Respiri di un amore surreale

di rainbowdasharp
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Debolezza ***
Capitolo 2: *** Luna nuova ***
Capitolo 3: *** Oltre lo specchio ***
Capitolo 4: *** Cinguettio ***
Capitolo 5: *** Paradiso Terrestre ***
Capitolo 6: *** Legami ***
Capitolo 7: *** La Torre ***
Capitolo 8: *** Nella vastità dell'universo ***
Capitolo 9: *** Prigioni ***
Capitolo 10: *** Di notti e miracoli ***
Capitolo 11: *** Quello che nessuno ancora sa ***
Capitolo 12: *** Sottosopra ***
Capitolo 13: *** Comete ***
Capitolo 14: *** "Io gli credo, anche se so che mente." ***
Capitolo 15: *** Epilogo I: C'era una volta... ***
Capitolo 16: *** Epilogo II: ... una non-fine. ***



Capitolo 1
*** Prologo: Debolezza ***


Prologo: Debolezza


“Respiravo un amore inquinato”.

Leo osservò le sue mani, che tenevano la penna con cui aveva appena scritto quelle parole su un foglio, quasi non fosse sua quella calligrafia, come se il lieve alone di inchiostro sulle sue dita non tradisse il suo gesto: sbatté le palpebre, confuso, chiedendosi perché, di tanto in tanto, quando si distraeva solo per un istante, tornasse a sprofondare in quel modo nel suo inconscio. Aveva letto un milione di teorie, riguardo la sua scrittura: “un poeta”, lo definivano e Leo davvero non capiva – un poeta di cosa, della sovversione? Della ribellione silenziosa a cui si era condannato?

Probabilmente era per questo che le sue opere risultavano tanto apprezzate; a quel mondo, pareva, nessuno soffriva le pene d'amore. Ognuno aveva la sua metà, quella giusta, quella predestinata: a chi poteva venire in mente di scrivere storie strazianti? Un mondo in cui chi amavi ti ricambiava, si legava a te in modo così indissolubile da tenere saldamente le redini di un mondo incasinato, sì, ma in qualche buffo modo stabile.

E poi c'era lui, lui e le sue storie. Quei sogni irrealizzabili dove ci si poteva innamorare della persona sbagliata, dove si esperiva il rifiuto, le incomprensioni, le lotte; romanzi, intere storie che nascondevano la sua battaglia personale quella che lui stesso aveva combattuto solo fino a qualche mese prima.

… mese? Gettò una rapida occhiata al calendario sopra di lui.

Mese un corno” si rese conto, guardando l'ormai inizio di febbraio. Da quella sera di settembre, quando le foglie avevano cominciato a tingersi di giallo e rosso, colorando di caldo le strade della città che andava invece lentamente raffreddandosi, erano passati ormai sei mesi. Ricordava di camminare fianco a fianco con la persona che pensava di amare alla faccia dei Predestinati (pensava? No, non lo pensava e basta. Lo amava, lo aveva amato sicuramente), ricordava di avergli sorriso e non aver ricevuto risposta.

«L'ho trovato» aveva sussurrato, tutto d'un tratto. Lo aveva guardato negli occhi, a lungo e lui... si era spezzato. Qualcosa, in Leo, si era distrutto per sempre.

In un moto di rabbia per una ferita che, a quel punto, avrebbe dovuto almeno cominciare a rimarginarsi, gettò la penna contro il muro di fronte alla sua scrivania e poi si abbandonò alla sedia girevole, a fissare il soffitto bianco, maledicendosi per conto proprio: lo sapeva che non era colpa di Izumi. Lo sapeva che non dipendeva da loro e non c'era bisogno che tutti gli ripetessero che avrebbe capito, prima o poi.

Il punto era che forse non ci teneva a capire; aveva la sensazione che, nel momento in cui avesse capito, che avesse incontrato la persona a cui era legata, forse avrebbe finito col perdere tutto il resto: quel sentimento che aveva provato, qualunque cosa fosse stata, le sue sensazioni, la sua debolezza. Perché la sua scrittura si basava su quello: debolezza.

Ad interrompere quel flusso di pensieri autodistruttivi, fu il vibrare insistente ma tempestivo del telefono, su cui letteralmente si gettò – dopotutto, in quel periodo, l'unica persona che aveva un minimo interesse nel contattarlo era una sola.

«Fratellone! Ti avevo detto di passarci a trovare appena potevi!» La voce acuta e decisamente desiderosa di rimproverarlo di sua sorella minore quasi lo trafisse dall'altro capo della cornetta, tanto che fu costretto in un primo momento ad allontanare l'apparecchio dall'orecchio. «Guarda che Isara mi ha detto che non esci mai di casa!»

Aaaah... ma perché aveva amici così ficcanaso? Per la cronaca: Mao Isara era il Predestinato di Ritsu Sakuma, che con Leo aveva frequentato le scuole superiori (salvo poi bocciare l'ultimo anno perché, a detta sua, “quando sono con Maakun sono troppo impegnato a molestarlo per studiare”) e frequentava la stessa università di sua sorella, sebbene fosse di un anno più grande di lei. Leo non aveva proprio molti amici e la maggior parte di loro avevano già trovato il loro partner, quindi...

Era una situazione davvero opprimente. «Scusami Ruka, sono stato—impegnato con il libro» provò a mormorare, ben consapevole che sua sorella non se la sarebbe affatto bevuta; lo conosceva troppo bene per non sapere che la minima scossa emotiva era in grado di trascinarlo nelle viscere dell'isolamento più completo e, anche se era proprio da questi periodi che nascevano le sue opere più riuscite, lei non riusciva proprio ad accettarlo.

«Beh, allora fatti perdonare venendo alla festa che sto preparando per la settimana prossima! Ci saranno anche Sakuma e Isara!» C'era una persona, in effetti, a cui Leo Tsukinaga non sapeva assolutamente dire di no e quella... era proprio Ruka; per quanto non lo entusiasmasse affatto l'idea di passare un'intera serata circondato da matricole universitarie, sapeva che sua sorella sicuramente aveva invitato anche Isara e Ritsu solo per tirarlo fuori dal suo guscio...

Nonostante fosse troppo apprensiva, in un momento come quello era davvero bello sapere che c'era qualcosa che ancora poteva considerare di solo suo e non già scritto o deciso al momento della sua nascita. L'affetto per sua sorella era sicuramente la cosa più reale su cui avrebbe mai potuto contare.

«Va bene, Ruka» sospirò, arreso (non ci aveva messo molto a vincerlo, però, la piccola Tsukinaga). «Verrò alla tua festa».

Dopo aver passato ancora qualche minuto al telefono con la ragazza, ascoltandola mentre gli parlava degli studi, delle lezioni, del gruppo di amiche che lentamente si stava creando, Leo attaccò il telefono con un sorriso amaro sulle labbra – era felice che sua sorella, almeno, fosse così entusiasta della sua nuova e piena vita da studentessa universitaria; ricordava bene il suo primo anno, come aveva alternato gli studi allo stendere il suo primo romanzo breve e come fosse riuscito a pubblicarlo dopo qualche mese; e i ricordi, qui, si interrompevano, perché... perché Leo non li voleva. Gli erano necessarie quelle sensazioni ma al tempo stesso le rifiutava – doveva rifiutarle - e, in fretta, tornò dunque alla carta, alla bozza scritta a mano perché solo quando scriveva di suo pugno aveva la sensazione di trasmettere qualcosa di reale. Il suo “amore inquinato”, sbagliato e dannoso gli si era avviluppato addosso e l'unica via di fuga che Leo aveva trovato in quei mesi stava in quelle pagine, dove la luna spariva dietro la nebbia causata dallo smog, dall'atmosfera viziata che, lentamente, distruggeva tutto.
 


Note: Buonasera... ? A tutti! Benvenuti in questo delirio che scrivo da più o meno dicembre, che è concluso solo nella mia testa ma che mi sto impegnando per portare avanti. Non è stato semplice affrontare l'idea di pubblicare di nuovo qualcosa ma, spinta da amiche forse di parte, alla fine ecco qui la mia piccola creatura la quale - spero - vi piaccia. La LeoTsu significa davvero molto per me e credo (e spero) che questa storia modesta rappresenti completamente, pur nel suo essere una AU, come io la vedo e la vivo in quanto adoratrice persa di Leo Tsukinaga (...). Insomma, so che è solo un assaggio, ma spero di aver stuzzicato almeno un po' del vostro interesse! Sarei davvero felice se, nel caso siate arrivati fino in fondo, mi lasciaste un piccolo commento, positivo o negativo che sia.
 

 

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Capitolo 2
*** Luna nuova ***


Capitolo 1: Luna nuova
 



“La luce vanitosa della luna fendeva la mia pelle peggio di spade affilate. Era riuscita lentamente a farsi strada tra le nubi scure e minacciose, ma ne risultava malata e piena di un orgoglio che la gonfiava, un orgoglio immeritato – quasi quello splendore fosse merito suo e non del Sole.”

 

Febbraio era un mese strano: Leo aveva la sensazione che l'aria avesse già cambiato odore, come se un leggero anticipo di primavera aleggiasse già persino a quell'ora di sera, quando la notte era ormai calata – eppure, era ancora freddo abbastanza perché nascondesse persino il naso sotto la sciarpa di lana pesante e si riparasse le mani nelle tasche del giaccone lungo (… perché aveva un giaccone lungo? Era già abbastanza basso senza qualcosa che lo facesse sembrare ancora più corto, dopotutto). Finì di percorrere gli ultimi metri che lo separavano dalla porta della casa dei suoi genitori ed esitò, nel suonare il citofono, neanche fosse un estraneo.

Ruka, a differenza sua, viveva ancora a casa con i loro genitori; si era trasferito non appena aveva concluso gli studi, trovando un piccolo appartamento non troppo lontano dal centro, in una zona tranquilla – tornare là dentro, consapevole che sua madre e suo padre erano partiti per una settimana verso luoghi più caldi (sua madre gliel'aveva detto... ? Forse Ruka, ma proprio non ricordava la destinazione del loro viaggio) e che al loro posto avrebbe trovato una massa di ragazzi scalmanati, quando tutto quello che voleva era un piumone sotto cui appallottolarsi...

La luce del citofono con telecamera lo accecò, quasi, non appena premette il pulsante; dall'altra parte dell'apparecchio, non arrivò neanche risposta: la porta si aprì subito e per quanto fosse decisamente comodo, nonché rassicurante, Leo si chiese se davvero tutta questa tecnologia non stesse meccanizzando il mondo più di quanto non lo fosse.

La casa era—più calda di quanto ricordasse: le pareti del corridoio erano state ricoperte da foto sue e di Ruka, forse sotto insistenza della sorella minore, racchiuse in cornici grandi e disordinate, un po' come era la loro famiglia.

Ma non ebbe molto tempo per soffermarvici su: in un attimo, si ritrovò letteralmente assalito da Ruka, che non si era limitata a gettargli le braccia al collo, ma si era aggrappata a lui con tutto il suo corpo, incrociando persino le gambe dietro la sua schiena, come un piccolo koala. Era normale, dopotutto... non si vedevano da Natale, quando lo aveva trascinato di peso a casa a festeggiare con i parenti. Leo la strinse forte, attento a non scompigliarle i capelli che la ragazza si era acconciata con una certa cura e la tenne in braccio il più a lungo possibile, dandole persino un bacio leggero sul naso.

«Sei uno scemo» fu il suo saluto, anche se pronunciato con un sorriso sollevato sulle labbra; aveva pensato che non sarebbe andato, nonostante quanto detto... ? «Ma sono contenta che tu sia venuto». Lo lasciò andare solo in quel momento e, appena posato piede a terra, si affrettò a sistemarsi l'abito bianco che indossava; Leo notò come si era truccata con cura (Ruka? Che si truccava? Ma da quando?) e come, in un attimo, dalla sua tenera sorellina che gli faceva gli agguanti dietro la porta di casa, si fosse tramutata in una donna, seppur minuta e dai tratti ancora dolci; il tempo passava così velocemente che soli due mesi l'avevano resa adulta, sicura di sé e spigliata come non l'aveva mai vista prima.

“E io sono ancora qui”.

Dopo avergli fatto togliere la giacca, Ruka lo prese per mano e lo guidò verso il soggiorno, che la ragazza aveva già preparato per l'arrivo degli ospiti: il sofà e le poltrone erano stati spinti verso le pareti, così da lasciare un maggiore spazio al centro della stanza, dove sua sorella aveva sistemato un tavolo basso su cui aveva disposto torri di bicchieri di plastica colorati, bibite (anche alcoliche... Leo avrebbe dovuto tenerla d'occhio) e vassoi pieni di stuzzichini e patatine.

Arrivare in anticipo era stata una buona idea: non solo poteva starsene un po' di tempo da solo con Ruka ma, soprattutto, poteva intanto sgraffignare cibo prima che arrivasse il resto della mandria di mocciosi sconosciuti a spazzolare tutto. Con la scusa di aiutarla a mettere in ordine, poteva--

«Ruka, dove vuoi che sistemi i pasticcini?»

Sulla soglia del soggiorno, c'era un ragazzo, probabilmente della stessa età di Ruka (un compagno di corso? Un amico? Il suo ragazzo?) che teneva tra le mani un vassoio pieno zeppo di dolcetti di ogni tipo. Non avrebbe saputo dire bene perché, ma Leo notò subito una piccola macchia di panna vicino alle sue labbra, come se avesse appena mangiato proprio uno di quei pasticcini (ma da quando notava certi particolari? In uno sconosciuto, poi?!) ma non si fosse accorto di essersi sporcato. Aveva capelli lisci e rossi, dello stesso colore del tramonto, che gli incorniciavano il volto tondo e puerile, dai lineamenti delicati; dei grandi occhi color ametista facevano capolino tra i ciuffi di una frangia elegantemente disordinata, quasi avesse scelto come scompigliarla prima di arrivare. Indossava dei jeans stretti, che gli disegnavano le gambe slanciate, una camicia bianca, con le maniche arrotolate fino ai gomiti e un gilet di velluto blu, abbottonato del tutto, come... se si volesse mostrare più adulto di quanto non fosse in realtà.

Quando i loro occhi si incrociarono, Leo si sentì improvvisamente nudo – se avesse dovuto mettere quella sensazione su carta, si sarebbe detto colpito in pieno dalla luce della luna. Fu una sensazione al contempo terrificante e bellissima, come se invece di una persona si fosse improvvisamente trovato di fronte lo spettacolo di un'onda anomala in un mare in piena tempesta, pronta ad abbattersi su una scogliera... la scogliera dove si trovava lui.

Il ragazzo sembrò avvertire qualcosa di simile: Leo non si rese conto di fissarlo così intensamente fin quando non notò il leggero tremolio delle sue gambe e di come avesse quasi fatto scivolare il vassoio dalle mani affusolate; pareva quasi avesse smesso di respirare, mentre gli occhi si dilatavano in un'espressione di confusione, sorpresa e...

Paura.

Gemella di quella che sicuramente si poteva leggere sul volto di Leo.

Fu Ruka ad interrompere quel momento che parve durare un'eternità: si pose di fronte al ragazzo, riuscendo a distruggere quel contatto visivo da cui lo scrittore si sentiva scottato, tanto che si voltò dalla parte opposta, dando le spalle allo sconosciuto e alla sorella.

Non ascoltò neanche una parola di quanto si dissero, mentre si portava una mano tremante alla gola improvvisamente secca: aveva bisogno di bere, ne era sicuro – magari di ubriacarsi fino a svenire, sì. Non sembrava una brutta idea dopotutto, non tanto quanto quel dubbio che stava cominciando ad invadergli la mente, insinuandosi con la fluidità di un serpente ma con la potenza di un esercito.

Le parole di Izumi, quelle di pochi mesi prima, le stesse che avevano distrutto ogni fiducia che riponeva nella libertà testarda che si ostinava a perseguire, per pura caparbietà, tornarono a risuonare nella sua testa con una violenza quasi fisica.

«L'ho trovato».

Doveva fuggire – scappare il più lontano possibile. Il panico prese il sopravvento in un attimo, come se il ragazzo di fronte a lui fosse l'umanizzazione del vaso di Pandora il quale, scoprendosi e rivelandosi, aveva liberato tutti i mali del mondo, tenendosi per sé la speranza. Azzardò uno sguardo nella sua direzione, per sincerarsi che Ruka non ci fosse, che non potesse assistere ulteriormente al momento in cui suo fratello si piegava al volere di un destino che non aveva chiesto – per quel breve attimo, si ritrovò ad odiare quel ragazzo.

Rimasero per chissà quanto a fissarsi; Leo non lo sapeva. Non riusciva a muoversi, come se ogni movimento falso avesse potuto decretare la fine di tutto quello che aveva... e poi? Chi sarebbe stato? Chi era Leo Tsukinaga senza la sua scrittura, la sua battaglia, la sua testardaggine? Non poteva succedere così, non lo accettava.

Trovò finalmente il coraggio di inspirare: i loro pensieri sembravano simili, in un certo senso – il pallore sul volto del ragazzo sembrava piuttosto eloquente, così come il leggero passo indietro che azzardò dopo quella che sembrò un'eternità. Un passo, sotto lo sguardo sbigottito del giovane scrittore. Un altro ancora, per addossarsi allo stipite della porta, come se volesse lasciarlo passare: lo stava lasciando scappare?
Non se lo fece ripetere due volte: prima che se ne rendesse conto, aveva abbandonato il soggiorno e si era precipitato verso l'uscita di casa sua, come un qualunque bandito in cerca di nascondiglio – quella casa sembrava improvvisamente una gigantesca prigione mascherata da affetto e familiarità eppure, Leo lo sapeva, se fosse rimasto lì, lui sarebbe scomparso.

Corse per minuti interi, il che potrebbe sembrare scontato per chiunque, ma lui era un intellettuale – l'educazione motoria non era mai stato il suo forte e, dopo gli ultimi mesi passati a scrivere pagine su pagine, piangersi addosso e imprecare contro l'universo, la sua resistenza non si era di certo rinvigorita. Rallentò quando ormai casa sua era distante almeno cinquecento metri; si voltò indietro solo allora, quando la strada sembrava non era più quella della sua vecchia dimora. Fuori era freddo e umido, la strada vuota perché, era ovvio, quella era l'ora di cena. L'ora in cui tutte le famiglie si riunivano coi propri cari intorno alla tavola, parlando del più e del meno – Leo le poteva quasi sentire, quelle chiacchiere leggere; le discussioni, anche, perché in una famiglia solida quelle non mancavano mai e lo sapeva bene, lui, che per tutto il periodo della superiori non aveva fatto altro che essere inquieto, sfiduciato nei confronti di chi lo circondava e che solo lentamente aveva riacquisito un po' di speranza nei confronti di chi lo avvicinava.

Nella fretta di fuggire, aveva dimenticato la giacca a casa di Ruka; si strinse dunque nelle proprie braccia, tentando di scaldarsi da solo mentre, a passo lento, riprendeva la via di casa – come faceva sempre quando troppi pensieri gli vorticavano nella testa, prese a camminare facendo attenzione a non calpestare le fessure tra i mattoncini che componevano il marciapiede: di solito, era abbastanza per permettergli di riordinare un minimo i pensieri, come se prestare attenzione a dove metteva i piedi riuscisse ad indicargli anche la direzione da seguire. Lo faceva quando era in preda al famigerato e temuto blocco dello scrittore, quando era così arrabbiato da dover frenare l'istinto di strappare tutte le sue bozze.

Purtroppo, non era mai servito quando si era sentito solo.

E mai, come quella sera, mentre tornava verso la fermata della metropolitana, si era sentito abbandonato nonostante nessuno lo avesse fatto; guardava passivamente le persone che lo circondavano, chiedendosi se qualcuno si fosse mai posto gli stessi, forse inutili problemi: era possibile vivere rifiutando il proprio destino? Poteva—costruire qualcosa di suo, solo e soltanto suo, da custodire gelosamente? Era uno scrittore, un cantastorie: avrebbe voluto sedersi di fronte a chissà quante persone e narrare di come, stoicamente, aveva combattuto contro il Destino – come un veterano di guerra, voleva alzare la voce, portarsi la mano sul cuore e dichiarare che amava qualcuno perché era stato lui, a deciderlo. Le sensazioni che aveva provato poco prima non erano positive. Leo non era credente, nessuna religione in particolare lo aveva mai affascinato se non per la portata delle loro storie, ma si chiese se fosse così che ci si sentisse al cospetto di un dio: impotenti, soggiogati eppure affascinati di fronte ad un'energia così grande da essere inquantificabile?

Timbrò il suo biglietto della metro, senza più mattonelle da seguire. Pensò di nuovo ai grandi occhi ametista del ragazzo, al suo portamento mite ma galante, al suo modo di vestire così—adulto. Si corrucciò, ripetendosi per l'ennesima volta che non poteva essere, ma se ipoteticamente fosse stato, di certo non avrebbe mai cercato un signor Perfettino del genere.

Aveva avuto solo due relazioni serie, per quanto brevi, prima di allora. L'ultima, quella con Izumi, lo aveva quasi consumato: era un ragazzo schietto, di paroli breve e concise, scostante per quanto volesse nascondere la sua gentilezza. Odiava avere gente intorno, eppure Leo lo aveva trovato un soggetto così interessante, una personalità così anomala da esserne affascinato. Lo trovava bello nel suo caratteraccio, nella sua difficoltà ad ammettere quello che provava; lo aveva trovato bello quando lo aveva quasi respinto al primo bacio ed elettrizzante quando per poco non lo aveva calciato fuori di casa quando si era intrufolato nel suo letto. Era una storia strana, più piena di bassi che di alti, eppure quella turbolenza lo faceva sentire vivo. Aveva creduto di aver trovato un altro ribelle, come lui.

Poi, aveva capito di essersi sbagliato.

Il suo primo amore, invece, se così si poteva chiamare, era... più etereo, che umano. Ripensandoci, forse Leo aveva visto in lui più una musa ispiratrice che un vero e proprio futuro assieme – Eichi Tenshouin era diverso, in grado di incutere timore, riverenza e ammirazione come un arcangelo armato di scudo e spada. Leo aveva scritto i suoi primi libri pensando continuamente a lui: i suoi capelli di un raro biondo pallido, l'espressione mite e il sorriso leggero, come se potesse svanire da un momento all'altro. Lo ricordava, ai tempi delle superiori, chino a leggere i suoi primi scritti all'ombra degli alberi nel giardino scolastico, senza mai scomporsi in una risata di scherno o uno sguardo perplesso. Era stato il primo a prenderlo davvero sul serio, il primo per cui aveva composto un brano così personale che glielo aveva regalato.

«È affascinante come tu sembri un'altra persona quando scrivi, Leo» gli aveva sussurrato, un attimo prima di portare le proprie labbra sul foglio e poggiarvele delicatamente, come a suggellare una muta promessa. Il giovane Tsukinaga di allora aveva pensato che, in quel silenzioso gesto, gli avesse chiesto implicitamente di non smettere mai di narrare.

E così aveva fatto. In un certo senso, nonostante non avesse mai avuto niente più che lunghe conversazioni o momenti di quiete tra loro, quel ragazzo aveva avuto un impatto così forte su di lui che tuttora aleggiava nelle sue storie – era una presenza effimera, la traccia di un passaggio: nel volto di un dio, di una donna crudele e bellissima, di un fratello distante.

Le porte della metro si chiusero davanti al suo sguardo vuoto che si perdeva in pensieri dolorosi in cui non poteva fare a meno di sprofondare; vedeva, oltre il vetro, il riflesso di Izumi che abbassava lo sguardo e scuoteva il capo. Poi ecco Eichi che lo salutava, prima di sparire dopo la sua travagliata vita scolastica. Infine, Ruka col volto in lacrime, perché era riuscito a deluderla ancora una volta.

La voce metallica della metro annunciò la sua fermata; come un automa, il suo corpo proseguì per la ben nota via di casa sua – aveva ancora un po' del riso avanzato del giorno prima, forse addirittura una birra... Il tempo di pensare alla sua cena solitaria ed era a casa. Lasciò scattare le chiavi nella serratura, prima di dare un leggero colpo alla porta per poi chiudersela dietro – vi si abbandonò contro, inerme e spossato, come se la paura e quella sensazione a cui non voleva dare un nome avessero consumato tutte le sue energie. Chiuse gli occhi e, sovrappensiero, iniziò a canticchiare. Non c'erano parole, era un motivetto sconosciuto (forse un lontano ricordo di qualche colonna sonora... ?) ma riuscì a farlo pensare di nuovo alla scogliera su cui si era sentito, esposto e vulnerabile; eppure, con la forza della sua immaginazione, riuscì grazie alla musica a placare quel mare in tempesta, a cantare contro le onde tutta la sua ribellione: “non mi avrete” ripeteva, nella sua mente, “non riuscirete a derubarmi di me stesso”.

Il canto solitario dell'ultimo pirata rimasto.

 



Note: Eccoci finalmente al primo, vero capitolo di questa storia! Ero molto impaziente di metterlo, perché - in primis - è molto più lungo del prologo e contiene almeno il doppio di informazioni; finalmente cominciamo a conoscere Leo, il mio (dico mio perché in questa storia davvero lo sento come una piccola parte di me) pirata, così preso nella sua battaglia da non capire quanto dolore si infligge. Abbiamo Ruka, l'adorata sorellina di Leo che sarà bene o male sempre presente in questa storia e, infine, Tsukasa.
Inizialmente questo capitolo aveva preso tutt'altra piega, meno... angosciosa. Poi la storia mi si è ribellata tra le mani, riprendendo la piega della "tragedia", così simile a quelle di Shakespeare che Leo si forza di vivere lungo tutto questo percorso. Ho scritto questo capitolo a maggio, più o meno, quando l'evento del Checkmate mi ha preso e mi ha fatto male, un po' come tutti gli eventi di Leo e dei Knights in generale. Per questo i primi due amori di Leo sono Eichi e Izumi; sono davvero contenta di averli inseriti qui, nei suoi ricordi (anche se potrebbero tornare più avanti) perché sono un tassello importante nella vita di Leo in Enstars e volevo che lo segnassero profondamente anche in questa AU che con la storia originale ha poco a che fare.
Spero che vi sia piaciuto questo capitolo e ancora grazie per le recensioni! <3

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Capitolo 3
*** Oltre lo specchio ***


Capitolo 2: Oltre lo specchio


“Ai miei occhi, quello sembrava un messaggero della morte: il manto candido che gli avvolgeva le spalle, il sorriso gentile ma lo sguardo freddo e duro come un equo signore degli Inferi, pronto a giudicarmi con la sua mortifera bilancia. Mi tendeva la mano, improvvisandosi un cavaliere – un cavaliere del vuoto.

E mentre con lento e involontario gesto, ipnotizzato, l'afferravo, avvertii sotto di me un vortice di tenebre aprirsi, avvolgendo il mio intero corpo e, all'improvviso, il giorno si fece notte.”

 

Come tutti i bambini, Leo aveva studiato sin dalla scuola elementare quali erano le conseguenze del Predestino: ci si incontrava, ci si innamorava e poi un simbolo di unione nasceva spontaneamente sul corpo – una parola, un simbolo, qualcosa che legasse le due persone in modo speciale.

I suoi genitori, ad esempio, avevano una nota musicale proprio dietro l'orecchio, a specchio e, da bambino, il piccolo Tsukinaga aveva sempre pensato che niente avrebbe potuto riassumerli meglio: i due si erano conosciuti in un'orchestra (lui direttore di orchestra, lei violoncellista) e, da allora, non si erano mai più lasciati; Ritsu e Mao avevano invece, sul polso, in una specie di scrittura infantile, la parola “promessa”; ricordava perfettamente con quale naturalezza il moro avesse esibito il polso sotto i suoi occhi, dicendogli che aveva quella scritta sin dalla quarta elementare (una rarità persino per quel mondo così perfetto, trovare la propria anima gemella in così giovane età).

Nessuno, però, parlava mai di cosa accadeva prima di innamorarsi, in quella sottospecie di periodo di incubazione d quello che Leo avvertiva esattamente come una malattia mortale.

L'incontro con quel ragazzo, dopo quella sera, continuava a tormentarlo: si erano guardati a lungo, era vero, ma questa non era una buona ragione per non riuscire più a dormire la notte senza ripensare a quegli occhi viola, alle labbra piccole a carnose, a quella buffa macchia di panna all'angolo della sua bocca. Sembrava che fosse costretto a rivivere quel momento di puro terrore all'infinito, con la sempre più forte consapevolezza dell'avere sopra di sé una spada di Damocle sempre più pressante, schiacciante, opprimente.

Era passata una settimana ed ogni notte la persecuzione si faceva più atroce, come se ad ogni apparizione il ricordo trasfigurasse in qualcosa di più vivo e quindi terrificante.

Ogni giorno si accertava se, sul suo corpo, fosse comparsa qualche strana voglia o macchia ma, a parte un lieve sfogo cutaneo (doveva smetterla di appuntarsi cose sulle braccia con le penne, davvero) in prossimità dell'avambraccio, sette giorni dopo quell'incontro maledetto, non aveva ancora riscontrato alcun cambiamento. Eccezion fatta per gli scuri cerchi sotto gli occhi, era sempre il solito, vecchio e testardo Leo Tsukinaga.

Però, era ovvio ormai: aveva bisogno di aiuto. Doveva trovare il modo di fuggire da quella condizione di stallo, di—recidere qualunque cosa lo legasse seppur parzialmente a quel ragazzo per poi fare in modo di non incontrarlo mai più. In quei giorni, aveva riflettuto a lungo sul da farsi: se pure se ne fosse andato all'estero, nelle sue attuali condizioni, quel volto avrebbe continuato a popolare i suoi pensieri e non soltanto nelle sue ore di sonno.

Era per questo, dunque, che aveva preso una dolorosa decisione.

 

Camminava per le strade della città con un grosso zaino sulle spalle; febbraio era ancora piacevolmente freddo ma il sole cominciava a scaldare con meno timidezza, quasi iniziasse a prendere coraggio e a reclamare i suoi spazi dopo l'inverno passato a fuggire dalle nubi e dalle nottate troppo lunghe. Lungo la via principale, piccoli agglomerati di persone si muovevano con spensieratezza godendosi la bella domenica di fine inverno: famiglie con bambini, adolescenti che sfidavano il clima ancora rigido con look un po' troppo azzardato, anziani che procedevano lentamente sulle gambe incerte, sostenendosi a vicenda.

Quelli erano i momenti, in particolare, in cui Leo si sentiva una pecora nera: in un ovile di soli esemplari bianchi, seppur di età e conformazioni diverse, chi dalla lana più o meno bella, lui spiccava sempre con una certa insistenza, non importava cosa indossasse o cosa facesse – sembrava quasi che gli altri sapessero che cosa stava cercando di fare, che tutte quelle paia d'occhi apparentemente serene in realtà gli stessero dando del folle, dello snaturato.

Affrettò il passo, stringendosi ancora di più nel giaccone nero e tirando in avanti le cinghie dello zaino, come per occupare meno spazio: ormai la meta del suo viaggio era vicina e, si ripeté, l'unico motivo per cui stava andando in quel luogo era perché era davvero disperato. Proprio mentre sospirava, chiedendosi quale colpa avesse da scontare (che fosse stato un orribile assassino nella sua vita precedente?), giunse di fronte alla mastodontica entrata della libreria Itsuki.

Grandi colonne di legno (Leo sapeva che era soltanto rivestimento e che sotto nascondevano del solido cemento) e ampie vetrate componevano l'accesso al negozio, donando a quella parte della strada l'aspetto di un salto indietro nel tempo – un improvviso tuffo nella celeberrima Londra vittoriana: persino la scrittura delle insegne sembrava minuziosamente dipinta a mano da un amanuense di tempi remoti. Le colonne erano avviluppate da intarsi di una pianta rampicante, illuminati da qualche precisa pennellata di oro per donare una luce maggiore alla struttura; con la stessa tecnica, anche gli innumerevoli abbellimenti in ferro battuto, come ad esempio l'utilissima lampada ad olio che spiccava di fronte alla porta di accesso, erano decorati con foglie di gusto barocco completamente laminate d'oro.

“Megalomane come sempre” pensò Leo e, prima di entrare, cercò di sfoggiare il suo sorriso più amichevole; quando si rese conto che gli era praticamente impossibile, si accontentò di quello meno simile ad una smorfia.

La libreria, all'interno, non cambiava molto: la famiglia Itsuki teneva molto alle tradizioni e l'attuale proprietario della libreria più famosa della città era, se possibile, persino più ossessionato da esse del resto dei parenti; a partire dagli scaffali in legno invecchiato fino alla poltrona rivestita di velluto rosso cremisi che si ergeva vuota dietro il bancone principale, tutto faceva pensare ad una bella e pomposa biblioteca anglosassone di tardo Ottocento. Persino i cartelloni con le nuove uscite, così poco esteticamente moderni rispetto al clima generale, erano stati fatti ristampare su una carta simile a pergamena e appesi lungo le travi che reggevano il soffitto.

Certo, questo non implicava che la tecnologia fosse “bandita dal regno”, per così dire; Leo era perfettamente consapevole che, ben nascoste agli occhi dei clienti, c'erano telecamere di sicurezza e sistemi di allarme di ogni genere che si ricollegavano ad un complicato network a circuito chiuso che veniva monitorato quotidianamente.

«Salve, posso aiutarla?» Una voce allegra, seppur titubante, e con uno strano accento lo colse di sorpresa; gli ci volle un po' prima di trovare, dietro una pila di libri che trasportava a fatica, chi lo aveva appena accolto nel negozio: ne colse appena un'arruffata chioma di capelli neri e gli occhi affetti da un'interessante quanto rara forma di eterocromia (oro e blu) che lasciarono per un attimo lo scrittore senza fiato – il tempo necessario perché il ragazzo poggiasse sul bancone riservato ai dipendenti i volumi che, Leo ne era certo, dovevano pesare una tonnellata.

«Sono... qui per vedere Shu» cercò di spiegarsi Leo, abbassando in parte la cerniera del giaccone così da non avere la bocca coperta e farsi sentire per bene. «Sono un suo ex compagno di università».

Gli occhi del ragazzo si spalancarono appena e, improvvisamente, il suo sorriso si fece ancora più radioso e di certo meno teso: gli fece un cenno veloce per dirgli di attendere e poi si precipitò nel retrobottega quasi correndo, lasciando Leo da solo con i suoi pensieri, un po' perplesso. Da quanto non andava a trovare Shu... ? Un po' di tempo, sicuramente. L'ultima volta non aveva nessun assistente perché, come diceva sempre, “nessuno può essere in grado di gestire questo posto se non il sottoscritto”. Possibile che la persona più testarda e meno incline al cambiamento che conoscesse fosse tornato sui suoi passi... ?

Il giovane impiegato fece capolino dagli scaffali un attimo dopo, ancora sorridendo quanto un bambino il giorno del suo compleanno. «Ha detto che non vede l'ora di vederti! Sono contento che Shu abbia degli amici!»

«Non siamo amici» tuonò una voce profonda, abbastanza forte da poter risuonare ad un paio di pareti di distanza e precedendo Leo nello specificare e sottolineare quella delucidazione: no, Shu Itsuki non era decisamente amico suo e proprio per questo Leo si fidava più di lui che dei suoi cari, in quei frangenti.

Il ragazzo trasalì per poi ridacchiare nervosamente. «Scusalo» sussurrò a bassa voce, coprendosi la bocca con le mani per farsi sentire il meno possibile e poi gli fece cenno di seguirlo “oltre lo specchio”.

Era Shu stesso a definire così la parte riservata allo staff della libreria: un corridoio si apriva dopo gli scaffali della sezione letteratura, rivelando un ambiente rivestito in pietra come un sotterraneo medievale; sulle pareti, erano appesi quadri, araldi forse non troppo costosi ma di certo di una fattura strabiliante ed erano esposte lungo il percorso affascinanti quanto strambe costruzioni composte da meccanismi ed ingranaggi di diverso materiale. Una striscia di led era a malapena visibile nei pressi del soffitto e, con la sua modesta illuminazione, trasmetteva un'atmosfera molto simile a quella della luce soffusa notturna (come facesse Shu a lavorare là dentro, Leo non lo sapeva; ma era Shu ad essere già abbastanza strambo di per sé e constatato da uno come lui, era tutto dire), guidando verso l'ultima delle tre stanze a cui conduceva il passaggio.

Altra stanza, altra ambientazione: non appena il ragazzo moro aprì la porta, Leo ricordò cosa fosse la luce. Paradossalmente, il personale ufficio di Shu sembrava uno studio di un nobile amante della natura: i colori erano caldi sia nel tendaggio che nelle rifiniture mentre la mobilia prevalentemente tendeva al bianco con solo delle leggere sfumature sul tono dell'azzurro e, a parte qualche sobrio riferimento ai colori preferiti del proprietario (il rosso e il nero, ovviamente) come fiocchi o decorazioni casuali sulle lampade, niente rimandava ai suggestivi ma cupi ambienti che lo precedevano. Un ampio spazio si apriva di fronte alla scrivania in perfetto ordine, sulla quale spiccava anacronisticamente un grande monitor di un computer e, vicino ad esso, un'alta pila di libri dall'aria antiquata sulla quale, seduta come una piccola e eterea dama di corte, stava Madamoiselle.

La bambola sembrava fissarlo, giudiziosa, con i suoi occhi vuoti così reali da far paura, vestita in un elegante abito azzurro, decorato con ricami di foglie che ben ricordavano quelle poste all'esterno del negozio e che, Leo ne era sicuro, aveva cucito Shu in prima persona; d'altronde, era lei la compagna silenziosa e perfetta dell'uomo che, impettito, sedeva alle sue spalle, sul suo immacolato trono di legno e velluto bianco.

Shu Itsuki aveva frequentato la sua stessa università, affrontando un percorso parallelo a quello di Leo: di fatto, se il rosso era più propenso alla narrativa, l'erede dell'enorme libreria nonostante la giovane età vantava scritti di suo pugno svariati saggi sui più disparati temi – arte, per lo più, ma Leo sapeva che gli interessi dell'ex-compagno di studi vertevano su qualunque cosa attraesse la sua genuina attenzione. La sua intelligenza era così vivace da stuzzicare spesso in lui un'irritata ammirazione; eclettico, abile nei lavori manuali ed apparentemente disinteressato nelle questioni che invece rendevano la sua vita un inferno, valeva a dirsi quelle di cuore... dopotutto, si parlava di un uomo che riusciva ad incutere una certa riverenza nonostante avesse capelli rosa confetto e fosse, la maggior parte delle volte, vestito come un vecchio di novanta anni con uno spiccato amore per l'epoca vittoriana – dubitava sarebbe stato credibile se la sua personalità e il suo acume non fossero stati fuori dal comune.

Quel suo modo di comportarsi così noncurante del cosiddetto “senso comune” lo rendeva, in effetti, il candidato ideale ad ascoltare i suoi sproloqui spesso alquanto deliranti riguardo la truffa del Predestino e la sua romantica visione di unico uomo contro Madre Natura e non era la prima volta che gli si rivolgeva per un sincero parere riguardo il suo complicato punto di vista.

Ma non era quello l'unico motivo per cui era lì, quel giorno.

«Buon Dio, speravo di non vederti più» mormorò, roteando prontamente gli occhi azzurri al cielo e così accogliendolo nel suo ufficio; nonostante il tono drammatico, non si era affatto scomposto e Leo era piuttosto sicuro che lo avesse visto arrivare dalle telecamere a circuito chiuso poste nel negozio.

Il romanziere sospirò e, mentre si toglieva il grosso zaino dalle spalle, gli lanciò un'occhiataccia. «Pensavo non volessi assistenti» borbottò, gettando uno sguardo al ragazzo moro che, nel frattempo, aveva approfittato della situazione per prendere alcuni volumi accatastati su una delle sedie poste davanti alla scrivania, teoricamente riservate agli ospiti.

«Lui è Mika» rispose immediatamente Shu, senza neanche rivolgere un'occhiata all'oggetto del loro discorso. «Lo sto preparando a gestire il negozio in mia assenza, dato che ho in programma di partire per un viaggio di studio».

«Signor Shu, io non credo di essere molto adatto-» provò a protestare il ragazzo ma Shu lo zittì con uno sguardo di rimprovero e aspettative insieme; Mika trasalì e poi, sospirando e con l'andatura di un condannato a morte, lasciò la stanza borbottando tra sé e sé.

Leo iniziò a capire perché lo avesse scelto come assistente, ma si tenne per sé ogni commento, considerando che aveva una questione urgente di cui parlare; c'erano delle precise condizioni da rispettare, per discutere in modo schietto con Shu e la prima la estrasse dal suo zaino: era un pupazzo di almeno cinquanta centimetri, una rappresentazione carina e piuttosto classica di un alieno verde con gli occhioni neri che il ragazzo possedeva da quando aveva sedici anni e che aveva affettuosamente chiamato Artù. Un lascito del suo complicato periodo adolescenziale, quando aveva cominciato a vedere i suoi coetanei trovare la loro perfetta metà e lui si era sempre più sentito—extraterrestre, tanto che aveva cominciato non solo a studiarli, ma a venerarli e sperare che lo rapissero... Magari, si era detto, su Marte il Predestino non può esserci. E adesso si ritrovava di nuovo a fare quei pensieri.

Il peluche fu più che abbastanza per attirare l'attenzione del saggista, il quale fece un chiaro cenno a Leo con la mano (la sua abitudine a dirigere gli altri lo aveva sempre irritato, se lo ricordava ogni volta che si vedevano, suo malgrado) di far accomodare il pupazzo sulla poltrona su cui, teoricamente, avrebbe dovuto sedersi lui. Invece, era Artù ad esservi “accomodato” sopra, disarticolato nella sua interna composizione di cotone, con il volto rivolto verso Madamoiselle che Shu aveva gentilmente voltato verso l'enorme peluche.

Quello era l'unico modo in cui Leo riusciva ad intrattenere una conversazione civile con Shu:attraverso i loro compagni (testimoni e taciti ascoltatori delle loro peculiari personalità) potevano parlare con più leggerezza perché nessuno dei due si metteva realmente in gioco; erano i loro alter ego a comunicare, seppur attraverso le loro parole che fingevano di tradurre.

«Madamoiselle dice che è lieta di rivedere Artù e che si aspettava una vostra visita» iniziò Shu, guardando Leo di sottecchi; una delle poche cose di cui Leo era davvero grato del suo coetaneo era che, nonostante corresse da lui come ultima risorsa quando si sentiva incompreso dal resto del mondo, lui non si era mai lamentato. Non lo aveva mai cacciato nei suoi momenti bui, al massimo aveva lasciato che si sfogasse in silenzio attraverso le parole inventate del suo alieno da compagnia. A volte temeva che si comprendessero più di quanto non andasse ad entrambi di ammettere.

«... E perché se la aspettava?» chiese, dimenticandosi per un attimo la loro pantomima, che però si affrettò a riprendere all'occhiata perplessa di Shu. «Artù è lusingato ma confuso» specificò, incrociando le braccia con fare pensieroso, come se fosse lui stesso il pupazzo verde mela.

«Una settimana fa è passato di qui Izumi Sena. Ho scorto un lucchetto sulla sua pelle». Crack. Lo sapeva? Non con certezza, ma immaginava che da quando Izumi gli aveva detto che era finita, a quell'ora doveva aver ricevuto il marchio da mesi. Qualcosa però dentro Leo non mancò di frantumarsi per l'ennesima, ormai innumerabile volta ma lì, sotto lo sguardo di Shu, sapeva che non poteva crollare – lo aveva fatto troppe volte, negli anni precedenti, perché riuscisse a sopportare l'idea di farlo ancora una volta. Izumi ormai apparteneva al passato e l'unica cosa che poteva sperare era che, un giorno, potessero tornare a parlare con la stessa naturalezza di quando si erano conosciuti. «Madamoiselle ha immaginato che Artù non avesse avuto più modo di vederlo».

Leo si frenò dal chiedere se gli fosse parso felice perché, probabilmente, non avrebbe sopportato l'idea. Si limitò ad inspirare, affondare per quanto possibile le unghie nel legno della poltrona alla quale si era appoggiato e concentrarsi sul motivo per cui era lì, che era di gran lunga più urgente.

«È—così, in effetti. Non vediamo Izumi da un po', vero Artù?» Sperò che la sua voce non lo avesse tradito troppo, ma sapeva che Shu aveva una consapevolezza pressoché certa di quanto Leo avesse sofferto dell'allontanamento da quel ragazzo; era stato così felice con lui, così sicuro di aver finalmente trovato la sua rivoluzione... «Ma non siamo qui per questo, Madamoiselle. Ad Artù piacerebbe sapere—alcune cose sui vostri studi».

Il più alto inarcò un sopracciglio, ma non era facile capire se fosse per lo stupore della crisi malcelata del collega (del fatto che avesse cercato di nasconderla così testardamente, a differenza dal Leo che conosceva) oppure per la richiesta appena ricevuta o, magari, per entrambe le cose. In ogni caso, sembrava che Leo avesse attirato l'attenzione desiderata, perché l'uomo non troncò subito il discorso come era solito fare quando non era interessato a parlare.

«Riguardo cosa, se posso?» Shu si alzò dalla propria postazione per poi avvicinarsi all'enorme vetrata che si apriva dietro la sua scrivania e, nel fare questo, gli diede le spalle. Intrecciò le mani tra di loro, dietro la schiena, preparandosi così ad ascoltarlo con maggiore attenzione. Leo conosceva abbastanza Shu e il suo linguaggio corporeo (da scrittore, per quanto non fosse molto bravo ad interagire con gli estranei, amava osservare i comportamenti e le abitudini di chi lo circondava) da poter dire con certezza che non solo aveva intuito l'argomento ma, seppur non si aspettasse quella conversazione in quel momento, era in qualche modo preparato a sostenerla da tempo e, anche per questo, preferiva non guardarlo in volto.

«I Dissidenti, Madamoiselle. Artù sa che tu e Shu avete fatto delle ricerche su di loro, tempo fa e ora abbiamo un gran bisogno di sapere se esistono davvero e, se ci sono, di trovarli».

Calò il silenzio – non era la prima volta, in realtà, che Leo sollevava la questione con Shu, ma questi si era sempre categoricamente rifiutato di fornirgli risposte precise al riguardo; diceva che si trattava di semplici dicerie, che le sue ricerche si erano concluse in un nulla di fatto, eppure... Eppure il suo sguardo si incupiva sempre in quelle circostanze e spesso rivolgeva a Madamoiselle un muto appello di aiuto per uscire dalla conversazione, senza ricevere alcuna apparente risposta. Leo sapeva che, con tutta probabilità, anche stavolta quella richiesta si sarebbe conclusa in un nulla di fatto, eppure—era la sua ultima possibilità.

«... Quindi, il momento è giunto» mormorò, così a bassa voce che Leo temette di non aver udito bene. Vide chiaramente la stretta fra le mani del ragazzo farsi più forte, come a mascherare del nervosismo crescente e poi Shu fece qualcosa che lo colse completamente di sorpresa: si voltò verso di lui, gli occhi azzurri che brillavano con l'ardore della conoscenza, la fame di sapere – uno sguardo che il giovane Tsukinaga conosceva ma che di certo non si aspettava come risposta ad una sua chiara richiesta di aiuto. «L'hai trovato».
 


Note: Mentre scrivevo questo capitolo, ho cercato di pensare a come Leo potesse rapportarsi agli altri - per definizione, è un personaggio molto "solo" nel canon e non perché non abbia chi gli vuole bene, ma perché si carica da solo delle sue emozioni e non le riversa su nessuno, lasciandosi quasi torturare dalle sue azioni. Quando nello Starlight interagisce con Shu, in questa sorta di irritata e competitiva ammirazione che hanno l'uno verso l'altro, ho pensato che con le loro personalità così particolari, forse proprio Shu sarebbe stato in grado di capirlo e così la mia scelta di renderlo il suo "consultatore di fiducia" in questa soulmate. 
Di solito non sono brava a prolungarmi nelle descrizioni dei luoghi, ma stavolta ho tentato e spero che non stoni (le mie paranoie sulla scrittura non finiranno mai davvero, AHAH), ma la Libreria Itsuki speravo racchiudesse davvero molto di quello che Shu ama (almeno qui; i personaggi sono molti e non so ancora quanti ne inserirò nel totale) e della sua personalità metodica e perfezionista. Ovviamente sarà anche nel prossimo capitolo (mentre Mika tornerà quasi con certezza tra un bel po') insieme ad un nuovo (!!) personaggio!
Eeee niente, ovviamente per ogni dubbio sono qua e mi sono prolungata anche troppo in queste note! Buona lettura e al prossimo capitolo ~ 

 

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Capitolo 4
*** Cinguettio ***


Capitolo 3: Cinguettio
 


“I corvi intonavano i loro lugubri motivi notturni mentre l'onnisciente mago lasciava danzare con movimenti lenti e precisi l'enorme bastone che teneva con le mani nodose; recitava a bassa voce parole sconosciute che seguivano lo stesso canto degli uccelli neri i quali, a poco a poco, iniziarono a volteggiarmi dintorno, divertiti e affamati mentre io, in gabbia, imploravo con una codardia che mai avrei pensato di conoscere che qualcuno venisse a salvarmi. Poi giunse, all'improvviso, a spezzare quella maledizione il canto di un pettirosso.”

 

Leo tremò sotto quegli occhi e, per un lungo ed orribile attimo, si ritrovò a pensare che odiava Shu e la sua maledetta intelligenza; erano bastate poche parole ed era riuscito a capire non solo le sue intenzioni ma anche la reale motivazione dietro la sua richiesta, di cui non aveva la minima voglia di parlare. Una delle ragioni per cui non gli piaceva parlare con Shu era proprio questa: sapeva tirare fuori tutto ciò che di scomodo si trovava a voler celare persino a se stesso e, in qualche modo, sentire qualcun altro dire che sì, aveva trovato il suo Predestinato, lo rese persino più reale, come l'enunciazione in pubblica piazza di un condannato a morte.

Il rosso inevitabilmente si incupì, dando così un'involontaria conferma a Shu di ciò che aveva appena ipotizzato e così crollarono entrambi gli spettacoli: quello di Artù e Madamoiselle, perché il più alto percorse la stanza fino a fronteggiare Leo in prima persona e quello del romanziere che, infine, poteva smettere di recitare la parte di chi stava abbastanza bene da non cercare alcun tipo di conforto.

«Chi è?» inquisì subito il più alto, cosciente che doveva cogliere il momento: se avesse lasciato ritrarre Leo in se stesso, probabilmente, non ne avrebbe mai più parlato.

«Non lo so» mormorò nervoso il ragazzo, facendo un passo indietro e distogliendo lo sguardo dall'altro, in evidente difficoltà; non ricordava esattamente l'ultima volta in cui aveva parlato senza i loro alter ego a fare da tramite e non era sicuro che fosse una buona cosa. «Non so come si chiama, ci siamo solo... guardati».

Lo sguardo di Shu si illuminò ulteriormente, mentre Leo si sentiva le gambe come gelatina, del tutto simili a quelle di Artù, ancora scompostamente poggiate sulla poltrona. Non poteva diventare anche lui un alieno di peluche? Così sì che la sua vita sarebbe stata semplice.

«Interessante». Leo era piuttosto sicuro che Shu non avesse ancora incontrato il suo Predestinato e, con ogni probabilità, non avesse alcun interesse nel farlo o non avrebbe commentato a quel modo la sua condizione. «È bastato uno sguardo per convincerti che fosse lui?»

Il giovane scrittore sentì l'immediato istinto di ribattere perché aveva la sensazione che Shu stesse insinuando qualcosa che non gli sarebbe piaciuto per niente ma, in effetti... non vi riuscì. Gli occhi ametista del giovane amico di sua sorella brillarono di fronte a lui come se fosse fisicamente ancora lì, con la stessa espressione spaventata che ricordava di aver visto sul suo volto: era un fantasma della peggior specie, un vivo inconsapevole di perseguitarlo persino fuori dai suoi sogni agitati.

Qualunque cosa Shu stesse cercando di suggerirgli infidamente, era probabile che avesse ragione.

«... Ha... anche parlato. Ma non con me». Si sentiva sottoposto ad una radiografia: lo sguardo inquisitorio del saggista sembrava cercare segni di evidenti cambiamenti nel suo corpo, seppur stesse indossando ancora il giaccone – proprio come aveva fatto lui per giorni, senza darsi pace. Quell'ultimo indizio sembrò convincerlo, almeno per il momento, ad interrompere la sua poco discreta ispezione.

«Non è di comune sapere, ma ci sono casi particolari persino tra i Predestinati» asserì all'improvviso, assumendo il suo tono professionale da conferenza stampa o da convegno universitario. Era raro che lo usasse con lui e la cosa, se possibile, lo agitò persino di più. «Ci inducono sempre a pensare che il Predestino sia amore a prima vista, ma in molti casi le sensazioni sono così minime che non vengono neanche percepite, in un primo momento e i sentimenti si sviluppano con discrezione, nel corso del tempo». Mentre spiegava, percorreva a grandi passi lo studio, scrutando attentamente i libri riposti nell'enorme libreria a muro dove coesistevano i volumi più disparati: sembrava cercasse qualcosa in particolare, forse degli studi approfonditi riguardo il Predestino – il solo pensiero faceva girare la testa a Leo. «La maggioranza della popolazione prova una forte attrazione dal principio per la loro metà, il che li porta ad avvicinarsi velocemente ed innamorarsi. Ma i veri e propri colpi di fulmine sono una rarità assoluta... In media, è stato calcolato che ci vogliono circa dieci giorni per arrivare alla conclusione che tu hai tratto in pochi attimi».

Leo non ne aveva idea. Fissava alienato Shu che con un movimento sicuro afferrava un grosso volume rilegato in bianco, dall'aspetto recente ma al tempo stesso consumato forse da continui e ripetuti studi e glielo porgeva: a grandi lettere, c'era un titolo che fece provare allo scrittore l'istinto di lanciare il libro fuori dalla finestra - “Amore surreale – il Predestino tra scienza e leggenda”.

«Non--» iniziò il rosso, ma dovette interrompersi perché la voce gli tremava troppo: inspirò, cercando di calmarsi e di ignorare ciò che Shu stava cercando di fargli capire e che, purtroppo, aveva già intuito; poi, a mente più lucida, ritentò: «Non sono venuto a chiederti consiglio su come affrontare il mio Predestino, ma su come spezzarlo. Io non voglio perdere-»

«So come la pensi» lo interruppe subito l'uomo con tono duro, neanche in minima parte mosso da quello che Leo stava tentando di dirgli. «Ma ti ho già ripetuto che i Dissidenti non esistono e, se pure esistessero, non ti aiuterei a trovarli neanche sotto tortura. Non cambierò idea solo perché ti senti in trappola».

Lo aveva immaginato sin dal principio, ma fu lo stesso più che abbastanza per farlo arrabbiare: Shu sapeva un sacco di cose su di lui. Gli aveva raccontato che aveva la sensazione che se, avesse incontrato il suo Predestinato, avrebbe smesso di scrivere quando questo era, in definitiva, tutto ciò che aveva; la prima volta che aveva trovato il coraggio di aprirsi si era sentito capito, in un certo senso, perché anche Shu metteva al primo posto l'arte e ciò che amava indipendentemente da quello che il mondo gli imponeva e adesso... Adesso che aveva bisogno di lui... era come se lo stesse abbandonando, praticamente gettandolo da un treno in corsa dritto in un burrone dove lo aspettavano le fiamme dell'inferno.

«Va bene» ringhiò, chiudendo i pugni in una morsa talmente stretta da conficcarsi le unghie nella pelle; sentiva gli occhi pungere dalla frustrazione, perché in fin dei conti Shu era—l'unico che pensava potesse dargli un po' di supporto in quel momento in cui si sentiva non in trappola, ma più condannato al patibolo; in fretta e furia, infilò sia il libro che Artù nello zaino in malo modo, cercando di non farsi vedere dall'altro con gli occhi lucidi. «Non ho bisogno del tuo aiuto. Li troverò da solo. Troverò il modo per spezzare questa maledizione e poi me ne andrò per sempre da qui!» esclamò, con voce ormai rotta, per poi precipitarsi fuori prima dallo studio e dopo dalla libreria, senza prendersi neanche un momento per salutare il giovane assistente di Shu, che quasi trasalì al suo burrascoso passaggio.

