Missioni curriculari del CP9: Mai prendere impegni per venerdì 17! di Vegethia (/viewuser.php?uid=52507)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte I ***
Capitolo 2: *** Parte II ***
Capitolo 1 *** Parte I ***
Missioni
curriculari
del CP9:
Mai
prendere impegni per venerdì 17!
«Ti
sto dicendo... che ci saranno almeno cinquecento luridi pirati tra la costa e l’entroterra
dell’isola,
secondo le stime dei marines... E che vi si chiede espressamente di non fare prigionieri...!»
«Ho capito, capo, dannazione! Rinuncio lo stesso!»
Un’ondata di occhiate attonite investirono Jabura al suo
secondo e categorico
rifiuto della missione organizzata da Spandam, direttore in carica
della più
giovane generazione del CP9 che la sala grande del Palazzo di Giustizia
avesse
mai visto radunata attorno al suo tavolo.
I sette agenti convivevano nella splendente Enies Lobby, una delle sedi
principali del Governo Mondiale situata lungo la Rotta Maggiore, da
meno di un
paio d’anni, ma avevano condiviso insieme l’intera
infanzia —anni passati
all’insegna di rigidi addestramenti fisici e
mentali— e conoscevano abbastanza
bene il collega da non poter prendere seriamente le sue parole. Punto
primo,
perché Jabura cacciava balle di ogni sorta da quando aveva
l’età minima per
parlare; punto secondo, perché nel menù dei
servizi esclusivi offerti dal
Cipher Pol 9, i massacri legalizzati erano da sempre il suo piatto
preferito,
la sua vera vocazione: Jabura non era uno che uccideva per lavoro,
lavorava per
il gusto di uccidere.
Eppure il tono con cui aveva esplicitato il suo dissenso non lasciava
spazio a
dubbi o a equivoci: non voleva davvero partire.
Jabura stava davvero rinunciando ad
una carneficina di pirati sull’isola di Duma, piccolo
paradiso tropicale solo
un paio di miglia più a sud di Water Seven, invasa da
un’alleanza composta da
ben tre ciurme, per... restarsene ad Enies Lobby. Completamente da
solo. A
girarsi i pollici.
«Ti senti male?» chiese serio Blueno, che per
stazza, flemma e timbro di voce
dimostrava almeno dieci anni in più dei suoi diciassette e
mezzo.
«Ha la febbre, chapapa!» insinuò Fukuro
—lui di anni ne aveva sedici, li
dimostrava, e non ne avrebbe mai dimostrati molti di più,
mentalmente parlando.
Kumadori, coetaneo di Jabura, scosse il capo a destra e sinistra
facendo
vibrare la lunga e vaporosa chioma rosa, prima di esplodere in un
melodrammatico:
«Mmm... un vero guerriero deve temprare il proprio corpo e il
proprio spirito
per resistere ad ogni malattia! YO-YOI!!»
«A me sembra che stia bene» osservò
Califa, riassettandosi la montatura degli
occhiali sul naso minuto. Era da poco entrata in quella fase delicata
—pericolosa,
secondo Spandam e Jabura— che era l’adolescenza
femminile e cominciava ad avere
le sembianze di una signorina nonostante la bassa statura e il visino
da
bambola.
«Ci sta di nuovo prendendo in giro...» Kaku
parlò calcandosi il berretto sulla
fronte e guardando il collega più grande con una certa
diffidenza, come se non
ci tenesse a incontrare il suo sguardo. Lui, la pubertà, non
la vedeva nemmeno
da lontano e Jabura diceva spesso che se non fosse stato per la forma
stramba del
naso e per l’immancabile cappellino sportivo a sporgere dal
suo profilo,
nemmeno si sarebbe notato, smilzo com’era.
«A me sembra solo più stupido di ieri!»
Jabura grugnì e si voltò in direzione di
quell’odiosa, boriosa, detestabile
voce.
Rob Lucci, 15 anni all’anagrafe e “NATO
STRONZO” sul certificato di nascita mai
pervenuto, nel pieno dei suoi ormoni adolescenziali nascosti dietro a
un’irritante
espressione da uomo di mondo che non si scompone davanti a nulla, lo
guardava
annoiato, quasi gli stesse facendo un favore ad accorgersi della sua
presenza
in sala.
«Non ti è bastata la lezione di una settimana fa,
stronzetto?»
«Piantatela» li zittì per
l’ennesima volta Spandam, alzandosi e piantando i
palmi aperti sul lucido piano in legno massello. Non era ancora
esasperato, ma
poco ci mancava. I componenti della sua squadra erano stati cresciuti e
addestrati così severamente dai tutori del Governo
—Jabura era un’eccezione per
cui l’ex educatrice non si dava pace e aveva finito per
andare in pensione in
anticipo, con l’esaurimento nervoso— che spesso si
dimenticava trattarsi solo di
ragazzini.
«Ha iniziato lu...»
«Non mi interessa chi ha iniziato!» Si rivolse di
nuovo a Jabura, che dall’alto
dei suoi ventidue anni e forte dell’esperienza già
decennale maturata sul
campo, era uno dei suoi agenti più affidabili, oltre che
l’unico a possedere
gli straordinari poteri di un frutto del diavolo, uno Zoo Zoo: Dog Dog modello Lupo.
«La situazione a Duma è critica» gli
fece presente, scandendo le parole come se
l’altro non avesse finora afferrato l’importanza
della questione, «Quei
bifolchi hanno svaligiato le botteghe, depredato le case nobiliari,
seminato il
panico e insudiciato ogni bene pubblico; tutto a meno di una settimana
dalla
visita dei Draghi Celesti! A meno di tre giorni dal mio
incontro con gli Astri di Saggezza!! Dobbiamo ripulire
l’intera isola da quella
feccia umana entro due
giorni al massimo, e tu...» Digrignò i denti
minacciosamente, facendo stridere
il cuoio che gli bardava il mento e parte della mascella. «Tu
rifiuti
l’incarico. Eppure questo genere di operazioni è nelle tue
corde! Dunque... perché
rifiuti, Jabura?!»
