Leggende del Fato: Figli della Trama

di Vago
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 0: Due volti ***
Capitolo 2: *** Capitolo 0.5: A volo di rondine ***
Capitolo 3: *** Capitolo 1: Fuoco purificatore ***
Capitolo 4: *** Capitolo 1.5: Rimasugli del passato ***
Capitolo 5: *** Capitolo 2: Nel nome di Aria ***
Capitolo 6: *** Capitolo 2.5: Esisteranno ancora gli ispettori? ***
Capitolo 7: *** Capitolo 3: Odore di Mare ***
Capitolo 8: *** Capitolo 3.5: Cosa sto seguendo? ***
Capitolo 9: *** Capitolo 4: Come un ratto ***
Capitolo 10: *** Capitolo 4.5: Bestia o uomo? ***
Capitolo 11: *** Capitolo 5: Gioia per i gabbiani ***
Capitolo 12: *** Capitolo 5.5: Dove vuole andare? ***
Capitolo 13: *** Capitolo 6: Quiete tra le tempeste ***
Capitolo 14: *** Capitolo 6.5: Ha dei poteri? ***
Capitolo 15: *** Capitolo 7: La fine di un viaggio ***
Capitolo 16: *** Capitolo 7.5: Vicino ***
Capitolo 17: *** Capitolo 8: Un aiuto insperato ***
Capitolo 18: *** Capitolo 8.5: Un passo indietro ***
Capitolo 19: *** Capitolo 9: Maschera da assassino ***
Capitolo 20: *** Capitolo 9.5: Maschera dal passato ***
Capitolo 21: *** Capitolo 10: Strada per casa ***
Capitolo 22: *** Capitolo 10.5: Strada per il mare ***
Capitolo 23: *** Capitolo 11: Gli ultimi passi ***
Capitolo 24: *** Capitolo 11.5: Rapporto ***
Capitolo 25: *** Capitolo 12.01 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 12.5: Mia salvatrice ***
Capitolo 27: *** Capitolo 13: L'accordo ***
Capitolo 28: *** Capitolo 13.06: Profezia ***
Capitolo 29: *** Capitolo 13.5: Ritorno alle macerie ***
Capitolo 30: *** Capitolo 14: Prigioniero ***
Capitolo 31: *** Capitolo 14.1: Storia ***
Capitolo 32: *** Capitolo 14.5: Riflessioni ***
Capitolo 33: *** Capitolo 15.2: Mistero, Terrore, Danza ***
Capitolo 34: *** Capitolo 15.5: Errore ***
Capitolo 35: *** Capitolo 16.27: Melodia, Passione ***
Capitolo 36: *** Capitolo 16.5: Memorie antiche ***
Capitolo 37: *** Capitolo 17: Il punto più basso ***
Capitolo 38: *** Capitolo 17.35: Mito ***
Capitolo 39: *** Capitolo 17.5: Piano di battaglia ***
Capitolo 40: *** Capitolo 18: Scelte ***
Capitolo 41: *** Capitolo 18.41: Tragedia ***
Capitolo 42: *** Capitolo 18.5: Primo debito ***
Capitolo 43: *** Capitolo 19: Respiro ***
Capitolo 44: *** Capitolo 19.48: Epistola ***
Capitolo 45: *** Capitolo 19.5: Secondo debito ***
Capitolo 46: *** Capitolo 20: Direzioni ***
Capitolo 47: *** Capitolo 20.49: Epica, Commedia ***
Capitolo 48: *** Capitolo 20.5: Termine del contratto ***
Capitolo 49: *** Capitolo 21: Confusione ***
Capitolo 50: *** Capitolo 21.5: Duetto ***
Capitolo 51: *** Capitolo 22: Il precipitare degli eventi ***
Capitolo 52: *** Capitolo 22.5: Fermi a un presente passato ***
Capitolo 53: *** Capitolo 23.5: Intoppo ***
Capitolo 54: *** Capitolo 23: Fine della discussione ***
Capitolo 55: *** Capitolo 24: Picchiata ***
Capitolo 56: *** Capitolo 24.5: L'inizio della fine ***
Capitolo 57: *** Capitolo 25: Pedoni ***
Capitolo 58: *** Capitolo 25.5: Tagliabile ***
Capitolo 59: *** Capitolo 26: Confronti ***
Capitolo 60: *** Capitolo 26.5: Spinta in avanti ***
Capitolo 61: *** Capitolo 27: Regicida ***
Capitolo 62: *** Capitolo 27.5: Giuria e carnefice ***
Capitolo 63: *** Capitolo 181: Epilogo della Trama ***



Capitolo 1
*** Capitolo 0: Due volti ***


 Una figura si mosse rapida e silenziosa nella notte, avvolta nel suo mantello scuro che la rendeva quasi indistinguibile dai possenti alberi che regnavano tutto intorno. Il tessuto scuro faceva sì che fosse quasi irriconoscibile tra gli alti tronchi, rendendolo poco più che una macchia nella notte.
Sopra il suo cappuccio, i ponteggi più bassi di Gerala risultavano silenziosi e vuoti, illuminati fiocamente dai lampioni accesi poche ore prima che seguivano il reticolo stradale come centinaia di piccole lucciole fisse tra i lontani rami.
Una notte perfetta.
La bianca luce lunare non riusciva a raggiungere il terreno se non come un pallido ricordo di sé stessa, gettando l’ambiente e la figura nell’oscurità quasi totale.
Un pugnale lucente scivolò nella manica della figura, per essere preso dalla stretta sicura della mano sottostante. Le dita percorsero il profilo dell’impugnatura, assicurandosi una presa sicura sul ferro che la componeva.
Pochi metri più avanti, un uomo camminava velocemente sul sottobosco, come se i suoi occhi riuscissero a distinguere le forme sul terreno anche con quella poca illuminazione. La borsa che teneva stretta al petto sobbalzava al ritmo del suo passo, una banale ventiquattrore in pelle, null’altro.
La punta della sua scarpa sinistra faticò per un attimo a trovare il terreno, un’incespicazione dovuta a una radice troppo sporgente, quell’attimo bastò alla figura ammantata alle sue spalle per raggiungere l’uomo e superarlo.
L’inseguitore, quindi, si voltò verso la sua preda.
Il suo volto era piatto, affusolato ed appuntito, assolutamente non umano. Così come non erano umani la sua carnagione bianco-grigiastra, il sorriso sottile come una fessura che gli tagliava il volto da una guancia all’altra e gli occhi, piccole ferite socchiuse e spigolose.
Furono proprio le ferite posizionate al posto degli occhi e della bocca come un ghigno malefico a risplendere per una frazione di secondo di un’abbagliante luce blu, tanto intensa da costringere l’uomo ad alzare la borsa per coprirsi gli occhi da quella luce innaturale.
Pochi attimi dopo, un coltello dalla spessa lama si faceva largo tra le costole del malcapitato, trafiggendogli il cuore e costringendolo a cadere scompostamente a terra.
- Spero di non averla spaventata troppo. – disse con voce ovattata la figura, sciogliendo la salda presa sul manico dell’arma.
Alti guizzi fiammeggianti si attorcigliarono lungo l’impugnatura metallica del coltello, nascendo direttamente dal petto immobile dell’uomo e rischiarando così con la loro luce rossastra le tenebre che dominavano nel sottobosco, facendo nascere dalla sua calda luce tremolante centinaia di ombre danzanti.
La figura incappucciata riprese la sua arma non appena il metallo si fu raffreddato, riponendola nel fodero che portava appeso alla cintura. Su diresse quindi rapidamente verso il montacarichi più vicino, in modo da raggiungere il cuore pulsante di Gerala prima che un’improbabile girovago notasse il cadavere per terra ed avvertisse le autorità.
Lungo la strada, non perse l’occasione di strappare un manifesto di cattura inchiodato al tronco di un albero.
Cento monete d’oro offerte dall’attuale Giudice Maggiore per la cattura, vivo o morto, dell’uomo nelle cui vene scorre il sangue di Reis. Ricercato per sovversione, omicidio e istigazione alla rivolta.
Non era suo compito, quello. Quell’uomo non era una preda nel suo mirino.


Noir venne svegliato a notte fonda dal latrare dei cani.
Non appena i suoi occhi si furono aperti scattò in piedi, conscio di quello che poteva perdere se si fosse attardato.
La sua mano si allungò meccanicamente sotto il letto, per prendere il grosso zaino che lì, pieno degli oggetti necessari a una fuga rapida, riposava.
Con le spesse scarpe infilate nei piedi si precipitò verso il retro della casa, inciampando su di una sedia fuori posto che, però, non frenò la sua corsa.
Dall’esterno, ora, passi umani si sovrapponevano al verso dei cani, diventati paurosamente forti e vicini.
Con un balzo felino l’uomo dai capelli neri si issò sulla sella già stretta del suo cavallo, che fino a pochi minuti prima riposava legato ad una mangiatoia di fortuna.
Con uno schiocco di redini, gli zoccoli cominciarono a battere ritmicamente sul terreno, lasciandosi alle spalle il villaggio in subbuglio.
Solo quando le verdi spighe appena nate si sostituirono alle case, l’uomo osò voltare lo sguardo alle sue spalle.
Il villaggio che lo aveva ospitato per ben dieci mesi era illuminato a giorno, un’enorme lucciola splendente nella notte. Decine di torce si muovevano nell’aria, dirigendosi nella sua direzione precedute da altrettanti cani.
L’uomo si calò il cappuccio, coprendo la lunga frangia che gli cadeva sugli occhi.
Un cane, più veloce del resto del branco, si riuscì ad avvicinare al cavallo galoppante. La sua mandibola si aprì, per poi chiudersi rapidamente sulla gamba del cavaliere.
I denti dell’animale cozzarono contro qualcosa di più duro dell’acciaio, una lancia, poi, nacque da quella superficie trafiggendo il cranio della bestia, per poi svanire lasciandola cadere priva di vita a terra.
L’uomo diede un fugace, triste sguardo alla carcassa che si era lasciato alle spalle, per poi spronare il suo destriero a correre ancor di più per scomparire nella notte.
Entrarono per un breve tratto nelle propaggini della Grande Vivente, per poi immergersi ed oltrepassare uno dei rami più bassi del Vrag settentrionale che lì scorreva, in modo da far perdere le loro tracce ai segugi che, sicuramente, erano ancora alle loro calcagna.
Non avrebbero mai smesso di inseguirli, finché avessero avuto anche una sola traccia della via che avevano percorso.

Solo dopo due giorni dopo l’uomo osò fermarsi in una radura lontana da qualsiasi forma di civiltà per riposare il corpo e la mente spossati.
Immerse le mani nell’acqua che in quell’ansa rallentava la sua corsa, portandosela al viso con un gesto deciso.
Il suo riflesso, per un attimo, comparve sulla superficie cristallina, per poi venire ferocemente cancellato dalle gocce che, compiuto il loro dovere di pulizia, ricadevano nel luogo da cui erano state prelevate.
La fronte era insolitamente rugosa per un uomo di trent’anni, caratteristica accentuata dalla lunga frangia che gettava la sua ombra su di questa. La folta e disordinata barba nera ricopriva quasi interamente la parte inferiore di quel viso, lasciando unicamente una piccola parte scoperta per permettere alle sottili labbra  di vedere la luce.
Un coltello affilato corse lungo la gola dell’uomo.



Angolo dell'Autore:

Sono in ritardo. Che strano.
Beh, almeno quel venerdì è arrivato, finalmente.
Davvero, non pensavo che le revisioni mi potessero portare via così tanto tempo. Certo, avessi considerato che preparare un paio di esami richiede buona parte della voglia di vivere di una persona, non avrei mai dato delle scadenze.
Ma non guardiamo troppo al passato.
Ho un paio di informazioni di servizio da lasciare.
Scrivendo, procedendo con questa storia, mi sono reso conto che sta uscendo strana, o, per meglio dire, diversa da quelle che ho concluso. I capitoli sono corti, quasi fossero degli episodi. Il fatto di avere tre personaggi che si muovono indipendentemente l'uno dall'altro, poi, non aiuta.
I capitoli, quindi, almeno per ora, saranno brevi. Ho bisogno di procedere ancora un po' per capire se è una condizione temporanea o più duratura, nel secondo caso, potrei anche pensare di pubblicare due capitoli a settimana o tre ogni due settimane. Ma in tutto questo c'è una quantità di forse tendente all'infinito.
Passiamo a qualcosa di più certo.
Avete appena conosciuto due dei tre personaggi di cui narrerò il fato in queste settimane. Li avete riconosciuti?
Beh, ovviamente non entrambi, dopotutto Noir non lo avevate mai incontrato... Ma l'assassino demoniaco?
Vi lascio pensare un po' a queste domande.
Intanto, ultima informazione di servizio. Come vi avevo anticipato, il Viandante sarà, finalmente per lui, un protagonista della storia, questo implicherà una quantità smodata dei capitoli X.5 a cui vi ho abituati con il Ritorno dell'Ombra.
Bene, vi ho intrattenuti fin troppo.
Al prossimo venerdì.
Vago 

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Capitolo 2
*** Capitolo 0.5: A volo di rondine ***


 È tutto sbagliato.
Innanzitutto sono un falco, ora. E le rondini mi disgustano, per giunta.
Questo dovrebbe farvi capire che, finalmente, riesco di nuovo a leggere la Trama del Reale, o almeno il suo strato più superficiale.
Mi ci saranno anche voluti vent’anni per guarire dalla ferita che mi inflisse quel pezzente di Follia, però ho per lo meno la certezza che prima o poi mi riprenderò completamente.
La seconda cosa sbagliata è questo, tutto questo.
La Trama non si era mai concentrata intorno a me così tanto da… da mai. Nemmeno quando seguivo quei cinque araldi mi sentivo così oppresso dal suo intreccio.
Perché lo fa? Perché gli eventi mi vogliono ingabbiare così tanto?


Un falco dal piumaggio scuro sfrecciò nel cielo, apparentemente ignorando i piccoli animali che si muovevano spaventati sul terreno sotto di lui.
La piuma candida che svettava sulla sua coda fremeva sotto l’incedere del vento che avvolgeva lei e le sue gemelle dal colore brunito.
Lepri, serpenti ed altri piccoli animali correvano a ripararsi nelle rispettive tane, per poi tornare alle loro quotidiane attività quando il predatore si allontanava a sufficienza non rappresentare più un pericolo per loro.
Le ultime colline coperte di vitigni si trasformarono nelle pedici dei Monti Muraglia. Non un singolo vegetale copriva le pareti rocciose della catena, i cui pendii avevano assunto una colorazione nera, carbonizzata, apparendo così ancor più inospitali di quanto già non fossero.

Non è un bello spettacolo. In effetti non lo fu nemmeno quando Loro lo ordinarono.
Avvenne poco dopo la sconfitta di Follia, quando il palazzo di giustizia, così come i principali organi governativi di quella che adesso chiamano Terza Era, vennero spostati nuovamente sulla vetta mozzata del Flentu Gar.
Ragioni di sicurezza, dissero. Che scusa patetica, mi chiedo come possa ancora funzionare dopo tutto questo tempo.
Ovviamente, per rendere meno appetibile un nuovo ripopolamento di quella che fu la Terra degli Eroi, l’allora in carica e attuale re dei draghi Vanenir II ordinò a dei suoi sottoposti di incenerire qualunque cosa fosse presente su quei monti. Non so cos'altro potevo aspettami da lui, dopo la fine che ha fatto fare ai suoi fratelli.
Fu un rogo indiscriminato, nulla sopravvisse a quell’inferno.

Il paesaggio desolato si stendeva per chilometri in tutte le direzioni.
Il falco continuava a prendere quota, superando il muro di nuvole che nascondeva le vette alla vista degli uomini e portandosi poco più in alto dello spiazzo pianeggiante sulla sommità del re di quei monti.
Nessuno si era preso la briga di rimuovere le macerie lasciate da un’epoca passata, macerie che ora continuavano a ricoprire quel terreno infertile.
L’unica struttura ancora utilizzabile era una piccola casupola in mattoni, minimale, che era stata fatta costruire tra ciò che erano stati gli uffici del primo governo e i Palazzi che ospitarono prima l’Ordine, poi la Setta dei Sei.
Il volatile scomparve in un turbinio di piume a meno di un metro da terra.
Un paio di scarpe nere si appoggiarono al suolo, sovrastate da un pantalone scuro e da una lunga giacca che svolazzava alle spalle dell’elfo che copriva.
Uno sbuffo di fumo si levò dalle spalle dell’elfo con il tatuaggio romboidale sulla guancia, ma apparì più come un colpo di tosse, che subito si dileguò nell’aria.

No, ancora non ci siamo.
So che è stupido continuare a provarci, ma non posso farne a meno.
Voglio tornare a disgregarmi, voglio tornare quello che ero prima di essere immischiato dagli affari dei mortali. Ma, soprattutto, voglio che il buco che mi trapassa ancora da parte a parte si rimargini.


L’elfo percorse tutto il diametro della vetta mozzata a passo spedito, fermandosi solo quando i suoi piedi non trovarono più del terreno davanti a loro sul quale poggiarsi.
Lontano, a oriente, la porzione di continente che era stata allontanata dal potere di Terra appariva come una linea scura sull’orizzonte, appena visibile agli occhi di chi sapeva cosa cercare, invisibile a chi non ne fosse stato a conoscenza.

Non mi hanno ancora convocato, ufficialmente per lo meno.
Ancora vent’anni di questo schifo e poi ho finito. Non sembra quasi vero.
Dovrei ripetermelo più spesso.

Potrei farci un salto, una campata veloce, giusto per fargli pesare un po’ la sua condizione.
E poi gliel’avevo promesso.


L’elfo fece un’ulteriore passo avanti, lasciandosi cadere verso il mare che, centinaia di metri più in basso, infrangeva le sue onde sull’alto muro di roccia.
Il corpo magro, avvolto dalla giacca svolazzante, oltrepassò come un proiettile la porzione della meravigliosa Izivay Magnea rimasta nella porzione occidentale.
Nulla raggiunse mai i flutti.
Un falco sbattè più volte le ali per riprendere quota, destreggiandosi sicuro tra le correnti, con il sole pomeridiano alle spalle. 

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Capitolo 3
*** Capitolo 1: Fuoco purificatore ***


 Tredici camerieri in tenuta elegante entrarono a passo sicuro nella sala dove si stava svolgendo il ricevimento, dividendosi come le venature di una foglia per coprire tutto l’ambiente con le portate che tenevano in mano.
Le pareti in legno scuro erano state impreziosite da fiori che correvano dal giallo canarino al rosso intenso, colori che parevano resi ancora più intensi e gioiosi dalle lampade ad olio che illuminavano l’ambiente dalle loro nicchie.
Un gran vociare degli invitati riempiva l’atmosfera di un’aria festosa.
In fondo alla sala, su di un piccolo palco rialzato sul quale era stato predisposto un tavolo, gli sposi del giorno scambiavano poche parole con coloro che erano riusciti a raggiungerli facendosi largo nella folla che li precedeva e circondava.
La sposa portava i lunghi capelli corvini raccolti dietro la nuca, poche ciocche, lasciate sapientemente sciolte, ricadevano sul lungo abito celeste che avvolgeva il suo corpo sensuale. Lei sorrideva raggiante alle persone che le sostavano dinnanzi e, in quel sorriso, i suoi denti candidi parevano scintillare. Tra questi, i canini pronunciati svettavano.
Al fianco della donna stupenda, un uomo in abito elegante le teneva la mano. I suoi occhi azzurri si spostavano in continuazione dagli invitati al viso della moglie.
Dieci vassoi di antipasti uscirono dalla cucina, seguiti da altri tre sui quali erano stati disposti con cura alti bicchieri di cristallo nei quali danzava, al ritmo dei passi, un vino chiaro.
Quelle ventisei suole battevano leggere sul pavimento legnoso, sul quale era stato inciso da mani abili il logo del ristorante, due tralci di una vite rigogliosa si intrecciavano circolarmente, al suo interno, una volpe di profilo si ergeva sulle zampe posteriori, fiera.
Le ore passavano, ma la festa pareva appena accorgersene. Il vociare si era smorzato, nonostante questo, però, non sembrava che nessuno dei presenti avesse intenzione di lasciare il proprio calice o il proprio posto.
I dieci vassoi rimasti serpeggiavano tra gli invitati stanchi, portando i piatti principali, profumate e calde leccornie che la cucina aveva appena sfornato. I bicchieri non riuscivano a rimanere pieni a lungo e l’allegria della serata non poteva che giovarne.
La luce che filtrava dalle finestre quadrate si fece rossastra con il sopraggiungere della sera, la volta verde che sovrastava la città sospesa assunse toni sempre più caldi man mano che il sole andava a concludere il suo cammino giornaliero.
Il rumore di sottofondo si fece più intenso nella sala per coprire lo sferraglio che dai locali destinati ai dipendenti si stava alzando. Nessuno, però, si scomodò per far presente il suo fastidio ai cinque camerieri che ancora turbinavano nella sala con i rispettivi vassoi, tutti quasi completamente depredati di ciò che avevano contenuto.
Quando le lampade della stanza furono l’unica fonte di luce e all’esterno una manciata di elfi procedevano lenti per accendere i lampioni che costellavano i bordi dei ponti sospesi, la frutta di stagione che avrebbe dovuto concludere il banchetto venne introdotta ai commensali da un unico cameriere.
Buona parte degli invitati all’interno della sala si erano abbandonati alla stanchezza, lasciandosi cadere flosci sulle rispettive sedie. Anche i festeggiati, appagati dalla giornata, si erano seduti comodamente, aspettando di potersi congedare dai loro invitati.
I passi del cameriere falciarono la stanza rapidi in direzione della coppia appena sposata, solamente un mormorio lo accompagnava in quella marcia.
Il lucido vassoio venne appoggiato sul tavolo sopraelevato con un gesto elegante, sopra a questo, frutta di stagione dal colore acceso era stata disposta come una composizione artistica.
Il cameriere, quindi, seguì il profilo della tovaglia candida con le dita magre, finché le sue mani non raggiunsero le spalle della sposa, che reagì a quel contatto con un mormorio privo di alcun significato.
- Gerala è una città meravigliosa, non trova? È incredibile cosa possano nascondere le sue vie e i suoi ristoranti. –
Le mani del cameriere si strinsero sull’abito della donna, facendo increspare il tessuto chiaro sotto i suoi polpastrelli.
- Mi ci sarebbe potuta volere una vita a trovare tutte queste… cose, se avessi dovuto scovarle una per una. – riprese l’uomo avvicinando le proprie labbra all’orecchio della sposa ed abbassando la voce, come se le stesse confidando il più intimo dei suoi segreti – Lei, invece, le ha riunite tutte assieme, qui, oggi, mia dolce ed ignara aiutante.  Nemmeno riesco a dispiacermi per quest’uomo, qui, al nostro fianco, raggirato al punto da chiedere la sua mano. Lo sa anche lei che nessun uomo sano di mente vorrebbe mai legare il suo futuro ad un abominio quale lei è. –
Il cameriere si allontanò nuovamente dalla guancia della donna, i cui occhi appannati erano persi nel vuoto davanti a lei.
-  Spero che il vino sia stato di vostro gradimento e che la mia piccola aggiunta non ne abbia alterato il dolce sapore, sarebbe un peccato. Non avremo modo di vederci ancora, temo, quindi colgo l’occasione per ringraziarla del grande servigio che sta per farmi. –
Dalla manica destra dell’uomo scivolò un paletto in legno, che, con un movimento fluido del polso, venne piantato poco sopra il seno della fanciulla, trafiggendone il cuore in un unico, sicuro colpo.
La sposa ebbe appena il tempo di boccheggiare prima che dal suo petto sgorgassero fiamme danzanti.
- Lascerò che sia il tuo fuoco a purificare tutte queste cose. –
La mano dell’uomo di posò sulla schiena lasciata scoperta del corpo ormai morto dinnanzi a lui, spingendo il cadavere in avanti, verso il tavolo imbandito.
L’ultima cosa che l’assassino vide prima di chiudersi la porta d’ingresso alle spalle fu la tovaglia prendere fuoco, fungendo da base per l’incendio che, di lì a poco, si sarebbe appiccato e avrebbe consumato tutto ciò che gli stava intorno.
Un sorriso soddisfatto si disegnò sul suo viso, mentre le sue gambe lo portavano lontano da quell’edificio.
La città scorreva rapida intorno a lui, con i suoi ponti sospesi e le case costruite con il legno degli alberi circostanti.
Ne aveva prese altre venticinque.
La caccia a Gerala si era rivelata più fruttuosa del previsto.
Un colpo di fortuna assistere a una discussione riguardo quel matrimonio, quella mattina.
No, non era stata fortuna. Il Fato lo doveva aver guidato poiché potesse procedere con la sua missione.
L’uomo si fermò in un angolo non illuminato dai lampioni di una piazza laterale, situata ai piani bassi della città. Nessun occhio indiscreto sembrava poterlo vedere.
La sua mano sicura si intrufolò in un’imperfezione del legno, che gli permise di accedere al buco sottostante. Ne tirò fuori una borsa di pelle consumata, dalla quale prese abiti più comuni rispetto a quelli eleganti che aveva dovuto indossare fino ad allora.
Sistemò meglio la maschera chiara tra le poche cose che aveva e si rimise in cammino, cercando di distinguere tra i rumori della notte le urla delle prime persone accortesi dell’incendio appena nato. 

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Capitolo 4
*** Capitolo 1.5: Rimasugli del passato ***


Ecco, lo sta facendo di nuovo. La Trama si sta di nuovo concentrando su di me.
Onestamente, non capisco nemmeno perché abbia deciso di farlo ora. Dopotutto, non ho in programma di fare niente di incredibilmente interessante.
Eccola lì, intanto, la metà orientale delle Terre.
Fa schifo esattamente come me la ricordavo.

Nella grotta che guardava al mare, il sole fece splendere la figura in oro che ne adornava le pareti.
Il falco atterrò poco oltre l’apertura d’ingresso.
Non appena le sue zampe da rapace toccarono il terreno, lasciarono il posto alle scarpe eleganti dell’elfo tatuato, che si permise pochi passi all’interno dell’enorme sala.
Si fermò poi rigido quando, davanti ai suoi piedi, le bianche ossa di uno scheletro vennero oscurate dalla sua ombra.
L’elfo si chinò lentamente su quei resti, sollevando il cranio da terra per portarlo all’altezza dei suoi occhi, facendosi cadere come apposta una ciocca di capelli bianchi davanti agli occhi, come per farla risaltare ancor di più sui capelli color pece che gli adornavano la testa.
- È incredibile come vent’anni possano cambiare qualcosa. – la voce dell’elfo dalla lunga giacca rimbombò tra le pareti di pietra assediate dalle centinaia di tele di ragno che si erano andate sovrapponendosi negli anni – Nessuno, visti i tuoi resti, potrebbe riconoscere la ragazza che sei stata. Nessuno, eccetto chi ti ha conosciuta. Presto, però io sarò l’ultimo superstite della Seconda Era, così come lo sono già ora della Prima e del vecchio mondo. –
La mano dell’uomo si alzò al di sopra della sua testa, facendo sì che gli ultimi raggi della sera potessero illuminare le vuote cavità del teschio.

Pietra.
Ormai non sei altro che mera pietra.
Voi mortali siete così privi di significato che mi fate ridere, vivete con l’unica certezza che diverrete concime, almeno finché non sarete nemmeno più quello.

La mano tornò a calare verso il pavimento.
- Nonostante tutto, però, mi intrigate. Siete parte degli eventi, motori degli avvenimenti e pedine gli uni degli altri. Non riuscirò mai a capirvi. –
Il cranio tornò a toccare il suolo, ritornando nella sua posizione originaria. L’elfo, quindi, si rialzò voltandosi verso l’apertura dalla quale i suoi occhi potevano cadere sulle onde che, più in basso, cozzavano le une con le altre.
- Buon riposo, Seila. –
I vestiti si fecero piume, mentre i corpo dell’individuo si rimpiccioliva per assumere la forma del rapace che era entrato in quella sala poco tempo prima.
Pochi battiti d’ali furono sufficienti per permettergli di uscire all’aria aperta e fargli sorvolare le basse vette rimaste integre.

Ho ancora una tappa obbligata nel mio viaggio, prima di tornare da Loro.
Non rinuncerei a quest’occasione per nulla al mondo.

Il falco si posò nuovamente poco meno di una decina di minuti dopo, ai piedi delle poche colline che dividevano la Piana Infinita dalla catena montuosa dal quale arrivava.
Poco distante, un bosco cresceva indisturbato, cercando di rubare terreno alla desolazione che lo circondava.
Le piume scomparvero nuovamente. Questa volta, però non comparve la lunga giacca scura, né l’elfo che doveva riempirla.
Uno spettro nero poggiò i suoi piedi sul terreno coperto solo in parte da una bassa erba coriacea. Attorno al suo corpo aleggiava una densa nube scura, quasi catramosa, attraverso la quale si potevano riconoscere chiaramente solo i due occhi splendenti della creatura e una bocca, un taglio altrettanto lucente flesso in un ghignò quasi compiaciuto.
- Spero che non ti sia sentito troppo solo, in questi anni. –
Davanti a lui, una formazione nera svettava dal terreno. Centinaia di sottili filamenti neri si intrecciavano come i rami di un albero attorno a un grigio scheletro dagli arti troppo lunghi, cercando di rappresentare, con scarso successo, una forma antropomorfa.
- Oh, non ti preoccupare se non puoi rispondermi. Non mi offenderò. Ti sei divertito, tutto questo tempo? Tu, qui, da solo, con i vermi e le mosche che si insinuavano nella carte di quel corpo in cui ti eri inserito. Prima i tessuti molli, poi la pelle e i muscoli. Sarà stata una lunga attesa, aspettare che ogni singolo brandello di questa carne mortale ti scivolasse via di dosso. –
Il ghigno dello spettro si fece più largo, mentre i suoi passi lo portarono a girare attorno allo scheletro, come uno squalo attorno alla sua preda.
- Guardati, oh grande Follia. L’immortalità non è poi così bella, dopotutto, vero? Specialmente ora, che l’unico corpo che puoi permetterti è pietra su pietra. Magari, alla fine del mondo, verrò a farti compagnia per assistere allo spettacolo, tanto sarai qui per aspettarmi, no? –
L’intreccio di rigidi fili neri parve fremere, facendo assestare le ossa incastrate dentro quella gabbia.
- Lo prenderò per un “Certo, mio buon amico”. Ma non è per invitarti ad uscire che sono qui. Sai che quella ferita che mi hai inferto non era niente male? Certo, se non fosse stata in alcun modo rimarginabile sarebbe stata molto più problematica, ma già così fa la sua porca figura. –
La gabbia di filamenti vibrò di nuovo.
- Come? Non lo sapevi? Purtroppo sì, sto guarendo. La prossima volta dovresti impegnarti un po’ di più. E già che ci sei, prendi qualche lezione di scherma, il primo ad essere stato ferito, dopotutto, sei stato tu. –
Il reticolo vibrò ancora, facendo cadere a terra la sabbia e la polvere che gli si erano sedimentate sopra negli anni.
Lo spettro gli diede le spalle, guardando il cielo sopra le colline che si innalzavano a nord.

Mi deve aver visto.
Scontato, visti i sensi che ha sviluppato.
Sarebbe una bella rimpatriata, ma, al momento, trovo più interessanti i morti o i presunti tali.
I vivi, specialmente quelli nella sua condizione, non mi ispirano molto il dialogo, adesso.
Devo sbrigarmi ad andarmene.

- Non dovresti agitarti così tanto, Follia. Sarebbe un peccato se quel meraviglioso sistema circolatorio pietrificato andasse in frantumi. Vedrò di venirti a trovare ancora, mi raccomando, fatti trovare con il tuo abito migliore. –
Lo spettro fece una decina di passi veloci verso ovest, verso i monti che impedivano alla vista di raggiungere il mare.
Il fumo denso che avvolgeva quel corpo nero divenne ancor più solido, dividendosi in decine di piume color pece destinate a coprire le carni che si stavano rimpicciolendo.
Un corvo si levò in volo, puntando rapido verso l’altra porzione delle Terre.

Un imponente rapace atterrò sulle zampe posteriori, artigliando il terreno.
Le grandi ali bronzee si richiusero lungo il corpo slanciato, mentre gli occhi scuri pattugliavano i dintorni.
Nulla si muoveva attorno all’intrico di filamenti pietrificati.
La creatura fece qualche passo, spazzando la terra sabbiosa con la coda piumata che gli si apriva alle spalle.
Quando fu certo che non ci fosse nessuna anima viva nei dintorni e che i suoi occhi gli avevano giocato un brutto scherzo, tornò a spiegare le ali al vento, sbattendole un paio di volte per sollevare la sua mole da terra e tronare nel suo ruolo di pattuglia nei cieli sopra quella pianura.



Angolo dell'Autore:
Dopo due settimane di silenzio, rieccomi qui.
Ho un paio di cose da dire.
La prima riguarda il formato di questo capitolo, l'editor di EFP sta facendo i capricci e mi sto ritrovando a usare altre vie che non so se daranno lo stesso risultato di formattazione. In ogni caso, se mai dovesse uscire qualcosa di diverso dal resto, vedrò di sistemarlo il prima possibile.
La seconda è, per fortuna, una buona nuova. I prossimi capitoli saranno più lunghi, corposi e... sanguinolenti, direi. Troverò anche lo spazio per spiegare qualcosina che, finora, è rimasto in sospeso.
Grazie a tutti voi per seguirmi, grazie a Oldkey e la ragazza imperfetta per le loro meravigliose recensioni e, gente, alla prossima settimana.
Vago

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Capitolo 5
*** Capitolo 2: Nel nome di Aria ***


Noir guardò il suo riflesso nell’acqua increspata dai pochi peli rimanenti.
Ora che le guance e il mento non erano più nascoste dalla folta barba il suo volto dimostrava almeno dieci anni di meno.
Ripose il coltello nella fondina che portava alla cintura e si rialzò, pulendosi con i palmi i pantaloni sporchi di fanghiglia.
L’uomo tornò a dirigersi verso il suo cavallo, misurando a lenti passi la distanza che stava percorrendo. Intanto, i suoi pensieri correvano veloci lungo i quindici anni che aveva passato spostandosi da una città all’altra. Metà della sua vita era stata impegnata nel nascondersi e scappare.
La Grande Vivente, ormai, per lui non era più un luogo sicuro. Qualunque villaggio lo avrebbe riconosciuto, figurarsi le città con la loro guardia cittadina. Doveva lasciare quella foresta, almeno per qualche anno.
Dove poteva andare, allora?
L’impero sotterraneo dei nani era imploso con il crollo della fitta rete di cunicoli che aveva scavato nel corso degli anni. Ormai, le poche famiglie rimaste di quella razza non potevano nemmeno sperare in una nuova alba del loro dominio del sottosuolo.
Una delle Chiritai. Se fosse riuscito a superare il controllo all’ingresso di una di quelle cittadelle, avrebbe potuto trovare una buona sistemazione. Ma era un’impresa impossibile, introdursi all’interno di quelle mura.
Avrebbe dovuto cercare fortuna oltreoceano. Si sarebbe dovuto introdurre in una delle navi dirette verso il continente.
O forse no. Poteva provare a farsi accogliere in un tempio, per lo meno i sacerdoti avevano l’obbligo di ospitalità.
Ma se l’avessero riconosciuto? Sarebbero stati in grado di ucciderlo?
L’uomo si sistemò il mantello sulle spalle, prima di rimontare sulla sella.
Sul volto di Noir comparve un sorriso tirato quando i suoi talloni premettero sui fianchi del destriero. Sarebbe stato comico se coloro che avevano consacrato la loro vita agli dei gli avessero davvero offerto la loro ospitalità.
La Piana Umana, ora divenuta una conca a causa del collasso del regno nanico, era vuota, silenziosa, sotto quel sole al suo culmine. Avevano sicuramente perso le sue tracce.
Il cavallo dal manto scuro procedette risalendo il fiume verso sud, per poi staccarsi da esso appena incrociò il secondo braccio del Vrag, le cui acque, scorrendo verso ovest, si sarebbero poi buttate nel mare, passando però prima attraverso l’immenso lago che ora riempiva buona parte delle Terre non coperte dalla folta Grande Vivente.
Noir percorse la sponda senza fretta, guardando le acque limpide che correvano al suo fianco. Nelle zone meno profonde, erano ancora riconoscibili i ruderi dei villaggi che prima erano stati coinvolti nel collasso della terra e poi erano stati sommersi per diventare la dimora dei pesci d’acqua dolce che lì si erano insediati.
In lontananza si sentì il sibilo del treno che percorreva da ovest ad est le terre, seguendo le centinaia di chilometri di rotaie costruite negli ultimi anni della Seconda Era.
A un paio di centinaia di metri dalla terraferma, un campanile pendente svettava dalla superficie calma del lago, i mattoni consumati erano assediati dalle alghe e dai muschi che lì cercavano il caldo tocco del sole.
Lontano, in direzione dei monti, scure nubi si stavano avvicinando velocemente, sospinte dal vento di alta quota.
Il riverbero di un tuono si spanse nell’aria, mentre il sole veniva inghiottito dall’oscurità gettata dalle pesanti nuvole che stavano conquistando il cielo.
L’uomo batté i talloni sui fianchi del cavallo, incitandolo ad aumentare l’andatura per evitare il temporale che stava arrivando. Nonostante ciò, le prime gocce di pioggia riuscirono a raggiungere il mantello scuro del cavaliere chino sulla sella.
Un lampo squarciò il cielo scuro, illuminando le gocce d’acqua che cadevano con frequenza sempre maggiore e una struttura alta che si stagliava sulla sponda del lago.
Noir serrò la presa sulle briglie che teneva in mano, facendo dirigere il cavallo galoppante verso quel segno di civiltà.
Un secondo lampo serpeggiò tra le nuvole temporalesche, illuminando un tempio in mattoni racchiuso in un piccolo recinto di legno, che pareva abbracciare il giardino davanti al portone.
Noir legò velocemente il suo destriero sotto una tettoia sghemba, costruita su un muro laterale del tempio, per poi precipitarsi a capofitto sotto il cornicione dell’ingresso, cercando riparo dalla pioggia che si era fatta battente.
La sua mano corse al battacchio in ferro appeso al possente battente in legno, sollevandolo e lasciandolo ricadere più volte.
Il cupo suono che produssero i colpi riverberò per il legno della porta e le pareti murarie della struttura, superando per un istante il fragore dell’acqua.
I secondi in cui nulla si mosse parvero eterni.
Un vento gelido si levò, spirando dalla superficie del lago verso nord, verso l’entroterra e la Grande Vivente che là si ergeva.
L’uomo si strinse nel mantello fradicio, cercando riparo dalle intemperie che parevano averlo preso di mira.
Finalmente il portone si smosse, facendo filtrare verso l’esterno la luce delle candele che dietro a questo ardevano.
Un uomo dal cranio rasato si sporse da quella feritoia, guardando con gli occhi socchiusi chi aveva bussato alla sua porta.
Noir sorrise da sotto il suo cappuccio, sperando che l’assenza della barba fosse sufficiente a non farlo riconoscere.
- Posso mendicare un giaciglio per la notte? – provò a chiedere, appoggiando la propria mano sulla porta.
L’uomo calvo parve incerto, poi, chinando la testa, si decise ad aprire completamente la porta, in modo da far entrare il mendicante.
- La ringrazio. – continuò Noir, facendo pochi passi oltre l’ingresso.
L’uomo si voltò, facendo ondeggiare la tonaca bianca che portava addosso, e avviandosi per il corridoio dal quale era arrivato.
Noir lo seguì, guardandosi attorno, cercando di memorizzare qualunque cosa lo potesse aiutare o ostacolare durante una fuga.
Il corridoio d’ingresso era lungo, stretto, con le pareti ricoperte di legno spoglie, se non per le candele appese ad intervalli regolari.
A sette metri dall’ingresso, il sacerdote in tunica candida si fermò quei pochi secondi necessari per aprire la porta che si trovarono davanti. Oltre a questa, inginocchiati su spesse panche di legno pieno, altri nove uomini rispettavano il religioso silenzio di preghiera.
Il sacerdote che aveva aperto la porta indicò con un gesto della mano una panchina vuota contro il muro, sulla quale Noir si sedette senza dire nulla.
Un’ora e mezza passò lentamente, non una volta uno dei sacerdoti si alzò o si sistemò in quella scomoda posizione.
Attraverso le sottili pareti della struttura si riusciva perfettamente a sentire il battente suono delle gocce di pioggia che impattavano sul terreno e sulla superficie dello specchio d’acqua.
Fu il suono di un campanello appeso alla parete a risvegliare la stanza dallo stato catatonico in cui era caduta.
Un sacerdote si avvicinò al trentenne, il fisico magro era malcoperto da una tonaca azzurra e il viso dimostrava almeno quarant’anni in più del confratello che era andato ad aprire la porta allo sconosciuto.
- Perché hai bussato al nostro tempio? – chiese seccamente l’anziano, con una voce resa rude da troppi anni passato in isolamento in quel tempio.
Noir si sforzò nel sembrare il più onesto e candido possibile, sorridendo bonariamente a quel viso rugoso che lo stava squadrando. – Vede, sono stato preso alla sprovvista dal temporale che sta imperversando durante il mio viaggio. So perfettamente che voi, in quanto sacerdoti devoti ad Aria, predicate uno stile di vita lontano dalla caotica civiltà, ma vista la mia posizione ho ipotizzato che avreste potuto offrirmi un tetto per questa sola notte. –
Lo sguardo del sacerdote non sembrò mutare a quella spiegazione. Nonostante ciò fece un passo indietro, allontanandosi dal mendicante che il suo confratello aveva fatto entrare.
- Ti offriremo riparo per questa sola notte perché il Fato ti ha condotto a noi. –
- La ringrazio infinitamente. –
Nessuno si preoccupò di guidare il trentenne dai capelli neri all’interno di quell’edificio consacrato, lasciandolo da solo con i propri pensieri in quella sala della preghiera per un’ulteriore ora. Quando, finalmente, una tonaca candida ricomparve da una delle porte, fu per riferirgli che di lì a poco sarebbe stata servita la cena.
Noir si ritrovò una manciata di minuti dopo in una stanza laterale che si sarebbe potuta scambiare per un largo corridoio lungo il quale, contro il muro di destra, erano stati sistemati piccoli tavolini, il cui unico compito era ospitare la nera fetta di pane e poche verdure probabilmente colte dall’orto accudito dai confratelli stessi.
Non una volta, durante la parca cena, un sacerdote provò a parlare con l’ospite sconosciuto, chiedergli il nome o la storia che l’aveva condotto fino al loro uscio. Di quando in quando un di loro alzava lo sguardo nella sua direzione, squadrandogli il volto per diversi secondi, per poi far tornare i suoi occhi in direzione del piatto.
La stanza silenziosa fu attraversata da un attimo di fremito, generato forse da una parola, forse da un gesto che, comunque, Noir non riuscì a cogliere.
Che l’avessero riconosciuto?
No, in quel caso si sarebbero già mossi.
Noir si portò alle labbra le poche briciole che erano rotolate fuori da suo piatto, aspettando che qualcuno lo scortasse al pagliericcio che lo avrebbe dovuto ospitare per la notte.
I piccoli loculi destinati ad ospitare i corpi dei sacerdoti durante le poche ore di sonno che questi si permettevano durante la notte erano stretti, al punto da riuscire ad ospitare solamente una brandina e nulla più.
Noir si sdraiò in silenzio, con il suo zaino al fondo della stanza a far compagnia ai suoi piedi. Non appena il sacerdote che lì l’aveva condotto se ne fu andato, facendo perdere il suo sguardo contro il soffitto legnoso che lo divideva dalla pioggia scrosciante.
Non potevano averlo riconosciuto, si disse. Avrebbero reagito immediatamente, scappando o attaccandolo. Oppure sapevano chi era, ma avevano preferito rimanere fedeli alla loro natura di devoti religiosi.
Il trentenne chiuse gli occhi, cercano di rallentare il battito frenetico del suo cuore.
Cullato dal suono dell’acqua, si addormentò poco dopo.


Ancora non capisco perché abbiano creato questo.
Nessuno penserebbe mai di tornare sulla cima del Flentu Gar, dopo quell’inferno che avete scatenato. A questo punto, mi chiedo, perché abbiate nascosto tutto sotto queste spoglie, piuttosto che far erigere un normale palazzo.


Noir sentì il sangue fremergli nelle vene, farsi bollente, scaldandogli le carni e facendolo svegliare di soprassalto.
Conosceva quella sensazione. L’aveva provata troppe volte nella sua vita, prima nell’Oasi, poi durante le sue fughe.
Avvertì qualcosa di viscoso colargli sul petto.
Sangue.
Sangue tiepido, sgorgato da una ferita appena inflitta.
Aprì gli occhi, con la cornea che pareva nera sotto la poca luce della luna che riusciva a filtrare dalla stretta finestra sopra di lui. Non uno dei capillari intorno alle sue iridi era rimasto integro, facendo sì che il loro contenuto venisse sparso senza criterio.
Noir boccheggiò per un attimo, intuendo cosa fosse la macchia sfocata che vedeva di fronte a sé.
Un sacerdote stava imperioso su di lui, con gli occhi spalancati e la mascella pendente. Il suo petto era stato trapassato da una lancia nera, che si sarebbe detta nata direttamente dalla pelle sullo sterno del trentenne, ora sporca di quella linfa vitale.
La lancia si ritrasse nuovamente, tornando nel corpo dell’uomo dai capelli neri, togliendo così l’unico sostegno che teneva ancora in piedi il confratello, che crollò a terra già privo di vita.
Il pugnale che teneva in mano tintinnò contro il legno prima ancora che il corpo toccasse il pavimento.
Noir si alzò, evitando di toccare il cadavere riverso che continuava a spargere il proprio sangue ai piedi del letto, prendendo il suo zaino e rimettendoselo in spalla.
Doveva scappare. Quel sacerdote aveva provato ad ucciderlo, sapeva chi era, e nessuno avrebbe tentato una cosa del genere da solo.
Nessuno sarebbe stato tanto folle da sfidare il suo sangue in un leale duello. Per quanto potesse essere leale un duello contro di lui.
Noir, ripercorse a passo svelto la strada che lo separava dalla sala della preghiera. In nessuno dei loculi che oltrepassò riuscì a trovare un sacerdote, vegliante o dormiente che fosse.
Il dormitorio terminò con la porta che lo avrebbe condotto alla stanza principale, che sì aprì non appena i suoi avambracci impattarono contro il legno. Il trentenne non dovette nemmeno rallentare il suo passo, lasciando che fosse lo slancio del suo corpo a far muovere i cardini.
La larga sala centrale si presentò oscura e silenziosa all’uomo.
Le strette feritoie poste in alto lasciavano appena filtrare il poco bagliore lunare che era riuscito a farsi strada tra le nubi temporalesche.
I candelabri erano immobili, appena riconoscibili senza la fiamma ardente delle candele consumate che su di essi riposavano.
A sinistra, sulla parete contigua a quella attraversata da Noir, si poteva immaginare la porta che lo divideva dalla mensa. Superato ancora l’angolo successivo, da qualche parte, doveva esserci l’accesso al corridoio che lo avrebbe portato all’esterno.
L’uomo proseguì dritto, stringendo a sé lo zaino con una mano, mentre l’altra tastava l’aria sul suo percorso nel caso un inginocchiatoio si fosse frapposto sul suo percorso.
Le dita del trentenne si appoggiarono sulla parete opposta, seguendone il profilo finché non incespicarono su un montante.
L’anta si mosse, silenziosa, facendo penetrare nella stanza oscura una lama di luce rossastra, vivida, intensa al punto da infastidire le pupille dilatate di Noir.
Il corridoio era illuminato a giorno, una dozzina di candele ardevano sui loro bronzei supporti sulle pareti, gettando la loro luce sui volti dei nove sacerdoti che lì stavano fermi, in piedi, schierati come le pedine su di una scacchiera.
I loro volti apparivano ora cadaverici ora demoniaci con il danzare delle ombre scure sui lineamenti di quei visi.
Sulla barba dell’uomo più anziano, a capo di quello schieramento, i riflessi delle fiammelle parevano accendere tizzoni ardenti, che danzarono, quando le labbra asciutte si mossero per proferire parola.
- Cosa hai fatto al nostro confratello? – chiese quel vecchio con voce inquisitoria, voce che parve riverberare tra le pareti rivestite di pannelli di legno.
- Ha avuto quel che si meritava. Magari la vostra dea l’ha punito per aver attentato alla mia vita durante il sonno. –
- Tu, mostro. Tu, creatura dal sangue impuro. – il sacerdote fece un passo avanti, stringendo tra le mani un lungo bastone da passeggio. – Tu non potrai più sporcare le Terre con la tua vita invisa agli dei, noi non ti permetteremo un ulteriore passo. –
Noir, flesse leggermente le ginocchia, cercando di riportare alla mente i dettagli che aveva cercato di memorizzare la sera precedente.
Fosse riuscito a superarli tutti rapidamente, si sarebbero trovati impacciati nel voltarsi, offrendogli una buona finestra di vantaggio.
Un metro alle sue spalle lo divideva ora dalla sala della preghiera.
Un metro davanti a lui c’era il primo sacerdote con, dietro di sé, due metri abbondanti occupati dai suoi confratelli.
Tra gli uomini in tonava bianca e la porta d’uscita rimanevano poco più che due metri. Due metri di vantaggio per scappare.
Noir fece un passo indietro, cercando di prepararsi per quello che avrebbe dovuto fare.
- Ascoltate. – provò a dire il trentenne alzando lentamente le mani. – Non voglio farvi del male. Se mi lascerete uscire non vi farò nulla e potrete andare a seppellire il corpo di quell’altro. È una promessa. –
- Tu ci stai offrendo una seconda possibilità? Nel nome di Aria, giuro che ti fermeremo ed epureremo il mondo dal tuo sangue. –
L’uomo sospirò, facendo mutare il suo sguardo in uno più serio e concentrato. – Non credo che Aria ne sarà molto felice. –
Noir scattò in avanti, colpendo il sacerdote con una spallata che gli fece perdere l’equilibrio. Si mosse quindi di lato, spingendo il primo uomo in tonaca che incontrò contro i suoi vicini.
Sfruttò lo spazio che si era andato a creare per lanciarsi contro l’ultima linea di persone che si frapponevano tra lui e la sua libertà.
Le sue suole impattarono contro il petto del sacerdote in mezzo al corridoio, facendolo cadere schiena a terra. Una pozza di sangue cominciò a spandersi sul pavimento sotto la nuca dell’uomo caduto.
Il trentenne dai capelli neri non si trattenne a constatare le condizioni del confratello sul quale era atterrato, scattando in direzione della porta, così vicina.
Un rigolo di sangue cominciò a colare dal naso di Noir, quando questo impattò contro l’uscio, chiuso a chiave.

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Capitolo 6
*** Capitolo 2.5: Esisteranno ancora gli ispettori? ***


L’elfo dal tatuaggio romboidale aprì la porta della casupola che, da sola, si ergeva sulla vetta mozza del Flentu Gar. Ad attenderlo, dalla parte opposta, una scala che proseguiva verso il cuore di quel monte.
I suoi passi rimbombavano tra le pareti di pietra, accompagnandolo nella sua discesa.
Due vie si presentarono davanti a quegli occhi scuri.
Una porta, sulla sinistra, e il proseguo della scala, davanti.

Che odio.
Il sottosuolo, intendo. Così cupo, privo di vita. Per lo meno il palazzo di giustizia di Gerala era in mezzo al verde.
Potrei continuare a scendere, arrivare fino alle segrete, continuare a scendere ed andarla a trovare. Non saprei però cosa dirle e detesto incontrare qualcuno senza una storia da donargli.
La prossima volta. La prossima volta.
Ma, per ora…

L’elfo appoggiò la sua mano sulla maniglia, facendo scattare la serratura e spingendola verso l’interno.
La stanza in cui entrò era illuminata da un imponente candelabro in vetro appeso al soffitto. Su di esso ardevano centinaia di candele.
Su alti scranni, dalla parte opposta rispetto all’unico ingresso, sei figure si voltarono nella sua direzione, attratte dal suono dei cardini che ruotavano.

Strano. Anzi, non strano, particolare.
Sono passati… almeno un migliaio di anni dall’ultima volta che Loro si sono lasciati vedere in faccia, senza ripararsi dietro una coltre di penombra.
Sei… è un numero medio. Negli anni li ho visti oscillare tra i due e i ventiquattro membri, non mi stupisce, quindi, vederne un numero così… canonico.
Numero o non numero, questa Loro formazione non ha ancora sfruttato i miei servigi. È arrivato il momento di rifare quel discorso imbarazzante.

- Salve a voi. Potete chiamarmi con il nome di Viandante. Come vi avranno riferito i vostri predecessori, sono un mutaforma legato alla vostra società da un contratto stipulato secoli fa. Se voi, come chi vi ha preceduto, firmerete il mio contratto e vi impegnerete nel mantenerlo, potrete contare sulle mie abilità e sulla mia lealtà.- l’elfo fece una pausa, quasi avesse finito di parlare. Un idea, poi, balenò per un attimo nella mente del mutaforma. – Ci tengo, però, a ricordarvi che la scadenza del mio contratto è fissata da qui a vent’anni. Sono fiducioso che manterrete la parola che venne data, in ogni sua clausola. –
Il plico di fogli venne estratto dallo scrigno in cui era riposto da un uomo dalla stempiatura marcata, la cui fronte alta quasi scintillò alla luce del candeliere. L’uomo sorrise alla vista del contratto, per poi tornare a guardare l’elfo che ancora restava in piedi, immobile.

L’età non è stata particolarmente gentile con lui.
Oh, già, nessuno l’ha ancora chiamato per nome. È Vanenir II, solo con quasi meno capelli che fratelli in vita e un po' più d'esperienza.
E poi c’è quello scrigno. Quel maledetto ammasso di legno, ferro e sigilli magici delle più disparate culture.
Se solo potessi toccarlo non sarei rimasto al loro servizio così a lungo.

Vanenir II, re dei draghi, sullo scranno più a sinistra, porse i fogli all’uomo più vicino.
La penna inchiostrata passò di mano in mano, tracciando le cinque firme che ancora mancavano.
Lakar Maoi, uomo a capo della gilda mercantile più influente delle Terre, colui che decide il valore di ogni singola merce in circolazione.
Sarah Dan Rei, l’elfa che si è arricchita grazie agli introiti del treno Nube, l’unico mezzo, ad ora, in grado di permettere spostamenti sufficientemente veloci e sicuri dai Muraglia alle maggiori città che si affacciano sul mare occidentale e, da lì, a Gerala.
Rast Mareu, l’uomo protettore dei governatori delle Chiritai, colui che ha il potere di muovere a piacimento gli equilibri politici delle città tecnologicamente più avanzate delle Terre.
Johanne Fenter, la donna poco più che trentenne che si era aggiudicata la carica di Giudice Maggiore dopo la prematura scomparsa del suo predecessore.
Krave Dunnont, colui che gestisce il traffico dei sempre meno numerosi Demo che abitano le terre.

Chi non darebbe fiducia a soggetti del genere?
Un re regicida, l’uomo che si arricchisce giocando con l’economia, la donna che controlla i traffici principali delle Terre, l’effettivo governatore del conglomerato di città più potente in campo tecnologico, la signora che gestisce ogni sentenza elargita e l’uomo che traffica nei migliori schiavi esistenti.
Ora le cose importanti.
Finora, solo Vanenir aveva posto la firma necessaria per ordinarmi qualcosa. Questa cerimonia la fanno solo quando devono spedirmi a fare qualcosa di importante.

- Ora che avete siglato i termini del mio contratto, mi permetto di chiedervi qual è la ragione della  convocazione. -
Il re dei draghi si alzò dal suo scranno, prendendo da terra una cartellina in legno. Ne tirò fuori diversi fogli delle più disparate dimensioni che porse all’elfo in piedi.
Relazioni, referti medici, schizzi, bozzetti di corpi riversi, la piantina di un edificio e dichiarazioni di guardie cittadine e di civili.

Non vedevo cose del genere da… questa è tosta.
Credo dai tempi di Jackie, cioè, di Jack lo Squartatore. Avete presente, no? Inglese vittoriano, inquietante, poca igiene personale e una splendida ossessione per le prostitute, o meglio, per le loro interiora.
Non riuscirono mai a catturarlo, quindi mi ordinarono di ucciderlo, alla fine. Povero Jackie.

- Queste a cosa fanno riferimento? – chiese l’elfo tatuato, facendo scorrere rapidamente il suo sguardo sulle centinaia di parole in pessima grafia che stringeva tra le mani.
- Negli ultimi tre mesi, il numero di omicidi di… miei sudditi è aumentato in maniera vistosa. Al momento, le guardie cittadine non hanno idea di chi stia portando avanti questa serie di morti o del perché lo sta facendo. –
L’elfo tatuato alzò gli occhi scuri dai documenti, per posarli sull’alta fronte liscia del re dei draghi, lucida al punto da mostrare un vago riflesso delle candele che, poco più in alto di questa, illuminavano la stanza.
- Quali sono i vostri ordini? –

Lo so, può sembrare una domanda assolutamente inopportuna e senza senso, in questo momento con le informazioni che possiedo, ma, visto chi ho davanti, non voglio lasciare nulla al caso.
Avanti, il capellone che ho davanti è diventato re ordinandomi di assassinare Réalta. A questo punto, da lui, posso aspettarmi qualunque cosa, anche il dare una mano all’assassino o il dover insabbiare il tutto.
Non che mi farebbe molta differenza il dover svolgere l’uno o l’altro compito.

- Devi fermarlo con le tue… capacità. Ti forniremo tutti i documenti necessari per muoverti come nostro inviato, potrai servirti del supporto di qualunque dipendente del governo che ti parrà necessario e ti verrà conferito un grado sufficiente a farti avere accesso a tutto ciò che sembrerà utile, ovviamente senza dover rivelare cosa realmente sei. –

Hanno preso un po’ troppe precauzioni, questa volta.
Capisco che, ora che Follia è diventato un’opera di arte moderna, le missioni “importanti” che mi possono affidare, al massimo, possono includere il mio intervento negli affari dei mortali, però…
Qualcosa continua a non convincermi. Oppure mi stanno infinitamente sottovalutando.

- Perché tutte queste precauzioni? Devo assassinare un assassino, nulla più. Cosa vi preoccupa di questo soggetto? –
Vanenir tornò al suo posto, sedendosi sullo scranno a lui assegnato.
- Non sappiamo quale sia il suo volto, non sappiamo dove si trovi in questo momento, non sappiamo nemmeno se sia opera di un’unica persona. –
L’elfo tatuato sfogliò velocemente i fogli che teneva in mano, assorbendo il più velocemente possibile i dettagli rilevati durante i ritrovamenti.
- Cosa sapete, esattamente? –
- Le sue probabili ultime vittime. – cominciò il re dei draghi, venendo interrotto dal tintinnio di un bicchiere di cristallo, quando il Giudice Maggiore posò il proprio calice sul tavolino di fronte a lei.
Vanenir attese un attimo, in modo da dare il tempo alla nota cristallina di disperdersi, per poi riprendere il suo discorso. – Sappiamo che sa come uccidere in maniera efficace, che non si preoccupa dei danni collaterali, al punto che ha appiccato un incendio in uno dei piani più alti di Gerala. –

Ecco che si spiegano molte cose.

- Quindi è un pericolo in quanto è una mina vagante che vi ferisce a fondo in maniera inconsapevole. –
L’imponente trafficante di Demo si alzò dalla sua sedia, puntandosi con le braccia grassocce sui braccioli dello scranno. La camicia candida di ottima fattura si tese sul suo ventre gonfio quando fu in piedi.
- Come osi parlarci con un tono così irriverente. Tu non sei altro che un servo per noi firmatari, impara a restare al tuo posto! – tuonò il pallido Krave indirizzando il suo dito tozzo verso il volto dell’elfo.
Il corpo dell’individuo in piedi, davanti alla porta, fu scosso da un fremito. I fogli che teneva in mano caddero a terra quando lui aprì la bocca, facendo deformare il tatuaggio che gli copriva la guancia.
- Io, un servo? – tuonò una voce possente, lontana, come un rombo di tuono o una frana roboante – Io esisto da millenni, figlio degli dei, figlio di colui che ti scrisse e ti seppellirà. – Il corpo dell’elfo crebbe di dimensione, scurendosi. I suoi occhi si fecero dardeggianti, due corna ritorte nacquero dalla sua nuca e una coda ossea dal suo coccige. - Io ti sopravvivrò e non sarà una firma su un contratto ad impedirmi di danzare sulla tua tomba. Sono immortale, ho visto l’inizio e vedrò la fine di tutto, io ho dato il via alla Guerra degli Elementi, io ho duellato con il demone che quasi fece sprofondare il mondo nel caos incontrollato ed io rimango fedele ai vostri ordini perché il contratto è incantato, ma il costo del mio tradimento non è la mia vita, bensì quella del vostro prigioniero. Senza di lui come merce di scambio, però, cosa credi mi possa trattenere dal ridurre questo continente in una ardente distesa inospitale? –
Ora un essere infernale alto al punto da sfiorare il soffitto si ergeva a ostacolo per l’unica via d’uscita presente.
- Dunnont! Torna immediatamente al tuo posto! – urlò imperioso Vanenir, tornando ad alzarsi, mentre le sue viscere fremevano, pronte a riacquistare le loro fattezze draconiche.
Il mercante di schiavi tornò a riempire la seduta dello scranno alle sue spalle con la sua mole senza proferire parola.
Il calice del Giudice Maggiore Fenter venne sollevato lentamente, per portare il chiaro liquido alle labbra della donna.

Era da un po’ che non mi esibivo in una performance del genere. Probabilmente, avessi un analista, mi direbbe di farlo più spesso. Aiuta a distendere i nervi.

- Bene, - riprese il drago, rilassando il proprio corpo – Viandante, torna a un aspetto più consono a una discussione civile quale questa deve essere. –
L’essere infernale mutò il suo sguardo, tornando a rimpicciolirsi e a rivestire gli abiti formali dell’elfo.
- Ottimo. – Vanenir fece un cenno del capo in direzione del Giudice Maggiore.
La donna bionda si alzò, abbandonando il calice sul tavolino per preferire ad esso una busta scura, attraverso la quale si poteva riconoscere la carta destinata ai documenti ufficiali, porgendola al mutaforma con un sorriso sornione dipinto sul volto ed incorniciato dai boccoli chiari.
L’elfo li prese rispondendo al sorriso, per poi chinarsi per recuperare tutti i documenti che aveva lasciato cadere.
- Viandante, hai tutto ciò che ti serve per iniziare il tuo compito. Non tornare se non una volta che il tuo incarico si sarà concluso. – terminò Vanenir.
L’elfo tatuato si voltò, facendo oscillare la lunga giacca alle sue spalle, per poi varcare la porta e tornare a risalire i gradini verso la luce del sole.

Quel mercante di schiavi mi ha fatto venire l’ulcera.
Io ho visto più regni cadere dei soli che lui ha visto sorgere, e vorrebbe mettermi i piedi in testa.
Avrei dovuto puntare su qualcosa di più cattivo, il bestione muscoloso e cornuto è forse troppo classico.
Mi fossi potuto disgregare avrei potuto pensare a una colonna di fumo, magari con un cuore pulsante di luce… la prossima volta, magari.

Devo andare a Gerala, l’ultimo morto che è stato associato quasi per certo al mio obiettivo è stato ritrovato là… e poi c’è stato quel casino nel ristorante, dovrei andare a controllare anche lì. Un incendio potrebbe essere tanto accidentale quanto voluto.
E poi c’è la cosa che mi infastidisce di più.
No, non l’assassino, quel tipo o tipa che sia ha i minuti contati, e nemmeno il fatto di dovermi far passare per un normale incaricato del governo. Cosa dovrei essere, un ufficiale? Un ispettore? Ma, poi, esisteranno gli ispettori, o avranno un altro nome?
Sono stato per troppo tempo fuori dal giro…
Quello che non mi tedia è che dovrò aver a che fare con i mortali. Con i dannati mortali. Anzi, peggio, con i mortali sui quali gli dei non hanno progettato nulla.
Guardie, medici, civili e chissà che altro.
Non credo di aver voglia di rapportarmi con qualcuno che non siano le voci nella mia testa.




Angolo dell'Autore:

Ammetto che, ultimamente, sono stato un po' avido di questi angoli. Chiedo venia.

Prima le cose importanti.
Devo tornare a porgere i miei ringraziamenti a la ragazza imperfetta, OldKey e, new entry, whitesky, per le recensioni che continuano a lasciarmi e la fiducia che continuano a riporre nelle mie storie. Grazie davvero.

Passiamo ora al capitolo.
Bene si, questa storia sta diventando una sorta di giallo. Un giallo in cui voi conoscete sia il colpevole che l'inseguitore. O, almeno, del colpevole conoscete unicamente le sue azioni.
Ho in programma, per un lontano futuro, una storia Thiller, Noir o Gialla, ovviamente molto diversa da questa, però sarà interessante provare questo stile qui, con voi.
Spero vi possa piacere questa deriva del Fantasy verso qualcosa che non è raccoglibile in un solo genere.
Mi farete sapere cosa ve ne parrà. Spero.

Un'ultima cosa, più importante.
La settimana prossima sarò disperso sui monti senza nessun contatto con la civiltà.
In un primo momento, ho pensato di non pubblicare direttamente il capitolo, saltando quindi la pubblicazione settimanale, e riprendere con quella successiva... poi, però ho cambiato idea. Non so perchè, per masochismo, forse.
In ogni caso, oggi un pomeriggio ho tirato giù per intero il capitolo 3, in modo che, domenica prossima, non appena sarò tornato, potrò pubblicarvelo.

Quindi a domenica prossima, miei cari lettori.
Vago

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Capitolo 7
*** Capitolo 3: Odore di Mare ***


Il bastone calò con violenza sulla schiena del trentenne, impattando e rimbalzando su una placca nera che sembrava essere fuoriuscita dal corpo stesso dell’uomo.
Il sacerdote che aveva vibrato il colpo rimase interdetto, paralizzato dalla comparsa improvvisa di quell’armatura che ben poco sapeva di naturale.
La superficie della placca nera parve divenire liquida per un momento, vibrante, per poi deformarsi verso l’esterno come la punta di una lancia, trapassando il cranio dell’uomo devoto ad Aria e schizzando il suo sangue, scintillante alla luce delle candele, contro le pareti in legno, per poi ritirarsi verso il punto d’origine e cercare come riparo all’interno delle membra del trentenne.
Noir si voltò, pulendosi con un dito il sangue scuro che gli aveva sporcato il naso. Alle sue spalle, la porta chiusa del tempio gli impediva la fuga, davanti a lui, i rimanenti otto sopravvissuti stavano aggirando il cadavere ancora tiepido per raggiungerlo.
- Ascoltate, se mi date le chiavi di questa porta e mi lasciate uscire giuro che non ci saranno altri morti. –
- Non avrai pietà da noi, malosangue. – fu la risposta secca, meccanica, dell’uomo dalla lunga barba resa ardente dalle fiammelle che illuminavano l’ambiente.
- Io non credo che dovreste attaccarmi… potremmo ancora risolvere la situazione senza altri spargimenti di sangue. –
Noir alzò di riflesso le braccia a protezione del viso, non appena i suoi occhi colsero i due bastoni che gli si stavano avvicinando.
Dalla pelle degli avambracci, un frammento di secondo prima che questi venissero urtati dal duro legno delle verghe, parve venir trasudato un liquido denso, scuro come una notte senza né stelle né luna, grumoso, che si indurì attorno agli arti per formare i bracciali su cui i bastoni sarebbero andati ad impattare.
Il trentenne alzò le mani al soffitto, gli avambracci ancora avvolti da quella protezione parvero assorbire tutta la luce che li circondava.
- Davvero, non ho intenzione di uccidere nessuno! – tentò ancora l’uomo dai capelli neri.
I bracciali, lentamente, vennero riassorbiti dalla pelle e dalla carne sottostante, scomparendo così come erano apparsi.
Un’altra vergata venne direzionata sulla traiettoria per intercettare la tempia sinistra del giovane.
Dal palmo sinistro alzato di Noir comparve una sferetta della stessa consistenza dei bracciali, saldamente legata alla sua pelle, che con uno scatto repentino si allungò, divenendo una sottile lama appuntita che trapassò prima il bastone, bloccando la sua corsa, poi il cranio del sacerdote che lo brandiva.
Dalla mano opposta, come proporzionalmente, comparve una lama identica alla prima, che scattò per impalare due sacerdoti che avevano osato avvicinarsi troppo con la stessa velocità con cui la precedente si ritirava verso il suo punto di partenza.
Il corpo dell’anziano alla destra di Noir cadde, privato del sostegno della lama nera, così come fecero i corpi dei suoi confratelli, non appena la seconda arma si fu ritirata.
- La tua anima si sta appesantendo, malosangue! Quanto peso potrai sopportare ancora? – salmodiò l’anziano in tunica azzurra, facendo un passo avanti, mentre le sue dita ossute e callose si stringevano sulla sua verga.
Fu un attimo, poi sei degli otto bastoni stretti ancora nelle tiepide mani dei sacerdoti calarono su Noir con violenza inaudita.
Gli occhi del trentenne si fecero neri come la pece, non uno dei vasi sanguigni che incorniciavano le sue iridi verde scuro ricevette pietà dall’impietoso ribollire del suo sangue.
La melassa nera trasudò dalla tempia destra, dalla scapola sinistra, dal fianco sinistro, dal polso destro e dal ventre.
Noir cadde a terra rantolante quando il duro legno di uno dei bastoni gli falciò il polpaccio destro, aprendogli un taglio poco sotto il ginocchio.
Il trentenne si cercò di accovacciare, esponendo unicamente la schiena ai colpi che continuavano ad infierire su di lui, tutti, però, trovarono unicamente la piastra nera che si era creata per proteggere il suo dorso.
- Vi prego, non intendo uccidervi. – la voce dell’uomo dai capelli neri si spanse nell’aria ovattata, attutita dalla posizione in cui era costretto il suo proprietario.
- Taci! – tuonò il sacerdote più anziano.
I colpi si fecero sempre più rapidi, il legno dei bastoni sempre più desideroso di profanare la pelle e i muscoli dell’uomo che cercava di colpire.
Il busto di Noir si inarcò verso il soffitto. Il trentenne proruppe in un urlo disperato di dolore e dalle sue labbra caddero decine di gocce di saliva, che si persero alcune sulle pareti, alcune sul pavimento.
La placca nera che riusciva a stento a coprire la schiena dell’uomo a terra parve vibrare, perdere in parte la sua solidità tornando ad essere quasi liquido.
Un bastone venne ancora calato su quella protezione.
I muri di legno vennero irrorati da decine di schizzi di rosso sangue, che brillava cremisi alla luce della fiamma tremolante delle candele.
Noir restava immobile, i suoi abiti erano strappati in più punti, là dove lance nere erano nate per impalare gli otto sacerdoti che vessavano il suo corpo.
La melassa scura ritornò a farsi malleabile, ritraendosi nel corpo del trentenne.
L’uomo si rialzò lentamente, puntellandosi sulle mani per sorreggersi. La sua schiena, là dove era i vestiti non la coprivano, mostrava profondi tagli e brandelli di pelle cadenti.
Noir si mosse verso i cadaveri, curvo, cercando tra i loro abiti la chiave che gli avrebbe permesso di lasciare quel luogo.
Si sarebbe dovuto medicare, prima di partire, si disse mentre le sue dita si stringevano su un freddo oggetto di metallo.

Noir guardò il cavallo che lo aveva accompagnato negli ultimi otto mesi allontanarsi nella Piana Umana verso nord, saltando agilmente le due rotaie di lucido metallo che avevano raggiunto.
L’uomo mosse un paio di volte braccia e spalle, saggiandone i movimenti che le strette bende con cui si era fasciato gli permettevano.
Non era molto, ma se lo sarebbe fatto bastare.
In lontananza, verso i Monti Muraglia, la locomotiva splendente sotto il primo sole del mattino si avvicinava, seguita dalla scia di fumo denso che si lasciava alle spalle.
Locomotiva, vagone per il carbone, poi solamente vagoni per il bestiame.
Non avanzava troppo velocemente, ma, avesse sbagliato, nemmeno la sua maledizione lo avrebbe salvato completamente dalla carica di quell’animale di metallo.
La locomotiva passò accanto a Noir, facendo sobbalzare i sassi sul terreno e riempiendo l’aria dell’acre odore del suo fumo.
Il trentenne si flesse, preparandosi.
Il primo vagone proseguì lungo le rotaie, con le sponde alte ad impedire al prezioso carico di combustibile di disperdersi lungo il tragitto.
Il portellone laterale dell’ottavo vagone era socchiuso. Sarebbe stato sufficiente.
Noir saltò allungando la mano destra in direzione del treno.
Immediatamente prima dell’impatto che lo avrebbe privato della mano, la densa melassa avvolse l’arto dalla punta delle dita fino a metà dell’avambraccio, impedendo all’uomo di avvertire alcunché  dal violento contatto che ne seguì.
L’uomo si trovò appeso al montante del portellone, con le gambe a penzoloni sul terreno che correva veloce e il viso investito da un forte vento caldo.
Le sue braccia si contrassero, le bende che gli fasciavano il busto si tesero e un rigolo di sangue vermiglio gli imbrattò la schiena, ma lo sforzo fu ricompensato quando le suole delle sue scarpe si poggiarono sulla base della carrozza.
Una lama di luce, a stento, riusciva a filtrare dall’apertura, proiettando l’ombra di Noir all’interno di quell’ambiente.
Una dozzina di figure scure, avvolte dall’ombra, si mossero contro la parete opposta alla comparsa di quel nuovo arrivato.
Un muso tozzo, animalesco, adornato da due lunghe zanne, si sporse in avanti, incrociando il suo cammino con la luce solare.
Un Demo. Un discendente dei Demoni creati dal Re per combattere la Guerra degli Elementi. Schiavi.
Il naso schiacciato di quel muso annusò l’aria, per poi ritrarsi di scatto, spaventato, terrorizzato.
In pochi secondi l’agitazione si propagò ai suoi vicini, a macchia d’olio, finché tutti i Demo presenti nel vagone non si precipitarono contro l’angolo diametralmente opposto all’ingresso, accompagnati dal rumore metallico delle catene che li tenevano legati.
Noir si sedette contro la parete di coda, con lo sguardo perso oltre i Demo ammassati, la parete dietro di loro e la locomotiva ancora più in là, invisibile al suo sguardo. Non c’era più spazio per lui sulle Terre, doveva lasciarle inevitabilmente.
Il trentenne si spostò leggermente, cercando una posizione più comoda. Quel piccolo gesto fece partire dalla piccola folla al lato opposto della carrozza una cacofonia di grida, mentre i loro corpi ricoperti dal corto pellame si addossavano ancor di più alla parete, tendendo le catene al massimo della loro estensione.
L’uomo nascose il volto tra le mani, sconsolato.
Perfino gli esseri più innaturali presenti sulle Terre lo temevano.

Il treno corse sul suo metallico tracciato per altre quindici ore.
Il sole era basso sull’orizzonte e il suo riflesso rossastro illuminava il piattume indisturbato del mare.
Noir balzò fuori dalla carrozza non appena il treno ebbe rallentato a sufficienza, rotolando sull’erba secca che ricopriva il duro terreno.
L’aria, tutto intorno, era pregna dell’odore di salsedine e pesce e, in lontananza, si potevano riconoscere le voci tonanti dei pescatori di ritorno dalle battute di pesca giornaliere.
Seguendo le rotaie per pochi chilometri verso nord, si potevano riconoscere le mura protettive della città di Derout, la più antica della zona. Il suo centro storico, in buona parte, risaliva ai tempi del Cambiamento e i banchi di pesci che passavano spesso poco distante dai suoi moli garantivano l’agiatezza a chiunque avesse voluto investire nel commercio del pesce.
Noir Ispirò un’ultima volta l’odore di mare che lo circondava, così simile a quello che aleggiava nell’Oasi in cui era nato, per poi partire a piedi in direzione della città marittima.



Angolo dell'Autore

Come promesso, rieccomi qui.
Noir, così pericoloso da poter uccidere una dozzina di uomini da disarmato, così terribile da spaventare dei Demo, certo, Demo schiavi, ma non per questo meno discendenti dai demoni del Re. Il suo potere, però, è molto particolare, diverso da qualunque cosa io vi abbia già mostrato in questo nostro lungo viaggio. Ora la domanda è: qual è la fonte del suo potere?
Ci daremo una risposta, prima o poi.
Per ora, però, devo ringraziare OldKey, la ragazza imperfetta e whitesky per le loro meravigliose recensioni, per poi passare a ringraziare tutti voi. Non mi stancherò mai di dirlo, se non ci foste voi a leggermi, non avrei mai scritto tutti questi capitoli.
Alla settimana prossima!
Vago

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Capitolo 8
*** Capitolo 3.5: Cosa sto seguendo? ***


Un uomo dai ricci capelli biondi misurò a passi lunghi la distanza tra gli imponenti tronchi. Il completo color corteccia lo rendeva quasi invisibile nella luce mattutina.
L’uomo si passò una mano sul volto, sul tatuaggio romboidale che solcava la guancia, e rivelando tra i capelli una ciocca scura, nera come il carbone.
Davanti a lui, a guidarlo, una guardia cittadina sfrecciava spedita sotto il poco peso della corazza in cuoio che portava sul petto.

Detesto dover cambiare il corpo di sicurezza. Quello nuovo da sempre un prurito sotto la pelle.
Ma non potevo nemmeno continuare ad usare quell’elfo, dopo settant’anni che in giro si vede sempre lo stesso individuo senza una ruga in più, anche i più tardi cominciano a farsi domande.

Gli occhi verdi incorniciati dalla pelle ambrata si posarono a terra, quando la schiena che li precedeva si fermò bruscamente.
- … Quindi, secondo lei, è possibile che al tribunale ci siano posti vacanti? – terminò la sua frase la guardia, voltandosi verso l’uomo che lo seguiva.
- Si, certo. Tutto è possibile. È questo il posto? –
- Come? –

Ti prego, è l’alba, non essere così dannatamente stordito.

- Il corpo, è qui? –
- Oh, sì, certo! Il corpo è dietro quell’albero. -

Grazie!

L’uomo si diresse nella direzione indicatagli, percorrendo il perimetro del grosso tronco che gli ostacolava la strada per raggiungere la cosa nascosta sotto una spessa coperta dalla parte opposta.
Tre guardie dai volti più anziani di quella che lo aveva scortato fin lì controllavano che nessuno dei pochi curiosi rimasti potesse avvicinarsi alla coperta.
L’uomo biondo estrasse dalla tasca interna della giacca un documento piegato, vergato su carta pregiata, mostrandolo ai tre uomini senza dire una parola. Così, nel medesimo silenzio, varcò il perimetro che avevano creato, per andare ad inginocchiarsi accanto alla protuberanza celata alla vista.
Con mani salde prese gli angoli superiori della coperta, ripiegandoli verso il fondo, in modo da mostrare cosa si nascondesse sotto di questi.
Davanti alle iridi brillanti comparve un viso cadaverico dagli occhi sbarrati di terrore. Le pupille del morto erano strette come aghi, nonostante non un singolo raggio di sole li riuscisse a raggiungere.
Sul petto della salma, all’altezza del cuore, uno squarcio carbonizzato si apriva tra le sue carni.
Accanto al petto, integra, riposava una valigia in pelle aperta, con i documenti che conteneva accuratamente riposti al suo interno.

Quella documentazione non mi interessa. Ho letto il rapporto sul contenuto di quella borsa e non mi servirà a nulla rovistarci di nuovo.
I referti medici che mi hanno lasciato sono abbastanza chiari… Ma sono stati redatti dai mortali, quindi è meglio che ricontrolli tutto.

L’uomo posò il proprio pollice sulle labbra esangui del cadavere disteso insolitamente composto a terra, sollevando quello superiore in direzione del naso.
Un bianco, sporgente canino fece la sua comparsa nella chiostra di denti.
Il dito dell’ispettore biondo si sollevò, ma il labbro non parve intenzionato a tornare alla propria posizione originale.

Drago. Quasi sicuramente è un drago.
L’altra possibilità sarebbe ammettere che quest’uomo ha speso una fortuna da un buon dentista per farsi impiantare questa roba.
Ora, però, la cosa importante.

L’indice e il medio dell’uomo si fecero strada nella ferita del cadavere, trascinando nella loro discesa scaglie di carne carbonizzata. Toccato il fondo del taglio, l’ispettore ritrasse la mano, pulendo le dita annerite sull’erba su cui si era inginocchiato. Il suo volto si contrasse per una frazione di secondo in un’espressione tra il preoccupato e lo stupito.
- Ci sono problemi? – La voce della giovane guardia che lo aveva scortato fin lì ruppe il silenzio di quella mattina.
L’ispettore biondo si rialzò in piedi, sbattendosi i pantaloni dal terriccio che vi era rimasto attaccato.
- Signore? – ritentò il giovane.
L’uomo dai capelli ricci alzò un dito verso il cielo, intimandogli di fare silenzio.

L’apparato del drago è completamente perforato.
Chi ne può  conoscere così bene la posizione?
Un drago, o un medico.
C’è una sola ferita… un colpo rapido e preciso.
Intanto, un po’ di anatomia dei draghi. Sia in forma umana che da rettile, i draghi posseggono un organo cavo accanto al loro cuore. Lo scopo di questa sacca è quella di produrre e conservare una secrezione estremamente infiammabile se esposta all’aria. Le fiamme che possono eruttare non sono altro che la vaporizzazione di questa secrezione nel loro fiato. Ed è anche per questo che ho sempre mirato a questa sacca, quando ho dovuto uccidere dei draghi. La fiammata che ne scaturisce uccide il drago senza possibilità di errore.
Come è successo qui, del resto.
Ha le pupille strette. Deve essere stato messo davanti a una forte fonte di luce. Più forte di una lampada ad olio.
È morto di notte, non ci sono dubbi, quindi, cosa può aver prodotto un lampo così accecante? Non ci sono segni di uno sparo…
Mi manca qualcosa.
Qualcosa scappa alla mia comprensione.
E la Trama non accenna a volermi aiutare, qui si sono intrecciati troppi destini perché io possa, nel mio stato attuale, leggere cosa è avvenuto.
Mi mancano i bei vecchi tempi.
Ricapitoliamo quello che so per certo.
Un drago è stato ucciso.
Draghicidio.
Un solo colpo da arma da taglio all’apparato del drago.
Qualcuno che sa cosa sta facendo.
Zona poco frequentata.
Premeditazione?
Possibile.
Non ha rubato nulla.

L’uomo biondo fece alcuni passi, con gli occhi persi verso un punto lontano.

Una volta che ha portato a termine il draghicidio, cosa ha fatto?
Se ne è andato, ma non lontano, era notte.
Drago, umano o elfo?
In ogni caso con le tenebre non sarebbe riuscito ad andare lontano.
È salito verso Gerala.
Mi sto avvicinando a qualcosa.
Da dove è salito?

- Tu. – disse l’ispettore voltandosi di scatto nel suo completo marrone e indicando con l’indice affusolato la giovane guardia che lo osservava – Il montacarichi più vicino per Gerala, qual è? –
Il giovane rimase ancora per un attimo in silenzio con gli occhi che saettavano da destra a sinistra e la bocca leggermente aperta, nonostante non ne uscisse nessun suono.
- Il montacarichi del quartiere medico. – fu la risposta di una delle guardie poste a controllare la salma. – Dovrebbe essere a cinque minuti in quella direzione. –
- Ottimo. – disse l’ispettore biondo incamminandosi nella direzione indicatagli – Potete portare via il corpo, oramai non ha più nulla da dire. –

Il montacarichi del quartiere medico.
È davvero così vicino quell’affare?
Non sono abituato a muovermi a piedi.
Eccolo lì davanti, cinque minuti, più o meno.
Una volta salito deve aver cercato un riparo per la notte… in uno dei quartieri vicini. Non tutti sono così fortunati da avere una sorella persa da anni con una casa in quel quartiere, no?

L’uomo passò il palmo della sua mano lungo il corrimano del montacarichi.

Niente.
Non ha lasciato uno straccio di prova che mi possa dire con cosa ho a che fare.
Qui a Gerala non ho ancora finito.
Il marmocchio?
Non c’è, ottimo, così farò prima.

I ricci biondi scomparvero, seguiti dal corpo e gli eleganti abiti sottostanti.
Un nero corvo si levò verso il cielo, sbattendo un paio di volte le ali per prendere quota, superare i ponteggi più bassi della città e raggiungere lo strato intermedio, colmo di gente che ne affollava le vie sospese.


L’uomo biondo raggiunse l’ingresso della costruzione incenerita a passo svelto, mostrando alla guardie poste davanti a questa la sua documentazione.
Sopra il suo capo, foglie imbrunite sventolavano sotto la leggere brezza. Sotto le sue suole, le assi della piazzetta sulla quale l’abitazione si affacciava erano state intaccate dal fuoco, prima che l’incendio fosse domato.
L’ispettore si fece strada nel corridoio d’ingresso appena riconoscibile, guardandosi intorno.

L’incendio è partito dalla stanza di sinistra, quindi dovrò cominciare dalle cucine, a destra.

L’uomo smosse i rimasugli della porta carbonizzata.
Davanti ai suoi occhi chiari, si presentarono quindici corpi completamente carbonizzati, sdraiati l’uno accanto all’altro come se qualcuno li avesse posti così di proposito.
L’ispettore si chinò su ognuno di loro.

Non un solo drago.
E, tra l’altro, sono stati tutti strangolati.
Questo non ha senso.
Chi sono?
Camerieri e cuochi.
La dichiarazione del proprietario del ristorante parlava di tre cuochi e tredici camerieri… mi manca un corpo. La stanza era prenotata per quaranta persone… sarà una lunga mattinata.

L’uomo riccio uscì dalla cucina, per dirigersi verso quel poco che rimaneva della sala da pranzo, occupata da pochi rimasugli della mobilia in legno e da decine di cadaveri rinsecchiti e carbonizzati, accartocciati su loro stessi per mimare malamente una posizione seduta.


Finalmente, ho finito.
Quaranta cadaveri, dei quali venticinque erano draghi. Doveva essere stato un matrimonio misto.
Sono tutti morti bruciati… tutti tranne la festeggiata del giorno. Queste, però, non è una ferita lasciata da un coltello, è troppo larga.
Un paletto. In legno, visto che non ne rimane traccia.
Manca un cadavere, un cameriere si è salvato. Un uomo.
Sto facendo passi avanti.
L’assassino si è fatto passare per un cameriere. Potrei risalire al nome che ha lasciato, andando per esclusione dopo aver riconosciuto i cadaveri di là… ma non credo mi sarà di qualche utilità un nome falso.
Si è fatto passare per un cameriere e a notte fonda ha pugnalato la sposa, un drago, nella sua sacca del fuoco. La fiammata provocata è uscita dal petto ed ha innescato l’incendio.
È lui. È il mio assassino.
Ora, però, devo capire come mai tutti gli altri non sono scappati. E i camerieri? I cuochi?
Io sono un assassino, sto lavorando con le vittime. Uccido poco a poco i camerieri, i cuochi sono troppo indaffarati per rendersene conto. Arrivo al termine della sera che ho ucciso tutti i lavoratori. Con i cuochi devo aver lottato, oppure li ho attirati uno dopo l’altro in un'altra stanza, per poi ucciderli man mano.
Ho poi messo i cadaveri in un’unica stanza, prima di uccidere il mio obiettivo.
Perché?
Perché non potevo accatastare quei quindici morti in un angolo?
Perché sono innocenti, forse. Perché non sarebbero morti, se non fossero stati qui.
Mi dirigo verso la sposa con un paletto in legno in mano.
Nessuno dei presenti tenta di fermarmi.
Cosa li trattiene?
Sono quaranta persone, non posso legarli tutti senza che se ne rendano conto. E sono tutti vivi.
E la sposa?
Il foro nel suo petto è pulito, non si è dimenata, nonostante lui l’abbia colpita da dietro, non potendo essere sul tavolo.
Li deve aver drogati. Tutti.
Con cosa?
Il cibo.
Ma il cibo, uscito dalla cucina, viene immediatamente preso da dodici vassoi diversi. Non c’è il tempo di drogare tutte le porzioni.

L’uomo si sedette sui propri talloni, guardando il volto irriconoscibilmente sfigurato di quella che doveva essere la sposta, caduta scompostamente a terra.

Come?
Il bere.
Le bottiglie sono facilmente accessibili.
Potrebbe funzionare come modello.
Ora le domande fondamentali si riducono a una sola. Cosa sto seguendo?

- Il signor Vander? - Un uomo in tenuta elegante comparve da dietro il muro annerito che separava la sala da pranzo dall’ingresso, ma subito scomparve, alla vista delle salme.
L’uomo alzò  lo sguardo in direzione della voce, riemergendo dal mare di riflessioni in cui era affogato.
- Arrivo. –

Che nome terribile che mi hanno affibbiato, anzi, cognome. Questa forma, evidentemente, non ha nemmeno un nome.
Vander… comunque meglio di quel Comvia che mi era uscito sui Muraglia, quella volta.
Bah, che brutti ricordi.

L’ispettore si rialzò dalla cenere, dirigendosi verso l’impiegato che lo aveva chiamato.
- Cosa c’è? – chiese seccamente l’uomo biondo, non appena l’elfo che lo aveva cercato entrò nel suo campo visivo.
Era giovane, magro, le orecchie a punte erano quasi interamente celate dai capelli lisci lunghi una spanna. Gli abiti che portava indosso non lasciavano dubbi sul fatto che lavorasse in un ufficio governativo.
In mano, stretto tra le dita, teneva una busta di carta sigillata, sulla quale svettava il sigillo del Giudice Maggiore.

Cos’altro hanno trovato…

- Mi manda l’ufficio del Giudice Maggiore Fenter… ho dei documenti per lei. –
L’elfo porse con uno scatto delle braccia la busta, abbassando lo sguardo verso terra.

Non ho dimenticato di nuovo qualcosa, vero?
Due occhi, una bocca, un naso, due orecchie, i capelli.
Gli occhi sono dello stesso coloro? Spero di si.
Non credo di essermi dimenticato qualche piuma della mia forma da corvo.
Devono essere quei cadaveri a fargli questo effetto.

L’ispettore prese i fogli con un gesto elegante.
- Puoi andare. –
L’elfo non se lo fece ripetere due volte, voltandosi e correndo oltre l’uscio, quasi scappando da quel ristorante carbonizzato.

Vediamo cos’altro hanno per me…

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Capitolo 9
*** Capitolo 4: Come un ratto ***


Noir rallentò il passo quando le mura di Derout cominciarono a gettare la loro ombra su di lui.
Era tardo pomeriggio e già il sole cominciava a riflettersi distintamente sulla superficie del mare alla sua sinistra.
Due ore, poi sarebbe calata la notte, si disse.
La città marittima aveva solamente tre ingressi, da quel che aveva sentito, più il porto che dava sul mare occidentale. In una situazione normale, il trentenne avrebbe evitato una trappola mortale come quella in ogni maniera, ma la sua non poteva definirsi tale.
Erano pochi gli scali che potevano vantare partenze verso il continente e quello di Derout era sicuramente il più accessibile.
Una nave alla settimana e due durante l’autunno, quando venivano spediti oltremare i raccolti dei contadini. Quella era la normale tabella di marcia che utilizzavano quella città e i suoi capitani.
Doveva riuscire a salire sulla prima possibile senza farsi riconoscere, in quel caso niente lo avrebbe potuto salvare dalle guardie cittadine.
Noir prese un po’ di terra sul palmo, sporcandosi ulteriormente la faccia per coprire ancor più i suoi tratti, poi riprese a camminare in direzione dell’ingresso meridionale, dal quale gli ultimi carri mercantili stavano lentamente accedendo alle strade cittadine.
Tre guardie erano state messe lì a sorvegliare quell'ingresso. I loro volti bruciati dal sole erano un segno più che sufficiente che avevano perso da un bel pezzo la voglia di proteggersi nella guardiola dai raggi roventi di mezzogiorno.
Sicuramente sapevano fare il loro lavoro.
Noir maledisse tutti gli dei, per poi chinare il capo e proseguire in direzione di quell’ingresso.
Le sue numerose fughe gli avevano insegnato una cosa, il cappuccio calato sul capo non faceva altro che aumentare i sospetti nei tuoi confronti. Per questo camminò a viso scoperto contro la prima guardia che gli si presentò.
Se non avesse fatto domande, sarebbe potuto passare indisturbato.
L’uomo in armatura alzò il braccio.
- Fermo. –
Il trentenne maledisse nuovamente gli dei.
- Salve… - provò a rispondere, alzando appena la fronte per poter guardare negli occhi la guardia senza rivelare troppo del suo volto.
- Motivo del suo arrivo? –
- Io… io vorrei imbarcarmi per il continente. – balbettò Noir, cercando malamente di sorridere.
- Non sembri in grado di poterti permettere un biglietto. – constatò l’uomo – I mendicanti non sono beneaccetti. –
Il braccio della guardia si fece più avanti, come per far indietreggiare il vagabondo di qualche passo.
- No! No! – esclamò vivamente risentito il trentenne, passandosi una mano sul viso per togliere l’evidentemente troppo terriccio che si era spalmato – Ho i soldi! Sono mesi che li sto mettendo da parte! –
La sua mano corse al borsello legato alla cintura, slacciandolo dal suo supporto per mostrare alla guardia il suo contenuto, composto da diverse Laire d’oro ammucchiate malamente le une sulle altre e intervallate dallo scintillio di quelle in argento.
- Oh, mi scusi, allora. –
Noir sorrise involontariamente, cercando poi di trasformare quell’espressione compiaciuta in una più simile alla gratitudine.
L’imbarazzo della guardia le avrebbe fatto prestare meno attenzione all’uomo che aveva davanti.
- Si figuri, lei sta facendo solo il suo lavoro e, in fondo, il viaggio non è stato clemente con me. Sa, tra la pioggia e tutto il resto… -
- Certo, certo. Vada, forza. E si goda il suo viaggio. –
- Grazie! –
Noir tornò ad incamminarsi verso nord.
Quella che doveva essere stata la guardia con il grado più alto gli aveva dato il suo benestare, le altre due non avrebbero dovuto opporre resistenza al suo passaggio.
Lo stavano però fissando?
Si, lo stavano fissando.
Noir abbassò il capo, lottando contro le sue gambe che tentavano di accelerare il passo.
Stavano valutando che tipo di mendicante era riuscito a passare il controllo del loro superiore? Oppure lo avevano riconosciuto?
Il suo cuore aumentò i battiti, Una goccia di sudore si scavò un solco tra lo sporco che infestava la sua fronte.
Doveva far deviare la loro attenzione da lui.
All’interno delle mura un mugolato si levò al cielo.
Un Demo stava trainando un’enorme carro coperto a quattro ruote, che cigolavano ad ogni quarto di giro. Su di questo, seduto su un panchettino in legno, il suo proprietario stringeva una frusta sporca di sangue tra le mani, pronto a incentivare l’essere davanti a lui al primo accenno di rallentamento.
Noir alzò lo sguardo di scatto, puntando le sue iridi nere sul corpo ricoperto da corto pelo del Demo. Cercò di caricare quello sguardo con tutto l’odio di cui era capace, immaginando di riversare su quella povera creatura ogni frustrazione che aveva accumulato.
L’essere dalla pelliccia scura alzò il suo muso animalesco, fiutando con il naso schiacciato l’aria intorno a sé e scrutando i dintorni con i suoi piccoli occhi infossati.
Non appena il suo sguardo disperatamente rassegnato incrociò quello duro del trentenne, il Demo si scrollò vigorosamente, graffiando con gli artigli aguzzi l’imbragatura che lo teneva legato al carro, tentando di liberarsi. I suoi versi terrorizzati riempirono l’aria, sovrastando il vociare della folla che lì intorno si stava ammassando e le urla del suo padrone che, cercando di non venire scalzato dalla sua posizione, tentava di riportare alla quiete la creatura imbizzarrita.
Appena il carro cominciò ad ondeggiare, tanta era la foga con cui il Demo si scrollava, le tre guardie poste all’ingresso dovettero accorrere per quantomeno cercare di allontanare i curiosi che, incuranti del pericolo in cui potevano incorrere, si avvicinavano, cercando una migliore visuale per godersi lo spettacolo.
Noir oltrepassò l’ampio arco, tenendosi il più possibile lontano dalla folla in crescita.
Era salvo, era riuscito a passare prima che le guardie lo riconoscessero.
Non si sarebbe fermato in nessuna locanda per la notte, decise, doveva andare al molo per programmare la sua mossa successiva.
I raggi del sole non riuscirono più a superare le alte mura di cinta e la sua rossa luce morente illuminava appena il molo attraverso l’apertura creata appositamente per lasciar uscire le navi. Tutte le vie della città erano invece rischiarate dai lumi ardenti posti sui muri delle case che le descrivevano.
Gli ultimi lavoratori stavano rincasando e il trascinio dei loro piedi sembrava rimbombare tra le vie vuote.
Le prime prostitute si affacciavano quasi timidamente dalle loro case, valutando i lontani echi delle locande per decidere se era già giunta la loro ora.
L’odore di salsedine, legno e scarti di pesce aleggiava nell’aria come ne dovesse essere parte integrante.
Noir proseguì spedito, rimanendo sempre ben lontano dalle finestre illuminate e dai pochi passanti che incontrava.
Il porto, quello era il suo obiettivo.
Le barche, dai più piccoli pescherecci alle trialbero, ondeggiavano placidamente all’alzarsi della mare, con solamente le ancora e le poche funi che si opponevano alla loro spinta verso il mare aperto.
Le sartie cadevano flosce là dove sarebbero dovute ricadere le vele una volta spiegate.
La banchina era deserta, così come i moli in legno che si protendevano come le dita di una mano verso occidente.
Un tabellone scritto da una mano incerta era stato inchiodato malamente alla parete del laboratorio di un carpentiere. Sopra di questo, appena leggibili sotto uno spesso strato di sale e sporcizia, erano state annotate le informazioni basilari per le partenze e gli sbarchi.
Per ulteriori informazioni, rivolgersi alla biglietteria. Così quasi ogni riga terminava, cercando di dare una spiegazione alle poche informazioni che riportava.
La partenza più prossima per il continente era prevista tra due giorni. L’”Ala di Albatros”, questo era il nome della nave che sarebbe dovuta salpare.
Il trentenne si passò una mano tra i capelli mentre i suoi pensieri correvano rapidi, saltando da una possibilità all’altra senza sosta.
Non poteva rischiare di farsi arruolare tra la ciurma. Anche avessero trovato un posto da mozzo per lui, sarebbe rimasto troppo esposto e qualcuno lo avrebbe riconosciuto.
Non poteva nemmeno salirvici sopra come passeggero.
Si sarebbe dovuto intrufolare all’interno della stiva, nascondendosi tra le provviste. Quella era la sua unica possibilità per lasciare le Terre da vivo.
Percorse il pontile per tutta la sua lunghezza, scrutando i fianchi scuri delle navi in cerca del nome che le identificava.
Doveva sapere qual era quella giusta.
La trovò ormeggiata accanto a un veliero ancor più maestoso, che gettava la sua scura ombra sul nome consumato dell’Ala di Albatros.
Tre corpulenti marinai erano impegnati in una partita a dadi a lume di lampada là dove la passerella toccava le assi del molo, altre quattro luci si muovevano ondeggiati più in alto, oltre il parapetto.
Diversi sacchi di provviste erano stati appoggiati accanto ai pilotti attorno ai quali erano state legate le cime di ormeggio.
Noir appoggiò la sua schiena contro il muro di un’abitazione dalla parte opposta della banchina, valutando le dimensioni di quei sacchi e l’attenzione che i marinai posti di guardia ci prestavano.
Forse, attirando la loro attenzione dalla parte opposta della chiglia, avrebbe potuto raggiungere quelle provviste, ma dubitava che il loro contenitore fosse stato grande a sufficienza per ospitare il suo corpo senza farne trasparire le fattezze.
Doveva cambiare strategia.
Con un colpo di spalle si allontanò dal muro, tornando sui suoi passi prese a studiare il lato in ombra della trialbero, quello separato solo da pochi metri dalla più imponente “Punta di Lancia”.
Da un piccolo foro circolare scendeva la catena assediata dai gusci di decine di molluschi, da qualche parte, sotto la superficie dell’acqua, si sarebbe legata all’ancora calata.
A metà strada tra il parapetto e il profilo delle basse onde alzate dalla marea, una fila di finestrelle chiuse tradivano la presenza dei cannoni, posti per fronteggiare l’eventualità di un attacco di una delle navi pirata che ultimamente affollavano il mare a meridione del Gorgo del Leviatano.
Una di queste non era troppo distante dalla catena dell’ancora, avrebbe potuto usarla per intrufolarsi all’interno della stiva, sperando che nessuno fosse stato posto là per controllarla.
Aveva ventiquattr’ore per organizzarsi. La nave sarebbe salpata di prima mattina, la notte successiva era il momento di agire.
Noir ripercorse nuovamente la banchina, lasciandosi alle spalle il tabellone delle partenze e l’odore di mare.
Non si fidava ad affidare le sue ultime ore di notte a una locanda o un ostello. Doveva evitare qualsiasi luogo affollato.
Si rannicchiò al termine di un vicolo cieco, circondato dall’odore dei liquami versati nel canale centrale e dallo squittio dei topi, intenti a cercare riparo dalle grinfie di un magro gatto spellicciato  che si aggirava famelico davanti ai buchi delle loro tane.
Il trentenne si strinse nel mantello consumato in cerca di riparo dalla frescura notturna. Le sue mani, intanto, corsero allo zaino, estraendone un pezzo di pane stantio, che fissò sconsolato.
Si portò alla bocca la triste cena, facendo cadere diverse decine di briciole dure sui suoi abiti.
Un miagolio sommesso attirò la sua attenzione, seguito da un sibilo.
Il gatto randagio puntava con il naso graffiato un buco nella parete dal quale uscivano un paio di chicchi di grano mordicchiati.
Noir strappò un pezzo della sua pagnotta, dando origine a una nuova cascata di briciole, per poi lanciare il pezzo al felino che gli si avvicinò diffidente, per poi stringerlo tra i denti e raggiungere i cornicioni con un paio di salti, giunto lì, poi, scomparve dalla vista dell’uomo, che tornò a mangiare in solitario silenzio.
La luce del sole raggiunse il suo volto infreddolito solo a mattina inoltrata, quando l’astro fu sufficientemente alto da far superare le mura di cinta ai suoi raggi.
Il trentenne si alzò da terra, scrollandosi di dosso la melma che si era aggrappata al suo mantello, per riprendere la via del porto.
Aveva bisogno della luce del sole per verificare un’ultima cosa, prima di tentare la sorte.
Deviò il suo cammino solo quando questo incrociò quello di quattro donne che, parlottando tra loro, portavano in braccio otri colmi d’acqua.
Il pozzo non si fece trovare molto distante.
Era stato costruito al centro di una piazzetta stretta, rinchiusa tra le case a tre piani che sembravano voler imprigionare il cielo terso.
Le mani di Noir si immersero nel liquido cristallino contenuto nel secchio che tirò su dal fondo, portandolo al volto e ai capelli.
Una cascata d’acqua marrone ricadde sul selciato, inzaccherandogli le scarpe, ma questo non fu sufficiente per farlo desistere da portarne una seconda manata al volto, per eliminare le ultime tracce della notte.
Con i capelli ancora grondanti e le gocce fresche che, correndo sul suo collo, si infiltravano sotto la spessa camicia sporca, il trentenne riprese a camminare verso il mare con sguardo deciso.
Dei pescherecci che avevano affollato i moli la notte precedente non vi era traccia, se non per le macchie scure che, di tanto in tanto, parevano comparire sull’orizzonte.
Solo i velieri erano rimasti ad occupare i ponteggi, immensi al punto che le loro ombre oscuravano le onde per un buon tratto di mare.
Attorno all’Ala di Albatros ronzavano decine di uomini, intenti a caricare i sacchi rimasti all’aperto la sera prima e diverse centinaia di metri di corde e assi scure.
Di tanto in tanto, un’imprecazione colorita rivolta agli dei o alla famiglia di qualche poveraccio troppo lento nel suo lavoro riempiva l’aria, seguita quando da una risata di gruppo, quando da un’imprecazione ancor più forte e colorita.
Noir si tenne il più possibile lontano da quel movimento di persone, cercando di studiare la catena dell’ancora in modo da non destar sospetti.
Gli anelli erano lunghi quanto il suo avambraccio e larghi la metà, con un po’ di attenzione poteva scalarli, decise.
La sua attenzione quindi passò sulle appuntite conchiglie che costellavano il ferro.
La sua maledizione avrebbe protetto le sue mani e i suoi piedi dai taglia che quelle potevano causare, ma avrebbe dovuto far attenzione ai suoi vestiti, non avevano bisogno di altri strappi nel loro tessuto.
Un gruppo vociferante di giovani gli passò accanto, senza dargli troppa attenzione. Dimostravano venti, venticinque anni, forse il più vecchio di loro ne aveva una trentina, tutti loro, però condividevano una pelle solo blandamente abbronzata. Probabilmente erano tutti cittadini in cerca della buona paga che offrivano sulle navi.
Il più vecchio tra di loro proruppe in una risata allegra in risposta ad una battuta scadente. Era insolitamente magro per un aspirante marinaio, ma i suoi muscoli erano ben definiti là dove terminavano le maniche arrotolate sopra i gomiti e i pantaloni tagliati all’altezza del ginocchio. Sul polpaccio destro, era ben visibile il segno di un ustione, che gli aveva deturpato buona parte della pelle. I suoi occhi scuri, due sfere di ossidiana incastonate su quel volto, si posarono un attimo su Noir, che si ritrasse a quello sguardo, per poi tornare sulla sua compagnia.
Una pacca sonante calò con forza sulla spalla dell’uomo dagli occhi neri, che si voltò divertito verso il ventenne decisamente più muscoloso di lui che l’aveva sferrata, tornando a ridere più forte di prima.
Il trentenne indietreggio lentamente, chiedendosi da quanti uomini potesse essere composta la ciurma di quella nave. Fossero stati troppi, non ci sarebbe stato un solo buco sicuro per lui.

