Flugzeug!

di Mannu
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Flugzeug!
1.

La lussuosa auto elettrica si fermò davanti all'ingresso fra il fischio dei freni e il ronzare calante dei motori.
Lo sportello posteriore si aprì controvento e un bastone dalla lucida punta di acciaio toccò il vicinissimo marciapiede. Scarpe nere e lucidate a specchio si affiancarono. Su quelle torreggiavano costosi pantaloni con la riga affilata come la lama di un coltello, sovrastati da un elegante pastrano anch'esso nero. La testa del bastone d'ebano era una sfera d'argento che faceva capolino dalla stretta di un guanto nero; ondeggiò in avanti con un movimento elegante e studiato. Con pochi tocchi del suo bastone sull'ampio marciapiede l'uomo raggiunse il cancello di ferro battuto ornato da riccioli e foglie d'edera forgiate sull'incudine.
Sospinse il battente e si incamminò sullo stretto viale che conduceva ai pochi gradini antistanti la porta d'ingresso.
Era una casa in città come altre in Nithackstrasse, nel quartiere di Charlottenburgh. Alta cinque piani e dalla facciata severa ma di colore chiaro, aveva un tetto di cupa ardesia come cappello e decorazioni tipiche, sobrie e ben distribuite. In quella strada tranquilla, una trasversale della frequentatissima Spandauer Damm, il caos del traffico sembrava non avere alcun potere: presidiata da una guarnigione di piccole isole di verde cui alberi ad alto fusto facevano da sentinella e baluardo contro rumore e polvere. Le auto che si avventuravano lì prigioniere del senso unico loro sfavorevole erano rari testimoni dei tempi moderni. Uno dei molti luoghi a Berlino dove, complice la vicinanza del magnifico Schloss Charlottenburgh, era piacevole passeggiare da soli o in romantica compagnia.
La mano guantata si allungò verso il campanello, una piccola perla chiara tra le valve schiuse di un'ostrica di bronzo scurita dal tempo. Da dietro la massiccia porta nera giunse un nervoso trillo elettrico.
Pochi secondi di attesa e la serratura scattò. Da dietro il battente scostato fece capolino un viso pallido ornato da capelli biondi. Occhi chiarissimi e severi scrutarono il visitatore.
«Sono il dottor Gavino Sanna – disse sfilandosi i guanti tirando le dita una a una, senza fretta, con metodo – Il dottor Haase mi sta aspettando.»
La porta si aprì completamente rivelando una giovane alta dal fisico asciutto in perfetta divisa da domestica.
«Benvenuto – le rispose quella con un misurato inchino da cui si sollevò con grazia e decisione – Herr Doktor la attende nello studio, le faccio strada. Se vuole darmi il soprabito…»
«Grazie, fräulein. Conosco la strada» il dottor Sanna varcò la soglia e consegnò alla domestica il soprabito e i guanti. Sebbene non gli servisse per appoggiarsi, trattenne il bastone. Alto e magro, quasi rinsecchito il dottore percorse il corridoio con passo deciso mentre la domestica lo tallonava a rispettosa distanza col pastrano ben piegato sul braccio.
Il dottor Sanna trovò il suo collega dove se lo aspettava: al tavolo, circondato da pesanti testi di medicina aperti uno sull'altro, armato di carta e penna intento nel suo lavoro. Alzò lo sguardo dalle sue carte: un viso rugoso incorniciato da lunghi capelli ormai del tutto bianchi, un viso che rifletteva l'età avanzata e il declino del corpo, armato però di occhi vispi e taglienti.
«Caro il mio dottore in medicina! – esclamò con tono contento sebbene il viso gonfio non tradisse emozione – Da quando fai visite a domicilio? Dovrò corrisponderti una parcella…»
Il dottor Sanna, alto e magro come un giunco, si inchinò come se a piegarlo fosse un alito di vento.
«Egregio dottore in medicina, che piacere trovarla in salute.»
«Teufel! Che sciocchezze. Dall'alto della mia esperienza personale e dopo anni di studio dei casi i più diversi sono giunto alla conclusione che lo stato di buona salute è un disturbo passeggero destinato a durare poco e a non lasciare alcuna memoria di sé.»
Il dottor Haase spinse all'indietro la sedia e con l'aiuto di una stampella si issò faticosamente in piedi. Vecchio e sovrappeso, il corpo reagì lentamente e con fatica. Il dottor Sanna si fece avanti tendendo un braccio per aiutare il collega e sostenerlo, ma quello sdegnò l'aiuto e cominciò a muoversi un passo alla volta sopperendo con la stampella alla gamba offesa.
«Disturbo?»
«Niente affatto. Lei non mi disturba mai, caro il mio dottore. Di fatto lei è l'unico che ancora si ricorda della mia esistenza. Venga, venga. Andiamo a metterci comodi. Ho anche qualcosa da mostrarle.»
Con un cenno si avviò verso la porta, zoppicante ma deciso. Il cenno era per la domestica che si eclissò immediatamente, lasciando sgombra la via verso il salotto.
Qui, scortato dall'alto collega, il dottor Haase caracollò verso l'armadio dei liquori e ne estrasse una bottiglia nuova piena di liquido ambrato. Ne versò un assaggio in un paio di piccoli bicchieri di cristallo lavorato; brindarono rapidamente e poi entrambi si portarono il liquore alle labbra.
«Ach! Amerikanisch! La loro politica estera lascia alquanto a desiderare ma questo lo sanno proprio fare!» esclamò Haase cercando la propria poltrona preferita. Il dottor Sanna si accomodò come al solito su una vicina ottomana e rivolse un cenno col bicchiere alla porta del salotto.
«Che fine ha fatto Inge?»
«Aveva forse un debole per la cameriera, dottor Sanna? O forse il contrario?»
Chiunque avrebbe accolto quel commento come un'offesa. Non il medico che ben conosceva il dottor Haase: essere burbero e molto diretto era per lui una condizione naturale e spontanea. Molti studenti dei suoi corsi avevano abbandonato le sue lezioni interpretando quell'atteggiamento come un attacco personale. Quelli che avevano resistito al suo fare sempre sulla soglia dell'offensivo ora lo ringraziavano. In realtà il dottor Haase sembrava ignorare che esistesse una soglia tra la mera osservazione e l'insulto.
«Affatto. Non posso fare a meno di notare che in meno di tre mesi lei ha licenziato due domestiche. Vi sarà sicuramente una ragione, ma Inge sembrava una donna a posto.»
«Certo Inge sa il fatto suo come domestica, non lo nego – sbottò Haase – ma io ho assunto una domestica perché ho necessità di una domestica, non di una balia. Non sono ancora così malconcio da avere bisogno di una infermiera. E questo è stato solo un incidente, verdammt!»
Il dottor Sanna alzò gli occhi sul suo amico. Li aveva d'istinto abbassati sulla stampella proprio mentre quello affermava di non avere bisogno di aiuto. Da bravo professore Haase sapeva capire quando i suoi interlocutori erano distratti.
«Veruska è in prova e per il momento non ho un solo motivo per lamentarmi di lei. È una domestica accompagnatrice diplomata, è colta e intelligente e soprattutto non mi dice cosa devo o non devo fare.»
«Pure giovane e di bell'aspetto...» osservò Sanna con velato tono ironico.
«Tutte queste qualità in una sola fanciulla, vero? Certo c'è da meravigliarsi osservando la mediocrità dei giovani debosciati d'oggi, tesi solo a trovare il modo più veloce per fare quattrini da sperperare in vestiti, automobili e altri inutili gingilli. Infatti Veruska è mezza russa! Forse in quella grande nazione i giovani vengono ancora educati al rispetto degli anziani, chi lo sa.»
Il dottor Haase si sporse verso il suo amico e proseguì a bassa voce. Era chiaro che volesse fare una confidenza.
«Inoltre la nostra Veruska è del tutto intrigante: chi lo direbbe che una banale domestica da quarantacinque demark al mese abbia come fidanzato un capitano dell'esercito sovietico? Lei prende sempre molte precauzioni e pensa che io non mi sia accorto di niente, ma li ho notati quasi subito. Dovresti vederla: impettita e fredda come la statua della rettrice di un collegio, non si lascia nemmeno sfiorare. E lui come le trotta al fianco... comandano le donne, mein Freund!»
Al suono della larga e sonora risata del dottor Haase i due alzarono i bicchieri e sorseggiarono il liquore d'oltreoceano.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Flugzeug!
2.

Si occupò del soprabito e dei guanti, sistemando tutto nel migliore dei modi dentro l'armadio che il dottore aveva riservato agli ospiti. Una massiccia anta nera e lucida, intagliata finemente lungo i bordi tornò al suo posto bloccata da una fine serratura di ottone lucido. Poté tornare alla sua occupazione che era stata interrotta dal trillo del campanello. Si recò nella cucina che lei stessa aveva riorganizzato e si accinse a inventariare le conserve. Il dottore aveva una discreta collezione di crauti in barattolo ed era necessario che venissero consumati quelli con la scadenza più vicina, opportunamente alternati a quelli più freschi. Non doveva poi dimenticarsi delle marmellate: il suo padrone di casa era goloso e anche capriccioso e spesso apriva un barattolo nuovo alla ricerca di un diverso sapore. Finendo così per dimenticarsi del barattolo già aperto che rischiava di riempirsi di sgradevole muffa. Circondata da vasi e vasetti, immersa in queste considerazioni, qualcosa la distrasse. Dalla finestra che dava sulla strada, quella dove si affacciava per vedere chi avesse suonato il campanello, intuì un movimento. Le ci volle un momento per capire di che si trattasse.
Fermo e massiccio come una statua di bronzo scurita dal tempo, il capitano di artiglieria dell'esercito del Popolo Sovietico Ivan Grimovski. Ben vestito con mantello, bastone e cappello secondo la moda del momento, guardava dritto verso di lei attraverso le inferriate della recinzione. Come poteva vederla? Non c'erano luci accese in casa e lei sapeva bene che non era possibile vedere dalla strada attraverso i vetri delle finestre che si comportavano come specchi neri. Solo avvicinandosi alle imposte, lasciandosi illuminare dalla luce del giorno Grimovski avrebbe potuto vederla.
Seccata, Veruska si accostò ai vetri e con una mano spostò la tendina di pizzo. Che il capitano sapesse di essere stato notato.
Quello reagì subito: lo vide mettere lentamente mano al panciotto e da un taschino opposto a quello dell'orologio estrasse una luccicante sovrana d'oro danese, riconoscibile per la caratteristica forma eptagonale.
Sfacciato! Veruska trasalì per quel gesto così oltraggioso. Anche se quella piccola ma brillante, angolosa luna d'oro si era subito eclissata nel taschino da cui era uscita, era possibile che qualcuno l'avesse vista. Certo l'imponente capitano non aveva nulla da perdere: non abitava lì e nessuno lo conosceva, né temeva un'aggressione. Ma lei invece sì: qualcuno avrebbe potuto pensare cose estremamente sconvenienti se avesse testimoniato quella scena. Avvampata in viso, Veruska si andò a sedere in cucina per bere un po' d'acqua, furiosa, ferita e affranta, il cuore in gola. Il capitano se ne stava lì immobile, rivolto alla finestra come se potesse vederci attraverso. Le pareva che fosse lì con lei, seduto nella sedia accanto, con quel suo sguardo da predatore che le scorreva addosso valutando il punto migliore per azzannarla.
Quando ebbe ripreso almeno un po' il controllo di sé andò nello studio dove il dottor Haase e il dottor Sanna stavano conversando pacatamente.
«Dimmi pure, mia cara» l'apostrofò Haase quando la vide apparire sulla soglia della sala.
«Mi perdoni, dottore. Mi chiedevo se potessi uscire per una breve passeggiata, se mi fosse concessa una pausa.»
«Ma certo, Veruska. Vai e distraiti un po'. Cena alla solita ora. Il dottor Sanna non si tratterrà.»
Ringraziò e si congedò con un accenno di riverenza. Si tolse di dosso in fretta il grembiule bianco e infilò sopra la nera divisa da domestica una nera giacchetta inamidata, senza bottoni e senza colletto che le arrivava a stento all'altezza delle ultime costole. Molto di moda, ampi sbuffi di pizzo in fondo alle maniche rendevano tollerabile l'assenza di guanti. Afferrò l'ombrellino da passeggio, nero e ornato di pizzo economico e uscì ad affrontare il capitano.
«Добрый день [1], bella signorina» esordì quello esibendosi in un misurato e cortese inchino.
«Пожалуйста, капитан... [2] vuole coprirmi di vergogna! Venga, passeggiamo!» lo gelò lei irosa, senza nemmeno fermarsi.
«In cosa ho mancato, dunque?» chiese quello dopo alcune decine di metri percorsi in silenzio e a passo di marcia.
«Quanto durerà ancora questa storia?» ribatté Veruska indispettita.
«Non sono stato io ad aver chiesto sovrane danesi in ricompensa. Ci vuole tempo ad accumulare certe somme in oro. Invece di rallegrarsi per essere vicina al traguardo, lei si adira...»
«Giungere davanti alla porta sventolando monete d'oro non è ciò che io chiamo discrezione, né buon gusto! Sarò anche una sguattera ma ciò non significa che io sia degna di minor rispetto! Oppure nella Grande Madre Russia sono cambiate le cose?»
«Lo Zar è sempre al suo posto e no, nulla è cambiato» ribatté il capitano mesto. Aveva dunque compreso l'errore?
«Perdoni l'errore di un povero bifolco. Ammetto di essermi fatto strada nei ranghi dell'esercito non certo per aver frequentato con profitto l'Accademia Militare, ma invece per essere tornato vivo da molte battaglie.»
Veruska non sapeva che pensare. Il capitano non le aveva mai dato occasioni per sospettare della sua sincerità. Che non fosse un uomo avvezzo alla diplomazia era ben chiaro: non sembrava a suo agio nei panni borghesi del cittadino mitteleuropeo. Lo ricordò in divisa e qualcosa le si mosse nel centro del petto. Solo un poco.
«Torniamo al nostro... come definirlo...»
«Affare?» suggerì lui.
«Non lo definirei un affare. E nemmeno un contratto. Ho accettato del denaro in cambio di quei disegni. L'ho fatto nello scompartimento di un treno, sola con lei, fuggitiva e spaventata. Le spie di ben tre grandi nazioni sulle mie tracce e l'incubo di non dormire più una notte serena in tutta la mia vita. Lo definirei un ricatto.»
«Ben retribuito.»
«I soldi non fanno la felicità. Soprattutto, da morti non si può spendere un solo demark!» sbottò Veruska.
«La stiamo proteggendo. Non appena sarà possibile farlo, renderemo di pubblico dominio che i progetti di Schmeisser sono saldamente in pugno allo Zar. Allora non ci sarà più ragione di dare la caccia all'abile spia russa che è stata in grado di superare mille avversità per...»
«Oh, basta! – sbottò Veruska ma senza alzare la voce – Più di tutti lei dovrebbe ben sapere che non sono un agente. Né dello Zar, né di altri.»
Alla vista del sorriso sornione sul largo viso del soldato, l'ira di Veruska si raffreddò. La stava prendendo in giro e lei ci era cascata in pieno. Se avesse continuato a scaldarsi in quel modo non solo avrebbe fatto il gioco del capitano, ma lo avrebbe anche divertito.
I tacchi che battevano sul selciato una marcia tutta per lei, raggiunse l'incrocio con la Schustehrusstrasse, l'attraversò e si infilò nell'omonimo, piccolo ma verdissimo parco. Superò il piedistallo su cui era stato posto un fiero busto in bronzo di Zeppelin, eroe della patria germanica, e si incamminò un po' incerta sui sassolini bianchi del viale. Cercava con gli occhi una panchina che non fosse totalmente in ombra e dopo pochi passi la trovò. Il capitano senza fiatare le si sedette a fianco, composto e alla giusta distanza.
«Ebbene?» lo esortò lei aggiustandosi la veletta del cappello.
«Del denaro pattuito abbiamo provveduto a versare quattromila franchi svizzeri presso la Banca Elvetica, mille demark sono già sul suo conto presso la Deutsche Geschäftsbank...»
«Mi dica qualcosa che non so, capitano. Per esempio dov'è l'altra metà del denaro? È mesi che attendo.»
«Come le ho detto già cento volte, procurarsi ingenti somme in monete d'oro non è facile. Questa è la laboriosa Germania, non la ricca corte dello Zar.»
Si favoleggiava che ogni stanza nel Cremlino fosse decorata d'oro e che vi fossero collezioni di monete auree da ogni paese del mondo esposte come quadri. Perfino che allo Zar piacesse nascondere monete d'oro sotto i cuscini delle sedie degli ospiti, per stupirli. O per divertirsi a sorprenderli a rovistare con le mani sotto le natiche pensando di non essere visti.
Veruska stette in silenzio per un paio di minuti. Osservò i visitatori dello Schustehruspark passeggiare nell'erba: damigelle col parasole aperto che accompagnavano i loro anziani assistiti, mamme con i bambini per mano, perfino distinti signori che avevano scelto un bel prato rasato e ben curato per discutere d'affari anziché le comode poltrone di pelle dei loro uffici. Lontano poté scorgere l'imponente sagoma rossa, bianca e grigia di un grande dirigibile da carico in volo, diretto presumibilmente al grande campo di volo di Grunewald. Tra i grandi alberi del parco si era sempre sentita protetta, al sicuro. Ora al suo fianco era seduto un uomo che ancora non sapeva se considerare un salvatore o un aguzzino.
Quella sovrana danese che cosa significa, dunque? È forse l'unica che lo Zar è disposto a cedere per i disegni che ho... liberamente scelto di vendere?»
«Non sia così ingenerosa, fräulein. Dopotutto lo Zar le ha trovato un lavoro, una casa bella e pulita, un padrone colto e dalle buone maniere... per tacere dei cani da caccia che sta tenendo lontani dai suoi graziosi polpacci. Né sua maestà d'Inghilterra né il Principe di Savoia hanno preso bene la sua impresa. Per tacere del Kaiser... l'ha beffato facendogliela proprio sotto il naso. Questa sovrana – batté due dita sul taschino dove riposava la preziosa moneta – indica che parte della sua ricompensa in oro è pronta. Come lei di certo sa, esistono accordi internazionali che regolano il commercio di oro la cui purezza supera il settanta per cento. Si dà il caso che le sovrane danesi siano pure al novantotto per cento. Quindi, fräulein... complimenti per la scelta: ottima dal punto di vista della durata del valore nel tempo. Molto meno dal punto di vista della spendibilità. Ovunque vorrà impiegare queste monete le verrà chiesto il titolo di possesso. In assenza del quale, l'oro verrà considerato rubato e confiscato.»
«Un altro ricatto quindi? Non ho più nulla da scambiare» gelida, Veruska evitò perfino di guardare l'uomo in faccia.
«Non potrei mai permetterlo» rispose Grimovski quasi oltraggiato. Lei non riuscì a capire se dicesse sul serio.
«Mi sta chiedendo di rinunciare al pagamento in oro, non è vero?»
«Al contrario. Lo Zar sarebbe lieto di aggiungere alle cinquemila sovrane richieste altre... diciamo cinquemila. O se preferisse una valuta differente dall'oro coniato, arriverebbe a offrirne anche ottomila.»
Veruska rimase seduta impettita senza tradire alcuna emozione, ma dentro il suo petto e la sua testa vi erano esplosioni vulcaniche, colate di lava rossa e fontane di lapilli incandescenti.
«Non posso accettare» sussurrò infine. Le era chiaro che si trattasse di un ricatto. Ora le sarebbe toccata la parte peggiore: quella della minaccia.
«Sta bene – Grimovski accompagnò quelle parole con un sospiro rassegnato – le farò avere le prime mille sovrane entro tre giorni, altre mille entro la fine del mese. Il resto a seguire nel mese successivo. Mi raccomando, mia cara Veruska: trovi un valido nascondiglio e faccia in modo che nessuno le scopra. E stia in guardia...»
Il capitano si alzò e lei per un istante si trovò come all'ombra di una imponente statua di bronzo. Sentì freddo. Il freddo della paura.
«До свидания [3], bella signorina.»

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Flugzeug!
3.

