma quello fa una sorta di inchino in avanti - e allora nota, nota davvero quanto sia acuta la voce che esce dai suoi ingranaggi, come se qualcuno stesse parlando in falsetto.

-Piacere di conoscerti, Hasumi-san. Io sono Mademoiselle, e parlo a nome di Shu-kun.

Sente le guance diventare livide di rabbia, e quindi urla.

-Non farti beffe di me, Itsuki!

-Nessuno si sta facendo beffe di nessuno!

-Allora parlami normalmente.

-Ti dà fastidio il suono della mia voce? Me ne dispiaccio. Ma ti prego di non alzare così tanto il volume delle tue urla.

-Itsuki!

C’è una pausa, nel loro scambio, perché probabilmente il robot non ha coscienza di non avere possibilità di espressione facciale, anche se Keito riesce a intuire i suoi sentimenti, benché sia ancora furioso, dalla modulazione delle sue parole.

-Te l’ho detto, io non sono Shu-kun. Shu-kun sta riposando, lui è davvero tanto stanco, devi perdonarlo se non si fa vedere ma non è davvero nelle condizioni di reggere alcun tipo di conversazione.

Sbigottito, incredulo, arrabbiato.

L’uomo cerca una spiegazione logica a quello che sente, e allora abbassa lo sguardo e lo rialza immediatamente, trovando la soluzione che possa far troncare quel dibattito senza il minimo senso.

-Tu sei-sei un altro robot, vero? Hai un’altra intelligenza.

Indica con un cenno del capo il metallo del suo busto, in totale disprezzo.

-Perché Kiryuu allora ti ha messo in quel corpo?

E anche questa volta, il robot si prende qualche secondo di pausa per esprimere le proprie finte, artificiali emozioni.

Pacatezza e incredulità.

-Non capisco le tue domande, Hasumi-san.

Non sembra stia mentendo, e questo anima un poco Keito di una nuova sensazione: paura, perché oltre l’incomprensione non c’è nient’altro che quella.

La sente distrattamente muoversi e tornare in posa composta, con le braccia elegantemente conserte al petto. Forse, nella sua immaginazione, gli sta sorridendo.

-Desideri forse che io dica qualcosa per te a Shu-kun?

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Capitolo 5
*** 4. La bambola rotta - Sentimento tutto umano ***


4. La bambola rotta - Sentimento tutto umano


Il problema di non poter disporre di macchine in grado di lavorare il metallo, di ultima tecnologia, si risolve soltanto con il provvedere a questa opera con la manualità: Kuro è forte, Mika preciso abbastanza, e assieme riescono ad assemblare una tecnica più che accettabile. Si sono ritrovati non solo per volontà di spirito, ma anche profondità di competenza.
Capita che nel dover dare forma a una grezza lastra di metallo, Kuro stia in solitudine, in compagnia esclusiva del propri strumenti di lavoro - per questo è stata allestita la sua camere da letto personale, oltre che provvedere al suo bisogno umano di riposo e anche al bisogno di ulteriore riparo del Maestro.
Teca aperta, diversi cavi sono attaccati alla nuca di quel pezzo di robot, collegati a un display molto rudimentale appoggiato poco distante da lui che fa scorrere codici e sigle che corrispondono, in ultima analisi, sia ai pensieri di lei sia a tutte le funzioni in cui si sta impegnando. Vivere, per prima cosa, ma anche l’imitazione del respiro e il movimento più o meno repentino degli occhi.
E l’uomo dai capelli rossi ha una capacità di concentrazione davvero notevolissima, che mette in comunicazione soltanto lui e l’azione che compie, con lui e lo sforzo che compie. Se non fosse per questo particolare, probabilmente sarebbe già impazzito da diverso tempo: Mademoiselle è ben contenta di mostrarsi disponibile al dialogo con lui, per quanto abbia sempre ribadito quanto Kuro la odi.
-Ryuu-kun, desideri che io dica qualcosa per te a Shu-kun?
Si è chinata in avanti, dietro il vuoto e quei pochi metri di niente che li separano. Guarda, forse, le mani di lui che stringono un largo tubo e lavorano per modificarne l’ampiezza sulla parte terminale, cercando di ridurla considerevolmente, forse invece il display che potrebbe rivelare le sue intenzioni, potrebbe comunicargli qualcosa che lei non può controllare.
Lui però non dà il minimo segno di averla sentita, come neppure tutte le volte che con insistenza lo evoca utilizzando un nome che non dovrebbe osare pronunciare.
Ma lei insiste, gentile e pacata.
-Shu-kun desidera tanto parlare con te, ma è timido e stanco, molto stanco, fa fatica a scandire le parole. Sono sicura che se tu gli parlassi per primo, lui ne sarebbe contento.
Sembra il gioco crudele di un sadico, ed è così che Kuro ha pensato fosse all’inizio, quando per la prima volta Mademoiselle ha parlato con lui.
Lei non ha niente di Shu. Non il suo carattere, non la sua stizza, non la sua voce, non la sua passione, non la sua grazia. Eppure, parla utilizzando il suo corpo e i suoi circuiti, niente che non appartenesse a Shu è stato inserito all’interno di quell’organismo bionico e lei ne è il risultato.
Certi codici ricorrenti, sono quelli che lui ha sempre posseduto.
Mademoiselle e Shu sono la stessa cosa, pur così diversi. Kuro non riesce ancora a spiegarsene il motivo, ma reputa più importante finire il proprio lavoro, anche se questo significa insistere anche nel proprio dolore. Troppo ha da perdere, di nuovo.
Il tono di lei si inclina alla tristezza, per qualche strano motivo.
-Ryuu-kun, sei ancora arrabbiato con me?
Lui non si ferma, e quindi neppure lei.
-Sei ancora arrabbiato… con lui, per quello che ha fatto? O perché si è disattivato?
Solo a quelle parole Kuro blocca la propria mano, stringendo forte il manico di quel martelletto rudimentale. Qualcosa oltre la concentrazione tenace fa vibrare il suo sguardo, ma Mademoiselle non può vederlo da quella posizione: lui è chino sul pavimento, le dà le spalle senza rimorso.
Questa incomprensione, così atroce, la rende tanto simile a Shu da fargli male.
-Ryuu-kun, te ne prego. Parlami. Come facevi una volta con Shu-kun.
Lui riprende il proprio lavoro, trattenendo a stento un sospiro affranto.

 

Benché Mika contenga parti biologiche, esse vengono mantenute vitali e attive dal meccanismo bionico che rilascia, particolarmente per quella componente dell’organismo proprio, ormoni e nutrienti sintetici perfetti allo scopo. Questa è stata la rivoluzione di Itsuki.
Quindi, se in questo momento bolle l’acqua e scarta la confezione della salsa da mettere poi nei noodles, di certo non lo fa per se stesso, ma per la persona che silenziosa rimane seduta al tavolo di quella cucina e gli fissa insistentemente le spalle.
Alla conta dei pasti che lui e Kiryuu hanno assunto, sotto quel tetto, è passata quasi una settimana, ma dal giorno in cui l’uomo dai capelli rossi ha colpito con un pugno la parete di metallo ne sono passati quattro - e Hasumi non ha più parlato con i propri ospiti se non per qualche sillaba di negazione o assenso, rimanendo in una strana e assorta quiete.
Per questo motivo quando lui prese a parlare, Mika sobbalza sui propri piedi e si gira di scatto.
-Da quant’è che va avanti questa storia?
Mika sgrana gli occhi e sbatte le palpebre ripetutamente, facendo ben intendere di non aver compreso l’oggetto in questione della sua domanda improvvisa.
Keito comincia l’istintivo gesto di sistemarsi gli occhiali sul naso, ma ancora prima di sollevare il polso dal petto, lì dove le braccia sono incrociate, si ricorda di non indossarne nessun paio.
Incrina la voce di irritazione.
-Di te e Kiryuu.
Mika a quel punto comprende, ma si chiude in un’espressione sospettosa, circospetta, che fa sbuffare l’altro di stizza.
-Non ho intenzione di denunciare nessuno e niente.
-Perché?
-Non credo che le mie motivazioni o intenzioni debbano essere di tua competenza.
Gli riserva un’occhiata davvero bieca, come d’altronde l’ospite fa nei suoi confronti.
Si volta però verso l’acqua ormai in ebolizione, e mentre spezza i noodles e li butta nell’acqua, risponde al proprio interlocutore.
-Quasi un anno, circa. Più o meno.
-Un anno?
-Siamo venuti qui ancora l’anno scorso. Ryuu-kun-san ha festeggiato con noi la Festa delle Ultime Stelle.
Per qualche secondo, pare che Mika sorrida a un ricordo per lui caro e prezioso - il ristabilirsi, forse, di qualcosa di molto simile al concetto di famiglia, di relazione umana e non: quei giorni sono stati preziosissimi per lui e il Maestro, non potrà mai dimenticare il debito nei confronti di Kuro Kiryuu.
Ridacchia, appena.
-Con me e Mademoiselle.
Neppure i continui sbuffi dell’uomo riescono a scalfire quella felicità così bionica, così fanciullesca e genuina.
-Quello è Shu Itsuki, non questa fantomatica Mademoiselle.
-Mademoiselle è sempre stata la bambola preferita del Maestro. Non l’ha mai lasciato, mai! Non è strano che anche adesso sia con lui!
Anche Keito ricorda, con un poco di sforzo.
Mademoiselle, o quella che Itsuki chiamava in tale maniera, è stata una di quei piccoli robot senza Intelletto, molto utili a lavori manuali o no che non richiedevano un grande sforzo mentale. Appariva a metà strada tra un’agenda e un’infermiera di professione, più o meno come Itsuki pareva a metà tra un chirurgo e un ingegnere.
Ma anche a ricordare cosa fosse, la vera questione è un’altra. Più di una.
Mademoiselle, originariamente, non era mai stata registrata in quanto posseditrice di Intelletto, e questo apre il caso a diversi risvolti. E assumendo questo come verità, lei e Itsuki sarebbero due entità diverse, incompatibili nella stessa scheda di memoria.
Keito continua a non capire.
-Tu affermi quindi che quella cosa non è Itsuki?
Mika scola i nuddles e li pone in una ciotola, condendoli veloce con la salsa.
-L’ha detto anche a te, no?
Finalmente si volta ancora, verso l’ospite - sorride forse perché ha terminato di cucinare ed è contento per questo, ed è ancora ebbro dei ricordi positivi che lo legano a quel posto.
L’ospite però ignora il pranzo offertogli, per qualche secondo di troppo.
-E a te non pare strano che parli col corpo e con l’Intelletto di Itsuki?
Ancora una volta, l’essere bionico mostra stupore, incomprensione. Ha proprio un’espressione distante, di chi pare non usi neanche le stesse parole di chi gli si trova davanti.
-Perché dovrebbe?
Hasumi sospira piano, comprendendo finalmente che quel dialogo non lo porterà a nessuna conclusione per lui accettabile. Così, dedica tutta la propria attenzione al pasto e conclude in quel preciso momento il discorso sconclusionato.

