The Avengers e la Regina Perduta| Eira

di DarkMoon02
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


L'essere umano: questa bellissima, stupefacente meraviglia del creato. Vive e muore, crea e distrugge, gioisce e si dispera, crede e sospetta, ama e odia; come tutti gli altri figli del cosmo. Ma l'uomo è una delle meraviglie dell'universo: sono milioni, miliardi forse, i fratelli dell'essere umano. Il più vicino tra tutti è da sempre il dio: venerato, temuto, pregato, conosce l'uomo meglio di chiunque altro perché gli è stato accanto fin dalla notte dei tempi. Ma chi è un dio, o meglio, che cos'è? Dov'è? Com'è? I popoli umani nel corso dei secoli hanno risposto a queste domande in modo diverso; ciò nonostante, tutti i responsi sono derivati da una comune teoria: un dio è un'entità superiore, dotata di grandi poteri, talvolta benevola talvolta malevola, che in alcune occasioni interferisce con il trascorrere della vita umana. Che poi ognuno di questi popoli abbia modellato a proprio piacimento questa definizione, è il normale corso delle cose: c'è chi dice che ci siano tanti dei -ognuno legato ad un elemento o qualche valore – suscettibili e divisi tra bene e male tanto quanto gli uomini, chi dice che ce ne sia solo uno infinitamente buono, e chi dice che gli dei siano piuttosto degli spiriti molto molto vicini al mondo terreno. Visione più pessimistica rispetto alle altre è quella ateistica.

L'uomo ha combattuto e si è nutrito del suo credo per migliaia di anni; fino ad oggi. Oggi sappiamo che gli dei esistono e sono fatti come noi, che fanno tremare la terra con i loro inconcepibilmente immensi poteri; e che non sono i soli ad essere al di sopra di noi. Lo abbiamo imparato anni fa, quando un dio norreno ha camminato tra gli umani, e ancora quando tempo dopo un altro dio ha attaccato la città di New York e minacciato di conquistare la Terra. Quest'ultimo, non era solo: aveva un esercito di mostruose, forti, creature aliene. Alieni che non erano di sicuro al pari degli uomini. Quella battaglia per la vita o la morte, fu combattuta da uomini affiancati a dei benevoli; ha squarciato il velo che divideva il genere umano da tutte le altre meraviglie del creato, giuste o malvagie che siano, ma soprattutto ha aperto gli occhi a tutti: l'uomo è spaventosamente impreparato a ciò che vive aldilà del suo sicuro mondo.

Dunque, qual è la verità sugli dei? Ognuno la interpreta a modo suo. Ai più piace pensare che proteggano il genere umano da minacce che mai gli uomini potrebbero anche solo immaginare. Minacce sempre incombenti; prima tra tutte un'altra meraviglia del creato, potente e deturpata dalla follia, pronta ad impiegare forze primitive pur di soddisfare la sua sete di morte, potere e conquista. Solo degli dei possono far fronte a questo pericolo, conosciuto come Thanos il Titano; ma non tutti ne sono in grado. La speranza è l'ultima a morire, si sa: ma se la speranza fosse una dea dormiente tra gli umani?

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Quell'antiquata e buia libreria sulla 6th Avenue stonava con i grattacieli e gli edifici che la circondavano, benché fosse nascosta agli occhi dei passanti in un piccolo vicolo. Pareva tutto, fuorché un negozio del centro newyorkese: piuttosto, ci si sarebbe aspettati di trovare una simile bottega in un rurale paesino dimenticato dal Signore. 
Il cielo di quel pomeriggio era coperto da uno spesso strato di nuvole grigie che, come annunciato dalle previsioni meteo, avrebbero da lì a poco lasciato posto ad un violento temporale di fine autunno. L'atmosfera d'ottobre rendeva il vicolo della libreria un poco più tetro di quello che già appariva: nessuno lo frequentava, date le strane voci che correvano sulla gente che lo faceva. 
Nonostante la fama del posto, il negozio aveva esposto dietro la vetrina un grosso cartello bianco che recitava a caratteri scarlatti "cercasi personale"; era lì da molto tempo, quasi un anno. Dell'annuncio ormai le persone non si curavano più, se non per usarlo come argomento per apostrofare lo squallore del negozio. 
Fu inusuale sentire dopo tanto tempo un forte tacchettio rimbombare per tutto il vicolo. Alle 16:00 in punto, una giovane dai lunghissimi capelli platino e la pelle innaturalmente bianca, bussava alla soglia della libreria. Qualcosa in lei, l'avrebbe potuta far risaltare in mezzo ad una folla: era molto molto alta, aveva muscoli graziosamente sviluppati e curve formose. Molti le dicevano che avrebbe potuto far la modella, malgrado lei avesse sempre replicato con un secco no. 
Venne ad aprirle un uomo in camicia e gilet: la squadrò dall'alto in basso e sorrise. Le fece cenno di entrare e seguirlo. La bottega era, appunto, un piccolo locale buio, sommerso da libri e con solo due poltrone di velluto nell'angolo più luminoso; poi, dietro ad uno scaffale, v'era quello che pareva una specie di retro bottega. I libri esposti, di certo, non erano volumi nuovi o in buone condizioni, e oltretutto non ci sarebbe dovuti sorprendere nel non trovare grandi best sellers. Erano solo vecchi libri. Strano che un ragazzo tanto giovane lavorasse in un'attività del genere. 
Condusse la ragazza fino alle sedute e le chiese di accomodarsi. Il colloquio ebbe luogo e andò molto bene: il proprietario la mise subito a suo agio e lei rispose tranquillamente a tutte le domande. Ovviamente omise la vera natura della placchetta metallica sul suo avambraccio sinistro, spacciandola per un congegno per il controllo della glicemia. Lui poi parve non degnarlo più d'attenzione dopo la spiegazione. Non impiegarono molto, una mezz'oretta circa: il ragazzo la congedò con una calorosa stretta di mano e la promessa di farsi vivo presto.
Appena ebbe varcato la soglia della libreria una fredda goccia d'acqua le cadde sul naso. Seguita velocemente da altre, finché la pioggia non iniziò a scrosciare per tutta New York. Lei non aveva dato credito a quelle previsioni meteo e non si era preoccupata di portarsi dietro un ombrello: maledisse la sua poca fede. Per quanto le sue scarpe glielo consentissero, corse verso l'uscita di quel vicolo per cercare riparo sotto la tenda di qualche bar o negozio. 
Era già tornata sulla strada principale, quando qualcuno le venne addosso: un po' per l'impatto un po' per la pioggia, scivolò a terra. Quello anziché scusarsi, le strappò la borsa e corse via. Rimase a terra, ormai zuppa, sconvolta: non sapeva cosa fare, non sapeva se rimanere lì o inseguire ladro. In quella borsa c'era una discreta somma di soldi e gran parte dei suoi effetti personali, ma se avesse raggiunto l'uomo si sarebbe messa nei guai. Di nuovo. Quella borsetta le stava sfuggendo, come le foto all'interno, Le foto, le foto. Scattò in piedi e prese a correre; dopo qualche metro, stufa del suo momentaneo handicap, sfilò i tacchi, li prese in mano e riprese a filare. La gente la guardava stupefatta, e qualcuno inorridito, un po' per la condizione dei suoi abiti ma soprattutto per l'elevata velocità e agilità con il quale si muoveva. In pochi secondi, raggiunse l'uomo e lo atterrò saltandogli addosso. Il malfattore si dimenò nella forte presa della ragazza e, approfittando di un attimo di distrazione, riuscì a liberarsi e a scaraventarla via. Lei non poteva dare tutto quello che aveva, non poteva fare ciò che sapeva fare così bene; per il bene dell'uomo e per la sua immagine anonima.
Ringhiò di dolore quando la sua schiena collise con il marciapiede, ma velocemente si rialzò. Riuscì di nuovo a raggiungerlo: questa volta gli avrebbe strappato la borsa e sarebbe scappata via. Lui si fermò e si voltò, lei indietreggiò: le stava puntando un coltellino tascabile. Tutta l'adrenalina che le aveva dato la forza di inseguirlo, andò scemando. Era strano che ancora nessuna guardia fosse sopraggiunta. Il ladro fece per infilare la mano libera nella borsa: lei segui i movimenti con gli occhi, ma sapeva che non sarebbe riuscita a controllarsi ancora per molto. 
Scoppiò. Gli afferrò il bracciò e strinse fino a farlo urlare di dolore: una sottile patina di ghiaccio cominciò a ricoprire sia la pelle della ragazza che quella dell'uomo. Lei riconobbe immediatamente il pizzicore della placchetta sull'avambraccio, ma lo ignorò. L'altro non riusciva a muoversi. Il pizzicore crebbe d'intensità, tanto che arrivò ad essere come fuoco. Malgrado il dolore, la ragazza non mollò la presa: le azioni di quell'uomo avevano risvegliato un istinto molto difficile da reprimere. Le scariche elettriche del dispositivo toccarono il numero di volt massimo: la ragazza rimase senza fiato per il dolore, poi si accasciò a terra per lo shock. 
Riprese conoscenza in un'infermeria. Non appena si riebbe, storse la bocca a causa del pizzicore che ancora la pervadeva dalla testa ai piedi. Attese qualche minuto prima di aprire gli occhi. Allorché lo fece, se ne pentì: la luce a neon della stanza la accecò. Abbassò così di nuovo le palpebre. 
"Ho visto che ti sei svegliata, non far finta di essere ancora incosciente."
Si rasserenò quando, facendo mente locale, riconobbe quella voce. Lasciò mollemente voltare la testa verso la sua interlocutrice e riaprì gli occhi. 
"La luce mi dà fastidio. Ho sempre detto che qui dentro è troppo forte." 
La rossa afferrò uno sgabello e si sedette accanto al letto dell'amica. Le prese una mano e la strinse tra le sue. 
"Sono felice di rivederti."
"Anch'io, Natasha. Avrei preferito circostanze migliori, ma comunque..."
"Già, migliori."
"Cosa è successo dopo che questa maledetta mi ha fritto?" soffiò, indicando la placca.
"Beh... sei stata fortunata, questa volta. Dobois si era preso qualche ora ed era dalle tue parti: ha visto tutto e ti ha tirato fuori dai pasticci." prese la borsa che aveva adagiato accanto al letto. "Ha recuperato anche questa. E le tue scarpe. È tutto ok adesso, Eira." 
"Mi dispiace tanto, non so cosa mi sia preso. Ci sono stati feriti?"
Natasha le scostò la frangia dagli occhi e le accarezzò il viso. 
