L'ingannevole pace dei sensi.

di Norgor
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***



Capitolo 1
*** I ***


 

 

L’ingannevole pace dei sensi.

 

 

I

 

            Pare sia lecito considerare sintomo di una buona educazione, nonché prova sufficiente di una raffinata estrazione sociale, l'indossare un corsetto nella maniera più diligentemente consona e con l'eleganza più perentoriamente accettabile. 
              
Ma al di sotto di quel verdugale avvilente, con le esili gambe tremanti come leggeri giunchi scossi dal vento, Doralice Guerra non poteva essere più in disaccordo; nondimeno, infatti, ai suoi occhi pareva molto più efficace, e decisamente più semplice, considerarlo un'ingegnosa macchina da tortura: un deliberato complotto, frutto di un tacito accordo planetario, in base a cui ad una donna non fosse permesso né di camminare né di respirare senza la costante rimembranza della propria inettitudine e la degradante consapevolezza della propria fragilità. 
             
« Il reale temperamento di una donna è specchio del suo garbo nel presentarsi e della sua classe nell’esprimersi » le ripeteva spesso la madre, le mascelle contratte in un’espressione di franco rammarico. Doralice in cuor suo non ne era molto convinta, e i costanti dolori fisici provocati dai vimini del guardinfante contribuivano spesso ad alimentare questa sua riluttanza. Possibile che le uniche virtù di una donna potessero manifestarsi esclusivamente nella sopportazione e nella sofferenza; che una donna fosse in grado di acquisire rilevanza solamente per il vestiario a lei adibito? Di fronte a queste domande, le proverbiali ammonizioni morali della madre venivano spesso offuscate dal pragmatismo e dalla concreta logica di mercato che aveva ereditato dal padre, dando vita ad un pensiero critico colmo tanto di buonsenso quanto di arroganza. E la dignità? Quell’impavida agevolezza che di norma all’uomo era già garantita, perché mai la donna era tenuta a faticare per ottenerla?
               
Cullandosi in tali ragionamenti artificiosi, durante una fresca mattinata di aprile, Doralice non si era resa conto dello scorrere del tempo e, nel momento in cui si rammentò che la sua assenza non sarebbe di certo passata inosservata, accarezzò il soffice manto erboso del suo giardino per un’ultima volta e diresse i suoi passi verso casa. Nell’attraversare l’infinito verde sconfinato che aveva dinnanzi a sé, sofficemente inebriata dalla frescura del vento primaverile, ella gioiva della sua sola compagnia. La solitudine, tanto aberrata da chiunque fosse ben disposto verso un intrattenimento sociale, era per lei fonte di riflessione e motivo d’ispirazione, e tutti i rapporti confidenziali da lei mai accuratamente analizzati, fondati su un fastidioso perbenismo ed un’amara ipocrisia, demolivano la spontaneità che rende invece quelli fra sconosciuti di gran lunga più interessanti. Al contrario di chiunque altro, Doralice considerava la solitudine un vero privilegio, l’opportunità di confessarsi nell’intimità più profonda e di mantenere una purezza che il contatto esterno avrebbe fatalmente imbruttito. L’interazione, dunque, non era altro che una rovinosa irruzione nell’equilibrata perfezione dell’essenza in quanto tale; una raffica di vento che, sebbene non sia in grado di smuovere una montagna, ha tuttavia buone possibilità di provocarne un cedimento franoso. 
               
Il frastuono di una convivialità organizzata invadeva l’aria con insistenza sempre più caparbia al suo approcciarsi verso l’ingresso, il fiato lievemente provato dall’ingombranza del suo abito. Sua sorella Eleonora, nota per l’incredibile bravura nell’infastidire le persone  e  l’altrettanta solerzia nel corromperne la volontà, non appena riconobbe il suono dei suoi passi, le si avvicinò con un portamento così altezzoso ed un’imperiosità così civettuola, da costringerla a soffocare un riso con un fazzoletto di seta. 
               
« Sai, cara sorella, devo proprio dirtelo » proferì con un sorriso carico di malizia. « Fino a che passeggerai come se avessi degli urgenti problemi di stomaco, non sono sicura che riuscirò a prenderti sul serio! »
          
« La serietà non è mai stata la tua qualità più accentuata » ribatté Eleonora arcuando le sopracciglia. « L’etichetta impone rigidi modelli di comportamento, e ti suggerirei di provare ad assecondarli, considerata la situazione delicata in cui ci troviamo ». 
              
« Non capisco come papà sia stato disposto a sopportare una tale fatica, solo per rivedere il proprio titolo nobiliare scritto davanti al suo nome sui documenti ufficiali1 » confessò Doralice, seguendo la sorella verso la rientranza nel giardino posteriore. « A volte rimango basita di fronte agli sforzi che le persone fanno solamente per incontrare l’approvazione o l’interesse degli altri ».
               
« Tu pensi troppo » constatò la sorella. « E sarebbe meglio che queste considerazioni oltraggiose le tenessi tutte per te. Il nostro povero padre! Dio solo sa quanto ha sacrificato per conservare onore al nostro nome. Il minimo che tu possa fare è dimostrare gratitudine e riconoscenza! ». 
                
« Non sono usa a ringraziare per ciò che non desidero » replicò testarda. « E non aspettarti che prenda il vizio di camminare in questo modo solo per accaparrarmi il favore di gente che non conosco ».
               
Il tramestio dei grilli ed il profumo delle primule si erano fatti sempre più intensi con il procedere verso il gazebo principale. Le due continuarono a dedicarsi ai battibecchi per una manciata di minuti, fino alla comparsa del resto della famiglia. Guardando di sottecchi la sorella, rigida dentro quel completo asfissiante, Doralice si sentiva terribilmente impotente nella costrizione ad amare qualcuno con cui tanto raramente concordava per ideologia o conciliava per decisioni. La sorella era l’ennesima testimonianza di quella manchevolezza d’identità che riscontrava nella sua famiglia. Più si guardava intorno, più si percepiva come un’isola giudiziosa in un mare di falsità superficiale. La sua quotidianità le risultava scomoda e forzata; l’insieme di buone maniere che gli altri amavano dispensare, forse alla ricerca di congratulazioni silenziose, le parevano immotivate e prive di senso. Sbagliava, forse, a ritenere che tali manifestazioni costruite potessero danneggiare qualsiasi limpida sincerità nel rapportarsi? 
                
Doralice fu costretta a concentrare la sua attenzione altrove per distrarsi da quei pensieri e, una volta che tutta la famiglia ebbe preso posto attorno al sontuoso tavolo da giardino, la colazione fu servita. Adele, la governante della villa2, aveva arricchito il desco con un abbellimento esteticamente apprezzabile, ma concretamente inutile: nessuno, infatti, sarebbe mai riuscito a svuotare ogni vassoio senza denunciare un malore intestinale. 
               
Doralice, suo malgrado, si ritrovò seduta di fronte la madre. Clotilde Pindemonte3 era nota in primo luogo per l’espressione di costante alterigia che riservava anche al più caro fra i suoi adulatori; e le gentilezze di cui si faceva vanto ogni qual volta fosse opportuno dimostrarle, non riuscivano tuttavia ad annebbiare la sua personalità tirchia ed austera. L’impassibile compostezza del suo busto e la rigidità maniacale del suo viso, impallidito dalla cipria, erano fonte di irritazione per la figlia; l’unico lato ad accomunare le due era quella risoluta ed orgogliosa punta di arroganza, che però si palesava in circostanze ben differenti. 
               « Vedo che hai ritenuto opportuno rendere nota la tua esistenza » la provocò con voce nasale, assumendo un cipiglio ancora più inflessibile. « Lo sai che non apprezzo le tue scampagnate solitarie. Vista la tua età e le tue strane idee, qualcuno potrebbe iniziare a pensare male di noi, se ti lasciamo libera di andare dove ti compiace senza opposizione alcuna ».
                
« Non sia mai che il buon nome dei Guerra venga intaccato dal pregiudizio villano e dalla stupidità del volgo » le fece eco Doralice, sospirando. 
            
« Piccola impertinente! » fu l’esclamazione che proruppe dalla bocca di Eleonora, lo sguardo infiammato per l’ira, le gote accese per l’imbarazzo di fronte a una simile deplorevolezza. « Come osi rivolgerti a tua madre in questo modo? »
            
« Il tacchino sembra ottimo, Adele! » esclamò d’improvviso il padre, costringendo Doralice a nascondere il brivido di piacere nel vedere la sorella maggiore in collera. « Le mie più vivide congratulazioni! »
             
Rolando Guerra, impettito nel suo abito da nobile decaduto quale era stato, per lo meno, fino a poco tempo prima, sedeva rilassatamente in fondo al tavolo, alla sua destra. La fronte sempre corrugata, impegnata in qualsivoglia ragionamento, era il primo dettaglio che si leggeva nella sua apparenza ferrea ma disinvolta, nel suo modo di fare gentile ma fin troppo sicuro. Sul suo volto era solita trovarsi un’aria di placida serenità, una maschera di cortesia che raramente lasciava il posto a rughe di preoccupazione o segni d’insicurezza. La sua barba odorava sempre di un lezzo di tabacco, che rendeva assai faticoso e snervante ogni tentativo di conversazione con lui; Doralice non lo vedeva di buon occhio per l’eccessiva assenza come padre e l’indecoroso vittimismo come uomo, ma appoggiava la costante testardaggine che dimostrava nel voler raggiungere i suoi obbiettivi, nonché l’altrettanto vivida bramosia nella convinzione di riuscire a mantenerli. 
                « La ringrazio, signore » rispose la governante con un inchino ossequioso, allontanandosi in uno svolazzare silenzioso di sottane. 
              
Doralice non poteva fare a meno di compiacersi dei metodi sempre cortesi e professionali di Adele, della sua tenace intraprendenza nello svolgere le mansioni di casa e specialmente del suo desiderio di cultura, da sempre per lei causa di fascino. In una famiglia in cui l’istruzione era di secondo piano rispetto all’immagine, Doralice era la sola ad apprezzare il valore di un libro stampato, e l’idea che una semplice domestica provinciale possedesse un livello di erudizione superiore a quello dei suoi familiari era quantomeno umiliante. 
              
Guardandosi attorno e notando l’indefesso sciupo emanato dalle persone accanto a sé, quell’anonimo e tedioso grigiore dovuto alla monotonia della sua vita, Doralice non si lasciò sfuggire l’occasione. 
                
« Quale briosa vivacità che possiede la nostra Adele! Nonostante l’onere ingente rappresentato da tutte quelle commissioni che voi le ordinate di fare, riesce comunque ad accaparrarsi del tempo da dedicare alla compagnia di un buon libro. Non è forse così, madre? »
              
Eleonora strabuzzò gli occhi. Clotilde, intenta fino a quel momento a servirsi del riso dal vassoio adiacente, ritrasse istintivamente la mano e fissò lo sguardo acceso sulla figlia. 
             
« Indubbiamente » ne convenne con rigidità dopo qualche attimo. « Non è un passatempo assai raro, fra la gente di rango inferiore, la lettura di romanzi che possano in qualche modo accostarli alla classe nobiliare. Ma come spesso sosteneva mio padre, non c’è niente di peggio di un buon libro per attrarre le persone, prive di qualsiasi importanza, nella convinzione di poterne mai avere ». 
           
« Per come la vedo io » ribatté Doralice, « non c’è niente di meglio di un buon libro per dare un senso ad una vita di agi e frivolezze o, nel caso contrario, per denotare l’insignificanza della classe nobiliare agli occhi anche del più inferiore dei ranghi ». 
            
