Mic Drop

di Uudenkuu
(/viewuser.php?uid=111853)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Before the Show - 1 ***
Capitolo 2: *** Before the Show - 2 ***
Capitolo 3: *** The show that never comes - 1 ***
Capitolo 4: *** The show that never comes - 2 ***
Capitolo 5: *** After the show - 1 ***
Capitolo 6: *** After the show - 2 ***



Capitolo 1
*** Before the Show - 1 ***


Before the Show

Part 1



Le dita del ragazzo dai capelli verde acqua si muovevano freneticamente sulla tastiera polverosa di un pianoforte di seconda mano. Di quelli che si affittano in un negozio musicale di periferia, stonato abbastanza da poter infastidire il musicista e non la massa noncurante che l’ascolta. Il pedale scricchiolava al peso degli anfibi di cuoio, accompagnato dallo sfrigolio della pelle sintetica che fasciava le gambe asciutte del giovane. Il maglione nero gli copriva l’esile collo pallido, così come le maniche stirate fino alle nocche nascondevano le dita ossute ed affusolate che si stavano esibendo in un difficoltoso concerto in la. Scuoteva la testa, seguendo il ritmo incalzante dell’allegro, non proprio rappresentativo del suo stato d’animo perenne e della sua maniera di presentarsi alle altre persone. Ma quando suonava, si dimenticava di dover odiare tutto e tutti, di fingersi troppo pigro per rivolgere la parola ad un suo coetaneo o troppo infastidito per poter rispondere cortesemente a una domanda. Quando suonava, l’indole lasciava il posto alla furia artistica; la ragione alla più completa e cieca ondata d’emozioni senza senso, senza causa e senza effetto. Park Jimin osservava quel ragazzo dimenarsi sul seggiolino consumato, al centro del palco del teatro che la scuola aveva affittato per la riunione di fine anno. I suoi compagni di classe avevano gli occhi piantati su un cellulare o un tablet o un iPad; quelli più grandi trovavano scuse per trascinare le ragazze nei bagni o al di fuori della struttura, nascondevano sigarette e spinelli nelle tasche delle giacche di pelle e se la prendevano con chiunque sembrasse troppo debole per rispondere. Jimin faceva decisamente parte di quest’ultima categoria, tanto timido e insicuro che era, ma in quel momento niente e nessuno sarebbe stato in grado di distrarlo dall’angelica visione. Con gli occhi lucidi dall’emozione, le ciglia imbevute di lacrime di gioia, le grandissime labbra frementi per la passione, le guance paffute ritratte e distese secondo il ritmo di quell’allegro, le mani congiunte sul cuore impazzito era precipitato in un mondo tutto suo. Talmente estraniato che nemmeno i bulli più coraggiosi avevano voglia di avvicinarsi. Park Jimin, dicevano nei corridoi di quel liceo, era da lasciar stare quando si comportava così. Meglio non immischiarsi negli affari degli strambi, concordavano. Eppure il giovanissimo ragazzo era accartocciato sul sedile rosso del teatro, chiaramente in prima fila, e continuava ad osservare quel ragazzo dai capelli verde acqua che suonava. Come se lo spaziotempo si fosse congelato solo nell’ipotetica linea che univa i due corpi, perfettamente perpendicolare rispetto alla fila nella quale il minore era accomodato, i due vivevano a rallentatore in una dimensione parallela. Yoongi con il suo pianoforte, Jimin con la sua sconfinata ammirazione per Yoongi e per il suo pianoforte. Il resto del mondo non esisteva, era solo una falsità, non era importante. I professori che rimproveravano gli alunni a suon di “ssssh!” contaminati con diversi livelli di rabbia, di fastidio e di strascichi acuti non desiderati; i bulli che infastidivano i più giovani; i vanitosi tutti presi dai loro selfie; le ragazze tutte prese da loro stesse e dal colore del rossetto che portavano non erano stati inglobati in quella sfera viscida.

Quando l’ultima nota venne scandita dal mignolo scoperto del maggiore dei due, un applauso di convenienza si innalzò nell’aria polverosa e stantia di quel vecchio teatro ormai inutilizzato. Un gruppo di tre ragazzi continuò a bisticciare e ridacchiare senza nemmeno accorgersi della fine dell’esibizione, ma Yoongi non sembrò colpito dal disinteresse altrui. Aveva vissuto abbastanza per poter capire che non era importante ricercare l’appoggio degli altri, perché non ne avrebbe mai ricevuto abbastanza da ritenersi soddisfatto. Perché non poteva esistere nessun’altra persona all’infuori del proprio ego, della propria indole e del proprio inconscio in grado di farlo sentire al sicuro. Il suo modo di fare così scostante e distaccato era pura auto-conservazione. Istinto di sopravvivenza animale che schiacciava ogni possibilità di aprirsi ad un rapporto sociale. L’affetto, la felicità, l’amore, la fiducia non facevano per lui. Lui aveva soltanto la sua arte e il suo pianoforte dalla sua.  Proprio per questo si costrinse a guardare in cagnesco un ragazzino, dall’apparenza fragile, che ciondolava fra il resto della platea per potersi avvicinare a lui. Indossava uno sguardo adulatorio, un paio di occhi grandi e sognanti di bambino che deve ancora scoprire l’inesistenza di Babbo Natale, un sorriso talmente largo da scavargli entrambe le guance, velate da un leggero rossore. Le mani ancora strette al petto, per sorreggere un cuore così gonfio d’emozione che poteva cedere da un momento all’altro.

“Sei stato fantastico!” esclamò Jimin, col timbro di voce dolce, ma dal tono squillante e femminile.

Park Jimin era orfano, viveva con sua sorella maggiore in un piccolo bilocale in affitto nella periferia di San Francisco. Nonostante sentisse la mancanza dei sui genitori giorno e notte, era uno di quei volti che non poteva proprio fare a meno di sorridere. Un cerbiatto curioso che scorrazza allegramente sul prato d’alta montagna, pronto a cibarsi della sterpaglia succulenta e ignaro del pericolo che potrebbe correre esponendosi così tanto alla vista di un predatore carnivoro. Di indole pacifica e tranquilla, di buon cuore e parlantina educata. I capelli neri, acconciati in un caschetto regolare e un po’ infantile, sobbalzavano accompagnando la veloce camminata verso il musicista. Faceva fatica a trascinare il corpo minuto e magrolino fra le imponenti e muscolose presenze dei suoi compagni, ma non si sarebbe di certo fermato. Doveva raggiungere quel ragazzo dall’abbigliamento buffo e l’acconciatura eccentrica e dirgli d’essere eccezionale. Che avrebbe volentieri accompagnato la sua musica in una qualche maniera per poterla rendere completa. Per potersi rendere completo. La voglia di intraprendere una strada definitiva c’era eccome, nel cuore tamburellante del piccolo Jimin, ma la direzione non ancora molto chiara. La foschia gli annebbiava i desideri, le nuvole coprivano il debole chiarore della luna piena, ma fortunatamente Jimin non aveva paura del buio.

“No, ehi, aspetta! Aspetta, per favore!”

Yoongi, abbastanza acuto d’aver capito le intenzioni della pulce, si era precipitato giù dal palco, con lo stomaco stretto da un’ansia che non poteva né controllare né comprendere, e si era diretto verso l’uscita d’emergenza laterale. Doveva sfuggire a quel piccolo verme a qualunque costo, perché non poteva permettersi di lasciarsi abbindolare dai complimenti. La musica era il suo punto debole – non riusciva nemmeno a ricordare il motivo per cui avesse accettato di esibirsi in un posto tanto squallido, ignorato da persone altrettanto squallide – e non poteva mostrare con così poca precauzione la parte più tenera e succulenta della propria anima. Ma Jimin non sembrava spaventato dall’inseguimento, né dal buio, quindi aveva permesso alle sue sinapsi innamorate di dedicarsi alla caccia al musicista.

“Che cosa vuoi?” tuonò Yoongi, soffiando una densa coltre di fumo nella direzione del minore che era, inaspettatamente e inspiegabilmente, riuscito a raggiungerlo.

Jimin tossì un paio di volte, portandosi la piccola mano paffuta alla bocca. Il maggiore roteò gli occhi e nascose la sigaretta fumante dietro alla schiena, per poter proteggere quel corpo fragile dal fumo passivo.

“Volevo solo dirti che sei stato fantastico!” replicò Jimin, col sorriso allegro non ancora scalfito dalla freddezza del suo interlocutore, “Sei stato davvero fantastico. Ti ho sentito suonare a scuola, sai. Dopo le lezioni, al quinto piano. La mia classe si trova proprio lì, perciò mi sono fermato ogni giorno da quando hai incominciato a provare. Ho anche tentato di avvicinarmi, ma mi sembravi così concentrato che ho preferito non disturbarti. Ma oggi era il momento! Il giorno migliore per farlo! Dovevo proprio dirtelo!”

“Aspetta, tu cos’è che ci facevi al quinto pia…”

“Devo proprio dirtelo, la tua musica mi ha cambiato la vita. Non esagero, dico sul serio. La mia vita era senza uno scopo, sai,” e Yoongi non capì il motivo di quel bisogno d’aprirsi così tanto perciò strizzò le labbra fini in una smorfia di disappunto, “Ma l’ho trovato. La tua musica me lo ha fatto trovare. Ci credi? Che ho capito di non poter fare l’avvocato? Devi credermi. Sono Park Jimin.”

“Min Yoongi.”

Un barlume di speranza invase le iridi languide del più piccolo.

“Ho trovato un senso, Min Yoongi!”

“Non mi interessa, lasciami in pace.”

“Per favore, dammi una possibilità, Yoongi, per favore! Siamo soli tutti e due. Lo vedo, a scuola, che non c’è speranza per noi di avere un gruppo di amici normali. Ma è ok, è perché siamo speciali. Mia madre me lo diceva sempre prima di morire che ero un bambino speciale, ma sono sicurissimo che l’avrebbe detto anche a te se avesse fatto in tempo a conoscerti. Se solo ti avesse sentito suonare, te lo avrebbe detto anche lei.” Jimin si ritrovò sulle ginocchia, con le mani tremanti che avevano tentato di inglobare quelle sudate e affusolate di Yoongi, un po’ scosse a causa di quel contatto inaspettato.

E il maggiore in età non si era mosso, contrariamente a ciò che si era ordinato di fare. Era rimasto lì, in piedi, a fissare dall’alto la testa tonda di un ragazzino che lo pregava di essere ascoltato. Con quelle mani da neonato strette a coppetta attorno alle proprie, pallide di morte, mucchietto di ossa che si scontrava contro dei tasti bianchi e neri per tutto il giorno, improvvisamente più sudate. Da quanto tempo non aveva avuto contatto fisico con qualcuno? Non permetteva nemmeno ai suoi genitori di sfiorarlo. Probabilmente nessun coetaneo gli si era mai avvicinato e i pochi temerari che avevano provato a intraprendere una conversazione civile si erano pentiti qualche secondo dopo. Eppure Park Jimin era in ginocchio. Era in ginocchio!

“Che cosa stai facendo…” mugugnò Yoongi, un po’ in imbarazzo a causa della stramba situazione, “Dai, alzati…” e fece sgusciare una mano sola da quella stretta sudaticcia per poter afferrare il braccio del ragazzo e tirarlo su scompostamente.

“È per caso una possibilità?” chiese il più piccolo, la voce rotta dall’emozione.

Yoongi aprì la bocca per dire qualcosa di estremamente inconveniente ma, non riuscendo a pensare a nulla, la richiuse. Avvicinò il mozzicone ormai finito alla bocca e aspirò a lungo, fino a sentirsi i polmoni bruciare e la gola scoppiare. Gli occhi piccoli ed aguzzi gli si riempirono di lacrime. Aspettò un paio di secondi prima di soffiare via tutto quanto, unendo al coro un indecoroso e rumoroso sospiro rassegnato.