 

Kuro è nuovamente uscito all’esterno assieme a Kagehira, alla ricerca di fili sottili di metallo che possano fare che congiunzione tra arti diversi, come veri e propri tendini. Anche di qualcosa di sferico e piccoli chiodi, diversi altri oggetti particolari che con qualche fortuna riusciranno a trovare nei nuovi carichi arrivati da poco, nell’ultimo trasporto rifiuti dalla città di quella mattina.
Hanno lasciato per lui dell’acqua, bollita in precedenza per non lasciarvi entro niente che possa nuocere alla sua salute, e una serie di confezioni di noodles e altri cibi tipici precotti, perché possa soddisfare eventuali necessità di fame e sete.
Keito ha pensato all’eventualità di rimanere, solo, semplicemente seduto al tavolo della cucina a contemplare il vuoto per quelle ore di nulla, aspettando il ritorno dei due ospiti sotto quel tetto. Lo ha pensato ma non troppo a lungo, perché alla stessa ammissione dell’esistenza di un problema, di un’incrinatura o di qualcosa che lo trattiene in quella stanza artificialmente, trova insopportabile e intollerabile la sua esistenza.
Non permette a niente di turbarlo a quel modo, senza che neppure gli siano date delle risposte precise.
Guarda al di fuori della porta lasciata aperta quando lo scrosciare della pioggia acida ancora viene interrotto dal rombo di un tuono profondo. Si strinse d’istinto le mani al petto, in un ricordo che gli solletica la sensibilità della pelle - le sue mani sono quasi completamente guarite, ormai, grazie alle attente e amorevoli cure di Kiryuu.
Sente lo sporco sul proprio corpo, tra i capelli unti.
Non ha potuto lavarsi in maniera decente, e la latrina di quel cubicolo ricorda certi locali loschi e luridi che soltanto marinai disperati riuscirebbero a frequentare.
Avrebbe diversi motivi, e ne ha avuti, per concedersi all’isteria mentale e fisica. Troppo poco tempo per razionalizzare e nessuna preparazione: per quanto sia pure cosciente di essersi cercato da solo tutto quello che gli è capitato, inseguendo Kuro invece che interrogarlo adeguatamente in un posto sicuro dove la tecnologia funzionava e poteva essergli d’aiuto, imputa al collega dai capelli rossi buona parte della colpa.
Per aver cospirato contro di lui, contro la Yumenosaki Company, contro la città intera.
Ma cammina dritto, sicuro e padrone di sé, entrando di nuovo nella stanza della teca e andando incontro, volontariamente, a Mademoiselle.
Che con un altro inchino, lo saluta in maniera cordiale.
-Hasumi-san!
La porta scorrevole si chiude alle sue spalle, e c’è di nuovo silenzio attorno a lui.
Si avvicina piano a lei, a quella creatura strana. Guarda il cappello abbassando gli occhi per un solo istante, poi si ferma così vicino alla teca da vedere tutti gli ingranaggi di quel petto lasciato aperto, esposto alla vista.
Cerca di non essere troppo duro, nel tono della voce.
-Non comprendo chi tu sia.
Mademoiselle ripete quello che sembra essere un ritornello preimpostato, assomigliando così dolorosamente a una macchina che lui ne è irritato forse in maniera eccessiva.
-Piacere di conoscerti, Hasumi-san. Io sono Mademoiselle, e parlo a nome di Shu-kun.
-Questo l’ho capito!
Sospira, lei lo guarda come se non comprendesse davvero il motivo della sua ira - o è solo un’impressione che lei possa esprimere così bene le proprie emozioni, dopo tutti quei giorni di prigionia a stretto contatto con esseri bionici.
Socchiude gli occhi e si massaggia la parte più alta del naso, tra pollice e indice.
-Io pensavo che l’Intelletto di Itsuki fosse stato distrutto assieme al corpo, ma evidentemente Kiryuu è riuscito a recuperarlo e a metterlo in te.
Poi la indica, mimando una certa rassegnazione, una certa tristezza e delusione che, immagina, siano state di Kuro.
-E ha ottenuto questo.
Mademoiselle non risponde subito a quell’accusa implicita, pare considerare con estrema precisione le parole da pronunciare. I suoi ingranaggi facciali, attorno all’Intelletto interno, vorticano piuttosto frenetici producendo un rumore ticchettato di orologio che conta cinque secondi in uno.
Lei non sbatte le palpebre, rimane in una posa quasi mostruosa e indifferente, che per la prima volta da quando si trova in quel posto mette davvero molto a disagio Keito.
Ma quando ormai pensa, convintamente, di averla mandata in corto circuito, e che quanto da lui affermato sia stato troppo complesso per lei - le insinuazioni stuzzicavano la coscienza bionica ma mai venivano registrate come qualcosa a cui rispondere particolarmente, perché molti di loro erano sempre stati incapaci di formulare malizia, altrui e propria - ecco che lei sbatte di nuovo le palpebre e gli risponde, pacata.
-La tecnologia robotica ha fatto passi da gigante grazie alle enormi capacità di Rei Sakuma. D’altronde, l’Intelletto bionico è un’invenzione sua, e ha rivoluzionato questo mondo e tutta la vita dei robot.
Keito si ritrova ad ascoltare una risposta dettata da diversi passaggi mentali che lui può solo immaginare. Finalmente è cosciente di avere una vera e propria conversazione con quell’essere, e con una semplicità naturale e immediata si apre a un dialogo.
Duro, stretto, sgradevole, ma pur sempre un dialogo.
-I robot non hanno vita.
-Questo è estremamente scortese da dire.
-No, questa è la verità. Tutta la nostra legge e tutta la nostra morale si basa su questa differenza fondamentale.
Keito ricorda Wataru Hibiki, consulente tecnico dell’allora presidente del loro Parlamento degli Eletti. Da lui era uscita la proposta, respinta con forza e determinazione, di equiparare gli esseri biologici con gli esseri bionici dotati di Intelletto dalla terza generazione in poi. E vibra di terrore, come ogni volta che rimembra quel viso affilato e quegli occhi così intensi, così profondi.
Avrebbe generato solo terrore, in tutta la Nuova Terra.
La coscienza di Mademoiselle, però, pare egualmente alla sua davvero molto presente.
-Per questo, voi trattate i robot ancora come schiavi.
-Trattiamo i robot come devono essere trattati, ovvero oggetti.
-Anche Shu-kun per te era un oggetto?
-Certamente.
Forse sorride, forse cerca un’espressione divertita in parti del proprio corpo ancora mancanti, perché la voce di lei si inclina un poco ed è più ferrosa, più alta.
-Mi chiedo allora come mai insisti a dargli un nome, se per te era solo tale. Il nome non è forse parte fondamentale dell’identità specifica di ogni essere umano? La base su cui tutto si erge, la vera e unica proprietà di ogni uomo?
Contropiede, davvero astuto. Il dialogo si sposta su principi filosofici e morali che sono, di propria definizione, totalmente umani, giocando in un campo che vede in svantaggio unicamente Keito, almeno secondo il pensiero logico dello stesso uomo.
Perché se così non fosse, dovrebbe ammettere di star sbagliando, e dare una morale, e quindi anche un’anima, una sensibilità, a quell’oggetto che si trova davanti.
Mente, costretto in una morsa troppo stretta attorno a sé.
-Non ho idea di quale fosse il suo numero di matricola.
Silenzio, ancora altri ingranaggi che vorticano furiosamente.
La schiena di Mademoiselle si tende tutta, dritta come un palo; braccia dritte lungo la linea dei fianchi, tutto il corpo che partecipa a un’emozione che pare tanto calda, tanto forte.
Una tempesta dentro quel fiato artificiale.
-Bugiardo.
Ha non una voce, non due, non tre. Ha la voce di tutti i robot costruiti con il metallo - di Shu Itsuki, di Kanata Shinkai, di Rei Sakuma, di Natsume Sakasaki, persino di quello che fu Wataru Hibiki prima che per sopravvivere non è stato costretto a impiantarsi un cuore umano, alieno alla sua vera natura.
E Keito non sa a cosa lei si stia riferendo: se hai propri sentimenti, se alla propria memoria, se sia invece un semplice quanto perentorio giudizio morale che non gli dà alcun tipo di scampo, inquadrandolo in un’area fin troppo limitata.
Poi cambia di nuovo tono e torna a essere semplicemente Mademoiselle, piena di commiserazione.
-Provo molta tristezza per te, che non riesci a comprendere il dolore altrui.
L’uomo si ritrova ancora davanti al bivio dell’ammissione, perché nel mostrarsi toccato da quel tono così denso le farebbe vincere quella sottile competizione. Così, come in una battaglia, attacca nell’unico punto in cui sente di aver manovra più o meno precisa, più o meno profonda.
-I robot non hanno sentimenti. Tutto ciò che loro credono di provare, non sono altro che imitazioni di reazioni standard emotive umane. Ammetto che ci riescono molto bene, ma sono tutte cose artificiali.
E pare anche essere riuscito ad affondare bene, dato il silenzio prolungato in cui l’altra si chiude. Sa però di non aver ancora concluso lo scambio, soltanto perché i suoi ingranaggi continuano a vorticare - allo stesso ritmo della pioggia, a quanto sembra.
Sembra fargli un cenno, perché il suo capo si muove piano in un unico gesto.
-Hai mai visto un cervello bionico, Hasumi-san?
-Non me ne intendo di robotica.
-È identico a quello umano.
Keito non comprende e Mademoiselle non gli dà il tempo di formulare un pensiero o una risposta a quella precisa sentenza. Rimane sempre con un tono pacato e tranquillo, ma le sue parole fanno vibrare tutto, ancora una volta.
​-
Se è vero che noi siamo soltanto un’imitazione, certo il nostro creatore doveva essere molto crudele. Più o meno come il vostro, che non ha creato nient’altro che immagini a somiglianza di un ideale tutto suo.
Filosofia e credo, arti più puramente umane; espressioni dimenticate spesso, tra il rumore degli ingranaggi meccanici e i colori così forti e decisi con cui si dipinge la Capitale e tutto ciò che le sta attorno, su quel pianeta coloniale.
Keito non sente parlare di Dio da quanto è stato ragazzino.
Ma qualcosa deve ammettere, davanti a lei, anche a causa di alcuni ricordi affiorati così tanto dolorosamente nel proprio petto.
-Vedo che qualcosa di Itsuki ti è rimasto comunque dentro.
Lei ancora tenta di sorridere e formula un inchino, per confermare in maniera semplice le sue parole: Shu Itsuki era blasfemia vivente di per sé, e in più riusciva nella sgradita attività di non comprendere alcuna Luce Superiore che potesse gestire la vita umana così com’era - lo chiamava senso pratico, scienza e mille altre forme della stessa forza di volontà, ed era per quello che era molto inviso da parecchi poteri forti.
Lei è più gentile di quanto non sia mai stato lui, ma nel vortice di pensieri pare che ci siano davvero, diversi punti di incontro.
-Io conservo tutto, di Shu-kun. Ricordi, emozioni, sentimenti, amore per l’umanità. Anche il terribile dolore che ha provato verso la fine, e che ora gli impedisce di parlare.
Alza il dito indice, come a indicare un punto preciso nella linea temporale - la segue con gli occhi, questa idea, pare star raccontando qualcosa che rimane nella sua immaginazione.
Piena di malinconia e tristezza.
-Oh, lui ha potuto comprendere soltanto alla fine quanto l’essere umano fosse perfetto così com’era, senza sbavature o imperfezioni…
La mano si abbassa e la sua voce sembra sul punto di un pianto impossibile.
-Lo amava così tanto.
Rincorre un ricordo preciso, un’emozione che è esistita davvero: la causa di tutto quello che era successo negli ultimi tre mesi di vita di Shu. Keito non si chiede neppure se l’oggetto di tale finto amore fosse una persona precisa oppure semplicemente il genere umano tutto - perché lui ricorda ben altro, di quei tempi, ovvero di una delle cause scatenanti la Depurazione, o come diceva l’opinione pubblica la Guerra contro le Grandi Macchine.
Non ebbe la minima pietà.
-Ricordi anche quando Itsuki ha ucciso Nazuna Nito?
Tutti i meccanismi di Mademoiselle impazziscono, vorticando troppo velocemente.
Sì, ricorda anche quello. Sì, ricorda tutto il dolore di Shu.
Sì, ricorda quel tragico delitto come se avesse ancora in mano gli attrezzi da chirurgo di biomedicina.
Cadono, dai bulbi oculari bianchi, lacrime nere di petrolio.
-Nito…
E poi tutto si spegne, come appassito.