"No, solo una folla di civili terrorizzati. E ad ogni modo non è colpa tua. L'importante è che sei qui, adesso."
"Non puoi dire che non è colpa mia: tu non c'eri"
"Non è cambiato nulla: non mi ascolti mai." sospirò. "Te l'ho detto, Dobois ha visto tutto e me l'ha riferito: so come è andata. Le foto sono dentro, non è vero?"
"Sì... credo che il pensiero di perderle mi abbia fatto impazzire."
"Molto probabile. Coulson, comunque, ti vuole vedere."
"E Fury?" 
"Si affida a Coulson."
"Non tornerò qui, se è questo quello di cui vuole discutere."
"Lo immaginavo. Non credo però voglia parlare di questo. Ce la fai ad alzarti? Quella diavoleria non da scosse leggere."
" Sì sì..."
Si sedette sul materasso, non senza qualche fastidio, poi lasciò scivolare i piedi nudi sul pavimento. 
"Situazioni del genere sono capitate altre volte, lo sai. A proposito, per quanto tempo sono stata k.o?"
"Circa 4 ore, è sera ormai." 
"Mpf, perfetto."
L'altra donna le porse i vestiti, fortunatamente asciutti, le infami scarpe che le avevano creato tanti problemi e la borsa.
"Tieni, gli ho fatti pulire e asciugare."
Sfece il pacchetto, si spoglio della camicetta ospedaliera e si rimise i suoi caldi abiti.
Uscirono dall'infermeria e si incamminarono per i freddi corridoi dell'Helicarrier. Eira da sempre disprezzava quella portaerei, che le pareva più una scricchiolante gabbia sospesa. C'erano troppe persone, troppe stanze, troppe apparecchiature per i suoi gusti: ma era l'unica base S.H.I.E.L.D mobile, e non poteva negare quanto fosse effettivamente utile. Camminarono per un bel po': ricordava tutto, ogni corridoio, ogni porta, ogni laboratorio. Sembrava non fossero passate che un paio di settimane. Le mancava, da una parte, l'ambiente e la compagnia, ma si era congedata per un motivo ben preciso e tornare indietro era fuori discussione. 
Finalmente si fermarono: erano davanti all'ingresso della sala comandi. Ambiguo posto per una seria conversazione tra un pezzo grosso e un ex-agente. Ambiguo. 
"Rimarrò anch'io" esordì Natasha prima di attraversare le porte automatiche. 
Eira non ebbe la possibilità di replicare: la Romanoff sapeva che facendo altrimenti, la Halvorsen avrebbe controbattuto. 
Phil Coulson, braccio destro del direttore e colonnello Nicholas Joseph Fury, era seduto in maniera composta su una delle due sedie a capo tavolo. Non appena le vide entrare, sorrise e le venne incontro. Si mantenne tutto d'un pezzo davanti a lei per qualche istante, poi cedette e la abbracciò. Nessuno dei due disse nulla. Si separarono dopo un po'; Phil diede una pacca sulle spalle ad entrambe e si sedettero tutti. 
"So quanto odi l'Helicarrier, Halvorsen: però sono contento che tu sia qui."
"Come ho detto anche a Romanoff, avrei preferito accadesse in circostanze migliori."
"Sì...Sì, di sicuro nemmeno io volevo fosse questa l'occasione del nostro ritrovo. Ma ormai, il dado è tratto come si suole dire."
Si avvicinò con la sedia al tavolo e puntò i gomiti su di esso; guardò Eira negli occhi, annuì, poi abbassò lo sguardo. 
"Dobois ci ha detto quello che è successo. So quello che stai pensando, Halvorsen: no, non è colpa tua. L'agente Romanoff te lo avrà già detto, ma io te lo ripeto: non è colpa tua." tornò di nuovo a guardarla negli occhi. " Il dispositivo ha funzionato, vedo."
"Direi: mi ha messo fuori gioco."
Coulson infranse la già precaria professionalità che tentava disperatamente di mantenere davanti alla ragazza. "Eira, dimmi la verità: ti ha fatto molto male?"
"Che vuoi che ti dica, Phil: ha fatto il suo lavoro." 
"Dannazione, avevo detto di abbassare gli ampere." borbottò, mordendosi un pugno. 
"No, va bene così invece: era necessario qualcosa che mi calmasse. Ma andiamo al sodo della questione, per favore: Natasha mi ha detto voleva vedermi. Era per parlare del mio incidente?"
"No, in realtà no. Vedi Eira, mentre tu eri priva di sensi, ci siamo consultati un po' tutti."
"Definisca tutti."
"Io, lui, Barton, il direttore Fury, Maria Hill e gli Avengers." lo precedette Natasha.
"Avengers? Il progetto Vendicatori?" chiese più perplessa, che sorpresa.
"Sì. A dire la verità, in loro veste c'erano solo Stark e Rogers in videoconferenza, ma non è questo il punto. Sai, l'incidente di oggi ci ha aperto gli occhi... ci ha aperto gli occhi. Abbiamo commesso un grosso errore quando ti abbiamo accettato la domanda di congedo."
"Di mia iniziativa mi sono fatta impiantare sul braccio dai FitzSimmons questo diavolo di congegno per farmi controllare, ed entrambi sappiamo cosa fa in caso di emergenza. Credevo fosse sufficiente per non crearvi noie."
Quando terminò la frase senza interruzioni, rimase disorientata: si aspettava perlomeno una correzione o una riformulazione della frase per far sembrare tutto meno nudo e crudo. 
"Non era questo quello che intendevo. Eira Halvorsen, ti ho chiamato per proporti un posto nell'iniziativa Vendicatori. La prima, quella con i fondatori. Occorre solo una tua firma: tutti concordano sulla tua idoneità."
Gli occhi di Eira strabuzzarono: lei, un posto come Avenger. Non poteva star accadendo: c'erano troppe cose che non quadravano. Perché quella domanda adesso, e non al principio? Perché lei? Perché c'era una prima e una seconda formazione? Perché non inviarla alla Mansion con i nuovi membri? Si era licenziata, santo cielo! Teoricamente non avrebbe nemmeno dovuto trovarsi seduta su quella poltrona! Lei non voleva e non doveva essere lì. Eppure Philip Coulson, per quanto sbagliato o illogico potesse apparire, adesso le stava proponendo di tornare a lavoro, questa volta con dei veri pezzi grossi. Perché Natasha non era stata colta alla sprovvista come lo era stata Eira? Che avesse mentito, prima, circa il motivo del colloquio con Coulson? 
"Mi sembri sorpresa, Halvorsen." 
"Assolutamente, signore. Teoricamente non avrei l'autorizzazione per essere qui. Me ne sono andata per una ragione precisa, e non intendo tornare; sì, perché non mi dica che se sottoscrivessi e iniziassi a lavorare con gli Avengers, non rientrerei in organizzazione."
"No, hai ragione: il tuo profilo di agente verrebbe riconfermato."
"Appunto. Mi dispiace, ma declino l'offerta."
La decisa risposta della bionda spinse Natasha ad intervenire: non poteva permettere alla ragazza di rifiutare la più importante offerta della sua vita. 
"Ascoltami, Eira. Questo è un posto che chiunque qui dentro vorrebbe, e sai bene che non viene ne offerto a tutti né una seconda volta. Sei brava in quello che fai, e in questo momento non te la passi molto bene: tu devi accettare."
"Non mi va poi così male; sai ho un nuovo lavoro, e anche un piccolo appartamento."
"Non fare l'orgogliosa con me: lo dico perché lo so. Quanto credi di poter andar avanti con quel dispositivo sul braccio? Qualche anno? Non durerà per sempre. Un posto tra i Vendicatori è l'unica ragione per la quale te lo faresti togliere, perché altrimenti continueresti a viverci."
"Perché?! Perché insistete tutti e due!? Ma non ricordate quello che è successo a causa mia?! Mill–"
"È stato un nostro errore, non solo tuo." la interruppe Phil. "Questa è la tua possibilità di riscatto. Accetta il posto, Halvorsen: te lo sto dicendo da Phil.”
Eira si sentiva come in un limbo: non riusciva a decidere sul da farsi. Certo avevano ragione, lui e la Romanoff, perché quello sarebbe stato sul serio un punto di svolta se avesse accettato. Quel madornale passo falso commesso in passato era un fardello pesante, tuttavia. 
Guardò Phil, che le annuì, poi Natasha, che le indicò con un cenno il documento sul tavolo. Impugnò l'elegante penna stilografica e ne fece scattare il tappo. Trasse un lungo sospiro e firmò tutto d'un getto, poi spinse via documento e stilo: quel foglio doveva sparire dalla sua vista immediatamente. Incrociò le braccia al petto e si lasciò cadere sullo schienale della poltrona; si dondolò per un po'. Fulminò con lo sguardo sia Natasha che Coulson. 
"Bentornata, agente Halvorsen."
Phil batté un paio di volte il fascio di fogli che si era portato dietro, e al quale adesso si era aggiunto il documento fresco di firma, per sistemarlo; poi infilò tutto in una cartella di lucida pelle nera. 
"Hai fatto la cosa giusta."
"Perché, avevo un'opzione?"
"L'hai sempre." replicò la Romanoff.
"La mia uniforme." tagliò corto, ignorando l'intervento della spia. "Tornerò in campo solo con la mia uniforme."
"Certo, certo." la rassicurò l'uomo alzandosi. "Ti verrà immediatamente resa. Chiedete all'agente Wiley...quello vicino al guardaroba. Si occupa lui di queste cose."
Prima che se ne andasse tutto sorridente, Eira lo richiamò. 
"Quali sono gli ordini, signore?"
"Tu che dici? Ti trasferisci in casa Stark! Tenetemelo d'occhio, te e Romanoff! E comunque, da questo preciso istante passi a livello 8!"
Poi scomparve nel corridoio.
"Pensavo lui stesso avesse abolito la classificazione numerica."
Le due uscirono dalla sala poco dopo e, come consigliato loro da Phil, si diressero verso il guardaroba. Trovarono l'agente Wiley, un ragazzetto afroamericano alto e snello, appoggiato alla porta scorrevole dell'ingresso. Quando si identificarono, sbiancò ed iniziò a balbettare, ma le condusse lo stesso all'interno, poi attraverso una porta ed infine in una piccola stanza illuminata da calde luci a lampada.
L'ambiente era completamente spoglio, se non per una cabina di vetro con all'interno un manichino. Era esposta un’uniforme speciale, nera come la notte, aderente, ignifuga e resistente alle più basse delle temperature; c'erano due semiautomatiche nelle fondine sulle cosce, degli alti e grossi anfibi antinfortunio, e una cintura sulla vita. Sul volto del manichino era stata applicata una maschera di metallo che copriva solo occhi e parte del naso. 