Si ripromise di non mettere più piede là dentro.


 

I giorni seguenti furono frenetici.

Aveva delle scadenze da rispettare e avrebbe dovuto lavorare in modo quasi esclusivo (se non al limite delle sue forze) al suo romanzo, ma il tempo di Leo era per lo più assorbito da febbrili ricerche in ogni angolo del web di notizie riguardo ai Dissidenti: quel che Leo sapeva al riguardo, di per sé, era molto limitato, quindi ogni nuova informazione poteva rivelarsi utile.

Se già gli studi sul Predestino erano complicati (ne era testimone quell'enorme tomo che, senza rendersene conto, aveva comunque portato con sé dopo la fuga poco onorevole dalla libreria Itsuki), i Dissidenti erano una vera e propria leggenda: si trattava di individui che avevano rifiutato categoricamente il loro Predestino, diffondendo dubbi e timori riguardo quella che per tutti era considerata la norma; spesso, alle loro supposte ma mai confermate apparizioni seguivano teorie complottiste, episodi macabri e persino scomparse di persone. In molti dubitavano della loro esistenza, proprio perché non c'era mai stata una testimonianza certa riguardo qualcuno in grado di fuggire a quella che veniva considerata parte stessa della natura umana e in ancor più numerosi li additavano come dei mostri, perché, appunto, sfuggevoli a qualcosa che faceva parte della loro stessa essenza. Il problema, però, era cercare di trovare chiari indizi al riguardo attraverso siti che ne parlavano come se fossero delle sottospecie di celebrità del soprannaturale, oltre a dover escludere una ad una le notizie palesemente false nella speranza (e questo sì, che era quasi impossibile) di mettersi in contatto con loro.

All'alba del quinto giorno, sedeva sfinito alla propria scrivania, la faccia poggiata disperatamente sulla tastiera del computer il quale, ovviamente, protestava con suoni elettronici per i maltrattamenti subiti; davanti allo schermo, c'erano almeno cinque tazze vuote che aveva precedentemente riempito di caffè amarissimo, senza neanche un cucchiaio di zucchero nella vana speranza che facesse maggior effetto ma era stato inutile: ogni tanto cedeva alla stanchezza, le palpebre calavano ed ecco che, a tradimento, gli occhi ametista del ragazzino tornavano a tormentarlo.

«... ti odio...» biascicò, ignorando la pressione dei tasti contro il suo viso, che avrebbero sicuramente lasciato il segno; a tentoni, cercando di non fare strage di tazze abbandonate nel frattempo, cercò il cellulare che doveva essere ancora lì, buttato da qualche parte vicino allo schermo e in qualche modo riuscì ad afferrarlo: in grandi numeri bianchi, sullo schermo piatto, la scritta 03:39 lampeggiava sullo sfondo di un mare in tempesta. Aveva qualche notifica dal suo sito ufficiale, dal suo editor e...

Si risollevò a sedere, la faccia segnata dai tasti, come previsto. Sullo schermo lampeggiava la presenza di un messaggio, uno di quelli vecchio stile, da un numero sconosciuto... ? Strofinandosi gli occhi, controllò velocemente le altre notifiche per poi aprire in fretta e furia il messaggio – poteva trattarsi di Shu, che ci aveva ripensato? Era proprio nel suo stile mandare un sms (se non una lettera vera e propria, giusto per rimanere nel suo anacronismo mentale), ma dopotutto aveva il suo numero salvato da qualche parte; le altre persone che conosceva (non molte) lo contattavano per lo più attraverso social e piattaforme più immediate, mentre per i contatti di lavoro era più semplice chiamare direttamente e, di certo, non alle cinque del mattino. Quindi chi... ?

Il messaggio era stato ricevuto circa un'ora prima, ma avendo la modalità silenziosa attivata, non se ne era accorto; una volta aperto, Leo si chiese se non dovesse avere paura perché il messaggio recitava: “Se è la Dissidenza che cerchi, Noi possiamo offrirtela, basta che tu risponda SI a questo messaggio”. Sentì il proprio cuore chiaramente aumentare il battito, ma (il che poteva sembrare assurdo, privo di qualunque buon senso) non proprio per il panico: la risposta che cercava da sempre, dopotutto e non solo da qualche giorno improvvisamente arrivava a lui con così tanta facilità che stentava a crederci, quasi i Dissidenti avessero avvertito il pericolo che correva. Stanchezza e disperazione furono sicuramente complici di quel che seguì – anzi, se fosse stato in sé, probabilmente non avrebbe dato il minimo credito a quel testo e non ci avrebbe pensato due volte prima di cestinare il messaggio. Ma in quel momento, con addosso la sensazione di essere particolarmente incompreso, non c'era da stupirsi sul perché avesse digitato la risposta SI senza neanche prendere in considerazione l'eventualità che potesse trattarsi di uno scherzo o, addirittura, qualcosa di peggio. Il tempo di un battito di ciglia e la risposta fu inviata.

L'adrenalina, però, scemò in fretta, costringendolo così a passare i seguenti venti minuti a chiedersi che cosa gli fosse preso, ad offendersi perché persino un bambino avrebbe capito che si trattava di una bufala di chissà quale tipo e si mise a cercare sul web riscontri su quel numero di cellulare sconosciuto: magari si trattava di qualche genere di molestatore, un gruppo di ragazzini annoiati, magari qualche hacker, ma...

Niente di niente. Nessuno in internet aveva mai scritto quel numero di cellulare da qualche parte – sembrava praticamente inesistente.

Stava per andarsene a letto, arreso e persino più esasperato di poco prima, quando il cellulare vibrò ancora una volta, tra le sue mani: il numero era diverso, stavolta, e si trattava di una chiamata ma erano quasi le sei del mattino, ormai, quindi non poteva essere una coincidenza – nessuno sano di mente avrebbe chiamato a quell'ora, se non per un'emergenza o una ragione specifica (nel suo caso, quel messaggio). Fissò per un po' lo schermo, cercando il coraggio di rispondere – aveva visto abbastanza film horror da non fidarsi di una chiamata da un numero sconosciuto nel cuore della notte... anche se stava albeggiando.

«... Pronto?» si azzardò a rispondere infine, titubante. Intanto, incapace di stare fermo, si era alzato in piedi e percorreva a grandi passi il suo studio. Sperò che dalla sua voce non trapelasse il panico.

«Pronto?» Era una voce maschile, il che un po' lo sorprese. Era un tono caldo ma giovanile, un timbro nasale con un leggero accento straniero (a Leo piacevano le lingue, era sempre stato affascinato dal mondo che c'era dietro le traduzioni dei suoi romanzi per l'estero); era difficile, ovviamente, giudicare da una sola parola, ma aveva un certo retrogusto inglese. «Parlo con il signor Leo?»

Cercò di non terrorizzarsi all'idea che un perfetto sconosciuto dal suadente accento straniero che lo chiamava nel cuore della notte sapesse il suo nome. «... Potrebbe. Con chi parlo?»

Una leggera risata lo colse di sorpresa, in un certo senso rassicurandolo senza nessuna ragione apparente. «Mi scuso per l'ora, sono desolato. Il mio nome è Robin». Alla breve presentazione, seguì un attimo di silenzio imbarazzato – un attimo in cui Leo pensò che era davvero buffo conoscere una persona che avesse davvero quel nome, lo stesso che aveva dato al protagonista del suo secondo romanzo, uscito solo l'anno prima. «Per caso... anche lei sta cercando di mettersi in contatto con i Dissidenti?». Manteneva un tono basso, quasi sussurato, come se stesse cercando di non farsi sentire o, magari di non svegliare qualcuno – circostanza probabile, dato l'orario. Ma improvvisamente, almeno nella mente del giovane scrittore, niente sembrò importare più: questo tale, Robin, aveva appena detto che anche lui stava cercando di trovare le stesse persone che lui aveva inseguito per così tanto tempo e, piuttosto che farsi domande sulla dubbia coincidenza, Leo si convinse in un impeto di entusiasmo che quella doveva essere una sottospecie di prova, una sorta di iniziazione prima di essere accolto nel leggendario gruppo di ribelli.

Complice la sua sfacciata fantasia da artista, certe volte la sua mente viaggiava, interpretava ed elaborava troppo velocemente, come un mulinello capace di creare in pochi attimi il caos nelle acque circostanti e spesso finendo così col trarre conclusioni errate.

«Sì!» esclamò, quasi come se tutta la caffeina assunta nelle ore precedenti avesse appena preso a scorrergli con prepotenza lungo tutto il corpo. Resosi conto di aver in sostanza urlato, si affrettò ad abbassare il tono della voce e prese a sussurrare, come il suo interlocutore, seppur in modo ben più concitato. «Ci sono—delle istruzioni da seguire, per caso? Ho solo ricevuto un messaggio e poi la tua—chiamata. È reale?»

Ancora un mezzo sospiro divertito, come se Robin, dall'altro capo del telefono, trovasse esilarante il suo modo di esprimersi. Il giovane scrittore preferì non farsi domande (anche se, doveva ammetterlo, il pensiero che lo sconosciuto si facesse beffe di lui un po' lo irritava) e, piuttosto, già aveva preso a fantasticare riguardo la sua imminente libertà: niente più occhi ametista, niente più fughe pianificate in giro per il mondo – poteva restare, continuare a scrivere senza perdere la sua ispirazione e forse, un giorno, in quel gruppo di ribelli, avrebbe trovato anche la persona più giusta per lui, che lui da solo avrebbe scelto, non uno stupido destino.

Suonava tutto magico, come in un romanzo. Uno dei migliori che avrebbe avuto l'occasione di scrivere, probabilmente.

«Purtroppo ne so quanto lei, temo» fu la sola replica del suo interlocutore. Rimasero entrambi per qualche istante in silenzio, poi Robin si decise a parlare. «Il suo recapito è comparso sul mio cellulare, inviatomi da un numero sconosciuto dopo aver risposto ad uno strano messaggio». Suonava teso, constatò Leo. Si chiese se anche lui non stesse cercando di sfuggire dal Predestino e se, proprio per questo, non dovessero affrontare un percorso di iniziazione assieme. «Non mi aspettavo avrebbe risposto qualcuno... di reale, ad essere sincero».

A Leo sfuggì un mezzo sorriso; sembrava che il ragazzo condividesse i suoi stessi dubbi, a giudicare dall'esitazione nella sua voce e così, rassicurato da quella parvenza di normalità (per quanto la situazione sarebbe apparsa assurda agli occhi di chiunque), riuscì a liberarsi della paura.

«Magari ci hanno messo in contatto per aiutarci a vicenda» azzardò, anche se la sua mente ormai aveva già presupposto almeno quattro ipotesi diverse per quanto stava accadendo, più una quinta che riteneva improbabile. «Posso—chiederti perché stai cercando i Dissid—cioè, quelli?» provò, forse suonando un po' sospettoso.

Avvertì chiaramente il ragazzo trasalire dall'altro capo del telefono, forse per la completa mancanza di formalità alcuna da parte sua, ma non vi diede peso. Rispettò però il silenzio che seguì perché, forse, per il misterioso Robin parlarne non era facile – come poteva parlare di se stesso così facilmente ad un completo sconosciuto?

Eppure, Leo era convinto che proprio perché entrambi erano sconosciuti, poteva essere più semplice; non c'era nulla ad alterare i loro giudizi se non la voce lievemente metallica (e quindi non reale) che percepivano da un capo all'altro del telefono – cosa impediva, dunque, al loro cuore di aprirsi? Era più o meno per la stessa ragione che finiva sempre con lo sfogarsi con Shu, piuttosto che con sua sorella o i suoi amici; non voleva che la visione che loro avevano di Leo Tsukinaga mutasse, di fronte alle sue debolezze esposte.

Certo, loro non erano stupidi; sapevano che il ragazzo aveva una stabilità discontinua, che tendeva a mascherare con un'esuberanza sfacciata tutte le fragilità che portava dentro, solo che non lasciava spazio alcuno per lasciarsi decifrare da terzi. Come se ricoprisse le lunghe crepe di una strada causate da un terremoto continuamente con nuovo asfalto, nascondendole sempre più a fondo ma senza, per questo, eliminarle mai del tutto.

«... Sono confuso» ammise infine Robin, distogliendo improvvisamente Leo dai proprio pensieri. «Credo di aver incontrato quella—persona ma...» un sospiro malinconico fece quasi rabbrividire il ragazzo, mentre impaziente attendeva il resto della storia; se possibile, ora la sua curiosità era ancora maggiore. Non gli era mai accaduto di conoscere qualcuno di—insicuro di fronte al proprio Predestino ma, anzi, di solito tutti accettavano di buon grado quel che accadeva e festeggiavano con un tale entusiasmo che lo facevano sentire ancor più emarginato da tutto ciò che lo circondava. Era quindi davvero strano parlare per la prima volta con qualcuno che si trovava nella sua stessa situazione... Prima che se ne fosse reso conto, si era seduto per terra, a gambe incrociate, completamente assorbito da quel che stava ascoltando. «Mi è bastato un attimo e mi sono sentito così travolto che... mi sono spaventato. Capisco frequentarsi e conoscersi lentamente, ma... Improvvisamente pensare di passare la vita con un totale sconosciuto sembra—assurdo. Insensato, oserei dire». C'era un che di affascinante nel modo in cui la voce di Robin manteneva un tono pacato mentre parlava di una situazione – così simile alla sua – che aveva quasi condotto Leo fuori di testa (non che fosse fuori pericolo, al momento; piuttosto, aveva trovato un barlume di speranza). «Ci sono già così tante regole da seguire nella vita di tutti i giorni... Voglio essere io l'artefice del mio destino, almeno in questo, e... magari, giudicare da solo questa persona. Mi sento come se avessi già letto il finale del libro della mia vita, in questo modo».

“... Wow”, si ritrovò a pensare stupito Leo. C'erano poche persone in grado di impressionarlo nel giro di una sola breve conversazione e... Robin era inaspettatamente una di queste. Certo, la loro situazione era sicuramente simile ma era evidente che la vivessero in modi del tuto differenti; se ne rese conto ancor di più quando invece fu il suo turno di confessare le sue paure, mentre il suo misterioso interlocutore lo ascoltava in silenzio, commentando di rado giusto quel che bastava per spronarlo ad andare avanti.

«Il mio—lavoro è tutto ciò che ho» concluse, passandosi una mano tra i capelli, incredibilmente coinvolto dalla conversazione. «Non posso perderlo per qualcosa che non ho mai neanche desiderato...»

Per un attimo, calò il silenzio. Poteva sembrare strano, ma fino a quel momento Leo non aveva dato particolare peso al fatto che stesse parlando con un estraneo, che dietro il telefono avrebbe potuto celarsi chiunque – forse persino qualche casa editrice concorrente alla sua o qualche giornalista da strapazzo che avrebbe potuto utilizzare quella telefonata in chissà quanti modi; certo, non era entrato nei dettagli che concernevano la sua vita (nomi, conoscenze, neanche dove lavorava di preciso) ma chissà...

Fu quel silenzio a renderlo nervoso, come se il suo buon senso si fosse risvegliato da un lungo torpore causato dall'adrenalina, dalla sicuramente troppa caffeina e, soprattutto, dalla mancanza di sonno da quasi ventiquattro ore.

«Non riesco neanche ad immaginare la disperazione che deve provare» fu infine la replica di Robin, abbastanza perché Leo tirasse un sospiro di sollievo.

«Dammi del tu» si affrettò a dire il romanziere, sciogliendosi in un mezzo sorriso, improvvisamente più leggero. «Non credo di sembrare così vecchio, tanto meno per telefono».

«... Va bene, allora» mugugnò, lievemente a disagio – un disagio da cui si riprese in fretta, però. «Oh, my goodness! Già quest'ora!» Leo, di riflesso, diede un'occhiata all'orario fisso ancora sul cellulare: erano ormai le sette passate, ma non era tanto l'orario a preoccuparlo quanto il tempo che avevano passato a parlare – Leo odiava stare al telefono, difficilmente riusciva a sopportare una conversazione più lunga di dieci minuti. «Posso... proporti una cosa?» esitò allora Robin, anche se dal tono della sua voce era evidente che fosse improvvisamente di fretta e, soprattutto, che l'informalità lo mettesse in difficoltà.

«Beh, sta a me accettare poi» lo provocò inconsciamente ma d'altronde nulla gli impediva di rifiutare la richiesta di un misterioso individuo con cui aveva parlato al telefono mentre cercava delle leggende metropolitane.

Robin sospirò. «Immagino di sì» iniziò, mentre Leo avvertiva chiaramente che stava correndo, a giudicare dal rimbombo dei passi frettolosi che il microfono del telefono del ragazzo riusciva a catturare. «Non sarebbe più comodo incontrarci e... parlare della questione di persona?»

 


Note: Sono contenta di pubblicare finalmente l'arrivo di Robin, l'affascinante e misterioso interlocutore che, come Leo, cerca i Dissidenti.
Nel corso della storia ci saranno molti, moltissimi (forse, ahaha) personaggi vicini a Leo che cercheranno di farlo ragionare, così come ha tentato di fare Shu, riguardo il Predestino e l'impatto che potrebbe di fatto avere nella sua vita - tutti coloro che lo circondano cercano di spingerlo ad accettare la realtà; Robin è un'inversione di marcia, qualcuno che, come lui, non si fida di una storia già scritta... non del tutto almeno. Mi piacerebbe molto se, in questo capitolo e i successivi, si notasse la "differenza" dei loro atteggiamenti, simili eppure diversi. E sono davvero curiosa riguardo le impressioni che Robin suscita in voi, nella sua seppur breve comparsa (e neanche fisica).
Buona lettura~ ps: prometto di rispondere alle recensioni dello scorso capitolo al più presto! Ci tenevo ad essere puntuale ed avvantaggiarmi col quinto capitolo, nel frattempo <3 <3

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Capitolo 5
*** Paradiso Terrestre ***


Capitolo 4: Paradiso Terrestre



“Non passò molto tempo prima che il pettirosso mi si rivelasse nel suo reale aspetto: un giovane di bell'aspetto, dai tratti delicati e la risata cristallina, i cui occhi giudiziosi parevano scrutare fino alle brutture più nascoste del mio animo; non le giudicava, però, le accoglieva con amorevole pazienza. Non potei che fissarlo incantato mentre, con gesti silenziosi come quelli di un elegante felino, mi faceva strada verso il Paradiso – un'enorme, infinita valle rigogliosa di una vegetazione che mai avevo conosciuto e la quale, mossa da una leggera brezza, sembrava darmi il benvenuto ad una nuova vita.”

 

Leo non era abituato ad avere appuntamenti. Oltre a non avere molti amici, odiava in generale chiudersi in rigidi schemi e aveva sempre avuto problemi nel rispettare orari così come regole di qualunque tipo – scuola, impegni, formalità di qualunque genere... Il suo temperamento apertamente ribelle, che solo in parte si era smussato durante la crescita, gli aveva sempre causato un sacco di problemi ma, nonostante tutto, non lo aveva mai costretto a rinunciare a gestire la sua vita come meglio credeva.

Forse era anche per questo che odiava tanto il Predestino.

Eppure, quel giorno non solo era stato puntuale, ma era arrivato addirittura in anticipo: sedeva sul bordo della fontana che fronteggiava la stazione, il luogo che avevano accordato con il suo misterioso interlocutore e, coperto fino al naso dal suo giaccone pesante verde militare, si difendeva sia dal freddo ancora pungente nonostante i primi timidi sbuffi di primavera che si potevano già avvertire, sia dagli sguardi delle persone intorno a lui.

Si rigirava tra le mani il cellulare, impaziente; aveva passato i precedenti due giorni a chiedersi se avesse fatto la cosa giusta – insomma, si trattava in pratica di una versione alternativa di un incontro online, no? Messa così, si sentiva un po' un idiota, in effetti.

Era buffo perché, proprio in un momento del genere gli tornò in mente il suo amico Arashi e di come, in un pomeriggio afoso, lo avesse quasi costretto a registrarsi su un sito per incontri organizzati con chi più si avvicinava ad essere la sua anima gemella – come se non bastasse la faccenda del PreDestino a renderlo già irritabile. Chissà cosa avrebbe detto, se lo avesse visto in quel momento: rigido e nervoso di fronte all'imminente incontro con un misterioso straniero, con cui avrebbe ipoteticamente dovuto fuggire dal suo destino già scritto.

Lo sentiva quasi ridacchiare nella sua mente, Arashi, con i suoi occhi violacei che si allungavano in uno sguardo insinuatore.

Sollevò lo sguardo dallo schermo del telefono: l'orologio digitale della stazione scandiva i secondi in modo preciso, mentre sempre più persone uscivano ed entravano nelle fauci del grande sistema di trasporti della città, trascinati dai loro ritmi di vita e che finivano con l'incrociarsi continuamente senza mai vedersi davvero. Chissà quante possibilità si sarebbero potute creare se solo ognuna di quelle persone non fosse già stato proiettata sulla propria strada... ? A volte si chiedeva se anche il suo percorso come scrittore fosse già stato previsto; la sua creatività era davvero sua? Chi gli aveva donato la capacità di vedere oltre la foschia della mediocrità? Avrebbe dovuto ringraziarlo per quella sua capacità o maledirlo per averlo condannato ad una vita di dolore e di lotte continue?

Gettò un'occhiata al suo zaino verde fluorescente che aveva poggiato al suo fianco, rigorosamente a forma di testa di alieno (che, come Artù, risaliva al suo burrascoso periodo adolescenziale), cercando di distrarsi; il malumore non gli serviva, non ora che stava finalmente per essere libero. Diede una pacca alla borsa-peluche, che aveva usato come “segno distintivo” per farsi riconoscere da Robin e poi, di nuovo, un'altra occhiata all'orologio che svettava sull'entrata della metropolitana: mancavano trenta secondi all'orario che avevano concordato. Adesso capiva quasi l'irritazione di Izumi quando arrivava in ritardo ai loro appuntamenti...

Senza che se ne rendesse conto, il suo sguardo si incrinò impercettibilmente.

“Izumi...”

«Signor Leo... ?» una voce singolarmente familiare lo richiamò dai suoi pensieri, quasi facendolo trasalire; a pochi passi da lui, si era fermato un ragazzo pressoché della sua età con l'aria interrogativa in volto – almeno, per quello che riusciva ad intravedere. Indossava un grosso paio di occhiali da sole di gusto un po' vintage... più o meno come il resto del suo vestiario: a partire dal maglione bianco, a collo alto e il giaccone in lana nera che portava sopra di esso, con una spilla dorata raffigurante una spada di eccelsa fattura che brillava di un caldo e luminoso riflesso sotto la luce del sole. Aveva capelli corvini lunghi appena oltre le spalle, portati in una morbida coda bassa che spariva dietro il suo collo; alcuni ciuffi più corti incorniciavano il volto pallido dai lineamenti piuttosto delicati, quasi fosse ancora in uno stato intermedio tra la pubertà e l'età adulta.

«... Robin?» chiese, dopo un primo attimo di puro sbigottimento. Il tenue sorriso del ragazzo bastò come conferma e poi, finalmente, si tolse gli occhiali. Per un attimo, Leo cedette al panico.

Occhi ametista. Brillavano di un viola particolarmente intenso sotto quel sole beffardo e, inconsciamente, il rosso si ritrovò ad arretrare sul marmo, pericolosamente vicino alla fine del bordo della fontana, sul quale era seduto.

Il moro sembrò notare subito il suo disagio, perché si fece immediatamente più scuro in volto.

«Tutto—bene? Ho... forse sbagliato persona?» azzardò, nervoso e Leo finalmente riprese a respirare – non era il ragazzo della festa di sua sorella, che idiota. Strinse i pugni e si intimò a suon di offese mentali di darsi una calmata, prima di rispondere al moro che, interdetto, aveva cominciato a guardarsi intorno con fare agitato.

«No, va... va tutto bene. Sono Leo Tsukinaga» si affrettò a recuperare, prima di alzarsi in piedi per presentarsi in modo dignitoso. Notò che Robin era alto una manciata di centimetri più di lui (non che fosse molto difficile, data la sua statura contenuta, ma...) «Insomma, conosco poche persone che potrebbero andarsene in giro con uno zaino come il mio» disse con un mezzo sorriso nervoso, in un blando tentativo di rompere il ghiaccio ma parve bastare: il giovane si sciolse in un mezzo sorriso più rilassato mentre guardava divertito lo zaino che Leo si stava mettendo sulle spalle.

«Indubbiamente, non passa inosservato». Dal suo modo forbito di parlare al telefono, Leo aveva pensato che si trattasse di un uomo di una certa età ma, adesso, non ci voleva molto a capire che Robin sembrava essere uscito da un video esplicativo di un corso di bon ton: era posato in ogni gesto, quasi fosse cresciuto sotto le direttive di una tutrice degna di una famiglia reale. Nonostante questo, però, sembrava un tipo affabile, a tratti un po' impacciato – anche in quel momento, in cui aveva teso la mano per stringergliela sembrava incerto, come se si aspettasse che Leo la rifiutasse.

«Sei straniero, per caso?» si incuriosì lo scrittore, prima di afferrargli la mano la mano e scuoterla appena. Gli occhi del ragazzo si illuminarono, forse finalmente in grado di allentare la tensione.

«In parte» rispose timidamente, prima di sciogliersi di nuovo in un sorriso sollevato. «Ma vivo qui da molto tempo ormai, almeno da quando avevo dodici anni. Il mio nome è—Robin. Robin Kurosawa».

Da scrittore di opere fantastiche quale era, Leo adorava le stranezze o le personalità particolari – era facile immaginare storie se davanti a sé aveva una persona dai tratti peculiari; in questo caso, Robin sembrava uscito da una storia romantica a lieto fine – un giovane ragazzo straniero, dai modi eleganti e gentili, impacciato nel rapportarsi agli altri. Sembrava già che si stesse scrivendo nella sua testa, quasi.

«Beh, Robin... Che ne dici di andarci a mangiare qualcosa da qualche parte e parlare dei nostri ricercati preferiti?»

 

Il locale a cui si fermarono, “The Sleepover”, era una simpatica via di mezzo tra un bar e un fast food: di per sé, c'erano pochi posti dove sedersi e, in generale, l'ambiente era piccolo e raccolto ma offriva del buonissimo caffè (in tutte le sue gustose varianti) e un'ottima scelta riguardo i dolci; inoltre, l'atmosfera “familiare” lo aveva reso uno dei posti preferiti da Leo quando si trovava in fase di stallo nella scrittura. Era un posto frequentato da ragazzi per lo più giovani, quasi tutti della sua età ma distava abbastanza dai poli universitari per non essere caotico – perfetto per sorseggiare qualcosa di caldo mentre, col notebook aperto, annotava idee e bozze per le sue storie.

Quel giorno era, ovviamente, diverso ma dato che offrivano anche un menù per il brunch, il rosso aveva pensato che si potesse adattare bene per un primo incontro di quel genere.

«È la prima volta che vengo qui» confessò Robin, non appena seduto al tavolo – sembrava non essere in grado di staccare gli occhi dalla grande lavagna posta sopra il bancone che elencava tutti i tipi di bevande disponibili e, soprattutto, la lunga lista di dolcetti da accompagnare ad esse. Aveva lo stesso entusiasmo di un bambino al luna-park. «Non vedo l'ora di assaggiare i loro muffin... Me ne hanno parlato molto bene!»

«Appassionato di dolci?» chiese Leo con genuina curiosità ma vennero interrotti per qualche minuto dalla cameriera che, gentilmente, porse loro due menù completi. «Spesso vengo qui con mia sorella—o, almeno, quando abbiamo un po' di tempo. Lei adora i loro pancakes».

Lo sguardo del moro sembrò addolcirsi. «Devi tenere molto a lei» osservò e Leo, come sempre quando parlava di Ruka, ridacchiò un po' imbarazzato ma anche con un certo orgoglio.

«Abbiamo... un bel rapporto, sì» minimizzò, mentre apriva il menù per decidersi ad ordinare qualcosa (anche se, lo sapeva, sarebbe ricaduto nella solita scelta: cappuccino e brioche salata).

Ancora una volta, come quando avevano parlato per telefono, Leo si ritrovò a stupirsi della facilità con cui riusciva a conversare con questo ragazzo: aveva un candore tutto suo che ben disponeva al dialogo, anche se sospettava ci fosse di più dietro questa facciata di ragazzino equilibrato.

Poco dopo, rimase ancora più sorpreso dalla quantità decisamente esagerata di dolci che il ragazzo da solo era riuscito ad ordinare: mentre elencava l'ordine alla cameriera, Leo si rese conto di aver perso il conto dopo due fette di velvet cake.

«Sei parecchio affamato, eh?» Non poté fare a meno di notare un improvviso e leggero rossore sugli zigomi di Robin, che improvvisamente abbassò lo sguardo verso il tovagliolo posto davanti a lui.

«Diciamo che... mangio molto, quando sono nervoso» mugugnò, a disagio, tanto che prese quasi ad agitarsi sulla sedia. Di certo, la fantasia del tovagliolo non doveva piacergli molto, perché prese a strapparlo fino a che, quando finalmente iniziò ad arrivare il loro ordine, non era ormai ridotto in brandelli. La cameriera non poté fare a meno di gettargli un'occhiata un po' irritata.

«Sei nervoso per... il Predestino?» azzardò Leo infine – in fondo, era per quello che avevano deciso di incontrarsi, per capire cosa stesse realmente succedendo nelle loro vite. Le chiacchiere amichevoli potevano aspettare – avevano bisogno di capire cosa i Dissidenti volessero da loro.

«In parte» ammise il moro, prendendo a mescolare lentamente la cioccolata calda che gli era appena stata servita. Corrucciò appena la fronte, un'espressione a malapena visibile sotto la frangia irregolare. «La mia famiglia non ha mai rispettato le regole del Predestino e... non credo che i miei genitori approverebbero se io decidessi di farlo».

Questa frase bastò per lasciare Leo completamente attonito – davvero esistevano persone che si rifiutavano di seguire il Predestino alla luce del sole? Dopo che in tutti quegli anni aveva sempre evitato domande di estranei al riguardo perché, lo sapeva, avrebbe finito col diventare centro di pettegolezzi e bisbigli? I pareri degli altri non lo avevano mai colpito molto a fondo, ma l'emarginazione continua riusciva a mettere alla prova persino i suoi nervi.

Che strana situazione, non riusciva neanche ad immaginarla... Non si stupiva che Robin avesse le idee confuse.

«Ma d'altra parte, non ho intenzione di vivere seguendo le loro stupide regole e voglio anche... mettere alla prova questa persona. Devo essere io a decidere se posso sacrificare quei legami per—essa».

Leo improvvisamente capì cosa il giovane misterioso, casualmente conosciuto durante una battaglia disperata, nascondeva davvero dentro di sé: un combattente. Il tono pacato della sua voce non placava il fuoco nelle sue parole e, quasi come se queste avessero risuonato col suo animo di condottiero, gli occhi viola sembrarono brillare di una decisione che, solo qualche attimo prima, avrebbe faticato ad immaginare.

Lo scrittore si ritrovò a sbattere le palpebre, rapito da tanta passione e per qualche minuto rimase in silenzio: era davvero così casuale che i Dissidenti li avessero messi in contatto? Ne dubitava, ora più che mai; la situazione era paradossalmente al tempo stesso simile e opposta: lui scappava dal Predestino per tenersi stretta l'unica cosa che amava di se stesso – il talento nello scrivere – mentre Robin lo affrontava prima di dire addio a coloro che fino a quel momento aveva rispettato e amato come sua famiglia. Erano entrambi egoisti al punto da rendere infelice un'altra persona – il loro Predestinato – pur di preservare non tanto loro stessi, ma ciò che non avevano intenzione di perdere.

Il moro si lasciò sfuggire un sospiro. «Per questo cerco i Dissidenti. Voglio sapere se posso... confrontarmi con il mio Predestino senza caderne per forza vittima, così da considerare con obiettività le cose. Ed è così che sono finito su quel sito».

Leo mandò giù il boccone della sua brioche salata, annuendo. «E poi è arrivato il messaggio con il mio numero» ricordò al posto del suo interlocutore e questo era tutto quello che avevano. Robin annuì, dopo aver fatto sparire il primo muffin al mirtillo.

«Ho passato giornate intere a cercare informazioni su di loro ma... non avevo mai avuto nessun riscontro prima—beh, di te» e il sorriso caldo che seguì quella constatazione per un attimo lasciò interdetto il rosso, che si sentì... in un certo senso colpito. Non avrebbe saputo dire in quale senso, però (e per uno scrittore del suo calibro, non era semplice rimanere senza parole per descrivere, in particolare descrivere delle emozioni). «So che sono un movimento che è apparso una ventina di anni fa e si schiera apertamente contro il Predestino, rifacendosi a antiche teorie sull'amore libero – teorie che sono stati loro a rimettere in circolo, tra l'altro». Era interessante osservarlo parlare: da una parte, c'era ancora il ragazzino nervoso che mangiava la seconda fetta di cheesecake che aveva ordinato, quasi fosse un calmante mentre, dall'altra, c'era lo sguardo serio e concentrato del cavaliere errante che aveva scoperto con malcelata sorpresa poco prima. Non faticava, adesso, ad immaginarlo come partecipante di una ribellione pacifica ma sentita – non un Robin Hood, come il suo nome avrebbe potuto suggerire; niente di così spavaldo ma piuttosto Little John: il fedele e mitico secondo in comando dell'astuto fuori legge, saggio nelle scelte ed abile consigliere.

Sorridere fu più naturale del previsto. «Più o meno le stesse cose che ho trovato io, insieme a... brutti episodi a cui sono associati» mormorò il rosso, sollevando gli occhi al cielo con aria scettica: era sicuro che la massa (soprattutto i più anziani, le generazioni precedenti alla loro) cercasse in ogni modo di dimostrare la colpevolezza di questi individui, come se si sentissero minacciati da un anonimo gruppo di rivoluzionari che, di fatto, faceva ben poco se non promuovere l'idea che il Predestino non fosse così necessario per l'essere umano.

«Oh, quelli» mormorò Robin, abbassando lo sguardo sui brownies, che aveva quasi finito. «Anche io ho... letto alcune cose, sì» ma era evidente come stesse cercando di non soffermarvisi – e come dargli torto.

L'episodio più preoccupante per cui l'opinione pubblica aveva (con prove labili, a parere di Leo) accusato i Dissidenti era stato il caso di un giovane che, un paio di anni prima, era morto suicida dopo aver tentato in ogni modo di allontanare la persona a cui il Predestino lo aveva legato. Dopo un improvviso boom mediatico, il caso era stato frettolosamente dimenticato, quasi la verità fosse diventata troppo scomoda da spiegare; per quello che Leo aveva letto online, la persona a cui il ragazzo era stato legato era una donna violenta, che non mancava di maltrattarlo e, dopo anni di percosse, la povera vittima aveva deciso di infliggerle la stessa tortura che aveva subito: non avere al proprio fianco l'anima gemella, ma piuttosto il dolore e, nel caso della donna, un vuoto non più colmabile.

Il Predestino non dava seconde possibilità: morta la tua anima gemella, eri condannato ad essere solo in un mondo già scritto. E perché i Dissidenti ne avevano colpa? Il ragazzo era stato plagiato, secondo la comunità. La ragazza non era stata violenta, a detta loro, ma piuttosto lui si era convinto che non fosse la sua amata e, nel tentativo di fuggire, si era tolto la vita.

Questi racconti, forse in realtà infondati, avevano ancora più alimentato la rabbia dello scrittore nei confronti di quel meccanismo che Madre Natura aveva ideato per far sì che l'umanità convivesse in pace; il risultato? Le guerre c'erano comunque, così come i criminali, i violenti ma spogliati della possibilità di amare chi volevano.

Aveva letto romanzi distopici con prospettive più allettanti.

«Però...» riprese Robin, strappandolo ancora una volta dai suoi pensieri e cogliendolo di sorpresa nel suo brusco riportarlo alla realtà. «Ho deciso comunque di—tentare. Insomma, se fossero davvero così... pericolosi, avrebbero organizzato cose peggiori, no... ?»

«Li considerano una setta» mugugnò Leo, prima di concedersi uno schiocco irritato di lingua. Una setta, certo, perché chi non poteva essere felice con quella vita già scritta? «Ma anche se fosse così, non mi importerebbe. Voglio solo... continuare a scrivere».

Quando tornò a guardare il suo giovane interlocutore, vi trovò uno sguardo indecifrabile, come se Robin stesse cercando di vedere oltre quel che stava dicendo; i suoi occhi viola lo fecero trasalire di nuovo, per un attimo fin quando Robin non fu il primo a distogliere lo sguardo. Lo vide inspirare profondamente, poi distendersi di nuovo in un sorriso.

«Mi rendo conto che forse è una domanda stupida, a questo punto, ma... Tu sei lo scrittore, vero? Quel Leo Tsukinaga». Considerando che ormai era inutile negarlo, il rosso annuì, improvvisamente di nuovo sulla difensiva – essere conosciuti non era affatto positivo, quando ti ritrovavi in situazioni così scomode. «Ho... un amico che ti segue assiduamente. Sono sicuro che lo sconvolgerei, se gli dicessi che sto progettando di fare this crazy thing con te».

Leo si lasciò sfuggire una risata, stavolta sinceramente divertita. «Credimi, se davvero legge i miei romanzi, non credo ne sarebbe così stupito». Gli occhi del ragazzo tornarono ad illuminarsi, ma ora di entusiasmo puro, genuino. Poi si lasciò andare ad una risata leggera, per cui si coprì la bocca (piena di briciole lasciate dai dolcetti che aveva mangiato fino a quel momento). Leo si rese conto che la sua voce aveva davvero un bel suono.

«Allora, cosa vogliamo fare?»

 

Passarono le seguenti quattro ore seduti a quello stesso tavolo a conversare, progettare, ipotizzare; Robin era sveglio e pieno di brio e ben presto Leo si accorse di come, seppur rimproverandolo di tanto in tanto sulle idee più azzardate («Non è il caso di mettere dei manifesti per farli uscire allo scoperto... !»), insieme riuscissero a concordare su molte cose e di quanto, di tanto in tanto, fosse divertente prenderlo in giro. Il tono sempre garbato di Robin ogni tanto si lasciava andare ad imprecazioni in un inglese perfetto, mormorate a bassa voce per non farsi sentire.

Alla fine, furono costretti a lasciare il locale solo perché era giunto l'orario di chiusura; di nuovo racchiusi nel delle loro giacche pesanti, i due si diressero verso la stazione dove si erano incontrati: Leo teneva in mano un blocchetto per gli appunti (che di solito usava per idee casuali e bozze per la scrittura – quando si ricordava di averlo con sé, almeno ed evitava quindi di scriversi cose sulle braccia) su cui avevano stilato una serie di spunti per provare a mettersi in contatto con i Dissidenti.

«La via più sicura credo sarebbe trovare qualcuno che ha già avuto modo di... conoscerli» stava ancora riflettendo il moro, le braccia conserte sul petto. «C'è una storia che gira, alla mia università...»

Robin gli aveva detto di frequentare l'università e, per essere precisi, la facoltà di economia. Non lo entusiasmava, aveva aggiunto, però era stata la scelta più scontata per, in futuro, ereditare la grande azienda dei suoi genitori (che, a quanto pareva, influenzavano davvero molto le sue decisioni...).

«Mh? Quella del vampiro?» chiese Leo, ricordando seppur vagamente che anche prima che lui concludesse i suoi studi aleggiava quella leggenda – un misterioso uomo affascinante che rendeva tutti “innamorati” (chi più, chi meno) di sé, facendosi beffe del Predestino e che, per questo, avevano chiamato il “Vampiro”. Certo, poi il pettegolezzo era degenerato in “dorme davvero in una bara”, “ha canini affilati e si sveglia solo di notte!”, “succhia il sangue, lo garantisco” e, considerando che Leo amava solo storie originali... Beh, quella alle sue orecchie era risultata un po' banale.

«Esatto, quella! Legendary!» esclamò il ragazzo, con gli occhi che brillavano ancora una volta, persino nel buio del tardo pomeriggio. A Leo scappò una leggera risata che, evidentemente, mise l'altro in imbarazzo, perché si schiarì prontamente la voce ed evitò accuratamente il suo sguardo. Lo scrittore aveva scoperto, nella loro lunga chiacchierata, che Robin aveva un debole per la mitologia e le figure fantastiche e, a detta sua, particolarmente per il ciclo arturiano: gli aveva rivelato che quella grande spilla dorata (la stessa che, quando avevano deciso di incontrarsi, gli aveva assicurato che avrebbe indossato per farsi riconoscere) rappresentava proprio la famosa spada della leggenda inglese, Excalibur. «Sì, insomma, ne... parlano molto, tra i corridoi. Potremmo scoprire chi è, che ne dici?»

Era strano perché, se fosse stato lo stesso identico Leo che aveva parlato con Shu qualche giorno prima, avrebbe sicuramente bocciato l'idea senza neanche rifletterci su, arrabbiandosi perché non avevano tempo – anzi, se possibile, più tempo passava e più temeva che non potessero tornare indietro, come se quella trappola avesse un conto alla rovescia con sé, quasi fosse una bomba.

Eppure Robin, con il suo entusiasmo genuino e la sua voglia di fare riusciva a rendere tutto meno pesante, più naturale; quindi si ritrovò ad annuire, anche se aveva la ferma intenzione di agire anche in un altro modo.

«Potrebbe essere un inizio, insieme a—questo» e indicò un nome sulla lista, una di quelle opzioni che Leo si era tenuto per le emergenze. E questa era un'emergenza in piena regola.

Il moro sollevò appena le sopracciglia, incerto. Non conosceva il nome scritto nella bella calligrafia dello scrittore, quindi non poteva pronunciarsi al riguardo: Leo gli aveva solo spiegato che era un suo amico e che lo aveva aiutato in altre, numerose occasioni apparentemente senza soluzione.

«Non mi hai ancora detto cosa potrebbe fare per... la nostra situazione» mormorò infatti, confuso.

Il sorriso di Leo assunse una nota furba, mentre lo sguardo si assottigliava con fare consapevole.

«Beh, diciamo che... Madara è un tuttofare».


 


Note: Quando sono riuscita ad iniziare questo capitolo, ho pensato "chissà come appare Leo agli occhi di Robin" e ho scritto tutto tenendomi su questa linea.
Come Rotina ha notato nella scorsa recensione, Leo è un po'... infantile. I suoi bisogni, i suoi sogni sembrano un po' quelli di un eterno Peter Pan; non è pronto ad affrontare una realtà che non gli piace e per quanto la sua infantilità sia in parte ciò che amo anche del Leo nel canon, qui ho voluto giocarci di più, sottolineando le sue differenze da Robin che, seppur in modo simile, ha un atteggiamento più adulto rispetto a quello che sta capitando ad entrambi. E' un narratore non sempre sincero e questo spero sia evidente già da ora ma, soprattutto, con lo scorrere dei prossimi capitoli; ho dato un altro piccolo assaggio della società del Predestino, dove la persona amata non è perfetta. Leo lo sa, lo disprezza e la addita nel momento in cui ne ha prova, eppure rifiuta il ragazzo della festa perché "perfetto". E' una spirale di incoerenza che lo attanaglia da sempre ma, per sbrogliarla, avrà bisogno di aiuto. Molto aiuto.
Anticipo che nel prossimo capitolo avrò finalmente l'occasione di presentare il resto dei Knights (ad eccezione di Izumi, come immaginerete) e Mao~ Fatemi sapere se il nostro piccolo Little John vi è piaciuto! <3

 

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Capitolo 6
*** Legami ***


Capitolo 5: Legami

“La grande valle ospitava tutto ciò che un uomo potesse desiderare: cibo in gran quantità, natura gentile, ottimo vino – non riuscivo a rendermi conto del tempo che passava, dei giorni che correvano via velocemente. La mia iniziale ricerca della fonte dell'eterna giovinezza era ormai dimenticata in quel luogo incantato e la compagnia del giovane elfo che mi aveva salvato si fece sempre più luminosa e gradevole. Certo, la luna richiamava la mia attenzione quando sorgeva: mi ricordava del cavaliere degli inferi, dello stregone che per poco non mi aveva dato in pasto agli spettri... ma poi il sole tornava a splendere e io cadevo di nuovo nel caldo oblio della serenità.”

- Trovo assurdo che nessuno conosca la vera identità del “vampiro”. Ho provato anche a chiedere anche ad amici più grandi di me, ma ancora niente. Tu invece? Hai contattato il signor Madara?

Non avrebbe saputo dire come era successo, ma lui e Robin dopo il loro primo incontro, avevano cominciato a sentirsi con una certa frequenza. Certo, parlavano quasi sempre del loro “problema” e dei progressi che avevano fatto durante la giornata, ma la cosa davvero strana era che Leo non era mai stato bravo a tenersi in contatto con le persone – neanche con i suoi amici. Immaginava che la questione, però, qui fosse di particolare rilevanza per lui e quindi il suo interesse fosse particolarmente alto.

Si prese una breve pausa dalla sua camminata per rispondergli.

- Ah-ah ~ mi ha detto che cercherà di aiutarci in ogni modo! Adesso sto andando a trovare mia sorella, fammi sapere se scopri qualcosa, giovane padawan!

Come minimo, Robin non avrebbe capito la battuta. Sembrava che fosse particolarmente disorientato di fronte ai luoghi comuni e ai gusti “dei più” della sua generazione e, onestamente, Leo non riusciva a capire se trovava quel lato di lui tenero oppure irritante; quale ventenne che si rispettava non conosceva Star Wars? Eppure, quando il giorno prima gli aveva scritto per scherzo che trovare il Vampiro sarebbe stata un po' una “mission impossible”, il moro ci aveva messo un po' a rispondere e gli aveva chiesto se lo stesse in qualche modo imitando, prendendolo in giro per il suo inglese.

«È senza speranze» sospirò, mentre riponeva lo smartphone nel suo zaino a tracolla e riprendeva la sua camminata.

Il sole sembrava meno timido dei giorni precedenti, quindi Leo aveva azzardato un abbigliamento meno pesante e più primaverile; la verità era che Ruka odiava vederlo trascurato e, dato che doveva ancora scusarsi per aver abbandonato improvvisamente la sua festa, aveva deciso di presentarsi nelle sue condizioni migliori: una camicia non troppo accollata, dei jeans chiari, un giaccone giusto per ripararsi dal vento e i capelli curati, sicuramente più del solito.

La ragazza lo aveva chiamato il giorno prima, in apprensione, chiedendogli come stava; Leo odiava farla preoccupare più di quanto non sopportasse vederla arrabbiata, quindi aveva cercato di rassicurarla in ogni modo e le aveva promesso che sarebbe andato a trovarla anche perché, come gli aveva ricordato, aveva lasciato la giacca da lei, quella sera.

Ripercorrere la strada di casa, dopo quello che era accaduto, lo rendeva sempre più inquieto, passo dopo passo. Aveva passato l'intera mattinata a cancellare ogni frase di quello che scriveva per l'ansia crescente: Ruka gli avrebbe chiesto cosa era successo? Avrebbe ritrovato quel ragazzo ad aspettarlo? Magari voleva rivederlo per sincerarsi che fossero davvero legati, oppure...

La vibrazione del cellulare lo strappò dai suoi pensieri.

- 'Padawan'... ? È un nome in codice?

Bastò questo banale messaggio per farlo ridere appena, chiedendosi come fosse possibile che questo ragazzo riuscisse in qualche modo ad intervenire ogni qual volta si lasciava trasportare dai suoi viaggi mentali. Era bravissimo a farlo tornare coi piedi per terra, per quanto fosse un evidente sognatore idealista anche lui.

Si ripromise di rispondergli più tardi, perché ormai era giunto di fronte a casa sua.

Suonò il campanello, ripetendosi per l'ennesima volta che non c'era niente per cui essere nervoso; dopo aver incontrato quel ragazzo stava diventando sempre più paranoico e non aveva intenzione di rendere inquieta anche sua sorella con le sue fobie e manie di persecuzione.

Il tempo di pensarlo e due braccia affusolate ma muscolose lo colsero alle spalle, chiudendosi attorno al suo torace. Prima che potesse urlare, si sentì sollevare in aria e tanto bastò per farlo diventare paonazzo: chi si prendeva gioco della sua altezza?

«Non posso crederci, il nostro re è vivo!» cinguettò una voce fin troppo familiare e, quando Leo riuscì a voltarsi quanto bastava per vedere chi fosse il suo assalitore, i suoi dubbi vennero confermati.

Arashi Narukami era di una bellezza spaventosa, Leo lo aveva sempre pensato: biondo, alto e slanciato come una star del cinema, aveva occhi violacei di un'intensità più unica che rara, senza considerare una fisicità scolpita dagli anni passati nel club di ginnastica. Avevano frequentato la stessa università e, come Ritsu, era una delle poche persone che si sarebbe sentito di definire ad occhi chiusi “amico”.

A differenza di Ritsu, però, che tendeva a non indagare troppo nella sua vita privata, Arashi era—una sottospecie di sensitivo: riusciva a capire perfettamente quando qualcosa lo turbava e, di conseguenza, cominciava a tempestarlo di domande, come un bambino. Una piccola peste che per lavoro faceva il modello e aveva gli stessi atteggiamenti di una sorella maggiore particolarmente curiosa e molesta.

«Naru! Cosa ci fai qui... ?» esclamò, preso completamente alla sprovvista sia dalla sua presenza che da quell'abbraccio come sempre fin troppo forte, che lo lasciò ben presto senza fiato.

«Non ci vediamo da mesi e questo è tutto quello che riesci a dirmi?» La morsa si allentò, mentre Leo udiva un sospiro drammaticamente offeso dal suo interlocutore, di cui riuscì ad incontrare lo sguardo solo pochi momenti dopo; era il solito Arashi che ricordava, con quel suo sorriso fin troppo eloquente e più alto di quanto Leo di solito riuscisse a sopportare. Il biondo, per rispondere forse alla sua domanda, mostrò all'amico la scatola di dolcetti che teneva tra le mani. «Ruka mi ha chiamato per dirmi che saresti venuto a trovarla» spiegò, prima che la porta oltre il piccolo vialetto si aprisse, rivelando proprio sua sorella che, con fare complice, salutò entrambi. «E mi ha detto cosa hai combinato».

Leo avrebbe dovuto immaginarsi che Ruka non gliel'avrebbe fatta passare liscia per quel che era accaduto quella sera e quella era la sua tattica migliore: invitare tutti i suoi amici più stretti, in modo che gli facessero una bella ramanzina.

Così, sospirando, risalì per il vialetto e, un po' imbronciato, salutò la sorella; la ragazza ridacchiò con fare dispettoso sull'entrata, anche quando Leo si chinò per baciarla sulla fronte.

«Visto che non riesci a stare ad una festa piena di sconosciuti, con i tuoi amici magari sarai più a tuo agio!» fu la sua giustificazione, ma il rosso sapeva perfettamente che aveva un secondo fine molto chiaro.

Per un attimo, si chiese se il ragazzo della festa le avesse detto cosa era accaduto di così grave da farlo fuggire via; e se le avesse detto quello che aveva provato e avessero insieme tratto le loro conclusioni? Ruka era intelligente, ci avrebbe messo poco tempo a trarre le somme di quello che era realmente accaduto.

Meglio non pensarci. «Ci sono anche Isara e Sakuma dentro!»

“Ottimo” pensò ironicamente, prima di seguire Ruka e Arashi lungo il corridoio principale di casa sua.

Quando giunsero in soggiorno, dovette ancora una volta scacciare quella morsa di tensione che lo aveva attanagliato lungo la strada; era come se riuscisse ancora a vedere, seppur sfumata dal ricordo, la sagoma del ragazzo col vassoio dei dolci tra le mani, con quei suoi penetranti occhi violacei che si spalancavano lentamente, in un secondo esteso all'infinito e che ricordava con insano terrore. Ora si trovava su quella stessa soglia – anche se, certo, il tavolo e il divano tornati nel loro luogo originario, cambiando lievemente la fisionomia della stanza rispetto ad allora – i suoi amici già accomodati sulla poltrona più spaziosa; come era scontato, Ritsu era seduto in grembo a Isara e stavano amorevolmente discutendo, come sempre.

«Ricchan, non c'è bisogno che ti tenga in questo modo, sai?» protestava con un filo di esasperazione nel tono il rosso, lasciandosi andare ad un sospiro che però non nascondeva quanto quanto quella continua richiesta di attenzione in realtà lo divertisse.

«La poltrona non è comoda come Maakun...» si limitò invece a constatare con la massima naturalezza il moro che, per tutta risposta, si sistemò ancora meglio sul suo grembo, poggiando persino il volto nell'incavo del collo dell'altro che, notata la loro presenza, prese immediatamente colore sulle guance.

Ritsu Sakuma e Mao Isara avevano capito di essere Predestinati in quarta elementare, quando un essere umano comune non dovrebbe neanche avere il sentore di un sentimento così schiacciante come l'amore. E invece, da allora, avevano la parola “promessa” che percorreva il loro polso, un po' deformata rispetto a come doveva essere quando si era appena manifestata a causa della crescita di entrambi e non si erano mai allontanati davvero. Non potevano essere più diversi: come Ritsu ricordava sempre, erano come il sole e la luna – il giorno e la notte.

Eppure erano lì, uniti più che mai, come se nulla fosse cambiato da quando erano bambini.

«Ciao, Re» cinguettò con tono strascicato Ritsu, senza dare il minimo cenno di volersi spostare dal suo posto prediletto – le gambe di Isara. «Sembri di buonumore...»

Di buonumore? Certo, con il Predestino che bussava alla sua porta peggio di un messaggero della morte, come poteva non sprizzare ottimismo? A volte Ritsu sembrava davvero vivere nel mondo dei sogni.

Leo e Arashi si accomodarono sul divano, mentre Ruka si preoccupava di servire tè e caffè, accompagnati da dolcetti che il romanziere trovò a dir poco—spaziali; Leo non amava particolarmente i dolci e, anzi, preferiva spesso il salato, ma i pasticcini avevano un aspetto così gradevole e un gusto così delicato che ben presto fece il bis.

«Me li ha regalati un compagno di corso per ringraziarmi. Buoni, vero?» Leo annuì, cercando di leggere il nome della pasticceria stampato in bella calligrafia sui pirottini del muffin che aveva appena addentato.

«Suou?» lesse, con un po' di difficoltà, poi cercò di ricordare; il nome non gli era sconosciuto, ma quello che non gli interessava spesso finiva con l'essere per lo più accantonato in un angolo polveroso della sua mente sempre attiva.

«Sua maestà non conosce la catena pasticcera Suou?» chiese Arashi con fare divertito, mentre mescolava con studiata lentezza lo zucchero nella sua tazza di tè. «E dire che sono famosi in tutto il paese. Solo nella nostra città ci sono, se non mi sbaglio, tre negozi a loro nome!»

«Beh, preferisco posti più raccolti o stravaganti. Le catene non mi piacciono, non hanno personalità» rispose con naturalezza Leo, cercando di non mostrarsi sulla difensiva – lo Sleepover era uno di quei posti, ad esempio; aveva una sua aura fatta di caffè fumante e legno grezzo, come una baita di montagna nata nel posto sbagliato.

«Non c'è niente di male nel cedere un po' al consumismo». Ritsu ridacchiò alla constatazione, prima di passare a Isara il caffè che altrimenti non sarebbe riuscito a prendersi da solo.

La conversazione continuò senza grandi rivelazioni: Arashi raccontò di come aveva deciso di seguire un corso per make-up artist e dispensò consigli a Ruka su quali colori le donassero sugli occhi, sulle labbra e persino a come acconciarsi i capelli; Ritsu passò gran parte del suo tempo in un dormiveglia da cui rinveniva ogni tanto, giusto in tempo per commentare un argomento che avesse colto il suo interesse, mentre Isara partecipava attivamente ad ogni discussione, come se non avesse un ventitreenne che gli dormiva in grembo.

«Come sta procedendo la stesura del nuovo libro, fratellone?» La domanda di Ruka lo colse in contropiede mentre rideva alla buffa immagine che Isara gli aveva descritto, ovvero Ritsu che con il minimo sorso di caffeina diventava improvvisamente iperattivo.