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Capitolo 6
*** 5. Piogge acide - Tentativo di fuga ***


5. Piogge acide - Tentativo di fuga




 

Le dita di Kuro stringono forte le terminazioni di aggancio, e con un gesto che ha ripetuto moltissime volte, le infila con precisione nella nuca del robot, scivolando poi indietro con la mano e così agganciando il display di controllo a tutta la struttura.
Codici e sigle tornano a scorrere inesorabili sopra lo schermo, in un testo che lui analizza con una certa apprensione, un certo trasporto.
Ha pensato che ci fosse qualche malfunzionamento dell'apparecchiatura non ottimale, quella mattina, quindi ha ricontrollato lo stato di ogni aggancio, di ogni filo e di ogni attrezzo usato negli ultimi giorni. Non trovando nulla che non andasse.
Ha fatto quindi tre volte il backup completo della struttura dell’Intelletto, almeno per quanto riguarda la componente meccanica della cosa, ma anche in quel caso non è riuscito a trovare nulla che già prima non era presente.
E Mika è stato tutto il tempo con lui, presente alle azioni della sua frenesia, a condividere la sua ansia e la sua preoccupazione con Intelletto e corpo.
Kuro, davvero, non è intenzionato ad arrendersi, ma ha paura che ciò che è accaduto a Mademoiselle vada oltre la sua capacità di comprensione, e il guasto arrivi lì dove la sua dote meccanica non arrivi.
Sussurra a un certo punto, incredulo.
-Non capisco perché non parli più.
Mika gesticola con le mani - neppure Kuro sa dove abbia appreso quell’espressione di ansia, ma è particolare almeno quanto il pallore dei brandelli della sua pelle, così espliciti che fanno male alla vista soltanto.
-C’è qualche problema con i circuiti della comunicazione? Gola e bocca sono ok?
-Nessun danno di nessun genere.
Mika guarda Mademoiselle, ancora muta.
Lei si muove piano, in suoni meccanici e acuti tipici dei prototipi non ancora completi di robot e cyborg, come se avesse non altro che congiunzioni di arti e pezzi fatti da mani troppo inesperte. Forse tenta anche di sorridere, e rimane priva di rumori articolati ed espliciti.
Tende una mano verso di lui, e Mika si ritrae ancora di più.
-Forse si sarà stancata di parlare…
Kuro registra fin troppo bene, fin troppo dolorosamente, il tono appassito di lui. Come se ogni speranza di giungere al traguardo predisposto fosse morta assieme alla parola di lei.
Non può accettare la sconfitta così.
Appoggia quindi il display a terra, dal momento che la lunghezza dei cavi non permette di fare altrimenti, e si rivolge al compagno con quanta più decisione nella voce gli riesce. Sperando, così, di contagiarlo con un poco di positività.
-Intanto continuiamo con il lavoro, dopo risolveremo anche questa cosa.
Vedendo però che il robot non reagisce, abbassa lo sguardo e non parla ulteriormente. Fa per avvicinarsi al tavolo, dove il giorno precedente ha abbandonato il proprio lavoro, quando ecco che Mika parla di nuovo, pronunciandosi in tutto se stesso.
-E se non parlasse mai più? Se ci fosse qualcosa che glielo impedisce e glielo impedirà per sempre?
Lo guarda con occhi sgranati, le iridi dai colori diversi che luccicano di una qualche strana emozione, che in maniera così repentina ha preso il suo Intelletto e lo ha trasformato in una cascata di cose. Veloci veloci, pensieri e ipotesi.
Kuro ha difficoltà ad arginarlo, quel fiume in piena - quella tempesta che scatena tuoni e fulmini.
-Io non conosco il linguaggio dei segni, non ho la memoria adatta per il linguaggio non verbale tra i robot, sarò destinato per sempre a non capirla?
-Kagehira-
-Ryuu-kun-senpai! Come farò? Come farò a parlare di nuovo con lei?
-Stai calmo!
Si trova costretto a urlare, a usare la propria forza fisica per ammutolirlo sia dal terrore sia dallo spavento. Ma d’altronde, di fronte a una crisi di panico quella è l’unica reazione di cui è capace.
Lo prende per le spalle e pare che lui tremi, ingoiando una parola di troppo che ha timore di dire. Kuro si rende conto di aver esagerato e cerca, piano, di rimediare anche a questo.
-Non agitarti, non sappiamo neanche cos’abbia. Non- fare così.
Mika abbassa lo sguardo: lo rialza soltanto per guardare lei, che intanto pare essersi scomposta in un’espressione e in una posa che riflettono la preoccupazione di lui.
-Se lei muore- se anche lei muore e non si risveglia più, io non ho più bisogno di essere vivo.
-Non dire così!
Ancora un urlo - le mani attorno alle spalle di Mika si stringono, forti, metallo contro metallo.
Kuro abbassa la testa, facendo cadere i propri capelli rossi verso il pavimento, in una cascata vermiglia che scherma l’espressione del suo viso contratto. Mika non sa, né vuole indovinare, se sia rabbia oppure tristezza ciò che lo muove alla preghiera successiva.
-Te ne prego, è già abbastanza difficile.
Il dolore, in quel caso, li rende distanti. Forse perché la speranza li ha uniti così tanto, forse perché nessuno di loro è stato mai abbastanza forte da reggersi da solo sui propri piedi, di fronte a qualcosa di così grande come la morte.
Disperatamente, entrambi, credevano di aver già vinto.
Poco a poco, la presa di Kuro si fa blanda, si ammorbidisce fino ad annullarsi: Mika quindi si muove verso Mademoiselle, si china a terra e abbraccia, ingloba all’interno del proprio corpo, il cappello a cilindro che è stato di Shu Itsuki.
E comincia a piangere, quasi in silenzio.
-Maestro… Maestro…
Kuro rimane a fissare la sua schiena per qualche minuto - paiono, per lui, ere interminabili, perché troppo faticosa e terribile è quella visione - e poi lento si trascina via, passo dopo passo.
Mika non si accorge neppure di essere rimasto solo nella stanza, quando la porta scorrevole di metallo si chiude dietro le spalle dell’uomo dai capelli rossi.
Keito guarda l’altro arrivare e prendere posto al tavolo, in silenzio, avvicinando la mano al pacchetto di bocconcini di carne essicata che lui ha lasciato aperto sul tavolo, spiluccando mentre sorseggiava del brodo bollente.
-Certo che è incredibile.
Kuro alza lo sguardo alla sua persona, al suo viso. Il collega non sta guardando un punto preciso della stanza, si è poi abituato a non tenere occhiali da vista per quanto le cose troppo distanti gli sfuggano nella precisione. Piuttosto, pare contemplare il vuoto, e riempirlo con i propri pensieri.
-Questo attaccamento che ha nei confronti di Itsuki.
Solleva la tazza e ne dirige un cenno verso quella che pensa sia la direzione in cui si trova Mika. Non gli è stato proprio possibile non sentire il loro scambio, e tutta la pantomima che ne è nata.
Kuro sospira di nuovo, piano, e lentamente mastica quel pezzo si snack che gli si è incastrato tra i denti, mentre le parole rotolano stanche fuori dalle sue labbra.
-Itsuki era come un padre, per lui. Non c’è sta stupirsi.
-Il concetto di creazione sembra essere piuttosto popolare, tra i robot.
-Kagehira conosce bene anche il concetto di termine e di fine. Forse troppo.
Le parole che l’uomo dai capelli rossi pronuncia sono pesanti, molto. Implicano, per chi ha una minima conoscenza dei fatti avvenuti durante la Depurazione, il riconoscimento di possibili traumi legati al dolore, legati alla perdita, legati al fatto che Mika è stato presente sulla scena del suicidio di Shu, a differenza sua.
Cosa che gli ha sempre imputato come grave colpa.
Keito non aspetta che Kuro si spenga di nuovo, in un mutismo pallido ed emaciato. Si alza dal tavolo e per la prima volta fa qualcosa verso di lui, nella sua direzione: versa del brodo in una tazza chiara e gliela mette davanti, sul tavolo.
Kuro lo guarda sedersi di nuovo senza riuscire a sorridere o a ringraziarlo, ma accetta quel caldo dono.
-Tu non hai idea del perché ora sia muta, vero?
-Stai insinuando qualcosa, forse?
-Sei rimasto molto tempo da solo con lei. Può essere capitato di tutto, nella tempesta.
Sebbene Keito ne sia risultato infastidito, nelle parole e nel tono del collega non c’è stata tratta della minima malizia.
Fa finta di non averlo capito, anche se la seconda volta risponde direttamente alla sua domanda.
-Non ho idea di cosa le sia successo, Kiryuu.
E poi precisa, perché è necessario alla conversazione ma specialmente al suo umore.
-Né mi interessa particolarmente, a dire il vero.
Kuro non ribatte, davvero troppo stanco per affrontare un dialogo su quel genere.
Sorseggia il proprio brodo, lascia che lo scaldi dall’interno e che scongeli un poco il freddo che gli attanaglia le dita: lo sente piacevole, anche se non sono le terminazioni biologiche con cui è nato. E per un attimo, si perde a fissare la propria mano.
Almeno finché Keito, accanto a lui, non sospira.
-Vorrei chiederti per quale motivo stai facendo tutto questo. Ma non sono sicuro che tu sia in grado di rispondermi in maniera sincera.
In un altro momento, Kuro avrebbe trovato forse più dolce quella confessione, quella richiesta così impacciata. Keito cerca di aprirsi a lui, a un dialogo che non è composto di sole accuse, e lo fa alla propria maniera.
Però il cyborg ha il cuore a pezzi e lo sguardo che trema, non riesce a cogliere sfumature troppo sottili.
-Questa non è un’insinuazione, Hasumi. Questa è un’accusa precisa.
-Non lo nascondo.
Vibra ancora, immobile.
Solo il calore della tazza riesce a ricordargli di essere vivo, in quella stanza così fredda. Ancora non ha smesso di piovere.
-Sei venuto qui in un momento molto particolare, e me ne dispiace.
Per un attimo, i loro sguardi si incontrano. A quella distanza Keito riesce a focalizzare bene diversi dettagli, e Kuro vede quanto i suoi occhi siano liquidi, quanto esprimano un tentativo di compassione tutta umana.
Per lui, non per Shu. Non può accettarlo.
China il capo e si nasconde dietro i propri capelli.
-Non ho intenzione di mettere nei guai l’azienda.
-Lo hai già detto, ma questo non significa nulla.
Trattiene poco i propri sentimenti, perché proprio su quelli dovrebbe basarsi la fiducia che li lega. Ma capisce anche che Kuro non ha intenzione di ricambiare il suo desiderio e la sua empatia, chiudendosi lì dove non potrebbe mai raggiungerlo.
E lo ferisce, lo umilia, lo mortifica.
Abbassa lo sguardo e lo provoca, perché solo quello gli è rimasto da fare.
-E dopo che Itsuki sarà costruito di nuovo, che intendi fare? Darti alla macchia con lui e quell’altro sgorbio? Fuggire dalla Capitale?
-Potrebbe essere un’idea.
La sua risposta certo lo stupisce parecchio, tanto che non si accorge di alzare la voce.
-Non dire assurdità! Non è vita degna quello degli uomini dello spazio!
Kuro però rimane rannicchiato sulla propria sedia, a contemplare la superficie liscia del brodo sul fondo della propria tazza.
-Sempre meglio che rimanere qui.
Keito si calma, ma solo in apparenza. Il gelo del suo sguardo non è razionalità, come sempre è stato: l’argine rotto sta lasciando andare tutto ciò che è stato trattenuto fino a quel momento.
Sono un serpente sibila piano, perché non serve usare un tono di voce alto per essere letali, spietati.
-La verità è che tu non puoi arrenderti alla sua morte. Stai proiettando tutti i tuoi sentimenti umani su quello che è un cadavere freddo, quando dovresti semplicemente elaborare il tuo lutto.
E l’anima già resa sensibile di Kuro registra ogni sfumatura di questa intenzione.
Lui alza finalmente lo sguardo su di lui, ed è come se fosse di nuovo pronto a colpirlo con un pugno - fa molto più male di quello che Keito ricorda, perché è stata solo una bugia l’illusione di poter affrontare quella sua furia.
-A volte sembra che sia tu, quello con un cervello bionico. Neanche Itsuki sarebbe riuscito a dirmi qualcosa di così cattivo, con una tale indifferenza.
Sbatte la tazza bianca sul tavolo con forza, facendo schizzare brodo caldo un po’ ovunque.
-Fino a dove hai intenzione di spingerti per soddisfare la tua vanità, Hasumi?
Keito non rimane passivo, trova le parole giuste con le quale tentare, ancora una volta, di ferirlo lì dove sa essere più debole e indifeso.
Con convinzione, con tutta la malizia di cui non è stato capace in quei giorni.
-Se fosse stato umano, non avresti avuto la possibilità di ricostruirlo.
-Se fosse stato umano, probabilmente non sarebbe stato costretto al suicidio!
L’uomo dai capelli rossi si alza dal tavolo, di scatto, e per un attimo Keito si irrigidisce troppo, diventa tutto un fascio di nervi che esplode proprio al momento sbagliato e nel modo peggiore possibile.
-Ma tu cosa ne puoi sapere! Tu non ne hai mai visto uno nascere, non ne hai visto uno morire-
-Ho visto cos’era capace Rei Sakuma.
Anche lui vorrebbe avere la pretesa, a quel punto, della comprensione di quel mondo. Forse perché, senza un poco di elasticità mentale, si sembra solo stupidi.
Ma Kuro non gli risparmia quella limitatezza mentale che ha mostrato così apertamente: perché non può credere di salvarsi proprio all’ultimo, quando ormai tutto affonda nell’acqua torbida e non galleggia più niente sulla superficie.
La pioggia acida trascina tutto in profondità dimenticate e oscure.
-Evidentemente non è stato abbastanza.
Ed è quasi odio, quello con cui lo guarda.