L'agente si congedò, e le due rimasero da sole in quello che pareva un sacello consacrato all'agente Halvorsen. Eira si avvicinò alla teca e sfiorò il vetro con la punta delle dita: si era promessa, giurata, di non avere più niente a che fare con questo mondo. Ciò nonostante, adesso che le era davanti, si tratteneva a stento dall'infrangere il vetro e ricongiungersi alla sua vecchia compagna di missioni. Maledetta, il suo fascino era irresistibile; o più che il suo, quello dei ricordi che portava appuntati come medaglie.
Natasha le porse una 24 ore di metallo, un luogo adeguato dove riporre un capo simile. Non la afferrò subito, distratta com'era; la rossa insistette e finalmente ottenne la sua attenzione. Eira prese dunque la valigetta, la osservò e poi la aprì: contemplò anche l'interno di velluto. 
"Che c'è, adesso ti mette in soggezione?" domandò con un sorrisetto Romanoff. 
"No, non in soggezione..."
Aprì la teca e iniziò a spogliare il manichino dell'uniforme. 
"Anzi, sì: soggezione è il termine perfetto."
"Questa è bella: ti ci ho conosciuto con quella divisa addosso! Eri ancora una ragazzina...è un bel po' di tempo che la porti."
"Sì, tanti anni. Ma è passato un bel po' di tempo anche da quando mi sono congedata: è questo quello che mi mette in soggezione." 
"Pf, non pensavo avrei mai sentito una dei migliori agenti parlare in questo modo."
"Credo di non esserlo più ormai... o forse nemmeno di esserlo mai stata."
"Stai mettendo alla prova la mia pazienza, Halvorsen. Sbrigati a prendere quell'uniforme, che comincia a farsi molto tardi."
"Ho finito, ho finito." sbuffò chiudendo la valigetta.
Appena Eira ebbe veramente finito, uscirono a passo svelto dalla stanza e dal guardaroba, poi ancora più velocemente marciarono per i corridoi. Raggiunsero il laboratorio in mano ai FitzSimmons, ed Eira si fece strappare di dosso quella piastrina dal braccio: non fu una bella sensazione, ma nemmeno cattiva. Una sicurezza in meno, forse, ma anche una libertà in più. Le rimase una piccola e lieve ustione rossa, che Simmons le promise si sarebbe attenuata nell'arco di quattro giorni, e scomparsa in un paio di settimane o poco più.
Trascorse tutto il tragitto per l'hangar toccandosi il punto dove prima c'era la placca. Le pareva che le avessero strappato un arto. 
Presero in prestito un modello simile alla "Lola" di Coulson. Nonostante la bionda fosse abituata alla fantascientifica tecnologia di Lola, il cuore le arrivò lo stesso in gola quando l'auto volò fuori dalla portaerei e quando scomparve allo stesso modo dell'Helicarrier. L'oscura notte dell'inoltrato autunno era rischiarata dalle mille abbaglianti luci della città, per lo più dorate, prima tra tutte quella della Stark Tower. Era perfettamente visibile, perfino da quella altezza e da quella distanza: "Un buon esempio materiale dell'ego del suo proprietario" pensò. Prima di raggiungere i nuovi colleghi, Eira e Natasha si recarono qualche minuto all'appartamento della prima, giusto per prendere qualche abito, prodotti d'igiene personale, e suppellettili di tutti i giorni.
Non impiegarono molto tempo e infine giunsero sul tetto della Stark Tower. Atterrarono sulla stessa pista dell'Avenjet, poi la vettura procedette dentro dell'hangar come una normale automobile. Scesero, e si promisero l'un l'altra di restituire il mezzo, prima o poi, ora tornato visibile all'occhio nudo. Entrambe sapevano, però, che sarebbe rimasto con tutta probabilità a loro disposizione nella torre di Stark: dopotutto, una Lamborghini nera non era cosa da poco. 
All'interno della torre, faceva troppo caldo per i gusti di Eira; dovevano essere tipi freddolosi, i Vendicatori. Tutto profumava di pulito, di detersivo per pavimento misto ad ammorbidente. L'ambiente era ben illuminato, arredato con gusto e in stile moderno. Tuttavia, pareva tutto molto silenzioso. 
"F.R.I.D.A.Y, dov'è Tony?" esordì Natasha.
L'altra sapeva cos'era F.R.I.D.A.Y e come funzionava, -le voci correvano, tra gli agenti- ma avere la possibilità di parlarci più o meno a quattr'occhi era tutta un'altra storia.
"Il signor Stark attualmente si trova in sala, assieme al Signor Rogers. Barton e Thor. Devo notificargli il vostro arrivo?"
"Sì, grazie."
"Sì figuri, è un piacere."
Procedettero ancora un'altra decina di minuti tra androni, laboratori e ascensori. La torre era fitta di lunghi corridoi, ma manteneva ugualmente quell'atmosfera ordinata e discreta; non vi era traccia di alcun danno della battaglia di New York, o di qualsiasi altra minaccia gli Avengers avessero sventato in quegli anni. Eira faceva fatica a digerire l'idea che quella fosse la sua nuova casa: soprattutto dopo aver fatto tanta fatica a trovare un appartamento discreto e abbordabile in termini di prezzo, e aver superato un colloquio di lavoro. 
Quando la rossa le fece notare il suo irrazionale silenzio, non se la sentì di tenere per sé quell'insicurezza e confessò tutto. L'altra si lasciò andare ad un contenuto risolino 
"Non ridere dei miei problemi!" la riprese amareggiata.
"Perdonami, perdonami: è che quasi non ti riconosco più."
"Mh, come dovrei prenderla questa?"
"Come un mio umile parere. Non è una critica."
"Tu mi vorresti come un tempo, non è vero?"
Natasha si voltò per un momento verso la compagna, e le sorrise: erano sulla stessa lunghezza d'onda. 
"Mi piacerebbe, sì. Una volta, eri fredda ed efficiente come una macchina, orgogliosa, feroce, pericolosa e sicura di te. Ti chiamavano la Lupa di Norvegia. Eri una delle donne più letali al mondo, fatale come me. O forse, anche di più."
"Sì, mi ricordo...beh, ho fatto tante cose orribili e mi sono persa tante cose che non torneranno. Sto tentando di cambiare."
"In cosa, Eira?"
"Non lo so nemmeno io. Sto solo cercando di dimenticare cosa e chi ero prima: il sangue sulle mie mani mi disgusta, e vorrei lavarmelo via."
"Non puoi, lo sai."
Si stropicciò gli occhi. "Tu mi capisci Nat, più di quanto io stessa riesca. Dimmi cosa devo fare."
L'espressione di Natasha si ombrò; rimase in silenzio per qualche secondo, meditò sulle sue parole, poi si bloccò di colpo. La guardò negli occhi e sospirò. 
"Eira, quelle come noi possono contare solo su se stesse. Siamo tutto ciò che abbiamo. Da qualsiasi parte tu stia, buoni o cattivi, la cosa più importante è non lasciare che qualcuno o qualcosa infranga il tuo muro; perché è l'unico che ti sostiene. Mai, mai ti dico, dovrai far calare completamente le tue difese. O sarai debole. Se sei debole non sei forte, sei non sei forte non sopravvivi." le strinse la nuca. "Non puoi tradire il tuo cuore di ghiaccio, Eira: non te lo puoi permettere. Nessuna delle due può."
La lasciò andare e riprese a camminare come nulla fosse. La bionda invece rimase per un attimo lì: era scossa da quel consiglio a cuor aperto, le tremavano le mani e il respiro le mancava. 
Ammetterlo era difficile, ma Natasha aveva ragione: nessuno, se non lei, Clint e Phil, erano mai riusciti ad intaccare la sua corazza. E così tutti la riconoscevano come fredda, priva di emozioni: una macchina, come aveva detto Nat. Una macchina per uccidere. Aveva tutto funzionato fintantoché aveva mantenuto quel muro. La sua vecchia agente supervisore aveva ragione. 
Abbassò le spalle, alzò il mento, irrigidì il busto; sì aggiustò la giacchetta di pelle nera, tirò un lungo sospiro e riprese anche lei a camminare. Un passo sinuoso, convinto; le pareva di essere al sicuro, solamente adottando di nuovo l'andatura che vantava quando era tra le file S.H.I.E.L.D. Come flash, le sfarfallarono in mente alcune delle memorie del suo passato spionistico: quando divenne Rafaél Carvalho in Brasile, Zorela Sadevenau in Romania, e quando uscì da uno degli uffici di Coulson dopo aver ottenuto l'autorizzazione per guidare un'intera, lunga e pericolosa missione negli Emirati Arabi. Era una bella sensazione. 
Si rimise a pari con la collega, ed insieme giunsero nella grande sala. Era immersa in una delicata luce soffusa e aveva colossali finestre, grosse come pareti, che davano sul meraviglioso panorama della città notturna. Seduti su dei divani attorno ad un tavolino di vetro, c'erano quattro uomini, ognuno perfettamente riconoscibile. Eira ne conosceva bene due: Steve Rogers (nonostante fosse nella formazione Vendicatori) svolgeva molte missioni per conto dello S.H.I.E.L.D, e Clint Barton era un suo collega e amico intimo. Poi, beh, come non poteva non conoscere anche solo di vista i restanti? Il primo, Tony Stark, ex-costruttore e commerciante d'armi, ora al servizio dei buoni sotto la supereroica identità di Iron Man: l'aveva visto aggirarsi per il Triskelion e L'Helicarrier. Il secondo, Thor, leggendario dio del tuono, saltato fuori dal nulla qualche anno prima per sconvolgere la visione della vita umana; aveva incontrato anche lui, ci aveva perfino scambiato quattro chiacchere in rare occasioni, e doveva ammettere di avere un debole per lui. Nessuno, in particolar modo la parte femminile, poteva negare che fosse di bella presenza; ma erano molte le voci sul suo carattere, sul suo modo di comportarsi. Eira aveva scelto di lasciare i sogni ad occhi aperti alle più giovani reclute all'Accademia, e pensare ad altro. Si sarebbe limitata ad una posizione neutrale, o almeno così avrebbe fatto credere agli altri. 
Quanto più si avvicinava, tanto più intravedeva il sorriso di Clint: era felice di rivederla, e la cosa era reciproca. La bionda ricambiò il gesto gentile. 
