Amor tussique non celatur

di Tessie_chan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Speciale - Giorni di ordinaria follia: Pirati di Barbabianca ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Speciale - Giorni di ordinaria follia: Portgas D. Ace - Prima Parte ***
Capitolo 9: *** Speciale - Giorni di ordinaria follia: Portgas D. Ace - Seconda Parte ***
Capitolo 10: *** Capitolo 7 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


 
Amor tussique non celatur



Capitolo 1



Il problema delle persone orgogliose è che non dicono
quello che provano per paura di soffrire. Si tengono tutto
dentro e soffrono lo stesso, ovviamente. Le persone orgogliose,
vanno prese di sorpresa e abbracciate.
- Robert Daniels

Nascondere i propri sentimenti è comune
 quanto rivelare i propri segreti.

- Giovanni Soriano

Sapere è potere.
- Jojo Moyes

Quando la pelle del leone non basta, è il
momento di cucirsi addosso quella della volpe.
(Lisandro)
 






- NON PUOI LASCIARGLIELO FARE! – stava strillando Ace, in un misto di rabbia e cieca disperazione, dibattendosi nella stretta dei fratelli più grandi, cercando con gli occhi la figura del padre – NON PUOI! NON PUOI!
- Adesso smettila, Ace – lo rimproverò Marco, serrando la presa su di lui – Stai solo rendendo le cose più difficili.
Ace si girò a guardarlo, incredulo – Come puoi dire questo?! Come puoi stare lì a guardare senza fare nulla?!
Marco lo fissò serrando con forza la mandibola, cercando di nascondere le lacrime che gli stavano inumidendo gli occhi. Proprio lui, che in qualunque situazione era sempre calmo, sempre pacato.
- È una sua scelta. Non abbiamo il diritto di fermarla, se è questo quello che vuole.
- Ma non è giusto! – saltò su Thatch, cercando di aggirare i fratelli che gli si erano parati davanti per fermarlo – Non può andarsene in questo modo! È una di noi! È la nostra sorellina!
Un sussulto percorse la folla di pirati, che chinarono tutti la testa per non mostrare il dolore che c’era nei loro occhi, mescolato con la vergogna e il rimpianto.
Certo che non era giusto. Loro erano stati ingiusti. Non solo, erano stati stupidi, egoisti, insensibili... e ipocriti. Per anni avevano sempre decantato la sua incredibile intelligenza, le sue vaste conoscenze, la sua bravura in ciò che faceva...
Tu potresti fare qualsiasi cosa, le avevano sempre detto.
Ma erano state solo parole, solo parole vuote che non erano servite a nulla. Non le avevano mai dato la possibilità di essere qualcosa di diverso di ciò che era stata fino a quel giorno, di diventare qualco
sa di più grande. Non avevano mai voluto credere che forse quella vita, e il ruolo che le era stato assegnato su quella nave quando era a malapena una bambina, potesse starle stretto. Quello era il suo posto, e sempre lo sarebbe stato, punto.
Avevano sempre creduto che essere il medico capo dei pirati di Barbabianca fosse l’unica cosa che desiderava. Non avevano mai creduto che potesse avere delle ambizioni diverse, ed era per questo che la sua dichiarazione di due ore prima li aveva sconvolti così tanto.
Ho deciso che me ne vado. Essere solo un medico non mi basta più, non mi è mai bastato. Voglio inseguire i miei sogni, voglio diventare una leggenda, voglio vivere a modo mio, e non potrò farlo finché starò qui con voi, perché so che voi non mi sosterrete mai. Questa nave è ormai come una prigione per me, non posso più restare.
Era stato come un fulmine a ciel sereno. No, era stato anche peggio. Mai avrebbero pensato che avrebbe avuto il coraggio di prendere una decisione tanto audace. A guardarla sembrava così fragile…
- PAPÀ! DILLE QUALCOSA! TI PREGO! – urlò Ace con voce spezzata.
- Ace! Devi finirla! – lo rimproverò Haruta. Anche lei aveva gli occhi umidi, ma la sua voce era ferma – Ti stai comportando come un bambino!
- Ora basta, figli miei – intervenne grave Barbabianca. Evitava di guardare i figli negli occhi, si limitava a fissare con insistenza il pavimento – Non c’è più niente da discutere. Vostra sorella seguirà la strada che ha scelto, con la mia benedizione.
Ace si voltò verso il padre, sconvolto. Come poteva proprio lui, che su quella nave era la persona che più amava la ragazza dopo di lui, accettare così la sua improvvisa e inaspettata decisione?! Katherine era sempre stata la sua figlia prediletta, l’aveva presa con sé quando non aveva neanche dieci anni…
- Ma lei non sa combattere! È totalmente incapace di difendersi! – protestò Vista angosciato – Non può andarsene in giro da sola, è troppo pericoloso!
- Piantatela di parlare di me come se non fossi presente. – sibilò irritata la diretta interessata di quel litigio – State sprecando solo fiato, tanto non cambierò idea.
Tutti si voltarono verso il giovane medico che aveva appena parlato. Fino a quel momento Kate aveva ignorato le loro proteste e le loro suppliche, e aveva continuato a caricare le proprie cose su una piccola barca che Barbabianca le aveva concesso come se non ci fosse nessuno intorno a lei. Fisicamente era ancora lì, ma la sua mente e il suo cuore erano già lontani. Era da anni che non erano più con loro, ma loro l’avevano compreso solo ora.
Ace la fissò con gli occhi pieni di lacrime: sembrava così giovane, così ingenua… nessuno avrebbe mai creduto che quella piccola ragazza fosse il medico capo della ciurma più forte del mondo, e una delle menti più brillanti di tutto l’oceano. Sembrava solo una comunissima ragazzina di sedici anni che del mondo non sapeva nulla, che si stava gettando in un’avventura troppo grande per lei…
Perché era questo che era, in fondo. Una ragazza che, per quanto intelligente e capace, stava facendo un gigantesco salto nel buio, e lo stava facendo da sola, disarmata e senza protezione.
- Katie… – la chiamò Ace con il suo nomignolo – …ti supplico, ripensaci. Non devi farlo, per favore!
- Sì, devo. Se voglio realizzare le mie ambizioni, devo andarmene.
Il suo tono era così freddo, pacato, inflessibile… come quello che usava quando dava un ordine a una delle sue infermiere, o quando prescriveva una cura ad un malato. Le quindici infermiere delle quali fino a qualche ora prima era stata a capo sobbalzarono a quelle parole.
- No, non è vero! Non devi! Puoi restare con noi! Noi ti aiuteremo, non è vero? – fece Ace, guardandosi freneticamente intorno alla ricerca dell’approvazione dei fratelli – Ti insegneremo a combattere! Io ti insegnerò, se vuoi! Puoi avere tutto quello che vuoi, puoi essere quello che vuoi…
- Sono anni che voialtri continuate a ripeterlo – lo freddò Kate con voce tagliente – dopo un po’ perde di significato.
Il suo tono glaciale e vagamente annoiato fece rabbrividire tutti.
- Eddai, petit… – farfugliò Thatch, sorridendo nervosamente. Stava evidentemente cercando di mantenere la calma, ma con risultati scarsi. Lui era uno di quelli che stava soffrendo di più. – Non ti sembra di stare un po’ esagerando…?
- Esagerando?! – lo interruppe Kate, arrossendo violentemente per la rabbia – Hai anche la faccia tosta di insinuare che sto esagerando? Hai ascoltato anche una sola parola di quello che ho detto prima?!
- Mi sembra una reazione eccessiva…
- Eccessiva?! – ripeté ancora la giovane – Tu e tutti gli altri non avete idea di cosa significhi vivere nei miei panni. Evitate di parlarne!
Tutti sobbalzarono e tacquero davanti a quell’esplosione di veemenza e rabbia. Era raro che la si vedesse furente, lei di solito manteneva la calma in qualsiasi situazione, era il suo lavoro a richiederlo.
Lei però ormai era partita a ruota libera – Mi sembrate confusi. Che c’è, non capite? C’era da immaginarselo. Ok, vedrò di spiegarvelo con parole semplici, cosicché possiate capirmi. – lanciò con violenza l’ultima borsa sul fondo della barca, e parlò gonfiando il petto – Voi siete pirati, giusto? Siete forti, coraggiosi, e siete liberi. Non è così? Potete fare tutto ciò che volete, andare dove volete, vivere come volete, e potete farlo senza avere paura, perché siete tutti in grado di difendervi senza temere nessuno. Non è così?! – chiese la ragazza incrociando le braccia al petto, e tutti annuirono come dei mocciosi ubbidienti – Ecco, io questo non posso farlo. Io non ho le vostre possibilità! Io non so combattere, non so difendermi in nessun modo! Non posso alzarmi la mattina e decidere di andare a cercare questo o quel tesoro, o di andare ad affrontare questo o quell’avversario! Sono indifesa, sono inerme, tutto ciò che posso fare è starmene qui a curare le vostre ferite, e fare pat pat sulle vostre stupide spalle! – ormai stava urlando – Voi avete vissuto sempre al massimo; io invece sono sempre stata relegata su questa nave, in quella dannatissima infermeria, sempre dietro le quinte, perché non potevo fare altro! – la voce della ragazza si ruppe, così prese un respiro profondo per riacquistare il controllo – Non ce la faccio più. Non voglio più vivere così. Non è questa la vita che voglio!
- Ma se tu restassi…
- Restare per fare cosa, esattamente? Per tornare a stare in infermeria, a guardarvi dall’oblò mentre voi vivete la vita che vi piace, mentre io sono infelice? Per mettere in ordine, per curare e consolare? Tanto è quello il mio compito secondo voi, non è così? E quello è il mio posto…
- Ma se solo tu l’avessi detto prima…
- Non l’ho fatto?! Quante volte ho chiesto di poter partecipare ad una missione, anche solo come supporto medico?! Quante, papà?! – gridò il medico rivolgendosi al vecchio capitano, che sussultò nel sentirsi chiamato in causa – Anche l’altro giorno, ricordi? Ti ho chiesto di permettermi di andare con Marco e i suoi a cercare quel pirata, che di sicuro avrei potuto essere d’aiuto come medico, o semplicemente come mente dell’operazione. E tu che mi hai detto?! Non è il caso Kate, è meglio se resti in infermeria a lavorare! – un singhiozzo le bloccò le parole in gola – Ti costava così tanto darmi un po’ di fiducia?! Che c’è, è perché sono una donna?! O forse non mi ritieni abbastanza in gamba e avveduta per lasciarmi anche solo andare in giro da sola?!
Barbabianca sembrava a dir poco distrutto. Il suo viso, di solito costantemente illuminato da una luce allegra e gioviale, era deformato dalla vergogna e dal rimorso. Non osava guardare la figlia negli occhi quando rispose – Hai perfettamente ragione, tesoro. Sono stato ingiusto con te, e non so davvero come scusarmi… tutto ciò che posso fare è darti la mia benedizione per qualunque scelta vorrai fare da oggi in poi. Anche se questo significa che dovrò lasciarti andar via da me, bambina mia.
A quelle parole la rabbia scomparve all’istante dal volto del giovane medico, che si distese in un’espressione di sincero dispiacere – Mi dispiace causarti un dolore, papà… e mi dispiace dover passare questi ultimi minuti litigando con voi, ragazzi. Vi prego, cercate di capire…
- Cosa dovremmo capire?! – urlò Ace – Se te ne vai da sola, non ci sarà più nessuno a proteggerti, lo capisci?! E tu sei una dei figli di Barbabianca! Ti uccideranno entro pochi giorni!
Kate sospirò, tenendosi la fronte con una mano; non sembrava più infuriata, solo incredibilmente stanca – Era proprio di questo che parlavo: non ho ancora messo un piede fuori da questa nave, e tu già mi stai scavando la fossa. Eppure hai sempre detto di credere in me… anche poco fa.
L’espressione di Ace era indescrivibile. Non ci sono parole per spiegare, punto.
- Basta. – sospirò la ragazza – Non c’è più nulla da dire. Dobbiamo finirla qui.
Sembrava una sentenza di morte. Ace sapeva bene che Kate non si stava riferendo solo alla sua decisione di andarsene, ma anche alla loro relazione.
Quella consapevolezza lo fece rabbrividire fin nelle ossa. Si erano trovati da così poco tempo…
- È pericoloso… - sussurrò Ace – Ti uccideranno…
- In quel caso, niente fiori bianchi sulla mia tomba. Lo sai che non mi piacciono, preferisco quelli rossi.
- SMETTILA!
- No, tu smettila! – perse di nuovo la pazienza il medico – Sei veramente infantile. Piantala di piagnucolare, tanto non mi farai commuovere. Tu sei quello che mi ha deluso più di tutti.
- Non dire così, ti prego…
- Allora non lo farò. Me ne vado e basta.
- Kate, io ti amo! – urlò Ace, incapace di trattenersi oltre.
Kate si era congelata nella posizione in cui stava, pallida come una statua di sale. Aveva gli occhi spalancati e le labbra dischiuse, e lo sguardo vacuo mentre lo fissava incredula.
Ma durò poco, pochissimo. Kate raramente perdeva il controllo sulle proprie emozioni, e ancora meno spesso le rivelava apertamente. Forse era per questo che per anni i suoi fratelli non avevano sospettato nulla di ciò che le passava davvero per la testa: era brava a nascondere le emozioni, quasi quanto era brava a salvare vite umane.
Ben presto il medico richiuse le labbra, scrollò la testa come per recuperare la concentrazione, e gli voltò le spalle per non mostrargli il volto.
- Mi dispiace, Ace – mormorò la ragazza. La sua voce era appena un sussurro, ma non era mai stata così ferma – mi dispiace davvero. Tu sei stato l’unico motivo che mi ha dato la forza di restare finora. Ma ora non posso più, nemmeno per te.
Lei puntò lo sguardo sul mare e l’orizzonte, non volendo voltarsi per vedere la faccia dell’uomo che ormai aveva capito di amare. Non voleva che l’ultimo ricordo che avrebbe avuto di lui fosse un Ace deluso o addolorato. Voleva pensare a lui come il ragazzo sorridente e focoso che era sempre stato, quello che crollava continuamente addormentato nelle situazioni più assurde facendole prendere un colpo ogni volta, quello che adorava nascondersi dietro gli angoli per farle gli agguati solo perché la trovava bellissima quando si infuriava, quello che le rubava i bisturi in continuazione solo per il gusto di sentirle gridare ogni sacrosanta volta con aria seccata – Quello non è un giocattolo, baka!-, quello capace di confortarla quando aveva paura di non farcela a salvare una vita, e che si feriva continuamente e di proposito come un idiota solo perché voleva farsi curare da lei, rifiutando ogni volta l’aiuto delle infermiere.
Era finita. Non c’era più niente da dire. Salì sulla barca continuando a fissare ostinatamente l’oceano, e tirò fuori un bisturi dalla tasca, puntandolo verso la corda che teneva ancora la barca sospesa oltre il bordo della balaustra.
Adesso è davvero il momento.
- Addio. – mormorò il giovane medico, e in quello stesso momento la corda venne lacerata, facendo piombare la piccola barca in acqua, alla deriva delle onde. Un grido di sconcerto percorse le fila dei pirati, ma era troppo tardi, ormai era andata.
Barbabianca si strinse nel cappotto, improvvisamente infreddolito, e osservò la barchetta allontanarsi, diretta verso l’ignoto.
Vai tesoro, e non voltarti indietro.
 
Tre anni dopo…


No, non può essere. Pensò incredula O’Rourke D. Katherine, mentre leggeva il biglietto che quel vile figlio d’una cagna del suo capitano aveva lasciato sulla sua scrivania.
Quello stronzo non può essere arrivato a tanto. Neanche il coraggio di venirmelo a dire in faccia ha avuto!
Il giovane medico posò il biglietto sul tavolo, chiuse gli occhi, si portò entrambe le mani sul ventre per evitare di uscire dalla propria cabina e commettere atti violenti sul primo malcapitato che si fosse trovata davanti – ignorando nel frattempo il lieve fastidio che le dette il piercing all’ombelico quando fu toccato (se l’era fatto fare da poco) -, e si concentrò per cominciare l’esercizio di respirazione controllata.
Fece un respiro profondo, contando mentalmente e lentamente fino a tre. 
Spinse l'aria inspirata verso la pancia, via via sempre più su fino a riempire completamente i polmoni.
Trattenne il respiro per circa tre secondi.
Espirò lentamente contando fino a cinque.
Dannazione, non funziona!
Serrò i pugni con forza, cacciandoli nelle tasche del cappotto per evitare di ridurre in briciole a suon di cazzotti la sua adorata e innocente scrivania, e si diresse a passo di marcia verso la credenza in fondo alla stanza, da dove tirò fuori una bottiglia di bourbon piena a metà.
Morirò di cirrosi epatica e carcinoma alla bocca prima di compiere trent’anni se continuo così. Pensò sconsolata la ragazza, mentre crollando seduta sul pavimento con la schiena poggiata contro il muro con una mano faceva saltare il tappo di sughero della bottiglia, e con l’altra tirava fuori dalla tasca il pacchetto delle sigarette.
No, ora che ci penso, probabilmente quel bastardo si prenderebbe cura di me salvandomi da un’orribile morte solo per il gusto di continuare a torturarmi con la sua immensa idiozia e quella sua odiosa faccia da schiaffi.
Interruppe quelle sinistre congetture per accendersi la sigaretta che si era infilata tra i denti, per poi inspirare una grossa boccata di fumo.
Catrame, benzene, nicotina, monossido di carbonio… tutti gli ingredienti necessari per finire precocemente di fronte all’Altissimo. Se ci penso… io sono un dannato medico, non dovrei neanche avvicinarmi a questa merda! Come al solito è colpa sua, di quell’emerito imbecille…
Proprio così. Era stato proprio a causa di quella sottospecie di sociopatico psicolabile che aveva cominciato a fumare, due anni e mezzo prima. A quei tempi era ancora nel pieno dei suoi severi e disumani allenamenti per aumentare la forza fisica, ed era ancora incapace di controllarsi per evitare di demolire accidentalmente quello stupido sottomarino giallo ridicolo che lei aveva sarcasticamente soprannominato sin dal primo giorno “Catorcio”. Ci aveva provato davvero a contenersi, ma l’inesperienza, e soprattutto la presenza di quel pazzo nella propria vita le avevano reso il compito veramente impossibile.
Una volta non ero così. Ma in effetti prima avevo molte meno emozioni.
Così un brutto giorno lui l’aveva convocata nel suo studio – come se non ci passasse già abbastanza tempo -, ed esponendole il problema con quel suo insopportabile e onnipresente ghigno dipinto in faccia le aveva dato un ultimatum: o trovava il modo di controllare in maniera efficace il proprio stress emotivo – scongiurando così il rischio di farli annegare tutti a causa un pugno troppo potente che avrebbe potuto sfondare le pareti del Catorcio -, oppure il suo addestramento sotto la sua supervisione si sarebbe concluso lì.
Ovviamente quell’imbecille aveva completamente trascurato il dettaglio che il novanta per cento della frustrazione della ragazza venisse regolarmente causata proprio da lui e dal suo dannato sorrisetto strafottente… e così lei cosa aveva potuto fare? All’epoca era ancora troppo debole ed inesperta per considerare l’idea di dargli la lezione che si sarebbe meritato, e avvelenarlo con il cianuro sarebbe stato complicato, tenendo presente il fatto che sarebbe stato perfettamente in grado di farsi una lavanda gastrica per conto proprio… così non aveva avuto altra scelta che adeguarsi alle becere pretese di quello stronzo, cominciando a fumare per regolare il proprio umore come se fosse stato la temperatura del frigorifero. Gli psicofarmaci li aveva pure provati, ma dopo un poco tempo era stata costretta a sospenderli per evitare di cadere nella spirale della dipendenza, e diventare così una drogata esagitata a tutti gli effetti.
In certi casi o si beve o si affoga.
Inutile dire che una volta preso il vizio levarselo sarebbe stato quasi impossibile, considerando anche il fatto che i suoi livelli di stress erano rimasti più o meno invariati rispetto a quel periodo… e così eccola lì, una dei più brillanti medici del mondo che aspirava ed espirava con aria rassegnata cancro allo stato puro dal quel dannato cilindro cartaceo puzzolente.
Dio, che vergogna.
Kate scosse la testa con uno sbuffo, riportando i piedi per terra e spegnendo la sigaretta ormai finita nel posacenere sul comodino. Inutile rimuginarci sopra, ormai era fatta. Tanto valeva preoccuparsi di risolvere i problemi immediati, che in quel momento consistevano nel farle recuperare un minimo di calma prima di andare a prendere gli ordini dal capitano. La sigaretta aveva fatto la sua parte, ma si sentiva ancora le viscere contorte per la rabbia, un po’ troppo per essere pronta ad affrontare il nemico a mente lucida. Non aveva altra scelta, anche se aveva sperato di evitarlo doveva attaccarsi alla bottiglia nel disperato tentativo di sedare i propri nervi.
Dannazione, non sono neanche le quattro del pomeriggio!
Il medico afferrò la fiasca di liquore – e dire che l’alcool neanche le piaceva, anche quello veniva assunto per uno scopo più alto – e con uno sospiro afflitto se la portò alle labbra, gettando all’indietro la testa e prendendo un abbondante sorso che le ustionò la gola e mandò momentaneamente in panne il suo cervello.
L’effetto non si fece attendere. La mente si svuotò quasi all’istante, il corpo le sembrò molto più leggero, e i muscoli, prima duri e tesi come una corda di violino, si rilassarono visibilmente. Aveva funzionato.
Bene. Forse adesso ce la faccio. Pensò soddisfatta la ragazza, rimettendosi con calma in piedi. Di solito la sua praticamente inesistente resistenza all’alcool era motivo di vergogna per lei – quale razza di pirata senza spina dorsale perdeva lucidità dopo neanche un bicchiere di liquore?! -, ma in casi come quello – che, spiaceva dirlo, si verificavano decisamente troppo spesso - era una vera e propria benedizione, visto che le permetteva di calmare la propria rabbia con un semplice sorso di bourbon. L’importante era non andare oltre, altrimenti avrebbe finito per restituire molto presto il pranzo ad un water.
Fortunatamente non sarà necessario, pensò compiaciuta la ragazza. Non è che non fosse più arrabbiata con l’idiota per quel che aveva fatto, ma quasi sicuramente sarebbe stata in grado di parlargli senza dargli la soddisfazione di vederla sclerare come se le stessero girando le scatole alla velocità del suono, cosa effettivamente vera.
Perché lui godeva immensamente nel vederla infuriata, oh sì. Lo adorava proprio, probabilmente tanto quanto adorava la medicina, e ne aveva evidentemente fatto uno degli scopi della sua vita, visto il commovente impegno che metteva nel provocarla e stuzzicarla in continuazione.
Basta cattivi pensieri. Si impose Kate, mentre si avviava verso la porta. Devo solo andare nel suo studio, ascoltare con la massima calma le sue cretinate per una decina di minuti, ed uscire. Entrare, ascoltare ed uscire. Semplice, no?
Sì, sembrava semplice; tuttavia la prudenza non era mai troppa, così Kate si fermò davanti allo specchio accanto alla scrivania per esaminare la propria espressione, ed assicurarsi che fosse tutto in ordine.
L’immagine che le restituì lo specchio fu alquanto sconfortante: guance arrossate, occhi adombrati, capelli arruffati, labbra ancora umide di liquore… non sembrava affatto rilassata, neanche lontanamente.
La ragazza sospirò, dandosi da fare per aggiustarsi i capelli e lasciando vagare la mente nel tentativo di distrarsi.
O’Rourke D. Katherine non era esattamente come la maggior parte della gente immaginava che fosse, considerando la reputazione che si portava appresso: uno magari si sarebbe aspettato una donna alta, dalla presenza appariscente e aggressiva, con uno sguardo cupo e magnetico, magari vestita con abiti succinti - non avrebbe mai capito perché quasi tutte le poche piratesse che c’erano in circolazione andassero in giro vestite come se esercitassero un ben altro tipo di professione –, e ricoperta di tatuaggi… magari anche incredibilmente sexy – tipo Boa Hancock, per intenderci -, oppure incredibilmente grottesca e bizzarra – tipo Charlotte Linlin, per intenderci –.
In effetti, Kate non aveva mai incontrato una piratessa che fosse una via di mezzo. Insomma, qualcuno di parecchio trasgressivo, per farla breve!
Be’, lei non voleva certo squalificarsi da sola dichiarando di essere l’esatto opposto di ciò che le persone si immaginavano, ma affermare che il suo aspetto corrispondesse a quel sopra descritto… be’, sarebbe stata una bugia ancora più stratosferica. E visto che lei era medico, e di conseguenza realista e schietta ai limiti della crudeltà, non l’avrebbe fatto, scegliendo di ammettere con molta tranquillità che lei era probabilmente l’unica piratessa al mondo che si trovava “nel mezzo”.
Ok, iniziamo dalle aste. Purtroppo purtroppissimo, Kate decisamente non era alta. No, non è che semplicemente era nella media, era proprio uno scricciolo, alta un metro e un sputo, sul serio. Certo, era pur vero che tre anni prima, dopo secoli di prese in giro più o meno crudeli da parte dei fratelli maggiori, aveva cominciato a portare in qualunque situazione almeno un tacco dodici, ed era solo per questo che riusciva a sporgersi oltre la balaustra del Catorcio in maniera dignitosa; se non l’avesse fatto si sarebbe rivelata in tutta la sua insignificante altezza di un metro e cinquantacinque raggiunta a malapena, e sarebbe stato veramente umiliante, considerato che ormai stava per compiere vent’anni.
Cosa c’era poi? Ah, la presenza. Ora, Kate non poteva propriamente definirsi scialba – insomma, un minimo di possibilità le spettava -, ma non poteva neanche definirsi una bellezza da calendario. Era minuta, magra e delicata – almeno apparentemente -, con il seno poco pronunciato e i fianchi stretti. Il viso forse dava un po’ più di soddisfazione, con i suoi capelli lunghi e scuri quasi sempre raccolti in una ordinata treccia, le labbra rosee e carnose e gli occhi incredibilmente grandi, vispi e intelligenti di un particolare verde acceso, che Law in uno dei suoi rari momenti di gentilezza aveva definito “verde primavera” … be’ sì, tutto sommato era piuttosto carina, ma accanto a Boa Hancock avrebbe sfigurato come una bambola di pezza accanto ad una Barbie.
Non importava. Lei si era sempre piaciuta così com’era, e poi non doveva fare colpo su nessuno.
Appariva aggressiva? Be’, di certo non quand’era a riposo. Quand’era tranquilla in effetti aveva un aspetto alquanto bizzarro, con quel suo viso da bambolina abbinato alla lucente spada che le pendeva dal fianco destro, e con quei vestiti da brava ragazza che indossava abbinati ai numerosi orecchini che portava, al jolly roger ricamato sulla schiena e al piercing all’ombelico.
In sostanza dava un’impressione di confusione, il suo aspetto la faceva sembrare un bizzarro miscuglio tra una punk e una ragazza casa e chiesa. Law una volta l’aveva definita “piratessa dei folletti irlandesi”, e lei in tutta risposta gli aveva rotto il naso con un gancio sinistro ben assestato. Non aveva più provato a dirlo, meglio per lui.
Se papà mi vedesse adesso probabilmente gli verrebbe un infarto.
In ogni caso quel suo aspetto stravagante le tornava spesso utile! La gente la sottovalutava spesso, e lei lo usava a proprio vantaggio, prendendoli completamente alla sprovvista quando in combattimento si rivelava la sua vera natura, che era decisamente aggressiva e decisamente spaventosa.
Vabbè, andiamo avanti. Sguardo cupo e magnetico? No, al massimo era arguto e intelligente, spesso anche ironico e malizioso. Diventava cupo quando si incazzava, ma questo non credo conti.
Abiti succinti? No, abbiamo già detto di no, poteva accadere che li portasse al massimo una volta su cento. In quel momento ad esempio indossava un paio di semplici pantaloni bianchi lunghi fino al ginocchio, un top qipao rosso senza maniche con due code e rifiniture bianche, che esponeva solo la porzione di pancia dove c’era l’ombelico con il piercing, un ampio cappotto nero che arrivava a toccare terra, e i soliti tacchi. Ai fianchi portava una cintura con appesa la sua spada, più un grosso borsello dove teneva i suoi strumenti da medico.
Semplice, essenziale, funzionale. Era sempre stato quello il suo stile e sempre quello sarebbe stato.
Tatuaggi? Sì, quelli sì. In realtà ne aveva solo uno, piuttosto piccolo e discreto, rappresentava un fiore di ciliegio stilizzato. Kate lo adorava letteralmente, soprattutto per il significato che aveva, ed era per questo che il fatto che ce l’avesse tatuato in piena fronte non la turbava affatto, anzi, ne andava orgogliosissima.
Incredibilmente sexy? No, direi proprio di no. Certo, moltissimi uomini l’avevano definita sexy, specie quando per qualche motivo era incazzata, ma le donne sexy erano fatte in maniera diversa, con decisamente più centimetri. tette, e fianchi. Lei era carina, ma di certo non era sexy, anche perché non perdeva tempo a cercare di mettersi in mostra provocando gli uomini, o anche solo considerando la loro esistenza in quel senso. E poi è risaputo che i maschi quando sono alla canna del gas – ma anche quando non lo sono, in effetti- trovano attraenti anche le borse dell’acqua calda. E i pirati erano cento volte peggio, questo era sicuro.
Incredibilmente grottesca? Be’ no, sarebbe stata una cattiveria gratuita bella e buona definirla così. Forse un tantino bizzarra, ma in fondo tutti i gusti sono gusti, e la cosa importante era ciò che lei pensava di sé stessa. E lei si piaceva così com’era, non si si sarebbe lasciata influenzare da chicchessia. In fondo non era per essere libera di fare ed essere ciò che voleva che aveva lasciato la propria famiglia?
Il che le riportava in mente…
Kate distolse senza pensare lo sguardo dallo specchio, lasciandolo cadere sul biglietto che era rimasto sulla scrivania.
La tua missione è annullata. Vieni subito nel mio studio, ho altri ordini per te.
- MALEDETTO IDIOTA! – urlò furibonda Kate, abbattendo con violenza il pugno contro il muro. Com’era prevedibile quello cedette all’istante, accartocciandosi e sfasciandosi sotto il colpo come se fosse stato di burro, e non di ghisa a tenuta stagna.
E tanti cari saluti al mio piano di restare calma e non dargli soddisfazione. Be’, almeno non era la scrivania.
Kate non ci badò, e senza perdere tempo si lanciò fuori dalla cabina, dirigendosi di corsa verso lo studio del capitano, fermamente intenzionata a sgranchirsi le gambe sulla sua faccia.
Trafalgar D. Water Law non riuscì a reprimere un sorrisetto compiaciuto quando sentì il suono dei tacchi della sua vice rimbombare nel corridoio con la stessa violenza di una batteria di cannoni, annunciando l’arrivo della loro proprietaria chiaramente molto infuriata con largo anticipo, e si sistemò meglio sulla poltrona, ansioso di vederla comparire sulla soglia della sua porta e godersi l’effetto che il suo stringato biglietto doveva aver provocato.
Il demonio in gonnella non era mai stata famosa per la sua grazia. Al contrario, era sempre stata molto poco femminile nei movimenti, ricordando più un uomo che una donna quando camminava. Law lo sapeva che non era colpa sua se faceva sempre tutto quel baccano - essendo cresciuta circondata praticamente da soli uomini era piuttosto normale che diventando adulta non avesse acquisito un portamento molto leggiadro; per non parlare del fatto che il sottomarino, essendo fatto interamente di ghisa a tenuta stagna, facesse rimbombare il suono dei suoi tacchi amplificandolo alla stregua di una cassa armonica -, ma non riusciva comunque a fare a meno di prenderla costantemente in giro per questo, facendole notare che perfino Bepo camminava con più grazia di lei, e Bepo era un dannato animale.
Kate di solito non si mortificava a quelle parole – dopo aver passato tre anni su quel sottomarino e sotto il suo comando erano veramente poche le cose che riuscivano a mortificarla -, ma si limitava a sbuffare e a piantagli casualmente un tacco sul piede, oppure a rispondergli a tono con quella sua linguaccia affilata; in effetti quella era un’ottima cosa, significava che tutto sommato il tempo che Law aveva scialacquato nel tentativo di tirare fuori un po’ di carattere da quel demonio in gonnella era servito a qualcosa.
La porta del suo studio si spalancò con un tonfo così forte da far tremare gli infissi di tutta la stanza, e il vice capitano dei pirati Heart comparve sulla soglia in tutta la sua insignificante ma alquanto incazzata stazza.
- DANNATO IMBECILLE!
- Buon pomeriggio anche a te, mia cara – la accolse mellifluo il chirurgo – non sai che è buona regola bussare prima di entrare in una stanza?
In tutta risposta la ragazza gli ringhiò contro un insulto parecchio colorito.
Non dovrebbe usare questo linguaggio.
Law intrecciò le dita sotto il mento, e ci accinse ad esaminare le condizioni dell’amica con occhio clinico. Aveva gli occhi incupiti dalla rabbia, lo sguardo era stranamente liquido, e le guance erano arrossate, un angolo della bocca della ragazza era stato preso dagli spasmi, e i polsi avevano cominciato a tremarle vistosamente.
Il ghigno di Law si allargò. Magnifico.
Sì, perché Trafalgar Law adorava letteralmente far perdere le staffe alla sua vice nonché migliore amica; provava un gusto sottile e vagamente perverso nel farle perdere il controllo delle sue emozioni, nel vederla combattere contro sé stessa una battaglia che era già persa in partenza, e nel far emergere la sua vera natura, che sapeva audace e passionale, e che la ragazza – per qualche strano e oscuro motivo che sfuggiva alla comprensione di Law - si ostinava a tenere nascosta sotto strati e strati di riservatezza, orgoglio e palate di sarcasmo.
Ora, a dispetto di ciò che si può pensare, non era così semplice far perdere la calma a Katherine: in quanto medico lei infatti era addestrata a mantenere sempre il sangue freddo, soprattutto nelle situazioni peggiori. Lui era diventato piuttosto bravo a scuoterla, ma solo perché aveva dalla sua un particolare talento nel far irritare la gente e una notevole conoscenza della personalità della ragazza, abbastanza da sapere quali fossero i punti deboli da colpire. Lei non ne aveva poi così tanti – come già detto, un medico non dovrebbe averne affatto -, ed era proprio questo a rendere quella sfida terribilmente, assolutamente, follemente divertente.
Senza contare il fatto che quando si arrabbiava diventava straordinariamente affascinante da guardare. Il rosso sulle guance le donava moltissimo, e Law si stupiva ogni volta di come i suoi grandi occhi color primavera riuscissero a diventare scintillanti e cupi al tempo stesso; sembrava quasi di guardare un’eclissi. Era di gran lunga più attraente così piuttosto che quando se ne stava con la schiena rigida e il volto congelato in un’espressione pacata, ligia così come la sua natura di medico richiedeva.
– Hai voglia di prendermi in giro, per caso? – lo richiamò la giovane, reclamando la sua attenzione.
Law ghignò - naturalmente. Come sempre, del resto. Perché non ti siedi e ti metti comoda?
- Non voglio mettermi seduta! Voglio delle spiegazioni! – il vice capitano attraverso a grandi passi lo studio fino a quando non giunse davanti a lui, per poi sbattere con violenza il biglietto sulla scrivania, facendola vacillare pericolosamente – che diavolo è questo?!
Law abbassò senza fretta lo sguardo sulla scrivania – mi pare un biglietto. Hai bevuto, per caso?
- Ma va’! – replicò lei stizzita, sporgendosi verso di lui – e che dovrebbe significare il fatto che la mia missione è annullata, sentiamo!?
Law alzò un sopracciglio – non è abbastanza chiaro? Significa che non devi più rubare quelle informazioni dal quartier generale della Marina.
- Ascoltami bene idiota, ci ho messo una settimana per elaborare la strategia perfetta per infiltrarmi in quel posto e rubare quei documenti senza danni o effetti collaterali! Una settimana! E tu adesso mi vieni a dire che tutto il mio lavoro è destinato ad andare sprecato?!
Un ghigno cattivo e vagamente annoiato increspò le labbra del chirurgo – esatto, è proprio quello che volevo dire.
Una vena cominciò a pulsare pericolosamente sulla fronte della donna, che si chinò ancora di più su di lui – e potrei sapere per quale motivo, di grazia? – quasi sputò l’ultima parola.
- È semplice, mia cara: perché quelle informazioni non mi interessano più. Abbiamo finito?
Law aveva parlato con noncuranza, ma qualcosa lo fece tornare all’istante sul chi vive. Uno strano lampo di amarezza aveva appena attraversato gli occhi della sua amica, e non era la prima volta che succedeva da quando la conosceva. Era da anni che Law si mordeva le mani – psicologicamente parlando – nel tentativo di individuarne l’origine, ma non durava mai abbastanza da permettergli di capire. E quella volta non fece eccezione.
Durò solo per un attimo. Katherine sbatté le palpebre e fece una risatina gutturale, sporgendosi ancora e arrivando a un soffio dal viso del suo capitano, e sibilò – Quindi se ho capito bene mi stai dicendo che mi hai fatto lavorare come una schiava per nulla, e che come al solito non hai alcun rispetto per i sentimenti altrui. – un sorrisino sadico le increspò le labbra, si stava già chiaramente pregustando la vendetta - Dammi una sola buona ragione per cui non dovrei evirarti a mani nude proprio qui e proprio adesso.
- Perché sono il tuo migliore amico?
- Sto seriamente pensando di destituirti da quella carica, mio caro.
- Perché sono il tuo capitano?
- Stavo anche pensando di ammutinarmi.              
- Perché il mondo perderebbe un medico dalle capacità ineguagliabili?
- Tsk, non sopravvalutarti. Come medico io valgo esattamente quanto te, bello mio. E poi l’evirazione non comporta necessariamente la morte, se poi la ferita viene trattata adeguatamente.
- Perché hai con me un debito di coscienza grande quanto tutto l’oceano.
Kate stavolta non replicò subito. Quello era stato veramente un colpo basso, Law lo sapeva. Lo fissò negli occhi per diversi secondi, serrando le labbra in una linea durissima e cercando nel suo sguardo i kami solo sapevano cosa. Il chirurgo, per nulla impressionato, si limitò a farle un sorriso serafico.
Alla fine fu lei ad arrendersi, come sempre: si sarebbe gettata in mare piuttosto che ammetterlo, ma se c’era una cosa che proprio non sopportava – a parte il caffè amaro ed essere infastidita mentre lavorava – quella era litigare seriamente con lui. Si raddrizzò con uno sbuffo, lasciando cadere le spalle, e si voltò per non mostrarsi le guance rosse d’imbarazzo per essersi ritrovata ad un soffio da lui senza neanche rendersene conto – Accidenti a te, Trafalgar Law! Proprio nelle tue mani dovevo andare a mettermi!
Law sorrise, estremamente appagato quella reazione - Già, hai davvero buon gusto, dolcezza.
- Che devo sentire! – sbuffò di nuovo la ragazza – Non credere di cavartela così! Me la pagherai in ogni caso! E non chiamarmi dolcezza!
- Ma davvero? Sono proprio curioso di vedere cosa farai, demonio in gonnella!
Kate, che aveva già cominciato ad avviarsi verso la porta, si voltò di scatto verso di lui, fissandolo con aria spaventosamente truce.
Il sorriso del chirurgo scivolò via, insieme ai secondi che passavano silenziosi.
Ops. Forse ho tirato troppo la corda.
- Vedi di non provocarmi troppo, Trafalgar. – mormorò alla fine Kate - Non sia mai che la mia coscienza mi abbandoni, uno di questi giorni. Non è mai una buona idea inimicarsi un medico, dovresti saperlo. Soprattutto se è un medico pirata.
A quelle parole il chirurgo non riuscì a trattenere un ghigno compiaciuto. Fortunatamente aveva reagito contrattaccando come al solito – Lo so. Soprattutto se il medico in questione è uno di noi due, dico bene?
Kate alzò gli occhi al cielo, scuotendo la testa – stai cercando di lisciarmi per farti perdonare.
- Sì, lo ammetto. E dimmi, funziona?
- Assolutamente no! – sbottò seccata la ragazza.
- Bugiarda. Stai sorridendo!
- Non è vero! – Kate si voltò di nuovo coprendosi la bocca con la mano, ma non prima che Law vedesse allargarsi sul suo volto un sorriso dolce e raggiante. Il chirurgo si rilassò sulla poltrona, soddisfatto per la vittoria appena ottenuta.
Non sa proprio resistere ai complimenti.
- Ad ogni modo, cos’è che volevi? Avevi detto di avere altri ordini per me! – chiese Kate continuando a dargli le spalle.
- Oh, sì. Devi andare in biblioteca a prendermi dei manuali di pneumologia, e portarli nella mia cabina.
La dottoressa si voltò nuovamente di botto, e nuovamente offesa - che cosa?! E perché dovrei occuparmi io di un compito così banale?! Non può farlo Shachi, o Pen?
Law ghignò, incapace di resistere alla tentazione di farla incazzare ancora – No, perché io l’ho chiesto a te. Non stare là a cavillare ed obbedisci agli ordini, dolcezza.
- Razza di…. – rantolò Kate con voce strozzata – TI ODIO! – strillò inviperita, per poi lanciarsi fuori dallo studio con la grazia di un carro armato.
Il chirurgo si adagiò sullo schienale della poltrona, ridacchiando soddisfatto.
Ma che bugiarda.
- Maledetto, maledetto, MALEDETTO!
- Su Kate, adesso calmati, ok? – disse Bepo ficcandole in mano una tazza fumante – Lo sai com’è fatto, non devi prendertela.
Kate imprecò per quella che doveva essere la millesima volta mentre si portava la tisana alle labbra – Dannato lui, avrei dovuto picchiarlo!
Bepo sospirò, forse la tisana non era sufficiente a farla calmare. Era il caso di mettersi a preparare i pancakes con lo zucchero e il caramello? Kate li amava alla follia, erano l’unica cosa al mondo capace di farle tornare istantaneamente il buon umore.
È inutile chiederselo, tanto non li so cucinare.
- È un bene che tu non l’abbia fatto, capitano. – dichiarò infine Bepo, non sapendo cos’altro fare.
Kate sbuffò - Bepo, tu e gli altri dovete smettere di chiamarmi in quel modo! Non sono io il capitano di questa ciurma, sono solo il vice…
- Sì, ma in sostanza è come se lo fossi. Hai praticamente la stessa autorità di Law su questa nave…
- Sì, come no, magari. Il capitano di una nave è uno solo, purtroppo. – sospirò Kate.
Bepo fece un gran sorriso - be’, allora va bene che siate in due, no? In fondo questa non è una nave, è un sottomarino!
Kate alzò gli occhi al cielo, ma non riuscì a nascondere una risatina divertita di fronte a quel goffo tentativo dell’orso polare di risollevarle il morale. Tutto sommato aveva fatto bene ad andare in cucina a piagnucolare da Bepo; se non l’avesse fatto probabilmente a quell’ora si sarebbero ritrovati sul fondo dell’oceano per colpa di un altro pugno contro le pareti del Catorcio.
- Oh, così va meglio! – esultò Bepo indicando il sorriso della ragazza – Adesso mi vuoi raccontare cosa è successo?
- Andiamo Bepo, lo sai benissimo cos’è successo. L’ho notato che stavi origliando fuori dalla porta!
- Chiedo scusa… - mormorò Bepo mortificato – e comunque non stavo origliando! Ero solo pronto ad intervenire per evitare che vi picchiaste come al solito! E non provare a dire che non succede poi così tanto spesso!
Kate gli lanciò un’occhiataccia, ma non poté replicare. Era vero che si picchiavano in continuazione, c’era ben poco da negare.
- Be’, riassumendo in poche parole… Law ha annullato la mia missione perché a quanto pare le informazioni sulla Flotta dei Sette che voleva non gli interessano più. – borbottò il medico.
Bepo sobbalzò.
Ma no, non è possibile! A Law quelle informazioni servono eccome! Perché ha mentito a Kate…?! Oh, ma certo. Non vuole metterla in pericolo coinvolgendola nei suoi piani di vendetta prima del tempo… prima che sia pronta…
- Bepo, a che diavolo stai pensando?
- Uh? Niente, niente! – si affrettò a rispondere Bepo, sfuggendo allo sguardo sospettoso dell’amica – Senti, lo so che ci tenevi ad andare in missione. Ma devi avere pazienza… sono sicuro che il capitano aveva le sue buone ragioni per cambiare idea.
- A me è sembrato che lo facesse solo per il gusto di farmi arrabbiare.
- Be’… - fece Bepo in difficoltà - …magari c’entra anche questo…
- Senza magari, ammettilo.
- Ok, sicuramente c’entra anche questo. Però Kate, non prendertela troppo, va bene? Tu sei molto importante per lui, così come lui è importante per te. Lo sai.
A quelle parole la ragazza arrossì visibilmente. Era sempre a disagio quando si parlava di sentimenti o cose simili – non saprei…
- Si che lo sai, Kate. – la interruppe dolcemente l’orso.
- Non voglio parlarne, Bepo.
- Ok, come vuoi – sospirò deluso il navigatore – In ogni caso tu e lui siete una squadra, no? Ergo, dovreste andare d’accordo…
- Ma noi andiamo d’accordo! – protestò Kate – solo… non in maniera convenzionale.
- Lo so, e va bene anche così, credimi. In questi tre anni vi ho visto fare cose insieme che la maggior parte delle persone non potrebbe mai neanche immaginare! Ok, siete entrambi due orgogliosi patologici, è normale che non esprimiate l’affetto che provate come i normali esseri umani…
- Ora sei offensivo, Bepo. – lo interruppe freddamente Kate. Non lo pensava sul serio, ma quei discorsi non le piacevano, e non vedeva l’ora di cambiare argomento.
- Scusa – mormorò, di nuovo mortificato – insomma, ciò che sto cercando di dire è che… non ho mai visto due persone legate come lo siete voi due. Devi solo tenere a mente questo, e andrà tutto bene!
Kate lo guardò dubbiosa – ci proverò. Possiamo parlare d’altro, adesso? Per favore.
Bepo si strinse nelle spalle – non credo che capirò mai né te né lui. State tutto il giorno a discutere tra voi di cose complicate come tracheotomie, strane sindromi, terapie a base di antibiotici ad ampio spettro e altra roba del genere, però quando si tratta di parlare di affetto o amicizia vi inceppate. Che problemi avete?
- È semplice. La medicina e la farmacologia sono scienze esatte, i sentimenti no. – Kate posò la tazza sul tavolo della cucina – Devo andare. Law mi ha chiesto dei libri di pneumologia, e…
- Lascia stare, me ne occupo io. Tu scendi a terra e vai a prendere un po’aria, ok? – Bepo le strizzò l’occhio – non tornare troppo tardi, però. E non metterti nei guai!
- Agli ordini! Grazie Bepo, sei il mio eroe! – esclamò Kate felice, schioccando un bacio sul muso dell’orso – che sarebbe di certo arrossito se avesse potuto -, e si lanciò fuori dalla cucina, incapace di nascondere il sollievo.
Intendiamoci, lei voleva bene a Bepo, e non c’era stato giorno da quando lo conosceva in cui non aveva apprezzato la sua onestà e il suo buon cuore; era il ruolo che lui si era sobbarcato, cioè quello del grillo parlante, che a volte faceva fatica a digerire.
- Un altro caffè doppio, per favore.
Il cameriere annuì con aria poco convinta – Posso portare via le altre tazze?
- Sì, fai pure. – rispose Kate senza alzare lo sguardo dal libro.
Il cameriere impilò con aria da martire le otto tazze che era sparpagliate sul tavolo e lanciò un’occhiata al manuale di psichiatria e psicologia che la ragazza stava leggendo – lei è un medico, per caso?
Kate lo guardò – sì, perché? Hai bisogno di un consulto?
- No, in realtà mi stavo chiedendo… sa dirmi quali conseguenze ha l’eccesso di caffeina?
Kate alzò un sopracciglio, sollevando dal naso gli occhiali da lettura dalla spessa montatura nera per mettere meglio a fuoco il ragazzo - ansia, eccitazione, insonnia, vampate di calore al viso, disturbi gastrointestinali, contrazioni muscolari, irritabilità, battito cardiaco irregolare, agitazione psicomotoria, disorientamento… perché lo chiedi?
Il cameriere le sorrise placido - oh nulla, volevo solo sapere cosa dovrò aspettarmi una volta che lei avrà bevuto il suo nono caffè doppio in meno di due ore.
La donna ricambiò il sorriso con aria beffarda - Il caffè è l’unico luogo dove il discorso crea la realtà, dove nascono piani giganteschi, sogni utopistici e congiure anarchiche senza che si debba lasciare la propria sedia.
- Chi l’ha detta questa? Shakespeare?
- No, l’ho detta io!
Il cameriere sgranò gli occhi – questa frase è sua?!
- No, è di Montesquieu.
- Ma lei ha appena detto…
- So cosa ho detto. Ma tu mi hai chiesto chi l’aveva detto, e io ti risposto. Se volevi sapere chi l’avesse ideata avresti dovuto chiedere “chi l’ha ideata?”, non ti pare? – Kate sorrise angelica – potrei avere il mio caffè doppio ora?
Il cameriere ci mise diversi secondi a riprendersi dallo sbigottimento – A-arriva subito!
- Grazie mille.
Il ragazzo si allontanò, e Kate ridacchiò, risistemandosi sul naso gli occhiali da lettura. Adorava spiazzare e far sentire idiote le persone con ragionamenti deduttivi da bambini dell’asilo combinati ad eleganti sottigliezze e all’applicazione del metodo socratico. Law avrebbe apprezzato moltissimo, anche se era consapevole di sembrare un po’ troppo altezzosa.
Oh be’, l’intelligenza è il mio unico attributo davvero degno di nota, quindi perché essere modesti? E poi così imparerà a farsi i fatti propri.
Si strinse nelle spalle e tornò a studiare il manuale con rinnovato interesse.
… i disturbi dello "spettro bipolare", ovvero i quadri clinici un tempo indicati col termine generico di "psicosi maniaco-depressiva", consistono in sindromi di interesse psichiatrico sostanzialmente caratterizzate da un'alternanza fra le due condizioni contro-polari dell'attività psichica, il suo eccitamento (donde la cosiddetta mania) e al rovescio la sua inibizione, ovvero la "depressione", unita a nevrosi o a disturbi del pensiero tipici delle psicosi…
Un sorriso soddisfatto curvò le labbra della ragazza, mentre si portava alle labbra la tazza che il cameriere le aveva appena portato. Dopo una bella passeggiata un buon caffè e un buon libro di medicina sono ciò che ci vuole.
Era stato un pomeriggio estremamente piacevole. Katherine era scesa a terra ed era rimasta incantata dalla piccola isoletta dove erano attraccati: era un luogo paradisiaco, una specie di romantica fortezza circondata da alte e frastagliate scogliere. La città era parecchio lontana dalla riva, ed era in una valle poco profonda, un viluppo di edifici color miele dai tetti rossi e un groviglio di acciottolate stradine scure e serpeggianti per arrivare in ogni angolo della città. Kate l’aveva esplorata per ore con gli occhi spalancati di meraviglia come quelli di una bambina – era confortante sapere che, anche se aveva praticamente già girato il mondo prima con il padre e poi con Law, era ancora capace di stupirsi della sua bellezza – e ne aveva anche approfittato per cercarsi qualche nuovo libro da studiare; in un negozio aveva scovato quell’ultima edizione con tutti gli ultimi aggiornamenti e i nuovi studi, e, incapace di aspettare quelle due ore che sarebbero state necessarie per tornare al Catorcio, si era sistemata al tavolo di una locanda per cominciare ad esaminare il suo nuovo amico.
Sì, come no. Come se il vero motivo fosse questo. Cattiva Katherine, non si dicono le bugie.
Ovvio che non era quello il vero motivo… Kate in realtà non aveva nessuna voglia di tornare sul Catorcio e seguire le solite imbarazzanti tappe di riappacificazione che seguivano sempre ad un litigio con Law. Andare in cabina ad aspettare che lui la raggiungesse, sentire le sue poco accorate e poco dispiaciute scuse – quando si scusava Law sembrava la voce che annuncia i numeri del Lotto alla televisione -, doversi scusare a propria volta per aver reagito come una psicopatica schizzata, imbarazzo su imbarazzo…
Era una cosa che odiavano entrambi. Fosse stato per loro avrebbero fatto finta di nulla, e sarebbero andati avanti fingendo che non fosse mai accaduto. Parlare di cose astratte e complicate come i sentimenti era una cosa che odiavano entrambi, e se lo sarebbero risparmiato volentieri se avessero potuto… ma dopo anni di amicizia avevano scoperto che le emozioni chiedevano lo scotto di essere manifestate di tanto in tanto, altrimenti diventavano più dannose per l’anima dell’amianto per i polmoni.
Kate era consapevole di essere infantile quando faceva così. Sapeva che la sua era stata una reazione eccessiva, che non avrebbe dovuto essere così sensibile alle provocazioni, e che non c’era niente di strano ad ammettere di essere dispiaciuta per un qualsiasi motivo, o di voler bene a un sociopatico con manie di controllo come Trafalgar D. Water Law…
Sì, capiva tutte le ragioni, solo che… per quanto il suo QI potesse essere alto – e lo era davvero -, riuscire ad ammettere qualcosa di reale e concreto come il fatto che effettivamente condivideva un legame incredibilmente stretto e profondo con quel medicastro di terza mano a volte era davvero difficile, e non solo perché sapeva essere esageratamente odioso.
Forse era perché erano spaventosamente simili, in molti sensi. Erano entrambi troppo orgogliosi, mostruosamente intelligenti, acuti e poco tolleranti con le persone, fastidiosamente schietti e sfacciati, e realisti al punto di sfiorare la crudeltà, e rivedere sé stessi in qualcun altro che non sia un tuo parente può fare paura, specie se hai problemi a gestire le emozioni. O forse era perché, per quante cose potessero avere in comune, e per quanto fossero in sintonia – e lo erano davvero molto, anche se dai loro litigi poteva non sembrare così – Kate non era ancora riuscita a confessare a Law il motivo per cui aveva abbandonato la famiglia tre anni prima, e quel segreto tra loro le pesava sulla testa peggio di una spada di Damocle.
Perché non l’aveva fatto? Ovviamente per orgoglio, come ogni altra cosa che faceva. Law non era il tipo di uomo che provava compassione per i drammi di qualcuno, e tantomeno che la mostrava, ma, Kate ci avrebbe giurato, l’avrebbe provata per lei se avesse saputo. Magari non l’avrebbe manifestata, ma l’avrebbe di certo provata, e Kate non voleva la compassione di nessuno, ma soprattutto non voleva assolutamente la sua. Non avrebbe potuto sopportarlo, ne era sicura.
Era per questo che si era arrabbiata così tanto quando Law le aveva annullato la missione: per un momento le era sembrato di tornare sulla Moby Dick, dove era considerata soltanto una mocciosa ingenua capace solo di curare ferite e malattie varie, e che doveva starsene buona buona in infermeria per evitare di farsi male.
Ma non era solo il suo orgoglio il problema; c’era anche la vergogna. Kate era diventata tutta un’altra persona negli ultimi tre anni, e non solo perché dopo molti sacrifici era diventata una potente combattente. Si sentiva più forte, più sicura di sé, più matura, più audace…
Più vicina alla donna che voleva essere. Più simile alle donne del proprio clan. Più O’Rourke.
E il merito di quel cambiamento così profondo era di una persona sola, anche ad alta voce non l’avrebbe mai ammesso: Trafalgar D. Water Law. E lei non voleva che lui sapesse quanto debole, fragile, insicura e insoddisfatta fosse stata in passato. Non voleva. Quella Katherine era morta il giorno in cui aveva tagliato la corda che teneva sospesa in aria quella barca, ed era giusto che continuasse a riposare in pace.
Ok, basta. Stava diventando patetica, era il caso di darci un taglio. Tornò a concentrarsi sulle nozioni di medicina, quelle sì che erano rassicuranti.
…l'alessitimia, o alexitimia, in psicologia è un disturbo che consiste in un deficit della consapevolezza emotiva, palesato dall'incapacità di mentalizzare, percepire, riconoscere e descrivere verbalmente i propri e gli altrui stati emotivi…
Oh andiamo, è una dannata congiura! Pensò infastidita Kate chiudendo bruscamente il libro con un tonfo e gettando con stizza gli occhiali sul tavolo. Quel giorno i kami avevano deciso di accanirsi su di lei o cosa?!
- Ti dico che è proprio vero, amico! L’ho sentito con queste orecchie!
- Mh? – fece Kate, voltandosi nella direzione da cui era venuta l’esclamazione… per poi insaccarsi nel cappotto alzando in fretta e furia il bavero nel tentativo di nascondersi dai due uomini appena entrati nella locanda, colta alla sprovvista.
Che seccatura, ci mancavano solo i Marines!
Non che non fosse in grado di affrontarli, intendiamoci. Avrebbe potuto stenderli entrambi con una mano sola… ma aveva promesso a Bepo di non combinare guai, e aveva intenzione di mantenere la parola finché ne avrebbe avuto la possibilità.
- Ma va’, non è possibile! Vorresti farmi credere che quella recluta è riuscita a ferire a morte un pirata di quel calibro? L’unico che avrebbe qualche probabilità di riuscirci sarebbe uno degli Ammiragli!
Un pirata di grosso calibro ferito a morte…? Interessante! Chi sarà? Kate affinò l’udito.
- Sarà di sicuro una balla… evidentemente non è stata quella recluta a ferirlo, ma un superiore… oppure l’avrà ferito lui, ma di certo non a morte. Sai come sono i pettegolezzi, probabilmente gli avrà fatto un graffio microscopico e poi la vicenda sarà stata gonfiata!
- Gli ha fatto esplodere una granata in faccia! Ti pare possibile che quel delinquente possa essersi fatto solo un graffio microscopico?!
-  Una granata in faccia?! Dici sul serio?!
- Te lo giuro! Pare che questa impresa abbia fatto guadagnare a quel pivello la nomina a Capitano di fregata…
- Ma dai, non posso crederci!
- Credici! Ma era abbastanza prevedibile un esito simile! Ha praticamente ucciso uno dei fedelissimi di Barbabianca! Mi meraviglia che non l’abbiano fatto Contrammiraglio o qualcosa di simile…
CRASH!
Tutti sobbalzarono a quel fragore improvviso, anche la stessa Kate, e nel locale cadde il silenzio.
Senza rendersene conto il medico aveva ridotto in mille briciole la tazza che stringeva in mano, macchiando il libro e la mano di caffè… e sangue, sprizzato dalle ferite che diventavano più profonde man mano che Kate serrava le dita intorno alle schegge superstiti.
Ha praticamente ucciso uno dei fedelissimi di Barbabianca…
Non fece caso al dolore e al sangue, e nemmeno si preoccupò di essere riconosciuta. Scalciò via la sedia, rovesciò il tavolino e camminò a grandi passi verso quei due, con il volto deformato da un’espressione folle.
Non dovevano essere due completi imbecilli, perché percepirono subito il pericolo: il primo, più reattivo, tirò immediatamente fuori una pistola e gliela puntò contro, ma Kate si limitò ad afferrargli il polso e a torcerglielo con un movimento fluido, spezzandoglielo di netto. Il Marine lasciò cadere la pistola e indietreggiò urlando, e Kate con aria annoiata gli dette un leggero buffetto sulla fronte con l’indice, che lo mandò violentemente a sbattere contro il muro. Il rumore della sua schiena che si spezzava, unito a quello delle grida di terrore degli altri avventori, fu la cosa più gradevole che Kate avesse sentito da quando era scesa dal letto quella mattina.
L’altro, quello che stava raccontando quella vicenda con tanto entusiasmo, e che fino a quel momento era rimasto terrorizzato a guardare, si riscosse dallo shock solo quando si rese conto che Kate con la mano ferita aveva raccolto dal pavimento la pistola del collega, e che ora gliela stava puntando tra gli occhi con un ghigno sadico che non aveva nulla da invidiare a quello di un demonio, con tanto di rivoli di sangue che le scorrevano giù per il braccio.
- Temo che tu sia arrivato al capolinea, mio caro. – sussurrò la ragazza leccandosi le labbra.
- L-la p-pre-go, n-non m-mi fac-ccia del m-male…
- Oh, dunque non vuoi morire come il tuo amico? – chiese Katherine fingendosi sorpresa – Sicuro? Guarda che per lui è stata veloce, il dolore sarà durato al massimo per due secondi…
- No, la supplico! Non voglio morire! – implorò atterrito l’uomo.
-  Vedremo, amico. Se continuerai a respirare dipende solo da te…
- Farò qualunque cosa!
- Ottimo, era quello che volevo sentire. – sorrise Katherine senza abbassare la pistola– Ora mi dirai tutto quello che sai su questa storia della recluta che ha ferito uno dei figli di Barbabianca.
Un lampo attraversò gli occhi del Marine – Io non ne so nulla… ok, ok! – strillò quando Kate alzò il cane – Avevamo saputo di questa faccenda pazzesca… ne parla tutta la Marina! Una grossa flotta delle nostre navi era riuscita chissà come a rintracciare la Moby Dick dell’Imperatore, e hanno colto l’occasione per attaccare. Sono stati massacrati, solo un terzo di quelli che erano partiti è riuscito a mettersi in salvo…
- Non mi interessano queste sciocchezze! Voglio sapere quale degli uomini di Barbabianca è stato ucciso!
Il Marine spalancò gli occhi – Non è ancora morto…
- Che cosa?! – gridò Kate incredula.
- Non è ancora morto… ma lo sarà presto. Ho sentito dire che è troppo grave, che per lui non c’è niente da fare…
- Ma chi è?! CHI?! –
Il Marine singhiozzò di paura, ma quando Kate lo guardò come se volesse smembrarlo a mani nude si costrinse a parlare – I-il co-coman-dante d-della Qu-quarta Di-divisione… non s-so quale sia il suo nome…
- Thatch – sussurrò sconvolta Kate, abbassando inconsciamente la pistola.

No. Non può essere…

Come se si fosse sentito chiamato in causa, qualcosa scintillò alla mano del medico.
- AAAAAAH! – strillò qualcuno dei clienti, facendo sussultare di nuovo tutti.
- Che c’è? Che succede?! – chiese spaventato qualcun’altro.
- L’ANELLO CHE PORTA! CONOSCO QUEL JOLLY ROGER! – urlò l’uomo, indicando la mano con cui la ragazza teneva ancora la pistola – È UNA FIGLIA DI BARBABIANCA ANCHE LEI! -
- UNA FIGLIA DI BARBABIANCA?! – ripeterono increduli tutti i presenti.
- SCAPPIAMO! –
Tutti si lanciarono fuori dal locale in preda al panico, terrorizzati solo dall’aver sentito pronunciare il nome del terribile Edward Newgate. Tutti terrorizzati da una ragazza di meno di vent’anni, alta un metro e sessantatré con i tacchi, che per lo shock di aver scoperto che il suo fratello prediletto era in fin di vita aveva cominciato a tremare come una foglia e a singhiozzare senza versare nemmeno una lacrima, che aveva sì appena ucciso un uomo, ma che adesso vacillava per il dolore, con la mano sinistra ancora gocciolante di sangue, indifesa come non era mai stata prima. E tutto solo perché al dito della destra portava un pesante anello d’argento con inciso sopra un teschio con i baffi a forma di mezzaluna, posto su una croce fatta di ossa incrociate, che aveva ricevuto per il suo tredicesimo compleanno e che tre anni prima non aveva avuto il coraggio di togliere.

Thatch…

- Mannaggia, mi sono persa di nuovo!
Kate si guardò intorno, spaesata e preoccupata. Quella nave era veramente immensa, non avrebbe mai immaginato potesse esisterne una così grande!
Quando l’amico della mamma, l’uomo gigantesco che si chiamava “Newgate” l’aveva portata su quella nave il giorno prima, Kate aveva capito immediatamente che sarebbe stata una vera impresa orientarsi là sopra, almeno per i primi tempi; era almeno venti volte più grande di quella della mamma, piena di corridoi che tra di loro sembravano tutti uguali, piena di estranei che sembravano tutti spaventosamente giganteschi in confronto a lei. Kate sapeva che non era una cosa carina da dire visto che non li conosceva, ma aveva un po’ paura di loro.
Perché la mamma l’aveva lasciata lì? Kate continuava a chiederselo, mentre girava sconfortata per i corridoi alla ricerca della cabina del capitano, sperando almeno di poter rivedere un viso amico.
A Kate quell’uomo piaceva, anche se lo conosceva poco; le piaceva il modo in cui le aveva sorriso quando le aveva stretto la mano il giorno prima, sembrava il sorriso di un bambino. Aveva l’aria simpatica, e quando si era accorto che era triste perché la mamma era andata via l’aveva presa sulle spalle e aveva giocato con lei per ore, fino a quando non era riuscito a farla sorridere.
Se solo fosse riuscita a trovare la sua cabina!
- Questa nave è così grande… non riuscirò mai ad orientarmi! – si lamentò la bambina, pestando i piedi a terra per la frustrazione.
- Ehi piccolina, ti sei persa per caso?
Kate saltò in aria lanciando un gridolino, presa alla sprovvista da quella voce grossa che le era arrivata alle spalle, e si voltò in preda al panico per individuare lo sconosciuto.
- Ehi, non devi avere paura! – le disse con un sorriso amichevole il proprietario della voce, mettendole una mano sulla testa – Qui sei al sicuro, te lo garantisco!
- Io non ho affatto paura! – sbottò infastidita la bambina scostandosi dal tocco dell’uomo – Mi hai solo colta di sorpresa, tutto qui!
- Oh, ma guarda! La mocciosa è combattiva!
- Non chiamarmi mocciosa, cafone!
- E come dovrei chiamarti?
- Katherine! O’Rourke D. Katherine!
Il pirata, sentendosi rispondere con tanta veemenza da una bambina di dieci anni, scoppiò a ridere di gusto.
Kate ringhiò offesa, ma poi si soffermò ad osservarlo. Era molto alto e anche muscoloso, poteva avere circa vent’anni, era difficile dirlo. Aveva i capelli castani, pettinati in stile Pompadour, un pizzetto nero e una cicatrice attorno all'occhio sinistro. Vestiva con una divisa elegante, con pantaloni al polpaccio e con una cintura nera in vita, che faceva pensare a…
- Sei un cuoco, per caso? – chiese curiosa Kate, dimenticando per un momento la propria irritazione.
- Niente male! Sei sveglia, O’Rourke D. Katherine! – la sfotté il pirata, per poi chinarsi fino ad arrivare al livello dei suoi occhi – Su, vieni con me. Ti preparo la merenda, che ne dici?
- Grazie, ma non ho… ehi! – esclamò incredula la bambina quando il pirata se la caricò sulle spalle come un sacco di patate – Mettimi giù!
- Su, non fare la timida! Sono molto bravo a cucinare, vedrai che sarai contenta!
Ma Kate non era affatto contenta di quella situazione, e scalciò con decisione lungo tutto il tragitto per farsi liberare. Il cuoco però ignorò del tutto le proteste della bambina, e chiacchierò per tutto il tempo come se nulla fosse.
- Vedrai che sarai contenta di vivere qui! Qui siamo tutti una famiglia, siamo tutti fratelli, figli del capitano Barbabianca! Anche tu, da adesso in poi! Questo significa che ora io sono tuo fratello maggiore, e quindi sarà mio dovere avere cura di te!
Finalmente arrivarono in cucina, e il pirata la depositò direttamente su una sedia accanto ad un tavolo.
- Ora stai lì e non muoverti! – le disse con un gran sorriso, per poi mettersi al lavoro.
Kate incrociò le braccia al petto e gonfiò le guance con stizza, ma obbedì e non si mosse. Aveva capito di avere a che fare con un uomo insopportabilmente testardo, quindi era chiaro che provare a ribellarsi sarebbe stato inutile.
- Ecco qua! – annunciò trionfante il cuoco, mettendole davanti un vassoio.
Kate abbassò lo sguardo su ciò che aveva davanti, studiandolo con curiosità, Sul vassoio era stato sistemato un grosso bicchiere pieno di quello che sembrava essere latte con il cacao, coltello e forchetta, e un piatto contenente qualcosa che Kate non aveva mai visto prima. Era una pila di strani dischi dorati dall’aria morbida e dal profumo incredibilmente dolce, cosparsi da un abbondante strato di zucchero a velo e da quello che sembrava essere del miele dal colore un po’ più scuro del normale.
- Be’, perché non mangi? – domandò perplesso il cuoco.
- Ehm, io… - farfugliò esitante Kate – …come si mangiano questi? – chiese indicando gli strani dischi.
Il pirata strabuzzò gli occhi – Come sarebbe a dire “come si mangiano”? Non mi dire che non hai mai mangiato i pancakes!
- Pancosa? – fece Kate perplessa.
- Pancakes! Oddio, non posso credere che tu non sappia cosa siano, petit! – rise incredulo il pirata, arruffandole i capelli.
Kate scacciò via la sua mano con aria indispettita, per poi replicare sospettosa – Petit?
– “Piccolina” in francese. – spiegò intenerito il pirata, per poi afferrare il coltello e la forchetta che stavano accanto al piatto della bambina e cominciare a tagliare a pezzi i pancakes.
 – Si mangiano come se fossero una fetta di carne, devi dividerli in pezzi.
Quando finì ficcò la forchetta in mano alla bambina, e la invitò implicitamente con lo sguardo a servirsi. Kate assottigliò lo sguardo e infilzò un pezzo di pancake, portandoselo poi alle labbra.
- Buono, eh? – ridacchiò il pirata, divertito dall’espressione della bambina.
Oh, era molto più che buono. Era delizioso, paradisiaco, squisito, magnifico…
Non trovando parole adeguate per esprimersi, Kate si limitò ad annuire con aria estasiata.
Mangiò di gusto tutto ciò che c’era nel piatto, finendo per dare la caccia anche alle briciole, trattenendosi a stento dal leccare il piatto. Quando ebbe finito si alzò e si inchinò leggermente in segno di gratitudine.
- Grazie. Erano davvero buonissimi.
- Non devi ringraziare, petit! – rispose compiaciuto il cuoco, accarezzandole la testa – Ora siamo una famiglia, ricordi?
Stavolta Kate sorrise a quelle parole, e non si scostò dal suo tocco – non mi hai ancora detto come ti chiami, però.
- Giusto! – esclamò il cuoco sorpreso. Sorrise e le tese la mano – il mio nome è Thatch, sono il comandante della Quarta Divisione. Piacere di conoscerti, petit!
Kate rise di quel tono entusiasta, e gli strinse di cuore la mano.
- Il piacere è mio… nii-san.
Nii-san… non è possibile, tu non puoi morire!

Erano scappati tutti, tranne uno. Il Marine superstite non si era mosso, la fissava con occhi spalancati; non sembrava più spaventato da lei, anzi sembrava quasi… dispiaciuto.
- È tuo fratello quello che sta morendo, non è vero? – mormorò l’uomo.
Kate annuì appena, non sarebbe comunque riuscita a parlare.
- Mi dispiace.
Ci vollero diversi secondi prima che Kate riuscisse di nuovo ad aprire bocca – Perché gli altri non fanno niente? Perché dicono che non c’è nulla da fare?
- Dicono che le sue condizioni sono troppo gravi… l’unica cosa che possono fare è aspettare che muoia.
- Aspettare che muoia?!
- A quanto ho sentito dire non hanno un medico a bordo. – spiegò il Marine – ci sono solo delle infermiere, e loro non sanno come intervenire… hanno provato a cercarne uno nell’isola dove hanno attraccato, Banaro, perché lo aiutasse, ma quelli che hanno trovato sono stati categorici: non si può fare nulla, tranne prepararsi al peggio.

Non hanno un medico a bordo. Non faranno niente, staranno a guardare mentre lui ci lascia.

- MALEDETTI, DANNATI INCOSCIENTI! – urlò fuori di sé Kate, facendo sobbalzare l’uomo – COSA DIAVOLO HANNO IN TESTA?!
Senza aggiungere altro Kate uscì a grandi passi dal locale, lasciando il Marine là come un palo.
Non poteva permettere una cosa simile. Non poteva assolutamente. Quegli idioti senza spina dorsale dei suoi fratelli che come al solito non avevano fede potevano anche essersi arresi, ma lei non era come loro. Lei era una piratessa e il miglior medico del mondo insieme a Law, e non si sarebbe arresa nemmeno quando il cuore del fratello si sarebbe fermato. L'avrebbe tenuto in vita, a costo di superare i propri limiti.
I medici hanno detto che non c’è niente da fare. Ma io non sono un medico come tutti gli altri, i miei poteri uniti alle mie conoscenze possono rendere possibile l’impossibile. Lo salverò, a qualunque costo, e poi darò una lezione a quegli irresponsabili dei miei familiari per aver anche solo pensato di abbandonare nostro fratello al suo destino.
Sono sicura che Law capirà, e mi aiuterà. Con il suo aiuto sarà un gioco da ragazzi.




Angolo autrice:
Buonasera a tutti!
Questa è la mia prima storia su questo fandom, quindi sono un po' emozionata! :)  Immagino che questo capitolo vi abbia lasciato un bel po' di domande - diciamo pure che molto probabilmente non ci avete capito una mazza XD - ma vi assicuro che già dal prossimo capitolo tutto comincierà a chiarirsi!
La storia è ambientata in un punto imprecisato prima degli eventi di Alabasta. Il raiting probabilmente cambierà man mano che la storia procede.
Non voglio fare spoiler, ma posso dirvi che nel prossimo si capirà qualcosa di più su come le strade di Kate e Law si sono incrociate dopo il ritiro della dottoressa dalla ciurma di Barbabianca - e si approfondirà meglio la natura del loro rapporto - e vedremo anche di approfondire le vere capacità del medico, e che ruolo abbia avuto esattamente Law nel suo cambiamento -
Non voglio anticipare altro, lasciatemi una vostra opinione, e vi ringrazio per essere arrivati fino a qui! :D
Un bacio grande! <3
Tessie_chan
P.S.: Molto lieta di conoscervi! :D
P.P.S. Vi allego un piccolo disegno di Kate. Spero vi piaccia! :D


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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Amor tussique non celatur







Capitolo 2




Le scelte si fanno in pochi secondi,
ma si scontano per tutta la vita.
- Anonimo
 





- Come sarebbe a dire “non possiamo andare a Banaro”?!
Law la fissò annoiato – cos’è dolcezza, improvvisamente sei diventata dura di comprendonio? Non possiamo andare a Banaro e non ci andremo, punto.
- Ma non hai sentito quello che ti ho detto? Mio fratello sta morendo!
- Mi dispiace davvero, ma io non posso farci nulla, e tu nemmeno.
Kate lo fissava con gli occhi che si sgranavano ogni secondo di più, il suo respiro era sempre più agitato. Non stava dicendo sul serio, vero?

Vero?!

Gli avvenimenti dell’ultima ora si erano susseguiti quasi come in un sogno per Kate. Avete presente com’è quando state dormendo e state sognando, e vi si presenta la classica situazione in cui dovete correre per raggiungere qualcosa? Che so, la fine di un corridoio, qualcuno che amate e che è in pericolo, una porta che dovrebbe portarvi alla fine di tutte le vostre sofferenze?
Ecco, è proprio in quel momento che vi sembra di essere spaventosamente lenti, deboli, stanchi: voi vi sforzate di fare più in fretta, di correre più veloce… e invece ottenete l’effetto contrario, le gambe sembrano pesare sempre di più, la vista sembra appannarsi, la coscienza sembra abbandonarvi, e la frustrazione vi tortura, perché volete a tutti i costi arrivare alla vostra dannata meta, e vi sembra di non essere mai abbastanza forti, mai abbastanza veloci, mai abbastanza determinati. E se poteste vi prendereste a pugni per questo.
Ci siete? Bene, è proprio così che s’era sentita Kate nell’ultima ora, mentre correva come una scheggia per le strade della città – facendosi puntualmente riconoscere da mezzo mondo per colpa di quei dannati tacchi che la facevano sembrare un cavallo al galoppo. No, in effetti assomigliava più ad un pony – perdendosi diverse volte nel tentativo di tornare al Catorcio. La preoccupazione per il fratello le aveva annebbiato il cervello al punto di impedirle di ragionare lucidamente, facendole commettere un errore dietro l’altro, cosa imperdonabile per un medico.
Fortuna che alla fine l’istinto aveva prevalso, e in qualche modo era riuscita a tornare al sottomarino. A quel punto aveva puntato dritto verso lo studio di Law, ma lì non l’aveva trovato, così si era precipitata verso la sua cabina, sempre più stanca e afflitta ogni minuto che passava. Quando finalmente c’era arrivata era entrata senza preoccuparsi di bussare – non c’era nulla di nuovo in questo, quando andava da lui lei non bussava mai -, e aveva immediatamente richiuso la porta alle proprie spalle, appoggiandovisi contro con il fiato corto.
Law non era rimasto particolarmente impressionato da quell’entrata ad effetto, anzi inizialmente si era limitato a fissarla con la sua onnipresente smorfia indifferente… ma si era alterato parecchio quando aveva visto la sua ferita alla mano, che tra l’altro Kate aveva completamente dimenticato.
- Si può sapere che diavolo hai combinato? – aveva sbraitato alzandosi dalla scrivania e afferrandole non troppo delicatamente il polso per esaminare i tagli – hai fatto a pugni con la vetrina di un negozio o cosa?!
- No, ho stritolato una tazza. – aveva risposto in fretta Kate – senti, devo dirti una cosa…
- Be’, di qualunque cosa di tratti, non voglio sentire una parola in merito prima che abbia finito di estrarti tutte le schegge dalla mano e ti abbia medicato. – l’aveva freddata lui prendendo un kit di pronto soccorso da sotto il letto.
- Posso farmela da sola la medicazione!
- Zitta e non fare storie. Se proprio vuoi parlare mi piacerebbe sapere chi diavolo ti ha dato il permesso di scendere a terra senza avvisare!
- Chi diavolo mi ha dato… ma chi diamine ti credi di essere, il mio padrone?!
- No, ma sono il tuo capitano, che è praticamente la stessa cosa, dolcezza. – aveva affermato stoicamente il chirurgo estraendo la prima scheggia con delle pinzette.
- Ahi! – aveva strillato indispettita Kate – Non mi chiamare dolcezza! E non potevi farmi l’anestesia locale prima?
- No. Un po’ di dolore non ti ucciderà di certo. Anzi, magari ti farà imparare qualcosa, testa calda che non sei altro.
Kate aveva fatto una smorfia di fronte a quella risposta menefreghista, ma intimamente ne era stata contenta. Per quanto Law potesse essere odioso in quelle situazioni con il suo atteggiamento sgarbato, preferiva di gran lunga quel suo modo di fare a quello che avevano tenuto per anni i suoi fratelli; preferiva di gran lunga la sua indolenza all’essere trattata come una bambola di porcellana fine, che deve essere tenuta costantemente su uno scaffale per evitare che si rompa.
- Senti Law, ho davvero bisogno di parlarti, è importante… ahi, di nuovo!
- E io ti ho detto che non voglio sentire una parola fino a quando non avrò finito qui.
- Ma è davvero importante! Non c’è tempo da perdere, ogni secondo è prezioso!
A quelle parole Law si era finalmente deciso ad alzare lo sguardo dalla ferita e a degnarla della propria attenzione. Kate ne aveva approfittato subito, e aveva sganciato la bomba senza troppi giri di parole.
- Mio fratello sta morendo.
E poi, senza dargli il tempo di replicare, gli aveva raccontato per filo e per segno ciò che era successo sull’isola, limitando al minimo le battute sarcastiche. Law l’aveva ascoltata senza interromperla, affilando solo lo sguardo di tanto in tanto quando Kate per l’ansia perdeva il filo del discorso o si dilungava su dettagli inutili, senza comunque smettere di medicarle la ferita.
- E quindi dobbiamo fare qualcosa! Dobbiamo partire immediatamente per Banaro! È praticamente dietro l’angolo, con il sottomarino in massimo sei ore saremo là! – concluse Katherine gesticolando animatamente con la mano sana – le sue condizioni a quanto pare sono gravissime, ma se lavoriamo insieme come al solito sono certa che potremo curarlo! Io posso usare la mia Essenza per far battere il suo cuore, e operandolo insieme riusciremo di certo a salvarlo! Allora, cosa ne pensi?
Ok, parliamoci chiaro, non è che Kate si fosse aspettata chissà quale eclatante reazione - c'erano più possibilità che un giorno il papa si affacciasse sul balcone di piazza San Pietro e si mettesse a ballare il Gangnam Style piuttosto che Trafalgar Law cominciasse a sclerare per un qualsiasi motivo- : nei tre anni che aveva trascorso con lui Kate non l’aveva mai visto perdere il controllo di sé nemmeno una dannata volta. Lui era più bravo di lei anche in questo, accidenti a lui!
Però diamine, almeno una piccola smorfia avrebbe anche potuto farla, se non altro per solidarietà nei suoi confronti! E invece no, non era Trafalgar Law mica per niente. Il suo viso sembrava praticamente scolpito nel marmo mentre le bendava con cura la mano e le rispondeva:
- Non possiamo andare a Banaro.
Per un momento Kate aveva creduto di aver sentito male, ne era stata davvero convinta. Andiamo, Law poteva anche essere un sadico bastardo, ma era pur sempre umano! Non poteva essere così indifferente...
E invece sì, era davvero così indifferente.
Kate sentì la bocca storcersi in una smorfia terribile, e balzò in piedi trafiggendo Law con lo sguardo.
- Fammi capire. – sibilò con voce avvelenata la ragazza – cosa intendi dire quando dici che non possiamo farci nulla?!
Law sospirò impaziente – ragiona, dolcezza. Hai detto che i tuoi fratelli non hanno nulla per aiutarlo, che stanno aspettando che muoia. Quante possibilità ci sono secondo te che dopo più di ventiquattr’ore sia ancora vivo? Per me sono inesistenti. È inutile precipitarsi là se non c’è niente da salvare.
Quelle parole la colpirono alla stregua di una pugnalata. La parte più razionale di lei sapeva che in fondo il suo ragionamento non era così insensato, e che, per quanto fossero abili, loro due non erano capaci di fare miracoli… sì, da un punto di vista razionale le argomentazioni di Law non erano sbagliate, eppure…
Kate non tentò nemmeno di frenarsi, non gliene fregava niente se era una cosa sbagliata da fare: afferrò con uno scatto repentino Law per il bavero della felpa per tirarlo in piedi e, con tutta la violenza di cui era capace, abbatté il proprio sinistro nel suo stomaco, mandandolo brutalmente a sbattere contro la parete dall’altro capo della stanza, che si crepò sotto la forza del colpo.
Il capitano non riuscì a trattenere un grido di dolore misto ad una risata – la ragazza picchiava davvero forte – e si accasciò contro la parete, senza tentare di mantenersi in piedi. Non aveva nemmeno tentato di schivare il pugno.
- SEI UN MOSTRO! COME FAI AD ESSERE COSÌ CINICO?! LUI È LA MIA FAMIGLIA!
Stranamente Law sembrò trovare in qualche modo divertente quell’esplosione di rabbia - te la prendi con me solo perché sai che ho ragione, eh? – sghignazzò beffardo il chirurgo, rimettendosi lentamente in piedi tenendosi lo stomaco con una mano – mi dispiace deluderti, dolcezza, ma picchiarmi non ti farà stare meglio, né farà stare meglio tuo fratello.
Quelle parole furono come un fiammifero per la polvere da sparo che era la furia di Katherine: come osava quell’imbecille ridere di lei?! Kate fece per sguainare la spada, ma di colpo non le sembrò abbastanza. Scostò con un calcio la sedia che si frapponeva fra loro e si scagliò nuovamente contro lui, fermamente decisa ad ucciderlo a mani nude.
Probabilmente se non fosse stato così ammaccato e dolorante, Law sarebbe riuscito senza problemi a sostenere l’impeto di quell’assalto. La ragazza gli piombò addosso con tutto il suo peso, facendolo barcollare, e insieme caddero a terra, lui sotto e lei sopra. A cavalcioni su di lui lei alzò un pugno, pronta a colpirlo al volto…
Ma aveva dimenticato quanto Law potesse essere rapido. Il pugno non piombò sulla sua faccia, ma sul pavimento, e prima ancora di rendersene conto, lei si ritrovò incastrata sotto di lui, con i polsi bloccati ai lati del viso.
Rendendosi conto della situazione in cui si trovava, Kate sentì buona parte della sua rabbia svanire fatalmente, rimpiazzata un turbamento alquanto indesiderato. Di colpo si accorse di quanto fossero vicini: lei schiacciata sotto di lui con la schiena premuta contro il pavimento e le mani immobilizzate, e lui che si teneva in equilibrio sui gomiti incombendo a così poca distanza da lei da farle percepire chiaramente il suo respiro caldo accarezzarle il viso e la gola.

Non sono abituata ad averlo così vicino. È destabilizzante.

- Levati da dosso. – ordinò Kate, la voce appena tremante.
- Se lo faccio cerchi ancora di picchiarmi? – le sussurrò serio con voce roca e gli occhi ardenti.
- Non credi di meritartelo?
Sentì il petto di Law alzarsi e abbassarsi contro di lei, in una risata senza divertimento – Tu credi che io mi diverta a parlarti in questo modo? Credi che mi piaccia vederti soffrire?
- Be’, non è che tu abbia mai avuto molto riguardo per i miei sentimenti. In effetti tu non hai riguardo per i sentimenti di nessuno.
Law si lasciò sfuggire un verso roco, incredulo, e si sollevò da lei, porgendole una mano per aiutarla ad alzarsi. Kate la afferrò senza pensarci, e si lasciò tirare su.
- Sono consapevole di non avere il carattere più amabile del mondo – disse Law con voce tesa come una corda di violino – ma insinuare che io voglia ferirti deliberatamente mi sembra troppo anche per te, Kate.
- Allora perché non ti sforzi di capire? – sussurrò Kate – mio fratello… non so spiegarti quanto sia importante per me. Lui è così affettuoso, sensibile, divertente, e io…

E io non gliel’ho mai detto. Anzi, l’ultima cosa che gli ho detto è che era un egoista e un ipocrita. Ero così arrabbiata con lui e tutti gli altri, e non ho mai pensato che…

No. Non voleva pensare che non avrebbe mai più avuto occasione di dirgli quanto l’amava. Non era un’opzione contemplabile.
- … e io non posso abbandonarlo al suo destino. Devo almeno tentare di… ahi!
- Che succede?
- La mano… - si lamentò Kate, tenendosi il polso con una smorfia. Come una stupida aveva usato la mano ferita per cercare di colpire Law prima, e ora questa stava vivamente protestando lanciando impietose stilettale di dolore dirette dritte al cervello.
- Aspetta. – le disse Law, per poi voltarsi e dirigersi verso l’armadio dei medicinali che teneva in camera. Kate lo sentì trafficare con una qualche boccetta e una pipetta, e un attimo dopo lo vide tornare tenendo in mano un bicchiere pieno d’acqua – Tieni, bevi.
Kate glielo tolse di mano – cosa mi stai dando?
- Un antidolorifico in gocce. Bevi. – le ordinò di nuovo, e Kate obbedì, svuotando il bicchiere in un sorso. Il torpore la invase subito, dandole un immediato sollievo.
- Grazie. – sospirò Kate rendendogli il bicchiere, che lui posò sulla scrivania – senti, tornando al discorso di prima…
- Kate, capisco il tuo punto di vista, e mi dispiace per ciò che stai passando. Ma noi siamo medici, e dobbiamo essere realisti. Tuo fratello non può sopravvivere fino al nostro arrivo, è impossibile.
- Tu non lo conosci! Non sai quanto sia forte e determinato. Si aggrapperà alla vita con le unghie e con i denti, ne sono sicura. Possiamo farcela a salvarlo, credimi. – Kate fece un passo verso di lui e gli toccò il braccio, cercando di nascondere l’inquietudine che ancora la invadeva -Ti prego Law, ho bisogno di te.
Le era costato molto ammetterlo, dannazione. Lei era una donna troppo orgogliosa per ammettere di aver bisogno dell’aiuto o del sostegno di chicchessia, e ammettere di aver bisogno di Law era ancora più difficile. Law questo lo sapeva, non poteva rifiutarsi! In fondo erano una squadra, no?! Lei non avrebbe esitato a offrirgli il proprio supporto, a parti inverse!
Law la fissava con aria apparentemente inespressiva, ma Kate lo conosceva abbastanza bene da sapere che dentro di sé stava vivendo un terribile dilemma.

Ti prego, ti prego, ti prego. Non abbandonarmi.

- Mi dispiace, Kate. – le rispose alla fine il ragazzo con voce ferma, sottraendosi al suo tocco – la mia risposta è no. Non andremo a Banaro, il discorso è chiuso.

La mia risposta è no. No. No. No. No…

Kate strinse i pugni, indecisa se piangere o infuriarsi.
Dunque era così. Arrivare a pregarlo non era servito a nulla. A lui non importava se lei aveva bisogno di lui, non gli importava del fatto che Kate avrebbe perso un fratello. Per lui la risposta era no.
- Perciò non andremo a Banaro. – ripeté lei atona.
- Esatto.
- E non mi aiuterai a salvare mio fratello.
- No.
- Molto bene, allora. In questo caso direi che non abbiamo più niente da dirci. – dichiarò Kate voltandogli le spalle e dirigendosi a passo di marcia verso la porta.
- Dove… Katherine! Dove diavolo stai andando!?
- Scendo dal sottomarino. Ruberò la nave di qualcuno e farò rotta verso Banaro; se tutto va bene forse riuscirò ad arrivare entro l’alba di domani.
- Non puoi farlo! TE LO PROIBISCO!
- Non me ne frega niente. Me ne vado lo stesso, e per quanto mi riguarda tu puoi anche andare a farti fottere…
Le ultime parole le uscirono strane, a malapena era riuscita a farfugliarle. Improvvisamente le pareti della stanza si erano messe a girare vorticosamente, e la vista si era annebbiata. Kate gemette e barcollò, e andò a sbattere con il corpo contro la porta chiusa della cabina, mentre le ginocchia le cedevano miseramente.
- Finalmente fa effetto, eh? – sentì dire da Law. La sua voce sembrava lontana chilometri.
- Che… che co-cosa… m-mi hai…?
- Cloroformio. - rispose Law raggiungendola e prendendola delicatamente tra le braccia per evitare di farla cadere - Mi dispiace Kate, non mi hai dato altra scelta.
Kate non poteva crederci. Avrebbe voluto colpirlo, scuoterlo per le spalle, gridare di delusione, divincolarsi da quella presa così gentile che sapeva di tradimento…
Ma non ne aveva la forza. Non l’avrebbe avuta nemmeno se non fosse stata drogata da quello che solo qualche ora prima aveva chiamato “migliore amico”.
La notte, compassionevole, si chiuse su di lei.


Katie... svegliati…
Ace? Sei tu?
Sì, piccola. Coraggio, devi svegliarti… abbiamo bisogno di te…

- ACE! – gridò Kate spalancando gli occhi, il cuore a mille. Cosa…?
- Chi è Ace? – chiese atona una voce, come se non gli interessasse davvero saperlo.
Kate si mise seduta, e si voltò di scatto. Law era appoggiato alla parete, e la stava fissando con le braccia incrociate al petto. Kate non riusciva a vedere la sua espressione – la vista era ancora un po’ annebbiata -, ma avrebbe puntato diecimila berry sull’unghia che era tornata ad essere la solita maschera di ghiaccio. Notò con la coda dell’occhio che in testa non aveva più il cappello.
- Non è affar tuo, capitano. – rispose velenosa Kate, calcando sarcasticamente sulla parola “capitano”.
Law non replicò, si limitò a sospirare. Kate scosse la testa e fece per rimettersi in piedi, ma le gambe non collaborarono.
- Non sforzarti inutilmente. Non sarai in grado di alzarti ancora per qualche minuto, è inutile che ci provi.
- Maledizione, che ore sono?! Per quanto ho dormito?! – chiese Kate in preda al panico, pensando al fratello che probabilmente era già all’altro mondo.
- Tranquilla, sei stata priva di sensi solo per mezz’ora. Non te ne ho dato molto, di cloroformio.
Kate si lasciò sfuggire un gran sospiro di sollievo, e si guardò intorno, tastando il pavimento freddo su cui era seduta. Dove diavolo l’aveva portata Law?!
- Siamo nella stiva, dolcezza. – l’aiuto Law, vedendola in difficoltà.
- Come hai potuto farmi una cosa simile?! – urlò Kate, ignorando le sue parole – mi hai drogata approfittando della fiducia che avevo in te! E per giunta con il cloroformio, che è pure cancerogeno! Che razza di giuda traditore sei?!
- Non credo che ti verrà un tumore per tre gocce di cloroformio, dolcezza.
- RISPONDIMI, CODARDO! E NON CHIAMARMI DOLCEZZA!
- Non mi hai dato altra scelta. Saresti scappata se non ti avessi fermata.
- Certo che l’avrei fatto! – esclamò Kate allibita – ma perché diavolo me l’hai impedito?!
Law assottigliò lo sguardo – non è ovvio? Il tuo posto è qui, Katherine, non sulla nave di Edward Newgate.

Che cosa?!

- Stai scherzando, vero?! – fece Kate, sempre più scioccata – Tu… tu sei pazzo, un maniaco del controllo…
- No, sono il tuo capitano. E quando ti do un ordine mi aspetto che tu mi obbedisca. – Law le si avvicinò – avanti, ora promettimi che non cercherai più di scappare.
- MAI!
- Molto bene. In questo caso resterai qui fino a quando non avrai promesso. O al massimo per tre giorni, se proprio vuoi fare l’ostinata, così sarò sicuro che non potrai più agire.
Kate spalancò gli occhi - No, tu non puoi farmi questo! Io devo andare…
- A salvare tuo fratello? – concluse stancamente Law – Niente da fare, dolcezza. Il discorso è chiuso, te l’ho già detto.
Quel tono pacato le fece salire il sangue alla testa - È così che vuoi metterla, Trafalgar?! – chiese furibonda, mettendosi faticosamente in piedi e sguainando lentamente la spada – Vorrà dire che sarò costretta a passare sul tuo cadavere.
- Non dire sciocchezze. Non riesci neppure a stare dritta sulle gambe, adesso.
Kate sollevò la spada, pronta a scagliarsi contro di lui… ma le ginocchia, quelle bastarde traditrici, cedettero di nuovo, facendola cadere ancora.
- Ora basta, Kate. Smettila di ribellarti. – ordinò Law con il suo tipico tono asettico, quello a cui ormai Kate era tanto abituata, ma che in quel momento la ferì come un colpo di pistola, rimpiazzando la rabbia con il dolore.
Kate avrebbe voluto dirgli tante cose. Avrebbe voluto spiegargli quanto l’avesse ferita con quella sua decisione, quanto fosse orribile sapere che nonostante tutto non poteva fare affidamento su di lui, - lui che, con il tempo, era diventato necessario come l’aria -, che gli voleva bene e che suo malgrado gliene avrebbe sempre voluto qualunque cosa avrebbe fatto. Avrebbe voluto avere il coraggio di confessargli il suo passato, di parlagli di Ace, di Barbabianca, di Thatch, di Marco, di Haruta, di Vista, di Izou, delle infermiere che aveva lasciato e di tutti gli altri, di quanto tutte queste persone continuassero a contare per lei malgrado il risentimento che per anni le aveva avvelenato l’anima, al punto da spingerla a voltare loro le spalle come l’ingrata che era.
Forse, se fosse riuscita a parlargli di tutto questo, forse Law avrebbe capito, e sarebbe ritornato sulla propria decisione; Kate lo sapeva che lui era molto più compassionevole e buono di quanto poteva sembrare. Ma purtroppo Kate non era così coraggiosa come sembrava, specie l’ostacolo da superare erano i propri sentimenti.
- Avevi detto che non mi avresti ferita. – mormorò la ragazza.
Quelle parole sembrarono avere un effetto terribile su Law, che si intristì di colpo, guardandola sinceramente dispiaciuto – mi dispiace, Kate.
- Continui a ripeterlo. – notò stancamente la ragazza appoggiandosi al muro con la schiena – dimmi perché mi stai facendo questo.
Kate non nutriva molte speranze di avere una risposta; Law era sempre stato bravo ad eludere domande e situazioni spiacevoli, e quella domanda probabilmente era la più insidiosa che qualcuno gli avesse fatto da un bel po’ di tempo. Perché si stava comportando così? E chi poteva dirlo.
- Kate, guardami.
Kate sussultò e alzò gli occhi, rendendosi conto solo in quel momento che Law aveva attraversato la stanza per avvicinarsi a lei e le si era inginocchiato di fronte, e ora la fissando con uno sguardo talmente infuocato da sembrare irreale, impossibile. Lui era sempre così freddo…
Law alzò lentamente la mano destra, e cominciò ad accarezzarle una guancia con le nocche. Kate lo fissava con gli occhi spalancati, totalmente presa in contropiede da quel gesto così dolce e sentito, che mai avrebbe associato a Trafalgar D. Water Law. Il massimo che potevi avere da lui di solito era un sorriso non troppo strafottente.
- Perdonami. – le sussurrò con voce roca – ma non posso lasciarti andare. Io… non posso sopportare il pensiero che tu ti allontani da me. Se tu andassi via, io…
Kate avrebbe voluto parlare, dire qualcosa per rassicurarlo. Non l’aveva mai visto così indifeso: si mordeva un labbro, chiaramente in difficoltà, e continuava a sfiorarle il viso con la mano, che tremava impercettibilmente.
- … io ne morirei.

Se tu andassi via, io ne morirei.

- Law… - mormorò Kate, sconcertata da quelle parole.
Ma lui si era già raddrizzato, e ora le stava dando le spalle.
- È inutile cercare di scappare. – dichiarò Law con voce ferma, il tono di nuovo impassibile – Alcune settimane fa ho fatto sostituire la porta con un portale blindato in titanio; nemmeno con la tua forza sovrumana riusciresti a sfondarlo. Inoltre Penguin rimarrà qui fuori tutto il tempo, e darà l’allarme se proverai a abbattere le pareti. – concluse, avviandosi poi verso la porta.
- Law! Aspetta, tu…
- Verrò a controllarti più tardi. – disse Law, per poi uscire dalla stanza e chiudersi la porta alle spalle.
- Law!
Niente. Era andato via. Kate si accasciò contro il muro, confusa ed esausta.
Come diavolo avrebbe dovuto interpretare ciò che era appena successo? Law l’aveva appena imprigionata nella stiva per impedirle di precipitarsi a curare suo fratello, eppure l’aveva anche pregata di perdonarlo, e le aveva detto che sarebbe morto se lei fosse andata via.
Ripensò alle parole di Bepo nel pomeriggio. Tu sei molto importante per lui, così come lui è importante per te. Lo sai.
Kate sospirò. Certo che lo sapeva. Poteva negarlo quanto voleva, ma la verità era molto chiara, anche per una zuccona orgogliosa come lei: per quanto Law potesse essere spocchioso, arrogante, idiota, egoista, odioso, menefreghista – il tema dei difetti di Law era una delle cose che più l’appassionava al mondo, insieme ai pancakes con lo zucchero, al caffè in ogni versione possibile purché non decaffeinato, alla medicina, a ogni cosa che fosse rossa, alle lanterne di carta, ai piercing e alle azioni clamorosamente avventate e rischiose – era innegabilmente, decisamente, esasperatamente importante per lei. Anche troppo, così tanto da farle paura. Gli doveva così tanto…
Ma fino a pochi minuti prima non avrebbe mai pensato, nemmeno per un momento, che lui potesse avere bisogno di lei tanto quanto lei di lui. Non riusciva ancora a crederci.

Se ripenso a quando ci siamo conosciuti...

       

O’Rourke D. Katherine stava seduta al tavolo più appartato e buio della locanda, e rimestava con aria cupa la zuppa che aveva davanti a sé, incapace anche solo di considerare l’idea di mandar giù qualche cucchiaiata. Non che la zuppa fosse male – al contrario, aveva un aspetto davvero delizioso -, ma Kate si sentiva la gola così serrata dallo sconforto e dall’angoscia da essere matematicamente certa del fatto che, se avesse provato a buttar giù anche solo una goccia di quella zuppa, si sarebbe soffocata di sicuro.
Non sapeva neanche più cosa la turbasse maggiormente, se il fatto di essere sola in compagnia della propria solitudine, senza uno scopo preciso e in un luogo sconosciuto, o il fatto che fosse così debole da aver permesso appunto a questa condizione di farla deprimere. Senza contare che, tra le altre cose, stava soffrendo per amore.
In condizioni normali Kate avrebbe cercato un po’ di conforto nell’alcool – beandosi del fatto che nessun fratello maggiore o padre fosse lì a rimproverarla o a farle notare che era troppo giovane per bere, eheh -, ma nelle sue attuali condizioni – sola, indifesa, con nessuna altra arma con sé se non il proprio istinto di autoconservazione – non poteva permettersi di fare passi falsi; avrebbe potuto pagare molto caro un cedimento del genere. Così se ne stava lì a rimescolare quella deliziosa zuppa ancora intonsa bevendo di tanto in tanto un sorso d’acqua, lanciando di tanto in tanto occhiate indagatrici intorno a sé per assicurarsi di non essere diventata il bersaglio di nessuno, e rimuginando nel frattempo sulle possibilità che aveva a disposizione.
La prima settimana era stata veramente difficile. Quando aveva preso la decisione di andarsene dalla Moby Dick, inizialmente Kate aveva pensato di darsi immediatamente da fare e trovare un modo per imparare a combattere, o quantomeno a difendersi… ma accade molto raramente che la realtà sia proprio come noi ce la immaginiamo nei nostri utopici film mentali, dove noi siamo gli eroi della situazione che trionfano sul nemico/problema/difficoltà con la stessa facilità con cui di solito ci allacciamo le scarpe. E quella volta non fece eccezione.
Kate – l’ingenua, sbadata Kate, che si era già immaginata capitano di un vascello gigantesco, armata fino ai denti e con il mondo in pugno - non aveva avuto neanche il tempo di arrivare alla prima isola prima che la paura e il dolore prendessero il sopravvento. Paura perché non aveva mai viaggiato da sola prima di allora, e temeva per la propria vita quasi quanto temeva la solitudine; dolore perché quel legame spezzato così bruscamente l’aveva lacerata dentro, facendola sanguinare e soffrire come mai in vita sua. L’immagine del volto di Ace l’aveva perseguitata sia di giorno sia di notte in quella settimana, rubandole il sonno e la voglia di vivere, lasciandole le forze solo per contemplare con rimpianto i ricordi felici che aveva insieme a lui, e per ascoltare il suono del proprio cuore che gocciolava sangue, ferito a morte.
L’aveva voluta lei quella situazione, lo sapeva; non poteva prendersela con nessuno che non fosse lei stessa. Avrebbe dovuto immaginare che i sentimenti che provava per Ace non l’avrebbero abbandonata così facilmente…
Non avrebbe mai creduto che si potesse soffrire tanto per amore.
Tuttavia lei restava sempre O’Rourke D. Katherine, e piangersi addosso per una situazione che aveva creato con le proprie mani piuttosto che agire non era proprio nel suo stile. Così dopo una settimana si era decisa ad asciugarsi le lacrime e a rimettersi in viaggio, decisa a realizzare il suo primo obbiettivo: incontrare il proprio padre biologico.
Trovarlo si era rivelato più facile del previsto; d’altronde lui aveva sempre vissuto nello stesso posto, non c’era pericolo di sbagliarsi. Aveva passato un po’ di tempo con lui, l’aveva conosciuto, e si era sentita molto meglio. Memphis era una gran brava persona, anche se un po’ imbranato, un medico dalle conoscenze inimmaginabili, che le aveva dato un gran conforto, e Kate era stata davvero contenta di aver assecondato il desiderio di incontrarlo che ormai da troppi anni accarezzava nella mente.
Tuttavia non poteva restare con lui per sempre, e così dopo un mese era ripartita, con la promessa di mantenere i contatti. E adesso era lì, in quella locanda, senza sapere che fare o dove andare, o da dove cominciare per reinventarsi da zero, e trasformarsi da dolce, ingenua e indifesa ragazza medico – ok, magari non dolce, e forse nemmeno ingenua, ma sicuramente indifesa – a temibile pirata. Poteva sembrare un’ovvietà, ma era più facile a dirsi che a farsi.
Che doveva fare? Cercare di imparare da autodidatta? No, impossibile, non era come studiare un manuale di medicina. No, le serviva un maestro. Ma a chi avrebbe potuto affidarsi? Essere una figlia di Edward Newgate comportava l’avere un gran numero di nemici, e Kate non sapeva di chi poteva fidarsi. D’altro canto, anche se avesse evitato di rivelare la propria identità, non c’era nessuna garanzia di non essere comunque riconosciuta…
Era una situazione dannatamente complicata, e Kate stava davvero cominciando a scoraggiarsi. Una parte di lei già si stava rassegnando al pensiero che aveva fatto tutto quel trambusto da bambina viziata sulla nave del padre solo per poi finire a fare il medico sulla terraferma, magari incastrata in un ambulatorio su una piccola isoletta dove la malattia più complicata e interessante con avrebbe potuto avere a che fare sarebbero state le emorroidi.
Già si vedeva, vecchia, alcolizzata, con i bigodini in testa, l’osteoporosi e la faccia plissettata per l’amarezza a soli trent’anni, con buona pace dei suoi vani sogni di gloria. Quell’immagine la fece rabbrividire fin nelle ossa. Possibile che fosse davvero destinata ad una fine simile?
- Posso sedermi?
Kate alzò gli occhi dalla zuppa, presa alla sprovvista. Si era lasciata talmente trasportare dai propri pensieri autolesionisti che non si era nemmeno accorta che un uomo le si era avvicinato, e si era stravaccato con nonchalance sulla sedia di fronte alla sua, e ora le stava sorridendo con aria decisamente poco rassicurante; non minacciosa, ma comunque di uno che è venuto a portare guai.
Eppure Kate non ne ebbe paura. Nondimeno era chiaramente un tizio dall’aria poco raccomandabile, con tutti quei tatuaggi e la nodachi sulla spalla, e il Jolly Roger sulla sua felpa parlava chiaro, era un pirata, eppure…
Qualcosa nel suo sorriso la urtò profondamente, scacciando ogni timore. Aveva un modo di sorridere particolarmente strafottente e arrogante, come se si credesse infinitamente più in gamba e furbo di lei, e avesse voglia di divertirsi con la mocciosetta che ora gli stava davanti, probabilmente convinto di poterla rimorchiare solo schioccando le dita.
Kate non riuscì a trattenere un sorrisino di derisione di fronte a quel cretino gonfio di superbia; poteva anche avere un aspetto patetico in quel momento, ma aveva ancora una reputazione da difendere. Lo avrebbe fatto sloggiare da lì in un paio di minuti.
- Che lo chiedi a fare? Ti sei già seduto.
- Giusto. Allora posso restare? Vorrei scambiare due parole con te.
- No, non puoi. – lo freddò Katherine, riportando la sua attenzione sulla zuppa - Addio.
Per un millesimo di secondo il pirata sgranò gli occhi davanti a quelle parole: evidentemente non si era aspettato quella risposta così fredda e tagliente. Ma fu lesto a riprendersi, e le rivolse un ghigno divertito.
- Suvvia, ti chiedo solo qualche minuto del tuo tempo. – le sussurrò suadente – avrei una proposta da farti che credo ti interesserà parecchio.
Kate inarcò un sopracciglio - no, io non penso proprio.
Il pirata non rispose, ma il suo ghigno si accentuò. Kate strinse gli occhi: aveva un’aria stranamente familiare.
- Come ti chiami? – le chiese interessato.
- Non è affar tuo.
- Ok, ci riprovo. Comincio io: mi chiamo Trafalgar Law.
- Bene, perché non te ne vai, Trafalgar Law? – replicò Kate, fingendo disinteresse.
Trafalgar Law… il Chirurgo della Morte. Aveva sentito parlare di lui. Era una supernova, uno molto promettente, tutto possibilità, e si vociferava che fosse uno dei più abili medici del mondo. Kate sentiva già di odiarlo.
- Perché dovrei? Mi piacciono le ragazzine carine con la lingua tagliente.

Ehm, ragazzina a chi?!