Il mare tornò a tingersi del rosso del sole morente.
A est, poco sopra il limitare delle mura, una pallida luna crescente tentava di distinguersi dal cielo che si stava inscurendo.
Coppie di uomini vagavano per le vie con lunghe canne in ferro, con le quali accendevano i lampioni ai lati delle strade.
I pescatori avevano quasi tutti fatto ritorno ed ora arrancavano sotto il peso delle casse di pescato in attesa di essere pulito.
Noir si osò avvicinare all’Ala di Albatros solamente quando la popolazione di quella banchina si fu ridotta ai pochi marinai rimasti a guardia della nave ormai carica.
Il trentenne premette il mantello nel suo zaino, cercando di coprire al meglio il poco contenuto che lo occupava, poi fece scorrere il suo sguardo sull’acqua nera.
Lentamente si lasciò scivolare nell’acqua fredda, cercando di far meno rumore possibile, per poi nuotare verso la catena lasciando solamente la testa sopra la superficie scura.
Dopo essersi assicurato che nessuno, né dal parapetto né dalla banchina, potesse scorgerlo, strinse le proprie dita intorno agli spessi anelli in ferro.
Immediatamente, prima ancora che una piccola imperfezione del metallo potesse graffiare la sua pelle, la melassa nera sgorgò dai suoi palmi, ricoprendogli le mani per proteggerle da qualsiasi cosa provasse a ferirle.
Noir iniziò la sua lenta salita, incastrando la punta delle scarpe fradice nei piccoli interstizi tra un anello e l’altro, per poi issarsi verso il successivo.
Poteva quasi toccare il pannello di legno posto a coprire il buco del cannone quando la suola della sua scarpa scivolò dal suo appiglio, facendogli sbattere violentemente il petto contro la catena.
La melassa si attivò subito, fuoriuscendo copiosa dal suo petto per frapporsi ed attutire la botta, ma non riuscì a coprire per intero il suo busto, non potendo così evitare che una dura conchiglia lasciasse un taglio all’altezza della clavicola.
Il trentenne provò a riprendere il passo, ma la sua scarpa sinistra pareva non voler lasciare l’appiglio in cui si era incastrata. Fu così che, a malincuore, dovette far scivolare fuori il piede per poter proseguire, vedendo poco tempo dopo la scarpa floscia ricadere nelle acque sotto di lui.
Riprese a salire. Il piede destro protetto dalla spessa suola della scarpa rimasta, quello sinistro e le mani avvolte dalla melassa nera, indurita abbastanza da proteggerli ma non troppo da impedirgli i movimenti.
Allungandosi verso le assi della fiancata, riuscì con la punta delle dita a sollevare la tavola di legno. In quello stesso momento le poche bende che ancora gli fasciavano la schiena si strapparono, cadendo mollemente intorno alla sua vita.
Noir sospirò, spostandosi con un corto salto dalla catena al buco ora scoperto.
L’interno della stiva era silenzioso.
I dieci cannoni, cinque per fianco, riposavano legati al centro della sala.
A sinistra, verso la prua appuntita, una scala saliva verso il ponte principale.
A destra, verso poppa, una scaletta a pioli scendeva verso la chiglia.
All’esterno si levarono diverse urla.
Il trentenne si affacciò appena al buco dal quale era entrato per vedere cosa avesse causato quel caos, prima di chiudersi alle spalle la tavola.
La periferia settentrionale della città era rischiarata dal rossore di un fuoco. Un incendio, forse.
Poi lasciò ricadere la tavola per farla tornare nella sua posizione originaria, per dirigersi verso la scala a pioli.
Nel piano sottostante, erano state ammucchiati decine di sacchi, barili e casse, in buona parte contenenti cibarie, ma non erano state disdegnate pelli, tessuti e ornamenti dal poco valore.
Noir prese un paio di arance da un barile, per poi rannicchiarsi dietro una muraglia di sacchi ricolmi di farina chiara.
Non era meglio dei ratti di quel vicolo, si disse, cominciando a sbucciare il frutto che teneva in mano.

La maschera demoniaca guardò per un’ultima volta il corpo riverso a terra, illuminato appena dai raggi del sole calante.
Il suo sorriso tagliente, una mezzaluna nera, pareva ancora più terribile con quella poca luce, così quei suoi occhi, due strette v rovesciate che non permettevano di vedere le pupille sottostanti.
La sua mano guantata lasciò il paletto in legno un attimo prima che questo venisse avvolto da fiamme scoppiettanti.
L’assassino prese velocemente il cadavere per i lunghi capelli, sollevando quella che fu una fanciulla non ancora maggiorenne quel tanto che gli bastava per scaraventarla contro la parete accanto.
Il fuoco che le scaturiva dai seni appena accennati cominciò a lambire la calce e il legno del muro sulla quale era stata gettata, risalendo lungo i suoi vestiti ed avvolgendola.
L’essere dal volto demoniaco si allontanò rapidamente, sfilandosi la maschera solo quando due vie lo separavano dall’incendio che stava nascendo.
Quegli occhi socchiusi e la bocca ghignante vennero fagocitati dal suo zaino, mentre l’uomo si allontanava ora tranquillamente per le vie non ancora illuminate dalla luce dei lampioni, puntando in direzione della locanda in cui aveva prenotato una stanza.



Angolo dell'Autore

Ciao a tutti.
Grazie per essere arrivati fin qui, come al solito un enorme grazie a OldKey, la ragazza imperfetta e whitesky che investono un po' del loro tempo per farmi sapere cosa pensano del capitolo.
Passiamo al capitolo.
Non so se sia stata colpa della sessione di Dungeon and Dragons che sto ultimando o di qualcos'altro, ma questo capitolo è nato così. Ho descritto, ho riempito pagine di descrizioni di Derout concentrando in una manciata di righe qualsiasi azione possa avvenire. Spero vi sia piaciuta come soluzione, per quanto possa essere non completamente volontaria.
In ogni caso, alla prossima.
Vago

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Capitolo 10
*** Capitolo 4.5: Bestia o uomo? ***


Un corvo dal piumaggio color pece atterrò su di una piccola spiaggetta di sabbia di deposito sulle sponde del grande lago.
Dopo pochi, rapidi scatti della testa, la sua forma cominciò a crescere, assumendo una forma antropomorfa dalla riccia zazzera bionda. Le sue piume parvero schiarirsi, divenire marroni e cucirsi le une con le altre per formare un abito elegante.
L’ispettore guardò in silenzio la superficie del lago ed il campanile che da questo fuoriusciva.

Poveracci i nani.
Certo, avrebbero potuto ascoltare le mie parola quando mi presentai loro come un eminente scienziato, dicendogli che non potevano scavare a quel ritmo…
Quanti saranno i morti, là sotto?
Decisamente parecchi.
Comunque, sono rimasti tardi fino alla fine. Re Vroyer, all’epoca, non era altro che l’archetipo perfetto del nano cocciuto.
Non hanno capito fino alla fine che, tra lo scavare il cuore roccioso di una montagna e la terra al di sotto di una pianura, sulla quale scorre un fiume, tra l’altro, c’è una leggera differenza geologica.
In effetti, probabilmente, neanche quando il mondo gli è collassato sulla terra avranno capito perché è successo.
Benedetta ignoranza.
Più che altro mi spiace per quel che c’era sopra di loro.
Certo, decine di villaggi erano disabitati, ma alcuni erano ancora popolati. Zadrow per primo, ma non solo.
Vabbè, spero almeno che i pochi sopravvissuti di quella razza testarda abbiano imparato la lezione e non ricomincino a giocare a fare le talpe che so… sotto la Grande Vivente.

- Chi è lei? –
L’ispettore si voltò in direzione della voce.
Un uomo in abiti scuri lo stava guardando da un paio di metri di distanza, in attesa di una risposta.
Un dipendente del Giudice Maggiore, probabilmente.
L’uomo biondo estrasse i fogli dalla tasca interna della giacca, alzandoli nella sua direzione.

È di una scomodità infinita doverseli portare dietro. Per fortuna sono riuscito a ricavare un simpatico spazio vuoto al posto dello stomaco della mia forma da corvo, così non sono costretto a portarmi dietro un borsello mentre volo.

- Mi ha mandato il Giudice Maggiore Fenter per indagare sulle morti che qui sono avvenute. –
L’ispettore estrasse anche la lettera che aveva ricevuto a Gerala. Una comune comunicazione che lo informava di un massacro avvenuto in un tempio.
- Ci era giunta notizia del suo arrivo, ma non pensavamo facesse così in fretta. –
- Non importa. Mi può portare sul luogo? –
- Certamente, mi segua. –

Ovviamente sapevo di quale tempio si stava parlando, li conoscevo tutti quelli esistenti, posizione, numero di sacerdoti e fedeli.
Non è però così brutto far credere ai mortali di poter essere utili in qualcosa.
È strano, però. Da quanto mi risulta non uno dei sacerdoti era un drago, qui. Che ne stessero ospitando uno e anche loro, come i cuochi e i camerieri a Gerala, ci siano andati di mezzo?
Devo togliermi diversi dubbi.

Il tempio sembrava decisamente fuori luogo, in quel posto isolato, come se l'intera piana dovesse essere sua, della piccola recinzione che lo circondava e di quell'orto decisamente ben curato, senza che nessun altro potesse rivendicarne la proprietà.
- Se vuole entrare. – disse l’uomo facendosi da parte davanti all’ingresso – Spero abbia lo stomaco forte. –
- Lo stomaco sicuramente non è il mio problema. – gli rispose l’ispettore biondo, portandosi una mano al ventre – Prima però voglio controllare qui all’esterno. -

Beh, ultimamente non me lo posso nemmeno più permettere uno stomaco. Tra lo spazio per i documenti nella forma di corvo e la posizione della mia ferita in quelle antropomorfe, una sacca piena di acidi gastrici è l’ultima cosa che mi interessa possedere.

L’uomo in abito marrone seguì il profilo esterno del muro, valutando il terreno ancora fangoso dall’acquazzone che gli si era abbattuto sopra.
Quando raggiunse la piccola tettoia di legno, si fermò qualche secondo a controllare gli anelli in ferro lì presenti e il terreno sotto di questi.

Ci sono dei buchi, qui sotto. È possibile che un cavallo sia stato legato qui, quando è arrivato l’acquazzone.
Questi sacerdoti devono aver accolto qualcuno per la notte.
Il drago?
Sarebbe strano, il tempio, da quanto so, è costruito in legno e muratura, con la fiammata di ritorno dell’Apparato del Drago sarebbe dovuto diventare un’enorme fiaccola in onore di Aria.
È inutile restare qui fuori, la pioggia ha eliminato qualsiasi cosa potesse essermi utile.

L’ispettore tornò sui suoi passi, salendo i pochi gradini che lo separavano dal portone per poi schiuderlo con una leggera spinta.
Nove corpi occupavano il pavimento, accavallati gli uni sugli altri, caduti scompostamente nel loro stesso sangue.
Le pareti, ricoperte da lunghe tavole in legno, erano macchiate da lunghi schizzi di rossa linfa vitale.
L’uomo biondo fece qualche passo nella loro direzione, cercando di distinguere i singoli corpi in quell’ammasso di membra e vesti.
Un crampo addominale, violento e rapido come il passaggio di un fulmine, lasciò boccheggiante l’ispettore. La garza candida che gli cingeva il ventre si sporcò del suo stesso sangue scuro sotto gli abiti eleganti che la celavano.

Cosa è appena successo?
Perché la ferita si è riaperta?
È da quando il demone è stato sconfitto che la ferita che mi ha inflitto non si faceva sentire. Perché ora?
Respira, Viandante.
Riprendi il controllo.

L’ispettore ritornò in posizione eretta sotto gli occhi preoccupati dell’uomo che lo aveva guidato fin lì.
- Signor Vander, sta bene? –
- Certo. – rispose lui passandosi il dorso della mano sulle labbra per pulirle dalla saliva che ne era fuoriuscita - È solo la mia malattia. Avrò bisogno di sei uomini, oltre a lei. E un coltello. –
- Un… coltello, signore? – chiese incerto il dipendente.
- Si, un coltello, o un pugnale se è più facile da recuperare. Stia tranquillo, non voglio ammazzare di nuovo questi poveracci. –
- Si, subito. –
L’uomo nel completo scuro svanì oltre l’uscio in tutta fretta.

Da quando i sottoposti hanno preso a fare domande riguardo a un ordine?
Se voglio il mio maledetto coltello, tu mi porti il maledetto coltello. Se ti chiedo un dannato salame con cui utilizzare il maledetto coltello, tu mi porti il dannato salame in modo che io possa usare il maledetto coltello.
Ora, però, vediamo cosa è successo a questi vecchiacci.
Speriamo che la Trama del Reale qui non sia troppo fitta… Non dovrebbe, essendo questi sacerdoti eremitici.








Questo è insolito.
Probabilmente è colpa mia. È sicuramente colpa mia o della mia ricaduta. Non deve esserci altra soluzione.
La Trama non è per niente fitta, qui. Ci sono solo dieci destini che si intrecciano gli uni con gli altri, le intromissioni sono minime.
Non mi sarei aspettato altro da questi vecchi solitari.
Però, qui… questo è il punto della Trama in cui sono morti.
C’è un buco. C’è un dannato buco nella Trama!
Com’è possibile?
Una situazione del genere si può avere solo nel caso di un intervento divino, o mio.
Solo gli esseri senza un proprio capitolo all’interno del Libro del Fato non lasciano dietro di loro una traccia.
Io non lascio una traccia tra i destini che incontro, il Fato non la lascia, così come non la lasciano tutti quanti gli altri dei… e lei.
Che sia una Loro prova di buona volontà? Che l’abbiano liberata il tempo necessario per fare questo lavoro, solo per dirmi che è viva?
Lo scoprirò tra poco, la sua mano è decisamente riconoscibile.

Sette uomini entrarono nel tempio. In testa, l’impiegato con il pugnale stretto in pugno e il volto trafelato.

Ci voleva molto a portarmi il maledetto coltello?

- Ottimo, ora ascoltatemi attentamente. Controllerò i cadaveri uno a uno, una volta che avrò terminato, vi lascerò la salma da portare all’esterno. –
I sette uomini stettero in silenzio, assimilando gli ordini che gli venivano impartiti.
L’ispettore liberò il primo cadavere dall’abbraccio dei suoi confratelli, quello che rappresentava la vetta della catasta di corpi, l’ultimo ad essere stato ucciso.

Punto uno, drago o umano?

L’indice dell’uomo in completo marrone mosse il labbro superiore del morto, rivelando la chiostra di denti consumati.

Umano.
Mi semplificherò la vita parecchio, trovando degli elfi in questo mucchio. La forma antropomorfa dei draghi non comprende le orecchie a punta.
Punto due, come sei morto?

L’ispettore sollevò il capo del morto, facendogli rotolare via di mano il bastone che gli era rimasto tra le dita fredde.

Foro di ingresso nel cranio largo quanto un dito.
Schizzi sul muro in direzione del corridoio.
Bastone tra le mani.
Si stava difendendo da qualcosa che… stava entrando?
Aspetta, Viandante.
Proiettile?
Sul muro non ce n’è segno.

Il coltello si fece strada nella fronte del sacerdote, scavando tra le sue cervella in cerca di qualcosa di metallico.

Niente, come immaginavo. Non poteva fare un affresco del genere un proiettile rimasto all’interno di un cranio.
Quale arma può essere stata, allora?
I suoi piedi, dove sono?
Qui, non li ho spostati.
Gli altri fori d’ingresso nei suoi confratelli?
Possibile che…
Fai che mi stia sbagliando.

- Voi sette, cambio di programma. Tu, vieni a tenere in piedi questo corpo qui, in questa posizione. Voi altri, con me. –
L’ispettore assegnò ad ognuno dei sette uomini un cadavere da sostenere, cercando di ricreare la loro posizione poco prima di ricevere il colpo fatale.
Solamente due cadaveri rimanevano ora riversi a terra.
- Così può bastarmi. Rimanete immobili. –
L’ispettore girò attorno alla composizione come un felino attorno alla sua preda per diversi secondi, studiando i fori e la loro disposizione.
Non erano allineati. Non erano neanche lontanamente combaciabili.
L’uomo si tornò a spostare verso la porta, là dove tutti i volti erano direzionati.

No, non ancora, gli schizzi non combaciano con la mia prospettiva.
Non devo concentrarmi su cosa li ha provocati, ma da dove. Da dove è partito il dardo?
Cominciamo a ricomporre il quadro, ogni pezzo al loro posto.

- Tu, da ora sarai Uno. – disse imperioso l’ispettore indicando il dipendente in abito nero – Fai piegare in avanti il busto del tuo cadavere. Tienigli la testa in asse. –

Foro e schizzo combaciano.

- Tu, Due, ruota il tuo cadavere leggermente verso la porta. Bene, ora fallo guardare un po’ più verso il basso. Perfetto, rimani così. –

Di nuovo combaciano.

- Tu, Tre. Tienilo bene su e piegalo leggermente in avanti. Forza! E tienilo saldamente, è un morto, non ti può mordere. –
L’uomo passò al suo vicino con lo sguardo.
- Tu, Quattro, rimani immobile così… anzi, fallo guardare leggermente verso destra. Perfetto. –
L’ispettore fece pochi passi verso la porta, per avere una visione migliore del quadro generale.
- Tu, Cinque, sei perfetto. Non ti muovere. –
Una mano passò velocemente tra i ricci biondi, mentre gli occhi verdi saltavano dai corpi alle pareti imbrattate.
- Sei, si tu. Fallo guardare verso terra. Un po’ di meno… perfetto. Immobile. –
Con uno zampettio l’ispettore si mosse di poco a destra rispetto alla sua precedente posizione.
- Infine, Sette, fagli ruotare un poco il busto verso sinistra, tienigli la testa un po’ più bassa. Bene. –
L’uomo biondo strizzò gli occhi, verificando se tutto fosse perfetto.

È giusto. È tutto giusto. Loro sono giusti.
Ma da dove sono partiti i colpi?
Stanno guardando tutti… dove?
A terra, verso il basso.

L’ispettore si sdraiò sul pavimento, tra le pozze di sangue, senza perdere di vista i corpi.

I colpi sono partiti tutti da… qui.
Questo è il punto da cui tutto è nato.

Il viso dell’uomo si trovava ora a poco meno di mezzo metro da terra e a un metro dalla porta.
Un rumore di zoccoli si levò dall’esterno.
- Potete portarli via tutti. Non mi interessano più. – disse ai sette uomini rimasti immobili.
- Lei, ora, cosa pensa di fare? – provò a chiedere l’impiegato, lasciando scivolare a terra il suo cadavere.
- Manca un corpo. Qui sono nove i cadaveri, i sacerdoti, da quanto so, erano in dieci. –
Detto ciò, l’uomo superò i cadaveri ancora riversi, per proseguire lungo il corridoio fino alla porta sulla parete opposta.

Quale arma può aver fatto un macello simile? Alta cinquanta centimetri circa, in grado di sparare almeno nove dardi con una potenza tale da perforare dei crani e far schizzare una notevole quantità di sangue dal foro di uscita. Senza, tra l’altro, lasciare traccia del proiettile.
Questa, decisamente, non è opera del mio assassino. Per quanto possa essere malato, ha dimostrato finora di riservare una certa umanità nei confronti delle sue vittime non draconiche. Per di più, il suo stile è estremamente pulito. Pugnala con un singolo colpo, strangola, probabilmente avvalendosi di corde.
No, questa è più l’opera di una bestia che sua.
Dove termina il decimo fato?
Per di qua.
Che posto è questo?
Devono essere i dormitori.
Ed ecco il cadavere.
Come hai fatto a morire qui?
Il mio modello è sbagliato, allora.
Il suo foro è… è estremamente angolato.
Ma l’arma utilizzata è decisamente la stessa, non si sono dubbi.
A questo punto posso escludere tranquillamente anche lei. Se c’è una cosa che ha sempre adorato sono i combattimenti e questo lo avrebbe definito un aborto della nobile arte della guerra.
Rivediamo il modello.
Lui è stato il primo a morire. Il suo fato è stato il primo ad essere stroncato dal buco nella Trama.
Per terra c’è un pugnale. Potrebbe essere suo.
Fosse così, questo sacerdote era disposto a macchiarsi di un omicidio nei confronti di qualcuno che dormiva in questo letto.
Ma l’arma è stata più veloce del coltello.
Perché non lo hai provato a pugnalare nel sonno?
Oppure lui stava fingendo di dormire, aspettando la tua mossa?
Tu sei morto e lui è scappato.
È scappato passando per il dormitorio senza mietere vittime, per poi incontrare i tuoi nove confratelli dall’uscita.
Come mai, però, gli schizzi di sangue erano direzionati nella direzione opposta?
La porta d’ingresso.
Ha provato a fuggire.
Forse tu eri il suo solo obiettivo.

L’indice dell’ispettore aprì le labbra del morto, trovandoci solo comuni denti da umano.

Ha provato a raggiungere la porta, ma era chiusa.
I sacerdoti sapevano che ti aveva ucciso e hanno cercato di fermarlo.
Le domande rimaste ora sono due.
Di quale arma è in possesso?
Ma, soprattutto, questa creatura è più una bestia o un uomo?

L’impiegato entrò trafelato nel dormitorio, seguito da un secondo dipendente del tribunale in abito scuro.
- Cosa c’è ora? – chiese stizzito l’uomo dai ricci biondi.
- Una missiva da parte del Giudice Maggiore per lei. – disse il secondo uomo in abito scuro.

Di nuovo.
Cosa vogliono ora?
Che vada a controllare altri cadaveri, magari sui Muraglia? Oppure vogliono che gli porti del caffè, tanto, oramai, non mi stupirei più.

- Forza, dammi quelle informazioni. -

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Capitolo 11
*** Capitolo 5: Gioia per i gabbiani ***


La nave ondeggiò pericolosamente quando un’onda più alta delle precedenti impattò sul suo fianco, sprigionando nell'aria una cascata di schizzi bianchi che brillavano come perle alla luce del sole.
Noir si dovette aggrappare ai sacchi di farina che gli stavano davanti per non cadere a terra. Sopra di lui, i cannoni si muovevano pesantemente avanti e indietro, seguendo l’inclinazione del ponte su cui si trovavano, accompagnati dal raschio metallico delle catene che li legavano nella loro postazione.
L’uomo tornò a sedersi con la schiena appoggiata contro la parete in legno. L’aria umida gli entrava con forza nelle narici, portando con sé l’odore del mare e delle cibarie che gli facevano compagnia in quel viaggio.
La luna di quel primo giorno di navigazione sarebbe sorta alle spalle della nave di lì a poco, mentre la raggi rossastri del sole faticava sempre più a raggiungere il ventre di quel mostro di legno in cui Noir si era rintanato, tagliando l’aria con sottili e sporadiche lame di luce che arrestavano la loro corsa sulle assi scure.
La nave si inclinò nuovamente, facendo scricchiolare le assi tutto intorno.
Noir abbassò lo sguardo sul piede nudo, dal quale il freddo si insinuava nel suo corpo. La sua mano destra si appoggiò poi cautamente sulla camicia, là dove lo strappo impediva al tessuto di coprirgli il petto e dove la catena dell'ancora aveva lasciato un corto taglio superficiale .
Una volta giunto sul continente si sarebbe dovuto procurare dei nuovi abiti, ma ne era valsa la pena.
Allungò una mano verso il barile agganciato al suo fianco, prendendone un’arancia.
Si sarebbe dovuto esporre, prima o poi, se non voleva trovarsi sommerso da quelle bucce. L’accesso più vicino al mare era rappresentato dagli oblò riservati ai cannoni, sul ponte immediatamente superiore.
Fino ad allora, però, non sarebbe uscito da quel nascondiglio che lo proteggeva dal mondo.
La nave continuò a boccheggiare e rollare per diverse ore, seguendo il profilo delle onde che il vento notturno sollevava e le scagliava contro da ogni direzione.
Un battente rumore frenetico raggiunse le orecchie di Noir, costringendolo ad abbandonare immediatamente lo stato sonnecchiante in cui versava per fargli drizzare la schiena.
Cos’era quel suono? Da dove veniva?
Le catene che legavano i cannoni sferragliavano ad ogni movimento dei loro prigionieri, coprendo a sprazzi qualunque altro rumore. Ma non quello che lo aveva costretto a svegliarsi, quello si riusciva a distinguere sempre, forte e vicino.
Il trentenne indietreggiò ulteriormente, facendo premere la propria schiena contro la parete alle sue spalle.
Potevano essere passi frettolosi? Oppure erano alcuni marinai scesi a controllare la situazione al ponte immediatamente superiore?
Non riusciva a capirlo. Le assi sul suo capo, intanto, continuavano a vibrare, diffondendo quel suono ovunque nell’aria.
- …cosa ti ho fatto? Lasciami immediatamente! Non… -
Una voce lontana, roca, raggiunse per poco più di un secondo Noir, portando con sè uno sprazzo di conversazione, per poi tornare ad essere coperta dai rumori del ponte superiore e dal suono del mare.
Forse due marinai stavano litigando, magari dopo aver alzato troppo il gomito.
Non sarebbero scesi, ne era certo. Nessuno si sarebbe spinto così tanto in basso su quella nave senza un motivo più che valido, nemmeno da ubriaco.
Osò rilassarsi un poco, permettendosi di tirare un sospiro di sollievo.
Di nuovo si udirono i colpi rapidi sulle assi, questa volta decisamente più vicini alla scala per il ponte inferiore.
Erano i passi rapidi di un'unica persone, ormai non aveva più dubbi a riguardo.
- Ho detto di starmi lontano! Lasciami! – continuò la voce roca, in direzione del suo interlocutore silenzioso.
La rissa avrebbe potuto raggiungere anche il suo piano, comprese l’uomo con i vestiti in brandelli, abbassando il capo per nasconderlo sotto il livello dei sacchi che gli stavano accanto.
I passi rapidi scesero gli stretti scalini, accompagnati da un respiro affannoso e rantolante.
Dovevano già essersi scambiati un paio di colpi e l'uomo che aveva raggiunto la stiva doveva esserne uscito perdente.
I passi rapidi incespicarono un attimo quando l'uomo rantolante raggiunse il ponte più basso e la sua sagoma massiccia, più scura dell’oscurità avvolgente che ammantava quel piano, si definì vagamente davanti agli occhi di Noir.
Era certamente alto, muscoloso e aveva il profilo della nuca perfettamente definito che tradiva i capelli corti o la loro totale assenza.
La sagoma del capo si volse in direzione della scala in un movimento simile a quello che avrebbe fatto una bestia in trappola, mostrando al clandestino il profilo del suo naso.
- Maledetti gli dei! – bofonchiò con il fiato corto l'uomo, cercando riparo nell'oscurità il più lontano possibile da quell'unica via d'accesso.
L'altro uomo? Sarebbe sceso anche lui, portando la loro rissa fino a quel piano?
Un lampo azzurro illuminò a giorno il ponte mediano, facendo scintillare l'acciaio opaco dei cannoni e gettando i suoi raggi dal colore innaturale anche su quello inferiore.
Le pupille di Noir si ridussero improvvisamente all'arrivo di quella luce accecante, costringendolo a coprirsi gli occhi con una mano. Quando fu di nuovo in grado di vedere, maledisse gli dei.
La luce era più che sufficiente a rischiare anche la stiva, definendo con la sua innaturale colorazione i sacchi e le casse che essa ospitava, oltre che l'uomo calvo rannicchiato contro alcuni bassi bauli legati assieme da una spessa rete. E se il clandestino era in grado di distinguere il marinaio, l'altro occupante poteva fare altrettanto.
- Tu! Tu stai con lui, non è vero? Vi siete messi d'accordo per mettermi in trappola ma... ma non mi avrete! – cercò di urlare con la poca voce rimastagli il marinaio che era uscito sconfitto dallo scontro precedente, in direzione di un allibito Noir.
L’uomo dalla voce roca si issò incerto sulle proprie gambe e il trentenne avrebbe giurato di veder il suo corpo vibrare, aumentando e diminuendo di dimensioni come un grosso mantice.
Dopo un secondo di ulteriore incertezza, il marinaio si scagliò quasi con disperazione contro il clandestino, con le braccia protese in avanti e le mani aperte, pronte ad afferrarlo.
Noir tentò di evitare la presa, ma le assi dietro la sua schiena gli impedirono qualsiasi movimento evasivo in risposta alla sovrumana rapidità di quell’uomo muscoloso.
Le mani callose del marinaio si strinsero con forza attorno al collare nero che cingeva il collo del suo avversario, stringendolo con l’intento di romperlo e raggiungere così la carne sottostante.
La luce si affievolì fino a scomparire, accompagnata da lento cigolare dei cannoni.
- Ti prego... - provò a dire Noir, con il fiato caldo del suo avversario sul volto - Non voglio farti del male. Non so nemmeno con chi tu stessi combattendo. -
La presa delle tozze dita si strinse ulteriormente attorno al collare, non riuscendo però nemmeno a deformarlo.
- Dovrei crederti? Ho un buco nel petto... - il respiro del marinaio si fece più veloce - non ne voglio un altro. -
Il clandestino sospirò, disperato. Non voleva uccidere quel pover'uomo, che probabilmente aveva avuto una giornata peggiore della sua, ma sentiva il proprio sangue ribollire, teso come la corda di un arco poco prima di scagliare la freccia.
Non sarebbe riuscito a fermarlo, come non ci era mai riuscito in passato.
Qualcosa, nell’oscurità che era nuovamente calata allo scomparire della luce azzurra, si mosse rapido, letale.
Le mani ruvide del marinaio mollarono la presa sul collare senza nemmeno aver premuto per un secondo sulla pelle che questo proteggeva, cadendo mollemente verso il pavimento.
Noir sentì la sua fronte farsi improvvisamente pesante e il sangue nel suo corpo spingere contro le pareti delle sue vene.
Un lampo azzurro, meno accecante e duraturo del precedente, scaturì dalla scala, illuminando la scena immobile dei due corpi.
Uno spesso spuntone nero era nato dalla fronte di Noir, conficcandosi e trapassando il cranio calvo dell’imponente uomo che gli stava di fronte. Il pover'uomo, ora, fissava con gli occhi vitrei il viso di fronte a sé, mentre il suo corpo era tenuto sollevato da terra solamente dalla lancia che lo aveva ucciso.
Dietro il cadavere, uno schizzo di sangue aveva imbrattato la iuta di cui erano composti i sacchi.
Lo spuntone si ritirò tanto velocemente come era apparso, così come il collare che avvolgeva il collo di Noir, senza lasciare tracce della loro esistenza e permettendo al trentenne di voltare il capo in direzione della fonte di luce, ora di nuovo scomparsa.
Il clandestino si alzò in piedi di scatto, sconvolto dalla rapidità e dalla furia con cui era appena stato attaccato, mentre i suoi occhi fissavano il punto nell’oscurità dove sapeva esserci il cadavere.
Cos’era appena successo? Perché quell’uomo lo aveva attaccato con tutta quella ferocia? E come aveva fatto a muoversi così velocemente?
Voltò nuovamente il capo verso la scala, silenziosa.
E la luce? Cosa poteva produrre una luce blu così intensa?
I Budnear, gli uomini pesce dell’Oasi, quand'era bambino gli raccontavano storie sugli spettri dell’acqua, creature dal corpo luminoso come un lago illuminato dai raggi del sole che perseguitavano chiunque sconfinasse nel loro territorio.
Se non fossero state solo storie? Se la nave fosse entrata all’interno del territorio di quegli spettri?
Con le mani tremanti dall'agitazione, Noir spogliò il marinaio dei suoi abiti integri, lasciandogli addosso i propri.
Ora le bucce d’arancia non era più il suo principale problema.
Prese il cadavere per le ascelle, trascinandolo silenziosamente fino alla scala e, da lì, con immensa fatica, fino al ponte mediano.
Non sembrava più esserci nessuno ad occuparlo.
Lo spettro contro il quale quell'uomo sembrava aver combattuto era scomparso.
Cercando di evitare ogni possibile contatto con le catene e i cannoni in costante movimento, il trentenne raggiunse uno degli oblò e, verificato un’ultima volta che non ci fosse nessuno in grado di vederlo, issò il corpo, spingendolo contro l’asse mobile che proteggeva l’interno dagli agenti atmosferici, facendola scostare.
Lentamente, il corpo scivolò oltre la parete della nave, per poi precipitare nei flutti sottostanti.
Noir tornò rapidamente al ponte inferiore, evitando il suo precedente nascondiglio in favore di uno stretto spazio tra tre casse in legno sigillate e diversi sacchi chiusi che non lasciavano intendere cosa contenessero.
Si rannicchiò lì, con lo sguardo puntato verso le assi del pavimento e le dita intrecciate tra i capelli della sua nuca.
Non riusciva a credere a quello che era appena visto.
Cos’era davvero quella luce? Poteva essere davvero opera di uno spettro? Sarebbe tornata anche per lui?
Maledisse gli dei per la sua malasorte e sperò con tutto il cuore che nessuno scendesse nuovamente ad importunarlo, umano, elfo o qualunque cosa fosse. Soprattutto qualunque altra cosa fosse.
Sapeva che la sua maledizione poteva uccidere gli uomini, gli elfi, i Budnear e, probabilmente, i draghi, quantomeno nella loro forma umana. Qualunque altra creatura poteva essere immune a quel potere con cui era nato.
Strinse ancor più le gambe al petto, sperando che il sole sorgesse il prima possibile e trascinasse via quella notte infausta e le creature che l’avevano abitata.
Per quanto riguardava il marinaio che l’aveva aggredito, i gabbiani avrebbero festeggiato sul suo cadavere. Almeno loro ne sarebbero usciti vincitori al tramonto di quella luna.




Angolo dell'Autore:

Capitolo revisionato.

È sera, o meglio, notte. Domattina dovrò svegliarmi più presto del solito, perchè dovrò sostenere un esame particolarmente rognoso, e, invece di andare a dormire come qualsiasi persona sana di mente, eccomi qui, a scrivere questo angolo dell'autore.
Ma c'è un motivo, se ho fatto questa scelta. O meglio, ce ne sono diversi, ma, escludendo quelli che riguardano la mia labile sanità mentale, ne rimane uno solo.
Questo capitolo è corto, circa la metà del capitolo medio, ma non è questo che mi spinge a battere ancora caratteri sulla tastiera.
Questo capitolo non sarebbe mai dovuto esistere.
Di questo voglio parlarvi, forse per compensare al poco materiale di lettura che vi ho lasciato, forse per saziare la mia voglia di raccontare, voglio dirvi cosa c'è dietro la produzione di questo capitolo.
Fino ad ora ho mantenuto uno schema chiaro: capitolo normale seguito da un X.5, e così via. Non è stata solo una mia fissazione, ma ho fatto questa scelta narrativa per darvi una corretta impressione dello scorrere del tempo e del muoversi dei personaggi al suo interno.
Già, il tempo. Potremmo parlarne per ore senza mai giungere a una conclusione soddisfaciente.
Specialmente in questa prima parte di storia, dove Il Tempo ricopre un ruolo fondamentale in questa caccia del gatto al topo.
Mi sono dunque trovato al termine dello scorso capitolo con un Noir nascosto in una stiva, l'assassino che dà fuoco a un'abitazione e il Viandante che ispeziona la carneficina nel tempio di Aria. Avrei voluto fortemente continuare a parlare di Commedia, della sua ricerca e della sua caccia, non avevo voglia di far volgere il mio e il vostro sguardo su un uomo che rimane rintanato assieme a delle scorte alimentari.
Poi, però, mi sono ricordato di un piccolo, minuscolo particolare.
Io ho continuato a scrivere a braccio, senza una tabella temporale a cui fare riferimento.
Quanti giorni erano passati dall'inizio effettivo della vicenda, dall'uccisione di quel primo drago?
Mi sono costretto a lasciare la tastiera, prendere carta e penna e rileggere ogni singolo passaggio che ho scritto, in cerca di riferimenti al passare dei giorni.
Ebbene, se quel primo drago è stato ucciso la notte di quello che chiameremo primo giorno, trentasei ore prima dell'incendio al ristorante, questa è la notte del sesto giorno.
Sono passati solo sei giorni dall'inizio di questo nostro viaggio, quasi non ci credevo.
Questo, però, non mi risolveva un problema. Il Viandante non poteva avere immediatamente un altro capitolo per sè. Doveva avere un motivo per andare avanti, per seguire la nave che è salpata alle prime luci del sesto giorno, mentre il nostro ispettore biondo sta cercando di capire come siano morti i sacerdoti. Ecco che così è nato questo capitoletto.
Una notte è passata, nulla più.
Una notte movimentata per Noir, una notte di viaggio per il Viandante.
E il susseguirsi di capitoli normali e X.5 è continuato indisturbato.

Ora, tornando alle cose terrene.
Mi sento in dovere di ringraziare Oldkey, la ragazza imperfetta e whitesky per le meravigliose recensioni che mi lasciano. Grazie a quelle righe, spesso, forse all'oscuro anche di chi le ha scritte, mi sono trovato a riflettere su nuove strade da percorrere, senza contare che mi si illuminano gli occhi a leggere di teorie plausibili a cui, a volte, nemmeno io avevo pensato.
Grazie a te, lettore silenzioso, per continuare a leggermi. So che è prematuro, ma mi piacerebbe che, una volta finito anche questo viaggio, chiuso il libraccio che narra delle Terre, mi lasciassi scritto cosa te ne è sembrato di questa trilogia, dell'evolversi del mio stile e dei miei personaggi. Sarebbe un bel coronamento, per me. Ma ci sarà modo di parlarne tra diverse decine di capitoli.
Dulcis in fundo, voglio dirvi una cosa che mi ha fatto emozionare. Le storie non possono morire. Sembra una cosa stupida da dire, ma non lo è. La mia prima storia, la guerra degli elementi, ha sempre delle nuove visite ad attendermi e, ogni tanto, mi sorprende con un nuovo seguito tra le preferite o le ricordate, ed è passato un anno e mezzo da quando l'ho conclusa.
Smetto di divagare e vi saluto.
Alla prossima settimana, con il Viandante più carico che mai.
Vago

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Capitolo 12
*** Capitolo 5.5: Dove vuole andare? ***


Questo assassino comincia a darmi sui nervi.
Il giorno che riuscirò a prenderlo giuro che non lo riconoscerà nemmeno sua madre.
A Gerala si è lasciato alle spalle ventisei cadaveri, un ristorante bruciato e un intero livello della città nel panico.
Spero non sia opera sua, qui a Derout, o, per lo meno, non segua la stessa trafila. Non ho intenzione di mettere di nuovo le mani addosso ad altri venti cadaveri, oggi.

Cosa sentono le mie narici! Altro meraviglioso odore di bruciato. Legno e calce, a giudicare dall’aroma acre, con una punta di carne carbonizzata. A quante pessime grigliate lo avrò già sentito?
Dubito, però, che qualcuno si sia messo a grigliare costine in un vicolo.

L’ispettore solcò a lunghi passi una delle vie principali, aggirando un pozzo in muratura, per raggiungere la periferia nord, da qui serpeggiò tra i vicoli laterali, stretti tra i muri della case, puntando verso la colonna di fumo che si alzava flebile verso il cielo.
Mano a mano che l’uomo si avvicinava alla fonte di quel fumo, il numero di civili diminuiva, venendo soppiantato da un crescente numero di guardie cittadine dalla pelle scurita dal sole.
Una palazzina su tre piani, o meglio, il suo cadavere carbonizzato, era crollata sotto il peso dei suoi stessi calcinacci sulla strada, bloccando completamente il passaggio. Ora, decine di uomini era chini sulle macerie, intenti a spostare gli ultimi detriti fumanti rimasti sul selciato dopo il giorno di lavoro che già era stato concluso.
- Chi è il più alto di grado, qui? – urlò l’uomo biondo camminando verso le macerie, avvolto nel suo abito marrone.
Un elfo sulla cinquantina si staccò dal gruppo per andare incontro al nuovo arrivato. Negli occhi scuri albergava uno sguardo di sfida.
- Sono io, cosa vuoi? L’accesso a questa zona è permesso solo agli incaricati dal tribunale. –

Non un altro tizio pieno di sé, Fato, ti prego.
Vabbè, per lo meno potrò sfogare un po’ di rabbia repressa. Devo solo cercare di non diventare di nuovo un demone gigante. Sarebbe un casino spiegare ai sopravvissuti cosa hanno visto.
Un bel respiro e cominciamo.

- Davvero? Non sapevo di non poter accedere a questa zona. Sono desolato. Nessuno dei suoi uomini mi ha messo al corrente di questa direttiva. Se lei è davvero il più alto di grado, dovrebbe controllare meglio i suoi sottoposti. Non mi sembra un compito adatto a uno nella sua posizione, quello di fermare gli estranei. Anzi, se mi lascia il suo nome, potrei parlare di lei con Johanne… -
L’elfo parve disorientato a quella risposta. La sua bocca era rimasta leggermente aperta, mentre il suo cervello cercava di capire se il discorso del suo interlocutore fosse un complimento, un affronto o una minaccia.
Intanto, l’uomo biondo continuava a sorridere bonariamente, con uno strano scintillo negli occhi.
- Johanne? – balbettò l’elfo.
- Si, certo, Johanne Fenter, il Giudice Maggiore. –
- Giu… Giudice Maggiore? – gli occhi dell’ufficiale si spalancarono all’udire quella carica.
- Si, mia cara scimmia. Il Giudice Maggiore Fenter, lo stesso Giudice Maggiore che mi ha affidato l’indagine sul draghicida che sta girando per le Terre. Davvero quel tuo cervello non è riuscito a capire che nessun civile sarebbe mai giunto qui cercando la carica più alta? Adesso, hai due minuti per aggiornarmi sulla situazione, se davvero ci tieni alla tua posizione. –
L’elfo si irrigidì a quelle parole.
- Si… certo signore. –

Ti prego, ridillo.
Da quanto tempo non sentivo la parola signore utilizzata nei miei confronti. Mi ci potrei riabituare velocemente.
Ora, piccola scimmia leccapiedi, muoviti a parlare se non vuoi finire a scacciare i topi dalle cantine.

- L’altra notte un incendio è stato appiccato in questa palazzina. Le guardie poste di guardia a questo quartiere sono riuscite a domare le fiamme. Non capisco perché ti abbiano mandato qui, non sembra esserci la mano del tuo uomo. –
- Tu non devi capire. Quante sono le vittime? –
- Nella palazzina c’erano due anziani, una famiglia di tre persone e una donna. Non ci sono sopravvissuti. –
- Nel viale c’era qualcuno? –
- Non che noi sappiamo. Stanno rimuovendo le ultime macerie in questo momento. –
- Sapete la razza delle vittime accertate? –
- La razza delle vittime? – ripeté l’elfo.
- Si, la stramaledetta razza delle vittime. Umani? Elfi? Draghi? Budnear? Fate? Nani? Cani? Scoiattoli? Alberi? Forza, voglio una risposta. –
- Questo quartiere è principalmente occupato da draghi, presumo che lo siano anche loro… -
- Presumi che siano draghi… - l’ispettore dai capelli biondi si passò una mano sul tatuaggio romboidale. – Vattene, torna a togliere macerie. –

Maledetti mortali.
Presumo che lo siano anche loro. Che razza di risposta è questa? Ti pagano per sapere le cose, non per presumere. Per quello ci sono già io.
Un quartiere di draghi. Se l’incendio si fosse propagato avrebbe potuto fare parecchi danni.
Che ore erano quando è stato appiccato?
C’era scritto su quei documenti che mi hanno consegnato… le undici di notte, circa.
A quell’ora molti sarebbero già stati a letto, molte possibili vittime del fuoco.
Probabilmente è lui l’artefice. È come se il ristorante a Gerala fosse stata una prova generale per verificare l’efficacia delle fiamme.
Probabilmente troveranno un cadavere carbonizzato sotto quelle macerie. Se così sarà, non avrò dubbi sulla paternità di questo incendio.
Il mio compito però non è far giustizia ai morti. Devo trovare quel dannato piromane assassino e spaccargli il cranio con tutto il mio amore nei suoi confronti solidificato in forma di badile.
Quindi ora pensa, Viandante. Sai che il casino nel tempio di Aria non è opera sua, quindi non devi considerarlo.
Le sue tracce più recenti sono di Gerala.
Lì ha ucciso ventisei draghi, per poi far perdere le sue tracce.
Quanti giorni di viaggio può aver impiegato a raggiungere Derout? Due? Tre se proprio se l’è presa comoda.
Deve aver lasciato la Grande Vivente la notte stessa in cui ha appiccato quell’incendio.
Tu hai avuto uno svantaggio iniziale nei suoi confronti di circa tre giorni dalla sua prima vittima, che si riducono a due giorni prendendo in considerazione l’incendio del ristorante. Sono poi andato al tempio di Aria e poi qui nel giro di una notte.
Di quanto è in vantaggio, quindi, lui su di me?
Questo incendio è stato appiccato trenta e qualcosa ore fa, circa. Ha un giorno su di me, si e no, se questo è una sua opera.
Perché, però, lui è venuto qui? Avrebbe potuto rimanere nell’ombra per qualche settimana, per far calmare le acque. Poi avrebbe potuto riprendere ad uccidere.
Era di fretta. Ma perché?

- Signore! Abbiamo trovato un cadavere sotto i detriti. – urlò l’elfo cinquantenne dalla pila di detriti in direzione dell’uomo biondo.
- Questo già lo so! Era ovvio che ci fosse! – urlò in risposta l’ispettore – Lasciatemi riflettere in pace! –

Perché è venuto subito qui?
Ma, soprattutto, perché ha fatto un lavoro così approssimativo? Non è mai stato così tanto avventato.
Ha dovuto accelerare i tempi, sperando che le pareti fossero sufficientemente infiammabili.
Avrebbe potuto spendere più tempo per predisporre al meglio tutto, ammucchiare carbone nel luogo dal quale avrebbe voluto far scoppiare l’incendio o creare una pira di legno e paglia per farlo prendere meglio.
Cosa ti premeva di fare, mio caro assassino?

- Tu, scimmia! – urlò l’uomo tatuato – L’ultima nave partita da questo porto, quando è salpata? –
- Io… ecco... – balbettò l’elfo – Tra ieri e l'altro ieri ne è partita una per il Continente. –
- A che ora? –
- Io… questo non lo so. Il molo non è di mia competenza. – l’elfo scese dalla pila di detriti con il passo incerto di chi non ha più la forza nelle gambe di un ventenne.
- Signore? – chiese con voce incerta una delle guardie poste a delimitare l’area, in direzione dell’ispettore.
- Che c’è? Spero che tu abbia un motivo valido per disturbarmi. – L’uomo tatuato si voltò di scatto con gli occhi che lasciavano trasparire tutta la sua seccatura.
- La nave, quella per il Coninente. È partita ieri mattina alle sei e mezza. -
L’ispettore rimase un attimo immobile, con lo sguardo fisso sugli occhi viola di quel giovane mezzelfo che si era fatto avanti, mentre il suo cervello elaborava quelle informazioni.

Ieri mattina, sul presto.
Avrebbe avuto sette ore abbondanti per prepararsi per salpare, dopo aver incendiato questo quaritiere..
Che non abbia optato per il mare?

- Ottimo, lavoro. Grazie per l’informazione. – rispose quindi l’uomo biondo.

Il Continente. Un ottimo posto per ricominciare dall’inizio. O meglio, per uccidere sfruttando l’effetto sorpresa.
Potrebbe effettivamente essere riuscito a salpare con quella nave.
Come passeggero? Oppure è riuscito a farsi assumere come marinaio?
Nessuno conosce il suo volto, non è ufficialmente ricercato. Potrebbe essere riuscito a procurarsi un biglietto per quel viaggio.
Adesso ha più di un giorno di vantaggio su di me… non che questo sia un problema vero, posso recuperarlo, se solo sapessi esattamente dov’è.

- Signor Vander… - disse timidamente una giovane ragazza dentro a un’armatura da guardia cittadina, decisamente troppo grande per lei.
- Zitta. Sto ragionando. –

Perché si sta muovendo così tanto in fretta?
Sa che lo sto seguendo?
No, non credo. Se stesse scappando da me non mi avrebbe lasciato questo enorme cartello fiammeggiante che indica che via ha seguito.
A meno che non abbia intenzione di ingaggiare una battaglia psicologica con me.
Se volesse farmi credere che sta andando verso il Continente, mentre lui è rimasto qui sulle Terre?
Avrebbe senso. Non c’è modo per lui di essere a conoscenza dei miei poteri. Probabilmente.
Se conoscesse la mia intelligenza sufficientemente bene, probabilmente, avrebbe preso quella nave, sapendo che io avrei pensato che lui mi stesse indicando il mare per rimanere qui.
L’unico modo che avrebbe per esserne a conoscenza sarebbe l’essere un Loro inviato. Ma questo non avrebbe senso.
A meno che Loro non stiano cercando di uccidermi o sviarmi, anche a costo di decine di vite.
Sto forse esagerando…

- Signor Vander, è importante… - di nuovo la ragazza tentò di richiamare l’attenzione dell’ispettore biondo davanti a lei, occupato in una conversazione con sé stesso.
- Ho detto che sono occupato! –
La ragazza ammutolì, mordendosi le labbra per star zitta sotto lo sguardo pesante dell’uomo.
I secondi passarono in silenzio, senza che lo sguardo dell’ispettore smettesse di pesare sulla nuca della giovane guardia.
- Allora? – disse l’uomo – Vuoi dirmi quello che devi? –
La ragazza non seppe cosa fare per alcuni istanti, per poi decidersi a riaprire la bocca per tornare a parlare. – Vede, sono stata incaricata di portarle un ordine da parte del Giudice Maggiore Fenter. –
- Forza, quali sono questi ordini? –
- Si, ecco… Il capitano della nave salpata ieri, questa mattina ha inviato un messaggio tramite un piccione. È scomparso un marinaio dalla sua Ala di Albatros, era un drago, per questo sono stati avvertiti gli uffici del tribunale e quello del Giudice Maggiore. –

Forse sto diventando un po' troppo rude.
Ma quel maledetto assassino comincia a stancarmi davvero troppo.
...
Un drago scomparso da una nave su cui era impiegato.
Evidentemente l’assassino è molto meno intelligente di quanto pensassi, oppure non è a conoscenza di me alle sue calcagna.
Deve essere salpato con quella maledetta nave.

L’ispettore si dileguò dalla scena di quel crimine, lasciandosi alle spalle le guardie con cui aveva parlato e la ragazza che gli aveva consegnato il messaggio, ancora mortificata.
Non appena la via che ebbe imboccato si fece deserta, l’ispettore biondo scomparve in un turbine di piume color pece.
Un corvo dalla coda scura tagliata da una piuma bianca si alzò in volo, sorvolando i gruppi di randagi che avevano conquistato i tetti piatti delle case e puntando verso il mare, con il sole che gli scaldava le spalle.

Non me lo sarei lasciato scappare, non ora che si è rinchiuso da solo in una prigione in mezzo al mare.


Una freccia scura solcò il mare, sospesa a poco più di un metro dai flutti su cui la sua ombra andava a stagliarsi.
La sua figura sottile tagliava le correnti, sicura, puntando là dove il sole sarebbe andato a morire.

Cos’è questa sensazione che avverto in queste carni? Così antica che quasi l’avevo dimenticata.
Il brivido della caccia, l’eccitazione del momento subito precedente alla cattura della preda.
Da quanto tempo è che non lo avvertivo? Troppo, finora non c’è stata creatura che potesse nascondersi al mio sguardo.
Finora.
La mia parziale cecità alla Trama è uno svantaggio non da poco, specialmente ora che mi ritrovo a dovermi confrontare con uno sfuggente assassino e un buco della Trama impazzito.
Il mondo continua ad essere un palcoscenico troppo grande perché io lo possa riempire con un monologo, ma finché avrò fiato e forze mostrerò a tutti le meraviglie di cui sono capace.
Anche senza una parte dei miei poteri.

L’aria è fredda e umida, ma non sa di mare.
Ci deve essere stata una tempesta.
Una nave del genere non avrà avuto problemi a superarla, ma nessuna vela può sostenere un vento tanto forte.
Devono aver perso tempo.
Questo mi da un vantaggio ulteriore.

Le piume della coda del corvo fremettero, mentre le sue ali si piegavano appena per lasciarlo penetrare in una nuova corrente calda, che lo avrebbe sospinto sempre più veloce verso la sua meta.


Sull’orizzonte, a stagliarsi sul nulla, il profilo di una nave comparve in tutta la sua possanza.
I tre alberi si sollevavano dalla superficie del mare come magre vedette e, su di questi, le vele si gonfiavano sotto un vivace vento proveniente da sud. Non il migliore, forse, per navigare, ma sufficiente per permettere al mostro di legno e cordame di mantenere una buona velocità verso la sua meta.
Il corvo lo raggiunse in poco meno di mezzora, riducendosi alla metà delle dimensioni che vantava durante il suo vantaggio per permettersi di entrare nella cabina del capitano attraverso un tondo oblò socchiuso.
Nella stanza racchiusa tra scure assi di legno rossastro non sembrava esserci anima viva. L’ambiente già stretto era per lo più stato conquistato dalla massiccia mole di una pesante scrivania coperta da carte nautiche e da due alte librerie in cui libri dai dorsi rossi e neri si tenevano gli uni con gli altri per non cadere a terra quando il mare colpiva con la sua furia la nave su cui erano stati portati.
Sulle due pareti contigue a quella che ospitava la porta, due lampade a olio erano state assicurate attraverso gambi in ferro scuro che potevano ricordare l’intrecciarsi di un vitigno.
Il corvo si guardò rapidamente intorno, in modo da accertarsi che davvero fosse lui il solo occupante di quella stanza in grado di respirare.
Un fremito spaventato proruppe da un pesante tendaggio posto in un angolo, in modo da coprire qualcosa dalla forma di cupola.
Il corvo si disperse, lasciando il passo all’ispettore dai ricci biondi.

Ora che ci penso, dovrò cambiare molto presto questo corpo di sicurezza, sono troppe, ormai, le persone che lo hanno visto.

L’uomo tatuato si avvicinò con passo felpato al drappo scuro, sollevandolo con cautela. Sotto di questo, all’interno di una gabbia dalle sottili barre metalliche, tre piccioni saltellavano vivacemente, portandosi dietro il piccolo contenitore cilindrico che, ognuno di loro, teneva stretto alla caviglia.

Piccioni viaggiatori.
Ovvio.

La porta d'ingresso della cabina si socchiuse, seguita dal sussulto dell'uomo che stava entrando alla vista dell'estraneo.

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Capitolo 13
*** Capitolo 6: Quiete tra le tempeste ***


Gerard Rencliff sorrise ancora una volta volta all’elfo dai vestiti costosi che si ostinava a parlare di fronte a lui e che pareva non essere  intenzionato a lasciarlo tornare ai suoi compiti.
La stanza si inclinò di qualche grado verso babordo, facendo tintinnare i calici in vetro accuratamente riposti all’interno della vetrinetta presente in quella cabina.
- Signor Herren, perdoni la mia scortesia, ma sarà il caso che vada a controllare la rotta. Non vorrei che si stesse avvicinando un’altra tempesta come quella di questa notte. Potremo continuare questa conversazione durante il pranzo, non manca molto, pertanto colgo anche l’occasione per lasciare a lei e alla sua signora tempo per prepararsi. –
- Oh, per Terra, spero proprio che il tempo non ci riservi un’altra tempesta come quella. A dopo, capitano Rencliff, nel mentre cercherò nelle valige uno dei ciondoli di cui le parlavo. –
- Aspetto di poterlo ammirare con ansia. A dopo. –
L’uomo dalla giacca bianca e azzurra si chiuse alle spalle la porta, cercando di non sbatterla troppo forte. Alzò il viso abbronzato verso il cielo, socchiudendo gli occhi quando questi arrivano a vedere il sole giunto al suo zenit. In lontananza, verso sud, un banco di nubi scure occupavano una buona porzione della volta celeste.
Il capitano della Ala di Albatros si incamminò con passo tranquillo verso il timone, posto sulla torretta rialzata che svettava in poppa alla nave. La sua mano sinistra salì quasi meccanicamente al mento per lisciare la barba che cresceva rigogliosa sul suo viso.
In cima alla scala, Saraga teneva saldamente tra le mani incallite i pioli in legno piantanti nella ruota del timone, gli occhi segnati dalle molte stagioni che aveva passato sul ponte delle numerose navi su cui aveva servito come timoniere restavano fissi verso la prua, come se l’esperienza che avevano accumulato negli anni fosse sufficiente per sostituire la guida sicura della bussola in avorio incastonata nelle travi di legno lì a fianco.
- Come va la navigazione, vecchio mio? – chiese il capitano, dando una sonora pacca sulla spalla ossuta dell’uomo dai capelli grigi che gli stava accanto.
- Fa schifo come al solito, Gerard. Come se non fosse bastata la merdosa tempesta di questa notte, con la scomparsa di Michael mi ritrovo circondato da mozzi incompetenti. Ho dovuto mollare più volte il timone per fissare una fune mal legata. Quando ti deciderai a prendere un equipaggio come si deve e non i primi disperati di passaggio? –
- Quando il governo si deciderà ad alzarmi la paga. Ho spedito un piccione diretto verso Gerala appena mi hai detto che Michael non si riusciva più a trovare, dovrebbero mandarci un loro agente appena possibile. –
La gola di Saraga gorgogliò un attimo, nel tentativo di liberarla dal catarro che la infestava.
- Quello schifoso tabacco che ho preso Jidan mi sta facendo sputare l’anima. Sai, vero, che non ci sono molte imbarcazioni più veloci di questa, vero? E nessuna di quelle toccherà Derout per diversi mesi, la più vicina dovrebbe essere la Freccia di Rame del capitano Darren, ma era in rotta per Sarnasj, l’ultima volta che ho sentito di loro. Come pensi che riescano a spedirci anche un solo uomo sull’Ala? –
- Non lo so, Saraga. Ma conosci anche tu gli ordini. Il nostro l’abbiamo fatto, che il Giudice Maggiore ora si risolva i suoi problemi. –
- Gerard, comunque, anche ci comparisse sul ponte un inviato di quella strega della Fenter, noi abbiamo sempre un uomo con dell’esperienza in meno. Dovessimo incontrare un’altra tempesta o quei dannati pirati da qui a Jidan potremmo avere dei problemi a portare l’Ala fino a destinazione. –
- Sono davvero così incapaci? –
- Togliendone un paio, gli altri non sanno nemmeno fare un buon nodo. –
- Abbiamo visto di peggio. –
- Abbiamo visto anche di meglio. Ora vai a fare quello che dovrebbe fare il capitano e lasciami a timonare in santa pace. –
- A quando le nozze con quel timone? – chiese sorridendo il capitano dagli abiti chiari, mentre tornava a scendere la scala che lo aveva portato fino al timone.
- Me lo sposerò il giorno che riuscirai a contare tutte le onde del mare. A dopo Gerard e che Acqua ce la mandi buona, almeno per oggi. –
- Che ce la mandino buona pure tutti gli altri. – fu la risposta dell’uomo dalla barba castana, poco prima che questi raggiungesse il ponte principale.
Sulla sua testa, un paio dei marinai che aveva assoldato per quel viaggio stavano risalendo rapidi le sartie che tenevano fisso l’albero centrale.
Non gli parvero così male quei due, per non avere nessuna esperienza di come ci si dovesse comportare su di una nave di quella portata.
La mano del capitano si fermò sulla maniglia della porta che lo avrebbe condotto alla sua cabina.
Doveva verificare che la tempesta di quella notte non li avesse condotti su una rotta errata.
La porta si aprì verso l’interno con il solito cigolio sommesso dei cardini.
Gerard Rencliff entrò distrattamente nella sua stanza, appoggiando il proprio cappello con un gesto meccanico sull’attaccapanni accanto all’ingresso. I suoi pensieri, intanto, erano tutti direzionati al cassetto destro della sua scrivania, dentro al quale riposavano due bicchieri di vetro e una bottiglia quasi intonsa dell’ottimo liquore che aveva comprato a Derout.
Si sarebbe permesso un goccio per darsi forza in vista del pranzo in compagnia della famiglia Herren.
L’uomo richiuse la porta alle proprie spalle, alzando lo sguardo sulla propria stanza.
Il capitano si immobilizzò, come paralizzato.
Un uomo in abiti eleganti gli dava le spalle. Non lo aveva mai visto a bordo di quella nave, non faceva parte né dell’equipaggio che aveva scelto né dei passeggeri.
I capelli biondi si mossero appena quando il volto di quell’uomo si voltò in direzione della porta e, sul suo viso, comparve un sorriso che sembrava più adatto alla bocca di un serpente.
- Il capitano Rencliff, suppongo. – disse con voce allegra l’uomo ben vestito, perdendo interesse nella piccionaia che aveva scoperto dal drappo scuro e voltandosi completamente in direzione della porta.
- Si… sono io. Posso sapere il vostro nome? E il motivo per cui siete sulla mia nave? –
- Certamente che potete chiedermelo, anzi vi risparmierò questa fatica. – l’uomo biondo si fece avanti, con la mano distesa di fronte a sé.
Gerard Rencliff titubò un attimo davanti a quella mano in attesa di una risposta, mano che sembrava più terribile delle decine di enormi creature che avevano già provato ad attaccare l’Ala di Albatros. Alla fine strinse il palmo che gli stava venendo porto.
Il sorriso serpentino dell’uomo biondo si allargò ulteriormente a quel contatto.
- Sono l’ispettore Vander. L’ufficio del Giudice Maggiore Fenter mi ha mandato sulla sua nave per indagare sulla sparizione del suo marinaio. Era un drago, se le informazioni che mi hanno dato non sono errate, vero? –
- Si… Michael era, è un drago. Come ha fatto lei ad arrivare qui con così poco tempo a disposizione? Ho mandato il piccione con il messaggio a Gerala solamente questa mattina… -
- Troppe domande! – esclamò l’ispettore spostandosi la ciocca di capelli nera che gli deturpava la chioma chiara – Ho i miei modi. Ti deve bastare questo. –
- Non sarà anche lei uno di quelli che hanno la magia? –
L’uomo dagli abiti eleganti sbuffò infastidito, oltrepassando il corpo del capitano per raggiungere la porta.
- Il drago scomparso, da quanto lo conosceva? Era una persona affidabile? Potrebbe essere volato via di notte? –
- No… non credo abbia lasciato la nave volontariamente. Michael naviga con me da tre anni, oramai, e non mi ha mai dato modo di pensare male di lui. –
- E gli altri uomini sulla nave? Cosa mi sa dire di loro? –
- Il timoniere è un mio vecchio collega, lo conosco da una vita, oramai. Gli altri sei sono tutti nuovi, di questa nave e del mestiere. –
- Dovrò parlare con ognuno di loro, ma dopo. Cosa mi sa dire sui passeggeri? –
- Non è questa la stagione migliore per i turisti. A bordo ho solamente una coppia facoltosa di Gerala e una famigliola di tre persone con il suo carico di farine. –
- Non c’è nessuno altro su questa nave? – il sorriso dell’ispettore si fece spaventoso, come quello di un cacciatore pronto ad azzannare la sua preda – Ci sono solo tredici persone a bordo? –
- Si, è corretto. –
La nave si inclinò pericolosamente di lato, mentre, poco a poco, il picchiettio della pioggia si fece sempre più intenso.
- Maledizione! – imprecò il comandante tornando sui suoi passi, per tornare sul ponte, con lo sguardo volto alle vele ancora spiegate che si gonfiavano sotto il vento che si era alzato.
- Saraga, tieni il timone! – urlò il capitato verso la torretta sopra la sua testa.
Una voce coperta dal rumore della pioggia ritornò al ponte principale ovattata. – Devo ancora sposarmelo, non posso già lasciarmelo scappare! –
- Dove sono  suoi uomini? – chiese l’ispettore, ora senza la giacca a coprire la camicia chiara che gli copriva il petto.
Gerard Rencliff non si preoccupò di chiedere dove quell’indumento fosse finito.
- Due sottocoperta con i cannoni, due in cima di vedetta e gli ultimi due avevano il compito di pulire il ponte. –
- Vada a chiamare quelli di sotto. Io salgo a issare le vele. –
- Non lascerò che uno che non è del mestiere vada là sopra. –
Lo sguardo dell’ispettore si fece di pietra, mentre ogni traccia del suo sorriso inquietante scompariva. – Non è la mia prima volta su di una nave. Ne ho condotte di più grandi in tempeste peggiori. Ho sicuramente visto più ponti io di quelli che lei possa mai sperare di vedere in tutta la sua vita. Ora, capitano, vada immediatamente a chiamare i suoi marinai. –
L’ispettore biondo si andò ad arrampicare velocemente su una sartia lì vicina, venendo sballottato dal vento ad ogni raffica, raggiungendo la traversa a cui era saldamente assicurata la vela principale in poco più di un minuto. Là, due marinai già stavano lottando con i nodi per liberare la tela dalla loro stretta e poterla così ritirare.
Il capitano dell’Ala di Albatros scomparve sottocoperta poco prima che la vela cominciasse a ripiegarsi verso l’altro.

Il rumore del vento e dell’acqua, fuori dalla cabina, copriva qualunque rumore potesse essere prodotto.
L’ispettore Vander, con i capelli biondi lievemente bagnati, scrutava i volti dei sei marinai che gli stavano di fronte.
Accanto alla parete lì di fianco, il capitano e il suo secondo se ne stavano in disparte, con gli occhi bassi, come se lo sguardo accusatore del nuovo arrivato fosse puntato su di loro.
L’uomo dagli abiti eleganti annusò l’aria per un paio di secondi come se fosse un segugio, per poi rompere il silenzio con la sua voce melodica. - Devo parlare con ognuno di voi, ma separatamente. Ora, voglio un volontario che mi segua da solo nella mensa. Pretendo che la verità su quello che è successo al drago venga a galla. -




Angolo dell'Autore:

Ultimamente mi sono ritrovato a riflettere su EFP e sul tempo che ci ho trascorso sopra.
Nonostante mi sembri ieri quel primo giorno in cui incerto creavo questo account, sono passati tre anni, da allora.
Sembra pazzesco, a pensarci.
Posso dire di essere uno dei più "vecchi" attivi che pubblica in questa sezione, ogni tanto do uno sguardo alle storie che vengono caricate e sono ben pochi i nomi che ricordo esserci stati anche quando incominciai.
Ma non è di questo che voglio parlarvi oggi.
Posso dire di essermi fatto un minimo di esperienza su questo sito, dopo tutto questo tempo, ma molte cose ancora le ignoro.
Ho oramai inquadrato e accettato il fatto che le originali siano molto meno seguite delle fanfiction, che il fantasy (come i principali generi) sia una battle royale di storie in cui si cerca di rimanere a galla per più tempo possibile per cercare visibilità, come, per finire, il fatto che le storie scelte siano oramai un meraviglioso mausoleo dedicato, probabilmente, ai primi coloni di questa piattaforma.
Tutto questo non mi stupisce più come faceva un tempo.
C'è una cosa, però, che ancora non comprendo, probabilmente perchè sono troppo esterno al mondo delle fanfiction per capirci qualcosa, d'altronde non ho mai imparato e mai imparerò cosa stiano a significare tutte quelle sigle che vengono utilizzate.
Le ff sono probabilmente un mondo a parte, ma spesso, girando senza meta tra le sezioni, mi sale l'amaro in bocca.
Io sono fermamente convinto che una storia debba raccontare qualcosa per essere definita tale, originale e non. Non capisco quindi come ff di qualsiasi genere e sorta, nate con il solo intento di far vedere avverata la ship desiderata dall'autore, possano riscuotere un successo enorme in termini di recensioni e visualizzazioni.
Con questo non voglio criticare i gusti altrui, assolutamente, così come non voglio far trasparire il concetto che gli originali sono migliori delle ff, men che meno le mie storie, che so essere... non così perfette. Sto cercando di capire, invece, come mai i lettori di questo sito sembrino attirati dalle coppie proposte, piuttosto che dalle trame.
In ogni caso, ora me ne torno nel mio angolino buio a scrivere.

Grazie a Oldkey, la ragazza imperfetta e whitesky che finora mi hanno sempre sopportato e recensito.
Grazie a tutti voi, lettori, per darmi, ognuno di voi, un motivo per continuare.

Alla prossima.
Vago

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Capitolo 14
*** Capitolo 6.5: Ha dei poteri? ***


Non è possibile, sono finito su una nave di inetti.
Ora devo riuscire a cazzare questo tirante e questa vela non dovrebbe rovinarsi troppo…
Dannazione! Quel babbeo rischia di far perdere l’albero di prua a questa nave!

L’uomo dai ricci capelli biondi si cercò un appiglio migliore con la mano sinistra alla traversa in legno che gli stava davanti, già viscida per colpa della pioggia. Strinse quindi tra i denti il capo libero della corda che aveva davanti, tirando con forza con la mano libera il resto della sartia che si trovava dalla parte opposta del nodo che aveva creato per assicurare la tela di cui era composta la vela al più saldo legno, bloccandolo.
Si voltò quindi verso il marinaio che aveva notato con la coda dell’occhio, aggrappato malamente alla scaletta a pioli diretta verso la coffa, che ora restava vuota in cima all’albero.
Il mozzo era completamente proteso in avanti, con la mano sinistra e le punte dei piedi disperatamente aggrappate alla scala e le dita della mano destra che, senza successo, cercavano di far girare la corda pendente che aveva di fronte attorno alla traverso sulla quale era riuscito ad appoggiare la vela issata.
La pioggia cominciò a cadere sempre più violentemente, mentre la roboante voce dei tuoni si faceva sempre più vicina, facendo tremare il cielo scuro.

Non c’è tempo per fare il fine.
L’altro marinaio, che fine ha fatto?
Eccolo, sull’albero di poppa. Ottimo, sembra che se la stia cavando… e mi da pure le spalle.
Non potevo chiedere di meglio.

Le dita della mano dell’uomo tatuato lasciarono la presa di colpo, permettendo a quel corpo di cadere verso il ponte principale.
La camicia e i pantaloni scuri scomparvero in un turbinio di piume chiare, mentre un gabbianello ne prendeva il posto levandosi in volo e combattendo contro il vento che lo investiva, il suo capo, nero come la pece, così diverso dal resto del corpo da sembrare quasi un errore di assemblaggio, era puntato verso prua.

Un gabbianello? Davvero, Viandante?
Perché ho preso proprio questa forma?
Vabbè, sulle scelte del mio subconscio mi interrogherò un’altra volta.
Per fortuna in questo secolo dal cambiamento nessuno ha ancora avuto così tanto tempo di reinventarsi la psicoanalisi… certo, con me non avrebbe grandi risultati, non ho nemmeno una madre con cui avere questioni in sospeso.
Non ti distrarre! C’è un mozzo che, oltre a volersi ammazzare, vuole trascinarsi dietro tutti i membri dell’equipaggio.

Il gabbianello si posò sulla traversa alle spalle del marinaio in difficoltà. Lì, le zampe che artigliavano il legno divennero dita, mentre un corpo umano veniva generato rapidamente a partire da quella mano.
- Fatti da parte un attimo. – disse l’ispettore biondo, in elegante equilibrio tra le funi e la traversa che gli stavano attorno.
Il marinaio si voltò di scatto verso l’origine di quella voce, perdendo l’incerta presa che lo teneva dritto, cominciando così a cadere.

Oh, avanti. Dovevi proprio farlo?
Va bene, prima lui, poi la vela.

L’uomo biondo mosse il braccio libero verso il basso, permettendo alla sua presa di stringersi attorno alla camicia dell’uomo, interrompendone la caduta.
La mano destra, le cui dita erano strette intorno alla traversa, scivolò un poco verso il basso, strattonata dal nuovo peso che era costretta a dover sopportare.

Uhm.
Questo non va bene.
Il tipo pesa troppo, queste dita non sono sufficientemente forti per tenerci entrambi appesi e io, comunque, non ho abbastanza arti per assicurare anche la maledetta vela.
Ti butterei in acqua, fossi di umore peggiore.
Per ora considerati fortunato che qui intorno non ci sia nessuno in grado di vedermi.

Le dita della mano destra divennero dinoccolate come serpenti e, come teli, si avvolsero intorno alla traversa in legno, stringendosi su di essa come tentacoli.

L’ho sempre detto che le ossa sono inutili.
Ora devo pensare a lui.

All’altezza del gomito sinistro dell’ispettore nacque un nuovo avambracci, più lungo, che si portò davanti al volto del marinaio. Qui, la terza mano, si appoggiò con forza sul naso e la bocca dell’uomo, privandolo della capacità di respirare.
Dopo un paio di disperati scrolloni, l’uomo muscoloso rimase immobile, penzolante con i piedi rivolti verso il ponte della nave.

Se tutti i mortali passassero la loro vita privi di sensi, la ma esistenza sarebbe incredibilmente più facile.
Ora… devo essere rapido.
E un braccio lungo una dozzina di metri sarebbe troppo vistoso.

Le dita della mano sinistra si allungarono, fino a cingere completamente il torso del marinaio. Non appena le due punte opposte si furono toccate, queste si fusero, per poi mutare in una lunga corda intrecciata che nasceva dall’unico avambraccio sinistro rimasto all’uomo dal volto tatuato.
Come se un argano si fosse messo in funzione, la corda cominciò a calare senza mai fermarsi, se non quando il corpo privo di sensi non fu completamente adagiato al suolo.

Ottimo, ora, senza quell’imbecille tra i piedi, posso sistemare questa maledetta vela.
Dopo, con calma, potrò studiare tutti i membri dell’equipaggio.
Nemmeno la fine del mondo potrebbe fermarmi dal trovare quel dannato assassino.


La porta si richiuse alle spalle del capitano dell’Ala di Albatros.
La stanza era illuminata dalla luce rossastra di un paio di lampade ad olio, mentre, all’esterno, il vento e la pioggia facevano da sottofondo ai passi del capitano Rencliff durante il tragitto che lo avrebbe condotto al fianco del suo secondo.
- Come mi aveva chiesto, ispettore, ha davanti a sé tutto l’equipaggio della mia nave. Ha pieni poteri di comando su di loro. –
L’ispettore si prese qualche secondo per scrutare i volti degli uomini che aveva di fronte. Sporchi, sudici, arrossati dal poco sole che avevano incontrato durante quei primi giorni di traversata.
Le narici dell’uomo biondo si allargarono, mentre i polmoni aspiravano l’aria che gli circondava il volto con forza.

C’è odore di magia, qui.
Nulla di grosso. Non penso siano stati fatti incantesimi o ci sia qualche oggetto incantato. C’è però una nota di mana che aleggia qui intorno.
È vero che la magia è diventata praticamente inesistente in questo mondo, cento anni di utilizzo spropositato del mana lasciato dal Cambiamento hanno prosciugato questo mondo di quasi tutta la sua energia, però qualche persona che nasce con un po’ di magia innata c’è ancora.
Nulla di che, normalmente questi individui non sanno nemmeno di possederla o, al massimo, riescono a sfruttarla per far comparire fiammelle o tenere alla larga le gocce di pioggia, nulla in confronto a quello che ho visto far fare agli incantesimi della Prima Era di questo mondo.

- Devo parlare con ognuno di voi, ma separatamente. Ora, voglio un volontario che mi segua da solo nella mensa. Pretendo che la verità su quello che è successo al drago venga a galla. – disse poi l’ispettore, voltandosi per incamminarsi verso la porta accostata alle sue spalle.
Oltrepassato l’ingresso che lo avrebbe condotto alla mensa, l’uomo biondo si sedette a una delle prime sedie che gli si presentò, con il volto nella direzione da cui era arrivato, in attesa del primo volontario.

Non mi interessano davvero loro, l’unico motivo per cui voglio vederli singolarmente è per poter vedere i loro destini in un luogo dove la Trama del Reale non sia troppo spessa.
Dopotutto, se uno di loro ha ucciso quel drago, avrà ancora delle tracce di sangue addosso, per quanto possa essersi pulito.
Se uno di quei sei è l’assassino, non ha possibilità di scappare.
Scacco matto.

La porta si aprì una prima volta.
L’ispettore raddrizzò la schiena nel vedere il corpo spesso che oltrepassò la soglia.
Era il marinaio che aveva salvato da morte certa mezzora prima.
L’uomo rimase sull’attenti, in piedi di fronte alla sedia occupata.
La muscolatura marcata premeva contro la camicia e i pantaloni ancora bagnati dalla pioggia. I suoi capelli neri scuri erano talmente corti da apparire già asciutti.

Non mi serve a niente, lui. Nato da genitori contadini, donnaiolo, incapace, aspirante suicida, ma, soprattutto, non ha mai visto Gerala in vita sua. Ha girato talmente poche città che il suo destino è incredibilmente poco intrecciato con quello di altre persone.
Non è lui.

- Puoi andare, mandami un altro dei tuoi compari. –
- Signore, non vuole farmi qualche domanda? – chiese il marinaio, quasi risentito.
- No. Puoi andare. –
L’uomo si voltò verso la porta, uscendo dalla messa con passi pesanti.


Il secondo marinaio ad entrare era magro, alto sopra la media, con il volto smunto e gli occhi incredibilmente chiari.
I suoi abiti erano appena inumiditi sopra le spalle e all’altezza delle ginocchia, segno del poco tempo che aveva trascorso sopra coperta.

Questo è già più rognoso. Ha viaggiato parecchio e il suo fato è maledettamente coperto da quelli che ha incrociato.
Vediamo cosa riesco a scoprire di lui…
È nato a Derout, e i suoi primi anni sono stati poco movimentati… per colpa di una malattia.
Ho un ipotesi, su di lui.

- Lei è malato, non è vero? –
Il marinaio spalancò gli occhi, stupito.
- Si… come fa a saperlo? – rispose poi con voce incerta.
- Sono stato mandato qui dal giudice maggiore, so molte cose. Tra queste cose, però, non figura perché… - l’ispettore fece una pausa, inumidendosi le labbra.

Forza, trova qualcosa a cui attaccarti. Tipo… questo.

- Non figura perché sei andato a Gerala, un mese fa, prima di raggiungere Derout. –
- Beh, ecco… io ho viaggiato molto. Da medico a medico, intendo. Ho una malattia del sangue e, ogni volta che trovo uno specialista, questo mi manda da un suo collega… non sono mai stato in cura per molto tempo dalla stessa persona… -
- Va bene, ho un’ultima richiesta per te. Mostrami l’avambraccio. –

Questa cosa farà sicuramente più schifo a me che male a te, te lo assicuro.
Ma ho bisogno di uno spillo.

Non appena l’uomo mostrò la pelle candida del suo avambraccio, l’ispettore mostrò l’ago che teneva tra le dita, piantandolo nella carne del marinaio che gli stava davanti. Sfilato poi il pezzo di ferro, l’uomo dal volto tatuato raccolse una goccia di sangue fuoriuscita dal buco sul polpastrello dell’indice, portandosela alle labbra.

Non facevo una cosa del genere da quando i vampiri erano di moda.
Comunque, ora, ho la certezza che lui non possa essere l’assassino. Con la quantità di globuli rossi sani che si ritrova mi chiedo come faccia a rimanere in piedi.
Fossi il suo prossimo medico, non gli darei più di un paio d’anni di vita.

- Può andare e mi mandi il prossimo. –
Lo smilzo uscì dall’uscio, trascinando quei piedi sproporzionatamente grandi, rispetto alle gambe secche.


Per la terza volta, qualcuno entrò nella mensa.
Il corpo di quel marinaio era poco massiccio, pur essendo muscoloso, ma ciò che colpì l’ispettore furono gli occhi, simili a pietre nere incastonate su quel viso, e la pelle ustionata sul suo polpaccio.

Un altro viaggiatore. Ottimo.
Questo è nato sui Muraglia, si è mosso poco fino a… oh. Mi spiace per lui.
Deve aver abbandonato la vita da montanaro quando Loro hanno ordinato ai draghi di radere al suolo tutto quello che ci fosse lungo le pareti dei Muraglia.
Da quel punto in poi… ha viaggiato parecchio. Forse troppo.
Non riesco a leggere nulla di lui, almeno degli ultimi anni.
Dovrò scoprire qualcosa alla vecchia maniera.
Ma, prima, le sue mani…
Non ha segni di sangue, addosso.
Lui un po’ odora di magia, ma non sembra esserne al corrente.

- Bene, dovrei farle un paio di domande. –
- Certo, se questo potrà aiutarla a ritrovare Michael, faccia pure. – rispose il marinaio, con il viso rilassato.
- Quell’ustione, come te la sei procurata? –
- Questa? – chiese in risposta l’uomo dagli occhi scuri, alzando il tessuto che gli copriva la gamba per mostrare la porzione di pelle rovinata – Ci convivo da una vita, oramai non ci faccio più caso. Mi è crollata la casa addosso da bambino, era in fiamme. Tutto sommato me la sono cavata ancora con poco. –
- Sa il motivo di quell’incendio? –
Gli occhi penetranti dell’uomo si adombrarono. – No. È successo durante l’immenso incendio di qualche anno fa, sa, la nostra era una casa sui Muraglia e per buona parte era fatta in legno. –

Per ora non ha provato a coprire le sue origini. Posso supporre che sia abbastanza sincero in quello che dice.

- È stato a Gerala, ultimamente? –
Il marinaio parve stupito dalla domanda. – No, cioè, non proprio. Ho passato una notte in uno dei piani più bassi della città, mentre ero in viaggio per Derout, però non ho avuto il tempo per visitarla. –
- Basta così, piò andare. Mandi un altro al suo posto. –


Il quarto marinaio a presentarsi era un elfo dalla fronte alta e i capelli estremamente radi. La pelle del viso non era ustionata, anzi, pareva non avesse dovuto sottostare né ai raggi del sole, né alla pioggia sferzante di quel viaggio.
Non sembrava essere particolarmente fisicamente prestante, nonostante questo, però avanzava sicuro di sé in quella stanza.
Sorrise sornione all’ispettore, mostrando un incisivo spaccato sotto le labbra sottili.
Gli abiti che portava addosso sembravano poco adatti al lavoro da marinaio, erano di ottima fattura, prodotti con materiali di qualità, abiti da ricchi.

Un altro facile da gestire, per fortuna.
Questo ha vissuto a Gerala per… tutta la sua vita?
Praticamente non si è mai mosso di là.
Non sembra un elfo particolarmente pericoloso… proprio per questo potrebbe essere l’assassino.

- Lei cosa ne pensa dei draghicidi di Gerala? –
- Saranno dovuti a una guerra tra draghi. Lo studiano i marmocchi a scuola che quelli sono belve, anche se fanno finta di essere degli umani. –
- Lei sta dicendo che è stato un bene per la città l’assassinio di quel drago alla base dei tronchi e l’incendio del ristorante? –
- Io sto dicendo che quelle bestie dovrebbero starsene nel loro vulcano. – il marinaio si sporse verso l’uomo dal volto tatuato, con uno sguardo altezzoso che gli illuminava le iridi marroni – Non capisco perché quegli animali possano vivere con esseri civilizzati come noi. –
- Di Michael, cosa ne pensa? –
- Sarebbe stato un servitore incredibile, se solo il capitano l’avesse tenuto al guinzaglio. –

Rencliff mi ha dato pieni poteri sui suoi uomini.
Ora voglio tirare una moneta.

- Mi mostri le mani. Immediatamente. –
L’elfo le alzò svogliatamente le mani con i palmi verso l’alto, forse orgoglioso dell’assenza di calli che poteva vantare.

Peccato, non ci sono segni di sangue o lotta.
Dovrò trattenermi.

L’ispettore si alzò dalla sua sedia, facendo un passo in direzione dell’elfo.
- Sai, credo che tu abbia sbagliato razza. Di nascita, intendo. Quelli come te dovrebbero nascere mosche, in modo da poter sguazzare a piacimento nel letame, come gli compete. –
- Lei mi sta minacciando? – chiese ancora il marinaio, sorridendo divertito.
- No, assolutamente. Non è nel mio stile fare minacce. Adesso, le chiederei di uscire… ma non lo farò. –
Un pugno colpì con violenza inaudita la bocca dell’elfo, al punto da rompere anche l’incisivo intatto e far cadere d schiena il marinaio sulle assi del pavimento.
- Ringrazia la tua buona stella, perché non posso perdere tempo con te. Vedi però di non farti più rivedere lungo la mia strada, perché, la prossima volta, non sarò così gentile. – continuò a dire l’ispettore, avanzando.
Una suola rigida impattò sulla fronte dell’elfo, facendogli perdere i sensi.

La porta si aprì con forza per lasciar passare l’ispettore e il corpo dal volto coperto di sangue che si stava trascinando dietro.
Il marinaio svenuto venne malamente scaraventato per terra, davanti ai suoi compagni.
L’uomo biondo alzò lo sguardo verso la platea ammutolita che lo fissava, sorridendo in risposta.
- Forza, entri uno degli ultimi due. –


Dovettero passare un paio di minuti, prima che uno degli ultimi due marinai rimasti si facesse abbastanza forza per entrare nella mensa.
Era un elfo dal corpo ben proporzionato, i lineamenti sottili del viso erano incorniciati dai capelli castani, che in parte coprivano le orecchie appuntite.
Le sue iridi, vagamente, rilucevano di un riflesso violaceo, probabilmente dovuto alla presenza di un umano o un mezzelfo nella sua discendenza.
L’elfo sorrise incerto, porgendo la mano tesa all’ispettore che aveva di fronte.
- Scusi se l’ho fatta attendere. Jiray Kavvan, piacere. – la sua voce tremava lievemente.
L’uomo biondo lo squadro per qualche secondo, sistemandosi la ciocca scura nella sua chioma riccia, senza mai smettere di sorridere.

Questo puzza di magia in maniera terrificante.
Sa di possedere un potere innato e lo utilizza fin troppo spesso.
Proverò a farvi capire cosa le mie narici sentono.
La magia consuma mana per funzionare, so di non dirvi nulla di nuovo, ma aspettate ancora un attimo.
Fate finta che un mago sia una pistola, l’incantesimo la pallottola e il mana la polvere da sparo, bene, lanciato l’incantesimo, innato o meno, il mana consumato rimane ad aleggiare intorno al corpo dell’utilizzatore.
E ha un odore orribile.
Dopo un po’, ovviamente, scema, però un minimo si riuscirà sempre ad avvertire.
Il tipo di prima, quello con l’ustione, è possibile che abbia usato il suo potere mentre dormiva, o una volta per caso, ma non lo può usare troppo di frequente e, sicuramente, non lo ha utilizzato da questa mattina, lo avrei avvertito più nitido, altrimenti.
Questo qui sembra essere dipendente dal suo utilizzo, davvero.

L’ispettore strinse la mano dell’elfo.
- Come posso aiutarla? – continuò il marinaio, ritirando il braccio.

Chi sei?
Puoi essere il mio uomo, ma non voglio sbagliarmi.

- È stato a Gerala, ultimamente? –
- Le interessa davvero saperlo? –

Ancora un’altra zaffata di mana utilizzato.
E, comunque, si, mi interessa saperlo.

- Si, certo che mi interessa. Non glielo avrei chiesto, altrimenti. –
L’elfo parve stupito della risposta, ma mantenne il suo contegno.
- Si, sono stato a Gerala, la settimana scorsa. –
L’ispettore squadrò ancora meglio l’individuo che gli stava davanti. I suoi occhi, intanto, si strinsero, andando a somigliare a quelli di un rettile.

Non mi piace come risponde.
Per niente.
È troppo sicuro di potermi aggirare e non so come mai.
Lui non sa chi sono, cosa so fare e cosa posso vedere.
Certo, su di lui il cosa posso vedere vale poco, ha viaggiato troppo e ha incrociato troppi destini perché adesso, nelle mie condizioni, io riesca a leggere bene le sue mosse degli ultimi anni.
Che sia convinto di potermi uccidere, se le cose si mettessero male per lui?
Ci provasse solo, così mi toglierebbe ogni dubbio.
Bene.
Da qui comincia la mia sfida.
Devo braccarlo, in modo da vedere perché è così spavaldo.

- Cosa faceva a Gerala? –
- Niente di importante… non si preoccupi. –

Ancora quell’odore di mana…
Non capisco cosa stia cercando di fare.
Anche se…
Ho un dubbio e la risposta potrebbe non piacermi.

- Vuoi cominciare a rispondere alle mie domande? Ricordati che sono qui a nome del Giudice Maggiore e, anche se non rientra della mia missione principale, posso comunque arrestarti e farti passare i prossimi trent’anni in prigione. –
La fronte dell’elfo si imperlò di sudore, mentre lui cominciava a perdere la sua compostezza e il suo autocontrollo.
- Preferirei davvero non dover rispondere a questa domanda. –

L’odore di mana sta diventando insopportabile.
Sta provando a fare qualcosa, ma, evidentemente non gli riesce…

Sono un cretino.
Mi meriterei un’altra impalata per un errore così stupido.
Certo che non gli riesce.
Su di me non hanno effetto incantesimi di modificazione sensoriale, ovvio, i miei sensi vanno oltre quelli dei mortali.
Deve avere un potere che influisce sulla mia percezione, o, almeno, tenta di farlo.

- Ascolta, - sussurrò sibilante l’ispettore, sporgendosi verso l’elfo sudato – so cosa stai facendo e ti consiglio di smettere di provarci. Non ha effetto su di me. Se non vuoi uscire di qui come quello che ti ha preceduto, per favore, rispondi bene alle mie domande. –
L’elfo sospirò, abbassando lo sguardo in segno di resa.
- Va bene, spero di non aver incrinato il nostro rapporto… -
- Rispondimi, cosa ci facevi a Gerala? E, già che cominci a parlare, perché ti sei imbarcato su questa nave? –
- Vede, ho degli affari a Gerala, diciamo che grazie alla mia… capacità sono un ottimo intermediario per spostare l’ago della bilancia. Ero nella metropoli sugli alberi per chiudere un grosso affare riguardo un gruppo di Demo, certo, il mio mandante non sarebbe molto felice di sapere che io sto parlando dei suoi affari a uno sconosciuto. Mi sono imbarcato semplicemente perché il mio prossimo cliente è del Continente e perché dovrei pagare un biglietto, se il capitano si è rivelato così entusiasta di pagarmi per farmi fare il tragitto? –
- Mostrami le tue mani. – disse imperioso l’uomo biondo.

Nulla, nemmeno una macchiolina di sangue.

- Facciamo un patto. Io ho un potere, tu hai un potere. Facciamo uno scambio, tu mi spieghi cosa cercavi di farmi e io ti mostro quel è il mio potere. – L’ispettore sorrise, allargando il taglio che era diventata la sua bocca fin quasi in maniera eccessiva.
Per la seconda volta, l’elfo sospirò, per poi tornare ad alzare lo sguardo verso il suo interlocutore.
- Io posso… rendere più amichevoli le persone. Posso spingere gli altri a volermi rendere felice. Semplice, no? –

Un potere di charme, praticamente.
Ecco il perché della sua sicurezza.
Questo non lo elimina dalla mia lista di sospettati, però.
Il tempismo con cui era a Gerala e a Derout è coincidente ai draghicidi.
Lo devo tenere d’occhio.
Ora, però, ho un problema più grosso. Devo pagare il prezzo della mi curiosità.
Andiamoci piano.

- Bene, ora ti mostrerò di quale potere sono in possesso io. –
Il volto dell’ispettore mutò, divenendo più fine, minuto, carino, gli occhi si scurirono, passando dal verde primaverile al marrone, i capelli sul suo capo si allungarono, tingendosi di rosso.
L’elfo, ora, si trovava di fronte a un uomo sul cui collo era stata come attaccata a forza la testa di una giovane fanciulla dalle orecchie a punta.
- Puoi andare. – disse ancora la fanciulla, prima di scomparire per far tornare le fattezze dell’uomo tatuato.


L’ultimo ad entrare nella sala fu il marinaio più corpulento. Si muoveva pesante sotto il peso della pancia da alcolizzato che doveva trasportare.
Il colorito della sua pelle, giallognolo, risaltava alla luce delle poche lampade accese, le cui lame rossastre gettavano ombre scure tra le pieghe di grasso che erano nate sotto il mento e sulle braccia dell’uomo.

Per questo non ho nemmeno bisogno di provare a leggere la Trama.
Ubriacone in cerca di soldi facili, senza famiglia né di un lavoro stabile.
La puzza di alcol e sudore che emana è forse persino peggiore di quella di mana che mi ha assillato fino a un attimo fa.

Come immaginavo.
Originario di Derout, cresciuto e vissuto tra le taverne e le birrerie.
Nelle sue condizioni non potrebbe nemmeno sperare di uccidere un bambino, figurarsi un drago.
Non mi interessa.

- Puoi uscire. Non mi servi più. – l’ispettore accentuò il suo comando con un gesto rapido della mano.
Il marinaio, che ancora non aveva raggiunto la meta che si era prefissato, si voltò brontolando, per tornare nella stanza precedente.

C’è ancora una cosa che devo controllare.
Ho dato uno sguardo ai passeggeri, prima di atterrare, e nessuno di loro è stato a Gerala nell’ultimo mese.
Esistono però i clandestini.
Devo scendere sottocoperta per stanare qualche topo.


L’ispettore si fece largo tra i pali che supportavano il ponte principale, le reti e i cannoni incatenati alle pareti, avanzando con cautela mentre i suoi occhi spaziavano tutto intorno.
La pioggia aveva diminuito la sua intensità e, con il suo permesso, il capitano aveva potuto far servire il pranzo.
L’uomo biondo si mosse ancora verso la scaletta che lo avrebbe portato al livello inferiore.

Non riesco a vedere nessun destino qui presente.
Se solo Michael non fosse stato così a lungo impiegato su questa nave avrei potuto cercare di capire se la sua vita sia finita qui o meno…
Ma è passato per questi locali troppe volte, è come cercare di trovare il punto in cui è stata staccata la matita dal foglio nello scarabocchio di un bambino.
Devo scendere ancora, ma non credo troverò qualcosa.

I passi dell’uomo fecero scricchiolare la scaletta.
Nella stiva tutto taceva e nulla sembrava intenzionato a muoversi.
L’ispettore strizzò gli occhi, guardandosi attorno, mentre il suo naso annusava l’aria come quello di un segugio.

Qui c’è odore di sangue.
Potrei aver trovato la mia scena del delitto.

L’uomo biondo fece ancora qualche passò avanti, per poi bloccarsi di colpo.
Automaticamente i suoi avambracci si strinsero sul ventre, mentre lui cadeva in ginocchio agonizzante.
Sulle assi del pavimento, di pari passo con l’aumentare dei sussulti di quel corpo, si allargava una pozza di un viscoso liquido nero.

Di nuovo…
No, questa volta è diversa dalla crisi al tempio. È peggiore.
C’è qualcosa che non va nella mia ferita.
Non stavo così male…

L’ispettore provò ad alzarsi sulle gambe mal salde, ma non riuscì a fare più di tre passi verso la scaletta, prima di ricadere a terra violentemente.

Non stavo così male da quando gli Araldi non provarono ad uccidermi sull’Isola dei Draghi.
Che la maledizione che mi ha lanciato Follia abbia cominciato solo ora ad avere effetto?
Devo tornare a fargli visita con…

L’uomo si trascinò disperatamente verso la scaletta, issandosi poco a poco verso il livello superiore, scivolando di scalino in scalino e lasciandosi alle spalle una scia scura e opaca.

Devo tornare a fargli visita con un grosso martello.
Sempre se riuscirò a uscire di qui sulle mie gambe, o zampe… o qualunque cosa abbia in quel momento.




Angolo dell'autore:

Vi devo chiedere scusa, forse, per questo capitolo interminabile. Avrei dovuto mozzarlo, ma non sapevo nè come, nè dove.
Non voglio trattenervi oltre, adesso.
Innanzi tutto ho dei ringraziamenti particolari con cui iniziare oggi, diretti a quei meravigliosi folli che leggono i nuovi capitoli appena li pubblico, praticamente. Mi complimento con voi per avere ancora la forza e la lucidità mentale per leggere il nuovo proseguo della storia nell'arco di tempo che separa la mezzanotte dalle sette di mattina. Chapeu, davvero.
Ovviamente grazie alle meravigliose OldKey, la ragazza imperfetta e whitesky per le loro recensioni e la compagnia che mi tengono in questo viaggio.
E, infine, grazie a tutti quei lettori che non rientrano nelle sopracitate liste, per il semplice motivo di esistere.
Vi saluto.
Alla prossima.
Vago

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Capitolo 15
*** Capitolo 7: La fine di un viaggio ***


Noir si cinse le gambe rannicchiate con le braccia, cercando di scaldarsi.
Fuori, all’esterno, sentiva il nuovo temporale che era nato abbattersi con forza sulla nave che lo stava ospitando.
Dei passi rapidi giunsero sul ponte a lui immediatamente superiore.
Si fermarono.
Forse il trentenne udì una voce, ma il vento che fuori ululava non gli permise di riconoscere quel suono fino in fondo.
La barca strattonò violentemente, segno che le vele non erano state ancora completamente ammainate.
Ancora passi, questa volta erano di più, si stavano allontanando, fino a sparire al suo udito.
Per diverse ore l’unico suono percettibile fu l’ululare del vento contro le pareti esterne della stiva, inframezzato dallo sciabordare delle onde.
La pioggia diveniva più e meno intensa ciclicamente, come se stesse eseguendo una danza che ne definiva la violenza.
L’aria si fece sempre più umida, generando un brivido che percorse tutta la schiena di Noir. I capelli neri gli si incollarono alla fronte, madidi, e, in tutta risposta, il suo viso scomparve tra le ginocchia che stavano strette al suo petto, nel tentativo di non sprecare nemmeno il calore che il fiato gli portava via.