«Oh, sì, il... libro» rispose, nervosamente, cercando di non suonare forzato. Sentì chiaramente gli occhi del moro, ora socchiusi a fessure ma in particolare quelli del modello focalizzarsi su di lui, sulle sue reazioni. «Sono un po' indietro, ma niente di preoccupante».

Era stato Arashi a fargli conoscere Izumi e, Leo lo sapeva, il biondo si sentiva in colpa per quello che era successo tra loro; era sicuro che sapesse ben più di quanto Leo gli aveva a stento raccontato quando era ancora troppo chiuso in se stesso e ferito per spiegargli esaustivamente quel che era successo ed era altrettanto certo che, per tutto il pomeriggio, non avesse fatto che osservarlo.

«Tu indietro con i tuoi racconti? L'apocalisse è vicina» sentenziò infatti un attimo dopo il biondo e nell'aria Leo poteva quasi percepirlo, l'arrivo di quella domanda, quella che aveva evitato per tutto il giorno – quella a cui non voleva neanche avvicinarsi. «Ma immagino non sia per le scadenze che tu sia scappato dalla festa di Ruka, dico male?»

Fu persino peggio di quanto potesse aspettarsi – Arashi non aveva chiesto che cosa lo avesse tenuto tanto occupato, dandogli così l'illusione di potersi in qualche modo sottrarre dall'argomento principale, ma lo aveva definito con certezza: in parole povere, Arashi sapeva. Così come Shu lo aveva guardato con occhi bramanti di curiosità, così ora Arashi teneva d'occhio le sue azioni con cura metodica. L'attenzione dei presenti venne spostata lentamente su di lui, in una gamma di emozioni tradite diverse seppur tutte mescolate con l'anticipazione. Persino Ritsu si era sollevato.

«Ero—solo stanco» mugugnò, ma era troppo teso perché sfuggisse agli occhi degli astanti – Leo odiava essere al centro dell'attenzione; c'era un motivo ben preciso per cui raramente presenziava ad incontri con i suoi lettori, preferendo di gran lunga la sicurezza del suo sito web, delle recensioni sui giornali, dei messaggi dei suoi ammiratori. Sia Ruka che Arashi ne erano perfettamente a conoscenza e voltavano in loro favore questa sua grande, enorme mancanza che mai lo aveva soffocato come in quel momento.

«Nessun affascinante ragazzo ha a che fare con la tua scomparsa, dunque» insistette il biondo e lo scrittore avvertì il proprio corpo irrigidirsi: era come essere di nuovo a quella sera, come se il fantasma del ragazzo sulla porta, ad ogni parola, tornasse a materializzarsi di nuovo, seppur fatto di fumo e di nuovo, quegli occhi violacei, color ametista--

Si accorse di aver trattenuto il respiro solo quando, all'improvviso, il suo telefono squillò.

Il nome di Robin lampeggiava di un bianco brillante sullo schermo del cellulare e Leo, senza neanche scusarsi, si alzò dal divano in fretta e furia per precipitarsi fuori dal soggiorno; si concesse solo qualche attimo per respirare, riprendere fiato e poi, finalmente, accettò la chiamata – ancora una volta, Robin era intervenuto in suo soccorso e non riusciva davvero a capire come facesse.

Magari era un alieno sul serio, lui.

«Spero di non aver disturbato...» L'ormai familiare voce nasale si scusò, per prima cosa, nella sua eccessiva formalità. Dovette essere strano, per lui, sentirsi rispondere dall'altra parte con una risata sollevata. «... Leo?» chiese infatti un attimo dopo, esprimendo tutta la sua perplessità udendo la voce dell'altro spegnersi lentamente.

«No, è che... Hai un tempismo incredibile» spiegò brevemente, senza dilungarsi troppo perché sapeva che sarebbe stato davvero ridicolo da dirsi ad alta voce: “Appari sempre quando ho bisogno di essere distratto!”, suonava come un vaneggiamento che andava persino oltre la sua solita stramberia. «Dovevi dirmi qualcosa?»

«Sì, in effetti» si riprese Robin – una breve pausa lasciò Leo con la sensazione che il giovane avesse un animo predisposto in qualche modo alla scrittura gialla, perché sapeva sempre come creare atmosfere di mistero e tensione quando parlava di qualcosa. Quando riprese a parlare, neanche a dirlo, sussurrava. «Ho scoperto il nome del vampiro! Due ragazzi del mio corso dicono di essere i suoi “allievi” e per quanto siano—beh, particolari, varrebbe la pena azzardare un tentativo».

A Leo sfuggì un fischio di ammirazione. «Se i personaggi dei miei libri fossero efficienti come te, non avrei molto da scrivere» osservò, ma Robin si limitò a ridacchiare a quella battuta.

«Il suo nome è Rei, Rei Sakuma» riprese, mentre la mente di Leo cominciava a viaggiare, come sempre, lungo i suoi personalissimi binari: il nome non gli era nuovo e, anzi, era piuttosto familiare. «Frequentava il corso di belle arti nell'università cittadina, ma sembrerebbe che non abbia concluso il suo percorso di studi e si sia ritirato poco prima della laurea... mi hanno detto che adesso è proprietario di un locale notturno, ma non mi hanno voluto dire quale...» Mentre Robin continuava a parlare, snocciolando i dettagli di quanto aveva scoperto, finalmente Leo riuscì ad afferrare quel ricordo sfuggevole che il suono del vero nome del vampiro aveva risvegliato: anni prima, durante una gita notturna sulle rive del fiume che scorreva poco fuori città, Ritsu si era presentato all'appuntamento con il suo mal sopportato fratello al seguito, un certo Rei. Il cognome di Ritsu (ci aveva messo un po', per rievocarlo; non aveva una gran memoria per le informazioni superflue), guarda caso, era proprio Sakuma, senza considerare che... beh, poteva considerarsi un vizio di famiglia, quello di presentarsi a terzi come vampiri? Le urla del povero Isara avevano smesso di sorprendere chi li circondava, tutti consapevoli che, nella maggior parte dei casi, si trattava di un tentativo di morso sul collo da parte del suo fidanzato. “Il sangue di Maakun è il migliore di tutti”, diceva.

«Beh, direi che sono un bel po' di informazioni! Al resto ci penso io» lo rassicurò, trattenendo a stento l'entusiasmo – era davvero possibile che il fratello maggiore di Ritsu facesse parte dei Dissidenti? Sarebbe stato davvero un colpo di fortuna, anche se avrebbe significato che per tutto quel tempo quello che desiderava era stato così vicino e lui non lo aveva mai notato.

«Allora aspetterò tue notizie» e così, con quel tono sollevato, la chiamata si concluse.

Con una rinnovata speranza, così preso dall'entusiasmo di avere compiuto un altro piccolo grande passo verso il suo obiettivo, tornò nel soggiorno senza considerare due cose fondamentali.

La prima, la conversazione che stavano avendo poco prima (anche se, ai suoi occhi, era sembrato più un interrogatorio) e la sua drammatica uscita di scena; c'era poco da stupirsi, quindi, se gli occhi di tutti i presenti fossero puntati su di lui non appena messo piede nella stanza.

La seconda era che... aveva lasciato la porta aperta, quindi probabilmente i suoi amici avevano sentito tutta la sua conversazione con Robin e, seppur non avesse granché da nascondere – se si escludeva ovviamente la sua ricerca matta e disperatissima di una setta satanica o presunta tale – si sentì comunque spiato, nonché il volto fastidiosamente accaldato.

«Oooh» fu la sola esclamazione di Arashi, che interruppe il silenzio imbarazzato che si era creato nella stanza. «Mai sentito tanto entusiasta al telefono, re!» Ritsu, Isara e Ruka si scambiarono occhiate di cui Leo non colse il significato ma che, in ogni caso, riuscirono ad irritarlo; da quando era arrivato, aveva la costante e fastidiosa sensazione che fossero al corrente di qualcosa che a lui invece sfuggiva, qualcosa di importante.

«È solo un amico» si affrettò a dire come se dovesse giustificarsi, mentre tornava a sedersi nel tentativo di liberarsi di quelle occhiate curiose. Fu inutile. «Piuttosto, lo sto... aiutando in una ricerca per un progetto universatario». Forse, cambiando discorso, aveva qualche possibilità di scrollarsi da quella trappola di sguardi? Quello di Arashi, in particolare, non gli dava tregua – era peggio di un cecchino esperto, capace di cogliere il punto debole del nemico e tenerlo puntato col suo mirino per ore, fino allo sfinimento. «Sta... indagando sulle vecchie leggende della struttura e—mi ha detto che ce n'è una, in particolare, che lo ha colpito». Si concesse una breve pausa per spostare il suo sguardo su Ritsu che, ormai, era piuttosto sveglio. Isara trasalì. «Il vampiro, un certo Rei... Sakuma» concluse infine, marcando il cognome con una certa enfasi.

Ritsu sbatté le palpebre, poi la fronte si aggrottò impercettibilmente, come se quel nome fosse suonato alle sue orecchie fastidioso quanto una zanzara.

«Ancora quella stupida storia...» biascicò, prima di concedersi uno sbadiglio e tornare a stringersi al suo ragazzo, che si limitò ad accoglierlo tra le sue braccia senza il minimo cenno di protesta. Quando Shu gli aveva parlato di... legami speciali “persino tra i Predestinati”, Leo non aveva impiegato molto ad associare quella strana eppure solida coppia, che sapeva sostenersi persino nei silenzi – come in quel momento. «... mio fratello è un idiota e non ci parlo molto», ma per Leo non era abbastanza. Continuò a fissarlo, fin quando non fu Isara, sfinito, a vuotare il sacco.

«Rei è... un tipo particolare. Al momento vive nel locale che gestisce con un amico, non torna quasi mai a casa» spiegò brevemente il ragazzo, mentre Ritsu era troppo impegnato a tenere il broncio; l'argomento sembrava irritarlo davvero molto.

«Tanto non ci troverebbe nessuno, io vivo da Maakun» si sentì in dovere di aggiungere, con un certo veleno nella sua voce.

«E... come si chiama il locale, lo sapete?» incalzò lo scrittore che ormai era praticamente seduto sul bordo del divano mentre si protendeva verso i due ragazzi. Fu ancora Isara a rispondere.

«Se non ricordo male era... Od Darkness?»

«Od Destruction» lo corresse subito Ritsu, per poi sbuffare. «Ma se vuoi incontrarlo, re, ti conviene andare nel tardo pomeriggio. La sera è pieno di persone e durante il giorno... Beh, quell'idiota dorme».
 


Note: Ed eccoci all'aggiornamento settimanale! Non è stato semplice per me gestire questo capitolo - mi sento sempre un po' disorientaa quando devo gestire molti personaggi in contemporanea, soprattutto se sono "oltre" quelli che sono abituata a muovere. Sono andata letteralmente nel panico ad un certo punto, ma spero non si noti troppo (sigh).
Dunque, che dire? Tenevo molto ad inserire uno spaccato della quotidianità di Leo prima delle sue disavventure col Predestino e questa è l'atmosfera a cui è più abituato: ognuno dei suoi amici gioca un ruolo molto preciso nella sua vita (particolarmente Arashi che, a parer mio, è davvero il più sensibile dei Knights e, in mancanza di Izumi per questioni di trama, sarebbe sicuramente il suo maggior stimolante), ovvero quello di scrollarlo. Non so se sarò in grado di aggiungere altro, da questo punto di vista ma adesso sapete quale significato assumerà sempre più spesso Robin nella vita di Leo: una via di fuga sicura. Nel prossimo capitolo finalmente (finalmente?) comparirà Rei e tutto lo strano e misterioso ambiente che lo circonda...
Mi scuso in anticipo se non riuscissi ad aggiornare in tempo (giovedì prossimo). Sto passando un periodo molto pieno e, dato che tengo molto a questa storia, non vorrei incorrere nel pericolo di rovinarla per la fretta... Buona lettura!

 

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Capitolo 7
*** La Torre ***


Capitolo 6: La Torre



“Un giorno, il giovane elfo mi chiese cosa avevo lasciato alle mie spalle e io, con mia sorpresa, non seppi cosa rispondere. Quel posto così quieto, che sembrava avermi donato serenità, mi aveva accolto con così tanto amore che faticai a rimettere insieme i frammenti della mia vita prima del mio arrivo. Avevo perso di vista il mio obiettivo, di questo ero sicuro, ma non riuscivo neanche a ricordare cosa avrei dovuto fare. Lui mi carezzò il volto in un gesto familiare e gentile e mi sussurrò che non c'era fretta: potevo riposare ancora in quel luogo, avrebbe atteso ancora e ancora. Dovevo solo lasciar risanare le mie ferite.

Poi, con la sua voce soave, prese a cantare.”

 

L'Od Destruction si trovava nella zona periferica della città, quasi volesse nascondersi dagli sguardi indiscreti delle masse. Data l'ora tarda e la difficoltà di raggiungere il luogo, Leo aveva proposto a Robin di andare in macchina: era passato a prenderlo alla stazione più vicina e poi si erano diretti verso la zona industriale.

«Che luogo... rozzo» mugugnò Robin, mentre osservava l'ambiente circostante scorrere al di là del finestrino, con sguardo perplesso. «Intendo dire che è, mh, molto caotico».

Caotico a dir poco; il moro dovette sorbirsi tutte le lamentele di Leo mentre cercava un parcheggio per la sua modesta automobile (motivo per cui odiava guidare, tra i tanti: il parcheggio, insieme al fatto di non poter scrivere mentre era alla guida – una vera perdita di tempo... molto meglio i trasporti pubblici, in cui almeno poteva pensare ad altro).

Quando si trovarono davanti al locale, si resero conto che, nonostante non fosse ancora aperto, al suo interno c'era già un gran movimento: si trattava per lo più di giovani, tutti caratterizzati da un aspetto a dir poco peculiare, un insieme di colori vivaci e abiti di ogni genere, quasi fosse un raduno di anticonformisti allo stato puro. A Leo piacevano le stranezze, ma era quasi soffocante vederne così tante concentrate tutte nello stesso punto – era banalizzata, in quel modo, resa inerme, tanto che lui e Robin spiccavano come una chiazza di pittura nera su un abito da sposa in pizzo bianco... eppure, dei presenti, nessuno badò a loro.

La struttura sembrava un bunker preparato ad hoc ad un'apocalisse incombente, pronto per accogliere chi poteva – come una moderna ed impietosa Arca di Noè; Leo immaginò si dovesse trattare, in precedenza, di un magazzino di proporzioni gigantesche e quando era stato ripensato come locale, chiunque se ne fosse occupato non aveva neanche tentato di nascondere la sua iniziale funzione ma, piuttosto, la aveva accentuata ed estremizzata: oltre alla grande scritta luminosa formata di neon viola e argento, che ad intermittenza si lasciava leggere in “OD DESTRUCTION” a caratteri cubitali e dallo stile militare, l'entrata era ancora un'enorme saracinesca degna di un autorimessa, completamente pitturata a tinte fosche sugli stessi toni dell'insegna con un'aggiunta abbondante di nero opaco. Le pareti non erano state ridipinte ma piuttosto riempite di murales di ogni genere: colorati, tetri e lugubri, inneggianti alla pace oppure dai cupi toni infernali; l'unico tema ricorrente sembrava essere il numero cinque in ogni sua scrittura, unito alla parola, apparentemente senza senso, “rEVOL”.

L'entrata non era del tutto chiusa, fortunatamente, ma tenuta solo ammezzata – Leo e Robin si guardarono per un lungo istante, prima che il rosso prendesse la decisione di avvicinarsi al ragazzo che stava in piedi di fronte all'entrata, appoggiato alla saracinesca a braccia incrociate e l'aria di chi non vuole saperne di avere a che fare con gli sconsciuti: non era molto più alto di loro, pressoché quanto Robin e, nonostante l'espressione rabbiosa, Leo notò subito come il suo volto fosse marcato ma piacevole, reso ancora più intenso dagli occhi di un oro brillante e dalla chioma incolta di capelli grigi, lasciati allo stato brado nel tentativo forse di farli più somigliare ad una criniera che non a capelli umani.

Il ragazzo ringhiò. «E voi chi siete?!» La voce era roca, il tono aggressivo. Ritsu lo aveva avvertito che il locale era... un po' particolare. Robin, sempre vicino a Leo, fece un passo avanti, impettito: sembrava che il suo orgoglio (senza dimenicare il suo impeccabile bon ton) non gli permettesse di avere a che fare con quel genere di maleducati in silenzio e i due si fronteggiarono senza che Leo potesse impedirlo... anche se, ad essere sincero, era proprio curioso di vedere il moro alzare la voce con uno sconosciuto. Quel suo lato combattivo gli interessava molto, più di quanto in effetti non gli andasse di ammettere.

«Siamo ospiti» mise subito in chiaro Robin, ergendosi in tutta la sua statura, che più o meno equiparava quella della guardia arrabbiata. «Siamo qui sotto consiglio di Ritsu Sakuma».

Lo sconosciuto sembrò sul punto di rispondere qualcosa sul tono di: “Non me ne frega un accidente di chi vi manda!” ma ad evitare lo scontro che ormai sembrava assicurato, fu l'improvvisa comparsa di un uomo, troppo alto per i gusti di Leo, che poggiò la mano sulla spalla del tipo arrabbiato.

«Non c'è bisogno di ringhiare, Wanko».

Leo aveva incontrato un'unica volta Rei Sakuma e – impossibile trovare altre parole – aveva un fascino magnetico, quasi alieno. Non era solo il suo aspetto, indubbiamente piacevole, ma piuttosto sembrava emanasse un'aura particolare, in grado di attirare a sé chiunque lo circondasse: la somiglianza con il fratello più giovane era di certo innegabile – gli stessi capelli neri, seppur più lunghi e ribelli; gli stessi occhi rosso sangue, seppur dal taglio più allungato – ma se la presenza di Ritsu era pacifica come quella di un orso in pieno letargo, quella di Rei sembrava mettere in allarme ogni cellula del suo corpo che urlava a gran voce che sì, questo era un predatore e lui una preda.

Si rese conto di essere rimasto senza parole solo quando “Wanko” (dubitava fosse il nome del ragazzo) si voltò, apparentemente affatto colpito dall'atmosfera surreale che era scesa su tutti i presenti - Robin compreso – alla comparsa dell'uomo e prese ad urlare se possibile ancor più di prima.

«Brutto vecchio testa di cazzo, che ci fai già fuori da quella stramaledetta bara?!» esclamò e l'affermazione fu così assurda che fu in grado di riportare bruscamente alla realtà lo scrittore, che sbatté le palpebre e... si sentì, in qualche modo irritato: gli occhi rossi dell'uomo davano l'idea di conoscere già tutto sui due nuovi arrivati – il motivo per cui si trovavano lì, quello che Leo voleva e... Robin. C'era qualcosa di incredibilmente fastidioso nel modo in cui guardava entrambi, che per un attimo avvertì la tentazione di girare i tacchi e andarsene.

«Il mio adorabile fratello mi aveva avvertito che alcuni suoi amici desideravano conoscermi» rispose, senza neanche guardare il suo interlocutore negli occhi; il suo sguardo era fisso su Leo, che si era intestardito nel volerlo sostenere ad ogni costo. «Mi chiedo il perché».

Quando si erano incontrati la prima volta, Leo non gli aveva prestato troppa attenzione: stava ideando un racconto breve con le stelle come protagoniste, quindi quella gita in notturna era stata ideata prevalentemente a quello scopo – era stato Arashi ad insistere perché ne facessero un'uscita di gruppo, un'occasione per divertirsi tutti assieme. Allora, lui e Rei non parlarono molto, anche perché Ritsu non sembrava molto propenso a lasciare che interagisse con i suoi amici ma di certo si sarebbe ricordato se lo avesse fissato in quel modo, perché non era uno sguardo che si dimenticava facilmente.

Qui, invece, forse nel suo habitat naturale, sembrava un re della notte. Tutto di quel luogo, persino all'esterno, suggeriva che rispondeva solo e soltanto ai suoi comandi e metteva pressione agli intrusi e chiunque tentasse di carpirne i segreti, persino più dello scorbutico guardiano che, Leo notò, il maggiore dei Sakuma aveva accuratamente evitato di guardare negli occhi.

Rei li invitò dunque a seguirli nel locale, dopo aver intimato a “Wanko” di mantenere almeno un minimo di calma nell'accogliere sconosciuti (causando altre urla e offese in aggiunta a quelle di poco prima) e così Leo e Robin, dopo essersi scambiati una lunga occhiata in cui cercarono di comunicare tra loro senza successo, seguirono l'uomo all'interno del locale.

L'ambiente, inutile a dirsi, era buio; era in parte illuminato da led di ogni tipo, di colore prevalentemente sui tono del rosso e del viola scuro. Per quel che era possibile vedere, era un ampio spazio cosparso di numerosi tavoli e sedie di poco valore, per rimanere nell'atmosfera del bunker antinucleare che già l'esterno contribuiva a dare. Una musica rock suonava in un sottofondo ovattato, tenuto in un volume basso (forse per la presenza di poche, pochissime persone per il momento, all'interno del locale, considerando che non era ancora orario di apertura) ma Rei li guidò oltre l'ambiente principale ignorando i pochi presenti nel salone, verso uno delle poche stanze presenti sul fondo del capannone. Sulla porta in alluminio, oltre ad una piccola finestra, svettava un cartello con su scritto “privato”.

L'interno, se possibile, era ancora più spoglio di quello che Leo avrebbe potuto aspettarsi da un comune ufficio: c'erano una scrivania dall'aria trasandata, alcuni fogli sparsi sopra di essa che minacciavano di cadere a terra al minimo sbuffo d'aria, come altri avevano invece già fatto e la luce era così bassa che Leo faticò a mettere a fuoco il resto della stanza, anche se c'era poco altro di rilevante, oltre a... una bara. Una vera bara, in legno massiccio, nera e laccata in nero, per quello che riusciva a vedere.

Gettò un'occhiata a Robin, al suo fianco, giusto per capire se non se la stesse sognando ma, a giudicare dalla sua espressione di evidente sorpresa, la aveva notata anche lui. Il coperchio era appena spostato dalla sua naturale posizione, donandogli un'aria ancor più inquietante, come un morto dovesse uscirne da un momento all'altro.

Rei non si premurò neanche di sedersi e, piuttosto, si appoggiò alla scrivania, di fronte a loro, a braccia conserte. Sembrava vagamente divertito dalla situazione, nonché completamente a suo agio: Leo aveva conosciuto parecchi tipi strambi in vita sua (come Shu, ad esempio e lui per primo lo era) ma questo tizio andava oltre persino ad ogni sua più sfrenata fantasia.

«Non c'è molto su cui farvi accomodare, temo. Spero non vi dispiaccia troppo conversare in piedi» si scusò il padrone del locale, mentre lo scrittore si trovava a ripetersi nella mente quello che si era ripromesso di chiedergli: non avevano alcuna certezza che il “vampiro” fosse effettivamente coinvolto con i Dissidenti e non potevano in nessun modo scoprire le loro carte in tavola, almeno non subito. Doveva essere cauto e, soprattutto, furbo.

Quindi Leo si lasciò andare ad un mezzo sorriso, poi puntellò le mani sui fianchi ed iniziò a fare quel che meglio gli riusciva: improvvisare, nel suo stile chiassoso e infantile.

«È proprio un sacco strano questo posto, eh? Sembra quasi che vi prepariate ad una guerra!» esclamò con naturalezza; Robin, al suo fianco, sembrò riprendersi solo in quel momento dall'atmosfera quasi spettrale che pulsava dalle pareti del locale e, dopo averlo guardato un po' perplesso, annuì vigorosamente.

«Siamo qui... beh, per una ricerca, in effetti. Io devo svolgerla per l'università mentre il signor Leo...»

«... Immagino sia per uno dei suoi libri» concluse al suo posto Rei, che ancora non aveva perso quel sorrisetto divertito sulle labbra. Per quanto lo irritasse, Leo si stava premurando di annotare mentalmente quanti più dettagli possibili sull'uomo perché, ne era certo, avrebbe avuto un fantastico impatto sulla sua ispirazione quella sera. Riusciva già a pensare ad almeno cinque personaggi diversi che avrebbe potuto costruire su quel concentrato di stranezze.

«Esatto! Sono molto incuriosito da questa leggenda del vampiro, Rei. Ritsu non parla molto di te, quindi ho pensato fosse meglio venirti a trovare di persona!» La sua parlantina ormai si era scatenata come un fiume in piena, la sua curiosità di scrittore accompagnava di pari passo la disperazione di voler fuggire al suo Predestino; non gli era difficile, davanti a certi soggetti così interessanti, tornare a brillare come il sole di agosto, proprio come faceva un tempo con Eichi, quando tutto, anche pensare al futuro, sembrava più semplice.

«E io... ne ho approfittato. Mi scuso per l'intrusione» aggiunse incerto Robin, che quasi sembrava osservare più lui che il loro così tanto cercato interlocutore.

«E cosa volete sapere di me? Non mi ritengo una persona così interessante» ammise il più grande dei Sakuma, mentre il suo sguardo si spostava sul giovane universitario, che quasi trasalì. Sembrava che Rei fosse il peggior tipo di modesto che si potesse trovare.

«Ho sentito dire che il Vampiro – che sei tu, incredibile! È stata proprio una sorpresa! - è in grado di attirare a sé chiunque, facendo quasi dimenticare il Predestino, puff, come per mafia! Dato che quello che si dice sul tuo, mh, giaciglio» e qui Leo fece una pausa, gettando un'occhiata all'enorme bara posta non troppo distante da loro «sembra essere proprio vero, mi chiedevo se non lo fosse anche questo».

Calò, per un lungo attimo, il silenzio: Leo avvertì chiaramente lo sguardo di Rei tornare su di lui ed intensificarsi, in un certo senso, tanto che provò il desiderio di avvicinarglisi, come se lo stesse chiamando, eppure... sostenne il suo sguardo, fin quando le labbra del moro non tornarono a distendersi.

«Ritsu mi ha raccontato molte cose di te, Leo Tsukinaga» esordì, lasciando Leo interdetto; sembrava non avesse intenzione di rispondergli tanto facilmente – almeno, non senza girare attorno alla questione cambiando discorso e dirigendo il focus della conversazione su di lui. «Mi ha parlato del tuo talento nella scrittura, dell'amore che provi per il tuo lavoro e, soprattutto, della tua... convinzione che il Predestino potrebbe strapparti tutto questo, tarpando le ali alla tua fantasia». Ritsu glielo aveva raccontato? Da quello che sapeva, Ritsu parlava a stento con il fratello maggiore, a causa di vecchi rancori che il più piccolo covava nei confronti del fratello maggiore e, in generale, non era di certo un tipo da “parlare molto”, considerando che dormiva più o meno quasi tutto il giorno. «Non deve essere semplice fare i conti con i propri incubi, suppongo...» e il suo sguardo tornò su Robin, che per tutto il tempo era rimasto in silenzio. La presenza di Rei doveva davvero metterlo a disagio ma Leo non poteva proprio biasimarlo. «Qualunque cosa tu stia cercando, ragazzo, io non posso dartela. Non credo che essere attratto da un ipotetico vampiro potrebbe essere di aiuto alla tua scrittura» e, nel dirlo, superò entrambi invitandoli ad affacciarsi al piccolo vetro che c'era sulla porta; indicò loro un tavolo più appartato, dove sedeva un ragazzo solo, preso evidentemente da... qualcosa che teneva sul tavolo, che però da quella distanza era impossibile decifrare. «Quello è Natsume Sakasaki, un indovino... il migliore che abbia mai conosciuto, in effetti. Se c'è qualcuno che può aiutarvi lungo la vostra ricerca... quello è lui».

 

Leo si rese conto di essere stato raggirato in neanche cinque minuti quando si trovò fuori dall'ufficio di Rei, diretto al tavolo dell'indovino; era vero che l'ignoto lo attraeva molto (cosa poteva sorprenderti più di ciò che l'umana mente non riusciva a concepire? Cosa c'era di più entusiasmante dell'immergersi in un libro che raccontava di mondi, terre e avventure altre?) ma era, paradossalmente, uno scettico (tranne che per gli alieni, ma quelli esistevano davvero). Amava ciò che il mistero riusciva a produrre, più che il mistero di per sé – apprezzava le reazioni, le emozioni che il non visibile riusciva a suscitare, ma da qui a credere ad un indovino...

Robin era al suo fianco, pensieroso. Da quando erano entrati nel locale si era come chiuso su se stesso, alla stregua di un animale in trappola. Certo, per quel poco che aveva cominciato a capire di lui, immaginava che un luogo come quello fosse ben distante da quelli che frequentava ma, ciò nonostante, vederlo così teso rendeva inevitabilmente agitato anche lui, quasi ne assorbisse le emozioni.

Quando però si sedettero di fronte al “mago”, se così poteva essere definito, lo sguardo di Leo fu più assorbito dal carpire i dettagli di quella nuova, ennesima emblematica figura.

Aveva l'impressione che Natsume Sakasaki fosse ben più giovane di lui: aveva gli occhi degni di un felino, ambrati e dal taglio allungato ed erano solo in parte coperti da un buffo taglio di capelli difficile da descrivere, irregolare e volutamente unico, nel suo doppio colore rosso fuoco e bianco; i lineamenti del suo volto pallido erano affilati, così come le dita affusolate, prese dallo sfiorare le carte disposte sul tavolo, intento forse a cercare quella giusta. Leo riconobbe il mazzo di carte come tarocchi – niente di meno, per un indovino.

Non guardò né lui né Robin fin quando non furono seduti di fronte a lui; solo allora sollevò gli occhi e li scrutò a lungo, non in modo molto diverso da quanto aveva fatto il titolare dell'Od Destruction poco prima. Prima fissò intensamente Leo e lasciò vagare le sue mani sul tavolo: le dita corsero velocemente sul dorso delle carte, fin quando non si fermarono su una, in modo apparentemente casuale, e la voltarono.

«Il Mago» pronunciò il ragazzo, affilando gli occhi e accennando un sorriso a Leo. «Un animo attento e curioso, dedito alla creazione. Capacità da vendere, talento, voglia di vivere... se rovesciato, diventa insicurezza, paura di azzardare». Lo scrittore conosceva vagamente il significato dei tarocchi (li aveva usati per un suo racconto breve che era stato poi pubblicato in una rivista) ma non si era mai soffermato a pensare di potervi... associare delle persone. Non aveva idea di come Natsume scegliesse le carte di fronte a sé – quel che era certo, era che quella descrizione era terribilmente accurata.

Fu poi il turno di Robin. Lo sguardo del giovane indovino si agganciò a quello del suo compagno di disavventure, che sembrava nervoso tanto quanto lo era stato al loro primo incontro, quando si era presentato alla fontana. C'erano dei momenti in cui Robin mostrava un'insicurezza ingiustificata, per poi tornare nel pieno del suo spirito combattivo, degno di un cavaliere di tempi andati e Leo davvero non riusciva a capire cosa, in effetti, lo turbasse a tal punto: anche Natsume sembrava un tipo strano, era vero, ma in confronto a Rei era una presenza più tiepida, rassicurante. Non si sentiva in... pericolo di seguire una strada sbagliata, a differenza di poco prima.

«La Giustizia, lealtà pura» sentenziò infine, mentre il moro al fianco di Leo traeva un sospiro di sollievo. Che fosse superstizioso? Avrebbe in effetti spiegato molte cose. «Ma c'è anche un desiderio di verifica in te, stai cercando conferme. La vostra ricerca vi ha condotto fin qui, dico bene?» Improvvisamente, il suo sguardo si addolcì notevolmente, come se fino a quel momento non li avesse conosciuti in quanto altri essere umani ma piuttosto come soggetti da analizzare.

«... è così, stiamo cercando delle risposte» azzardò Leo, lo sguardo fisso sulle carte che, se lo sentiva, il mago non aveva ancora finito di svelare. «Tu puoi darcele, Natsume?»

Il ragazzo non sembrò turbato dalla confidenza presa dallo scrittore ma, piuttosto, si portò una mano al mento, concentrato su ciò che i tarocchi sparsi sul tavolo, ancora coperti, potevano raccontare.

«Non sempre le risposte sono di nostro gradimento» li avvertì il giovane, sollevando lo sguardo verso di loro. «E le carte non perdonano facilmente, soprattutto se le domande sono scomode». Questa, pensò Leo, suonò apertamente come una minaccia nonostante sul volto del ragazzo non ci fosse alcuna espressione violenta o divertita; radunò le carte e le mischiò, con tanta grazia che i due clienti occasionali ne rimasero affascinati. L'indovino trattava le carte come esseri viventi e quando le dispose di nuovo sul tavolo, la composizione era decisamente diversa da quella di poco prima.

Robin e Leo si trovavano di fronte ad un disegno piramidale formato da carte coperte, la cui punta era rivolta verso di loro; una volta finite di sistemare tutte con movimenti sicuri e precisione degna di un architetto, Natsume tornò a guardare i due ragazzi, anche se spesso il suo sguardo sembrava distratto da qualcosa tra di loro, come se ci fosse qualcosa ad attirare di continuo la sua attenzione; il suo silenzio, però, suggerì ai suoi ospiti che era giunto il momento di porre le domande.

Leo inspirò a fondo. «Io e Robin vogliamo sfuggire al Predestino. È possibile?» L'occhiata di Natsume fu quella di chi viene colto di sorpresa; sbatté lentamente le palpebre, poi voltò la prima carta sulla sommità della piramide.

«Gli amanti» spiegò l'indovino, svelando la figura rappresentata; rimase poi in silenzio, come se stesse interpretando la carta nel modo più corretto (a Leo però non sembrava un bell'inizio, considerando che “gli amanti” era esattamente ciò da cui volevano fuggire). «Siete sulla soglia di una scelta. Nella mia conoscenza non... ortodossa del Predestino, ho imparato che nessuno ne è veramente libero, ma esistono molti modi per evitare di innamorarsi. Ma queste scelte, come le mie carte... tendono ad essere molto dure. Bisogna avere una grande forza d'animo per riuscire a sfuggire a ciò che il destino ha già scritto e sono in pochi, davvero pochissimi ad esserne capaci».

Come avrebbero dovuto interpretare quelle parole? Leo era sempre più sicuro di essere nel posto giusto nel momento sbagliato, come se i Dissidenti li stessero osservando dallo spioncino di una porta blindata e stessero chiedendo loro una password che non conoscevano. Oltretutto, ciò che l'indovino aveva detto non suonava come “una soluzione c'è”, quanto piuttosto “ci siamo intestarditi quanto e più di te e abbiamo smesso di soffrirne”.

«In parole povere, ci stai dicendo che non siamo all'altezza di sconfiggerlo» mormorò Robin, per la prima volta da quando si erano seduti al tavolo. Sembrava ancora teso ma, di nuovo, quando c'era il suo orgoglio in gioco il suo animo ribolliva di una sicurezza inspiegabile e persino il suo tono di voce calmo e pacato riusciva a mettere timore.

Proprio come i cavalieri delle storie che tanto amava.

«Non proprio» lo corresse senza indugio nella voce Natsume, che sollevò la carta seguente, al secondo livello della piramide e la vista del tarocco lo fece sorridere, come se avesse appena ricevuto un complimento o, meglio, una conferma a ciò che pensava. «Il Giudizio. Le vostre scelte vi condurranno ad una nuova vita, ma prima dovete prendere a tesoro quello che le carte vi hanno detto: il Predestino non si può cancellare e negarlo non porta alcuna gioia, quanto piuttosto una vita solitaria piena di compromessi».

Improvvisamente, senza alcun motivo apparente, il pensiero di Leo corse a Shu: chiuso nel suo studio, nel suo mondo fatto di libri e all'occorrenza ago e filo senza neanche sollevare lo sguardo verso il prossimo, che a malapena riusciva a dare peso a ciò che lo circondava. Il suo asettico mondo costruito dettaglio dopo dettaglio sembrava calzare perfettamente con quello che l'indovino stava dicendo loro e sentì vacillare le proprie convinzioni: far parte dei Dissidenti significava quindi negare le proprie emozioni?

Si sarebbe rivelato tutto inutile allora – la sua capacità di scrivere era direttamente legata a quello che provava, sentiva, soffriva anche; cercare costantemente di far finta che nulla potesse scalfirlo si sarebbe rivelato dannoso non solo per i suoi racconti, ma anche per se stesso. Non era abituato a tenere sigillato quello che provava e, quelle poche volte che vi riusciva, non era mai troppo a lungo: una sera, un pomeriggio e poi il vaso di Pandora si apriva con la forza di un fiume in piena che esondava, distruggendo tutto ciò che lo circondava, sia il male... che il bene.

No, non era quello che voleva.

Senza che loro lo notassero, quasi quel piccolo tavolo non fosse collegato alla realtà, il locale si era riempito; la musica aveva iniziato a risuonare con sempre più violenza nella stanza, che si era fatta gremita. Ogni persona presente, delle generazioni e ambienti sociali più disparati ballava, vicina e poi lontana, senza mai davvero incrociarsi perché lì dentro non avevano alcuna emozione, nessuna individualità – non erano persone, ma fuggitivi.

Era questo l'unico modo per sfuggire al Predestino.

 

Uscire da quella marea umana non fu semplice, dopo aver finito di ascoltare Natsume Sakasaki e le sue predizioni. Molte gomitate e spintoni dopo, Leo e Robin tornarono all'aria aperta, con la luce della luna che li bagnava con un disinteressato ma rassicurante silenzio.

Fuori c'era molta meno gente – solo chi, a quanto pareva, aveva voglia di fumarsi una sigaretta (o altro, a giudicare dall'odore dolciastro ed invadente), con poca voglia di parlare se non a bassa voce e lentamente, scandendo ogni parola. Non furono loro due, così alieni da ciò che li circondava, ad interrompere quel momento quasi sospeso nel tempo e piuttosto lasciarono il locale straniti, pieni di sentimenti contrastanti a cui sembrava davvero difficile dare un nome.

Fu solo quando giunsero di fronte alla piccola utilitaria di Leo che finalmente si sentirono liberi da quell'universo parallelo che li aveva quasi inghiottiti: trovarono il coraggio di sollevare lo sguardo, di guardarsi di nuovo, cercare cosa l'altro avesse tratto da quella loro breve avventura in quella sottospecie di regno stregato.

Fu Robin il primo a parlare. «... Pensi davvero che loro siano... ?» La voce del ragazzo si affievolì, come se la parola “Dissidenti” che fino a qualche ora prima pronunciava senza alcun timore si fosse caricata di una carica esoterica, in grado di risucchiarli di nuovo in quell'enorme stanza fatta di musica, insinuazioni e tarocchi.

«Sì» rispose Leo, senza alcun indugio. Non riusciva a smettere di guardare la carta che Natsume aveva donato a Robin, prima di congedarli: era l'ultima che aveva voltato, parlando direttamente con lui perché capisse quale strada prendere e, da quando il suo ormai compagno l'aveva vista, si era fatto ancora più silenzioso. La carta era “La Torre”, una carta che, Sakasaki aveva spiegato loro, implicava il caos prima dell'ordine – quale genere di ordine, però, la carta non era in grado di dirlo. “Questo ruolo” aveva detto l'indovino, mentre porgeva la carta al moro “spetta a te soltanto”.

Sembrava che quella predizione (se così si poteva chiamare ma che era suonata più come una sentenza) lo avesse colpito abbastanza da lasciarlo cadere in un silenzio fatto di riflessioni, com'era evidente dalla sua fronte aggrottata.

«Anche io» replicò, con un sospiro, poggiandosi all'auto di Leo, che poco dopo seguì il suo esempio. Improvvisamente, sembrava che tutto l'entusiasmo che li aveva animati nel cercare informazioni, nel consultarsi, nell'ideare ed immaginare come sarebbe stato arrivare a conoscere i Dissidenti si fosse dissolto, lasciando di loro solo delle marionette vuote, senza più vita alcuna.

La loro unica consolazione, si ritrovò a pensare Leo, era che almeno erano ancora vicini. Quella delusione li accomunava, uniti dalla consapevolezza che viaggiavano entrambi sulla stessa barca diretta verso delle pericolose cascate.

«Che... cosa vuoi fare, adesso?» Lo scrittore, per un attimo, si chiese perché Robin insistesse nell'affidare a lui ogni decisione; era stato così fin dal primo momento, accondiscendente come uno studente ansioso con il proprio professore. Poi, però, capì il vero motivo dietro quella domanda: quella loro pazza e breve ricerca li aveva effettivamente portati dove volevano arrivare, ma il risultato era stato... inaspettato. Era chiaro ad entrambi che, di fronte a loro, le porte dei Dissidenti si fossero chiuse con una certa forza. E Leo non sapeva davvero come sentirsi al riguardo, ma di certo non era deluso dall'essere stato escluso. Questo era quello che lo sconcertava maggiormente.

«Non lo so» ammise, mentre apriva la macchina – un gesto che Robin interpretò come segnale per andarsene, lasciandosi alle spalle quella stramba serata. Si accomodarono sui sedili, ma Leo rimase per qualche minuto a fissare il cruscotto, ancora spento, cercando di rimettere in ordine le idee. «Non era così che li immaginavo».

Calò ancora il silenzio. «Potremmo... fare le cose a modo nostro, però. Non c'è bisogno di stare con loro, se... se dopotutto non esiste una vera e propria soluzione» azzardò, con tono incerto, mentre teneva ancora tra le mani la carta, lo sguardo fisso su di essa.

Ancora una volta, Robin riuscì a prenderlo alla sprovvista. Stava già pensando a come rassegnarsi al suo Predestino, a quel ragazzo della festa, alla mancanza della sua scrittura e il giovane cavaliere errante aveva fatto sparire ogni brutto pensiero così, con una semplice osservazione.

“Facciamo le cose a modo nostro”, aveva detto.

Leo lo prese in parola.

Era buio, nella macchina ancora spenta. Le chiavi penzolavano dal quadro, ansiose di essere girate per dare vita al motore. L'unica fonte di luce era un lampione non troppo vicino e dalla luce fioca, stanca, che illuminava a stento l'interno dell'auto. In quella parziale oscurità, gli occhi di Robin non scintillavano più del viola intenso che spesso lo facevano sussultare ancora di timore, rendendolo esitante – no, in quella macchina, il Predestino non c'era. Erano solo lui, il bello sconosciuto dall'accento straniero che lo aveva seguito fin lì e un'idea pazza, folle, che si faceva strada nel cuore e nella mente di Leo.

Robin era un vulcano dormiente. Poteva sentire la lava fatta di spirito combattivo che scorreva sotto la sua pelle, sentiva il suo calore che emetteva dietro i suoi modi pacati; Robin poteva far tremare tutto ciò che lo circondava con estrema facilità, lasciando che il mondo fatto di carta di Leo crollasse, riportandolo al presente.

A quella macchina, a loro due.

Leo non pensava mai troppo. Non ci fu alcun comando preciso dietro alla sua mano destra che si posava sul volto del ragazzo, toccando per la prima volta la sua pelle liscia; non ci fu alcun pensiero chiaro che lo spinse a spostarsi in avanti, verso il sedile del passeggero, fin quando i loro volti non furono così vicini che Robin divenne l'unica figura ad occupare tutta la sua visuale; non ci fu alcuna premeditata intenzione, come dietro ai suoi migliori scritti, nell'unire le proprie labbra a quelle del moro, assaporandone il sussulto sorpreso, poi l'accettazione e, infine, l'essere ricambiato.
 


Note: Questo capitolo, lo avrete notato, è lunghissimo. Inizialmente non pensavo che sarebbe uscito questo papiro immenso, ma mentre scrivevo mi sono resa conto che ci sono troppi personaggi che vorrei interagissero, seppur in minima parte, con Leo e credo che Natsume sia capitato a pennello (mi dispiace non aver potuto inserire Adonis e Kaoru, ma per loro mi piacerebbe recuperare nelle one shot che seguiranno sporadicamente a questa long!) in questo contesto; volevo che qualcuno di sconosciuto suggerisse a Robin e Leo cosa significa essere un Dissidente, senza farne parola direttamente. Sono un gruppo complicato e spero di avere modo di parlarne meglio in altri ambiti o, magari, vicino alla chiusura della fic. 
E poi... beh, il bacio? Fremevo tantissimo di trovare il momento giusto per Leo di farsi avanti. Spero non sia sembrato affrettato (perché non lo è), quanto più avventato. Leo si fa trasportare dalle emozioni con facilità disarmante, sia quando scrive che quando si trova di fronte a qualcosa che gli interessa e Robin ha saputo attrarlo tanto quanto Izumi, abbastanza da spingerlo a fare il primo passo. Era un momento di svolta importante, soprattutto per Leo e riuscire ad ascoltare quello che prova in quanto individuo (senza Predestino, senza distaccarsene dopotutto) grazie a quello che Robin gli ha detto... beh, quali saranno le conseguenze?
Per concludere, anche se non sono convintissima di questo capitolo, per svariati motivi, spero almeno che saprà farsi perdonare per l'attesa! Avverto inoltre che sono parecchio impegnata coi preparativi per Romics e Lucca Comics, quindi il ritmo dei capitoli potrebbe variare per le prossime settimane ;; Alla prossima <3

 

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Capitolo 8
*** Nella vastità dell'universo ***


Capitolo 7: Nella vastità dell'universo


 

“Quel luogo senza tempo mi aveva accolto senza indugio, avvolgendomi in un caldo tepore che ricordava quello della famiglia, dell'abbraccio materno che mi cullava persino nelle notte insonni. Tutto in quel luogo sembrava dirmi di riposare, di pensare a me e non al mio dovere, a quello che mi ero lasciato alle spalle. Gli incubi di tanto in tanto bussavano alla mia porta: i ricordi opachi mi accusavano – colpevole!, colpevole!, gridavano senza pietà. Fiamme e distruzione, urla e pianti disperati mi costringevano a svegliarmi, ad affrontare nuovamente la pallida e fredda luce della luna, fin quando la brezza leggera non tornava a sussurrarmi dolcemente che non c'era più niente che fossi costretto a fare.”

 

Quando Leo la mattina aprì gli occhi, si sentiva quasi ubriaco: era il soffitto della sua camera quello che vedeva, sì, ma c'era qualcosa di profondamente diverso in lui, una consapevolezza recente, nuova e piena di—vita.

Quella consapevolezza non tardò a farsi sentire: vicino a lui, un respiro lento, rilassato lo fece quasi sussultare fin quando, ormai finalmente sveglio, riuscì a rimettere insieme le ultime ore del giorno precedente.

Aveva baciato Robin. Senza alcun motivo, seguendo solo quello che il suo istinto gli gridava a gran voce, aveva posato le proprie labbra su quelle del moro – le stesse che, adesso, erano leggermente dischiuse dalla magia del sonno, facendo sì che il suo volto sembrasse ancora più puerile del solito – ma nessuno dei due si era tirato indietro, di fronte a quella sfida; il giovane aveva assunto un colorito decisamente acceso sulle guance e persino sulle orecchie, a tal punto da essere visibile anche nella fioca luce della serata. Poi aveva sorriso, timidamente, come se fino a quel momento non avesse aspettato altro ma no, aveva detto. Lo aveva colto di sorpresa.

“Sei imprevedibile” aveva mormorato il più giovane, lasciando che il suo sguardo vagasse altrove, quasi pensieroso.

Poi, ancora, un altro colpo di testa: era tardi, gli aveva fatto notare e i mezzi pubblici rischiavano di non passare più, considerando quanto avrebbero impiegato per tornare alla stazione.

“Fermati da me, stanotte”.

Aveva rischiato di farlo scappare, forse; era ancora presto per raccogliere quel frutto. Eppure, Robin aveva accettato nonostante quel rossore silenzioso, nervoso ma deciso. Ma, quando erano arrivati a casa sua...

Una mano interruppe i suoi pensieri, appoggiandosi sulla sua guancia. Era una carezza leggera, ancora piena di incertezze, eppure calda e gradita.

«Buongiorno» sussurrò con voce flebile il ragazzo, gli occhi ancora assonnati. Quel viola adesso non faceva più paura ma, piuttosto, lo attraeva a sé... era così tanto che non si sentiva più in quel modo, che non avvertiva più il desiderio di avere qualcuno così vicino. «Spero di... non essermi mosso troppo, dormendo» aggiunse il moro, prima di strofinarsi gli occhi nel tentativo di svegliarsi definitivamente.

Leo gli sorrise, poi gli diede un buffetto sulla fronte. «Ho il sonno pesante, a meno che non mi prenda l'ispirazione. Anche se questa mattina mi sono svegliato senza coperte, questo sì».

Quella piccola provocazione fu abbastanza perché Robin prendesse un lieve colorito roseo sugli zigomi – il rosso aveva notato quanto facilmente si imbarazzasse, quando gli veniva fatto notare qualche atteggiamento poco... cavalleresco, per così dire.

«Sorry» borbottò il più giovane, sollevandosi in piedi. Aveva ancora indosso gli abiti, decisamente più stropicciati, della sera prima.

Leo stentava a crederci, ma... quella notte avevano dormito e basta. Si erano addormentati fianco a fianco, come se fosse un'abitudine consolidata, farcita di classiche farfalle nello stomaco, che ancora avvertiva svolazzare nonostante fossero passate chissà quante ore. La presenza di Robin lo rassicurava pur rendendolo pieno di voglia di fare e l'idea che avessero dormito insieme, vicini, senza alcuna pretesa... aveva un gusto dolce, simile ad un tè caldo gustato sotto le coperte nel pieno dell'inverno.

Forse la ferita di Izumi era ancora troppo recente perché non riuscisse a fare paragoni, ma Robin lo faceva sentire come un liceale alla sua prima cotta, una di quelle estive, così fragili eppure forti nel trasmettere emozioni, con l'imbarazzo tipico dell'adolescenza e al tempo stesso il desiderio di qualcosa di più, il bisogno di sognare ancora e ancora. La sua precedente relazione era più simile ad un mare in tempesta, qualcosa di forte e pericoloso, così bello ed inquietante da lasciare senza fiato.

Lo scrittore sbatté lentamente le palpebre, mentre osservava il più giovane guardarsi attorno confuso, forse in cerca del bagno.

«Sei ancora vergine, vero?» concluse ad alta voce, con un sorrisetto divertito, facendo trasalire il povero Robin che, se poco prima era a disagio, adesso era nel panico più totale.

«Non--!» provò subito a difendersi il moro, perdendo immediatamente la sua solita compostezza: il volto tornò di quel colorito rossastro che la sera prima Leo aveva solo intravisto mentre il ragazzo prese a gesticolare nel blando tentativo di negare quella realtà evidente. «... mi pare un po'... frettoloso... parlare di questo argomento!»

La cosa peggiore? Leo scoprì esattamente in quel momento che il volto imbarazzato di Robin, nonché il suo pudore riguardo il sesso lo divertivano. Più di quanto non avrebbero dovuto.

Il sorriso dunque divenne un ghigno. «Beccato, eh?»

«Nient'affatto!»

Il rosso trovò solo allora la voglia di alzarsi dal letto, giusto per gustarsi ancora e ancora quell'espressione di Robin: inutile dire che ormai il rossore aveva raggiunto tonalità preoccupanti, senza contare che quando Leo gli si avvicinò ulteriormente, il moro non poté fare a meno di arretrare fino a trovarsi con le spalle contro l'armadio.

«Ah, no?» insistette il romanziere, poggiandogli le mani sul petto: riusciva a sentire il suo cuore battere all'impazzata ed era un suono così entusiasmante che non ci pensò due volte a poggiarvi contro l'orecchio, per ascoltarne meglio il suono. «La trovo una cosa adorabile».

«Adorabile?» ripeté Robin, quasi fosse un'offesa. Intanto, però, non diede alcun cenno di volerlo allontanare.

«Non è il genere di... complimento che mi piace».

Eppure, inutile negarlo, Robin era davvero adorabile. La sua facciata principesca non era, come si sarebbe potuto pensare, fasulla – anzi; lui credeva davvero in quei valori, li rispettava ed ammirava al punto di spingersi a nascondere quei suoi lati infantili che, invece, a Leo erano sempre piaciuti, sin da quando si erano conosciuti. La sera prima, quando si era seduto sul letto, evidentemente rigido e incapace di nascondere le occhiate nervose che gli gettava, Leo non aveva potuto far altro che abbracciarlo e lasciare che si stendesse accanto a sé, limitandosi a punzecchiarlo sotto le proteste poco convinte del più giovane. Eppure Robin aveva continuato e sfiorarlo quasi fosse un oggetto di estremo valore ma anche tremendamente fragile, come se un qualunque gesto avesse potuto rompere ogni equilibrio tra loro.

«Vorresti sentirti dire che sei affascinante?» Intanto, le braccia del moro si erano chiuse delicatamente attorno alla sua vita, rendendo esplicito il desiderio di prolungare quel contatto.

«Charming, non di meno» ma c'era un lieve accenno di sorriso in quelle parole, perché con ogni probabilità Robin sapeva che Leo gli avrebbe difficilmente dato una simile soddisfazione. Non si conoscevano poi da molto, era vero, ma avevano trascorso abbastanza tempo insieme da quanto meno intuire che il rosso non era tipo da sbottonarsi in simili complimenti, quanto più esprimere il suo apprezzamento in dispetti, alla stregua di un bambino.

Leo si limitò dunque a ridacchiare, godendosi quel contatto ancora per un po'. Quando lo aveva baciato, la sera prima, non aveva pensato minimamente alle conseguenze e questo, purtroppo, valeva anche adesso: come gestire un'infatuazione per uno studente universitario di cui, in definitiva, non sapeva poi un granché? Robin sembrava condividere i suoi stessi dubbi, o così credeva. Era come se fosse... incredulo, spiazzato dall'evolversi delle cose.

Ad interrompere quello strambo momento fatto di un paradossale miscuglio di perplessità e anticipazione, fu il telefono di Robin che prese a squillare con insistenza dalla scrivania, dove lo aveva lasciato la sera prima. Il moro trasalì e, in fretta e furia, lasciò Leo per precipitarsi a rispondere mentre il più grande lo osservava incuriosito.

«No, non—mi sono dimenticato. Ho avuto... un contrattempo, ma sarò lì nel pomeriggio» farfugliò, mentre si passava una mano tra i capelli, evidentemente più agitato di quanto non volesse far intendere al suo interlocutore. «Va bene, va bene... A dopo» e chiuse la chiamata, con un sospiro arreso.

«Tutto bene?» si sentì in dovere di chiedere.

«Sì, è solo il mio... coinquilino».

«Preoccupato perché non sei tornato a casa?» insistette il rosso perché, dopotutto, se non si conoscevano... bastava cominciare a farlo.

Robin si lasciò andare ad una smorfia irritata. «Direi divertito, perché—beh, è un'occasione ottima per ricattarmi, questa». All'espressione ancora più incuriosita di Leo, il moro scrollò le spalle. «Te l'ho detto, la situazione coi miei genitori è complicata».

Più lo scrittore sentiva parlare dei genitori del ragazzo, più aveva la sensazione che non gli sarebbero mai andati molto a genio; sembravano avere grandi aspettative nei confronti del figlio, che però non facevano altro che schiacciarlo di continuo, influenzando quasi tutte le sue azioni – un animo così forte chiuso in una gabbia troppo, troppo stretta per tutto quello che in poco tempo aveva potuto percepire di Robin. La gabbia, però, aveva iniziato ad incrinarsi e lui, probabilmente, ne era l'evidente conferma: immaginava fosse per questo che sembrava così stranito dallo sviluppo della loro relazione. Chissà, si chiese, mentre lo guardava fissare il cellulare con una certa preoccupazione, se sarebbe stato in grado di opporsi a tal punto per una semplice infatuazione, forse destinata persino a morire sul nascere.

Dopotutto erano altri, i loro Predestinati.

Forse Robin sarebbe uscito da quella porta, salutandolo con un sorriso e contemporaneamente sarebbe uscito dalla sua vita, lasciandogli l'ennesima speranza infranta, un fragile pezzo di vetro frammentato.

«Leo?» La voce del ragazzo, di nuovo, lo riportò alla realtà: eccoli... il suo sorriso, il suo imbarazzo così ingenuo. Eppure, nella sua insicurezza, Robin afferrò le sue mani per stringerle nelle sue. Lo stava rassicurando? Leo cercò la risposta nei suoi occhi ametista, ma non ne ricevette alcuna; piuttosto, il moro si chinò verso di lui quel tanto che bastava per sfiorare le sue labbra con timidezza, quasi non fosse sicuro di avere il permesso di farlo.