« Gli insegnamenti tratti da un libro passano in secondo piano, se colui che intende assorbirli non possiede un’educazione di base ed una prassi adatta nel comportarsi » insistette la madre, alludendo alla sua costante ostinazione.
             
« Al contrario, credo che il sapere acquisito da un romanzo offra una gnoseologia ed una lucidità tali da mettere in discussione quella prassi stessa, e da evidenziare quanto un’educazione di questo genere sia tuttalpiù irriverente verso la natura umana ».
            
« Ma insomma, che cosa ti prende! » proruppe nuovamente Eleonora. « Da quel che si evince dal tuo atteggiamento, i libri sono utili solo nell’accrescere il tuo ego di altrettanta insolenza e arroganza!»
            
« Anch’io voglio leggere un libro, mamma! » s’intromise una vocina puerile proveniente dall’estrema sinistra del tavolo. 
           
Doralice volse lo sguardo, improvvisamente ricco di sincera compassione, verso il fratellino Federico, gli arti fin troppo deboli stiracchiati sulla tovaglia di pizzo. Il colorito smorto e pallido della sua pelle, in concomitanza con l’inusuale rigidità del corpo, davano l’idea di un pargolo cagionevole di salute e niente affatto abituato a restare fuori di casa per un lungo lasso di tempo. L’espressione di muta sofferenza che spesso gli adornava il volto contribuiva a diffondere un’aria di premurosa apprensione, mista ad un soffuso terrore, ogni qual volta si trovasse a compiere un gesto improvviso che, sebbene nell’ordinario, alla lunga avrebbe potuto essergli fatale.
            
« Tesoro, ti pregherei di non prestare ascolto a tali ingiuriose influenze » gli disse amorevolmente Eleonora, a cui evidentemente garbava assai prendere parola per screditare la sorella. « Abbiamo già un elemento marcio nella famiglia, non vorrai prendere anche tu un vizio tanto sconsiderato ». 
             
« A costo di contaminare questo paradiso di moralità e freschezza col mio marciume depravato » continuò imperterrita Doralice, un assiduo tremore che le iniziava a smuovere le braccia, « trovo che alla luce della sua carente condizione fisica e dei suoi minimali contatti con l’esterno, la lettura possa essere in assoluto uno svago molto più confortevole della tua civetteria irritante! »
            
Eleonora, livida di rabbia, si volse verso il padre per reclamare la sua attenzione; egli, risolutamente chino sul cibo in tavola, era quanto mai deciso a non voler intervenire nella discussione, e si limitò quindi a gettare a Doralice uno sguardo di profonda delusione, sufficiente a placarle qualunque proposito di rinvigorire il litigio. 
        
Demoralizzata dal comportamento inopportuno delle figlie, ma al contempo ansiosa di ravvivare la conversazione famigliare, Clotilde decise di approfittare del seguente attimo di pacifico silenzio per rivolgersi al marito, assumendo un ciglio di trepidante aspettativa. 
               
« Nuove riguardanti Sua Eminenza4? »
            
Doralice socchiuse gli occhi; un ghigno di acida repulsione dipinse il suo volto nel constatare l’ipocrisia arrampicatrice celata dietro quella domanda. Dal momento in cui la famiglia era stata insignita nuovamente della patente nobiliare, Doralice aveva avuto la delusione di notare come la madre fosse divenuta più che mai ansiosa e a tratti nevrastenica sull’argomento. Il mantenimento di un’eccelsa considerazione all’interno dell’elité aristocratica era ciò che di più pietoso potesse venirle a mente; consequenziale, quindi, come alla madre premesse particolarmente. 
             
« Nessuna » rispose il padre, stoico come oramai aveva imparato ad essere. « Metternich5, da conservatore quale è, non ama esporsi sul tornaconto di Sua Maestà ».
           
« E deve essere proprio un bel tornaconto, se ha consentito a reinserirci nell’alta società! » gioì Clotilde, portandosi la mano guantata alla punta del mento per soffocare una risatina soddisfatta. « Ve l’avevo detto che quel ricevimento sfarzoso a Vienna avrebbe risistemato le cose! »
           
« Personalmente non capisco tutto questo accanimento verso l’Austria! » aggiunse Eleonora, beandosi di quel coro ilare di leziosità. « Dopotutto, in quanto a uomini non mi par affatto inferiore alla Francia! »
            
« Tu cosa ne pensi, Dora? » intervenne Federico, osservandola con la massima serietà che la malattia, divoratrice, gli permettesse di ostentare. Doralice, che era rimasta incantata ad osservare il servizio da tavola, parve risvegliarsi da un sogno; l’aria impregnata dell’aroma floreale e del ronzare mellifluo delle api, fino a quel frangente leggera e carezzevole, le sembrava ora irrimediabilmente pesante, quasi nociva. 
            
« Io sono dell’idea che la mia opinione raramente potrebbe incontrare l’appoggio delle loro » gli rispose con giocosa gentilezza, « tuttavia, credo nella libertà d’espressione, e mi reputo abbastanza intelligente per palesare la mia ipotesi senza peccare d’irrequietezza ».
        
« L’intelligenza è una facoltà decisamente sopravvalutata, se porta con sé una tale svergognata presunzione » commentò Eleonora sottovoce, più desiderosa d’attenzione che dispensatrice di meschinità. 
            
« L’ignoranza invece è terribilmente sottovalutata, cara sorella » ribatté Doralice, « poiché non solo porta con sé un fervido oscurantismo, ma anche un contagio terribile! »
          
Le labbra della signora Guerra, nei pochi istanti che seguirono, assunsero una piega così tagliente che Doralice fu costretta ad abbassare lo sguardo verso il budino che aveva davanti. Le barriere che spesso riscontrava nell’esprimere il proprio parere su qualsiasi questione avesse una certa rilevanza non facevano che motivarla a complicare i suoi ragionamenti e particolareggiare le sue argomentazioni, costringendola ad aprirsi in un vero e proprio dibattito in cui poteva enunciare con orgoglio le proprie fruttuose convinzioni. L’opportunità di lasciar trapelare la propria conoscenza era una tentazione fin troppo esuberante per essere placata dal poco buonsenso di cui disponeva. 
         
« Se mi date la possibilità di essere schietta » riprese quindi, sollevando lo sguardo e mettendosi composta, « io non solo credo che gli accadimenti riguardanti Sua Maestà non debbano essere di vostro interesse, giacché è assai improbabile che egli si preoccupi dei vostri; ma sono anche convinta che simili adulazioni siano prettamente fuori luogo verso un uomo, cara madre, che fino a poco tempo fa eravate così fiera di disprezzare ».
          
« Molte cose sono cambiate da allora, Dora » intervenne pacificamente il padre, con quel calore che Doralice apprezzava particolarmente della sua voce. 
       
« Il Primo Ministro Metternich si è anzi proposto, piuttosto cordialmente, di riaccettarci a corte » aggiunse la madre, « in un tentativo, credo, di minimizzare i danni creati da quel farabutto francese il cui nome al momento mi sfugge ».
          
« Se ti riferisci a Napoleone » la interruppe Doralice, « lo reputo un personaggio decisamente più affascinante, e sono convinta che in quanto a strategia e tenacia sia stato un maestro in confronto a questa marionetta austriaca a cui siamo ora soggetti ».
          
« A lungi dal considerarlo il responsabile principale » ribatté Clotilde nell’aprire un ampio ventaglio perlaceo, « non sono tuttavia pronta a negare un suo diretto coinvolgimento nella caduta della nostra Serenissima6 ».
         
« Il Congresso a Vienna ci sta però offrendo un periodo di placida tranquillità, in cui avremo tutto il tempo per abituarci alla nuova nobiltà locale; ed è questo l’importante » aggiunse il padre. Poi si volse verso di lei, socchiudendo gli occhi in un’espressione di muta indulgenza. « Per quanto possa esserti di estrema difficoltà, Dora, non riesci a vederne il lato positivo? »
         
Doralice trasse un respiro profondo. « A che cosa alludi, di preciso? Alla nostra possibilità di trascorrere ogni giornata nello stesso tedio ripetitivo, ad ostentare una ricchezza che non ci siamo meritata ed una posizione che non abbiamo guadagnato? Certo, il lato positivo mi è ben chiaro. Ma il senso; è il senso a sfuggirmi ».
            
« Non tutto deve per forza avere un senso! » esclamò Eleonora, la quale era rimasta muta come un pesce fino a qualche attimo prima, prestando solo una vaga attenzione ad argomenti di natura a lei totalmente sconosciuta. « Devi imparare ad apprezzare il bello delle cose ».
            
« E tu a coglierne il significato » la rimbeccò la sorella. 
           
Doralice, estenuata dall’incomprensione famigliare che era ormai una compagnia quotidiana, si limitò a distendere le gambe ed inveire silenziosamente verso coloro che, in preda a non si sa quale istinto diabolico, avevano garantito quella del verdugale come una moda irrinunciabile. Di fianco a lei, suo fratello rantolava rumorosamente; dal fondo del giardino, un rumore frettoloso di passi concitati si sovrappose ben presto a quello vispo degli insetti. 
          
« Padrone, mi dispiace disturbarla durante la colazione » si scusò Adele, riprendendo fiato dopo l’affanno momentaneo. « E’ appena arrivata una missiva alquanto interessante; reca il sigillo dei Borbone di Napoli! ».
        
Clotilde trattenne il respiro, e il suo viso si tinse di una meraviglia ed una trepidazione tali da costringere Dora a distogliere lo sguardo da una tanto sfacciata manifestazione di gioia; lo sguardo di Rolando, invero, si illuminò febbrilmente nell’afferrare la busta con una frenesia a tratti disdicevole. Eleonora, infine, si sporse verso la lettera con un’espressione famelica. 
          
« Papà, leggi a voce alta! » lo pregò Federico con tutta l’enfasi che riuscisse a far trapelare. Rolando sembrò cogliere il suggerimento con più eccitazione del dovuto, e si assicurò d’impiegare un’intonazione abbastanza elevata da destare la curiosità di tutto il vicinato.
          
Doralice, per nulla contagiata dall’improvvisa esaltazione collettiva, decise tuttavia di prestare ascolto. Ma di riga in riga, di parola in parola, un profondo senso di delusione, inizialmente debole, si fece strada nei meandri del suo essere, inculcandole un disperato desiderio di alzarsi e correre via. Le sue membra si irrigidirono, e sul suo volto comparve una smorfia prima d’ira infastidita, poi di dolorosa consapevolezza ed infine di cupa rassegnazione. Col concludersi della lettera, il suo sguardo era ormai terrorizzato. 
       
« Quale onore! » fu l’immediato commento della madre. « Un ballo reale è senza dubbio l’occasione perfetta per rendere noto a tutti il ritorno della famiglia Guerra nei ranghi nobili! Nora, questa è la tua occasione d’oro per sfoggiare tutta la tua bellezza e trovare un buon partito. D’altronde, sei in età da marito oramai! »
        
« Oh, madre, non vedo l’ora! » disse Eleonora, il cuore che le batteva con una furia impazzata. « E poi ho sentito parlare benissimo di quella Reggia a Caserta. Non vedo l’ora di poterla ammirare di persona! »
        
« Un incontro con Ferdinando7! » esclamò il padre, completamente assorto nei suoi pensieri per prestare attenzione alle esclamazioni delle altre. « Avremo molto di che raccontarci, assolutamente! »
         
« Posso venire anche io, vero? » chiese Federico, implorante e curioso quanto solo i bambini della sua età possono esserlo.
        In tutto quel trambusto gioioso, in quel quadro di armonia famigliare intaccabile, nessuno dei presenti si era reso conto che Doralice, nel frattempo, era riuscita ad avere la meglio sui vimini del suo guardinfante e, con aria affranta e demoralizzata, si era allontanata correndo in cerca di un rifugio in quella solitudine che, più di ogni altra cosa, era in grado di farla sentire sempre a proprio agio.