Lentamente, la tempesta parve affievolirsi, riducendosi a un lento e costante battito di gocce sulle assi che proteggevano il carico dell’Ala di Albatros.
Il trentenne si cercò di sistemare meglio nel piccolo spazio che si era ricavato dietro la muraglia di sacchi e casse, continuando a tenere le orecchie all’erta nel caso qualcuno fosse di nuovo sceso.
Dei passi decisi, misurati, cominciarono a far vibrare le assi sopra la testa di Noir, spostandosi verso il centro del ponte superiore e, da lì, lentamente, verso la scaletta che avrebbe permesso al loro proprietario di scendere ancor più in basso nel ventre della nave.
Il trentenne dai capelli neri si cercò di fare piccolo, scivolando ben sotto alla protezione delle merci che gli stavano davanti.
I passi, dopo un tempo infinitamente lungo, si lasciarono alle spalle l’ultimo scalino, toccando il pavimento di quell’ultimo ponte, per poi fermarsi.
Una vibrazione dovuta all’impatto di una suola rigida sul legno, poi un’altra, un’altra e un’altra ancora.
Ci fu un secondo di silenzio di troppo a precedere il suono del quinto passo, che non arrivò.
Al suo posto ci fu un tonfo, accompagnato da un verso di dolore.
Gli scricchiolii che seguirono quel momento potevano essere dovuti al nuovo arrivato che si rialzava, se era caduto, oppure al suo appoggiarsi contro una parete.
Noir, in quel momento, decise che era meglio non indagare su cosa fosse successo.
Di nuovo la stiva silenziosa fu percorsa da vibrazioni dovute ai passi, questa volta direzionati nuovamente verso la scaletta che li avrebbe condotti via di lì.
Un altro tonfo, questa volta più forte fece vibrare tutto il pavimento violentemente, facendo scivolare un poco più verso il basso i sacchi di farina che erano stati ammucchiati là dove ora si trovava la sorgente di quel rumore.
Lo struscio dei tessuti  contro il legno si fece sentire, lento, continuo, a volte coperto dal mugugno dell’uomo che si stava trascinando via.
Passò mezz’ora, prima che Noir si osasse alzare dal suo nascondiglio.
Non c’era più traccia dell’essere che aveva prodotto quei suoni, al suo posto, invece campeggiava una pozza di liquido scuro, sbavato come da un grosso pennello verso la scaletta, sui gradini e, appena visibile, sul ponte mediano.
Il sangue del trentenne cominciò a fremere, scaldarsi, spingere contro le pareti delle vene e delle arterie, costringendo quel cuore ad aumentare il ritmo dei suoi battiti.
Noir cominciò a sentire le tempie pulsare, mentre la sua vista si fece offuscata.
Non gli era mai capitata una cosa del genere, non si era mai sentito così, non sapeva cosa gli stava succedendo.
Sapeva solamente che doveva andare verso quella possa di sangue. Voleva andare verso quel sangue.
Riluttante, il piede destro si fece avanti, trascinandosi sul pavimento.
Il sinistro lo seguì, più veloce.
I passi si fecero via via più decisi, crescendo inversamente alla lucidità che il trentenne poteva vantare.
Noir si ritrovò con le punte delle scarpe a pochi millimetri dalla pozza di liquido.
Il petto pareva volergli esplodere, sentiva ogni millimetro della sua pelle in tensione, pronto a strapparsi sotto la pressione che si stava generando tra i muscoli.
La camicia che copriva il petto dell’uomo parve esplodere, strappandosi là dove un’enorme dito nero proruppe per andare a piantarsi all’interno della pozza, che cominciò a ribollire, diventando sempre più liquida e meno viscosa.
L’artiglio si ritrasse dalla pozza solo dopo diversi secondi, permettendo alle gocce di liquido scuro di cadere sul suolo.
Il trentenne riprese lentamente coscienza di sé, guardando sconvolto la creatura nera che gli era nata dallo sterno.
Con un colpo di frusta secco l’artiglio si ritirò, tornando a celarsi nel corpo dell’uomo dalla camicia strappata.
Noir si chinò sulla pozza, immergendoci due dita all’interno, nel tentativo di capire cosa avesse scatenato in lui quella reazione.
Non era sangue, era un liquido nero, leggero.
Poteva essere una trappola per portarlo a scoprirsi?
A quel pensiero fece un balzo indietro, puntando il suo sguardo verso la scaletta, aspettandosi di trovare l’intera ciurma della nave pronta ad attaccarlo.
Non c’era nessuno.
Il trentenne tornò rapidamente al suo nascondiglio, sperando unicamente che nessuno volesse scendere nella stiva.
Sapeva che la durata del viaggio verso il continente poteva variare tra il giorno e mezzo e la settimana, dipendentemente dalla velocità massima con cui la nave poteva viaggiare e dalle condizioni che questa incontrava sul suo percorso.
L’Ala  di Albatros sembrava un buon veliero, ma le due tempeste in cui si era imbattuta le aveva fatto perdere sicuramente molto tempo.
Non aveva idea di quanto tempo ci sarebbe ancora voluto per raggiungere il porto di Largan, ma doveva essere pronto a sgusciare fuori dalla nave prima che i marinai cominciassero a scaricarla delle merci che trasportava.

Si sentirono ancora dei passi sul ponte mediano, ma nessuno di essi si avvicinò mai alla via che li avrebbe condotti alla stiva.
Il cielo, fuori, si era fatto scuro e la poca luce rossastra che riusciva a filtrare nel ventre della nave era sufficiente appena per abbozzare i contorni di ciò che vi era custodito all’interno.
La temperatura scese velocemente, facendo accapponare la pelle dell’uomo nascosto.
Una campana suonò più volte, fragorosa, spandendo la sua voce in tutta la nave.
Terra.
Dovevano essere arrivati.
Noir si alzò incerto sulle gambe intorpidite, spostandosi verso la scaletta facendo ben attenzione ad evitare di mettere il piede nella pozza di liquido scuro.
L’ultimo marinaio che aveva camminato sul ponte mediano se ne doveva essere andato una ventina di minuti prima, o almeno questo era quello che le orecchie del trentenne avevano percepito.
Salì rapidamente gli scalini scricchiolanti, per poi sgusciare dietro uno dei pali che supportava il ponte principale.
Lì attese, nascondendosi nelle ombre, cercando di capire se fosse davvero solo in quell’ambiente.
Tutto continuò ad essere immobile e silenzioso.
Superò il cannone che gli ostacolava la via verso la parete, andando poi a scostare l’asse che copriva il buco destinato alla bocca dell’arma che lì era stata assicurata.
In direzione della prua della nave si potevano riconoscere decine di luci rossastre, luci di civiltà.
Non ci sarebbe voluto più di un quarto d’ora per raggiungere terra, stimò Noir, se avessero continuato a viaggiare a quella velocità.
La campana, intanto, tornò a farsi sentire con una decina di rintocchi.

Il porto era sempre più vicino, solo una ventina di metri separavano la nave dai lumi che si stavano avvicinando.
I marinai, sul ponte superiore, cominciarono a muoversi rapidi, predisponendo tutto per lo sbarco.
Noir guardò verso il basso, oltre l’apertura che gli stava davanti.
L’acqua sembrava una distesa di nera ossidiana, su cui la luna si rifletteva quasi perfettamente.
Una volta che l’ancora fosse stata calata e le cime legate al molo, per lui sarebbe stato molto più complicato scendere senza farsi notare.
Controllò che lo zaino in cui aveva riposto le poche cose che possedeva fosse ben saldo sulle sue spalle e contro la sua schiena.
Avrebbe dovuto anticiparli.
Portò le gambe oltre la cornice dell’apertura, con solo la forza delle sue braccia che gli evitavano la caduta.
Guardò un’ultima volta il molo, sempre più vicino, poi lasciò la presa, lasciandosi cadere verso la superficie nera del mare.
Cerchi concentrici si generarono nel punto dove era caduto, ma il suo corpo parve non aver intenzione di risalire in quel punto. Bucò, invece, la superficie d’acqua diversi metri più avanti, muovendo affannosamente braccia e gambe in direzione della terra ferma.

Si issò su un pontile isolato, a cui erano state ormeggiate solo piccole barche, inadatte sia a lunghi viaggi che alla pesca.
Non sembrava che nessuno fosse lì nei dintorni.
Noir fece alcuni passi sul pontile, aspettando che il grosso dell’acqua che gli inzuppava i vestiti si riversasse sulle assi di legno che stava calpestando.
Non poteva permettersi di perdere tempo in quella città, sarebbe stato molto più al sicuro cercando di ricostruirsi una vita in un piccolo villaggio, magari uno di quelli abitato da boscaioli e allevatori di cinghiali che erano sorti all’interno della foresta che infestava la porzione orientale del Continente.
Il trentenne guardò il cielo.
La luce di quella luna calante bastava appena per illuminare  contorni dei ponteggi e delle prime, piccole case costruite a ridosso del mare.
Per quanto la sua maledizione lo potesse proteggere, sarebbe stato estremamente stupido da parte sua avventurarsi su strade che non conosceva con l’oscurità.
I suoi piedi si mossero quasi da soli, puntando verso ovest, verso l’entroterra.
Quantomeno, voleva essere pronto a partire il mattino seguente, sfruttando la notte per attraversare indisturbato la città.
Imboccò quindi la via che gli si presentò davanti, fiancheggiata e stretta tra le case in rossi mattoni che la delimitavano.


Angolo dell'Autore:

Ciao a tutti e grazie, a voi che siete giunti fin qui.
Ovviamente un grazie "più grazie" a Oldkey, la ragazza imperfetta e whitesky, per le loro fantastiche recensioni.
...

Attenzione: AVVISO ALLA FINE, se volete saltare la parte discorsiva, l'AVVISO è nel paragrafo successivo a quello che segue.

Gli angoli dell'autore, ultimamente, sono diventati un po' come quel lungo tavolo in cui si può parlare del più e del meno con i commensali, e non mi dispiace sia così. Per lo meno in questa serie, che è la mia principale, almeno per il momento.
Il loro formato è estremamente discorsivo, dovuto al fatto che li scrivo nel momento stesso in cui pubblico il capitolo, avendo alle spalle solo un'idea generale dei temi di cui vorrei parlarvi.
Questo angolo, inizialmente, doveva essere riservato al condividere con voi alcune chicche sul Viandante che ho riscoperto quando ho riaperto vecchi file e appunti cartacei, roba che è ferma a prendere polvere da anni.
Arrivato a questo punto, però, mi sono reso conto che non è la cosa principale che avrei voluto comunicarvi, oggi.
Mi spiace, le cose imbarazzanti sulla nascita e sull'adolescenza del buon Commedia (con tanto di piccola informazione sull'altra musa) vengono rimandate, per far posto a un argomento un po' più serio.
L'avviso sopra citato.

Ho ricominciato questa settimana le lezioni universitarie, che mi stanno portando via decisamente molto più tempo di quello preventivato.
Per ora riesco ancora a scrivere, revisionare velocemente e pubblicare i capitoli con cadenza settimanale (capitoli in quanto conto quello al venerdì di questa storia e quello al sabato della fan-fiction in cui mi sono cimentato). Detto questo, è possibile che, per impegni di vario genere, non riuscirò ad essere sempre impeccabile. Potreste trovare, quindi, da ora in poi, un grosso avviso prima dell'Angolo dell'Autore in cui vi dirò che la settimana dopo non riuscirò a pubblicare.
So che è una cosa da poco, ma ci tengo a fare un lavoro pulito e avvisarvi in tempo delle mie possibilità.

Detto questo, alla prossima!
Vago

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Capitolo 16
*** Capitolo 7.5: Vicino ***


L’ispettore biondo riaprì gli occhi di scatto, improvvisamente, facendo sobbalzare l’uomo dalla pelle abbronzata che gli stava accanto.

Acqua.
Acqua che mi cola lungo la fronte verso le orecchie.
Sono sdraiato.
Non sento lo scrosciare delle onde. Non mi hanno buttato in mare.
Ottimo, una rottura di meno.
Devo capire cosa mi sta succedendo. Devo farlo il prima possibile.
Ma, per ora: dove sono?
Assi sul tetto e ai miei fianchi.
Da quanto ho visto l’ultima volta che ci ho dovuto fare tappa, Largan è stata costruita prevalentemente in mattoni.
Devo essere ancora sulla nave.
Quanto tempo sarà passato?
Dannazione! Non posso essermi riuscito a far scappare di nuovo l’assassino!
C’è qualcuno accanto a me.
Chi?
Dannazione. Non ero ridotto così male da quando Follia mi ha ferito.

L’uomo dal volto tatuato si mise seduto lentamente.
La camicia chiara che portava addosso era macchiata all’altezza del ventre da un liquido scuro.
Si passò la mano tra i ricci chiari, guardandosi intorno con insolita chiarezza mentale, per un uomo nella sua condizione.
- Ispettore Vander! – bofonchiò il vecchio timoniere della nave, prendendo il ferito per le spalle e tentando inutilmente di farlo tornare sdraiato – Non dovrebbe muoversi con una ferita come quella! Non dovrebbe nemmeno essere cosciente! –
Il capo dell’ispettore si piegò verso il basso, mentre le sue mani prive di calli alzavano il tessuto sporco per scoprire la ferita.
 Un taglio largo ricoperto da una crosta nera come la pece si faceva strada nel ventre dell’uomo, perfettamente allineato con quello gemello che nasceva all’altezza dei reni.

Poteva andare peggio.
Non vorrei rischiare di essere ottimista, non sarebbe da me, ma ho l’impressione che sia riuscito a far saldare un pezzo di pelle in più del solito.
No, non credo che sia possibile.
Sono anni che cerco di farla guarire, ma quello schifo che mi ha messo dentro Follia non è mai uscito da lì.
In ogni caso, non ho tempo da perdere.
Appena sarò lontano da questa nave vedrò di far rigenerare le bende per nascondere la ferita e una nuova camicia. Non posso permettermi di andare in giro con la mia linfa sugli abiti.

- Non ti preoccupare. Non è nulla. – l’uomo biondo fece scendere i piedi dal letto, sospirando quando un nuovo schizzo di linfa impregnò i suoi abiti – Piuttosto, dove siamo? Da quanto sono svenuto? –
Saraga guardò di sbieco il liquido lucente che colava lungo la camicia chiara che gli stava davanti, ritardando di qualche secondo la sua risposta.
- Siamo sbarcati a Largan un paio di ore fa. Ti abbiamo ritrovato sottocoperta quando oramai le manovre di sbarco erano state completate. –
- Qualcuno è sceso dalla nave? – continuò l’ispettore, imperterrito.
- Sceso? Stai scherzando? Sono scappati tutti non appena le cime sono state legate. –
- Chi è rimasto a bordo, allora? –
- Solo io ed il capitano. Uno dei nostri passeggeri tornerà domattina con un paio di garzoni per portarsi via il carico. –
- Capisco. Ti chiedo solo un’ultima cosa, sai se uno di… - le parole dell’ispettore vennero coperte dal fragoroso suono di quelle che dovevano essere enormi campane della città.
Saraga si alzò rapidamente dalla sua sedia, abbandonando la conversazione senza troppe scuse per catapultarsi fuori dalla stanza, in modo da vedere il motivo di quel trambusto.
L’uomo biondo si alzò a sua volta, lasciandosi alle spalle una chiazza scura sul letto e uscendo dalla stanza con passo deciso.
La notte era illuminata di rosso. Il colore dei mattoni risaltava vivido, acceso dalla luce danzante del fuoco che stava divorando il pontile a cui era attraccata l’Ala di Albatros.
- Per il buon nome di Acqua… - borbottò il timoniere, correndo all’argano per ritirare a bordo la pesante ancora che teneva ferma la nave – Gerard! Muoviti e vieni a darmi una mano se vuoi avere ancora una nave! – Urlò ancora in direzione della cabina del capitano, la cui porta si stava aprendo fin troppo lentamente.

No! No! No! No!
L’ha fatto di nuovo!
Dannazione!
Ma non può essere andato lontano, questo fuoco è stato appena appiccato.
Perché chiudersi in questa maniera la più vicina via di fuga per le Terre?
Deve avere qualcosa in mente e vuole evitare che arrivino dei rinforzi da oltremare.
Adesso o mai più. Devo riuscire a fermarlo.

L’ispettore accelerò il suo passo,  arrivando a correre in direzione del parapetto della nave che saltò agilmente, gettandosi tra le fiamme che si stavano alzando sempre più, ignorando l’umidità di quella notte.
- Che le è preso? Morirà! – urlò ancora il vecchio timoniere verso l’uomo biondo che sembrava aver deciso di morire.
Le ultime cime della nave caddero in acqua, permettendo alla risacca notturna del mare di trascinare l’enorme mostro di legno e cordame verso il largo.
L’uomo dai ricci biondi atterrò agile sulle assi in fiamme, proseguendo la sua corsa verso l’interno della città senza preoccuparsi delle lingue di fuoco che cercavano di accarezzarlo.
Dal suo corpo si levava un fitto vapore grigio, simile a quello di un ramo non ancora secco posto sul fuoco.

Sto sprecando moltissima materia per tenermi al sicuro dalle fiamme.
Ma avrò modo dopo di preoccuparmene.
Devo trovarlo.
Come?
Il corpo, prima di tutto.
Deve esserci il cadavere di un drago dove si è innescato l’incendio.
Da quest’altezza, però, non riuscirò mai a vederlo.

La camicia macchiata e i pantaloni dell’ispettore si scurirono, divenendo un tutt’uno con il carpo, che si rimpicciolì, modificando le sue proporzioni.
Con un battito d’ali e un ultimo sbuffo di vapore per allontanare le fiamme, un uccello dal piumaggio color pece si levò in volo al di sopra delle fiamme, percorrendo rapidamente tutta la lunghezza del pontile per cercare il punto in cui quell’incendio era nato.

Forza! So che c’è un drago morto da qualche parte.
Nessun innesco normale sarebbe riuscito a far nascere una cosa del genere con l’umidità di questo posto.
Forza!
Dove sei? Dove sei?
Eccoti, maledetto.

Il corvo si abbassò di quota quel tanto che bastava per permettere ai suoi occhi di riconoscere la postura in cui il corpo riverso tra le fiamme era rimasto.
La testa puntava verso il mare, i piedi verso la città. Le sue mani carbonizzate erano per lo più nascoste dal suo ventre, schiacciato contro le assi su cui aveva camminato fino a poco prima.

Doveva essere diretto verso la nave, quando lo ha attaccato.
Come faceva a sapere che era un drago? Lo conosceva?
Era già stato qui?
In ogni caso, vista la postura è probabile che lo abbia trafitto dal petto, lasciandolo cadere in avanti.
È entrato nella città. Quale strada può aver utilizzato?
La più grande e affollata, conoscendolo.
Devo muovermi.

Il corvo accelerò la sua andatura, sorvolando la via centrale che dal porto conduceva in direzione della piazza principale della città.
Gruppi di uomini dalla periferia cominciavano a mobilitarsi per la strada, dirigendosi verso il fuoco come falene attratte dalla luce per cercare di spegnerlo.
Più avanti sul suo percorso, seduti a un tavolo all’esterno di una birreria, tre dei marinai che avevano lavorato sull’Ala di Albatros ridevano già ubriachi, ignorando totalmente le campane che suonavano e le urla della gente.
La piazza principale si aprì, infine.
Il corvo si abbassò su uno degli ultimi tetti che la precedevano, scomparendo in un turbinio di piume per lasciare il passo all’uomo biondo, vestito ora con il suo completo perfettamente pulito.
Gli occhi dell’ispettore scrutarono la piazza buia, troppo grande per essere illuminata completamente dalle poche lanterne che erano state lasciate accese per quella notte.
Poche persone si muovevano all’interno di quello spazio vuoto.
Per lo più civili che, svegliati dal suono delle campane, erano scesi per vedere perché queste suonassero.
Sul lato sinistro della piazza due degli uomini che aveva interrogato a bordo si stavano dirigendo verso l’insegna di una locanda.
L’uomo dai ricci biondi storse il naso, percependo il puzzo di mana utilizzato che uno dei due si lasciava alle spalle.
Un’ombra si mosse sul lato opposto. Curva, veloce, attaccata al muro delle case e ben attenta a non lasciarsi illuminare dalla luce delle lampade.

Non riesco a vedere il fato di quella persona.
Forse mi sono sbagliato.
Forse il Buco della Trama che ha sterminato gli abitanti di quel tempio è anche il mio assassino.
Poco male. Ucciderò due pericoli con un solo colpo.

L’ispettore fece un passo avanti, superando il cornicione e lasciandosi cadere verso la strada sottostante. Nella sua mano, intanto, comparve la lunga lama di un coltello.
Non appena le sue suole toccarono terra, l’uomo si mise all’inseguimento dell’ombra. I suoi occhi erano puntati su di lei, sicuri di non poterla perdere di vista.

Non sono mai stato bravo a produrre armi.
Non è mai stato il mio campo, in fondo.
Tendenzialmente le lame che creo tendono ad essere poco resistenti durante i combattimenti, per questo preferisco usare delle armi forgiate dai mortali per combattere, se proprio non posso evitare lo scontro.
Per questa volta mi farò andare bene questa, comunque.
Per quanto possa essere bravo, io lo sono certamente di più.

La distanza tra le due figure si fece sempre più esigua e non ci volle molto tempo prima che l’ombra si rendesse conto che l’uomo biondo la stava puntando.
Entrambi aumentarono il loro passo. Il primo cercando di sfuggire all’inseguitore svoltando ogni volta che le vie laterali glielo permettevano, il secondo stando ben attento a non perderlo mai di vista.
La distanza tra i due diminuì ancora.
L’ispettore incespicò un secondo, venendo colto da una fitta al petto, ma riprese subito l’inseguimento, stringendosi il ventre dolente con la mano sinistra.
L’ombra svoltò per l’ennesima volta a destra, trovandosi davanti a un vicolo cieco. Si voltò ansimante, pronto all’apparizione imminente del suo inseguitore, che non mancò di presentarsi.
L’uomo dai ricci biondi svoltò l’angolo. La sua schiena era curva in avanti, la mano all’altezza dello stomaco era pregna di un liquido scuro che continuava a cadere sotto forma di gocce verso il terreno. Il viso solcato da un tatuaggio romboidale era segnato, ma gli occhi brillavano di esultanza.
L’ispettore fece qualche passo avanti, trascinando i piedi e tossendo più volte. Alle sue spalle la scia di sangue si faceva sempre più spessa.
L’ombra, un uomo dai vestiti troppo grandi, venne attraversato da un fremito, ma restò al suo posto.

Ti ho preso, maledetto Buco.
Ora facciamola finita.

La lama stretta nella mano destra dell’uomo dagli abiti eleganti si fece avanti, puntandosi contro il petto della sua preda.
- Non so come riesci a farmi questo, ma questa notte smetterai di fare qualsiasi cosa. Non potevi sfuggirmi per sempre. –
- Davvero, non so di cosa tu stia parlando. Ti prego, se ci tieni alla tua vita ti conviene andartene di qui. – provò a dire timidamente l’ombra alzando le braccia di fronte a sé.
L’ispettore avanzò ancora.
I suoi muscoli si irrigidirono all’unisono, la quantità di sangue che fuoriusciva dalla ferita si fece ancora più importante, ma l’uomo rimase ben saldo sulle sue gambe, deciso a non lasciarsi sfuggire quell’opportunità.
L’ombra si voltò un attimo verso il muro, puntando il suo sguardo verso l’alto.

Non può scappare.
È fisicamente impossibile.

La notte venne riempita da un’intensa luce azzurra, accecante.
Gli occhi da felino dell’ispettore vennero presi alla sprovvista da quell’improvviso cambio di illuminazione, mandando scariche di dolore alla mente del loro padrone.

Cosa è successo?
Perché c’è odore di mana, adesso?
È questo il suo potere?
Perché non mi ha attaccato, in questi attimi di mia debolezza?
Non sento dolore, non avverto ferite.

Le pupille si strinsero oltre la loro naturale estensione, tornando ad ingrandirsi non appena il bagliore si fu dissolto.
Dell’uomo a cui aveva dato la caccia non era rimasto nulla.

Dannazione!
Gli ero arrivato così vicino!

Il coltello scomparve dalla mano dell’uomo biondo che, stizzito, si voltò verso est, verso il mare.
Da quella via in cui era finito non si riusciva a scorgere il bagliore rossastro degli ultimi fuochi.
L’ispettore scomparve, tornando in forma di corvo per poi alzarsi in volo. Sotto di lui, però nulla più si muoveva tra le vie tornate buie e silenziose.

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Capitolo 17
*** Capitolo 8: Un aiuto insperato ***


Un leggero rosseggiare si levò alle spalle di Noir per illuminare la notte.
Il trentenne rallentò leggermente il suo passo per verificare quale fosse la fonte di quella luce. I suoi occhi, però, non riuscirono a superare i massicci muri in mattoni che limitavano la strada che stava percorrendo.
Il rossore arrivava dal molo.
Era possibile che uno dei lampioni che stavano accendendo avesse improvvisamente emesso una vampata.
La luce aumentò sempre più di intensità, ma Noir non rimase a guardarla.
Doveva portarsi alla porta nord della città.
Sapeva che gli abitanti dell’Oasi si erano trasferiti al di sotto del Gorgo del Leviatano, quando lasciarono la sicurezza del lago sul lato orientale delle Terre.
Lo avessero riconosciuto anche nei paesi del Continente, poteva, come ultima spiaggia, cercare riparo nella Nuova Oasi, se solo fosse riuscito a raggiungerla, sotto i flutti di quell’imponente mulinello.
Il suo passo accelerò quando, dalle case, i primi gruppi di uomini cominciarono a riversarsi nella strada, attratti dal rossore come falene.
Non voleva rimanere in mezzo alla calca.
Rimase attaccato ai muri delle abitazioni che costeggiavano il lato destro della via, tenendo la testa ben incassata tra le spalle e lo sguardo basso, evitando con gran cura tutti i coni di luce che i lampioni proiettavano.
Delle risate sguaiate risuonarono sul lato opposto della strada, provenienti da un tavolino posto appena fuori la porta di un locale ancora aperto a cui erano sedute tre imponenti figure.
Noir riconobbe il profilo di una di queste, o almeno così gli parve. Era quasi certo che uno di loro fosse nel gruppo di marinai che aveva visto a Derout la notte in cui era salito sulla nave.
Proseguì per il suo percorso, fermandosi solamente quando, di fronte a lui, si aprì una larga piazza nella quale piccoli e sparuti gruppi di persone ancora si muovevano nonostante l’ora tarda.
Lì sarebbe stato esposto a chiunque.
Non poteva e non doveva farsi riconoscere.
Chinò la schiena, premendosi contro le mura che gli stavano a fianco e allungando il passo per lasciarsi alle spalle quel posto il prima possibile.
Le lampade appese alle pareti intonacate proiettavano i loro coni di luce verso il centro deserto della piazza, permettendogli di passare nelle zone d’ombra senza mai venire illuminato.
Proseguì veloce, senza curarsi delle persone che gli stavano intorno, delle finestre buie e di quelle illuminate delle locande.
Un movimento veloce alle sue spalle lo fece sussultare.
Un uomo lo stava puntando, camminando rapidamente nella sua direzione.
Noir a sua volta accelerò, cercando di seminarlo, ma sembrava non riuscire a prendere terreno sul suo inseguitore.
Raggiunse la continuazione della via principale che conduceva verso nord, imboccandola.
Alle sue spalle, ancora, l’uomo che lo inseguiva non si era arreso, anzi, continuava a far ridurre la distanza tra di loro senza nemmeno dover correre.
Noir sentì il sangue dentro le sue vene ribollire incontrollato, eccitato da qualcosa, come poche ore prima nella stiva della nave.
Il trentenne accelerò ancora, cercando di attirare troppo l’attenzione dei pochi passanti su di sé mentre il suo sguardo cercava disperatamente una via di fuga.
Una nuova scarica di energia gli percorse il corpo.
Noir sentì chiaramente i capillari all’interno dei suoi occhi scoppiare, facendo rovesciare il loro scuro contenuto all’interno della bianca sclera.
In un disperato tentativo di fuggire il trentenne svoltò in un vicolo a destra, rinunciando, almeno momentaneamente, alla sua meta.
Si insinuò poi in un viuzza sulla sinistra, appena questa gli si presentò davanti.
Proseguì quasi correndo tra quelle strette e sporche pareti, avvertendo dietro di sé i passi del suo inseguitore.
Svoltò a destra, dietro una cassa abbandonata a sé stessa su cui un gatto randagio miagolava agli uomini che avevano invaso il suo territorio, per poi svoltare nuovamente a destra.
Un muro gli comparve davanti, per occludergli la via.
Noir si voltò, disperato, cercando un’altra via per fuggire.
In quel momento, dall’imbocco di quel vicolo cieco comparve nell’oscurità la sagoma di un uomo curvo, ansante.
Una mano era premuta sul suo ventre, mentre l’altra, libera da vincoli, pendeva lungo il suo fianco, impugnando qualcosa.
La figura si avvicinò ulteriormente, trascinando i piedi sulla melma che ricopriva il suolo. I capelli ricci gli ricadevano sulla fronte, così chiari da sembrar risplendere alla luce della luna.
Noir avvertì un’altra scarica attraversagli gli arti. Ogni fibra del suo corpo sembrava attratta da quell’uomo che gli stava davanti, dal sangue che sentiva che stava perdendo dal ventre.
Si trattenne, tremante. Non poteva avvicinarsi al suo inseguitore.
L’uomo dai capelli chiari sorrise pericoloso, come una serpe, portandosi di un faticoso passo più vicino alla sua preda.
Il suo braccio destro si alzò in direzione del petto di Noir, puntando verso di questo la lama che teneva stretta in mano.
- Non so come riesci a farmi questo, ma questa notte smetterai di fare qualsiasi cosa. Non potevi sfuggirmi per sempre. – disse minaccioso l’inseguitore dagli abiti eleganti, ansimando.
Noir provò un brivido di terrore. Sentiva che quell’essere non era umano, il suo sangue era tanto attratto da lui quanto spaventato. Poteva essere lui l’essere che la sua maledizione poteva non essere in grado di uccidere.
- Davvero, non so di cosa tu stia parlando. – tentò di dire il trentenne alzando le mani davanti a sé - Ti prego, se ci tieni alla tua vita ti conviene andartene di qui. –
La sua voce non riusciva ad essere minacciosa. Gli tremava e, nonostante tentasse con tutte le sue forze di calmarsi, il suo cuore sembrava non essere intenzionato a diminuire il numero di battiti.
L’uomo si fece ancora avanti, per poi fermarsi di scatto per piegarsi in avanti in un gesto di dolore.
- Ehi, tu. – Una voce leggera provenne da sopra il muro che impediva a Noir di scappare.
L’inseguitore si rimise in piedi. A giudicare dal suo sguardo non doveva aver sentito la voce.
Il trentenne si voltò per un secondo, cercando la fonte di quelle parole.
Il viso innaturalmente bianco di un uomo si intravedeva appena da sopra il termine di quel vicolo.
- Sei quello che stanno cercando nelle Terre? –
Noir annuì d’impulso, incurante delle conseguenze di quell’affermazione.
- Chiudi gli occhi, ti aiuto io a scappare. –
Il trentenne fece appena in tempo ad ubbidire a quel comando che, dalla posizione dell’uomo che gli aveva parlato venne sprigionata una luce accecante, che illuminò il vicolo e il cielo soprastante con l’intensità di decine di soli.
- Vieni! –
Noir vide davanti a sé una mano protendersi verso di lui come un’ancora di salvezza.
La prese saldamente, issandosi sui tetti che circondavano quel vicolo che sarebbe potuta essere la sua tomba.
- Non rimarrà accecato ancora per molto. Seguimi! –
La figura scura si calò dal lato opposto del muro, scivolando all’interno di un ingresso dalla porta aperta.
Il trentenne lo seguì, entrando anch’egli nel piccolo locale dal soffitto invaso da decine di ragnatele.
La figura portò un dito all’altezza del taglio che doveva essere la sua bocca, rimanendo immobile per diverso tempo in quella posizione.
Noir non osò parlare, fissava il volto del suo salvatore, o, meglio, la maschera che copriva il suo volto.
Gli occhi erano due strette V rovesciate, dietro le quali non si riuscivano neppure ad intravedere le iridi del suo possessore. La bocca, a sua volta, era un taglio sorridente, stretto, ma non per questo la voce che giungeva da dietro di essa sembrava venire ovattata.
Lentamente, l’uomo mascherato abbassò l’indice dal suo volto, assumendo una posizione più rilassata.
- Ti devo ringraziare… senza il tuo intervento non so cosa sarebbe potuto succedere poco fa. –
- L’ho fatto per sdebitarmi con te… per l’aiuto che mi hai offerto. –
- Aiuto? – Noir aggrottò la fronte, cercando di capire a cosa si riferisse la maschera che aveva davanti.
- Sull’Ala di Albatros. Stavo dando la caccia a quell’uomo da diverso tempo, tu l’hai ucciso per me. –
La maschera alzò la mano sinistra all’altezza del petto. La sua pelle cominciò a emanare una flebile luce azzurra, appena sufficiente per illuminare l’ambiente intorno ai due.
- Come fai a sapere chi sono? – chiese seccamente Noir dopo un attimo di pausa, alzando il capo – Se un cacciatore di taglie? –
- No. Non utilizzo le mie capacità per un compito così basso. –
- Come fai a sapere allora chi sono? –
- Ti conosco per fama. Comunque, Noir, non ti ho salvato per farmi due chiacchiere con te. –
- Cosa vuoi davvero? –
- Ho bisogno del tuo potere per un lavoro. –
- No. No, mi dispiace ma non ho intenzione di farmi coinvolgere in nulla. Sono venuto qui per scomparire ed è quello che cercherò di fare. –
Noir tornò a dirigersi vero l’esterno, soffermandosi sull’uscio per controllare che il suo inseguitore non fosse nei dintorni per tornare a braccarlo.
- Vuoi davvero uscire là fuori con quell’uomo pronto a darti la caccia? Hai visto di cosa è capace, no? –
Il trentenne si voltò di scatto verso la maschera.
- Cosa sai di lui? Chi è? –
- Non so molto a riguardo. Ma quel tatuaggio che porta sul viso continua a ripresentarsi in giro per le Terre e, evidentemente, anche qui. Ho viaggiato molto, ho parlato con molte persone e, sempre, in tutti i paesi ci sono vecchi che affermano di aver visto giovani umani o elfi con quel tatuaggio. –
- Fa parte di un’organizzazione? –
- Forse, non lo so con precisione. La mia unica certezza è che quel tatuaggio non porta mai buone notizie. –
Il salvatore si portò una mano all’altezza della maschera, sfiorandola.
- Chi sei? Tu mi conosci, ma io non so nulla di te. Se vuoi davvero il mio aiuto, voglio almeno conoscere il tuo nome. –
L’uomo mascherato sospirò, scuotendo le spalle. Strinse la superficie grigia dell’oggetto che gli copriva il volto e se lo sfilò dal capo.
Sotto la maschera comparvero due occhi neri come frammenti d’ossidiana, incastonati su un viso arrossato dal sole.
- Tu… tu eri su quella nave. Ti ho visto mentre ti imbarcavi. Sei quello con l’ustione sulla gamba. – disse Noir, puntando il proprio indice contro il suo interlocutore.
- Il mio nome è Razer Donier. –
- Cosa vuoi da me, Razer? Cosa vuoi davvero dalla mia maledizione? –
- Hai mai ucciso, Noir? Oltre alla scorsa notte, intendo. Su di te aleggiano molte storie, ma dubito che gli uffici del Giudice Maggiore possano essere una fonte attendibile. Forse sono ancor meno attendibili dei pochi girovaghi che osano parlare della traccia che ti porti dietro e della taglia che pende attorno al tuo collo. –
- Ho ucciso per necessità. Non l’ho mai fatto per piacere. –
- Noir. – riprese ancora l’uomo dagli occhi duri che gli stava di fronte – Sono anni che viaggio perché ho un compito. Guardati attorno, cosa vedi? Umani, elfi, gente che vive la propria vita. Ma non tutti loro sono ciò che sembrano. Tra di loro ci sono dei mostri, mostri che non si pongono problemi nello strapparti via ciò che hai di più caro o marchiarti a vita con il fuoco. Ho passato buona parte della mia vita viaggiando per imparare a riconoscerli, mi sono allenato in ogni singola arte che potesse tornarmi utile contro di loro ed ora, Noir, dopo tanti tentativi ho capito che ho bisogno di te per ripulire il mondo velocemente da quei mostri. Ti prego, quindi, di seguirmi, almeno qui sul Continente. Se mi aiuterai a purificare una città caduta in mano a quelle creature, ti prometto che ti porterò in un luogo in cui potrai vivere senza temere che qualcuno ti scacci. –
- Perché dovresti volere qualcosa da me? La mia maledizione potrebbe ucciderti in ogni momento e, ti assicuro, la cosa non mi toccherebbe. –
- Sei un ricercato, ogni persona con cui parli, per te, è un potenziale nemico. Io ti chiedo di collaborare per un paio di giorni soltanto. Un paio di giorni, in cambio del resto della tua vita. –
- Cosa mi assicura che non mi venderai al governo? O a quell’uomo che mi stava inseguendo? –
- Ti assicuro che dopo quello che faremo non avrò intenzione di avvicinarmi a Gerala. –
Noir sospirò, arretrando in direzione del centro della stanza illuminata dalla luce azzurra dell’uomo che lo aveva salvato.
Avrebbe preferito non farsi coinvolgere in questioni che non lo riguardassero.
Voleva soltanto scomparire dalla faccia del mondo.
Non sapeva nemmeno se poteva davvero fidarsi di quell’uomo che gli stava davanti, soprattutto perché sembrava conoscerlo.
Lo aveva salvato, certo. Ma poteva essere complice dell’uomo da cui era sfuggito.
Cosa sarebbe successo se avesse rifiutato quell’offerta? Quell’invasato poteva rivelarsi pericoloso?
Quel lavoro che gli stava proponendo, sarebbe stato davvero così tanto orribile. Quelle creature di cui aveva parlato, chi erano? E cosa intendeva con purificare una città caduta in mano loro?
Probabilmente si sarebbe pentito della decisione che stava per prendere, ma la possibilità di avere un luogo sicuro dove vivere era troppo allettante.
Se le cose si fossero messe male, poi, la sua maledizione lo avrebbe sicuramente protetto. Dopotutto quello che gli stava davanti era solo un uomo.
- Va bene, per il momento. Ma voglio saperne di più, su tutto quanto. –
Razer sorrise soddisfatto, tornando a nascondere il proprio viso sotto la maschera grigia.
- Ogni cosa a suo tempo. Quell’uomo non lascerà velocemente la presa, dobbiamo prima di tutto lasciare questa città, ma non questa notte. -




Angolo dell'Autore:

Ho molte cose da dirvi, già dalla settimana scorsa, in realtà. Mi sono trattenuto fino ad adesso solamente perchè non mi piace mettere il naso in un capitolo dove è il Viandante a  tenere le redini della storia.

Ma prima le cose importanti: I miei più sinceri ringraziamenti a OldKey, la ragazza imperfetta e whitesky, che mi accompagnano da tempo immemore, mi vien da dire, in questo lungo viaggio. Grazie, poi, a voi tutti per seguirmi.

Cosa posso dirvi, oggi? Ho troppe cose da raccontare, ma ci sarà tempo per far tutto, in futuro.
Per ora, mi limiterò a qualche appunto sul capitolo e un paio di informazioni sul come mai i prossimi capitoli potrebbero arrivare con un po' di ritardo.

Innanzi tutto, che ne dite del nome che ho scelto per il nostro assassino? Per la maschera demoniaca che ha messo a ferro e fuoco le principali città delle Terre?
Scoprirete ancora parecchie cose su di lui, o magari le ricorderete. Tra l'altro, la convivenza forzata tra Noir e l'assassino svelerà alcuni dettagli sulle loro identità che, altrimenti, non avreste mai scoperto.

Riguardo al mio... lavoro, chimiamolo così. In queste settimane mi trovo a dover produrre quattro "capitoli" quasi in contemporanea.
Quattro?
Si, avete capito bene.
Quello per questa storia, quello per Corsa contro la fine e quali altri?
Riprenderò a breve la campagna di D&D che ho masterato fino alla primavera appena passata e, quantomeno per i primi tempi, dovrò dedicare un po' delle mie attenzioni alle ambientazioni e ai personaggi con cui i miei giocatori dovranno avere a che fare.
Il quarto "capitolo" a cui sto lavorando è qualcosa di più serio. Qualcuno di voi saprà che sto studiando ingegneria, vi dico ora per la prima volta che il mio corso è "Cinema e Mezzi di Comunicazione", ebbene, assieme a un piccolo gruppo dovrò girare un cortometraggio del quale sto contribuendo a scrivere la sceneggiatura. Nulla di impegnativo sul lungo tempo, ma in queste settimane dovrò dare un po' di attenzioni anche a lui.

Ebbene, grazie a tutti, ancora.
Ci vediamo la settimana prossima!
Vago

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Capitolo 18
*** Capitolo 8.5: Un passo indietro ***


Un corvo planò lentamente sui coppi di uno degli ultimi tetti che precedevano il mare.
Pochi, rapidi battiti d’ali gli permisero di rallentare a sufficienza perché i suoi artigli potessero arpionare il rivestimento del tetto prescelto.
Le ultime fiamme si stavano lentamente estinguendo, circondate da una massa di corpi frementi.
Più volte il suo scuro becco colpì il coppo che gli stava davanti, facendolo risuonare ritmicamente.

Non posso nemmeno darti la colpa di tutto questo, Fato maledetto.
Quel tipo che stavo inseguendo non è nemmeno una delle tue creazioni.
Devo calmarmi. Non posso permettere alla frustrazione di offuscarmi la mente.
Ragiona.
Cosa è successo in quel vicolo?
Aveva le spalle al muro. Poi ha fatto qualcosa e io ho avuto un’altra ricaduta.
Com’è possibile? Quel Buco della Trama che poteri ha su di me?
Poi quella stramaledetta luce.
Come ha fatto a produrla? Non mi sembra avesse qualcosa con sé e un bagliore di quell’intensità avrebbe bisogno di una fonte bella grossa.
Che abbia un potere anche lui?
Mentre mi parlava sembrava abbastanza sicuro di potermi uccidere…

Il corvo zampettò avanti, raggiungendo la grondaia che delimitava la superficie di quel tetto.
Il suo becco si aprì verso il cielo, lasciando il suo rauco gracchiare spandersi verso le stelle di quella notte.

Non ha senso.
Ponendo come punto uno che lui era convinto di potermi uccidere da disarmato e, come punto due, che il suo potere comprenda quella luce, non riesco a far coesistere queste due cose.
Lui era sicuro di quel che faceva.
Sapeva che non lo avrei potuto colpire, almeno, questa era l’impressione che dava.
Deve avere qualcos’altro nascosto.
E lui non può essere l’assassino.
Troppo impulsivo, non conosceva la città per nulla e, fosse stato il mio uomo, avrebbe avuto con sé almeno un coltello, quello che ha ucciso il drago al molo.
Mi manca un tassello.
No, non un tassello, una linea di collegamento. Una orribile linea di collegamento dal colore insopportabile che mi sta tra le gambe con il solo intento di farmi inciampare.
Detesto le linee di collegamento di questo tipo.
Qual è la miglior mossa che posso fare, ora?
È buio, non credo si muoverà fino all’alba. Con la notte potrei vedere troppo facilmente riconoscere la luce che produce.

Il corvo si levò in volo, superando il molo con pochi battiti d’ali.
La luna, arrivata al culmine del suo arco, faceva risplendere le piume nere dell’uccello di screziature violacee.

Quanto tempo ho ancora, prima dell’alba?

Cinque ore, circa.
So che lui, o loro, visti gli ultimi eventi, sono come topi in trappola dentro la città e lo saranno per le prossime cinque ore.
Devo sfruttare questo tempo nel modo giusto.
Devo calmarmi e trovare un buon posto per riflettere.

Il corvo si fermò a mezzaria, immobile, planando rigidamente verso la superficie del mare.
Le sue ossa si fecero, morbide, malleabili, per poi fondersi con le sue carni e il suo sangue.
Quel corpo divenne quasi liquido, appallottolandosi su sé stesso in una sfera che cominciò a precipitare verso la superficie scura dell’acqua.
Una medusa allargò i propri tentacoli al di sotto della propria testa

Meglio, molto meglio.
L’ultima volta che ho assunto questa forma ero sulla costa dell’Isola dei monaci… e ci sono rimasto per oltre due anni.
È sicuramente una delle migliori per pensare senza doversi preoccupare di dover fare cose inutili, come battere le ali, nuotare o respirare.
Dunque, dove ero rimasto?


Il sole sorse sulla linea dell’orizzonte, tingendo di rosso le onde del mare.
Un gabbiano si levò in volo, schizzando tutto attorno scintillanti gocce d’acqua. Il suo ventre scivolava a pochi centimetri dalla cresta delle onde che si dirigevano verso la riva e i suoi piccoli occhi neri fissavano le assi in parte carbonizzate che componevano la banchina.

Tre uscite, ci sono solamente tre uscite.
Nord, ovest e sud.
Dubito che voglia tornare nelle Terre dopo aver ucciso appena un singolo drago.
Devo salire più in alto.

Le piume del gabbiano si scurirono tutte, meno quella centrale della coda, che rimase candida. Il suo corpo si ridusse di dimensioni, mentre le ali continuavano a battere per fargli compiere stretti cerchi verso l’alto.

Bene, da qui riesco a vedere tutta la città. Una buona visione d’insieme, non mi interessa vedere i singoli, ora come ora.
Sto facendo un passo indietro, rispetto a prima, ma potrebbe essere il modo per uscire dal vicolo cieco in cui sono caduto.
Questa città si è sviluppata poco, nonostante sia uno dei pochi moli sicuri del Continente. Non può essere un bersaglio allettante.
Dimenticati del tipo che ti è scappato.
Dimenticati anche della luce.
Ora non sono importanti, sono inutili tasselli da mettere alla fine al loro posto.
Spero.
L’assassino, cosa sai di lui con certezza? Devi eliminare ogni cosa che non è sicura.
Ha ucciso a Gerala, due volte. Cosa differenziava i due tentativi?
Il primo drago, quel burocrate, non è stato carbonizzato in un rogo. Era ai piedi della città e il draghicida ha lasciato cadere il suo corpo sul terreno, dopo averlo pugnalato. Non ha dato origine a un incendio, quella volta.
Poi si è evoluto, nel ristorante. Ha studiato con attenzione il luogo, ha strangolato i camerieri e i cuochi senza destare sospetti e, nel contempo, ha somministrato una droga ai commensali, per poi ucciderli tutti grazie all’incendio generato dalla sua unica vittima, quella sposa.
Stava ancora sperimentando.
Come ha fatto a scappare, una volta appiccato il fuoco? Gli interni erano di legno e tessuto, utilizzando la tovaglia come miccia, il fuoco non ha impiegato più di due minuti a crescere.
Due minuti…
Inoltre sapeva dove prendere il montacarichi alla base di Gerala nonostante fosse notte.
C’era già stato, per forza.
Forse addirittura più di una volta.
Poi è stato il turno di Derout.
Di nuovo, un’unica vittima per ucciderne molte, o almeno così sperava.
Un intero quartiere di draghi…
Ma qualcosa è andato storto. Le case intonacate e l’aria marina umida hanno fermato l’incendio a una singola abitazione, limitando le vittime.
Di nuovo è poi riuscito a scappare senza attirare su di sé attenzioni, che conoscesse anche quella città?
In quel caso, però, ha commesso un errore, non conosce così bene le fiamme come immaginavo, non è stato in grado di valutare di quanta esca avesse bisogno il fuoco per poi estendersi per tutto il quartiere.
La scomparsa di quel Michael sulla nave non posso considerarla. Non ho trovato il corpo, non ci sono state fiamme, non ho nulla che lo ricolleghi o lo possa porre su quella barca.
Fino a quando non siamo arrivati qui.
Non ci fosse stato l’incendio sulla banchina avrei anche potuto credere di averlo perso.
Quel drago, però, è stato ucciso con il suo stile.
Le domande qui sono due.
Come faceva a sapere che era un drago? Lo conosceva o ha trovato una maniera per riconoscerli?
E, in secondo luogo, è già stato qui?
Probabilmente, visto come si è comportato prima, le risposte sono, in ordine inverso, “si” e “la prima”.
Ha sempre attaccato posti che conosceva e in cui sapeva muoversi. Quindi, supponendo che sia già stato qui, prima di cominciare a mietere vittime, potrebbe aver conosciuto gli addetti al porto e, tra questi, quel drago là.
Non è inverosimile che fosse sulla banchina per andare a scaricare alcune merci dall’Ala di Albatros, quando è morto.
Il quadro, fino ad ora, è plausibile.
Passato e presente sono verosimili, non mi resta che provare ad indovinare il futuro.
Devo alzarmi di più.

Il corvo riprese a battere le ali con foga, alzandosi sempre di più verso il cielo cristallino che si stava rischiarando.
Al molo, i pescatori le cui barche non erano state coinvolte nel rogo stava levando gli ormeggi per iniziare la loro giornata, dalla parte opposta delle case, i primi viaggiatori cominciavano a dirigersi verso le tre porte di terra che collegavano la cittadina agli altri insediamenti, che, come macchie scure, cercavano di risaltare sullo sfondo rigoglioso.

Ha avuto un processo di evoluzione, il mio assassino.
Ha sperimento cose sempre più complesse, prima di arrivare qui.
Qual è il suo obiettivo?
L’isola dei draghi mi sembra troppo al di là delle sue possibilità.
Mi serve qualcosa come un villaggio con una buona percentuale di draghi, oppure un loro quartiere rinomato.
Pensa, Viandante. Cosa può essere una preda allettante?
Case, villaggi, quartieri, draghi potenti, draghi con nomi importati, casate, cittadine, città…
Città!
Sono un idiota, dovevo pensarci immediatamente.
C’è Aravan a nord. La città dei draghi.
Letteralmente.
Una città fondata, costruita ed abitata unicamente dai draghi.
Tra l’altro è una delle mete turistiche più gettonate, ultimamente, da parte di tutte le razze.
Si sente davvero così pronto per una cosa del genere?
È una città, maledizione, come pensa di poterla mettere a ferro e fuoco?
Spero non abbia un altro asso nella manica.
In ogni caso, ora so dove devo andare, e non avrà modo di sfuggirmi.

Il corvo aprì il becco per lasciarne uscire un gracchio di gioia, le sue ali, quindi, si irrigidirono, in modo da farlo planare verso nord.
L’aria gelida d’alta quota gli avvolgeva le piume scure, scaldandosi a mano a mano che scendeva verso il livello del mare.
I primi carri pieni di merci cominciavano a mostrarsi tra le vie sotto il suo ventre fasciato.

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Capitolo 19
*** Capitolo 9: Maschera da assassino ***


Noir si guardò intorno, agitato.
Il sole stava per sorgere e il suo salvatore lo stava conducendo a viso scoperto per le vie centrali della città.
Si erano lasciati alle spalle la periferia della città in cui avevano passato la notte ancor prima che i pescatori uscissero dalle loro case, riprendendo la via verso nord che li avrebbe condotti alla porta settentrionale.
Il sole era poi sorto sul profilo del mare, accompagnato dal verso dei gabbiani e dal cigolare lento dei cardini delle porte delle case.
Razer sembrava conoscere il luogo, muovendosi tra le vie principali e laterali con una disinvoltura quasi paragonabile a quella di un suo abitante.
Noir lo seguiva con il viso basso e il collo incassato tra le spalle.
In quel momento avrebbe voluto avere ancora i capelli lunghi, in modo da poter coprire almeno la parte superiore del suo volto.
- Come pensi di andartene? Con me, intendo. Le porte non sono controllate? –
Razer si fermò di colpo, voltandosi per poter  guardare con occhi divertiti l’uomo sporco che lo stava seguendo. Gli sorrise poi, invitandolo con un ampio gesto a coprire la piccola distanza che li separava per potergli stare accanto.
- Ho lavorato per un po’ qui sul Continente e un po’ di persone mi devono qualche favore. Non ti scoccia dover essere un mercante di vasellame, per le prossime ore, vero? –
- Ma… io, il mio volto è… -
- Non ti preoccupare di quello ora. E poi, le città da questa parte del mare non sono così fedeli al governo di Gerala, al Tribunale o anche a quel porco del re dei draghi. Ora però muoviamoci, non voglio che quel cane del governo possa ritrovarci per caso. –
Razer tornò a camminare come se nulla fosse, con il suo zaino pulito stretto sulle spalle.
Noir sospirò, tornando a guardare il terreno su cui i suoi piedi continuavano a posarsi.
Forse avrebbe fatto meglio a rifiutare quell’offerta e continuare per la sua strada cercando un posto tra i boschi di quella terra.
I raggi mattutini avevano appena cominciato a tingere di rosso la parte superiore dei muri intonacati, quando Razer decise di fermarsi davanti a un portone a due battenti.
Un carretto trainato da un cavallo robusto passò alle sue spalle, riempiendo l’aria dello scalpiccio dei suoi zoccoli sulla pavimentazione della strada.
Dei pescatori che fino a poco prima avevano riempito quelle vie già non c’era nemmeno più l’ombra, le loro barche, probabilmente, avevano lascato la banchina da diversi minuti, consce che non vi avrebbero più attraccato fino a pomeriggio inoltrato.
Razer tornò a sorridere in direzione del suo compagno di viaggio.
- Per favore, bussa tu. –
- Perché dovrei? È tuo il contatto. –
- Voglio vedere se ti riconosce, avendoti davanti. Non ti preoccupare, anche pensasse di denunciarti non farà un passo fuori da quel portone. –
Leggero, in sottofondo, si sentì il fruscio prodotto da una lama d’acciaio che scivola contro il proprio fodero.
Noir sospirò, rassegnandosi a quel compito che gli era stato dato.
Avvertì un odore selvatico forte provenire da dietro quei battenti, ma cercò di non farci caso mentre sollevava la mano per afferrare il battacchio lucido del portone.
Lo batté tre volte con forza, quasi sperando che nessuno andasse ad aprirgli.
I battenti in legno si mossero verso l’interno, per poi bloccarsi.
Un Demo dai denti snudati fece la sua comparsa ringhiando e avventandosi sugli estranei che attendevano poco oltre la soglia.
Ebbe appena il tempo di fare un paio di falcate, prima di arrestarsi di colpo.
I suoi ringhi divennero mugolii alla vista dell’uomo dai capelli neri che gli stava davanti e le orecchie appuntite che gli ornavano il muso schiacciato si appiattirono sul suo capo.
La creatura dal corto pellame si ritirò dietro una colonna, tremante, con le mani dalle lunga dita artigliate che gli coprivano le tempie.
- Speravo mi mostrassi il potere omicida che ti viene attribuito, ma mi farò bastare questo. – disse Razer facendo qualche passo avanti, per poi spostare la sua attenzione verso il cortile interno che si nascondeva oltre quell’ingresso – Rakre! Rakre! Dove ti sei cacciato? –
Si avvertirono dei borbottii dall’interno dell’abitazione principale, poi una bestemmia rivolta al Fato, infine la porta laterale si aprì, permettendo di uscire dalla casa a un basso umano tarchiato, dai capelli rossastri e le guance perfettamente rasate.
In mano stringeva un frustino, che calò quattro volte sulle spalle del Demo rintanato, accompagnando ogni frustrata con un’imprecazione.
- Rakre! Da quanto tempo che non ci vediamo! –
L’uomo tarchiato si voltò verso il portone, per mettere a fuoco il viso dell’uomo che gli stava rivolgendo la parola.
- Farget? Che ci fai qui? Te l’avevo detto l’ultima volta di passare dalla porta sul retro per evitare questo stupido animale. –
Razer rivolse un ultimo sorriso al suo compagno di viaggio, per poi avvicinarsi al mercante dai capelli rossi.
- Scusa, me ne sono dimenticato. –
- Non so cosa gli sia preso, avrebbe dovuto lasciarvi moribondi. –
- Credo sia colpa del mio compagno di viaggio. I Demo hanno paura di lui, credo che sia per il suo odore, sai… -
- Farget, ma ti ascolti quando parli? Un Demo addestrato che ha paura dell’odore di un uomo? –
- Eppure… - gli rispose Razer con uno scintillio negli occhi. – Comunque, non sono qui per parlare con te dei tuoi cuccioli. Ho bisogno di un favore. –
Il volto di Rakre si fece serio, con un’ultima frustata ordinò al Demo di rintanarsi nella piccola cuccia che gli era stata adibita, poi si voltò verso l’uomo dagli occhi scuri che gli stava parlando.
- Cosa vuoi? –
- Due cose, ma solo una è il favore. Ho bisogno di lasciare questa città in fretta e raggiungere Aravan ancora più in fretta. Senza attirare troppo l’attenzione, ovviamente. –
- L’altra cosa, invece? – lo sguardo del mercante si fece truce, mentre le sue mani torturavano il frustino piegandolo fin quasi a spezzarlo.
- Affari. Quanta polvere esplosiva hai pronta? –
- Polvere esplosiva? Sai che per produrre quella roba ci vogliono più liberatorie da parte del Tribunale di Gerala che anni di vita. Non ne ho niente. –
- Rakre. – Razer pose la sua mano sinistra sulla spalla del mercante, stringendo la sua presa sul tessuto pregiato che gli componeva la camicia – Sappiamo tutti e due che nessuno si è mai potuto permettere un Demo da guardia con gli introiti prodotti da del vasellame scadente. Te la pagherò come se non ci conoscessimo e… sai, ho un’ottima memoria, mi ricordo perfettamente dove abbiamo nascosto quell’agente del Tribunale che ti aveva scoperto. Non vorrei mai che qualcuno cominciasse a fare domande su di te. –
- Dai, Farget, siamo amici, no? Abbiamo lavorato così bene assieme… -
- Quindi, Rakre? –
Il mercante abbassò lo sguardo, con le spalle che gli tremavano. – Va bene. Ne ho diciassette di orci pieni, quanti te ne servono? –
- Li prendo tutti. – fu la risposta secca di Razer, mentre lasciava la sua presa.
- Ma sei impazzito? Come pensi di portare fuori dalla città tutta quella roba, soprattutto ora che c’è almeno un Demo di guardia? Quelli ci scopriranno subito. –
- Non credo. Avevo progettato un’altra cosa, ma la capacità del mio socio di spaventare i Demo con la sua sola presenza ci renderà molto più facile il nostro lavoro. –
- Quando vorresti partire, quindi? –
- Il prima possibile, mio caro Rakre. Ho degli affari a Aravan che mi aspettano. –
- Con tutta quella polvere esplosiva? Ce n’è abbastanza per far sparare almeno cinquanta colpi a una città intera. Stai progettando qualcosa di grosso? –
- Non ti preoccupare, non ho in mente di dare inizio a una guerra, se è questo che ti preoccupa. Ora, se andassi a preparare il carro, te ne sarei incredibilmente grato. –

Il portone si richiuse alle spalle del carro, trainato da un paio di cavalli muscolosi. Tre uomini erano seduti sulla panca in testa, davanti a decine di orci riposti gli uni di fianco agli altri e coperti da un telo bianco fissato a dei montanti di ferro.
Con uno schiocco di redini, le ruote presero a muoversi lungo la strada, lentamente, portando il carro ad incolonnarsi dietro ad una decina di suoi simili, tutti in attesa di ricevere il benestare delle guardie cittadine per lasciare la città.
Il sole aveva fatto in tempo di arrivare ad illuminare il manto stradale quando il carico di Rakre raggiunse la guardia e il Demo incatenato che presiedevano quella porta nelle mura.
Razer fece un cenno all’uomo magro al suo fianco, facendo a cambio di posto sulla panca con lui poco prima che la guardia gli si avvicinasse con passo pesante e occhi spenti, già stanco di quell’incombenza che lo teneva occupato da ore.
- Alt, fermi. – disse la guardia con voce meccanica – Cosa state trasportando? –
Razer gli sorrise in risposta. – Vasellame, signore. –
- Dove li state portando? –
- Heraga, a nord, signore. Deve controllare il carico? –
La guardia diede un’occhiata rapida al telone teso, sotto il quale riposavano gli orci. – Passate lentamente di fianco a quel Demo. –
Noir prese fiato per un attimo, per poi alzare il suo sguardo sulla povera creatura dal corto pelo scuro incatenata al muro di cinta, cercando di riportare alla mente come aveva fatto per spaventare quelli all’ingresso di Derout.
Le orecchie del Demo si drizzarono per un momento, mentre il naso schiacciato fiutava l’aria. Poi si bloccò di colpo, appiattendosi contro la parete, tremante.
Il carro gli passò accanto, ma la creatura non accennò a voler abbandonare quella posizione in cui si era rannicchiato.
La guardia la guardò di storto, ma non fece parole e non tentò di fermare il carro che aveva ormai passato la soglia.
Rakre cominciò a respirare affannosamente, tanto più quanto si allontanavano dalla città.
- Ottimo lavoro, Noir. – Disse solamente Razer, senza staccare gli occhi dal dorso dei due cavalli.

Il carro continuò a viaggiare per i due giorni successivi, procedendo verso nord stoicamente.
Solamente nel tardo pomeriggio le costruzioni esterne di Aravan si fecero strada nel paesaggio.
Il mare era lontano, a est, invisibile a occhio nudo. Dalla parte opposta, la foresta reclamava il suo spazio, stagliandosi fin sui pendii delle montagne lontane.
- Rakre, vai a farti un giro in città, per questa sera potrai tornare a casa con il tuo carro e i tuoi soldi. –
- Ma Farget, non… -
- Rakre. – ripeté Razer con voce dura – Ascoltami, vai a farti un giro. –
Il mercante tarchiato abbassò il capo, bofonchiando qualcosa sommessamente, per poi scendere dal carro e incamminarsi verso la città, facendosi lasciare indietro dalla propria merce.
- Cosa vuoi fare, ora? – chiese Noir scivolando verso il posto vuoto che era stato lasciato sulla panca su cui erano seduti.
- Preparazione, questa notte purificheremo questa città. – il sorriso di Razer non era divertito, aveva in sé qualcosa di inquietante, così come la scintilla che infiammava i suoi occhi scuri.
- Davvero dici che tutti gli abitanti sono… -
- Sono tutti mostri. Tutti gli abitanti. –
- Davvero, se ti aiuto in questo, mi darai un posto sicuro dove vivere? –
- Te lo giuro sulla mia vita. –
Noir sospirò, nascondendo il proprio volto tra le mani. – Cosa vuoi che io faccia? –
- Dobbiamo sistemare questi barili. –

Il sole calò presto dietro la cortina verde della foresta, gettando una sottile coltre di oscurità tra le vie cittadine.
Razer stava in piedi accanto al carro, posto a fianco della via che da oriente entrava nella città che, lentamente, stava svuotando le strade dei propri abitanti, di ritorno dai campi.
Rakre comparve da una viuzza laterale, leggermente barcollante. Quando fu sufficientemente vicino, Noir storse il naso per l’odore di alcol che si alzava da lui.
- Sai Farget, - biascicò l’uomo avvicinandosi a Noir senza staccare lo sguardo appannato da Razer – mentre ero alla taverna mi sono chiesto perché mai uno come te avesse bisogno di tutta quella polvere esplosiva in un posto del genere. –
- Non ti interessa, te lo dico io. – fu la risposta dell’uomo dagli occhi duri e penetranti, che non perse il suo sorriso.
- Già. È la stessa risposta che mi sono dato. Non mi interessa. Se però vuoi che tenga la bocca chiusa, sarebbe il caso che mi paghi un po’ di più per il disturbo. Si, sarebbe decisamente il caso che tu lo facessi. –
- Avanti, Rakre, sei ubriaco. Vai a casa e non fare qualcosa di cui potresti pentirti. – continuò Razer, estraendo di qualche centimetro il coltello che teneva al fianco dal suo fodero.
Con un movimento troppo sicuro per un uomo ubriaco, il mercante tarchiato afferrò Noir per il collo, tirandolo a sé e puntandogli la punta di una lama in ferro sotto il mento.
- No, no, Farget. Mettilo via o il tuo amico farà la fine di quel tipo del Tribunale. Ora parliamo di affari. –
Noir sentì il sangue ribollire nelle sue vene, premendo contro le pareti, pronto a esplodere.
Il coltello dell’uomo dal polpaccio ustionato tornò al suo posto, mentre le sue mani si alzavano verso il cielo, aperte.
- Davvero, Rakre, non ti conviene continuare su questa strada. Dovresti temere più quell’uomo che stai minacciando, che me. –
- Non farmi ridere. Non è armato, l’ho controllato la scorsa notte. Non può farmi nulla. –
Il coltello del mercante cominciò a premere verso l’alto, cercando invano di avvicinarsi alla pelle protetta da un sottile strato di dura melassa nera.
Il respiro di Noir si fece più corto, mentre i capillari nei suoi occhi cominciavano a esplodere uno dopo l’altro, incapaci di contenere la pressione che veniva esercitata al loro interno dal suo sangue scuro.
- Ultima possibilità, Rakre. Non credo avrai ancora modo di tornare indietro. –
- Balle! –
La punta del coltello premette con forza ancora maggiore per un paio di secondi, per poi cadere pesantemente a terra, privata della presa che la teneva sollevata.
Il corpo del mercante scivolò verso il suolo poco dopo, con il cranio trapassato da un buco circolare.
Razer rimase un attimo immobile, come se stesse studiando la scena.
- Non mi aspettavo un potere del genere, da te. Ora, forza, nascondiamo il cadavere, il nostro lavoro non è ancora finito. –
Quando il cadavere del mercante fu ricoperto da uno strato di terra e foglie sufficientemente alto, i due uomini tornarono a dirigersi verso l’interno della città.
- Hai capito come devi colpirli? – chiese Razer frugando nel suo zaino per tirarne fuori la maschera grigia che aveva indossato la notte in cui Noir lo aveva conosciuto.
- Si, ma… non ho un’arma. –
- E quella roba che hai fatto prima? Non puoi rifarla? – chiese indignato l’assassino, controllando l’affilatura del proprio coltello.
- Non funziona a comando. Il mio potere mi protegge, non posso controllarlo a piacere. –
Senza preavviso, Razer lanciò il coltello in direzione dello sterno del compagno di viaggio, ma la lama di questo impattò su una corazza nera che non si scalfì nemmeno all’impatto.
- Funziona su tutto il corpo? – chiese ancora l’uomo mascherato, raccogliendo la propria arma da terra.
- Si. –
- Mi basterà. Ricordati, un colpo al cuore, fai attenzione alla fiammata di ritorno e impila i corpi a fianco dei barili. Ne basteranno tre per far esplodere il primo orcio, gli altri lo seguiranno. –
- Va bene… - fu la risposta insicura di Noir mentre seguiva i passi dell’assassino che lo precedeva.
Avevano piazzato quattro orci in una via accanto all’uscita di una birreria quasi al centro della città. Il locale era gremito di gente e una calda luce rossastra usciva dai vetri sporchi delle sue finestre.
- Non rischiamo. Il primo gruppo numeroso di quei mostri deve essere nostro. – disse Razer con fermezza, sporgendosi appena oltre il muro che lo nascondeva.
Era un uomo diverso da quello che aveva conosciuto nei giorni precedenti, comprese Noir, osservando la figura scura che brandiva il coltello che gli stava accanto.
Un vociare interruppe i pensieri dell’uomo dai vestiti troppo larghi, riportandolo nel presente.
Due donne e un ragazzo che da poco doveva essere entrato nella maggiore età si stavano avvicinando, parlando a voce alta tra di loro.
Razer si irrigidì appena, in attesa che gli arrivassero più vicini.
- Sei sicuro che… - provò a dire sottovoce Noir, ma venne interrotto da un gesto stizzito del suo compagno di viaggio.
Il gracchiare di un corvo si udì nella notte calante, lontano.
Le donne si fecero ancor più vicine, seguite dal ragazzo, intento a calciare una pietruzza sulla strada.
- Preparati. – disse unicamente l’assassino.
Il corpo dell’uomo mascherato scattò come una molla, facendolo atterrare su una delle donne, gettandola a terra e pugnalandola con un unico colpo.
Mentre le prime lingue di fuoco si alzavano da quel corpo, la lama del coltello era già stata lanciata verso il suo compagno di viaggio, che la prese con la mano protetta dalla melassa nera.
Noir ebbe un momento di ripensamento, alla vista del volto terrorizzato della donna che aveva davanti a sé. Non appena, però, questa fece per aprire a bocca per urlare, l’istinto dell’uomo ebbe la meglio, facendogli muovere la mano verso il punto che Razer gli aveva indicato.
Fiamme ardenti avvolsero il polso di Noir, ma non trovarono nulla da bruciare, se non la solida melassa.
- Comincia a disporli. – disse l’assassino con la voce modificata dalla maschera, rubando il coltello dalle mani del suo complice, per poi scattare in direzione del ragazzo che era rimasto attonito dalla scena.
Noir distolse lo sguardo, concentrandosi sul proprio compito per spostare i corpi il più velocemente possibile verso quella che sarebbe stata la loro posizione finale.
Un uomo comparve dal nulla a mezz’aria, atterrando in mezzo alla strada.
Noir percepì il proprio sangue ribollire alla vista di quel viso tatuato.
- Non vi lascerò scappare di nuovo. – disse l’uomo dai ricci biondi a denti stretti, la sua mano, intanto, stringeva saldamente un sottile stiletto.





Angolo dell'autore:

Incredibilmente, anche questa settimana sono riuscito a portarvi il capitolo. Considerando che ho scritto un buon 60% solo di questa sera, mi ritengo soddisfatto.
Innanzitutto, grazie a OldKey, la ragazza imperfetta e whitesky per... tutto, più o meno. E, ovviamente, grazie a tutti voi che mi seguite.
Oggi ho poco da dirvi, quindi, conoscendomi, verrà fuori un poema in questo angolo.
Finalemente il Viandante si trova davanti a Razer e Noir, senza nascondigli, senza modi per fuggire. Succederà qualcosa, qualcosa di grosso. Al punto che, anche se scappassero, il nostro caro ispettore Vander (per quanto abbia rinunciato a quelle vesti burocratiche da un po' di capitoli) li potrebbe rintracciare con facilità.
Piccolo spoiler. Nel prossimo capitolo il Viandante si darà dell'idiota e, probabilmente, voi che mi seguite da tempo farete lo stesso.
La prima delle due verità sta per venire a galla.
Alla prossima.
Vago

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Capitolo 20
*** Capitolo 9.5: Maschera dal passato ***


Forse ho corso troppo, ho impiegato meno di un’ora per una tratta che un uomo a piedi percorrerebbe in quattro giorni…
Vabbè, tanto sarebbe stato inutile pattugliare le strade.
Ora sono qui, in ogni caso.
Aravan è cresciuta dall’ultima volta che ci sono venuto.
Beh, è anche vero che l’ultima volta che sono venuto l’ho fondata, ha avuto un buon motivo per crescere in tutto questo tempo.
Da che parte arriveranno?
Sud, se fossero persone normali.
Ma loro non lo sono.
Est o ovest sono al secondo posto.
Per arrivare da nord dovrebbero viaggiare sui sentieri dei cacciatori, non ci sono strade che aggirano la città.

Un corvo chiuse un ampio cerchio sopra i tetti della città, battendo le ali per portarsi più in alto.

Il minimo tempo impiegabile è un giorno, raggiungibile se si galoppa su un cavallo ben allenato.
Una normale carrozza o un carro impiegherebbero almeno un giorno in più.
Andando a piedi ci si impiega quattro giorni, se si è in buone condizioni fisiche.
Se sei me ci impieghi il tempo che vuoi.
Sono sicuro che non siano partiti a piedi.
Il mio draghicida conosceva il marinaio che ha ammazzato sulla banchina, conosceva la città e posso scommettere qualunque cosa sul fatto che sapesse anche dove procurarsi  un mezzo di trasporto.
Ponendo che non ho visto cavalli allontanarsi da Largan al galoppo, sarebbero stati troppo riconoscibili.
Che abbiano rubato un carro o una carrozza?
Probabile, forse certo.
Ho un giorno di vantaggio per studiare la città.
Io so che sono diretti qui.
Lo so.
Devo solo convincermi di aver letto bene le mosse dell’assassino.


Il sole sorse due volte da dietro il mare, illuminando fievolmente i muri delle prime case della città.
I carri dei mercanti che avevano viaggiato durante la notte stavano lentamente arrancando sulla strada, pronti ad attraversare la città per spingersi verso le più grandi città del nord per vendere i loro beni.
Poco più ad ovest di Aravan, qualcosa brillò nel cielo come una gemma, talmente in alto da superare persino le fronde della foresta che si allungavano verso le nubi chiare.

Ok.
Bene.
Adesso devi avere almeno due paia di occhi…
Cioè, no. Un paio bastano e avanzano.
L’ultima volta che mi sono preso sul serio ho creato una rivolta popolare. Ancora mi chiedo perché quel maledetto villaggio di pezzenti avesse paura di una capra con quattro occhi.
Vabbè, lasciamo nel medioevo ciò che è successo in quegli anni.
Dovessero servirmi, potrei provare a sfruttare anche quei due…
Giusto, voi non l’avrete riconosciuto, probabilmente. Ma come darvi la colpa, dopotutto la Trama fa quel che può nel descrivere ciò che non fa parte dell’intreccio scritto dal Fato.
Lo scintillio che c’è stato, di là, è una nostra conoscenza.
Vi do un’aiutino. Divino, grosso, squamoso, alato, fatto di cristallo o quel che è, legato a una tipa che lancia frecce e uccide persone.
Avevo perso le loro tracce, dopo la sconfitta di Follia…
Cioè, non proprio tutte. Sapevo che Seila era ancora morta dove l’ho lasciata e che Jasno non ha lasciato quella parte di continente. Riguardo agli altri quattro, non mi sono impicciato molto.
Hile e Keria dovrebbero essere in qualche villaggio bucolico in mezzo a questa foresta, dopotutto dubito che qualcun altro possa permettersi un drago di cristallo e non credo che siano andati a vivere in un posto rumoroso come questa città.
Nirghe e Mea… boh, credo siano ancora a Gerala o da quelle parti.
Quei quattro hanno perso di interesse nel momento stesso in cui hanno finito la loro missione.
Comunque, per quanto mi dia fastidio ripensare al passato, quell’assassino mi sta ancor più sui nervi.
Due giorni. Non dovrebbe mancare molto al loro arrivo.
Devo solo riuscire a riconoscerli.
Questa notte ho fatto una rapida ricognizione lungo la strada meridionale, ma non ho incontrato accampamenti di due persone.
Non ci posso mettere la mano sul fuoco, ma dubito che gli uomini che sto cercando siano più di due. Avrebbero lasciato molte più tracce dietro di loro, se così non fosse.
E poi non ho una mano da mettere sul fuoco, ora come ora.
Potrebbero aver preso uno dei sentieri che costeggiano la costa, ma mi pare improbabile, sono esposti e poco trafficati. Li avrei dovuti notare.
Ovest.
Mi rimane solamente quella porzione di città lì da controllare.
Sono fiducioso di riuscire a prevenire qualunque cosa abbiano in mente, devo solo pattugliare quella porta e non lasciarmi scappare nulla.

Un corvo sorvolò più e più volte i quartieri occidentali di Aravan, attirando su di sé gli sguardi dei piccoli marmocchi che giocavano per le vie e le piazze sottostanti, incuriositi da quell’uccello che si vedeva così raramente sul Continente.
Ogni tanto, il suo gracchiare riempiva il cielo, quasi volesse battere le ore della giornata che stavano passando.
Il sole continuò la sua ascesa, cercando di scaldare le schiene degli uomini che si erano addentrati all’interno della foresta vicina.
Ogni tanto, sporadicamente, un drago dalle lucenti squame compariva dalla vegetazione, trascinando dietro di sé cataste di legna che sarebbero diventate ciocchi da bruciare durante l’inverno.
Il corvo continuò a volare in larghi cerchi anche dopo che l’astro che gli illuminava le piume iniziò la sua discesa  e che gli ultimi uomini ritornarono nelle loro case portandosi dietro i piccoli avanzi di legno che gli erano rimasti sotto le fronde.
L’oscurità cominciò a calare di pari passo con l’accendersi dei lumi ai lati delle strade.
Il corvo gracchiò frustrato, portandosi sopra l’ingresso occidentale alla città.

Non posso essermi sbagliato.
Devono essere diretti qui.
Che abbiano lasciato passare un giorno, prima di partire?
Potrebbero quindi arrivare domani.
La domanda principale, ora, è come il mio assassino pensa di poter uccidere una gran quantità di draghi qui.
Mattoni e pietra, solo i tetti sono in legno. Sarebbe più facile far crollare questi muri, piuttosto che darci fuoco.

Un guizzo rossastro illuminò per qualche secondo un vicolo poco distante dal centro cittadino, seguito da una seconda luce calda.

No!
No! No! No! No! No! No! No! No!
Ho sbagliato!
Dannazione! Ero troppo sicuro di me.
Devo correre, non c’è tempo da perdere.

Il corvo saettò nel cielo, confondendosi nel buio della notte, in modo da portarsi sopra i tetti che delimitavano la zona da cui erano arrivati i lampi.
Cinque corpi occupavano la strada, di cui due erano riversi a terra.

Ho sbagliato tutto.
Ma avrò tempo dopo per darmi dell’idiota.
Devo fare in modo che la situazione non peggiori ancora.
Devo rischiare un poco.
Spero che la mia arma regga. Non ho tempo di trovarne una forgiata dai mortali.

Un uomo comparve dal nulla a mezz’aria, atterrando in mezzo alla strada a denti stretti.

No! Non di nuovo!
La ferita mi si sta riaprendo.
Dannazione.
Devo resistere, non me li farò scappare di nuovo.

- Non vi lascerò scappare di nuovo. – disse l’uomo dai ricci biondi a denti stretti, la sua mano destra, intanto, stringeva saldamente un sottile stiletto.
- Finisci il tuo lavoro! – comandò un uomo con il volto celato da una maschera grigia in direzione di quello che doveva essere un suo sottoposto – Io posso tenergli testa. –

Tu puoi tenermi testa?
Non ci sperare troppo, lurido verme. Avresti fatto meglio a rintanarti in un piccolo buco e non uscire mai più di là.
Ora sei mio.

Ho una strana sensazione, addosso e no, non è colpa della ferita, stavolta.
C’è qualcosa di familiare in quell’omuncolo.
Vabbè, avrò modo di pensarci quando sarà morto.

L’uomo dai corti capelli neri accelerò il passo, riempiendo la via con il suono frusciante prodotto dal cadavere che stava trascinando in una stradina laterale. Sul petto del morto, ancora lungi dall’essere flebile, ardeva una fiammella che sembrava uscire dalla ferita che si apriva sul suo petto.
L’assassino si gettò in direzione del nuovo arrivato con il coltello in mano, pronto ad affondare la sua lama in quell’ospite fastidioso.
Affondò una volta, in avanti, per poi flettersi sul piede d’appoggio per tentare un colpo verso l’alto, seguito da un fendente.
L’uomo biondo schivò tutti i colpi con facilità, senza scomporsi o dover ricorrere alla propria arma per difendersi.

La percepisci la differenza di potere che c’è tra di noi?
Non hai possibilità di sopravvivere. Prima tu, poi il tuo amico.

La maschera si rimise in posizione eretta, stringendo le dita sull’impugnatura della sua arma.
Le sue gambe si mossero veloci, ancora una volta in direzione del suo rivale.
La via si illuminò a giorno di una luce azzurra, abbagliante, tanto intensa da cancellare ogni forma o ombra alla vista di chiunque.

Dannazione!
Quindi eri tu quello con il potere della luce.
Non vedo il colpo… non sarebbe stato un problema se la Trama non avesse cominciato a farmi il muso.
Dovrò ricorrere ai buoni vecchi sensi materiali, mal che vada mi farà un buchetto da qualche parte, nulla che non possa guarire.

Il coltello dell’assassino scattò in avanti, letale, invisibile.
Ci fu un rumore di ferro contro ferro, poi un suono secco, seguito dal tintinnio prodotto da qualcosa di metallico che cadeva a terra.
Il buio tornò ad essere padrone della notte, lasciando il compito alle lanterne appese sui muri di illuminare il campo di battaglia.
I duellanti erano immobili, come congelati da un incantesimo.
L’assassino era proteso in avanti, con la lama a svariati centimetri di distanza dal petto dell’uomo che gli stava di fronte.
L’ispettore aveva una mano di fronte a sé, nella quale stringeva una parte dello stiletto di cui era armato. Il moncone sperso della lama era a terra, rottosi nella collisione con l’altra arma.

Evidentemente non sono bastati i miei millenni di vita a rendermi un buon armaiolo. Continuo a fare schifo con queste cose.
In ogni caso non ho perso il mio tocco.
Ed ora…

La porzione rimanente della lama divenne per un secondo evanescente, per poi andare a crescere pe riformare ciò che le era stato portato via.
Con un rapido e secco colpo di polso l’ispettore fece volare lontano l’arma avversaria, tanto in alto da farla atterrare su uno dei tetti circostanti.

Gran finale.

La suola dell’uomo dal volto tatuato si posò sul petto del suo nemico con violenza, gettandolo a terra e non rialzandosi, per non permettergli di scappare da lì.
Finalmente l’ispettore poté guardare il volto cinereo che gli stava davanti con calma, facendo pesare il suo sguardo come un macigno.

Sono un’idiota. Certo che mi è famigliare.
L’ho creato io, questo.
Cioè, non ho creato io l’assassino, ma la maschera è decisamente una delle mie. Anzi, è la mia.
Maschera della Commedia teatrale, leggermente rivisitata dal sottoscritto.
Questo vuol dire che sono un completo idiota! Il mio errore di previsione sull’ingresso che avrebbero usato, a questo punto, non vale più nulla, è completamente dimenticabile.
Ci avrei dovuto pensare prima.
La luce blu, di quella maledetta luce blu ne avevo già sentito parlare, prima.
E i Muraglia! I draghi!
Tutto ha senso!
Ha una mezza ragione valida per odiare i draghi!
Viandante, sei un’idiota!
Ma, quindi l’altro chi sarebbe…
L’altro!
Dov’è finito l’altro?

La spalla del secondo uomo impattò contro il petto dell’ispettore, cogliendolo alla sprovvista e costringendolo ad indietreggiare, facendogli così lasciare la presa che aveva sull’assassino.
Un’esplosione fragorosa riempì la notte, mentre una colonna di fuoco si stagliava verso il cielo.

Cosa hanno fatto?
Per l’amor del Fato, cosa hanno fatto?

Un muro si sgretolò facendo cadere una gran quantità di calcinacci sulla strada.
L’uomo biondo si voltò verso il suo nuovo rivale, affondando con velocità inumana il suo stiletto in direzione della testa nemica.
La punta dell’arma si spezzò non appena impattò contro una dura superficie nera, comparsa improvvisamente a protezione del corpo sottostante.

Ora basta.
Questa faccenda sta diventando ridicola.
Basta.

La piastra formatasi sulla fronte dell’uomo dai capelli neri tremolò, per poi scattare in avanti e impalare il cranio coperto dai ricci biondi.
Un secondo dopo, la lancia di melassa scura si era già ritirata senza lasciare tracce del suo passaggio al di fuori del corpo dal cranio traforato che giaceva a terra.
Noir fece alcuni rapidi passi verso il suo compagno di viaggio, aiutandolo ad alzarsi.
Un’altra esplosione riempì l’aria, portandosi dietro altra distruzione, accompagnata da urla di terrore.
L’ispettore si rialzò in piedi mentre il buco che gli si apriva in mezzo agli occhi rapidamente andava risaldandosi.
Una terza esplosione fece la sua comparsa, creando ancora più rumore.
L’uomo dal volto tatuato parve indeciso sul da farsi, i suoi occhi saettavano tra i due uomini in fuga e la nuova colonna di fuoco che si alzava verso il cielo.

Maledizione.
Non posso lasciare che quel pazzo faccia una strage di questa portata.
Devo interrompere la reazione a catena.
Non importa.
Non importa che riescano a scappare, che riescano a lasciare questo continente o facciano qualche casino sul loro percorso.
So chi sei, maledetto verme e so qual è la tua meta.
Non ho bisogno della Trama per conoscerti adesso.
Assassino, Draghicida, Marinaio in servizio sull’Ala di Albatros. Il tuo stramaledetto nome è Razer Donier e tanto è vero che quella maschera è mia, verrò a riprendermela.
Riguardo al tuo compagno, ho paura di sapere chi possa essere.
Quel Buco della Trama è la dimostrazione vivente che il passato è fatto apposta perché possa tornare per complicarmi la vita.
Ora devo trovare il prossimo anello della reazione a catena prima che questa città diventi un ammasso di calcinacci ardenti.

L’ispettore scomparve in un turbinio di piume, il corvo che comparve al suo posto si levò rapidamente in volo, dirigendosi troppo velocemente per un esemplare della sua razza nella direzione dalla quale arrivavano i bagliori dei falò lasciati dalle esplosioni.

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Capitolo 21
*** Capitolo 10: Strada per casa ***


Razer corse zoppicando per la via che avevano imboccato.
Davanti a lui Noir controllava ogni angolo e ogni punto cieco per paura di veder ricomparire l’uomo che li aveva messi all’angolo
Un’altra esplosione illuminò la notte.
L’assassino sorrise da sotto la sua maschera. Nonostante quel contrattempo il suo piano aveva comunque funzionato alla perfezione.
Doveva migliorare ancora un paio di dettagli, ma sarebbe sicuramente riuscito ad epurare il mondo da quei mostri. Ne era certo.
Il polso destro gli fece arrivare una scarica di dolore dritta nel cervello.
Durante quei pochi istanti di combattimento aveva perso il suo coltello e, probabilmente, si era rotto il polso.
Chi era quell’uomo biondo?
Da dove era arrivato?
Era certo di averlo visto comparire dal nulla a mezz’aria, così come era certo che era lo stesso uomo che lo aveva interrogato a bordo della nave con cui era arrivato sul continente.
Strinse il polso con la mano sinistra, continuando stoicamente a correre lungo quella strada.
Noir si voltò un attimo nella sua direzione, come per sincerarsi che l’assassino lo stesse ancora seguendo.
Un’altra esplosione fece sentire la sua voce, ma era stata meno fragorosa di quelle che l’avevano preceduta.
Un ruggito potente e cristallino squarciò il cielo, muovendosi rapido verso la zona cittadina colpita da quella terribile disgrazia di fuoco.
Razer tremò nell’udire quel suono.
Non lo conosceva. Non lo aveva mai sentito prima.
Gli mancò il respiro, come se le pareti delle case attorno a lui gli si stessero stringendo attorno.
Lui conosceva tutti i versi di quei mostri. Lui doveva conoscerli tutti. Doveva.
Perché quello non lo conosceva?
Nessuna versione di quelle aberrazioni ruggiva in quel modo. Poteva sembrare quasi un suono prodotto da un oggetto, invece che da una creatura vivente. Se un uomo avesse fatto suonare un enorme calice di cristallo, forse, avrebbe fatto lo stesso suono.
Ma quello era un ruggito, ne era certo.
Aumentò la sua andatura, ignorando il dolore al polso per riuscire ad accostarsi all’uomo che lo precedeva.
- Come hai fatto a far esplodere quei barili senza il terzo corpo? Il calore non sarebbe dovuto essere sufficiente. –
- Ne ho aperto uno e ci ho appoggiato sopra uno di quei cadaveri. – rispose tranquillamente l’uomo dai capelli neri, allungando lo sguardo per scoprire le forme dietro una cassa a lato strada – Togliti quella maschera, sei troppo riconoscibile. –
Razer si sfilò prontamente il guscio bianco dal volto, nascondendolo sotto la camicia che portava indosso.
- Poteva esploderti in faccia. Hai rischiato di morire. – gli fece notare, stringendosi il polso dolorante contro il petto.
- Non ho rischiato nulla. – continuò Noir senza smettere di muoversi per la via – La mia maledizione non mi permetterebbe di morire. –
Si stavano dirigendo a sud, verso la radura in cui avevano lasciato il carro con cui erano arrivati.
La loro intenzione, fin dall’inizio, era quella di tornare al porto di Jidan per imbarcarsi sulla prima nave disponibile.
Razer aveva parlato col nostromo dell’Ala di Albatros, durante la traversata che li aveva portati lì. A suo dire, un’altra nave passeggeri sarebbe arrivata nel girò di sei giorni per gettare lì l’ancora. La Freccia di Rame, l’aveva chiamata nella sua ubriachezza. Il capitano doveva essere un certo Bertran Darren.
Qualcosa dalla pelliccia scura sfrecciò accanto ai due uomini, dirigendosi verso il centro della città.
Poteva essere un grosso cane randagio, ma Razer preferì non fermarsi per accertarsene.
Raggiunsero l’estremità meridionale della città, per poi inoltrarsi nella boscaglia che sembrava guerreggiare con le strutture umane per guadagnare terreno su cui crescere.
Un cavallo brucava tranquillamente le chiazze d’erba che erano riuscite a crescere sotto quelle fronde, quasi indisturbato dalle esplosioni che erano scoppiate fino a poco prima, alle sue spalle era ancora saldamente fissato il carro con i quali erano arrivati.
- Muoviamoci. Quell’uomo potrebbe averci seguito fin qui. – disse rapido Razer, balzando sulla panchina destinata al cocchiere e prendendo in mano le redini.
Noir si fermò, immobilizzandosi ai piedi della carrozza.
– Quel tipo non era umano, vero? – chiese con voce tremante.
-  Proprio tu mi stai chiedendo se non era umano? E, poi, che altro vuoi che sia? Ora sali. Dobbiamo andarcene di qui. –
Noir non fu convinto di quello che sentì, ma non provò a controbattere, prendendo il suo posto a fianco del conducente.
- Continuerà a seguirci, vero? –
- Non potrà se copriremo bene le nostre tracce. – le redini schioccarono, costringendo il cavallo ad alzare il muso da terra e intimandogli di incamminarsi a passo sostenuto.
Noir rimase per diverse ore in silenzio, con lo sguardo perso davanti a sé. La sua mente non era davvero lì, era persa a ragionare su quello che aveva visto e provato quella sera.
Ne era certo, quell’uomo biondo era comparso dal nulla in aria.
Così come era certo che la sua arma si fosse prima rotta e poi rigenerata.
Quell’arma era davvero fatta d’acciaio?
Si, si rispose, ne era sicuro.
E quella sensazione che gli attanagliava le viscere? Non aveva mai sentito il suo sangue ribollire in quel modo.
La sensazione era stata più forte, sulla nave, perché?
Sperava unicamente di non dover ritrovare nuovamente sul suo percorso quell’uomo biondo. Poteva essere lui la creatura in grado di ucciderlo.
Il carro uscì dal fogliame, tornando a far girare le sue ruote lungo la strada battuta che lo avrebbe riportato a Jidan.
L’unica cosa a cui Razer riusciva a pensare era la strada più veloce per tornare a casa.
Avrebbero dovuto imbarcarsi senza dare troppo nell’occhio sulla Freccia di Rame, arrivare a Derout e, immediatamente, cercare di salire a bordo del treno Nube in direzione dei Muraglia e rimanerci sopra il più possibile.
Di lì in avanti, poi, non avrebbero dovuto far altro che seguire uno degli antichi sentieri che percorrevano i fianchi desolati dei Monti Muraglia.
Chi sarebbe mai andato a cercarli su quelle montagne carbonizzate?
Erano il nascondiglio perfetto per chiunque.
Di lì in avanti, poi, avrebbe potuto servirsi di quel potere incredibile di Noir, qualora ne avesse ancora avuto bisogno. Poco gli importava di chi fosse il sangue che gli scorreva nelle vene, il suo passato o il fatto che fosse un ricercato dal governo.
Era un alleato importante, per lui.
Sua sorella non avrebbe avuto difficoltà a occuparsi anche di lui.
L’assassino si voltò verso l’uomo che gli sedeva accanto, studiandolo per pochi secondi.
Sembrava così tranquillo, così inerme.
Un brivido corse lungo la schiena dell’uomo dal polpaccio ustionato.
Sapeva che, se mai avesse provato ad attaccarlo, probabilmente, avrebbe fatto la stessa fine di Rakre, se non una peggiore. Non lo conosceva o, per lo meno, non conosceva a sufficienza il suo potere.
Forse aveva un punto debole, scoperto, ma non ne era certo.
Aveva visto bene cosa era successo con quel mercante da quattro soldi.
Il suo potere aveva protetto la sua gola dal coltello e, quasi contemporaneamente, aveva trafitto la testa dell’uomo che gli stava alle spalle, quasi come se avesse una coscienza a sé stante.
Razer fu quasi sollevato che Noir fosse umano e non uno di quei mostri a cui dava la caccia. O, per lo meno, quasi interamente umano.
Le voci che circolavano su di lui erano molteplici e discordanti. Aveva viaggiato molto, prima di imbarcarsi in quella missione, aveva raccolto informazioni su tutte le Terre, spingendosi fin sul continente per essere pronto ad ogni evenienza.
Durante quei viaggi aveva incontrato decine di bardi e girovaghi, senza contare le pattuglie al servizio del Tribunale di Gerala, ed ognuno di loro aveva dipinto un quadro diverso dell’uomo che gli stava accanto in silenzio.
Chi diceva che era un mostro, chi un demone, chi un essere maledetto dagli stessi dei. Si diceva che potesse cambiare volto, che uccidesse chiunque incrociasse con lui lo sguardo, erano decine le storie riguardanti interi villaggi ridotti in polvere dal suo potere.
Razer non sapeva a cosa credere, ma era abbastanza certo che non fossero tutte infondate.
Dopotutto, si era fatto esplodere un barile di polvere nera a pochi centimetri dal corpo e ne era uscito illeso.
L’assassino tornò a concentrarsi sulle briglie, sconvolto da quei pensieri.




Angolo dell'Autore:

Ciao a tutti!
Oggi inizierò con un'informazione tecnica, per poi passare ai miei soliti deliri solo in un secondo momento.

La settimana prossima, mi duole dirlo, non riuscirò a pubblicare nulla. Il mio portatile ha deciso di cominciare a fare le bizze seriamente e questo sta rallentando davvero troppo la mia produzione dei capitoli.
Se tutto va bene, però, il primo dicembre dovrei tornare in piena forma, probabilmente con un nuovo pc, se questo continua su questa strada.

Detto ciò, continuo a ringraziare OldKey, whitesky e la ragazza imperfetta per le loro recensioni, sempre preziosissime, e voi tutti che continuate a leggermi settimana dopo settimana, alcuni addirittura aprono il capitolo a dieci minuti dalla sua pubblicazione che, avvenendo questa tra mezzanotte e l'una, è una cosa non da poco.
Mi spiace davvero tanto dover saltare una settimana. Per farmi perdonare, vi voglio lasciare qualcosa su cui riflettere.
Il prossimo capitolo sarà dedicato al Viandante, ci saranno dei piccoli cameo, un ritorno agli albori e altre piccole chicche. Sarà un capitolo sicuramente lungo.
Ma, soprattutto: Ci sarà un quak quak davvero importante per la trama.
Spero di avervi dato un po' di hype per il prossimo capitolo, davvero.
Oh, giusto, con il 10.5 si scoprirà finalmente chi è Noir. (in quel momento potrete anche canticchiarvi le canzoni de "La sirenetta" se volete, saranno abbastanza azzeccate.)
Vorrei lasciarvi almeno l'introduzione di quel capitolo ma... mi spiace, non c'è ancora nulla nero su bianco.
Alla prossima, miei cari lettori.
Alla prossima e, adesso che una parte importante di questa storia si è conclusa, se qualcuno di voi avesse voglia di lasciarmi i suoi pareri riguardo la trama, i personaggi o qualunque altra cosa gli passi per la testa, giusto per farsi due chiacchiere, è il benvenuto.
Qui Vago passa e chiude.

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Capitolo 22
*** Capitolo 10.5: Strada per il mare ***


So di aver fatto la scelta giusta.
So chi sono, non mi serve più seguirli.
Tra l’altro, dal cielo, posso intuire che direzione abbiano preso. Le esplosioni si stanno allargando verso nord, probabilmente raggiungeranno la zona meridionale della città solo in un secondo momento.
Potrebbero star tornando a Jidan, ora.
Non è molto importante, comunque.
Più che altro mi chiedo se questi draghi non siano un inutile perdita di tempo, ho una tappa da fare, prima di tornare nelle Terre… Magari dovrei poi anche passare da Loro a fare rapporto, non sarebbe una brutta idea.
Vabbè, mi sento buono, oggi.
Farò in modo che la città non cada a pezzi, poi partirò verso nord.

Un’altra esplosione rischiarò la notte di arancione, portandosi dietro il rumore sordo di calcinacci che crollano al suolo.
Un corvo dalla coda spezzata a metà da una piuma bianca sorvolò l’aria, scrutando il terreno con i suoi occhi scuri, in cerca di qualcosa di preciso tra le mura dei quartieri non ancora colpiti da quell’onda di distruzione.

È inutile che tenti di togliere il prossimo barile di esplosivo, arriverei comunque troppo tardi.
Devo raggiungere quello ancora successivo e interrompere la catena.

Un ruggito cristallino riempì l’aria, mentre qualcosa di maestoso sorvolò il cielo al di sopra del corvo dal manto scuro.
Possenti folate di vento spazzarono il terreno, facendo perdere diversi metri di quota al volatile irritato.

Non ci vediamo da vent’anni e mi saluti cercando di farmi schiantare a terra?
Rettile ingrato.
Io ti ho salvato le squame, non dovresti dimenticarlo.
Strano, mi sono sbagliato. Hanno deciso di abitare più vicino di quanto immaginassi.
Questo però mi fa venire in mente un’idea non malvagia.
Che io faccia pena nel fabbricare armi è appurato, ma se ne prendessi una di buona fattura in prestito… Dopotutto se c’è lei, perché no?
Ho bisogno di lui.
Ma soprattutto ho bisogno di ricordarmi che faccia avessi usato all’epoca. Mi sembra fosse qualcosa di molto horror, con un po’ di fumo attorno.
Oh, a chi interessano i particolari. Tanto non se li ricorderanno nemmeno loro.
In ogni caso devo raggiungerli, prima di poter dare il via alla scena.

Uno spesso sbuffo di fumo si levò dal piumaggio del corvo, disperdendosi nell’aria intorno a lui.

Sto guarendo.
E lo sto facendo in maniera tanto veloce da essere sospetta.
Si, decisamente l’Oasi sarà la mia prossima tappa.

Il volatile dal manto scuro accelerò la sua andatura, puntando il becco affilato verso la piazza e che, a poco più di un centinaio di metri davanti a lui, cercava di ritagliarsi un posto tra i muri delle case ancora integre.
Un paio di piedi neri, nudi, atterrarono sul lastricato.
Un paio di persone rimaste indietro cercarono di mettere a fuoco la sagoma scura che era comparsa come dal nulla nella piazza, ma non riuscirono a distinguerla dalla notte che la avvolgeva.
La creatura distese la schiena verso il cielo, portandosi in posizione eretta, per poi aprire gli occhi, due fari dorati nel buio notturno.
Con uno sbuffo, quell’oscuro corpo antropomorfo venne avvolto da uno spesso strato di fumo che gli turbinava addosso come un manto vivente.

Uh, mi mancava potermi disgregare, anche se solo in parte.
Follia me la pagherà per lo scherzo che mi ha fatto, quando sarà tutto finito.
Ora, però, devo pensare all’esplosivo.

La creatura si guardò intorno con quei suoi occhi risplendenti, in cerca di una forma particolare tra quelle della notte.
Una cassa, un contenitore, un vaso.
Un vaso come quello posizionato ai piedi di un muro intaccato dall’umidità.
Lo spettro si lanciò in direzione del vaso, stringendolo con forza e spostandolo dalla sua posizione, privandolo della miccia che, rapidamente si stava consumando, spostando la fiamma che trasportava verso il buco nella terracotta in cui era stata inserita.

Bene, anche oggi la mia buona azione l’ho fatta.
Posso andarmene con la coscienza pulita.
È un peccato, avrei voluto incontrarli. Vabbè, sarà per la prossima volta.

Una nuova esplosione echeggiò per i muri della città, provenendo da nord.

Oh, Fato!
Davvero?
Davvero dovevano aver creato un secondo percorso proprio al vaso esplosivo precedente a quello che ho disinnescato?
Vedi di mandarmela buona, adesso.
Ora non mi conviene nemmeno tornare in forma di corvo, a piedi farò certamente prima.

Lo spettro cominciò a correre per le vie cittadine, lasciandosi dietro una scia del denso fumo che lo avvolgeva, come impronta del suo passaggio.
Una folata di vento diretta verso il suolo turbò per pochi secondi il suo manto, ma scomparve rapidamente come era apparsa.
Un ululato risuonò da qualche parte tra le vie.

Alla faccia degli assassini che agiscono nell’ombra.
Comunque dovrei essere quasi arrivato a destinazione.

Lo spettro svoltò in una via alla sua destra, cercando di non perdere di vista il punto dell’ultima esplosione.
Un piccolo spiazzo si aprì davanti a lui. Qui la strada che aveva seguito si biforcava, continuando verso nord da una parte e andando a morire sotto un arco in mattoni dall’altra. Sotto quest’ultimo, con fare innocente, riposava un orcio.
Una fiammella timida comparve sulla strada da sopra un muro, scendendo rapida mentre seguiva il tracciato che le disegnava davanti la sua miccia.

Viandante due, tutti gli altri zero.

Lo spettro prese tra le mani la miccia, sfilandola dal pertugio in cui era stata inserita e gettandola a terra, in direzione opposta al vaso che attendeva la fiammella.
Quando il fuoco raggiunse il capolinea della sua corsa scoppiettò appena, entrando in contatto con i pochi residui di polvere esplosiva che erano rimasti attaccati.

Un’altra proficua giornata di lavoro.
Altre esplosioni che vogliono rovinarmi i festeggiamenti?

No? Bene.