Il cuore del romanziere sembrò impazzire, fin troppo ghiotto di quella bocca. Anche le sue labbra chiesero di più e allora si sporse in avanti, ansioso di approfondire quel contatto – Robin, ancora, non indietreggiò. Nella sua timida ma sicura fermezza, sembrava accettare tutto di Leo: le delusioni, la frustrazione, la sua voglia di rivalsa contro tutto e tutti. Con quei gesti, accoglieva la sua stessa essenza con la pazienza di un dottore nei confronti di un paziente.

Il bacio non durò tantissimo, ma fu quasi una conferma della testardaggine di entrambi: fu necessaria, affinché le loro mani si lasciassero, doverosa perché entrambi camminavano verso un sentiero nuovo, completamente inesplorato.

«Ci sentiamo più tardi».

 

Ma chi aveva inventato qualcosa di così vago come il “ci sentiamo più tardi”?

Leo era seduto di fronte al suo computer, vicino alla tastiera le solite per niente esagerate tre tazze di caffè (c'era da dire che, negli ultimi tempi, il numero delle tazze, superava di gran lunga quello delle pagine che riusciva a scrivere; mentre quel giorno era riuscito quanto meno a concludere la bozza di un intero capitolo) e ogni tanto lanciava occhiate nervose al cellulare.

L'ispirazione era arrivata nel momento stesso in cui Robin aveva lasciato il suo appartamento e da prima di pranzo, non aveva fatto altro che scrivere, appuntarsi idee, dimenticandosi persino di mangiare. Una volta affievolitasi, alla stregua di uno spirito, Leo non aveva fatto altro che fissare il cellulare, domandandosi cosa intendesse Robin con un banale “più tardi”.

Era straniero, pensò. Sapeva con certezza che in alcuni luoghi del mondo, come l'Egitto, cinque minuti erano i corrispettivi di un'ora... ma dubitava che l'Inghilterra (o qualsiasi altro paese anglofono, da cui Robin di certo proveniva) potesse avere simili usanze.

Picchiettava impaziente le dita sulla scrivania, incerto sul da farsi – non era mai stato così—nervoso, all'inizio di una nuova relazione (anche se, forse, il fatto che non sapesse neanche se di tale si trattava contribuiva a renderlo inquieto) e di solito era lui che teneva gli altri sulle spine, come se dovesse mettere alla prova il loro reale interesse per lui. Beh, si ripromise, non lo avrebbe più fatto: l'attesa era insopportabile e di certo la sua poca propensione ad aspettare non aiutava.

Era ormai quasi l'ora di cena, quando il telefono squillò... ma non era il numero che si aspettava: il nome di Madara Mikejima lampeggiava sullo schermo, condito di una foto particolarmente stupida del soggetto in questione. Con un grugnito e uno sbuffo, lasciò scorrere le dita sullo schermo.

«Pronto?»

«Uoh, che voce lugubre!» fu la replica dall'altro capo del telefono, seguita da una risata divertita. «Brutto momento? Blocco dello scrittore?»

«Lascia perdere. Che volevi dirmi?»

«Ma come, che volevo dirti? Si tratta del mio amico hacker! Sei stato tu a chiedermi di trovarti qualcuno di veramente bravo!» A Leo fu necessario qualche momento per ricordare di cosa Madara stesse parlando, tanto che l'amico insistette dopo qualche secondo di troppo di silenzio. «Per il sito strano che avevi trovato! È davvero una coincidenza, anche Arashi mi ha chiesto aiuto con un sito...»

Leo sbatté le palpebre ancora una volta, poi gli tornò in mente: l'hacker per scoprire di più sul sito dei Dissidenti, quello che aveva messo in contatto lui e Robin per primo. La loro ricerca dei Dissidenti, che si era conclusa con una porta chiusa in faccia e un invito ad uscire, gentile o meno.

Ne valeva ancora la pena? E poi, che c'entrava Arashi? «Scusami sono stato assorbito dal... romanzo. Chi è questo tuo amico?»

Udì un sospiro quasi esasperato, sempre con quell'atteggiamento da fratello maggiore che Madara aveva nei suoi confronti; era un buon amico e un ottimo consigliere, ma proprio per questo spesso Leo si sentiva a disagio nel parlare con lui: lo conosceva troppo bene, avrebbe finito con lo scorgere anche quello che lui non voleva che filtrasse in alcun modo dalla sua persona – un po' come Arashi. Per questo, per gli sfoghi peggiori, fino a qualche settimana prima almeno, la migliore alternativa era stata Shu.

«Si chiama Makoto Yuuki. È giovane, ma molto sveglio! Lavora in un negozio di informatica vicino a quell'enorme pasticceria in centro... Com'è che si chiama? Suou?»

Leo scrollò le spalle, anche se Madara non poteva di certo vederlo. Immaginava che, nonostante quel che era successo la sera prima, un tentativo (l'ultimo, probabilmente) non potesse nuocere un granché... Inoltre, lui e Robin si erano avvicinati proprio per quel motivo. Insistendo, forse, avrebbero potuto avere idee più chiare di quello che volevano l'uno dall'altro.

«Mandami l'indirizzo allora, Mama. E grazie». Ci fu un attimo di silenzio, prima che un fischio di approvazione quasi disintegrasse il timpano di Leo. «Che c'è ora?»

«Ti è successo qualcosa di bello? Non è da te ringraz-»

Leo chiuse la chiamata.

 

- Ucchu~ so che abbiamo detto di fare le cose a modo nostro, ma il mio amico mi ha trovato un hacker! Ti va di fare un ultimo tentativo? Quando ci ricapita di conoscere un hacker, poi?! Potrebbe ispirarmi!!

 

C'erano state due conseguenze positive alla chiamata di Madara: la prima, la principale, si era distratto almeno un po' dall'arrovellarsi sul come gestire la sua relazione con Robin; la seconda, non meno importante, è che aveva trovato la scusa per scrivergli senza sembrare eccessivamente apprensivo. E gli aveva anche non troppo direttamente chiesto di uscire.

Si sedette sul letto, con il cellulare tra le mani. Non riusciva a capire perché adesso si sentisse così agitato quando la mattina, consapevole di aver agito senza pensare, era stato tutto così naturale da non dover neanche fingersi “carino”. All'inizio di ogni relazione, una persona cerca di apparire al meglio di sé, con la paura di sbagliare, di irritare l'altro e di perdere un'occasione e questo valeva anche per lui ma– no, con Robin il problema non si era mai posto: dopotutto, non c'era stato niente di normale nel loro incontro, né nel modo in cui si erano avvicinati. Forse era anche per questo che, nonostante il rifiuto dei Dissidenti, era ancora curioso: non voleva concludere l'avventura, gli sembrava troppo presto.

Potevano giocare, ancora per un po'.

La risposta tardò un po' ad arrivare e, con sua grande sorpresa, il messaggio di Robin conteneva un'inaspettata novità.

 

- Scusa, Leader! Sono stato occupato con le lezioni fino a poco fa... Sicuro sia una buona idea? Non ho mai conosciuto un hacker e quei “tipi” non mi sembravano amichevoli. Se vuoi comunque andare, però, io sarò al tuo fianco.


Assurdo trovarsi con il cuore in gola nel leggere “sarò al tuo fianco”. Leo era uno scrittore e chi meglio di lui sapeva che le parole avevano tutte un peso diverso, anche quando avevano un simile significato? Robin non gli aveva detto un semplice “verrò con te”, ma “sarò al tuo fianco”. Riusciva quasi ad immaginarselo, sulle labbra un sorriso timido, che pronunciava quelle parole con fermezza nonostante l'imbarazzo. “Sarò al tuo fianco” implicava non un'uscita assieme, qualcosa di più profondo, di così forte da scuotere un mondo intero – il suo mondo. Erano bastate quattro semplici parole per causare in lui un terremoto. Non aveva idea se l'avesse fatto con consapevolezza, ma...

“Ci sono cascato di brutto”, fu il suo unico pensiero, fin troppo sincero.

E come parlare di quel Leader? Non aveva idea di come interpretarlo. Certo, i suoi amici più stretti lo chiamavano (chi affettuosamente, chi meno) “re” perché ai tempi delle scuole superiori aveva annunciato a metà scuola che un giorno sarebbe tornato col suo esercito di alieni, gli stessi che lo avevano rapito, a conquistare la Terra, così da liberarla dalla piaga del Predestino. Tuttora, Ritsu, Arashi (e—anche Izumi, quando ancora si parlavano) continuavano a chiamarlo a quel modo, a dimostrargli che lo accettavano per quel che era, in tutta la sua stramberia.

Ma Leader, davvero, sfuggiva alla sua comprensione.

Glielo chiese, curioso. Gran parte del nervosismo della giornata scomparve, così, con lo spiraglio di un sorriso sulle labbra: la consapevolezza che, seppur si fossero visti anche chissà quanti giorni dopo, Robin avrebbe atteso, rendeva in grado anche lui di pazientare, di lasciare che quel fiore sbocciasse.
 

- Leader? Hai visto qualche film di recente, per caso? Non mi avevi mai dato un soprannome!


Stavolta, la risposta fu rapida. A quanto pareva, una volta presa confidenza, comunicare con Robin diventava più semplice e meno distaccato, forse perché il giovane si sentiva finalmente in grado di esprimersi senza la pressione di dimostrarsi troppo adulto. Le sue parole era ancora pregne di un'educazione ed un modo di parlare che Leo non conosceva nella quotidianità, ma allo stesso tempo sembrava soffermarsi meno su quello che voleva comunicargli, che fosse più naturale nell'esprimersi; probabilmente, anche per questo motivo rileggere “sarò al tuo fianco” lo faceva sentire leggero, quasi ubriaco.

Aveva—dimenticato cosa si provava, nel sentirsi felici. Quello che aveva fatto negli ultimi mesi era stato prevalentemente vivere un incubo continuo, cancellando ad ogni ripetizione i momenti belli passati insieme a Izumi: i sorrisi, i dispetti, i baci e, perché no, anche le discussioni. Tutto era andato distruggendosi, di fronte alle ultime parole che gli aveva rivolto, quel pomeriggio di ottobre.

Si lasciò cadere sulle lenzuola, lo sguardo fisso al soffitto, immaginando il cielo stellato che amava tanto fissare quando si sentiva solo, cercando di consolarsi: chi poteva dirsi veramente amato in un universo così vasto, così infinito? Neanche il Predestino poteva salvare l'uomo dall'essere semplicemente un essere vivente come gli altri, con il bisogno incontrollabile di avere qualcuno al proprio fianco per sentirsi forte.

La vibrazione del cellulare lo distaccò da quella sua riflessione: Leo portò il cellulare in alto, in contrasto con quel cielo verso cui sollevava lo sguardo così spesso e invece di ritrovarsi illuminato, seppur nella sua immaginazione, dalla luce debole della luna, il suo volto venne per lo più abbagliato dallo schermo del suo smartphone, le parole di Robin che brillavano nel loro nero su bianco.

 

- Mi scuso se è sembrato inopportuno ma oggi, durante le lezioni, ho pensato che se davvero vogliamo fare le cose a modo nostro, anche noi siamo un movimento sovversivo! E tra noi, sicuramente il leader sei tu. Grazie per avermi trovato.

Rilesse quelle parole a lungo, incredulo. Si sollevò di nuovo a sedere, persino, cercando di metabolizzare quel che aveva appena letto.

Leo ricordava ancora il suo primo libro, il primo in assoluto che era riuscito a leggere. Era una fiaba, niente di meno, una di quelle per bambini in cui un orsacchiotto cerca in ogni modo di ritrovare la sua amata stella e cerca in ogni modo di arrivare sino al cielo per farle compagnia, perché la luna la ha abbandonata. Leo aveva costretto sua madre prima a raccontargliela così tante volte che la donna non aveva neanche più bisogno di aprire il libro per recitarla ad alta voce e poi la aveva implorata di insegnargli a leggere prima del tempo, pur di poterla narrarsela da sé quando lei non poteva.

Era una storia infantile, niente di meno, ma conteneva già allora tutti gli elementi che nelle storie di Leo, nei suoi romanzi tanto amati dal pubblico, non mancavano mai: una missione disperata, il cielo, la luna traditrice. E la storia si concludeva così, con la stella che tra le braccia dell'orsacchiotto diceva: “Grazie per avermi trovato”.

Era una coincidenza? Sicuramente. Questo però non gli impedì di portarsi le mani alla bocca, mormorare parole incredule a bassa voce e poi scoppiare a ridere, così, come una liberazione.

Perché poteva pure essere un umano solo, come tutti, ma nonostante in quella stanza non ci fosse nessuno, il calore di Robin era ancora lì, sulla sua pelle. Nella sua anima.
 


Note: Nell'ultimo mese e mezzo mi sono sentita davvero un sacco in colpa per non aver più aggiornato - ammetto di aver sperato di riuscire a pubblicare almeno un capitolo tra Romics e Lucca, ma purtroppo non è stato così. Questo capitolo è un piccolo ponte verso quello che aspetterà, perché dopo un primo bacio non è semplice sbrogliare i propri sentimenti - Leo non fa eccezione, anzi. Ho cercato di inserire quanti più elementi del canon come "re", "leader" e devo dire che mi sono davvero divertita un sacco a farlo; c'è un sacco di forza nei soprannomi, io per prima li ritengo importantissima perché è qualcosa di privato, personale e intimo. Il rapporto tra Leo e Robin ha questa natura, sviluppatasi grazie ad una complicità che entrambi avevano sottovalutato.
Poi ho voluto inserire Mama, che tornerà anche nel prossimo capitolo (perché io amo lui e il suo rapporto con Leo, ebbene) insieme a Makoto, che ho già accennato e forse anche qualcun altro... Dalla settimana prossima, spero di riuscire ad aggiornare di nuovo con tuta calma il venerdì! Ormai abbiamo superato la metà della fanfic (ancora rido pensando che non doveva assolutamente essere così lunga, ma lasciamo stare) e chissà come andrà?
Buona lettura! ~

 

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Capitolo 9
*** Prigioni ***


Capitolo 8: Prigioni


“Gli incubi divennero sempre più frequenti, tanto che neanche il Paradiso sembrava essere più in grado di salvarmi. Allora, una notte, al mio risveglio imperlato di sudore freddo, trovai il mio salvatore ai piedi del letto, le vesti bianche che accarezzavano il suo corpo come se avessero paura di adagiarsi troppo a lungo sulle sue membra.
- Non devi temere – mi disse, accarezzandomi il volto. - Le tue paure sono innocue. Puoi combatterle con lo stesso coraggio con cui sei arrivato sin qui.
Di quale coraggio parlasse, io non lo sapevo. Ma, fino a quel momento, mi aveva accudito con così tanta tenerezza che non riuscii ad ammettere neanche a lui che quegli incubi di fuoco, fiamme e distruzione mi perseguitavano proprio perché, al contrario di quello che credeva, io ero un codardo.”

 

La prima cosa che Leo si premurò di fare fu educare Robin alla cultura popolare – il che significava che il loro primo “appuntamento” si risolse in una maratona divisa in due diverse sere di Star Wars, che per Leo equivaleva alla sua personale Bibbia cinematografica.

Ma più che i film, che Leo seguiva sempre con l'entusiasmo di un bambino, per quella volta fu ben altro ad attirare la sua attenzione: c'era il calore di Robin, al suo fianco, che era più che abbastanza per renderlo euforico. C'erano quei momenti in cui il più giovane era preso al puno giusto dalla trama del film e di cui lui approfittava con malcelata soddisfazione per lasciargli baci leggeri sul collo, così da farlo sussultare ogni volta. Il suo volto arrossato era di certo indice del suo imbarazzo, eppure Robin non protestava e si limitava a dargli un buffetto sul naso.

«Come faccio a seguire il film, se fai così? Sei peggio di un folletto dispettoso!»

Di fronte questa uscita, che causò a Leo un attacco di risa che durò per cinque minuti buoni, il rosso rinunciò al molestarlo almeno per gli ultimi due capitoli.

Robin seguì tutti e nove i film con interesse altalenante (chissà per colpa di chi), ogni tanto sussurrando domande perplesse ma infine apprezzando nell'insieme la saga, anche se ammise di preferire i grandi colossal basati sulle leggende e fatti storici, anche se spesso aveva borbottato, differivano così tanto dalle storie che conosceva da spegnere ogni suo entusiasmo.

Il loro terzo appuntamento, invece, fu di nuovo improntato alla loro ricerca dei Dissidenti anche se ormai non sembrava più essercene bisogno: avevano dovuto aspettare il week-end a causa delle lezioni universitarie di Robin così, il sabato seguente, alla mano l'indirizzo dell'hacker che Madara aveva fornito a Leo, si ritrovarono a vagare insieme per il centro della città, approfittandone un po' anche per godersi la prima vera e propria giornata primaverile.

Un'altra cosa del suo giovane... compagno che Leo aveva capito era che non era molto bravo a nascondere i suoi stati d'animo. Un po' come la sera in cui avevano conosciuto Rei Sakuma, Robin quel giorno sembrava nervoso, neanche fosse costretto ad avere a che fare con criminali della peggior specie.

«Hai paura di essere derubato in pieno centro, di sabato pomeriggio?» lo provocò, prima di dargli una pacca sulla schiena per convincerlo a procedere.

Il moro ovviamente sussultò, ma sembrò chiudersi ancora di più nel suo maglione bianco panna a collo alto. «Gli hacker non sono, come dire, illegali?» mormorò, guardingo, seguendolo comunque lungo la strada.

«Madara mi ha assicurato che è ok» lo rassicurò il più grande, prima di prendergli una mano e strattonarlo alla stregua di un bambino ansioso di raggiungere il negozio di giocattoli. «Il nobile Robin ha forse paura di uno stregone dei computer?» chiese, con un tono drammatico degno del teatro shakespeariano.

Fu abbastanza per strappare un sorriso al ragazzo, che scrollò la testa e fece più forza sulla presa delle loro mani. «Ma quale paura, è solo--»

«Leeeeo!» Una voce li interruppe e fu così inaspettata che entrambi lasciarono andare la mano dell'altro dalla sorpresa, per poi voltarsi verso la direzione della voce: c'era un ragazzo, alto (uno dei più alti che Leo conoscesse, in effetti...), i capelli castani raccolti in parte in due trecce che sparivano dietro la nuca e l'abbigliamento degno di un fan di film western che correva con entusiasmo verso di loro, agitando la mano come un ossesso pur di farsi notare.

Madara Mikejima – come poteva non essere altrimenti? Leo avrebbe dovuto immaginare che, dicendogli quando sarebbe andato a trovare questo famigerato hacker, si sarebbe palesato anche lui; il suo istinto di protezione nei suoi confronti (in parte motivato visto che, come Ruka non mancava di ricordargli spesso e volentieri, non era proprio un asso in contesti umani e sociali) in certe occasioni rasentava non solo l'imbarazzante ma anche l'invadente... come minimo, doveva essersi insospettito (o preoccupato) quando gli aveva assicurato di star bene e che sarebbe andato tranquillamente da solo.

«Ma dai, incredibilmente puntuale!» esclamò Madara una volta che li ebbe raggiunti, per poi scoppiare in una sonora risata; gli diede una pacca sulla schiena (forse un po' troppo forte) e poi... poi notò Robin, che li guardava con un sorriso di circostanza sulle labbra.

Tra le tante, tantissime credenze e leggende sul Predestino, c'erano anche quelle che parlavano di persone così particolari ed uniche da riuscire a vedere l'infinita rete di fili e collegamenti tra Predestinati e Leo, in tutto il suo scetticismo al riguardo (insomma, chi sarebbe rimasto sano di mente, in quel caso? Gli occhi pieni di quella tortura, condannato a sapere se qualcuno era davvero destinato ad una persona oppure no, già conoscendo l'esito della loro storia?), si era sempre ritrovato a pensare che uno di quegli individui così rari non potesse che essere Madara. Era sempre stato così, speciale, almeno da quando lo conosceva (ed era tanto, tanto tempo): capace di arrivare al momento e nel luogo giusto con un tempismo disumano, in grado di risolvere i conflitti più tediosi, la persona migliore da desiderare al proprio fianco nei momenti difficili.

In grado di regalarsi al prossimo con il sorriso sulle labbra.

E quando gli occhi dell'amico si posarono su Robin, Leo vide quello sguardo: se avesse dovuto metterlo a parole, inchiostro su carta, l'unica parafrasi in grado di rendere l'idea sarebbe stato un unico, solitario fulmine in mezzo ad una campagna deserta, nel cuore della notte. Aveva la durata di un battito di ciglia, ma lo aveva colto così tante volte che ormai ai suoi occhi era diventato familiare, più che riconoscibile – solo che Robin era l'ultima persona di cui volesse conoscere “l'altro capo del filo”.

Leo inspirò a fondo e si intimò di mantenere la calma: dopotutto, Robin aveva accettato lui, non il Predestino.

«Ehi, ehi! Da quando non mi presenti più i tuoi amici, Leo?» ridacchiò Madara, prima di gettare le braccia al collo del moro, stringerlo fin troppo energicamente e poi sollevarlo in aria. Leo vide con chiarezza Robin chiedere aiuto... o era pietà? «Io sono Madara, ma puoi chiamarmi Mama! Lo fanno tutti ormai!» continuò a parlare, imperterrito prima di far tornare la sua povera vittima coi piedi per terra.

«Oh, piacere» provò a riprendersi il giovane, schiarendosi appena la voce mentre si sistemava i vestiti stropicciati. «Il mio nome è Robin Kurosawa».

«Robin?» chiese, in un moto di entusiasmo il più alto. «Come uno dei tuoi personaggi, Leo! Ora ho capito perché sembravi tanto di buonumore al telefono!»

Ci fu un imbarazzante silenzio di almeno un minuto, o almeno così parse a lui. Certo, Leo non ebbe la possibilità di contare, era troppo intento ad imprecare mentalmente per mettersi a scandire con esattezza ogni secondo. Come Madara fosse riuscito a collegare il suo buon umore a Robin, sottintendendo così una qualche relazione tra loro... era un mistero.

«Di... buonumore?» chiese il più giovane, guardando Leo con un'espressione a metà tra il sorpreso e il compiaciuto.

Fu abbastanza perché il romanziere decidesse di troncare la conversazione il più velocemente possibile. «Piuttosto, che ci fai qui?»

«Avevi detto che eri da solo! Non pensavo di interrompere un--»

«Va bene, va bene! Andiamo» quasi ringhiò il rosso, iniziando a spingere Madara e la sua mole colossale lungo la strada – ovunque, ma il più lontano possibile da Robin. Cercò in ogni modo di sovrastare ogni protestadel più alto con un tono di voce maggiore del suo, mentre il suo—ragazzo li seguiva a ruota.

Non dovettero camminare poi a lungo: l'imponente pasticceria, dalle forme squadrate e moderne, piena di insegne luminose attirava così tanto l'attenzione che trovare il portone indicato fu facilissimo, considerando che era proprio accanto all'entrata. Madara li precedette, entrando per primo dalla porta anonima (anzi, a dirla tutta sembrava quasi... dimenticata, quasi avesse perso la sua battaglia con la vetrata adiacente) facendo loro strada nella piccola stanza che li attendeva.

Più che un negozietto, come Mama lo aveva definito, il posto sembrava uno sgabuzzino reso a malapena abitabile nonostante l'invasione di computer e tecnologia di ogni genere: era una stanza piuttosto piccola, con un paio di scrivanie, a destra e a sinistra, le postazioni rivolte verso il centro, completamente sommerse di parti di case smontate, hardware, schede video e non, viti, strumenti per ogni genere di riparazione; era un ambiente circolare in cui era difficile riconoscere il colore delle pareti, dati i poster, gli armadi, le librerie quasi tutte ammassate contro di esse, in alcuni casi anche a casaccio, data la particolare forma del fondo – il disordine però non disturbava affatto Leo: era, dopotutto, lui stesso la dimostrazione che una mente fresca e reattiva lavorava persino meglio nel caos e nello stress, così qualcosa gli suggerì che questo famoso hacker potesse essere un tipo interessante.

Forse non avrebbe trovato niente di rilevante sui Dissidenti e sul sito che lo aveva fatto incontrare con Robin, ma... forse avrebbe trovato un altro essere umano in grado di stimolare la sua ispirazione – anche se non aveva mai scritto niente di impronta fantascientifica o sci-fi; dopotutto, l'incontro con Rei e con quella folla di ragazzi che ballavano aveva acceso una gran voglia di scrivere in lui (e non solo, a giudicare da quello che era seguito in macchina...); quindi, una volta dentro, si mise subito a curiosare in giro alla ricerca del loro uomo.

«Yuuki?» chiamò Madara, senza neanche prendersi la briga di guardarsi intorno; Leo, intanto, continuava a curiosare tra i fogli, trovandosi di fronte a calligrafie disordinate e nervose e tutt'al più scoprendo lasciti di scatole di takeaway e lattine vuote. Stava proprio per sbirciare, infine, lo sfondo del desktop sul computer che pigramente stava ancora acceso nonostante nessuno lo stesse utilizzando quando, da sotto la scrivania, un tonfo non lo fece quasi sussultare.

«Ahi, ahi...» udirono lamentarsi, mentre una scompigliata chioma bionda faceva capolino tra i fogli, una mano presa a massaggiare la nuca, forse dolorante. Un ragazzo giovane, dai grandi occhi verdi in parte nascosti da occhiali di una spessa montatura blu, apparve sotto lo sguardo incuriosito dello scrittore e, quando si rese conto di essere osservato così da vicino, sussultò e quasi ruzzolò all'indietro.

Poco ma sicuro, era facilmente impressionabile.

«Scu—scusate!» si scusò in fretta, scattando in piedi come un soldato, quasi sull'attenti. Gettò un'occhiata nervosa a tutti loro, cercando di capire chi avesse davanti, fin quando probabilmente non riconobbe Madara: solo allora, le sue spalle tornarono morbide, la postura meno rigida. Il super hacker Makoto Yuuki si passò una mano tra i capelli, sollevato, prima di sedersi (in qualche modo) sulla sua poltrona. Fu allora che Leo, con un po' di disappunto, notò un segno simile ad una voglia sul suo collo, di una forma ancora sfumata ma che di certo ricordava un lucchetto: un segno del Predestino, piuttosto fresco per di più. «Scusate, non immaginavo che arrivaste in anticipo...»

«Veramente sono già le quattro passate, Yuuki!» esclamò Madara, con una sonora risata anche se, a giudicare dallo sguardo del ragazzo, c'era ben poco di divertente; doveva essere stato talmente tanto assorbito dal suo lavoro da non essersi accorto dell'orario.

Oppure, si era semplicemente addormentato sul pavimento. A Leo succedevano entrambe le cose.

«... Beh, sì, devo... aver perso di vista l'orologio» borbottò, cercando di giustificarsi. Goffamente, tentò di liberare almeno in parte la scrivania, sollevando sia pile di scartoffie che componenti dall'aria pesante, traballando sotto il loro peso; Leo si aspettò più volte di vederlo cadere, ma a quanto pareva era piuttosto abituato a sostenere oggetti pesanti, nonostante le apparenze graciline.

Una volta che la scrivania fu sgombra abbastanza da potersi parlare faccia a faccia senza oggetti a disturbare la visuale, Yuuki tornò con aria stanca alla sua postazione; estrasse poi la tastiera del suo pc fisso da sotto il tavolo e se la posizionò davanti.

Inutile a dirsi, i tre ospiti rimasero in piedi, non tanto per l'assenza delle sedie quanto più per l'assenza di spazio per potercele mettere.

«Mi... scuso per il disordine, ma negli ultimi mese c'è stato un po' di trambusto e il mio socio è quasi sempre in giro» sospirò il ragazzo, sistemandosi nervosamente gli occhiali sul naso. Più che disordine, pensò Leo, quello doveva somigliare più al caos primordiale – ma si tenne la considerazione per sé, perché per quanto per lui fosse simbolo di una mente brillante, non era ritenuto generalmente un complimento. «Piacere, io sono... beh, Makoto Yuuki, lo avrete... già... capito?» guardò confuso entrambi i volti nuovi, per lui, al fianco di Madara.

Leo esibì uno dei suoi migliori sorrisi, di quelli così affabili da confondere le persone, quasi spaventarle per la carica che a stento trattenevano. «Piacere, io sono Leo Tsukinaga eee...» in un impeto di entusiasmo, fece un balzo alle spalle di Robin per prenderlo per le spalle e sospingerlo in avanti, quasi costringendolo a porsi al centro dell'attenzione; lo scrittore aveva notato che, da quando erano entrati, il giovane non aveva proferito parola e (questo sì, che era strano) non si era neanche proposto di aiutare Yuuki a spostare gli ingombri dalla sua scrivania. Il moro, quasi dando ragione ai suoi sospetti, si irrigidì ed immediatamente abbassò lo sguardo, forse nel panico – un panico, però, di cui Leo non comprendeva la natura: era riuscito, anche se dopo un primo timore, a fronteggiare un individuo così opprimente come Rei Sakuma... Il loro signore dei computer, al confronto, aveva tutto l'aspetto di un giovane nerd appassionato di informatica, pressoché innocuo. «Lui è Robin Kurosawa! Saluta, Robin!»

Il biondo chinò appena il capo in segno di saluto, che Robin ricambiò impercettibilmente. Yuuki si sistemò ancora una volta gli occhiali, che evidentemente tendevano a scivolare più di frequente di quanto non avrebbero dovuto e poi sgranò appena gli occhi, in un'espressione sorpresa: sembrava aver appena ricollegato qualcosa.

«Ma tu sei-»

«Yuu-kun? Sono tornato!»

Chiunque Robin fosse, per l'hacker, Leo non lo seppe mai.

La voce, proveniente dal corridoio, che con tanto entusiasmo si era annunciata... per lui era inconfondibile, a dir poco indimenticabile. Leo glielo aveva detto spesso, seppelliti sotto le coperte, che quella sua voce così peculiare sembrava graffiare le pareti del suo cuore, roca e affamata com'era.

Quando Izumi comparve sulla porta della stanza, aveva un grande pacco tra le mani che nascondeva gran parte della sua figura, eccezion fatta per un'iride azzurra intenso, come il mare delle coste caraibiche e uno spruzzo di ribelli capelli color del ghiaccio. Leo sapeva che non avrebbe dovuto voltarsi in direzione di quella voce, sapeva che forse era ancora presto per vederlo ma il suo corpo reagì d'istinto, richiamato dal canto della sirena dei ricordi: a nulla erano serviti quei mesi di lontananza, perché quando i loro sguardi si incontrarono, la stanza sparì.

Al suo posto, c'era di nuovo il viale alberato, in mezzo a quel pomeriggio di autunno: le foglie secche e ingiallite per terra, trascinate dalla brezza mortifera che le allontanava dalla loro casa per accompagnarle a morire lì, sull'asfalto nudo, incolore; le auto che passavano chiassosamente al loro lato; il marciapiede composto prevalentemente di ghiaia, come per voler far sembrare la passeggiata più romantica quando rendeva semplicemente più scomodo il camminare.

E quelle parole, ancora, che risuonarono nella mente di Leo come se qualcuno le avesse urlate a pieni polmoni: “L'ho trovato”. Poi anche la voce di Shu, di solo qualche settimana prima, sussurrò al suo orecchio, con fare provocatorio come solo lui poteva fare, con quell'intenzione malcelata di metterlo alle strette senza neanche sforzarsi: “Ho scorto un lucchetto, sulla pelle”. Un lucchetto, come Makoto Yuuki.

Si sentì mancare l'aria nel momento stesso in cui la stanza tornò al suo posto, circolare e caotica, con tutti i presenti: Izumi per poco non lasciò cadere a terra il pacco che teneva, in evidente difficoltà; Robin, alle sue spalle, forse non riusciva a seguire la situazione così come non avrebbe potuto fare il giovane informatico... Madara, d'altro canto, era al corrente di quello che era accaduto tra loro, forse anche nei minimi dettagli, eppure era impietrito allo stesso modo.

Il Predestino era crudele, sì, ma il destino non era di certo da meno.

«Leo...» lo sentì mormorare, la sua voce ridotta ad un sussurro e quelle due sillabe divennero già improvvisamente troppe, insostenibili; lo scrittore si rese conto di non aver mai odiato così tanto il suo nome come in quel momento, che suonava così giusto su quelle labbra. Ed era frustrante provare di nuovo quel calore nel sentirlo pronunciato da lui, ma ancor più doloroso era vederlo esitare, spaesato, perché il solito Izumi lo avrebbe liquidato con uno schiocco di lingua ed un'intimidazione bella e buona.

Quello era il suo Izumi, però. Un ricordo bellissimo, un'illusione mortifera che non riusciva ancora a scacciare e che si sovrapponeva anche adesso all'uomo reale che aveva davanti, lo stesso che aveva mosso qualche passo, incerto, verso di lui, dopo aver poggiato lo scatolone a terra. L'uomo col lucchetto.

Aaaah, era così bello. Così bello da far paura, quasi, proprio come quando lo aveva conosciuto e lo aveva dovuto lasciare andare. Si chiese perché il Predestino pensasse che un essere così maldestro come Makoto Yuuki lo meritasse al posto suo; si chiese perché continuasse a guardarlo con quegli occhi pieni di senso di colpa, che lo affossavano ogni volta, un metro più giù, fino a raggiungere il centro della Terra. Si poteva morire, sotto il peso di uno sguardo? Sotto il peso di un ipotetico futuro insieme che avevano ad entrambi strappato da sotto il naso?

Per assurdo, il suo corpo reagì come la sera in cui il Predestino lo aveva messo davanti al reale futuro: doveva fuggire. Lontano, il più lontano possibile, prima che Izumi trovasse il coraggio di carezzargli la mano, come stava per fare – con gentilezza, riguardo, come se fosse chiaro il suo essere sul punto di frantumarsi una volta per tutte. Leo fu così svelto nell'aggirarlo che neanche Robin ebbe il tempo di fermarlo: in un attimo, era di nuovo in strada, con gli occhi che bruciavano, la voce di Madara nelle orecchie che sfumava lontana, nel tentativo di riportarlo indietro... Ma no, non si sarebbe fermato.

Le occhiate confuse ed irritate dei passanti lo sfioravano, come lame taglienti, ferendolo in più punti ma la sua corsa non si arrestava e ad ogni sguardo accelerava la corsa: il grande viale della città scorreva senza forma alcuna sotto i suoi occhi, sbagliato anch'esso, deformato da quel dolore al petto lancinante, che non riusciva a mettere a tacere. Si fermò solo molti minuti dopo, vicino alla stazione della metro da cui erano venuti lui e Robin solo qualche ora prima.

Gli faceva male tutto: le gambe, il petto, la testa. Sentiva il volto umido di lacrime che non ricordava di aver mai versato davvero, vedeva le mani tremare dalla rabbia e dalla frustrazione senza che fosse capace di nascondere alcunché – era nudo, le sue emozioni esposte alla mercé della città nonostante avesse cercato il più possibile di farsi invisibile, accucciandosi in silenzio vicino ad una siepe. Si prese il capo tra le mani, nascondendo il volto contro le ginocchia nella speranza di calmare sia il respiro che i singulti dati dal pianto che adesso non riusciva più a trattenere. La sua voce lo implorava di uscire, di farsi sentire, di farsi testimone del grossolano, ridicolo errore che era il mondo.

Non seppe per quanto rimase lì, in quella posizione: più cercava di calmarsi, di svuotare la mente, controllare quelle emozioni impazzite, meno sembrava consapevole della sera che calava, impietosa, almeno finché non si rese conto di avere freddo. Capì che il suo corpo era spossato: sentiva gli occhi gonfi, le forze venire meno, la testa pulsare e...

«Leo!» Un abbraccio. Una stretta calda, come un fulmine a ciel sereno, in cui la disperazione di Leo trovò finalmente, seppur per qualche momento, pace. Sentì delle mani stringerlo, forte e il rosso si rese conto che conosceva quel profumo; era lo stesso a cui si stava abituando, giorno dopo giorno, a sentire vicino – sul suo divano, sui suoi vestiti, nella sua quotidianità.

Robin.

“Egoista”, si rimproverò. Era fuggito di fronte a Izumi sotto gli occhi di quel ragazzo, che di certo non poteva sapere; si era lasciato trovare in quel modo, distrutto nell'animo, da chi aveva trascinato nella sua vita in un impeto istintivo (non ingiustificato, questo no; a Leo piaceva Robin, ma era ancora tutto da costruire, da scoprire) e, anche se del dolore lancinante che aveva provato per tutto quel tempo, sentiva ormai solo l'emicrania e la stanchezza – anche grazie a quell'abbraccio – lo scrittore si rese conto che lo aveva... dimenticato, per quegli attimi. Izumi, nella stanza, aveva spazzato via tutto quello che in mesi aveva cercato di riparare. Un tornado.

Eppure, quelle mani accarezzavano ancora la sua nuca come se niente fosse accaduto – anzi, forse proprio perché qualcosa era accaduto - con quella dolcezza che in un'altra occasione forse Leo avrebbe scacciato. Sentiva le dita attraversare i suoi capelli, forse con l'intento di calmarlo; il silenzio lo stava aiutando lentamente a rilassarsi, a cercare ancora più contatto, mentre si ripeteva nella mente che era un debole, come un mantra, e che doveva chiedere scusa a Robin e--

«Se vuoi parlarne, io sono qui» gli sussurrò il giovane, senza cercare il suo sguardo. Non lo stava mettendo sotto pressione, gli stava... concedendo una via di fuga.
Leo non poté fare a meno di stringere con ancora più forza la sua giacca tra le dita, odiandosi – non lo meritava, per niente. Non sapeva cosa spingesse questo giovane ragazzo a stare al suo fianco, a seguirlo nella sua follia e curare le sue ferite degne di un animale con la rabbia, ma Leo non era all'altezza di tutto questo.

Se proprio voleva strappare Robin a chiunque fosse il suo Predestino, forse qualcuno in grado di amarlo davvero, in modo genuino e sano... beh, doveva lavorare sodo, per far sì che creassero qualcosa insieme. Anche loro.

«Come mi hai trovato?» si sforzò di chiedere, la voce resa quasi irriconoscibile dalle ore di pianto, senza distanziarsi troppo da lui. Sentì un fastidio pressante alla mascella, per averla tenuta stretta troppo a lungo nel vietarsi di urlare.

Robin replicò dopo una risata leggera, come se la situazione in cui si trovavano non fosse estremamente... difficile. «Mi piacerebbe dirti che ti ho trovato subito, ma ci ho messo un paio d'ore prima di arrendermi e pensare di tornare in stazione e provare a chiamarti al cellulare» ammise, nella sua schiettezza spesso tagliente, ma che in quell'occasione strappò a Leo un sorriso.

«Mi sarei preoccupato, se tu mi avessi trovato subito. Avrei cominciato a pensare che avessi i superpoteri, tipo un Super Tempismo».

«Mi avrebbe fatto comodo, però» sussurrò, trovando forse solo in quel momento il coraggio di guardare Leo, ancora premuto contro il suo petto: i loro occhi si incontrarono, anche se il più grande fu svelto nel distogliere lo sguardo e così perse la piccola smorfia che attraversò il volto dell'altro. «Non mi piace l'idea che tu fossi... solo, con questo stato d'animo».

Ci fu un breve attimo di silenzio, tra loro. Leo si chiese perché questo giovane continuasse ad insistere in quel modo, dopo quel che aveva visto: chiunque altro, al suo posto, avrebbe girato sui tacchi e se ne sarebbe andato, sentendosi evidentemente di troppo – una reazione così esplosiva, da parte sua, di certo tradiva l'enorme mole di sentimenti contrastanti che ancora provava nei confronti di Izumi, seppur l'entrata di Robin nella sua vita avesse cominciato a dissipare lentamente l'intricata foresta di rovi che circondava ancora il suo cuore.

Leo era complicato, frammentario, confuso: passava dal giorno alla notte in un battito di ciglia, perché mente e cuore viaggiavano quasi sempre a velocità folle, sbagliata – Izumi era come lui, una volta: una tempesta, un mare spaventoso, un cielo carico di fulmini e saette.

Robin, invece, era un vento leggero. Una carezza gentile ma testarda, in grado di ridurre in polvere montagne millenarie con la pazienza e il tempo – in quel caso, la montagna era lui, quel vento le mani del moro. Leo sentiva sbriciolare lentamente le sue mura tra quelle braccia, mentre chiudeva gli occhi contro il maglioncino color crema di Robin.

«Sembri arrabbiato» trovò modo di dire lo scrittore, seppur a bassa voce.

«Lo sono, ma mi passerà».

Era strano che lo avesse ammesso. Eppure, in quelle parole, non c'era risentimento, solo... orgoglio; orgoglio duro e severo, ma non velenoso. Chissà cosa pensava, si chiese Leo.

«Perché lo sei?» insistette, più a suo agio nel far vertere la conversazione sul più giovane.

Robin esitò. «Perché sono arrogante» mugugnò, con un tono così frustrato che Leo si costrinse a sollevare nuovamente lo sguardo verso di lui – era davvero irritato, era facile notarlo... Ma non immaginava che lo fosse con se stesso. «Non ho idea dei tuoi trascorsi con quel ragazzo, ma... se avessi contato di più, per te, magari non avrebbe fatto così male. A nessuno dei due».

Stavolta, il silenzio fu più pesante, perché Leo non riusciva proprio a credere a quello che il moro aveva appena pronunciato: a dirla tutta, in parte gli sfuggiva il senso delle sue parole, ma... credeva davvero che dipendesse da lui la drammaticità della sua reazione? Era possibile essere così stupidi e—critici con se stessi?

«Dubito che il problema sia tu» gli rispose immediatamente perché no, non gli avrebbe permesso di sminuirsi a quel modo. «Non sei la mia balia» si affrettò ad aggiungere, tirando su col naso e ricordando, con una stizza di irritazione, che il più grande dei due era lui.

Robin, dato che la risposta era stata tutt'altro che esaustiva, continuò a fissarlo con aria curiosa – non che si potesse biasimarlo, dopotutto: anche quel desiderio di scoperta che spesso gli illuminava il volto faceva parte di ciò che Leo aveva cominciato ad amare, di lui.

«E va bene, e va bene!» si arrese il rosso, trovando la forza di alzarsi: ormai le gambe sembravano aver smesso di tremare, anche se sentiva ogni singolo muscolo del corpo indolenzito, come se fosse stato messo sotto uno sforzo inaudito... sul punto di esplodere. «Ti racconterò tutto, ma... non qui».

«Non sei costretto a parlarmene» rispose frettoloso Robin, alzandosi in piedi anche lui. Sembrava essersi reso conto solo in quel momento di quanto era apparso avido di sapere. «Solo che... ci conosciamo poco ed ammetto che la tua reazione mi ha davvero colto alla sprovvista». “Colto alla sprovvista”... stava soppesando le parole, era evidente; poi Robin gli sorrise e lo scrittore non trovò più il coraggio di dubitare di quanto stava dicendo – quello era l'effetto che gli faceva, quando lo guardava: lo contagiava, lo faceva sentire a casa, protetto. Era talmente potente che riuscì quasi a far sorridere anche lui. «Però è anche vero che tu non hai mezzi termini, in niente. Quindi, se ami, se odi, se provi dolore... è tutto amplificato, immagino».

Leo aveva spesso l'impressione che quel ragazzo ne sapesse più su di lui che lui stesso: era come uno specchio particolarmente critico, in grado di raccogliere ogni frammento del suo essere senza però ferirsi inutilmente. Sapeva maneggiarlo, quando con cura e quando con durezza, sapeva ammaliarlo, sia con malizia che con innocenza e sapeva parlargli: questa era, forse, la cosa che più lo spiazzava – Robin sapeva comunicare con lui con naturalezza, quasi fossero amici da una vita.

Era ancora immerso nei suoi pensieri al riguardo, quando una mano calda afferrò la sua (fredda, ancora in parte tremante, sudaticcia); Robin la strinse e poi, accennando un primo passo verso l'entrata della metro, sembrò strapparlo da quell'angolo buio, la piccola prigione immaginaria le cui sbarre erano fatte di ricordi dolorosi e pensieri vorticanti, di colore nero.

Ma lui era lì, come il giovane elfo della storia che stava scrivendo: la stretta ferma e decisa, la presenza forte e piena di luce.

«... A casa. Ti racconterò tutto a casa» mormorò Leo, prima di lasciarsi convincere all'evasione dal suo incubo.

Finalmente, l'aria aveva di nuovo il sapore della libertà.
 


Note: Questo capitolo è stato davvero coinvolgente, per me. Ammetto che vedo la IzuLeo anche nel canon come una relazione "finita", fatta di troppe incomprensioni per essere totalmente recuperata; qui la situazione è un po' ribaltata e, forse, anche semplificata; ma volevo che, di tutte le relazioni di Leo, Izumi fosse colui che più l'aveva segnato, marcato, costretto a diventare quello che è all'inizio della storia. Spero che abbia reso bene l'entità dei sentimenti che entrambi provavano, anche se della loro storia non ho accennato niente se non frammenti.
Forse è la prima volta che svelo anche il "ruolo" dei personaggi della storia nel romanzo di Leo (anche se erano comprensibili, immagino); che Robin fosse il giovane elfo credo fosse chiaro, perché lui è diventato in fretta il suo porto sicuro. Ammetto che è stato difficile gestire il suo panico per Izumi e la sua voglia di rinascere con Robin al suo fianco; è un cruccio che mi ha portato via gran parte del tempo che ho impiegato per scrivere, così come il capitolo successivo che è già in lavorazione.
Insomma, in definitiva spero vi sia piaciuto! E volevo avvisare che probabilmente la settimana prossima non sarò in grado di aggiornare puntualmente perché ho un sacco di cose da sbrigare e temo di aver davvero pochissimo tempo per scrivere. Spero di poter tornare comunque prima di Natale.
Alla prossima! (e assicuro che sarà un capitolo molto interessante, mhmh.)

 

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Capitolo 10
*** Di notti e miracoli ***


Capitolo 9: Di notti e miracoli


“L'elfo aveva smesso di rassicurarmi. Adesso passava intere nottate, quando la luna si faceva più luminosa e minacciosa, seduto con me sul mio giaciglio, a parlare. Parlavamo di quel luogo benedetto, delle arti e delle lingue che conosceva, delle battaglie disperate che avevo combattuto, delle conquiste orgogliose che mi avevano portato ad essere il guerriero che ero e, che mi ascoltasse o parlasse, nel suo volto non leggevo mai scherno, disgusto o noia: in breve tempo, tra noi si creò un legame di sincero e puro affetto, tanto che la sua compagnia smorzò il bruto monopolio che la notte aveva su di me e, ben presto, ci trovammo a giacere insieme.”

 

Parlarono per ore. Si sedettero sul divano rosso nel piccolo soggiorno di Leo, lo stesso su cui avevano visto Star Wars e il rosso si costrinse a raccontare la sua complicata, turbolenta eppure affascinante storia con Izumi.

Si rese conto di non aver mai raccontato tanto di quella storia a nessuno, prima di allora: stretti entrambi nella sua enorme coperta di pile, i gomiti che si sfioravano mentre in silenzio sorseggiavano la cioccolata calda che aveva preparato appena arrivato a casa, Leo rivisse quei momenti uno per uno ed ogni parola era una catena che si spezzava, un lucchetto (come quello del suo una volta tanto amato Sena) che si apriva e lo liberava. Ben presto si ritrovò non solo ad essere un fiume di parole, ma anche a valutare attimo per attimo tutto ciò a cui si era aggrappato negli ultimi mesi: ombre e fantasmi di qualcosa che aveva vissuto al massimo delle sue capacità, di cui sapeva di non potersi rimproverare... e non poteva rimproverare neanche Izumi. Se lo avesse costretto a sé, non sarebbe stato poi tanto meglio del tanto odiato Predestino.

Era come se lo stesso animo andato in pezzi quel medesimo pomeriggio avesse trovato la volontà di riprovarci, di ricomporsi fino al minimo frammento: al fianco di Robin, nel calore della sua stessa casa – sempre così vuota, così piena soltanto di Leo, Leo, Leo tanto che il poco amore per se stesso diveniva quasi giustificabile perché ingombrante – quel macigno di rimpianti sembrava aver cominciato a sbriciolarsi.

«... Mi rendo conto che forse sarebbe finita comunque» concluse a bassa voce, fissando la cioccolata ormai ammezzata. Era la prima volta che lo ammetteva, persino a se stesso. «Insomma, Predestino o meno. Però lui era...»

«Diverso» concluse Robin per lui, poi lo sentì sospirare, un attimo prima che si poggiasse contro la sua spalla.

«... Sei geloso?» gli chiese. In tutta onestà, se la situazione fosse stata rovesciata, Leo avrebbe dato in escandescenze: la sola idea che anche Robin potesse essergli strappato a causa del Predestino bastava a fargli attorcigliare lo stomaco – però, adesso, sapeva anche che, a differenza di allora, potevano combattere entrambi, perché entrambi lo stavano già facendo... prima ancora di conoscersi.

Il moro impiegò un po' di tempo a rispondere, forse combattuto sull'essere sincero o meno. «Più di quanto non dovrei, credo» sbuffò infine. «Non ho mai avuto un love interest prima di te o... beh, nulla di così serio».

Leo ridacchiò, più leggero. «Love interest» cinguettò, con fare decisamente spensierato. L'atmosfera ormai era meno tesa e se dopo quella scenata Robin era ancora lì, sotto quella coperta con lui, significava che era un love interest decisamente... interessante. Si voltò verso di lui e lo osservò quanto bastò per notare una piccola macchia di cioccolato all'angolo della sua bocca. Senza fare troppi complimenti, si protese verso il suo volto ancora pensieroso e la leccò via.

Immediatamente, Robin scattò verso l'altro lato del divano, così goffamente che rischiò di versare quel poco che rimaneva della sua cioccolata (era sempre un gran ghiotto, non importava quale fosse la situazione; il giorno che avesse dimostrato poco appetito, Leo si sarebbe sicuramente preoccupato). Lo vide portarsi una mano vicino alla bocca, proprio dove lo aveva appena leccato, mentre il suo volto diveniva gradualmente sempre più rosso.

Era sempre soddisfacente coglierlo di sorpresa. «Che c'è?» gli chiese il romanziere, con un sorriso sghembo pitturato sulle labbra.

«Pensavo che--» provò a borbottare il più giovane, evidentemente confuso di fronte all'uomo che adesso aveva davanti. Era difficile rimanere al suo passo, vederlo chiuso in un dolore impenetrabile un attimo prima e poi trovarsi a doversi difendere di fronte quelle molestie il successivo.

«Hai detto che sei geloso» gli fece notare Leo, poggiando la tazza, seppur non ancora vuota, sul tavolo davanti al divano. Poi si chinò su di lui, facendo delle sue proprie braccia e del corpo una calda trappola, da cui era quasi impossibile fuggire – Robin neanche vi tentò e, piuttosto, si fece ancora più piccolo contro il bracciolo del sofà.

Incredibile come riuscisse a tornare improvvisamente bambino, in certi frangenti.

«Non l'ho detto, l'ho ammesso!»

«Ti sto dando prova che non hai bisogno di esserlo».

Lo sguardo di Robin si fece persino più disorientato: chissà come suonavano per lui, quelle parole. Chissà quanto contraddittorio si mostrava a quegli occhi ametista, mentre si chinava su di lui per baciarlo con una dolcezza che non ricordava di essere mai stato in grado di esprimere.

Eppure Robin, ancora una volta, lo accettò: avvertì le mani del più giovane carezzare titubante il suo volto, il respiro stabile che si scontrava contro le sue labbra, facendo rabbrividire Leo di anticipazione.

Per la prima volta in quella lunga giornata, in cui lo scrittore non aveva neanche provato a contare le lacrime versate, Robin sfiorò l'angolo del suo occhio sinistro col pollice, come se con quel singolo gesto stesse cercando di asciugare ogni singola goccia di dolore che aveva visto dipinto quel volto appuntito – quanto un così minuto cumulo di carne e sangue viventi poteva sopportare, prima di soccombere al dolore delle proprie emozioni? Entrambi, forse, si ritrovarono ad esprimere lo stesso desiderio: sperare di non scoprirlo mai.

Scomparve in fretta, però, veloce come una stella cadente.

In un attimo, erano di nuovo soltanto loro due, i loro corpi davvero vicini ora per la prima volta: Leo sentiva la necessità di dare coraggio ad entrambi di andare avanti, bacio dopo bacio – un sussurro gentile, un invito eloquente; venne accontentato quando Robin trovò finalmente il coraggio di fermarlo, ponendo timidamente le dita sulle sue labbra e, dopo essersi parzialmente nascosto contro la sua felpa verde acido, sussurrare così.

«Certe cose non... si fanno in camera?»

Non ci fu bisogno di aggiungere altro: elettrizzato, Leo prima quasi cadde a terra nel tentativo di alzarsi il più velocemente possibile e poi, sotto gli occhi attoniti di Robin, si affrettò a trascinarlo in camera sua, su quel letto a due piazze che aveva acquistato più con una mezza speranza di trovare qualcuno con cui condividerlo che con la certezza di poterlo sfruttare. Eppure, quelle lenzuola colorate, che lui stesso aveva scelto nel tentativo di dare più vita a quella stanza fredda e solitaria, vennero incredibilmente oscurate non appena Robin vi si sedette sopra: era lui l'unica esistenza degna di nota, là dentro. Leo, nonostante la foga con cui l'aveva portato con sé, in quel momento si limitò a seguire quasi incredulo le mani affusolate che, tese, si poggiarono sull'orlo del maglione intrecciato e lì si fermarono, quasi chiedendogli il permesso.

“Ma quale permesso.”

Leo si sedette accanto a lui, in una sorta di religioso silenzio: ogni suono non richiesto avrebbe potuto spezzare quel momento, quindi si limitò a posare le proprie mani su quelle del moro, accarezzandole con tenerezza. Si avvicinò di nuovo al suo volto, lentamente, per restituirgli almeno la serenità che ormai provavano nel baciarsi; quello scambio sincero era ormai per loro un porto sicuro in mezzo ad un oceano inesplorato. Ogni movimento delle loro bocche, l'una contro l'altra, era una certezza di poter tornare a casa dopo l'avventura in cui si stavano imbarcando.

Sotto le sue dita, le mani di Robin si rilassarono abbastanza da lasciare andare la stoffa e cercare, piuttosto il contatto del compagno: Leo lo avvertì mentre cercava disperatamente di aggrapparsi a lui, forse nel tentativo di scacciare quell'ansia che non può che accompagnare la prima volta.

Fu l'ennesimo pensiero che il rosso si ritrovò a dover accantonare mentre si decideva a toccare il corpo del più giovane – lasciò vagare la sua mano fin quando non trovò il modo di infilarsi sotto la lana lavorata, a contatto con la pelle calda se non accaldata, morbida al contatto tanto che non resistette alla tentazione di pizzicarla.

Robin sussultò, interrompendo la catena di baci che nessuno dei due aveva lasciato ancora disfarsi e gli regalò uno sguardo lievemente irritato. «Don't mess with me». Forse un giorno Leo avrebbe capito come fosse possibile che la squillante voce del ragazzo riuscisse a suonare tanto provocante ogni volta in cui si lasciava andare alla sua lingua madre e, particolarmente in quel momento, in cui nell'ammonirlo aveva abbassato la voce ad un mormorio risentito, lo scrittore avvertì un brivido attraversare il proprio corpo.

Iniziava a convincersi di avere un debole per le voci nasali.

«Ti vergogni?» lo provocò, in un sussurro, intendendo sia quell'accenno di grasso in eccesso che aveva appena tastato con mano che ai dubbi che il più giovane doveva avere riguardo il farsi vedere nudo da lui per la prima volta.

Robin si morse il labbro e poi, un'immagine che probabilmente avrebbe cullato la mente di Leo per molto tempo, in un atto di immenso coraggio lo spinse giù, sul letto forse in cerca di una curiosa rivincita perché fu veloce nel sovrastarlo. Si assicurò in un attimo di essere la sua più che piacevole prigione, fatta di una presenza calda e braccia forti abbastanza da tenerlo sospeso sopra di sé: i capelli neri come la pece ricaddero sul suo viso, definendone garbatamente il contorno (gli zigomi poco pronunciati, la mascella lineare) mentre gli occhi ametista bruciavano, ancora e lo scottavano – come sempre, quando voleva in qualche convalidarsi all'altezza della situazione, della sua compagnia, di lui.