 

 

 



1 La famiglia Guerra, in seguito alla caduta della Repubblica di Venezia (1797), si viene nuovamente insignita, da parte dell’impero austriaco, della patente di nobiltà con Sovrana Risoluzione il 28 giugno 1819. 
2 La villa in questione è storicamente appartenuta alla famiglia; si trova a Roverchiara, in provincia di Verona. 
3 I Pindemonte erano un’antica famiglia originaria di Verona. 
4 “Sua Eminenza” non è altri che Francesco I d’Austria, in carica imperiale dal 1804 fino al 1835.
5 Klemens Von Metternich, fidato consigliere imperiale, cancelliere di Stato dal 1821 al 1848. 
6 La Caduta di Venezia fu, effettivamente, quasi consequenziale alla firma del Trattato di Campoformio, il 17 ottobre 1797, ad opera di Napoleone stesso. 
7 Il riferimento è a Ferdinando I delle Due Sicilie, in carica ufficiale dal 1816 al 1825. I Borbone, in questo periodo, sfruttavano la Reggia casertiana come stabilimento occasionale. 

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Capitolo 2
*** II ***


II

 

               In quello che anche il più cinico fra i gentiluomini si sarebbe permesso di definire come un perfetto giovedì di aprile, i raggi irrequieti di un sole in via di tramonto adoravano posarsi sulle primule, fiorenti figure danzanti nel candore primaverile, e riflettersi come un manto dorato finanche sugli angoli più cupi e adombrati della villa. 
               
Doralice, intorpidita all’interno di una vestaglia che, elegante per modello ma sciupata per sfizio, le ricopriva smisuratamente le caviglie, trascorreva il pomeriggio esattamente come aveva trascorso i precedenti, con una fierezza tale da suscitare profonda vergogna anche nel più limpido fra gli animi e nella più genuina fra le indoli. Il suo sguardo, velato d’un’irritazione soffusa ma marcata quanto occorre per catturare l’attenzione, indugiava incredulo sull’ultima pagina del libro che aveva in mano; la gamba sinistra, dura e tremante, si agitava convulsamente sulla poltrona impreziosita di seta su cui lei era adagiata, oramai da qualche ora, a fianco dell’enorme biblioteca famigliare. 
               
« Qualcosa non va, signorina? » domandò la domestica, il volto confuso illuminato dai bagliori del meriggiare. Entrando nella stanza, Adele si era premurata di strascicare con vigore le suole consunte sul pavimento istoriato, quanto mai reticente nel cogliere la padroncina di sorpresa. Le sue braccia erano cariche di un vassoio in argento madreperla, e faticavano con ardita smania nel trasportare l’illustre servizio da tè della famiglia che, secondo Doralice, era ciò che di più caro Clotilde potesse mai ostentare: ancora più dei suoi stessi figli. 
               
« Sono adirata, Adele! » sbottò con voce incrinata. « Anzi, di più: sono fuori di me! Quale mancanza di carattere e stoltezza d’esecuzione! » Dunque, con un gemito di collera repressa, gettò il tomo contro la parete e incrociò le braccia al petto.
               
Adele non batté ciglio. « Devo dedurre che il nostro letterato umanista abbia fallito nel suo intento? » 
               
« Assolutamente! » fu la scocciata risposta. « Oh, Adele! Ti auguro di non dedicare mai un briciolo della tua anima ad un libro, mai e poi mai, se poi sopraggiungono tali conseguenze! » 
               
Adele posò il servizio da tè sul tavolo con una maniacalità talmente accentuata da lasciar trapelare quanto monotona dovesse essere la sua occupazione. « Le mie faccende sono un impiego così sfiancante che, anche volendo, dubito potrei trovare del tempo per dedicarmi ad un romanzo nella mia più vivida interezza ». 
               
Doralice serrò i pugni nel tentativo di placare la burrascosa tormenta emotiva di cui era vittima. « Questo, tuttavia, non ti permette di sfoggiare tale imperturbabile indifferenza di fronte a chi ora è corroso dal dolore e dal supplizio! »
               
« Spiacente, ma negli ultimi tempi il mio senso di compassione si è leggermente deteriorato » rispose Adele scoccandole un’occhiata di vivo rimprovero. « E posso assicurarti che mostrare un pietoso compatimento di fronte ad una maleducazione tanto vorace non è affar semplice ».
               
« Le tue conclusioni sono assai vaghe e precipitose, se ti fanno passare per irrispettosa la mia mera disperazione! » Doralice era sull’orlo delle lacrime; le sue dita, pallide e soavi al tatto, era ora in preda ad un tremore irreprensibile. « Di pagina in pagina, mi sono stupita nel percepire il mio cuore alleggerirsi, la mia lucidità ottenebrarsi davanti alla consapevolezza del tempo sprecato, delle energie disperse nella lettura di una tale aberrazione dell’io! Perché di questo si tratta: della negazione più assoluta dell’essere in quanto tale, della più intensa opposizione alla libertà di pensiero dell’uomo! »
               
Adele, sul viso una maschera di contrarietà ostinata, raccolse da terra il libro e lo ripose sullo scaffale più vicino. 
               
« A differenza tua, credo che Goethe abbia dimostrato una vispa maestria nel dipingere un personaggio che riassuma tanto perfettamente realismo e tragedia ».
               
« Ciononostante » ribatté Dora sollevandosi dalla poltrona, « il fascino di un personaggio è destinato a decadere, se la morale di cui si fa portavoce è corrotta e degradante ».
               
« Non sono convinta di essere d’accordo » insistette Adele, palesando una risolutezza tanto sincera nelle proprie opinioni da smuovere la fermezza della padroncina. « Personalmente, reputo la figura del giovane Werther di inequivocabile fascino; superiore per ideologie e conoscenze, esperto d’arte ed imbevuto di cultura, ma allo stesso tempo succube di un amore totalizzante ed impotente di fronte alle avversità sociali: ha un che ti poetico, dopotutto ».
               
« Quanto vorrei poter concordare con te! » esclamò Doralice, vittima dello sconforto. « Questo romanzo è stato un’esperienza terribile per me. Ho riscontrato un’intimità disonorevole con il protagonista, una tale empatia che ad un certo punto, cara Adele, sono stata convinta che la mia anima fosse divenuta la sua, e i suoi turbamenti fossero entrati completamente in me. L’amore verso Lotte era una maledizione, e l’ho vissuta come un morbo  indefesso, un veleno che mi ha logorato nel profondo dei moti dell’animo. La mia unica ragion d’essere s’era concretizzata nell’incoronazione di un’amore tanto prezioso non per un futile motivo come il sentimento, ma per la possibilità di combattere il regime opprimente e ingiusto di una società inetta e limitante! Le mie giornate avevano un senso solo quando trovavano la compagnia del giovane Werther; le mie consapevolezze si nutrivano di una tale sicurezza nel ribellarsi all’autorità, di una tale ostinatezza nel disprezzare le convenzioni e i manierismi! Oh, Adele, credo di non essermi mai ritrovata così tanto in qualcuno! »
               
Adele ascoltava con doverosa attenzione; indi per cui, a causa della sua accuratezza nel percepire anche i più fervidi dettagli, non poté trattenersi dal notare quel velo di folle angoscia che iniziava a permeare lo sguardo acceso della sua signorina, la quale, agitata e a tratti inviperita, continuava ad imporsi con focosa esuberanza. 
               
« Puoi quindi ben immaginare, credo, cosa abbia provato nel leggere il finale! Mi sentivo come se si fosse creato un’enorme vuoto dentro di me, e ne fossero germogliate delusione e collera. L’eroica figura dell’uomo in cui avevo rivisto tutta me stessa, in cui avevo riposto il mio spirito; quale incontenibile sofferenza nell’assistere all’ignobile scelta di togliersi la vita con un colpo di pistola. Un colpo di pistola, Adele! Una rassegnazione, una debolezza, una vergogna! Una tacita sottomissione alle regole della società, una manifestazione egoistica di arrendevolezza nei confronti di norme tanto fallaci ed infide! Mi sento tradita, Adele, umiliata ed ingannata! »
               
Doralice scoppiò in un pianto improvviso, un teatro di singhiozzi sommessi che destabilizzarono quell’impassibilità per cui la governante era per lo più conosciuta. Adele si esibì in un’espressione attonita e sconcertata nel notare che mai, prima di allora, la sua padroncina aveva consentito uno svago tanto energico ai suoi subbugli emotivi. Indugiando sul suo corpo, esile e soffocato dalla vestaglia ingombrante, riuscì a notare l’irrigidimento innaturale della sua postura, il gonfiore velato delle sue vene, l’inequivocabile furore della sua espressione.
               
« Suvvia, rilassatevi un frangente! » esclamò dopo qualche attimo; l’incertezza sul da farsi, qualità assai rara da assegnarle, era tuttavia ciò che più trapelava dalla sua voce in quella situazione. « Adesso sedetevi e prendere un po’ di tè. Vedrete quanto starete meglio ».
               
Doralice strabuzzò gli occhi e le indirizzò un cipiglio di sdegno. « Quanta facilità nell’approfittarsi dell’ipocrisia umana per tentare di lenire un dolore che non puoi comprendere! » replicò. « Tu sei esattamente come il Werther, Adele! Ti crogioli in una realtà finta, illusoria, manchevole. Ti accontenti di una vita di meccanicismi e di apparenza. La società ti opprime il suo giogo, e ciò ti è d’agio e passatempo! L’abitudine e la tradizione sanno essere persuasori assai ingannevoli, nonché altrettanto validi ostacoli nell’esercizio del raziocinio e della giustizia ».
               
« Se il mio tè non è di vostro gradimento, vi basta dirlo! » avvampò la governante, infastidita dalla sua noncuranza ma al contempo in balia delle sue elucubrazioni. 
               
« Al contrario, mia cara, il tè è l’unica magra consolazione della tua snervante maniacalità. Persino nel rivolgerti a me, non riesci a reprimere un “voi” di irritante e immotivata cortesia, un “voi” che non è altro che un velo, una maschera di perbenismo a celare, a nascondere la nostra conoscenza che oramai va avanti da parecchi anni. Non lo trovi disgustosamente ironico, Adele? Dover trattare con superiorità persone che, a mio modesto parere, ti sono inferiori nel più piccolo tratto, nella più lieve qualità ».
               
« Fascinosamente ironica, ma fastidiosamente saccente è l’impertinenza che state mostrando nel rivolgermi a me! » le rispose alzando la voce, una punta di incredulità ed isterismo ad impreziosirne il tono. Le tempie le pulsavano incredibilmente, in quell’aria alterata e scomposta. « Questi libri vi stanno avvelenando la mente, ecco la verità! Altrimenti mai vi sognereste di sfoggiare un tale atteggiamento! »
               
« La mia mente è limpida come l’acqua della fonte più prolifica! » Doralice, scostandosi dalla poltrona su cui era rannicchiata, si erse in tutta la sua gelida fermezza. « Disgraziatamente, è il tuo buonsenso ad essere offuscato dalla vita in società, è la tua ragione a soffrire dei peccati scaturiti dal contatto umano, da quella pestilenza collettiva che è la necessità dell’uomo di interagire, di imbruttire la sua intima perfezione. Il Werther era consapevole di ciò, tuttavia ha scelto di non opporvisi! »
               
« Il Werther è un personaggio frutto di fantasia! » la interruppe Adele, livida e prosciugata da una tale caparbietà. « Si muove in un mondo che non è quello in cui viviamo noi, e le conseguenze delle sue azioni non devono riflettersi sulla nostra realtà ».
               