Qualcosa raggiunse il picco slargo di corsa.
Il grosso corpo era ricoperto per la sua interezza da una folta pelliccia grigia, il muso canino vantava grosse zanne e la postura sembrava indecisa tra il rimanere a quattro zampe o tornare eretta.
La creatura ferina si sfocò, si deformò, lasciando il passo a due corpi distinti.
Un grosso lupo grigio si sdraiò sulla strada, alzando le orecchie in direzione dello spettro che gli stava davanti.
Un uomo che doveva aver superato la quarantina si fece avanti, socchiudendo le palpebre per cercare di vedere cosa gli stesse davanti, sotto la poca luce della luna.
- Sei tu? Il servitore? –

Davvero? È tutto quello che sai dirmi in questo momento?
Bah.
Stiamo al gioco, forza.

- Si, sono io. – gli rispose lo spettro – Sono qui per conto degli dei, ma non preoccuparti, non richiedono un vostro ritorno. –
L’uomo alzò un braccio verso il cielo, facendo luccicare qualcosa alla luce delle stelle.

Magari fossi stato mandato qui dagli dei.
Mi sarei divertito sicuramente di più.
Tra l’altro non mi interessa fare una rimpatriata, voglio solo uno dei suoi maledetti coltelli incantati.

- Hile, ascoltami. – riprese il servitore con voce più cupa – Ho bisogno che tu mi dia uno dei tuoi coltelli da assassino. Quello incantato. Dovrebbe essercene rimasto uno, no?–
- L'ultimo coltello incantato è sul fondo dell'oceano. Ti va bene un'altra di quelle vecchie lame? Non le tocco da una vita, oramai. –

Non mi interessa se non le tocchi da una vita o le usi per tagliare il formaggio.
Io ne ho bisogno ora.

- Non importa, mi saprò accontentare. Ne ho bisogno… per il mio compito. –
Un corpo aggraziato atterrò sullo spiazzo, ammortizzando sulle ginocchia la caduta da quelli che sembravano essere decisamente tanti metri.

Vabbè, a questo punto tanto vale che faccia un po’ di luce…

Gli occhi dello spettro iniziarono a risplendere sempre più vividamente della loro luce dorata, fino ad illuminare tutte le pareti delle case che gli stavano attorno.
L’uomo cominciava a mostrare diverse ciocche di capelli bianchi, la cicatrice che gli solcava lo zigomo si poteva quasi confondere con le prime rughe sottili che gli adornavano il viso.
Con la donna il tempo sembrava essere stato più clemente, lasciando quasi intatto il suo volto solcato da una lunga cicatrice obliqua.

Anche quella opera del caro Follia.
Voleva proprio essere ricordato, quel demone.

- Allora? – incitò il servitore, incrociando le braccia all’altezza del petto.
Hile infilò goffamente la mano destra in una tasca, estraendone un coltello che fece vorticare attorno al proprio palmo.
Le dita dell’uomo si chiusero sulla lama, fermandone la cosa.
Dai polpastrelli cominciò a colare un leggero rigolo di sangue.
- Sono decisamente fuori allenamento… - borbottò il Lupo, porgendo l’arma allo spettro che gli stava davanti.
Questi la prese, facendola scomparire tra le volute di fumo che lo avvolgevano. – Forse è meglio così. Dopo quello che avete fatto, non dovreste più toccare armi per tutto il tempo che vi rimane da vivere. –
Lo spettro scomparve e, con lui, la luce che produceva.
Da qualche parte, nell’oscurità, si udì il fruscio di un paio d’ali piumate che sbattevano con forza.

E anche l’arma me la sono procurata.
È stato molto più facile di quanto avessi immaginato.
Ora rotta verso nord est.
Ho un tizio d’acqua a cui rovinare la giornata.


Il sole sorse sopra le vette lontane dei Monti Muraglia, gettando i suoi raggi rossi sulla superficie burrascosa dell’occhio del Gorgo del Leviatano.
Poco più ad ovest si potevano vedere i vulcani più alti dell’isola patria dei draghi.
Il corvo sorvolò un’ultima volta il gorgo, studiandolo con i suoi occhi scuri.

Che pessima idea hanno avuto i Budnear e le fate con loro.
Perché diavolo andare a nascondersi qua sotto? È proprio un modo per dire che vuoi solo isolarti dal mondo civilizzato.
Devo trovare un modo divertente per tirare fuori di lì quel vecchio sadico di Proteo.
È da un bel po’ che non uso il quak quak.
Bene, votazione finita.
Si apra il sipario.

Il corvo scomparve, le sue piume si fecero più chiare, il suo becco si allargò, tingendosi di arancione, le sue zampe si fecero palmate.
Una papera cadde pesantemente in mezzo al vortice del Gorgo del Leviatano, nuotando tranquilla in mezzo alle correnti inferocite.
- Quak quak. –

Forza, vecchio sadico, fatti vedere.
Non ho tutto il giorno.
Cioè, ce l’ho, ma non voglio sprecarlo qui.

- Quak quak. Quak quak. –

Dai, abbocca al mio amo, pesciolino.
Forza, su…
Non farti pregare.

- Quak quak. Quak quak! –

Dai, so che ci sei.
So anche che mi stai guardando.
Quando ti ricapiterà di poter avere tra le mani una bella papera come me?
Forza, vieni a giocare con questa paperella.

Il moto dei flutti si fece meno violento, creando una zona di calma esattamente là dove le zampe arancioni della papera affondavano nell’acqua marina.
- Quak quak. –

Dai non farti pregare.
Vieni qui, pesciolino, vieni da questa bella paperella.

Una sagoma quasi antropomorfa cominciò a formarsi al di sotto del pelò dell’acqua. Nello stesso istante una mente antica cercò di far breccia all’interno di quella della papera che continuava a galleggiare placida, scoprendola più profonda e contorta di quanto non si fosse aspettato.
L’ala destra del volatile mutò, divenendo un braccio piumato, che affondò nel mare per poi riemergere tenendo saldo nella sua stretta il collo di un essere interamente composto d’acqua.

Ha beccato la paperella sbagliata, questa volta.

- Proteo, ho bisogno di accedere agli archivi dell’Oasi. A tutti gli archivi. –
L’essere gorgogliò qualcosa di incomprensibile, mentre le sue mani cercavano disperatamente di far allentare la presa che gli stringeva la gola.

Non è un essere così incredibile, se conosci il trucco.
Per potersi liquefare ha bisogno di concentrarci, cosa complicata se una papera con un braccio antropomorfo sta cercando di soffocarti.

- Ho detto, fammi raggiungere gli archivi dell’Oasi. –
- Tu… tu non sai chi sono io. Ho conosciuto il primo Farionim, ho aperto le porte del mio cancello ai sei eroi… ho… - gorgogliò Proteo.
- Sentimi, pesce troppo evoluto. Io conosco gli dei, sono stato forgiato durante la creazione, ho visto imperi sorgere e cadere, ho visto l’esilio di Follia dalla mia tribuna d’onore, ho visto il Cambiamento sia dalla Volta degli Dei che da quello che divenne Zadrow, la linea temporale all’epoca risentì di quell’evento, ho conosciuto Farionim, Drake, Nestra e Reis, ho guidato i sei Eroi, ho salvato i sei Araldi e sto per porre fine alla tua inutile esistenza, se non mi darai quello che ti ho chiesto. –
Proteo ammutolì.
I flutti del gorgo si aprirono, rivelando una voragine che precipitava nell’oscurità per diverse centinaia di metri.

Bravo il mio pesciolino.
Ora però tu vieni con me.

La papera si lasciò cadere nella voragine, trascinando con sé l’essere d’acqua.
I loro corpi bucarono una manciata di secondi dopo la superficie traslucida di una bolla, ricadendo pesantemente su un terreno che pareva essere quello della superficie.
Un uomo dai ricci biondi si rialzò da terra.
La mano destra stringeva ancora saldamente la gola del suo ostaggio, la sinistra passò sul tatuaggio romboidale che gli solcava la guancia, ripulendolo dalla polvere che la caduta aveva sollevato.

Bene, vediamo…
Era estate, mi pare, quando finì la Guerra degli Elementi.
Estate… forse Luglio o Agosto.
Ma a chi interessano i mesi? Sono passati cent’anni da allora, posso permettermi un poco di imprecisione.
Facendo due rapidi conti…
Marzo, circa.
Conoscendo Farionim sarà tutto ben schedato. Quanto mi stanno simpatici i burocrati.

Non credo passino in questa sezione degli archivi da decenni.
Perché dovrebbero, dopotutto?

Certo che farei prima, se non dovessi trascinarmi dietro Proteo. Purtroppo è il mio biglietto d’uscita, quindi non posso lasciarmelo scappare.

Trovato. Marzo.
Ora devo solo trovare il documento giusto.

Bene.
“23 Marzo. Anno primo dalla caduta di Reis. È infine nato. Ciò che temevamo è successo, Reis e il demone che lo guidava sono riusciti a generare una prole da Nestra. Lei non sarà più in grado di avere figli dopo il parto. Come da accordi si è provato a sopprimere il figlio del demone, ma una sostanza senziente contenuta nel suo sangue lo ha protetto da ogni nostro intento. Il Consiglio ha discusso sul da farsi. Cresceremo Javer come nostro figlio tenendo tutti all’oscuro della sua natura, lui per primo. Pare inoltre che per via della sostanza nel suo sangue non supererà i quarant’anni, nel migliore dei casi. Farionim.”

Dunque Reis si è dato da fare, quando aveva Nestra nella sua reggia. Ottimo.
Ma non mi basta, devo essere sicuro.
Devo andare avanti nel tempo. Sarà una lunga mattinata.
Tra l’altro odio questa nuova gestione degli anni. Anno X dal Cambiamento, anno Y dalla caduta di Reis, anno Z dall’istaurazione del nuovo Governo.
Dovrebbero sceglierne uno e continuare a usare quello.

“11 Ottobre. Anno trentacinquesimo dal Cambiamento. Una serva ha partorito, morendo nell’atto. Javer, la cui salute è sempre più cagionevole sostiene di non aver avuto nessun rapporto con lei, ma il neonato presenta il suo stesso potere, seppur in maniera minore. Abbiamo notato infatti che la sostanza senziente presente nel suo sangue non è in quantità sufficiente per rivestire tutto il suo corpo come fa con il padre. Cautamente potrei avanzare l’idea che, con le generazioni, questa traccia del potere di Reis scomparirà. Come lasciato dal grande Farionim nessun, se non i miei successori, verranno messi al corrente della verità. Terzo Gran Visir dell’Oasi, Tarquan.”

È possibile che il suo potere sia come un parassita che fa di tutto per preservare la genealogia?
Sia maledetto questo Tarquan. Non mi ha lasciato il nome del bambino nato dalla serva…

“Pratica di affido per bambina di razza umana, Careen senza parenti vicini, orfana di padre, madre morta di parto. La bambina presenta un insolito potere, non ancora catalogato negli Indici per la Manifestazione Spontanea della Magia negli Individui. Si presenta come un guscio gelatinoso in grado di avvolgere in gran parte il corpo della bambina. Si inviano i moduli per l’aggiunta all’indice del suddetto potere. Ufficio affidi dell’Oasi. Anno cinquantasettesimo dalla caduta di Reis.”

Hanno fatto proprio un bel lavoro per nascondere le loro origini.
Per fortuna che c’è questa traccia del potere.

“I genitori affidatari, il marito e gli amici più stretti voglio dare un ultimo saluto a Careen Sarhan in Drakar, morta di parto. 22 Novembre anno settantaquattresimo dalla caduta di Reis.”

Famiglia fortunata. Se sono loro.
Non ho trovato nessun riferimento al potere del demone, qui.

“Rapporto sui dispersi durante la marcia di esodo dal lato orientale delle Terre. Anno primo dalla rifondazione dell’Oasi.
Si contano duecentoventi dispersi e morti durante l’attraversamento dei Muraglia.”
Sarà una lunga lettura, questo rapporto.
Almeno ho un’idea di che cognome sto cercando.





Non sono nemmeno in ordine alfabetico!
E poi che diavolo di conteggio degli anni è uno che parte dalla rifondazione di una città?



“Drakar Noir, di anni otto. In possesso di una magia innata pericolosa. L’ufficio del Giudice Maggiore verrà informato della sua scomparsa.”

Quindi quegli scarabocchi appesi qua e là per le Terre non erano dei semplici spauracchi.
A mia discolpa posso dire che il ritratto sopra alla dicitura “uomo nelle cui vene scorre il sangue di Reis. Ricercato per sovversione, omicidio e istigazione alla rivolta” non è proprio quello del tizio che mi ha trapassato la testa.
Dannazione, potevo immaginare che Reis avesse avuto una discendenza, probabilmente prima di diventare amicone con Follia, ma non per queste i suoi pronipoti sono da perseguitare. Certo che se questi pronipoti sono imparentati anche con Follia, la melodia cambia decisamente.
Quanto è pericoloso questo suo potere?
E quanto la volontà di Follia è forte in lui?
In ogni caso, il suo sangue spiega perché le particelle che quel simpatico demone mi ha ficcato in corpo diventano matte quando mi si sono avvicinato a lui sulla strada… e nel vicolo cieco… e, a questo punto, nella stiva della nave… e il tempio che sorgeva in quella che era la Piana Umana.
Dannazione, continuo a ritrovarmelo tra i piedi.
Il fatto che sia il frutto della volontà di sopravvivere di Follia, è anche la spiegazione al fatto che sia un Buco nella Trama. Se solo quel demone se ne fosse stato al suo posto, lui non sarebbe mai nato, come il Fato ha progettato in quel suo libraccio.

L’uomo dai ricci biondi fece calare il suo sguardo sulla creatura d’acqua che tentava disperatamente di fuggire dalla sua presa.
- Pesciolino, io qui ho finito. Torniamo su? –

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Capitolo 23
*** Capitolo 11: Gli ultimi passi ***


Le strette pareti che circondavano Noir sobbalzarono un’ultima volta, prima di tornare a toccare il suolo con una botta secca.
- Fate attenzione, maledizione! È merce delicata! Forza, ora tornate a prendere anche gli altri. – disse una voce dall’esterno di quell’oscurità.
Noir si spostò appena per sistemarsi meglio tra la paglia che lo circondava. Ai suoi piedi gli facevano compagnia decine di cadaveri di arance e briciole di pane ormai indurite.
Ci furono altri rumori tutto intorno, qualcosa di pesante in legno che sbatteva contro la pietra del molo di Derout.
Il trentenne aspettò in silenzio che qualcuno gli desse il via libera per uscire.
Il suo compagno di viaggio, non appena erano tornati a Jidan, era entrato a casa del mercante che era rimasto ucciso, svaligiandola di qualsiasi cosa di valore. Con quei soldi era riuscito a comprare un biglietto per la traversata fino alle Terre per lui e la sua merce, contenuta in tre diverse casse abbastanza grandi da contenere una persona.
La Freccia di Rame del capitano Darren non aveva dovuto combattere con nessuna tempesta durante il suo viaggio, arrivando senza ritardi al porto che li attendeva ed ora, su quella banchina, Razer stava aspettando che i marinai andassero a dilapidare il loro stipendio in una taverna per togliere i sigilli alla sua merce e controllarne l’integrità.
Vasi in vetro, aveva risposto alla domanda riguardo in cosa commerciasse.
Le assi che componevano la cassa in cui si era rintanato Noir cigolarono quando la testa scura di un piede di porco si fece largo negli interstizi che le separavano l’una dall’altra.
I chiodi che tenevano attaccato il coperchio con il resto della struttura si piegarono fino a sfilarsi completamente dai pertugi che si erano creati quando erano stati piantati.
Noir puntò i palmi delle mani contro la superficie piatta che lo separava dal cielo, premendo su di questa finché non si smosse, permettendo all’aria salmastra di invadere il piccolo spazio in cui era stato rinchiuso.
Il viso di Razer si stagliò contro il cielo, di profilo, intento a controllare che nessuno avesse deciso di tornare sui suoi passi.
- Muoviti, dobbiamo andarcene il prima possibile da questa città. – disse solamente l’uomo dagli occhi scuri, scostandosi a sufficienza per lasciar emergere il suo compagno di viaggio dal suo nascondiglio.
Le strade erano particolarmente disabitate e il silenzio che pervadeva i vicolo era rotto solamente dal miagolare dei gatti randagi che infestavano i tetti piatti delle case circostanti e dai tonfi sordi prodotti dai passi dei due uomini che si stavano allontanando dal molo.
I raggi del sole mattutino non riuscivano ancora a scaldare la pavimentazione delle stradine, andando ad infrangersi come onde arancioni sui muri delle abitazioni che davano sul mare.
Un odore acre di bruciato arrivò alle narici di Noir quando il loro percorso li portò vicino a una via del quartiere settentrionale limitata dai cadaveri carbonizzati di una decina di case. Per terra, accatastante nelle canaline laterali, riposavano centinaia di macerie che dovevano essere cadute dai tetti e dai muri lì attorno.
- Sei stato tu? – chiese con un filo di voce il discendente di Reis, temendo ad alzare lo sguardo dal manto stradale.
Razer non rispose continuando a camminare con la sua andatura spedita verso est.
- Ho bisogno di saperlo, Razer. È opera tua? – proseguì il trentenne.
- Non devi dire il mio nome. Mai. – ringhiò l’uomo dal polpaccio ustionato, voltandosi di scatto – Si, sono stato io. Ma ho sbagliato, evidentemente, perché non sarebbe dovuto rimanere nulla di questo posto infestato. –
- Infestato? – chiese Noir fermandosi a sua volta – Parli dei tuoi mostri? –
- Si. Ovvio che parlo di quegli esseri. Ora andiamo, non voglio perdere il Treno Nube di questa sera. –
- Devo farti un’ultima domanda. Perché parli tanto dei tuoi mostri, ma non li chiami mai draghi? Non sono stupido, so che sono draghi quelli che uccidi. –
- No. Non sono draghi. I draghi sono quelli dei Cavalieri, i veri draghi sono quelli della Prima Era, dell’Era degli Eroi. Quelli che io uccido non sono draghi. Sono mostri. Sono solo maledetti mostri che si nascondono tra le persone con volti che non sono i loro, che uccido gli innocenti con il loro fuoco. Adesso andiamo. –
Razer si tornò a voltare verso est, riprendendo a camminare.
Noir lo guardò con un misto di compassione e perplessità nello sguardo. Non capiva cosa potesse portare un uomo a odiare così tanto una razza intera. Doveva essergli qualcosa di terribile, per spingerlo ad intraprendere la strada che ora stava seguendo.
Anche il discendente di Reis riprese a camminare.
Non aveva paura del suo compagno di viaggio, in uno scontro lui ne sarebbe certamente uscito vincitore, aveva paura delle situazioni in cui sarebbe finito standogli accanto.
Le guardie della porta orientale furono troppo occupate a cercare di calmare i due Demo legati a quell’ingresso per poter controllare i due uomini che stavano uscendo indisturbati in quel momento dalla città.
- Perché fai quell’effetto sui Demo? – chiese Razer, scoccando una rapida occhiata alle creature dalla corta pelliccia che si erano accucciate tremanti contro il muro di cinta.
- Non lo so. – tagliò corto Noir – Avvertiranno il mio sangue, o il mio potere. –

Il treno Nube partì con uno sbuffo di fumo grigio, seguendo la sua scintillante strada d’acciaio verso est.
Ogni tanto, dai vagoni di coda, si potevano sentire i versi spaventati dei Demo che venivano trasportati verso le Chiritai, dove avrebbero trovato un buon utilizzo.
La locomotiva splendente costeggiò il lago che si era formato là dove, una volta, c’era stata la Piana Umana, specchiandocisi sopra.
Noir alzò lo sguardo sulle creature scure abbarbicate l’una sull’altra, nel disperato tentativo di allontanarsi da lui il più possibile.
Cos’era che gli spaventava?
Molti lo definivano come un discendente del Re o, comunque, una sua creazione.
Suo padre, quand’era bambino, non gli aveva detto nulla a riguardo. Sua madre… avesse saputo che suo figlio sarebbe stato un mostro del genere, probabilmente, non avrebbe dato la sua vita per metterlo al mondo.
Aveva un potere terribile, certo, ma non sapeva se questo lo legasse davvero al Re della Prima Era.
I Demo potevano avvertire, quindi, i suoi antenati? Oppure fiutavano la pericolosità che gli conferiva il suo potere?
Le possibilità erano tante. Forse, banalmente, sentivano che lui non provava alcuna forma di paura, nei loro confronti.
Il treno Nube frenò di colpo, facendo battere la nuca del trentenne contro la parete che aveva alle spalle.
Dovevano essere quasi arrivati alla prima delle colonie di Chiritai. Era arrivato il momento, per loro, di abbandonare quel mezzo di trasporto per procedere da soli per i sentieri montani.
Due ombre balzarono giù dalla terzultima carrozza destinata al bestiame, scomparendo tra i cespugli spinosi che infestavano i lati delle rotaie.
Nessuno si accorse di quella loro fuga, né il capotreno e i suoi sottoposti, né le guardie cittadine di stanza alla Chiritai vicina, che stavano controllando una a una le carrozze che sarebbero entrate nella loro città.
- C’è un valico comodo, poco più a sud di noi, poi non dovremo far altro che puntare verso il Passo Marino, la mia casa è lì vicina. –
- Sei certo che nessuno potrà trovarmi, una volta che saremo là? –
- Hanno reso i Muraglia mucchi di terra bruciata, nessuno ci vive più da anni. Sarai al sicuro. –
- Chi abita là, oltre a te? – continuò Noir, preoccupato.
Una volta che avesse deciso di procedere fin su quei monti, gli sarebbe stato difficile tornare sui suoi passi per cercare un altro luogo dove vivere.
- C’è solo mia sorella. Nessun altro. Ora mettiamoci in cammino, non abbiamo un grande dislivello da superare, ma la nostra meta è comunque lontana. – Razer si sistemò lo zaino sulle spalle, incamminandosi prima verso sud, per allontanarsi dal treno che ancora non sembrava voler ripartire, poi verso est, dove i Muraglia lo attendevano.




Angolo dell'Autore:

Vi voglio tanto bene, miei cari lettori, al punto da scrivere questo angolo e pubblicare il capitolo subito dopo il mio ritorno da un signor concerto di Caparezza, per vostra fortuna ho bisogno delle dita, ora, e non della voce.
Sono esausto, ma cercherò di dire tutto quello che devo, dopotutto nel capitolo scorso ne sono successe di cose.
Iniziamo dalla cosa principale, dal nucleo degli ultimi avvenimenti.
Noir. Il discendente di Reis, o meglio, di Follia.
Preparatevi a mangiarvi le mani, perchè io, fin dal primo capitolo, vi avevo scritto nero su bianco chi poteva essere il povero Noir.
Ora vi disegno la mia mappa mentale, in modo che possiate seguirmi.
Nel capitolo 0, Razer incrocia nella sa fuga un manifesto che mette una taglia sulla testa dell'"Uomo nelle cui vene scorre il sangue di Reis", so perfettamente che sono piccoli particolari che non potete ricordarvi, specialemente potendo leggere un solo capitolo alla settimana, ma mi sono divertito a lasciare quell'indizio così tanto presto rispetto alla sua reale utilità.
Tra l'altro lui non è certo se sia la verità o meno, questo titolo che gli è stato conferito.
Razer, dall'altra parte, ha ancora qualcosa da rivelare e la sua cara sorella mi aiuterà in questo.
La prossima settimana il Viandante tornerà a dire la sua e preparatevi ai fuochi d'artificio.

Alla prossima.
Vago

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Capitolo 24
*** Capitolo 11.5: Rapporto ***


D

Bene, ora non ho più dubbi su chi sia quel secondo uomo.
Devo starci attento, non vorrei trovarmi con un secondo buco, magari in una posizione facilmente nascondibile come in mezzo alla fronte.
Devo anche ammettere che la sua capacità di richiamare fuori dal mio corpo le particelle che mi ha lasciato Follia potrebbe tornarmi utile.
Posso quasi tornare a disgregarmi. Quasi.
Avrò modo di pensarci più avanti, se lo ritroverò ancora sul mio cammino o se decideranno di renderlo un mio obiettivo.
Per il momento devo concentrarmi unicamente sull’assassino.
Spero sia un tipo sentimentale, altrimenti potrei impiegarci qualche giorno in più a rintracciarlo, ma cosa mi interessa, ora? Conosco il suo nome, me l’ha detto lui stesso, all’epoca, quando gli creai quella maledetta maschera.
Dovrei smetterla di affezionarmi ai mortali o provare compassione per loro, finisce sempre che incasino tutto.
Ho praticamente costretto il Fato a inventarsi un sotterfugio per non far morire Niena durante la Guerra degli Elementi, ho incasinato la Trama del Reale, donando le mie energie a Vago per far resuscitare quella banda di disadattati protetti dagli dei, ho sconfitto Follia, per quanto sia stato inutile e, infine, temo di aver partecipato alla generazione dell’assassino.
Perché non mi faccio mai gli affari miei?
Maledizione.

Un corvo dal piumaggio nero sorvolò la costa occidentale delle Terre, l’unica piuma bianca che svettava sulla sua coda vibrava sotto il soffio del vento.
Il becco del volatile puntava verso est, verso i monti più settentrionali che limitavano quei territori e, dall’altro versante, cadevano inesorabilmente nel mare.

O

Il corvo sbattè ancora un paio di volte le ali, alzandosi di quota per evitare uno stormo di anatre selvatiche che tagliavano le correnti con i loro starnazzi.
Nonostante l’estate fosse arrivata al suo limite, facendo tingere i campi coltivati di tinte dorate, la Grande Vivente sembrava volersi ribellare alla presa dell’autunno avanzante, mostrandosi ancora coperta del suo manto di verdi foglie rigogliose.

Non credo di avervi spiegato ancora il motivo per cui ho un marchio su tutte le mie forme. La piuma bianca, la ciocca bianca sui capelli neri o quella era sulla chioma bionda, gli occhi e la bocca luminosi su un corpo color pece.
Ve lo spiegherò un’altra volta, tipo quando starò per morire. Si, mi sembra un’ottima idea.
Per ora ho cose più importanti da fare, rispetto all’esporvi un processo mentale evoluto durante qualche migliaio di anni di schiavitù e solitudine.
La mia prossima meta sarà far rapporto a Loro, così non potranno dirmi nulla riguardo al mio operato.
Il passo successivo sarà andare a prendere quel maledetto assassino a casa sua, trascinarlo là fuori cercando di non fare troppi danni alle montagne e portarlo a loro. Quello che Vanenir vorrà fare di lui sono problemi loro.
Il terzo punto della mia lista sarà seguire soddisfatto uno di loro fin dentro le viscere del Flentu Gar, guardarlo compiaciuto mentre apre la gabbia in cui è imprigionata Lei e lasciare questo posto per sempre, trattenendomi dal fare una strage. E trattenendo Lei dal fare una strage, questo sarà più complicato.
Mi sembra un ottimo piano.
Potrei anche trovare un momento per fare un salto nella Trama del Reale, è da un po’ che non ci entro e non sono aggiornatissimo su cosa sia successo durante la mia caccia nel mondo.
Le solite cose, immagino.
Tra l’altro, forse, grazie alla mia guarigione potrei anche riuscire ad andare un po’ più in profondità, la prossima volta.

V

Il corvo gracchiò soddisfatto al cielo, mentre sotto il suo ventre la Strada Sospesa, l’intrico di vie arboree che correva da una parte all’altra dell’immensa foresta, scorreva veloce trascinando co sé gli uomini che la stavano percorrendo in entrambe le direzioni.
Il sole era arrivato quasi all’apice del suo cammino, lasciando il posto per pochissime ombre sul terreno.
A sud, un banco di scure nubi si stava avvicinando dal mare, portando con loro una pioggia lieve che ben presto avrebbe increspato la superficie del grande lago che aveva colmato il bacino lasciato dalla caduta del regno nanico.

Non ho voglia di bagnarmi le piume.
Acqua perdonami, ma oggi non ho particolarmente voglia di danzare sotto la tua pioggia.

Il corvo cominciò a battere le sue ali sempre con maggiore foga, allontanandosi ad ogni folata che provocava verso il cielo ancora limpido.

E

Si sentì un leggero botto riecheggiare sopra la volta verde, un bambino che in quel momento stava giocando pacificamente sulla Strada Sospesa aprì la bocca e indicò con il dito paffuto il cielo, dove i suoi occhi avevano visto scomparire il corpo di un uccello scuro.
Una piuma nera cadde dolcemente verso terra diversi chilometri più a est.

Forse ho esagerato con la velocità. Rompere il muro del suono con un corpo così poco aereodinamico è sempre un casino.
È andata bene che ho perso solo una piuma, durante il tragitto. L’ultima volta che ho fatto un errore così grossolano ero sotto la forma di calabrone… diciamo che sono arrivato a destinazione con qualche interiora in meno.
In ogni caso, sono arrivato.
Forza, Viandante. Entri, fai rapporto, esci.
Questione di dieci minuti, se va male.

Le zampe escoriate del corvo non ebbero il tempo di toccare il suolo.
Le sue piume divennero un unico ammasso scuro che pian piano virò verso il marrone, le sue proporzioni mutarono, gli arti si allungarono, le ali lasciarono posto a delle braccia sottili, il becco appuntito scomparve per mostrare un sorriso soddisfatto incollato si di un capo incorniciato da una zazzera bionda.
Con un gesto rapido l’ispettore si sistemò addosso il cappotto marrone che lo proteggeva dalla fredda aria d’altura. La sua mano destra, poi, corse alla fronte per scostarsi i ricci chiari dagli occhi e mettere in risalto la ciocca scura che tra questi compariva.

Ho toppato in pieno con questo corpo, non mi piace per nulla.
Per fortuna non dovrò usarlo ancora per molto, come questo maledetto tatuaggio romboidale che devo continuare ad indossare.
Potrei salvare, però, qualcosa. Il cappotto non mi dispiace, almeno è caldo.

L’ispettore biondo si avviò a passo deciso verso quell’unica, piccola struttura che sorgeva sulla brulla vetta mozzata, aprì la porta con gesto rapido e cominciò a discendere le scale che gli si presentarono davanti con un gesto meccanico, non venendo neppure colpito dal pensiero che potesse non arrivare un nuovo gradino sotto le sue suole al passo successivo.

M

Continuò a scendere, avvolto nel buio più completo, finché sulla sua sinistra un piccolo pianerottolo interruppe la monotonia della parete liscia.
Le scale, intanto, continuavano a scendere verso il centro della Terra.
La mano dell’ispettore si posò sulla maniglia della porta al suo fianco.

Mi chiedo cosa spinga Loro a passare così tanto tempo in un posto del genere.
Dieci ore per tre giorni alla settimana, trenta ore alla settimana rinchiusi sotto terra. Le restanti, ovviamente, le passano rinchiusi nei loro uffici, circondati da delegati e contabili.
Non è un compito che svolgerei volentieri, quello del burocrate.

La maniglia si abbassò, permettendo alla porta di aprirsi verso l’interno e lasciando uscire una lama di luce rossastra dalla stanza che si nascondeva oltre quella soglia.

I

L’ampio candelabro risplendeva contro il soffitto, riuscendo nel difficile compito di illuminare quel locale a giorno.
Una frase venne interrotta a metà quando l’uomo dal tatuaggio romboidale fece il suo ingresso.
Quattro figure si voltarono verso il nuovo arrivato, mentre un calice ricolmo di un vino scuro tornava ad appoggiarsi tintinnando  sul tavolino che stava davanti alla proprietaria.

Io uno dei presenti non l’ho mai visto, dal vivo per lo meno.
Qualcosa mi puzza, qui.
Mancano tre di Loro e c’è un nuovo ingresso.
Ora, non che mi dispaccia questa cosa, meno sono, meno ci sono probabilità che debba rimetterne qualcuno al suo posto.
Vediamo…
Ci sono Sarah Dan Rei, Johanne Fenter e Krave Dunnont. La proprietaria del treno Nube, il Giudice Maggiore e colui che gestisce il traffico di Demo.
Questo vuol dire che i posti vuoti appartengono a Lakar Maoi, Rast Mareu e Vanenir II, in ordine il signore dei commerci sulle Terre, il signore delle Chiritai e il re dei draghi, persone di poco conto…
E poi c’è la nuova recluta. Puzza di drago.
La cosa non mi piace.
Non tanto perché sia un drago, sia chiaro, dovessi decidere a chi lasciare il governo di tutto a una razza, probabilmente sceglierei loro.
Quello che mi spaventa è che sia qui in sostituzione a Vanenir II. E Vanenir era il viso più rassicurante che ci fosse qui dentro.
Dovranno rispondere a qualche domanda.

- Viandante. – disse il Giudice Maggiore tornando a sedersi eretta dopo aver abbandonato al suo destino il calice di cristallo che fino a poco prima reggeva tra le dita – Qual è il motivo che ti porta qui? Hai completato la tua missione? –

Dunque sei stata tu a prendere in mano le redini della baracca.
Beh, meglio un’alcolizzata che quel ciccione borioso di Krave Dunnont.

T

- Vorrei poter parlare delle mie ragioni solo in presenza dei firmatari. – rispose l’uomo biondo, guardando rapidamente il drago che occupavano lo scranno destinato a Vanenir II.
- Non ti preoccupare di lui. È qui in veste ufficiale. –
- Non è usanza che la mia esistenza sia rivelata al di fuori della Vostra cerchia. Potete mettermi al corrente del motivo di questa decisione? – l’ispettore si mosse appena, incrociando le braccia dietro la schiena.
- Durante la tua assenza sulle Terre sono successi degli… spiacevoli inconvenienti. Rast Mareu è stato deposto da un’insurrezione congiunta dei suoi protettorati, il governo di Chiritai è stato costretto a imporsi sulle cittadelle prima che queste diventassero un pericolo. Il compianto re Vanenir II è stato colpito da un ritorno di fiamma del Morbo della Squama Grigia, probabilmente un ceppo che ha contratto in una delle sue visite alle città draconiche abbandonate su quello che fu il versante orientale delle Terre, prima del Cataclisma che spezzò a metà il continente. Lakar Moai ha preteso di uscire da questa cerchia, non potendo permettere a qualcuno di essere a conoscenza di ciò che succede sotto questo monte, sono stata costretta a incriminarlo di alto tradimento e cospirazione verso il Governo e impartirgli la pena capitale. –
- Sono morti tutti e tre, quindi. – constatò sollevando un sopracciglio l’ispettore.
- Precisamente. – fu la risposta tranquilla della giovane donna bionda.
- Ciò vuol dire che quel drago è… - proseguì l’uomo biondo, senza muoversi dalla sua postazione, situata di fronte alla porta dalla quale era entrato.
- Il principe Shardan, attendente al trono dei draghi. La sua effettiva incoronazione dovrebbe avvenire nel giro di pochi giorni, quando gli incaricati ai funerali di Vanenir saranno sicuri di potersi avvicinare alla salma senza il rischio di generare una nuova epidemia. –
- È già un firmatario? –
- No, non ancora. Ora che la signorina Fenter ti ha messo al corrente di cosa è avvenuto, dicci come mai sei venuto qui. – s’intromise ad alta voce il mercante di schiavi Dunnont, battendo un pugno grassoccio sul bracciolo del proprio scranno.

R

Il demone cornuto dell’ultima volta non è bastato.
Potrei provare con il serpente piumato, quello faceva scalpore, un millennio fa.
Purtroppo non sono ancora in grado di disgregarmi completamente, il vortice di fumo ha un suo fascino, specialmente se dentro ci aggiungo qualche saetta e un paio di occhi ardenti.
La prossima volta spero di poterglielo mostrare.
Ora che ci faccio caso, però, qua dentro c’è odore di Follia, cioè, del demone.
Non credo che lui sia tornato, dovrebbe essere ancora saldamente incastrato sul lato orientale delle Terre, in allontanamento a velocità di crociera.
Sarà un rimasuglio del nostro ultimo scontro che è arrivato fin qui, poco male.
Tornando al presente, il serpente piumato.

Il corpo dell’uomo biondo cominciò a tremare, mentre il cappotto alle sue spalle iniziava a sformare per lasciare spazio a quella che sarebbe dovuta essere l’impalcatura per due imponenti ali candide. I lineamenti del suo viso si fecero più duri, mentre i suoi occhi diventavano simili a quelli di un rettile.
- Giudice Maggiore Fenter, per lei. – disse la voce dura della donna bionda in direzione di Krave.

Cosa?

- Cosa? – chiese lo schiavista.
- Ho detto che per lei sono il Giudice Maggiore Fenter. E non mi interrompa mai più quando parlo o potrei non punire il Viandante per un eccessivo uso della violenza su di lei. Ci siamo intesi? –
- Certamente, Giudice Maggiore. – sibilò l’uomo grassoccio artigliando i braccioli della sua sedia.

O

Sicuramente è una donna carismatica.
E ha guadagnato un punto per il modo in cui ha zittito il ciccione.
Non per questo, però, ho smesso di provare un odio viscerale nei suoi confronti.

- Come ti diceva il signor Dunnont, - riprese la donna bionda – il principe Shardan non è ancora firmatario, ma presto lo diverrà. –
- A meno che io non riesca a portare a termine quest’ultimo incarico che mi grava addosso. – ci tenne a precisare l’ispettore.
- Ovviamente. Dunque, Viandante, perché sei qui a far rapporto, oggi? –
- Ho trovato e smascherato l’uomo alla base dell’omicidio di diversi draghi, umani ed elfi, nonché causa degli incendi di Gerala, Derout, Jidan e Aravan. Appena uscirò da qui andrò a recuperarlo per portarvelo. La sua probabile abitazione è situata sulle pendici dei Monti Muraglia, a nord del Passo Marino. Dovrei essere in grado di portarvelo entro domani mattina, preferisce che lo conduca qui o nel suo ufficio a Gerala? –

V

Il Giudice Maggiore si concesse un lento sorso dal suo calice, mentre pareva valutare le parole che aveva sentito.
- È pericoloso? –
- Decisamente. –
- Puoi renderlo incapace a combattere o fuggire senza ucciderlo? –
- Ne dubito fortemente. –
- Portalo qui, ma lo voglio vivo. –
- Come desidera. Mi congedo. –
L’uomo dal volto tatuato accennò un leggero inchino, mentre i suoi piedi si muovevano lentamente per farlo indietreggiare verso l’uscio, che lo fagocitò.

Fatto anche questo.
Andiamo a finire questo lavoro, la mia libertà è dietro l’angolo.

L’uomo biondo uscì dalla casupola, sistemandosi la zazzera bionda con un passaggio della sua mano tra i ricci.
Si avvicinò al limitare occidentale delle terre a passo lento, inspirando profondamente l’aria montana.

Questi sono gli ultimi momenti di servitù che dovrò vivere.
Vado a prendere quel tipo, lo trascino qui per un orecchio e glielo scarico in cantina, di fianco alla cella di diamante, così non devono neanche sbattersi troppo per farla liberare.

Il corvo si levò in volo, puntando verso sud con le ali gonfiate dalle brezze che serpeggiavano tra i canaloni montani. Le sue piume vibravano, spandendo un suono tremolante tutt’attorno, come le corde tese di uno strumento vivente in mano al più grande dei bardi.
Le correnti provenienti dalle vali sottostanti gli sibilavano attorno, gelide.

Arriverò sicuramente prima di loro, là.
Non è possibile che abbiano impiegato così poco tempo per raggiungere i Muraglia.
Ho un enorme vantaggio e lo sfrutterò al meglio.
Questa volta so a cosa sto andando incontro.

O

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Capitolo 25
*** Capitolo 12.01 ***


Noir si fermò di nuovo, voltandosi verso la strada che avevano già percorso.
Il sentiero si snodava per il versante della montagna, una linea chiara che più volte si confondeva tra le pietre e le sterpaglie che cercavano di ricrescere su quella terra profanata.
Le rocce, annerite dal fuoco dei draghi, parevano carbone sul punto di ridare vita alle fiamme che l’avevano ridotto in quella condizione.
Saltuariamente, sui lontani picchi a sud, si potevano riconoscere piccole macchie marroni muoversi lungo le pareti scoscese, animali testardi che si rifiutavano di lasciare quei monti nonostante la loro sterilità.
A quella vista, l’uomo sospirò rattristato.
Erano anni che non si avventurava su quei monti, l’ultima volta era solo uno dei tanti bambini del convoglio che li avrebbe dovuto portare alla nuova Oasi.
Ricordava ogni istante di quei giorni.
Suo padre, intento a svuotare casa di ogni cosa utile, cara o preziosa.
La nube nera che vedeva ogni volta che Proteo gli permetteva di uscire dallo stagno in cui vivevano e che, ogni giorno, era sempre più imponente e minacciosa.
Ed infine la partenza. Le decine di carri, uomini e Budnear che si muovevano assieme verso ovest, trascinandosi dietro centinaia di litri d’acqua prelevati da quello specchio d’acqua che era stato la loro casa per più di un secolo, al fine di mantenere idratati gli uomini pesce fino al loro arrivo al mare.
Poi c’era stata la lenta e faticosa risalita lungo il versante orientale di quei monti, ora così lontano.
I bambini e i pochi adulti seduti sul suo carro.
Le facce estasiate dei giovani al tocco freddo dell’aria montana e quelle terrorizzate degli anziani, che mai avrebbero voluto lasciare le loro case.
Proteo, rinchiuso tra le quattro pareti trasparenti di una vasca, che continuava a guardare dalla testa della colonna il laghetto che aveva protetto da ben prima che Farionim arrivasse per edificare l’Oasi.
Le notti fredde e i giorni assolati di viaggio.
La distanza che aumentava sempre più tra i componenti di quella carovana.
La nebbia che li aveva colti di sorpresa quando il valico era così vicino.
Le urla dei più piccoli tra loro.
La ruota del carro che si spostava troppo a sinistra, non trovando più un sentiero sul quale appoggiarsi.
La caduta nel baratro sottostante, vertiginosa.
L’aria che gli fischiava attorno, le urla, i corpi che fendevano l’aria intorno a lui, gareggiando per arrivare al suolo.
Il silenzio.
Si ricordava del dolore che avvertiva in tutto il corpo, della pelle lacerata, mentre la melassa che scorreva assieme al suo sangue si ritirava nelle sue vene. Si ricordava delle numerose ferite che aveva addosso, là dove la sua maledizione non era riuscita a proteggere le sue membra.
Lui, però, era vivo, al contrario delle decine di cadaveri che lo circondavano, in parte coperti dai resti del carro su cui avevano viaggiato.
Aveva urlato fino a stare male, là, in mezzo alla nebbia, ma nessuno lo aveva sentito.
Solo diversi giorni dopo era riuscito, da solo, a raggiungere la sommità mozzata del Flentu Gar e vedere, finalmente, i territori occidentali.
All’epoca, quei monti non erano ancora una distesa bruciata, la Piana Umana esisteva ancora, così come il regno nanico che sotto di essa scavava per ampliare le sue città.
Della sua carovana non vi era alcuna traccia.

- Noir! Muoviti! Non voglio che arrivi il buio mentre siamo ancora qui. –
La voce di Razer lo riscosse dai suoi ricordi.
- Scusa, hai ragione… - borbottò il discendente di Reis, tornando a guardare verso la loro meta, ovunque essa fosse sui monti che gli stavano di fronte – Quanto dovrebbe mancare? –
- Non molto, è una questione di ore. Se non ti fermi ogni dieci minuti potremmo arrivarci per questa sera. –
- Va bene. Andiamo. –
Noir non era certo che quella fosse la cosa migliore da fare, ad ogni passo era sempre più tentando di voltarsi e tornare a nascondersi sotto il folto della Grande Vivente, sperando che nessuno riconoscesse il suo volto.
D’altra parte, però, l’assassino che stava seguendo era l’unico uomo che, da vent’anni  a quella parte, era stato in grado di dargli una certezza.
Riprese quindi a camminare, cercando di ignorare il vento che…. sotto la… giacca.

La Trama si sta contraendo in maniera decisamente anormale.
Non è come quando quei cinque assassini idioti evocarono Terra in persona su questi monti, all’epoca era stata scossa da un potere che non poteva contenere, adesso è come se qualcuno stia cercando di forzarla…
Strano.
Non avevo mai visto una cosa del genere e, dannazione, non sono ancora guarito abbastanza per andare a cercare al suo interno la causa.
Sarà una delle prime cose che farò quando sarò libero.


I destini dei mortali si intrecciavano gli uni sugli altri, scambiandosi di posto, allontanandosi, per poi riunirsi, come fili colorati che, a chi riesce a vedere l’insieme, danno vita a un drappo ricamato.
Quei destini dipingevano una collina, un luogo paradisiaco, sulla cui sommità la struttura di un piccolo teatro si ergeva come un tempio.

Melodia sa cosa deve fare.

Il vento soffiava lieve tra le canne che erano cresciuti poco lontano da quel luogo, riempiendo l’aria di un dolce suono al quale si sovrapponeva il gracidio delle raganelle.
Figure diverse affollavano l’area circostante e gli spalti in pietra che si sollevavano per pochi metri come una massiccia scalinata. Umani, animali, figure eterei dai bordi poco definiti.
Una bambina dai capelli rossi come il fuoco scoppiettante si dondolava al di sopra del palco, seduta sulla traversa alla quale era stato legato un sipario, ora aperto. I suoi abiti erano sgargianti, i larghi pantaloni dorati e la camicetta verde come l’erba primaverile.
Davanti a questa, seduta composta sul livello più basso dello spalto, stava una sagoma umana dall’uniforme colore grigio, che puntava il volto piatto, privo di ogni imperfezione o accenno a degli orifizi, verso la scena che sembrava non voler cominciare.
Accanto a lui turbinava una nuvola densa, dall’odore acre, che scrutava il mondo con gli occhi di brace che si potevano riconoscere al suo interno.
Due livelli più in alto, dietro di loro, una donna dal seno prosperoso guardava il cielo, sdraiata sulla piatta superficie di pietra. Solo ogni tanto rompeva la sua immobilità per portare alle labbra carnose incorniciate da boccoli mori lucidi acini d’uva.
Un gatto sornione le si accoccolò sul ventre, lisciandosi la pelliccia fulva prima di appoggiare la testa e socchiudere le palpebre.
Sul palco si trascinò un uomo magro, deperito e martoriato da decine di tagli e abrasioni. Gli occhi spenti, disperati, guardavano un punto non ben definito davanti a lui.

L’ultimo atto di questa storia.
Il momento culminante in cui bisogna rapportarsi con la realtà e fare i conti con ciò che si è fatto.

Passi tonanti scossero il teatro. Suole metalliche battevano un ritmo militare.
Un adone rinchiuso in un’armatura lucente si portò di fronte al disperato, scrutandolo con occhi severi attraverso le fenditure del suo elmo dorato.
Le sue mani si strinsero sull’imponente spada dalla lunga impugnatura che stavano sorreggendo.
La lama si alzò verso l’alto per poi abbattere la sua punta sul capo dell’uomo, come una ghigliottina inarrestabile.
Tutto tacque, il vento tra le canne, il gracidio delle raganelle. Un silenzio tombale aveva preso il possesso dell’area.
Un paio di mani cominciarono a battere affannosamente, mentre la bambina che le possedeva si dimenava sul suo trespolo, finché non perse l’equilibrio e cadde di schiena sul palco, poco lontano dal cadavere che lì giaceva. I capelli rossi le ricaddero sul viso, coprendo il volto tondeggiante.

Dovevi proprio?
Non riuscivi a trattenerti?

La donna sdraiata sugli spalti soffocò un risolino cercando di trattenerlo, mentre un altro acino scompariva tra le sue labbra.
- Non potevi rimanertene da parte a guardare? – chiese stizzito il cadavere, inchiodato al suolo dalla pesante arma che gli trapassava il cranio.
- Certo che no. Avanti, Tragedia, se non fossi caduta Passione non avrebbe mai riso! – protestò la bambina con voce stridula, rimettendosi in piedi e spolverando i suoi abiti da una polvere che solo lei vedeva.
Lo spadone si mosse, staccandosi dalla superficie del palco per alzarsi di qualche decina di centimetri. Il piatto della lama colpì poi il petto della bambina, facendola cadere fuori dai limiti del teatrino.
- Oh, avanti, perché l’hai fatto? – piagnucolò la bambina alzandosi nuovamente da terra, guardando con una tenera faccia imbronciata l’uomo in armatura.
- Hai ridicolizzato la morte di un uomo distrutto. – disse con voce cavernosa il soldato, tornando ad appoggiare lo spadone per terra.
- Ma era così noioso! – continuò petulante la bambina dai capelli rossi, pestando un piede per terra – E poi Tragedia fa sempre le stesse cose. Muore uno, muore l’altro, muoiono tutti, uno si salva per poi morire, uno muore, resuscita e muore di nuovo, uno vede i suoi parenti assassinati, ammazza il loro aggressore e poi ci muore. Morte, morte e morte! È una noia! –
- Non è una noia. È triste. E la tristezza ti aiuta a stare meglio. – disse pacatamente il cadavere alzandosi in piedi, mentre le ferite che gli costellavano il corpo scomparivano, venendo coperte da una pallida carnagione cadaverica.
- Beh, a me no! – La bambina si voltò facendo qualche passo per allontanarsi dal palco, per poi bloccarsi di colpo – E se proprio lo volete sapere, Melodia è più bravo a suonare quando lo faccio divertire io. –
La bambina tornò a camminare, scendendo pian piano verso il laghetto dove una raganella sguazzava spensierata.

Maledetta irresponsabile.

- Non sei stato un po’ insolente? – chiese l’anfibio uscendo dall’acqua e avvicinandosi alla nuova arrivata.
- Insolente? – chiese la bambina dai capelli rossi con una voce totalmente differente, matura, sicura di sé, sedendosi sulla sponda sassosa – Sono la regina dell’insolenza! Porterò le meraviglie dell’insolenza a tutti gli uomini di tutto il mondo, canteranno dell’insolenza! Balleranno sull’insolenza! Saranno insolenti con l’insolenza! – Le labbra di quel viso paffuto si piegarono in un sorriso divertito, mentre la sua voce tornava ad essere acuta e petulante – E, poi, Tragedia è veramente noioso. Perché papà l’ha fatto così, secondo te? –
La raganella gracidò sommessamente, facendo vibrare la sua gola gonfia.
- Beh, ha fatto te. – rispose poi l’anfibio – Lui è già un bel passo avanti. –
La bambina proruppe in una risata cristallina mentre la sua schiena scendeva all’indietro finché non si posò sul terreno.
- Melodia? – tornò a dire con voce matura la creatura dai capelli rossi.
- Si? –
- Mi suoni qualcosa con le canne? –
- Cosa vuoi? –
- Qualcosa di tranquillo, vorrei far finta di dormire. –
La bambina chiuse i suoi occhi chiari, attendendo che la musica giungesse alle sue orecchie.
Un leggero vento si levò serpeggiando sul laghetto e avventurandosi tra le alte e fini canne che vi crescevano all’interno, facendole vibrare, dapprima piano, poi sempre con maggiore intensità, in un lento crescendo. Le più piccole spargevano note chiare nell’aria, dando vita al sottofondo cupo prodotto da quelle più anziane e spesse.

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Capitolo 26
*** Capitolo 12.5: Mia salvatrice ***


Il corvo atterrò di fronte ad una piccola casupola su due piani che si ergeva stoicamente in mezzo ad un paesaggio desolato.
Le pietre che ne componevano la base erano state annerite dallo stesso fuoco che aveva reso quei monti sterili; salendo più in alto nella struttura, le pietre erano diverse, forse estratte da un’altra cava in un secondo momento, dopo il passaggio di quel terribile incendio.
La porta in legno risultava fuori posto in quel luogo che sembrava aver deciso di non ospitare più nessun vegetale.
Il corvo crebbe di dimensioni, assumendo fattezze umane.

Che viso avevo all’epoca?
Ero sicuramente un elfo dai capelli neri, magro e alto, quindi immagino avessi anche il viso appuntito.
Mi pare fosse un corpo molto simile a questo.

Un elfo in abiti eleganti si sistemò la giacca scura che copriva il suo corpo snello, lisciandosi i capelli scuri che gli incorniciavano il volto.

Si, molto meglio i capelli neri con la ciocca bianca.
L’ispettore biondo è stato decisamente un momento buio della mia esistenza.

Le suole rigide batterono più volte sulle rocce annerite, fino a raggiungere la soglia di quella dimora, dove si fermarono.
Un pugno batté quattro volte sulla superficie nuda della porta, per poi ricadere lungo il corpo.
L’elfo rimase rigido davanti a quell’ingresso, respirando appena.

Non pensavo che sarei mai tornato qui.
L’ultima volta non mi ero reso conto di quanto fosse forte l’odore salmastro del mare.
A quanti metri di altitudine sarò? Duemila? Duemila e cinquecento? Forse un po’ di meno, con il Passo Marino così vicino.
Vabbè. Avrò modo di esporre un reclamo ad Acqua quando avrò finito qui.

Si sentirono dei passi leggeri dall’interno dell’abitazione. Erano incerti, corti, ma direzionati verso la porta a cui avevano bussato.
Qualcosa frusciò contro il legno di quell’ingresso, per poi arrestarsi con un clangore metallico.
- Razer? Sei tu? – chiese una voce femminile, ovattata, dall’interno dell’abitazione.
- No, sono un suo amico. Ci eravamo dati appuntamento qui l’ultima volta che ci siamo visti. Pensavo mi stesse precedendo, ma, a quanto pare, sono stato più veloce io. –
- Fa affari con mio fratello? – continuò la donna dalla parte opposta di quell’ingresso – Comunque, non mi stupisce che sia in ritardo ad un appuntamento. È sempre in giro a lavorare, torna a casa solo ogni tanto. Posso sapere il suo nome? –

Cos’avevo detto, all’epoca?

Oh, si. Certo.
Quello schifo di nome. E io che speravo di non ritrovarmi mai più ad usarlo.

- Comvia, signorina. –
- Comvia? – chiese lei quasi ridacchiando – Mi sembra di averlo già sentito questo nome. È da tanto che conosce mio fratello? O forse è un amico di vecchia data di mio padre? –
- Credo di potermi definire più un conoscente di sua madre, ci siamo intrattenuti a parlare di teologia, una volta. A proposito, come sta? Dovrebbe avere una cinquantina d’anni, oramai, quella buona donna. –
- Oh… lei non lo sa… I nostri genitori sono morti quando queste montagne vennero bruciate. Ma  non si preoccupi, prego, venga dentro, potrà aspettare mio fratello al calore della nostra stufa. –
- Date sempre ospitalità ai viandanti che vi passano davanti all’uscio, vedo… -
La serratura  scattò, accompagnata dal suono di un catenaccio che sbatteva contro la superficie di legno che bloccava il passaggio.
La porta si aprì verso l’interno, accompagnata dalla mano guantata di una donna con indosso un largo abito marrone. Il suo volto era solcato da profondi segni  lasciati da un’ustione estesa, che gli coprivano gli occhi e avanzavano quasi a raggiungere le guance, i suoi capelli faticavano a ricoprire buona parte della fronte, marchiata da quelle cicatrici.
- Mia madre ci ha sempre insegnato a lasciare la nostra casa aperta a tutti. È stato mio fratello a costringermi ad usare il catenaccio, ha paura che qualche malintenzionato possa sfruttare la mia condizione. Prego, signor Comvia, mi segua. –
La donna si voltò e, appoggiata la mano sinistra contro la parete per guidarsi, percorse tutto il perimetro della stanza, fino a raggiungere i montanti di una porta che si apriva sulla parete a sinistra rispetto all’ingresso principale di quell’abitazione.

Potrei cominciare ad immaginare perché quell’assassino sia diventato tale.
Non se la sono vista bella.
Di sicuro, lei non ha più visto nulla, da quando Loro ordinarono l’epurazione di qualunque cosa su queste montagne…
Non credo di essere molto in vena di battute, a riguardo.

L’elfo si fece avanti, misurando i suoi passi.
Distrattamente si chiuse la porta alle spalle, mentre il suo sguardo studiava gli interni spogli intorno a lui.
La stanza era per la maggior parte vuota, le pietre a vista delle pareti sporgevano senza un apparente motivo, dando alle stanze una parvenza rurale. Nessun tappeto era stato sistemato per terra per cercare di trattenere il calore dell’aria, non c’era nessuna tovaglia a coprire il tavolo mal piallato che occupava il centro di quell’atrio, solo la massiccia trave in legno che percorreva il soffitto donava una nota calda alla dimora.
L’elfo continuò a camminare lentamente, passando sotto all’architrave della porta che poco prima era stata superata dalla donna.
La cucina era piccola, una stanzetta invasa dall’aria bollente in cui una stufa in ferro conservava una fiamma ardente. Ai suoi piedi, disposti per formare una piramide la cui parte superiore era stata asportata, erano stati impilati numerosi pezzi di legno.
- Posso mettere sul fuoco dell’acqua per un tè, se le fa piacere. – riprese la donna, abbandonando la sicurezza del contatto con il muro per avvicinarsi a una credenza senza ante, in cui del pentolame riposava solitario.
- Volentieri, grazie. Se vuoi posso darti una mano. – fu la risposta dell’elfo tatuato, che subito si mosse per raggiungere la cieca.
- Non si preoccupi. L’ho già fatto centinaia di volte. –
Le mani della donna si mossero verso l’alto, finché le sue dita non urtarono un pentolino, su cui si strinsero per portarlo verso il basso, dove in un barile ristagnava dell’acqua limpida, che subito riempì il recipiente che gli venne immerso dentro.
Con le mani guantate ancora gocciolanti, la donna si voltò in modo che il calore emanato dalla stufa le scaldasse il viso, fece pochi passi avanti, per poi fermarsi ed appoggiare il pentolino sulla piatta superficie di ferro che precedeva l’uscita della canna fumaria annerita, che scompariva poco più in alto nel soffitto della stanza.
- Sa, - continuò la donna , tornando sui suoi passi fino alla credenza, dai cui ripiani più bassi trasse una teiera in ceramica e un sacchetto di tela chiuso da un legaccio – dopo un po’ ci si abitua a tutto quel che il Fato ci mette sul cammino. –
- Vorrei proprio sapere cosa stava pensando quando ha scritto di te. – le rispose l’elfo, guardandola armeggiare con le foglie profumate contenute nel sacchetto con uno sguardo rattristato.
- Mia madre direbbe che mi ha voluto mettere alla prova. –
- Tua madre era troppo ottimista quando parlava di lui. –
- Può essere, ma perché io e mio fratello saremmo sopravvissuti, se il Fato non avesse un piano per noi? –

Questa è un’ottima domanda a cui voglio trovare una risposta.
Tu sei presumibilmente nata e cresciuta su queste montagne, questo vuol dire che il tuo destino ha incrociato quello di altre persone relativamente poche volte.
Posso essere indebolito, ma un fato così pulito riuscirei a leggerlo anche da bendando.



Dannazione.
Ho fatto un casino.
Cioè il Fato ha fatto un casino, ma io ho fatto il misfatto.
Lei è un Buco nella Trama, come quel disgraziato di suo fratello e io ne sono la causa.

Forse è il caso, a questo punto, che vi spieghi bene cosa siano i Buchi nella Trama.
Le persone hanno tutte un destino, potete immaginarvelo come uno spesso filo di lana non teso. Ogni volta che due persone si incontrano, i loro fili si intrecciano per un tempo più o meno lungo, variando leggermente il loro percorso.
Su ognuno di questi fili ci sono, di tanto in tanto, dei chiodi inamovibili a cui sono fissati, quelli sono i Punti Fermi, le Mete, quello che il Fato ha effettivamente scritto su quel suo libraccio.
Una persona normale, nella sua vita, ha infiniti possibili tracciati da percorrere, ognuno dettato da quanti e quali incontri ha fatto, ma qualunque di queste possibilità porterà sempre alla Meta successiva.
Poi possono succedere i casini.
Esempio veloce, quel Noir.
Il Demone ha preso possesso di Reis, stravolgendo il suo destino e facendo saltare tutti i chiodi delle sue Mete. Ha rapito Nestra, ma questo potrebbe non aver corrotto il suo capitolo nel libro del Fato, tuttavia, l’ha messa incinta. Non c’è da nessuna parte un capitolo dedicato a quel Noir, lui non esiste nel piano originale del Fato, quindi non ha un suo filo di lana. Ogni volta, quindi, che lui entra in contatto con una persona normale rischia, a sua volta, di far saltare dei chiodi o, peggio, di troncare dei destini prima del tempo, come quei sacerdoti nel tempio.
Ora, questo era il caso semplice, quello a forma piramidale in cui c’è una causa univoca, l’aver messo incinta Nestra, che provoca una serie di eventi a catena.
Mettiamo, invece, che un gruppo di persone entri in contatto con un essere privo di un fato scritto, come può esserlo un dio, un servitore o un Buco nella Trama, cosa potrebbe succedere? Nel migliore dei casi, nulla, nel peggiore, ovvero quando si è prossimi a una Meta, si può provocare una reazione a catena in quel destino e creare una scheggia che continua a vagare.
Io sono l’essere senza fato in questione e questa ragazza, probabilmente, sarebbe morta insieme ai suoi genitori, se non fosse entrata in contatto con me.
Il Fato mi avrà anche salvato la vita, ma ha creato un mostro e una creatura sofferente.

- Probabilmente hai ragione. – le rispose l’elfo con un sorriso triste sul volto.
Non appena l’acqua cominciò a borbottare dentro la pentola abbandonata sulla stufa, la donna si precipitò a spostarla da lì, per rovesciarla, poco a poco, all’interno della teiera in cui erano state sminuzzate le foglie contenute nel sacchetto, ora adagiata sullo stesso tavolino a cui era appoggiato l’elfo in abiti eleganti.
- Tra poco sarà pronto. – disse soddisfatta la donna quando la pentola che teneva tra le presine in stoffa si alleggerì completamente  - Che sbadata che sono, ancora non mi sono presentata, il mio nome è… –
- Lucya, se non mi ricordo male. – l’anticipò l’elfo.
- Giusto… mi continuo a far mettere fuori strada dalla sua voce. Se ha conosciuto i miei genitori, sicuramente le avevano parlato di me. Se posso permettermi, quanti anni ha? La sua voce sembra così giovane. –
- Troppi da portare sulle spalle ma troppo pochi per continuare a farmi dare del lei. – fu la risposta scherzosa dell’ospite.

Non è mai bello per un immortale rivedere le persone che si sono già incontrate.
Il tempo è sempre inclemente con tutti, che siano eroi, assassini o la bambina a cui devo la vita.
In questo caso, poi, la pillola è resa ancora più amara dalle condizioni in cui è adesso.
Ci si può quasi convincere che il tempo non stia procedendo, se si incontrano solo persone nuove e non si torna mai sui propri passi.

- Dimmi… Comvia, eri mai stato qui, prima dell’incendio? –
- Probabilmente si. Dopotutto sono stato quasi ovunque, su questo mondo. Potrei anche già averti incontrata, magari quando eri più piccola. –
- Non so proprio, ma il tuo nome non mi è nuovo. – Lucya si interruppe di colpo, annusando l’aria con il naso sformato dalle ustioni – Credo che il tè sia pronto. –
La cieca tornò ancora una volta indietro. Dalla credenza prese a colpo sicuro due delle sette tazza che erano state sistemate una accanto all’altra nel ripiano più basso di quel mobile.
Appoggiate anche queste sul tavolo, alzò il capo, cercando di indovinare la posizione dell’ospite in distratto silenzio.
- Posso chiederti di riempire tu i bicchieri? –
L’elfo sorrise divertito per un momento, quasi si fosse dimenticato che non poteva essere visto dalla donna che gli stava davanti. – Certamente. –
L’acqua dal colore verde intenso gorgogliò fuori dal beccuccio della teiera, cadendo all’interno delle due tazze che le stavano sotto.
- Mi spiace, ma non ho più del miele per addolcirlo. Mio fratello dovrebbe portarmene un po’ quando arriverà. –
- Non importa. Dimmi un po’… - l’elfo prese un sorso della bevanda bollente, prima di continuare il suo discorso.

Per fortuna la propensione all’omicidio non è un tratto di famiglia.
Devo capire cosa ha portato Razer ad essere quello che è, a fargli rendere la MIA maschera un simbolo di morte.
Dannazione, a saperlo prima non mi sarei mai privato di quei cinque centimetri d’altezza.
È anche vero che all’epoca ero quasi morto, con due costole in meno e buona parte degli organi interni sacrificati per tamponare la mancanza di sangue. Probabilmente il prevedere che quel dono potesse portare alla morte di decine di draghi non era alla mia portata.

- Dimmi un po’ - proseguì – Tu e tuo fratello avete ereditato i poteri innati di vostra madre? Mi ricordo che lei era in grado di generare luce. –
- Mi ricordo che mio fratello sapeva lampeggiare debolmente di blu, ma non so se negli ultimi anni abbia imparato a fare altro. Io, invece, non sono mai riuscita a fare nulla. –
- Sai, ho incontrato Razer meno di una settimana fa, sul Continente. Ci siamo appena incrociati, il tempo di uno scambio di colpi, potremmo dire. Comunque non mi aveva detto nulla della vostra situazione. – continuò l’elfo, tornando a sorseggiare il suo tè.
- Non mi stupisce, non gli piace parlare molto… della nostra situazione. Penso che i suoi continui viaggi di lavoro gli servano per non pensarci… -
Il volto rovinato dal fuoco di Lucya si adombrò, mentre le sue mani scendevano sempre più giù, finché il fondo della sua tazza non toccò la superficie del tavolo.
Ci fu un momento di silenzio.
La tazza dell’elfo si appoggiò sul tavolo, accompagnata da un suo sospiro.
- La sera è ancora lontana e non voglio starmene con le mani in mano. Dimmi, mentre aspetto tuo fratello, cosa posso fare per ripagarti dell’ospitalità? –
- Niente, davvero. Non potrei mai… -
- Ti proibisco di lasciarmi con le mani in mano. Avanti, avrai bisogno di qualcosa. –
- Potresti… portare un po’ di legna in casa prendendola dalla legnaia che c’è fuori. Ma, per favore, non stancarti troppo per me. –
- Ci vorrà molto di più per farmi stancare. Tu riposati e non preoccuparti. – furono le ultime parole dell’elfo prima di lasciare la stanza.

Non so come si concluderà questo capitolo.
Cioè lo so perfettamente. Arresterò, con le buone o con le cattive, quell’assassino che ha infangato la mia maschera e, probabilmente, condannerò a morte certa Lucya qui, da sola, su queste montagne.

Odio questa situazione.
Ho già ucciso, in tempo di guerra, in tempo di pace, persone, animali, ricchi, poveri … Oramai ho troncato tanti di quei destini prima del tempo da averne perso il conto.
Però… però.
Qui siamo su un livello totalmente diverso. Al di là che sto cominciando a provare un briciolo di compassione per un pluriomicida, quei due mi hanno salvato la vita.
Se Lucya, guidata o meno dal Fato, non mi avesse trovato moribondo, dubito che sarei arrivato a sbeffeggiare un Follia sconfitto, per quanto, probabilmente, Seila sarebbe comunque riuscita a morderlo, in qualche modo.
Potrei provare a trovare una via di mezzo. Un “abbiamo lottato ed è finito in un crepaccio”.
Dovrei però riuscire a convincerlo a fermarsi, per quanto ce l’abbia con i draghi.
E, a questo punto, capisco anche come mai ce l’abbia con loro.
Un bambino che guarda in cielo, vede qualche lucertolone volante che incendia qualunque cosa si trovi su questi monti, gli distrugge la casa, gli uccide i genitori e gli acceca la sorella… minore, se non ricordo male.
Dannazione, il mondo è davvero troppo complicato, per me.


Il sole scese sempre più in basso, arrossando prima le fronde della Grande Vivente, per poi riflettersi sul mare lontano.
L’aria, sui pendii di quei monti, mentre il cielo si incupiva in attesa che la luce argentata della luna superasse le creste più alte per illuminare il terreno profanato, si fece più fredda.
L’elfo infilò un ciocco di legno nella stufa, ammirando per un paio di secondi le fiamme lambire vivacemente la superficie spaccata da un’accetta, prima di richiudere lo sportello metallico, ormai rovente.

Ho avvertito un movimento insolito nella Trama, mentre ero fuori.
La sensazione generale era come vedere la pinna dorsale di uno squalo fendere l’acqua. Un Buco nella Trama che si muove nel Creato.
Credo che Razer sia in dirittura d’arrivo, con almeno un giorno di anticipo sulla mia previsione, tra l’altro.

- Credo di aver visto qualcuno muoversi sui sentieri che portano al Passo Marino, prima. – disse l’elfo, raggiungendo la cieca che stava seduta su una sedia nella sala principale – Probabilmente era tuo fratello che stava arrivando. –
- Lo spero tanto. – fu la risposta speranzosa della donna, che sorrise.

Dei colpi decisi si abbatterono sulla superficie della porta.
Lucya si alzò dal suo posto, avvicinandosi con le braccia protese di fronte a sé alla fonte di quel rumore.
- Razer, sei tu? –
- Si, Lucya. Sono tornato. Sulla via ho trovato un uomo che avrebbe bisogno di ospitalità, non è un problema per te, vero? In ogni caso potrà darti una mano. –

Dannazione, si è portato dietro la progenie di Follia.
Non tanto per quel poveraccio ricercato, quanto per gli effetti che la sua presenza ha sul mio corpo.
Vabbè, vedrò di sfruttare l’occasione per liberarmi completamente della mia menomazione, sperando che abbia capito correttamente come reagisce questa ferita.
Per fortuna ho già cestinato l’aspetto dell’ispettore, non possono riconoscermi.

La porta si aprì, permettendo ai due uomini infreddoliti dalla notte di entrare nell’abitazione.
- Oh, Razer! È venuto un tuo amico a trovarci. Si chiama Comvia, mi ha detto che conosceva anche i nostri genitori. –
L’elfo dal viso tatuato sorrise sornione, portandosi l’indice destro alle labbra per intimare ai due nuovi arrivati di rimanere in silenzio. Chiuse poi il pugno, soffiandoci sopra, mentre i suoi occhi non si staccavano dal viso dal colorito cadaverico di Razer.
Un fazzoletto bianco cadde a terra lentamente quando le dita smisero di serrarsi.




Angolo dell'Autore:

Si, è un capitolo X.5, e sì, questo è un angolo dell'autore.
Ho avuto... incidenti di percorso, ultimamente. Niente di importante, ma sono rimasto impantanato e non tutto quello che volevo fare è stato realizzato.
Comunque, mi sono perso l'occasione di farvi gli auguri di Natale, lasciatemi almeno farvi quelli per il nuovo anno.

Ho tante cose di cui parlare, il mio silenzio è stato troppo lungo.
Iniziamo dal Viandante e dal suo nuovo-vecchio incontro..
Ho bisogno di sapere, sono stato abbastanza specifico da permettervi di capire chi sia Razer in realtà. Oramai, secondo il mio metro di misura dovrebbe essere chiaro a tutti, dovrei essere riuscito a farvi riaffiorare i ricordi riguardo a quello di cui stiamo parlando.
Razer e Lucya Donier. Gli stessi personaggi che, da bambini, incontrarono il Vindante, che lo salvarono portandolo a casa loro nel capitolo 50.5 del Ritorno dell'Ombra. Un ritorno non male, no?
Ho lasciato degli indizi, lungo il percorso, per permettervi di avvicinarvi alla vera identità dell'assassino. La maschera, quella maledetta mescherà che Commedia creò direttamente sul volto di Razer, il potere di utilizzare la luce e, poi, i riferimenti alla sorella e alla casa sui Muraglia.
Oramai, dopo la bellezza di troppi capitoli conoscete la VERA identità di tutti i personaggi. Una Musa, la progenie del Demone e il bambino della storia precedente.

Dall'altra parte abbiamo le frasi in grassetto e... l'excursus sul passato, potremmo dire, anche se non è ambientato in un momento definito.
Vi ho solo cominciato a presentare alcune delle muse, ma ne ho ancora molte da scoprire. E da uccidere, perchè lo sappiamo tutti, qualcosa le ha uccise tutte meno che due.

Ringrazio tutti voi che siete arrivati qui, OldKey, whitesky e la ragazza imperfetta per le recensioni e, quest'ultima, per il lavoro che fa per me dietro le quinte e... boh.
Buon anno a tutti, ci torniamo a vedere il primo venerdì del 2018.
Vago

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Capitolo 27
*** Capitolo 13: L'accordo ***


Erano passate più di due settimane da quando aveva lasciato quei sentieri montani, in favore delle strade che, dalle ultime colline ai piedi dei Muraglia, si diramavano verso la Grande Vivente e, da lì, in direzione del mare occidentale.
Si sarebbe dovuto fermare a comprare del miele, durante il viaggio di ritorno.
Razer strinse le spalle, ci avrebbe pensato durante la sua prossima uscita.
Aveva guadagnato a sufficienza, nella prima settimana a Gerala. Presto sarebbe riuscito a pagare qualcuno perché rimanesse con sua sorella mentre lui era in viaggio.
Noir, alle sue spalle, arrancava sempre più a fatica lungo il pendio adombrato dalla sera.
- Muoviti, non ho intenzione di dormire all’esterno quando sono così vicino a casa. – lo riprese l’uomo dal polpaccio ustionato, fermandosi nuovamente.
- Sai… - gli rispose ansante il trentenne magro – Nell’ultimo anno sono rimasto fermo in un piccolo villaggio ad intrecciare ceste e conciare pelli, non sono proprio in forma. –
- Non mi interessa. Avanti, meno di un’ora e avrai un maledetto tetto sulla testa. –
Aveva bisogno di lui. No, aveva bisogno del suo potere.
Sarebbe rimasto tranquillo per un po’, lasciando calmare le acque, per poi tentare qualcosa di grande, avrebbe ucciso il re di quei mostri, avrebbe mozzato la testa di quella razza infame.
I due uomini superarono  la cresta che gli stava davanti, iniziando così a scorgere le mura di pietra di una casupola, dalle cui finestre si spandeva debolmente la luce rossastra di un fuoco ardente.

Razer si fermò davanti all’ingresso, battendo più volte i piedi, per far staccare i rimasugli di terra, che erano rimasti intrappolati nelle suole.
Noir gli era rimasto pochi passi indietro, come se avesse paura di avvicinarsi a quella porta.
Le nocche dell’uomo dagli occhi scuri batterono più volte contro la superficie di legno, facendo vibrare i cardini di ferro. Il catenaccio che la teneva chiusa dalla parte opposta tintinnò.
- Razer, sei tu? – chiese una voce femminile dall’interno.
- Si, Lucya. Sono tornato. Sulla via ho trovato un uomo che avrebbe bisogno di ospitalità, non è un problema per te, vero? In ogni caso potrà darti una mano. –
Il catenaccio si mosse, permettendo alla porta di aprirsi.
Razer fece per abbracciare la sorella.
- Oh, Razer! È venuto un tuo amico a trovarci. Si chiama Comvia, mi ha detto che conosceva anche i nostri genitori. –
L’uomo dal polpaccio ustionato si bloccò, voltando il capo per cercare di capire a chi si riferisse la sorella.
L’elfo dal viso tatuato sorrise sornione non appena lo sguardo di Razer si posò su di lui, per poi portarsi l’indice destro alle labbra per intimare ai due nuovi arrivati di rimanere in silenzio.
L’assassino riconobbe immediatamente il tatuaggio che svettava sulla guancia sinistra della persona che stava seduta nella sua casa. L’avevano mandato quelli del Tribunale di Gerala, come del resto dovevano essere stati loro a mandare l’ispettore biondo con cui si era scontrato ad Avaran.
L’elfo chiuse il pugno, alzandolo fino all’altezza delle labbra per soffiarci sopra, mentre i suoi occhi non si staccavano dal viso dal colorito cadaverico di Razer.
Un fazzoletto bianco cadde a terra lentamente quando le dita smisero di serrarsi.
- Lucya, potresti prepararci un po’ di tè, per favore? Devo parlare un attimo con Comvia. –
- Razer? C’è qualcosa che non va? – la voce della donna dal viso sfregiato si tinse di apprensione.
- No, non ti preoccupare. – disse l’uomo dagli occhi profondi cercando di controllare la propria voce – Dobbiamo solo parlare di un po’ di cose serie. È solo lavoro, tranquilla. Possiamo discuterne fuori, per favore? –
L’elfo allargò ulteriormente il suo sorriso in risposta. – Il tuo amico si unirà alla nostra conversazione? –
Razer parve dubbioso sulla risposta da dare a quel quesito. – Si. Penso che sia meglio che ci sia anche lui. –
- Ottimo. – sibilò l’elfo, alzandosi dalla sedia che lo aveva ospitato fino ad allora. – Andiamo? –
I tre uomini lasciarono nuovamente l’abitazione per avventurarsi nella penombra della notte incombente.
- Chi sei? – chiese duro l’assassino non appena la porta gli si fu richiusa alle spalle.
- Un attimo, ho una manifestazione d’affetto da fare. – gli rispose l’elfo quasi ignorandolo.
Il corpo snello rinchiuso negli stretti abiti eleganti si mosse, incurante di Razer, in direzione di Noir, che fece un passo indietro alla vista di quel movimento.
L’elfo aumentò ulteriormente la sua andatura, in modo da raggiungere l’uomo magro che gli stava davanti, per avvinghiarlo in un abbraccio saldo.
- Ma che diavolo stai facendo! – urlò Razer, cercando di raggiungere il suo compagno di viaggio.
Il corpo di Razer vibrò vistosamente, un segno premonitore che anticipò la comparsa di un imponente aculeo che dal ventre del discendente di Reis trapassò quello dell’elfo tatuato, impalandolo in quella posizione in cui lo aveva colto.
- Dannazione, fa più male di quanto immaginassi. – sibilò l’elfo, sciogliendo l’abbraccio e iniziando, pian piano,  a sfilare il suo corpo da quella stalattite di melassa nera.
- Come è possibile che tu non sia morto? – balbettò Noir terrorizzato, mentre le sue gambe lottavano per non farlo cadere nella direzione di quel nuovo peso che portava sul ventre.
- È una lunga storia, - gli rispose l’elfo senza smettere di spingere il proprio corpo verso la punta di quell’aculeo. – diciamo che lo spirito del tuo avo aveva un po’ più di volontà di uccidere rispetto a te. –
- Ripeto. – provò ad intromettersi Razer, cercando di riportare l’attenzione su di sé – Chi sei? –
Lo zaino dell’assassino, intanto, aveva toccato il suolo, aprendosi.
L’elfo continuò ad ignorare il padrone di casa, i suoi occhi e le sue mani erano troppo occupate a controllare la corretta guarigione del foro, che gli si apriva all’altezza dello stomaco. Non appena i lembi di pelle si furono completamente risaldati, sotto al tessuto degli abiti rovinati, le sue spalle si mossero in senso rotatorio, come per scioglierle dalla tensione.
Dagli abiti eleganti si sollevò una sottile nebbia nera che, dopo essere salita verso il cielo per una decina di centimetri, venne risucchiata nuovamente nella giacca scura.
- Grazie ragazzino. – concluse l’elfo voltandosi verso Razer – Ora possiamo parlare. Ti è piaciuto il mio trucco di magia? –
- Chi sei tu? Come sei sopravvissuto? –
- Gliel’ho già spiegato. Non voleva uccidermi, dopotutto non lo stavo attaccando. Lo schifo che ha nel sangue voleva solo prendersi  i rimasugli di demone che avevo nel corpo. E, poi, davvero Razer, non mi riconosci? Non sono nemmeno invecchiato dall’ultima volta. Cioè, dalla penultima volta. –
La mano dell’assassino venne estratta rapida dallo zaino, trascinando con sé il fodero contenente un lungo coltello e la maschera ingrigita, dal volto ghignante.
- Non lo farei se fossi in te. E, poi, il colore di quella maschera si è già sporcato per colpa del fuoco, non vorrei doverla macchiare anche di sangue. – continuò l’elfo avanzando verso l’assassino con le mani leggermente sollevate.
Razer si sistemò con un gesto meccanico la maschera sul volto e sguainò il coltello con un movimento fluido, facendo cadere il suo fodero a terra.
- Davvero non sai chi sono? – continuò l’elfo, divertito da quella situazione. – Comunque, se vuoi giocare non sarò io a fermarti. –
L’essere in abiti eleganti si portò il palmo sinistro al volto, come per nasconderlo.
Una sostanza bianca gli avvolse il naso, spandendosi poi lungo tutto il viso, fino a celarlo completamente dietro le fattezze di una candida maschera dal sorriso aguzzo, identica in tutto e per tutto, fatta eccezione per il colore immacolato, a quella che gli stava di fronte.
Nel palmo della mano destra si aprì una ferita lunga e sottile, che, però, non parve aver intenzione di sanguinare. Bensì ne scivolò fuori la lama di un pugnale da lancio, che venne saldamente stretto dalle dita affusolate.
- Questo non lo spezzerai facilmente. – disse ancora l’elfo, con la voce ovattata dall’oggetto che gli copriva le fattezze.
L’assassino gli si lanciò contro, tentando più volte di colpire il collo o il torace del suo avversario, ma ognuno dei suoi tentavi veniva facilmente evitato da piccoli movimenti, il coltello rivale non tentava nemmeno delle parate, tanto erano superflue.
Noir osservava la scena inginocchiato per terra, ansante, sfinito.
L’essere in abiti eleganti fece un passo avanti, tanto veloce che Razer a stento se ne rese conto, ma non fu sufficientemente rapito per evitare l’indice che gli avrebbe impattato la fronte, se non ci fosse stata la maschera a proteggerla.
Una cortina di cenere abbandonò la superficie della maschera, lasciandola perfettamente bianca, per depositarsi sugli abiti dell’assassino.
- Molto meglio. – disse compiaciuto l’elfo, guardando attraverso le strette fenditure a forma di V rovesciata il volto del suo rivale, che prima risplendette di una violenta luce blu e poi, urlando, fendette con il coltello l’aria attorno a lui, tentando di far culminare la mezzaluna che stava disegnando nel torace del suo rivale.
L’essere scomparve in uno sbuffo di vapore, senza lasciare traccia di sé alle sue spalle, per poi ricomparire dietro l’assassino.
La mano sinistra dell’elfo artigliò con ferocia la nuca protetta dallo strato candido dell’uomo dagli occhi profondi, tirandola verso di sé per fargli scoprire la gola, alla quale la lama della sua arma corse.
- Ero decisamente fuori forma ad Avaran. – disse quasi tra sé e sé l’essere, concedendosi pochi secondi di quiete prima di continuare.
Razer ansimava immobile, con il freddo metallo del pugnale premuto contro la gola.
- Uccidimi, forza. Così potrai portare il mio cadavere a quei cani dei tuoi superiori. –
- Questa è l’idea principale. – ammise l’elfo, mentre la maschera che gli copriva il viso scompariva nell’aria, come se fosse stata solamente un miraggio – Ma ho un debito. Speravo che questo viso, questo nome e quell’inutile trucco del fazzoletto ti facessero tornare alla mente chi io potessi essere, ma, evidentemente, mi sono sbagliato. Tua sorella mi trovò in fin di vita poco distante da qui, vent’anni fa. I tuoi genitori mi curarono le ferite e tu, maledetto moccioso, mi portasti persino un piatto di minestra. Ancora non ti ricordi? –
- Non è possibile che quell’uomo sia tu. –
- Mi hai visto creare la tua stessa maschera dal nulla e scomparire davanti a te. Cosa non sarebbe possibile? Oh, già, a proposito della mia maschera. –
Il pugnale dell’elfo si mosse rapido, scivolando lungo il braccio destro dell’assassino, impattando contro il guardamano del coltellaccio nemico, facendolo scivolare via dalla mano del suo proprietario. Completato il suo compito, il pugnale da lancio venne riassorbito dalla mano che lo aveva brandito, scomparendo.
La mano sinistra dell’essere si sollevò dal capo di Razer, portando con sé la maschera che stringeva.
Non appeno fu libero, Razer si allontanò di pochi passi dal suo avversario, per poi voltarsi verso di lui solo quando c’era una buona distanza di sicurezza tra di loro.
- Sai - riprese l’elfo, incurante di tutto – questa maschera è un simbolo, il simbolo della commedia con una mia leggera reinterpretazione. Te l’ho data sperando che le dessi un significato positivo, ma tu l’hai macchiata di sangue. Questa maschera, la MIA maschera, è stata l’ultimo volto che quei draghi hanno visto prima di spirare. –
Le dita dell’essere si strinsero in un moto d’ira sulla superficie candida, spaccandola in più frammenti.
- Ed ora, parliamo di affari. – riprese l’elfo – Io ho un compito, portarti dai miei mittenti, vivo o morto. Dall’altra parte, però, devo la vita a tua sorella e tu, lurido cane, sei quello che le permette di rimanere in vita. Ho un patto da proporti, tu la smetti con la tua inutile crociata contro i draghi e io dirò Loro che, sfortunatamente, sei caduto in un burrone. –
- Davvero mi vorresti far credere di avere una possibilità? –
L’elfo scomparve in uno sbuffo di vapore, per poi rimaterializzarsi a pochi centimetri dal volto dell’uomo dagli occhi profondi.
- Potrei ucciderti in qualunque momento, ma non l’ho ancora fatto. Non credere che il mio solo debito con la tua famiglia mi possa trattenere ancora per molto dal mandarti nella Volta Celeste. –
Razer deglutì  vistosamente, mentre l’oscurità della notte cominciava ad infittirsi.
Il voltò dell’essere si diresse verso il corpo di Noir, che ancora non si era rialzato da terra. – Per quanto riguarda te, non mi interessi. Hai sistemato quello che il tuo avo ha rotto, quindi per me puoi andare. Cerca solo di non uccidere altri sacerdoti. –
Razer indietreggiò ancora di un passo, come se stesse cercando di scappare.
– Davvero mi risparmieresti? – chiese diffidente.
- Solo alle mie condizioni. Se moriranno altri draghi, se dovessi anche solo trovare un indizio che mi possa portare a te, non risparmierò nessuno. Né te, né tua sorella, né altri tuoi alleati. –
La porta della casa si aprì, sopprimendo qualunque discorso potesse ancora nascere in quel momento.
- Scusate… se vi fermerete a cena, posso chiedervi una mano nel prepararla? – chiese la donna cieca, appoggiata allo stipite della porta, con un lieve sorriso cordiale sulle labbra.
Gli occhi di Razer saettarono tra la sorella e l’elfo tatuato, per poi abbassarsi, sconfitti.
- Certo, qui tanto abbiamo finito. –
I tre uomini si mossero svelti verso… timorosi della… che… rincorrerli con… manto scuro.




Angolo dell'Autore:

Rieccomi qui, tediarvi con altri lunghi sproloqui su robe. So che vi sono mancato.
Prima le cosse importanti. Grazie a OldKey e la ragazza imperfetta, per il loro continuo supporto, e grazie a tutti voi per essere arrivati fin qua.

Ora iniziano gli sproloqui che da tanto mancano al fondo dei miei capitoli.
I Nomi.
Mi sono ritrovato a riflettere su roba abbastanza seria, ultimamente, e il concetto di nome mi ha dato di che riflettere.
Al di là del nome che ci è stato dato, quello può piacerci come no, ma difficilmente ce ne separeremo. Stavo riflettendo sui nomi che noi possiamo dare.
In primis il nome, nick, che ognuno di noi ha. Sicuramente, dietro ognuno dei nomi che mostriamo qui, in rete, c'è una storia, o almeno un ragionamento. Sull'origine di Vago potrei scriverci una buona one-shot senza problemi. Ho iniziato da qui perchè è quello che ci accomuna tutti, noi tutti abbiamo un personaggio, più o meno fedele alla persona dietro la tastiera, che si è generato attorno al nome che noi stessi abbiamo scelto e, probabilmente ha guidato anche l'evoluzione del personaggio stesso. Dubito che se mi fossi chiamato festaioloXD mi sarei potuto permettere i discorsi che Vago mi permette di fare, o forse no.
A cascata ci sono i personaggi dei racconti. Ho prodotto decine di nomi, persone, cose, incantesimi, città, continenti, barche, armi, mostri, sono talmente tanti che dubito riuscirei a ricordarmeli tutti. I nomi importanti, però, hanno tutti una loro storia.
Ardof è stato il primo che ho scritto, il primo in assoluto, nato da un ragazzino che prima ha provato a fare l'anagramma di drago e poi, insoddisfatto dall'Ardog uscito, l'ha modificato a suo gusto.
Vago doveva essere Dranos Tocsin, anche qui dovuto allo stravolgimento dell'anagramma di "drago scrittore". Ma, ammettiamolo, fa schifo. Ma tutto questo è successo talmente tanto tempo fa da non permettermi di ricordare se fosse nato prima il suo nome finale o il mio nick.
Commedia non era una musa, così non era nemmeno il Viandante, ma la sovrapposizione di più strati di scrittura ha generato questo personaggio a cui calzano perfettamente questi nomi, che rappresentano le due metà del suo carattere. Commedia prende spazio nei momenti di divertimento e spensieratezza, il Viandante è il cane mandato ad esseguire oridini.
Ma questi sono solo esempi.
Facciamo un balzo in avanti, fino ad oggi.
Noir deve il suo nome, ovviamente, almeno per me, al colore della melassa che gli scorre nelle vene e perchè il nero è associato al male, sempre, e lui come personaggio cerca disperatamente di combattere contro questo pregiudizio che si ha nei suoi confronti. Lui è semplicemente un bravo ragazzo con un potere ereditato dal più "cattivo" esistito.
Razer, dall'altra parte, lo pensai parteto da rasoio. Perchè già sapevo cosa avrebbe fatto, da grande, e volevo dare l'idea per cui lui camminasse sulla lama di un rasoi, da una parte una vita tranquilla, dall'altra quella di assassino ed ora, con questo accordo, ha dovuto scegliere da quale parte cadere.
Sono nomi, solo nomi, ma agnuno di loro ha un suo piccolo significato, magari importante solo agli occhi di chi gliel'ha dato.
Bene, ho parlato a sufficienza.

Buona epifania a tutti, ci vediamo venerdì prossimo.
Vago

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Capitolo 28
*** Capitolo 13.06: Profezia ***


Il mondo si piegò appena quando le maglie che lo componevano si allargarono le une dalle altre, per permettere ad un uomo esile di passarci attraverso. I suoi abiti erano consumati, sporcati dal fango di centinaia di paesi e macchiati dal colore di migliaia di tinture. Il venticello che lo accarezzava ne tratteneva in parte il profumo, spandendo nell’aria la fragranza di decine di spezie esotiche rubate.
Il suo volto pareva un’accozzaglia di fisionomie diverse, su quel viso svettava una fronte alta, dalla quale nasceva un piccolo naso affilato ed ai cui lati erano stati posizionati due occhi leggermente a mandorla. La bocca fine era incorniciata da una spessa barba castana incolta, che copriva il mento aguzzo.
La borsa che portava a tracolla, pur essendo vuota, sembrava pesante, e la cinghia che gli si appoggiava sulla spalla pareva potersi strappare da un momento all’altro, tanto era logora.
La punta del bastone da viaggio a cui si sorreggeva si appoggiò sul suolo verdeggiante, precedendo i passi che lo avrebbero portato verso la cima della collina.
La dolce melodia intonata dal vento continuò a suonare indisturbata, ignara di quel nuovo arrivato.
L’uomo magro salì sul palco del teatrino, battendo più volte il suo bastone contro le assi di legno che lo sorreggevano, per attirare l’attenzione dei presenti.
I suoi occhi scuri scrutarono gli spalti, torvi.

È strano che sia venuto fin qui. Non ci fa visita da molto tempo, oramai.
Cosa succede nel Reale di tanto importante da richiedere la nostra attenzione?
Spero per quel maledetto viandante che sia importante, non sono in vena di feste.



- Credo che qualcuno voglia parlare. – disse Melodia gracidando sommessamente, mentre il venticello si dileguava, smettendo di far vibrare le canne nate nello stagno.
- Oh, non ne ho voglia! – gli rispose lagnosa la bambina dai capelli rossi, battendo i piccoli pugni per terra.
- Quando smetterai di recitare, con me? –
- Quando non mi darai più soddisfazioni. – gli rispose la bambina con una voce decisamente più matura, per poi tirare fuori la lingua dalle labbra con un gesto scherzoso.
- Andiamo, forza. – riprese Melodia –Il vento porta un canto che non sentivo da molto tempo. Facciamo a chi arriva prima al teatro. –
La raganella mutò rapida in un pettirosso che, cinguettando, prese il volo verso la sommità della collina.
- Ehi! Non vale! Non hai detto via! – gli urlò dietro la bambina, per poi scomparire a sua volta, lasciando il posto a una lepre dal manto argenteo.


Il sole percorse in un attimo buona parte del suo tragitto verso occidente, smettendo di scaldare con i suoi caldi raggi pomeridiani la sommità dell'altura, in favore di una luce serale più rossastra e soffusa. Spumose nubi bianche assunsero tinte calde, contrapponendosi pesantemente all’azzurro del cielo terso.
- È molto che non ti fai vedere, Epistola! – urlò la donna formosa dallo spalto su cui era sdraiata.
Un acino d’uva perfettamente ovale attraversò l'aria, fino a raggiungere il palco su cui l’uomo restava in piedi, da solo.
Un pettirosso e una lepre raggiunsero il piccolo anfiteatro correndo, fermandosi, poco dopo, per poter studiare chi fosse il nuovo arrivato.
La spada del soldato in armatura si piantò nel terreno, vibrando per la potenza del colpo.
- Fratelli e sorelle. Vorrei che le circostanze che mi hanno portato a fare ritorno alla Trama del Reale fossero più liete. Giungo qui perché questa è la volontà di nostro fratello Profezia. –
- Non poteva venire direttamente quel vecchiaccio a parlarci, invece di mandare te? – lo interruppe la bambina dai capelli rossi che lo guardava, sdraiata per terra.
- È impossibilitato a venire. Pare che l’ultima profezia sia stata formulata. –
- Epistola, ti rendi conto di quello che dici? – intervenne l’essere amorfo dal pallido colorito grigio, alzandosi in piedi – Siamo muse, non smetteremo di fare il nostro dovere fino alla fine dei tempi. –
- Purtroppo, fratello Mito, la situazione attuale pare contraddirti. Nostro padre è al momento impegnato e non ci può dare udienza, vi chiedo quindi, a nome di Profezia, di seguirmi per ascoltare le sue parole. -

Epistola ha viaggiato troppo con i mortali. Non è possibile che Profezia abbia terminato la sua mansione.
Nessuno di noi terminerà mai il suo compito, non finché rimarrà una sola mente in grado di forgiare i nostri spunti per creare meraviglie.

Il grosso gatto che pareva essersi addormentato sul ventre di Passione si destò, alzandosi in piedi e scendendo con grazia gli scaloni degli spalti.
La grossa coda pelosa si muoveva lieve dietro di lui, come per accarezzare l’aria.
- Epistola, non credi che l’essere stato per così tanto tempo al fianco dei mortali, ti abbia fatto dimenticare quali sono i limiti della nostra esistenza? – chiese il felino con la voce soave di una ragazza.
- Fratelli e sorelle, vi assicuro che so bene quel che dovrebbe essere. Ma vi posso altresì dire che Profezia, quando mi mandò qui, fu più serio di Tragedia. Vi prego, ancora una volta, di seguirmi. –
Il turbine di fumo dagli occhi roventi prese a vorticare ancora più velocemente, sollevandosi dal suo seggio. La voce cavernosa che ne seguì parve non avere un’origine precisa.
- Nulla ci trattiene dall’andare. Avanti, cosa mai potrà succedere, se andassimo a far visita un attimo a nostro fratello? –
- Grazie, Terrore. – disse sollevato Epistola dal palco che aveva occupato.
La Trama del Reale, di nuovo, ridusse la tensione dei fili che la costituivano, permettendo alle creature che l’avevano occupata di passarle attraverso, diretti verso ciò che si trovava al di là e che continuava a tessere la sua forma.
Il gruppo male assortito comparve in mezzo alla fredda aria montana di un picco innevato. Tutto intorno, diverse centinaia di metri al di sotto, si potevano riconoscere le centinaia di montagne che circondavano quella su cui erano arrivati.
L’aria era rarefatta, a quell’altezza, non che a quelle creature la cosa desse particolarmente fastidio. La loro attenzione, invece, era rivolta verso la figura ricoperta di un sottile strato di candida neve, che restava seduta immobile di fronte a loro, in contemplazione dell’immensità del paesaggio che gli si apriva attorno.
- Profezia. – disse la voce cavernosa, mentre la colonna di fumo dagli occhi ardenti superava Epistola, per potersi avvicinare all’essere seduto – Volevi dirci qualcosa? –
La creatura non rispose e non parve volersi smuovere.
- Fratello Profezia … - tentò timidamente Epistola, muovendosi verso quest’ultimo.
La neve gli arrivava ben sopra le ginocchia, rallentando il suo passo.
La mano minuta del viandante barbuto si posò su quella che doveva essere una spalla ricoperta dalla bianca cortina che continuava a cadere dal cielo.
Il corpo di Profezia cadde indietro, facendo impattare la sua schiena contro il soffice strato che ricopriva il suolo. Il suo viso era rugoso, bruciato dal sole, con gli occhi vitrei che puntavano qualcosa di lontano ed irraggiungibile. Un’immensa barba, che si sarebbe potuta confondere tra la neve, gli adornava le guance e la bocca, ricadendogli sui cenci di un saio che gli copriva a stento le membra incurvate da sforzi che, probabilmente, non aveva mai compiuto.
Tragedia si fece avanti con uno sguardo adombrato.

Profezia? Cosa gli può essere successo?

L’esile corpo martoriato si piegò su quello del vecchio, tastandolo in cerca di una risposta di qualunque genere, che non ricevette.
- Temo che la vita di Profezia sia terminata. Non capisco come ciò possa essere possibile. Dobbiamo chiedere immediatamente udienza a nostro padre. Lui saprà sicuramente il significato di ciò. –
- Oh, avanti, Tragedia! – squittì la bambina dai capelli rossi – Sei sempre troppo serio! Profezia non può essere morto. Noi non possiamo morire, è impossibile! Guarda! –
La bambina si avvicinò saltellando al corpo immobile del vecchio barbuto, per poi afferrargli le spalle e scuoterlo vigorosamente.

Non è possibile. Profezia non può essere morto.
È qualcosa che il Fato non può aver concepito, la nostra fine.

- Forza, Profezia! Non fare il solito noioso! Avanti, ci hai chiamato tutti qui, ora non fare l’offeso! –
Il corpo non ebbe accenni di vita, dalla sua bocca socchiusa, però, cadde un piccolo rotolo di pergamena, che si adagiò tra le volute bianche della barba.
- Credo che Tragedia non stia sbagliando, piccola… – Le disse dolcemente Passione, stringendo la bambina incredula tra le sue braccia, in un caldo abbraccio.
Tragedia raccolse la pergamena tra le dita esili, srotolandola con attenzione.
Centinaia di piccoli caratteri si susseguivano, tracciati con una grafia perfetta, impossibile da associare alle dita raggrinzite del vecchio immobile.
La Musa la lesse ad alta voce, nel silenzio generale che era calato.



Il Nero nacque fuori dal trono.
Prima del salto sul mondo tastò lo stesso, concedendo essenza a chi ne brama.
Donando la spada dalla lama non forgiata d’acciaio, che può mietere anche le pietre.
Da qui, di tutti ne rimangono due, uno in sacrificio, l’altro sacrificato.
La patria rinchiusa per salvarla da chi non deve vederla.
Finché l’ultimo non vedrà il Nero fallire ed iniziare.


Io ho deciso di non essere né l’ultimo, né l’altro. Addio, fratelli miei.


- Ottimo, non è riuscito ad essere chiaro nemmeno con il suo ultimo respiro. Dobbiamo contattare nostro padre il prima possibile. – disse risoluto il soldato, facendo cadere la neve dalla sua armatura – Ma dobbiamo anche mettere  in guardia coloro che non sono presenti. Epistola, comincia a correre, devi trovare le Muse mancanti e portarle da noi. Dì a tutti che è un mio ordine. –
Il viandante dalla barba castana si batté il pugno destro all’altezza del cuore, in un gesto privo di qualunque intenzione di scherno ma, bensì, intriso di un profondo rispetto. Il suo corpo poi scomparve, così come il profumo esotico che emanava, venendo trasportato lontano da quel vento montano.
Il gatto scomparve, lasciando il posto ad una giovane fanciulla dai sottili abiti che, leggiadra, camminò fino al corpo esanime, tanto leggera da non affondare nella coltre gelida. Lì si piegò con un gesto dolce, accarezzando la fronte rugosa dell’uomo, chiudendo le palpebre affaticate dalle troppe cose che aveva visto.
- Io ho deciso di non essere né l’ultimo, né l’altro… - mormorò la fanciulla, ritirandosi.
- Danza, cosa vuol dire quell’ultima frase, secondo te? – chiese la bambina con la voce incrinata, sinceramente spaventata.
- Non credo di saperlo… - le rispose sorridendo la fanciulla – Dopotutto le parole non sono il mio forte. -
- Vuol dire che ha deciso di morire. – le rispose brusco il soldato, voltandosi là dove le maglie della Trama del Reale si facevano più larghe – Ed ora non cominciare a piangere Commedia, penseremo ai morti quando nostro padre ci assicurerà che una cosa del genere non potrà mai ripetersi. -

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Capitolo 29
*** Capitolo 13.5: Ritorno alle macerie ***


L’ho portato esattamente dove volevo.
Lo sto ricattando, usando sua sorella, ma almeno eviterò che altri draghi muoiano per mano sua.
Ho fatto il mio lavoro e questo sarà il miglior pasto che potrò mai fare. Domani partirò presto per Gerala a reclamare la mia e la sua libertà e poi… Boh, credo viaggeremo.
Non ci è rimasto nessun posto a cui tornare, quindi dovremo farci bastare il creato.

