fu un attimo, ma l'eternità

di httpjohnlock
(/viewuser.php?uid=296167)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** so cold ***
Capitolo 2: *** sol, re, la, mi ***



Capitolo 1
*** so cold ***


• Parole: 8696;
• Genere: song fic, angst, fluff;
• Rating: verde.


 
... and I'm just left alone to cry.

 


Una sola volta lo vidi piangere e mi promisi di fare di tutto, qualsiasi cosa a qualsiasi costo pur di non vedere più neanche una lacrima graffiargli quel viso che tanto amavo.


Era una sera di un giorno non come gli altri — perché con Sherlock Holmes la monotonia e la routine sono termini fuori dal mondo; ero appena tornato all'appartamento quando l'ho visto.
Era proprio lì, accasciato alla parete, sotto la finestra mezza aperta, il vento invernale che gli tormentava i boccoli scuri.
Io non sono come lui, io che un po' lento in certe occasioni anche un po' distratto e con la testa tra le nuvole.
Mica sono come lui.
Nonostante ciò mi ci vollero neanche cinque secondi per notare una figura accartocciata avvolta nella penombra, per accorgermi del suo tremore 
lieve e trattenuto, come se nel vedersi così si vergognasse di se stesso, nudo della sua armatura da sociopatico indifferente di fronte ai sentimenti.
Solo che dopo un po' quell'armatura inizia a diventare come piombo e non ce la si fa più a sopportare quel peso e allora si crolla, si crolla e tutte le proprie fragilità emergono fuori, perché le emozioni non possono essere trattenute, nascoste, camuffate, dimenticate, sviate, mimetizzate, eliminate.

Restai all'uscio per qualche istante sentendomi come fossi inchiodato al pavimento, per poi precipitarmi da lui correndo goffamente.
Ero terrorizzato, terrorizzato dal timore di poterlo perdere, di perdere la salvezza.
Perché io, John Watson, senza Sherlock Holmes ero solo un'ombra vuota che scivolava ancora e ancora.

Quasi gridai il suo nome, inginocchiandomi e afferrandogli il polso abbandonato sul petto.
Un fascio della flebile luce di un lampione gli squarciava gli zigomi pronunciati e pallidi, le palpebre abbassate debolmente, le labbra semichiuse e violacee; nonostante ciò, quel che mi dilaniò il cuore fu le sue guance umide.
Piccole gocce, perlate, salate, senza vergogna.


«Sherlock, mi senti?»
Una sensazione di panico mi stava squassando, e mi odiavo, mi odiavo tremendamente per non essere stato lì con lui in quel momento, ma non potevo perdere il controllo, non con l'assenza del suo.
Sherlock, che pretendeva sempre di avere l'ultima parola, adesso non parlava, non muoveva volontariamente neanche un muscolo, così feci per spostarmi dietro di lui e prenderlo tra le braccia ma qualcosa mi urtò una caviglia.
Grugnii e scossi la testa con ferocia, presi quella dannata siringa e la scagliai da qualche parte della stanza buia e disordinata, che era ciò che avrei voluto fare con tutti i tormenti di quell'uomo.
Avrei voluto prendergli il cuore e ripulirlo con le mie labbra, riscaldarlo con le mie mani e fargli rendere conto di quanto di più bello e prezioso fosse.
Avrei voluto prenderlo a pugni, arrossargli la faccia di schiaffi e dirgli che era una testa di cazzo, ma mi sostenni alla parete
 l'unica cosa stabile in quel momento e lo portai ad appoggiare il dorso contro la mia spalla destra, tra le mie gambe.

Sherlock era freddo, stava congelando e il suo polso sottile tra le le mie dita non lo tradiva; riuscivo però a sentire le pulsazioni irregolari, e finché Sherlock era vivo era tutto okay.
Finché il cuore di Sherlock batteva era tutto okay.
Ero un medico, ero bravo, ero stato un soldato, ma con Sherlock Holmes tra le mie braccia, l'unica cosa che riuscivo a fare era affondare la bocca tra i suoi ricci e aspirarne forte l'odore ordinandomi di scacciare via le lacrime e il terrore.
Inziai a pregarlo di parlarmi, di dire qualsiasi cosa, di farmi irritare come qualche ora prima, di non farmi questo, e quanto mi sentii di nuovo in vita quando mugolò il mio nome accompagnandolo ad un fremito lungo tutto il corpo gracile.
Che sentii anch'io.