Marciarono fino al tavolo e furono presto a piedi piantati davanti ai quattro. Eira sì sentì improvvisamente vulnerabile: questo posto, questa gente...erano moralmente irraggiungibili. Tutti, forse persino Fury e Hill, guardavano ai Vendicatori come fossero degli dei, esseri al di sopra di ogni cosa; in realtà tra di loro un dio c'era, ma gli altri erano poveri mortali come lei. Magari se fosse stata assegnata alla formazione dei nuovi Vendicatori, si sarebbe sentita più a suo agio. La sua nuova identità le andava stretta. 
Malgrado ciò, si ricompose presto: nascose la sua insicurezza dietro una gelida espressione e scacciò dalla mente le subdole preoccupazioni. Era facile, sì, non era la prima volta che lo faceva. 
"Hey, Lupetta!" la accolse Clint, così attirando anche l'attenzione degli altri verso le due giovani donne.
Lei annuì. "Katniss."
Ringraziò il cielo per l'equilibrata reazione dell'arciere alla sua vista. Niente discussioni circa il suo congedo, niente baci e abbracci, niente "raccontami tutto quello che hai fatto in questi mesi". Un semplice hey, come se si fossero visti appena qualche ora fa. Molto probabilmente le avrebbe estorto tutte queste informazioni più tardi, ma davanti ai suoi compagni di squadra avrebbe mantenuto un atteggiamento contenuto. Era l'ennesimo favore che doveva al suo vecchio. 
Tra tutti, fu Rogers il primo che decise di vestire il suo ruolo di membro della squadra e alzarsi, tanto per accogliere la nuova arrivata e salutare la collega. Sì avvicinò alle due e tese la mano verso la più giovane. 
"È un piacere vedere un agente valido come lei tra di noi, signorina."
Ci pensò su poco e gli strinse la mano quasi immediatamente: la sua, era una presa decisa come quella di un uomo, ma morbida come quella di una donna, tuttavia priva di calore. Fu uno strano piacere per il capitano avere di nuovo a che fare con una stretta del genere. Ciononostante, quella postura eccellente e quel volto inespressivo, gli facevano correre un brivido lungo la spina. 
"Si figuri, Capitano. Il lavoro è il lavoro."
L'uomo dunque spostò la sua attenzione sulla rossa, anche se un po' perplesso dalla risposta della ragazza: 
"Bentornata, Natasha."
Quella sorrise, e gli accarezzò un braccio costretto nella manica della camicia a quadri. "Qualcuno deve pur starvi dietro, no?"
"Già..."
Gli altri tre finalmente si degnarono di alzarsi e raggiungere il trio. La bionda li seguì con lo sguardo qualche secondo, poi lasciò perdere e tornò a concentrarsi sul capitano e sulla sua amica. 
"Allora? Rogers, Nat, qualcuno ha il piacere di presentarmi la nuova salva-mondo?" esclamò Tony Stark. 
Quel tono, per le orecchie di Eira, suonava decisamente fastidioso: troppo arrogante, troppo estroso. Salva-mondo? Che cos'era, uno scherzo per lui? Era un eroe, questo sì: ma nessuno lo avrebbe mai detto se non lo avesse conosciuto. Decise di lasciar correre alla fine, e di far parlare Rogers
"Agente Halvorsen, livello SHIELD 8. Fluente in quindici lingue, altamente addestrata in altrettante discipline marziali, es–"
"Va bene, va bene: può farci il culo tanto quanto Romanoff." lo interruppe posandogli una mano sulla spalla. "Chi sei, begli occhioni?" le sorrise.
Eira diede un veloce occhiata alla situazione: adesso era il momento di agire, di mettere in chiaro chi era. Si costrinse a mettere su un debole, debole sorriso e, come aveva fatto poco prima Rogers con lei, tese la mano verso il miliardario. Quello accettò volentieri. 
"Eira Halvorsen."
"Non sei americana, eh? Nord Europa?"
"Perspicace, signor Stark." Il suo era un tono roco, piatto, basso per un interlocutore femminile a dire la verità. Ciò nondimeno, le parole erano perfettamente scandite, lente, capaci di indurre in una profonda ipnosi. 
Non le piacque per niente scoprirsi così presto. Anzi, più che altro non le piacque che qualcuno già avesse tentato di invadere il suo spazio. Avrebbe dovuto alla svelta mettere dei paletti. 
La sua vista corse per la stanza, poi sui volti dei suoi neo-colleghi. Nulla di quella giornata era ed era stato normale, per quanto potesse esserlo la vita di una superumana. 
Il suo sguardo trovò riposo sul viso del bell'asgardiano alla sua destra. Aveva un volto meraviglioso, e la sua mandibola eccezionalmente definita pareva scolpita dal marmo. Ovunque si fosse imbattuta in lui, non era mai riuscita a trattenersi dall'ammirare quegli scultorei tratti: neppure il suo sopraffine controllo l'aveva mai agevolata nel farlo. 
La colse di sorpresa quando, accortosi dei suoi persistenti occhi, le mostrò un grande e luminoso sorriso. Trasecolò, ma solo per un istante. Mantenne il sangue freddo, e scacciò via il delicato tepore che le si era formato sullo stomaco. Gli sorrise anche lei, ma solo per non parer maleducata. 
"Mh, non so voi, ma credo che questi due già si conoscano. "Ancora una volta, la voce di Tony Stark la infastidì. 
Anzi: non la sua voce, ma le parole che fece uscire dalla sua bocca. Si avvicinava troppo, pericolosamente. Deglutì l'ennesimo boccone di veleno: il discorso di Natasha l'aveva destabilizzata. Forse in negativo, forse in positivo. Magari era un bene tornare ad essere la vecchia Eira, magari un errore. Quasi le pareva di perdersi nelle due personalità, l'agente e la ragazza; qual era quella parassita? Ne aveva mai avuta una sua, o si era solo adattata? Mancavano molti pezzi del suo puzzle. 
"Ci siamo incrociati qualche volta sull'Helicarrier."
"Sì," rise l'altro interessato, mentre con la mente tornava indietro nel tempo. "La prima volta che ci siamo visti mi ero perso tra i corridoi dell'Eliveivolo: il vostro mondo mortale è complesso."
"Già, lasciarti girovagare da solo lassù è stato davvero meschino da parte nostra." Il genio lo stava prendendo per i fondelli, era cristallino.
"Vergognatevi, voi tre e Banner: l'avete abbandonato come un cane."
"Mi sembra ci fossi anche tu, Natasha." ribatté con giocosa aria accusatoria. Prese dal tavolino il bicchiere di Martini che prima stava centellinando, e lo portò nuovamente alle labbra. 
La rossa scosse la testa. "Uh uh, non attacca questa."
I cinque continuarono a battibeccare per poco e la cosa morì lì com'era nata. Eira tacque per tutta la durata della discussione: fu un breve sollievo per lei. 
"Eira, ma hai cenato?" Barton interruppe quell’idillio. Le avvolse un braccio attorno le spalle, nonostante la ragazza fosse alta quattro pollici più di lui. "Non sarebbe strano che tu digiunassi."
Non si accoccolò tra quelle braccia, ma non le disdegnò nemmeno. Sì voltò verso l'uomo, o per meglio dire, chinò il viso nella sua direzione. 
"Avrei in realtà più bisogno di una mano con le valigie qua fuori, che con la cena."
"Va bene, va bene: ci pensiamo io e Nat. Le diamo anche una stanza." sospirò, e iniziò a tirarsi su le maniche della felpa. Cercò con lo sguardo la Romanoff, e quella gli rispose con un cenno d'assenso.
La bionda si rivolse verso i suoi compagni. Non per chiedergli il permesso di congedarsi: assolutamente. 
"Buonanotte, signori."
"'Notte." risposero in coro. 
Eira, Natasha e Clint si incamminarono verso l'uscita della sala. I due scambiarono qualche chiacchera di poco conto, mentre l'altra si limitò a procedere a passo sostenuto. Proprio sulla soglia dell'ingresso, gettò un'occhiata alle sue spalle: incrociò un paio d'occhi cerulei e una lunga chioma dorata. Si girò immediatamente verso i suoi compagni e si scrollò di dosso la cosa.
Ognuno afferrò un paio di valigie; Eira si caricò in spalla i borsoni, gli altri due trascinarono grossi trolley. Erano valigie piuttosto semplici, nere, senza figure, scritte o altro: semplice stoffa nera, resistente e durevole.
"Pensavo godessi anche di forza superumana, Lupetta." la stuzzicò Barton.
"Sì, ma non di sei braccia. E ti dirò, non mi piacerebbe."
"Certo, certo..."
"Gli sei mancata, Eira. Ci sei mancata." interpretò Natasha. Diede una gomitata nel costato del partner, ma con uno sguardo lo incitò a far morire in gola ogni lamento.
"Che vi devo dire, ragazzi. Anche voi mi siete mancati, tanto; ma non contavo né di ritornare né di finire a lavorare con loro."
"Eh, non sono poi così male sai."
"Se sei disposta a vivere una vita diciamo scombussolata, allora..." soppesò l'altra donna. 
"Non è salvare il mondo che mi disturba. È tornare sul campo dopo quello che è successo a Miller."
Calò subito il silenzio tra i tre. L'incidente di Recife era un dossier riservato, accessibile solo ai gradi più alti; tra coloro che l'avevano letto era taboo, comprese le tre grandi spie che deambulavano per lunghi corridoi. Anche se, dire taboo, era riduttivo: per alcuni era un vero e proprio squarcio aperto nella carne. 
"Nessuno te ne dà la colpa, Eira."
"È stato un in–"
"Cosa, un incidente?" la sua voce era diversa. Non più alta, non meno roca o piatta: molto più affilata, senza alcuna traccia umana, fredda. Continuò a guardare avanti a lei, e non degnò di un'occhiata i due.
"Smettetela. Siete ridicoli, tutti quanti. È stata colpa mia."
Romanoff e Barton si scambiarono uno sguardo: stupidi, stupidi loro ad aver tentato l'approccio in questo modo. Era meglio non rigirare il coltello nella piaga, e cambiare discorso velocemente. Molto. 
"Ok, va bene. Parliamo d'altro." fu la Romanoff a chetare le acque.
Barton e Halvorsen tirarono entrambi un lungo e rigenerante sospiro. L'aria era pesante.
"Vedo che ancora le porti, Eira."
L'affermazione dell'arciere la lasciò interdetta: cosa intendeva? Si voltò per chiedere spiegazioni; lui batté le palpebre e alzò le sopracciglia. Eira realizzò immediatamente. 
"Sì, Clint. Non posso non farlo."