Avrebbe voluto che il pavimento si aprisse e la inghiottisse di colpo per poi richiudersi di scatto su di lei e farla sparire agli occhi del mondo. Ma le sue scarpe da lavoro, comode e dal tacco basso e silenzioso, si sostenevano sul solido pavimento di marmo chiaro dello studio del dottor Haase com'era sempre stato negli ultimi dieci mesi.
Le mani in grembo e il viso basso, rosso di vergogna, se ne stava dritta come un fuso davanti all'imponente scrivania di legno di mogano che lei stessa aveva riordinato e spolverato mille volte.
Sul piano della scrivania c'era un cofanetto di legno massiccio rinforzato lungo i bordi da metallo rivettato. Non un'opera d'arte ma un piccolo forziere votato a un solo, pratico scopo: proteggere il suo contenuto. Era aperto e al suo interno luccicavano cinquecento sovrane danesi: spigolose, fresche di conio e lucide a specchio.
Il dottor Haase si sollevò dalla sua morbida poltrona con un po' di fatica nonostante l'aiuto del bastone. Alla sua età non era facile né scontato riaversi completamente da una frattura alla tibia. La sua mole non lo aiutava nemmeno un po'.
Doveva accadere prima o poi.
Cinquemila sovrane d'oro erano tante. Ingombranti e pesanti. La prima volta che Grimovski le aveva portato mille sovrane l'aveva mandato via sconcertata dal peso e dal volume che quelle possedevano. Nemmeno dopo averle trasferite dal massiccio forziere a un robusto sacco era riuscita a sollevarle. Pesavano troppo per trasportarle per più di un centinaio di metri. Avrebbe destato l'attenzione: una giovane alta e snella come lei camminare curva trasportando un carico di quel peso? Avrebbe ricevuto offerte di aiuto a ogni passo. E le maledette monete tintinnavano in continuazione come campanelli a Natale. Perfino il sacco, sebbene anonimo, era chiaramente identificabile. Un sacco del genere non aveva altro scopo di esistere se non trasportare oro.
Aveva preteso e ottenuto che il capitano consegnasse le monete in quantità molto inferiore. Perfino il dottor Haase si era convinto che Grimovski fosse il suo corteggiatore tanto frequenti si erano fatte le visite del soldato. Dovette confessare a se stessa che il capitano, dopo una frequentazione così assidua, svelava lati della sua personalità molto interessanti. L'idea che le sovrane da consegnarle sarebbero finite un giorno e che lei non l'avrebbe più rivisto la infastidiva leggermente.
Sotterfugi ed espedienti di ogni genere per portare in casa del dottor Haase tutto quell'oro avevano resistito fino a quel giorno. Fino a quel giorno aveva accumulato e nascosto le monete che il capitano le portava. Il prezzo del tradimento del sogno del giovane Schmeisser. Non era sufficiente dover convivere con quel rimorso: ora Veruska avrebbe dovuto affrontare il dottor Haase, con cui aveva un ottimo rapporto, ora ingannato e tradito.
«Piccola mia – esordì quello, forse con l'intento di farla sorridere. Lo superava in altezza di tutta la testa – perdonami se ti chiamo così ma vorrei che tu capissi che non ti sto rimproverando.»
Il dottore lasciò che quelle parole avessero il loro effetto, ma lei non sollevò la testa e non smise di lottare contro le dolorose lacrime che spingevano per sgorgarle dagli occhi. Né si allentò la morsa che le serrava il petto o si smussarono le spine che pungevano il ventre dall'interno.
«Credo di sapere da dove arriva questo denaro. A occhio e croce hai seminato in giro per la mia casa almeno quattromila monete. Credo di averle trovate tutte, non è così?»
Detta in quel modo le parve la più turpe delle azioni. Quattromila e cento sovrane danesi nascoste in ogni dove. Erano tante, pesanti e richiedevano spazio. Avrebbe dovuto immaginare che sarebbe successo prima o poi. Evidentemente il dottore l'aveva scoperta mentre ne nascondeva alcune e poi doveva averla tenuta d'occhio.
«Non mi interessa se non sei quello che sembra. Dimmi soltanto che non si tratta di un'attività illegale.»
Veruska non seppe resistere oltre. Crollò così repentinamente da indurre il dottor Haase a farla sedere e a metterle in mano un bicchierino di cherry. Ma non pianse. Le lacrime che avevano minacciato di sgorgare roventi si erano asciugate repentine. Raccontò in breve com'erano andate le cose: che il dottore giudicasse da sé.
«Affascinante, direi. Teufel, affascinante è poco! Direi entusiasmante! Non mi divertivo così dai tempi del controspionaggio!»
Veruska sbalordì così tanto che il dottore proruppe in una fragorosa e sincera risata.
«Vedi, mein fräulein, non sono sempre stato un grasso dottore, bolso e inefficiente se non a inculcare nozioni in pigri studenti! Ach! Non è un caso se sei finita a servizio qui da me... ti rivelerò un segreto, mia cara: quando ero giovane, bello e molto più snello di così, sono stato al servizio dello Zar. Qui, in terra germanica, davo la caccia ai cacciatori, per così dire. Rendevo la vita difficile a chiunque per conto del Kaiser volesse snidare le spie dello Zar di tutte le Russie.»
Coronata la breve spiegazione con un'altra rumorosa risata che lo fece diventare paonazzo, il dottor Haase versò dello cherry anche per sé.
«Cionondimeno la situazione è seria. Bisogna trovare una soluzione. La più facile è che tu e il tuo bel fidanzato vi togliate di mezzo in fretta. Se occhi indiscreti, come per esempio quelli del mio carissimo amico Sanna, cadessero su questo piccolo tesoro...»
Batté il dito sul piccolo forziere colmo. Ce n'erano altri quattro nascosti in casa e Veruska faticava non poco a smuoverli. Non riusciva a immaginare come il dottore, una gamba malandata al punto da non abbandonare mai il bastone, avesse potuto portare quel peso fino al proprio tavolo nello studio.
Veruska lo guardò preoccupata. Credeva di sapere cosa stava per dirle.
«Per quanto riguarda il tuo tesoro temo dovrai fidarti del qui presente – fraintese il dottore – non c'è modo che questo possa venire con te facilmente. Saranno diversi chili: renderanno la tua valigia pesante come un macigno.»
«Mi assumerà nuovamente quando tutto sarà finito?»
Il dottor Haase la guardò dapprima sorpreso, poi divertito, infine serio e indecifrabile. Parlò con un tono grave che lei non aveva mai sentito usare in tutto il tempo che era stata lì a servire.
«Mia cara... quando tutto sarà finito spero tanto che tu sia lontana da qui, in un luogo a te gradito, a goderti tutto questo oro. Che bisogno avresti di tornare qui a lavorare?»
Veruska chinò il capo preferendo non rivelare le sue intenzioni per l'impiego di quelle monete. Per la prima volta vide Haase la spia, l'uomo d'azione pronto a tutto.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Flugzeug!
4.

Ago e filo correvano sul tessuto nero: nonostante l'ora tarda e la luce della lampada mantenuta bassa il lavoro procedeva spedito. Voleva terminare prima possibile per poter dormire almeno qualche ora. Era deciso: sarebbe partita col capitano Grimovski il giorno seguente, quando si sarebbe presentato a lei con il suo carico di monete da consegnarle. Non molte, come sempre: una condizione che lei stessa aveva dettato.
Con la mente tormentata dal dubbio, Veruska ripercorse da capo quanto si era riproposta. Partire era divenuto inevitabile: il dottor Haase, rivelatosi con sua grande sorpresa una spia russa quiescente, le aveva dato a intendere molte cose in quegli ultimi giorni. Molte informazioni erano volutamente fumose, incerte. Ripensandoci, scoprì che lui non le aveva detto nulla di concreto: mezze parole, frasi sospese... le venne in mente la pagina dell'enigmistica nel quotidiano cui lo stesso Haase era abbonato. Uno dei giochi consisteva nel colmare i vuoti di una frase cercando un senso compiuto. Le frasi da completare erano volutamente ambigue e il gioco sembrava sempre avere più di una soluzione.
Meno sibillina e più minacciosa l'informazione che le aveva comunicato due sere prima: il frequente andirivieni del capitano era stato notato dalle persone sbagliate ed era necessario fare qualcosa in fretta. Non era stata casuale la nuova visita del dottor Sanna il giorno successivo. Se non avesse avuto quel colloquio rivelatore col dottor Haase, Veruska non si sarebbe accorta di nulla.
Sarebbe caduta in una trappola? Qualcuno era sulle sue tracce? Agenti tedeschi che non avevano mai gradito il suo operato alla villa Schmeisser, per quanto inconsapevole? O forse la sua peggior scelta era stata cedere i disegni tecnici a un agente dello Zar? Nessuno sapeva che non aveva avuto scelta.
Non sapeva rispondere a nessuna di quelle domande. Una lugubre cappa grigia incombeva su di lei. Come camminare sotto un temporale: sobbalzava a ogni lampo temendo di essere colta dal prossimo fulmine. La sensazione di pericolo imminente la opprimeva.
Continuò a cucire più svelta possibile incurante della stanchezza, dei dolori al collo e alle spalle per la posizione scomoda mantenuta troppo a lungo. Solo ogni tanto si concedeva una piccola sosta, una distrazione utile ad alleviare lo stress del lavoro di cucito. Guardava fuori dalla finestra della sua stanzetta al primo piano, giusto sopra l'ingresso della casa. Sollevò lo sguardo oltre la cancellata, lungo la strada illuminata dalla luce gialla e tremolante dei lampioni. Di giorno erano alti pali lavorati, decorati con foglie e viticci di ferro nero che sostenevano tre coppe di petali metallici volti all'ingiù; facevano cadere la luce di una lampadina giallastra riparata dentro un bulbo di spesso vetro. Con le tenebre si trasformavano in grottesche creature che parevano sempre sul punto di muoversi verso di lei. Doveva concentrarsi per non dimenticare la loro natura: tornò con la mente a ogni volta che aveva visto gli operai della manutenzione raggiungere la cima della scala di servizio per pulire il bulbo di vetro o smontarlo per sostituire una lampada bruciata.
Stava per tornare al suo lavoro con ago e filo quando notò una figura scura entrare nel cono di luce del lampione più vicino, che si trovava alla destra della sua finestra sul lato opposto della strada. Non vedeva bene a causa di una siepe di alloro che il padrone dell'edifico confinante aveva lasciato crescere per garantire un po' di riservatezza agli inquilini del piano terra del suo palazzo. Una palandrana grigia sormontata da un cappello da viaggio. Lo si sarebbe detto un viaggiatore, o un avvocato che si fosse trattenuto fino a tardi sul posto di lavoro. Ma non c'era alcuna fretta nei suoi passi, anzi. Erano lenti e misurati come quelli di qualcuno che fosse giunto a destinazione e aspettasse di incontrare la persona che gli aveva dato appuntamento. Non poteva vederlo in viso e la palandrana sembrava catturare la luce del lampione per non restituirla più. Non scorgeva dettagli, eccetto una fascia più scura sul fedora che quello portava ben calcato in testa. Lo osservò fermarsi, estrarre di tasca una pipa, svuotarla battendola sul tacco della scarpa, caricarla con tabacco prelevato da una busta lunga e stretta e poi accenderla con un lungo fiammifero di legno dopo aver pressato con cura e attenzione il tabacco usando un dito.
Alla luce del fiammifero intravide per un istante una barba a punta dall'aspetto luciferino.
Il cuore le balzò nel petto, le si tuffò dalla gola nelle budella per poi iniziare una corsa pazza. Era seduta e poté appoggiarsi al tavolo. Nel farlo rovesciò la scatoletta degli spilli che scrosciarono tutto intorno. Li raccolse con mani tremanti. Era dai fatti accaduti alla villa di Schmeisser che non provava così tanta paura. Gli occhi corsero nuovamente fuori dalla finestra, cercarono lo sconosciuto fumatore ma trovarono solo il marciapiede vuoto.
A quell'ora nessuno circolava più per strada. Ancora più improbabile che quella persona avesse un appuntamento qualsiasi. Perfino le ronde della polizia erano rare poiché a Charlottenburgh per fortuna la criminalità era stata ridotta al lumicino. Chi poteva essere se non qualcuno che ce l'aveva con lei? Quella barba le ricordava tanto uno dei due agenti del Kaiser che lei aveva creduto periti nel crollo del capannone industriale del giovane Eric Schmeisser. Con fantasia e paura che si alimentavano l'un l'altra Veruska si sforzò di tornare al lavoro ma senza mancare di controllare più spesso la strada.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Flugzeug!
5.

Ivan Grimovski pagò il taxi e proseguì a piedi. La stagione stava volgendo al bello e la sera il mantello, sebbene fosse non di lana ma di stoffa leggera e fresca, stava diventando fastidioso. Un peccato: il più comodo mezzo per celare qualsiasi cosa decidesse di portare addosso sarebbe presto divenuto inusabile. Per via del caldo ma anche perché vistosamente fuori luogo.
Bastone da passeggio e falcata misurata, percorse un tratto della Spandauer Damm, un groviglio serpentino in lento scorrimento di autovetture private e piccoli veicoli commerciali cui era affidata la consegna delle merci ai negozianti della zona. Nè mancava l'affollamento sugli ampi marciapiedi: impettite signore strette in busti rigidi, uomini d'affari, commercianti, artigiani, giovani e graziose mamme chine sui figlioletti e prosperose e felici ragazze dalle lunghe trecce bionde che facevano la spola tra la spina della birra e i tavoli gremiti fuori dalle bierhaus presso cui lavoravano. Respinse un paio di mendicanti e un insistente ambulante deciso a vendergli lucidi orologi da taschino e carillon, sicuramente contraffatti o rubati. Un'auto di lusso si fermò davanti a lui sbuffando vapore e il lacché aprì lo sportello alla sua padrona sontuosamente vestita di pizzi e ricami. Questa presto si infilò nella lussuosa bottega di un sarto poco distante. Non lontano dominava su tutto lo Schloss Charlottenburg, magnifico e imponente. Illuminato dalla luce del sole calante pareva un palazzo fatto d'oro, o una gigantesca torta di crema decorata da pinnacoli di zucchero e coperta da polvere di cacao. Sopra di lui incrociava in lontananza un pigro dirigibile passeggeri bianco con un airone blu dipinto sugli impennaggi. Superò diverse gallerie d'arte, ristoranti, un negozio interamente dedicato al vizio del fumo e numerose edicole e parcheggi di taxi.
Finalmente giunse all'incrocio con Nithackstrasse. Fu come entrare in un'oasi ancora inviolata. Il traffico quasi cessava di esistere: una sola modernissima auto elettrica gli ronzò incontro risalendo il senso unico sfavorevole a chi dalla Spandauer Damm cercasse una via di fuga dal traffico rallentato. Isole di verde con alti alberi fronzuti agivano come barriere contro rumore, sole, polvere. L'odore del carbone e il calore del vapore, simboli del progresso tecnologico insieme allo scoccare di una scintilla elettrica, sembravano non riuscire a penetrare quella strada così vicina eppure fuori dal mondo caotico. Per il momento, almeno.
Congetturò che, com'era già accaduto in altre parti di Berlino, in altre città dell'operosa Germania e nelle città di tutta l'Europa occidentale presto ogni metro di terreno sarebbe stato edificato e coperto di case, fabbriche, strade, ponti, ferrovie, negozi e officine. C'era un gran fame di tecnologia, di progresso, di futuro. Tutte cose a loro volta affamate di energia, lavoro, forza. Il prezzo da pagare era ovunque il medesimo: fatica, consumo, sovrappopolazione. In cuor suo il capitano sperò che quel bel fazzoletto di Berlino in cui si trovava a camminare con quasi mezzo chilo d'oro distribuito in diverse tasche non dovesse vedere demolite le belle palazzine di pochi piani, ognuna caratteristica e decorata a modo suo, a favore di complessi abitativi alti, massicci, spersonalizzati. Progettati per sfruttare al massimo il terreno su cui sorgevano, ma grigi e opprimenti. La bellezza affascinante dello Schloss Charlottenburg pareva già lontana.
Giunto a destinazione non esitò a suonare il campanello. Era un bottone bianco che si offriva a lui come una perla dentro le valve una conchiglia di nero ottone ossidato. Pensò alla cameriera che sarebbe venuta ad aprirgli la porta: alta e bionda, professionale e impassibile, i lineamenti un po' angolosi che ne tradivano le origini dell'Est europeo. Appena ne avesse avuta l'occasione lo avrebbe aspramente rimproverato per quella dimostrazione di sfacciataggine. Grimovski se ne compiacque. La bella Veruska Meinhertz da arrabbiata era anche più intrigante.
Ma non accadde nulla. La porta nera, in alcuni punti offesa dalle intemperie e bisognosa di un poco di vernice, rimase chiusa. Non essendo proprio il tipo da fermarsi di fronte a una simile sciocchezza, suonò di nuovo con maggiore insistenza.
«Sto arrivando, verdammt! Che fretta c'è?»
Udì quelle parole ovattate dal generoso spessore della porta. Era di certo il dottor Haase, l'inquilino e datore di lavoro di Veruska. Doveva essere subito dietro la porta e infatti i chiavistelli e le serrature presero a scattare.
«Capitano! La pazienza è la virtù dei forti, l'ha mai sentito dire?»
Sorvolò sull'aggressione verbale. Più interessante sarebbe stato sapere come il vecchio professore fosse venuto a conoscenza del suo grado. Si rammentò che una volta aveva commesso l'errore di presentarsi in divisa: probabilmente il dottore lo aveva visto in quel frangente.
«Dottor Haase – esordì freddo indicando il bastone cui si appoggiava il professore – non dovrebbe riposare?»
«Avrò tempo di riposare più avanti. Corra a cercare la sua bella: è partita.»
Questa volta Grimovski non poté fare a meno di accusare il colpo. La notizia gli diede più fastidio di quanto volesse ammettere. Si sentì scaricato e dal momento che era stata una domestica a farlo, gli bruciava un po' di più. Com'era possibile che quella ragazza se ne fosse andata da un giorno all'altro senza un cenno, senza tradirsi minimamente?
«Partita? Per dove?» il capitano dovette ammettere di essere stato ridotto a mal partito. Da una giovane domestica. Diplomata a pieni voti, certo... ma pur sempre una domestica.
«Non offenda la sua intelligenza, capitano... e non sottovaluti la mia. Sarò forse vecchio, ma non sono totalmente rimbecillito. Non ancora!»
L'intrattabile dottore ghignava beffardo. Grimovski era solito rimettere al loro posto quelli come lui facendo fare loro conoscenza col suo pugno sinistro, ma quello non era il caso. Era successo qualcosa e a lui spettava scoprire cosa. Anziché farsi nemico il professor Haase avrebbe dovuto trovare il modo di fargli sputare fuori quello che sapeva. In fretta: ogni minuto trascorso aumentava la distanza tra lui e la sua bionda, imprevedibile spia preferita.
«Lungi dal considerarla fuori dai giochi per sopraggiunti limiti d'età, dottor Haase» Grimovski non si sentiva in svantaggio: doveva solo aspettare una nuova mano di carte, dato che la sorte non era stata a lui favorevole.
«Teufel, capitano... non è il momento di prendere tempo. Se non ci arriva lei, glielo dico io. Se lei fosse una giovane fanciulla e dovesse scappare da un cocciuto capitano d'artiglieria, che farebbe?»
Ora sì che Grimovski si sentì messo sotto. Non era solito battere in ritirata: le cicatrici che portava addosso erano muti ma convincenti testimoni del suo coraggio. Ma Herr Doktor non era il nemico.
«Danke schön» il capitano si portò il bastone dalla testa di levriero alla tesa del cappello a cilindro in segno di saluto e di rispetto. Una formalità: se il dottore che insisteva col suo sguardo beffardo e insolente avesse avuto una ventina di anni in meno, non l'avrebbe fatta franca così facilmente.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Flugzeug!
6.

