Missioni curriculari del CP9: Mai prendere impegni per venerdì 17!

di Vegethia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte I ***
Capitolo 2: *** Parte II ***



Capitolo 1
*** Parte I ***


Missioni curriculari del CP9: 
Mai prendere impegni per venerdì 17!

 

 

«Ti sto dicendo... che ci saranno almeno cinquecento luridi pirati tra la costa e l’entroterra dell’isola, secondo le stime dei marines... E che vi si chiede espressamente di non fare prigionieri...!»
«Ho capito, capo, dannazione! Rinuncio lo stesso!»
Un’ondata di occhiate attonite investirono Jabura al suo secondo e categorico rifiuto della missione organizzata da Spandam, direttore in carica della più giovane generazione del CP9 che la sala grande del Palazzo di Giustizia avesse mai visto radunata attorno al suo tavolo.
I sette agenti convivevano nella splendente Enies Lobby, una delle sedi principali del Governo Mondiale situata lungo la Rotta Maggiore, da meno di un paio d’anni, ma avevano condiviso insieme l’intera infanzia —anni passati all’insegna di rigidi addestramenti fisici e mentali— e conoscevano abbastanza bene il collega da non poter prendere seriamente le sue parole. Punto primo, perché Jabura cacciava balle di ogni sorta da quando aveva l’età minima per parlare; punto secondo, perché nel menù dei servizi esclusivi offerti dal Cipher Pol 9, i massacri legalizzati erano da sempre il suo piatto preferito, la sua vera vocazione: Jabura non era uno che uccideva per lavoro, lavorava per il gusto di uccidere.
Eppure il tono con cui aveva esplicitato il suo dissenso non lasciava spazio a dubbi o a equivoci: non voleva davvero partire.
Jabura stava davvero rinunciando ad una carneficina di pirati sull’isola di Duma, piccolo paradiso tropicale solo un paio di miglia più a sud di Water Seven, invasa da un’alleanza composta da ben tre ciurme, per... restarsene ad Enies Lobby. Completamente da solo. A girarsi i pollici.
«Ti senti male?» chiese serio Blueno, che per stazza, flemma e timbro di voce dimostrava almeno dieci anni in più dei suoi diciassette e mezzo.
«Ha la febbre, chapapa!» insinuò Fukuro —lui di anni ne aveva sedici, li dimostrava, e non ne avrebbe mai dimostrati molti di più, mentalmente parlando.
Kumadori, coetaneo di Jabura, scosse il capo a destra e sinistra facendo vibrare la lunga e vaporosa chioma rosa, prima di esplodere in un melodrammatico: «Mmm... un vero guerriero deve temprare il proprio corpo e il proprio spirito per resistere ad ogni malattia! YO-YOI!!»
«A me sembra che stia bene» osservò Califa, riassettandosi la montatura degli occhiali sul naso minuto. Era da poco entrata in quella fase delicata —pericolosa, secondo Spandam e Jabura— che era l’adolescenza femminile e cominciava ad avere le sembianze di una signorina nonostante la bassa statura e il visino da bambola.
«Ci sta di nuovo prendendo in giro...» Kaku parlò calcandosi il berretto sulla fronte e guardando il collega più grande con una certa diffidenza, come se non ci tenesse a incontrare il suo sguardo. Lui, la pubertà, non la vedeva nemmeno da lontano e Jabura diceva spesso che se non fosse stato per la forma stramba del naso e per l’immancabile cappellino sportivo a sporgere dal suo profilo, nemmeno si sarebbe notato, smilzo com’era.
«A me sembra solo più stupido di ieri!»
Jabura grugnì e si voltò in direzione di quell’odiosa, boriosa, detestabile voce.
Rob Lucci, 15 anni all’anagrafe e “NATO STRONZO” sul certificato di nascita mai pervenuto, nel pieno dei suoi ormoni adolescenziali nascosti dietro a un’irritante espressione da uomo di mondo che non si scompone davanti a nulla, lo guardava annoiato, quasi gli stesse facendo un favore ad accorgersi della sua presenza in sala.
«Non ti è bastata la lezione di una settimana fa, stronzetto?»
«Piantatela» li zittì per l’ennesima volta Spandam, alzandosi e piantando i palmi aperti sul lucido piano in legno massello. Non era ancora esasperato, ma poco ci mancava. I componenti della sua squadra erano stati cresciuti e addestrati così severamente dai tutori del Governo —Jabura era un’eccezione per cui l’ex educatrice non si dava pace e aveva finito per andare in pensione in anticipo, con l’esaurimento nervoso— che spesso si dimenticava trattarsi solo di ragazzini.
«Ha iniziato lu...»
«Non mi interessa chi ha iniziato!» Si rivolse di nuovo a Jabura, che dall’alto dei suoi ventidue anni e forte dell’esperienza già decennale maturata sul campo, era uno dei suoi agenti più affidabili, oltre che l’unico a possedere gli straordinari poteri di un frutto del diavolo, uno Zoo Zoo: Dog Dog modello Lupo.
«La situazione a Duma è critica» gli fece presente, scandendo le parole come se l’altro non avesse finora afferrato l’importanza della questione, «Quei bifolchi hanno svaligiato le botteghe, depredato le case nobiliari, seminato il panico e insudiciato ogni bene pubblico; tutto a meno di una settimana dalla visita dei Draghi Celesti! A meno di tre giorni dal mio incontro con gli Astri di Saggezza!! Dobbiamo ripulire l’intera isola da quella feccia umana entro due giorni al massimo, e tu...» Digrignò i denti minacciosamente, facendo stridere il cuoio che gli bardava il mento e parte della mascella. «Tu rifiuti l’incarico. Eppure questo genere di operazioni è nelle tue corde! Dunque... perché rifiuti, Jabura?!»
Il Lupo incrociò le braccia sul petto perennemente in bella mostra sotto il tangzhuang sbottonato. L’espressione in volto era cupa, serissima.
«Sul serio non lo sa?»
Il tono greve, così distante dal suo sguaiato modo d’esprimersi, suscitò un misto di curiosità e lieve inquietudine in Kumadori, Fukuro e Kaku, che si voltarono a studiarlo con la fronte appena segnata dalla tensione. Persino Lucci, Califa e Blueno, di norma più criptici e indecifrabili nelle loro reazioni, non poterono fare a meno di rivolgere al collega occhiate interrogative.
«Perché questo venerdì...» svelò Jabura, rabbuiandosi «è venerdì 17!»
Silenzio in sala.
Grandi e piccoli agenti del CP9, neo-agenti e boss in carica, nessuno escluso, batterono un paio di volte le palpebre, ammutoliti.
Califa si tirò su con la punta dell’indice gli occhiali scesi fino alla metà del naso. Blueno si grattò la testa alla base di un lungo corno di capelli scuri. Kumadori e Fukuro aprirono bocca per parlare ma restarono miracolosamente muti, titubanti sul da dirsi —o forse a Fukuro si era solo inceppata la cerniera. Lucci e Kaku continuarono a fissare Jabura circospetti, aspettandosi che si sganasciasse in una risata da un momento all’altro e dicesse loro quant’erano stupidi e infantili a cadere nel suo bluff, che però non arrivò.
Dopo secondi di stolido silenzio, Spandam, ignaro di aver assunto una perfetta espressione da pesce lesso, azzardò a domandare: «E allora...?»
«Come sarebbe e allora!?» saltò su Jabura, infervorandosi, manco il capo avesse appena disconosciuto l’intera linea evolutiva dei lupi. «Il venerdì 17 porta una scalogna terribile! Qualunque cosa facciamo, per quanto bene la organizziamo, andrà tutto a puttane! È una legge universale, capo... lo sanno tutti: mai prendere impegni per venerdì 17!»
Lo sconcerto fu più intenso e prolungato di prima. I membri del CP9 si guardarono negli occhi e celarono a fatica l’ilarità, finché la vocina di Kaku, scettica e troppo divertita per riuscire a contenersi, espresse il pensiero comune:
«È così... ridicolo!»
Jabura lo fustigò con lo sguardo. Ignorò —solo per il momento, ovvio— le risatine di Fukuro; finse di non vedere quel coglione di Blueno che alzava gli occhi al soffitto e scuoteva la testa; e proruppe contro il collega più giovane: «Che vuoi saperne, tu, piscialletto?! Finora hai solo giocato a guardie e ladri, non hai idea di cosa sia una missione vera! Ti squarteranno vivo, là fuori. Dovresti rinunciare!
» Si voltò rabbioso verso gli altri che se la ridevano, più o meno manifestamente «...Dovreste rinunciare tutti
Fu in quell’istante, in quel brevissimo, ultimo istante di quiete scandita dalla smorfia offesa di Kaku e dalla zip di Fukuro che scorreva fino all’estremo margine della bocca, che Spandam sentì arrivare l’annunciata esasperazione.
Quindi scoppiò il pandemonio:
«So benissimo com’è in missione! E non chiamarmi in quel modo!!»; «Kaku e Califa non hanno mai ucciso un pirata. Chapapa! Che missione sfortunata! Chapapa! Sarà una notte tormentata! Chapapa!»; «Perché mi accoppi con lui? Questa è una vera molestia sessuale, Fukuro!»; «SCIAGUREEEEE... SCIAGURE TERRIBILI CI ATTENDONO NEL NEFASTO DICIASSETTESIMO GIORNO DELL’UNDICESIMO MESE DELL’ANNO!! OH, MISERANDI! SVENTURATI!! MADRE, PROTEGGICI DALL’OMBRA FUNESTA DELLA...»