"Potresti invece," intervenne Natasha. "per noi non fa tanta differenza."
"Per me sì, e anche per gli altri. Mi servono."
"Non servono a nulla, invece."
"Certo. Come se anche voi non vi nascondeste tutti i giorni dietro ad un dito."
Da lì, nessuno disse più nulla. Barton e Romanoff erano tanto dispiaciuti quanto scossi nei ricordi dalle parole della bionda. Parlare con la Halvorsen era come camminare per un campo minato: era bravo chi sapeva trattare gli argomenti giusti, oltre al lavoro. Durante il tragitto fino alla camera, le altre due spie tentarono più di una volta di riaccomodare il discorso, ma le parole morirono in gola ad entrambi.
La stanza assegnata ad Eira, ossia la prima vuota che Rogers era riuscito a trovare, era la camera adiacente a quella di Bruce Banner. Quella del Dottore, era una stanza piccola e buia, vuota per la maggior parte dei giorni, ove il suo inquilino era in giro per convegni di medicina o laboratori S.H.I.E.L.D. Le due camere erano, inoltre, su una zona piuttosto riservata del piano abitativo e quindi frequentate esclusivamente dagli occupanti. Non era male per la bella bionda, tenuto conto del fatto che almeno nella sua stanza avrebbe goduto di un'estrema tranquillità.
Eira lasciò cadere con un tonfo i suoi borsoni, mentre Clint e Natasha puntarono i trolley alle loro spalle. La porta della sua nuova stanza era di un lucido metallo, e l'apparente spessore suggeriva fosse una blindata; la maniglia era una lastra di vetro nero, lunga un paio di spanne. Al centro della piastra brillava il contorno azzurrino di un tasto non più grande di un unghia. Era come tutte le porte delle camere da letto che aveva incontrato. 
"Impronte digitali." osservò Eira. 
L'altra donna le prese con cautela la mano e le premette il pollice contro il tasto della maniglia: il contorno di questo iniziò a lampeggiare, poi ritornò stabile. 
"Così nessuno, o niente, entra nelle stanze altrui. Ho appena registrato le tue."
"Capisco."
"Sì, lo so che sembra inutile visto che è tutto controllato da F.R.I.D.A.Y." la scavalcò Clinton, prima che lei stessa potesse intervenire. Sia lui che la Romanoff, con il tempo, avevano imparato a capire cosa la bionda avrebbe detto prima ancora che le fosse venuto in mente. Riuscivano ad indovinare un caso su tre; per il resto, nessuno sapeva interamente cosa passasse per quella testa platinata. "Ma, hey, fa sembrare tutto più figo e tecnologico di quanto già sia."
Non se ne rese conto nell'immediato, ma sì lasciò andare ad un genuino, seppur contenuto sorriso: era il primo della giornata. Non aveva nessuno al mondo, se non Clint e Natasha, gli angeli che l'avevano protetta per anni: erano tutta la sua vita, e di certo gli unici in grado di vedere chiaramente attraverso le sue maschere e i suoi trucchi. O almeno, quando lei glielo permetteva.
Si voltò verso i due e crollò: gli abbracciò come se non gli avesse visti per decadi, affondò le dita nei loro abiti fin quasi a strapparli. Il loro affetto valeva tanto quanto il suo muro di difesa. 
"Grazie ragazzi...grazie per avermi aspettato." mormorò lasciandoli andare. 
"Non te ne sei mai davvero andata, Eira." Le rispose l'arciere. Le accarezzò orgoglioso la schiena, come un padre, e per poco non si fece cogliere con gli occhi lucidi. Per poco. 
"Già... insieme, noi tre, andiamo lontano." aggiunse la donna. 
Si guardarono negli occhi e si scambiarono sorrisi. Nessuno disse niente: era troppa l'emozione di quel ritrovo, quasi palpabile.
"Ho una domanda importante per te." 
Clint quasi si sentì colpevole per aver rovinato quell'attimo tanto significativo per loro, ma gli era più a cuore Eira che un bel momento. 
"Dimmi, Katniss."
"Vuoi che ti prenda qualcosa da mangiare?" 
Eira trattenne un risolino e avvicinò il capo ad una spalla. 
"Non mi dispiacerebbero dei Poptarts." 
"Va bene, arrivano subito. Resti con lei, Nat?"
"Sì...dobbiamo discutere di affari femminili." 
"Lo prenderò come un elogio alla mia mascolinità." disse ammiccando. Le due giovani lo guardarono semi-disgustate, tanto che il ghigno dell'arciere svanì immediatamente. ” Va bene, ci vediamo tra poco." Se la svignò fischiettando con le mani giunte dietro la schiena. 
Eira di primo acchito finse di essersi lasciata scivolare addosso la giustificazione di Natasha, perché il suo nodo allo stomaco insinuava ci fosse qualcosa sotto: non avevano affari femminili da discutere. 
Fornì la sua impronta e sbloccò la porta: la sua camera era né più né meno di quanto si aspettava. Le fredde luci si accesero automaticamente: Eira alzò gli occhi al soffitto e vi trovò tante piccole e piatte plafoniere. La parete opposta all'ingresso era in realtà un'enorme finestra, simile (se non identica) a quelle che erano nella grande sala. Spinte ai lati di questa c'erano delle pesanti tende color tortora, raccolte da un paio di nastri. Il letto, sormontato da un grosso armadio a ponte e rigorosamente matrimoniale, era accanto alla porta: c'erano comodini su entrambi i lati, ed era gonfio di cuscini e coperte. Seminascosta, una porta scorrevole di vetro opaco conduceva ad un bagno completo di tutti i comfort immaginabili, compresa una vasca e una doccia con impianto luci e stereo. 
Trascinarono dentro tutte le valigie e le abbandonarono in un angolo vuoto della stanza. Eira fece un giro della sua sistemazione, se non altro per farsi un idea della sua nuova casa. Concluse che fosse un bell'ambiente, tutto sommato. 
La Romanoff si accomodò sul soffice letto della bionda. Eira scelse ancora una volta di ignorare il suo comportamento anomalo, e preferì piuttosto dedicarsi ai bagagli. 
"Già che stai sfacendo le valigie, mettiti qualcosa di comodo: dobbiamo parlare." annunciò tutto d'un tratto Natasha.
Obbedì senza discutere, mossa dalla speranza di venir finalmente a capo della situazione: cominciava ad essere fastidiosa. Ebbe appena finito di infilarsi il pigiama, che vennero a bussare alla sua porta. Ringraziò il cielo quando si trovò davanti Clint con in mano un piatto di Poptarts fumanti e profumati: le gorgogliarono le viscere alla sola vista. 
L'uomo le porse il piatto e lei accettò più che volentieri: "Grazie, Katniss" 
"Eh, di niente. Il tuo pigiamino di Jack Skeleton compensa il disturbo." 
Eira lo guardò con occhi da far accapponare la pelle. La spallina della felpa dell'arciere si ricoprì di una patina gelata, sempre più spessa e sempre più vicina alla pelle. 
"Il tuo pigiama è bello, il tuo pigiama è bello!" squittì, sentendosi come l'acqua alla gola. "Scongelami!"
La ragazza alzò un sopracciglio e fece dietro front nella sua stanza. " 'Notte 'notte, Katniss. Salutami tanto Laura." Silenziosa, chiuse la porta. 
Barton si pizzicò la radice del naso con le dita e sospirò. Poi l'attenzione gli cadde sulla spalla prima gelata: non rimaneva che calda stoffa. Ridacchiò fra sé e sé e si avviò per i corridoi. 
Halvorsen strappò un pezzo del dolce e affondò i denti nella golosa pasta: non mangiava dall'ora di pranzo, e addentare qualcosa di così buono fu come addentare un frutto proibito. Fece per sedersi accanto a Natasha, ma appena si rese conto della sofficità del materasso si spostò al centro del letto, con il piatto nel grembo. 
"Beh, parla ora che siamo sole." 
La rossa temporeggiò, esaminò con meticolosa attenzione i ricami del piumone sul quale era accomodata; cedette subito però, e guardò di nuovo Eira in faccia. 
"Mi preoccupi."
"Ti preoccupo? Io? Perdonami, in che senso?"
"Hai bisogno di aiuto professionale." borbottò con una mano sulla coscia della bionda. 
"Vai al sodo della questione per favore, che sono troppo stanca per risolvere rebus."
"Per quello che ti successo durante il tuo servizio S.H.I.E.L.D." 
Fece fatica a deglutire quel boccone; anzi, per un momento le parve che le fosse andato di traverso. Spostò il piatto oramai semivuoto su un comodino e si alzò. 
"Il passato rimane nel passato." 
"Non sempre Eira, non per te." mormorò grave. Si alzò anche lei come la collega, ma non si avvicinò. 
"Clint ed io siamo stati le tue rocce, i tuoi punti di riferimento quando tutto ti è crollato addosso. Il giorno in cui lasciasti lo S.H.I.E.L.D, per me fu come una doccia fredda: realizzai quanto tu fosti sola, sola in un mondo duro. Con quello che ti è e ci è successo, temevo per la tua incolumità. Iniziai a tenerti d'occhio."
"Per questo sapevi che non me la passavo bene."
"Esatto. E con il tempo mi resi conto di un'altra cosa: eri sola e con delle ferite ancora aperte. Credevo di poterti aiutare io a combattere i tuoi demoni...credevo che con il mio supporto ti saresti potuta rialzare, che saresti essere ancora più forte."
"Così è stato, e te ne sono grata."
"No. Oggi, quando dopo mesi ti ho vista su quel lettino d'infermeria, ho capito che non posso tutto, che non sono abbastanza per alleviare il tuo dolore."
"Non c'è nessun dolore da alleviare, Natasha."
"Mentire a te stessa è una tua grande arte, Eira."
"Non sto mentendo. È così..." si accostò alla finestra e contemplò il suo glaciale riflesso: sembrava fatta di carta. Chinò il volto e sussurrò tutto d'un respiro "sto bene." 
"Perché porti quelle lenti, allora?"
Quella domanda la punse, percepì chiaramente un fuso da cucito penetrargli nella carne. Il labbro inferiore le tremò e il respiro la abbandonò, ma riuscì come suo solito a mascherare il tutto. 
"Perché sono un'agente S.H.I.E.L.D e ho bisogno di passare inosservata. Tutti quanti lo fanno." 
Si sentì soddisfatta, davvero, orgogliosa di esser riuscita a nascondersi così bene.
"Stronzate." sibilò. 
"Sei libera di crederlo." 