Il Lupo incrociò le braccia sul petto perennemente in bella
mostra sotto il tangzhuang
sbottonato. L’espressione in volto era cupa, serissima.
«Sul serio non lo sa?»
Il tono greve, così distante dal suo sguaiato modo
d’esprimersi, suscitò un
misto di curiosità e lieve inquietudine in Kumadori, Fukuro
e Kaku, che si
voltarono a studiarlo con la fronte appena segnata dalla tensione.
Persino
Lucci, Califa e Blueno, di norma più criptici e
indecifrabili nelle loro
reazioni, non poterono fare a meno di rivolgere al collega occhiate
interrogative.
«Perché questo venerdì...»
svelò Jabura, rabbuiandosi «è
venerdì 17!»
Silenzio in sala.
Grandi e piccoli agenti del CP9, neo-agenti e boss in carica, nessuno
escluso,
batterono un paio di volte le palpebre, ammutoliti.
Califa si tirò su con la punta dell’indice gli
occhiali scesi fino alla metà
del naso. Blueno si grattò la testa alla base di un lungo
corno di capelli
scuri. Kumadori e Fukuro aprirono bocca per parlare ma restarono
miracolosamente muti, titubanti sul da dirsi —o forse a
Fukuro si era solo
inceppata la cerniera. Lucci e Kaku continuarono a fissare Jabura
circospetti, aspettandosi
che si sganasciasse in una risata da un momento all’altro e
dicesse loro
quant’erano stupidi e infantili a cadere nel suo bluff, che
però non arrivò.
Dopo secondi di stolido silenzio, Spandam, ignaro di aver assunto una
perfetta
espressione da pesce lesso, azzardò a domandare:
«E allora...?»
«Come sarebbe e allora!?»
saltò su
Jabura, infervorandosi, manco il capo avesse appena disconosciuto
l’intera
linea evolutiva dei lupi. «Il venerdì 17 porta una
scalogna terribile!
Qualunque cosa facciamo, per quanto bene la organizziamo,
andrà tutto a
puttane! È una legge universale, capo... lo sanno tutti: mai prendere impegni per venerdì 17!»
Lo sconcerto fu più intenso e prolungato di prima. I membri
del CP9 si
guardarono negli occhi e celarono a fatica
l’ilarità, finché la vocina di Kaku,
scettica e troppo divertita per riuscire a contenersi, espresse il
pensiero
comune:
«È così... ridicolo!»
Jabura lo fustigò con lo sguardo. Ignorò
—solo per il momento, ovvio— le
risatine di Fukuro; finse di non vedere quel coglione di Blueno che
alzava gli
occhi al soffitto e scuoteva la testa; e proruppe contro il collega
più giovane:
«Che vuoi saperne, tu, piscialletto?! Finora hai solo giocato
a guardie e
ladri, non hai idea di cosa sia una missione vera! Ti squarteranno
vivo, là
fuori. Dovresti rinunciare!»
Si voltò rabbioso verso gli altri che
se la ridevano, più o meno manifestamente «...Dovreste
rinunciare tutti!»
Fu in quell’istante, in quel brevissimo, ultimo istante di
quiete scandita dalla
smorfia offesa di Kaku e dalla zip di Fukuro che scorreva fino
all’estremo margine
della bocca, che Spandam sentì arrivare
l’annunciata esasperazione.
Quindi scoppiò il pandemonio: «So
benissimo com’è in missione! E non
chiamarmi in quel modo!!»; «Kaku e Califa non hanno
mai ucciso un pirata. Chapapa!
Che missione sfortunata! Chapapa! Sarà una notte tormentata!
Chapapa!»; «Perché
mi accoppi con lui? Questa è una vera molestia sessuale,
Fukuro!»;
«SCIAGUREEEEE... SCIAGURE TERRIBILI CI ATTENDONO NEL NEFASTO
DICIASSETTESIMO
GIORNO DELL’UNDICESIMO MESE DELL’ANNO!! OH,
MISERANDI! SVENTURATI!! MADRE,
PROTEGGICI DALL’OMBRA FUNESTA DELLA...»
«Smettetela...» tentò Spandam,
sull’orlo di un’emicrania fulminante, unendo le
mani sulla fronte e massaggiandosi ambo le tempie coi pollici. Tecnica
di
rilassamento, la chiamava suo padre, ma mai una volta che servisse
quando si
ritrovava a convocare l’intero Cipher Pol 9!
Quasi a dargliene conferma, Rob Lucci assottigliò lo sguardo
e rivolse al
superstizioso rivale il più sfottente dei suoi ghigni. Agli
occhi di Spandam,
sembrò un folle che nel bel mezzo di un incendio arrivava
con una tanica di kerosene
tra le mani: «Sei solo uno stupido cane codardo!»
Jabura sentì il sangue ribollirgli nelle vene e le mani
cominciargli a prudere
come assaltate dalle termiti. Dieci minuti nella stessa stanza con
Lucci e già moriva
dalla voglia di strangolarlo!
«Prova a ripeterlo, razza di bastar-»
«Stupido cane codardo.»
«TI AMMAZZO!»
«SMETTETELA!»
L’urlo del direttore rimbombò dalla sala grande
fino al corridoio, seguito dal
boato del pugno sbattuto con violenza sul tavolo.
Tutti i presenti si voltarono, finalmente in silenzio. Guardarono lui e
poi le
sue mani.
«Chapapa... Ehm... Capo...»
«ZITTI HO DETTO!!»
Fukuro richiuse in fretta e furia la zip, fece saettare gli occhietti
in un
punto a caso fuori dalla finestra e si tappò le orecchie con
le dita.
Spandam ebbe giusto un paio di secondi per compiacersi
dell’attenzione
inaspettatamente conquistata; poi il caffè bollente,
rovesciato sul tavolo
dall’irruenza del suo colpo, si spanse fino a bagnargli
mignolo e anulare destri
e lo fece ululare di dolore, generando un baccano di molti decibel
superiore allo
standard degli agenti quando litigavano.