“Che cosa vuoi da me?” chiese infine, allungando un sorrisetto.

“Voglio accompagnare la tua musica, Yoongi. Voglio fondermi con essa, sentirmi parte di essa, completarla in una maniera che solo io riesco a fare. Il mio senso è fare arte con te, l’ho capito dalla maniera in cui la tua musica mi ha scosso nel profondo. È da quasi un anno che ti sento suonare, anche se tu non lo sapevi. È da quasi un anno che mi suggerisci una via alternativa all’infelicità e agli avvocati.”

“Non ho capito la storia degli avvocati.”

“Non importa, non importa!” e le mani di Jimin planarono sulle strette spalle di Yoongi, in una morsa tenera e delicata, “Danzerò sulla tua musica. Diventerò un professionista per potermi lasciare trasportare completamente dalle note che scrivi. Sarò parte della tua arte. Mi è sempre piaciuto ballare, sai, ma non avevo mai pensato che potesse significare così tanto per me. Ma ora ho capito! È grazie a te che tutto ha un senso, che io ho visto la luce. Quella vera. È perché suoni così bene il pianoforte. Quindi che ne pensi? Collaboriamo? Troviamo un senso insieme, io e te?”
Gli zigomi pronunciati del maggiore vennero improvvisamente inondati da una lucente e salata cascata di lacrime. Il naso aguzzo si stirò un paio di volte, le labbra sottili si tesero fino a convergere in un infimo punto materiale. La testa colorata si abbassò, livida dalla vergogna di aver accolto una reazione emotiva così istintiva senza nemmeno essere riuscito a contenerla. Yoongi non aveva mai pianto in vita sua. Jimin non aveva mai creduto in nulla, in vita sua, soprattutto alla possibilità che anche un essere imbarazzante e goffo come lui potesse trovare la sua strada.

“Devo ricevere qualcosa in cambio, altrimenti non è un patto equo.” Grugnì Yoongi, tra un debole singhiozzo e l’altro.

Le lacrime erano comparse anche sul volto longilineo del più piccolo.

“Cosa?”

“Dobbiamo entrambi andare in una scuola per migliorare, altrimenti non se ne fa nulla, e dobbiamo incontrarci almeno una volta a settimana per provare. Così io posso dirti quanto fai schifo a ballare e tu puoi dirmi quanto sono bravo a suonare. Magari puoi, uhm”, ci fu una breve pausa scandita da un debole colpo di tosse, “Darmi un paio di consigli. Che sono più che tenuto a non ascoltare, si intende.” 









Note dell'autrice

CIao a tutti ragazzi. Mi chiamo Orion e vi presento un racconto breve, narrato in piccoli flash che vi mostreranno l'andamento della storia, che mi è venuto in mente durante un esercizio al corso di scrittura che frequento. E' nato tutto così, quasi senza motivo, da una scena di un flash futuro di cui ovviamente non vi parlerò. La notte insonne mi ha dato la possibilità di pensarci meglio e di decidere di scriverci un racconto breve di 30 pagine word divise in sezioni da 10. Queste sezioni verranno a loro volta divise durante la pubblicazione, per rendere i capitoli più scorrevoli e per cercare di creare più suspance e verranno segnati dal nome della sezione (per esempio "Before the Show)" con un trattino ed un numero. Il numero vi permetterà di comprendere l'andamento cronologico degli accaduti, narrati comunque in ordine - non preoccupatevi troppo! Non credevo di volerlo condividere fin quando non è diventato così importante per me. Era una storia da nulla che infine ha messo radici nel mio cuore e mi sono fatta coraggio per presentarla a tutti voi, nella speranza che l'apprezziate e provate ciò che io ho provato scrivendola. 
Grazie a chiunque decida di passare, in particolare a chi lascia un resoconto (mi piacerebbe capire se sto sbagliando oppure no, per favore, sono ben accetti qualsiasi tipi di commenti!) e a chi decide di inserire queste storie fra le seguite o le preferite. Per qualsiasi cosa, potete lasciarmi un messaggino. Ori risponde sempre. 
Bacini fotonici, 
Orion
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Before the Show - 2 ***


Before the show
Part 2

Il tintinnio di una tazzina di ceramica sporca di rossetto e col fondo macchiato di caffè si unì a quella di una seconda tazza, più grande, con residui di cioccolato ancora incrostati ad anello sul bordo spesso. La lavastoviglie venne chiusa da un calcio distratto, un po’ annoiato, e fu seguito dalle urla di un vocione maturo che tuonava, per l’ennesima volta, di fare più attenzione. I mormorii accesi di giovani studenti e le conversazioni filtrate da cellulari di uomini d’affari ronzavano senza sosta fra le quattro mura del piccolo bar della tredicesima. Yoongi sospirò rumorosamente, lisciandosi la maglia bianca della divisa sul ventre magro, e tentò di biascicare delle scuse.  

“Ripetimi ancora di chi è stata l’idea.”

“Tua. Perlomeno quella delle scuole. Peccato che due anni fa eri troppo piccolo per considerare la nostra povertà come parte integrante del patto.”

La voce allegra di Jimin risuonò proprio alle spalle dell’amico. Non c’era nient’altro da aggiungere, il minore in età aveva ragione e Yoongi non aveva nessuna intenzione di ammetterlo. Ma non avevano quasi più bisogno di conversare, quei due, perché lo scorrere incessante e indefinito del tempo aveva consolidato il loro rapporto fino a renderlo telepatico. Erano diventati l’una l’ombra dell’altro, la pietra portante su cui accasciare le membra addolorate, la spalla su cui piangere, la mente da interrogare nei momenti peggiori e quella con cui gioire in quelli migliori. Avevano appreso ed accettato le reazioni dell’altro a ogni qualsiasi tipo di stimolo esterno. Jimin aveva trovato in Yoongi la sua forza e Yoongi aveva trovato in Jimin la sua debolezza.

“Ci penso io ai tipi del tavolo tre. Meglio se non ti ci avvicini.” Continuò il moro, sfoderando un’espressione intenerita. Perché sapeva quanto il ragazzo dai capelli verde acqua, che continuava a tingerseli con ostinazione nonostante cominciassero ad ispessirsi e incresparsi, odiasse le persone saccenti e prepotenti.

Yoongi lanciò uno sguardo furtivo in direzione del tavolo e mandò giù tutta l’amarezza che cominciava ad inacidirgli il sangue. “Se provano a darti fastidio, li riduco in cenere.”

“Siamo all’ultimo anno, non vorrai mica combinare guai proprio adesso. Prima finisci la scuola e poi fai il cattivo ragazzo per i bar. Magari fallo se non ci lavori dentro, a meno che tu non voglia perdere il lavoro.”

E, come Jimin già si aspettava, l’altro roteò gli occhi con fare infastidito. Era un modo per dimostrargli che aveva ancora ragione, perciò la conversazione doveva essere urgentemente terminata. Era inammissibile che avesse torto per una volta, figuriamoci per due di fila.

“Ti preoccupi troppo per me.” Miagolò il moro, avvolgendogli le spalle con il braccio.

“E sta zitto.”

“Invece che amoreggiare, voi due, potreste per favore servire i clienti? Non so se ve ne siete accorti, ma siamo pieni zeppi. Muovetevi o vi licenzio entrambi!”

Jimin si lasciò andare ad una piccola risata imbarazzata, mentre Yoongi produsse il ringhio più spaventoso che avesse mai messo a punto in tutta la sua vita.

“Allora, domani alle sei del pomeriggio, appena finite le lezioni, quinto piano?” chiese il più giovane, prima di allontanarsi verso il fatidico tavolo tre.

“Non fare ritardo.”

Jimin non fece ritardo, perché non poteva permettersi di deludere anche solo la più infima porzione di fiducia che gli era stata recapitata dal più anziano. Non poteva permettersi di rovinare quell’atmosfera tanto familiare e calorosa che si era creata attorno a loro, come una nube densa, carica di tensione emotiva che continuava a stringerli in una morsa, a farli scontrare come particelle accelerate fuori controllo. Fino al momento in cui, tanto furibonda era la collisione, non si fossero annichiliti l’uno nelle braccia dell’altro. I suoi piccoli passi delicati, degno di un ballerino già in avanti con la carriera, echeggiavano nell’ultimo piano ormai deserto. Aveva atteso con le spalle ben piantate sul muro giallognolo che tutti quanti si precipitassero sulle scale, con le teste vuote più degli stomaci, e poi si era diretto all’estremità più umida e buia del corridoio. L’aula di musica era stata posizionata nella zona meno frequentata dell’edificio proprio per evitare disagi durante l’orario di svolgimento delle lezioni e, quando tutti gli studenti evadevano dalla prigionia, si intingeva d’una atmosfera sinistra, quasi medievale. Come se da un momento all’altro dovesse materializzarsi un vecchio conte vampiro o una strega dalle sembianze piacenti. La porta era proprio di fronte a lui, unica posta perpendicolarmente e non parallelamente rispetto alla direzione di propagazione delle scarpette nere, appena dischiusa. La debole e tremolante luce di un tramonto iniziato da pochissimo riusciva a sgusciare fuori dalla stretta fenditura e a disegnare mistici ghirigori sul pavimento, coperto da un sottilissimo strato di polvere. La mano di Jimin si accostò allo stipite di legno, il piede destro si affrettò ad allargare la via che divideva il sogno dalla realtà, il viso fu interamente investito dalle radiazioni aranciate che si diffondevano attraverso l’ampia finestrata sul lato lungo della stanza. Dovevano essere gli unici a frequentarla, perché tutto era come l’avevano lasciato la settimana prima: il pianoforte in fondo sulla sinistra; una trave al di sotto e lunga quanto la lucida finestra; una batteria senza un timpano in fondo sulla destra; degli amplificatori scadenti nell’angolo più vicino al corpo tonico di Jimin; alti specchi lungo tutto il perimetro che mostravano un riflesso ovattato dagli aloni. Il ballerino sorrise e rilassò i muscoli della mano sinistra. Uno zainetto in feltro verdognolo precipitò sul gelido mattonato, l’eco dello scontro permeò le quattro mura.

“Ohi, ohi, mi hai battuto di un paio di secondi.”

La voce gracchiante e roca di Yoongi era inconfondibile, almeno per il suo amico. Forse avrebbe dovuto consigliargli di fumare di meno.

“Possiamo far finta che sia stato tu a vincere. Lo sai che a me non interessa.” Replicò il minore, regalandogli un sorriso che l’altro non poté vedere, perché gli era ancora di spalle.

E il giovane dai capelli verde acqua avrebbe voluto rispondere “ecco perché andiamo tanto d’accordo”, ma il suo orgoglio gli impedì di farlo. Finì per accostarsi a lui, dinnanzi a quell’imponente vetrata che inglobava sfumature calde, sommità di altri giganti di cemento, alberi e piccoli uomini in lontananza, e abbassò la testa di qualche centimetro per poter catturare i suoi occhi. Con i visi accesi da tutta quella rifrazione che rendevano gli sguardi più avvenenti e le espressioni più profonde, i due continuarono a squadrarsi, alla ricerca di una qualche risposta a una qualche domanda esistenziale che ancora non riuscivano a porsi. Fu Yoongi, un po’ imbarazzato dal contatto intimo, a interrompere la collisione atomica.

“C’è una cosa che volevo chiederti.”

Jimin asserì con un brevissimo movimento della testa.

“Quando ci siamo conosciuti, mi hai detto qualcosa riguardo a degli avvocati. Che non volevi diventarne uno, se non ricordo male. È che hai borbottato così tanta roba che ho smesso di seguirti.”
Un debole sorriso smosse le labbra piene del più giovane, colmo d’improvvisa amarezza.