 

Silenzio.
Kuro è riuscito a convincere Mika ad accompagnarlo all’esterno, per l’ennesima ricerca: l’uomo solo, che semplicemente trascina una carriola attaccata a mani impossibilitate a muoversi, sarebbe ben poco utile alla loro causa. Non possono ancora dichiarare la resa, anche se il conflitto si è fatto evidentemente più arduo per la loro parte.
Mademoiselle, d’altronde, non si è neppure più mossa, ed è rimasta come una pietra all’interno della propria teca. Una bambola rotta e null’altro, fragile e delicata.
Keito non ha più voluto entrare in quella stanza. Come Kuro i primi giorni, è rimasto appollaiato sopra una sedia mezza sfaldata, stretto come ha potuto in una coperta che è riuscita a coprirlo soltanto a metà. Per l’intera mattinata, ha accusato dolori alla schiena e alle spalle, ma non ha dato voce ad alcuna lamentela, rifiutando caparbio la comunicazione.
Silenzio.
Pare un punto di svolta: Keito si accorge che non piove più, che un minimo di luce grigiastra filtra dalle nubi scure del cielo e avvolge tutto il mondo con un’atmosfera di mattina uggiosa, davvero molto malinconica. I tuoni si sono ritirati tra le pieghe gonfie delle nuvole, i fulmini cadono all’orizzonte lontano dove nessun Sole o nessun’altra stella centrale possa domarli un poco.
L’uomo lascia cadere la coperta dalle proprie spalle, incredulo, fissando il cielo che li sovrasta. Basta uno spicchio di aurora per procurargli un moto dell’animo così abnorme, così folle. E muove il primo passo oltre la porta dell’ingresso, circospetto, aspettandosi forse che capiti qualcosa.
Testando, più che altro, il proprio spirito.
Non si guarda indietro al secondo e al terzo passo, poi pausa. Persino la Discarica, quel pomeriggio, sembra avere un aspetto diverso, perché mille colori diversi e non solo la semplice ombra denotano forme vagamente precise che danno più senso e meno angoscia a quelle montagne di metallo.
L’uomo sorride nervoso e comincia a correre - e non sente davvero il flebile richiamo che proviene dall’interno di quell’abitazione d’emergenza.
Corre come può, con i muscoli tutti indolenziti e freddi. Corre in direzione della Fornace, perché i suoi fumi neri sono l’unico punto di riferimento che può avere, lì in mezzo. Rimane ai piedi dei grandi colli di rottami, scavalca con poche difficoltà i piccoli tumuli di detriti e tubi, la distanza non sembra diminuire mai ma non importa, non importa davvero.
Si accorge che il cielo è diventato totalmente scuro soltanto quando non riesce più a distinguere le forme degli oggetti che lo circondano, e il mondo diventa ancora una volta un immenso mare in tempesta.
Si ferma a riprendere fiato e sente, lo percepisce distintamente, il peso della prima goccia di pioggia che gli cade sulla spalla, lì dove è un minimo riparato dai propri vestiti sporchi. Alza il viso al cielo e un’altra goccia cade, sulla sua guancia: brucia tantissimo.
Si rannicchia a terra per il dolore e rotola in avanti, riprendendo a correre come può. Senza occhiali ha persino paura di avvicinarsi troppo alle cose, senza luce ancora di più, ma non può permettersi di rimanere esposto a quel modo.
Se per qualche secondo pensa di poter andare avanti, poi gli balza in testa l’idea di tornare indietro - la Fornace gli è parsa davvero troppo lontana per essere raggiunta, e di metri, di chilometri dall’abitazione di Kuro e Kagehira non può essersi distanziato troppo.
Spera, davvero.
Si volta indietro, inciampa e riprende a correre. Brucia il viso e cominciano a bruciare anche le mani, colpite da una pioggia sempre più insistente, sempre più scrosciante.
Sente l’arrivo del primo tuono - vede la striscia di verde intenso che spacca a metà le nubi - e trema di paura, scosso in ogni fibra del proprio essere.
E non riconoscendo più il luogo né il tragitto fatto, si rende finalmente conto di essersi perso una seconda volta.
Si ritrova quasi addosso alla carcassa di una vecchia automobile senza più finestrini. Tenta di aprire la prima porta a mano, dacché il sistema di controllo automatico certo non può funzionare lì; tenta anche con la porta dall’altro lato, sperando che si apra e lo faccia entrare e mettere quindi al riparo. Solo al quarto tentativo, uno strappo alla spalla e moltissime bestemmie gli permettono di entrare.
Si distende sui sedili posteriori, in modo da avere maggior riparo possibile. Riprende a stento fiato e si scioglie in un pianto isterico, davvero disperato. Trema impossibilitato a controllarsi, e sobbalzando ogni volta che sente un nuovo tuono mandato dal cielo impietoso.
Kiryuu non l’avrebbe mai trovato, in quel posto. Qualcun altro, però, sì.

 

Vede il riflesso di una luce bianca, che schiarisce tutto. Va a intermittenza, come se provenisse da quegli apparecchi che esplodono prima di spegnersi per sempre: un serpente che gli gira attorno continuamente, senza mai fermarsi.
Alza appena il capo, cercando di rimanere sempre a riparo, e vede quest’energia bianchissima che continua e continua a vorticare attorno a lui, passando in una scarica candida da un pezzo di metallo all’altro: come se fosse l’idea del movimento che, da un cervello, venisse comunicata attraverso i neuroni al resto del corpo.
La macchina viene spinta in avanti da questa energia, poco a poco. Keito se ne spaventa, non capisce e rimane fermo a tremare. Cigola tutto, perché difficile è la manovra e la luce bianca non può permettersi di fermarsi, altrimenti morirebbe senza poter fare nulla.
Ma dal momento che si rende conto di non poter spostare un veicolo vecchio per chilometri e chilometri di strada con tutti quegli ostacoli, decide di provare un’altra via, quasi avesse un’intelligenza.
Suona, emette rumori ritmici. Una, due, tre volte.
Keito comincia a farci attenzione, interessato per lo più all’eventualità che voglia fargli del male, ed ecco che si accorge del significato di quel ritmo. Quattro, cinque, sei, sette volte.
Sta utilizzando quel metodo di comunicazione utilizzato per i primi robot per non vedenti e altre categorie umane deabilitate, che non avevano la facoltà del linguaggio propriamente detto - non ha idea del come quella luce sappia di poter essere capita, come quella luce sappia che proprio lui è in grado di decifrare quel tipo di codice.
Intuisce, dunque, che qualcuno che lo conosce abbastanza bene sta cercando di aiutarlo.
-Se-gu-i-mi.
Keito si alza dalla propria posizione e si consegna di nuovo alla pioggia, urlando alla luce di fare in fretta.