Tornò spedito sui suoi passi alla ricerca di un'auto pubblica. Giunto sulla Spandauer Damm non fu un problema trovare un taxi libero. Avrebbe voluto una vettura elettrica: i loro motori erano più prestanti al prezzo però di una minore autonomia del veicolo. Dovette accontentarsi di una a vapore, libera e pronta alla partenza immediata.
«Berlino Ostbahnhof. Pago quello che chiede più dieci demark per fare più in fretta possibile. Non importa quante regole lei infranga.»
Grimovski non attese che il conduttore gli rispondesse: a metà della frase aveva già aperto lo sportello posteriore per accomodarsi sul lindo sedile della vettura con la caldaia già calda.
«Mi sospenderanno la licenza, mein Herr...»
«Venti demark.»
«Ma io...»
«Trenta. E ora si metta alla guida.»
Grimovski mostrò un rotolo di banconote. Il conduttore non ebbe più esitazioni e partì facendo fischiare le gomme.
Il viaggio fu davvero spedito come il capitano desiderava. L'auto mancava un po' di spunto in accelerazione ma la potenza del vapore si sprigionava presto nei lunghi rettilinei e ogni volta che il traffico si diradava un poco di fronte alla vettura. Il conduttore non si fece scrupoli: dimentico perfino di far partire il tassametro, portò il capitano a destinazione davvero in fretta sfidando il codice della strada e i suoi tutori, i neri agenti della polizia stradale riconoscibili dal caratteristico elmetto chiodato e decorato da intricati arabeschi di lucido ottone.
Si fece lasciare alle partenze nazionali. Non aveva idea di cosa frullasse per la bionda testolina di Veruska Meinhertz, ma da qualche parte avrebbe pur dovuto cominciare.
Col mantello aperto a ruota tale la velocità della sua falcata si diresse agli ingressi. L'atrio era colmo di gente: viaggiatori e accompagnatori, gente in cerca di informazioni, personale di servizio, facchini sovraccarichi, poliziotti in divisa, militari, perfino qualche fuligginoso macchinista. C'era una gran folla e cercare una persona in particolare in quella confusione sarebbe stata un'impresa impossibile. Ma questa volta le carte in mano a Grimovski erano migliori. Andò subito a comprare due biglietti, poi si lanciò verso le scale affollatissime.
A lato delle scalinate che salivano ai binari c'erano dei mendicanti. Ve n'erano sempre: senza fissa dimora, bivaccavano elemosinando e bestemmiando la sorte loro avversa. Chi era caduto in disgrazia per aver perduto il lavoro, la casa e la famiglia, chi era rimasto menomato al fronte, chi privo di impiego stabile aveva troppi figli da mantenere. Venivano tollerati solo perché una volta lì a mendicare era più facile tenerli sott'occhio. La maggioranza di costoro infatti era composta da zingari travestiti, abili attori capaci di interpretare ruoli diversissimi. Mendicanti, ma anche ladri e lesti borseggiatori, capaci di rubare il portafogli a chi si fermava a dar loro l'elemosina senza indurre il minimo sospetto nella vittima.
Ne avvicinò uno che sembrava molto male in arnese: puzzava tanto che il capitano provò l'istinto di portarsi una mano al naso. La barba grigia era incolta e tanto aggrovigliata che si sarebbe fatto prima a raderla del tutto che a pettinarla per acconciarla meglio. Gli abiti laceri erano ricavati dai resti di divise di eserciti di almeno tre nazioni diverse. Occhi cirrotici e lucidi si agitavano in un viso scuro e rugoso, sporco in modo pietoso. Gli porse l'elemosina e quello tese le mani sporche e rovinate a riceverla.
«Dovresti avere qualcosa per me» gli sussurrò il capitano chinandosi su di lui vincendo il ribrezzo.
«Eccome» biascicò quello, la bocca sdentata schiusa. L'alito era un tanfo terribile con un marcato accento di alcol. C'era una bottiglia di Schnapps che faceva capolino da sotto una lercia coperta.
La moneta da un demark cadde nel palmo del mendicante e sparì subito.
«Non capita tutti i giorni di vedere una bella giovane inseguita, per esempio.»
Un'altra moneta apparve. Il mendicante sembrò illuminarsi sotto lo sporco. La mano destra tremante salì a palmo insù verso Grimovski, che però si ritrasse.
«Te la devi guadagnare.»
«Inseguita, sì. Da... agenti di stazione» completò l'informazione alzando indice e medio.
«Da che parte?» lo sferzò il soldato dello Zar.
Alla prima mano si aggiunse l'altra a formare una coppa. Il mendicante uggiolava come un cane, sul volto la grottesca parodia di un sorriso. La moneta cadde e, come la prima, sparì in un lampo.
«In cima a queste scale, non più di dieci minuti fa... l'avevano quasi presa.»
Grimovski tornò a drizzarsi in tutta la sua statura, degnando il mendicante di un ultimo sguardo sprezzante e riconoscente insieme.
«Continua a servire lo Zar, soldato.»
Il mendicante roteò gli occhi all'altissimo soffitto color panna dell'atrio emettendo un flebile lamento.
«Ho già dato le mie gambe allo Zar... ho già dato le mie gambe allo Zar... le mie gambe...» disse ciondolando la testa e scoprendo i due moncherini mal cicatrizzati che spuntavano dagli strappi nei pantaloni. Ma Grimovski era già lontano.
Divorò le ampie scale più rapidamente che poté. La folla non lo agevolò: soprattutto coloro che portavano bagagli lo rallentarono più volte fino a fargli perdere la pazienza.
«Случайно вам! [4]» sbottò contro una fin troppo prosperosa giovane che lo ostacolava trascinandosi dietro un bagaglio pesantissimo, troppo pesante perfino per il facchino che la stava aiutando.
«Chistu u curnutu!» si sentì apostrofare alle spalle, superato l'ostacolo un po' troppo bruscamente. La deroga alle buone maniere era senz'altro giustificata.
Di fronte a lui vi erano i binari, inaccessibili per chiunque non fosse titolare di un documento di viaggio valido. Numerosi scrupolosi funzionari controllavano gli affollati varchi di accesso affinché la norma venisse rispettata. Le file a ciascun varco erano molto lunghe e ordinate. Era quindi escluso che la bella Veruska avesse trovato rifugio su un treno. Inseguita dagli agenti, i funzionari l'avrebbero di certo bloccata. Rimanevano solo decine di chioschi di tutti i generi, qualche negozio di lusso e il presidio della polizia della stazione. Oltre ai bagni delle signore, ma quelli decise di ispezionarli per ultimi. Si trattava di un pericoloso vicolo cieco e una persona in fuga non vi si sarebbe mai infilata volontariamente.
Si rassegnò a fendere la folla in direzione del presidio di polizia, una piccola scatola di legno e vetro che sembrava ben poca cosa all'interno della monumentale galleria delle partenze nazionali, più di trenta binari serviti da una singola ala della stazione berlinese. Ma quella scatola era capace abbastanza da ospitare diversi uffici con tavoli e sedie per una dozzina di poliziotti, una piccola prigione per trattenere furfantelli, ladruncoli e altra fauna del luogo nonché l'ufficio del comandante del presidio di polizia. Lì era diretto Grimovski, deciso a far valere l'esperienza accumulata in tanti anni al servizio dello Zar in terra germanica.
Avrebbe finto di avere una denuncia da sporgere. Un po' di fortuna e avrebbe presto individuato la posizione della bionda domestica: forse era stata presa. In cuor suo sperava ardentemente di no. Visto com'era uscita da una situazione ben peggiore presso l'officina di Schmeisser, pensò non fosse il caso di sottovalutarla. Questa fuga precipitosa inoltre poteva nascondere qualcosa... era determinato a scoprire cosa.
Tutti i suoi piani andarono all'aria non appena varcò la soglia della piccola stazione di polizia. Veruska, la domestica così ricca di iniziativa lo sorprendeva un'altra volta.
Si era fatta catturare dai poliziotti. Era lì, seduta al tavolo dell'agente in divisa che stava compilando minuziosamente un verbale. Impettita e seria, sul viso dalle gote arrossate non affioravano emozioni evidenti: pareva che quanto le stesse accadendo non la riguardasse. Grimovski rimase senza parole. Un istante di smarrimento che avrebbe potuto pagare caro.
«Buongiorno – disse il poliziotto alzando gli occhi dal verbale – come posso aiutarla?»
«È inaudito!» protestò con vigore Grimovski, sudando freddo. Non sapeva che pesci pigliare. Avrebbe dovuto soffermarsi a sbirciare da una finestra prima di entrare, ma non l'aveva fatto e ormai era tardi. A prima vista c'era un solo agente, quello intento a redigere il verbale.
«Sono il barone Aleksandr Grigorevic Stroganov Terzo! Da generazioni gli Stroganov siedono alla corte dello Zar! Inaudito! Pretendo rispetto! Esigo soddisfazione!»
Fu uno scherzo calcare il proprio accento russo fin quasi a ottenere una parodia del personaggio che intendeva imitare. Si agitò in preda alla furia, come se intendesse trovare una gola da stringere, ma si preparò impugnando saldamente il bastone da passeggio. Si ricordò di avere un monocolo: lo pose davanti all'occhio destro e protese il viso oltremodo corrucciato verso l'agente pronunciando a voce alta il nome e la matricola incisi sul distintivo dorato che quello portava sul petto.
«La metto a rapporto, agente! Tutto questo è inammissibile, qualcuno dovrà pagare! Voglio la testa di qualcuno per questo oltraggio!» continuò Grimovski mulinando le braccia in modo molto teatrale.
«La prego, signor barone, si calmi...» l'agente, intimorito dalla minaccia diretta si alzò dalla sedia.
Finalmente, esultò Grimovski assestandogli un colpo secco e deciso alla tempia col legno del bastone. Aveva una certa esperienza nell'uso di quell'arma dissimulata: colpendo col pomolo argentato invece, una testa di levriero di acciaio massiccio, avrebbe ucciso la sua vittima anziché stordirla come accadde all'agente che si afflosciò a terra come un sacco vuoto, accompagnato da un breve ma acutissimo strillo della giovane domestica.
«Svelta» Grimovski la afferrò per un braccio visto che quella non accennava a muoversi né a distogliere lo sguardo dal poliziotto colpito.
Quella strattonò via il braccio liberandosi dalla presa non per guadagnare la libertà ma per tornare indietro di un paio di passi e recuperare la borsa da viaggio.
La trascinò fuori dalla piccola stazione di polizia e la guidò a braccetto verso i binari.
«Non dica niente, non faccia niente se non lo dico io» le intimò duramente. Gli era spiaciuto di aver dovuto usare la violenza di fronte a lei: era sembrata sinceramente scossa e anche in quel momento continuava a tremare: la sentiva fremere tenendola a braccetto ed era certo che non si trattasse di una conseguenza dell'accompagnarsi a un bell'uomo come lui era.
Raggiunta la banchina fecero vidimare i biglietti e, trovato il binario giusto salirono a bordo del treno per Amburgo.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Flugzeug!
7.

«Io scossa? Scossa!»
Si permise di esclamare con vigore solo perché lo scomparto, foderato di soffice velluto rosso, prometteva di smorzare bene i suoni. Certo che lo era. Chi no, al suo posto? In fuga, raggiunta e bloccata per due volte in mezzora e piegata all'altrui volere.
«Ben le sta, aggiungerei» insinuò Grimovski non desistendo dal suo fare insolente. Veruska trasecolò tanto da non riuscire a ribattere. Come osava quel violento bifolco vestito da damerino così alla moda? Si permetteva perfino un sardonico ghigno. Ah, come avrebbe voluto avere la forza o l'arguzia di cancellarglielo dalle labbra!
«Sarò anche una sguattera, ma non sono meno degna di rispetto per questo!» sbottò infine.
«Frase già sentita. E sguattera un corno, se mi è consentita questa colorita espressione. Abile e scaltra, questo sì. Però devo dire che non mi sarei aspettato cadesse nelle grinfie della polizia ferroviaria così facilmente. Voglio dire... sono ottimi cacciatori di ladruncoli e scippatori, ma suvvia... una come lei...»
Incerta se leggere ammirazione o delusione nelle parole del capitano, Veruska scelse il silenzio. Era confusa: voleva scappare da tutto, per primo Grimovski, ed eccola seduta in uno scompartimento proprio con lui. Per la sua fuga aveva scelto Dresda: lì avrebbe cercato di cambiare una o due monete d'oro in demark per comprare un biglietto per Praga. Si augurava che entro il suo arrivo in Cecoslovacchia le si sarebbero schiarite meglio le idee. Le migliori alternative al momento erano proseguire per l'Ungheria e passare il confine con la Russia su un treno notturno, meno controllato, o dirigersi a Milano, nella permissiva e caotica Italia. Ricordava ancora i pettegolezzi delle sue compagne di corso, convinte che ogni italiano non sognasse altro nella vita che farsi comandare e venerare una giovane alta, bionda e con gli occhi azzurri come il ghiaccio, proprio come lei era. Si vergognò subito di quel pensiero così grezzo eppure così spontaneo.
Invece ora si trovava a bordo di un treno veloce diretto ad Amburgo senza fermate intermedie. In compagnia dell'ultimo uomo che avrebbe voluto avere come compagno di viaggio. Un militare cocciuto e invadente che la credeva una spia al servizio dello Zar! Lo studiò per un minuto, approfittando del silenzio calato nello scompartimento occupato da loro due soli. Aveva smesso la sua boria, dovuta di certo al fatto di essere riuscito a guastarle la fuga e ad averla proprio dove lui desiderava che si trovasse. Ora pareva insospettito, preoccupato. Lo osservò mentre si alzava a scrutare nel corridoio, aperta la porta scorrevole di legno lucido quel tanto che bastava a sporgere la testa.
«Non capisco… – brontolò finalmente – il treno avrebbe dovuto prendere velocità già da qualche minuto.»
Veruska vide baluginare il metallo di un orologio da tasca mentre il militare lo consultava rapidamente, per poi eclissarlo di nuovo nel panciotto con gesti consumati. Le venne spontaneo guardare fuori dal finestrino. Berlino scorreva pigra alternando ai suoi occhi ignari capannoni industriali e zone verdi ricche di alberi. Ogni tanto appariva qualche casa isolata, ben dipinta e mantenuta: cittadini benestanti in grado di permettersi un certo isolamento dal caos cittadino, ipotizzò.
Poi la consapevolezza che i sospetti di Grimovski fossero fondati la colpì, spaventandola. Si scoprì a misurare la velocità contando i colpi delle ruote del treno che passavano sui giunti tra le rotaie. Erano sempre più distanti tra loro. Il treno stava rallentando davvero!
«Блин! [5]» esclamò il soldato. Se n'era reso conto anche lui nel medesimo momento. Di nuovo scostò la porta dello scompartimento per guardare lungo il corridoio in entrambe le direzioni. Veruska sentì le voci di altri passeggeri: chi seccato già imprecava sospettando un guasto, chi si preoccupava per l'inatteso inconveniente.
«Следуй за мной! [6]» esclamò aggiungendo una vergognosa imprecazione, del tutto dimentico delle buone maniere.
Veruska ebbe appena il tempo di afferrare il bagaglio. Ancora una volta la mano di ferro del soldato le si serrò come una morsa intorno al polso e la trascinò senza complimenti fuori dallo scompartimento. Nonostante le lunghe gambe e il comodo abito da viaggio dall'ampia gonna nera, stentava a tenere il passo dell'uomo che non accennava a volerla lasciare camminare coi suoi piedi. Aveva la sensazione di essere un'aquilone che stentasse a prendere quota.
Quando alle sue spalle percepì del trambusto, cercò di voltarsi. Errore che pagò subito: Grimovski se ne accorse prontamente e la strattonò facendole male alla spalla ingiungendole, bruscamente e in tedesco stavolta, di non voltarsi. In quell'attimo era riuscita però a cogliere un fuggevole balenare di palandrane grigie... gli agenti del Kaiser!
Tutto divenne più chiaro. Pesanti scarpe da uomo che battevano il pavimento del corridoio, facendolo risuonare nonostante fosse coperto da un elegante tappeto su misura. Sbattere di porte di legno, a volte tanto forte da far tintinnare i vetri molati con motivi floreali in ridondante stile neobarocco. Gli agenti del Kaiser l'avevano scoperta e, approfittando della loro autorità per far fermare il treno, la stavano cercando. Certo l'avrebbero sempre trovata finché si sarebbe accompagnata a quel grosso bisonte d'un capitano dell'Esercito del Popolo Sovietico! Grosso e stupido: erano ormai giunti alla fine della carrozza e non si poteva più procedere. Oltre la spessa porta c'era la piattaforma dove solo il personale addetto poteva passare. Grimovski non esitò un istante: aprì la porta e la trascinò fuori.
Nonostante la velocità stesse diminuendo sempre più, il vento che le sferzò il viso appiccicandole la veletta del cappello da viaggio sulle guance la spaventò. Lo sferragliare dei carrelli vicini e lo scorrere della massicciata così prossima ai suoi piedi posati sulla stretta piattaforma di metallo le mozzò il respiro. Non c'era altro riparo che un'esile, ridicolo corrimano di ferro nero. La piattaforma e la gemella dall'altro lato, in coda al vagone di prima classe, erano separate da un vuoto vertiginoso e incolmabile attraverso cui i ganci di trazione si stringevano l'un l'altro la ferrea mano. Quella meccanica unione fra le due carrozze, unico gesto amichevole in un ambiente ostile, guidò forse il suo istinto. Mai l'avrebbe fatto in altre condizioni: in piedi sulla stretta passerella, fremente di spavento, col braccio libero si strinse fortemente al capitano Grimovski.
Un istante dopo fu proprio l'uomo a gettarla ancor più nel panico, sporgendosi nel terrificante vuoto per guardare avanti.
«Dobbiamo saltare subito!»
Veruska conobbe nuovi orizzonti nel mare della paura in cui stava ormai affogando. Un istante dopo le parole del capitano, a lato del treno sfrecciò un palo recante un segnale. Lo riconobbe: ne aveva visti mille e mille uguali, lei che viaggiava molto in treno. Era la segnaletica che si poneva in prossimità della stazione. Il treno iniziò una debole frenata. Grimovski la spinse a viva forza verso l'estremità della piattaforma che non era difesa dal sottile corrimano tubolare. Veruska si sentì svenire, ma non cedette. Come se stesse guardando una proiezione al cinematografo, che tanto la affascinava e divertiva, vide la mano del soldato segnata dalle cicatrici strapparle il bagaglio e lanciarlo giù dal treno. Avrebbe potuto contarle una a una, quelle cicatrici, e avrebbe saputo descriverle bene.
Nemmeno il tempo di stupirsi.
«Al mio via salti! Tenga le ginocchia piegate e i piedi uniti, a qualunque costo!»
Un altro palo a righe diagonali bianche e nere sfrecciò rasente il treno. Parve sibilare per la velocità, ma non poteva essere. Il treno rallentava sempre di più.
«Via!» le gridò Grimovski nelle orecchie, così vicino che poté sentire la sua voce anche con la pelle del collo. Nemmeno il tempo di reagire e qualcosa le afferrò le natiche con grande forza e, sollevatala di peso, la lanciò giù dal treno.
Veruska piegò le ginocchia, mulinò le braccia e gridò con tutto il fiato che aveva in gola.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Flugzeug!
8.

Non riusciva a crederci.
Era saltata da un treno in corsa e non si era fatta niente. Sì, aveva rovinato il vestito. Perduti il cappello e la borsa. I capelli erano senz'altro un orrore impresentabile. Ma nulla più. Aveva creduto di morire in quel lunghissimo istante in cui era stata a mezz'aria, senza nulla a cui aggrapparsi. Aveva toccato terra sul morbido terriccio, a piedi uniti e ginocchia piegate, schivando d'un soffio le opache e spigolose pietre color fuliggine della massicciata. Era rotolata, si era fatta male a una spalla, alle ginocchia e a i gomiti, ma il dolore era durato poco. Nulla di rotto. Ma non aveva avuto il tempo di preoccuparsi. Grimovski sanguinava da un taglio alla testa. Pareva profondo. Non c'era stato il tempo di fermarsi: il treno aveva iniziato una frenata brusca, tanto da sprizzare scintille gialle dalle ruote che slittavano sulle rotaie. Aveva dovuto rinunciare a recuperare il bagaglio, riproponendosi di tornare più tardi a cercarlo. Si erano nascosti tra gli alberi. Poi via di corsa: gli agenti del Kaiser, gli stessi che aveva visto a Villa Schmeisser, erano scesi dal treno armi in pugno, quelle orribili pistole nere, squadrate e spigolose, e subito avevano iniziato la ricerca. Ma erano incerti: non erano riusciti a vederli. Grimovski l'aveva subito trascinata nel folto e presto aveva perso l'orientamento. Ecco che di nuovo era sperduta tra gli alberi priva di punti di riferimento se non il soldato che procedeva spedito come se fosse a casa propria. Non aveva avuto altra scelta che seguirlo da presso, in ansia per essere di nuovo inseguita da vicino dai mastini del Kaiser dell'Impero Germanico, preoccupata per le ferite dell'unico uomo che poteva aiutarla. Anche se non era affatto certa che il capitano volesse davvero salvarla.
Avevano cercato ospitalità presso un contadino, ma la vista di Grimovski male in arnese e sporco di sangue lo aveva spaventato. Erano stati costretti a correre via prima che il coltivatore riuscisse a dare l'allarme. Avevano camminato per ore, evitando le strade trafficate e gli spazi aperti e cercando un buon posto dove fermarsi. Lei aveva i piedi martoriati dalle scarpe da viaggio che, pur essendo comode, non erano state fatte tenendo presente lunghe e bucoliche scampagnate, figuriamoci rocambolesche fughe tra i boschi a ovest di Berlino.
Trascorsero l'intero pomeriggio a scappare in quella calda primavera, senza mangiare e bevendo l'acqua per l'irrigazione dei campi filtrandola attraverso i loro fazzoletti annodati insieme. Grimovski si rifiutava ostinatamente di dire cosa avesse in mente di fare, nonostante le apparisse chiaro che stava seguendo una direzione precisa. Più volte si era fermato per guardarsi intorno, come se cercasse dei riferimenti. Se ne stava lì muto e sporco di sangue rappreso, massaggiandosi le membra doloranti per la caduta, per interi minuti. Poi, senza alcun preavviso, si rimetteva in marcia.
Verso sera lei si era storta una caviglia e lui si era offerto di portarla in braccio.
«Lei stenta a stare in piedi, chi vuol prendere in giro?» lo aveva provocato con inedita arroganza nella voce. Se n'era pentita un attimo dopo aver pronunciato l'ultima parola.
«Ho assaltato una trincea polacca con una scheggia di mitraglia nel petto, posso ben trasportare un passerotto come te per qualche chilometro.»
Da quando costui si concede il lusso immeritato di darmi del tu, si chiese Veruska. Rimandò a dopo ogni osservazione poiché era necessario conservare le forze: aggrappatasi al braccio del capitano, si era avviata zoppicando insieme a lui.
Verso sera, esausti, si erano nascosti a osservare un contadino riporre le macchine agricole nel capanno. Quando se ne fu andato Grimovski, non sentendo ragioni, era penetrato nel deposito intenzionato a trascorrere la notte al riparo. Era lì che si trovavano in quel momento: al buio, infastiditi dagli insetti, solleticati dalla paglia odorosa che avevano sparso in abbondanza per creare un giaciglio più morbido possibile.
«Tutto bene?»
«Quando mi sarò tolta le scarpe, andrà meglio di certo.»
«Le consiglio di non farlo, o domattina non riuscirà più a rimetterle.»
Veruska smise subito di armeggiare con le sue complicate calzature: di certo i piedi erano gonfi e forse anche piagati. La prospettiva di essere costretta a camminare scalza la fece desistere. Si cercò una posizione più comoda e più distante possibile dal militare. Tirò su col naso: gli abiti da città la stringevano e la tormentavano, il fiato già corto per la fatica fatta e ora anche l'orribile miscuglio fra l'odore meccanico emanato dal trattore a vapore e quello caldo e umido delle numerose balle di paglia ammucchiate ovunque. Cosa avrebbe dato per un soffio d'aria fresca e una bella limonata col ghiaccio!
«E lei?» si decise a chiedere, interrompendo il silenzio.
«Io cosa?»
«Tutto bene?» indispettita, Veruska si chiese come fosse possibile per quell'uomo metterla a disagio a ogni parola pronunciata. Forse era una prerogativa dei militari.
«Sto benone.»
Veruska lo rivide sgocciolante sangue, zoppicante e ansimante mentre caracollava combattendo i capogiri per allontanarsi dalle rotaie. “Benone” non le sembrava un termine adeguato.
«E la scheggia di mitraglia?»
Un rauco gorgogliare si trasformò presto in una cupa ma divertita risata.
«Oh, Veruska... piena di risorse. Che piacevole compagnia è la sua. Brillante e arguta, forte e resistente, mai spaventata, ma sempre padrona di sé. Sarebbe un eccellente capitano di fanteria, lo sa?»
Si era forse accompagnato a un'altra Veruska nel frattempo, il capitano? O forse la botta in testa aveva avuto altre conseguenze oltre il copioso sanguinamento? Non si riconosceva affatto in quella descrizione. Lei poi, un ufficiale! Era stata scartata sin dalle visite militari preliminari a scuola, obbligatorie per tutti i bambini russi con quattordici anni compiuti. Troppo gracile per la fanteria. Troppo alta per la marina o per l'aviazione. Troppo indolente nello studio per l'Accademia Militare, ove lo Zar formava i suoi ufficiali superiori.
Ma se ne guardò bene dall'informare Grimovski di tutto ciò.
«E la divisa... – proseguì quello con tono sognante - … come le starebbe bene la divisa! Col suo portamento severo, austero... in divisa da parata poi scioglierebbe facilmente i cuori di tutti, anche dei più rudi carristi. Gentaglia che si commuove solo quando il loro panzer ha bisogno di riparazioni importanti.»
«Si astenga dal proseguire, capitano. Non sono certo una donnaccia da ritratto come quelli che si appendono in caserma. Non mi offenda! Non si permetta!»
Veruska era scattata, con cattiveria. La stanchezza, il caldo, gli abiti che la tormentavano, la pelle irritata che chiedeva a gran voce un bagno con tanto sapone e sali profumati. Ma era necessario rimettere a posto quell'energumeno che stava valicando ogni limite.
«Anche nel buio più pesto scorgo i suoi occhi che lampeggiano di rabbia, Veruska. Me ne compiaccio. Me ne compiaccio davvero.»
Sornione, il capitano non le diede tempo di replicare.
«Ma qui si sbaglia. Di molto. Al comando del Primo Gruppo Artiglieria Pesante abbiamo l'Ultima Cena che troneggia sulla parete di maggior lunghezza. Di fronte abbiamo un Monet, un Cézanne, alcuni impressionisti minori. Copie, ovviamente. Nelle campate della truppa alcuni soldati semplici particolarmente versati nella pittura hanno realizzato niente meno che un piccolo affresco ispirandosi ai classici, mescolando a modo loro la Cappella Sistina con Leonardo da Vinci e Botticelli... fantasiosi, ma non volgari. Il nostro colonnello comandante, avendoli sorpresi a fare delle prove di nascosto con le pareti meno in vista delle camerate, invece di punirli ha comprato loro pennelli e colori.»
«Stento a crederlo» ribatté subito Veruska, piccata. Non riteneva possibile vi fossero animi sensibili all'arte in mezzo a soldataglia avvezza solo a soddisfare necessità di gran lunga più veniali.
«Può venire a vedere quando lo desidera. È un invito, questo. Le presenterò altri ufficiali del circolo, più eleganti e colti di me. Dovrà ricredersi. Certo, tra la truppa vi è anche chi lei sta immaginando ora, intento a gozzovigliare e a lustrarsi gli occhi con altri generi di... bellezza, per così dire. Ma proprio lei, che parla di rispetto anche per chi è sguattero, non faccia di ogni erba un fascio.»
Si sentì una sciocca. Non solo si era alterata a sproposito, ma pareva proprio che anche questa volta il capitano l'avesse sorpresa e spiazzata. Forse una tattica militare, forse un talento naturale quello dell'uomo... i fatti non cambiavano però. Non era come sembrava, non solo. C'era dell'altro sotto la dura corazza del soldato, sotto le cicatrici, sotto la fredda divisa. Una personalità intrigante e inattesa. Tutto sommato... piacevole. Anche se non si era certo sentita a proprio agio mentre Grimovski le aveva dato della persona egoista e miope, accecata da pregiudizi e bloccata da luoghi comuni banali e consumati. Per questo Veruska già tramava vendetta, in cerca di riscatto.