«Affatto, leader». Nonostante la tensione, Leo non poté che rabbrividire; non aveva idea se Robin ne fosse più o meno consapevole, ma i suoi gesti avevano una celata carica erotica che lo stuzzicava di continuo, solleticandolo alla stregua delle fusa di un gatto.

Era bellissimo, visto dal basso e quell'espressione combattuta tra l'imbarazzo e la fermezza continuava ad incitarlo: provocalo ancora, Leo. Lascia che il guerriero si tolga l'armatura.

Con un sorriso dei suoi migliori, di quelli degni di un demone tentatore, si portò le mani ai lembi della sua felpa e, senza cedere la sua privilegiata posizione ma anzi, tenendo gli occhi ben fissi sul ragazzo, se la sfilò velocemente, rimanendo a torso nudo.

Colse così l'esatto momento in cui Robin realizzò quanto naturale fosse quel che stavano facendo; il rosso lasciò che una delle mani del giovane vagasse sul suo petto, fresca portatrice di un contrasto piacevole che non mancò di farlo rabbrividire più di una volta; gli lasciò il suo tempo per accettare la consapevolezza di quanto stavano per fare e tutto ciò che ne sarebbe seguito.

Un altro passo avanti.

Lo vide abbandonare ogni incertezza. Seppur goffamente, le sue mani si fecero più sicure mentre tornava a sollevarsi quanto bastava perché riuscisse a togliersi il maglione bianco e lasciarlo scivolare oltre il bordo del letto, mentre Leo poteva finalmente avere l'occasione di ammirarlo – era asciutto, nell'insieme, poco tonico ma non per questo meno attraente ai suoi occhi: in un certo senso, erano proprio le sue imperfezioni a renderlo terribilmente bello, giusto per lui. La sua sobria ordinarietà per uno studente serio e la cui passione si limitava a vecchi miti e leggende era proprio ciò che lo rendeva vivo, vicino e arrivabile. Al suo fianco, come gli aveva assicurato per messaggio.

Eppure, Leo voleva smettere di pensare ora: con un gesto della mano, quasi volesse fisicamente scacciare la sua stessa mente per metterla finalmente a tacere, fendette l'aria e poi si sollevò quanto bastava per rubargli un bacio all'improvviso; poi un morso e ancora le mani corsero su quella pelle così pura, ancora inesplorata. Avvertì i muscoli inaspettatamente forti seppur tesi delle spalle del moro, delle sue braccia: proseguì lungo il petto quasi puerile, poi lasciò che le dita percorressero l'immaginaria linea degli addominali fino ad esitare con non proprio sincera incertezza sul bottone dei pantaloni grigi che Robin indossava. Un sorriso vittorioso sfuggì dalle sue labbra, nel notare come il ragazzo si era irrigidito a quel punto ma ancora una volta superò il suo innato imbarazzo e gli strappò quell'espressione divertita baciandolo con fervore.

Poco dopo, anche gli ultimi indumenti furono scomparsi: erano nudi, sul suo letto, il volto di Robin vivo di un rossore che Leo non avrebbe mai dimenticato; forse sarebbe stato quello il ricordo più vivido di tutti, quello in grado di farlo sentire caldo anche a giorni, mesi, settimane di distanza – era così intenso che provò a sfiorarlo con mano, accarezzandogli una guancia ed assaporando quel calore, ancor più quando Robin cercò nel suo palmo un luogo dover rifugiarsi.

«Ti fidi di me?»

Non capì neanche lui perché pronunciò quelle parole, ma Robin sembrò apprezzarle: il suo sguardo si illuminò di un'emozione che difficilmente aveva mai colto in qualcun altro e poi, baciandogli la stessa mano che lo stava assaggiando, sospirò contro di essa.

«Always».

Leo lo spinse giù, lasciando che si distendesse sul materasso e senza dargli il tempo di protestare, si fece spazio tra le sue gambe – il necessario perché si abituasse a lui, alla sua presenza contro il suo corpo. Lo vide irrigidirsi ma, ancora una volta, non gli disse nulla; sospirò, piuttosto, ma senza ritrarsi. E non si mosse quando il più grande si impossessò del suo petto per diletto di entrambi: amava giocherellare con la bocca e con la lingua, amava sentire sotto i suoi denti la pelle dell'altro, soprattutto se poi poteva tirarla a suo piacimento, seppur nei limiti del piacere. Robin gli afferrò prontamente le spalle, in uno scatto che tradiva la sua sorpresa e, non appena Leo iniziò a suggere delicatamente il capezzolo... lo sentì.

La sua voce era acuta, ma melodiosa. Calda ed elettrizzante, in grado di farlo rabbrividire dal piacere – era stato un solo, timido gemito in parte coperto in fretta e furia dalla propria mano eppure gli era bastato per capire che non erano le voci nasali il suo problema... era la sua.

Non resistette alla tentazione di morderlo anche sul ventre, lì dove era più in carne e Robin dovette prenderla come una provocazione bella e buona perché, seppur non troppo forte, gli tirò i capelli approfittando del suo codino.

«Falla—finita» protestò finalmente, regalandogli anche uno sguardo irritato che, Leo avrebbe dovuto immaginarlo, lasciava che i suoi occhi violacei brillassero di una luce ancor più intensa, come se lasciassero presagire tutte le sue potenzialità. E solo i suoi amici alieni potevano immaginare quanto desiderasse scoprirle, una per una, come un'infinita grotta delle meraviglie.

Per stavolta, però, non avrebbe esagerato.

«Sei morbido, mi piace» si giustificò e la frase quasi gli costò un paio di denti, perché per poco il moro non gli assestò una ginocchiata dritta in faccia. «Va bene, va bene, argomento delicato» si affrettò a dire, ringraziando per una volta i riflessi sviluppati nella palestra dove Arashi lo aveva costretto ad andare per qualche anno.

Quelle furono le ultime parole che si scambiarono, almeno quelle con un senso preciso.

Un attimo dopo, Robin dovette trattenere un singulto, esattamente nel momento in cui Leo carezzò la sua virilità in tutta la sua lunghezza, non ancora del tutto eretta. Era ovvio che il tocco di un estraneo non fosse facile da accettare ed era anche comprensibile che fosse così sensibile, ma il rosso non si lasciò distrarre: in un momento, lo aveva già chiuso nella stretta della sua mano, che aveva cominciato a muoversi un attimo dopo. Un movimento ritmico, che variava a seconda delle reazioni del ragazzo sotto di lui o dei suoi pensieri, seguendo uno schema irregolare che ben presto portarono Robin a scalpitare, ad agitare il corpo nel tentativo di scrollarsi di dosso forse la sensazione di frustrazione che doveva provare nella sua posizione. Ben presto, la voce del più giovane inziò a desiderare di lasciarsi sentire e più questa si alzava, più la stretta delle sue mani sulle spalle di Leo si faceva forte, quasi violenta eppure, spietato, il rosso continuò fin quando non gli parve abbastanza.

Era lui a dover tenere le redini del gioco, era ovvio; eppure lo sguardo che Robin gli riservò quando finalmente allontanò la mano dalla sua intimità glielo fece dubitare – c'era così tanta voglia di fare ma la frustrazione dell'inesperienza, in quello sguardo, che quasi poteva immaginare che cosa gli avrebbe riservato il futuro. E poteva immaginarlo con una tale accuratezza che non mancò di leccarsi le labbra, per la prima volta esitando sul da farsi; aveva pensato di divorarlo ma, dopotutto... a lui piaceva essere divorato.

A Leo piaceva essere il centro di tutto – dell'attenzione del suo partner, del sesso che, in quei momenti, diveniva l'universo intero.

Era l'unico momento in cui si sentiva davvero il nucleo di ogni cosa, insostituibile.

Cambiò idea così, volubile come il meteo nelle zone tropicali. In un attimo, era disteso in parte sul letto, nel tentativo di raggiungere il comodino senza però allontanarsi troppo dal suo partner; vi riuscì, non senza qualche difficoltà e, con un gesto un po' forzato, aprì anche il cassetto.

Ben presto, Robin cercò di seguirlo con lo sguardo per capire cosa stesse facendo e, soprattutto, cosa doversi aspettare: non capì bene neanche quando vide Leo tornare alla sua precedente posizione mentre teneva tra le mani un contenitore di forma rotonda, oltre che ad un paio di preservativi ancora chiusi. Sembrò sul punto di chiedere, addirittura, ma ogni parola parve morirgli in bocca non appena Leo aprì una delle confezioni ancora sigillate e—si chinò su di lui.

Lo aveva colto alla sprovvista, come immaginava; per questo, non riuscì proprio a nascondere un sorrisetto divertito mentre, con delicatezza, faceva scorrere con dita sicure il profilattico lungo la l'erezione di Robin. Quando incrociò lo sguardo del più giovane, Leo non poté fare altro che provocarlo ancora, portandosi l'indice sulle labbra - “non chiedere, lasciati andare”.

E lui, ancora una volta, accolse la sua richiesta, seppur con qualche riserva; eppure, il moro tacque anche quando aprì la confezione del lubrificante e, limitandosi a guardarlo, con le dita intrise della sostanza, si preoccupò di cospargerne a sufficienza sulla sua erezione.

Non poté limitarsi, però, a stare in silenzio quando Leo si sollevò sulle ginocchia e, con le stesse dita con cui si era occupato di lui... preparò anche se stesso.

«Leo, non-» provò a dire, ma il rosso ripeté quel medesimo gesto; era assurdo che in una situazione così intima (forse per la prima volta), Leo riuscisse finalmente a sembrare l'adulto che era. Era bastato quel segno perché Robin tornasse a tacere mentre lui, con l'altra mano, si preparava a riceverlo dentro di sé.

Sperava quanto meno di avere un che di erotico, sotto quegli occhi innocenti e di non spaventarlo – ma il moro non si mosse, no; rimase a guardare ogni movimento che riusciva a cogliere, incapace di distaccare lo sguardo per più di un battito di ciglia e lo vide deglutire, a vuoto, per un paio di volte.

«Guarda soltanto me» gli riuscì a dire quando, finalmente pronto, afferrò con un gesto deciso il membro del più giovane e, senza aggiungere più niente, iniziò a calarsi su di esso.

Lo aveva fatto altre volte, sì, ma mai con un ragazzo inesperto; doveva sentirsi in qualche modo responsabile, seppur inconsciamente, perché mai in vita sua era stato così cauto nel lasciarsi invadere da qualcuno; da spericolato soldato abituato ad avere la vita in bilico tra la vita e la morte, adesso si sentiva un vecchio stratega di guerra, dalle cui decisioni dipendeva ogni genere di conseguenza – il sesso, per Leo, era così: una voluttuosa e bianca guerra, in cui invece di odiarsi ci si amava. Una guerra fatta di orgogli, di piaceri, di voglia di tornare continuamente sul campo di battaglia per un'altra sfida, inesauribile come l'avidità umana.

Ma Robin era un umano diverso. Voleva affrontare quella lotta con coraggio ed orgoglio, nonostante l'inesperienza e Leo voleva vederlo su quel terreno privo di sangue alcuno ancora tante, tantissime volte: era lui a dover costruire la fiducia nelle sue capacità, nei suoi gesti, a doverlo guidare perché provassero entrambi piacere, perché lo scontro dei loro corpi risultasse in una vittoria su ogni fronte.

Finché non giunse a sedersi sul suo bacino, Leo non riaprì gli occhi; si sentiva in cima al mondo, in quel momento, inebriato dall'altezza a cui si trovava, dalla presenza dentro di lui, non prepotente ma comunque importante, in grado di farlo ridacchiare con una certa soddisfazione.

E Robin, in tutto il suo innocente imbarazzo di soldato appena arruolato, stava sotto di lui, con una mano sulla bocca che Leo notò essere piena di saliva ed arrossata – si era morso, forse? Era frustrato?

Non poteva permetterglielo.

Con un po' di fatica, si rialzò ma con meno cautela e con più sicurezza si abbassò di nuovo; una volta, due, tre... ben presto perse il conto o, probabilmente, non lo tenne mai davvero. Lasciò che l'istinto prendesse il sopravvento, contagiando forse il suo amante che, sotto di lui, percepì cominciare a muovere il bacino, a volte seguendo i suoi movimenti, a volte cercando di dettare lui il ritmo, come se impugnasse finalmente il fucile nel modo giusto perché colpisse non solo il suo cuore ma anche qualcosa di molto meno dignitoso per uno scrittore ma più per quell'essere umano che era anche lui, nella sua lussuriosa ingordigia. Ben presto, Robin cominciò a prendersi più libertà di quanto in un primo momento non aveva pensato potesse concedergli e ad ogni nuovo sforzo delle sue gambe seguivano le loro voci, che si intrecciavano, senza dire niente di particolarmente chiaro: un gemito, un nome quasi ringhiato a denti stretti, un sospiro, una richiesta sconnessa.

Loro erano i padroni dell'universo.

 

Per anni lo avevano chiamato “re”, con un misto di tenerezza e provocazione malcelate ma quando Leo riaprì gli occhi, il mattino dopo, sentì quel titolo veramente suo. Non avrebbe neanche saputo spiegarne il motivo, così nella confusione del mattino, ma fu quasi irritato nel trovare una corona sul suo capo.

Trovò qualcosa di ben più prezioso, però: Robin, il corpo contro il suo, ancora nudi sotto gli strati di lenzuola ormai completamente disfatte.

Era così caldo, ancora, che Leo non esitò a crogiolarvisi contro, alla stregua di un gatto. Era sicuro che nessuno, al suo posto, avrebbe definito perfetta quella nottata – nessuno che viveva entro i limiti soffocanti della normalità, eppure... per lui lo era stata. Nascose il volto contro il collo del più giovane, assaporando il tepore della sua pelle, la regolarità del suo respiro, il calmo battito del suo cuore.

Stava quasi pensando di svegliarlo con dei leggeri morsetti sul mento (l'idea di morderlo era irresistibile, davvero; come poteva fare a meno di addentarlo, quando era così soffice?) quando sentì provenire dal soggiorno una musica che gli pareva di aver già sentito ma che si spense dopo una manciata di secondi. Il tempo di sollevarsi dal corpo di Robin, guardando verso il corridoio come se potesse così vedere la fonte della musica che questa ripartì, beffarda.

“La suoneria di un cellulare” dedusse, nel suo acume mattutino. Non era sicuramente la sua, considerando che teneva quasi sempre la vibrazione e di certo non ricordava di aver inserito una canzone melensa come tono di chiamata, quindi...

Si costrinse ad alzarsi dal letto, avvolto in una delle coperte che si trascinò dietro dal letto; la sensazione del parquet freddo sotto le piante dei suoi piedi era così stranamente piacevole... E dire che di solito non la amava particolarmente e, anzi, spesso era causa del suo malumore appena sveglio, dopo essersi reso conto di aver sparpagliato nel suo peculiare disordine calzini e pantofole.

Quando raggiunse il soggiorno, si rese conto che la musica proveniva dalla giacca di Robin, anche se tacque un attimo prima che riuscisse a raggiungere la tasca in cui il cellulare doveva essere rimasto; estrasse lo smartphone di ultima generazione, fissandolo per un po', prima che trillasse irritato tra le sue mani.

Un messaggio, apparentemente, qualcuno rinominato Spoiled brat – era incredibile come la sua lingua potesse essere tagliente, al momento giusto; inoltre, trovava davvero interessante il fatto che rinominasse le persone nella sua rubrica: chissà quale nome aveva riservato a lui?

Si ritrovò ad arricciare un po' il naso e le labbra, indeciso sul da farsi: sapeva che non era proprio carino curiosare nei telefoni altrui, ma... si trattava solo di una stupidaggine, giusto? Non stava mica invadendo la sua privacy, dopotutto. O meglio, lo stava facendo ma—per un buon fine, no?

Fissò ancora una volta lo schermo, che adesso era tornato ad essere spento, specchio perfetto per il suo volto luminoso, i capelli scompigliati, l'espressione combattuta.

Poi, sentì di nuovo la voce di Robin, quella della sera prima... Don't mess with me.

Sbloccò il telefono.

Lo sfondo era una meravigliosa vista di uno scorcio cittadino, visto da un qualche punto rialzato – una collina, forse? Era una foto scattata col cellulare, ma aveva un certo retrogusto malinconico con sé; aprì velocemente la rubrica ed iniziò a guardare i nomi uno per uno, alla sua folle ricerca, ma... niente. Un sacco di nomi, alcuni più o meno personalizzati, ma proprio non riusciva a vedere il suo.

Un po' stizzito, tornò alla pagina principale per poi aprire direttamente la tastiera e scrisse il suo numero – eccolo, finalmente, salvato: il numero evidenziato in nero e il nome, in blu, che scintillava subito sopra di esso.

(mirac)Leo”.

Leo sbatté le palpebre, confuso in un primo momento. Nessuno meglio di lui avrebbe potuto assaporare meglio una parola come quella, miracolo, seppur non in chiave di certo religioso. Qualcosa di incredibilmente nuovo, capace di sconvolgere del tutto una vita (magari le loro) e finalmente direzionarla verso una meta definita. Una certezza in quel mondo di sicurezze distorte, un viottolo riparato dalle affollate strade del centro.

Non riusciva a credere che Robin percepisse quello che lo circondava con una tale sensibilità; certo, era evidente che avesse una percezione non comune della realtà che lo circondava, ma quello era l'animo di un piccolo artista sopito, un... diamante grezzo. Era forse quello ad attrarlo tanto? Era per questo che si era sentiva così legato a lui?

«Leo...» sentì mugugnare dal corridoio; lo scrittore per poco non si lasciò sfuggire il telefono di mano per la sorpresa e, seppur consapevole che era stato colto in flagrante... non poté fare a meno di ammirare il suo ragazzo (beh, immaginava di poterlo dire, ora) completamente avvolto nel piumone pesante, persino oltre la testa, che lo fissava assonnato attraverso l'unico buco che si era lasciato per gli occhi. Sembrava un bambino che si era appena svegliato il mattino di Natale. «Che stai facendo... ?»

Leo si schiarì la voce, per poi tendergli il telefono con una certa disinvoltura; lo vide sgranare appena gli occhi, incredibilmente veloce nel recepire il panico a quanto pareva. «Ha suonato per diverso tempo, avevo pensato di portartelo! Hai fame?»

Il moro annuì, lasciando che la sua armatura di piume d'oca scivolasse giù, abbastanza da almeno lasciargli scoperto il volto e i disordinati capelli neri.

«Allora preparo la colazione!» E a quel punto, dopo un sorriso più che sincero, Leo saltellò verso la cucina, trovando casa sua davvero bella per la prima volta.
 


Note: Sembra davvero passata un'eternità dall'ultima volta che ho postato, ma è stato un periodo non troppo semplice per molti motivi. Mi piacerebbe continuare ad essere più puntuale nel pubblicare i capitoli, ma al momento non credo ancora di potere... insomma, diciamo che spero che con questo capitolo mi perdoniate la lunga attesa e quella che ancora verrà!
Uno dei motivi per cui ho tardato tanto è che... ho un'enorme difficoltà nello scrivere scene di sesso (...). Non ho mai postato pubblicamente niente del genere, per questo spero davvero che non risulti ridicola (da leggersi: paranoia che ho da un mese a questa parte e per cui ho chiesto consiglio anche ai muri) e che si avverta almeno un po' del sentimento e della passione che unisce Leo e Robin in questo frangente.
Diciamo che in questo momento la storia si è stabilizzata, ma abbiamo già superato la metà! Insomma, speravo di riuscire a finirla entro l'anno, invece per un sacco di motivi ho dovuto rimandare e... niente, nel dubbio spero davvero che piaccia. Buona lettura!
(ps: l'ultima parte potrebbe risultare un pochino frettolosa e mi dispiace, ma non volevo lasciare l'attesa lunga fino al 2018!)

 

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Capitolo 11
*** Quello che nessuno ancora sa ***


Capitolo 10: Quello che nessuno sa ancora


“Bastava, a quel punto, una lieve brezza per liberarmi dei cattivi pensieri e ben presto i ricordi, seppur non fossero mai stati chiari, cessarono di bussare alla porta del mio sonno. L'elfo passava intere giornate a mostrarmi nuovi luoghi, prendendosi cura di me con una gentilezza che mi era di difficile comprensione – perché continuava a farlo? Forse, il guerriero di qualche tempo prima avrebbe sospettato di quella sua generosità, ma allora... con i piedi nudi sull'erba fresca, baciato dalla luce del sole e della luna, indistintamente, non potevo far altro che essere felice.”

 

La primavera era ormai scoppiata: le giornate tornavano ad allungarsi, la natura, la più antica principessa addormentata, si risvegliava lentamente dal suo sonno stregato coi primi baci caldi del sole.

L'inizio di ogni nuova stagione era per Leo nuova fonte di ispirazione e, quando Robin non era con lui, non faceva altro che scrivere come se fosse posseduto: gli stimoli erano infiniti, come se il suo animo ghiacchiato si fosse finalmente disciolto come neve, tornando a percepire tutto con la stessa potenza di una volta – tutto sembrava voler dialogare con lui, dargli suggerimenti, aiutarlo a costruire la sua storia che inizialmente non gli piaceva, gli sembrava banale nel suo scontato dolore.

Forse era un po' meteoropatico.

Con soli due caffè in cinque giorni, era finalmente riuscito a mettere insieme la bozza di gran parte della sua avventura: aveva ritoccato quel che aveva già scritto e, con l'unico martellante dubbio circa il finale, su cui non sapeva proprio decidersi, si avviava a scrivere in via definitiva; l'unica vera eccezione era il finale, che lo vedeva combattuto; aveva deciso che avrebbe intanto cominciato a scrivere il resto, lasciando così che fosse la storia stessa a suggerirglielo, come accadeva spesso nel rileggere le sue stesse parole. Come se il Leo del passato suggerisse al Leo del presente che sì, era quello il punto dove voleva arrivare.

Stava per l'appunto riguardando per l'ennesima volta la bozza del primo capitolo, quando il suo cellulare prese a squillare e vibrare contemporaneamente vicino al pc, strappandolo così brutalmente dal suo personale universo parallelo, in cui i personaggi e i paesaggi di cui scriveva divenivano reali.

Di solito, nel pieno del lavoro e del fervore artistico, avrebbe ignorato qualunque chiamata, ma—beh, nel caso in cui Robin avesse finito di studiare e lo stesse cercando...

Aggrottò in fretta la fronte quando, purtroppo, si rese conto che il numero di certo non era quello del suo ragazzo e che, oltretutto, non lo conosceva proprio. Se era di nuovo il suo manager che lo implorava di partecipare agli incontri con i fan, non era sicuro di poter rispondere in modo molto educato.

«Pronto?»

«Parlo con il ragazzo di Robin?»

Leo passò velocemente dall'essere irritato all'essere irritato e confuso – era stato chiamato con molti appellativi in vita sua, ma in effetti “ragazzo di Robin” era una novità (anche se non poteva dire che gli dispiacesse); inoltre, aveva la sensazione che ultimamente il suo numero di cellulare fosse un po' troppo popolare in città.

«Forse» si limitò a rispondere, mantenendosi vago, mentre si alzava dalla poltrona di fronte al pc e si dirigeva verso la finestra come faceva sempre quando si ritrovava a parlare al telefono, quasi il suo interlocutore potesse trovarsi laggiù, per quelle strade. «Io con chi parlo, invece?»

«Mi chiamo Tori Himemiya, erede della casa discografica Fin du Monde». La voce squillante tradiva di certo una giovane età e Leo non faticava ad immaginare che si trattasse di un amico di Robin – dopotutto, anche il moro aveva mostrato di far parte di una famiglia agiata... aveva ben poco di cui stupirsi se, tra le sue conoscenze, ci fosse un ricco ereditiere di qualche grande azienda o simili. «E si dà il caso che io sia il coinquilino di Robin nella nostra noiooosa vita universitaria» aggiunge poco dopo, con tono lamentoso. Era raro che lo pensasse di qualcuno, considerando che lui per primo aveva la tendenza a suonare infantile, ma... questa persona parlava proprio come un ragazzino viziato in tutto e per tutto. Inoltre, il modo in cui si riferiva al suo fidanzato gli faceva istintivamente storcere il naso.

«Quindi? Devo forse chiedere a te la sua mano?» lo provocò infatti, senza avere il tempo materiale per tenere a bada la sua lingua (dopotutto, anche lui era un bambino).

Una risata cinguettante lo raggiunse dall'altro capo del telefono. «Ma no, assolutamente! Puoi prendertelo senza neanche restituirlo. Mi chiedevo solo se ti interessasse un biglietto per il concerto di Robin di domani sera». Ne seguì qualche minuto di silenzio, in cui Leo tentava di assimilare le informazioni (troppe) ricevute in una singola frase – concerto? Di Robin? E di cosa? Non aveva mai sentito parlare di... “concerti” da parte del più giovane. E a quanto pareva, per Tori quel prolungato silenzio fu più che eloquente. «Oooh, non te l'ha detto» lo sentì gongolare.

«Non mi ha detto cosa?» Leo avvertì una brutta sensazione, proprio all'altezza dello stomaco.

C'era ancora una parte di lui, una che si guardava bene dal guardare troppo a lungo, che temeva che Robin fosse troppo perfetto: da quando lo aveva conosciuto, si era sentito finalmente al suo posto, con una persona pronto a sostenerlo al suo fianco – sia come amico che come amante; eppure, lo aveva notato, di rado parlava di sé. Ascoltava, per lo più, lasciava che Leo si rivelasse in tutte le sue sfaccettature sotto i suoi occhi e riguardo a sé rispondeva quasi sempre in modo vago, se non tendeva addirittura ad evitare il discorso. Era elusivo in particolar modo quando si ritrovava a dover affrontare domande sulla sua tirannica famiglia, ma Leo aveva fino a quel momento giustificato il suo silenzio pensando che per lui fosse in qualche modo difficile parlarne.

Eppure, quella sensazione era ancora lì – c'era così tanto che non sapeva, così tanto che a volte aveva la sensazione di guardare solo un guscio vuoto.

«Meglio che tu lo veda con i tuoi occhi, credo. Ti farò avere il biglietto per e-mail! Buona giornata, signor scrittore» e, ancora ridacchiando, concluse la chiamata.

Non gli aveva mai parlato del suo coinquilino – a dirla tutta, non sapeva neanche ne avesse uno. Robin, nonostante fosse lì, al suo fianco, era ancora avvolto nel mistero, alla stregua di un angelo custode impossibile da vedere.

Il biglietto apparve sulla schermata, allegato ad un messaggio, qualche attimo dopo.

 

Il motivo principale per cui si trovava di fronte al piccolo teatro, lo sapeva, era che nonostante scrivesse storie dalla strabiliante speranza, lui ne aveva ben poca in sé. Forse era proprio per questo che cercava di trasmetterle agli altri.

Non credeva nel lieto fine e, visto che non si considerava esattamente il tipico protagonista di una fiaba, dopotutto il sospetto lo aveva sempre accompagnato a braccetto, nonostante quella felicità degli ultimi giorni. Era come un ronzio, un bisbiglio di sottofondo di solito soffocato dal rumore della vita quotidiana a cui improvvisamente era stato alzato il volume fino a renderlo l'unico suono davvero dominante nella sua mente.

Ora voleva conoscere Robin. Qualunque cosa gli stesse nascondendo, rifletté mentre camminava oltre la soglia, sicuramente aveva una ragione per farlo; questo però non cambiava che, da ormai qualche mese, volgeva lo sguardo quando si avvicinavano ad un argomento di conversazione che il suo ragazzo non gradiva, fingendo di non vedere pur di non turbarlo.

Ora, invece, voleva sapere.

Il teatro dove si sarebbe svolto il concerto era uno dei più piccoli della città; lo conosceva solo perché qualche volta Shu glielo aveva rammentato come “l'unico ancora accettabile in questo assurdo frastuono di tecnologia”, drammatico come solo lui poteva essere, ma Leo non ci era mai stato – era una struttura ancora ben curata, seppur mostrasse in modo piuttosto evidente la sua età. Chiunque vi lavorasse, ne era certo, amava quel luogo a tal punto da cercare di farlo brillare persino in mezzo ai diamanti della modernità, come una ricercata ed irregolare spilla dorata in mezzo ad una distesa di enormi gemme dal taglio perfetto e geometrico. Belle, sì, ma anonime.

Il palco non era molto grande e anche la platea era piuttosto contenuta: Leo immaginava che non contenesse più di duecento persone a spettacolo, eppure questo lo rendeva un luogo quasi intimo, persino nel silenzio delle rappresentazioni. Aveva assistito in molte occasioni, da bambino, ai concerti dei suoi genitori e, forse anche perché era molto piccolo, il teatro gli era sempre sembrato un luogo troppo grande perché i suoi occhi vi si abituassero, ancor più nel buio dello spettacolo; invece adesso, con il biglietto in mano, un adulto alla ricerca del proprio posto, non si sentiva così disorientato. C'era quel lieve alone di anticipazione che inebriava l'ambiente, come una musica soffusa che invitava chi entrava a sedersi e ad attendere il proprio turno per lasciarsi andare, per abbandonare la loro vita su quella poltrona... almeno per qualche ora.

Altre persone presero a sedersi di fronte a lui: per lo più, si trattava di signori dall'aria serena e rilassata, ma c'era anche qualche ragazzo (alcuni suoi coetanei, forse; altri addirittura più giovani) e seppur la sala non si fece mai davvero gremita, la platea nel giro di cinque minuti si era fatta abbastanza corposa da poter essere chiamata “pubblico”. Dato che era da solo e che mancava ancora un po' all'inizio del concerto, decise di prestare un minimo di attenzione alle voci che lo circondavano: chiuse gli occhi, dunque, per ascoltare un po' il chiacchiericcio calmo del teatro.

(Lo faceva spesso, nei luoghi affollati; a volte, sprazzi di conversazioni potevano rivelarsi così preziosi, così interessanti che poteva costruirvi un'intera storia dietro. Ricordava chiaramente di aver scritto una decina di brevi racconti su parole afferrate per sbaglio negli stivati scompartimenti della metropolitana.)

«Avevo temuto che avesse smesso!» sospirò a non troppa distanza da lui una voce femminile.

«È davvero un peccato che non voglia tentare qualche concorso».

«Ogni volta che torno ad ascoltarlo c'è sempre più gente...»

«L'ultima volta aveva suonato delle composizioni proprie, vero?»

La curiosità, doveva ammetterlo, era dilaniante – queste persone, ammesso e non concesso che parlassero di Robin e non di chissà chi altri, conoscevano il suo ragazzo sotto un'altra luce che lui non aveva mai colto. Qualunque cosa facesse, su quel palco (perché il suo amico, Tori, non glielo aveva detto ovviamente) sembrava che muovesse l'animo di molti.

Ricordò come, da bambino, si fermasse per ore a sentire sua madre esercitarsi con il violoncello: lui si metteva per terra, percorso dalla musica come se fosse la sua guida e pasticciava con le matite su fogli e fogli – prima scarabocchi, poi disegni infantili e infine parole. Seppur non chiaramente, ricordava come quella musica riuscisse a guidare le sue mani e le sue dita, almeno finché sua madre non aveva dovuto smettere di suonare; allora, quasi come un muto segno di rispetto, rivide il sé bambino limitarsi a scriverle tante storie, così che potesse comunque impiegare il tempo che non poteva più utilizzare con il suo compagno di una vita, quello strumento giunto ancor prima di suo padre.

Dopotutto, la perdita del suo compagno di vita era proprio ciò che Leo aveva temuto fino all'incontro con Robin: quell'espressione negli occhi di sua madre, quando il suo sguardo si posava sul grande strumento che, se ben ricordava, ora giaceva nello studio in una teca... non voleva provarla. Non osava immaginare cosa avrebbe fatto, se avesse perso quello che la scrittura gli trasmetteva.

Le luci della sala si spensero all'improvviso e con esse anche le voci, strappandolo così ai suoi pensieri; riaprì subito gli occhi, puntati sul palco che già era stato illuminato con due riflettori non troppo forti tendenti al bianco, anche se il sipario era ancora chiuso.

«Signori e signore, ho il piacere di presentarvi ancora una volta Robin, giovane talento del violino. Vi auguriamo una buona serata» annunciò una voce calda proveniente dagli altoparlanti e mentre Leo finalmente comprendeva il segreto di Robin - “suona il violino...”, buffo, pensò e “io vengo da una famiglia di musicisti...” - ecco che il sipario si apriva e si trovò inaspettatamente a trattenere il respiro.

Era davvero Robin? Se lo chiese più volte mentre, con lo sguardo puntato sulla figura quasi imponente che avanzava con passo deciso, sotto i riflettori, con le mani strette intorno allo strumento, cercava di associare il suo giovane cavaliere al ragazzo che stava vedendo. Si portò al centro del palco, dove le luci lo seguirono evidenziando ogni singolo particolare che Leo riconosceva ma non accettava, come se quella persona non fosse... sua.

Forse era proprio colpa di quell'illuminazione artificiale, ma sembrava così grande su quel palco. Come se, nella sua vita quotidiana, non fosse che la metà di ciò che poteva davvero essere nella magia di un teatro; il completo elegante, nero, risaltava perfettamente le spalle larghe, così come la vita stretta e le gambe affusolate. Il suo naturale portamento leggiadro era pieno di una dignità che era difficile cogliere se non lo si conosceva, ma che lì non faceva fatica a brillare.
E poi—i capelli. Erano decisamente più corti, non gli toccavano più neanche le spalle – eppure, fino a qualche giorno prima (era passata solo una settimana dall'ultima volta che si erano visti) era ancora lì, la sua chioma liscia, tenuta sempre bene a bada in una coda bassa. E adesso era sparita, come d'incanto e Leo si sentì, di nuovo, lasciato indietro da chi amava. Un po' come quando la piccola Ruka, truccata, gli aveva aperto la porta della sua stessa casa.

Poi, però, Robin iniziò a suonare.

Era una musica modesta, ma ricca di carica. Sembrava che le note passeggiassero sotto le dita abili di Robin, che, come un burattinaio esperto, manovrava da solo un intero teatrino dando ai suoi personaggi forma, movimento, voce. Le note si susseguivano con naturalezza, neanche fossero nate per stare insieme e ben presto il ritmo si fece più frenetico: adesso erano dotate di vita propria, dell'instancabile brio di una città mai dormiente, forti di sogni e speranze; e ancora, nuove note, come figli delle unioni precedenti, che ora si correvano dietro, giocando, nascondendosi, ricomparendo all'improvviso.

La musica di Robin parlava all'anima. E nonostante scintillasse nella sua bellezza dignitosa quasi al punto di accecare, su quel palco, Leo si costrinse a chiudere gli occhi, ad allontanarsi dall'inganno degli occhi così che la musica potesse avvolgerlo come una persona gentile che lo invitava a ripararsi dalle intemperie della realtà. Gli offriva qualcosa di dolce, di incredibilmente buono e poi lo spronava, ancora, ad immaginare: di nuovo delicatezza, di nuovo un sussurro al cuore, a volte note così leggere che lo scrittore si chiese se fosse possibile toccare a quel modo delle corde. Erano vibrazioni che, seppur sommariamente, conosceva... eppure, da quelle mani, sembravano aver tutt'altro aspetto.

Non era il tocco imperioso di sua madre, pieno della volontà di sottomettere la musica alle sue regole, di educarla come solo una donna avrebbe potuto fare – no, Robin dava loro un nome, le lasciava volteggiare, permettendo al ritmo di insinuarsi naturalmente tra di loro e allora loro, le note, si prendevano per mano, formavano un cerchio e danzavano insieme.

Sembrava la versione musicale della Primavera di Botticelli.

Lo spettacolo durò un'ora e mezza. Ogni composizione aveva una forma diversa ma, sotto ogni velo, era possibile sentire sempre quell'armonia così classica, quasi rinascimentale, che Robin riusciva a creare, suono dopo suono: il pubblico gli dedicò un elegante ma sentito applauso, a cui Leo si unì con tutta la sincerità che poteva provare.

Libero dall'incanto della musica, poté finalmente scorgere il sorriso di riconoscenza (un sorriso nuovo, pieno di un'energia fanciullesca che coglieva ora per la prima volta) sul volto del moro: continuava ad inchinarsi, quasi fosse stupito di tanto affetto e tanti complimenti ricevuti.

Ricordò di aver ipotizzato più volte che Robin potesse celare l'animo dello scrittore acerbo – beh, ci era andato vicino: dopotutto, la musica era o non era il linguaggio universale? Sapeva creare, sapeva costruire e trasmettere quel che faceva agli altri così bene che l'applauso parve interminabile. Alcune persone, poi, forse spettatori abituali, si avvicinarono al palco per parlare col ragazzo – si trattava per lo più di signore distinte, a dirla tutta; con un po' di imbarazzo, Leo si accodò a loro, aspettando la sua occasione per... per fare cosa? Salutarlo? Parlargli? Gli sembrava assurdo.

Questo era davvero il Robin che aveva imparato ad assaporare al suo fianco, quello che al mattino si chiudeva a riccio sotto le coperte, che non conosceva i film cult della sua generazione, che mangiava dolci di continuo? Non ne era certo, non più: stava forse invadendo involontariamente un mondo che il suo compagno non voleva fargli conoscere?

Era ancora assorto in questo dilemma esistenziale quando si rese conto che le signore, fino a qualche momento prima di fronte a lui, si erano allontanate e che—Robin lo stava fissando, gli occhi pieni di una sorpresa che forse non era proprio di felicità e il colorito del volto pallido, quasi avesse visto un fantasma.

«Leo... ?» azzardò, con lo stesso tono con cui qualche tempo prima gli aveva chiesto che stesse facendo col suo telefono tra le mani. Sembrava davvero preoccupato, se non terrorizzato. «Che—ci fai qui? Cioè, non... eri nel pubblico?»

Leo annuì e poi, mascherando tutti i suoi dubbi (ancora, lo stava facendo ancora; chi era di loro che nascondeva di più, dunque?) sfoggiò un sorriso brillante, chiudendo con un brusco gesto mentale le sue ansie e i suoi dubbi in un cassetto della sua mente. «Non avevo idea che... suonassi il violino. Sei davvero... bravo».

Il moro si gettò un'occhiata nervosa intorno e poi, con un balzo non proprio agilissimo, forse a causa ancora della tensione che doveva pervadergli le gambe, saltò giù dal palco.

Lo scrittore lo ringraziò mentalmente per la scelta; almeno, adesso, era sicuro di stare parlando col suo ragazzo e non con una strana entità che stentava a riconoscere.

«È un passatempo, niente di più. Ogni tanto ho un amico che mi chiede di esibirmi per... coprire dei buchi di rappresentazione, tiene molto a questo posto».

Passatempo? «Non cambia che sei davvero molto bravo, mia madre ti adorerebbe» sospirò, un attimo prima di cedere alla tentazione di sfiorargli i capelli – corti, incredibilmente... strani. Era così abituato a passare le mani lungo le ciocche corvine, a giocherellarvi fino a farvi delle trecce, che paradossalmente quel brusco cambio di look lo faceva stare persino peggio del suo talento col violino. «Quando li hai tagliati?»

«... Oggi» borbottò il moro, quasi sentendosi in colpa. «Sei arrabbiato?» e la sua occhiata colpevole quasi tradì il suo solito atteggiamento composto; gli sembrò un bambino, pronto ad una bella sgridata dopo aver fatto qualcosa di particolarmente dispettoso.

«Un po'» non poté fare a meno di ammettere il rosso, prima di lasciarsi andare ad un sospiro. «Però sono più confuso perché—beh, non mi hai mai parlato del violino. E né del fatto che volessi tagliarti i capelli» e come Arashi diceva sempre, “quando una persona cambia taglio, è perché vuole cambiare vita!”, anche se stavano insieme da così poco che sembrava ridicolo che lo avesse già annoiato. Perché la sua mente doveva ricordargli le cose peggiori nei momenti meno adatti?

«... Mi dispiace. Tendo a... non parlare quasi mai della musica, mi sono disabituato» mugugnò mortificato il più giovane.

«Colpa dei tuoi genitori?»

«Più o meno. Sono loro ad avermelo fatto studiare, per loro faceva parte della mia... buona educazione. Però non dovrei più pensarci ormai. Ho l'università, l'azienda e—gli hobby sono per i ragazzini, come dice mio padre».

«Mi adorerebbe, allora» e questo causò un leggero moto di risa in Robin, che aveva colto lo scopo della battuta: alleggerire l'atmosfera. Non era nelle intenzioni di Leo fargli un interrogatorio, ma per un momento si era chiesto se conoscesse davvero la persona che stava frequentando, che accoglieva in casa propria così spesso, che era sicuro fosse... importante, per lui. Era stato uno shock.

«Avrei dovuto smettere da tempo, ma poi Mashiro mi ha chiesto un aiuto per il teatro e... beh, mi piace suonare in luoghi come questo». Il romanziere non ne aveva dubbi: tutta quell'atmosfera anticata faceva parte di ciò che Robin considerava sempre “bello” e di quel suo gusto così minuziosamente retrò. «Sei capitato qui per caso... ?» gli chiese un attimo dopo.

Leo scosse la testa. «Il tuo adorabile coinquilino mi ha fatto avere un biglietto». Il ragazzo lo guardò, inizialmente senza capire, poi il rosso lo vide portarsi una mano sul volto in un misto di irritazione e rassegnazione; sembrava aver già indovinato cosa era successo in realtà. «Ho la sensazione che non andiate molto d'accordo, o sbaglio?»

Per un attimo, Leo ebbe di nuovo quel brutto presentimento: adesso Robin, immaginò, avrebbe risposto in modo elusivo, per poi far cadere bruscamente il discorso, lasciandolo così con un pugno di mosche riguardo la sua vita privata.

«Diciamo che si è appassionato alle mie... vicende. È sempre stato molesto, ma ultimamente sta diventando davvero invadente» e invece, con sua sorpresa, non si nascose stavolta; senza volerlo davvero, Leo tirò un sospiro di sollievo. «Deve avere cercato il tuo numero nel mio cellulare... that brat» sibilò con stizza, prima di schioccare la lingua.

Nonostante tutti i suoi dubbi e le sue paure, sentirlo di nuovo parlare in inglese, vicino a lui, di nuovo raggiungibile, rasserenò l'animo di Leo più di quanto non avrebbe dovuto. Robin non era cambiato – come avrebbe potuto? Come aveva potuto dubitare di lui, quando gli bastava guardarlo negli occhi per cogliere tutti quei tratti che aveva imparato ad apprezzare in quel breve periodo? Era troppo ingenuo per ingannarlo; troppo onesto per nascondergli chissà quali segreti.

Era o non era un piccolo cavaliere in scintillante armatura?

«Qualcosa non va?» E fu proprio la sua domanda a riportarlo distante da tutti i suoi brutti pensieri, di nuovo nel teatro dove, senza rendersene conto, aveva afferrato la sua mano per sentirla più vicina, accanto a lui. Odiava la sua fragilità.

«Adesso no» gli rispose, in uno slancio di sincerità. Un po' di senso di colpa, però, se lo meritava. «Sono gli inconvenienti di avere a che fare con uno studente che si rifiuta di usare qualsiasi tipo di social» osservò, in tono lamentoso, prima di andargli a sfiorare di nuovo i capelli, così corti, già rimpiangendo in parte la mancanza di quella coda bassa a cui adorava aggrapparsi in certi momenti intimi. Ma si sarebbe abituato – si sarebbe abituato ai suoi silenzi, ai suoi capricci e sì, anche al suo violino.

Robin si accigliò. «Non... ti piacciono? I capelli corti, intendo».

«Se vuoi complimenti da me, almeno per stasera, dovrai guadagnarteli».
 


Note: Non ci credo neanche io di essere riuscita a postare, WOW. Nonostante all'apparenza questo sia un capitolo di passaggio (e, in effetti, come quello che seguirà, un po' lo è), ci sono molti... punti critici che saranno poi ripresi più avanti - che non ritengo proprio dei colpi di genio, ma è Leo quello con i paraocchi, non chi legge (...).
Ho sempre cercato di rendere Robin un po' criptico; è anche vero che, descrivendo tutto dal pov di Leo, lui sa ben poco di questo ragazzo: sa che gli piace (e parecchio), sa che i suoi sentimenti sono ricambiati; sa che ha una famiglia un po' complicata, che è un golosone, che ama la letteratura ma non segue i suoi sogni (a differenza di quello che lui, invece, ha sempre fatto) e ha un forte senso del dovere. Questa è l'immagine di Robin che ho cercato di trasmettere, attraverso gli occhi di Leo.
Ma, in effetti, Leo non sa nient'altro. Eppure lui si è aperto così tanto e Robin sa così tanto di lui; Leo ha sofferto troppo, perché viva senza timori. Sa non ha scelto una strada facile, per i suoi sentimenti, che il pericolo potrebbe essere dietro l'angolo. L'esperienza di Izumi brucia ancora, è impressa nella sua mente e nel suo cuore, a fuoco.
Insomma, magari Robin non è neanche così sospetto, ma Leo è sospettoso. E chissà, questo potrebbe essere un bene o un male, per lui? Chissà.

Per il prossimo capitolo, forse, dovrete pazientare un po'! Ho deciso di partecipare ad un'iniziativa di scrittura, quindi dovrò dare la precedenza a quella (che ha una scadenza precisa) prima di tornare a prendere questa long che, davvero, sta diventando una delle cose più lunghe che abbia mai scritto...
Alla prossima!

 

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Capitolo 12
*** Sottosopra ***


Capitolo 11: Sottosopra


“C'era ancora così tanto da dire e l'elfo lo diceva, senza remore alcuna. Le sue mani si fecero sempre più sicure, nel tenere le mie e nel guidarmi nei boschi. Mi insegnava l'incanto di quella natura sempre verde, di quelle acque sempre pure; a volte cantava e tutto quel regno sembrava accompagnarlo, nota dopo nota. Eppure, tra un vocalizzo e l'altro, vedevo la luna – anche se in pieno giorno; faceva capolino lì, alle sue spalle, squarciando il mezzogiorno come l'invadente imperatrice fredda e glaciale che era. Mi invitava, mi tendeva la mano. Non ricordi, mi diceva, per quale motivo ti sei messo in viaggio? La tua gente soffre, lui ti trattiene. Non fidarti.

Erano solo attimi ma, per quanto brevi, quegli sprazzi di follia mi lasciavano brividi di terrore addosso. Non mi fidavo della luna, ma il dubbio era seminato.”


 

«Quindi hai il ragazzo».

Per poco Leo non si strozzò col proprio tè, sotto lo sguardo diffidente di sua sorella e quello offeso di Arashi – Ritsu? Non contava, immaginava; stava dormendo sul divano come un bambino.

Pensava che rivelare loro l'inizio (anche se ormai erano passati due mesi...) di una nuova relazione li avrebbe resi felici per lui; invece, sembrava che le loro reazioni divergessero completamente da quello che la sua mente aveva previsto (non che fosse così raro ma, c'era da dire, che lo scrittore si rendeva conto che la normalità non faceva per lui e di certo in molte occasioni si aspettava reazioni positive; ma quello era un argomento da considerarsi normale, quindi perché?).

«Sì, beh... è quello che ho appena detto» borbottò, pulendosi con una manica della felpa le poche gocce di tè che colavano lungo il suo mento. «... non ne sembrate felici, però».

Gli ci era voluto molto coraggio per sbottonarsi finalmente riguardo Robin con i suoi amici; in qualche modo, temeva che loro non approvassero soprattutto dopo la burrascosa fine della sua storia con Izumi. Sapeva anche bene che non erano d'accordo con la sua politica di boicottaggio del predestino, ma nonostante questo lo avevano sempre sostenuto senza battere ciglio – nelle sue avventure, nelle sue storie, nelle sue delusioni. Non capiva quindi perché, adesso, Ruka e Narukami si stessero scambiando una lunga occhiata che valeva più di mille parole, probabilmente, per loro – un sguardo simile a quello che un capitano di una nave lancerebbe al suo secondo in comando di fronte all'avvicinarsi di un'onda anomala.

(Altra cosa strana: l'assenza di Isara. Ritsu era arrivato, da solo, mosso forse dalla volontà di bere del buon tè e poi si era accasciato sul divano per dormire. Non sembrava aver molta voglia di parlare, il che metteva fuori gioco forse il suo ipotetico unico alleato in quella stanza.)

«No, non è questo» disse Arashi, portandosi la mano sotto il mento, con aria pensierosa. «Non pensavo che saresti stato pronto così in fretta ad una nuova storia, tutto qui».

Leo deglutì. «Ci frequentiamo da due mesi». Ruka per poco non lasciò cadere la sua tazza. «Lo so, ok, è stato improvviso, soprattutto visto com'è andata con Izumi, ma—va tutto bene. Con Robin sto bene».

Fu Ruka la prima ad allentare il silenzio che seguì quell'ammissione con un sorriso; era evidente, qualcosa non andava. Anche l'ultima volta che si erano visti tutti assieme, in quella stessa casa, Leo aveva notato che sua sorella e il biondo si lanciavano di continuo occhiate eloquenti, come se stessero nascondendo qualcosa e non avessero alcuna intenzione di coinvolgerlo.

E solo gli extraterrestri sapevano quanto non gli piacesse essere tenuto all'oscuro delle cose.

«Così si chiama Robin. È straniero...?» chiese Naru ed ecco che improvvisamente la conversazione prendeva uno sviluppo normale; ma Leo ormai era irritato, nonché sospettoso (come prima di sapere della carriera da violinista di Robin e del suo talento nascosto; ma era acqua passata, quella e giustificava di più il suo compagno che conosceva da poco più di due mesi che non i suoi amici e sua sorella).

«In parte» si limitò a rispondere, diffidente.

«E il libro come va?» Ruka parve cogliere la sua poca voglia di continuare la conversazione e cambiò argomento. Sua sorella sapeva bene come prenderlo:gli occhi dello scrittore si illuminarono, perché ormai il suo romanzo poteva dirsi quasi ultimato, anche se...

«È quasi finito» ridacchiò, approfittandone per prendere un altro pasticcino (era ancora incartato con gli stessi pirottini, quelli con scritto “pasticceria Suoh” ma in quei giorni il consumismo non era in cima alla lista delle sue preoccupazioni maggiori). «L'editore mi sta correggendo un capitolo per volta, anche se... il finale non mi convince ancora» ammise, leccando via alcune briciole del dolcetto dall'angolo delle labbra.

Per un attimo, si perse di nuovo nel suo libro.

Era davvero giusto che il cavaliere tornasse dalla sua gente? Inizialmente, pensò, era così che lo aveva immaginato: avrebbe lasciato il paradiso terrestre e, con ciò che aveva appreso in quella terra magica, avrebbe aiutato il suo popolo a scampare dall'epidemia. Un vero eroe, in grado di rinunciare all'amore quasi stregato dell'elfo per compiere la sua missione.

Ma qualcosa non quadrava – non era sicuro che, dopo tutta quella paura, quella fatica e quei sentimenti covati per l'elfo fosse giusto dividerli così, a quel modo, per semplice senso del dovere.

Chissà perché quell'idea, che all'inizio per prima lo aveva spinto fin là, adesso lasciava un gusto involontariamente amaro in bocca: sembrava che, più che il finale, il primo ad essere cambiato fosse lui – credeva davvero nelle battaglie solitarie contro tutto, tutti e persino se stessi? Dopo aver scoperto la vera natura dei Dissidenti, dopo aver trovato un po' di pace con Robin al suo fianco?

«Sono sicura che troverai qualcosa di migliore, allora. Ci riesci sempre». Sorrise di rimando a Ruka, sentendosi sollevato; lei sapeva quanto non sopportasse sentirsi dire che era già ottimo quello che aveva scritto e che, invece, se qualcosa non lo convinceva era perché poteva davvero migliorarsi.

Le giornate si erano allungate, ormai; quando nel tardo pomeriggio uscì dalla sua casa natale, nonostante non mancasse molto all'ora di cena, c'era ancora il colore soffuso e rosso del tramonto nel cielo. Quei mesi erano stati... assurdi, se ne rendeva conto; prima il Predestino che bussava alla sua porta, poi Robin e ancora i Dissidenti... di nuovo Robin. Provò a controllare il cellulare, ma sapeva che quel giorno doveva presentare una relazione importante ed era improbabile che riuscissero a sentirsi prima di sera.

Dopo l'episodio del teatro, aveva cominciato a raccontargli molto di più della sua quotidianità; gli narrava di Tori e del suo maggiordomo Yuzuru, in pratica il terzo coinquilino della casa, oppure gli diceva come avesse composto qualche nuovo accordo, passo dopo passo, con il violino; o, ancora, come stesse cominciando ad ambientarsi meglio all'università, con i suoi compagni che avevano iniziato a capire che non era snob, ma solo un po' goffo ed impacciato. Avevano, in poche parole, trovato un loro piacevole equilibrio che spesso si risolveva in lunghe chiacchierate al telefono o passeggiate che duravano giornate intere, mano nella mano.

Stava bene. Per la prima volta, si sentiva davvero bene. E sapeva che, non poi così lentamente, si stava avvicinando il momento in cui glielo avrebbe detto chiaramente, senza alcuna esitazione.

Aprì la portiera della macchina e vi salì a bordo, gettando un'occhiata al tomo che stava sul sedile del passeggero: era “Amore surreale”, lo stesso che Shu gli aveva dato quando Leo, disperato, gli aveva chiesto aiuto nel cercare i Dissidenti. Il libro che, anche se non lo avrebbe mai ammesso, aveva letto e sfogliato davvero, nella folle ricerca di una scappatoia, di una via d'uscita.

Beh, ora non ne aveva più bisogno: era libero. Libero dall'amore fatto su misura, rigido e povero; libero dalla paura di poter smettere di scrivere da un momento all'altro – libero da quello che tutti consideravano “giusto”. E aveva tutta l'intenzione di entrare nella libreria Itsuki, a testa alta, per dire a Shu che lui, il suo Destino, lo aveva gettato e amava, amava comunque immensamente. Non meglio, magari, non di più: ma era stato lui a scegliere.

Mise in moto la macchina e, ingranando la prima, si lasciò alle spalle senza pensarci troppo su sia la casa dei suoi genitori che quegli strani complotti che aveva percepito, ma non colto.

 

Parcheggiare in centro era, ovviamente, un inferno. Alla fine si era arreso e aveva lasciato l'auto in un parcheggio a pagamento, non troppo distante dalla libreria Itsuki – non aveva neanche idea se Shu fosse effettivamente in negozio; l'ultima volta che si erano visti, dopotutto, l'uomo aveva accennato ad un viaggio...

Beh, poco male. In caso di assenza del proprietario, avrebbe lasciato quel fastidioso volume al suo giovane assistente, Mika.

(A dirla tutta, sperava di non trovare Shu al suo arrivo; se l'avesse incontrato, avrebbe dovuto come minimo chiedergli scusa. Era piuttosto sicuro che non avesse voluto dirgli dei Dissidenti per evitare che si mettesse nei guai, ma... beh, non era un bambino, era solo disperato – ma questo, purtroppo non leniva in alcun modo né il senso di colpa né una sorta di perversa mancanza che sentiva dell'uomo).

Entrò nella libreria guardingo, gettandosi occhiate nervose intorno ma, ovviamente, niente era cambiato durante quei mesi: era tutto al suo posto, in quell'ordine compulsivo e maniacale che lo aveva sempre messo in soggezione. Fu solo dopo qualche attimo che, da dietro uno scaffale particolarmente imponente, spuntò la nuca corvina e scompigliata di Mika, con un quadernone tra le mani e una penna semi nascosta dal lobo del suo orecchio.

«Signor Tsukinaga!» esclamò, entusiasta e per poco non gli corse incontro; gli brillavano gli occhi, neanche fosse il suo compleanno. E poi, pensò Leo “Signore a chi?” «Sono felice di rivederla! Shu era molto preoccupato» bisbigliò con tono concitato, prima di togliergli il librone dalle mani e poggiarlo sul bancone, un po' più ordinato del solito. Sembrava starsi dando un gran daffare. «Fortuna che Naru mi ha detto che stavi bene!»

Stava per ribattere che dubitava fortemente che Shu si fosse mai preoccupato di lui (se non per mandarlo a quel paese), quando il nome pronunciato dal ragazzo suonò alle sue orecchie estremamente familiare – dopotutto, non c'erano molte persone che conosceva che potevano corrispondere all'appellativo “Naru”.