- Buon per te. Ora sparisci.
- Altrimenti che fai, figlia di Barbabianca? – la sfotté divertito il ragazzo, sganciando la bomba.
Ok, Kate avrebbe voluto fortemente non impallidire, ma quella era una reazione fisiologica che non poteva essere controllata. Come diavolo aveva fatto a riconoscerla?!
Si guardò freneticamente intorno, controllando che non l’avesse sentito nessuno.
- Ora ho la tua attenzione? – sghignazzò lui compiaciuto.

E va bene. Potrei, e sottolineo potrei, averlo sottovalutato. Pensò Katherine. Uno a zero per lui.

- Come l’hai capito? – indagò indispettita la dottoressa.
- Mia cara, se vuoi nascondere il tuo legame con l’imperatore forse portare quell’anello non è una grande idea. – le rispose indicando la sua mano destra, dove l’anello con il Jolly Roger di Edward Newgate scintillava dando bella mostra di sé.
Kate si maledisse per quell’errore così grossolano. Come aveva fatto a non pensarci? Probabilmente erano le pene d’amore a farla rimbambire.
- Che cosa vuoi da me? – sibilò la ragazza.
Law si leccò le labbra – prova ad indovinare.
Kate fece un sorriso di derisione – se sei venuto a propormi di venire a letto con te, caschi male. Ho gusti di gran lunga migliori in fatto di uomini.
Il sorriso strafottente del pirata scivolò via, con grande soddisfazione di Kate. Pungolare la vanità di un uomo faceva sempre il suo porco effetto. Quanti anni poteva avere quello, una ventina? Non aveva importanza, per certe bambinate non c’era età.
Uno pari. gongolò mentalmente Kate.
- Vorresti insinuare che non mi trovi abbastanza attraente, ragazzina?
A quella risposta a Kate non riuscì a trattenere una risatina. Nemmeno con uno sforzo di immaginazione si sarebbe potuto definire quell’uomo “non abbastanza attraente”. Schifosamente alto, pelle olivastra, occhi grigio mare, capelli neri, pizzetto… sembrava un cavolo di fotomodello, però più sensuale. Nemmeno le marcate occhiaie che gli segnavano il volto riuscivano a penalizzarlo, anzi se possibile contribuivano a renderlo più affascinante.
Non che questo le facesse un qualche tipo di effetto, è chiaro.
- Non è questo il punto, Trafalgar. Non potrei neanche volendo, visto che oggettivamente sei davvero molto attraente.
Inutile negarlo. Non le avrebbe creduto nessuno.
- Oh ti ringrazio, dolcezza!
- Non ringraziarmi. Il mio non era un complimento, ma una semplice constatazione empirica, che in ogni caso non cambia il risultato. E dolcezza sarà tua madre! – concluse irritata. Ma che confidenze si stava prendendo quel bellimbusto?!
Lui non sembrò affatto impressionato dall’ultima affermazione. Al contrario, sembrava al colmo del divertimento.
- Allora come dovrei chiamarti?
Kate lo guardò male. Non le andava di dirgli il suo nome, non le andava affatto.
Lui si chinò su di lei e le sussurrò – Forza dolcezza, voglio il tuo nome.
Per una frazione di secondo Kate dimenticò come si respirava. Non emozionatevi, fu solo per un attimo.
- Katherine. O’Rourke D. Katherine.
- O’Rourke D. Katherine… - ripeté lui, assaporandone il suono – Davvero interessante. Un altro membro del clan della D….
- Clan di cosa?
- Lascia stare. – replicò lui alzandosi in piedi – tra poco farà buio. Ci conviene andare.
- Eh? Andare dove? – fece Kate perplessa.
Law ghignò – sul mio sottomarino. È per questo che sono venuto a parlarti. Voglio che tu ti unisca a me, O’Rourke D. Katherine.
Kate scoppiò a ridere di gusto – sì, come no. Sei divertente, sai?
- Sono serissimo.
- Hai la memoria corta, pivello? – non riuscì a trattenersi Kate, mostrandogli l’anello – Figlia di Barbabianca, ricordi?
- Bel tentativo, dolcezza. Ma se viaggi da sola e scegli di nascondere la tua identità, c’è una sola spiegazione possibile: ti sei ritirata.

Accidenti, due a uno per lui.

- Questo lo dici tu. Magari sono in missione, che ne sai? – cercò di recuperare Kate.
- Oh ti prego! Chi manderebbe mai in missione una dolce e innocente fanciulla come te? –
Quelle parole fecero scattare qualcosa in Katherine. Senza neanche sapere cosa stava facendo, e con una velocità che non avrebbe mai sospettato di avere, Kate si fece scivolare un bisturi giù dalla manica e lo puntò alla giugulare del pirata.
Lui in tutta risposta scoppiò a ridere. A Kate quella risata non piacque affatto, sembrava la cosa più sbagliata del mondo.
 – Oh, non ti offendere per così poco! A questo possiamo tranquillamente rimediare.
Quelle parole fecero sussultare Katherine – Di che diavolo parli?!
- È evidente che non sai combattere. Prima di avvicinarmi ti ho osservato per un bel po’. Non hai muscoli, non hai altre armi addosso a parte questo bel bisturi, e non hai nemmeno un po’ di istinto di autodifesa e aggressività, altrimenti ti saresti accorta che ti tenevo d’occhio.

Tre a uno.

Kate ringhiò furibonda. Come diavolo aveva fatto a non accorgersi che quel tizio la osservava? Si figurò la scena di lui che la esaminava con cura alla ricerca di armi, per poi analizzare con altrettanta cura il suo corpo cercando tracce di muscoli, magari indugiando un po’ troppo su zone off limits… e sentì la propria bocca venire invasa dal sapore metallico della rabbia.
- Ma, come ti dicevo, a questo si può rimediare. – proseguì lui come se nulla fosse – se vieni con me ti insegnerò a combattere, e anche altro. Strategie di guerra, cartografia…
Kate non lo stava ascoltando più. Doveva ucciderlo? Per quanto fosse seccante ammetterlo, non credeva di poterci riuscire. Quello era una supernova con almeno duecento milioni di berry come taglia, e lei… be’, lei neanche ce l’aveva una taglia.
Era il caso di levare le tende. Inutile dire che la sua offerta non l’avrebbe mai presa neanche in considerazione. Piuttosto che mettersi al servizio di un arrogante pieno di boria come quello preferiva davvero diventare una vecchia dottoressa infelice con la faccia plissettata.
- Grazie, ma la risposta è no. Addio! – lo interruppe bruscamente lei gettando con violenza il bisturi sul tavolo, per poi alzarsi e uscire a grandi passi dalla locanda.
Non voleva vederlo più. Sembrava impossibile, ma era riuscito a farla deprimere ancora di più; si sentiva un’inetta, un’incapace buona a nulla. Proprio lei che si credeva tanto furba era stata messa al suo posto dal peggior cretino che si potesse immaginare. Le venne voglia di prendere a calci qualcosa.
- Ehi bambolina!
Kate piantò con stizza i piedi a terra, e si voltò esasperata – Trafalgar, sei davvero l’uomo più indisponente…
La voce di Kate si affievolì. Non c’era nessun Trafalgar alle sue spalle, ma un gruppo di quattro uomini molto corpulenti e molto ubriachi, che la stavano guardando con aria decisamente poco equivocabile.

Dannazione.

- Una ragazza carina come te non dovrebbe andarsene in giro tutta sola, sai? – fece roco uno di loro facendo qualche passo verso di lei.
Kate strinse i pugni, imponendosi di non indietreggiare. Era una delle poche cose che la madre era riuscita ad insegnarle: mai indietreggiare e mai abbassare lo sguardo. Era troppo umiliante, e spesso poteva anche segnare la tua fine.
- Girate alla larga, non è aria. – sibilò sprezzante la ragazza tirando fuori un altro bisturi, sperando di intimorirli.
- La gattina ha tirato fuori le unghie! – esclamò divertito il più grosso del gruppo, superando il primo che aveva parlato – su bambolina, non fare storie e vieni con noi, vedrai che non te pentirai…
Era chiaro che non l’avrebbero lasciata in pace. Kate sollevò il bisturi, pronta a riceverli. Non sarebbe mai riuscita a batterli tutti, ma avrebbe venduto cara la pelle.
Il primo l’attacco frontalmente. Era lento e malfermo, sicuramente per colpa dell’alcool; per Kate fu semplice schivarlo e fargli perdere l’equilibrio, per poi piantargli il bisturi nel collo, proprio dove sapeva trovarsi l’aorta. Il sangue zampillò copioso, e l’uomo si accasciò all’istante, soffocando nel proprio sangue.
Non provò nulla quando lo colpì: era un medico, era abituata a trattare con la morte.
Il secondo era decisamente più veloce. Kate ebbe a malapena il tempo di tirare fuori un terzo bisturi prima che lui la atterrasse schiacciandola a terra con tutto il suo peso, bloccandole i polsi sopra la testa. Kate urlò di dolore perdendo la presa sull’attrezzo, e l’uomo che le stava sopra rise, alitandole in faccia il suo respiro nauseabondo.
- Cattiva, cattiva gattina! Hai ucciso il nostro amico, ti toccherà una bella punizione per questo!
Kate sentì una mano viscida raggiungere il bottone dei suoi shorts, e le voci degli altri energumeni che strillavano eccitati… e gridò di disgusto, serrando gli occhi e scalciando per tentare di liberarsi…
- Room.
L’ubriaco si fermò.
- Giù le mani dalla mia sottoposta, feccia – sibilò gelida una voce, e il peso dell’energumeno le sparì da dosso.
- Cosa diavolo…? – esclamò irritato l’energumeno.
- Shambles.
Un lieve fruscio di vento le arrivò alle orecchie, e all’improvviso Kate avvertì una strana sensazione di calore. Aprì gli occhi per guardare…
La ragazza spalancò la bocca, non credendo a ciò che vedeva. Fino ad un attimo prima era bloccata per terra sotto quel maniaco, e adesso invece era in braccio ad un certo pirata particolarmente irritante, che se la stava stringendo al petto con una possessività decisamente eccessiva, come se volesse proteggerla a costo della propria vita.
- Ma come…? – sussurrò incredula la ragazza, troppo scioccata per arrabbiarsi con lui. Forse era un frutto del mare…?
- Non vale neanche la pena di uccidervi. – ringhiò Law rivolgendosi ai tre ubriachi ancora in vita, ignorandola totalmente – sparite dalla mia vista, prima che io possa cambiare idea.
Quei tre miserabili non se lo fecero ripetere, e si dileguarono così come erano venuti.
Dopo qualche secondo Kate si concesse di rilassarsi leggermente, e alzò lo sguardo verso il suo “salvatore”: lui la stava fissando a propria volta con un’espressione assolutamente impassibile, che faceva molto contrasto con il fatto che la stava tenendo in braccio come se fosse una dolce principessa in pericolo, e lui il principe senza macchia e senza paura giunto a salvarla, e con il mondo in cui la stava ancora stringendo contro di sé, come se non avesse alcuna intenzione di lasciarla andare.
In effetti era alquanto imbarazzante, ora che Kate ci faceva caso.
- Hai intenzione di rimettermi a terra o continuiamo il remake di King Kong fino a domattina?
- Stai bene? – le chiese ignorando la battuta sarcastica, il tono sorprendentemente atono – non ti hanno toccata, vero?
- Tranquillo, virtù intatta. Ora, se non ti dispiace…
Law la rimise a terra senza parlare, e Kate si tolse la polvere dai vestiti con aria esasperata. Decisamente quella era stata una giornata da dimenticare.
- Hai provato ad affrontarli. – osservò Law vagamente sorpreso.
Kate inarcò un sopracciglio - ti stupisce? Che avrei dovuto fare, accoglierli con un sorriso e improvvisare uno streap tease?
Un lieve sorriso increspò le labbra di Law, che tuttavia non si lasciò distrarre – sapevi di non poterli battere, eppure li hai affrontati ugualmente senza tentare di scappare o indietreggiare. Non hai neanche abbassato gli occhi, ti ho visto.
- Perché, stavi guardando?! – fece Kate incredula – cioè, hai aspettato prima di intervenire?!
- Esatto. Ti ho seguita quando sei uscita dalla locanda, e ti ho osservata quando ti si sono avvicinati. Volevo vedere come avresti reagito, e mi hai sorpreso parecchio. Non credevo avresti osato tanto.
- Bene, sono contenta che lo spettacolo sia stato di tuo gradimento! – sbottò sdegnata la ragazza – e adesso magari vorresti pure essere ringraziato, eh?
- No, non importa. Ho agito per tutelare i miei interessi, non i tuoi. Mi dimostrerai la tua gratitudine servendo nella mia ciurma.
- Ancora con questa storia?! Ti ho già detto che non voglio seguirti!
- Be’, a questo punto non hai scelta. Tecnicamente ti ho salvato la vita, perciò posso fare di te quello che voglio.
- Sei un folle! Non accetterò mai!
- Riflettici. Credi davvero di poter rifiutare?
Law le aveva parlato con tono pacato e tranquillo, come se stesse spiegando qualcosa di ovvio a una bambina dell’asilo. Quel tono quasi canzonatorio le fece venire i nervi a fior di pelle, avrebbe tanto voluto lanciarsi contro di lui e prenderlo a pugni…
Ma non lo fece. Perché sapeva che aveva ragione lui.
Quella consapevolezza la investì come un tornado, facendola vacillare. Era la verità, lui l’aveva salvata e ora poteva disporre di lei a piacimento.
Era questa la legge dei pirati: se sei in pericolo e qualcuno ti salva sei in debito, e per ripagarlo devi fare ciò che ti chiede il tuo salvatore, qualunque cosa sia.
Avendo capito di essere con le spalle al muro, Kate per una volta decise di lasciar perdere le strategie di persuasione e i giochetti mentali. Ormai era chiaro che aveva davanti un avversario terribilmente astuto, che non si faceva incantare facilmente, e che era schifosamente bravo a rigirare le situazioni a suo favore, quindi era inutile cercare di confonderlo. Tanto valeva giocare a carte scoperte.
- Perché? – chiese, sinceramente desiderosa di saperlo.
Lui per la prima volta da quando l’aveva salvata le fece il suo solito sorrisetto strafottente- Perché cosa?
- Lo sai. Perché mi vuoi così tanto nella tua ciurma. – rispose Kate alzando le spalle – per come la vedo io, non è grande affare per te.
Il ghigno del pirata si addolcì impercettibilmente – non sono d’accordo. Anzi, credo che una collaborazione potrebbe essere vantaggiosa per entrambi.
- E che vantaggio pensi di trarre da me? – chiese Kate con un sospiro. Non aveva più voglia di fare del sarcasmo – sono debole, l’hai visto anche tu. Non so nemmeno difendermi da simile gentaglia. – gli fece notare, indicando il cadavere dell’uomo che aveva ucciso – se tu non fossi intervenuto sarebbe finita molto male, per me.
- È vero. Ma, come ti ho detto, a questo possiamo rimediare.
- E tu vorresti prendermi con te e assumerti l’impegno di addestrarmi solo per il gusto di avermi nelle tue fila? Non ha molto senso. Ci sono molti altri pirati che di sicuro…
- Si, ma io voglio te. – la interruppe Law con voce sorprendentemente ferma, che non ammetteva repliche, e per un momento Kate quasi si lasciò convincere. Ho detto quasi, non era mica nata il giorno prima, e poi quel tizio continuava a non piacerle, salvata o non salvata.
- Trafalgar, guarda che se non mi dici il vero motivo che ti spinge a volermi con te giuro che non muoverò un passo da qui, regole o non regole – dichiarò senza mezzi termini Kate incrociando le braccia al petto, avendo ormai esaurito la pazienza. Credeva davvero di poter raggirare il discorso in quel modo?!

Due a tre, forse posso ancora recuperare.

- Voglio dire, neanche mi conosci! Non sai nulla di me, ma vuoi che io ti segua per mare! Dimmi perché! – un dubbio terribile le attraversò la mente – se stai facendo tutta questa sceneggiata solo per provarci con me…
- Non mi prenderei mai tutto questo disturbo. Non sei poi così affascinante, dolcezza.
- Eh?!
- Dai, scherzavo.
- Oh insomma, smettila di cercare di sviare e rispondi alla domanda!
L’espressione fastidiosamente impassibile di Law finalmente svanì, lasciando posto ad una sinceramente pensierosa, come se stesse valutando il modo migliore di spiegare le proprie ragioni. Ci mise parecchio a risponderle:
- Ecco cosa so di te, O’Rourke D. Katherine. Tanto per cominciare so che sei un medico…
Kate si alzò di scatto lo sguardo su di lui, ma stavolta non si fece cogliere impreparata – già, i bisturi. Ma che te ne fai di un medico? Sei tu un medico!
- So che hai molto talento per il combattimento, anche se hai parecchio di imparare. – continuò lui come se Kate non avesse parlato, ghignando divertito di fronte alla sua espressione sorpresa davanti a quelle parole.
- Io non… – cominciò a farfugliare lei, ma Law la interruppe.
- E so che hai molte qualità dalla tua parte: sei audace, sei ambiziosa, e sospetto anche particolarmente astuta, ma soprattutto c’è moltissimo potenziale in te. – il ghigno del pirata si allargò - per come la vedo io tu potresti anche diventare Regina dei Pirati, un giorno. Perciò voglio assicurarmi di averti dalla mia parte quando avrai sviluppato le tue doti nascoste, perché sospetto che a quel punto sarai veramente pericolosa.
Per un momento Kate non seppe cosa dire. Quel tizio sembrava pensare davvero ciò che aveva detto, e Kate aveva un disperato bisogno di credergli, per il proprio stesso bene. Eppure…
- Ti ho chiesto di dirmi il vero motivo per cui mi vuoi nella tua ciurma, non di adularmi. – ribatté la ragazza, complimentandosi con sé stessa per il tono disincantato che era riuscita ad usare.
Law lasciò cadere spalle con un sospiro – E va bene, lo ammetto. Sei una figlia di Barbabianca, e quindi sei già stata nel Nuovo Mondo. La tua esperienza potrebbe essermi davvero utile.

Non è possibile, mi sta mentendo ancora! Ma che razza di problemi ha questo…

Kate aprì la bocca per dare voce al proprio risentimento… e la richiuse subito, impedendosi di parlare, consapevole che non sarebbe servito a nulla.
Non le avrebbe detto la verità, ormai era chiaro: avrebbe continuato a sviare, a negare, a fingere fino a quando lei non avrebbe ceduto, oppure fino a quando non avrebbe esaurito le carte che aveva, e probabilmente a quel punto l’avrebbe portata via di peso. In ogni caso non le avrebbe mai rivelato cosa lo spingesse ad agire così. Kate doveva arrendersi a quella realtà.

Non posso crederci. Ho perso.

- Tu non mi piaci affatto. – dichiarò alla fine la ragazza.
- Eppure sei ancora qui a parlare con me.
- Perché dovrei fidarmi di te?
- Non dovresti, infatti. – replicò lui con il suo solito ghigno, per poi avvicinarsi a lei e mormorarle all’orecchio con voce suadente – ma la domanda giusta che dovresti porti è… ti piace così poco azzardare?
Kate sussultò.

Ti piace così poco azzardare?

Eccola lì, l’ex medico capo dei pirati di Barbabianca: sola, senza meta e senza uno scopo, con un sogno da realizzare e un amore da dimenticare, una vita da vivere e una scelta da fare, in quel momento o mai più. Poteva o ascoltare la ragione e la logica come aveva sempre fatto e mandare al diavolo quel pazzo con occhiaie ed ego smisurati che prometteva più guai e problemi di tutti i pirati e i marines del mondo messi insieme, rassegnandosi così con tutta la dignità di cui era ancora capace ad una vita schifosamente piatta, tranquilla e infelice, oppure…
Oppure poteva ignorare tutto ciò in cui aveva sempre creduto, trascurando deliberatamente i segnali di pericolo che il suo cervello continuava disperatamente ad inviarle, e per una volta scegliere di ascoltare il cuore e l’istinto, accettando di seguire quel medico manipolatore bugiardo e arrogante, con la speranza di poter davvero stravolgere la propria vita.
A lei non piaceva azzardare… ma le cose potevano anche cambiare. E non era per quello che aveva mandato all’aria la sua vita? Non era per avere la possibilità di osare, di superare i propri limiti?
Law si allontanò da lei e le porse una mano con ghigno, un chiaro invito – Allora, vieni con me o no?

Non dovresti farlo. È una pessima idea! Non dovresti…

- So già che me ne pentirò. – sospirò Kate, per poi sollevare molto lentamente il braccio e afferrare la sua mano, prima di avere il tempo di cambiare idea. – e continuo a pensare che non hai fatto un buon affare.
Lui le sorrise, le sorrise davvero, per una volta senza ironia né arroganza, e intrecciò con delicatezza le proprie dita con le sue.
- Diciamo che ho appena scommesso su di te, dolcezza.
A quelle parole Kate alzò gli occhi al cielo, ma non riuscì a nascondere un lieve sorriso, il primo che gli aveva mai fatto, e che, ancora non lo sapeva, sarebbe stato il primo di una lunga serie.

- Sei veramente un folle… mio capitano.


Ecco com’era cominciata. Quel giorno Kate non avrebbe scommesso neanche un centesimo sulla buona riuscita di quel piano… e invece si era sbagliata. Non avrebbe potuto essere più fortunata.
Perché lui era stato di parola. L’aveva addestrata, con pazienza e dedizione – nel senso che non si arrendeva se lei non riusciva a fare qualcosa; i suoi metodi d’insegnamento in realtà erano sempre stati alquanto bruschi-. L’aveva incitata a diventare più forte, le aveva insegnato le arti marziali, le aveva messo in mano una spada e le aveva mostrato come usarla, l’aveva iniziata all’arte della guerra e della strategia militare… ma tutto questo ora pareva insignificante, paragonato all’altra cosa che aveva fatto per lei.
Non le aveva mai ordinato di restare indietro. Mai, nemmeno agli inizi, le aveva impedito di fare qualcosa solo perché la riteneva troppo pericolosa per lei. Al contrario, l’aveva sempre spronata ad osare, a tirare fuori le unghie, ad infrangere gli schemi, e a lottare per ciò che voleva, di qualunque cosa si trattasse.
Non l’aveva mai fatta sentire di troppo, o irrilevante. Al contrario, l’aveva sempre resa importante, aveva sempre tenuto alla sua opinione, e dopo appena due anni di servizio, l’aveva addirittura nominata suo braccio destro…
E, a distanza di tre anni, Kate ancora non sapeva perché. Certo, lei sin dal primo giorno aveva fatto di tutto per sostenerlo e per rendersi utile – non avrebbe mai tollerato il pensiero di essere di peso –, ma non aveva fatto assolutamente nulla che potesse giustificare una simile lealtà. Specie se veniva da lui, che apparentemente sembrava apprezzare solo sé stesso.
La loro era un’amicizia strana, indubbiamente. C’era qualcosa di intenso fra loro, qualcosa che li legava a tal punto che, se per qualche motivo si sarebbero dovuti separare, sarebbero crollati entrambi. Perciò Kate aveva così tanta paura di quel legame; la gente ha sempre paura di ciò di cui ha bisogno, perché è consapevole che se lo perdesse questo comporterebbe anche la sua fine.

Se tu andassi via, io ne morirei.

Per questo che il pensiero di dovergli disobbedire deliberatamente la faceva sentire così male. Ma non aveva altra scelta, la sua famiglia aveva bisogno di lei. Non poteva tirarsi indietro, doveva a Thatch una possibilità di sopravvivere, come medico e come sorella.
La vecchia Katherine probabilmente si sarebbe rannicchiata in un angolo della stanza a piangere per la frustrazione; la nuova Katherine invece non si arrendeva al destino, ma si rimboccava le maniche per rimodellarlo secondo i propri desideri.
Kate si rimise in piedi, saggiando la forza delle gambe per assicurarsi che sarebbero state in grado di sorreggerla. Apparentemente sembrava di sì, ma per non sapere né leggere né scrivere Kate si tolse le scarpe, beandosi dell’immediato sollievo di non portare più i tacchi.

E adesso?

Be’, non poteva uscire da lì senza avere un buon piano per riuscire ad arrivare a Banaro senza essere fermata; e ovviamente non poteva uscire da lì senza prima trovare un modo per uscire da lì…
Doveva riflettere. Kate si rimise seduta a gambe incrociate, e intrecciò le dita sotto il mento, in posizione meditativa.
Allora, partendo da un bilancio positivistico della situazione, c’erano da risolvere almeno quattro problemi:
  1. Doveva trovare un modo per uscire da lì senza sfondare nè porta nè pareti;
  2. Doveva trovare il modo di rubare una barca senza che qualcuno al porto potesse riconoscerla, e quindi eventualmente fare la spia a Law;
  3. Doveva trovare qualcuno che l’aiutasse con l’operazione: a Kate sarebbe servito tutto il supporto medico possibile per curare Thatch, e visto che Law non era disponibile avrebbe dovuto trovare qualcun altro;
  4. Doveva trovare il modo per rallentare l’inseguimento di Law, o in alternativa depistarlo. Perché non c’erano dubbi sul fatto che Law, non appena avrebbe scoperto la sua fuga, l’avrebbe inseguita, e lei doveva trovare il modo per non farsi intralciare da lui fino a quando il lavoro non fosse finito;                         
Ecco, questi erano i problemi più insidiosi da risolvere; certo, c’era anche la questione di riuscire a scendere dal sottomarino senza essere fermata, ma per quello aveva già un piano. Una cosa era sicura, non poteva uscire dalla stiva senza aver trovato una soluzione per tutti questi problemi.

Pensa, O’Rourke, pensa…

Era il caso di cominciare dalla cosa più importante: uscire da lì.
Kate si alzò e andò ad esaminare la porta, facendo attenzione a non fare il minimo rumore.
Mmh… porta in titanio, resistenza a trazione 1050 N/mm²… Law ha ragione, è troppo resistente anche per me. Ci deve pur essere un altro modo…
Kate si chinò a studiare la grossa serratura: non era in titanio come il resto della porta, ma era comunque antiscasso. Non poteva sperare di forzarla con un grimaldello – che in ogni caso non aveva con sé -, e non poteva neanche tentare di romperla con la forza, non sarebbe servito a nulla.

Mmh…

Kate si guardò intorno, cercando l’ispirazione per un’idea. Intorno a lei c’erano accatastati una gran quantità di oggetti: botti piene d’acqua o rum, cibo di vario genere, prodotti per pulire, munizioni... tutto coperto con cura da teli bianchi di nylon.
Ehi, un momento! Nylon, candeggina, metallo… ci sono!
Kate corse verso le casse di munizioni e cominciò a frugare al loro interno, pregando di trovarci ciò che le serviva. Proiettili, polvere da sparo, palle di cannone… eccoli, i piombini!
(Per chi non lo sapesse, i piombini sono dei minuscoli proiettili privi di polvere da sparo incapaci di ferire qualcuno, si usano solo per fare esercizio con le pistole.)
Kate prese cinque di quei proiettili e corse verso la cassa con i prodotti per pulire: frugò anche là dentro finché non trovò ciò che cercava, la candeggina in polvere; infine tirò fuori uno dei suoi bisturi e tagliò un pezzo di nylon.
Adesso vedremo se è così semplice tenermi in gabbia! Pensò la ragazza mettendo la candeggina e i piombini sul pezzo di nylon, per poi richiudere tutto in un minuscolo fagotto.
Ecco qua! Pensò Kate, mettendosi al lavoro. Il nylon è infiammabile, quindi brucia facilmente, anche con un semplice attrito. Sfregando il metallo delle pareti con il metallo dei piombini il nylon prenderà fuoco. E combinando il fuoco con la candeggina in polvere si ottengono delle esalazioni tossiche che non devono assolutamente essere respirate, ma se inserisco il fagotto nella serratura… quelle esalazioni deformeranno i pistoncini del cilindro, aprendo quindi la porta!
Kate si appiattì contro la parete laterale alla porta, facendo in modo di essere nascosta quando la porta si sarebbe aperta, e attese in perfetto silenzio.
L’attesa non durò a lungo. Dopo appena trenta secondi si sentì un particolare tintinnio, simile a quello che fanno le monete quando cadono a terra; il tintinnio fu seguito da un leggero scatto della serratura, e la porta si aprì appena.
Grazie di esistere, chimica!
- Ehi, cosa diavolo succede? – esclamò allibita una voce, che Kate riconobbe all’istante: era quella di Penguin. Il ragazzo spalancò la porta ed entrò nella stanza. – Kate, dove sei? Cosa diavolo…?
Il poveretto non riuscì a finire la frase; non appena ebbe fatto qualche passo nella stanza Kate gli piombò alle spalle, e gli tappò bocca e naso con la mano destra, mentre con la sinistra gli bloccava i polsi dietro la schiena.
Il povero Pen provò a divincolarsi dalla presa della donna, ma era inutile: Kate aveva una forza spaventosa, quindici volte più grande di quella di un comune essere umano, forgiata da un particolare allenamento durato per anni, e cercare di contrastarla era impossibile, in pratica era come se un topo cercasse di liberarsi dalla stretta di un leone; ben presto Pen perse i sensi per la mancanza di aria, e Kate lo depose con delicatezza a terra.
Mi dispiace tanto, vecchio mio! Giuro che mi farò perdonare!
Ok, un problema era risolto, pensò Kate accostando la porta per evitare di dare nell’occhio. Ora il secondo: come poteva fare a non farsi riconoscere mentre se ne andava in giro per il porto alla ricerca di una barca? Kate intrecciò di nuovo le mani sotto il mento per riflettere.

Mmh…

Forse sarebbe stata una buona idea cambiarsi d’abito, tanto per cominciare. Così era un po’ troppo appariscente, specie per colpa del jolly roger che aveva sulla schiena… ma anche così non sarebbe stato sufficiente. Ci sarebbe voluto un travestimento, qualcosa che la rendesse del tutto irriconoscibile…
Ehi, un momento! Ma io un travestimento ce l’ho eccome! Quello che avrei dovuto usare per la missione che mi aveva affidato Law! Non l’ha mai visto nessuno a parte me, è perfetto!
Kate esultò mentalmente – ringraziando Madre Natura per averla fornita di una ragguardevole dose di inventiva e astuzia per sopperire alla sua mancanza di curve e altezza – e uscì dalla stanza a passo felpato, diretta alla propria cabina.
Fortuna che non è lontana.
Durante il tragitto Kate trattenne il fiato, tenendo inconsapevolmente la testa incassata nelle spalle per paura di essere beccata.

Se mi scoprono adesso… per me è finita!

Dopo qualche minuto Kate esultò di nuovo mentalmente mentre chiudeva la porta dietro di sé, e promise grandi sacrifici al dio della Fortuna, per ringraziarlo della sua benevolenza, visto che le aveva permesso di arrivare in cabina senza incontrare nessuno.
Ok, ora al lavoro! Pensò la ragazza mentre si spogliava e si levava gli orecchini, rimanendo così solo in biancheria intima, per poi tirare fuori una piccola valigia da sotto il letto e aprirla.
C’era tutto: abiti, stivali, corsetto, parrucca, barba finta, lenti a contatto, trucco… una volta pronta non l’avrebbe riconosciuta nessuno!
Cominciò dall’accessorio più importante: il corsetto. Ok, in realtà non era un vero e proprio corsetto, era più una specie di bustino/imbottitura che aveva creato lei stessa con l’aiuto di Bepo, che aveva il compito di comprimere la pancia, nascondere il seno e la curva della vita, allargarle le spalle in maniera simile ai para spalle che si usano nel football e, cosa più importante, di simulare il busto e i pettorali di un uomo.
Avete capito bene, ragazzi. Il travestimento di Kate consisteva nel mascherarsi da uomo!
Dopo averlo indossato, Kate passò ai vestiti: pantaloni neri larghi, camicia di batista bianca dalle maniche vaporose per nascondere l’esilità delle braccia, panciotto grigio per dare volume al petto, e mantello scuro, giusto per fugare ogni dubbio sulla presenza di forme muliebri.
Ah, dimenticavo il tocco di classe: stivali con tacco interno per sembrare più alta senza che nessuno potesse sospettare nulla.
Quando ebbe finito di vestirsi Kate si rimirò, estremamente compiaciuta.
Accidenti, dal collo in giù sembro davvero un uomo! Un uomo un po’ basso forse, ma pazienza.
Ok, ora toccava alla parte più complessa: il volto. Kate si sciolse rapidamente la treccia, lasciando che i lunghi capelli scuri le cadessero sulle spalle, e subito li raccolse nuovamente, infilandoli nella retina di supporto della parrucca di capelli biondo vimini lunghi fino al mento che subito si affrettò a sistemare, simulando un’acconciatura studiatamente spettinata per coprire totalmente il tatuaggio sulla fronte. Subito dopo si applicò la barba finta, che non era alto che un fantastico pizzetto della stessa tonalità dei capelli.
Ottimo. Ora gli occhi.
Kate sogghignò mentre tirava fuori dalla custodia le lenti a contatto nero pece e se le infilava, nascondendo così il verde primavera dei suoi occhi.
Se continuo così alla fine non mi riconoscerò più nemmeno io.
E infine toccava alla fase finale: il trucco.
Quella era la parte più difficile del lavoro: in vent’anni di vita Kate si era truccata sì e no tre volte, e un solo errore avrebbe potuto rovinare l’intero effetto del travestimento. Kate rivolse una rapida preghiera al dio della Fortuna affinché le impedisse di combinare un macello, e si mise all’opera.
Con tutta la cura e la precisione di cui era capace, Kate si spalmò un leggerissimo strato di fondotinta per far sembrare la propria pelle più scura; dopo afferrò un correttore in stick dal prezzo esorbitante e se lo applicò in abbondanza sul tatuaggio che aveva in fronte, giusto perché non si era mai abbastanza prudenti; poi si armò di un sottilissimo pennellino e lo intinse in un fondotinta dalla tonalità più scura, e con quello cominciò ad applicarsi qualche minuscola lentiggine sotto gli occhi.
Che bellezza. Ho sempre voluto avere le lentiggini!
Infine concluse il lavoro applicandosi un sottilissimo strato di rossetto opaco tonalità nude, che provvide a nascondere il rosa naturale delle labbra, e ammirò nello specchio il risultato finale.
Be’, a quanto pare alla fine il lavoro che avevo fatto per la missione non è andato del tutto sprecato.
Lo specchio le restituiva l’immagine di un ragazzo giovane e molto avvenente: biondo, occhi scuri, basso e tarchiato, dai tratti eleganti e vagamente femminei, ma senza dubbio parecchio affascinante.
Non so se essere felice perché il travestimento è credibile, o essere amareggiata perché sembro più attraente ora che sono travestita da uomo di quanto lo sia quando sono vestita da donna. Vabbè, lasciamo stare. Pensò mentre sbirciava dalla cabina per controllare che la via fosse libera, per poi afferrare il suo borsello con gli strumenti da medico e avviarsi verso la poppa del sottomarino.
Bene, bene. Ora ci divertiamo! Adoro creare i diversivi!
Quando fu arrivata nel punto giusto, Kate individuò per terra il condotto di areazione che stava cercando e lo aprì, beandosi del fatto che era abbastanza piccola per infilarvisi dentro senza alcun problema; alzò gli occhi verso l’alto, adocchiando i dispositivi antincendio fissati al soffitto, e ghignò così malignamente da fare non solo un baffo ma un bel paio di basette a quel bastardo di Law.
Dannati aggeggi, mi avete dato il tormento per anni! Ora è il momento della vendetta! Gongolò compiaciuta Kate nella propria testa; tirò dunque fuori l’accendino e l’inseparabile pacchetto delle sigarette e, con estremo piacere, si accese una bella sigaretta, facendo scattare quel lagnoso allarme.
Ovviamente quegli affari non facevano piovere – in un sottomarino a tenuta stagna la pioggia avrebbe rappresentato un serio problema – ma si limitavano a segnalare il fatto che da qualche parte nel sottomarino probabilmente c’era un incendio. Sentendo dei passi concitati avvicinarsi Kate si affrettò ad infilarsi nel condotto di areazione, richiudendoselo sopra la testa un attimo prima che l’intero equipaggio, o quasi, si riversasse proprio in quel corridoio.
- Che succede?! Andiamo a fuoco?! Presto, portate gli estintori!
Ihih, che deficienti! Ci sono cascati come degli allocchi! Ridacchiò Kate mentre strisciava in fretta e furia nel condotto, dritta verso la libertà.

Ho sempre sognato di fare Solid Snake nei condotti!
 

Dai, non è possibile. È troppo culo per una persona sola!

Kate sapeva che avrebbe dovuto darsi un contegno, ma aveva la netta sensazione che in quel momento fosse una cosa totalmente impossibile. Stava fissando l’imbarcazione che aveva davanti a sé sorridendo con aria talmente trasognata ed ebete che la gente che affollava il porto di tanto in tanto si fermava a fissarla, chiedendosi da quale istituto di igiene mentale fosse scappato quel giovane uomo biondo che stava lì impalato da più di dieci minuti.
Ed è pure ormeggiata a soli venti metri dal Catorcio! Constatò incredula la ragazza. Forse è il caso che offra anche qualche sacrificio umano al dio della Fortuna. Una dozzina di vergini dovrebbero essere sufficienti.
Cosa stava ammirando Kate, volete sapere? Ebbene, stava ammirando un sontuoso motoscafo da almeno 70 piedi, categoria Charter, che ad occhio e croce doveva raggiungere minimo 30 nodi, con tanto di cabina chiusa con i vetri oscurati, e soprattutto totalmente incustodito.
Seh, vabbè… pensava Kate mentre saltava a bordo. Guarda che razza di bomba! E posso anche guidarlo! Law il Catorcio non me lo fa guidare mai…
La sala comandi era a dir poco fenomenale. Tutta rivestita in acciaio cromato, con il timone che troneggiava scintillante al centro dell’ambiente, sembrava uscita direttamente da un film di James Bond.
E indovinate qual era la ciliegina sulla torta? Un magnifico lumacofono che la fissava, impaziente di essere usato. Se ne avesse avuto il tempo, Kate si sarebbe volentieri lanciata in una ola sfrenata.
Voi direte, ma che cavolo se ne faceva Kate di un lumacofono in un momento simile? Ebbene, proprio mentre faceva Solid Snake nei condotti – era stato a dir poco spettacolare! – a Kate era venuta la regina delle idee geniali, che le avrebbe permesso non solo di depistare l’inseguimento di Law e coprirsi le spalle, ma anche di ottenere il supporto medico che le occorreva per salvare la vita del fratello. E non un supporto medico qualunque, ma il migliore che avrebbe potuto sperare di avere escluso quello di Law.

È incredibile come io riesca ad essere efficiente quando sono sotto pressione.

Incapace di aspettare oltre andò al lumacofono, sollevò la cornetta e compose il numero della persona che l’avrebbe tirata fuori dai pasticci, pregando che rispondesse alla svelta.
“Pronto?” Gracchiò il lumacofono riscuotendosi dal torpore, e Kate sussultò lievemente nel risentire la sua voce dopo così tanto tempo.
- Ciao, sono io. Sono così felice di risentirti! – esclamò Kate, senza sforzarsi di nascondere la gioia che provava nel parlare di nuovo con lui – È successa una cosa gravissima. Ho bisogno del tuo aiuto.



Angolo autrice:
Eccomi di nuovo, miei cari!
Che ne pensate di questo secondo capitolo? Vi piace? Spero di sì.
Insomma, le acque stanno cominciando ad agitarsi! Tra Law e Kate è sfida aperta, ormai... lo so che molti di voi speravano di sapere già cosa accadrà a Thatch, ma questo capitolo era assolutamente necessario, credetemi. Croce sul cuore che nel prossimo vi racconterò in che modo Kate aiuterà il fratello!
Ringrazio di cuore chi ha recensito, chi ha messo la storia tra le preferite, seguite e ricordate, e vi mando un bacio gigante! Alla settimana prossima, tesorini! <3
Tessie

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


 
Amor tussique non celatur





Capitolo 3

 




Quando sai quello che vuoi,
 e lo vuoi con abbastanza forza,
 troverai un modo per averlo.


- Jim Rohn
 






Ok, in effetti mi sembrava un po’ strano che io fossi diventata tanto fortunata così all’improvviso. Pensò seccata Katherine osservando la nave con aria truce. Merda, questa non ci voleva proprio.


Ok, urgono spiegazioni. Provvedo subito.
Ecco cosa era accaduto. Subito dopo aver telefonato alla personificazione del suo brillante piano, ed essersi assicurata il suo aiuto in tempo utile, Kate aveva mollato gli ormeggi ed era partita alla volta di Banaro. Era circa mezzanotte, e aveva calcolato che sfruttando al massimo quel sontuoso motore da 30 nodi – che batteva senza possibilità di replica la velocità del Catorcio - sarebbe arrivata sull’isola entro l’alba proprio come aveva programmato di fare sin dall’inizio, e forse anche in tempo per operare Thacht. Almeno così sperava.
Ma fino a quel momento era filato tutto decisamente troppo liscio: qualcosa doveva pur andare storto, altrimenti l’equilibrio dell’universo ne avrebbe risentito!
Così erano cominciati i problemi. Il primo? La stanchezza.
Sì, perché questo era davvero un serio problema per un medico che si preparava ad affrontare un intervento complesso come quello che l’aspettava. Certo, finché era stata impegnata nella sua fuga alla James Bond aveva avuto l’adrenalina a sostenerla, ma nel momento in cui si era lasciata alle spalle l’isola e il Catorcio… be’, metti insieme la felicità per essere riuscita nell’impresa, la rilassatezza per essere sfuggita a quel dittatore del suo capitano, il sedile di velluto dove si era accomodata per guidare il motoscafo, l’oscurità della notte, l’effetto del cloroformio ancora non svanito del tutto… be’, tutto questo messo insieme le aveva dato l’impressione che alle sue palpebre fossero stati agganciati dei bilancieri da almeno due quintali ciascuno, e che nelle sue vene fosse stato iniettato almeno mezzo litro di morfina.
In poche parole una vera tragedia, a cui Katherine era stata costretta ad ovviare masticando tutte insieme sei pillole di caffeina pura tirate fuori dal suo borsello, con lo scopo di stimolare il proprio sistema nervoso centrale e al contempo combattere l’effetto del sedativo. Le aveva masticate piuttosto che ingoiarle con l’acqua per farle entrare in circolo più in fretta, ma se Law l’avesse beccata a fare un azzardo del genere come minimo l’avrebbe messa in punizione per almeno una settimana, considerando come aggravante il fatto che lei stessa era un medico.
La cosa più assurda era che aveva provato un insensato quanto innegabile piacere nel trasgredire quella regola, proprio come i bambini che dicono le parolacce davanti agli estranei solo per il gusto di mettere in difficoltà i genitori. Aveva decisamente dei problemi, dannazione.
Il secondo problema? Be’, a pensarci bene quello era stato veramente ridicolo, tanto che solo a ricordarlo Kate si sentiva avvampare per la vergogna.
Qual era stato? Semplice: solo nel momento in cui era uscita dal porto, allontanandosi di varie miglia dalla costa - e quindi anche da una vaghissima possibilità di salvezza - Kate si era resa conto di non essere minimamente in grado di guidare quell’affare su cui stava viaggiando.
Ma è scema o cosa?! Penserete voi. Che cavolo l’ha rubato a fare se non era capace di guidarlo?!
Cercate di capire! Aveva agito impulsivamente! Sì, lei era cresciuta su una nave che navigava spinta dal vento, non da un motore…ma in quel momento le serviva un mezzo veloce per arrivare a Banaro, e quel motoscafo era molto veloce. Che altro avrebbe potuto fare?!
Immagino che ora vi starete chiedendo come avesse fatto ad uscire dal porto senza sapere come pilotare quella dannata barca. Be’, non ridete, ma… aveva acceso il motore con un tasto rosso On che troneggiava sfacciatamente sulla console di comando, e aveva scelto la direzione semplicemente manovrando il timone. Tutto qui. Il fatto che queste due semplici azioni fossero state sufficienti a farla allontanare dall’isola era stata semplice fortuna.


Il mio angelo custode pretenderà una gratifica natalizia a cinque zeri dopo quest’esibizione.

Solo che la fortuna non poteva durare all’infinito, e difatti ben presto si era accorta del pasticcio in cui si era cacciata. Aveva potuto fare ben poco al riguardo, a parte limitarsi a tenere ben stretto il timone e a seguire il proprio intuito mentre si affaccendava su quella dannata console, pregando tutti i kami del mondo di non farle commettere errori che potessero farla diventare lo spuntino notturno di qualche pescecane.
Certo, come se la cosa potesse rappresentare un problema. Se fosse caduta in acqua sarebbe morta in ogni caso, visto e considerato che era ormai da due anni che non era più capace di nuotare.
Che volete che vi dica? Nessun piano è perfetto. E poi almeno questo disastro aveva contribuito a tenerla sveglia. Come se avesse potuto dormire in preda ad una strizza simile!
Quattro ore dopo, miracolosamente, aveva avvistato la sua destinazione. Il sollievo era stato così forte che per poco non aveva mollato la presa sul timone, rischiando di andarsi a schiantare contro degli scogli… fortuna che ciò che aveva notato subito dopo l’aveva messa così tanto in allarme da restituirle la lucidità in meno di una frazione di secondo.
Al lato nord dell’isola svettava gigantesca la Moby Dick… e dal lato opposto, ben nascosta in un’insenatura all’ombra di un’altissima scogliera, c’era una nave della flotta di Kaido.


Dannazione, di tutti i momenti! Questa proprio non ci voleva!

Che diavolo ci faceva uno degli uomini di Kaido con la propria nave proprio là e proprio in quel momento?! Non poteva essere una coincidenza… una serie di scenari da incubo cominciò a scorrere davanti agli occhi di Kate, mentre attraccava ben nascosta dietro ad uno scoglio e scendeva dalla barca con passo furtivo, decisa a studiare la situazione.
Era venuto per attaccare papà approfittando del fatto che Thacht fosse fuorigioco e tutti gli altri avevano abbassato la guardia perché in pensiero per lui?! Era un piano folle considerando che lui avrebbe potuto contare al massimo su un centinaio di uomini, mentre sulla Moby Dick, a parte il comandante della Quarta Divisione, c’erano altri millecinquecentonovantanove pirati altrettanto potenti pronti a combattere; potevano anche essere tutti preoccupati in quel momento, ma non avrebbero comunque esitato a battersi per difendere il padre, e questo Kaido lo sapeva bene. Ergo, era alquanto improbabile che fosse venuto per questo.
Era forse venuto semplicemente per sorvegliare la situazione per poi riferire a Kaido? Questo era decisamente più probabile. Kaido e Barbabianca non erano alleati, ma nessuno dei due avrebbe mai cercato di provocare l'altro in condizioni normali. Tuttavia erano pur sempre rivali per il controllo degli oceani del Nuovo Mondo, e se Kaido avesse intravisto l'opportunità di sconfiggere il vecchio imperatore… be’, non avrebbe di certo esitato ad attaccarlo. E la morte di uno dei capi della ciurma di Barbabianca, nonché di uno dei suoi uomini di forti e valorosi, avrebbe potuto rappresentare benissimo un’opportunità, per lui.


Che razza di infido bastardo…

Come doveva regolarsi Katherine in merito? Avrebbe dovuto fare qualcosa, oppure avrebbe dovuto far finta di niente e precipitarsi subito sulla nave del padre per cominciare a lavorare?
Certo, perché c’era anche la possibilità che lei si sbagliasse, e che Kaido non avesse cattive intenzioni. Però cerchiamo di essere onesti, vi pare davvero possibile una cosa del genere?! Che Kaido, il sicuro di sé e spietato Kaido, che aveva sempre bisogno di eccitazione, che sarebbe stato capace di avviare una guerra nel mondo solo perché sentiva che lo riteneva un posto troppo tranquillo, potesse avere intenzioni pacifiche?!
Certo, come no… e magari aveva pure mandato uno dei suoi tirapiedi per porgere le sue più sentite condoglianze al babbo. Figuriamoci.
No, bisognava assolutamente fare qualcosa. Ma cosa? Forse avrebbe semplicemente avvertire il padre della presenza di una delle navi di Kaido, e lavarsene le mani. D’altronde di quel genere di cose si occupavano sempre i suoi…


No, un momento! L’ho pensato sul serio!? Ho davvero pensato che il compito di scacciare Kaido non potesse competermi?!

Impossibile. Ci stava ricascando?! Era bastato semplicemente avvicinarsi alla nave del padre per sentirsi di nuovo debole e incapace, per cancellare tre anni di libertà e indipendenza?!
Non doveva avvisare nessuno. Avrebbe risolto quel problema da sola, e sarebbe stata sulla Moby Dick prima del sorgere del sole.
Lei era una piratessa, adesso. Non delegava nessuno, agiva personalmente. E avrebbe fatto in modo che lo vedessero tutti.


Law si stava avviando a passo spedito verso la stiva con Shachi al seguito che reggeva due vassoi, uno con la cena di Katherine e l’altro con quella di Pen, con l’animo talmente turbato e agitato da chiedersi se non fosse il caso di fare dietrofront e tornarsene in cabina per non affrontare lo sguardo deluso e amareggiato della sua vice.
Erano passate più di quattro ore da quando aveva rinchiuso l’amica là dentro, e ce ne erano volute tre prima che il capitano riuscisse a sentirsi abbastanza sicuro da decidersi a tornare a controllarla senza temere di fare un’altra stupidaggine come quella che aveva fatto prima. Ora che ci stava andando sul serio però si sentiva di nuovo spiazzato e confuso da sé stesso, come se quelle ore non fossero trascorse affatto.
Ci aveva rimuginato sopra fino a quel momento, continuando ossessivamente a chiedersi da dove gli fossero venute le parole che aveva pronunciato. Una risposta certa ancora non l’aveva trovata, ma aveva alcune teorie degne di nota al riguardo.
No, non era affatto vero: in realtà lui la risposta certa ce l’aveva eccome, solo che non gli piaceva per niente, e quindi faceva finta di non sapere.
Qual era la risposta? Semplice: quattro ore prima Law si era rifiutato di aiutare la propria amica, l’aveva drogata a tradimento, l’aveva rinchiusa nella stiva alla stregua di una prigioniera e le aveva detto quelle parole tanto assurde perché aveva avuto paura.Una paura folle e insensata di perderla.
Sorpresi, vero? Non ve l’aspettavate da lui, eh? Comprensibile… eppure era andata proprio così.
Law non era uno stupido. La sua ragione comprendeva benissimo che il fatto che Kate volesse andare ad aiutare un fratello che stava morendo fosse perfettamente normale, e che non c’era alcun motivo di temere che questo comportasse il doverla perdere in qualche modo. Sapeva che Kate gli era leale e fedele, e che non aveva motivo di dubitare di lei… eppure, quando la ragazza lo aveva informato di ciò che era accaduto al fratello adottivo, e della sua ferma intenzione di aiutarlo, qualcosa in lui era scattato.


No. Lei non tornerà su quella nave, non finché avrò la forza per impedirlo.

Così aveva agito senza pensarci. O meglio, ci aveva pensato, ma non aveva avuto dubbi su cosa fare. Le aveva detto di no, negandole il suo aiuto e il suo supporto, da amico egoista e di merda qual era, arrivando addirittura a ridere di lei.
Inutile dire che lei l’aveva presa malissimo. Law non aveva cercato neanche di difendersi quando lei l’aveva aggredito, consapevole di meritarsi quello e anche molto di più, si era limitato ad imprigionarla sotto di sé, nel tentativo di imporle la propria volontà.
Quello era stato il primo errore. Ma se Law aveva pensato a quanto fosse calda e fremente di furia e determinazione sotto di lui, o alle sensazioni che gli aveva dato il suo respiro agitato sulla pelle, fu solo per un istante, e poté fingere che non ci fosse mai stato.
Tuttavia non era riuscito a nascondere il proprio dilemma: odiava il pensiero di farle in qualche modo del male, era come se quella piccola selvatica gli avesse fatto un qualche incantesimo che lo costringeva a preoccuparsi costantemente, e a voler essere migliore di quello che era, proprio lui, che nella vita, a parte una sola eccezione, aveva pensato solo e solamente a sé stesso.


Mi sto decisamente rammollendo.

Era chiaro che non avrebbe accettato di seguire docilmente i suoi ordini; per cui era stato istintivo per lui darle quel cloroformio invece di un antidolorifico, e tentare di distrarla il più a lungo possibile per evitare che intuisse la trappola…
Ma poi era accaduto qualcos’altro: lei lo aveva supplicato.
Law non aveva mai creduto che sarebbe arrivato un momento simile. Kate che supplicava lui! Aveva sempre ritenuto più probabile che un giorno un tumore al terzo stadio venisse curato con una terapia omeopatica piuttosto che Kate arrivasse a pregarlo per qualcosa; probabilmente quella sera stessa sarebbe finito l’universo.
Per un momento Law aveva sul serio considerato l’idea di accontentarla: sapeva che la sua era una richiesta legittima, e che a parti inverse lei non avrebbe esitato ad aiutarlo, senza neanche dargli il tempo di chiederglielo…
Ma alla fine aveva prevalso l’egoismo. Anni e anni trascorsi a ragionare pensando solo ai propri comodi non potevano essere accantonati così in fretta, nemmeno per lei. Così le aveva detto ancora di no, supplicando nella propria mente che il cloroformio facesse in fretta a fare effetto, perché non credeva di poter sostenere ancora per molto il suo sguardo pieno frustrazione e sconforto.
E alla fine lei era caduta. Law aveva assistito cercando di rimanere il più calmo possibile, ma il suo autocontrollo aveva subito un colpo notevole.
C’era da dire che all’inizio se l’era cavata abbastanza bene… fino a quando Kate non aveva alzato gli occhi verso di lui, e non lo aveva guardato con aria talmente delusa e incredula che Law si era sentito stringere le viscere in una morsa dolorosamente ghiacciata.


Che effetto fa tradire un amico? 

Era orribile. Veramente orribile.
Eppure Law non si era lasciato fermare. Era come quando operava un paziente: ciò che stava facendo era visibilmente brutto, ma era per un fine più alto.
Inoltre aveva capito una cosa quando l’aveva guardata negli occhi: non si sarebbe arresa. Quell’atto di forza non era servito a nulla. Avrebbe continuato a ribellarsi fino a quando ne avrebbe avuto la possibilità, infischiandosene delle conseguenze. Lei era fatta così.
Così l’aveva portata nella stiva per rinchiudercela. Ad ogni passo che faceva verso la stanza la sensazione di sentirsi lo stomaco sotto le scarpe era aumentata sempre di più… ma non si era fermato. Avrebbe fatto qualunque cosa per assicurarsi che non si allontanasse.
Perché, vi chiederete voi. Cos’era che lo rendeva tanto paranoico?!
Bella domanda. Non lo sapeva nemmeno lui. Era proprio per questo che si sentiva così frustrato e arrabbiato. Perché era in balia di qualcosa che sfuggiva al suo controllo, e non sapeva come tirarsene fuori.
Sin dal primo giorno aveva avuto una strana sensazione riguardo a lei. Era quasi come un animale selvatico che fuggiva quando cercavi di catturarlo. Non ti permetteva mai di avvicinarti troppo, e non si scopriva mai, non parlava mai di sé. Sembrava incredibile, ma, a parte il fatto che era stata una figlia di Barbabianca, dopo tre anni Law non sapeva ancora nulla della sua storia, di cosa avesse fatto o fosse stata prima di unirsi ai pirati Heart. E questo lo faceva andare fuori di testa.
Voleva sapere di più su di lei: lo desiderava con tutte le proprie forze, per poterla legare a sé in qualche modo. Sentiva che il loro legame, per quanto fosse profondo, era ancora fragile: temeva che, se lei si fosse allontanata, si sarebbe irrimediabilmente spezzato.
Law questo non l’avrebbe sopportato: lui aveva bisogno di lei, così tanto che non era riuscito a nasconderlo.


Se tu andassi via, io ne morirei. Davvero gliel’ho detto? Come mi è saltato in mente?

Era ufficiale: quella piccola strega lo aveva plagiato in qualche modo, e se avesse continuato in quel modo lo avrebbe senza dubbio fatto diventare matto prima che arrivasse a compiere trent’anni.

E la cosa più assurda è che mi sento ancora in colpa.

- Pen! – esclamò Shachi allarmato, correndo al fianco dell’amico.
Law si riscosse dai propri pensieri contorti e smise di camminare, congelandosi sul posto.
Penguin stava riverso a terra, privo di sensi e spaventosamente pallido. Law gli si inginocchiò accanto, e gli tastò la gola, cercando il battito cardiaco.
Sospirò di sollievo. Era debole, ma c’era. Era vivo.
- Penguin! – lo chiamò scuotendolo bruscamente per una spalla – Pen, svegliati!
Il ragazzo si agitò un po’ e aprì faticosamente gli occhi, sforzandosi di mettere a fuoco – Capitano… Shachi…
- Che cosa è successo?! – chiese Shachi preoccupato – ti sei sentito male?
Pen non rispose subito. Era ancora intontito, e Shachi lo aiutò a rimettersi seduto.
- Oddio… Kate! Il vice capitano è scappata, mi ha aggredito alle spalle ed è scappata…

Law balzò in piedi, sconvolto.

No. Non è possibile…


Solo in quel momento notò che la porta della stiva era spalancata. Si precipitò dentro, bestemmiò e si guardò attorno, gli occhi socchiusi, solo per avere la conferma di quanto già sapeva.
Non c’era. Era andata via sul serio.
Agguantò la prima cosa che gli capitò fra le mani e la gettò contro la parete, mentre la rabbia per la disobbedienza di quella piccola strega venne improvvisamente incendiata dalla preoccupazione per ciò che la sua assenza significava.
- Dannazione, Kate! - gridò, frustrato e incollerito. Quel piccolo, intrigante demonio in gonnella…
Non poteva crederci. Come diavolo aveva fatto ad uscire da quella stanza così in fretta e così silenziosamente?! La porta era intatta, e i muri pure…


Non avrà mica…

Law si chinò ad esaminare la serratura, e la forte zaffata acre che gli arrivò alle narici costringendolo ad allontanarsi in fretta e furia rese tutto molto chiaro.

Il vecchio trucco delle esalazioni tossiche…

Law si sentì prudere le mani. Se l’avesse avuta lì l’avrebbe presa a calci nel sedere fino a levarle la pelle senza neanche pensarci, visto che non poteva riservare quel trattamento a sé stesso.

Merda. L’ho decisamente sottovalutata.

- Accidenti, capitano… - si lamentò Penguin – sono passate più di tre ore da quando mi ha aggredito… chissà dove sarà adesso…

Cocciuta! Imprecò Law nella propria testa ignorando le parole del compagno Imprevedibile! Disobbediente! Incosciente...! Sospirò, sconfitto. E dannatamente in gamba. Che il diavolo mi porti. Non riesco a rimanere in collera con te, Kate. Dovrei essere deluso dalla tua insubordinazione, e invece…

E invece non era così. Quella piccola donna non l’aveva mai deluso... irritato forse, o magari sconcertato. Ma deluso mai. No, tutto quel che aveva fatto finora quella ragazzina era stato renderlo spaventosamente orgoglioso di averla vicina, perché era una vincente, proprio come lui. Eppure avvertiva chiaramente il filo che lentamente lo avvinghiava a lei come un pericolo incombente... forse il più serio che mai gli si fosse presentato in tutta la sua vita.

Che cosa mi sta succedendo?

- Capitano? – lo richiamò Penguin – che facciamo ora? Aspettiamo che torni?
Law serrò i pugni, assumendo la sua espressione più determinata. Non era disposto ad arrendersi, né tantomeno ad aspettare; la rivoleva con sé, e subito.
 – Assolutamente no. – dichiarò energico, per poi uscire a grandi passi dalla stiva – preparatevi a salpare. Andiamo a riprendercela.


Katherine si arrampicò agilmente sullo specchio di poppa della Moby Dick, incapace di smettere di sghignazzare mentre ripensava alla faccia che avevano fatto gli uomini di Kaido quando l’avevano vista arrivare.
Inizialmente aveva pensato di sguainare la spada e di ammazzare più gente possibile, così da vanificare un qualsiasi potenziale tentativo d’attacco alla nave del padre… ma poi aveva pensato a qualcosa di molto più divertente, che avrebbe richiesto molto meno tempo e che avrebbe fatto passare a quegli animali la voglia di giocare a fare gli avvoltoi vicino alla nave del babbo.
Ve lo racconterei… ma magari facciamo più tardi. Ora abbiamo cose più importanti di cui occuparci.
Kate saltò a bordo con un tonfo impercettibile, insaccandosi nel mantello nero e nascondendosi nell’oscurità. Doveva sbrigarsi, non aveva molto tempo.
Doveva trovare Beatrix.
Chi era Beatrix? Be’, Beatrix era stata la sua vice finché Kate era stata il medico capo della ciurma; era un’infermiera di circa ventisette anni, la prima che Kate aveva scelto come collaboratrice molti anni prima, nonché una delle sue migliori amiche. Avrebbe avuto bisogno del suo aiuto se voleva avere la possibilità di muoversi sulla nave senza farsi scoprire.
Sì, perché era parte fondamentale del suo piano il non essere riconosciuta, nemmeno dai suoi parenti. Quando Law sarebbe arrivato sulla nave – perché Law sarebbe di sicuro arrivato sulla nave prima o poi, Kate sarebbe stata pronta a metterci la mano sul fuoco – sicuramente avrebbe chiesto di lei, e sarebbe stato piuttosto difficile nascondersi a quel punto. Certo, avrebbe anche potuto chiedere ai fratelli e al padre di coprirla, ma Law era sempre stato piuttosto bravo a capire le persone, e quindi avrebbe di certo capito subito che gli stavano mentendo; senza contare il fatto che i ragazzi avrebbe anche potuto reagire violentemente e attaccare i pirati Heart, cosa che avrebbe potuto rappresentare davvero un serio problema.
No. L’unico modo di cavarsela era seguire il piano, e pregare che Law cadesse nella trappola. Era possibile, ma non garantito… quell’uomo era più subdolo di chiunque altro al mondo, e i kami solo sapevano quanto poteva essere difficile ingannarlo.
Kate camminò lentamente lungo il ponte, trattenendo il respiro e stando bene attenta a non fare rumore. Il silenzio che regnava in quel momento a bordo era qualcosa di spaventosamente innaturale, anche per quell’ora della notte. Di solito gli uomini che restavano svegli per il turno di guardia non mancavano mai di fare baccano, ridendo e scherzando festosamente tra di loro, giocando a carte o ricordando questa o quell’impresa. A Kate quell’allegro chiasso era sempre piaciuto, e ci era sempre stata abituata, tanto che quando si era trasferita sul Polar Tang per i primi tempi era stata incapace di dormire, troppo turbata da quel silenzio a lei così estraneo.


Sicuramente nessuno qui avrà voglia di ridere o scherzare con un fratello in fin di vita…

Kate si riscosse da quei pensieri tristi, imponendosi di rimanere concentrata. Doveva solo arrivare all’infermeria senza farsi notare, intrufolarvisi e mettersi al lavoro: avrebbe sistemato tutto, e tutto sulla Moby Dick sarebbe tornato come prima. Doveva solo avere fede, e stare attenta a non farsi…
- Ehi, tu! Chi sei, e che diavolo ci fai qui?!


… beccare. Ecco, appunto.

Kate si voltò lentamente nella direzione da cui era arrivata la voce, consapevole di essere diventata più pallida di un cencio… e quando vide chi ne era il proprietario quasi svenne per il sollievo.
- Allora?! – sbraitò irritata Beatrix – si può sapere chi diavolo sei?! Vattene immediatamente, o sarò costretta ad avvisare il capitano Newgate!
Davanti a quella scena ridicola a Kate venne quasi da ridere. Non era cambiata affatto, era ancora sfacciata e coraggiosa come era sempre stata, e come al solito non c’era nulla che potesse intimorirla, nemmeno un perfetto estraneo che girava armato e indefesso sulla Moby Dick in piena notte. Era per questo che otto anni prima l’aveva voluta come vice, e adesso avrebbe voluto baciarla per quanto era fiera di lei.
Se solo avesse saputo con chi stava parlando davvero… Kate si impose di non scoppiare a riderle in faccia.
- Sono venuto per lavorare. – rispose sicura Katherine con profonda voce maschile – so che il capitano di questa nave cerca un medico che possa aiutare un suo uomo gravemente ferito. Be’, eccomi qui. - Katherine ringraziò mentalmente Izou per aver dedicato mesi e mesi ad insegnarle ad imitare le voci. E lei che aveva creduto che non le sarebbe servito a nulla!
Beatrix inarcò un sopracciglio – Davvero? Strano, perché finora tutti i tuoi colleghi se ne sono lavati le mani, affermando che non c’era nulla da fare. Sei proprio sicuro di essere un medico?
Kate non riuscì a trattenere un gridolino offeso – certo che sono un medico! Perché, che vorresti insinuare?!


Complimenti, O’Rourke. Faccia da poker impeccabile, dico sul serio.

- A me non sembri affatto un medico. – commentò crudelmente la donna, stringendosi nelle spalle e tamburellando con le dita sui fianchi.
Kate sapeva che avrebbe fatto meglio a non raccogliere la provocazione, ma non riuscì a trattenersi – Be’, e a me tu non sembri affatto un’infermiera. Guarda come sei conciata!
Era proprio vero: in quel momento Bea non aveva affatto l’aspetto di un’infermiera. Ma come diavolo era vestita!? Portava un abitino rosa scandalosamente corto e scollato che lasciava intravedere proprio tutto, tacchi vertiginosamente alti – e se lo diceva Kate allora potete crederci, erano veramente alti – e vistosi collant a fantasia leopardata. Per non parlare della quantità esagerata di trucco che portava spalmata in faccia!


Ma che cavolo…?

- Noi infermiere ci vestiamo tutte così su questa nave.
- Ah sì, eh?! – esclamò irritata Kate. Doveva essere per forza colpa dei fratelli maggiori, quei pervertiti! Sicuramente avevano approfittato subito della sua assenza per monopolizzare l’abbigliamento delle sue ragazze e potersi rifare gli occhi! -  Be’, chiunque abbia scelto questa tenuta per voi ha un gusto veramente pessimo!
Lei ridacchiò beffarda – Cos’è, sei una specie di puritano o qualcosa di simile?


No, è solo che non mi piace vedere le mie sottoposte ridotte a fare le passeggiatrici per accontentare una marmaglia di pirati allupati! Qualcuno mi renderà conto di questo!

- Stiamo andando fuori tema. – replicò invece Kate con voce atona, eludendo il discordo e mordendosi la lingua per non dare voce al proprio risentimento – posso vedere il mio paziente ora? Devo mettermi subito al lavoro.
Beatrix non le rispose subito, si limitò a fissarla con sguardo indecifrabile.
Un sospetto terribile attraverso la mente di Kate – Oddio, non vorrai dirmi che è…
- Non è ancora morto. – la interruppe Bea con voce innaturalmente calma – ma… a quanto sembra gli resta meno di un’ora.
Kate scosse la testa, rilassandosi appena – non ha importanza, ciò che conta è che sia ancora vivo. Lo terrò in vita io. Ora sbrighiamoci, non c’è tempo da…
- Nemmeno per sogno! – esclamò Beatrix con veemenza – Non permetterò ad un perfetto estraneo di mettere le mani sul comandante, medico o non medico! Chissà che potresti fargli…
- Non vorrei risultare insensibile… - la interruppe glaciale Kate, che ormai stava davvero perdendo la pazienza – … ma se come hai detto tu gli resta solo un’ora da vivere, non riesco proprio ad immaginare in che modo il sottoscritto potrebbe peggiorare la situazione.
Quelle parole colpirono Bea come uno schiaffo. La donna indietreggiò ferita, e la fissò come se fosse la Morte armata di falce in persona.
- Ma…
- Ora apri bene le orecchie, Elderly Beatrix! – esplose Katherine ormai al limite, senza più preoccuparsi di contraffare la voce – Tu adesso mi accompagnerai immediatamente in infermeria da mio fratello, in silenzio e senza fare altre storie, è chiaro?! Poi andrai immediatamente a cambiarti d’abito, e lo farai fare anche alle altre, perché giuro che se vi rivedo un’altra volta addosso questi abiti così scandalosi ve li farò usare come stracci per pulire l’intera nave, latrine comprese! Mi sono spiegata, Bea-san?!
Beatrix la fissò con un’aria così smarrita e scioccata che per un momento Kate si chiese se non avesse esagerato; ma prima ancora di avere il tempo di riaprire bocca Bea la precedette.
- D-doc?!
Kate ghignò compiaciuta - ma certo, e chi altri sennò?
- Oddio… – mormorò la donna con le lacrime agli occhi, gettandole poi le braccia al collo e stringendosela contro come se ne andasse della propria vita – Katherine-senpai, sei proprio tu…
- Sì, mon cher. – rispose Kate leggermente commossa mentre ricambiava l’abbraccio. – Sono così felice di rivederti…
- Ma come hai… noi pensavamo… - farfugliò Bea, allontanandosi lo stretto necessario per poter fissare il travestimento dell’amica con occhi spalancati.
– Non c’è tempo per le spiegazioni ora. – la interruppe bruscamente Katherine, sciogliendo l’abbraccio - Dobbiamo metterci al lavoro. Subito.
- Eh?! Oh ma sì, certo! – si affrettò a replicare – Andiamo!
- Bea-san… - la richiamò esitante Kate. L’infermiera si voltò a guardarla – C’è una cosa importante che voglio sia chiara: le altre non devono sapere chi sono. Dovrai tenermi il gioco.
- Ma Katherine-senpai! – protestò Beatrix contrariata – le altre vorranno di certo…
- Non devono saperlo, Beatrix, né loro né gli altri. Non subito, almeno. – ribadì seria la dottoressa – fidati di me e obbedisci, per favore. Tra poco ti sarà tutto chiaro, te l’assicuro.
Bea non sembrava convinta, ma non dissentì più; si diresse dritta verso l’infermeria, e Katherine si affrettò a seguirla.
- L’anamnesi del paziente? – chiese la dottoressa, assumendo il suo tono di voce più professionale.
Beatrix non la guardò quando rispose – Ustioni di secondo e terzo grado su tutto il torace, il collo e parte del viso, numerosi frammenti metallici presenti negli strati più profondi dell’ipoderma, e un trauma cranico abbastanza grave, anche se per fortuna dalla TAC non risultano ematomi celebrali. Lesioni agli organi interni, anche se non mortali…
Kate era abbastanza sicura di essere diventata livida a quel punto – e poi?
Erano ormai arrivate sulla porta dell’infermeria. Beatrix si fermò sulla soglia, e si voltò a guardarla con aria pensierosa – e poi ci sono altri sintomi che non capisco.
- E sarebbero?
- Ha un’ipotensione molto grave…
- E allora? È perfettamente normale, considerate le sue condizioni…
- Abbiamo provato a somministrargli l’eritropoietina, ma non ha funzionato. Ha la pressione completamente fuori controllo, doc.
Kate sbatté le palpebre. Questo non era affatto normale.
- E c’è dell’altro. Il paziente presenta anche una forma abbastanza grave di rash cutaneo… e inoltre tossisce in continuazione.
- Ma com’è possibile una cosa simile?! – esclamò sconcertata Katherine – tutti questi sintomi non possono essere stati causati dall’esplosione di una granata!
- Lo so – sospirò Beatrix – ma personalmente non riesco proprio a capire cos’altro potrebbe averli causati.
A Kate girava la testa, come se fosse in sovraccarico. Thatch era un tale ricettacolo di sintomi da far sembrare una cosa veramente ai confini della realtà il fatto che fosse ancora vivo…
- Cosa avete fatto finora? – chiese il medico con un filo di voce.
- Niente – sospirò di nuovo Bea, esausta – come ti dicevo gli abbiamo dato l’eritropoietina per tentare di stabilizzare la pressione, ma non è servito. A quel punto l’unica cosa che ci siamo sentite di fare è stata metterlo sotto sedativi, per farlo soffrire il meno possibile.
- Avete fatto bene. – disse la dottoressa, per poi oltrepassare la soglia dell’infermeria – su, andiamo da lui ora.
Le due donne entrarono insieme nella grandissima stanza, completamente deserta a parte loro due, e Kate si sentì invadere da una sensazione di dejà vu così forte da farla estraniare dalla realtà, riportandola con la mente ad un ricordo del passato.


- Non posso crederci! – esclamò la ragazzina incredula, guardandosi intorno nella gigantesca infermeria con gli occhi spalancati – Davvero questo posto è tutto per me?
Dire che quel posto era incredibile non era abbastanza. Si guardò attorno: era una stanza gigantesca in cui erano state sistemate due lunghissime file di letti con testiere di metallo e lenzuola di lino bianco; di fianco ad ogni letto c'era un piccolo comodino con una brocca bianca e una tazza. Più in fondo c’erano diversi scaffali vuoti, che Kate riusciva già ad immaginare stracolmi di manuali, provette, attrezzi e medicinali vari, e una porta che la bambina sospettava fortemente che conducesse ad uno studio riservato solo a lei … ma soprattutto, meraviglia delle meraviglie, in un angolo più appartato c’era un paravento che quasi sicuramente nascondeva un tavolo operatorio, più attrezzature mediche all’avanguardia che nemmeno nei propri sogni più rosei Kate era mai riuscita anche solo ad immaginare.
Alzò lo sguardo con aria trasognata: sopra di lei c’era un limpido cielo azzurro con nuvole a pecorelle e angeli paffuti coi polsi ornati da nastri dorati. Strizzò gli occhi e li riaprì: questa volta si rese conto che quello che stava guardando era in realtà un soffitto a volta di legno dipinto con una scena rococò di nuvole e cherubini. 


Non ho mai visto niente di simile.

- Gurararara! Certo che è tutto per te! – rispose intenerito Edward Newgate – Per te e per tutte le infermiere che ti aiuteranno nel tuo lavoro! Ovviamente avrà bisogno di qualche aggiunta e cambiamento, ma sono sicuro che per te sarà uno scherzo occupartene!
La dodicenne alzò lo sguardo verso di lui – Stai dicendo che potrò anche avere delle infermiere al mio servizio?!
- Certo che potrai! Non vorrai mica assumerti la responsabilità di garantire la salute di milleseicento uomini e di mandare avanti questo posto tutto da sola, vero? – rise Newgate – potrai scegliere come aiutante chi vuoi e quando vorrai. E quando avrai formato una squadra adeguata potrai diventare il capo dell’équipe medica della nave!  
Kate barcollò leggermente, travolta dagli eventi – mi sembra ancora impossibile… davvero vuoi che sia io il medico capo della nave?
Lui abbassò lo sguardo su di lei – lo dici come se ti volessi affidare il governo del mondo intero.
- È solo che… non so se ce la farò, è una responsabilità notevole…
- Io sono sicuro di sì – la interruppe dolcemente il padre – anzi, sono convinto che molto presto diventerai un medico così abile e competente che queste pareti finiranno per sembrarti una prigione. 
Kate rise di quelle parole, rilassandosi notevolmente – non credo che questo accadrà mai… ma grazie della fiducia, papà. Ti prometto che farò di tutto per essere all’altezza.
 

Chi l’avrebbe mai detto che invece avrebbe avuto ragione lui? Certo, non credo che fosse proprio questo ciò che intendesse quando diceva che queste mura si sarebbero trasformate nella mia prigione… ma alla fine tutto questo non mi è comunque bastato.

- Doc… - mormorò al suo orecchio Beatrix – concentrati. Ci siamo.
Kate si riscosse. Si era talmente lasciata prendere dai ricordi da non accorgersi nemmeno che Beatrix l’aveva trascinata dolcemente fino ad un letto in fondo alla stanza, sul quale era steso un corpo che definire sfigurato sarebbe stato veramentel’eufemismo del secolo.
Proprio come aveva preannunciato Beatrix, le ustioni si estendevano impietose su tutto il petto, su parte dell’addome, deturpavano crudelmente la gola e arrivavano a sfigurare perfino il viso, fermandosi appena ad un paio di centimetri dall’occhio sinistro. Avevano un aspetto terribile, erano rigide e di colore marrone/nero senza traccia di sbiancamento, e la loro consistenza era spaventosamente simile a quella del cuoio grezzo; in alcuni punti specifici erano chiaramente visibili le ossa della gabbia toracica, e distribuiti in gran quantità in ogni angolo delle ferite erano conficcati diversi frammenti e schegge di metallo simili a gocce di mercurio dalle dimensioni più disparate. Sembrava quasi di guardare una strana e grottesca illustrazione dell’inferno di Gustavo Doré, dove il cielo viene ritratto color sangue, ma comunque pieno di stelle. Argento su rosso, esteticamente davvero notevole, ma non su un corpo umano.
Non sul corpo del fratello.


Thatch… oh mio Dio…

- Cristo santo… - sussurrò il medico, vacillando sulle ginocchia. Mai nella sua decennale carriera da medico aveva visto una cosa del genere…come poteva essere ancora vivo?!

Nii-san…

- Doc, non crollare! Pensa ad una soluzione, piuttosto! – la scosse Beatrix, tirandola fuori dalla trance in cui era caduta. In quel momento Kate si rese conto che Thatch aveva anche una flebo attaccata al braccio, che somministrava morfina attraverso la camera di gocciolamento, e anche che era attaccato ad un macchinario che ne scandiva il battito cardiaco, decisamente molto più debole di quanto avrebbe dovuto essere.
Il suo cervello si mise in moto automaticamente, senza aspettare l’ordine della sua proprietaria. Kate senza troppe cerimonie si avventò sulla flebo, e strappò la sacca dal tubicino.
- Ma cosa fai?! Sei impazzita? – gridò Beatrix sconvolta.
- La morfina è inutile in questo momento. – spiegò con calma Kate. Ormai a quel punto Kate era stata relegata in un angolo della sua mente, e al suo posto era subentrata la dottoressa O’Rourke. – A questo stadio le ustioni provocano una insensibilità generale nel paziente, e in più ha perso anche conoscenza. Non sentirà nulla in ogni caso, e la morfina potrebbe anche rallentare le sue funzioni vitali, cosa che potrebbe anche essergli fatale nelle condizioni in cui si trova.
Beatrix si acquietò, fissandola smarrita – E allora cosa…?
- Cosa facciamo? Te lo dico subito. – rispose la dottoressa frugando nel suo borsello, e tirando poi fuori una sacca di plastica sterile piena di liquido, che porse a Bea – Ora tu sostituirai la morfina con questa. Per il momento voglio che il dosaggio sia al massimo… ne avrà bisogno.
Bea prese la sacca dalle mani del suo capo, e la esaminò con spirito critico… e sgranò gli occhi, allibita.
Non aveva mai visto un composto così strano: all’interno del sacchetto si agitava uno strano fluido rosa perlaceo dall’aspetto particolarmente denso, che ricordava in maniera incredibilmente bizzarra la consistenza dello smalto per le unghie; sulla sacca non c’era alcuna etichetta, ma Beatrix in qualche modo era comunque certa che quella che aveva tra le mani non fosse una medicina. Lo capì dall’intenso odore che emanava, nonostante fosse contenuto in una sacca sigillata: era così dolce e intenso che a Beatrix cominciò a girare vorticosamente la testa, come se fosse ubriaca.
- Ehi, Bea! Bea-san! – la chiamò Katherine scuotendola poco delicatamente per una spalla – non perdere la lucidità! Concentrati!
- Doc… - sussurrò la donna – ma… che cos’è… questa roba…?
Kate sospirò impaziente e le tolse di mano la sacca, adoperandosi per sistemarla sul sostegno al suo posto.
- Questa è la mia Essenza – spiegò tranquilla, mentre infilava i tubicini nel beccuccio del sacchetto e regolava il dosaggio. Il fluido cominciò a scendere giù per il tubo, diretto alle vene del pirata – è un liquido particolare che produco io stessa per mezzo delle mie ghiandole endocrine, ed è a base di ormoni allo stato puro, neurotrasmettitori, proteine e molecole del mio DNA. Lo userò per cardiostimolare il cuore di Thatch per farlo continuare a battere anche in caso di arresto e per stimolare le proteine delle sue cellule, favorendo così la riproduzione cellulare e accelerando la ricostruzione e la rigenerazione dei tessuti danneggiati in maniera esponenziale. Tuttavia se devo anche estrargli i pezzi di metallo con le pinzette non potrò anche praticargli la ventilazione artificiale, quindi comincia a portare qui la macchina per l’ECMO, così potremo prevenire anche un’eventuale insufficienza respirato-…
- Cristo Santo, Kate! – esplose Beatrix – si può sapere di cosa diavolo stai parlando?!
A quel punto Kate sorrise. Non era un sorriso qualsiasi quello, ma un ghigno così compiaciuto e malizioso che la schiena di Beatrix fu attraversata da un brivido. Non aveva mai visto il suo capitano sorridere in quel modo, sembrava il sorriso di un demonio.
Ma l’inquietudine che aveva provato quando l’aveva vista sogghignare in quel modo non era nulla in confronto a quella che provò subito dopo.
La giovane dottoressa allargò il ghigno, tirò fuori un bisturi dalla tasca, e sotto lo sguardo spiritato di Beatrix si praticò una leggera incisione all’interno del braccio destro. Bea lanciò un gridolino di orrore e si guardò freneticamente intorno, cercando qualcosa per tamponare la ferita e per tentare di fermare il sangue che sapeva ne sarebbe uscito…
Ma non uscì nemmeno una goccia di sangue da quella ferita. Il taglio era pulito e asciutto, e Kate vi posò una mano sopra, perfettamente padrona della situazione.


Crop.

La mano della ragazza si sollevò lentamente dal taglio, e da questo cominciò a sgorgare lo stesso liquido rosa perlaceo che c’era nella sacca, solo leggermente più scuro.
L’odore di quel liquido, ora che non più ostacolato dalla plastica, dava alla testa, ed era così delizioso e inebriante che Beatrix provò uno spasmodico desiderio di assaggiarlo.
Si avvicinò in trance al braccio della ragazza. Ricordava l’odore delle rose fresche, ma mille volte più piacevole…


È forse questo il profumo del nettare?

- Facciamo un’altra volta, Bea. – la canzonò divertita Kate mentre la respingeva con gentilezza – non lasciarti ammaliare. La prima volta è sempre la più pesante… ma poi ci si fa l’abitudine, o almeno così mi dicono.
Bea sbatté ripetutamente le palpebre, lottando per uscire dal torpore in cui era caduta – ma che cos’è?
- Te l’ho detto, è la mia Essenza…
- Ho capito, ma com’è possibile che tu possa… creare una cosa del genere? Che razza di stregoneria è…?
Le parole morirono nella bocca dell’infermiera, che trattenne bruscamente il fiato quando guardò negli occhi la giovane dottoressa.
Le sue iridi erano nascoste da quello che sembrava essere un paio di lenti a contatto nere… ma sotto il nero artificiale Beatrix vide chiaramente baluginare dei riflessi rosa perlati.
- Non è una stregoneria. È opera di un Frutto del Diavolo. – rivelò enigmatica la donna, sbattendo eloquentemente gli occhi rosa nascosti sotto le lenti - Due anni fa ho mangiato il Frutto Esse Esse, categoria Paramisha: mi permette di controllare le funzioni vitali di chiunque a mio piacimento, a patto che la vittima abbia in circolo anche solo una goccia della mia Essenza, che posso usare come mezzo di controllo. – spiegò con aria saputa – Ora sta’ a vedere.
Portò entrambe le mani all’altezza del cuore del fratello, stando bene attenta a non toccare i tessuti cutanei rovinati.


Beat.

La schiena dell’uomo si inarcò, come se avesse subito la scarica di un defibrillatore, e il battito cardiaco aumentò considerevolmente, tornando a un ritmo molto più rassicurante.
Ormai la mandibola di Beatrix era arrivata quasi arrivata toccare terra. L’infermiera non poteva credere a ciò che aveva visto. L’amica aveva appena…
- Be’, almeno il problema del cuore per un po’ è stato risolto. – constatò compiaciuta la dottoressa mentre indossava un paio di guanti di lattice e una mascherina – bene, ora pensiamo al resto. Comincerò ad estrarre i frammenti di metallo dal corpo dalla carne, e man mano che procederò solleciterò la rigenerazione delle cellule danneggiate, richiudendo le ferite… almeno fino a quando non arriverà mio padre. Mi servirà il suo aiuto, altrimenti se dovrò fare entrambe le cose ci metterò troppo tempo.
- Cosa?! Tuo padre?! – esclamò Beatrix – non penso che Barbabianca possa essere d’aiuto…
- Non parlavo di lui. Parlavo del mio vero padre. – rispose sbrigativa la ragazza ignorando lo shock sul viso dell’amica, mentre si toglieva il mantello e si sedeva accanto al fratello facendo schioccare i guanti. – Queste sono le consegne: vai a chiamare tutte le altre e mettile al lavoro. Ne voglio tre qui ad aiutarmi, ovviamente senza che sappiano chi aiuteranno… quattro fuori a fare la guardia alla porta dell’infermeria, non voglio che nessuno metta piede qui dentro…e poi voglio due ragazze a poppa a tenere d’occhio la situazione, mio padre arriverà di sicuro a momenti e non voglio che se ne accorga nessuno. – Katherine cominciò a lavorare, afferrando un paio di pinze sterilizzate e chinandosi sul torace del fratello – Fallo venire subito qui quando arriva… con discrezione!
- V-va bene… - farfugliò Beatrix ancora intontita, avviandosi con passo incerto verso l’uscita.
- Bea-san…
- Sì? – fece Beatrix voltandosi verso l’amica.
Kate sembrava in difficoltà – Uhm… mi sapresti dire dov’è Ace in questo momento?
Beatrix distolse lo sguardo, a disagio – Non è qui, doc.
- Non è qui!? Come sarebbe a dire “non è qui”?!
Beatrix si mordicchiò un’unghia – Ehm, lui… be’, lui non voleva rassegnarsi al pensiero che non ci fosse niente da fare per aiutare il comandante Thatch, e quindi… be’, insomma, ha preso la striker ed è andato a cercare altro aiuto. –
Kate sgranò gli occhi. Nel suo sguardo si agitava un caos di emozioni: delusione, felicità, sollievo, nostalgia, orgoglio…


Pensi ancora a lui, Katherine-senpai? Lo ami ancora, o l’hai dimenticato? Scommetto che non lo sai nemmeno tu…

- Capisco. – disse infine la ragazza. La sua voce era atona, ma sorrideva leggermente – Certe cose non cambiano proprio mai, a quanto pare.
- Devo contattarlo e dirgli di tornare indietro, doc?
- Sì, ma non dirgli che sono qui, ok? Digli solo che un medico si è fatto avanti per tentare di operare Thatch, nient’altro. E che dovrebbe tornare per stare con la sua famiglia.
Beatrix annuì convulsamente, e si apprestò ad uscire di nuovo.
- Ah, Bea-san?
L’infermiera si voltò nuovamente a guardare il medico, che continuava a lavorare con aria concentrata. O almeno così sembrava.
- Se per caso dovesse arrivare e chiedere di me un pirata a bordo di un sottomarino, con un cappello peloso, le occhiaie e una nodachi sulla spalla, piuttosto sexy e dall’aria particolarmente arrogante, del tipo che potrebbe causare una guerra mondiale con una sola frase…be’, in quel caso comincia pure a snocciolare un rosario, ma soprattutto, tu non mi hai vista!
Bea alzò un sopracciglio – un pirata piuttosto sexy e dall’aria particolarmente arrogante? E chi è, il tuo ragazzo?
- ASSOLUTAMENTE NO! – urlò Kate con voce talmente alta stridula che il sostegno della flebo traballò pericolosamente per colpa dei decibel eccessivi – Vai a lavorare, va’! Pettegola!
Quando uscì dall’infermeria Beatrix stava ancora ridendo.


- Siamo arrivati, capitano! – annunciò Bepo sporgendosi dalla balaustra insieme a tutti gli altri membri dell’equipaggio, allungando il collo per poter osservare meglio l’enorme nave dell’imperatore.
Era gigantesca. Era impossibile non restarne impressionati. Se poi pensavano agli uomini che vi navigavano sopra…
- Ben fatto, Bepo. – sospirò Law con aria rassegnata. Ormai erano quasi le sette del mattino, e considerando il vantaggio che aveva, Kate doveva essere di sicuro già arrivata sull’isola, e probabilmente si era anche già messa al lavoro.
- Ora che facciamo, capitano? – chiese timoroso Bepo.
Law ci rifletté. Ormai non c’era più alcuna possibilità di riprenderla evitando di scontrarsi con la ciurma di Barbabianca, come Law all’inizio aveva sperato di poter fare. Perciò tirando le somme della questione, e considerando il fatto che quel demonio in gonnella non si sarebbe mai lasciata convincere a andarsene con le buone, c’erano solo due possibilità: o intrufolarsi sulla nave di soppiatto dell’imperatore e cercare – quasi di sicuro inutilmente - di portarla via di peso, evitando vanamente al tempo stesso di farsi scoprire dagli altri occupanti dell’imbarcazione, nel tentativo scongiurare il rischio di essere scorticati vivi… o salire sulla nave dalla scala d’ingresso, spiegare con calma alla ciurma e a Edward qual era la situazione, e solo dopo cercare di portarla via di peso.


Be’, mi sembra piuttosto chiaro quale sia l’opzione con più possibilità di riuscita.

- Dobbiamo salire sulla nave e parlare con Barbabianca. – dichiarò il Chirurgo con aria rassegnata.
- CHE COSA?! – strillarono tutti voltandosi terrorizzati verso di lui – sei impazzito?! Vuoi darci tutti in pasto a quella marmaglia tremenda di pirati?! Quelli sono tutti uomini con una taglia che è il doppio della tua, te ne rendi conto?!
Law lanciò loro uno sguardo irritato – Lo so benissimo, non c’era bisogno di specificarlo.
- E allora cosa…?
- Andremo là solo per parlare, ok? Non c’è bisogno di agitarsi. Non ci attaccheranno se noi non attaccheremo loro.
- Ma… - protestarono ancora i pirati Heart, che era consapevoli di quanto il “parlare” del loro capitano potesse risultare più provocatorio di un attacco frontale a forze spiegate.
- Basta. - li freddò Law con voce dura – noi ora andiamo su quella nave, recuperiamo la nostra compagna e poi andiamo via, punto. Mi sono spiegato?
- E se lei non volesse venire?
- La trascinerò io personalmente.
- E se i suoi compagni ci attaccassero per impedirci di portarla via?
- Siamo noi i suoi compagni! – esplose Law irritato – Noi, sono stato chiaro?! Ora sbrigatevi a scendere, e non fate altre storie, o giuro che vi trasformo tutti in cavie per i miei esperimenti!
A quella prospettiva – diventare cavie per gli esperimenti di Law, che nel migliore dei casi avrebbe comportato il venire uccisi in maniera indolore con i barbiturici e poi essere picchiati ripetutamente per poter stabilire per quanto tempo dopo la morte era possibile creare degli ematomi -, i pirati Heart si lanciarono subito giù dal sottomarino, e cominciarono a correre verso la Moby Dick come se fossero animali che cercavano riparò sull’arca di Noè.
Bepo rimase un po’ indietro, e si avvicinò a Law – Voglio che sia chiara una cosa: quest’idea non mi piace affatto, e sono sicuro che ce ne pentiremo.
Law lo ignorò, era già abbastanza irritato per conto proprio, non aveva voglia di ascoltare le sue lamentele. Bepo sospirò, e saltò oltre la balaustra con la spaventata rassegnazione tipica dei condannati a morte.


Sarai fiera di te stessa, dolcezza. Pensò Law, mentre scendeva anche lui dal sottomarino Guarda quanto sei diventata brava a crearmi problemi.


- Signore, mi servono altre pinzette pulite! Subito!
Le tre infermiere trasalirono a quell’ordine perentorio, e cominciarono a correre di qua e di là per sbrigarsi ad accontentare quel medico eccentrico e dispotico, pregando nel frattempo tutti i santi del paradiso di dare loro la forza per non perdere la pazienza.
Quando Beatrix-senpai le aveva buttate bruscamente giù dal letto per avvisarle del fatto che dovevano mettersi al lavoro, in quanto sulla nave era appena arrivato un tizio sulla nave disposto a tentare di curare il comandante Thatch, Jocelyn, Mary Lou e Penelope avevano pensato ad uno scherzo di pessimo gusto. Insomma, le avevano viste tutte le condizioni in cui riversava il paziente! Forse la cosa migliore che avrebbero potuto fare per aiutarlo sarebbe stata attaccarlo ad una flebo di barbiturici, per farlo morire senza farlo soffrire troppo. Perché era evidente che non ce l’avrebbe fatta, e solo un medico completamente folle avrebbe potuto avere il coraggio di tentare di fare qualcosa per salvargli la vita.
Ma non si trattava di uno scherzo. A quanto pare, un medico così pazzo da volerci provare c’era davvero. Un giovane uomo avvenente, capace, apparentemente molto qualificato… ed esageratamente testardo, tirannico e arrogante, che prima di farle cominciare aveva pure preteso con una certa pedanteria che indossassero degli abiti più “professionali”.
Ma come diavolo si permetteva a trattarle così?! Era come se credesse davvero di avere il diritto di dare loro degli ordini…
Tuttavia Beatrix era stata chiara: dovevano obbedirgli in tutto e per tutto senza discutere, e soprattutto non dovevano fare domande.
- Sto cominciando veramente ad averne abbastanza. – mormorò Penelope all’orecchio di Jocelyn – se quel tiranno fuori di testa e gonfio di boria continua a comportarsi così, giuro che mollo tutto e me ne torno a dormire!
- Non puoi farlo, Penny. – sospirò Jocelyn – quel tipo sarà anche odioso, ma sta lavorando per salvare la vita di un nostro amico.
- Non siamo affatto costrette ad obbedirgli! In fondo per noi è un perfetto estraneo! E non è affatto detto che riesca a salvare Thatch-sama!
- È vero, ma dobbiamo obbedire a Beatrix-senpai; e se lei vuole che noi aiutiamo quest’uomo a curare il comandante Thatch, noi dobbiamo farlo.
Penelope sbuffò ma non polemizzò oltre – non mi piace per niente.
- A voi non sembra che quel tizio abbia un’aria stranamente familiare? – intervenne Mary Lou con la sua vocina infantile.
Penelope e Jocelyn abbassarono lo sguardo sulla più giovane delle infermiere di Barbabianca; la piccina aveva a malapena undici anni, ed era stata l’ultima ad unirsi all’équipe medica, tre anni prima: le altre infermiere avevano contestato con veemenza questa decisione, affermando che quella bambina era decisamente ancora troppo piccola per intraprendere quel mestiere così complesso, ma Katherine-senpai all’epoca non aveva voluto sentire ragioni.


È troppo sveglia e intelligente per continuare a giocare con le bambole, e io non sopporto lo spreco di potenziale. Lavorerà con noi, perciò siate buone e fatela sentire accettata. Un QI come il suo si rovina se chi lo possiede è condannata a fare la casalinga a vita e a badare ad un numero imprecisato di pesti. Non prenderla con noi sarebbe un delitto, lo pensa anche papà.

Si era poi scoperto che il capo della squadra medica aveva ragione, come al solito: Mary Lou era straordinariamente sveglia e aveva un grande spirito d’osservazione, che si rivelava spesso estremamente utile per le diagnosi, e uno stomaco talmente resistente che spesso le altre si erano chieste se fosse davvero quello di una bambina.
- Tu lo trovi familiare, Lou-chan? – chiese Jocelyn.
- Sì, un po’… insomma, l’ha detto anche Penelope-san che è dispotico, cocciuto e pieno di sé. E poi nonostante le evidenti difficoltà sembra davvero deciso a salvare Thatch-sama, come se fosse una questione personale… tutto questo non vi ricorda qualcuno che noi conosciamo bene?
Tutte e tre si voltarono a guardare il medico in questione. L’uomo continuava a lavorare imprecando e mormorando parole strane di tanto in tanto, agitando le dita come quelle di un mago e controllando spesso la sacca della flebo.
- Lou, ho seri dubbi che possa trattarsi di Katherine-senpai. A meno che la nostra capa in questi tre anni non abbia cambiato sesso e non ce l’abbia detto...
- Dico, ma avete visto quello che sta facendo? – chiese Penny allucinata, interrompendo Jocelyn – lui dice una parola, e un po’ alla volta le ferite si rimarginano da sole! Come diavolo sarà possibile una cosa simile?!
- Magari è merito di un frutto del diavolo. – ipotizzò Lou alzando le spalle. – Che importanza ha? L’importante è che riesca nel suo intento chiunque egli sia, no?
- Giusto, Lou ha ragione. – decretò Jocelyn. – Penny, perché tu non vai a dare il cambio ad Isabelle fuori dall’infermeria, e mandi lei qui al posto tuo?
Penelope sospirò e annuì, dirigendosi verso l’uscita.
Kate d’altro canto si sforzava con una certa stizza di ignorare quei discorsi poco lusinghieri sia nei propri confronti sia di quelli del personaggio che interpretava, e cercava di non cedere al nervosismo e all’ansia mentre estraeva una alla volta tutte quelle dannatissime schegge che sembravano non finire mai, richiudendo poi il buco da cui le aveva tirate fuori con i propri poteri.


Di questo passo ci vorrà un secolo! Thatch non ha tutto questo tempo. e io non posso usare i miei poteri all’infinito! Ma dove diavolo sei finito, Memphis?!

Ormai era da due ore che l’operazione andava avanti, e Kate, pur avendoci messo tutta la sua buona volontà e la sua esperienza, non era nemmeno a metà del lavoro, e inoltre aveva sostituito la flebo già due volte. Era un’operazione estremamente delicata e complessa, che richiedeva tempo e accuratezza, e se Kate non avesse osservato queste precauzioni fondamentali avrebbe rischiato di ucciderlo lei stessa.
Non poteva lavorare più in fretta di così; eppure il suo intelletto era dolorosamente consapevole del fatto che se non avesse trovato il modo di accelerare il tutto, lei o Thatch sarebbero crollati prima di poter concludere il lavoro.
Era proprio per questo che aveva pensato di chiedere aiuto al padre! Lavorando in cordata avrebbero fatto molto prima! Lui avrebbe potuto estrarre le schegge, e lei nel frattempo avrebbe rigenerato i tessuti danneggiati con il suo Boost, premurandosi anche di cardiostimolarlo in caso di necessità. In questo modo la durata dell’intervento si sarebbe accorciata abbastanza da permettere a lei di resistere e a Thatch di sopravvivere.
Se solo Memphis si fosse fatto vivo!


Probabilmente s’è perso lungo la strada. Imbranato com’è la cosa non mi sorprenderebbe affatto.

Inoltre c’era anche la questione degli altri sintomi, che Kate ancora non riusciva a spiegarsi. Rash cutaneo e tosse non c’entravano nulla con l’esplosione di una granata… e in più da circa mezz’ora si era aggiunta anche la febbre alta.

Cos’è che scatena tutto questo? Una crisi allergica, magari? Sì, ma a cosa?

Thatch tossì di nuovo, gemendo nel sonno.

Oh, nii-san… Pensò Katherine sentendo le lacrime pungerle gli occhi e resistendo a fatica alla tentazione di accarezzargli il volto Non riesco a sopportare di vederti ridotto così…

Era terribile fingere davanti alle altre che quello steso sul lettino fosse un paziente come gli altri, e non suo fratello maggiore. Ma non aveva scelta, se non l’avesse fatto avrebbero di sicuro capito tutto. Mary Lou, l’adorabile e acuta Lou, già sospettava qualcosa…
- Dottore! – gridò un’infermiera entrando nella stanza di corsa – Dottore, abbiamo appena avvistato una barca con un vecchio a bordo! Credo sia l’uomo che aspettava!
Kate sobbalzò per il sollievo, rischiando di ferire Thatch con le pinzette – Hai mandato qualcuno a prenderlo?
- Sissignore, ho mandato Delia cinque minuti fa. Dovrebbero essere qui a momenti…
- Eccomi qua! – annunciò una voce anziana ma particolarmente arzilla – Datemi l’anamnesi, datemi guanti e mascherina, e mostratemi il paziente! Non ho tempo da perdere, io!
- Non siate scortese, padre. – lo prese affettuosamente in giro Katherine, continuando a falsificare la voce – cosa penseranno di voi le signore qui presenti, altrimenti?
Kenmei Memphis si voltò verso lei, e la guardò negli occhi con spirito critico per alcuni secondi. Ad un certo punto evidentemente dovette capire chi si nascondeva sotto il panciotto, le lenti scure e il pizzetto biondo, poiché si addolcì visibilmente e le rivolse un gran sorriso.
- Perdonami, figliolo. – rispose il vecchio con tono allusivo – Hai perfettamente ragione. E perdonatemi anche voi, signore. – continuò, inchinandosi alle ragazze che lo fissavano stranite– Non so proprio cosa mi sia preso.
Kate rise sotto i baffi – letteralmente- e gli fece cenno di avvicinarsi. Memphis obbedì - inciampando un paio di volte nei propri piedi mentre camminava. Kate non ci fece caso, era tutto normale -, e quando le fu accanto si chinò per parlarle all’orecchio – Sono felice di rivederti, tesoro. Hai un aspetto magnifico!
- Pinocchio. – lo punzecchiò Katherine – non dovresti dire le bugie. – continuò, pensando alle borse firmate e con tanto di zip che le si dovevano essere formate sotto gli occhi.


Potrebbero anche scambiarmi per la sorella di Law in questo momento.

- No, dico sul serio! Sei bellissima, tesoro.
Kate lo fissò divertita – Oh, quindi vuoi dire che il pizzetto biondo mi dona? Potrei farmelo crescere sul serio quando tutta questa storia sarà finita…
- Dai, smettila! Ma perché ogni volta che qualcuno ti fa un complimento cerchi sempre di sviare?
- Che vuoi che ti dica? Sono una ragazza molto timida. – commentò Kate con tono zuccheroso, sbattendo sfacciatamente le ciglia.
Memphis ridacchiò, e senza farsi notare le posò un leggero bacio sulla testa – allora, aggiornami. Con cosa abbiamo a che fare?
Kate gli illustrò brevemente la situazione, mostrandogli anche quali provvedimenti aveva preso fino a quel momento.
Non fu necessario spiegargli del suo potere e come funzionava: Memphis sapeva già tutto da anni, sin dai primi giorni in cui Kate aveva cominciato ad imparare ad usarlo.
Memphis la ascoltò in silenzio, limitandosi ad annuire di tanto in tanto.
- D’accordo, è tutto chiaro. – disse alla fine il vecchio dottore – ora dammi quelle pinzette, qui ci penso io; tu nel frattempo sostituisci di nuovo la flebo e preparati ad usare il Boost quando te lo dico. Se tutto va bene entro un’ora avremo finito.
- Ma c’è anche la questione degli altri sintomi… – tentennò Kate – …non pensi che dovremo prima tentare di capire cosa scatena anche quelli?
- Un problema alla volta, tesoro. – dichiarò Memphis indossando guanti e mascherina - Se non ci sbrighiamo a concludere in fretta l’intervento, finiremo per perderlo. Finché la situazione rimane stabile e non degenera dobbiamo dare la precedenza alle sue ferite, non possiamo fare altrimenti.
Kate annuì con un sospiro, e si alzò per andare a sostituire la sacca della flebo ormai vuota con una piena.


Questa è l’ultima… Pensò sconfortata Kate, resistendo alla tentazione di stropicciarsi gli occhi gonfi e secchi per la stanchezza e per l’utilizzo eccessivo delle lenti a contatto. Se non riusciremo a farcela bastare dovrò riempirne un'altra usando l’Essenza presente nel mio corpo, e questo mi sfiancherà ancora di più…

- Ragazze! – tuonò imperioso Memphis, rivolgendosi alle infermiere mentre era ancora chino sul torace di Thatch – mi serve un’unità di sangue 0 positivo! Subito!
- Non è possibile! – si lamentò Jocelyn – Adesso i medici eccentrici e dispotici sono due!
Kate non riuscì a trattenere una risata esausta.


Sul ponte principale della Moby Dick regnava un silenzio innaturale, spaventoso. Lo so, l’ho già detto questo, ma mi premeva ribadirlo.
Marco camminava avanti ed indietro come un animale in gabbia, e Barbabianca stringeva i pugni cercando inutilmente di apparire calmo; Izou, Vista ed Haruta erano mostruosamente pallidi e avevano espressioni tirate in viso, mentre il resto dei comandanti ascoltava il silenzio che urlava, dato che non potevano fare altro.
Riuscite ad immaginare quanto dovesse essere terribile per loro quella situazione? Thatch, il loro amato fratello/figlio stava morendo, e cosa peggiore, loro non potevano farci assolutamente nulla. In pratica, danno e beffa.
Beatrix si sentiva stringere il cuore dalla pietà al pensiero di ciò che stavano provando quei ragazzi. Sì, lo so, la maggior parte di loro non era più ragazzo da molto tempo ormai, ma in quel momento, con gli occhi lucidi e il viso sfigurato dal dolore e dalla frustrazione, sembravano tutti molto più giovani. Molto più giovani, fragili e indifesi.
Beatrix sapeva a cosa stavano pensando: pensavano a momenti belli e a quelli brutti, ai rimpianti che avevano o non avevano, a parole che purtroppo non erano mai state dette, a parole che avrebbero voluto non aver detto mai…
E a Katherine. Sì, Beatrix ci avrebbe scommesso, stavano pensando anche a lei.
O meglio, non proprio a lei. Stavano sicuramente pensando a ciò che avevano perso, a chi avevano perso, e si stavano rendendo conto che quel dolore che avevano provato tanti anni prima forse molto presto si sarebbe loro ripresentato, presentando un conto molto salato da pagare.
Erano stati tutti male quando Kate era andata via. Non solo perché avevano dovuto rinunciare ad una sorella che amavano profondamente, ma anche perché avevano dovuto anche convivere con l’incertezza di non sapere cosa ne sarebbe stato di lei. All’epoca Kate era del tutto indifesa, e non aveva mai viaggiato da sola prima… poteva sembrare brutto da dire, ma dal punto di vista pratico i loro timori erano stati più che leciti e fondati.
E adesso eccoli, tutti lì, a piangere due fratelli, uno in fin di vita e una fuggita di casa e scomparsa, proprio mentre quella scomparsa, all’insaputa di tutti, spargeva sudore, lacrime, e a quanto pare anche ormoni o qualcosa di simile, nel tentativo disperato di salvare la vita a quello in fin di vita.


Lezione del giorno: Dio ha un senso dell’umorismo davvero spassoso.

Beatrix aveva riflettuto parecchio sulla questione, mentre supervisionava il lavoro delle colleghe più giovani, e aveva anche riflettuto sugli avvenimenti delle ultime ore, ed alla fine era giunta ad una amara conclusione.

La vecchia O’ Rourke D. Katherine non c’è più. È andata.

Tantantaaaan…. No, scherzavo.
Non era stato affatto facile capirlo, per Beatrix. Osservandola superficialmente Kate sembrava essere immutata. Certo, se vogliamo cominciare dal punto di vista fisico, i capelli erano molto più lunghi e scuri di prima, e sembrava aver perso quell’abbronzatura perenne che aveva sempre avuto sin dall’infanzia… ma per il resto non sembrava essere affatto cambiata.
E invece non era così; bisognava osservare con attenzione per trovare dei cambiamenti significativi, ma c’erano eccome. Il corpo, non più acerbo e sottile, era diventato molto più maturo e adulto, ma soprattutto molto più allenato e atletico; era evidente che avesse messo su una gran quantità di muscoli, che nemmeno i vestiti larghi che indossava riuscivano a nascondere.
Poi c’era la questione dei piercing: Katherine aveva cercato di nasconderli con i capelli, ma Beatrix aveva comunque notato i numerosi e soprattutto nuovi buchi alle orecchie che aveva. In quel momento orecchini non ne portava - probabilmente per non dare nell’occhio -, ma Beatrix sospettava fortemente che normalmente invece ne portasse parecchi… e probabilmente, a giudicare da tutte le volte in cui l’aveva vista grattarsi la pancia, non li portava solo alle orecchie. Magari da qualche parte si era pure fatta un tatuaggio…


È una cosa che non sarebbe mai stata possibile, prima. Lei aveva sempre nascosto la sua natura ribelle.