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Capitolo 7
*** 6. I codici di connessione - Lacrime umane ***


6. I codici di connessione - Lacrime umane




 

L’uomo è rimasto solo, nella stanza. Sul naso, pesa la montatura un poco fantasiosa, un poco rudimentale, di quegli occhiali che Mika Kagehira ha trovato per lui nell’ultima spedizione nella Discarica - qualcosa hanno migliorato, ma tutta la fatica degli ultimi giorni e le palpebre gonfie certo non si possono sconfiggere a quella maniera.
Le sue mani fanno fatica a stringere gli angoli della coperta di tessuto grezzo, poiché la fasciatura stretta sulle dita e sui palmi gli impedisce gran parte dei movimenti che vorrebbe compiere; si ritrova costretto a imprimere forza nel solo pollice e nel solo indice, cosa innaturale che gli procura diverso disagio.
Ma poco importa, dal momento che pure esprimere disappunto con il viso gli procura dolore: sicuramente, Kuro ha esagerato nello stringergli le garze attorno al capo, vendicandosi a quel modo non del tutto innocuo della preoccupazione sentita e di tutta l’ansia provata a causa sua.
In un certo senso, avrebbe potuto persino rifiutarsi di aiutarlo e lasciarlo quindi morire sotto la pioggia, come uno di quei tanti barboni senza dimora che, troppo incauti per colpa dell’alcool, si trascinano senza meta nelle strade delle loro periferie.
La cronaca giornalistica è sempre piena di ritrovamenti di cadaveri putrefatti, che scandalizzano i privati e onesti cittadini.
Per un solo secondo, l’immagine del proprio corpo sfigurato dalla pioggia e il viso sciolto a causa del suo acido gli riempie la mente - la scaccia subito, prima che possa attecchire e procurargli altri incubi per le notti future.
Sdraiato sul materasso del letto, sospira quasi ad alta voce.
-Perché mi hai salvato?
Sente Mademoiselle muoversi, anche se non la vede. Non sa dire, però, se sentire la sua voce sia una rassicurazione o l’ennesima tortura crudele.
-A Shu-kun sembrava che Hasumi-san necessitasse di un aiuto, e che fosse in guai seri.
La immagina prodigarsi in un inchino accorato, in una posa che vorrebbe chiedere clemenza di fronte a un malinteso piccolo, davvero troppo piccolo per essere considerato anche solo vagamente grave.
-Se ha errato nel proprio giudizio, chiedo scusa io per lui: è stata colpa mia, io ti ho visto andar via in fretta e mi sono preoccupata molto.
Mademoiselle ha reagito come avrebbe reagito ogni robot, dopotutto: valutando il pericolo per l’essere biologico, ha agito di conseguenza. È scritto nelle tre leggi antiche della robotica, la base stessa dell’Intelletto delle moderne creature cibernetiche.
Keito non si accontenta di questa conclusione logica, immediata. Sarebbe troppo semplice.
Si alza a sedere sul materasso, guardandola ben dritta.
-Come ci siete… riusciti? A fare quello che avete fatto.
Il robot pare si aspettasse una domanda del genere, in quanto conosce bene quella pulsione promotrice tipica di tutti gli esseri umani, chiamata curiosità. E avendolo previsto, rimane chino nella posizione assunta, assumendo un tono della voce quasi manualistico, ben lontano da ogni affettività umana.
-Impulsi elettromagnetici. È un poco difficile da spiegare, in realtà, e spero non ti dispiaccia se uso delle metafore per farti comprendere meglio.
Aspetta qualche secondo, in attesa di eventuali repliche, ma non sentendone affatto allora continua con la sua spiegazione più o meno precisa.
-Negli uomini esistono istinti innati, che derivano dal collegamento con antiche nicchie naturali in cui il vostro patrimonio genetico si è sviluppato. È una sorta di affinità con ciò che vi circonda, in quanto tutto materia organica. Ecco, la stessa cosa è per Shu-kun e questa discarica, in quanto fatti, ora o in passato, della stessa materia.
Mademoiselle non indugia su particolari quali la prima inventrice della sensibilità robotica né il mezzo con cui questa invenzione ha potuto realizzarsi. La signora Kiryuu ha donato ai cyborg e agli esseri bionici, simbolicamente, anelli del potere, in quel materiale così particolare e così unico da riuscire a metterli in comunicazione con l’esterno - e quindi donare loro il primo baluardo di coscienza. Poi, al resto, ha pensato Rei Sakuma.
Keito non sapeva, prima di questo momento, come questa particolarità dei robot moderni potesse essere sfruttata in questo modo. Si rifiuta di pensare a ulteriori implicazioni, perché non è proprio la situazione giusta. Ma continua con le proprie domande, calmo.
-Come sapevi di quel codice, esattamente?
Il robot muove il capo in un attimo, come colpito da quella domanda in maniera positiva. Si rialza e lo guarda direttamente, tralasciando inchino e altri ossequiosi convenevoli.
Anche dal tono della sua voce pare essere contenta - dacché è stata posta l’attenzione su un particolare di cui può fare vanto, di sé e del suo adorato.
-Beh, Hasumi-san. I codici facevano parte del lavoro di Shu-kun. Codici bionici e codici biologici, bisognava trovare le loro connessioni perché un nuovo tipo di organismo prendesse vita. E Shu-kun era molto bravo in questo, era un abilissimo sarto.
Espansione del sistema nervoso in modo che potesse adattarsi, senza ribellioni o rivoluzioni, a organismi così estranei e così diversi. Anche questo faceva un tempo parte del genio di Shu Itsuki, la sua arte così precisa.
Certo, il fatto che lavorasse anche sul sistema nervoso centrale, per lo più in fase sperimentale, lo rendeva sospetto e terribilmente pericoloso. E proprio quest’opinione lo aveva sempre reso malvisto anche agli occhi di Keito, che non manca di ricordare il modo maligno con cui molti erano soliti chiamarlo.
-Un burattinaio.
Mademoiselle non replica, conscia fin troppo di quello che è stato.
Keito si sente in dovere, a quel punto, di farle un’altra domanda.
-Cos’è andato storto, con Nito Nazuna?
Lei sembra congelarsi, sia nell’espressione assente sia nella posa. Non piange, non reagisce, i suoi meccanismi vorticano veloci quanto prima senza dare segno di una risposta emotiva particolare.
Keito lascia che scavi nella memoria e trovi il pensiero giusto per esprimersi, senza fretta.
-Vedi, Hasumi-san. In ogni istante della nostra esistenza noi esprimiamo la nostra volontà. A seconda delle nostre pulsioni, di vita o di morte, reagiamo agli stimoli esterni.
E poi ancora, malinconia.
-Nito non aveva più desiderio di vivere.
Keito è, finalmente, pronto a capire. A comprendere meglio una dinamica su cui non ha mai voluto indagare prima di questo momento.
Per lui, l’unica vittima del tragico errore di Shu Itsuki è sempre stato solo Nito Nazuna, ma a vedere quel robot così distrutto e a sentire le sue parole qualcosa si smuove dentro.
Se la sua paura era sempre stata che quelle macchine, le cinque Grandi Macchine, avessero trovato un modo per fuggire alle tre leggi e a tutti i loro corollari, pian piano si sta rendendo conto che è esattamente il contrario.
Le hanno abbracciate completamente, e hanno subito tutto il peso emotivo delle loro implicazioni.
-Perché?
Quasi piange, mentre sillaba quell’unica parola.
Mademoiselle muove ancora un po’ il capo e sembra fare un gesto di diniego.
-Shu-kun tiene questo segreto come una confidenza tra lui e il paziente. Non può rivelare a chi non è medico certi dettagli, sarebbe molto poco professionale.
Ma non importa, non importa davvero.
A Keito non importa davvero più.

 