"Sono libera di crederlo?! Fai del male a te stessa così! Sei una vittima Eira, lo dev–" 
"Basta." il suo tono era tagliente, non ammetteva repliche. 
Natasha sentì il cuore esplodergli dalla rabbia: faceva male ad Eira, le bruciava l'anima, ma non lo avrebbe mai ammesso né tanto meno avrebbe accettato il suo aiuto. D'altra parte, era stata lei ad insegnarle come sopprimere la sua parte emotiva e adesso doveva fare i conti con il proprio retaggio. 
"Non ti piacerebbe liberarti del dolore causato da quei bastardi?"
"Non ne ho bisogno."
"Sì invece. Ne hai tanto bisogno."
"Sono andata avanti. Tutti, qui o allo S.H.I.E.L.D, hanno i loro spettri, eppure nessuno di loro crolla. Così faccio anch'io."
La rossa la prese per le spalle e la costrinse a voltarsi verso di lei. 
"Guardami, cazzo! Guardami! Tu non hai superato nulla, non hai superato nulla! Tu vuoi farmi credere di sì, però! Ma tu non racconterai stronzate a me, oh, non a me! Puoi pensare di farlo con Clint, che ti ama come un padre, ma non con me!"
Eira rimase impassibile, ma dentro di lei le si rivoltarono le interiora. Decise di lasciar aperto uno spiraglio su di lei, solo un momento, più che altro mossa dal senso di colpa.
"Non sono stronzate, Nat. Sul serio, non ho bisogno di aiuto, so convivere con le brutte esperienze. Come fai tu."
Natasha lasciò andare la presa sulle spalle di Eira, ma le rimase accanto ugualmente. Pensò a quanto erano simili, pensò a quello che era accaduto ad entrambe: stessa storia, frangenti diversi. Era come guardarsi allo specchio. 
"Possiamo esserci vicino l'un altra, possiamo farci forza, possiamo vivere di nuovo come prima e aspettare che tutto finalmente ritorni in pace. Non andrebbe bene così?" rincalzò. Allargò le braccia per abbracciarla e la spia accettò volentieri. 
"Stiamo evitando i nostri problemi."
"Non importa, per ora va bene." 
Rimasero così per un po', coccolate l'una dal calore dell'altra. Si sentì ipocrita, Natasha: lei che era fatta di marmo, priva di sentimenti, denudava quasi completamente il suo io davanti a qualcuno che potenzialmente l'avrebbe potuta tradire, qualcuno che la vedeva nei suoi momenti di debolezza. Augurò sogni doro all'amica e si congedò. 
Non appena ebbe la certezza che la porta fosse chiusa e la zona fosse tranquilla, la bionda ragazza si precipitò sui suoi bagagli. Aprì con furia la cerniera e tirò fuori un top, un pantalone, delle scarpe da ginnastica e un paio di guantoni. Si strappò di dosso il pigiama, si cambiò, si legò i capelli e uscì dalla camera. 
"F.R.I.D.A.Y, gentilmente, c'è una palestra qui dentro?" 





 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Passò un mese da quella concitata sera. Fu un periodo tutto sommato tranquillo: non venne affidata alcuna missione ad Eira, ma fu invece convocata dallo S.H.I.E.L.D solo per questioni di poco conto, come interrogatori a criminali con cui nessuno voleva avere a che fare. Alla torre, poi, il tempo scorreva ancora più lentamente quando un mentecatto qualsiasi non tentava di sterminare l'umanità.
 Conobbe il celebre Dottor Bruce Banner, un ometto timido e di poche parole, che a quanto le era stato detto era di rientro da una “vacanza” in seguito agli eventi di Sokovia. Visitò perfino la Facility nell'Upstate con Rogers, una mattinata; per la verità, Steve la obbligò ad accompagnarlo, perché a parer suo “le avrebbe fatto bene passare del tempo con altri ragazzi”. I nuovi membri erano tutti elementi capaci, ma era palese mancassero ancora della coordinazione che il vecchio team vantava. Eira, in particolare, rimase colpita dalla giovane età della Maximoff: sicuramente, Wanda era più piccola di almeno 5 anni. Parlò più con lei che con chiunque altro dentro la Facility, cosa che non le dispiacque affatto.
 
 
 Una notte, ne ebbe abbastanza del monotono soffitto della sua camera. Uscì dalla sua stanza come una furia, si precipitò all'hangar e poi raggiunse il ponte di decollo dell'Avenjet. Si sporse dal bordo della pista e vide i bagliori della città che, malgrado la tarda ora, viveva e brulicava, ed udì gli schiamazzi dei ragazzi che di dormire non ne volevano sapere. I molti temerari che si erano avventurati per le strade non si erano nemmeno preoccupati di infagottarsi per bene, tanta era la loro vanità e la loro voglia d'attenzione. Assaporò il freddo pungente di quella sera, un’avvisaglia di gelo invernale che quell'anno tardava ad arrivare. Levò gli occhi al cielo velato senza stelle, e si chiese se mai il bagliore della luna rischiarasse il buio oltre il banco di nuvole.
 Rigirò la maschera di metallo tra le sue dita, e sospirò; poi l'applico sul suo volto. Chiuse gli occhi, fece un passo avanti e si lasciò inghiottire dal vuoto dinnanzi a lei. Il vento sferzò sulle sue guance di porcellana, le pettinò i capelli, e gli fischiò nelle orecchie, ma non le fece male. Quando il suolo le fu a poche decine di metri, aprì gli occhi e spinse verso l'alto.
 Volò, volò sempre più su, sempre più veloce, ed arrivò ad infrangere il muro del suono con un forte boato. Nel giro di pochi secondi, le costruzioni sotto di lei si rimpicciolirono fino a diventare puntini sfavillanti; ad Eira, tuttavia, non bastò quella misera prova. Insistette perché potesse arrivare ad altitudini proibitive, dove solo le macchine potevano giungere. Incontrò le nubi che oscuravano New York, e con un ultimo sprint le sorpassò.
 Oltre, la accolse una realtà quasi mistica. Un mondo silenzioso e leggero. Il profondo nero della notte era screziato da migliaia di stelle e stracciato da una splendida falce di luna, mentre le raffiche di vento erano meno violente e l'aria più fredda. Seguire con lo sguardo le nuvole all'orizzonte era come affacciarsi su un oceano di schiuma. Era un pensiero infantile, e in quanto tale lo scacciò immediatamente via, ma Eira in quel momento avrebbe venduto l'anima pur di addormentarsi sul soffice materasso bianco.
 L'emozione del primo volo dopo mesi fu troppa e gridò. Gridò così forte e così a lungo da avere la gola in fiamme, ma ne valse la pena. Oh, quanto le era mancata quella onnipresente oscurità, quella sensazione di libertà e potere. Lassù si sentì invincibile ed incontrastata, ma soprattutto lontana dalle soffocanti questioni terrene.
 Gettò uno sguardo alla luna: com'era bella quella notte...bella ed irraggiungibile. Amata, cantata, narrata, eppure inafferrabile. La bianca lanterna della notte era una beffa del creato: ricordava all'umanità che le vere meraviglie erano fuori dalla loro misera portata.
 Trascorse un po' di tempo in alta quota; forse si trattarono solo di una manciata di minuti, o forse furono ore. Il firmamento vegliò su di lei con piacere, anche quando optò per una lenta discesa, ancora una volta nel mondo terrestre. Trafitto il banco di nuvole, fu accolta dalla piacevole sorpresa che era la prima nevicata della stagione: ciuffi, cumuli e spruzzate di neve addobbavano in lungo e largo le strade di New York, e le donavano quel tocco natalizio che tutti desideravano in quel periodo. I cristalli che con pigrizia cadevano era numerosi e grossi, e per posarsi non facevano distinzioni tra un'arrugginita panchina e i raffinati tetti dei palazzi governativi. Alcuni fiocchi le si posarono sul capo a mo’ di corona, ma lei non se ne curò minimamente e continuò a godersi il festivo panorama.
 Nonostante galleggiasse su decine di edifici, i suoi occhi vennero catturati dalle luminarie dello svettante Empire State Building. Ci pensò su per un momento: su qualche tetto ci si sarebbe rintanata in ogni caso, quindi tanto valeva appollaiarsi sul grattacielo più alto della città e attendere l'alba. Planò verso la base del pinnacolo e atterrò con grazia sul cemento; si accovacciò sul bordo, si sciolse la coda di cavallo, si massaggiò la sua nuca, e chiuse gli occhi. Negli anni, quell'acconciatura era diventata il suo marchio di fabbrica, ordinata e professionale. Pochi avevano visto la sua chioma in mise più complesse, ancora meno al naturale. Adesso però, le diafane ciocche scivolavano lungo la sua schiena fino al terreno, e la frangetta le velava l'occhio sinistro.
 L'idillio venne interrotto da un acuto ronzio. Eira, pensando si trattasse di qualche insetto finitole nell'orecchio, scosse la testa, ma il rumore continuò imperterrito. Scartata l'ipotesi dell'animale, si alzò e si guardò intorno alla ricerca dii qualcosa che spiegasse il fatto. Non notò nulla di anormale. Imprecò, e il ronzio si fece perforante; digrignò i denti, si massaggiò le tempie, barcollò, finché per un attimo credette di star perdendo la ragione. Allorché cadde ginocchioni, con il busto premuto sulle cosce e i palmi contro le orecchie. Spalancò la bocca in un grido muto, ma improvvisamente, proprio quando i sensi la stavano abbandonando, tutto ritornò calmo. Scattò in piedi e strappò dalla cintura il suo paio di coltelli; nessuno, tuttavia, la attaccò.
 Il cielo si fratturò, e dall'alto si riversò una luminosa cascata di luce. Fu avvolta dal fascio argenteo, poi trascinata in alto da una forza che non seppe contrastare. I suoi occhi furono investiti da miliardi di scintille colorate, immagini distorte di pianeti e stelle ardenti. L'ultima visione fu un flash.
 Toccò terra ed affondò in qualcosa di umido e freddo. Appena riebbe tutte le sue capacità motorie, si raccolse a gattoni, e si concesse qualche istante per riprendersi del tutto dallo stordimento. Poi, tentennante, raccolse i suoi coltelli – che si erano conficcati nella neve, vicino a lei – e si alzò. Il vento gridava, e una tormenta al massimo della sua forza le sputava la neve in volto. Si guardò dunque attorno, e tutto quello che vide fu una densa e alta nebbia; così densa che tutto quello che riuscì a scorgere furono ombre grigie.