Mentre l’uomo veniva soccorso da un poco compassionevole
Blueno e Kumadori si
prontava a compiere un Seppuku per l’espiazione del peccato
comune, Rob Lucci
decise di prendere in mano la situazione, anticipando quella che
sarebbe presto
diventata la sua attitudine nel CP9:
«Finiamola qui, direttore. Andrò io a Duma al
posto di Jabura, possiamo portare
a termine la missione anche senza di lui...»
«Ti sei dimenticato che devi scortarmi a Marijoa,
sabato?» gli ricordò Spandam,
ancora dolorante, prima che il Lupo potesse di nuovo attaccar briga.
«No. Ma può sostituirmi lui,
a meno che non inventi un’altra scusa
per tirarsi di nuovo indietro...»
La rabbia di Jabura tornò di nuovo alla carica, per mutare,
stavolta, in
qualcosa di leggermente diverso, come un risentimento che non sapeva
bene come
esprimere, o non poteva esprimere.
Perché da un lato, se lo stronzetto partiva per Duma
risparmiandogli di esporsi
alla iella nera del venerdì 17, gli faceva un favore (se si
faceva anche
sgozzare dai pirati, favore doppio); dall’altro, affibbiargli
l’incontro di
Spandam con gli Astri di Saggezza era... subdolo. Bastardo.
Perfettamente da
Rob Lucci.
«Quanta generosità!»
sillabò a denti
scoperti, in un sorriso che era più simile ad un ringhio.
Il sorriso che Lucci gli restituì fu quasi serafico, in
confronto, ma negli
occhi gli si leggeva tutta la tronfia, arrogante soddisfazione di
averlo messo
con le spalle al muro.
Scortare Spandam a Marijoa non era solo un lavoro noioso, equivaleva a
scartavetrarsi
le palle!
Se già era raro che i vascelli della Marina su cui
viaggiavano anche i
governativi subissero attacchi diretti, infatti, era praticamente
impossibile
che qualche manigoldo osasse anche solo pensare di avvicinarsi alla
terra dei
Draghi Celesti.
Lì, nel castello degli Astri, il momento più
entusiasmante dell’intera missione
consisteva nel banchetto, dove dovevi assicurarti che il capo non si
rovesciasse la zuppa addosso, o cadesse dalle scale, o rovinasse sulla
ricca
tavola imbandita —tutte cose già successe ad Enies
Lobby, singolarmente e in combo—
e non potevi permetterti di rimpinzarti né di sporcarti
né di bere alcolici,
per una questione di decoro a cui Spandam teneva molto più
che alla vita
altrui.
Tutto questo Jabura lo sapeva, e lo sapeva benissimo anche Rob Lucci;
il fatto
che sopportasse meglio di tutti gli altri di accompagnare Spandam alle
occasioni mondane, non lo rendeva immune alla noia.
Fanculo, borbottò il
Lupo dentro di
sé, fissando ora la faccia da sberle di Lucci, ora quella
rattoppata di
Spandam.
«Beh... se vai tu...» cominciò il
direttore, appoggiando stancamente la guancia
–l’unica intera che gli restava-
sulle
nocche chiuse a pugno, il gomito puntato sul bracciolo della poltrona. «Credo
si possa fare.»
Certo, Rob Lucci, per Spandam, rimaneva il più adatto ad
accompagnarlo a
Marijoa: era composto, non urlava —non fiatava, per la
verità: una qualità che
talvolta lo rendeva inquietante—, non andava in giro mezzo
nudo e non si
lamentava quando c’era da abbottonarsi la camicia e
stringersi il nodo della
cravatta al collo; ma d’altro canto, Jabura aveva ventidue
anni, non quindici.
E stando al numero di Doriki, era superiore a Lucci, un dato da non
trascurare
in termini di sicurezza personale. «Mmm...
d’accordo, puoi prendere il suo
posto. Jabura verrà con me a Marijoa.»
Si levò un fievole «Sì!»
di esultanza
da qualche parte all’altro capo del tavolo e Jabura si
ripromise —anche se non
l’aveva visto e non poteva averlo riconosciuto da un
monosillabo— di pestare
quel poppante di Kaku, di ritorno dalla missione.
«Partirete oggi pomeriggio stesso»
Stabilì Spandam, riacquistando il buonumore
«I Nobili Mondiali non arriveranno prima della prossima
settimana, ma io
intendo comunicare ai Cinque Astri che la situazione a Duma
è già stata risolta
— Una sciocchezzuola, per noi!
avrebbe detto — L’incontro si terrà nel
pomeriggio di sabato, perciò avrete
tempo fino a... mezzogiorno» sogghignò,
pregustandosi complimenti ed elogi dai
massimi esponenti della Giustizia «Entro quell’ora,
nessun pirata dovrà essere
più in grado di muoversi. Anzi no! Di
respirare.
Sono stato chiaro?»
I membri del Cipher Pol 9 incaricati della missione annuirono
all’unisono,
finalmente seri e concentrati come il figlio di Spandine, eroe del
Governo
Mondiale, amava vederli.
Nutriva immense aspettative verso di loro e nessun dubbio sulla
riuscita della
missione. Fukuro e Kumadori potevano sembrare bizzarri, sì,
ma quando c’era da
andare al sodo in battaglia non fallivano mai. Rob Lucci, solo un paio
di anni
prima, aveva sterminato in solitario cinquecento soldati in una
prigione, e,
una volta fuori, aveva completato il lavoro trucidando anche i pirati
che li
avevano presi in ostaggio. E che dire di Blueno?
Era di recente venuto a capo di una delicata
operazione di spionaggio, portando a casa, oltre ciò che gli
era stato
commissionato, uno scrigno contenente un notevole bottino, motivo per
cui lo
avrebbe presto ricompensato.
Califa e Kaku erano i più piccoli e inesperti ed in effetti,
per loro, esisteva
una piccola probabilità di rischio, ma... oh, beh, faceva
parte del mestiere.