E poi c’era la questione della personalità. È vero, per intuire quel cambiamento Beatrix aveva dovuto studiarla a lungo, e rifletterci per ancora più tempo, ma alla fine c’era arrivata.
Certo, bisognava ammettere che lei era sempre stata dispotica, capricciosa e impaziente; non era in questo ad essere cambiata, ahimè. Era cambiata nel suo modo di porsi con le persone e con le situazioni, piuttosto: sembrava più audace, più intraprendente, più decisa. Tre anni prima non sarebbe mai riuscita a mantenere un tale livello di sangue freddo in una situazione così spinosa, e tantomeno non avrebbe mai avuto il coraggio di infiltrarsi su una nave qualunque in quel modo, travestita da uomo e armata, soprattutto. 
Già, armata. Perché adesso la brava Katherine-senpai se ne andava effettivamente in giro in incognito, con fior di muscoli nascosti sotto abiti da uomo, armata di spada e i kami solo sapevano di che altro, e a quanto pareva anche con un pirata piuttosto sexy alle calcagna.


Forse tutto sommato è riuscita ad ottenere ciò che voleva, dopotutto.

Eppure tutto questo scompariva davanti all’ultima scottante verità che Beatrix aveva intuito, quella che la impensieriva di più, e che prometteva la maggiore dose di guai in futuro.

Se non fosse stato per Thatch, Katherine non sarebbe mai tornata indietro. È felice adesso, molto più felice di quanto non sia mai stata su questa nave. Forse perfino più di quando stava con il comandante Ace. La sua nuova vita le piace, e non è affatto disposta a rinunciarvi. 

L’aveva capito nel momento in cui l’aveva vista sorriderle quando si erano abbracciate: ovvio, il suo volto in quel momento era stato oscurato dalla preoccupazione per Thatch, però… se si cercava di guardare oltre quel dolore, che nascondeva la realtà come uno strato di colore su una tela, si poteva notare chiaramente vedere nei suoi occhi la serenità e la soddisfazione tipica di chi vive alla grande nei propri panni. E, Beatrix ci avrebbe scommesso, se l’avessero saputo anche gli altri, di certo non l’avrebbero presa affatto bene.
Oh, non è che non avrebbero preso bene il fatto che Kate fosse felice, intendiamoci. Ma di sicuro non avrebbero accettato con serenità il fatto che la ragazza non avesse la minima intenzione di tornare all’ovile, nossignore.

Ci sarebbe quasi da sperare che non vengano mai a sapere chi è che sta aiutando davvero Thatch. Forse sarebbe molto meglio per tutti.

Già, perché loro nemmeno immaginavano chi stava lavorando davvero in infermeria; in effetti Beatrix non avrebbe voluto dir loro proprio nulla, ma poi aveva finito per sentirsi in colpa, così si era limitata ad informarli del fatto che un medico era arrivato sulla nave, e si era messo subito al lavoro per tentare di strappare Thatch dalla morte certa che fino a qualche ora prima lo aspettava.
Inutile dire che i pirati, specie i quattordici comandanti rimasti, quando l’avevano saputo avevano cominciato a riempirla di domande sempre più circospette, fino a farle perdere la pazienza: domande che erano lecite, tra l’altro – chi era il tipo in questione, come aveva fatto a salire sulla nave senza farsi notare, perché non si faceva vedere, eccetera – ma alla quale Beatrix non poteva rispondere, e che era stata costretta a liquidare alla bell’è meglio con risposte vaghe o false.
È superfluo dire che tutto questo aveva portato una notevole dose di sospetto e diffidenza a bordo della Moby Dick: ormai da più di due ore tutti fissavano la porta dell’infermeria – e le infermiere che vi stavano davanti a montare di guardia – con un’ostilità e un malanimo che aumentavano sempre di più ad ogni minuto che passava. E se nessuno si era ancora alzato ed era piombato nell’infermeria, oltrepassando di prepotenza le infermiere, era solo perché su quella nave erano tutti perfettamente consapevoli del fatto che se c’era una tenue speranza che l’amato fratello/figlio se la cavasse, be’, quella stava tutta nelle mani del medico sconosciuto che era salito di nascosto sulla loro nave, proprio sotto al loro naso.


Qua tra un po’ esplode tutto. Pensava ansiosamente Beatrix, mangiandosi le unghie per il nervosismo Speriamo solo che non sorgano altri problemi, e soprattutto che quel tizio di cui parlava Kate non venga a…

- Be’, questa poi! – esordì una voce maschile alquanto strafottente. Tutti sulla nave si voltarono di scatto a guardarne il proprietario – Io mi aspettavo di trovare il finimondo su questa nave, o come minimo una bella rissa, e invece trovo solo silenzio e facce funeree! Cos’è, quella testa calda di Katherine non ha ancora dato il via alle danze, per caso?
Beatrix sentì il sangue defluirle da viso, e le ginocchia cominciarono a tremarle. Era stato un perfetto estraneo a parlare, ma lei lo aveva comunque riconosciuto subito.
Alto, magro, con la pelle olivastra, i capelli scuri e gli occhi grigi, quell’uomo dava bella mostra di sé. Le lievi ombreggiature sotto gli occhi. il pizzetto nero come i capelli e i numerosi tatuaggi sulle mani contribuivano molto ad aumentare il suo fascino già notevole, ma era il ghigno malefico che gli incurvava le labbra ad essere l’ultimo tocco di classe che lo rendeva così sfacciatamente sexy e affascinante. Perfino le colleghe si erano incantate a bocca aperta a guardarlo, e loro erano abituate da anni ad avere a che fare con uomini avvenenti.


Piuttosto sexy? Devo ricordarmi di regalare un nuovo paio di occhiali a Katherine-senpai. Questo tizio non è piuttosto sexy, questo è esageratamente, spaventosamente, scandalosamente sexy!

Eppure non fu dal suo aspetto esteriore che Beatrix intuì chi era quello sconosciuto, e nemmeno fu dalla nodachi che portava in spalla, o dal cappello peloso che portava sulla testa. Perché tutto questo sembrava scomparire miseramente davanti all’incredibile arroganza con cui parlava e si muoveva, come se fosse perfettamente consapevole di avere l’attenzione di tutti su di sé e ne godesse a pieno, non vedendo anzi l’ora di dare spettacolo con qualche battuta sarcastica e brillante.

Se dovesse arrivare sulla nave e chiedere di me un pirata dall’aria particolarmente arrogante, del tipo che potrebbe scatenare una guerra mondiale con una sola frase… be’, in quel caso comincia pure a snocciolare un rosario.

Beatrix si morse un labbro, mentre un forte sentore di tragedia si insinuava lento e inesorabile nelle sue viscere, preannunciando il disastro.

Oh, cavolo.



Angolo autrice:
Buonasera a tutti! 
Lo soooo, sono in super-stra-mega ritardo! Perdonatemi! Questi sono stati giorni molto difficili per me, ho dovuto affrontare un esame particolarmente tosto all'università che ha assorbito tutta la mia attenzione. Ma adesso è finita, e sono tornata più carica di prima!
Allora, questo capitolo è stato veramente difficilissimo da scrivere. Ha richiesto tutto il mio impegno e la mia forza di volontà, ma sono davvero felice di avercela fatta, alla fine!
L'unico problema è che si è rivelato molto più lungo di quanto avevo previsto... e così per comodità ho deciso di dividerlo in due!
Questa che avete appena letto è la prima parte, e credetemi se vi dico che non avete ancora visto niente! Nel prossimo capitolo non potete nemmeno immaginare quello che accadrà, si scatenerà davvero il finimondo sulla Moby Dick..
Basta, non anticipo altro! Ringrazio di cuore tutti quelli che hanno letto, e ci vediamo tra una settimana!
Baci e abbracci! <3
Tessie

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Amor tussique non celatur





Capitolo 4







Il posto migliore per nascondere
qualsiasi cosa è in bella vista.

- Edgar Allan Poe









Oh, cavolo. Beatrix si morse agitata un’unghia E adesso?

Se dovesse arrivare sulla nave e chiedere di me un pirata dall’aria particolarmente arrogante, del tipo che potrebbe scatenare una guerra mondiale con una sola frase… be’, in quel caso comincia pure a snocciolare un rosario.

L’infermiera, atterrita, non riusciva a smettere di pensare alle parole della senpai. Katherine era sembrata davvero preoccupata davanti all’evenienza che quell’uomo si presentasse sulla nave a chiedere di lei… e adesso che quel pirata era lì, davanti a tutti loro, la preoccupazione della dottoressa sembrava diventare improvvisamente del tutto logica e giustificabile.

Ha l’aria di uno che è completamente fuori di testa, sul serio.

Beatrix si arrovellava. Che genere di rapporto aveva Katherine-senpai con quell’uomo?! Erano amici? Nemici? Alleati…?
Che fossero nemici, Beatrix lo escludeva. Quando gliene aveva parlato, Kate non era sembrata affatto spaventata da quell’uomo. Preoccupata sì, ma spaventata no. Inoltre aveva l’aria di conoscerlo molto bene, al punto da sembrare assolutamente certa che sarebbe venuto sulla nave a cercarla, e poi non sembrava temere una qualche mossa violenta da parte sua… per non parlare della reazione esageratamente imbarazzata che aveva avuto quando Beatrix aveva insinuato che i due fossero legati da una relazione.

Vuoi vedere che…

No, non posso credere che siano amanti! Quest’uomo non potrebbe essere più diverso di così da Ace-sama… perché Katherine-senpai dovrebbe provare interesse per un tipo del genere?

Possibile che fosse cambiata così tanto?! Al punto da scegliere come compagno un uomo che, per quanto attraente potesse essere, trasudava così tanta alterigia?
No, Beatrix non poteva crederci. Doveva esserci per forza un’altra spiegazione… ah, e cambiando argomento, la parte divertente di quella situazione era che quel pirata arrivando aveva esordito nominando sfacciatamente proprio la ragazza ma, somma ironia della sorte, non ci aveva fatto caso nessuno.
Allora, le possibilità erano due: o la fortuna per una volta era finalmente dalla loro parte, oppure il destino, che di solito era veramente cinico e baro, stava dando loro un’illusione di speranza innescando nel frattempo una gigantesca bomba silenziosa che ben presto sarebbe esplosa, scatenando un casino dalle dimensioni ciclopiche.
- Allora? – chiese lo sconosciuto, inarcando un sopracciglio – cos’è, siete sordi? Perché non rispondete e state là a fissarmi come dei beoti?
- E tu chi diavolo saresti?! – sbraitò furibondo Jaws, ignorando le parole del giovane.
- Trafalgar Law, dal mare settentrionale, capitano dei Pirati Heart. Molto piacere. – replicò annoiato Law, come se essere là per lui fosse tutto tranne che un piacere – Non sono venuto per combattere o chissà cosa, non preoccupatevi. Sono solo venuto a riprendermi ciò che è mio, tutto qui. Ditemi lei dov’è, e poi io e i miei uomini toglieremo subito il disturbo.
Ciò che è mio? Beatrix trasalì. Quel tizio non sembrava farsi problemi a prendersi la libertà di accampare dei diritti sulla giovane dottoressa, questo era più che evidente… ma Kate approvava questa cosa? Normalmente Beatrix avrebbe scommesso di no, neppure prima di andarsene di casa la ragazza aveva mai permesso a qualcuno, chiunque fosse, di trattarla come una proprietà… eppure quel tizio sembrava essere molto sicuro di ciò che diceva.
Ovviamente, com’era prevedibile, quel tono indolente combinato alla sua espressione altezzosa fece girare le scatole, se non a tutti, quantomeno alla maggior parte dei presenti, i quali balzarono in piedi tremanti di rabbia, pronti a ridurre in polpette quel damerino belloccio e arrogante che aveva osato presentarsi sulla loro nave senza invito e in un momento per loro così critico, e che per di più si era anche permesso di parlare loro con quel tono così saccente.
I pirati Heart lanciarono un gridolino di terrore, e serrarono terrorizzati i ranghi; solo Law rimase perfettamente calmo, limitandosi ad impugnare la sua nodachi e ad allargare il ghigno, pronto a combattere, con la stessa placidità di chi si lava i denti la mattina.

Sembra un cavolo di G. I. Joe. Pensò sconsolata Beatrix, spremendosi freneticamente le meningi alla disperata ricerca di una soluzione. Maledizione, tra un po’ qua scorrerà del sangue.

- Ehi, ehi! Calma, ragazzi! – si intromise in fretta Haruta, ponendosi tra il chirurgo e i fratelli – non facciamoci prendere dall’agitazione, ok?
- Haruta! – esclamarono allibiti i pirati – Ma cosa fai?! Sei impazzita!?
- No, però questa storia non mi quadra. Voglio capire meglio che sta succedendo.
- Non dire sciocchezze!
- Togliti di mezzo, dannazione!
- Non vorrete ucciderlo senza prima sapere che è venuto a fare qui!
- Che importanza vuoi che abbia in questo momento?!
- Ehi, ne avete ancora per molto? – si intromise seccato Law – sapete com’è, non ho tutta la giornata a disposizione.
Un ringhio oltraggiato attraversò le fila dei pirati di Barbabianca, e alcuni di loro misero mano alle armi.
- BASTA! – tuonò una voce grave e profonda.
Cadde un silenzio atterrito. Perfino Law tacque e smise di sorridere, lo sguardo fisso sull’uomo che aveva appena parlato. Edward Newgate poteva anche essere un vecchio decrepito ormai, ma a quanto pareva il peso dei suoi settantadue anni suonati non sembrava affatto averlo reso meno pericoloso. D’altronde, nonostante tutto, era ancora considerato l’uomo più forte del mondo… non c’era da stupirsi del fatto che sapesse incutere così tanta soggezione.
– Vostra sorella ha ragione. – continuò Barbabianca, sistemandosi meglio sulla panca dov’era seduto, ai piedi dell’albero maestro - Sentiamo cosa vuole questo ragazzo, prima di decidere di fare qualsiasi altra cosa.
A quelle parole si calmarono tutti di botto, e alcuni si rimisero addirittura seduti.
Law osservò l’imperatore con curiosità, impressionato da quanto poco gli fosse bastato per rimettere in riga quei pirati.

Davvero Kate considera quest’uomo suo padre? Pazzesco.

Barbabianca era un uomo davvero enorme, alto all'incirca il triplo di un comune essere umano. Aveva un volto decisamente allungato, con numerose rughe attorno agli occhi, e due caratteristici baffi bianchi a forma di mezzaluna rivolti verso l'alto, gli stessi da cui era nato il soprannome con cui era conosciuto, e che l’aveva reso una leggenda. Era molto muscoloso, il petto nudo era deturpato da numerose cicatrici, sulla testa portava una bandana nera, e sulle spalle una giacca bianca da capitano simile ad un mantello che gli raggiungeva le caviglie. Il dettaglio più curioso però era il fatto che fosse attaccato a dei tubicini per aiutarlo a respirare, collegati ad alcune apparecchiature mediche di ultima generazione.
Law sogghignò: l’impronta della professionalità e della accortezza del vice capitano dei pirati Heart era chiaramente riconoscibile, anche a distanza di anni.

Allora è proprio vero. Pensò Law vagamente sorpreso. È una figlia adottiva di Barbabianca.

Non che Law non ci avesse creduto quando Kate glielo aveva detto all’inizio, ma… insomma, quando l’aveva conosciuta Kate non sapeva combattere! Com’era possibile che una figlia di Barbabianca non fosse nemmeno capace di difendersi?!

Questa storia non mi torna.

- Dunque, ragazzo… - disse Barbabianca, studiando Law con sguardo penetrante - … cosa sei venuto a fare sulla mia nave? Cosa sei venuto a cercare?
Law strinse gli occhi, e parlò senza mezzi termini – Sono venuto a cercare la mia vice. So che è qui, è inutile che cercate di coprirla.
Per un momento tutti lo fissarono senza capire, incapaci di spiccicare parola. Beatrix dal canto suo percepì la propria mandibola cadere rovinosamente, e il colorito che un po’ alla volta aveva cominciato a riprendere svanire all’istante, come se la donna si fosse improvvisamente trasformata nella propria copia in bianco e nero.

La sua vice?! Katherine-senpai fa parte della ciurma di quest’uomo?! Non posso crederci, è assurdo!

Oddio, oddio, oddio…

Dopo diversi secondi fu Haruta a farsi avanti per prima, mentre lo guardava scettica.
- Di chi stai parlando, scusa? Qui ci siamo solo noi della ciurma di Barbabianca… nessun estraneo è salito sulla nave.
Law sorrise sibillino - E chi ha detto che si tratta di un estraneo, per voi?
Nel vedere le loro espressioni confuse, il ghigno di Law si allargò. È vero, all’inizio aveva pensato di limitarsi a recuperare semplicemente il demonio in gonnella, volente o nolente che fosse, e allontanarsi con meno chiasso possibile… ma poi nel vedere le facce addolorate e sconvolte di tutti quei pirati, e ripensando a come Kate gli avesse disubbidito deliberatamente, il sadismo che c’era in lui si era risvegliato, più assetato di sangue che mai.
Gli era bastato studiarli per qualche momento per intuire che quella marmaglia di idioti con i neuroni bruciati non aveva capito assolutamente niente di ciò che stava accadendo davvero sulla loro stessa nave, e soprattutto chi si stava facendo davvero in quattro per curare il loro compagno. Quella situazione l’aveva intrigato enormemente sin da subito, e senza neanche sapere perché aveva deciso di infierire su di loro, e di mettere Kate in difficoltà, in una sorta di strana e contorta vendetta. Vendetta verso di lei perché gli aveva disubbidito, pur sapendo quanto questo lo avrebbe ferito. Vendetta verso di loro… be’, semplicemente perché erano loro, e lui non era disposto a dividere Katherine con nessuno, men che meno con quei banda di imbecilli che lei chiamava famiglia.

Lei è solo mia.

- So tutto riguardo alle condizioni del vostro compagno – ricominciò con calma Law – ditemi, per caso nelle ultime ore è arrivato un medico su questa nave, che si è offerto di provare a salvargli la vita a dispetto delle sue disperate condizioni?
Un mormorio sconcertato percorse le fila dei pirati di Edward Newgate.
- Tu come fai ad essere a conoscenza di ciò che è accaduto a nostro fratello? – chiese scioccata Haruta – e come fai a sapere che è arrivato un medico sulla nave per cercare di curarlo?
- Pensa tu, me l’ha detto giusto ieri sera la mia vice! – rivelò Law con un ghigno – che poi è anche il medico che è venuto qui per aiutare il vostro amico, ribellandosi ai miei desideri. Avete capito, ora? Forza, mandatela a chiamare, così ce ne andiamo da qui senza dare altro fastidio. Non voglio certo stare qui ad annoiarvi con questioni personali che non vi riguardano. – concluse, calcando con forza sulle ultime parole.
Cadde il silenzio. Tutti i pirati di Barbabianca tranne Haruta e Barbabianca stesso cominciarono a scambiarsi occhiate confuse, neanche fosse stato chiesto loro di decifrare un enigma nascosto in un Triangolo di Pascal. Law nel frattempo si stava leccando le labbra, pregustandosi il putiferio che si sarebbe scatenato di lì a poco, non appena i pirati avrebbero messo insieme i pezzi.

Oh, nooooooo… gemette Beatrix nella propria testa. Ha detto che è una ragazza, che per loro non è un’estranea, e poi loro non hanno mai visto il medico che sta curando Thatch… adesso capiranno di sicuro di chi sta parlando!

- Eh? Ma non è possibile! – esclamò infine Izou dopo un po’, contrariato – Non può andarsene, ci serve! Deve restare per aiutare nostro fratello!

Ba dum tsss.

Non ci credo! Non hanno capito niente! Pensò allibita l’infermiera.

A quelle parole Law sgranò gli occhi, incapace di nascondere lo sconcerto che provava davanti a tanta ottusità, e nemmeno Beatrix poté trattenersi; si schiaffeggiò la mano con la fronte, incredula davanti a tanta idiozia. Ok, era senza dubbio una cosa positiva il fatto che non avessero capito niente, ma…insomma, possibile che quei ragazzi fossero davvero così tonti?!

No comment.

Purtroppo però quel bizzarro momento di stallo saturo di un misto di sollievo e sconforto non durò molto, perché ben presto negli occhi Haruta e Marco si accese una scintilla di consapevolezza.
- Ehi, un momento! – fece Haruta sospettosa – Hai detto “la mia vice”? Quindi stiamo parlando di una donna?
Law sembrò rianimarsi, e ghignò di nuovo – Infatti, è proprio così.
Beatrix tremò.
- Ma non è possibile! Beatrix ci aveva detto che era un uomo! Non è così, Bea-san?
Sentendosi chiamare in causa l’infermiera sobbalzò – S-sì, infatti.
Haruta alzò un sopracciglio – Allora c’è qualcosa che non quadra. Trafalgar, sei proprio sicuro che la tua amica si trovi proprio su questa nave?
Law però non le prestò attenzione: era troppo impegnato a fissare Beatrix. Gli occhi glaciali e intelligenti del giovane la stavano studiando con minaccioso interesse, analizzando con scrupolosità chirurgica ogni sua singola mossa, sondandole gli occhi con un’attenzione quasi aggressiva, alla metodica ricerca di ogni minimo segno, di ogni minimo cambiamento, di ogni singola emozione.

Come un cacciatore che studia la sua preda.

Sotto quello sguardo così freddo e penetrante, Beatrix non poté fare a meno di indietreggiare. Si sentiva nuda, esposta, fragile, come se quel tizio le stesse leggendo dentro, riportando alla luce con fin troppa facilità tutte le sue paure, le sue debolezze e i suoi desideri…
Si sentì bloccata, in trappola. Come riusciva Katherine-senpai a sopportare la costante e pressante presenza di quegli occhi su di sé senza sentirsene terrorizzata? Quella sensazione era così agghiacciante, incalzante…
E familiare. La risposta alla propria domanda la investì come un treno.

Loro sono uguali. Sono fatti della stessa pasta.

Be’, se non altro almeno questo spiegava alcune cose. Ma Beatrix non poteva ancora credere che Katherine e quel tipo avessero una relazione.
Andiamo, era impossibile! Kate non avrebbe mai accettato di diventare la donna di un uomo tanto borioso e arrogante! Di certo lei non avrebbe mai voluto…
- Dunque, Bea-san… - esordì una voce strafottente, e Bea fu costretta ad interrompere le proprie congetture per rendersi conto con sommo orrore che Trafalgar si stava rivolgendo proprio a lei – a quanto pare ci siamo imbattuti in un piccolo intoppo. Tu dici che il medico che sta curando il vostro compagno è un uomo, io invece sono sicuro che ci sia la mia vice in quella stanza a lavorare, armata di bisturi, pinzette, e di qualcosa che profuma molto, se capisci cosa voglio dire...
Bea sussultò a quelle parole, e Marco alzò un sopracciglio – Qualcosa che profuma molto?
- … di conseguenza, le ipotesi sono due. – continuò Law, ignorando la domanda della Fenice – O la mia compagna ha improvvisamente deciso di cambiare sesso – cosa che tutto sommato non mi stupirebbe troppo, a voler essere onesti – oppure, cosa molto più probabile, tu stai sfacciatamente mentendo, allegramente in combutta con quella piccola intrigante alle spalle non solo mie, ma di tutti i presenti. – concluse con calma il chirurgo, sorridendole con falsa affabilità – Dunque ora permettimi di chiederti: come stanno davvero le cose, puoi dircelo?
Ora la stavano fissando tutti: non solo Law, ma anche i pirati di Barbabianca, Haruta, Marco, gli altri comandanti, i pirati Heart… perfino lo stesso Barbabianca la stava osservando dubbioso, come se stesse cominciando anche lui a sospettare che su quella nave ci fosse davvero in corso una truffa ai suoi danni.

Ma tu guarda in che razza di guaio mi ha cacciata quella peste…

Ok, calma. Doveva ragionare, e in fretta. Kate prima, approfittando di un momento di distrazione delle altre, le aveva accennato al fatto di avere un piano per evitare di farsi scoprire da quel famoso pirata da cui si stava nascondendo… tuttavia prima che potesse spiegarle i dettagli le altre le avevano raggiunte, ed erano state costrette a rimandare la discussione.
Beatrix non aveva minimamente considerato l’eventualità che quel pirata potesse arrivare prima che Kate riuscisse ad istruirla su cosa fare! Certo, era pur vero che Katherine era travestita da uomo in quel momento, ma con quell’espediente avrebbe potuto ingannare un osservatore casuale, di certo non qualcuno che avrebbe specificatamente cercato delle movenze femminili nascoste sotto quegli abiti! Ormai il sospetto era stato instillato nelle menti dei pirati di Barbabianca, e Law conosceva già di suo la verità… se Beatrix avesse continuato a tenere in piedi quella bugia, e Katherine-senpai si fosse mostrata con il suo attuale aspetto, non sarebbero mai riuscite a convincere tutti a credere alle loro menzogne, questo era sicuro.
Maledizione, e adesso che doveva fare?!
- Ti sbagli. Io non ho affatto mentito! – dichiarò Beatrix, tentando di prendere tempo – Sei tu che di sicuro ti sbagli!
- Oh, ma davvero? -  rise beffardo Law – quindi tu pensi che sia io quello in errore! Molto bene, allora! In questo caso toglierò subito il disturbo!
- EH? – fecero i pirati Heart, voltandosi di scatto a fissarlo – Capitano!
- Non avete sentito la signora? Ci siamo sbagliati! Su, andiamo! – ripetè Law sghignazzando, cominciando a camminare verso la passerella. Tutti lo fissarono allucinati, senza trovare nulla da dire. I pirati Heart non si mossero, troppo allibiti per fare qualunque cosa.
Beatrix invece serrò la mandibola, fissandolo con aria torva, sentendosi bruciare di risentimento. Si stava prendendo gioco di lei, era evidente. Non le aveva affatto creduto – cosa in effetti comprensibile -, e adesso si stava pure facendo beffe di lei!

Ma come osa questo bellimbusto?!

- Però è davvero strano, non trovate? – chiese Law con falso tono perplesso, voltandosi di nuovo verso di loro – Un vostro amico è in fin di vita e molto opportunamente un medico arriva qui giusto in tempo per curarlo, salendo sulla nave di soppiatto e senza mostrarsi, senza dire il proprio nome e senza spiegare le proprie ragioni, limitandosi a fare l’impossibile per salvare la vita di un perfetto estraneo… – Law alzò un sopracciglio – …e voi accettate questa situazione senza neanche indagare, o cercare di capirci qualcosa di più?
Quelle parole dette con così tanta noncuranza sembrarono avere un effetto devastante sui pirati di Barbabianca; si scambiarono tra loro occhiate confuse e sospettose, chiaramente colti in fallo da quell’osservazione così malevola e fottutamente intelligente.

Sul serio basta così poco per mandarli in crisi?! Pensò irritata Beatrix. La famigerata ciurma di Barbabianca plagiata e
soggiogata dalle semplici parole di un bellimbusto infido come quello?!


- Personalmente io avrei una teoria riguardo all’identità del vostro salvatore… - continuò Law, divertito dal fatto che stessero pendendo tutti dalle sue labbra - … ma visto che stavo andando via vi lascio il gusto di trovarvi la risposta da soli.
- Un momento! – tuonò Barbabianca. Law si fermò all’istante, e sul suo volto comparve un ghigno che definire compiaciuto sarebbe stato l’eufemismo del secolo.
- Dimmi una cosa, ragazzo… - cominciò Barbabianca, squadrandolo con evidente antipatia - … tu sei sempre così pieno di te e insolente?
Law allargò il ghigno – no, di solito lo sono solo dalle sette alle dieci nel mattino. A volte fino alle undici, ma solo nei giorni festivi.
Le labbra dell’imperatore si piegarono in un sorriso – Molto divertente, figliolo. – commentò il vecchio, lisciandosi i baffi – In un altro momento avrei anche potuto trovarti simpatico, sai? Intraprendenza e audacia sono qualità che apprezzo molto in un individuo. Inoltre… - continuò, lasciando in sospeso la frase per un momento - …mi ricordi tanto una persona che una volta conoscevo molto bene.
Law sogghignò, e Bea incassò la testa in mezzo alle spalle, strizzando forte gli occhi per non guardare.

Quattro secondi all’esplosione! Tre secondi, due, uno…

- Ah, davvero? Mi trovi simile a Kate? Non sei il primo che me lo fa notare, sai? – rispose Law con un sorriso trionfante - Immagino che detto da te sia un gran bel complimento, a meno che tu non stia insinuando che ci assomigliamo fisicamente…

BOOM!

Beatrix nascose il viso tra le mani, pregando con tutte le proprie forse che una voragine le si aprisse sotto i piedi per inghiottirla e farla finire all’istante al centro della Terra – anche se si sarebbe accontentata anche di un tirannosauro apparso all’improvviso per divorarla - . Tutti gli altri, perfino Barbabianca e le infermiere, fissarono Law con occhi spiritati, il volto cereo e le labbra socchiuse per lo shock.
- Oh, andiamo! – esclamò Law beffardo – Credevate sul serio che una simile coincidenza fosse possibile?! Quale medico sarebbe mai così folle da voler tentare un intervento così difficile e rischioso? Chi si sobbarcherebbe mai una responsabilità del genere?! Chi altri avrebbe l’abilità e le competenze necessarie per poter anche solo sperare di riuscire a salvare il vostro amico dalla morte, e la determinazione e la motivazione sufficienti per provarci? Mi viene in mente una sola persona… - continuò Law - …bassa, piuttosto graziosa, dai grandi occhi verdi…
- Fammi capire… - lo interruppe Marco con un ringhio – …tu ti presenti sulla nostra nave, pur sapendo in che momento delicato ci troviamo, ti comporti con un’arroganza intollerabile, pretendi di riavere indietro quella che chiami “la tua vice”, accusi una nostra amica di falsità, ti prendi gioco di noi, e adesso vorresti anche farci credere che nostra sorella Katherine, di cui non abbiamo nessuna notizia da anni, non solo è al servizio di un pivello bellimbusto come te, ma che proprio in questo momento si trova su questa nave e sta operando nostro fratello di nascosto a tutti noi con la complicità di Beatrix?! – concluse la Fenice urlando – Tu sei completamente fuori di testa!
- Sì, mi hanno già detto anche questo. – si limitò a replicare Law senza scomporsi – Kate in effetti me lo ripete in continuazione.
- È assurdo! Kate è scappata di casa tre anni fa, e da allora, per quanto l’abbiamo cercata, non ne abbiamo più avuto notizie! – protestò Vista – come avrebbe potuto sapere di Thacht?
- È scappata di casa? Sul serio? – chiese Law perplesso.

Credevo si fosse ritirata, non che fosse scappata! Che cos’è questa storia?!

- E poi, anche se fosse, che motivo avrebbe di nascondersi…?!
- Basta! – tuonò di nuovo Barbabianca, e tutti tacquero all’istante. Il vecchio imperatore si alzò lentamente in piedi e cominciò a camminare a grandi passi verso Law. Il chirurgo non si mosse e non mutò espressione, attese semplicemente che l’anziano pirata lo raggiungesse.
- Quindi, se non ho capito male… - iniziò Barbabianca con voce sorprendentemente controllata - … tu sei convinto che Bea-san in realtà abbia mentito a me, a te e a tutti gli altri, e che in realtà ci sia mia figlia in infermeria a tentare di salvare mio figlio.
- Esatto.
- E che lei ora è un membro della tua ciurma, il vice capitano per essere più precisi.
- Infatti.
- E che sei venuta a riprenderla, poiché le avevi proibito di venire qui, ma lei ti ha disubbidito.
- Proprio così. Riassunto eccellente, vecchio. Ora posso riavere indietro la mia amica, per favore?
- Non così in fretta, giovanotto. – lo freddò Barbabianca – non ho detto che ti credo.
- Oh, andiamo, sul serio?! Ok, se non credi a me perché non vai in infermeria a controllare tu stesso?! Così ci leviamo il dubbio una volta per tutte!
Barbabianca incrociò le braccia al petto, e sembrò sul serio ponderare la possibilità di ascoltarlo. Beatrix, in preda al panico, disse la prima cosa che le venne in mente.
- Capitano, non può assolutamente farlo! È in corso un intervento delicatissimo, non può per nessun motivo entrare lì dentro! Rischierebbe di compromettere l’esito dell’operazione!
Barbabianca la fissò severamente – Beatrix! Stai forse cercando di coprire qualcuno, per caso?!
- A-assolutamente no, capitano…
- Allora dimmi la verità! Dimmi chi è che sta operando davvero mio figlio!
Beatrix aveva cominciato a tremare, dolorosamente consapevole di avere gli sguardi di tutti puntati su di sé. Era finita, stavolta era finita sul serio. Stavano per essere scoperte, l’inganno non avrebbe retto. Doveva arrendersi e confessare, era l’unico modo per limitare i danni.
Beatrix aprì la bocca per parlare… ma fu interrotta da un forte tonfo, chiaramente proveniente da una porta che sbatteva, aperta con una certa stizza.
- Ma insomma! – sbraitò irritata una profonda voce maschile – si può sapere cos’è tutto questo baccano?! Sapete, io qui starei cercando di lavorare! Il mio paziente non si curerà da solo, non credete?!
Un silenzio agghiacciante cadde sul ponte. Tutti, molto lentamente, si voltarono a guardare lo sconosciuto che aveva appena parlato. C’era molta poca convinzione nei loro movimenti, come se non volessero sapere davvero…
Ad attenderli trovarono un uomo anziano, dai lineamenti spigolosi e dal portamento fiero. Non era molto alto, ma era ancora ben piantato per l’età che aveva, e li stava fissando con aria così truce che tutti, ma proprio tutti, si sentirono colti in fallo, come i bambini beccati con le mani nel barattolo delle caramelle. Il volto severo, reso ancora più austero dalla barba brizzolata che lo copriva, dimostrava più di cinquant’anni, ma gli occhi castani che ne completavano il quadro baluginavano ancora con un’intensità disarmante, che solo pochi fra i giovani possiedono.
Law lo stava fissando come se fosse stato un serpente velenoso, e gli ci vollero diversi secondi prima di riuscire a parlare – E l-lei chi è?
- Dr. Kenmei Memphis, al vostro servizio! – rispose energico l’uomo mentre si toglieva i guanti macchiati di sangue – allora, posso sapere per quale motivo state facendo tutto questo chiasso?!


In infermeria intanto una giovane e astuta dottoressa di nostra conoscenza stava sbirciando la scena dal buco della serratura, e stava ridendo così forte e sguaiatamente che le infermiere che erano con lei non riuscivano a fare a meno di scambiarsi occhiate sconcertate fra loro, chiedendosi se quello strano medico non fosse impazzito all’improvviso – ovviamente era già pazzo, ma era anche possibile che fosse diventato più pazzo -, e se non fosse il caso di interrompere ciò che stavano facendo e andare a cercare una camicia di forza.
Avete presente la risata folle di Bruce Campbell quando recita nel film “Evil Dead II”? Ecco, era proprio così che stava ridendo Katherine.
In una parola? Terrorizzante.

Padre, siete un mito! Stava gongolando la giovane nella propria testa. Oh, la faccia che ha fatto Law quando vi ha visto…impagabile, semplicemente impagabile! Vi prego, qualcuno gli faccia una foto!

E dire che si trattava di un inganno così dozzinale, così poco subdolo … mai Kate avrebbe potuto immaginare che Law potesse cascarci così clamorosamente! E invece era successo davvero, perché, guarda caso, quello spocchioso imbecille del suo capitano come al solito era troppo sicuro di sé, così tanto da non riuscire neanche a vedere oltre il proprio naso.

Basta, sono ufficialmente un genio. E Law è un cretino.

- Uhm, dottore… - chiamò qualcuno. Kate smise di botto di ridere, e si voltò a fissare l’infermiera dietro di lei con in volto stampata l’espressione più scocciata del suo repertorio.
- Ehm… - tentennò Isabelle, a disagio sotto il suo sguardo - … forse dovrebbe rimettersi al lavoro, non crede?

NO! Mannaggia, mi perderò tutto il divertimento!

- Va bene, arrivo… - sospirò rassegnata la ragazza. Fattene una ragione cara, prima il dovere e poi il piacere! – Però, Isabelle… potrebbe lasciare la porta socchiusa? Almeno così potrò sentire…
La ragazza strinse gli occhi con aria di disapprovazione, e Kate sfoderò il suo più bel sorriso da cherubino, con tanto di occhioni dolci e cori angelici di sottofondo.
Isabelle sospirò esasperata e disse – E va bene…
- Grazie! – esultò la piratessa; poi si riavvicinò al letto e portò le mani sopra le ferite del fratello, pronta a ricominciare, alimentata da una nuova energia. Il padre aveva terminato di estrarre le schegge metalliche solo qualche minuto prima, e adesso non restava altro da fare che richiudere tutte le ferite e far sparire le ustioni. Ormai era quasi finita!
- Boost.
I palmi della giovane si illuminarono di una soffusa luce rosa, e le ferite ricominciarono a rimarginarsi emanando dei sottili rivoli di fumo. Kate sorrise, estremamente soddisfatta di sé e della situazione.

Niente mi migliora di più l’umore di umiliare Law!


- Allora? – ripeté Memphis inarcando un sopracciglio con aria di sufficienza – pensate di degnarmi di una risposta entro oggi, sì o no?
Lo stavano fissando tutti, ma Memphis non sembrava esserne turbato; al contrario, restituiva le occhiate sorprese – dei pirati di Barbabianca - e orripilate – dei pirati Heart – che gli venivano lanciate con un’impassibilità che avrebbe suscitato l’invidia di una statua. Ci scommetterei, se in quel momento gli uomini avessero prestato attenzione alla polena della nave, avrebbero notato, proprio in mezzo alla fronte della balena – ammesso che le balene abbiano effettivamente una fronte -, una minuscola ruga di irritazione. Come quella che ti viene quando qualcuno per strada ti pesta un piede, avete presente?
Vabbè, sto divagando. Torniamo a noi, che è meglio.
Dicevo, lo stavano fissando tutti. Ma uno solo di loro stava sudando freddo guardandolo, sbattendo forsennatamente le palpebre nella vana speranza che quell’uomo potesse sparire, ed essere rimpiazzato da una certa signorina di sua conoscenza.
- Chi diavolo è lei?! – chiese di nuovo Law, perdendo per la prima volta la calma da quando era salito sulla Moby Dick.
Memphis lo fissò come se lo ritenesse un ritardato – Ho detto che mi chiamo...
- L’ho capito come si chiama! Ma voglio sapere chi è! Che cosa ci fa qui?! E dov’è Katherine?!
- Dov’è chi? – fece Memphis confuso – Ma di cosa parli, ragazzo? Io sono venuto qui solo per curare un ferito, non so di cosa tu stia…
Law non lo ascoltava più, si era preso la testa tra le mani, e stringeva i denti così forte da sentire male alla mandibola.

Non è possibile. Mi sono sbagliato.

Possibile che si fosse sbagliato sul serio?! Possibile che Kate non fosse davvero su quella nave?
Eppure le apparenze parlavano chiaro, su quella nave lei non c’era.
No, impossibile. Lei doveva essere là! E dove avrebbe potuto essere, altrimenti?! La sera prima sembrava pronta ad andare anche all’inferno pur di andare dal fratello…
Doveva restare calmo. Di sicuro c’era una spiegazione.
- Non hai mica visto una ragazza in quell’infermeria? – chiese Law, riacquistando il suo tono monocorde.
Memphis alzò un sopracciglio – Be’ certo, là dentro è pieno di ragazze. Se non ho capito male sono tutte infermiere di Barbabianca…
- Non parlo di un’infermiera! Parlo di una dottoressa…
- Ah! Allora mi dispiace, ma non ho visto nessuna dottoressa. Di medici là dentro ci siamo solo io e mio figlio… ma nessuna dottoressa.

Io e mio figlio? Pensò confusa Beatrix. Ma cosa…? Ma certo, adesso è tutto chiaro!

Quella subdola ragazzina… allora era questo che aveva in mente fare sin dall’inizio!
Una forte sensazione di deja vù invase l’infermiera, che chiuse gli occhi e permise al ricordo di invadere la sua mente.


Beatrix sbuffò indispettita, e puntò gli occhi dritti in faccia a quella mocciosetta che le stava sorridendo con intollerabile impertinenza sforzandosi di metterla a fuoco, indecisa se prenderla a sculacciate oppure no.
Quella piccola peste… ma che pretesto avrebbe potuto accampare per picchiarla?! Quella ragazzina poteva anche avere a malapena dodici anni, ma era pur sempre il suo capo… senza contare che, materialmente parlando, non aveva sul serio alcuna scusa per poterle dare la lezione che si sarebbe meritata.
In fondo che colpa aveva quella bambina? Mica era colpa sua se a dodici anni era così astuta da riuscire a menare per il naso senza problemi una donna di vent’anni…
- Lo trovi molto divertente, vero? – sospirò infine Beatrix, puntando il dito in faccia alla mocciosa malefica.
La ragazzina allargò il sorriso – in effetti sì. Mi diverto un sacco a farti gli scherzi, mi piace il broncio che metti su ogni volta.
L’infermiera contò fino a dieci prima di parlare di nuovo – d’accordo, allora. Facciamo a modo tuo, vuoi? – chiese l’infermiera mentre si lasciava cadere su una poltrona, arrivando con gli occhi allo stesso livello di quelli della bambina – avevo lasciato i miei occhiali sulla scrivania tre ore fa, e quando dieci minuti dopo sono tornata in cabina per recuperare il mio camice non li ho più trovati. All’inizio credevo di averli persi e ho cercato ovunque, nella mia cabina, in infermeria, sul ponte, in cambusa… ovunque! – esclamò frustrata – ma non li ho trovati, il che significa solo una cosa: li hai fatti sparire tu. Quindi potresti, per favore, dirmi in quale buco nascosto di questa maledetta nave li hai nascosti, prima che io cominci a collezionare bernoccoli sulla fronte a furia di sbattere contro porte e alberi?!
Kate sogghignò malignamente – perciò ti arrendi? Ammetti che ti ho battuta?
Beatrix si morse un labbro per evitare di prendere a morsi lei. Quella sottospecie di demonietto con la faccia da angelo…
- Sì, lo ammetto: sei più in gamba di me, ragazzina. Ora mi puoi ridare i miei stramaledetti occhiali!?
Kate sorrise trionfante – ma certo! – rispose raggiante; poi fece un passo avanti e, sotto lo sguardo attonito dell’infermiera, ficcò una mano nella tasca del camice della più grande, e tirò fuori i tanto sospirati occhiali.
- Ma come…? – farfugliò Bea – erano… sono sempre stati qui?! Nella mia tasca?!
- Proprio così, Bea-san.
- Ma… ma…
La bambina le sorrise birichina – Bea-san, hai mai letto Edgar Allan Poe?
L’infermiera non rispose subito – era troppo impegnata a boccheggiare -, ma alla fine riuscì a scuotere la testa.
- Dovresti! Sai cosa diceva in una delle sue storie? – chiese la ragazzina. L’infermiera scosse di nuovo la testa, e Kate disse – diceva così: il posto migliore per nascondere qualsiasi cosa è in bella vista. Ricordatelo, Bea-san! – rise la bambina, avviandosi trotterellando verso la porta – non si sa mai, potrebbe tornarti utile un giorno!
La porta si aprì e si chiuse con un tonfo, e Bea si accasciò sulla sedia, sentendosi invasa da un turbinio di emozioni contrastanti che non sto neanche a descrivervi, di cui però era però lo sbigottimento a prevalere.

Ma quale cavolo di mocciosa legge Edgar Allan Poe a dodici anni?!


Il posto migliore per nascondere qualsiasi cosa è in bella vista.

Ora tutto era chiaro. Law era venuto a cercare lei, ma lei lo aveva prevenuto mandando avanti il padre, spiazzandolo e facendo credere a tutti che era lui e lui soltanto che stava curando Thatch, e non che lo stessero facendo insieme. Niente azioni rocambolesche, semplicemente si era limitata ad essere discreta e silenziosa, rintanata dietro l’ombra del padre biologico, nascosta in bella vista… e la notevole interpretazione di Memphis-sama aveva fatto il resto, ingannando così più di milleseicento persone tutte nello stesso momento.
Lo stratagemma della ragazza era così banale, eppure al tempo stesso così geniale… del tipo che ti fa mordere le mani per l’irritazione, quando capisci dov’è il trucco.

Almeno in questo non è cambiata per niente.

Beatrix scosse leggermente la testa, imponendosi di non mostrare quella nuova consapevolezza. Il piano di Katherine era sicuramente ingegnoso, ma era anche molto rischioso: sarebbe bastato un solo cedimento, una sola sottile piccola crepa, e tutto sarebbe crollato come un castello di carte.
Dovevano fare molta attenzione.
L’infermiera riportò all’istante l’attenzione su Law, e dovette sforzarsi di non lanciare un’esclamazione sorpresa.
Il pirata sembrava quasi un altro uomo: si teneva la testa tra le mani, lo sguardo fisso a terra e i polsi che tremavano.
L’arroganza sfacciata e la freddezza assoluta che lo avevano accompagnato sin dal primo momento non c’erano più: erano state rimpiazzate da un terrore distruttivo, devastante… umano.
E non era l’unico. Anche i suoi compagni sembravano altrettanto angosciati.

Sei stata crudele, Kate. Non sei cambiata nemmeno in questo.

- Sentite, io me ne torno dentro. Là non ho ancora finito – annunciò Memphis.
Nessuno badò a lui. Erano tutti fuori di sé, talmente tanto che in quel momento avrebbero potuto essere investiti da un motoscafo, cosparsi di panna montata, lanciati in orbita da un cannone, essere utilizzati come cavie per degli esperimenti di make-up, e non si sarebbero comunque accorti di nulla.
- Oddio… - mormorò Bepo. - … ma se Kate non è qui… allora dov’è?!
Quella domanda fu come il fuoco su una miccia: tutti i pirati Heart, in preda al panico, cominciarono a lanciare grida piene di ansia e concitazione, agitandosi come fanno le formiche quando togli il sasso dal formicaio.
- Dove si sarà cacciata?!
- Deve esserle successo lungo la strada!
- L’avranno attaccata? O forse ha avuto un incidente!
- Devono essere stati i Marines, quei maledetti!
- Oppure potrebbe essere annegata…lei non sa nuotare!
- Oh, mio dio…
- Basta! – urlò Law con voce tremante, ponendosi sopra tutte le altre voci – è inutile fare ipotesi, adesso! Dobbiamo andare a cercarla! Subito!
Detto questo, Law si lanciò verso la balaustra, e tutti gli altri scattarono, affrettandosi a seguirlo.
- Ehi, aspetta! – lo richiamò Barbabianca.
Law si paralizzò, una mano già sul parapetto, e si voltò di scatto a guardare l’imperatore, trafiggendolo con lo sguardo – cosa vuoi, vecchio!? Non ho tempo da perdere…
- Tu sei innamorato di mia figlia, non è vero?
La reazione del ragazzo fu davvero soddisfacente. Law spalancò gli occhi sorpreso, con le labbra dischiuse per lo sbigottimento, e lo sguardo pieno di shock; sembrava una farfalla inchiodata a tradimento ad una bacheca.
Ma durò pochissimo; dopo un istante qualcosa nei suoi occhi sembrò scattare come un interruttore, e il ragazzo si affrettò a ricomporsi, richiudendosi come una scatola e recuperando la sua naturale smorfia di gelida indifferenza.
- Non dire sciocchezze, vecchio – rispose freddamente Law – a malapena la sopporto, quella maledetta peste… non potrei mai amarla.
- Ah davvero? Eppure fino ad un attimo fa sembravi molto preoccupato…
- Non era preoccupazione, era disappunto! Quella piccola strega non fa altro che causarmi problemi…
- Eppure sei venuto fino a qui, sulla mia nave, pur di recuperarla… pur sapendo che non correva alcun rischio finché stava qui. – gli fece notare Barbabianca con un sorriso sardonico – Potrei quasi pensare che tieni a lei a tal punto da non volertene separare per alcun motivo, nemmeno per poco…
- È un membro della mia ciurma. Non può fare sempre di testa sua, deve obbedirmi. Sono venuto a cercarla per ricordarglielo, e per avere la possibilità di darle la strigliata che si merita, così vedremo se lo dimenticherà ancora. – replicò atono il chirurgo.
- Sarà… ma io non ne sono affatto convinto.
- Oh andiamo! Chi potrebbe mai amare quella ragazzina?! È una donna intollerabilmente sfacciata, irriverente, impulsiva, disobbediente, permalosa, capricciosa, arrogante…
- Scusa, ma se davvero la trovi così insopportabile, perché diavolo l’hai arruolata nel tuo equipaggio? – lo interruppe leggermente risentito Newgate.
- Ma che domande fai?! – sbraitò Law, per poi calmarsi immediatamente – perché è brillante… è ironica… è un medico di prim’ordine…
- Perciò sei davvero infatuato di lei!
- Non è così. – dichiarò convinto Law – la rispetto molto, e la considero una buona amica, ma è tutto qui. Non c’è niente tra noi...
- Non ho mai insinuato che aveste una tresca… - sorrise Barbabianca divertito- solo che tu vorresti averla.
- Be’, non è vero. - tagliò corto Law – Mi stai facendo perdere tempo, lasciami andare.
- Lo sai, per uno che dice di non essere coinvolto sembri un po’ troppo in ansia…
- Te l’ho detto, voglio solo avere la possibilità di darle la lezione che si merita. Nessun mio sottoposto può disobbedirmi in questo modo, e di certo quella ragazzina non avrà un trattamento di favore solo perché è lei.
Sembrava pensare davvero ciò che diceva… eppure Barbabianca non sembrava affatto convinto. Il vecchio aprì la bocca per replicare, ma non fece in tempo, perché fu interrotto da un urlo furibondo che attraversò l’aria come un fulmine:
 - Maledetto figlio di puttana! Dove sei?! Fatti vedere!
- E adesso cosa diavolo…? – sbuffò Law esasperato.
Non terminò la frase. Sul ponte della Moby Dick era appena saltato un uomo alto piuttosto alterato, scarmigliato, e bagnato, come se fosse arrivato sulla nave a nuoto. Aveva capelli bianchi, due corna nere in testa, occhiali con le lenti blu, un mantello di pelliccia, ma soprattutto una cintura in vita che sulla fibbia aveva inciso un jolly roger che su quella nave tutti conoscevano bene, e che incuteva terrore tanto quanto quello che sventolava sull’albero maestro della nave.
Law assottigliò lo sguardo, rivelando così la propria inquietudine.

Grandioso. Pensò seccato il chirurgo mentre studiava l’alquanto incazzato uomo di Kaido. Altre complicazioni. Decisamente una giornata del cavolo, questa.


- Che sei venuto a cercare, Sheepshaed? – chiese Barbabianca con voce tagliente – hai decisamente scelto il momento sbagliato per venire ad infastidirmi.
Law sospirò. L’entrata in scena del pirata era stata piuttosto plateale, ma Barbabianca non sembrava esserne rimasto affatto impressionato, anzi. Chissà con quanta gente molto più folle doveva aver avuto a che fare quel pirata nella sua lunga vita…
Però tutti gli altri era rimasti impressionati eccome; perfino le infermiere erano uscite dall’infermeria, e si erano radunate tutte appena dietro a Beatrix, sbirciando spaventate e incuriosite da dietro le sue spalle.
- Da te non voglio niente, vecchio. – tagliò corto il pirata – sono venuto solo a cercare quel bastardo che ha demolito la mia nave, e a dargli la lezione che si merita. So che si trova qui, è inutile che cerchi di nasconderlo.
Sulla nave cadde un pesante silenzio. I pirati di Edward Newgate e i pirati Heart sussultarono all’unisono, e Barbabianca serrò la mandibola, fissando il Gifter con aria minacciosa.
Perfino Law trasalì sorpreso. Possibile che fosse stata…?

…Kate. Di sicuro questa è opera sua, solo lei avrebbe la faccia tosta di combinare un guaio simile in una situazione del genere! Ma dove sarà adesso…?

- Non so di cosa tu stia parlando, Sheepshaed, ma posso assicurarti che non torcerai un capello a nessuno finché sarai su questa nave.
- Ah, non lo sai?! – mugghiò incollerito il pirata, ignorando la velata minaccia dell’imperatore – le mie spie parlano chiaro, Newgate. Quel figlio di puttana è salito su questa nave diverse ore fa, e da allora non ne è più sceso. Perciò deve trovarsi ancora qui! Ti ordino di consegnarmelo!

Kate sulla nave?! Ma non è possibile! Non c’era lei dentro quella sala…

Oh. OH.

Law si sarebbe preso volentieri a calci da solo, in quel momento. Quella ragazza intrigante, quel demonio in gonnella, quella schizzata lunatica, quella piccola strega… lo aveva fregato! Lo aveva raggirato come un idiota…
- Tu ordini a me?! – tuonò Newgate furibondo – Tu vieni sulla mia nave a dare ordini a me?!
- Voglio solo quel pirata! Consegnamelo, e io toglierò il disturbo. In caso contrario puoi star certo che metterò a soqquadro questa dannata nave fino a quando non l’avrò stanato!
- Non credo ti convenga farlo. – si intromise Law, riscuotendosi dallo stato di shock in cui quel miscuglio di rabbia e sollievo lo aveva gettato, e riuscendo in qualche modo a sorridere.
Tutti si voltarono sconcertati a guardarlo, compresi Newgate e Sheepshaed. Law, per nulla impressionato dall’essere al centro dell’attenzione – come al solito del resto -, ghignò, mentre i pezzi si risaldavano tutti insieme, e un’ondata di sollievo si spandeva nel suo petto.

Come al solito quella peste lascia una scia di disastri dietro di sé ovunque vada. Be’, almeno ora so che sta bene.

- Sono pronto a scommettere una fortuna che la dolce Katherine in questo momento è alquanto… presa, se così possiamo dire. Se decidi di volerla affrontare adesso… - Law si interruppe, allargando il ghigno con aria maliziosa - … non credo che sopravvivrai per poterlo raccontare a qualcuno. Non è una donna molto paziente, credimi, e detesta essere interrotta mentre lavora. Se provocata può diventare una vera furia.
Sheepshade lo guardò storto – Di che diavolo parli tu? Io sono venuto a cercare un ragazzo, non una donna!
Law sogghignò – Be’, mi dispiace dirtelo, ma sono piuttosto sicuro che ti sbagli. Il ragazzo che sei venuto a cercare in realtà è una giovane piratessa, e si chiama Katherine. Mai sentita nominare? Piccoletta, capelli scuri, piuttosto rumorosa e strafottente… forse ti ricorda qualcuno che conosci?
Un mormorio incredulo serpeggiò tra i pirati di Barbabianca.
- Trafalgar, ma di che diavolo stai parlando!? – protestò Vista - L’hai visto anche tu che Kate non è qui…
- E ti aspetti che io me la beva?! – lo sfotté divertito Sheepshaed, ignorando le parole dello spadaccino – Quel tizio è salito sulla mia nave con un’arroganza a dir poco scandalosa, ha ridotto in mille pezzi la mia nave con un solo pugno e poi è saltato a terra come se niente fosse, ridendo di noi che cercavamo di non annegare! Nessuna donna avrebbe mai potuto fare una cosa simile! Le donne sono creature troppo deboli e malaticce, infinitamente inferiori, figuriamoci se una di loro potrebbe mai avere una forza fisica simile!
- Oddio. – mormorò Beatrix terrorizzata, senza rivolgersi a nessuno in particolare – Katherine-senpai lo ridurrà in polpette quando lo sentirà…
- Quel tizio mi ha demolito la nave! – ripetè furibondo il Gifter – E tu, stupido vecchio, non riuscirai a proteggerlo! Aspettate solo che io riesca a mettergli le mani addosso…
- Come osi parlare in questo modo al capitano Newgate!? – esplose con veemenza Mary Lou facendosi avanti, trafiggendo Sheepshaed con lo sguardo – Avresti proprio bisogno di una lezione, pirata di seconda categoria!
- Mary Lou! – esclamarono allibite le altre infermiere. Beatrix sgranò gli occhi, e si tappò la bocca con le mani per non urlare.
- Ooooh, abbiamo una piccola coraggiosa qui! – rise con cattiveria Sheepshaed, tirando fuori una frusta. A quella vista tutte le infermiere tranne Mary Lou lanciarono un gridolino di terrore – Ti serve una bella ripassata, mocciosa! Così imparerai che succede a sfidare un uomo del mio livello! – urlò, per poi sollevare la frusta, pronto a colpire. Marco, Fossa e Vista lanciarono un grido di rabbia e fecero per lanciarsi contro Sheepshaed…
Ma dovettero fermarsi subito. Qualcuno era stato più veloce di loro.
Il medico si era lanciato verso di lui silenzioso e rapido come un serpente. Sheepshaed non ebbe che il tempo di notarlo, esile, agile e con una luce omicida negli occhi che lo lasciò per un istante sbigottito. Si sentì strappare la frusta dalle mani, ma non agì abbastanza in fretta, né in realtà si rese conto di quello che stava per succedere.
- Schifoso idiota gonfio di boria... – sibilò furibonda una voce femminile - Ti insegnerò io, mulo senza cervello, a provare ad alzare le mani su una ragazzina di undici anni! –
- Doc! – esclamò incapace di trattenersi Beatrix con voce strozzata, e poi ebbe solo il tempo di coprirsi gli occhi con le mani e di pregare disperatamente per il suo collo.
La verga schioccò per la prima volta, e l’improvvisa esclamazione di stupore fece eloquentemente intendere a tutti dove questa fosse andata a sbattere. Ci volle qualche secondo perché lo stupitissimo Sheepshaed avvertisse il bruciore della ferita sulla guancia, e con esso si risvegliasse la sua terribile indole. La sua espressione divenne una maschera di collera.
Dalla sua bocca eruppe uno spaventoso ruggito che mise in allarme tutti quanti. Tutti ad eccezione di Law, che non si allarmò affatto, ma in compenso avvampò di rabbia, percependo chiaramente tutta l’umiliazione per essersi fatto imbrogliare come un moccioso ingenuo che aveva provato pochi minuti prima tornare prepotentemente ad invaderlo.
- Maledizione a te, donna! Si può sapere cosa diavolo ti è saltato in testa di fare?!
- Oh sei tu, capitano! – ribatté il giovane uomo con un sorriso malizioso e voce ancora stranamente femminile, abbassando con calma il braccio. – mi sembri alquanto alterato… c’è forse qualcosa che non va?
- Qualcosa che non va?! Sei impazzita!? Mi hai fatto prendere un colpo! Credevo ti fosse successo qualcosa…!
- Oooooh, che carino! Eri in pensiero per me?
- Assolutamente no! Ero solo arrabbiato per tutti i guai che mi procuri, come al solito!
- Bugiardo! Eri preoccupato eccome! – rise il medico al colmo del divertimento – piaciuto lo scherzetto? Ci sei cascato come un allocco, ammettilo!
- Tsk, ti piacerebbe!
- Oh sì che ci sei cascato! Te l’eri bevuta eccome! – continuò a ridere il ragazzo – “Oh mio Dio, Kate è scomparsa, dove sarà!? Dobbiamo correre a cercarla!” – disse il medico scimmiottando la voce di Law - E questo non è preoccuparsi, per te?
Law la guardò malissimo, ma si sbrigò subito a distogliere lo sguardo, rosso in viso.
- Ah-ah, e adesso sei anche arrossito! – esultò il giovane – Ammettilo, ti ho imbrogliato alla grande, e ho anche scalfito la tua gelida corazza!
- Smettila di sfottermi, piccola strega! – esplose Law inviperito.
- Oh accidenti, non dirmi che ho ferito il tuo mastodontico ego! – esclamò il medico con finto tono contrito, portando melodrammaticamente la mano sul cuore – Mannaggia, non sai quanto mi dispiace…
- Sei veramente una stronza, sai? – replicò Law infastidito dall’irriverenza della ragazza, ma al tempo stesso rassegnato al fatto che non avrebbe smesso di prenderlo in giro tanto presto.
- Be’, considerala pure una piccola vendetta per avermi drogata a tradimento e rinchiusa nella stiva! Obbiettivamente poteva andarti peggio! – scherzò il biondo – Che ti serva da lezione! Troppa convinzione frega, caro mio!
Law serrò la mandibola, gli occhi scintillanti di irritazione, e l’altro rise ancora più forte.
Sheepshaed non poteva ancora credere all’evidenza, mentre guardava con astio quel uomo dalla voce stranamente dolce e acuta fronteggiarlo con l’ardire di un incosciente dopo averlo colpito davanti a tutti quei pirati d’alto livello, e che ora lo stava deliberatamente ignorando per scherzare con quell’altro pivello arrogante come se nulla fosse.
Sentì prudergli le mani. Gli avrebbe dato una lezione esemplare.
- Dannato bastardo… - ringhiò Sheepshaed, per poi avventarsi su di lui.
Si fermò ancora prima di toccarlo, sgranando gli occhi. La sua mano inguantata si alzata ancora, ma stavolta non per colpirlo: il pirata si era portato una mano tra i capelli biondi, e con un movimento fluido e disinvolto si era strappato dalla testa quella che in realtà era una parrucca, per poi strapparsi con una leggera smorfia anche il pizzetto.
Alla quella vista Sheepshaed ebbe un fremito.
- Non è possibile… - farfugliò incredulo il pirata, mentre fissava il medico togliersi anche le lenti a contatto dagli occhi, e strofinarsi il volto con un fazzoletto.
Ora a fronteggiarlo non c’era più un giovane uomo. C’era una ragazza.


Non è possibile…

Lei era lì. Era sempre stata lì.

I pirati di Barbabianca fissavano increduli la giovane donna che fino a quel momento era stata nascosta sotto la parrucca bionda, le lenti a contatto nere, il pizzetto e il trucco, e che ora stava fronteggiando Sheepshaed con stampata in volto un’espressione stranamente incurante, come se ciò che stava accadendo meritasse a malapena la sua attenzione… eppure i suoi occhi brillavano di eccitazione, come se non stesse nella pelle al pensiero di affrontarlo. Come se non avesse atteso altro fino a quel momento.
Dire che era irriconoscibile non era abbastanza.
Era diventata indubbiamente una bella donna, ma cercare di descrivere con così poche parole la fisionomia di quella peste combinaguai sarebbe stato un vero e proprio insulto all’universo, che probabilmente si era molto impegnato per plasmare quella donna dalle così tante bizzarre sfumature con l’intento di creare una forza della natura. O più probabilmente un’arma di distruzione di massa, scegliete voi.
Da un punto di vista oggettivo la giovane dottoressa non aveva mai avuto neanche una delle caratteristiche che per prime attirano un uomo, facendogli pensare “Accidenti, che schianto!”, e nemmeno quei tre anni trascorsi avevano potuto cambiare quella realtà. Al contrario, era rimasta piccoletta, e continuava a non arrivare neanche ad una terza di seno – erano i suoi fratelli, potevano anche pensarlo! -; ora aveva molti muscoli, questo sì, ma da un punto di vista estetico la cosa non l’avvantaggiava poi così tanto. Sapete com’è, non è che la facessero sembrare molto femminile.
Insomma, teoricamente parlando, e sottolineo teoricamente, in molti avrebbero potuto trovare la nuova Kate un tantino insignificante. Ma è una vera fortuna che l’attrazione fisica per una persona, o anche la semplice ammirazione, non vengano scatenati solo da canoni di bellezza diffusi nell’opinione comune.
Solo le persone molto stupide e ignoranti si basano unicamente su quelli per stabilire se una persona è bella o no, e di conseguenza solo le persone stupide e ignoranti non si sarebbero mai potute accorgere di quanto quella peste fosse diventata attraente, con quei suoi occhi verdi che adesso brillavano maliziosi e magnetici, con quel suo nuovo modo di sorridere dolce e intrigante al tempo stesso, con quel suo nuovo fascino vibrante di voglia di vivere, di forza e d’indipendenza, e con quel suo modo di muoversi che esprimeva levità e libertà, e che la faceva sembrare qualcosa di molto simile ad una bambina.
Ma non era tutto lì, nossignore. Come in ogni persona in lei c’era anche l’altra faccia della medaglia, che nel suo caso corrispondeva ad uno sguardo malizioso e pestifero, che prometteva più guai di tutti i Cavalieri dell’Apocalisse messi insieme, e che sembrava godere fortemente dello scompiglio che con la sua sola presenza aveva portato sulla nave.
Era cambiata fino a sembrare quasi un’altra persona, eppure era lei. Era veramente, finalmente, indubbiamente lei.
- Capitano O’Rourke! – urlarono felici le infermiere, saltando e piangendo di gioia – è proprio lei! È tornata da noi!
Kate non rispose, ma fece loro un gran sorriso, e strizzò l’occhio a Mary Lou, che arrossì e batté le mani per la felicità.
- Non è possibile! – urlò fuori di sé Sheepshaed – non puoi essere stata tu…!
La voce dell’uomo si affievolì lentamente per la sorpresa. Kate aveva sollevato molto lentamente un pugno, e si stava tranquillamente dirigendo verso l’albero maestro della Moby Dick, il volto dominato da un’espressione di chiara intenzione.

Cosa vuole fare?!

La risposta alla domanda arrivò qualche istante dopo. La ragazza era arrivata di fronte all’albero maestro, e lo stava esaminando con spirito critico, come un sarto che prende le misure ad una grassona. Fissò l’albero, poi il proprio pugno, poi di nuovo l’albero…
E poi colpì. Non con il pugno, ma con il solo dito indice, e con l’espressione più placida del mondo stampata in viso, dette un leggero colpetto all’albero, come se stesse bussando discretamente ad una porta… e questo con un boato assordante si sgretolò in mille pezzi come un dolce di pastafrolla, sollevando una gran nuvola di polvere e facendo tremare il ponte della nave come se ci fosse in corso un terremoto di magnitudo 4.0.
I pirati di Barbabianca e i pirati Heart lanciarono un grido di sconcerto e lottarono per non perdere l’equilibrio. Law rimase impassibile, e Newgate aggrottò le sopracciglia, accigliato.
- Tu… - rantolò incredulo Sheepshaed – tu, piccola strega… tu mi hai distrutto la nave…!         
Kate sorrise – sì lo ammetto, sono stata io. Sorpreso? Oppure ho ferito anche il tuo ego mettendo in mostra la mia smisurata forza da donna debole e malaticcia, che un uomo del tuo livello non potrà mai nemmeno sperare di ottenere?
Il tono canzonatorio della giovane fece salire il sangue alla testa del pirata, che fece per lanciarsi nuovamente contro di lei. Non gli importava se era una donna, le avrebbe fatto rimpiangere di essersi presa gioco di lui in quel modo.
Ma ancora una volta non riuscì nel proprio proposito: fredda e precisa come lo scoccare di una freccia da una balestra, la ragazza era schizzata di avanti e sollevando ancora il braccio lo aveva colpito di nuovo con la frusta, senza che né indietreggiare, né mutare espressione.  
- Non ti azzardare, animale! - lo avvertì seccamente Katherine – Non ho tempo per darti la ripassata che tu meriteresti. Ho del lavoro da fare. Per cui accetta un consiglio spassionato e sparisci dalla mia vista, finché sei ancora in grado di camminare sulle tue gambe.
- Non pecchi di sfacciataggine, piccola selvatica! – ruggì l’uomo, lanciandole un’occhiata che parve volerla incenerire. Katherine la sostenne senza il minimo tremito di ciglia, anzi curvò le labbra in un sorriso di sfida e fece schioccare ancora la frusta.
- Non sembri spaventata. – osservò Sheepshaed, perplesso da quella assurda situazione.
- Tu non mi sembri spaventoso. – replicò Kate impassibile. Law sorrise, estremamente compiaciuto.
- Ma tu guarda! – rise Sheepshaed, divertito dalla spavalderia della ragazza – devo ammetterlo, hai del fegato, mocciosa. A quanto pare Newgate si è talmente rimbambito da arrivare a mandare una donna ad affrontare un corsaro…
- Non ha mandato una donna, ha mandato una piratessa! E per tua informazione sono stata io da sola a decidere di attaccare la tua nave! -  ringhiò Kate. Ormai non sorrideva più - Hai osato mancare di rispetto a mio padre, e hai anche sfidato la sua autorità. Ti sei addirittura permesso di minacciare una delle mie ragazze… senza contare che tutto il baccano che hai fatto mi ha disturbato proprio mentre lavoravo per salvare la vita di mio fratello maggiore. Ho ucciso gente migliore di te per molto meno, sai?
- Ooooh, apriti cielo! – sghignazzò Law al colmo del divertimento.
- Tuttavia… - continuò Kate, abbassando di parecchio il tono e avviandosi nuovamente verso la porta dell’infermeria – …come ti dicevo, ora non ho tempo di ascoltare le tue insulse lamentele, ho altro da fare. Perciò dileguati!
- Credi davvero di potermi liquidare in questo modo, mocciosa?! – le urlò dietro Sheepshaed – Se davvero sei stata tu a demolire la mia nave, allora sarai tu la vittima della mia vendet-
- Blablabla! – lo interruppe infastidita Kate, voltandosi di nuovo verso di lui – senti un po’, stola con le gambe, tu non puoi neanche immaginare che razza di giornata ho avuto! Ho un fratello in fin di vita, non dormo da due giorni, mi trovo in mezzo a quella che sembra essere una carneficina preannunciata, questo dannato bustino che porto mi sta stritolando peggio di un anaconda, il mio piercing all’ombelico mi sta facendo venire voglia di strapparmi la pancia con le unghie, ho la faccia ridotta ad una versione poco lusinghiera di un quadro di Kandinskij più due borse sotto gli occhi che sul mercato avrebbero un valore commerciale da panico, mi sono ridotta le ghiandole endocrine alle stesse dimensioni degli acini di uva pur non far schiattare mio fratello, non fumo da più di quattro ore e sto anche morendo di fame! –
- E sono solo le otto del mattino! – la sfotté sghignazzando Law.
- Zitto tu, medico di seconda mano! – sbraitò la ragazza incenerendolo con gli occhi, roteando poi su stessa e rivolgendo nuovamente la sua attenzione all’uomo di Kaido.
 – E tu… - imprecò la ragazza, puntandogli contro un dito accusatore - …chiudi il becco, e fammi il fottutissimo favore di sparire della mia vista, prima che io perda la pazienza e ceda alla tentazione di ridurti ad un cumulo di pangrattato e ti faccia stare tutto in una scodella!
- Maledizione donna, cosa vuoi che mi importi dei tuoi drammi personali! Io sono venuto per sfidarti a duello… - dichiarò Sheepshaed con voce profonda -… e non me ne andrò da qui fino a quando non ti avrò uccisa!



Angolo autrice:
Eccomi di ritorno, finalmente!
Lo so, sono imperdonabile... sono stata davvero pessima a farvi aspettare così tanto! Perdono, vi prego!
Vorrei poter dire che ci sono state delle cause di forza maggiore, ma sarebbe una mezza bugia. Voglio dire, in effetti ci sono state cause di forza maggiore (un altro esame d'università da preparare, ahimè), ma la colpa è stata anche mia. Prima sono stata paralizzata da un brutto attacco di blocco della scrittore per più una settimana, e poi ho perso un sacco di tempo a decidere come strutturare questo cavolo di capitolo!
Alla fine ho capito che, ancora una volta, se l'avessi pubblicato per intero, il capitolo sarebbe venuto troppo lungo... perciò il prossimo capitolo sarà una terza parte. Vi giuro che non lo suddivido più, nel prossimo questa vicenda sarà definitivamente conclusa!
Ah sì, lo so che sono stata una vera bastarda a concludere il capitolo con una tale suspence... però ho pensato che, se dovevo farvi incazzare, tanto valeva farlo come si deve! XD
Comunque sto pensando ad una cosetta per farmi perdonare! Visto che questa vicenda si è trascinata per ben tre capitoli, ho pensato che non il prossimo capitolo (nel prossimo finirò di raccontare la storia di Thatch), ma quello dopo ancora potrebbe essere un piccolo speciale, una specie di pausa per riprendere fiato: una serie di flash e one-shot sulle varie avventure che Kate ha vissuto sulla Moby Dick insieme ai fratelli nei sei anni che servito nella ciurma di Barbabianca!(esclusi i momenti con Ace. Quelli avranno un capitolo a parte, promesso!)
Che ne pensate? Vi piace l'idea? Fatemi sapere nelle recensioni!
Baci e abbracci! <3
Tessie

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


 
Amor tussique non celatur

 
 

 

Capitolo 5



 





La spiegazione più semplice
è sempre la migliore.
- Guglielmo di Occam.
 








- Maledizione donna, cosa vuoi che mi importi dei tuoi drammi personali! Io sono venuto per sfidarti a duello… - dichiarò Sheepshade con voce profonda -… e non me ne andrò da qui fino a quando non ti avrò uccisa!
Beatrix trattenne il fiato, coprendosi la bocca con le mani. In che guaio si era cacciata quella dannata irresponsabile? Certo, era pur vero che in caso di bisogno i comandanti sarebbero potuti intervenire immediatamente per proteggere la ragazza… ma quello era un uomo di Kaido! Si rischiava di scatenare una guerra…
Le parole del Gifter sembrarono avere uno strano effetto su Kate. La ragazza si calmò di botto, e incrociò le braccia al petto, in una evidente posizione di riflessione, con gli occhi a terra e le sopracciglia aggrottate. A quanto pareva il medico stava ponderando la questione.

Oddio, non dirmi che vuole accettare sul serio di battersi contro quel mostro?! Pensò Beatrix terrorizzata. La farà a pezzettini!

 - No.
Sheepshaed strabuzzò gli occhi – No?!
- Esatto, no.
Beatrix lasciò andare un gran sospiro di sollievo, profondamente sollevata. Forse quella giovane dottoressa zuccona tutto sommato non era del tutto sprovveduta; anzi, magari crescendo era addirittura diventata più prudente!
Law invece ghignò, perfettamente consapevole di ciò che stava passando in realtà nella mente della ragazza.
Sheepshaed serrò la mandibola – ragazzina, credi di poter scegliere? Se non accetti di combattere con me dovrò costringerti a difenderti!
- Oh, ma non mi dire! Ora sì che ho paura! – sbuffò Kate, per poi tornare seria – Ora apri bene le orecchie, fenomeno da baraccone: tu non sei un avversario nemmeno vagamente degno della mia attenzione, e io non ho tempo da perdere in simili scaramucce. Ora è più chiaro, o devo farti un disegno?
Beatrix si schiaffeggiò di nuovo la fronte, rassegnata.

Come non detto. Non solo non è migliorata, è addirittura peggiorata!

- E io ti ripeto che non mi muoverò da qui fino a quando non ti avrò staccato la testa dal collo. – replicò Sheepshaed – Quindi o accetti e la facciamo finita subito, oppure dovrò costringerti, quindi scegli alla svelta. A meno che tu non voglia che io cominci ad attaccare quelle preziose infermiere a cui sembri tanto affezionata…
- Prova solo ad alzare un dito su di loro, e giuro che ti romperò una alla volta tutte le ossa che hai in corpo chiamandole per nome!
- Ottimo, è proprio questo quello che voglio! Quindi la domanda è: me lo darai senza fare storie, oppure ti serve un po’ di motivazione?
Kate ringhiò qualcosa a mezza bocca e lo studiò con irritata attenzione; quel tizio sembrava chiaramente appartenere alla ahimè prolifica casta degli uomini violenti, irascibili, impazienti ed egocentrici, quelli che sorridono peggio di It Pennywise quando emerge dalle fogne e che mietono abitualmente e senza un motivo preciso più di vittime in una settimana di quante Jack lo Squartatore abbia avuto la possibilità fare nella sua invidiabile carriera.
Cosa significava tutto questo in poche parole? Che non si sarebbe arreso fino a quando la sua sete di sangue non sarebbe stata saziata, o in alternativa fino quando non avrebbe esalato l’ultimo respiro.
Kate in linea di genere non era una moralista – non puoi essere un pirata o un medico se lo sei -, ma disprezzare quell’uomo per quello che era e per ciò che faceva continuamente… non era un atteggiamento moralista, era l’atteggiamento che un qualsiasi essere umano degno di questo nome avrebbe dovuto tenere, e avrebbe sfidato chiunque a sostenere il contrario.
La ragazza sospirò. A quanto pare il caso aveva voluto che lei quel giorno scegliesse di pestare i piedi all’uomo sbagliato, che le avrebbe fatto perdere tempo prezioso, e che avrebbe anche potuto procurarle grane con quel selvaggio di Kaido. Non che Kate temesse quell’animale senza intelletto o coscienza alcuna, però insomma… se avesse potuto evitare fastidi inutili sarebbe stato meglio.
Perciò non aveva scelta: doveva ucciderlo. Per poter evitare che andasse a fare la spia a Kaido su ciò che aveva fatto, ma anche per evitare che un simile individuo se ne andasse allegramente in giro ad ammazzare gente a caso senza un perché. Loro potevano anche essere pirati e vivere fuori dalla legge, ma quello non viveva infrangendo le regole della giustizia, viveva infrangendo le regole dell’umanità. Era ben diverso.

E poi non ho ancora compiuto la mia buona azione della settimana, per cui…

- A quanto pare sembri davvero ansioso di ricevere una lezione. – osservò rassegnata, fissandolo come se fosse un moccioso rumoroso e irritante che pesta i piedi per ottenere qualcosa – D’altro canto il tuo desiderio di apprendere quanto può essere dura una batosta, specie se è una signora a dartela, ha un non so che di ammirevole, in fondo. Molto bene, se proprio insisti…
- Si, insisto. – confermò Sheepshaed – preparati, piccola insolente…
- Allora, cominciamo dalle aste. - lo interruppe la ragazza - Contrariamente a quello che di solito la gente pensa di noi, i pirati medici non sono molto diversi dagli altri pirati. Rubano, uccidono e vivono in libertà proprio come i pirati “standard”, tuttavia vi sono delle sostanziali differenze di metodo nel nostro modo di agire. Noi abbiamo un’etica e delle priorità un po’ diverse da quelle dei nostri rivali, di conseguenza affrontiamo in maniera diversa le prove a cui questa vita ci sottopone. – spiegò Kate con voce calma e metodica, camminando avanti e dietro lungo il ponte con aria assorta – I requisiti che…
- Ehi, mi stai prendendo in giro?!- strepitò Sheepshaed - Si può sapere cosa diavolo stai facendo?!
- Ma allora sei veramente stupido! Non hai sentito quello che ti ho detto prima?! Ti sto dando una lezione!
- Io sono venuto qui per combattere, non per ascoltare queste stronzate da sapientino scuola!
- Imbecille! Non lo sai che prima della pratica c’è sempre la teoria?! Secondo te come potrebbe un medico operare un’ernia del disco se il disco non sa neanche dov’è?! – lo rimproverò impaziente Kate, fissandolo con una certa dose di sprezzo – Ora sta’ zitto e presta attenzione! Cosa credi, che io vada in giro a distribuire informazioni tanto importanti a chiunque mi passi davanti? Dovresti considerarti fortunato invece di lamentarti!
Sheepshaed ora la stava fissando come se la considerasse una scriteriata scappata da qualche istituto di igiene mentale; Kate non ci fece caso e proseguì.
- Stavo dicendo, le doti che un pirata medico deve avere sono molto diversi da quelli che hanno gli altri pirati; ovviamente occorre avere una competenza medica, ma questa da sola non è neanche lontanamente sufficiente. Un pirata medico deve avere una mente rapida e analitica, una notevole dose di pazienza e costanza, ma soprattutto deve avere nervi d’acciaio e la capacità di mantenere il sangue freddo in qualunque situazione. – Kate smise di camminare e si fermò a fissarlo – Visto che sei impaziente e che non mi sembri dotato di chissà quale intelligenza, ti farò un favore e andrò dritta al punto. Sostanzialmente sono cinque le cose che bisogna sapere su di noi, per poter affrontare uno scontro di qualsiasi genere contro di noi riducendo al minimo il rischio di fare qualche sciocchezza che metterebbe fine alla sfida ancora prima che possa cominciare. Sei pronto?
- Primo: i pirati medici non parlano mai a vanvera. Noi diamo un peso ad ogni singola parola che diciamo, quindi se decidi di sfidarne uno è molto meglio per te se lo prendi molto, molto sul serio.
Secondo: in caso di attacco di gruppo, un pirata medico non si batte mai in prima linea… -
- Perché siete dei codardi? – la interruppe beffardo Sheepshaed.
- No, razza di somaro. – intervenne Law infastidito, precedendo Kate – in caso di missione di gruppo noi dobbiamo restare indietro per evitare di essere feriti, perché in tale situazione la nostra priorità non è l’esito della missione, ma curare le eventuali ferite dei compagni.
- Proprio così. – confermò Kate – Poi, terzo: Così come i dottori hanno sempre in mente un piano per curare un paziente, un pirata medico segue sempre una strategia, anche nelle situazioni più complicate. Non è nella nostra natura agire alla cieca, poiché nessuno più di noi è consapevole di quanto possa costare cara una scelta sbagliata o fatta con leggerezza.
Sheepshaed si irrigidì. Un po’ alla volta, qualcosa nel volto della ragazza stava lentamente cambiando, un strano ghigno le stava contorcendo il viso. Non era lo stesso ghigno beffardo che aveva fatto prima quando aveva tranquillamente ammesso di aver demolito la nave con un solo pugno, e non era nemmeno un semplice sorriso di sfida. Era qualcosa di molto, molto peggio.
- Quarto: se un pirata medico decide di eliminare qualcuno, stai pur certo che prima o poi ci riuscirà, in un modo o nell’altro. Nemmeno ucciderlo può scongiurare il pericolo, perché i pirati medici hanno sempre un asso nella manica che possa aiutarli ad arrivare dove vogliono arrivare.
Ok, ora c’era davvero qualcosa di spaventosamente demoniaco nella sua espressione, in quel momento. Era smaniosa, assetata di sangue, e i suoi occhi era lucenti, scintillanti di perfidia. Sheepshaed rabbrividì.
- E quinto… - sussurrò la dottoressa leccandosi le labbra - … contrariamente a quello che si potrebbe pensare, i pirati medici non esitano e non si impietosiscono mai. La nostra natura di medici ci vorrebbe dediti alla salvezza di vite umane, ma siamo anche pirati, per cui…
Un brivido gelido attraversò la schiena Sheepshaed.
- ... non siamo sensibili alle suppliche non più di quanto lo sarebbe un leone davanti alle preghiere di una gazzella.
Ancora una volta Sheepshaed si accorse troppo tardi del pericolo che incombeva. L’unica cosa che riuscì a percepire fu il fulmine ghiacciato che gli colpì il cervello riscuotendolo dal torpore, avvertendolo di ciò che stava per succedere in anticipo, ma non abbastanza in anticipo da dargli il tempo di reagire.
Il pugno lo colpì allo stomaco con violenza inaudita: fu come ricevere un colpo di cannone direttamente in pancia. Sheepshaed spalancò la bocca senza emettere alcun suono, e una boccata di sangue schizzò fuori dalla sua gola, mentre il Gifter faceva un volo di almeno venti metri, e si schiantava violentemente contro il parapetto della nave.
I pirati di Barbabianca lanciarono un grido di sconcerto, fissando increduli la donna che aveva sferrato il pugno.
- Maledetta strega… - rantolò dolorante Sheepshaed, tentando faticosamente di rimettersi in piedi.
- Dimmi, cappotto parlante, ti è mai capitato di leggere l’Agamennone di Eschilo? – chiese la ragazza camminando verso di lui con passo spavaldo – No, certo che no, probabilmente un tipo come te non sa neanche leggere!
- Sei sempre così spocchiosa, ragazzina?
Kate fece un sorriso angelico, e gli rispose - Πάθει μάθος, idiota.
- Cosa?!
- Pathei mathos. È greco, e l’ha detto Eschilo nel suo Agamennone: significa “Impara dal dolore”. – la ragazza ormai gli era di fronte, e si chinò per arrivare allo stesso livello dei suoi occhi – Sai, per i Greci il dolore era una grande fonte di insegnamento, ma per Eschilo era anche qualcosa di più: era la strada ineludibile che bisogna percorrere per giungere alla conoscenza. – Kate si raddrizzò, e ricominciò a camminare avanti e indietro – Ancora oggi il dolore l’esperienza del dolore è ancora ritenuta ineluttabile da attraversare, ma è ancora possibile trarne un prezioso insegnamento? La maggior parte delle persone crede di no, e l’osservatorio ideale per comprendere in quale ottica è visto il dolore nella nostra cultura è proprio il mondo della medicina. La sofferenza in campo medico è qualcosa da negare, da reprimere con tutti i mezzi, fin dal suo primo apparire. D’altro canto non c’è bisogno di prendere la corrente per capire come funziona, no? – continuava a ragionare ad alta voce la ragazza – Tuttavia io sono di un’opinione diversa. Platone diceva “In sé la parola è meno del pensiero, e il pensiero è meno dell’esperienza”. Nessuno può negare che l’esperienza sia la forma più diretta di conoscenza. Ciò che si apprende attraverso un’esperienza diretta resta scolpito per sempre nella nostra mente. E tu ne sei l’esempio vivente! -  continuò lei, riportando l’attenzione su di lui – Guarda in che situazione sei finito: dolorante, ammaccato, e con due costole rotte, e solo perché il tuo orgoglio di ha impedito di accettare ciò che sin dall’inizio la logica ti suggeriva, e cioè che a sconfiggerti sarebbe stata una donna. Ti è stato detto che il tuo nemico era una ragazza, e non ci hai creduto. Mi hai visto disintegrare un albero maestro con un solo dito, e nonostante tutto eri ancora scettico, e continuavi a non considerarmi un pericolo. Ma adesso che sei ferito e provi dolore sei chiaramente terrorizzato a morte da me, anche se cerchi di nasconderlo fingendo una tranquillità che non provi. – la ragazza sogghignò – la natura umana è così affascinante, non credi?
- Hai intenzione di continuare a ciarlare per tutto il tempo o passiamo alle cose serie? – boccheggiò Sheepshaed, riuscendo finalmente ad alzarsi.
Kate si strinse nelle spalle – Be’, dimmelo tu. Parlavo per evitare di addormentarmi nell’attesa che tu ti alzassi.
Law sorrise, sentendo l’orgoglio misto a qualcos’altro di non ben definito agitarsi nel petto.

È eccezionale. E fottutamente sensuale.

- NE HO ABBASTANZA DI QUESTE STRONZATE! – esplose Sheepshaed lanciandosi contro di lei come una furia con il pugno sollevato, pronto a colpirla…
Ma la ragazza, come al solito, svanì di nuovo, lasciando l’uomo di Kaido a colpire l’aria come un beota.
- Che diavolo…?!
- Faresti meglio a rassegnarti! – urlò la ragazza. Sheepshaed alzò lo sguardo e la ritrovò che rideva appollaiata sul pennone della vela maestra – Il tuo pugno non potrà mai colpirmi. Mai!
Sheepshaed digrignò i denti, trucidandola con lo sguardo.
- Ora passiamo alla pratica, ti va? -  chiese la ragazza con un sorriso - Fondamentali dell’arte del combattimento, prima parte: arti marziali!
Stavolta fu lei a lanciarsi verso di lui. Sheepshaed ebbe appena il tempo di vederla caricarlo, prima che un poderoso calcio al fianco lo colpisse, facendogli fare un altro volo.
Kate non gli dette tregua: i suoi pugni si chiusero sui baveri del mantello del pirata, e la ragazza lo sollevò come se non pesasse nulla, e lo lanciò contro una parete di legno, lasciandolo senza fiato.
Tuttavia il Gifter non era un combattente così scarso: si staccò subito dal muro, e incrociando le braccia riuscì a parare il pugno che Kate aveva tentato di sferrargli al petto; Sheepshaed approfittò subito della situazione e fece lo sgambetto alla ragazza, che però allungò un braccio per attutire l'impatto e si allontanò da lui, dandosi una spinta e facendo un paio di capriole all'indietro.
Il Gifter si scagliò contro di lei, pronto a colpirla, ma la ragazza era sparita nuovamente dalla sua vista: il pirata la cercò freneticamente con lo sguardo, ma ebbe a malapena il tempo di sentire un fruscio e capire da che parte la dottoressa stava arrivando.

Da sopra?!

Ancora una volta non ebbe il tempo di reagire, perché finì all’istante schiacciato contro il ponte della nave: Kate gli era atterrata sopra, premendogli la faccia contro le assi. Sheepshaed cercò di divincolarsi, ma la ragazza lo teneva bloccato lì dov’era.
- I tuoi tempi di reazione sono veramente ridicoli! – rise la ragazza aumentando la pressione – E tu saresti uno dei sottoposti più forti di Kaido?! Non farmi ridere!
Sheepshaed in tutta risposta le ringhiò contro un insulto così volgare che Beatrix tappò le orecchie a Mary Lou senza neanche pensarci. Kate rise ancora più forte.
Sheepshaed si divincolò ancora, e stavolta riuscì a scrollarsela di dosso. Si rimise in piedi mentre lei era ancora a terra, e subito sfruttò la situazione, sollevando un pugno per colpirla.
Kate però rise ancora e si limitò a scattare verso l’alto con il busto, staccandosi da terra, distendendo le gambe di lato e colpendolo così forte agli stinchi da fargli perdere l’equilibrio. Lui cadde in avanti e lei rotolò via, rimettendosi in piedi con un balzo.
- Bel tentativo, ma non è ancora lontanamente sufficiente! – affermò Kate – Per tua informazione, futuro arrosto, io non ho neanche cominciato a sudare! Se continui così finirò per addormentarmi sul serio, smidollato che non sei altro!

Smidollato a me?!

Sheepshaed non ci vide più. La caricò ancora e riuscì ad afferrarla per i fianchi, spingendola a terra con tutto il suo peso, e sollevò di nuovo il pugno, intenzionato fracassarle il cranio colpendola con tutta la forza che possedeva.
Il pugno però non abbatté sul viso della ragazza, ma sulla sua piccola mano aperta. Sheepshaed sgranò gli occhi incredulo – e non fu il solo – e la ragazza gli fece un sorrisino compiaciuto.

Impossibile! Il mio pugno avrebbe potuto frantumare la roccia! Com’è riuscita a bloccarlo così facilmente?!

Sheepshaed fu bruscamente riportato alla realtà. La ragazza infatti aveva chiuso le piccole dita intorno al pugno dell’uomo, e ora lo stava stringendo così forte che il Gifter non riuscì a trattenere un grido di dolore.

Mi sta sbriciolando le ossa della mano!

Il pirata non resistette: si allontanò in fretta e furia da lei rimettendosi in piedi con un balzo, e indietreggiò convulsamente tenendosi il polso con la mano sana, la mandibola serrata per il dolore.

Se l’avessi lasciata continuare me l’avrebbe stritolata completamente!

Kate si rimise in piedi senza fretta, e con altrettanta calma gli andò incontro; il pirata rimase ipnotizzato a fissarla, e lei, quando gli fu di fronte, con il volto pietrificato in un’espressione impassibile, gli sferrò un potente calcio rotante alla gola, che lo fece tossire per il dolore e crollare a terra come una bambola rotta.
- Piccola puttanella! – rantolò Sheepshaed.
Kate alzò gli occhi al cielo - Non c’è bisogno di essere così volgari…
- Dimmi come diavolo hai fatto! – ringhiò l’uomo ancora riverso a terra – com’è possibile che tu possieda una simile forza?! Che razza di addestramento hai seguito?!
- Finalmente lo chiedi! – esclamò la ragazza, per poi chinarsi su di lui, appoggiandosi sui calcagni.
- Ho seguito un addestramento molto speciale. – rivelò Kate – sempre che si possa chiamare addestramento. Quando ho deciso di diventare una guerriera, dopo aver lasciato la ciurma di mio padre, ho scelto come primo obbiettivo del mio percorso di addestramento di aumentare la mia forza fisica in maniera esponenziale, per poter sfatare così la credenza che una donna non potrà mai raggiungere la stessa forza fisica di un uomo. Cominciai così a portare sempre addosso dei pesi, in un paio di polsiere, nelle scarpe, e in uno speciale corsetto, senza mai toglierli per nessun motivo, per poter aumentare la mia forza anche senza seguire uno specifico allenamento, ma limitandomi a compiere le mie normali attività quotidiane. Con il passare del tempo la portata dei pesi è aumentata sempre di più, fino a quando un anno dopo l’inizio di questa pratica non ho raggiunto la cifra record di 700 kg di peso portato addosso. Dopo aver raggiunto questo traguardo ho testato la mia forza senza pesi, scoprendo così di aver acquisito una potenza sovrumana. – concluse Kate, sollevando un pugno in segno di trionfo – È stato un vero massacro, che ha richiesto tutta la mia determinazione, ma ne è valsa la pena. Ora questa mia forza smisurata è l’arma più potente che possiedo, a parte la mia intelligenza, ovvio. Si possono contare sulle dita di una mano le persone al mondo che potrebbero competere con me in questo campo, rassegnati. Non è usando la forza bruta che puoi sperare di sconfiggermi.
Sheepshaed strinse i denti, fissandola con odio, ma non poté replicare. Era evidente che non stava bluffando, non era con la forza fisica che l’avrebbe battuta, doveva farsene una ragione.
Ma non era comunque intenzionato ad arrendersi.
- Allora dimmi, ne hai avuto abbastanza? – chiese tranquillamente dopo qualche secondo la ragazza, raddrizzandosi – Sei pronto ad arrenderti?   
- MAI! DOVRAI UCCIDERMI!
- Si può fare. – replicò con calma la ragazza. Poi sparì per l’ennesima volta dalla vista dell’uomo.
Il Gifter sgranò gli occhi e si rimise lentamente in piedi, guardandosi intorno.

Questo maledetto nascondino sta davvero cominciando a darmi sui nervi! Dove accidenti si sarà nascosta adesso?!

- Fondamentali dell’arte del combattimento, seconda parte: arte della spada!
Non appena sentì la parola “spada”, a Sheepshaed fu chiaro cosa sarebbe accaduto. Ebbe appena il tempo di sguainare la propria, di spada, prima che un baluginio argentato entrasse nel suo campo visivo, e un affondo silenzioso diretto dritto al suo cuore si avvicinasse pericolosamente a lui. Fece un balzo indietro e la lama tagliò l’aria proprio davanti a lui, colpendolo di striscio con la punta. Sheepshaed sentì un dolore pungente e il sangue sgorgare da una ferita superficiale sul petto.
- Accidenti, per un pelo! – si lamentò Kate, tirando indietro il braccio armato – un centimetro in più e saresti morto!
- È tutta colpa tua, sei stata troppo lenta! – la rimproverò aspramente Law – quante volte devo ripeterti che devi fare più esercizio con quella dannata spada?!
- Senti, vedi di non rompere! La mia specialità sono le arti marziali, è in quelle che devo esercitarmi!

Non è molto abile con la spada, eh? Interessante! Potrei aver trovato il modo per batterla…

Rinvigorito da quella nuova consapevolezza, Sheepshaed sollevò la spada e si lanciò all’attacco, deciso a vendicarsi di tutte le umiliazioni che gli aveva inflitto quella maledetta mocciosa.
Kate però non si fece cogliere impreparata: sentendolo arrivare roteò velocemente su sé stessa, e alzò la propria spada giusto in tempo per parare la stoccata, della quale sostenne l’impatto senza indietreggiare di un passo.
Sheepshaed imprecò e balzò indietro, prendendosi un momento per studiare la sua avversaria.

Potrà anche aver bisogno di lavorare sulla tecnica… ma sa come sfruttare la sua forza combinata a quella spada. Non sarà un’impresa così facile.

Osservò la lama che la ragazza stringeva nella mano sinistra, esaminandola con spirito critico. Era una spada all’italiana lunga e sottile, dall’aria estremamente affilata e parecchio elegante, decisamente degna di una signora: un profano avrebbe anche potuto pensare che non si trattasse di una spada troppo solida, sottile e leggera com’era, ma in realtà era piuttosto chiaro che era molto più resistente di quanto non apparisse - anche perché, se così non fosse stato, con la stoccata di pochi istanti prima si sarebbe spezzata come uno stuzzicadenti -.
Tuttavia Sheepshaed non si lasciò impressionare dal valore dell’arma: una buona spada non assicura la vittoria, se a brandirla non c’è uno spadaccino di altrettanto valore; il Gifter allargò le gambe mettendosi in posizione, e partì nuovamente all’attacco, determinato a chiudere quella faccenda.
Tuttavia commise per l’ennesima volta l’errore di sottovalutare la propria avversaria: Kate poteva anche avere poca esperienza con quell’arma, ma in compenso aveva un caratterino notevole, e non era di certo disposta a farsi battere tanto facilmente.
Dopo un paio di minuti di stoccate e parate, finte e affondi, Sheepshaed si ritrovò a maledire il proprio destino, quel dannato piratuncolo che aveva avuto il coraggio di affermare che quella donna “aveva bisogno di più pratica”, e per ultima quella dannata mocciosa, che lo stava sminuendo e umiliando davanti a tutti sempre di più ad ogni minuto che passava. La dottoressa infatti, pur dimostrandosi inesperta paragonata a lui, non mancava di battersi come una tigre furiosa, girando dieci volte intorno al proprio avversario, cambiando venti volte guardia e terreno, non dandogli nemmeno un attimo di tregua. Sheepshaed era uno spadaccino esperto, con un’esperienza decennale, che si era battuto con innumerevoli avversari, e tuttavia faceva un'immensa fatica contro un’avversaria che, agile e balzante, si scostava in continuazione dalle regole consacrate della scherma, attaccando da tutti i lati nello stesso momento, non senza, tuttavia, parare da guerriera che ha il massimo rispetto per la propria pelle.
Alla fine questa lotta fece perdere la pazienza a Sheepshaed. Infuriato per il fatto di essere tenuto a bada da colei che fino a poco prima aveva considerato una donnetta impertinente e arrogante, si scaldò e cominciò a commettere degli sbagli; Katherine, che d’altro canto compensava la propria mancanza di pratica con una accuratissima conoscenza della teoria – merito dei suoi studi e dei sapienti insegnamenti di Law -, sogghignò compiaciuta a quella vista, e raddoppiò di agilità. Sheepshed, deciso a farla finita, tirò un colpo terribile alla sua avversaria con una spaccata a fondo, sicuro nonostante tutto di avere la vittoria in tasca.
Ma il Gifter non era l’unico ad essersi stancato di giocare: anche Kate ne aveva avuto abbastanza di quel balletto. La ragazza scartò di lato per evitare il colpo e, con la stessa placidità che di solito mostrava non appena terminava una sigaretta, abbatté con forza inaudita la propria spada sul piatto di quella dell’avversario, spezzandola in due di netto con un clangore assordante, che risuonò potente nelle orecchie di tutti i presenti.
- Fine dei giochi, amico. – decretò la ragazza, per poi sollevare un pugno e abbatterlo con violenza sul volto dell’uomo. Sheepshaed fece il suo terzo volo di seguito in meno di mezz’ora, e andò a schiantarsi nuovamente contro il parapetto della Moby Dick, facendo tremare le assi del ponte.
- Direi che a questo punto devi essere messo molto male! – commentò la dottoressa rinfoderando la propria spada – Da un’analisi sommaria direi che hai quattro costole rotte, due incrinate, una commozione celebrale, e probabilmente anche danni di diversa gravità agli organi interni. Perciò dimmi: ora sei pronto ad arrenderti?
- MAI!
- Come vuoi. – sospirò la ragazza – vorrà dire che concluderò la mia lezione, e ne approfitterò anche per tapparti la bocca per sempre.
Indovinate cosa fece Kate quando finì di parlare?
Esatto, si volatilizzò ancora!

Dai, non è possibile…

- Fondamentali dell’arte del combattimento, terza parte: attacco a lunga distanza!

Attacco a lunga distanza? Cosa vorrà…?

Ancora una volta il pirata non ebbe il tempo di riflettere. Un fischio appena percettibile attraverso l’aria, e Sheepshaed ebbe appena il tempo di saltare via.
(Non che avesse visto cosa stesse per arrivargli addosso, intendiamoci. Semplicemente ormai aveva capito che a quella mocciosa piaceva un sacco sfruttare l’effetto sorpresa, e che quindi non si sarebbe mai mostrata prima di attaccare. Ergo, la scelta più saggia era schivare, schivare a prescindere.)
Dicevo, ebbe appena il tempo di saltare via… prima che un bisturi affilatissimo si piantasse in profondità nel legno della balaustra, proprio nel punto dove lui si trovava fino ad un attimo prima.
- Ma che diavolo…?! – imprecò il Gifter.
- Ottimo, vedo che stai migliorando! A quanto pare le mie lezioni servono a qualcosa! – esultò soddisfatta la ragazza.
Dopo un paio di secondi Sheepshaed riuscì ad individuarla: quella piccola scimmia si era di nuovo arrampicata sul pennone della nave maestra!
- Sai, il lancio dei coltelli è stata la primissima cosa che ho imparato. – raccontò la ragazza facendo ciondolare le gambe – Avevo quattordici anni quando ho preso per la prima volta in mano un coltello con l’intenzione di usarlo per ferire invece che per curare. Avevo comprato un pugnale, e volevo imparare ad maneggiarlo, così provai a chiedere a mio fratello di insegnarmi… ma quando mio padre scoprì le mie intenzioni me lo sequestrò, e si giustificò dicendo che quello non era il genere di oggetto che la sottoscritta doveva imparare ad usare. – Kate si strinse nelle spalle, come se quella faccenda non la riguardasse affatto - Così ho dovuto arrangiarmi diversamente: ho sostituito i pugnali con i bisturi, e ho cominciato ad imparare da autodidatta, spiando gli allenamenti dei miei compagni ed esercitandomi da sola di nascosto. – la ragazza cominciò a frugare nella tasca interna del proprio panciotto – Ormai sono anni che non uso più questi giocattolini come arma… sono proprio curiosa di vedere come me la cavo dopo tutto questo tempo! -.  Tirò fuori la mano dalla tasca, e altri tre coltelli scintillarono sotto la luce del sole.
- Sarò più veloce, stavolta. – promise la ragazza, quasi stesse cercando di rassicurarlo.

Ehi, non vorrà mica…?!

Come al solito – stava diventando davvero una pessima abitudine – Sheepshaed non fece in tempo a finire neanche di pensare. La ragazza slanciò il braccio all’indietro con un movimento fluido e perfetto, e scagliò la prima serie di bisturi con tutta la forza che possedeva.
Sheepshaed lanciò un grido e schizzò via per evitare i colpi. Kate rise del suo affannarsi a sfuggirle e continuò a lanciare un bisturi dietro l’altro, aumentando sempre di più la velocità, fino a quando i suoi movimenti divennero una macchia indistinta.
Sheepshaed, d’altro canto, ormai sembrava aver rinunciato a conservare il proprio orgoglio, e continuava a rotolare da una parte all’altra nel tentativo di sfuggirle al serrato assalto di quel demonio…
- Ah! – esultò trionfante la ragazza – Beccato! Ho vinto!

Che cosa?!

Era la verità: nell’addome del Gifter ora era piantato fino a metà manico un bisturi, e dalla ferita sgorgava una gran quantità di sangue rosso vivo.

Oddio, sto morendo. Ho perso.

- Sapevi che nei nostri vasi sanguigni scorrono più di quattro litri di sangue? – chiese Kate con tono beffardo, atterrando leggera di fronte a lui – Le funzioni vitali di una persona si arrestano quando ne perde circa la metà, e di solito si perdono i sensi dopo averne perso un litro. Tu ne stai perdendo più o meno sette centilitri al secondo, pertanto tra circa… uhm, direi quindici secondi stramazzerai a terra, e tra mezzo minuto sarai morto. Certo, potrei anche cauterizzarti la ferita e salvarti la vita, ma guarda caso in questo momento ho un terribile vuoto di memoria, e non ricordo proprio come si faccia! Inoltre la quinta regola deve essere sempre rispettata, e questo duello mi ha davvero affaticata, per cui… ultime parole?
- Me la pagherai, maledetta! Ti giuro che me la pagherai!
- Certo, certo. - rispose annoiata la ragazza, voltandogli le spalle e iniziando ad allontanarsi - Ricordati solo di non venire a disturbarmi prima delle nove del mattino, perché prima di quell’ora non ricevo nessuno. Nemmeno i fantasmi.
Quelle parole, dette con così tanta noncuranza, fecero scattare qualcosa in Sheepshaed. Ma chi si credeva di essere quella mocciosa per prendersi gioco di lui in quel modo, perfino quando era in punto di morte?!
Il suo corpo, ormai quasi del tutto prosciugato, si rianimò improvvisamente. A quel punto non scorreva più solo sangue nelle vene dell’uomo, ma anche furia allo stato puro.

Ti ho sottovalutata, ragazzina, Ho commesso un errore, e adesso ne pagherò le conseguenze. Forse oggi mi distruggerai…

Sostenuto dalla propria rabbia, e dal braccio della Morte, che non si accontentava di una sola vittima, Sheepshaed si alzò.

… ma ti porterò con me.

Si lanciò verso di lei con un grido. Non era un urlo normale, il suo. Era l'urlo di un uomo che grida contro il cielo, chiedendosi perché la sua vita debba finire in quel modo, l'ultimo grido di un uomo prima che la vita abbandoni il suo corpo… mescolato a una dichiarazione folle di vendetta, all’atto disperato e suicida di uno che ha già accettato il proprio destino, ma che vuole comunque andarsene con un ultimo gesto distruttivo, nell’inutile tentativo di riscattarsi.
Un pugno. Un solo pugno, più debole di molti altri, ma totalmente inaspettato, colpì alle spalle la giovane dottoressa, facendole fare un volo in aria di più di trenta metri…

… e scaraventandola in mare.

Kate sbatté violentemente contro l’acqua, il dolore sordo rimbombava nella sua testa.
Le correnti correvano come treni accanto alle sue orecchie. L’impatto le tolse il respiro e la lucidità, l’acqua del mare paralizzò istantaneamente i suoi muscoli, impedendole i movimenti…
Ma soprattutto, l’acqua salata le entrò in bocca, con così tanta forza che il suo corpo schizzò all’indietro, spingendola verso il fondo.

Sto annegando. Annegherò…

È una leggenda metropolitana quella che racconta che i polmoni di riempiono d’acqua quando qualcuno sta annegando: in realtà la penetrazione di acqua lungo le vie respiratorie, anche in piccola quantità, provoca un'apnea causata dalla chiusura dell'epiglottide, una reazione finalizzata a proteggere l'apparato respiratorio dall'acqua. La chiusura impedisce inoltre il passaggio dell'aria: si parla allora di ipossia…

Perché diavolo sta pensando a quelle cose in momento simile?! Vi chiederete voi.
Perché era un medico che non sapeva nuotare.
Perché non poteva fare altro…
Perché stava morendo.
Sentì il petto serrarsi in una morsa di paura. Non era la prima che si trovava ad essere in punto di morte… il ricordo di quando a quattordici anni aveva percepito la vita abbandonarla un po’ alla volta, la sensazione orribile che le aveva dato sentire il respiro gelido della Morte sulla propria pelle, presagio del destino che l’aspettava… tutto questo ancora era impresso a fuoco nella sua mente, e così sarebbe stato fino alla fine dei suoi giorni.

E ora quell’orrore lo stava provando di nuovo.

Davvero è arrivata la mia fine? Davvero sono arrivata al capolinea?
Non ho neanche avuto il tempo di realizzare il mio sogno… volevo diventare capo del mio clan, prendere il posto di Norma Jean…

Ma era finita, e non c’era niente da fare per cambiare quella realtà. Kate chiuse gli occhi, e sorrise inconsapevolmente mentre andava a fondo… finché una voce femminile, che la ragazza aveva sentito una volta sola nella vita e che non aveva mai dimenticato, non la riscosse dal torpore.

Le donne O’Rourke non crollano.
Le donne O’Rourke non conoscono resa.
Le donne O’Rourke rivendicano la libertà.
Le donne O’Rourke rivendicano il potere.
E tu sei una di noi.

Kate spalancò gli occhi d’istinto: era come se avesse ricevuto la scarica di un defibrillatore…
No, era diverso. I suoi poteri, i suoi veri poteri, quelli che aveva ricevuto in dono dalla nascita insieme al cognome che portava, si stavano lentamente risvegliando dopo mesi di stasi, e le stavano attraversando il corpo come la scarica di un fulmine.
Chiunque altro avrebbe avuto paura di quell’energia così strana… ma lei ci era nata con quel potere nascosto dentro, e non lo temette. Quella energia era allo stesso tempo eccitante e paralizzante, e lei non poté fare altro che assecondarla, impotente, mentre le bruciava la fronte come un tizzone ardente nel punto dove c’era il tatuaggio e le premeva contro la bocca, lottando per uscire…
Una nota dolce, leggera, che si gonfiava ed esplodeva in un milione di altre note fendette i flutti come una spada di velluto, provocando una forte vibrazione nell’acqua.