Sembra che, per l’occasione un poco più speciale delle altre - che Keito sia riuscito a camminare da solo fino al tavolo della cucina e non sia morto, e anche che ora può vedere meglio i loro visi - Mika abbia deciso di cucinare davvero qualcosa che non sia liofilizzato o essicato e abbia messo all’interno del brodo di carne delle rape e delle erbe vere. Ovviamente, prese dalla riserva personale di Kuro, che però si guarda bene dal lamentarsene.
Noodles in quantità, di diversi gradi di piccante, e dei panini dolci riscaldati.
Tuttavia, benché le vivande assomigliano alle occasioni di vera festa, attorno al tavolo rimane ancorato un silenzio un poco teso, un poco costretto. Keito rimane immobile sulla propria sedia a fissare il vuoto, aspettando di essere servito con almeno qualcosa di tutto il cibo promesso, mentre proprio davanti a lui c’è Kuro che muove il piede destro freneticamente, contro il pavimenti, e le sue braccia incrociate al petto sono decisamente troppo strette per fare anche solo finta che qualcosa, la minima cosa, vada bene.
Mika si spaventa, infatti, quando lo sente parlare a quel modo così astioso - come se fosse un cane pronto ad attaccare l’invasore.
-Non saresti dovuto andare.
Ma il robot non interviene, perché ha capito che non sta parlando con lui, quanto piuttosto con l’altro uomo seduto a quel tavolo. E Keito sbuffa, perché se all’inizio poteva anche sentirsi un poco mortificato per quello che è accaduto, arrivati a quel punto non riesce proprio più a giustificare la preoccupazione del collega.
Non alza la voce, non è neppure troppo irritato: semmai, si potrebbe dire che è esasperato.
-Kuro, è la sesta volta che me lo dici.
Kuro riserva un’occhiata a lui e poi al suo corpo, alle sue bende, assumendo una posizione nel confronto verbale di chi ha assolutamente e totalmente ragione. Senza lasciargli neanche uno spiraglio di contesa.
-Avevamo detto dopo la tempesta.
-Non pioveva più quando sono uscito.
-Noto!
Keito ha ancora le palpebre gonfie, ma Kuro non sa che i suoi occhi sono rossi perché ha pianto a lungo; certo Keito non ha intenzione di rivelarglielo, assumendosi la responsabilità anche di quell’ulteriore preoccupazione.
L’uomo dai capelli rossi, vedendo che l’altro non ha intenzione di scusarsi di nuovo né di replicare, sbuffa davvero scocciato.
-Se non fosse stato per Icchan-
-Icchan?
Indurisce ancora di più lo sguardo, correggendosi senza dare alcuna spiegazione del proprio errore.
-Itsuki. Se non fosse stato per Itsuki, probabilmente saresti morto sotto quella pioggia.
Cala un silenzio tale che si sente il rumore della pioggia fine, proveniente dall’esterno, e dei borbottii dell’acqua che bolle, assieme a tuberi e le altre cose che contiene. Kuro ha smesso di muovere il piede, almeno, anche se ha cominciato a muovere il dito indice contro il metallo del proprio bicipite, nello stesso movimento irritato.
Mika, fortunatamente, decide di intervenire proprio in quel momento, e voltandosi verso l’ospite con gli occhiali gli allunga la prima ciotola di noodles molto piccanti.
-Per fortuna Mademoiselle ti ha visto andar via! Lei ha lo stesso spirito generoso del Maestro!
Keito accetta quando portogli - e ringrazia la sua gentilezza e il suo buon animo per avergli dato una motivazione perché guardi qualcosa e si distragga degli occhi infuocati del collega. Senza ricordare quanto il piccante tenda a bruciargli la lingua oltre il tollerabile.
Da quando è tornato indietro, non sente più alcuna ostilità tra sé e il robot. Non si tratta solo del fatto che lo ha visto in fin di vita e si è preso cura di lui, né che si è mostrato tanto preoccupato quanto lo è stato Kuro, per quella persona che non ha fatto altro che insultarlo.
Più sottile, più intimo, più una semplice sensazione di quiete.
Mangia piano bocconi piccoli, bevendo allo stesso tempo lunghi sorsi di tè verde per raffreddare il calore all’interno della propria bocca. Sente piacevolezza e calma ovunque, nonostante la tensione con l’uomo che si trova davanti.
Niente che possa davvero più metterlo in agitazione.
E calmo, richiama l’attenzione del robot.
-Kagehira. Cos’è per te, Mademoiselle?
Lui si volta nella sua direzione, facendo un appunto ben preciso.
-Forse intendi chi è, semmai.
Corrucciato, gli punta il dito contro, un poco accusatorio. Ma Keito riconoscere il proprio errore, e china il capo in segno di resa prima ancora che la contesa possa iniziare.
-Sì, scusami.
La sorpresa è grande sia nel robot sia nell’uomo dai capelli rossi, che immobili davanti a lui lo guardano esterrefatti. Certo, si meravigliano di una tale naturale gentilezza.
Il primo a riprendersi, con un gran sorriso, è proprio il robot, che decide di rispondere di cuore alla domanda che gli è stata posta.
-Lei è una cara amica del Maestro. La più cara in assoluto! Se c’è una donna esistente a questo mondo che lui ama, quella è Mademoiselle!
Forse è implicito che il suo sottolineare il sesso della creatura che Shu così particolarmente ama lascia presupporre che qualcun altro occupa già il lato dell’amore maschile - su un altro livello, in un’altra profondità, con conseguenze decisamente meno platoniche  - e questo particolare viene assorbito dalla mente di Keito quasi subito.
Ma proprio come tutti i dettagli importanti e sensibili allo stesso tempo, è bene che non vengano affrontati subito ma analizzati con più lentezza e attenzione. Così, l’uomo con gli occhiali decide di essere diretto in un’altra questione.
-E non trovi strano che viva proprio dentro il tuo Maestro?
Kuro decide di intervenire, perché teme che a parlare sia più che altro l’odio che ormai crede radicato nell’altro, e non vuole assistere a un’altra diatriba accesa e potenzialmente letale.
-Hasumi, queste domande-
-Vorrei solo comprendere meglio. Lui non è umano, voglio capire il suo punto di vista.
Keito lo guarda con occhi decisi, dopo averlo interrotto. Non ha la minima traccia di conflittualità nello sguardo, né di ogni altro sentimento negativo possibile.
Kuro adocchia Mika, per essere sicuro che il robot si senta a proprio agio - non nota segni, in lui, che gli indichino il contrario - e benché non totalmente convinto, lascia che lo scambio verbale continui tra gli altri due.
Appoggiato con il fianco al piano cottura, Mika torna a sorridergli e a rispondergli.
-Certo che è strano. Tutto il Maestro è strano. Il fatto che si comporti come un umano è strano. Ma strano non significa sbagliato, in un certo senso. Significa particolare, personale. Vuol dire che il Maestro è unico nel proprio genere.
Keito riesce a cogliere tutte le sfumature di quelle parole, finalmente. E non ascoltando i propri pregiudizi, le proprie ansie e le proprie paure, si rende conto di quanto tutta quella poetica di pensiero sia votata alla totalità della vita.
Un animo che necessita di così poco, come una premura disinteressata e un’empatia seppur difficile da codificare, profonda, è innegabilmente buono.
Il suo dito gratta il bordo della ciotola da cui sta mangiando.
-Ti ha detto lui, queste cose? Quando era ancora in vita.
Il robot scuote la testa con una certa energia, in segno di negazione.
-No, me le ha dette lei. Ma è come se me le avesse lui. Lui sta sempre dietro di lei e ci osserva e ci parla, sa davvero tutto.
Ha alzato anche il dito indice, destro, per spiegare meglio quel concetto. Che non noti l’incoerenza di quanto appena affermato è cosa abituale per Kuro, un poco meno per Keito, che invece non indulge in una situazione di pietà crudele e malinconica - come se Mika fosse, d’altronde, un povero orfano a cui emotivamente si deve portare rassicurazione.
Keito solleva le mani e tenta di imitare qualcosa, gesticolando in maniera molto goffa e impacciata.
-Quindi Mademoiselle è come… uno scudo, una maschera, per Itsuki? Qualcosa dietro cui si protegge e nasconde?
Kuro ripete la parola giusta, perché ancora vuole abbassare la guardia nei confronti dell’uomo con gli occhiali.
-Protegge.
Keito non rivolge neppure lo sguardo verso di lui, non dandogli la soddisfazione di sapere che la sua puntualizzazione potrebbe, forse, essere un fastidio per il suo ego. Ma lo fa però quando Kuro porge una domanda interessante.
-Da cosa dovrebbe proteggersi?
Mika alza le spalle, senza rispondere.
Seconda domanda interessante, che osa un poco di più.
-Da noi?
Ancora, nessuna risposta - Kuro è da una parte rassicurato, dall’altra ancora più spaventato perché non riesce ad ammettere altre alternative.
Quindi, Keito osa fare il passo successivo.
-Da se stesso. Non è forse vero?
Entrambi lo guardano, di nuovo.
Kuro è sul punto di negare qualsiasi cosa, che sia vero o che sia falso, ma non riesce a formulare nessuna risposta - e così Mika, che pare cristallizzato lì dov’è stato colto, nessun muscolo che risponde a qualche stimolo elettromagnetico.
Keito sapeva di avere ragione ancora prima che loro due glielo dimostrassero, non avendo prove contrarie.
Quella è d’altronde l’ipotesi più plausibile, l’unica con un vero senso. Ancora prima di essere chiamato Mostro, ancora prima di essere chiamato Sterminatore di Uomini, Shu si era già suicidato maledicendo da sé la propria anima. E ora che è stato richiamato a forza dall’inferno stesso, non può certo lasciarsi andare senza resistere.
Keito china il capo verso il proprio cibo, sospirando commiserazione.
-In psicologia si chiama dissociazione.
Tutti sanno cosa sia. Una malattia non così rara, da quando gli esseri umani sono diventati cyborg e hanno accettato dentro di sé parti bioniche. La separazione della persona tra corpo e spirito, tra ciò che si accetta e ciò che si rifiuta.
Finalmente Kuro reagisce e fa schioccare le dita, portando le proprie mani chiuse a pugno sopra la superficie orizzontale del tavolo.
-Sì, ma Itsuki è un robot, non può avere problemi del genere.
Keito scuote piano la testa, soffiando aria fredda sul proprio cibo, forse pensando che in questo modo diventi un poco meno piccante: non pensa ai propri gesti, troppo impegnato a pensare.
-I robot sognano, Kiryuu. Il principio del subconscio è in loro da diverso tempo. Non mi stupisco che le profondità del loro intelletto arrivino a un tale punto.
E non c’è più suono, oltre quelle parole.
Kuro non ha la forza di stupirsi che sia stato proprio Keito, proprio quell’uomo che con tanti altri si era dichiarato a favore del totale sterminio degli esseri bionici possessori di Intelletto, ha comprendere una cosa del genere. Lui è sempre rimasto lì, invece, a tergiversare su possibili errori tecnici, a dare la colpa a una materia fisica che potesse essere riparata, potesse aggiustarsi con la giusta cura.
Invece, avrebbe dovuto porre fin dal principio la propria attenzione su altro.
Chissà, si chiede con un solo angolo di coscienza, quanto si deve essere sentito disperato Itsuki, lasciato di nuovo solo.
Si alza di scatto e, veloce, va verso la porta scorrevole: entra nella stanza della teca prima ancora che Keito abbia registrato il principio di pianto nei suoi occhi.
-Ryuu-kun-senpai!
Mika tenta di fermarlo, di richiamarlo nella stanza dove sono presenti anche loro ma l’uomo con gli occhiali trattiene lui per il braccio, appoggiandovi sopra la mano piena di garze.
-Lascialo stare da solo con lei. Ne ha bisogno.
Il robot lo guarda pieno di preoccupazione, ma si fida del suo giudizio. Si avvicina di nuovo ai fornelli, notando solo a quel punto come i noodles si siano cotti troppo e che forse è il caso di condirli, prima che diventino una pappetta immangiabile.
Li scola e li inonda di sala, mettendoli in altre tre ciotole. Due per loro e due per il posto vuoto.
Prima di sedersi, Mika fa un’ultima domanda.
-Sta soffrendo molto, non è vero?
Keito lo guarda in silenzio senza osare dire la verità, in quel momento. E Mika comprende.
Prende posto sulla propria sedia e comincia a mangiare piano il proprio pasto.


 

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Capitolo 8
*** 7. Occhi di robot - Intimità di metallo ***


7. Occhi di robot - Intimità di metallo




 