«Smettetela...» tentò Spandam, sull’orlo di un’emicrania fulminante, unendo le mani sulla fronte e massaggiandosi ambo le tempie coi pollici. Tecnica di rilassamento, la chiamava suo padre, ma mai una volta che servisse quando si ritrovava a convocare l’intero Cipher Pol 9!
Quasi a dargliene conferma, Rob Lucci assottigliò lo sguardo e rivolse al superstizioso rivale il più sfottente dei suoi ghigni. Agli occhi di Spandam, sembrò un folle che nel bel mezzo di un incendio arrivava con una tanica di kerosene tra le mani: «Sei solo uno stupido cane codardo!»
Jabura sentì il sangue ribollirgli nelle vene e le mani cominciargli a prudere come assaltate dalle termiti. Dieci minuti nella stessa stanza con Lucci e già moriva dalla voglia di strangolarlo!
«Prova a ripeterlo, razza di bastar-»
«Stupido cane codardo.»
«TI AMMAZZO!»
«SMETTETELA!»
L’urlo del direttore rimbombò dalla sala grande fino al corridoio, seguito dal boato del pugno sbattuto con violenza sul tavolo.
Tutti i presenti si voltarono, finalmente in silenzio. Guardarono lui e poi le sue mani.
«Chapapa... Ehm... Capo...»
«ZITTI HO DETTO!!»
Fukuro richiuse in fretta e furia la zip, fece saettare gli occhietti in un punto a caso fuori dalla finestra e si tappò le orecchie con le dita.
Spandam ebbe giusto un paio di secondi per compiacersi dell’attenzione inaspettatamente conquistata; poi il caffè bollente, rovesciato sul tavolo dall’irruenza del suo colpo, si spanse fino a bagnargli mignolo e anulare destri e lo fece ululare di dolore, generando un baccano di molti decibel superiore allo standard degli agenti quando litigavano.
Mentre l’uomo veniva soccorso da un poco compassionevole Blueno e Kumadori si prontava a compiere un Seppuku per l’espiazione del peccato comune, Rob Lucci decise di prendere in mano la situazione, anticipando quella che sarebbe presto diventata la sua attitudine nel CP9:
«Finiamola qui, direttore. Andrò io a Duma al posto di Jabura, possiamo portare a termine la missione anche senza di lui...»
«Ti sei dimenticato che devi scortarmi a Marijoa, sabato?» gli ricordò Spandam, ancora dolorante, prima che il Lupo potesse di nuovo attaccar briga.
«No. Ma può sostituirmi lui
, a meno che non inventi un’altra scusa per tirarsi di nuovo indietro...»
La rabbia di Jabura tornò di nuovo alla carica, per mutare, stavolta, in qualcosa di leggermente diverso, come un risentimento che non sapeva bene come esprimere, o non poteva esprimere.
Perché da un lato, se lo stronzetto partiva per Duma risparmiandogli di esporsi alla iella nera del venerdì 17, gli faceva un favore (se si faceva anche sgozzare dai pirati, favore doppio); dall’altro, affibbiargli l’incontro di Spandam con gli Astri di Saggezza era... subdolo. Bastardo. Perfettamente da Rob Lucci.
«Quanta generosità!» sillabò a denti scoperti, in un sorriso che era più simile ad un ringhio.
Il sorriso che Lucci gli restituì fu quasi serafico, in confronto, ma negli occhi gli si leggeva tutta la tronfia, arrogante soddisfazione di averlo messo con le spalle al muro.
Scortare Spandam a Marijoa non era solo un lavoro noioso, equivaleva a scartavetrarsi le palle!
Se già era raro che i vascelli della Marina su cui viaggiavano anche i governativi subissero attacchi diretti, infatti, era praticamente impossibile che qualche manigoldo osasse anche solo pensare di avvicinarsi alla terra dei Draghi Celesti.
Lì, nel castello degli Astri, il momento più entusiasmante dell’intera missione consisteva nel banchetto, dove dovevi assicurarti che il capo non si rovesciasse la zuppa addosso, o cadesse dalle scale, o rovinasse sulla ricca tavola imbandita —tutte cose già successe ad Enies Lobby, singolarmente e in combo— e non potevi permetterti di rimpinzarti né di sporcarti né di bere alcolici, per una questione di decoro a cui Spandam teneva molto più che alla vita altrui.
Tutto questo Jabura lo sapeva, e lo sapeva benissimo anche Rob Lucci; il fatto che sopportasse meglio di tutti gli altri di accompagnare Spandam alle occasioni mondane, non lo rendeva immune alla noia.
Fanculo, borbottò il Lupo dentro di sé, fissando ora la faccia da sberle di Lucci, ora quella rattoppata di Spandam.
«Beh... se vai tu...» cominciò il direttore, appoggiando stancamente la guancia –l’unica intera che gli restava-  sulle nocche chiuse a pugno, il gomito puntato sul bracciolo della poltrona.
«Credo si possa fare.»
Certo, Rob Lucci, per Spandam, rimaneva il più adatto ad accompagnarlo a Marijoa: era composto, non urlava —non fiatava, per la verità: una qualità che talvolta lo rendeva inquietante—, non andava in giro mezzo nudo e non si lamentava quando c’era da abbottonarsi la camicia e stringersi il nodo della cravatta al collo; ma d’altro canto, Jabura aveva ventidue anni, non quindici. E stando al numero di Doriki, era superiore a Lucci, un dato da non trascurare in termini di sicurezza personale. «Mmm... d’accordo, puoi prendere il suo posto. Jabura verrà con me a Marijoa.»
Si levò un fievole «Sì!» di esultanza da qualche parte all’altro capo del tavolo e Jabura si ripromise —anche se non l’aveva visto e non poteva averlo riconosciuto da un monosillabo— di pestare quel poppante di Kaku, di ritorno dalla missione.
«Partirete oggi pomeriggio stesso» Stabilì Spandam, riacquistando il buonumore «I Nobili Mondiali non arriveranno prima della prossima settimana, ma io intendo comunicare ai Cinque Astri che la situazione a Duma è già stata risolta — Una sciocchezzuola, per noi! avrebbe detto — L’incontro si terrà nel pomeriggio di sabato, perciò avrete tempo fino a... mezzogiorno» sogghignò, pregustandosi complimenti ed elogi dai massimi esponenti della Giustizia «Entro quell’ora, nessun pirata dovrà essere più in grado di muoversi. Anzi no! Di respirare. Sono stato chiaro?»
I membri del Cipher Pol 9 incaricati della missione annuirono all’unisono, finalmente seri e concentrati come il figlio di Spandine, eroe del Governo Mondiale, amava vederli.
Nutriva immense aspettative verso di loro e nessun dubbio sulla riuscita della missione. Fukuro e Kumadori potevano sembrare bizzarri, sì, ma quando c’era da andare al sodo in battaglia non fallivano mai. Rob Lucci, solo un paio di anni prima, aveva sterminato in solitario cinquecento soldati in una prigione, e, una volta fuori, aveva completato il lavoro trucidando anche i pirati che li avevano presi in ostaggio. E che dire di Blueno?  Era di recente venuto a capo di una delicata operazione di spionaggio, portando a casa, oltre ciò che gli era stato commissionato, uno scrigno contenente un notevole bottino, motivo per cui lo avrebbe presto ricompensato.
Califa e Kaku erano i più piccoli e inesperti ed in effetti, per loro, esisteva una piccola probabilità di rischio, ma... oh, beh, faceva parte del mestiere. Se non ce l’avessero fatta, la colpa non era certamente sua, ma di chi li aveva promossi agenti giudicandoli idonei alla carica!
Quasi potesse leggere nella mente del suo superiore, Jabura sbuffò sonoramente e storse il naso.
Non gli piaceva.
Non gli piaceva manco per il cazzo che quei mocciosi dei suoi colleghi sfidassero la Sfortuna nel giorno della sua festa e partecipassero ad una spedizione che, a dirla tutta, non era affar loro ma della Marina, solo per assecondare i capricci di quel bastardo egocentrico di Spandam.
D’accordo, Kumadori e lo Stronzo ci sapevano fare, nella mischia, Blueno e Fukuro sapevano pure il fatto loro, ma in battaglia ognuno badava per sé, e Kaku e Califa avevano imparato ad annodarsi i lacci delle scarpe praticamente l’altro ieri!
«Peggio per voi se le cose vanno storte» borbottò «Ve la state cercando!»
Ma gli agenti erano ormai assorti a memorizzare i dettagli dell’incarico e non lo sentirono neppure.
Così, ricevute le ultime disposizioni sul trattamento dei cadaveri (ci avrebbero pensato i marines a darli in pasto ai pesci), la riunione fu sciolta e la missione ufficialmente avviata.
I giovani membri del CP9 si alzarono lesti dalle poltroncine e si diressero verso il corridoio, la mente già proiettata alle poche cose da portare con sé per il viaggio: una nave li avrebbe prelevati tra un’ora al porto, non avevano molto tempo per i preparativi.
«Oh, Blueno, tu vieni un attimo con me» fece Spandam, gongolante e inebriato di entusiasmo, indicando all’agente il suo ufficio «Ho qualcosa che potrebbe tornarti utile per la missione!»