« Invero! Egli è chiaramente una figura ideologica, l’incarnazione di tutte quelle convinzioni che mi hanno permesso di accostarmi a lui in maniera tanto personale. Tuttavia, ha l’aria di essere un esperimento fallito, una prova assai palese che anche i letterati più anticonformisti non sono in grado di scalfire l’ipocrisia sociale ». Sul suo volto vi era adesso un’ombra di tormentata rassegnazione, di velata delusione. « Non sai quanto sarei felice, Adele, se tu potessi comprendere quello che dico! »
               
Adele era raggelata, completamente presa alla sprovvista da un cambiamento d’umore tanto repentino quanto inaspettato. La padroncina che, fino a qualche secondo prima, aveva reso evidente il lato peggiore di sé, era ora incline ad una scura tristezza d’animo; il viso pallido, precedentemente sede d’un’ira disinibita, adesso veniva invece colorato di un rossore non di vergogna, ma di esausta consapevolezza. 
               
Doralice, lo sguardo perso e carico di terrore, riprese quindi a parlare lentamente. 
               
« Quel libro si è preso fin troppo di me... riesco a sentire che mi manca qualcosa, che quella perfezione d’essere ha subito una brusca violazione. Non sono sicura che sarebbe di mio apprezzamento mettermi davanti a uno specchio e scorgere cosa si cela dall’altra parte, in questo momento. Mi sento decurtata, avvilita, sporca ».
               
Adele si sforzò di non mostrare il minimo compatimento. « Sei certa che questa innegabile combinazione di sfortune non sia dovuta al tuo pessimo comportamento? »
               
Doralice era ferrea. « Reputo di mia predilezione ostentare un’indole più cruda e diretta, purché sia estranea a falsità di qualsiasi genere. Non è l’esteriorità di cui ho timore, ma ciò che possa deteriorarsi dentro di me. Sono parte delle poche persone, Adele, che reputano l’essere assai più prezioso ed affascinante dell’apparire ». 
               
A quel punto Adele, senza trovare nient’altro da controbattere, decise che era giunta l’ora di versarsi del tè, e in seguito convenne che non era il caso di aspettare il permesso della signorina per servirlo anche a lei. Doralice, dal canto suo, rimase immobile per una buona manciata di minuti, assorta nella sua totalità in ragionamenti intricati e meticolosi, alla ricerca di risposte secche e risolutrici. Nel suo animo albergava ora un fastidio alquanto irritante, come se un uccello, pronto a spiccare il volo, fosse stato improvvisamente strappato della sua ala migliore, e fosse stato messo a nudo della propria indisposizione.
               
Tale atmosfera quasi accogliente di quiete incontaminata, tuttavia, non era destinata a perdurare a lungo. Ad un tratto, infatti, il viso di Doralice si accese di un’energica trepidazione, e le sue membra furono percorse da brividi di istintiva attività. Quindi si alzò, la sicurezza che trapelava da ogni suo nuovo gesto; la sua mano era ferma, la sua indole maniacale, nel momento in cui afferrò il romanzo di Goethe e prese a strapparne le pagine, una ad una, con una placida serenità dipinta in volto ed un’intensa soddisfazione a contornarle il sorriso. Adele la osservò ad occhi spalancati, incerta, in primo luogo, se intervenire o rimanere solamente un’ansiosa spettatrice. Un nitido squarciare invase l’aria, mentre la pila di carta sminuzzata di fianco a lei cresceva, con il passare dei minuti, fino a raggrupparsi in un mucchio denso e pericolante. I movimenti di Dora erano meccanici, netti e consapevoli; una notevole maestria irradiava da essi, ferma e a tratti presuntuosa.
               
La governante, sconvolta da una tale prassi d’atteggiamento, stabilì dunque di interrompere l’atmosfera raccapricciante che si era creata avanzando domande generiche, le quali potessero in qualche modo distrarre la padroncina e convincerla a desistere da tale operosità.
               
« I preparativi per l’imminente partenza sono già stati ultimati? » 
               
Doralice, senza distogliere lo sguardo vacuo dal romanzo deturpato, percepì un brivido lungo la schiena e un battito irregolare nel petto. 
               
« Reputo alquanto inusuale questa tua domanda, dal momento che solitamente tu sei già a conoscenza di qualsiasi dettaglio riguardante un certo argomento, prima ancora che io ne scopra l’insieme generale ». La sua voce era piatta, atona; l’attenzione verso la domestica, incupita e confusa, era quasi inesistente. 
               
Adele, tuttavia, si aspettava una risposta del genere. « Da quel che so, vostra madre è impaziente, e si è subito premurata di organizzare il viaggio più sicuro che si possa pianificare ». Doralice non palesò il minimo interesse al riguardo, ma c’era un qualcosa, nell’improvviso corrugamento del suo viso, che spinse la governante a continuare imperterrita. « Vostro padre è un uomo di mondo, e come tale non ama infinocchiarsi con simili faccende. Vostra sorella, però, è talmente irrequieta da creare abbastanza trambusto per tutta la famiglia ».
               
« Eleonora ha la fastidiosa capacità di peggiorare persino le più orribili fra le giornate » concordò Doralice distrattamente. Poi aggiunse: « Hai novità sulla salute di Federico? Sono dell’idea che l’aria aperta non sia sufficiente per rinvigorirlo del tutto ». 
               
« Il medico assicura che le sue ossa si stanno irrobustendo, ma personalmente sono abbastanza scettica ».
               
Doralice si apprestò a strappare gli ultimi fogli rimasti. « Adele cara, se c’è un’unica cosa in questa vita su cui non possiamo essere scettici, tale è la scienza ».
               
La domestica sbuffò lievemente nel tentativo di nascondere la propria contrarietà. Dora, nel frattempo, terminò il proprio lavoro con febbrile soddisfazione e rimase ad osservare i frammenti accartocciati dispersi sul tavolo. 
               
« Non hai idea, Adele, di quanto la mia anima sia rimasta impregnata dell’inchiostro di queste pagine; di quanto percepisca questi come brandelli di me stessa. Minuscoli, impercettibili brandelli. Eppure, ognuno di loro conosce una parte di me che è oscura a tutti gli altri. Detestabile, non trovi? Essi mi contengono, ma all’infuori di me. Dimmi, secondo te potrei mai permettere una cosa del genere? »
               
Il tono di voce era tetro, ricco d’un’ira che pareva rivolta per la gran parte contro se stessa. L’espressione era a tratti arcigna, subdola; lo sguardo, fisso e intenso, era attraversato da un lampo lugubre di realizzazione e la vestaglia, sgualcita e in uno stato alquanto malconcio, era elettrizzata dal tremolio dei suoi arti.
               
In preda ad un’indecisione momentanea, Adele infine optò di socchiudere gli occhi e portarsi la tazza di tè alle labbra, decisamente bisognosa di una rinfrescata addolcente. Le sue dita tremolarono febbrilmente nel sorseggiare la bevanda, e le sue sopracciglia si arcuarono notevolmente nel momento in cui Doralice, alzatasi di getto, si diresse a passi decisi fuori dalla stanza, senza proferir parola alcuna. 
               
Al suo ritorno, in uno strascicare rintronante di tessuto, ella era orgogliosa di poter manifestare una gioia indomabile, una calorosa compiacenza che, adesso più che mai, riuscì a dare conforto ad un’Adele vittima di vane preoccupazioni. Un senso di sollievo le pervase le membra, alla vista della padroncina ritornata finalmente in sé. 
               
« Oh, Dora mia, il vostro sorriso rimane la migliore fra le gratificazioni di spirito! » esclamò portandosi le mani al cuore. « Sono felice che abbiate ritrovato pace con voi stessa! »
               
Doralice, beandosi di tali attenzioni, si fermò davanti all’ammasso di carta da lei creato e si frugò nella tasca interna, fino a che non ne emerse un’acciarino dal manico in madreperla, sfarzosamente intagliato e finemente decorato. I suoi occhi si illuminarono di un’allegria serafica; le sue gote, rosse per l’eccitazione, vibrarono in estasi.
               
Adele si rabbuiò. La sua espressione divenne così incline al terrore, così prossima alla disperazione più estrema, da dipingere il suo viso di un pallore spettrale. L’intera realtà le parve fermarsi, intrappolarla in una coltre di rigida immobilità. Non fece in tempo a comprendere la gravità di ciò che stava accadendo, che una lingua di fuoco, malefica e vorace, scaturì dall’estremità della piastra, investendo con violenza il tavolo fra cui le due si trovavano. 
               
La governante si esibì in un urlo spaventoso, agghiacciante. 
               
« Ma siete uscita di senno? » fece balzando in piedi. I pezzi di carta, leggeri e benevoli nella loro insignificanza, si incenerirono al contatto con le fiamme, mentre un fumo acre e denso si levò in aria in una spirale vorticosa. Doralice, impassibilmente sicura di sé, si percepì sempre più libera e sollevata col divampare dell’incendio.
               
Adele, riacquisendo la sua frenesia innata, afferrò quindi il cuscino sulla poltrona vicina e tentò inutilmente di soffocare la pira. « Al fuoco! Al fuoco! » gridò poi, aprendo le porte che davano sul salone e sul patio. 
               
Dopo qualche secondo, un tramestio movimentato si fece largo fra i corridoi limitrofi, e la figura di Rolando, scombussolata all’interno della giacca ingrigita che soleva indossare la sera, proruppe in un chiassoso boato. « Ma cosa diamine è successo? » tuonò in cerca di spiegazioni. Osservando la portata delle fiamme, si volse poi verso la governante: « Presto, Adele, al pozzo! »
               
Doralice parve rinvenire dalla leggerezza paradisiaca che l’avvolgeva. 
               
« Non vi sfiori neanche il pensiero! » strillò con vivida ostinazione. « Il fuoco è purificatore: agisce con molta più efficacia di una confessione sulle nostre anime peccaminose! » 
               
« Voi siete pazza! » ribadì la domestica, terrorizzata e tremante, prima di lasciare la stanza. « Vi consiglio vivamente, signor Guerra, di tenere d’occhio cosa legge vostra figlia d’ora in poi, se non volete finire carbonizzato! »
               
Rolando era livido; sul suo collo, tozzo e robusto, una vena pulsava visibilmente, mentre le sue braccia erano preda a convulsioni irreprensibili. Doralice, notando l’austerità dei suoi modi e la gravità del suo sguardo, non riuscì a trattenere una risata liberatoria. 
               
« Caro padre, ma guardatevi! Impettito nel vostro ruolo di patriarca, corroso nella vostra mentalità chiusa e retrograda! Voi non siete altro che un veleno, vi dico ». Doralice era rinsavita. Sebbene l’aria stesse divenendo assai irrespirabile con l’accrescere dell’esalazione, ella era pronta a scommettere che i suoi polmoni non avessero mai funzionato meglio. Si sentiva alleviata, svincolata da un peso considerevole, quasi svuotata. « Voi siete tutto ciò di cui la natura debba provar vergogna; ogni vostro gesto è ipocrita, ogni parola frutto di simulazione ».
               
« Potrei sapere la motivazione di tutte queste urla? » 
               
Clotilde, non appena mise piede nella biblioteca, fu quasi vittima di un mancamento che costrinse il marito a trasportarla lontano nell’immediato. Adele, affaticata dal viaggio e carica di secchi pieni d’acqua, si fece strada dal patio con crescente premura. Dopo un minuto abbondante, anche l’ultima lingua infuocata fu domata in un crepitio fastidioso, e tutto ciò che rimase del romanzo e del tavolo su cui esso era stato spezzettato, si concretizzò in un accumulo di cenere nera come l’inchiostro
               
Adele, adirata ed avvampata per la fatica, si volse quindi verso la padroncina che si crogiolava in un sorriso a trentadue denti. Le sue labbra tremavano ancora. « Siete di una mostruosità inaudita! Credo di non aver mai conosciuto qualcuno più deviato di voi! »
               
Doralice non si scompose minimamente; invero, colse in quell’accusa anche una vena di profonda ilarità. « La mia è una devianza di conforto, in un mondo in cui la rettitudine è ciò che di peggiore si possa seguire ».
               