Un richiamo. Il richiamo del potere.

Kate richiuse lentamente gli occhi, in attesa… e l’ultima cosa che vide furono un paio di gigantesche fauci chiudersi su di lei, scacciando la luce.


- Kate! – urlò Law in preda all’angoscia, sporgendosi dal parapetto.
- Oddio! Non sa nuotare! – si disperarono i pirati Heart.
Quelle parole fecero sui presenti lo stesso effetto di un allarme bomba. Tutti i presenti cominciarono a strillare in preda al panico, alcuni cominciarono a correre avanti e dietro senza sapere neanche bene cosa fare, una decina di uomini si fiondò verso la balaustra, pronta a tuffarsi in mare…
Finché una nota acuta non esplose nell’aria alta e potente, in un crescendo di forza e potere. Tutti indietreggiarono e si paralizzarono confusi, ma solo uno di loro capì di cosa si trattava: Edward Newgate.

Non è possibile! Non può aver imparato a usare l’abilità innata del suo clan! È ancora troppo giovane…

Ma ancora una volta non riuscì a concludere il corso dei propri pensieri.
L’oceano cominciò a ribollire, e un silenzio spaventoso carico di trepidazione calò in mezzo ai pirati. Era il silenzio che viene prima della tragedia, la quiete prima della tempesta…
E un pennacchio si levò alto nell’aria nel punto in cui Kate era caduta, una fioritura d’acqua bianca e tempestosa. Il pennacchio salì sempre più in alto, come un geyser senza vapore, come uno scroscio di pioggia al rovescio. Ci fu un gran fragore, come il suono di un ghiacciaio infranto, e il mare sembrò deflagrare, e l’acqua esplose in cielo come una grandinata al contrario…
E con la grandine il Re del Mare emerse dai flutti.
Era enorme, anche per la specie a cui apparteneva: la pelle violacea era dura e coriacea, e aveva diversi colli – tre, per la precisione -, ognuno dei quali terminava con la testa sibilante di un rettile. Ogni testa era a forma di rombo, come quella di un serpente a sonagli, ma le bocche erano tappezzate di file frastagliate di denti da squalo, così lunghi e acuminati da essere spaventosamente simili ad una ricchissima collezione di spade; i suoi occhi erano rosso sangue con la pupilla nera allungata, e dalle narici uscivano sbuffi di vapore della portata di un geyser.
Ovviamente a quella vista le infermiere strillarono di terrore, ma, ironia della sorte, l’apparizione di quell’intruso fece evaporare in un attimo il panico dalle fila dei pirati come il sole fa evaporare l’acqua. Tutti si prepararono ad attaccarlo, con le armi in mano e il volto congelato in un’espressione di fredda determinazione…
- FERMI! – tuonò Barbabianca – NON TOCCATELO!
Tutti si arrestarono, confusi.
- Papà, ma cosa stai…?
- Non toccatelo, ho detto! – ripeté agitato Barbabianca – Guardate, piuttosto!
I pirati guardarono… e rimasero a bocca aperta, increduli.
Il Re del Mare aveva avvicinato con estrema cautela una delle sue teste alla balaustra della nave… e aveva aperto lentamente la bocca, lasciando cadere dolcemente qualcosa sul ponte. O meglio, qualcuno.

Kate. La ragazza rotolò sul ponte pallida e priva di sensi, ma viva. Viva e completamente illesa.

I capelli scuri, che da bagnati sembravano neri, le stavano incollati al volto come una rete di alghe, e il petto si abbassava e si alzava lentamente, segno che, nonostante tutto, la ragazza stava effettivamente respirando; aveva perso le scarpe, e i vestiti bagnati le si erano incollati addosso, facendola tremare lievemente per il freddo, ma stava bene. Era emersa dalla bocca di quel mostro senza nemmeno un graffio.

Ma il suo viso…

Il viso era cambiato: intorno agli occhi e sulle tempie era comparso un tatuaggio nero dal disegno intricato simile ad una maschera maori, che si era andato ad intrecciare a quello rosa a forma di fiore di ciliegio che aveva già in mezzo alla fronte, e che ora stava brillando come una minuscola stella, emanando luce ed energia.

Allora è proprio vero. Pensò Barbabianca sconcertato, ricordandosi di quando era un’altra donna che lui conosceva bene a portare quei segni sul volto. Ha risvegliato i suoi poteri. Ha imparato ad evocare i Re del Mare, e a comunicare con loro.

- E-ehi, K-kate… va t-tutto bene? – balbettò Bepo, non osando avvicinarsi.
La ragazza non rispose, era ancora priva di conoscenza. Law serrò preoccupato la mandibola, e fece per avvicinarsi… ma si fermò subito, ancora più sorpreso di prima.
Il Re del Mare infatti si era nuovamente avvicinato alla ragazza e, con un verso acuto che somigliava molto ad un lamento, aveva cominciato a darle dei leggeri colpetti al braccio con il muso, quasi fosse preoccupato e stesse cercando di svegliarla.
- Mmh, non preoccuparti per me, Ouphe. – mugugnò la dottoressa riaprendo faticosamente gli occhi e mettendosi lentamente seduta - Sto bene, non è niente.
- NON È POSSIBILE! – urlò Sheepshaed – QUEL TATUAGGIO…
Ma non finì di parlare. Kate nel frattempo si era rimessa in piedi, e lo stava trafiggendo con lo sguardo, simile ad un angelo vendicatore.

- Attacca, Ouphe.

E Ouphe obbedì. Il mostro lanciò un acutissimo grido di battaglia e si avventò su di lui a fauci spalancate, con la chiara intenzione di papparselo in un sol boccone. Sheepshaed lanciò un grido di terrore e strisciò freneticamente all’indietro, alla disperata ricerca di una via di fuga…
- Aspetta, Ouphe!
Il mostro si bloccò all’istante, obbediente, ad appena un passo dal Gifter. Kate gli avvicinò con calma, accarezzando distrattamente le squame della bestia quando le passò accanto, e si parò davanti a lui, fissandolo impassibile.
- Hai avuto un bel fegato a colpirmi in quel modo, prima. Davvero! – disse la ragazza – Apprezzo molto il coraggio, specie quando fa commettere gesti disperati… tuttavia per causa tua per poco non annegavo, e questo decisamente non l’ho apprezzato, perciò te lo chiederò ancora… - la ragazza posò una mano sulla testa di Ouphe, che spalancò nuovamente le fauci, ritraendo già le labbra per lasciare spazio alle zanne, pronto a scattare all’ordine della sua padrona - … ultime parole?
Sheepshaed non rispose subito. La fissò per un momento, poi rise: una risata pura e fredda come l’acqua gelida, gorgogliante come lo scrosciare di una cascata. Anche quando alla fine parlò stava ancora continuando a ridere – Le mie ultime parole?! – chiese divertito – dovresti preoccuparti delle tue ultime parole, mocciosa. Una piccola mocciosa arrogante con un bersaglio dipinto sulla schiena, ecco cosa sei. Non arriverai al tuo prossimo compleanno, ne sei consapevole, vero?
Kate fece un sorrisino di derisione – Dovrei preoccuparmi del tuo Kaido, secondo te? Non temo né quel selvaggio, né…
- Kaido?! Oh no, ragazzina, lui sarà l’ultimo dei tuoi problemi da oggi in poi! – rise ancora Sheepshaed – Quando il mondo intero saprà chi sei, giovane O’Rourke, e di cosa sei capace… tutti ti daranno la caccia, tutti! Avresti fatto meglio a rintanarti a Cherry Blossom come voialtre donne di quel clan maledetto avete sempre fatto, a continuare a strisciare nell’ombra come le tue parenti…
- Ormai sono decenni che le donne O’Rourke non si nascondono più come prima, idiota. Non siamo fatte per una vita simile. E io non temo nessuno, e non mi vergogno di quello che sono!
- Lo rimpiangerai… - promise Sheepshaed, per poi trasalire per il dolore. Gli restavano pochi istanti, era evidente.
- Oh no, io non credo. – replicò Katherine con un sorriso – visto che lo scopo della mia vita è assumere la guida del mio clan, un giorno o l’altro.
Sheepshaed sgranò gli occhi per un momento, poi rise di nuovo, tossendo sangue – Sei… addirittura… più folle… di quello… che sembri…
E morì. Kate vide il momento esatto in cui la vita lo abbandonò. Non fu una cosa istantanea e muta, come nei film: la sua voce soffocò in un gorgoglio, i suoi occhi si rovesciarono all’indietro e il corpo si fece molle e pesante, accasciandosi su sé stesso.
Eppure non le fece alcun effetto. Come guerriera aveva visto tantissima gente morire, e da medico ancora di più. Era da parecchio che la perdita in sé di una vita non la sconvolgeva più.
- SHEEPSHAED-SAMA! – urlò disperato un coro di voci.
Si voltarono tutti di scatto, Kate compresa: sulla terraferma, a circa un centinaio di metri da loro, un gruppo di uomini, chiaramente pirati, si era radunato a riva, e stavano fissando lei, Ouphe, ma soprattutto il cadavere del Gifter con occhi spalancati guizzanti per il terrore e lo shock, chiaramente consapevoli di ciò che era accaduto.

Kate si accigliò. Da quanto tempo ci stavano osservando…?

La risposta era chiara: abbastanza da aver perfettamente inteso cosa era accaduto, e soprattutto come era accaduto.
Ora stavano fissando soltanto lei. La ragazza strinse gli occhi, e ricambiò lo sguardo con aria truce e minacciosa, come a voler dire: fuori dai piedi, scarafaggi che non siete altro.
Funzionò alla grande, anche troppo: lanciarono tutti un grido impaurito, e si dileguarono in fretta e furia, come se avessero avuto alle calcagna un intero esercito di demoni.

Cavolo! Faccio così tanta paura? Fantastico!

Kate scosse lentamente la testa per il divertimento, e si voltò verso Ouphe – Tu puoi andare. – disse con un sorriso, accarezzandogli delicatamente il muso – Grazie, sei stato di grande aiuto!
Il Re del Mare fece un verso acuto di saluto, e si inabissò così come era emerso.

Ottimo! Pensò Katherine, mentre il tatuaggio nero le spariva dagli occhi e quello rosa ritornava normale. Il nemico è stato sgominato, non sono morta, e mio fratello guarirà! Tutto è bene quel…

Il momento di gloria durò poco: Kate si sentì afferrare da dietro per il colletto della camicia, e sollevare a due metri da terra come se fosse stata una bambola di pezza.
- Che diavolo…?!
- DANNATA IRRESPONSABILE! – urlò furibondo Barbabianca strattonandola – SI PUÒ SAPERE COME TI È SALTATO IN MENTE DI FARE UNA COSA DEL GENERE?!
- Papà, mettimi subito giù! – strillò inviperita Kate, scalciando inutilmente per tentare di liberarsi. Law scattò in avanti digrignando i denti, ma si ritrovò davanti una corazzata di comandanti che gli lanciavano occhiate minacciose di avvertimento.
- Non ti intromettere, pivello. È una questione di famiglia.
- RISPONDI, MALEDIZIONE! – urlò ancora Barbabianca – HAI PERSO COMPLETAMENTE LA RAGIONE?! Prima ti infiltri sulla nave travestita da uomo di nascosto come una ladra, poi convinci Beatrix ad ingannarci tutti, poi provochi deliberatamente quell’uomo, e poi arrivi addirittura ad evocare un Re del Mare?! Cos’è, vuoi morire?! Hai idea di quanto può costarti quello che hai fatto prima?!
- Mi sono solo difesa! È stato lui a sfidarmi a duello! – replicò Kate, ignorando le ultime parole.
- Perché tu l’hai provocato distruggendogli la nave! – la rimproverò Barbabianca.
- Stava spiando di nascosto tutte le vostre mosse. – rivelò Kate – Sospetto che fosse stato Kaido a mandarlo qui per spiarvi, sperando di avere un’occasione per attaccare la nave e sconfiggervi. Ho agito così per scongiurare questa eventualità! Dovresti ringraziarmi!
- Non era cosa che dovevi fare tu. – rispose duro Barbabianca – Il tuo compito era andare in infermeria e operare Thatch. Tutto qui! Di Sheepshaed avrebbero dovuto occuparsi i tuoi fratelli!
Kate fece una risata amara – Ma certo, è ovvio. Come ho fatto ad essere così egoista? Che razza di idee… la sottoscritta che affronta un nemico invece che starsene a lavorare in infermeria! Chissà cosa mi è saltato in testa!
Il volto di Barbabianca si intristì leggermente – Non volevo dire questo…
- So benissimo cosa volevi dire, papà. – lo freddò Katherine – Risparmiami le tue patetiche scuse. Non cambierai mai, le tue parole sono solo aria fritta, così come è sempre stato. E adesso rimettimi a terra, subito!
Barbabianca espirò dal naso, ma non protestò. La rimise a terra, e la ragazza gli puntò gli occhi in faccia, fulminandolo – E tanto perché tu lo sappia, le cose non stanno come pensi tu! Non l’ho evocato io quel Re del Mare!
Barbabianca alzò un sopracciglio – Certo, come no. Cos’è, ora mi prendi anche in giro? Mi credi così rimbambito, signorina?
- Ti dico che non l’ho evocato! O meglio… - tentennò Kate - … non l’ho fatto apposta. –
Barbabianca la fissò confuso, e la ragazza sospirò impaziente, allargando le braccia – Io non lo so usare quel potere, ok? Mai stata capace. Si attiva sempre da solo, in genere quando sono in pericolo. La prima volta è stata due anni fa, ed è sempre Ouphe che interviene. Ho provato diverse volte ad attivarlo volontariamente, ma non ci sono mai riuscita.
Barbabianca la stava guardando poco convinto, e la ragazza insistette – È la verità, lo giuro!
- Ammettiamo che io ti creda. Perché allora hai sbandierato il tuo potere ai quattro venti in quel modo?!
- Oh senti, cosa dovevo fare?! Stavo annegando, stavo per morire! Ouphe mi ha salvato la vita, non ho avuto altra scelta! – si indispettì Kate – E poi ero arrabbiata. Volevo dare una lezione a quel tipo.
- Potevi farlo senza rivelare la tua vera identità!
- Io non mi vergogno di quello che sono, l’ho già detto! – esplose la ragazza – E né tu né Norma Jean potete impedirmi di seguire la strada che ho scelto! Avete perso entrambi quel diritto su di me molto tempo fa, ormai. Ficcatevelo in testa una volta per tutte, tutti e due.
Barbabianca sospirò esasperato, ma non disse più nulla.
- Ottimo. – disse Kate soddisfatta – allora io me ne torno in infermeria. Ho ancora qualcosa da… -
- Oh no, dolcezza! Ora ne ho abbastanza di questa storia! – dichiarò Law, afferrandola per il braccio e cominciando a trascinarla via, lontano da orecchie indiscrete. Jaws fece per inseguirli, ma Barbabianca lo bloccò, ordinandogli di rimettersi seduto.
- Ehi! Che cosa stai facendo?! Lasciami andare!
- Non prima che tu mi abbia spiegato cosa diavolo sta succedendo!
- Oh, insomma! – sbuffò la ragazza esasperata – Io non ho tempo da perdere! Se hai qualcosa da ridire rivolgiti all’ufficio “Reclami contro la Mocciosa Malefica”. È in fondo a destra, lo gestisce Beatrix.

(Non ridete, l’ufficio c’era davvero. L’avevano istituito quando Kate aveva undici anni. Ve ne lascio immaginare il motivo.)

- Fa’ poco la spiritosa, dolcezza! – replicò seccamente Law. Kate ridacchiò del suo tono indispettito, e Law la spinse contro il parapetto, poggiando a propria volta le mani sulla balaustra, bloccandola contro di sé.
Kate sgranò gli occhi, sorpresa, rabbrividendo nel sentire il suo calore così vicino a sé. Che gli era preso all’improvviso?!
- Stai invadendo il mio spazio vitale. – gli fece notare la ragazza con voce appena tremante, poggiandogli le mani sul petto nel tentativo di mettere un po’ di distanza.
- Il tuo spazio vitale se ne farà una ragione.
- Dai Law spostati, non è divertente. Sei troppo vicino!
- Che c’è, la cosa ti mette a disagio?
- In effetti un pochino sì. C’è la possibilità non trascurabile che tu possa attaccarmi il tuo virus da maniaco del controllo.
Law sogghignò, e si sporse per afferrare un pezzo di legno che si trovava lì vicino - doveva essere finito là quando Kate aveva demolito l’albero maestro –; nel muoversi per prenderlo le si avvicinò ancora di più, e Kate trasalì.
Law allargò il ghigno a quella reazione, e si rigirò il frammento tra le dita - Forse. O magari invece la mia vicinanza ti costringe ad ammettere che nonostante tutto ti piace il mio modo di fare, oltre al mio velato carisma sessuale.
A quelle parole Kate per un momento rimase del tutto interdetta; poi gettò indietro la testa e scoppiò a ridere di gusto, sollevata. Fortunatamente stava solo scherzando – Non so cosa sia più divertente, il fatto che tu abbia il coraggio di dire certe cose di me sulla nave dove c’è mio padre e un numero esagerato di fratelli maggiori che potrebbero ridurti ad un mucchio di poltiglia in un paio di minuti, oppure il fatto che sembri essere davvero ridicolmente convinto di ciò che dici.
Law fece una smorfia fintamente addolorata e spezzò il pezzo di legno che aveva in mano – Sentito? Era il suono del mio cuore che si spezzava.
- Be’, puoi sempre usare la colla.
- Divertente! – sogghignò Law, per poi tornare serio e posarle le mani sulle spalle – Sei sicura di stare bene? Non sei ferita, vero?
- Non devi preoccuparti per me, tesoruccio. Ti sei già umiliato abbastanza prima.
Law alzò gli occhi al cielo, ma poi disse - È stata una magnifica esibizione.
Kate gli sorrise con aria furba - Ho avuto un bravo regista.
- Non ne dubito. – Law ricambiò il sorriso, ma poi si accigliò – Ok, momento carino finito. Ora mi dici cosa è successo prima?!
Kate sospirò, scuotendo la testa – È complicato, Law…
- Già, forse anche più di quello che penso io. – replicò aspramente il chirurgo – Come hai potuto tenermi nascosta una cosa simile?!
- Be’, non saprei. Di quale delle tante cose che ti ho nascosto stai parlando, esattamente?
- Basta con gli scherzi, Kate. – la freddò il ragazzo guardandola severamente - dimmi tutta la verità, e che sia la verità stavolta.
Kate sospirò di nuovo. Quanto avrebbe voluto dirgli tutto! Odiava avere tutti quei segreti con lui… se avesse potuto tornare indietro sarebbe stata sincera con lui sin dall’inizio. Quando si erano conosciuti non aveva voluto parlargli di niente perché non credeva fossero affari suoi… e poi in seguito aveva continuato a tacere perché temeva da morire la sua reazione; ma del profondo aveva sempre saputo che quel momento sarebbe arrivato prima o poi, e adesso che c’era dentro si sentiva come in bilico su una corda a cinquecento metri d’altezza senza rete sotto. Come avrebbe reagito una volta saputa la verità sulla sua famiglia d’origine, sui suoi poteri e sui suoi contrasti con la famiglia adottiva? Kate non riusciva ad immaginarlo: avrebbe potuto infuriarsi e odiarla a morte... ma avrebbe benissimo anche potuto fregarsene di tutti i problemi che la ragazza si portava dietro sin dalla nascita, e continuare a vederla per ciò che ormai era diventata: il vice capitano dei pirati Heart.

Dovrò comunque affrontare il suo giudizio, prima o dopo. Tanto vale togliersi il pensiero e dirgli ogni cosa una volta per tutte.

- Va bene, hai vinto. Ti dirò tutto. – si arrese Kate.
- Mi piacerebbe molto! – replicò ironicamente Law.
Kate gli lanciò un’occhiataccia, ma lasciò cadere le spalle - Va bene, allora… la prima cosa che devi sapere è…
- Capitano O’Rourke! – strillò agitata Jocelyn avvicinandosi – Deve venire subito! Suo padre si è sentito male!
- Mio padre cosa?! – gridò Kate sconvolta, per poi calmarsi subito e alzare un sopracciglio – Aspetta… quale dei due?
Jocelyn la guardò malissimo.
- Che c’è?! È una domanda legittima!
Jocelyn sbuffò, ma rispose – Quello biologico. È collassato dieci minuti fa. Pensavamo fosse la stanchezza… ma poi gli abbiamo trovato un rash sotto i vestiti, e Beatrix-senpai gli ha fatto controllare la pressione. È gravemente ipoteso, abbiamo dovuto cardiostimolarlo… e ora ha anche la febbre alta.
- Cioè ha praticamente tutti gli altri strani sintomi che ha presentato mio fratello?! – chiese incredula Kate.
- Sì, praticamente sì… solo che adesso al comandante Thatch stanno collassando anche i reni. Beatrix-senpai gli ha fatto fare un test mentre lei era fuori, ed è risultato che si tratta di una nefropatia tubulointerstiziale acuta. – Jocelyn la fissò un po’ smarrita – Solo che non ho capito cosa volesse dire…
- Vuole dire che ha un’insufficienza renale dovuta ad una reazione infiammatoria. – spiegò in fretta Kate senza pensarci – c’è altro che…
- Sì, c’è altro che dovresti sapere. – intervenne Beatrix, sopraggiunta in quel momento – Il paziente lamenta anche un forte dolore addominale. Certo, a questo punto potrebbe anche essere causato dalla nefropatia tubulointerstiziale acuta, ma non possiamo averne la certezza. Inoltre ho fatto a Thatch la conta dei globuli bianchi: sono bassissimi, e continuano a calare. Questo significa che…
- Che ci sono problemi al midollo osseo. – concluse Law con tono professionale – Cosa un tantino strana per uno a cui è esplosa una granata in faccia, e che a quanto pare soffre di nefropatia tubulointerstiziale acuta. L’unica spiegazione è che…
- Le ferite causate dalla granata non sono l’unico problema. – sospirò Kate – È malato, e con tutti questi sintomi, dio solo sa di che cosa. Tornate in infermeria, voi due. Arrivo subito.
Le due donne a quelle parole spalancarono gli occhi, ma se ne andarono senza protestare.
Kate si voltò in fretta verso Law, e lo fissò implorante – Devi aiutarmi.
- Ehi, ti devo ricordare che eravamo nel bel mezzo di un’appassionante discussione su quanto tu sia infida e bugiarda? A proposito, che intendeva quell’infermiera quando parlava del tuo padre biologico?
Kate sbuffò irrequieta – Hai presente quel dottore che è uscito prima a parlare con voi?
- Sì, e allora?
- Bene, quello è il mio padre biologico.
- Che cosa?! Ma come diavolo…
- Oh andiamo, questo non è il momento per le scenate! – esclamò Kate impaziente - Mio fratello sta male! Io e mio padre abbiamo estratto tutti i frammenti metallici dai tessuti, e io avevo cominciato a richiudergli le ferite, ma se è davvero malato ora sta chiaramente degenerando, e il suo organismo non potrà sopportarlo, è troppo debole! Sai che io con il mio potere non posso intervenire sulle malattie…
- Non vedo come potresti intervenire, in ogni caso. Se non sai neanche di cosa soffre…
- È proprio questo il punto! – annuì vigorosamente Kate – è per questo che mi serve il tuo aiuto…
- Cosa c’entro io?! Sei tu che hai la specializzazione in diagnostica! Io sono specializzato in neurologia e medicina interna…
- Ma due menti pensano meglio di una sola! E se sono le nostre menti a lavorare insieme…
Law la guardò malissimo - Non posso credere che tu abbia la faccia tosta di chiedermi aiuto dopo quello che è appena successo.
- È davvero questo il tuo problema?! – chiese sconcertata Kate. Law aprì la bocca – probabilmente per dire qualcosa di molto brutto – ma Kate lo precedette – Senti, ti prometto, anzi ti giuro che domani ti racconterò tutto quello che vuoi, ok? Tutto, anche i pettegolezzi scabrosi sui miei fratelli se ti fa piacere, ma adesso mi serve davvero il tuo aiuto!
Law la fissò impassibile, come se aspettasse qualcosa, e Kate digrignò i denti. Lo avrebbe preso a pugni in quel momento per tutto il tempo che le stava facendo perdere solo per il gusto di metterla in difficoltà… e invece dovette ingoiare l’orgoglio, come al solito.
- Ti prego… - lo supplicò lo malincuore, stringendo i pugni per imporsi di non picchiarlo.
Law sorrise compiaciuto – Era questo che volevo sentire! Ottimo, mettiamoci al lavoro, collega. Ma prima cambiati questi vestiti fradici, o verrà un malanno anche a te.


- Te lo chiedo per l’ultima volta, Law… - sibilò Kate all’orecchio del ragazzo, stando attenta a non farsi sentire dagli altri e imponendosi di mantenere la calma - …potresti, per favore, smetterla di fissarmi la scollatura?!
Law ghignò – Scusa dolcezza, ma non posso farci niente. Quella divisa da infermiera lascia davvero troppo poco all’immaginazione...
- Allora proverò a metterla diversamente. – replicò Kate con un sorriso irritato – o la smetti subito di fissarmi la scollatura o giuro che molto presto tu, mio caro capitano, non sarai in grado di immaginare un bel niente. Mi sono spiegata?
- Perfettamente. Ma continuo ad essere dell’idea che avresti fatto meglio ad accettare la felpa che ti avevo offerto.
- Se l’avessi fatto tu saresti rimasto a torso nudo, e a quest’ora tutte le infermiere sarebbero state tutte sul pavimento, immerse in una pozza della loro stessa bava a tentare di ricordare ognuna il proprio nome.
- Esatto! Non trovi che sarebbe stato un gran bello spettacolo?
- No, affatto. E ora concentrati su ciò che stiamo facendo!
- Non vorrei interrompere il vostro battibeccare da bambini dell’asilo… - si intromise seccata Beatrix - … ma vorrei farvi notare che qui stiamo ragionando e facendo ipotesi da più di un’ora, e ancora non abbiamo idea di quale sia il problema di Thatch. Perciò forse è il caso che ci impegniamo di più, non credete!?
I due ragazzi smisero subito di litigare, sbuffando per la frustrazione. Sembrava incredibile, ma era proprio vero: Kate, Law, i pirati Heart e tutte le infermiere di Barbabianca si era radunati sul ponte principale insieme a tutti gli altri più di un’ora prima, e da quel momento erano rimasti bloccati sempre su quella discussione, incapaci di trovare una soluzione. Avevano letto cartelle, analisi, consultato diversi manuali, ma niente! L’unica cosa che erano riusciti a fare era escludere una serie di malattie: avevano escluso l’ipertiroidismo, l’artrite, l’allergia, la vasculite, i carcinoidi…
Sì, tutto questo andava bene, ma era del tutto inutile se non capivano quale fosse la malattia giusta! E il fatto che tutti gli altri pirati di Barbabianca li avessero fissati con occhi tanto spalancati da sembrare tazzine da thè per tutto il tempo non aveva contribuito un granché a risolvere il loro problema di concentrazione…
- E se fosse un’infezione cardiaca? – chiese Beatrix.
- Impossibile. – la freddò Law – al di là del fatto che è un caso che ricorre una volta su dieci milioni, non raccoglie nemmeno tutti i sintomi. Rash e tosse restano fuori…
- E se fossero parassiti? – chiese Bepo.
- No, quelli provocano solo dolore addominale e rash. – sospirò Kate – forse una sinusite…?
- Scherzi? Quella comprende solo febbre, pressione bassa e tosse! – la prese in giro Law.
- Oh scusa, non ho ancora sentito la tua idea geniale! – lo fulminò Kate – perché non ci provi tu?
- Una yersinia, magari…
- Ma quella non raccoglie nessuno di questi sintomi! Che razza di ipotesi è?!
- Oh insomma, la volete smettere voi due?! – perse la pazienza Bepo – Perché non la piantate di litigare come bambini e non guardate in faccia la realtà?! Non esiste nessuna malattia che raccoglie tutti quei sintomi!
- Ah no? Ma pensa, e io che credevo fosse malato! A quanto pare non è così! – replicò sarcastica Kate – Chi si ritira per primo?
Ovviamente non si mosse nessuno. Mica scemi. Era ovvio che Thatch fosse malato, non è che solo perché loro non riuscivano ad individuare il problema, il problema in realtà non c’era…
Dovevano calmarsi e ragionare. La risposta c’era, dovevano solo trovarla.
- Allora, consideriamo quello che sappiamo. – sospirò Law tirandola per un braccio per rimetterla seduta e mettendosi in piedi propria volta, cominciando a camminare avanti e indietro e a gesticolare con la mano – I sintomi sono questi: rash, tosse, insufficienza renale, dolore addominale, problemi al midollo osseo, febbre, ipotensione. Non sappiamo se questa malattia è legata in qualche modo all’incidente con la granata, ma sappiamo per certo che è qualcosa di contagioso, quindi possiamo escludere le patologie genetiche…
- Ehi, un momento! – esclamò Kate – qual era l’ultima cosa che hai detto?!
Law alzò un sopracciglio – Che non è una malattia genetica?
- Sì! E perché non lo è?!
- Be’, perché è contagiosa… se l’è presa anche tuo padre, per cui…

Malattia… contagio… inspiegabile… Memphis…degenerazione… sintomi…

Oddio, non dirmi che è…

- CI SONO! – saltò su Kate con un grido acutissimo, facendo sobbalzare tutti – HO CAPITO!
- Ah, davvero? – chiese sarcastico Law – allora perché non illumini anche a noi?
- È la gotta!
Calò il silenzio. Kate sorrideva convinta, e tutti la fissavano come se fosse impazzita… tutti a parte Law, che si era accigliato e stava chiaramente cominciando a capire.
- Ehm… parliamo ancora di tuo fratello? – chiese perplesso Bepo.
- Gotta? – fece Beatrix - Cioè acidi urici nelle articolazioni?
- Esatto!
- Ma… i sintomi della gotta sono completamente diversi! Dolore, gonfiore, rossore, rigidità… Thatch non ha neanche uno di questi sintomi!
- Certo, perché lui la gotta non c’è l’ha! Eh! – rise Kate raggiante, battendo le mani emozionata.
- Ok, quindi abbiamo escluso un’altra malattia. Ma non abbiamo ancora trovato la…
- Oh insomma, vi volete svegliare, tutti quanti?! – sbuffò la ragazza – Il Rasoio di Occam non vi dice niente?!
- Il rasoio di cosa?! – fecero tutti smarriti. Tutti tranne Law, che si teneva la fronte con una mano, sgomento, borbottando qualcosa tra sé e sé. Aveva capito.
- Ok seguitemi, vediamo se riesco a farvi capire. – sospirò Kate, alzandosi e cominciando a passeggiare – Ogni giorno le cellule muoiono; sopravviviamo perché quelle restanti si dividono e le rimpiazzano. La colchicina, che è il farmaco usato contro la gotta, blocca la mitosi e arresta la divisione delle cellule, e inoltre inibisce la capacità del miocardio di contrarsi e pompare il sangue. – spiegò la ragazza – Il risultato è: dolore addominale, rash, febbre, problemi al midollo, ipotensione, e insufficienza renale!
- Ok, ma se la gotta non ce l’ha perché dovrebbe curarsela? E poi, per quanto riguarda la tosse? – chiese Bepo.
- Eccola qui, la domanda da cento milioni! – esclamò la ragazza – Già, perché avrebbe dovuto assumere la colchicina se la gotta non ce l’aveva?
I presenti si scambiarono un’occhiata, e si misero più comodi per poter ascoltare la spiegazione.
- Allora, poniamo caso che Thatch fosse malato già da prima dell’attacco della Marina. Supponiamo, che so, che avesse già la tosse! Se l’avesse avuta la cosa più logica da fare sarebbe stata andare da un dottore, ma visto che qui dottori non ce n’erano – e ne abbiamo avuto chiaramente ragione -, e visto che è un idiota, ha pensato bene di rivolgersi piuttosto ad un’infermiera. L’infermiera, ovviamente, per meritarsi i soldi di stipendio che prende su questa nave, e forse anche per assecondare uno slancio di orgoglio, gli ha prescritto delle pillole per la tosse, e si è anche premurata di procurargliele. –
- E allora dov’è il problema? Non capisco… - mormorò Shachi.
- Ah, non capisci?! – si alterò Kate – Eppure è così evidente! Il problema è che qui qualcuno qui si è rubato il mio lavoro!
Tutti la fissarono straniti. Kate si impose di calmarsi e ricominciò – Aprite bene le orecchie: c’è un motivo se c’è una divisione del lavoro tra medici e infermieri. Se io mi mettessi a fare il bagnetto e a cambiare le lenzuola ad un paziente non sarebbe giusto verso gli infermieri, se gli infermieri un giorno si mettessero a prescrivere le medicine non sarebbe giusto verso di me. Non ci si può improvvisare medici! Anche perché se lo si fa si corre il rischio di commettere madornali sciocchezze, come ad esempio…
- … dare ad un paziente pillole per la gotta invece delle pillole per la tosse… – concluse Law con un sospiro - … con il risultato di non mandargli affatto via la tosse, ma causandogli in compenso un avvelenamento da colchicina.
- Proprio così. - Kate gli sorrise e poi si rivolse di nuovo agli altri – Ora è tutto chiaro? Questa è la teoria del Rasoio di Occam: la spiegazione più semplice è sempre la migliore. E da che mondo è mondo la spiegazione più semplice a qualsiasi problema è che qualcuno s’è sbagliato.
- Cioè stai dicendo che Thatch sta morendo solo perché qualcuno gli ha dato le pillole sbagliate?! – chiese sconcertato Barbabianca.
- Benvenuti a bordo, signori miei! – annunciò Kate.
- Ma non spiega perchè anche tuo padre abbia quei sintomi... - protestò Beatrix.
- Scommetto che si è infettato tagliandosi con il bisturi che stava usando per tirare fuori le schegge dal torace di Thatch. Non sarebbe la prima volta, mio padre è sempre stato scandalosamenete maldestro. - tagliò corto la ragazza – Ora rimane solo un quesito a cui rispondere... – Kate lasciò sfumare la frase nell’aria, per poi voltarsi verso le sue infermiere con la furia di un’erinni, portandosi le mani ai fianchi - … chi è stata tra voi infide serpi, zucche vuote, oche insubordinate ad essere stata talmente stupida da violare la prima regola della mia infermeria, e a tentare di curare una malattia di propria iniziativa senza avere neanche uno straccio della preparazione medica necessaria?!
Non si può spiegare la portata del silenzio che cadde in quel momento sul quel ponte. Tutti, ma proprio tutti – anche quelli che non erano stati chiamati in causa – incassarono la testa nel collo e rabbrividirono, incapaci di nascondere la propria paura davanti alla collera di quella piccola dottoressa, che stava fissando le sue infermiere una per una come se stesse controllando a stento l’impulso di smembrarle una ad una con una motosega e di usare le loro frattaglie per preparare degli smoothies per tutti. Qualcuno dei pirati fece anche qualche timido passo in avanti, come se fosse pronto a frapporsi tra la furia della ragazza e la sua potenziale vittima, in un estremo e patetico atto eroico di sacrificio da tragedia greca.
- Oh andiamo, tanto nessuno si arrabbia! – esclamò la ragazza con finta voce conciliante – sto solo chiedendo chi ha tentato di uccidere mio fratello!
Ancora nessuno si fece avanti. Beatrix a quel punto le si avvicinò – Ascolta, forse sarebbe meglio…
- Aveva mal di gola. – pigolò timidamente una voce. Tutti si voltarono, e con sommo orrore videro che era stata Mary Lou a parlare. – Tossiva tanto… io volevo solo aiutarlo…
- Mary Lou! – gemette Beatrix, per poi nascondere il viso tra le mani.
- Mi dispiace! – piagnucolò la bambina – Non l’ho fatto apposta, lo giuro! Credevo fossero solo pillole per la tosse…
- Non un'altra parola, mocciosa!
Mary Lou si interruppe, fissando terrorizzata la dottoressa. Kate la stava guardando con occhi spiritati, e stava letteralmente fremendo di rabbia dalla testa ai piedi, le dita incurvate come degli uncini. La piccola strillò, e si andò ad aggrappare alle gambe di Beatrix.
Prima che le cose potessero degenerare, Law intervenne: si avvicinò in fretta alla sua amica, le afferrò il braccio e le mormorò qualcosa di indistinto all’orecchio. Kate prese una bella boccata d’aria, contò in silenzio fino a dieci, e per fortuna riuscì a calmarsi, rilassandosi tra le braccia dell’amico.
- Va bene! - esclamò alla fine con voce secca, appoggiandosi a Law come se fosse la sua colonna portante – l’importante è che abbiamo la diagnosi, al resto penseremo dopo…
- Io mi occupo di estrarre la colchicina dal corpo di tuo fratello con la Room. – la rassicurò il ragazzo – Tu prepara un cocktail di immunoglobuline da iniettare per endovena a tuo padre per arrestare il processo di diffusione del farmaco, e poi finisci di richiudere tuo fratello. Dovremmo farcela.
Kate annuì lentamente, e i due ragazzi si avviarono insieme verso l’infermeria.
Beatrix li osservò: perfino con i tacchi Kate arrivava a malapena alla spalla di Law. Non si toccavano, ma avanzavano fianco a fianco verso la porta, sicuri e perfettamente a loro agio l’uno con l’altra. Beatrix all’inizio aveva pensato che potessero essere una coppia, e nonostante tutto ancora non escludeva quell’ipotesi, ma di certo una cosa ora le era molto chiara.

Erano una squadra.


- Non posso ancora credere che abbia potuto fare una cosa simile! – esclamò Kate per l’ennesima volta mentre faceva vagare le mani sulle ustioni del fratello – Ma come accidenti le è saltato in mente?! Per poco non lo…
- Sì sì, per poco non lo ammazzava, l’hai già detto. Almeno venticinque volte. – la interruppe annoiato Law, mentre riempiva l’ennesima provetta di colchicina sistemato di fronte a lei – Tanto per curiosità, quante volte hai intenzione di ripeterlo ancora?
- Fino a quando la frustrazione non mi sarà passata!
- Allora ci vorranno anni! La frustrazione a te scorre nelle vene insieme al sangue…
- Ehi, stai dicendo che pensi che io sia una schizzata?!
- No, sto dicendo che io so che tu sei una schizzata. C’è una sottile differenza di semantica...
- Ah sì? E tu sei un maniaco!
Law la guardò malissimo – Lunatica.
- Dittatore.
- Testarda.
- Idiota!
- Capricciosa!
- Traditore!
- SERPE!
- REPRESSO!
- BASTA! – urlò Bepo fuori dalla porta – Non fatemi venire là dentro, voi due!
I due dottori sbuffarono e distolsero lo sguardo l’una dall’altro, tornando a concentrarsi – anche troppo - su ciò che stavano facendo.
- Domani, quando questa storia sarà finita e saremo lontani di qui, ti darò una lezione che non dimenticherai. – minacciò Law.
- Ma sentitelo! Me la sto facendo sotto dalla fifa! – rise beffarda Kate.
Law ghignò – Ridi, ridi pure… ma poi sarò io a ridere. Stavolta hai davvero esagerato, ti aspetta una punizione esemplare. Rimpiangerai di avermi sfidato in questo modo…
- Ah sì? E cos’è che avresti in mente per me? Farmi lucidare l’intero sottomarino armata solo di uno spazzolino? – scherzò Kate.
- In realtà non ho ancora deciso. Vedremo.
- Potresti farmi diventare la tua schiava sessuale. – propose Kate ridacchiando.
Law sembrò pensarci seriamente – Non sarebbe una cattiva idea.
Kate alzò gli occhi al cielo – Trovati una cavolo di donna Law, dico sul serio. Non potrò essere il bersaglio dei tuoi commenti sessisti in eterno.
- Una donna?! Scherzi? C’è già una donna nella mia vita, ed è già molto più di quanto io possa sopportare! – replicò astiosamente il chirurgo.
- Allora vai a farti un giro in un bordello! Entri, scegli una bella prostituta, ti infili nella sua stanza, fai un po’ di palestra e torni come nuovo.
Law la guardò male - Non mi interessa andare a prostitute.
Kate si strinse nelle spalle - Be’, allora immagino che un gigolò potrebbe risolvere i tuoi problemi altrettanto efficacemente…
Law si incupì ancora di più – Io non sono gay, Kate.
- Davvero? Sicuro sicuro? Strano, in questi tre anni non ti mai visto mostrare neanche un pochino di interesse per nessuna donna…
- Forse perché non sono più un adolescente allupato? – suggerì sarcasticamente Law.
- No? Ma pensa, e io che ero convinta che voi maschi viveste in quella fase per l’intera durata della vostra esistenza…
Law ghignò – E adesso chi è che fa commenti sessisti?
- Ok, obiezione accolta. – rise Kate, per poi restare in silenzio per un momento. Poi ricominciò – Però se hai qualche problema puoi anche dirmelo, sai? È a questo che servono gli amici, per ascoltare! E se mai un giorno decidessi di venirmi a dire che sei tragicamente impotente, ti assicuro che ti vorrei bene lo…
- QUESTO È TROPPO! – esplose Law furibondo. Il chirurgo mollò tutto ciò che aveva in mano e cominciò a rincorrerla per tutta l’infermeria.
Kate rise di gusto mentre scappava dal ragazzo: continuavano a girare in tondo nell’infermeria come due scemi, e mentre Law continuava a lanciarle minacce terribili mentre tentava di afferrarla, lei continuava a sghignazzare e a prenderlo in giro.
Alla fine si fermarono entrambi, esausti e con il fiatone, ma rilassati e divertiti come non mai. Perfino Law non riusciva a nascondere l’ombra di un sorriso, sebbene continuasse a sforzarsi di fulminare la giovane O’Rourke con gli occhi.
- Torniamo al lavoro? – chiese Kate, una proposta di tregua ben camuffata.
- Sì, forse è meglio.
- Dovresti rilassarti un po’, sai? Tutto questo atteggiarti a “sono-un-principe-di-ghiaccio-che-squarta-i-coniglietti-in-cantina” prima o poi ti farà venire un’ulcera.
- Sei tu che mi farai venire un’ulcera, un giorno o l’altro! – si lamentò Law.
Kate rise e si rimise al lavoro, imitata da Law. Se qualcuno in quel momento le avesse chiesto cosa pensava di quel ragazzo, probabilmente avrebbe risposto con una certa stizza “Non mi piace affatto”, proprio come avrebbe fatto esattamente tre anni prima.

La differenza però era che tre anni fa lo pensava davvero; adesso invece non più.



Angolo autrice:
Eccomi qua ragazzi, puntuale stavolta! :D
Finalmente questa odissea è finita! Scommetto che non ci speravate più... XD
Ma anche se abbiamo appena vinto una battaglia, non significa che abbiamo vinto la guerra! Vi assicuro che siamo solo all'inzio... e che vedrete cose che voi umani non potete neanche immaginare!
Lo so, questo capitolo vi avrà lasciato molte domande, ma vi assicuro che molto presto sarà tutto chiaro! Nel frattempo ci vediamo nel prossimo capitolo, lo speciale che vi avevo promesso!
Baci e abbracci! <3
Tessie

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Capitolo 6
*** Speciale - Giorni di ordinaria follia: Pirati di Barbabianca ***


  
 
Amor tussique non celatur





Capitolo Speciale




Giorni di ordinaria follia: Pirati di Barbabianca
 







 La famiglia. Eravamo uno strano gruppo di personaggi che si faceva strada nella vita
condividendo malattie e dentifrici, bramando gli uni i dolci degli altri,
nascondendo gli shampoo e i bagnoschiuma solo per il gusto di punzecchiarci,
prestandoci denaro, mandandoci a vicenda fuori delle nostre camere,
infliggendoci dolore e baci nello stesso istante, amando, ridendo,
difendendoci e cercando di capire il filo comune che ci legava.


-Erma Bombeck
 








- TORNA QUI, MOCCIOSA MALEFICA!
Thatch fece un gran sospiro, mettendo giù il libro che stava leggendo.

Ci risiamo.

- Presto, dobbiamo prenderla prima che arrivi da lui!
- AIUTO, NII-SAN!
Thatch ebbe appena il tempo di alzarsi in piedi e spalancare le braccia prima che la sorellina gli saltasse in braccio rannicchiandosi contro di lui, alla ricerca – come al solito - della protezione del suo adoraaaaaaaato fratello maggiore.
- Fratellone, aiutami tu! – lo supplicò la bambina, guardandolo con gli occhioni lucidi e il labbro inferiore sporgente.
Thatch la sollevò da terra, le dette un buffetto sul naso e sorrise - Tranquilla petit, ci penso io.
Nel frattempo i due pirati erano arrivati, lividi e schiumanti – letteralmente - di rabbia, il volto ricoperto da bolle rosse e graffi, e uno sguardo omicida negli occhi.
- Be’? – fece Thatch indolente – Che razza di sceneggiata è questa?
- Comandante Thatch! Guardi come siamo ridotti per colpa di quella peste! – esclamarono i due malcapitati, indicandosi la faccia gonfia e arrossata – Si merita una lezione con i fiocchi!
Thatch li guardò truce – Sparite da qui, imbecilli.
- Ma comandante! Guardi cosa ci ha fatto! – protestò il primo, indicando di nuovo il proprio volto.
- Neanche per sogno! – dichiarò furibondo in contemporanea il secondo – Non può passarla liscia anche stavolta! Appena riesco a metterle le mani addosso…
Errore madornale. La voce dell’uomo si affievolì lentamente, morendo sotto lo sguardo assassino di Thatch, che li stava fissando come se fremesse dalla voglia di farli a pezzettini e cucinarli con le patate per la cena di quella sera.
- Ora aprite bene le orecchie, voi due, perché non lo ripeterò una seconda volta…- sibilò l’uomo con gli occhi spiritati, fissandoli come se fosse indemoniato – … se solo vi viene in mente il pensiero di sfiorare, anche solo con un dito, la luce dei miei occhi, la mia anima gemella ahimè troppo giovane, la mia dolce, innocente, ingenua e adorabile sorellina, vi leverò la pelle di dosso a suon di botte come si fa con i peperoni lessati. Mi sono spiegato?!
- Signorsì, signor capitano! – strillarono terrorizzati i due piantagrane, volatilizzandosi alla velocità della luce.
Thatch sbuffò aria dal naso con aria soddisfatta, e rimase a fissare il punto in cui i due erano spariti per ancora qualche secondo; poi si voltò verso la sua piccola protetta, e scoppiò a ridere quando vide la sua faccia.
La bambina infatti, a cui fino ad un attimo prima tremavano le labbra per la paura e lacrimavano gli occhi in un’espressione slealmente commovente, ora ghignava trionfante, come una duchessa che gode nel vedere frustare quei miserabili dei propri servitori.
- E tu? – chiese Thatch con un sorriso divertito – si può sapere cos’hai combinato stavolta?
La piccola allargò il ghigno con aria malefica – Quei due mi hanno chiamata “psicopatica in miniatura” … - spiegò la bambina stringendosi nelle spalle - …così per vendicarmi ho mescolato della polvere di peperoncino alla loro schiuma da barba.
Thatch la fissò allibito per un attimo; poi scoppiò di nuovo a ridere, divertito e immensamente orgoglioso di quella infida e geniale mocciosa che, ad appena dieci anni, sapeva già il fatto suo.
- Stai crescendo davvero bene, piccola mia! – dichiarò compiaciuto l’uomo, sistemandosi la bambina sulle spalle.


- Be’? – fece Katherine alzando un sopracciglio – che cos’è questo assembramento davanti alla mia scrivania? È successo qualcosa?
I tre comandanti per tutta risposta si limitarono a fissarla, sforzandosi di non far trapelare il loro sconcerto. Ormai era da sei mesi che quella piccola peste si era trasferita sulla loro nave, e in quell’arco di tempo i pirati di Barbabianca avevano potuto appurare con certezza assoluta due cose:
  1. Quella bambina non era del tutto normale; era per questo che tutti su quella nave, chi più chi meno, avevano paura di lei;
  2. Quella bambina era davvero capace di tutto. E quando dicevano tutto intendevano dire proprio tutto;
Ed era proprio per questo che erano tutti là, ammassati davanti alla sua scrivania, a farsi fissare con aria di vaga sufficienza da quella mocciosa che in realtà era tutto tranne che una mocciosa. O meglio, biologicamente parlando era una mocciosa, ma praticamente e intellettualmente parlando, a voler essere totalmente onesti, quella ragazzina sembrava più un’aliena che una bambina.
Altrimenti come spiegare il fatto che loro – che erano grandi, pericolosi e soprattutto adulti – stavano piazzati davanti alla sua scrivania imbarazzati e sulle spine, mentre lei stava seduta dietro alla scrivania, stravaccata sulla sedia e con i piedi sfacciatamente poggiati sul tavolo in una posa sfrontata e rilassata, a ricambiare i loro sguardi perfettamente calma e padrona della situazione, neanche fosse stata una consumata manager con più di quindici anni di carriera?!
Insomma, perché erano là davanti a lei?!
Perché avevano un problema da risolvere. Le avevano provate tutte per sistemare la faccenda per conto loro, ma tutti i loro tentativi erano falliti miseramente uno dopo l’altro, e ora restava solo lei come soluzione. Se neanche lei fosse riuscita a sbrogliare quel rompicapo, allora avrebbero potuto anche arrendersi. Non ci sarebbero più state altre soluzioni.
Però insomma, era una cosa troppo imbarazzante da chiedere! Come si poteva chiedere di risolvere una questione di tale delicatezza ad una bambina di soli undici anni?!
- Entro mezzogiorno, per favore. – sbuffò sarcasticamente la Mocciosa Malefica, interrompendo sul più bello le loro fantasie vittimistiche.
Vista, Haruta e Thatch sospirano rassegnati, ed esordirono così – Abbiamo un problema. Ci serve il tuo aiuto.
- Ok… e quale sarebbe il problema? – chiese cauta Kate.
A quel punto tanto valeva essere diretti, così senza tanti giri di parole i tre risposero – Marco e Izou.
Kate alzò un sopracciglio – Marco e Izou?
- Sì, proprio loro… - farfugliò Thatch in difficoltà - … vedi Kate, immagino che tu non sappia molto riguardo del… sì insomma, al riguardo del…
- Al riguardo del sesso? – lo aiutò placidamente Kate, che come al solito aveva già mangiato la foglia – Ho capito. Siete venuti da me perché vi siete accorti che da un po’ di tempo a questa parte Marco e Izou stanno allegramente facendo sesso di nascosto, alle spalle di tutti voi. – dichiarò con calma la bambina – E a voi questo sembra un problema? Be’, in effetti potrebbe esserlo se voi foste omofobi o qualcosa di simile… ma prima che me lo chiediate, la medicina non ha inventato una cura contro l’omosessualità, perché l’omosessualità non è una malattia. Abbiamo finito?
I tre comandanti strabuzzarono gli occhi: se davanti a loro ci fosse stata davvero un’aliena, magari con la pelle verde, tre occhi e cinque braccia, la loro espressione non sarebbe stata comunque più stranita di quello che era.
- Sono un medico. – disse lei a mo’ di spiegazione – ho imparato come funziona il sesso quando avevo cinque anni, e il sesso tra gay solo due mesi dopo.

Oddio, a cinque anni? Che razza di infanzia ha vissuto?!

- Insomma, se ciò che sta accadendo tra quei due vi disturba così tanto, forse dovreste provare a parlarne con loro… io non vedo proprio come potrei esservi d’aiuto…
Le parole della bambina risvegliarono il loro cervello momentaneamente ingolfato, e i tre si affrettarono a negare – Cosa?! No no, non è come pensi! Non è affatto un problema per noi, assolutamente! Al contrario, siamo molto felici per loro…
- Fantastico! Ma allora qual è il problema, non capisco…
- Il problema… - la interruppe una sedicenne Haruta, decidendosi finalmente a prendere in mano la situazione - … è che stanno facendo tutto di nascosto, come se si vergognassero, e a noi non sembra giusto. Vogliamo che escano allo scoperto.
- Ah. – fece sorpresa Kate – be’, ma io cosa c’entro? Se sperate che io possa convincerli a fare coming out…
- Sì, era proprio questo che speravamo! – annuì vigorosamente Vista – Sarebbe inutile cercare di convincerli con le buone: non lo ammetterebbero mai, sono troppo ottusi per farlo. Anzi, noi crediamo che dipenda da Marco, Izou non ci sembra tipo da voler tenere nascosta a tutti i costi una cosa simile… così speravamo che tu potessi trovare un modo per raggirarli, per far ammettere loro che stanno insieme, magari sfruttando la tua posizione di medico! Loro potrebbero smettere di nascondersi, e noi saremmo tutti più felici, visto che non dovremo più continuare a far finta di non sapere! Allora, cosa ne pensi?
Kate non rispose subito: intrecciò le dita sotto il mento e si prese qualche momento per riflettere in silenzio, ignorando le loro espressioni sempre più agitate e imbarazzate. Alla fine però si decise a parlare, e chiese con tono compassato – Cioè, in pratica mi state chiedendo di abusare deliberatamente del mio potere di medico per costringere con l’inganno due persone che mi sono molto care a spiattellare la loro vita privata all’intero equipaggio, facendomi andare contro l’etica del mio lavoro e contro le normali regole di rispetto e discrezione che vigono nella società civile?
Ok, va bene che non erano stati molto convincenti, ma messa così la cosa sembrava davvero orribile. I tre cominciarono a sudare freddo, colti miseramente in fallo dalle considerazioni e dalla logica inappuntabile della ragazzina… e sgranarono gli occhi vedendola ghignare con aria malefica, lo sguardo che già raccontava la cronaca di un dramma annunciato.
- Mi piace. Ci sto! – dichiarò entusiasta la ragazzina, alzandosi dalla sedia – Datemi un paio di giorni di tempo, e vedrete che assisteremo ad un lieto annuncio in grande stile!


- Come sarebbe a dire che ho la sifilide?! – chiese Marco sudando freddo – Cos’è, mi stai prendendo in giro?!
- Assolutamente no! – si difese Katherine – Le analisi del sangue parlano chiaro, e anche i sintomi corrispondono: elevato e improvviso desiderio sessuale, lievi lacerazioni cutanee, sbalzi d’umore…
- Ma è assurdo! – esclamò spaventato Marco – Non può essere vero! Io non sono malato!
Kate lo guardò da sopra i fogli che teneva in mano – Non sta a te deciderlo se non hai uno stetoscopio. Regole sindacali.
Marco le lanciò un’occhiataccia – Non è divertente.
- È proprio per questo che non sta ridendo nessuno. – replicò a tono la bambina. Marco la guardò di nuovo male, ma non ribatté più, anzi chiese con un filo di voce – Come ho fatto a prendermela?
Kate gli fece un sorrisino malizioso – Fratellone, dubito che io possa spiegarti in che modo te la sei presa… direi che solo tu puoi saperlo!
Marco non le rispose, aveva preso a tremare e sudava sempre più freddo, e Kate si impose di non scoppiare a ridergli in faccia.
- Ehi, non c’è bisogno di agitarsi così! Sei ancora al primo stadio, ed è facilmente curabile! Devi solo prendere una dose massiccia di penicillina per un paio di settimane…
- Dimmi una cosa, Kate… - la interruppe Marco con voce flebile - … la sifilide… è una malattia a trasmissione sessuale, giusto?
Kate sorrise di nuovo – Lo era l’ultima volta che ho controllato sul mio manuale di infettivologia.
- Quindi questo significa… che anche la persona da cui l’ho presa ce l’ha, non è vero?
- Be’, direi proprio di sì!
- E c’è qualche possibilità che questa persona… non sapesse di avercela?
Kate finse di pensarci su per un momento, poi rispose – No, direi proprio di no. Tu te ne sei accorto subito di avere qualcosa che non va, e se la responsabile di questo casino non è stupida se ne sarà accorta anche lei, immagino! – ragionò a voce alta, calcando volontariamente la mano sulla parola “lei” – A questo proposito, credo che faresti meglio a mandarla qui da me in infermeria. Sarebbe davvero sgradevole se contagiasse qualcun…
- Izou! – urlò fuori di sé Marco, lanciandosi verso l’uscita dell’infermeria – Dove sei, dannato bastardo?!
È stato perfino più facile del previsto! Constatò estremamente compiaciuta Kate, affrettandosi a seguirlo per non perdersi la scena… la quale, come intuì quando arrivò sul ponte, si sarebbe rivelata ancora più divertente di quanto avesse sperato.
Marco infatti aveva raggiunto Izou vicino al parapetto e lo aveva afferrato per i baveri del kimono, e ora lo stava strattonando con così tanta violenza che Kate non si sarebbe stupita se nei successivi trenta secondi i suoi bulbi oculari sarebbero usciti dalla loro normale sede. La ragazza ridacchiò sotto i baffi e si affrettò a raggiungere il gruppetto di Vista, Thatch e Haruta per sedersi in mezzo a loro, ansiosa di godersi lo spettacolo.
- Marco-chan, si può sapere cosa diavolo ti prende?! – strillò oltraggiato Izou, lottando per far mollare la presa al suo amante.
- Mi hai mentito! Avevi giurato che non avremmo corso alcun rischio a stare insieme… e adesso sono malato per colpa tua!
Izou strabuzzò gli occhi – Ma di cosa parli?!
- Parlo del sesso! Come hai potuto fare sesso con me pur sapendo di essere malato e che mi avresti contagiato?! Che razza di persona sei?!
- Kate, si può sapere cos’hai combinato? – mormorò agitato Thatch all’orecchio della ragazzina.
Kate gli fece un sorrisino furbo – Gli ho fatto credere di essersi preso la sifilide da Izou.
- Che cosa hai fatto?! – sussurrarono sconcertati i tre comandanti, fissandola come se fosse stata un mostro a tre teste.
- Rilassatevi, non è mica vero! Marco e Izou stanno benissimo! – li rassicurò a bassa voce la bambina divertita – E ora state zitti, voglio godermi la scena!
- Non so di cosa stai parlando, lo giuro! – si difese disperatamente Izou – Io non ho nessuna malattia trasmissibile, te l’assicuro! Deve esserci un errore!
- Non cercare di fottermi ancora! – urlò Marco, e Kate si tappò la bocca per soffocare una risata davanti a quella quanto mai “azzeccata” scelta di parole – Kate mi ha fatto le analisi, ed è stata molto chiara al riguardo al loro risultato! Mi hai attaccato la sifilide, dannata geisha schizofrenica!
- Ok, ora tocca a me. Guardate e imparate! – sussurrò Kate ai tre fratelli, per poi scattare in piedi con dipinta in faccia un’espressione sconcertata da elezione all’Oscar – Ehi fatemi capire, voi due! Marco, stai dicendo che la sifilide te l’ha attaccata Izou?!
Non si può spiegare la faccia che fecero i due pirati in quel momento. Il loro volto continuava a passare dal pallore spettrale al rossore “sto-per-soffocare-vi-prego-aiutatemi”; gli occhi di entrambi sembravano sul punto di schizzare fuori dalle orbite, e le loro mandibole erano così spalancate da farli sembrare ridicolmente simili ai pupazzi che usano i ventriloqui per lavorare.
- Sì o no?! – insistette Kate con voce imperiosa mettendo i due pirati con le spalle al muro, e non lasciando a Marco altra scelta che rispondere – Sì, è stato lui.
- Oh Signore, quindi mi stai dicendo che voi due avete una relazione?! – esclamò Kate con voce spudoratamente sorpresa, portandosi una mano al cuore – Ma chi se lo sarebbe mai aspettato!?
Marco ora sembrava sul punto di collassare: li stavano fissando tutti, chi con evidente sorpresa, chi con esasperata felicità… ma nessuno, ma proprio nessuno, li stava fissando con un solo briciolo di disgusto o biasimo.

Proprio come pensavo. Constatò soddisfatta Kate. Si sono semplicemente fatti problemi inutili.

- Sì, è così! – strillò Izou con la sua solita vocetta acuta – Sì, io e Marco-chan stiamo insieme! Ci amiamo, e non vedo per quale motivo dovremo vergognarcene!
- Non ce n’è motivo infatti, e proprio non capisco per quale motivo voi abbiate pensato che qualcuno su questa nave avrebbe potuto giudicarvi! – dichiarò decisa la ragazzina, ignorando i lamenti di Marco che sembrava sul punto di avere un infarto – Voi due state insieme, e allora perché non l’avete detto subito?! Guardate cosa ci avete costretto a fare per farvelo ammettere! Siete due somari, ecco cosa siete!
Quelle parole sembrarono colpire Marco come una scossa – Cosa vi abbiamo costretto a fare?! Perché, cosa vi abbiamo fatto fare?!
- Oh andiamo, non avrai pensato sul serio che Izou potesse averti attaccato la sifilide! – rise beffarda la bambina – Vabbè che è un po’ tonto, però…
Marco la fissò confuso per qualche secondo, poi fece due più due e avvampò di rabbia.
- Tu… - rantolò Marco fuori di sé - …tu mi hai fatto credere di avere la sifilide?!
- Sì, lo ammetto, l’ho fatto. Ringraziami! Ora puoi vivere il tuo sogno d’amore alla luce del sole!
- Ma… ma non è possibile! E quegli strani sintomi allora?!
- Due giorni fa ti ho versato nel saké un bel cocktail di farmaci – rivelò divertita la piccola dottoressa - Antidepressivi e tranquillanti per sballarti l’umore, testosterone per aumentare il desiderio sessuale, acido acetilsalicilico per le lacerazioni cutanee… - Kate si strinse noncurante nelle spalle – Ha funzionato bene, mi sembra! Non hai sospettato nulla, neanche per un momento!
Ora Marco sembrava davvero impazzito. La fissava con occhi iniettati di sangue, il volto livido di rabbia e ansimava pericolosamente, come un toro che si preparava a caricare.
- Ehi, non prendertela con me, sai?! – finse di indisporsi la ragazzina, per poi puntare un dito accusatore contro i tre comandanti che aveva vicino – Sono stati loro a chiedermi di farlo!
- CHE COSA?! – strillarono in contemporanea Thatch, Haruta, Vista, Marco e Izou, e Kate – quella aguzzina in miniatura - scoppiò a ridere di gusto.
- Se riesco a mettervi le mani addosso… - boccheggiò inferocito Marco, mentre le sue braccia cominciavano a prendere fuoco - … giuro che vi carbonizzo, impiccioni che non siete altro!
Quelle parole decretarono l’inizio dell’inseguimento, con i tre comandanti che scappavano avanti urlando come ossessi, e i due amanti che correvano loro dietro proferendo orribili minacce di torture e sevizie più o meno perverse. Kate annuì con decisione, soddisfatta dall’epilogo della faccenda, e corse ad arrampicarsi sulle ginocchia del padre, che la accolse con una carezza affettuosa sulla testa e un sorriso divertito.
- Sei davvero una piccola peste, lo sai?
Kate non gli rispose, si limitò ad ammiccargli con un sorriso pestifero, che Barbabianca ricambiò.

Da grande diventerai una vera regina di cuori, bambina mia.


È davvero bravo. Pensò ammirata la bambina mentre osservava nascosta nell’ombra il fratello maggiore ballare da solo nella palestra della nave. Si muoveva con la stessa levità libera dalle preoccupazioni che hanno le persone quando si sentono inosservate, e aveva la stessa espressione di Thatch quando si metteva a cucinare in solitudine, in compagnia solo della propria passione; sembrava completamente assorto, rapito.
Ci sono diversi modi di dimostrare affetto a questo mondo. Questo perché siamo tutti diversi, e quindi abbiamo modi diversi di manifestare ciò che sentiamo: escludendo modi classici come baci o abbracci, ci sono i piccoli gesti, le piccole cose e attenzioni che dedichiamo alle persone che amiamo, per dimostrare quanto teniamo a loro. Mettere in ordine una stanza al posto di qualcun altro, tornare a casa con un regalino, tentare di risollevare il morale con sorrisi e facce buffe…
O custodire un segreto. O tenere d’occhio qualcuno da lontano.
Ed era proprio così che Kate dimostrava il grande affetto che provava per Marco: invece di dormire, quasi ogni notte sceglieva di starsene nascosta ad ammirarlo mentre dava sfogo alla sua grande passione per il ballo, senza dire a nessuno cosa faceva lei, o tantomeno lui. Era il loro segreto.
Marco adorava ballare, e questo non era un segreto per nessuno su quella nave; ma nessuno a parte lei sapeva quanto lo adorasse e quanto ne avesse bisogno, al punto da fargli sentire la necessità di alzarsi spesso nel cuore della notte per andare a ballare di nascosto nella palestra, al riparo da sguardi indiscreti, da solo con la propria passione. O meglio, così credeva lui, perché ogni volta che accadeva Kate c’era sempre, a tenerlo discretamente d’occhio per assicurarsi che non gli venisse un crampo, o che non inciampasse per colpa del buio, o semplicemente perché le piaceva stare a guardare. Le piaceva vedere quanta passione e impegno ci metteva, e le piaceva sapere di essere l’unica a poter godere di quello spettacolo così bello.
Non era mai accaduto che Marco si facesse male mentre ballava; al contrario, il pirata sembrava conoscere così bene ogni palmo di quella stanza che probabilmente sarebbe stato in grado di combatterci anche in quella oscurità, e senza alcun problema. Kate questo lo sapeva ma lo teneva d’occhio ugualmente, perché in ogni caso non si poteva mai sapere.
E infatti quella notte qualcosa accadde: mentre faceva una ruota in aria – stava ballando un passo di danza moderna – Marco scivolò e cadde a terra con un pesante tonfo, atterrando con la gamba piegata sotto di sé.
- Marco! – esclamò allarmata la ragazzina, uscendo allo scoperto e affrettandosi a raggiungerlo – Marco, stai bene?
Il pirata mugugnò di dolore e si voltò a guardarla – Kate? Che cosa ci fai qui?!
- Ti stavo guardando. – rispose in fretta Kate inginocchiandosi accanto a lui, a disagio per essersi fatta cogliere in flagrante a spiare – Come va la gamba? Fa male?
- Sì, un po’… aspetta, che significa che mi stavi guardando?!
Kate gli prese delicatamente la caviglia tra le mani per spostare la gamba, e cominciò a massaggiargli il polpaccio evitando il suo sguardo – Scusami. So che non ti va l’idea che qualcuno ti guardi mentre balli, ma... il fatto è che non resisto. Sei davvero bravissimo, e mi piace tanto guardarti. So che può sembrare un po’ da maniaci, ma…
- Ehi calma, piccola! – la interruppe Marco con un sorriso appena accennato, accarezzandole con delicatezza i capelli – Non c’è problema. Non hai fatto niente di male, non preoccuparti.
- Ma a te di solito dà fastidio che…
- Non c’è problema. – ribadì Marco allargando il sorriso – Ma perché lo fai di nascosto? Avevi paura della mia reazione?
Kate non rispose, si limitò ad annuire appena. A quella vista Marco sorrise intenerito e se la sistemò sulle ginocchia – Be’, d’ora in poi non farlo più di nascosto, ok? Se vuoi trascorrere un po’ di tempo con me puoi anche dirlo, non c’è mica niente di male. Non devi per forza trascorrere le notti in bianco per stare un po’ con me.
A quelle parole Kate sgranò gli occhi incredula. Aveva capito… aveva capito che in realtà Kate non mirava solo a vederlo ballare, ma che voleva anche stare semplicemente un po’ con lui. Con Thatch era diverso, il cuoco era così espansivo ed estroverso che con lui non aveva nemmeno il tempo di desiderare stargli vicino, perché lui era già lì accanto a lei, sempre.
Invece con Marco era diverso: il pirata biondo era riservato esattamente come lei, e anche lui aveva qualche problema a manifestare l’affetto che provava con i classici baci e abbracci. Erano entrambi introversi, e questo a volte li portava a comportarsi un po’ freddamente l’una con l’altro… e questo a Kate non piaceva affatto. Anche se forse non l’avrebbe mai ammesso a voce alta, Marco le piaceva davvero tanto, e le faceva male la consapevolezza di avere delle difficoltà a stargli vicino come avrebbe voluto fare.
- Ehi mocciosa, dimmi una cosa… - iniziò Marco reclamando la sua attenzione - … hai da fare domani mattina?
Kate gli fece un sorriso divertito – Cos’è, vuoi invitarmi ad uscire ora? Sei un po’ troppo vecchio per me onestamente, e poi non credo che Izou approverebbe…
Marco ridacchiò a quella battuta e le arruffò i capelli – No, in realtà pensavo che potrei cominciare ad insegnarti a ballare. Visto che ti piace tanto…
Kate sgranò gli occhi, presa alla sprovvista. Non aveva mai preso neanche in considerazione quella possibilità… ma ora che Marco glielo aveva proposto, si rese conto del fatto che l’idea di imparare anche lei a ballare la attirava da matti.
 – Lo… lo faresti davvero?
- Ma certo, perché no? Dai ora andiamo a letto, così domani ci alziamo presto e cominciamo subito!
Detto questo l’uomo si alzò e zoppicando leggermente si avviò verso il corridoio delle cabine. Kate, dopo un attimo di smarrimento, si affrettò a seguirlo.
- Marco?
- Sì?
Kate gli fece un sorriso dolce e lo prese per mano – Grazie.
 

- Allora, lo facciamo? – chiese Jaws agli altri, fissandoli negli occhi uno dopo l’altro.
- Certo che sì! – esclamò Teach convinto – Quella maledetta peste se lo merita! Dopo tutti i tiri che ci ha giocato…
- A me sembra una pessima idea. – intervenne impassibile Marco, seduto in fondo alla stanza accanto ad Izou – Sappiamo tutti benissimo quanto quella ragazzina possa diventare subdola e vendicativa. Se vogliamo farlo sul serio, poi dovremo emigrare dall’altra parte del mondo per sfuggire alla sua collera.
Vista annuì – Senza contare il fatto che poi Pompadour romperebbe il culo a tutti…
- Oh sì, magari! – saltò su entusiasta Izou, guadagnandosi un’occhiataccia da parte di Marco.
- Sentite, non c’è bisogno di fare tutte queste storie, ok? – sbottò Atomos – È solo un piccolo scherzo per ripagarla con la sua stessa moneta una volta tanto, niente di più! Thatch non potrà prendersela così tanto…
- Forse lui no, ma lei sì. E quella Mocciosa Malefica sarebbe come minimo capace di avvelenarci tutti con la cicuta. – fece notare Curiel.
- Sentite, non ha senso discuterne ancora. – sospirò esasperato Marco – mettiamola ai voti e basta. Chi vuole consumare la vendetta dica sì…
- SÌ! – urlarono tutti, o quasi, senza neanche dargli il tempo di finire. La Fenice sospirò. A quanto pare il desiderio di rivincita, nonostante tutto, era più forte della paura.
- E va bene… - sbuffò Marco dopo qualche secondo di silenzio – ecco quello che faremo, allora…


- Ci ucciderà. – sospirò Vista con tono rassegnato mentre si dava da fare – Ci trasformerà in cavie da laboratorio…
- Zitto e datti una mossa! – lo redarguì concitato Atomos – Marco non potrà distrarla ancora per molto! E se ci coglie in flagrante…
Era proprio vero. Le note ritmate di Just that girl che provenivano attutite dal ponte ormai stavano per esaurirsi, e così anche la lezione di ballo che Marco aveva proposto a Katherine per distrarla mentre loro si affaccendavano in infermeria… e una volta finita la lezione niente avrebbe impedito a Kate di tornare al lavoro, con la fine del mondo che ne sarebbe conseguita.
- Si offenderà a morte. – pigolò Izou, che già si stava pentendo – Non ci perdonerà mai.
- Ormai è troppo tardi per pentirsi… - sospirò Curiel. - E poi magari è la volta buona che impara la lezione…
- Sì, come no! E Izou domani esce dalla propria cabina senza trucco!
- Non sia mai! – urlacchiò Izou oltraggiato. Tutti sbuffarono con aria afflitta.
- Ok, finito! Andiamo via! – ordinò Vista, e un fuggi fuggi generale si scatenò inesorabile, nella disperata quanto vana ricerca di una via di fuga.

Davvero vana.

Sì, perché quando tutti i comandanti delle divisioni di Barbabianca – tutti meno uno, visto che Thatch ovviamente apparteneva allo schieramento nemico – avrebbero sentito l’urlo di battaglia misto ad una sentenza di morte della ragazza diffondersi per tutta la nave come un terremoto nemmeno cinque minuti dopo la consumazione del misfatto, allora quei disgraziati avrebbero rimpianto all’istante l’insana decisione di sfidare l’ira di quella tredicenne demoniaca con la faccia da angelo, e avrebbero capito che, anche a voler scappare, non ci sarebbe stato posto sulla Terra dove quella peste non li avrebbe cercati pur di fargliela pagare con gli interessi degni di un usuraio.
In poche parole? Fortuna che avevano già fatto tutti testamento.

- QUESTO. VUOL. DIRE. GUERRA!!!!

D’altro canto quando avevano deciso di introdursi di nascosto in infermeria per rubare ogni singolo attrezzo medico che Kate possedeva – e a cui la ragazzina attribuiva lo stesso valore affettivo che hanno sul mercato i diamanti da cinque carati – e sostituirli con giocattoli di plastica a forma di coltello, forchetta e pentole – gesto dal valore sfacciatamente poco subliminale che diceva “Torna a giocare con le bambole, mocciosa!” – avrebbero dovuto aspettarsi che questo avrebbe generato una reazione catastrofica e satura di minacce di apocalisse…


La vendetta è un piatto che va servito freddo. È una massima che tutti gli abitanti del pianeta Terra hanno sentito almeno una volta nella vita, ma che nessuno riesce mai a tenere davvero a mente quando deve proteggersi dalle rivalse dei nemici.
Erano passate più di due settimane dallo scherzo che i comandanti avevano combinato a Kate, e ancora non c’era stata traccia di rappresaglia. La ragazzina si comportava come se niente fosse, lavorando come al solito, ballando con Marco e trascorrendo un sacco di tempo con Thatch, proprio come sempre… tranne che per una sostanziale differenza.
Aveva improvvisamente smesso di compiere le sue bravate diaboliche. Niente, in più di due settimane neanche un piccolo sgambetto, a nessuno. Aveva perfino ridotto drasticamente le battute sarcastiche allo stretto necessario.
In una parola? Tragedia.
Stava di sicuro macchinando qualcosa, ne erano tutti convinti. Nella sua mente contorta si stava programmando la vendetta del secolo, con tanto di risate malvage che vagavano nel vuoto come sottofondo. Perfino Barbabianca sembrava essere preoccupato, e teneva costantemente d’occhio la ragazzina come se avesse potuto compiere una strage da un momento all’altro.
- Se è almeno un po’ come sua madre, e so che lo è, prima o poi scorrerà del sangue su questa nave. Le donne O’Rourke non lasciano mai un’offesa impunita, mai. – ripeteva continuamente.
E infatti un bel giorno la tanto agognata vendetta fu consumata.
Era l’ora di pranzo e tutti, a parte quelli che montavano di guardia, erano a mensa. L’atmosfera era molto allegra, con gente che rideva e scherzava, che mangiava e beveva tranquillamente, confortati da una dolce certezza: in quel momento la Mocciosa Malefica non era presente perché era fuori di turno sulla coffa.
Poveri stupidi… davvero credevano che solo perché non la vedevano, lei non ci fosse?
E infatti, più o meno venti minuti dopo l’inizio del pasto, Teach saltò in piedi urlando di terrore come un ossesso, strisciando sul pavimento e strofinandosi le mani addosso come togliersi qualcosa dai vestiti.
Jaws e Fossa balzarono in piedi e lo afferrarono prontamente per gambe e braccia, e lottarono per tenerlo fermo – Teach, che diavolo ti succede?!
- SERPENTI! HO DEI SERPENTI ADDOSSO, TOGLIETEMELI, TOGLIETEMELI! –
- Ma cosa dici?! Non c’è nessun serpente!
- AIUTOOO! – li interruppe Izou, strillando in preda al panico – A FUOCO, LA NAVE VA A FUOCO!
- Izou! – esclamò Marco sconcertato – Ma cosa dici?! Non andiamo a fuoco!
- AIUTOOOO!
Un po’ alla volta tutti quanti cominciarono ad urlare, spaventati da pericoli e catastrofi di vario genere: incendi, terremoti, altezza, tsunami, ragni, avvoltoi, clown, nemici vari… senza che ovviamente nessuna di queste minacce fosse reale.
Barbabianca, l’unico che non stava urlando e che non vedeva niente di strano, sospirò rassegnato.

La Mocciosa Malefica aveva colpito ancora.


Nel frattempo due fratelli di nostra conoscenza, per la precisione un cuoco e una dottoressa, si godevano la scena nascosti sulle travi del soffitto, sghignazzando soddisfatti del loro operato.
- Pazzesco, sono andati completamente fuori di testa! – esclamò ammirato Thatch.
Kate sorrise maligna –  Già. Tutto come da manuale.
- Senti, ma poi cos’era quella roba che mi hai fatto mescolare alla birra?
- Gelatina di Cactus Mescales. È completamente inodore e insapore, ma in compenso provoca delle allucinazioni davvero terribili. – sogghignò la ragazza. – Brrr, non li invidio per niente.
Thatch la fissò compiaciuto – Ricordami di non prenderti mai per il verso sbagliato, sorellina.
Kate gli fece l’occhiolino e fece ciondolare le gambe – Qui ne avranno ancora per un po’. Che ne dici se ci andiamo a preparare qualche pancakes per festeggiare l’equilibrio ristabilito?


La vita del capo dell’équipe medica di una delle navi più grandi del mondo poteva essere davvero pesante, a volte. Richiedeva studio costante, pazienza, impegno ancora più costante, pazienza, sangue freddo, pazienza, versatilità, pazienza…
A volte però anche O’Rourke D. Katherine aveva voglia di starsene sdraiata in panciolle a non fare niente, con la mente completamente libera e nessun problema a cui pensare. In quel momento per esempio la giovane dottoressa se ne stava stravaccata in costume da bagno su una sedia a sdraio a prendere il sole, cullata dolcemente dal rilassante sciabordio dell’acqua contro la chiglia della nave, e con un fascicoletto di parole crociate tristemente abbandonato al lato del lettino.
Un sospiro rilassato le sfuggì dalle labbra, mentre si godeva quel silenzio meraviglioso e il tiepido tocco di quel sole di maggio sulla pelle…

Mi sembra quasi di essere in paradiso. Questa tranquillità è così piacevole… sarebbe meraviglioso se potesse durare…

- Doc, sei qui? Devo parlarti, è importante!

… per sempre. Come non detto.                             

Perché, perché, perché qualcuno doveva sempre venire a disturbarla?! Anche lei aveva diritto ad essere fuori servizio di tanto in tanto, no?!
Decisa a non farsi rovinare il momento, Kate fece finta di niente, fingendo di dormire per potersi rilassare ancora un po’.
- Doc?! – chiamò ancora Beatrix, scuotendola per una spalla – Ehi doc! Ma stai dormendo?!
- No figurati, ero qui che facevo le prove generali del mio funerale! – sbottò seccata la ragazza aprendo gli occhi di scatto e mettendosi a sedere – Si può sapere cosa diavolo c’è!?
Beatrix lanciò un gridolino e balzò indietro davanti a quella reazione improvvisa – Cristo doc, mi hai spaventata a morte!
- Davvero? E tu mi hai disturbata! – replicò a tono la ragazza – Allora, cos’è che vuoi?!
- Ehm… - farfugliò Beatrix ancora un po’ intontita - …ecco, riguarda i comandanti Izou e Marco.
Kate sbuffò, riadagiandosi sullo schienale della sedia – Che hanno combinato stavolta? No, non dirmelo, fammi indovinare. Marco è venuto per l’ennesima volta nell’occhio di Izou, e ora quel celebroleso è venuto per l’ennesima volta in infermeria a chiedere se esiste un qualche collirio in grado di alleviare il bruciore. Se è così puoi anche dirgli che se non la smette di venire a rompere per queste quisquilie, glielo strapperò io l’occhio, insieme a qualche altro pezzo del suo corpo.
Beatrix fece una smorfia disgustata mentre quell’immagine grottesca le scorreva davanti agli occhi – No, non è questo. E ti prego, non tentare più di indovinare. Ho fatto colazione da poco.
- Come vuoi. Allora qual è il problema?
- Il problema… è che credo che quei due rubino farmaci dall’infermeria, doc.
Kate si rimise dritta, allarmata – Stai dicendo che hanno cominciato a drogarsi?!
- No, non penso. In realtà credo le loro ragioni siano molto più… idiote, se così si può dire.
Kate alzò un sopracciglio – Più idiote? E cosa c’è di più idiota del cominciare a drogarsi?
Beatrix sospirò – È il Viagra che hanno rubato, doc. A palate.
Kate spalancò gli occhi – Ah.
- Allora che facciamo? Non pensi che dovremo tipo rimproverarli o qualcosa di simile?
Kate non rispose subito, si prese del tempo per riflettere. Beatrix si portò le mani in grembo, e attese una risposta. Conosceva quella ragazza abbastanza bene da capire che, anche se era rimasta calma, in realtà dentro di sé stava ribollendo di rabbia. La giovane dottoressa era sempre stata gelosissima della sua infermeria e di tutto ciò che c’era dentro, infermiere e farmaci compresi… per non parlare del fatto che vedere i propri pazienti prendere delle medicine senza prescrizione era una delle cose che più faceva arrabbiare un medico. Figuriamoci se erano farmaci rubati…
In poche parole? Di sicuro sarebbe scattata una mirabolante rappresaglia, e le rappresaglie di Kate erano sempre assai distruttive, specie ora che era entrata ufficialmente nella pubertà.
Fu per questo che Beatrix rimase a bocca aperta quando la dottoressa dette il suo decreto finale:
- Non faremo niente.
- Che cosa? Stai scherzando?! – esclamò incredula l’infermiera – Quei due scriteriati ti rubano i farmaci dall’infermeria per divertimento, e tu non vuoi punirli?!
- Non ho detto che non voglio punirli, ho detto solo che non faremo niente. – replicò con un ghigno la ragazza, per poi alzarsi dalla sedia e avvolgersi il corpo con un asciugamano – Fa’ finta di niente e comportati come al solito. Fammi sapere se ci sono altre novità.
- Aspetta, che significa?! Come farai a punirli o a farli smettere senza fare nulla?!
La ragazza, che aveva cominciato a dirigersi verso la scala del ponte inferiore, si voltò a guardarla e le sorrise con aria furba – Vedi Bea-san, a volte bisogna semplicemente lasciare che la natura… faccia il suo corso, se così si può dire. – il ghigno della ragazza si allargò – Non preoccuparti. Vedrai che entro un paio di giorni sarà tutto risolto.

Due giorni dopo…

- Allora, siete contenti adesso? – chiese Kate con un sorriso beffardo – Visto cosa succede a fare i furbi con la sottoscritta?
I due malcapitati comandanti sdraiati sul lettino non risposero, si limitarono a gemere con aria afflitta, e Kate scoppiò a ridere, enormemente divertita da quella situazione.
A volte non fare niente e aspettare che un problema si sbrogliasse da sé era davvero la soluzione migliore, e quel caso ne era l’esempio lampante. In fondo perché la giovane dottoressa avrebbe dovuto scomodarsi a pianificare una vendetta quando già sapeva che un uso improprio del Viagra provocava di per sé lo spassoso effetto collaterale che faceva sì che il paziente vedesse il mondo colorato tutto di una profonda tinta blu, neanche si fosse fumato cento canne una dietro l’altra?
Era stato sufficiente lasciare che quei due continuassero a piastrellarsi il fegato di Viagra come i dementi che erano per altri due giorni, prima che i suddetti si affacciassero a piagnucolare alla sua porta per chiedere l’armistizio e per supplicarla di mettere una pezza all’ennesimo casino che avevano combinato. Come volevasi dimostrare, a volte lasciare che la natura facesse il suo corso era la scelta migliore.
Sul serio, con il tempo stava diventando fin troppo facile fregare i fratelli maggiori; tempo qualche anno e probabilmente la ragazza non ci avrebbe più nemmeno provato gusto.
- Ti prego, fallo smettere. – implorò Marco – Mi fa troppa impressione, e mi sta venendo anche un mal di testa atroce!
- Ma certo! – annuì Kate dirigendosi verso una credenza e cominciando a frugare in un cassetto – Prima però ammettete che siete due imbecilli senza speranza e promettete che non ruberete mai più neanche le vitamine da questa infermeria, o giuro che vi lascerò in quelle condizioni fino a quando non cominceranno a rotearvi gli occhi e non riuscirete più a trattenere la saliva in bocca.
A quella prospettiva esposta con così tanta gelida calma i due comandanti rabbrividirono per la strizza dalla testa ai piedi. Certo, c’era anche la possibilità che la Mocciosa Malefica stesse esagerando solo per il gusto di spaventarli… ma, a voler essere onesti, i due pirati non morivano dalla voglia di rischiare la pelle per scoprire se era sincera o no.
- Siamo due imbecilli senza speranza, e promettiamo di non provare mai più a rubare niente da questa infermeria, nemmeno le vitamine. – recitarono insieme i due pirati come due mocciosi ubbidienti, e Kate annuì soddisfatta.
- Ottimo. – commentò con un sorriso perfido, estraendo due grosse siringhe dal cassetto – Allora mettiamo a letto entrambi i fratellini, così ci possiamo dimenticare di questa brutta storia.
Nel notare le dimensioni degli aghi i due pirati trasalirono – Ma…non c’è un altro modo? Tipo delle pillole, o della polvere da sciogliere in acqua…?
- Certo che c’è, ma così è più divertente! E poi devo pur punirvi in qualche modo, no? – chiese Kate allargando il sorriso – Forza, tirate giù i pantaloni!
I due pirati si scambiarono un’occhiata spaventata, ma compresero di non avere altra scelta: voltarono le spalle alla dottoressa adolescente e si abbassarono i pantaloni, strizzando gli occhi per non vedere – anche se non avrebbero visto niente comunque, visto che erano girati – e si prepararono al colpo.
- Trattenete il respiro! – li avvertì divertita la ragazza, per poi pugnalare con violenza i loro fondoschiena con gli aghi.
- AAAAAH! – urlarono di dolore i pirati, e senza neanche pensare a ciò che facevano si lanciarono fuori dall’infermeria con le braghe ancora calate, non sapendo se per una reazione involontaria allo shock del dolore o per la paura di quella dannata aguzzina che era quella maledetta mocciosa.
Kate annuì compiaciuta, e si lasciò cadere su uno dei lettini con un sospiro soddisfatto, chiudendo gli occhi e apprestandosi a rilassarsi, con la speranza questa volta di non essere più interrotta.

La Mocciosa Malefica aveva colpito ancora.


- Allora, Bea-san? – chiese la quattordicenne dottoressa con voce stanca – Quanto mi resta?
Beatrix si morse il labbro cercando lo sguardo di quella povera bambina con gli occhi pieni di lacrime, il petto serrato in una morsa di dolore, incapace di risponderle. Il giovane medico faceva del proprio meglio per tenere gli occhi aperti e non lasciarsi andare, ma lottare contro quella malattia orribile che la stava uccidendo un po’ alla volta per lei diventava ogni giorno più difficile… e ormai non aveva che pochi giorni di vita davanti a sé, e le speranze che potessero arrivare a Drum in tempo per farla curare diventavano ad ogni ora che passava più flebili e lontane, logorate da settimane di dolore e orribile attesa.
Nessuno avrebbe mai potuto sospettare nulla quel brutto giorno di quasi due mesi prima.
I pirati di Barbabianca avevano passato un lungo periodo di vacanza su una calda e lussureggiante isola africana del Mare Meridionale, ed erano ripartiti da circa dieci giorni. Sembrava tutto normale, tutto come sempre, e la vita scorreva come al solito tra litigi, scherzi, arrembaggi, mare, sole, onde…
Quella sera Katherine e Marco avevano approfittato di una serata di luna piena per divertirsi un po’ a ballare insieme sotto le stelle. Gli altri erano tutti lì con loro a ridere e a scherzare, sembrava una serata come tante altre…
Ma poi lei era caduta. Senza una parola né un gemito, il corpo di O’Rourke D. Katherine si era accasciato all’indietro, armonioso come quello della ballerina che ormai era diventata, bruciante di febbre e dolore.
Il resto Beatrix non riusciva a ricordarlo. Thatch che la prendeva tra le braccia, panico e paura, il ponte, l’infermeria, l’odore di farmaci e disinfettante, il soffitto azzurro con i cherubini, viavai di infermieri, esami su esami…
E nessuna risposta. Non subito, almeno, e non da loro. Beatrix aveva fatto del proprio meglio, ma non era riuscita a trovare una causa a quella febbre ardente che la stava divorando, e a quella perdita di coscienza improvvisa. Non era nemmeno riuscita a svegliarla, tutto quello che lei e le altre avevano potuto fare era aspettare e pregare che si svegliasse da sola, e che fosse lei, lei che era malata e che stava chiaramente soffrendo, a dar loro una spiegazione.
Poi, dopo due interminabili giorni, Kate si era svegliata, delirante di febbre e afflitta da atroci dolori alla testa, ma ancora abbastanza lucida da capire all’istante cos’era che la stava uccidendo, e abbastanza consapevole da intuire di essere praticamente condannata a morte.
La diagnosi era semplice: tripanosomiasi africana umana, volgarmente chiamata anche “malattia del sonno”. Una malattia rara, infame e crudele, trasmessa dalla puntura di un raro insetto, che dopo mesi di sofferenze l’avrebbe portata ad una morte lenta e dolorosa.
- Ma si potrà curare in qualche modo, no? – aveva chiesto angosciato Barbabianca.
- Un farmaco per annullare gli effetti della puntura esiste... – aveva risposto debolmente Katherine, sforzandosi di restare sveglia – Ma è molto raro e pericoloso, e su questa nave non ce l’abbiamo.
- Allora dobbiamo tornare nel Mare Meridionale!
- Non ce l’hanno neanche lì. È una cura sperimentale, che è stata messa a punto solo da pochi anni, e non si è ancora diffusa nel mercato mondiale. L’unico posto dove possiamo trovarla… è Drum, a casa dalla dottoressa Kureha, la mia vecchia sensei. È stata lei ad inventarla… ma non arriveremo mai in tempo all’isola…
- Sì che ci arriveremo! – aveva urlato Thatch con voce tremula – Ci arriveremo, e tu guarirai! Devi tenere duro, non ti arrendere! Promettilo!
E Kate aveva promesso, anche se consapevole del fatto che con ogni probabilità non sarebbe riuscita a essere di parola. La malattia del sonno non era una malattia come le altre: la chiamavano così perché non ti uccideva in fretta e con violenza, ma in silenzio e lentamente, spegnendo il tuo corpo un po’ alla volta, indebolendoti sempre di più e togliendoti la capacità di muoverti e pensare, distruggendoti il cervello un pezzo alla volta; man mano che la malattia avanzava l’unica cosa che diventavi capace di fare era dormire, solo dormire. Nient’altro.
Erano passati quasi due mesi ormai, e Kate era allo stadio avanzato della malattia. Dormiva più di venti ore al giorno ormai, era paralizzata e parlava a fatica; spesso delirava per via della febbre che aumentava sempre di più, e a volte non riconosceva più neanche i propri familiari…
Tuttavia c’erano dei momenti, come quello, in cui era ancora lucida, e se possibile quelli erano i peggiori. Perché era allora che la ragazza si rendeva conto in che condizioni si trovava, e la paura e il dolore fisico erano facilmente riconoscibili nei suoi occhi, anche se tentava coraggiosamente di nasconderli, nonostante avesse ormai accettato la sua malattia.
- Allora, Bea-san? – chiese ancora Kate con un filo di voce, il volto lucido di sudore – Non per metterti fretta, ma non penso che riuscirò a restare sveglia ancora per molto…
Beatrix trattenne un singhiozzo, distrutta. Osservò ancora una volta quel corpo ancora acerbo, consumato da un male vigliacco, ormai consunto e stanco, e represse l’istinto di piangere.

Perché Dio se l’è presa proprio con te, che hai tutta la vita davanti?

- Bea-san?
Beatrix fece un sospiro affranto e rispose – Secondo quello che dice il tuo manuale sulle malattie rare… circa una settimana. Mi dispiace, Kate…
La ragazza sembrò prendere con grande serenità quella notizia: si limitò ad annuire e si accasciò contro il cuscino, chiudendo gli occhi – Lo sapevo già, ma volevo esserne sicura.
- Doc? – chiamò Beatrix con voce tremante – Quando entrerai nella fase terminale… cosa ti succederà?
La ragazza non la guardava quando le rispose – La malattia arriverà a paralizzare uno dopo l’altro anche i miei organi interni, e questo mi farà schizzare la febbre a quarantadue, forse anche di più… e allora, se non avrò avuto un attacco di cuore prima, morirò perché il mio organismo ad un certo punto avrà smesso totalmente di funzionare.
Beatrix si accasciò contro la scrivania, sconvolta. Era davvero questo il destino che aspettava quella povera ragazza? No, l’infermiera si rifiutava di crederlo. Sarebbero arrivati a Drum in tempo, dovevano arrivare in tempo.
- C’è un’altra cosa che devi sapere, Beatrix…
L’infermiera alzò la testa di scatto – Cosa?
- Presto, molto presto, mi addormenterò… e non mi sveglierò più. Entrerò in coma…
- Che cosa?! – gridò Beatrix correndo verso il letto – Kate, tu…
- Credo che stia per succedere adesso… - sussurrò la ragazza con voce flebile, sbattendo più volte le palpebre per sforzarsi di non chiuderle – Bea-san, non riesco a tenere gli occhi aperti…
- NO KATE, NON DORMIRE! RESTA SVEGLIA, NON ADDORMENTARTI!
- Bea-san… - farfugliò Kate – Tu…devi dire… a mio padre…agli altri…
La voce le morì in gola. Le palpebre, troppo pesanti per poter essere tenute ancora aperte, si chiusero lentamente, e la coscienza cominciò lentamente a lasciarla per l’ennesima volta… ma quella sarebbe stata l’ultima.
Kate sentì a malapena Beatrix che strillava in preda al panico, e che correva fuori chiamando aiuto… non importava. Nessuno avrebbe potuto fare niente.
Kate sentì che, sotto le palpebre, gli occhi le si riempivano di lacrime. Era davvero così che sarebbe andata a finire? Era davvero così che sarebbe morta, ad appena quattordici anni, paralizzata quasi del tutto nella mente e nel corpo da quella malattia così orribile?!
Il sapore freddo della paura le impastava il palato…mischiato a quello amaro del rimpianto.

Credevo di avere tempo… di avere tutta la vita davanti… e invece sta finendo tutto. Mi chiedo se le cose sarebbero potute andare diversamente se non avessi accettato di essere il medico di questa nave… forse avrei potuto avere una vita diversa se avessi fatto scelte diverse?

E se invece avessi… imparato a combattere? E se invece fossi diventata…pirata?

Quel pensiero l’attraversò come una scarica di defibrillatore. Non poteva negare che, osservando i suoi fratelli più grandi, innumerevoli volte aveva provato ad immaginare come sarebbe stato per lei vivere una vita simile. La vita dei pirati l’aveva sempre affascinata… ma allora perché non aveva mai preso davvero in considerazione l’idea di intraprenderla?
Non riuscì a trovare una risposta; forse perché una risposta sensata a quella domanda non era mai esistita. I fratelli e il padre avrebbero approvato? No mai, Kate ci avrebbe scommesso. Forse era per questo che non ne aveva mai parlato con loro, nemmeno con Thatch…
Ma perché non avrebbero dovuto approvarla?! Perché era già un medico? Ma perché la gente era convinta che lei non potesse essere altro che un medico?! Perché quando la nave andava all’arrembaggio lei doveva sempre nascondersi nella stiva? Perché doveva sempre farsi difendere dagli altri?! Perché non poteva imparare a farlo da sola?!
La cosa bella del trovarti in punto di morte è che tendi a mettere a fuoco le tue priorità, e che scopri quello che ti interessa davvero; questo perché il tempo dei giochetti e delle menzogne – sia quelle che abbiamo raccontato agli altri sia quelle che abbiamo raccontato a noi stessi - ormai è bello che finito: a questo punto sono solo i fatti che contano.
Quel caso non fece eccezione: quella zuccona di O’Rourke D. Katherine dovette arrivare a quelli che potevano essere i suoi ultimi istanti di coscienza per capire che la sua vita non la soddisfaceva, e che non era felice; che essere un medico non era abbastanza, che la vita tutto sommato tranquilla che conduceva per lei non era più sufficiente.
Da piccola aveva avuto il vizio di fare scherzi alle persone solo per il gusto di movimentare una giornata noiosa e sentirsi viva. Ma ora l’infanzia era finita, e gli scherzi stupidi non bastavano più: il suo sangue reclamava l’avventura, il brivido della sfida, il potere.

Chiedeva di poter vivere davvero.

Ecco perché quel giorno O’ Rourke D. Katherine scelse di usare le ultime forze che le erano rimaste per fare un giuramento. Un giuramento che, ancora non lo sapeva, in futuro l’avrebbe spinta a fare le cose più assurde, e che avrebbe stravolto la sua vita molto più di quanto chiunque avrebbe mai potuto prevedere:

riesco a sopravvivere a questo schifo, giuro che non mi accontenterò più. Diventerò forte, diventerò una pirata, abbraccerò gli ideali di Cherry Blossom, diventerò una leggenda, e me ne fregherò che se qualcuno avrà qualcosa da ridire in merito…

E farò di tutto per diventare capo del mio clan. Lo giuro!


All’inizio Kate non si rese conto di niente. Poi ci fu il buio e, dentro di esso, un dolore bruciante. Era come aver ingoiato dell’acido, che si diffondeva lungo tutto il corpo, incendiandole i nervi per il dolore. Annaspò disperatamente per prendere aria, e i suoi occhi si aprirono. Vide tenebre e ombre, una stanza poco illuminata, conosciuta e sconosciuta al tempo stesso, piena di scaffali, libri e provette, e una finestra che lasciava filtrare una cupa luce azzurra; era sdraiata su un grande letto, con le coperte e le lenzuola avvolte attorno al suo corpo come corde. Il petto le faceva male, come se sopra avesse un peso morto. Alzò una mano per capire di cosa si trattava, ma non trovò nulla di strano a parte la camicia da notte. Prese un altro respiro strozzato, e si voltò…
Kureha-sensei la stava fissando stravaccata su una sedia dal complicato schienale di ferro intarsiato sistemata accanto al letto, con il suo sorriso beffardo di sempre e l’onnipresente bottiglia di sakè in mano. Kate percepì un calore piacevolissimo invadere il petto, e si sentì in pace, felice.

Sono a casa.

Perciò il paradiso era fatto così? Cioè, quando morivi ti riportavano nella tua prima casa, nel posto dove c’erano le tue radici? Mica male come idea… a patto di avere delle radici sane, è ovvio.
- Ehi mocciosetta, hai intenzioni di fissarmi con quel sorriso ebete ancora per molto?
Kate si riscosse a malincuore e sbuffò infastidita – Dannata vecchiaccia, hai rovinato le mie fantasie mistiche! Mi stavo crogiolando nella chimera che, nonostante tutte le bravate che ho commesso nella mia ahimè breve vita, mi avessero comunque assegnato una poltrona vip per guardare gratis San Pietro Channel, e tu hai rovinato tutto!
- Niente male come sfoggio di verve… significa che nonostante tutto stai bene! – affermò soddisfatta la vecchia, per poi tirare fuori una piccola torcia e puntargliela in un occhio – A proposito, perché hai tanta fretta di morire? Cos’è, hai qualcuno che ti aspetta là sopra?
- Bene? Io non sto affatto bene! Mi sento come se mi stesse scorrendo acido nelle vene al posto del sangue! E levami questa luce dagli occhi, dà fastidio! – sbraitò seccata la ragazza scostandosi dal raggio della torcia – Si può sapere perché cazzo ho male dappertutto?!
- Non dire parolacce in casa mia, mocciosa! – la redarguì aspramente la dottoressa, per poi spiegare – Hai male ovunque perché è un effetto collaterale del mio farmaco contro la malattia del sonno. Finché sei stata in coma non hai sentito niente, ma adesso…
- Il… farmaco? – balbettò Kate – Stai dicendo che…guarirò? Che vivrò?
- Ma certo che vivrai, zuccona! – rise Kureha dandole un buffetto sulla fronte – Tuo padre e quei beoti dei tuoi fratelli si sono fatti in quattro per portarti da me in tempo!
- Mio padre e gli altri? – soffiò Kate confusa – Loro sono qui?
- Sono qui fuori. Non li ho fatti entrare perché dei selvaggi come loro mi avrebbero di sicuro distrutto il laboratorio… ma sì, sono qui. Vuoi che li vada a chiamare?
Kate si sentiva sopraffatta, da tutto. Aveva creduto di morire, e invece era ancora lì. Aveva accettato di essere arrivata alla fine, e invece ora aveva di nuovo delle possibilità…

Ho giurato che se fossi sopravvissuta a questa malattia sarei diventata pirata…  e ora so che guarirò. Quindi che devo fare adesso?

- Ti sei incantata di nuovo, mocciosa? Che faccio, li chiamo o no?!
Kate annuì senza pensarci, e Kureha uscì dalla stanza.
Che doveva fare? Tornare alla sua vecchia vita? Be’, non è che si diventava pirati da un giorno all’altro… e di sicuro se fosse andata dai suoi familiari a dire “Ehi gente, sapete una cosa? Essere arrivata ad un passo dal tirare le cuoia mi ha fatto capire che adoro l’idea di rischiare continuamente la vita, quindi ho deciso di diventare pirata!”, avrebbe fatto venire un infarto a più di un qualcuno, poco ma sicuro.
Ma quindi che doveva fare? Portare semplicemente avanti la sua vecchia vita? Ignorare quella voce che ora le stava dicendo di lanciarsi dalla finestra solo per il gusto di sentire l’adrenalina scorrerle nelle vene fino a quando non sarebbe diventata cieca e sorda?!
Avrebbe potuto, sì… ma non voleva.
Aveva giurato di non accontentarsi più di una vita che in realtà non l’aveva mai soddisfatta davvero… e, Dio le era testimone, ora sarebbero dovute cadere tutte le stelle dal cielo, e avrebbe dovuto asciugarsi tutti i mari del mondo prima che lei decidesse di violare quel giuramento.

Diventerò una pirata… che loro lo vogliano o no. Lo giuro!


- Che diavolo significa “questo libro tu non puoi leggerlo”?! – sbraitò furibonda una quattordicenne Katherine rivolta a suo padre – Cos’è, mi stai prendendo in giro?!
- No, affatto, sono serissimo. - replicò con calma Barbabianca, per poi tendere un braccio verso di lei - Avanti, ora dammelo.
- Nemmeno per sogno! – si rifiutò Katherine stringendosi il libro al petto e facendo qualche passo indietro – Almeno non fino a quando non mi avrai dato un motivo valido!
Barbabianca distolse lo sguardo – Non è una lettura adatta a te.
- Non è una lettura adatta a me?! Stai scherzando?! – fece incredula Kate. – E sentiamo, perché L’arte della guerra non sarebbe una lettura adatta alla sottoscritta?!
- Sei troppo giovane… - tentò Barbabianca poco convinto.
- Ah sì? Credi che io sia troppo giovane per questo libro? – chiese sarcastica la ragazzina, sollevando l’oggetto della contesa - Strano, perché io ricordo benissimo che il mio primo manuale di chirurgia l’ho ricevuto proprio da te per il mio undicesimo compleanno! Te lo ricordi quel libro? Parlava di sangue, estrazioni di organi, sangue, tumori, sangue, teste aperte, ancora sangue…
- Ok ok, ho capito! – la interruppe disgustato Barbabianca – Però questo… è diverso.
- E perché, secondo te?
- Be’, perché è un trattato di strategia militare! Parla di violenza, tecniche di combattimento, pianificazioni di attacchi, armi…
- È vero, ma è anche un trattato filosofico! Si basa su profonde intuizioni relative alla natura umana combinate con un elevatissimo livello di pragmatismo, e i suoi precetti relativi al combattimento e alla riuscita di qualsiasi impresa forniscono lezioni preziose a chiunque affronti circostanze impegnative, che siano guerrieri o persone comuni…
- Ok basta, ho capito! – la interruppe infastidito Barbabianca, che non stava capendo una parola di quello che la figlia stava dicendo.
- Parla di come sia necessario scegliere un traguardo prima di poterlo raggiungere e, in secondo luogo, di come più questo è pericoloso, maggiore sarà lo sforzo necessario per realizzarlo… - continuò imperterrita la ragazzina, fissando il padre con aria scettica – E a te questa sembra una lettura sbagliata per me o chiunque altro?
Barbabianca sospirò. Sapeva che la ragazzina aveva perfettamente ragione, che non c’era alcun motivo valido per proibirle di leggere quel dannato libro. Eppure…
Come poteva fare a spiegarle che si sentiva terrorizzato da quella brama di vita e libertà che aveva riconosciuto nei suoi occhi, seppur sopita, sin dal primo giorno, e che adesso le bruciava negli occhi più intensamente di qualsiasi incendio? Come fare a confessarle che nel profondo aveva già capito che quella smania di avventura e indipendenza, eredità della madre che le scorreva inevitabilmente nelle vene insieme al sangue, l’avrebbe portata ad allontanarsi da tutti loro, e che questo pensiero lo spaventava molto più di quanto fosse mai riuscito a fare il più temibile dei nemici?
Come poteva dirle tutte queste cose… senza sembrare un egoista?
Forse, se Newgate quel giorno avesse trovato la forza di essere sincero, la sua amata figlia non avrebbe cominciato ad erigere un muro tra di loro, un muro che ben presto sarebbe diventato più alto e solido di una montagna… ma anche gli uomini più coraggiosi a volte falliscono. E il temibile Edward Newgate, il potente imperatore che aveva affrontato più nemici e pericoli in metà della sua vita di quanto avrebbe mai potuto fare chiunque altro in mille anni, quel giorno ne fu la più chiara delle dimostrazioni.
- Non voglio sentire altre storie, Katherine. Avanti, dammi quel libro e vai in camera tua!
Katherine fece un verso oltraggiato, e per qualche secondo non si mosse, limitandosi a fissare il padre con aria truce; tuttavia, rendendosi conto che il padre non avrebbe cambiato idea, la dottoressa non ebbe altra scelta che mollare e consegnargli il libro, per poi uscire dalla stanza tutta impettita sbattendo la porta e senza dire una parola.
Nel vedere che, nonostante tutto, si era arresa, Barbabianca permise ad un lieve accenno di speranza di invadergli il petto. Forse dopotutto quella ragazza non era poi così irrimediabilmente ribelle come la madre… magari aveva ereditato anche un po’ di buon senso dal padre, chiunque egli fosse. Non c’era motivo di non sperarlo, giusto?
Sbagliato. Perché se c’era una cosa che Barbabianca ancora non aveva capito era che O’Rourke D. Katherine era sì ribelle, ma era anche mostruosamente intelligente, abbastanza da dimostrarsi all’occorrenza falsamente paziente, e da riuscire a fare buon viso a cattivo gioco quando era necessario, e tutto per ottenere una cosa che voleva.
Fu per questo che, quando casualmente quella notte stessa il libro sparì dalla cabina del capitano senza chiasso né canti di vittoria, nessuno sospettò nulla. Il tempo dei capricci infantili e rumorosi dell’infanzia ormai era finito, ed era inevitabilmente cominciato quello dei sotterfugi e del silenzio carico di rancore.
E dopo quello non c’era più ritorno.