«Oh, Sherlock» singhiozzai nella sua folta chioma.
Non era la prima volta che vedevo Sherlock drogato, ma quella era la prima volta che lo vedevo assente.
«Sei tornato» La sua voce era flebile come la luce che illuminava debole i nostri volti.
«Pensavo che-»
«Cosa? Cosa pensavi?» Mi sporsi per guardare i suoi occhi.
«Che non tornassi più».

 
 
oh, you can't hear me cry 
see my dreams all die 
from where you're standing 
on your own.

Sherlock è lì sulla sua poltrona, con le braccia che avvolgono le ginocchia.
Sente le ossa e le sente così pesanti, come se stessero per farlo sprofondare in un oblio.
Le pupille vispe e luminose vagano senza meta, insistendo sulla poltrona vuota di fronte a lui.
Sherlock aspetta John da ormai centoventotto minuti, controlla insistentemente il cellulare in attesa di qualche messaggio da John, da Lestrade... anche da Mycroft, anche un messaggio che inizia con “ciao” gli andrebbe bene.
E invece il nulla più assoluto.
Sta arrivando.
Sta arrivando.
La signora Hudson starà facendo il suo pisolino pomeridiano, perché alle orecchie del consulente investigativo non arriva nessuna canzone spacca-timpani o il rumore dell'aspirapolvere.
John
 il suo John — era uscito perché, irritato da un futile capriccio di Sherlock, aveva bisogno di riempire i polmoni di un po' dell'aria fresca e rigenerante di Londra.
oh, when you told me you'd leave 
I felt like I couldn't breathe.
Un motore senza tasto per essere spento, un treno a tutta velocità, un urlo angosciante.
Ecco com'era il suo cervello.
Sherlock guarda attraverso il teschio sul camino e gli sembra di vedere la sua scorta di sigarette e cocaina chiamarlo, e la voce di John  il suo John che gli ordina di non farlo, di non farsi sopraffare, che sarebbe arrivato presto.
Sherlock si guarda intorno come se quel luogo gli fosse improvvisamente estraneo, incapace di analizzare, e affonda il volto sulle ginocchia.
Sta arrivando.
Sta arrivando.
Sherlock non fa che ripeterselo ma intorno a sé tutto è pesante, così opprimente che la pelle gli brucia, guarda le sue dita affusolate tremare e non riesce a fermarle, a controllarle.
Sta arrivando.
Sta arrivando.

Sherlock è convinto che il suo dottore varcherà presto la soglia e lo salverà di nuovo, come fa sempre, con uno dei suoi rimproveri, la sua camminata ad ampie falcate e la sua presenza.
Basta questo, a Sherlock Holmes: John Watson sulla sua poltrona.
Però John non arriva e Sherlock scuote la testa e si dirige verso il camino.
Ecco il tasto off.
it's so quiet here  
and I feel so cold, 
this house no longer 
feels like home. 


Feci un risolino d'amarezza e tristezza.
Come poteva anche solo lontanamente pensare che l'avrei lasciato solo?
Come poteva anche solo lontanamente pensare che l'avrei lasciato solo in tutta quella merda?
Lo strinsi forte a me tenendolo per la vita, facendo scontrare i nostri bacini
e il collo
e la sua schiena al mio petto.

«Non potrei mai fare una cosa simile» 
«Ho tanto freddo, John» mormorò con voce stanca.
«Ti porto a letto» Feci per muovermi ma mi fermai immediatamente non appena vidi il suo collo candido allungarsi fino a posarsi nell'incavo del mio.
La sua gola scoperta ed io mi sentii impazzire, ubriaco dal profumo della sua pelle.

«Non andartene»
«Non sto andando via, Sherlock» sussurrai, spostandogli dei riccioli dalla fronte.
Sentii il suo corpo scivolare da me, gelido e privo di forze.
Tirando su col naso, lentamente mi sfilai la giacca e il maglione beige con i quali coprii alla ben meglio il suo busto vestito solo di una maglietta leggera e dalla sottile vestaglia blu.
Gli presi poi le mani, stringendole forte terrorizzato dal poterle sentire sgretolarsi.
Quel silenzio era nauseante ed io mi sentivo piccolo e oppresso, schiacciato da quelle mura così familiari.
«Cos'è successo?» domandai piano, con le labbra sulla sua tempia destra, solo per bearmi di quelle leggère pulsazioni.