L’elfo in abiti eleganti lanciò la patata che aveva appena sbucciato nel pentolone che gli stava accanto, per poi passare a quella successiva.
La cucina sarebbe stata immersa nel silenzio, se, in quel momento, la donna cieca non stesse fischiettando un motivetto allegro,  con le mani impegnate attorno alla carota che stava tagliando.
L’essere scostò il proprio ciuffo di capelli candidi dagli occhi con un gesto repentino del capo, per poi alzare lo sguardo verso la donna dai capelli castani, che pareva allegra, seppur non avesse una ragione apparente per esserlo.
Le corde vocali dell’elfo si strinsero mentre, attorno a loro, le pareti della gola si serravano. I suoi polmoni si riempirono della tiepida aria montana che colmava quella casa, pronti a restituirla all’ambiente circostante sotto l’ordine del loro padrone.
Una serie di fischi che toccavano perfettamente le note a cui puntavano uscì dalle sue labbra, come fosse stato il canto di un usignolo. La nuova melodia si conciliò  a quella che già risuonava tra quelle pareti, accompagnandola come uno strumento accordato nelle mani di un abile musicista.
Gli occhi dei due uomini, per un attimo, si posarono esterrefatti e spaventati sulla sagoma dell’elfo, che non degnò loro di attenzioni.
Il fischiettio di base si interruppe di colpo per permettere alla donna di parlare.
L’accompagnamento terminò pochi istanti dopo.
- Chi è che sa fischiare così bene? Ti prego, continua. È bellissimo. –
- Ero io. Ma non mi piace essere la voce principale, Lucya, riprendi tu, io seguirò il tuo motivo. –
La melodia principale riprese, prima incerta, come se temesse di sbagliare, poi mano a mano più sicuro di sé.
L’essere aspettò pochi secondi, immobile, assaporando le note che gli colpivano i timpani, poi riprese il suo ruolo, accompagnando quelle note con le sue, che mai coprivano la voce principale.

L’acqua del pentolone cominciò a bollire vigorosamente sopra il fuoco scoppiettante della stufa. Al suo interno salivano e scendevano ritmicamente i pezzi di ortaggi.
Razer prese da parte la sorella, portandola fuori dalla cucina con in volto una punta di preoccupazione.
L’elfo e Noir, rimasero soli tra le quattro mura che ingabbiavano la stanza; il primo con uno sguardo serpentino e un largo sorriso sul volto, al contrario del secondo che faceva rimbalzare i propri occhi come una preda in trappola, osservando per pochi attimi l’essere che aveva davanti per poi distogliere lo sguardo, incapace di mantenere gli occhi fissi su di lui.
Finalmente il discendente di Reis osò aprire la bocca, ma il suo sguardo continuava a rifuggire la figura maschile che condivideva con lui la stanza.
- Cosa sei, in realtà? Cosa hai a che vedere con i miei antenati? –
- Non ti piace girare attorno a ciò che ti interessa, vedo. – gli rispose l’elfo alzandosi dallo sgabello che lo ospitava, facendo sobbalzare di paura Noir.
- Ti prego, rispondimi. –
-  Non credo che potrei spiegarti cosa sono in tempi sufficientemente brevi. Adesso sono Comvia e tu devi solo sperare di non incontrare mai il Viandante. –
- E i miei avi? Cosa sai di loro? Sei opera del Re? Ti creò lui, come quei demoni? –
L’elfo sbuffò, in modo seccato.
- Io sono nato ben prima dell’essere che si impossessò della mente di Reis ed io ho contribuito a mettere la parola fine alla sua esistenza. La fonte del potere che ti scorre nelle vene è, in un certo senso, di origine divina e l’essere che la possedeva riuscì a ferirmi. Questi sono gli unici collegamenti degni di nota che ho con i tuoi avi. –
- Tu quindi sai cos’è il mio potere? – continuò il trentenne dai capelli neri, con una scintilla di speranza negli occhi, che osarono alzarsi sul loro interlocutore.
- Ne so qualcosa. –
- Ti prego, allora. – Noir si gettò in ginocchio ai piedi dell’elfo – Dimmi come controllarlo. Non voglio uccidere ancora. –
Il viso dell’essere dalla chioma color pece tagliata dalla ciocca bianca si adombrò per un attimo, prima che la sua bocca si muovesse per liberare le parole che conteneva.
- Non puoi controllarlo. Non è nemmeno tuo, per l’esattezza. È come se avessi un animale ferito, dentro di te. Un animale che non può vivere senza l’ospite. Cosa fa, allora? Cerca di proteggerti nell’unico modo che conosce, attaccando. Non puoi controllarlo, a stento puoi trattenerlo, ma, se lo impari a conoscere bene, puoi imparare ad accarezzarlo. –
La mano dell’elfo si appoggiò sul petto di Noir, quest’ultima venne subito ricoperta da uno spesso strato di melassa scura, che rimase lì immobile, a frapporsi tra la mano di quell’essere immortale e la camicia del proprio padrone.
- Cosa sai di lui? – continuò L’essere.
- Che uccide qualunque cosa si avvicini a me e mi protegge quasi sempre dagli attacchi. –
- Ti sbagli. Non mi sta ferendo, adesso. Lui avverte la volontà di uccidere che ha attorno e reagisce di conseguenza. Lui ora sa che non ho la benché minima intenzione di farti del male, ma, nel momento in cui la dovesse percepire… -
Uno spuntone nero nacque improvvisamente dalla placca sul petto di Noir, per poi ritirarsi pochi secondi dopo essere comparsa.
Il buco nel palmo dell’elfo si rimarginò quasi immediatamente.

Non so perché lo sto facendo.
Poco importa, comunque, domani sarò libero e potrò lasciarmi alle spalle anche questo strascico di esistenza di Follia.

- Poi, ho visto su di te delle cicatrici. Come te le sei procurate, se il tuo potere ti protegge? –
- Mi protegge quasi sempre… solo che a volte non basta. –
- Appunto, non basta. Tu hai una quantità limitata di… essenza, dentro di te. La quantità che tua madre ti ha fatto ereditare. Ora, lui fuoriesce dalle tue vene, si fa strada nella tua carne per ricoprirti il corpo come se fosse un’armatura, ma non è sufficiente per coprire tutto. Devi quindi sapere quanto questa tua impenetrabile difesa può davvero proteggere e quando non potrà più farlo. –
- Ma… non c’è un modo per toglierlo dal mio corpo? Io non la voglio questa maledizione. –
- No. Puoi solo imparare a convivervi. –


Razer accompagnò sua sorella fino alla sedia nel salotto, tenendole la mano finché lei non fu seduta.
- Lucya, stai bene? – le chiese, preoccupato – Ti vedo pallida. –
- Sto bene, tranquillo… probabilmente ho preso solo troppo freddo. Ma tu non preoccuparti. Piuttosto, è simpatico, il tuo amico. – gli rispose lei, mostrandogli un caldo sorriso.
- Si… A proposito di lui, fai attenzione è un tipo particolare. –
- A me è sembrato un uomo buono. Quello che hai portato con te dalle Terre, invece. Chi è? Non l’ho quasi mai sentito parlare. –
- Lui… è un poveraccio che aveva bisogno di un po’ di fortuna ed io avevo bisogno di lui. –
- Voglio vederlo. – disse risoluta Lucya, alzandosi dalla sedia su cui il fratello l’aveva fatta adagiare e puntando la porta dalla quale era stata fatta uscire.
La donna oltrepassò la porta d’ingresso sfiorando appena lo stipite destro, come per sincerarsi che fosse davvero quella la strada corretta per la sua meta.
- Noir… - chiamò Lucya, incerta nel pronunciare quel nome – Posso chiederti di venire qui davanti a me? –
Il trentenne si irrigidì, sentendo pronunciare il proprio nome. Si guardò intorno, cercando consiglio, ma tutto quello che trovò fu l’elfo rinchiuso nei suoi scuri abiti eleganti che sorrideva cinico alla sua insicurezza.
Si alzò dalla sua sedia, muovendosi lentamente in direzione della donna dal volto sfigurato.
- Sono… sono davanti a te. Come posso aiutarti? – L’uomo restava rigido, come un piccolo animale spaventato davanti al suo predatore naturale.
- Voglio vederti. – fu la risposta della cieca.
Lucya alzò le mani al volto del trentenne che cercò di sottrarsi a quel contatto improvviso, ma non fu abbastanza veloce da evitarlo.
Le dita della donna si appoggiarono delicatamente sulle guance di Noir, tastando con i propri polpastrelli il profilo degli zigomi del trentenne, soffermandosi là dove le piccole e sottili cicatrici che si sovrapponevano costituivano un intreccio di lievi solchi.
Gli occhi si mossero repentini verso l’elfo, disorientati.
L’essere dai capelli color pece allargò ulteriormente il suo sorriso, rendendolo serpentino, per poi alzare le spalle.
Le dita della donna dai capelli castani si spostarono verso la fronte di Noir, saggiandola nella sua intera lunghezza, per poi scendere fino al naso e, da lì, arrivare al mento passando sopra le labbra spaccate dal sole e dalla fredda aria montana.
Ritrasse poi le braccia, ora il volto di Lucya non mostrava più il sorriso radioso che l’aveva ornato fino a un secondo prima.
- Hai molte cicatrici e la tua fronte è piena di rughe di preoccupazione. Hai vissuto in luoghi in cui non eri benvoluto, prima di arrivare qui, non è vero? Non ti preoccupare, però. Qui non scacciamo chi il Fato mette sulla nostra strada. –
L’elfo sbuffò silenziosamente, appoggiandosi allo schienale della sedia che lo ospitava.

Il Fato non ha messo un bel niente sulla vostra strada.
Probabilmente non sa nemmeno che esistete, adesso, voi tre. Siete tre maledetti Buchi nella Trama e spero che la mia decisione di lasciarvi in vita non incasini il mondo.
E se il Fato ha qualcosa da ridire, che scenda qua per prendermi a schiaffi.

Noir si toccò delicatamente il viso con le dita, incredulo che un paio di mani estranee fossero riuscite a toccare la sua pelle.
- La minestra sarà quasi pronta. Vado a chiamare mio fratello e potremo mangiare. – tornò a dire Lucya, facendo ricomparire il suo caldo sorriso.
Il cupo cielo notturno, fuori dalle finestre, si illuminò improvvisamente di rosso e giallo.
La temperatura nella casa aumentò vertiginosamente, la poca mobilia in legno prese fuoco, così come la trave portante del tetto.
Bastarono pochi secondi di quell’inferno perché il tetto, ora privo di un sostegno, cedesse sotto il suo stesso peso al piano superiore, per poi continuare a precipitare, portando con sé il pavimento del secondo piano. Le pareti resistettero poco di più, prima di collassare verso l’interno dell’abitazione con un fragore assordante che si spanse lungo tutto il versante della montagna, fino ad essere udibile dal vicino Passo Marino.
Un paio di possenti zampe protette da uno spesso strato di squame rasparono i detriti che erano caduti su quello che una volta era il salotto, finché non incontrarono un corpo privo di coscienza.
Un paio di mani umane trascinarono la figura ricoperta di sangue sul piccolo spiazzo che precedeva quello che fu l’ingresso della casa, poi, di lui, lì, non rimase nulla.
Possenti folate spazzarono il terreno, pulendolo dal pulviscolo che su questo si era adagiato.
Un masso saltò in aria, per poi ricadere decine di metri più lontano. Una creatura nera nella notte scura si eresse tra le macerie, zoppicando verso sud, dove cominciò a scavare poco lontano dai detriti smossi poco prima, finché non trovò ciò che cercava.
La creatura cadde in ginocchio, in un moto di disperazione, mentre i suoi occhi scuri si levarono verso la luna argentea, che osservava distaccata la scena dal suo seggio nella volta celeste.
L’essere nero si rialzò dopo diversi minuti e zoppicando fuori dal cumulo di detriti, si diresse verso ovest con la schiena curva. Lasciando alle sue spalle una sottile striscia di liquido scuro.

Il sole sorse sullo scuro terreno profanato su cui, una volta, sorgeva la casa, ora ridotta in macerie.
Un bulbo oculare si mosse, ammirando la grigia polvere che gli si era posata addosso.
Accanto a lui, un molliccio ammasso di carne era stretto nella morsa delle pietre che lo circondavano.

Che cosa ho fatto?
Davvero sono diventato un blob informe di carne?
Che schifo.
Potevo essere un po’ più pronto di spirito.
Almeno mi sono ricordato di eliminare ossa, sangue e organi interni. Poteva essermi fatale questo inconveniente.

Il blob si mosse scompostamente, facendo levare dalla sua superficie una lieve nebbia che serpeggiò tra i massi che lo sovrastavano, fino a raggiungere l’aria aperta.
Il corpo di un elfo in abiti eleganti si formò là dove la nebbia andò a compattarsi.
Le sue spalle si mossero come per sincerarsi che le articolazioni fossero ancora funzionanti, poi il suo capo si voltò a destra e sinistra, studiando l’ambiente che lo circondava alla luce del sole mattutino.

Niente veleno, questa volta? Gli attentati alla mia vita stanno diventando sempre più inefficaci.
Ora devo solo capire cosa diavolo è successo e perché.
Qualche testa cadrà per mano mia, probabilmente.
L’elfo scomparì di nuovo in uno sbuffo di fumo, i cui tentacoli eterei serpeggiarono tra le macerie, tastando ogni anfratto vuoto in cerca di qualcosa che non fosse fatto di pietra.

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Capitolo 30
*** Capitolo 14: Prigioniero ***


Razer urlò di dolore quando, a un suo piccolo movimento, i cappi che gli stringevano i polsi e le caviglie toccarono le escoriazioni che gli ricoprivano il corpo.
Era stato portato in una stanza senza finestre, avvolta nella più completa oscurità.  Sentiva il peso dell’acciaio sulle caviglie, percepiva la sua fredda superficie butterata premergli attorno ai polsi, tenendoglieli alti sopra il suo capo.
Alle sue spalle, premuta contro la sua schiena, c’era solamente una parete umida.
Il corpo gli bruciava in più punti, sentiva gli abiti appesantiti da qualcosa di liquido e il volto pulsante.
Cercò ancora una volta di scrollarsi di dosso le manette, ma non riuscì a completare il movimento senza urlare.
Uno squarcio rossastro si aprì nel buio.
La porta si richiuse, ma ciò non fece scomparire la nuova fonte di luce.
Poco a poco, gli occhi di Razer si abituarono al bagliore, permettendogli di riconoscere le forme che gli stavano davanti.
Riusciva a distinguere dei piedi piccoli, dietro a quello che poteva essere un grosso scudo alto quanto una persona. E dietro quella stessa protezione ardeva una fiamma, appartenente forse ad una torcia, forse ad un candelabro.
- Chi sei? Perché mi hai portato qui? – provò a dire, ma le parole gli uscirono pesanti dalle labbra.
- Sei sicura che non possa colpirci? Sai che potrebbe avere la magia. – disse una voce maschile, giovane.
- È una protezione risalente all’epoca dei Cavalieri. Nessuna magia può attraversarlo – rispose una voce femminile.
- Ehi! – tentò di dire di nuovo Razer, senza ottenere risposta.
– Ehi! – ripeté a voce più alta, non riuscendo a trattenere una smorfia di dolore.
- Zitto! – lo riprese seccamente la voce femminile, per poi tornare a parlottare con il suo interlocutore – Tu stai indietro e lascia parlare me. –
- Come preferisci. –
- Tu, assassino. Ammetti di essere colui che ha ucciso decine di draghi nelle ultime settimane sulle Terre e nel Continente. –
Razer rimase cocciutamente muto.
- Non importa. – continuò la voce femminile – Sappiamo chi sei. Il nostro miglior cane ha fatto un ottimo lavoro. –
L’assassino sbuffò. Conscio di essere stato tradito, alla fine.
Una donna si sporse appena da dietro il grosso scudo, portando con sé il candelabro che teneva in mano. Il suo era un viso aggraziato, incorniciato da capelli color oro, che assumevano riflessi ardenti alla luce delle quattro candele che teneva tra le mani. Le sue labbra si curvarono in un sorriso compiaciuto, mentre osservava il prigioniero che le stava davanti.
La luce del candelabro, per un attimo, colpì la protezione dietro la quale era stata celata fino ad allora.
Era un alto scudo rettangolare in legno, sulla cui superficie numerosi segni longilinei si rincorrevano all’infinito.
Era un oggetto antico, lo dimostrava l’usura del legno, che probabilmente era passato di mano in mano per decine di volte nei suoi anni di vita.
Razer venne avvolto dalla disperazione.
Non poteva far nulla in quello stato. Nulla se non cercare di spaventare quella donna che gli stava davanti.
Attinse a tutta l’energia che percepiva dentro di sé, liberando la magia che il suo corpo conteneva, risplendendo della sua luce azzurra.
Per un momento la stanza venne avvolta dalla luce accecante, ma un secondo dopo, questa, come un liquido color cobalto, parve scivolare verso lo scudo, venendone inghiottita.
- Solo questo? Solo questo è il tuo potere? Mi aspettavo una magia molto più… violenta da un uomo che ha ucciso così tanto. – commentò scocciata la donna, muovendosi verso il suo prigioniero con passo sicuro.
- Cosa vuoi da me? - chiese Razer, cercando di appiattirsi il più possibile contro il muro che gli stava alle spalle, per allontanarsi da quella giovane donna.
- Da te? Non mi importa nulla di te. Voglio renderti un esempio per tutti, facendoti giustiziare nella pubblica piazza. Ma, prima, ti spremerò ogni informazione in tuo possesso, come ringraziamento per il lavoro che hai fatto. –
L’assassino strinse le palpebre, sputando sul volto della donna che gli stava davanti il misto di saliva e sangue che gli invadeva la bocca.
Si avvertì chiaramente, nella poca luce della stanza, il suono metallico di una lunga lama estratta dal suo rigido fodero.
Una larga elsa in metallo colpì il volto di Razer, lasciandolo a stento cosciente.
- Prima o poi cederai. Oh, se cederai. Ma io non mi fermerò. Ti spezzerò in ogni modo possibile e quando non avrai più nulla da darmi, verrai giustiziato. – disse la donna gelidamente, pulendosi il viso.
La luce del candelabro cercò di illuminare la lama scura tenuta nella mano opposta a quello che lo sorreggeva, ma la spada parve non aver intenzione di risplendere.
- Vai a chiamare un medico. Non voglio che muoia prima di quando voglia io. – disse ancora la donna, colpendo una seconda volta la tempia di Razer con l’elsa della propria arma, facendolo svenire.

Il prigioniero aprì gli occhi con un forte dolore alla testa a fargli compagnia.
La stanza era piombata nuovamente nell’oscurità e i cappi che lo tenevano imprigionato erano ancora saldi, decisi a non lasciarlo andare.
Sua sorella, non potevano averla presa. Quella donna non avrebbe perso l’occasione di utilizzarla per fargli del male.
Magari era sopravvissuta.
Sopravvissuta a cosa, però?
Cos’era successo, quando aveva perso conoscenza?
Razer si ricordava del calore insopportabile che l’aveva avvolto, si ricordava degli scricchiolii delle pietre che componevano le pareti, finché il soffitto non era collassato su di lui.
Quel cane tatuato in viso doveva aver deciso che non valeva la pena lasciarlo in vita. Oppure aveva intenzione di tradirlo fin dall’inizio, assaporando la sua vittoria già preparando la cena.
A quel punto, l’unica cosa sicura era che non avrebbe ceduto.
Non li avrebbe messi a conoscenza di sua sorella.
Non gli avrebbe nemmeno consegnato l’erede di Reis a cui, magari, il Fato avrebbe dato il compito di uccidere i suoi aguzzini.
Il suo destino era ormai segnato, non avrebbe trascinato con sé nessun altro.
Qualcosa di umido gli colò lungo la fronte, seguendo il profilo del suo zigomo per arrivare fino all’angolo della sua bocca.
Sapore di erbe mediche, come quelle che sua madre pestava per produrre i suoi medicamenti.


Noir si trascinò avanti lungo il sentiero.
Era vivo, la sua maledizione lo aveva salvato, anche se non lo aveva fatto restare illeso. Ovviamente, però, si era preoccupata solo delle sue membra.
Era destino che non potesse trovare un luogo sicuro, ormai ne era certo. Aveva solo cercato di imbrogliarsi, credendo che Razer potesse davvero offrirgli una prospettiva di fuga.
Stava percorrendo un sentiero che serpeggiava tra i Monti Muraglia più meridionali, alla sua sinistra poteva vedere chiaramente la distesa splendente del mare riflettere la luce del sole nascente.
Doveva trovare un altro luogo dove rifugiarsi. Un piccolo paese isolato.
Aveva sentito parlare dei villaggi di pescatori che erano stati costruiti sulle sponde meridionali del grande lago che occupava quella che era stata la Piana Umana.
Forse, lì, sarebbe stato al sicuro, almeno per un po’.
Il ginocchio destro gli cedette, facendolo cadere bocconi sulle rocce del sentiero, che però non riuscirono a penetrare le ginocchiere nere che prontamente lo protessero.
Un rigagnolo di sangue tornò a fuoriuscire dal lato esterno della sua articolazione, andando ad imbrattare il pantalone già sporco di quel liquido scuro.
Gli era caduta addosso una casa e quella era stata l’unica ferita che era riuscito a procurarsi.
Non poteva vivere su quelle Terre, ma, evidentemente, non gli era concesso nemmeno morire.
Il trentenne si rialzò a fatica, tornando a zoppicare verso la civiltà.
Gli scuri versanti bruciati dei monti lo accompagnavano lentamente nel suo cammino, ancora pervasi dalla penombra lanciata dai raggi del sole che non avevano ancora superato quelle vette.
Poche nubi sparse si… attraverso la volta… da un leggero vento che non… percepire nel vallone in cui si…

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Capitolo 31
*** Capitolo 14.1: Storia ***


Otto figure comparirono una dopo l’altra sulla cima della collinetta, come una processione silente in memoria di Profezia.
- Non è più questo il luogo di cui abbiamo bisogno. – disse il soldato con tono severo.
La pesante spada che teneva in mano si abbatté sul terreno, facendolo vibrare e deformare come se fosse stato uno specchio d’acqua verde in cui fosse caduto un masso.
I destini che intessevano quel mondo vibrarono, smantellando il teatro e gli spalti su cui si affacciava, senza lasciare nemmeno dei detriti ad indicare dove sorgesse.
Al suo posto, sulla sommità di quel rilievo, si andò ad intrecciare un tavolo ovale con dodici sedie a circondarlo. La lunga plancia pareva essere stata intagliata da un unico blocco di legno scuro, antico.
- Epica, per favore, cerca di essere meno duro. Siamo tutti sconvolti per quello che è successo. – disse il pettirosso, zampettando sul terreno.

Meno duro?
Sconvolti?

- Non mi dire quello che devo fare. – gli rispose bruscamente il soldato, voltandosi per fissare il piccolo pennuto, con gli ardenti tizzoni che si intravedevano all’interno del suo elmo – Con quale serietà, poi, me lo riesci a dire in quella forma. –
Il pettirosso cinguettò irritato, per poi scomparire in favore di un uomo brizzolato, con il viso ornato da una corta barba. I suoi occhi, verdi come l’erba che stava pestando, guardarono seccati il soldato in armatura che gli stava davanti.
Melodia si sistemò il pesante mantello grigio scuro che lo avvolgeva, prima di tornare a parlare.
- Epica, posso capire che sei stato scelto come custode di questo luogo, ma ciò non ti dà il permesso di abusare della nostra pazienza. Commedia è sul punto di scoppiare in lacrime, Passione non ha più detto una parola da quando abbiamo lasciato quella vetta, Mito sta tremando. So che non sei portato all’empatia, ma cerca di non scordarti che il tuo ruolo non toglie il fatto che noi siamo i tuoi fratelli e le tue sorelle. –
- Melodia. – sibilò il soldato con la sua voce cupa – il mio ruolo è assicurarmi che questo luogo sia sicuro per voi. Ora muovetevi, Epistola non tarderà ancora molto ad arrivare. –
Il gruppo si spostò fino al tavolo, dove ognuno prese posto.
- Passione … - sussurrò la bambina dai capelli rossi alla donna che le sedeva accanto – secondo te il Fato ci ha abbandonati? –
Passione si voltò nella sua direzione, guardando la piccola dagli abiti sgargianti con occhi dolci. – No. Commedia, piccola mia, non ti preoccupare, non importa quel che accadrà, ricordati sempre che il Fato fa tante cose, ma non ci abbandonerà mai. Tutto questo finirà presto e noi torneremo a sorridere. –
La creatura di fumo scuro fece voltare i propri occhi dardeggianti in direzione della donna dai boccoli mori. – Passione, - disse con voce stridente – quando è stata l’ultima volta che il Fato ci ha degnati della sua attenzione? –
- Terrore, fratello, davvero credi che nostro padre si sia dimenticato di noi? Io voglio credere, no, io so, che lui ci abbia spianato la strada, anche senza avere i nostri nomi su quel suo libro. –
- Sei troppo ottimista. Forse perché ti sei crogiolata troppo nell’amore dei mortali. –

Stanno venendo sprecate troppe parole.

- Forse sarò io ottimista, oppure sei tu che stai solo proiettando su di noi le tue paure. –
Le maglie che componevano quel mondo si ammorbidirono, preparandosi al passaggio di nuovi corpi.
- Silenzio! – urlò Epica battendo il guanto di ferro che gli avvolgeva la mano destra sulla superficie del tavolo. – Stanno arrivando –
Le maglie si allargarono completamente, permettendo a due serie di passi di accedere a quel luogo. A loro e al peso che si trascinavano dietro.
Il viandante dalla barba incolta fece il suo ingresso sulla collina, accompagnato da un uomo magro, dalle guance scavate e la fronte alta. Un paio di piccoli occhiali gli ornavano il naso, mentre il suo corpo era coperto da tristi abiti marroni, anonimi.
Dietro di loro, il corpo ingombrante di un uomo corpulento veniva trascinato sull’erba. Un paio di occhialetti tondi e gli spessi baffi neri sovrastati dal naso paffuto conferivano al suo volto una rotondità cordiale. L’abito blu, che indossava , era sporco sul petto da qualcosa di scuro, quasi nero quanto i suoi capelli.
- Cosa è successo? – esclamò preoccupato Epica, alzandosi di scatto dalla propria sedia.
- La situazione è ancora peggiore di quanto immaginassimo. Storia è stato ucciso. Il suo petto è stato trafitto da un’arma. –
- Com’ è possibile una cosa del genere? – continuò Epica, avvicinandosi.
- Epistola, se permetti, spiegherei io la sua situazione. – disse l’uomo magro, chinandosi sul corpo ed aprendo la giacca color cobalto per poter mostrare il ventre gonfio.
- Certo, Mistero. Nessuno meglio di te potrebbe farlo. –
-- Storia è stato colpito al petto da un’arma affilata. – disse, mostrando con le dita la ferita sottile che squarciava la pelle poco sotto allo sterno.
- Com’è possibile che un’arma dei mortali abbia ucciso uno di noi? – chiese Passione, chinandosi a sua volta per accarezzare la guancia paffuta del cadavere.
- Non è possibile, a meno che non avesse deciso lui di morire. – le rispose Mistero – C’è, però, questa polvere scura lungo i bordi della ferita, potrebbe essere un veleno. Ma non ho modo di accertarmene, non ora. –

Come possono i mortali aver ucciso un nostro fratello? Non dovrebbe essere possibile.
Non voglio nemmeno credere che questa sia opera di uno di noi. Nessuna Musa ucciderebbe mai un suo simile. Siamo già pochi, non possiamo permetterci altre perdite.

- Mistero, quando potrai dirci qualcosa di certo? – chiese il soldato, spostando i tizzoni che aveva al posto degli occhi sull’uomo magro.
Mistero si permise un profondo respiro, mentre il suo sguardo scandagliava il volto e il petto del cadavere che aveva davanti.
Danza si mosse aggraziatamente dietro di lui, appoggiando le sue mani esili sulle sue spalle ossute, come per rassicurarlo.
- Ho bisogno di più informazioni. Se Epistola mi ha detto tutti i fatti senza averli modificati, è probabile che Profezia si sia lasciato morire. Ciò fa di Storia la prima vera vittima. Devo tornare nel luogo in cui l’abbiamo trovato, voglio scoprire di più riguardo a questa polvere. –
- Potrai andarci, ma non da solo. Danza, vai con lui. Terrore, tienili d’occhio. – concluse Epica, battendo lievemente la spada sul terreno.
- Come preferisci, torneremo tra trenta ore esatte del Creato, che venga trovato qualcosa o meno. –
La maglia di quell’intreccio di destini si rilassò nuovamente, permettendo alle tre figure di lasciare quel mondo.
Commedia prese la mano di Passione con la sua, stringendola in cerca di conforto.
- Non ti preoccupare. Mistero sa quello che fa. Quando tornerà avrà certamente delle risposte. – le disse la donna, sorridendo.

Ora c’è ben altro a cui pensare.
Ci sono stati due morti, siamo rimasti solo in dieci.
Dubito che il Fato creerà mai altri nostri fratelli e sorelle.

- Adesso non perdiamo tempo. – disse il soldato, facendo scomparire nell’aria la spada dalla quale non si era ancora separato – Dobbiamo chiedere udienza a nostro padre. –
- Non ce ne sarà bisogno. –
Una voce profonda riverberò per tutta la collina, facendo tremare la terra. Un uomo dalla pelle olivastra comparve accanto alle sette muse, con le quattro massicce braccia incrociate all’altezza del petto.
- Visto? – sussurrò la bellissima donna dai boccoli mori alla bambina che le stava accanto – Non ci abbandonerà mai. –
- Padre … - riprese il soldato, incerto – Spiegaci, come è possibile ciò che è avvenuto? –
Il volto del nuovo arrivato non mostrò nessuna emozione. – Non lo so. I poteri che vi ho concesso dovrebbero permettervi di sopravvivere a qualunque cosa un mortale vi possa fare. Ciò che è avvenuto a Storia non ha precedenti né spiegazione, ai miei occhi. Devo quindi chiedervi di stare all’erta, perché avverto un potere indomito e iracondo che infesta il Creato. –
- Cosa vuol dire? – continuò Epica, facendo un passo avanti.
- Tra i mortali c’è qualcosa di divino. Qualcosa in grado di uccidervi, qualcosa che potrebbe addirittura portarli in questo luogo. Tu sai che bisogna evitare quest’eventualità in ogni modo, vero Epica? –
- Mi stai davvero dicendo che dovrei sigillare la Trama del Reale, la nostra dimora? –
- Solo in caso di necessità. –
Il corpo del soldato fu scosso da un fremito, poi il suo capo coperto per intero dall’ elmo bronzeo si reclinò verso il terreno, in segno di resa. – Come preferisci. Spero di non dover mai giungere ad una soluzione così drastica. –

Se la Trama del Reale dovesse venire sigillata, i destini smetterebbero di intessere questo mondo, diventando solamente una matassa grigia di vite che si intersecano. Non ci rimarrebbe nessuna patria.
È anche vero, però, che i timori del Fato non sono infondati, se qualcuno riuscisse ad accedervi, potrebbe andare in ogni luogo, che questo sia il Creato o la Volta degli Dei.
Non possiamo permettere che ciò accada.

- Non ci resta che aspettare il ritorno di Mistero, quindi. – sospirò Melodia, tornando al suo posto. Tra le sue mani comparve un piccolo flauto di legno, pronto a plasmare l’aria dei suoi polmoni sotto la sapiente guida delle sue dita – Padre, solo, dimmi che veglierai suoi tuoi servitori. – Le ultime parole si persero nel vento. La creatura dalle quattro braccia era scomparsa, senza aver lasciato traccia di sé in quel luogo.
Una melodia lieve cominciò a danzare nell’aria, facendo da sottofondo alle preoccupazioni che affollavano la mente dei presenti.





Angolo dell'autore:

Rieccomi, dopo un tempo che mi è parso eterno.
Non ho molto da dirvi e darvi, oggi, in questo angolo, se non brutte, o per lo meno noiose, notizie.
Questo è un periodo caldo, molto caldo per me. Purtroppo, essendo la scrittura un'arte che non permette di campare se non si ha alle spalle una buona fanbase o non si ha un grandissimo colpo di fortuna, sono costretto a continuare a studiare. Maledetti musicisti e disegnatori.
Tutte queste parole inutili sono state buttate lì per dirvi semplicemente che la settimana prossima io sarò in pausa per colpa della mia vita reale. Ci rivediamo venerdì 16.
Prendo al volo l'occasione per dirvi che, se aveste tempo da dedicarmi, mi farebbe piacere lasciaste una recensione con i vostri pareri, i vostri dubbi e, soprattutto, le vostre critiche, sul capitolo, sulla storia e... sul mio lavoro in generale come autore. Voglio migliorare per me e per voi, ma senza i vostri feedback è una scalata infinitamente lunga.
Alla prossima!
Vago

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Capitolo 32
*** Capitolo 14.5: Riflessioni ***


La nebbia densa allungò i suoi tentacoli sotto ogni masso, ogni calcinaccio, ogni pietra di quella casa distrutta. Si ritirò solo quando la ebbe scandagliata tutta con le sue propaggini, assicurandosi che non avesse perso nessuna informazione da quell’esplorazione.

Maledizione.
Mi hanno preso alla sprovvista.
Sono stato un’idiota, dovevo controllare la Trama, cercando tutti i destini che dovessero visitare questo luogo in questi giorni.
Sto invecchiando male e l’avere continuamente a che fare con dei Buchi della Trama che mi incasinano il Creato, non fa che peggiorare la situazione.
Non mi aspettavo una cosa del genere. Perché, poi?
Perché fare un raid di quella portata se c’ero già io ad occuparmi della situazione?
È stata tutta colpa mia, non dovevo abbassare la guardia, dovevo aspettarmi un tradimento da parte Loro. Se solo avessi letto dell’arrivo di quei draghi prima che fossero qui, non sarebbe successo nulla di irreparabile.
Dannazione.
Per fortuna gli ultimi millenni hanno allenato i miei riflessi. Per quanto quella massa informe di carne e bulbi oculari facesse senso a vedersi, mi ha salvato la vita.
Devo smetterla di utilizzare corpi fragili con organi vitali. Se una di quelle pietre mi avesse colpito prima della mia mutazione, nel migliore dei casi, mi sarei potuto beccare un trauma cranico.
Maledetti cervelli mollicci.

La nebbia si contrasse su sé stessa, addensandosi per dare forma al corpo che era stato invitato ad entrare in quella dimora.
L’elfo avanzò tra le macerie della casa, con il sole mattutino che compariva oltre gli alti picchi di quei monti. Si fermò poco più a sud di dove era riemerso, chinandosi su un cumulo di detriti smossi.
Lì un corpo restava scompostamente disteso tra i massi, con la veste marrone inzuppata di sangue e il volto reso quasi irriconoscibile dalla cascata di pietre che l’aveva investito. I capelli castani erano ricaduti pesantemente attorno alla fronte deturpata dal fuoco ed ora ricoperta di polvere.

Un raid per un unico cadavere.
Spero che il Fato si senta più soddisfatto, ora. Un Buco della Trama in meno a rovinare il suo lavoro, per quanto questo fosse l’unico davvero non dannoso.
Maledizione…

L’elfo serrò le dita della mano destra contro il palmo, colpendo con le nocche un masso lì vicino, per scaricare su quell’oggetto inanimato tutta la frustrazione che sentiva crescergli in petto.

Maledizione.
Se solo avessi letto del loro arrivo mi sarei preparato. L’avrei salvata, non mi sarei perso quell’assassino, né l’erede di Follia.
Ora sono punto a capo. Anzi, peggio.

La creatura ritirò il proprio pugno dalla superficie butterata che aveva colpito, lasciandosi alle spalle una macchia scura.
Rapidamente, le nocche rovinate si risanarono, arrestando quasi immediatamente lo sgorgare del liquido color pece.

Devo fare qualcosa.
Devo risolvere questa situazione, far tirare fuori Lei da quella maledetta gabbia e andarmene per sempre da questo posto.
Posso farlo, devo solo tornare me stesso.
Sono stato il Viandante per troppo tempo. Lo sono rimasto per così tanto, da sfociare in quell’ispettore.
Questo non sono io. Questo non devo essere io, se voglio uscire da questa situazione salvando il salvabile.
Devo fare qualcosa. Devo mettere in moto questo corpo, ho bisogno di pensare, di rimettere assieme i miei pezzi.

L’elfo si alzò dal cadavere, muovendosi fino all’esterno del perimetro di quell’abitazione distrutta. Nella sua mano comparve una lunga asta di legno, alla cui estremità si andò a plasmare la piatta superficie metallica di una pala.
Lo strumento si conficcò per pochi centimetri nel terreno che aveva preceduto l’ingresso di quell’abitazione, asportando parte di quel materiale.

Devo tornare me stesso.
Cosa diavolo vuol dire?
Chi sono, adesso, io?
Mi sono perso di vista, negli ultimi tempi.
Non sono sicuramente il Commedia che creò mio padre. Non posso più esserlo. Non riuscirei in nessun modo a ritrovare quell’allegria, non dopo averli persi davanti ai miei occhi. È da quando ho proposto le condizioni che quel Commedia è stato seppellito.
Non voglio nemmeno essere il Viandante. Ho lavorato troppo al Loro servizio per poter accettare ancora quel nome, per quanto il Viandante rispecchi perfettamente ciò che sono. Non ho più una patria ed il mio unico destino possibile è quello di vagare fino alla fine dei tempi.
Non sarò mai più quel maledetto ispettore Vander. Non sono Mistero, per quanto abbia dovuto imitarlo negli ultimi tempi, non è la morte che deve condurmi lungo la mia strada.
Cosa mi rimane?
Il Servitore del Fato. Sono stato anche quello contro Follia.
Devo quindi liberarmi di questa schiavitù per diventare il galoppino del Fato a tempo pieno?

L’elfo raddrizzò la schiena, stringendo le dita attorno al manico della pala che teneva in mano.
Si guardò intorno, senza nemmeno sapere cosa stava cercando. La buca che aveva scavato ormai era profonda a sufficienza, facendogli arrivare il terreno montano all’altezza delle spalle.
L’essere scomparve in una nube di vapore per un istante, per poi tornare ad aggregarsi all’esterno della fossa che aveva scavato, senza la pala che aveva stretto fino ad un attimo prima.
Si mosse piano, quasi danzando tra le macerie, fino ad arrivare accanto al cadavere che ancora giaceva riverso tra quei massi.
Sollevò piano quel corpo esile, martoriato dai calcinacci che gli erano franati addosso, portandolo con incredibile cura fin dentro la fossa che aveva scavato.

Sono diventato incredibilmente apatico, ultimamente.
Sono un essere immortale, quasi divino, le emozioni non dovrebbero far parte di me. Una volta, però, le sentivo ancora.
Adesso so che è inutile seppellire questa carcassa di carne e ossa spezzate, so che non servirà a nulla, se non per fare un dispetto agli animali che ci avrebbero banchettato.
Ho pianto poche volte per la morte di qualcuno, dopo la fine della mia razza. Seila è stata un caso isolato ed allora mio padre riconobbe la gravità delle sue azioni.
Oggi però non sarà qui, perché non gli importa nulla di un Buco della Trama morto.
Io non voglio essere il suo galoppino in eterno.
Sono stato qualcun altro, a ben pensarci. Per un attimo, forse, ma è stato un attimo ripetuto nel tempo.
C’è stato un momento in cui la battaglia non mi spaventava, ma mi divertiva.
Ero divertito dal poter agire a modo mio.
Nel mio primo scontro contro Follia, un pochino forse nel secondo, poi, di nuovo, quando ho proposto il mio accordo a Razer. Ero divertito.
Potrei prenderlo come punto di partenza per quello che voglio tornare.

L’elfo fissò il mucchietto di terra smossa di fronte a sé.
Non era sudato, non c’era traccia di quel terreno né sulle sue mani né sui vestiti, ma i suoi occhi mostravano una profonda stanchezza.

Devo tornare assolutamente da Loro.
Voglio delle risposte, voglio sapere che cosa pensavano di fare, mandando quei due draghi.

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Capitolo 33
*** Capitolo 15.2: Mistero, Terrore, Danza ***


- Le trenta ore sono quasi passate e ancora non sono tornati. –Tragedia tambureggiava violentemente le proprie dita sulla superficie lucida della tavolata. I suoi occhi incavati erano rabbuiati dai pensieri lugubri che gli offuscavano la mente.
- Mistero è partito da ventinove ore e cinquantuno minuti. – gli rispose seccamente il soldato, immobile, in piedi dentro la sua armatura bronzea che nulla mostrava del suo corpo.
- Trenta ore o poco meno! – sbottò l’essere dal corpo cadaverico alzandosi in piedi dal suo posto e battendo le nocche sul tavolo con tanta rabbia che parve potessero rompersi – Cosa vuoi che cambino quei pochi minuti? Non sono tornati dopo più di un giorno da quando sono partiti! –
- Aspetteremo ancora. – fu l’unica risposta che ricevette.
La bambina dai capelli rossi si avvicinò timida a Melodia, che osservava in silenzio lo scambio di battute dal suo posto.
- Melodia… secondo te stanno tutti e tre bene? –
L’uomo brizzolato non rispose immediatamente. I suoi occhi puntarono il cielo limpido, come se cercassero in esso una risposta.
- Non lo so, Commedia. –
Le maglie che componevano quel mondo si allargarono e un corpo insanguinato venne vomitato sulla collina verdeggiante.
Danza si cercò di alzare, ma l’unico braccio che le rimaneva non riuscì a sorreggere il suo peso, facendola ricadere al suolo.
Gli abiti sottili che portava addosso erano impregnati dalla sua linfa vitale e le ricadevano pesanti lungo il corpo e sulle ferite che in esso si aprivano.

Cos’è successo?
Cosa può averla ridotta in questo stato?
Non posso permettere che altre Muse possano fare una fine del genere.
Terrore? E Mistero? Cosa ne è stato di loro?
Quanto è grave la situazione?

Il soldato fu il più veloce a raggiungerla. I suoi guanti metallici sollevarono il corpo martoriato della Musa morente, mentre i suoi occhi percorrevano il suo corpo attraversato da molteplici ferite.
Un braccio le era stato troncato di netto da qualcosa di affilato ed ora, sul moncone, una spessa crosta nera si era sedimentata. La stessa crosta aveva infestato i profondi tagli che si aprivano sul ventre e sul torace della fanciulla.
- Danza, perché non ti rigeneri? – chiese preoccupato Epica, con una nota di disappunto nella voce.
- Questa cosa… la sento dentro. Non riesco a liberarmene. – Il volto della fanciulla si contrasse in una smorfia di dolore, lacrime che parevano rugiada le rigarono le guance sporche del suo sangue nero – Mistero, Terrore… loro non ce l’hanno fatta. Loro avevano quella cosa, quell’arma. Quell’arma che non potevamo evitare. Epica, possono raggiungere questo luogo. Ne hanno il potere. Sigilla tutto finché non è troppo tardi. Voi tutti, scappate. Non potete affrontarli. –
- Cosa vuol dire questo? –
Danza provò ancora a parlare ma un colpo di tosse le tagliò il fiato, facendo zampillare la sua nera linfa vitale sull’elmo del soldato.
La giovane fanciulla si spense pochi secondi dopo, accasciandosi tra le braccia avvolte nell’armatura.
- Dicevi, Epica? Dovevamo andare a cercarli prima, li avremmo potuti salvare tutti. – Tragedia si voltò in modo da dare le spalle al cadavere.
- E se la stessa sorte fosse toccata anche a noi? – disse Passione indispettita nei confronti del corpo scheletrico– Hai sentito cosa ha detto Danza, c’è qualcosa che può ucciderci, che può ferirci e che non possiamo fronteggiare. Erano in tre, là. Tre Muse sono state annichilite da dei mortali. –
- Lo so! Ma qui, nella Trama, ci sono ancora sette Muse, di cui una è Epica. Quale esercito può fronteggiare dieci creature nate dallo stesso Fato? Passione, io non voglio morire. Non voglio morire per davvero ed ogni qualvolta che un nostro fratello perde la vita le nostre probabilità di sopravvivenza si riducono. –
Epica parve non prestare attenzione al discorso che si stava tenendo alla sue spalle. La sua massiccia armatura si mosse lentamente in direzione del tavolo, sulla cui plancia adagiò il corpo della Musa che teneva tra le braccia.
- Preparatevi. Lasceremo questo luogo oggi stesso ed io sigillerò la Trama. –
- Epica! Non ti sembra di esagerare, adesso? Non siamo nemmeno sicuri che possano accedere a questo luogo. –
- Mito, questa è la mia decisione. Non tornerò sui miei passi. –

Sette creature dalla forma umana comparvero nella periferia di una cittadina rinchiusa da una parte, da un mare calmo e, da quella opposta, da un deserto che si estendeva a vista d’occhio.
Le case della cittadella erano massicce, dai tetti piatti e le finestre piccole. In mezzo alle dimore, tanto alto da stagliarsi contro il cielo terso, un’imponente costruzione di pietra si ergeva possente. La quantità di informazioni e nozioni che la riempivano creava una cappa densa sopra di lui, agli occhi delle muse, tanto pesante da apparire come una pallida imitazione della Trama del Reale.
Epica si voltò verso le maglie larghe che avevano permesso loro di raggiungere il piano materiale. Tra i guanti del soldato comparve l’enorme spada di cui si era privato alla morte di Profezia. I suoi occhi ardenti percorsero l’intera lunghezza della lama con una lentezza esasperante.
- Fermo! – Tragedia si piazzò tra il colosso in armatura e le larghe maglie della Trama. Il suo pallido corpo scheletrico risultava ancor più piccolo ed esile all’ombra di Epica – Ti prego, pensaci! Quella è l’unica arma che ci ha donato il Fato, è l’arma elementare perduta! Niente di ciò che noi potremmo mai creare raggiungerà mai la perfezione di quella lama! Ti prego, non farlo ancora! –
Epica esitò un attimo di troppo.
- Epica, Tragedia ha ragione. – Passione si portò alle spalle dell’adone, posandogli le mani vellutate sugli spallacci metallici – Teniamola con noi ancora un po’, è l’unica cosa che ci può mantenere in vita e tu con lei. –
La spada tornò a scomparire, mentre la ferita che collegava la Trama del Reale all’umanità si rimarginava in fretta, quasi avesse compreso la tensione della situazione e se ne volesse dileguare il prima possibile.
- La terrò ancora per un po’ con me, ma, se ci troveremo davvero in difficoltà non esiterò a sigillare la Trama. –
- Immagino di non poter ottenere di più dal preferito di nostro padre. – disse gelido Tragedia, aspettando che l’apertura delle maglie che aveva alle spalle si rimarginasse completamente prima di spostarsi.
- Tragedia… - provò a dire Melodia, ma senza riuscire ad ultimare la frase, con così pochi argomenti per contrastare quell’affermazione.
- Dobbiamo sbrigarci. – riprese Epica senza alcuna incrinatura nella voce – Più rimaniamo fermi, più siamo un facile bersaglio. Epistola, dove è morto Storia? –
- In una sala posta sul retro della Biblioteca. – il viandante dalla lunga barba parve essersi riscosso solo in quel momento dal torpore che lo aveva assalito – Non possiamo, però, avvicinarci con queste spoglie. –

Ha detto una cosa corretta, Epistola. Dobbiamo passare inosservati per addentrarci in quel tempio dedicato a noi Muse.
Dobbiamo anche essere pronti a scappare, nel caso gli aggressori dei nostri fratelli fossero ancora qui.
La spada del Fato, forse, è davvero l’unica cosa che può proteggerci da quei bruti.

- Perché mai non potremmo? – Mito lo guardò torvo con i suoi occhi grigi.
- Mito, fratello. Questa tua forma non ha un volto,  Epica indossa un’armatura non adatta a quest’epoca dei mortali, io sono di ritorno dalle terre d’oriente e di loro porto gli odori addosso. Non dobbiamo attirare l’attenzione… –
- Animali. – disse solamente Epica con voce dura.
- In realtà… - provò a controbattere timidamente Epistola – Io vi avrei consigliato volti mediorientali, capelli scuri e vestiti semplici, in modo da uniformarsi ai cittadini di questo luogo. –
- Ho detto che prenderemo la forma di animali. Animali piccoli, in grado di muoversi velocemente e scomparire nella calca in caso di necessità. – ripeté Epica.
- Come preferisci. – si arrese Epistola, abbassando il capo.
Quattro animali scattarono veloci e furtivi lungo le vie della città. Una volpe dal manto brillante e gli occhi dorati, un procione dalla pelliccia grigia uniforme, eccezion fatta per la maschera di peli neri posta sugli occhi, un ermellino candido, che non perdeva occasione di strusciare il proprio capo contro le caviglie delle poche persone che incontrarono lungo la periferia che stavano attraversando, ed un piccolo servalo maculato, sulla cui coda spiccavano cinque distinte strisce bianche.
Più in alto, a stagliarsi contro il sole, tre volatili le seguivano, facendosi sospingere dalla brezza calda che soffiava. Un falco dal piumaggio bronzeo, che sapiente si districava tra le correnti che incontrava sul suo cammino, un piccolo pettirosso che batteva frenetico le sue ali ed un corvo dal piumaggio color pece che vibrava ad ogni suo battito d’ali.
- Melodia, ti prego, spiegami. – disse il pettirosso con un fil di voce – Come mai, tra tutti i volatili con un meraviglioso canto, hai deciso di diventare un corvo? Non capisco. –
Il corvo gracchiò divertito, permettendosi un battito d’ali prima di rispondere. – A cosa serve avere una bella voce, quando puoi far cantare tutto ciò che hai intorno? Ma non è questo il motivo per cui ho scelto questa forma. Il corvo è un simbolo di protezione e mai, più di ora, noi tutti abbiamo bisogno di essere protetti. –
La struttura squadrata di pietra si fece avvicinare molto velocemente, mostrando ai sette animali le sue dimensioni reali.
- C’è una piccola finestrella sul retro dell’edificio che ci permetterà di accedere alla stanza in cui è morto Storia senza dover passare dai corridoi principali. – disse il falco – Seguitemi, vi ci porterò. –

La stanza in cui i sette animali entrarono era piccola, resa ancor più angusta dalla mobilia distrutta riversa sul pavimento e dalle pergamene che su questi erano ricadute.
Un liquido denso, scuro, aveva ricoperto quasi completamente il pavimento. Al centro  della stanza, come sorgente per quel liquido, giaceva riverso il corpo di Mistero, che ancora teneva in mano il suo stiletto, sporco di un sangue carminio. Lo stesso sangue si poteva riconoscere nelle strisce che intervallavano il liquido scuro e che si dirigevano verso l’unica porta d’accesso che quelle mura presentavano.
Sul muro posto alla sinistra della finestra da cui erano entrati, un’ombra scura senza alcun proprietario rimaneva immobile sulla pietra, come fosse stata un affresco.
L’ermellino fece un passo avanti con le zampe bianche sporcate da quel liquido scuro che stava pestando, colpendo involontariamente una delle daghe argentee che era solita usare Danza in combattimento.
- Epica, - disse l'ermellino sfiorando con la punta del naso la daga che si era trovato di fronte - sono morti combattendo. Come è possibile ciò? -
Il soldato in armatura tornò ad ergersi sopra i suoi compagni senza dir nulla, i suoi passi erano tanto pesanti da disturbare la quiete del liquido che stava pestando mentre si avvicinava all’ombra sulla parete. Sulle pietre grigie la sagoma era composta da un particolato tanto fine da non essere distinguibile dalla polvere, sul petto di quella sagoma vagamente umana, però, erano chiaramente riconoscibili squarci attorno ai quali il pulviscolo era denso, quasi tangibile, così come il liquido rappreso che doveva essere fuoriuscito da quelle stesse ferite.
- Dobbiamo andarcene. Subito. – disse Epica.

Terrore non lascia mai la sua forma incorporea.
Mai.
Lo hanno ucciso in quella forma, come è possibile?
Che arma può fare una cosa del genere?
Hanno combattuto e hanno perso. Avranno mietuto anche delle vittime, ma ciò non giustifica la loro sconfitta. Erano tre Muse nel pieno delle forze.

- Epica, dove andremo ora? – chiese il pettirosso, intimorito.
- Non lo so. Ma lontano da qui. Non voglio altre perdite tra le nostre fila. In questa stanza, adesso, ci sono le ultime sette Muse al mondo. –

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Capitolo 34
*** Capitolo 15.5: Errore ***


Non ho intenzione di perdere tempo con la normale procedura.
Ho terminato la mia missione, sono libero.
Farò quello che devo.
Il Giudice Maggiore ha preso il comando dell’organizzazione? Ottimo, ne subirà le conseguenze.

Il corridoio d’ingresso del tribunale di Gerala fu spazzato da una folata di vento, che, al suo passaggio, smosse gli ornamenti in tela delle armature delle guardie cittadine che presiedevano quel luogo.

Alla fine tutti questi anni sono serviti a qualcosa.
Non credo che nessun altra Musa, all’epoca, fosse in grado di controllare la propria forma disgregata.
Eccetto Terrore, ovviamente. Fu lui a scoprire che potevamo divenire fumo o vapore e che si poteva mantenere una vicinanza accettabile tra tutte le particelle del nostro corpo.

La brezza si insinuò nei corridoi legnosi della struttura, serpeggiando tra grigi elfi intenti a portare plichi di fogli da una stanza all’altra e umani chini sulle proprie scrivanie.
I pochi arazzi antichi che ogni tanto rompevano la monotonia delle pareti si muovevano appena al suo passaggio, facendo cadere a terra qualche lieve spira di polvere che brillava alla luce soffusa.
La brezza si arrestò davanti alla porta presso la quale era giunta, quello era il motivo per cui si era spinto fino alla capitale arborea, tornò quindi tangibile nella sua uniforme marrone.
I ricci biondi ricaddero sugli occhi chiari dell’ispettore, che diede un violento colpo alla porta. Questa si aprì silenziosa.
Oltre la soglia una segretaria elfica dai capelli neri stretti dietro la nuca alzò lo sguardo dal suo lavoro, con aria visibilmente scocciata da quell’intrusione.
- Ha preso un appuntamento? – chiese con voce rauca la donna.

Non ucciderla, fa solo il suo lavoro. Male, ma lo sta facendo.

- Sono stato convocato dal Giudice Maggiore in persona. Sono l’ispettore Vander, incaricato direttamente dal tribunale per la cattura del draghicida. –

Nonché essere immortale che deve scodinzolare davanti alla donna che ti paga a fine mese.

- La signora Fenter al momento non è presente. È in viaggio di lavoro dalla giornata di ieri. Se mi lascia il suo recapito in città, le farò consegnare una missiva quando il Giudice Maggiore sarà tornata. –
- Non sarà necessario. So perfettamente dove si trova. – L’ispettore si voltò con uno scatto stizzito, tornando a dirigersi verso la porta dalla quale era entrato.
- Non credo che la signora Fenter voglia essere disturbata durante questo viaggio di… -
- Le mandi una missiva, allora. – la interruppe l’uomo dai ricci biondi – Sempre che riesca a fargliela consegnare prima del mio arrivo. –
La porta si richiuse alle spalle dell’ispettore, lasciando la segretaria a fissarla confusa su quello che avrebbe dovuto fare a quel punto della discussione.
L’elfa piegò improvvisamente la testa di lato, quando la sua mente elaborò le ultime parole dell’uomo che se ne era appena andato.
L’aveva forse minacciata?

La Fenter non è presente. C’è un solo posto dove può essere, allora.
C’è però una domanda più importante a cui devo rispondere: Perché sono venuto fin qui senza controllare che ci fosse?
È vero, sono anni che non posso più accedere alla Trama, ma ora è un problema risolto.
Perché non l’ho fatto?
Comunque, lo farò ora, per scaramanzia.
Devo solo riprendere un po’ la mano, dopo tutto questo tempo.



Dannazione.


Com’è possibile che non ci sia?
Non è da nessuna parte nella Trama.
Questo non è normale. Non è normale per niente.
Lei non è un Buco della Trama, ne sono certo. Quando hanno firmato il mio contratto sono riuscito a leggere il suo strato superiore, lei c’era.
Dov’è finita, allora?
Dannazione, di nuovo.
Spero sia solo colpa mia. Probabilmente sono solo arrugginito, con un po’ di pratica riuscirò a rivederla… spero.
I mortali non possono sottrarsi al loro Fato, è impossibile. Cioè, è praticamente impossibile.
No, non è possibile, quell’oggetto non esiste più. Non è possibile che sia tornato sul piano materiale. È stato esiliato, non c’è modo che siano riusciti ad ottenerlo.
Follia?
No, Follia è una statua a centinaia di chilometri di distanza. Non può aver creato nuovi Buchi della Trama.
Calmati, Commedia, calmati.
È solo colpa del fatto che sei reduce da una brutta settimana di lavoro.
Tranquillo.


L’umano dai ricci biondi superò a passo svelto le due guardie che controllavano il corridoio centrale e che, stranite, lo guardarono allontanarsi e uscire da quella struttura.


La situazione non è delle migliori per nessuno. Non sono sicuro che, visto il loro regalo di fuoco dal cielo, siano così ben disposti nei miei confronti.
Forse è il caso che mi armi.

Nella mano destra dell’ispettore comparve un lungo stocco argenteo, che venne scrutato dallo sguardo serio del suo possessore.

Quanto sono sicuro delle mie capacità?
So perfettamente quanto sono incapace nel generare armi decenti. Ho paura che questo stocco farebbe la fine di tutte le altre armi che ho creato. Spezzato.
No, non voglio rischiare.
Anche se posso disgregarmi.
Anche se i miei avversari, questa volta, sono solo dei mortali.
Devo trovare un’arma migliore. Migliore, quantomeno, del coltello che mi sono fatto dare da Hile ad Aravan.
Non voglio arrivare a dover combattere con quella sola lama.

Potrei voler essere troppo sentimentale, ma dal collasso della Setta dei Sei ho solo un’altra scelta.
Voglio quella spada.
Loro so dove sono, tanto.

L’ispettore biondo scomparve in una nuvola di vapore dalla piazza che antecedeva la struttura del Tribunale.


Quattro nocche batterono contro la porta di una delle case dei livelli intermedi di Gerala. Sopra quello stipite, scritta in caratteri neri che parevano essere un tutt’uno con il legno su cui erano stati sistemati, spiccava la parola “Medico”.

Com’è comica la vita, ogni tanto.
Medico.
Non so cosa li abbia portati a fare una scelta del genere.

La porta si aprì verso l’interno.
Una donna dai capelli blu screziati di grigio squadrò l’elfo dal volto tatuato che le stava davanti, soffermandosi sulla ciocca candida che spiccava sulla chioma corvina.
La mezzelfa si sporse fuori dalla propria abitazione, guardando la strada attorno all’ingresso, come se fosse alla ricerca di qualcosa.
- Vuole? – chiese infine la donna dagli occhi viola.
- Ho bisogno di un favore, ma non da te. – L’elfo sgusciò verso l’interno dell’abitazione schivando il corpo snello della donna per farsi largo nella sala che si trovava dalla parte opposta dell’ingresso.
Piccole escrescenze si levarono dalle assi che componevano il pavimento, queste cercarono di richiudersi attorno alle caviglie dell’uomo, fallendo miseramente.
L’elfo atterrò dal piccolo balzo che aveva spiccato, facendo svolazzare attorno alle sue cosce l’estremità inferiore della giacca scura che portava addosso.
- Non sono più abituato alla magia. – disse, muovendo la mano come per liquidare qualcuno visibile solo a lui.
I tentacoli di legno si ritirarono verso il luogo dal quale erano sorte, senza lasciare tracce della loro esistenza.
- Chi sei? – disse a voce più alta la mezzelfa, facendo un passo verso l’esterno dell’abitazione e portando il piccolo foglietto che teneva tra le dita nella tasca più vicina dei suoi pantaloni.

Oh, ti prego.
Davvero?
Cioè, non intendo “davvero non mi hai ancora riconosciuto”, dopotutto non hai mai visto questo mio volto. Io stavo intendendo un “davvero pensi che riuscirete a prendermi di sorpresa?”.
Vabbè, starò al gioco.
O forse no.

L’elfo sorrise in direzione della mezzelfa dagli occhi duri. Il suo volto decorato dal tatuaggio romboidale venne avvolto per un attimo da una cappa di fumo nero, tanto denso da lasciare visibili solo due occhi gialli incredibilmente luminosi e un taglio largo all’altezza della bocca della stessa tonalità.
- Cra cra. – disse solamente in quella forma, prima di tornare al suo aspetto originale.
La donna fece un ulteriore passo indietro, mentre i suoi occhi si spalancavano per ciò che avevano appena registrato e che già era scomparso.
Provò ad aprire la bocca per dire qualcosa, ma non fece in tempo.
Qualcosa si mosse rapido alle spalle dell’elfo, l’istinto omicida era percepibile nell’aria.
L’ospite si mosse rapido di lato, abbassandosi e voltandosi. La sua mano si strinse sul polso dell’aggressore, mantenendo così le distanze tra sé e il coltello con il quale aveva cercato di ferirlo.
L’aggressore fu sbattuto sul pavimento e disarmato, sotto gli occhi viola della mezzelfa.
- Credo che sia il Servitore del Fato. – riuscì finalmente a dire la donna, tentando di ricomporsi.
L’elfo costretto a terra cercò di divincolarsi dalla presa che lo tratteneva, senza successo.
L’ospite dal volto tatuato sospirò, lasciando poco a poco il polso che stava stringendo.
– Non sono qui per ricordare i bei vecchi tempi. – continuò l’elfo dalla ciocca candida rialzandosi in piedi – Ho bisogno di un favore. Ho bisogno della spada che ho utilizzato contro Follia. –
- Il demone è tornato? – chiese confuso l’elfo rialzandosi in piedi.
Un grosso gatto nero zampettò sornione per la sala, soffermandosi appena nell’annusare la caviglia dell’ospite.
- No. Il vostro dovere l’avete già fatto e non vi è richiesto altro. Questi sono solo affari personali. –
- Dunque anche il Servitore del Fato ha degli affari personali? – controbattè l’elfo scocciato.
- Quando non ci sono prescelti a spaccare i continenti, qualcuno deve pur pensare a sistemare tutti i casini che ci sono. Forza, ora. Ho bisogno di quella spada. –
L’elfo si allontanò visibilmente seccato, per poi tornare poco meno di un minuto dopo con un fodero tra le mani, come se fosse un debole neonato bisognoso di protezione.
L’ospite prese quel fodero con cura, sfoderando la spada che dentro vi riposava.
La lama era sbeccata in più punti, la parte piatta era solcata da numerosi graffi e, là dove la punta dell’arma del Demone era calata più volte nel tentativo di trafiggere il volto del Corvo, si apriva un vistoso solco.
- Mea, Nirghe, vi auguro una vita lunga e felice. – concluse l’elfo dal volto tatuato, riponendo la lama al suo posto e tornando a voltarsi verso l’ingresso.
- Davvero te ne vai così? – chiese il Corvo guardando torva l’essere che si era intrufolato nella sua casa.
- Cos’altro dovrei dirvi? Avete adempiuto al vostro destino, siete liberi da vincoli, siete felici nella capitale a curare la gente con la magia. Ripeto, vi auguro una vita lunga e felice. –
L’essere uscì dalla casa sotto lo sguardo dei due proprietari, del gatto accoccolato sulla soglia e da un paio di pupille scure che volteggiavano nel cielo.

Ora sono pronto.

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Capitolo 35
*** Capitolo 16.27: Melodia, Passione ***


Sette creature antropomorfe si fermarono tra gli alberi che componevano l’immensa foresta in cui si erano nascoste.
Erano simili nei lineamenti e nella corporatura, dai loro volti non si sarebbe potuto riconoscere il loro sesso, il mento e le guance erano glabre, le braccia e le gambe snelle, i capelli scuri e corti sui loro crani.
- Qui va bene. Siamo sufficientemente lontani dai mortali. Possiamo riposarci, per un po’. –
- Epica… - la seconda creatura a prendere parola tremava di paura – Saremo costretti a scappare per sempre? –
- No. – rispose seccamente la prima – Finché la Trama non sarà sigillata potremo sempre farci ritorno. Prima di farlo, però, dobbiamo scoprire perché Danza ci ha detto che i mortali possono raggiungerci. Fino a quel momento non aprirò passaggi per non indebolire l’intreccio dei destini. –
- Epica, un mortale non può in alcun modo accedere alla Trama. È impossibile. L’unico modo sarebbe avere il permesso di un dio. –
- Si, Mito, è impossibile. Come è impossibile che siano morte cinque muse, eppure siamo qui. –
La seconda creatura che aveva parlato si sedette a terra con le gambe strette contro il torso.
- Perché il Fato ci lascia qui in pericolo? Perché non ci porta con sé nella Volta? E perché devo tenere questa forma? Non mi piace, è troppo grossa. –
Una quarta creatura si avvicinò a quella che stava per scoppiare in lacrime, abbracciandola. Sotto la leggera camicia chiara che portava indosso si riusciva a riconoscere un abbozzo di seno, che mancava alle altre figure. – Oh, piccola Commedia. Tranquilla. Il Fato sa sicuramente cosa sta facendo. Ha sicuramente fiducia in noi, per questo non ci ha condotto nella Volta. –
- Passione, non puoi sempre consolare Commedia ogni volta che frigna. –
- La maniera in cui si è lamentata potrà non essere di tuo gradimento. – disse seccamente un quinto essere – Ma ciò non toglie che abbia ragione ad essere spaventata, come lo siamo tutti. Tutti, forse, tranne te. –
- Ciò che ho detto a Passione vale anche per te, Melodia. Guardate che personalità ha sviluppato Commedia grazie a voi. A stento compiva il suo lavoro di Musa, per paura del mondo mortale. –
Melodia si mosse nella direzione di Epica con uno sguardo glaciale negli occhi. Il vento tacque, così come il frusciare delle rigogliose foglie estive e il canto degli uccelli. Il mondo parve essersi ammutolito attorno a quella discussione.
Una mano strinse la camicia che copriva il petto di Epica, cercando di diminuire le distanze tra i due volti.
- Epica, non mi interessa se nostro padre ti ha affidato la sua arma, non mi interessa se sei l’unico dal quale quella spada si fa maneggiare. Nostro padre, adesso, non è qui. Siamo soli con noi stessi e, non so te, ma io ho intenzione di sopravvivere. –
- Tu mi stai minacciando? –

Cos’è questo odore?
Credo di averlo già sentito, ma è così diverso, così strano.
Cos’è questa sensazione? Può essere paura?
Ma paura di cosa? Di un odore?
C’è qualcosa nel mio essere che mi dice che è pericoloso.

- No, io ti sto esponendo le mie ragioni. –
- In ogni caso, - riprese Epica liberandosi dalla presa del suo simile – qui siamo al sicuro. Non riusciranno mai a seguire le nostre… tracce… - la Musa incespicò sulle ultime parole, come se fosse stata distratta da qualcosa nell’aria.
- Epica, cosa succede? – chiese Mito, spaventato da quel comportamento anomalo.
- Andiamocene. Adesso. –
- Ma non avevi detto che… -
- Ho detto andiamocene. – Epica si voltò verso l’essere che ancora le si parava di fronte, che ancora non gli aveva tolto gli occhi gelidi di dosso – Melodia, hai altre ragioni da esporre? –
Il rumore di decine di passi lontani attutiti dal sottobosco che stavano pestando ruppero il silenzio anormale che era calato.
- No. Per il momento non obietterò. –
Il gruppo si mosse rapido, prima spostandosi sulle gambe di quei corpi antropomorfi, poi mutando per assumere le minute sembianze di animali.
Per quanto corressero, per quanto le loro ali sbattessero velocemente tra i rami e le loro zampe lasciassero appena del terriccio smosso al loro passaggio, il rumore di passi era sempre lì, alle loro spalle, come se sapessero esattamente dove fossero.
La volpe dalle iridi gialle si fermò di colpo.
- Dobbiamo andarcene più lontano. Non possiamo  fuggire da loro se manteniamo questa velocità da mortali. Mille chilometri verso ovest, è lì che ci incontreremo. –
La volpe scattò in avanti, lasciando pochi ciuffi di peli dove prima c’era stato il suo corpo.
Con un rombo di tuono le creature scomparvero da quella foresta, finalmente riuscendo a mettere del terreno tra loro e i cacciatori.

Una collina coperta da vitigni male allineati fu scossa da un fremito. Le larghe foglie verdeggianti danzarono sotto un’improvvisa corrente.
Sette animali comparirono tra i filari, andando a creare un piccolo cerchio.
Una volpe dagli occhi dorati, un corvo dai duri occhi scuri e le piume color pece, un candido ermellino dal manto lucente, un falco dal piumaggio bronzeo e gli artigli affilati, un servalo dalla coda divisa da cinque strisce di pelliccia bianca, un pettirosso che impaziente saltellava sulle esili zampe e un procione dalla maschera nera che si stagliava sul pellame grigio.
- Epica, erano loro, là, vero? – chiese il procione, dubbioso.
- Credo di sì. –
- Come hanno fatto a trovarci? – continuò l’animale dal manto color metallo.
- Non lo so. Ma ora non importa, non ci possono raggiungere, non ci possono trovare. Siamo salvi, per il momento. –
L’aria vibrò come una corda di violino.
Le sette figure rizzarono il pelo che ricopriva i loro corpi, avvertendo i fili dei destini che componevano la trama venir squarciati da una forza inarrestabile.
Uno squarcio si aprì nella vigna, una ferita nell’aria.
Ne uscirono una decina di figure umane, avvolte in sfarzosi abiti rossi. Non parevano combattenti, non pareva nemmeno che fossero stati addestrati alla battaglia.
Il primo di loro, però teneva in mano una spada lunga e sottile, dal guardamano appuntito che pareva esser nato da un intrico di rovi fossilizzati.
La lama, nera come la linfa che scorreva nei corpi delle Muse, a stento rifletteva i raggi del sole battente.
Le muse rimasero per un attimo paralizzate, terrorizzate.
I loro corpi non si muovevano alla vista di quelle apparizioni.

Perché non riesco a muovermi?
Cosa mi sta succedendo?
Chi sono loro e che potere hanno tra le loro mani?

La volpe, a fatica, ritornò ad assumere le sembianze del guerriero imprigionato nella sua armatura splendente. Tra le sue dita serrate splendeva la sua arma.
Il soldato avanzò a fatica, come appesantito da un masso che, improvvisamente, gli fosse stato legato sulle spalle.
L’uomo che impugnava la spada dalla lama scura, dal volto comune e gli scuri capelli ricci tanto corti da superare appena il dito di lunghezza lo guardò senza mostrare segni di emozione.
Non era ostile, ma ciò non lo rendeva meno pericoloso.
Poco a poco, gli animali tornarono in forme a loro più consone, come incantati da un sortilegio. Quella spada li attraeva a sé come il fuoco di una torcia attraeva gli insetti notturni.
La bambina dai capelli rossi si alzò lentamente, imbambolata a guardare quell’arma che le si stava avvicinando.
- Commedia, stai indietro… - biascicò il soldato, cercando di muoversi per frapporsi tra la Musa e l’uomo.
La bambina parve non sentirla. I suoi occhi limpidi non riuscivano a staccarsi dall’oggetto mortale che le andava incontro e che, ora, era  a pochi passi dal raggiungerla.
- Commedia, rinsavisci! – tuonò Epica, cercando di riscuotersi dal terrore che l’aveva avvolto.
La bambina dai capelli fiammanti battè più volte le palpebre, come se si fosse appena risvegliata da un sogno.
Riconobbe solo dopo un secondo di confusione la punta metallica che stava per trafiggerla.
I suoi simili erano in gran parte a terra, impotenti.
Epica era lontano, non poteva salvarla.
La Musa fu presa dal panico. Il suo piccolo corpo fu scosso da fremiti, per poi sparire in una nuvola di vapore poco prima che la spada che la stava puntando potesse raggiungerla.

Cos’hai fatto?

Con uno sforzo di volontà immane, Melodia si disgregò a sua volta in un denso fumo scuro, che serpeggiò a pochi centimetri dal terreno per poi tornare tangibili a creare una sfera cava.
Al suo interno si potevano intravedere piccole schegge fluttuanti che cercavano disperatamente di avvicinarsi le una alle altre, senza successo.
La sfera cominciò a stringersi verso il suo centro, aiutando le schegge a trovarsi le una con le altre.
- Non farlo mai più. – disse Melodia, continuando a comprimere quella forma – Ti ci sarebbero voluti secoli a riaggregarti, nel migliore dei casi… -
La lama scura trafisse la cupola, per poi calare verso il basso, per aprire uno squarcio in quella dura superficie.
Dalla ferita, un denso liquido scuro cominciò a sgorgare. Prima a fiotti, poi sempre meno, ostacolato dalla crosta che si stava creando sui lembi dello squarcio.
- Melodia… no… - un costrutto appena abbozzato, simile in alcuni tratti alla bambina che lo aveva preceduto cadde all'indietro, con lacrime cristalline che cominciavano a sgorgare dai suoi occhi.
La spada dalla lama scura si alzò una seconda volta al di sopra della testa di Commedia, pronta a ferire mortalmente anche quella seconda preda.
La lama calò rapida, come se avesse una volontà propria, come se non avesse bisogno di quel braccio che la sorreggeva per uccidere.
La spada del Fato si frappose alla sua calata, interrompendo il suo arco di morte.
Ci fu un mormorio alle spalle dell’uomo che brandiva l’arma da parte dei suoi compagni. Un mormorio di stupore, pareva essere.
La spada sporca della linfa vitale della Musa morente cercò di abbattersi un’altra volta sulla bambina , ma di nuovo la lama bronzea si frappose.
Una donna splendida si fece avanti, cercando di far risultare il suo passo sensuale il meno incespicante possibile.
La morsa di terrore che li aveva attanagliati si stava facendo sempre più debole, ma ancora risultava sufficientemente opprimente da far tremare l’essenza di cui erano composti quei corpi.
- Prego, signori. – disse raggiante la donna, sfoggiando un sorriso dai denti candidi – Non vedo perché sia il caso di ricorrere alle maniere forti. Sono convinta… - per un attimo il discorso si interruppe in un gemito sopito da parte della creatura – Sono convinta che possiamo dar voi qualcosa che bramate. Questo, in cambio delle nostre vite. –
Un’altra sequenza di mormorii si levò dal piccolo gruppo che, da lontano, osservava la scena.
Gli occhi dell’uomo che brandiva la spada, per un attimo, si accesero di una scintilla di coscienza, per poi tornare vuoti.
L’arma si voltò verso la donna, puntando la propria punta verso il suo viso.

Non un’altra. Non può morire un’altra Musa.
Ne abbiamo perse fin troppe. La lista era già sufficientemente lunga prima che il nome di Melodia vi facesse il suo ingresso.
Passione non ha speranze di sopravvivere.

La musa, a sua volta, fece un passo avanti, senza perdere il suo sorriso e il suo sguardo lucente, lo stesso sguardo che aveva fatto cadere ai suoi piedi migliaia di mortali.
- Passione! Cosa stai… - cercò di dire Epica, nel tentativo di frapporsi tra la lama e il suo nuovo obiettivo, ma venne zittito da un gesto noncurante della mano della sua simile.
- Avanti… - riprese Passione, facendo un ulteriore passo.
- Andatevene tutti lontano! È un ordine! – ruggì Epica in direzione delle figure che ancora stavano cercando di rialzarsi sulle gambe malferme – Adesso! –
Uno scoppio di tuono seguito da una folata di vento tempestosa spazzò la vigna, accompagnando lo scomparire delle creature che non erano coinvolte in quello scontro.
Ora, su quel terreno coltivato, i dieci uomini dalle tuniche sanguigne fronteggiavano solamente due creature divine.
- Avanti, - riprese la Musa con voce suadente, avvicinandosi ulteriormente – So che c’è qualcosa che volete. Lascia cadere quella spada e otterrai tutto ciò che desideri. Ti basterà solamente chiedere. –
La mano dell’uomo dai corti capelli ricci si strinse sull’impugnatura che tratteneva. Per la prima volta, il suo volto parve colto dal dubbio.
- Passione, non fare un passo avanti. Non ti potrò proteggere, altrimenti. – le intimò il soldato con le dita salde sulla propria arma.
La donna, incurante, non ascoltò il consiglio, avvicinandosi ancor di più all’uomo, al punto che egli potesse percepire il suo fiato caldo sul viso.
- Devi solo lasciar cadere quella spad… -
La lama trapassò il petto di Passione obliquamente, penetrando il suo ventre per fuoriuscire dalle sue scapole, sporca della sua nera linfa vitale. L’arma venne sfilata, per poi ripiantarsi nel capo della donna non appena questa si fu accasciata a terra.
- Passione! – urlò disperato il soldato, avventandosi contro l’uomo che stava mietendo vittime tra i suoi simili.
Il suo primo fendente fu parato, così come quelli successivi. Per quanta forza impiegasse nei suoi colpi non riusciva a far breccia nella guardia del suo avversario.
Quell’uomo non poteva essere mortale. Nessuna creature del Creato poteva possedere una forza o dei riflessi che potessero competere con quelli di una Musa.
La Trama del Reale tremava ogni volta che le lame cozzavano, facendo increspare il tessuto della realtà.
- Chi sei? – chiese la Musa sui denti, mentre spingeva con tutta la forza che possedeva la propria lama contro quella rivale.
L’uomo non rispose. Il suo volto era tornato una maschera di cera, privo di emozioni, con lo sguardo perso sulla lama scura.
La Musa continuò ad attaccare, muoversi e cercare di colpire, ma non una singola volta la sua arma riuscì a ferire l’avversario.
L’uomo fece la sua prima mossa offensiva.
La lama si mosse rapida, saettando verso il ventre del soldato e costringendolo a fare un passo indietro.
Ripeté il movimento, provocando la medesima reazione da parte del suo nemico.
Gli occhi dorati di Epica si strinsero fino a diventare due fessure all’interno del suo elmo.
Sapeva riconoscere un combattimento che non poteva vincere.
Si voltò per correre il più lontano possibile. Ruppe il muro del suono zoppicando, il terreno sotto le suole metalliche che portava correva talmente rapido da apparire una superficie dal colore uniforme.

Siamo rimasti solamente in cinque.





Angolo dell'Autore:

Questo fastidioso angolo a piè di pagina sta diventando un rubrica mensile, più che il momento che io volevo fosse. Probabilmente uno delle mie prime migliorie di questo nuovo ciclo (tra poco vi spiegherò cosa intendo) sarà quella di far tornare queste righe il luogo in cui cerco di annullare le distanze tra me e voi.

Sapete tutti come funziona, oramai. Sono anni (si, dannazione, anni) che porto avanti questo Angolo, sempre più o meno con lo stesso formato. Non è obbligatorio che lo leggiate, non aggiungerò nulla al capitolo. Sarà solo un momento di mia divagazione e mia condivisione con voi di Cose con la C maiuscola.

Oggi avrei tanto di cui parlare, specialmente dopo questo capitolo in cui (con la mia solita chiarezza spalmata su trentacinque capitoli) vi ho dato tutti i suggerimenti possibili per capire chi delle cinque (o quattro, togliendo Commedia) muse rimaste possa essere quella imprigionata. Per un veloce recap. rimangono Commedia, Mito, Tragedia, Epica ed Epistola.
Avrei veramente molto di cui dire, adesso, sul perchè ho scelto queste due dipartite, in questo capitolo, sul significato che hanno e su che conseguenze avranno, MA, ho notato che c'è qualcosa di più importante da fare.
Mettiamo quindi anche questo argomento nella lista di "cose di cui discutere più tardi".

Ecco, dunque, di cosa voglio discutere con voi oggi.
Riprendendo l'inizio, questo è il primo capitolo di quello che posso considerare per me stesso un nuovo ciclo.
Mesi fa mi ero concesso di scrivere una storiella da poco, nel paio di mesi che avevo lasciato tra la fine dell'Ombra del Passato e l'inizio di questo Figli della Trama. Beh, da quegli otto/dieci capitoli che avevo preventivato ne sono usciti trentotto... dopotutto non ho sbagliato di molto, no?
Comunque, quella storia finalmente è finita, permettendomi di concentrarmi unicamente su questa.
Ciò, però, non ha risolto un mio problema. Ho sempre dei ritardi mostruosi nel finire la stesura ed io non riesco a capire by myself se la qualità finale di questi "prodotti" è sufficiente.
Finora vi ho chiesto molte cose, in questi Angoli, ma oggi ho un favore particolare da chiedervi.
Se, da ieri in avanti, dovreste trovarvi a fare fatica a leggere i miei capitoli perchè oggettivamente scritto male, vi chiedo di lasciarmi una critica.
Mi basta un "NO", solo un "NO" scritto sotto una bandiera rossa. Un'eventuale aggiunta sul motivo per cui non avete apprezzato può essere utile a me, ma già il solo feedback che qualcosa non va può essermi incredibilmente utile.
Da lì in poi toccherà a me prendere provvedimenti su me stesso.

Grazie per essere arrivati fin qui.
Grazie per continuare a leggermi ed alla prossima.
Vago

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Capitolo 36
*** Capitolo 16.5: Memorie antiche ***


La porta di quell’ultima casupola che infestava ciò che rimaneva della Terra degli Eroi si aprì senza sforzo, come sempre.
In piedi davanti ad essa c’era l’ispettore dalla zazzera bionda. Il soprabito marrone sembrava essersi sbiadito durante la missione che gli avevano affidato e, sotto di questo, si poteva riconoscere il profilo di un fodero legato al fianco.

Non credo di doverla usare, questa spada.
Non possono essere così pazzi da combattere con una Musa.

L’uomo dal volto tatuato si guardò il palmo della mano sinistra. La pelle si flesse verso l’esterno, per poi lacerarsi per permettere alla lama lucente di un coltello da lancio di vedere la luce del sole che li sovrastava.

In ogni caso, ho un asso nel mio palmo.
Non possono uscire vivi da una battaglia con me, soprattutto ora che sono tornato nel pieno della forma.

Beh, quasi nel pieno della mia forma. Ancora non riesco a trovare la Fenter nella Trama.
Il suo Fato deve essere avviluppato a quello di  centinaia di persone, per essere così ben nascosto.

Le suole rigide batterono sull’ingresso della casupola, varcandolo per dirigersi verso la scala che pareva puntare nel cuore di quella montagna.
Un’aria pesante permeava la scalinata umida, l’aria sembrava essere troppo pigra per scostarsi al passaggio di quel corpo che le impattava contro.
La polvere a stento si alzava, per poi ricadere quasi immediatamente sulle superfici.

Lo sento ancora.
Questo è il fetore di Follia.
Com’è possibile?
Quel Noir non aveva il suo odore, addosso. Anche se dovesse essere stato catturato non potrebbe comunque riempire questo luogo di un tanfo tanto forte.
Forza Viandan… Commedia.
Forza Commedia, le tue sono solo paranoie.
Sta andando tutto bene. Tutto.
Adesso arrivi là sotto, fai quattro parole con la signora Johanne Fenter.
Si, la signora Johanne Fenter. Johanne Fenter è solo un’umana.
Commedia, non devi essere spaventato da quell’alcolizzata. L’unico motivo per cui non riesci a trovarla nella Trama è perché sei fuori allenamento e non sei più abituato a lavorare con l’emicrania da claustrofobia che c’è tra quelle maglie.

Il muro che scorreva inesorabile alla sinistra della scala si allargò quel tanto da permettere a un pianerottolo di esistere nelle viscere di quella montagna dalla vetta mozzata.
La mano dell’ispettore dovette rilassare il pugno in cui si era chiusa, per riuscire a muovere il pomello che impediva l’accesso alla porta che si affacciava su quel piccolo piano.
I cardini girarono su sé stessi senza rumore, scorrendo perfettamente sullo strato oleoso che gli era stato applicato sopra e permettendo all’intensa luce prodotta dal candeliere di cristallo appeso al soffitto, di tagliare anche la penombra che dominava le scale, là dove non arrivava completamente la luce delle poche torce che si susseguivano.
L’uomo dai capelli biondi fece il suo ingresso con passo sicuro, sfoggiando il miglior sorriso che possedeva per quell’occasione.
- Miei signori, sono giunto fin qui per portarvi quello che è il mio ultimo rapporto. –
Un tintinnio di vetro contro vetro si inserì prepotentemente sopra al vociare sommesso che riempiva l’aria di quella stanza.
Il Giudice Maggiore terminò con deliberata lentezza di riempire il proprio calice del liquido scuro che conservava nella bottiglia di cristallo che teneva nella mano destra.
Quando ebbe terminato quel compito e riposto la bottiglia al di sotto del tavolino che le stava davanti, alzò lo sguardo verso il nuovo arrivato, sorridendogli.
- Non credo di aver capito ciò che hai detto. – disse, con un tono che poteva sembrare sincero.
- Signora Fenter, sto parlando di questo compito che mi avete affidato durante gli ultimi giorni di validità del mio contratto. Abbiamo pattuito un prolungamento della mia servitù finché non avessi fermato il draghicida… Grazie al mio precedente rapporto avete potuto inviare una squadra di draghi a radere al suolo la sua abitazione. Reputo di aver compiuto il mio dovere al meglio delle mie possibilità. –
- Non hai ucciso il draghicida, siamo dovuti intervenire noi. –
- Non avevo ancora ucciso il draghicida, vorrà dire. Stavo raccogliendo da lui informazioni riguardo a dei possibili aiutanti, prima di ucciderlo. –
- E ne aveva? –
- … -

Sapranno di quel Noir?
Questo è il momento per me di scommettere.
Non gli darò un centimetro di più di quanto già non si siano presi.
Una vita per una vita. Noir per Lucya.
Se al Fato non importa della sorte dei Buchi della Trama, deciderò io per loro.

- Viandante, rispondimi. – disse in maniera più decisa la donna dai capelli dorati, sporgendosi verso l’uomo con cui stava parlando.
- No. Non ne aveva. Aveva solamente una sorella cieca che è morta durante il vostro attacco. –
- Ottimo. –
- Ora che ho ultimato il mio compito, confido che voi manteniate l’accordo e andiate ora a liberare la vostra prigioniera. –
L’imponente corpo di Krave Dunnont si alzò dallo scranno che occupava. – Davvero credi che un foglio di carta ti garantirà la libertà? -
- Lo credo. –
Seguì un momento di silenzio. Il trafficante di Demo deglutì rumorosamente mentre gli sguardi di Sarah dan Rei e del re dei draghi Sharadan si mossero su di lui, in attesa di una risposta.
Il bicchiere di cristallo si alzò dal tavolino che lo aveva sorretto, facendo ondeggiare il liquido che conteneva per poi farlo scorrere verso le labbra della donna che guidava quella riunione.
- Signor Dunnont, prego, si sieda. – disse poi il Giudice Maggiore non appena il suo bicchiere si fu staccato dalle sue dita. – Per quanto riguarda te, Viandante. Temo che non rispetteremo il contratto che ci lega ai tuoi servigi. –

Davvero?
Davvero osano farmi una cosa del genere?
Adesso capiranno chi hanno di fronte.

- Come osate parlare a me in questa maniera? Io sono un figlio del Fato, sono l’essere eterno che ha guidato le ere. Volete davvero mettere alla prova la mia pazienza? Sono disposto a lasciare il mio simile nella prigione in cui l’avete messa per altri mille anni, in attesa di un mortale che apra quella porta. Non mi siete così necessari da potervi credere al riparo dalla mia ira. –
- Viandante, il motivo per cui questo gruppo è riuscito a sopravvivere alle stesse ere che ti abbiamo fatto guidare è perché ci tramandiamo tutte le informazioni in nostro possesso. Noi sappiamo di come sei stato asservito. – Johanne Fenter si alzò in piedi, circumnavigando il proprio scranno per fermarsi alle sue spalle – sappiamo cosa sei e di come quel tuo simile è diventato nostro prigioniero. –
Il rumore di una lama d’acciaio sguainata rimbombò tra le pareti di pietra.
L’ispettore si irrigidì sul posto, talmente teso da non riuscire a raggiungere con la propria mano la spada che portava al fianco.

Questa sensazione... non può essere lei.
Non esiste più su questo piano
No, è un’altra spada, ne sono certo.
Non può essere la stessa.

Il Giudice tornò sui suoi passi, reggendo nella mano destra l’elsa di una spada dalla lama tanto scura da non riflettere la luce rifratta delle candele appese al soffitto.
- Come hai avuto quella spada? – chiese l’ispettore, cercando di mascherare il malessere che in lui continuava a crescere alla vista di quell’arma.
- Molti nostri testi parlano della “spada che uccide gli dei”. L’ho riconosciuta immediatamente quando uno dei draghi al servizio di Vanenir II ce l’ha portata dopo averla rinvenuta conficcata nel dirupo che si è aperto in questi monti. –
- Non è possibile, quell’arma è stata bandita molto tempo fa. –
- Quanto sei disposto a scommettere sulle tue convinzioni, Viandante? Potremmo verificare di persona se davvero questa lama ha il potere di uccidere gli immortali. –
- Cosa volete ancora da me? Uccidermi? –
- Sì. –
- Allora ditemi cosa… - l’ispettore dai ricci biondi interruppe bruscamente la sua frase, elaborando solo in un secondo momento la risposta ricevuta.

Cosa?
Vuole davvero uccidermi?
Dannazione, no.
Assolutamente non mi lascerò uccidere.

- Perché? Vi ho serviti per secoli, perché vorreste uccidermi? –
- Perché questa spada mi ha mostrato la verità. So cosa siete tu e quell’altro essere e so che potere sareste in grado di generare se vi ricongiungeste. Quest’arma mi ha mostrato la mia morte, se solo quell’altro essere dovesse uscire dalla sua prigione. –

Non di nuovo.
Non di nuovo, per favore.
Non posso combatterla, l’effetto di terrore di quella spada si sta a malapena attenuando, non ho possibilità di sconfiggerla.
Devo andarmene.
E devo controllare che Lei stia bene. Potrebbero averla già uccisa.

- Vi pentirete tutti voi di quello che mi avete fatto. – disse l’ispettore, sfumando rapidamente in una nube di fumo chiaro che, rapida, si insinuò sotto la porta, evitando la lama che era stata mossa con deliberata lentezza verso il suo petto.

Quella spada, quella spada è tornata.
Devo capire come sia possibile, deve esserci una spiegazione.
Ora, però, ho altre priorità.
Spero unicamente che non l’abbiano ancora uccisa.

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Capitolo 37
*** Capitolo 17: Il punto più basso ***


Il pomeriggio si stava spegnendo lentamente, mentre l’aria si raffreddava sempre più.
La superficie del lago era calma, immobile, neppure le poche barche che ancora dondolavano a largo riuscivano a smuoverla.
Noir si strinse in una coperta logora, cercando di allontanare l’umidità dal suo corpo.
L’aveva trovata nel fango quel pomeriggio, poco fuori dall’ultimo villaggio di pescatori che aveva attraversato.
Non l’avevano riconosciuto, ma, comunque, nessuno aveva avuto il buon cuore di ospitarlo per la notte.
La ferita sul ginocchio si stava rimarginando velocemente per i canoni umani, ma, nonostante questo, ancora zoppicava vistosamente.
Era riuscito a rubare un pezzo di pane, che ora teneva tra le mani.
Doveva ricominciare da capo, di nuovo. Non era servito a nulla viaggiare con quel Razer. L’aveva incontrato quando era senza una casa sicura ed era sopravvissuto a lui nella stessa condizione.
Sapeva che la Grande Vivente gli era preclusa. Troppe persone conoscevano il suo volto, senza contare che Gerala era il centro nevralgico che gestiva la caccia che lo perseguitava.
I controlli alle porte delle Chiritai erano serrati, per qualche ragione lo erano ancor più nei giorni in cui avevano attraversato le colline per raggiungere i Monti Muraglia.
Le Terre non avevano più nulla da offrirgli.
Uno strisciare lento di piedi ruppe la quiete della sera, ma Noir non vi prestò attenzione. Strinse ancora più la coperta infangata sul suo corpo, appoggiando la schiena sulla corteccia dell’albero sotto cui si era seduto.
Sarebbe dovuto tornare sul Continente. In pochi lo avevano visto durante il suo primo viaggio e i manifesti che lo ritraevano erano sporadici.
Poteva provare a ricominciare una nuova vita. Di nuovo. Senza Razer che lo trascinassero lontano dalla sua meta con promesse inverosimili.
I passi si fecero più vicini, finché la sagoma di una ragazzina deperita non comparve nella sera che si andava scurendo.
I vestiti che portava addosso non erano stati pregiati nemmeno quando erano ancora integri ed ora le ricadevano addosso troppo grandi per il suo corpo esile.
Si trascinava avanti a fatica, lasciandosi alle spalle, sporadicamente, gocce di sangue scuro.
I suoi occhi chiari erano spenti, le labbra spaccate e i capelli scuri incrostati di sporcizia.
Procedeva avanti, lentamente, come se fosse ignara di ciò che la circondava.
Superò l’albero sotto cui si era rintanato Noir senza neppure piegare il capo.
La parte posteriore della camicia che le copriva il petto era stata strappata in più punti, lasciando intravedere la carne viva sottostante.
La pelle, così come quell’abito, le era stata strappata da qualcosa di simile a una frusta.
- Ehi. – cercò di chiamarla Noir, alzando appena il capo nella sua direzione.
La ragazza parve non udirlo, continuando nel suo incedere.
- Ehi! – ripeté Noir, alzandosi per raggiungerla.
Le mise una mano sulla spalla per fermarla, ma non appena lei avvertì quel contatto si voltò di scatto, portando le braccia sopra la testa e spalancando gli occhi, colmi di terrore.
Il discendente di Reis sospirò a quella vista. Quella era una sensazione nuova, per lui. Molte persone avevano avuto paura di lui per quello che era, ma il terrore di quella ragazza era qualcosa di diverso, di slegato da quello che gli scorreva nelle vene.
Gli ultimi raggi del sole illuminarono il viso giovane della figura che gli stava di fronte, gettando lunghe ombre sulle guance scavate e sul collo esile.
Tremava, forse per il freddo.
Noir si permise un secondo sospiro, togliendosi di dosso la coperta lurida che aveva trovato.
Dopotutto non ne aveva così bisogno.
Lasciò ricadere la mano lungo il fianco, sperando che l’assenza di quel contatto rassicurasse la ragazza che gli stava di fronte.
Le porse quindi la coperta che teneva nell’altra mano. – Prendi. –
Gli occhi della ragazza scintillarono per un secondo di una strana luce che l’uomo non riuscì a decifrare, poi le sue mani esili quasi agguantarono il rettangolo di lana sporco di fango, strattonandolo verso il suo petto.
- Sono Noir. – continuò il trentenne, lasciando ricadere anche la seconda mano, ora vuota.
La ragazza non rispose, si portò solamente la coperta al petto, stringendola.
Noir si portò una mano al volto, strofinandoselo.  Se ne sarebbe certamente pentito, più avanti.
- Tieni, credo che tu abbia più fame di me. – continuò porgendole il pezzo di pane che avrebbe dovuto rappresentare la sua cena.
Questa volta la ragazza non ebbe un attimo di esitazione.  Strappò la pagnotta dalle dita del suo benefattore, addentandola voracemente.
Il trentenne rinunciò a qualunque altro tipo di conversazione. Sapeva che non avrebbe ricevuto nessuna risposta da quella ragazzina.
Tornò in silenzio a sedersi contro il tronco dell’albero che aveva designato come suo rifugio per la notte.
Chiuse gli occhi, cercando di evitare di pensare all’umida cortina fredda che, lentamente, si stava levando dalla superficie del lago.
Cosa poteva essere successo a quella ragazzina? Si chiese, mentre la sua mente cercava di rassegnarsi alla stanchezza.
Era povera, poteva essere scappata da casa sua o dal luogo in cui era stata impiegata come schiava.
Era magra, probabilmente erano diverse settimane che non mangiava.
Le ferite sulla schiena, però, non si erano ancora cicatrizzate.
Poteva essere stata la schiava di un padrone particolarmente violento, oppure era stata vista mentre cercava di rubare qualcosa, venendo picchiata per questo.
Le possibilità erano troppe, solo lei avrebbe potuto chiarire quale fosse quella corretta.
La coperta di lana sfregò contro il terreno ai piedi di Noir. Un rumore accese in lui la curiosità di sapere da cosa fosse stato prodotto.
Aprì appena le palpebre.
La ragazza si era sdraiata a una decina di centimetri dalle sue gambe, per terra, avvolta quasi completamente dal suo nuovo indumento.
Qualunque fosse la sua storia, decise il trentenne, quella, probabilmente, era la cosa che più si avvicinava a un ringraziamento o a un gesto di fiducia nei suoi confronti.
Richiuse nuovamente gli occhi.
L’ultimo pensiero che il suo cervello riuscì a formulare prima di assopirsi completamente fu che quella ragazza era stata incredibilmente fortunata ad aver incontrato lui. Nessun altro uomo sulle Terre poteva permettersi di abbassare la guardia con un estraneo senza temere per la sua incolumità. Ma lui aveva la sua maledizione a proteggerlo da tutto e tutti.

Razer aprì gli occhi a fatica.
Era buio esattamente come quando li aveva chiusi.
Nessuno era più venuto a fargli visita da quando quella donna se ne era andata.
Non sentiva più le braccia e le gambe, inchiodate al muro dai pesanti ceppi in ferro che gli avvolgevano i polsi e le caviglie. Aveva anche smesso di soffrire i morsi della fame da diverse ore.
Sarebbe morto in quella cella umida, ne era certo.
Riuscì appena ad alzare il capo quando, al di là della porta che impediva alla luce di raggiungerlo, udì dei passi affannati.
C’era qualcuno, là fuori.
- Apri! Apri! – provò ad urlare, ma la gola secca e la lingua impastata produssero solamente una cacofonia di suoni confusi.
I passi, però, si fermarono.
La porta si aprì di colpo e la luce rossastra che si riversò all’interno della stanza costrinse Razer a chiudere gli occhi lacrimanti.
- Sei tu, quindi. – disse una voce maschile. La porta venne socchiusa, dopo di che, dei passi ancor più leggeri di quelli che li avevano preceduti si mossero verso il prigioniero.
- Ho bisogno che tu faccia qualcosa per me. – continuò la voce, ora poco distante dall’uomo incatenato.
Razer si costrinse ad aprire gli occhi.
Davanti a lui vide due occhi chiari che lo fissavano dall’alto di un viso tatuato.
Riconobbe immediatamente il tatuaggio romboidale che compariva sulla guancia di tutti i cani del Tribunale, impiegò invece qualche secondo in più a riconoscere nelle fattezze di quell’uomo dai capelli ricci le stesse dell’avversario che lo aveva quasi sconfitto ad Aravan.
Quello era l’uomo che lo aveva inseguito fin sul Continente, quello che solamente alla fine del suo viaggio era stato sostituito dall’elfo che aveva rintracciato casa sua.
Un grumo di saliva densa uscì dalle labbra dell’uomo, andando a sporcare il viso dell’ispettore biondo.
- Cosa vuoi da me? –
Un pugno impattò sullo zigomo sinistro del prigioniero, facendolo ammutolire.
- Bene. – tornò a dire l’ispettore pulendosi il volto – Ora che ci siamo salutati posso liberarti. Ho bisogno che quelle tue manine da mortale facciano una cosa per me. Devi aprire una gabbia. –
- Perché mai dovrei aiutarti? –
Razer scrollò le braccia, cercando di allontanare le mani di quel suo nemico dai ceppi che lo costringevano.
- Non fare il bambino lagnoso. Fatti liberare maledetto. – mentre le dita dell’uomo si affaccendavano attorno alla serratura, i suoi capelli si scurirono, si accorciarono, si lisciarono, le sue orecchie crebbero in lunghezza, assottigliandosi e appuntendosi.
- Sei tu? Sei sempre stato tu? – Razer ricominciò a scrollarsi, questa volta più violentemente, ignorando le urla di dolore che i suoi polsi mandavano al cervello.
- Rimani fermo, maledetto… - borbottò a denti stretti l’elfo in abiti scuri, cercando di tenere immobile il pezzo di ferro che stava cercando di scassinare.
- So cosa hai fatto! So che hai venduto me e mia sorella! Le tue erano solo parole, non avrei mai dovuto credere alle tue buone intenzioni! –
- Sentimi, piccolo verme. Io non ho venduto nessuno. Se proprio vuoi saperlo, quello tra i due che è stato fottuto sono io. Quindi ascoltami bene, adesso ti fai liberare, in qualche modo ti faccio firmare il mio contratto, poi tu mi seguirai nel punto più basso di questa struttura e libererai la ragazza che tengono imprigionata. Hai capito? –
- Io non ti aiuterò mai. –
- Maledizione! – la voce dell’elfo rimbombò tra le pareti lucide di umidità – Fai come vuoi, marcisci pure in questo posto, se è quello che desideri. Ricordati però che non sono io l’artefice della morte di tua sorella, perché sì, lei è morta, così come non lo sono i draghi. Al momento, là fuori, c’è qualcuno con l’unica arma che può uccidere qualunque cosa e quella stessa persona, al momento, controlla il mondo. L’unica possibilità che io e te abbiamo per sopravvivere è liberare l’unica creatura che è mai riuscita a tenere testa a quell’arma. Hai capito bene? –
La serratura del ceppo che cingeva il polso destro di Razer scattò, facendolo aprire.
- Le tue sono solo parole. –
L’elfo dal volto tatuato fece un passo indietro.
- Bene. Ti auguro una morte piena di sofferenze. –
La figura scomparve in una nube di fumo mentre all’esterno, lontani e rimbombanti, una serie di passi si avvicinavano in gran fretta.
La porta della cella, come da sola, si chiuse completamente, abbandonando Razer nell’oscurità.