- Avanti, fallo. – mormorò Kate con gli occhi spiritati e i nervi a fior di pelle, fissando la causa del proprio terrore come se fosse sul punto di avere un infarto fulminante. Non aveva avuto così tanta paura neanche quando da piccola la sua vecchia sensei, dopo l’ennesimo guaio che aveva combinato, l’aveva minacciata di appenderla a testa in giù sulla torre del castello per vedere quando ci avrebbe messo a sanguinare dagli occhi, se non l’avesse piantata di fare casino.
- Mio Dio Kate, ma ne sei proprio sicura? – chiese Thatch atterrito – In fondo puoi aspettare ancora un po’, no? Che fretta c’è?
- No, non posso. – replicò Kate con voce tremula – Devo togliermi questo peso, adesso o mai più.
- Petit, non credo di potermi prendere una responsabilità simile! – confessò Thatch – È una questione troppo delicata per la vita di una ragazza! Perché devo farlo proprio io?! Non sarebbe meglio che se ne occupasse Izou, o Marco…?
- Credi davvero che, in un momento così cruciale della mia vita, potrei affidarmi a uno di quei due scriteriati, che nel migliore dei casi non saprebbero neanche dove mettere le mani, e nel peggiore… no, non ci voglio nemmeno pensare – rabbrividì Kate – No, devi essere tu. Voglio che lo faccia tu.
- Ma con Haruta…
- Non parlarmi di Haruta in un momento simile! – gridò contrariata la ragazza – Vuoi rovinare tutto, per caso? Avanti, fallo e basta!
Thatch non sembrava ancora convinto. Il suo pomo d’Adamo andava su e giù a ritmo come uno yo-yo, e gocce di sudore freddo gli imperlavano la fronte, neanche si stesse preparando a buttarsi dal sesto piano. Intanto in sottofondo si sentiva la musica epica di 300.
Kate si sporse verso il fratello, e gli afferrò il polso per tentare di rassicurarlo – Io mi fido di te, ok? Sono sicura che sarai delicato, e che non mi farai male. Non troppo, almeno.
- Non lo so, petit…
- È inutile farsi scrupoli ora. Tanto non c’è ritorno, e lo sai. Abbiamo iniziato, e dobbiamo finire. -
Thatch annuì, cercando di autoconvincere anche sé stesso. Quando Kate era andata da lui la sera prima e gli aveva esposto il suo problema, in un primo momento Thatch aveva davvero creduto che fosse impazzita. Aveva addirittura pensato di andare a parlarne con il babbo, il vecchio capitano non poteva non essere informato di una cosa del genere…
Poi però aveva guardato negli occhi la sua piccola, dolce sorellina, e come al solito si era sciolto, incapace anche solo di concepire l’idea di negarle qualcosa. Dannato affetto fraterno!
- Ti prego Thatch, devi assolutamente aiutarmi… - l’aveva supplicato la ragazza – Tu non capisci il mio dolore, la mia amarezza… ho davvero bisogno di riscattarmi, o non sarò mai più a mio agio con me stessa dopo quello che mi ha detto Haruta!
E così si era ritrovato invischiato in quella situazione assurda, terrorizzato a morte dalla responsabilità che si era assunto, ma al tempo stesso incapace di tirarsi indietro. Cosa avrebbero detto gli altri, se avessero saputo?! Lo avrebbero giudicato? L’avrebbero guardato con orrore? Thatch non osava pensarci.
- Avanti nii-san, veloce e indolore. Togliamoci il pensiero.
- Ma forse se facessi piano sarebbe meno doloroso per te…
- No, mi sono documentata. Fare piano non è di nessun aiuto, fa male comunque. Dai, fa’ in fretta e non pensiamoci più.
Thatch ammirava il coraggio di quella ragazzina: era evidente che fosse terrorizzata a morte… eppure non vacillava, anzi era lei che spingeva lui ad andare fino in fondo. Ma come ci riusciva?!
- E va bene… - sospirò Thatch - …allora io… vado…
Kate annuì deglutendo a più riprese, e Thatch si sporse verso di lei, tenendo gli occhi strizzati per non vedere…
- Non avete ancora finito? – la voce piena di derisione e scherno dell’unica altra sorella che c’era su quella nave arrivò alle loro orecchie dalle loro spalle.
I due fratelli si voltarono, ed entrambi fissarono la ragazza con una smorfia di disappunto. Haruta stava appoggiata allo stipite della porta della cabina della più giovane, e li fissava con una ghigno pieno di malefica aspettativa, ansiosa di godersi lo spettacolo; mancava solo che cominciasse a sfregarsi le mani come le mosche.
Kate la disintegrò con lo sguardo – Non ho sentito bussare.
- Non mi stupisce, visto che non ho bussato.
- Sparisci, non è aria!
- Da quant’è che siete chiusi qua dentro? Tipo mezz’ora? – chiese Haruta beffarda – State cercando l’ispirazione giusta, per caso? Thatch, non mi dire che hai dei problemi!
- Chiudi il becco! – la redarguirono furibondi entrambi.
- Oh insomma, lo farò io! – dichiarò impaziente la pirata, avanzando a grandi passi nella stanza. Kate imprecò e cercò di schizzare via, ma Haruta fu più veloce. In un attimo fu accanto alla ragazza, afferrò e tirò via con un movimento deciso.
Kate lanciò un urlo di dolore da animale sgozzato, così forte e acuto da far tremare le pareti della stanza. Thatch saltò in piedi come una molla, tappandosi la bocca per non urlare a propria volta per lo shock, e fissò in cagnesco la responsabile di quel disastro.
- Haruta! – la rimproverò furioso il pirata – Come ti è saltato in mente?! Le hai fatto malissimo! – strepitò, mentre la più giovane si lamentava in maniera straziante.
- Oh per l’amor del cielo, è solo una dannata ceretta! – esclamò esasperata Haruta – E non fare tante storie, tu! Non è colpa mia se hai i peli sulle gambe! Che razza di sorella maggiore sarei stata se non te l’avessi fatto notare?!


- Allora, sei riuscita a capire qual è il mio problema? – chiese in apprensione Teach, sdraiato sul lettino.
Kate sorrise maligna, mettendo giù le lastre che aveva in mano per guardarlo meglio – Il tuo problema? Cioè, a parte il tuo essere irrimediabilmente stupido, limitato, patetico, e di aspetto insignificante?
Teach la guardò male – Ritieniti fortunata di godere di una posizione di prestigio su questa nave, ragazzina. Se fosse dipeso da me a quest’ora avresti ben altra occupazione su questa nave, rispetto a quella del medico.
Kate, per nulla intimorita, si limitò ad allargare il ghigno e a tornare a studiare le lastre.
Teach alzò gli occhi al cielo – purtroppo con lei oltre le minacce non si poteva andare, a meno che non si voleva rischiare una morte atroce – e ripeté – Allora, di cosa soffro, si può sapere?
Kate sospirò con malcelata impazienza e rispose semplicemente – Teniasi.
Teach sgranò gli occhi, fissandola terrorizzato – Che in termini terreni vorrebbe dire…?
- Verme solitario.
Teach la guardò in cagnesco – Ti avevo chiesto di essere più chiara!
Kate fece un sorrisino di derisione – Perdonami Teach, ma più di così non posso fare. Cosa ci vuoi fare, non parlo lo stupidese…– scherzò la ragazza, ignorando lo sguardo omicida del più vecchio.
- Comunque non ti devi preoccupare, non è grave. – lo tranquillizzò la ragazza, porgendogli un flacone di pillole – Basta che prendi queste pillole di mebendazolo una volta al giorno per un mese, e tornerai come…
- La smetti di trattarmi come un menomato!? – si infuriò Teach, ignorando il flacone – io voglio capire esattamente di cosa soffro, quindi spiegamelo!
Kate abbassò il braccio, e lo guardò scettica – Potrei farlo… ma dubito che capiresti… d’altro canto si tratta di cose al di sopra della tua intelligenza. Dai, prendi un paio di queste pillole e fai silenzio.
- Sono un tuo paziente, ho il diritto di sapere che razza di malattia ho, ed è tuo dovere informarmi! – insistette Teach, gonfiando le guance come un bambino.
A quella vista Kate sentì montarle dentro il nervoso, ma non protestò. Purtroppo aveva ragione lui.
- E va bene… - sospirò la ragazza – Allora, devi sapere che la teniasi è un'infestazione causata dai cestodi Taenia saginata. Di solito è asintomatica, o comunque presenta sintomi ai quali viene data scarsa importanza, per via della loro genericità e per il fatto che sono blandi e difficilmente descrivibili…

Due ore dopo…

- TEACH, SVEGLIA! – gridò seccata una voce profonda.
Teach si svegliò di soprassalto, tossendo leggermente per essere stato interrotto improvvisamente mentre russava con entusiasmo; sbatté gli occhi per mettere a fuoco…
Davanti a lui a guardarlo c’erano Fossa e Haruta, il primo che lo fissava con aria infastidita, la seconda che tremava tenendosi una mano sulla bocca, come per impedirsi di scoppiare a ridere.
- Oh, siete voi, ragazzi… - mugugnò Teach stiracchiandosi – dov’è Katherine?
- Sul ponte. Ci ha chiesto di venirti a svegliare. – replicò infastidito Fossa.
- Sì, era piuttosto arrabbiata. – fece eco Haruta, serrando le labbra tra una parola e l’altra per non ridergli in faccia.
- Era arrabbiata? Aspettate un attimo… che ore sono?!
- Le otto di sera. – rispose allegramente Haruta.
Le otto di sera?! Quindi questo significava che si era addormentato mentre Kate tentava di spiegargli di cosa soffriva?! Teach deglutì, vergognandosi come un ladro…
E poi notò che per la terza volta Haruta si sforzava di scoppiare a ridergli in faccia, mentre fissava un punto indefinito del suo volto.
- Haruta, si può sapere cosa diavolo hai da sghignazzare? – si inalberò Teach, fissandola con aria truce.
Haruta a quel punto non trattenne più, e scoppiò a ridergli sguaiatamente in faccia, tenendosi lo stomaco e lacrimando dagli occhi - Mio caro Teach, dovresti sapere quanto può costare caro far infuriare la nostra cara sorellina!
Teach si allarmò – Oddio, cosa mi ha fatto?!
In tutta risposta Haruta continuò a sbellicarsi, e Fossa gli porse un specchietto. Teach vi guardò dentro e…
La scritta nera fatta con un pennarello indelebile “Sono un menomato” spiccava con sfacciata eleganza sulla fronte di Teach, neanche fosse stata un accessorio all’ultimo grido. Haruta nel frattempo era arrivata a rotolarsi un pavimento, e perfino Fossa ora stava sghignazzando sotto i baffi, divertito dall’espressione totalmente stranita di Teach.
- Ah, ci ha anche chiesto di darti questo quando ti saresti svegliato! – si ricordò Fossa, per poi porgergli lo stesso flacone di pillole che la ragazza gli aveva offerto due ore prima, e a cui ora stava attaccato anche un biglietto.

Due pillole una volta al giorno per un mese, a stomaco pieno. La prossima volta che ti dico di ingoiare e fare silenzio tu ingoia e non fare storie, così eviterai a me la seccatura di dover resistere alla tentazione di vivisezionarti, e a te stesso il dolore di veder morire di solitudine l’unico neurone che ti è rimasto in testa. Baci, Katherine.” 

Teach sentì il viso contorcersi in una smorfia.

...quella carogna.


Il pugnale era semplicemente magnifico.
Kate non riusciva a smettere di tirarlo continuamente fuori dalla sua custodia in cuoio, mentre si incamminava lungo il porto per tornare alla Moby Dick. Era lungo e sottile, e nell'elsa era incastonata una pietra rossa tagliata a forma di fiore di ciliegio – dettaglio che l’aveva spinta a sceglierlo-. Sembrava essere così affilato…

Oh andiamo, smettila. È solo un coltello come un altro! Tu maneggi i bisturi da quando avevi quattro anni…

E invece no, non era un coltello come un altro. Era un pugnale, e Kate lo aveva comprato con uno scopo ben preciso, che non era quello di usarlo per operare un paziente.
Voleva imparare a maneggiarlo. Voleva imparare a difendersi. Lei era solo una quindicenne esile e gracile, e in un corpo a corpo non avrebbe mai avuto speranze, ma forse con quello… se qualcuno l’avesse mai aggredita avrebbe potuto opporsi. Avrebbe potuto proteggere sé stessa.
Non stava più nella pelle. Non vedeva l’ora di tornare sulla nave e di mostrarlo a Thatch… e voleva chiedere al fratello di insegnarle come usarlo. Thatch era uno spadaccino, quindi era più che abituato ad armeggiare armi bianche… sarebbe stato di certo un eccellente maestro.
Ormai era arrivata. Con passo pimpante percorse in fretta la passerella, e una volta a bordo subito cominciò a guardarsi intorno, cercando il fratello con lo sguardo… finché non lo adocchiò, stravaccato da solo sulla balaustra qualche metro più in là.
Kate fece un verso entusiasta e gli si avvicinò felice – Ciao, mio uomo ideale!
Thatch sobbalzò, per un attimo preso alla sprovvista, poi le sorrise e la attirò a sé per schioccarle un bacio sulla fronte – Ciao, bellissima. Che è successo di bello? Sei così raggiante che mi stai accecando!
- Lieta che tu me l’abbia chiesto! Guarda un po’ cosa ho qui! – esclamò la ragazza, per mostrargli il pugnale con aria trionfante – L’ho appena comprato! Dì, non è bellissimo?
La reazione del pirata non fu proprio quella che la ragazza si era aspettata. Nel vedere il pugnale che la sorella teneva in mano Thatch diventò di un insano colorito grigiastro e si raddrizzò di scatto, fissando il coltello come se fosse stato un serpente a sonagli.
- Ehi, che entusiasmo! – fece Kate scontenta – Si può sapere che ti è preso?!
- Dove l’hai preso quello, Kate?!
- Te l’ho detto, l’ho comprato…
- Perché? A che ti serve?!
Kate non gli rispose subito, ma lo fissò delusa. Perché stava reagendo così?! Era solo un pugnale, non una carica di tritolo! Che motivo c’era di prenderla in quel modo?!
- Voglio solo imparare ad usarlo per difendermi! Ero venuta per chiederti di aiutarmi…
- O’ROURKE D. KATHERINE! – tuonò imperiosa una voce alle sue spalle – Si può sapere cosa stai combinando?!
Kate trasalì con un gridolino nel sentirsi apostrofare in quel modo, e si voltò a guardare il padre, nascondendo nel frattempo il pugnale dietro la schiena – Papà, io…
- Cosa stai nascondendo dietro la schiena?! – chiese severo Barbabianca – Mostrami subito le mani!
A quell’ordine Kate si sentì serrare lo stomaco per l’affronto, ma non ebbe altra scelta che obbedire; sentendosi la bocca impastata dal sapore metallico della rabbia, Kate tolse le mani da dietro la schiena e mostrò ciò che aveva in mano.
Barbabianca a quella vista, se possibile, reagì anche peggio: divenne bianco fino alla radice dei capelli, così bianco che i suoi occhi spalancati sembravano dischi dorati, inumani e stranamente fuori posto, così bianco che per un attimo Kate temette sul serio che gli sarebbe venuto un infarto.
- Cosa ci fai con quello in mano? – rantolò Barbabianca come in fin di vita. I suoi occhi si erano soffermati in particolare sull’elsa dell’arma, dove il gioiello rosso a forma di fiore di ciliegio scintillava dando bella mostra di sé.
Sotto il peso di quello sguardo, Kate non riuscì ad impedirsi di indietreggiare spaventata – È un pugnale, papà… l’ho comprato oggi, volevo solo imparare ad usarlo per difendermi….
- Che io sia dannato se lo farai! – urlò fuori di sé Barbabianca – Dammi subito quel pugnale!
- Papà, ma perché?! Non è giusto! Ho il diritto anch’io di imparare a proteggere me stessa!
- Non hai bisogno di imparare, ci sono già i tuoi fratelli a proteggerti!
- Ma io voglio farlo da sola! Papà, per favore…
- Assolutamente no! E ora dammi quel pugnale!
Non sapendo cos’altro fare, Kate si rivolse disperata al fratello – Thatch ti prego, digli qualcosa tu! Non è giusto, io non ho fatto niente di male…
- Kate. – la interruppe serio Thatch. L’uomo esitò per un istante, poi prese fiato e parlò – Fai la brava, obbedisci a nostro padre. Dagli quel pugnale.
Kate spalancò la bocca, incredula. Non era possibile, anche lui non voleva capire. Ma perché il fatto che lei non volesse più essere inerme era così difficile da accettare per loro!? Perché non si sforzavano di comprendere le sue ragioni?!
Kate sentì gli occhi inumidirsi di lacrime, ma capì di essere sconfitta. Si voltò per consegnare quel pugnale così bello nelle mani del padre, e poi si allontanò senza dire una parola. Thatch cercò di parlarle, ma lei lo ignorò, per la prima volta incapace di tollerare la sua vista.
Dunque era così, era destinata a restare senza speranza. Ma perché doveva essere così?! Perché non poteva liberarsi di quell’etichetta che ormai la contrassegnava alla stregua di un oggetto, e non poteva tentare di cambiare sé stessa?
Ormai era arrivata alla sua cabina; entrò chiudendosi la porta alle spalle, e si accasciò contro la parete con il magone che le serrava la gola.
La frustrazione la stava divorando dall’interno alla stregua di un tarlo. Possibile che davvero il suo destino fosse quello? Combattere ogni volta una battaglia persa in partenza, e accettare la volontà del padre senza riuscire ad opporvisi?
Oh maledizione, che fine avevano fatto le sue ambizioni e il suo giuramento?! Che fine aveva fatto la sua determinazione?! Come poteva lasciarsi abbattere in quel modo?!

Se non lotti per quello che vuoi, allora non lo vuoi veramente.

Rendendosi a malapena conto di ciò che stava facendo, la ragazza si rimise in piedi e andò dritta verso la propria scrivania. Aprì il primo cassetto, e vi studiò gli attrezzi che vi erano contenuti.
Kate prese uno di quegli attrezzi, e lo fissò come se fosse la prima volta; quel bisturi era sempre stato così familiare per lei, ma ora sembrava essere così freddo e alieno contro la sua pelle…
Kate non sapeva usare un pugnale. Non aveva mai tirato un pugno a nessuno, figuriamoci una coltellata…
Però quell’attrezzo lo sapeva usare, e anche molto bene. Aveva maneggiato quei bisturi per anni, ma mai aveva pensato di usarli per uno scopo diverso da quello per cui erano stati creati. Ma se avesse potuto farlo davvero?! Se avesse potuto usare quel coltello speciale per ferire, invece che per curare?!
A quanto pare il suo istinto una decisione l’aveva già presa. La ragazza strinse il pugno intorno al manico del coltello e lo sollevò. Le tremava la mano.

A quanto pare da oggi sarai tu la mia arma.


- Nii-san, ma come si fa a capire se due persone si amano?
Quella domanda era arrivata su Thatch come un secchio d’acqua ghiacciata nel deserto. Be’, in effetti era già da un po’ che l’uomo aveva annusato il fatto che la quindicenne potesse avere in serbo per lui una domanda difficile: era da più di due ore che stava seduta al tavolo della cucina senza spiccicare parola – e fin qui niente di strano, la ragazza era sempre stata silenziosa e calcolatrice, sin dall’infanzia –, e per tutto questo tempo lo aveva fissato con gli occhi sgranati, seguendo i movimenti dell’uomo mentre lavava i piatti, come se in quei gesti ci fosse qualcosa di profondamente arcano e avvincente – e questo sì che era strano! -.
Ma quello?! Thatch non se lo sarebbe mai aspettato. La ragazza aveva sempre avuto parecchi problemi a parlare di argomenti che rientrassero nel campo “sfera emotiva” …
- C-come mai questa domanda? – riuscì a chiedere alla fine il cuoco.
Lei si strinse nelle spalle – Curiosità. L’altro giorno osservavo Marco e Izou e cercavo di capire se sono innamorati o no, ma non ci sono riuscita. Ho provato a cercare qualche definizione su dei manuali, ma non ho trovato niente, per cui…
- Hai cercato una definizione di “amore” sui libri?!
- Sì, perché?
Thatch la fissò allibito per un attimo e poi si affrettò a voltarsi di nuovo verso il lavello, per non mostrarle la sua espressione orripilata.

C’è decisamente qualcosa che non va in te, sorellina.

- Allora, me lo puoi spiegare? – insistette la giovane.
- Perché lo chiedi proprio a me? Sarebbe più logico chiederlo a Marco, o a Izou, non pensi?
Lei si strinse di nuovo nelle spalle – Lo sai che trovo più facile parlare con te di argomenti delicati. E poi tu sei un casanova, hai avuto molte esperienze… qualcosa sull’amore dovrai pur saperla!
Thatch si voltò di nuovo a guardarla, e la vista del suo sguardo vispo e intelligente che lo osservava con curiosità lo travolse come un’onda, abbattendo come al solito tutte le sue incertezze e le sue difese, lasciandolo allo scoperto.

Non ho scampo.

Ma come si poteva spiegare ad una ragazza come Katherine cos’era l’amore? Era come pretendere di spiegare in spagnolo le equazioni di secondo grado ad un tizio che parlava solo l’inglese. Già l’argomento era complicato, come poteva chi ascoltava capirlo se non parlava nemmeno la stessa lingua di chi spiegava?!
Tuttavia Thatch non aveva scelta. Doveva provarci.
- Vieni a darmi una mano con questi. – disse alla fine il pirata, invitandola con lo sguardo a raggiungerlo al lavello. Kate obbedì e gli si avvicinò, e immerse le mani nell’acqua schiumosa.
- In realtà non esiste una vera risposta a questa domanda. Non tutti si comportano alla stessa maniera, quando sono innamorati. – spiegò Thatch – Dipende dal carattere.
- È come quando due persone reagiscono diversamente ad una stessa cura perché hanno caratteristiche genetiche diverse? – chiese con interesse la ragazza.
Thatch fece una leggera smorfia, ma annuì – Sì, praticamente è così.
- Però immagino che uno lo capisce se è innamorato, no?
- Sì, ma non è così semplice. Diciamo che tutti ad un certo punto si rendono conto che c’è qualcosa che non va in loro, ma non tutti riescono a capire subito che ciò che sta mandando sottosopra la loro vita è l’amore.
Kate alzò un sopracciglio – Vuoi dire che l’amore è una specie di malattia?
Thatch si voltò a fissarla – Che cosa?! No… no! Non è così! Al contrario, l’amore è una cosa meravigliosa! Ti fa sentire più felice, più euforico… ti migliora la vita!
- Quindi l’amore è come le vitamine?
Thatch aggrottò le sopracciglia, scosso da quel paragone così poco poetico – No, non proprio. Le vitamine fanno bene, ma l’amore può fare anche male, a volte.
Katelo guardò perplessa – Ma se hai appena detto che ti rende felice! Cioè, rende felici ma fa anche male… allora cos’è, tipo una droga?!
Thatch chiuse gli occhi, sentendo che gli stava venendo un forte mal di testa – No Kate, non è nemmeno così.
- Allora com’è?! Hai detto che le persone quando sono innamorate si accorgono di avere un problema, ma che poi comunque diventano felici, ma hai anche detto che in ogni caso l’amore fa male lo stesso. Allora cos’è, l’amore è tipo un unguento da spalmare su una ferita infetta?! Se soffri ti dà sollievo, ma al tempo stesso ti fa male, perché ti fa solo illudere di stare meglio, visto che per curare una ferita infetta servono gli antibiotici. Allora, l’amore è una cosa simile?
Thatch la fissò stupefatto. Conosceva quella ragazzina da cinque anni ormai, eppure ancora non riusciva ad abituarsi all’acume della sua mente. Kate non aveva assolutamente gli strumenti necessari per capire ciò che lui stava tentando di spiegarle, e infatti non aveva capito, ma, grazie all’intuito che possedeva, c’era comunque andata molto vicino.
Kate non aveva ancora capito cosa fosse l’amore, ma aveva capito – anche se per mezzo di ragionamenti bizzarri - quanto l’amore, con le sue attraenti promesse e le sue dolci sensazioni, potesse diventare crudele e distruttivo. Questo forse non l’avrebbe aiutata a capire il momento in cui si sarebbe innamorata, ma forse l’avrebbe aiutata quando l’amore l’avrebbe ferita, e le avrebbe dato la forza di reagire e ribellarsi, e di uscire dall’abisso in cui quel sentimento così ambiguo e potente avrebbe potuto precipitarla, lei che, pur così intelligente, era così ingenua in fatto di sentimenti.
- Ascolta, Kate. L’amore è complicato, e ogni amore è una storia a sé. Può essere puro e innocente, può essere distorto e malato, può essere passionale e tormentato; può fare bene, ma può anche fare male, e sta a noi capire se vale la pena di viverlo. – spiegò il pirata posandole una mano sulla spalla – Io non posso spiegarti cos’è l’amore, perché in realtà nessuno sarebbe in grado di farlo. L’unica cosa che posso dirti è che l’amore non può essere un palliativo per risolvere un problema, o per trovare sollievo da una condizione di infelicità; devi essere felice con te stessa per poter essere felice con qualcun altro. – la mano dell’uomo si spostò dalla spalla alla testa della ragazza - Posso dirti che l’amore non lo puoi cercare, è lui che viene da te, e mai nel modo in cui te lo aspetteresti; posso dirti che è pericoloso, perché può renderti completo, ma può anche annientarti completamente, e che spesso se lo insegui non c’è possibilità di ritorno. Ma soprattutto posso dirti… - la mano del pirata era arrivata alla guancia della ragazzina, e la stava accarezzando con tenerezza, come per trasmettere con i gesti quella verità così difficile da spiegare a parole - … che l’amore richiede pazienza e sacrificio, ma ti rende migliore. Se ami vieni distolto da te stesso, e il tuo baricentro si sposta, concentrandosi sulla persona che ami, e su come potresti renderla felice; ti spinge a donarti senza chiedere niente in cambio, a volerti mettere nelle sue mani, perché hai la sensazione che solo così puoi essere al sicuro; ti fa fare cose folli, ma resiste davanti a qualunque difficoltà… ed è una delle poche cose che dà davvero un senso a questa nostra folle, vorticosa vita.


- Allora, cosa vedi? – chiese in ansia Katherine, mordicchiandosi un’unghia. – Jinbei sta bene?
Vista serrò le labbra, e abbassò il cannocchiale con aria accigliata – È ancora in piedi, quindi presumo di sì…
- Meno male! E il suo avversario?
- È ancora in piedi anche lui…
- Come, ancora?! E che stanno facendo?!
Vista portò di nuovo il cannocchiale al voltò e impallidì leggermente – Stanno ancora combattendo…
- Impossibile! – esclamò Haruta precedendo Kate – Abbiamo saputo del loro duello cinque giorni fa! Non possono stare ancora combattendo!
- Si vede che quel ragazzo non è poi così scarso, tutto sommato. – constatò tranquillamente Kate. – Voi credete che papà accetterà la sua sfida?
- Sì, lo farà. Credo che sia rimasto impressionato da come si sia evoluto lo scontro tra quei due… evidentemente quel moccioso ha scatenato la sua curiosità. – le rispose Marco con altrettanta calma.
- Niente male! Allora deve essere davvero promettente, quel ragazzo! – dichiarò compiaciuto Fossa.

Non lo sarà più se papà lo uccide prima. Ragionò pensierosa Kate. Forse non è una buona idea…

- Gettate l’ancora! – ordinò Thatch – Kate, tu tieniti pronta! Devi soccorrere Jinbei!
- Io sono pronta già da un pezzo! – ribatté la ragazza, sistemandosi meglio in vita la mano sulla sua borsa da medico. Poi sporse dalla balaustra per guardare… e un brivido gelido le attraversò il corpo, pietrificandola.
La spiaggia rocciosa era un caos di fumo, cenere e braci rosse. Le nubi nerastre rendevano difficoltoso respirare e impedivano parecchio la visuale, e l’odore di bruciato era così forte che Kate si sentì girare la testa. Man mano che il cerchio dello scontro si allargava si potevano notare anche altre tracce della battaglia che si era svolta in quel posto: alberi abbattuti, crepe nel terreno, segni anneriti ovunque…
E una calma strana, innaturale. Qualunque cosa fosse accaduta su quell’isola, ormai era finita. Lo scontro si era concluso.
Ma chi aveva vinto?
Ignorando deliberatamente i rischi Kate afferrò una cima, la legò stretta al parapetto e si calò rapida giù dalla nave, ignorando le grida di Thatch che l’avvertivano del potenziale pericolo; due istanti dopo atterrò leggera sulla terraferma – facendo una smorfia per il calore insopportabile che emanava il terreno – e cominciò a correre, cercando affannata Jinbei con lo sguardo.
Lo individuò un minuto dopo: riverso sul terreno, l’uomo-pesce aveva un aspetto a dir poco terribile: le squame azzurre erano letteralmente ricoperte da bruciature più o meno gravi, il battito cardiaco era irregolare, gli occhi chiusi in una smorfia di intenso dolore… ma soprattutto il volto presentava un gran numero di strane ecchimosi e ustioni, quasi lo Shichibukai fosse stato colpito ripetutamente in faccia con un bastone infuocato o qualcosa del genere. Di certo sarebbe sopravvissuto, però…

La tua reputazione è ben meritata, Ace Pugno di Fuoco.

Un altro brivido gelido percorse la schiena della ragazza. Ma se Jinbei è stato sconfitto… allora significa che Pugno di Fuoco è ancora in piedi!
Lottando contro il panico Kate si cacciò freneticamente la mano in tasca, e le sue dita si chiusero intorno al manico di un bisturi. Se l’avesse aggredita…
Un colpo agonizzante di tosse e un fruscio le fecero balzare il cuore in gola, e la ragazza si rimise frettolosamente in piedi, pronta a fuggire… per poi paralizzarsi per la sorpresa, quando comprese che quel lamento non era venuto da Jinbei.
Alcuni metri più in là era accasciato bocconi anche un ragazzo. Era giovane, forse addirittura della sua stessa età… e anche lui era gravemente ferito.
Senza neanche pensarci, Kate si tolse la mano dalla tasca e gli si avvicinò. Aveva i capelli neri arruffati, la faccia sporca e insanguinata, e gli occhi chiusi dietro gli strati di sporcizia; inoltre le sue ferite erano chiaramente visibili attraverso gli strappi dei vestiti…
Ma le vene del collo pulsavano ancora, e il suo petto si alzava e si sollevava ancora, seppur molto lentamente; perciò era ancora vivo. Tuttavia era messo molto peggio di Jinbei, e un piccolo fiore d'apprensione iniziò a sbocciare nel petto della dottoressa; gli si inginocchiò accanto e lo spostò con delicatezza per metterlo supino ed esaminarlo meglio, ma quando riuscì a vederlo in faccia non riuscì ad impedirsi di trattennere il fiato.
Era un uomo bellissimo, indubbiamente, e questo nemmeno i numerosi graffi e lividi che gli deturpavano il volto riuscivano a nasconderlo: il fisico era snello e molto muscoloso, anche se ancora un po’ acerbo per via della sua giovane età; il volto invece era strano, quasi tenero e infantile, con quei capelli nero ossidiana scompigliati e lunghi fino al mento, il naso sottile e le guance ricoperte di lentiggini…
- Kate, cosa stai facendo?! Vieni subito via da lì! – ordinò Barbabianca dalla polena della nave.
- Papà, questo ragazzo è ferito, ha bisogno di cure. Lascia che io lo aiuti!
- Non dire sciocchezze. Lascia stare quel mocciosetto arrogante e pensa ad aiutare Jinbei, piuttosto!
Kate spalancò la bocca, incredula. Era forse impazzito?! Come poteva chiederle di ignorare un ferito per dedicarsi ad un altro!? Che ne era stato della sua tipica compassione?!
Kate decise di riprovarci - Posso aiutare entrambi! Se tu solo mi permettessi…
- Basta discussioni, ragazzina! Obbedisci e pensa a Jibei, ho detto!
Quell’ordine dato con così tanta fredda autorità ebbe un effetto tremendo sulla ragazza. La giovane dottoressa si sentì in testa un’esplosione silenziosa, come un fuoco d’artificio di rabbia… e fissando il padre dritto negli occhi, per la prima volta in sei anni di servizio, la giovane dottoressa ignorò i suoi ordini e rimase esattamente dov’era, con il mento sollevato in un’espressione di gelida sfida.

Ne ho abbastanza della sua prepotenza.

 - Se non mi permetti di aiutare anche lui… - sibilò la ragazza con voce glaciale - …quanto è vero Iddio, giuro che non muoverò neanche un dito per salvare Jinbei! Puoi anche sederti e farti portare un caffè, perché tanto io non mi schioderò di qua finché non ci ripenserai! Non è mai stata mia abitudine fare favoritismi o discriminazioni tra i pazienti… e non ho intenzione di cominciare oggi!
- Doc! – strillò incredula Beatrix, fissandola come se fosse impazzita.
Non era l’unica. Tutti, ma proprio tutti, sulla Moby Dick ora la stavano fissando con un'espressione di orrore o di stupore, alcuni si tenevano addirittura le mani sulla bocca…
E poi c’era Barbabianca, che era il più sconvolto di tutti. Per un momento i loro occhi si incrociarono... e Barbabianca la guardò. La guardò per davvero, e Kate si rese conto che, per la prima volta, suo padre la guardava in faccia e la vedeva… e ciò che vedeva lo terrorizzava a morte.

Nessun figlio suo gli aveva mai disobbedito. Mai.

Il vecchio imperatore aprì la bocca per parlarle… ma si interruppe quando vide Pugno di Fuoco muoversi e aprire gli occhi. Anche Kate si voltò di scatto a guardarlo e, incapace di trattenersi, indietreggiò spaventata di diversi metri.

Oh cavolo.

- Capitano! – urlarono sollevati quelli che dovevano essere i suoi uomini – Grazie a Dio stai bene!
- Ma guarda! Sei ancora vivo! – esclamò con un sorriso minaccioso Barbabianca, che nel frattempo si era ripreso dallo shock che Kate gli aveva causato – Dunque saresti tu il ragazzetto che voleva sfidarmi?
Kate deglutì rumorosamente. Non sapeva perché, ma all’improvviso aveva un gran brutto presentimento…lo sguardo con cui il padre stava studiando il ragazzo non le piaceva per niente.
- Sono pronto ad affrontarti, visto che ci tieni tanto! – continuò ghignando Barbabianca, saltando giù dalla polena e cominciando ad avvicinarsi a loro – Sarà un duello testa a testa!
Kate strinse i pugni lungo i fianchi, accigliandosi. Ora aveva capito perché si era sentita improvvisamente a disagio… il babbo si stava comportando così perché il suo atteggiamento lo aveva fatto arrabbiare…e ora se la stava prendendo con il ragazzo, ritenendolo responsabile.

No, non mi sta bene.

- Non puoi farlo, papà! Il ragazzo è ferito, non è in grado di battersi adesso! – protestò la ragazza, mentre Pugno di Fuoco si rimetteva faticosamente in piedi.
- Non intrometterti in ciò che non capisci. – ribatté freddamente Barbabianca – Ora torna sulla nave e prenditi cura di Jinbei. Non farmelo ripetere.
Kate digrignò i denti e si rialzò, livida di rabbia.

Se spera di intimorirmi con questo tono si sbaglia di grosso.

- No.
Barbabianca si bloccò, e si voltò di scatto a guardarla – Come hai detto?
- Ho detto di no. – ribadì la ragazza. Kate si sentiva come se si trovasse in qualche modo al di fuori di sé stessa, e si stesse osservando lasciare il padre di stucco con la sua insolenza e il suo coraggio. Era quasi come osservare un'estranea… un’estranea che adesso si stava muovendo e che, sotto lo sguardo incredulo di Barbabianca, si era piazzata davanti al ragazzo, quasi a volerlo proteggere con il proprio corpo. – Non puoi batterti adesso con lui, e non lo farai...  a meno che tu non voglia passare prima sul mio cadavere!
Il vecchio imperatore ora non sembrava più arrabbiato… sembrava solo sconvolto, e in un certo senso addolorato, come se, con il proprio gesto, Kate avesse in qualche modo ferito i suoi sentimenti.
Kate, d’altro canto, non riusciva neanche a credere a ciò che stava facendo. Perché si stava comportando così?! Perché stava sfidando suo padre in quel modo solo per tentare di proteggere quel ragazzo, che per lei era un perfetto estraneo?! Cosa le era saltato in testa di fare?!
Eppure non si mosse. Rimase lì ferma a fissare il padre con un’audacia che nemmeno avrebbe mai sospettato di avere, ignorando deliberatamente anche il ragazzo, che ora si era rimesso seduto e la stava guardando con un misto di profondo sconcerto e confusione, come se con capisse le ragioni che la stavano spingendo a comportarsi in quel modo.
E chi poteva biasimarlo? Se era per quello nemmeno lei le capiva.
La situazione si stava riscaldando. Superato il momento iniziale, e vedendo che la figlia non si spostava, Barbabianca stava cominciando ad infuriarsi sempre di più, e più lui si incupiva più Katherine cominciava a sentire gocce di sudore freddo scorrerle lungo la schiena, mentre la paura iniziava inesorabilmente ad impadronirsi di lei. La ragazza sapeva che il padre non avrebbe mai alzato un dito su di lei, ma avrebbe sempre potuto afferrarla e trascinarla via di peso… e in tal caso lei avrebbe potuto fare per poco per contrastarlo. Kate si guardò freneticamente intorno, alla disperata ricerca di una soluzione…
E poi qualcuno le afferrò il polso. Una stretta forte, bollente, che quasi le ustionò il braccio. Kate sobbalzò e si voltò, cercando lo sguardo di Pugno di Fuoco.
- D-devi f-farti da parte, ragazzina. S-sono venuto qui apposta per affrontare il vecchio… e non ho intenzione di tirarmi indietro proprio ora.
- Non dire sciocchezze. – replicò duramente la ragazza – Non potresti battere mio padre nemmeno se fossi in perfetta forma, figuriamoci se ci riusciresti in queste condizioni. Resta giù, mi occupo io di…
- Non ho intenzione di darti retta! Io devo…
Ace non riuscì a concludere la frase. Kate infatti si era rapidamente divincolata dalla sua presa con un gesto stizzito e, approfittando del fatto che era debole, gli aveva afferrato a propria volta il polso e gli aveva torto il braccio in una leva, sedendosi a cavalcioni su di lui per immobilizzarlo e costringerlo a terra.
- Stammi bene a sentire, ragazzino… - sibilò la dottoressa, puntandogli un bisturi alla gola per scongiurare qualsiasi suo tentativo di liberarsi - … se non l’hai notato mi sto cacciando in un bel casino per cercare di salvarti il culo, e un po’ di collaborazione da parte tua sarebbe davvero molto gradita! Quindi faresti meglio a tapparti quantomeno la bocca e a non farmi arrabbiare, perché non mi piace affatto il tono insolente che stai usando con me, e ti avverto, se mi fai perdere la pazienza niente potrà più impedire a mio padre di farti la pelle. Sono stata chiara?
Ace non le rispose, si limitò a lanciarle un’occhiata furente da dietro i capelli, che Kate ricambiò con altrettanto astio, premendogli più forte il bisturi contro il pomo d’Adamo.
Nell’assistere a quella scena gli uomini di Ace si infuriarono – Dannata mocciosa, cosa credi di fare al nostro capitano?!
- Somari che non siete altro, sto cercando di salvargli la vita!
- Sei una bugiarda! Lascialo andare immediatamente! – urlarono fuori di sé i pirati, per poi lanciarsi in massa contro di lei. Kate serrò gli occhi, stringendo involontariamente la presa su Ace…
E un vortice di vento si sollevò intorno a loro, e il campo di battaglia fu attraversato da una specie di scarica elettrica, che fece saltare in aria tutti i pirati come birilli. Kate trasalì e strinse i denti per lo sforzo, ma riuscì a rimanere ferma dov’era, e ci riuscì anche il ragazzo sotto di lei.

Niente male! Constatò piacevolmente sorpresa la ragazza, e non fu la sola. Deve essere parecchio determinato se è riuscito a resistere al Haō-shoku no Haki di papà…

Determinato e irruente! Alla vista dei propri uomini che venivano sbalzati via in quel modo infatti Ace ruggì come un animale e se la scrollò bruscamente da dosso, facendola rotolare qualche metro più in là, e si rimise velocemente in piedi, incenerendo Barbabianca con lo sguardo.
- ERANO I MIEI UOMINI! – urlò fuori di sé il ragazzo – RETE FIAMMEGGIANTE!
Allarmata, Kate si raddrizzò, mettendosi rapidamente in ginocchio… appena in tempo per vedere la notte che ardeva.
Il grigio altopiano di rocce digradava verso la spiaggia, e nel punto in cui la pietra incontrava la sabbia divampava il fuoco, un muro di fuoco che si levava in alto colorando il cielo di rosso e bruciando il terreno. Il crepitio delle fiamme era assordante, e Kate si tappò le orecchie…
E si sentì afferrare per le spalle e sollevare come una piuma. La ragazza aprì gli occhi che aveva chiuso senza nemmeno accorgersene, e vide Marco che la teneva tra le braccia – Kate! Devo portarti via da qui, è pericoloso…
Ma non riuscì a finire, perché la sua voce fu sovrastata da quella potente di Barbabianca – Cosa credi di fare, eh ragazzino?
- Voglio che i miei uomini si mettano in salvo! – dichiarò Ace risoluto. Davanti a quella coraggiosa affermazione Kate sgranò gli occhi - Ma io resterò qui… ad affrontarti!

Razza di incosciente! Cosa credi di poter fare ridotto così?! Devo fare qualcosa…

- Che mocciosetto presuntuoso e arrogante! – ghignò Barbabianca. Il suo tono era beffardo, però Kate ci lesse comunque una certa dose di ammirazione – Fatti sotto, allora!
Ace non se lo fece ripetere due volte; si lanciò all’attacco…
E cadde a terra, tramortito da un colpo alla testa, e con la sua caduta si esaurirono rapidamente anche le fiamme. Barbabianca si voltò sorpreso nella direzione da cui era arrivato il colpo... e vide la figlia ansimare con il braccio sinistro ancora alzato, mentre nella mano destra stringeva ancora un altro sasso, con Marco accanto a lei che la fissava con gli occhi sgranati.
La ragazza non esitò, decisa a non sprecare quell’occasione: muovendosi rapida come un serpente corse subito accanto ad Ace, che già stava ricominciando a riprendersi dalla botta e a raddrizzarsi, e con un movimento fluido e deciso abbatté l’altro sasso sulla nuca del ragazzo per tramortirlo del tutto, mettendoci tutta la forza che possedeva. Il colpo non fu molto forte – in fondo Kate era molto più debole di lui -, ma in compenso fu molto ben assestato, e il ragazzo cadde a terra come un fantoccio, senza più rialzarsi.
- Cristo santo, Kate! – esclamò allarmato Marco dopo un attimo di silenzio – Si può sapere che ti è saltato in mente?! Avrebbe potuto aggredirti!
- Non ho avuto altra scelta. – replicò freddamente la ragazza lasciando cadere il sasso per terra – Se non l’avessi tramortito sarebbe finita molto male per lui.
- E chi se ne importava! – fece sconcertato Marco – Non era certo un tuo problema!
Sì, invece. Kate lo pensò ma non lo disse, anzi non rispose affatto. Nel vedersi ignorare in quel modo Marco alzò esasperato le braccia al cielo e si allontanò, brontolando qualcosa su quanto Katherine fosse pestifera, lunatica e astrusa. Kate non vi badò, e si rivolse verso il padre… e lo trovò che la fissava con uno sguardo indecifrabile, il volto duro come la pietra.
- Perché l’hai fatto, Katherine? – indagò il vecchio – Perché hai corso un rischio simile solo per salvarlo? Cosa c’è di così speciale in lui?
Bella domanda, avrebbe voluto saperlo anche Kate. Forse perché lo trovava incredibilmente coraggioso, anche per un pirata? Forse era stato il suo istinto protettivo verso i compagni a colpirla? O magari era stata la sua audacia nel decidere di sfidare in quel modo l’uomo più forte del mondo ad impressionarla?
No, la verità era che Kate aveva agito per puro e semplice istinto, tutto qui. Quel ragazzo l’aveva colpita e impressionata in un modo che non sapeva spiegare, e da quel momento aveva avvertito l’irragionevole quanto irresistibile desiderio di proteggerlo, di tenerlo al sicuro. Non aveva chiaramente senso, ma per Kate non faceva alcuna differenza.
Tuttavia non poteva dire al padre che l’aveva deliberatamente sfidato solo perché in preda a sensazioni contrastanti a cui non sapeva dare neanche un nome. Non avrebbe mai capito, e avrebbe anche potuto decidere di fargli del male, e Kate non poteva permetterlo, non dopo tutto ciò che aveva fatto per impedirlo.
- È ferito, ed è ancora troppo giovane per morire. Mi ha fatto pena, tutto qui! – rispose invece la ragazza sulla difensiva – A te no?
A quella domanda Barbabianca si addolcì visibilmente – Be’, in effetti…
- E poi è stato davvero coraggioso! Hai visto anche tu come si è fatto avanti per proteggere i propri compagni! – rincarò la dose la ragazza – Insomma, mi è sembrato ingiusto lasciarlo morire in un modo così disonorevole! Non sarebbe mai riuscito a difendersi ridotto così, e lo sai!
- D’accordo Katherine, ho capito. – sospirò Barbabianca – Le tue ragioni sono molto chiare.
- Allora posso aiutarlo adesso? – chiese Kate speranzosa – Per favore.
Barbabianca sospirò ancora, e la guardò negli occhi per un momento lungo e gravido di tensione. Kate non aveva la minima idea di cosa stesse cercando, o di cosa ad un certo punto avesse trovato, ma, dopo averla valutata per quell’attimo, qualcosa nella sua espressione cambiò. Fu come se gli fosse venuta un’improvvisa ispirazione, come se avesse rimesso insieme i pezzi di un mosaico, e Kate capì che in qualche modo era riuscita a convincerlo.
- Come vuoi, Kate. In effetti hai ragione, il ragazzino sembra essere in gamba, e sarebbe un vero peccato se tirasse le cuoia. Prenditi cura di lui, e quando si sveglierà, se vorrà, lo prenderò nell’equipaggio come mio nuovo figlio.
Kate sgranò gli occhi. Stava dicendo sul serio?! Fino a qualche minuto prima voleva ammazzarlo e ora si proponeva di adottarlo?!
La ragazza decise di lasciar perdere, e di non sfidare ulteriormente la sorte per quel giorno. Si accodò al padre e permise a Marco di caricarsi Ace sulle spalle, e tutti insieme tornarono alla nave.
La ragazza ancora non poteva saperlo… ma con le sue scelte di quel giorno aveva messo in moto gli ingranaggi del destino non solo suo, ma anche di quello di quello di Ace e dell’intera ciurma di Edward Newgate. Se la ragazza avesse anche solo potuto immaginare quello che sarebbe accaduto appena due mesi dopo sulla Moby Dick, probabilmente quel giorno non sarebbe neppure scesa dalla nave, anzi si sarebbe addirittura barricata in infermeria pur di scongiurare quella serie di avvenimenti che di lì a poco avrebbe finito per stravolgere per sempre e completamente la sua vita.
Ma Kate ovviamente quel giorno non sospettava nulla, e perciò non esitò nemmeno un istante a prendersi cura di quel ragazzo, fasciandogli le ferite e salvandolo dalla morte.
E quello fu solo l’inizio.




Angolo autrice:
Eccomi di nuovo gente, con lo speciale che avevo promesso! Spero vi sia piaciuto!
Devo confessare che è la prima volta che mi cimento in una cosa del genere... ho sempre scritto solo e soltanto long, non mi avevo mai provato a scrivere una serie di one-shot prima! Spero solo di essere stata all'altezza della situazione! :D
Come avrete sicuramente notato, il capitolo è un po' più lungo del solito. Per questo speciale ho avuto in mente un sacco di idee (e alcune mi sono state anche suggerite :D), e quindi ho dovuto fare una selezione, ma se avessi scritto una one su ogni episodio spassoso o tragico che mi è venuto in mente il capitolo sarebbe stato lungo il doppio! XD
Dal prossimo capitolo quindi la storia ricomincerà come sempre, e vedremo in che modo si evolverà la faccenda ora che il problemi urgenti sono stati risolti... senza contare che deve fare ancora fare la sua spettacolare entrata in scena il nostro amato Comandante della Seconda Divisione! ;-)
Prima di salutarvi ci tengo a ringraziare di cuore la dolcissima e fantastica Aiko_Azumane, che mi ha sostenuta nella stesura di questo capitolo speciale e mi ha dato l'idea per due di queste one-shot! (per la precisione la quarta e la decima). Grazie Aiko-chan, sei sempre la migliore! Ti abbraccio fortissimo! <3 <3
Baci e abbracci a tutti voi! <3
Tessie 

P.S. Vi è piaciuta la chicca alla fine? Lo so, avevo detto che in questo capitolo non avrei inserito one-shot con Ace, ma non ho saputo resistere! *.*
Vi giuro, è stata una faticcaccia immane modificare questa famosa scena che tutti amiamo e al tempo stesso sforzarmi di non stravolgerne troppo il significato. Spero che abbiate apprezzato! :D
Baci e abbracci!
Tessie

 

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


Amor tussique non celatur





Capitolo 6
 
 



Se non s’inviscera in qualche evento
o situazione straziante, un amore vale qualcosa?
Quali anatomie e anime incementa,
se manca di disperazione?
Guido Ceronetti
 



Buio. C’era solo buio intorno a lei, un buio così intenso da sembrare tangibile, concreto. Un piacevole tepore la riscaldava, e una calma ancora più gradevole la circondava … ma una voce la chiamava, scuotendola da quella condizione di oscura pace. Una voce che tanto tempo prima aveva perseguitato i suoi sogni per mesi, e che negli ultimi giorni era tornata a tormentarla, divertendosi a logorare quella serenità che con tanta fatica la ragazza si era costruita.

Katie…         
Ace?
Dormi ancora, piccola? Coraggio sveglia, non puoi scappare per sempre…
Non voglio svegliarmi… sto così bene qui…
Devi farlo, Katie. Kate. Kate. Kate…

- Kate! – chiamò di nuovo Bepo – Kate! Svegliati!
Kate balzò a sedere sul letto ansimando, i capelli incollati al collo dal sudore freddo. I suoi polsi erano stretti in una presa salda, e la ragazza cercò istintivamente di liberarsi prima ancora di rendersi conto di chi la stesse tenendo.
- Bepo?
-Sì. – rispose l’orso, che era seduto sul bordo del letto - come era finita in quel letto?! - con un'aria arruffata e semiaddormentata.
- Lasciami.
- Scusa. -  Le sue dita scivolarono via dal polso di lei. - Hai cercato di colpirmi quando ti ho chiamata…
Kate si afferrò le tempie, il volto contorto in una smorfia sofferente - Mi dispiace. Mi sa che sono un po’ nervosa…
- Non importa. – le sorrise l’orso.
Kate lasciò cadere le spalle, e si guardò intorno. Era nella sua cabina sul Catorcio: il grande letto in ferro battuto con le lenzuola porpora, la scrivania e l’armadio in palissandro, l’enorme libreria a muro, la moquette color pervinca sul pavimento… sì, indubbiamente era nella sua stanza.
Sì, era nella sua stanza… ma come diavolo c’era arrivata?!
Kate si sforzò di concentrarsi, di dissipare quella nube scura che le riempiva la testa… ma niente, era come se per un periodo di tempo la sua mente fosse andata in black-out. L’ultima cosa che ricordava era lei che richiudeva l’ultima ferita di Thatch con Law accanto… e poi il buio.
- Come ci sono arrivata qui? Cosa è successo, non ricordo…
- Dopo che tu e Law avete finito di operare tuo fratello ti sei accasciata come un sacco vuoto. Eri completamente esausta. – raccontò Bepo – Law ti ha presa e ti ha portata sul sottomarino, e ha dato a me il compito di spogliarti e metterti a letto. Ci sono stati un po’ di problemi nel portarti qui, tuo padre e gli altri non volevano lasciarci andare… ma alla fine li abbiamo convinti.
- Davvero? Cavolo. Non mi ricordo niente. – mormorò la ragazza, scostandosi i capelli dal volto. – Ma che ore sono?
- Più o meno le sette.
- Di sera?
- No, del mattino.
- Del mattino?! – esclamò sconvolta Kate – Ma com’è possibile?! Erano più o meno le dieci quando è finita l’operazione…
- Infatti, e ora sono le sette. Hai dormito per più di venti ore, Kate.
- Venti ore? – soffiò incredula la ragazza.
- Eh, già.
Kate gemette sconfortata e si prese di nuovo la testa fra le mani, massaggiandosi le tempie nel vano tentativo di alleviare la feroce emicrania che la torturava.

Dannati postumi del Boost.
­
- Dai Kate, reagisci. Tieni, ti ho portato un caffè e delle aspirine. – le sorrise Bepo porgendole una tazza fumante e delle pillole.
A quella vista Kate sgranò gli occhi felice e si avventò su quello che Bepo le porgeva.
 – Oh Bepo, Bepo! – cominciò a recitare con un sorriso divertito - Perché sei tu Bepo? Ah, rinnega tuo padre! … Ricusa la tua specie! … O, se proprio non vuoi, giurami amore, ed io non sarò più una donna! – rise la ragazza ingoiando le pillole e portandosi la tazza alle labbra.
Bepo ridacchiò e Kate continuò – La tua specie soltanto m’è nemica; ma tu saresti tu, sempre Bepo per me, quand’anche non fosti un Ursus maritimus. Rinuncia dunque, Bepo, alla tua pelliccia e alle zampe, che non sono parte della tua persona, e in cambio prenditi tutta la mia!
- Io ti prendo in parola! – declamò melodrammatico Bepo, afferrandole la mano libera e stando al gioco - D’ora in avanti tu chiamami “Amore”, ed io sarò per te non più un Ursus maritimus, perché m’avrai così ribattezzato!
I due risero insieme di gusto, e Kate sfilò le gambe da sotto le coperte – Ho bisogno di una doccia. Mi aspetti? Così poi andiamo sul ponte insieme.
A quelle parole per un momento gli occhi di Bepo mandarono un lampo di disagio. Tuttavia l’orso si ricompose subito e rispose – Certo. Aspetto qua fuori. –. Poi uscì e Kate, rimasta sola, puntò dritta verso il bagno dipinto di blu elettrico. Una volta dentro aprì l’acqua per far riscaldare il getto, e si diresse allo specchio sistemato sopra al lavandino.
Il volto era stanco e pallido, perfino dopo venti ore di sonno. Aveva indosso solo una canottiera bianca e gli slip, e i capelli erano così arruffati che Kate non si sarebbe sorpresa se da un momento all’altro la testolina piumata di qualche passerotto avesse fatto capolino tra le ciocche. Sentendosi debole e nauseata, Kate si tolse sbuffando la canottiera e la biancheria intima, buttando poi tutto nel cesto della biancheria sporca. Poi si infilò nella cabina della doccia, e l'acqua le lambì le spalle, riscaldandola. La ragazza rimase immobile, lasciando che il calore le penetrasse le ossa gelate. Lentamente cominciò a rilassarsi e chiuse gli occhi...

Perciò a quanto pare ho perso i sensi subito dopo l’operazione, e ho dormito per più di venti ore. Ormai saremo lontani dalla Moby Dick… speriamo solo che la guarigione di Thatch proceda senza intoppi. A proposito, chissà dove sarà Memphis… sarà rimasto sulla nave? Appena posso devo provare a chiamarlo, e assicurarmi che stia bene. Accidenti, non l’ho nemmeno salutato…

Già, e non solo lui. Praticamente Law l’aveva portata via dalla nave senza darle il tempo di parlare con nessuno, come se quegli ultimi due giorni fossero stati una specie di sogno. Era una cosa positiva o negativa? Kate non avrebbe saputo dirlo; da una parte si sentiva dispiaciuta per il fatto di non aver potuto almeno salutare Thatch e gli altri, ma dall’altra se ne sentiva immensamente sollevata, perché la decisione di Law di allontanarsi in fretta e furia le aveva almeno risparmiato la pena di dover affrontare il loro giudizio. Il giorno prima non c’era stato tempo per fare o dire nulla, ma adesso…
No, era decisamente meglio che le cose fossero andate così. Meglio il silenzio del biasimo, assolutamente. Anche se in effetti era parecchio strano che fossero riusciti ad andarsene senza che Barbabianca e gli altri glielo avessero impedito… probabilmente Law aveva dato l’ordine di avviare i motori e scappare non appena sulla Moby Dick avessero abbassato la guardia. D’altro canto il sottomarino in casi simili era davvero utile…inseguire un mezzo capace di viaggiare sott’acqua a diversi nodi di velocità come il Polar Tang era infatti tutt’altro che semplice, perfino per un pirata consumato come Edward Newgate.
Kate fece un sospiro liberatorio e allungò la mano verso la saponetta al profumo di limone e violetta, e si strofinò corpo e capelli fin quando non fu convinta di essersi ripulita il più possibile. Poi si avvolse in un morbido asciugamano di spugna, e tornò in camera a vestirsi.
La ragazza rimase davanti all’armadio aperto per più di dieci minuti prima di decidersi: di norma non era il genere di donna che perdeva ore e ore a prepararsi per fare colpo sulle persone, tutt’altro; tuttavia la ragazza aveva sempre avuto l’abitudine di vestirsi seguendo l’umore, e dato che quella mattina Kate proprio non riusciva a decifrare il proprio umore, di conseguenza non riusciva neanche a decidere cosa mettere, neanche si fosse trattato di un affare di stato.
Alla fine si arrese e scelse a caso con un sospiro, preoccupandosi a malapena di non mischiare colori troppo diversi fra loro. Indossò un paio di pantaloncini neri, un crop top verde pino che le lasciava scoperto l’ombelico con il piercing, una camicia lavanda pallido che annodò in vita senza abbottonarla affinché le lasciasse in mostra sia il piercing che il top verde, e un paio di robusti tronchetti neri. Poi si raccolse i capelli ancora umidi nella solita treccia, e con immenso piacere indossò di nuovo tutti i suoi amati orecchini.
- Bepo, sei ancora là fuori? – chiese a voce alta la ragazza mentre si sistemava la spada alla cintura.
- Sì!
- Ok, arrivo! – rispose la ragazza afferrando il borsello da medico e aprendo la porta della cabina. – Scusa se ci ho messo tanto. Andiamo?
Bepo annuì senza parlare, e i due cominciarono ad avviarsi lungo il corridoio.
- Allora, che aria tira qua in giro? – chiese Kate sforzandosi di fare conversazione.
 – Tutto tranquillo… - rispose nervosamente l’orso, come se non volesse discutere dell’argomento.
Kate si voltò a guardarlo, perplessa da quella improvvisa mancanza di loquacità che proprio non era da lui – Va tutto bene, Bepo?
- Sì, sì…
Kate alzò un sopracciglio - Che è successo, hai combinato qualche guaio e ora Law minaccia di usarti come cavia per ricreare il bacillo della peste bubbonica?
- No…
Ok, era troppo, stabilì Kate piantando i piedi sul pavimento e incrociando le braccia al petto. Bepo non rispondeva mai a monosillabi, e adesso questa era la terza volta che lo faceva in meno di dieci minuti. C’era decisamente qualcosa che non andava.
- Bepo, hai intenzione di sputare il rospo e dirmi che problemi hai, oppure devo torturarti?
Bepo si fermò a propria volta, e iniziò a fissare con uno strano interesse il pavimento – Be’, vedi Kate, c’è una cosa che forse non hai notato…
Quelle parole funzionarono alla stregua di un interruttore nella testa della ragazza, che solo in quel momento si rese conto del fatto che c’era qualcosa di strano nel sottomarino.
Cos’era tutto quel silenzio? Perché in giro non c’era anima viva?

E soprattutto, perché diamine non si sentiva neanche un debole ronzio, visto che i motori avrebbero dovuto essere accesi?!

- Bepo… - mormorò la ragazza atona – Dove sono tutti?
Bepo, intuendo ciò che stava passando per la testa della ragazza, fece inconsapevolmente un passo indietro – A terra…
- E “terra” dove sarebbe, esattamente?
Bepo deglutì e non spiccicò parola, e Kate sentì i muscoli del proprio volto contorcersi in una smorfia terribile – Bepo…
- Banaro! Siamo ancora a Banaro! – esplose alla fine Bepo, gesticolando dispiaciuto – Law me l’aveva detto che probabilmente non ne saresti stata contenta… ma non ha voluto comunque sentir ragioni, è voluto rimanere a tutti i costi…

Siamo ancora a Banaro. Siamo ancora qui…

ATROCE SOSPETTO.

Senza neanche riuscire ad arrabbiarsi, Kate si lanciò verso il primo oblò che trovò, e guardò fuori mentre un brivido freddo già cominciava a percorrerle sadicamente la schiena.
La nave ammiraglia dei Pirati di Barbabianca faceva bella mostra di sé nella baia principale dell’isola, così maestosa e imponente che l’isola stessa, seppur grande, appariva del tutto insignificante in confronto a lei. Kate ammirò con amarezzaa la sua magnifica polena raffigurante la balena bianca che le dava il nome, contò uno alla volta i numerosi cannoni che svettavano sulle due fiancate, notando che in tre anni non erano aumentati - quaranta erano e quaranta erano rimasti -, lesse il nome in caratteri d’oro inciso sulla fiancata di tribordo… e sentì una bruciante collera montarle nel petto, mentre nella sua mente il puzzle si ricomponeva un tassello alla volta, mostrandole la situazione in tutta la sua crudele chiarezza.

Questa è la vendetta di Law.

Kate si staccò dall’oblò tremante di rabbia, e molto lentamente si voltò verso l’orso che ancora farfugliava – Dov’è quel cretino?
Bepo interruppe bruscamente il suo soliloquio e la fissò con occhi spalancati – Oh, ehm, lui…
- DOV’È?!
- Sulla nave di tuo padre! – strillò spaventato Bepo – Tuo padre ha insistito affinché facesse colazione insieme a loro…

Ah sì, eh? Fino a due giorni fa non voleva che io li vedessi nemmeno dipinti i miei parenti, e adesso lui stesso se ne va pure a mangiare a casa mia, neanche fosse il mio ragazzo?!

Senza aggiungere altro Kate si allontanò per il corridoio pestando rumorosamente i piedi per terra e lasciando Bepo da solo come un palo, fermamente decisa a mettere le mani addosso a quell’imbecille e a trasformarlo in una borsetta, un portafogli, un paio di guanti e, se fosse avanzata altra pelle, anche in un paio di mocassini.


Se lo prendo lo ammazzo. Lo distruggo. Lo disintegro. Lo metto dentro ad un pilastro. Lo imbalsamo e lo trasformo in un attaccapanni…

Questi erano i pensieri distruttivi che scorrevano rapidamente nella mente di Katherine mentre camminava a grandi passi lungo la spiaggia, diretta alla nave del padre. Ormai era quasi arrivata, mancava solo qualche centinaio di metri.
Come aveva potuto fare una cosa simile?! Law non era stupido, tutt’altro. Nonostante il silenzio che lei aveva tenuto nei suoi confronti doveva di sicuro aver compreso comunque quanto fosse complessa la situazione, quanto fossero complicati i problemi che lei aveva con la sua famiglia… perché, dopo tutti gli sforzi che aveva fatto per contrastarla, ora si stava comportando in quel modo?!
Niente da fare. Come al solito Law non cambiava, faceva sempre di tutto per farla incazzare, e se feriva i suoi sentimenti, pazienza. Tanto a lui cosa importava?!
Kate si sentiva in balia di emozioni contrastanti: rabbia, delusione, paura, disagio, sconvolgimento…
E aspettativa, Sì, perché c’era anche l’aspettativa, e a scatenarla in lei era un ragazzo in particolare.
Ace. È vero, il suo giudizio e la reazione che avrebbe avuto nel rivederla erano quelli che la ragazza temeva di più, eppure non riusciva a non sentirsi impaziente. Malgrado i propri timori Kate voleva rivederlo, almeno per un’ultima volta.
Chissà come stava… era cambiato, o era ancora il ragazzino allegro, focoso e segretamente insicuro che era stato? Era felice con gli altri? Era diventato più forte?
Ma soprattutto, era riuscito a dimenticarla?
Kate sospirò: se quella domanda l’avessero fatta a lei, onestamente non avrebbe saputo che rispondere; o meglio, lo avrebbe saputo, ma non sarebbe stata al cento per cento sicura della sincerità della propria risposta.
I giorni immediatamente successivi alla sua fuga erano stati un vero inferno. Senza Ace, Kate si era sentita svuotata, paralizzata dal dolore; sembrava incredibile rendersene conto solo in quel momento, ma quel dannato scaldino rompiscatole era riuscito davvero ad insinuarsi nel suo erroneamente creduto cuore di pietra, e quando lei era andata via una piccola parte di esso era stata strappata via, lasciandola ferita e sanguinante, apparentemente senza speranze di guarire. Le ferite al cuore di solito sono mortali, e quando vengono inflitte dall’amore fanno ancora più male.
Eppure in qualche modo lei ne era uscita. C’erano voluti mesi, mesi di sofferenze e notti insonni tollerati in silenzio, ma alla fine ne era venuta fuori: il suo cuore aveva accettato quella così brusca e dolorosa rottura e il fatto che lei e Ace, al di là di ciò che era accaduto, non erano comunque fatti per stare insieme, e un po’ alla volta aveva smesso di soffrire, complice anche la distrazione che le portava la sua nuova e avventurosa vita.
Sì, con il tempo Kate aveva dimenticato Ace; l’aveva dimenticato, ma non del tutto, ed era quel “non del tutto” la chiave del suo problema. Contro il volere di Kate il ragazzo continuava ad occupare una piccola parte del suo cuore, e la ragazza era dolorosamente consapevole del fatto che sarebbe stato così per sempre. Non se ne sarebbe mai liberata del tutto, doveva farsene una ragione.
Ecco perché non voleva restare là! Ci aveva messo così tanto a trovare un po’ di serenità, e adesso stando lì avrebbe rischiato di rovinare tutto. Nel migliore dei casi dolore e sensi di colpa avrebbero ricominciato a consumarla proprio come tre anni prima, e nel peggiore… be’, nel peggiore Kate avrebbe potuto cominciare a rimpiangere la propria decisione e, Dio non volesse, anche considerare l’idea di tornare indietro solo per stare con lui.
Kate scosse la testa. No, mai, non avrebbe mai permesso che una cosa simile accadesse. Lo avrebbe visto, lo avrebbe abbracciato, l’avrebbe preso affettuosamente a pugni, avrebbe parlato con lui ancora una volta, ma non avrebbe mai permesso ai sentimenti di travolgerla ancora una volta. Piuttosto si sarebbe gettata dalla balaustra del Catorcio, prima di avere la possibilità di fare qualcosa di stupido.

Bah, non c’è pericolo. Tanto quel maniaco del controllo di Law non me lo permetterebbe mai.

Già, a proposito di Law… Rammentando chi fosse il responsabile di quella situazione così complicata Kate digrignò i denti e allungò il passo, per percorrere più in fretta i pochi metri che le erano rimasti.

Se lo prendo lo smembro. Lo viviseziono. Gli rompo la testa e mi bevo il suo cervello come se fosse un uovo crudo…

Si arrampicò su una scala di corda che sporgeva da una fiancata, e atterrò con un balzo sul ponte, ignorando deliberatamente gli occhi spalancati degli uomini di vedetta che la stavano fissando come se fosse stata un animale mitologico o qualcosa di simile.  Con una smorfia di impazienza si lanciò verso i locali interni, diretta alla sala da pranzo.

Gli strappo gli occhi dalle orbite. Gli strappo le budella e gliele annodo intorno al collo come un guinzaglio…

Era ormai arrivata davanti alla porta che cercava. Con un angolo della bocca sollevato in un sorriso isterico Kate la spalancò con un calcio, ed entrò a testa alta.


Nella mensa dominava la totale confusione. L’aria intrisa del fumo delle vivande rendeva le voci arrochite, al punto che più d’uno tossiva. I tavolacci neri, abbondanti di cibo e bevande di ogni genere, erano gremiti di uomini esaltati dalla massiccia dose di caffeina o altro che ormai dovevano avere già in circolo. I più tranquilli discutevano sommessamente, lanciandogli di tanto in tanto torve occhiate; gli occhi iniettati di sangue, lucidi, le barbe lunghe, i capelli, scuri nella maggior parte, incolti, li rendevano spaventosamente simili l’uno all’altro. Altri invece parlavano male di lui a voce deliberatamente alta per farsi sentire, e continuavano a lanciargli minacce terribili, e altri ancora mangiavano solitari e in silenzio, apparentemente indisturbati, eppure guardinghi, pronti a balzargli addosso se solo avesse osato fare una mossa azzardata.
Law dal canto suo sogghignava, per nulla intimorito da quella situazione. Quella marmaglia di pirati erano come un branco di cani randagi in gabbia, abbaiavano tanto ma non avrebbero potuto mordere nessuno. Non con il vecchio imperatore che continuava a lanciare occhiate di avvertimento in giro, almeno.
Tutto sommato era contento di aver accettato l’invito del vecchio ad unirsi a loro per la colazione. Al di là del fatto che questo avrebbe fatto incazzare ulteriormente Katherine, quella stata era un’opportunità interessante per studiare quella gente.
Non che avesse scoperto qualcosa di nuovo, in realtà; per il momento Law restava semplicemente della propria opinione inziale, e cioè li riteneva solo un branco di idioti con i neuroni bruciati capaci solo di fare danni senza un minimo di logica o metodo. Non solo, erano pure ingrati, visto che il fatto che Law avesse notevolmente contribuito a salvare la vita del loro prezioso fratello non sembrava contare nulla per loro, a giudicare da come lo stavano guardando… l’ingratitudine e l’irascibilità dovevano essere un vizio di famiglia.
Il chirurgo ci aveva pensato e ripensato, ma continuava a non capire cosa potesse trovarci Katherine di così interessante in loro. Tuttavia una cosa doveva loro concederla: possedevano un notevole istinto di protezione verso i loro cari, questo era fuor di dubbio… altrimenti come spiegare quegli sguardi così rancorosi che gli stavano rivolgendo da più di mezz’ora, neanche fosse stato il Grand’Ammiraglio Sakazuki in persona?

Magari sono semplicemente gelosi. A quel pensiero Law sogghignò.

La donna entrò con disinvoltura, la testa alta, il passo arrogante, lo sguardo privo di timore. Lungo il tavolo con il buffet alcuni marinai si voltarono. Il vociare intenso si spense in un indistinto mormorio: un insieme di sibili e sussurri, qualche respiro trattenuto, e innumerevoli occhi sgranati. Un uomo alto, muscoloso e dal petto ampio, con un fisico imponente e piuttosto abbronzato, dei baffi ricci neri e un cilindro blu scuro sulla testa sopra i capelli neri e ricci si staccò dai suoi compagni, e le si avvicinò lentamente per parlarle.
La donna sembrò non farci caso: si guardò attorno, come se cercasse qualcuno in particolare. Quella vista li incuriosì prima di tutto, e molti dimenticarono il piatto o il bicchiere che avevano davanti, o la discussione in cui erano immersi poco prima, e la seguirono con gli occhi, improvvisamente vivi, curiosi, affamati.
Law sogghignò. Indubbiamente il demonio in gonnella sapeva come attirare l’attenzione…
Kate passò con sguardo apparente noncurante i volti scuri rivolti verso di lei, e si addentrò nella sala. Qualcuno si scostò inconsapevolmente, corrucciandosi nel rendersi conto della debolezza di quell’atto, qualcuno tentò di bloccarle il passo, ma senza particolare determinazione. Erano semplicemente indecisi, e incuriositi.
Il ghigno di Law si allargò. Quella piccola intrigante poteva fingere quanto voleva di essere perfettamente tranquilla, ma le fiamme che ardevano nei suoi occhi non mentivano: era furibonda, proprio come il ragazzo aveva sperato. Law si leccò le labbra con impazienza, e la accolse con una risata sinistra.
- Buongiorno, dolcezza! – esordì Law con il suo solito tono strafottente – Finalmente la nostra bella addormentata si è svegliata! Chi ti ha baciata?
Kate lo individuò in mezzo alla folla e gli scoccò un sorriso altrettanto strafottente – Bepo. Una limonata memorabile, dico sul serio! Chi l’avrebbe mai immaginato che gli orsi polari baciassero così bene? Dovresti farti dare qualche lezione pratica, ti sarebbe davvero utile…
Law ridacchiò sotto i baffi. Se riusciva ad essere ironica e a provocarlo deliberatamente allora era davvero arrabbiata, molto più di quanto avrebbe potuto sperare – Cosa ti fa pensare che io ne abbia bisogno? Tu non mi hai mai baciato… potrei anche sorprenderti.
- Un represso come te? Nah, ne dubito. Probabilmente se tu mi baciassi l’unica cosa a cui riuscirei a pensare sarebbero le calze sformate, il talco e le dentiere.
Ci era andata giù pesante, Kate lo sapeva. Ma era arrabbiata e delusa dalla sua immaturità, e non aveva saputo trattenersi. Che poteva farci? Era pur sempre umana, e l’umanità era da sempre una gran brutta specie.
Law le fece un sorriso arrabbiato – Tu, piccola sfacciata…
- Oh su, non fare quella faccia! Stavo solo scherzando! – lo interruppe Kate, avvicinandosi a lui con stampato in faccia un sorriso amabile più falso dei soldi del Monopoli – Te l’hanno mai detto che sei più permaloso di una donna?
Il sorriso arrabbiato di Law si accentuò, e il ragazzo le puntò in faccia un dito accusatore – Dio, come vorrei poter mettere a tacere una volta per tutte quella tua dannata boccaccia. Sarebbe la soddisfazione più grande della mia vita.
- Nah, poi ti annoieresti senza la mia vena spiritosa e ironica. - ridacchiò Kate, posandogli una mano sulla spalla e chinandosi su di lui. Sembrava essere sul punto di posargli un bacio sulla guancia come per salutarlo, e invece gli bisbigliò all’orecchio con voce omicida – Alza in fretta il culo da questa panca e seguimi fuori senza far capire niente a nessuno; sii veloce e discreto, e forse non ti ucciderò in maniera lenta e dolorosa. Se tra tre secondi non sei ancora fuori giuro che ti sgozzo e mi bevo il tuo sangue come se fosse una piña colada.
Detto questo si risollevò e si avviò tutta impettita verso l’uscita così com’era arrivata, ancheggiando leggermente. Law sogghignò e la seguì senza dire una parola, pregustandosi già il divertimento.
La trovò ad aspettarlo appoggiata con la schiena contro la balaustra, le braccia incrociate al petto e il piede che batteva inconsciamente sul ponte per il nervosismo.

Sembra quasi a disagio su questa nave. Constatò perplesso Law. Questa faccenda mi è sempre meno chiara.

- Spero tu ti renda conto – esordì Law con un sorriso, apparentemente non facendo caso all’espressione cupa dell’amica – di come, a giudicare dal modo cospiratorio con cui mi hai trascinato qua fuori, tutti ora penseranno che noi due siamo amanti o qualcosa del genere. Oddio, in molti già lo pensavano, ma alcuni erano ancora disposti a concederti il maleficio del dubbio…
- Il maleficio del dubbio? – chiese scettica Kate.
- Ovvio! Insomma, qualsiasi fratello o padre con almeno metà della testa a posto spererebbe di vedere una sorella o una figlia impegnata con il sottoscritto! – si pavoneggiò Law – Voglio dire, sono bello, intelligente, forte, carismatico…
- Odioso, prepotente, arrogante… - aggiunse annoiata Katherine - Ma questi sono solo aggettivi. Qual è il punto?
Law sogghignò – Il punto è che là dentro sono tutti convinti che noi due andiamo a letto insieme. Tuo padre in prima battuta.
- Grandioso. Così tra le altre cose mi hai anche rovinato la reputazione. – brontolò la ragazza – Essere associata ad un pivello spocchioso e pieno di boria come te… socialmente parlando potrei finire in Siberia! E dire che una volta godevo di una certa considerazione su questa nave…
Il ghignò del chirurgo si contorse – Ah, tu e la tua linguaccia lunga… ribadisco, prima o poi te la taglierò. O peggio.
- Vedremo. Perché invece ora non parliamo di te? – ribatté la ragazza, fissandolo con aria truce.
- Vuoi parlare di me? – chiese divertito Law, fingendo di pavoneggiarsi – Ti accontento volentieri. Allora, di cosa vuoi parlare? Del mio fantasmagorico talento nella medicina, del mio incredibile fascino…
- Pensavo più alla tua praticamente inesistente empatia nei confronti del genere umano, in realtà. – ribatté gelida Kate – Si può sapere cosa ti è saltato in mente di fare?!
- Be’, non saprei. Di quale delle tante cose che ti ho fatto stiamo parlando, esattamente? – chiese Law, scimmiottando le stesse parole superficiali che lei stessa gli aveva rifilato il giorno prima. Tuttavia non c’era un nervoso divertimento nel suo tono, ma un’ironia sorprendentemente tagliente, come una lametta dorata bordata d'acciaio affilato.
- Non provarci. Le mie battute sono coperte dal diritto d’autore. – replicò Kate, ignorando il suo tono freddo – Perché siamo qui?! Fino a ieri non volevi neanche che mi avvicinassi a questa nave, e adesso accetti anche di fare colazione con la mia famiglia?! A cosa stai mirando, esattamente?
Law alzò un sopracciglio, fingendosi perplesso – Fammi capire: fino a ieri era seccata dal fatto che io non volessi farti venire, e adesso lo sei perché hai ottenuto quello che volevi?
- Che vuoi che ti dica? Mi diverto a rompere! – replicò sarcastica Kate – Rispondi alla mia domanda!
- Conoscere gente nuova? Comportarmi in maniera educata? – chiese Law con finto tono innocente – Tuo padre è stato così gentile da invitarmi, come facevo a dire di no…?
- Non farmi ridere con questa sceneggiata da bravo ragazzo! Tu ti comporti da zotico quando qualcuno non ti piace, ti comporti da presuntuoso… e ora vorresti farmi credere che all’improvviso sei diventato un fan della mia famiglia in meno di ventiquattr’ore?! – un sorriso canzonatorio incurvò le labbra della ragazza – Allora possiamo aspettarci un lieto annuncio per la fine della settimana? Tanto tra milleseicento pirati hai l’imbarazzo della scelta…
- Ah, non saprei… certo in una settimana possono accadere tante cose. E visto che putacaso staremo qui per almeno una settimana, non è un’ipotesi che posso escludere…
Aveva parlato con incredibile noncuranza, si rese conto Law, come se si fosse trattato di un dettaglio di poco conto, al pari di “L’ho preso rosa invece che blu” oppure di “Arrivo in autobus invece che in treno” … ma il significato delle parole era tutt’altro che di poco conto, e l’improvviso pallore cadaverico del volto di Kate ne era la chiara dimostrazione.
- Scusa… - sussurrò la ragazza con aria allucinata -… potresti ripetere?
Il sorriso di Law si spense. Non era di certo quella la reazione che aveva immaginato che Kate potesse avere. Aveva sperato in una reazione furibonda, infuocata… e invece Katherine lo guardava come se fosse sul punto di cadere nel vuoto, pallida e spaventata a morte. Alla fine, dopo qualche secondo di turbato silenzio, Law ripeté – Resteremo qui per una settimana, almeno. Tuo padre si è dimostrato molto riconoscente per il mio fondamentale intervento nel curare tuo fratello – cosa che non posso dire degli altri, tra l’altro –, e per la mia solerzia nell’occuparmi di lui mentre tu dormivi, e così ha insistito nel volerci tutti qui ospiti per una settimana, per avere la possibilità di conoscerci meglio. Non è una bella notizia?
- Una bella notizia?! – rantolò incredula Kate – Tu non sai cosa hai fatto, Law.
- Allora dimmelo tu cosa ho fatto. – replicò Law, con una durezza che non sentiva.
- Credi che l’essere il mio capitano ti dia il diritto di impormi una decisione del genere, di entrare nella vita di persone che non conosci, o di immischiarti in cose che non puoi capire e che non ti riguardano? – chiese gelida Kate – Tu non sai un bel niente di me, e non hai il diritto di fare così! Tu non capisci… non ti rendi conto di quello che significa quello che hai fatto…
- Hai ragione, non me ne rendo conto. – la interruppe furioso Law, ormai incapace di continuare a tenersi dentro la frustrazione che provava – E puoi biasimare solo te stessa per questo! Se tu fossi stata sincera con me sin dall’inizio, io non avrei reagito così!
- Oh, adesso capisco… – annuì Kate con una smorfia amareggiata – Io ho ferito te, e quindi ora tu ferisci me. Davvero maturo da parte tua, non c’è che dire.
- Ferito? Credi davvero di avermi ferito? – sibilò Law con un sorriso odioso. Improvvisamente sentiva l’impulso di ferirla, di ferirla davvero, solo per dimostrare a sé stesso Dio solo sapeva che cosa – Non sopravvalutarti, ragazzina. Ammetto che lo scherzo che mi hai giocato ieri mi ha fatto abbastanza incazzare, ma di certo non mi hai ferito. Non darti troppe arie, non conti poi così tanto, per me.
Law aveva parlato senza pensare, troppo accecato dalla rabbia… ma trattenne il fiato nel vedere l’espressione della ragazza. La giovane lo fissò sbalordita per un momento, per poi allontanarsi istintivamente, come se lui l’avesse spinta via. Gli occhi erano lucidi di lacrime, e le labbra serrate come per impedirsi di scoppiare a piangere.
Law si maledisse, consapevole di aver esagerato, e tese una mano verso di lei – Kate, mi dispiace, non volevo…
- No, non ti dispiace. Non dispiacerti. – replicò lei, la voce improvvisamente rigida e formale – Se la tua posizione era questa sin dall’inizio, allora avresti dovuto dirlo subito. Se l’avessi saputo prima mi sarei risparmiata un sacco di seccature.
- Kate… - la chiamò Law tentando di metterle una mano sulla spalla, ma lei si scostò bruscamente dal suo tocco, l'espressione chiusa e impenetrabile come un muro. In quel momento era difficile credere che l'avesse mai guardato in un altro modo. – Kate, ascolta…
- No. Non voglio più ascoltarti. Hai già fatto abbastanza.
Senza aggiungere altro Kate si allontanò. Law tentò di fermarla, ma lei era già fuori portata, già troppo lontana da lui. La chiamò di nuovo, ma lei non si voltò.

Sembrava che nella cambusa della Moby Dick fosse esplosa una bomba. Il frigorifero di dimensioni ciclopiche era completamente vuoto, con le superfici un tempo candide ora decorate da strani spruzzi di ketchup, il bottiglione di sciroppo d’acero formato extralarge era stato svuotato, con liquido ambrato che ricopriva quasi tutte le superfici disponibili. Il pavimento era disseminato di sacchetti di caramelle vuoti, e il piano cottura era dir poco carbonizzato, con strani fumi che si liberavano nell’aria…
Ma soprattutto c’era il tavolo. Il lunghissimo e gigantesco tavolo che troneggiava al centro della cucina era completamente ricoperto da resti di cibo non identificati, dalle lunghe strisce di zucchero ai pezzettini di carne di carne essiccata, più una quantità scandalosa di briciole di vario genere. Sembrava quasi che su quel tavolo si fosse appena consumato un duello all’ultimo sangue invece che una colazione.
E poi c’era lei, la responsabile di tutto quel casino. O’Rourke D. Katherine sedeva con sfacciata alterigia al centro di quel macello come una cavolo di Maria Antonietta in mezzo ad una folla di plebei, stravaccata su una sedia con i piedi poggiati sul tavolo, il volto e le mani disgustosamente macchiati da sostanze non identificate dai colori più disparati, le guance gonfie di cibo come quelle dei criceti quando si riempiono la bocca di semi, e l’espressione perversamente soddisfatta che di solito hanno i camerieri quando sputano nei caffè dei clienti antipatici. Masticava quello che aveva in bocca con studiata lentezza, quasi a voler sfidare l’inesistente pubblico a rimproverarla di qualcosa, e girava con un cucchiaino l’inquietante contenuto di un bicchiere dal colore decisamente allarmante.

Ma cosa diavolo era successo? Vi chiederete voi…be’, per dirla in due parole…bulimia affettiva.

Ecco cos’era accaduto esattamente: subito dopo essersi allontanata da Law, per prima cosa Kate era corsa in infermeria a controllare le condizioni del padre e di Thatch. Li aveva trovati profondamente addormentati, sereni come bambini, con due infermiere che facevano loro da angelo tutelare, perfettamente padrone della situazione. Con aria rassegnata Kate si aveva minuziosamente visitati, assicurandosi della stabilità delle loro condizioni, e poi era andata via, dolorosamente consapevole dell’inutilità di cui era vittima in quel momento in quell’infermeria. L’unica cosa che avrebbe potuto fare era stare a guardare il gocciolare della flebo, e la ragazza aveva seri dubbi sul fatto che questo avrebbe potuto far guarire più in fretta i due uomini.
Così, una volta fuori dall’enorme stanza, aveva cominciato a vagare per i corridoi della Moby Dick come un fantasma, nel vano tentativo di calmarsi e di evitare di mettersi a frignare come una ridicola adolescente ipersensibile, sopraffatta da un groviglio di emozioni così travolgente da rischiare di annientarla completamente. Aveva incontrato molte persone mentre girava senza meta, ma le aveva ignorate tutte, continuando ad errare stordita per la nave come uno zombie… fino a quando a furia di vagabondare era arrivata alla cambusa, e si era resa conto solo in quel momento di essere a digiuno da quasi due giorni, ormai.
Così era arrivato il momento in cui si era ritrovata a fare una scelta: o provava a sconfiggere la depressione nera che l’aveva aggredita scegliendo di andare a pettinarsi con un frullatore acceso – dando così il proprio personale e violento addio al mondo -, oppure tentava di riempire l’immenso vuoto interiore che quella situazione e le parole crudeli di quello stronzo di Law le avevano creato nel petto con l’ausilio del cibo.
Inutile dire che la scelta era stata scontata. Law era senza dubbio un bastardo senza pari, ma nemmeno la sua monumentale cattiveria merita un suicidio così sanguinario. E poi scegliendo di abbuffarsi riusciva anche ad ottimizzare!
E così la ragazza si era seduta al centro del lungo tavolo della cucina e aveva cominciato a divorare in preda ad una forsennata furia famelica ogni cosa dall’aria anche solo vagamente commestibile che le fosse capitata a tiro: buona o cattiva, grassa o magra, solida o liquida, primo o secondo o dessert che fosse non faceva alcuna differenza; la ragazza si limitava a riempirsi ogni anfratto della bocca con tutto quello che le capitava sotto mano, mescolando senza alcun ritegno dolce, salato, amaro e piccante, neanche fosse stata una donna al settimo mese di gravidanza, mangiando direttamente con le mani alla stregua di una cavernicola.
Ormai era da quasi un’ora che se ne stava rintanata là sotto, con la pancia gonfia come una palla, e fino ad allora in quest’ordine aveva trangugiato:
  1. Dieci barrette di cioccolata alle nocciole, al gianduia e via dicendo;
  2. Una ventina di toast con mortadella, formaggio, uova all’occhio di bue, marmellata, crema di nocciole, tonno, pomodoro, crema pasticcera, budino al cioccolato, bacon, lattuga, salsa di soia, salsa wasabi, salsa tartara, senape, ketchup (e mi fermo qui, altrimenti non basterebbe la pagina);
  3. Una teglia gigante di riso, patate e cozze;
  4. Una pentola delle dimensioni di un calderone piena di polpette;
  5. Cinque pizze con sopra olive, salsiccia, scamorza affumicata, pepe, cipolla, peperoni e crauti;
  6. Caramelle, bignè, biscotti, frittelle e altri dolci assortiti, in quantità tali che avrebbe potuto sfamare una ventina di persone;
  7. Latte, caffè, aranciata, limonata, succo di mora e thè freddo tutto mescolato insieme, e in dosi tali da poter praticamente riempire una cisterna.
Insomma, uno schifo totale. E ora, come se tutto questo non le fosse ancora bastato, quella peste ora stava tristemente rimestando in un bicchiere un’inquietante miscuglio che pareva composto da latte, cacao, panna acida e Pepsi con il preciso scopo di farsi male da sola, anche se ovviamente ancora triste e scoraggiata, perché non è di certo con un’atroce abbuffata che si risolvono problemi di questo tipo.

Bah, al diavolo. E dire che Murphy lo ripeteva sempre! “Se una cosa può andare male, andrà anche peggio”. Non me li ricordo mai li assiomi della filosofia quando servono.

Kate sospirò ingoiando l’ultimo gigantesco boccone, posò il bicchiere ancora intonso sul tavolo e si accese una sigaretta, ormai consapevole dell’inutilità di quanto aveva fatto fino a quel momento. La ragazza si alzò dalla sedia con un altro sospiro, si pulì alla bella e meglio il viso e le mani con un tovagliolo, e andò a cercare un secchio d’acqua e uno straccio, sperando di poter ripulire almeno in parte il casino che aveva combinato.
Come aveva potuto illudersi? Law era Law, e lei non avrebbe dovuto aspettarsi che fosse qualcos'altro. Tre anni prima il suo istinto l’aveva messa in guardia, l’aveva avvertita del fatto che probabilmente Law era velenoso, crudele e insensibile proprio come appariva, e che affezionarsi a lui avrebbe potuto essere pericoloso… ma lei non vi aveva badato, scegliendo piuttosto per il proprio bene di credere che in realtà Law, sotto quella corazza di strafottenza e gelida indifferenza che si portava costantemente addosso, nascondesse gentilezza e sensibilità proprio come tutti gli altri esseri umani.
Si era sbagliata, dannazione. A quanto pareva Law in realtà era cinico e meschino proprio come sembrava, e se anche una parte di lui provava davvero affetto per lei, allora era un affetto insano e orribilmente contorto, che esigeva vendetta se deluso o ferito.
In che mani si era consegnata? Chi era davvero l’uomo che per tutti quegli anni aveva chiamato “amico”? Lo conosceva davvero, almeno?!

No, non lo conosco.

Con sommo orrore, e solo in quel momento, a Kate fu chiaro il fatto che, proprio come lei non aveva mai voluto raccontargli nulla del proprio passato, allo stesso modo lui le aveva mai detto nulla di sé. Ma come aveva fatto a non accorgersene prima?!
Kate mollò lo straccio, improvvisamente svuotata di ogni energia, e si lasciò cadere sconfitta su una sedia, la sigaretta ormai esaurita. Ok a voler vivere pericolosamente e con il mondo apparentemente in pugno, va bene mettersi nei guai con uomini poco raccomandabili… ma così era un po’ troppo. Rischiava di farsi male sul serio, e di non riprendersi mai più stavolta. Non poteva rischiare di legarsi così tanto a quel ragazzo, altrimenti avrebbe finito per fargli compagnia nella sua orribile condizione di fredda e odiosa infelicità. O peggio, avrebbe finito per innamorarsi di lui.
Kate scosse febbrilmente la testa a quel pensiero. No, questo non sarebbe mai dovuto accadere, mai e poi mai. Altrimenti poi qualcuno avrebbe dovuto raccogliere i suoi pezzi con un cucchiaino, sempre ammesso che di pezzi ne fossero rimasti. Law era già fin troppo bravo a ferirla da amico…
- Hai un aspetto davvero poco rassicurante, sorellina. Anche se non quanto la stanza, in effetti.
Kate cadde dalla sedia con un grido, atterrando rovinosamente di sedere per terra, e rivolse seccata lo sguardo verso la porta.
Marco se ne stava appoggiato allo stipite della porta, e malgrado la sua onnipresente e irritante calma fissava il caos della cucina con gli occhi così spalancati da sembrare piatti, come se la stanza fosse stata appena distrutta da un’esplosione atomica. Il che non era poi così distante dalla verità, ora che Kate ci faceva caso.
Il comandante della Prima Divisione entrò prudentemente nella stanza, e si guardò intorno con spirito critico – Hai visto un topo e hai tentato in tutti i modi di catturarlo, per caso?
Kate sbuffò e distolse lo sguardo da lui – No.
Marco alzò un sopracciglio - Facevi qualche esperimento?
- No!
- Allora cos’è, stavi tentando il suicidio?!
Kate alzò infastidita gli occhi al cielo e gli fece un sorriso irritato – Ok, mi hai beccato: volevo fare la fine del ratto impigliato nel malto. Sai com’è, impiccarsi fa così tanto Medio Evo…
Marco però non si fece impressionare dal suo tono insofferente. Le si avvicinò, stando bene attento a non pestare niente di strano, e si chinò accanto a lei – Su, dimmi cosa c’è che non va.
Scioccata, Kate sbatté ripetutamente le palpebre. Sul serio Marco le aveva appena chiesto come stava?!
Ma stava scherzando?! Come poteva essere così gentile e comprensivo?! Dopo tutto ciò che aveva combinato, dopo il modo in cui si era comportata quel giorno, snobbando tutto e tutti… cos’era, improvvisamente gli era venuta la vocazione della crocerossina?! Fino a quel momento Kate era stata convinta che, dopo anni di isterica relazione con Izou, Marco ne fosse rimasto sprovvisto di palpiti di umanità, e che fosse per questo che la sua faccia a trentasei anni ora sembrava pericolosamente simile ad una scodella di porcellana…
- Non c’è assolutamente niente che non va! – replicò lei allontanandosi da lui – Avevo solo fame.
- Wow, alla faccia! – esclamò sarcastico Marco, guardandosi di nuovo intorno – A questo punto direi che le opzioni sono due: o non mangi da più di due mesi, o hai avuto un attacco piuttosto grave di bulimia affettiva. Personalmente io propenderei per la seconda ipotesi… e se ho ragione, allora questo significa che hai effettivamente un problema su cui piangere. Allora, confessi o no?
Kate lo guardò male, nel goffo tentativo di nascondere il proprio disagio – Dì un po’, non hai niente di meglio da fare che venire qui a rompere?!
Un angolo della bocca di Marco si sollevò – No, oggi è una giornata un po’ piatta. Cerco altri modi per ingannare il tempo. Allora?
Kate alzò di nuovo gli occhi al cielo, e recuperò lo straccio dal pavimento – Ho litigato con il mio capitano. – ammise a malincuore.
Marco sollevò un sopracciglio – Chi, Trafalgar?
Kate annuì.
- Perché?
Kate si strinse nelle spalle, fingendo noncuranza – Niente di che. Litigi tra amici. Sono cose che capitano...
- Bugiarda.                             
Kate sbuffò infastidita. Marco era sempre stato bravo a leggerle dentro, a volte perfino più di Thatch… non c’era nulla che si potesse nascondere alla Fenice.
Tuttavia questo non voleva dire che doveva confidarsi per forza con lui… anche perché era consapevole di non meritarsi né gentilezza né conforto, e soprattutto non da lui, che a dispetto tutto era stato sempre incrollabilmente onesto e premuroso nei suoi confronti. Non dopo ciò che aveva fatto, non dopo aver effettivamente abbandonato la propria famiglia, non dopo essere scomparsa senza dare notizie per anni, e non dopo la cattiveria con cui si era comportata da quando era di nuovo lì.
No, decisamente non aveva voglia di piagnucolare dei suoi problemi proprio con lui. Non era poi così disperata da essere pronta a piangere senza ritegno sulla porta di chiunque, tanto meno sulla porta di chi avrebbe dovuto volerla prendere a calci nel sedere invece di offrirle supporto morale. Aveva ancora un orgoglio in mezzo all’informe ammasso di lipidi che le ingolfava il corpo.
- Perché ti interessa così tanto? – indagò Kate.
- Non posso più interessarmi alla vita della mia sorellina, adesso?
Kate non sapeva cosa rispondere, per cui rimase in silenzio. Strinse la presa sullo straccio e tornò a concentrarsi sul pavimento sporco, sperando che ignorare il fratello avrebbe scoraggiato la sua curiosità.
- Non ignorarmi, Mocciosa Malefica.
Kate sbuffò una risata amara – Era da anni che nessuno mi chiamava così…
- Perché era da anni che non mettevi piede qui.
Marco aveva parlato con grande tranquillità, limitandosi a constatare l’ovvio… e fu proprio per questo che le sue parole le fecero così male, per la serenità con cui Marco parlava della cosa, come se fosse stata una faccenda di poco conto. Kate avrebbe di gran lunga preferito che si arrabbiasse, che le urlasse contro… così invece era come usare l’alcool per disinfettare una ferita. Sicuramente efficace, ma così tanto doloroso da farti arrivare a rimpiangere la scampata infezione.
- Ho avuto… da fare. – biascicò la ragazza.
- Lo vedo. – replicò Marco con voce leggermente dura – Come ad esempio riempirti di buchi e seguire per i mari il primo irriverente bastardo che incontri e che ti fa arrivare sull’orlo delle lacrime? Onestamente da te mi aspettavo qualcosa di più.
Kate si coprì il piercing all’ombelico con una mano e fissò il fratello in cagnesco – Non parlare di Law come se lo conoscessi.
- Perché, tu invece lo conosci?
- È mio amico. – replicò Kate, la voce fredda e pungente come un ghiacciolo. – Certo che lo conosco!
- Sembra quasi che tu voglia autoconvincerti.
Le mani della ragazza si serrarono a pugno. Si sentiva arrabbiata con sé stessa, con il mondo intero, ma soprattutto con Marco, che le stava rigirando il dito nella piaga – No. Non dirmi quello che sento.
- Allora spiegamelo tu, cosa senti!
- Ascolta, che vuoi che ti dica?! Che è un irriverente bastardo, come dici tu?! Sì, lo è! Vuoi che ti dica che mi ha ferita e che mi ha fatto arrabbiare?! Sì, l’ha fatto, però…
- Però? – chiese scettico Marco, con un sopracciglio sollevato.
Kate si mordicchiò una guancia, cercando di trovare le parole. C'erano molti motivi per cui, anche dopo tre lunghi anni di convivenza, Kate detestava ancora Law. Anzi, fino ad un paio di anni prima avrebbe potuto mostrare a Marco intere liste scribacchiate proprio su quell'argomento. Lo odiava perché lui era così schifosamente attraente e affascinante con quella sua aria da cattivo ragazzo da poter ottenere praticamente qualunque cosa volesse semplicemente con uno dei suoi sorrisi strafottenti, mentre lei era così piatta e senza curve da potersi quasi faxare, ed era costretta a camminare su tacchi dall’altezza criminale pur di evitare di scomparire in mezzo all’erba alta, e accanto a lui sfigurava come un tosaerba accanto ad una Porsche. Lo odiava perché non poteva mai dirgli niente che lui non sapesse già, lei che era sempre stata abituata ad essere l’irriducibile genio della propria famiglia. Odiava il fatto che lui riuscisse a ferire i suoi sentimenti così facilmente, quasi lei fosse stata creta nelle sue mani, mentre lui sembrava essere così indistruttibile e impenetrabile che a volte a Kate era venuta la tentazione di sparargli con un lanciafiamme solo per vedere se, tra le altre cose, era pure ignifugo. Lo odiava perché era prepotente e dispotico, perché pestava i piedi come un bambino se le cose non andavano esattamente come voleva lui, e perché lei, a dispetto dell’atteggiamento da dura che si sforzava di tenere nei suoi confronti, non era mai riuscita a negargli nulla.
Eppure, molto molto nel profondo, di tanto in tanto Kate era veramente molto felice che quell’irriverente bastardo fosse il suo migliore amico. Perché talvolta Law sapeva anche dimostrarsi gentile, e quando accadeva a Kate pareva di non poter desiderare altro nella vita se non stargli vicino, e non gliene importava niente di sembrare patetica per questo; perché quando si faceva male in battaglia era sempre Law che si prendeva cura di lei, pulendole e fasciandole le ferite, e fingendo di rimproverarla per la sua impulsività e la sua imprudenza mentre lei fingeva di non aver bisogno del suo aiuto; perché Law alcune volte riusciva anche a mettere da parte il suo noioso atteggiamento di superiorità per andare a trovarla in cabina, per studiare con lei o semplicemente per stare insieme a lei a parlare di tutto e niente, e quei momenti per Kate erano più preziosi di qualsiasi tesoro, anche se a voce alta non l’avrebbe mai ammesso, nemmeno se qualcuno l’avesse minacciata di toglierle caffè e sigarette per un mese; ma soprattutto perché Law le aveva insegnato tanto, così tanto che Kate non riusciva neanche ad immaginare che al mondo ci potesse essere un modo per ricambiare quel favore.
Forse però quei bei tempi erano finiti. O forse non erano mai iniziati davvero.
Ma come poteva spiegare tutto questo a Marco?
- Senti, è lunga da spiegare. – tagliò corto alla fine Kate – ti basti sapere che lo rispetto e lo apprezzo, almeno finché non esagera come ha fatto stamattina. Tutto qui. Di solito andiamo molto d’accordo, credimi.
- Sarà…ma io ho i miei dubbi.
Quella fu l’ultima goccia. Perché si stava comportando così?! Ok, era chiaro che l’affetto di un fratello, nonostante tutto, non poteva essere distrutto così facilmente, ma quello che stava facendo in quel momento… perché lo faceva? Come riusciva a far finta di niente?! Come poteva non essere arrabbiato?!
- Oh, ma insomma, la vuoi piantare?!
Marco alzò un sopracciglio – Di fare cosa?
- Questo! Essere così apprensivo, così attento… perché diavolo lo stai facendo?! Io non me lo merito! Dovresti essere arrabbiato, dovresti avercela con me… tutti quanti dovreste! E invece…
- Kate. – la interruppe Marco con tono calmo – Smettila di starnazzare come una gallina. Quello che dici non ha senso…
- È per compassione o qualcosa di simile che lo fai?! – chiese altera Kate, ignorando quello che il fratello aveva appena detto – Se le cose stanno così, puoi anche risparmiartelo. Non voglio la pietà di nessuno, e tanto meno sopporto tutto questo buonismo, mi fa sentire ancora peggio!
- E allora cos’è che vuoi? – chiese paziente Marco. Sembrava di vedere un adulto che tentava di spiegare con calma ad un bambino per quale motivo non può soddisfare uno dei suoi capricci infantili. Nel vedersi trattare in quel modo Kate si infuriò ancora di più, e qualcosa dentro di lei si incrinò e si spezzò, e le parole si riversarono fuori.
- Voglio che ti arrabbi! Voglio che mi dici che sono una spregevole ingrata! Voglio che tu mi dica che sono solo una piccola arrogante con la bocca ancora sporca di latte che si è montata la testa! Voglio che tu mi dica che non sono altro che una bambina viziata che ha abbandonato le persone che l’amavano solo per andare a combinare guai in giro per il mondo! – urlò con voce sempre più tremante, non sapeva se di rabbia o lacrime – Dimmi quello che vuoi, MA ARRABBIATI, MALEDIZIONE!
- Perché dovrei farlo? Non sono arrabbiato. – replicò con calma Marco.
- Be’, dovresti esserlo! – commentò aspra Kate, consapevole di stare riscaldandosi di nuovo – Perché al tuo posto io lo sarei. Sono stata pessima, una stronza…
- Tu sei sempre stata stronza. Non è una novità dell’ultimo momento… - scherzò Marco.
- Sì, ma più stronza… - mormorò Kate – Sì insomma, voglio dire, più del solito…
- Hai solo fatto ciò che ritenevi giusto per te stessa. E questa nave non è una prigione. Non eri obbligata a restare, se non volevi…
- Oh, ma vedi di smetterla. Smettila di giustificarmi. – replicò Kate decisa. Ecco, ora sì che aveva perso del tutto il controllo – È insopportabile. So che nel profondo sei arrabbiato, che tutti voi lo siete, perciò non cercare di ammorbidirmi con questo atteggiamento conciliante, ne ho le scatole piene di questo modo di fare da pastorella Bernadette. Sì, sono scappata di casa, sì mi sono riempita di piercing solo per l’infantile gusto di trasgredire le bigotte regole di questa società, sì ho come migliore amico un irriverente bastardo, sì, tu e tutti gli altri avete tutto il diritto di essere arrabbiati con me, sì, sì a qualunque altra cosa tu voglia rinfacciarmi. So che pensi tutto questo, non serve che tieni questo atteggiamento del cazzo da guru spirituale.
Ed ecco che diventava di nuovo aggressiva. Kate era peggio di un gatto quando si sentiva messa alle strette. Marco non si scompose più di tanto davanti a quello sfogo isterico, era abituato al caratteraccio della sorella minore – Quello che fai non è affar mio, sorellina.
- Però sei arrabbiato.
- No, penso che ognuno abbia il diritto di seguire la strada che vuole, e senza dover chiedere scusa per questo. Tu puoi fare quello che vuoi, andare dove vuoi, e puoi frequentare chi cavolo ti pare, se la cosa ti rende felice. Punto.  – Marco le sorrise un po’ esasperato – Ora mi fai il favore di smetterla di stare così sulla difensiva? Non fare come al solito di ogni cosa una questione di vita o di morte, o ti verranno i capelli bianchi prima dei trent’anni.
- Ma… - protestò ancora Kate, ma Marco la interruppe.
- Basta discutere, stai diventando noiosa. Ora noi andremo dagli altri, e tu dirai loro esattamente quello che hai detto ora a me, ma con meno parolacce e sarcasmo. Così magari ti darai una calmata, e ti renderai finalmente conto del fatto che non c’è niente, ma proprio niente al mondo che potresti fare per guadagnarti il nostro odio. Ficcatelo bene in testa, Mocciosa Malefica.
Kate sentì gli occhi inumidirsi di lacrime, e questa volta non erano lacrime di rabbia – Marco, io…
- Niente smancerie, lo sai che non le sopporto. - la interruppe Marco con un sorriso, per poi porgerle la mano per aiutarla ad alzarsi – Su, andiamo.
Kate sbatté le palpebre, improvvisamente sopraffatta dalle emozioni e dagli eventi. Era tutto vero o aveva fatto indigestione al punto da avere le allucinazioni? Marco le aveva appena detto di non essere arrabbiato. Aveva detto che avrebbe potuto fare ciò che voleva, purché qualunque cosa fosse potesse renderla felice…

Aveva detto che andava tutto bene.

Sentendo un sorriso raggiante nascerle sul viso, Kate afferrò con decisione la mano del fratello, e insieme fianco a fianco si avviarono verso l’uscita, come se il tempo per loro non fosse mai passato.
- Ehi… - lo richiamò Kate, dandogli una leggera gomitata - … guarda che dicevo sul serio, prima. Law a volte è un po’ difficile da gestire, ma è fondamentalmente un tipo a posto. Davvero.

Almeno spero… Si augurò Kate nei propri pensieri.

Anche Marco non sembrava molto convinto, ma annuì – D’accordo. Ma alla fine perché stamattina avete litigato?
- Per niente che non sia già accaduto prima. Semplicemente Law è un imbecille che non sa tenere la bocca chiusa. – mentì clamorosamente Kate.
Marco, com’era ovvio, non ci cascò, ma replicò accondiscendente – Ho capito, non ne vuoi parlare. Ma rispondi ad un’altra domanda, almeno.
- Sentiamo… - sospirò Kate.
- Non è che voi due siete amanti, vero? – chiese Marco con gli occhi leggermente spalancati, come se solo l’idea lo spaventasse.
Kate sgranò gli occhi di rimando – Ma cosa… no…no! Assolutamente no! Dio me ne scampi! Ma te l’immagini come sarebbe essere la donna di un tipo del genere?! – Kate rabbrividì al solo immaginarselo, ripensando anche a quello che Law le aveva detto qualche ora prima a proposito delle dicerie che giravano su di loro – Credo che perfino tentare di asciugare il mare munita solo una tazzina per il caffè sarebbe meno problematico!
- Ed essere sua amica? – chiese divertito Marco, mettendole un braccio intorno alle spalle mentre camminavano – Com’è essere sua amica?
Kate ci pensò su un attimo prima di rispondere – È tosto, indubbiamente… ma sai… - la ragazza sorrise in maniera strana - … a me non sono mai piaciute le cose facili.