Se non ce l’avessero fatta, la colpa non era certamente sua,
ma di chi li aveva
promossi agenti giudicandoli idonei alla carica!
Quasi potesse leggere nella mente del suo superiore, Jabura
sbuffò sonoramente
e storse il naso.
Non gli piaceva.
Non gli piaceva manco per il cazzo che quei mocciosi dei suoi colleghi
sfidassero la Sfortuna nel giorno della sua festa e partecipassero ad
una spedizione
che, a dirla tutta, non era affar loro ma della Marina, solo per
assecondare i
capricci di quel bastardo egocentrico di Spandam.
D’accordo, Kumadori e lo Stronzo ci sapevano fare, nella
mischia, Blueno e
Fukuro sapevano pure il fatto loro, ma in battaglia ognuno badava per
sé, e
Kaku e Califa avevano imparato ad annodarsi i lacci delle scarpe
praticamente
l’altro ieri!
«Peggio
per voi se le cose vanno storte»
borbottò «Ve
la state
cercando!»
Ma
gli agenti
erano ormai assorti a memorizzare i dettagli dell’incarico e
non lo sentirono
neppure.
Così, ricevute le ultime disposizioni sul trattamento dei
cadaveri (ci
avrebbero pensato i marines a darli in pasto ai pesci), la riunione fu
sciolta
e la missione ufficialmente avviata.
I giovani membri del CP9 si alzarono lesti dalle poltroncine e si
diressero
verso il corridoio, la mente già proiettata alle poche cose
da portare con sé
per il viaggio: una nave li avrebbe prelevati tra un’ora al
porto, non avevano
molto tempo per i preparativi.
«Oh, Blueno, tu vieni un attimo con me» fece
Spandam, gongolante e inebriato di
entusiasmo, indicando all’agente il suo ufficio «Ho
qualcosa che potrebbe tornarti
utile per la missione!»
In meno di mezz’ora, tutti erano pronti, impettiti nei
completi neri e
schierati come soldati davanti al portone principale del Palazzo.
Gli agenti dei Cipher Pol inferiori di grado che transitavano nel
lussureggiante androne dallo stile barocco, arredato con cura e dovizia
nei
particolari dai migliori architetti e artigiani di Water Seven, Pucci e
San
Faldo, li salutavano con la solita e impacciata reverenza (era
difficile
accettare l’idea che una banda di ragazzini fosse la punta di
diamante della
propria Organizzazione). Tutti eccetto il buon Coogy: lui augurava
sempre buona
fortuna spendendosi in vigorose pacche sulle spalle di Kumadori e
Fukuro, e in rispettosi
inchini dinnanzi a Califa, figlia di Lusky —un agente della
vecchia generazione
del CP9, che Coogy definiva ossequiosamente “la vecchia
guardia”.
Jabura rimase a fissare tutta quella patetica scenetta, per lui fin
troppo
usuale, con la schiena poggiata a un pilastro, il pessimo
presentimento
annodato sempre di più intorno alle viscere.
Rob Lucci lo notò, si voltò e gli sorrise
beffardamente per l’ultima volta.
«Divertiti a Marijoa.»
«Divertiti tu ad essere sbudellato!»
Kaku scoccò a Jabura un’occhiataccia. Non lo dava
a vedere, ma era sulle spine
per ciò che lo aspettava a Duma, e il costante richiamo alla
malasorte che in
qualche modo avrebbe dovuto colpirli cominciava a dargli sui nervi.
«Andiamo,
Lucci.»
«Ce ne sarà anche per te, Kaku, non
temere» lo canzonò il Lupo «Hai
già la
iella addosso!»
I due lo ignorarono. Varcarono la soglia del Palazzo di Giustizia,
seguiti
ordinatamente dagli altri quattro colleghi, e vennero subito sferzati
dalla
sottile pioggerella autunnale che prometteva a Enies Lobby
d’intensificarsi
nelle ore successive.
Jabura seguì con lo sguardo le piccole figure che si
allontanavano sempre più
giù per le scale, fino al cortile. Una folata di vento
gelido —sinistro—
lo fece
rabbrividire e lo convinse che sì, lui faceva la cosa
migliore a restarsene a
casa.
Quanto a quei mocciosi...
«Ohi!» gridò «Non vi stancate
troppo, abbiamo ancora un conto in sospeso!»
Note
dell'autrice
...E
voi avete preso impegni per venerdì 17?
Bentrovati ai fan, superstiziosi e non, del CP9!
La storia che avete sotto gli occhi è una mini-long di 3
capitoli, ambientata 13 anni prima della saga di Enies Lobby, quando
gli agenti erano ancora degli assassini in erba. Ho
colto l'occasione del venerdì 17 perché si
prestava bene al racconto, focalizzato sulla superstizione di
Jabura, uno dei personaggi più divertenti non solo del CP9
ma del panorama di One Piece in generale.
Il titolo, in realtà, è un doppio-titolo che
inquadra piuttosto bene la fanfiction, perciò merita una
piccola spiegazione:
- Missioni curriculari
del CP9: è il titolo della serie di cui fa
parte questa storia. È la controparte delle "Missioni
extra-curriculari del CP9" apparse nelle Miniavventure del manga e si
propone di raccontare le missioni di Lucci e dei suoi compagni durante
la carriera nel CP9 (prima degli eventi di Water Seven-Enies Lobby
che hanno portato al licenziamento del gruppo). La costante in tutte
queste storie sarà il canon: niente coppie, dunque!
- Mai prendere impegni
per venerdì 17: è un richiamo
scherzoso al film"Shriek - Hai impegni per venerdì 17?". La storia non c'entra nulla con quel vecchio film-parodia, l'ho scelto perché
richiama l'atmosfera un po' comica e un po' horror.