«... Conosci Arashi?»

Il volto del ragazzo si tinse di un leggero rossore e si nascose per quanto possibile nel cappuccio della felpa che indossava; gli sfuggì un accenno di risata imbarazzata, un atteggiamento decisamente eloquente.

«Naru non... te lo ha detto?» esitò, ancora immerso nel suo piacevole disagio da ragazzo impegnato. Leo scosse la testa, incredulo – Arashi? Quell'Arashi che non gli diceva di star frequentando qualcuno? Assurdo. Lo scrittore avrebbe potuto elencare quasi a memoria, una per una, quasi la totalità delle cotte del biondo per tutte le volte in cui gliene aveva parlato. «Ci frequentiamo da qualche mese. Era venuto qui per parlare con Shu e--»

«... A parlare con Shu» ripeté Leo, sempre più allibito.

Il mondo quel giorno aveva deciso di capovolgersi o cosa?

Il rapporto tra Shu e Arashi non era mai stato dei più rosei: sin da quando Leo aveva preso a frequentare la libreria Itsuki, il modello si era categoricamente rifiutato di aver a che fare con lui, ritendolo un “bruto altezzoso, chiuso nella sua fortezza di libri polverosi”. Shu, d'altro canto, non aveva una grande opinione di Arashi, che considerava frivolo e superficiale, “fatto di belletti ed artifici senza cuore alcuno” - era nello stile di Shu, dopotutto, essere melodrammatico.

Quindi, da quando i due parlavano tra loro? Che cosa si era perso, in quei mesi di vita tutto sommato gioiosa? Era forse in arrivo l'apocalisse? Gli alieni finalmente stavano per invadere il pianeta? Giusto in tempo a rovinare la sua felicità – la tempistica, in effetti, sembrava dar ragione alle sue ipotesi ellittiche.

Mika annuì, probabilmente chiedendosi perché Leo sembrasse così sconvolto dalla cosa. «... E Shu è qui?»

C'era ancora del rossore sul volto di Mika e, adesso, si fece persino più intenso. «B-Beh, ecco, veramente al momento sarebbe occupato... !» Occupato? Leo assottigliò lo sguardo, sempre più sospettoso. Si voltò nella direzione dell'Altro, oltre la soglia dello Specchio incantato di Shuu – che cosa poteva avere da fare che fosse più importante di Leo Tsukinaga che tornava come un figliol prodigo al suo cospetto? Era sicuro, dopotutto, che Shu avrebbe interpretato il suo ritorno in quel modo, come un'ammissione del torto e che non avrebbe mancato di accoglierlo con tutti i sbeffeggiamenti del caso, pronto a far pesare la sua vittoria più della massa di Giove intero.

Invece, era occupato.

Non aveva mai trovato Shu intimidatorio, ma ne aveva sempre rispettato le stranezze e gli spazi perché lo considerava un suo alleato, se non un amico e lui per primo sapeva quanto un mondo proprio, in cui rifugiarsi quando si voleva stare soli, fosse necessario. Ma quel giorno era diverso: c'erano troppi comportamenti strani intorno a lui, troppe variabili che la sua mente non riusciva a spiegarsi – Ruka, Arashi... adesso anche Shu?

No, non poteva sopportare che la sua unica certezza, in quanto persona metodica e portatrice massima di paranoie come il saggista riguardo qualunque cosa che anche solo odorasse di cambiamento, decidesse improvvisamente di chiuderlo fuori.

Si sentiva lasciato indietro.

Prima che Mika potesse fermarlo, indaffarato com'era a consultare il registro dell'archivio per sfuggire forse all'imbarazzo che ancora sembrava colorare il suo volto, Leo girò sui tacchi e si diresse proprio lì, dove Shu fuggiva alla realtà; lì dove regnava incontrastato, dove il mondo seguiva le sue idee, la sua estetica, la sua visione delle cose.

In un attimo, aveva oltrepassato il corridoio pieno di ninnoli e cianfrusaglie e fu di fronte all'ufficio. Mika troppo tardi lo aveva seguito, richiamandolo con una certa enfasi ma senza alzare troppo il tono di voce per non disturbare l'Imperatore dello Specchio – il rosso aveva già abbassato la maniglia.

Quello che si presentò ai suoi occhi aveva del paranormale.

La prima cosa che Leo vide fu un paio di spalle ampie, troppo ampie perché appartenessero a Shu, il vestiario troppo semplice perché fosse quello di Itsuki – spartano, una camicia a quadri e un paio di jeans dall'aria un po' logora; una nuca di capelli rosso fuoco lievemente chinata verso il tavolo, e due braccia, dal colorito pallido, che si aggrappavano a quella stessa schiena.

Fu solo in un secondo momento che mise a fuoco il volto di Shu, i capelli rosati lievemente scompigliati come mai aveva visto in vita sua, naso e bocca parzialmente nascosti contro il collo dell'uomo che gli stava dinanzi. Era seduto sulla scrivania, le gambe divaricate, così da far posto allo sconosciuto. Abbandonato a quest'ultimo.

I due erano talmente presi da quello che stavano facendo che non si accorsero neanche della sua intrusione – Leo stava assistendo, forse a ciò che Shu più tentava di nascondere: i suoi sentimenti. Non si riteneva uno stupido, né un ingenuo: era ovvio che tra i due ci fosse la complicità ormai acquisita dei baci, delle carezze, delle egoistiche richieste che sotto forma di sospiri lasciavano le labbra del saggista.
Non seppe bene per quanto rimase lì, fermo sull'entrata, prima che Mika lo trascinasse via e in un silenzio concitato chiudesse la porta, pregandolo di tornare in negozio, lontano dal mondo privato di Shu – il mondo in cui non solo era il re, a quanto pareva, ma si concedeva pure le emozioni e i piaceri umani, rivelando la carne sotto la sua scorza fatta di pagine e metallo.

Lo stoico, monolitico Shu, chiuso tra i libri e le stoffe, che si lasciava amare seduto scomposto sulla scrivania, lontano dagli occhi giudizioso di Madamoiselle, riflesso dei suoi stessi, che non avrebbero mai accettato un simile comportamento – neanche da se stesso.

L'imperatore cieco, Shu Itsuki.

 

Non aveva idea di come fosse tornato a casa.

La sua mente era stato un turbinio di pensiero sin da quando un Mika nel panico più totale lo aveva implorato di dimenticare quel che aveva visto e gli aveva assicurato tra mille scuse che avrebbe detto al suo datore di lavoro che era passato, quel pomeriggio.

Non seppe neanche come riuscì a parcheggiare la macchina senza distruggerla. Era così assurdo pensare che ogni sua certezza sembrava essersi frantumata nel momento in cui il suo sguardo si era concentrato su Robin e sul suo lavoro, tralasciando il resto.

Tutto era capovolto.

La sensazione era quella di trovarsi improvvisamente proiettato di anni avanti nel futuro, dove ogni cosa era familiare e al contempo diversa – un universo alternativo in cui il tempo era trascorso per tutti... tranne che per lui, apparentemente.

Ancora inebetito, la mente che viaggiava da un lato all'altro della città nel tentativo di trovare una qualche spiegazione logica (a cui, almeno per una parte dei suoi interrogativi, era già arrivato ma questo non significava che fossero ipotesi semplici da accettare), giunse nel viottolo che portava al portone del suo condominio e...

«Thanks, God! Sei arrivato!» L'unica voce in grado di svegliarlo dal suo torpore fatto di incomprensioni, dubbi ed interrogativi e l'unica visione capace di cancellare tutto, in un istante: Ruka e Arashi e i loro complotti, Shu e il suo amante... puff, spariti. Come per magia. Al loro posto, un sorriso genuino si formò sulle sue labbra.

Robin gli era venuto incontro con un'espressione preoccupata sul volto; prese a tastarlo prima prendendogli il viso tra le mani e poi lungo tutto il corpo, come per accertarsi che stesse bene – inutile dire che Leo lo lasciò fare, più che divertito da quell'atteggiamento da madre preoccupata.

«Sono sobrio e sono rientrato prima delle otto. Non sapevo di avere un coprifuoco» lo prese in giro e, prima che Robin potesse rimproverarlo come l'aggrottarsi delle sue sopracciglia poteva suggerire, lo ammutolì con un bacio leggero, sulle labbra. «Credevo fossi impegnato, oggi» aggiunse, senza nascondere però che la sua presenza fosse una sorpresa più che gradita.

«Lo ero, ma...» titubante, Robin gettò un'occhiata verso il portone, dove stava una scatola bucherellata che il giovane doveva aver lasciato a terra non appena lo aveva visto arrivare. «Ho provato a chiamarti, ma non rispondevi al cellulare, quindi son venuto direttamente qui».

Ed era vero: sul cellulare di Leo, come si premurò di controllare, c'erano almeno quattro chiamate perse da parte del suo ragazzo; possibile che, durante il viaggio di ritorno, fosse stato così preso dai suoi pensieri da non aver sentito il telefono squillare?

«Scusami, è stata—una giornata strana» cercò di scusarsi, mentre si avvicinava incuriosito allo scatolone non cogliendo così l'espressione impensierita del moro; provò a sollevarne la copertura per sbirciare dentro e... ritrovò il suo sguardo ricambiato da due occhioni ambrati e infreddoliti di un gatto minuscolo che, al primo cenno di luce, subito rispose con un miagolio confuso. «... Che ci fai con un gatto... ?» chiese Leo stupito, prima di introdurre una mano nella scatola, per far sì che il piccolino potesse annusarlo e così si abituasse al suo odore. Aveva un debole terribile per i gatti, gli era praticamente impossibile resistere.

«L'ho trovato vicino al cancello della mia facoltà. Qualcuno deve averlo lasciato lì... Non me la sono sentita di non prenderlo, ma—Tori è allergico agli animali. Quindi, ecco, ho pensato...» ma la sua voce si spense, incerto su come proseguire. Era ovvio cosa intendesse chiedergli – se poteva tenerlo lui, con sé.

«Saliamo, ne parliamo al caldo».

Leo non ebbe bisogno di molte parole per essere convinto, a dirla tutta; il micio sarebbe rimasto da lui così, in qualche modo, Robin avrebbe potuto continuare ad occuparsene, seppur saltuariamente. Il giorno dopo, gli assicurò lo scrittore, si sarebbe premurato di portarlo dal veterinario e di procurarsi tutto il necessario per prendersi cura di lui – per il momento, avevano provato a fargli una cuccia di emergenza nella scatola, con una coperta calda e gli avevano versato un po' di latte riscaldato in un piattino da caffè e poco altro.

«Come vuoi chiamarlo?» gli chiese il moro, mentre si assicurava che il cucciolo si rifocillasse un po'; ad onor del vero, sembrava avere parecchio appetito. Leo, nel frattempo, aveva cominciato a spogliarsi: era sua (onesta ed innocente) intenzione quella di farsi una doccia, ma... beh, Robin era lì. Non c'era niente di male nel provocarlo un po'.

«Dovremmo decidere insieme, ti pare?»

«... E immagino tu debba denudarti, per decidere. So che la tua ispirazione ha ogni tipo di provenienza, ma...»

Non ne sembrava dispiaciuto, però, a giudicare da come lo guardava tanto che Leo accennò una risata. «Rifletto meglio sotto la doccia. Volevo chiederti di fartene una con me, in effetti».

Robin, seppur con un po' di rossore, non poté fare a meno di replicare con un mezzo sorriso sghembo e un gesto, molto semplice: cominciò a sbottonarsi la camicia.
 


Note: frase più ricorrente, "non riesco a credere di essere riuscita a postare!" In effetti, sto procedendo un po' a rilento e non per mancanza di idee o voglia di concludere questa storia, ma un po' per una serie di impegni che continuano ad accavallarsi e da cui non riesco a districarmi!
Parlando del capitolo, invece... diciamo che inizialmente non era mia intenzione dare così tanto spazio alla quotidianità di Robin e Leo, così come non avevo previsto di inserire così spesso Ruka, Arashi e persino Shu; ma una persona che cos'è, senza chi lo sostiene e chi gli vuole bene, al suo fianco? Come ho già detto, mi piacerebbe avere modo di approfondire un po' parecchi personaggi - anche alcuni che non sono neanche comparsi, qui - in una raccolta futura di one-shot, ma non volevo che l'universo di Leo girasse solo intorno al Predestino o a Robin. Anzi, sono felice di poter dire che la parola Predestino è quasi scomparsa dalla semantica degli ultimi capitoli, perché ormai per lui non è più una preoccupazione.
Per ora, almeno (...).
Il prossimo capitolo dovrebbe però segnare la Svolta che immaginavo sin dal principio. Ormai è chiaro che ci siano tante cose non dette, non chiarite tra Leo e chi lo circonda ed è mia intenzione provare a concentrare gran parte del colpo di scena (che, onestamente, non credo sia proprio così incredibile) nel prossimo capitolo. Eh.
Non so quando riuscirò a postare, perché tra una decina di giorni sarò a Cartoomics (E PORTERO' LEO, INCREDIBILE!!!!) e ho in mente e in programma una collaborazione con un'amica che spero possa piacere a non solo chi legge questa fic.
Alla prossima ~

 

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Capitolo 13
*** Comete ***


Capitolo 12: Comete


“Il dubbio è un mostro che striscia sotto il letto, proprio lì dove ti senti più al sicuro; una volta che l'hai intravisto, anche solo per un attimo, diventa l'unica cosa che riesci a distinguere davvero – nella realtà sfocata, ha l'aspetto di una serpe invisibile che si avvinghia attorno a chi vuole colpire, lo tiene nella sua morsa senza lasciarlo andare. Ignoravo quella serpe. La vedevo sulle spalle dell'elfo, che mi guardava con i suoi occhi che riflettevano l'aria, impossibili da percepire per chiunque, se non per me.

L'elfo lo sapeva. Mi guardava sempre con il suo sorriso cordiale, mi parlava con la sua voce melodiosa ma faticava a toccarmi. Non voleva ferirmi con gesti che forse non sarei più stato in grado di ricevere con la riconoscenza di un tempo.”

 

Alla fine, il nome del gatto, dopo aver scoperto che era un maschietto, fu Merlino. Lui e Robin ne avevano parlato a lungo – incredibile come il moro insistesse per Artù, quando c'era già un Artù in quella casa! E no, non contava che fosse un pupazzo, su questo Leo non transigeva.

C'era da dire che il nome in realtà gli si addiceva in tutto e per tutto: il pelo arruffato, dopo una bella pettinata, si rivelò di un bel tigrato bianco e grigio e, nonostante la diffidenza dei primi giorni, si rivelò un micio di indole tranquilla, non esageratamente affettuoso che amava però sonnecchiare sulle gambe di Leo ogni qual volta lo scrittore si metteva al pc con l'intenzione di lavorare; per il resto del tempo, adorava svegliarlo al mattino prendendolo a morsetti sul naso, miagolando perché bisognoso di attenzioni, nonché di riempire il suo stomaco.

Furono giorni tranquilli: era troppo concentrato sul lavoro per preoccuparsi di ciò che lo aveva tanto impensierito nelle settimane precedenti e come sempre, quando voleva dare priorità al suo lavoro, aveva chiuso dubbi, sospetti, teorie e complotti al sicuro in un angolo un po' più polveroso della sua mente. La presenza di Robin, infine, riempiva quei momenti di dolce far niente che erano soliti spingerlo a riaprire quei cassetti, facendolo ritrovare sommerso delle sue stesse elucubrazioni mentali.

Il compagno riusciva sempre a tenerlo occupato: quando con un film, quando gli chiedeva di insegnargli a cucinare qualcosa, quando lo sovrastava con la sicurezza che aveva acquistato, col solo calore di cui gli importasse davvero.

Leo si disse che sì, doveva essere questo il sapore della felicità. Così semplice, eppure così preziosa.

«Mi sono iscritto ad un corso per la patente» esordì Robin una sera, entusiasta, appena entrato in casa sua; Merlino non tardò ad accoglierlo, ancor prima di Leo che, indaffarato, stava finendo di apparecchiare. Il giovane, ancora con la giacca indosso, si chinò subito per accarezzare il micio, che ricambiò con delle fusa sentite.

«Ma dai, mi hai preso alla lettera?» ridacchiò lo scrittore, prima di avvicinarsi a lui e dargli un bacio leggero sulle labbra. «È quasi pronto, sei arrivato giusto in tempo».

«Ti ho preso alla lettera perché credo che un uomo debba poter essere indipendente dai mezzi pubblici, soprattutto se rendono complicato lo spostarmi come voglio» borbottò mentre, ormai familiare con la casa, andava a poggiare il cappotto nella camera da letto. «Se hai tempo, magari, potresti, mh, aiutarmi con la pratica? Please?» chiese, incerto, mentre tornava in cucina, consapevole e padrone dell'occhiata del più grande – Leo adorava come si vestiva: era assurdo, ma bastava una semplice camicia nera e un paio di pantaloni grigi per dargli l'aspetto giusto, sempre in ordine ed elegante... stentava a credere, spesso, che fosse più piccolo di lui.

Ormai si era anche abituato al nuovo taglio di capelli.

«Ma sì, questa zona non è molto trafficata. Appena hai superato la teoria, possiamo usare la mia macchina». Al posto di un grazie, Leo avvertì le braccia del moro avvolgergli la vita e il mento poggiarsi sulla sua spalla, come faceva spesso mentre lo trovava a cucinare. (Leo non era un gran cuoco, ma quando c'era Robin a cena cercava sempre di impegnarsi, almeno un minimo. Fosse stato per lui, sarebbe vissuto a take-away e cibo precotto, ma questo succedeva quando ancora l'unica cosa bella e degna di nota della sua vita erano i suoi libri... adesso, poteva tranquillamente dire di avere due comprimarie priorità – il che sorprendeva lui per primo).

«Thank you, leader» sussurrò il giovane, prima di lasciargli un bacio leggero sulla guancia e, come faceva sempre mentre Leo si occupava della cena, rimase lì a guardarlo, sciogliendo l'abbraccio non appena il rosso fece cenno di doversi muovere per stare dietro ai fornelli. Robin guardava i suoi gesti con avidità e voglia di imparare e lo scrittore, spesso, si chiedeva se non stesse già tentando di cucinarsi qualcosa da solo a casa. In quel caso, fantasticava, il suo coinquilino non doveva esserne molto felice, da quel poco che sapeva di lui... Non faticava ad immaginarlo ad inveire contro il moro per aver invaso l'appartamento di fumo, così com'era altrettanto semplice pensare a quanto potesse essere carino Robin con un grembiule indosso. «Sei riuscito a lavorare al finale del romanzo, oggi?» chiese all'improvviso, tanto che il rosso quasi trasalì, preso com'era a pensarlo alle prese con pentole e fornelli.

E quello, purtroppo, era un nervo scoperto, doveva ammetterlo: ormai Leo aveva finito di rivedere la sua storia per intero ed era tutto pronto... eccezion fatta per quei due stupidi, maledetti finali. Entrambi scritti ed ultimati, entrambi sensati e allora—perché? Perché improvvisamente non riusciva più ad essere convinto di quel che aveva creato? Era la prima volta che si trovava così in conflitto con le sue stesse idee e, davvero, non sapeva come uscirne. Era come guardare un altro Leo, quello che aveva iniziato a scrivere e domandarsi perché.

«Ancora niente... Posso chiederti un consiglio? Anche se non hai mai letto i miei libri».

«Non ho detto di non averli mai letti» ribatté Robin, dopo una breve pausa. «Ho un... amico molto appassionato delle tue storie, magari posso esserti più utile di quanto pensi».

Leo rimase interdetto, per un momento – non sapeva come sentirsi all'idea di Robin che leggeva così tanto di lui (perché , i suoi libri erano come i suoi arti, i suoi figli: non gli avrebbe mai chiesto niente al riguardo ma sarebbe stato curioso di sapere che cosa aveva carpito, delle parole che aveva accumulato in quei pochi anni, quanto di Leo trasparisse dalla carta stampata) ma dopotutto parlare di una storia non significava farla vivere; il libro era una creatura, mentre un mero riassunto... solo il suo fantasma, niente più di un'ombra.

Il suo ragazzo aveva inoltre dato più volte prova di riuscire a vedere ciò che Leo celava persino a se stesso, le sue trappole e le sue fughe quindi che motivi aveva di non fidarsi?

Certo, non aveva precedenti. Mai una volta in vita sua aveva parlato dei suoi scritti prima che questi potessero essere giudicate competenti: provava nei confronti delle sue storie, soprattutto se incomplete, un maniacale attaccamento – ma valeva la pena tentare.

«D'accordo, allora. È una sorta di fiaba».

«Fiaba? Non un fantasy?» Sembrava molto stupito, il che convinse Leo a pensare che sì, aveva letto davvero le sue storie.

«No, è una fiaba davvero. Non per bambini, però, una fiaba per i grandi» si premurò di specificare, sperando di non essere interrotto di nuovo. Intanto, aveva spento il fornello e si accingeva a portare il riso ben cotto in tavola. «Il protagonista è un cavaliere, un giovane eroe che è da poco tornato dalla sua ultima impresa. Al suo ritorno, però, trova la città dov'è nato e cresciuto affetta da un male oscuro, una malattia che sembra non risparmiare nessuno: ogni uomo, donna, bambino o vecchio che ne viene affetto diviene uno spirito della Luna, mostri che vivono solo per infestare gli incubi degli altri, cibarsene e lasciare corpi vuoti». Molte delle presenze nel libro venivano dai suoi incubi infantili, da quelli di Ruka che in lacrime si infilava sotto le sue coperte nel tentativo di trovare una protezione. “Non ci prenderanno” le aveva sussurrato una sera e il giorno dopo, sotto il suo cuscino aveva messo una piccola spada in legno (che sua madre gli aveva sequestrato il mattino seguente). Non era mai stato un tipo docile, neanche da bambino. «Il re, ancora in sé, dopo aver perso l'adorata figlia per colpa del morbo, al cavaliere affida un compito: trovare, in fretta, l'unica cura universale – la fonte dell'eterna giovinezza».

«Quindi la principessa è da salvare?»

«Ti sembro il tipo interessato alle donzelle in difficoltà?» A Robin scappò una risata leggera, complice,una di quelle che Leo adorava, che quasi risuonava con la sua anima. Ma non poteva farsi distrarre. «Il giovane si mette in viaggio, dirigendosi verso l'unica persona a cui il re lo ha indirizzato, uno stregone con millenni di conoscenza ma di temperamento terribile. E infatti, quando si presenta, lo stregone si offre di dargli la mappa, ma in cambio il cavaliere deve cedere lui stesso al morbo... al suo netto rifiuto, perché il ragazzo non è così stupido, lo stregone lo imprigiona. Ovviamente, lo stregone aveva previsto questo svolgersi degli eventi, ma a lui serviva il cuore di un eroe e quindi...»

«... Dovrai specificare sulla copertina che la fiaba è sconsigliata ai bambini, for God's sake».

«I fratelli Grimm facevano ben di peggio. Comunque», perdonava le interruzioni solo perché si trattava di Robin. «L'eroe viene salvato da un pettirosso» mugugnò, arrossendo appena – era un caso? In parte, ma cercò di non far trapelare il fatto che avesse celermente cambiato “rondine” in “pettirosso” dopo la sera in cui si erano baciati. Tra l'altro, così facendo, aveva mandato in crisi il suo editore il quale, disperato, gli aveva chiesto se si trattava di un riferimento ai suoi vecchi libri e Leo subito lo aveva assecondato... più facile fare così che spiegare come stavano realmente le cose. «Il pettirosso lo guida verso un luogo che somiglia all'Eden e poi gli si mostra nel suo vero aspetto: è un elfo, unico abitante umanoide di quell'angolo di paradiso, in cui tutto sembra al posto giusto, tutto è caldo e tutto è da scoprire, compresa la concezione del tempo. In breve, il cavaliere dimentica il motivo per cui si era messo in cammino, entra in sintonia con il luogo e anche con l'elfo, innamorandosene».

«Capisco perché la principessa aveva così poca attrattiva ai tuoi occhi. Sempre le cose complicate, eh?»

«Perché sei così fissato con la figlia del re che ho a malapena accennato?» chiese il rosso, quasi irritato – soprattutto perché l'elfo era basato in molte delle sue caratteristiche sulla figura di Robin e, ad essere sincero, non lo avrebbe scambiato per nessuna principessa al mondo.

«Beh, stai andando contro tutta la narrativa cavalleresca in una singola storia che dovrebbe rifarsi proprio a questa, lo trovo divertente».

«Da quando seguo le regole, io?» lo provocò, mentre spegneva il fornello. Ormai il riso era cotto, così si affrettò a servire la cena, senza per questo perdere il filo del discorso (anzi, a dirla tutta era più probabile che sbagliasse a mettere le pietanze in tavola che distrarsi dal suo racconto). «Dicevo. Col passare del tempo, però, si rende conto che gli incubi che lo tormentano, seppur placati dalla compagnia, iniziano a tormentarlo persino durante il giorno. Sono attimi di follia, o così crede, finché non inizia a temere che l'elfo gli nasconda qualcosa... Troppa gentilezza, dopotutto, che un essere umano non riesce mai ad accettare senza credere che abbia un secondo fine». Robin stavolta non commentò e, al contrario, gli riservò uno sguardo pieno di dubbi; Leo non era nuovo al nichilismo né al pessimismo, quindi perché tanta sorpresa negli occhi? Lo scrittore si sedette al tavolo, finalmente libero di sfamarsi e sfogarsi allo stesso tempo, così che in fretta si prese un bel boccone abbondante di riso, prima di continuare. Brandendo la posata per l'aria, continuò: «E qui nasce il problema. Quando ho iniziato a scrivere, ero sicuro che la scelta dell'eroe sarebbe stata... degna di un eroe: l'elfo in realtà voleva salvarlo da quel morbo perché aveva dimostrato di poter sacrificare se stesso pur di salvare gli altri e, inoltre, dargli la fonte dell'eterna giovinezza, di cui l'elfo è il custode, avrebbe significato far morire quel luogo e la sua casa; ma il cavaliere non avrebbe potuto accettare di essere in trappola, ingannato dalla pace e quindi avrebbe fatto ritorno a casa con la cura, di fatto... distruggendo tutto ciò che lo aveva reso felice».

Robin, che aveva preso a mangiare e che aveva continuato ad ascoltarlo in silenzio, dopo essersi pulito la bocca con un tovagliolo – con i suoi gesti discreti, sempre misurati – lo fissò dritto negli occhi, lo sguardo quasi contrito, attanagliato forse da qualcosa che Leo non poteva cogliere fino in fondo. Posò la forchetta sul piatto, prendendosi del tempo prima di commentare.

«È quello che un eroe farebbe, questo è certo» si limitò a mormorare e il romanziere si chiese se... per caso, avesse colto quanto c'era di sottinteso in quella fiaba: il Predestino era un Eden ingannevole, non di certo la vera pace. L'amore vero era quello dei tuoi cari, non quello che un'utopia ti poteva offrire.

Leo aveva sempre basato tutti i suoi racconti su questi concetti, su quanto credesse che ci fosse qualcosa di più di un amore già scritto e adesso, dopo che aveva iniziato a scrivere quella storia pieno dei sentimenti di rabbia per Izumi che lo aveva abbandonato perché aveva trovato il suo personale Paradiso Terrestre... perché non riusciva a respingere l'elfo? Perché non riusciva a lasciarlo lì, solo nella sua valle appassita, morente, mentre l'eroe vinceva contro la Menzogna Ultima, quella della vita? Sapeva di aver sbagliato ad aver dato a quella creatura armoniosa così tanti dei tratti di Robin ma, paradossalmente, più ne scriveva e più prendeva vita sotto i suoi polpastrelli, in quegli occhi di ametista, specchio di quelli che adesso aspettavano una sua risposta.

«Ma l'elfo non è colpevole» sussurrò, mordendosi il labbro. Era un conflitto continuo di fronte ad uno specchio, un labirinto da cui gli pareva impossibile uscire. «L'elfo lo ha accudito. I suoi sentimenti sono reali, lo sono sempre stati. Ma il popolo--»

«Leo». Il tono di Robin lo ammutolì – c'era qualcosa di strano, come se con quella storia il rosso avesse toccato note nell'animo del più giovane di cui aveva, fino a quel momento, ignorato l'esistenza. Di fronte, gli sembrava avere il violino estraneo di quella sera in teatro, le corde tirate pronte a tradire un suono sbagliato al primo errore: nonostante il sorriso leggero sulle labbra (tirato, nervoso, inusuale), la voce gli era sembrata così distante, così difficile da tenere insieme per colui a cui apparteneva. «Sei... sicuro che sia il lieto fine dell'eroe, questo?»

Ci fu un attimo di silenzio, di cui Robin approfittò per tornare se stesso, per nascondere quello sguardo spezzato in un angolo di sé che Leo non poteva raggiungere.

«Che... vuoi dire?»

«Spoglialo del suo ruolo. L'armatura, la spada, l'impresa – quando era con l'elfo, non era niente di tutto questo, giusto?» Leo aggrottò la fronte: no, aveva dimenticato le sofferenze passate, dopotutto, quindi scosse la testa. «Rimane l'uomo, allora. Hai detto che si innamora di lui, sbaglio? Sono i sentimenti dell'uomo, non del cavaliere. Ripresa l'armatura, vuole davvero rinunciarvi, addirittura—lasciarlo morire? Calpesterebbe a tal punto la propria felicità per quella degli altri? Quella di un re che lo ha richiamato quando ne aveva bisogno, di una—folla di sconosciuti... !»

Era un fiume in piena. Leo per un attimo vide in quel ragazzo così concitato, così desideroso di mostrargli il suo punto di vista... se stesso. Il se stesso così disperato da quella serata d'autunno, tra le foglie gialle e marroni che cadevano, come le lacrime sul suo viso – quel Leo Tsukinaga le cui mani avevano preso a tremare, piene di voglia di riscatto nell'unico modo che conosceva: scrivere. Scrivere per dimostrare al mondo che, nonostante gli fosse stato tolto anche Izumi, non si sarebbe arreso; scrivere per ricordarsi che era ancora lì, pronto a combattere finché non sarebbe stato l'ultimo uomo ancora in piedi.

Robin gli stava urlando le sue paure - “non rimanere solo”. Gli stessi dubbi che erano cresciuti parola dopo parola, mentre scriveva, adesso si manifestavano tutti nella persona che aveva iniziato ed imparato ad amare. Robin cercava di comunicargli che l'aveva percepita, quell'autodistruzione nel suo racconto: il sacrificio dell'eroe, che rinunciava alla sua felicità per portare la “verità” agli altri... una verità che, entrambi lo sapevano, nessuno avrebbe mai riconosciuto davvero. Una verità inascoltata che avrebbe ucciso l'elfo e avrebbe finito con l'uccidere anche il cavaliere, di solitudine, in un mondo in cui tutti avrebbero relegato quell'impresa ad una bella storia da raccontare attorno ad un fuoco.

Quindi... a che prezzo?

Leo poggiò i palmi delle mani sul tavolo, poi si sporse in avanti quanto bastava per posare un indice sulle labbra del più giovane che, finalmente, si calmò. Aveva il respiro corto, preso com'era dal cercare di tendergli la mano, salvarlo, riportare il cavaliere al suo posto, accanto all'elfo. Si guardarono a lungo, dritto negli occhi, quelli di Robin colmi di un'apprensione che forse non era capace di capire fino in fondo, che forse non avrebbe dovuto risvegliare.

Ma loro erano diversi, dopotutto.

«Ho capito, Robin. Ci penserò».

***

Non ne parlarono più. Leo non si era deciso, questo no, ma sentiva ancora quel peso sul petto ogni volta che pensava al finale originale e al tempo stesso non se la sentiva di tradire anche lui il Leo che era stato, già condannato dalla sua stessa essenza: quella di credere.

Inoltre, se prima aveva scorto solo in parte accenni di nervosismo da parte del suo ragazzo, i momenti in cui si rendeva conto degli sguardi che gli rivolgeva – apprensivi, pieni di un'irrazionale paura che lo scrittore non riusciva davvero a spiegarsi – si moltiplicarono a dismisura. Dopo quella discussione, era diventato ovvio persino a lui che il moro pesasse ogni singola parola pronunciata quando toccavano argomenti più complicati del “cuciniamo insieme” o “magari proviamo a vedere quel film”. Robin sembrava essersi spaccato in due: da una parte, il solito Robin fatto di sorrisi, rimproveri e del suo accento inglese irresistibile; dall'altra, un nuovo Robin silenzioso, di cui coglieva le occhiate quasi malinconiche, come se temesse la sua scomparsa da un momento all'altro.

E lui... temeva di star impazzendo.

Leo aveva sempre avuto paura dell'abbandono, questo poteva – anche se a fatica – ammetterlo almeno a se stesso; Eichi se n'era andato, Izumi se n'era andato. Era così evidente da ogni storia che scriveva: piuttosto, era lui ad andarsene prima che qualcuno gli potesse voltare le spalle. Almeno nella finzione.

Con Robin, però, non riusciva neanche a pensarlo. Quando era da solo a casa, con Merlino in grembo che faceva calorosamente le fusa, quasi gli sembrava di vedere quegli stessi sprazzi di follia del suo eroe: squarci di notte che, invadendo il giorno, sussurravano ridendo, complici, “non ti fidare”. Eppure, non riusciva a credere che Robin potesse... essere stanco di lui o che, peggio, avesse paura di quello che avrebbe potuto fare.

O che ci fosse dell'altro.

Lo irritava non capire cosa gli passasse per la testa ogni volta che lo guardava disorientato, con il terrore accennato sulle labbra; era frustrante rendersi conto che lui, un uomo che di parole ne produceva più di chiunque altro, adesso non riuscisse a trovarne di adatte per rassicurare la persona che amava.

O per tenerla vicino a sé.

«Mi piace come ragiona» e, ormai, l'unica persona con cui poteva davvero parlarne era Madara, la cui voce squillante ed entusiasta, se possibile, rendeva il tutto ancora più lugubre, dal suo punto di vista. «Potrebbe farti da psicanalista meglio di chiunque altro».

Su questo non aveva tutti i torti, ma Leo non glielo avrebbe detto, neanche morto. «Va bene, Robin mi capisce. Ma sono io che non riesco a capire perché dovrebbe credere che mi autodistruggerei se sono... felice, con lui?»

«Glielo hai mai detto?» chiese Mama, apparentemente sovrappensiero. Una domanda semplice, fatta con una leggerezza tale da sembrare innocua.

Ovviamente, non lo era.

Ne seguì una lunga pausa, nella quale Leo si chiese se, in effetti, fosse mai stato sincero fino in fondo con Robin riguardo ai suoi sentimenti; si era aperto con lui riguardo tutte le sue manie, le sue paure e le sue visioni della vita e quando facevano l'amore riusciva a farlo stare davvero bene, ma...

«... Ok, domanda di riserva: gli hai detto che quel libro ha origine dalla fine della tua storia con Sena?» Altro silenzio. «... Non posso crederci. Non posso crederci».

«Ma non è ovvio?!» replicò Leo, un po' sulla difensiva a quel punto – la mente, però, era già in moto: per quello che Robin ne sapeva, quella storia era nata senza un'origine così specifica e di certo lui non poteva immaginare che, concentrato in quelle pagine ancora da stampare, c'era tutto il bisogno di Leo di sentirsi convalidare agli occhi di qualcuno, il suo rimorso di non essersene andato per primo, il suo desiderio di liberarsi di ogni illusione che portava il volto dell'Amore.
Merlino continuava a fare le fusa e dormire, nonostante il suo padrone avesse preso ad agitarsi come un ossesso sulla sedia, in preda al turbinio dei suoi pensieri.

Ecco perché l'elfo aveva preso sempre più le movenze del moro – era quello che rappresentava: quel sentimento a cui anelava da tutta una vita, quello che aveva assaporato davvero per la prima volta sulle labbra del ragazzo, alla luce fasulla di un lampione, dentro una scatola di latta. Ed era per quello stesso motivo che, adesso, si sentiva così colpevole a lasciar morire quel personaggio: non lo avrebbe mai fatto, non adesso. La rabbia era svanita e il combattente implacabile aveva posato la spada: si sarebbe aggrappato a quelle emozioni con le unghie e con i denti, pur di tenere quel tesoro stretto a sé, stavolta.

«Non sempre» sospirò l'amico al telefono e Leo giurò di averlo sentito darsi una manata dritta sulla fronte. «Se non ne sei ancora sicuro, potresti dirgli anche solo perché è nato il libro. Sa già cos'è successo tra te e Sena, no?»

«... Gli ho raccontato tutto, sì» borbottò Leo. Stava rivivendo, come un film, tutti i momenti in cui Robin lo aveva guardato con quello sguardo perduto; davvero stava attendendo una prova da parte sua, dopo tutti quei mesi? Davvero lo aveva reso incerto, con quel suo blaterare solo e soltanto di se stesso, come sempre?

Era un egoista. Il peggiore degli egoisti.

«Allora dagli qualcosa a cui aggrapparsi, Leo. Anche se vi siete trovati, non dare per scontata la sua presenza al tuo fianco. Mai».

***

Era davvero raro che Leo seguisse il consiglio di qualcuno. Nonostante cercasse spesso il confronto con terzi (Arashi, Shu e Madara ne erano la vivente dimostrazione) era paradossalmente raro che mettesse in atto quanto gli veniva detto; la sua caparbietà lo aveva spesso indotto a fare errori colossali ma erano suoi errori, creati dalla sua persona e di cui soltanto lui poteva rammaricarsi.

Ancora una volta, si sentiva in dovere di rivendicare la sua individualità anche nei minimi gesti, con quella smania autodistruttiva che lo aveva sempre guidato.

Ma Leo stava cambiando. Era palese mentre, seduto in macchina, aspettava che Robin sbucasse dalla stazione della metro più vicina. Era evidente anche ai suoi occhi mentre, con le mani nella tasca della felpa blu notte – ormai non faceva più troppo freddo, gran parte della primavera già corsa via – giocherellava con la metaforica l'ancora che aveva intenzione di lanciare al moro. Ed era cristallino, quasi, quando guardava il suo riflesso nello specchietto retrovisore e vedeva il volto di un uomo che stava seriamente pensando alle parole da dire per far sì che Robin non potesse dubitare mai più di lui.

Si stava ancora fissando con cipiglio deciso, quasi fosse pronto ad attaccare l'altro Leo al minimo segno di incertezza, quando sentì bussare appena sul finestrino della macchina, facendolo sobbalzare; un attimo dopo, Robin sedeva sul sedile del passeggero, lo sguardo sempre più pesante, impensierito.

«Mi preoccupo quando sei puntuale» fu il suo saluto, prima che Leo si appropriasse delle sue labbra con un broncio accennato.

«Il tuo sarcasmo d'alta classe non ti servirà, alla guida» replicò il rosso, scacciando in fretta quella parola – preoccuparsi – prima di regalargli un mezzo sorriso complice e al tempo stesso un po' canzonatorio, che cancellò almeno parte di quell'aria stanca dal volto dell'altro. «Sarò impietoso».

«Oh, non ne dubito» mormorò Robin, prima di uscire di nuovo dalla macchina per scambiarsi di posto con Leo; il rosso, non appena si sedette, colse immediatamente l'occasione per immortalare il momento con il cellulare: la prima guida di Robin il quale, impacciato, aveva appena poggiato le mani sul volante.

Sembrava che stesse familiarizzando con l'idea tramite il tatto, come faceva con Merlino dopo un po' che non si vedevano: si lasciava annusare e poi, dopo qualche attimo, ecco che il legame veniva ristabilito e il micio gli consentiva di carezzarlo. Ecco, con la macchina di Leo sembrava star facendo la stessa cosa - “ci conosciamo”, sembrava dire all'auto, mentre percorreva con le dita tutto il volante.

«What are you doing?» gli domandò il ragazzo, rigorosamente in inglese, dopo avergli scoccato un'occhiataccia non appena colto il “click” della fotocamera.

«Dovrò pur commemorare il momento, in qualche modo. Avanti, metti in moto e partiamo!»

Passarono almeno due ore a girare nel parcheggio della metropolitana, poco trafficata dalle auto per via dell'orario ed era ormai tarda sera quando, finalmente, Robin aveva compreso come evitare che il veicolo procedesse a singhiozzi e far sì che non si spegnesse di continuo. Quando finalmente si scambiarono di nuovo di posto, il moro pareva distrutto – molto più di prima ma in modo diverso: insomma, fisicamente provato dall'esperienza.

«Non pensavo che potesse essere così complicato» mugugnò, prima di sorseggiare avidamente dalla bottiglia d'acqua che Leo gli aveva appena offerto. «Come fate a fare così tante cose tutte assieme?»

«Basta la pratica, davvero. Poteva andare peggio, come prima volta». Al poco velato riferimento alla loro altra prima volta, Robin quasi si strozzò con l'acqua, poi fu svelto nel pizzicargli con una certa stizza la guancia. «Ahi, ahi—permaloso».

«E tu inopportuno» sospirò, prima di chiudersi gli occhi ed adagiarsi sul sedile, cercando forse un po' di sollievo. Quando Robin doveva cimentarsi in qualcosa di nuovo ed inaspettato era sempre teso, come se la sua intera vita dipendesse dai suoi immediati successi. Erano altri, invece, i fallimenti che Leo temeva e, si disse, questo era il momento giusto per fare quel passo avanti che si sentiva capace di fare, adesso: con una manovra un po' complicata (il cambio e il freno a mano in mezzo a loro non furono di certo di aiuto), si mise cavalcioni sul grembo dell'altro, rivolto verso di lui, gli occhi del moro puntati addosso con una sorta di rassegnato sollievo. «Che cosa hai in mente adesso?»

«Tranquillo, non ho intenzione di fare niente di perverso, in macchina. Per ora, almeno» ridacchiò, immaginando che fosse stato quello il primo pensiero del compagno (in parte, doveva ammetterlo, non poteva biasimarlo...) «Voglio parlarti di una cosa».

Il volto di Robin, che si era disteso in un sorriso all'insinuazione dello scrittore, tornò ad irrigidirsi, al punto che per Leo non fu difficile notare delle leggere rughe di espressione sulla fronte del giovane, persino dietro la sua ordinata frangia di capelli neri.

«... Ti ascolto».

Il rosso inspirò profondamente, prima di carezzargli con delicatezza le guance appena paffute; voleva smettere di vedere quell'ansia continua sui suoi lineamenti puliti, voleva spazzare via quell'accenno di oscurità dai suoi occhi luminosi. Non sapeva spiegarsi il motivo ma si sarebbe esposto più che volentieri se questo fosse bastato a far tornare Robin sereno e, considerando quanto fosse poco disposto ad ammettere quelle cento, mille verità riguardo se stesso, quello che stava facendo gli costava davvero tanto. La paura di essere respinto non lo avrebbe, forse, mai abbandonato davvero.

«... Cavolo, se è difficile parlare di certe cose» ammise, con una mezza risata accennata, nella speranza di spezzare quel silenzio incredibilmente soffocante – ma doveva dirglielo: era sua responsabilità farsi avanti, stavolta. Come Robin lo aveva fatto più e più volte; con lo stesso coraggio con cui lo aveva preso la sua prima volta, con la stessa voglia di combattere senza ferire nessuno che aveva mostrato quando, nonostante tutto, lo aveva visto fuggire sotto i suoi occhi. «... Beh, Robin, tu sei... maledettamente importante, per me. Da quando sei entrato nella mia vita, ho—smesso di sentirmi sbagliato. Sai, quando passi anni a combattere ciò che è considerata l'unica scelta possibile e tutti ti assecondano, come si fa con i pazzi... Tu mi hai dato finalmente un posto dove sentirmi me stesso. Dove non avevo bisogno di dimostrare niente a nessuno, perché ormai sapevo dove poter tornare. In così poco tempo, sei... Sei diventato fondamentale, sì». Sapeva che le sue parole suonavano egoistiche; sapeva che il suo egocentrismo avrebbe irritato chiunque – ma non Robin. Robin poteva interpretare quelle frasi come se il personale lessico di Leo fosse la sua lingua madre. Robin poteva vedere oltre quella fortezza fatta di “Leo, Leo, Leo” perché sapeva da cosa era stata creata: non era amore per se stesso – al contrario, ma restava l'unica cosa certa che aveva. L'unico appiglio alla realtà che troppo spesso gli sfuggiva, cambiava colori, si deformava, solo perché gli stava stretta. «Ma non sono bravo a prendermi cura degli altri. So a malapena badare a me stesso, figurarsi...» Per tutto il tempo, aveva guardato in basso, lì dove le sue mani stringevano il cappotto di bianca lana leggera del più giovane, perché incapace di essere sincero in presenza di quegli occhi. Era più pensare che il suo fosse un lungo, sconnesso monologo interiore recitato ad alta voce. «Proprio per questo, però... tu meriti di più. Di meglio di me, ne sono sicuro. Ma non per questo ho intenzione di lasciarti ad altri, io—non intendo rinunciare a te. E per questo, volevo che tu sapessi cosa provo davvero, senza... girarci intorno». Si sentiva bruciare. Una sensazione che mai aveva provato in vita sua, come se potesse da solo affrontare il mondo intero con la certezza di vincere: non c'era più niente, in lui, del solitario scrittore che attendeva l'infrangersi delle onde su di sé, in piedi su una scogliera, sconfitto ma fedele. Si sentiva esplodere nel petto quelle parole al punto che ormai avrebbe dovuto urlarle, per pronunciarle correttamente. Ma si limitò a sollevare lo sguardo, fino ad incontrare gli occhi violacei di Robin, pieni di una sorpresa che Leo interpretò come il segnale giusto e, finalmente, lo disse. «Ti amo, Robin. Più di quanto abbia mai amato chiunque altro».

Ignorò il silenzio che ne seguì. Piuttosto, ormai pieno dell'adrenalina del momento, con quelle semplici parole che sembravano aver preso a fluire dentro di lui, al posto del suo stesso sangue, cercò il suo regalo – la sua “prova”.

«Tu mi hai dato un posto nel mondo, io... beh, posso darti libero accesso al mio, di mondo» mormorò, concitato, prima di lasciare che una perfetta copia delle sue chiavi di casa penzolasse tra le sue dita. «Non voglio correre troppo e dirti di venire a stare da me, ma... se Tori diventasse insopportabile, sai dove trovarmi».

Robin, con un gesto misurato e un'espressione indecifrabile in volto, prese il piccolo mazzo, a cui Leo aveva accompagnato il portachiavi di un alieno (giusto per rimarcare che sì, quelle erano le chiavi di casa sua). Con mani tremanti, le strinse in un pugno e poi...

Gliele restituì.

«... Leo». Il tono era simile a quello che aveva usato a tavola, il giorno in cui gli aveva parlato del libro. Era quello stesso sguardo pieno di senso di colpa – ora lo vedeva, chiaro: era paura, violenta e cruda paura di essere scoperto, come in una perversa caccia alle streghe – che gli rivolse, frantumandolo. «Leo, devi—devi ascoltarmi, adesso».

«... L'hai trovato anche tu?» Il ricordo del viale in pieno autunno lo fece rabbrividire e per un attimo riempì il piccolo ambiente dell'auto, ma era l'unica spiegazione che riusciva a darsi: lo aveva preso in giro? Aveva cercato per giorni l'occasione adatta per confessargli che dovevano dirsi addio, che il Predestino lo aveva derubato di nuovo della persona che amava?

«... Leo, non è... non è come pensi». Le mani del moro cercarono il suo volto, come lui aveva fatto poco prima: lo carezzarono con l'amore e la cura che aveva sempre avuto e quello che lo scrittore vide nell'altro fu... un ragazzo distrutto, che non sapeva cosa fare; non aveva mai visto Robin in quel modo, era la prima volta che lo vedeva così provato. Per lui? Per colpa sua? Era come se le mani che lo sfioravano fossero di Robin, ma che Robin non fosse la persona che aveva davanti. «Ricordi... quando ci siamo incontrati, allo Sleepover?» Leo annuì, lentamente. Si sentiva svuotato—anzi, no, peggio: incompleto. Come se qualcuno gli avesse appena strappato la possibilità di percepire con i propri sensi, menomato – stava lì, disorientato, passivo testimone degli eventi... peggio del suo pupazzo, peggio della bambola di Shu. Stava lì, ad ascoltare. «Ti... ti dissi che volevo mettere alla prova il Predestino. Che non avrei accettato passivamente questa persona e—l'ho fatto». Leo non capiva. O forse non voleva capire? Non era sicuro di poter cogliere la differenza, in quel momento: tutto quello che riusciva a comprendere erano gli occhi violacei di Robin, ora lucidi sotto il riflesso dei lampioni del parcheggio, come la sera in cui si erano baciati. Anche allora erano nella sua macchina, a notte fonda. Anche allora, Leo aveva fatto il primo passo, si era esposto.

«... perché me lo dici adesso... ? Da quando... da quanto hai accettato il Predestino?!» L'impassibilità divenne, in un attimo, rabbia. In un impeto di frustrazione, si liberò della stretta di Robin, scacciò le sue mani e aprì la camicia del ragazzo senza neanche sbottonarla, lasciando che i bottoni schizzassero per la macchina e senza preoccuparsene minimamente: cercava un segno, un qualunque simbolo di prigionia e schiavitù da incolpare, come quello stramaledetto lucchetto sul collo di Makoto Yuuki. Lo ricordava, quel dannato lucchetto.

«... Adesso». Robin non lo aveva fermato – nessun gesto sarebbe stato abbastanza forte da placarlo, se non quell'unica parola mormorata con voce incrinata. Leo tornò a guardarlo, il dubbio che prendeva possesso delle sue ossa, delle sue viscere, ghiacciando il sangue che per quegli attimi così brevi ma belli si era riempito solo di quel sentimento. E il dubbio allora divenne incubo, spaventoso perché reale.

Poteva crederci? Forse, ma non voleva. Non voleva ascoltare davvero la voce dei suoi sospetti, coloro che lo avevano spinto a scrivere, lettera dopo lettera. Non era stata la sua immaginazione, a guidarlo lungo le linee di quella storia.

Perché, in fondo, forse lo aveva sempre saputo.

«Robin... non è il mio vero nome. Mi chiamo Tsukasa».


Note: Ed eccoci qui, alla resa dei conti. Questo capitolo non è stato difficile da scrivere perché avevo in mente tutto: dalle rivelazioni del libro, alla chiacchierata con Mama, alla strampalata ed impacciata dichiarazione di Leo, alle paure di Robin--o meglio, Tsukasa.
Il Predestino, le paure che causa in Leo e la sua personalità complicata... in questo capitolo ho cercato di concentrare tutto. Ho cercato di mentire, farlo mentire e poi scacciare il pensiero della realtà per coprire tutto con delle bugie che facevano meno male. Leo è un bambino, detto tra noi, per cui è molto più facile deformare la realtà perché non faccia più così male ed è schiavo di questa sua immaturità (ad esempio: Robin è sempre stato il primo a fare il primo passo quando, in effetti, ho sempre fatto sì che i momenti cruciali della loro relazione dipendessero dalla volontà di Leo, che Robin/Tsukasa ha accontentato). Forse, è questo il perno di tutta la storia - crescere. Se Izumi aveva distrutto una speranza, Tsukasa ha infranto ogni sua certezza riguardo a sé e la sua visione del mondo. Il titolo del capitolo riguarda l'effimero, che aprirà anche la tematica del continuo.

Nel prossimo capitolo mi troverò a parlare meglio di quanto pesante sia questo nuovo nome, "Tsukasa", per le orecchie di Leo. Mi sento di dire che il prossimo sarà effettivamente l'ultimo capitolo della storia, ma che seguirà un epilogo forse diviso in due; il quando riuscirò a scriverlo ma credo che entro la fine di aprile dovrebbe arrivare... ormai è un anno e mezzo che scrivo questa fic, non la abbandonerò di certo ora. ~

 

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Capitolo 14
*** "Io gli credo, anche se so che mente." ***


Capitolo 13: "Io gli credo, anche se so che mente."


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Tsukasa.

Non sapeva onestamente di cosa farsene, di quel nome. Così come non sapeva cosa farsene, improvvisamente, della verità che aveva sempre cercato, sin da quando si erano conosciuti e che allora era sembrata tanto importante; sarebbe stato meglio non sapere.

Tsukasa, aveva detto? Un nome fastidioso. Un nome che si portava via i castelli di sabbia che insieme avevano costruito, come un'onda marina particolarmente violenta in una bella giornata estiva.

Confuso com'era, era un miracolo che fosse riuscito a tornare a casa. Non aveva idea neanche del come era riuscito a raggiungere il letto, dove Merlino riposava sereno e, colto alla sprovvista quando il padrone si era gettato sul materasso, aveva miagolato quasi per rimproverarlo.

Tsukasa aveva abbassato lo sguardo, colpevole di avergli mentito e di averlo fatto per mesi. Di fronte al silenzio di Leo, aveva soltanto preso a spiegare con la sua bella voce ridotta a poco più che un sussurro: tutto era iniziato alla festa di Ruka. Conosceva sua sorella? Sì, gli aveva risposto. Frequentavano la stessa università e, aveva ammesso, gli piaceva molto, quel genere di attrazione innocente che si ha ad un primo sguardo. Poi si era interrotto, si era lasciato ad andare ad un accenno di risata pieno di incredulità, come se quella parte di sé fosse ora lontana anni luce... poi aveva ripreso a narrare, un racconto in cui loro erano i protagonisti. Una menzogna, come ogni storia di fantasia.

Leggo i tuoi libri sin da quando pubblichi”, aveva detto. E Leo ricordò la sera in cui gli aveva detto che, ne era sicuro, lui non li aveva mai letti. Non gli aveva mentito, stranamente. “Quando Ruka mi ha detto che eri suo fratello, ero al settimo cielo” e così, si erano incontrati alla festa della ragazza; impaziente di conoscerlo, si era presentato con largo anticipo e aveva aiutato la piccola Tsukinaga a fare gli ultimi preparativi. “Lo ricordi?”
Poteva forse dimenticarlo? Aveva passato settimane a lottare contro quel momento, contro l'istanti in cui i loro occhi si erano incrociati. Adesso riconosceva quel colore così vibrante, intenso. Si era chiuso in casa, aveva litigato con Shu, si era affidato persino ai peggiori circoli di complottisti che il web aveva potuto fornirgli. Così lo aveva trovato – più meno, forse ritrovato era più consono. Ma in quel momento, mentre Tsukasa si lasciava andare ad una confessione in piena regola, proprio come alla fine dei migliori gialli, non aveva saputo chiedere niente. Lo aveva lasciato parlare, allibito e solo ora, disteso su quel letto, aveva la forza di ripercorrere quanto gli era stato detto.

Ruka ha capito nel momento in cui ti ha visto fuggire. Io ero—sconvolto, confuso. Ho sempre amato i tuoi libri, sono stati i miei unici confidenti per anni, ma... non avrei mai potuto immaginare che tu fossi il mio Predestino. Ruka ha annullato la festa, facendo entrare solo alcune persone – gli amici del fratellone, mi ha detto. E così ho... conosciuto Narukami, Sakuma e Isara.”

Aveva tutto un sapore così assurdo, guardandosi indietro e soppesando le reazioni dei suoi amici – le domande di Naru sulla festa, il nervosismo di tutti i suoi amici quando aveva accennato alla sua relazione con Robin. Tutti, intorno a lui, sapevano e tutti avevano taciuto; avevano fatto finta di niente, con le loro lievi insinuazioni, con le loro domande fin troppo precise, con le loro preoccupazioni all'epoca insensate. Avevano persino preso parte a quel teatrino fatto di inganni e bugie, lo avevano raggirato non meno del ragazzo che era stato sicuro di amare fino a quel pomeriggio.

Non prendertela con loro, ti prego” aveva sottolineato poi, con tono sempre più nervoso, mentre si mordeva il labbro inferiore, quasi a sangue. Leo aveva desiderato che smettesse di torturarsi la bocca, ma non aveva fatto nulla per farglielo capire. Lo aveva solo guardato, stralunato. “Narukami mi ha... detto che non avresti mai permesso che ci conoscessimo, sapendo che ero il tuo Predestino – per questo, solo per questo abbiamo—ho creato Robin”.