“Mio padre, sai…” cominciò, ma si rese conto di aver bisogno di un altro punto di partenza, perciò provò ancora una volta, “Io sono orfano. Da parte di entrambi i genitori. Abitavo in campagna prima di trasferirmi qui, l’ho dovuto fare per frequentare la scuola. Tutti gli uomini della mia famiglia erano sempre stati avvocati, perciò si aspettavano che lo facessi anche io.”
E percependo quanto quel parlottio potesse prolungarsi, adagiò le gambe esili sul pavimento e affondò il mento arrotondato fra le mani. Yoongi si accomodò accanto a lui di riflesso, incitandolo a proseguire con lo sguardo.

“Ho sempre lottato per non farlo. Ho sempre litigato con mio padre. Mia madre cercava di sostenermi e mi permetteva di ballare in mansarda, di allenarmi quando lui non era in casa, ma non era abbastanza. Anche mia sorella ha sempre tentato di farmi intraprendere la mia strada. Credevo di avercela fatta.”

“Poi cos’è successo?” chiese il maggiore, solo per spronarlo, perché era abbastanza acuto da poter immaginare il resto.

I denti rotondi e dritti di Jimin affondarono nel labbro inferiore e vi sostarono fino a quando non si ritennero soddisfatti. Gli occhi si inumidirono.

“Incidente d’auto. Nevicava, l’auto è finita fuori strada e sono entrambi morti sul colpo. Il fatto è, Yoongi… L’ultima volta che ho parlato con mio padre, ci ho litigato. Sempre per lo stesso motivo. Tu farai l’avvocato!” e imitò il vocione del padre, “No, io voglio fare il ballerino!” proseguì con il suo stesso tono, reso un po’ più acuto per evidenziare la differenza, “Non è un lavoro! Non puoi fare carriera! Non potrai avere una famiglia! Né un nome rispettabile! E poi gli uomini non ballano!” ancora il padre, “Mia madre è intervenuta e gli ha detto che avrebbero fatto un giro per sbollire un po’ la rabbia. La tensione. Ma nevicava tanto forte e non sono più tornati.”

La voce gli si era affievolita sempre di più, fino a ridursi in un soffio rauco alla fine della frase.

“Quindi avevi deciso di fare l’avvocato per chiedere scusa a tuo papà.”

“Credevo fosse l’unica maniera in cui potevo dimostrargli di volergli bene comunque, nonostante tutto. Poi ti ho sentito suonare e… qualcosa in me è cambiato. Forse mio padre adesso vuole solo vedermi felice. Forse, se fosse qui ad ascoltarci, approverebbe le nostre scelte.”

Yoongi avrebbe voluto rispondergli che suo padre non poteva più volere, né vedere, né approvare niente. Che tutti ritornano alla polvere, una volta morti, che non esiste un aldilà né una maniera efficiente per redimersi. Che proprio per questo doveva tenere da parte i rimpianti per seguire la sua strada, prima di rimetterci le penne e diventare cibo di qualche altro essere vivente, ma non lo fece. La conclusione era comunque stata la stessa per entrambi, fare arte insieme. Consolidare il loro legame con sette note e una danza, scavarsi con le unghie e con i denti un posticino in un mondo che si disordinava irreversibilmente.

“Ti ho ascoltato davvero poco fino ad adesso, eh?” commentò soltanto, con un’amara punta di rammarico sulla lingua.

“Quello è il mio ruolo, Yoongi!” rispose Jimin, subito pronto a scacciare via i brutti pensieri dalla mente dell’amico, e gli appoggiò la testa ovale sulla spalla. Yoongi si lasciò cullare dal tepore del contatto per una manciata di secondi e poi si scostò, per rimanere nei canoni della persona che aveva deciso di diventare.

“E il tuo ruolo non è quello di avere il culo piantato per terra. Su, muoviamoci o finiranno per cacciarci.” Si sollevò con agilità felina, battendosi le mani sul didietro dei pantaloni scuri per pulirli dalla polvere.

Jimin attese che l’altro si posizionasse sullo sgabellino di fronte allo strumento per mettersi in posizione. Incrociò le gambe, allineando i piedi, e curvò la schiena per permettere alle mani di chiudersi in una coppetta all’altezza delle ginocchia. Inclinò la testa verso la batteria, schiuse gli occhi, in attesa di essere investito dalla musica, e fece un lungo respiro un po’ strozzato dalla scomoda posa. Le dita sottili di Yoongi planarono sulla tastiera un po’ appiccicosa del pianoforte e vi posarono dei baci dolci, delicati, quasi accennati, effusioni iniziali di una lunga e frastagliata sinfonia in mi minore. Jimin cominciò a muoversi con grazia, distendendosi verso il soffitto come un fiore appena risvegliato dal calore della primavera e lubrificato dalla brina, come un animaletto riportato alla vita dopo un lungo periodo di letargo dal dolce squittio dei colleghi già attivi.

Le luci più prepotenti del tramonto ormai inoltrato continuavano a perforare i vetri sottili dell’aula e ad investire i due corpi tutti intenti in una fusione epifanica a dir poco incomprensibile. I serpenti rosati scivolavano sulle mani di Yoongi, che adesso si erano lasciate andare a carezze più insistenti e passionali; alla sua schiena che dondolava prima avanti e poi indietro al ritmo cadenzato di quella melodia così struggente; ai capelli un po’ bruciati che sobbalzavano, tutti presi dall’euforia del momento; al viso rilassato, le cui sopracciglia inarcate e le labbra strette tradivano una profonda concentrazione. Poi, dopo aver finito la curiosa incursione sul musicista, si precipitavano ad avvolgere ed abbracciare il corpo del ballerino, fasciato da una tutina di cotone colorato, che volteggiava per aria accompagnato da veli di pulviscolo e polvere a fargli da eco. Le movenze erano perfettamente in sintonia con il ritmo, le braccia e le gambe si esibivano in rotazioni e piegamenti e distensioni che ricordavano l’andamento pulsante e vorticoso di una vita appena concepita. C’erano la nascita, la sofferenza, l’apprensione, la rabbia, il bisogno di sentirsi riconosciuti, l’amore, la frustrazione, la voglia di cambiare, la soddisfazione, la miseria e la ricchezza, la giovinezza e l’età adulta.
Yoongi, di tanto in tanto, lanciava occhiate estasiate a Jimin, ben sapendo che quest’ultimo non era in grado di scorgerlo. Si lasciava invadere dalla vista di quel corpo, consacrato solo ed esclusivamente alla propria musica; si lasciava guidare dalla sua forza di volontà e la sua voglia di sopravvivere. Al suo coraggio di aver deciso di cambiare vita, nonostante il ricordo del padre incombesse su di lui come una tempesta. E le orecchie di Jimin si beavano del genio dell’amico, i suoi timpani vibravano e fremevano nell’udire quelle note che stavano disegnando la sua strada, che gli stavano mostrando il suo destino. Che gli stavano facendo comprendere il vero senso della vita.

Ma il crescendo della melodia andava man mano spegnendosi. La danza si riduceva a lievi e deboli fruscii, fino a quando non si ridusse in cenere. C’era la morte. I due incrociarono gli sguardi.

C’era la rinascita. 












Note dell'autrice

Volevo aspettare giovedì per pubblicare il secondo capitolo, ma AAAAH, non ce l'ho fatta. Ci tenevo così tanto a presentarvi questa seconda parte che non ho resistito alla tentazione, quindi eccola qui. La parte fluff di questo racconto breve è ciò che più mi fa sciogliere il cuore. In particolare, ho cercato di immaginare la scena finale nei minimi dettagli e di renderla evocativa per far comprendere il tipo di legame così profondo che si sta formando tra i due ragazzi. Viene anche fornita qualche informazione in più sui loro passati. 
Spero che sia di vostro gradimento! Un ringraziamento enorme a chi recensisce, ma anche a chi viene qui per dare un'occhiata. I commenti sono sempre ben accetti, alla prossima!
Baci fotonici, 

Orion

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** The show that never comes - 1 ***


The show that never comes
Part 1
 

I piccoli piedi feriti a dall’eccessivo allenamento, zampettavano all’ingresso dell’Accademia di Danza più prestigiosa della città. E le gambe ad essi associati tremolavano come budino rancido, incattivito da tutta quella tensione che circolava nel corpo ben formato del ragazzo. Jimin era riuscito a mettere da parte un bel po’ di soldi grazie al lavoro part-time e, per dimostrare fedeltà all’amico Yoongi, si era iscritto al corso per principianti. Non aveva alcuna intenzione di mostrarsi saccente e passare all’intermedio, timido e umile com’era, ma aveva l’impressione di dover subire ore ed ore di nozioni già acquisite con acrobatiche e non molto eleganti cadute. Il pavimento di legno della sua vecchia mansarda era scalfito dal fruscio possente delle scarpette da ballo e tumefatto in corrispondenza delle botte delle cadute più rovinose. Eppure, nonostante vantasse di una discreta collezione di lividi, le gambe oscillavano pericolosamente davanti all’ingresso dell’Accademia, impedendogli di fare l’ultimo gradino per oltrepassare la soglia. Aveva paura, temeva di non poter essere all’altezza, di aver intrapreso la strada sbagliata. Avvertiva lo sguardo di suo padre, minaccioso raggio dai cieli, che lo aggrediva e lo accusava di aver disonorato il nome di famiglia. La voce del defunto tuonò nella sua mente, annebbiandogli la vista. Dovresti fare l’avvocato! Diceva la voce, O almeno un mestiere che sia adatto ad un uomo, un padre di famiglia! La danza lasciala alle donne! Gli uomini devono essere forti e utili alla società! Alla famiglia! La famiglia. Jimin non voleva metter su famiglia, non voleva inondarsi di bambini capricciosi, né addossarsi il peso di responsabilità che non aveva ricercato. Voleva solo ascoltare la musica di Yoongi ancora una volta e danzarci sopra, fondere la propria arte con la sua in un canto celestiale destinato a durare. Voleva perpetuare nei timpani di ogni essere vivente anche dopo essere scomparso, rimanere stretto al suo amico come etere, raggi cosmici in grado di imprimere ogni cosa. E l’immagine delle dita pallide e sottili del ragazzo dai capelli verde acqua fu in grado di scacciare via quella voce terrificante e di permettere al suo piede di compiere quell’ultimo, dannato passo. La mano sudata si protese verso la porta di vetro che, qualche istante prima d’esser toccata, venne risucchiata all’interno del muro per permettere al visitatore di entrare nell’edificio.

Dalla sala d’attesa della reception, Jimin era in grado di vedere le ragazze allenarsi attraverso l’enorme vetrata che seguiva il lato lungo dell’ambiente. Era l’unico accomodato su quelle sedie di plastica nere, disposte attorno ad un piccolo tavolo di cristallo, rettangolare e colmo di tabloid scandalistici. Il pavimento era d’un mattonato grigio, un po’ anonimo, con delle fantasie aranciate triangolari, disposte irregolarmente su ciascun pezzo; il resto delle pareti era d’un bianco sbiadito dal tempo e ossidato dal respiro dei ballerini. Il segretario, un ometto giovane dall’aria irritata, era ingabbiato in un cubicolo anch’esso di vetro; incastrato tra una scrivania di legno chiaro, una sedia in ecopelle girevole, un armadietto dello stesso colore del tavolo e la piccola porta d’accesso alla cella. Stava discutendo al telefono con qualcuno che non aveva pagato la retta, così Jimin credeva d’aver capito, e si dispiacque all’idea di dover intraprendere una conversazione con un uomo già stizzito. Era già abbastanza imbarazzante per un uomo doversi iscriversi ad una scuola di danza.

