Asor della Prima Stirpe

di _Polx_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il morbo ***
Capitolo 2: *** Trattative ***
Capitolo 3: *** Stregoni e divini ***
Capitolo 4: *** Notte di cenere ***
Capitolo 5: *** Legna da ardere ***



Capitolo 1
*** Il morbo ***


 
Un terribile morbo si propagò per le terre settentrionali e colpì più crudelmente di qualsiasi altra malattia, poiché le uniche vittime che reclamava erano bambini e giovinetti.
Caddero a centinaia e nessuno ne pareva immune.
Entro breve si diffuse l'insidiosa voce che ne fosse stata trovata una cura, ma essa era riservata ai pupilli d'alto lignaggio, mentre il popolo vedeva i propri figli morire nell'inezia e nell'indifferenza del potere regnante.
Questo fu ovviamente motivo di grandi sommosse e ribellioni e le forze militari del paese vennero dispiegate non più con l'ordine di scacciare i predoni orientali o i mercenari occidentali, bensì di ammutolire la plebe e punire le madri che si opponevano ai carri colmi di cadaveri su cui i monatti desideravano caricare anche i loro figli, perché venissero gettati in una delle molte fosse comuni nella campagna, anziché conceder loro degna sepoltura.
Gli Ufficiali dell'esercito furono costretti ad accantonare temporaneamente i grandi piani di guerra per prodigarsi nella gestione della frenesia crescente. Coloro che di essi avevano famiglia non tardarono ad allontanarla, avendone modo e libertà, perché i loro figli non subissero il contagio. Fece eccezione un Comandante delle legioni orientali, Asor della Prima Stirpe, che, pur avendo un erede, non se ne curò. Il figlio, cui aveva negato la legittimazione, non era infatti riconosciuto dalla legge della nazione e, dal giorno della sua nascita, avvenuta ormai otto anni prima, non aveva causato che fastidi al suo grado e gettato vergogna sul suo nome.
Il bambino viveva in una modesta, ma dignitosa dimora al di là del fiume, sorvegliata dalla folta selva a meridione e circondata dalle campagne a levante. A occuparsene era la madre, una graziosa ancella dall'animo virtuoso, che fu tuttavia sollevata dal proprio incarico quando la signora presso cui prestava servizio seppe che in lei cresceva il seme dello scandalo.
Asor non permise che lei e il figlioletto vivessero di stenti e non di rado faceva loro visita, seppur in segreto e con immensa discrezione.
Diamante era il nome di lei. Era giovane, più di quanto lui non fosse, ma tale disparità non era semplice da cogliere, poiché Asor discendeva dalla Stirpe più antica, un popolo di uomini forti e nobili, cui la natura aveva donato vita effimera, ma pur sempre meno breve dell'esistenza toccata alla più tenera Sorella.
Non solo per l'immensa abilità in battaglia, ma anche per le sue illustri origini Asor veniva guardato con grande rispetto ed era un vanto per l'esercito della nazione sfoggiare il suo nome tra i propri Ufficiali: sarebbe stato elevato a rango di Generale con grande anticipo, se solo non avesse macchiato il proprio nome con l'odiosa pecca d'un figlio bastardo.
Il piccolo Astar, così era conosciuto, rassomigliava molto al popolo del padre e, sebbene sua madre avesse chioma e occhi di pece, i capelli di lui erano pallidi come neve e il suo sguardo smeraldino.
Era bellissimo, il piccolo Astar, ma nessuno all'infuori di Diamante osava ammetterlo apertamente.
Asor non negava che per lungo tempo avesse sperato in un qualche dono del destino che gli permettesse di allontanare la propria carriera dalla sua ombra, talvolta, nei momenti di maggior sconforto, rivolgendo persino odiose preghiere alle divinità, perché ciò accadesse a prescindere dalle conseguenze e dai mezzi necessari. Tuttavia, non riusciva a odiare quel bambino e avrebbe richiesto il trasferimento suo e della madre, se solo ciò non avesse significato una compromettente esposizione del loro nome e del legame che essi avevano con lui.
Così, sebbene molti sapessero del bastardello, non ne fecero parola ed Asor finse che non vi fosse interesse in lui per l'epidemia e i rischi che il piccolo Astar correva.
Poche settimane dopo la diffusione del morbo, tuttavia, gli fu consegnata una missiva. Diamante ne era il mittente e lui la aprì quando fu certo d'esser solo, nel proprio alloggio, così da evitare sguardi indesiderati. La sua fronte si aggrottò leggendone il contenuto, perché pareva che il piccolo Astar si fosse ammalato, com'era più che prevedibile. Tuttavia i sintomi erano lievi e Asor ne fu in parte inorgoglito, poiché era certo che il sangue della Prima Stirpe non si sarebbe lasciato soggiogare da una sciocca affezione.