Lo aveva creato. Quelle parole gli avevano fatto così male che quasi gli avevano tolto il respiro. Robin, tutto ciò che aveva colorato la sua vita negli ultimi mesi, era solo una creazione del suo Predestino; era stato così abile, così astuto, da riuscire a farsi amare illudendolo di essere ancora se stesso, di avere ancora il pieno controllo sulla sua vita. Era lo scacco matto al re: il suo avversario, la sorte, lo aveva sconfitto inducendolo ad amare chi doveva e al contempo illudendolo con qualcosa di menzognero, proprio come una bella storia – creare finzione, quello che lui faceva da quando aveva memoria.

Gli sfuggì un'imprecazione contro le lenzuola, ma a mezza voce, rassegnata e stufa di una battaglia che ormai sapeva di non poter vincere. Non si sentiva neanche sconfitto ma piuttosto disorientato: si chiese coloro a cui, nel corso della storia dell'umanità, erano state strappate le proprie origini per poi essere nuovamente piantati in una realtà nuova, impensabile, si fossero sentiti allo stesso modo.

Narukami mi ha dato una mano nel cercare di non rendermi troppo riconoscibile e poi—ha chiesto aiuto ad una persona che conosceva per far sì che ci trovasse qualcuno abile nei siti internet. Non ho idea del come, ma... sapeva che avresti cercato informazioni sui Dissidenti, sapeva che avresti provato di tutto pur di fuggire dal Predestino”. Il suo tono era così triste, mentre raccontava. Leo lo sentiva, in ogni sillaba, il suo rammarico per averlo ingannato, per avergli dato un'illusione così perfetta da costringerlo persino a distogliere lo sguardo dalle contraddizioni. Era ovvio che Arashi si fosse rivolto a Madara che, come aveva fatto con lui, lo aveva indirizzato verso Makoto Yuuki. Finalmente, i pezzi raccolti negli ultimi mesi trovavano il loro posto in un puzzle la cui figura finale lo faceva rabbrividire dal terrore e soffrire più di quanto avesse mai sofferto in vita sua. “È così che ci siamo incontrati tramite il sito. Niente—strane sette, solo... beh, quella che è a tutti gli effetti una trappola...” Aveva sospirato, come se raccontare tutto lo stesse liberando di un peso che portava con sé da troppo tempo. E, sempre che Leo potesse ancora dare un minimo di credito a quello che aveva conosciuto di lui in quei mesi, lo scrittore ne era certo: né Robin, né tanto meno Tsukasa erano dei bravi attori. “Volevo solo conoscerti meglio. Volevo capire perché odiassi tanto il Predestino ed eri così sicuro di te che non ho potuto fare a meno di seguirti. E poi—poi mi è sfuggito tutto di mano dopo... dopo aver fatto visita a quel locale, quando ci siamo baciati la prima volta. Non... non riuscivo a credere che tu lo avessi fatto, ho temuto di averti imbrogliato perché forse era davvero opera del Predestino, ma—non riuscivo a resisterti, anche se avevo paura di ferirti. Quando... quando mi hai raccontato di Izumi, non... sono più riuscito a pensare di lasciarti andare, ho deciso di rimanere al tuo fianco fin quando avrei potuto darti anche un poco di serenità. I tuoi amici, tua sorella... non era questo che volevano. È stata colpa mia”.

Però non ti ho mai mentito su di me” si affrettò ad aggiungere, riprendendo per un attimo quello scintillio negli occhi che Leo aveva amato sin dal primo momento, quell'energia incredibilmente pura, forte e a tratti feroce che lo animava nei momenti più impensati. “Robin, Tsukasa... Sono rimasto al tuo fianco perché lo volevo. Volevo conoscerti, volevo—sapere se potevamo davvero avere una possibilità insieme, se potevi ancora una volta cambiare la mia vita. È stato... egoista, da parte mia. Ma volevo che ci conoscessimo senza pregiudizi, senza--” e qui la sua voce si era rotta, Tsukasa si era fermato, incapace di continuare. E Leo li aveva visti, i suoi occhi, li aveva visti brillare ma non di quella luce che aveva imparato ad avere al suo fianco quanto piuttosto da un lieve velo di lacrime che li rendeva scintillanti. E vederlo così faceva male quasi quanto l'idea di essere stato ingannato dal suo peggior nemico. “Lo rifarei. Ancora e ancora. Con tutto il mio egoismo, non... mi pento di nulla, perché mi ha condotto fin qui”. Eppure, nonostante questo, non temeva il suo sguardo vacuo; gli aveva preso il volto tra le mani, aveva ingoiato le parole che avrebbe voluto dirgli davvero – era tutto così chiaro, evidente, perché erano legati dagli stessi sentimenti – e lo aveva baciato, con quel sapore insopportabile di addio. Di abbandono.

Non lo aveva fermato neanche in quel momento.

... Non voglio legarti a me” gli aveva sussurrato, le mani di solito calde e confortanti in quel momento sudaticce e tremanti, testimoni inconsapevoli della sofferenza che stringeva entrambi in una morsa. “Ma ti aspetterò sempre, Leader. Ti... aspetterò, perché tutto quello che ho—abbiamo provato in questi mesi, è reale. Più del Predestino”.

Se avesse dovuto mettere un punto al flashback, lo avrebbe fatto in quel preciso momento. La sua penna si sarebbe fermata, avrebbe messo un punto preciso e sarebbe andato a capo, dando un lieto fine a quella sentita confessione.

Invece nella sua mente si susseguirono anche gli attimi successivi, quando Tsukasa aveva lasciato la sua macchina per precipitarsi dentro la metro, sparendo dalla sua vita e portandosi via tutta la sua felicità, con quella sua camicia senza più alcun bottone e gli occhi senza traccia di risentimento.

Puro, anche quando bugiardo e smascherato. Ladro delle sue certezze, colpevole di aver distrutto tutto ciò in cui credeva.

Leader, lo aveva chiamato. Come se non fosse cambiato niente tra di loro, come se da un momento all'altro Merlino potesse ergersi ben dritto sulle zampe presagendo l'arrivo del suo salvatore e potessero così cenare tutti e tre assieme come avevano imparato a fare. Come se le chiavi che adesso aveva in tasca pesassero ancora pochi grammi e non come un mattone.

Quella casa era piena del fu Robin Kurosawa, a tal punto che stentava a ritenerla casa sua. Il modo in cui aveva invaso la sua quotidianità lo stupiva persino adesso che era tutto meno che lucido; si alzò a sedere sul materasso, guardandosi intorno in un vano tentativo di riconoscere qualcosa della sua vita prima di Robin, ma non trovò niente; neanche Artù aveva una sua immagine chiara che non comprendesse Robin, che spesso si metteva a studiare su quel letto mentre Leo lavorava, in quei lunghi pomeriggi di silenziosa compagnia reciproca, piena di un supporto che lo scrittore non aveva mai provato prima.

La cosa più assurda? Nonostante la rabbia, la frustrazione, la consapevolezza di essere stato ingannato, Leo gli credeva. C'era qualcosa, in fondo al suo cuore ora ricolmo di dolore, che sapeva che Tsukasa aveva pensato a lui, proprio quando lo aveva baciato. Quando lo aveva chiamato Leader, richiamando la loro storia. Quando gli aveva affermato con fermezza che non si pentiva di nulla.

Non aveva accettato il suo “ti amo”. Non aveva incatenato il suo cuore e, per assurdo, per questo sembrava appartenergli ancora di più. Non aveva suggellato niente – era ancora libero dal Predestino, ma schiavo dei suoi sentimenti.

E, per quelli, così come per le lacrime che iniziarono a scendere copiose ma silenziose sul suo volto, non poteva incolpare nessuno.


I do believe her, though I know she lies.”

William Shakespeare, Sonetto 138


«... Non ne avevo idea...»

Se non fosse stato per Madara e la sua insistenza insopportabile, probabilmente non avrebbe osato uscire di casa – ormai lo aveva accettato, non sapeva gestire la “fine” di qualcosa. Aveva fatto così con Izumi, quando uno dei suoi libri era stato troncato sul nascere e ora... Robin.

Aveva promesso a se stesso che avrebbe continuato a chiamarlo così – Robin. Era quello il nome che suonava più familiare sulle sue labbra, che celava tutto quel retrogusto dell'alcol che si era scolato nei giorni immediatamente seguenti alla sua confessione e, onestamente, l'altro nome gli appariva così insensato che non aveva neanche voglia di tenerlo a mente (anche se in realtà era sempre, sempre presente, quasi marchiato a fuoco tra i suoi pensieri).

Il castano sprofondò in uno strano silenzio assorto e, seppur distrattamente, Leo colse quel suo sguardo distaccato che appariva sempre quando sembrava carpire l'invisibile, quello che non era dato sapere ai comuni esseri umani.

«... Tu lo sapevi» il suo tono non era di accusa, quanto di divertita rassegnazione. Improvvisamente, piuttosto che del caffè nero che aveva davanti, aveva voglia di un rum doppio. L'ennesimo.

«Quello che mi stupisce è che tu non lo sapessi» fu la replica evasiva di Madara, mentre con lo sguardo vagava lontano, verso l'altro lato della strada. La vetrata del bar lasciava un'ampia visuale sulla strada trafficata da turisti, gruppi di ragazzi, genitori con bambini e Mama, pensò Leo, riusciva a vedere tutto: chissà che aspetto aveva, ai suoi occhi dotati, il Predestino. E chissà che gran mal di testa doveva avere. Comunque, Madara aveva ragione: incredibile che Leo non si fosse mai accorto di quanto quegli occhi viola somigliassero a quelli del suo fantasma e di come questo si fosse acquietato nell'esatto istante in cui Robin aveva fatto irruzione nella sua vita. Coincidenze che, ormai, erano troppo assurde per risultare credibili, soprattutto considerando che aveva avuto più di una settimana per pensarci su, per valutare attimo dopo attimo non solo Robin, ma anche se stesso.

«Forse ho solo finto di non saperlo. Ho voluto crederci» sussurrò, mescolando svogliatamente lo zucchero sicuramente già sciolto nel suo caffè. «Mi sono illuso di aver vinto e invece ne sono uscito non solo perdente, ma...»

«Ma?» lo incalzò Madara.

«... non lo so. Non lo so, Mama, credo che il mio cervello sia arrivato al suo punto di rottura» sospirò, allontanando il caffé da sé, improvvisamente lo stomaco chiuso da ogni dubbio e paura che aveva covato nei giorni precedenti. «Da una parte, sono furioso. Dall'altra...» Troppo difficile guardare persino il bordo del tavolo attorno a cui sedevano – fu più semplice chinarsi in avanti, nascondere il volto tra le braccia e contro il tavolo, dove poteva non vedere e non essere visto dal mondo – un'illusione anche questa, perché Madara aveva sempre visto dentro di lui più di quanto lui stesso non riuscisse a scorgere, un po' come Robin.

E infatti: «... Lo ami».

Non aveva il benché minimo senso, ma era così. Per quanto avesse provato ad odiarlo, non ci era mai riuscito: continuava a pensare a come avesse spavaldamente affermato di non essersi pentito di niente, che sarebbe stato pronto a rifare tutto, pur di stare con lui.

E Leo cosa avrebbe fatto, se solo avesse immaginato? Con la consapevolezza che sarebbe finito tutto all'improvviso, avrebbe preferito non vivere quei mesi con Robin e non soffrire o avrebbe corso di nuovo il rischio?

Altre dieci, cento, mille volte. Non riusciva a smettere di pensare alla sua risata leggera, al suo tono caldo di quando parlava in inglese, ai suoi momenti infantili, al modo in cui accarezzava Merlino—non c'era via d'uscita. Era tutto lì, impresso nella sua mente, con la chiarezza e l'alta definizione di una sala cinematografica e non si sforzava neanche di dimenticare. Non voleva dimenticare.

«Non ha voluto legarmi a lui» disse, come se questo bastasse a giustificare quella mole di sentimenti che ancora provava per lui. Chissà come stava, si chiese tra sé e sé, mentre lanciava uno sguardo al telefono, pensando alla foto che gli aveva scattato quell'ultima sera. La apriva spesso, come per ricordarsi che era reale, Robin. Lo era stato, almeno.

Mikejima incrociò le braccia, ancora una volta pensieroso. Era buffo, pensò Leo, quando assumeva un atteggiamento così serio e concentrato; era così abituato a vederlo energico e scatenato che quella conversazione così placida e dai toni gravi sembrava irreale, persino più dell'idea che riuscisse a vedere a chi le persone fossero legate. «Cosa vuoi sentirti dire?»

Era una domanda difficile. Leo, al momento, era confuso persino riguardo il suo riflesso nello specchio – gli sembrava sbagliato, sotto ogni punto di vista e incompleto, esattamente come il suo libro, rimasto senza finale.

Da quando aveva perso Robin, non era più riuscito a lavorarci su... perché sapeva che avrebbe eliminato l'elfo dall'esistenza del cavaliere senza pensarci due volte, nell'impeto del momento. Sapeva che la sua rabbia era ancora troppo forte per non tentare di prendersi una rivincita contro quello stupido cavaliere innamorato (lui stesso) di chi lo aveva ingannato. Era questo, il problema: seppur desiderasse che il cavaliere imparasse a sue spese cosa significava credere in un paradiso inesistente, non voleva fare del male all'elfo, seppur colpevole di avergli mentito. Assurdo? Illogico? Eppure, almeno nel suo libro, voleva che Robin fosse al sicuro. Reale.

«... La verità» decise infine, forse semplicemente stufo di sentirsi mentire; sollevò la testa per affrontare di nuovo quello che lo circondava, perché era stanco di dover essere assecondato nei suoi deliri. E quella stanchezza era esattamente il motivo per cui non aveva più osato contattare nessuno dei suoi amici, sua sorella compresa.

«Ha posto te di fronte ai suoi sentimenti» sottintendendo quasi che così le intenzioni di Robin parevano evidenti: i suoi sentimenti erano reali. «Ed è inutile che te lo dica perché lo starai provando, ma un legame ammezzato è una tortura, anche se sono in molti a decidere di tenerlo così per... paura del cambiamento, credo».

«Dubito che quello che provo dipenda solo dal Predestino e dalle sue stupide regole». Si accorse troppo tardi di quanto aveva detto, esattamente nel momento in cui Madara aveva prima sbattuto incredulo le palpebre e poi, lentamente, aveva accennato un sorriso. «... questo non significa che io lo accetti, Madara. Non sono impazzito del tutto».

«Trovo già incredibile che questo Tsukasa sia riuscito dove tutti gli altri hanno fallito, me compreso».

Un brivido, nel sentire quel nome – quasi fosse al posto giusto – gli percorse tutta la colonna vertebrale, ma cercò di non darlo a vedere. «Che cosa vuoi dire?»

«Ti sta finalmente facendo considerare il mondo al di fuori dalla tua ossessione, Leo. Ti ha fatto rendere conto che tu sei il solo a dare così tanto peso al Predestino e che ha molto meno rilievo nelle vite di tutti di quanto tu creda».

Il silenzio che ne seguì rese chiaro per entrambi che lo scrittore non aveva realizzato niente di quello di cui Madara stava parlando, almeno non fino a quel momento.

Non poteva negarlo, buona parte delle scelte che aveva compiuto nella sua vita le aveva prese per puro spirito di ribellione: tanto per cominciare, il volersi allontanare a tutti i costi dalla società generalmente intesa con i suoi atteggiamenti assurdi, strambi se non addirittura completamente fuori di testa che aveva accumulato dall'adolescenza in poi; senza considerare le sue disastrose relazioni, quelle così sbagliate da rendere più che evidente che non poteva esserci alcun Predestino in ballo. Izumi rientrava tra queste? Non ne era certo – lo aveva amato, nel suo burrascoso ed impetuoso non sapersi relazionare col prossimo, lo aveva amato persino quando avevano passato ore e ore a litigare per ogni stupidaggine. Una parte di sé, lo sentiva chiaramente, lo amava ancora.

Ma saperlo con qualcuno che poteva farlo sorridere più che arrabbiare, che era in grado di renderlo più onesto con gli altri e soprattutto con se stesso... non lo faceva più soffrire, no. Lo faceva sentire sollevato, perché lui non avrebbe saputo gestirlo – lui non sapeva prendersi cura degli altri. Leo Tsukinaga non era abbastanza forte per poter guidare qualcuno fuori dalla propria oscurità; anche lui, come Izumi, doveva essere guidato, doveva accettare una mano che potesse liberarlo dalle torture che si infliggeva da solo, ogni giorno.

«Leo?»

Era così, da quando il suo smascherato elfo aveva lasciato la sua macchina. Continuava a pensare, ricordare, cercare di districarsi e ancora pensare, pensare, pensare.

Le sue mani era da giorni in balia di un prurito creativo che però non sapeva mettere per iscritto, qualcosa di persino più irritante di un comune blocco dello scrittore: aveva troppe idee che lo rendevano confuso, pensieri che si accatastavano in un disordine primordiale nella sua mente e qualunque cosa cercasse di scrivere assumeva l'aspetto di un non-sense troppo azzardato persino per lui; era come se qualcuno avesse preso una scatola di bottoni, già disordinata e ne avesse aggiunti almeno un altro centinaio di tipi troppo diversi per essere smistati velocemente e così la povera scatola non riusciva neanche più a chiudersi.

Se Madara non gli avesse pizzicato appena il braccio, probabilmente sarebbe rimasto assorto ancora una volta troppo a lungo nei suoi pensieri. «Sei sul punto di esplodere, eh?»

«Sono... confuso. Non so se sono arrabbiato, non so quanto mi fido di lui».

Il castano, ancora una volta, lo studiò con un'espressione sorpresa.«Ti fidi di lui?»

Non poteva stupirsi di quella reazione, anche lui stentava a crederci – il Predestino, si sarebbe risposto una volta; era ovviamente colpa della linea che la sua vita avrebbe dovuto seguire se si sentiva in quel modo, diviso tra l'amarezza e la fiducia che nonostante tutto aveva in... Robin. Eppure, sapeva che non era così – quella fiducia l'aveva costruita Robin, nessun altro al suo posto. Giorno dopo giorno, con le sue forze. Dare il merito al Predestino sarebbe stato da ignoranti e superficiali quanto dire che i libri di Leo erano solo storielle leggere o che chi lavorava a lungo per raggiungere i propri obiettivi aveva solo avuto fortuna. No, Robin aveva guadagnato la sua fiducia e l'aveva anche tradita, questo era certo, ma non del tutto. Come aveva detto Madara, lo aveva rispettato sino alla fine; Leo non l'aveva smascherato o colto con le mani nel sacco – al contrario, Tsukasa aveva deciso di aprirsi, di confessarsi colpevole prima che non fosse più possibile tornare indietro.

«Prendimi per pazzo, ma non lo ritengo un attore così abile da mentirmi su tutto. Anzi, è piuttosto goffo quando si tratta di fingere». Gli bastava ricordare quella sera, in teatro, quando colto in un ambiente in cui forse non si era preparato ad essere visto, aveva lasciato che il panico facesse bella mostra di sé sul suo volto.

Mikejima sprofondò in un silenzio comodo per entrambi, perché Leo ne approfittò per tirare fuori il suo solito e malconcio taccuino e scrivere le sue solite parole sconnesse: stavolta fu il turno di duello, lontano, metà.

«Secondo me, hai bisogno di cambiare aria» fu l'improvvisa conclusione di Mama, prima di dargli una sonora pacca sulla schiena. «E io ho quello che fa per te, sai? Un bel viaggio intorno al mondo, data di partenza quasi certa ma non quella di ritorno!» gongolò poi, tornando ad essere l'esaltato ed esagitato amico che Leo ben conosceva, con le sue idee pazze tanto quanto le sue. «È da un paio di settimane che penso di voler partire e avevo considerato di farlo da solo ma... ehi, un compagno di viaggio non è certo uno svantaggio».

Si era aspettato molte cose, da quella conversazione; Mama era un fiero sostenitore dei benefici del Predestino e, date le circostanze, Leo era sicuro che gli avrebbe consigliato di darsi del tempo e poi affrontare il nuovo Robin. Ad essere onesto, quella gli era sembrata l'idea più sana che aveva avuto durante quel periodo di isolamento – un atteggiamento tutto sommato maturo, da parte sua o almeno ragionevole.

E invece, Madara era andato oltre persino le sue possibilità: quanto gli aveva proposto suonava insensato, pazzo, spericolato – una persona qualunque, al suo posto, avrebbe cominciato ad elencarsi ogni singola difficoltà che un'idea del genere comportava: e il lavoro?, i suoi amici?, la sua famiglia?, i soldi?

Partire per un viaggio di sola andata, senza certezza né riguardo la meta né tanto meno con un'idea sul ritorno era una follia totale.

Una follia degna del ragazzino che, in piedi sui tavoli della mensa, proclamava che gli alieni sarebbero arrivati presto e che lui ne era il messaggero.

Gli occhi color smeraldo del rosso si rinnovarono di una nuova luce, la mente aperta finalmente a qualcosa di nuovo a cui pensare, ad una via di fuga da un tormento che, per quanto provasse a risolvere, non trovava alcuna risoluzione; il sapore di luoghi diversi, nuovi e sconosciuti bastava per stuzzicarlo, bastava per dare di nuovo una forma certa alle sue idee. Libero dai ricordi della sua casa, forse, avrebbe anche trovato la forza e la lucidità di capire cosa fare.

Per questo, probabilmente, con l'adrenalina che lo invadeva, balzò in piedi e sbatté con un'energia improvvisamente ritrovata le mani sulla superficie liscia del piccolo tavolo.

«Quando partiamo?»


Fare i bagagli era stato più semplice del previsto. La loro prima tappa non era lontana e, a parte qualche cambio, Leo aveva con sé solo quel poco che gli serviva per sentirsi libero: l'occorrente per scrivere e una macchina fotografica. Quando si partiva per un viaggio senza ritorno certo, era inutile appesantirsi di convenzioni che non avevano poi grande utilità.

L'unica persona che si era sentito di salutare fu Ruka: la ragazza, sulla soglia di casa, gli occhi lucidi come se sentisse su di sé la responsabilità di quella pazzia che stava per compiere, aveva accettato con aria abbattuta tutto il necessario per prendersi cura di Merlino. I capelli aranciati, quasi identici a quelli di Leo, erano in disordine e indossava il completino estivo che Leo le aveva regalato l'anno prima, un top rosa con rifiniture rosse e i pantaloncini corti abbinati. Non sapeva se stesse tentando di fargli cambiare idea o, semplicemente, l'essersi allontanato l'avesse provata più di quanto non avesse considerato.

«Noi... non volevamo--» provò a dire la piccola Tsukinaga, poi, proprio quando Leo si era apprestato a salutarla. Il ragazzo scosse la testa e, con un mezzo sorriso, le scompigliò i capelli.

«Ruka, non sono arrabbiato. Con nessuno di voi... beh, solo un po'» si corresse, cercando di rassicurarla pur essendo sincero. Sperò che la sua espressione fosse abbastanza serena da sembrare convincente. «Non parto per evitare di vedere voi, ma perché ho bisogno di tornare a respirare. E qui non posso farlo».

«Lo capisco, ma...perché non decidere quando tornare? E perché così all'improvviso, poi? Se non fosse stato per Merlino, non ti saresti neanche fatto vedere!»

Era così, lo sapevano entrambi. Aveva colto la scusa di Merlino per vederla, per salutarla senza che sembrasse davvero un addio e, inoltre, nella speranza che l'altro padrone del micio potesse farsi vedere.

Leo quindi non negò quanto la sorella aveva appena detto, ma si limitò a tirare fuori dalla borsa a tracolla che portava un mazzo di chiavi.

Quel mazzo di chiavi.

«Ti affido casa, è a tua completa disposizione e quando tornerò, sarai la prima saperlo» e detto questo, le lasciò un leggero bacio sulla fronte, godendo di quel contatto perché sapeva che gli sarebbe mancata. Sua sorella era quasi tutto il suo mondo, insieme alla scrittura e poco altro. «E a Ritsu, Isara e... Naru, soprattutto. Di' loro che so perché lo avete fatto, non vi biasimo affatto. Da una parte, ve ne sono grato».

Ruka lo guardò a lungo, aspettandosi qualcos'altro. Per Leo era ancora strano pensare che conoscesse... l'altro Robin, quindi non afferrò subito il significato di quella attesa.

Ma era presto. Ancora troppo presto.

Il messaggio doveva essere stato recapitato, pensò, perché nessuno dei suoi amici si azzardò a contattarlo. Nessuno di loro osò ribattere quanto il loro re – un re fasullo, senza alcun vero titolo e che eppure aveva per loro il medesimo valore di unione, forza, spinta verso il futuro – aveva stabilito: c'era tanto da fare, per tutti, perché Leo in quell'Eden aveva perso se stesso per cercare di rimanere accanto al suo elfo. E adesso vagava, un po' come Peter Pan, in un'Isola che non C'è sottosopra, alla ricerca di quella parte di sé che più di tutte poteva dargli una risposta.

Così, chiusa la valigia con un colpo secco, aveva solo un obiettivo, in mente: ritrovare Leo Tsukinaga e poi, insieme, decidere il finale del loro libro.


Note: E così, qui, in questo momento, ci fermiamo. C'è ancora così tanto da dire, così tanto da capire - eppure, Leo ferma il tempo. In questo momento specifico, decide di mettere in pausa la sua intera vita, di pensare al se stesso che nel finale del libro voleva sacrificare. Quanto è cambiato? Tanto. Ho creato questo Leo basandomi sulla mia visione della sua vita di artista, dove la musica (in canon) è ovunque, immanente. Ho continuato cercando di rendere l'artista una persona reale, capace di vivere la sua vita seppur con la paura della rinuncia. Ne è nato un Leo Tsukinaga che sento mio come pochi altri personaggi prima di lui, con una fragilità singolare fatta adesso di consapevolezze. Mi sono ritrovata più volte a pensare che ha intorno persone che lo amano per il caos che è e che genera; così come nel canon, così in questa fan fiction.
Gli ho tolto, infine, la capacità di mettere il punto alla sua storia. Ho deciso che questo compito appartiene a colui che l'ha guidato finora, consapevole o meno, in questa sua metamorfosi: Tsukasa. L'epilogo, forse diviso in due, sarà tutto su di lui, sul suo punto di vista - proprio perché Leo crede di non essere in grado di prendersi cura degli altri, voglio dimostrargli che non è vero.

E con questo, per ora, mettiamo la parola fine a questa storia lunghissima. Grazie, grazie davvero a chi ha letto, a chi si è confrontato con me, a chi mi ha dato un'altra possibilità nel credere di nuovo nel potere delle parole che riesco a mettere insieme.

Grazie.

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Capitolo 15
*** Epilogo I: C'era una volta... ***


Epilogo 1: C'era una volta... 



I libri hanno un potere incredibile. Possono creare mondi nuovi, farteli assaporare, sorseggiare, vivere... e poi alla loro fine ti trovi di nuovo al tuo posto, nella realtà. E per un attimo ti guardi intorno, disorientato, perché non è più... tuo. O, almeno, non è più come lo ricordavi.


«Come va, Cenerentola?»

Tsukasa Suou non era in vena di commenti sarcastici sin dal primo mattino, doveva essere sincero. E non perché si era svegliato di malumore – semplicemente, non era in grado di sopportare certe velate frasi velenose a quell'ora. Così, riservò a Tori un'occhiata che trasudava minacce e poi tornò ad esibire il suo composto sorriso di circostanza.

«Una meraviglia, direi. Meno male che almeno il bancone non ha la tua voce fastidiosa».

Il ragazzino dai capelli rosa si limitò a concedergli una smorfia, mentre si sedeva all'appena citato bancone del piccolo bar. Mancava poco all'inizio delle lezioni e non ci sarebbe stato da stupirsi che fosse lì, vestito di tutto punto, con il maggiordomo Yuzuru al suo fianco; però Tsukasa ricordava bene la bontà del cappuccino con doppia schiuma e cacao che preparava Fushimi direttamente a casa loro, quindi sapeva perfettamente che l'unico motivo per cui l'ex coinquilino si presentava ogni giorno, puntuale, sul suo posto di lavoro era dargli il tormento.

«Immagino che il tuo bel principe sia ancora chissà dove in giro per il mondo» osservò il giovane erede degli Himemiya, sfogliando svogliatamente il menù (c0me se ne avesse bisogno – erano due mesi ormai che ordinava sempre il solito); Tsukasa colse comunque l'occhiata piena di attenzione che gli riservò, ben sapendo di aver scoccato l'ennesima freccia in una ferita che, dopo quindici mesi, ancora non voleva saperne di rimarginarsi.

Da quando Leo era partito, alle porte dell'estate, la vita di Tsukasa si era completamente capovolta: aveva lasciato l'università, stufo delle pressioni dei suoi genitori e aveva trovato lavoro come cameriere in un bar; ora abitava da solo in un piccolo monolocale in centro – solo, sì. Perché da solo stava cercando di ridipingere la sua vita, come se questo potesse tenergli la mente occupata più a lungo... ma, alla fine dei conti, sapeva dove queste decisioni, prese apparentemente in presa alle emozioni, lo stavano conducendo: da una parte, avrebbe voluto tornare ad essere “Robin”. Anzi, nella parte di Robin era stato paradossalmente più sincero con se stesso di quanto non lo fosse mai stato il resto della sua vita – aveva vissuto, seppur per qualche mese. Dall'altra, voleva mettersi alla prova. Voleva diventare una persona responsabile, un adulto reale e non l'oggetto dei sogni e delle speranze dei suoi genitori. Ne aveva abbastanza.

«Non ne ho idea» rispose, atono, mentre gli serviva un cappuccino con poca schiuma, come ogni mattina, nella vana speranza che la piantasse di presentarsi durante i suoi turni di lavoro.

Sapeva bene come Tori la pensava, sul suo ultimo e magistrale colpo di testa: perché impegnarsi tanto per un uomo che non aveva esitato a partire senza neanche lasciargli un messaggio, men che meno una data di ritorno? Quello che il suo amico non capivo era che Tsukasa non aveva tagliato con la sua vecchia vita per colpa di Leo – al contrario, per questo avrebbe dovuto ringraziarlo: aveva afferrato con decisione le redini della sua vita perché aveva preso finalmente delle decisioni che poteva ritenere proprie: Aveva ripreso a suonare il violino, aveva una sua indipendenza, si era ritagliato il suo spazio nel mondo. Uno spazio che nessuno aveva già preparato per lui, ma un luogo che stava costruendo con le sue stesse mani, mattone dopo mattone.

«I tuoi genitori sono furiosi» insistette il più basso, senza nascondere una smorfia di disgusto per la pessima bevanda. «Immagino tu non ti sia neanche presentato all'incontro matrimoniale, eh? Non te la perdoneranno mai, questa».

«Tori» sospirò Tsukasa, già stanco – non era il lavoro a renderlo stressato, quanto le ramanzine degne di una zia un po' troppo ficcanaso che il ragazzo dai capelli rosa gli riservava ogni singolo giorno. Per quanto variasse l'argomentazione, il punto rimaneva lo stesso: “Tsukasa, torna a casa. Stai sbagliando” e invece, il rosso sentiva di essere più che mai nel giusto. «Sto bene, ok? Vivo la mia vita. Ho un lavoro, una casetta per me, il tempo di dedicarmi a suonare e ho un obiettivo in mente» ripeté, per l'ennesima volta nel giro di una ventina di giorni. «So che non sei d'accordo con le mie scelte, ma non tornerò indietro. Sono abbastanza certo che riprenderò gli studi in futuro, ma non adesso».

Questo sembrò chiudere, almeno per il momento, la discussione. L'erede dell'impero Himemiya, con un sonoro schioccare di lingua, con un piccolo balzo scese dallo sgabello un po' troppo alto per lui e, senza aggiungere altro se non un cipiglio più che contrariato, lasciò il piccolo bar.

Tsukasa tirò un sospiro di sollievo, prima di togliere quanto l'ex coinquilino aveva lasciato – ovvero, l'intero cappuccino, ovviamente non di suo gradimento, e più di metà brioche – che si sbrigò a buttare; poi raccolse le monete che Yuzuru aveva lasciato impilate impeccabilmente sul bancone, precise al centesimo e le mise in cassa.

A dirla tutta, non rimpiangeva niene di quella perfezione. Nessuno meglio di lui sapeva che anche Tori, nella sua ostentata arroganza e ricchezza, aveva le sue pene da scontare e che, forse, in parte quel tormento che gli riservava derivava proprio dall'invidia che provava nei suoi confronti, del coraggio che aveva sfoggiato così, all'improvviso. E in effetti In certi momenti stentava a credere lui stesso di essere stato capace di osare tanto.

Inoltre, constatò con un sorriso, c'era del paradossale nelle provocazioni del suo ex-coinquilino; dopo mesi, ancora ricordava quando lo aveva chiamato per la prima volta “Cenerentola”.

«Che diamine hai fatto ai capelli?!» aveva esclamato, di ritorno da una lunga giornata passata a chiacchierare con la sua futura sposa nel giardino della residenza Himemiya. Era il giorno in cui Narukami aveva rivoluzionato quasi completamente la sua immagine, colorandogli i capelli di nero ed aggiungendo numerose ciocche di capelli similmente veri, con una maestria tale che persino Tsukasa aveva avuto difficoltà a riconoscersi allo specchio. Dopo essere stato messo al corrente, più o meno, della situazione, Tori aveva commentato con uno strafottente: «Praticamente sei una novella Cenerentola che va al ballo per ingannare il principe. Complimenti per la carriera, Suou».

Se avesse potuto correggerlo con le consapevolezze del presente, Tsukasa gli avrebbe detto che la sua fiaba non sembrava dover avere un lieto fine – non nel senso letterale del termine. Il suo principe forse non lo aveva cercato in lungo e in largo con una metaforica scarpetta di cristallo (anzi, forse non lo avrebbe mai più voluto vedere), ma Cenerentola aveva deciso di dare un bel colpo di scopa alla matrigna e alle sorellastre.

Ma anche allora, il suo tono fastidioso non l'aveva particolarmente scalfito; sapeva bene che quel piano sarebbe parso insensato agli occhi di chiunque e non solo di un principino quale era il suo ex-coinquilino e a ripensarci adesso...

«Tsukasa?» Strappato dai suoi pensieri mentre puliva in un gesto ormai abituale la macchina del caffé, quasi trasalì quando si sentì chiamare per nome e, per un attimo, lo attraversò il pensiero che Tori fosse tornato indietro giusto per ricordargli ancora quanto sembrasse ammattito tutto di un colpo; quindi, in un primo momento, l'espressione che rivolse a colui che l'aveva interpellato dovette sembrare a dir poco irritata. Ma si rilassò subito quando, dall'altro lato del bancone, si trovò di fronte proprio colui che per primo aveva proposto il folle piano che aveva completamente ribaltato la sua vita... e che lo aveva anche reso possibile.

«... Narukami!» esclamò, distendendo subito lo sguardo, mentre le labbra si sciolsero in un sorriso sincero e caldo.

Poco prima che Leo lo costringesse a confessare, Arashi lo aveva chiamato al cellulare. La ricordava bene, quella chiamata, perché non si era mai sentito così... disonesto in tutta la sua vita. Gli aveva raccontato che Leo aveva detto ai suoi amici di essere fidanzato con un ragazzo, un certo Robin; poi gli aveva chiesto se fosse vero, se avesse inteso davvero di quel Robin – se stesse davvero parlando di Tsukasa; infine, gli aveva ricordato che non era per questo che lo aveva aiutato, che avrebbe dovuto raccontargli la verità, che lo stava illudendo più di chiunque altro.

E anche allora Tsukasa lo sapeva, che aveva ragione – sapeva che Leo meritava di meglio rispetto a un omuncolo che non faceva che raccontargli falsità. Eppure... non aveva mai trovato davvero il coraggio, almeno non fin quando lui non gli aveva dato altra via di fuga: la verità o costringerlo per sempre ad amarlo e odiarlo allo stesso tempo.

Era ben distante adesso quella voce dura dal ragazzo che si sedette con grazia al bancone, poggiando la borsa che portava sulla spalla sullo sgabello vicino. Si poggiò al bancone col suo solito fare naturalmente ammiccante e coinvolgente, che ad un giudizio superficiale poteva sembrare frivolo. Tsukasa ricordava bene quanto si era sentito in difficoltà con lui, inizialmente.

«Me lo fai un tè freddo?» chiese il biondo, con un sorriso raggiante, mentre poggiava il mento sulla propria mano. Inutile dire che i pochi clienti ancora nel bar (tanti erano fuggiti in fretta e furia per la lezione del mattino) si voltarono a fissarlo – Narukami era così: attirava l'attenzione ovunque andasse, volente o nolente.

«Lo offre la casa» gli rispose semplicemente Tsukasa, mentre tirava fuori del ghiaccio dal freezer sotto il bancone. L'amico lo guardò attentamente mentre lavorava con sicurezza, padrone di quella piccola zona che era il piano del bar. «Come mai da queste parti?»

«Aspetto Mika. Qualcosa a proposito di una mostra di letteratura, non so. Ma Shu è ancora all'estero, quindi è lui a doversi occupare di queste cose». Erano cambiate così tante cose, in quei mesi.

Mika Kagehira ormai gestiva la libreria Itsuki quasi con la stessa disinvoltura con cui lui serviva caffè al mattino, ma ironicamente entrambi ancora attendevano – c'erano posti vacanti, nelle loro vite e per quanto il moro avesse trovato il suo Predestinato... Beh, Shu era fondamentale, nella sua vita. Era la sua famiglia, dopotutto.

«Piuttosto» continuò, «come va la vita da uomo indipendente?»

Tsukasa ridacchiò, in parte orgoglioso dei suoi piccoli risultati. «Sto bene. È tutto nuovo, ma—bello. Il lavoro mi piace e anche la casa».

«Ruka mi ha detto che ti hanno dato il permesso di tenere Merlino, nel condominio».

«Oh, sì! Sono stati molto gentili, hanno fatto un'eccezione» spiegò a grandi linee, prima di servirgli il tè al limone che gli aveva preparato. «Mi fa sentire... beh, meno solo».

Non poteva negarlo, sarebbe stato sciocco: sin da bambino era stato abituato a vivere sempre con qualcuno pronto ad assisterlo, seppur in modo formale e anche se, per puro orgoglio, di rado approfittava della sua posizione. Questo però non rendeva meno difficile vivere improvvisamente senza più alcun appoggio; già vivere con Tori si era rivelato difficoltoso ma adesso, completamente solo, a volte si sentiva soffocare dal silenzio. Con i suoi amici, quel silenzio si attenuava ma... doveva ammettere che era difficile stare anche con loro – stare con Narukami, con Sakuma, Isara e Ruka... lo portava sempre a guardare in un angolo della stanza, ponendosi questioni che nella quotidianità riusciva a mettere da parte.

Dovrebbe esserci lui, qui”, “Non merito di stare con i suoi cari, dopo quello che gli ho fatto”, “È colpa mia se non possono vederlo”.

Il biondo lo guardò a lungo, come se cercasse di leggere i suoi pensieri, prima di prendere a rovistare nella sua borsa a tracolla e poggiare un pacchetto sul bancone con un sorriso eloquente. «Visto che dici sempre che sei troppo stanco per uscire, ti ho portato un regalo. Ma non devi aprirlo prima di tornare a casa!» lo avvertì, agitando l'indice con fare di rimprovero sotto il suo naso.

«Va—bene, lo aprirò a casa. Grazie» rispose quasi intimidito da quel brusco cambio di atteggiamento - che ci fosse sotto qualcosa? - ma in un attimo Narukami tornò a sorridergli e Tsukasa replicò con un po' di imbarazzo. Difficilmente in vita sua aveva avuto amici, tanto meno... aveva ricevuto regali da parte loro. Ogni tanto era difficile per lui rimanere al passo delle novità e non farsi trovare impreparato, per belle che fossero.


Tornare a casa a fine turno era sia una maledizione che una liberazione. Nel percorrere il tratto verso il suo appartamento in metro (purtroppo non poteva ancora permettersi una macchina tutta sua, nonostante avesse faticosamente ottenuto la patente), non faceva altro che guardare il suo riflesso e pensare.

E aveva imparato a sue spese che pensare non era mai la soluzione giusta.

Il pensiero più ricorrente era che faticava a riconoscersi e non perché il riflesso nel vetro del treno fosse meno chiaro di quello in uno specchio: era indubbiamente dimagrito, più pallido e anche con qualche occhiaia di troppo. Non rinunciava mai ad essere in ordine – dopotutto, aveva ricevuto una severa educazione riguardo all'apparenza e alla cura del proprio corpo – ma lo Tsukasa che per la prima volta era salito su un mezzo pubblico sembrava distante anni luce e, doveva ammetterlo, un po' invidiava la sua spensieratezza, la sua meraviglia di allora.

Ma sapeva che c'era poco altro da rimpiangere, così come era consapevole che il lavoro lo faceva stare bene. Doveva parlare, muoversi in continuazione, cercare di mettere a proprio agio le persone: il tempo per pensare si annullava e si ripresentava solo quando ormai fuori era buio, mentre salutava educatamente il titolare del bar e il suo collega, un coetaneo che si chiamava Sora. Fin quando non apriva la porta di casa, finché Merlino non lo accoglieva con un sonoro miagolio irritato - “Dov'è la cena?” - non poteva fuggire ai suoi pensieri. E anche nel sonno, era piuttosto difficile ignorarli quando apparivano sotto la sua forma.

Beh”, si consolò, “almeno per oggi ho una distrazione”. Non avendo idea del contenuto del suo pacchetto, lo aveva tenuto tra le braccia per tutto il tempo (poteva rompersi!) e a forza di curiosare e tastare con le mani perché damn, se voleva sapere di cosa si trattava, aveva intuito che doveva trattarsi di un libro, il che lo incuriosiva più che mai.

Ad essere sincero, negli ultimi tempi non aveva avuto modo di leggere molto: il lavoro lo sfiniva, inoltre... niente riusciva a stuzzicare il suo interesse per più di poche pagine. Ogni libro aveva, in un certo senso, perso la sua magia e i suoi colori: non riusciva più ad immedesimarsi in quelle righe, ad interagire con le pagine.

Ma un libro regalato era un'altra cosa, o così Tsukasa pensava; la persona che lo acquistava pensava al destinatario, girovagava per le librerie alla ricerca di qualcosa che suggerisse il nome di chi voleva che lo ricevesse. Lo trovava un pensiero pieno di affetto silenzioso, come un mazzo di fiori anonimo.

Coinvolto da queste riflessioni, doveva aver accelerato il passo una volta fuori dalla metro perché si trovò di fronte al portone del suo modesto condominio ben prima di quanto pensasse; non appena spalancò la porta dell'appartamento (un modesto bilocale al terzo piano, senza ascensore) il miagolio irritato di Merlino ebbe lo stesso sapore di un “Bentornato!”.

Ma era di buonumore, quella sera, complice quel regalo tanto inaspettato; quindi si tolse le scarpe, abbandonò borsa e pacchetto momentaneamente in un angolo dell'entrata e poi sollevò il suo coinquilino, portandoselo vicino al volto per riempirlo di attenzioni. Prevedibile, il felino provò a divincolarsi quasi subito e per poco non gli lasciò un bel segno sulla guancia (non amava essere preso a quel modo; lo permetteva a pochi eletti e, soprattutto, di rado); nonostante l'iniziale rifiuto, dopo qualche minuto si rilassò e cominciò a fare delle basse ma continue fusa.

Soddisfatto, Tsukasa lo lasciò andare solo quando gli parve che Merlino lo avesse perdonato per l'intera giornata di assenza e così, con l'improvviso peso della stanchezza del lavoro addosso, riprese borsa e regalo per trascinarsi nella sua modesta cameretta.

Avrebbe cenato con calma dopo, si disse, mentre si gettava sul letto con un sospiro, senza neanche cambiarsi. La curiosità inoltre, era ormai alle stelle: voleva sapere. Strappò l'involucro senza alcuna pazienza, un po' come fanno i bambini a Natale con i propri pacchetti e—gli mancò il respiro.

Era un libro di modeste dimensioni, rilegato in cartoncino rigido di un azzurro pastello che ricordava una raccolta di storie per bambini; il titolo troneggiava su quasi tutta la copertina, in uno stampatello elegante ma non troppo ricercato, quasi sobrio e recitava “Voto di silenzio”. Sotto di esso, vi era un'illustrazione fatta di soli colori, con gli acquarelli, supponeva: una quiete valle verde menta dove si poteva cogliere a stento la sagoma illuminata di un singolo uccello, che sembrava prendere il posto del sole che invece mancava.

In basso a destra, in calligrafia corsiva, c'era un nome e fu quello, più di qualunque altra cosa, a fare male.

Leo Tsukinaga.

Rimase fermo, immobile, ipnotizzato da quelle lettere così quotidiane, banali ma che, messe assieme, riuscirono a farlo rabbrividire. Le sfiorò, tremante, con le dita e ne avvertì il modo in cui erano rialzate sul cartoncino plastificato e quasi si illuse di poter raggiungere il proprietario di quel nome. Ne percorse i segni uno dopo l'altro, come un non vedente che legge in braille.

Se non fosse stato per Merlino, il quale con poca grazia balzò sul letto ben intenzionato ad attirare la sua attenzione, probabilmente sarebbe rimasto ancora a lungo a fissare quel nome; invece il gatto, con il suo miagolio insistente, riuscì a distrarlo e riportarlo alla realtà, lontano della sua vita passata.

Da quello che non aveva più.

«Ma sì, arriva—preparo la cena» mormorò, scusandosi a bassa voce, lasciando immediatamente andare il libricino come se all'improvviso fosse stato coperto di fiamme. In fretta e furia, a capo chino, si precipitò nel cucinotto sia per mettere a cuocere il suo riso che per riempire la ciotola di Merlino.

Intanto, la mente però era in pieno tumulto: Tsukasa aveva letto ogni singolo libro di Leo e quello—quello non lo conosceva affatto. Era quel libro? La stessa fiaba a cui non riusciva a trovare un finale? Quella di cui tanto animatamente avevano discusso a tavola, quella sera? La storia del cavaliere e dell'elfo? Del paradiso perduto?
La
loro storia?

Per poco non si bruciò con la pentola, che quasi gli cadde dalle mani.

I pensieri non si placarono: perché era stato pubblicato? Quel libro era rimasto in sospeso, senza finale; Leo era partito, nessuno aveva più saputo nulla di lui... figurarsi della storia che stava scrivendo (anche se, conoscendolo, non era da escludere che tenesse più a far arrivare i suoi racconti che a tornare a casa). Poteva però significare, forse, che il suo viaggio era concluso?

Aveva—finito il loro libro?

Trovato una risposta?

«Narukami, jesus christ» sibilò, mentre metteva i croccantini nella ciotola di Merlino, che però non lo aveva seguito in cucina; nonostante questo, il suo corpo si muoveva ormai per inerzia – un comando automatico lo spingeva a compiere le azioni di ogni giorno senza rendersene conto, perché la sua mente era in modo piuttosto evidente, completamente slegata dalla realtà attuale.

Se fosse stato pubblicato, però, lo avrebbe saputo; il pubblico ormai conosceva il nome di Leo, sapeva quanta creatività ci fosse nella sua malinconia e in molti attendevano con ansia le sue opere. Una volta, anche lui era così.

Ora, invece, attendeva con ansia la possibilità di rivederlo.

Era come se dentro di lui ci fossero due Tsukasa – anzi, no, Robin e Tsukasa. Robin voleva sapere, voleva immaginare: se Leo era giunto ad una risposta, allora forse aveva la possibilità di tornare ad esistere. Era quella parte di sé che aveva deciso di prendere la tavola elegantemente apparecchiata con servizi di cristallo e porcellana e tovaglie di seta e di ribaltarla, rompendo tutto, creando finalmente il caos a cui anelava da ancor prima di incontrare l'uomo della sua vita. E dall'altra, stava Tsukasa che, come un bambino, faceva un passo alla volta, incerto, con i resti di quelle stoviglie tra le mani perché, dopotutto, non era ancora sicuro di potercela fare da solo. Quelle stupide stoviglie potevano ancora essere importanti, per lui, perché non sapeva se sarebbe riuscito a rimettere in ordine quel disastro.

Non era sicuro di poter affrontare il finale della loro storia.

Non era così sicuro di poter crescere davvero, senza Leo al suo fianco.

E poco importava se il riso era ormai cotto da almeno cinque minuti e se a breve non sarebbe stato più neanche commestibile, Tsukasa si era fermato a fissare il vuoto. Si era fermato ad immaginare la forza che era riuscito a tirare fuori in quel momento, quando gli aveva detto che lo avrebbe aspettato anche per sempre, se necessario. Dov'era ora quella spavalderia, quella sicurezza? Ne aveva bisogno. Eppure, era bastata la sola presenza di qualcosa con il suo nome perché crollasse come un castello fatto di carte, perché di questo si trattava: di finzione.

Come poteva pensare alla realtà, quella in cui si limitava a spegnere il fornello, a svuotare in fretta e furia la pentola del riso ormai scotto e a dirigersi verso la porta, quando era così vuota?

Prese la custodia nera poggiata di fianco alla porta e, senza neanche salutare Merlino come faceva sempre, senza neanche prendere la giacca nonostante il clima non fosse dei più miti, uscì da casa sua.

Casa sua, ma chi voleva prendere in giro – la sua casa era altrove, chissà in quale stato, quale continente o su quale aereo.


L'unica cosa che poteva fare, quando la sua facciata da cavaliere itinerante crollava, era suonare ed era anche, in effetti, tutto ciò che gli rimaneva. Ma a quell'ora avrebbe disturbato i vicini, quindi non poteva far altro che camminare un po', con l'aria perduta di chi ha perso la strada, appostarsi vicino ad una panchina qualunque ( magari non nei pressi delle abitazioni) e brandire il violino, la sua unica arma.

Così da poter urlare il suo nome nell'unica lingua universale che fosse mai appartenuta all'uomo.

Non c'era una melodia specifica, in quei momenti: il solo tenere lo strumento tra le mani rendeva più facile accettare la solitudine di cui si era fatto carico e gli ricordava il coraggio con cui aveva affrontato le sue paure. E mentre muoveva con destrezza l'archetto e chiudeva gli occhi, sentiva che il ricordo di Leo prendeva corpo, si materializzava seduto su quella panchina, lo sguardo suo e suo soltanto e inanto ondeggiava il capo al ritmo della musica, sensibile all'arte come solo lui sapeva essere, mentre le mani, incapaci di stare ferme, giocherellavano con una penna, anch'essa immaginaria. Non era esitante, in quell'illusione: la penna faceva parte di lui, di tanto in tanto la usava come la bacchetta di un direttore di orchestra; in altri momenti si limitava a guardarlo, studiando i suoi movimenti, inventando chissà quale nuova storia.

Quando suonava, era sempre con lui. Aveva sempre la sensazione che fosse improvvisamente raggiungibile nel momento in cui iniziava a suonare e che svanisse non appena si fermava; per questo, in quei mesi, aveva suonato furiosamente: rabbia, tristezza, speranza – tutto, aveva dato forma a tutte le sfumature dei suoi sentimenti pur di ritrovarlo, pur di credere seppur per qualche momento di averlo ancora al suo fianco.

Ma quando finalmente smise di suonare, quando anche quell'effimera immagine fu scomparsa, non aveva ancora una risposta: non sapeva cosa fare. Il Leo nato dalle sue note era rimasto in silenzio, come sempre – al massimo, aveva lasciato il posto ad un Robin irritato, perché la scelta era scontata.

Crollò, madido di sudore, seduto sulla panchina, più leggero – certo, tutti i suoi dubbi, le due domande ma soprattutto la sua solitudine erano ancora lì, ma suonare rendeva tutto meno opprimente. Era come se avere tra le mani il violino lo aiutasse a mettere in ordine le idee, a riprendere contatto con la realtà quando le emozioni sembravano sul punto di schiacciarlo. Era una fuga tattica, una pausa che permetteva alla mente e al cuore di riposare quel tanto che bastava per non lasciarsi travolgere.

La musica, insieme a Merlino, lo aveva letteralmente salvato in quell'ultimo anno.

Stava riponendo sovrappensiero il violino nella propria custodia, quando sentì dire: «Tieni».

Trasalì quando si ritrovò vicino al volto un bicchiere di caffè fumante, ma non gli ci volle molto prima di capire di chi si trattasse: nel sollevare lo sguardo, non fu sorpreso di incontrare gli occhi di Izumi Sena.

Era forse sciocco, da pare sua, trovare ironico che, nei suoi momenti di solitudine, avesse trovato in quel ragazzo – l'uomo che Leo aveva amato senza remore alcuna, senza darsi tregua, quasi autodistruggendosi – un inaspettato alleato. Si erano incontrati per caso, poco dopo che si era trasferito, in una serata molto simile a quella: Tsukasa era uscito, violino alla mano e aveva suonato... A lungo, forse per qualche ora, senza fermarsi mai. Si era svuotato di ogni energia così che la sua mente potesse smettere di tormentarlo, così che potesse alimentare per un po' l'illusione che lui fosse lì, al suo fianco... e quando aveva smesso di suonare, Izumi Sena era di fronte a lui, che lo guardava con occhi di zaffiro e una lattina di birra tra le mani, lasciata a metà. Lo sguardo impenetrabile, l'espressione marmorea: si era quasi spaventato, in un primo momento – Izumi faceva quell'effetto a quasi tutti, almeno stando a quanto diceva lui.

Circostanze fortuite, forse. Eppure, nessuno meglio di lui avrebbe potuto capire il vuoto che Leo Tsukinaga lasciava nella propria vita, una volta lasciato volare via.

«Sena...» sussurrò Tsukasa, con un mezzo sorriso colmo di gratitudine, mentre prendeva il bicchiere di plastica tra le mani. Si sentiva rinvigorito persino dal solo odore della bevanda. «Di ritorno da casa del signor Yuuki?»

Il ragazzo scrollò le spalle e poi gli si sedette accanto, aspettando che sorseggiasse quanto gli aveva offerto. «Ti ho visto suonare mentre facevo due passi. Il caffè è perché ho pensato che potessi prendere freddo» mormorò, guardando altrove. Un po' Tsukasa riusciva ad immaginarlo al fianco di Leo, con quei modi bruschi ma pieni di attenzioni mentre in sottofondo risuonava la risata rumorosa e prorompente del rosso, ottima per irritarlo e al tempo stesso strappargli un sorriso esasperato.

«Grazie, sei davvero gentile».

«E tu un idiota» ribatté subito, tornando tagliente ed ostinandosi a guardare dall'altro lato della strada. «Ma chi è il cretino che esce senza giacca di questi tempi? L'estate è finita da un pezzo, Kasa».

Era singolare quel soprannome – se fosse stato chiunque altro ad utilizzarlo si sarebbe arrabbiato, sicuramente; Tsukasa non amava i vezzeggiativi, così come non gli piaceva essere trattato come un bambino. Eppure, con Izumi non riusciva a protestare: non avrebbe saputo dire perché, ma negargli quell'accenno di familiarità, se lo sentiva, sarebbe stato come prendere a calci quella muta amicizia che si era instaurata tra loro. E solo Merlino sapeva quanto ne aveva bisogno.

«Sono... uscito di corsa, senza pensare» provò a giustificarsi, prendendo appena un po' di colore sulle guance. In effetti, era scappato così in fretta che non aveva neanche pensato che potesse far freddo, a quell'ora di sera.

«... È successo qualcosa?» A dirla tutta, si aspettava l'ennesimo burbero rimprovero. Ed invece trovò lo sguardo preoccupato del modello ad indagare sul suo volto, apprensivo.

Perché Izumi sapeva quale voragine lasciava Leo Tsukinaga.

Avrebbe potuto dirgli che no, non era successo niente. Avrebbe potuto raccontargli qualunque cosa, del lavoro, dello stress del trasloco, di Tori... senza accennare al libro che lo aveva di nuovo trascinato indietro nel tempo, a quella sera in cui aveva cercato di far capire ad un testardo che essere felici non era sbagliato; che pensare a se stessi non era un crimine. Che nessun eroe veniva premiato, nella realtà.

Ma fu sincero, invece. Si era ripromesso di provare a mentire il meno possibile. «... Ho visto Narukami, oggi».

«E?» Era ovvio, Izumi sapeva che c'era dell'altro. Qualcosa di grosso, qualcosa in grado gettarlo in strada senza la giacca a suonare come un folle.