“Prego, avanti.” Squittì l’uomo, visibilmente infastidito, incastrando i propri piccoli occhi luccicanti nello sguardo terrorizzato del ragazzo.

“S-sì, ecco, io,” e si affrettò all’ingresso del cubicolo, con le guance piene tutte imbrattate di rosso, “Vorrei iscrivermi. A-ad un corso d-di danza.”

“Tu? Tu saresti un ballerino?”

 
E il segretario si ricredette, fece anche delle scuse ufficiali annesse ad un paio di inchini profondi, quando vide il ragazzo ballare. Non era ben visto dal suo gruppo, né dalle ragazze, né dai pochi ragazzi che c’erano, forse invidiosi della sua eleganza e bravura naturale. Non c’era nulla che, con un po’ di impegno, non riuscisse a fare. Gli insegnanti gli stavano dietro con piacere, forse con un pizzico d’affetto in più rispetto agli altri studenti, ammorbiditi da come la sua goffaggine ed insicurezza andassero via una volta partita la musica. Proprio come quando Yoongi suonava, Jimin dimenticava di essere Jimin e si fondeva con le note fino a scomparire. Perdeva il senso della propriocezione, di sé stesso e dei limiti corporei, diventava pura energia e zero materia in una danza che lo illuminava come una stella pulsante poco prima di esplodere. E chi lo guardava rimaneva strabiliato dalle sue abilità eteree, dalle sue mosse così sinuose, così sentite, così fuori dal comune. Come se un angelo scendesse sulla terra e prendesse il suo posto durante gli allenamenti e le esibizioni.


Anche Yoongi se la cavava alla grande, avvantaggiato dagli anni di allenamento in solitudine che aveva fatto, al quinto piano della sua scuola. Le lezioni, fortunatamente per lui, non comprendevano una gran necessità di contatto fisico, né di parlottii insensati, perciò non ebbe nulla da ridire. Quasi niente, perché con l’insegnante doveva pur averci a che fare. Quest’ultimo pareva aver preso in simpatia i modi di fare scorbutici del ragazzo che nascondevano, molto in profondità, uno strato di sensibilità ed empatia e talento musicale fuori dal comune. Gli stessi occhi aguzzi che erano in grado di incenerire qualsiasi persona nel raggio di dieci metri, erano anche in grado di captare il mondo da una prospettiva diversa, quasi sfasata di qualche grado. Come se fosse capace di osservare e plasmare i corpi energetici al di fuori delle persone e delle cose e li usasse come soggetti per fare la sua musica. L’apprendimento della tecnica e di un sistema più metodico ed organizzato per imparare, eseguire e comporre rendeva più precisa e pulita la sua scrittura, metteva ordine nella matassa disordinata che si impossessava dei suoi pensieri quando sentiva il bisogno di accarezzare il suo pianoforte. Yoongi era molto riconoscente al suo insegnante, perché non ne aveva trovati di molto pazienti fino ad ora, ma faticava a dirglielo. Qualcosa, in lui, gli impediva di avvicinarsi materialmente a questa persona per poter esprimere la gratitudine, perciò sperava che se ne accorgesse da solo. In qualche modo.
Yoongi spaventava tutti i suoi colleghi, perciò non era mai infastidito dai dispetti di nessuno. Al contrario, Jimin si era presentato come un’esca perfetta per gli aspiranti professionisti più grandi di lui, che tentavano di ricacciarlo al suo posto con scherzi di cattivo gusto. Gli insegnanti gli dicevano che erano terrorizzati dal suo talento e dalla possibilità che potesse sorpassarli in eventuali provini e selezioni, ma Jimin proprio non capiva. Era abituato a sentirsi stimolato da chiunque fosse più bravo di lui, ma mai aveva fatto qualcosa di sbagliato per assicurarsi dello spazio in più. Era troppo ingenuo per un mondo cattivo come quello, così Yoongi gli ripeteva. E Yoongi era anche quello che prendeva le sue difese in maniera più aggressiva e meno diplomatica quando lo infastidivano in sua presenza.


“Mi hanno preso le scarpe e la biancheria, questa volta.” Mugugnò Jimin al suo amico, che era stato segretamente fatto entrare nello spogliatoio maschile dopo l’ennesimo allenamento del primo. Aveva i piedi zuppi di sangue e di bende disciolte e di lividi, non avrebbe di certo potuto andarsene in giro con quelle scarpette. Yoongi aveva provato a dirgli che non c’era nessun problema ad uscire senza biancheria, che lui stesso lo facesse più spesso di quanto non volesse dimostrare, ma si era solo beccato un paio di schiaffetti innocenti da parte di un Jimin sommerso dalla vergogna. Perciò si trovavano lì, seduti l’uno accanto all’altro su una panchina di ferro, in mezzo a due vagonate di armadietti semi aperti.

“Se scopro chi è stato, è finito. Ma prima di tutto dobbiamo trovare la tua roba. Tu con quei piedi non provare nemmeno a camminare, chiaro? Vengo a prenderti io. Aspettami.”

“Grazie, grazie, grazie!” sibilò fra le lacrime.

Yoongi aveva setacciato l’intero spogliatoio, nella speranza di ritrovare le cose rubate al suo amico, e, proprio mentre stava per abbandonare la speranza, aveva visto un laccio venir giù dallo stretto muro separatore tra un bagno e l’altro.

“Molto, molto divertente.” Disse fra sé e sé, con la voce a fischiargli fra i denti.

Richiuse la tavoletta del wc e ci salì sopra, con la fatica di chi non si allena da un bel po’ di tempo, recuperando sia la biancheria che le scarpe. Chiunque avesse architettato quello scherzo, aveva sperato che l’equilibrio fosse abbastanza precario da far cadere la roba di Jimin in uno dei water aperti. Ma lasciar morire ed uccidere erano equivalenti per la mente del livido dalla rabbia Min Yoongi.

“I tuoi compagni sono davvero degli stronzi.” Commentò, affiancando nuovamente l’altro ragazzo che, avendo terminato le lacrime a disposizione, continuava a soffiare fra le mani come un gattino ferito, “Dai, alza quella testa. Sii uomo. Ho recuperato la tua roba.”

Gli occhietti di Jimin, lucidi come lagune splendenti sotto un’alba cerulea, si sollevarono sul corpo del più anziano. La propria espressione di estrema gratitudine lo mise a disagio, eppure non fece nulla per farlo smettere. Non lo schernì, non lo rimproverò, continuò semplicemente a reggere scarpe e mutande nella mano destra, allungata verso il volto arrossato del più giovane. Deve aver pianto tanto, pensò Yoongi, che sia stata una buona idea quella dell’accademia?

“Non provare a camminare, stasera rimani da me. Ti porto in spalla io.”

Così, mentre gli anfibi neri di Yoongi strusciavano fra il viale di foglie sconfitte dall’autunno, Jimin si stringeva al suo collo con le braccia e al suo fianco con i piedi nudi. Il venticello umido gli solleticava le dita, ma evitava di muoversi troppo per non dar fastidio all’altro. Gli alberi si susseguivano, sibilandosi segreti sconosciuti al resto del mondo, con il vento ad accompagnare i movimenti ritmici e rotondi. Oltre a quelle già per terra, delle foglie svolazzavano in giro, trascinate dalla brezza ogni giorno più rigida, in attesa di trovare un posto tranquillo su cui planare e riposare per l’eternità. Il sole era ormai già tramontato e il cielo, dipinto qua e là da sfumature violacee, si imbeveva di un blu più profondo. Yoongi era rimasto in silenzio per il timore di sentirsi dire che l’accademia fosse un peso troppo grande da sopportare. Sperava di poter rimandare la discussione, di poter far finta che non esistesse fino ad allora. Ma Jimin cominciò a parlare, stupito dall’espressione concentrata del compagno.

“Yoongi, che ti prende?”

L’interlocutore si schiarì la voce, “No, pensavo che, insomma, dopo oggi… Vorresti, non so, lasciare?”

“Lasciare l’accademia?”

Il tono di voce di Jimin era sorpreso e questo lo tranquillizzò.

“Sì, insomma. Non ti stanno facilitando le cose…”

“Yoongi, non è la prima volta che tentano di sabotarmi tutto quanto. Ma questo non è di certo abbastanza, niente sarà abbastanza. Perché il mio desiderio più grande è di diventare un professionista per te e per la tua musica e non permetterò a niente e a nessuno di fermarmi! Eri mica spaventato? Che volessi mollare tutto? Dopo averti convinto a diventare mio amico? Ma figurati! Nessuno può fermare Park Jimin! Sono una roccia, io!”

E Min Yoongi rise, rise come mai aveva fatto in vita sua. 




Note dell'autrice

Prima di tutto, devo avvisarvi che ho nella testa 'i bet it got my haters hella sick' a ripetizione da quando ho visto il remix di MIC DROP di Aoki. Mi sono sentita anche personalmente coinvolta, considerando il titolo di questa storia. Quindi boh, le note protrebbero essere un po' idiote perché i BTS mi hanno rubato l'esistenza un'altra volta.
Flash più corto, preparatorio a ciò che sta per avvenire. Primo punto: Min Yoongi che ride. Jimin è riuscito a fargli mostrare completamente i suoi sentimenti. Ha aperto la crisalide nel quale il primo si nascondeva e gli ha carezzato le ali prima di farlo volare. Il rapporto tra i due mi emoziona sempre molto. 
Mentre Yoongi però è duro e nessuno lo infastidisce, Jimin è un mochi che viene sempre preso di mira, nonostante non ci sia alcun motivo apparente eccetto la sua bravura. Almeno ha qualcuno disposto ad aiutarlo. Ma non vuole mollare, perché il suo obiettivo è completare Yoongi. E' qualcosa di molto più importante.
Io non ve lo vorrei dire, ma tenetevi stretti i momenti belli perché diciamocelo: sono finiti. Brace yourselves, amici miei. Parte l'angst potente.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** The show that never comes - 2 ***


The show that never comes
part 2
 

“Pronto, pronto!”

Jimin non riusciva a rimanere fermo quando parlava al telefono. Doveva necessariamente camminare per smaltire la tensione, generata a causa della sua timidezza e della freddezza che l’apparecchio inculcava alle comunicazioni. L’appartamento di centro non era paragonabile all’immenso terreno che possedeva la sua famiglia in campagna, ma era fortunatamente dotato di un’ampia balconata esterna che seguiva l’intero perimetro dell’edificio. Poteva, perciò, trottare fin quando i capogiri non l’avessero sconfitto o il sole non l’avesse incendiato o la neve non l’avesse sepolto.

Un mugugno filtrato si insinuò fra i reticoli di materia del congegno. Non ci volle molto a capire che chiunque si trovasse dall’altra parte stava schiacciando un sonnellino.

“Mi ascolti o no?! Ho una notizia importante da darti!”