In meno di mezz’ora, tutti erano pronti, impettiti nei completi neri e schierati come soldati davanti al portone principale del Palazzo.
Gli agenti dei Cipher Pol inferiori di grado che transitavano nel lussureggiante androne dallo stile barocco, arredato con cura e dovizia nei particolari dai migliori architetti e artigiani di Water Seven, Pucci e San Faldo, li salutavano con la solita e impacciata reverenza (era difficile accettare l’idea che una banda di ragazzini fosse la punta di diamante della propria Organizzazione). Tutti eccetto il buon Coogy: lui augurava sempre buona fortuna spendendosi in vigorose pacche sulle spalle di Kumadori e Fukuro, e in rispettosi inchini dinnanzi a Califa, figlia di Lusky —un agente della vecchia generazione del CP9, che Coogy definiva ossequiosamente “la vecchia guardia”.
Jabura rimase a fissare tutta quella patetica scenetta, per lui fin troppo usuale, con la schiena poggiata a un pilastro, il pessimo presentimento annodato sempre di più intorno alle viscere.
Rob Lucci lo notò, si voltò e gli sorrise beffardamente per l’ultima volta.
«Divertiti a Marijoa.»
«Divertiti tu ad essere sbudellato!»
Kaku scoccò a Jabura un’occhiataccia. Non lo dava a vedere, ma era sulle spine per ciò che lo aspettava a Duma, e il costante richiamo alla malasorte che in qualche modo avrebbe dovuto colpirli cominciava a dargli sui nervi. «Andiamo, Lucci.»
«Ce ne sarà anche per te, Kaku, non temere» lo canzonò il Lupo «Hai già la iella addosso!»
I due lo ignorarono. Varcarono la soglia del Palazzo di Giustizia, seguiti ordinatamente dagli altri quattro colleghi, e vennero subito sferzati dalla sottile pioggerella autunnale che prometteva a Enies Lobby d’intensificarsi nelle ore successive.
Jabura seguì con lo sguardo le piccole figure che si allontanavano sempre più giù per le scale, fino al cortile. Una folata di vento gelido —sinistro— lo fece rabbrividire e lo convinse che sì, lui faceva la cosa migliore a restarsene a casa.
Quanto a quei mocciosi...
«Ohi!» gridò «Non vi stancate troppo, abbiamo ancora un conto in sospeso!»