Detto ciò, ella uscì dalla stanza saltellando. 

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Capitolo 3
*** III ***


III

 
          Filtrata dai rami affusolati dei cipressi di Roverchiara, l’alba diffondeva nitida pennellate indistinte di luce neonata, e le nuvole, veli increspati nella volta cerulea, parevano arrossire dal pudore di essere illuminate e ritirarsi discrete fra i grugniti del vento. Doralice si trovava appresso all’enorme orologio a pendolo che, ticchettando attimi d’un infinito divenire, abbelliva lo studio in cui il padre soleva ritirarsi quando gli affari pubblici gliene garantivano l’occasione; accanto allo scrittoio lucido e finemente intagliato, ella scrutava fuori dalla finestra con vivace contemplazione, ostinatamente certa di aver scelto come antro personale il salone più distante dall’ingresso in cui, con fervente dimestichezza, gli ultimi preparativi per l’imminente partenza venivano ultimati. La lunga veste da camera che le ingabbiava il corpo, ancora esile e acerbo, le pizzicava la pelle in maniera irritante, e la sua chioma, intrappolata finemente da una treccia solitaria, raccoglieva le gocce di sudore che le imperlavano il collo per via del caldo eccessivo. 
          La vetrata dinnanzi a cui trascorreva il mattino, impreziosita da lievi tocchi di polvere al bordo degli angoli, rifletteva l'immagine d’una fanciulla dal volto torbido e impensierito, inerme alle carezze del sole nascente e restìa nel dedicarsi a qualsiasi occupazione che potesse distrarla dal più piccolo pensiero. Fugaci ricordi del giorno prima continuavano a ritornarle alla mente, obbligandola a reprimere l’impulso di mordersi la lingua per la frustrazione e la collera; un flebile, piacevole formicolio gioiva nel solleticarle il ventre, provocandole un rossore d’eccitazione sul volto, simile a quello che la gente rispettabile avverte nel ricevere il calore d’un abbraccio indelebile. La potenza del fuoco le faceva ancora vibrare le ossa, resti d’un’anima succube, affranta, prigioniera indomabile d’un irrazionale impulso di distruzione. Doralice n’era consapevole, eppure adorava fingere, nel corso delle sue giornate, di non essere depositaria d’un tale turbamento interiore. Ella amava plasmare la duttilità del suo carattere, e sfruttava questo passatempo per consolare se stessa dei suoi travagli psicologici; l’avventatezza del giorno precedente era dunque da ricondurre ad una delle tante Doralici che albergavano dentro di sé, e l’animo ch’era stato in grado di realizzare un’azione tanto sconsiderata doveva per forza appartenere ad una creatura differente da quella che si stava specchiando nel vetro, in quel mattino colorato. Da ciò trapelava la certezza che lei non avesse in realtà nulla di cui rimproverarsi circa i recenti avvenimenti, e questa consapevolezza le consentiva di dileguare qualsiasi superflua preoccupazione sull’accaduto. O perlomeno, questo era ciò che bramava ripetersi con una dovuta serietà ed una altrettanto estenuante solerzia, ogni qual volta avesse necessità di sentirselo dire.
          «Ammetto di essere alquanto delusa. Supponevo che trovarti sarebbe stata una faccenda assai più complicata e dispendiosa d’energie». Si udì lo scatto di una serratura. «Invece questa volta sei stata sorprendentemente prevedibile».
Dora non palesò intenzione alcuna di voltarsi. Il ritmo concitato dei passi della madre, udibile fin dall’estremità più remota del corridoio antistante, le era apparso a tal punto famigliare da non destarle il minimo dubbio, e il tono fastidioso ed irritante della sua voce non aveva che confermato le sue precoci convinzioni. Clotilde Pindemonte era giunta, come accadeva in ogni occasione di cui lei avesse memoria, per sentirsi dare ragione; e Doralice, come accadeva in ognuna di queste circostanze, era più che mai determinata a non lasciar trapelare il minimo interesse verso le sue intromissioni.
          «Deludente è anche la strategia che stai utilizzando per escludermi dalla tua vita» aggiunse approssimandosi a lei. «Al contrario di come pare avvenire alla tua facoltà di giudizio, non è sufficiente ignorarmi per scacciarmi via».
          Dora serrò i pugni. «Immagino che questo possa offrirti delucidazioni sui risultati della tua formidabile educazione». Poi si voltò e la squadrò con aria di accusa. «Sarebbe un folle chiunque si abbassasse ad ascoltare le elucubrazioni sulla facoltà di giudizio di una strenua paladina delle più stupide tendenze».
«Lungi da me invogliarti ad intraprendere un percorso che sembra attirarti efficacemente senza il mio aiuto. L’unico mio auspicio è che tu riesca a ritornare suoi tuoi passi in tempo, prima di rendere la follia la tua astuta e inconscia amante».
          «La follia non è un’amante fedele. Essa è esperta nel tradire e ricattare» ribatté la fanciulla.
          Clotilde aggrottò la fronte e assunse un cipiglio d’irritazione. «Eppure sembravi andarci d’accordo ieri pomeriggio, quando hai trovato saggio scatenare un incendio nel mio salone». Il suo sguardo si tinse d’intensa profondità. «Non sono più disposta a tollerare comportamenti simili. Non finché tu puoi approfittarti dell’agio di questa casa, e delle cortesie della nostra Adele. È ora che impari cosa siano il decoro ed il rispetto; e se non possiedi la bontà necessaria per mostrarli di tua spontanea volontà, considerali un pegno da pagare per tutta la ricchezza di cui ti puoi approfittare».
         Doralice mantenne fissi gli occhi in quelli della madre. «Se credi che sia il denaro ciò che mi sta più a cuore, potrei averti sopravvalutata come genitrice. Non che abbia mai avuto un’alta opinione di te, comunque».
         Clotilde si morse il labbro con un’aria infastidita; poi estrasse un ventaglio dal soprabito da viaggio che le circondava le spalle, e prese a sventolarlo con mani tremanti. Dal suo volto traspariva ansia, e tacita arrendevolezza. Trascorsero minuti silenziosi e assillanti, in cui Dora fu certa di avvertire un fastidio sempre più pesante gravitarle nello stomaco, una sensazione proibitiva e cagionevole farsi strada nei meandri del suo essere. Le pareti attorno a lei parevano farsi più anguste e ritirarsi su sé stesse fino a comprimerle il petto; l’aria, coltre irrespirabile per un’esistenza nociva, le perforava il torace in piccoli buchi da cui sgorgavano rivoli d’ira e disperazione. La sensazione avvilente di sporcizia, che tanto l’aveva infastidita il giorno precedente, tornò a marchiarle la pelle, nuda e pallida e spettrale. I raggi del sole, prima carezzevoli e rassicuranti, ora la violentavano con feroce irruenza; il tempo diveniva una collezione di supplizi consecutivi, uno più acuto dell’altro. Il suo cuore riprendeva ad esitare.
          «Io non ti capisco».
         Il sussurro della madre, perenne movente d’ostilità e fonte di disprezzo, ebbe l’accortezza di offrirle un rifugio. Dora tentò d’aggrapparsi all’inusuale appiglio senza lasciare che la propria sofferenza avesse la meglio sul suo rigido contegno esteriore. Il suo sguardo acquisì un’orgogliosa malinconia. «Tu non mi conosci».
        Clotilde parve ricevere uno schiaffo in viso. La collera serrò la sua mascella con una rigidità tale da evidenziarne le prime rughe in prossimità del mento. «È vero» convenne dopo qualche attimo. Il suo tono era una fredda esalazione di labbra insicure. «Io non ti conosco. Fai vanto d’essere un’estranea a cui capita di cenare al mio desco, e di vivere sotto il mio tetto. Io non so nulla di te, se non che hai deciso di respingere una madre dedita alle facili preoccupazioni e ai sentimenti inconsiderati. La mia anima è divenuta un pozzo di solitudine ed incomprensione. Ogni mattina, davanti allo specchio, scorgo nel mio volto una marcata sfumatura della tragedia che alimenta la mia vita. Ciascun attimo delle mie giornate è imbevuto delle più depresse afflizioni d’animo, perché mi hai saputo strappare via l’unica forma di conforto di una madre: la possibilità di amare sua figlia. Così ora esibisci una presenza straniante, e i tuoi occhi celano due baratri in cui alberga l’ignoto. Dunque chi sei tu? Mi stai mostrando il volto di uno sconosciuto».
         Allora Doralice fu percorsa da un brivido di piacere; la sua espressione, teatro improvviso di fervida regalità, s’impadronì d’una calma trasparente. «Io sono il flebile respiro della Volontà. Schiava della mia schiava. Io sono la voce delirante che ride davanti alla vergogna di Dio. Io sono l’enigma più difficile: quando ti sembra di approssimarti alla soluzione, sai che devi ricominciare da capo».
      Sua madre fu costretta a sorreggersi al davanzale per non perdere l’equilibrio. Dora non riuscì a evitare che un ghigno di rinnovata soddisfazione sgorgasse dalla sua instabile, cupa interiorità. La fanciulla ora irradiava sollievo, fierezza, libertà assoluta. Rinata foce di vivida autocoscienza.
      Clotilde si esibì in un’espressione indecifrabile; al di sotto dell’abito che le abbelliva il corpo, i suoi arti tremolavano febbrilmente. Poi alla mente le giunse una realizzazione. «È senz’altro colpa dei libri che leggi». Lo ripeté tre volte, annuendo con alterigia, prima di aggiungere: «Adele l’ha intuito e ha avuto l’accortezza di dirmelo, e ora mi è chiaro l’effetto che essi hanno sulla tua mente, e sulla tua condotta. Fluiscono come veleno nei tuoi ragionamenti, ti seducono con la loro avvenenza e mortificano la tua essenza giorno dopo giorno».
       Doralice interpretò la voce della madre come un ronzio sussurrato debolmente e spezzato dalla più delicata raffica di vento. Qualsiasi cosa fuoriuscisse dalla sua bocca era ora banale, nudo rumore di sottofondo.
      «Dimmi il titolo di un libro che ho letto» la sfidò allora, tentando di demolire quella muraglia dal nome vittimismo dietro cui la madre spesso amava nascondersi. Clotilde non lasciò intravedere nemmeno l’intenzione di sforzarsi nell’impresa; si limitò ad incrociare le braccia al petto e arricciare il naso, chinando il capo con rammarico. Dora scoppiò a ridere; poi si volse verso l’ampia finestra che aveva davanti e studiò il suo riflesso per qualche secondo. Quando tornò a parlare, il cuore le palpitava in fermento. «Desideri sapere che cosa penso?» Ci fu una breve pausa, prima che proseguisse. «La trasparenza è debolezza, e l’onestà è soltanto un difetto. La solitudine è l’unica compagna ideale a cui i segreti possano essere confidati. La condivisione della coscienza la espone al pericolo dell’influenza del prossimo; il sapere è figlio del controllo. Si tratta di potere. Di chi sa abilmente esercitarlo, e di chi inconsciamente lo subisce. Io ho potere su di te, perché di te so anche il più piccolo dettaglio. Ma io per te sono un mistero, e questa oscurità ti sta accecando; io sono infiniti passi innanzi a te, e tu non sai ancora che stai camminando».
         Clotilde non riuscì più a trattenersi e proruppe in un pianto addolorato. Doralice, nota per il senso di disagio che inavvertitamente la coglieva ogni volta fosse testimone di un tale scompiglio emotivo, colse l’occasione per avere l’ultima parola.
         «Per quanto sia di tuo gradimento perdere tempo in questa maniera, la cara Adele sarà già in pensiero per la nostra assenza prolungata» disse. «Meglio non far attendere gli austriaci: non sono noti per la loro pazienza».
          Dunque, senza degnare la madre di uno sguardo, Dora si allontanò dalla vetrata ed uscì dalla sala, premurandosi di chiudersi la porta alle spalle, con un enigmatico sorriso a deformarle i lineamenti del viso.
 