 In quel Cocito dantesco, notò un dettaglio che la destabilizzò: era giorno. Mille diversi interrogativi le si affollarono nella mente, ma tutti convergerono ad unica, seppur improbabile, teoria: qualcuno doveva averla rapita e lasciata là a morire. Chi era ancora sulle sue tracce, nonostante i lunghi mesi di inattività? Dov'era finita? Come erano riusciti a farle perdere i sensi? Poche sostanze avevano effetto su di lei, e certo non erano allucinogeni o soporiferi. Quel ronzio, quel ronzio... che diamine era stato? E poi, quella colonna di luce? Non c'era un solo elemento che quadrasse.
 Costrinse il suo cervello alla lucidità, cosicché poté iniziare ad esaminare la situazione. Era giorno, quindi quella poteva essere l'Europa come l'Asia. Bufere di quella portata e in quel periodo non erano proprie del Vecchio Continente Ovest, o perlomeno erano fenomeni destinati a scemare velocemente. Zone come il Tibet e Caucaso, avrebbero presupposto territorio montuoso, quindi erano da escludere. A quel punto avrebbe potuto trovarsi ovunque, tra l'Europa Orientale e l'Asia Settentrionale.
Era poco meno di un anno che non svolgeva missioni di alto livello, e oltretutto nell'ultimo periodo rappresentava un bersaglio facile nei suoi panni civili: chi poteva aver aspettato tutto questo tempo?  Perché portarla là, poi: diamine, non c'era pezzo grosso che non sapesse delle sue capacità superumane. O il sequestratore era incredibilmente stupido e privo di informazioni, o … non seppe trovare un'alternativa.
 Tentò di oltrepassare il banco di nebbia, ma ogni passo sembrava la portasse sempre più in profondità. Smise quindi di vagabondare alla cieca, o avrebbe peggiorato una situazione già di sé complessa. Non c'era altro da fare se non aspettare sotto un rifugio di fortuna che la bufera si calmasse. Da lì, delle buone condizioni di volo sarebbero state il suo biglietto di ritorno.
 Fece per inginocchiarsi a terra, ma una macchia in movimento poco distante da lei catturò la sua attenzione. Perplessa, si tolse la maschera e l'agganciò alla cintura, accanto alle fondine. Strizzò gli occhi fino a piccole fessure: era di certo di una bestia, ma la sagoma si faceva sempre più imponente. Troppo. Afferrò una pistola e scaricò un paio di colpi verso l'alto, giusto per liberarsi della creatura senza dover ricorrere all'abbattimento: quella non batté ciglio. Decise allora di abbandonare i suoi principi animalisti, e fece fuoco un paio di volte contro l'animale: l'effetto fu nuovamente nullo. Ripose l'arma e strinse i pugni in una morsa gelata: dove non sarebbero arrivati i proiettili, sarebbe arrivata lei.
 Quando quell'ombra acquistò forma e la raggiunse, Eira si ritrovò dinnanzi un cavallo alto e largo il doppio di uno da tiro pesante, inquietante nella sua statura. C'era qualcosa che non andava bene in quella bestia, a rigore di logica. Sul capo, appena dietro le orecchie, spuntavano delle argentee corna da ariete, una delle quali prive di punta. Il manto era candido come la neve e la criniera e la coda, entrambi lunghi all'inverosimile, erano di pelliccia invece che di crini. Ciuffi di peli coprivano i muscolosi stinchi, ma lasciavano intravedere zoccoli d'argento grossi quanto vassoi. Sul muso, profonde narici fumavano e si contraevano, mentre due occhi azzurri scrutavano l'anima.
Il destriero nitrì ed Eira inorridì. Non fece in tempo a cogliere i dettagli della creatura, perché mutò, cambiò sembianze. Gli arti si dimezzarono, si scorciarono e si ammorbidirono, il pelò sfumò, le ossa si deformarono e gli zoccoli si articolarono in callose dita. Le spoglie equine si dissolsero, per lasciare posto a quelle di un vecchio sulla ottantina. Il volto barbuto, unica nota familiare alla sua apparente età, solcato da cicatrici e pesanti rughe d’espressione, tradiva il fisico da prestante trentenne, le spalle larghe e la ben piazzata massa, tutto avvolto in una voluminosa pelliccia. Aveva indosso una pesante casacca ricamata, dei pantaloni di cuoio, e calzava degli stivali orlati di pelo. Un paio di cinture, una delle quali appiglio di un fodero, gli cingevano i fianchi.
L'essere si avvicinò, mentre l'altra accarezzò l'idea di esser precipitata nel baratro della follia. Fece un largo sorriso e accarezzò la guancia della ragazza con il dorso della mano; lei non si ritrasse, non tanto per paura quanto per curiosità. Gli occhi del vecchio, persi in quelli di Eira, erano vivi e scintillanti, ma privi di fondo; lì, vi era l'infinità di un terso cielo primaverile.
  “Eira...” scandì con un fil di voce. Le grida della bufera si zittirono.
 Le scostò i capelli dagli occhi e come se non gli bastasse, le strinse con entrambe le mani il viso. “Eira...”
 Quel vecchio, o qualsiasi cosa fosse ad ogni modo, la guardava come se non avesse altro al mondo. Sussurrava come se non credesse a ciò che toccava con mano. Se non fosse stato per la controparte equina e per i principeschi abiti, Eira si sarebbe ricordata dell'uomo come un folle vagabondo. Un mutaforma allontanato dalla società e ridottosi ad un clochard, probabilmente. Ma no, quella sera gli eventi inspiegabili erano troppi.
 Il vecchio continuava a studiarle il volto, in ogni particolare. Era quasi fastidioso.
   “Chi sei?” domandò, cogliendolo di sorpresa.
 Il sorriso del mutaforma si spense velocemente come si era acceso. Lasciò andare il viso della giovane, arretrò e si rintanò nella candida pelliccia.
  “Io sono Knutr, figlio di Frothi, stregone-animale ed ex consigliere del defunto Re Northri.”
Le cadde il mondo addosso. Il vecchio parlava la lingua che tanti anni prima Alfred le aveva faticosamente insegnato; a detta del padre, quello era un idioma estinto da tempo, ed informazioni di qualsiasi genere non si trovavano nemmeno negli abissi della rete. Allora, perché costui la padroneggiava al pari suo? Dopo la battaglia di New York, più volte Eira aveva ipotizzato che il padre le avesse spacciato un codice alieno per una lingua morta. Un'idea più che fantasiosa la folgorò, e decise di metterla alla prova. Anni di studi letterari, documentazioni, di missioni e racconti, alimentarono i suoi dubbi
  “Non sono sulla Terra...vero?”
  “No mia cara, ti trovi a Nifleheimr.”
 Nifleheimr. Con gli occhi si postò da destra a sinistra, e vide solo neve, nebbia ed ombre. Non aveva ragione di essere così, ma i fatti parlavano da sé. Non fu in grado di prendere le parole del vecchio come dubbie nonostante i numerosi tentativi, perché in una contorta visione della vicenda, quella frase aveva senso. La parziale rivelazione non le fu di conforto, ma anzi le offuscò ancora di più la mente.
 Lui, oh, lui sicuramente sapeva la risposta ai suoi interrogativi, e non solo a quelli. Conosceva il suo nome e, presupponendo si trattasse di una specie di extraterrestre, non era cosa che la tranquillizzava.
  “Cosa mi è successo?”
  “Ti ho portato a casa.”
  “Casa…?”
  “Ascoltami, Eira: questo non è né il luogo né il momento per cotante delucidazioni. È essenziale che tu mi segua, di modo che io possa fare luce sui tuoi dubbi.”
  L’interrogativo rimbombato troppo a lungo nella sua testa, esplose in una domanda troppo ansiosa. “Come fai a parlare la mia lingua?”
  “Beh, è anche la mia.”
 Dopo quella risposta così naturale, ma che di ovvio in realtà non aveva nulla, acconsentì, sebbene non fosse da lei. Qual era l’alternativa? Senza informazioni e del tutto disorientata, tentare un raggiro o un’estorsione di informazioni avrebbe richiesto una buona fetta di tempo - un lusso che di certo in quel momento non si poteva permettere. Oltre al fatto che rifiutare il ricongiungimento con un’ipotetica civiltà avrebbe significato vagare fino alla pazzia in quella landa flagellata. Si sarebbe dovuta aggrappare alla versione “fantasiosa” dei fatti e attendere una qualche spiegazione.
 Knutr le girò attorno, e quando le ricomparse davanti lo fece nelle sue spoglie equine. Si sdraiò sulla neve e le fece un cenno perché salisse in groppa. Eira afferrò le logori corna e si issò sul dorso; il destriero pressoché immediatamente galoppò via. Il sibilo del vento e il fruscio della neve la resero immediatamente e nuovamente sorda, come se per tutto quel tempo lei e Knutr fossero stati protetti da una bolla.
 Quella distesa era sconfinata. Un po’ per la nebbia, un po’ per la neve e un po’ per la reale dimensione di quel deserto gelido, ovunque Eira si voltasse vedeva solo un interminabile nulla. Era prodigioso come l’animale riuscisse ad orientarcisi: nessun punto di riferimento, nessuna strada, niente, eppure procedeva. Ombre, ombre, e solo ombre.
 Finalmente la nebbia iniziò a diradarsi: le sagome grigie si scurirono e acquistarono forme più dettagliate, lo spazio prese profondità. Il banco infine si dissolse del tutto. Apparvero allora pozze d’acqua cristalline, blocchi di cespugli spinosi, arbusti dal fogliame fitto, massi color panna ed enormi conifere. Il territorio si rivelò essere molto accidentato, contrariamente a quanto poteva sembrare celato dalla coltre. Sotto gli zoccoli di Knutr, i ciottoli venati del sentiero scricchiolavano. Dai rami delle piante pendevano frammenti di cristallo che tintinnavano ad ogni soffio di vento; il suono prodotto non era però un’angelica melodia, bensì un tetro rintocco.
 Cavalcarono per una buona decina di minuti, durante il quale la natura si fece sempre più viva. Incontrarono bestie simili ad orsi e lupi con il pelo tanto chiaro da confondersi alla perfezione con la neve, alci dalle corna di vetro e linci con canini che facilmente avrebbero potuto strappare via muscoli e carne. L’urlo di un’aquila riecheggiò svariate volte.