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Capitolo 38
*** Capitolo 17.35: Mito ***


Il soldato dall’armatura bronzea ricomparve su una spiaggia che si affacciava verso oriente. I suoi stivali metallici affondarono nella sabbia umida, mentre la spada che stringeva convulsamente tra le mani scompariva nell’etere.
- Epica… - disse la vocetta terrorizzata della bambina dai capelli rossi – Melodia e Passione stanno arrivando, vero? –
Il soldato bronzeo non rispose per qualche secondo, i suoi occhi dardeggianti si posarono sulla figura minuta come un macigno.
- No. – rispose infine – Sono entrambi morti. –
Epica fu costretto a fare un passo indietro quando venne colpito da una mano sul largo petto corazzato.
- Ti sembra questo il modo di portare una notizia del genere? – tuonò Tragedia, riducendo ancor più le distanze tra il corpo smunto che indossava e il viso del soldato – Ma cosa mi sarei dovuto aspettare da te? Il tatto non è mai stata una delle tue poche qualità. -
- Ti chiedo scusa, fratello, se non mi sono mostrato gentile. – sibilò Epica, indurendo lo sguardo – Ma mi è difficile preservare la nostra razza se i singoli componenti non fanno altro che cercare di provocare la morte degli altri. –
- Epica, smettila, ti prego. – Epistola fece un passo avanti a sua volta con lo sguardo basso. Il suo viso bruciato dal sole ora appariva molto più vecchio e provato – Commedia è stato preso dal panico e ha cercato di disgregarsi, chiunque di noi avrebbe fatto una cosa del genere. –
- No, io non avrei fatto una cosa del genere. Mito non avrebbe fatto una cosa del genere, neppure Tragedia avrebbe osato fare una cosa del genere. Solamente tu e Terrore eravate in grado di controllare la forma eterea affinché non si disperdesse nell’aria e soltanto Terrore la padroneggiava completamente. –
- Questo non vuol dire che devi addossare la colpa a Commedia per quel che è successo! – di nuovo, le mani di Tragedia si appoggiarono sulla corazza che gli stava di fronte, spingendola indietro – Melodia sapeva esattamente cosa  stava facendo, è stata una sua scelta salvarlo. –
Dei singhiozzi ruppero la discussione, che però riprese poco dopo, come un fuoco che si affievolisce per poi, scoppiettando, riaccendersi più intenso di prima.
- Siamo rimasti in cinque. – disse Mito truce, inserendosi nella conversazione – Davvero la vita di Commedia valeva quella di Melodia e Passione? Saremmo potuti essere in sei, ora. –
- Non lo hai detto davvero, spero. – Tragedia si voltò furente in direzione della figura grigia dal volto privo di lineamenti che aveva appena parlato – Non è questione di valore della vita. Melodia ha fatto una scelta che noi possiamo considerare corretta o meno, ma ciò non cambia il fatto che sia stata una sua scelta. Sai una cosa, Mito? Io non l’avrei fatto, ma ho un profondo rispetto per la morte che si è scelto lui. Passione, invece, non c’entra nulla con questa situazione, ha deciso di tentare un’altra via. Non so come sia finito il suo tentativo, ma sappi che ha avuto più coraggio di tutti noi messi assieme per fronteggiare quella spada. –
- Cosa dovremmo fare, adesso? Continuare a sacrificarci l’uno per l’altro finché non ci sarà più nessuno a proteggere l’ultimo rimasto? –
- Mito, smettila. – gli intimò Epistola, cercando di moderare il proprio tono – Quello che è avvenuto è stato un caso. Perfino tu dovresti averlo capito. Ora taci e cerca quantomeno di apprezzare una scelta di una Musa. –
- Cosa stai insinuando, ora? – Mito si spostò a passi rapidi verso il viandante barbuto.
- Non sto insinuando nulla. Sto solo dicendo che non sei famoso per i tuoi guizzi di creatività, o non sei forse tu la Musa che raccoglie tutto ciò che i mortali creano in autonomia? –

I toni si stanno facendo sempre più accesi.
I millenni di pace dalla nostra creazione non ci hanno preparati a questo.
Siamo troppo tesi, tutti.
E Commedia non vuole smetterla di piangere, qualcuno deve farlo stare zitto.

- Basta! – la voce di Epica risuonò per tutta la spiaggia desolata, facendo tacere ogni suono, compresi  i singhiozzi che avevano fatto da sottofondo alla discussione.
- Non importa quale viaggio ci ha portati qui. Siamo in cinque e in cinque rimarremo. Epica, Epistola, Mito, Tragedia e Commedia. Questi sono i nomi delle muse che sopravvivranno fino alla fine dei tempi. Adesso, abbiamo visto che le distanze non ci proteggono e che le foreste non ci nascondono. I nostri cacciatori sono mortali e come tutti i mortali hanno dei limiti. Per tutta la durata delle loro vite rimarremo nelle profondità dei mari, dove la vita gli è preclusa. Noi sopravvivremo in eterno. Avete obbiezioni? –
Nessuno osò dire qualcosa.
Lentamente, come un corteo funebre, le cinque figure si mossero verso l’acqua profonda. I loro piedi divennero pinne, i loro corpi si ricoprirono di squame e ampie branchie si aprirono ai lati delle teste.
Nuotarono rapidi verso le oscure profondità, verso i fondali che non erano mai stati raggiunti dai raggi del sole.
- Qui saremo al sicuro. – disse il pesce in testa al banco – E qui rimarremo finché le loro ossa non saranno tornate alla terra. La superficie ci sarà preclusa per gli anni a venire. –
- Epica, sei sicuro che non possano raggiungerci? –
- Queste profondità non sono accessibili agli uomini mortali. –
- Sei ancora convinto che quelli siano mortali? Hanno ucciso dei nostri simili. –
- Tragedia, basta. Quelli erano mortali. –
Un boato scosse l’acqua, che parve volersi allontanare dalla fonte di quel suono. Si creò una sfera d’aria, una bolla che non sembrava risentire della pressione che l’oceano applicava sui suoi confini.
Al centro della sfera, ritti, erano comparsi i dieci uomini dalle lunghe tonache. La spada dalla lama nera li capeggiava tutti, come terribile monito di morte.
I pesci ricaddero verso il basso, ora che non c’era più acqua attorno a loro per sorreggerli.
- Saremo al sicuro, vero? –
- Sta zitto Tragedia. – replicò gelido Epica, permettendo al suo corpo di mutare nuovamente e alle squame argentee di saldarsi le une alle altre per forgiare la sua armatura.
Le pareti della bolla parevano non aver intenzione di lasciar scappare alcun che dal suo interno, frapponendosi come una muraglia tra l’aria e l’acqua dell’oceano.

Ci hanno intrappolato.
Non capisco cosa sia quest’energia che ci ha circondanti, è così simile a quella di nostro padre…
In ogni caso, il senso di terrore non è più così opprimente come quella prima volta.
Possiamo combattere.
Possiamo vendicare i nostri fratelli caduti.

- Rimanete dietro di me. – disse Epica, stringendo tra le dita la sua spada bronzea.
- No, no! – urlò Mito, riassumendo una forma antropomorfa solo per avere delle mani con cui tastare le pareti interne della sfera, in cerca di un punto debole che potesse divenire la sua via di fuga.
- Mito, cerca di rimanere calmo. – continuò a dire Epica, con gli occhi lucenti che non osavano staccarsi dall’arma avversaria.
- Epica… - la voce di Epistola era appena percepibile – Qualcosa non va. Guarda il loro riflesso sull’acqua…. –
Le pareti della bolla riflettevano appena le figure al suo interno, illuminato da un’eterea luce fievole. Le sagome dei dieci uomini ammantati erano appena riconoscibili ma, distinguibile da loro, si poteva riconoscere un’undicesima forma, un’ombra scura che aleggiava  alle spalle dell’uomo che brandiva la spada.
La figura era come china, in modo che la distanza tra il suo viso e l’orecchio dell’uomo fosse la minore possibile.
Mito continuava ad agitarsi lungo la parete, spingendo con i propri palmi sulla superficie.
L’uomo con la spada parve perdersi per un attimo nei suoi pensieri, barcollando per qualche secondo sul posto, per poi riaversi improvvisamente  ed avventarsi sulla figure che gli stavano di fronte.
Le due spade cozzarono l’una sull’altra, squarciando con il loro clangore la quiete che abitava quel fondale.
- Non c’è una via d’uscita! Non c’è una dannata via d’uscita! – Mito era ormai preda della disperazione, al punto che nemmeno si concentrava più sul combattimento che infuriava alle sue spalle.
Nessuno osava parlare.
I nove uomini intonacati osservavano con reverenza il loro campione farsi guidare da quella spada.
Tre Muse guardavano disperate il soldato che silenzioso e inamovibile combatteva.
Nessuna delle due parti pareva riuscire a prendere vantaggio.
L’uomo in tonaca fece un passo di lato, perdendo interesse nel soldato in armatura con la stessa rapidità con cui l’aveva acquistata.
La spada dalla lama nera trafisse qualcosa.
Il corpo grigio di Mito ebbe uno spasmo. Le sue mani dalle dita prive di unghie si agitarono attorno al punto in cui la lama della spada, che lo aveva trapassato, aveva colpito la superficie della sfera, bucandola.
La Musa quasi non sembrò accorgersi della ferita che gli era stata inflitta. L’unico pensiero che la sua mente riusciva ad elaborare era quella piccola via di fuga ostruita solamente da un pezzo di metallo sporco.
La spada si ritrasse appena in tempo per deviare il colpo che si stava abbattendo sul suo possessore.
Il corpo di Mito si accasciò lentamente senza emettere suoni, spegnendosi come una candela che aveva esaurito tutta la cera a sua disposizione ma che, ancora, lottava per mantenere viva l’esile fiammella sul suo stoppino.

Mito…
Non un altro.
Perché? Perché devono morire tutti?

Epica calò il colpo con tutta la forza che aveva in corpo, lottando disperatamente per rompere la guardia del suo avversario.
- Epica, converrai con me che questo campo di battaglia non ci avvantaggia. La tua spada può aprirci una via di fuga. –
- Tragedia, taci. –
- No. Non importa per quanto potrai combattere, non potrai mai proteggerci tutti. Aprici una via di fuga. –
Il corpo esile di Tragedia si insinuò tra i due combattenti, serrandosi come una morsa attorno all’uomo che aveva ucciso tanti suoi fratelli.
La spada del Fato aprì uno squarcio nella superficie della bolla, l’acqua del mare, però continuò a non voler entrare in quell’ambiente.
La spada dalla lama nera si mosse diagonalmente ferendo la schiena dell’essere che tratteneva il suo possessore.
- Epistola, porta via Commedia. – Ordinò il soldato mantenendo la guardia alta.
Due figure si gettarono nello squarcio, scomparendo nell’oscurità degli abissi.
- Non ti lascerò morire su un campo di battaglia. – continuò Epica tra i denti.
Il pesante guanto d’arme afferrò il corpo morente, trascinandolo con sé oltre la fenditura nella parete della sfera.

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Capitolo 39
*** Capitolo 17.5: Piano di battaglia ***


La nuvola di vapore scese per diversi metri lungo la scalinata che pareva voler raggiungere le viscere della terra. Solamente quando i passi alle sua spalle non furono più udibili permise alle particelle che la componevano di aggregarsi, per tornare a dare un volto all’elfo dai capelli neri e dai vestiti eleganti che per più di due decenni aveva calcato le Terre al Loro servizio.
La lunga giacca che portava addosso si muoveva scompostamente alle sue spalle mentre le suole rigide delle scarpe continuavano a toccare ed abbandonare la superficie degli scalini.

Devo controllare che Lei sia viva. E soprattutto, che sia ancora lei, là sotto.
L’apparenza non mi è mai interessata, dopotutto i corpi non sono altro che involucri.
Che possa essermi lasciato sfuggire che l’abbiano sostituita con una mortale dalle fattezze simili?
Lei potrebbe essere stata uccisa quando mi hanno fatto attaccare dai draghi, oppure potrebbe essere morta da molto più tempo ed io non me ne sono mai reso conto.
Dovevo farmi venire questi dubbi secoli fa.
Dovevo farmeli venire nell’esatto momento in cui ho visto in quella Niena Garvà il suo volto.
Potrei aver dato troppe cose per scontate e adesso ne pagherò le conseguenze.
Devo assicurarmi che sia Lei, quella imprigionata.
La sua prigione in diamante non mi permetterà di avvicinarmi a quel corpo, ma, almeno, posso verificare se porta la ferita di quel giorno.

L’elfo raggiunse il gradino più basso di quella scalinata, sbattendo un paio di volte le palpebre mentre le sue pupille si allargavano ben oltre le loro potenzialità per permettergli di vedere nell’oscurità di quel sotterraneo.

Purtroppo non posso ancora liberarti, ma ci riuscirò, te lo prometto.

L’elfo si mosse a passo svelto, con il tatuaggio romboidale teso sul volto preoccupato.
Le sue gambe gli fecero oltrepassare il primo lato del cubo in cui l’altra creatura era stata imprigionata. Il suo corpo era sorretto da rigidi cavi; mentre negli arti, degli esili tubi che non appartenevano a quell’epoca, si insinuavano nel suo apparato circolatorio, stillando costantemente la miscela che la manteneva dormiente.
L’elfo continuò a camminare velocemente, mentre i suoi occhi cercavano di precedere i piedi, sperando di poter vedere prima di quanto gli fosse concesso, la schiena della figura addormentata.
Gli abiti leggeri che coprivano il corpo esile erano stati rovinati all’altezza delle scapole. Lì si poteva vedere una parte della schiena della creatura, solcata da una lunga ferita che né sanguinava né pareva volersi rimarginare.

La ferita c’è.
È lei.
È ancora lei.
Bene.
Bene.
Devo sistemare ancora il mondo, ma lei è ancora qui ed è viva.

Il rumore dei passi di quattro persone si cominciò ad udire dalla tromba delle scale, appena percepibile, poco più di un fruscio, ma fu sufficiente per far allontanare l’elfo dal cubo trasparente.
- Devo andare. Te lo prometto, ti tirerò fuori da qui. –
L’elfo si disgregò in una nube lattiginosa che si dileguò risalendo la scalinata. I suoi piccoli particolati serpeggiarono attorno alle quattro figure che stavano scendendo verso le viscere della terra, stando bene attenta a non avvicinarsi alla lama scura che, brandita dalla donna dai capelli biondi, capeggiava la spedizione.
Serpeggiarono attorno anche a un quinto corpo, ma non gli dedicarono la loro attenzione.
La porta della casupola che, da sola, si ergeva su quella che fu la Terra degli Eroi si aprì di colpo.
L’elfo tornò a formarsi per poter riappoggiare i propri piedi sul suolo.

Hai ancora del tempo.
Non la uccideranno, non subito, almeno.
Per lo meno uno di loro si porrà il dubbio che averla viva è un vantaggio, più che uno svantaggio.
Lei è l’unico motivo che mi porterebbe a rimettere piede là sotto.
Non così, però.
Adesso non sono in grado di fronteggiarli. O meglio, fronteggiarla.
Sono diverso dall’ultima volta che l’ho incontrata sul mio cammino.
So combattere e posso uccidere, adesso.
Ma non con queste armi.
Per quanto la Setta nei suoi anni d’oro avesse  le migliori armi disponibili, queste lame non sono in grado di fronteggiare quella spada.
Ora ragiona, Commedia.
Come possono essere entrati in possesso di quell’arma?
Tu sai che fine aveva fatto, c’eri.
Come può essere tornata nel Creato?


Maledizione.
Dannazione.
Non era stato sufficiente quasi distruggere il dannato mondo.
Il casino provocato nella Trama quando Mea ha evocato Terra deve averla sbrogliata dalle maglie della Trama del Reale, facendola ricadere qui.
Dannazione.
Questo però mi da un vantaggio, so dove è successo e, se è stata liberata quella spada, probabilmente anche l’altra è tornata nel Creato.
Devo solo trovarla.

La libererò sicuramente, ma avrò bisogno di una seconda arma, quando anche Lei comincerà a combattere.
Dovrò chiedere indietro parecchi favori, oggi.
Ho aiutato troppe persone perché possano rifiutare di aiutarmi.
Prima, però devo trovarla ed ho solo un intero fondale in cui cercarla.
Detesto questa situazione.

L’elfo si mosse a passo rapido in direzione dell’alta scogliera che, centinaia di metri più in basso, si gettava nei flutti del mare.
Non si fece fermare dal terminare della terra, portò ancora avanti il piede, permettendo al proprio corpo di cadere verso l’acqua lontana.

Un oggetto metallico cade per diverse migliaia di metri prima di colpire la superficie dell’acqua. I flutti sono verosimilmente smossi dall’allontanamento di due placche tettoniche neocreate da un dio alle prime armi.
Devo solo tenere conto dello spostamento delle correnti, del calore che produce l’ebollizione delle acque in profondità, dei banchi di pesci in fuga e, ovviamente, di tutti i possibili punti di partenza.
Cosa potrebbe mai andare storto?
Sarà il caso di mettersi un buon paio di branchie.

Le acque gelide avvolsero il corpo dell’elfo tentando di impregnare le vesti che, attorno al suo corpo, perdevano di definizione, diventando simili a un essere vivente che lentamente ingurgitava il corpo al suo interno.

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Capitolo 40
*** Capitolo 18: Scelte ***


Razer guardò la porta della sua cella richiudersi con gli occhi pieni di collera.
Non poteva accettare l’aiuto dell’uomo che li aveva venduti.
Lui aveva detto di non essere l’artefice della morte di sua sorella. Avevano quindi ucciso Lucya?
Lo zigomo gli pulsava là dove il pugno lo aveva colpito.
Il dolore delle altre ferite che gli costellavano il corpo, invece, pareva essersi attutito, come soppresso dall’umidità della roccia che lo circondava.
L’uomo chiuse gli occhi, cercando di ricordare, ancora, cosa fosse accaduto a casa sua.
Rivide il muro di fiamme vermiglie che avvolgevano le finestre e che, poco a poco, si infiltravano nel soffitto del pian terreno.
I draghi, ancora loro.
Quella era la stessa immagine che lo perseguitava da quando era bambino. Anche nella notte in cui perse i suoi genitori aveva visto quelle fiamme fuori dalla finestra. La trave portante del secondo piano cedette, cadendo a terra in fiamme e causando la nascita di una barriera di polvere.
Cos’era quello? Era davvero appena successo o erano le immagini che gli si erano impresse quando era più piccolo.
Lucya, sua sorella, aveva mosso le mani per cercarla, ma non aveva trovato nulla, nè la sua mano, né le sue vesti.
Qualcosa gli schiacciava entrambe le gambe, un pezzo di calcinaccio era caduto di traverso, fermandosi a pochi centimetri dal suo volto.
Non vedeva nulla, non riusciva a muoversi.
L’aria divenne improvvisamente di nuovo calda e pesante.
Non riusciva a respirare.
Sentiva che sarebbe morto.
Non aveva idea di come avesse fatto a sopravvivere la prima volta che aveva visto i draghi, ma quella sarebbe stata sicuramente la sua ultima occasione di vedere quelle fiamme.
Come mai, allora, era lì imprigionato?
Doveva essere morto, a quel punto.
Probabilmente sua madre si sbagliava, non esisteva nessuna volta degli dei, esistevano solo altri carnefici.
E quell’essere che aveva visto?
Non poteva davvero essersi trasformato davanti a lui. Era impossibile che un uomo si trasformasse in un elfo.
No, lui doveva essere morto e quello che vedeva, tutto, non era reale.
Quel dolore al volto, però, era reale, lo sentiva.
La manetta che gli stringeva il polso destro si aprì di scatto sotto il peso del suo braccio, ora che la serratura che lo costringeva era stata sbloccata.
La mano di Razer cadde mollemente verso il basso, intorpidita, impossibilitata a raggiungere il terreno solo per via del braccio che ancora la teneva ancorata al corpo.
Le cinque dita si mossero svogliatamente sotto il comando del loro padrone, cercando di liberarsi delle formiche che pareva l’avessero presa d’assedio.
Un rumore di passi fece vibrare la porta di ferro della sua cella, ma nessuno di essi parve intenzionato ad entrare per controllare le condizioni del prigioniero immerso nel buio.
Solo quando quel suono fu quasi completamente sparito Razer si permise di muoversi.
Non era la prima volta che veniva ammanettato.
Da ragazzo spesso lo avevano scoperto mentre, nel mercato di una delle tante Chiritai che costellavano quel che rimaneva della Piana Umana, rubava qualcosa da portare a casa.
Aveva imparato ad essere pronto a qualsiasi evenienza, sempre.
Sollevò lentamente la mano libera, sentendo le dita intorpidite che, a poco a poco, ricominciavano a rispondere correttamente alle sue richieste.
Le portò più in basso che poté lungo la gamba, facendole stringere attorno a qualcosa di duro ed appuntito, cucito direttamente nel tessuto dei pantaloni.
Aveva almeno una mezza dozzina di ferri da scasso nascosti in quegli abiti, pronti per essere presi in qualsiasi condizione.
Tutto ciò che gli serviva era una mano libera.
Il pezzo di metallo si sfilò dalla trama del tessuto, venendo accompagnato da quelle dita abili fino al polso opposto e, lì, infilato nel buco che avrebbe dovuto ospitare una chiave.
L’oggetto appuntito si divincolò tra i cilindretti metallici, sollevandoli dalla loro sede al suo passaggio per incastrarli là dove non avrebbero potuto bloccare la sua fuga.
La serratura si aprì di colpo.
Razer cadde in avanti, ora che nessuna catena gli teneva la parte superiore del  corpo legata al muro di quella cella.
La botta gli fece male.
Come poteva essere morto e avvertire ancora il dolore?
Si rigirò su di un fianco a fatica, facendo tintinnare gli anelli metallici che ancora lo bloccavano.
I due ceppi alle caviglie si aprirono uno dopo l’altro ubbidienti a quell’attrezzo.
Un lieve bagliore bluastro si levò dal corpo dell’uomo, illuminando la stanza  e quel suo unico ospite.
I polsi e le caviglie quasi non mostravano più traccia della pelle che li aveva protetti, lasciando invece all’aria la carne viva che gli stava sotto.
Lunghe colate di sangue incrostato gli sporcavano gli abiti, ma pareva che ormai anche lui avesse deciso di arrendersi e avesse smesso di fuggire da quel corpo.
Razer riuscì appena a reggersi in piedi, quando tentò di alzarsi.
Sentiva le sue articolazioni deboli e le gambe gonfie per tutte le ore in cui era rimasto lì, fermo.
Non doveva lasciarsi cadere o rialzarsi sarebbe stato ancora più difficile.
Appoggiò le sue dita alla parete fredda lasciandole strisciare sulle pietre di pari velocità con il suo passo.
La porta metallica non lo ostacolò, aprendosi al suo tocco senza opporre resistenza.
La scalinata che vide oltre quella soglia gli fece tremare le ginocchia.
Alla sua destra saliva, alla sua sinistra scendeva.
Poteva essere in una torre?
Ne dubitava, in nessuno dei suoi viaggi aveva mai visto una struttura tanto imponente nelle Terre.
Era più probabile, invece, che si trovasse nelle segrete di qualche villa.
Decise di salire, cercando di ignorare il dolore costante che ogni passo gli procurava.
La scalinata era eterna, continuava a salire alla sola luce di torce assonnate che solo ogni tanto si degnavano di comparire attaccate al muro.
Un vento gelido gli serpeggiò attorno, proveniente dalle profondità di quella prigione.
Qualunque cosa ci fosse sotto di lui, era certo che non avrebbe voluto incontrarla.
Un pianerottolo comparve alla sua destra, ma Razer non abbandonò la scalinata, continuando scalino dopo scalino, la sua lenta e claudicante salita.
Il sole lo costrinse ad alzare un braccio per potersi proteggere gli occhi quando aprì la porta che si trovò dinnanzi.
Nessuna villa aveva atteso la sua fuga, solamente la vista desolata della Terra degli Eroi, sotto lo sguardo cupo e silenzioso di una casupola.
Razer si guardò intorno, spaesato.
Era ancora sulla catena dei Monti Muraglia, non si era spostato quasi per nulla.
L’uomo si voltò, in preda a un senso di vuoto in quel paesaggio desolato ma, tutto ciò che riuscì a scorgere con la coda dell’occhio fu un uomo gettarsi oltre il limite di quella terra.
I suoi piedi si mossero da soli nella direzione opposta a quella prevista dalla sua mente. Si avvicinò a quel confine orientale, cercando con lo sguardo verso il basso qualcosa che potesse rivelare dove quella figura si fosse andata a nascondere.
La parete del dirupo era perfettamente integra per centinaia di metri, forse, in lontananza, si poteva distinguere la bocca di una caverna, ma quella zona d’ombra non poteva essere raggiungibile se non dopo almeno una giornata passata su quella parete scoscesa.
Doveva essersi sbagliato, nessuno si sarebbe mai gettato da quell’altezza. Nessuno sarebbe mai riuscito a sopravvivere a una caduta simile.
Si costrinse ad allontanarsi verso occidente, non doveva lasciarsi catturare di nuovo.
Sarebbe tornato a casa, decise.
Doveva controllare con i propri occhi le condizioni di sua sorella.
E quel Noir? Di lui cosa ne avevano fatto?
Poco gli importava, in realtà della sua sorte. Quell’uomo era un pericolo per chiunque gli stesse vicino e, se non poteva con certezza chiamarlo alleato, preferiva mantenerlo a distanza.
Era tornato solo nella sua battaglia contro i draghi.
Quel cane del tribunale lo aveva perfino privato del suo volto da vendicatore, ma nulla lo avrebbe fatto desistere dall’uccidere ogni singolo mostro sputafuoco che gli fosse capitato sotto il coltello.
La caviglia sinistra tremò quando il peso corporeo dell’uomo si riversò su di lei, la carne esposta stillò qualche goccia di sangue che subito si perse, colando sul piede.
Razer si costrinse a non cadere.
Doveva allontanarsi il prima possibile da quel luogo.

I primi raggi del sole fecero breccia nel sonno di Noir.
La ragazzina era ancora sdraiata ai suoi piedi, avvolta nella coperta lurida che le aveva lasciato.
Non poteva far altro per lei, si disse.
Il trentenne si alzò in silenzio, aggirando quel corpo magro per riprendere la via che lo avrebbe portato verso i porti occidentali.
La ragazzina si mosse appena al suo passaggio, voltando il capo verso l’alto.
La sua carnagione era pallida, quasi cadaverica, la sua fronte era imperlata da lucenti gocce di sudore.
Respirava appena, a fatica, muovendo a stento le sottili labbra spaccate.
Noir si maledisse.
Quella ragazzina stava vistosamente morendo.
L’uomo si morse l’interno della guancia, in preda ai suoi pensieri.
Non poteva salvarla, non ne era in grado. Non poteva, però, nemmeno lasciarla a morire lì, sul ciglio della strada.
L’avrebbe portata fino al villaggio più vicino, per poi abbandonarla davanti alla casa di un medico, si disse.
Quello era il massimo che poteva fare per lei.
Si mise quindi quel fagotto in spalla, battendo più volte il piede destro per terra per controllare che il suo ginocchio ferito fosse in grado di reggere quel nuovo peso.
L’articolazione si era ormai completamente ripresa, senza lasciare una via di fuga da quella decisione che il suo padrone aveva preso.
Noir si mise in cammino, sotto quel sole nascente.
Non aveva idea di quanto fosse distante il primo centro abitato, non era nemmeno sicuro che la ragazza che aveva sulle spalle sarebbe riuscita a rimanere in vita, fino ad allora.
Maledisse la vita e tutti gli dei per quello che gli stava accadendo.
Tutto ciò che chiedeva era poter scomparire in mezzo alla folla per poter vivere una vita normale.
Il silenzio era quasi assoluto, su quella riva. Non c’erano animali a far frusciare l’erba e le barche dei pescatori erano troppo lontane perché la voce dei loro proprietari fossero udibili a chi era rimasto a terra.
Il rumore di una serie di zoccoli ruppe appena quella calma pacifica.

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Capitolo 41
*** Capitolo 18.41: Tragedia ***


Un viandante barbuto emerse in tutta fretta dalle fredde acque dell’oceano, trascinandosi dietro il corpo esausto di una bambina dai capelli scarlatti.
- Ti prego, Epistola! Dobbiamo aiutarli! Dobbiamo salvare Tragedia ed Epica! Ti prego! – la voce della piccola uscì esausta dalla sua bocca, rendendo la supplica ancor più inconsistente di quanto non fosse già.
- Commedia, per favore, smettila di comportarti come una mocciosa. Epica ci ha ordinato di salvarci ed è quello che faremo. E poi, sono sicuro che si saranno salvati entrambi. –
- Epistola… lo credi davvero? –
- Io non credo a nulla che non abbia visto con questi occhi. Ciò che conosco, però, è la forza di Epica. –
- Quindi sono morti… - la voce di Commedia si era ridotta al punto da diventare un sussurro disperato.
- No, non lo sono. Lo hai visto anche tu, la spada del Fato può proteggerci. –
- Epistola… - La bambina si interruppe, forse resasi conto della stupidità della domanda che stava per porre.
- Dimmi. –
- Che cos’è quella spada? E l’ombra in più riflessa, chi era? –
Il viandante dall’odore esotico rimase per un attimo in silenzio, con lo sguardo perso lontano, oltre l’orizzonte del mare. La sua mano destra iniziò a lisciare distrattamente la lunga barba che gli ricopriva il volto.
- Non lo so. Se non conoscessi gli dei, ti direi che è stata forgiata da loro. –
- Un’arma divina? Come quella di nostro padre? –
- So che sembra incredibile ma… si. È incredibilmente simile alle armi divine. Alla spada di nostro padre, al suo libro e alle armi degli dei primigeni. –
- Gli dei non ci faranno mai del male, vero? – la bambina fece un passo avanti, verso il viandante.
L’uomo si voltò con uno sguardo duro negli occhi stanchi – Gli dei non ci faranno mai del male. –
La ragazzina parve non essere convinta di quel che aveva sentito.
La superficie increspata dell’oceano si gonfiò, anticipando l’apparizione di una figura imponente.
Il soldato si trascinò avanti, cercando di raggiungere la spiaggia. Sulla sua spalla sinistra il corpo di Tragedia restava immobile, zuppo di acqua salata, nella mano destra la spada del fato risplendeva, tagliando a tratti i flutti cristallini.
Il viandante si mosse rapido verso i nuovi arrivati, immergendosi fino alle ginocchia in quell’acqua.
- State bene? – furono le prime parole a evadere da quella barba.
Dall’interno dell’armatura non arrivò nessuna risposta. Il soldato continuò stoico ad avanzare, per poi deporre il corpo che aveva portato con sé sul terreno asciutto.
- Ne ho uccisi tre, prima di riuscire a scappare. – disse tonante e grave la voce proveniente dall’elmo bronzeo.
- E… Tragedia? – continuò il viandante ritornando sui suoi passi.
- È ancora vivo, per il momento, almeno. Ora datemi una mano a stabilizzarlo, non impiegheranno molto a ritrovarci e raggiungerci, di questo passo. –
Il soldato si piegò sul corpo pallido che aveva portato fin lì. I guanti metallici che gli coprivano le mani scomparvero, permettendo al vento marino di accarezzare la pelle olivastra delle dita nascoste sotto la loro protezione.
- Muovetevi! – sbottò l’adone in direzione delle due creature che alle sue spalle lo fissavano.
Le tre creature squarciarono gli abiti leggeri che coprivano il corpo malaticcio di Tragedia. La schiena della creatura era nera come il carbone sotto la camicia ingiallita, su di questa, svettavano otto dritte righe bianche tagliate diagonalmente dallo squarcio aperto dal passaggio della lama nera.
- Perché la sua schiena è così? – chiese la bambina avvicinandosi incerta a piccoli passi al corpo riverso.
- È stato ferito da una lama, come pensavi sarebbe stata la ferita? – lo riprese il soldato, mentre le sue dita cercavano di accostare i lembi del taglio.
- No, non dico la ferita. Perché la pelle si è fatta nera solo sulla schiena? E quei segni bianchi? –
Epica sbuffò dall’interno del suo elmo, scocciato da quella domanda. – Non ne ho idea. Se sopravvivrà a oggi potrai chiederglielo direttamente. –
Piccoli uncini metallici bucarono la pelle del corpo creato da Tragedia per tenere uniti i lembi che cercavano di scostarsi l’uno dall’altro. Un bendaggio lindo, poi, comparve a fasciare l’intero busto della creatura.
- Cosa pensi delle sue condizioni? – chiese Epistola alzandosi da terra.
- È stato ferito solo superficialmente. Può farcela, ma ne saremo certi solo quando avrà energie a sufficienza per svegliarsi. Dobbiamo evitare in ogni modo che possa tornare nella sua forma base, non potremo difendere una pozza di sangue del Fato da quella spada. –
- Sei davvero convinto che possano ucciderci nella nostra forma base? –
- Possono impedirci di guarire le ferite su questi corpi, perché non dovrebbero essere in grado di trafiggere la nostra essenza? –
Un silenzio pesante cadde sulla spiaggia.
Il viandante ed il soldato erano ritti accanto al corpo magro steso a terra, alle loro spalle la bambina era combattuta tra il guardare la scena e il distogliere lo sguardo.
- Dobbiamo andarcene. – disse il soldato con voce dura – Potrebbero arrivare da un momento all’altro. –
- Dove credi che saremmo al sicuro? –
- In nessun luogo sul creato. Ma appena riusciremo a trovare un posto sufficientemente riparato implorerò nostro padre per ottenere la protezione della Volta degli Dei. –
- La Volta? Sei sicuro? E se quei mortali dovessero riuscire a raggiungerla nell’inseguirci? –
- In quel caso lascerò che sia nostro padre ad impugnare la spada che ci ha donato. Ora muoviamoci, non possiamo perdere altro tempo. –
Il soldato mutò in un massiccio cavallo da battaglia dal manto protetto da pesanti placche di metallo, sulla sua groppa una sella aspettava solamente di accogliere il corpo di Tragedia.
- Volate. – aggiunse il cavallo – Se doveste vedere qualcosa all’orizzonte avvertitemi e scappate. –
- Sei sicuro di questo? – chiese incerto il viandante, stringendo le palpebre fino a far diventare i suoi occhi due linee sottili.
- Sì, so che Tragedia non può sopravvivere a un altro Loro attacco, soprattutto in queste condizioni. Io posso combattere e, senza dover proteggere nessuno, so di poter ancora mandare alla Volta le anime di qualcuno di quei mortali. –
- Come preferisci. – il viandante si ridusse di dimensioni, mentre un piumaggio bronzeo come la barba che gli aveva adornato il viso gli ricopriva il corpo.
Un falco si alzò in volo, cominciando a girare in stretti cerchi sopra al destriero.
- Commedia, non fare l’immatura, vai con Epistola e cercate di allontanarvi il più possibile da qui. –
La bambina fece ondeggiare i suoi capelli rossi quando scosse il capo in segno d’assenso.
Il suo corpo esile si ridusse, lasciando il posto ad un pettirosso impaurito. Non rimase molto in quella forma, però, perché le piume si scurirono, adattandosi a un corpo più grande del precedente.
Un corvo color pece si alzò sbattendo freneticamente le ali sotto lo sguardo scocciato del cavallo, che partì al galoppo verso nord.
I due volatili lo seguivano come puntini nel cielo limpido, con gli occhi fissi sul terreno di fronte a loro.

Il sole cominciò a calare, permettendo al manto nero della notte di coprire le forme.
Il destriero si muoveva rapido e sicuro sui suoi zoccoli ferrati, le placche dell’armatura che lo proteggevano non facevano il benché minimo rumore.
Il suo cavaliere si stava lentamente riprendendo, alternando tratti di veglia a momenti di incoscienza.
Una foresta accolse il trotto forsennato, come un abbraccio fidato che pareva volesse proteggere le due creature per la notte.
Il passo della cavalcatura si fece più lento all’ennesimo mormorio incomprensibile proveniente dal suo dorso.
Il soldato tornò a pestare con i suoi calzari metallici il terreno, in quel luogo nascosto da un basso sottobosco erboso, tra le sue mani reggeva il corpo esile che aveva voluto salvare.
- Tragedia, riesci a parlare? – disse piano, come se avesse paura di disturbare gli abitanti del luogo che li aveva accolti.
- … Male. – le labbra esangui si mossero appena.
- Non importa, rimani sveglio. Ti rimetterai, vedrai. –
- … Non riesco a far rimarginare la ferita… -
- Sei ancora debole per quello. È già incredibile che tu sia riuscito a mantenere questa forma. –
- … Epica, perché mi hai portato con te? Dovresti lasciarmi qui e scappare da solo. –
- Non ti lascerò indietro. Non lo farò con nessuno di voi. –
- Non puoi salvare tutti. –
- Posso salvarne abbastanza. –
- Epica… Io non voglio morire… -
- Non morirai, non te lo permetterò. –
- No… lasciami finire. Non voglio morire così. Non voglio morire per una stupida ferita in un posto dimenticato. Non è questa la morte che voglio. –
- Vedrai, se mai dovrai morire, lo farai tra molto tempo come tu vorrai. –
Tragedia non rispose, si limitò a rimanere in silenzio, con gli occhi socchiusi.
- Commedia avrebbe voluto sapere il perché di quei segni bianchi sulla tua schiena. – disse dopo un tempo interminabile il soldato.
Le labbra dell’uomo scheletrico si piegarono in un sorriso stanco che minacciò di volerle strappare, tanto si tesero.
- Sono ricordi. Se è vero che la morte è il punto più denso di significato della vita, una volta che è passato l’attimo, a chi è rimasto nel Creato non rimane altro che il ricordo. Io non voglio dimenticare nessuno. Profezia, Storia, Mistero, Danza, Terrore, Melodia, Passione, Mito. Voglio che i miei corpi si ricordino di loro. Ogni tacca è un fratello che abbiamo perso. –
- Davvero credi che ti sia utile? –
- No, ma mi consola. È difficile pensare alla morte, quando dovresti essere immortale… Epica, io credo di aver paura di morire senza aver compiuto nulla. –
Il soldato non rispose, fissando con gli occhi ardenti il suo interlocutore.
La Trama del Reale si contrasse, per poi dimenarsi come un animale improvvisamente cavalcato.
- Epica, stanno arrivando. Vattene e lasciami qui. – l’uomo esile si rimise a fatica in piedi –Voglio morire sapendo che potrai proteggere gli altri. –
- Io non ti lascio qui. –
- Devi. Questa non è una normale ferita, c’è qualcosa di sbagliato in lei. Ha tagliato la mia essenza, l’ha avvelenata. Vattene adesso. –
Uno squarcio si aprì nella Trama del Reale, aprendo un’uscita sulla strada che stavano percorrendo gli uomini rimasti in veste scura.
- Epica, trova un modo per fermarli. Vattene! –
Il soldato esitò.
Negli occhi scuri dell’uomo cadaverico che gli stava davanti abitava una luce di sicurezza che lo mise a disagio.
L’uomo nell’armatura si voltò scomparendo nel pelo di una volpe dagli occhi dorati, che si perse tra le radici delle alte piante poco prima che la spada dalla lama nera che la stava seguendo, riuscisse a oltrepassare interamente lo squarcio.





Angolo dell'Autore:

Era da un po' che non mi facevo sentire.
Non vi chiederò "Allora, cosa pensate che sia successo alle Muse? E la Musa imprigionata nel presente, quindi?", a questo punto le possibilità sono poco più di un paio.
Purtroppo questo angolo è stato "costretto" dalle festività. Devo infatti avvertirvi che la settimana prossima non ci sarà nessun capitolo nuovo. Ci ritroveremo Venerdì 4, con il capitolo 18.5, tutto dedicato a Commedia.
Buon 25 Aprile, buon 1 Maggio, io qui chiudo.
Alla prossima!
Vago

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Capitolo 42
*** Capitolo 18.5: Primo debito ***


Un corpo impattò contrò la superficie dell’acqua, senza lasciare traccia del suo passaggio quando si andò a inabissare.

Dove potrebbe essere finita?
Sul fondale, ovvio, ma dove?
Dannazione, odio l’acqua. Non posso nemmeno disgregarmi per fare più in fretta.
Avanti, stai cercando un oggetto metallico in fondo al mare, ci deve essere un modo più rapido per trovarlo di setacciare ogni centimetro.
Intanto, finché non mi verrà un’idea migliore, facciamo un po’ di luce.

Dalla fronte di quel lungo corpo ricoperto di squame lucenti crebbe una sottile appendice, terminante con un globo lucente come il sole.
La coda pinnata si mosse rapida, fungendo da propulsore per quel corpo per portarlo sempre più in basso.

Come è possibile che i draghi abbiano trovato la spada nera?
Nessuno di loro può spingersi così in basso.
Cosa mi ha rivelato la Fenter?

Pensa Viandante, pensa!
E Commedia, per l’amor del Fato, chiamati con il tuo nome.

Sapeva della sua esistenza dai Loro testi, ovviamente. Sia prima che dopo averla perduta annotarono tutto ciò che la riguardava.
I draghi, però, dove mi ha detto che l’hanno trovata?
Ha detto che i draghi al servizio di Vanenir II gliel’hanno portata.
Ma loro non si sono spinti nel fondale.
La Fenter aveva detto chiaramente che l’avevano rinvenuta conficcata nella parete del dirupo.
Questo cambia tutto.
Le spade non sono cadute in mare perpendicolarmente alla sua superficie, altrimenti quell’altra non si sarebbe potuta incastrare nella roccia.
No, sono probabilmente vicino alla porzione occidentale delle Terre, puntando verso questa.
La zona di ricerca si è fatta molto più ridotta.
Devo solamente rastrellare una parete rocciosa.

L’essere dalla protuberanza luminescente ruotò velocemente su sé stesso, tornando a muoversi verso la porzione di continente dal quale era arrivato, arrestandosi solamente quando l’angolo creato dal dirupo verticale e dal fondale sabbioso gli impedì di procedere oltre.

Sfrutterò per una volta le leggi create da Natura.
Non che ce ne siano di realmente utili, ma tra un paragrafo sui rumori durante un momento di silenzio e uno sulla crescita dei licheni qualcosa di sfruttabile c’è.

La creatura scese ancor più di profondità, fino a quando la larga pinna in cui terminava il suo corpo non si adagiò sulla pesante sabbia del fondale.
Le braccia rachitiche coperte da una spessa pelle si allontanarono dai suoi fianchi, distendendo le dita palmate verso i lati del corpo.
Le articolazioni si cominciarono ad allungare, distendendosi di pari passo con il ridursi della dimensione di quel corpo che di naturale aveva ben poco.
Una fine asta di un materiale scuro, denso ma non completamente solido toccò quasi contemporaneamente l’estremità meridionale e quella settentrionale di quella porzione di Terre.
Era appena visibile, un filo teso tra le acque di quell’oceano.

Non mi ricordavo i continenti così difficili da abbracciare.
Quanta materia ho sacrificato in questi anni?
Avrei dovuto riassorbire quella che sprecavo in armi che, poi, puntualmente si spezzavano.
Non importa, ora.
Tanto devo rimanere disteso ancora per poco.

Il filo parve sublimarsi, liberando in un attimo migliaia di bolle che, accarezzando la parete rocciosa, iniziarono la loro corsa verso la superficie.
Le piccole sporgenze e gli anfratti della pietra non rallentavano l’avanzata delle bolle d’aria, che sempre di più si avvicinavano alla luce ovattata del sole.
Dalla superficie dell’oceano si levò una nebbia grigiastra che continuò a salire, cercando di non rallentare nella sua corsa.
Le volute di vapore continuarono a rastrellare la superficie sulla quale scorrevano, imperterrite, palmo a palmo.
Una cascata di scintille sì alzò dal dirupo. Le incandescenti lucciole rossastre attraversarono la cortina grigia che la ammantava, cadendo poi verso la superficie color zaffiro che le aspettava a qualche decina di metri.

Maledizione!
Anche dopo tutto questo tempo, ancora non mi reputa adatto!

La nube si contrasse su sé stessa, condensandosi dalla linea di volute sottili che era in una scura nuvola temporalesca, al cui interno, là dove i raggi del sole la tagliavano, si riuscivano a distinguere volute di polvere.
Di nuovo, non appena la nube fu sufficientemente vicina alla parete, una cascata di scintille roventi illuminò l’aria.

Dannazione!
Perché?
Perchè, ancora, non ti fidi di me?

Qualcosa di solido bucò la superficie evanescente della nube, colpendo con forza la parete rocciosa al punto da farne staccare qualche detrito.
Là dove la crepa era stata allargata qualcosa di bronzeo tornò a vedere la luce, splendendo incerto sotto un pesante strato di pulviscolo.
La protuberanza solida cercò di assumere una forma più comoda, sviluppando dita e articolazioni in grado di brandire qualcosa.
Il palmo cercò di chiudersi attorno all’elsa dell’arma che era stata rivelata, ma subito dovette ritrarsi, fumante, accompagnata dalla cascata di particelle incandescenti.
La nube ondeggiò ansiosa, indecisa, poi l’arto che da questa compariva tornò alla carica, tentando di nuovo di stringere l’impugnatura che le stava davanti.
Le dita si strinsero con uno scatto, cercando di sopprimere le scintille che sotto di esse si stavano generando. Il bagliore che si diffondeva nell’aria divenne più intenso, al punto da far risplendere anche la lama dell’arma incastonata.
La mano dovette abbandonare la presa, ritirandosi fumante all’interno della sicurezza della nube.

Fato!
Fato!
Spiegami questo!
Perché non dovrei essere io il nuovo protettore?
Non è rimasto nessuno che possa impugnarla, adesso!
Perché io non posso prendere quel posto, almeno per una volta?
Spero che tu ti stia rendendo conto delle conseguenze che questa decisione avrà su di noi, le tue stramaledette creature!
E che fine ha fatto la fiducia che mi avevi detto aver riposto in me?
Era comodo avere qualcuno che combattesse il Demone in tuo nome, vero?

Maledizione.

Maledizione!
E ancora, e ancora, maledizione!
Perché non mi permetti di impugnare questo maledetto pezzo di ferraglia?
Guardami! Ho combattuto più guerre di quante Epica possa aver immaginato!
Ho sporcato queste mani di sangue solo per vedere lei libera!
Sono l’ultimo barlume di speranza per una razza che è stata dimenticata!
Perché non vuoi permettermi di impugnare quest’arma?
È perché l’ho sigillata, vero?
Ce l’hai con me perché ti ho privato del piacere di armare il tuo Tempio con una spada di questa portata, piuttosto che con quel tuo dannatissimo libraccio.

Dannazione.

Posso provare a capire il tuo desiderio di non avere a che fare ancora con i mortali, ma qui e adesso non vedo come potresti interferire con i loro affari!
Sono circondato da buchi della Trama e oggetti che avrei preferito dimenticare.
La spada di Follia!
Maledizione, quella maledetta lama nera non sarebbe mai dovuta tornare alla luce!
Io ho rinunciato alla mia patria per poterla non vedere mai più!
Ed ora tu non mi permetti nemmeno di potermi difendere.


Maledizione!

- Non è mia intenzione interferire con te. – la Trama del Reale vibrò possente, facendo increspare le maglie di cui era composto il crepaccio e l’aria circostante.
La nube barcollò tentando di mantenere aggregata quella forma che aveva scelto e, al contempo, non perdere quota.

A si? Cosa staresti facendo, quindi, ora?
Sarai anche mio padre, ma non per questo dimenticherò i debiti che hai nei miei confronti.

- Non dimentico nulla. Ma tu hai frainteso. La mia spada non è mai stata interdetta a nessuno di voi. –

E allora come mi spieghi queste meravigliose ustioni nella mia materia?

- Quella lama ha un potere immenso in sé. Trasforma l’intento di chi la brandisce in concretezza per sé stessa. –

­Questo cosa vorrebbe dire?
Guardami!
Voglio liberarla! Voglio tirarla fuori da quella prigione! Voglio proteggerla!

- Fermati, Commedia. Il moto di Epica era proteggervi tutti. La sua era una lama larga per poter frapporsi a ogni colpo. Io non ti ho creato così. –

E se fossi cambiato negli ultimi millenni?
Io voglio proteggerla, questo non mi porterebbe al livello di Epica?

- Non è questo che sto dicendo. Fermati un attimo, guardati dentro, dimmi, vuoi davvero proteggerla? O quella lama ti servirà per altro? –

Non lo so a cosa mi servirà quella spada!
So che ne ho bisogno per andare avanti in questo viaggio, so che ho bisogno di qualcosa in grado di fronteggiare quella spada nera!

- Commedia, tu non vuoi proteggere qualcuno, tu vuoi portare libertà. Guarda nella tua essenza e dimmi se non c’è qualcosa che brami di più della libertà. –





- Prova a brandirla ora, dicendole perché la vuoi davvero. –
L’arto si protese nuovamente verso l’elsa, tremante e incredibilmente lento.
Scintille azzurre percorsero per tutta la sua lunghezza la lama bronzea che si ridusse, schiarendosi e ripulendosi del sudiciume che l’aveva ricoperta.
L’acciaio parve riforgiarsi, finché tra le dita che nascevano dalla nube non rimase un pugnale dalla lama d’argento lunga poco più di una spanna.

È uno scherzo, vero?
Come dovrei poter combattere con un arnese del genere?
A questo punto avrei fatto prima a recuperare lo stiletto che doveva essere la chiave per la trappola dedicata a Follia!

- Quella lama sa cosa ti serve impugnare. Non preoccuparti del suo aspetto, preoccupati di mantenere sempre chiaro il motivo per cui la impugni. –
Le maglie della Trama si placarono lentamente, facendo tornare il paesaggio alla sua immobilità.
La nube stringeva l’arma con un misto di timore e seccatura, rigirandosela tra le dita e studiando i dettagli poco curati della lama splendente, del piccolo guardamano e dell’elsa appena sufficiente per ospitare la sua mano.

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Capitolo 43
*** Capitolo 19: Respiro ***


Noir si spostò sul lato della strada, abbassando il capo in direzione del terreno. Non voleva che i cavalieri che sentiva avvicinarsi lo riconoscessero.
Forse, se si fosse lasciato catturare, la sua vita sarebbe migliorata. Non sarebbe più dovuto fuggire, si sarebbe fatto bastare la cella buia in cui lo avrebbero sbattuto e quei frugali pasti sicuri che non si possono negare nemmeno ai prigionieri.
No.
Lui non sarebbe stato un comune prigioniero.
Lui era il discendente di Reis.
Nessuno avrebbe avuto pietà di lui, sarebbe certamente stato messo al patibolo.
Si chinò ancor più su sé stesso, a quel pensiero.
Sentiva qualcosa di diverso scorrere nelle sue vene, da quando aveva incontrato nuovamente quel cacciatore di taglie davanti all’abitazione di Razer, da quando lo aveva trafitto con la sua maledizione.
Gli poteva quasi sembrare di sentire una nuova eccitazione nel suo potere, come se una parte assopita si fosse risvegliata e bramasse di uscire dal suo corpo.
Non lo avrebbe ferito. La sua maledizione non lo avrebbe mai ferito, si disse.
Sentiva il corpo magro della ragazza che aveva deciso di portare fino al villaggio successivo pesargli sulla spalla, ma riusciva a reggerlo con sufficiente sicurezza da permettergli di non cadere.
Lo scalpiccio degli zoccoli si fece sempre più vicino, facendo tremare i sassi sparsi sulla via di terra battura.
Sei cavalli gli passarono di fianco al trotto, portando con loro l’odore della stalla in cui avevano passato la notte.
Quell’odore era particolarmente forte, vivo. Non dovevano essere in viaggio da molti giorni.
L’urlo di un uomo fece fermare le bestie.
- Tu, uomo! – il tono era saccente, come se il proprietario di quella voce si stesse sforzando di parlare allo straccione che aveva incrociato.
Noir alzò di poco lo sguardo, cercando di non svelare troppo il suo volto all’interlocutore.
- Cosa porti nel fagotto che tieni sulle spalle? –
- … Le poche cose che possiedo. –
Il trentenne sapeva di essere ricercato per quello che era, non voleva che qualcuno lo scoprisse a trasportare il corpo di una ragazzina morente.
- Non mi paiono poche cose. Apri quella coperta. – Il tono dell’interlocutore si era fatto più aspro, accompagnato dallo scalpiccio dei cavalli che, lentamente, venivano portati dai loro padroni ad accerchiare lo straccione.
Gli occhi gli si indurirono improvvisamente, ma il cappuccio era sufficientemente calato da nascondere quello sguardo di stizza.
- La prego, è tutto quello che ho… - tentò ancora il trentenne, stringendo i denti in risposta al ribollire sempre più violento del suo sangue.
- Capitano! –
Un uomo corpulento scese dal proprio destriero per avvicinarsi a passo pesante a Noir, strattonando poi il fagotto che teneva in spalla per rivelare il suo contenuto.
Le dita del trentenne persero la presa e la ragazza, avvolta nella coperta fangosa, cadde a terra, gemendo appena.
Con un calcio il capitano smosse parte della coperta, rivelando il volto sbiancato dalla febbre.
Noir non riuscì a contenere la rabbia che il gesto gli provocò, colpì con una manata il petto del capitano, facendolo indietreggiare di un passo.
L’uomo impiegò qualche attimo per elaborare cosa gli era stato fatto, ma quando lo fece un pugno guantato colpì in pieno volto il trentenne.
Una spessa patina nera protesse la guancia di Noir dal colpo, ma la forza con cui fu colpito lo fece comunque cadere a terra.
Il capitano si erse su di lui, guardandolo con occhi furenti e le punte dei suoi stivali cercarono quattro volte di raggiungere il ventre molle dell’uomo a terra.
Il trentenne non riuscì a muoversi dalla posizione china in cui era caduto. I muscoli del suo corpo erano tesi, intenti a trattenere il sangue ribollente all’interno della pelle.
Neppure sentì i calci che cercarono di raggiungerlo.
Sentiva nelle orecchie il violento sciabordare del mare rosso che il suo cuore pompava, gli occhi gli lacrimarono ad ogni capillare esploso.
Avvertì appena le persone che lo circondavano parlare.
La ragazza venne privata della coperta che la proteggeva e sollevata malamente da terra per essere buttata sul dorso di uno dei destrieri.
Una seconda ombra campeggiò su Noir, ancora riverso.
La voce ovattata del nobilotto borioso raggiunse a stento il cervello del trentenne.
Con gli occhi iniettati di sangue Noir vide appena quell’uomo alzare un piede sopra al suo capo e abbassarlo violentemente per pestare la sua fronte.
Immediatamente la melassa nera fuoriuscì dai pori del volto di Noir, proteggendolo dalla suola che gli si stava per abbattere addosso. Alla melassa, però, quello non bastò. Appena lo stivale la toccò, il materiale nero gli si avviluppò attorno, serrandosi attorno alla caviglia del proprietario come le mandibole di un animale feroce.
Lo sciabordare nelle orecchie di Noir si fece meno potente, permettendogli di sentire le urla dell’uomo che tentava disperatamente di divincolarsi.
Fu un aculeo nero a eliminare la fonte di quel rumore, facendolo sostituire, però con altre cinque voci.
Il trentenne si sentì mancare.
La sua maledizione non era mai stata così ingombrante.
Qualcosa era cambiato in lei, sicuramente.
Sentiva un desiderio nuovo in quella sostanza che si mischiava al suo sangue, voleva sangue, bramava la morte.
Noir cercò disperatamente di controllare quegli spuntoni, ma non poté far altro che guardare con gli occhi iniettati di sangue gli aculei che, chirurgici, trapassavano i corpi dei cavalieri, sporcando di sangue i finimenti e facendo scappare le bestie con nitriti acuti.
Il corpo della ragazza fu sbalzato violentemente a terra e lì stette, immobile in mezzo ai sei cadaveri.
Gli aculei neri rimasero ancora per qualche secondo ritti all’esterno del corpo del trentenne, in attesa, come predatori che perlustravano l’ambiente circostante in cerca di altri nemici in agguato.
Solo quando si furono accertati di essere da soli si permisero di ritrarsi, lasciando visibili le lacerazioni sulla pelle di Noir, che si alzò in piedi tremante.
Si guardò stralunato le braccia, dove larghe ferite si erano aperte e stillavano sangue vermiglio.
Non aveva abbastanza bende per fasciarsi.
Avrebbe potuto distruggere la coperta, ma la ragazza, certamente, ne aveva più bisogno di lui.
Si maledisse per essere troppo buono.
Preso il corpo febbricitante, lo riavvolse nella coperta lurida e se lo rimise in spalla, allontanandosi il più velocemente possibile dal campo di morti che si era lasciato alle spalle.
L’avrebbe lasciata al primo villaggio e se ne sarebbe tornato per la sua strada, si ripeté.
Poi un’altra domanda gli sorse. Perché la stavano cercando? Chi erano quegli uomini che aveva ucciso?
Certamente loro non avrebbero più potuto rispondergli.
Uno di loro era sicuramente un nobile, o, per lo meno, aveva un buona cultura viste le parole che aveva utilizzato per rivolgersi a lui.
In ogni caso, ora che erano morti il motivo che li aveva spinti fin lì non era più importante.

Razer arrancò sulle vie sterrate che ancora percorrevano i versanti dei Muraglia.
Le conosceva tutte, una a una. Decine di volte le aveva percorse con suo padre mentre andavano a caccia, prima che tutte le foreste rigogliose in cui gli animali si nascondevano fossero ridotte in braci fumanti.
Casa sua non era lontana, lo sapeva.
E sua sorella non poteva essere morta.
Non doveva essere morta.






Angolo dell'Autore:

Purtroppo questo angoletto a fondo pagina sta diventando un portatore di cattive notizie, piuttosto del momento di rilassatezza e parlata libera che volevo fosse. Prima o poi riuscirò a farlo tornare ciò che dovrebbe essere.
Ma, fino ad allora, vi beccate questa comunicazione di servizio.
Sono in un periodo particolarmente "caldo" della mia vita universitaria e non riesco fisicamente a tenere i tempi che mi sono sempre imposto.
Fino a nuovo ordine, quindi, mi costringerò a pubblicare una volta ogni due settimane, invece che settimanalmente come ho (quasi) sempre fatto. Spero, con tutto questo tempo che mi sto concedendo, di portarmi avanti sui capitoli, arrivando magari ad avere una base su cui contare per tornare il prima possibile con i soliti tempi di pubblicazione.
"Non può piovere per sempre", dopotutto. (un biscotto a chi riconosce la citazione)

Cercando di chiudere staccandosi dai problemi che ho incontrato, vi giro una domanda.
Perchè, secondo voi, mi sto soffermando così a lungo (tre capitoli, mi pare) sull'incontro tra Noir e la ragazzina?
E no, la risposta giusta non è che sono a corto di idee e sto cercando di allungare il brodo con cose inutili. Il brodo di base è giù abbastanza allungato di suo.

Alla prossima, nonchè venerdì 25, e scusatemi ancora per l'inconveniente.
Vago

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Capitolo 44
*** Capitolo 19.48: Epistola ***


Un falco e un corvo si rincorrevano, volando in cerchio sopra una catena di alti monti innevati. Un battente vento gelido faceva vibrare le loro piume, ma i due uccelli non parevano risentirne.
- Epistola … tu credi che Epica e Tragedia siano riusciti a scappare? –
Il falco non schiuse nemmeno il becco, continuando a battere le proprie ali per mantenere la quota.
- Sai, pensavo che potremmo scappare … potremmo chiedere aiuto agli altri dei! I loro servitori potrebbero ospitarci nel Palazzo del Sole o in quello della Luna! Nessuno riuscirebbe ad arrivare fin là! –
Il falco sospirò, socchiudendo per un attimo gli occhi dorati. – Non possiamo rischiare di condurre quei mortali ai Servitori. Se si rivelassero più potenti di quanto ci abbiano mostrato finora, potrebbero mettere a rischio la stabilità del Creato. –
- Ma i Servitori … i Servitori potrebbero proteggerci! –
Il falco tornò a chiudersi nel suo silenzio, le pupille erano intente a scandagliare il terreno in cerca del più piccolo movimento sul soffice manto candido che ricopriva quelle vette.
Il vento ululò nel silenzio che era calato, portando con sé il suo odore gelido di ghiaccio.
- Secondo te … perché Epica non scappa da solo? Se non dovesse proteggerci sopravvivrebbe di sicuro con la spada del Fato. – riprese il corvo con voce tremante.
- Non lo so. Quando nostro padre gliela diede, lo prese in disparte per dirgli qualcosa. Epica non ci ha mai rivelato di cosa si trattasse. La mia idea a riguardo è che gli abbia dato quell’arma facendogli promettere che ci avrebbe sempre protetto. –
- Ma da quanto mi raccontava Storia, solo Aria, Fuoco, Terra e Acqua forgiarono le loro armi. Quella del Fato, quindi, da dove viene? –
- Non lo so. Nessuno lo sa, probabilmente, oltre a nostro padre. Si dice che abbia usato quell’arma per marcare i destini sul suo libro. –
- Quel libraccio? Ma è impossibile! Una spada del genere avrebbe strappato tutte le pagine! –
- Hai ragione, infatti sono convinto che fosse una delle poche invenzioni di Mito, questa storia. È anche vero, però, che nessuno di noi aveva mai visto quella lama, prima del momento in cui Epica l’ha portata da noi. –
Di nuovo, il silenzio cercò di sopraffare l’ululato del vento e il frusciare delle piume.
La temperatura si era alzata quel poco che bastava per permettere a un leggero nevischio di lasciare le nubi per depositarsi al suolo.
Il cielo grigio a stento si riusciva a distinguere dalla coltre candida che ricopriva quelle vette, quasi la solidità non fosse altro che un ricordo di qualcosa di sparito.
La Trama rimaneva immobile, impassibile tutto intorno. Nessuno stava provando ad attraversarla o squarciarla.
Qualcosa sollevò un ventaglio di neve farinosa al suo passaggio, troppo veloce perché un occhio potesse coglierlo.
Una creatura dalla pelliccia chiara si fermò sulla neve improvvisamente, scrutando l’ambiente circostante. Fu un fischio acuto ad attrarre i suoi occhi dorati verso il cielo, dove i due volatili scendevano rapidi in stretti cerchi.
- Tragedia? – chiese il falco non appena le sue zampe artigliate furono fagocitate dalla coltre bianca.
- Ha deciso di rimanere indietro. – fu la risposta secca che ricevette.
Il corvo atterrò, scrollandosi leggermente per far cadere i fiocchi gelidi più ostinati dalle sue piume color pece.
- Devo sigillare la Trama, adesso. Potremmo non avere un’altra occasione in futuro. – continuò con tono duro la volpe, che rapidamente mutò fino a tornare a vestire l’armatura dell’adone.
Una mano magra cinse il polso del soldato con una presa ferrea.
- Non torniamo a discuterne. Tragedia aveva ragione allora come ora che è morto. Non possiamo privarci di quella spada, non ora. O vuoi davvero sancire così la fine della nostra razza? –
- Vuoi davvero che finisca tra le loro mani? –
- Ma riesci a sentire le tue stesse parole? Quella spada non si lascia impugnare dai tuoi stessi fratelli, credi davvero che dei mortali la possano brandire? –
La lama bronzea si piantò pesantemente nella neve fresca mentre il soldato le si sedette dietro, guardando il suo stesso riflesso sulla superficie lucida.
- Cosa dovremmo fare, Epistola? Tu, che conosci tutto il Creato, dove pensi che dovremmo andare? Siamo rimasti solo noi tre … -
Il corvo atterrò poco distante, silenzioso, quasi avesse paura di intromettersi nella discussione.
- Epica, non lo so. Non so come potremmo sopravvivere, ma sicuramente privarci di quella spada non è una possibilità. Sappiamo che ci possono seguire, ma non sanno ancora muoversi agilmente nella Trama. Li possiamo sentire arrivare, possiamo scappare in tempo e poi … potremmo provare a confonderci. Potremmo andare in un foresta e lì rimanere mimetizzati nella fauna. Potranno anche raggiungerci, ma non riusciranno ad ucciderci, se non ci riconoscono. –
- Davvero? Davvero questo è il tuo piano? Nasconderci finché loro non saranno morti? –
- Conosco dei posti, migliaia di esemplari ci vivono. Perché non potremmo rinunciare alla nostra libertà per un secolo? Un solo secolo per il resto dell’eternità. –
- Ti rendi conto di quel che stai dicendo? Quanto poco vale, per te, la libertà? –
La Trama vibrò leggermente, come un’arpa le cui corde vengono accarezzate lievemente.
- Epica, Epistola, stanno arrivando … - disse debolmente il corvo tremante.
- Sono ancora lontani. Prepariamoci ad andarcene. – il soldato si rialzò da terra, lasciando che la lama sparisse nell’etere.
La spada dalla lama nera tagliò la membrana dell’aria con precisione quasi chirurgica, facendola appena increspare al suo passaggio, piantandosi con violenza al centro del torace di Epistola, che rimase attonito, con le labbra appena socchiuse e un sibilo fioco che fuggiva dalla sua gola.
Gli occhi del viandante barbuto si fecero fiochi, vitrei, mentre le marcate rughe che increspavano la sua pelle bruciata dal sole di centinaia di deserti si distendevano.
Una scintilla di volontà si accese nel suo petto.
Le folte sopracciglia castane si piegarono, stringendosi là dove il naso aquilino nasceva.
Le scarpe consumate, troppo leggere per quel terreno ghiacciato, affondarono ancor più nella neve quando le gambe che su di loro si reggevano cercarono un appoggio più sicuro.
I muscoli sottili si tesero in un ultimo sforzo, costringendo il corpo impalato ad allontanarsi dalla lama che lo aveva quasi interamente trapassato.
L’ossuta mano sinistra si strinse là dove l’armatura bronzea del soldato terminava per permettere all’elmo di incastrarsi, le dita della gemella si chiusero sulle zampe magre del corvo, sollevandolo dal manto candido di forza.
La neve depositata cercò di porre resistenza a quella corsa disperata, ma non poté impedire ai tre corpi di sparire da quelle vette quando il portatore di quella lama si fu appena affacciato al taglio che aveva prodotto nella Trama.

Il soldato e il corvo vennero scagliati su un sottobosco infestato da rovi e piccole piantine appena germogliate. Dietro di loro, il viandante cercò di mantenere l’equilibrio, ma dopo pochi secondi cadde di volto sulla poca erba che era riuscita a crescere all’ombra degli immensi alberi che la circondavano, scrollandosi di dosso la neve che si era portato appresso.
Sulla sua schiena si apriva un profondo squarcio dal quale nemmeno la sua linfa vitale pareva aver intenzione di sgorgare.
Il suo petto si muoveva sconnessamente, mentre le palpebre rugose continuavano ad essere trapassate da spasmi disperati di dolore.
L’adone si rialzò in fretta per raggiungere il viandante disteso.
La barba si mosse appena quando, una volta che il volto su cui era cresciuta fu sollevato dal terreno, provò a parlare.
- Abbiamo fatto un altro errore … – disse debolmente Epistola, lasciando che quelle parole scivolassero via dalle sue labbra socchiuse.
Un pugno bronzeo si abbatté sul suolo, rimbombando nel silenzio della foresta e facendo scappare i piccoli animali che si erano avvicinati.
- Dannazione. – si lasciò scappare Epica dall’elmo.
La Trama ritornò a vibrare debolmente.
- Presto! Andatevene! Lasciatemi! –
Il soldato guardò gli occhi induriti di Epistola, le cui iridi scure stavano via via perdendo di vitalità.
- Perdonami. – disse ancora l’adone, prima di deporre il corpo morente a terra e rinunciare alla propria armatura per assumere le fattezze della volpe, che si dileguò nel sottobosco inseguita dal corvo color pece.




Angolo dell'Autore:

Dannazione se è stato difficile decidere quando interrompere questo capitolo. Davvero.
La mia prima intenzione era (spoiler a metà) chiamarlo Epistola, Epica, Commedia. Così, per chiudere in bellezza questi capitoli sul passato. Poi, però, ho deciso di far coincidere i tempi dei capitoli dedicati al Viandante con quelli delle Muse, in modo da far terminare il capitolo 20.49 per quasi conitnuarlo con il 20.5.
Ho dei grossi progetti in mente, per quanto riguarda la gestione dei tempi e spero di riuscire a trasporlo in maniera perfetta sulla carta.
Per ora vi lascio, ma ho davvero molto da dire e vi prometto che mi prenderò il tempo necessario per snocciolare questi capitoli punto per punto.
Alla prossima pubblicazione, purtroppo ancora tra due settimane.
Vago

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Capitolo 45
*** Capitolo 19.5: Secondo debito ***


Maledizione! Un pugnale!
Con tutto quello che il Fato poteva lasciarmi, sono rimasto con un pugnale.
Come dovrei fare a liberarla?
Se anche riuscissi a tirarla fuori da quella gabbia, non posso pensare di ucciderli tutti con solamente quest’arma.
Non importa quanto Lei sia brava a forgiare armi, quella maledetta lama nera sarà comunque in grado di rompere ogni nostra creazione.
Devo armarla, devo darle qualcosa con cui possa combattere ad armi pari con Loro.

Commedia, è il momento di dare fondo alla tua scorta di debiti da riscattare. E, per quanto a loro possa non piacere, non riusciranno a farmi cambiare idea.

Lo stiletto si fece etereo, mescolandosi alla materia di quelle braccia fluttuanti che, a loro volta, sparirono per tornare un tutt’uno con la nube che le aveva generate.

È passato parecchio tempo da quando ci sono entrato l’ultima volta.

Una piccola fessura si aprì nella Trama del Reale.
La nube ci serpeggiò dentro venendone quasi risucchiata.

Odio questa sensazione.
Ogni singola volta è sempre così.
Detesto dover infrangere le barriere erette da Tempo per mantenere la bolla intatta.
I mortali non hanno idea di quanto siano fortunati a doverla attraversare una sola volta nella loro vita… Beh, la maggior parte, almeno, visti i casini che mi sono capitati nell’ultimo secolo...
Un secolo, anzi, qualche anno in più. Che strano pensarci adesso, è già passato tutto questo tempo dal Cambiamento…

Un giardino rigoglioso si spalancò davanti alla nube turbinante.
Una brezza lieve faceva frusciare i fili d’erba e le foglie degli alberi, creando una musica d’atmosfera per quel luogo meraviglioso.

Devo tornare solido, non ho intenzione di disperdermi per tutto il Giardino delle Anime e ritrovarmi a vagare disperatamente in cerca dei miei pezzi mancanti.

Alcune figure si affacciarono tra i tronchi.
Le loro forme non erano chiare, alcuni ricordavano animali, altri persone. Creature piccole svolazzavano attorno ad alcune più grandi, a volte tanto grandi da poterne ospitare altre ancora sui loro corpi.

Dai a un mortale la possibilità di assumere qualsiasi forma e lui si limiterà a sceglierne una per le eternità.
Spero che quelle anime non vengano ad intralciarmi, non ho voglia di perdere tempo con degli esseri curiosi.
Certo che, essendo già qui, potrei anche gettare uno sguardo a quegli eroi scappati di casa… o a Seila. Lei non ho idea di che fine abbia fatto, qui dentro.
Ho deciso, forma da Servitore del Fato. Loro dopotutto mi hanno sfruttato come se effettivamente lo fossi.

Una figura nera mosse i primi passi sul sentiero che stava pestando.
La pesante cortina di fumo nero che gli aleggiava attorno danzava appena sotto la brezza che la accarezzava ad ogni soffio.
I due occhi splendenti si strinsero fino a diventare poco più di spiragli luminosi su quel volto privo di lineamenti.
I suoi passi battevano pesanti sul tracciato, cadenzati, sempre diretti verso la struttura bianca che campeggiava al centro del giardino.
La Volta era rimasta immutata, le pareti di materia bianca serpeggiavano e si intrecciavano per salire verso il cielo, sotto al quale si richiudevano come una cupola candida.
Il tavolo che la presiedeva era vuoto, silenzioso.
La creatura fumosa gli si avvicinò decisa, impassibile, battendoci un pugno sopra tanto forte da far vibrare la plancia.
Il colpo risuonò tremante per tutta la Volta.
Un rivolo d’acqua si arrampicò sulla gamba di uno degli scranni.
La brezza cambiò direzione repentinamente, invadendo l’interno della volta.
Una scintilla si accese, ardente.
Un piccolo turbine di sabbia si mosse.
- Musa, perché sei venuta qui senza nostro ordine? – una voce potente si levò dalla scintilla che, lentamente, cominciava a divampare sopra lo scranno su cui era comparsa.

Commedia, stai per fare qualcosa di veramente pericoloso.
Giusto così, per dirtelo, nel caso non te ne fossi accorto.

- Sono qui per chiedervi di ripagare il debito che avete con me. –
- Noi non abbiamo debiti con te, ora vattene. – la scintilla tornò a cimire, cercando di spegnersi.
- Ho badato alle vite dei vostri templi. – disse lo spettro fumoso a voce alta, facendo rimbombare le sue parole nella Volta e riportando l’attenzione degli dei su di sé.
- Ho badato alle vite dei vostri Templi. – ripeté, più piano – Sotto vostro ordine ho assunto le sembianze dei vostri servitori per portagli l’ordine di attaccare. Ho utilizzato la mia forza vitale per permettere a Vago di riportare con successo in vita ben quattro dei suoi compagni, quando la sua non sarebbe bastata a farne resuscitare uno solo. Ho combattuto tre volte contro quel Follia che neppure voi siete riusciti ad uccidere quando ce lo avete avuto di fronte, qui, nella Volta. Ho rischiato la mia stessa esistenza per eseguire i vostri ordini. Ho permesso al vostro Creato di continuare ad esistere. Io sono stato il fautore della sconfitta di Follia, quando i vostri servitori non si sono neppure mostrati. Adesso, io vi chiedo di rendermi il debito che avete con me. –
- Cosa vorresti da noi? – il mulinello di sabbia tremò, ingrandendosi e richiamando a sé pietruzze più grandi di quelle che già lo componevano.
- La spada degli Abissi. –
- L’arma di Acqua? Mai! – la scintilla si infervorì, divampando.
- Voglio liberare l’altra Musa e per farlo ho bisogno di un’arma divina. La mia scelta è ricaduta su quella spada. –
- Perché credi che ti darei mai la mia arma? – il rivolo si agitò incerto sullo scranno e la voce che ne fuoriusciva pareva ancor più titubante.

Ottimo, stanno cominciando ad avere dei dubbi.
Devo farli crollare. Ho bisogno di quell’arma.
Ho bisogno di un aiuto dall’interno e so di non poter contare su mio padre. Lui non si abbasserà mai ad intervenire in discussioni di questo genere.

- Io non credo nulla. Io so che mi lascerai utilizzare la tua arma. Dopotutto, non è forse vero che, se io non ci fossi stato, quel Terra che vedete al vostro fianco non sarebbe mai esistito? –

Spero non comincino ora a vagliare i possibili multiversi in cui i loro Templi non fossero stati resuscitati da Vago.
Devo essere io l’unico qui dentro a sapere che, se loro non fossero stati ancora in vita, non sarebbero arrivati alla Rocca e, di conseguenza, Terra, il vecchio Terra, non si sarebbe dovuto sacrificare assorbendo quel colpo.
Loro devono solo pensare che io sia di importanza vitale e per farlo non devo lasciargli il tempo di riflettere.
In fondo anche le loro menti hanno dei limiti.

- Ripeto, non è forse vero che quell’ammasso di sabbia non sarebbe qui se io non gli avessi permesso di tornare in vita? –

Devo continuare così, asserzioni che hanno senso solo se prese fuori dal contesto generale.
È inopinabile che se non avessi fatto risorgere quei quattro disgraziati, Codero non sarebbe mai potuto diventare Terra.

- Forse, Acqua, questa Musa non ha torto… - il mulinello di sabbia e pietruzze parve rallentare nel suo ruotare.
- Terra, stai in disparte. Il tuo cambio di ricettacolo non ti fa vedere i fatti in maniera chiara. –
- Fuoco! – ruggirono le pietruzze, tornando a roteare con forza e richiamando a loro ancora più frammenti di roccia – Io sono il fulcro di questa discussione. Davvero puoi affermare che lui non abbia ragione? –

Ottimo, Terra sta facendo esattamente quello di cui ho bisogno.
Tocca ancora a me, Fuoco non deve pensare ai possibili risvolti.

- Quello che mi ha portato fin qua non è il voler seminare discordia tra voi. Vi chiedo solamente in prestito la Spada degli Abissi, solo quella. –
- Taci, Musa. La tua voce mi irrita! –

Oh, buon vecchio Fuoco, perché mi preoccupo del fatto che tu possa anche solo pensare di pensare a qualcosa?
Sei una testa calda, e non solo quando ti manifesti con quella chioma fiammeggiante.
Avanti, Terra e Fuoco stanno litigando come bambini. Una forza inarrestabile si sta scontrando con un muro indistruttibile.
Lo sanno tutti, questo.
Ora ho bisogno che qualcuno di loro si prenda l’incarico di paciere. Io non posso, ovviamente, altre parole da parte mia non farebbero altro che incasinare di più la situazione.
Me ne starò tranquillo e remissivo nel mio angolino.
Sono venuto qui con l’intento di far casino e prendere tutto quello che mi viene lanciato. Non sono così ingenuo da pensare che la Spada degli Abissi mi possa venir affidata con leggerezza, ma le armi elementari, in fondo, sono quattro.

- Fuoco! Basta così! – il ventò che turbinava nella stanza si abbatté con forza sui presenti, iracondo – Non è tuo specifico compito mettere a tacere chi viene in udienza a noi, per quanto abbia portato una domanda discutibile. –

No! No, Aria!
Non soffiare ancora sul fuoco!

Battuta infelice, in questo momento.
Non è mia intenzione vedervi discutere, sono io l’essere su cui dovete concentrarvi!

- Per quanto vorresti la mia arma? – chiese il rivolo, facendo sì che la sua voce sopraffacesse il rumore che affollava la Volta.
- Cosa hai detto? – ruggì la scintilla che ormai era divampata incontrollabilmente.

Cosa?

Cioè, tutto secondo i piani…

- Te la verrò a riconsegnare nell’esatto momento in cui avrò liberato l’altra Musa e saremo entrambi al sicuro da una possibile morte. Non solo, consegnerò oltre la Spada degli Abissi, se mi sarà possibile, anche la spada che in sé porta ancora il potere di Follia. –
L’assemblea ammutolì.

Avessi una bocca, in questo momento, mi passerei volentieri la lingua sulle labbra per attenuare la tensione.
Forse ho fatto una scelta giusta nel non mostrarla, questa volta.
Non devo far trasparire il mio reale stato d’animo.
Acqua è colei che so essere più di tutti propensa al dialogo.
Posso ancora trattare in modo che tutti ne abbiano un ritorno.

Una scintilla di energia azzurra si condensò a mezzaria, abbassandosi verso il piano del tavolo e assumendo fattezze identificabili di pari passo.
- Prendila e vattene. Se dovessi compiere qualcosa di abbietto con questa spada, ne pagherai con la tua vita. –

Vorrei poterle chiedere cosa intende esattamente con abbietto.
Uccidere mortali può essere considerata un’azione abbietta?
Questo ultimatum gode della proprietà transitiva? Se dovesse essere Lei a compiere qualcosa di spiacevole con questa lama ne pagherei comunque io il prezzo?
Questo è un contratto troppo fumoso, per i miei gusti.
Ma, ehi, sono venuto fin nella Volta degli Dei senza invito, ho scatenato una faida divina e ne sono uscito illeso con ciò che avevo chiesto.
Prendi e porta a casa, Commedia.
E ricordati di chinare il capo.

Lo spettro fumoso strinse le proprie dita sull’elsa della spada, la cui lama era nascosta alla vista da un fodero che pareva fatto di flutti vorticanti.
- Te ne sono grato. – disse ancora, chinando la testa verso il suolo in segno di rispetto al rivolo d’acqua.
- Vattene ora, prima che possa cambiare idea. – rispose gelida la voce interpellata.
Lo spettro scomparve alla vista dei presenti, facendosi risucchiare da una sottile crepa della Trama che collegava quel luogo al Creato.

Adesso che ho tutto quello che mi serve, ho solo bisogno di qualcuno che apra quella maledetta gabbia di diamante.
Quel maledetto draghicida non tornerà mai sui suoi passi, ho bisogno di un altro mortale.
Quell’altro dovrebbe andar bene e, sicuramente, sarà più facile costringerlo a seguirmi.

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Capitolo 46
*** Capitolo 20: Direzioni ***


Razer cadde con le ginocchia premute contro il suolo.
Le macerie della casa che lo aveva ospitato erano sparse al suolo, di nuovo, come se la ricostruzione di quella dimora non fosse mai avvenuta.
Le dita dell’uomo affondarono nella terra smossa su cui si era accasciato.
Non gli era rimasto nulla.
Sua sorella.
Aveva perso anche sua sorella.
Gliel’avevano strappata dalle braccia. L’avevano uccisa.
Chi?
Di chi era la colpa?
Avrebbe rimesso la maschera, sarebbe tornato a cacciare.
La maschera …
Le dita di Razer si strinsero ancor più attorno al terreno smosso che precedeva quello che era l’ingresso della casa.
Quell’essere l’aveva presa e gliel’aveva distrutta sotto gli occhi.
Le palpebre dell’uomo dagli occhi scuri si serrarono per un momento, come per trattenere all’interno di quelle iridi scure il dolore che gli stava crescendo dentro.
Se quell’essere non gli aveva mentito in quell’incontro nelle segrete, erano entrambi alla ricerca di vendetta.
Lo avrebbe aiutato.
Si, lo avrebbe aiutato certamente. E gli avrebbe ridato la sua maschera.
Sarebbe tornato a uccidere con quel volto.
Razer si alzò a fatica.
Le ferite che gli segnavano i polsi stillavano ancora sangue, macchiandogli le maniche che le celavano.
Gli occhi gli bruciavano alla fioca luce del sole calante, troppe erano le ore di sonno che aveva perso, chiuso in quella cella.
Aveva ancora un compito da portare a termine, nessuno sarebbe sopravvissuto al suo passaggio.
L’uomo dal polpaccio ustionato avanzò ulteriormente verso le macerie della casa, muovendosi tra i detriti per raggiungere la posizione in cui, prima, c’era la sala da pranzo, il tavolo e, su questo, il coltello che aveva posato.
Quella lama non era ancora sazia di sangue.
Voltò il viso verso la vetta mozzata del Flentu Gar, guardandola con odio.
Avrebbe vendicato tutti, non avrebbe permesso alle ferite del suo corpo di rallentarlo.
Si rimise in piedi, con le suole salde sui resti di una parete che nel collasso era rimasta integra. Avrebbe voluto urlare al cielo, ma la polvere che ancora aleggiava gli irritava la gola al punto da impedirgli di emettere alcun verso.
Scese con un balzo incerto dal podio su cui si era ritrovato, imponendosi di non cadere a terra all’atterraggio, per quanto le sue caviglie scorticate tremarono non appena il peso corporeo venne di nuovo caricato su di loro.
Mise un piede avanti, poi l’altro, poi di nuovo il primo. Ognuno rivolto verso quella che un tempo fu la Terra degli Eroi.

Noir avanzava a fatica sulla strada disconnessa.
La terra era attraversata per tutta la sua lunghezza da profondi solchi lasciati dalle ruote dei carri sul suolo bagnato dalla pioggia, passaggio dopo passaggio, costringendolo a camminare sul limitare di quella via, là dove l’erba quasi gli ghermiva le ginocchia.
Il fagotto che portava in spalla non reagiva a nulla. Non reagiva all’incespicare del trentenne o ai saltuari scrolloni che le dava quando la coperta gli scivolava dalla spalla e minacciava di fargli perdere la presa.
Noir non osò mai aprire quel cencio arrotolato per scoprire se stesse trasportando o meno un cadavere.
Tutte le ferite che gli si erano aperte sul corpo durante l’esplosione di violenza della sua maledizione ora erano coperte da una spessa crosta nera e rigida.
Il grande lago che si era creato a seguito della caduta del regno nanico splendeva alla sua destra sotto i raggi di quel sole che, lentamente, cercava di nascondersi dietro la linea scura della Grande Vivente.
Le sagome di pochi tetti di legno si cominciarono a delineare là dove quella via pareva voler condurre.
Doveva trattarsi di un piccolo villaggio, troppo distante dal lago per appartenere a una comunità di pescatori.
Noir cercò di accelerare il passo, ma le sue gambe mantennero ostinatamente la stessa andatura zoppicante che l’aveva condotto fin lì.
Una volta che si fosse liberato del peso di quella ragazzina che si portava appresso, avrebbe finalmente potuto raggiungere Derout e, da lì, il Continente.
L’avrebbe solamente dovuta lasciare davanti alla casa di qualcuno, bussare e scappare. Ci avrebbero pensato poi loro al resto.
Continuò la sua avanzata, cercando di non mettere i piedi in fallo all’interno dei solchi che accompagnavano il suo passo.
Lunghe distese di campi seminati gli si aprirono a sinistra, come ad accoglierlo in quel paesello che, finalmente, si era lasciato raggiungere.
Le assi della scala che permettevano di raggiungere la porta di ingresso della prima casa scricchiolarono sotto il peso di Noir.
Il fagotto venne calato con cura sul piccolo soppalco che precedeva l’uscio e lì rimase, appena ansante.
Era ancora viva, per lo meno la sua non era stata una fatica inutile.
- Oh, ti prego, non un altro. – disse una voce seccata alle spalle del trentenne.
Noir si voltò di scatto, spaventato da quella voce che lo aveva preso di sorpresa.
Un abitante? Poteva essere un’abitante di quel paesello?
L’elfo dai capelli scuri non lo degnava della sua attenzione, tutta diretta alla coperta di cui si era appena liberato.
- Tu … come mi hai trovato? - Il trentenne non riuscì a trattenere lo stupore del trovarsi di fronte lo stesso elfo che li aveva aspettati alla dimora di Razer.
- Hai salvato questa mocciosa. Doveva crepare per le botte che gli avrebbe dato il suo padrone, ma, qualcuno, ha incasinato qualche capitolo. Maledizione, la Trama si sfibrerà completamente con tutti i buchi che si ritrova. E poi chi lo sente quel vecchio? –
- Che cosa sei tu? – continuò Noir con voce rotta, facendo un passo indietro, verso l’ingresso di quella dimora.
L’elfo parve non sentirlo neppure, salì i pochi gradini che lo separavano dal fagotto e ci si chinò sopra.
- Certo che ti hanno ridotta proprio male, mocciosa. – disse borbottando tra sé e sé – Potresti crepare domani e risolvere ogni mio problema, o potresti campare cent’anni e lasciare dietro di te uno squarcio nella Trama del Reale tanto profondo da permettermi di ritornare in patria … comunque, benvenuta nel gruppo. Per ringraziarti di avermi fatto trovare tanto velocemente Noir, voglio darti una possibilità. Tanto, per ora, al Fato non interessa che io possa giocare con i Buchi. –
- Cosa vuoi farle? – Noir si scostò ancora, la sua voce tremante rendeva quelle parole poco più di sussurri.
L’elfo si piegò sul fagotto, scoprendo il viso bianco cadaverico all’ultima luce che il sole poteva regalare al terreno. Il corpo in preda agli spasmi della febbre fu percorso da un brivido gelido, tutti i muscoli, a stento distinguibili dalle ossa appuntite che ricoprivano, si tesero, facendo parere la ragazza ancor più minuta.
- Non sarà la febbre ad ucciderla. – disse l’elfo voltandosi con occhi duri in direzione del discendente di Reis – Ora tu verrai con me. –
- Cosa? – il trentenne cercò di fare qualche passo indietro, ma il corrimano della scaletta che anticipava l’ingresso della casa al quale si era avvicinato lo costrinse a bloccarsi.
- Ho bisogno che tu faccia un lavoro per me. – l’elfo appoggiò la propria mano destra sulla spalla dell’uomo, stringendo le dita fino a far increspare la stoffa consumata della sua camicia.
Sotto la pelle di Noir qualcosa si mosse, piccoli serpenti agitati che scivolavano lungo le vene più superficiali, come per tastare l’ambiente esterno a quel corpo.
L’elfo scompare in un turbinio di piume chiare, trascinando con sé Noir che, paralizzato, assisteva impotente ai suoi piedi che perdevano il loro appoggio sullo scalino.
Le ali di un’immensa aquila si spiegarono nel cielo, facendo calare violente folate sulla superficie del lago scuro.




Angolo dell'Autore:

Detesto non procedere con questa storia, detesto non potervi portare ogni settimana un nuovo capitolo.
Mi prendo ancora, a malincuore, una settimana di rallentamento, quindi la settimana prossima non pubblicherò, poi, da quella ancora successiva, ogni venerdì al vostro risveglio avrete un capitolo nuovo.
Per il resto, in sottofondo sto lavorando per voi, stiamo lavorando per voi, visto che nelle retrovie non ci sono più solo io da qualche mese a questa parte, e sul mio desktop ora campeggiano alcuni file con i prossimi capitoli belli impacchettati.
Stiamo per arrivare al giro di boa, alla fine di questa seconda parte di questa storia, là dove le tre tracce che abbiamo seguito, i mortali, il passato e Commedia, si intrecceranno per l'ultima volta prima di chiudere tutto.
Per ora chiudo, perchè non voglio bruciarmi tutti gli argomenti che voglio trattare nel maxi-Angolo che vi troverete tra qualche settimana.
Vago

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Capitolo 47
*** Capitolo 20.49: Epica, Commedia ***


Un corvo dalle piume color pece saltellò appena sul ramo su cui si era posato, facendo scappare tra le frasche uno scoiattolo che gli si era avvicinato troppo.
Ai piedi di quello stesso albero, una volpe dai dorati occhi lucenti si accarezzava la folta coda con il muso appuntito.

Come posso salvarci da questa situazione?
Arriveranno, probabilmente in questo momento ci avranno quasi rintracciati.
Stanno diventando sempre più rapidi e precisi nei loro spostamenti.
Com’è possibile che abbiano un simile controllo sulla Trama del Reale? Come possono aprirsi un varco attraverso la sua maglia? Dove hanno trovato quell’arma in grado di ucciderci?
Non me lo diranno mai, tanto.    

Commedia non può combattere, a stento riesce a sopravvivere quando è solo.
Perché Melodia si è sacrificato per lui?
Poteva lasciarlo disgregarsi e disperdersi nell’aria. In questo modo Commedia non sarebbe stato in pericolo finché non fosse riuscito a riaggregare tutto il suo essere e Melodia non sarebbe stato ferito.
Cosa abbiamo guadagnato in tutto questo inutile correre e nasconderci?
Nulla.
Sappiamo solo che possono ucciderci.
No, non è vero, Passione ha ottenuto qualcosa, li ha fatti titubare.
Questo, però, non mi servirà a nulla. Per quanto possano provare ancora sentimenti umani, mi sembra evidente che siano oscurati dalla loro sete di morte.
Commedia, cosa posso farmene di te?

L’aria era pesante e calda e pareva che nessun vento passeggero avesse intenzione di trascinare via quella cappa che aleggiava tra gli alti tronchi.
Il corpo di Epistola non era altro che un lontano ricordo nel sottobosco, lasciato alla natura su cui si era accasciato.
- Tragedia… - disse la volpe, incespicando su quel nome. Solo dopo qualche secondo di pausa riuscì a riprendere parola – Tragedia mi ha detto il perché di quei segni sul suo corpo. –
Il corvo abbassò di scatto il capo per poter puntare i suoi occhi neri sulla creatura bronzea che aveva parlato.
La volpe, non ricevendo risposta, continuò a parlare, tornando ad accarezzarsi la coda. – Mi ha detto che gli servono per ricordare i nostri fratelli caduti. Ne avrebbe uno in più, adesso, se solo ci fosse ancora. –
Il corvo dovette aprire più volte il becco, prima di riuscire a farne uscire qualcosa.
- Secondo me è una scemenza. –
- Cosa? – la volpe alzò il capo di scatto, presa alla sprovvista da quel commento.
- Perché marchiare chi abbiamo perso? Sappiamo tutti chi non c’è più. Piuttosto si sarebbe dovuto segnare chi era ancora vivo, per ricordarsi per chi poteva ancora fare qualcosa. –
La volpe tornò lentamente a strusciare il proprio muso sulla folta coda, pensierosa.

Forse.
Ma a che scopo segnarsi chi dovresti proteggere, se non puoi far nulla? Se sei impotente di fronte agli eventi?

- Epica, cosa pensi di fare ora? –
La volpe rimase in silenzio, muovendo appena il capo.
- Epica? – insistette il corvo saltellando in direzione della punta del ramo su cui si era posato.
- Non lo so ancora, devo riflettere sulle possibilità che abbiamo. Ho bisogno di tempo. –

Dovrei sigillare la Trama, Loro non dovrebbero essere in grado di spostarsi attraverso di essa in quel modo, in teoria.
Ma se potessero?
Ci troveremmo senza la spada del Fato in balia del Loro potere.

La Trama tremolò appena, facendo ondeggiare lievemente i tronchi come se fossero stati visti attraverso una corrente d’aria bollente.

Non ho più tempo per pensare.
Stanno arrivando. Saranno qui a momenti.
Non posso combatterli, non posso vincere contro di loro.
Ne ho uccisi tre, è vero, ma il campo di battaglia mi era favorevole.
Non posso combatterli.

- Commedia, vattene. Scappa lontano. –
- Epica, non posso lasciarti qui! –
- Vattene, posso combatterli, se sono solo. –
- Ma, Epica… -
- Ho detto vattene! –

Dannazione, Commedia, obbediscimi!

Scusami…

Il corvo si alzò in volo, scomparendo tra le frasche pendenti.
Pochi attimi dopo, cinque figure nascoste dalle lunghe tuniche scure comparvero tra gli alberi, calpestando la poca erba che lì era riuscita a ricavarsi uno spazio nel sottobosco.
La figura di una giovane donna dal corpo magro e dai corti capelli neri gli stava di fronte, ritto, con gli occhi gialli come l’oro che risplendevano in direzione dei loro volti.
- Finalmente hai smesso di scappare. – disse il primo della colonna, alzando nella sua direzione la punta della lama nera.
- Avete ucciso tutti i miei fratelli. Non vi basta ciò? –
- Dobbiamo epurare il mondo da creature come voi e lo faremo fino in fondo. – L’uomo si tolse dal capo il largo cappuccio che teneva in ombra i suoi lineamenti.
Un paio di occhi verdi dalla sclera completamente annerita si posarono sulla fanciulla, duri come rocce. Il capo completamente rasato luccicava appena per le gocce di sudore che lo imperlavano.
- Ne siete proprio sicuri? Posso… posso fare qualsiasi cosa vogliate, potrò essere chiunque voi mi chiediate di diventare. –
Un bassissimo vociare si levò dai quattro uomini ancora interamente ammantati. La punta della spada, fino ad allora sollevata e perfettamente immobile, quasi fosse stata una statua ad impugnarla, fu percorsa da un tremolio.
- No. Dobbiamo ucciderti. – il capo dell’uomo armato si arricchì di nuove gocce di sudore.

Chi sei? Perché stai combattendo le tue pulsioni umane?
È quella spada? Che possa essere qualcosa di più di una semplice arma?
Spero che Commedia mi abbia obbedito, ma non posso voltarmi per controllare.

- Non dovete uccidermi per forza… - la fanciulla piegò il capo di lato, esattamente come aveva visto fare a Passione decine di centinaia di volte – Pensate a quante cose potrei fare… -
Il vociare si levò di nuovo dal gruppo rimasto indietro, ma subito fu zittito da un gesto della mano dell’uomo dalle sclere nere.
- Tu morirai. – disse ancora con fredda risolutezza.
Uno degli uomini che gli stavano alle spalle gli si avvicinò quasi con riverenziale timore.
- Maestro, ne è sicuro? Pensi al potere… -
La lama nera si aprì un passaggio all’interno del torace del secondo individuo, sfilandosi poi solo per permettergli di accasciarsi a terra per fare gli ultimi boccheggi della sua vita.
L’uomo che impugnava l’arma fu percorso da un brivido, i suoi occhi si allargarono, guardando il corpo morente a terra come stupito da quello che lui stesso aveva fatto.
Tornò quasi subito, a rivolgersi alla creatura femminile che gli stava davanti.
- Quest’oggi tutto finirà. –
L’imponente spada dalla lama bronzea comparve nell’esile mano della fanciulla dagli occhi dorati. Le labbra fini si serrarono, così come le palpebre che ridussero i suoi occhi a fenditure lucenti.

Perché ho provato a trattare con loro?
Non avrebbe mai potuto funzionare.
Devo combattere, se anche perirò in battaglia, Commedia dovrebbe essere al sicuro. Non sospettano della sua esistenza, credo.

Numerosi rami si ruppero al passaggio rocambolesco di un adone in armatura bronzea, comparso a un paio di metri di altezza dal terreno.
L’armatura impattò sulla fanciulla armata, strappandole i bianchi abiti leggeri che indossava e scorticandole la schiena. La testa incorniciata dai corti capelli neri colpì violentemente terra, per poi non muoversi più.
La spada bronzea si piantò nel terreno, vibrante.
- Fermi! – rombò una voce dall’interno dell’elmo lucente, fluttuando di intensità e tono – Non uccidetela. Vi ha mentito, siamo rimasti in due. –
- Ci hai risparmiato il disturbo di darti la caccia, creatura. – gli rispose l’uomo armato, dirigendo la punta della spada che impugnava in direzione della sua gola.
- Avete visto ciò di cui sono capace, ho ucciso tre vostri compagni e farò altrettanto con tutti voi, se ucciderete questa Musa. Voglio offrirvi però un accordo. –
Una lunga pergamena comparve tra le mani dell’adone, sulla sua superficie centinaia di caratteri si rincorrevano.
L’oggetto provocò un vociare ancora più intenso tra i restanti uomini ammantanti, che osarono fare pochi passi avanti per poter leggere di cosa trattasse.
- È un contratto legato alla mia magia. Se lo firmerete, io diverrò vostro servitore per sei secoli, concedendovi la possibilità di aumentare questo tempo in caso di miei errori, in cambio voi vi impegnerete a mantenere in vita quest’altra Musa, ovviamente come vostra prigioniera. –
Uno degli uomini ancora incappucciati si levò il manto dal capo sudato, avanzando ancora verso il contratto che gli veniva posto.
- Maestro, ci pensi, a cosa ci serve ucciderle se possiamo sfruttarne il potere? La prego, firmi. –
L’uomo armato parve tentennare a quelle parole, non riuscendo però a staccare gli occhi dalla sclera nera dell’adone.
- Maestro, la prego! – si intromise un secondo uomo, osando appoggiare una mano sulla spalla del suo interlocutore.
L’uomo armato si voltò di scatto, puntando la sua spada in direzione di chi lo aveva sfiorato.
- Maestro, torni in sé! Possiamo avere tutto! – riprese il primo chiudendo le proprie dita attorno al polso del suo maestro,  tentando di fargli mollare la presa sull’elsa che stringeva.
Dalla lama nera proruppe un’esplosione di denso fumo che gettò a terra i tre uomini che tentavano di riportare alla ragione la loro guida. Una nera figura indistinta si stagliò tra gli alberi.
- Uccidili tutti! – ruggì in direzione del suo servitore armato. Questi, però, in un disperato guizzò di ragione o scintilla di terrore a quella vista perse la presa sulla spada che gli era stata affidata, lasciandola cadere in direzione del suolo.
L’adone si mosse tremante ma veloce. Le sue dita lasciarono la presa sul contratto per permettere ai suoi guanti d’arme di chiudersi attorno all’elsa della spada bronzea, illuminandosi delle centinaia di scintille che questa produsse. Fendette poi il terreno nella quale si era piantata, fino ad aprire uno squarciò là dove la spada nera sarebbe caduta.
Solo quando la fenditura fu sufficientemente grande si permise di lasciare la presa, lasciando cadere la sua arma nello stesso taglio che aveva prodotto, seguita dalla sua rivale.
- Io ti sigillo. – disse ancora il soldato bronzeo con il fiatone e i palmi dei guanti ustionati fin nel profondo della loro essenza.
La fenditura si richiuse, facendo contorcere e accartocciare la Trama del Reale che tutto intorno li circondava.
- Hai fatto una cosa grave, tu! – ruggì l’ombra fumosa – Ma non importa. Non potrete in due tenere a bada tutte le forze di questo mondo e presto potrò riprendere il posto che mi spetta al tavolo degli dei! –
L’ombra si dileguò nell’aria, lasciando l’adone ansimante inginocchiato a terra, attorniato dal corpo privo di sensi di una fanciulla dalla schiena ferita e da quattro mortali dagli occhi colmi di terrore.
Poche gocce di sangue vermiglio caddero sul fondo della pergamena.
- Il tuo patto è stato siglato. – la voce flebile di uno dei seguaci che aveva osato opporsi al proprio maestro si avvertì appena nella cappa di aria calda che aleggiava.
L’adone abbassò il capo verso il terreno in segno di resa, non muovendosi neppure quando due di quei mortali si caricarono sulle spalle il corpo della ragazza che aveva cercato di proteggere, trascinandola fuori da quella macchia di verde.
Una solitaria, spessa riga bianca comparve sull’elmo bronzeo.




Angolo dell'Autore:

Con oggi siamo arrivati a ben due momenti estremamente importanti per questa storia.
Il primo, come anticipato, è la ripresa delle pubblicazioni settimanali. Quindi la settimana prossima preparatevi per un capitolo talmente corto e poco studiato che vi ci vorranno un paio di ore per finirlo. Il capitolo 20.5 è colossale, molto più di quanto avevo preventivato.
Il secondo, più evidente, è il punto della storia a cui siamo arrivati. Tutto è successo, le Muse sono state sconfitte, Commedia ha appena posato l'ultimo mattone per aprire la strada al Viandante e, finalmente, è stato rivelato come mai è Epica ad essere imprigionata e Commedia quella libera.
Io spero vivamente che questo capitolo vi sia piaciuto.
Alla settimana prossima, dove, dopo un capitolo lungo, seguirà un angolo dell'autore altrettanto pregno.
Vago

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Capitolo 48
*** Capitolo 20.5: Termine del contratto ***


Un’imponente aquila fece ricadere la propria ombra sulla desolata pianura che aveva preso il nome di Terra degli Eroi. I suoi artigli si distesero, permettendo al peso che si stava trasportando dietro di toccare il suolo.
Noir cadde pesantemente, costringendo la melassa nera che si agitava dentro di lui a fuoriuscire dai suoi pori per proteggere i palmi e le ginocchia dal terreno sconnesso.
- Cosa vuoi da me? – chiese terrorizzato il trentenne, alzandosi in piedi e sollevando il capo per guardare l’enorme rapace che stava scendendo di quota.
- Devi firmare un contratto e aprire una gabbia, null’altro. Poi ti porterò dove vorrai, ovunque. –
- Davvero? –
- Lo giuro su… - una serie di lunghi fischi acuti ruppe la quiete, attirando l’attenzione dell’aquila.
Un gruppo di guardie comparve da dietro le poche macerie che erano rimaste ad ingombrare quel suolo, muovendosi veloci in direzione dei nuovi arrivati nelle loro armature leggere.