Non diede molto peso al messaggio, convinto in qualche modo che fosse irrilevante, e tornò presto alle proprie questioni.
Quattro giorni dopo giunse una seconda lettera da parte di Diamante: domandava perdono per il persistente disturbo, tuttavia non si tratteneva dal richiedere l'assistenza di uno dei medici ufficiali perché il piccolo Astar venisse visitato.
Non era da lei avanzare simili pretese e Asor ne fu a tal punto insospettito che decise di recarsi da loro, nonostante il gran trambusto che in quei giorni scuoteva il governo locale e la difficoltà per un Ufficiale d'assentarsene con discrezione.
La stessa Diamante parve sorpresa se non turbata di trovarlo alla propria porta, almeno quanto lui fu turbato di trovar lei tanto affaticata e tesa.
La donna si sporse oltre la sua figura: “vi è un medico con te?”.
“No” rispose come fosse cosa ovvia “scomodare un medico ufficiale per un piccolo inconveniente ufficioso non è certo questione da poco. Desidero constatarne di persona la necessità”.
Senza nascondere la propria avversione, Diamante gli permise di entrare.
Astar sedeva a letto, una tazza fumante tra le esili dita, il volto pallido, gli occhi cerchiati da aloni lividi, un velo di sudore freddo a imperlargli la fronte.
“Salve” salutò allegramente, scorgendo Asor sulla soglia.
“Ciao, piccolo infermo. M'è stato detto che hai osato ammalarti” replicò l'altro con bonaria ironia.
“Ammalarsi è più facile che guarire”.
Asor ridacchiò e gli si sedette accanto: “dunque, come ti senti?”.
“Freddo e caldo al tempo stesso. Tremolante. Assetato”.
Il Comandante scrollò le spalle: “mi paiono i sintomi di una normale influenza e le influenze passano”.
Astar annuì con convinzione. Provava affetto per Asor poiché era sempre stato gentile con lui, ma gli riservava anche grande rispetto e vi riponeva immensa considerazione: se questo il Comandante diceva, dunque questa doveva essere la verità.
 

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Capitolo 2
*** Trattative ***


 
Su un ripiano posto accanto al letto di Astar era poggiato, assieme a un bicchiere colmo d'acqua fresca, un fazzoletto di stoffa, candida in origine, ma ora lordata da venature purpuree.
Asor si voltò verso Diamante, che attendeva silenziosamente sulla porta.
“Cos'è?” chiese.
“Sangue” rispose lei con astiosa sufficienza.
“Ed è suo?”.
“Evidentemente” poi, punta dallo sguardo insistente di lui come da uno sciame di spilli roventi, continuò “ne perde quando tossisce”.
“Da quando?”.
“Da questa notte”.
La spavalderia di Asor parve incrinarsi e un alone di incertezza incupì il suo sguardo, tuttavia si alzò e la sua idea non era mutata: “non mi pare stia troppo male” asserì “tornerò domani, dopo il tramonto”.
“Non ti scomodare, Comandante” lo congedò Diamante e chiuse la porta alle sue spalle con colpo secco.
Tuttavia, il giorno seguente Asor tornò come assicurato e s'aspettava di vedere il piccolo Astar vagabondare per casa mentre sua madre impazziva nel tentativo di costringerlo a riposo, ma così non fu. Il bambino dormiva affannosamente nel proprio letto, sommerso dalle coltri.
“È peggiorato?”.
Diamante annuì.
“Le emorragie?”.
“Divengono più frequenti”.
“E la febbre?”.
“Si alza. Ormai fatica a bere, anche se ne ha di bisogno: il suo stomaco non sopporta più alcun peso”.
Asor sfregò insistentemente una mano sul proprio viso, come se questo lo aiutasse a pensare, poi prese una sedia e s'accomodò accanto al lettuccio: “ha dormito molto?”.
“Gran parte della giornata”.
Non titubò a svegliarlo. Schioccò rumorosamente due dita accanto al volto del bambino che sobbalzò nel sonno: “Astar, che combini?” gli chiese affabilmente quando scorse il paio di occhi smeraldini far capolino tra le coperte. Erano abulici e indolenti.
“Come mai sei di nuovo qui?” chiese il piccolo, la voce arrochita dalla tosse e dalla febbre.
Asor sorrise: “vuoi che me ne vada?”.
Astar scosse lievemente il capo, ma persino quel gesto pareva costargli un grande sforzo.