Abbandonò il suo sonno agitato non appena il cielo cominciò a schiarire. Sapeva che i contadini erano piuttosto mattinieri e non desiderava affatto essere sorpresa lì dal legittimo proprietario di quel posto. Scosse Grimovski, ma quello non sembrò intenzionato a sollevarsi dal giaciglio di paglia puzzolente. Lo scosse ancora e quello gemette. Per istinto Veruska gli posò una mano sulla fronte: scottava.
Si alzò in piedi e fu subito salutata dalla sua caviglia distorta. Si era gonfiata e le faceva male; quella fitta di dolore le era arrivata dritta al cervello, tanto forte da farle pensare di essersi rotta il piede. Fatti pochi passi il dolore scemò al punto di consentirle di cercare dell'acqua. Ve n'era in un grosso bidone di ferro: puzzava di ruggine e probabilmente serviva solo a riempire la caldaia del trattore, ma non aveva scelta: doveva curare il capitano, o almeno provarci.
A malincuore cercò un punto debole tra le cuciture della sottana e ne strappò un lembo da inzuppare e posare sulla fronte dell'uomo. Non le rispondeva e respirava pesantemente, le labbra aride e screpolate. Zoppicando fece la spola col bidone dell'acqua cercando di mantenere fresca la fronte del capitano, usando altri lembi della sottana.
«In che pasticcio mi ha messa, capitano» bisbigliò d'un tratto in russo, esasperata, mentre tamponava con la pezza il viso di lui e passava in rassegna tutti i disgraziati avvenimenti che l'avevano sconvolta. Come se non fosse bastata la vicenda di Schmeisser!
«Grunewald – rispose quello in russo – è lì.»
«Cosa è lì?» chiese d'istinto Veruska, non pensando che il capitano stesse delirando. La guardava con occhi lucidi di febbre e ancora non riusciva ad alzarsi.
«Lo chiamano das flugzeug. I tedeschi stanno sviluppando una tecnologia per costruire aeromobili senza pallone. Veloci. Piccoli e molto veloci.»
«Ha bisogno di un dottore, capitano. La febbre la sta facendo delirare» adesso ne era convinta: velivoli veloci e senza pallone? Zeppelin si sarebbe rivoltato nella tomba. Era impossibile che qualcosa potesse volare senza un pallone pieno di elio, idrogeno o qualunque cosa fosse quella diavoleria tecnologica con cui venivano riempiti i serbatoi degli onnipresenti, efficientissimi dirigibili.
«No!» Grimovski si scosse. Le afferrò il polso, una presa decisa ma debole, solo la pallida ombra della stretta che l'aveva trascinata fuori dallo scomparto il giorno prima. Si sarebbe liberata facilmente, ma invece lasciò fare.
«È tutto vero. Li sto spiando da mesi, e anche lei lo fa, mia cara Veruska. La dolce, insospettabile domestica. Non mi prenda in giro.»
Divisa tra il disperarsi e il riderne, Veruska insisté. Grimovski la credeva davvero una spia dello Zar? Doveva essere visitato e ricoverato urgentemente.
«Storie! Non mi serve il dottore – esclamò quello sollevandosi pesantemente a sedere – È là, ne sono certo. Dev'esserci un campo di volo nascosto. Ho seguito i rifornimenti. Consuma benzina, mia cara. Non è elettrico, né a vapore.»
La prova ultima che il soldato stesse delirando. Nulla era più potente del vapore, nulla più veloce dell'elettricità. Aveva, come tutti, sentito parlare della instabile e inutile benzina, e del suo potere incendiario. Aveva poche applicazioni perfino in campo militare: aveva udito le descrizioni degli orrori del flammenwerfen, ma per il resto la benzina raffinata era considerata una curiosità scientifica.
Grimovski insisté per essere messo in piedi e Veruska lo accontentò solo perché così le sarebbe stato più facile portarlo da un dottore. Ora però era divenuto un fardello pesantissimo: era un uomo imponente e piuttosto muscoloso. Tutto quel peso aggrappato alle sue spalle le impediva di muoversi e la caviglia malandata faceva il resto. Arrivarono a stento di fronte alla porta.
«Capitano, dovrà fare meglio di così... già non riesco più a sostenere il suo peso!» Veruska aveva esclamato in russo nel tentativo di sferzare il soldato. Con tutto quel peso attorno al collo e sulle spalle non avrebbe fatto nemmeno cento metri, poi sarebbe stramazzata al suolo, sfinita. Che dico, si rimproverò: non riesco nemmeno a uscire. Cercò di afferrare la maniglia della piccola porta ricavata all'interno di quella più grande che scorrendo di lato consentiva l'uscita delle macchine agricole. Ma il corpo dell'uomo prese a scivolarle via e dovette sostenerlo con entrambe le mani. Proprio in quel momento, con gran fracasso, la porta più grande le sfuggì da davanti, scorrendo di lato. Accolta dal fresco mattino e dal forcone spianato del contadino, appostato lì fuori da chissà quanto tempo, Veruska fu sollevata per aver trovato qualcuno cui chiedere aiuto.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Flugzeug!
9.

Era riuscita a rivestirsi senza fare rumore. Il dottore l'aveva rassicurata: niente di rotto. Solo una distorsione alla caviglia, nulla di grave. Le aveva dato anche una profumata pomata medicinale per i lividi e per i piedi feriti dalle scarpe. Aveva solo bisogno di riposo. Aveva mandato a informare l'Ambasciata del Popolo Sovietico della loro presenza lì. Non era un evento che accadeva tutti i giorni trovarsi a soccorrere il barone Aleksandr Grigorevic Stroganov Terzo e la baronessa sua consorte, entrambi vittime di un increscioso incidente a cavallo. Doveva andarsene prima che dall'Ambasciata tornasse una risposta. Era stato uno scherzo ingannare il contadino: il medico era di certo meno sprovveduto.
Trovò le scarpe e faticò a calzarle, proprio come aveva predetto il capitano la sera prima. Povero soldato: le dispiaceva lasciarlo lì, ma aveva bisogno di cure. Era certa che il bluff sarebbe stato più facile per lui da sostenere, così come le conseguenze di venire smascherato. Uno come lui se la cava sempre, pensò.
Scostò la tendina paravento: la scrivania era deserta. Il dottore doveva ancora essere al letto di Grimovski. Era palesemente più grave di lei e aveva assorbito subito tutte le attenzioni. Soffrendo in silenzio e badando a non far rumore con le scarpe Veruska si diresse alla porticina che dava sul cortile. Da lì raggiungere l'uscita sarebbe stato uno scherzo.
La porticina le fece balzare il cuore in gola: i pannelli di vetro erano rimasti senza stucco e fecero rumore quando l'aprì, ma parve che nessuno se ne accorse. Proprio come aveva immaginato il cortile era accessibile dalla strada poiché vi era la carrozza a cavalli del dottore pronta a partire per le emergenze e il cancello era aperto per consentire a chiunque di accedere all'ambulatorio.
Fu di nuovo libera, da sola in strada. Zoppicava e coi vestiti sporchi e strappati, senza cappello e coi capelli scompigliati attirava ogni sguardo. In quelle condizioni non poteva sperare di percorrere che pochi metri prima di venire notata. Infatti l'ambulatorio del dottore era ancora in vista quando ricevette le attenzioni di una coppia di eleganti gentiluomini.
«Vi prego, c'è forse un albergo diurno vicino?» chiese loro marcando bene l'accento russo. Stava diventando brava: lo aveva combattuto per anni, ora le tornava davvero utile. Propinò anche a loro la storia della caduta da cavallo, avara di dettagli però, sottolineando più volte di avere estrema necessità di un bravo sarto.
«Teufel, la aiuteremo noi» disse il primo.
«Ci mancherebbe! Non si dica che qui a Schönwalde manchi l'ospitalità.»
«Mi raccomando la riservatezza – ripeté loro per la centesima volta – nulla si dovrà sapere di questa incresciosa vicenda. Il barone ha molti detrattori che non attendono altro che un motivo qualunque per screditarlo.»
Veruska era stata così convincente che i due parevano pronti a giurare fedeltà allo Zar. Le ripugnava far leva sui più bassi istinti maschili, ma in quel momento era importante togliersi dalla vista di tutti.
Fu scortata dai due gentiluomini fino a un albergo dignitoso. A fatica congedò i due che ardevano dal desiderio di esserle ancora utili in qualcosa e invece fece sfoggio di aristocratica spocchia col direttore dell'albergo, raccomandandogli di organizzare per lei un appuntamento con un bravo sarto, ma non prima che si fosse rinfrescata a dovere. Mentre si chiudeva nella stanza migliore Veruska si chiese da dove le venisse questa inedita attitudine alla recitazione. Pareva funzionare egregiamente.
Riempì tre volte la vasca di acqua e consumò tutti i sali da bagno, abbondando col sapone per lavarsi ogni parte del corpo più e più volte, strofinando bene e con energia perfino dove le doleva per i lividi e le ferite. Era così affamata che si era portata in bagno il cesto di frutta fresca usato come centro tavola e non aveva avanzato nulla, mangiando anche la buccia e rosicchiando per bene i torsoli. La sarta bussando la fece sobbalzare nel letto dove stava per appisolarsi per la stanchezza, avvolta nei morbidi e candidi teli da bagno dell'albergo. La donna, bassa di statura tanto da stentare a prenderle le misure, le garantì di avere qualcosa di già pronto e di adatto alla situazione e mandò il garzone a prenderlo. La ciarliera sarta la sommerse di chiacchiere durante tutto il tempo e Veruska dovette faticare per non rivelare troppo e, soprattutto, per non cadere in contraddizione. Finalmente dopo un paio d'ore era acconciata e rivestita da capo a piedi con un abito di taglio molto moderno e comodo. Ottimo per passare inosservata sia nella moderna e cosmopolita Berlino, sia a Schönwalde che in qualunque città europea. Molto più appariscenti invece le sovrane danesi fresche di conio che si era nascosta addosso, cucite in lunghe strisce di tessuto nero per fodere. Si era letteralmente fasciata con quelle, stringendo le strisce in cui aveva ricavato tantissime tasche a misura di sovrana danese. Sia la sarta che la parrucchiera che il direttore dell'albergo avevano sgranato gli occhi a dismisura alla vista dell'oro in monete sfaccettate, quelle poche che aveva mostrato per saldare loro il conto.
«Dunque l'oro ha perduto il suo valore?» aveva finto di sbottare seccata vedendo l'alternarsi di diverse espressioni sul viso del baffuto direttore. Sorpresa, incredulità, sospetto, timore, reverenza. La sarta dopo un iniziale esclamazione mal soffocata, aveva celermente intascato le monete d'oro senza proferir parola.
«Certo che no, baronessa... non è però cosa di tutti i giorni...»
«Non accade in Germania che qualcuno paghi in sovrane d'oro? Mi risulta abbiano corso legale ovunque, in Europa.»
«Ma certamente, certamente. Due sovrane basteranno, baronessa.»
Malvolentieri Veruska aveva pagato l'uomo e lasciato l'albergo. Avrebbe dovuto trovare il modo di cambiare le sovrane in demark, o avrebbe lasciato dietro di sé una traccia lucente ovunque andasse.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Flugzeug!
10.

Ripensamenti, spaventi, ritardi, estenuanti attese: dopo un travagliato viaggio durato tre giorni finalmente era giunta a Milano, in Italia! Il suo piano originale di trovare rifugio nella madrepatria Russia, dov'era nata e vissuta fino alla maggiore età, la patria di sua madre e di tutti i suoi antenati, era stato mandato a monte dagli agenti del Kaiser. Apparivano ovunque, gettandole addosso un'ansia infinita. Li aveva schivati a Dresda ma per farlo aveva dovuto prendere un treno per la splendida Praga anziché il direttissimo Dresda-Bratislava-Bucarest. Aveva pensato di rimediare con un altro treno veloce per l'incantevole Vienna, senza però trovare il tempo di visitarla come avrebbe voluto. Una volta giunta in quella meravigliosa città si era trovata assediata dalle poco fantasiose palandrane grigie degli agenti del Kaiser. Il treno per Budapest via Timisoara era presidiato. Presto si era dovuta arrendere: pareva che non si potesse nemmeno avvicinarsi a qualsiasi treno in partenza in direzione est. Erano tutti sotto controllo. Veruska si era a lungo lambiccata il cervello per immaginare il motivo: forse davano per scontato che sarebbe tornata dalla mamma. O forse la recita che la vedeva moglie del barone Stroganov era stata efficace al di là di ogni previsione.
Aveva dunque rinunciato alla Russia e scelto la prima, più semplice alternativa: l'Italia. Il ponte naturale tra l'Europa, l'Africa e il Vicino Oriente, crocevia di ricche merci e di viaggiatori, dalle radici profondamente affondate nella più nobile e antica storia e cultura; metà all'avanguardia sia per civiltà che per tecnologia, e metà immersa in uno stato di arretratezza quasi medioevale. Un popolo eterogeneo, molto poco incline alla disciplina e all'ordine, con mille leggi e divieti a regolare ogni cosa e nessuno che rispetti alcuno di questi e, a quanto si sentiva dire, un fiorente mercato di attività di ogni genere, legittime o meno. Il posto ideale per nascondersi per un periodo.
Aveva cercato di fermarsi a Venezia: la trovava incantevole anche se un po' umida e molti veneti avevano dimestichezza col tedesco o col russo. Ma nell'albergo dove aveva trovato una stanza per la notte era stata raggiunta dalla polizia di frontiera e informata che per soggiornare a Venezia era necessaria un'autorizzazione scritta col visto del Doge, autorizzazione che lei non aveva. Nemmeno aveva speranza di procurarsi dal momento che viaggiava priva di documenti. La sua borsa infatti probabilmente giaceva ancora lungo la massicciata della ferrovia a poca distanza dalla stazione di Schönwalde.
Dopo una notte tormentata da incubi come le precedenti, aveva cambiato molti demark in lire, spaventandosi per la quantità di cartamoneta che l'agente di cambio le aveva messo in mano. Si era spaventata ancor di più quando aveva visto i prezzi dei biglietti del treno: in Italia viaggiare costava quasi il doppio e i treni non erano belli né ben mantenuti come quelli tedeschi. Nemmeno la metà.
L'unico treno per Milano che non facesse cento fermate intermedie e non somigliasse a un convoglio per trasportare bovini era diretto a Torino e fermava a Verona, Brescia e Bergamo. Era partito strapieno e a ogni fermata il locomotore doveva essere rifornito, allungando enormemente i tempi di percorrenza. Aveva dovuto condividere lo scompartimento con villani senza biglietto e in tutto il viaggio non s'era visto nemmeno l'ombra della divisa del controllore, né il capotreno.
La vista della Stazione Centrale l'aveva ripagata in parte dei disagi del viaggio. Sebbene non fosse grandissima era ugualmente notevole e affascinante: l'intera copertura era sostenuta da strutture in ferro nero unite da migliaia di rivetti. Le travi metalliche erano curve a formare delle volte di buone dimensioni, abbastanza imponenti da far sembrare minuscoli i treni che vi si infilavano sotto. E non fermava la luce del giorno ormai giunto a metà.
Ebbe la fortuna di veder scorrere dal finestrino l'appartamento reale sorvegliato da guardie in alta uniforme, tutta bottoni d'oro luccicanti, alamari e mostrine splendenti. E come scintillavano i foderi delle sciabole, e gli elmi lustrati a specchio!
Più il treno si addentrava nella stazione, procedendo lentamente, più il caos e la confusione aumentavano. C'era gente ovunque, individui di ogni risma, ognuno diretto in fretta chissà dove ma ciascuno in una direzione differente. Come se lungo la banchina di attesa ci fossero molti posti dove andare! Dopo aver dato uno sguardo più attento però Veruska notò, tra i carrelli dei facchini, molti lasciati a se stessi pieni o vuoti che fossero, i trabiccoli di venditori ambulanti. Cibo, ninnoli, souvenir, perfino capi d'abbigliamento e accessori come ventagli e ombrelli parasole. Vi si trovava la mercanzia più diversa. Vi era anche chi, tra uno sbuffo di magnesio e un altro, vendeva fotografie. Caos e confusione, odori non sempre gradevoli, rumore di treni e vociare incessante regnavano sovrani, a braccetto.
Agevolata dal non possedere bagaglio se non il portafogli sempre ben stretto in mano, scese dal treno attendendo con pazienza il suo turno e sopportando che altri passeggeri, ignorando le regole di comportamento in vigore in qualsiasi paese civile avesse una ferrovia con treni passeggeri, la infastidissero col loro atteggiamento da cafoni. Non pretendeva certo d'essere agevolata o che le venisse data la precedenza, ma che almeno evitassero di urtarla coi loro sudici bagagli, di spingerla, di accalcarsi su di lei e pestarle i piedi! Qualsiasi espediente pareva buono per passarle davanti in qualsiasi fila venisse a formarsi. Fila che presto perdeva tale forma per trasformarsi in caotica calca senza ordine né rispetto alcuno. Ignorava cosa vi fosse alla testa del binario da raggiungere prima possibile, ma doveva essere importante perché davanti a lei due villani giunsero ad azzuffarsi gesticolando e scambiandosi male parole, cosa facile a intuirsi nonostante parlassero italiano, idioma a lei sconosciuto.
Invece alla testa del binario non c'era nulla di particolare, se non il resto della Stazione Centrale. La testa di altri binari, decine a prima vista, e tanto altro caos. Transitò indisturbata sotto grandi archi in mezzo a mille altre persone le più varie e assortite fino a giungere nella navata principale. Lungo le pareti perimetrali si aprivano negozi di ogni tipo e la pavimentazione di marmi policromi, a stento visibile tra tutte quelle gambe in frenetico movimento, prometteva di essere apprezzabile: si intuivano sprazzi di figure geometriche e mosaici.
Non vi erano indicazioni di alcun tipo, né incaricati cui rivolgersi. Se vi era un albergo diurno, non si trovava lì. Esaminò le grandi uscite, senza smettere di camminare per non farsi travolgere dalla folla che sciamava ovunque, ciascuno camminando frettolosamente come fosse in ritardo, e dai più pericolosi facchini coi loro carrelli carichi di valige che si dannavano per stare dietro i loro padroni.
Trovò uno degli scaloni che scendeva al livello della strada. Dalle uscite più in basso infatti intravedeva carrozze a cavalli e veicoli a vapore. L'albergo diurno si apriva su un lato, dopo la biglietteria, ma la gente che bighellonava nei pressi era di una risma che le fece cambiare idea. Uscì fuori quindi, già accaldata e provata dal viaggio, nella più calda e afosa primavera che le fosse mai capitata in vita sua, decisa ad andare a ristorarsi altrove.
Lungo il fronte della stazione correva una galleria dove stazionavano le carrozze e le auto pubbliche: nonostante il soffitto altissimo l'atmosfera era resa soffocante dal fumo, dalla polvere di carbone, dal vapore scaricato dalle valvole dei veicoli in attesa, dall'odore dei cavalli e, non ultimo, da quello dei passeggeri. Attirata dalla piazza ombreggiata che si intravedeva dalle altissime aperture, Veruska decise che sarebbe andata a piedi. Aveva letto che Milano era drasticamente più piccola di Berlino e i suoi piedi erano ormai in via di guarigione.
La piazza antistante la Stazione Centrale era stata saggiamente allestita come un giardino, con spazi lastricati che cedevano presto il passo ad ampie isole verdi ombreggiate da alberi d'alto fusto. Vi erano panchine in abbondanza anche se molte erano inutilizzabili perché sporche, vandalizzate in ogni modo o semplicemente elette a domicilio dai senza casa del posto. Uno spettacolo davvero triste, soprattutto quando Veruska si rese conto che i rappresentanti delle forze dell'ordine, distinguibili per la divisa nera con due file di bottoni d'argento e un elmetto metallico a forma di ogiva verniciato di bianco, passavano in mezzo a quel degrado gingillandosi indolenti facendo roteare i candidi manganelli trattenendoli per il laccio con un dito.
Ma all'ombra si stava bene e Veruska, ostinata a trovare una panchina decente per riposarsi un poco e riflettere sul da farsi, perseverò fino a riuscirci. Non durò a lungo: dopo aver respinto a parole il terzo accattone che con insistenza e con una lagna universale tendeva la mano a palmo insù (com'era comodo a volte il pur aspro idioma tedesco, e particolarmente efficace da quelle parti!), fu costretta ad alzarsi e a rimettersi in movimento. Era certa che tra lei e loro si notasse la differenza, ma si era resa conto che nella maggioranza dei casi gli unici a stazionare lì intorno erano dei poco di buono.
La scelta più ovvia le parve incamminarsi in linea retta: attraversò l'estrema propaggine verde della piazza antistante la stazione, una lunetta di terreno allestita con basse bordure e fiorita di coloratissimi fiori, e cominciò una passeggiata lungo Via Vittor Pisani, come recitava un segnale costituito da una elegante lastra di marmo grigio e bianco incastonata in un supporto di ferro battuto nero, ornato da riccioli e foglie. Una larga strada pedonale ombreggiata da alberi dalle fitte fronde, e molto ben frequentata: uomini d'affari, frettolosi fattorini, eleganti dame a braccetto dei loro mariti, gente per bene in apparenza, e una discreta ma congrua presenza di poliziotti in divisa; lungo la via si trovavano ricchi alberghi, eleganti ristoranti, raffinati negozi d'abiti e di accessori; anche gioiellerie, agenti di cambio che offrivano diversi tassi per cambiare le valute di mezzo mondo in lire e viceversa. Si rese conto che il tasso che le era stato applicato in Veneto era un po' più alto, ma non di molto. Alti invece erano i prezzi, nei pochi casi in cui erano esposti, di ristoranti, pasticcerie, sale da tè e sartorie.
Si innamorò di un abito esposto in vetrina, al punto che decise di entrare a informarsi sul prezzo. Era opportuno anche informarsi sulla moda milanese. Si era fatta un'idea alla stazione del treno, ma non era certo quello il posto migliore per farlo!
«Bonjour... parlez-vous français?» disse timidamente, lasciando che l'accento russo avesse la meglio sul poco esercitato francese.
«Ma certamente» le rispose la commessa in ottimo francese e quasi senza accento. Veruska la analizzò bene: era una giovane di bell'aspetto, il viso dolce e paffuto, truccata con colori scuri intorno agli occhi chiari affinché risaltassero sul viso pallido ornato da biondi capelli raccolti in uno stretto chignon. Da questo erano stati lasciati sfuggire, non senza studio né controllo, diversi lunghi ciuffi arricciati davanti alle orecchie. Indossava un abito blu scuro di raso leggero, a maniche corte e ampie, che attraverso la generosa scollatura quadrata bordata da stretto pizzo nero offriva alla vista una porzione generosa del prosperoso seno. L'abito era lungo fino a terra a celare le scarpe, ma da come la giovane si muoveva, il tacco era alto. Non indossava sottogonna e nemmeno il busto, dato che si vedeva distintamente la pancia sporgere. Se questa è la moda attuale sono perduta, pensò Veruska irritata al solo pensiero di mostrare tutta quella pelle per un capriccio della moda. Tutti i manichini del negozio esponevano abiti e camice realizzati da sarti artisti cui era ignoto il concetto di “accollato”.
In breve Veruska trovò il modo di far ciarlare la giovane commessa, che apparentemente era sola nella bottega. Si fece consigliare un albergo all'altezza ma non troppo costoso poiché prima di mettersi a provare abiti intendeva lavarsi, rifocillarsi e lasciar trascorrere le ore più calde. Apprese inoltre che quel caldo era considerato normale da quelle parti, forse un po' in anticipo per la stagione e che sì, la moda italiana del momento era di esporre il seno. Con stile, eleganza ed entro i limiti della decenza, ovviamente.
Trovò l'albergo indicatole in una traversa della poco distante Piazza del Principato. Si informò in anticipo sulle tariffe e, dato che poteva permetterselo, si assicurò una stanza doppia. Alla reception non fecero alcuna obiezione, come nessun altro prima, alla vista della lettera sostitutiva dei suoi documenti d'identità rilasciata dalla stazione di polizia di Dresda dove aveva denunciato il furto del suo bagaglio. Difficilmente chiunque a nord di Monaco avrebbe telegrafato alla polizia tedesca per chiedere conferma della sua identità, figurarsi in Italia. L'addetto dell'albergo si limitò a registrarla come Veruska Meinherz, con luogo e data di nascita, e le diede le chiavi della sua stanza.
Qui Veruska si rinfrescò e dormì un poco; mangiato uno spuntino al bar dell'albergo tornò al negozio, decisa a cambiare abito. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di confondere e ingannare eventuali inseguitori.
Oltre alla giovane, che si illuminò di ampi sorrisi e le fece mille salamelecchi al rivederla, trovò quella che doveva essere la direttrice: una elegante, sorridente vecchia megera dai modi affettati che per fortuna aveva altro da fare che tallonare la sua giovane dipendente. Provò e riprovò l'abito che tanto le era piaciuto visto in vetrina. Era costituito da una lunga ma leggera gonna a pantalone, ampia, fresca e senza sottana; da una giacca corta senza bottoni, da chiudere avvicinando i lembi mediante sottili catenelle dorate; da una camicia a scelta fra diversi modelli. Optò per la più accollata tra tutte, ma per quanto si ingegnasse nell'indossarla, questa una volta abbottonata fino all'ultimo non riusciva a nascondere del tutto il busto. La commessa cercò di convincerla ad acquistare un busto da indossare sopra la camicia, ma Veruska non volle sentire ragioni. Era d'accordo sul fatto che di tanto in tanto si potesse osare qualcosa in più, ma non era quello il momento. Stava cercando di cambiare abito per sviare l'attenzione altrui, non per attrarla. Dovette arrendersi e acquistare un capo intimo senza spalline poiché vi era la possibilità che anche quelle facessero capolino attraverso la camicia scollata. Il reggiseno portò con sé altri capi intimi e anche la gonna pantalone rivelò avere esigenze inedite per lei. Alla fine Veruska ebbe speso quasi il doppio di quanto preventivato, ma se ne usciva rivestita da capo a piedi, compresi scarpe coi tacchi alti e cappello a cilindro decorato da piccoli ingranaggi d'ottone, molto alla moda. Si sentiva un'altra persona ed era proprio ciò che desiderava. Per un minuto o due, mentre passeggiava alla ricerca di un modo economico per risolvere il problema della cena, accarezzò il pensiero di cambiare identità.