Spero di allietare i vostri venerdì! Mi
farebbe piacere sapere cosa ne pensate e, naturalmente, se
siete un po' scaramantici anche voi verso questa giornata xD
Grazie per
essere arrivati fin qui,
|
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Capitolo 2 *** Parte II ***
Il
weekend arrivò con uno dei temporali più intensi
e fragorosi degli ultimi sei
mesi, oscurando il cielo fulgido di Enies Lobby e rubando alla sede
governativa, durante tutta la giornata di venerdì,
l’appellativo di Isola senza notte.
Era solo novembre, ma dal freddo pungente e
dall’intensità del vento pareva già
inverno inoltrato. La pioggia tempestava i tetti degli edifici e
scuoteva le
finestre del Palazzo di Giustizia come se dovesse sfondarle; il
vessillo del
Governo Mondiale, simbolo di utopistiche promesse di pace e
stabilità, sbatacchiava
impazzito sotto la spinta violenta delle raffiche, minacciando di
squarciarsi e
cedere all’unica forza naturale cui nessuna legge terrena
avrebbe mai potuto
opporsi.
Erano appena le 22:00 e alla torre principale la maggior parte delle
luci erano
spente. Parecchie stanze erano vuote; alcune in via occasionale, quasi
tutte come
ogni giorno a quell’ora: lavorare nel Cipher Pol, del resto,
significava abituarsi
alle trasferte in terre straniere e alla vita senza fissa dimora.
Faceva però eccezione una sala ai piani più alti
del Palazzo, dove la luce
tremula di una lampada ad olio baluginava sul soffitto e si diffondeva
sulle
pareti, proiettando le ombre simmetriche di un ponticello in legno e
quelle sinuose
dei bonsai piantati per tutto il perimetro.
Immerso in questa semioscurità, Jabura se ne stava steso sul
prato che
tappezzava interamente la sua camera, bottiglia di Baijiu
in una mano e rivista a luci rosse nell’altra.
Non c’era modo migliore di trascorrere il giorno della
Scalogna se non in casa,
nella sua ampia, accogliente tana —più simile alla
dimora di un monaco Zen che
a quella di un predatore, in verità— distante con
il corpo e con la mente da
ogni preoccupazione.
O quasi.
Nonostante i 50 gradi alcolici del liquore ingurgitato e le forme
generose delle
“100 FOCOSE MERAVIGLIE DI ALABASTA” a sollazzarlo,
infatti, i suoi pensieri
erano da un’altra parte, più pressanti di quanto
non fosse disposto ad
ammettere.
Avvertiva ancora l’inquietudine provata il pomeriggio prima,
quando il resto
dei suoi colleghi rompiscatole era partito per la missione su Duma, ma
amplificata a mille: gli si era annidata dentro, era cresciuta nella
notte piantando
malevoli radici tanto più lunghe e profonde quanto
più s’ingrossavano il mare e
la tempesta ad Enies Lobby, e pareva chiaro, ormai, che niente
l’avrebbe
sradicata fino all’alba del nuovo giorno.
Tracannò un ultimo sorso d’alcol e si
rigirò la bottiglia vuota tra le mani,
pulendosi la bocca sull’avambraccio libero. Ne aveva scolata
una intera, ma non
poteva essere abbastanza per i suoi standard, non in quella particolare
combinazione di giorno e numero sul calendario.
Avvertiva ancora con troppa lucidità il vento che fischiava
su per le grondaie
e i flash abbacinanti dei lampi che cadevano in picchiata sul mare
color
dell’abisso.
Non che avesse paura, naturalmente. Lui era un lupo: la paura la
conosceva solo
attraverso gli occhi delle sue prede. Poteva incuterla, fiutarla nelle
membra dei
poveri diavoli a cui dava la caccia, ma provarla in prima persona? Mai.
Considerò comunque l’idea di andare in camera di
Rob Lucci a sgraffignare
qualcos’altro da bere; poteva essere divertente: lo
stronzetto, al suo ritorno,
si accorgeva sempre se qualcosa era fuori posto —lui s’impegnava a fargli trovare le
cose fuori posto— e montava su un
casino dell’altro mondo.
Ridacchiò al ricordo dell’ultima presa con cui lo
aveva messo al tappeto dopo
un acceso scambio di vedute circa la “violazione di
proprietà privata”, quindi
rifletté che probabilmente, a quell’ora, il
collega era nel bel mezzo di uno
sterminio di massa.
Un poco lo invidiò.
Se la sarebbe spassata a giocare con quei pirati da strapazzo, su Duma,
a
promettere che non li avrebbe fatti soffrire, che avrebbe risparmiato
le loro
patetiche vite; solo per rincorrerli un attimo dopo, tramutato in lupo,
affondargli le zanne alla gola e sentirli spirare tra le sue fauci,
poco a
poco, tra le strida soffocate e il caldo fiotto del sangue.
Non gli sarebbe neanche importato della missione indetta per puro
tornaconto
personale di Spandam —pur
di fare bella figura con gli Astri durante la sua visita a Marijoa si
sarebbe venduto
il culo, figurarsi quello dei suoi sottoposti!
Ma quello era venerdì 17.
La
festa di compleanno della Sfortuna, il giorno
in cui le sciagure si davano appuntamento e le disgrazie ti prendevano
per mano
e ti tallonavano fino al cesso di casa per tutte e 24 ore;
finché la
mezzanotte, la santissima mezzanotte del sabato 18, non ti accoglieva
nella sua
benevola, amabile normalità.
Jabura
credeva fermamente in quella che per molti
era futile superstizione, perché la sfiga nei suoi
venerdì 17 ci aveva sempre
lasciato la firma: il giorno in cui si era beccato il primo
provvedimento
disciplinare per “brutalità aggravata e non
richiesta”? Venerdì 17; il giorno
in cui Rob Lucci era stato promosso nel CP9 e si era trasferito nella
stanza
accanto? Venerdì 17; e il giorno in cui gli avevano
sfregiato la faccia, che
per poco non ci rimetteva anche l’occhio? Beh, quello non se
lo ricordava, ma
era pronto a scommettere che fosse un dannatissimo venerdì
17.