Il Comandante faticò a conservare il proprio sorriso, ma Diamante era già allarmata a sufficienza per entrambi e Astar necessitava di quiete e serenità: “dico sul serio, Astar. Che combini?”.
“Mi sa che avrò bisogno d'un po' più di tempo per far passare l'influenza”.
Asor ridacchiò: piccolo, spaventato e sofferente, ma pur sempre con spirito ben saldo e vivace.
“Ho sete” bisbigliò Astar e lui l'aiutò a prendere qualche sorso.
Il bambino stava già tornando nel tepore delle proprie coltri quando un forte conato lo scosse con violenza ed egli rigettò la poca acqua bevuta assieme a un copioso zampillo di sangue.
Asor balzò in piedi e per poco non rovesciò la sedia.
Diamante accorse ad aiutare il figlioletto che, dal canto suo, guardava il Comandante con colpevolezza: “ti ho sporcato” constatò “mi dispiace”.
“Non fa niente” biascicò Asor e tornò a sedersi al suo fianco mentre Diamante cercava con mani tremanti una nuova coperta con cui sostituire quella ormai sporca.
“È la prima volta che capita?” chiese il Comandante e la sua voce era più lieve di quanto Diamante avesse mai avuto modo di udirla.
“La terza” rispose.
“Mi concedi di restare fino a domattina?”.
Diamante fu sorpresa da quella domanda, ma annuì: “sistemerò una branda”.
Quella notte dormì più serenamente, poiché la rassicurava sapere che vi fosse qualcun altro con lei a vegliare sul bambino.
La mattina seguente, Astar si svegliò con gran fatica, ma si dimostrò ancora lucido e vigile. Tuttavia, la febbre era terribilmente alta e le epistassi dal naso si facevano sempre più frequenti, mentre ormai era difficile per lui tenere a bada la sete: non poteva certo bere con troppa ingordigia o il suo stomaco si sarebbe ribellato.
Asor parve infine convincersi: “mi assenterò per qualche ora” disse a Diamante “tornerò prima di sera”.
Si diresse alla grande Ambasciata, dove molti lo salutarono con riverenza. Indossava la propria uniforme e in essa pareva un nobile guerriero, forte e fiero come pochi .
Con discrezione bussò alla porta dell'ultimo ufficio della sede, un ambiente austero ma assolato, in cui un Generale suo superiore s'attardava in solitudine, immerso in cupi pensieri e impegnato in questioni militari che troppo a lungo la piaga dell'epidemia aveva costretto ad accantonare.
Al Comandante fu concesso d'entrare e il Generale parve lieto di vederlo, tuttavia si trattenne dal chiedergli consiglio, poiché ne intuì il turbamento. Gli domandò dunque cosa l'avesse condotto da lui.
Con poche parole Asor espose i propri bisogni: un medico disposto a visitare un bambino ricoverato nelle campagne e del siero che potesse salvarlo dalla disgrazia.
“Mi spiace sapere che stia soffrendo a causa di questo male, tuttavia sapevamo che non se ne sarebbe potuto sottrarre” replicò il Generale.
“Io lo pensavo” ammise Asor “credevo che il suo sangue l'avrebbe protetto”.
“Così non è stato, evidentemente. Il siero è riservato a coloro le cui famiglie da tempo richiedono protezione da parte del potere regnante. Tra di essi non vi è spazio per un bastardello campagnolo”.
“Se è di denaro che parliamo, poiché sempre di denaro si tratta, rinuncio alla mi retribuzione per il tempo ritenuto necessario. Usufruite dei miei beni”.
Il Generale ridacchiò, d'un suono amaro e gutturale: “no, Comandante, non è di denaro che parliamo”.
“Dunque d'onore. Ebbene, se mettere in mostra il mio bastardo rischia di gettare vergogna sull'arma a causa mia, permetti che me ne congeda”.
“Certo non parlerai seriamente” cercò d'interromperlo il Generale, ma quello era irrefrenabile: “e se neppure questo è abbastanza, che io venga da te congedato con disonore. Quel bambino sta cedendo alla malattia e sono disposto a molto per impedirlo”.
Nello sguardo del Generale vi era tanto sbigottimento quanta cruda irritazione: “per quel bambino io dovrei rinunciare a uno degli Ufficiali più abili e influenti di cui la nostra arma disponga. Per quel bambino, che tu stesso hai accettato di abbandonare all'illegittimità, io dovrei rinunciare al tuo grado”.
“Se l'illegittimità è il più grande ostacolo che lo separa da una cura, allora lo legittimerò. Anche qui, in questo ufficio, con te quale testimone, mio Generale”.