Keito ha posizionato una sedia all’esterno della piccola abitazione, appena sotto la sporgenza del tetto - in modo da essere comunque riparato, pur trovandosi all’esterno delle quattro mura di metallo.
Ma mentre gli altri due hanno continuato a lavorare senza interruzione appresso a quella bambola silenziosa, lui ha fissato la pioggia a lungo, e la Discarica tutt’attorno.
Lunghi momenti di silenzio, la cui interna riflessione non veniva interrotta neppure dallo spaccarsi iracondo delle nuvole e dal manifestarsi prorompente di lampi, tuoni e fulmini.
E se non c’è il pensiero, nel susseguirsi di rimandi e richiami che può fare una mente libera dalle costrizioni emotive, c’è la ricerca e poi il ritrovamento di una pace rilassata che fa respirare piano, che nasconde persino il disagio del freddo e apre, l’animo e i sensi, al mondo intero.
​K
eito appoggia il capo indietro, contro il liscio metallo verticale, guardando il vuoto nella direzione avanti a sé. Il grigio della pioggia gli sembra nebbia, e la nebbia gli fa ricordare la casa in cui abitava durante l’infanzia. La sua famiglia, il Tempio, Eichi: tutta la parte umana che ha dimenticato assai volentieri sotto i strati di una paura senza risoluzione.
Non sobbalza neppure quando, finalmente, sente accanto a sé Kuro - che imitandolo nell’idea, ha a propria volta preso una sedia e lì vicino si è posato. Il suo profilo è sporco di grasso nero, la mano che gli porge regge in due dita un piccolo cilindro bianco. Involucro di materiale morbido e interno polvere compressa.
-Cos’è?
L’uomo dai capelli rossi, spettinato e lercio, gli rivolge un mezzo sorriso.
-Un vizio della gente non interessata alla propria salute.
Keito alza le sopracciglia, piuttosto perplesso. Non afferra ancora quanto offertogli, così che l’altro tenta di invogliarlo con altre puntualizzazioni.
-Tipo barboni o gente che vive nelle discariche.
L’altro uomo è ancora più perplesso, dopo quelle ultime parole - e a Kuro scappa un vero e proprio sorriso, di fronte alla sua espressione stranita.
-Ci sono altre persone oltre noi, qui?
-Certamente. Ma nessuno è così pazzo da uscire mentre piove.
L’uomo con gli occhiali non abbandona il proprio cruccio, neppure quanto ammorbidisce un poco l’abbraccio che lo lega alla coperta calda e confortevole e allunga quindi una mano per prendere il piccolo cilindro bianco. Lo guarda a lungo con un certo disappunto, non sapendo bene cosa farne.
-Come si-
-Metti in bocca questa parte…
Kuro non gli lascia neppure finire la domanda, perché è evidente che si è preparato a riguardo: gli indica cosa deve tenere tra le labbra e cosa no, in che modo farlo senza che quello cada oltre il suo mento o il cilindro venga spezzato tra i denti, liberando il proprio contenuto all’interno della bocca.
Lo guarda soddisfatto quando Keito finalmente riesce a reggere il piccolo oggetto nella maniera giusta.
-Così. E ora aspira piano.
Keito esegue anche quell’ordine, tenendo una mano vicino al viso perché teme che il cilindro possa cadere da un momento all’altro. L’estremo lasciato al di fuori delle sue labbra si annerisce, il piccolo oggetto retrocede e si ritira con la stessa forza e per la stessa lunghezza del respiro dell’uomo, liberando nella sua bocca e poi nei suoi condotti respiratori un fumo nero, dal sapore dell’anice.
Keito subito si libera di quel piccolo cilindro, prendendolo con forza tra le dita della mano messa in postazione, e comincia a tossire forte. Kuro non riesce a trattenersi diverse risa, alla vista delle sue lacrime e sentendo con quanto astio si rivolge di nuovo a lui.
-Hai intenzione di uccidermi, per caso? Che cos’è che mi hai fatto aspirare?
Il cyborg prende dalle sue dita la sigaretta e la porta alle proprie labbra, gustandosi due o tre respiri mentre ancora sorride nel guardarlo.
Dal suo naso e dalla sua bocca si liberano nuvole deboli e grigie, che morbide poi si sciolgono nell’aria e svaniscono senza opporre resistenza.
Ha gli occhi un poco lucidi anche lui, poi.
-Una pianta di questo pianeta. Dicono che sia un rilassante decisamente migliore delle medicine del vecchio mondo. Ma non mi ricordo come si chiami…
Il tono quasi dolce della sua voce distende il cruccio di Keito, e anche il tono delle proprie parole.
Sembra quasi una conversazione tra confidenti intimi.
-La fumi spesso?
-No, solo nelle occasioni speciali.
-E come mai questa è un’occasione speciale?
-Mi sono venuti in mente diversi ricordi, ultimamente. Non mi capita così di frequente.
-Ricordi con lui?
-Quando era ancora sano, sì.
Kuro conserva tutto, di lui e di loro due. Anche se rimembra spesso soltanto le poche cose felici, non ha dimenticato nulla che riguardi Shu: certi particolari ha dovuto però pescarli di nuovo in fondo alla propria anima, perché lì sono cascati quando sono subentrati tutti gli altri, più recenti e più importanti.
Piccoli gesti, piccole gentilezze, piccole parole. La prima volta che Shu gli ha chiesto il significato concreto di un’emozione.
Tra i due uomini, pausa lunga, perché certe volte risposte troppo veloci sminuiscono l’importanza di certe rivelazioni. E forse Keito non si è accorto che il fumo è riuscito a distendere anche i suoi nervi, e forse Keito non si è accorto che probabilmente quella è soltanto una scusa per essere ancora lì, ad ascoltare le pene del suo amico nei confronti di quel qualcosa che lui ha sempre preso ad esempio per il più puro e radicato del proprio odio.
Ma immagina quanto profondo possa essere qualcosa, per confessarsi così puro e così disperato, così autentico e malinconico. Ne prova un poco invidia, anche se quell’uomo di fronte a lui ora è così sporco e così solo, circondato solo dal fumo che esce dalla propria bocca.
Ogni volta che parla di Shu, sembra che possa dipenderne la sua vita.
-Lo devi aver amato molto.
Lo sguardo di Kuro brilla per qualche istante, ed è troppo per Keito: l’uomo abbassa lo sguardo, e solo così riesce a continuare a parlargli.
-Io ho sempre saputo che ti portavi appresso una quantità immensa di dolore, e probabilmente che cercavi in me, senza neanche rendertene conto, una via di fuga da questo. Mi sono sempre domandato quale fosse la fonte e come poterti aiutare.
Il fumo ha intriso ogni cellula del corpo, appiccicandosi con una certa caparbietà all’interno dei suoi polmoni. Si sente leggero e pesante allo stesso tempo.
Ripensa, piano, a tutti i momenti passati assieme, e a certe parole pesanti che scappavano a lui e sembravano dette con così tanta banalità, non curanza. Come di chi pensa di non aver mai più scampo alla sofferenza.
Keito si era ritrovato vicino a lui come all’improvviso, senza aspettarselo. E non era mai riuscito a tirarsi indietro.
Altro fumo dalla bocca di Kuro.
-La follia mi ha allontanato da Itsuki. Io non mi pento di aver aiutato la Yumenosaki Company. Mi pento di non essere riuscito a salvarlo.
Keito sospira forte, tornando ad appoggiare la nuca contro la superficie verticale di metallo, dell’abitazione che gli ha dato rifugio fino a quel momento. Cerca, con la giusta paura, le parole e il tatto con cui pronunciarsi - per quanto faccia male, per quanto non possa certo nascondere strascichi di verità.
-Non dipendeva da te.
-Glielo avevo promesso, tanto tempo fa. Di fronte a mia madre.
Ancora pausa, e il ricordo della signora Kiryuu li unisce definitivamente, in un unico sentimento condiviso.
-Itsuki non è mai stato un semplice robot per te, non è vero?
-No, decisamente no.

 

Finalmente sa in che modo Mika Kagehira occupa il tempo in cui lui e Kuro dormono: da uno dei pochi cassetti della cucina, estrae quella che dovrebbe che dovrebbe essere una vecchia macchina da cucire - di quelle che si usavano ancora quando era necessaria la manodopera umana a guidare l’operato delle macchine: una base rigida e un ago che saliva e scendeva velocemente, seguendo la trama impostagli dai comandi manuali che si digitavano sopra uno schermo posto di fianco, anche a comando remoto in alcuni casi.
E così passa le sue ore, rammendando vecchi abiti degli abitanti della Discarica e vecchi abiti appartenuti a lui e al Maestro in altri tempi.
Il rumore che quella piccola macchina tutta arrugginita produce gli ricorda qualcosa di rotto che però resiste, con tutte le proprie forze. Perché anche le cose fragili hanno il diritto di reclamare il proprio posto nel mondo, che siano arnesi ormai poco utili o entità sempre al limite della morte.
In un mondo completamente bianco e asettico, dove le imperfezioni sono bandite e le macchie sono considerate persino illecite, non vi è la conoscenza delle sfumature meravigliose che l’esistenza può donare alla sensibilità. E benché persino per gli uomini e la loro razza tutto quello è così estraneo, così anormale, così sorprendente, benché abbiano tentato di costruire barriere attorno a quell’oasi artificiale costruita per la disperazione e il bisogno così stringente di sopravvivenza, ciò che li ha sempre resi superiori è la capacità di relazionarsi anche con la diversità di ogni essere.
Che l’Intelletto bionico sia stato fatto con un materiale della Nuova Terra non è stato mai dimenticato, e forse proprio per questo così tanto a lungo e tanto duramente represso. Forse però hanno dimenticato come questo genere d’odio ha distrutto la prima Terra e l’ha ridotta a lande sconfinate di terre aride e cieli tossici impossibili da respirare.
Keito guarda Mika sorridere e a quel punto quasi si è dimenticato di star guardando una creatura con una percentuale di 97% di materiale bionico al proprio interno.
L’uomo si muove piano, verso la stanza di metallo dove è stata riposta la teca di Shu Itsuki. Non risponde all’espressione incuriosita dell’altro, ne all’implicita sua domanda, e lo lascia continuare il proprio lavoro senza interromperlo in nessun modo.
Può vedere Kuro disteso sul proprio letto, totalmente disfatto dalla fatica. Le braccia sono intrecciate in modo strano sopra il suo capo, distese per metà sopra il cuscino - stessa cosa per le gambe, più in basso; ha la bocca aperta di un poco, e nell’angolo dove le labbra si incontrano scivola all’esterno una goccia di saliva bianca.
Il giorno prima, è riuscito a finire le parti inferiori del corpo del robot, dopo tutti quei mesi di lavoro. Il prossimo passo sarà riuscire a montarle alla base del busto di Mademoiselle, ma purtroppo il tempo a sua disposizione sta ormai per finire e non potrà più indulgere in tentativi fallimentari.
Lui deve tornare nel mondo civilizzato, e deve accompagnare Keito. L’uomo con gli occhiali ha pensato diverse volte che, forse, è stato sospetto per qualcuno che sia sparito all’improvviso senza dare traccia di sé, senza avvisare in nessuna maniera. Certamente, il suo è un lavoro che non richiede una presenza costante, quanto piuttosto la disponibilità qualcosa si presenti un problema urgente; in più Eichi, il suo dirigente, non è quel genere di persona che si preoccupa facilmente al primo giorno di assenza, e neanche al secondo.
Magari, però, al quinto sì.
E dopo dieci giorni, probabilmente a qualcuno sarà anche venuto in mente di cercare all’interno della Discarica, benché davvero quello sia l’ultimo posto dove una persona sana di mente si recherebbe.
Ma Keito ha compreso di aver lasciato il proprio buon senso al di fuori di quel territorio di metallo, nell’esatto momento in cui ha deciso di addentrarvicisi.
Abbassa la coperta che tiene calde le proprie spalle e, sollevandola con le mani ancora tutte bardate, la posizione in qualche modo sopra il corpo abbandonato al sonno di Kuro. L’uomo riconosce nell’incoscienza la fonte di calore e vi si rannicchia meglio sotto, emettendo dei gorgoglii che lo fanno assomigliare tanto a un bambino piccolo. Keito prova tenerezza a quella visione e c’è un secondo, un solo secondo, in cui prova l’istinto di carezzargli il profilo del viso.
-Sei molto dolce, Hasumi-san.
L’uomo si volta verso la bambola rotta, sistemandosi gli occhiali sopra il naso allungando quel gesto della mano che ha soltanto abbozzato in precedenza.
Si porta vicino alla teca aperta e la guarda dritto negli occhi.
-Mademoiselle, vorrei parlare con Itsuki.
Lei è pronta a fare il solito sorriso, a dire la solita frase di circostanza, ma lui la interrompe prima che inizi soltanto una di queste due cose e le specifica la propria richiesta.
-Da solo.
Gli ingranaggi del robot vorticano molto, a una velocità sorprendente; dopo qualche ticchettio, finalmente torna a parlare.
-Non credo sia ancora possibile.
Forse sorride, forse la sua espressione non esprime alcuna rassicurazione. Ma non è importante.
Keito si abbassa fino a terra, recuperando il display di controllo attaccato alla nuca della bambola. Legge le trascrizioni nei numeri delle sue azioni e dei suoi processi mentali, in quella cascata infinita di simboli che sembrano formule magiche, che sembrano anatemi illeggibili.
I suoi occhi si attivano: il bulbo oculare rotola verso l’interno del cranio e al suo posto fuoriesce l’occhio bionico azzurro come il ghiaccio. Come il codice viene trascritto, lui lo legge e riesce a trasmetterlo a quella parte di cervello potenziata a propria volta artificialmente.
Keito si è creato una specializzazione, in quel modo, in grado di renderlo unico al mondo ancora di più di quello che, naturalmente, è da sé. Può svolgere il proprio lavoro a una velocità raddoppiata di almeno quattro volte rispetto a qualsiasi altro essere umano, e in tempi critici in cui è necessario un rapido intervento, la sua parte è fondamentale.
Divide lo schermo in due parti, lasciando scorrere solo in quella di destra i codici del funzionamento istantaneo. Nella parte sinistra invece, lasciata libera, sonda all’interno del robot i codici di mantenimento.
Quelli radicati nel funzionamento globale.
-Ti vorrei chiedere solo un poco di collaborazione.
-Vuoi che non faccia resistenza mentre sondi il nostro cervello?
Keito non risponde e continua la propria opera, cercando con i suoi occhi quel qualcosa che fa stonare il tutto, che rende quella malattia psicologica parte integrante del sistema di Itsuki. Non può farlo con occhi umani: può farlo soltanto in questa maniera.
Mademoiselle, compreso che non può ribellarsi - e che neanche vorrebbe, forse, davvero farlo - cerca qualcosa con cui giustificare il suo gesto, perché per come lo conosce davvero non ci riesce da sola.
-Hasumi-san, perché lo stai facendo?
Keito non si sottrae a lei, non più.
-Sono convinto che Itsuki sia lì, da qualche parte. Desidero riprenderlo.
-Ma lui non è ancora-
-Non possiamo più aspettare. Possono venire qui da un momento all’altro, e voi dovrete andare.
Maturata la preoccupazione per il tempo, l’uomo ha reagito nell’unico modo che gli è proprio, e non ha perso un solo secondo. L’ansia che attanagliava il suo fegato non lo ha mai lasciato, ma ha cambiato oggetto del proprio interessa facilmente una volta compreso che era la cosa più giusta da fare.
​K
eito riesce ad addrentrarsi sempre di più, all’interno del suo organismo, come un chirurgo che sa arrivare esattamente al cuore del corpo senza dover offendere altre parti.
Quello che vede in lei è privo di disagio, e questo lo fa ben sperare: Shu non ha più paura di lui.
-Sai per caso se il porto della Discarica è ancora in uso?
-No, ma Ryuu-kun aveva intenzione di scappare con la barca dei due gemelli Aoi.
-Sono vivi anche loro?
-Sono i primi ad aver abitato la Discarica. Loro sono molto bravi a organizzare queste cose.
Un codice nuovo: vuole dire sorriso.
Finalmente Keito riesce a immaginarsi il robot in quel gesto così spontaneo e felice.
-Dicono che riescono ad arrivare al Porto Intergalattico, per le altre stelle e gli altri pianeti.
-E una volta lì?
-Partiremo tutti.
Dentro, ancora dentro. Le parole esprimono significati più densi, in relazione con il contatto intimo che li sta legando.
Mademoiselle vibra.
-Appena la pioggia finirà.
E poi sorride, mentre i suoi ingranaggi pian piano cominciano a rallentare, e così anche le sue funzioni vitali.
Ultime parole.
-Hasumi-san, è stato davvero un enorme piacere conoscerti.