«Non te ne andare»
«Sono qui, Sherlock.»
Lo sentii tremare tra le mie gambe.
Non sapevo cosa fare, pensare, se parlare o tacere, chiamare l'ambulanza o stare lì cercando di sciogliere quel ghiaccio.
Meno male che sei un dottore.

Sherlock cambiò improvvisamente posizione inginocchiandosi di fronte a me impacciato e debole. Mi poggiò le mani sulle guance.
«John»

Mi sfiorava la pelle, lo sentivo percorrere le linee irregolari delle rughe, tastava le ossa e ogni sporgenza e rientranza, osservando con attenzione scientifica. Il tocco dei suoi polpastrelli mi fece rabbrividire e serrare la mandibola, ma avrei dato qualsiasi cosa per avere Sherlock vivo a pochi centimetri dal mio viso per ore ed ore.
Aveva davvero timore che non tornassi più?
Stupido, stupido, stupido.

«Dio, Sherlock, non devi fare sforzi» Deglutii.
«John»
Gli occhi di Sherlock Holmes erano liquidi e rossi mentre mi fissava.
«Sei qui, John» sussurrò ancora.
Gli avvolsi il corpo magro con le braccia appena posò la guancia destra sulla mia spalla, quella ferita in guerra.

«8.3%. Mi odi, John? Ti ho deluso?» Il suo fiato mi moriva sul collo, costringendomi a chiudere gli occhi mentre mi circondava i fianchi con le sue braccia lunghe.
«Perché continui a farlo? Perché hai aumentato la dose?» 

«Ho tanto freddo.»
Questa fu l'ultima cosa che udii prima di ritrovarmi sulle labbra un paio freddo, secco e morbido.
Restai con gli occhi spalancati per una manciata di secondi, per poi affondare una mano tra i suoi ricci, tenendogli la testa per ancorarlo a me e per non farlo cadere.
Le labbra di Sherlock Holmes erano la cosa più dolce, amara, inaspettata, bramata con vergogna, soffice e piacevole che avessi mai provato.
Il mio cuore scalpitava a ritmo rapido, convulsivo, quasi malato... e mi sentii morire.
Era un bacio statico e leggero, timido e insicuro prima che Sherlock si aggrappò con le mani alle mie spalle come se stesse per crollare ed io fossi l'unico appiglio.
In quei respiri e in quei tocchi mi sentii necessario e sentii lui necessario.
Socchiusi le mie labbra sottili per incastonarle alle sue carnose, che mosse inclinando lievemente la testa.
Quella labbra che iniziarono una danza dettata da un bisogno sfrenato di proteggerci, di curarci e di sentire l'uno la sofferenza dell'altro; perché io lo sentivo, io la sentivo quella sua paura, quel suo dolore. La sentivo proprio lì, scorrermi nel corpo come fosse acqua. E s'imprimeva lungo le pareti e sugli organi, per assorbire ogni goccia di sofferenza del passato e del presente di quell'uomo.
E lì in quel momento ebbi la certezza di amarlo, di amare Sherlock Holmes come non avevo mai amato nessuno in tutta la mia vita.

Restammo abbracciati per ore intere, tutta la notte, perché quando aprii le palpebre lo trovai addormentato tra le mie braccia, una forte luce nella stanza e due tazze di tè fumante sul tavolino.







Note: ebbene sì, sono vivo. Ho avuto un periodo lungo e frustrante in cui non riuscivo a mettere due parole insieme che avessero senso e che trasmettessero almeno vagamente qualcosa (in realtà non so se ci sono riuscito, quindi mi piacerebbe ricevere dei pareri grz), finché non mi è venuto in mente tutto ciò in una noiosissima giornata scolastica.
In un'afosa e noiosa serata d'agosto ho avuto la brillante idea di aprire l'app Netflix e iniziare Sherlock BBC... ed è stata una delle cose più belle di quest'anno. Sembra una cazzata, ma questa serie tv mi ha dato tanto e continua a farlo ad ogni rewatch.
Ovviamente sono impazzito per la Johnlock che boh, è indescrivibile quanto mi facciano tremare il cuore.