“Per anni è vissuto da bastardo e temo che morirà come tale” concluse quello in un ringhio di esasperato accanimento “e più non insistere”.
 

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Capitolo 3
*** Stregoni e divini ***


 
Quando Asor tornò alla dimora di periferia, la testa martellante, lo stomaco in fiamme, non s'attardò al capezzale di Astar, che dormiva agitatamente, bensì s'addentrò nel piano inferiore della casa, dove alcune candele erano perpetuamente accese ad onorare un piccolo tempio delle divinità, poche effigi attornianti un piatto simbolico per gli oboli.
Il suo non era un animo credente: di rado gli capitava di pregare e mai offriva oblazioni agli dei. Quel giorno, tuttavia, decise di seguire un antico rito nella disperata speranza d'ottenere ascolto. Incise un lieve taglio sul palmo della propria mano e lasciò che il sangue spillasse nel piatto di rame, poi pregò in silenzio perché, sebbene gli risultasse tremendamente difficile da ammettere, cominciava a temere per la vita del piccolo Astar.
“Solo una volta ti ho visto pregare in questo modo” la voce di Diamante sibilò flebilmente alle sue spalle “Astar era appena nato e si mostrava in salute: tu pregasti perché morisse. Pare che gli Dei ti stiano infine dando ascolto, seppur con grande ritardo”.
Lui non ebbe la forza di spirito per cedere all'amarezza di quell'accusa: “hanno dato ascolto a un'unica preghiera ed essa era l'unica che avrebbero dovuto ignorare” disse semplicemente.
“Mai ho visto il Comandante Asor preda d'una tale pena” fallimentarmente Diamante cercava di rigettare la propria disperazione nell'astio e della repulsione che si sforzava di provare nei suoi confronti. Ancora una volta, Asor non le diede credito: “ho implorato. Ho offerto il mio denaro, il mio titolo, il mio onore, ma non v'è stato modo di persuaderli”.
Uno schianto di vetri rotti proruppe dal piano superiore ed entrambi accorsero rapidi come lepri. Trovarono Astar accasciato a terra, accanto a un bicchiere ormai in frantumi. Sul pavimento ligneo s'espandeva una pozza di bile e sangue.
Diamante si precipitò da lui. Asor stette a guardare mentre un sospiro contrito gli stringeva il petto.
“Avevo sete” si giustificò Astar.
Infine il Comandante lo raggiunse e, presolo in braccio, lo rimise a letto.
“Ti ho sporcato di nuovo” notò il bambino.
Lui controllò la spalla destra della propria casacca: “è la mia divisa ufficiale. Vergognati”.
Astar sorrise appena, poi cadde il silenzio.
“Pa'” azzardò il piccolo e per istinto più che per dovere Diamante si fece avanti con la volontà di rimproverare la sua insolente confidenza, poiché da sempre gli era stato insegnato a rivolgersi ad Asor non quale padre, bensì quale Comandante. Questi, tuttavia, le fece cenno di tacere e lo ascoltò.
“Non ho mai avuto un'influenza come questa”.
Il respiro di Asor era incerto, le sue mani involontariamente tremanti. Gli carezzò il capo madido di sudore freddo: “fidati di me, Astar, è meglio così: una volta superata, non potrà più tornare a darti disturbo”.
Il piccolo annuì debolmente, poi precipitò nel sonno.
Asor e Diamante restarono al suo fianco. Lo osservavano e pensavano, freneticamente, ostinatamente, ma non trovavano una soluzione.
Fu ancora lui infine ad alzarsi con impeto e a gettarsi il mantello sulle spalle: “concedimi un'ora, Diamante. Tornerò con un medico”.
“Ma ti è già stato negato” cercò d'obbiettare lei, tuttavia lui non le diede ascolto e se ne andò.
Non tardò un solo istante: un'ora dopo varcò la soglia preceduto da un uomo contrito e terribilmente irritato. Erano ormai calate le tenebre: per Asor non era stato difficoltoso raggiungere il medico d'ufficio nei suoi alloggi e costringerlo a seguirlo nel pieno della notte.
“Ti pagherò” assicurò per l'ennesima volta “più di quanto lo stesso governo non faccia. Ora visita il bambino”.
Il medico si avvicinò al capezzale tra un brontolio e l'altro, ribadendo quanto ardua fosse la sua posizione a causa delle decisioni avventate del Comandante e che sarebbe stato radiato se solo i suoi superiori ne fossero venuti a conoscenza. Salutò tuttavia Diamante con grande comprensione e cortesia, poiché non vi era modo di persistere nel proprio rancore di fronte al terribile dolore di quella donna.