 




Note dell'autrice
note dell'autrice
...E voi avete preso impegni per venerdì 17?
Bentrovati ai fan, superstiziosi e non, del CP9!
La storia che avete sotto gli occhi è una mini-long di 3 capitoli, ambientata 13 anni prima della saga di Enies Lobby, quando gli agenti erano ancora degli assassini in erba. Ho colto l'occasione del venerdì 17 perché si prestava bene al racconto, focalizzato sulla superstizione di Jabura, uno dei personaggi più divertenti non solo del CP9 ma del panorama di One Piece in generale.
Il titolo, in realtà, è un doppio-titolo che inquadra piuttosto bene la fanfiction, perciò merita una piccola spiegazione:
- Missioni curriculari del CP9: è il titolo della serie di cui fa parte questa storia. È la controparte delle "Missioni extra-curriculari del CP9" apparse nelle Miniavventure del manga e si propone di raccontare le missioni di Lucci e dei suoi compagni durante la carriera nel CP9 (prima degli eventi di Water Seven-Enies Lobby che hanno portato al licenziamento del gruppo). La costante in tutte queste storie sarà il canon: niente coppie, dunque!
- Mai prendere impegni per venerdì 17: è un richiamo scherzoso al film"Shriek - Hai impegni per venerdì 17?". La storia non c'entra nulla con quel vecchio film-parodia, l'ho scelto perché richiama l'atmosfera un po' comica e un po' horror.
Spero di allietare i vostri venerdì! Mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate e, naturalmente, se siete un po' scaramantici anche voi verso questa giornata xD