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Flugzeug!
11.

«C'è una consegna per lei, mademoiselle
Guardò l'addetto dietro il banco della reception come se lo vedesse per la prima volta. Sì, dovette arrendersi: aveva parlato in buon francese rivolgendosi proprio a lei. Non vi erano altri. Veruska, contenta per aver finalmente dormito una notte senza incubi e per essersi svegliata serenamente una volta tanto, si sentì precipitare nuovamente in un baratro di ansie e timori. Una consegna? Non aspettava nulla. Nessuno doveva sapere dove si trovasse! Faticò a non far trasparire lo sgomento.
L'addetto in divisa la precedette nel cortile interno dell'albergo. C'era una cassa di legno posata vicino al bel gazebo dove, su richiesta e se le condizioni meteorologiche lo consentivano, era possibile consumare pasti e colazione. Vicino a essa un garzone attendeva, tra le mani un corto piede di porco per schiodare il contenitore, un cubo di assi di legno chiaro su cui da diversi servizi postali erano state apposte sigle, scritte e altre indicazioni. Tra questi riconobbe l'aquila imperiale del Kaiser, simbolo della Germania. Impressa a fuoco, ovviamente.
«Abbiamo controllato, non ci sono errori» confermò l'addetto alla reception rispondendo alle sue obiezioni, esortando con un gesto il garzone affinché aprisse la cassa. Con solo un angolo della sua mente Veruska notò che il garzone si era imbambolato, ammirato, e che lei stessa era l'oggetto di tale ammirazione.
Il coperchio fu schiodato, la paglia rimossa e la corda che chiudeva il sacco di iuta fu sciolta. Con un tuffo al cuore Veruska vide apparire il suo bagaglio “smarrito” dopo essere stato lanciato giù dal treno. Sembravano fatti accaduti tre mesi prima, invece non era passata nemmeno una settimana. La sua pelle bianca recava ancora i segni di quel salto dal treno, proprio come la sua povera borsa da viaggio, un po' malconcia per via di qualche abrasione sul cuoio bruno. Con un po' di lucido da scarpe forse si sarebbe potuto rimediare, e nascondere i graffi e i punti rovinati.
«Il suo bagaglio smarrito è stato ritrovato, desumo.»
L'addetto non avrebbe potuto esprimersi meglio. Non poteva sapere cosa implicasse invece per lei quell'evento che altrimenti sarebbe stato lieto. Lei era stata trovata. In qualche modo qualcuno era riuscito a rintracciarla. Sapeva alla perfezione dove si era nascosta. Quello era il suo metodo per spaventarla. Chi poteva essere? Gli agenti del Kaiser? Chi altri se no? Erano ovunque. L'avevano tormentata fino a Vienna. E ora si trovavano lì, con lei. Nascosti chissà dove. Anche in Italia non era al sicuro. Avrebbe dovuto fuggire di nuovo. Ma dove? Nascose la paura e l'ansia che ora l'attanagliavano dietro una maschera di finta soddisfazione per il bagaglio ritrovato. Vi frugò dentro e trovò tutto come l'aveva lasciato, denaro e documenti compresi. E una scorta di sovrane danesi cucite dentro la fodera interna, invisibili ma percepibili al tatto se si sapeva dove mettere le mani.
Rientrò nell'atrio attraverso la porta a lato della reception, guadagnando così una completa panoramica sul salottino destinato all'accoglienza dei clienti e degli eventuali visitatori. Avvampò.
Rabbia, non vi era dubbio. A farle battere il cuore e arrossare la pelle del viso, a provocare un soffocato moto di stizza e un mal represso, seccato sbuffare era un attacco di collera. Non avrebbe potuto trattarsi di altro. Non avrebbe dovuto mai. Seppe dominarsi, ma com'era difficile! Lì, in piedi vicino al comodo divano di cuoio rosso ornato da cento chiodi di ottone lucidato, anch'egli ben acconciato e rivestito da capo a piedi secondo la moda italiana, il capitano d'artiglieria dell'Esercito del Popolo Sovietico Ivan Grimovski. Che le sorrideva beffardo.
«Che incantevole visione» le si rivolse in tedesco accompagnando le parole con un goffo inchino.
«Che bella sorpresa» rispose Veruska gelida.
«Vedo che ha ritrovato il bagaglio perduto. Me ne compiaccio.»
«E lei il suo bastone da passeggio» replicò pronta.
«Ne ho una scorta, ma sono affezionato a ciascuno. Mi è concesso accompagnarla per una passeggiata, fräulein
«Le permetterò di aiutarmi a cercare un bravo coiffeur, mio stimato capitano. Coi capelli in queste condizioni non ho intenzione di andare da nessuna parte.»
Si rivolse poi in francese all'addetto alla reception affinché il suo bagaglio venisse portato in camera.
A braccetto con Grimovski, ma mantenendo il massimo della freddezza e del distacco possibili, si lasciò guidare da lui. Tra un continuo scambio di battute sarcastiche di lui e velenose di lei, salirono su un caratteristico tram milanese per farsi condurre in centro città. La vettura gialla e bianca, interamente di legno, era molto moderna: dotata di motori elettrici alimentati da avveniristiche linee aeree, un'elettrica ragnatela tesa ovunque, era piuttosto silenziosa e veloce; bella, pulita e accogliente. Aveva perfino un minuscolo scomparto fumatori in coda alla carrozza, separato da una porta a soffietto, con ampio panorama sulla strada. Pareva un bovindo su rotaia. L'anziano bigliettaio in divisa li salutò in francese e, sentendoli poi parlare tra loro in tedesco, seppe salutarli appropriatamente quando li vide scendere.
Veruska dimostrò di non aver parlato a vuoto: a pochi passi dalla frequentata e splendente Piazza del Duomo, dove sorgeva la meravigliosa cattedrale gotica famosa in tutta Europa, trovò un coiffeur che aveva l'aria di essere alla moda, lussuoso e particolarmente costoso. Senza preavviso alcuno una volta entrata sfoggiò di nuovo una perfetta imitazione di aristocratica spocchia e, lasciando sconfinare l'accento russo nel francese, si fece trattare da signora; si rivolse più e più volte a Grimovski come se fosse suo marito, chiamandolo “barone” e, soprattutto, per ripicca gli fece pagare il salatissimo conto.
Nonostante cominciasse a trovare un gran gusto sia nel farsi servire e riverire come una vera baronessa, sia nel duettare con Grimovski che dimostrava di sapersi calare bene nella parte dell'aristocratico russo danaroso e succube della moglie, Veruska non si trattenne a lungo. Dopo meno di tre ore uscivano dalla lussuosa bottega, lei decisa a ripetere la colazione o, come aveva scoperto essere costume a Milano, godersi un aperitivo.
Trovato in breve un costoso locale con lussuosi privé al secondo piano che si affacciavano sul Duomo stesso, una volta serviti da un cameriere in impeccabile divisa, finalmente Veruska poté interrogare il capitano, che nonostante il salatissimo conto del parrucchiere appariva sereno e a proprio agio. Lo interpellò in russo, sebbene fosse certa di non essere origliata nemmeno per sbaglio: erano soli. Il listino prezzi di quel caffè infatti teneva alla larga moltissimi, e i prezzi col servizio al tavolo venivano quintuplicati come minimo.
«Come mi ha trovata?» rapida e veemente: alla sue stesse orecchie la domanda suonò come una raffica di mitragliatrice.
Grimovski, che aveva già il naso dentro l'elaborato calice contenente una profumata bevanda di un bel color rosso vivo, che pur non era vino, rispose infilando due dita nel panciotto color vinaccia scuro. Quando le estrasse, senza aver ancora lasciato il calice guarnito da fette d'arancia e lime, tra esse brillavano due sovrane d'oro.
«Per favore! La smetta di ostentare oro in mia presenza! È imbarazzante!»
Veruska gettò le proprie mani su quella scabra del soldato e gli sottrasse le monete. Ebbe un'incertezza nel lasciare la calda e robusta mano dell'uomo. Ecco come, si rammaricò. Esattamente quello che temevo: ho lasciato una traccia ben lucida e semplice da seguire.
«Le ho recuperate quasi tutte, tranne quelle degli agenti di cambio - Grimovski aveva finalmente tirato fuori il naso dal calice - Se non altro, sono state quelle meglio spese tra tutte. Oltre quella con cui ho saldato il vostro esclusivo coiffeur milanese poco fa. Vi ha acconciata davvero bene: siete di un incomparabile splendore.»
«Insolente!» sibilò Veruska furiosa. Avrebbe dovuto aspettarselo da un ruvido soldato abituato più alla vita delle trincee che a quella da pacifico cittadino. Inoltre pareva trovasse un gusto particolare nel metterla in imbarazzo.
«Giusto perché lei lo sappia, bella signorina, con le due monete usate per saldare il conto dell'albergo diurno di Schönwalde avreste potuto eleggere quella stanza a vostro domicilio per un mese, pasti compresi. E siete stata fortunata, per così dire, a incontrare farabutti di piccola taglia. Da un lato nessuno vi ha chiesto conto di quell'oro, accettandolo senza che voi esibiste la prova che fosse davvero vostro. Dall'altro nessuno vi ha tagliato la gola nottetempo alla ricerca del resto del... gruzzolo?»
Veruska si sentì una perfetta imbecille. Chissà quanti rischi aveva corso, quante volte si era fatta truffare senza nemmeno rendersene conto. Quand'era riuscita a fare un raffronto, come quello tra gli agenti di cambio di Venezia e Milano, non le era sembrato fosse così facile sbagliare. Perdere l'orientamento fra oro coniato, demark, corone ceche e lire italiane era invece piuttosto facile e lei troppo angosciata per ragionare sempre con freddezza e lucidità.
Senza nemmeno sapere perché Veruska raccontò quello che le era successo dopo la partenza, o la fuga come la corresse Grimovski, da Schönwalde. Forse desiderava non commettere più idiozie, forse cercava solo conforto per le disavventure subite. Il capitano stette attento, ascoltandola fino all'ultima parola, intervenendo raramente e con poche parole.
«Qual è il pericolo, ora?»
«Non saprei. Siamo in Italia, qualunque cosa può succedere. O anche esattamente niente. Nulla di nulla.»
Veruska osservò attonita Grimovski ingoiare sereno una tartina intera.
«Che razza di risposta sarebbe questa?»
«Sono spiacente che non la gradisca. Ma così è. Apparentemente non ci sono pericoli. Gli agenti del Kaiser si saranno stancati di controllare i treni e, a meno che lei abbia pagato un biglietto spendendo oro coniato, cosa folle e che quindi escluderei, non hanno modo di sapere qual è la direzione da lei presa per la sua fuga.»
«Ma... ma... lei non può stare lì a ingozzarsi come se niente fosse! Deve fare qualcosa!»
A voce bassa che la si sentiva appena, ma Veruska mise tutta l'ira che poté nelle sue parole. Tanta che perfino Grimovski si scosse un poco dal suo atteggiamento indolente.
«Mia cara...» esordì.
«Conservi certi appellativi per le sue fidanzate, capitano! Io e lei abbiamo ben poco da spartire.»
Un'ombra attraversò il viso dell'uomo e Veruska ebbe paura. Paura di aver esagerato. Paura di aver giocato col fuoco e aver appiccato le fiamme, di aver valicato il limite. Qualcosa le frullò nel centro del petto e no, stavolta il rossore che le imporporò le guance non era rabbia.
«Dicevo... siamo in una nazione dove è piuttosto agevole trovare un modo per far perdere le nostre tracce. Quindi direi di evitare ulteriori inutili recite sopra le righe come quella di poco fa. Chiudiamo in un cassetto il barone e la baronessa Stroganov e ce li lasciamo fino a quando ci serviranno davvero. Suggerisco una bella vacanza discreta, silenziosa, senza eccessi in un luogo facilmente controllabile. A poche decine di chilometri a nord da qui vi sono eleganti e... intime località di villeggiatura in riva a laghi davvero splendidi. La stagione è ottima e ci confonderemo alla perfezione in mezzo ai villeggian...»
«Lei è uno svergognato!» scattò Veruska, trattenendosi dal pronunciare molti altri appellativi che le venivano in mente uno dietro l'altro, nessuno lusinghiero. Il cameriere da lontano la udì e si volse verso di lei, ma non si mosse. Improbabile che comprendesse il russo, ma lei abbassò di nuovo il tono di voce, ripromettendosi di non lasciarsi più trasportare dall'ira.
«Agenti segreti mi inseguono nemmeno so perché, non esitano a impugnare le armi, a fermare treni e a perquisire intere stazioni per prendermi... e lei mi consiglia una vacanza? Da trascorrere soli io e lei, magari, in una località romantica in riva al lago? Ma per chi mi ha presa?»
Grimovski usò con maniere appropriate il tovagliolo decorato dal nome del caffè ricamato con un filo di seta; poi le rivolse uno sguardo che la fece rabbrividire. Occhi che le rammentarono come avesse di fronte un soldato reduce da molte battaglie, una persona indurita dalla guerra, avvezza a vedere la morte in faccia. Un uomo pericoloso, non un molle cicisbeo incipriato qualsiasi.
«Provo a spiegarmi con parole povere, come povero io stesso sono di buone maniere e vocaboli forbiti. Da un lato le sto offrendo la mia protezione. Chiamiamola così oppure vacanza, non mi importa. Dall'altro la metto in guardia; mentre lei abilmente creava diversivi di ogni genere, dal campo di volo di Grunewald ignoti hanno sottratto il prototipo. Il Kaiser, inutile dirlo, è furibondo. Tra noi due, a me povero soldato ignorante, pare che chi debba fare urgentemente qualcosa sia lei, bella signorina.»
Veruska sbigottita si rese conto di avere la bocca schiusa.
«Per esempio, sarebbe per lo meno opportuno che lei convincesse questo povero capitano di artiglieria dell'Esercito del Popolo Sovietico di non essere passata al nemico, nella fattispecie il Principe di Savoia, e di non aver intorbidito le acque di proposito creando un diversivo per agevolare il furto del prototipo da parte degli agenti italiani.»
«P-perché dice questo?»
«Perché – continuò severo il capitano, perduto ogni atteggiamento scherzoso – il prototipo è stato avvistato a poche ore di distanza dalla sua rocambolesca e solo in apparenza disordinata fuga, dapprima nei cieli di Bautzen, a est di Dresda. Poi sopra Krivoklatsko, una regione boscosa a ovest di Praga. Poi a sud di Ratisbona. Più nessuna traccia per parecchie ore, tanto da far pensare che fosse precipitato. Miracolosamente ieri qualcuno ha brevemente avvistato un “oggetto volante” simile a un uccello sorvolare i monti che circondano il lago di Como. Quanta strada... ma il nostro “oggetto” può, per l'appunto, volare. Ed è veloce. Ma tutte queste cose noi le sappiamo già, vero?»
Raggelando al tono minaccioso del capitano, Veruska non seppe far altro che rifugiarsi nella colorata bevanda che non aveva ancora nemmeno sfiorato.

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


Flugzeug!
12.