“Dunque?” insistette Asor dopo quella che gli parve un'attesa interminabile.
“La malattia è allo stadio terminale” rispose il medico con estrema schiettezza.
“Dimmi qualcosa che già non abbia constatato di persona. Meglio ancora, fa qualcosa per lui”.
"Non c'è molto che possa fare per aiutarlo. Se fossi intervenuto prima, avrei potuto somministrargli qualcosa per il dolore, ma ormai è subentrata l'incoscienza: non sta soffrendo".
"Ho denaro" ribadì Asor, esasperato "pagherò il siero".
Il medico scosse il capo, irremovibile: "il paziente in questione non ha diritto al siero. Non posso cedergliene una dose, per quanto annacquata o esigua essa sia. Non posso".
"Ho denaro" sibilò per l'ennesima volta.
"Qualche spicciolo non vale la mia carriera e tu hai pensato lo stesso quando hai scelto di relegare questo bambino nell'ombra, Comandante. Non posso aiutarlo".
"D'accordo, ogni favore ha un prezzo. Cosa vuoi da me? Cosa cerchi? Te lo darò".
L'altro si strinse nelle spalle, a disagio di fronte a tanta insistenza: "nulla che valga il mio nome" ribadì "ma per concedere un po' di pace alla tua anima, Comandante, sarò sincero con te, nella speranza che tu non tradisca la mia buona fede: quel siero ha ottimi risultati, sull'arco di una decina di giorni. Assopisce la malattia, ne rallenta il corso, poi essa ritorna".
Asor lo squadrò perplesso: "che significa?".
"Si tratta di un valido placebo. Concluso il suo effetto, il giovane malato muore entro due giorni".
Diamante sussultò e a stento trattenne un singhiozzo.
"La cura non funziona?" chiese Asor, stranito.
"No, ma molti hanno pagato intere fortune per riceverne. Il governo locale non ha fatto che incentivarne la produzione e la diffusione".
Asor annuì: "d'accordo. Quanti sopravvivono al semplice evolvere della malattia?".
Non ottenne risposta.
"Vi sarà pure una cifra approssimativa" insistette "a quanto ammonta?".
"A nulla" concluse il medico, scrollando le spalle "non vi sono casi di sopravvissuti. La malattia degenera entro un arco temporale che varia dalla giornata a un'intera settimana, poi ha il sopravvento. La nazione sta perdendo un'intera generazione e questo è quanto" guardò il piccolo Astar "da quanto mostra i sintomi del morbo?"
“Una decina di giorni” rispose Diamante con un alone di speranza nella voce, come se tale informazione potesse in qualche modo aiutare l'operato del guaritore.
Quello ne sembrò ammirato: “povero, piccolo diavolo, ha dimostrato grande resistenza. Considerate le sue condizioni e azzardando una previsione ottimistica, gli restano una quindicina di ore”.
Diamante non parlò. Non ne ebbe la forza.
Asor non reagì con altrettanta apatia. Si piantò davanti alla porta quando il medico vi si diresse con il cocente desiderio di lasciare la casa e puntò su di lui un dito inquisitore: “credevo che i medici ufficiali fossero sapienti, non ciarlatani. Pure affermi che l'unica terapia per lui sia giacere nella febbre e aspettare la fine. Ci stai chiedendo di restare con le mani in mano ad attendere che muoia”.
“Poiché questo è ciò che accadrà. Non siete i primi che m'implorano di curare il figlioletto morente, ma io non sono uno stregone, né un divino” sospirò contrito, amaramente consapevole della propria impotenza “mi dispiace” concluse e finalmente si ritirò.
Solo allora Diamante si abbandonò al pianto e singhiozzava silenziosamente, pur preda d'un lancinante sconforto.
Asor la rimproverò, ma la sua stessa voce incespicava nelle parole che a fatica strappava dai propri pensieri: “non crederai a quelle idiozie?”.
“A cosa dovrei credere?” inveì lei tra le lacrime “morirà entro domani, come chiunque altro prima di lui. Ha sofferto per nulla”.
Asor le si avvicinò e la prese saldamente per le spalle: “coloro che prima di lui sono morti non erano Astar. Non erano discendenti diretti della Prima Stirpe”.
“Che differenza può fare? Guardalo”.
“Concedigli tempo”.
“Gli concederei la mia vita, se servisse a qualcosa”.