 

 
          La Chiesa di San Zeno, pupilla dell’iride cittadina, arricchiva il mattino con il consueto rumore assorto delle sue campane, e lungo le vie era possibile scorgere il tramestio dei primi lavoratori che si allontanavano dall’uscio di casa, bipedi macchie in un dipinto dalle tinte calde e invitanti. La fragranza del pane appena sfornato si diffondeva anche fra le strade più remote, scandendo il risveglio di coloro che ivi conducevano le loro vite. In lontananza, si poteva già avvertire il lieve nitrito dei cavalli che si destavano sgranchendo il muso; le prime carrozze, abbellite di tutto punto, calpestavano ormai i ciottoli colorati con le loro ruote pesanti.
          Eleonora Guerra s’incamminava rapida all’estremità di un vicolo che sfociava lungo gli argini dell’Adige. Le sue mani, generalmente fini ed eleganti al di sotto di morbidi guanti di stoffa, palesavano ora evidenti segni di trascuratezza e incuria; il completo sfarzoso che avrebbe dovuto esibire durante il viaggio di famiglia era ancora appeso nell’armadio di casa sua, e al suo posto ora indossava abiti beceri e trasandati. La grazia affascinante che il suo portamento poteva giustamente vantare, e per la quale era spesso elogiata nei salotti più altolocati, aveva lasciato il posto ad un manierismo più rozzo e ad un’andatura più accidentale. La pettinatura scomposta e gli stivali macchiati, in cui i suoi piedi potevano entrare almeno tre volte, contribuivano a trasmettere l’idea di una popolana confusa, avvezza alla vita di strada e ai costumi da mendicante.
         Nora avanzava dunque goffamente ed indiscreta, con quell’aria di spontanea innocenza per la quale era naturalmente portata, dignitosamente certa che anche la più esperta fra le pettegole del luogo avrebbe incontrato ardue difficoltà nel riconoscere la sua identità. Dentro di sé, un gaudio profondo germogliava. Sebbene non fosse la prima volta che la sua indole la obbligava a trovare una via di fuga dalla cancerogena vita nobiliare, tanto abile nell’ingabbiarla quanto nel deturparla, era comunque innegabile la rinvigorente sensazione di sollievo che la coglieva ogni qual volta riuscisse ad eludere i propri doveri di dama dell’alta società. In quel momento, ogni suo passo cadenzava il ritmo di una leggera emancipazione a lungo rivendicata, e il suo sorriso poteva evocare una sincerità finora recondita e inespressa. Era libera. Era potente.
          Giunta al limitare del sentiero sterrato che stava percorrendo, si ritrovò davanti alla consueta catapecchia abbandonata che l’aveva ospitata in molteplici occasioni, e a cui ricollegava una sensazione di famigliarità che la sua dimora non avrebbe mai potuto pretendere. Ad accoglierla all’interno, come di consueto, v’era un giovane dalla corporatura massiccia e la carnagione abbronzata, con una cicatrice sul labbro inferiore e delle leggere efelidi sul viso.
         «Finalmente, Màlia!» esordì andandole incontro. Durante il fugace bacio che i due si scambiarono, Eleonora poté avvertire il calore che irradiava dalla sua pelle abituata al sole, e il lezzo di terra di cui erano impregnati i suoi indumenti da lavoro. «Iniziavo a pensare che mi avresti lasciato senza un ultimo saluto».
       «Io mantengo le mie promesse» rispose lei. Al di sotto delle sue lunghe ciglia brune, gli occhi gagliardi brillavano vividamente. «Ma dobbiamo sbrigarci, Berto. La compagnia di guitti che serve mio padre partirà a minuti, e non posso farli tardare. Il viaggio che ci attende è lungo e insidioso».
        Alberto si rabbuiò. «Non sei obbligata a partire. Tuo padre potrebbe mettersi al servizio di qualcun altro, o smettere di essere un mezzadro». Sospirò, sollevando lo sguardo. «Mi sento come se mi stessi abbandonando, come se fossi intrappolato in un vicolo cieco e non potessi nemmeno urlare».
        «Ne abbiamo già parlato» ribatté. «Il debito che mio padre ha nei loro confronti è troppo grande per essere tradito. Ci hanno salvati da una terribile morte d’inedia, accogliendoci in casa loro». Nora parve esitare, ma non perse la sua compostezza. Poi gli prese il volto fra le mani e inscenò un senso di audace costernazione. «Lo sai che fuggire sarebbe l’ultima cosa che prenderei in considerazione. Tu sei l’unica ragione per cui sorrido durante il giorno, e la prova concreta che ho un cuore che batte. Perché lo avverto, in ogni momento, quando ti penso. Detesto l’idea di perderti, ma sono forzata ad andarmene».
          Lui la strinse a sé. «Promettimi che mi ricorderai, e che mi penserai ogni giorno» le disse.
        Si scambiarono un secondo bacio, in cui Eleonora si accertò di impiegare il massimo impegno che riuscisse a sfoderare. Quando si separarono, le sue labbra tremolavano. «Te lo prometto».
        I due rimasero abbracciati mentre i primi raggi del sole si intrufolavano fra le fessure del soffitto, scie dal calore materno e accogliente. Lo scrociare dell’acqua del fiume rimbombava fra le umide pareti che li separavano dalla mondanità; all’interno dominava un’atmosfera quieta e candida, intervallata soltanto dai profondi respiri dei due amanti della baracca, protagonisti della nuova alba.
           A sciogliere l’intreccio fu Nora. «Mi hai portato quello che ti ho chiesto?»
          Berto annuì dolcemente, socchiudendo gli occhi; in seguito si tastò la tasca posteriore dei pantaloni e ne estrasse un involucro ben impacchettato che si premurò di maneggiare con estrema cautela. «Ecco qua» e lo tese a lei. Poi abbozzò un sorriso malinconico. «Forse l’unica cosa che posso permettermi di regalarti».
          Eleonora arrossì. «Probabilmente l’unica cosa che posso accettare».
          Lui le accarezzò il viso con studiata delicatezza e poi indicò il pacchetto. «Questo a cosa ti serve, comunque?»
         «Mio padre è convinto che possa aiutare a conservare i vegetali che coltiva. Sarebbe una comodità che ci è sempre stata negata» fu la risposta. «Ma ora che dobbiamo partire non può più farne a meno».
         «Capisco» disse lui.
        Eleonora lo prese per mano e lo condusse all’entrata. Al di fuori, i primi uccellini della giornata iniziavano ad appollaiarsi sul tetto, e in prossimità si potevano già distinguere i passi dei consueti viandanti, e il mellifluo ridacchiare di qualche prostituta del paese. Berto deglutì a fatica e non distolse lo sguardo dal corpo dell’amata, ora illuminato da una luce radiosa, fonte benedetta di diletto. Lei tornò a fissarlo.
         «Dimmi che mi ami».
         «Ti amo».
         «Dimmi che mi vuoi».
         «Ti voglio, sempre».
        Mentre le campane tornavano a risuonare per le vie, i due si baciarono per l’ultima volta. Quadro di gote umide e parole dimenticate. Le loro mani si riscaldavano a vicenda per l’ultima volta.
         «Tornerò» affermò lei, la convinzione palpabile negli occhi spalancati.
         Lui le solleticò i capelli e le assicurò: «Io non vado da nessuna parte».
         Poi le avvicinò la mano alla bocca e appoggiò lievemente le labbra su di essa. Un baciamano. Pegno d’amore d’un amante insaziabile. Il gesto, che a lui convenne come una spontanea conclusione per un addio inevitabile, colse lei completamente alla sprovvista. Nora, avvezza a praticare tale meccanicismo nel corso della sua vita quotidiana, venne investita dell’immediata consapevolezza che lui aspirava a concederle proprio ciò da cui lei tentava disperatamente di fuggire. La fastidiosa convenzionalità che la assorbiva durante le sue giornate sfruttava un’aggressività tale da costringerla ad improvvisare assenze premeditate per non soffocare. La vita da Guerra rischiava di trascinarla in un cupo oblio di commiserazione, monotonia e amarezza. Màlia le dava l’opportunità di respirare apertamente, fra un corsetto e quello successivo. Ma ora Berto intendeva fare di Màlia la sua personale, insostituibile Eleonora Guerra. Un grave senso di sconforto prese ad invaderle l’animo e ad appesantirle l’essere. Si sentiva di nuovo in trappola. Condannata. Inerme.
         Tremando, rivolse un ultimo sguardo disperato all’amato, per voi voltarsi e scomparire dietro l’angolo. Lui provò a chiamarla ripetutamente, ma lei non reputò di fermarsi neanche una volta. Il suo cuore premeva nel petto come un macigno destinato a crollare. Prima che potesse accorgersene, lacrime salate le solcavano il volto come rivoli d’acqua dolce che attraversano una valle. Ogni passo era più difficile del precedente, adesso. Quando infine si ritrovò davanti all’ingresso secondario della sua abitazione, nel suo sguardo dimorava un’esausta arrendevolezza. Adele la stava aspettando.
      «Sbrigatevi signorina!» le sussurrò con vispa maniacalità. «La signora Pindemonte al momento è impegnata a cercare vostra sorella; sarebbe uno sfortunato inconveniente se dovesse incontrarvi addobbata con un tale vestiario».
      Nora si asciugò rapidamente il viso e, nell’entrare in casa, si tolse la parrucca che Màlia soleva sempre portare. «Questo vestiario mi rispecchia. L’Eleonora che conoscete voi è solo un’infelice maschera a cui non sono ancora riuscita ad abituarmi completamente».
         Adele aprì l’armadio della sua camera ed estrasse un lungo abito da viaggio. «Sarà meglio che quell’Eleonora sia presentabile e di buon umore quando vostra madre verrà ad annunciare la partenza».
       La fanciulla si spogliò degli stracci che aveva addosso e trascorse i successivi minuti a prendersi cura di se stessa, ripensando a tutto ciò che aveva vissuto quella mattina. Le sembrò dunque doveroso rivolgersi alla domestica ed adornare il suo volto del consueto sorriso che le faceva da firma. «Carissima Adele, credo di non averti ancora ringraziato abbastanza per quello che fai per me. Sei la mia àncora di salvezza in una famiglia che cerca di farmi affondare giorno dopo giorno. Ti sono profondamente debitrice».
          Adele strinse le labbra. «Sai che non sono una grande estimatrice delle parole spoglie» obiettò. «Sei riuscita a procurarti quanto mi serve?»
        Eleonora sorrise e le porse il fagotto che Alberto le aveva consegnato con tenero orgoglio. La donna scartò la confezione ed esaminò con cura quanto conteneva. Una smorfia di soddisfazione le deformò il viso.
          «Per lo meno adesso potrai risolvere il problema del tuo orto» la rassicurò Nora.
          «Oh sì» concordò lei. «L’arsenico sa essere un ottimo e diligente risolutore di problemi».
 