I giorni erano passati più in fretta di quanto Jimin si aspettasse. Aveva continuato ad allenarsi duramente, nonostante gli scherni sempre più ricorrenti dei suoi colleghi, perché aveva la fortuna di avere Yoongi al suo fianco. Anche il suo maestro, un ometto tutto muscoli, dal naso appuntito e i baffi affilati di nome Henk, sembrava nutrire per lui una immensa simpatia. Rimanevano chiusi nella palestra dell’accademia anche dopo aver terminato le lezioni comuni affinché l’allievo potesse mostrare delle nuove coreografie al suo maestro. In quei casi, la musica di Yoongi risuonava, attutita e grandiosa, fra le mura spoglie dell’edificio, ed era accompagnata dai fruscii dei piccoli spostamenti d’aria causati da Jimin. Ma erano quasi sussurri di una molecola ad un’altra, pettegolezzi di corridoio, perché il giovane ballerino era dotato d’una innata e cristallina eleganza. Si muoveva come un fringuello fra travi, persone, insegnanti, invidie e meraviglie, sorvolando tutto con disciplina e una punta di orgoglio. Ed il suo volo non era ancora terminato, era nel pieno della sua bellezza: molti grandi artisti lo notavano e lo invitavano a trasferirsi in scuole private, per seguire lezioni private; oppure di partecipare a provini per un Balletto di Teatro, o una rappresentazione drammatica, una comica. La strada per il ballerino, ormai, era spianata. E mentre Jimin teneva sempre di più a fare della danza la sua professione, Yoongi si accontentava di suonare la sua musica e di incominciare a vendere un paio di tracce. Un allievo di accademia che, per mantenere saldi i propri principi di misantropia, doveva ricoprirsi di un velo di underground e vendere delle tracce di pianoforte sulle quali aveva cominciato a rappare. Un mixtape, aveva annunciato al più giovane e subito lui, meravigliato dalle infinite possibilità che il genio di Yoongi era in grado di partorire, aveva adattato la sua danza a qualcosa di più moderno, di più scoordinato e più strascicato. Erano due esseri in simbiosi le cui ambizioni cominciavano a divergere e, pur essendone consapevoli, non riuscivano e non volevano trovare un motivo per allontanarsi. La loro unione artistica e sentimentale sarebbe dovuta prevalere su tutto, si erano sussurrati. Nessuno dei due si sentiva così detestabile da voler infrangere una promessa così importante: il mixtape di Yoongi e la fama di Jimin erano frutto di quel legame adolescenziale, partorito da un essere che faceva della solitudine un motto personale e da un altro essere che sorrideva mentre l’ennesima parte di sé moriva per il senso di colpa.

“Che vuoi Jiminie… Ti prego, non… Non urlare…” biascicò la voce, infastidita ed assonnata.

“Non hai idea di cosa mi sia successo, ti alzi dal letto o no? È una notiziona!”

Un paio di rumori sommessi, un lieve colpo di tosse.

“Ci… Ci sono, ci sono, parla.”

“Ti ricordi che ti avevo detto che all’ultima prova avrebbero dovuto assistere dei ceffi importanti, sì? Quelli che cercavano nuovi ballerini per una compagnia di Balletto.”

“Ovvio che mi ricordo, eri così in ansia che hai quasi fumato la tua prima sigaretta.”

Jimin sembrò perdere il filo del discorso, acceso di vergogna dall’ultima affermazione, “Tu dovresti prenderti cura di me, non tentarmi con le tue cose! È un tuo vizio, uffa!”

“Ma allora, i tipi importanti?”

“Ecco, ehm, il maestro Henk mi ha detto che hanno chiesto di me! Mi hanno notato! Vogliono concedermi un provino!”

Nel momento stesso in cui pronunciò quella frase, una serie di stelle filanti e impetuosi fuochi d’artificio si innalzarono nello spettacolare inconscio del giovane. Finalmente, dopo tanti sacrifici, ce l’aveva fatta. Era riuscito a mettere da parte il senso di colpa che provava nei confronti del padre, di cui si addossava la colpa; o meglio, di cui la addossava alla danza in sé. Era riuscito a mettere da parte il suo essere così fragile, indifeso e insicuro, il mettersi continuamente in discussione fino a ridursi in mille pezzetti, l’autocommiserarsi, l’odio nei confronti di sé stesso, la voglia di annichilirsi fino al diventare nulla. Il desiderio morboso di sparire, di non lasciare più tracce in un mondo che non si meritava. Con l’aiuto di Yoongi, ma soprattutto riscoprendo sé stesso fra una piroetta e l’altra, era riuscito a scavarsi una nicchia ecologica sicura in un mondo di temibili predatori. Stava diventando un professionista, poteva dire in giro, orgogliosamente, di essere un ballerino. Yoongi non aveva raggiunto questo tipo di consapevolezza, perché era nel suo carattere il desiderio di rimanere invisibile al resto del mondo. Era estasiato dalla felicità che aveva donato al suo amico, ma non riusciva a condividerne la causa. La radice ultima del successo e della popolarità, i complimenti, la soddisfazione personale erano oltre il limite che il maggiore aveva deciso di imporsi. Lui voleva solo migliorare tecnicamente nello scrivere musica per poterci incidere le proprie parole, i propri testi e i propri sentimenti. Vendeva le tracce online perché non aveva voglia di mettere la propria faccia su un cd e si esibiva solo se veniva pregato. Erano come due facce della stessa medaglia, così complementari da avere il diritto di odiarsi eppure così bisognosi l’uno dell’altro, così in cerca dell’ennesima parola d’affetto, effusione un po’ timida, carezze indecifrabili, baci rubati.

“Quindi, cioè, tu fai il provino e se piaci ti prendono in questa fichissima compagnia dove tutti ballano?”

“Sì, il Balletto! Sono opere d’arte scritte per essere ballate, sai, in un teatro…”

La voce dall’altro lato si indurì, con fare velatamente gioviale, “Cretino, so cos’è un balletto. Allora, il provino quand’è?”

“La prossima settimana. Devo allenarmi così tanto che non so davvero come farò! Mi sento così agitato!”

“Ehi, ehi, andrà tutto bene. Jimin, facciamo che vieni qui da me, beviamo qualcosa di caldo e poi usciamo a fare un giro. Sì, ho deciso di camminare per te, ma solo perché poi fuori mi offrirai una birra e io cercherò di non farti fumare. Allora, siamo d’accordo?”

“Yoongi, ti posso dire che ti amo? Eh?”

“Ma vai al diavolo. Entro mezz’ora qui. Se fai ritardo sei fuori.”

E chiuse la chiamata, tipico di Yoongi. Jimin cominciò a saltellare allegramente sul posto e si precipitò per le scale per raggiungere la porta del suo appartamento. Che poi, fuori da cosa?

 
Il piede sollevato di Jimin tremava impercettibilmente, plasmando lo spazio polveroso della sala riservata dell’accademia. L’avevano prenotata per tutto il giorno, nonostante il maestro avesse cercato di chiarire più volte che non era necessario allenarsi così tanto. Che sarebbe comunque andato benissimo e che non bisogna mai esagerare il giorno prima di un evento importante. Quel piede traballava, sfiorato ed accarezzato da milioni di acari che si chiedevano che razza di creatura aliena fosse, così illuminata da uno spiffero di luce che la tenda chiusa lasciava passare. Col corpo immerso in una semi oscurità rilassante, la mente che girava a frequenze più basse, in uno stato meditativo, quel piede sollevato era colpito dalla luce. L’unica parte illuminata del corpo tonico ed atletico di Jimin, come in un inizio di emancipazione rispetto al resto degli arti. Quella più importante che doveva aprire la scena e doveva guidarlo nell’esecuzione di un paio di salti tripli, carpiati e non, di piroette fiabesche e di flessioni di bacino. Una danza sinuosa e sensuale, quasi erotica, che la giuria del provino avrebbe divorato fino all’ultimo pezzetto. Avrebbero afferrato il corpicino del ragazzo con i loro artigli da critici e lo avrebbero spolpato, dall’inizio alla fine dell’esecuzione, lasciando un paio di brandelli pronti per gli avvoltoi successivi.

“Jimin,” ritentò Henk, “Forse è il caso che torniamo a casa. Anche il tuo corpo non ce la fa più. Non lo vedi che tremi come una foglia?”

Ammettere che Park Jimin non avesse paura, sarebbe stata la bugia del secolo. Era terrorizzato dalla possibilità di non piacere e di stroncare la carriera ancora prima di poterla far brillare. Aveva messo da parte suo padre per correre il rischio d’essere amato dal pubblico, eppure avrebbe anche dovuto prevedere dell’imminenza del fallimento. In ogni carriera, in particolar modo artistica, non si può mai godere di una certa stabilità mentale. Bisogna sempre essere vigili ed attenti, pronti ad attutire le conseguenze acide di uno scandalo o di uno spettacolo andato peggio del previsto. Jimin aveva sperato che l’amore potesse bastare, ma il mondo gli aveva riso in faccia, spiegandogli poi che non basta mai. Che oltre alla dedizione, all’impegno e all’amore ci volevano anche un pizzico di fortuna e un bel po’ di calli al fallimento.
Il piede illuminato si abbassò, rintanandosi nel tepore delle ombre.

“È la prima volta, vero?” chiese amabilmente l’anziano, appoggiando una mano rugosa sulle spalle muscolose dell’allievo, “È la prima volta che devi subire il peso di una sfida. Come ti senti?”

“Non lo so.” Eppure, avrebbe voluto piangere, rintanarsi in quelle braccia dall’apparenza così fragili, ma sapeva di non poterlo fare, “Credo di essere molto nervoso.”

Ma Henk aveva notato il suo disperato tentativo di reprimere le lacrime ed aveva sorriso con fare compassionevole, “Molto nervoso, già,” gli aveva fatto eco.

“Ma questo non vuol dire che –”

“Sai,” lo interruppe il maggiore, “Prima di dedicarmi all’insegnamento anche io ero stato ingaggiato da una compagnia. Da più di una compagnia, a dirla tutta, mi piaceva provare nuove esperienze e amavo viaggiare. Un tipo senza radici e senza paure.”

“Perché, allora, è finito qui?”

“Perché un paio di volte mi è andata troppo male e ho dovuto abbassare la cresta. Sono cose che capitano, ragazzo mio. Sono cose che capitano nel nostro mondo, bisogna esserne consapevoli e saperle accettare. Non siamo macchine infallibili, siamo solo esseri umani che hanno bisogno di esprimersi in un certo modo. Ma se qualcuno ci blocca la strada, allora è necessario trovare una scorciatoia. Mai fermarsi, ricorda, ma una scorciatoia. Quindi, a proposito di scorciatoie,” e batté le mani, quasi per complimentare sé stesso per il bel discorso, “Proviamo il salto più difficile e poi torniamo a casa. Che ne dici?”

“Proviamo gli ultimi quattro.” Ribatté Jimin, sudato e stremato.

“Solo l’ultimo.”

“Gli ultimi quattro.”

E il maestro non poté far altro che sollevare le spalle, un po’ contrariato, ma non abbastanza determinato da intraprendere una discussione con l’allievo più cocciuto che avesse mai avuto.
Jimin rimise il piede in posizione e di nuovo venne illuminato. La luce gli diede ancora una volta il benvenuto nel suo regno, si complimentò per la scelta e si augurò che il soggiorno fosse duraturo. La mente del ballerino vagò fra mille pensieri, come un nido di mosche attorno a della frutta marcia, ma poi il viso di Yoongi spazzò tutto via. I lineamenti così spigolosi, le labbra fini, i piccoli occhi felini, i capelli colorati e increspati, l’abbigliamento alternativo, i suoi sorrisi così tanto deboli e così difficili da strappare. Un dolce tepore invase il petto del ragazzo che, proprio mentre cominciava a discendere sulla gamba tesa, per prepararsi a volteggiare per aria, raggiunse la consapevolezza di dovere all’amico la propria vita. L’intera esistenza, l’intero spettro emotivo, la sua stessa anima. La prossima volta che lo vedrò, pensò allora, gli dirò che lo amo per davvero. Che forse al telefono non scherzavo. La prossima volta.

E cominciò a slanciare braccia e gambe per aria come un uccello che aveva appena preso il volo, esibendosi come solo lui poteva fare. Con un sorriso preconfezionato stampato sulle labbra, l’affanno nascosto nella mascella serrata, gli occhi ridenti ridotti a una simpatica mezzaluna, le guance paffute che rimbalzavano sul tessuto adiposo a ogni balzo, i capelli scuri che si sollevavano, rimanevano in equilibrio in meno di un secondo e poi si riunivano alla radice, si lasciava trasportare da una delle canzoni del mixtape di Yoongi, privata dal proprietario della traccia vocale – forse un po’ troppo impertinente per un ambito classico – riempendosi il cuore e le membra delle note suonate con passione.