Law se ne stava seduto per conto suo in perfetta solitudine da quasi due ore ormai, ascoltando il rumore delle onde e riempendosi le narici del profumo della salsedine. I pirati di Barbabianca si affaccendavano intorno a lui ignorandolo deliberatamente, anche perché non c’era gusto a provocare uno che non reagiva agli insulti e alle istigazioni. Prima ci avevano provato quasi tutti a stuzzicarlo, ma Law si era comportato dall’inizio alla fine come se fosse stato cieco e sordo, cosicché dopo un po’ i pirati avevano cominciato inevitabilmente ad annoiarsi, e l’avevano lasciato in pace. Meglio per loro, perché se avessero continuato a pungolarlo in quel modo, ben presto quello stramaledetto ponte sarebbe stato invaso dai loro corpi smembrati.
Un qualunque estraneo che l’avesse visto in quel momento avrebbe semplicemente pensato che si trattasse di un ragazzo che si stava godendo una bella giornata di sole, rilassandosi sul ponte di una nave libero da qualunque pensiero… ma se invece al posto di quell’ipotetico estraneo ci fosse stato Bepo, o Shachi, o Penguin, allora ciascuno di loro avrebbe immediatamente compreso quanto il ragazzo, sotto infiniti strati di apparente indifferenza, fosse in realtà sconvolto e fuori di sé, e che in verità si trovava seduto defilato su quel ponte nel disperato tentativo di riacquistare il controllo delle proprie emozioni, e di calmare quella profonda agitazione interiore che l’aveva aggredito, lasciandolo indifeso come un bambino. Gli sembrava ancora di vedere Katherine che lo fissava prima sconvolta, poi addolorata, poi gelida…
Sconcerto. Dolore. Rabbia. Sono queste le fasi che una persona attraversa in rapida successione quando qualcuno che ama la ferisce o gli fa un torto. Prima si incassa il pugno che arriva totalmente inaspettato, poi ci si sforza di sopportare il dolore che ci investe come un tornado… e poi il dolore sparisce, e al suo posto appare la rabbia, che ci travolge come una furia, togliendoci il respiro e la ragione, e lasciando spazio ad un solo pensiero.

Vendetta.

E così era stato per Law nelle ultime ventiquattr’ore. Scoprire che la ragazza lo avesse ingannato, e che quelle pochissime cose che aveva creduto di sapere di lei in realtà erano tutte balle lo aveva a dir poco sconvolto, anche se per fortuna era durato solo per poco. Normalmente Law non permetteva a nulla di turbarlo, e anche se in quel momento il suo autocontrollo d’acciaio aveva seppur per poco ceduto, il chirurgo ci aveva messo poco a riacquistare il controllo di sé. Perché era stata la situazione a richiederlo, ma anche il suo equilibrio mentale.
Poi si era arrabbiato, e tanto anche. Sì, lo so che da come ve l’ho raccontata non sembrava affatto, ma Law non era Law mica per niente. Il ragazzo si era sì arrabbiato nero, ma aveva deciso comunque di sfoderare la migliore faccia da poker del proprio repertorio, e di tirare avanti come se niente fosse, almeno fin quando l’emergenza medica non fosse stata superata. Era riuscito perfino a scherzare con Katherine, l’eterna responsabile del proprio disordine emotivo…
Poi però l’emergenza medica era stata superata: Thatch e Memphis erano stati curati e messi fuori pericolo, e la situazione si era di conseguenza risolta.
Lato positivo? Come già detto, la situazione si era risolta, e tante felicitazioni a tutti quanti.
Lato negativo? Proprio nel momento in cui la furia di Law avrebbe potuto avere la possibilità di sfogarsi, il bersaglio prescelto era venuto a mancare. Infatti proprio nel momento in cui Law si era voltato verso Katherine, pronto a riversarle addosso tutto il risentimento che fino ad allora aveva seppellito per questioni pratiche, lei era caduta a terra come una pietra, sfiancata nella mente e nel corpo da tutte le emozioni e gli sforzi che era stata costretta ad affrontare nelle ultime ventiquattr’ore. Ovviamente Law l’aveva comunque controllata per sicurezza, ma era stato molto chiaro sin dall’inizio che la ragazza godeva di ottima salute, e che quindi non c’era motivo di preoccuparsi… e che di conseguenza non c’era niente che avrebbe potuto aiutarlo a liberarsi del proprio risentimento finché era ancora tale. E questo era stato l’innesco per il disastro.
D’altro canto, come diceva Francis Quarles: la rabbia può nutrirsi di te per un’ora, ma non giacere per una notte; la continuazione della rabbia è odio, e la continuazione dell’odio diventa cattiveria.
E così era stato per Law: non aveva potuto liberarsi della propria rabbia subito poiché chi l’aveva scatenata aveva opportunamente “deciso” di rendersi indisponibile, e di conseguenza la rabbia aveva stagnato dentro di lui fino a diventare cattiveria e desiderio di vendetta.
Certo, se si fosse trattato di un’altra persona, di una qualsiasi altra persona, Law non si sarebbe lasciato toccare dalla faccenda e se ne sarebbe fregato di sicuro, e per il semplice motivo che quasi mai nessuno riusciva a farlo arrabbiare, se non mettendogli i bastoni tra le ruote… ma il problema non nasceva da una persona qualsiasi, nasceva da quella infida gattaccia selvatica, e se era lei la causa allora le solite regole non valevano più.
Così aveva trascorso l’intera giornata precedente a pensare a come fargliela pagare, fino a quando a sera non era stato Barbabianca stesso a dargli l’idea giusta… e il resto era storia.
Aveva provato uno strano piacere perverso nel vedere la sua espressione di rabbia mista a smarrimento quella mattina, come se dentro di lui ci fosse stato un demone infame che godeva nel vedere il dolore che con le sue azioni aveva portato… e che lo aveva spinto ad infierire ancora, come un assassino che continua a pugnalare la vittima pur sapendo che questa è già morta. Solo per puro desiderio di far del male.

Non sopravvalutarti, ragazzina. Ammetto che lo scherzo che mi hai giocato ieri mi ha fatto abbastanza incazzare, ma di certo non mi hai ferito. Non darti troppe arie, non conti poi così tanto, per me.

Ora si vergognava Law di quelle parole: non solo perché era stato stupido e immaturo proprio come aveva detto lei, ma anche perché era stato cattivo senza motivo, ma soprattutto perché aveva mentito. Non era affatto vero che lei non contava, non lo era mai stato.
A quanto pareva certe cose non cambiavano proprio mai, non importava quanto tempo potesse trascorrere. Lui le aveva sempre allontanate le poche persone che per lui erano state importanti o che avevano rischiato di diventarlo, in una strana e automatica reazione di autodifesa, e le aveva ferite deliberatamente nell’insensato tentativo di ristabilire l’equilibrio con sé stesso e i propri sentimenti, nel timore di soffrire ancora come quando era stato bambino. Se non ami non soffri quando perdi, era questa la logica che aveva sempre seguito.
A che livello era arrivato il suo coinvolgimento con quella ragazza? Da quando il pensiero di perdere qualcuno lo spaventava così tanto?! Quanto si era insinuata quella piccola strega nella sua testa e nei suoi pensieri?!
Law era sempre stato piuttosto piatto nel proprio modo interagire con le persone, piuttosto lineare. Di solito né le apprezzava né le disprezzava, semplicemente non gli importava di loro, e ne rimaneva del tutto indifferente, totalmente incapace di provare empatia verso di loro o anche solo di desiderare di provarne; per lui le persone, ad eccezione forse dei propri compagni d’equipaggio, non erano altro che strumenti da usare e rigirare a proprio piacimento per raggiungere uno scopo, nient’altro.
Ma quella ragazzina era diversa: riusciva a toccare corde in lui che erano rimaste inerti per anni, al punto che Law aveva quasi dimenticato di averle dentro di sé, e a mandare il suo cervello e il suo autocontrollo in tilt peggio di un virus in un computer.
Il rumore di una porta aperta lo riscosse, riportandolo alla realtà. Sperando di distrarsi Law si alzò, e andò a vedere cosa stava succedendo. Adocchiò un oblò e si chinò per dare un’occhiata agli ambienti interni, piuttosto sicuro del fatto che il rumore fosse arrivato da lì.
Aveva visto giusto. I pirati di Barbabianca – o meglio, alcuni di loro – si erano riuniti di nuovo nella mensa. Erano poco più di una dozzina, e stavano raggruppati tutti insieme, e avevano tutti lo sguardo puntato nella stessa direzione, in chiara posizione di ascolto. Il vecchio non c’era, probabilmente era tornato alla sua cabina.
Perplesso, Law seguì la traiettoria degli occhi dei pirati, per cercare di capire cosa stavano guardando…e vide Katherine seduta su una sedia di fronte a loro, con le mani strettamente intrecciate in grembo e la schiena quasi innaturalmente dritta, come una scolara attenta e impaurita dal proprio insegnante.
Law sgranò gli occhi. Era la prima volta che la vedeva così intimorita e imbarazzata, lei che era sempre altera e sicura di sé… Law non riusciva sentire ciò che diceva, ma aveva il forte sospetto che la ragazza, a giudicare dalle espressioni sempre più intenerite dei fratelli, si stesse scusando per qualcosa, anche se Law non riusciva ad immaginare per che cosa; allungò una mano per tentare di aprire la finestrella, quando si sentì battere una mano su una spalla.
Law sobbalzò e si voltò. Un uomo biondo lo stava fissando con aria apparentemente impassibile, anche se Law riuscì a leggere nel suo sguardo anche una certa dose di curiosità. Strano, era il primo su quella nave che non lo fissava con evidente ostilità.
 - Non te l’ha mai detto nessuno che non è molto carino origliare? –  chiese il biondo alzando un sopracciglio.
Law serrò la mandibola. L’idea di essersi fatto beccare a spiare la propria migliore amica in quel modo tanto patetico lo irritava non poco, specie se a coglierlo con le mani nel sacco era uno di quegli insulsi leccapiedi di Barbabianca. Tuttavia riuscì a replicare con altrettanta calma – Tecnicamente non stavo origliando, visto che non ho sentito niente.
Marco ignorò quella battuta polemica e lo fissò con aria scettica per qualche secondo, prendendosi del tempo per studiarlo. Alla fine, dopo quasi mezzo minuto di silenzio decretò – No, non riesco proprio a capire cosa ci trovi di così speciale Katherine in te. Ma d’altro canto non sta a me giudicare.
Law si riscosse, e lo fissò indagatore - Katherine ti ha parlato di me?
- No, in realtà non mi ha detto niente. In effetti ha fatto di tutto per evitare l’argomento… non credo che le faccia piacere parlare di te. – ragionò Marco a voce alta - Ma è forse proprio questo il punto… se mia sorella cerca di evitare qualcuno, allora c’è sotto qualcosa di grosso.
- Ah sì? Perché, è sua abitudine evitare le persone che le piacciono? – chiese beffardo Law. Aveva parlato con leggerezza, ma una strana sensazione gli stava opprimendo il petto.
Infatti Marco gli sorrise in maniera strana, come se avesse appena intuito la più grande verità dell’universo. Annuì tra sé e gli rispose enigmatico – Non te lo immagini neanche. – Lo fissò con ancora più curiosità e riprese – È proprio così, non è vero? Tu non lo immagini sul serio. Lei non ti ha parlato di Ace.
Law serrò leggermente la presa sulla sua nodachi – L’ha nominato un paio di volte… ma no, non mi ha mai parlato di lui.
- Lo immaginavo. Anche perché, se l’avesse fatto, non saresti così tranquillo.
Law assottigliò lo sguardo. Più parlava con quel tipo più gli stava antipatico, e più l’agitazione cresceva – Cosa vuoi dire?
- Dico solo che se mio padre ha ragione, e a questo punto credo proprio che ce l’abbia, se tu avessi saputo dei trascorsi di Katherine non avresti mai accettato di restare. Al contrario, avresti portato via Katherine di peso, e a quest’ora saresti sul tuo sottomarino a migliaia di miglia da qui.
- Oh, e perché mai? – chiese Law, per una volta costretto a sforzarsi pur di mantenere il suo tono strafottente – Per proteggere Katherine, magari? Cos’è, in realtà su questa nave praticate il cannibalismo o qualcosa di simile?
Marco scoppiò a ridere – Per proteggere Katherine? Scherzi? Allora ho ragione, tu non hai capito davvero nulla di come stanno le cose! – La Fenice smise di ridere – No, saresti fuggito per proteggere te stesso.
- Me stesso?! – Ora fu il turno di Law di scoppiare a ridere – Credi che Katherine stia pensando di uccidermi?! Non lo farebbe mai, anche ammesso che ne sia in grado.
- Ci sono cose peggiori della morte, Trafalgar Law – rivelò Marco – Ed è una cosa che imparerai presto, se continui a starle vicino come hai fatto finora. Se sei furbo invece cercherai di togliertela dalla testa, anche se a questo punto dubito che sia una cosa fattibile. Mia sorella ha sempre avuto un modo tutto suo di essere crudele.
Law lo guardò senza capire. Cosa intendeva dire con quelle parole? Stava per chiederglielo, ma venne interrotto da un boato di voci che avevano iniziato entusiaste a gridare tutte lo stesso nome.
- ACE! SEI TORNATO! – urlavano tutti, sbracciandosi dalla balaustra della nave. Anche dalla mensa cominciarono ad uscire i comandanti, ma Law non vide Kate in mezzo a loro.
- Ciao ragazzi! – rispose una voce profonda e allegra – Allora, chi mi dice cos’è successo? Thatch sta bene, vero?
- Si, sta bene. – gli rispose Marco, avvicinandosi al nuovo arrivato con un sorriso sincero – Ora dorme, ma se la caverà. È stato molto fortunato.
Ace lanciò un’esclamazione di sollievo e abbracciò Marco, che lo strinse appena e gli dette un paio di pacche sulla schiena.
Così è questo il famoso Ace. Law lo studiò con attenzione. Il tipo in questione era un ragazzo alto che sembrava avere poco meno di vent’anni, lievemente tarchiato e piuttosto muscoloso, che se ne andava in giro sfacciatamente a petto nudo e con in testa un ridicolo cappello arancione con delle perle rosse sulla tesa. Il volto, dai tratti spigolosi e marcati, era tempestato dalle lentiggini, e i folti capelli neri gli cadevano selvaggi ai lati del viso.
A Law bastò un’occhiata per decidere che quel tipo gli stava terribilmente antipatico: sembrava essere così allegro, così espansivo, così fastidiosamente esuberante … insomma, aveva l’aria di essere il tipo più irritante di tutti gli oceani.
- Ma allora qualcuno mi dice cos’è successo? Alla fine lo avete trovato un medico? – stava chiedendo ora Ace, mentre tutti gli si avvicinavano per salutarlo.
A quella domanda quasi tutti sussultarono e cominciarono a fissare con insistenza le assi del ponte, evitando accuratamente lo sguardo del ragazzo. Marco si portò la mano alla nuca, chiaramente in difficoltà – Be’, non è che non l’abbiamo proprio trovato…
- No, non l’abbiamo trovato. – intervenne sarcastico Teach – In compenso però la Mocciosa Malefica s’è degnata di tornare per ricucirlo come un patchwork. Suppongo che il titolo di “medico” si possa ragionevolmente considerare sprecato per quella piccola strega…
Ace lo fissò leggermente confuso, come se non avesse inteso bene quello che aveva detto – Che cosa? Chi è che è tor-…?
Ace non riuscì a finire la frase. Un’ombra piccola e scura sfrecciò tra i due pirati come una saetta, e un thud molto forte vibrò nell’aria… e un attimo dopo Teach era finito di sedere sul pavimento, intento a massaggiarsi con aria dolente un punto della testa dove era spuntato un bernoccolo grosso come un’arancia.
- Stupido, vecchio grassone… - borbottò Katherine sdegnata, sovrastando l’uomo con il pugno ancora alzato, e dando le spalle ad Ace – …modera i termini quando parli della sottoscritta, o la prossima volta ti farò sputare a suon di pugni quei quattro denti che ti sono rimasti in bocca!
Ace trattenne il fiato, incredulo. Quella fisionomia… quel tono di voce… quelle parole minacciose…
Ace aprì la bocca per chiamarla… ma prima di poter dare voce a quello che voleva dire si sentì colpire con forza alle caviglie, e pendendo la presa sul pavimento ruzzolò a pancia in giù per terra con un tonfo. Fece per raddrizzarsi… ma si sentì afferrare per un polso e storcere il braccio, e qualcosa cominciò a pesargli sulla schiena, bloccandolo a terra. Uno strano baluginio entrò nel suo campo visivo, accecandolo per un istante.

Un bisturi.

- E così ci ritroviamo in questa posizione per l’ennesima volta. – ridacchiò Katherine seduta sulla sua schiena – Si può sapere perché finiamo sempre così?
Ace si divincolò per poter girare la testa… e riuscì finalmente a vederla.
Era ancora più bella di quanto ricordasse, pensò confuso. I suoi ricordi non le rendevano giustizia, si rese conto, sebbene avesse trascorso gli ultimi tre anni a pensarla quasi fino a sfiorare l’ossessione, nel terrore che i tratti del suo volto e il particolare verde dei suoi occhi potessero sfuggire alla sua memoria, come acqua tra le mani.
Ma il sorriso pestifero e malizioso era proprio come lo ricordava. E anche la sensazione, la stessa che aveva avuto sin dal primo giorno, che da fuori sembrava una bambolina di porcellana, ma dentro era d’acciaio, non era scomparsa.  
- Io aspetto, Portgas. – lo richiamò Kate scuotendolo appena, e Ace si risvegliò dalla trance in cui la sua vista lo aveva gettato, ricambiando il sorriso con altrettanta malizia, incapace di nascondere la felicità che stava provando.
- Dimmelo tu, Katie. Forse perché a te piace stare sopra?
Kate si portò una mano alla bocca, fingendo di offendersi – Portgas D. Ace! Come osi fare simili insinuazioni di bassa lega su di me?!
Ace allargò il sorriso senza rispondere, e con un movimento deciso e ben studiato se la scrollò di dosso. La ragazza rotolò via e Ace si affrettò a rimettersi in piedi e a sguainare il pugnale che portava alla cintura, subito imitato anche dal giovane medico, che sollevò esaltata il bisturi che aveva ancora in mano.
- Così alla fine sei tornata. – constatò Ace mentre iniziava a muoversi in circolo, come un predatore che studia la preda, e si metteva in guardia per non lasciare punti scoperti. Kate lo imitò con altrettanta abilità, e Ace fischiò ammirato – E hai anche fatto i compiti a casa! Sarai fiera di te stessa! Non so perché, ma ho la sensazione che batterti non sarà facile come lo era tre anni fa…
- Ma quando mai! Tu non mi hai mai battuto, scaldino!
- Certo che no, tu giocavi sporco!
- Be’, adesso non ne avrò più bisogno! – dichiarò Kate, per poi lanciarsi verso di lui con il coltello sollevato.
Ace scartò per evitarla e sollevò a propria volta il coltello per colpirla, ma la lama cozzò contro quella della ragazza. Ace roteò rapido su sé stesso per allontanare il braccio di Kate e darsi slancio, e attaccò di nuovo… ma la ragazza si mosse rapida come una freccia e gli afferrò con forza il polso della mano armata torcendoglielo, e Ace lasciò cadere il coltello con una smorfia di fastidio misto a divertimento mentre la ragazza gli puntava il bisturi alla gola – Mi arrendo, mi arrendo…
- Non ti sei impegnato minimamente! – sbuffò delusa Kate, abbassando la mano – Non è stato affatto divertente…
- Vuoi divertirti? Ti accontento subito! – esclamò Ace con un sorriso malefico. A quella vista Kate trasalì e cercò di indietreggiare, ma stavolta fu Ace ad essere più veloce: le afferrò il polso proprio come aveva fatto lei qualche istante prima, e la disarmò con la stessa facilità con cui lei aveva prima disarmato lui. Kate lanciò un verso oltraggiato, e intuendo cosa voleva fare il ragazzo tentò di sfuggirgli, ma Ace l’afferrò prontamente per i fianchi e la attirò a sé, premendo con impazienza le labbra sulle sue.
Ace la sentì trasalire contro di lui, e udì anche con la coda nell’occhio risatine maliziose percorrere le fila dei pirati di Barbabianca. Non se ne curò, in quel momento esistevano solo loro due. Ace assaporò delicatamente con la lingua il sapore familiare di limone e mela della sua bocca avvertendo brividi percorrergli tutto il corpo, e nel sentirla tremare allo stesso modo tra le sue braccia la avvolse in un abbraccio per sorreggerla. La sente respirare contro di sé, un gemito fra un bacio e l’altro, e incapace di resistere le fece scivolare le mani lungo la schiena… e Kate gli posò le mani sul petto per allontanarlo, ma Ace si tirò indietro prima di darle la possibilità di respingerlo. Mollò anche la presa sui fianchi, ma non volle lasciarle la mano.
La ragazza ansimò per riprendere fiato, e rabbrividì ulteriormente nel sentire il calore del ragazzo propagarsi lungo tutto il braccio – Non vale… ora sei tu che giochi sporco…
Ace le sorrise di nuovo – Com’è che dicevi tu? Mi prendo gioco di te solo perché a te piace essere giocata…?
A quelle parole Kate spalancò gli occhi e scoppiò a ridere – Che bastardo… usare una frase che ti ho detto tre anni fa solo per baciarmi…
- Già, la prima che ti ho baciato ho dovuto fare di peggio. – le ricordò Ace allargando il sorriso.
A quel ricordo Kate rise ancora più forte e lo abbracciò, alzandosi in punta di piedi per arrivare a circondargli il collo e le spalle – Mi sei mancato, fiammifero.
Ace lasciò andare l’aria che aveva trattenuto inconsapevolmente nei polmoni e la strinse con foga a sé, affondando il viso nei suoi capelli e respirando il suo profumo – Anche tu. Non sai quanto.
I due ragazzi rimasero stretti l’uno l’altra per diversi istanti, completamente dimentichi del mondo circostante, completamente presi l’uno dall’altra. Anche gli altri li stavano fissando, sorridendo coinvolti da quella scena…
Tutti, tranne uno. Quando Ace aveva baciato Katherine, Law aveva sgranato gli occhi così tanto da rischiare quasi di farseli cadere dalle orbite, tanto era stato lo shock. Ma aveva fatto presto a riprendersi dalla sorpresa, e ora li stava fissando con espressione che si faceva man mano più gelida, terrificante e omicida, i pugni e la mandibola che si serravano sempre di più. Faceva male, molto male, ma lui se ne accorse a malapena, divorato com’era dalla rabbia.
All’improvviso tutto era chiaro. Law ripensò a quando due giorni prima Kate aveva invocato quel ragazzo nel sonno, in preda ad un sentimento che in quel momento Law non aveva riconosciuto, ma che ora sapeva essere nostalgia, una nostalgia inconscia ma inesorabile… non aveva voluto vedere, la sua mente non aveva neanche preso in considerazione quell’eventualità, che adesso invece gli balzava davanti con la prepotenza e l’ineluttabile chiarezza di un lampo che si abbatteva ai suoi piedi.

Katherine... Kate! Tra le braccia di un uomo. Tra le braccia di un altro.

Gli si ottenebrò la vista. Sentì una strana sete asciugargli la gola, una sete bollente e quasi dolorosa, che neanche cento bicchieri d’acqua avrebbero potuto saziare...
Perché solo il sangue di Portgas D. Ace avrebbe potuto placarla.
Dovette ricorrere a tutto l’autocontrollo che possedeva per non sguainare la spada e farlo a pezzi come avrebbe tanto voluto fare. Serrò i pugni ancora di più – avvertendo il calore viscido del proprio sangue scorrergli tra le dita – e si allontanò in silenzio per evitare di fare una strage.
Non era stupido, Law. Aveva problemi a gestire i sentimenti, è vero, ma sapeva riconoscere la gelosia quando la vedeva o la sentiva. Una vocina flebile nella sua testa – probabilmente la sua razionalità - gli stava chiedendo già da un po’ per quale motivo si sentiva così, visto che lui e Katherine erano solo amici, ma Law, probabilmente per la prima volta in ventiquattro anni, non l’ascoltò neanche per un istante.
Non gli importava sapere perché si sentiva così, l’unica cosa che lo preoccupava era cosa lo faceva sentire così. E gli premeva assicurarsi che una cosa simile non si verificasse mai più.
 


Angolo autrice:
Ciao ragazzi! :D
Lo so, sono in ritardo, mi dispiace tanto! Purtroppo ho avuto l'ennesimo blocco dello scrittore che mi ha tenuta bloccata per diversi giorni, e il caldo che ci ha afflitto non è stato per niente d'aiuto... ma alla fine ce l'ho fatta, non mi sembra vero! :D
Allora, finalmente Ace ha fatto la sua entrata in scena (non ci speravate più, eh? XD), e con lui finalmente i giochi possono avere inizio! Non vi spoilero niente, ma sappiate ci sarà parecchia azione d'ora in poi!
Ci vediamo alla prossima!
Baci e abbracci! <3
Tessie

 

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Capitolo 8
*** Speciale - Giorni di ordinaria follia: Portgas D. Ace - Prima Parte ***


Amor tussique non celatur

🔥

Capitolo Speciale

Giorni di ordinaria follia:Portgas D. Ace


Prima Parte

 




Non si può amare per essere felici,
 ma bisogna essere felici per poter amare.

- Vincenzo Salemme







Ace si svegliò in un bagno di sudore, l’intero corpo attraversato da brividi e fitte terribili. Urlò senza rendersene neanche conto, e si sforzò di mettere a fuoco la realtà che lo circondava, ma il dolore lo bloccava, impedendogli di recuperare la lucidità; allora si agitò ancora, ma scoprì con un certo shock di avere i polsi in qualche modo bloccati ai lati del corpo.

Ma cosa diavolo…?!

Il pirata tentò di tirarsi su a sedere, ma una nuova fitta lancinante di dolore alla testa lo costrinse ad abbandonare i propri propositi, facendolo crollare di nuovo con la testa sul cuscino, mentre due mani decise lo accompagnavano.
- Non muoverti. – lo ammonì seria una voce femminile – Hai la febbre alta, le tue ferite si sono infettate. Farò il possibile per salvarti la vita, ma tu non devi assolutamente fare sforzi.
Ace sbatté convulsamente le palpebre, e si guardò intorno cercando di individuare la proprietaria di quella voce. Qualcuno gli tastò il collo, ma Ace non riuscì a vedere chi.
- Doc, non va bene. Il suo polso è irregolare, lo dobbiamo stabilizzare. – dichiarò in apprensione un’altra voce femminile.
- Dobbiamo prima di tutto abbassargli la febbre, o il suo sistema rallenterà troppo e non sarà più in grado di combattere l’infezione. – replicò metodica l’altra voce – Va’ a prendere del ghiaccio, io gli do qualcosa per farlo dormire.
Dei passi risuonarono sul pavimento, e una porta si aprì e si richiuse.
- Ehi, mi senti? – lo chiamò la prima voce – Devi stare tranquillo, sono un medico. Andrà tutto bene.
- Cosa mi è successo? – farfugliò Ace, incapace di smettere di rabbrividire. – Sto…morendo?
- Andrà tutto bene. – ripeté la voce, evitando di rispondergli – Ti aiuterò a dormire, fra poco non sentirai più niente. Andrà tutto bene.
Ace lottò contro la nebbia che gli offuscava la vista. Voleva vedere, voleva a tutti costi capire cosa stesse succedendo. Un leggero pizzico improvviso gli colpì il braccio, e per un breve momento riuscì a mettere a fuoco.
Vide una stanza ampia e dall’alto soffitto. Era in penombra, e la poca luce che c’era proveniva da alcune candele sistemate vicino al suo letto. Vide che aveva il corpo completamente fasciato, e che accanto a lui nascosta nella penombra c’era una piccola figura minuta che si affaccendava su un tavolino lì vicino, e che nel frattempo lo teneva d’occhio con aria apparentemente indifferente, stringendo in una mano quella che pareva una siringa. Ace si sforzò di afferrare i tratti del suo volto, ma l’unica cosa che riuscì a cogliere fu un paio di occhi dal verde intensissimo che lo studiavano con calma, quasi fossero in attesa di qualcosa.
- Chi…chi sei? – balbettò il ragazzo, sentendosi inspiegabilmente spaventato da quegli occhi.
Un sorriso sghembo balenò nel buio – A quanto pare una tua nuova compagna, da oggi in poi. Ma forse è il caso di rimandare le presentazioni ufficiali in un altro momento.
Ace la guardò senza capire. Che intendeva dire con quelle parole?
Uno strano torpore cominciò a diffondersi lento e inesorabile nelle sue vene. Confuso, Ace tentò di sollevare la testa, ma era diventata improvvisamente troppo pesante.
- Cosa diavolo…?
- Shhh… basta parlare. – sussurrò la donna con voce conciliante, sfiorandogli il polso con le dita per tranquillizzarlo - Ora dormi.
E la notte, calda e dolce, si chiuse sul ragazzo.


Ace spalancò gli occhi inspirando bruscamente, emergendo da un sonno fitto di immagini di sangue, fiamme e cenere. Non avvertiva più dolore, ma in compenso aveva freddo, un freddo strano e innaturale per lui che era fuoco allo stato puro, e un brivido gli attraversò la spina dorsale.

Dove sono? Cosa è successo?

Tentò di alzarsi, ma la stanza cominciò a girargli vorticosamente intorno. Un grugnito di fastidio gli sfuggì dalle labbra, e il ragazzo si appoggiò al materasso con il gomito, incaponendosi a non voler tornare disteso.
- Sei un tipo testardo, eh? – lo apostrofò sarcastica una voce femminile piuttosto familiare – Eppure ieri sera mi sembrava di averti detto di non muoverti.
Ace sobbalzò e si voltò nella direzione da cui era arrivata la voce… e in fondo alla stanza, che ora era illuminata a giorno dal sole, individuò una scrivania dietro cui era seduta una ragazza.
Era giovanissima, poco più di un’adolescente, constatò sorpreso Ace. Era minuscola, quasi delle dimensioni di una bambina, con folti capelli castani annodati sulla nuca e un piccolo viso grazioso e intelligente. In altre circostanze Ace si sarebbe chiesto da dove avesse preso quella ragazzina il coraggio di rivolgersi ad un pirata del suo livello con un tono tanto canzonatorio… ma nel momento stesso in cui il suo sguardo si posò su di lei, e si incatenò ai suoi occhi verdi da gatta, Ace rivide la scena di qualche ora prima. Rivide la stanza buia, le ombre indistinte a causa della febbre, le bende, la siringa stretta nella sua mano… e tutto gli fu più chiaro, e allo stesso tempo più confuso.
L’aveva riconosciuta. Era la donna che si era presa cura di lui quando era stato male.
- Ehi stufetta a pedali, per caso la febbre ti ha rimbambito il cervello? – gli chiese infastidita la ragazza, alzandosi dalla scrivania e camminando verso di lui – Rimettiti subito sdraiato, sei ancora debole.
Nel sentirsi rimbeccare in quel modo Ace si incupì e le lanciò un’occhiataccia – Si può sapere dove siamo? E soprattutto, tu chi diavolo sei?!
- O’Rourke D. Katherine, capo della Divisione Medica dei Pirati di Barbabianca. Molto lieta di conoscerti. – rispose la ragazza con tono sbrigativo – Ora stenditi e sta’ buono, così posso visitarti.
- Capo di una Divisione di Barbabianca?! – urlò Ace sconvolto, tirandosi bruscamente su e sfuggendo alle sue mani – Tu sei una donna di Barbabianca?!
- Sì, l’ho appena detto. Ora mi fai il piacere di restare fermo?! Finirai per strapparti i punti se continui ad agitarti in questa maniera. – sbuffò la ragazza; non troppo delicatamente lo fece poi sdraiare di nuovo e iniziò a controllare le sue fasciature, ma Ace se ne accorse a malapena.
Si era messo alla ricerca del vecchio per prendere la sua testa, ora cominciava a ricordare. Aveva deciso di affrontarlo… ma qualcuno si era messo in mezzo, anche se non riusciva a ricordare chi. Il pirata cercò di lottare contro la nebbia che gli oscurava il cervello, ma tutto quello che ottenne fu un’intensa e improvvisa fitta di dolore alla testa, in particolare alla nuca.
- La mia testa… - gemette il ragazzo, portandosi una mano al retro del collo.
- Ah, sì. – sospirò Katherine, addolcendo leggermente la sua espressione arcigna – Ti fa male, eh? Mi spiace, non era mia intenzione infierire. – Si avviò verso una credenza in fondo alla stanza, e tornò con in mano un bicchiere d’acqua e una grossa pillola – Su, prendi questa. Tra poco ti sentirai meglio.
Ace la guardò in cagnesco senza ubbidire – Perché dovrei fidarmi di te? Sei alleata del mio peggior nemico…
- Sì, e ti ho anche salvato la vita! – si spazientì la ragazza, gettando la pillola nel bicchiere e ficcandoglielo bruscamente in mano – Andiamo, non fare i capricci e ingoia, sto solo cercando di aiutarti.
Ace spostò l’attenzione dalla ragazza al bicchiere, senza sforzarsi di nascondere la propria diffidenza. Sapeva che era stata quella giovane a prendersi cura di lui quando era stato male, e che di conseguenza in teoria si era guadagnata, se non la sua fiducia, quantomeno la sua gratitudine, ma lui non riusciva a fidarsi comunque. L’immagine del vecchio imperatore continuava a balenargli davanti agli occhi, e il fatto che la ragazza fosse una sua alleata per sua stessa ammissione lo turbava, spingendolo a non abbassare la guardia. Senza contare che in quel momento il ragazzo, per quanto si sforzasse, non riusciva proprio a ricordare cosa fosse accaduto negli ultimi giorni, e soprattutto come avesse fatto ad arrivare lì.
- Guarda che sei tu che ci perdi a fare il sostenuto. – gli fece notare la dottoressa – Quel mal di testa non passerà da solo, sai? E nemmeno la confusione che hai in testa, per la cronaca. Forza, bevi e basta, ti assicuro che non è veleno.
A quel punto Ace non ebbe altra scelta che arrendersi. In fondo lei aveva ragione, era lui che ci perdeva a fare resistenza, senza contare il fatto che se quella ragazzina avesse voluto nuocergli in qualche modo l’avrebbe già fatto. Buttò giù il contenuto del bicchiere in un solo sorso, rendendosi conto solo in quel momento di quanto fosse assetato.
- Saggia scelta. – annuì soddisfatta la ragazza, arrivando addirittura a sorridergli gentile – Ora aspetta qui, e per l’amor del cielo, non ti alzare. Vado a vedere se mio fratello può procurarci qualcosa da mangiare, avrai certamente fame.
Ace non le rispose, ma lei non sembrò prendersela; alzò le spalle con noncuranza e si avviò verso l’uscita, e quando la porta si chiuse alle sue spalle Ace si concesse finalmente di rilassarsi, poggiando la schiena nuda contro la testiera del letto, complice anche il fatto che la morsa di dolore alla testa si stava finalmente allentando.
Il ragazzo raccolse tutta la concentrazione di cui in quel momento era capace, e si sforzò di fare il punto della situazione; anche se ancora non ricordava in che modo e perché, era consapevole di essersi cacciato in un bel casino. Non sapeva dove fosse, non ricordava cosa fosse accaduto negli ultimi giorni, era ferito e malato, non sapeva dove si trovassero i suoi compagni, e come se non bastasse aveva il forte sospetto di essere finito proprio nelle mani del suo peggior nemico.
Non andava bene, non andava bene per niente. Doveva inventarsi subito qualcosa per tirarsene fuori, o quantomeno per capire cosa stava succedendo.
- Sei ancora preoccupato? – chiese Katherine, rientrando in quel momento nell’infermeria con un gigantesco vassoio tra le mani – Credimi, qui nessuno ha intenzione di farti del male. A patto che tu non faccia del male a nessuno, è chiaro.
Ace la fissò scettico – Perché dovrei crederti? Non so nemmeno dove mi trovo… come puoi pretendere che io mi fidi?
- Ti trovi sulla Moby Dick scaldino, la nave ammiraglia della flotta di mio padre. – spiegò la ragazza posando il vassoio lì vicino e avvicinando una sedia al letto – Eri ferito, e io ho avuto il compito di prendermi cura di te…
- Sulla Moby Dick!? – saltò su incredulo Ace – Sono sulla nave di Barbabianca?!
- Esatto.
Ace digrignò i denti – Perciò stai dicendo che sono vostro prigioniero?
Katherine spalancò gli occhi – Niente affatto! Nessuno ti obbliga a restare se non vuoi. Non appena sarai guarito potrai andare per la tua strada, se proprio ci tieni. – la ragazza si portò una mano sotto il mento, pensierosa – Anche se mio padre vorrebbe che diventassi uno di noi, e se vuoi la mia opinione io penso che dovresti prendere in considerazione la sua offerta.
Ace inorridì – Barbabianca vuole che io mi unisca alla sua ciurma?!
Kate alzò un sopracciglio, totalmente indifferente alla sua reazione – La cosa ti sconvolge così tanto?
Ace la trucidò con lo sguardo. Non conosceva quella ragazzina, ma sentiva già di non sopportarla – Non ho la minima intenzione di accettare, sappilo.
- Vedremo. – replicò Kate con calma, chiaramente non impressionata dall’aria minacciosa del ragazzo. Allungò invece la mano verso il vassoio colmo di cibo e glielo porse – Ora pensa a mangiare. Nessun problema sembra più così insormontabile con lo stomaco pieno.
Ace serrò la mandibola, assumendo un’aria sostenuta – Non voglio.
Kate sbuffò esasperata - Sarai affamato…
- Niente affatto! – replicò arrabbiato Ace. Ma il suo stomaco lo tradì, esternando tutto il suo disappunto, e il ragazzo si sentì avvampare.
- Sì, come no. Senti, sto cominciando a stancarmi delle tue storie. – dichiarò infastidita Kate, schiaffandogli il vassoio tra le braccia – Te lo dirò una volta sola, stufetta: se vuoi andare d’accordo con me devi fare quello che ti dico in silenzio e senza discutere, mi sono spiegata? Il mio lavoro è già abbastanza complicato, non ho proprio la pazienza o la voglia di sopportare un ragazzino capriccioso come te nella mia infermeria.
Ace la fissò furibondo – Io non sono un ragazzino capriccioso!
- Allora dimostramelo e mangia senza lamentarti. – gli ordinò spazientita la ragazza – Anche perché se continui a rifiutarti mi vedrò costretta ad attaccarti ad una flebo. Non so, vedi tu se ne vale la pena pur di continuare a remarmi contro…
Ace la fissò con antipatia, ma cominciò comunque a mangiare senza levarle gli occhi di dosso. Era ovvio che non ne valesse la pena, ma non era questo il punto. Quella mocciosa insopportabile lo aveva appena sfidato, ed era una cosa che lui non poteva ignorare come se niente fosse… senza contare che stava davvero morendo di fame.
Man mano che mangiava però cominciò a dimenticarsi del proprio orgoglio… e prima ancora di rendersene conto aveva cominciato a divorare tutto senza ritegno, ingoiando il cibo senza quasi masticarlo, troppo occupato com’era a preoccuparsi del proprio stomaco. La ragazzina nel frattempo si era seduta vicino a lui, e aveva montato la guardia come un sergente guardandolo abbuffarsi; Ace non riusciva a capire se il suo atteggiamento rozzo la stesse infastidendo oppure no, ma ci sperava. In ogni caso Katherine non lasciò trapelare nulla, si limitò a fissarlo con aria impassibile per tutto il tempo.
- Ehi mocciosa, sei sempre così impettita o è un trattamento speciale che riservi solo a me?
- In realtà lo riservo a tutti i pazienti imbecilli e non collaborativi che capitano nella mia infermieria. – sorrise serafica Kate – Come va la testa? Meglio?
Ace sbuffò, ma dovette ammettere – Sì, ora mi sento meglio.
- Fantastico! Mi fa piacere. – sorrise soddisfatta la ragazza, dandogli una leggera pacca sulla spalla – Allora adesso ricordi cos’è successo?
- Non molto…
- Allora ti rinfresco io la memoria. – la dottoressa si alzò per togliergli il vassoio ormai pulito dalle mani e indicò il fondo della stanza – Sei venuto su quest’isola per affrontare Barbabianca, ma lo Shichibukai Jinbei si è messo in mezzo per impedirtelo, e così avete combattuto. È finita in pareggio, e tu eri conciato molto male, anche se non quanto lui…
A quelle parole Ace spalancò gli occhi e seguì il dito della ragazza: qualche metro più in là su un letto identico al suo c’era un uomo-pesce fasciato dalla testa ai piedi che dormiva. Non sembrava sofferente, ma era chiaro che fosse in pessime condizioni. Anzi, a voler essere onesti, sembrava più morto che vivo.
- Non preoccuparti, se la caverà... – stava dicendo Kate, ma Ace non l’ascoltava più. Ora improvvisamente ricordava, ricordava tutto, e ciò che stava ricordando non gli piaceva affatto.
- Tu… - sussurrò il ragazzo con tono spiritato, interrompendo Kate a metà di una frase – Tu ti sei intromessa. Dovevo battermi con Barbabianca, e tu ci hai fermati… mi hai colpito alla testa…
- Sì, l’ho fatto. – ammise tranquillamente la ragazza. Sembrava piuttosto compiaciuta – Ma non preoccuparti, non serve che mi ringrazi. Ad essere sinceri non ero spinta da motivazioni altruistiche… ho semplicemente agito d’istinto, tutto qui.
Ace fissò ad occhi spalancati quell’intrigante e pestifera ragazza, non trovando più il fiato per spiccicare parola. Lei ricambiò il suo sguardo fissandolo dritto negli occhi, chiaramente in attesa dei ringraziamenti che aveva appena detto non necessari, perché è una verità universalmente conosciuta che le donne dicono sempre il contrario di quello che pensano.
Voleva essere ringraziata per quello che aveva combinato? Sul serio?!
- Tu sei una folle. – ringhiò Ace con tono tanto velenoso che Katherine trasalì – Sei una folle e una ficcanaso, e se pensi che io possa esserti grato per quello che hai fatto sei totalmente fuori strada. Non mi hai fatto un favore, ti sei solo immischiata in una faccenda che non ti riguardava!
- Stai scherzando, spero. Io ti ho salvato la vita! Non ce l’avresti mai fatto contro mio padre!
- Questo lo dici tu! Che ne sai?! Avrei anche potuto batterlo…
- Invece no. Non ci saresti mai riuscito. – decretò ferma Kate, fissandolo severa con le mani sui fianchi – Sei solo un ragazzo, e per giunta un pivellino. Da quanto sei un pirata, qualche mese? Mio padre solca i mari da più di mezzo secolo, ormai. Non saresti riuscito a fargli nemmeno un graffio, poco ma sicuro. Impedendoti di affrontarlo ti ho fatto un favore eccome, te l’assicuro.
Ace la stava guardando sbigottito, incapace di trovare le parole per rispondere a quella mocciosa arrogante che lo stava deliberatamente denigrando senza colpo ferire. Non aveva mai alzato le mani su una donna, e nemmeno aveva mai avuto la voglia di farlo, ma in quel momento sentiva che avrebbe anche potuto fare un’eccezione.
- Io sarei un pivellino? – rise il ragazzo, una risata cinica e sferzante – Credo che tu sia un tantino confusa, ragazzina. Io sono un pirata di alto livello, e un giorno sarò anche il Re dei Pirati, puoi scommetterci, anche se non prima di aver preso la testa del tuo adorato capitano. E sarei proprio curioso di vedere cosa potrebbe fare una ragazzetta fragile e indifesa come te per impedirmelo.
La ragazza non gli rispose subito, lo fissò a lungo, ed Ace poté vedere il suo volto cambiare a seconda dell’emozione che lo attraversava: prima confusione, poi sorpresa, poi incredulità… e infine una furia gelida e grondante di disprezzo. Non ci voleva un genio per capire che si era offesa a morte, ma ad Ace non gliene poteva importare di meno.
- Sai che ti dico, scaldino? – disse infine Kate, il volto che sembrava scolpito nel ghiaccio – Se ti senti così in forze da riuscire a fare il gradasso, forse tutto sommato non hai così tanto bisogno di restartene a letto! – la ragazza andò verso la porta pestando i piedi e la spalancò con violenza – Fuori di qui. Vattene sul ponte, nelle cucine o dove cavolo ti pare, ma sparisci dalla mia vista! E spero con tutto il cuore che tu sia così stupido da fare incazzare anche qualcuno che abbia meno pazienza e più forza bruta della sottoscritta!
Ace non si fece pregare. Saltò rapidamente giù dal letto – vacillando per un attimo a causa della debolezza – e si diresse a passo di marcia verso l’uscita, con la schiena dritta e il mento sollevato in una smorfia impettita.
- Benissimo, allora tolgo subito il disturbo. E comunque non mi sento in debito per…
Non finì la frase. Aveva a malapena messo un piede fuori dalla stanza, e Kate gli aveva già sbattuto la porta in piena faccia, così bruscamente che pur di evitare la sportellata sul naso Ace era ruzzolato accidentalmente all’indietro. Ace rimase per un momento a fissare allibito con la mano sul naso l’uscio della stanza, poi imprecò:
- DANNATA, INSOPPORTABILE RAGAZZINA!
Poi si tirò su, voltò le spalle alla porta e si diresse verso il ponte principale per cercare i compagni, pestando i piedi sul pavimento. Quella ragazzetta poteva anche aver rovinato il suo piano iniziale, ma lui non aveva comunque intenzione di arrendersi. Si sarebbe preso la testa del vecchio, fosse stata anche l’ultima cosa che avrebbe fatto.


Kate colpì con forza il muro con il pugno, digrignando i denti con così tanta forza da farsi male, e si allontanò dalla porta prima di avere il tempo di cedere alla tentazione di fare qualche sciocchezza.

Quel piccolo, ingrato piratuncolo dei miei stivali… non posso credere che abbia avuto la faccia tosta di parlarmi in quel modo! E io che mi sono data tanta pena per aiutarlo…

Non gli importavano le sue ragioni, e nemmeno il fatto che fosse malato o ferito, e che di conseguenza avrebbe dovuto suscitare in lei quantomeno un po’ di compassione. O’Rourke D. Katherine in quel momento stabilì che due giorni prima aveva preso un grosso abbaglio, che quel ragazzo proprio non lo sopportava, e che mai e poi mai l’avrebbe sopportato.

🔥

Ancora una goccia… Si ripeté Kate, mentre rivoli di sudore le scorrevano lungo il volto per la tensione. Una goccia sola e sarà perfetto…

BOOM!

No, ti prego! Non rovinare tutto!

Troppo tardi. Nella provetta non era caduta una sola goccia, ma più di metà bottiglietta, e adesso il composto era irrimediabilmente rovinato. Dal becher si sollevò pigramente un filo di fumo, e Kate sbatté tutto sul tavolo, con i polsi che tremavano per la rabbia.
- E con questa siamo a sei. – sghignazzò divertito Marco sbirciando la scena dall’oblò.
- PER TUTTI I KAMI, QUESTA STORIA STA INIZIANDO A STANCARMI!
- Dai non prendertela, zuccherino! – cinguettò Izou dalla poltrona su cui era stravaccato da un paio d’ore per tenerle compagnia – Puoi sempre rifarlo, no? Non è la fine del mondo….
- No, è quel tipo ad essere la fine del mondo! E non in senso buono! – esclamò livida la ragazza – Dio del cielo, non lo sopporto più!
Kate stava onestamente cominciando ad averne abbastanza. Quella stufetta a pedali era sulla loro nave da soli tre giorni, e già era riuscito a combinarne di tutti i colori. Da quando si era svegliato aveva tentato di uccidere il babbo già cinque volte, fallendo sempre miseramente, ed ogni volta si era fatto sempre più male. Anzi sei, contando il botto di qualche secondo prima.
Certo, la questione in sé non era poi così fastidiosa, specie se si escludeva tutto l’insopportabile baccano che c’era a bordo da quando quel cerino era in circolazione; no, il vero problema era che poi era a lei che toccava a ricucirlo e bendarlo come una mummia ogni dannata volta! Almeno fosse stato assicurato…
- È davvero un tipo caparbio. – affermò ammirato Marco – Non ho mai visto una tale testardaggine in nessuno, prima d’ora.
- Non è testardo, è solo un idiota. Altro che medico, la baby-sitter gli servirebbe! – tagliò corto Kate, per poi crollare esasperata su una poltrona, in attesa che qualcuno glielo portasse affinché lei potesse prendersi cura di lui. Di nuovo.


La prima volta che aveva attentato alla vita di Barbabianca Ace si era mostrato per quello che era: un pirata nonostante tutto ancora giovane ed inesperto, che aveva commesso l’errore grossolano di sottovalutare il vecchio Newgate.
Aveva provato ad attaccarlo mentre dormiva nella sua cabina, nell'unico momento del giorno in cui per puro caso nessuno dei figli gli gironzolava intorno; si era intrufolato nella stanza, si era avvicinato, aveva sollevato un braccio, stringendo nel pugno un coltello che aveva rubato a tavola, calibrato la forza e affondato dritto nel petto del Capitano. O almeno, ci aveva provato, perché la forza dell'Haki di Barbabianca l'aveva respinto lontano da lui prima ancora che l'arma potesse sfiorargli la pelle, ed Ace si era ritrovato sbalzato contro la parete della cabina, che non aveva retto all'impatto e aveva ceduto sotto il suo peso, facendolo capitombolare sul letto della stanza accanto, dove per la cronaca si trovavano Marco e Izou impegnati a lucidare i pavimenti in maniera poco convenzionale. E chi ha orecchie per intendere, intenda.
Bilancio del disastro? Naso rotto, contusioni varie e una lieve commozione celebrale. Tutto sommato gli era andata bene, aveva constatato Kate mentre mezz’ora più tardi gli premeva senza alcuna gentilezza una borsa del ghiaccio sulla faccia. Si sarebbe anche potuto rompere qualche osso più importante, ma a quanto sembrava quello scaldino aveva parecchia fortuna dalla sua parte.


La seconda volta era stata a dir poco ridicola, così tanto che ogni volta che ripensava Kate non poteva impedirsi di sghignazzare sotto i baffi.
Il cerino aveva deciso di nuovo di colpire di notte, sperando che le tenebre potessero dargli una mano. Quella sera i pirati di Barbabianca avevano approfittato di una serata magnifica per apparecchiare sul ponte e cenare sotto il cielo stellato, e Newgate aveva bevuto parecchio, così tanto che aveva finito per crollare addormentato con la faccia sul tavolo, russando come un trattore.
Ace non si era lasciato scappare quell’occasione: un metro alla volta si era avvicinato al Capitano strisciando come un serpente, acquattandosi dietro ogni anfratto disponibile per coglierlo di sorpresa, e quando ormai gli era arrivato abbastanza vicino si era letteralmente lanciato su di lui da dietro una cassa nell'intento di spingerlo e farlo cadere in mare; purtroppo però era goffamente inciampato sul corpo inerte di Teach che se la dormiva di gusto - e che chiaramente non aveva visto -, e aveva preso il volo finendo dritto dritto in mare. Kate, che fino ad un momento prima era rannicchiata sulle ginocchia di Thatch a sonnecchiare, nel sentire quel baccano aveva fatto un salto e si era precipitata a guardare oltre la balaustra della nave per capire cosa diamine stesse succedendo. La dottoressa non ci aveva messo molto a tirare le somme dell’accaduto, e quando aveva capito era finita a rotolarsi sul ponte in preda alle più grasse delle risate. Solo quando due minuti dopo era riuscita a calmarsi abbastanza da riuscire a stare in piedi si era degnata di svegliare a calci il vecchio pirata sdentato e di mandarlo a recuperare Pugno di Fuoco, per poi svegliare il padre con un bacio sulla tempia e accompagnarlo in cabina con l’aiuto delle infermiere.
- Non ti punisco per stavolta solo perché sei terribilmente esilarante con i tuoi tentativi. – era stata la prima cosa che aveva detto Katherine ad Ace quando era riuscita a farlo riprendere – Ma sappi che la prossima volta non sarò così accomodante.
Bilancio del disastro? In realtà quella volta Ace non si fece sostanzialmente niente, ma a Kate toccò rianimarlo per più di cinque minuti, prendendolo a pugni sul petto per costringerlo a sputare tutta l’acqua che aveva ingoiato.
Sì, tutto sommato anche quella volta gli sarebbe potuta andare peggio.


La terza volta il ragazzo si era dimostrato piuttosto astuto, ma non abbastanza: il piano non era niente male, ma aveva fallito nell'attuarlo.
Ma d’altro canto non avrebbe dovuto restarne sorpreso: Ace aveva notato come il Capitano si fidasse ciecamente dei suoi uomini, e per questo aveva deciso di servirsi, anche se indirettamente, di uno di loro… e fin qui niente di strano. Il problema era stato che, tra tutte le persone che avrebbe potuto scegliere, il pirata aveva pensato di sfruttare proprio l’abilità medica di Kate… quindi non c’era stato da stupirsi se le cose fossero poi precipitate.
Durante la prima colazione aveva trovato il modo di far scivolare un farmaco decisamente letale, sgraffignato dall'infermeria della nave, nel bicchiere di Barbabianca. Un piano brillante, niente da dire… peccato che nella sua messa in pratica era sorto un intoppo.
Una volta avvelenato, infatti, il contenuto del bicchiere si era fatto biancastro, e sul fondo si era depositata una polverina alquanto inusuale, come quella che si forma quando sciogli l’aspirina nell’acqua. Newgate era vecchio ma non cieco, e aveva perciò immaginato che uno dei suoi gli avesse giocato un tiro mancino servendogli dell'acqua salata, e così con una risata tuonante se ne era sbarazzato gettando il bicchiere in mare aperto.
Ovviamente il vecchio non aveva affatto notato il cumulo di pesci morti che si era creato sotto la chiglia della nave, no no. E pensare che poi la gente aveva anche il coraggio di chiedersi perché tutti su quella nave si facevano in quattro per guardargli le spalle.
Realizzando l’ennesimo fallimento, Ace era andato dall'altra parte della nave a progettare il suicidio, ed era stato così assordato dal proprio continuo sproloquiare imbufalito da non aver sentito Kate avvicinarglisi di soppiatto alle spalle; il giovane capo della Divisione Medica dei pirati di Barbabianca l'aveva quindi afferrato rudemente per la collana di perle rosse, e se l'era strattonato contro con rabbia malcelata. 
- Vedi di farla finita. - gli aveva sibilato, le palpebre completamente scomparse dietro gli occhi verdi spalancati - Prima che io finisca te.
Le labbra di Kate si erano mosse ad un soffio dalle sue ed Ace era rabbrividito, e quando la collana era tornata al suo posto sul collo, gli era sembrato che stavolta fosse quella a bruciare sulla pelle.
Bilancio del disastro? Inizialmente inesistente, ma quando tre ore dopo Ace si era ritrovato a vomitare l’anima dal parapetto della nave, era stato a quel punto che il ragazzo aveva imparato quanto potesse essere pericoloso rubare qualcosa dall’infermiera della Moby Dick.
Però, in fondo in fondo, sarebbe potuta andare peggio, no?

 

La quarta volta il pirata era stato scoperto prima ancora di uscire dal suo nascondiglio: si era rintanato in un largo baule vuoto che aveva trovato di fronte all’entrata della cucina. Non poteva certo immaginare che Thatch l'avesse fatto portare lì per riempirlo proprio delle patate acquistate sulla terraferma che aveva intenzione di fargli pelare per punirlo di tutto il baccano che faceva da un po’ di giorni a quella parte! A trovarlo neanche dieci minuti dopo era stata Haruta, che si era premurata di trascinarlo immediatamente per le orecchie fino all’infermeria, dove lo aveva letteralmente scagliato tra le braccia della giovane O’Rourke.
- Be’? Sì può sapere cosa diavolo succede stavolta?! – aveva chiesto indispettita Kate, scrollandosi subito di dosso il ragazzo.
- L’ho beccato di nuovo. – aveva spiegato Haruta – Si era nascosto in una cassa vicino alle cucine.
- E perché lo porti qui da me? Non mi pare ferito.
- Papà ha detto che da oggi in poi questo teppista sarà sotto la tua responsabilità. – aveva risposto Haruta – Quindi ora è compito tuo decidere come punirlo.
- Stai scherzando?! Perché deve toccare proprio a me?!
- Perché sei stata tu a volerlo a tutti i costi con noi, stupida! – la apostrofò indispettita Haruta. A quelle parole Kate si era sentita avvampare fino alla radice dei capelli, ed Ace, che fino a quel momento era rimasto in un sdegnato silenzio, si era voltato a guardarla con gli spalancati, non riuscendo a credere a ciò che aveva appena sentito. Davvero era stata lei a volerlo su quella nave?!
– Io devo andare, sbrigatela da sola. – aveva ordinato intanto Haruta – Ah, dimenticavo: lo so che abbiamo a che fare con una notevole testa calda, ma se puoi fai in modo che queste stupidaggini non si ripetano più.
Detto questo si era voltata e si era diretta verso l’uscita senza dare a Kate il tempo di protestare, lasciando così soli i due ragazzi. Un silenzio imbarazzante era caduto nella stanza, e per spezzare la tensione Kate si era subito girata a fissarlo con lo sguardo più sulfureo del proprio repertorio.
- Sarai contento adesso! Come se non causassi già abbastanza rogne… ora mi toccherà anche farti da balia!
- Non guardare me, sai! Questa storia secca a me quanto a te! – replicò indignato Ace, recuperando il proprio atteggiamento ostile – Che credi!? Non ci tengo affatto ad avere a che fare con un’esaurita come te!
- A chi hai dato dell’esaurita?! – esclamò furibonda la ragazza – Faresti meglio a tenere a posto la lingua ragazzino, perché è solo per merito di mio padre se ancora respiri, non dimenticarlo. Fosse dipeso da me a quest’ora saresti già finito in pasto ai pescecani! – Kate si avviò verso la porta e la spalancò, facendo imperiosamente cenno al pirata di uscire – Ora togliti dai piedi! Stasera salterai la cena, e non andrai a letto fino a quando non avrai lucidato ogni angolo del ponte della nave. Vedremo se stavolta non imparerai la lezione!
Bilancio del disastro? Orgoglio a pezzi, mani e ginocchia ricoperte di calli, e stomaco desolatamente vuoto per più di dodici ore. Molto male, ma tutto sommato… sì, anche quella volta gli sarebbe potuta andare peggio.


La quinta volta che Ace aveva cercato di uccidere Edward Newgate era stato ancora più ridicolo dei precedenti, ma soprattutto era stata quella che aveva fatto incazzare Katherine di più.
Non c’erano stati piani, né strategie quella volta. Semplicemente Ace, dopo aver passato la nottata in bianco e a digiuno a pulire tutto il ponte della nave, per un breve momento aveva perso il lume della ragione e, senza neanche pensare a ciò che faceva, aveva recuperato una scure dall’armeria, fermamente deciso a piantarla nel cranio del vecchio imperatore.
Il ragazzo si era quindi diretto verso la mensa, sapendo che a quell’ora il vecchio era sempre lì a fare colazione con i propri uomini, e senza né cerimonie né convenevoli era piombato nella stanza urlando come un selvaggio, l’arma sollevata e gli occhi allucinati.
Nessuno si era minimamente scomposto davanti a quell’entrata in scena così teatrale, e tantomeno nessuno si era scomposto quando il ragazzo si era improvvisamente addormentato di colpo quand’era ancora in elevazione, e neanche quando il suo corpo inerte aveva disegnato una perfetta parabola nell’aria, respinto da una gioviale manata del vecchio Newgate. No, non era quella scena a farli scattare tutti sull’attenti, bensì quello che era accaduto immediatamente dopo.
Il colpo del vecchio capitano infatti era stato così forte che Ace non solo aveva sfondato il muro della mensa, ma anche quello della stanza accanto, e poi quello della stanza dopo ancora, ruzzolando infine proprio dentro l’infermeria, travolgendo un tavolo al quale proprio in quel momento Kate era seduta a far colazione, avendo infatti il turno di guardia in infermeria. Il ragazzo alla fine, anche se con qualcosa di rotto, era riuscito a riscuotersi dall’attacco narcolettico e a rimettersi in piedi, ma nel momento stesso in cui aveva incontrato lo sguardo della giovane dottoressa aveva immediatamente rimpianto di non essersi rotto il collo nella caduta. La ragazza infatti lo stava fissando con uno sguardo da folle, le narici dilatate come quelle dei tori e le dita delle mani piegate ad uncino, come se avesse voluto strappargli il cuore dal petto con il solo ausilio delle proprie unghie.
Il motivo? Quando aveva rovesciato il tavolo al quale Katherine era seduta, Ace aveva fatto cadere anche il piatto con la sua colazione, e ora la montagna di pancakes con lo zucchero sulla quale Kate stava per avventarsi giaceva tristemente a terra, con lo sciroppo d’acido che si spandeva sul pavimento come sangue.
Inutile dire che a quel punto Kate non ci aveva visto più: aveva quindi afferrato la prima siringa che le era capitata sottomano e, urlando come un’ossessa, aveva cominciato a rincorrere il povero Ace per tutta l’infermeria. Gli altri membri dell’equipaggio intanto si erano radunati quasi tutti vicino al buco nel muro che Ace aveva aperto, ed erano rimasti a spiare la scena, non osando intervenire per fermare quella furia della loro sorellina. Un paio di minuti dopo però le urla della ragazza si erano improvvisamente interrotte e, colti dalla paura che Ace le avesse fatto in qualche modo del male, i pirati si erano precipitati nella stanza, pronti ad intervenire per la salvare la giovane dottoressa.
Ma non avevano trovato un bel niente da salvare: una volta entrati infatti tutto ciò che i pirati avevano trovato era stata la ragazza accasciata su una sedia che tentava di riprendere fiato, e il povero Ace riverso a faccia in giù immobile sul pavimento, che non dava segni di vita.
- Mio Dio, Kate… non l’avrai mica ucciso, vero?!
- Certo che no! – aveva risposto ansimando la ragazza, per poi sventolare la siringa che aveva ancora in mano – Gli ho solo dato una lezione che per un po’ non dimenticherà. E speriamo che non ci riprovi mai più.
- M-ma… cosa c’è in quella siringa? – aveva chiesti Izou con voce tremante.
Kate aveva sollevato l’attrezzo e lo aveva guardato – Mmh… cicuta, a quanto sembra.
- CHE COSA?! - avevano strillato tutti insieme i pirati.
- Rilassatevi! Ha tre ore di tempo prima di morire. Ora vado in cucina a fare colazione, e quando avrò finito gli inietterò subito l’antidoto.
E andò proprio così. Per quanto i pirati avessero insistito per convincerla a curarlo subito, Kate non volle sentire ragioni fino a quando non ebbe finito di fare colazione. Thatch era stato addirittura costretto a prepararle un nuovo piatto di pancakes pur di farla sbrigare, ma alla fine era andato tutto bene, e Ace si era ripreso dopo qualche ora.
Bilancio del disastro? Aver visto la morte in faccia dovrebbe essere un risultato più che soddisfacente, ma in più quando si svegliò Ace si ritrovò con due costole rotte, un grosso bernoccolo, contusioni varie, e in più lo stomaco ancora vuoto. E a quel punto, permettetemi di dirlo, peggio di così non gli sarebbe mai potuta andare.


E invece, Ace non aveva affatto imparato la lezione, e gli sarebbe potuta andare peggio eccome! Due minuti dopo quel botto infatti la porta dell’infermeria si spalancò con un tonfo sordo, e Jaws e Vista entrarono nella stanza sostenendo Ace uno per le spalle e l’altro per le gambe.
- Che ha combinato stavolta? – sospirò Kate andando loro incontro.
- Ha provato a far saltare in aria la poltrona del babbo. – spiegò Vista – Solo che quando la nave ha rollato la bomba è rotolata vicino a lui, e gli è esplosa a meno di due metri di distanza.
- Fantastico… - sospirò di nuovo Kate, non avendo più neanche la forza di arrabbiarsi – Buon per lui che è a prova di fuoco. Dai, mettetelo su una branda, me ne occupo io.
- Subito, capo. – replicò Vista sistemando Ace su un letto, per poi dirigersi verso l’uscita salutandola con un cenno del capo. Kate ricambiò il salutò e si avvicinò al ragazzo esanime, cominciando a studiare le sue condizioni.
Le ci volle poco per capire che il ragazzo non era messo male come sembrava. Come aveva immaginato l’esplosione non l’aveva ustionato, ma si era limitata a lasciargli qualche lieve contusione da trauma sul petto e sulle braccia. Certo, era ancora privo di coscienza, ma se c’era una cosa che Kate aveva imparato di Portgas D. Ace negli ultimi tre giorni era che il ragazzo si riprendeva dai traumi molto più velocemente delle persone normali: quando si sarebbe svegliato avrebbe avuto un brutto mal di testa, ma non ci sarebbero state altre conseguenze. Per certi versi quel ragazzo era un vero prodigio, Kate era costretta ad ammetterlo.
Senza contare che, anche se si sparata un colpo in testa piuttosto che riconoscerlo, la sua determinazione, per quanto idiota e volta a perseguire gli scopi sbagliati, era davvero ammirevole, proprio come aveva detto Marco. Kate non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma forse quel ragazzo non era così pessimo come le era sembrato qualche giorno prima.
- Ehi scaldino, sveglia! Non è il momento di dormire questo! – lo chiamò Kate, scuotendolo ripetutamente per una spalla.
Niente. Ace non si svegliava. Kate non se ne preoccupò, probabilmente per la tensione era stato colpito dall’ennesimo attacco narcolettico. Sbuffando esasperata la ragazza si guardò intorno, e due secondi dopo individuò una brocca colma d’acqua lì vicino. La prese, la sollevò sul viso del pirata e, con estremo piacere, gliela svuotò interamente in faccia.
Ace, com’era prevedibile, non gradì affatto la sveglia. Saltò su urlando come un indemoniato, divincolandosi come se avesse avuto un ragno nelle mutande. Quando realizzò cosa l’aveva svegliato – complice anche il fatto che Kate si stava sbellicando dalle risate proprio davanti a lui – si incupì terribilmente, e la fissò con antipatia.
- Dannata ragazzina…ti diverti proprio ad infierire su di me, eh?
- Sì, devo ammettere che lo trovo molto divertente. – riuscì a pronunciare Kate tra un singhiozzo e l’altro – Ma mi fa piacere che tu stia bene. Se avessi tirato le cuoia dove l’avrei più trovato un altro bravo ad umiliarsi come te?
- Lieto di essere utile a qualcosa, allora. – replicò gelido Ace.
Kate smise di colpo di ridere, colpita dalla sua freddezza. L’aveva offeso? Ma stava soltanto scherzando…
- Ace, senti…
- Sai, mi chiedevo una cosa. – la interruppe Ace con tono sarcastico – Soffri per caso di uno di quei disturbi strani che di solito ti fanno finire in manicomio con addosso una camicia di forza, o sei semplicemente una sadica aguzzina che si diverte a vedere gli altri soffrire e dannarsi?!
Kate spalancò gli occhi – Ace, io…
- So quello che pensi di me. Pensi che io sia un ingenuo senza speranza che sta inseguendo un sogno impossibile. Non è così?! – la interruppe di nuovo Ace – Be’, ora lascia che ti dica cosa penso io di te: tu, mia cara, non sei altro che una ragazza maligna e psicopatica. Non mi sorprende il fatto che tu passi la maggior parte del tempo qui dentro da sola! Chi vorrebbe passare più dello stretto necessario con una mocciosa pestifera e insolente come te?!
Kate lo fissò incredula, incapace di spiccicare parola. Davvero Ace pensava quelle cose di lei? D’accordo che non aveva il carattere più amabile del mondo, però…
Le ultime parole del ragazzo le risuonarono nelle orecchie con un attimo di ritardo, e la dottoressa sentì una rabbia fredda oscura montarle nel petto. Gli insulti li poteva anche accettare, ma quell’ingrato piratuncolo da quattro soldi non l’aveva semplicemente insultata, l’aveva giudicata senza sapere un accidente di lei. E questo, perdio, non lo poteva accettare.
Raddrizzò perciò la schiena, afferrò un flacone che si trovava là vicino e glielo ficcò in mano senza alcuna gentilezza – Fuori di qui, stufetta. Fatti male un’altra volta, e giuro che l’unica cosa che potrà darti sollievo sarà il suicidio. Non voglio rivederti qui dentro per nessun motivo, mai più.
Non aspettò che il ragazzo se ne andasse, non era sicura di poter reggere oltre. Gli voltò le spalle e camminò pesantemente verso l’uscita, gli occhi umidi e lo stomaco contratto.


Ace era seduto sulla balaustra ad ammirare il tramonto con aria assorta, ripensando nel frattempo a quello che era successo in infermeria, il viso involontariamente contratto in una smorfia sofferente. Le contusioni su petto gli facevano un male cane, ma il ragazzo aveva il vago sospetto che a procurargli tutto quel dolore non fossero solo le ferite, ma anche quei fastidiosi sensi di colpa che gli stavano serrando lo stomaco.
Forse aveva esagerato. In fondo Katherine aveva tutte le ragioni per non essere gentile con lui… da qualunque punto la guardavi, la cruda e amara verità era che da tre giorni a quella parte Ace non aveva fatto altro che attentare alla vita del suo capitano. Chiunque si sarebbe come minimo risentito… e invece lei, per quanto i suoi modi fossero stati bruschi e impazienti, si era presa cura di lui ogni volta, pulendo e fasciando ferite, controllandolo continuamente e preoccupandosi per lui.
Forse l’aveva giudicata troppo in fretta. In fondo lui che sapeva di lei? Niente. L’aveva presa in antipatia fin dal primo momento, ma solo perché quel giorno gli aveva impedito di battersi con Barbabianca; obbiettivamente però, al di là della propria opinione riguardo a quella decisione, Ace non poteva ignorare il fatto la ragazza avesse agito in buona fede, salvandolo se non da una umiliante sconfitta, quantomeno da una morte lunga e dolorosa…senza contare che non aveva mai fatto nulla per danneggiarlo seriamente, nemmeno quando avrebbe avuto tutto il diritto di farlo.
Ace sospirò, e stringendo il pugno si accorse di avere ancora in mano il flacone che la ragazza gli aveva messo in mano prima di cacciarlo dall’infermeria. Lo aprì, incuriosito… e vi trovò all’interno una crema rosata molto profumata, e vide che sul lato interno del tappo c’erano delle istruzioni su come usarla. Un unguento.
Ma perché glielo aveva lasciato? Lui l’aveva appena insultata e denigrata, e lei gli dava un antidolorifico per le sue ferite?! Ace avvertì senso di colpa aumentare fino a schiacciargli il petto. Sì, doveva decisamente chiederle scusa.
Sentì delle voci parlottare lì vicino, e alzò lo sguardo. Vide Jaws e Vista chiedere qualcosa a Katherine, vide lei annuire in silenzio. La ragazza era pallida e seria, e il suo volto era così rigido da impassibile da non avere nulla da invidiare a quello di una statua.
Raccogliendo tutto il coraggio che aveva e prendendo un bel respiro, nel momento in cui Jaws e Vista si allontanavano, Ace le si avvicinò. La dottoressa non dette segno di averlo notato, e Ace dovette farsi violenza per non scappare a gambe levate ed evitare il suo sguardo accusatore.
- Ehm, Katherine?
Lei si voltò lentamente verso di lui, il volto scolpito nella pietra.
- Ehm, ecco, io… - balbettò Ace – Io volevo, uhm, scusarmi per prima…sì, insomma…
- Non hai niente di meglio da fare che stare qui a tartagliare come un beota? – lo freddò Katherine con una voce che sembrava importata dal Polo Nord – Quand’è così, vai in cucina a dare una mano agli altri. Qui non facciamo carità, finché resti su questa nave devi renderti utile.
E così com’era comparsa se ne andò, lasciandolo là come un palo.
Be’, immagino di essermelo meritato. Sospirò rassegnato Ace, avviandosi sottocoperta.

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- Lo sai, se avessi immaginato che averti a bordo avrebbe comportato per me una maternità precoce, ti avrei ucciso mandandoti in overdose di anfetamine finché eri ancora fuori combattimento. – affermò Kate con tono sarcastico. – Voglio dire, almeno fino a quando la pancreatite non ti avesse stroncato ti saresti sballato un po’, e ti saresti anche potuto illudere di essere finito in paradiso.
Ace chinò la testa con aria colpevole, non trovando parole per discolparsi. Kate diceva la verità, da quando era arrivato sulla Moby Dick – e cioè ormai da quasi due settimane – Ace aveva trascorso più tempo lì in infermeria con Kate che in qualsiasi altro posto, letto e mensa compresi. Non era stata una cosa voluta, si ripeteva, ma un semplice danno collaterale. A dispetto di tutti fallimenti che aveva collezionato da quando era arrivato lì, Ace infatti non si era ancora arreso, e aveva continuato con i suoi ridicoli tentativi di prendere la testa del vecchio Newgate.
Però le cose non era più come prima: nessuno infatti prendeva più sul serio quei tentativi ormai, neppure lo stesso Ace, che continuava a provarci per pura cocciutaggine, e per il puro e irrazionale desiderio di non contraddirsi da solo; perfino il suo approccio ormai era stanco, quasi svogliato, come quello di uno studente che fa i compiti a casa non per dedizione ma per semplice senso del dovere, e nemmeno tanto sincero. Ovviamente questo non gli impediva comunque di farsi male continuamente, anzi era proprio perché ormai un po’ alla volta stava perdendo interesse che si feriva nei modi più strani, perché non prestava più neanche attenzione a quello che faceva.
Erano state molte le motivazioni che, un centimetro alla volta, avevano demolito la determinazione di Ace: tanto per cominciare il ragazzo, dopo i primi, febbrili giorni trascorsi a progettare piani di omicidio, era rimasto sorpreso dalla libertà di cui continuava a godere sulla nave nonostante tutti quei tentativi di far fuori Barbabianca: dopo il primo invito ufficiale del vecchio ad unirsi alla ciurma non era più stato imprigionato, e i pirati gli lasciavano libero accesso a tutte le stanze; inoltre si comportavano con lui come se fossero amici di vecchia data, con quell'affetto cameratesco che da sempre unisce i compagni. A volte era stato punito, ma era stata quasi sempre Katherine a rimbeccarlo, e in ogni caso le sue punizioni non erano mai state né severe né tantomeno crudeli. Erano state le punizioni che di solito si danno a chi è già un tuo compagno, non ad un nevrotico ed ostile omicida che non aveva fatto altro che portare trambusto da quando era arrivato.
Poi c’era Barbabianca: all’inizio Ace lo aveva odiato solo perché aveva desiderato ucciderlo, prima semplicemente per ciò che questo avrebbe comportato, e poi per la rabbia che la consapevolezza della modestia della propria forza paragonata a quella di Barbabianca aveva scatenato in lui, ma ora doveva ammettere che il vecchio stava cominciando a piacergli. Edward Newgate, contro ogni previsione, si era dimostrato un uomo incredibilmente spensierato e gentile, e un capitano premuroso e affettuoso nei confronti dei suoi sottoposti. Ace non avrebbe mai potuto immaginare che un uomo tanto temuto potesse essere così, ma a quanto pareva era stato costretto a ricredersi.
E poi c’era lei, Katherine. Ace non poteva negare a sé stesso che quella ragazza fosse parecchio strana. Era scorbutica, impaziente e indisponente, ma era altresì innegabile che avesse una natura gentile, più di quella della maggior parte delle persone. Dopo quel litigio la ragazza lo aveva accuratamente evitato per una settimana, ma alla fine, anche grazie all’insistenza di Barbabianca, il ragazzo era stato riammesso nell’infermeria. La scusa ufficiale era stata che, se non avesse ricevuto cure opportune, ben presto l’unico modo che sarebbe rimasto per tenerlo insieme sarebbe stato usare una sparapunti, ma Ace sospettava che, a dispetto del suo pessimo carattere, la ragazza fosse semplicemente troppo buona per mantenere il broncio troppo a lungo.
Ace ne era stato contento. Si era sentito davvero molto in colpa per il proprio comportamento, senza contare che quella ragazza a conti fatti ormai non gli dispiaceva più così tanto.
- Si può sapere cosa hai combinato, stavolta? – gli chiese Kate, interrompendo il flusso dei suoi pensieri. Aveva appena finito di estrargli le schegge di vetro dalla spalla, e ora gli stava disinfettando i tagli. – Hai forse litigato di nuovo con Jaws per decidere a chi toccava l’ultima bottiglia di sakè?
Ace ridacchiò imbarazzato – No, ho tentato di nuovo di uccidere Newgate. Ma ho fallito ancora.
- Ma va’! – sogghignò beffarda Kate – E cosa ti sei inventato stavolta?
Ace distolse lo sguardo, e rispose in fretta arrossendo impercettibilmente – Volevo rompergli una bottiglia in testa, ma sono inciampato e ci sono caduto sopra.
Kate scoppiò a ridere gettando la testa all’indietro – Non so se sia più giusto considerarti uno sfigato perché non te ne va mai bene una, o un tipo fortunato perché in un modo o nell’altro ne esci sempre vivo. – dichiarò terminando di fasciarlo – Se non sapessi che è una cosa scientificamente impossibile, potrei giurare sul fatto che sei immortale.
- Ammettilo che la cosa ti rende felice! – finse di lamentarsi Ace – Finché sei sicura che non sono immortale, hai ancora una speranza di poterti liberare di me. Ragazza crudele…
- Accidenti, sono davvero così prevedibile? – chiese la ragazza con finto tono deluso, per poi porgergli un bicchiere colmo di un liquido marroncino. – Antisettico. Butta giù tutto d’un fiato.
Ace obbedì e ingoiò. Kate annuì soddisfatta e gli tolse il bicchiere di mano – Bene. A questo punto non sarebbe male una buona notte di sonno...  sempre che tu riesca ad arrivare in camera tua senza farti saltare le dita dei piedi o cavarti qualche occhio, è chiaro. – la ragazza recuperò il capello arancione del ragazzo e glielo calcò in testa. - Va’ a letto, su. E, se possibile, cerca di non venire a rompere le scatole prima delle nove di domani mattina.
- Non prometto nulla, ma ci proverò – sospirò Ace, dirigendosi verso l’uscita. – ‘Notte, Kate.
- ‘Notte.
La porta si chiuse alle spalle del pirata, e Kate prese un panno pulito imbevuto di disinfettante e gli attrezzi che aveva appena usato, e con un sospiro gratificato si lasciò cadere su una sedia, accingendosi a dare una ripulita a tutto.
Quel ragazzino… a Kate sembrava impossibile che, a dispetto di tutto ciò che aveva passato, fosse ancora lì. Doveva aver fatto un patto col diavolo o qualcosa di simile per poter essere ancora vivo… o magari erano stati i kami a mandarlo, per fargliela pagare di tutti gli scherzi che aveva combinato su quella nave negli ultimi sei anni. Gli altri membri dell’equipaggio lo pensavano di sicuro… forse era proprio per quello che l’avevano preso tanto in simpatia sin da subito, constatò la ragazza con divertito senso ironico.
- Ehi, Kate!
Kate lanciò un urletto di sorpresa e mollò d’istinto le pinzette che aveva in mano, che caddero a terra con un tintinnio. Marco attraversò la stanza a grandi passi e le raccolse, porgendogliele poi con un sorriso – Cosa c’è che non va, sorellina? Ero venuto a cercarti per darti la buonanotte… è successo qualcosa?
- Eh? Ma no, no, figurati! Mi hai solo colta alla sprovvista, tutto qui! – balbettò Kate, afferrando le pinze con mano tremante.
Marco strinse le labbra e assottigliò lo sguardo, studiandola con aria scettica. Kate cercò di sfuggire al suo esame, ma gli occhi del pirata le stavano praticamente aprendo un buco in fronte.
- Che cos’era quel sorriso che avevi quando sono entrato?
Kate alzò di scatto il viso, guardandolo confusa – Eh? Quale sorriso?
- Quello che avevi prima! Stavi sorridendo con aria sognante, e ti brillavano anche gli occhi…
- Eh? M-ma che dici?! – inorridì Kate, sentendo le guance in fiamme – T-te lo sarai immaginato di sicuro! Dai, andiamo a letto, che è mezzanotte passata!
E senza attendere la risposta del ragazzo saltò dalla sedia come una molla e si avviò a passo spedito verso l’uscita trascinandosi dietro anche Marco, che iniziò a protestare per il suo malgarbo.
Kate lo ignorò, agitata. Improvvisamente sentiva un gran bisogno di una doccia fredda, di una tonnellata di biscotti con lo zucchero, e magari anche di una bella camomilla che l’aiutasse a lasciarsi andare alle braccia di Morfeo, così da farle dimenticare il più in fretta possibile quell’improvviso e inspiegabile sfarfallio che le aveva invaso lo stomaco.

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- Insomma stufetta, hai intenzione di dirmi che problemi hai, o devo spedirti in fondo al mare a fare da cena a qualche pesce?!
Solo quando si sentì rivolgere quella domanda seccata Ace si decise ad alzare lo sguardo, degnando finalmente della propria attenzione la ragazza che era lì accanto a lui da più di cinque minuti, e che prima di allora l’aveva chiamato inutilmente già tre volte. Katherine lo stava fissando dall’alto con aria decisamente bellicosa e indagatrice, un specie di fascio di nervi formato sedicenne pronto ad esplodere, mentre lui fino ad un attimo prima se ne stava defilato sul ponte, seduto per terra a testa china a riflettere in perfetto silenzio. Sì, ho detto fino ad un attimo prima, perché ora Katherine era andato a disturbarlo, costringendolo ad abbandonare il corso dei propri pensieri e a sollevare la testa, causando così in lui un inevitabile moto di stizza.

Se combino guai e faccio chiasso non è contenta, se rimango tranquillo e me ne sto per conto mio senza infastidire nessuno non è contenta comunque! Mi piacerebbe sapere cosa dovrei fare per non incorrere continuamente nei suoi attacchi isterici!

- Be’?! Io aspetto una risposta, fiammifero!
- Non ho nessun problema, Katherine. – mentì con aria cupa Ace – Voglio solo starmene un po’ per conto mio a riflettere in santa pace. È forse chiedere troppo, Comandante?
Una vena iniziò a pulsare sulla fronte della ragazza, che gli fece un sorriso irritato – No, certo che non è chiedere troppo…ma non credo che sia chiedere troppo neanche rispettare gli appuntamenti! Ti avevo detto di farti trovare in infermeria per un controllo almeno due ore fa, e dopo averti aspettato per tutto questo tempo che cosa scopro?! Che tu sei sempre stato qui a fissare il vuoto come se niente fosse, lasciandomi in infermeria ad aspettare e a perdere tempo come una stupida! – la ragazza strinse i pugni – Scaldino, sappi che se vuoi morire non serve provocare, basta chiedere.
Ace ascoltò quello sfogo isterico con una pazienza che mai fino ad un mese prima avrebbe sospettato di possedere. Fino ad un paio di settimane prima se la ragazza gli si fosse rivoltata contro in quel modo Ace non ci avrebbe pensato due volte a voltarle le spalle e ad andarsene - anche non prima di averla spedita a farsi un giro, ovviamente -, irritante com’era il suo modo di fare. Ora però un po’ alla volta cominciava a conoscerla meglio, e soprattutto ad imparare a cancellare e rielaborare le parole che le uscivano dalla bocca, eliminando sistematicamente il suo tono perennemente seccato o sarcastico, come si fa quando si toglie l’uvetta dal panettone. Ad esempio aveva imparato che se Kate ti minacciava di morte, non significava che era arrabbiata con te; al contrario, voleva dire che era in pensiero per te per un qualche motivo, solo che era troppo imbarazzata o turbata per manifestarlo come le persone normali. Ormai Ace questo lo aveva capito, ecco perché quando Kate gli parlava così non si offendeva più… tuttavia più passava il tempo, e più il pirata si convinceva che l’unico uomo che potesse avere la pazienza di starle accanto sarebbe stato una sua copia al maschile. O magari un santo martire, anche se non ne era completamente sicuro.
Era davvero strano, ma in qualche modo negli ultimi tempi i due ragazzi avevano cominciato ad essere amici. Amici forse un po’ strani, ma tant’è…
Non volle risponderle però, non era sicuro di avere la forza d’animo per sostenere una conversazione con quella strana ragazza, in quel momento. A quel punto Ace si sarebbe aspettato che Kate gli mollasse un pugno in testa o qualcosa del genere, e invece la ragazza si limitò a sedersi accanto a lui, addolcendo visibilmente la sua espressione e forzando addirittura un sorriso rassicurante. Ace la fissò sconcertato con gli occhi spalancati, e lei si sistemò una ciocca dietro l’orecchio, chiaramente a disagio.
- Scusa se sono scattata così, è solo che sono preoccupata, e visto che non ti conosco bene, non so da che verso prenderti. – ammise la dottoressa evitando il suo sguardo, ed Ace sgranò ancora di più gli occhi. Doveva essere per forza un miracolo, gli pareva quasi di vedere gli angeli che le volavano intorno e intonavano un Gloria a Dio. - Non vuoi dirmi cos’è che non va? Magari ti posso aiutare…
Ace sospirò. Lei la faceva facile. Tra le altre cose, Ace aveva notato che la ragazza aveva un modo davvero strano di affrontare le difficoltà, di qualunque natura fossero… sembrava incredibile anche solo pensarlo, ma la ragazza sembrava considerare i problemi alla stregua di quesiti matematici. Per Katherine ogni problema aveva una soluzione, il che poteva essere anche condivisibile, ma a mente fredda, e di certo non quando nei problemi c’eri dentro fino al collo. Lei invece non si scomponeva mai davanti a niente, e tantomeno faceva mai storie di nessun tipo se c’era qualcosa che non andava. Prendeva provvedimenti e basta.
Ace la invidiava. Avrebbe voluto essere capace anche lui di un tale autocontrollo… come fai a prendere provvedimenti su due piedi, se ti senti un fallito e un incapace per non essere riuscito a scalfire neanche l’avversario che avevi intenzione di uccidere? D’accordo che Ace ormai non provava più alcun desiderio di danneggiare Barbabianca, ma lo smacco della sconfitta restava comunque. Senza contare che questo aveva riportato alla mente pensieri ancora meno piacevoli, e che avevano come protagonista l’ex Re dei Pirati…
- Allora? – insistette Kate.
Ace sospirò di nuovo. Gli sarebbe piaciuto tanto potersi confidarsi con qualcuno… detestava l’oppressione al petto che gli causava il doversi tenere tutto dentro. Ma lui aveva parlato della storia del padre solo Rufy e Sabo fino ad allora, e anche se negli ultimi tempi lui e Katherine avevano cominciato ad andare d’accordo, a tutti gli effetti la ragazza era ancora un’estranea per lui. Come l’avrebbe presa se avesse saputo? No, Ace non poteva rischiare. Aprì la bocca per dirle che non c’era nulla che non andava, ma lei non gli permise di parlare.
- Se non vuoi dirmi qual è il problema va bene, ma non farti neanche passare per la mente l’idea di mentirmi. – lo freddò – È una cosa che non sopporto. Potrà sembrarti un’ovvietà, ma preferisco sempre una scomoda verità ad una bella bugia.
Ace sentì qualcosa di oscuro agitarsi in lui – Ah, davvero? – chiese con tono provocatorio – Preferisci la verità, hai detto? E se la mia verità fosse orribile, la peggiore di tutte, la preferiresti comunque ad una bugia?
- Certo che sì! – replicò convinta Kate, guardandolo poi perplessa– Scusa, ma tu non sei un pirata?
- Sì, ma che c’entra…
- C’entra, perché io credevo che i pirati inseguissero la libertà…
- E infatti è così!
- E quale libertà insegui, se non puoi sopportare nemmeno la verità?
Ace la fissò allibito. Non poteva uscirsene così, non era valido! Tentò disperatamente di trovare una replica decente, ma non gli venne in mente nulla.
- Sei una pessima ascoltatrice, sappilo. – disse alla fine, più che altro per non lasciarle l’ultima parola.
- E tu un pessimo pirata, allora. – replicò pronta lei, le labbra piegate in un sorriso pestifero. – Ma d’altro canto questo era di dominio pubblico…
- Ma come sei spiritosa! – esclamò Ace seccato, tirandole un pizzico sul braccio. A quel gesto Kate però si raggelò, e gli puntò in faccia uno sguardo omicida.
- Ok, dì le tue ultime preghiere.
- Ma cosa...? – fece Ace confuso, per poi lanciare un gridolino di stupore quando Kate gli dette una spinta e lo fece cadere all’indietro, per poi saligli sopra a cavalcioni e affondagli le unghie in una spalla.
- Ahi! – esclamò Ace, più per la sorpresa che per il dolore – Ma che…?
- Faresti bene a difenderti, perché ho appena cominciato! – decretò Kate, sollevando di nuovo una mano per graffiarlo. Ace stavolta però non si fece cogliere impreparato, e rotolò via per sfuggire agli artigli della ragazza. Non aveva considerato però che Kate gli stava ancora sopra e soprattutto quanto fosse minuta e leggera, e quindi finì per trascinarsela appresso. Ben presto i due ragazzi finirono a rotolarsi sul ponte in una lotta per la supremazia, ridendo e picchiandosi come bambini dell’asilo, fino a quando Ace non riuscì a bloccarla sotto di sé con tutto il proprio peso, fermandole i polsi ai lati del corpo.
- Ah! Presa! – esultò Ace trionfante.
- Sicuro? – sogghignò Kate, per poi cominciare a muovere le dita delle mani sulla pelle del pirata. Ace la guardò senza capire, ma quando il suo corpo cominciò a reagire al tocco della giovane ormai era troppo tardi.
- AH! No, ti prego, no! Tutto, ma il solletico no! – esclamò agitato il pirata, tentando di sfuggirle, ma lei lo trattenne imprigionandolo tra le sue gambe.
- Dove scappi?! Ti meriti una lezione!
- Non vale, non vale! – rantolò Ace tra uno spasmo e l’altro – Giochi sporco!
- Solo perché a te piace essere giocato!
- Dai, smettila! – rise Ace disperato. Quella serpe ci stava davvero prendendo gusto! – Ti prego! – implorò.
- Solo se ti arrendi!
- Mi arrendo, mi arrendo! Basta, per favore! – supplicò Ace, e solo allora Kate si decise a lasciarlo in pace, liberandolo anche dalla sua presa senza smettere di ridere.
- Chi l’avrebbe mai detto… - riuscì a dire tra una risata e l’altra – Il grande Ace Pugno di Fuoco… sconfitto dal solletico! Che dici, ora me la merito anch’io una taglia e un manifesto da ricercato?
Ace non le rispose, si limitò a grugnire qualcosa di indefinito, e lei rise ancora più forte.

Devo ammettere che quando ride è davvero bellissima… Pensò ammaliato Ace, ammirandola mentre la luce del tramonto le illuminava il volto e le incendiava i capelli. Il rosa sulle guance le dona moltissimo… e gli occhi le brillano così tanto che sembrano quasi smeraldi veri…

Il ragazzo trasalì e smise del tutto di pensare quando Kate gli si avvicinò ancora di più e gli infilò una mano tra i capelli sparati in mille direzioni per sistemarglieli, il volto addolcito da un sorriso divertito.
– Guarda che disastro… sembra quasi che tu abbia lottato con una tigre!
- Perché, con chi ho lottato invece?
- Divertente! – rise Kate – Dai, scendiamo in sottocoperta, vediamo se possiamo dare una mano per la cena.
- Ma… e il controllo? – chiese Ace deluso. All’improvviso non voleva per nessun motivo al mondo interrompere quel momento, anzi, avrebbe voluto che durasse per sempre.
- Credo di aver avuto ragione del fatto che sei in perfetta salute, stufetta. – rispose Kate con un altro sorriso – Su andiamo, razza di lavativo!
- Ma… non volevi sapere a tutti i costi cosa sto nascondendo? – insistette Ace, trattenendola per un braccio. Forse era solo la foga del momento, ma se prima non avrebbe confessato quella verità per nessun motivo al mondo, ora voleva dirglielo, voleva che lei sapesse, che lo conoscesse. E in più era pronto a fare qualunque cosa pur di restarle vicino ancora per un po’, anche solo per qualche minuto.
Ma Kate questo non sembrò capirlo. Gli fece un sorrisetto furbo e gli dette un leggero pugno giocoso su una spalla – Me lo racconti un’altra volta. Ora andiamo.
E si allontanò, lanciandogli di tanto in tanto un’occhiata per invitarlo a sbrigarsi. A quel punto Ace non poté fare altro che rassegnarsi, e trascinando leggermente i piedi si diresse verso la porta, dove Kate lo aspettava, e per la prima volta da quando era arrivato su quella nave, si interrogò sul proprio futuro.

Cosa farò adesso?

 
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- Marco? – chiamò Kate con tono perplesso – Ehi Marco, ce l’ho con te! Ma mi ascolti?!
Marcò trasalì, beccato con le mani nel sacco a pensare ad altro. Erano nella mensa per il pranzo, e ormai era da dieci minuti che stava rimestando la sua zuppa di pesce senza accorgersene - Scusami, no. Cosa dicevi?
Kate gli lanciò un’occhiata esasperata, mettendosi seduta più comoda sulla panca e posando la forchetta che aveva in mano. Si passò con nonchalance una mano tra i capelli, e senza farsi notare fece un cenno nella direzione dove fino ad un momento prima stava guardando Marco – Ti ho chiesto se non pensassi anche tu che Ace negli ultimi giorni è davvero strano. E da come lo stavi fissando, credo proprio che la risposta sia sì.
Marco sospirò, lasciando cadere le spalle. Certo che lo pensava, e non era il solo. L’avevano notato praticamente tutti sulla nave, perfino quel babbeo di Teach. E avevano notato anche il perché Ace fosse così strano, ed era proprio per questo che Marco era così preoccupato. Per questo, e anche perché Kate invece era l’unica che non l’aveva capito affatto, cosa che non era per niente da lei… a meno che non stesse facendo la finta tonta nel tentativo di girare intorno al problema, eventualità di certo plausibile.
Ace in quei giorni era sempre con la testa tra le nuvole: parlava poco, si distraeva spesso, pareva tormentato da chissà quali dubbi, e aveva smesso ormai del tutto con i suoi tentativi di ammazzare Barbabianca. Era chiaro che ormai quella storia non gli interessava più… eppure non sembrava per niente intenzionato ad andarsene.
All’inizio Marco aveva ipotizzato che il ragazzo avesse iniziato a valutare l’idea di accettare l’offerta di Barbabianca di unirsi alla ciurma… e probabilmente in parte Ace ci stava pure pensando, ma non era questo che lo tratteneva lì, e il Comandante della Prima Divisione l’aveva capito quando aveva visto come Ace guardava il Comandante della Divisione Medica.

Il mitico Pugno di Fuoco s’è preso una bella cotta per la Mocciosa Malefica.

Quando quel pensiero l’aveva colpito, Marco aveva riso di sé per quella teoria pazzesca. Kate era ancora una bambina! Non avrebbe mai potuto suscitare l’interesse di nessuno…
E poi aveva realizzato che ad essere pazzesca era quell’assurda convinzione. Ormai Katherine aveva sedici anni, e non era più la bambina sempre arruffata e gracilina che era stata. Al contrario, era diventata molto bella anche se ancora un po’ acerba, ed in più era intelligente, sicura di sé, e il suo senso dell’ironia affascinava perfino lui che era un uomo maturo e suo fratello maggiore, figuriamoci che effetto avrebbe potuto avere su un giovane diciassettenne. Senza contare che ormai era più di un mese che gli faceva da crocerossina… forse era un po’ strano il fatto che Ace riuscisse ad ignorare il fatto che quell’adolescente fosse Satana in persona però più pestifera, ma in fondo è risaputo che quando ti prendi una sbandata per qualcuno la tua razionalità prende le ferie e ti abbandona, lasciandoti in balia dei sentimenti e degli ormoni.
Chissà cos’era successo tra quei due… Marco era pronto a giurare sul fatto che dal punto di vista fisico non c’era stato assolutamente nulla tra loro, eppure in qualche modo, volontario o involontario che fosse stato, Kate doveva aver fatto breccia nel cuore del pirata, a giudicare dall’aria imbambolata che aveva sempre il ragazzo quando la giovane dottoressa era nei paraggi. Quello che non era chiaro però era se Katherine ricambiava l’interesse o no, visto che come al solito i suoi pensieri erano più impenetrabili di una cassaforte.
- Sto iniziando seriamente a preoccuparmi. – gli stava dicendo intanto Katherine. – Ormai è da un pezzo che non attenta alla vita di papà, eppure continua lo stesso a farsi male in continuazione, e in modi sempre più strani. Te l’ho detto che ieri è piombato in infermeria perché l’aveva punto una medusa? Ma come cavolo fa a farsi pungere da una medusa uno che non sa nemmeno nuotare?

Lo so io perché si fa male in continuazione… Pensò Marco, fissando Kate quasi intenerito. Beata ingenuità.

- Ho capito. Non mi stai ascoltando. – decretò seccata Katherine, prendendo il proprio vassoio e alzandosi – Prima Ace, adesso tu… mi chiedo cosa stia prendendo a tutti quanti nell’ultimo periodo.
Marco si riscosse e allungò una mano per fermarla, ma Kate si era già allontanata. Marco si accasciò con un sospiro, e allontanò il vassoio da sé. Non capiva perché, ma quella faccenda lo impensieriva parecchio, molto più di quanto avrebbe dovuto. Forse era semplicemente il suo istinto da fratello maggiore… ma allora perché era per Ace che era in pensiero, e non per Kate?
- Vorrei tanto sapere cosa si è messo in testa quel ragazzino. – sibilò una voce furibonda alle spalle di Marco – Spero per lui che non stia facendo pensieri strani sulla mia piccola, perché se così fosse potreste ritrovarvelo nel piatto sotto forma di spezzatino all’ora di cena, dico sul serio.
- Oh andiamo Thatch, non ti sembra di esagerare un po’? – chiese Marco voltandosi verso il fratello – Kate ha sedici anni, ormai. Non è più una bambina!
- Potrebbe averne anche trenta, per me non farebbe alcuna differenza. Resta sempre la mia bambina! – dichiarò convinto Thatch – E poi ha solo sedici anni, è ancora piccola! E se a quel bamboccio venisse in mente di approfittarsi di lei?!
- Credevo ti piacesse Ace. – constatò tranquillamente Marco.
- E continuerà a piacermi, ma solo fino a quando terrà le mani in tasca e gli occhi a terra. Kate sta diventando un tale bocconcino… come vuoi che faccia a non preoccuparmi?! Non sono mica tutti dei gentlemen come me…
- Ma figurati. Anzi, a dir la verità io sono più preoccupato per Ace che per Kate. Se Ace non impara in fretta come funziona con lei, la nostra sorellina se lo mangerà crudo in due minuti.
- Tu non conosci Kate come la conosco io. – protestò testardo Thatch – La nostra sorellina potrà anche essere sveglia come la fame quando si tratta di imbrogliare la gente o di diagnosticare una malattia, ma quando si parla di sentimenti o cose simili è più ingenua di una bambina dell’asilo. L’hai visto anche tu, è l’unica a non aver capito nulla di quello che sta succedendo!
Malgrado tutto Marco dovette convenire con lui – E quindi cosa vorresti fare? Minacciare di morte Ace se si azzarda ad avvicinarsi a più di tre metri da lei? Questo non è giusto. Anche ammesso che Ace stia davvero pensando a cose strane, che colpa possiamo fargliene? Prima o poi Kate dovrà innamorarsi di qualcuno, e Ace è un bravo ragazzo…
- No, no e ancora no! Kate è ancora troppo giovane, e…
- Davvero? Prova a dirle che non deve innamorarsi di lui, allora. Voglio proprio vedere come farai a convincere un’adolescente ribelle come nostra sorella del fatto che è possibile reprimere i sentimenti con l’ausilio della ragione.
Thatch impallidì – Vuoi dire che… secondo te siamo già a questo punto?!
- Non lo so. – ammise Marco – Ma credo che dovremmo cercare di scoprirlo.
- E come?
- Forse lo so io. – disse Marco alzandosi – Ci vediamo tra mezz’ora nella cabina di papà. Di’ anche a Kate di venire.
- Che hai in mente?
Marco sorrise enigmatico – Vedrai.


I tre comandanti erano seduti l’uno affianco all’altro su un divanetto di fronte al letto del padre; anzi, a dir la verità Kate era seduta praticamente sulle ginocchia di Thatch, poiché il divano era piuttosto stretto, e in tre non ci stavano. Thatch sembrava piuttosto nervoso, e stringeva una mano intorno alla vita di Kate con aria innaturalmente apprensiva, e la ragazza lo fissava con confusione mista a sospetto, mentre Marco era calmo e pacato come sempre.
- Ebbene ragazzi? – chiese un Barbabianca stravaccato sul un gigantesco divano davanti a loro – Sono tutto orecchie. Di cosa volevate parlarmi?
- Sì, vorrei saperlo anch’io. – intervenne Kate, che aveva percepito la tensione nell’aria e stava iniziando a preoccuparsi.
- È presto detto. – rispose Marco, prendendo in mano la situazione – Si tratta di Ace.
Al pirata non sfuggì la reazione della sorella: la ragazza sì voltò di scatto verso di lui, e con gli occhi leggermente spalancati aprì la bocca per parlare, ma la richiuse subito serrando le labbra, come se si stesse imponendo il silenzio.

Interessante.

- Perché, cos’ha combinato stavolta? – chiese divertito Barbabianca, che ormai si era abituato ai guai che combinava il ragazzo.
- Niente. Ed è proprio questo il punto. – spiegò Marco con calma – È chiaro che ormai non è più intenzionato a tentare di ucciderti, ma non ha ancora detto nulla sul fatto di andarsene, e tantomeno ha ancora accettato la tua proposta. Non pensi che sarebbe il caso di risolvere la questione una volta per tutte? – chiese la Fenice. Kate impallidì leggermente, e si morse le labbra, sulle spine.
- E tu come suggeriresti di risolverla? – chiese Barbabianca dopo un attimo. Marco notò subito la luce di malizia che ora brillava negli occhi del padre, e capì che il vecchio aveva intuito il suo piano. Un sorriso furbo curvò allora le labbra del pirata mentre diceva:
- Be’, io direi che quel moccioso ha abusato abbastanza della nostra ospitalità. E visto che non ha ancora mostrato di volersi unire alla ciurma, forse sarebbe il caso di non trattenerlo oltre e di riaccompagnarlo a terra…
- NO! – lo interruppe Kate quasi urlando. Tutti si voltarono di scatto a guardarla – due compiaciuti, e uno scioccato -, e la ragazza si morse di nuovo le labbra nel tentativo di riprendere il controllo, così forte che quasi si ferì – Voglio dire, io… insomma, papà ci tiene molto al fatto che Ace si unisca alla ciurma! Non possiamo di certo cacciarlo così! –. Tutti la guardarono poco convinti e la ragazza, rendendosi conto di non aver fatto molti progressi, raddrizzò la schiena in un tardivo moto di orgoglio – Non che mi interessi, è chiaro. Sostengo semplicemente mio padre, nient’altro.
Ah, quindi sarebbe solo papà a tenerci tanto? Pensò Marco compiaciuto. Proprio come aveva ipotizzato Thatch, la piccola Kate si portava i propri sentimenti scritti in faccia.
- Giusto, Kate ha ragione! – dichiarò Barbabianca, ignorando l’ultima affermazione della ragazza – Il ragazzo mi piace, e anche tanto. Sarebbe un vero peccato perderlo… sono certo che possiamo ancora convincerlo a rimanere!
Kate annuì con convinzione – anche troppa, in effetti – e Marco chiese al padre – Allora come pensi di giocartela?
Barbabianca non sembrava aspettare altro – Be’, pensavo di schierare in campo il nostro giocatore migliore… anche se lancia come una ragazza.
Kate all’inizio non capì la battuta, il che era davvero strano per lei. Lo guardò perplessa senza parlare, e Marco contò ben dieci secondi prima che il suo viso cambiasse espressione, e una smorfia agitata le deformasse i tratti del volto – Oh, no… non starai pensando a me, spero!
- Ma certo, e a chi altri sennò?
- Oh, no no no… - farfugliò Kate, saltando giù dalle ginocchia di Thatch e indietreggiando verso la porta, come se si fosse trovata davanti un animale feroce – Non io, assolutamente no!
- Scusa, perché no? Sono sicuro che potresti convincerlo…

Oh, senza dubbio. Sogghignò Marco nella propria testa.

- Non voglio avere niente a che fare con questa storia!
- Ma come no? Prima eri così terrorizzata al pensiero che Ace se ne andasse… - le fece notare Marco. Kate non gli rispose, ma gli lanciò un’occhiata così sulfurea che Thacht le mise una mano sulla spalla per trattenerla, come se avesse paura che la ragazza potesse davvero compiere un fratricidio. D’altro canto Kate poteva anche non essere in grado di combattere, ma era nota a tutti su quella nave la sua abilità con i veleni…non era il caso di scherzare troppo con quella ragazza.
- Credevo avessi detto che volevi sostenermi, tesoro. – disse Barbabianca.
- Be’ sì, ma…
- Ma cosa? – la interruppe implacabile Barbabianca.
- Oh insomma, perché deve toccare proprio a me?! Mi sono presa cura di lui, mi sono assunta la responsabilità di ogni guaio che ha combinato, gli ho fatto da balia… non pensi che abbia fatto già abbastanza?! Perché devo beccarmi anche questa rogna?!
- Be’, lui è qui per merito tuo, no? – le chiese Barbabianca – È qui perché ti sei messa in mezzo quando mi sarei dovuto battere con lui, perché mi hai disobbedito pur di aiutarlo, perché in fondo sei stata tu a volerlo qui, sin dall’inizio. O te lo sei dimenticato?
Kate imprecò sottovoce. Purtroppo la sua condizione di figlia non le permetteva di uccidere Barbabianca con lo sguardo come poteva fare con Marco. - N-no, ma…
- E ora vorresti lavartene le mani, come se tutto questo non ti riguardasse più. – concluse Barbabianca – Non è molto onesto da parte tua, e neanche molto maturo.
- Ok, non ti sembra di stare esagerando…?
- No, per niente. – la interruppe Barbabianca con tono severo – Ormai non sei più una bambina, Katherine. Sei una adulta, e se come tale vuoi essere trattata come tale devi comportarti. Mi sono spiegato?
Il volto di Kate si contorse, ma la ragazza dovette annuire – Sì. Quindi? Che vuoi che faccia?
- È semplice: convincilo a restare. Agisci come meglio credi, ma sistema questa storia una volta per tutte, per favore.
- Suvvia, non credo che sarà troppo difficile per te, sorellina. – sghignazzò Marco, incapace di trattenersi – A nessuno è sfuggito il debole che questo ragazzo ha per te, e in ogni caso, se proprio si rendesse necessario, sono certo che la tua innata abilità nel manipolare le persone verrà in tuo soccorso ancora una volta.
Kate si voltò a guardarlo con un sorriso radioso più falso dei soldi del Monopoli – Oh, quindi significa che ho il permesso di rincorrere alle male arti e alle astuzie femminili? Fantastico! Non vedevo l’ora di sperimentare anche questo metodo! – Kate si avviò con baldanza verso la porta, ma si voltò a guardarli con una mano sulla maniglia, ammiccando spudoratamente – Di norma preferisco usare i trucchi della retorica per arrivare a meta... ma sì, in fondo immagino che dove non arriva la mia parlantina possa arrivare una bella scollatura abbinata ad un push-up, non credete anche voi? Avrei valutato anche i profumi ai feromoni, ma le ultime ricerche di laboratorio li hanno dichiarati inefficaci…
A quelle parole Thatch divenne più bianco di un lenzuolo – Non dirai sul serio, spero…
- Bye bye, fratelli!
- KATE, TORNA IMMEDIATAMENTE QUI!
- Non agitarti, Thatch. – sospirò Marco rassegnato, dando una pacca sulla spalla del fratello – Tanto non dice sul serio. Ha troppa stima di sé stessa per includere certe pratiche nel suo repertorio.
A quelle parole Thatch sembrò tranquillizzarsi un po’, e Marco ne approfittò per inseguire la sorella, preparandosi alla battaglia. La trovò che l’aspettava fuori dalla porta con le braccia incrociate e la mandibola serrata, e il suo sguardo era fosco e pieno di promesse di vendetta proprio come quello che aveva Izou quando qualcuno gli rovinava per sbaglio l’abito o il trucco. In una parola, era irritata a morte.
- Non era mia intenzione fare insinuazioni sgradevoli su di te. – sospirò Marco. – Se ti sei offesa…
- Non mi sono offesa. Non per questo, almeno. – lo interruppe tranquillamente la ragazza – Lo so che non volevi insinuare niente di strano.
- Allora cos’è che ti ha offeso?
- Scusa, ma pensi che sia nata ieri? – gli chiese Katherine contrariata – Sarò anche la più giovane della famiglia, ma ho occhi e orecchie come ogni persona normale, e grazie ai kami sono provvista anche di una discreta intelligenza. Pensavi davvero di potermi raggirare in un modo così grossolano?! Francamente credevo che cadere vittima in continuazione dei miei scherzi e dei miei sotterfugi negli ultimi sei anni ti avesse insegnato qualcosa di più.
- È il fatto che io abbia cercato di metterti in difficoltà per ottenere delle risposte che ti ha offesa. – constatò Marco rassegnato – Hai capito che tentavo di sfruttare la situazione per metterti alla prova, e capire cosa c’è esattamente tra te ed Ace, e se tu avessi intuito il fatto che di sicuro tu gli piaci.
- Già, infatti. – confermò Kate con voce dura.
Marco alzò un sopracciglio - Ti rendi conto di quanto questo sia incoerente da parte tua, visto che negli ultimi sei anni hai fatto esattamente la stessa cosa con tutti noi?
- Ovviamente sì. Ma dato che tu sei una persona di gran lunga migliore di me, quando vuoi delle risposte dovresti prima chiedere, e solo dopo, qualora si rendesse necessario, tentare di manipolarmi! Tanto più che non sei nemmeno in grado di farlo come si deve…
- Perché, se avessi semplicemente chiesto mi avresti risposto sinceramente?!
- Ma certo che sì! Ma per chi mi prendi?!
- Allora fallo ora. Sei consapevole del fatto che Ace prova interesse per te?
Kate alzò esasperata gli occhi al cielo, ma rispose – Sì.
- Quindi questo significa che prima stavi facendo davvero la finta tonta. Lo immaginavo. - annuì Marco - Tu lo ricambi?
Kate alzò le spalle, gli occhi improvvisamente tristi - Che ne so? Io non so niente di come funzionano queste cose… potrebbe essere, ma forse non tanto quanto lui ne prova per me.
- Cosa intendi quando dici “Non so niente di come funzionano queste cose”?
Lei fece un sorriso amaro – Lo sai, no? Io sono difettosa dal quel punto di vista. La mia emotività… non so mai come gestirla. Riconosco solo le emozioni facili come la rabbia, il resto per me è come un grande buco nero.
- Be’, hai solo sedici anni. E puoi imparare. Ace potrebbe essere un modo…
- No. – lo interruppe decisa Kate – Questo è escluso. Non voglio fare di quel ragazzo una cavia per imparare a riordinare il casino che ho nella testa.
Marco si rianimò. Forse stavano arrivando da qualche parte. – Perché?
- Perché non sarebbe giusto!
- E perché?! – incalzò Marco.
- Perché lui mi piace! – esplose la ragazza – È un ragazzo leale, è onesto, affettuoso, in gamba… e non merita un trattamento simile. Non da una come me, almeno.
Marcò sospirò. Così alla fine lo ammetteva. Non era una vera dichiarazione d’amore, anche perché per quella sarebbe stato comunque troppo presto, sia per lei che per lui, però… in un certo senso era anche meglio. Perché quella era la prima volta in sedici anni di vita che Kate si rifiutava di imbrogliare qualcuno, nemmeno a fin di bene, nemmeno per il proprio bene.