Magia?
No, non intendo il fatto che non li avessi visti prima, dopotutto non mi ero nemmeno sforzato di dare uno sguardo per verificare se qualcuno ci stesse aspettando.
No… hanno con loro qualcosa di magico.
Ho un brutto presentimento.
Loro quanto sono riusciti a salvare del periodo della Guerra degli Elementi?

- Fai attenzione. – disse ancora l’aquila, prima di assumere le fattezze del pallido elfo dalla guancia tatuata.

Non devo ancora rivelare le mie carte.
Ho due armi divine, con me, ma non posso già mostrale.
Le terrò ben nascoste dentro questo corpo, per ora, tanto sono solo mortali, basteranno le lame che sono in grado di produrre.

Nella mano destra dell’elfo comparve un lungo pugnale argenteo, tanto grande da poter essere scambiato per una corta spada.
- Hai un’arma anche per me? – chiese il trentenne incerto, facendo saettare il suo sguardo tra le guardie che continuavano ad avvicinarsi e crescere in numero.
- Non credo ti servirà, visto quello che sei capace di fare. Comunque, questo vuol dire che mi aiuterai? –
- Voglio sopravvivere, intanto. E, poi, io non posso controllare la mia maledizione. –
- Immagino che se ti lanciassi in mezzo a loro avresti dei buoni risultati. –
Noir sospirò avvilito, guardandosi i palmi delle mani sporchi.
- Sono comunque in troppi, la mia maledizione non può proteggermi completamente… -
- Non ti toccheranno neppure, ci penserò io a quelli che ti si avvicineranno troppo. –
- Rimarresti ferito se ti avvicinassi! –
Gli occhi scuri dell’elfo si fecero improvvisamente duri. – Ascoltami, io ho combattuto e sconfitto l’essere da cui è nata la tua maledizione. Non mi spaventa quella sua brutta copia che ti porti dentro. Ora, a meno che non vuoi aspettare che arrivino loro da noi, sarebbe il caso che cominci a corrergli incontro. –

Sopravvivrà di sicuro.
Perché, però, l’essenza di Follia che ha ereditato non può proteggerlo interamente?
Non è abbastanza. Non ne ha abbastanza.
Probabilmente di generazione in generazione la quantità di quella roba è andata diminuendo. Almeno so che, tempo un secolo, anche quest’ultima traccia sarà sparita.

Noir caricò a testa bassa i soldati,  chiudendo gli occhi per non vedere la folla contro cui si stava scaraventando.
Il sangue nelle sue vene cominciò a pulsare sempre più rapidamente, incapace di adattarsi al battito del suo cuore.
Profondi strappi si aprirono nella pelle del trentenne, da questi la melassa nera che risiedeva nel suo corpo fuoriuscì, unendosi, fondendosi e dividendosi per formare sette aculei che trapassarono, impalandoli, altrettanti uomini.

Ok, va bene… Mi hai preso un po’ troppo alla lettera, non intendevo con “corrergli incontro” caricarli a testa bassa come un ariete, ma me lo farò andar bene.
Forse è il caso che mi muova anch’io, se la mia analisi è un minimo corretta, quasi la completa quantità dell’essenza di Follia contenuta nel suo corpo ora sta formando quegli spuntoni, quindi non gliene rimane molta ancora a disposizione per proteggersi da eventuali attacchi.

L’elfo si mosse rapido sul terreno brullo, con il braccio teso al suo fianco e la sua arma ben salda tra le dita. La ciocca di capelli bianchi sobbalzava appena sulla chioma nero pece al ritmo dei suoi passi.
Una frusta cercò di ferire il braccio sinistro di Noir, ma le sue spire si avvinghiarono attorno a un sottile guscio nero.

Una frusta?
Davvero?
Davvero davvero?
Avanti, che arma è la frusta?

Le volute dell’arma si incendiarono improvvisamente, costringendo il trentenne ad allontanare l’arto dal corpo per non permettere alle fiamme di attecchire sugli abiti cenciosi che portava addosso.

Una frusta di fuoco, magari, è da tenere un pochino più sotto controllo.
Era esattamente di questo che avevo paura. Cimeli dell’Era della Magia, dannazione, perché hanno creato della roba del genere dopo la caduta di Reis? Di cosa avrebbero mai dovuto aver paura?
E poi, tra l’altro, sono tutte cianfrusaglie che saranno state dimenticate in qualche armeria nascosta dopo la caduta dell’Ordine.
E io che speravo di essermi tolto per sempre il problema della magia… adesso mi ritrovo con un tizio che si illumina, con il pro pro pro e qualcosa nipote di un demone semidivino, armi incantate, una spada forgiata dalla stessa essenza del demone semidivino sopracitato e un maledetto contratto che non sono in grado di spezzare da solo.
Dannazione.

Non importa, quanti sono loro?

Ventiquattro.
Ho visto molto di peggio.
Veloce, preciso, mortale e aggraziato.

Una lama sgozzò l’uomo che brandiva la frusta infuocata, che subito si spense non appena la mano del suo possessore lasciò la presa.

Ventitré.

Sette corpi caddero pesantemente a terra, irrorando il suolo con il loro sangue, mentre gli aculei si ritraevano, andando a rimodellare le placche che proteggevano il corpo del loro ospite.
Una spada provò a farsi strada nel polpaccio di Noir, ma non poté andare oltre la corazza nera che l’aveva ricoperta. Rimase però contro di questa, senza ritrarsi. La sua lama fu percorsa da scintille elettriche che, creando luminosi archi voltaici nell’aria si scaricarono nel corpo del trentenne, gettandolo a terra boccheggiante.

Elettricità?
Io speravo di non vederla più per almeno qualche centinaio d’anni dal Cambiamento.
Posso capire come la possa produrre, come funziona la magia non è un segreto, all’interno di quella spada si andranno a formare le stesse condizioni di un temporale facendo fuoriuscire dalla lama i fulmini, essendo quella un conduttore, ma dove trova l’energia per far ciò? Non credo che quel soldato di bassa lega abbia una riserva di mana tale da produrre più di qualche scintilla.
Spero non l’abbiano progettata per…

La punta della spada venne puntata contro il trentenne a terra. Lungo tutta la sua superficie scoppiettarono scintille e piccole saette che si disperdevano nell’aria.
Un lungo arco voltaico nacque dalla punta metallica, puntando in direzione di Noir utilizzando come appoggio per quel viaggio il corpo di una delle guardie che non si era spostata abbastanza dalla sua traiettoria.
Un lungo pugnale si frappose fra l’attacco e il corpo dell’uomo protetto in buona parte dalla melassa nera.
La scarica deviò il suo corso, convogliandosi prima nella lama dell’arma, poi nel corpo del suo possessore per poi scaricarsi a terra passando attraverso una lunga barra metallica che dalla vita dell’elfo si andava a piantare nel suolo.

Conosco ancora abbastanza bene le leggi imposte da Natura da non farmi fregare da trucchetti così prevedibili.

Il corpo dell’uomo che impugnava la spada cadde a terra fumante.

Dannazione se ho capito il trucco.
Queste armi, se non trovano una riserva di mana o la finiscono passano ad attingere all’energia vitale del proprietario, senza farsi fermare dal suo rubinetto di emergenza.
Ricordate il discorso sul rubinetto d’emergenza del mana che vi avrò fatto un’ottantina di anni fa? Il fatto che gli umani sono animali con un rubinetto mal funzionante e rischiano di crepare se lanciano incantesimi al di là delle loro possibilità e tutto il resto?
In ogni caso, ventuno, grazie al suo assist.

Nove fini aghi fecero ondeggiare al loro passaggio i lembi cadenti degli abiti strappati di Noir, impalando altrettante guardie e facendo cadere rumorosamente a terra le armi che queste brandivano.

Dodici.
Perché mi stavo preoccupando di non riuscire ad arrivare alla sua prigione?
Potrei mettermi seduto in un angolo e comunque mi verrebbe spianato un passaggio per quella scalinata maledetta.
Dai, forza Commedia, fai finta di essere utile.

L’elfo scattò in avanti a lunghe falcate, muovendo la lama della sua arma nell’aria, facendola scivolare negli anfratti delle armature e lasciando profondi solchi al suo passaggio.
Tre voci distinte alzarono al cielo le loro urla di dolore, prima di affievolirsi lentamente.

È davvero troppo facile, però, così.
Nove.
Potevano almeno addestrarli ad usare queste armi.

- Viandante, fermati! È un ordine di un firmatario, questo! –

Davvero credono che, dopo quello che mi hanno fatto, mi atterrò ancora a quel patto?
Ho solo bisogno di avere quel maledetto rotolo di pergamena per dare a qualcun altro il potere di aprire quella gabbia.

Una figura si fece avanti coperta da una spessa corazza metallica. Sulla superficie lucida, lunghe e sinuose spirali di glifi si rincorrevano rapidi.

Come l’hanno ottenuta, quella?
Maledizione!
Aria, ora vieni qui e risolvi questo casino.
Dannazione!
Perché è ancora sul Creato quella roba?
Era troppo difficile riprendersela ottant’anni fa, a guerra finita? O, per lo meno, vent’anni fa, visto che Fuoco si era ricordato di averla scaricata in questo posto?
“Trado, il dominatore dei venti, il cavaliere degli uragani, il serpente piumato della Signora dell'Aria.”
Hanno solo riesumato l’armatura che la stessa Aria ha forgiato e ha donato al suo tempio nel Creato, cosa vuoi che sia?
Come si può anche solo pensare di lasciare un simile artefatto in mano ai mortali?
Ed ora come la butto giù, quella?
Non voglio tirare ancora fuori le armi divine in mio possesso. E, poi, lo stiletto di papà Fato sarebbe inutile contro quella montagna di metallo incantato, mentre non ho la forza, senza un’adeguata accelerazione, per sfondare le sue difese con la Spada degli Abissi.
Mai una volta che le cose mi possano andare bene.

- Come siete entrati in possesso di quell’armatura, signora Dan Rei? Non era l’egemonia sui trasporti nelle Terre l’unica sua competenza? –
Uno spuntone di roccia scura eruttò dal terreno, lanciando in aria Noir, accovacciato in posizione fetale e quasi interamente coperto, all’esterno del suo corpo, da uno spesso guscio nero.
Una delle guardie sopravvissute cadde a terra, esanime.
- Non potevamo lasciare oggetti così meravigliosi a marcire tra le mura cadenti dei palazzi che qui sorgevano. I nostri predecessori, prima di instaurare la Setta degli Assassini, hanno provveduto a recuperare tutto ciò che potesse essere utile.  –
Un largo scudo a torre interamente fatto di legno venne issato in difesa della donna bardata.

Non farti prendere dall’agitazione, cerca di essere metodico e logico.
Analizza.
Otto persone, di cui una è Sarah Dan Rei, firmataria.
Come sono armati?
Armatura di Trado, divina, al di sopra delle mie attuali possibilità.
Scudo… annulla magia? Qualcosa del genere, in teoria deve convertire le particelle di mana espulse durante l’incantesimo in aria.
Due spade, una in grado di aumentare il proprio peso, l’altra capace di generare fiamme. Poca fantasia, peccato.
Un arco non incantato, ho paura che quelle frecce abbiamo delle brutte sorprese.
Uno stocco in grado di ridurre la dimensione dell’utilizzatore. Spero per lui che non gli abbiano rivelato il suo reale utilizzo, altrimenti è un’incosciente a essere venuto a combattere.
Una picca che richiama a sé tanta terra quanta è l’energia che viene incanalata in essa. Ponendo che non siano in grado di dosare le forze impiegate, è probabile che, la prima volta che la proverà ad utilizzare, richiamerà a sé un paio di massi e morirà lì, probabilmente prima per mancanza di energia vitale e poi per l’impatto.
Un’ascia che devia gli incantesimi. Pericolosa, ma solo se usata con consapevolezza di cosa si sta facendo.
Nel peggiore dei casi quelle frecce sono avvelenate, devo proteggermi.
Cosa ho io, dalla mia?
Noir e il potere di Follia, le armi divine, le mie armi e… basta.
No, non basta. Ho ancora la spada di Nirghe. Come ho fatto a dimenticarmi di averla?
Dovrei fare un po’ di ordine tra le cose contenute nel mio corpo, avrò ancora dei documenti delle missioni che mi sono state affidate nei decenni passati, da qualche parte.
Serve un piano di battaglia.
Prima di tutto devo avvicinarmi a quell’ascia senza usare la magia.
Poi ci sarà quello scudo che renderebbe ogni attacco elementare inutile.
Non posso batterli, posso però ridurre ancor più le loro fila.
Se è salita solo Sarah Dan Rei, vuol dire che gli altri membri non sono presenti, per il momento.
Non devo per forza ucciderli tutti.

Un paio di imponenti ali si generarono dalla giacca scura dell’elfo per distendersi, prima, e poi muoversi con possenti colpi verso il terreno.
L’elfo si mosse rapido in aria, con gli occhi fissi sull’arco di legno venoso che, freneticamente, stava venendo incoccato.
Una freccia sibilò nell’aria, seguita da una sua gemella poco dopo.
Le piume che componevano le code vibravano nella loro corsa all’inseguimento delle punte scintillanti.
Le dita dell’elfo strinsero qualcosa.
Le frecce interruppero violentemente il loro viaggio, per poi ricadere a terra.

Ottimo.

La melassa nera si ritirò nuovamente nel corpo di Noir, tenuto in aria solamente dalla forza dell’elfo che lo reggeva.
- Sai maneggiare una spada? –
Un’altra freccia sibilò nell’aria, per poi schiantarsi nella nuova protezione nera di Noir senza essere nemmeno riuscita a scalfirla.
- Perché? – la voce del trentenne era rotta, perfettamente abbinata al suo corpo coperto di cenci che a malapena bastavano per coprire gli strappi che gli si aprivano nella pelle.
- L’energumeno con l’ascia. Uccidiamo quello ed entriamo. Allora, la sai maneggiare? –
- Più o meno. –
- Me lo farò bastare. –
Il braccio sinistro dell’elfo si tese, irrigidendosi e perdendo la presa sul corpo dell’uomo che gli faceva da scudo contro i dardi, per aprirsi lungo tutta la sua lunghezza come la copertina di un libro. Dai tessuti aperti fuoriuscì lentamente il fodero lindo di una spada.
Noir lo afferrò timoroso, sfoderando la lama che dentro a questo riposava e guardando schifato i muscoli di quel braccio tornare a saldarsi per chiudere lo squarcio che si era aperto.
- Io ti porto là, tu lo ammazzi, va bene? –
Noir non ebbe il tempo di rispondere. Le imponenti ali cambiarono angolazione, spingendo i due corpi verso il gruppo di uomini che li guardavano avvicinarsi con le armi strette in pugno.
Lunghe penne nere caddero dolcemente al suolo, incapaci di rimanere attaccate alla struttura alare che doveva ospitarle.
Lunghi aghi si aprirono come i petali di un fiore rinsecchito dal petto del trentenne, cercando di allargarsi tra i sopravvissuti alla carneficina a cui quello spiazzo brullo aveva assistito, ma furono calamitati da una forza superiore alla loro volontà che li attirò sullo scudo di legno ancora levato. Lì si arrestarono, senza riuscire a trapassarlo.

Avrei dovuto perderci qualche secondo in più nella creazione di queste ali.
Se avessi fatto un lavoro anche leggermente più sommario probabilmente saremmo precipitati al suolo appena avessi afferrato Noir.
Sarà per la prossima.
Manca poco.
Per fortuna lo scudo si è attivato prima dell’ascia.
Ho corso un rischio enorme.

La spada fendette l’aria, scontrandosi duramente contro l’ascia che si era sollevata per frapporsi al suo passaggio.
Un pezzo d’acciaio dal filo tagliente e segnato da numerose tacche seghettate, tintinnando, cadde sul terreno.
La restante parte della lama spezzata della spada continuò la sua mezzaluna di morte, trascinandosi dietro lunghi schizzi di sangue arterioso dopo il suo passaggio all’interno della guardia verso la quale era stata direzionata.
- Bel lavoro. Ora preparati all’impatto. –
- Cosa? – Noir non ebbe il tempo di chiudere gli occhi.
L’elfo continuò il suo volo in linea retta, senza accennare a fermarsi.
Solo quando la porta della casupola fu a pochi palmi dal viso impallidito del trentenne le ali scure andarono a posarsi lungo i fianchi dell’essere dalla ciocca di capelli bianchi, tornando ad essere solamente una lunga giacca.
La porta in legno si ruppe nello scontro con uno spesso strato di melassa nera, rallentando appena la corsa dei corpi che gli si erano scagliati contro, nemmeno sufficientemente da impedirgli di raggiungere le scale che poco più avanti li aspettavano.
Noir rotolò più volte su sé stesso, con la melassa scura che continuava incessantemente ad entrare e fuoriuscire dai suoi pori per impedire agli scalini in pietra di colpire il suo corpo.
Una foschia grigia lo seguiva rapida, serpeggiando tra le strette pareti della scalinata.
Una mano salda fece arrestare la caduta rovinosa di Noir, costringendolo a fermarsi di fronte a un pianerottolo su cui si apriva una porta.
- Dobbiamo prendere una cosa. – disse secco l’elfo, quando i suoi piedi appena risolidificati toccarono il pavimento liscio.
L’essere aprì la porta che gli ostruiva la via violentemente, facendola sbattere sul muro interno sul quale andava ad aprirsi. Si mosse poi rapido, puntando prima allo scranno centrale per poi aggirarlo, in cerca di qualcosa dietro di esso.
Ne trasse uno scrigno di legno fittamente scritto.
- Aprilo. – disse ancora, porgendolo al trentenne.
Noir raccolse con mani tremanti il contenitore. Le sue dita si spostarono sul coperchio non protetto da nessun lucchetto.
L’oggetto, nonostante non ci fosse nulla a bloccarlo, non parve aver intenzione di aprirsi.
- Non ci riesco… - disse il trentenne a bassa voce, remissivo e rammaricato.
Gli occhi dell’elfo si accesero di una fiamma nuova, strinse la scatola con le dita della sua mano destra, per poi scaraventarla per terra.

Maledizione!
Maledizione!
Dannazione!
Perché?
Perché?
Lui è per almeno cinque sesti mortale. Non basta questo?
Dannazione!
Ora cosa faccio? Come la libero?

Il rumore delle suole rigide sui gradini rimbombò tra le pareti.

Stanno arrivando…
Devo… devo fare qualcosa.
La scatola, devo tenerla con me.

Due guardie occuparono interamente lo spazio tra i due montanti della porta, per poi entrare all’interno della sala con lo scudo e la spada sollevati. Alle loro spalle le sagome di altri due si presentarono a bloccare la via d’uscita.
- Cosa pensi di fare, ora, Viandante? Dammi quello scrigno e torna a leccarci i piedi. – disse da dentro la sua armatura la proprietaria del Treno Nube, facendosi largo tra i bruti armati per poter vedere in viso l’elfo dal volto tatuato.
- Io… -

Non posso consegnarglielo.
È l’unico modo che ho per liberarla.

- Io non … –
Il grido di dolore di una delle guardie rimaste nella retrovia interruppe il discorso attirando l’attenzione dei presenti.
Un lampo azzurro illuminò a giorno le pareti e il soffitto della scalinata, accecando la prima fila di guardie che lì si trovavano.
Un rumore metallico vibrò nell’aria, limpido.

Questo era lo stocco.
Sei rimasti in vita, tra cui Sarah Dan Rei.
E quella luce io l’ho già vista.
Devo intervenire, posso ancora liberarla.

- Fermatelo! – Urlò la firmataria dall’interno della sua armatura.
- Sarah Dan Rei! – tuonò l’elfo con voce cavernosa – Perché sei venuta solo tu a fermarmi? Gli altri firmatari hanno troppa paura per fronteggiarmi senza quella protezione? –
- Tu taci! –

Cosa fare?
Prendi lo scrigno.
Hai bisogno di una distrazione.
Devi salvare Razer, lui ti serve vivo.
La spada di Nirghe si è spezzata.
Cosa fare?
L’ordine, l’ordine è importante.

- Scusami ragazzo. – disse solamente l’elfo prima di afferrare il tronco di Noir e, con una forza che non si sarebbe potuta attribuire a quel corpo snello, scaraventarlo contro le due guardie che avevano fatto da apripista.
Una rosa di aculei si aprì, per poi convergere verso il centro dello scudo di legno.
L’elfo si mosse rapido, chinandosi per raccogliere da terra la scatola di legno e poi scattando verso la porta.
La sua mano sinistra afferrò senza troppo riguardo il braccio di Noir, trascinandolo con sé. L’incavo del braccio destro, la cui mano era occupata per tenere il contenitore incantato, andò ad incastrarsi sotto il mento dell'uomo che era giunto sul pianerottolo per ultimo e che ancora stringeva il pugnale con cui aveva ferito a morte la guardia che gli stava di fronte.

Devo rallentarli.

Un terzo braccio nacque all’altezza del gomito sinistro, afferrando la sottile corazza del primo uomo che incontrò per gettarlo a terra, davanti ai piedi dei suoi compagni che parevano non sapere su chi concentrarsi.
I piedi dell’elfo si muovevano rapidi sugli scalini, saltandone molti per la foga.
- Voglio un’altra maschera da te… - disse con voce strozzata Razer, non potendo far altro che guardare alle spalle dell’essere che lo stava trascinando nella sua folle corsa verso le viscere di quella montagna.
- Ne riparleremo. Devi fare una cosa per me. –

Sto arrivando e, adesso, ti tirerò fuori da lì.
Hanno fatto incazzare la Musa sbagliata, Commedia o Viandante che fosse.

Le tre figure si arrestarono  in una larga sala scura, al cui centro una gabbia di diamante scintillava alla poca luce che le torce della scalinata riuscivano a far penetrare in quel luogo.
- Razer. – ruggì l’elfo lasciando cadere a terra il discendente di Reis sconvolto per potersi concentrare sul mortale che aveva di fronte – Apri questo scrigno. Ora! –
Le mani del draghicida persero per un momento  la loro sicurezza, apprestandosi tremanti a sollevare il coperchio del contenitore di legno.
All’interno, una pila di fogli fece disperdere nell’aria numerose particelle di polvere. Su tutti questi, un rotolo di pergamena ingiallita lottava contro il tempo per non deteriorarsi.
- Dammi la mano. – continuò l’elfo.
- Cosa? – provò a ribattere l’uomo, cercando di sottrarsi alla presa dell’essere che aveva davanti.
Dalla mano dell’essere comparve uno spuntone metallico, che si insinuò tra la carne del palmo della mano che aveva catturato fino a farne sgorgare tre gocce di sangue vermiglio, che caddero sul contenuto dello scrigno, macchiando la carta su cui si ammassavano centinaia di firme diverse tracciate con i più disparati inchiostri.
- Ora vai ad aprire quella prigione. – l’essere fece voltare a forza Razer, spingendolo contro la parete di diamante.
- Cosa dovrei fare, esattamente? –
Le mani del draghicida si appoggiarono sulla superficie perfetta della gabbia, in cerca di quella che potesse essere una porta.
A quel contatto, una riga sottile si aprì sulla parete trasparente, allargandosi fino a formare uno squarcio in quel materiale impenetrabile.
L’elfo si fece avanti, incerto, con le gambe che a stento lo reggevano. La fanciulla dai corti capelli neri cadde in avanti, non più sorretta dalla forza che sembrava aver riempito quella prigione fino a poco prima.
I tubi cavi che si insinuavano nella sua pelle si strapparono uno dopo l’altro sotto il peso di quel corpo, riversando sul pavimento scintillante il proprio contenuto.
Il corpo esile si afflosciò tra le braccia dell’elfo dai capelli neri. I suoi occhi vennero trapassati da un lieve fremito.
- Finalmente ti ho tirata fuori da lì … - disse con un filo di voce la creatura dalla lunga giacca nera, sotto lo sguardo perplesso dei due uomini che si era trascinata dietro.
Fiamme rilucenti nacquero dall’interno dello scrigno, illuminando le palpebre della fanciulla che, lentamente, cercavano di aprirsi.
Due iridi dorate luccicarono a quella luce tremolante.
- Stai bene? – riuscì a chiedere l’elfo con sguardo preoccupato.
La fanciulla provò a rispondere, ma un conato di vomito le spezzò il fiato, facendole rimettere una sostanza dal colore indefinito sugli abiti eleganti dell’essere che gli stava di fronte.
- Non mi aspettavo una riunione così… profonda. – commentò l’elfo disgustato, cercando di scalciare via dai suoi pantaloni la sostanza, senza però lasciare cadere la figura che teneva tra le braccia.
- Ora dobbiamo solo uscire da questo posto. – disse poi rivolto ai due uomini.
- Che cosa è lei? – chiese Noir, facendo un passo indietro, spaventato.
- L’unico essere nel Creato che, al momento, è in grado di aiutarci ad andarcene vivi. -





Angolo dell'Autore:

Ebbene, come anticipato eccomi qui.
Per un capitolo lungo ci vuole un'altrettanto importante angolo a concluderlo, per non sfigurare, ovviamente.
Andiamo per punti, però. Non vorrei mai dimenticare qualcosa per strada.

Il capitolo, per cominciare.
Questo capitolo chiude una parte di questa storia. Ma facciamo un passo indietro.
Nella mia progettazione avevo diviso questo racconto in tre parti.
"Presentazione", in cui, ovviamente, vi avrei presentato i nuovi personaggi in maniera molto più graduale rispetto al passato.
"Roba che succede", questa parte centrale, in cui c'è un'evoluzione dei personaggi, vi presento il passato delle Muse(*) e, oggi, l'entrata in scena dell'altra Musa.
"La Grande Fuga", l'uscita da questa prigione e la fine di questa storia.
Siamo quindi appena entrati nella fase tre.

Perchè il (*)?
Perchè non doveva essere qui il passato sulle Muse, volevo scriverlo, ma farlo come un extra, come una storiella a sè stante fuori da queste pagine. Poi una buona dose di recensioni mi hanno fatto riflettere e decidere per questa soluzione.

Le Muse, quindi.
Ho già perso fin troppo tempo in passato a raccontarvi di come non esistesse all'inizio la figura del Viandante, men che meno Commedia in quanto Musa con tutta la sua storia alle spalle.
Mi piace, però, come da quel barlume di idea che ho avuto sia nata un'intera "side-story".
Rimpianti?
Maybe.
Forse, con il senno di poi, avrei gestito diversamente tutte le Muse, le loro morti e le loro caratterizzazioni, dando più spazio se non a tutte, ad almeno alcune di loro.

Già, la gestione.
Mi sono posto un paletto mentre scrivevo. Cosa rara a ben pensarci.
VOLEVO che l'ultimo capitolo delle Muse, quello che si doveva concludere con la cattura di Epica, fosse immediatamente precedente a quello della sua liberazione. Volevo che fossero l'uno la continuazione dell'altro nonostante i secoli di narrazione che intercorrono tra di loro.
Ho preso leggermente male le misure, finendo per non poter tagliare questo capitolo a metà, ma mi piace come è uscito e, soprattutto, mi fa piacere aver rispettato quel paletto.

Epica, tra l'altro, non è mai stata nominata nei capitoli al "presente", prima di ora.
Commedia stesso, in passato, ha ripreso acidamente il Fato intimandogli di non pronunciare il suo nome, almeno finchè non fosse stata liberata.

E, a proposito di nominare, voglio mostrarvi qualcosa.
Provate a seguirmi, voglio portarvi a percorrere un tortuoso sentiero di un mio ragionamento narrativo.
Ho creato la figura eterea della Trama del Reale. Più o meno tutti voi vi sarete disegnati in mente una sua concezione, la mia è che sia un intreccio di frasi, come se ogni persona si lasciasse alle spalle una coda di parole che raccontano quello che ha fatto e che ogni filo si vada ad intrecciare con gli altri fino a formare, appunto, la trama su un'immenso orditoio.
Torniamo un po' più concreti, sapendo questo.
Ho voluto intendere la narrazione fisica, le frasi che voi leggete, come appunto fosse parte della Trama.
Le Muse hanno ricevuto il dono di essere completamente slegate dall'intreccio, al punto che, prima che questo venisse sigillato, ci vivevano all'interno, ed è per questo che la Trama, la narrazione, se vogliamo rompere il parallelismo, non può riferirsi a loro chiamandole per nome. Un po' come un passante che deve descrivere un evento che gli è accaduto davanti. Se non conosce qualcuno, non potrà riferirsi a lui con un nome ma dovrà ricorrere a delle descrizioni.
"L'elfo dai capelli neri"
"L'essere"
"La creatura"
"La nube"
Non ho mai utilizzato un nome, qualunque esso fosse, durante la narrazione. L'unico momento in cui li avete letti è stato durante i dialoghi oppure durante le riflessioni di Commedia.

Un minuto di pausa. Potete riprendere fiato e rimettere assieme il cervello.

Siamo entrati nell'ultimo terzo della storia, ho detto.
Non che non sia corretto, ma... non lo è.
Io non ho scritto tre "libri", tre racconti per meglio dire.
Ne ho scritto solo uno.
I personaggi hanno bisogno di una storia con un inizio per presentarsi, uno svolgimento per agire e una conclusione in cui i nodi vengono al pettine.
- La Guerra degli Elementi: Conoscente il Viandante, lo scoprite pian piano, lo ascoltate nei suoi deliri fino a scoprire che cosa effettivamente è e, nell'ultimo capitolo, venite a conoscenza di Lei.
- L'ombra del Passato: Commedia comincia ad agire, si fa carico di alcuni compiti fino ad arrivare al culmine in cui combatte contro Follia e lo sconfigge. Ma arriva qui profondamente cambiato rispetto all'inizio del viaggio.
- Figli della Trama: Follia è sconfitto, Lei è stata liberata, Commedia non è più asservito, si è scoperto chi sono Loro. Si va per una conclusione definitiva.
Potremmo dire, a questo punto, che le Leggende del Fato, quali che siano i sottotitoli, non siano altro che i capitoli, gli Atti teatrali, della storia di Commedia.

Resistete, manca poco.

Manca poco, in realtà, anche alla fine di questa storia.
Non ho idea di quanti capitoli manchino, ma non penso che saranno ancora tanti.
Quando poi avrò messo la parola fine a questo progetto, poi... prenderò una pausa, per lo meno da lavori di questa portata.
Mi piacerebbe provare a scrivere degli esercizi di stile, in cui portare all'esasperazione le descrizioni per creare dei capitoli "da leggere a occhi chiusi" per arrivare a rendervi nitido quello che io ho immaginato.
Magari, se avrò voglia e ispirazione, sarebbe interessante partecipare a qualche contest, per mettermi alla prova con tematiche che non mi appartengono.
Vedremo.

Per il momento, alla prossima.
Vago

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Capitolo 49
*** Capitolo 21: Confusione ***


L’assassino non osò voltarsi verso le scale che lo avevano condotto fin lì. Aveva paura di quegli uomini contro cui si era messo, ma temeva ancor più quelle creature che gli stavano a pochi passi di distanza.
Doveva andarsene. Doveva trovare una via di fuga da quel pozzo in cui l’avevano portato.
Avrebbe potuto usare Noir come diversivo, gettandolo in mezzo a quegli uomini armati, e nella confusione sarebbe potuto scappare o, per lo meno, uccidere la donna che portava quell’armatura e che sembrava essere al comando di quelle guardie.
Un odore acre si spanse nella stanza quando la ragazza che aveva liberato cominciò a vomitare.
Razer fece un’ulteriore passo in direzione dell’erede di Reis, tirandolo a sé per la manica della camicia distrutta.
- Dobbiamo andarcene di qui. Non voglio aver a che fare con le loro faccende. – gli disse con un filo di voce, appena percettibile.
Noir impiegò qualche secondo per rispondere, i suoi occhi non riuscivano a staccarsi dal duo che gli stava di fronte, poi annuì.
I due uomini si voltarono di scatto, correndo in direzione dei gradini di pietra che rappresentavano la loro via di fuga.
- E quelle guardie? – chiese Noir, come se si fosse appena ricordato della loro esistenza.
- Le uccideremo e ci faremo strada tra i loro corpi. –

Sento delle presenze…
La sua presenza!
Devo fermarlo, devo ucciderlo prima che quel demone possa diventare un pericolo per la Volta.

La ragazza si rimise a fatica dritta sulle gambe esili, drizzando la schiena e socchiudendo gli occhi dorati che ancora non riuscivano a mettere a fuoco quel che la circondava.

Devo fermalo… assolutamente.

Il suo braccio destro si tese, le dita arpionarono l’aria, piegandosi come gli artigli di una belva su qualcosa che solo lei vedeva.
Per un secondo abbondante mantenne la posizione, immobile.

Perché non viene da me? Dov’è la spada del Fato? Ne ho bisogno ora.
Che mio padre non mi reputi più all’altezza della sua arma?

- Epica, calmati. –

Di chi è questa voce?

Razer fu costretto a fermarsi quando, una decina di scalini sopra di lui, comparve lo stesso largo scudo di legno che già aveva visto nella sua cella.
Il rumore delle suole d’acciaio dell’armatura riempiva l’aria e faceva vibrare le pareti a ogni suo passo.
Si concentrò, liberando tutta l’energia che era riuscito a raccogliere.
Forse, se avesse generato un lampo abbastanza potente, li avrebbe storditi per un tempo utile.
La tromba delle scale si accese di azzurro, ma fu solo per una frazione di secondo. La luce innaturale parve scorrere come le acque di un fiume verso lo scudo, per spegnersi al suo tocco.
L’assassino guardò di fianco a sé.
Noir avrebbe fatto qualcosa con il potere che possedeva, sicuramente ne avrebbe uccisi almeno due.
Il trentenne dalla camicia strappata aveva il volto cinereo e gli occhi sbarrati in una maschera di terrore. Il suo piede sinistro tornò sui suoi passi, ricadendo sullo scalino che aveva appena lasciato.

Chi sei per conoscere il mio nome?
Questa bocca funziona ancora? Posso comunicare con lui?
Devo metterlo in guardia dal pericolo che ci sta vicino.

- Vattene da qui, devo… - la sua voce si spezzò quando la gola di quella forma fu di nuovo riempita dalla sostanza dall’odore acre – devo fermarlo. –
La fanciulla si voltò verso le scale che a stento distingueva dalla parete, muovendosi verso quei gradini con le gambe rigide.

Oh, ti prego, smettila di essere così testarda, ho già abbastanza problemi per conto mio.

Chi sei?
Perché continui a parlarmi?

Se solo ti calmassi, magari avresti una visione leggermente più limpida delle cose e schifata delle mie scarpe.

Razer scese di uno scalino, guardando di fronte a sé in cerca di uno spiraglio dal quale trarre vantaggio.
Nulla.
Il largo scudo di legno svettava di fronte a lui e l’unico spiraglio lasciato libero del corridoio in cui si trovava era stato occupato dalla lama arrossata di una spada.
Cosa gli avrebbero fatto?
Scese un altro scalino, sempre senza mai voltare la schiena ai suoi nemici.
La spada si arroventò di colpo, facendo innalzare dal metallo alte fiammate cremisi.
L’assassino non poté far altro che alzare le braccia in protezione del viso, aspettando solamente il contatto tra quel fuoco e il suo corpo.
Non avvertì altro che l’aria scaldata impattargli sulle braccia.
Che Noir lo avesse salvato?
Qualcosa di pesante cadde a terra, seguito dal tintinnio prodotto dall’acciaio contro la pietra.
- Maledizione! – imprecò una mascherata voce femminile.

Che imbecilli.

Razer scostò lentamente le braccia dalla sua visuale.
Lo spadaccino che gli aveva puntato la lama contro ora giaceva a terra, esanime. Lo scudo davanti a lui brillava raggiante, circondato dalle pareti annerite dal calore.
Noir gli stava alle spalle, in preda al panico, tremante.
Non aveva tempo per chiedersi cosa fosse successo, al primo accenno di movimento di quell’ultimo stuolo di guardie si voltò ripercorrendo gli scalini in discesa di gran carriera e portando con sé il discendente di Reis, che pareva aver perso ogni volontà propria.

Viene verso di me…
Lo sento.
Devo essere pronto a difendere tutti da lui…

Non può star parlando di Follia, lui è bello che pietrificato su un continente a sé stante e in continuo allontanamento.
Può star avvertendo la spada?
Il Giudice Fenter è già arrivato, quindi?
Perché allora non la avverto? Al di là che grazie a quella spada maledetta è diventata anche lei un Buco nella Trama, ovvio.
Ho paura che ci sia qualcosa di estremamente sbagliato che mi stia sfuggendo.

Follia?
Spada?
Continente?
Cosa… cosa stai cercando di dirmi?
Fato, sei tu? Perché non riesco a richiamare la tua spada?

Maledizione, di questo passo impiegherò comunque centinaia di anni a farle ritornare un minimo di senno e ad uscire da qui.
Non solo non riesce a capire quel che sente nella Trama, ma mi crede il Fato. Che bella notizia.
Mi serve un piano d’azione che anche Epica da drogata possa seguire.
Io so che, in questo momento, solamente Sarah Dan Rei e quelle sue guardie male addestrate sono presenti in questo posto.
L’unico pericolo è lei, ma solamente perché non posso ucciderla senza dover ricorrere alle armi divine in mio possesso. E lei, certamente, non è in possesso della spada di Follia, altrimenti avrebbe già cercato di uccidermi.
All’appello mancano il giudice maggiore, quel nuovo re dei draghi e quel ciccione di Dunnont.
Se solo riuscissi ad andarmene da qui prima del loro arrivo, basterebbe poi prendere il volo e nessuno, nemmeno uno stormo… branco… rombo… vabbè, quello che è di draghi potrebbe starci dietro.
Ho bisogno che Epica distrugga quello scudo, quindi devo farla ragionare un minimo, possibilmente senza farla vomitare. Di nuovo.

Due braccia magre afferrarono le spalle della fanciulla, facendola arrestare e voltare.
- Cosa pensi di fare, mortale? Sto cercando di difenderti. Tu… tu non hai idea di cosa hai davanti. –

Si, certo fratellone.

Un gettò d’acqua gelida colpì in pieno viso la fanciulla, facendole ricadere i ciuffi di capelli bagnati sulla camicia rovinata.
I suoi occhi dorati batterono più volte, cercando di liberarsi dalle gocce che parevano non volersene andare.
- Cosa vuoi da me? –
Una serie di passi concitati tornarono  a riverberare dall’uscita della scala.

Per il momento lasciamo perdere la comunicazione attraverso la Trama, finirebbe per capire una parola ogni migliaio.

- Epica, non abbiamo molto tempo. Guardami. –
La presa delle mani si fece più salda, mentre gli scuri occhi dell’elfo si facevano duri .
- Chi sei? Cosa vuoi da me? –
- Epica, concentrati. Devi riconoscermi. –
La mano sottile della fanciulla si alzò, andando ad appoggiarsi sulla guancia tatuata dell’elfo che la tratteneva.
- Non è possibile… tu… tu sei… Tragedia. –

Cosa?
No!
No, no e poi no!
Tragedia è schiattato male qualche millennio fa.
Dannazione!

- Non sono Tragedia. Lui è morto, ricordi? Devi guardarmi e riconoscermi, forza. Scaccia le droghe che ti hanno somministrato in questi secoli. –
Gli occhi luminosi della ragazza si persero per qualche secondo nel vuoto, appannandosi.
- Forza! – la incitò l’elfo, facendo danzare il suo sguardo tra il volto della fanciulla e la scala alle sue spalle, sulla quale si potevano cominciare a riconoscere i piedi di due uomini in fuga.
- Tu… Commedia, sei tu? Cosa ti è successo? –

Bene, è abbastanza lucida.

- Tante cose. Ora però ascolta, c’è una persona cattiva con un largo scudo, devi romperlo, va bene? Ti darò io un’arma. –
- Ma tu, Commedia… tu non usi armi. –
- Fidati. Ora ti metto un’arma in mano, tu rompi solo lo scudo. Va bene? –
- Si, certo… lo scudo. –

Età mentale riscontrata… tra i tre e i sei anni, pressappoco.
Spero che si riprenda in fretta.

Razer e Noir rientrarono in gran fretta nella stanza, sterzando il primo a destra e il secondo a sinistra per togliersi il prima possibile dalla visuale di quell’apertura nella parete.
Un’elsa azzurra venne appoggiata sul palmo aperto della fanciulla, che le strinse le dita attorno in un gesto meccanico.






Angolo dell'Autore:

Eccovi una lieve anticipazione di quello che succederà, ma nulla che non ripeterò ancora. La settimana prossima pubblicherò il capitolo, come di norma, venerdì, quella anora successiva sarò leggermente impossibilitato come... ogni anno. In ciascuna delle mie storie arriva un momento in cui mi metto a scrivere un Angolo solamente per informarvi che la pubblicazione salterà una settimana.
Questo è anche un bel modo per andare piazzare temporalmente quando ho pubblicato un capitolo, andando indietro nel tempo.
Comunque, tornando al capitolo, da adesso in avanti le cose si faranno, narrativamente, più complicate. I punti di vista dei quattro personaggi si andranno ad intrecciare, i pensieri di Epica e quelli di Commedia lasceranno centinaia di righe bianche tra le descrizioni e voi, probabilmente, uscirete confusi da alcuni passaggi. In ogni caso, spero di essere riuscito a rendere il più chiare possibili le scene.

Alla settimana prossima.

Ma, prima di lasciarvi, voglio fare qualcosa che è da un po' che mi scordo di scrivere.
Grazie a tutti voi per essere arrivati fin qui. Lasciate che vi dica che state riponendo, seguendomi, molta fiducia in uno scribacchino dal dubbio talento e potenziale, ma lo state anche invogliando a continuare a coltivare questa passione. Quindi grazie a tutti voi.

Vago

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Capitolo 50
*** Capitolo 21.5: Duetto ***


Forse ho riposto troppa fiducia nelle sue capacità.
Non vorrei che per colpa mia venisse ferita.
Per lo meno, finché non vedrò arrivare quella spada maledetta, non rischia nulla di serio.

Una figura esile scattò avanti, serpeggiando nella penombra della stanza. La luce delle torce che illuminavano la scalinata venne riflessa dalla lama azzurra che stringeva in pugno.

Lo scudo.
Devo distruggere quello scudo.
E poi eliminare la minaccia.
Non gli lascerò ferire nessuno.

La lama azzurra si posizionò parallela al suolo, con la punta rivolta verso la superficie in legno.
Il metallo impattò sullo scudo. Centinaia di scintille si levarono nell’aria, illuminando l’ambiente di sfumature calde.

Quello scudo è stato incantato da degli umani, non è possibile che possa assorbire in sé tutto il potere contenuto nella spada di uno degli dei. Vero?
Vero?

La guardia che reggeva lo scudo cadde a terra, privo delle forze necessarie per reggere il peso di quell’oggetto protettivo che lo separava dalla creatura che lo aveva caricato.
Il legno si incrinò, si incavò fino a frammentarsi.
Il soldato a cui era stato affidato quell’artefatto esalò il suo ultimo respiro, prosciugato di tutte le sue energie nel tentativo di impedire a quella spada di procedere oltre.

Lo scudo è stato rotto.
Ora devo uccidere la minaccia.

Ottimo, senza quell’artefatto non possono difendersi da Noir.
Quali armi gli rimangono…

Aspetta.
Ha parlato di minaccia?
Di chi sta parlando, ora?
Dannazione!

- Razer, occupati di loro, puoi usare la tua magia. – urlò l’elfo in abito scuro.

Devo fermarla.
Maledizione, non volevo tirarlo fuori ora.

La fanciulla fece un rapido balzo indietro, muovendo le braccia per portare l’elsa della spada accanto al proprio fianco.
Il suo busto si voltò di lato, facendo sì che la punta evanescente si puntasse verso il busto di Noir.

Ecco, l’unico essere in grado di ucciderla e lei vuole pure buttarglisi addosso.

- Noir! Mettiti al riparo dietro la cella! Ora! –
Le gambe dell’uomo si mossero, ma molto più lentamente di quanto avrebbe voluto. Le vene spingevano contro la sua pelle, a stento in grado di contenere il liquido che gli si agitava all’interno.
L’elfo gli si mise davanti, coprendogli la fuga. Nella mano destra gli comparve un lungo pugnale argenteo, nella sinistra uno stiletto sottile.
La punta della spada azzurra impattò sul piatto della lama del pugnale, arrestandosi.

Perché ti metti contro di me?
Tu non sei uno dei miei fratelli.
Chi sei?
Perché lo proteggi?

- Farò finta che tu ti sia resa conto di avere una bocca in grado di produrre un modello sonoro. Epica, se solo ti fermassi un attimo, potrei anche… -
La spada divina si alzò di una ventina di centimetri, per poi riabbattersi dove prima aveva impattato.
L’elfo alzò l’arma che teneva a sinistra per bloccare il colpo. La lama azzurra rimbalzò di un paio di centimetri, lo stiletto si spezzò nell’esatto punto in cui era stato colpito.

Giusto, le mie armi fanno schifo.
Poco male, è sostituibile.

L’elfo lasciò cadere l’elsa oramai inutile, andando subito a sostituirla con un secondo stiletto perfettamente identico al suo predecessore.
Gli occhi dorati della fanciulla si ridussero a due fessure. Le sue dita si strinsero sotto la guardia della sua arma, preparandosi a combattere.
La lama azzurra si mosse rapida, in ampi gesti fluidi che si concatenavano come i passi di una danza studiata.
Il pugnale deflesse il primo colpo.
Uno stiletto spezzato cadde a terra, tintinnando sul pavimento in pietra.
Il pugnale parò la lama.
Uno stiletto spezzato cadde a terra frantumato.
Il pugnale corse lungo la lama nemica, deviandola.
Uno stiletto spezzato cadde a terra.
Un’abbagliante luce azzurra invase la sala e le scale che a questa permettevano l’accesso.
Il pugnale parò un altro colpo, senza dar segno di accusarlo.
Uno stiletto spezzato cadde a terra, raggiungendo i frantumi dei suoi predecessori.

Questa situazione sta diventando imbarazzante.

Il pugnale deflesse il colpo.
Uno stiletto spezzato cadde a terra, rimbalzando un paio di volte prima di riposare immobile.
Il pugnale si frappose ancora al colpo in arrivo.
L’urlo di morte di un uomo rimbombò nella stanza.

Almeno Razer sta facendo qualcosa di utile.
Devo solo evitare che Epica si avvicini a Noir, non voglio che muoia impalata da quella roba che ha nelle vene solo perché un aculeo le ha trafitto qualcosa di importante.
Lei, al contrario di me, ribolle di intento omicida e quella roba non la risparmierà.


Uno stiletto spezzato volò in aria, la sua punta rimbalzò sulla parete diamantina della cella prima di giungere ai piedi di Noir, rannicchiato nella penombra.
Il pugnale fece un largo movimento verso l’esterno, intercettando la lama avversaria e cercando una breccia nella guardia.
Le braccia della fanciulla si strinsero immediatamente per compensare quell’apertura.
Uno stiletto spezzato cadde a terra, tintinnando su un’elsa precedentemente caduta.


Pensaci, è passato già parecchio da quando l’hai liberata.
Perché non è ancora rinsavita completamene?
Potrebbe avere ancora un po’ di quel miscuglio in corpo?
Possibile.

Il pugnale bloccò la punta della spada intenta in una stoccata verso il petto del suo obiettivo.
Uno stiletto spezzato cadde sulla pietra.
Il pugnale stridette quando la sua lama scivolò sul filo che tentava di ferire il suo portatore.
Uno stiletto spezzato cadde a terra, smuovendo i resti su cui era caduto.

Quella spada potrà uccidermi?
Probabilmente la risposta è si, ma l’unico modo che ho per prenderla di sorpresa è fare qualcosa che non si aspetta.
Se i suoi meccanismi di difesa sono più lucidi di lei, tutta la droga che è ancora presente in lei è convogliata nello stomaco di quel corpo.
Devo farla vomitare. Di nuovo.
Ma questa volta sarò preparato.

Un altro lampo di luce azzurra risplendette nella sala.
Uno stiletto integro cadde a terra, tintinnando sul pavimento in pietra.
L’elfo scomparve in una nuvola di nero fumo che scattò in avanti, attraversando la lama azzurra per tutta la sua lunghezza, avvolgendo gli avambracci della fanciulla.
Un corpo dai capelli neri e il volto tatuato riprese le sue fattezze, con le braccia esili strette sotto l’ascella sinistra. La lunga giacca andava a coprire un paio di pantaloni plumbei, coperti dal ginocchio in giù da un paio di sgargianti stivali gommosi da pescatore.

Ecco un ritrovato tecnologico direttamente da prima del Cambiamento.

Una macchia nera si cominciò a spandere sull’abito scuro, all’altezza del ventre.
Il lungo pugnale argenteo si mosse fulmineo. La punta della sua elsa si andò a conficcare nella morbida carne che ricopriva la pancia della ragazza, che si piegò in avanti, vomitando altra sostanza scura.
L’elfo si fece da parte, coprendo con la mano libera il profondo taglio che gli si apriva all’altezza dei reni.

Mi mancava così tanto avere un buco in pancia…
Questa però dovrebbe guarire in tempi un po’ più rapidi.

Un terzo urlo pose il punto finale alla vita di un altro uomo.

Tre nemici rimasti, tra cui Sarah Dan Rei con quella maledetta armatura.

- Epica? Epica, riesci a sentirmi? –
Il volto della fanciulla dagli occhi dorati si alzò appena. Il suo corpo era flesso in avanti, tutto il suo peso era posato sulla spada piantata per terra di fronte a sé, suo unico sostegno.
- Mi riconosci? Ce la fai a capire chi sono? – gli occhi dell’elfo non riuscivano a rimanere fissi sul quel volto che gli stava di fronte, ogni pochi secondi doveva alzarli per controllare la situazione all’ingresso della stanza.
- Tragedia? –
- No! No! Commedia! Guardami bene! Sono Commedia! Andiamo! –
- Commedia? – la voce della fanciulla si tinse di una nota incerta – Perché hai quel corpo? –

Il corpo.
Lei si preoccupa del corpo!

- È una lunga storia. Riesci a capire cosa ti circonda? –
- C’è quell’essere, dobbiamo fermarlo, dobbiamo fermarlo prima che… -
- Follia è stato sconfitto, Epica. –
- Follia? –
- L’essere era un dio della Creazione che… lascia perdere. Non è lui quello che senti. –
- Ma io lo sento… -
- Non importa, non devi preoccuparti di quello ora. Non devi attaccarlo per nessun motivo, capito? Ripetimelo. –
- Non devo attaccarlo… Perché mi stai dando degli ordini? –
- Stai tornando lucida, bene. Poi ti spiegherò tutto. Per ora, però, non attaccarlo. C’è un’armatura divina, là dietro. Dobbiamo uccidere chi la sta portando. Hai la spada di Acqua  a disposizione. Te la senti di combattere? –
- Commedia, stai indietro, ti porterò via di qui. –
- Non preoccuparti di me. Pensa a sopravvivere e non attaccare quella presenza che senti. –
- Commedia, cosa intendi fare? Ricordati cos’hai fatto con Melodia! Ora fatti da parte. –
Placche metalliche bronzee andarono a ricoprire il corpo della fanciulla, saldandosi in un armatura che luccicava anche con la poca luce che riusciva a filtrare nella stanza.
- Fai attenzione alle due guardie che la proteggono. –

Mi spiace Epica, ma questa volta sarai tu che dovrai riuscire a starmi dietro.
Una volta che Sarah sarà morta, non sarà difficile liberarsi di quei due soldati.

L’elfo si vaporizzò, portando con sé il lungo pugnale che aveva brandito fino ad allora, sfrecciando in direzione delle scale.
La nube impattò su qualcosa di rigido. Le pareti di una sfera scura gli si chiusero attorno, imprigionandola e costringendola a guardare la donna in armatura risalire velocemente gli scalini, lasciandosi alle spalle i due sopravvissuti che l’avevano seguita fin nelle viscere del monte dalla vetta mozzata.







Angolo dell'Autore:


Ciao a tutti. Oggi sarò breve, promesso.
Innanzi tutto vi voglio ricordare che la prossima settimana sarete elfi liberi da questa storia, perchè non potrò pubblicare, ci rivediamo il 10 di Agosto.
In seconda battuta, vorrei far posare la vostra attenzione sulla comicità di Commedia che, dal lento riaffiorare che ha avuto ultimamente, continuerà la sua evoluzione. Il Viandante ha toccato il suo momento più basso, più depresso, per poi lentamente tornare in sè stesso. Per ora le battute sono tese, dovute anche alla situazione e alle condizioni di Epica, ma muterà ancora, ve lo assicuro.
Mi sono divertito parecchio, ammetto, a descrivere questo scontro, per quanto sia stato un susseguirsi di copia-incolla. Mi sono divertito perchè descrivere i pensieri di Commedia in una situazione del genere è surreale, come il fatto che lui continui a perdere e ricreare lo stiletto nella mano sinistra.a
Per ora chiudo. Grazie a tutti per essere arrivati fin qui.
Vago

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Capitolo 51
*** Capitolo 22: Il precipitare degli eventi ***


Razer ansimava rumorosamente.
Il suo petto si alzava e abbassava a un ritmo serrato, quasi quanto quello a cui batteva il suo cuore.
Sentiva l’adrenalina ribollirgli nel sangue, abbeverando i suoi muscoli contratti. Erano anni che non provava quella sensazione, erano  passate intere stagioni dall’ultima caccia che lo aveva reso così euforico.
Stringeva il suo pugnale, sulla cui lama scorreva il sangue degli uomini che aveva trafitto misto a quello che era sgorgato  dalle ferite che gli costellavano la mano.
Scrollò un’unica volta il braccio destro, facendogli dare un colpo secco in direzione del suolo per liberarsi della linfa rossa che gli rendeva viscida l’impugnatura.
Un ventaglio scarlatto si manifestò sul pavimento e sulla parete lì a fianco, vivido alla luce del fuoco delle torce.
I draghi gli avevano tolto il piacere della caccia, la soddisfazione del piantare una lama nel corpo della preda e sentire il sangue sgorgare di pari passo con gli ultimi respiri.
Quei mostri non sanguinavano, bruciavano senza concedere nemmeno la più piccola soddisfazione al loro cacciatore. Senza poter provare lo stesso dolore che avevano causato i loro simili.
Il corpo esanime di una guardia scivolò di un gradino più in basso, trascinando con sé la faretra che portava al fianco e riversando il contenuto sui pochi scalini sottostanti e sul pavimento che seguitava a questi.
Due uomini si scambiarono uno sguardo rapido, terrorizzato.
La donna in armatura era fuggita, talmente lontana da non rendere udibili nemmeno i suoi passi metallici sulla superficie di pietra.
La guardia armata di spada fece un passo indietro, timorosa di distogliere lo sguardo dalla bestia che gli stava di fronte.
La picca venne puntata alla gola di quest’ultima, nel tentativo di mantenere una distanza di sicurezza tra il suo possessore e il coltello sporco che aveva mietuto i suoi commilitoni.
Razer cercò di fare un respiro più lungo.
Cercò di distendere i muscoli del viso, contratti in un sorriso arcuato che quasi ricordava quello della maschera che gli era stata donata quando era un innocente bambino.
Ultimi brandelli di energia sfrigolavano ancora nei recessi della sua mente, pronti per farsi strada attraverso la sua pelle e risplendere nell’aria.
Poteva ancora generare un paio di lampi prima di esaurire interamente la sua riserva, valutò l’assassino, allargando ancor più il ghigno compiaciuto.
Uno gli sarebbe stato sufficiente.
Si preparò, permise a quell’energia magica che albergava in lui da quando era nato di superare la barriera in cui era custodita, lasciandola serpeggiare in tutto il suo corpo e accumulare appena al di sotto della pelle, dove si ammucchiava, si pressava, scalpitava per uscire ed illuminare l’aria.
Il rumore prodotto dall’acciaio contro altro acciaio e da armi che cadevano a terra improvvisamente si interruppe.
Una corrente d’aria fu sospinta in direzione del viso dell’assassino, come se qualcosa si stesse spostando verso di lui.

Noir guardava la scena da dietro la prigione diamantina. A pochi passi da lui si erano accumulati un numero di stiletti spezzati tale che il bagliore che riflettevano fosse sufficiente da dar fastidio agli occhi.
L’elfo e la fanciulla continuavano a scambiarsi colpi e non una singola volta l’essere dai capelli neri su cui svettava una ciocca bianca tentò di colpire il suo avversario.
Sarebbe voluto fuggire da lì, ma la sua unica via d’uscita era presieduta da due cadaveri ed altrettanti soldati.
Vedeva solo di sfuggita Razer muoversi, solamente quando si spingeva tanto avanti da superare l’angolo della gabbia che lo celava allo sguardo del discendente di Reis.
Il suo corpo scattò indietro, cadendo a terra, quando l’elfo scomparve in una nube di vapore, lasciandosi dietro solamente lo stiletto che stava impugnando in quel momento. Ricomparve pochi attimi dopo più avanti, con le braccia della sua rivale saldamente bloccate sotto il braccio libero.
Il braccio destro dell’essere dall’abito scuro si mosse rapido e la fanciulla fu costretta a chinarsi, boccheggiante.
L’aveva uccisa, si disse Noir, portandosi una mano davanti alla bocca.
L’aveva portato fin dentro il ventre di quella montagna solo per uccidere la creatura che avevano liberato.
Non ne sarebbe uscito vivo, si disse, e non seppe se quel pensiero gli poteva procurare più angoscia o serenità.
Un’altra volta l’odore acre si fece largo nella stanza, accompagnato dai conati della creatura dalle fattezze femminili.
L’elfo lasciò la morsa, scomparendo nuovamente in una densa nube che tentò di sfrecciare verso le scale.
La fanciulla alzò lo sguardo a fatica, i muscoli del suo corpo erano tesi, impegnati a reggere il peso di quella figura sull’elsa della spada che impugnava, la cui lama era stata piantata nel pavimento in pietra. Le placche metalliche che erano comparse per coprire i vestiti troppo leggeri e poter fornire una protezione parevano ricadere mollemente su quella creatura magra.
Una scintilla vivida risplendette in quegli occhi dorati.
Il corpo esile si inarcò, perdendo di solidità. Le dita lasciarono la presa sull’elsa azzurra, abbandonando la spada là dove era stata piantata. La pelle, i muscoli e le ossa si appiattirono, assumendo un’uniforme tinta grigia e richiudendosi come un guscio attorno alla nube che tentava di scappare, celandola alla vista.

No!
Maledizione, lasciami andare!

Razer fu costretto a fare un passo indietro perché la superficie che era apparsa a mezzaria non lo potesse colpire.
La sfera gli fluttuava a fianco, immobile e silenziosa. Poi pulsò, stringendo il proprio diametro di qualche centimetro.
Un'altra pulsazione e un altro restringimento.
E, ancora, una terza pulsazione.
La guardia armata di spada si voltò, precipitandosi a risalire gli scalini che lo avrebbero condotto alla salvezza.
La picca si alzò, crepitante di energia.

Non va per niente bene. Non deve usare quel potere qui, al chiuso.
Devo liberarmi.
Mi spiace Epica, ma non mi lasci scelta.

Profonde crepe si allargarono sulle pareti, sul soffitto e lungo il pavimento, serpeggiando, diramandosi e allargandosi a ritmo incalzante.
I primi pietrischi si sollevarono in aria, sfrecciando verso la lama dell’arma, poi fu la volta di piccoli sassi che andarono ad accrescersi di dimensioni fino a divenire massi.
Il soffitto non poté più sorreggere il peso della montagna sovrastante, franando. Altrettando fece il pavimento della sala che, privo di sostegni , permise a una voragine di inghiottire la cella di diamante e tutto ciò che gli stava attorno.
Il guscio grigio fu perforato da una lunga lama argentea, che lo costrinse a ritirarsi, sanguinante del liquido nero che gli scorreva all’interno.
Un tentacolo appena abbozzato cinse la vita di Razer, trascinandolo verso il blob informe da cui quella propaggine nasceva.
Una seconda appendice si strinse attorno all’elsa della spada dalla lama azzurra che stava precipitando nel medesimo istante in cui un paio di mani afferrarono ciò che rimaneva della sfera.
Una torcia cadde nel vuoto, perdendo gocce di liquido infiammabile che bruciarono nell’oscurità della loro caduta come lacrime incandescenti, facendo brillare una lama argentea sporca del liquido nero pece.

Dannazione, non riesco a trovare Noir!
Odio i Buchi di Trama, odio questi maledetti massi che mi riempiono di punti ciechi.
Dannazione, Epica, dovevi proprio bloccarmi? L’avrei potuto uccidere prima che si suicidasse, quel tizio, e adesso non staremmo precipitando.
...
Precipitando?
Aspettate tutti un momento.

Dal basso, là dove le rocce si stavano riversando, un bagliore cominciò a farsi strada tra la polvere.
I raggi di quella luce definirono una sagoma antropomorfa che agitava inutilmente braccia e gambe, mentre i massi rimbalzavano sulla corazza che compariva e scompariva sul suo corpo con movimenti tanto naturali da ricordare lo sciabordare dell’acqua di mare sulla spiaggia.
Il roboante suono dei primi massi che impattarono nuovamente su un terreno duro fece vibrare la roccia rimasta ostinatamente immobile al suo posto.

So di non pensare spesso a cose scontate e so di pormi domande spesso fuori contesto.
A che profondità hanno costruito la cella di Epica?
A occhio e croce un paio di centinaia di metri dalla piana ricavata eliminando la vetta del Flentu Gar.
Si, sto precipitando, ma ora ho problemi più grossi da risolvere.
Izivay Magnea, quanto era stata scavata in profondità?
Non molto di più, ci si poteva arrivare attraverso il cunicolo a cui si poteva accedere dal vecchio palazzo del Governo.
Quel cunicolo sarà sicuramente crollato su sé stesso quando quei sei mocciosi hanno evocato un dio che ancora non aveva capito una mazza del Creato, questo potrebbe spiegare perché non hanno sfruttato le costruzioni preesistenti.

Izivay Magne, non ci andavo da… una vita.
Cioè, la mia vita non può essere considerata un’unità di misura e, tecnicamente, sono entrato nella porzione di quella sala che è rimasta sul versante occidentale delle Terre dopo la divisione, per rendere omaggio alle spoglie di Seila, ma l’avete capito il senso del discorso.
Forse è il caso di non permettere a questi mortali di farsi uccidere da un paio di pietre.

Noir vide qualcosa di informe serpeggiare verso di lui, qualcosa di umido che scintillava alla fievole luce che riusciva a farsi strada nella cortina di polvere grigia che si era levata e che, ora, lo ammantava.
Un artiglio metallico si piantò saldamente nella roccia ancorata alla montagna, arrestando la caduta dei pesi a cui era legato.
L’erede di Reis si sentì strattonare quando qualcosa lo afferrò alla vita. Un masso che fino ad allora l’aveva solo inseguito gli rovinò addosso, costringendo ancora la melassa che fremeva nelle sue vene a farsi strada attraverso i pori della pelle per proteggerlo dall’impatto di cui si accorse appena.
Il trentenne fu strattonato una seconda volta, in direzione del suo fianco sinistro.
Il soffitto di un salone immerso in quella nebbia di pietra frantumata comparve davanti agli occhi dell’uomo all’improvviso, andando a interrompere con il suo impatto l’oscillazione che stava riportando Noir verso l’alto.
Solo uno spesso strato di melassa nera indurita impedì al suo naso di fratturarsi contro la levigata lastra di pietra.
Un grappolo di corpi si ritrovò ad ondeggiare a mezzaria, sorretto unicamente da un cordone impolverato ancorato alla parete del pertugio da cui erano caduti.
Il molle nocciolo centrale di quella composizione si contrasse in maniera da poter esprimere il suo disappunto mentre gli ultimi massi impattavano sul terreno sottostante, sprigionando nell’aria altra polvere di roccia.

Chi sei davvero tu?

Per favore, Epica, stai zitta per un attimo come ai bei vecchi tempi e lasciami lavorare in santa pace. Mi fai venire nostalgia della solitudine degli ultimi millenni.





Angolo dell'Autore:

Dopo una settimana di silenzio, rieccomi.
Avevo in programma un altro discorso, un altro nocciolo di discorso da cui cominciare a delirare, ma ho trovato qualcosa di più particolare.
Era parecchio che non creavo qualcosa di nuovo. Tendezialmente non scrivo storie diverse nello stesso momento, ho sempre paura di farle mescolare e rovinare la loro unicità, per questo mi trattengo e annoto i lavori sperando di avere tempo e memoria in futuro per dargli una vita.
Beh, ho in programma una sessione da almeno dodici ore di gioco di ruolo e devo creare una storia per far giocare cinque cazzoni, il tutto racchiuso in un mondo che non possano mettere a ferro e fuoco se non con un impegno immenso.
Tutto ciò per dire che mi ero quasi dimenticato quanto fosse bello creare qualcosa da zero. Era da quando ho cominciato quella fanfiction sui pokèmon che non lo sperimentavo e, dannazione, mi sto divertendo davvero tanto a farlo.
Sono negato a disegnare. E nella musica. In realtà sono negato in tutte le forme artistiche e questa è quella in cui posso nascondere questa mia incapacità al meglio.
Credo, comunque, che la base di tutte le "creazioni" sia la stessa, un'idea che ti faccia dire "Cazzo se quasta è l'idea del secolo", anche se è un'idea del tutto normale e priva di particolare originalità. L'importante è quel momento in cui senti che hai qualcosa da dire in un modo tuo.
Sono stronzo con i miei giocatori e, questa volta, ho deciso di fargli rivivere lo stesso giorno in loop, ogni volta che si chiude con la loro probabile morta per via di un meteorite. Non è particolarmente originale come idea di base, ma da quella sono partito, costruendoci attorno un mondo pronto a ucciderli che possa dare una ragione a quegli eventi.
Era una cazzata, ma ci tenevo a raccontarvi perchè, probabilmente, continuerò a scrivere. Posso finire tutte le storie che voglio, ma la sensazione che mi da cominciare qualcosa di nuovo mi invoglierà sempre ad andare avanti.
Alla settimana prossima.
Vago

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Capitolo 52
*** Capitolo 22.5: Fermi a un presente passato ***


Non poteva andarmi peggio.
Cioè, poteva andare molto peggio, in migliaia di modi diversi, tra l’altro.
Il punto è che ora ho un problema in più.
Avevo Sarah Dan Rei davanti a me, potevo aprire quell’armatura come una cozza e cosa succede?
Epica mi ferma.
Cosa le è passato per la testa?

Il boato delle rocce che impattavano a terra smise di far tremare le pareti.

La Giudice maggiore sarà sicuramente arrivata, a quest’ora. Gli avranno trasmesso un allarme appena ci hanno individuato.
Ho bisogno di Epica in piena forma per tenere a bada quella donna alcolizzata. Certo, ora non c’è Follia che la guida passo a passo, ma non so se la possibilità di agire nel pieno possesso delle sue facoltà mentali sia un bene o un male, parlando di Johanne Fenter.

La polvere cominciò lentamente a depositarsi su tutte le superfici, permettendo ai raggi di un sole sempre più lontano di fendere la nebbia che si era levata.
Qualcuno tossì, cercando di liberare i polmoni invasi da quel pulviscolo grigio.

Ho bisogno di una forma più comoda e di non oscillare per poter pensare lucidamente.

Il tentacolo arpionato alla parete rocciosa si cominciò ad allungare lentamente, facendo calare il grappolo verso il terreno sconnesso che lo attendeva diversi metri più in basso.
Dall’apertura che, in quella sala, dava sull’esterno penetrarono gli ultimi raggi di sole che anticipavano lo zenit, prima che l’occidente reclamasse il sole per sé. Quei pochi raggi furono sufficienti a far risplendere la sala del color dell’oro, infrangendosi e rimbalzando sulle linee curve del prezioso metallo che adornavano le pareti.
Una porzione della testa di quello che era un serpente luccicò, quasi completamente soffocata dai massi e dalla polvere che la ricoprivano.
Tre corpi vennero adagiati a terra, seguiti da un paio di suole rigide. Solo successivamente si andarono a formare le scarpe lucide a cui appartenevano.
Lentamente il blob viscoso cedette la sua massa alla creatura che, risalendo dalle caviglie, si stava andando a formare. Di pari passo i tentacoli ancora impegnati si ritrassero, conducendo al proprietario la spada azzurra che uno di questi tratteneva.
Una lunga giacca scura sventolò appena attorno alle ginocchia del proprietario non appena fu libera di farlo.
Due occhi scuri si mossero su quello che era un abbozzo di viso affilato, posandosi sulla lama eterea che, sentita presasi in causa, richiamò a sé i pochi liquidi che riuscì a recuperare nella stanza, permettendogli di avvolgerla per celarla a quello sguardo.
La mano libera dell’elfo dalla ciocca bianca passò sul suo volto, in un moto di stanchezza.

Non devo essere impulsivo, ora.
Se facessi un errore, con quella spada ancora in giro, segnerei la fine per la mia razza.
Posso considerarmi più forte delle Muse che cercarono di scappare allora, a quei tempi eravamo giovani e inesperte, ma non posso ancora fronteggiare quell’arma e il suo potere.
Ho bisogno di Epica e impiegherò tutto il tempo necessario per farla tornare in sé.
 
Cosa vuoi da me?

Ci vorrà meno tempo del previsto, evidentemente.

L’elfo dall’abito scuro si voltò verso la fanciulla che, solo in quel momento, aveva deciso di ritirare all’interno del suo corpo le pareti ferite del guscio che aveva creato. Le suole delle sue scarpe fecero rimbombare il rumore dei pochi passi nella stanza.

Ancora con quel corpo. La sua essenza deve sentirsi ancora in emergenza e sta ritornando all’ultima forma assunta…

- Epica, riesci a capire quel che ti sto dicendo? –
Le ginocchia di Noir smisero di reggere il peso del suo corpo, facendolo cadere a terra. La melassa nera che gli ribolliva in corpo non tentò nemmeno di proteggere le sue ginocchia dall’impatto contro la superficie butterata dei massi.
Il suo viso era una maschera di sangue vermiglio, così come lo erano i suoi vestiti zuppi della sua linfa vitale che continuava a sgorgare dalle migliaia di strappi presenti sulla sua pelle, aperti dalla furia con cui la sua maledizione si era fatta strada attraverso i suoi pori.
L’elfo distolse lo sguardo con un moto stizzito. Le dita della sua mano sinistra tamburellarono frementi sul tessuto dei pantaloni scuri che gli coprivano la coscia.
- Stai indietro. – disse glaciale la fanciulla, facendo un incerto passo in direzione di Noir – Devo finire un vecchio lavoro. –
La fanciulla tese il braccio destro, con la mano a malapena aperta, in attesa di qualcosa. Qualcosa che non arrivò.
L’elfo sospirò avvilito. Alla poca luce che riusciva ancora a permeare la sala parve che la sua forma fisica perdesse di consistenza, tanto quel sospiro era profondo.
Le suole rigide si mossero lentamente sui massi ed il pulviscolo.
La lunga giacca scomparve, tornando ad essere un tutt’uno con quel corpo in continuo mutamento.
Una mano piccola si posò sulla spalla della fanciulla, mentre il suo possessore le si metteva davanti.
Una chioma di capelli rossi ricadde sulla schiena della bambina che calpestava le macerie.
I suoi occhi cozzavano così tanto con i vestiti sgargianti da sembrare fuori posto, così lugubri e profondi.
- Per favore, Epica, basta. – La bambina parlava con voce lenta e seria.
La figura magra, si scansò da quel contatto sulla sua spalla, facendo uno spaventato scatto indietro. Nei suoi occhi si poteva leggere una scintilla di paura.
- Cosa vuoi da me? Vuoi tormentarmi con quel viso? Vattene! Non ho bisogno che qualcuno mi ricordi in cosa ho fallito! –
La fanciulla a stento tratteneva la voce dall’alzarsi troppo.
La bambina sospirò ancora. – Epica, lasciami spiegare, ti prego. –
- Non chiamarmi con il mio nome! Non ne hai il diritto! –

Basta, ora la lascio qui e me ne vado a finire questo lavoro.
Nemmeno la mia forma di quell’epoca la riesce a tranquillizzare.
Perché tutte a me?

- Epica, sono io. Sono Commedia. –

Uh…
Da quanto tempo non dicevo con calma il mio nome ad alta voce?
Che sensazione… strana.

La fanciulla portò un piede avanti, chinandosi per portare il proprio viso alla stessa altezza di quello della figura dai capelli scarlatti.
- … Commedia? Cosa ti hanno fatto? –
Una mano magra si alzò per appoggiarsi alla nuca della bambina.
- Se mi lascerai spiegare, ti racconterò tutto. –
La fanciulla si ritrasse, facendo tornare duri i suoi occhi dorati.
- Dopo il tuo tentativo di salvarci ho agito d’istinto e ti ho stordita. Ho proposto loro un contratto migliore di quello fornito da te. Loro hanno accettato, io ho sigillato nella Trama del Creato la Spada del Fato e la spada nera e tu sei stata imprigionata fino allo scadere del mio contratto. Da allora sono successe un po’ di cose, tutte cancellate dall’esilio del semidio Follia dalla Volta degli Dei che ha provocato il cambiamento di questo mondo e l’apparizione della magia nei mortali. Ci sono state due generazioni di prescelti degli Dei che hanno portato alla sconfitta definitiva di Follia. Nel farlo, però, sono state liberate dall’intreccio entrambe le armi che avevo sigillato. Oh, già, l’attuale Terra non è quello che conoscevi. Ovviamente il mio contratto non è stato rispettato e tu non sei stata liberata da Loro, quindi ho dovuto prendere la situazione in mano e tirarti fuori da là. Ora non ci resta che uscire da qui e andarcene. Le uniche cose che ce lo impediscono sono una donna con indosso l’armatura del Servitore di Aria, la spada nera che è stata ritrovata e uno o più draghi. –
Sulle labbra della fanciulla comparve un sorriso sarcastico.
- Smettila di scherzare. Avanti, dimmi la verità. È stato Tragedia, vero? È sopravvissuto ed è arrivato per salvarti. –
- Epica. Sono mortalmente serio. Tragedia è morto. Melodia è morto per colpa mia. Passione, Danza, Mito, sono tutti morti da millenni. –
Il sorriso si spense sul volto della ragazza magra.
La bambina riprese a parlare solo quando fu sicura di essere ascoltata. – Epica, prima potevo uccidere la donna con l’armatura divina, perché mi hai bloccato? –
- Tu? Uccidere qualcuno? Ti sei fatta di nuovo prendere dal panico e ti sei vaporizzata. Dovevo evitare che ti disperdessi. –

Oh, santissimo me stesso.
Perché a me?

La bambina non riuscì a trattenere un altro sospiro.
- Sono cambiate tante cose, da quando sei stata imprigionata. –
L’istante dopo la bambina parve disgregarsi, riducendosi a polvere bianca nell’aria.
La fanciulla reagì d’istinto, scattando in avanti e cercando di abbracciare la nube con le proprie braccia che, altrettanto rapidamente, si erano allargate al punto da divenire le due metà di un guscio. Si fermò però qualche secondo dopo, sconcertata, alla vista di quella nube compatta che le vorticava attorno, intrufolandosi tra le macerie che stavano calpestando.
Due suole rigide tornarono  a calpestare la pietra sconnessa.
- Sono successe davvero tante cose e ho avuto modo di imparare molti trucchi in tutto questo tempo. -





Angolo dell'Autore:

Ho una brutta notizia da darvi, anche se brutta, al momento e in questo contesto, mi sembra un termine utilizzato impropriamente. Ma lasciatemi spiegare, e ve lo sto dicendo come se poteste interrompermi nel mio parlare.
Questo è l'ultimo dei capitoli di scorta che avevo, di nuovo sono senza un salvagente al quale aggrapparmi in caso di blocchi dello scrittore o problemi di altra natura che mi hanno tenuto lontano dalla scrittura.
E questo ci scaraventa al punto successivo.
La mia settimana non è stata delle migliori. Gli ultimi due mesi, in realtà, non sono stati dei migliori, ma nulla che potesse incasinare la mia vita molto più di quanto non lo sia normalmente. Non saranno un paio di problemucoli di salute o l'avvicinarsi (di nuovo) della sessione di esami universitari che mi faranno desistere dal perdere tempo scrivendo.
No...
Questi ultimi giorni sono stati di fuoco, nonostante il ferragosto a 21 gradi.
Morale della favola: al momento sono molto incasinato e se lo ammetto io, vi assicuro, intendo parecchio infognato nella merda. Un po' come il Titanic, solo che io posso scherzarci ancora sopra e non ho un'orchestra ad accompagnarmi. Oh, già, e non c'è quell'odiosa canzone in sottofondo a perseguitarmi.
Passerà sicuramente, immagino anche presto visto il tipo di casini che sono saltati fuori, ma so che non potrò concentrarmi su tutto questo per un po' di tempo con la dovuta serenità di uno che si diverte scrivendo.
La settimana prossima è certo che non potrò far uscire il capitolo di cui ho gettato nero su bianco una manciata di righe. Manciata di righe che potrebbero uscire il 31... o forse no.
Vorrei poter essere più corretto e preciso con voi, ma, al momento, non mi è concesso. La cosa più probabile è che pubblicherò qualche capitolo, in gergo tecnico, a cazzo di cane, finchè non riuscirò a rimettermi in carreggiata. L'unica sicurezza è che lo farò di venerdì, quantomeno per darvi una corda a cui aggrapparvi per ritrovarmi tra le decine di storie che vengono aggiornate ogni settimana. Quindi riempitevi di sveglie il venerdì, per correre a controllare se mi sono fatto vivo.

Cambiando discorso, per oggi avevo programmato una mezza richiesta da farvi, con tanto di spiegone dietro per chiarire il suo perchè.
Vi lascerò qui la versione breve.
EFP è stato in buona parte lasciato a sè stesso e la possibilità di emergere in mezzo a questo mare di parole è diventato un terno all'otto quando si sta giocando a scala quaranta.
I pochi modi che abbiamo (tutti noi che pubblichiamo) per arrampicarci sull'albero maestro di questa nave che sta affondando sono tutti legati a voi. "Numero di parole per recensione positiva" e "Nei preferiti di TOT persone". Ora, non lo dico solo per me, se volete che un'autore valido su questa piattaforma venga messo in mostra, recensite i suoi capitoli o, se siete come me e vi bloccate nello scrivere recensioni, aggiungete la sua storia tra le preferite. Ve lo dico perchè continuo a vedere storie impolverate e mai completate ferme sui loro scranni quando tante altre storie, che tengo a specificare non sono le mie, si meriterebbero quel posto, ora. Basta davvero un piccolo click da parte vostra.

Per concludere, ricordatevi che non può piovere per sempre. A volte grandina.
Ci vedremo, spero, presto.
Vago

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Capitolo 53
*** Capitolo 23.5: Intoppo ***


Perché nessuno ha fiducia in me?
Anzi, non nessuno.
Sarebbe stata incredibilmente facile la mia esistenza se nessuno avesse avuto fiducia nelle mie capacità.
Più breve, ma almeno facile.
Invece no, Loro hanno visto il mio potenziale e l’hanno sfruttato fino all’osso.
Mio padre mi ha avuto davanti ai suoi maledetti occhi onniveggenti e solo ora si è scomodato dal suo maledetto scranno per mollarmi la sua arma impolverata perché me la riuscissi a cavare da solo.
Epica non ha mai protetto me, io avevo solo la fortuna di essere stato gettato dentro il gruppo di muse importanti e, di conseguenza, c’era qualcuno che combatteva anche per me. Quel maledetto, o quella maledetta, si è scomodata di più per salvare Tragedia di quanto non abbia fatto per me.
Stava per farsi ammazzare, alla fine. Almeno, una volta morta, la mia sopravvivenza non sarebbe stata più un suo problema.
Sono dovuto intervenire io, nel punto forse più basso della mia esistenza, a salvarla.
Quella Musa è eroica solo davanti a un pubblico. Che gran prova di coraggio, invece, morire in un’ultima battaglia, invece di continuare a vivere.
Non avrei nemmeno dovuto liberarla. Non ancora, per lo meno.
Tutto quello che ho guadagnato è stata una rabbia che non provavo da millenni.
Ero riuscito a sigillare il mio passato prima del contratto, dietro una porta della mia mente che doveva rimanere chiusa.

L’elfo si mosse rapido attraverso la sala. Il suo corpo pareva pesare troppo per le sue dimensioni e le suole rigide, ogni volta che toccavano lo strato di macerie, con un tonfo sordo, sollevavano in aria polvere e schegge di pietra.
Due ampie ali piumate si spiegarono alle sue spalle, nascendo là dove la lunga giacca e la sua schiena parevano essere un tutt’uno.
Due propaggini morbide, come tentacoli di un polipo, si avvinghiarono attorno ai toraci dei due uomini, aderendo ai loro corpi.

Voglio solo vedere la fine di questa roba.
E ora più che mai, non ho intenzione di creparci.
L’incazzatura mi ha persino fatto perdere l’interesse in produrre dei corpi che possano sembrare naturali. Tanto, a questo punto, a chi devo celare ancora la mia vera essenza?

Commedia, fermati.

Taci.
Ti preferivo quando eri drogata in quella prigione di diamante. Mi ero addirittura riuscito a convincere che mi ascoltassi quando ti raccontavo le mie disgrazie.
Tu pensa quanto la solitudine mi avesse fatto idealizzare la tua figura.
Comunque, adesso, dopo aver salvato il Creato un paio di volte, ho tutta l’intenzione di salvare anche la mia vita.

Le maestosi ali scure si aprirono, facendo sporgere le loro estremità al di fuori della caverna.
I due occhi verdi incastrati sul viso da elfo vennero per un attimo nascosti dalle palpebre, come se queste volessero godersi la lieve brezza marina che riusciva ad intrufolarsi in quella sala in rovina.
Una possente folata di vento si abbatté sul terreno, sollevando i tre corpi legati e scagliandoli oltre il ciglio di quel dirupo.
Noir non riuscì a trattenere l’urlo di terrore che gli nacque in gola.
Stava precipitando, stava di nuovo precipitando, come quando era bambino. Ma, questa volta, non c’era la dura ma sicura terra ad aspettarlo.
C’era solo il mare sconfinato sotto di lui.
Uno strattone al torace gli tolse il respiro, costringendolo a ripulire la mente dai lugubri presagi che l’avevano affollata.
Ai lati del suo campo visivo piume nere comparivano e scomparivano ritmicamente, trascinandolo lontano dalla superficie scura su cui penzolavano i suoi piedi.
Il trentenne avvertì appena la sua maledizione farsi strada attraverso i pori della porzione sinistra del suo corpo per proteggerlo dalle membra dell’uomo che gli si scontrò poco dopo addosso.
- Dove ci vuoi portare? – riuscì ad urlare il discendente di Reis, sovrastando il rumore del vento che lo investiva.
- Lontano da dove potreste farvi uccidere. – fu la risposta gelida dell’elfo alato. La sua voce tagliente raggiunse le orecchie dei due mortali come se le sue labbra fossero state accanto alle loro orecchie.

Già, lontano.
Ma quanto dovrà essere lontano questo lontano per metterli davvero al sicuro?
Non mi interessa se poi si uccideranno a vicenda o meno, una volta che me ne sarò andato, dopotutto sarebbe una loro scelta.
Sono diventati Buchi della Trama per colpa di noi immortali, non voglio che muoiano anche per colpa dei nostri casini.



L’elfo superò rapidamente il ciglio di ciò che restava della desolata Terra degli eroi, risalendo ancora per nascondersi alla vista di chi fosse stato lì.
I suoi occhi si sforzarono di riconoscere le sagome nella pianura brulla.
Non vedeva Johanne Fenter, ma il suo essere tremava percependo quella spada maledetta vicina.
Un gruppo di creature dalla pelliccia nera parve agitarsi a terra, i loro corti musi si alzavano e abbassavano fiutando con ostinazione l’aria.

Cosa sono quelli? Demo?
Anche se lo fossero, non possono avermi fiutato. Non ho un odore da fiutare e anche se lo avessi, la distanza che ci divide è troppa anche per il loro olfatto.

All’interno di uno dei tentacoli che nascevano dal corpo dell’elfo qualcosa si mosse agitatamente, indurendosi, tornando morbido, espandendosi e contraendosi.
- Noir! Smettila di agitarti! – tornò a sussurrare la voce dell’elfo all’orecchio del discendente di Reis.
- Non ci posso fare nulla! La mia maledizione, lei sente qualcosa! È come quando ti avvicinavi a me prima di… prima di quella cosa che è successa sui monti. –

Maledizione.
Non sono i Demo il mio problema.
Lui sta avvertendo l’essenza di Follia e, adesso, quella roba è presente in solo tre posti.
Il cadavere pietrificato di Follia.
Il suo corpo.
E quella maledetta spada.
Ci deve essere Johanne Fenter, laggiù, da qualche parte. Lei e quell’arma.
Ma ci saranno anche i suoi lacchè?
Sicuramente là, ad aspettarci o a festeggiare per la nostra morte c’è Sarah Dan Rei.
Quel porco di Krave Dunnont si sarà portato dietro la sua selezione di bestiole da guardia.
Chi faceva ancora parte della combriccola?

Maledizione!
Tutte quelle morti mentre non ero presente mi hanno fatto perdere il conto.
C’è il drago, l’attuale re dei draghi. Quello che ha seguito la tradizione di famiglia, facendo ammazzare il suo predecessore. Quello è il cucciolo del Giudice Maggiore, figurati se non è arrivato con lei. La domanda, a questo punto, è: Si sarà portato dietro la scorta reale?

- Attento! –
Piume scure caddero lievemente verso il lontano terreno. Da uno spesso strato di pelle ricoperta da squame azzurre pendevano nell’aria le estremità delle ali scure, un paio di gambe avvolte in eleganti pantaloni e i due tentacoli a cui erano aggrappati due uomini esterrefatti.
Un paio di enormi ali membranose sbatterono ancora una volta per frenare l’avanzata rapida del corpo a cui erano legate.
Il paio di gambe si mosse con frustrazione, cercando di smuovere  la mascella che si era chiusa poco sotto il bacino a cui erano attaccate.
Le fauci serpentine si serrarono con ancor più forza, affondando la chiostra di denti più a fondo nel corpo della preda che avevano catturato.
Tra le nubi chiare d’alta quota si mossero un paio di figure dalla mole imponente, fendendo le correnti con i loro corpi sinuosi.

Dannazione.
Ero talmente concentrato su chi ci può essere ad attendermi a terra che mi sono dimenticato il piccolo particolare che i draghi hanno le ali.
E le sanno usare.
Che situazione fastidiosa.
Mi chiedo se questo sia il palato di un re dei draghi o meno.
Comunque, non è un mistero cosa debba fare ora.
Libero le braccia dai denti che le hanno trapassate, rendo questa bocca un deposito di carne trita con la Spada del Fato e faccio scivolare la materia che adesso è imprigionata fuori da qui, mentre questo grosso rettile sta precipitando.
Poi è solo questione di non spiaccicarsi al suolo.

Le fauci vennero scosse violentemente.
Qualcosa tirò verso l’alto la coppia di tentacoli.




Angolo dell'Autore:

Rieccomi. Onestamente, non avevo dato per scontato l'esserci, questa settimana.
Avrei centinaia di cose da dire, dopotutto sono rimasto indietro.
Cercherò, però, di trattenermi e non generare un nuovo capitolo qui, ai piedi di quello che avete letto.
Per questa volta, parlerò di voi.
Il fatto che non riuscissi a scrivere o pubblicare alcunchè non mi ha impedito di controllare cosa stesse succedendo sulle mie storie e, davvero, sono rimasto sorpreso positivamente da voi.
Questo è il centosettantunesimo capitolo che pubblico in questa trilogia. 171 capitoli pubblicati in quelli che sono quasi tre anni. Sono un'infinità.
Non so quanti di voi mi seguono dall'inizio, molto probabilmente mi avete trovato dopo parecchio tempo dalla pubblicazione del primo capitolo, ma il pensare che, comunque, nel giro di tre giorni cinquanta persone vegano a leggere il nuovo capitolo tutte le settimane mi rende davvero incredulo.
Il sapere, poi, che c'è chi mi accompagna dall'inizio è un regalo enorme.
Siete incredibili, davvero. Specialemente in queste ultime settimane in cui l'incostanza è stata la mia firma.
Non lo ripeterò mai abbastanza. Grazie a tutti voi.
Vago

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Capitolo 54
*** Capitolo 23: Fine della discussione ***


Razer fece qualche passo indietro, stringendo ancor più forte il coltello che nemmeno durante la caduta aveva lasciato andare.
Anche quella creatura era come l’elfo?
Aveva anche lei gli stessi poteri?
I suoi occhi neri si posarono sulla lama che stringeva tra le dita.
Cosa poteva fare contro di loro?
Il piede sinistro retrocedette ancora, appoggiandosi sulla superficie irregolare di un masso. La suola non riuscì a rimanere salda sulla pietra, scivolando per qualche centimetro verso il basso e rischiando di far cadere l’uomo che la sovrastava.
Lo sguardo dell’assassino si spostò su Noir.
Su di lui poteva contare. Sul suo potere poteva contare, se la situazione si fosse rivoltata contro di lui.
Il volto del discendete di Reis era cadaverico. Il trentenne aveva quasi raggiunto la parete alle sue spalle e il suo sguardo non si discostava dalla fanciulla che, a più riprese, aveva cercato di raggiungerlo.
Il suo potere sarebbe stato sufficiente a uccidere quelle creature?
La lama del coltello tornò a nascondersi nel suo fodero.
Non era quello il momento di combattere con quella lama.
L’elfo stava continuando a parlare con la fanciulla, senza prestargli troppa attenzione.
Doveva trovare un modo per uscire da quel posto.
L’uomo guardò in aria da dove erano caduti. Ora imponenti parti di montagna avevano richiuso la frattura creatasi, lasciando solamente pochi spiragli a tradire la loro esistenza.
Razer si mosse sui massi, silenzioso come quando inseguiva i draghi che aveva preso di mira. Si perse solo un attimo nei riflessi dorati che, ogni tanto, comparivano sotto i detriti.
Quanto materiale prezioso era stato incastonato in quelle pareti?
Gli ultimi raggi del sole lasciarono la caverna in cui erano precipitati, oltrepassando le guglie delle montagne per far gettare loro le ombre sul mare orientale.
L’uomo raggiunse il limitare di quella caverna, guardando il precipizio che lì si apriva sul mare sottostante. Si guardò poi attorno, cercando un sentiero tra le rocce e le riseghe per poter risalire in superficie, fallendo.
Non poteva uscire da quella situazione. Non da solo, per lo meno.
Involontariamente il suo piede destro fece un passo indietro, come volesse allontanarsi da quel precipizio che gli si apriva davanti.
Si morse l’interno della guancia, cercando di allentare la tensione.
Chi erano i suoi nemici, ora?
Voleva ancora uccidere tutti i draghi. Avrebbe vendicato la sua famiglia fino al suo ultimo respiro.
Ma, adesso, aveva scoperto di chi era la colpa. Chi aveva provocato tutta quella morte.
Quante vite avrebbe dovuto strappare con il suo pugnale? Quante erano le persone a cui stava dando la caccia?
Alle sue spalle percepiva frammenti del discorso tra le due creature che l’avevano portato in quella voragine con loro, ma le sue orecchie si rifiutavano di dar peso a quelle parole.
Razer scacciò quell’infondato timore che il baratro davanti ai suoi piedi gli muoveva nelle viscere, portandosi nuovamente sul ciglio con cui terminava quel luogo antico.
Per un attimo l’uomo fu tentato di fare un passo avanti, mentre davanti ai suoi occhi la realtà si sovrapponeva con i ricordi sbiaditi del bambino che aveva visto le Terre d’Oriente ancorate alla catena dei Muraglia.
Suo padre l’aveva portato sul Passo del Messaggero, durante una delle sue battute di caccia e da quel passaggio ricordava di aver visto una pianura allungarsi davanti ai suoi occhi, che si andava a perdere oltre l’orizzonte in una distesa di terra rossastra.
Se solo avesse avuto ancora otto anni e avesse trovato quella sala in una delle esplorazioni con sua sorella, probabilmente, le avrebbe raccontato la leggenda della sala del tesoro dei nani. Quelle creature avevano lasciato dietro di loro più leggende che tesori.
Un artiglio arpionò la camicia del trentenne, tirandolo a sé e, con poca delicatezza, gettandolo a terra sulle macerie.
- Ho bisogno di ancora un po' di tempo, qui. Vedi di non ammazzarti ancora per una decina di minuti. – gli disse con voce seccata l’elfo dai capelli color pece, facendo scomparire il sinuoso tentacolo nero sotto la lunga giacca scura.
Razer non gli rispose, limitandosi a guardarlo con sguardo infastidito.
Non si sarebbe mai gettato da quel precipizio. Quella creatura avrebbe fatto meglio a preoccuparsi per la propria vita, piuttosto che per la sua.
- Scusami… chiunque tu sia, davvero. – Noir provò a spostarsi verso le due creature che ancora stavano parlando, ma non poté fare a meno che fermarsi quando la sua voce attirò su di sé lo sguardo dorato della fanciulla – Cosa… cosa dovremmo fare adesso? –
L’elfo si passò le dita tra i capelli corvini, smuovendo la ciocca candida, prima di rispondere. – Non appena avrò finito di mettere mia sorella al corrente dei principali avvenimenti dell’ultimo millennio vi porteremo in superficie, dove, probabilmente, ci sarà un cospicuo numero di combattenti ad attenderci.  Con buona probabilità là le nostre strade si divideranno. –
- Davvero ci porteresti in superficie solo per lasciarci in balia dei soldati? – Noir cercò di dare alla sua voce una nota di rabbia o indignazione, ma tutto ciò che tinse le sue parole fu una rassegnata disperazione.
L’elfo in tenuta elegante si voltò di scatto completamente in direzione del discendente di Reis, facendo ondeggiare la giacca attorno ai suoi polpacci. I suoi occhi scintillarono, come se avessero riflettuto un lampo notturno.
- No, non ho intenzione di gettarvi sulla Terra degli Eroi ed andarmene. Ho intenzione di gettarvi oltre la Terra degli Eroi, tornarci, distruggere una volta per tutte l’arma che il demone che si impossessò del tuo avo forgiò all’alba dei tempi e solo in seguito, abbandonare questo scoglio troppo cresciuto che non ha fatto altro che rovinarmi l’ultimo secolo di vita. –
- Tu? Tu! – la fanciulla proruppe in una risata violenta, che rimbombò tra le pareti e costrinse il trentenne dal polpaccio ustionato ad ascoltare il discorso da cui erano state generate quelle risa – Tu vorresti distruggere quella spada? Perché non gli dici la verità? Che hai intenzione di mollarli il prima possibile e scappare con la coda tra le gambe lontano da chi ora brandisce quell’arma? –
La scintilla negli occhi dell’elfo divampò in un incendio. Per un attimo il suo corpo parve non riuscire a mantenere la forma che aveva assunto, divenendo prima vagamente etereo, per poi sovrapporsi a centinaia di altre figure, umane e bestiali, migliaia di occhi iracondi si posarono nel medesimo istante sul volto della fanciulla, centinaia di braccia mossero altrettante armi eteree dalle forme più svariate, la giacca scura che ricadeva rigidamente verso il suolo pareva non essere abbastanza grande per contenere i torsi e le propaggini che si dimenavano sotto e attraverso di essa.
Bocche di ogni forma e dentatura fecero per aprirsi e permettere così a chissà quale cacofonia di voci di prorompere, ma si costrinsero a rimanere serrate.
I capelli, lentamente, si districarono dalla selva di aghi, piume, serpi e corna, tornando a coprire compostamente un capo dalla pelle chiara su cui un solo paio di occhi verdi rimase a fissare il volto magro di fronte a loro.
La lunga giacca tornò ad essere composta di tessuto morbido, cedendo nuovamente al volubile passaggio dell’aria ad ogni movimento.
Tutte le braccia meno le due più appropriate a quella forma si dissolsero completamente, sfuggendo al limbo in cui erano rimaste bloccate.
Lo sferragliare di armi scomparve, venendo sostituito dal tonfo sordo di una sola suola che batteva contro il pavimento di fronte a sé.
Una mano magra afferrò il bavero della camicia della fanciulla, tirandola a sé fino a quando gli occhi verdi e quelli dorati non furono che a pochi centimetri di distanza.

Non permetto a mio padre di valutare le mie azioni, anche se quel vecchio inutile è un fottuto dio.
Non sarà di certo la sorella che ho liberato dalla sua prigionia a farmi abbassare il capo. Non dopo quello che mi hanno costretto a fare da quando gli ho proposto quel contratto.

- Ascoltami bene, Epica. Tu non hai ancora minimamente idea di cosa io possa o non possa fare. Non volevo dirtelo così, o quantomeno non ora, ma evidentemente hai bisogno di darti una ridimensionata dopo la fine dell’effetto di quelle droghe. – sul palmo della mano destra, libero di muoversi, si aprì una fenditura dalla quale sgorgò come acqua dalla fonte la lama argentea della spada del Fato – La vedi questa? Papà non è mai stato in grado di fare qualcosa per noi, ma, come puoi vedere, mi ha dato la possibilità di fare da me ciò che è necessario. Ecco dov’è la tua tanto potente spada del Fato, nella mano dell’unica Musa che, a quanto pare, non intendevi davvero proteggere. Quindi, ora, vedi di farti bastare la Spada degli Abissi che sono riuscito a farmi dare, perché più di quello da parte degli dei e da parte mia non avrai. –
La mano sinistra della creatura dalla ciocca bianca abbandonò le vesti della fanciulla, permettendo al corpo di cui era parte di allontanarsi.
- Voi due - la voce dell’elfo cercava di apparire priva di emozioni – guardatevi attorno, perché non vedrete mai più una delle due metà di Izivay Magnea. Ora vi porto lontano da questa follia. -




Angolo dell'Autore:

Non era così scontato ritrovarci qui, oggi.
Con il "ci" in ritrovarci intendo voi e il mio spettro languido e vago. Qui non sarò molto più di quello, il mio cervello non me lo permette e, credetemi, nel mio stato di stanchezza attuale sto facendo fatica a mettere le parole una dietro l'altra con un filo logico decente a tenerle unite.
Non sono qui per infestare queste righe, vi lascio solamente detto e ripetuto che l'uscita del capitolo la prossima settimana non è certo, così come non lo sarà nelle settimane successive.
Ancora vi chiedo scusa per il disagio, spero di poter riprendere ad essere il buon vecchio Vago ossessionato dalla puntualità.
Alla prossima.
Vago

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Capitolo 55
*** Capitolo 24: Picchiata ***


Qualcosa tra le nubi vaporose scintillò, rifrangendo la luce solare.
Noir sentì chiaramente la sua maledizione premere contro le pareti delle sue vene nelle quali era nascosta, pronta a fuoriuscire dal suo corpo in un istante.
Non sapeva qual era il pericolo che l’aveva risvegliata, ma quel senso non poteva che preannunciare qualcosa di terribile.
I suoi piedi pendevano a centinaia di metri dal terreno e, per un attimo, il trentenne si chiese se la sua maledizione potesse proteggerlo anche da una simile caduta.
No, si rispose. Non sarebbe riuscito a sopravvivere in nessun modo.
Quella consapevolezza non lo spaventò più di tanto e un angolo del suo cervello si trovò a sperare che il tentacolo che lo avvolgeva perdesse la presa.
La maledizione spinse ancor più forte contro le pareti che la delimitavano, strisciando tra i muscoli e facendosi largo attraverso la pelle.
- Attento! – riuscì ad urlare, prima che la voce gli si spezzasse in gola, soffocata dalla corazza scura che strappò la cute pur di ricoprire il suo corpo.
Un muso spigoloso, ricoperto da lucenti squame azzurre comparve davanti all’uomo, per poi scomparire dietro ad una chiostra di lunghi denti d’avorio, che si richiusero con uno scatto secco attorno alla vita dell’essere che li stava trasportando, lasciando fuoriuscire solo le gambe di quella creatura.
Un battito delle ali di quel drago fu sufficiente per strattonare i due uomini appesi alle propaggini, facendo guadagnare loro un’altra decina di metri di quota.
Lo sguardo di Noir si mosse verso il suo fianco, dove Razer aveva afferrato il tentacolo che lo sosteneva, cercando di scalarlo per raggiungere la creatura. Al suo fianco pendeva il fodero del suo coltello da caccia.
Voleva uccidere quella bestia?
E se anche ce l’avesse fatta, sarebbe riuscito quell’essere, quel Vander, a tenerli in aria?
Quantomeno sapeva che era vivo, visti i movimenti stizziti delle gambe che lo sovrastavano.
Un dardo dorato saettò nell’aria.
Le squame che proteggevano la fronte dell’imponente creatura color zaffiro si lasciarono penetrare dal metallo iridescente senza opporre resistenza.
Schizzi di sangue bollente caddero addosso ai due uomini, colando lungo la superficie nera della corazza che ancora ricopriva Noir.
Una zampa artigliata strinse i tentacoli che legavano i tre corpi nella sua morsa, mentre le ali membranose del drago sbatterono un’ultima volta in preda alle convulsioni, prima di cadere assieme al maestoso corpo scintillante verso il suolo.
Da quelle fauci prive di vita fuoriuscirono sottili filamenti a stento solidi, talmente fini da lasciarsi scompigliare dalle folate d’alta quota come una chioma corvina.
La lunga lama si sfilò dal cranio del rettile come se stesse uscendo dal suo stesso fodero.