Bella. Arrabbiata, e ai suoi occhi dunque ancor più bella e intrigante. Aveva trascorso il breve viaggio in treno da Milano a Lecco osservandola ma scambiando ben poche parole. Immaginava fosse furiosa con lui. Ma non aveva molta importanza. O forse ne aveva? Possedeva un carattere di ferro. Non aveva mai incontrato una donna capace di insultarlo tre volte in due minuti senza che assaggiasse un manrovescio dritto sulla bocca. Non ce la faceva. Non poteva colpirla. Non avrebbe potuto, mai. Qualcosa lo bloccava. Rispetto? Forse. Era forte, più di altri uomini da lui incontrati in passato. La forza, quella forza, meritava rispetto.
Poi, fatto da non trascurare, era davvero bella. Dopo averla vista indossare la severa divisa da domestica prima, che pure le donava tantissimo, in abiti da viaggio poi, ancora più coprenti e severi a causa dell'incomprensibile fobia della corrente moda tedesca per la pelle scoperta, ora vestiva all'italiana. Gli italiani! Loro sì che la sapevano lunga! Abiti smanicati e ampie scollature ovunque. Certo manchevoli in moltissime cose, ma non nell'arte di vestire una donna graziosa come Veruska. Che da sotto il suo cappello a cilindro decorato da ingranaggi d'ottone invecchiato non gli lesinava mute occhiatacce incendiarie. Se davvero avesse avuto il temibile flammenwerfen tedesco al posto di quel bocciolo rosa che era la sua bocca, sarebbe già stato incenerito a Milano durante l'aperitivo. E che incantevole apparizione era stata la sua nell'albergo, subito dopo la colazione! Vestita a nuovo, per la prima volta la vedeva esibire la candida pelle delle sottili braccia sebbene solo dai gomiti ai polsi. Perfino uno stretto spicchio di petto e la punta delle clavicole. Scarpe col tacco alto, molto elaborate e confezionate con pelle tinta in tre colori diversi. E per tutti i proietti d'artiglieria, la gonna pantalone le aderiva ai fianchi tanto da evidenziarne del tutto le curve e da fornire perfino piccoli dettagli rivelatori sulla forma delle natiche, che promettevano di essere al pari di un delizioso capolavoro di scultura! Chissà quali argomenti doveva aver usato il sarto per convincerla a osare tanto.
Doveva essere prudente, però. Non doveva lasciare che il proprio giudizio venisse appannato dalla mascolinità. Veruska aveva agito quasi sempre con sospetta sincronia con i misteriosi ladri del prototipo. Si era diretta in Italia e, forse per un caso o forse no, ecco che il prototipo appariva brevemente nei cieli italici, appena valicate le Alpi. Quale migliore dimostrazione di efficacia! Nemmeno le alte catene montuose avrebbero fermato quel congegno. Il prototipo proseguiva il suo volo là dove moltissimi dirigibili e aerostati erano costretti a fare dietro-front. Non era un caso se i cieli sopra Lecco erano sgombri: i piloni di attracco più prossimi si trovavano intorno a Cantù. Se invece fosse stato tutto preordinato dal Kaiser? Se l'intenzione fosse stata quella di fingere un furto per dimostrare a tutta l'Europa di cosa era capace il genio e l'inventiva del popolo germanico? Il Kaiser avrebbe prodotto in grandissima serie il nuovo velivolo e l'avrebbe venduto a chiunque potesse permetterselo. Fino a colmare il cielo di inarrestabili congegni volanti, veloci e potenti. E di oro le casse del Reich. Futuro radioso o cupo incubo? Cercò di convincersi che un buon tiro d'artiglieria in grado di schiantare una fortificazione a migliaia di metri di distanza avrebbe ridotto in polvere qualsiasi congegno volante, per quanto veloce fosse.
E la bella Veruska, incantevole spia? Da che parte stava? Bravissima nel recitare, si era sempre dichiarata estranea. Aveva sempre negato di essere un agente dello Zar, ma i disegni di Schmeisser alla fine li aveva rubati lei. Gli ingegneri aeronautici del Kaiser progettavano un rivoluzionario velivolo e lei era a pochi chilometri di distanza, abile a celare le sue vere intenzioni dietro il paravento della brava domestica di un medico, casualmente un ex agente del controspionaggio russo. Il KGB ignorava chi lei fosse, segno che suggeriva potesse essere un agente di alto livello. Ma al Cremlino nessuno la conosceva, possibile indizio che la bella Veruska mentisse, essendo in realtà l'agente di un'altra nazione. L'Italia? Forse. I recenti avvenimenti lo suggerivano. Ma il suo istinto di soldato, lo stesso che cento volte gli aveva fatto abbassare in tempo la testa in battaglia, gli suggeriva che Veruska non fosse ciò che appariva.
Sotto le ruote della carrozza a cavalli prese a scricchiolare ghiaia grossa. Il treno giunto a Lecco non proseguiva nella direzione desiderata ed erano stati obbligati a noleggiare una vetturetta aperta. Non vi erano auto pubbliche a vapore e nemmeno elettriche a disposizione in quel mentre poiché erano poche e richiestissime, tanto da dover prenotare in anticipo la corsa.
Erano così giunti a Malgrate, all'hotel Astrid, intenzionati a trascorrere da quelle parti un periodo cambiando frequentemente alloggio. Questo in attesa che le acque si calmassero. Veruska non l'aveva messo al corrente né delle sue intenzioni, né dei suoi desideri. A lui interessava solo mettere le mani sul prototipo, o sui disegni, e possibilmente sui suoi ladri. Non poteva tornare dallo Zar a mani vuote. E se Veruska non fosse riuscita a fugare i suoi dubbi, sarebbe stata lei stessa il bottino.
L'hotel Astrid era un bell'edificio chiaro, ricco e decorato che si affacciava sul lago in modo che a Grimovski parve fin troppo... ripido. Era immerso nel verde di alberi alti e sembrava spazioso ma, a un esame più attento, appariva quanto poco fosse il terreno a disposizione da quelle parti per edificare. Tutto era ottimizzato al massimo e col pensiero il soldato si complimentò con architetti e geometri: nonostante il poco spazio a disposizione, il risultato ottenuto era incantevole. L'hotel, il suo piccolo parco, le verande, le aree per intrattenere gli ospiti. Pareva di stare dentro una bomboniera. Se ne compiacque, anche per il fatto che a pagare tutto quel lusso sarebbero state le lire italiane di Veruska, ottenute cambiando l'aureo fior di conio danese.
Riuscì a strappare alla bella ma gelida domestica bionda una mezza promessa per cenare e trascorrere la sera insieme. Intuiva come lei desiderasse dargli l'impressione di essere a stento sopportato, ma forse nella spessa armatura della giovane si stavano aprendo alcune crepe. Si recò nella propria stanza a rinfrescarsi: l'appuntamento era per di lì a poco per una breve passeggiata per stimolare l'appetito.

A braccetto, ma solo perché dopo essere giunti alle prime costruzioni in riva al lago lei si era lamentata della caviglia che ancora le doleva. Stettero a riposare su una bella panchina che dava su una piccola darsena dove alcune modeste imbarcazioni trovavano rifugio. Vi era anche uno scafo a motore: un ingegnoso meccanismo consentiva di mettere fuoribordo la ruota a pale, non più piccola di una ruota di carrozza, e sfruttare il motore a vapore anziché la piccola vela. Il motore stesso era a dir poco minuscolo e lo scafo capace di non più di quattro o cinque uomini, dovendo lasciare spazio a una sufficiente scorta di carbone. Quel piccolo gioiello di tecnica navale se ne stava ormeggiato senza sorveglianza né alcun tipo di dispositivo di protezione contro i ladri. Segno che gli abitanti del lago erano o molto fiduciosi nel prossimo e nella giustizia, oppure scellerati ottimisti.
Trascorsi in silenzio parecchi minuti, ora osservando le vele candide, ora i monti che il sole calante stava ricoprendo d'oro, ora le lontane cime azzurre e il cielo così limpido da far male agli occhi, Grimovski si meravigliò nel sentire d'un tratto la voce di Veruska.
«Vogliamo proseguire ancora un poco, capitano?»
«La pensavo ammaliata da questo splendido paesaggio» ribatté lui alzandosi lesto e offrendole il braccio come si conviene.
«Davvero incantevole. Me ne distacco malvolentieri, mi creda. Ma se non vuole che io perda i sensi per la fame, dovremo trovare un posto dove cenare. Il menu dell'albergo dove siamo alloggiati sarà invitante, ma non vi sono riportati i prezzi.»
«Brutto segno, vero?» replicò Grimovski avendo intuito il problema. Nonostante disponesse di un capitale considerevole in oro e denaro già versato nelle solide e sicure casse svizzere, la prudente Veruska evitava ogni sperpero.
Camminarono ancora a braccetto sulla strada che i residenti chiamavano lungolago[7], parola italiana composta che indicava per l'appunto il percorso lungo la riva del lago. Panoramico e decisamente suggestivo: dai monti alla loro destra le ombre della sera calavano sempre più cupe mentre a sinistra il lago tardava a scurirsi sotto il cielo ancora chiaro. Lasciarono alle spalle una stretta spiaggetta ormai vuota e raggiunsero un piccolo albergo che era stato ricavato in una villa espropriata. Vi era in corso una festa, o un rinfresco, poiché si sentiva un allegro vociare, tintinnare di calici e squilli di risa. Cento luci brillanti erano accese all'interno di quella che sembrava una sala gremita e fuori, al riparo di siepi ben tenute, erano stati allestiti gazebo, ombrelloni e tavoli imbanditi.
A pochi passi dall'ingresso dell'albergo in festa un cavalletto posato lungo il marciapiedi attirò la sua attenzione. Un manifesto stampato in due colori, nero e rosso, che pubblicizzava in tre lingue una festa che però non era quella. Ma Grimovski non era interessato alla festa.
«Che succede? – lo interpellò Veruska. Il soldato si era tradito irrigidendosi alla lettura del manifesto – Non avrà intenzione di partecipare, vero?»
«Non le suggerisce nulla il nome?»
«“La contessa Maria Benedetta Sottocorno Sforza è lieta di invitare...” eccetera eccetera... cosa dovrebbe dirmi tutto ciò?»
Brava Veruska, pensò il capitano. Evita le trappole con maestria ed eleganza, meglio di me.
«A parte aver usurpato il titolo e anche il nome degli Sforza, cosa che mi aspetto da una arrogante come costei, Sottocorno è uno dei nomi usati da una nostra comune conoscenza per nascondersi. Maria Concetta invece, potrebbe essere perfino il suo vero nome.»
Col braccio sentì la presa della mano della giovane venire meno. Si era resa conto?
«Нет, не совсем она![8]» esclamò a mezza voce, impallidita. Grimovski non poté evitare di notare come le labbra di un tenue color corallo risaltassero sulla pelle bianca. Le sembrò che stesse per accasciarsi e la afferrò per un gomito, pronto a sostenerla. Ma quella si riscosse e con uno scatto minimo ma deciso sfuggì alla presa. Tipico di lei, pensò il soldato. Tutta d'un pezzo fino all'ultimo.

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


Flugzeug!
13.

«No, no e ancora no.»
In tedesco quella semplice frase assumeva una connotazione di totale chiusura, negazione senza margine di trattativa. Veruska non si scaldò come aveva fatto nel lussuoso caffè in Piazza Duomo a Milano solo poche ore prima. Orgogliosa di aver mantenuto il controllo della voce, desiderò potesse avere altrettanta padronanza sulla propria epidermide: sentiva il viso avvampare, segno che le guance le si erano arrossate. La carnagione chiarissima non l'aiutava, anzi evidenziava ancor più ogni minimo rossore.
In piedi presso il buffet della festa, che avevano scoperto essere aperta a chiunque purché vestisse elegantemente, scortata da vicino dal capitano Grimovski, con uno stecchino biforcuto infilzava il cibo che si era servita da sé dai piatti di portata ben esposti lungo i tavoli sotto i gazebo, nel giardino dell'albergo. Aveva appetito poiché, pur di partire in fretta da Milano, per pranzare si era accontentata del classico sandwich, il ricco tramezzino all'inglese acquistato prima di salire sul treno. Grimovski, anche lui armato di piatto ben rifornito e di un lungo stecco di legno, col suo bel bastone sottobraccio la tallonava passo per passo.
«È di vitale importanza per la nostra missione che...»
«La sua missione, capitano. Non la mia. È lei la spia, qui.»
«La prego, Veruska – continuò Grimovski sempre sottovoce, standole fin troppo vicino – attenta a ciò che dice e, per lo Zar di tutte le Russie, tenga bassa la voce.»
Senza eccedere nella posa la giovane si spostò con incedere lento ma elegante presso il gazebo adiacente dove il tavolo era coperto da una piramide trasparente formata da moltissimi scintillanti calici dal lungo gambo.
«Eau vive ou vin, mademoiselle?» le chiese il cameriere in guanti bianchi che con un capiente mestolo d'argento lucidissimo riempiva i calici con fresco vino bianco aromatizzato oppure acqua brillante[9], una bevanda non alcolica insaporita da limone, zenzero, cannella e vivacizzata da minuscole bollicine di anidride carbonica.
Servita la bevanda Veruska la sorseggiò, compiacendosi dapprima per il sapore e la freschezza di quell'insolita acqua, poi per il fatto che il capitano la imitò senza esitazione.
«Se vuole seguirmi» le disse indicandole col calice colmo una panchina miracolosamente libera, illuminata dalla luce dorata di un grappolo di lampade elettriche appese a uno dei tanti eleganti lampioni che rischiaravano piacevolmente la giovane sera scesa piano nel giardino.
«Non ho alcuna intenzione di infilare la testa nelle fauci del lupo» disse subito dopo essersi accomodata, ancor prima che l'uomo aprisse la bocca.
«Prometto che sarà libera di andare via non appena vorrà farlo» le disse, solenne.
«Non mi farò nemmeno vedere, altroché. Dovrà fare senza di me.»
«Presentarmi da solo servirà solo a farmi respingere come un villano qualsiasi» ribadì il capitano. Veruska fu sorpresa dal pensiero, sbocciato nella sua mente lesto e spontaneo, che il capitano in effetti era esattamente un villano. Tenne a freno la lingua, ma non riuscì a vergognarsi.
«Potrebbe fingere un dolore alla testa. Nessuno potrà controllare, no? Sarebbe libera di andarsene indisturbata con questa scusa, o una simile» insisté Grimovski visto che lei tardava a rispondere.
«Secondo lei, capitano, una giovane come me senza alcuna preparazione potrebbe mai improvvisarsi spia e scoprire dove viene custodito un incredibile congegno di cui nemmeno è certa l'esistenza? Con quale faccia poi dovrei presentarmi, con in animo un tale proposito, a una festa la cui personalità di maggior spicco è colei la quale un anno fa io non esitai a tramortire colpendola alla testa con un tubo d'ottone colmo di disegni?»
«Le assicuro che la nostra ospite ha la testa davvero dura e non ha subito alcuna conseguenza dal trauma, se si esclude l'iniziale intontimento.»
Veruska non seppe distinguere l'ironia dalla realtà nelle parole del capitano. Aveva ancora negli occhi la vista di Maria, stretta nella divisa da domestica, che si afflosciava a terra dopo aver incassato il suo colpo a tradimento, assestato senza mezze misure con il preciso scopo di metterla fuori gioco abbastanza a lungo da garantirsi la fuga. Ammesso non avesse riportato danni nel corpo, certo era un tipo di addio difficile da dimenticare. E Maria era proprio il tipo da serbare rancore molto a lungo.
«Le posso assicurare che il misterioso congegno è reale e che sono pressoché certo sia stato portato qui, in Italia. Non è un caso se la nostra spia italiana si trovi qui, ora. Scoprire dove si trova il velivolo e raccogliere il maggior numero di informazioni per stabilire il prossimo passo è nostro preciso dovere. Lei dovrà solo recitare la parte della baronessa Stroganova per il tempo strettamente necessario a entrare nella villa. Ha letto il manifesto, no? Senza un titolo nobiliare non si entra. Senza una dama nemmeno.»
«È una serata danzante, e io non sono all'altezza!» sibilò Veruska tra i denti. Le seccava moltissimo ammetterlo, ma la danza era sempre stata per lei una disciplina ostica. A stento riusciva a non sfigurare in modo plateale, goffa e rigida com'era. Per tacere dell'umiliazione d'essere abbandonata dal compagno di danza a metà del ballo a causa della sua evidente inettitudine. Umiliazione subita più d'una volta.
«Non sarà necessario esibirsi» la rassicurò il capitano, fallendo però l'obiettivo. Veruska non si sentì affatto rassicurata. Nella sua mente il disastro era inevitabile. Non sarebbe riuscita ad andare via e presto l'orchestra avrebbe cominciato a suonare. La trappola sarebbe dunque scattata e tutti gli occhi sarebbero stati su di lei che non sapeva mettere un piede davanti all'altro per eseguire un passo di danza qualsiasi, nemmeno il più semplice, con la necessaria grazia e perizia.
«Lo escludo. Non l'accompagnerò.»
Grimovski sbuffò seccato, piano abbastanza da non farsi sentire da nessuno tranne che da lei. Fece seguire diversi, lunghi secondi di silenzio prima di replicare.
«È l'ultima parola? La prego di pensarci molto bene prima di rispondere.»
Veruska rimase spiazzata dal tono grave nella voce dell'uomo. Ci pensò su davvero, con attenzione come se le fosse all'improvviso sorto un dubbio angosciante. Ma no, non riusciva a pensare a cosa sarebbe potuto accaderle di male se non avesse nuovamente recitato la parte della baronessa consorte di Aleksandr Grigorevic Stroganov Terzo, discendente di una schiatta di baroni da generazioni ammessi alla corte dello Zar di Russia.
«Lo è.»
«E sia – sospirò il soldato con rassegnazione – sarò costretto a procurarmi una baronessa a buon prezzo.»
Veruska si allarmò. Non poteva essere: il capitano non stava dicendo sul serio. Lo interpellò prontamente.
«Non ho scelta. Non posso tornare dallo Zar con un fallimento. Non posso certo fallire per non essere riuscito a trovare un'accompagnatrice per una festa. Ma non si preoccupi per me, signorina Veruska. Il denaro è un potente alleato e ci troviamo in un paese dove il suo potere è notevolmente amplificato. Per la giusta cifra riuscirò a lustrare a dovere e a trasformare in baronessa anche la ragazzina lavapiatti di questo stesso albergo. Anzi, mi consenta di andare a sbirciare nelle cucine. Magari è davvero così.»
«Si vergogni!» sibilò piano Veruska sollevandosi in piedi un istante dopo il capitano, ma quello non dette cenno d'averla sentita e si allontanò.
Non poteva credere che un uomo, per quanto villano, dissoluto e screanzato potesse essere, arrivasse a ordire un perverso e macchinoso piano come quello. Fingersi nuovamente il barone Stroganov, farsi accompagnare da una altrettanto finta consorte pescata a caso nel numero delle sgualdrine a pagamento per poter accedere alla festa danzante organizzata dalla pericolosa spia italiana che già una volta aveva incrociato la loro strada. E che lei aveva avuto l'improvvida ispirazione di colpire con forza alla testa per rubarle i disegni del giovane Schmeisser, i suoi sogni per un mondo migliore, vilmente ceduti poi di lì a poco in cambio di comodo ma ancor più vile oro. Veruska si sentiva contesa tra rabbia e sconforto. Come se tanta disgrazia non bastasse, ecco che le spie di mezzo mondo la consideravano una loro pari e la combattevano secondo pericolose regole che lei ignorava del tutto, con mezzi di cui lei non disponeva affatto. Al colmo di tutto, dopo essere stata suo malgrado costretta a stare al gioco, per così dire, attraversate cento peripezie ecco che stava per essere rimpiazzata da chissà chi. Davvero la lavapiatti, si chiese. O piuttosto una donnaccia da strada, una meretrice volgare affittata a ore e portata a forza di denaro contante fuori dal bordello dove esercitava, rivestita e ripulita per interpretare il ruolo di una nobile baronessa russa? Non poteva crederci.
Si costrinse a rallentare i suoi pensieri che troppo velocemente stavano correndo a briglia sciolta, e nella direzione sbagliata. Le si presentava un'occasione ghiotta: non subito poiché non avrebbe certo trovato treni in partenza nella notte, ma alle prime luci dell'alba seguente avrebbe potuto fare i bagagli e ripartire, con il capitano troppo impegnato a inseguire luride sottane, o pericolose spie italiane, o entrambe le cose. Per tacere dei miracolosi congegni volanti di cui non vi era prova alcuna a suffragio di quanto lo stesso capitano le aveva detto. Avrebbe potuto riprendere il suo viaggio verso est: avrebbe potuto scegliere se tornare sui suoi passi e dirigersi al confine ungherese. Da lì trovare un treno per Kiev sarebbe stato uno scherzo. Per Mosca un ancor più agevole transito l'attendeva. Per prudenza avrebbe potuto recarsi a Zelenograd, dove viveva zia Dima, sorella di sua madre. Avrebbe potuto telegrafare da Kiev per avvisarla. Le sembrò così semplice che già vedeva la sterminata campagna a ovest della capitale, coltivata con metodo e rigore famosi in tutto il mondo. Molto meglio che proseguire verso il sud Italia, con l'incognita dei treni poco affidabili e meno frequenti rispetto a quelli del nord-est europeo. Per tacer dell'attraversamento del Mare Adriatico per giungere nella depressa Albania: un territorio pressoché sconosciuto teatro di recenti tensioni politiche. E sarebbe stata solo a metà del viaggio: Tirana, Skopje, Sofia, Bucarest da raggiungere e lasciarsi alle spalle prima di guadagnare la più familiare Odessa. Migliaia di chilometri da percorrere chissà in che condizioni, esponendosi a pericoli che nemmeno immaginava. A poche ore di viaggio dalla Turchia, nazione ostile e perennemente impegnata in lente ma inesauribili guerre di confine. Una donna sola in viaggio da quelle parti le parve molto più pericoloso che continuare a interpretare la spia che si fingeva baronessa, o domestica, o nobile consorte o chissà cos'altro le avrebbe chiesto Grimovski se avesse continuato ad assecondarlo. Un pericoloso gioco di matrioske!
Veruska scacciò subito la voce che le suggerì bisbigliando che finché fosse stata al fianco di Grimovski non sarebbe stata sola né priva di protezione. Che indecenza! Era proprio il soldato la causa di molti dei suoi guai! Lui a intrappolarla spalle al muro per farle cedere i disegni di Schmeisser, un anno prima. Lui a palesarsi come intermediario per il pagamento, quel vergognoso baratto di oro in cambio di sogni. Lui a crederla una spia del KGB, sua pari. Lui a sventolare a ogni passo quelle imbarazzanti sovrane danesi, più lucide e scintillanti di un lampadario di cristallo con trenta braccia! No, doveva essere corretta: la scelta di farsi pagare in oro coniato era stata tutta sua. Grimovski non aveva messo becco in quella decisione.
«Mi permette, mademoiselle
Trasalì. Immersa com'era nelle sue profonde elucubrazioni, nemmeno si era accorta dell'avvicinarsi di un elegante gentiluomo. Alto, slanciato e ben vestito, cortese e possessore di un discreto francese che aveva usato per distoglierla dai suoi pensieri. Nelle mani guantate di nero stringeva due calici, uno dei quali le veniva offerto.
«Merci, monsieur» rispose tingendo abilmente il francese con l'accento russo.

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


Flugzeug!
14.