Accidenti…allora è anche peggio di quanto pensassi.

- Non fare quella faccia, adesso. – cercò di riscuoterlo Kate – Troverò un altro modo per imparare le regole del gioco. Qualcun altro…
- Si vede proprio che non conosci le “regole del gioco”, sorellina. – la interruppe Marco, scuotendo la testa con disappunto.
Kate aggrottò le sopracciglia – Perché dici così?
- Oh, andiamo. Credi davvero di poter trovare “un altro modo”? – chiese Marco – Non esiste un altro modo, e nemmeno si può scegliere di restare in panchina. È una cosa al di là di ogni possibilità di scelta, rassegnati.
- Già, è così, non è vero? – chiese Kate con tono pensieroso, quasi sconfitto. Sembrava essersi di colpo sgonfiata, come un palloncino bucato da un minuscolo ago. – Senti, visto che contro ogni aspettativa sono stata onesta con te e ti ho permesso di psicanalizzarmi, saresti disposto a ricambiare il favore?
- Be’, dipende. Cosa vuoi che faccia?
Kate non sembrava aspettare altro – Ti prego, va’ tu a parlare con Ace al posto mio. Sinceramente io… non credo di potercela fare in questo momento.
Marco spalancò gli occhi, fissando incredulo la sorella minore che lo stava guardando a propria volta con occhi imploranti. Kate che si tirava indietro e si nascondeva dietro di lui, pregandolo di fare il lavoro sporco al posto suo? Marco non riusciva quasi a crederci. Che effetto stava avendo quel ragazzino sulla giovane dottoressa?
- Non preoccuparti. – si sentì dire Marco con voce gentile – Me ne occuperò io, e terrò anche il segreto con papà.
Kate buttò fuori l’aria che aveva trattenuto con aria sollevata e andò ad abbracciarlo, rannicchiandosi contro il suo petto come faceva quando era bambina – Grazie, Marco. Sei un vero amico.
Marco ricambiò l’abbraccio circondandola con le braccia, affondando il viso nei suoi capelli. Non le disse niente però, non serviva.
La Fenice non seppe dire quanto tempo rimasero così, se per secondi, minuti o ore. Sta di fatto che ad un certo punto fu Kate a staccarsi con delicatezza da lui, camminando all’indietro senza interrompere il contatto fra i loro sguardi, con un sorriso mesto a curvarle le labbra. Solo quando fu a metà corridoio la ragazza si decise a voltarsi, allontanandosi a testa china, come se il mondo stesse improvvisamente pesando tutto sulle sue spalle.
Marco però non volle lasciarla andare. Quello era il vero momento della verità, e Marco non poteva permettere che lei fuggisse prima del tempo.
 - Tu vuoi che rimanga o che vada via?
La domanda era arrivata inaspettata, come un fulmine a ciel sereno. La ragazza si voltò sorpresa a guardarlo, e Marco le si avvicinò ancora, le mani sollevate come per evitare di spaventarla.
– Perché lo chiedi? Lo sai che papà…
- Dimentica nostro padre. Voglio sapere cosa pensi tu.
Kate sfuggì al suo sguardo, turbata - Perché ci tieni così tanto a saperlo?
- Perché una tua parola può cambiare tutto. – rispose Marco, serio come non era mai stato. Kate lo guardò senza capire, e Marco spiegò – Mi hai chiesto di aiutarti, e io non mi tiro indietro. So che nostro padre vorrebbe che quel ragazzo rimanesse…e so anche che tu eri sincera prima nella sua stanza, quando dicevi che saresti stata dalla sua parte. Ma tutto questo non conta nulla, se tu non lo vuoi qui. Posso occuparmene io, ti assicuro che non ne subiresti le conseguenze.
- Che cosa vorresti dire? Che saresti disposto a cacciare Ace dalla nave, disubbidendo a nostro padre e ingannandolo, se solo io ti chiedessi di farlo? – chiese scettica Kate.
- Sì, lo farei.
- Perché?
- Perché sono tuo fratello maggiore, e in quanto tale è mio compito sostenerti…
- Lo so, ma volevo dire… perché farlo? Insomma, a che servirebbe?
- Be’, questo devi dirmelo tu. – rispose Marco – So che in questo momento sei confusa, e che le sensazioni che stai provando ti fanno sentire disorientata. Tu non sai cosa ti aspetta se le cose si evolvono… però sono certo che lo puoi immaginare. E se la cosa ti spaventa… insomma, nessuno ti biasimerebbe se tu volessi “allontanare” il problema.
- Quindi mi stai dicendo che, se Ace se ne andasse, io potrei stare meglio?
- Io non sto dicendo niente. Ma se tu ora analizzassi te stessa nel modo più obbiettivo possibile, e decidessi che effettivamente la partenza di Ace sarebbe la cosa migliore per te, allora sì, ti aiuterei andando contro l’opinione di papà. Ma è una conclusione a cui devi arrivare da sola, in questo non posso proprio aiutarti.
Kate si appoggiò esausta al muro, come se le fossero mancate improvvisamente le forze. Marco avrebbe voluto toccarla, ma non osò avvicinarsi, capendo che ora stava guardando dentro di sé nel tentativo di trovare una risposta alle sue stesse domande.
- In realtà non è così facile, vero? – chiese improvvisamente la ragazza dopo diversi istanti di silenzio, facendo trasalire la Fenice – Non starò meglio solo perché non l’avrò più davanti agli occhi… non è come estrarre il veleno da una ferita.
Marco scosse la testa, toccandole leggermente i capelli – No, non lo è. Ma il punto non è questo, e lo sai.
- Sì, lo so…
- Allora dimmi che devo fare.
Kate lo guardò in perfetto silenzio per quella che a Marco parve un’eternità. Poi alla fine si decise a dire – Ho paura…
- Sì, lo so…
-  … ma non voglio che se ne vada.
Marco annuì, non ne mai avrebbe dubitato – Va bene. Allora lo convincerò a rimanere. – un sorriso curvò le labbra del pirata – Parlavo sul serio prima, sai? Non credo che sarà troppo difficile. Ha un buon motivo per restare, no?
Kate forzò un sorriso, e senza rispondergli gli stampò un bacio sulla guancia, e Marco, dopo averle accarezzato la testa con un sorriso d’incoraggiamento, si allontanò, lasciandola da sola.
Kate sospirò e si appoggiò di nuovo alla parete, intontita dalle emozioni. Si sentiva strana, quasi ubriaca, e una strana sensazione, quasi di gelo, le serrava lo stomaco, come se il suo inconscio volesse avvertirla di un pericolo incombente.

Mi chiedo se non abbia commesso un errore.



Angolo Autrice:
Ciao ragazzi! Eccomi finalmente, dopo mesi di silenzio! 
Lo so, sono in ritardo. Vi chiederete cosa io abbia combinato finora, e la risposta è sempre la stessa: studio, studio, studio matto e disperatissimo, che mi ha privata del mio tempo e dell'ispirazione per tutto questo tempo. Ma ora sono finalmente tornata, più carica di prima!
Eccolo qui, il capitolo speciale che vi avevo promesso! Be', in realtà è solo metà, perchè se l'avessi pubblicato per intero sarebbe venuto fuori lungo una cosa come sessanta pagine... per cui ho scelto di dividerlo in due, ma vi prometto che la seconda parte uscirà molto presto!
Ecco, queste pagine raccontano com'è iniziato tutto. Spero che vi siano piaciute... ma vi avverto, questo è solo l'inizio! Aspettate di vedere il seguito....
A presto, miei cari amici!
Baci e abbracci!
Tessie

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Capitolo 9
*** Speciale - Giorni di ordinaria follia: Portgas D. Ace - Seconda Parte ***


 
Amor tussique non celatur


🔥



Capitolo Speciale


Giorni di ordinaria follia:Portgas D. Ace



Seconda Parte





Amore che mortifica l'amor proprio o non dura,
 o, se dura, è tremendo.
- Niccolò Tommaseo






Kate venne svegliata da una voce incalzante. - Sveglia!
Aprì lentamente gli occhi. Se li sentiva collosi, appiccicati. Qualcosa le faceva il solletico alla faccia. Erano capelli. Scattò istintivamente a sedere, e colpì con la testa qualcosa di duro.
- Ahi! Mi hai dato una testata! - Era una voce maschile. Ace. Il ragazzo accese la luce accanto al letto e guardò Kate risentito, massaggiandosi la fronte.
- Be', nessuno ti ha detto di chinarti su di me a quel modo. Mi hai spaventata a morte. -  Anche Kate si massaggiò la testa. C'era un punto che le faceva male, appena più in alto del sopracciglio. - E comunque cosa vuoi a quest’ora?
Ace alzò un sopracciglio – A quest’ora? Sono le undici e mezza del mattino!
- Sì, e io avevo chiesto di non essere disturbata! – replicò Kate seccata, rannicchiandosi di nuovo sotto le coperte dando le spalle al pirata – Sono stanca, ho bisogno di dormire…
- Perché, stanotte cos’hai fatto invece?
Kate torse parzialmente il busto per guardarlo di nuovo in faccia e gli scoccò un sorriso malizioso – La posizione del 69 con le infermiere. Per tutta la notte. È stato fantastico…forse un po’ scomodo, ma se decidi di incastrare cinque persone in una posizione del Kamasutra pensata solo per due non puoi pretendere che vada tutto liscio come l’olio…
Ace era diventato rosso fino alla punta delle orecchie – S-stai scherzando, vero?
- Ma certo che sto scherzando, baka! – rise Kate, divertita dalla smorfia di disappunto del ragazzo – No, la verità è che stanotte ho ospitato Bea-san nella mia cabina perché la sua la stanno ristrutturando, e visto che lei russa come un trattore stanotte non sono riuscita a chiudere occhio.
- Ah, ecco! – esclamò Ace senza sforzarsi di nascondere il sollievo. Kate rise ancora, e si lasciò cadere di nuovo con la testa sul cuscino – Ora posso tornare a dormire? Sono davvero stanca…
- No che non puoi! Ho bisogno di un favore, dei tuoi consigli!
Kate aprì un occhio, fissandolo sospettosa – Deciditi, hai bisogno di un favore o di consigli?
Ace, distolse lo sguardo, improvvisamente a disagio – Di entrambi.
Solo a quel punto Kate si decise a dedicagli la sua completa attenzione. La ragazza si tirò su a sedere, si strofinò gli occhi e lo guardò intrigata – Interessante. Ti sei ficcato in qualche guaio?
- No.
- Hai problemi di cuore da risolvere?
Ace arrossì di nuovo - No!
- Allora cosa c’è che non va? Sputa il rospo.
Ace distolse di nuovo lo sguardo. Ora sembrava davvero molto, molto a disagio – Ecco, io… speravo che tu potessi farmi un tatuaggio…sai, quello della ciurma.
Calò il silenzio
– Tutto qui? – chiese infine Kate, alzando un sopracciglio con aria scettica.
- No, non è tutto qui… – sospirò Ace – Ma direi che è un buon punto d’inizio. Allora? Mi darai una mano?
Kate incrociò le braccia al petto, sospettosa. Perché di punto in bianco il ragazzo era diventato così evasivo? Cosa stava bollendo in pentola?
- Va bene. – rispose infine la ragazza, tirando fuori le gambe dal letto. A quel punto ormai non sarebbe riuscita a chiudere occhio comunque, e inoltre troppo curiosa per ignorare quella strana richiesta d’aiuto. – Ma ti avverto, non ho mai fatto un tatuaggio a nessuno, prima d’ora.
Ace le sorrise – Sei un medico, no? Dubito che ci sia qualcuno con la mano più ferma della tua su questa nave.
Kate ricambiò il sorriso, nonostante la strana tensione che c’era nell’aria. Ace era bravo a farla sorridere, notò con un lieve senso di sorpresa. Quasi troppo bravo. — Dove andiamo? — gli chiese un po’ bruscamente. – È meglio in infermeria, o sul ponte dove c’è più luce?
Ace si strinse nelle spalle – Non so, decidi tu…
Kate ci pensò su un attimo, poi decise – È meglio fuori. Non mi va di stare in infermeria, mi manca l’aria là dentro.
I due ragazzi impiegarono più di mezz’ora per recuperare tutta l’attrezzatura necessaria. Kate spiegò al pirata con una certa costernazione che lì sulla nave non possedevano una macchinetta elettrica per i tatuaggi, ma che comunque la sua vecchia sensei le aveva insegnato i rudimenti del tebori, un’antica tecnica giapponese che avrebbe fatto al caso loro.
- Potrebbe essere un po’ doloroso, però. – lo avvertì – Sei sicuro di sentirtela?
- Ehi, ma per chi mi prendi?! – si inalberò Ace, gonfiando il petto – Potrei stare sotto i ferri per ore! Dai andiamo, vedrai se non riesco a resistere!
Kate sghignazzò, divertita dalla sua irruenza, e lo prese a braccetto. – Andiamo. Ti faccio vedere il mio posto preferito su questa nave.
Lo condusse all’estrema poppa della nave, nel punto dove il ponte si interrompeva e il cassero si innalzava. Era una zona della nave stranamente deserta, constatò Ace, come una specie di zona neutrale su un campo di battaglia. Senza fare caso alla sua espressione perplessa Kate puntò dritta verso il punto più lontano, proprio dove c’era la balaustra e lo specchio di poppa, e quando si fermò Ace si accorse che la ragazza l’aveva portato in un piccolo angolo dove era sistemato un tavolino basso di tek, una sdraio dello stesso materiale con un sottile materasso sopra, e un minuscolo armadietto con le ante di vetro che conteneva qualche libro e alcune pergamene.
- Accidenti. È tuo questo posto?
- Dire che è mio è po’ eccessivo… diciamo che è un posticino riservato solo a me. – spiegò Kate con un sorriso – Mi piace venire qui a riflettere. È tranquillo e silenzioso, e c’è una vista spettacolare.
Ace alzò un sopracciglio – Una vista spettacolare? Da qui?
Lei si strinse nelle spalle – Da qui si vede la scia che lascia la nave quando naviga. E in più si può vedere ciò che ci si è lasciati alle spalle. Dimmi, dove lo vorresti il tatuaggio?
- Su tutta la schiena. Ed è così importante? – chiese Ace, sempre più scettico. – Guardare cosa ci si è lasciati alle spalle, voglio dire.
- Ovviamente. Sono le esperienze passate quelle che ci permettono di comprendere al meglio la nostra natura, perché è da queste che essa viene plasmata. Comprendere noi stessi è un procedimento lungo e difficile, che raramente si riesce a portare a termine… però ritengo che guardare al passato possa essere molto utile. – concluse la ragazza - Su, stenditi a pancia in giù, così posso iniziare.
Ace si tolse la camicia e obbedì, un po’ stralunato dalle parole della ragazza. Il suo modo di ragionare non avrebbe mai smesso di spiazzarlo, e tantomeno l’avrebbe mai fatto la disarmante semplicità con cui parlava di argomenti così delicati, come se fossero verità assodate al pari di “Di inverno fa freddo” o “La Terra gira intorno al sole”.
- Scusa, e per quanto riguarda il destino di una persona?
Kate si fermò, e alzò lo sguardo verso di lui. Armata di un gigantesco batuffolo inumidito di antisettico, la ragazza aveva iniziato a disinfettare la schiena del ragazzo con la mano sinistra, mentre con la destra sfogliava le pagine di un libro che si era sistemata sulle ginocchia, e che raffigurava aghi e ciotole di colori, probabilmente con lo scopo di illustrare nel dettaglio il procedimento che la ragazza avrebbe dovuto seguire.
- Il destino? Cosa vuoi dire?
Ace distolse lo sguardo, nel tentativo di nascondere il proprio turbamento – Kate, ti è mai capitato… di sentirti prigioniera di una condizione che non hai scelto, ma che comunque ti paralizza e non ti lascia via d’uscita?
Kate non gli rispose subito. Lo guardò negli occhi per qualche istante, probabilmente alla ricerca delle parole giuste, o forse di qualcos’altro. Alla fine parlò, e il tono della sua voce era stranamente triste - Certo che mi è capitato. Io mi porto dietro il fardello della mia famiglia d’origine. Mi paralizza, e non so come liberarmene. È una benedizione e una maledizione allo stesso tempo, per me.
Ace si voltò di scatto a guardarla, incredulo – Dici sul serio?!
- Certo.
- E la tua famiglia…?
- Il clan O’Rourke, del Mare Occidentale. Lo hai mai sentito nominare?
Ace scosse la testa.
- Be’, è una famiglia molto potente, composta da sole donne, che esercita una grandissima influenza in quelle acque, e anche altrove. Sapevi che il Mare Occidentale è controllato da cinque famiglie mafiose?
Ace annuì, e chiese – E il clan O’Rourke…?
- È una di queste. La più potente, per la precisione.
– Perché dici che loro sono un fardello per te?
- Non sono loro ad esserlo, non proprio. È mia madre.
Ace tentò di tirarsi su, ma le mani di Kate lo fermarono – Raccontami. – disse allora il pirata.
- Un’altra volta. Ora devo farti il tatuaggio…
- Puoi fare entrambe le cose, no?
- Un’altra volta. – ripeté Kate, il tono improvvisamente duro – Devi ancora dirmi qual è il tuo problema, hai detto che volevi un consiglio…
- Te lo dirò, promesso. Ora però racconta.
- No.
Ace fece un verso frustrato – Perché non vuoi raccontarmi questa storia?
Kate gli lanciò un’occhiataccia – E tu perché ci tieni tanto a conoscerla?
- Voglio sapere di più su di te! – esclamò Ace – Perché mi tieni a distanza? Credevo fossimo amici, ormai.
- Lo siamo. Ma non vedo come il mio passato…
- L’hai detto tu, no? – la interruppe Ace – Il passato è utile per capire. E io voglio capirti.
Lei lo guardò da sotto in su, attraverso le ciglia. - È davvero necessario?
- Non lo so. Non sono sicuro che qualcuno ti capisca davvero, su questa nave.
- Be’… – sospirò Kate – Forse è meglio così. E in ogni caso, non è una cosa di cui amo parlare…
- Per favore. – la interruppe di nuovo Ace. Non disse nient’altro, lo ripeté soltanto – Per favore, Kate. Aiutami a capirti.
Kate lo fissò in silenzio per diversi istanti, come se stesse cercando di capire se poteva aprirsi tanto con lui o no. Ace ricambiò lo sguardo con tutta la fermezza di cui era capace, cercando di trasmetterle tutta la propria sincerità e il proprio coinvolgimento.
Era stato onesto con lei, sempre. Voleva conoscerla, voleva starle vicino, e voleva che lei desiderasse di fare altrettanto con lui. Ma Kate sembrava essere sempre così lontana, così irraggiungibile…
- Bene, come vuoi. – sospirò infine la ragazza. Ace alzò incredulo lo sguardo verso di lei, e la ragazza abbozzò un sorriso – Resta steso e immobile, così eviterò di sbagliare. Ascoltami e basta, così sarà più facile ignorare il dolore.
Ace annuì con decisione e sistemò la testa in mezzo alle braccia, mentre Kate prendeva in mano un grosso ago e lo immergeva in una ciotola di inchiostro viola.
- Non c’è poi così tanto da dire. – esordì Katherine nel momento in cui l’ago punse la schiena del ragazzo – Il clan O’Rourke ha origini antichissime, che risalgono ai Cento anni del Grande Vuoto. Il nostro inizio è un po’ lungo da raccontare, e francamente anche un po’ noioso se non ti piacciono i romanzi rosa, ma ti basti sapere che in quel periodo la capostipite della famiglia ottenne il potere di comunicare con i Re del Mare e di assoggettarli al proprio volere. – Kate spostò leggermente l’ago - Potere che poi hanno ereditato le sue figlie, le figlie delle sue figlie, e via dicendo.
Ace alzò la testa, allibito – Stai scherzando?!
- Affatto!
- E quindi tu sai… tipo, evocare i Re del Mare…?
- No, io no. Di solito questa nostra capacità non si manifesta prima dei ventun anni. Ma un giorno ci riuscirò di sicuro.
Ace deglutì a vuoto, non trovando niente da replicare. Era una verità tosta da digerire, ma Kate gliel’aveva buttata lì come se niente fosse. Forse per lei non significava davvero niente… o forse era arrivata a quel punto perché spinta da qualcosa, anche se Ace non riusciva ad immaginare che cosa.
- Sai, durante i primissimi decenni le donne del clan vivevano una vita assolutamente normale… – continuò Kate - Non potevano immaginare che il loro potere sarebbe stato la causa della loro rovina… ma lo impararono presto, eccome. Dimmi, cosa sai del Regno Antico?
- Niente! Nessuno ne sa niente, lo sai. Il Governo Mondiale si è dato molto da fare per cancellare ogni testimonianza di quegli anni e di quel regno.
- Certo, lo so. E infatti neanche io ne so nulla… se escludo la parte della storia in cui i governatori di quel regno cominciarono a darci la caccia, sperando di poterci usare come arma per vincere Grande Guerra.
- Che cosa?!
- È la verità. – rispose con calma Kate – Le donne del clan diventarono dei veri e proprio bersagli vivi. All’epoca non eravamo numerose come oggi, in fondo eravamo appena agli inizi, e fu proprio per questo che sulla testa di ognuna di quelle donne iniziò a pendere una taglia sempre più alta, da capogiro. Eravamo merce rara, di valore… e intere popolazioni, spinte dall’avidità, votarono la loro esistenza al dare la caccia a noi. – la ragazza si strinse nelle spalle - Immagino che non dovrei esserne scandalizzata, visto che sin dagli albori è stata l’avidità lo spirito guida della civiltà.
- E poi? Loro cosa fecero? – chiese Ace, affascinato.
- La peggior stupidaggine che avrebbero mai potuto fare. Cercarono la protezione dello schieramento nemico, quello che oggi è conosciuto come Governo Mondiale. – spiegò Kate mentre intingeva di nuovo l’ago nell’inchiostro. Apparentemente sembrava ancora calma, ma la mano le tremava leggermente – Per quei bastardi fu uno scherzo blandirle, spaventate e disperate com’erano. Promisero loro che se li avessero aiutati a vincere quella guerra sarebbero state libere di vivere in pace, e che nessuno avrebbe più tentato di approfittarsi del dono che avevano. Loro ci cascarono, e si batterono in prima linea per consegnare la vittoria all’alleanza dei venti regni, e guadagnarsi così la libertà. Alcune di loro caddero addirittura sul campo di battaglia pur di raggiungere lo scopo… ma riuscirono nell’impresa. Il Regno Antico cadde, e l’alleanza dei venti regni impose il proprio dominio sul mondo intero.
Ace ora la guardava comprensivo – Ma il Governo Mondiale non mantenne la promessa, vero? Non liberò mai le donne O’Rourke.
- No, infatti. – annuì Kate con tono amaro – Anzi, fece tutto il contrario. Le ridusse in schiavitù, e le minacciò di morte se avessero mai rivelato del loro coinvolgimento nella guerra. Per anni l’intero clan rimase sotto il giogo del Governo Mondiale, e le donne vennero trattare alla stregua di carne da macello, costrette ad utilizzare il proprio potere per soffocare le ribellioni contro il nuovo Governo che si susseguirono numerose in quegli anni, o peggio ancora per divertire i Nobili Mondiali…
Ace la ascoltava rapito, così preso dalla storia da non avvertire nemmeno il dolore dell’ago.
- Finché un giorno le cose cambiarono. In nostro aiuto vennero quelle che da sempre sono le nostre maggiori alleate: le Amazzoni.
Ace alzò la testa – Vuoi dire le Kuja? Sul serio?
- Oh sì. – annuì di nuovo Kate, sorridendo al pensiero delle guerriere che abitavano ad Amazon Lily – Aiutarono le donne O’Rourke a sfuggire dalle grinfie del Governo Mondiale, e le condussero ad Amazon Lily per prendersi cura di loro e rimetterle in sesto. Non è stato mai chiarito il motivo per cui decisero di aiutarci, ma io sospetto che si trattò di solidarietà femminile pura e semplice. – Kate sogghignò – Da quella volta siamo sempre state alleate, e per ringraziarle per la loro generosità da sempre inviamo regolarmente i Re del Mare a proteggere la loro isola, per tenerle al sicuro dal Governo Mondiale.
- Forte… - mormorò Ace, per poi chiedere entusiasta – E poi cosa accadde?
- Oh, il resto è storia. Una volta che furono in grado di viaggiare le O’Rourke lasciarono Amazon Lily con mille promesse di lealtà e amicizia, e si misero in viaggio per trovare un posto dove vivere. Lo trovarono a Cherry Blossom, un’isola del Mare Occidentale che da allora è da sempre la nostra terra natale, e il nostro rifugio… - Kate sospirò, scuotendo la testa – Oh, ma perché ti sto annoiando con queste storie? Sto decisamente divagando, mi avevi chiesto una cosa completamente diversa…
- No, no! – la rassicurò Ace – Mi ha fatto piacere ascoltarti. Non avevo idea che tu fossi…
- Una pluriricercata? – lo precedette Kate con un ghigno – Tecnicamente non lo sono ancora…almeno fino a quando non scopriranno la mia identità. – lei si strinse nelle spalle – Prima o poi dovrà succedere… non sono mai stata il tipo di persona che passa “inosservata”.
- Ci credo. – si lasciò scappare Ace con leggerezza. Nel rendersi conto di quello che aveva detto il ragazzo serrò le labbra con aria colpevole, ma Kate sembrò non farci caso.
- Ehm, allora… - farfugliò Ace con voce imbarazzata – Continui a raccontarmi questa storia o no?
Kate gli lanciò un’occhiata di sbieco – Ma tu non avevi qualcosa da dirmi?
- Sì, ma voglio sapere come va a finire! Andiamo, non puoi lasciarmi in sospeso così!
- Suvvia grand’uomo, guarda che puoi anche dirlo che vuoi che continui a parlare solo per distrarti dal dolore dell’ago! – ghignò Kate, premendo un po’ più forte sulla pelle del ragazzo.
- Ahi! – si lamentò Ace, per poi lanciarle un’occhiataccia – Sei proprio un’aguzzina, lo sai?
- Sì, lo so. – rispose Kate con un sorriso malefico – Allora, vuoi o no che mammina ti racconti il resto della storia? Magari se fai il bravo dopo potrei regalarti anche un lecca-lecca…
Ace la fulminò con lo sguardo, ma rispose – Continua.
Kate gli fece un sorrisetto e ricominciò a parlare – Dopo che il clan si fu stabilito a Cherry Blossom, per diversi secoli vivemmo nascoste nell’ombra, muovendoci costantemente in incognito e lasciando l’isola in meno possibile; le donne O’Rourke impararono l’arte della prudenza e dell’inganno, e ogni volta che lasciavano l’isola si muovevano sempre in assoluto segreto. Il più delle volte potevano vivere anche l’intera vita senza che nessuno al di fuori delle parenti scoprisse la loro vera identità… ma alcune volte poteva accadere che le cose precipitassero, e allora il Governo metteva una taglia di almeno cento milioni sulla testa della fuggitiva, a prescindere dall’età che aveva, o dalle sue capacità, o dalle azioni commesse. – Kate sollevò l’ago dalla pelle del ragazzo e ne prese in mano un altro pulito, che intinse in una ciotola di inchiostro bianco - Per il Governo noi siamo solo una fonte di guai, che però usata nel modo giusto può diventare un’enorme fonte di guadagno. È così, è sempre stato così, e sempre così sarà.
Ace la guardò dispiaciuto – Mi dispiace…
Kate gli fece un sorriso tranquillizzante – Oh, non preoccuparti. Questo non è mai stato un problema per me, e comunque negli ultimi anni le cose sono cambiate molto… e il merito, anche se mi secca molto ammetterlo, è di mia madre.
Ace la guardò confuso – Non capisco.
Kate sospirò – Te l’ho detto che ho un problema con mia madre, no?
- Sì, ma non mi hai detto perché…
- È una donna orribile. – dichiarò Kate con tono secco. Sembrava disgustata solo a nominarla, perfino i suoi movimenti si erano fatti più bruschi – È schifosamente egoista e insensibile, e per tutta la vita ha agito facendo solo i suoi dannati comodi. Non me ne frega niente di quello che pensa Barbabianca in merito, e nemmeno delle cose buone che ha fatto per la nostra famiglia. È una stronza senza cuore, e nemmeno Dio in persona potrebbe convincermi del contrario.
Kate si interruppe e abbassò lo sguardo, rendendosi conto in quel momento che per la rabbia aveva affondato l’ago nella carne di Ace almeno per tre centimetri, e che il ragazzo, a dispetto della smorfia di dolore che aveva stampata in faccia, la stava fissando con una certa apprensione.
- Scusa. – mormorò la ragazza dopo un istante, tirando fuori l’ago dalla pelle con tutta la delicatezza possibile - Non so davvero cosa mi sia preso.
- Non preoccuparti. – rispose in fretta Ace, la voce leggermente contratta per il dolore. Kate notò che la stava guardando in modo molto strano, nei suoi occhi c’era un misto di sorpresa e comprensione – Stai bene?
- Ti ho praticamente pugnalato con un ago grosso quanto una bacchetta per il cibo, e tu chiedi a me se sto bene?! – chiese scioccata Kate.
- Be’, sembri davvero sconvolta.
Kate lo guardò negli occhi per qualche istante, poi sospirò dispiaciuta – Mi dispiace. Te l’ho detto, non è un argomento di cui amo parlare…
- Be’, ormai però sei in ballo. – decretò Ace – E inoltre non ti fa bene tenerti dentro tutto questo rancore. Avanti, parla con me e sfogati, vedrai che dopo starai meglio…
Qualcosa di oscuro si agitò nel petto di Katherine, e prima ancora di avere il tempo di pensare a quello che stava facendo la ragazza in preda alla rabbia si lasciò scappare queste parole – Oh, tu dici che starò meglio?! Bel consiglio, davvero… allora perché tu non hai detto a nessuno di essere il figlio di Gol D. Roger?! Perché in fondo è questo il tuo problema, no?! Non posso credere che tu abbia avuto davvero il coraggio di spingermi a confidarmi con te quando tu non fai altro che raccontare bugie da quando sei arrivato…
Probabilmente Kate avrebbe continuato a parlare a sproposito se Ace non fosse balzato in piedi, sottraendosi al tocco delle sue mani e facendole cadere l’ago dalle mani, che finì a terra con un tintinnio assordante. Ora il ragazzo la stava fissando con gli occhi spalancati e brucianti di rabbia, i pugni stretti in una morsa ferrea, e le stava ringhiando contro con dipinta in faccia una smorfia spaventosa, come un animale che si prepara ad attaccare.
Solo quando guardò l’amico in faccia Kate si rese conto di quello che aveva detto. La ragazza spalancò gli occhi per l’orrore e si portò le mani alla bocca, affondando le unghie nelle guance in una sorta di auto-punizione – Ace, scusami, non volevo…
- Come diavolo hai fatto a saperlo?! – le urlò contro il ragazzo – Chi te lo ha detto?!
Kate trattenne il fiato, per la prima volta spaventata dal ragazzo – Ace, io…
- RISPONDIMI!
- Tu! Me l’hai detto tu! – rispose Kate terrorizzata, indietreggiando istintivamente.
Ace fece un passo avanti con aria minacciosa – Cosa diavolo vorresti dire?! Io non ti ho detto un bel niente!
- S-sì, invece. Non volontariamente, ma l’hai fatto. – balbettò Kate, raddrizzandosi lentamente per evitare di scatenare una reazione – Quando sei stato male la prima volta… avevi la febbre alta, e deliravi. Io ti sono rimasta accanto tutta la notte, per intervenire in caso di bisogno… e ti ho sentito mentre ti lamentavi. Dicevi di odiare tuo padre, che era un egoista senza principi, che aveva abbandonato te e tua madre, che non credevi di meritare di vivere a causa sua…
- Basta. – ringhiò Ace. Kate tacque mortificata, e lui disse – Zitta. Sta’ zitta, non dire più una parola.
Kate allungò una mano verso di lui – Ace…
- Non toccarmi. – sibilò Ace, allontanandosi da lei. Kate lasciò cadere la mano – Ace, io…
- Non devi dirlo a nessuno. – la minacciò il ragazzo – Mi hai sentito? Non devi dirlo a nessuno, mai. D’ora in poi voglio che tu mi stia alla larga, e che non mi rivolga più la parola.
Kate trattenne il fiato, incredula – Ace, perdonami, io non volevo...
Non le dette il tempo di parlare. Senza degnarla di uno sguardo il ragazzo si voltò e si allontanò, diretto a prua, mostrandole la schiena con il tatuaggio lasciato a metà. Non si voltò e non vide Katherine che lo seguiva disperata con lo sguardo, non vide la ragazza coprirsi una bocca con la mano per trattenere i singhiozzi…
E non la vide nemmeno quando alcuni istanti dopo allontanò le mani dal volto con aria sconcertata, gli occhi fissi sui polpastrelli umidi delle prime lacrime che avesse mai pianto in vita sua.

Dio, che cosa ho fatto?!


- Ace? – chiamò esitante Kate, bussando con delicatezza alla porta della sua cabina – Ace, sei qui?
Niente. Nessuna risposta. Kate si sforzò di mandar giù il groppo che aveva in gola e bussò di nuovo, stavolta con più decisione.
- Ace? – chiamò ancora Kate – Ace, sono venuta per scusarmi. So di essere stata inopportuna e ficcanaso… ma ti giuro che non volevo essere crudele. Dai, apri la porta ed esci, così ne parliamo.
Ancora niente. Kate sospirò scoraggiata. Possibile che Ace non fosse in cabina? Eppure Thatch le aveva assicurato che l’aveva visto entrarci mezz’ora prima, e che da allora non ne era più uscito…
Ostinandosi a non voler demordere, Kate si cavò lo stetoscopio di tasca, infilò gli auricolari nelle orecchie, e posò la campana sul buco della serratura, nel tentativo di captare qualche segnale di movimento. Non sentì assolutamente nulla, nemmeno il suo respiro… probabilmente lo stava trattenendo, constatò amareggiata la ragazza, per tentare di ingannarla e farla andare via.

Stavolta l’ho combinata davvero grossa… Si maledì Kate. È grottesco, meno di un’ora fa stavo inveendo contro mia madre, chiamandola stronza senza cuore…e poi ho detto quelle cose orribili, e allora sono diventata io la stronza senza cuore.

Kate strinse gli occhi, improvvisamente avevano iniziato di nuovo a bruciarle. Fece per togliere la campagna dalla serratura…
E si immobilizzò. Era stato flebile, ma l’aveva sentito chiaramente: il cigolio delle molle di un letto.

Allora è davvero là dentro.

Kate non sapeva che fare. Le scuse gliele aveva già fatte, ma a quanto pare ad Ace non erano sufficienti. Cosa poteva fare allora per farsi perdonare?

Forse dovrei provare a fargli capire perché l’argomento genitori mi tocca così tanto. Rifletté Kate. In fondo non ho avuto il tempo di dirgli niente, prima… forse, se capisse le mie ragioni, potrebbe anche decidere di dimenticare la mia cattiveria e perdonarmi.

Kate sospirò, e con il magone che le serrava la gola si lasciò scivolare contro lo stipite della porta fino a quando non arrivò a sedersi per terra. Rievocare quei ricordi per lei era come gettare del sale su una ferita aperta… ma se quello era davvero l’unico modo perché Ace dimenticasse ciò che aveva fatto, allora era pronta a farlo.

Se tempo fa qualcuno mi avesse detto che sarei arrivata a tanto pur di far pace con qualcuno, gli avrei offerto un ingaggio come cantastorie sulla nave.

- D’accordo, ho capito, non mi vuoi parlare. – sospirò Kate – Non importa, vorrà dire che parlerò io. In fondo ti avevo promesso il resto della storia, e tutto si può dire di me tranne che io non mantengo una promessa quando la faccio.
Fece una pausa, mettendosi in ascolto nella speranza di udire un rumore qualsiasi provenire dalla stanza. Non ottenne molto, solo un altro cigolio di molle, ma decise di farselo bastare comunque.
- Sai, mia madre ha sempre avuto un carattere particolare, sin da ragazza. Non che abbia avuto l’occasione di verificarlo personalmente, ma è quello che Barbabianca e la mia vecchia sensei mi hanno raccontato quand’ero piccola. – Kate prese a giocherellare con un pezzo di spago che sfuggiva dalla cucitura della maglia – Era una ragazza insofferente, ribelle, una vera testa calda, e non in senso buono. Per generazioni intere il clan aveva vissuto all’insegna della cautela e della pace, nascondendosi dal mondo intero per evitare inutili battaglie e spargimenti di sangue, memore degli eventi della Grande Guerra… ma lei non riusciva a rassegnarsi a quello stile di vita. Era ambiziosa, egoista e assetata di potere e gloria, e non tollerava l’idea di vivere da reclusa per tutta la vita a Cherry Blossom. Così a diciotto anni mollò tutto e se ne andò, sollevando le preoccupazioni di tutte le altre donne della famiglia, che conoscevano molto bene il suo modo di pensare e agire, e che temevano quindi non solo per lei, ma per il futuro dell’intero clan, e giustamente.
Divenne una piratessa. Era da sempre molto carismatica, e grazie a questa qualità riuscì ad unirsi ad una ciurma molto potente... della quale tra l’altro faceva parte anche nostro padre, di cui divenne grandissima amica.
Kate tacque, e un lieve sorriso le incurvò le labbra. Ora era più che sicura di aver sentito un chiaro cigolio del letto, probabilmente segno che Ace si era messo seduto o si era alzato.
- Ben presto venne riconosciuta come una delle più forti fra i pirati in circolazione all’epoca. – continuò – Il babbo le aveva insegnato a combattere, e questo, unito alla sua abilità di soggiogare i Re del Mare, aveva fatto di lei una guerriera eccezionale, pari quasi a quella dello stesso Barbabianca.
Ovviamente però c’era anche il rovescio della medaglia… che nel suo caso fu la fama di essere riconosciuta non solo come una delle più potenti, ma anche come una delle più spietate. Era una devastatrice brutale, e un’assassina ferocissima, che si accaniva in particolar modo contro chiunque fosse in qualche modo alleato o legato al Governo Mondiale. La chiamavano “La Mietitrice di Dei” perché è stata la pirata che ha ucciso più Nobili Mondiali nella storia. Non che io sia addolorata per la morte di quei mostri, è chiaro… ma lei, nel suo delirio di vendetta, quando mirava ad un nemico attaccava a testa bassa, e spesso e volentieri faceva massacro anche di civili, donne e bambini, e magari solo perché vivevano sulla stessa isola del suo obbiettivo.
Kate si interruppe, maledicendosi un’altra volta. Stava di nuovo divagando, accidenti a lei.
- Arrivò a trent’anni che era conosciuta praticamente in tutto il mondo. Il Governo aveva provato molte volte a catturarla o ad ucciderla, ma lei riusciva sempre a sfuggire, lasciandosi sempre dietro una scia di Marines morti. Giulio Cesare diceva “Se non puoi sconfiggere il tuo nemico, fattelo amico”. Loro presero alla lettera quella massima, e decisero di offrirle un posto nella Flotta dei Sette, per tirarla dalla loro parte. Ovviamente lei rifiutò, e non lo fece cordialmente. Il Governo Mondiale allora giurò che l’avrebbe eliminata a qualunque costo, e le scatenò contro l’intera Flotta dei Sette, e quasi tutti gli Ammiragli della Marina… e a quel punto lei non ebbe altra scelta che ritirarsi con la coda fra le gambe a Cherry Blossom, più umiliata e incattivita che mai.
Kate fece un’altra pausa, per prendere un po’ d’aria e farsi coraggio. Da quel momento in poi la storia cominciava a diventare davvero dolorosa, perché era allora che entrava in scena lei.
- Il viaggio fino a Cherry Blossom durò più di un anno. – ricominciò – E durante la traversata lei scoprì di aspettare me. Norma Jean un paio d’anni prima aveva preso con sé un amante, il suo nome era Memphis … chiaramente non lo amava, aveva iniziato una relazione con lui solo per divertimento, e fu per questo che quando scoprì di essere incinta di me si infuriò così tanto. Lei non voleva figli, e tantomeno voleva legarsi all’uomo che l’aveva messa in quella situazione. Mio padre era… voglio dire, mio padre è un uomo profondamente gentile e generoso, e amava sinceramente mia madre. Fu felicissimo quando lei gli comunicò la notizia, ma lei lo freddò annunciandogli che aveva intenzione di sbarazzarsi di me, e pretese il suo aiuto per riuscirci. Lui ovviamente si rifiutò, così lei lo scaricò  sulla prima isola che trovò, senza dirgli nemmeno una parola d’addio. Come se fosse stato spazzatura.
Kate si interruppe, con la gola che le bruciava. Conosceva quella storia da anni, era stata Kureha a raccontargliela, ma rievocarla era sempre e comunque una sofferenza per lei. Non aveva mai avuto stima per sua madre, ma la consapevolezza di essere stata indesiderata al punto da rischiare di non poter nascere continuava a sconvolgerla, anche a distanza di anni. Insomma, quale donna snaturata può provare così tanta indifferenza per il proprio figlio?
- Una volta che si fu liberata di Memphis… – riprese Kate a voce bassa – …Norma Jean cercò qualcun altro che potesse aiutarla ad abortire, ma il clan, che aveva saputo di quello che stava accadendo dai Re del Mare di cui Norma Jean si serviva, inviò alcune donne per fermarla, che l’avvertirono che se non avesse portato a termine la gravidanza sarebbe stata bandita da Cherry Blossom. A quel punto Norma Jean non ebbe altra scelta che obbedire: interruppe i suoi tentativi di aborto, e senza dare spiegazioni ordinò al suo equipaggio di fare rotta verso l’isola di Drum. Io nacqui sette mesi dopo, proprio quando la nave arrivò sull’isola. Mia madre non volle nemmeno vedermi, mi affidò immediatamente alle cure di una sua vecchia amica, la dottoressa Kureha, affinché mi crescesse al posto suo. Tutto ciò che le disse fu che il mio nome sarebbe stato O’Rourke D. Katherine, e che avrebbe dovuto fare tutto ciò che era in suo potere per evitare che qualcun altro scoprisse la mia identità... e così andò, per nove anni.
Kureha… non è mai stata una donna dal carattere facile, ma mi allevò con tutta la cura e l’affetto di cui era capace, e quando fui abbastanza grande da riuscire a leggere senza difficoltà iniziò ad istruirmi per fare di me un medico. Fu una vita relativamente felice quella che vissi lì, ma sin da quando ebbi tre anni fu chiaro quanto fossi precoce, e ben presto affrontai Kureha per chiederle spiegazioni sulla mia vera madre, e sul perché io non vivessi insieme a lei.
Kureha capì subito che già a tre anni ero troppo intelligente per meritare le bugie senza senso che di solito si rifilano ai bambini. A dispetto dell’amicizia che in gioventù l’aveva legata a mia madre, credo che Kureha non avesse mai approvato le scelte che Norma Jean aveva fatto, e perciò non se la sentì di ingannarmi nel vano tentativo di farmi illudere del fatto che a dispetto delle apparenze mia madre fosse una persona degna di stima. Così decise di raccontarmi la verità, e quando terminò il suo racconto mi assicurò che lei per me ci sarebbe stata sempre, e che era quella l’unica cosa che contava. Ma almeno su questo si sbagliava, perché una settimana dopo il mio nono compleanno, dopo anni di silenzio O’Rourke D. Norma Jean si fece rivedere.
Ho un ricordo piuttosto nebuloso di quel giorno. Era una giornata come tante altre, io stavo dando una mano a Kureha a riordinare le erbe mediche che avevamo raccolto insieme il giorno prima, quando sentimmo la porta di casa spalancarsi bruscamente. Andammo subito a vedere chi era, e la prima cosa che feci quando la vidi fu chiedermi chi fosse quella donna che mi assomigliava così tanto, e che in quel momento mi stava fissando con uno sguardo così freddo da farmi arrabbiare d’impulso. Poi collegai nella mia mente l’immagine di quell’intrusa a quella della donna che animava i racconti di Kureha, e a quel punto mi fu tutto dolorosamente chiaro.
Non andai ad abbracciarla. Mi sentivo istintivamente diffidente nei suoi confronti, e non era solo perché il ritratto che mi era stato fatto di lei era stato tutto tranne che lusinghiero. Quella donna mi ricordava in maniera impressionante un rettile, un intruso nella mia vita che doveva solamente sparire, e il più in fretta possibile.
Kureha sembrò altrettanto infastidita da quella visita. Provò a chiedere spiegazioni, ma mia madre la precedette, annunciando senza mezzi termini che mi avrebbe portato via con sé quella sera stessa, poiché le era necessario con una certa urgenza l’aiuto di un medico. Inutile dire che Kureha si oppose, ma Norma Jean liquidò le sue proteste con la solita indifferenza, rammentandole che nonostante tutto era ancora lei la mia vera madre, e che Kureha non poteva vantare alcun diritto su di me. Ovviamente mi opposi anch’io, ma quanto poteva contare il parere di una bambina di nove anni? Quella sera stessa venni strappata via da quella che consideravo la mia casa e imbarcata sulla nave di mia madre, senza aver avuto nemmeno la possibilità di impedirlo.
Anche in quell’occasione Norma Jean non mi degnò di una sola occhiata. Non mi importava, avevo già iniziato ad odiarla ferocemente, e il non vederla era quasi fonte di sollievo, per me. Venni invece affidata al vice capitano di quella nave, una giovane donna di nome O’Rourke D. Hatsumiyo. Era gentile, mi ricordo, e credo che si impietosì quando seppe del modo in cui mia madre mi aveva trattata. Mi chiese se c’era qualcosa che potesse fare per darmi un po’ di conforto, e allora io le chiesi di raccontarmi quello che era accaduto subito dopo la mia nascita. Lei mi accontentò, e così in quell’occasione venni a conoscenza del resto della storia.
Dopo il suo arrivo a Cherry Blossom, Norma Jean era stata aspramente rimproverata per la condotta violenta e sconsiderata che aveva tenuto negli ultimi anni, e soprattutto per la sua scelta di affidarmi alle cure di un’estranea. Norma Jean si sorbì quella ramanzina con aria apparentemente impassibile, ma nella sua mente stava già prendendo forma la sua rivincita, che sarebbe stata destinata a cambiare per sempre le sorti del clan. La Mietitrice di Dei aveva perso per sempre la possibilità di vivere la vita all’insegna dell’avventura che tanto aveva desiderato, e quindi per compensare questa perdita aveva deciso che, se proprio doveva vivere da reclusa, allora avrebbe avuto in cambio il potere. Norma Jean così giurò a sé stessa che non avrebbe avuto pace fino a quando non sarebbe diventata capo del clan, non importava cosa avrebbe dovuto fare per riuscirci.
Di solito il leader della famiglia veniva scelto dalle più anziane, ma c’era anche un altro sistema per arrivare al potere: sfidare la capo clan in carica in un duello all’ultimo sangue, ed uscirne vincitrice. Tuttavia era una strada che raramente una contendente sceglieva, poiché le donne O’Rourke era sempre state legate fra loro da un profondo sentimento di lealtà, simile a quello che su questa nave proviamo l’uno per l’altro, e mai nessuna di loro si sarebbe mai sognata di rivolgere le armi contro un’altra, nemmeno per arrivare ad assumere la guida del clan. Norma Jean però aveva sempre provato un forte astio nei confronti delle più anziane del clan, poiché vedeva in loro le responsabili di molti dei guai che aveva avuto nella vita, loro che con la loro prudenza aveva cercato di reprimere la sua natura vulcanica e impulsiva, e perciò non ebbe alcuno scrupolo a fare ciò che era necessario per raggiungere il proprio obbiettivo. In quel periodo in carica c’era una vecchia prozia di Norma Jean, che ormai aveva superato gli ottant’anni d’età, e che non aveva mai maneggiato nemmeno un coltello in vita sua se non per tagliare la carne a tavola. Per Norma Jean fu meno di uno scherzo ucciderla, e arrivare così ai vertici del clan. Il consiglio delle anziane per ovvie ragioni inizialmente non approvò, ma alla fine si decise di lasciarla comunque al posto che aveva appena ottenuto, se non altro perché effettivamente Norma Jean era una guerriera eccezionale, che avrebbe potuto proteggere l’isola da attacchi esterni, se mai un giorno si fosse reso necessario.
Ma Norma Jean non si accontentò di quello che aveva appena ottenuto. Non voleva essere a capo di una famiglia di donne deboli, voleva essere a capo di un esercito. Il clan O’Rourke da sempre si nascondeva per evitare la cattura o la morte, ma Norma Jean sognava un clan diverso. Tutte conoscevano la storia delle nostre origini, compresa Norma Jean, e tutte sapevano che, a dispetto dello stile di vita che avevano condotto negli ultimi secoli, nascondersi e accettare passivamente l’isolamento andava contro la nostra natura: le donne O’Rourke erano nate per essere libere, per combattere contro le avversità, e per portare con orgoglio il proprio nome. Norma Jean di questo era consapevole più di chiunque altro, e per questo scelse di dedicare la propria vita alla completa trasformazione del clan.
Iniziò così ad addestrare personalmente le sue parenti per creare una milizia potentissima, che potesse proteggere sia l’isola che lei stessa. Norma Jean infatti non agiva solo per riportare il clan alla gloria di cui aveva goduto la capostipite, ma agiva soprattutto pensando a sé stessa: anche se si era ritirata a Cherry Blossom mia madre era infatti ancora un obbiettivo della Flotta dei Sette, e se mai un giorno gli Shichibukai avessero deciso di attaccare l’isola pur di catturarla, allora Norma Jean avrebbe avuto un intero esercito a proteggerla. Ora capisci cosa intendevo quando dicevo che anche se ha fatto qualcosa di buono mia madre non merita alcun rispetto? Di solito si dice che il fine giustifica i mezzi, ma lei ha fatto l’esatto contrario: ha insegnato al clan come proteggersi e l’ha aiutato ad uscire dall’isolamento, ma non l’ha fatto per altruismo. L’ha fatto pensando a ciò che le conveniva di più, come ogni altra cosa che ha fatto in vita sua.
Gli ultimi nove anni per lei erano trascorsi così, tra allenamenti e giochi di potere. In tutto quel tempo lei non aveva mai pensato a me, neanche per un istante, o almeno non fino a quando non ha visto in me un’occasione di utilità.
A quel punto della storia ero piuttosto perplessa: perché all’improvviso a Cherry Blossom serviva il mio supporto medico? Lo chiesi ad Hatsumiyo, e lei mi spiegò che la questione aveva a che fare con le Amazzoni, e con una richiesta di aiuto che il clan aveva ricevuto da loro, e in particolare da Boa Hancock.
Devi sapere infatti che all'età di dodici anni quella che oggi è l’imperatrice di Amazon Lily era stata rapita dalla nave delle Piratesse Kuja, e poi venduta come schiava insieme con le due sorelle Sandersonia e Marigold ai Nobili Mondiali; per causa loro aveva sofferto orribili torture per quattro anni, fino al giorno in cui Fisher Tiger si era intrufolato a Marijoa e aveva liberato tutti gli schiavi, permettendo così alle tre sorelle di fuggire da quel luogo orribile.
Sembrava la fine dei loro guai, ma purtroppo i Nobili Mondiali non erano disposti a rinunciare a loro tanto facilmente, e così decisero di affidare il compito di riportarle indietro ad uno dei membri più potenti della Flotta dei Sette: Don Quijote Do Flamingo. Fu chiaro sin da subito che le Kuja non avevano speranze di farcela: Do Flamingo riuscì a raggiungerle prima alle Sabaody, e in quell’occasione le Kuja riuscirono a sfuggirgli solo per merito del Re Oscuro, di Gloriosa e di Shakky, e poi in seguito anche un su un isolotto su cui si erano rifugiate insieme a Gloriosa, troppo stremate dalla fatica e dalle privazioni per poter continuare a scappare. Sembrava essere la fine per loro…fino a quando all’orizzonte non comparve una nave. Erano le piratesse O’Rourke, che avevano risposto alla richiesta d’aiuto delle Kuja, e si erano precipitate lì per aiutarle. Norma Jean non aveva esitato un istante e si era lanciata subito contro Do Flamingo, mentre le altre piratesse approfittavano della distrazione dello Shichibukai per recuperare Hancock e le altre. Il duello tra Norma Jean e Do Flamingo fu terribile, così tanto che l’isola su cui si svolse venne completamente rasa al suolo; alla fine però le piratesse O’Rourke riuscirono a fuggire portando con loro le Amazzoni, anche se non prima che Norma Jean riuscisse a danneggiare gravemente la nave dei Pirati di Don Quijote, impedendo così a Do Flamingo di inseguirle. Ora le Amazzoni erano al sicuro ad Amazon Lily, ma le loro condizioni erano troppo gravi, ed era per questo che Norma Jean era venuta a cercarmi, nella speranza che con l’addestramento che avevo ricevuto a Drum io potessi salvare loro la vita.
Non voglio dilungarmi in dettagli sulla mia esperienza ad Amazon Lily. Fu un anno lungo, faticoso e umiliante, che richiese tutto il mio impegno e le mie conoscenze per poter salvare la vita delle Amazzoni, e tutta la mia pazienza per sopportare la presenza di mia madre nella mia vita. Norma Jean mi trattava alla stregua di una serva, dandomi ordini in continuazione e trattandomi con scherno e disprezzo; io facevo del mio meglio per ignorarla e non darle soddisfazione, ma nel mio cuore sentivo montare sempre di più la rabbia e il rancore. Le uniche consolazioni di cui potevo godere in quel periodo era l’amicizia con le Kuja, che mi mostravano costantemente affetto e gratitudine per il mio impegno nell’aiutarle, e la compagnia di Hatsumiyo, che per distogliermi dai miei problemi mi raccontava le antiche storie del clan e del loro nuovo stile di vita, che permetteva loro di essere finalmente libere di viaggiare per il mondo senza timore, e di rompere l’isolamento a cui per tanti anni erano state condannate. Mi faceva piacere sentire di quanto la loro nuova vita rendesse felici le donne O’Rourke, ma al contempo non riuscivo a liberarmi della convinzione che Norma Jean era un’egoista senza cuore, e che non c’era motivo di esserle grate per quanto aveva fatto, visto che l’aveva fatto solo per gratificare la propria vanità.
Alla fine le Amazzoni si rimisero completamente, e per quanto potesse dispiacermi lasciare l’isola dove avevo trovato tante amiche, io non avrei potuto essere più felice di così: Drum mi mancava terribilmente, e ancora di più mi mancava la dottoressa Kureha, e fremevo al pensiero che finalmente sarei potuta tornare a quella che consideravo la mia vera casa.
Ma Norma Jean non ci mise molto a distruggere le mie speranze: il giorno prima della partenza infatti mi comunicò senza mezzi termini che non avrei mai più rimesso piede a Drum, ma che sarei andata a vivere altrove, e che sarei stata affidata ad un’altra persona. Quando finì di parlare ero così fuori di me che senza pensarci mi lanciai verso di lei, senza sapere nemmeno cosa volevo fare. Lei non si scompose nemmeno, si limitò a spostarsi di lato e a fare un gesto noncurante con la mano, come se fossi stata un insetto da scacciare. Mi centrò in pieno, sulla tempia, e mi fece schiantare contro un gigantesco masso. L’ultima cosa che ricordo fu che rotolai sull’erba per un paio di metri, e che prima di chiudere gli occhi mi chiesi per quale motivo avessi improvvisamente iniziato a vedere rosso. Poi, il buio.
Mi svegliai un paio di giorni dopo. Ero confusa, dolorante e avevo una nausea terribile, complice anche la nave che dondolava sotto di me. Hatsumiyo era accanto a me, pallida e segnata in volto. Lei chiesi allarmata dove fossimo, e lei mi spiegò che eravamo in viaggio verso Foodvalten, dove ci aspettava l’uomo che da quel giorno sarebbe diventato il mio nuovo tutore. Con le lacrime agli occhi chiesi ad Hatsumiyo perché mia madre non voleva permettermi di tornare a Drum, e Hatsu in tutta risposta si cavò di tasca una lettera scritta con la grafia della dottoressa Kureha, che iniziò a leggere ad alta voce per me. Nella lettera, scritta come al solito senza troppi fronzoli, la dottoressa spiegava di come il sovrano dell’isola, Wapol, vedendomi lasciare l’isola con la celebre Mietitrice di Dei, e notando quindi anche la somiglianza che ci accomunava, non ci avesse messo molto a fare due più due e a capire come stavano realmente le cose. La mia identità quindi era ormai compromessa, e se mai fossi tornata a Drum Wapol non avrebbe esitato a consegnarmi al Governo Mondiale, cosa che avrebbe decretato automaticamente la mia condanna a morte. A quel punto non ebbi altra scelta che arrendermi, e con il cuore a pezzi aspettai la fine della traversata, pronta a conoscere il mio nuovo tutore. – Kate si interruppe per un istante e fece un sorriso che era dolce e amaro al tempo stesso – Immagino che tu possa immaginare chi era quell’uomo, e cosa sia accaduto in seguito. Penso ancora spesso a Drum e a Kureha-sensei, ma in fondo credo proprio di essere stata fortunata. Ho trovato una famiglia affettuosa che mi ha accolta e mi ha amata senza riserve, e alla fine è solo questo quello che conta, proprio come diceva Kureha. -
Kate smise finalmente di parlare, lasciandosi sfuggire un sospiro esausto. Ancora non riusciva a credere di aver vuotato il sacco in quel modo; nemmeno Thatch e Marco avevano mai saputo tutto del suo passato, e le sembrava ancora pazzesca la propria scelta di raccontare tutto proprio ad Ace, che tra tutte le persone che vivevano sulla nave era quello che conosceva di meno. Di colpo si sentiva svuotata e priva di forze, ma al tempo stesso si sentiva libera e leggera, come se il suo non fosse stato semplicemente un racconto, ma una catarsi lunga e dolorosa, che però l’aveva liberata di un peso non indifferente.
Kate si riscosse da quelle considerazioni filosofiche, presa alla sprovvista dai suoni che provenivano dalla camera di Ace. La ragazza non ci aveva fatto caso finché era stata impegnata a parlare e a raccontare, ma ora lo sentiva chiaramente: da dietro la porta chiusa si sentivano dei respiri corti e affannati, come se qualcuno stesse tentando di riprendere fiato, oppure…

Come se qualcuno si stesse sforzando di non piangere.

Kate si allontanò di scatto, orripilata. Che cosa aveva combinato?! Ascoltare quella storia aveva davvero sconvolto Ace fino a quel punto?! Kate si sentì la persona più meschina del mondo. Aveva sperato di riuscire a fargli capire che comprendeva cosa significava odiare il proprio genitore a dispetto dell’opinione che aveva il resto del mondo su di lui, e invece non aveva fatto altro che gettare sale sulle ferite del ragazzo.
Doveva andarsene. Doveva andarsene da lì prima di avere la possibilità di peggiorare ulteriormente le cose… ma non poteva andare via senza prima avergli detto un’ultima cosa.
- Mi dispiace se ascoltare questa storia ti ha turbato. – mormorò Kate, a voce così bassa che probabilmente Ace non l’avrebbe neanche sentita – Ti ho detto tutto questo solo perché volevo farti capire che… ti capisco, e che con me non devi fingere che vada tutto bene solo perché pensi che io non possa capire. Non so quale sia la tua, di storia, ma voglio solo che tu sappia che… se vuoi parlarne con qualcuno, su di me puoi contare. Dico davvero. – Kate si interruppe, e un sorriso triste le comparve sul volto – Forse, se io a mio tempo avessi avuto qualcuno che potesse capire come mi sentivo, e con cui avrei potuto parlare… be’, forse non sarei diventata così pestifera e velenosa.
E questo era quanto. Kate lasciò cadere le spalle, non c’era più niente che potesse fare. La ragazza iniziò ad allontanarsi lungo il corridoio, così stanca e provata da reggersi a malapena in piedi. Accidenti a lei, faceva più danni della tempesta. Era andata lì per scusarsi, e invece tutto quello che era riuscita a fare era rigirare il coltello nella piaga. Forse avrebbero dovuto metterla in quarantena.
- Vale anche per te, sai? – esclamò all’improvviso Kate dal fondo del corridoio senza pensarci, voltandosi di nuovo in direzione della porta. Non sapeva da dove le stessero venendo quelle parole, aveva solo l’urgente sensazione che fossero dannatamente importanti – Il fatto che ad essere importante è trovare qualcuno che ti accolga e che ti ami, intendo. Non puoi permettere al tuo passato o a quello di tuo padre di pregiudicare l’opinione che hai di te stesso, altrimenti non andrai mai da nessuna parte. Puoi farti anche tutti i complessi del mondo, ma è sempre la realtà quella che conta, e la verità è che non siamo soli. Abbiamo una famiglia, persone che ci sostengono e ci apprezzano per quelli che siamo, e che se solo sapessero cosa ci passa per la testa ci prenderebbero sicuramente a calci nel sedere, offesi dal fatto che osiamo dubitare di loro. E che ci capiscono anche, perché puoi metterla come vuoi, ma la verità è che tutti i pirati hanno un passato difficile alle spalle e dei fantasmi con cui fare i conti, altrimenti avrebbero fatto ben altro nella vita che diventare pirati. – affermò convinta Kate – Quindi d’ora in poi fammi il piacere di evitare di piagnucolare come un bambino per queste quisquilie, perché per come la vedo io l’unico problema che hai tu è il tuo continuare a negare che ormai sei parte integrante di questa famiglia. Reagisci, per l’amor del cielo! Sul serio, sarai un Re dei Pirati davvero patetico se non ti libererai di queste fisse strane.
Adesso aveva davvero detto tutto. Kate annuì tra sé e si voltò di nuovo per allontanarsi lungo il corridoio, ma sentì una mano calda prenderle il polso e obbligarla a voltarsi, cogliendola di sorpresa.
- Lo credi davvero? – le chiese Ace a bruciapelo. Non sembrava più arrabbiato, e nemmeno addolorato, sembrava solo scosso, e forse anche vagamente confortato – Credi davvero a tutto quello che hai detto?
Kate sgranò gli occhi, incapace di nascondere il sollievo e la felicità, e si impose di sorridergli con leggerezza – Stufetta a pedali, quand’è che imparerai che io sono sempre straconvinta di quello che dico?
- E quindi tu pensi che io… sbagli a pensare che qualcuno qui mi giudicherà quando sapranno chi è mio padre?
- Ma certo che sbagli! Stupido baka! Cosa vuoi che importi ai membri di questa famiglia di un uomo morto e sepolto?! – Kate si portò le mani ai fianchi e alzò un sopracciglio – Ma si può sapere perché la cosa ti preoccupa tanto?!
- Be’, ecco… - mormorò Ace, improvvisamente di nuovo evasivo – Sai, Barbabianca mi ha proposto di diventare il Comandante della Seconda Divisione, e così…
- CHE COSA?! – strillò incredula Kate, afferrandolo istintivamente per la collana – Stai dicendo sul serio?!
- Sì, ma…
- Ma cosa?! – strillò ancora Kate, che cominciava ad intuire cosa stesse passando per la testa del ragazzo, e di conseguenza stava già perdendo la pazienza – Non mi dirai che è questo il tuo problema! Non starai pensando di rifiutare solo perché non ti senti all’altezza per via del tuo passato, spero!
Il silenzio di Ace fu una risposta più che eloquente.
- Stupido scaldino! – esplose allora Katherine, dandogli un pugno in testa – Che non ti salti in mente di fare davvero una cosa così stupida! Guai a te se ci provi!
Ace spalancò gli occhi, sorpreso dall’irruenza della ragazza – Ma…
- Niente ma! Tu devi dire di sì! Hai capito?! Devi farlo!
- Ma Kate! Barbabianca non sa nulla di mio padre! Se sapesse, di sicuro non vorrebbe più che io…
- Ma smettila, testa di rapa che non sei altro! – lo interruppe Katherine, dandogli un altro pugno in testa – Ma cosa vuoi che importi a mio padre di Gol D. Roger? Ormai è Barbabianca tuo padre, e il resto non conta più un accidente, ficcatelo bene in quella testa!
Ace spalancò ancora di più gli occhi, profondamente colpito da quelle parole. Kate sembrava davvero molto convinta di quello che aveva detto… ed ora che conosceva la sua storia Ace poteva immaginare quanto potesse essere stato difficile a suo tempo per lei integrarsi in quell’equipaggio, lei che era sempre così orgogliosa e non accettava mai l’aiuto di nessuno. Eppure ce l’aveva fatta, si era integrata, e adesso non solo era un membro effettivo di quella famiglia, ma ne era diventata addirittura una delle colonne portanti.
A quel pensiero, per la prima volta in diciassette anni, Ace sentì nascere la speranza nascergli nel petto. Possibile che avesse davvero trovato, se non la risposta, quantomeno un’occasione per trovare una risposta alla domanda che tanto l’aveva assillato per tutta la vita?
Ace abbassò lo sguardo verso la ragazzina impetuosa e caparbia che gli stava di fronte, e sentì un’ondata di calore misto a gratitudine… mista a qualcos’altro invaderlo, e un sorriso spontaneo gli incurvò le labbra.
- Ti avverto, giuro che se non accetti quella proposta ti metterò a lavare le latrine per i prossimi dieci anni. – lo minacciò Katherine puntandogli un dito in faccia – Tanto se rifiuti l’offerta di papà sarai ancora un mio sottoposto, e allora rimpiangerai di aver lasciato andare questa occasione!
- Va bene, va bene! Andrò a parlare con Barbabianca… cioè, con papà, e gli racconterò tutto, e se dopo che avrà saputo la verità la sua offerta sarà ancora valida, allora l’accetterò.
Kate lanciò un gridolino felice e gli gettò con foga le braccia al collo – Evviva, è fantastico!
Ace rise dell’entusiasmo della ragazza e barcollò sotto il suo assalto, e le circondò istintivamente il busto con le braccia, stringendola forte a sé. La ragazza era piccola e fragile nel suo abbraccio, e molto più calda di quanto avrebbe immaginato. Qualcosa di strano di agitò nel petto di Ace, e improvvisamente il ragazzo desiderò ardentemente allontanarla da sé quanto sarebbe bastato per guardarla negli occhi e sfiorarle il volto. Magari anche baciarla…
Ace trasalì, sconvolto dai suoi stessi pensieri. Da dove gli venivano certe idee? Prima di avere il tempo di darsi una risposta Kate sciolse l’abbraccio e si allontanò, rivolgendogli un sorriso dolce e vagamente colpevole – Tutto questo significa che sono perdonata?
- Oh, non saprei… - finse di tentennare Ace – Se te la lascio passare così te la caveresti un po’ troppo a buon mercato…
Kate ridacchiò a quelle parole, ma i suoi occhi erano seri – Mi dispiace davvero per prima. Ho sempre avuto la brutta abitudine di parlare a sproposito, ma questa non è una scusa…
- Lascia stare, Kate. Ti perdono. – la interruppe Ace con un sorriso – Avevi ragione tu. Non avevo il diritto di farti pressione quando io per primo trovo difficile parlare dei miei problemi.
- Non pensiamoci più, ok? – propose Kate sorridendogli a propria volta, anche se con aria più tirata – Ora muoviti e vai da papà, o ti costringerò davvero a pulire le latrine per i prossimi dieci anni!
Detto questo gli voltò le spalle e si allontanò di gran fretta, neanche avesse avuto i Quattro Cavalieri dell’Apocalisse alle calcagna, lasciando un Ace molto perplesso solo nel corridoio. Ma se il ragazzo avesse potuto vederla in faccia in quel momento non avrebbe avuto alcuna ragione di essere perplesso, perché avrebbe notato il colorito paonazzo di Katherine, e non ci avrebbe messo molto a capire cosa avesse tanto imbarazzato tanto l’amica.
Spesso la gente non immagina nemmeno quanto i propri desideri possano essere simili a quelli delle persone che stanno loro vicino.

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Ma guardatelo. Pensò Katherine con una fitta acuta di irritazione. E io che temevo che gli fosse accaduto qualcosa.

La ragazza, appoggiandosi con la spalla allo stipite della porta, ripensò agli avvenimenti di un paio d’ore prima. Erano attraccati da un paio di giorni a Water Seven per fare rifornimento di provviste, e quella mattina Marco era sbarcato a terra con Thatch, Izou ed Ace per andare a farsi un giro. Tutto normale fino a quel momento, ma quando Marco era piombato sulla nave in preda all’agitazione annunciando che Ace era scomparso da un’istante all’altro mentre facevano un giro tra i negozi, allora sì che il panico si era diffuso per la nave! Non che qualcuno temesse che Ace non fosse in grado di badare a sé stesso, sia chiaro… no, non era un attacco da parte di Marine o di chicchessia che i pirati di Barbabianca temevano, bensì che il ragazzo finisse per annegare in uno dei millemila canali dell’isola per colpa dell’ennesimo attacco narcolettico!
Così si erano mobilitati per cercarlo. Oltre ovviamente a Marco, Izou e Thatch, Barbabianca aveva incaricato di perlustrare l’isola anche Teach, Fossa e Haruta. Katherine, manco a dirlo, ovviamente non era stata neanche presa in considerazione...e così, per protesta, approfittando di un momento di distrazione del padre, la dottoressa aveva deciso di filarsela alla chetichella, decisa a partecipare anche lei alla ricerca.
Tecnicamente non ho disubbidito, visto che nessuno mi ha vietato di scendere. E non vedo proprio cosa ci sia di male se scendo a terra da sola…ho sedici anni ormai, non mi serve la baby-sitter. Aveva considerato Katherine nella propria testa; e così, armata di una cartina topografica della città e del proprio istinto – più un paio di bisturi nascosti per sicurezza nella manica della camicia - si era messa alla ricerca del ragazzo, emozionata all’idea di poter fare qualcosa di diverso, per una volta.
Non aveva alcun motivo di preoccuparsi della propria sicurezza, aveva riflettuto: non aveva una taglia, si era tolta l’anello con il Jolly Roger di Barbabianca, non aveva strani tatuaggi che potessero tradire la sua vera identità, e non era conosciuta praticamente da nessuno, visto che quando i suoi fratelli andavano all’arrembaggio lei se ne stava sempre rintanata in infermeria a lavorare. Agli occhi del mondo quel giorno lei era una normalissima adolescente come le altre che faceva una passeggiata in giro per Water Seven, e quindi non c’era motivo di temere un attacco, da parte di nessuno.
Per prima cosa la ragazza aveva puntato dritto all’ospedale della città, per verificare se Ace fosse stato ricoverato lì in seguito ad un rischio di annegamento. Fortunatamente lì non l’aveva trovato, e così aveva iniziato a controllare ogni locanda di Water Seven che incontrava lungo la strada, tenendo nel frattempo d’occhio anche i canali e stando bene attenta ad evitare la zona in cui Marco aveva detto che Ace era scomparso, consapevole del fatto che in quel punto della città si sarebbero di certo concentrate le ricerche degli altri.
Seguendo quella strategia aveva girato a vuoto per più di ore, e dopo un po’ aveva cominciato seriamente a preoccuparsi… fino a quando non si era affacciata nella locanda in cui si trovava adesso, e aveva percepito tutta l’ansia che aveva provato trasformarsi prima in sollievo, poi in sconcerto, e infine in una profonda irritazione.
All’inizio non l’aveva visto neanche, tanto che era stata sul punto di girarsi e uscire dal locale, demoralizzata dall’ennesimo buco nell’acqua. Poi, proprio nel momento in cui si stava voltando in direzione dell’uscita, aveva notato con la coda dell’occhio un cappello arancione con due faccine, una triste e l'altra sorridente, e un’ondata di sollievo l’aveva invasa; poi però si era accorta anche del resto, e a quel punto non era riuscita ad impedirsi di sgranare gli occhi per lo stupore.
Ace era seduto ad un tavolo sul fondo del locale, ma Kate riusciva comunque a sentire molto chiaramente le sue risate.  Aveva diversi bicchieri e una bottiglia di rum sistemati davanti, e intorno a lui c’erano tre donne alte, formose e con fior di calze a rete che lo coccolavano e cercavano le sue attenzioni, ammiccandogli continuamente e strusciandosi contro di lui, neanche fosse stato un’asta da pole dance. Lui ovviamente non stava facendo nulla per fermarle, ma Kate non riusciva a capire se fosse perché il deficiente non avesse capito niente delle loro intenzioni, o perché era semplicemente un cascamorto inconsapevole, ma francamente era troppo incazzata per darsi la pena di stabilire quale ipotesi fosse quella giusta.
Che razza di idiota… e pensare che lei si era pure preoccupata per lui! Kate le aveva immaginate tutte mentre girovagava come un’anima in pena per Water Sever: Marines, Ammiragli, pirati rivali, contrabbandieri, terremoti, sgambetti, attacchi narcolettici, sbornia, soffocamento con il cibo, avvelenamenti, epidemie di antrace… e invece lui era stato lì per tutto il tempo, per tutto il fottuto tempo a bere e a fare da tiragraffi a quelle tre gatte morte! Kate digrignò i denti e attraversò il locale a grandi falcate, considerando nel frattempo l’idea di svuotare quella dannata bottiglia di rum in testa a tutti e quattro e di dare loro fuoco come avevano fatto le femministe negli anni sessanta con i propri reggiseni, e magari di approfittare del falò di pirata e smorfiose per arrostire qualche marshmallow.
- A-hem! – si schiarì la voce Kate quando fu abbastanza vicina – Finalmente ti ho trovato! Cominciavo a credere che fossi finito nell’iperspazio, a far compagnia ai personaggi di Star Wars.
Le tre donne al suo della sua voce si voltarono di scatto a guardarla, e dopo averla squadrata da capo a piedi la fissarono con un misto di derisione e disprezzo. Ace invece reagì con un secondo di ritardo, e quando si accorse che lei era lì che lo fissava furibonda le rivolse uno dei suoi sorrisi mozzafiato, senza ovviamente accorgersi dell’aura nefasta che Kate stava emanando. Voltandosi verso di lei qualche ciocca di capelli scuri gli era caduta davanti agli occhi dandogli un'aria imbambolata, pensò Kate poco gentilmente, come se qualcuno gli avesse tirato una bastonata alla nuca.
- Se disturbo torno più tardi... – cinguettò melliflua Kate, rivolgendo alle ragazze un sorriso amabile più falso dei soldi del Monopoli, che le ragazze ricambiarono con un sorriso altrettanto velenoso.
- Ma no, figurati! Sono contento di vederti, Kate. Cosa ci fai qui? – chiese Ace continuando a sorridere, completamente ignaro del massacro a livello mentale che si stava consumando sotto i suoi occhi – Pensavo fossi rimasta sulla nave con gli altri…
- Ero lì, infatti. Poi però Marco ha messo tutti in allarme perché temeva che tu fossi finito in qualche canale destinato a far compagnia ai pesci nelle reti dei pescatori, per cui papà ha mobilitato un po’ di gente per cercarti. – spiegò Kate. Non aveva ammesso che lei non era stata compresa nel gruppo, ma in fondo non era necessario che Ace lo sapesse. – Un vero peccato, quando scoprirà che ti ha involontariamente rovinato la festa ci rimarrà malissimo.
- Ah! – esclamò Ace, ignorando l’ultimo commento acido della dottoressa – Ma io avevo avvisato che mi sarei allontanato a fare un giro per conto mio! Ora che ci penso però Izou non deve avermi sentito, forse era troppo preso a tessere le lodi del fondoschiena di…
- Alt! – lo fermò Kate – Ti prego, non dirmelo! Non voglio saperlo. – Ace rise della sua espressione esasperata, e la ragazza sentì lo sdegno rimontarle nel petto.
- Be’, me ne posso anche andare ora che sono sicura del fatto che non hai fatto la fine delle acciughe in salamoia. – dichiarò Kate con tono pungente – Ti lascio in buona compagnia, allora… a più tardi!
Detto questo la ragazza si voltò con calma e si avviò verso l’uscita, la schiena rigida come un manico di scopa. Con la coda nell’occhio vide però che le tre mogli di Dracula la stavano salutando sorridendole con aria perfida e agitando la mano con un’alterigia degna di Elisabetta II del Regno Unito, e non riuscì a trattenersi. Roteò rapida su sé stessa e con un sorriso sulfureo si rivolse ad Ace – A proposito, se hai intenzioni di farti una di loro o tutte quante, ti converrebbe usare il preservativo. Dio solo sa quali razza di malattie circolano nel postribolo da cui sono fuggite!
A quelle parole Ace sgranò gli occhi, e le tre meretrici emisero un roco verso indignato e scattarono in piedi. Kate si limitò a fare loro un sorriso angelico e ricominciare la propria marcia verso l’uscita.
- Kate, aspetta un momento. Vengo con te.
Sentendosi chiamare Kate si fermò e si voltò di nuovo in direzione del tavolo, e vide che Ace si era alzato e stava camminando nella sua direzione, intralciato però dalle tre peripatetiche d’alto bordo.
- Non vorrai andar via così presto, Ace! – miagolò la prima con voce civettuola.
- Sì, perché non ti fermi ancora un po’? Potremmo… - supportò l’altra, ma Ace non la lasciò finire.
- Scusatemi signorine, ma adesso devo proprio andare. – le frena Ace con un sorriso gentile, inchinandosi galantemente per salutarle – Voglio accompagnare la mia amica, non credo sia sicuro farla tornare alla nostra nave da sola.
A quelle parole i loro visi si contrassero visibilmente, e le tre donne iniziarono a fumare di rabbia, disintegrando Kate con lo sguardo. La ragazza neanche se ne accorse, impegnata com’era a ringhiare contro il povero Ace – Razza di fanfarone, ma chi cazzo ti ha chiesto niente?! Rimani pure dove sei, io conosco benissimo la strada, non mi serve un cicisbeo che mi scorti fino a casa!
Detto questo gli voltò le spalle, con così tanta veemenza da colpirlo in faccia con i lunghi capelli, e corse fuori lasciandolo là come un palo, a bocca aperta nel vano tentativo di discolparsi.
Sul serio, quella di piantarlo in asso stava diventando davvero una pessima abitudine. Meno male che Kate non si girò di nuovo a guardarlo, sennò si sarebbe accorta che, superata la sorpresa iniziale, sul volto di Ace era comparso un sorriso a dir poco raggiante, dimostrazione che quel benedetto ragazzo tutto sommato aveva abbastanza sale in zucca da riuscire a capire una buona volta cosa passava per la testa di O’Rourke D. Katherine, e probabilmente si sarebbe sentita anche peggio.
Appena fuori dal locale Kate si infilò nel primo vicolo che trovò, così incazzata e fuori di sé da sentire lo stridio dei propri denti digrignati risuonarle nelle orecchie.

Ma tu guarda che razza di…

- Che scenata di gelosia magistrale, sorellina! – si complimentò con una risata maliziosa una voce femminile alle sue spalle – Sul serio, non avrei mai immaginato che tu potessi diventare così…melodrammatica!

…deficiente. Dannazione, solo lei ci mancava!

- Tappati quella boccaccia, Haruta!
- Se può consolarti credo che nessuna di quelle ragazze gli interessasse. – continuò Haruta imperterrita – Quelle erano alte, formose e svenevoli, a lui piacciono basse, acerbe e aggressive!
- E dovrebbe importarmi?! – ringhiò Kate, ignorando i velati insulti nascosti nelle parole dell’altra.
- So che è così, sorellina.
- Guai a te se dici a qualcuno quello che hai visto, Haruta. – sibilò Kate senza nemmeno sforzarsi di negare. Tanto con Haruta sarebbe stato inutile anche solo provarci, non le avrebbe creduto comunque. – Sul serio, guai a te se ti fai scappare una parola di questo con qualcuno.
In tutta risposta Haruta rise ancora più forte, e allora Kate la superò alzando esasperata le braccia al cielo, avviandosi verso la via del ritorno con le guance paonazze per la vergogna e il portamento impettito, nel tentativo alquanto vano di recuperare un po’ di dignità. Sicuramente Haruta avrebbe mantenuto il segreto, ma di certo questo non le avrebbe comunque impedito di prendersi gioco di lei fino alla fine dei suoi giorni.

Perché, perché, perché capitano tutte a me?!

🔥

Toc, toc.

Kate tirò su col naso e rantolò – Avandi!
La porta della cabina si aprì appena, e dallo spiraglio fece capolino la testa di Ace – Ehi. Allora, come ti senti oggi?
- G’è la domanda di rizerva?
- Capisco. Sei ancora in fin di vita. – constatò Ace aprendo un po’ di più la porta e facendo un passo dentro la stanza – Ma si può sapere come hai fatto a ridurti così?
Kate si strinse nel piumone nel tentativo di farsi passare la tremarella – Sdufetta, non è ghe solo berghè sono un doddore non posso ammalarbi angh’io…
- No, è ovvio, ma io volevo sapere come è successo!
- Bah, golba di guell’imbegille di Deach… l’aldro giorno ber vendigarsi di uno sgherzo ghe gli avevo faddo mi ha ghiuso in una gella frigorifera ber un guardo d’ora… non abbasdanza ber farmi grepare, ma g’è andado gomungue vigino, gome buoi vedere.
Ace soffocò una risata, e Kate gli lanciò uno sguardo truce – Oh sì, diverdidi bure…
- Scusa, hai ragione. Vuoi che lo sfidi a singolar tenzone? – scherzò Ace.
- Nah, lascia sdare. Guando sarò guarida mi ogguperò perzonalmende di dargli una lezione. – dichiarò Katherine affondando la testa nel cuscino. Ormai era da due giorni che stava a riposo nel proprio letto e prendeva le medicine, ma quella dannata influenza non accennava ancora ad andarsene. Tra sé e sé Kate augurò a Teach le più crudeli e sanguinarie pene dell’inferno.
Ace rise della voce minacciosa di Kate distorta dall’apnea del raffreddore, e si avvicinò al letto – Tieni, ti ho portato una tisana. Te la mandano Thatch e Beatrix, Bea ha detto di averci messo dentro anche un mucolitico per aprirti un po’ le vie respiratorie.
- Grazie. – rantolò Kate, facendo scivolare una mano fuori dal piumone per prendere la tazza che Ace le stava porgendo – Forse un langiafiamme sarebbe sdado biù indicado, ma vedrò di aggondendarmi.
Ace ridacchiò e le sistemò in mano la tazza – Fa piacere vedere che nemmeno la tosse o il raffreddore sono in grado di abbattere il tuo senso dell’umorismo.
- Nemmeno i marziani bodrebbero abbaddere il mio senso dell’umorismo! – affermò fieramente Kate portando la tazza alle labbra e bevendone il contenuto in un solo sorso, impaziente di godere dei suoi effetti curativi. Ace le dedicò uno dei suoi sorrisi mozzafiato, che Kate ricambiò, anche se un po’ imbarazzata. Sul serio, non riusciva a capire come potesse Ace starsene lì a guardarla come se niente fosse senza provare neanche la tentazione di scappare a gambe levate per l’orrore. Con gli occhi gonfi, febbricitante e con la faccia congestionata, in quei giorni Kate sembrava un bizzarro e terrificante incrocio tra un’aragosta, un rospo e una lumaca. Quella mattina era andata in bagno per sciacquarsi almeno la faccia, e il riflesso che le aveva restituito lo specchio era stato a dir poco inquietante. Sembrava quasi che l’avesse masticata e risputata un mastino senza denti!
- Stai tremando…
Kate si riscosse dai propri pensieri autolesionisti – Gosa?
- Ho detto, stai tremando!
Kate si strinse ancora di più nel piumone – Sì, sdo morendo di freddo… forse mi sda aumendando la febbre…
- Su, fammi un po’ di posto.
Kate si interruppe e lo fissò nervosamente – Ghe vorresdi fare?
- Riscaldarti, mi sembra ovvio…
Kate lo guardò scandalizzata – Ghe ti sei messo in desda, scaldino?!
- Ho detto che voglio…
- Ho sentito cosa hai detto! – esclamò Katherine, la voce finalmente migliorata grazie all’effetto del mucolitico – Ma sei pazzo se pensi che io possa lasciarti entrare nel mio letto!
Ace sospirò esasperato – Guardati, tremi sempre di più. Non fare la stupida, fammi un po’ di spazio.
E senza aspettare una risposta si tolse gli stivaletti con un calcio, scostò il piumone si infilò sotto le coperte insieme a lei. La ragazza emise un verso roco di protesta e tentò spingerlo via, ma quando le sue mani sfiorarono il petto nudo e tonico del ragazzo e il suo calore le si propagò in tutto in corpo le forze per lottare le vennero meno. Ace reagì immediatamente a quella tacita resa e le strinse le braccia intorno al corpo, premendosela con decisione al petto.
- Caspita, sei calda quasi quanto me, Kate. – si lamentò.
- Scusa… - sussurrò Kate affondando il viso nella sua spalla. Il calore che emanava il ragazzo era irresistibile, dava quasi alla testa.
- Cerca di rilassarti. – suggerì Ace accarezzandole delicatamente la schiena – Vedrai che presto ti sentirai meglio.
Kate sussultò nel sentire le mani del ragazzo toccarla in quel modo, e tentò istintivamente di allontanarsi, imbarazzata a morte – Non penso che…
- Oh dai, non fare la pudica! – la riprese esasperato Ace – Non hai motivo di preoccuparti, non è mia abitudine approfittare delle signorine ammalate.
- Ti attaccherò l’influenza… - gli fece notare Kate, tentando di salvarsi.
- Non ci pensare. Ora sta’ ferma e zitta. Sul serio, per una che dovrebbe avere mezzo piede nella fossa sei un po’ troppo vivace.
Kate gli lanciò un’occhiataccia, ma non trovò la forza di rispondergli a tono. Era davvero troppo stanca per pensare... stanca dopo essere rimasta sveglia così a lungo, e afflitta dalla mancanza di aria causata dall’apnea tipica del raffreddore. Il corpo le si rilassò lentamente e si fece inerte, l’imbarazzo un po’ alla volta dimenticato, anche se non del tutto.
- Forse dovresti cercare di dormire. – provò a suggerire Ace.

Sì, come no. Come se potessi dormire con una tale montagna di muscoli nel mio letto. Per non parlare del resto.

– Non credo che ci riuscirei.
- Ho un’idea! Ti racconto la storia della buonanotte. – propose Ace entusiasta – Se non ricordo male te ne dovevo una… ti va?
Kate lo guardò scettica – Tu vorresti raccontare una storia a me?
Ace la guardò perplesso – Certo, perché?
Un ghigno cattivo curvò le labbra della ragazza - Portgas, devo forse ricordarti che ogni volta che hai provato a raccontarmi di un arrembaggio, o anche solo di cosa avevi fatto il giorno prima, sei crollato addormentato sulla mia spalla prima ancora di avere il tempo di finire la storia? Una volta sei addirittura finito in mare, m’è toccato pure venirti a ripescare…
Ace arrossì – Oh, ma dai, non è successo così tante volte! Al massimo una o due…
Kate alzò un sopracciglio.
- O forse tre o quattro… - farfugliò Ace, indietreggiando istintivamente sotto il peso di quei cupi occhi verdi.
Kate alzò ancora di più il sopracciglio.
- Va bene, lo ammetto, è successo ogni volta che ci ho provato! Sei contenta?!
- Molto. – annuì Kate con un ghigno compiaciuto – Qualcuno doveva fartelo ammettere, dopotutto.
- Brava, e ora come la mettiamo? – chiese imbronciato Ace – Se non posso raccontarti una storia…
- Senti, te ne racconto una io. – sbuffò Kate – Ho notato che se ti racconto una storia te ne stai insolitamente zitto, e non puoi immaginare quanto io abbia bisogno di silenzio in questo momento.
- E va bene. – sbuffò a propria volta un immusonito Ace – Ma sei una vera guastafeste, sappilo.
Kate sogghignò e si mise più comoda, allontanandosi leggermente da Ace – Allora, c’era una volta, in un regno tanto lontano, una principessa…
Ace si voltò a guardarla allibito – Una principessa? Sul serio?!
- Certo! Zitto, e presta attenzione. – lo rimproverò Kate dandogli un buffetto in testa -  Dicevo, c’era una volta una principessa di nome Elisabeth che era pronta a sposare l'amato principe e vivere insieme a lui nel suo sfarzoso castello. Sembrava tutto perfetto, la principessa era innamorata e felice, quando ad un certo punto, proprio nel giorno delle loro nozze, arrivò un enorme drago che incenerì ogni cosa, compresi i vestiti della stessa Elisabeth, e rapì il principe Ronald. I sogni della principessa Elisabeth andarono così letteralmente in fumo, e dalle ceneri non rimase altro che un sacchetto di carta con cui la principessa si coprì...
- Il drago rapì lui e non lei? – la interruppe diffidente Ace.
- Proprio così! Ora stai zitto e lasciami continuare. – lo rimbecco di nuovo Katherine – Allora, dicevo… dalle ceneri del castello Elisabeth riuscì a recuperare solo un sacchetto di carta, e così, con quell'unico indumento indosso, la principessa decise di prendere in mano la situazione e di andare lei stessa all'inseguimento del drago.
Kate si interruppe, notando che Ace la stava fissando sempre meno convinto. La ragazza sogghignò, divertita da quella reazione, e continuò – Dopo molte ricerche Elisabeth raggiunse finalmente la porta della caverna dove il drago abitava. Alla fanciulla che bussava alla sua porta il drago però rispose dichiarandosi troppo indaffarato per darle retta, e le chiese di tornare più tardi per farsi sgranocchiare. Elisabeth, accorgendosi di quanto il drago fosse superbo e vanitoso, decise di giocare d’astuzia: solleticandone l’ego, lo provocò per spingerlo a mostrarle le abilità di cui tanto si faceva vanto. Il drago, incapace di resistere alla provocazione, cominciò a sputare fuoco su fuoco, fino a quando non fu così sfiancato dallo sforzo da stramazzare a terra esausto e senza forze. Così, una volta che il drago fu finalmente fuori combattimento, la principessa poté finalmente raggiungere il principe Ronald…ma questo si mostrò ancora più presuntuoso del drago! Invece di ringraziarla quel bamboccio viziato pensò bene di rimproverarla per l'aspetto poco presentabile che Elisabeth, sporca di cenere e fuliggine, puzzolente di fumo e vestita solo di carta, aveva. La principessa, allibita, capì dalle superficiali e sciocche osservazioni del principe di meritare di meglio di quel fatuo ed antipatico bellimbusto, e così gli dette così il benservito e fuggì felice verso il tramonto. Fine.
L’ultima parola uscì a fatica dalla bocca di Kate, impegnata com’era la ragazza a sghignazzare. Ace infatti, che aveva ascoltato la storia con aria sempre meno convinta, ora la stava fissando con stampata in faccia un’espressione così cupa che Kate non poté trattenersi e scoppiò a ridergli in faccia, rovinando in parte l’effetto di tutta quella sceneggiata.
- Mi stai prendendo in giro un’altra volta, vero? – chiese accigliato il ragazzo.
 - Oh sì, ci puoi giurare! – riuscì a farfugliare Kate tra un singhiozzo e l’altro – Oh, se tu potessi vedere la tua faccia in questo momento!
- Ottimo. Sono contento di vedere che, a dispetto del tempo che passa, certe cose non cambiano mai. – borbottò infastidito il ragazzo.
- Oh, sii buono! Sono malata, mi sento meglio che riesco a svagarmi!
Ace borbottò tra i denti qualcosa di sgradevole e si voltò dall’altra parte, ignorando le risate sempre più rumorose della ragazza. Nel suo petto si agitavano sollievo misto a delusione, poiché, per quanto fosse irritante farsi prendere continuamente in giro da quella peste, almeno quello scherzo era riuscito a spezzare l’eccitazione che l’aveva colpito dal momento in cui si era infilato in quel letto insieme a lei, e che fino a quel momento era riuscito a malapena a nascondere, consapevole che con ogni probabilità Kate non l’avrebbe affatto gradita.
E dire che fino a quel momento Ace non aveva mai neanche immaginato di potersi sentire fisicamente attratto da Kate: certo, era una ragazza carina e tutto il resto, niente da dire… ma era pur sempre Kate, cavoli! Si conoscevano ancora da poco, ma da allora non avevano mai fatto altro che litigare e picchiarsi, picchiarsi e litigare, sebbene in fondo fossero anche buoni amici. Perché avrebbe dovuto sentirsi attratto da una persona che ufficialmente a malapena sopportava, visto che non faceva altro che prendersi gioco di lui o aggredirlo e rimproverarlo per i motivi più strani?!
Eppure era così, realizzò Ace. Stranamente la cosa non lo sconvolse più tanto… fu un po’ come quando ti rendi conto di essere diventato maggiorenne: magari hai passato mesi e mesi ad aspettare l’arrivo di quel momento, e quando finalmente arriva, una volta passata l’euforia iniziale, ti senti un po’ strano, quasi perplesso, o deluso.
“E quindi? Doveva succedere qualcosa?”. No, che vuoi che debba succedere?! Non è che quando diventi maggiorenne ti spuntano due ali da arcangelo, o ti aumenta di botto il quoziente intellettivo. No, sei sempre tu, stupido. E in più adesso puoi finire dritto dritto in galera se combini qualche casino. Pensa che bello…
Sì, ammettiamolo, tutti quando siamo diventati maggiorenni ci siamo rimasti un pochino male. Chissà che ci aspettavamo…
Vabbè, torniamo a noi. Come dicevo, Ace non si era impressionato più di tanto, scoprendo quella verità. Diciamo che si era limitato a prendere atto di una cosa di cui, sotto sotto, era a conoscenza praticamente sin dal primo giorno. Decisamente lo avrebbe sconvolto di più, e per molto tempo a venire, ciò che sarebbe accaduto dopo.
Per un minuto buono non successe più niente. Ace non si voltò più, e Kate non aveva più parlato, tanto che il ragazzo credeva si fosse addormentata e stava per filarsela alla chetichella…
Ma come al solito Kate lo aveva prevenuto, spiazzandolo per l’ennesima volta. Era la cosa che le riusciva meglio, l’essere imprevedibile… Ace non sarebbe mai riuscito ad abituarcisi, lo sapeva.
All’improvviso il pirata si sentì abbracciare da dietro, con le mani della ragazza che gli sfioravano inconsapevolmente gli addominali, e le sue labbra vicino al suo orecchio.
- Piantala di ignorarmi, stufetta. Sai che è una cosa che non sopporto. – gli alitò Kate sul collo.
Ace sobbalzò, incredulo, mentre il battito cardiaco accelerava bruscamente, e il sangue cominciava a ribollirgli nelle vene, e di nuovo la sua eccitazione si faceva risentire, più sveglia e tesa che mai. 
Kate non lo abbracciava quasi mai. Non era tanto per freddezza, quanto più per orgoglio, ormai Ace lo aveva capito, sin da quando la ragazza gli aveva raccontato la storia di sua madre. Gli eventi del passato dovevano aver segnato Kate molto più di quanto la ragazza sarebbe stata disposta ad ammettere, e probabilmente in parte avevano compromesso anche la sua capacità di dare o ricevere affetto. Forse era per questo che spesso appariva tanto fredda, ma Ace non gliene avrebbe mai potuto fare una colpa, non dopo quello che lei gli aveva raccontato.
Eppure quell’abbraccio non sapeva di affetto, o di preoccupazione, o di qualsiasi altro sentimento innocente che si sarebbe potuto aspettare da Kate. Quell’abbraccio era così caldo, languido… così come la sua voce era suadente, sensuale…

Provocante.

Ace non sapeva se la ragazza lo stesse facendo apposta o se fosse stata la febbre a farla sragionare all’improvviso, ma in quel momento non aveva né la voglia né la concentrazione per ragionarci su. Gli sembrò invece naturale, giusto come respirare, voltarsi di nuovo verso di lei e premere le labbra contro le sue, assecondando quel desiderio inconscio che lo stava torturando da troppo tempo.
La ragazza trasalì contro di lui, ma non lo respinse, e quello fu il permesso che Ace aspettava. Il ragazzo assaggiò il dolce sapore della sua bocca, che sapeva di limone e mela, ed esplorò quella bocca così calda e invitante che tante volte aveva desiderato, non sentendosi però in diritto di farlo.
Inaspettatamente lei non solo non lo respinse come aveva temuto, ma addirittura lo ricambiò. Muovendosi con studiata e crudele lentezza, la ragazza lo esplorò a propria volta, baciandolo con una passione di cui Ace mai e poi mai l’avrebbe sospettata capace, saggiando la sua pelle sia con le labbra sia con le mani, e tracciando le linee dei muscoli del petto, tenendoselo il più vicino possibile. Ace si sentì quasi morire sotto quell’assalto spregiudicato, e le afferrò con decisione i fianchi, portandosi con il corpo sopra di lei.
- Katie… - sussurrò il ragazzo, la testa che gli girava per l’emozione. Si chinò per baciarla ancora… ma la coscienza lo abbandonò a tradimento per l’ennesima volta, e tutto intorno a lui diventò nero.


Non posso crederci. Ditemi che è uno scherzo. ­Pensò incredula Kate, portando le mani alla vita del ragazzo che le stava sdraiato sopra, e facendo forza per farlo rotolare al fianco libero del letto. Ace crollò a peso morto sul materasso senza fare alcun resistenza, respirando regolarmente e con un sorriso beato stampato in faccia.
Non era possibile! Quella stufetta a pedali si era addormentata sul più bello!
Kate immaginò che a quel punto avrebbe dovuto infuriarsi, che avrebbe dovuto buttarlo fuori dal proprio letto a calci… e invece le veniva soltanto da ridere, come succede quando guardi un cane che cerca di mordersi la coda, e che pur riuscirci ribalta sedie, tavoli e cuscini.

E meno male che non era sua abitudine approfittare delle signorine ammalate!

🔥

- Ehi sorellina, cosa ti prende negli ultimi giorni? Hai perso il tuo adorato cucciolo, per caso?
Katherine alzò infastidita gli occhi al cielo, e a malincuore interruppe il corso dei propri pensieri per voltarsi verso la sorella maggiore, senza però alzarsi dal lettino. Haruta se ne stava appollaiata alle sue spalle con le braccia appoggiate allo schienale del lettino in stile avvoltoio, e la stava guardando come una iena guarda un cadavere ancora caldo, con i denti scoperti in un sorriso da brividi e lo sguardo affamato, in questo caso di pettegolezzi.

Figuriamoci. Brontolò nella propria testa Katherine. Prima quella scena fuori dalla locanda, e ora questo. E poi dicono a me che sono una carogna.

-  Lasciami in pace, Haruta. Non è aria.
Haruta sbuffò - Vorrei capire perché quando cerco di indagare sui fatti tuoi mi rispondi sempre così!
- Già, chissà perché… - replicò annoiata Kate, rimettendosi comoda sul lettino e chiudendo gli occhi. Facendo così sperava di scoraggiare la determinazione della sorella e di mandarla via, ma non fu tanto fortunata.
- Oh dai, non puoi liquidarmi in questo modo, non stavolta! Non è leale… voglio sapere che sta succedendo! - protestò capricciosa Haruta, portandosi davanti a lei e mettendosi a sedere sul bordo del lettino.
Kate sospirò esasperata e aprì gli occhi – Perché, cosa c’è di così divertente stavolta?
- E lo chiedi anche? Sei qui in infermeria, tutta sola, languidamente sdraiata sul letto a fissare il vuoto in stile signora delle camelie, pensando a chissà cosa… dì la verità, stai aspettando che il nostro caro Pugno di Fuoco ritorni dalla missione e ti trascini in un'incontenibile spirale di lussuria e perdizione!
Kate richiuse gli occhi – Tu vaneggi, cara mia. A dispetto delle voci poco lusinghiere che circolano su questa nave, e con le quali sono sicura tu c’entri qualcosa, non c’è niente tra me ed Ace. E a questo proposito, sarai contenta di sapere che è per colpa tua se Thatch è in quello stato!
Haruta la guardò senza capire, e Kate in tutta risposta puntò il pollice verso il fondo della stanza. Haruta seguì con lo sguardo la direzione indicata dalla sorella, e dopo un attimo individuò il fratello sdraiato su un letto vicino ad una finestra. L’uomo era pallido e aveva gli occhi chiusi, ma soprattutto appariva alquanto sofferente, e ogni tanto emetteva un roco lamento straziante da malato terminale. No, forse somigliava più al rantolo di uno zombie.
- Oddio, ma che gli è successo?! – chiese spaventata Haruta, avvicinandoglisi in fretta.
- A quanto pare shock neurogeno, cioè gli è praticamente venuto un colpo quando stamattina Izou gli ha riferito che io e Ace avevamo fatto sesso, che io ero incinta di tre gemelli, e che lui in realtà è scappato per sfuggire ad un eventuale matrimonio riparatore con l’implicita approvazione di nostro padre, che a quanto pare mi ha destinata ad un convento di clausura, dove sarò condannata a ricamare centrini a punto croce per il resto della mia vita. - snocciolò Katherine con aria annoiata – O almeno questo è quello che mi ha detto lui quando gli ho chiesto cosa l’avesse sconvolto tanto. Andiamo, sul serio hai messo in giro queste voci così ridicole?
- Certo che no, ma per chi mi prendi? – saltò su indignata Haruta, ma il suo sguardo diceva altro.
- Per la pettegola che sei, cara sorella. – replicò lapidaria Kate, per poi voltarsi su un fianco – E ora lasciami in pace, devo riflettere.
- Ah sì? E su cosa? – chiese interessata Haruta – Allora ammetti che tu e Ace avete una storia!
- Io non ammetto proprio nulla, Haruta. E in ogni caso non è comunque una cosa di cui tu debba occuparti. – ribatté dura Kate, che ormai ne aveva le tasche piene di quell’interrogatorio. Certo, di norma riusciva a sopportare abbastanza tranquillamente il carattere invadente della sorella, ma c’erano momenti come quelli – che, per la cronaca, si stavano verificando un po’ troppo spesso negli ultimi tempi – in cui l’inquietudine costante che l’affliggeva da un paio d’anni a quella parte aumentava fino a renderla troppo impaziente e nervosa per permetterle mostrare una faccia da poker anche solo decente… e se ci si metteva anche Haruta con la sua dannata curiosità, su quella nave si rischiava un massacro. Haruta avrebbe fatto molto meglio a togliersi dai piedi, sul serio.
Haruta si imbronciò – Non vuoi proprio confessare, vero? Allora che dovrei pensare? Che le voci che girano sulla nave non sono poi così distanti dalla realtà?
Era troppo. Stringendo i pugni per lo sdegno Kate saltò giù dal lettino con un balzo e, senza troppi complimenti, iniziò a spingere la sorella fuori dalla porta. In quel momento aveva una gran voglia di far del male a qualcuno, e aveva paura di come sarebbe andata a finire se Haruta fosse rimasta davanti a lei. - Fuori dalle palle, Ruthie. Va' fuori dalle palle e lasciami in pace, ok?
La ragazza non attese la risposta della più grande; non appena Haruta fu oltre la soglia della stanza Kate le sbatté senza alcuna gentilezza la porta in faccia, e per sicurezza chiuse anche a chiave.

Dannata impicciona. Ma tu guarda cosa mi tocca sopportare.

Kate non ce la faceva più: erano da giorni che si macerava nell’incertezza e nell’ansia, e ormai aveva praticamente raggiunto il punto critico… se non si fosse data una calmata entro quella sera Ace avrebbe di certo capito tutto non appena sarebbe tornato, e allora sarebbe stata la fine.
Qual era il problema? Non lo immaginate? Era Ace il problema. O meglio, quello che Ace rappresentava. Quello che rappresentava per lei.
Erano passate quasi due settimane da quel giorno in camera sua, e Kate non riusciva ancora a credere che quel giorno Ace l’avesse baciata. Gli avvenimenti degli ultimi giorni le sembravano ancora un sogno… un sogno bellissimo, peccato che quel baka l’avesse interrotto in barbaro modo partendo in missione nemmeno una settimana dopo. Kate sapeva di non potergliene fare una colpa, era stato il padre a farlo andare, ma non poteva fare comunque a meno di sentirsi frustrata e sulle spine. Dannazione, quella dannata stufetta stava uccidendo quelli che avrebbero dovuto essere i giorni più romantici della sua vita…o almeno, questo era ciò che aveva pensato per la prima settimana; poi l’entusiasmo aveva iniziato a scemare, complice anche l’assenza di Ace, ma in compenso avevano cominciato ad emergere i dubbi, e poi a seguire il panico.
Quando quel giorno l’aveva abbracciato da dietro era stato come se si fosse dissociata da sé stessa, e quando gli aveva bisbigliato all’orecchio con quella voce così roca e voluttuosa era rimasta a dir poco sconcertata dalla propria audacia. Certo, lei era sempre stata piuttosto sfacciata, ma non avrebbe mai immaginato di poter diventare così tanto sfacciata! Si era sentita così diversa, così lontana dalla persona che era stata fino a quel giorno… ed era stato fantastico. Non riusciva ancora a capacitarsene, e non riusciva a credere che quello strano sentimento che tutti chiamavano amore, e che per lei si traduceva in un continuo svolazzare di farfalle nello stomaco misto a febbre, avesse messo radici dentro di lei e che fosse ricambiato. Perché Kate non aveva dubbi su questo, era sicura che Ace provasse le stesse cose che provava lei, se non in misura maggiore. Non sapeva come e perché ne era sicura, lo era e basta, e non le serviva altro.
I primi due giorni era trascorsi così, con lei che si aggirava per la nave a cavallo di una nuvoletta rosa con un sorriso ebete stampato in faccia, e una schiera di angioletti che le svolazzava intorno suonando le sue canzoni preferite in modalità “ripetizione continua”. Lei ed Ace non avevano parlato affatto di ciò che era accaduto in cabina, poiché entrambi troppo imbarazzati per avere il coraggio anche solo di pensarci quando l’altro era nei paraggi, ma alla fine non si era reso necessario, come aveva avuto modo di appurare Kate un paio di giorni dopo. Alla fine, dopo due giorni trascorsi ad evitarsi accuratamente, i due comandanti erano finiti a sbaciucchiarsi nascosti sulla coffa della nave, con lui che le sussurrava parole dolci nell’orecchio e la chiamava “Katie”, e lei che si stringeva a lui come se ne valesse della propria vita, cercando nel frattempo di non farsi venire un infarto per la felicità.
Ma lei non era mai stata il tipo che restava in balia delle emozioni troppo a lungo, e quella volta non fece eccezione: qualche giorno dopo quella “conferma” del fatto che erano stracotti l’una dell’altro, Ace purtroppo era stato costretto ad allontanarsi per andare a proteggere insieme ad altri compagni un’isola dominata da Barbabianca dall’incursione di alcuni pirati rivali. Ace se ne era andato a malincuore, e altrettanto a malincuore Kate l’aveva lasciato andare, e per un paio di giorni Kate era stata così depressa da arrivare addirittura a trascurare il lavoro – cosa che non accadeva da quando Thatch, dietro ordine del padre, per punizione le aveva negato i pancakes con lo zucchero per più di una settimana -. Dopo un paio di giorni Kate però era riuscita finalmente a riscuotersi dal suo stato di profondo scoramento, e aveva ricominciato a comportarsi come una persona normale, o quasi…  almeno fino a quando la sbronza d’amore non si era ufficialmente allentata, e allora in mezzo al turbinio frenetico di emozioni che l’avevano travolta negli ultimi giorni si era fatta largo a gomitate una serie di dubbi, più una quantità allarmante di panico.
Uno autore che adoro una volta ha scritto: Le donne, con rare eccezioni, sono più intelligenti degli uomini, o, perlomeno, più sincere con sé stesse rispetto a ciò che vogliono. Se lasci loro il tempo di pensare, non hai più scampo.
Parole sante, che si adattano perfettamente a questa situazione. A Kate infatti bastarono un paio di minuti perché la nuvoletta rosa su cui aveva viaggiato in quei giorni si bucasse e la facesse piombare con una sonora culata sul grigio pianeta Terra, ricordandole crudelmente cosa aveva desiderato con tutte le proprie forze fino a qualche giorno prima, e ciò che Ace aveva potuto rappresentare per lei se avesse continuato ad inseguire l’ambizione di diventare una potente pirata, un giorno o l’altro.