 Giunsero al limitare del bosco, uno spiazzo improvvisamente privo di vegetazione oltre il quale vi era un burrone. Da quella rupe, Eira realizzò di trovarsi su una delle cime di un enorme acrocoro che si estendeva a perdita d’occhio fin oltre l’orizzonte. Le vette erano tutte innevate, ma soprattutto tappezzate di boschi. Su un rilievo non troppo lontano, intravide una cascata: l’acqua precipitava giù con una forza che solo la natura più selvaggia possedeva, e andava scomparendo dalla vista nella profondità del suo strapiombo. Gli unici resti di quel maestoso corso d’acqua, erano le nuvole di vapore. D’innanzi a lei, invece, c’era un ponte di pietra: non era molto ampio, forse nemmeno 20 piedi, ma i parapetti erano decorati finemente.
Il lungo viadotto conduceva alla cima di fronte, sul quale vi era arroccata una città immensa. Gli edifici erano massicci, principalmente regolari, tuttavia effigiati riccamente, con pilastri e alto rilievi. Sparsi per la città vi erano numerosi monumenti, passarelle e fontane, tanto imponenti da poter essere riconosciuti perfino da una considerabile distanza. Calotte dai tetti scintillanti ed archi maestosi spiccavano tra le migliaia di costruzioni.
 Sulla cima della montagna si ergeva un castello. Le pareti erano di marmo e quarzo, completamente incise e scolpite con intricati motivi. Decine e decine di guglie, cupole e strutture secondarie ruotavano attorno al corpo principale dell’imponente edificio – il tutto in linea con uno stile che sul mondo terrestre sarebbe stato considerato gotico. Le numerose finestre erano in gran parte abbellite con vetrate lucidissime ma prive di colore e grate di marmo.
 Knutr lasciò Eira studiare lo scenario. Non si mosse e non parlò: non c’era nulla da spiegare che la giovane non potesse vedere con i suoi occhi.
S’incamminarono dunque per il ponte. Non appena l’animale posò uno zoccolo sul lastricato del viadotto, la bufera si calmò: il vento smise di soffiare, i fiocchi si fecero più grandi e radi, la neve cadde con più dolcezza. Anche i cristalli sul capo e sulle spalle di Eira parvero volatilizzarsi. L’atmosfera e il silenzio finalmente ottenuto davano alla città un che di fiabesco.
 Superarono una volta ed entrarono in città. Imboccarono una grande e tortuosa salita, dalla quale mano a mano che procedettero se ne diramarono altre più piccole, strettoie, rue, fino a creare un fitto dedalo. Le strade erano eccezionalmente pulite e il pavimento selciato. Le varie abitazioni e botteghe, a prescindere dalla loro apparente umiltà o dalla loro ricchezza, erano tutte dotate di colonne, cornicioni particolareggiati d’argento, grandi finestre e portoni in candido legno massello. Negli angoli delle vie, a dispetto della neve, erano stati posizionati dei grandi bracieri dove voraci lingue di fuoco ardevano e crepitavano con vigore. Anche agli usci degli edifici le fiamme ardevano all’interno di lanterne e torce.
 La moda era ovviamente dettata dalle condizioni climatiche del posto. Tra le donne parevano largamente diffusi i lunghi e pesanti abiti broccati, specie in colori chiari e spenti, gli stivali imbottiti di pelo e gli orecchini vistosi. I capelli erano spesso sciolti, lunghi, saltuariamente legati in una o due trecce. Gli uomini invece sembravano preferire un abbigliamento simile a quello di Knutr: casacche di lana, calzoni di cuoio o pelle che ricadevano morbidi lungo le muscolose gambe, anfibi foderati all’interno. Le chiome maschili erano anche loro lunghe ma, al contrario di quelle del gentil sesso, sempre raccolte in codini, code e trecce, oppure rasate. Sia le fanciulle che i signori, ad ogni modo, indossavano grossi cinturoni e mantelli di pelliccia.
 C’era molta vita per le strade, ma nessuno la notava, nemmeno i bambini. La sua uniforme non passava inosservata tra i suoi colleghi, e tantomeno avrebbe potuto farlo lì: allora, perché nessuno la fissava o la indicava? Certo, non era l’unica a cavallo, ma era palese ci fosse qualcosa di estraneo in lei – almeno, secondo la prospettiva delle altre persone. Forse era la magia di Knutr a nascondergli dagli sguardi altrui, o forse gli abitanti erano semplicemente abituati a certi spettacoli.
 Eira ne ebbe di tempo per studiare il luogo: passò infatti una buona mezz’oretta da che furono entrati in città, nonostante procedessero al galoppo.  Knutr la condusse ai piedi di una scalinata, imponente, bianchissima e curva su se stessa. I gradini erano perfettamente lisci e molto alti; le due balaustre laterali erano traforate di modo che la luce creasse affascinanti giochi, e al loro principio si ergevano due colonne.
In cima, gli attendeva un picchetto di guardie in armatura completa: un equipaggiamento pesante, ma ricco e raffinato al contempo, completato da pellicce, armi d’ogni forma ed elmi con cimieri d’argento. Tutti uomini e donne ben piazzati, sicuramente molto più alti della media umana. Presidiavano, in circa una ventina alla destra e una ventina alla sinistra, il maestoso portone d’ingresso. Le due imposte di pietra erano scolpite con motivi simili a quelli vichinghi; draghi, bestie, armi e cavalieri spiccavano tra le figure intricate. Le maniglie erano due grossi anelli di ferro battuto.
 Furono dunque al loro cospetto. Con un cenno del muso, Knutr fece segno ad Eira di smontare da cavallo e in un attimo riprese le sue sembianze umanoidi. Avanzò a passo svelto verso le guardie, le quali senza fare domande – nonostante sarebbe stato più che legittimo farle – spinsero tutti assieme le imposte.
 Fecero il loro ingresso in una gigantesca sala, divisa in tre navate d’archi. I pilastri erano d’una pietra liscia ed opaca, mentre le volte erano porose e intagliate; gli architravi brillavano d’oro e argento grazie ai loro complessi altorilievi. Il soffitto era riccamente scolpito, tanto da rasentare la pacchianeria, e con i suoi decori narrava agli spettatori grandi guerre e trionfanti vittorie su nemici leggendari. Una dozzina di candelabri pendevano dall’alto, senza tuttavia reggere alcun cero.
 Le pareti delle due navate laterali erano effigiate allo stesso modo del soffitto, anche se di quando in quando vi erano appese armi, drappeggi ricamati e lussuosi bracieri spenti. Da queste due sezioni esterne partivano decine di corridoi, custoditi da altrettante arcate. Il pavimento era di alabastro, lucidissimo e intatto. In fondo all’androne v’era una scalinata a due ali: i parapetti d’argento battuto erano decorati dai corrimano in marmo, stesso materiale di cui erano fatti i gradini. Una fontana a molteplici piani, tutta intagliata e decorata, zampillava acqua senza far rumore al centro delle due ali.
 C’era un concitato via vai in quell’ambiente, gente che faceva su e giù e che entrava e usciva dai corridoi. Questa volta le persone la notarono ed iniziarono a bisbigliare tra di loro. Nessuno tuttavia osò avvicinarsi alla misteriosa straniera.
 Eira e Knutr s’affrettarono lungo le scale – tanto che la giovane macinò due gradini alla volta per tenere il passo. Raggiunsero quindi uno spazioso pianerottolo. Occorreva scegliere se imboccare il corridoio difronte a loro oppure una delle due vie laterali, le quali poi si articolavano nelle due passerelle che sovrastavano il salone sottostante. Knutr proseguì dritto e fece ingresso in una galleria semibuia, resa ancora più oscura dalle tenebre che oramai s’apprestavano ad avere la meglio sui bagliori diurni. La luce, fioca e fredda, giungeva dalle torce e dai bracieri appesi ai pilastri; era comunque appena sufficiente affinché si vedesse dove si stava andando. Eira accarezzò la parete con la punta delle dita e le sembrò che la superficie divenisse più fredda.
 Camminarono lungo molti altri androni e scalarono molte altre gradinate. Studiò ben bene ogni corridoio e contò ogni singolo passo, cosicché in seguito avrebbe saputo ritrovare la via d’uscita. Aveva inoltre il presentimento che nei giorni a venire avrebbe dovuto sapere anche come giungere dove stavano andando, e non solo andarsene.
 Sparsi per i corridoi, Eira incontrò scranni e divanetti, tende che celavano selezioni di vetrate immense e armi messe in bella mostra come premi. Passò poi accanto a guardie, donne e uomini di servitù, i quali non persero occasione per gettare su di lei un’occhiata furtiva ed eccitata.
 Knutr si fermò finalmente davanti ad un alto portone di pietra. Ai lati delle ante s’ergevano due colonne, i due guardiani dell’ingresso. Seguendole con lo sguardo, gli occhi pervenivano ad una meravigliosa trabeazione, scolpita e rifinita in Rjok, l’oro bianco nifler.
  “Che c’è dietro?” chiese Eira, guardando quel portone come se si aspettasse che prendesse vita.
  “La sala del trono,” le rispose quello, con una naturalezza ridicola. “Delle persone ti attendono.”
 Si fece avanti e aprì a piene mani i due battenti. La sala era molto grande e si sviluppava in lunghezza. Sul candido pavimento era stato srotolato un tappeto grigio, morbidissimo. Il soffitto e le mura erano sorretti da grossi pilastri e dai loro archi, le cui basi erano decorate alla stessa maniera del portone d’ingresso del palazzo. Dei drappeggi e degli stendardi broccati scivolavano lungo le porzioni di muro tra colonna e colonna; alcuni erano perfino ricamati di modo che raffigurassero scene di guerra. Un soldato ogni due pilastri, immobile e silenzioso, faceva guardia alla seduta reale.
 In fondo c’era un abside. Al suo interno, oltre un paio di scalini, v’era stato collocato un trono di marmo, massiccio e possente. Lo schienale era finemente intagliato e molto alto; sulla sua sommità un’aquila albina in carne ed ossa se ne stava minacciosamente appollaiata. Il sedile e i braccioli imbottiti ammorbidivano le linee dure ed aspre della seduta.
 Eira e Knutr si avvicinarono al regale monumento. Allora, delle anziane figure in pesanti vesti grigie comparvero alle spalle del trono. Le lunghe barbe e i capelli acconciati barbaramente erano in linea con l’idea generale che Eira si era fatta del luogo e della gente. Uno di loro, in particolare, si impose su tutti gli altri con la sua camminata importante e i suoi occhi che parevano consumati da spettacoli leggendari. Si avvicinò più di tutti ai due visitatori, finché non li fu che a pochi passi.
 Posò il suo sguardo su di Knutr e fece cenno di assenso. Poi si dedicò ad Eira: la trafisse con quelle profonde orbite incolori ed acquose, dunque sorrise.
                                                       
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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