«Mi ha portato un regalo. Un libro, per essere precisi» sospirò, pensando al modo in cui gli aveva detto di aprirlo assolutamente a casa con quel suo fare allusivo. Se, come diceva Tori, gli era toccata la parte di Cenerentola in quella storia, allora Arashi era una fata madrina con un pizzico di sadismo al posto della bacchetta. «... Il libro che stava scrivendo Leo prima che se ne andasse».

Seguì qualche attimo di silenzio in cui Tsukasa non ebbe il coraggio di incrociare lo sguardo del più grande; se per chiunque altro, un libro non sarebbe di certo stata una questione così incredibile, entrambi sapevano che il modo migliore (e l'unico, ad essere sinceri) in cui Leo veicolava con sicurezza quello che provava era attraverso le parole scritte.

«Quello a cui non sapeva che finale dare?» Il giovane Suou annuì, di nuovo con lo sguardo fisso sul riflesso del lampione in quel che restava di una pozzanghera sul ciglio della strada. «E fammi indovinare: hai paura di scoprire quale ha scelto». Tsukasa non poté che accennare di nuovo un assenso col capo, consapevole che dopo tanta spavalderia mostrata negli ultimi mesi, quello sarebbe dovuto sembrare un atto dovuto. Invece... faceva male. Aveva la sensazione che, una volta iniziato quel libro, qualcosa si sarebbe inevitabilmente concluso: nel bene o nel male, ogni speranza che aveva riposto nel futuro avrebbe trovato una sua fine.

Era la prima volta in vita sua che non voleva conoscere il finale di una storia.

Izumi rimase in silenzio per parecchio tempo e poi dopo aver sospirato, inaspettatamente portò una mano sulla sua nuca e, con un po' di burbera goffaggine, gli scompigliò i capelli rossi per poi dargli un colpetto leggero.

«Leo ama più di chiunque altro» mormorò, come se non stesse parlando a lui, ma stesse riflettendo ad alta voce. E per quanto quell'affermazione fosse vera (lo sapevano entrambi, che Leo Tsukinaga viveva ogni sua emozione amplificata rispetto a qualunque essere umano) Tsukasa si chiese se avesse mai—provato rancore, nei confronti del Predestino; se non avesse mai desiderato tornare alla sera di autunno di cui Leo gli aveva raccontato per ribellarsi, per rimanere con lui, per difenderlo da se stesso. «Penso che dovresti provare a leggerlo, quel libro. È più bravo a scrivere che a parlare, dopotutto».


Con quelle parole in mente, non riuscì a chiudere occhio. Perse il conto delle volte in cui tentò di prendere sonno e in cui si rigirò, senza risultato, nel suo letto singolo. Merlino miagolò un paio di volte in segno di protesta. Era come se il libro, posato sul comodino con la copertina rivolta verso il basso, brillasse di luce propria, rendendogli impossibile dormire.

E così, esausto ed esasperato da se stesso, dall'autore e anche da quella storia, nel bel mezzo della notte accese la luce e si mise a leggere.


"C'era una volta, un giovane cavaliere che credeva più nella sua spada che in se stesso..."


Note: Leo ha provato a fermare il tempo, ma non c'è riuscito. Il tempo è tiranno, non aspetta i comodi di nessuno... e Tsukasa sa cosa vuol dire, sentire il tempo scorrere.
Ammetto che ho provato, forse non proprio esaurientemente, a differenziare il mondo di Tsukasa da quello di Leo con cui ho familiarizzato così tanto: Tsukasa cerca certezze, punti di appoggio e spesso le trova. Ha un lavoro, una vita indipendente (questo forte bisogno di valorizzarsi, di cavarsela con le sue sole forze, come per dimostrare a chi lo guarda che lui può farcela) ma gli manca molto.
Gli manca un po' tutto, in effetti. 
Credo che il suo ruolo in questa storia sia stato il più difficile e il più doloroso. Leo ha vissuto di sogni, Tsukasa ha sempre saputo che tutto era destinato a finire, in qualche modo. E quando ho pensato al libro, a quel "Voto di Silenzio" che riprende un po' grossolanamente Silent Oath, ho pensato che ne sarebbe stato terrorizzato. Perché fondamentalmente si sente solo anche se non lo è.
L'epilogo, come temevo, si è diviso in due: questo perché volevo che Tsukasa respirasse, vivesse come se stesso almeno in un frammento di questa storia - ho già detto che come Robin non ha mai mentito davvero, ma volevo rendergli giustizia e volevo dimostrare anche io quanto vale. Quanto coraggio ha, rispetto a Leo, di affrontare le sue scelte anche quando sono opinabili, al limite dell'etico; volevo anche che tornasse Izumi, volevo che in qualche modo si prendesse cura di Leo, indirettamente e anche di Tsukasa. Nel canon è così fondamentale per entrambi che non potevo permetterlo di non farlo sedere su quella panchina, al fianco del loro erede, cresciuto così in fretta.

L'ultima parte arriverà, spero, entro luglio! Mi scuso in anticipo ma tra esami che sopraggiungono e impegni presi, non scomparirò ma il finale non sarà così celere. E grazie, davvero, ancora.

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Capitolo 16
*** Epilogo II: ... una non-fine. ***


LEOKASA LASTCHAP

Epilogo 2: ... nessuna fine.


“… ogni singola striatura del cielo sembrava volerlo invitare a restare. Il sorriso malinconico dell'elfo non lo pregò, però, e con la sua anima candida quanto una colomba, lo salutò. Gli augurò buona fortuna, dopo avergli donato ciò che – ne erano entrambi consapevoli – manteneva in vita la radura incantata: una pietra da cui sgorgava la miracolosa acqua dell'immortalità, se posata in un luogo rigoglioso.
E fuori da quel mondo fatato, il cavaliere trovò solo morte, distruzione, dolore.”

Era probabilmente l'ora di pranzo, ormai, quando lesse quel passo – quando Tsukasa si rese conto di aver smesso di respirare per più tempo di quanto il corpo umano potesse concedere. Non aveva mai, mai interrotto la lettura se non per brevi pause, fatte semplicemente per sincerarsi dell'orario: aveva avuto il buon cuore di chiamare a lavoro ed avvisare che non sarebbe potuto andare, quel giorno, perché malato – si sentiva in colpa ma era, dopotutto, la prima volta che usufruiva di qualche giorno di malattia. Inoltre, era vero che non stava proprio bene.

E quel libro lo avrebbe solo perseguitato, se non ne avesse letto il finale.

Ma ogni libro era un viaggio: non avrebbe mai potuto balzare alle pagine finali, soprattutto considerando che era Leo, l'autore; era sicuro che, dietro ogni frase c'era un frammento della sua persona, del percorso che aveva compiuto per giungere al finale che aveva scelto.

Era come correre dietro ad una fantasma, lungo quelle pagine: abbracciava ogni parola con nostalgia e, similmente a quando suonava il violino nelle strade vuote, Leo sembrava seduto con lui, lì, su quel letto; era silenzioso, paziente come mai lo aveva visto neanche nella realtà.

Quando Tsukasa aveva letto quelle ultime righe, non aveva potuto fare a meno di sollevare lo sguardo verso quell'illusione, che continuava testardamente a guardare altrove.

Il cavaliere aveva abbandonato il Paradiso. Se davvero Leo aveva proiettato la loro storia in quel libro, significava che lui aveva lasciato Tsukasa alle sue spalle: sapeva cosa pensava del Predestino, sapeva che considerava fasullo quel che ne nasceva, oltre che pericoloso... Eppure, mancavano ancora moltissime pagine alla conclusione.

Riprese a leggere.

Il cavaliere aveva vagato per tutto il regno, la pietra ben custodita tra le sue mani e ad ogni passo aveva riacquistato i ricordi perduti dalla sua entrata nel paradiso terrestre; era giunto infine nella sua città, che aveva trovato ormai stremata, ridotta all'osso seppur il sole splendesse forte e chiaro su quel che rimaneva della cittadina.
Il re era ancora vivo, però. Le parole di Leo, nel descrivere quel tumulto di sensazioni si erano fatte nervose, quasi rabbiose: lo immaginava scrivere velocemente, come faceva sempre quando le idee lo coglievano alla sprovvista. Lo vedeva, chino sulla prima superficie disponibile, intento a buttare fuori come se fosse veleno le parole che lo facevano tremare, come se fosse un impulso incontrollabile. Forse era autosuggestione ma sembrava che odiasse il re più delle bugie dell'elfo, da come ne scriveva: il vecchio monarca sedeva spento sul suo trono decorato di un oro invecchiato, come se le morti dei suoi sudditi ne avessero portato via lo splendore e quando il cavaliere si disse tornato, la sua burbera domanda mal celava l'interesse egoistico per la pietra. La morte della figlia prediletta doveva aver indurito quell'anziano cuore che il cavaliere una volta credeva giusto e traspariva chiaramente dall'avidità con cui parlava che l'unica cosa che desiderava era la fonte miracolosa—ma solo per sé.

Non c'era più una collettività una salvare, ma un desiderio da esaudire.


Il cavaliere fece un passo indietro, la sala del trono improvvisamente talmente opprimente da avvertirne il peso sulle sue spalle, in tutta la sua maestosità e il trono—per gli dei, quella poltrona sembrava avviluppata da demoni, come se la malattia che aveva svuotato la città si fosse riversata tra quegli eleganti intarsi, rendendo il consunto signore di quelle entità malvagie.

Dammi la fonte” ordinò l'anziano, tendendo le mani rugose verso il cavaliere. Il giovane uomo indietreggiò ancora di uno, due, tre passi. Sentiva la pietra bruciare tra le sue mani, avvolta in un panno com'era e quasi poteva sentirne la voce, la richiesta di aiuto: “Non far sì che mi possieda”.

E allora, solo allora, fuggì. Una melma densa comparve al grido bestiale ed infuriato del monarca, sgorgando dalle pareti, in ogni direzione: sembrava che i demoni che avevano ucciso i suoi concittadini adesso si fossero addentrati in ogni anfratto della cittadina. Tra i mattoni, tra le venature del legno delle porte, dalle pennellate secche dei ritratti... ogni singolo oggetto sembrò emanare quell'incubo oscuro, ostacolando ogni suo passo mentre cercava di fuggire lontano, sempre più lontano.

Il cuore del cavaliere batteva forte, nel suo petto. Sentiva l'armatura pesare, la spada rendergli difficili i movimenti, l'elmo coprire parzialmente la sua visuale: tutto ciò che aveva indossato con orgoglio, fino a quel momento, divenne non solo superfluo ma addirittura pericoloso. Se non li avesse abbandonati, sarebbe morto.


Tsukasa chiuse per un secondo il libro, di scatto, il respiro affaticato perché ancora una volta lo aveva trattenuto: sentiva il cuore battere con la stessa meravigliosa e violenta potenza di uno stallone al galoppo, perché—lì, in quelle parole, iniziava a prendere forma la risposta di Leo. Leo, che aveva rifiutato sempre, quasi con ossessività, l'amore predestinato perché aveva il terrore che potesse distruggere la sua creatività (quante volte glielo aveva confidato?), che per tutta la vita aveva preferito soffrire, piuttosto che lasciare andare la sua penna... nelle climax finale aveva scritto di un uomo che per salvarsi la vita rinunciava a tutto ciò che lo aveva definito sin dalle prime pagine della sua storia.

Il cavaliere non aveva un nome – era solo il “cavaliere”. Questa era la sua identità, la stessa di cui si era quasi dimenticato in quella sorta di Paradiso Terrestre, la stessa a cui si era aggrappato nel convincersi a fuggirne. Era letteralmente l'unica cosa che gli dava una concretezza e qualunque lettore, a quel punto, avrebbe compreso che il cavaliere, all'inizio di quell'avventura, avrebbe preferito morire piuttosto che rinunciare alla sua bella armatura, al suo elmo e alla sua spada perché era tutto ciò che era.

Come Leo Tsukinaga e la sua penna, le sue storie.

«Non è giusto» gli sfuggì, accarezzando la carta come se potesse sfiorare invece il volto dell'uomo che amava, perché era uno stupido. Erano due stupidi. «Non devi rinunciare a te stesso, you idiot».

Riprese a leggere.


Quindi, si spogliò di tutto: prima l'elmo, che cadde a terra e venne rapidamente risucchiato dall'Onda Nera, che non accennava a rallentare la sua folle corsa; poi fu il turno della pettorina, degli spallacci, dei fiancali e delle pesanti gambiere. Tutto finì indifferentemente nel vortice oscuro che aveva alle calcagna, scomparso per sempre.

Ma non abbandonò la spada.

Senza quella, come avrebbe potuto difendersi? No, la spada rimase al suo fianco; con in spalla la sacca che conteneva la pietra e l'arma in pugno, il giovane corse a perdifiato senza una direzione precisa: sapeva solo che l'unico modo per liberarsi di quella sostanza demoniaca che gli dava la caccia era portare la potente pietra al sicuro: ma dove? Dove poteva andare con quel fardello, con quel potere troppo, troppo grande per le misere ed avidi mani umane?

Senza che se ne accorgesse, però, la risposta iniziò a palesarsi di fronte ai suoi occhi: era esausto, ormai, ma ad ogni passo – sempre più lento, trascinato – sentiva la paura scivolare via. Sebbene il verde rigoglioso fosse scomparso, lasciando il posto ad un autunno fuori stagione che aveva colorato quasi tutto di toni caldi sì, ma spenti, il giovane riconobbe la radura che per tanto tempo si era presa cura di lui.

Era al sicuro? Si volse per un attimo, ma del demoniaco fiume nero non c'era più alcuna traccia. Piuttosto, al suo posto, c'era la desolazione che non ricordava di aver visto quando era partito ed aveva detto addio all'elfo.


Tsukasa si impose un'altra pausa. Merlino si era di nuovo sistemato al suo fianco, fornendo un dolceamaro sottofondo musicale con le sue fusa alla lettura di quella che si apprestava ad essere la loro resa dei conti.

Si prese un attimo per chiudere gli occhi e scacciare le lacrime che ormai da un paio di pagine minacciavano di cadere. La mente vorticava, pregna così tanti pensieri che ebbe difficoltà a tentar di dar loro un ordine: a niente serviva lo sguardo curioso del suo Leo illusorio, perché – lo sapeva bene – non poteva parlargli. Interpellarlo significava tradire il libro che aveva tra le mani e quindi il suo autore: era compito suo decifrare quello che leggeva e, seppur inizialmente non avesse trovato troppe difficoltà (era riuscito, più o meno, a capire come lo scrittore aveva vissuto la loro relazione da quelle pagine, anche se leggerlo era stato a tratti doloroso e a tratti meraviglioso, come sfogliare un album di vecchie fotografie), adesso doveva prendersi tempo per capire cosa Leo stesse tentando di comunicargli.

Il cavaliere, che adesso era ormai solo un “giovane” (impossibile non notare quel cambiamento) armato di spada e che forse aveva perso se stesso, si era ritrovato di nuovo in un luogo conosciuto: l'entrata del Paradiso, dello stesso da cui era fuggito, ora invecchiati; i demoni, però, erano scomparsi. Poteva quindi assumere, Tsukasa, che ormai i dubbi di Leo – i peggiori, almeno – avevano smesso di perseguitarlo?

E allora perché la radura era invecchiata?

«Hai paura che io non sia più qui?» gli sfuggì in un sussurro, mentre rileggeva quel passaggio: la desolazione. Se c'era una cosa che Leo aveva omesso nella trasposizione da “Robin” all'elfo era proprio la promessa di aspettarlo, per sempre; l'addio tra i due era suonato sì come un “arrivederci”, ma era sottinteso nel sorriso dell'elfo e nulla più.

Quindi non gli aveva creduto? Temeva che sarebbe andato avanti?

Da una parte, non poteva dargli torto; non solo perché, dal punto di vista dell'uomo, Tsukasa gli aveva mentito per mesi e non aveva dunque motivo di fidarsi delle sue parole, ma anche perché per Tsukasa in prima persona era stata una vera tortura. Aveva messo a soqquadro tutta la sua vita, pur di costringersi ad aspettarlo: si era ribellato come non aveva mai avuto il coraggio di fare anche per avere la mente occupata da altro. Qualunque cosa pur di rimanere lì, pur di avere la forza di attendere.

Inspirò a fondo, poi riprese a leggere. Non mancava molto, alla fine.


Sei qui?” La voce del giovane risuonò forte nella foresta, ma non vi fu alcuna risposta. La pietra tra le sue mani sembrava diventata pesantissima, quasi insostenibile, al punto che si chiese non fosse piuttosto il suo senso di colpa, quello che stringeva al petto.

Chiamò l'elfo più e più volte, ma non ricevette alcuna risposta e la pietra continuava ad aumentare, come per magia, il suo peso. Sembrava volesse disperatamente riunirsi alla terra, così come disperatamente lui tentava di trovare il suo compagno – iniziava a capire il perché tante menzogne, ora.

Quel Paradiso andava protetto e, pur di prendere il cavaliere con sé, era dovuto scendere a compromessi.

Alla fine, lasciò andare la pieta, perché le sue umane mani non erano più in grado di sostenerla; questa cadde, d'improvviso priva di peso, comodamente sull'erba giallastra, seccata da una stagione che non avrebbe dovuto esserci.

Inizialmente, non successe niente. Il giovane si era aspettato un gran rumore, un tonfo sordo per quanto la pietra sembrava pesare e invece era rimbalzata sul terreno che, seppur secco, l'aveva accolta dolcemente.

Poi, l'acqua iniziò a sgorgare all'improvviso.

La fonte si originò nuovamente dalla pietra: l'acqua miracolosa, nata dal ciottolo, si insinuò nel terreno e più sgorgava, più la natura che lo circondava sembrava riprendere lo splendore che il giovane ricordava con gli occhi di cavaliere: gli alberi rifiorirono, l'erba tornò del colore dello smeraldo e anche l'aria divenne più pulita, quasi una brezza leggera avesse portato via quel tanfo di decadimento che aveva cominciato a corroderla. E poi...


Tsukasa voltò la pagina e, con una non troppo sussurrata imprecazione, trovò solo bianco.

Infatti, tutto ciò che seguiva era il vuoto: una ventina di pagine completamente svuotate, senza alcuna parola, messaggio o racconto da veicolare. Non c'era più niente da scoprire, nulla di cui accertarsi: per quanto le sfogliasse, a metà tra l'incredulo e il furioso, sembrava proprio che Leo fosse ricomparso nella sua vita per provocarlo e lasciarlo di nuovo senza risposte.

«I swear, I'll kick your ass as soon as I see you--» mormorò, in inglese, prima di lanciare il libro dall'altra parte della stanza; Merlino, al suo fianco, sussultò e miagolò irritato nella sua direzione, forse chiedendosi se non fosse impazzito.

E aveva ragione il felino: stava impazzendo. Si prese la testa tra le mani, resistendo a stento all'impulso di tirarsi i capelli e strapparseli; era la sua vendetta, questa? Lasciarlo così, sospeso in un limbo di speranza e terrore per il resto dei suoi giorni? Voleva che perdesse completamente la ragione a causa sua?

Digrignò i denti, giusto perché il buon senso gli suggerì che, in un condominio, urlare non era il caso.

No, si disse, mentre sia il suo respiro che i battiti del suo cuore si facevano più regolari. No, lo avrebbe trovato. Gli avrebbe restituito quello stupido libro, lo avrebbe baciato e se ne sarebbe andato di nuovo. Anzi, forse lo avrebbe baciato più di una volta, per dimostrargli che poteva torturarlo quanto voleva, ma non si sarebbe arreso: avrebbe aspettato, in quella vita infernale, che Leo tornasse spoglio della sua armatura nella radura che si riempiva di nuovo di vita.

«... Wait».

Un barlume di idea – sciocca, folle, ingenua e forse autodistruttiva – si fece strada nella sua mente: probabilmente, se non fosse stato così emotivamente coinvolto e provato, si sarebbe ben guardato dallo scattare in piedi, cambiarsi con i primi abiti che trovò sparsi per la stanza e uscire di casa per correre a perdifiato verso la stazione della metropolitana.

C'era ancora una speranza, seppur una fiammella e, a costo di farle scudo col proprio corpo, non le avrebbe permesso di spegnersi.


Il solito Tsukasa si sarebbe vergognato di quei capelli spettinati, di quegli abiti sgualciti e della giacca troppo grande (era quella che usava di solito per uscire sul piccolo balcone di casa sua, per godersi un buon té sotto il cielo scuro della sera); il solito Tsukasa si sarebbe specchiato nei vetri un po' malandati della metro ed avrebbe imprecato, tentando di darsi un'aria più decente.

Ma lo Tsukasa di quel primo pomeriggio invernale aveva passato la notte in bianco per leggere, aveva saltato ben tre pasti e nonostante questo l'unica fame che aveva era quella di risposte: tutto ciò che il suo riflesso poteva suggerirgli era che, dopo tutti quei mesi, stava definitivamente ammattendo. “Congratulations” gli parve di sentire, dalla sua stessa ironica voce.

Eppure, il suo cuore ne era certo - “ È più bravo a scrivere che a parlare, dopotutto”, gli aveva ricordato Sena, senza puntualizzare niente che il giovane Suou già non conoscesse: Leo comunicava più tramite la sua scrittura, che non la parola. Quindi perché condurre il fu cavaliere verso la radura, così vicino all'elfo e poi lasciarlo solo? Perché ridare vita al Paradiso Terrestre senza voler davvero trovare l'elfo “menzognero”?

Se davvero quella fiaba era un'enorme trasposizione di quanto lo scrittore aveva vissuto a causa sua, dell'amore che provava per lui, forse significava che Leo aveva accettato di lasciar andare quella romantica ma sadica idea del Predestino ladro del suo talento, così come il protagonista della sua storia aveva lasciato cadere la pietra miliare della fonte sul terreno... ?

Oppure, ipotesi più probabile, Tsukasa stava impazzendo davvero, leggendo un testo che non c'era.

Scese dalla metro e ripercorse passi fatti almeno un centinaio di volte: i viali ricoperti da un manto di foglie giallastre, cadute dagli alberi che, seppur denudati, con orgoglio ancora si mostravano agli occhi umani, erano ormai familiari. Sapeva esattamente dove stava andando, anche se non sapeva se fosse sulla strada giusta. Quando si trovò di fronte al campanello con su scritto “Tsukinaga”, inspirò profondamente prima di premere il bottone.

Fu Ruka ad aprirgli, seppur con un po' di ritardo. Era raggiante, splendida come la prima volta che l'aveva vista alla mensa universitaria: i capelli arancio brillavano sul maglioncino rosa tenue che indossava, gli occhi verde smeraldo sembravano più vivi che mai. Non si vedevano da qualche mese e Tsukasa, come ogni volta, non poté fare a meno che concederle un sorriso dolce, nonostante il turbine emotivo che sembrava dilaniarlo dall'interno.

E la somiglianza della ragazza col fratello (almeno superficialmente) non lo aveva mai aiutato troppo.

«Tsukasa!» esclamò la ragazza, evidentemente felice di vederlo. Gli gettò le braccia al collo e lo strinse, come faceva sempre. Il giovane Suou si era sempre chiesto chi dei due poteva aver più bisogno di quella stretta di affetto genuino – se la ragazza o lui. «Che succede? Non sei... a lavoro?» gli chiese, titubante, forse notando l'aspetto trasandato che l'impeccabile ex-rampollo Suou aveva quel giorno.

«Scusa per non averti avvisata, ma--» Ecco, preso com'era a rimuginare sul libro, non aveva pensato a come spiegarsi con Ruka; non importava la situazione, lei doveva... essere al corrente della possibilità che sua fratello maggiore fosse tornato? Non ne aveva idea. E se l'avesse illusa? Se c'era qualcuno che aspettava Leo con la sua stessa trepidazione, quella era proprio lei.

«Vuoi le chiavi?» Tsukasa batté le palpebre, colto alla sprovvista e non sicuro di aver capito bene. Indagò l'espressione dell'amica (la sua prima amica, al di fuori del contesto sociale da cui era fuggito), confuso, ma trovò solo un sorriso caldo e un'espressione serena, quasi... orgogliosa. «Sono felice che tu abbia trovato il coraggio di accettarle».

Dopo la partenza di Leo, la prima persona con cui si era confidato riguardo i suoi progetti futuri (lasciare l'università, lavorare per un po' di tempo, andare a vivere da solo) era stata proprio Ruka. Tsukasa lo ricordava bene: erano entrambi seduti sul pavimento della sua camera, con Merlino che giocherellava pigramente con un nastro per capelli e ne avevano parlato a lungo; alla fine, lei aveva tirato fuori da un cassetto un mazzo di chiavi.

Non un mazzo di chiavi qualunque, ma quello accompagnato dalla buffa testa di alieno che Leo amava tanto. Che Leo era stato sul punto di regalargli e che Tsukasa aveva rifiutato. Che, infine, era finito tra le mani di Ruka.

Allora, la ragazza gli aveva offerto una soluzione: perché non approfittare di quell'appartamento vuoto, se voleva cominciare a vivere da solo? Ma Tsukasa non aveva potuto accettare e non solo perché si sarebbe sentito quasi in colpa, per un tale piacere, ma anche perché—come avrebbe potuto vivere tra quelle mura, senza essere risucchiato continuamente in un mondo di fantasmi?

Per un istante, proprio come allora, il coraggio gli venne meno: vedere quelle chiavi lo riportava sempre a quella sera, agli occhi dello stesse verde smeraldo di Ruka ma vitrei, che lo fissavano, incapaci di accettare la realtà.

Ma ora, le carte in tavola erano cambiate. Lui era cambiato e—forse anche Leo.

«... Sì, Ruka. Voglio... le chiavi».

Il sorriso di Ruka divenne persino più luminoso e lo invitò ad entrare, come aveva fatto tante altre volte. Tsukasa attese lì, però, appena oltre la soglia, mentre la ragazza correva al piano di sopra per recuperare quel che doveva; lui, intanto, aveva la sensazione di sentire il ticchettio del tempo che scorreva, come se improvvisamente il tempo (quello della sua vita) avesse ripreso a fluire.

Tic, tac.

In quella casa, forse avrebbe trovato il suo eroe, pentito, all'ombra dell'immaginaria fonte dell'eterna giovinezza, finalmente spoglio della sua armatura.

Tic, tac.


La corsa che fece dalla fermata della metro sino a casa di Leo Tsukinaga avrebbe stupito chiunque, soprattutto il suo vecchio insegnante di scherma; Tsukasa non era mai stato un grande atleta, ma in quel momento sentiva con chiarezza l'adrenalina dare una forza sconosciuta al suo corpo, renderlo sovreccitato, nel
bene e nel male. Quindi, niente poteva fermarlo: c'era solo il tempo che lo seguiva come un avvoltoio, la consapevolezza che avrebbe potuto sbagliarsi ma che voleva credere.

Tic, tac.

Di fronte al moderno palazzo dalla pianta rettangolare, di quel soffice color panna, non poté fare a meno di sollevare lo sguardo verso l'ultimo piano: la tana di Leo, quella che per qualche tempo avevano definito scherzosamente la loro base, era esattamente come l'aveva vista nell'ultimo anno e mezzo - le finestre erano chiuse, gli avvolgibili abbassati.

Inspirò per darsi coraggio, poi si fece avanti: l'ultima volta che era stato così vicino al palazzo, Leo era ancora lì. Il peso illusorio delle chiavi con cui aprì il portone per poco non gliele fecero scivolare di mano (ilare, in effetti... proprio come la pietra per il cavaliere, nel racconto di Leo) ma riuscì a tenerle saldamente, seppur gli tremassero le mani.

Tic, tac.

Non prese l'ascensore, perché l'attesa di quella stupida macchina lo avrebbe ucciso; decise di salire piuttosto le scale, gradino dopo gradino, di tanto in tanto saltandone un paio, perché la sua meta era troppo vicina: di lì a breve, forse, avrebbe potuto ricominciare a vivere—no, per meglio dire: avrebbe sicuramente iniziato a farlo, stavolta davvero. Nel bene o nel male.

Certo era che lo avrebbe fatto a modo suo: non come l'erede della catena Suou, quale era quando aveva conosciuto Leo. Non come Robin, quale era quando Leo se n'era andato.

Come Tsukasa: solo, forse, ma pronto a diventare grande una volta per tutte.

Quando la serratura della porta scattò, gli sfuggì un sussurro.

«Please, be here».

Tic, tac.

Le luci della casa erano spente – tutte, dalla prima all'ultima; c'era un'aria leggermente viziata, come se quel luogo fosse stato sigillato troppo a lungo. La poca luce che filtrava tradiva polvere, mobili abbandonati a se stessi e un vuoto così evidente che per un attimo fu tentato di chiudere la porta, aspettare qualche secondo e riprovare, nella speranza che qualcosa cambiasse..

Ma sarebbe stato inutile, lo sapeva. Doveva accettare le cose.

Leo non c'era.

Faceva male, ma quella casa era vuota come lo era stata nell'ultimo anno e mezzo, come si era rifiutata di vederla in tutto quel tempo perché avrebbe reso solo quella mancanza più reale. Una mancanza che, vorticando, gli avrebbe strappato tutto quel che gli era rimasto... la speranza.

Il tempo si fermò di nuovo.

Si costrinse a fare qualche passo avanti, a sincerarsi dell'abbandono (di quella casa, di lui) con i suoi stessi occhi e metabolizzare quello che nell'ultimo anno aveva cercato di dimenticare in ogni modo: Leo non era lì e forse non sarebbe mai tornato.

Certo, non capiva perché lo avesse stuzzicato in quel modo – impossibile che non fosse opera sua, la questione del libro – ma il messaggio era ormai chiaro: quella casa, i ricordi che avevano accumulato là dentro, per lui erano solo bugie e non era più disposto ad accettarli.

Avanzò lentamente verso il soggiorno, a passo incerto mentre notava quanto la stanza fosse spoglia, senza quel senso che solo Leo riusciva a dare a quella strana accozzaglia di colori (il divano, verde prato, il resto dei mobili che variavano dall'arancio al blu notte, senza alcuna continuità) e che adesso sembravano davvero ridicoli, pieni di polvere com'erano e spogliati della loro funzione.

Si avvicinò alla scrivania, dove torreggiava il computer fisso, ricoperto da qualche foglio di plastica e che forse ora non sarebbe più stato acceso; quante volte, nel tardo pomeriggio, Tsukasa lo aveva trovato seduto a gambe incrociate sulla poltrona (verde anch'essa), intento a scrivere con due, tre, a volte quattro tazze di caffè svuotate nelle vicinanze? E puntualmente non si accorgeva del suo arrivo, le occhiaie ben marcate sul volto olivastro, perché troppo assorbito a dare forma alla sua storia.

Noncurante della polvere, emulò il legittimo proprietario di tutto ciò che lo circondava: si sedette su quella poltrona, incrociando le gambe proprio come gli aveva visto fare e poi chiuse gli occhi.

Pessima mossa, perché riprese a pensare.

Avrebbe almeno voluto parlargli un'ultima volta. Era davvero ingiusto il cavaliere, pensò, mentre corrucciava la fronte in modo quasi puerile: avrebbe dovuto quanto meno dare una possibilità all'elfo di spiegarsi... Non avrebbe dovuto cercarlo per poi negargli persino il minimo confronto.

Era strano, si disse; perché per quel che conosceva Leo, non era tipo da non affrontare una sfida. Aveva lottato per tutta la vita contro il Predestino e dubitava che, se davvero aveva deciso di negare il loro legame, lo avrebbe fatto fuggendo. Era già scappato, a dirla tutta – due volte: alla festa di Ruka e dopo che gli aveva rivelato la verità.

Però... non era la stessa cosa, adesso.

«Cerchi ispirazione?»

«Non lo so» rispose in automatico, in un sussurro. «La sua personificazione, forse».

«Sembra complicato».

«Lo è» e una risata amara abbandonò le sue labbra. «Ha ribaltato la mia vita, poi è scomparsa, come un—sogno».

«Beh, ma è così che arriva. Anche se... in una casa chiusa per mesi, con tutta questa polvere e neanche una tazza di caffè a farti compagnia... non credo tu sia molto bravo a cercarla, l'ispirazione».

Per riflesso, Tsukasa aprì gli occhi, un cipiglio irritato a fare un poco di ombra sul suo volto. Stava per rispondere a tono al suo interlocutore, quando troppo tardi si rese conto che in quella casa non avrebbe dovuto esserci nessuno; così come troppo tardi realizzò che quella voce era la stessa che aveva implorato, tra sé e sé di poter ascoltare ancora una volta; e ancora, troppo tardi, i suoi occhi incontrarono la figura di Leo Tsukinaga – anelata, sognata, bramata, persino immaginata – poggiata alla parete del corridoio.

Si prese un attimo, in cui probabilmente rimase con la bocca aperta come un idiota, per accertarsi che fosse reale e non la sua solita silenziosa illusione: ma il Leo che aveva davanti aveva i capelli arancio vivo raccolti non in una coda bassa e laterale come sempre, bensì in una treccia leggermente più lunga di quanto ricordasse e la carnagione molto meno pallida rispetto ai suoi ricordi (abbronzata, forse?)... ma il sorriso sghembo – quello sì, che era identico: pieno di vita, con un retrogusto di infantile spirito goliardico, di eterno sfidante dell'esistenza stessa. Lo stesso sorriso che aveva visto spegnersi, quella sera di un anno e mezzo prima, nella penombra della sua auto. Quello stesso sorriso che aveva pensato di non vedere mai più solo qualche attimo prima.

Tic, tac.

La prima reazione, una volta realizzato che era davvero lì, fu quella di scattare in piedi, così velocemente che la poltrona venne spinta all'indietro quasi con violenza. Poi Tsukasa si rese conto di star stringendo i pugni e non sapeva neanche se dipendesse dalla voglia di abbracciarlo o di prenderlo a pugni – dopotutto, non era lui lo scrittore: non poteva descrivere un bel niente di quel che stava provando. Che fosse gioia, rabbia, sollievo, incredulità... non lo sapeva. E in realtà, neanche importava.

«You--»

«Ah, sei arrabbiato» osservò Leo, come se se lo aspettasse. Beh, pensò Tsukasa, in un barlume di lucidità, era il minimo. Il romanziere alzò le mani, in un segno poco credibile, quasi buffonesco, di resa. «Lo so, lo so. Non è stato carino da parte mia, ma volevo essere davvero, davvero sicuro della mia scelta, sai? E dopo così tanto tempo... beh, mi serviva una prova».

«Una provaJesus, se aveva voglia di dargli un pugno adesso.

«Una prova, sì. Tocca a tutti i grandi eroi, o mi sbaglio?» Ancora quel sorriso e, davvero, doveva ringraziare che lo amasse davvero come mai aveva amato se ancora non glielo aveva sfondato a suon di pugni. «Da solo, non potevo essere certo della mia scelta. Volevo essere certo che tu mi capissi e sapevo anche che, se mi amavi davvero, saresti stato in grado leggere oltre quello che ho scritto. Se mi amavi davvero, una volta letto quel libro, avresti cercato me da qualche parte, come il cavaliere cerca l'elfo». Il tono di Leo era così calmo e pacato che anche il giovane Suou finì con il rilassarsi, tanto che si abbandonò di nuovo sulla sedia: ciò che l'aveva tenuto in piedi fino a quel momento, quasi in uno stato febbrile, era stata soltanto l'adrenalina, l'anticipazione di un futuro che poteva sciogliersi proprio davanti ai suoi occhi. Ma ora che il suo futuro era di nuovo lì, solido come una montagna, la stanchezza del lavoro, la nottata passata in bianco e la folle corsa verso quella sottospecie di Isola che Non c'è... tutto gli era piombato di nuovo addosso.

Ma il tempo, riusciva a sentirlo, aveva ripreso a scorrere: il ticchettio dell'orologio era solo un suono di sfondo e non più un conto alla rovescia o un suono di poco conto. Aveva ripreso il suo ruolo – in movimento, ma senza essere accompagnato dalla distruzione.

Leo fece qualche passo avanti, poi si chinò di fronte a lui. Tsukasa si sentì studiato, quasi fosse un estraneo; in effetti, realizzò con qualche secondo di ritardo, in parte lo era: quell'anno e mezzo si era portato via ogni traccia di Robin che poteva essere rimasta, almeno esteriormente.

«Non sapevo fossi rosso». Non riusciva neanche a capire se fosse serio o meno.

«Ora lo sai» rispose stanco, chiudendo gli occhi pur di non sottoporsi a quella vivisezione: lo sguardo sempre affilato di Leo se possibile in quel frangente aveva assunto in tutto e per tutto l'aspetto di un bisturi, che tagliava, analizzava e poi ricuciva velocemente, senza lasciare alcuna traccia.

«E sei dimagrito».

«Non di molto, rispetto a quando sei partito. E anche tu sei diverso».

«E in cosa?»

Si costrinse di nuovo ad aprire gli occhi: ora, lo sguardo di Leo era curioso, con quella luce di pura avidità del conoscere negli occhi. Era come se quella brillantezza fosse la seconda anima dello scrittore – Tsukasa l'aveva amata sin da quando aveva avuto occasione di coglierla. C'era qualcosa di magnetico nel modo in cui l'uomo osservava il mondo che lo circondava.

Leo era davvero lì. Lì, piegato sulle ginocchia di fronte a lui, che conversava con lui. Con la sua aria da eterno Peter Pan.

«Sei abbronzato, tanto per cominciare. E la treccia?»

«Oh, beh, era più esotica. O così ha detto Mama» e scrollò le spalle, come se non ci fosse niente di incredibile in quella conversazione quando era già inimmaginabile il fatto che stesse avvenendo.

Ma non era abbastanza: Tsukasa, ormai, ne aveva abbastanza di aspettare – lo aveva fatto, a costo della solitudine. Quindi, inspirò profondamente e si fece coraggio: non potevano più permettersi di tergiversare. Basta con le conversazioni futili, basta con le parole insignificanti.

«Hai trovato la tua risposta?»

Lo aveva notato; in quell'apparentemente banale discorrere, Leo non aveva mai pronunciato il suo nome – nessuno dei due. Mai una volta lo aveva sentito pronunciare Robin o Tsukasa.

Lo sguardo che ne seguì, dal momento che Leo sollevò quei suoi taglienti occhi verde smeraldo, felini e predatori (era lui a condurre quel gioco, in una sadica partita in cui era il re a fare scacco matto), fu lungo e intenso ma il più giovane non si ritrasse; al contrario, lo sostenne, gonfio dell'orgoglio con cui aveva vinto la sfida che Leo gli aveva sottoposto.

La risposta, seppur gestuale, non tardò ad arrivare: una delle mani dello scrittore si sollevò fino a carezzargli il volto, con una timidezza che Tsukasa non ricordava gli fosse mai appartenuta. Poi Leo si abbandonò dunque ad un sospiro sconfitto, quasi melodrammatico.

«Non ce la posso proprio fare, con te» mormorò, quasi indispettito dalla situazione. «Riesci ad andare sempre oltre le mie previsioni. Ma chi è lo scemo che aspetta—uno come me per un anno e mezzo?» La voce dell'uomo che amava, fino a quel momento graffiante e spregiudicata come sempre, tradì una nota di stupore, oltre che un tono di sconfitta.

Tsukasa impiegò qualche attimo per capire: il calore di quella mano, gentile e timorosa, sulla sua guancia, sommato a quelle parole non furono esattamente chiare, in un primo momento. Poi realizzò e il cipiglio duro con cui aveva nascosto tutto il nervosismo e la tensione di quegli ultimi minuti si sciolse, solo per lasciare il posto ad un sorriso di pura gioia e sollievo.

«Te lo avevo detto» gli rispose, la voce tremante, mentre con la guancia si poggiava contro il palmo della mano di Leo, sentendosi finalmente libero di farlo. «Ti avevo detto che ti avrei aspettato, leader. Ho—mentito su molte cose, ma mai... su quelle importanti».

Un giuramento sussurrato – no, qualcosa di più. Quando Tsukasa aveva deciso di partecipare a quel folle piano, degno di una qualche mitica epopea (quante storie famose prevedevano un travestimento, più o meno magico?) aveva deciso di mentirgli il meno possibile e mai su ciò che contava davvero: era stato un voto solitario, un “voto di silenzio”, proprio come il titolo di quello stupido libro su cui entrambi avevano scommesso tutto.

E il giovane stava ancora cercando di immagazzinare quanto stava accadendo (Leo era tornato, aveva deciso di dare alla loro storia una possibilità ed era lì, con lui) quando il romanziere si alzò con naturalezza e si allontanò, dirigendosi verso la porta. Subito, allarmato, Tsukasa si irrigidì sulla poltrona, pronto a seguirlo ovunque, nonostante la stanchezza e i vari dolori muscolare che iniziava ad avvertire. Ma poco dopo Leo era già di ritorno, con in mano un mazzo di chiavi – quel mazzo di chiavi, come quella sera.

Ma non erano in macchina. E lui non era più Robin.

Leo si chinò di nuovo sulle proprie ginocchia, il livello dello sguardo poco più in basso del suo; gli mostrò ancora una volta quello che avrebbe dovuto essere il suo primo dono, il loro primo passo verso qualcosa di serio che si era tramutato in una ritirata dolorosa per entrambi.

«Sai cosa sto per fare?»

«Stai per riprendere quello che abbiamo lasciato in sospeso... ?» Ma Leo scosse la testa, tenendo saldamente quell'accozzaglia di oggetti così apparentemente comuni tra le sue mani e, senza dire una parola, le mise nella sua tasca. Tsukasa lo guardò, confuso, poi si rilassò di nuovo: forse aveva preteso troppo. «Ok, ho capito, un passo per volta—».

«Troveremo una casa nostra» lo interruppe senza la minima ombra di incertezza nella voce. Anzi, se possibile, il suo tono rasentava un annuncio in piena regola, un comando da cui era impossibile sottrarsi. «Non sarai tu a venire da me, saremo noi ad avere qualcosa che sia su misura per entrambi» e, conoscendolo, il sorriso che si formò sulle sue labbra fu di puro e autentico compiacimento quando si rese conto quanto esterrefatto fosse Tsukasa di fronte a quell'affermazione, piovuta dal nulla. «Quando la guerra finisce, gli eroi tornano a casa, a fare gli uomini comuni. Non c'è posto per gli eroi, fuori dai luoghi di morte. E il cavaliere ha concluso la sua battaglia ed è ora che torni a casa... o meglio, che se ne costruisca in cui valga la pena tornare».

«... sei impazzito?»

«No, Tsukasa» ed ecco come, per un momento, il mondo parve fermarsi: mai, mai avrebbe pensato di poter sentire il suo nome pronunciato da quelle labbra, intonato da quella voce. E le emozioni che forse aveva imbottigliato fino a quel momento, improvvisamente esplosero: prima che se ne rendesse conto, le lacrime scorrevano giù lungo le sue guance, perché lo aveva chiamato Tsukasa e perché gli aveva appena detto che lui era il suo motivo per tornare. O, almeno, questo era quello che aveva sentito.

Mesi di dubbi, di incertezze, di solitudine in cui aveva pensato solo e soltanto a crescere perché potesse diventare un uomo affidabile che crollavano così, come un castello di sabbia di fronte a quell'onda anomala che solo Leo Tsukinaga poteva essere.

Non riusciva neanche a vergognarsi, perché era—felice. Incredulo, ma felice.

«Non—c'è bisogno che... tu sia un uomo comune» riuscì infine a dire, tra i singhiozzi, perché non voleva che Leo smettesse di essere se stesso.

«Non è detto che lo sarò. Ma se dovessi perdere la mia ispirazione per stare al tuo fianco, ne troverò un'altra, una nuova. Sai, Da quando ci siamo conosciuti, ho scritto tantissimo... Ho prodotto davvero un sacco. E anche dopo che mi hai raccontato come stavano davvero le cose, non c'è stato un giorno in cui non sono stato in grado di farlo. Certo, all'inizio non è stato semplice, ma... credo che accettare il Predestino non sarà la morte della mia penna. Al massimo terrò tra le mani una penna diversa, una un po' meno incasinata e che non sputacchia inchiostro di tanto in tanto. Il cavaliere non ha gettato la spada, giusto? Solo che non combatte più i mulini a vento, si limita a proteggere ciò che ama».

Poco importava se l'infantile, emotivo, indomabile Leo Tsukinaga sembrava così improvvisamente maturo, mentre gli asciugava il volto da quelle lacrime che proprio non ne volevano sapere di fermarsi, nonostante anche lui avesse gli occhi lucidi; poco importava, in fondo, se forse non era riuscito a crescere poi così tanto negli ultimi mesi per dimostrargli che poteva essere il suo sostegno... No, nulla di questo contava.

Qualunque cosa li avrebbe attesi, in quel futuro incerto, la avrebbero affrontata. Insieme.

«Pensi... davvero che ne valga la pena?» Ma Tsukasa non voleva che avesse ripensamenti – certo, era stupido da parte sua; Leo aveva avuto più di un anno per riflettere, era quasi masochistico spingerlo a pensarci un'ultima volta.

E allora, Leo gli sorrise. E lo vide persino attraverso le lacrime, perché il bagliore famelico della conoscenza per un attimo lasciò spazio ad una luce nuova, che sembrava voler indicare una strada nuova ad entrambi.

«Ne vale la pena perché ti amo, Tsukasa Suou. E non--» ed ecco di nuovo il Leo che parlava troppo velocemente, perché quelle parole riuscì a coglierle solo a fatica, ma erano troppo importanti perché potessero sfuggirgli. Eppure, imbarazzato, perché dopotutto non era un viaggio a cambiare cmpletamente l'essenza di una persona, si era fermato e, dopo essersi morso il labbro inferiore, riprese: «... non ho mai smesso di farlo. Neanche quando sei fuggito da quella macchina, mai. Non c'è stato un minuto in cui la rabbia abbia mai preso il sopravvento su quello che provo per te, accidenti al Predestino».

E risero, insieme. Era una risata assieme imbarazzata e liberatoria, per quanto sussurrata, perché quella parola, “Predestino”, adesso non sembrava più un'insormontabile barriera tra loro ma aveva assunto piuttosto l'aspetto di un ponte: ogni barriera era abbattuta, ora potevano incontrarsi.

E Tsukasa, finalmente, poteva rispondergli, con un mormorio che per un anno e mezzo aveva taciuto: «Ti amo anche io, leader».

Ogni dettaglio divenne improvvisamente futile, superfluo: avevano tutta la vita, di fronte a loro, per parlare.

Leo aveva dedicato la vita alle parole.

Tsukasa era stato educato a leggere l'atmosfera, a pronunciarsi solo quando richiesto.

Ebbene, quando lo scrittore si sedette sul suo grembo, su quella poltrona, entrambi capirono che non c'era soltanto emozione e sentimento nella mancanza che entrambi avevano avvertito ma un desiderio più carnale, anche.

Fu il più giovane il primo a rompere quella lunga astinenza: si gettò sulle sue labbra, avido, egoista come si era ripromesso di non essere più e Leo lasciò che le sua bocca riassaporasse quella carne, poi si fece dittatore e tiranno e lo morse. Un dispetto, che giustificò un attimo dopo col suo sorriso da eterno bambino.

Ma non c'era posto per i bambini, lì.

Nonostante la stanchezza, Tsukasa trovò addirittura la forza necessaria per sollevarsi e, con lui, portare con sé anche Leo. Lo teneva saldamente per le gambe, le quali andarono subito ad incrociarsi dietro la sua schiena, così come le sue mani si aggrapparono alle spalle del più giovane. Nessuno dei due aveva il tempo di lasciare andare l'altro e, piuttosto che allontanarsi, camminarono così, un po' in difficoltà e con goffaggine, tra un bacio e l'altro ma testardi proseguirono verso la camera.

La camera, già.

«... c'è—un problema» riuscì a dire Tsukasa, una volta giunto di fronte al letto matrimoniale. C'era un po' di ingenua incertezza nella sua voce.

«È così impellente?» replicò irritato il più grande, prima di voltarsi mentre il compagno constatava la realtà, un po' ridicola e per questo tragicomica del momento.

«Non c'è il materasso».

Leo se ne sincerò con lo sguardo, attonito: effettivamente, quando aveva fatto i preparativi prima di partire, aveva lasciato detto a Ruka di occuparsi del mobilio, in modo che non si rovinasse troppo durante la sua assenza... Doveva aver pensato che il materasso avrebbe potuto riempirsi di umidità e chissà cos'altro, là, nella sua stanza, c'erano rimaste le doghe del letto.

In modo del tutto imprevedibile (come lui, solo lui poteva essere, pensò Tsukasa) scoppiò a ridere.

«Pff--»

«Si può sapere che c'è di divertente?!» Ma niente, quell'attacco di risa non si placò e anzi, l'espressione corrucciata del più giovane dovettero alimentarla, perché Leo continuò a ridere anche più di prima. Le braccia di Tsukasa già abbastanza provate da due giorni di pura follia, finirono col cedere e lasciarono che Leo posasse di nuovo i piedi per terra, ancora preda di quel riso incontrollabile.

«L'hai detto come se fosse la fine del mondo!» si giustificò, ormai quasi tra le lacrime ma, prima che Tsukasa potesse di nuovo controbattere, lo baciò – e stavolta fu dolce, intenso, unico. «Possiamo fare sesso ovunque, Tsukasa Suou. Se non c'è il letto, lo faremo per terra» e questo fu forse un po' più volgare, ma erano le parole di cui il ragazzo aveva bisogno.

E allora Leo cominciò a sbottonarsi quella camicia di jeans che portava, avanzando passo dopo passo e così costringendolo ad arretrare – era di nuovo lì, sua maestà: il re senza corona che, con pochi gesti, lo aveva costretto al muro con la sua sola sensuale autorità.

I bottoni se ne andarono, uno dopo l'altro e Tsukasa, dopo un primo proverbiale momento di puro istinto carnale, gli poggiò le mani sui fianchi, stringendoli con forza e poi si leccò le labbra, improvvisamente secche a causa di quel desiderio così a lungo represso. Ma poi, improvvisamente, si trovò a fermarsi, lo sguardo attratto da qualcosa che non ricordava su quella pelle. E non si trattava dell'abbronzatura.

Sfiorò solo con le dita quel segno dal color rosa scuro, così simile ad una voglia, che era comparso sul torace dell'uomo che amava, proprio sotto la clavicola destra; era—difficile distinguerne nettamente i contorni, ma seguì al meglio che poté quelle le tracce per ripercorrerne il disegno. Sembrava un tatuaggio usurato, oppure una macchia dai contorni confusi.

«Che c'è?» chiese spazientito Leo, evidentemente a causa della distrazione del compagno; pareva piuttosto impaziente (ilare, considerando che era lui il responsabile dell'attesa).

«È comparso».

Vide lo sguardo dell'uomo farsi di colpo scuro, forse un riflesso incondizionato dopo una vita passata ad odiare tutto quello che concerneva il Predestino che solo ora, a fatica, era riuscito ad accettare. Lo osservò mentre cercava con gli occhi quel simbolo e lo trovò lì, sotto le dita di Tsukasa; lo studiò per qualche minuto, le labbra arricciate in una sottospecie di broncio che rendevano il suo volto non troppo dissimile da quello di un ragazzino.

«E cosa dovrebbe essere?» chiese, scettico, prima di sbottonare in fretta e furia la camicia un po' spiegazzata del compagno, per sincerarsi che anche lui lo avesse – dopotutto, proprio non riusciva a fidarsi del Predestino. “Non voglio rimanere fregato” sembrava dire, con quel nervosismo nei gesti.

«Sembrano... due spade. Incrociate».

«Molto romantico» sbuffò con sarcasmo lo scrittore, prima di sfiorare la pelle di Tsukasa sotto la clavicola sinistra – era un gioco di specchi, pareva, perché i simboli si erano formati pressoché nel solito punto. «Perché sono così sfumati, però? Quelli che ho visto avevano sempre delle forme molto chiare».

«... Leo, ho risposto alla tua dichiarazione dieci minuti fa dopo più di un anno. Cos'è tutta questa impazienza, ora?»

Ancora quel broncio, a cui andò ad assumersi anche uno sguardo che si abbassava in un tipico atteggiamento puerile. «Perché—beh, dopo averlo negato per così tanto, magari... mi odia e vuole rendermi le cose difficili».

Tsukasa si ritrovò a sbattere le palpebre, incredulo: era serio. Dannatamente serio. Il suo era un timore reale e, stavolta, fu lui a scoppiare a ridere, causando in Leo un moto di irritazione, com'era evidente dalla sua espressione.

«Abbiamo finito?»

«Scusa, ma... Ora sì, che le ho sentite tutte» mugugnò Tsukasa, ancora ridendo sommessamente. Era felice di aver aspettato; quei mesi, quei lunghi, lunghissimi mesi erano stati già ampiamente ripagati quell'ultima mezz'ora. «Leo Tsukinaga che si preoccupa che il Predestino non lo voglia... la racconterò agli altri». Gli prese il volto tra le mani, carezzandogli le guance come se non l'avesse mai fatto prima e lo baciò. un bacio da lieto fine, immaginava.

Non proprio fine” pensò, un attimo prima di ribaltare le loro posizioni, lasciando che fosse Leo a trovarsi in gabbia: non gli avrebbe lasciato la corona, per quella sera.

Gli sorrise, sornione. «Ti assicuro che se il Predestino non ci avesse uniti, ti avrei trovato lo stesso, signor cavaliere».

E non c'era il minimo dubbio, in quel che aveva detto.


... E infine, nessun rintocco segnò la rottura dell'incantesimo: le loro anime si intrecciarono e il tempo, guardiano e custode della vita, riprese a scorrere col sorriso di chi già conosceva la risposta: sarebbero stati anni lunghi, fatti di gioie e dolori, ma l'umano e l'elfo impararono ad affrontare tutto schiena contro schiena, sapendo di avere al proprio fianco l'unico alleato di cui avevano bisogno.”


No, quel giorno non venne trascritto in nessun libro. Non ci fu più bisogno di imprigionare ricordi, così come non ci fu più bisogno di annotare emozioni per vivisezionarle con gli occhi della ragione.

Dopo que giorno, Leo Tsukinaga continuò a scrivere, solo che i libri facevano parte della sua vita e non basava più la sua vita su di essi. Imparò ad esistere fuori dalle pagine, oltre che al loro interno. E anche i suoi libri si riempirono di un'aria nuova, di emozioni dirompenti, di storie che non prevedevano soltanto solitudine.

Dopo quella notte, Tsukasa Suou iniziò a vivere come se stesso, libero dalla sua gabbia dorata e capace di scoprire finalmente chi voler essere nella vita.


E non c'è miglior lieto fine di un nuovo inizio.


Note: E quindi, siamo arrivati alla conclusione. Non riesco a crederci neanche io e, guardandomi indietro, mi rendo conto che questa storia avrebbe potuto prendere vie molto diverse. Forse ora, tornando indietro, cambierei molte cose. In definitiva, però, tiro le somme e sono consapevole che c'è tanto di me in questa storia, sono riuscita a tessere qualcosa di concreto e non solo scrivere. Guardo questo epilogo, forse un po' più frettoloso di quanto sperassi, ma so che è *quasi* tutto qui: posso dire che, alla fine, Leo e Tsukasa sono simili ai loro corrispettivi del canon ma al tempo stesso miei. Come soltanto in una Alternate Universe potrebbe accadere.
Ho amato questa storia. Ho amato scandirla a tratti col romanzo di Silent Oath, perché è grazie ad una strofa di quella canzone che ho iniziato a scriverla; ho inserito delle linee guida che mi sono sempre ritornate tra le mani, spontaneamente, anche a distanza di mesi. Mi sento cresciuta, come "scrittrice", come "autrice" e sono contenta di averlo fatto con loro due, perché per me significano davvero moltissimo.
Avevo già detto che probabilmente avrei scritto una raccolta di one-shot sulle altre coppie, citate e non, appartenenti a questo mondo; lo farò, davvero! Con calma però, perché prima ho intenzione di concludere altri progettini che ho accantonato perché questa storia ha portato via gran parte del mio tempo.
Spero che questa avventura che avete affrontato con me sia stata di vostro gradimento. Io, dal canto mio, mi sento orgogliosa di questa creaturina, così come sento che anche per me questa storia, come scrittrice, rappresenta un nuovo inizio.

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