Guardò più e più volte la donna alla tenue luce che rischiarava l'interno della carrozza chiusa. Più la osservava, meno la trovava convincente. Aveva speso tempo e denaro per ripulire e rivestire in fretta una già costosa puttana, ma più tempo passava, più si convinceva d'aver sbagliato. La maîtresse, quell'astuta volpe grigia italiana, lo aveva truffato. Questo appariva ormai chiaro. Avrebbe potuto spendere metà dell'oro dello Zar ma con una sola ora di preparativi una baldracca non sarebbe mai arrivata a somigliare a una baronessa, nemmeno da lontano. Forse era solo una sua sensazione, ma nonostante il bagno con abbondante sapone e sali profumati, abiti costosi, profumi e belletti a non finire quella donna puzzava ancora.
Ma ciò che lo preoccupava davvero era che non riusciva a stare zitta: sapeva il francese, per fortuna o purtroppo. L'aveva scelta anche per quello. Da un lato la rendeva più credibile, anche se il francese di quella era appesantito dall'italiano. Cosa improbabile per una baronessa che in teoria avrebbe dovuto essere avvezza alla corte dello Zar. Dall'altro il francese la esponeva di continuo a pericolosi scivoloni, non solo per via dell'accento. Parlava come una lavandaia e non smetteva di stuzzicarlo in ogni modo. Non voleva capire che quella non era una serata da dedicare a sordidi rapporti carnali, resi eccitanti dall'ambientazione per lei del tutto inedita. E se lei fosse scivolata, avrebbe trascinato irrimediabilmente anche lui.
Oh, Veruska! Sospirò pensando con rammarico alla bella domestica, inedita spia del KGB così calata nella parte da sembrare a tratti davvero una domestica in balia delle onde di un mare a lei del tutto ignoto. Ormai era chiaro anche come si fosse sbagliato su di lei credendola una sprovveduta finita in un gioco troppo grande e pericoloso.
La carrozza a cavalli rallentò, sobbalzò scendendo dalla strada pubblica e percorsi pochi metri sul selciato, si fermò troppo presto. Grimovski ne chiese conto al cocchiere, che però non parlava francese.
«Adess! L'è rivaa 'l padron![10]» gli rispose quello con un tono che il soldato gradì poco, come poco gradì il fatto che gli venisse data risposta in italiano, per lui incomprensibile. Sporse la testa dal finestrino e fu costretto a constatare che l'intero viale che portava alla scalinata della villa, illuminata a giorno per la festa, era ingombro di carrozze in coda. C'erano perfino delle lussuose automobili a vapore, non così frequenti da quelle parti come nella caotica e moderna Berlino. Tutti fermi in attesa che l'ingorgo si sciogliesse.
Come se l'irriverente cocchiere si fosse rivolto alla prostituta, i due cominciarono un incomprensibile e serrato dialogo, punteggiato dalle risa volgari di lei. Ciò fece indispettire Grimovski. Come se non bastasse, lo svelto e sonoro cicalare tra i due degenerò al punto che il capitano dovette intervenire bruscamente.
«Vogliamo farla finita, possibilmente subito?» scattò iroso, senza dimenticare l'accento russo.
«Se vuoi comandare vai a casa tua e dai ordini alla mogliettina, barone. Ma se sei qui con me è chiaro che quella non si lascia comandare. Tanto che se vuoi andare al ballo hai bisogno che io mi finga lei. Povero barone... sbaronato!»
La risata volgare che accompagnò i poco velati insulti fece vedere rosso al soldato che senza nemmeno accorgersene cominciò a sfilarsi i guanti bianchi. Gesto che non passò inosservato agli occhi della prostituta.
«Sono io che pago, rammenta.»
«Sono io tua moglie stasera: rammenta questo, babbeo... altrimenti che fai? Non mi paghi? Sarà molto peggio per te. O mi picchierai? Devi solo...»
Il manrovescio la centrò proprio sulla bocca scarlatta e volgare. Dopo un breve istante di sorpresa, subito svanita, quella reagì sferrando uno schiaffo al viso di Grimovski, veloce e preciso. Mossa consumata dall'abitudine a menare le mani.
Il soldato non si fece cogliere di sorpresa. Con un braccio parò lo schiaffo diretto al proprio viso e un istante dopo un nuovo sonoro colpo centrò al volto la donna, così forte da farle voltare la testa. Quando quella si riebbe dalla violenta percossa, stavolta dopo diversi secondi, sprizzava fiamme dagli occhi lucidi, e due grosse lacrime erano sgorgate a rigarle il viso fino al mento. In quel momento il terzo colpo di Grimovski, un altro manrovescio, andò a segno dritto e potente tanto che la prostituta gemette per il dolore, le mani al viso.
«Te seet dree a faa?[11]» esclamò il cocchiere. Grimovski non capì una parola e rispose bruscamente in francese di badare ai fatti propri. Sottolineò battendo il bastone contro la parete della carrozza. Fu il turno del cocchiere di non comprendere il francese ma di desumere il senso dal tono della voce. Quello di qualcuno abituato a dare ordini non discutibili, e a impartire punizioni severe e inevitabili. Optò saggiamente per starsene seduto a cassetta, zitto e buono.
Ci volle un po' perché si decidesse, ma a poca distanza dai piedi della scalinata, dove due lacchè in divisa accoglievano e annunciavano gli ospiti, aiutandoli a scendere dalle vetture, la prostituta ora muta cominciò a ricomporsi cancellando con cosmetici i segni della piccola colluttazione. Grimovski si rese conto, osservando gli ospiti che salivano la scalinata, che il livello della festa non doveva essere poi così elevato: gli parve evidente come alcuni arrivassero a quella festa danzante già brilli. Forse la sua “consorte” avrebbe avuto una debole possibilità di cavarsela.
Giunse il suo turno e con un inedito groppo in gola il capitano osservò il lacchè avvicinarsi e aprire lo sportello della vettura per farli scendere entrambi.
«Barone Stroganov!» sentì non appena ebbe posato piede a terra.
Voce di donna, non certo il valletto che ancora non aveva avuto il biglietto da visita. Proveniva dalla carrozza seguente. Ebbe la stessa sensazione che aveva avuta in battaglia a Tbilisi: credutosi perduto a fronte della superiorità dei nemici, l'orizzonte s'era d'un tratto animato coi frastagliati contorni di un intero reggimento di carri armati A-2 e BT-4. Sollievo, liberazione, vittoria! Lo sportello della carrozza, ornato da uno stemma elaborato, si aprì e subito uno dei due lacchè corse con il predellino. Ben vestita e acconciata egregiamente, non priva di grazia dalla carrozza scese Veruska.
L'altro lacchè, evidentemente uomo di mondo, in un batter d'occhio con poche e secche parole spedì via la carrozza di Grimovski prima che il resto del suo contenuto potesse palesarsi.
Raggiante il capitano andò incontro alla bella dama e le offrì il braccio. Quella lo ricambiò sorridendo, ma un sorriso superficiale e non sentito.
«Lieto di vedere che alla fine ha scelto con giudizio.»
«Si ricordi, capitano – sibilò lei bella e fredda – Qualunque cosa succeda stasera, sarà stata tutta colpa sua.»

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


Flugzeug!
15.

«Ecco, ci siamo!»
Veruska sobbalzò. Più di ogni altra cosa temeva che l'orchestra iniziasse a suonare prima che lei potesse raggiungere una congrua distanza dalla sala da ballo.
«Cosa?» replicò al russo col russo.
«Lo vede quel bellimbusto laggiù?»
Aguzzò la vista: in mezzo alla folla di invitati che sciamavano ovunque era un'impresa individuare una persona specifica senza sapere chi cercare. Grimovski la prese a braccetto e con un incedere elegante e solo in apparenza casuale la portò più vicina. Giovane, ben piazzato, le spalle quadrate e un piglio deciso. Era un gentiluomo italiano ben vestito ma con uno stile che nulla aveva a che fare con il luogo in cui si trovava. Elegante, ma pratico. Curiosa la giacca di taglio moderno, coordinata con i pantaloni e col gilet, sembrava più adatta a una passeggiata a cavallo piuttosto che a una serata di ballo. E il tessuto? Pareva tweed grigio. Del tutto inadeguato: troppo sportivo per l'occasione.
Vide l'uomo voltarsi in suo favore: fronte alta, viso ampio, capelli scuri pettinati all'indietro trattenuti dalla brillantina, baffetti impomatati arricciati all'insù. Italiano, senza alcun dubbio. Che popolo curioso: riconoscibili tra mille per la loro capacità di restare eleganti a seconda del loro capriccio dentro o fuori dalle mode. Fuori dal secolo in questo caso. Ma da dove era uscito costui? Da un armadio chiuso a chiave cinquant'anni prima?
«Visto – replicò lei – Fuori moda, ma interessante.»
«Si può ben dire. È Giovanni Battista Caproni.»
Si voltò verso il capitano, perplessa. Dal tono di lui si desumeva facilmente come quel nome avrebbe dovuto dirle qualcosa. Invece non le diceva proprio nulla e non mancò di esternare quel fatto.
Grimovski le spiegò, sottovoce e con pazienza, che si trattava di un ingegnere aeronautico di grande talento. Versatissimo nella progettazione di dirigibili di piccole dimensioni ma dagli innovativi contenuti tecnici. Un vero pioniere italiano, un innovatore invidiato da tutte le nazioni tecnologicamente avanzate nell'aviazione.
«Venga, spostiamoci» a voce più alta, in francese. Quando il capitano voleva farsi sentire, ma senza smettere i panni del barone Stroganov, parlava francese. Erano in quella villa da un'ora ormai e la recita procedeva senza intoppi.
Proprio mentre seguiva il soldato nella larga manovra di avvicinamento a Caproni, questi fu raggiunto da diverse persone. Vi furono strette di mano e presentazioni. Poi un giovane aiutante passò un'ampia cartella di cuoio all'ingegner Caproni che la prese tra le mani con attenzione. Vi sbirciò dentro, forse per assicurarsi del contenuto, poi tra sorrisi e cenni d'assenso si spostò insieme alle altre persone fuori, nell'ampio e illuminato cortile della villa, circondato da un elegante portico dove tra le colonne addobbate erano stati posti tavoli imbanditi con stuzzicanti rinfreschi e bevande. Li seguirono con discrezione, sfruttando uno tra i molti varchi attraverso cui il flusso continuo di ospiti che dalle sale passavano al cortile e viceversa.
Veruska ebbe un tuffo al cuore. Ebbe paura di star male tale fu la forza con cui le si contrasse lo stomaco. Una volta fuori un'altra figura aveva raggiunto il gruppetto sotto il portico: una figura femminile. Bassa di statura, dai fianchi rotondi e morbidi, il seno più che prosperoso sollevato e ostentato attraverso la scollatura quadrata di una camicia ricca di pizzi e coperta da un panciotto elegante, versione elaborata al femminile del capo d'abbigliamento elegante e formale tipicamente maschile. Molto alla moda.
Riconobbe il viso paffuto dai lineamenti marcati nonostante il trucco abbondante; riconobbe il doppio mento poiché i suoi occhi di donna non era sviati dall'ostentazione del petto sollevato ed esposto.
Questa volta elegantemente vestita, la statura aumentata da scarpe dai tacchi alti e da una pettinatura elaborata; era lei. Maria Concetta, l'italiana assunta come domestica presso Villa Schmeisser. In realtà una spia di Sua Maestà il Principe di Savoia, Re d'Italia. La stessa Maria che lei aveva steso senza fare complimenti e senza preoccuparsi di dosare la forza, senza nemmeno avere una chiara idea di quello che stava succedendo. Dovette riconoscere che Grimovski aveva ragione: sul viso di quell'antipatica nessun segno era rimasto del gran colpo da lei inferto l'anno prima; nulla turbava la sua espressione di perenne arroganza e sfacciataggine.
La vide ricevere il baciamano da Caproni e ricambiare con un aggraziato inchino nonostante il corpo appesantito da più di qualche chilo di troppo. In breve iniziarono un fitto discorrere che si concluse col passaggio di mano della cartella di cuoio. Dovette ammettere: del tutto insolito per una festa danzante. Veruska vinse la paura e si volse per osservarla meglio, esponendosi al rischio di essere notata. Era pur sempre una delle più alte tra le dame presenti in tutta la villa. Più alta anche di molti uomini, al punto di essere arrivata a pentirsi per la scelta delle scarpe.
«Mi dica lei che cosa ci fa in un posto del genere un tipo come Caproni, in compagnia di un paio di banchieri, un noto imprenditore nel settore siderurgico e una spia del Re d'Italia.»
«Non ne ho idea» confessò Veruska attenta a che l'orchestra non cambiasse musica dando il via alle danze e che Maria non la notasse. Del resto non le importava poi molto di quell'insolita riunione: era riuscita a far entrare Grimovski alla villa, che se la cavasse da solo ora.
«Soldi, metallo e il genio di Caproni? Davvero non ci arriva?» il capitano la stava forse stuzzicando?
«Non mi interessa» sibilò lei voltandosi di spalle fingendo interesse altrove, ma dando così le spalle alla spia italiana che si era voltata a guardare nella sua direzione.
«Lei è incorreggibile» brontolò Grimovski che invece con occhi avidi seguiva il gruppetto in ogni spostamento.
«Se potessi sentire cosa si dicono. E se potessi guardare in quella cartella!»
Ma quella era saldamente sotto il braccio grassoccio di Maria.
«Mi accompagni, la prego – disse Veruska d'un tratto – voglio passeggiare nel cortile. Vorrei vedere da vicino il pozzo.»
È ora che io la smetta di farmi trascinare, si ripromise la giovane accettando il braccio del soldato ma facendo lei l'andatura e decidendo la direzione. Puntò all'ingresso del piccolo, semplice labirinto di basse siepi odorose e si diresse al centro seguendo i tratti lastricati per evitare la grossa ghiaia, insidiosa per via delle sue calzature troppo alte.
Come spesso accadeva, al centro del cortile della villa vi era un pozzo di lisce pietre ornamentali. Era sormontato da un verricello del tutto decorativo, fatto com'era di legno scuro e sottile ferro battuto arricchito da cento ghirigori, riccioli e foglie d'acanto forgiate sull'incudine. Eppure era presente un secchio legato a uno spezzone di catena, come se davvero si potesse prendere l'acqua. Dissimulando lo stupore il soldato l'aveva accompagnata senza discussioni. Veruska dapprima finse interesse per il pozzo e poi affrontò Grimovski.
«Mi dica, capitano – usando il russo e atteggiandosi come se fosse una conversazione casuale, lo guidò vicino a una panchina libera illuminata da bei candelabri – prima che io mi trovi costretta a saltare di nuovo da treni in corsa, a scappare dalla polizia, o chissà cos'altro lei ha in serbo per me stasera...»
«Nulla di tutto questo» interloquì lui tenendo bassa la voce. Se ne pentì subito poiché Veruska, interrotta sebbene con garbo, gli rivolse un'occhiata incendiaria.
«C'è qualcosa che farei meglio a sapere? Per quanto tempo dovrò ancora recitare al suo fianco? L'ho fatta entrare in questa villa, e già sono pentita. Non c'è modo di uscire senza essere notati e, grazie alla sua bella trovata di... “affittare” una baronessa a buon prezzo, siamo già sulla bocca di tutti!»
Con eleganza Grimovski la invitò a sedere sulla bella panchina.
«Sono piuttosto prevedibile, mia adorata baronessa. È evidente che qualcosa sta accadendo qui, mentre quei signori parlano tra loro facendo finta di nulla. Riguarda il velivolo senza pallone, è chiaro. Ed è altrettanto chiaro che devo saperne di più. Devo portare qualcosa allo Zar. La Russia non può rimanere all'oscuro di tecnologie nuove che potrebbero cambiare il volto dell'Europa in pochi anni.»
Il soldato incrociò le braccia sul petto e le rivolse quel sorriso sornione che ormai ben conosceva e che aveva imparato essere sinonimo non solo di sfacciataggine e insolenza da parte di lui, ma anche di guai.
«Piuttosto… – aggiunse infatti con l'usuale tono beffardo, proteso verso di lei – vogliamo parlare di questa sua improvvisa apparizione a bordo di una carrozza privata, appena in tempo per evitare un clamoroso scandalo internazionale con l'arcinoto barone Stroganov al centro di una torbida vicenda coniugale di gelosie, intrighi e tradimenti?»
Veruska si chiuse a riccio. Il tono ironico dell'uomo non mitigava la gravità della situazione. Credeva d'aver già esaurito l'argomento in precedenza, quando Grimovski le aveva chiesto cosa l'avesse punta che le avesse fatta cambiare idea. Sebbene posta in tono scherzoso, la domanda era stata fastidiosa. Ma quello insisteva per avere una risposta.
«Come le ho detto prima, mio caro barone – provò a prenderlo in giro a sua volta, recitando il ruolo della moglie annoiata – pur di sfuggire agli insistenti corteggiamenti di questo bellimbusto palesatosi subito dopo la nostra separazione... ho pensato che fosse meglio...»
«...usare la di lui carrozza per correre in albergo, cambiarsi e acconciarsi in modo appropriato per poi tornare qui di corsa. Scaltra.»
Quell'uomo, presentatosi come conte Galeazzo Boni Visconti, l'aveva costretta subito sulla difensiva. Le era apparso chiaro dopo un solo minuto di che pasta fosse fatto. Un corteggiatore, o meglio: un predatore. L'aveva individuata come vulnerabile preda e l'aveva attaccata, per così dire. Aveva notato l'allontanarsi del marito ed era scattato. Gli aveva fatto notare di essere sposata e subito lui aveva ribattuto che non indossava un solo anello e dunque, se la cosa non rappresentava per lei un problema, nemmeno per lui. Evidente per uno come lui, consumato seduttore! Veruska non era mai stata oggetto di attenzioni maschili così pressanti, palesi e assidue. E immediate! Se si fosse trovata in un'altra situazione, meno confusa e caotica e avventurosa di quella in cui si trovava in quel momento, avrebbe resistito alle lusinghe e ai complimenti? Forse, o forse no. Ciò che le appariva certo era che Grimovski non aveva speranze di capire come si era sentita. Avrebbe poi dovuto confessargli ciò che nemmeno di fronte a se stessa osava ammettere.
«Ebbene sì, l'ho fatto. Ho ammaliato quel povero conte italiano e, armata del mio carisma e della mia avvenenza l'ho indotto a prestarmi la carrozza» mentì Veruska, ribaltando del tutto la realtà dei fatti. Si era difesa strenuamente dall'aggressivo corteggiatore al punto da arrivare a mentirgli, promettendo con mezze parole e pallide allusioni ciò che mai gli avrebbe concesso, affinché invece lui concedesse in prestito la carrozza.
«Sarebbe così improbabile?» sbottò seccata vedendo il sorriso sarcastico di Grimovski allargarsi sempre più. L'uomo le rispose ridacchiando divertito.
«Lei non mi crede capace di ciò?» stavolta Veruska era davvero seccata e non stava recitando. Cos'era agli occhi di quel grezzo militare? Davvero una bella bambolina da mettere in posa a piacimento, totalmente priva di iniziativa, di capacità, di cervello? O la credeva priva di femminilità e incapace di sedurre?
«Ha spezzato il cuore del povero conte...
Se l'intento era quello di farla sentire in colpa... ci era riuscito. Il conte corteggiatore non era certo animato da sentimenti di alcun tipo. Non buoni. Lei sì: si era sempre ritenuta una ragazza per bene e le ragazze per bene non giocano mai coi sentimenti, si disse. Ma senza riuscire a stare meglio.
Vide poi Grimovski farsi serio d'un tratto. Ecco: sul suo viso era riapparso il militare, il capitano d'artiglieria addestrato a combattere. Era finito il momento degli scherzi.

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


Flugzeug!
16.

Appena in tempo! Distratto dalla bella e intrigante Veruska aveva visto la coda del gruppetto eclissarsi attraverso una delle grandi porte doppie comunicanti con le sale della villa. Si alzò senza badare all'etichetta e stavolta fu il suo turno, presa a braccetto la bella e finta domestica che non smetteva di stupirlo, di condurre la passeggiata. Attraverso i vetri delle altre porte seguì le ombre del gruppo fino a una zona meno frequentata. Si fermò più vicino possibile, fingendo interesse per un tavolo imbandito con profumate torte salate da degustare con vino bianco. Caproni e gli altri erano spariti dietro una porta sorvegliata da due domestici in divisa che parevano in realtà due uomini di fatica ripuliti e vestiti da servitori.
«Bene, mia cara – disse in francese, ben sapendo che quell'espressione la indispettiva parecchio – in ogni racconto romanzesco che si rispetti questo è il momento migliore per un diversivo.»
«E si aspetta che me ne occupi io? Dopo essere già stata additata per tutta la sera?»
Non aveva tutti i torti. Il loro arrivo era stato notato e i pettegolezzi della servitù si erano sparsi come olio sull'acqua.
«Devo superare quella porta» le ribadì Grimovski. Ora era il suo turno di essere indispettito. Possibile che lei non comprendesse l'importanza di sapere che stava succedendo in quella villa? O al contrario lo sapeva molto bene e lo stava ostacolando? Era dunque davvero una spia italiana? Non aveva ancora raccolto prova alcuna di ciò, ma il sospetto non era stato fugato dalla sua mente.
«Cerchi un'altra entrata, no?»
«Ma certo, come ho fatto a non pensarci? In tutte le ville italiane si può passare da una stanza all'altra in almeno sette modi... è scritto in ogni romanzo come si deve e...»
Si dette dello stupido. Perché scartare l'ipotesi a priori?
«Mi raccomando il diversivo. Non subito, ma non aspetti troppo» le disse prima di piantarla in asso davanti alle torte salate.
Uscì sotto il portico e seguì con gli occhi della mente il prolungamento della stanza dietro la doppia porta sbarrata. Non c'erano varchi che dessero sul giardino: da quel lato il portico era ornato dalle piccole finestre del secondo piano e da panchine e tavolini addossati alla parete affrescata, ma liscia e priva di altre aperture.
Si diresse verso la sala da ballo dove aveva visto le scale che portavano al piano superiore. Erano accessibili e percorse da coppie di invitati in entrambe le direzioni. Non esitò.
Le scale davano su un ricco corridoio dai pavimenti di mosaici, molti quadri alle pareti e mobili raffinati. Vi erano numerosi visitatori che ammiravano i soffitti di legno a cassettoni decorati con gusto e gli affreschi di generi diversi; dalle antiche, sanguinose battaglie dove uomini, lame e cavalli si contendevano ogni centimetro di spazio fino a bucolici paesaggi con satiri danzanti che irretivano timide e formose fanciulle seminude.
Qualche istante per orientarsi e poi si incamminò mescolandosi ai presenti, fingendo interesse per la pinacoteca prima e per alcuni armadi colmi di volumi poi.
Di sala in sala giunse in quella che, secondo la sua stima, doveva essere sopra quella dove si erano chiusi Caproni e gli altri. Vi era una coppia intenta in effusioni amorose e a giudicare da ciò che Grimovski vide, avevano già superato i preliminari. Disturbati sul più bello dal truce soldato, i due se ne andarono sdegnati ma avvampati fino al collo.
Si diede subito da fare. Controllò dalle finestre la posizione: sì, doveva essere nella stanza giusta. Andò al camino: percepì delle voci, ma debolissime e la musica dell'orchestra, seppure giungesse molto ovattata, era sufficiente per non fargli capire altro se non che stavano parlando italiano. Andò alla porta per passare nella stanza successiva. Curiosamente questa era chiusa. E a chiave, constatò tirando la maniglia.
Senza indugio estrasse un panno nero arrotolato su se stesso e lo svolse. Era pieno di grimaldelli e attrezzi da scassinatore. Scelti i ferri corretti, la vecchia serratura si arrese opponendo poca resistenza.
Si trovò in un locale che pareva un disimpegno di servizio per i domestici con tanto di scale che conducevano al piano di sotto. Non c'era nessuno e nel silenzio che ottenne chiudendosi alle spalle la pesante porta appena violata, si rese conto che le voci erano più facilmente distinguibili.
Scese con cautela la ripida scaletta di legno consumato, attento a non far scricchiolare nulla. La parete alla sua sinistra, quella che confinava con la sala oggetto del suo interesse, era decorata da minuscole cornici quadrate, un palmo di lato circa, ognuna contenente un piccolo ma dettagliato dipinto di paesaggi famosi: Parigi, Roma, Vienna, Mosca, Londra e anche Nuova York.
Osservando meglio la cornice che conteneva la raffigurazione del Cremlino notò una stranezza: non sembrava appoggiare bene sulla parete, come se vi fosse qualcosa nascosto dietro. Pensò al nascondiglio di una chiave. Fece per togliere la cornice dal chiodo e si rese conto che in realtà il quadretto nascondeva uno spioncino! Un foro di pari dimensioni era stato tagliato nella parete e il tappo era incollato al rovescio del quadretto. Ingegnoso! Il foro quadrato si apriva vicinissimo al soffitto e a giudicare dalle ombre che Grimovksi vide, doveva essere occultato da un alto armadio o da una cornice di notevole spessore, come quelle dei giganteschi ritratti ammirati poco prima. Restò lì, chino contro lo spioncino, ad ascoltare: un orecchio teso dentro la sala dove udiva parlare solo italiano, l'altro a percepire eventuali rumori rivelatori intorno a sé.
L'unica cosa di cui ebbe certezza fu quando il gruppo ebbe lasciato la sala vuota. Richiuso il buco incastrandoci dentro il quadretto del Cremlino terminò la discesa e cercò un modo per entrare nella sala.
Si sentì fortunato: una porta analoga a quella appena violata non fu in grado di opporre maggiore resistenza.
Doveva essere una sala di rappresentanza: era ricca e sfarzosa come le altre, ma illuminata da un lampadario gigantesco che stava sospeso sopra un tavolo così grande che avrebbe potuto ospitare comodamente trenta persone a cena. Era circondato da sedie imbottite dall'alto schienale, di scuro legno raffinato e coi braccioli foderati di velluto. Alcune delle sedie, che promettevano di essere molto pesanti, erano disallineate.
Grimovski vi si avvicinò subito e passò una mano sul liscio piano del tavolo. In alcuni punti esso era percettibilmente tiepido. Si guardò intorno per cercare altri segni di attività, ma non ne trovò. Cercò nei mobili vicini, ma non trovò altro che tovaglie e altri paramenti per addobbare la sala. Si volse verso le sedie che avevano lasciato le impronte sul tappeto, a ulteriore conferma del fatto che erano state usate di recente. Allora la vide. Posata contro una delle sedie, lasciata lì in verticale con negligenza, come se ad abbandonarla fosse stato uno studente distratto o troppo ansioso di lasciare l'aula dopo la lezione, c'era la grande cartella dei disegni.
Vi si gettò sopra e ne sfogliò il contenuto, avido. Disegni tecnici: progetti. Strabiliò. Caproni stava progettando i propri velivoli senza pallone. Ve n'erano di tutte le dimensioni: molti monoposto o biposto, alcuni prevedevano equipaggi di addirittura dieci persone. Potevano trasportare ordigni e sganciarli da quota elevata. C'erano disegni di congegni di mira. Dei più avveniristici velivoli c'erano solo rappresentazioni artistiche che servivano a dare un'idea di quanto c'era nella testa dell'ingegnere. Ma a colpirlo di più fu il disegno di un velivolo dotato di minuscoli scafi al posto delle ruote del carrello. Un disegno a china esplicitava l'idea: usare gli specchi d'acqua come piste. Specchi d'acqua che in quella zona non mancavano di certo.
Grimovski, studiata in precedenza la geografia del luogo, cominciò a contare: il lago di Garda, lungo e stretto, terminante con una specie di pancia che era l'ideale per manovrare o per parcheggiare numerosi velivoli; il lago di Como era addirittura un incrocio di tre piste con i suoi diversi rami, somigliante com'era a una Y rovesciata. E che dire di tutti gli specchi d'acqua minori, dove aeromobili equipaggiati coi piccoli scafi di Caproni avrebbero potuto posarsi a piacimento?
Cercò febbrilmente tra i documenti, cercando nell'italiano a lui ignoto indicazioni più precise. Un nome ricorreva spesso: Mandello. Poteva essere Mandello Tonzanico: che fosse nascosto lì il prototipo del Kaiser? O la fabbrica di Caproni? Oppure, cosa tutt'altro che rara in Italia, si trattava solo di una persona il cui nome era identico a quello della località? Non comprendeva l'italiano e non riusciva a decifrare nulla se non il disegno tecnico. Nemmeno tanto bene, poiché esperto di artiglieria ma digiuno di aeronautica.
Le sue orecchie lo salvarono ancora una volta. Sentì deboli rumori oltre la porta che dava sul resto della villa in festa. L'aveva aggirata ma ciò non significava che non ponesse più alcuna minaccia! Precipitosamente rimise la cartella dove l'aveva trovata e tornò sui suoi passi, nascondendosi appena in tempo. Dai rumori e dal tono delle voci dedusse, spiando attraverso il foro dietro il quadretto, che qualcuno era tornato a prendere la cartella coi disegni.