Grazie per essere arrivati fin qui,

Vegethia
contatori

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Capitolo 2
*** Parte II ***


Il weekend arrivò con uno dei temporali più intensi e fragorosi degli ultimi sei mesi, oscurando il cielo fulgido di Enies Lobby e rubando alla sede governativa, durante tutta la giornata di venerdì, l’appellativo di Isola senza notte.
Era solo novembre, ma dal freddo pungente e dall’intensità del vento pareva già inverno inoltrato. La pioggia tempestava i tetti degli edifici e scuoteva le finestre del Palazzo di Giustizia come se dovesse sfondarle; il vessillo del Governo Mondiale, simbolo di utopistiche promesse di pace e stabilità, sbatacchiava impazzito sotto la spinta violenta delle raffiche, minacciando di squarciarsi e cedere all’unica forza naturale cui nessuna legge terrena avrebbe mai potuto opporsi.
Erano appena le 22:00 e alla torre principale la maggior parte delle luci erano spente. Parecchie stanze erano vuote; alcune in via occasionale, quasi tutte come ogni giorno a quell’ora: lavorare nel Cipher Pol, del resto, significava abituarsi alle trasferte in terre straniere e alla vita senza fissa dimora.
Faceva però eccezione una sala ai piani più alti del Palazzo, dove la luce tremula di una lampada ad olio baluginava sul soffitto e si diffondeva sulle pareti, proiettando le ombre simmetriche di un ponticello in legno e quelle sinuose dei bonsai piantati per tutto il perimetro.
Immerso in questa semioscurità, Jabura se ne stava steso sul prato che tappezzava interamente la sua camera, bottiglia di Baijiu in una mano e rivista a luci rosse nell’altra.
Non c’era modo migliore di trascorrere il giorno della Scalogna se non in casa, nella sua ampia, accogliente tana —più simile alla dimora di un monaco Zen che a quella di un predatore, in verità— distante con il corpo e con la mente da ogni preoccupazione.
O quasi.
Nonostante i 50 gradi alcolici del liquore ingurgitato e le forme generose delle “100 FOCOSE MERAVIGLIE DI ALABASTA” a sollazzarlo, infatti, i suoi pensieri erano da un’altra parte, più pressanti di quanto non fosse disposto ad ammettere.
Avvertiva ancora l’inquietudine provata il pomeriggio prima, quando il resto dei suoi colleghi rompiscatole era partito per la missione su Duma, ma amplificata a mille: gli si era annidata dentro, era cresciuta nella notte piantando malevoli radici tanto più lunghe e profonde quanto più s’ingrossavano il mare e la tempesta ad Enies Lobby, e pareva chiaro, ormai, che niente l’avrebbe sradicata fino all’alba del nuovo giorno.
Tracannò un ultimo sorso d’alcol e si rigirò la bottiglia vuota tra le mani, pulendosi la bocca sull’avambraccio libero. Ne aveva scolata una intera, ma non poteva essere abbastanza per i suoi standard, non in quella particolare combinazione di giorno e numero sul calendario.
Avvertiva ancora con troppa lucidità il vento che fischiava su per le grondaie e i flash abbacinanti dei lampi che cadevano in picchiata sul mare color dell’abisso.
Non che avesse paura, naturalmente. Lui era un lupo: la paura la conosceva solo attraverso gli occhi delle sue prede. Poteva incuterla, fiutarla nelle membra dei poveri diavoli a cui dava la caccia, ma provarla in prima persona? Mai.
Considerò comunque l’idea di andare in camera di Rob Lucci a sgraffignare qualcos’altro da bere; poteva essere divertente: lo stronzetto, al suo ritorno, si accorgeva sempre se qualcosa era fuori posto —lui s’impegnava a fargli trovare le cose fuori posto— e montava su un casino dell’altro mondo.
Ridacchiò al ricordo dell’ultima presa con cui lo aveva messo al tappeto dopo un acceso scambio di vedute circa la “violazione di proprietà privata”, quindi rifletté che probabilmente, a quell’ora, il collega era nel bel mezzo di uno sterminio di massa.
Un poco lo invidiò.
Se la sarebbe spassata a giocare con quei pirati da strapazzo, su Duma, a promettere che non li avrebbe fatti soffrire, che avrebbe risparmiato le loro patetiche vite; solo per rincorrerli un attimo dopo, tramutato in lupo, affondargli le zanne alla gola e sentirli spirare tra le sue fauci, poco a poco, tra le strida soffocate e il caldo fiotto del sangue.
Non gli sarebbe neanche importato della missione indetta per puro tornaconto personale di Spandam
pur di fare bella figura con gli Astri durante la sua visita a Marijoa si sarebbe venduto il culo, figurarsi quello dei suoi sottoposti!
Ma quello era venerdì 17.
La festa di compleanno della Sfortuna, il giorno in cui le sciagure si davano appuntamento e le disgrazie ti prendevano per mano e ti tallonavano fino al cesso di casa per tutte e 24 ore; finché la mezzanotte, la santissima mezzanotte del sabato 18, non ti accoglieva nella sua benevola, amabile normalità.
Jabura credeva fermamente in quella che per molti era futile superstizione, perché la sfiga nei suoi venerdì 17 ci aveva sempre lasciato la firma: il giorno in cui si era beccato il primo provvedimento disciplinare per “brutalità aggravata e non richiesta”? Venerdì 17; il giorno in cui Rob Lucci era stato promosso nel CP9 e si era trasferito nella stanza accanto? Venerdì 17; e il giorno in cui gli avevano sfregiato la faccia, che per poco non ci rimetteva anche l’occhio? Beh, quello non se lo ricordava, ma era pronto a scommettere che fosse un dannatissimo venerdì 17.
Un tuono spezzò il filo dei suoi pensieri, rombando tutt’attorno alle mura che sembrarono rabbrividire in sincrono con le sue ossa.
Lanciò un’occhiata delusa alla bottiglia vuota. «Bah. Sono troppo forte per questa roba!»
La scagliò via, spense la lampada e si distese su un fianco, chiudendo piano gli occhi. Una bella dormita era ciò che ci voleva; la soluzione perfetta per dimenticare la iella e non pensare alla noia che lo attendeva l’indomani, nella terra inviolabile dei capoccia del Governo.
Fuori il temporale non dava tregua, ululando come un demone in permesso d’uscita dall’inferno. Tentò di escludere quel rumore concentrandosi sui suoni a lui familiari: il brusio delle foglie smosse dagli spifferi di vento, lo scroscio placido del ruscello che lambiva le pareti di roccia artificiale, il colpo secco e ritmico dello Shishi odoshi sulla pietra.
Stava finalmente per assopirsi quando qualcosa —qualcosa di agghiacciante— levò un gemito nel buio.
«-O... OIIII...!»
Il Lupo riaprì le palpebre. Si guardò attorno muovendo solo gli occhi.
«Niwatori?» chiamò, poco convinto.
Il gallo non rispose. Per forza: a quell’ora dormiva chiuso nel chiosco, e comunque, anche da sveglio, non avrebbe fatto rumore; se l’era scelto così apposta. L’ultimo temerario pollastro che aveva osato svegliarlo all’alba nel suo giorno libero era finito al forno con un contorno di patate, giù alla mensa, senza troppe remore.
Allora ci fu un altro rumore, simile ad un cigolio, e un’ombra innaturale apparve nella parete confinante con la stanza accanto.
Jabura era, di fatto, mezzo sbronzo e fece fatica a mettere a fuoco le immagini nonostante la vista notturna amplificata dai poteri del Dog Dog. Dopo che vide, però, volle appellarsi con tutte le sue forze all’idea di essere completamente stordito dall’alcol.
C’era una cosa nella parete.
Un’escrescenza che sbucava dal muro... un ammasso immondo di tentacoli. No.
Capelli.
Attaccati al cranio di Kumadori.
«YOOOO... YOOOOI!»
Jabura sussultò, sgranando gli occhi per la sorpresa.
La testa di Kumadori —solo la sua testa!— usciva dal muro e ruotava lentamente, come se qualcuno l’avesse impalata ad uno spiedo, mentre i lunghi capelli fradici di sangue e pioggia si protendevano verso di lui, per afferrarlo.
«Kumadori...!? Perché sei qui??»
A Duma c’erano almeno cinquecento pirati, ricordò il Lupo bisognoso di una spiegazione razionale, cinquecento dannati avanzi di galera sparpagliati in lungo e in largo per l’isola, pronti a darsela a gambe e a nascondersi appena realizzato di avere il reparto più cazzuto del Governo Mondiale alle calcagna: era troppo presto perché i suoi fossero di rientro dalla missione.
Non ebbe tuttavia il tempo di riflettere ulteriormente che lì, accanto alla testa del nativo di Wa, un arto insanguinato sbucò dal muro, cercò un appiglio e trascinò lentamente fuori il resto del suo corpo.
L’agente che conosceva la paura solo attraverso gli occhi delle sue vittime adesso deglutì, impietrito.
Dalla parete illuminata dai bagliori spettrali del temporale, proprio davanti ai suoi occhi —ai suoi occhi di lupo a cui nessuna oscurità poteva mentire— Rob Lucci apparve nella sua stanza, slavato da un pallore cadaverico, i vestiti pieni di sangue e sporchi di terra... attraversando la parete.
Come un fantasma.
«Ma che cazzo...!?» si lasciò sfuggire Jabura, balzando in piedi talmente in fretta che per un attimo la testa gli girò e minacciò di fargli perdere l’equilibrio. «Come hai fatto a...»
«Ja... bu... ra...!» gracchiò la Cosa, gelandogli il sangue nelle vene.
Mano sul cuore, da quando conosceva quello stronzetto, anche dopo averlo conciato per le feste, anche quando era tornato sfinito due anni prima, con la schiena corrosa dai colpi dei cannoni, mai, mai una fottuta volta, lo aveva sentito parlare in quel modo. E non era nemmeno certo che la voce provenisse da lui, dal momento che non aveva schiuso le labbra di un millimetro.
È così che parlano i morti?!
«Vieni con noi, Jabura!»
Un’altra voce.
Più stridula della prima. Più infantile.
E Kaku apparve accanto a Lucci, anche lui vomitato fuori dalla parete, anche lui esangue, la tesa del berretto squarciata e i lacci di una scarpa che strisciavano per terra. Camminava lento verso di lui, caracollando lievemente, gli occhi tondi, vitrei, spalancati come globi bianchi sulla faccia di un burattino senza vita.
«È solo colpa tua» crepitò la voce del morto con le sembianze di Lucci, avvicinandosi.