Un tuono spezzò il filo dei suoi pensieri, rombando
tutt’attorno alle mura che
sembrarono rabbrividire in sincrono con le sue ossa.
Lanciò un’occhiata delusa alla bottiglia vuota.
«Bah. Sono troppo forte per
questa roba!»
La scagliò via, spense la lampada e si distese su un fianco,
chiudendo piano
gli occhi. Una bella dormita era ciò che ci voleva; la
soluzione perfetta per dimenticare
la iella e non pensare alla noia che lo attendeva l’indomani,
nella terra
inviolabile dei capoccia del Governo.
Fuori il temporale non dava tregua, ululando come un demone in permesso
d’uscita
dall’inferno. Tentò di escludere quel rumore
concentrandosi sui suoni a lui
familiari: il brusio delle foglie smosse dagli spifferi di vento, lo
scroscio placido
del ruscello che lambiva le pareti di roccia artificiale, il colpo
secco e
ritmico dello Shishi odoshi sulla
pietra.
Stava finalmente per assopirsi quando qualcosa —qualcosa di agghiacciante— levò
un gemito nel buio.
«-O... OIIII...!»
Il
Lupo riaprì le palpebre. Si guardò attorno
muovendo solo gli occhi.
«Niwatori?» chiamò, poco convinto.
Il gallo non rispose. Per forza: a quell’ora dormiva chiuso
nel chiosco, e
comunque, anche da sveglio, non avrebbe fatto rumore; se
l’era scelto così apposta.
L’ultimo temerario pollastro che aveva osato svegliarlo
all’alba nel suo giorno
libero era finito al forno con un contorno di patate, giù
alla mensa, senza
troppe remore.
Allora ci fu un altro rumore, simile ad un cigolio, e
un’ombra innaturale
apparve nella parete confinante con la stanza accanto.
Jabura era, di fatto, mezzo sbronzo e fece fatica a mettere a fuoco le
immagini
nonostante la vista notturna amplificata dai poteri del Dog Dog. Dopo
che vide, però, volle
appellarsi con tutte
le sue forze all’idea di essere completamente stordito
dall’alcol.
C’era una cosa nella
parete.
Un’escrescenza che sbucava dal muro... un ammasso immondo di
tentacoli. No.
Capelli.
Attaccati al cranio di Kumadori.
«YOOOO... YOOOOI!»
Jabura sussultò, sgranando gli occhi per la sorpresa.
La testa di Kumadori —solo
la sua testa!—
usciva dal muro e ruotava lentamente, come se qualcuno
l’avesse impalata ad uno
spiedo, mentre i lunghi capelli fradici di sangue e pioggia si
protendevano verso
di lui, per afferrarlo.
«Kumadori...!? Perché sei qui??»
A Duma c’erano almeno
cinquecento
pirati, ricordò il Lupo bisognoso di una spiegazione
razionale, cinquecento
dannati avanzi di galera sparpagliati in lungo e in largo per
l’isola, pronti a
darsela a gambe e a nascondersi appena realizzato di avere il reparto
più
cazzuto del Governo Mondiale alle calcagna: era troppo presto
perché i suoi
fossero di rientro dalla missione.
Non ebbe tuttavia il tempo di riflettere ulteriormente che
lì, accanto alla
testa del nativo di Wa, un arto insanguinato sbucò dal muro,
cercò un appiglio
e trascinò lentamente fuori il resto del suo corpo.
L’agente che conosceva la paura solo attraverso gli occhi
delle sue vittime
adesso deglutì, impietrito.
Dalla parete illuminata dai bagliori spettrali del temporale, proprio
davanti
ai suoi occhi —ai suoi occhi di lupo
a cui nessuna oscurità poteva mentire— Rob Lucci
apparve nella sua stanza,
slavato da un pallore cadaverico, i vestiti pieni di sangue e sporchi
di
terra... attraversando la parete.
Come un fantasma.
«Ma che cazzo...!?» si lasciò sfuggire
Jabura, balzando in piedi talmente in
fretta che per un attimo la testa gli girò e
minacciò di fargli perdere
l’equilibrio. «Come hai fatto a...»
«Ja... bu... ra...!» gracchiò
la
Cosa, gelandogli il sangue nelle vene.
Mano sul cuore, da quando conosceva quello stronzetto, anche dopo
averlo conciato
per le feste, anche quando era tornato sfinito due anni prima, con la
schiena
corrosa dai colpi dei cannoni, mai, mai una fottuta volta, lo aveva
sentito
parlare in quel modo. E non era nemmeno certo che la voce provenisse da
lui,
dal momento che non aveva schiuso le labbra di un millimetro.
È così che parlano i
morti?!
«Vieni
con noi, Jabura!»
Un’altra
voce.
Più stridula della prima. Più infantile.
E Kaku apparve accanto a Lucci, anche lui vomitato fuori dalla parete,
anche
lui esangue, la tesa del berretto squarciata e i lacci di una scarpa
che
strisciavano per terra. Camminava lento verso di lui, caracollando
lievemente,
gli occhi tondi, vitrei, spalancati come globi bianchi sulla faccia di
un
burattino senza vita.
«È solo colpa tua» crepitò la
voce del morto con le sembianze di Lucci,
avvicinandosi.
Grandioso!
Ho la sbornia allucinogena!, imprecò
mentalmente il Lupo, ma l’istinto lo portò a
muovere un passo indietro. «Fermi
dove siete! O vi giuro che...»
«Ci ammazzi?» Il faccino di Kaku si
deformò in un ghigno malefico. «Siamo
già
morti. Sbudellati!»
Jabura ricordò con una stretta alla gola l’ultima
conversazione avuta coi due
colleghi e all’improvviso tutto ebbe senso.
Gliel’aveva mandata lui, la Iella. Doveva andare lui in
missione a Duma.
Doveva morire lui, al posto di Rob Lucci.
Un lampo illuminò a giorno la stanza e nella luce
intermittente le due figure
scomparvero, per riapparire subito dopo ad un palmo di naso da lui.