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


Flugzeug!
17.

«Tutto bene, madame
La premurosa serva in divisa le aveva portato dell'altra acqua.
«Certo» le rispose col suo ormai collaudatissimo francese tinto di russo.
«Se vuole riposare, può stare qui quanto vuole. Certo, c'è un po' di confusione qui in cucina.»
«Non fa nulla. Grazie, grazie molte. Spero solo che mio marito non sappia nulla. Si preoccupa molto della mia salute, anche per una sciocchezza smuove le montagne. A volte è imbarazzante.»
«Ce ne staremo tutti zitti, stia certa.»
Promessa da giovane servetta, figuriamoci. Veruska sapeva di non poterci fare affidamento nemmeno per un minuto, ma ormai il dado era tratto. Grimovski le aveva chiesto un diversivo? Servito. Non appena fu sola estrasse dal nascondiglio sotto il suo vestito i tre bruni flaconi vuoti e li fece rotolare nell'ombra dentro un armadio poco frequentato. Era una domestica, per lei muoversi in cucina era una cosa naturale. Sapeva esattamente dove mettere le mani.
Se ne stette seduta sulla sedia di legno mal impagliata continuando a fingere le conseguenze di un piccolo malessere. Aveva fatto in modo di farsi soccorrere dalla servitù certa che, nel dubbio, l'avrebbero portata in cucina. Lì aveva potuto mettere in atto il diversivo tanto caro al capitano. Ora avrebbe solo dovuto scegliere il momento giusto per andarsene. Decise che avrebbe bevuto con comodo l'acqua e poi se ne sarebbe andata, finalmente.
Si alzò e abbandonò le cucine dove ferveva ancora l'attività. Si servì del bagno e poi si diresse verso la sala da ballo, l'unica direzione possibile. Pettegolezzi o no, stavolta se ne sarebbe andata davvero.
«Ma che sorpresa!»
Trasalì nell'udire d'un tratto l'idioma germanico. Inquinato in un modo inequivocabile da chi era originario dell'Italia del Sud. Fu colta da un improvviso tremore. Pensò che non avrebbe dovuto fingere un malore, stavolta: ebbe un capogiro e una fitta al ventre. Pura e semplice paura.
«Questa volta non ti libererai di me tanto facilmente. Ho sbagliato una volta con te e sarà stata l'ultima di certo!»
Maria. Gli occhi fiammeggianti d'ira. Nonostante indossasse scarpe vertiginose era ancora più bassa di lei e costretta a guardarla da sotto in su. Ma ciò non la rendeva né ridicola né meno pericolosa.
«Anzi: ti restituirò la cortesia molto volentieri. So perché sei qui e non posso permettermi di correre dei rischi.»
La afferrò per un polso con forza insospettabile e cominciò a tirare come si fa coi bimbi riottosi a seguire la madre. Veruska, imbambolata dalla paura e non sapendo che fare, si lasciò portare stupendosi del fatto che nessuno dei presenti pareva aver notato la scena. Nessuno accennava a intervenire. In compenso vide che l'aperitivo rosso, l'ultimo servito da grandi caraffe nei calici che gli invitati portavano di sovente alla bocca, era apprezzatissimo.
«Vieni, vieni [12]» disse Maria; Veruska non comprendendo l'italiano non seppe che altro fare se non continuare a farsi trascinare. Ma dov'era finito Grimovski? Ora che le serviva l'artiglieria...
Pentitasi subito per lo stupido pensiero, cercò di scuotersi. Strattonare via il polso dalla stretta di Maria Concetta? Era solida e sapeva già che l'italiana era più forte di quanto sembrava a prima vista. L'aveva vista lavorare alacremente nei panni della domestica a Villa Schmeisser. Era decisa e non si faceva intimorire: ne aveva dato prova affrontando subito l'altra domestica, Karin, senza sospettare che quella fosse in realtà un tipo senza spina dorsale. Anche se fosse riuscita a liberarsi sarebbe dovuta venire alle mani: Maria non si lasciava sopraffare e ora con lei stava ben in guardia.
La situazione volgeva al peggio. Maria l'aveva trascinata lontano dalla festa e si stava dirigendo verso dei locali non frequentati. Gli alloggi della servitù, l'ingresso della cantina.
La cantina! Lì avrebbe potuto succederle di tutto!
Fu la paura ad animarla. Un allagamento di paura.
Strattonò la mano per liberarsi: quasi ci riuscì ma l'italiana era troppo forte per lei e resistette. Anzi raddoppiò la presa e l'affrontò rabbiosa, sputacchiando sillabe di parole in italiano per lei incomprensibili. Era sicura si trattasse di insulti.
Il tira e molla tra le due durò poco: nonostante Veruska ci mettesse tutta la forza della propria disperazione, quando Maria sentì di stare perdendo la presa d'un tratto anziché tirare assecondò Veruska.
Sbilanciata dall'azione imprevedibile perse l'equilibrio e si trovò a terra con l'italiana che le era franata addosso, piccola ma pesante.
«Puttana! [13]» le gridò. Veruska si ripropose di indagare in seguito sulla traduzione di quella parola. Sospettava qualcosa di poco cortese. Trovato un braccio libero pensò di colpire Maria in qualche modo prima che quella la immobilizzasse. Ma i suoi pugni erano deboli e senza efficacia e presto dovette difendersi ben più strenuamente: l'italiana voleva morderla e lei faticava a tenere quella bocca sempre in moto lontana dalla propria carne.
«T'accido! [14]» strillò acuta Maria, ormai senza freni. Si dimenava come un gatto furioso e Veruska accusò un paio di colpi sferrati con più forza di altri.
Un tonfo sordo. Il viso di Maria Concetta stravolto dall'ira, a pochi centimetri dal proprio, repentino cambiò espressione. Sorpresa, dolore. Era sobbalzata. Un altro colpo, un altro sobbalzo, un suono strozzato uscì dalla gola di lei. Poi mani callose e rovinate afferrarono per gli abiti l'italiana sbavante che si teneva il ventre in preda a conati di vomito. Come se fosse una bambola fu sollevata e buttata da parte. Subito si raggomitolò, tossendo e sputando bava biancastra. Le stesse mani robuste e forti afferrarono quelle lunghe e sottili di Veruska e l'aiutarono a rimettersi in piedi.
«Tutto a posto?»
Non l'avrebbe mai detto che sarebbe stata contenta di vedere Grimovski.
«Non si vede?» replicò lei trattenendosi a fatica dall'abbracciarlo stretto, in preda alla commozione. Come si permetteva di arrivare lì all'improvviso con quelle stupide domande, impeccabile e profumato? Lei invece era di sicuro un orrore essendosi azzuffata per terra come un monello di strada.
«Andiamo» le disse il soldato sorridendo per qualche ragione che sapeva solo lui.
Abbandonata ogni etichetta corsero verso l'uscita alla velocità massima permessa dalle scarpe di Veruska.
«Non posso correre più di così! Il tacco è troppo alto e sottile, la suola troppo...»
«Oh, che seccatura voi donne e le vostre scarpe!» sbottò Grimovski fermandosi ad aspettarla. Veruska annotò mentalmente di rinfacciare in futuro al capitano ogni singola sillaba di quanto aveva appena detto.
L'afferrò forte per un gomito per sostenerla e Veruska lasciò fare, per il momento, allungando la lista delle cose che avrebbe poi rimproverato al rude militare. Corsero fino alla scalinata che portava alle carrozze ma lì dovettero arrestarsi bruscamente. Due sole carrozze vi erano in attesa: entrambe sorvegliate. Da uomini in abiti grigi. Veruska pensò che c'era voluto il caldo clima italiano per far smettere le palandrane agli agenti segreti dell'Imperatore della Germania.
«Troppi» sentenziò il capitano sibilando in russo tra i denti. Portò con sé Veruska in un rapido dietro-front e tornarono dentro la villa. Qui regnava il caos.
Molti invitati stavano male: si tenevano il ventre lamentandosi costantemente. I dolori erano così forti che alcuni non esitavano a ululare, altri addirittura erano accasciati a terra in posizione fetale, le braccia strette sulla pancia. I pochi che non stavano male cercavano di prestare soccorso in qualche modo, sciamando di qua e di là senza sapere esattamente cosa fare. Si sentiva picchiare sulle porte, urla provenivano da stanze nascoste alla vista. Soprattutto dalla direzione dei bagni.
E l'odore! Terribile! Qualcuno non più in grado di resistere si era lasciato andare, evidentemente.
«Cosa diavolo è successo, qui? Cos'è questo caos?» le chiese Grimovski con una smorfia dovuta al tanfo.
«Il diversivo» spiegò lapidaria lei. Ebbe uno sguardo ammirato da parte del capitano che riprese a muoversi più velocemente possibile, scansando gli infermi e chi li accudiva.
Chiudendo gli occhi alla vista delle conseguenze del suo stesso operato, Veruska si lasciò portare nel giardino interno.
«Mi distorcerò di nuovo la caviglia!» protestò rallentando bruscamente alla vista di Grimovski deciso ad attraversare in linea retta il cortile che aveva ampie zone con grossa ghiaia bianca. Di sicuro effetto estetico, ma insidiosa al massimo per le alte calzature femminili.
Non riuscì a impedirlo. Il soldato in un lampo tornò sui suoi passi, le mise in mano il bastone dalla testa di levriero e, sollevata lei in braccio come se fosse stata una bambina di pochi chili di peso, iniziò l'attraversamento del cortile di corsa.
Veruska si spaventò al punto di trattenere il fiato mentre con le braccia stava abbarbicata al collo dell'uomo. Non che temesse di cadere: come le aveva promesso, davvero le sue braccia sembravano forti abbastanza da trasportarla per chilometri. Si sentiva solidamente sostenuta. Ma aveva paura ugualmente.
Raggiunsero il varco che dava sul parco della villa. Si arrampicava sulla costa della montagna su cui era stata edificata la villa stessa e grazie a scalini e terrazzamenti era stato reso sfruttabile. Restava da vedere dove fosse il varco che conduceva alla strada. Poiché i giardinieri e gli operai che mantenevano ordinato quel posto, vistosamente curato anche alla debole luce dei lampioni da giardino, non passavano certo dall'ingresso principale.
«Mi perdonino...»
Veruska trasalì lasciandosi sfuggire un breve grido. Sentì i muscoli del soldato che ancora la teneva in braccio indurirsi ancor di più mentre si voltava per affrontare la nuova minaccia.
«Baronessa... signor barone. I miei rispetti.»
Dall'ombra del giardino una figura emerse e raggiunse il cono di luce nel passaggio ad arco che metteva in comunicazione giardino interno e parco. Un gentiluomo italiano. Alto, slanciato e ben vestito, cortese e possessore di un discreto francese che aveva usato per rivolgersi a entrambi. Nelle mani guantate di nero stringeva un elegante bastone da passeggio, del tutto simile a quello che Grimovski le aveva affidato poco prima.
«Lei!» si lasciò sfuggire Veruska riconoscendolo.
«Per servirla» rispose quello accennando un inchino.
«Vi conoscete?» interloquì il capitano, perplesso.
«Mi presento – disse l'ultimo arrivato – sono il conte Galeazzo Boni Visconti, umile servitore della Real Casa. Per così dire. Di fatto io sono il vostro... pilota.»
Grimovski la posò a terra con delicatezza e le tolse il bastone di mano.
«Le secca se le chiedo la parola di riconoscimento?»
«Affatto. Das flugzeug, capitano d'artiglieria Ivan Grimovski.»
«Ha una carrozza, immagino.»
«Sono qui per questo, capitano. Da quella parte.»
Prima di incamminarsi nel parco immerso nelle tenebre Grimovski si voltò verso di lei e le scoccò una seria e indecifrabile occhiata.

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 ***


Flugzeug!
18.

Il conducente dell'auto pubblica si avvicinò. Ebbe un breve scambio di battute con Grimovski in un francese stentato e stavolta se ne tornò alla sua vettura con un paio di grosse banconote italiane srotolate dalla scorta del capitano. Era preoccupato per quella lunga sosta e non si era accontentato di rassicurazioni verbali.
Si erano messi in viaggio al sorgere del sole seguendo la sponda occidentale del lago, in direzione nord. Un viaggio voluto da Grimovski: secondo lui avrebbe spiegato ogni cosa. Aveva protestato per la levata a un'ora improponibile dato tutto ciò che era accaduto nella notte. Era stanca morta ma non era riuscita nemmeno a chiudere gli occhi per un solo istante. Il paesaggio del lago era bellissimo, affascinante. I cupi blu e viola delle montagne che si scioglievano al rischiararsi del cielo, a partire dalle cime rocciose. Il cielo era azzurro e già luminoso da non riuscire a fissarlo; poche timide nuvole candide facevano da cappello ai monti. I paesi erano come briciole di chiaro quarzo abbandonate tra l'acqua, la roccia e il cielo.
Avevano percorso una strada panoramica che l'aveva molto suggestionata ricca com'era della vista del lago alla distanza e di ravvicinati, bellissimi scorci con vegetazione verde curata e cuscini di fiori colorati che traboccavano dai giardini. Senza i tormenti delle vicende accadute una dopo l'altra, che splendida villeggiatura sarebbe stata quella!
Guardò Grimovski consultare il suo orologio da tasca per la centesima volta da quando l'aveva visto quella mattina. L'aveva trascinata fuori dall'albergo senza nemmeno darle il tempo di bere una tazzina di caffè come veniva fatto solo in Italia: espresso.
Mentre attendevano lì sul cemento di una piccola darsena a Vassena, scrutando a turno col piccolo binocolo del capitano la sponda opposta, quella dove sorgeva Mandello Tonzanico, il soldato le aveva spiegato qualcosa. In russo, per non farsi origliare la conversazione anche se, a suo dire, ormai era tutto finito.
Aveva cominciato dalla fine: quell'italiano sfrontato corteggiatore, il conte Galeazzo Boni Visconti, nome senza dubbio falso, era davvero stato scelto per pilotare l'aereo. Trovandosi egli in difficoltà finanziarie, per le casse dello Zar era stata una passeggiata assicurarsene fedeltà e servigi. Veruska immaginò si dovesse aggiungere alla ricetta anche una buona dose di minacce e paura. Pronto a partire in ogni momento, ma impossibilitato a scoprire dove fosse il velivolo rubato a Berlino. Si trovava infatti nella scomoda posizione di essere tra i pochi in grado di far volare velivoli con ma soprattutto senza pallone, abilità appresa negli Stati Uniti. Si era alleato a una delle fazioni in lotta per il possesso del prototipo: quella giusta, aveva sottolineato lui con l'usuale ghigno da lupo della steppa.
Che il prototipo si trovasse a Mandello era molto probabile, ma non certo. Il compito di Grimovski era di trovarlo, o delle tracce almeno. I disegni di Caproni erano stati un buon suggerimento e il conte Boni Visconti aveva detto che sì, poteva essere. A Mandello vi erano diverse officine meccaniche e vari edifici grandi abbastanza da poter ospitare anche un piccolo dirigibile.
Subito dopo averli portati via dalla festa della contessa Maria Benedetta Sottocorno Sforza, mal conclusasi per molti invitati, il pilota si era messo in viaggio incurante delle tenebre. Anzi, col favore di queste era stato intenzionato a rubare il prototipo ai.. suoi ladri. Ma non avrebbe potuto alzarsi in volo prima dell'alba.
«Forse è già partito» obiettò Veruska scettica. Tutto era calmo: il paese intorno a loro si stava svegliando con molta pigrizia e dall'altra parte del lago non vi era segno di attività alcuna.
Grimovski estrasse di nuovo l'orologio dal taschino del panciotto, ma ne distolse subito lo sguardo. In lontananza si udì un rumore scoppiettante.
Molto debole, a causa della lontananza. Ma Veruska immaginò che i suoni sulla superficie del lago viaggiassero più lontano: percepiva chiaramente il suono. Uno strano mitragliare. Senza pause. Perfino lei sapeva che anche le mitragliatrici più moderne dovevano limitare la durata delle raffiche o si sarebbero danneggiate per l'eccessivo calore.
Cercò una conferma sul volto di Grimovski, ma trovò solo un ghigno mai visto prima. Soddisfazione. Quella di una belva che avesse finalmente afferrato e sbranato la preda. Bella e terribile al tempo stesso. Non guardava lei, ma fissava un punto della sponda opposta.
«Là!» esclamò d'un tratto, puntando il dito.
Veruska non vide nulla. Sentì il rumore gracchiante crescere di volume e di frequenza fino a diventare un percepibile tartaglio monotono. Si immaginò che dovesse essere assordante stare vicino alla fonte di quel rumore.
Cercò e cercò aguzzando la vista nella direzione indicata e solo quando qualcosa cominciò a muoversi lo poté notare.
Dapprima lo distingueva a malapena dallo sfondo di edifici: la città di Mandello ne celava la sagoma rendendola difficilmente percepibile.
Poi, con l'aiuto del piccolo binocolo, si rese conto che qualunque cosa fosse si stava muovendo sulle piatte acque del lago e si stava allontanando dalla riva a velocità crescente. Vide l'acqua spumare bianca in due punti differenti, molto vicini. Era solo una sua idea o il rumore era sempre più forte? Ora un rombo, un ruggito meccanico.
Le venne meno il fiato. Forse il cuore perse un colpo, le balzò nel petto per tuffarsi subito dopo. Le ci vollero un paio di istanti per capire cosa i suoi occhi avevano appena visto.
Era come un uccello, ma aveva quattro ali fisse. Lunghe e strette, sovrapposte. Era affusolato e dotato di coda, fissa anch'essa, col timone di una barca montato a rovescio: svettava verso l'alto e non sfiorava nemmeno l'acqua nonostante avesse due piccoli scafi per galleggiare. Proprio mentre a fatica ne afferrava le forme quello si era staccato dall'acqua. Si era sollevato. Sospeso. Era in volo. E a metà del suo corpo affusolato c'era un uomo ai comandi: se ne distingueva abbastanza bene la testa e le spalle.
Lo osservò procedere sempre più velocemente: sfilava alla loro sinistra e prendeva quota. In alto. Sempre di più. Veruska non credeva ai propri occhi ora nudi. Ancora un tuffo al cuore: si era inclinato all'improvviso, dando l'idea di dover precipitare. Mostrò il ventre candido e scivolò via lontano, raddrizzandosi poco a poco. Il ruggito meccanico si perse in lontananza. Veruska lo seguì finché divenne indistinguibile contro il fianco della montagna. Solo allora si rese conto che Grimovski le aveva tolto di mano il binocolo.
«Convinta?» le chiese scrutando il cielo con lo strumento. Ma non si scorgeva né udiva più nulla.
«La prego, capitano. Mi lasci andare a casa ora.»

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