 

Qualcosa scoppia, all’improvviso, facendo un gran rumore e provocando una pioggia di scintille: il cranio del robot si apre e si vedono chiaramente l’Intelletto e tutti gli ingranaggi che lo circondano fermi, immobili.
Keito sobbalza e fa cadere il display a terra, lasciando la presa già flebile delle mani deboli. Lo schermo si rompe, infrangendosi in diversi pezzi.
Ma l’uomo non ha tempo di constatare i danni, perché mentre ancora è intento a capire cosa sia accaduto e avvicinandosi al robot tenta di comprendere meglio quale sia stato l’inceppo, sente la voce impastata di sonno e di preoccupazione di Kuro, che si è alzato con un balzo dal letto.
-Cos’è successo?
Avanza verso di lui e vede il robot come morto, aperto a metà. Sbigottito, guarda Keito che non sa assolutamente rispondere alla sua domanda.
-Non lo so…
Ora è lì, accanto a Keito, con le mani a mezz’aria che non sanno cosa e dove toccare. Cerca un modo di approcciarsi a quella creatura, gli prende le spalle e la solleva ma non c’è la minima resistenza in quegli ingranaggi.
Il suo viso comincia a divenire sempre più rosso, dal pallore cadaverico che ha assunto in partenza.
-Cos’hai fatto ha Itsuki?
Keito prova a balbettare qualcosa, perché quanto e quanto velocemente Kuro sia diventato sconvolto.
-Credo che Mademoiselle si sia-
-Lo hai spento?
L’uomo dai capelli rossi si china a terra e vede il display spento, rotto, inattivo. Ancora più rabbia, ancora più furore contraggono i suoi lineamenti già duri.
-Cos’hai fatto?
Butta il display con forza a terra, rompendolo definitivamente.
E urlando va incontro a Keito, affrontandolo come farebbe un animale imbufalito.
-Cosa?
Scaraventa a terra tutti gli oggetti sopra il tavolo, prendendo da sotto la superficie orizzontale e sollevandola con un solo gesto della mano. E dopo di quella il letto, dopo di quello qualsiasi altra cosa gli sia vicino.
Non ragiona più.
-Kiryuu, io-
Prende anche Keito e lo solleva al di sopra di sè, scaraventandolo qualche metro in avanti, contro la porta d’ingresso. Batte la testa e gli occhiali gli cadono dal naso - la porta dietro le sue spalle spezzate, doloranti, si apre e lui riesce a strisciare fuori, nel tentativo di salvarsi da quella furia.
Arrivato in cucina, Kuro fa esattamente la stessa cosa, di fronte agli occhi esterrefatti e increduli di Mika. Le sedie, il tavolo, i pochi altri mobili tutti vengono sollevati, tutti vengono lanciati via. Assordante, confuso, violento.
Keito striscia fino all’esterno dell’abitazione e Kuro incalza, lo prende per la caviglia e lo solleva prima che possa raggiungere lo scroscio grigio della pioggia acida.
Keito lo guarda di nuovo in viso, mentre sente le dita di lui che gli spezzano le ossa della caviglia: non ha più un volto umano. L’uomo chiude gli occhi e prega che finisca presto, almeno: mai gli è piaciuto troppo il dolore.

 

Ancora, un’esplosione bianca, e una voce maschile baritonale che trattiene ogni altro movimento del cyborg.
-Kiryuu!

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Capitolo 9
*** Epilogo ***


Epilogo




 

Silenzio, attorno a sé.
Keito riesce finalmente a rilassarsi contro i cuscini del sedile di quel veicolo, abbassando le spalle e pronunciandosi con un lungo, esausto sospiro. Alza la mano per sistemarsi gli occhiali sul naso ma solo troppo tardi, quando ormai la punta del proprio indice quasi tocca la palpebra morbida, si ricorda di averli persi chissà dove.
Forse in uno dei tanti momenti critici delle ultime ore.
Sospira di nuovo, con più irritazione. Vorrebbe volgere lo sguardo in una direzione priva di luci forti che gli appesantiscono la vista ancora e ancora, ma è difficile una cosa del genere quando sei circondato da veicoli della vigilanza e questi, come di consueto, si impegnano a dimostrare la propria esistenza a tutto ciò che li circonda con insistenza e perizia.
Luci rosse lampeggianti che violano il suo spazio personale a intermittenza, da una parte e dall’altra - neppure i vetri del finestrino, oscuranti, riescono a proteggerlo da questo.
Almeno, il rumore della pioggia resta fuori, così come di tutte quelle parole inutili.
Il pensiero molesto che dovrà, in un futuro molto vicino se non quella sera stessa, affrontare sia Eichi sia la Macchina Rivelatrice della polizia da lui ingaggiata per rintracciarlo non gli fa molto bene all’umore, e rende ancora più spietata l’acidità che gli tempesta nello stomaco.
Non è certo il fatto che non potrà mentire sui fatti accaduti ciò che lo spaventa, quanto tutta la noia di avere una sonda meccanica in grado di leggere la precisa forma della sua psiche e dei suoi ricordi - e se non è etico che sia una macchina a leggergli anche i sentimenti, penserà a quello il direttore supremo della Yumenosaki, senza la minima compassione per la sua stanchezza e le sue mani bruciate dalla pioggia acida.
Tutto questo lo stanca e gli toglie quella poca energia ancora nella carne, in grado di farlo respirare.
Apre gli occhi e vede sfuocato: i fumi della pioggia acida devono aver intaccato il suo sistema nervoso e aver causato danni di cui prima non si è minimamente accorto. O forse è solo il tornare agli occhi umani che stringe, nello sforzo, i muscoli del cranio, e gli dona un mal di testa davvero notevole.
Il passaggio dal bionico al biologico non è mai qualcosa di indolore, specialmente se così vicino al cervello. Lo sperimenta tutte le volte, come dimenticandosi di quel particolare; lascia strascichi che l’umano codifica con una certa difficoltà e lentezza, perché quelli sono i suoi tempi.
Keito sobbalza quando la portiera del veicolo viene spalancata e un uomo corpulento, dalla pelle quasi scura, si siede davanti a lui. La sua scorta.
-Signor Hasumi, ora partiamo.
Gli fa un cenno col capo, in cerca di assenso, e non abbassa lo sguardo finché l’altro non gli risponde con un gesto identico, seppur a fatica. Non sembra malintenzionato nei suoi confronti, soltanto alla fine di una lunga giornata lavorativa.
Più o meno lo stesso sentimento che prova lui medesimo in fondo al petto.
Il veicolo si solleva da terra e comincia il proprio viaggio, allontanandosi dalla Discarica metro dopo metro. Keito si rifiuta di guardare quei muri sempre più piccoli, anche solo mostrandone l’intenzione o lo sguardo verso il finestrino. Appannato, riesce a scorgere bene solo la forma delle proprie ginocchia oltre la coperta calda con cui lo hanno avvolto più volte.
Altra premura.
-Tornati nella Capitale, riceverà assistenza per le sue ustioni.
Lo guarda e lo vede affaccendato in sentimenti di fatica.
I veicoli della polizia hanno smesso di lampeggiare in luci rosse, e ora solo l’interno di quei quattro lati è illuminato da una fioca luce giallastra, che rende evidenti i loro profili. Lui è giovane, probabilmente qualcuno che conosce soltanto il presente.
Keito ingoia saliva a stento ed esprime con voce roca quanto forma un suo primario bisogno.
-Ho fame.
-Fame? Appena arrivati in distretto, le forniremo un pasto adeguato.
Il vigilante parve all’improvviso attento, predisposto maggiormente a provvedere alla sua esigenza, quasi aver ricevuto quella precisa richiesta fosse il motivo esatto della sua presenza in quel luogo.
Sa di quell’umanità buona che Keito ha sempre voluto proteggere, in una forma pura ed evidente.
Prima abbassa lo sguardo, poi chiude gli occhi. E deve dare una brutta impressione, tutto rannicchiato su quel sedile, che a stento respira - il vigilante tenta di nuovo di raggiungerlo con poche parole.
-Non si preoccupi.
Ma le sue orecchie sentono soltanto dei rimbombi lontani, assieme allo scrosciare di una pioggia acida e il cadere di fulmini verdi.
Kuro ha abbracciato quella Macchina come se avvesse appena scorto per sé la vera salvezza, e in fin dei conti quello era ciò che, solo, Keito desiderava davvero nell’ultimo momento. Ma quel sentimento sbiadisce pian piano nel suo animo come potrebbe farlo una felicità passeggera - seppur fondata, seppur così a lungo cercata.
Occhi chiari di metallo ancora lo vedono, lo osservano in una doppia natura ingannevole. Ricorda poco le parole del collega dai capelli rossi, affaccendato con preparativi di una fuga improvvisa quanto necessaria, ma quegli Occhi lo seguiranno per sempre - lo ha compreso da subito, appena li ha visti. Quella Macchina lo ha osservato solo pochi istanti prima di sparire di nuovo dalla sua vita, al seguito di Kuro e di Kagehira verso una meta lontanissima, prima il porto della Discarica e poi l’Intergalattico, eppure sono bastati perché l’impronta del suo essere lo marchiasse nell’intimo. Quello è sempre stato il potere di chi possiede l’Intelletto, di chi è stato forgiato per dominare tutti loro, specialmente messo nella posizione di comunicare a livello così profondo con qualcuno che possiede la capacità vera di comprensione.
Tanto più Keito impiega ad arrivare al Distretto, tanto più loro hanno tempo per scappare - tanto più Lui sarà lontano assieme alla sua scorta, e non potrà mai più nuocere a nessuno.
Forse è per un senso di sollievo che Keito piange, scuotendo il proprio corpo con piccoli e decisi singhiozzi. Forse è per questo.
Sono, però, lacrime che scivolano piano su guance morbide e poi spariscono, assorbite dalla pelle, versate da occhi di robot perlacei e per nulla umani.
Dunque, davvero è tutto concluso.

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