Una rabbia cocente e selvaggia pervase la mente di Asor e più non cercò di persuaderla. Sedette piuttosto accanto al letto e attese in silenzio. Pensò alle parole di lei. Pensò alle antiche magie del sangue che concedevano la salvezza del debole attraverso il sacrificio del forte. Era certo d'esserlo a sufficienza, tuttavia non vi era il tempo necessario a mettere in pratica simili sortilegi, poiché la magia aveva effetto unicamente sui vivi e richiedeva giorni, se non più, per potersi adempiere. Pensò agli arcani riti delle genti del sud, che affermavano di poter contorcere la realtà e corromperne il significato, così da mutare il passato e porre rimedio ai torti compiuti e subiti: sarebbe bastata una lettera di trasferimento per allontanare Astar da quelle terre maledette e salvarlo dal morbo. Tuttavia, le frontiere erano chiuse e non vi erano sciamani del sud tra loro.
Pensò a lungo e infine s'assopì.
 

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Capitolo 4
*** Notte di cenere ***


 
Si risvegliò colmo d'angoscia, poiché non sapeva quanto tempo avesse trascorso nell'incoscienza e il cielo cominciava già a tingersi d'oro. Tuttavia, sebbene respirasse con la fievolezza d'una brezza morente, in Astar vi era ancora vita. Questa consapevolezza rinfrancò Asor, poiché le quindici ore previste erano trascorse da molto e, come da lui sostenuto fin dal principio, il sangue della Prima Stirpe aveva infuso al piccolo una tenacia negata ad altri.
Sobbalzò quando udì la voce di Diamante alle proprie spalle: “non dovresti attardarti oltre”.
Lui la guardò: fioca, insonne, gli occhi annebbiati, i capelli scarmigliati.
“Non hanno bisogno di me” replicò.
“Tuttavia pretendono che presti fede al tuo servizio”.
“Non hanno bisogno di me, ora” ribadì.
“Non puoi assentarti tanto a lungo” lo sovrastò con altrettanta insistenza “comprenderanno dove ti trovi, incolperanno me e Astar della tua negligenza e in questo momento lui davvero non necessita del loro odio” il suo sguardo era ora implorante “vai via, Asor. Lasciaci soli. Dimenticati di noi, ora che finalmente puoi farlo”.
Asor non trovò parole per zittirla.
Si chinò accanto al capezzale e avvicinò a tal punto il volto a quello di Astar da percepire sulla propria fronte il febbrile calore della sua. Bisbigliò poche parole in una vecchia lingua, antiche preghiere appartenenti alla Prima Stirpe, poi volse all'uscita: “tornerò prima dell'imbrunire”.
Aprì la porta e lì si bloccò, perché vide di fronte a sé un uomo che conosceva: Ruben, Comandante suo pari, molto caro al Generale che ostinatamente gli aveva negato qualunque sostegno poiché figlio della sorella di questi. Ad accompagnarlo erano sei soldati, arrivati fin lì su un grosso carro che ora sostava a pochi passi dalla dimora di Diamante.
Fu Ruben a spezzare il silenzio: “pare che finalmente si sia per te riaperta la strada verso la nomina a Generale. Entro qualche mese sarai mio superiore”.
Asor ignorò quelle parole: "mi assento qualche ora e già viene richiesta la mia presenza?" provocò piuttosto.
"Ci è stato riferito d'un corpo da reclamare" fu la concisa risposta.
Il Comandante lo guardò stranito e non seppe rispondere con prontezza, tanto che due sottoposti lo superarono senza remore e varcarono la soglia di casa.
"Le vostre informazioni sono errate" asserì infine, poi osservò con più attenzione il grande carro su cui erano giunti i soldati. Scorse piccole membra scavalcarne le travi lignee, alcune già livide di putrefazione, altre ancora bianche come cenci.
Il suo stesso voltò impallidì come se tutto il sangue ne fosse stato drenato: "Ruben, non vi sono corpi da reclamare" ribadì e il panico acuiva la sua voce "v'è un malato, questo è vero, ma respira ancora, Ruben, respira ancora" faticava a dividere la propria attenzione tra gli uomini che, ignorando le proteste di Diamante, ne invadevano la casa e le parole dell'altro Comandante.
"Fingerò che la visita effettuatasi la scorsa notte in questa casa sia avvenuta in via legale" replicò Ruben "detto ciò, pare che l'infermo qui ricoverato abbia superato ogni tempistica prevista per la sua sopravvivenza. Non è saggio ignorare la minaccia d'un cadavere infetto: deve essere prelevato e smaltito".
"Ma non vi è cadavere" inveì Asor "guarda tu stesso, Ruben. Non vi è cadavere. Il bambino è vivo".
"Non è ciò che ci è stato riferito dal medico che così gentilmente s'è offerto di visitarlo la scorsa notte" insistette l'altro con aspro sarcasmo.