«Ho detto FERMI, maledizione!!»
Ma
i morti non ascoltavano, non intimidivano di fronte alle minacce.
Cercavano
solo vendetta.
«Oggi morirai anche tu, Jabura.»
«Anche tu!» rise Kaku. «ANCHE
TU!» Allungò
le braccia, pronto a stringerlo in un abbraccio mortifero.
Jabura vide per la prima volta la paura con i suoi occhi, e questo a
Lucci e
Kaku sarebbe potuto bastare.
Sarebbe potuta finire lì, al loro segnale: con Fukuro che
saltava fuori dal
Door Door di Blueno e immortalava la faccia terrorizzata del Lupo con
uno
scatto fotografico; con Jabura che realizzava —imprecando in
ogni lingua nota nel
Vecchio e nel Nuovo Mondo— che tutta quella situazione
paranormale era solo scaturita
da un buon Soru, dalle doti da ventriloquo di quello stronzo
addomesticapiccioni
di Rob Lucci, e —in minima parte, certo— dalla sua
suggestione.
Tutti i membri del CP9 avrebbero potuto ricordare, a distanza di anni,
quello
stupido scherzo come un grande trionfo sul primo esperto di bugie e
tiri
mancini, e rinfacciarglielo per il resto dell’esistenza.
Ma quello era venerdì 17, e la festeggiata non
mancò all’appuntamento.
Fu un attimo.
La
porta d’ingresso si spalancò con uno stridulo
cigolar di cardini nell’esatto momento in cui una folgore,
gravida delle sue
centinaia di milioni di volt, impattò sul Cancello della
Giustizia.
Il tuono deflagrò con una violenza assordante, inaspettata.
Tutto si accese di un
rosso vivo: in quell’attimo sembrò che persino dal
cielo piovesse sangue.
Jabura sentì la morte incombere su di sé come una
mannaia vibrata in aria, annunciata
dal grido di terrore di una giovane donna —troppo
occupata a tener chiusa la zip di Fukuro
per poter coprire la sua, di bocca.
Semplicemente perse il controllo.
Come una fiera impaurita si voltò verso la porta,
caricò il colpo e ruggì, con
tutto il fiato che aveva nei polmoni: «RANKYAKU!»
Il lampo azzurro squarciò l’aria, falcidiando ogni
stelo d’erba sul suo
passaggio. Distrusse l’intonaco, tranciò qualche
alberello sfortunato che aveva
messo radici vicino all’ingresso e finì col
travolgere in pieno il suo bersaglio.
Veloce com’era arrivata, la Sfortuna levò le
tende, spegnendosi nell’eco surreale
della tempesta elettrica.
«J-J-ah...haaaaa-»
Jabura deglutì.
Non capiva.
Non ci capiva assolutamente nulla, e la luce calda e guizzante dei
candelabri fissati
alle lesene del corridoio che ora illuminava il corpo disarticolato del
direttore Spandam, stecchito sulla soglia della sua stanza, non era
d’aiuto.
«Oh... merda!»
Kaku era sempre stato un bambino educato e obbediente, e col senno e la
calma
del poi, Jabura avrebbe ricordato con soddisfazione quella prima volta
in cui
gli sentì pronunciare una parolaccia.
«Questo non era previsto...»
«Sarà
morto?»
«Tanto vivo non è più di
sicuro...»
Le luci della stanza si accesero, restituendo il verde brillante al
prato, il
bianco candido alle piume di un sonnecchiante Niwatori e il rosso
vermiglio
alla faccia martoriata di Spandam.
«Cosa diavolo... »
Più i minuti passavano, più Jabura non ci si
raccapezzava. Di certo, vide solo
che dal muro della sua stanza, là dove era sicuro non
esserci alcuna porta o
finestra, ora erano saltati fuori Fukuro, Kumadori —tutto
intero—, Califa e
Blueno.
«Ma che cazzo sta succedendo??» proruppe, fuori di
sé.
«È il mio nuovo frutto del diavolo. A dopo le
spiegazioni...» spiegò
telegrafico Blueno, per avvicinarsi subito a Spandam col resto dei
colleghi.
«Tu... hai... COSA...?!!»
Ora Jabura
cominciava a capire —no: fiutava limpidamente la puzza di
presa per il culo— e
la cosa non gli piaceva affatto. «EHI!!
Com’è che non sono stato informato?!»
Si voltò furente verso Lucci, che se ne stava in piedi a
contemplare Spandam con
la stessa pietà che avrebbe riservato a una lumaca di mare
spappolata su un
selciato. Lo vide storcere appena le labbra: «Bravo, idiota,
hai ucciso il
capo!»
Jabura formulò così tanti insulti tutti in una
volta che il risultato fu
un’implosione di massa dei suoi centri nervosi. Un
preoccupante tic gli
comparve all’occhio sinistro, mentre sobbolliva e
boccheggiava dalla rabbia.
Stavolta lo avrebbe massacrato! Lo avrebbe ridotto in pezzetti
così piccoli che
ci avrebbero potuto fare la carne in scatola con Rob “NATO
STRONZO” Lucci, così
finalmente avrebbe compiuto un gesto altruista verso
l’umanità!
«DISONORE!!! REPRIMENDA!! DI CHE COLPA CI SIAMO
MACCHIATI??!» si disperò
Kumadori, sguainando la katana «URGE IL MIO SACRIFICIO! ...SEPPUKU!!»
«Non è che se muori risolviamo
qualcosa...»
«...TEKKAI!»
«ALMENO FALLO COME SI DEVE, IMBECILLE!!»
«Chapapapa!! Siamo licenziati, è
così?»
«Calmatevi» sospirò Blueno
«È... Credo sia ancora vivo.»
Spandam, in effetti, rantolò qualcosa di incomprensibile.
«Sono i versi di un maniaco sessuale. Dobbiamo dargli il
colpo di grazia!»
«No, no» Constatò amareggiato Kaku,
sentendo il battito irregolare del
direttore sotto le dita. «Penso che possa
cavarsela...»