Le mani pallide di Yoongi. Il primo salto fatto, senza una virgola sbagliata.
Le sue gambe magre e rivolte verso l’interno. Secondo andato, l’atterraggio un po’ più doloroso del previsto. Era davvero troppo stanco per continuare. La voce ovattata del maestro lo incitava a smettere.
I suoi anfibi consumati, piene di cinghie. Terzo, più pulito ma più doloroso del secondo. Al mugugno di Jimin si unì il lamento preoccupato dell’insegnante.
Le sue labbra lucide… quarto salto. Rumore di rami spezzati, alberi in fiamme, tempesta di fuoco. Odore di sangue, visioni rosse e purulente. Dolore allucinante, poi bianco. Una mano bianca che gli si avvolgeva attorno. Poi buio. L’urlo di Henk. Le gambe storte di Jimin. 
 
 




Una morsa acida gli stringeva lo stomaco a tal punto che doveva reprimere le lacrime. Non aveva nemmeno più fiato per respirare. Era tutto perduto, tutto finito. Gli sforzi che aveva fatto fino ad allora, i sacrifici, il sudore, le lacrime, tutto vano. Non c’era più via d’uscita. L’immagine che vedeva allo specchio non poteva davvero essere la realtà, non riusciva ad accettarlo. Le mani erano strette fino a diventare livide; mentre le labbra gonfie di burro cacao venivano trafitte ancora ed ancora dai bianchissimi denti.
Le dita pallide del giovane ballerino sfioravano l’arnese che lo aveva condannato alla disperazione più assoluta. La sedia a rotelle era nuova e pulita, lucidata dal suo amorevole amico più di qualche volta, e sorreggeva le gambe ormai inutilizzabili di un professionista che avrebbe potuto fare strada. Che sarebbe potuto diventare qualcuno nel mondo e che invece adesso era lì, a guardare il riflesso storpio di una ipotetica e super tonica celebrità.
Era convinto di potercela fare quando invece il suo maestro gli aveva detto di fermarsi, ma lui quella piroetta vertiginosa doveva per forza provarla: doveva avvertire l’adrenalina scorrergli nelle vene, doveva sentirsi vivo e lanciarsi nell’ignoto polveroso della palestra. Il tonfo che ne era seguito lo aveva privato dell’unico motivo per cui vivesse. Le sue gambe si erano ferite irreversibilmente e così anche il suo cuore e la sua carriera. Mentre l’immagine di fronte a lui continuava a strizzargli l’intestino, cominciò a chiedersi il perché. Perché proprio a lui? Si meritava una fine così disastrosa, dopo tutto ciò che aveva fatto per arrivare fin lì? Era perché aveva cominciato a credere in sé stesso che tutto era andato male? Era perché le cose stavano andando troppo bene?
La mano di Yoongi planò sulla testa scura del ballerino, con delicatezza. Quest’ultimo non poté far altro che socchiudere gli occhi, permettendo ai lacrimoni di percorrergli le guance paffute, e abbandonarsi all’idea di essere diventato l’eco distorto di un eroe ormai sconfitto.





Note dell'autrice

Ringrazio chiunque abbia letto fin qui. A chi recensisce, mette la storia fra le seguite e i preferiti. Non aggiungo altro. Vi voglio bene.

Orion

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** After the show - 1 ***


After the show
Part 1

La sedia a rotelle era difficile da manovrare, questo Jimin lo sapeva bene. Con le mani graffiate dalla durezza delle ruote e imbevute di una pioggia autunnale che non accennava a voler smettere, stava cercando di trascinarsi lungo il ponte. I capelli umidi gli si appiccicavano al volto smagro, ormai privo di quella goffaggine che lo aveva da sempre caratterizzato. Non ricordava l’ultima volta che avesse fatto un pasto decente, né l’ultima volta che fosse riuscito a dormire senza avere incubi e svegliarsi urlando. Nemmeno Yoongi sapeva più come aiutarlo, il che lo faceva disperare ancor di più. Da un lato sapeva di non poter comportarsi in maniera così egoista e pretendere di essere capito e accudito dal maggiore, dall’altro c’era questa punta di diniego e di rabbia e di delusione che si impossessava di lui ogniqualvolta Yoongi abbassasse lo sguardo invece di dirgli qualcosa. Di fare qualsiasi cosa potesse essere in grado di alleggerire il peso che lo schiacciava. E lo stava ancora schiacciando, lo avrebbe reso un granello di polvere danzante nel vuoto dell’universo in espansione, un nulla incapace di ridiventare materia. Il fiatone rompeva lo scorrere silenzioso dei suoi pensieri impazziti, come durante una tempesta. Ogni tanto deglutiva, con la bocca secca per lo sforzo, ma non poteva fermarsi perché stava percorrendo un tratto in salita. Una volta arrivato in punta, in bilico precario su un pezzetto d’asfalto in piano, forse si sarebbe concesso un sorso d’acqua. O si sarebbe lasciato morire di sete, per incolparsi di qualcosa di ignoto persino a lui. Era come stare su un’altalena. Da un lato, odiava il mondo esterno per averlo privato di tutta la voglia di vivere e la forza che era riuscito ad ottenere; dall’altro odiava sé stesso per averci creduto e sperato. Per aver dato una possibilità alla veridicità di quella situazione. Per aver pensato che potesse davvero essere reale, per uno come lui, riuscire ad essere soddisfatto. Era forse la punizione di suo padre? Si chiedeva, mentre con entrambe le mani schiaffeggiava quelle ruote ispide e umide per trascinarsi in avanti, è lui che mi sta punendo per non averlo ascoltato? È il mondo che mi sta insegnando che non si può mai davvero essere felici? Che l’amore non esiste e che, anche se esistesse, non è in grado di mettere in salvo nessuno? Che alla fine tutti muoiono, il cuore di tutti si spegne?

Jimin arrivò in cima, al centro perfetto del ponte. Aveva un piccolo caschetto con una luce a fargli da guida, perché era ormai notte inoltrata. Era sgusciato via da casa che adesso condivideva con Yoongi perché non riusciva nemmeno a sopportare la sua stessa pelle. Si girava e rigirava nel letto alla ricerca di un riposo che di certo non gli sarebbe stato concesso e, ritenendo inutile lo stare lì, immobile, in attesa che un fulmine lo colpisse, aveva deciso di prendere in mano la situazione e di scappare via. Solo per quella notte, per scrivere la parola fine su una vita che aveva perso il suo senso.

Aveva davvero provato a dare ascolto alle parole di Yoongi, si era davvero sforzato di trovare un nuovo significato prima di abbandonare tutto quanto. Aveva tentato di dedicarsi a tutt’altro, accolto fra le morbide braccia del divano rosso del suo appartamento, ma niente sembrava funzionare. Non poteva più dedicarsi alla sua arte e persino le nuove canzoni si Yoongi avevano perso il loro fascino. Quest’ultimo provava a renderlo partecipe nel processo di produzione come una volta, ma si ritrovava con un Jimin completamente assente, con la testa a vagare in chissà quale nuvola oscura. Jimin avrebbe voluto confidargli che stava pensando a diversi modi per uccidersi ma non lo fece perché non voleva metterlo troppo sull’attenti. Se avesse dovuto davvero fare quell’importante decisione, avrebbe avuto bisogno di prendere in giro Yoongi. Di fargli credere che si sentisse perlomeno stabile o non avrebbe avuto l’opportunità di stare solo a compiere il suo destino. Perché cosa poteva fare un Jimin senza la danza sulla musica di Yoongi? Non era davvero inutile? Che senso aveva vivere, adesso che era privo di ciò che lo rendeva speciale? Un essere vivente in una comunità di essere viventi?

Niente. Niente aveva più senso.

Con movimenti scoordinati e disordinati, Jimin strisciò ai piedi della sedia a rotelle che, spinta involontariamente da un piede del giovane cominciò la rovinosa discesa lungo la strada che aveva appena risalito. Nessun problema, pensò allora, tanto comunque non mi servirà più. Muovere il peso morto degli arti ormai paralizzati era più difficile di quanto credesse. La metà del peso funzionale faceva fatica a destreggiarsi con la metà del peso non funzionale, eppure non smise di provarci. Afferrò le lamine di ferro che circondavano il ponte e che si affacciavano su uno stretto e secco fiumiciattolo e cercò di issarsi. Era quasi al limite della barricata, quando una forte fitta alla spalla destra lo costrinse a cadere rovinosamente. E non fu di certo la prima volta, nei suoi infiniti tentativi di salire su quel ponte e buttarsi giù. Con insoddisfazione, i lacrimoni, il muco ad invadergli il viso, la rabbia, la frustrazione, la voglia di farsi a pezzi, dovette rendersi conto di non essere nemmeno in grado di togliersi la propria vita. Di essere così inetto da non riuscire a suicidarsi. Persino questo! Urlò al nulla, mentre le lucine ai vapori di mercurio che lo sormontavano tremolavano sotto la furia di quella pioggia fredda, persino questo! Se non posso vivere e non posso morire, cosa devo fare? No! Il limbo no! Il limbo no! E si accasciò per terra, stringendosi le ginocchia al petto, lasciando che la pioggia si unisse alle sue copiose lacrime in un pianto aritmico, rumoroso, un’alternanza di singhiozzi e urla disperate.

Proprio mentre credette di morire ibernato, avvertì il suono della sedia a rotelle avvicinarsi. Pensò che uno spirito lo stesse accompagnando allo strumento della tortura, per prolungare il suo pernottamento all’inferno, ma quando sollevò gli occhi incendiati scorse la sfumata figura di Yoongi. Non aveva alcuna espressione dipinta sul viso, era completamente vuoto. Un rumore bianco quasi inudibile nello scroscio incessante, con le dita sottili avvolte alle maniglie della sedia a rotelle. Non aveva un ombrello, né un giubbotto pesante, eppure continuava a rimanere lì, immobile, di fronte al piccolo Jimin raggomitolato come un feto abortito, non curandosi del proprio corpo ormai completamente bagnato.

“S-Sei venuto a sal-lvarmi…” balbettò Jimin, cominciando a tremare con furia.

Yoongi fece scattare il piccolo cavalletto della sedia per tenerla ferma e si affrettò a raccogliere il corpo dell’amico, adagiandolo su di essa. Tirò fuori una coperta che aveva precedentemente impaccato nello zaino di feltro e gliel’avvolse sulle spalle, sfregando le mani nel misero e vano tentativo di scaldarlo
.
“Che cosa stavi cercando di fare?” gli chiese, a voce bassa.

“Io… Una passeggiata… Sono… Caduto…”

“Voglio la verità.”

“Io… Volevo… il ponte…”

E subito si rimise a piangere.

“Volevo… Saltare giù…”

E Yoongi si rese conto che avrebbe dovuto dire qualcosa, ma era in una delle situazioni in cui ciò che pensava gli moriva in gola ancor prima di essere pronunciato. Quindi non rispose, cominciando a trascinare la carrozzina verso casa, accompagnato dal pianto silenzioso di Jimin.