Quiiindi, spero di aggiornare quanto il più presto possibile questo nuovo "percorso" con una nuova os/drabble/flashfic!

xoxo
Marco

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** sol, re, la, mi ***


• Parole: 1777;
• Genere: romantico, sentimentale, fluff;
• Rating: verde.

 

sol, re, la, mi.

 
Non sono gay, è solo che quando non è insieme a me ho il terrore che possa cacciarsi nei guai, quando è con qualcuno che non sono io mi trasformo in una ragazzina gelosa, quando mi è accanto ho l'urgenza di stringerlo al mio petto.
Non sono gay, ma le nostre mani e le nostre menti sembrano perfettamente vive e reali solo se mescolate insieme.
Non sono gay, ma ogni volta che mi sto per perdere, cerco nei suoi occhi indagatori un barlume di affetto nei confronti del suo unico amico.

 
Giallo, blu, rosso.
Londra era un gran bagliore di luci e decorazioni natalizie: statuine e palloncini a forma di Santa Claus, ghirlande, dolci tipici quali il popolare Christmas pudding, alberi bianchi, alberi verdi, alberi ampi, alberi striminziti; le case dagli addobbi quasi nascosti dalla neve candida e abbacinante, odore di polvere da sparo, carte e residui di cibo sull'asfalto, qualche risata giovanile in lontananza.
Briciole bianche si lasciavano cadere abbondanti e soffici, incuranti di dove finissero, ed era uno spettacolo meraviglioso.
John Watson passeggiava sotto le stelle senza esserne pienamente cosciente, con passo strascicante, come se volesse rimandare quanto più possibile il ritorno a casa. La testa gli pesava come un macigno, il cuore ancor di più, e gli occhi spenti vagavano dappertutto come se la soluzione dei suoi tormenti fosse lì.
E John quella soluzione l'aveva sotto il naso tutti i giorni, ma faceva finta di non accorgersene.
Inspirò profondamente e premette il pollice e l'indice sinistro sul ponte del naso prima di seguire il cartellino bianco con la dicitura Baker Street.
Forse anche lui doveva fregarsene di dove sarebbe andato a cadere.
 

Era una deduzione continua, un volere istintivo e intellettivo di conoscere le cause, i personaggi, tutti i dettagli di un delitto. 
Una mail o una chiamata dalla polizia, un taxi, una manciata di minuti, ore o giorni, a volte una visita al suo palazzo mentale; il suo cervello racimolava tutti i pezzi e ricostruiva una disgrazia come fosse un puzzle.
E inutile negarlo, in questo era il migliore. 
Le persone lo soprannominavano sociopatico, strambo, psicopatico, pericoloso, privo di umanità, ma nessuna parola lo sfiorava minimamente, figuriamoci ferirlo. 
Tranne le sue. 
Oh, sì. 
Sherlock Holmes poteva dimostrare e pensare quello che voleva, ma ciò che John Watson pensava su di lui contava. 
I suoi occhi chiari indagavano su tutto: persone, omicidi, i suicidi, sangue, le valigie, polvere, i tappeti, pistole… ma su niente come su quell’uomo. 
La differenza era sottile: il detective ispezionava le persone da fuori, perché era ciò che gli serviva per risolvere un caso troppo complesso per la polizia — e lo divertiva enormemente, mentre John lo ispezionava da dentro, perché ciò che indicavano le sue scarpe o una macchia di pomodoro all’angolo sinistro della bocca non gli bastava mica. 
La prima volta che s'incontrarono, in una manciata di ore la loro esistenza si era catapultata come in un universo a parte: un’altra dimora, altre abitudini, altri orari, altre persone con cui condividere le giornate, altre persone da incrociare per la strada, altre emozioni.
Sherlock credeva che con le sue deduzioni, John lo avrebbe mandato al diavolo per poi aprire lo sportello del taxi nero, scendere col bastone stretto nella mano sinistra, uscire dalla sua visuale e dalla sua vita. 
Ma non lo fece. 
John restò seduto sul sedile di fianco a lui, l’espressione allibita sul volto e poi, semplicemente, scoppiò a ridere.
Era una sensazione continua, un volere istintivo ed emotivo di conoscere le cause, tutti i dettagli delle sensazioni del suo coinquilino e compagno di vita. 
E nessuno lo aveva mai fatto. 
Nessuno si era mai preso un minuto o ventiquattro ore per scoprire chi fosse davvero Sherlock Holmes, oltre il bavaro del Belstaff alzato e la sfacciataggine di chi crede di saperne di più su tutto e di tutti. 
Tranne John. 
John. 
J o h n. 
Lui — Sherlock s’intende — ripeteva spesso questa parola, che a volte sembrava fosse l’unica che conoscesse. 
John.
John.
John.
Non riusciva mai a distogliere lo sguardo da quegli occhi blu, necessitando di un loro accenno di sicurezza, felicità, approvazione, amore. 
Non l’avrebbe mai ammesso, che quando lui lo guardava non capiva più niente. Non gli avrebbe mai confessato il vero motivo per cui stroncava ogni donna che portava all’appartamento, e non avrebbe mai confessato a se stesso di esserne geloso. 
Nel suo subconscio avrebbe voluto portare a galla quella voglia di baciarlo, di dirgli che lo amava — non sapeva come, ma lo amava —; avrebbe voluto essere conscio di quel volerlo proteggere a tutti i costi, ma la razionalità era la scusa per non permetterselo. 
Mentre tutti (o quasi) lo disdegnavano e lo tenevano a distanza di sicurezza, John lo riteneva il suo migliore amico e anche se a volte lo irritava, sbraitava e usciva sbattendo la porta, per salvargli la vita sarebbe stato sempre sull’attenti. 
Sherlock abbassò le palpebre, il volto dell’uomo stampato nella sua testa con dell’inchiostro indelebile. 
 