«E tanti saluti all’occultamento del corpo...
Chapapa.»
«Ben vi sta!» Esclamò Jabura.
«Vi licenzierà e vi spedirà ad Impel
Down seduta
stante!»
«Se
licenzia noi, licenzia anche te» osservò sdegnoso
Lucci «La colpa è solo della
tua idiozia!»
«La colpa è di chi non ti ha freddato nella
culla!!»
«Basta, voi due!» li separò veemente
Blueno. Era davvero seccato, oltre che rassegnato
all’imminente punizione, perché lo
sapeva
che sarebbe finita male. L’aveva detto sin
dall’inizio, agli altri, che lo
scherzo era una pessima idea, che lui non voleva entrarci nelle loro
—stupide, ma guai a dirlo
davanti a Rob
Lucci— questioni; ma quelli no, lo avevano dovuto tirare in
ballo a tutti i
costi dopo aver visto il suo Paramisha! «Lo porto in
infermeria.»
Prese Spandam tra le braccia robuste e lo sollevò come fosse
un fuscello, o un
bell’addormentato che di bello non aveva più
nulla, dopo l’intervento di
chirurgia estetica ad impatto di Cutty Flam e Jabura.
Con la medesima rassegnazione e conturbato dal rammarico di non aver
potuto pestare
—non ancora— gli autori del complotto ai suoi
danni, il collega più anziano lo
seguì: «Vengo con te.»
Lucci, Califa, Kaku, Fukuro e Kumadori restarono fermi, impalati sul
posto, chi
a cercare chiocciole sull’erba, chi a pulirsi le lenti linde
degli occhiali su
una pezzuola, chi a esaminarsi i lacci delle scarpe.
Jabura investì le facce da gnorri dei colleghi con
un’occhiata minacciosa. «Avete
bisogno dell’invito??»
«Che spudorato!! Mi stai chiaramente molestando!»
«Mmmm...
Mi ritiro nell’intimità del mio rifugio
sicché possa scongiurare gli Dèi di perdonare le
nostre colpe! Yo-yoooi.»
«Il capo si arrabbierà. Io non vengo.
Chapapa.»
«MUOVETEVI O VI SPINGO A CALCI IN CULO PER LE
SCALE!!»
Blueno diede due colpi di tosse, schiarendosi la voce, poi
guardò l’unica
persona davvero in grado di scuotere il gruppo.
Rob Lucci sostenne impassibile il suo sguardo finché il
senso di responsabilità
e di giustizia che gli avevano inculcato sin dai suoi primi anni di
vita non
prese il sopravvento.
«Va bene» disse sfilandosi le mani di tasca
«Diamoci una ripulita e scendiamo
anche noi.»
Note
dell'autrice
Un
minuto di silenzio per Spandam rankyakuzzato da Jabura... grazie!
In questi giorni vado sempre di corsa, ma non posso esimermi dal
lasciare
alcune note (le ho inserite anche nel primo capitolo, a
beneficio dei lettori
futuri), perché questo capitolo è il cuore della
storia e alcune precisazioni
vanno fatte. Non voglio annoiarvi, andrò veloce come il
Rocket Man:
-
Al CP9 ci si diverte con poco, ossia usi alternativi del Door Door
La chiave di volta della storia che ha reso possibile lo scherzo ai
danni di
Jabura, lo avrete capito, è il Door Door che Spandam ha
consegnato a Blueno
alla fine dello scorso capitolo. Il Lupo non sapeva che l'avesse
mangiato, non
sapeva neanche dell'esistenza del Frutto stesso, per cui tutto
ciò che è
accaduto, ai suoi occhi appariva assurdo, inspiegabile, paranormale: ho
cercato
di farvi immedesimare in lui, ma spero che la situazione vi abbia anche
strappato un sorriso. Voi potevate immaginare cosa stava succedendo,
Jabura no!
- Lucci, Kaku e la performance da zombi
Tutta la “scena horror" era amplificata dalla suggestione di
Jabura e dal
fatto che fosse un po' brillo (forse era meglio dedicarsi solo alle
Bellezze di
Alabasta?), ma nel manga, a Water Seven, Lucci e Kaku hanno dimostrato
di
essere ottimi attori; non dubito che fossero capaci di certe bastardate
anche
in tenera età.
Kumadori, invece, è solo rimasto incastrato nel muro.
- Fukuro e le foto compromettenti
Anche se lo scherzo non è andato a buon fine per un colpo di
sfortuna (Spandam,
che è entrato nella stanza di Jabura al momento sbagliato
nel giorno sbagliato,
è la vera vittima in tutto ciò), il suo scopo era
quello di terrorizzare Jabura
e immortalarlo con una foto. In un contesto completamente diverso,
l'espediente
della foto è stato usato da kymyit,
mia partner di role oltre che scrittrice
meravigliosa, in un GDR che scrivo con lei. Il particolare è
secondario nel
capitolo, ma ci tenevo a precisarlo!
- Citazioni a go go da Stephen King
Solo piccole curiosità, ma magari a qualche fan del Re
piacerà trovare
conferme: l'isola di Duma cita il nome e l'ambientazione di Duma
Key,
uno dei miei romanzi preferiti di King, ambientato su una splendida
isola della
Florida (che non esiste nella realtà, ma appartiene
idealmente all’arcipelago
delle Keys); mentre l'esclamazione
di
Kaku a coronamento della scena horror («Anche tu! ANCHE
TU!») è una citazione
del famoso tormentone di It (di
recente uscito al cinema con un remake): «Galleggerai anche
tu!»
Non volevo che Jabura galleggiasse, ma Kaku bambino nei panni di un
malefico
Georgie Denbrough posseduto da It era uno spettacolo troppo bello per
non
essere concepito, anche solo nella mia testa.
Chiarimenti ulteriori e retroscena sulla vicenda nel prossimo capitolo,
che
sarà anche conclusivo di questa mini-long.
Grazie per
essere arrivati fin qui!
Vegethia
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