"Quel medico è un ciarlatano e spezzerò le sue ossa quando scoprirò il motivo per cui abbia accettato d'abbassarsi a simili menzogne".
"Lui non ha colpa. Ha riferito la situazione del tuo bastardo, come da protocollo, e ha sottolineato la soglia delle quindici ore entro cui il bambino sarebbe morto. Ne sono trascorse ventidue".
"E il bambino vive ancora!" lo sovrastò Asor, scosso dai fremiti dell'ira e della paura.
Poi un uomo in armi uscì dalla dimora con un'esile figura avvolta nelle coltri, caricata sulle sue spalle. La voce di Diamante squillava oltre la porta chiusa, ma le era precluso qualsiasi intervento.
Asor comprese e cercò d'intervenire, ma fu fermato.
"Ruben, non hai il diritto di fare questo. Non ne hai il diritto!".
"Il tuo spirito è evidentemente alterato" lo liquidò l'altro "non vorrei che ti compromettessi a causa del tuo temperamento".
"Stai per seppellire un vivo".
Quello sbuffò, spazientito.
“Da quando i Comandanti supervisionano il recupero delle vittime del morbo, Ruben? Da quando?”.
“Da quando nomi come il tuo risultano turpemente coinvolti nella triste vicenda”.
“Turpemente? Quello è mio figlio, Ruben. State per gettare mio figlio in una fossa comune. Per le divinità, cosa devo fare per farti riacquistare la ragione?”.
“Non comprendo il tuo turbamento. Manterremo la più completa discrezione sull'accaduto e il tuo nome sarà nuovamente lindo. Festeggia anziché disperarti”.
Quando vide Astar scaraventato nel carro, Asor agì senza pensare e colpì duramente i due soldati che cercavano di trattenerlo. Ruppe la mandibola a uno e spezzò il naso dell'altro.
“Uomini, per favore, tenetelo a bada” sospirò Ruben, rimontando in sella “il Generale rivuole il Comandante Asor in servizio entro tre giorni: ammanettatelo e gettatelo in cella per una notte, se necessario. Lasciate che sbollisca”.
E così fecero.
Fu trattato con ogni riguardo e non vi era chi osasse rivolgersi a lui senza ostentare il più profondo rispetto, ma ciò non gli impedì d'essere trattenuto all'interno di solide mura, i polsi incatenati, perché aveva dimostrato di saper essere pericoloso e aggressivo, se avvicinato in momenti di particolare livore.
Tuttavia, infine il suo spirito si sopì, arreso, annichilito, e il Comandante stette nella propria gabbia senza più minacciare ribellioni, né proferir parola.
Al calare della sera seguente, passi lievi si avvicinarono alla prigione e un'esile figura si fermò di fronte alle sbarre, proiettando la propria ombra su di lui, che pure non badò ad essa, né alzò lo sguardo.
“Hanno ingabbiato entrambi. Tu in una cella, io nella mia stessa casa”.
Asor riconobbe la voce di Diamante e solo questo riuscì a ghermire la sua attenzione. Sollevò il capo e la guardò stranito, speranzoso persino, ma lei vestiva a lutto e pareva trascinare le tenebre con sé.
“Sono riuscita a fuggire” continuò la donna “e ho seguito le loro tracce. Sono giunta con troppo ritardo”.
Asor scosse il capo, distogliendo lo sguardo, pregandola di tacere, ma lei proseguì: “la fossa era ormai colma e tutto ciò che conteneva carbonizzato. L'hanno bruciato assieme agli altri”.
Dovette tacere, poiché le catene stridettero come armi in battaglia quando lui le sbatté con tale violenza da scuotere le loro saldature e un nome fu quello che con incommensurabile odio scaturì dalle sue labbra.
Chiamò Ruben più volte. Lo insultò. Lo sfidò a mostrarsi e ad avere il coraggio di sfoggiare la propria vigliaccheria di fronte a lui.
Diamante attese che desse sfogo alla propria collera: “è stato un onore conoscerti, Comandante” concluse allora “e ti chiedo perdono per tutti i guai che ne sono seguiti” poi gli voltò le spalle.
A quel punto fu il suo nome che Asor invocò, con incertezza e supplica, ma lei non gli diede ascolto. Camminò nell'ombra che calava dai cieli e gravava sul suo cuore, fino a scomparire nelle tenebre che l'accompagnavano.
 
 

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Capitolo 5
*** Legna da ardere ***


 
Ruben infine dimostrò d'aver ragione: pochi mesi dopo la morte di Astar, Asor fu nominato Generale.