Un ostacolo.

Kate non riusciva a sopportare quella parola, non riusciva neanche a pensarla, al punto che nel momento stesso in cui le saltava in mente Kate scuoteva convulsamente la testa e si affondava le unghie nella carne per autopunirsi. Ace non era un ostacolo, era il suo ragazzo, e lei lo amava! Lo amava tantissimo, e non poteva tollerare l’eventualità di arrivare a considerarlo d’intralcio per il proprio futuro. Ace l’avrebbe sostenuta di sicuro quando lei gliene avrebbe parlato! Lui non era come gli altri, non avrebbe cercato di soffocarla, non avrebbe tentato di proteggerla a tutti i costi…

Davvero? Sei proprio sicura?

No, non lo era affatto, e ogni volta che la sua ragione la poneva davanti a quella verità Kate si sentiva impazzire sempre di più. Ormai si sentiva sull’orlo di un precipizio, passava il tempo a maledire sé stessa e la sua dannata natura ferocemente razionale che le impediva di vivere l’attimo e di ignorare la realtà, faceva considerazioni contrastanti… c’erano momenti in cui era assolutamente convinta che Ace sarebbe stato al suo fianco e che non aveva motivo di preoccuparsi, momenti in cui Kate giurava a sé stessa che di quelle dannate ambizioni non gliene poteva importare più niente, che era Ace l’unica cosa che contava e che voleva…
E altri in cui si rendeva conto che tutte quelle stupide teorie erano inutili e senza senso, e che era perfettamente inutile cercare di autoconvincersi e torturarsi in quel modo: lei era quello che era, una donna O’Rourke e, malgrado tutto, una figlia di sua madre, e per questo era del tutto incapace di mettere da parte l’ambizione. Nemmeno per la famiglia, e nemmeno per amore.

No! Non può essere, mi rifiuto di crederlo!

Tutto inutile. Non poteva rinnegare ciò che era, l’amore nella vita reale non era come nelle favole, non possedeva un potere così grande. Quel sentimento così intenso poteva scuoterla, poteva confonderla, poteva portarla anche alla pazzia…ma non poteva cambiare la sua indole, né ora né mai.

Non c’è motivo di farsi prendere dal panico. Continuava a ripetersi Kate. Non devo darmi per vinta, devo avere fiducia in Ace! Sono certa che mi aiuterà, che sarà dalla mia parte…

Sì, certo, aveva perfettamente senso…ma se il cuore poteva lasciarsi convincere facilmente da quelle parole, la testa non altrettanto disposta a collaborare.
- Maledizione! – esplose fuori di sé Katherine, lanciandosi fuori dall’infermeria – rischiando anche di sfondare la porta chiusa a chiave nella foga di uscire – e dirigendosi a passo di marcia verso la cambusa. Se la sua mente era davvero decisa a torturarla, allora avrebbe fatto in modo di non essere più in grado di usarla per un bel po’.


- Insomma, è mai possibile che nessuno abbia visto Katherine?! – chiese irritato Ace – Questa è una dannata nave, deve pur essere da qualche parte!
- Mi spiace Ace-sama, ma io non ho proprio idea di dove sia. – si scusò Beatrix – È tutto il giorno che non si vede in infermeria, e nemmeno le altre sanno niente. L’ho cercata anch’io per tutto il pomeriggio, ma non sono riuscita a trovarla da nessuna parte.
Ace emise un gemito di frustrazione e si allontanò lungo il corridoio senza nemmeno ringraziare l’infermiera, così inquieto da dimenticare per una volta le buone maniere a cui di solito teneva così tanto. Aveva chiesto praticamente a tutti su quella nave, ma nessuno sembrava aver visto Katherine dall’ora di pranzo. Adesso era ora di cena e lui era appena tornato, e sarebbe dovuto andare dal padre a fare rapporto, però…

Voglio vederla. Voglio vederla subito.

La cercò in tutta la nave, anche negli angoli più impensabili. Gli era mancata così tanto… non riusciva ad immaginare di aspettare, voleva abbracciarla, voleva baciarla, voleva dirle che l’amava. Non aveva avuto ancora occasione di farlo, e ora quelle parole gli stavano serrando la gola, togliendogli il respiro.
- Aceeeeee…
Ace si riscosse dai propri pensieri da innamorato e si guardò intorno, cercando di capire chi l’avesse chiamato. Quella voce era distante e stranamente cantilenante…
- Aceee, sooonooo quiiiii…
Ace alzò confuso lo sguardo verso l’alto, e ciò che vide gli fece balzare il cuore in gola.
Kate era in piedi sul pennone della nave maestra, a più di cinquanta metri di altezza, e vi camminava sopra mettendo un piede davanti all’altro, come un equilibrista. Aveva le braccia sollevate per tenersi in equilibrio, ma oscillava pericolosamente ad ogni passo, rischiando di sfracellarsi sul ponte.
- Kate! – gridò Ace in preda al panico – Cosa diavolo stai facendo?!
- Non sono bravissima, Ace? – chiese euforica Kate, ondeggiando in avanti. Stava per perdere l’equilibrio, stava per morire, e nemmeno se ne rendeva conto.
- KATE! – urlò Ace, lanciandosi verso di lei. Il piede della ragazza perse lentamente l’appoggio sul pennone, e Kate iniziò a cadere…ma la caduta si bloccò a metà strada quando Ace la afferrò al volo, atterrando leggero sul ponte e stringendosela tra le braccia con tale forza da farle quasi male.
- Kate! Kate, va tutto bene? – chiese Ace atterrito, scostandole i capelli dal volto.
Lei non gli rispose, non sembrava essersi nemmeno spaventata; al contrario, lo abbracciava continuando a ridere con tono stridulo, le guance rubizze e gli occhi scintillanti.
- Sei ubriaca… - constatò ad alta voce Ace, troppo sconvolto perfino per arrabbiarsi.
- Oooh, ma certo che sono ubriaca! – rise acuta Kate – Oooh Ace, come sono contenta di vederti! Non vuoi darmi nemmeno un bacio?
Dopo un attimo Ace si chinò a baciarla, rendendosi a malapena conto di quello che stava facendo.
- Grazie! Ooooh Ace, non sai quanto mi sei mancato…
- Si può sapere cosa ti è saltato in mente di fare?! – esplose finalmente Ace – Potevi morire!
Ancora una volta Kate non rispose, si limitò a ridere sguaiatamente. Ace strinse i denti furibondo, ma disse – D’accordo. Ora ti porto a letto, ma domani dovremo parlare di questa storia!
- Ooooh, mi porti a letto? Non si sembra di correre un po’ troppo!? – chiese Kate senza smettere di ridere, e Ace arrossì a quella chiara allusione.
- Sì, hai ragione. – borbottò il ragazzo. Era inutile discutere con lei in quel momento, per cui tanto valeva assecondarla. – Ora andiamo, però.
- Ooooh, e dove andiamo? A Raftel? Sì, andiamo a Raftel, andiamo a trovare l’One Piece!
Ace la ignorò, limitandosi a trascinarla verso la sua cabina. Non fu un’impresa facile. Kate continuava a ridere e a divincolarsi, urlando cose senza senso, tentando – per fortuna inutilmente - di evocare mostri marini e stampandogli di tanto in tanto baci sulla guancia, sulle spalle, sulla gola e sulla bocca. Ace avrebbe voluto restituire quei baci – fu davvero arduo per lui resistere a quell’assalto -, ma non gli piaceva l’idea di approfittarsi di lei quand’era in quelle condizioni, specie ora che stavano ufficialmente insieme – anche se erano loro due a saperlo -. Senza contare il fatto che le cose avrebbero anche potuto spingersi troppo oltre, soprattutto se si considerava l’attuale mancanza di lucidità della ragazza.
- Katie, siamo arrivati… – mugugnò Ace, riuscendo ad aprire la porta senza mollare la presa su di lei.
- Ooooh, che bello! Ehi Ace, perché non rimani con me stanotte? – sussurrò Kate all’orecchio del ragazzo. Nel sentire il fiato caldo della ragazza sul collo Ace rabbrividì percependo un’ondata di calore colpirgli il basso ventre, e si affrettò a deporla sul letto – Stasera è meglio di no, Katie.
- Uffa, che noioso che sei! – si lamentò Kate imbronciandosi. Ace evitò di rispondere, preferì concentrarsi sul levarle gli scarponcini e i calzini.
- Ecco, ho fatto. – disse Ace coprendola con il lenzuolo e iniziando a rimettersi dritto – Ora vado, tu è meglio se cerchi di dormire…
Non poté finire di parlare. Kate gli aveva afferrato con forza il polso per trattenerlo vicino a lei, e ora lo stava guardando con aria mortalmente seria, l'euforia donata dall' alcol svanita in un istante. - Ace, devo chiederti una cosa.
Ace la guardò confuso. Cosa le era preso all’improvviso? – Dimmi…
- Se io ti dicessi che non voglio più vivere qui e che voglio andarmene per diventare una persona completamente diversa, tu cosa ne penseresti?
Ace strabuzzò gli occhi, chiedendosi se l’alcool non l’avesse fatta impazzire completamente – Katie, ma che dici? E dove vorresti andare? E perché dovresti voler cambiare? Il tuo posto è qui, con me, nostro padre e tutti gli altri. Perché dovresti voler cambiare le cose?
Ace aveva parlato d’istinto, limitandosi a dare voce a quello che pensava… ma Kate sembrò non gradire affatto quelle parole. La ragazza si incupì e mollando la presa gli voltò le spalle, come se improvvisamente non potesse più tollerare la sua vista.
- Kate, che cosa…?
- Lascia perdere. – lo interruppe dura lei – Fai finta che non abbia detto nulla. Dev’essere la stanchezza che mi fa parlare a vanvera.
Ace lasciò cadere le spalle – D’accordo, ma…
- Scusa Ace, ma come ti ho già detto, sono stanca. Magari ne riparliamo domani.
Ace indietreggiò appena, colpito dall’improvvisa freddezza della ragazza. Sembrava irritata per qualcosa, ma Ace non riusciva ad immaginare per che cosa. – V-va bene…allora io vado…
- Buonanotte. – replicò Kate senza voltarsi, e ad Ace non restò altro da fare che uscire ancora confuso dalla stanza. Non si accorse che Kate si era tirata su a sedere nel momento esatto in cui lui si era chiuso la porta alle spalle, non vide che la ragazza si era presa la testa tra le mani… e tantomeno capì cosa fossero gli strani e strazianti singhiozzi che si sentivano dal buco della serratura.
Così la verità era quella, constatò Kate. A quanto pareva il sogno era finito, e le illusioni erano state cancellate per sempre. Restavano solo lei, la sua ambizione e il suo devastante quanto crudele amore.

Non posso avere entrambi. Concluse distrutta Kate. A uno dei due dovrò rinunciare.

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Era tardo pomeriggio sulla Moby Dick. L’aria era arsa da un sole imponente, in mezzo a un cielo privo di nuvole, e l’acqua scintillava come metallo fuso attorno a loro… insomma, era tutto tranquillo, almeno fino a quando il grido della vedetta non mise il ponte in fermento.
- Vela a drittaaa!
Fossa, sul cassero, mise mano al cannocchiale. Thatch, che stava salendo in quel momento, gli si accostò. - La vedi?
Fossa annuì. - A un quarto a babordo.
- Che bandiera battono? - urlò Thatch alla vedetta.
- Sembra una nave del Governo Mondiale. - disse Fossa prima che il ragazzo gridasse la conferma.
- Bene. Non lasciamocelo sfuggire! – tuonò Barbabianca qualche metro più indietro - Manteniamo rotta e velocità. Haruta, ce la fai col timone?
- Certo che sì, papà!
Barbabianca annuì e si rivolse a Marco - Marco, provvedi di persona ad assicurarti che siano pronti polvere, palle, scovoli, cucchiai e calcatoi. Teach, aiutalo. Cannonieri, al vostro posto!
La Fenice annuì e cominciò a incitare gli uomini, dando loro le direttive con il suo solito piglio controllato. Teach invece gridava – Muovetevi, cani! Non avete sentito il capitano? C’è un dannato galeone del Governo che ci aspetta!
Jaws invece imboccò il boccaporto, scese lesto la scaletta fino all’armeria, e con l’aiuto di altri ne cavò moschetti e pistole da distribuire. Fossa non perdeva di vista la preda.
- Ha la poppa ricoperta d’oro. Una meraviglia che mi fa venire l’acquolina in bocca! – esclamò esaltato Fossa, lanciando il cannocchiale a Barbabianca.
- È una bella nave. - ammise egli stesso. - Cerchiamo di prenderla senza danneggiarla troppo. – dichiarò restituendoglielo allo stesso modo, e avviandosi intanto a prua. – Marco, Teach! Timone e alberi. Lasciate intatta la carena. Voglio portarmela via... ci vorrà una giornata di lavoro per spellarla di tutto quel ben di Dio!
Marco annuì, e il vecchio abbaiò gli ordini ai cannonieri… e in quel momento Kate fece la sua comparsa sul castello di poppa, silenziosa e affascinata dall’evidente fermento che si era impossessato della ciurma. Si affiancò a Fossa. - Cosa sta succedendo, Fossa?
Questi biascicò un’oscenità, voltandosi severamente a guardarla. - Torna in infermeria, Kate.
Lei si accigliò. - Perché? Ci sono stata abbastanza.
- Non è il momento di discutere, Kate. Stiamo per abbordare una nave del Governo Mondiale, quindi fai la brava e torna di sotto, prima che nostro padre ti veda!
- Una nave del Governo? – chiese Kate, quasi strozzandosi. Una ridda di emozioni contrastanti la travolsero. Prima sgomento, poi terrore... quindi una rabbia feroce, che la scosse fin nelle viscere, scatenata solo in parte da quella scoperta.
- Mi hai sentito, Kate!? Tra poco ci sarà l’inferno quassù... – minacciò Fossa.
- Non ho intenzione di nascondermi da quella feccia, Fossa. - ringhiò lei, con una tale veemenza che lo colpì.
- Kate, non capisci! Se quei bastardi dovessero capire chi sei…
- E come dovrebbero fare a capirlo, secondo te? – chiese Kate irritata – Non è che me lo porto scritto in fronte…
Fossa imprecò e afferrò la ragazza per il braccio – Kate, per l’amor di Dio, vattene da qui! Se papà si accorge che sei qui…
Non ebbe finito di parlare che la voce tonante del capitano si fece sentire per tutta la nave - Kate! Torna subito di sotto!  
Kate si infuriò, mise le mani sui fianchi, alzò il mento con sfida, e scosse la testa.
 - È un ordine! - tuonò Barbabianca.
 - Non mi farai tornare in cabina! L’incertezza dell’attesa mi ucciderebbe, non posso sopportare l’idea di stare nascosta mentre voi invece rischiate la vita! – urlò inviperita Kate, scrollandosi di dosso la mano di Fossa.
Barbabianca aprì la bocca per parlare, probabilmente per ribadire l’ordine appena dato…ma Kate non riuscì a sentire quello che il padre avrebbe voluto dirle, poiché si sentì afferrare bruscamente per un braccio e trascinare via.
- Me ne occupo io, papà. – assicurò Ace – Voi datevi da fare, io vi raggiungo subito.
- Ace! – esclamò incredula Kate – Ace, che diavolo fai?! Lasciami andare subito!
- Mi dispiace Katie, non posso. Devo portarti al sicuro.
- No! Non voglio! Lasciami andare!
La ragazza lottò come una tigre, contrastandolo in tutti i modi possibili e insultandolo in un modo che riuscì proprio a farlo uscire dai gangheri.
- Razza di incosciente! Credi che mi farebbe piacere se ti beccassi una pallottola in corpo? – esclamò Ace spingendola dentro la propria cabina.
- Qua sotto non mi prenderò nessuna pallottola solo fino a quando non prenderanno la nave! -
Ace la lasciò, fissandola incredulo - Prendere la nave? Non penserai sul serio che quei vili abbiano qualche possibilità di riuscirci!
- Io so solo che non resterò qui ad aspettare che ammazzino qualcuno dei miei cari e che mi facciano prigioniera! Io sono ricercata dalla nascita, ricordi?! E se avessero scoperto in qualche modo la mia identità? – sbraitò Kate. Una parte di lei era consapevole del fatto che il suo ragionamento non aveva molto senso e che si stava comportando da stupida, ma non gliene importava niente. Ormai era al limite della sopportazione, e non poteva più tollerare di restarsene nascosta come una vigliacca mentre gli altri si battevano per difendere quella che era anche la sua casa. Non sarebbe rimasta indietro, non questa volta.
- Ammesso che ci sia una sola probabilità che sia così, restare sul ponte è l’ultima cosa che dovresti fare! – ribatté esasperato Ace, che non capiva cosa fosse preso all’improvviso alla ragazza, e onestamente nemmeno voleva saperlo, in quel momento. Voleva solo che lei si mettesse al sicuro, il resto non era importante. – Non hai niente da temere, io…
- No, non provare a dirmi che dovranno passare sul tuo corpo per arrivare a me! – lo interruppe Kate in un misto di furia e disperazione – Non potrei sopportarlo, preferirei morire adesso piuttosto che permettere che tu…
- Zitta! Non lo dire nemmeno per scherzo! – si infuriò Ace. – Ora basta. Devo andare ad aiutare gli altri…
- No! – gridò Kate, aggrappandosi disperata a lui – No Ace, non andartene. Ti prego, non lasciarmi qui da sola.
Ace sgranò gli occhi e asciugò istintivamente le lacrime che la ragazza aveva versato senza rendersene nemmeno conto, stringendosela al petto per tentare di tranquillizzarla. Sembrava davvero spaventata, e a Ace dispiaceva. Non sopportava di vederla soffrire, non l’aveva mai sopportato, nemmeno agli inizi.
Tuttavia…
- Va bene, ho capito. – sospirò Ace – Non posso permetterti di tornare sul ponte… ma se vuoi posso restare qui con te. Che ne dici?
Kate lo guardò a lungo, indecifrabile. Ace sostenne a fatica il suo sguardo, non l’aveva mai vista così seria. Alla fine la ragazza mollò la presa su di lui e gli rispose – Sì, va bene. Rimani con me.
Ace lasciò andare l’aria che aveva trattenuto e con un dito le sollevò il mento, posandole un casto bacio sulle labbra. Kate però non sembrava disposta ad accontentarsi e posandogli una mano sulla nuca lo attirò più vicino a sé, dischiudendo le labbra per approfondire il bacio. Ace trasalì di fronte a quell’improvvisa intraprendenza ma non si scostò, anzi ne approfittò subito e ricambiò con la stessa foga, nel disperato tentativo di perdersi nel suo profumo e nel suo sapore e di non pensare a ciò che stava per fare.

Non posso farle questo. Non posso ingannarla in questo modo. Non è giusto…

Devi farlo. È per il suo bene.

Non poté tergiversare oltre. Facendo una violenza a sé stesso Ace si staccò bruscamente dalla bocca della ragazza, e muovendosi più rapido di una scheggia schizzò fuori dalla stanza e si chiuse la porta alle spalle, chiudendo dentro la ragazza.
- Ace! – la sentì gridare da dietro la porta.
- Perdonami, Kate… - mormorò Ace, così piano che probabilmente lei non l’avrebbe nemmeno sentito. – Perdonami… ma devo andare a dare una mano agli altri, non posso tirarmi indietro.
- E io invece sì?! – strillò fuori di sé Kate, colpendo con forza la porta.
- Kate, tu sei il medico di bordo, il tuo compito sarà prenderti cura dei feriti quando sarà tutto finito, non mettere inutilmente in pericolo la tua vita. – dichiarò Ace con voce esitante e ferma al tempo stesso – Non puoi esserci quando combatteremo, e non ci sarai. Rimarrai qui perché è più sicuro, non voglio più discuterne.
Detto questo si voltò, afferrò la chiave infilata nella toppa e richiuse la porta a doppia mandata, dietro di sé. Non si fermò lì un momento di più, non voleva sentire le urla di Kate che gli davano del bugiardo e del traditore. Fuggì come il vigliacco che era, come il vigliacco che si sentiva.
- ACE! – urlò fuori di sé Katherine lanciandosi contro la porta. - Aprimi! Non lasciarmi qua sotto. Non ho neppure un’arma! Ace! Fammi uscire... fammi... uscire.
Niente. A risponderle ci fu solo il silenzio. Kate emise un verso di frustrazione e si lasciò scivolare lentamente a terra, toccandosi costernata le labbra che fino ad un attimo prima Ace stava baciando con passione. Era stato un bacio così intenso, così passionale… e amaro, più amaro del veleno. Era stato un bacio di Giuda.
Kate posò la tempia contro lo stipite della porta, stringendo lentamente i pugni mentre il suo viso di adombrava, con l’umiliazione che le avvelenava il sangue. Di norma non si sarebbe arresa, avrebbe lottato per contrastare la volontà delle persone che come sempre volevano controllare la sua vita, soffocandola e imprigionandola proprio come in quel momento… ma quella volta, per la prima volta, non fece nulla. Non prese a calci i mobili, non urlò più, e non tentò nemmeno di scassinare la porta, si limitò a restare seduta sul pavimento, aspettando che tutto finisse, che i cannoni tacessero, le urla finissero, e la calma tornasse. Per la prima volta aspettò e basta… no, non è esatto, non aspettò e basta, fece anche la sua scelta finale, una scelta che sarebbe stata destinata a cambiare la sua vita in un modo che né lei né nessun altro al mondo avrebbe mai potuto anche solo concepire. Una decisione che l’avrebbe portata a fuggire di casa, ad abbandonare l’uomo che amava, a versare il proprio sangue e quello di altri pur di inseguire quell’ambizione che tanto profondamente era radicata in lei, a seguire un uomo che avrebbe odiato e amato al tempo stesso, a diventare il vice capitano di una ciurma che un giorno avrebbe riscritto insieme ad altre la storia della pirateria, e ad affrontare un nemico così potente da non poter mai sperare di poterlo sconfiggere, ma che avrebbe comunque combattuto e vinto, e tutto solo per amore della propria libertà e di quello in cui credeva.
Decise che non avrebbe aspettato mai più. E che non avrebbe amato più alcun uomo, mai più.


Quando diverse ore dopo Ace si decise finalmente ad andare ad aprire la porta, Kate ormai era ad un passo dalla pietrificazione per l’essere rimasta perfettamente immobile nella stessa posizione per così tanto tempo. Il ragazzo si chinò accanto a lei timoroso, quasi fosse convinto che la ragazza potesse sbranarlo da un momento all’altro. Ci sperava, in fondo. Dopotutto se l’era meritato.
- Katie? – chiamò esitante. – Kate, va tutto bene?
Lei non gli rispose. Aveva la testa china e lo sguardo fisso a terra, come se fosse in trance, e non si mosse di un millimetro.
- Katie? – chiamò di nuovo Ace, agitandosi – Kate, cosa c’è che non va?
Ancora nessuna risposta. Ace deglutì, tentando inutilmente di mandar giù il groppo che aveva in gola.
- Kate… ti prego, guardami. Dimmi cosa c’è che non va.
Lei alzò lo sguardo molto lentamente. Lui la guardò negli occhi e indietreggiò inconsapevolmente. C’era qualcosa nei suoi occhi, qualcosa che non c’era quando l’aveva lasciata. Qualcosa di torbido e oscuro, che gli fece istintivamente paura.
- Stai bene, Katie?
Lei lo guardò a lungo con aria assente, poi gli sorrise, Un sorriso apparentemente dolce e affettuoso, ma che in realtà nascondeva amarezza e risentimento, e un oscuro desiderio, come un verme nel torsolo di una mela.
- Ti amo. – gli rispose lei senza smettere di sorridergli. Ace sbatté le palpebre, inspiegabilmente turbato da quelle parole, e lei senza aggiungere altro si alzò, superandolo e uscendo dalla cabina.
Il sorriso era ancora al suo posto. E una nuova storia era appena iniziata.




Angolo autrice:
Ma salve, amici miei! Eccomi qui, dopo quasi un altro mese di attesa! 
Oh, finalmente sono riuscita a pubblicare la seconda parte di questo speciale! Credetemi se vi dico che ho sudato quattordici camicie per arrivare a questo punto... ma sono davvero soddisfatta, non mi sembra ancora vero di avercela fatta!
Dal prossimo capitolo la storia riprenderà il suo normale corso... e credetemi, ora sì che l'azione entrerà davvero nel vivo! Non faccio nessuna anticipazione però stavolta, dovrete leggere per sapere! ;-D
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, e vi ringrazio con tutto il cuore per il sostegno che mi state mostrando. Sul serio, come farei senza di voi?
Baci e abbracci! <3
Tessie
P.S.: La favola che Kate racconta ad Ace non è una mia invenzione, è una storia scritta dal gran maestro Robert Munsch! 


 

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Capitolo 10
*** Capitolo 7 ***


Amor tussique non celatur





Capitolo 7
 
 






La possessività è il culmine
di una pulsione onnipervasiva.
È come un virus folgorante,
 e prolifera come il germe della follia.

- Malek Chebel

 


- Ho commesso un errore. – dichiarò furioso Law per l’ennesima volta – Non avrei dovuto accettare l’offerta di ospitalità di Barbabianca.
Dall’altro capo della stanza Bepo non gli rispose, ma senza farsi notare alzò gli occhi al cielo. Avrebbe voluto sbuffare esasperato nel sentirsi ripetere quelle parole dal proprio capitano per l’ennesima volta, ma non osava farlo nel timore di scatenare una reazione violenta che avrebbe potuto portare a gesti altrettanto violenti come lo smembramento, o peggio. Era infatti molto raro che Law perdesse il controllo di sé in quel modo, ma quando capitava era sempre una catastrofe, e non si poteva mai sapere come l’uomo avrebbe potuto reagire se provocato quand’era in quello stato.
Ormai era da un bel pezzo che il chirurgo andava avanti così, e Bepo non aveva idea di quanto ci avrebbe messo a sfuriare questa volta. Era ormai da tre anni che Law e Kate litigavano per i motivi più assurdi causando ogni volta il finimondo, eppure l’orso ancora non riusciva a ficcarsi in testa che mettersi tra loro era dannoso non solo per l'equilibrio mentale, ma anche per la salute. Sarebbe mai riuscito a tenersi fuori dalle tempeste che quei due causavano ogni volta che si accapigliavano? Bepo ormai non ci sperava nemmeno più, si limitava ad accettare stoicamente il proprio destino, come un riccio che si chiude su sé stesso quando un camion sta per investirlo.
Eppure l’orso sentiva che quella volta c’era qualcosa di diverso. Non sembrava essere affatto la solita lite causata dallo scontrarsi di due caratteri spaventosamente simili nella loro forza e nella loro durezza… questa volta c’era sotto qualcosa di molto più grave e profondo, e Bepo tremava al solo immaginare la serie devastante di disastri che un litigio del genere avrebbe potuto scatenare.
Era passata quasi un’ora da quando Bepo aveva visto il proprio capitano camminare sulla spiaggia impettito e con un’espressione vacua in volto, le spalle rigide per l’ira, e per l’orso in quel momento era stato quasi automatico decidere di andargli dietro mentre tornava al sottomarino, poiché troppo preoccupato per far finta di niente e non tentare di capire per quale motivo il capitano fosse così arrabbiato. Lo aveva seguito fin sul ponte, e una volta arrivati lì si era fatto avanti – anche se di certo Law doveva averlo notato sin dall’inizio – e senza troppi giri di parole gli aveva chiesto cosa ci fosse che non andava.
Quanto se n’era pentito! Era passata più di un’ora da quando gliel’aveva chiesto, e ancora non era riuscito a capire cosa fosse accaduto esattamente. Law infatti non gli aveva ancora risposto chiaramente, si era limitato a camminare avanti e dietro per il ponte come un animale in gabbia per tutto il tempo, borbottando tra sé sempre le solite parole alternate ad alquanto colorite imprecazioni. Bepo ormai era sull’orlo di una crisi isterica, e non credeva di poter sopportare quella atmosfera angosciante ancora per molto.
- Tu lo sapevi?
Bepo si rianimò, rendendosi conto con un secondo di ritardo che Law aveva interrotto di punto in bianco il proprio soliloquio da esaurito e si stava rivolgendo a lui – Scusa, cosa?
- Sapevi che c’era un altro? – ripeté arrabbiato Law, avvicinandosi minaccioso a lui.
Bepo lo guardò senza capire – Un altro?
- Parlo del tizio che è appena arrivato sulla nave del vecchio! Sapevi che Katherine aveva avuto una storia con lui, sì o no?!
- Ah, vuoi dire Ace! – si ricordò Bepo – No, non ne sapevo nulla. Perché avrei dovuto?
- Non riesco ancora a credere che me l’abbia tenuto nascosto per tutto questo tempo. – ricominciò a parlare da solo Law ignorando la domanda dell’orso – Non riesco a credere che mi abbia ingannato…
- Scusa, ma perché dici che ti ha ingannato? – chiese perplesso Bepo senza pensarci – Non sei mica il suo ragazzo, non era di certo obbligata a dirtelo!
Errore madornale. Law si voltò lentamente a guardarlo, e i suoi occhi erano così foschi e minacciosi che Bepo sentì chiaramente il proprio stomaco sprofondargli sotto le scarpe, mentre gocce di sudore gelido gli scorrevano lungo la schiena.
- Cioè, voglio dire… - balbettò Bepo – Mi sembra strano che una persona ragionevole come te stia facendo una scenata solo per questo…
Quelle parole sembrarono calmare il chirurgo, almeno in parte – Non è solo per questo, infatti. Il problema è che sto perdendo il controllo su di lei. Non mi ubbidisce più, mi tiene nascoste le cose, mi manca di rispetto…
- Oh, ma dai, Law! Kate non è mica un animale domestico, è una ragazza, ed è tua amica! Non puoi pretendere di controllarla…
- Invece lo pretendo eccome! È una mia sottoposta, e in più mi deve la vita…
- Ed è tua amica. – ribadì Bepo con il suo tono più ragionevole – E lo è perché tu hai voluto così. Le hai insegnato a combattere, l’hai resa tua vice… come puoi pretendere che dopo tutto questo lei sia silenziosa e remissiva con te quando la tensione aumenta? E poi è Kate! Credi davvero che esista qualcuno su questa Terra capace di controllarla?
Bepo sapeva benissimo che quella domanda non aveva ragion di esistere, in fondo. Per quanto riguardava Law, Kate avrebbe potuto essere benissimo anche Dio in persona, per lui non avrebbe fatto alcuna differenza: avrebbe sentito comunque il bisogno di mantenere il controllo e dominarla, sempre. Il paradosso però era che Law non si comportava così per cattiveria, ma solo per paura: anche se nessuno dei due l’avrebbe mai ammesso – al diavolo il loro dannato orgoglio – i due pirati erano profondamente legati l’uno all’altra, e Law aveva già sofferto in passato per aver perso le persone con cui aveva quel tipo di legame. C’è un limite al numero di pugnalate al cuore che una persona può sopportare nell’arco di una vita, e Law al suo limite ci era arrivato ancora prima di entrare nella pubertà; non poteva rischiare di perdere anche Kate, e visto che era da sempre un maniaco del controllo, sceglieva di prevenire piuttosto che curare. Se solo si fosse reso conto del fatto che comportandosi così non faceva altro che peggiorare le cose…
Kate voleva bene a Law, questo era evidente; ma era anche indocile, troppo per accettare la possessività di Law senza lamentarsi, nemmeno con la consapevolezza che l’uomo nonostante tutto non voleva farle del male, ma che cercava soltanto di proteggere sé stesso. Il loro era un dannato circolo vizioso, e Bepo iniziava a temere che avrebbero finito per distruggersi a vicenda.
- Devo trovare un modo per ristabilire l’equilibrio. – stava dicendo intanto Law – Se non farò nulla e continuerò a permetterle di comportarsi così perderò anche il rispetto del resto dell’equipaggio, e …
- Oh, andiamo, perché non vuoi ammettere che tutto questo non ha niente a che fare con la sua insubordinazione degli ultimi giorni? – chiese Bepo, stanco di girare intorno al problema – Il problema non è la sua disobbedienza, il problema è la tua gelosia. Sei geloso di questo ragazzo e di ciò che ha evidentemente significato per Kate, e vuoi a tutti i costi “riprendere il controllo” su di lei per assicurarti che lui non si metta tra voi, e che non la convinca a tornare con loro.
Eccola lì, la grande verità. Ecco perché la faccenda era tanto seria. Bepo non credeva che Law fosse innamorato di Kate – se non altro perché non credeva possibile che il suo capitano, gelido e distaccato per natura, potesse interessarsi romanticamente parlando a chicchessia -, ma in compenso la possessività poteva dare problemi anche peggiori, specie se subentravano terzi incomodi come in quel caso. Non c’era da stupirsi che Law fosse incavolato, considerando gli eventi degli ultimi giorni e anche il carattere di Katherine, che poteva avere tante doti dalla sua parte, ma la condiscendenza non era tra queste. E il fatto che di questo Law fosse consapevole più di chiunque altro.
Bepo tremò. Se, come lui temeva, Law avesse davvero tentato di imporle con la forza la propria autorità sperando – ovviamente inutilmente – di scongiurare un eventuale ripensamento della ragazza, e lei gli avesse di conseguenza tenuto spavaldamente testa… sarebbe finita. Di certo tra i due si sarebbe innescato un braccio di ferro dalle proporzioni catastrofiche, con assicurato un esito ancora peggiore. I due medici erano infatti entrambi troppo inflessibili per prendere anche solo in considerazione l’idea di cedere terreno all’altro, perciò avrebbero continuato di sicuro a sfidarsi e ad attaccarsi a vicenda finché il loro rapporto non sarebbe stato irrimediabilmente rovinato. Non sarebbero stati mai più capaci di andare d’accordo, avrebbero finito per detestarsi a vicenda, e alla fine Kate avrebbe preso baracca e burattini e se ne sarebbe andata, arrivando alla conclusione che non valeva proprio la pena di seguire per mari un sociopatico con manie di controllo come Trafalgar Law, visto il trattamento che il suddetto le aveva riservato. In poche parole, prendendo quella che riteneva fosse la strada per evitare una cosa del genere, Law avrebbe finito paradossalmente per andarle incontro.
Il chirurgo lo fissò esterrefatto per un attimo, colpito dalle sue parole, ma ci mise poco a tornare indifferente – No. Non è vero. Non importa nulla di quello che c’è, o c’è stato tra quel tizio e Kate.

Ma se mi hai chiesto cosa sapessi del loro rapporto meno di dieci minuti fa!

Senti… secondo me non hai nessun motivo di preoccuparti. – dichiarò Bepo, ignorando le parole del chirurgo e la voce nella propria testa che lo stava recriminando - Qualunque tipo di relazione abbia avuto Kate con quel ragazzo, l’ha chiaramente troncata tre anni fa quando ha lasciato quella nave. Non c’è motivo di pensare che lui possa rappresentare un problema, sono certo che tra loro è tutto finito molto tempo fa.
- Lui l’ha baciata. – sibilò Law, incupendosi improvvisamente.
- Ma probabilmente non significava nulla… - ragionò Bepo, nascondendo a malapena il proprio nervosismo – Se sono rimasti in buoni rapporti, può essere che si siano lasciati semplicemente prendere dalla foga del momento… lei non voleva nemmeno trattenersi qui, l’hai dimenticato?
Law non sembrava ancora convinto, ma almeno l’aura nefasta intorno a lui si era attenuata.
- Per quanto riguarda l’insubordinazione di Kate negli ultimi giorni, invece… sono certo che si è trattato solo di un episodio. Le circostanze erano alquanto complicate, la vita di suo fratello era in pericolo, credo che fosse alquanto prevedibile che potesse comportarsi così. Ora però è tutto a posto, e vedrai che le cose torneranno presto come prima.
- Lo pensi davvero? – chiese Law dopo un istante.
- Ma certo! Anzi, perché non fai una cosa intelligente e non ti fai rassicurare direttamente da lei? – chiese Bepo con un sorriso – Siete sempre stati onesti l’una con l’altro, no?
Law alzò un sopracciglio.
- Ok sì, forse qualche segreto tra voi c’è stato… – si corresse rammaricato Bepo - Ma non vi siete mai raccontati bugie a vicenda, se non sbaglio…per cui se le chiedi direttamente se tra lei ed Ace è tutto finito e se ha intenzione di seppellire l’ascia di guerra, sono sicuro che sarà sincera. Dammi retta, è meglio se le parli, non ha senso scatenare il finimondo se la cosa si può risolvere con calma.
Law sembrò rifletterci su, e Bepo ne approfittò per iniziare a pregare tutti i kami del mondo affinché tutto si sistemasse senza incidenti o omicidi di ogni sorta. In fondo non era poi così assurdo sperare di scampare il disastro, no? Dopotutto si stava pur sempre parlando di persone adulte e ragionevoli, mettere da parte i contrasti non poteva essere poi così difficile, per loro.
- Forse hai ragione…  - disse infine Law – Forse sto esagerando io…
- Ma certo che sì! – annuì convinto Bepo – Dai, vai da lei e chiarite questa faccenda una volta per tutte. Falle anche una ramanzina se credi, ma non esagerare, sennò la farai arrabbiare di nuovo…
- Devo ricordarti che dovrei essere io quello arrabbiato? – chiese Law con una certa stizza. Bepo preferì non ribattere, aveva preso le parti di Kate anche troppo per quel giorno. Certo, era vero che il Chirurgo della Morte aveva un carattere davvero difficile da gestire, ma in fondo nemmeno O’Rourke D. Katherine era da meno. L’orso aprì la bocca per scusarsi con l’uomo…
- Oh, ma davvero? E per cosa dovresti essere arrabbiato? – chiese provocatoria una voce femminile – Questa voglio proprio sentirla!
Bepo rimase interdetto per un secondo, mentre il suo cuore perdeva un battito. Non osò voltarsi, non voleva vedere ciò che il suo cervello purtroppo aveva già registrato, come se il non vedere potesse permettergli davvero di cullarsi nell’illusione che le proprie previsioni non fossero sul punto di avverarsi proprio lì e proprio in quel momento.
Quando diavolo era tornata sul sottomarino Katherine?! E da quanto tempo stava ascoltando?!
- Dolcezza! Proprio di te stavamo parlando. – esclamò Law con un ghigno, riacquistando all’istante tutta la propria spavalderia. I suoi occhi però erano ancora foschi – Non pensi che io e te dovremmo fare un discorsetto?
- Io e te? No, non penso proprio. – replicò indifferente Kate – Sono tornata sul sottomarino solo per prendere una cosa, e francamente speravo davvero di non dovermi ritrovare davanti la tua faccia da schiaffi. Ahimè, non è il mio giorno fortunato.
- Ricominci a provocarmi, dolcezza? – chiese Law, una vena sulla fronte aveva già cominciato a pulsagli – Quando imparerai che ogni parola che dici comporta sempre delle conseguenze?
- Non saprei…tu quando imparerai che questi scambi verbali, per quanto appassionanti, sono solo un vacuo esercizio di ironia senza utilità alcuna, che la superbia e la spudoratezza non ti rendono affascinante ma solo ridicolo, e soprattutto che non hai il permesso di chiamarmi dolcezza?

Oddioooo…. Pensò Bepo terrorizzato, incassando la testa nelle spalle.

- Ora, se volete scusarmi… - continuò Kate dirigendosi verso la passerella – Devo vedere una persona, e non voglio farla aspettare.
- Una persona? E chi sarebbe, il tuo amico Portgas-ya? – chiese velenoso Law – Credevo che su quella nave vigesse la ridicola regola che i membri dell’equipaggio sono tutti fratelli tra loro. Oppure nel vostro vasto repertorio è compreso anche l’incesto?
- Innanzitutto non c’è alcuna regola, il nostro è solo un modo di vedere. – replicò irritata Kate, per poi ghignare con aria cattiva – E poi… davvero Law, sei perfino più ingenuo di quanto pensassi, se credi che io ed Ace siamo semplici amici. Lo spettacolo di prima ha forse lasciato adito a dubbi? Allora forse la mia teoria sul tuo stato di impotenza e la tua repressione non era così campata in aria… se non riesci nemmeno a distinguere un bacio da un saluto tra beduini allora devi essere messo proprio male… sia là sotto che lì sopra.
Law sgranò gli occhi, le narici dilatate e le guance rosse per la rabbia. Bepo ormai sudava freddo e si era già messo in posizione, pronto a darsela a gambe se i due pirati fossero arrivati alle mani.
Adulti e ragionevoli, eh? Risolvere le cose con calma, eh?!
Avrebbe dovuto immaginare che era un’utopia, dannazione. Certo che non erano in grado di sistemare le cose come due persone mature! Erano bambini dell’asilo, mica adulti!
- Se vuoi insinuare che io… - iniziò Law, ma Kate lo interruppe.
- Lo sai Law, per quanto io possa trovare spassoso prendermi gioco di te e della tua sociopatia senza speranza, ho cose più importanti da fare. Ti saluto, mio capitano...
- Un momento! – tuonò Law – Non ho ancora finito con te! Ti proibisco di andare da quel tizio, ho detto che dobbiamo parlare…
- Be’, dovrai aspettare. Non vedo Ace da troppo tempo, e in questo momento con te non parlerei nemmeno delle condizioni meteorologiche. Perché nel frattempo non vai nel tuo laboratorio a vivisezionare qualche povero cadavere? Sospetto che un morto potrebbe essere il partner ideale per te… anche loro se ne fregano dei sentimenti altrui, e in più nemmeno ti rispondono se li offendi o manchi loro di rispetto.
Era troppo. Bepo indietreggiò in fretta e furia per evitare di ritrovarsi per sbaglio nel mezzo dell’imminente rissa, e senza nemmeno osare prendere in considerazione l’idea di intervenire per evitare spargimenti di sangue chiuse gli occhi, sperando che finisse tutto in fretta.
Ma non accadde nulla. Law non saltò alla gola di Katherine, anzi nemmeno si mosse, rimase semplicemente lì a fissarla, troppo esterrefatto per dire anche solo una parola. Nel vedere che gli aveva tappato la bocca, Katherine sghignazzò e si allontanò trasudando compiacimento da tutti i pori, ogni suo muscolo facciale che gridava: Prendi e porta a casa, Trafalgar Law.
Law non provò a fermarla. Bepo non l’aveva mai visto così, sembrava che le parole della ragazza lo avessero del tutto paralizzato. L’orso era consapevole del fatto che avrebbe dovuto essere contento della scampata tragedia, e invece si sentiva ancora più preoccupato di prima. Perché Kate non era mai stata così meschina, né con lui né con nessun’altro.
Un atroce sospetto attraversò la mente del navigatore – Capitano, non è che le hai detto qualcosa di sgradevole stamattina quando è venuta a cercarti sulla Moby Dick?
Law non gli rispose. Sembrava essersi riscosso dal proprio stato di catalessi, e ora sembrava così fuori di sé che al confronto un’ora prima avrebbero potuto scambiarlo per il fratello gentile di Gandhi.
- Le cose stanno così, dunque? Preferisci andare da lui? – ringhiò il chirurgo tra i denti – Molto bene, dolcezza… vedremo se non ti ricorderai a chi appartieni!
E se ne andò. Bepo non provò nemmeno a fermarlo, si sentiva improvvisamente troppo stanco per fare alcunché.
Non perse nemmeno tempo a pregare: tanto ormai l’Apocalisse era già annunciata, e probabilmente a quel punto nemmeno tutti i kami del mondo sarebbero riusciti a scongiurarla.


- Katie, va tutto bene? – chiese Ace alla ragazza, tirandole con delicatezza una ciocca di capelli per attirare la sua attenzione – Sembri lontana milioni di chilometri.
Kate trasalì e alzò la testa verso il ragazzo, posando il mento sulla sua spalla. Erano in camera di lui, distesi sul suo letto abbracciati l’uno all’altra. No, non pensate male, non era successo niente di sconveniente, non si erano più neanche baciati…e Kate non riusciva a stabilire se era sollevata dalla cosa oppure no. Sì, perché da una parte sarebbe stato molto meglio per entrambi se fossero riusciti a mantenere una certa distanza, poiché se si fossero riavvicinati troppo poi avrebbero di nuovo sofferto entrambi come cani quando per Katherine sarebbe arrivato il momento di andarsene… ma dall’altra Katherine avrebbe fatto qualunque cosa in quel momento pur di scacciare i cattivi pensieri che la stavano torturando, anche a farsi del male da sola come fanno le persone depresse con le lamette. Perché a dispetto della propria felicità nel rivedere Ace, a dispetto del sollievo che le aveva dato scoprire che, malgrado il modo in cui si era comportata, i suoi familiari la amavano ancora, a dispetto del fatto che negli ultimi tre anni aveva ottenuto quello che aveva desiderato per tutta la vita, Kate non aveva cambiato idea. Non voleva tornare indietro.
Una parte di lei era rimasta sgomenta quando era arrivata a quella conclusione: come poteva fare una simile scelta, considerando quello che era accaduto negli ultimi giorni, e soprattutto nelle ultime ore? Thatch che era stato ad un passo dalla morte, la ciurma che non aveva più un medico su cui fare affidamento, Ace che a quanto pareva non l’aveva dimenticata, i fratelli che l’avevano perdonata e che non avevano nulla da ridire sul suo cambiamento… come poteva voltare le spalle a tutto questo e andarsene? E per che cosa, poi… per seguire un chirurgo insensibile e egoista che aveva apertamente dichiarato di non avere alcuna considerazione di lei, o della loro amicizia?
Quando era tornata al sottomarino, e aveva sentito Bepo e Law discutere, era stato automatico per lei restare in disparte ad origliare; era sbagliato e lo sapeva, ma non aveva potuto comunque farne a meno. E quando l’aveva sentito parlare di lei in quei termini, come se fosse stata non un’amica, ma una marionetta da controllare… qualcosa in lei si era spezzato, e un torrente di rabbia e umiliazione le si era riversato nel petto, incattivendola e spingendola ad uscire allo scoperto. Lo aveva provocato, lo aveva insultato, e solo per tentare di arginare quel risentimento che l’aveva travolta. Una sorta di vacua rivincita, che non era servita a nulla, se non ad inquietarla ancora di più.... perché lei in realtà non era andata al sottomarino per recuperare qualcosa, ma ci era andata per tentare di chiarire. Di riappacificarsi con Law, per dimenticare le loro divergenze degli ultimi giorni e ricominciare da capo. Per questo quando gli aveva sentito dire quelle cose su di lei ci era rimasta così male.
Avrebbe dovuto semplicemente farsi una ragione di quella storia e basta, rifletté infastidita Kate, prendere atto del fatto che Law era fatto così e basta, e magari anche mandare a quel paese quel medicastro di seconda categoria e andare avanti per la propria strada da sola, eppure non ci riusciva. Sebbene quello che aveva sentito dire da Law fosse inaccettabile, nel profondo c’era qualcosa in lei che si ribellava a quella realtà, che non riusciva semplicemente ad accettare la considerazione che Law aveva di lei e ad andarsene con la coda fra le gambe; un impulso irresistibile che la spingeva a desiderare di cambiare le cose, a dimostrargli che lei valeva molto più di così, e che lui non poteva controllarla. Scappare sarebbe stato troppo semplice, lei desiderava combattere, dimostrare il proprio valore, e guadagnarsi il suo rispetto.
Sì, era un’idiota. Un’idiota che voleva rinunciare ad una famiglia affettuosa e ad un uomo che l’amava per seguirne un altro con cui era costantemente in conflitto, che non la considerava e probabilmente neanche la stimava, ma che la reputava semplicemente un membro del proprio equipaggio, né più e né meno di tutti gli altri. Anzi, nemmeno quello, la considerava una specie di oggetto, qualcosa da possedere… come poteva Law vederla in quel modo, ma soprattutto come poteva lei sentirsi nonostante tutto ancora legata a lui e non volersene comunque andare?!
Kate guardò Ace negli occhi, che ricambiò confuso e preoccupato il suo sguardo, e si sentì piccola e meschina paragonata a lui. Era stato soprattutto lui a parlare da quando l’aveva raggiunto in cabina, lei lo aveva semplicemente ascoltato, sinceramente interessata ai suoi racconti nonostante il turbinio di pensieri che si agitava nella sua testa. Il ragazzo le aveva raccontato tutto ciò che si era persa negli ultimi tre anni, aneddoti divertenti, imprese incredibili, momenti in famiglia… ma non aveva accennato nemmeno una volta alla loro relazione, e nemmeno aveva più cercato di baciarla, o di fare qualunque cosa che potesse turbarla ulteriormente. Doveva di certo aver capito che c’era qualcosa che la preoccupava, e che in quel momento sarebbe stato inopportuno affrontare l’argomento… Kate era rimasta sconvolta dalla sensibilità che aveva manifestato, e dalla discrezione che aveva dimostrato. Doveva essere maturato molto negli ultimi anni… eppure nel profondo la dottoressa non poteva fare a meno di sentirsi quasi irritata da tutta quella delicatezza, come se Ace non la ritenesse capace di sopportare certi pesi.
Era pazzesco quanto riuscisse a diventare stupida, a volte. Finalmente, dopo tre anni di separazione, Ace era lì accanto a lei, amorevole e comprensivo come era sempre stato, pronto ad accettarla di nuovo e a darle tutto sé stesso se solo l’avesse chiesto, e lei non riusciva a fare altro che pensare ad un chirurgo dal cuore di pietra con strane manie di possesso. Presto lei sarebbe andata via, e probabilmente non avrebbe rivisto mai più l’uomo che le stava accanto adesso… un uomo che aveva certo commesso degli errori, ma che l’amava, che l’ammirava, e che mai e poi mai si sarebbe sognato anche solo di pensare a lei come a qualcuno “da tenere sotto controllo”. Come poteva far fatica a dedicargli i propri pensieri e a trovare invece facile dedicarli piuttosto ad uno che non li meritava affatto?
- Perdonami, Ace. – mormorò Kate sfiorandogli con delicatezza una guancia – Sono stati giorni difficili… mi sento travolta da tutto quanto.
- Ci credo. Dopo quello che è successo a Thatch… - sospirò Ace – Mi sembra ancora impossibile che tu sia riuscita ad arrivare fino a qui per salvarlo.
- È mio fratello. Il fallimento non era un’opzione. – dichiarò ferma Kate.
- Marco mi ha raccontato che sei anche riuscita a sconfiggere senza problemi un uomo di Kaido… - continuò Ace – Quando me l’ha detto quasi non ci credevo. Sei diventata molto forte, eh?
Kate distolse lo sguardo – Sì, abbastanza. Ma ci sono ancora molte cose che devo imparare.
Ace annuì, sembrava stordito quanto lei – Non riesco ancora a credere che tu sia qui… credevo che non ti avrei rivisto mai più…
- Lo pensavo anch’io, a dir la verità… - replicò Kate accennando un sorriso – Ma a quanto pare il passato non tollera di essere ignorato troppo facilmente.
Ace sorrise raggiante e le accarezzò dolcemente i capelli, sfiorandole le labbra con il pollice. Kate vedeva chiaramente la speranza e il desiderio che c’erano nei suoi occhi, e avrebbe tanto voluto rassicurarlo, promettergli che avrebbero avuto un futuro, che sarebbe rimasta con lui… ma era come se ci fosse un tarlo dentro di lei, che la divorava un po’ alla volta e le ricordava di come quel sentimento tre anni fa, per quanto l’avesse resa felice, non le era comunque bastato.

Quanto vorrei poterti amare come riuscivo a fare una volta... Pensò disperata Kate. Una volta non mi serviva altro che sapere che tu amavi… ma poi l’ambizione mi ha corrotta, proprio come tanto tempo fa ha corrotto Norma Jean. Perché non riesco a farmi bastare tutto questo, che è molto più di quanto io meriti?

Kate prese un profondo respiro; poi ne prese un altro, e con tutta la delicatezza di cui era capace si districò dall’abbraccio di Ace e si alzò dal letto, mettendosi in piedi davanti a lui. Il ragazzo alzò lo sguardo verso di lei e la fissò, confuso da quell’allontanamento improvviso.
- Ace, non c’è un modo semplice per dirlo, perciò… devo dirtelo e basta. – cominciò Kate, raddrizzando le spalle nel tentativo di farsi coraggio – Sono venuta qui perché Thacht stava male, e aveva bisogno del mio aiuto... e non puoi immaginare quanto io sia stata felice di rivedervi tutti quanti, ma soprattutto di aver potuto riabbracciare te. Ma non sono tornata per restare… ripartirò tra una settimana, insieme ai miei nuovi compagni.
Ace scattò su a sedere di scatto – Cosa?
- Non posso restare… - ripeté sussurrando Kate, mentre Ace si alzava in piedi – Ormai io ho una vita lontano da questa nave… non me la sento di abbandonare tutto.
Ace era impallidito – Tu… non vuoi rimanere?
- Non posso. Questo non è più il mio posto… ammesso che lo sia mai stato.
Ace barcollò e mise la mano su una colonna del letto per mantenersi in equilibrio. Sembrava qualcuno a cui avessero assestato all'improvviso e con violenza un calcio nello stomaco. – E dov’è il tuo posto, allora?
Kate spostò il peso da una gamba all’altra, a disagio. Non era sicura nemmeno lei di quale fosse la risposta giusta, ma disse comunque – Con i miei nuovi compagni… con i pirati Heart.
Ace la guardò frastornato. Sembrava quasi che gli avessero chiesto di credere a qualcosa di impossibile... alla neve in estate, o ad un mare senza onde.
- Ma… ma qui c’è la tua famiglia. Ci sono io! – esclamò Ace, la voce incrinata – Vuoi lasciarmi ancora?! Io ti amo, Kate, e so che anche tu mi hai amato…
- Ma certo che ti ho amato! – urlò Kate, gli occhi che le bruciavano di lacrime – Ti ho amato così tanto… ma non fa alcuna differenza.
Sembrò che Ace avesse ricevuto uno schiaffo – Come puoi dirlo?! Come puoi dire che non fa differenza?!
- In me c’è qualcosa che non funziona, Ace. – mormorò Kate – Ti ho amato, in parte ti amo ancora… ma non è abbastanza. Non posso rassegnarmi, non posso farmelo bastare. Sento che mi mancherebbe qualcosa… così come lo sentivo tre anni fa.
- Stai dicendo che non sono abbastanza, per te? – chiese Ace con un filo di voce.
- No, certo che no! – gridò Katherine, afferrandogli con foga le mani – Non pensarlo neanche per un istante! Tu sei così buono, così dolce, così meraviglioso… sei troppo per me, non ti merito.
- Lascia che questo sia io a deciderlo. – replicò Ace, prendendole il volto tra le mani – Hai avuto quello che volevi, no? Volevi diventare più forte, essere in grado di badare a te stessa…e ci sei riuscita, e io sono molto fiero di te. Ora puoi tornare a casa, puoi tornare insieme a noi! Tutti su questa nave hanno visto di cosa sei capace… nessuno si sognerebbe più di lasciarti indietro. – Ace annullò la distanza tra di loro e avvicinò il proprio volto al suo – Ritorna a casa, Kate… ritorna con le persone che ti amano.
Kate si morse le labbra, incapace di distogliere lo sguardo da quello infuocato del ragazzo. Quanto sarebbe stato semplice dirgli di sì e farlo felice! Sarebbe stata la cosa migliore da fare, la più logica, Kate lo sapeva. Ace aveva detto tutte cose giuste, e il suo ragionamento era inattaccabile… perché non sarebbe dovuta rimanere? Cosa la tratteneva?
- No. – si sentì dire – No, non posso. Cerca di capire, per favore.
Fu come se l’avesse spinto via. Ace si allontanò di scatto da lei, e la guardò come se non la riconoscesse – Non ci posso credere…
Kate si morse ancora le labbra, e fece un passo verso di lui – Ace…
- Cosa c’è che non va, in te?! – le urlò contro Ace – Ti ho detto che ti amo! Ti ho aspettato per tre anni, mentre tu eri chissà dove a fare chissà cosa! Davvero non sai dirmi nient’altro che no?!
Kate sentì una lacrima bagnarle una guancia – Mi dispiace…
- Non dispiacerti. È ancora presto per farlo. – la interruppe Ace, il tono duro di determinazione – Perché non ho intenzione di mollare. Ti farò cambiare idea, vedrai.
- Ace… - cominciò Kate, ma lui la interruppe ancora scuotendo la testa – No. Questo non me lo puoi impedire.
- Ace. – ripeté Kate, il tono denso di rimprovero. – Per favore, lascia perdere…
- No.
- Complicherai solo le cose!
- C’è di peggio.
- Non cambierò idea, sappilo.
- Lo vedremo.
- Ace! – lo rimproverò ancora Kate.
- È inutile che ti arrabbi, Katie. Tu hai le tue convinzioni, io le mie. Non hai l’esclusiva della testardaggine, sai?
- Ti farai male. – mormorò Kate – E lo farai a me.
Stavolta Ace non rispose subito. Sembrò rifletterci su, e per un solo istante Kate osò sperare che avesse capito. Ma durò poco, perché Ace dopo qualche secondo disse – Mi dispiace Katie, ma tu non sei l’unica che ha un obbiettivo da raggiungere. L’altra volta ti ho lasciato andare senza combattere… stavolta non andrà così. Non lascerò nulla di intentato.
-  Bene, allora! – esclamò Kate, arrabbiandosi per non piangere - Fa’ come credi! Ma non dimenticare che io ti ho avvisato!
E scappò. Non poteva più restare lì dentro. Corse via, corse così veloce che l’aria le fece resistenza, come a trattenerla lì dov’era, insieme ad una flebile voce in fondo alla sua testa che sussurrava: Aspetta…
- Katherine? – la chiamò una voce perplessa, facendola riemergere dal vortice – Kate, va tutto bene?
Kate piantò i piedi nel pavimento e si fermò, totalmente presa alla sprovvista. Si voltò, confusa…
E vide suo padre che la guardava. No, non Barbabianca... Memphis. Il vecchio dottore non sembrò confuso o preoccupato quando vide la sua espressione sconvolta e il viso macchiato di lacrime… sembrava solo consapevole e rassegnato, come se si fosse aspettato di vederla in quel modo.
Katherine se ne accorse a malapena, troppo meravigliata per badarci – Memphis! Ti sei svegliato!
- Così pare, bambina.
Kate lanciò un gridolino felice e corse da lui, dimenticando le proprie tribolazioni, i propri dubbi e tutto il resto, tranne la gioia di rivederlo in piedi e sveglio. Memphis si sorprese vedendosela piombare addosso in quel modo, poi sorrise, spalancò le braccia e se la strinse forte al petto, proprio come aveva fatto la prima volta che si erano incontrati. Sapeva di sangue, di flanella e di disinfettante, il classico odore che hanno di solito i dottori.
Dopo qualche istante Memphis la lasciò con una piccola smorfia di dolore - Piano. - le disse - Mi sono ripreso quasi completamente, ma mi fa ancora male tutto... anche se questo potrebbe essere semplicemente colpa della vecchiaia.
- Sciocchezze… sei ancora nel fiore degli anni! – rise nervosamente Kate, stringendo con le dita la sua camicia – E Thatch? Si è svegliato anche lui?
- No, lui è ancora incosciente. Ma non preoccuparti… – si affrettò a rassicurarla Memphis, adocchiando all’istante la sua preoccupazione – Prima di uscire dall’infermeria gli ho dato un’occhiata, sta molto meglio. Vedrai che si sveglierà presto.
Kate annuì, per poi sistemarsi il suo braccio sulle spalle per sorreggerlo – Vieni, cerchiamo un posto tranquillo dove farti sedere. Non ti saresti dovuto alzare dal letto, sei uno zuccone.
Alla fine decise di accompagnarlo nel suo angolino privato, quello a poppa della nave. Lo fece distendere con cautela sulla sdraio, lo coprì con una coperta che si era fatta portare da un’infermiera, e iniziò scrupolosamente a visitarlo, ignorando deliberatamente per tutto il tragitto le sue proteste e i suoi tentativi di tranquillizzarla.
- Guarda che sono un medico anch’io, Kate. So capire quando sono in buona salute!
- Sta’ zitto. – lo rimbrottò severa Kate – Hai perso il diritto di controllare da solo le tue condizioni nel momento in cui ti sei avvelenato da solo con la colchicina. Sul serio, mi dici come diavolo hai fatto a ferirti con quel bisturi?
- Semplice: ci sono caduto sopra. – rispose candidamente Memphis, guadagnandosi un’occhiataccia da parte della figlia.
- Sul serio, se non avessi avuto ragione del fatto che sei un luminare della medicina, ti avrei segnalato io stessa all’Ordine come pericolo pubblico, e ti avrei fatto anche radiare dall’albo.
- E come l’avresti giustificato? Essere goffi o idioti non è contro la legge. – scherzò Memphis.
- Buon per te, allora. – borbottò Kate. Il tono era ancora severo, ma i suoi occhi brillavano divertiti mentre si posizionava dietro di lui e appoggiava la campana dello stetoscopio su una scapola – Ora fa’ un respiro profondo.
Memphis obbedì, e Kate rilassò leggermente le spalle, sollevata dall’essersi liberata dal peso del suo sguardo penetrante anche solo per un attimo. Da quando si era rimesso in piedi non aveva smesso un solo istante di guardarla in quel modo, come se riuscisse a leggerle nel pensiero, e non fosse affatto sorpreso da quello che vedeva. Non era una sensazione piacevole, specie se si consideravano le condizioni mentali di Kate in quel momento.
- Sei un po’ troppo silenzioso. – si sentì dire Kate prima di avere il tempo di collegare la bocca al cervello – Mi vuoi dire cosa ti passa per la testa? Prima che io impazzisca?
Lui torse il busto per arrivare a guardarla – Cosa ti fa pensare che ci sia qualcosa di particolare che mi passa per la testa?
- Rispondi ad una domanda con un’altra domanda? Allora è qualcosa di grosso! – dichiarò Kate mentre si sfilava gli auricolari dalle orecchie, la voce che le tremava leggermente per il nervosismo – Su, parla.
Memphis sospirò, ora anche lui stava sorridendo nervosamente – Bene, come vuoi. Lo so che non è una cosa di cui ami parlare, e che probabilmente ti dà fastidio anche solo pensarci, però… non posso farci nulla, ogni volta che ti guardo rivedo la mia Norma Jean.
- Nel senso che vedere me ti fa tornare in mente la vostra storia? – chiese Kate, i muscoli che già iniziavano a tendersi.
- No. Nel senso che tu le assomigli molto.
Ecco, lo aveva detto. Kate, arrabbiata, si alzò dalla sedia e si allontanò bruscamente da lui, serrando le mani sulla balaustra della nave per evitare di fare sciocchezze.
- Ecco, lo sapevo che ti saresti arrabbiata… – sospirò Memphis.
- Ci puoi giurare che mi sono arrabbiata, papà. – sibilò Kate senza voltarsi – Sai com’è, quello che mi hai fatto non è esattamente un complimento.
- Questo è quello che pensi tu. – replicò Memphis – Per come la vedo io non c’è complimento migliore che potrei fare a mia figlia.
Kate si girò di scatto a guardarlo – Scusa, come?!
- Adesso calmati, Kate. – l’ammonì Memphis – Siediti e parliamone.
- Voglio stare in piedi.
- Come vuoi. – sospirò Memphis, riposando il busto sullo schienale della sedia – Ascolta, lo so che le storie che hai sentito su tua madre non sono state molto lusinghiere…
- Norma Jean è un’assassina, un’avida assetata di potere, incapace di alcun sentimento. – affermò Kate controllando a stento la voce – Non posso credere che tu riesca a trovare il coraggio di difenderla! Proprio tu, che sei quello che lei ha ferito più di tutti…
- Kate, ora basta. Smettila di gridare, ti sentiranno tutti. – la rimproverò Memphis. Ora era davvero arrabbiato, il volto cupo e austero. Kate si zittì, non ci poteva credere.
- Non mi piace che mi si paragoni a lei.
- Katherine, tu non sai niente di tua madre.
- So quanto basta.
- No, non è vero.
Kate strinse i denti, nel tentativo di controllarsi. Se si fosse trattato di qualcun altro, di chiunque altro, la dottoressa non avrebbe esitato un solo istante a prenderlo a pugni per fargli passare la voglia di fare certi discorsi… ma lui non era chiunque altro, era Kenmei Memphis, l’uomo più tranquillo e pacifico del mondo, che probabilmente non aveva mai alzato la voce in vita sua, e che di certo non aveva mai usato la violenza con nessuno, nemmeno per difendersi; alzare le mani su di lui sarebbe stato peggio di sparare sulla Croce Rossa, senza contare che era pur sempre suo padre.

Che giornata del cavolo.

- E va bene. – sputò alla fine Kate, lasciandosi cadere pesantemente seduta accanto a lui – Dimmi, dunque: perché questa tua irascibile figlia dovrebbe considerare un complimento l’essere paragonata ad O’Rourke D. Norma Jean? Ti prego, spiegamelo, perché io proprio non lo capisco.
- Te l’ho detto, Kate: tu di tua madre non sai nulla. – rispose pacato Memphis – Se tu l’avessi conosciuta come ho fatto io… be’, forse non arriveresti a volerle bene, ma di certo la rispetteresti.
- D’accordo. E perché?
- Perché ha avuto una vita difficile. E perché ha sofferto tanto, molto più di quanto chiunque potrebbe pensare, e perché ha sempre cercato di fare del proprio meglio per le persone che considerava importanti per lei.
Kate lo guardò come se fosse impazzito. Stavano davvero parlando della stessa persona?
- Da ragazza Norma Jean era… un animo inquieto. – spiegò Memphis – Il suo destino sembrava essere quello di vivere esiliata a Cherry Blossom per tutta la vita, ma lei non riusciva ad accettarlo. Si sentiva soffocare, incapace di sopportare i confini dell’isola, umiliata da quella condizione di prigioniera... pensò spesso di suicidarsi. Diceva sempre che per lei era un impulso troppo forte quello di lasciare la propria casa. Era qualcosa che non poteva controllare, che le toglieva il sonno e la serenità, un tarlo che la rodeva dall’interno… lasciò l’isola non per capriccio, ma perché ne aveva bisogno. Tutto questo non ti ricorda niente?
- Non ho dei problemi con il fatto che abbia lasciato l’isola! – protestò Katherine, intuendo il velato paragone con lei – Ma lei era spietata, ha ucciso tantissima gente…
- È vero. Ma l’ha fatto per proteggersi, non per il puro gusto di far del male.
Kate trattenne il fiato – Non ci credo.
- È la verità – replicò Memphis – Ragiona, Kate: lei era un O’Rourke, e non ha mai nascosto il nome che portava… sul serio pensi che non le abbiano dato la caccia per anni, nel tentativo di impadronirsi dei suoi poteri, o anche solo per ridurla al silenzio, proprio come avevano fatto nei Cento anni del Grande Vuoto? – chiese Memphis – Era un vero bersaglio vivo, era costantemente braccata, viveva nella paura… e non poteva tornare a casa, se non voleva attirare i suoi nemici all’isola; così ha dovuto agire di conseguenza, razziando e uccidendo per costruirsi una reputazione di assassina che potesse scoraggiare i tentativi delle persone che volevano catturarla.
- Io conosco una storia diversa. – dichiarò testarda Kate – A lei piaceva uccidere... non esitava mai, me l’hanno raccontato in molti. Dicevano che era avvelenata dalla rabbia, che era assetata di sangue…
- Oh andiamo Kate, credi davvero che le cose siano così semplici?! – la interruppe spazientito Memphis – Certo che era arrabbiata! Tu non saresti stata arrabbiata se avessi avuto interi eserciti a darti la caccia?! Era arrabbiata, certo, e a volte perdeva il controllo. Era spaventata! Davvero vuoi condannarla per questo?
- Io semplicemente non posso credere che Norma Jean sia la donna che stai descrivendo tu. – affermò Kate – Parli di lei come se fosse una persona tormentata, fragile…
- Perché lo era. Lo è sempre stata, anche se è sempre stata bravissima a nasconderlo. – confermò Memphis – Ascolta, che tu ci creda o no, Norma Jean non è mai stata una donna cattiva. Ha commesso degli errori nella vita, ma ha sempre agito con le intenzioni migliori del mondo. Era costantemente tormentata dai dubbi, dalla paura di sbagliare…
- Ma per favore! – esclamò Kate, un sorriso amaro sul volto – Allora mi stai dicendo che aveva buone intenzioni quando voleva abortire e liberarsi di me? O quando ha abbandonato te?!
Stavolta Memphis non replicò, non subito almeno. Si intristì nel sentirla parlare così, e Kate si pentì subito della propria durezza. In fondo quello che era accaduto vent’anni prima non era di certo colpa di Memphis, e non aveva senso prendersela con lui adesso…
- Lei ha sempre avuto… paura di legarsi alle persone. – mormorò dopo un po’ Memphis - Ha sempre allontanato quelli che l’amavano solo per timore di legarsi troppo a loro, e per evitare di metterli in pericolo. Il suo è sempre stato un meccanismo di difesa con due scopi, in un certo senso… feriva le persone per non farsi amare troppo da loro, e le teneva a distanza per non amare troppo a propria volta. So che può sembrare difficile da credere, però…
- Va bene, va bene, ora basta. Ti stai agitando troppo. – lo interruppe Kate, preoccupata per l’improvviso affanno del padre e per l’allarmante colorito che aveva assunto il suo viso – Ti riporto, in infermeria, devi riposare… non avremmo dovuto parlare di queste cose.
E lo aiutò a rimettersi in piedi, sostenendolo per le spalle mentre si avviavano verso prua, tentando nel frattempo di non pensare a tutte le cose che le aveva detto. Memphis sembrava essere davvero convinto che Norma Jean nascondesse gentilezza e altruismo sotto la sua scorza inscalfibile di donna glaciale e sanguinaria… ma Memphis era sempre stato un bonaccione, uno di quelli che a cinquant’anni compiuti credeva ancora che il mondo fosse un posto pieno di gente fantastica tipo mondo della Mulino bianco, che aveva un grande senso dell’ironia che però non usava mai perché viveva nel terrore di ferire il prossimo, che non arrabbiava mai quando qualcuno lo offendeva, e che sarebbe stato capace di vedere un lato buono persino nell’uomo nero. Era un uomo ammirevole, ma non potevi prendere sempre sul serio quello che diceva, perché non era capace di essere obbiettivo…
Eppure Kate si sentiva profondamente turbata, incapace di togliersi dalla testa il pensiero che forse Memphis aveva ragione quando diceva che lei e Norma Jean erano spaventosamente simili… ma soprattutto, per la prima volta in diciannove anni, incapace di decidere se fosse una cosa buona oppure no.

Ribadisco… che giornata del cavolo!


Ma se quella fu per Kate una giornata davvero del cavolo, i due giorni successivi furono anche peggio. Molto, molto peggio.
- Sorellina, c’è forse un motivo particolare per cui ci stiamo nascondendo nello sgabuzzino delle scope da più di un’ora? – chiese Marco, il solito tono pacato stranamente intriso di divertita ironia – Non mi avrai portato qua dentro per sedurmi, voglio sperare.
Kate lo fissò con odio. Se la rideva, il bastardo. Sul serio, non c’era proprio nessuno su quella nave disposto a mostrarle un minimo di solidarietà?
- Perché mi guardi così? – chiese divertito Marco, facendo palesemente finta di non capire – Guarda che non era mia intenzione offenderti! Tu sei senza dubbio molto carina, ma lo sai che io ho gusti completamente diversi….
- Chiudi la bocca, Marco. – lo zittì bruscamente Kate – Cristo, sta’ zitto. Non è divertente.
Marco invece sembrava al colmo del divertimento – Ma sorellina, io te l’avevo detto che quel tizio prometteva parecchi guai… che ti aspettavi? Che lasciasse correre quello che hai fatto così facilmente?
Kate lo fissò con antipatia, ma non poté dire nulla per difendersi. Dannazione, odiava quando le persone le dicevano “Te l’avevo detto” … specie quando avevano davvero motivo di dirlo.
Ok, credo di dover spiegare. Bene, ecco quello che stava succedendo.
Dopo che aveva avuto quella discussione con Memphis, Kate era rimasta in una sorta di limbo che non avrebbe avuto molto da invidiare alla catalessi per un bel pezzo. Le erano piombate addosso troppe cose in troppo poco tempo: la discussione con Ace, la sopracitata discussione con Memphis, la discussione con Law… insomma, sembrava proprio che l’universo si fosse unito in un fronte compatto contro di lei, e dopo sei ore di attacchi più o meno mirati e personali Kate si era sentita così accerchiata, confusa e rintronata da aver avuto bisogno di dissociarsi dalla realtà, di nascondersi in un posto isolato e tranquillo per rielaborare e di tentare a mettere un po’ d’ordine nella propria testa. Le ci erano volute più tre ore, un paio di bottiglie di sakè e due interi pacchetti di sigarette per riacquistare un minimo di controllo… ma alla fine era riuscita a sconfiggere lo scombussolamento mentale che la torturava, dovendo però in compenso sorbirsi per l’intera notte quello fisico che le avevano dato l’alcool e il fumo.
E va be’, pazienza. C’erano cose peggiori.
Il giorno dopo però si era svegliata, se non in ottima salute, almeno in condizioni accettabili, complice anche la flebo di fisiologica che si era fatta attaccare la sera prima da una alquanto contrariata Beatrix prima di addormentarsi, flebo che aveva contribuito a ripulirle il sangue dal metanolo e aveva notevolmente diminuito il suo mal di testa. Aveva creduto di essere riuscita a superare quella giornata incasinata riportando tutto sommato il minimo dei danni possibili… e si era sentita fiera di sé stessa!
Ma quello era stato solo l’inizio. E le due giornate successive non aveva potuto affrontarle con l’aiuto dell’alcool o delle sigarette, perché Law non gliela avrebbe resa di certo così facile.
Già, Law… quel manipolatore bastardo. Negli ultimi giorni Kate aveva cominciato davvero a chiamarlo così, Manipolatore Bastardo. Le piaceva. Suonava bene…
Scusate, mi sono distratta. Dunque, dicevo… Law. Quel dannato chirurgo sociopatico con vari disturbi della personalità, avete presente? Le aveva dato il tormento. No, non come al solito, magari… se fosse stato tutto come al solito sarebbe stato facile da gestire. No, a quanto pareva il capitano dei pirati Hearts aveva deciso di mettersi seriamente d’impegno, stavolta… Kate non avrebbe mai immaginato che potesse diventare così cattivo. Aveva già conosciuto l’umiliazione che poteva dare l’essere sottovalutata, o l’amarezza che può dare uno sguardo pieno di disprezzo… ma questo era diverso, perché Law non aveva mai giocato sporco fino ad allora. Aveva giocato duro, aveva colpito in basso… ma mai era arrivato a mancarle di rispetto. Perché in questo che consisteva il loro gioco, no? Visto che non erano capaci di dimostrare affetto come le persone normali, lo dimostravano attraverso quella rivalità che li vedeva sempre in contrasto. Ma non erano mai stati su due fronti diversi. Questo mai.
Ma stavolta era diverso, per Law. Stavolta Kate aveva ferito il suo orgoglio, e non era stato un graffietto superficiale. Se lei fosse stata un’altra persona e non la sua più grande avversaria da sempre, probabilmente l’avrebbe uccisa… ma lei non era chiunque, era Kate, e Law aveva scelto di fargliela pagare così. Umiliandola. Provocandola, ma con cattiveria, non con ironia. Insinuando, e di certo non per scherzo, e senza porsi limiti, beandosi del fatto che sapeva perfettamente quali tasti toccare. Ma soprattutto… tutto davanti ai fratelli. Davanti a Barbabianca.
Volete un esempio? Ok, uno solo però, perché se ci pensava troppo avrebbe anche potuto commettere capitanicidio.


Verso l’ora di pranzo del primo giorno Kate era seduta nella grande mensa della Moby Dick a pranzare con una folta cerchia di fratelli, ed era di umore relativamente tranquillo. Era una bella giornata, non c’era vento, non c’era ancora stata alcuna rissa o incidente pseudo-diplomatico… sì, aveva dei buoni motivi per sperare che la giornata procedesse senza intoppi. O almeno fino a quando lui non era comparso accanto a lei.
Non l’aveva nemmeno sentito arrivare, e questa era già stata di per sé una notevole fonte di fastidio. E il modo in cui l’aveva guardata… sembrava impaziente, smanioso. Nel vederselo apparire accanto da un un’istante all’altro Kate indietreggiò d’istinto, scatenando la sua ilarità.
- Sei nervosa stamane, dolcezza? – chiese Law con tono beffardo sedendosi accanto a lei, per poi sfiorarle una guancia con le nocche – Cos’è, stanotte non sei riuscita a dormire bene?
Kate si allontanò di scatto, sottraendosi dal suo tocco come se bruciasse. Davanti agli occhi le balenava l’immagine di loro due nella cambusa, quando lui le aveva detto che sarebbe morto se lei fosse andata via… sembrava essere passato un secolo da allora, e comunque quel gesto non aveva niente a che fare con il Law di quel momento. – Mani a posto, Law.
- Ok, ok, non c’è bisogno di offendersi! – sogghignò Law mettendo le mani in vista – Credevo che ti avrebbe fatto piacere sapere che mi preoccupo per te…
- Oh, ma certo. Non sto più nella pelle, guarda. – borbottò lei riportando l’attenzione sul tavolo, sperando di dare un taglio alla conversazione e di levarselo dai piedi.
- Ma tu guarda che modi… e io che sono stato anche gentile. – disse Law, fingendosi offeso – Ad ogni modo, ero venuto a cercarti per parlare di una certa cosa.
- La stessa di cui volevi parlare ieri? – chiese annoiata Kate senza guardarlo.
- No, in realtà da ieri ho riflettuto su tutta la situazione, su tutto ciò che è accaduto… e sono giunto ad una conclusione.
- Ah, sì? E quale?
- Ho concluso che il nostro comportamento negli ultimi tre anni è stato assurdo. Inqualificabile, peggio che infantile. Sono ancora sconcertato da me stesso, non posso ancora credere di essere stato così immaturo… ma è ora di rimediare.
Kate lo guardò incredula, totalmente presa in contropiede – Davvero?
- Certo! D’ora in poi basta litigi. Basta frecciatine, e tantomeno fine delle insinuazioni strane. Da oggi le cose cambieranno, e noi dobbiamo cercare di fare del nostro meglio per andare d’accordo come due persone mature. Sempre se sei d’accordo, ovvio.
A quel punto Kate si era davvero convinta del fatto che Law avesse ufficialmente perso la ragione. Non poteva credere che fosse davvero serio… ma sembrava esserlo. Per la prima volta sembrava serio e pacato, senza alcun sorriso beffardo o traccia di sarcasmo.

Dio, è un miracolo.

- Be’, io… sì, immagino che sarebbe una scelta ragionevole…
- Fantastico! Sono felice di sapere che sei d’accordo con me! – esultò Law, la smania nei suoi occhi era aumentata – In questo caso, credo che dovresti leggere con attenzione quello che c’è scritto qui – le suggerì offrendole un foglio. Lei glielo strappò di mano, improvvisamente le era venuto un brutto presentimento – Che cos’è?
- Oh, nulla di che… solo un elenco di condizioni a mio avviso necessarie affinché si possa stabilire un rapporto di convivenza che non sfoci nella rappresaglia. Sarà meglio che le rispetti, così potremmo evitare discussioni inutili…
Kate a quel punto non lo stava più ascoltando, era troppo impegnata a scorrere febbrilmente la lista; sì, perché era di una lista che si stava parlando, ma non era una lista qualunque: era una dannata e inconcepibile lista di divieti!
Ve la riporto in parte, così potrete capire quanto fosse grave la situazione:
  1. Non ascoltare musica ad alto volume.
  2. Non disturbare il Capitano mentre lavora.
  3. Non entrare nella cabina del Capitano se non esplicitamente invitata.
  4. Non mangiare in camera da letto o nello studio.
  5. Non fumare in cabina.
  6. Non uscire senza permesso.
  7. Non contattare nessuno con il lumacofono se non espressamente autorizzata.
  8. Non entrare in altre stanze del sottomarino che non siano la cabina personale, il bagno, la cucina e la sala da pranzo…
E soprattutto, cerchiato di rosso per tre volte: Non parlare se non interpellata!
- Law. – mormorò Kate, increspando le sopracciglia – Questa lista è sbagliata.
- Che dici? – fece perplesso Law, riprendendo in mano il foglio per controllare – No. Non mi pare… c’è tutto. – confermò, restituendole il foglio.
- Ma no, guarda… - insistette Kate indicandoglielo – Hai dimenticato “Non uccidere”, “Non rubare” e soprattutto “Non avrai altro Dio all’infuori di me”.


Vi lascio immaginare il resto. No, scherzo, ve lo racconto, sennò vi macherebbe il finale. Dopo quella battuta fulminante, ovviamente Kate aveva accartocciato il foglio e glielo aveva tirato in faccia, per poi sguainare uno dei suoi bisturi e cominciare a rincorrerlo per tutta la stanza, urlandogli dietro parole irripetibili. Law tuttavia non si era scomposto più di tanto, si era limitato a sfuggirle senza rispondere ai suoi insulti… e quando Kate era stata costretta a fermarsi per la mancanza di fiato, lui l’aveva guardata freddamente dall’alto in basso, e senza fare una piega le aveva ricordato che, a dispetto del suo atteggiamento sfacciato e insubordinato, lui era ancora il suo capitano, e che lei era obbligata ad obbedirgli senza discutere… il che significava che lui avrebbe potuto anche scrivere direttamente “Leccami i piedi” su quella lista, e lei non avrebbe potuto di certo protestare o rifiutarsi di eseguire. Finché Kate faceva della sua ciurma era obbligata a rispettare le sue regole, le aveva spiegato, e fondamentalmente le sue regole erano quello che a lui girava, né più né meno. Inutile dire che lei in tutta risposta lo aveva molto elegantemente mandato a farsi fottere il più presto possibile… e così era cominciata quella guerra.
Era da appena due giorni che andava avanti così, ma a Kate sembravano piuttosto due anni. Per tutto il tempo Law non aveva fatto altro che darle ordini e trattarla con sufficienza, neanche fosse stata la sua schiava personale. Avete presente la favola di Cenerentola? Be’, ecco cosa stava succedendo, anche se forse in versione leggermente più “Dr. House”. Lei ovviamente aveva il ruolo di Cenerentola – una Cenerentola molto meno paziente, dolce e gentile dell’originale, e forse anche incredibilmente simile al dottor Foreman, ma tant’era-, e lui invece interpretava matrigna, sorellastre e House, tutti insieme. Ho reso l’idea?
Compila le cartelle al mio posto, riordina lo studio, resta di guardia di notte, apri la finestra, fammi queste analisi, comprami queste cose, non ho chiesto il tuo parere, richiudi la finestra… insomma, perfino la vergine di Norimberga sarebbe stata una tortura più piacevole. E lei nel frattempo covava rabbia su rabbia, e si nascondeva per evitare di ricevere altre direttive, ma anche per resistere alla tentazione di rompergli una gamba per farlo andare in giro con il bastone, così sì che sarebbe stato identico al Dr. House.
Se l’era cercata? Forse. Ma non era stata lei a cominciare, dannazione. Lui si sentiva in diritto di poter disporre di lei, ma in realtà non aveva alcun diritto, dannazione! Lei non era una proprietà, e nemmeno una schiava, era un’amica, e un vice capitano! Law non poteva trattarla in quel modo!
- Dovresti prendere misure, secondo me. – le suggerì Marco, interrompendo il corso dei suoi pensieri – Non faccio per dire, ma un po’ alla volta stai diventando lo zimbello di questa nave.
Kate ringhiò, affondando le unghie nel legno della porta per autodisciplinarsi. Era proprio questa la parte peggiore, infatti! Se Law si fosse limitata ad umiliarla in privato Kate avrebbe potuto anche farsene una ragione, tutto sommato… avrebbe potuto mettere temporaneamente in pausa l’orgoglio e accettare quel supplizio augurandosi che passasse in fretta! Ma quel vigliacco senza attributi, quel… quel cafone senza arte né parte non solo la stava rendendo ridicola, ma lo stava facendo davanti a tutta sua famiglia, e questo, perdio, non era accettabile!
Nel vedere che stava per esplodere Marco le posò gentilmente una mano sulla spalla – Su, piccola, adesso sta’ calma. Se ti arrabbi gli darai solo soddisfazione, lo sai.
Kate annuì e prese un profondo respiro per tentare di ricomporsi. Sì, Marco aveva ragione… doveva restare calma e mantenere il sangue freddo. Se fosse esplosa avrebbe fatto solo il gioco di quel bastardo, e questo sarebbe stato davvero troppo. Ringraziò tacitamente gli dei per averle dato la forza di confidare i propri guai a Marco: se lui non fosse stato lì accanto a lei per mantenerla lucida e farla ragionare, Kate avrebbe finito per commettere l’irreparabile.
Aveva capito cosa Law stesse cercando di fare. La sua non era una semplice vendetta, ma il tentativo di darle una lezione: hai passato il segno, e adesso ti insegno a stare al tuo posto. Kate nel profondo sapeva che il ragionamento di Law non era sbagliato, non quanto il metodo che usava per inculcarglielo in testa, almeno. In effetti lei era davvero una sottoposta, ed era giusto che mostrasse, se non obbedienza incondizionata, quanto meno rispetto dell’autorità del proprio capitano... solo che lei in quei giorni non l’aveva fatto per niente, e per questo era consapevole di meritarsi, almeno in parte, quel trattamento.
Eppure…
- Tu hai ragione quando dici che in parte me lo sarei dovuto aspettare. – sospirò Kate, mentre Marco la studiava serio – E so che in parte mi merito tutto questo. È solo che…
- È solo che… cosa?
- Penso di aver raggiunto il mio limite. – dichiarò Kate – Non credo di poter fare più di così.
Marco la guardò senza capire.
- Sai… a dispetto di come io mi comporto di solito con lui, io ho sempre ammirato molto Law, sin dal primo giorno. – spiegò Kate – E quando lui mi ha presa con sé e ha iniziato ad addestrarmi, offrendomi così tutto ciò che avevo sempre desiderato, credevo che non ci sarebbe stato niente che non sarei stata disposta a fare per lui. Ma quando l’altro giorno mi ha vietato di venire qui per prendermi cura di Thatch, quando ha tentato di usare la sua autorità per costringermi a rinunciare… ho capito che mi sbagliavo. Non posso garantirgli obbedienza totale, non posso e non voglio. Non dopo tutto ciò che è accaduto.
Ecco qual era il problema, il vero problema. Al di là del risentimento che Kate poteva covare nei confronti di Law per i motivi che preferiva, al di là del risentimento che Law poteva covare nei confronti di Kate per i motivi che preferiva, le cose non sarebbero mai state come prima. Lei era troppo fedele alle proprie convinzioni per accettare di rinunciarvi, e lui era troppo autoritario per accettare una lealtà che non era totale. Ecco perché avrebbe potuto punirla e tentare di sottometterla quanto voleva, non avrebbe comunque ottenuto quello che desiderava. Era situazione bloccata.
- Non credo di essere fatta per essere una sottoposta. – concluse Kate.
- Sono d’accordo. – annuì Marco – E quindi? Cosa farai?
- Non lo so... – ammise Kate.
- Be’, ti converrebbe deciderlo… così non potete andare avanti.
- Lo so. – sospirò Kate, per poi allungare la mano verso la maniglia della porta – Su, andiamo. Mi sta mancando l’aria, e comunque ormai è inutile restare qui.
Uscirono. Kate era contenta di essere relativamente riuscita a calmarsi, ma percepiva la sua rabbia attendere paziente come un alligatore nascosto sotto il pelo dell’acqua, pronto ad emergere e ad azzannarla non appena fosse arrivato il momento opportuno. Non poteva rilassarsi, non ancora… anzi, aveva la sensazione che quella storia non si sarebbe conclusa tanto presto.
- Katherine! – chiamò una voce autoritaria – Finalmente! Dov’eri andata a perdere tempo, dannata ragazzina?!
No, non di nuovo… Pensò disperata Katherine senza smettere di camminare. Non voleva fermarsi. Se anche stavolta quello stupido l’avesse provocata, questa era la volta buona che ci rimetteva un occhio. O entrambi.
- Ragazzina, parlo con te! – ringhiò infastidito Law avvicinandosi – Che c’è, sei diventata sorda?
Molto lentamente Kate si voltò, il volto deformato da una smorfia velenosa – Perdonami, mio magnifico capitano. Cosa posso fare per te?
- Potresti spiegarmi cosa è questo, per esempio. – sibilò Law, sventolandole davanti al naso una pila di cartelline.
Kate finse di scrutarla con grande attenzione prima di rispondere – Mmh, da un’attenta analisi potrei dire che sono… cartelle cliniche?
- Brava, ottimo intuito. – replicò sarcastico Law – Ti saranno familiari, immagino… sono quelle che ti avevo chiesto di riordinare ieri sera, se non ricordo male. Stamattina però erano ancora sulla mia scrivania… posso chiederti come mai?
Kate assottigliò gli occhi, affondando le unghie nei palmi delle mani. Certo che si ricordava di quelle cartelle. Proprio come aveva detto Law, avrebbe dovuto metterle a posto la sera prima… peccato che fosse crollata addormentata con la fronte poggiata sulla scrivania verso le tre del mattino prima di aver avuto la possibilità di farlo, dopo una serata intera e una parte del pomeriggio trascorsa a fare le pulizie nello studio del Manipolatore bastardo.
- Temo di essere stata impegnata a fare altro, e di essermene dimenticata, capitano. – rispose Kate monocorde, le spalle che tremavano per la rabbia.
- Bene. Peggio per te, allora. Vorrà dire che, prima di rimetterle a posto, le ricopierai in bella grafia su dei fogli nuovi. Visto che hai il tempo di andartene in giro a bighellonare…
Fu l’ultima goccia. Nel sentirsi apostrofare con quel tono così denso di scherno Kate vide rosso, e agì senza pensare. Livida di rabbia fece un passo avanti e gli strappò di mano le cartelle, indietreggiò lentamente camminando all’indietro e senza interrompere il contatto con gli occhi dell’altro e, con estremo piacere, le gettò in mare con un fluido movimento del braccio.
- Adesso sono al loro posto, capitano. – sputò ironica, le labbra incurvate in un ghigno.
La fissarono tutti, sconcertati da tanta insolenza, Pirati Heart e Pirati di Barbabianca senza differenza alcuna. Il più sconvolto però era Law, che però riuscì a replicare – Credi davvero di avere il diritto di rivolgerti a me in questo modo, ragazzina? Non direi proprio…
Fu costretto ad interrompersi. Muovendosi rapida come un serpente, Kate infatti gli aveva appena strappato di mano anche la nodachi. Intuendo quello che voleva fare Law si lanciò in avanti per fermarla, ma lei fu più veloce di lui: indietreggiò di nuovo all’istante per portarsi fuori dal raggio d’azione del frutto Ope Ope e, con un ghigno ancora più compiaciuto del precedente, gettò in mare anche quella.
- Ti consiglio di mandare qualcuno a recuperarla al più presto… - cinguettò Kate – Non vorrei mai che il sale la danneggiasse, o peggio, che finisse nella pancia di qualche grosso pesce.
E raddrizzò le spalle, in attesa della sua replica. Dall’esterno sarebbe potuta sembrare impassibile, ma dentro di sé stava fremendo, non sapeva se di rabbia, soddisfazione o paura. Probabilmente tutte e tre le cose insieme, ma non si pentiva di ciò che aveva fatto. Chiunque al suo posto avrebbe fatto altrettanto, ne era sicura…
Ma era altrettanto sicura del fatto che questa l’avrebbe pagata, e molto cara anche. Stavolta lo aveva deliberatamente sfidato davanti a tutti, e di certo non se la sarebbe cavata con poco.
- Dolcezza, devo forse rammentarti che sei al mio servizio? – ringhiò infatti Law furibondo.
- Tu non tralasci certo occasione di ricordarmelo.
- Allora perché continui a sfidarmi? Perché non accetti la mia autorità e basta?
- Sinceramente? Perché non ne ho più alcuna voglia. Anzi, se devo dirla tutta, ne ho le tasche piene di te e della tua prepotenza.
- Che cosa…?
- Ora ascoltami bene, manipolatore bastardo che non sei altro! – esplose Katherine con tanta veemenza che Law tacque allibito – Non ho dimenticato quello che hai fatto per me, cosa credi? So benissimo che mi hai offerto tutto ciò che ho sempre voluto, e non ho dimenticato che mi hai salvato la vita, tre anni fa. Ma questo non significa che puoi considerarmi una tua proprietà, o che hai diritto di vita e di morte su di me. Ho promesso che ti avrei seguito per ripagare il debito che ho con te, e sono disposta a fare molte cose pur di riuscirci. Ma se ti aspetti che io vada contro la mia coscienza, o che io sacrifichi il mio orgoglio e la mia dignità pur di compiacerti, allora sono spiacente, ma hai capito davvero male. Quindi è inutile che alzi la voce con me, che mi minacci o che cerchi di umiliarmi davanti alla mia famiglia. Fa’ pure, se questo ti rende felice! Ma sappi che non cambierà le cose. Io per te non farò mai niente che vada incontro anche alla mia approvazione, mai. Se volevi una schiava invece di un’alleata, allora sappi che hai scelto male. Gli schiavi si trovano alle Sabaody, non sulle navi degli imperatori!


Law fissava la donna che gli stava davanti, sconvolto da tanta incosciente spudoratezza.
Nessuno era mai arrivato a tanto con lui, prima di allora. Di solito lui era bravo ad intimorire le persone, ma lei sembrava essere totalmente immune ai suoi metodi. Non indietreggiava, non abbassava gli occhi, e non si arrendeva mai. In quei due giorni aveva fatto di tutto pur di piegarla e di ficcarle in testa che, in quanto sua sottoposta, avrebbe dovuto obbedirgli senza discutere… ma a quanto pareva aveva ottenuto l’effetto opposto. La luce di ostinata ribellione che tanto l’aveva inquietato non si era affatto spenta, al contrario, scintillava nei suoi occhi più viva che mai.
- Avvicinati. – sibilò Law.
Lei non ammorbidì la propria espressione – Perché? – chiese circospetta.
- Fallo e basta.
Kate digrignò i denti, irritata da quell’ennesimo ordine, e lui si incupì ancora di più, a propria volta irritato dalla resistenza che gli faceva; entrambi erano talmente carichi di rabbia e tensione che si sarebbe detto che le scintille volassero tra loro. Era una scena che destava curiosità e tutti, chi sfrontatamente, chi di nascosto, si erano messi a seguire con interesse.
Alla fine lei si decise ad andargli incontro. Attraversò il ponte con passo arrogante, senza fretta, il mento alzato con sfida, lo sguardo sicuro, diretto. Lui l’attendeva immobile, minaccioso, e pericolosamente accigliato. Gli si fermò a un passo, le mani sui fianchi.
Nel vedersela arrivare vicino con tale alterigia, Law comprese che le punizioni, di qualunque natura fossero, non avrebbero mai avuto effetto su quella donna. Anzi, sembravano rafforzarla. Era adorabile, pensò sconcertato, col viso acceso di collera e i capelli che parevano fiamme oscure al vento, pericolosamente simile ad una creatura selvatica.
Avrebbe dovuto vincerla, non umiliarla. La sconfitta forse le avrebbe inculcato un po’ di buonsenso, l’umiliazione l’avrebbe solo resa più cattiva e indomabile... non aveva mai incontrato una donna che pensasse come un uomo.
Fu allora che capì la verità, quella che per giorni, per mesi, forse per anni aveva negato a sé stesso, forse perché troppo grande, troppo incredibile per lui… almeno fino al quel momento. Mentre lo fronteggiava con un coraggio che molti suoi nemici non riuscivano neanche a fingere, senza indietreggiare di un passo e guardandolo dritto negli occhi, Law fu certo che quella donna fosse stata fatta apposta per lui. E capì che non avrebbe avuto pace fino a quando quel corpo sottile, fremente di vita e forgiato da innumerevoli battaglie, quel viso, quegli occhi splendidi, quell’anima indocile non gli fossero appartenuti per sempre.
- Che arma preferisci? - sbottò.
Kate lo fissò stupita. - Come?
- Ti sfido. La mia autorità contro la tua obbedienza. Ti lascio la scelta dell’arma.
Kate era assolutamente allibita. – Tu vuoi sfidarmi a duello? Sul serio?!
- Perché no? A questo punto mi sembra l’unica maniera per risolverla. – rispose pacato lui. Strano, ma la rabbia gli stava sbollendo, anzi, riusciva quasi a trovare divertente quell’espressione confusa che le leggeva sul viso. – Sai, ero serio l’altro ieri quando ti ho detto che dobbiamo farla finita con questi litigi da bambini. Non vuoi accettare la mia autorità? Bene, vorrà dire che se desideri così tanto la libertà te la dovrai guadagnare.
- E questo che vorrebbe dire? – sbottò lei, la confusione ancora presente nei suoi occhi.
- Che ti sto proponendo una scommessa. – rispose Law, il suo solito ghigno finalmente tornato ad incurvargli le labbra – Ci sfideremo in regolare duello, e se vincerò io tu sarai legata a me in eterno, e soprattutto dovrai giurarmi solennemente obbedienza incondizionata. Basta risposte taglienti, basta rivalse, basta rifiuti… basta tutto.
- Cosa?! Ma è assurdo! – urlò Kate – Non accetterò mai!
- Se vincerai tu, invece… - proseguì Law, ignorando la sua ultima affermazione - … ti libererò dal debito che hai con me, e anche dalla mia autorità. Non mi dovrai più niente, e sarai libera di fare quello che meglio credi… anche andare per la tua strada, se lo vorrai. Allora, cosa ne dici?


Non posso crederci. Pensò Kate allibita. Non può fare sul serio…

Non poteva accettare. Non avrebbe avuto alcuna possibilità contro Law, di questo era ahimè realisticamente consapevole. Lui era un guerriero dalle capacità eccezionali, e lei non aveva ancora nemmeno conosciuto molte delle sue doti nascoste… e lei, invece? Era brava, era forte, ma era giovane, e ancora inesperta! E inoltre Law le aveva fatto da maestro praticamente in tutto, dalle arti marziali alla strategia militare, e conosceva il suo stile di combattimento probabilmente meglio di quanto lo conoscesse lei stessa. Non avrebbe avuto speranze contro di lui in un combattimento frontale… e non avrebbe potuto nemmeno prenderlo di sorpresa architettando un qualche piano malefico, perché lui era intelligente almeno quanto lei, e non si sarebbe lasciato imbrogliare troppo facilmente. E l’abilità innata del proprio clan poteva anche scordarsela, tanto non sarebbe stata in grado di usarla di propria volontà per almeno altri due anni…
E lui naturalmente doveva essere perfettamente consapevole della propria superiorità; anzi, di certo era proprio per quello che aveva proposto quella soluzione.
- E se mi rifiutassi di accettare? – chiese torva Kate – Cosa accadrebbe in quel caso?
- La considererei come un forfait, ovviamente… e allora mi apparterresti per sempre, e dovresti giurare tutto quello che ti ho chiesto. – sogghignò Law.
- Questo mai! – dette in escandescenze Kate.
- Allora non altra scelta che accettare.

Che razza di infido bastardo!  Pensò Kate furibonda. L’aveva messa alle strette, e non le aveva lasciato via d’uscita!

Cosa poteva fare? Era inutile rimuginarci sopra, tanto non aveva comunque scelta.
- Bene, allora accetto la sfida. – borbottò.
- Ottimo! – disse Law compiaciuto – E quale arma preferisci?

Come se l’arma potesse fare qualche differenza! Pensò irritata Kate.

Cosa avrebbe dovuto rispondere?! Le arti marziali? Sì, probabilmente quella era la scelta più ragionevole. Erano la sua specialità, forse almeno con quelle avrebbe potuto evitare di fare una figura eccessivamente pietosa… ma in fondo cosa importava della figura che avrebbe fatto?! Avrebbe perso il duello comunque, e con quello la propria libertà. Che importava il modo in cui sarebbe accaduto?

Lui conosce ogni più piccolo segreto del mio stile di combattimento, perché mi ha insegnato tutto lui. Arti marziali, spada, combattimento a distanza, armi da fuoco…non c’è niente di cui io sia capace che lui non sappia fare meglio di me. Be’, a parte forse…

A parte forse l’utilizzo del Frutto Esse Esse. Lui di quello sapeva poco o niente, perché era un potere che solo lei che possedeva, e che aveva imparato a padroneggiare da sola. E comunque, perché avrebbe dovuto esserne interessato? Tanto lei lo usava solo a scopi medici, non era di certo un’arma d’attacco…
- I Frutti del mare! – si sentì dire con voce altera. Poi aggiunse più bassa - Tra una settimana.

Cosa?! Che cosa ho detto?!

Che le era saltato in mente?! Non poteva battersi con Law usando i poteri del suo frutto! Il frutto Ope Ope era uno dei più potenti in circolazione, e lei lo sapeva anche fin troppo bene, considerando tutte le volte che era stata smembrata da quel medicastro da quattro soldi durante gli allenamenti… e il frutto Esse Esse non poteva nemmeno essere usato per attaccare, serviva solo a manipolare le funzioni vitali di un corpo umano, e solo a patto di riuscire a far ingerire la propria Essenza! Cosa avrebbe dovuto fare, nascondergliela nel cibo come si fa con le pillole dei cani? Come se Law fosse nato il giorno prima…

Vi prego, ditemi che non l’ho detto sul serio.

L’aveva colto alla sprovvista, questo era evidente. Kate si sarebbe meravigliata del contrario. Law alzò interrogativamente un sopracciglio. – I frutti del Mare? Scherzi?!
- Affatto!

Oddio, sono impazzita! Qualcuno mi fermi, per l’amor di Dio!

- Davvero vuoi rendermela così facile? Il potere del frutto Esse Esse non può minimante competere con quello del frutto Ope Ope, lo sai benissimo! – rise di lei Law - E poi scusa, perché tra una settimana e non ora?
Lei sorrise freddamente, ma in realtà rivoli di sudore le stavano scorrendo lungo la schiena. - Non vorrai negarmi un po’ di esercizio! Sono sicura che mi vorrai al pieno delle mie capacità…
Sì, certo, come se una settimana di allenamenti potesse cambiare la natura del suo frutto. Davvero, ma che accidenti stava combinando?!
- Pensavo avresti scelto le arti marziali…
- Preferisco darti un’opportunità. – replicò lei, con una sicurezza che non sentiva.
Questa è pura presunzione! Pensò lui, intimamente divertito. Non capiva il senso della scelta della ragazza… ma non dubitava nemmeno un po’ che la vittoria sarebbe stata sua. Kate aveva sì parecchia inventiva, ma probabilmente nemmeno l’intelletto di Einstein sarebbe stato in grado di mettere a punto un piano che potesse permettere al frutto Esse Esse di sconfiggere il frutto Ope Ope.
- Bene, come desideri. Risolveremo questa questione tra una settimana, allora…
- Un momento! Ho anch’io delle condizioni da porre! – si affrettò a dire Kate. Ormai il suo buon senso aveva chiaramente mollato baracca e burattini e l’aveva piantata in asso, perciò adesso non restava nient’altro che la sua impulsività a farle da guida. Non c’era da meravigliarsi se stava dicendo una sciocchezza dietro l’altra.
- Ma davvero? E quali sarebbero? – chiese Law con un ghigno.
- Innanzitutto voglio che tu vada via da questa nave… - cominciò Kate.
- Cosa? – ringhiò Law, irritandosi di nuovo seduta stante.
- … per permettermi di allenarmi senza alcuna interferenza. – precisò Kate – Va’ dove ti pare, basta che sia lontano da qui! Non voglio nessun bastardo con manie di grandezza a disturbarmi…
Almeno così non l’avrebbe vista piangere sul suo destino perduto troppo presto, constatò amaramente Kate.
- E va bene, concesso. – sbuffò Law – Nient’altro?
- Sì, c’è un’altra cosa… – annuì Kate, ma esitò a continuare.
- Sentiamola, allora.

Misericordia, non posso credere di stare per farlo davvero. Ma visto che ormai sono in ballo…

– Se dovessi vincere io non solo mi lascerai in pace e non mi darai mai più ordini… ma dovrai anche presentarmi le tue umili scuse. E dovranno essere sincere, questa volta!
Law scoppiò a ridere di gusto – Oh andiamo, dici sul serio?
- Non sono mai stata tanto seria in vita mia. – replicò gelida Kate, non lasciandosi toccare dalle sue risate.
- Bene, ti concedo anche questo, se proprio ci tieni. – riuscì ad articolare Law quando finalmente il riso gli dette tregua – Tanto una cosa simile non accadrà mai. Non riuscirai mai a sconfiggermi, lo sai anche meglio di me.
Sembrava molto sicuro di quello che aveva detto, e non sembrava minimamente preoccupato per l’imminente sfida. Kate avrebbe voluto offendersi davanti a tanta tracotanza… ma non ci riuscì, neanche per un momento.
Perché sapeva che Law aveva ragione. Non l’avrebbe mai battuto, non al proprio attuale livello.
- Vedremo. – replicò invece bluffando – Perché io non ho alcuna intenzione di perdere, invece.
Nel vederla ostentare tanta sicurezza Law scoppiò di nuovo a ridere, come se avesse intuito per filo e per segno ogni singolo pensiero autodistruttivo che le era passato per la testa negli ultimi dieci minuti. E probabilmente era proprio così.

Congratulazioni, O’Rourke. Si disse la ragazza, ancora sbalordita da quanto aveva appena fatto. Ora sì che hai firmato la tua condanna a morte.







Angolo autrice:

Eccomi qui, finalmente! Scommetto che questa non ve l'aspettavate, vero?
Ebbene sì, nel prossimo capitolo assisteremo ad un duello. Kate non sembra avere molte speranze nell'esito, ma in fondo non è detto che non riceverà aiuto da qualcuno... be', immagino che lo scopriremo molto presto!
Alla prossima volta, gente! Baci e abbracci! <3
Tessie

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