Grandioso! Ho la sbornia allucinogena!, imprecò mentalmente il Lupo, ma l’istinto lo portò a muovere un passo indietro. «Fermi dove siete! O vi giuro che...»
«Ci ammazzi?» Il faccino di Kaku si deformò in un ghigno malefico. «Siamo già morti. Sbudellati!»
Jabura ricordò con una stretta alla gola l’ultima conversazione avuta coi due colleghi e all’improvviso tutto ebbe senso.
Gliel’aveva mandata lui, la Iella. Doveva andare lui in missione a Duma.
Doveva morire lui, al posto di Rob Lucci.
Un lampo illuminò a giorno la stanza e nella luce intermittente le due figure scomparvero, per riapparire subito dopo ad un palmo di naso da lui.
«Ho detto FERMI, maledizione!!»
Ma i morti non ascoltavano, non intimidivano di fronte alle minacce. Cercavano solo vendetta.
«Oggi morirai anche tu, Jabura.»
«Anche tu!» rise Kaku. «ANCHE TU!» Allungò le braccia, pronto a stringerlo in un abbraccio mortifero.
Jabura vide per la prima volta la paura con i suoi occhi, e questo a Lucci e Kaku sarebbe potuto bastare.
Sarebbe potuta finire lì, al loro segnale: con Fukuro che saltava fuori dal Door Door di Blueno e immortalava la faccia terrorizzata del Lupo con uno scatto fotografico; con Jabura che realizzava —imprecando in ogni lingua nota nel Vecchio e nel Nuovo Mondo— che tutta quella situazione paranormale era solo scaturita da un buon Soru, dalle doti da ventriloquo di quello stronzo addomesticapiccioni di Rob Lucci, e —in minima parte, certo— dalla sua suggestione.
Tutti i membri del CP9 avrebbero potuto ricordare, a distanza di anni, quello stupido scherzo come un grande trionfo sul primo esperto di bugie e tiri mancini, e rinfacciarglielo per il resto dell’esistenza.
Ma quello era venerdì 17, e la festeggiata non mancò all’appuntamento.
Fu un attimo.
La porta d’ingresso si spalancò con uno stridulo cigolar di cardini nell’esatto momento in cui una folgore, gravida delle sue centinaia di milioni di volt, impattò sul Cancello della Giustizia.
Il tuono deflagrò con una violenza assordante, inaspettata. Tutto si accese di un rosso vivo: in quell’attimo sembrò che persino dal cielo piovesse sangue.
Jabura sentì la morte incombere su di sé come una mannaia vibrata in aria, annunciata dal grido di terrore di una giovane donna
troppo occupata a tener chiusa la zip di Fukuro per poter coprire la sua, di bocca.
Semplicemente perse il controllo.
Come una fiera impaurita si voltò verso la porta, caricò il colpo e ruggì, con tutto il fiato che aveva nei polmoni: «RANKYAKU!»
Il lampo azzurro squarciò l’aria, falcidiando ogni stelo d’erba sul suo passaggio. Distrusse l’intonaco, tranciò qualche alberello sfortunato che aveva messo radici vicino all’ingresso e finì col travolgere in pieno il suo bersaglio.
Veloce com’era arrivata, la Sfortuna levò le tende, spegnendosi nell’eco surreale della tempesta elettrica.
«J-J-ah...haaaaa-»
Jabura deglutì.
Non capiva.
Non ci capiva assolutamente nulla, e la luce calda e guizzante dei candelabri fissati alle lesene del corridoio che ora illuminava il corpo disarticolato del direttore Spandam, stecchito sulla soglia della sua stanza, non era d’aiuto.
«Oh... merda!»
Kaku era sempre stato un bambino educato e obbediente, e col senno e la calma del poi, Jabura avrebbe ricordato con soddisfazione quella prima volta in cui gli sentì pronunciare una parolaccia.
«Questo non era previsto...»