Come tutti i soldati, John Hamish Watson camminava ad ampie falcate, con lo sguardo dritto, i piedi ben collocati al suolo e le gambe larghe. 
Doveva tornare a casa e smetterla, smetterla di cercare una compagna, perché non era ciò che realmente desiderava ma che voleva desiderare; ogni ragazza con cui aveva iniziato qualcosa, dopo aver incontrato Sherlock, era diventata solo una prova di rimpiazzo. 
Per John innamorarsi di una donna era scontato. 
Per un uomo adulto e abitudinario come lui innamorarsi improvvisamente di un uomo era sconvolgente, destabilizzante, per questo era convinto di non riuscire ad accettare quei folli e sinceri sentimenti, di non riuscire a esporli.
Inalò quasi tutto l'ossigeno a disposizione e salì i diciassette gradini dell’appartamento numero due-due-uno-bi di Baker Street, che ormai aveva consumato per tutte le volte che aveva calpestato. 
Ogni volta che alle orecchie di John arrivava il suono del violino del suo coinquilino, il suo cuore veniva come avvolto in una calda coperta di velluto, ed era una droga per il suo cervello, che veniva ripulito di ogni tormento. 
E quella volta non fu diverso.
«Stai bene?» Una voce profonda e lineare si sostituì a quella melodia dolce e nostalgica.
«Cosa?» 
«Il tuo passo era titubante» 
«Buon Natale, Sherlock»
«Me li hai già fatti gli auguri, John»
Erano le tre e mezza della notte di Natale e il dottor Watson era appena rincasato dall’ennesima uscita con l’ennesima donna, finita per l’ennesima volta in modo disastroso. 
La prima parte di quella notte festiva la trascorse con sua figlia
— ancora si odiava per averla lasciata  quella donna conosciuta sul bus, la signora Hudson, i suoi dolci, Lestrade, Molly e Sherlock, che a parte qualche borbottio infelice sembrava malinconico e con la testa altrove. Il suo blogger aveva provato ad inserirlo in qualche conversazione, allungargli una porzione di patate arrosto o una fetta di Christmas cake; gli aveva perfino premuto una mano sulla schiena, mentre si dirigeva verso il bagno, e come risposta involontaria John lo sentì irrigidirsi, ma volontariamente non ricevette alcuna risposta. 
«Ti sei divertito con lei?» gli domandò con una punta di acidità nel tono.   
«Sono certo che tu lo sappia già» 
John posò la giacca nera sul divano. 
«Il rumore delle tue scarpe sugli scalini sono sempre di un pass-
»
«No!» esclamò John ammonendolo con un indice alzato. «Ti ho comprato una cosa» 
«Un regalo?» 
Quando Sherlock smise di dargli le spalle, John abbozzò un sorriso e gli porse un pacco rettangolare, di cui l’uomo scartò la carta con l’esitazione di chi non pansa di meritarlo, mentre il suo coinquilino cercava di carpire quanto più possibile ogni sua più piccola reazione. 
John non sapeva se quel regalo potesse piacere o offendere in qualche modo il consulente investigativo, ma appena aveva catturato la sua attenzione fuori la vetrina di un piccolo negozio vintage, aveva pensato a lui. Si ritrovò quindi con una carta rossa con righe verticali verdi che racchiudeva una scatola elegante blu scuro e otto banconote sul piccolo bancone del negozio. 