Tuttavia, il destino aveva tracciato una via della quale loro non ebbero modo d'avvedersi poiché, in realtà, Astar viveva.
Giunti alla grande fossa scavata nella remota campagna e ormai pressoché satura di cadaveri candidi di calce, i monatti intenti a smaltire il nuovo carico s'avvidero che una delle ultime vittime gettatevi respirava ancora. Non ebbero il cuore di lasciarla a bruciare con gli altri, così la adagiarono a terra e lì la abbandonarono.
Astar stette incosciente per ore mentre il cumulo di morti si carbonizzava in dense volute di fumo nero.
Poi fu sfiorato da un velo di coscienza, che gli aprì gli occhi e storse il naso: guardò ciò che lo circondava ma non lo comprese e, non per lucidità, bensì guidato da una forza che molto rassomigliava al sogno, arrancò carponi e cercò di sfuggire al terribile lezzo della carne ancora sfrigolante nella fossa.
Raggiunse il folto e vi si immerse, tossendo per le esalazioni e pulendo il sangue che spillava dalla sua bocca nelle maniche ormai sudice.
Vagò a lungo, considerate le sue pietose condizioni, completamente estraneo da sé. Poi crollò e il suo peregrinare fu una sfortuna, poiché proprio in quel momento Diamante giungeva alla fossa e l'avrebbe trovato, se non se ne fosse allontanato, invece lei vide solo fumo e cenere e pensò che lì vi fosse perito.
Al contempo, però, fu una fortuna, poiché capitò nei pressi della casupola d'un taglialegna, che lo trovò di ritorno da una potatura nei pressi del fiume.
I ciocchi gli caddero di mano per la sorpresa, ma non gli si avvicinò, temendo che fosse il trucco d'un qualche gruppo di bricconi, poiché non era raro che sfruttassero gli orfanelli di periferia per abbindolare gli animi buoni e portare a termine le proprie malefatte. Tuttavia il bambino non si muoveva, era sporco di sangue e respirava più rocamente d'un cervo morente, quindi lo raccolse e quella sera tornò a casa con un carico insolito.
La moglie dell'anziano boscaiolo rischiò di prendersi un colpo, ma in men che non si dica preparò un giaciglio e spogliò il piccolo sconosciuto dei suoi orridi abiti.
Notò che la pelle e le labbra del bambino erano secche come un fiore avvizzito, così lo costrinse a bere nell'incoscienza e, sebbene lei non potesse saperlo, quella fu la prima volta da giorni in cui lo stomaco di Astar ne sopportò il peso.
Lo dissetò più volte nell'oblio del sonno, ma vedeva il suo corpo ormai scarno e macilento, dunque si chiese quando si sarebbe svegliato per mangiare, oltre che bere.
La risposta giunse due giorni dopo.
Astar aprì gli occhi e si guardò attorno spaesato.
Si ritrasse quando scorse l'anziana signora seduta al suo fianco, o almeno è ciò che avrebbe fatto, se ne avesse avuto le forze.
La donna lo rassicurò e chiese il suo nome.
Lui glielo disse.
Gli chiese cosa gli fosse accaduto.
Lui ricordò d'essere stato terribilmente malato.
Gli chiese come fosse capitato in quei boschi, perché mai aveva visto un bambino come lui in quelle terre, dunque non poteva che essere forestiero.
A questo non seppe rispondere.
La donna gli carezzò il volto e intravide un insolito alone di biancore sul suo occhio sinistro. Gli coprì il destro e gli chiese se riuscisse a scorgere qualcosa.
Astar scosse il capo.
Prese poi le sue mani, fredde e umide, sebbene la febbre stesse ormai scemando. Gli chiese di muovere la destra e questa ubbidì con gesti saldi, tuttavia la sinistra tremava, non d'un moto invalidante, ma pur sempre involontario.
Gli chiese infine di compiere qualche passo e Astar si alzò a fatica. Camminò per un breve tratto, prima che le sue gambe cedessero, ma per la donna e per il boscaiolo fu sufficiente a notare che il suo piede sinistro era più rigido e malfermo del destro.
Un lato del suo corpo era rimasto offeso dalla malattia.
“Poco male” sorrise bonariamente il boscaiolo, rimettendolo a letto “sembra comunque che tu stia molto meglio”.
Astar, in effetti, era smarrito e la sua mente lievemente affettata dalla lunga febbre, ma certo non stava male quanto ricordava.
La sua pancia brontolò rumorosamente e l'anziana donna rise di gusto: “sei a digiuno da chissà quanti giorni: ti preparerò una tazza di latte caldo”.
 

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