«Sarà morto?»
«Tanto vivo non è più di sicuro...»
Le luci della stanza si accesero, restituendo il verde brillante al prato, il bianco candido alle piume di un sonnecchiante Niwatori e il rosso vermiglio alla faccia martoriata di Spandam.
«Cosa diavolo... »
Più i minuti passavano, più Jabura non ci si raccapezzava. Di certo, vide solo che dal muro della sua stanza, là dove era sicuro non esserci alcuna porta o finestra, ora erano saltati fuori Fukuro, Kumadori —tutto intero—, Califa e Blueno.
«Ma che cazzo sta succedendo??» proruppe, fuori di sé.
«È il mio nuovo frutto del diavolo. A dopo le spiegazioni...» spiegò telegrafico Blueno, per avvicinarsi subito a Spandam col resto dei colleghi.
«Tu... hai... COSA...?!!» Ora Jabura cominciava a capire —no: fiutava limpidamente la puzza di presa per il culo— e la cosa non gli piaceva affatto. «EHI!! Com’è che non sono stato informato?!»
Si voltò furente verso Lucci, che se ne stava in piedi a contemplare Spandam con la stessa pietà che avrebbe riservato a una lumaca di mare spappolata su un selciato. Lo vide storcere appena le labbra: «Bravo, idiota, hai ucciso il capo!»
Jabura formulò così tanti insulti tutti in una volta che il risultato fu un’implosione di massa dei suoi centri nervosi. Un preoccupante tic gli comparve all’occhio sinistro, mentre sobbolliva e boccheggiava dalla rabbia.
Stavolta lo avrebbe massacrato! Lo avrebbe ridotto in pezzetti così piccoli che ci avrebbero potuto fare la carne in scatola con Rob “NATO STRONZO” Lucci, così finalmente avrebbe compiuto un gesto altruista verso l’umanità!
«DISONORE!!! REPRIMENDA!! DI CHE COLPA CI SIAMO MACCHIATI??!» si disperò Kumadori, sguainando la katana «URGE IL MIO SACRIFICIO! ...SEPPUKU!!»
«Non è che se muori risolviamo qualcosa...»
«...TEKKAI!»
«ALMENO FALLO COME SI DEVE, IMBECILLE!!»
«Chapapapa!! Siamo licenziati, è così?»
«Calmatevi» sospirò Blueno «È... Credo sia ancora vivo.»
Spandam, in effetti, rantolò qualcosa di incomprensibile.
«Sono i versi di un maniaco sessuale. Dobbiamo dargli il colpo di grazia!»
«No, no» Constatò amareggiato Kaku, sentendo il battito irregolare del direttore sotto le dita. «Penso che possa cavarsela...»
«E tanti saluti all’occultamento del corpo... Chapapa.»
«Ben vi sta!» Esclamò Jabura. «Vi licenzierà e vi spedirà ad Impel Down seduta stante!»
«Se licenzia noi, licenzia anche te» osservò sdegnoso Lucci «La colpa è solo della tua idiozia!»
«La colpa è di chi non ti ha freddato nella culla!!»
«Basta, voi due!» li separò veemente Blueno. Era davvero seccato, oltre che rassegnato all’imminente punizione, perché lo sapeva che sarebbe finita male. L’aveva detto sin dall’inizio, agli altri, che lo scherzo era una pessima idea, che lui non voleva entrarci nelle loro —stupide, ma guai a dirlo davanti a Rob Lucci— questioni; ma quelli no, lo avevano dovuto tirare in ballo a tutti i costi dopo aver visto il suo Paramisha! «Lo porto in infermeria.»
Prese Spandam tra le braccia robuste e lo sollevò come fosse un fuscello, o un bell’addormentato che di bello non aveva più nulla, dopo l’intervento di chirurgia estetica ad impatto di Cutty Flam e Jabura.
Con la medesima rassegnazione e conturbato dal rammarico di non aver potuto pestare —non ancora— gli autori del complotto ai suoi danni, il collega più anziano lo seguì: «Vengo con te.»
Lucci, Califa, Kaku, Fukuro e Kumadori restarono fermi, impalati sul posto, chi a cercare chiocciole sull’erba, chi a pulirsi le lenti linde degli occhiali su una pezzuola, chi a esaminarsi i lacci delle scarpe.
Jabura investì le facce da gnorri dei colleghi con un’occhiata minacciosa. «Avete bisogno dell’invito??»
«Che spudorato!! Mi stai chiaramente molestando!»
«Mmmm... Mi ritiro nell’intimità del mio rifugio sicché possa scongiurare gli Dèi di perdonare le nostre colpe! Yo-yoooi.»
«Il capo si arrabbierà. Io non vengo. Chapapa.»
«MUOVETEVI O VI SPINGO A CALCI IN CULO PER LE SCALE!!»
Blueno diede due colpi di tosse, schiarendosi la voce, poi guardò l’unica persona davvero in grado di scuotere il gruppo.
Rob Lucci sostenne impassibile il suo sguardo finché il senso di responsabilità e di giustizia che gli avevano inculcato sin dai suoi primi anni di vita non prese il sopravvento.
«Va bene» disse sfilandosi le mani di tasca «Diamoci una ripulita e scendiamo anche noi.»