 
 

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Capitolo 4
*** IV ***


IV

 
          La via principale, lingua grigiastra acciottolata e arida, pareva rincorrere il sole che scivolava remoto oltre le siepi più alte, mentre la brezza leggera che soffiava da nord solleticava affabile anche le più spesse insegne cittadine; le criniere dei destrieri, che solcavano il terreno rosseggiante sollevando flebili nubi di polvere, luccicavano indistintamente per il riflesso che i raggi dipingevano sulle diligenze. Le sfarzose, raffinate carrozze della famiglia Guerra, saettanti culle luminose e senza contorno, adombravano i modesti carri a trazione che più frequentemente si potevano scorgere in paese, usualmente di proprietà d’un mastro o d’un contadino che, soprattutto nei giorni in cui la pioggia graffiava irriverente sui cipressi, soleva esibirsi in un devoto segno di croce ogni qual volta scorgesse il rosone d’una chiesa vicina.
          Doralice, rannicchiata nell’estremità sinistra del secondo scompartimento della vettura, ne aveva già contati tre dal principio del viaggio. Il primo era stato d’una donna anziana, matriarca rigida nel portamento e austera in ogni sua più piccola fattezza, che aveva spalancato le braccia e ringraziato Dio alla notizia che nessuna ferita mortale sarebbe riuscita a sottrarle l’unico figlio maschio di cui poteva farsi vanto, impegnato a prestare servizio militare per gli austriaci. A quel punto la massaia s’era portata al viso le lunghe mani nodose, impreziosite di lievi calli e scottature, e s’era abbandonata ad un teatrale esibizionismo emotivo verso cui Dora aveva covato profondi e costanti moti d’irritazione. Infinita è la misericordia di Dio.
          Il secondo segno di croce, invece, era da ricondurre ad un mendicante dal naso rosso e corrotto dalla malattia, gli occhi vispi adornati da folte sopracciglia scure, a cui un bambino dalle gote paffute aveva offerto un tozzo di pane appena comprato. Il clochard, da sotto le vesti luride e ricoperte di muco che ne inasprivano l’arcigno fetore, l’aveva agguantato con le dita simili ad artigli virulenti, e dalla sua bocca Dora aveva visto fluire della viscida bava giallognola. Dio sia con te.
         Il terzo, infine, apparteneva a sua madre, la quale aveva pregato ardentemente affinché il viaggio trascorresse cheto e senza intoppo alcuno. Ci affidiamo alla protezione del Signore, Dio nostro. Rolando l’aveva assecondata, chiudendo gli occhi, nel recitare il Salve Regina. Doralice era riuscita a stento a trattenere la propria ilarità, e aveva faticato assiduamente a tramutare l’eccesso di risa che s’era fatto strada dentro di lei in un repentino colpo di tosse. E mentre il soprabito che la circondava insisteva nel soffocarla silenziosamente, ella prediligeva passare il tempo a scrutare l’ignota vita cittadina che intravedeva lungo le strade, verso la quale, spesso, la sua curiosità si indirizzava negli attimi più tediosi delle sue giornate.
          «Riesci a scorgere quella fanciulla intenta a raccogliere i funghi, laggiù in fondo?» le chiese suo padre, puntando l’indice lungo e raggrinzito verso il punto in cui la pianura precipitava a condirsi degli sterpi d’una piccola boscaglia. «Dio è nei bambini».
          Dora tentò di non mostrarsi infastidita. “Allora devono fare attenzione a non espellerlo, quando si servono del bagno” pensò. Ma la sua bocca, conducente all’albergo di tali idee ed immaginazioni, rimase una porta saggiamente chiusa, e quella di suo padre, dunque, non si premurò di liberarsi del suo compiaciuto sorriso.
          Doralice si voltò dunque verso di lui. Improvvisamente preda d’un’urgente insoddisfazione, con il sole ad illuminarle il viso ed il trapestio degli zoccoli dei cavalli in sottofondo, ella iniziò ad esaminare con minuzioso interesse l’uomo che le sedeva di fianco. Il suo sguardo, concentrato e attento, si tramutò in un rigido strumento d’indagine, e il padre parve divenire un subdolo enigma in attesa d’essere sviscerato, analizzato e logicamente riassemblato. Le lievi rughe che prosperavano al di sotto delle labbra erano il dettaglio più innovativo che Dora incontrasse nella sua figura intirizzita; l’alone d’un sorriso ancora gli deformava i lineamenti taglienti, e poco si abbinava alla tristezza che i suoi occhi faticavano a celare. Rolando Guerra era un uomo alla cui porta stava iniziando a bussare la vecchiaia; questa certezza non scaturiva tanto dal grigiore delle punte dei suoi capelli, o dall’indebolimento graduale dei suoi modi di fare, quanto invece dall’avvento d’una tetra malinconia ad accompagnare ogni suo gesto, e d’una crescente remissività ad appesantirne il portamento. Dal canto suo, Dora non poteva ritenersi afflitta per questa sua nuova mansuetudine, sicché andava ad aggiungersi alle debolezze su cui poteva agire per raggirarlo, ma al contempo non riusciva a risparmiare un discreto senso di pietà verso lo spreco ch’egli aveva fatto della sua vita, e l’impulso di sputargli addosso tutto il represso rancore che provava nei suoi confronti ritornava così a solleticare nuovamente la sua fantasia.
          «C’è qualcosa che t’affligge» sentenziò lui in tono mite ma incerto, dopo qualche secondo. «Non te lo leggo negli occhi, no, poiché il tuo volto, da che m’è concesso di rammentare, è sempre stato un’imperscrutabile maschera d’elegante indifferenza. Ma col tempo ho studiato a dovere i tuoi movimenti, ho conferito significato ad ogni tua reazione, e questo mi porta ad affermare che ora ci sia qualche infausto pensiero che non ti dà pace».
          Dora convenne subito che dargli ragione avrebbe significato conferire valore alle sue convinzioni, e non le garbava affatto esporsi in maniera tanto pericolosa e incauta al suo giudizio. Inoltre, il vivido ricordo dell’ultimo scontro verbale intrattenuto col padre, che aveva avuto luogo mentre il suo tavolo di pregiato cirmolo andava a fuoco e sua moglie era svenuta fra le sue braccia, contribuiva a rendere in lei il bisogno di confidarsi sempre meno appetibile. «Non più di quanto mi sia usuale» rispose, ma si rese conto d’aver offerto una giustificazione spoglia, carente d’un condimento necessario affinché riuscisse a sottrarsi alle sue inauspicate attenzioni. Quindi aggiunse, facendo in modo d’essere udita anche dalla madre: «Sono solo in pensiero per la salute di Federico. Lo spazio angusto di queste cabine non è fonte di conforto tanto per il suo corpo malato quanto per il suo animo dedito alla costante ricerca d’avventure».
          Il pretesto era efficace e, abbinato alla migliore espressione ansiosa che potesse inscenare, si dimostrò abile nel raggiungere lo scopo desiderato. Clotilde, che come di consueto non trovava nulla di male nell’interrompere le conversazioni altrui, le parlò infatti con palese inquietudine. «Sarebbe una più che ottima idea assicurarsi che il viaggio sia di suo gradimento, non trovi? Ti sarei grata se potessi alleviarmi d’una tale preoccupazione e andare ad accertarti del suo buonumore».
       Doralice aveva notato che, nel rivolgersi a lei con insolita disaffezione, la madre aveva coscienziosamente evitato di guardarla negli occhi, e s’era adoperata per nascondere il tremore da cui le sue mani erano state inavvertitamente colte; questo singolare avvenimento, rielaborato secondo una soggettiva interpretazione della sua mente, produsse un moto d’orgogliosa superbia dentro di lei, e gonfiò la già elevata considerazione che la fanciulla aveva di sé stessa. Dilettandosi per l’aura di potere che emanava in quel momento, Dora uscì dal coupé con un’andatura talmente sicura da fare in modo che a Rolando, immobile e taciturno ormai per abitudine, nascessero sul viso ulteriori rughe d’apprensione.
          Trovare Federico, mentre in lontananza s’udiva il fioco belare d’un gregge impegnato al pascolo, si rivelò un’impresa estremamente rapida e priva d’affanni. Il piccolo, che portava calzoni pesanti che gli sfioravano le ginocchia ed una casacca signorile chiusa sul davanti da grandi bottoni in corozo, stava ripiegato con la schiena adagiata contro la portiera della berlina e teneva l’orecchio premuto sulla parete dell’ultimo scompartimento, in cui Eleonora e Adele dovevano trovarsi nel vivo d’un piacevole colloquio. I suoi occhi si stringevano sovente per il fervido impegno, e spesso, se si prestava attenzione, lo si poteva scorgere mentre si portava una mano alla fronte, nel vano tentativo di scostare un ciuffo di capelli che seguitava caparbio a ostacolargli la vista. All’apparizione della sorella, un inavvertito rossore d’imbarazzo sbocciò sulle sue guance smussate.
          «Dovresti sapere, caro fratello, che origliare conversazioni altrui è l’attività prediletta di chi non sa intrattenerne di proprie» lo ammonì lei bonariamente. E prima che potesse reprimerlo, un sorriso di lieta beatitudine, a cui solo lui pareva avere accesso, le impreziosì i lineamenti del volto opalescente.
          «Davvero?» domandò Federico allarmato, chinando il capo. «E questo chi te l’ha detto?»
          «Io lo dico» fu la risposta. «E proprio in virtù di ciò dovresti attribuirgli ancora più importanza».
        Federico non riuscì a trattenere l’innocuo sentimento d’ilarità che tale sentenza riuscì a suscitare in lui, ma provvide a manifestarlo in maniera sommessa e pacata, in modo da non rendere ancora più malagevole la sua già precaria facoltà di respirazione. Poi si grattò il naso distrattamente e si ricompose.
          «Devo all’agitazione di mamma questo tuo interesse verso i miei passatempi?»
        Dora si meravigliò allora di provare, per qualche assurdo motivo, un senso di profonda umiliazione a causa di quella domanda inattesa; non si trattava d’una pulsione cieca e indomabile che minacciava di divorarla dall’interno, o d’un moto d’offesa in grado di sottometterla ed irretirla, ma piuttosto d’un ovattata sensazione di instabile e fastidiosa screpolatura. L’era parso all’improvviso d’assistere alla demistificazione della messa in scena che si forzava d’interpretare ogni giorno, ed ora si percepiva come un involucro nudo ed esposto che lentamente s’andava svuotando delle frivole costruzioni mentali verso cui s’era dimostrato, col tempo, saturo e insofferente. E poiché per la fanciulla sarebbe stato un peso insostenibile affrontare lo smascheramento della propria apatia e conferire fondamento alla propria natura scostante e insensibile, ella non vide altra soluzione che ricorrere a ciò che sapeva fare meglio.
        «Per quella donna anaffettiva e priva di compassione sia tu che io non siamo degni di considerazione alcuna» finse, ammorbidendo il tono di voce. L’arte della menzogna aveva da sempre trovato in Doralice una più che devota apprendista e, ora che s’era impratichita nell’aggiungere anche una credibile gestualità alle sue fandonie, ella si palesava oramai a suo agio anche nelle più impervie simulazioni. «La ragione per cui mi sono recata da te, che si accompagna ad una sentita curiosità nei riguardi del tuo benestare, è la necessità d’allontanarmi da un luogo infettato dalla sua presenza immane ed agghiacciante».
        Federico proruppe in una sequenza di colpi di tosse rauchi e frammentati, come se l’apprendimento di quella notizia gl’avesse provocato dell’afflizione fisica non indifferente. Dora estrasse dalla manica del proprio soprabito un fazzoletto di seta e glielo offrì da porre davanti alla bocca; nel frattempo, gli cinse le spalle con il braccio illuminato dal sole e s’avvide d’assumere un’aria affranta e consolatoria, smorzando i muscoli facciali quanto occorreva per far trasparire un’emozione che fosse la più genuina possibile.