«Ti ringrazio, è gentile da parte tua» disse Sherlock spostando lo sguardo dall’oggetto agli occhi del biondo per poi tendergli la mano libera. 
«Davvero, Sherlock? Una stretta di mano?» John non riuscì a trattenere un risolino sprezzante. 
«Non va bene?»
«Vado a controllare come sta Rosie e poi andrò a dormire. Buonanotte» disse a voce bassa e roca per poi voltarsi. 
Conosceva Sherlock da anni e di certo non si aspettava salti di gioia o ringraziamenti a ritmo di Jingle Bells, ma non si aspettava neanche un gesto così formale e ridicolo per due come loro.
Invece il consulente investigativo gli strinse un braccio tra le dita quasi con violenza, lasciando libero un lieve gemito dalla gola di John.
«Rosie ha mangiato tutta la zuppa ed è a letto da tre ore e quindici minuti. È ancora presto, perché non resti ancora un po’?» La sua voce tendeva ad abbassarsi man mano che sputava fuori le parole, con quel suo sguardo fisso e penetrante in quello di John, «Sono rimasti dei biscotti allo zenzero e potrei suonare questo» terminò quasi tutto d’un fiato, come se temesse che il suo interlocutore sarebbe potuto scappare.  Gli occhi di quest’ultimo s’illuminarono e dopo un largo sorriso impossibile da arrestare, si sistemò sulla sua poltrona, Sherlock di spalle che sembrava accarezzarlo, quel violino. 
E iniziò a suonare, suonava suonava, Dio come suonava. 
John si ritrovò a pensare a come sarebbe stato alzarsi, circondare quegli esili fianchi con le braccia e poi baciarlo. Baciarlo e sorridere sulle sue labbra. Baciarlo e dirgli che sarebbe rimasto con lui per sempre, ma che neanche il per sempre gli sarebbe bastato. Baciarlo e sperare di dare un freno al suo umore precario. Baciarlo e mordicchiarlo e leccargli appena quel labbro inferiore pieno e roseo. Baciarlo e dirgli con quei baci quanto lo amava. 
Troppo assorto nei suoi pensieri, si accorse solo poco dopo di una manina paffuta che tirava la stoffa sul suo ginocchio destro.
Sorrise in direzione di quella bambina avvolta in un pesante pigiamino giallo intonato ai suoi capelli d’oro e la prese tra le braccia. 
«È proprio bravo, papà» mugolò chiudendo gli occhi assonnati, per poi accoccolarsi al petto scalpitante di John e cadere in un sonno profondo. 
Chissà, magari un giorno John Watson si sarebbe alzato sulle punte e avrebbe baciato il suo migliore amico, ma per quel momento s’impose di farsi bastare questo: il Natale, sua figlia tra le braccia e l’uomo che amava suonare per lui. 
E pensandoci, non era neanche tanto male. 

Oh no, lui non desiderava nessun altro.







Note: ed ecco il secondo raccontino di questa nuova raccolta johnlockiana
e sicuramente l'ultima di questo duemiladiciassette, che, tirando le somme, è stato... sorprendente.
E il vostro?

Anyway, non è Natale se non scrivo qualcosa di natalizio, e quindi eccoci qua:
ad essere sincero ammetto che questo non è propriamente un racconto granché natalizio, 
ma è frutto dell'istinto di un paio d'ore,
e l'istinto io non lo sopprimo mai.
Ne approfitto quindi per augurarvi una buona Vigilia, un Buon Natale, Capodanno ecc ecc...
... oddio, non mi sembra vero.
HAPPY CHRISTMAS PEOPLE!

xoxo
Marco

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3720885