Note dell'autrice
note dell'autrice
Un minuto di silenzio per Spandam rankyakuzzato da Jabura... grazie!
In questi giorni vado sempre di corsa, ma non posso esimermi dal lasciare alcune note (le ho inserite anche nel primo capitolo, a beneficio dei lettori futuri), perché questo capitolo è il cuore della storia e alcune precisazioni vanno fatte. Non voglio annoiarvi, andrò veloce come il Rocket Man:

- Al CP9 ci si diverte con poco, ossia usi alternativi del Door Door
La chiave di volta della storia che ha reso possibile lo scherzo ai danni di Jabura, lo avrete capito, è il Door Door che Spandam ha consegnato a Blueno alla fine dello scorso capitolo. Il Lupo non sapeva che l'avesse mangiato, non sapeva neanche dell'esistenza del Frutto stesso, per cui tutto ciò che è accaduto, ai suoi occhi appariva assurdo, inspiegabile, paranormale: ho cercato di farvi immedesimare in lui, ma spero che la situazione vi abbia anche strappato un sorriso. Voi potevate immaginare cosa stava succedendo, Jabura no!

- Lucci, Kaku e la performance da zombi
Tutta la “scena horror" era amplificata dalla suggestione di Jabura e dal fatto che fosse un po' brillo (forse era meglio dedicarsi solo alle Bellezze di Alabasta?), ma nel manga, a Water Seven, Lucci e Kaku hanno dimostrato di essere ottimi attori; non dubito che fossero capaci di certe bastardate anche in tenera età.
Kumadori, invece, è solo rimasto incastrato nel muro.

- Fukuro e le foto compromettenti
Anche se lo scherzo non è andato a buon fine per un colpo di sfortuna (Spandam, che è entrato nella stanza di Jabura al momento sbagliato nel giorno sbagliato, è la vera vittima in tutto ciò), il suo scopo era quello di terrorizzare Jabura e immortalarlo con una foto. In un contesto completamente diverso, l'espediente della foto è stato usato da kymyit, mia partner di role oltre che scrittrice meravigliosa, in un GDR che scrivo con lei. Il particolare è secondario nel capitolo, ma ci tenevo a precisarlo!

- Citazioni a go go da Stephen King
Solo piccole curiosità, ma magari a qualche fan del Re piacerà trovare conferme: l'isola di Duma cita il nome e l'ambientazione di Duma Key, uno dei miei romanzi preferiti di King, ambientato su una splendida isola della Florida (che non esiste nella realtà, ma appartiene idealmente all’arcipelago delle Keys); mentre l'esclamazione di Kaku a coronamento della scena horror («Anche tu! ANCHE TU!») è una citazione del famoso tormentone di It (di recente uscito al cinema con un remake): «Galleggerai anche tu!»
Non volevo che Jabura galleggiasse, ma Kaku bambino nei panni di un malefico Georgie Denbrough posseduto da It era uno spettacolo troppo bello per non essere concepito, anche solo nella mia testa.

Chiarimenti ulteriori e retroscena sulla vicenda nel prossimo capitolo, che sarà anche conclusivo di questa mini-long.

Grazie per essere arrivati fin qui!

Vegethia

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