 
Il lettino aveva lo schienale rialzato, cosicché quando doveva ingerire delle pastiglie non poteva rischiare di affogarsi. Le lenzuola erano fresche e pulite, appena cambiate dalla signorina di turno che si preoccupava di mantenere la stanzetta in ordine e sterile; la finestrella rettangolare era stata appena aperta, con un catenaccio imponente che la teneva agganciata al cardine sul muro. Per evitare che fosse spalancata troppo, anche se sarebbe stato difficile anche per un bambino riuscire ad infilarsi per potersi buttare giù. Era al secondo piano di una casa di cura per pazienti mentalmente lesi, veniva coccolato come un cucciolo abbandonato e una serie di psicologi di passaggio continuavano a ripetergli che fosse un bravo ragazzo e che il male che apparentemente aveva colonizzato il suo buon cuore non gli apparteneva davvero. Non era diventato parte integrante del suo essere, era come una nuvola di passaggio che poteva esser cacciata via. Con un soffio bello forte. Ma il ragazzo faceva persino fatica a respirare in maniera regolare, ansimava a mo’ di animaletto indifeso e ferito, in cerca di una nicchia solitaria per morire lontano dal branco. Le flebo di fisiologiche si alternavano, bucando quel braccio tonico che adesso era smagro, un po’ flaccido, privo di quella vitalità che un tempo l’aveva caratterizzato quando sferzava l’aria con movenze acrobatiche. Lo psichiatra gli aveva consigliato un cocktail di medicinali per tirarlo su e lui aveva annuito, rapito dalla forza interiore che quell’uomo sembrava sprigionare, gettandosi fra le braccia di uno sconosciuto che sapeva cosa dire per riempire i silenzi dolorosi. Dopotutto, era la sua professione.

Jimin sapeva che Yoongi non era più lo stesso dopo l’accaduto del ponte. Detto sinceramente, da quando aveva tentato il suicidio anche una parte di Yoongi sembrava esser stata sconfitta dall’entropia e la diabolica casualità del mondo. Lo andava a trovare ogni giorno, eppure la luce affilata nei suoi occhi felini era svanita. Aveva persino smesso di tingersi i capelli e adesso la ricrescita scura occupava metà del suo capo non più trionfante. Le punte bruciate e verdi acqua gli ricordavano della forza eruttiva che era un tempo, della sua capacità di intimorire e di vincere, del suo bisogno di trattar male chiunque, di tutto ciò che era svanito in una magica nuvola rossa. Ciò che era rimasto di lui era un semplice corpo guidato dall’inerzia, una mente talmente offuscata da pensieri indistinti e da ricordi ansimanti che non riusciva a concentrarsi più su nulla. Nemmeno sulla sua musica. Perché le sue dita avevano smesso di intraprendere discorsi amorosi col pianoforte, da quella sera. Il suo genio si era buttato da quel ponte mentre vedeva Jimin arrancare, nella speranza che le gambe gli permettessero di togliersi la vita. Vederlo lì, ansimante e imprecante contro una parte del proprio corpo che non rispondeva, mentre disperatamente cercava di scalare la barricata di metallo l’aveva fatto morire dentro. Era come se la sua anima si fosse buttata giù nell’istante in cui le sue braccia avevano raccolto l’amico tremante. Che continuava a biascicare cose senza senso, in una dimensione di cui lui non faceva più parte.

Anche in quel momento era seduto accanto al lettino di Jimin, con lo sguardo puntato sui suoi piedi ma effettivamente molto lontano dalla stanza. Vagava in una melma purpurea alla ricerca di qualcosa di effettivo da poter fare. Di poter essere almeno la metà utile quanto i professionisti che cercavano di rimetterlo in piedi. Lui stesso aveva affrontato lunghi periodi di depressione e forte ansia sociale, attacchi di panico e di rabbia, ma si rese conto che aiutare un’altra persona in quelle condizioni era tutta un’altra cosa. La difficoltà aumentava vertiginosamente. Cosa avrebbe potuto fare per salvare il suo amico? Cosa avrebbe potuto dire? Doveva davvero esser lì o la sua sola presenza gli ricordava il sogno infranto? Aveva più bisogno di lui o doveva uscire dalla sua vita, sgusciare via da quella bolla che si erano costruiti attorno?

“Il mio psichiatra ha detto che le allucinazioni sono diminuite,” cominciò allora Jimin, cercando di instaurare una conversazione piacevole fra i due, “Io non posso accorgermene, perché non sono cosciente quando le ho.”

“E’… una bella notizia.”

“Sì, ma ha detto che è ancora troppo presto per ridurre il dosaggio delle gocce. Sono stufo di vedere me che balla davanti ai miei occhi continuamente… è un po’… frustrante?”

“Già, lo dev’essere sul serio.”

“La mia psicologa ha detto che dovrei trovare un’altra via di sfogo che non sia la danza. Dedicare me stesso a qualcos’altro per evitare di far marcire la mia creatività. Ha detto proprio così.”

“Qualcos’altro.”

“Già, ha provato a farmi disegnare, ma sai che non sono un gran asso. Direi che il disegno non fa per me.”

“No, il disegno no.”

“Ho provato a scrivere, ma è stato un semi disastro. Non so davvero cosa scrivere. Forse… dovrebbe avere ancora a che fare con la musica. Con la tua musica.”

“La…” lo sguardo di Yoongi si staccò dai piedi del malato e finalmente planò, con cautela, su quello vacuo dell’amico, “La mia musica?”

“Sì, in fondo è l’unica cosa che mi importi ancora.”

Peccato che non importi a me, avrebbe voluto rispondere l’altro. Ma non lo fece.

“Quindi dovresti portarmi dei tuoi cd. Masterizzami tutto il materiale che hai. Mi manca sentirti suonare e mi hanno detto che è impossibile far portare qui un pianoforte.”

“Un lettore cd è meno ingombrante.” Ammise Yoongi.

“Ascolta, riguardo la storia del ponte, io…”

No. Era troppo. Non voleva sentire.

“Non importa. Ormai è andata.”

Anche se non era vero, avrebbe dovuto rispondergli così. Che andava bene, che non doveva preoccuparsi e che doveva permettere al tempo di lenire le ferite che si era auto inflitto e che, senza forse rendersene conto, aveva inflitto al suo migliore amico. Che forse era anche più di un amico. Yoongi ci aveva pensato continuamente, da quando Jimin era stato chiuso in quella casa di riposo. Che avrebbe voluto posare le proprie labbra sulle sue per calmarlo durante gli attacchi di panico, che avrebbe voluto sussurrargli cose dolci all’orecchio mentre dormiva per fargli sognare cose carine. Ma non era questo il punto.
Non era mai quello il punto. 




Note dell'autrice

Il brutto è passato, posso assicurarvelo. Il picco del dolore di questa storia, partorita durante un momento no nel corso di scrittura che seguo, ormai è andato. Potete fare un sospiro di sollievo, ve lo posso assicurare. Vi presento questo capitolo con un po' di amaro nella bocca, perché so cosa vuol dire essere malata e dover farsi assistere e vedere una determinata persona cambiare a causa della propria malattia. E' sempre un problema cercare di capirsi e di starsi accanto senza essere troppo invadenti o distaccati e Yoongi deve proprio riuscire a calibrare il proprio spirito per essere d'aiuto al suo Jimin. E Jimin deve imparare ad apprezzare la sua nuova vita, o gli sforzi del primo sono tutti inutili.
Grazie a chi sta seguendo la storia, chi la recensisce, chi mi riempie di belle parole, chi mi ispira a continuare a scrivere. Se avete dubbi, consigli o volete solo chiacchierare, la casella dei messaggi è sempre aperta.
Baci fotonici,

Orion

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** After the show - 2 ***


After the Show
Part 2
 
Yoongi si assentò dalle visite per un bel po’ di tempo. Smise anche di contare i giorni in cui avrebbe potuto salutare il suo amico e invece non lo faceva, per timore di sentirsi troppo male e di mandare il progetto a farsi benedire. E sapeva che si stesse comportando malissimo, ma non c’era altra soluzione: doveva prendersi il suo tempo, sgobbare, raggiungere una meta finale ben prestabilita. Aveva persino messo da parte l’orgoglio, quando gli venivano rimproverate cose che lui in realtà non aveva fatto. Tutto ciò che fosse stato in grado di rallentare l’algoritmo doveva essere eliminato. Tutto ciò che non fosse stato necessario, doveva scomparire. Operazione 1 eseguita, operazione 2 eseguita, operazione 3 eseguita… while operazione 1, repeat. Finché l’obiettivo non fosse stato raggiunto, doveva continuare a svolgere le azioni che ripeteva, ormai completamente alienate dal suo stesso essere. Avvertiva l’inizio di una metamorfosi in un automa, ma non gli importava più di tanto. Si sarebbe annichilito in antimateria pur di portare a termine il compito che si era prefissato, perché gli sembrava l’unica soluzione. L’unica cosa che potesse fare.
Yoongi aveva pensato intensamente alla danza di Jimin. Dopo l’ultimo discorso che avevano avuto, almeno un paio di mesi prima, aveva cercato di estrarre i concetti dall’oggetto per riuscire a trasporlo su un altro. Stava tentando di costruire una metafora concettuale, lui che di metafore non sapeva granché perché non aveva mai seguito una lezione del corso di letteratura. La trovava per femminucce, infatti a Jimin piaceva da matti. Comunque, nel suo tentativo di trasposizione, cercava di innalzare la danza di Jimin a qualcosa che non fosse più una danza, ma fosse un elenco di caratteristiche. Se solo avesse identificato qualcosa con le stesse caratteristiche, lo avrebbe subito detto all’amico. Ho trovato qualcos’altro che puoi fare fino allo sfinimento, gli avrebbe confidato, così puoi uscire da questo ospedale e ritornare da me. Possiamo persino vivere insieme ufficialmente, posso portarti a cena fuori, al cinema. Qualsiasi cosa tu voglia. E si rendeva sempre conto che i pensieri viaggiavano più veloci di quanto non volesse, ma era tutto necessario per il completamento della trasposizione. Quando si trattava di Jimin, non aveva paura di realizzare di provare dei sentimenti profondi nei suoi confronti, un attaccamento al di fuori del definibile umano. Era forse amore? Ma, no, no, le caratteristiche. Doveva pensare alle caratteristiche. Cosa sentiva quando Jimin danzava? Era elegante, quasi acuto, pieno di passione, energia, furioso, incalzante. Ogni movenza era come il tocco veloce, brutale e delicato, di un archetto su una corda. Un archetto su una corda… Dalle tonalità soavi ma alte, come quelle della sua voce… Uno strumento per di più solista, di accompagnamento in rare occasioni, in grado di spiccare per il suo suono un po’ stridulo, un po’ coinvolgente. Che potesse comunque avere a che fare con la sua musica… E fu subito eureka. Capì immediatamente cosa dovesse fare, ma si rese conto di non avere abbastanza soldi per farlo. E che avrebbe dovuto lavorar sodo per ottenere ciò che voleva, quindi fece partire l’algoritmo. Operazione 1, operazione 2, operazione 3… while operazione 1, repeat.

I mesi scorrevano anche per il povero Jimin che, senza la sua perfetta metà, aveva incominciato a deperirsi. Eseguiva gli ordini dei suoi dottori, si nutriva, prendeva le sue medicine, acconsentiva a fare passeggiate nel giardinetto della struttura, eppure il suo corpo si rifiutava di sostenerlo. Si stava lentamente spegnendo, per nessuna ragione biologica effettiva, si stava abbandonando ad uno stato di calma placida che nascondeva una progressiva degenerazione dei parametri vitali. Il battito del suo cuore diminuiva, il tessuto adiposo si consumava, la circolazione era meno efficiente, le ossa si rompevano con estrema facilità, le unghie si rifiutavano di rimanere attaccate, i capelli cadevano, i denti si spezzavano. Era come se avesse innescato un meccanismo di senescenza per l’intero organismo. Solo perché aveva smesso di vedere Yoongi per un paio di mesi. Non gli aveva lasciato nulla, né un biglietto, né una lettera, non l’aveva più salutato. Da quella conversazione, in cui aveva tentato di scusarsi per il tentato suicidio, lui era sparito. Jimin era convinto che la colpa fosse solo ed esclusivamente propria: aveva forse spaventato troppo il ragazzo con quel gesto stupido e così avventato? L’aveva allontanato irreversibilmente, nonostante gli avesse chiesto la sua vicinanza e il bisogno della sua musica? L’aveva ferito? Oppure Yoongi si era stancato di vederlo, di stargli accanto, di portare pazienza fino a quando non fosse stato meglio? Aveva esagerato nello star male? Doveva mica fingere di stare bene, nonostante tutto il resto recitasse il contrario? Era stato abbandonato? Prima il padre, poi Jimin… e quando socchiuse gli occhi, nel bel mezzo di un turbine doloroso di pensieri, si rese conto che persino le ciglia si rifiutavano di rimanere attaccate al suo corpo.