          «Nostra madre è una nobildonna impegnata» tentò di scusarla lui con una cupa espressione in viso, le gote tremolanti e le spalle curve. «Sono più che certo che abbia validi motivi per trascurare una fanciulla tanto responsabile e sveglia come te».
          «Ma sicuramente non ne ha per ignorare un bambino infermo e relegato a sé stesso come te» replicò Dora con risoluta perseveranza, palesando un’improvvisa mimica adirata. Il gusto assuefacente della manipolazione le pizzicava il palato rendendola avida d’arida supremazia; la neonata attitudine di plasmare la dea Veritas a proprio piacimento assetava il suo animo egemone e vendicatore. La possibilità d’avere il controllo del fratello era ciò che finora più riuscisse a rallegrarla in quella giornata, e l’idea di poterne fare un’arma da usare contro la madre principiava ad ottenebrare qualsiasi altro pensiero per urgenza e significanza.
        «Adesso ti esporrò un mio pensiero, e ho bisogno che tu apprenda con chiarezza ciò che ti dico» continuò con delicato pragmatismo. L’interesse di Federico, come lei aveva previsto, raggiunse il suo culmine. «Noi viviamo in una società in cui i bambini sono tenuti a dimostrare agli adulti un rispetto che non si sono guadagnati».
         «Società?» la interruppe subito il fratello con un’ombra di confusione in viso.
        «Per società si intende un agglomerato di individui che agiscono collettivamente per preservare i propri interessi attraverso un contratto» specificò Dora con impazienza. I ricordi dell’affascinante studio del giusnaturalismo hobbesiano echeggiavano ancora dentro di lei con vivace ostinazione. «Ciò che mi preme che tu comprenda adesso, è che esiste un determinato modello di comportamento insito nella nostra cultura che tutti, dal più raffinato gentiluomo altolocato alla più infima passeggiatrice di strada, si aspettano venga accuratamente seguito e accettato».
        A Federico si illuminò lo sguardo. «Credo che avvenga lo stesso anche per le colonie di formiche, sai?» Egli era infatti solito trascorrere il proprio tempo libero negli sconfinati giardini famigliari, instancabilmente chino sugli antri di qualche quercia, alla ricerca d’una tana inesplorata o d’un recente nido d’erba e rametti intricati. Apprendere il modo di vivere degli insetti era lo studio che maggiormente destava la sua curiosità e sollecitava la sua inesausta immaginazione; poterne parlare con la sorella era dunque fonte di trasporto e di sano orgoglio intellettuale. «Non è insolito, infatti, ch’esse si organizzino in contingenti numerosi per sopravvivere più efficientemente agli inverni. Senza considerare poi il fatto che possiedono un ferreo senso del dovere e della laboriosità». I suoi occhi brillavano euforicamente, mentre esprimeva le conoscenze che aveva appreso tutto da solo. «Formare questa “società”, per loro, è sentito quasi come un obbligo morale».
         Doralice rimase impassibile. «Per quanto sia affascinante scoprire che anche gli insetti possiedono una componente etica, non è questo il punto del mio discorso» ribatté. Federico smorzò lentamente il suo entusiasmo e riprese ad ascoltarla. «Il punto è che, nella mentalità vigente in una società come la nostra, molto spesso si tende a santificare il diavolo, mentre l’angelo viene lasciato a Caronte affinché sia traghettato agli Inferi. Ai genitori è conferita un’attendibilità che ai figli è negata per principio, ed una potestà su di essi che mai si osa contestare. Ma la realtà è che tu, come ogni bambino rispettabile per tale società ipocrita ed ingannevole, manifesti disagio verso una cecità che ti sei procurato da solo, e della quale tu solo sei il responsabile!»
          «Chi è Caronte?» domandò Federico, che faticava a seguirla. Ma stavolta Dora, i cui movimenti si facevano gravi e accentuati, non troncò il suo discorso, che diveniva sempre più infervorato e carico d’astio.
         «La malattia che ti indebolisce le membra pare corrompere anche la tua facoltà di valutazione, caro fratello! Sei abile nel dare per scontate convinzioni personali che non riflettono la veridicità concreta dei fatti. Nostra madre da sempre aborre la tua compagnia più di ogni altra!»
          Per il fanciullo ricevere uno schiaffo in pieno viso sarebbe stato un mellifluo e gratificante conforto rispetto ai turbamenti interiori che tali parole provocarono dentro di lui. Mentre più avanti il cocchiere e il postiglione che trainavano la diligenza pensavano di fermarsi ad una stazione di posta per cambiare i cavalli, Federico Guerra, avviluppato nell’estremità del secondo scompartimento, constatò come per qualche istante la vista gli si fosse annebbiata di colpo, e i suoi arti avessero iniziato a tremare e ricoprirsi di vermiglie macchie bollenti. Il respiro ora irregolare lo costrinse a reggersi fermamente alla sorella, la quale era tuttavia fin troppo interessata ad eseguire efficacemente il suo piano da preoccuparsi per le sue deboli reazioni emotive.
       «Ella infatti è usa a compiangersi quotidianamente per l’onere che il tuo mantenimento comporta, e più volte mi è capitato d’udirla disquisire con la nostra Adele su come sarebbe molto più comodo e privo di sperpero non doversi occupare delle cure costanti che la tua condizione richiede».
      Federico era divenuto pallido quanto il fazzoletto di seta che ancora stringeva fra le mani rigide e vacillanti. Onere. Comodo. Costanti. La gola, secca e povera di salivazione, aveva cominciato a pizzicargli dolorosamente il collo fino alla mandibola, mentre i suoi occhi erano preda d’un’intensa irritazione a causa delle lacrime che si stavano addensando copiosamente ai bordi. Le sue gote avvampavano di sconforto.
      «E non si conclude qui» perseverò Doralice, scandendo attentamente ogni lettera a gran voce. Ti prego, smettila. «Eleonora mi ha confidato, qualche settimana fa, d’essersi particolarmente impensierita quando ha udito nostra madre affermare che senza di te condurremmo tutti un’esistenza molto più agiata e facilitata. Oh, quale miglior prospettiva di vita porterebbe a tutti noi, quali vantaggi mai auspicati! Parlava così, l’ipocrita, e sorrideva al pensiero d’una tale opportunità, e si cullava per molto tempo nelle sue più recondite fantasie, seduta sotto il portico d’una villa che non s’è mai guadagnata, esibendo un titolo verso cui non ha mai potuto vantare merito alcuno!»
       Doralice s’accorse d’essersi espressa con una veemenza fin troppo incauta e credibile, a tal punto da dubitare che gli altri scompartimenti sarebbero rimasti serrati a lungo; ma nessuno accorse. Federico scoppiò in un pianto di singhiozzi e respiri rantolanti. Le sue braccia presero ad agitarsi convulsamente nel tentativo di allontanare da sé una presenza che solo lui aveva la capacità di percepire. La fanciulla l’osservò dimenarsi sul posto, premendo con insistenza sempre più urgente sulla parete dietro di lui, quasi a volerla scardinare e oltrepassare per un’indomabile necessità. Il suo petto vibrava febbrilmente e senza interruzione, e i suoi piedi scalciavano frenetici e contratti dal dolore.
       Ella l’aveva scorto in quello stato poche volte, prima d’allora, e proprio per questo convenne che scomporsi sarebbe stato ancora meno saggio di quanto previsto. Lentamente, palesando un’estrema cautela, s’appropinquò al fratello e gli strinse la mano lattiginosa nella sua. Poi portò le labbra screpolate vicino al suo orecchio tremante e affievolì il tono. Questo era il punto cruciale.
         «Fa male, vero?» La sua voce era un sibilo implorante d’un’anima calcolatrice, ma era l’unico supporto rimasto a Federico per non precipitare nel vuoto della silenziosa disperazione. «L’idea dell’abbandono, della dimenticanza… ti spinge a urlare come se avessi gli occhi perforati dal becco d’un avvoltoio, come se le tue ossa fossero compresse fra loro in una poltiglia sterile e incolore. Ti fa boccheggiare agonizzante con il viso cinereo e la laringe gonfia e pulsante. Ti fa supplicare d’arrestare la sofferenza, lenire quell’angoscia che t’ha intrappolato nella sua gabbia fatta di terrificanti delusioni e grame consapevolezze.»
         Federico allentò lievemente la presa della sua mano, e il suo torace parve rallentare attraverso spasmi sempre meno intensi. Anche il suo fiato tornò ad essere più stabile e meno frammentato.
       Doralice proseguì. «E se ti svelassi che esiste un modo affinché questo tormento abbia fine?» Federico volse gradualmente lo sguardo vitreo e irrigidito verso di lei, i muscoli in tensione. «Se ti promettessi che gli avvoltoi potrebbero cessare di perforarti gli occhi, e le tue deboli membra saprebbero smettere di appesantirsi, colte da irruenti spasmi? Guarda in che condizioni sei ora, in quale stato la perfidia di nostra madre ti ha ridotto mascherando il proprio rancore con viscida gentilezza. Lei non è degna del tuo affetto, e le considerazioni benigne e amorevoli che covi dentro di te non possono trovare in lei una destinataria meritevole. Hai bisogno di una svolta».
        «U-una s-svolta?» ripeté debolmente, sollevandosi lungo l’angolo della diligenza in cui portiera e rotonda si incontravano. La sua fronte era imperlata di sudore fresco, ma i tremori s’erano interrotti. La rinnovata curiosità che la sorella gli stava suscitando parve, in quel frangente, avere la meglio sulle lacrime.
        «Sì, necessiti d’un cambiamento. Devi imparare a riporre la tua fiducia in fonti più attendibili e soddisfacenti, e a non avere alte aspettative in tali persone che sono più note per deluderle e gettarle in frantumi. Devi acquisire la maestria di saper trasformare i tuoi sentimenti in base all’utilizzo che t’è più conveniente. Amore, dolore, collera. Sono soltanto parole vuote che si disperdono nel vento. Ciò che avverti dentro di te è l’unica cosa che conta davvero. E devi saperlo cambiare, modellare, perfezionare. Hai bisogno di sensazioni nuove, che ti permettano di uscire dalla gabbia in cui sei imprigionato. Hai bisogno d’una parola nuova da poter disperdere nel vento».
        Federico assunse un’espressione vacua e stranita, di chi s’approssima a contemplare l’infinita vastità del conoscibile pur sapendo d’essere ancora alle radici del sapere. La crisi che l’aveva colto era ormai solo un ricordo indistinto che si nascondeva nei meandri remoti della sua mente. La sua vorace attenzione confluiva interamente nel discorso che la sorella stava portando avanti, con il canto attutito delle campane in lontananza a conferire una solennità ancora più maestosa. «Quale parola?»
         Dora allora si ritrasse dal volto del fratello e lo squadrò con velata malizia. «Vendetta».
       I cavalli che conducevano la carrozza s’arrestarono istantaneamente, nitrendo in maniera sommessa, come se avessero udito ciò che la fanciulla aveva proferito. Dal terzo scompartimento, alle spalle dei due, fuoriuscirono Adele ed Eleonora con l’aria fresca e riposata di chi ha potuto godere d’un protratto sonno ristoratore. La domestica si rivolse a loro con un tono affabile ma neutro d’alcun sentimentalismo.
         «Siate svelti ed educati» si raccomandò. «Siamo giunti ad una stazione di posta nei pressi di Piacenza e devono essere ferrati dei nuovi cavalli. Se riusciamo ad essere il più lesti possibile, forse raggiungeremo la leggendaria Genova entro sera!»

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