Quello che però Jimin non sapeva è che Yoongi non l’aveva abbandonato. Non l’avrebbe mai fatto, dato che il suo cuore era rigonfio – quasi rischiava di esplodere – dalla galassia di sentimenti che provava nei confronti del minore. Come avrebbe potuto abbandonarlo, dopo tutte quelle emozioni condivise? No, non l’aveva di certo abbandonato. Stava solo lavorando per lui, si stava sforzando di essere una persona migliore, per poterlo salvare dall’abisso.

Mentre metà delle ciglia si staccarono dall’occhio destro e colmo di lacrime di Jimin, Yoongi ricevette l’ennesimo scappellotto del capo che gli rimproverava di aver sbagliato tavolo.

“Ma che hai oggi?” ringhiò, “Finirai per farci perdere tutti i clienti!”

Avrebbe preferito ritornare sulla tredicesima, ma ormai i posti erano tutti occupati e il suo ex capo, a malincuore, aveva dovuto accompagnarlo alla porta. Il ristorante sulla quindicesima era l’unica opzione che gli fosse stata offerta in una settimana di ricerche e di certo non si sarebbe tirato indietro, nonostante i turni fossero disumani e altrettanto lo fossero i colleghi e i capi.

“Mi scusi.” Mormorò.

Eppure, lui non aveva sbagliato proprio niente. Avendo perso la spavalderia con cui si faceva rispettare, assieme alla sua anima ormai quasi completamente distrutta, era diventato come il vecchio Jimin. I colleghi avevano trovato in lui una valvola di sfogo, l’anello debole da poter tirare e tirare fino a quando non si fosse allentato abbastanza per poterlo gettare via. A Yoongi non importava.

Avrebbero potuto dire qualsiasi cosa, avrebbero potuto fargli qualsiasi cosa, lui non avrebbe provato nulla. Non c’era posto per nient’altro che non fosse l’amore per Jimin e sarebbe persino morto in suo onore. Ormai la strada era spianata, vedeva la luce in fondo al tunnel – nonostante la percorrenza non fosse delle più piacevoli. Nient’altro contava.

“Vedi di non fare altri errori, o finirò per licenziarti!”

“Nossignore.”

“Stupido Yoongi…”

“Mi scusi, signore.”

 
“Ho perso delle ciglia.” Disse Jimin al suo dottore, durante la ronda pomeridiana delle visite.

“Piccolo Jimin, il tuo corpo si sta disintegrando. Si può sapere cosa succede? Stai seguendo tutti i programmi di recupero alla perfezione, eppure mi pare ci sia qualcosa che non va… Siamo tuoi amici, qui, puoi fidarti di noi. Ti prego di confidarti, o non saremo in grado di salvarti. Te lo chiedo un’altra volta: cosa c’è che ti turba? C’è qualcosa che ti manca?”

“No, dottore. È tutto okay. Va tutto bene.”

C’era la morte.

Ma non poteva finire così, perché Yoongi era consapevole che una fenice ha bisogno di ridursi in cenere per poter rinascere dalle scorie di sé stessa. Era così che percepiva Jimin: una fenice in via di decomposizione, una battaglia necessaria per poter risorgere nella gloria del proprio amore e della propria determinazione. Proprio per questo, passati i tre mesi di lavoro forzato, si costrinse a ritornare dal suo caro compagno per fargli visita, con un gran pacchetto regalo ad occupargli entrambe le braccia. Queste ultime erano coperte da un cardigan leggero, ovviamente scuro, nonostante la stagione cominciasse a indurirsi dal freddo, ed un paio di pantaloni neri ad alta vita che mostravano, con timidezza, un paio di caviglie pallide. Al di sotto, delle basse converse nere pestavano il fogliame secco e turgido di brina del ciottolato che l’avrebbe accompagnato all’ingresso della casa di cura come una bestia alata. Ad ogni passo che faceva, sentiva il cuore tamburellare nel petto. La pressione sanguigna gli si era innalzata così tanto che, oltre ad avvertire gli occhi appena fuori dall’orbita, poteva percepire l’eco dei propri battiti nelle cosce. Yoongi non aveva davvero mai subito alcun trauma, era nato storto – o perlomeno così dicevano i suoi genitori. Nessuna infanzia rovinata, adolescenza normale – per quanto un’adolescenza possa davvero essere considerata normale – fino ai diciott’anni, momento in cui la sua mente venne inquinata da pensieri indegni. Depressione, sindromi compulsive-ossessive, forte ansia sociale che lo costringeva a chiudersi nei bagni quando la gente tentava di interagire con lui avevano dipinto lo scenario della sua età neo-adulta, senza che lui potesse capirne il motivo né la sorgente. Sono malattie che vengono, gli aveva detto lo psichiatra, ti cureremo ma tu devi cercare di stringere almeno un legame. Almeno con i tuoi genitori. Gli stessi genitori che lo guardavano dall’alto verso il basso, insistendo di non riuscire a capirlo. Poi era arrivato l’allegro in la, era arrivato Park Jimin con le sue guance paffute, era arrivata la scarica di gioia che aveva sempre sognato. L’aveva raccolto con un cucchiaino dall’abisso più profondo, lo aveva condotto verso lande di serenità che non poteva dire di aver mai immaginato, nemmeno nei sogni più selvaggi. E nonostante mantenesse un’aria dura per proteggersi dal mondo esterno, aria che era comunque crollata dopo la caduta di Jimin, quest’ultimo aveva toccato un nervo sensibile nella sua parte più intima. Aveva firmato la sua presenza e gli aveva sorriso. È per questo motivo che non tintinnò più di tanto quando oltrepassò la soglia di quel dannatissimo ospedale. La 107, la camera era sempre quella. Sentì lo sguardo severo e di rimprovero di dottori e infermieri scalfirlo con violenza e un amaro senso di colpa tentò di trascinarlo verso il basso, ma non poteva. Non nel fatidico momento. Non aveva ignorato Jimin per tutto quel tempo. Aveva lavorato per lui.

“Jiminie…”

Mormorò, prima di entrare nella stanza, e non appena vi fu dentro una morsa acida gli divorò metà del sistema digerente tutto in una volta. Jimin era in condizioni davvero pietose: aveva un respiratore infilato nel naso, un sostegno che teneva le sue gambe sollevate – probabilmente per permettere una buona circolazione – un massaggiatore dietro la schiena, attivo, che scricchiolava per evitare la formazione di piaghe da decubito, i capelli più radi, quasi biondi – erano persino riusciti a perdere il pigmento, in tutto quel dolore – il viso magro e scavato. L’espressione addolorata e desolata. Sembrava un fiore in inverno, che si abbandona all’idea di dover morire da solo. Una lacrima scivolò lungo la guancia del maggiore. Aveva lavorato per lui, eppure era riuscito a distruggerlo. La sua mancanza lo aveva ridotto in fin di vita eppure lui era lì, a donargli quello sprazzo di speranza di cui aveva bisogno per tirarsi su. Aveva finalmente capito come salvarlo.
Quando Jimin si voltò per seguire la sorgente sonora, sembrò illuminarsi. Nonostante la finestrella fosse stata sbarrata per impedire al freddo di abbracciare il piccolo ambiente e non ci fosse alcun raggio di sole capace di penetrare la densa coltre di nuvole, il viso del malato brillò di luce propria. Di speranza, di vita. Un leggero incoraggiamento, la mano gentile di un bambino che costruisce un piccolo riparo per quel fiore prima che possa soccombere. Era talmente debole che non riuscì nemmeno a biasimarlo per la lunga assenza, né ad accusarlo per il suo stato attuale. Yoongi era Yoongi, conosceva bene il suo carattere così incostante, così immaturo, ma sapeva che la parte premurosa in lui non l’avrebbe abbandonato, non in un momento come quello.

“Ho lavorato sedici ore al giorno per sette giorni alla settimana in questi tre mesi. Dormivo il resto delle ore. Non sono venuto per quello, perché volevo comprarti un regalo. Scusa… Scusa il ritardo.”

Era la prima volta che l’ormai moro Yoongi chiedesse scusa. La prima volta che dicesse la pura verità. La prima volta che parlasse così tanto di fila. E poi continuò.

“Ti ricordi la nostra ultima conversazione? Ecco, io ho trovato la soluzione. So cosa puoi fare al posto della danza, perché sono riuscito a paragonarla a qualcos’altro. E ho lavorato per comprarti quel qualcos’altro. Per permetterti di vivere ancora, accompagnando la mia musica. Niente ha più senso senza di te, nemmeno quello che suono. Nemmeno quello che sono. Jimin, io…”

“Ti amo anche io.” Soffiò il minore, abbozzando un sorriso timido, sapendo di aver risparmiato a Yoongi una gran fatica, “Ti… Ti perdono. Cosa mi hai por…portato?” chiese allora, tossendo fra una parola e l’altra.

Yoongi scartò il regalo al posto di Jimin, troppo debole per poterlo fare da sé, e mise in grembo del secondo un bellissimo violino fatto a mano, curato nei dettagli, con un archetto lucido ed un kit per tenerlo pulito. Gli occhi di Jimin ripresero vita soltanto per strabordare d’emozione, accesi di una commozione etera.

“La tua danza mi ricordava il suono di un violino,” spiegò il più anziano, sedendosi con cura sul letto dell’altro, “Ho lavorato per comprartene uno. Devi solo impegnarti tanto, imparare a suonarlo decentemente e continuare ad accompagnare la mia musica.”

“Mi hai…” Jimin si tirò a sedere, impedendo all’amico di fermarlo, e appoggiò la pallidissima mano ormai magra sul volto del suo amato, “Hai…donato un altro senso. Hai lavorato per… per donarmi un altro senso.”

“Jimin, io…”

Ma la frase venne interrotta da un bacio lieve, casto, quasi a fior di labbra, che fece implodere i cuori dei due giovani che per la prima volta si abbandonavano all’idea di essersi innamorati. Irreversibilmente.

E forse Park Jimin non ce l’avrebbe fatta, tanto il suo corpo era stato indebolito dalla malattia. Forse avrebbe trovato la morte che un tempo cercava, ma in quel momento non era importante. Aveva ritrovato il senso, con quel violino. Aveva ritrovato il suo Min Yoongi. Jimin, allora, si accorse di non avere nemmeno paura della morte.
Perché dopo c’era la rinascita.





Note dell'autrice
Sniff sniff, ragazzi miei, siamo arrivati alla fine. Le tre sezioni sono state smembrate e pubblicate tutte quante. Mi dispiace se l'avventura è stata troppo corta, purtroppo è nata per essere così. Ringrazio infinitamente chi ha letto questa storia, chi l'ha messa fra i seguiti o i preferiti. Anche chi ha avuto voglia di dare una sbirciatina. Per me scriverla è stato un grande impegno e una gran sofferenza, perché vivo sulla mia pelle alcune delle tematiche trattate. Spero di risentirvi presto! Grazie per tutto!

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3720973