Sei arrivata solo per dimostrarti eroica?
Potevo ucciderlo in un secondo anche da solo, ancor prima che questo mortale lo infilzasse nello sterno.
Lasciami andare. Devo portarli ancora al sicuro.

L’aquila bronzea sollevò con un movimento innaturale la zampa sinistra, in cui brandiva la spada dalla lama azzurra, per poi calarla sui tentacoli neri che stringeva nella zampa destra, tranciandoli.
Le gambe dalle quali nasceva solamente la zazzera filamentosa si ritrovarono senza un supporto che le potesse sostenere in aria, cominciarono così a precipitare all’inseguimento del cadavere draconico.
I piedi, ancora cinti dalle scarpe della suola rigida, si mossero frustrati, calciando l’aria che li circondava.
Gambe e filamenti si dissolsero in un nugolo di denso fumo scuro, bollente, che risalì per potersi portare all’altezza del becco del rapace.

Cosa c’è?
Ti sei stancata fino a questo punto di me?

L’aquila fece per aprire il becco, ma tornò immediatamente sui suoi passi.

Dovresti smetterla di parlare.

L’aquila sbatté più volte le massicce ali, sollevando il suo corpo e quelli che trasportava di diversi metri.
Una fiammata scarlatta investì la nuvola nera, costringendola a risalire ancor di più verso gli astri, trascinata dalle neonate correnti ascensionali.

Come  hai fatto a sopravvivere fino ad ora se non ti sei nemmeno resa conto dei combattenti che ci circondano?
Non potrai andare da nessuna parte, se non sfonderai la barricata che hanno creato.

Quanto è strano sentire qualcuno che si riferisce a me al femminile…

Con chi stai parlando, ora?

Con nessuno, se non me stesso.
E che vengano ad attaccarmi, mi eviteranno la fatica di doverli inseguire.

- Voglio scendere. Adesso. – La voce di Razer era dura, come se stesse impartendo un ordine.
- Non se ne parla. Non creperai per colpa dei nostri trascorsi. – gli rispose con un tono rimbombante la nube scura.
- Tu hai parlato del re dei draghi. Lo voglio uccidere con queste mani, non mi interessa sopravvivere, voglio solo vendicarmi sul colpevole della morte della mia famiglia. –
La nuvola vaporosa roteò su sé stessa, irritata.

Ed ora come faccio a dirgli che QUESTO re dei draghi non è lo stesso che gli ha sterminato la famiglia? Tolta sua sorella, ovviamente.
Dannazione, nessun uomo sano di mente vorrebbe farsi lasciare in quel carnaio là sotto, perché non può semplicemente…

- Va bene. –
L’aquila batté le ali per riprendere velocità, puntando il proprio becco in direzione del terreno.

Cosa?
No! Non va bene per niente!
C’è della roba, là sotto, che non è alla loro portata!

Se il suo desiderio è combattere, perché dovrei fermarlo?

Perché è un mortale!
E non è logico mettere un mortale contro la spada di Follia! O contro un’armatura forgiata dagli dei! O contro un maledetto drago!
Sono mortali, per l’amor del Fato!

Proprio perché sono mortali hanno il diritto di scegliere di che morte morire.
Il suo spirito non vorrà spegnersi in un letto.

Non mi interessa cosa vuole il suo spirito. Non mi interessa se vuole morire in un letto, in un fosso o sul dannato cucuzzolo di una montagna come Profezia.
Sono io che non voglio che qualcuno muoia sotto la mia protezione o per colpa mia.
E l’altro? E Noir?
Lo puoi temere finché vuoi, ma anche lui ha il diritto di sopravvivere a questo.

A lui non capiterà nulla, se non sarà un suo desiderio.

Maledizione.

Noir si aggrappò al tentacolo che lo sorreggeva con tutte le sue forze.
Perchè Razer era così ostinato?
Lui voleva solo andarsene da quel luogo che pareva eccitare così tanto la sua maledizione.

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Capitolo 56
*** Capitolo 24.5: L'inizio della fine ***


L’aquila atterrò nei recessi di quella piana spoglia, permettendo al carico che trasportava di poter tornare a reggersi sulle proprie gambe.
La lama del coltello di Razer baluginò, scivolando rapida fuori dal suo fodero.
- Chi di loro è il re dei draghi? – chiese l’uomo dagli occhi profondi, guardando di fronte a sé.
Quattro figure si stagliavano all’orizzonte, risplendenti ai raggi del sole calante. Ai loro piedi si agitavano diversi corpi chini, ricoperti da del pellame scuro.
Tre imponenti creature coperte da squame lucenti atterrarono poco distanti, quasi calpestando il cadavere maciullato del loro compagno caduto.
- Il tipo magro che si sta nascondendo dietro la donna con la spada. – gli rispose una voce eterea, accompagnata dall’arrivo di un vortice di denso fumo nero – Ma non andarci contro ora. Non è lui il più pericoloso. –
- Non mi interessa sapere chi è il più pericoloso. Io lo voglio solo ammazzare. –
L’uomo dal polpaccio ustionato si lanciò a testa bassa verso il gruppo che si stagliava verso l’orizzonte, afferrando con la mano destra Noir per costringerlo a seguirlo con uno strattone.

Idiota!

Un tentacolo nero si allungò dalla nube che si stava addensando, saettando in direzione dei due uomini.
La lama della spada eterea si frappose sul suo percorso, bloccando quell’appendice.

Hai detto che non sarebbe successo a Noir, se lui non l’avesse voluto!
Epica, sei sempre stata una maledetta primadonna, ma questa non sei più tu. La vera te avrebbe davvero salvato quell’uomo.
Toccherà a me, allora, risolvere questo casino. Come ho fatto negli ultimi millenni.

Non gli succederà nulla, ci penserò io a lui.

Spero vorrai scusarmi, ma non ho più fiducia in te.

Un elfo dai capelli neri partì all’inseguimento dei due uomini, stringendo in pugno uno stiletto argenteo.
Razer strinse le palpebre, alzando lo sguardo dal terreno per correggere la sua corsa. Le sue dita migliorarono la loro presa sul braccio di Noir.
Aveva bisogno di lui, almeno all’inizio. Poi lo avrebbe lasciato andare.
Cinque belve vennero liberate dai loro vincoli e sguinzagliate contro i due intrusi.
Le loro urla disumane che riempivano l’aria, si spensero non appena furono abbastanza vicini dal fiutare l’odore delle loro prede. Le grida divennero lamenti, mentre le pellicce irte si appiattivano lungo i corpi scarni e le mani artigliate venivano alzate al di sopra dei crani animaleschi.
Le membra di Noir vennero buttate in direzione di quegli esseri, che si aprirono, permettendo all’uomo con il pugnale stretto in mano di proseguire nella sua corsa attraverso di loro.
Un urlo, questa volta umano, si levò dal gruppo. Bastò quel verso per riscuotere dal loro terrore i Demo che, tenendosi lontani dal corpo caduto a terra di Noir, si mossero rapidi e rabbiosi verso Razer, che non accennava a voler rallentare la sua corsa verso il suo obbiettivo.
L’elfo dalla ciocca bianca si chinò su Noir, alzandolo di forza dalla terra nuda. I suoi occhi verdi, intanto, si puntarono sull’uomo dal polpaccio ustionato, seguendo i suoi movimenti che si stavano per incrociare con quelli degli esseri immondi.


Perché?
Solamente… perché?
Ti salverò, questa volta, ma non credo lo farò volentieri.

Gli occhi dell’elfo si strinsero in maniera serpentesca, mentre la sua stretta si sistemava attorno all’elsa del pugnale divino che stringeva in pugno.
I suoi piedi si mossero rapidi, emettendo solamente flebili tonfi ogni volta che si appoggiavano.
Un lampo dorato gli passò accanto, seguito dai latrati di dolore dei Demo, che caddero a terra, macchiandola del loro sangue scuro.
La Spada degli Abissi fendette l’aria a vuoto, facendo cadere dalla sua lama eterea le gocce di linfa vitale che le erano rimaste legate.
La fanciulla, ora, nascondeva buona parte delle sue fattezze all’interno di una spessa armatura bronzea, probabilmente troppo grossa per il corpo esile che aveva mostrato fino ad allora. La fine lama cristallina dello spadone che impugnava, d’altro canto, sembrava non essere adatta a quell’armatura, così massiccia.
Il soldato si fermò di colpo non appena il suo braccio concluse la mezzaluna che aveva cominciato, riponendo con un gesto fluido la lama nel fodero che gli pendeva al fianco.
Rimase quindi rigida, attenta, con gli occhi dorati che puntavano la schiena dell’uomo ustionato che non si era degnato nemmeno di rallentare alla morte dei suoi inseguitori.

Quella spada…

Gli occhi dell’elfo si adombrarono per un attimo, le sue iridi verdi quasi si offuscarono per un secondo, come se non potessero più vedere il mondo davanti a loro.

Forse con qualche decina di anni di giovinezza in più, Frida sarebbe anche riuscita a dare due colpi utilizzando in una mano quella spada e nell’altra il suo spadone originario.

Dannazione! Perché mi tornano alla mente questi ricordi?
Non mi servono. Non mi servono ora e non mi serviranno mai in futuro.
Sono morti, sono andati.
I Cavalieri sono definitivamente morti e non ho intenzione di rientrare nell’esistenza di quegli assassini senza futuro.
I mortali passano e io devo andare avanti.
Non gli devo nulla.

Di cosa vai blaterando?

Nulla.
Nulla che ti possa riguardare.
E non era il caso che tu intervenissi, li avrei uccisi in un istante.

Non era tuo compito quello di toglierli di mezzo.

E sarebbe tuo, questo compito?

No. Ma il mio compito, al momento, è accompagnare quell’uomo verso la sua gloria.

Tu sai che questi sono entrambi Buchi della Trama?
Nessuno di loro ha davvero un destino glorioso.

Certo che me ne sono accorto, ma, rispondimi, perché non dovrebbero averne diritto, loro?
Sono comunque dei mortali e come tali ho intenzione di trattarli.

Non è questione di essere mortali con un destino o meno!
Non voglio che il sentiero che si stanno tracciando davanti venga spezzato dai nostri!

Questi mortali, per quanto mi paia strano da dire, condividono con noi il nostro peso.
Non siamo stati noi a condurli su questo cammino, non sei stato tu. Sono state unicamente le loro scelte, che si sono incrociate con le tue.

Qual è la differenza?

La differenza sta nel chi sta guidando ora i suoi passi.
Tu hai provato a fermarlo e lui non ti ha dato ascolto, non è stata questa una scelta libera?

E tu? Cosa avresti fatto o non fatto, tu?

Io?
Sto facendo quello che ho sempre fatto con tutti.
Lo sto accompagnando verso la sua scelta.

L’elfo non riuscì a trattenere uno sbuffo stizzito, facendo un passo avanti. I suoi occhi verdi tornarono a farsi duri, concentrati.

Per una volta prova a far finta che io sia un’altra Musa. Una qualunque.
O un tuo commilitone, come ogni tanto ti lasciavi scappare, quando tornavi da una campagna di quel vecchio mondo.
Cosa vuoi fare con quelli là?

Aspettare.

Gli occhi dell’elfo si strinsero ancor più.

Non mi avevi appena detto che vuoi accompagnarlo?

Questo non vuol dire che voglio lasciarmi sconfiggere per lui, mai lo farei per un mortale.

E allora?
Cosa vuoi aspettare?

Il mio obiettivo è la spada nera. Non appena lei si muoverà, io la intercetterò.
Non avverto lo stesso potere di quando mi imprigionarono, non credo sia potente come allora il suo portatore.

All’epoca c’era Follia che utilizzava quel poveraccio come marionetta.
Non so se le manie di un semidio siano più pericolose di quelle di un mortale…

E l’armatura divina? Come intendi gestirla?
Senza dimenticarsi del re dei draghi e dei suoi servitori. Anzi, se vuoi proteggere il tuo eroe moderno ti conviene andare ad impalare quelle lucertole prima che lo carbonizzino una volta per tutte.

Una cosa alla volta.
Basterà reagire alle loro mosse.

Un’ultima cosa, considerala un piacere personale.
Krave Dunnont, quel grassone, è mio. Devi solo lasciarmelo.






Angolo dell'autore:

Ebbene, rieccomi e, come un corvo, portatore di brutte notizie. Brutte per chi sperava di veder la fine di questa storia in tempi molto brevi, per lo meno.
Iniziamo con la solita premessa, tanto ormai ci siete abituati.
Avrete sentito tutti del blocco dello scrittore o della sindrome da pagina bianca.
Sono difficoltà leggermente differenti tra di loro che ogni autore sperimenta almeno una volta, e li conosco fin troppo bene entrambi.
Il primo è un'incapacità di scrivere qualcosa, avere una storia e non riuscire a metterla nero su bianco. La seconda, invece, è il contrario, aver voglia di scrivere e non avere una storia da raccontare e, quindi, rimanere a fissare la pagina bianca.
Al momento, tranquilli, non ho nessuno dei due.
Ho, però, una difficoltà nello scirvere. Ho la storia, la tirò giù, nero su bianco, ma non mi piace, la qualità dei capitoli si sta abbassando, almeno ai miei occhi.. Mancano pochi capitoli alla fine di questa storia, meno di una decina, e non voglio rovinare tutto. Non voglio che il lavoro di anni, e per una volta sono mortalmente serio, vada sprecato in un finale rozzo.
Tornerò a pubblicare una volta ogni due settimane, almeno finchè non avrò ripreso un po' di ritmo di scrittura.
Mi dispiace, davvero, ma, per lo meno, non dovrò scusarmi più avanti per aver tirato fuori un finale brutto.
Potevo anche prendermi una pausa, è vero, ma, conoscendomi, non avreste visto per mesi gli ultimi capitoli di questa storia.
Voglio finire questo viaggio, è arrivato il momento.
Ci ritroveremo, quindi, venerdì 12.
Scusatemi ancora e, ironicamente, scusatemi se mi sto scusando così tanto, ma questa situazione mi da sui nervi.

Grazie per essere arrivati fin qui.
Vago

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Capitolo 57
*** Capitolo 25: Pedoni ***


Razer procedeva a passo spedito sulla piana spoglia, incurante delle figure a cui andava incontro. I suoi occhi profondi erano puntati solamente sull’essere che gli era stato indicato come il re dei draghi.
La lama del suo pugnale si ostinava testardamente a brillare sotto i raggi del sole calante, nonostante la polvere di roccia che le si era depositata sopra.
Le tre figure mastodontiche che avevano da poco raggiunto quella che fu la Terra degli eroi si mossero pesanti nella direzione di quel pazzo che gli correva incontro. Le zampe ornate da artigli lucenti facevano rimbalzare i sassolini sul terreno ogni volta che impattavano su questo e le sinuose code squamate lasciavano alle loro spalle un solco nella polvere che ricopriva quella terra priva di vita.
Un ruggito si levò al cielo, ma l’assassino non parve neppure udirlo.

Mi chiedo quanto quello che faremo impatterà sulla Trama.

Cosa intendi?

È che... cosa sarebbe successo se avessi deciso di accompagnare uno di quei draghi, invece di Razer? Quanto stiamo incasinando il mondo?
E perché Razer ha deciso definitivamente di smettere di ragionare?
Si sta suicidando, correndo in quella maniera.

Commedia, smetti di dire cose senza senso, non è questo il momento.


Niente. Non importa.
Questo è il motivo per cui, nonostante tutto, non sono diventato te.
Forse, quando tutto questo sarà finito, ti racconterò la storia del Viandante.

Smetti di parlare, devo concentrarmi.

Fai quello che vuoi…

Il terreno cominciò a tremare quando i tre draghi cominciarono la loro carica verso l’uomo solitario, ma lui parve non temerli, come un pastore che guarda dei cuccioli appena nati.
La sua mano si strinse sull’impugnatura del coltello che brandiva.
L’armatura bronzea scattò in avanti come una folgore, impugnando l’iridescente spada azzurra che le era stata data. Non un lembo di pelle della fanciulla che era stata liberata ora si vedeva sotto le piastre metalliche.

Maledizione.

Sarà il caso che faccia anch’io qualcosa e non credo che il sedermi in un angolo per aspettare questi eventi sia tra le possibilità che mi sono concesse.
Noir starà bene, qui. Non credo che uno di quelli là si muoverà per lui. Non finché noi altri saremo in piedi.

L’elfo si incamminò a passo veloce, facendo fuoriuscire svogliatamente la lama di un lungo pugnale argenteo dalla fenditura che gli si era aperta nel palmo della mano destra. Alle sue spalle la lunga giacca sventolava, mossa dalla corrente che quel movimento aveva generato.

Dovrei cambiare vestiario, non vorrei inciampare in questi abiti.
O che questi pantaloni vengano strappati in combattimento…
Non è stata un bella esperienza…

La giacca parve vaporizzarsi, così come i capelli dell’elfo e il resto del suo vestiario. Le volute di fumo nero si addensarono attorno al corpo scuro dalle forme indistinte. Due occhi dorati, due soli splendenti, si aprirono sulla superficie piatta priva di imperfezioni.

Chissà come mai mi è uscita proprio questa forma, quando mi sono trovato faccia a faccia con Follia.

Stai un attimo in silenzio.



Una fiammata scarlatta si spiegò sulla piana, scaldando l’aria e rendendo le immagini che questa trapassavano quadri tracciati da mani insicure.
Razer si gettò a fianco a sé, a terra, per evitare il fuoco che gli correva incontro. Si rialzò, però, quasi immediatamente, deciso a portare a termine ciò in cui si era lanciato.
La spada dalla lama iridescente aprì una ferita nel muro di fiamme, che si piegarono come in un inchino al rapido passaggio dell’armatura. La stessa lama si conficcò nel ventre del drago che stava sputando quell’inferno, facendo zampillare fiotti di sangue bollente sul terreno arido.
L’enorme cranio della creatura ebbe un sussulto, la vampata che veniva spinta fuori dal suo petto si andò ad affievolire, perdendo di luminosità e calore, fino a spegnersi completamente.
La testa del drago dalle squame smeraldine impattò sul suolo, sollevando una coltre di polvere in cui l’armatura bronzea si nascose alla vista degli altri due esponenti  di quella razza.



Un paio di possenti mascelle si chiusero con uno scatto secco sullo spesso pulviscolo, senza riuscire a incrociare nulla sul loro percorso.
La lama azzurra turbinò una prima volta per scacciare la coltre che la circondava.
L’armatura bronzea risplese per una frazione di secondo, una statua antica dalla lucentezza invidiabile, immobile davanti all’essere che la fissava con i suoi occhi scintillanti come pietre preziose.
I pesanti stivali metallici del soldato si mossero quasi impercettibilmente, senza produrre suono o smuovere la polvere che di nuovo si era depositata.
La spada si mosse ancora, tracciando un ampio arco che dal basso cercava di raggiungere il cielo, non curante della resistenza che il muso squamoso che si frappose al suo passaggio cercò di esercitare.
Una scia scarlatta di sangue, come la coda di una cometa, solcò l’aria rovente.
La mascella ricoperta da squame color perla si spalancò in un ruggito d’ira, che si ruppe quando il getto di fuoco arrivò fino alla gola della creatura, per illuminare prima il cielo, poi il terreno dove fino a poco prima si era trovata l’armatura, ora scomparsa alla sua vista.
Una zampa dello stesso colore delle profondità marine spazzò il terreno, ghermendolo con i suoi artigli, costringendo il soldato a fare un balzo indietro e serrare anche la mano sinistra sull’elsa dello spadone che brandiva.

Epica sta giocando un po’ troppo con loro.
Per quanto siamo creature immortali, non è piacevole essere avvolti dalle fiamme quando si ha un corpo materiale.
Io ho avuto parecchio tempo per sviluppare delle contromisure, seppur queste mi costringano a perdere parte della mia materia per mantenermi protetto, ma lei non è in grado di vaporizzarsi senza disperdersi.
Se dovesse abbassare per un attimo la guardia, rischierebbe di dover fare a meno di ben più di quel pugno di materia che io sprigiono.

So perfettamente quali sono i miei limiti.
Smettila di distrarmi con le tue chiacchiere, sei ancora più fastidioso di quando ne ho memoria.

La Spada degli Abissi fendette l’aria una terza volta, affondando la propria punta nel fianco scoperto del drago, perforando qualunque cosa ci fosse sotto le spesse scaglie verdi.
Nuovamente il cielo che si andava scurendo venne illuminato da fiamme vermiglie che avvolsero per una frazione di secondo l’armatura scintillante, per poi spegnersi di colpo.
Uno spettro ammantato di nebbia rimase sdraiato sul muso del drago dai riflessi blu scuri, anche quando il ventre massiccio del suo corpo impattò contro la polvere, non più sorretto dalle zampe.
Il lungo pugnale era stato conficcato a forza in mezzo al cranio spesso, precisamente a metà tra i due occhi che adesso si spalancavano vitrei.

Dicevi?

Stai zitto.

Epica, sono serio.
Non devi prenderli troppo poco sul serio, questi. Sono la cosa più vicina alla magia che è rimasta, probabilmente. Sono pericolosi, anche per noi.

E tu li staresti prendendo sul serio?
Stai sbeffeggiando il suo cadavere, rimanendoci sdraiato sopra.

Chi ha detto che non posso prendere sul serio anche non prendendoli sul serio?
E poi, non meno importante, io li conosco e conosco davvero i miei limiti.
Quasi nulla di quello che è presente su questo pezzo di roccia arida può uccidermi, al contrario di te.
Dovresti imparare a diventare immateriale, è comodo in molti casi.

Non mi interessa cosa sai o non sai fare.
Ti sei intromesso, di nuovo.
Stanne fuori da questa storia, non ti compete.

A no?

Lo spettro si puntellò con il braccio sinistro sulle squame della nuca del drago ormai privo di vita, utilizzando quell’appoggio per balzare a terra. A metà del movimento la mano destra strinse l’impugnatura della sua arma argentea, estraendola dal fodero di carne in cui era stata conficcata.
Passò quindi tranquillamente di fianco all’armatura diventata incandescente a causa del soffio che l’aveva investita. La mano libera fece per dare una pacca sullo spallaccio metallico, ma si trattenne.

Non credo che papà sia d’accordo con te.
Te l’ho detto, la morte, la vita, le guerre e i casini dei mortali, ormai, competono molto più a me che a te.
Non vorrei dirtelo in questa maniera, ma non mi lasci scelta. La bambina che ti sei trascinato dietro per mezzo mondo, quella che ha brandito la tua Spada del Fato senza esserne in grado pur di sigillare la Trama del Reale, è morta. È morta, se non quel giorno, non molto tempo dopo.
Puoi continuare a chiamarmi Commedia, perché quello è il nome che quel vecchio fannullone di nostro padre mi ha dato, ma non sono più quel Commedia.
Potremmo dire che sono diventato il ricettacolo che ha conservato le ceneri rimaste della nostra razza.
Ora terminiamo velocemente quello che abbiamo cominciato, Acqua rivorrà indietro la sua spada.

Lo spettro si allontanò ancora di qualche passo dalle tre carcasse splendenti, sollevando lo sguardo verso Razer, che non si era degnato di rallentare per assicurarsi che i suoi inseguitori fossero effettivamente tutti morti.

Quello lì si farà ammazzare prima ancora di essere riuscito a mettere un dito su Sharadan.
Tra l’altro, Johanne Fenter non permetterà mai che qualcuno possa ferire il suo animaletto preferito, considerato in che posizione la pone avere il re dei draghi come fedelissimo.
Dannazione.
E poi voglio spaccare la faccia a quel porco di Krave Dunnont. Ne ho un bisogno fisiologico per scaricare le frustrazioni degli ultimi millenni.

E, si. Non ho considerato coscientemente Sarah Dan Rei. Lei non è un vero pericolo, a meno che non abbiano un altro asso nella manica di cui non sono a conoscenza. Ma non dovrebbero possederlo, perché nascondermelo finora, dopotutto?



Noir avvertì la sua maledizione tornare a turbinare nelle sue vene.
Davanti ai suoi occhi, la fanciulla in armatura turbinava rapida e letale tra i tre imponenti draghi nella loro forma natia, rimanendo illesa dai loro attacchi e fendendoli con quella sua lama che gli era così familiare, come se una parte della sua mente l’avesse già vista, da qualche parte.
L’elfo al suo fianco prima mutò fino a diventare una nera e fumosa figura indistinta dagli occhi di luce, per poi scomparire dalla piana.
Un muro di fuoco gli impedì di seguire i movimenti del combattimento, isolandolo dal resto del mondo.






Angolo dell'Autore:

A quanto pare il mio essere piantato con i capitoli si estende anche a questi angoli a piè di pagina.
Sono privo di argomenti, per una volta, e il riempire righe tanto per fare non fa altro che aumentare la mia frustrazione. Ecco, se la frustrazione avesse una faccia, probabilmente sarebbe la mia, in questo momento. Questa per me, adesso, è la classica situazione in cui l'universo ha deciso che nulla deve andare secondo i piani.
Ma vabbè. Capita, è capitato e ricapiterà.
Molto più utile da parte mia, invece, ringraziarvi tutti.
Voglio ringraziarvi perchè mi leggete, perchè mi seguite, perchè mi avete dato fiducia e questa possibilità. Voglio ringraziarvi per le recensioni e per il semplice passaggio, davvero. Ma, soprattutto, voglio ringraziarvi per sopportarmi, ho la vaga sensazione di essere stato un po' pesantuccio da digerire, ultimamente.
Siamo appena entrati nella boss rush finale. Un'ultimo sforzo e, finalemente dopo anni, vedremo la fine di questa storia, la meta a cui ha portato tutto quello che vi ho raccontato finora.
Grazie ancora.
Vago

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Capitolo 58
*** Capitolo 25.5: Tagliabile ***


Quanto tempo pensi serva a Razer per rischiare la prossima morte?

L’armatura bronzea alzò lo sguardo celato dall’elmo verso est, in silenzio.
La sua mano rinfoderò in un gesto fluido la spada, nascondendo quella lama iridescente ai raggi del sole.

Un minuto e ventiquattro.

Quanto sarà morto in quel momento?

Sarà alla portata della spada nera.

Dannazione, speravo di avere più tempo, mi sarebbe piaciuto togliere di mezzo almeno uno di quei due leccapiedi.

Sono solo due mortali, impiegheremo più tempo a raggiungerli che ad ucciderli.

Mi preoccupa la sfortuna. Uno di loro ha un’armatura divina e, anche con queste armi, dovremmo perforarla, prima di colpire il suo possessore. E non voglio credere che l’altro sia venuto fin quassù con un manipolo di Demo e null’altro.

Allora concentriamoci entrambi sul riappropriarci di quell’armatura.



Armatura e spettro si mossero assieme in direzione di Sarah Dan Rei, che addosso ancora portava l’ultima polvere di roccia dovuta al crollo del cunicolo in cui poco prima si era trovata.
L’armatura che indossava continuava però a scintillare nonostante lo strato grigio che la ricopriva, così come gli antichi glifi che si intrecciavano sulla piatta piastra pettorale rimanevano ostinatamente visibili, nonostante non ci fosse più nessuno in grado di comprendere cosa dicessero.
Lo spettro aggiustò la presa sull’arma che gli era stata affidata, i piedi avvolti nella coltre di nebbia impattavano appena contro il suolo e i suoi occhi luminosi erano fissi sul suo obbiettivo, in cerca di un’imperfezione da sfruttare in quel lavoro divino.
- Finiamo qui questa messinscena. Mi occuperò io di tutto . –

Cosa?

Lo spettro si fermò di colpo, voltando il suo sguardo verso il gruppo principale di mortali, dalla quale erano arrivate quelle parole.
Johanne Fenter fece un passo avanti, preparando la spada a tagliare qualunque cosa passasse sul suo cammino.
- Lascia che mi occupi io di loro, Johanne. – le disse da dietro l’uomo snello dai capelli bruniti perfettamente ordinati, sfilandosi dalle spalle la pregiata giacca che lo proteggeva dall’aria montana.
- Non sarà il caso, principe, non vorrei farti rovinare quei capi ora, quando la tua incoronazione a re è così vicina. –
- Come preferisci. –
Il Giudice Maggiore si lasciò alle spalle il principe dei draghi, con la giacca del suo abito smeraldo ancora tra le mani.
I suoi occhi erano gelidi e non uno dei suoi capelli dorati sfuggiva all’acconciatura per intaccare la sua vista.
La lama della spada che impugnava vibrava, emettendo un suono cupo e ovattato che poteva essere definito il canto di quell’arma.

Epica, non credo avrai tempo per giocare con quella.
A quanto pare il pezzo grosso non ha voglia di aspettare il nostro arrivo nella sala del trono.

Commedia, di cosa stai parlando? Di quale sala del trono?

È un riferimento al fatto che…
Fa nulla.
Non importa.
Comunque il tuo minuto e ventiquattro si sarà appena dimezzato.

Le narici della donna ispirarono a fondo l’aria montana mista alla particolare essenza che quella spada emetteva, poi si permise un sorriso.
Aveva letto tanto su quell’arma. Aveva letto tutto.
Leggende di viaggi attraverso l’aria e forza disumana, della caccia alle Muse e dell’ombra della spada, che seguiva chiunque la impugnasse.
Tutti fatti che potevano essere accaduti o meno, ma che visti attraverso degli uomini che poi li avevano trascritti dovevano aver preso sfumature fantastiche.
Non c’era nessun’ombra a seguire quella spada.
Non c’era nessuna forza sovrumana né forma di spostamento dovuta ad essa, per quanto avesse sperimentato.
Ma la caccia alle Muse, quella era avvenuta, e se degli umani erano riusciti a tener testa a decine di creature come il Viandante, allora, lei non avrebbe avuto problemi a sconfiggere, da sola, quelle quattro formiche che le si erano parate davanti nella sua continua scalata.
La lama nera si levò nel cielo serale, cantando il suo inno.

La senti?

Si, ma onestamente non mi ricordo se all’epoca facesse lo stesso.

Per me, quell’epoca era ieri.
E no. Non cantava.

Sembra stia risuonando con qualcosa.
Epica, ricordati che Follia non è morto, è solo imprigionato in una pietra sanguigna o quel che sia quella roba.
Non vorrei che, essendoci una parte di lui in quell’arma, possa liberarlo.
Io non l’ho sconfitto, l’ultima volta, neanche lontanamente, non voglio pensare cosa possa fare ora che è incazzato con me e che è rientrato in possesso della sua spada.
Ma, soprattutto, ora che è incazzato nero con me.

Deve poter cadere anche lui.

Gli dei cadono?
Io, lui l’ho visto solo precipitare.



La spada ridiscese verso il terreno, accompagnata dall’ennesimo passo avanti di Johanne Fenter.
Il corpo di Razer le era di fronte, con la fronte imperlata e gli occhi stretti.  Nelle sue iridi scure non pareva essere più presente alcun pensiero. Quegli arti si muovevano meccanici, ogni muscolo ripeteva le azioni che aveva imparato, uccisione dopo uccisione, prima e dopo ogni fiammata di ritorno che aveva provocato.
Non si accorse neppure della mezzaluna di morte che lo voleva incontrare.
La spada nera cantò più forte, spandendo cristallino quel suono cupo e tramante per diversi metri attorno a sé.
Un artiglio di melassa l’aveva raggiunta, conficcandosi sul suo filo, pochi centimetri sopra la larga guardia che proteggeva la mano di chi la brandiva dalla sua bramosia di sangue.
La sostanza nera si ricontrasse, ma non parve voler lasciare la presa che si era conquistata. Richiamò invece a sé l’altra estremità con tutto quello a cui era legata.
Noir si trovò improvvisamente coinvolto in un tiro alla fune, dove il suo stesso petto, da cui era nato quel lungo artiglio che serpeggiava nella piana, gli lottava contro.
Le gambe, stanche e piene di tagli, cedettero, incapaci di sostenere ulteriormente quello sforzo.
Il trentenne non poté far altro che urlare in cerca di aiuto mentre cadeva a terra, per poi venir trascinato verso il luogo in cui già si avvertiva la tensione di uno scontro imminente.
Nelle sue vene, in quel momento, era rimasta così poca melassa che a stento riusciva a proteggerlo dai sassi più grossi sui quali veniva fatto strisciare, ma, come una lenza da pesca, il suo corpo la stava recuperando velocemente. O forse era lei che gli ci si gettava dentro a forza.
Rotolò sulla terra, sui sassi e sulla polvere, rimbalzando a ogni dosso o imperfezione del terreno e lottando disperatamente per, se non fermarsi, almeno riuscire a rimettersi in piedi.
L’artiglio di melassa lo trascinò verso l’alto, consegnando il suo peso sulla lama a cui era avvinghiato e facendolo gravare sul braccio del Giudice Maggiore.
Johanne Fenter guardò con disprezzo l’estroflessione nera e il corpo ai suoi piedi che cercava di rialzarsi. Le avevano impedito di uccidere immediatamente l’assassino di draghi. L’avevano sfidata.
Smise di contrastare il desiderio dell’arma di calare, assecondandola.
La lama della spada nera tranciò l’aria, si fece strada come nel burro caldo attraverso la corazza che era nata per proteggere il proprio ospite e affondò nella spalla di quel corpo a stento inginocchiato, penetrando fino a raggiungere l’altezza del cuore.
Noir alzò gli occhi spenti dall’elsa che gli perforava il petto, alle sue spalle la punta che gli bucava la schiena gettava la sua lunga ombra sul terreno come un’immensa meridiana.
La spada lanciò un inno nel vento montano.

Non gli sarebbe successo niente, vero?
Dannazione, quando mi ascolterai?
Io volevo portarlo via di qui!
Lui è solo l’ennesimo che ci crepa per colpa nostra! E non doveva succedere!

Commedia, cerca di calmarti.

Calmarmi?
Io dovrei calmarmi?
Volevo fare una cosa veloce e pulita qui. Ma no, dovevi voler far avverare i sogni suicidi di Razer contro quel maledetto drago.
Dannazione!

Risolveremo tutto.
Abbiamo ancora le armi degli dei.

Non mi interessano le maledette armi degli dei. Sono dei dannati reperti da museo.
Lui mi interessava. Questa maledetta Spada del Fato poteva anche spezzarsi nel momento in cui mi è stata consegnata, non me ne sarebbe fregato nulla, ma quel Buco della Trama non si meritava questo, non dopo quello che ha passato.

Commedia, non sei lucido, rimani in disparte, per il tuo bene.

Dovrei rimanere in disparte? E per cosa?
Per vedere anche Razer venire ucciso a caso per colpa di una guerra a cui non dovrebbe partecipare?

L’armatura non rispose, limitandosi a lasciarsi alle spalle lo spettro e spostarsi verso la spada nera, perdendo interesse nell’armatura di cui voleva rientrare in possesso.
- Sharadan, in realtà potrei aver bisogno di essere alleggerita da un peso. – disse a labbra strette la giovane donna bionda, mentre il suo braccio si contraeva ritmicamente nel tentativo di liberare la sua spada dal corpo in cui era piantata.
Il drago sorrise compiaciuto, increspando appena la sua pelle chiara. La giacca smeraldo cadde a terra lieve, mentre il petto del suo possessore veniva percorso da spasmi violenti e i suoi lineamenti si facevano più spigolosi.

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Capitolo 59
*** Capitolo 26: Confronti ***


L’ombra oblunga di un immenso drago si stese sulla piana.
Stracci laceri pendevano sulle squame arancioni come per coprirne la brillantezza e, attorno al collo, gli si dispiegò una fascia in cuoio decorata che ancora mostrava i segni delle innumerevoli pieghe in cui era stata costretta.
Le fauci ornate da impeccabili denti d’avorio si chiusero sul corpo immobile di Noir, sfilandolo di forza dalla lama della spada che sembrava aver scelto lui come suo fodero.
L’imponente rettile dagli occhi lucenti alzò il muso serrato al cielo, schiudendo appena le labbra squamose per permettere ad arzille fiammelle di fuoriuscire da quell’immenso forno di carne e scaldare l’aria serale.
Razer batté un paio di volte le palpebre, quasi si fosse risvegliato da un lungo sogno. La sua bocca si allargò per farne uscire un urlo.
L’uomo si gettò in avanti, con il coltello teso. Il suo cervello aveva già trovato la piccola conca appena sotto la clavicola attraverso la quale l’apparato del drago era facilmente raggiungibile.
Gli sarebbe bastato solo quel colpo.
La spada nera si piazzò davanti al suo tragitto, impattando di piatto contro la punta del coltello e facendolo volare a terra, sotto la mole del drago, per poi roteare lungo la sua lunghezza in modo da mostrare al trentenne dal polpaccio ustionato il suo filo mortale. Si mosse quindi verso di lui, fendendo l’aria orizzontalmente.

Lo spettro si guardò attorno, sconsolato. I suoi occhi lucenti si posarono sull’armatura argentea, facendola brillare.
Mosse a turno le dita sull’elsa della spada del Fato, sistemando al meglio la presa che aveva su di essa.
Piegò e stese il braccio sinistro, pensieroso.
Calciò qualcosa a terra, facendolo cadere poco più avanti nella polvere.
Con uno sbuffo di fumo fece sparire la propria arma.
In una seconda voluta ridimensionò il proprio corpo.
Un corvo color pece diradò il poco pulviscolo rimasto con un colpo d’ali, per poi sollevarsi da terra quel tanto che bastava per portarsi sul tetto di quell’unica casupola lì vicina.
Le piume della sua coda si spiegarono come una mano di carte, spezzate a metà dalla penna bianca.

Razer non riusciva più a muoversi.
I pensieri passavano troppo lentamente nel suo cervello.
Era partito per vendicarsi, non aveva altra ragione di vita.
Poi aveva visto Noir morirgli davanti.
Non si era affezionato a lui, ma quell’immagine gli aveva fatto venire un dubbio. Poteva essere ucciso anche lui da quella spada prima di adempiere al suo compito? Da quella spada che era riuscita a ferire quell’uomo dal potere così potente?
Ed ora gli stava davanti e gli veniva incontro.
Non aveva nulla per difendersi, ma, tanto, qualcosa dentro di sé gli diceva che non ci sarebbe riuscito.
Ci fu un cozzare di ferro contro ferro, la lama nera si specchiò in quella eterea della Spada degli Abissi.
L’armatura alzò lo sguardo sul diretto contendente e, nelle profondità oscure dell’elmo, si accesero due fiamme rosseggianti.
- Ho visto trucchi migliori dal Viandante, non credere di intimorirmi con così poco. Dopotutto tu sei solo la musa che è stata catturata da noi. –
- I miei non sono trucchi. –
La spada eterea premette contro la rivale, facendola indietreggiare di qualche pollice. Altrettanto fece Razer, ritornando per un attimo sui suoi passi.

Non ho intenzione di entrare in quella lite.
Che se la risolvano tra di loro.
Quel verme di Dunnont, invece, che fine ha fatto?

La spada nera cozzò contro la lama cristallina, venendone respinta
-Conosco la storia. So che questa spada ha ucciso decine di creature come voi. Puoi combattere, ma non puoi scappare dal suo potere. –
- Tu non conosci nulla. Tu non sai nulla. E ogni morte tra le nostre fila è stata colpa mia, non vostra. Ma oggi metterò la parola fine a questo spargimento di sangue. –
L’armatura bronzea si stagliò contro il cielo che cominciava a tingersi di rosso, i tizzoni che brillavano nell’interno oscuro dell’elmo rimanevano saldamente puntati sulla donna dai capelli biondi.

Un Demo ferito si trascinò a fatica dal suo proprietario, facendo strisciare le zampe posteriori sul terreno, incapace di muoverle.
L’imponente Krave Dunnont respirava a fatica, gonfiando e sgonfiando il largo petto come il mantice di una forgia appena entrata in funzione. I capelli scuri ricadevano sporchi sulla fronte arrossata dallo sforzo.
Il tessuto dei suoi vestiti si tirava ritmicamente sul ventre gonfio, muovendosi di pari passo con le gambe tozze che cercavano di portarlo lontano da quel luogo.
Dal muso schiacciato del Demo proruppe un verso lugubre, che a stento riusciva a superare le zanne sporgenti che comparivano da quelle labbra scure.
Il mercante di quegli esseri si voltò in direzione di ciò che rimaneva della sua scorta, continuando a scrutarsi attorno come un topo in gabbia, poi, con un goffo movimento dell’anca diede un calcio sul fianco scheletrico dell’animale, gettandolo a terra mugolante.
- Maledetto. – bofonchiò a corto di fiato – Siete creature inutili, tutti voi. –
Un altro calcio raggiunse il ventre della creatura, seguito da un terzo.
- Inutili bestie senza cervello. Dovevate ucciderli tutti. –
Krave Dunnont sputò sulla pelliccia sporca di sangue e polvere del Demo, provato dallo sforzo.

- Tu non metterai nulla a tacere. Io conquisterò tutto ciò che bramo. Niente potrà mettersi tra me e le mie ambizioni, non finché avrò il potere di questa spada dalla mia parte. –
- Non capisci con che forze stai combattendo. – fu la risposta gelida dell’armatura – Quella spada non ha più alcun potere ed è a causa vostra e del vostro istinto di sopravvivenza. –
- Tu menti. Non sai niente, sei stata nella nostra prigione per secoli, non sai nulla di quello che abbiamo fatto. –
La voce lontana proveniente dai meandri di quell’armatura appartenuta a un’altra epoca si fece più bassa, quasi temesse che qualcuno potesse star origliando quella conversazione.
- Sono rimasto particolarmente ben informato di tutto quello che avveniva nel mondo esterno, durante la mia prigionia. –

- Non dovresti trattare così le uniche creature che ti sono state fedeli. – disse una voce rimbombante.
Krave Dunnont fece un balzo indietro, riuscendo a stento a mantenere l’equilibrio.
- Dimmi, perché ti sei portato questi cani da guardia fin quassù? Il Giudice Maggiore non ti reputava adatto ad avere una delle armi incantate della vostra collezione? O forse perché non riuscivi ad entrare dentro quell’armatura? –
Il volto del mercante di Demo si fece ancor più paonazzo.
Il Demo a terra si rialzò a fatica sulle zampe lunghe anteriori, smuovendo lo sporco che si era sedimentato tra i corti peli che ricoprivano il suo corpo.
I suoi occhi si accesero della stessa luce emanata dal sole, mentre le sue membra si risistemavano per permettergli di assumere una posizione eretta.
Una densa nube avvolse quel corpo scheletrico, celandolo alla vista dell’uomo che gli stava davanti.
- Non sai da quanto tempo aspettavo questo momento. – disse lo spettro, avanzando verso l’uomo che a stento respirava.
- Risparmiami, ti prego… è colpa di Johanne Fenter, è lei che ha orchestrato tutto! – l’uomo retrocedette incerto, come se dietro ogni suo passo potesse nascondersi un burrone.
- Oh, lo so. Un verme come te avrebbe sfruttato il mio potere appena a un ottavo di quello che effettivamente mi avete chiesto di fare. Ma non è questo il motivo per cui sono qui. Volevo renderti partecipe di quanto sei fortunato. –
- Fo… fortunato? –
- Oh, si, certo. Fortunato. Proprio molto fortunato. – lo spettro fece un passo di lato, permettendo agli ultimi raggi del sole che gli riscaldavano la schiena di arrivare fin sul volto dell’uomo corpulento – Guarda che splendido tramonto. Ed è ancora più bello degli altri, questo. Sai perché? -
L’uomo sudato scosse la testa, facendo sobbalzare il doppio mento che gli ornava la gola mentre deglutiva.
- Perché, quando questa sera il sole sarà tramontato, io non ucciderò più. E tu, pensa quanto sei fortunato, parteciperai al mio ultimo giorno da assassino. –
- No, no, ti prego. Risparmiami! Farò qualsiasi cosa vorrai! –
- Qualsiasi cosa? –
- Ogni cosa dirai sarà un ordine per me. –
- Chiedimi di mettere fine a questa follia. –
- Devo… devo chiederti di… -
- Di mettere fine a questa follia. Non mi sembra troppo difficile. –
- Metti fine a questa follia. – bofonchiò l’uomo, con la voce strozzata nella gola gonfia.
- Ridillo, voglio sentirlo per bene. –
- Metti subito fine a questa follia! – urlò l’uomo con ogni briciolo di fiato che i suoi polmoni ospitavano ancora.
- Speravo ti venisse un infarto. Peccato. Comunque, si, metterò fine a questa follia. –
Nella mano avvolta dal fumo dello spettro risplendette la lama della Spada del Fato. Bastò un solo movimento perché il corpo massiccio di Krave Dunnont cadesse a terra con la gola resa una fontanella di sangue gorgogliante.

Immaginavo questo momento molto più soddisfacente.
Peccato che non ce ne siano altri di lui su cui accanirsi.

In lontananza, un’armatura argentea sferragliava rumorosamente mentre si allontanava sulla piana.

Dovremo andare a recuperarla, dopo.
Sarà una gran rottura, ma non penso che con tutto quel metallo riuscirà ad andare lontano.

Razer alzò lo sguardo sulla corazza brunita che gli dava le spalle.
Avvertiva da lei lo stesso potere che aveva percepito quando si era trovato il cane del Tribunale di Gerala davanti a casa.
Non poteva competere con quel potere.
I suoi occhi si spostarono sulla mole del drago poco lontana, che a sua volta pareva incerta su cosa fare, con le mandibole ancora serrate sulla preda che aveva incenerito.
Il pugnale da caccia era ancora sotto di lui, avvolto dalla polvere di terriccio che lo circondava.

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Capitolo 60
*** Capitolo 26.5: Spinta in avanti ***


Che gran seccatura.
Avrebbero potuto rispettare semplicemente il contratto e non sarebbe successo tutto questo casino.

Sono libero, ora, teoricamente.

Mi aspettavo una soddisfazione maggiore da tutta questa faccenda.
Ho gettato al vento millenni di esistenza seguendo i loro ordini ed ora mi pare tutto così… inutile.
Il novanta percento del mio operato è stato cancellato dal Cambiamento e buona parte di quel che ho fatto dopo è riassumibile con “controlla o proteggi i prescelti, nomina capi di stato e fai il lavoro di quegli incapaci del Tribunale”.
Non ho idea di quel che farò ora… è passato così tanto tempo che non credo riuscirei a riprendere il mio ruolo originale. A questo punto, con tutti i millenni che lo hanno eroso, non so nemmeno se il mio nome mi appartenga ancora…

Il sole ora illuminava rosseggiante la distesa brulla di terra con i suoi ultimi raggi.
Sotto di lui la Grande Vivente si stendeva maestosa, come per proteggere tutte le città e i villaggi che erano sorti ai piedi degli imponenti alberi che la componevano.
Figure scure, rese minuscole dalla distanza, si affrettavano sulla Via Sospesa, che si snodava al di sopra delle fronde.
Il suono vibrante di acciaio contro acciaio riempì l’aria per un momento.

Epica è davvero fuori allenamento.
Era riuscita a fare ben più danni, all’epoca, benché ci stesse cercando di proteggere.

Taci per un momento.
È sufficientemente fastidioso essere costretto ad ascoltare i deliri di questa donna, non affollare la Trama anche con i tuoi commenti fuori luogo.

Lo spettro scalciò per terra, spostando la polvere che continuava a risalire nell’aria e a sedimentarsi sul suolo, muovendosi a lunghi passi verso la casupola che nascondeva l’accesso alla struttura sotterranea in cui l’altra Musa aveva dimorato in prigionia fino ad allora.
Si chinò appena su qualcosa di lucente, soppesandolo con una nota di dubbio negli occhi splendenti.
Tra le mani avvolte in guanti di denso fumo stringeva la lama spezzata di una spada, sul cui filo ancora si vedevano i segni dei violenti combattimenti a cui aveva partecipato.

Non penso gliela riporterò mai indietro…
Chissà che fine ha fatto l’altro pezzo. Sono quasi sicuro che ce lo fossimo portati dietro nella prima parte della caduta…

Commedia!

Si, si, certo. Ho capito.
Me ne sto qui a guardarti combattere.

Se non fosse che se quel drago cominciasse a ragionare con la sua testa potrebbe creare una situazione complicata da gestire.

Lo sguardo dello spettro si spostò leggermente alla destra della scena che stava osservando.
Razer era evidentemente teso di fronte al combattimento che si stava svolgendo a pochi passi da lui, ma, rimasto disarmato, non poteva far nulla per intervenire.
Poi, dietro all’uomo dal polpaccio ustionato, si ergeva imponente l’attuale re dei draghi, una gemma arancione scintillava alla luce del sole morente. Dalle sue mascelle serrate pendevano mollemente stralci di materia bruciata.
Proprio quelle mascelle si aprirono, permettendo al  puzzo di carne bruciata di fuoriuscire da quella voragine. Brandelli di materia nera, non ben riconoscibile, scivolarono lungo la base delle zanne d’avorio, colando a terra.
Il re dei draghi ruggì violentemente verso il cielo, per poi rivolgere i suoi occhi all’armatura bronzea che gli stava di fronte.

Dannazione. Il cosmo esiste per complicarmi la vita.
Quel drago deve morire subito.
Non mi sono rimaste molte frecce al mio arco. Letteralmente.
Non ho intenzione di rinunciare alla Spada del Fato per la possibilità di uccidere qualcuno.
Darò una spintarella al Fato di qualcuno.

- Razer! – tuonò una voce tanto potente da far tremare i sassi sul terreno intorno al suo proprietario.
Un’asta scintillante roteò nell’aria serale, andando a conficcare la punta con cui terminava nel terreno, a pochi centimetri dai piedi del draghicida.
L’uomo dagli occhi profondi guardò la lama spezzata con sguardo turbato, per poi raccoglierla con cura per non tagliarsi i palmi o le dita con il filo lucente.
Si voltò quindi verso il colosso squamoso, con una luce diversa nelle pupille.

Vedremo se sarà abbastanza bravo da sfruttare il mio aiuto.

Commedia, smetti di chiacchierare! Sei destabilizzante!

Si,si. Ora penso a te.

Devo solo capire come.
Vediamo…

Smettila!
Stai solo un attimo zitto!

Se mi lasciassi un attimo tranquillo potrei anche pensare a come aiutarti con quell’ubriacona.

Ma cosa…?

Vediamo quali altre carte mi rimangono nelle braccia.
O nella cassa toracica.
O nel cranio.
In realtà potrei avere assi nascosti e dimenticati in tutto il corpo.

Sarà una lunga ricerca. Dovrei fare un po’ di pulizia.

Ti prego, stai zitto per un secondo e lasciami finire questo combattimento in santa pace.





Uhm.

Questo l’avrei dovuto buttare secoli fa.

Ah, ecco qualcosa che mi potrebbe essere utile.

Ti scongiuro, mi sta scoppiando la testa.

Epica, ti ricordi come ho fatto a non farti uccidere, quella volta?

Cosa c’entra ora?

Pensa solo che stia per rifare una cosa del genere.
Adesso.
Reagisci di conseguenza.
E fidati.

In questo modo dovrei aver sistemato tutti.




Angolo dell'Autore:

È relativamente presto, in questo momento nel quale scrivo. Sono appena le 22 e, normalmente, avrei lasciato passare ancora queste due ore che mi separano da mezzanotte prima di cominciare a tirare giù un paio di righe per l'angolo dell'autore.
Anzi, non avrei nemmeno fatto questo sforzo mentale questa volta, vista la mia reticenza a dare una mia opinione su qualsiasi cosa nei capitoli .5, per quanto negli ultimi tempi questo genere di capitoli si sia appianato come tipo di narrazione a quelli "canonici".
Ma questo è solo un preambolo inutile, in realtà. Non voglio scusarmi certamente per aver inserito un angolo ai piedi di questo capitolo, non è questo l'argomento per cui vi voglio chiedere scusa e riguardo al quale darvi qualche spiegazione.

Nell'ultimo periodo, se avete visto un calo nei miei lavori, beh... probabilmente era una sensazione fondata.
Avrete, avrai, tu che mi stai leggendo, qualunque siano l'ora o il giorno per te ora, presente il classico periodo sfigato. Beh, evidentemente nell'ultimo periodo l'universo ha cominciato a giocare a freccette con la mia faccia o, come potrebbe metterla un giocatore di ruolo, sono io che ho rollato un bell'1 sul d20. Se non hai capito la citazione, non preoccuparti.
Comunque, ultimamente ho pensato più volte lasciar perdere tutto, tra cui figura anche questo passatempo, per un po', pur sapendo che, per come son fatto, avrei ripreso a scrivere tra dei mesi, se va bene.
Questa era la prima scusa che volevo porgervi. Scrivere quando si ha altro per la testa non produce gli stessi risultati di quando lo si fa con "l'ispirazione" che, che ci crediate o meno, esiste davvero.
Ancora, e soprattutto, adesso mi sto chiedendo se ne è valsa la pena scegliere la costanza delle pubblicazioni alla qualità che queste potessero avere. E chiariamoci, io ho degli standard altissimi, specialmente per quello che riguarda ciò che ho fatto io. Non credo che qualcuno mi criticherà mai più duramente di quanto non faccia da solo.
Ma c'è un ma.
Per quanto non so se la scelta che ho fatto sul mio cammino sia la migliore, mi ha portato a questo capitolo 26.5, anche detto sessantesimo, ed ora, davanti a me, vedo al massimo tre capitoli prima della meta.
Tre capitoli.
Avrò bisogno di parecchio tempo per metabolizzare questa nozione.
Sono cresciuto con questa storia, come scrittore e letteralmente invecchiando. Saranno passati nove anni da quando un piccolo me stesso imberbe riempiva le prime pagine di quella che diventerà La Guerra degli Elementi per far passare un'estate senza compiti delle vacanze, reduce dalla fine della terza media. I ricordi non sono poi tutti così belli, Ardof piatto come una tavola, Vago con l'improbabile nome di Dranos e la totale assenza del Viandante. Era una storia obiettivamente brutta, per quanto non fosse la peggiore che avessi scritto, anzi, forse è stata la prima cosa decente che sono riuscito a tirare fuori.
Sto diventanto prolisso e logorroico. Scusatemi anche per questo. Un paio di cose veloci ancora e poi chiudo, lo prometto.

La prima è un libro che vi vorrei consigliare, mai avrete l'occasione di trovarlo. È una trilogia, in realtà, ma avendola ricevuta come regalo in un unico volume fatico a riferirmi a lei come tale.
La trilogia di Bartimeus è il titolo e Jonathan Stroud è l'autore. Se vi è piaciuto il Viandante ringraziate lui e il djinn Bartimeus, perchè è lì che mi sono innamorato di quel genere di personaggio.

La seconda non so come definirla. Non è nè una richiesta nè una possibilità. Stiamo per arrivare al termine di questo lunghissimo viaggio e dubito toccherò mai più questo universo, il finale chiuderà in maniera sufficientemente ferrea tutta la storia. Non vi chiedo ancora una recensione su tutto questo lavoro, mancano ancora i capitoli più importanti per poterlo fare. La mia intenzione è, invece, quello di togliervi dei dubbi, di qualsiasi genere e sorta.
Vi lascio carta bianca: Avete dei dubbi sulla storia, volete degli spoiler (perchè siete brutte persone, ovviamente, i buoni si tengono alla larga dagli spoiler), vi siete persi nelle centinaia di pagine e nelle decine di angoli che ho lasciato e avete bisogno di ricapitolare un qualsiasi argomento, davvero, qualsiasi cosa, io sono qui. Qualunque cosa vogliate da me lasciatemi una recensione, un messaggio privato, un piccione viaggiatore e vi risponderò nel modo migliore.
Cosa intendo per modo migliore? Se è qualcosa che non è il caso di rendere troppo pubblico perchè potrebbe non interessare molti i messaggi privati sono perfetti, se sono spiegazioni che potrebbero aiutare qualcuno a raccapezzarsi, risponderò in maniera più fruibile, che sia come una risposta a una recensione o nei pochi prossimi angoli dell'autore.
E questo varrà sempre, finchè mi ricorderò di aprire ancora questo sito.

Come promesso ora chiudo.
Grazie a tutti voi e scusatemi (X3) per questo angolo eterno, volevo recuperare il tempo perso.
Alla prossima, e a quelle a venire, fino alla fine.
Vago

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Capitolo 61
*** Capitolo 27: Regicida ***


Le dita di Razer si strinsero sull’aria che gli occupava il palmo sporco di terra.
Era davanti a lui il colpevole della morte della sua famiglia. Era finalmente giunto davanti a lui e non poteva finire ciò che aveva iniziato.
Tutti quegli anni a prepararsi, a studiare quei mostri, a tentare e ritentare di ucciderli, prima i cuccioli, poi gli adulti, a sperimentare le armi sui loro corpi, a sezionare i cadaveri dei loro defunti per capire cosa fosse quello che gli anziani chiamavano apparato del drago.
Nulla di tutto quello sarebbe servito a qualcosa e sua sorella sarebbe morta solamente per un capriccio del destino.
Ogni dubbio che fino ad allora era rimasto sopito sotto il guscio asettico della maschera che gli era stata donata da bambino, cominciò come un tarlo a scavargli il cervello, facendogli perdere parte  della sicurezza in cui aveva sempre riposto la sua forza.
Il suo pugnale brillava debolmente di un riflesso rossastro sotto il ventre del re dei draghi, quasi implorasse il suo padrone di portare a termine ciò che aveva cominciato.
Il duello a pochi passi da lui infuriava, ma ai suoi sensi pareva non essere altro che una scaramuccia lontana.
Con un rumore umido le mascelle del rettile si aprirono quel poco che bastava per permettere alla carne carbonizzata, che era rimasta intrappolata tra le lucenti zanne, di cadere a terra spargendo il suo odore nauseabondo tutto attorno.
Quei pochi stralci di carne e quei frammenti che dovevano essere state ossa erano tutto ciò che rimaneva dell’uomo con il potere più temibile che le Terre avessero mai visto.
- Razer! –
Una voce tuonò il suo nome, facendogli tremare le gambe al solo udirla.
Ebbe appena il tempo di voltare lo sguardo dalla scena macabra per vedere un’asta scintillante roteare nell’aria serale, andando a conficcare la sua punta nel terreno a pochi centimetri dai suoi piedi.
L’uomo dagli occhi profondi guardò la lama spezzata con un senso di turbamento, per poi raccoglierla con cura. La lama che gli era stata lanciata doveva essere appartenuta a una lunga spada, come tradiva il filo sbeccato in più punti, ma nascondeva la sua reale età dietro un acciaio che, nonostante i trattamenti che doveva aver subito ultimamente, continuava ostinatamente a scintillare.
Si voltò quindi verso il colosso squamoso, con una luce diversa nelle pupille. Avrebbe dimostrato a tutti quello che era realmente in grado di fare. Avrebbe vendicato tutti i morti che lo rincorrevano.
Strinse la lama, facendo attenzione a non far calare le proprie dita sul filo.
Non poteva pensare di uccidere il colosso che gli svettava davanti con quell’arma, non avrebbe mai potuto imprimere una forza sufficiente per perforare quelle squame lucenti con la presa incerta che poteva permettersi.
Fissò con una ritrovata fiducia il muso del drago.
Lo avrebbe ucciso, si disse.
I suoi piedi si mossero quasi da soli nella direzione del suo nemico e la sua mente si strinse in uno stato unicamente devoto al combattimento. Rimosse tutto intorno a lui, così come quando si posava la maschera sul viso.
In quel momento non c’erano altri che lui e la sua preda.
Una zampa arancione impattò sul suolo a poca distanza da lui e, benché il tremore della terra e la folata provocata lo fecero incespicare, le suole delle sue scarpe non abbandonarono il suolo al quale ritmicamente si ricongiungevano.
Doveva colpire là dove le zampe anteriori andavano a legarsi al torso, dove le squame si facevano meno spesse per non intralciare i movimenti della bestia.
Doveva essere veloce e preciso e lo avrebbe sicuramente azzoppato.
Il corpo del trentenne dal polpaccio ustionato risplendette violentemente, emanando un acre odore di mana consumato che riempì la percezione dell’armatura bronzea e quasi gli diede il capogiro.
La piana per qualche istante perse il colore autunnale di cui il sole morente l’aveva tinta, assumendo invece tonalità che ricordavano un paesaggio riflesso su uno specchio d’acqua limpida.
Le pupille di Sharadan si strinsero fino a diventare poco più che dei tagli nelle iridi brunite, mentre il suo ruggito si spandeva in aria.
La lama sbeccata si piegò appena di lato, in modo da assumere la stessa angolatura che possedeva quella spalla muscolosa.
Razer socchiuse gli occhi in modo da farli riabituare prima alla luce naturale che era tornata ad illuminargli il cammino. Respirava a fatica dopo lo sforzo che aveva appena compiuto, ma sapeva che ne era valsa la pena, poteva vedere il punto che avrebbe colpito proprio davanti a lui.
Qualcosa lo colpì al fianco, tanto forte da mozzargli il respiro e fargli avvertire distintamente qualcosa nella sua cassa toracica che perdeva la sua normale forma.
La massiccia coda del drago terminò la sua larga spazzata scaraventando l’uomo a terra.
Un secondo ruggito iracondo riempì le orecchie sibilanti del draghicida.
Razer cercò di alzarsi prontamente in piedi, ma una fitta al fianco destro lo costrinse a piegarsi su sé stesso, facendogli tossire il suo stesso sangue vermiglio.
La lama spezzata della spada era ancora in suo pugno, sporca della linfa vermiglia fluita fuori dai polpastrelli che, nello scontro, si erano appoggiati sul suo filo.
Una rabbia bruciante gli gonfiò il petto.
La punta di quell’arma rotta si piantò nel terreno, per aiutarlo nell’impresa di farlo rimettere ritto sulle sue gambe tremanti.
La mano libera corse alle sue labbra, pulendole dal sangue che era rimasto.
I larghi occhi del drago parevano schernirlo, mentre l’imponente bocca continuava ad aprirsi e chiudersi di pochi centimetri, come se si stesse ripulendo degli ultimi rimasugli rimasti dell’uomo che aveva incenerito.
La mente di Razer si chiuse ancor più in sé stessa, eliminando ogni urlo di dolore che il corpo martoriato potesse provare a gettare.
Lo avrebbe ucciso.
Il collo del drago ebbe uno spasmo, segno che l’Apparato del Drago stava per rilasciare l’inferno che covava al suo interno.
Nessuno di quei piccoli segnali era sconosciuto alla memoria muscolare dell’uomo. La sua mente, meccanicamente, riportò alla luce ogni informazione che aveva raccolto e imparato da quando i draghi lo avevano lasciato orfano.
La fiammata sarebbe cominciata come una striscia frontale e solo in un secondo momento si sarebbe allargata lateralmente, seguendo l’apertura di quelle fauci.
Aveva poco tempo per spostarsi.
I muscoli delle sue gambe si contrassero, pronti a scattare come una molla carica.
Le labbra del drago si scostarono appena e, da lì, si poté intravedere il bagliore delle fiamme risalire la gola.
Nell’esatto momento in cui le lingue di fuoco lasciarono l’antro dal quale erano nate, Razer si gettò a sinistra, cercando di non pesare sul fianco ferito.
La fiammata pareva allargarsi per inseguirlo nella sua corsa.
Il calore cominciò ad insinuarsi sotto la stoffa sgualcita degli abiti del trentenne, facendogli colare gocce di sudore lungo la schiena, che tracciarono lunghi solchi nello sporco che lo ricopriva.
La lama spezzata si mosse infine verso il terreno, conficcandosi nel piccolo spazio che separava le dita artigliate della creatura.
Sharadan emise un ruggito di dolore, spandendo ancor più la fiammata ovunque muovesse il capo, per poi estinguere l’inferno nato dalle sue viscere.
- Come hai osato ferire il re dei draghi, piccolo parassita? Io sono Sharadan, figlio di Vanenir II, discendente di uno dei draghi leggendari e della prima regina della mia gloriosa razza. Io sono il re e signore dei draghi, le mie fiamme ardono nella sala del trono dei signori, nelle viscere di El Terano, sulle ceneri lasciate da quelle dei miei avi. E tu, piccola mosca, pagherai per le tue offese. –  La voce del sovrano usciva ovattata dalle fauci di quella bestia.
Razer alzò lo sguardo in direzione del muso squamoso, sorreggendosi sulla lama che era riuscito a piantare nella carne di quella zampa.
L’uomo sputò a terra la saliva mista a sangue che gli riempiva la gola, boccheggiando in cerca di aria.
Non riusciva a trovare il fiato per parlare, ma non sarebbe caduto finché quella creatura non fosse stata divorata dal suo stesso fuoco.
Le fauci di Sharadan scattarono verso il suo aggressore serrandosi con uno schiocco secco.
Razer rotolò a terra, inebriato come un ubriaco dal dolore che ormai percorreva in lungo e in largo il suo corpo, coprendo ogni sensazione che questo potesse provare.
Sopra i suoi occhi, ora, l’immenso petto del drago gettava la sua ombra, contraendosi ed espandendosi come un mantice in una fornace divina.
La sue mani si mossero disperatamente attorno al suo corpo, trovando pace solo quando una di queste cadde sulla ruvida elsa del pugnale che aveva sostituito quello perso ad Aravan.
Poteva far sì che tutto finisse in quel momento.
Doveva solo alzarsi e conficcare quella lama d’acciaio là dove l’Apparato emanava il suo tepore.
Disperatamente ogni muscolo del suo corpo si impegnò nel sollevare il peso di quel corpo, avvicinando sempre più il pugnale a quelle squame lucenti.
Il drago sopra di lui, intanto, si muoveva goffamente, cercandolo mentre tentava di liberarsi da quel pungiglione metallico che si era fatto strada nel suo corpo.
Con un ultimo, esausto, sforzo, Razer riuscì ad appoggiare la punta di quella lama sotto il ventre della creatura che sopra di lui si muoveva, premendo contro la corazza naturale con quanta forza gli era rimasta.
La pelle coriacea si lasciò trapassare, permettendo all’arma di entrare in quel corpo e al sangue bollente di fuoriuscirne e colare sulle braccia dell’uomo dal polpaccio ustionato, che non demorse.
Bastavano pochi centimetri e tutto sarebbe finito in una fontana di fuoco.
Il coltello riuscì a penetrare ancora un poco in quella carne, per poi vedersela portar via, mentre le ali membranose portavano in alto il corpo di quella creatura.
Razer guardò il re dei draghi allontanarsi verso il cielo che gli era precluso, con lo spirito in frantumi e la pelle delle mani arrossata dal liquido bollente che le aveva ricoperte.
Il coltello cadde a terra quando le dita non riuscirono più a reggerlo, per poi venir raggiunto dal corpo del suo proprietario, a stento cosciente.
Sopra di lui Sharadan ruggiva vittorioso, preparandosi a liberare un’ultima volta l’inferno su di lui.
La vista di Razer si fece fumosa, permettendogli di riconoscere solamente un opale di fuoco che fendeva il cielo serale.
Nelle sue orecchie risuonavano lontani e riverberanti i colpi che le due spade si scambiavano, ma non fu in grado di capire da che parte questi provenissero.

Dannazione, non dovevo lasciare tutto a lui.
Non posso intervenire abbastanza velocemente.
Cioè, potrei, ma se lo agguantassi alla velocità necessaria per raggiungerlo di lui rimarrebbe una poltiglia.

Dannazione!

Sharadan ridiscese fiero verso il terreno, con il ventre gonfio.
Le sue ali batterono per riposizionarlo sulla traiettoria che gli avrebbe permesso di non interferire con lo scontro in cui era vista impegnata Johanne Fenter.
La sua coda guizzò tra le correnti, domandole in modo che non gli fossero d’intralcio nella discesa.
I muscoli del petto si tesero.
La gola fece largo alle fiamme che la risalirono.
Le fauci tremarono, cercando di trattenere per un ultimo secondo quel getto rosseggiante.
Una pioggia carminia si riversò sulla terra.
Razer sentì il suo corpo bruciare, mentre la sua vista si tingeva di rosso.
La terra tremò, sollevando un polverone che per decine di passi impedì a qualunque forma di stagliarsi nitida.
L’uomo dal polpaccio ustionato si rialzò a fatica in piedi, avvertendo distintamente il sangue bollente colargli lungo il corpo e scottargli la pelle.
Zoppicò in avanti, trascinandosi a tratti, mosso unicamente dal desiderio di vedere il suo nemico crollato a terra.
La mole del drago era scompostamente abbracciata al terreno sformato, circondata da un corteo funebre di polvere e detriti. Nel suo cranio diversi buchi quasi perfettamente circolari si erano aperti e, da questi, ne fuoriuscivano altrettanti spuntoni neri, coperti di sangue e materia organica.
Razer si piegò sul muso del cadavere, stringendo tra le mani la sua mandibola e costringendo il proprio corpo a un ultimo sforzo per separare le due chiostre di denti l’una dall’altra.
Dallo spiraglio che si creò nella gabbia d’avorio si fece largo un’ovale nero, seguito da un’indistinta forma a questo legata.
Solo quando la creatura informe si fu completamente trascinata sul terreno smosso la crisalide nera che l’avvolgeva si ritirò all’interno di quelle membra.
Noir tossì più volte, desideroso di respirare aria fresca.
I suoi vestiti erano stati completamente ridotti in stracci che solo in piccola parte riuscivano a rimanere attaccati a quel corpo provato per desiderio di pochi fili integri.
In più punti la pelle dell’uomo era stata spaccata dalla furia del suo potere, così come i muscoli sottostanti, permettendo a Razer di intravedere le ossa sottostanti. Non una singola goccia di sangue, però usciva da quelle ferite, dove la carne viva era ricoperta da uno spesso crosto di materia nera.
Non appena il discendente di Reis ebbe ripreso fiato a sufficienza, guardando il cielo con sguardo spiritato, urlò con quanta aria i suoi polmoni potessero permettersi di contenere, portandosi le mani al volto per scacciare la tensione.
Una sola delle due, però, raggiunse il suo viso.
In preda al terrore l’uomo dai capelli neri si cercò di mettere seduto, ma qualcosa mancò di fungergli da appoggio, facendolo cadere sul fianco sinistro.
Razer fu mosso da un senso di pietà per l’uomo seminudo che gli stava di fronte.
Buona parte del suo corpo era stato protetto dal suo potere, ma, ora, due moncherini anneriti dalle fiamme di Sharadan si muovevano convulsamente. Il primo poco sopra il gomito sinistro, l’altro all’altezza del femore di quello stesso lato del corpo.
Il draghicida si piegò su di lui, aiutandolo a mettersi seduto e compensando l’appoggio che quegli arti non potevano più offrirgli.
Con il dissiparsi dell’adrenalina che lo aveva mosso, il trentenne dal polpaccio ustionato cominciò a sentire sempre più distintamente le fitte lancinanti risalire dal fianco contro cui aveva impattato la coda del drago. Là, si rese conto abbassando lo sguardo, la sua camicia si era tinta di vermiglio.
La testa del draghicida perse di nuovo un attimo il contatto con la realtà, rimanendoci aggrappata labilmente. Persino la spalla dell’uomo che gli stava accanto perse di consistenza sotto le sue dita.





Angolo dell'autore:

Sono qui, sono di nuovo qui con buone nuove.
Ho smesso di scrivere da una settimana, non sto scherzando. Ho finito. Non ho più nulla da raccontare, a me stesso, quantomeno.
Per quanto riguarda voi ho ancora due capitoli di storia da regalarvi.
Per darvi una piccola preview di ciò che vi aspetta, posso dirvi che il prossimo tratterà di dubbi esistenziali, pinguini e collaborazioni. E forse ci sarà un piccolo extra nato in un mio momento di delirio, ovviamente dedicato ai pinguini.
L'ultimo capitolo sarà, come di consueto, un epilogo, o meglio, un'epilogo degli epiloghi.
Ma, soprattutto, ho voglia di finire questa maratona che porto avanti da tre anni. Voglio concludere questa trilogia, voglio arrivare ai ringuraziamenti finali, voglio potervi chiedere di lasciarmi una recensione riguardante TUTTA la mia trilogia, dagli albori ad ora.
Torno a pubblicare tutti i venerdì.
L'ho detto.
Ci sarà il capitolo la settimana prossima e quella ancora dopo e lì tutto si concluderà.
Ho tutto pronto, potrei accelerare ancora più i tempi, ma mi pare esagerato.
Per il momento, alla prossima.
Grazie a tutti voi.
Vago

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Capitolo 62
*** Capitolo 27.5: Giuria e carnefice ***


L’armatura prendeva via via sempre più confidenza con l’arma che impugnava.
Ogni parata o colpo che la vedeva protagonista risvegliava in lei ricordi delle battaglie passate.
Il volto della donna di fronte a lei virava costantemente dall’autocompiacimento alla rabbia, dall’indignazione alla fiducia in sé.
La lama nera si muoveva rapida quanto la Spada degli Abissi mossa dalla mano della creatura bronzea, forse addirittura più velocemente, come se in quell’acciaio fosse rimasto ancora un rimasuglio della volontà del suo forgiatore e il Giudice Maggiore se ne inebriava, permettendo a quegli echi di una volontà passata di utilizzare il suo braccio come mezzo per raggiungere il suo scopo.
I capelli biondi ricadevano sporchi sul viso della donna, coprendo i suoi occhi alla vista del suo avversario, ma lei pareva non prestarci attenzione, né esserne disturbata.
Il mondo, per qualche istante, si accese di blu e delle sue gradazioni di colore, come se un vetro colorato fosse stato frapposto fra gli occhi di ciascuno e le figure che ad essi si mostravano.
All’interno della tenebra che albergava dentro l’elmo si andò ad intrufolare un acre odore di mana, disorientando per un attimo la creatura che animava quell’armatura.
La spada nera parve accorgersi di quell’incertezza, scivolò lungo tutta la lunghezza della lama eterea, stridendo, nel tentativo di superare la guardia di quell’arma e ferire il suo portatore.
L’armatura fu costretta per la prima volta dall’inizio di quello scontro ad allontanarsi di un balzo dalla sua avversaria, scuotendo l’elmo e ciò che vi albergava per dissipare quel capogiro che l’aveva colta.

Epica è davvero fuori allenamento.
Era riuscita a fare ben più danni, all’epoca, benché ci stesse cercando di proteggere.

Taci per un momento.
È sufficientemente fastidioso essere costretto ad ascoltare i deliri di questa donna, non affollare la Trama anche con i tuoi commenti fuori luogo.

L’armatura si riscosse, rinvigorendo i tizzoni che le illuminavano lo sguardo.
Nuovamente le spade cozzarono l’una contro l’altra, saggiando la reciproca tempra.
- Perché semplicemente non ti arrendi? Hai già perso una volta contro quest’arma, perché pensi di poter cambiare questo risultato? – un sorriso tra il sornione e il compiaciuto si fece largo sul volto in parte coperto dai capelli dorati.
Dall’interno dell’elmo si levò uno sbuffo di irritazione, mentre la lama azzurra calava nuovamente là dove sperava di trovare uno spiraglio attraverso il quale farsi strada.
- Tu non sai niente e, se solo fossi a conoscenza di ciò che è avvenuto in passato, mi temeresti. –
Johanne Fenter spinse con il proprio corpo contro la sua spada, vincendo lo scontro di forza e facendo nuovamente allontanare le due lame.
- Questa lama ti conosce, me lo ha detto. Conosce ogni tua mossa e non ti teme. Noi vinceremo. Avremo la meglio su di te e sul Viandante. –

Non è possibile che quella spada abbia una coscienza.
È solo un’arma.
Deve essere l’eco del suo padrone, come l’ha chiamato Commedia?
Follia.
Durante i nostri scontri deve avermi studiato e capito.
Devo superarmi. Devo essere meglio di quanto non fossi allora.

… Chissà che fine ha fatto l’altro pezzo. Sono quasi sicuro che ce lo fossimo portati dietro nella prima parte della caduta …

Commedia!

Si, si, certo. Ho capito.
Me ne sto qui a guardarti combattere.

Se non fosse che se quel drago …

L’armatura fu costretta a fare un passo indietro, non più perfettamente concentrata sull’avversaria che le stava di fronte.
- Hai capito di quale potere sono entrata in possesso? Io ti batterò, ti schiaccerò e non rimarrà nessuno che si possa levare al di sopra dei mortali di questa terra. –
- Fraintendi le mie azioni. Ti posso assicurare che il mio principale nemico, al momento, non sei tu … -
- Puoi rintanarti dietro le tue scuse per tutto il tempo che vorrai, ma questo non ti salverà dalla realtà che ti sta venendo incontro. –
La spada nera si mosse nuovamente con rapidità sovrumana, mietendo l’aria in attesa di qualcosa di materiale attraverso cui farsi strada.

Vedremo se sarà abbastanza bravo da sfruttare il mio aiuto.

Commedia, smetti di chiacchierare! Sei destabilizzante!

La Spada degli Abissi deflesse maldestramente l’attacco, costringendo il polso del suo possessore a ruotare più di quanto questo avesse voluto.
Un secondo colpo della lama nera volle sfruttare quell’apertura, euforico dell’opportunità che gli era stata data.

Si, si. Ora penso a te.

Devo solo capire come.
Vediamo …

L’armatura fu costretta ad indietreggiare e la spada nera, ancora, non affondò in nulla.
La terra tremò lievemente quando una delle possenti zampe di Sharadan andò ad impattarci contro, permettendo ai due avversari di riposizionarsi e azzerare i passi che ciascuno aveva fatto in direzione della propria vittoria.

Smettila!
Stai solo un attimo zitto!

- La vedi la differenza tra di noi? Il signore dei draghi mi ha promesso la sua fedeltà, quasi la totalità delle razze sottostà alle mie regole e voi, che non siete né dei né mortali, cosa avete dalla vostra parte? Neppure quell’uomo che sembrava poter avere un’influenza sulla mia spada ha potuto fermarmi. –
Un ruggito tonante scosse l’aria, coprendo ogni altro suono udibile.

Se mi lasciassi un attimo tranquillo potrei anche pensare a come aiutarti con quell’ubriacona.

Ma cosa …?

- Crepa maledetta. Fai la fine che ti avrebbero dovuto riservare i miei predecessori. –
Lo scontro riprese, ma nessuna delle due parti parve voler perdere terreno sull’altra. Le due lame si muovevano come se stessero seguendo un balletto dai passi studiati e memorizzati, in cui entrambe si inseguivano in una spirale che non voleva chiudersi addosso a nessuno.

… In realtà potrei avere assi nascosti e dimenticati in tutto il corpo.

Sarà una lunga ricerca. Dovrei fare un po’ di pulizia.

Ti prego, stai zitto per un secondo e lasciami finire questo combattimento in santa pace.

L’armatura riuscì a fare un passo avanti, rompendo per un attimo la guardia del Giudice Maggiore, ma non bastò il fluido movimento che concatenò a quel primo colpo per ferire quel nemico, mosso dalle memorie della sua arma.
In quel momento, una lucente fiammata accese di rosso le placche metalliche che ricoprivano il corpo di quella creatura, gettando addirittura in ombra i tizzoni che ardevano nelle sue orbite oscure. Ne seguì un altro ruggito che i due avversari a stento udirono, concentrati l’uno sull’altra.

… Uhm.

Questo l’avrei dovuto buttare secoli fa.

Ah, ecco qualcosa che mi potrebbe essere utile.

L’armatura bronzea perse il passo di vantaggio che aveva con così tanta fatica conquistato, non riuscendo a fronteggiare completamente la forza con cui la lama nemica le era arrivata contro.

Ti scongiuro, mi sta scoppiando la testa.

Epica, ti ricordi come ho fatto a non farti uccidere, quella volta?

Le spade continuavano a cozzare l’una contro l’altra, instancabili, quasi non potessero far altro per il resto della loro esistenza.
- Quando capirai la tua inferiorità? Quando ti piegherai al mio volere? -

Cosa c’entra ora?

L’armatura dovette fare un passo indietro per colpa di una falla nella sua concentrazione sulla battaglia che la vedeva partecipe.

Pensa solo che stia per rifare una cosa del genere.
Adesso.
Reagisci di conseguenza.
E fidati.


Il cielo si tinse di rosso, centinaia di piccole gocce vermiglie cominciarono a cadere su quella terra priva di vita, sulle quali il sole morente che quasi aveva raggiunto il limitare del suo regno cercò di dipingere il suo arcobaleno.
Un urlo che conteneva in sé tracce di rabbia e dolore scaturì dalla bocca del Giudice Maggiore che, coperta dal sangue bollente del re dei draghi, perse la tranquillità che aveva segnato il suo viso, abbandonandosi a una furia che deformò i suoi lineamenti delicati in uno sguardo di odio.
- Io ho ben più di un popolo dalla mia parte. – disse piano l’armatura, incurante se la sua avversaria potesse sentire la sua voce attraverso lo scroscio della pioggia di sangue e il cozzare delle lame.
L’essere che teneva in pugno la Spada degli Abissi si abbassò all’improvviso, come per evitare la carica di un nemico invisibile che le si era avventato contro alle sue spalle.

Mi sono fidato.

La spada dalla lama nera concluse il suo arco, pronta a ricadere verso il basso, dove il suo avversario non avrebbe potuto evitare il suo tragitto.
Nella pioggia di sangue un coltello da lancio risplese, roteando su sé stesso tra le gocce fino a conficcarsi nella fronte di Johanne Fenter, facendola cadere a terra priva di vita.

Questo era il mio ultimo asso nella manica.
Almeno quei quattro mocciosi possono dire che non mi dovranno più un favore.

Questa non è un’arma creata da te, vero?

È un’altra lunga storia. Diciamo che gli dei non sono gli unici che mi dovevano dei favori.

Un artiglio nero nacque dal petto di Noir, collassato a terra e si avvinghiò sotto gli occhi allarmati dell’armatura alla lama della spada nera, trascinandola fino al suo proprietario. Lì quella propaggine perse parte della sua solidità, avvolgendo quell’arma antica con le sue spire e costringendola a fendere il corpo di Noir.
Al passaggio di quella lama, però, non seguì nessuna ferita, come se la melassa che gli riempiva le vene l’avesse resa parte di sé.

È finita?
Quella spada non tornerà più a minacciarci?

Non ne ho idea, ma credo che sia questo che mi spingerà a fare molte altre cose, in futuro, e, possibilmente, lontano da questo lembo di terra.
Devo ancora andare a controllare se i pinguini sono sopravvissuti al Cambiamento, me lo ero ripromesso.

I pinguini?

Lascia stare, è un discorso troppo complicato e dovrei tornare indietro di un secolo per spiegarti tutto.
Ora, piuttosto, dobbiamo pensare a recuperare l’armatura che quella codarda di Sarah Dan Rei si è portata via.









Angolo dell'Autore:

Piccola nota iniziale:
Questo angolo è diviso in due, la prima parte è un mio classico delirio e, se non avete voglia di leggere un approfondimento, se così vogliamo chiamarlo, sui pinguini citati in questo capitolo potete saltarla, la seconda avrà dei toni leggermente più seri.


Pinguini.
A volte la mia mente funziona in maniera strana. Non illogica, solo strana. Con il tempo ho imparato a convivere con questa sua caratteristica, testualmente "fidandomi del me del passato", perchè so che, bene o male, nella stessa condizione ho le stesse idee, per quanto tempo possa essere passato.
Molto spesso faccio atti di fede, sperando di aver, di nuovo, avuto la stessa idea che mi era arrivata in passato.
Lo stesso vale per i pinguini.
Voglio rendervi partecipi di una delle conversazioni medie che ho con la Beta-reader che permette a questi capitoli di giungere a voi in maniera leggibile. In questa in particolare spiego, anzi narro, come si sia svolta la stesura di questo capitolo, lascio la parafrasi in coda.

Era una sera tendente alla notte buia e tempestosa, per quanto per dirso tempestosa ci sarebbe dovuto essere un forte vento, mentre quella sera la pioggia cadeva perpendicolarmente al terreno. Dunque, quindi, sarebbe più corretto dire che era una sera tendente alla notte buia e piovosa e il nostro eroe dai capelli quanto più possibilmente in disordine potessero essere sedeva chino su una sedia dell'Ikea scomoda e neanche lontanamente ergonomica ma, per quanto potesse detestarla, non aveva altra seggiola rimasta per lui nella stanza della casa paterna.
Il computer acceso sulla scrivania gettava una fredda luce lattiginosa, pur screziata dai riflessi vermigli gettati dalla retroilluminazione della tastiera del suddetto portatile.
I suoi occhi continuavano a saltare tra le righe del capitolo ormai quasi ultimato che gli stava di fronte, mentre la mano dominante gli grattava il capo, scompigliando, se possibile, ancor di più la sua capigliatura nera.
I suoi pensieri erano rivolti al trovare una chiusura d'effetto alla narrazione su cui si era cimentato, cercando di dipingere davanti ai suoi occhi cosa il personaggio in questione avrebbe potuto pensare in un momento simile.
Si ricordava, in un anfratto della sua mente contorta, che quel personaggio bramava il poter esplorare quel nuovo mondo in cui si trovava. Ed ecco che da quel pensiero ne nacque un altro come se una lontana parte del suo essere gli stesse suggerendo che in un lontano passato aveva discusso della fredda e desolata Antartide.
Può una persona cambiare così tanto da modificare anche i processi mentali che contraddistinguono i suoi deliri?
Si fidò dunque di quel pensiero errante, legandolo a un terzo anello di quella catena che andava a formarsi. Perché mai avrebbe voluto andare in un posto simile, vista l'indole con la quale lo aveva dipinto? Cosa mai poteva averlo spinto a scrivere di quel luogo in passato?
Un'altro pensiero errante, disperso tra i meandri del tempo e delle sinapsi, vagante per quei luoghi probabilmente preposti alla glorificazione di quella bevibile creazione umana detta alcol, gli suggerì un'idea, un concetto metafisico e concreto racchiudibile in nessun modo se non con una singola, semplice parola. Pinguini.
L'eroe dalla barba che cresceva scompostamente sul mento corrugò la fronte, cercando di capire cosa quella parola volesse significare e per quale aulica ragione un volere superiore gliel'avesse donata.
Pinguini.
Quale oscura verità si poteva celare sotto quelle lettere, di quale dimenticato dio erano esse messaggere e profeta?
Seppur questo eroe non potesse fregiarsi divina memoria ferrea, gli parve di aver già sentito quella parola e che le sue dita già altrove avessero osato digitare quei sacri caratteri. Egli, allora, osò affidarsi a quell'istinto atavico che lo aveva sfiorato per rivelargli la verità, osando narrare nel suo lavoro del desiderio di incontrare codeste creature coltivato nel cuore del suo personaggio.
Seppur è vero che per pochi minuti la bestia fatta di istinti che in lui si celava aveva preso il sopravvento, la ragione ebbe da dire la sua, prima di concedergli il lusso del riposo al termine del lavoro. Così, con una conclusione di capitolo che narrava di Pinguini già pronta, andò a cercare la siddetta parola nelle sue precedenti opere, meravigliandosi di come la tecnologia gli avesse reso così facile individuare dove, effettivamente, aveva osato incidere quella parola.

Bene o male, seppur con la predominanza del male, ho detto qui sopra che è successo.
Con una catena di ragionamenti dettati probabilmente dalla stanchezza mi è tornato alla mente il desiderio di Commedia di vedere che fine avessero fatto i pinguini (capitolo 15 della mia prima storia, "Messi ai voti", se vi interessa andare a controllare. Quale meravigliosa funzione il "trova" di word) e mi sono fidato di quell'istinto, per poi andare a verificare di non essermi confuso con qualcos'altro.
Pinguini, quindi.




Tornando seri e cercando di essere breve, per lo meno ora.
La prossima settimana uscirà l'ultimo capitolo, l'epilogo di questa storia e di questa trilogia. Come vi ho detto la settimana scorsa, è già pronto per essere pubblicato.
Nel mentre sto perdendo tempo, publlicando assolutamente in maniera casuale e non studiata, una volta ogni tanto, una raccolta di oneshot in cui mi sgranchisco le dita. Queste, per lo meno, ho la certezza che non diventeranno una "Corsa contro la Fine 2.0", una storia che prospettavo breve e che è finita per essere composta da 38 capitoli e vantare più recensioni di quante ne abbia viste la prima parte di questa trilogia che si sta per chiudere.
Voglio lascaire lo sguardo al passato per il prossimo capitolo, così come i ringraziamenti.
Oggi voglio parlare un po' dei miei programmi per il futuro.
Sicuramente ho intenzione di chiudere questa storia, terminare la microraccolta di oneshot e, nel mentre, magari, passare qualche esame universitario. Tutto questo ci porterebbe circa a marzo 2019.
Ho due nuove storie in mente, totalmente diverse da tutto quello che ho fatto finora.
Una la vedrei veramente bene immortalata sulle tavole che compongono un fumetto ma, ahimè, se son poco bravo a scrivere, lo sono ancor meno a disegnare. Quella storia starà a prendere polvere ancora per un po'.
L'altra ha l'intenzione di essere molto più simile a una serie tv, divisa in episodi che ancora devo capire se sono da racchiudere in un'unico grande tomo o se fare una storia a "saga" potremmo dire. I temi principali saranno l'investigazione e il paranormale macchiato di fantasy. Voglio poter parlare di licantropi e spettri, di fantasmi, fate e banshee e di poter ambientare il tutto tra le strade fumose e grigie di una metropoli.
Voglio una squadra, da gestire, voglio un cattivo con, perdonatemi il termine, i controcoglioni e voglio scostarmi da quello che ho fatto finora.
L'unica certezza che ho, e la cosa non so se mi piaccia o mi faccia dispiacere, è che lo spirito del Viandante aleggerà ancora, perchè e difficile, quando si scrive, eliminare completamente parte della propria personalità.
Vedremo.
Non mi dispiacerebbe, infine, allargare i miei orizzonti. Devo solo decidermi a creare una copertina sotto cui pubblicare queste storie su Wattpad. Mi sono lamentato tanto di questo sito e, comunque, non mi sono mai deciso a provare altro. Certo è che non abbandonerò questa piattaforma, che mi ha svezzato come autore.
Di nuovo, vedremo.


Io vi ringrazio tutti per essere arrivati fin qui.
Alla settimana prossima, con l'epilogo degli epiloghi.
Vago

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Capitolo 63
*** Capitolo 181: Epilogo della Trama ***


L’armatura si mosse in direzione di occidente, fronteggiando le ultime auree rossastre che il sole riusciva ancora a gettare su quella terra coperta di cadaveri.
Lo spettro la raggiunse svogliatamente, con gli occhi splendenti fissi su un punto non ben definito del cielo.

Che schifo…
E... che schifo. Ogni volta finisce sempre così, con questo gusto amaro sulla lingua, certo, se solo avessi una lingua...
Questa volta ho vinto? Non riesco ad esserne sicuro.

Commedia, quindi questa è la Trama da quando la hai sigillata? Questo groviglio di fati?

Oh, si, ma ci farai l’abitudine con il tempo.

Intendi dire che riesci a leggerla?

Si, la maggior parte delle volte. Sempre ammesso che un semidio impazzito non mi trafigga o che non mi trovi di fronte a dei Buchi della Trama.
Ultimamente quei maledetti si sono fatti dannatamente numerosi.

Non sarà un lungo inseguimento, allora, quello che ci attende per riprenderci l’armatura di Aria.
Riesci a leggerla, quella donna, non è vero?

Sì, non è stata influenzata così tanto dal Giudice Maggiore da diventare anche lei un Buco.
Ma il nostro eroico inseguimento non è necessario.

Cosa stai dicendo? Vuoi lasciare un artefatto forgiato direttamente dagli dei in mano ai mortali?
Sei totalmente impazzito?

Probabilmente sì, la mia mente non è più perfettamente sana, ma mio malgrado so ancora capire quando qualcosa potrebbe rivelarsi fastidioso, in futuro.
...
Hai voglia di metterti alla prova nel tiro con l’arco?


Cosa pensi che le mie frecce possano farle, anche riuscissi a colpirla?

Ti ho chiesto se vuoi metterti alla prova, non di colpirla.
Se solo la colpissi non scalfiresti nemmeno quelle piastre.
Dovresti colpire Sarah Dan Rei esattamente tra la seconda e la terza vertebra, se davvero volessi ucciderla.

Cos’è questa pazzia, come credi che un colpo del genere possa superare le difese di un’armatura divina?

Lo spettro ruotò il capo di scatto in direzione dell’armatura, stringendo gli occhi fino a farli diventare due fenditure dorate. Il manto fumoso che lo rivestiva si mosse stizzito attorno alle sue forme celate.

Ti voglio raccontare una storia, parla di un’elfa che aveva appena superato i vent’anni, costretta a combattere una guerra che sembrava persa in partenza.
Ella avrebbe potuto indossare qualsiasi armatura, qualsiasi elmo, nascondersi nella più profonda delle fosse, ma una freccia si sarebbe fatta strada tra la seconda a la terza vertebra del suo collo, uccidendola. Questo perché era scritto nel suo destino.
Sono state forgiate quattro di quelle armature, di cui una è stata destinata a lei.
Persino se gli dei avessero anticipato il loro dono lei sarebbe morta.

Come fai a dirlo?
Sarebbe potuta diventare un Buco nella Trama, l’intervento divino può far saltare i punti fissi dei destini.

Non in quel caso. Non ho mai letto le pagine a lei dedicate, ma so per certo una cosa, non c’era modo di farla vivere.

Come puoi esserne così sicuro?
Tu hai provato a salvarla?

Io ero lì.
In mezzo alla ressa del combattimento io ero lì e li stavo proteggendo con tutte le mie capacità, per quanto non mi fosse stato ordinato.
Non sono riuscito a salvare lei.
Non sono riuscito a salvare nessuno di loro.

Sono morti in quattro, quel giorno, davanti a me senza che potessi far nulla per far saltare quel punto fisso e, credimi, ho tirato con tutte le mie forze.
Cinque, per quanto il desiderio di morte del quinto fu di porre rimedio al volere del Fato.
Ti è sufficiente come risposta?

L’armatura non rispose, rimanendo in silenzio per qualche secondo mentre i tizzoni che ardevano all’interno del suo elmo scorrevano sui versanti montani che, dal baratro ai suoi piedi, si dispiegavano.

Perché non l’hai fatto tu, visto che già sapevi di questo difetto?

Guarda laggiù, oltre la Grande Vivente, oltre Gerala e Derout, oltre il mare, oltre il Gorgo del Leviatano, oltre all'Isola dei Draghi, al Continente, ad Aravan e tutto quello che c’è alle loro spalle.

Il paesaggio si andava scurendo oltre i picchi della catena dei Monti Muraglia, aspettando che la luna sorgesse per illuminarlo con la sua luce argentea.


Cosa dovrei guardare? Gli astri?
Non mi pare che la loro posizione sia variata più di tanto durante la mia prigionia.

È l’astro che non puoi vedere quello al quale mi stavo riferendo.
Davanti a quel sole morente ho promesso che al calare delle tenebre non avrei più ucciso nessuno.
Io la spintarella nella direzione giusta te l’ho data, ora tocca a te farne quello che vuoi.

Tornerai mai ad essere il Commedia di cui ho ricordi?

Lo spettro si allontanò da ciglio della Terra degli Eroi, dirigendosi in direzione dei due uomini malconci che tentavano di rimettersi in piedi a poche decine di metri da lui, inseguito solo dal denso fumo nero che ne nascondeva le forme corporee.
Alle sue spalle, l’armatura bronzea  perdeva di consistenza come un miraggio del deserto al calare della notte. Sotto al chiarore della luna, a guardare la distesa di picchi che, avidamente, cercavano di trattenere un po’ della neve caduta nell’inverno passato, rimase solamente una giovane fanciulla patita, con appena delle chiare vesti leggere a coprire il corpo asciutto che non si sarebbe detto capace di affrontare neppure una folata di vento.
Una brezza fredda spazzò la piana, trascinando con sé odore di sangue e cenere.
La nube dello spettro ne rimase quasi indifferente, rimanendo saldamente ancorata al corpo che la vestiva.
La veste che ricopriva mollemente il corpo della fanciulla si gonfiò al passaggio di quegli odori pesanti, mostrando per pochi attimi una pallida schiena deturpata da orrende cicatrici dovute a uno scorticamento appena al di sotto dei corti capelli castani tagliati sommariamente e del collo che questi faticavano a nascondere.

Non ti sei ancora stancata di quella forma?

Ho bisogno di avere i miei errori sempre davanti agli occhi per potermi migliorare.

Fai come vuoi.
Per lo meno potevi non imitare le ferite che ti provocai. Quelle non sono dovute a un tuo errore.



Nelle mani della fanciulla comparvero un lungo arco ligneo, leggermente intagliato solo là dove le dita andavano a chiudersi sulla sua superficie, e una singola freccia dal piumaggio dorato e dalla punta splendente.

Lo spettro raggiunse i due uomini, guardandoli per un momento attraverso gli occhi splendenti che deturpavano il suo volto oscuro privo di lineamenti, dal quale parve venire espulso il viso dell’elfo dai capelli neri e la guancia tatuata.

Le dita sottili incoccarono la freccia, tendendo la rigida corda di quell’arco ben oltre le capacità che quelle braccia fini dimostravano di possedere.

L’elegante lunga giacca nera ricadde attorno alle gambe dell’elfo, assorbendo in sé ogni rimasuglio della nube che ancora cercava di vorticare nell’aria, mentre i suoi piedi si fermavano poco distante da quelli dei due mortali a cui era andato incontro.

Una nuova folata gelida accarezzò il viso della fanciulla armata, pulendole le labbra dal sospiro che ne stava uscendo.

L’elfo tatuato appoggiò le dita sulle spalle di Noir, facendo fluire da quei polpastrelli uno spesso tessuto che potesse proteggere quelle membra provate e menomate dall’aria della notte.

Gli occhi dorati si strinsero come quelli di un falco che sta per agguantare la propria preda nella sicura stretta dei suoi artigli.

La mano dell’essere dalla ciocca bianca corse poi al volto di Razer, impattando non troppo gentilmente su quei lineamenti duri.

La corda dell’arco fu lasciata libera di tornare in una posizione a lei più congeniale, trascinando con sé la freccia che le era stata affidata.

Una materia bianca, come dotata di vita propria, eruttò dal palmo dell’elfo per avvolgere il volto del draghicida con furia animalesca.

La freccia ruotava appena lungo il suo asse, viaggiando indisturbata dalle correnti e accompagnata dal frusciare del piumaggio che le stava in coda.

La creatura in abiti eleganti allontanò il proprio arto dalla faccia dell’uomo che gli stava di fronte, leggermente proteso in avanti con le braccia strette al petto.

Sarah Dan Rei non si voltò mai verso la vetta mozzata dalla quale scappava, fiduciosa della protezione dell’armatura che le era stata affidata. Non si voltò né quando i distanti ruggiti dei draghi facevano vibrare l’aria né quando il silenzio calò luttuoso alle sue spalle.
Sarebbe stata lei il seme per il futuro del loro circolo. Sarebbe ripartita da quell’armatura tramandata come quella donata a Trado dell’Aria dagli dei stessi e dai manufatti incantati che avevano raccolto e custodito i suoi predecessori.
Nulla sarebbe cambiato.
Avrebbe trovato altri che, come lei e come colui che l’aveva reclutata, sapevano di essere superiori alla feccia che riempiva le città e il treno che aveva fatto costruire.
I sentieri sotto i suoi stivali metallici erano troppo impervi per permetterle di muoversi agevolmente, ma il desiderio di allontanarsi il più possibile dal re di quella catena montuosa era sufficiente a non farle rallentare il passo, per quanto incespicante potesse essere.

La fanciulla si permise di chiudere per un istante le palpebre, tornando a far circolare aria dentro il corpo che vestiva.

La melma bianca si irrigidì sul volto di Razer, definendo una superficie senza imperfezioni rotta da un largo sorriso ad arco e due U rovesciate là dove dovevano esserci gli occhi.
- Perché? – riuscì a scandire il draghicida, sfilandosi la maschera candida dal viso.
- Perché voglio credere che questa maschera non diventerà un simbolo di morte. Voglio che ogni volta che la guarderai, ti ricorderai che, se mai dovessi tornare sui tuoi passi, questa non sarà l’unica cosa che ti porterò via. –
- Ci lasci qui così? –
- Si. Vi lascio entrambi qui. Ormai non potete correre più rischi per colpa mia e, quindi, non sono tenuto a portarvi lontano. – Gli occhi verdi dell’essere si posarono su Noir, ancora seduto a terra, per poi tornare a rivolgersi agli occhi profondi dell’uomo che gli stava davanti – Lui potrebbe essere un buon modo per ripartire, Razer. Andate a Gerala, in uno dei piani più bassi della città c’è un medico che sa utilizzare la magia, dovresti conoscere la zona, dico bene? –
- Si, ma… -
- Dicevo, potrebbe essere una buona idea andare da lei. Portategli la lama della spada che ti ho lanciato e il coltello con cui è stata uccisa il giudice Fenter e ditegli che vi manda il Servitore del Fato. Non farà troppe domande. –
L’elfo si voltò, riprendendo a camminare con sguardo deciso in direzione della fanciulla. La Spada del Fato sembrava intravedersi attraverso la pelle e i vestiti che ricoprivano il suo braccio destro, nel quale quell’arma albergava.

La punta della freccia si insinuò precisa nel piccolo spiraglio che l’elmo lasciava scoperto alla base del collo, dividendo chirurgicamente le due vertebre che sotto a quel lembo di pelle in vista si nascondevano.

Sarah Dan Rei cadde a terra sul sentiero che stava percorrendo, i suoi occhi vitrei guardavano ancora fissi davanti a loro.

È finita, ora?


Si. È finalmente finita.



La realtà si frantumò come uno specchio colpito da un sasso attorno alle due creature, il tempo si distorse mentre lo spazio diveniva un concetto che non riusciva a trovare una propria dimora in quel luogo.

Oh, ti prego, ho solo voglia di andarmene e dimenticare gli ultimi millenni.

L’elfo e la fanciulla si ritrovarono trasportati di fronte a un largo tavolo circondato da dodici sedie, di cui solo una era occupata. Poco lontano giacevano scompostamente per terra i pezzi lucenti dell’armatura di Aria.
Un uomo distinto li guardava compiaciuto, con uno spesso tomo rilegato in pelle nera appoggiato di fronte a sé.
La fanciulla si genuflesse al suo cospetto, piegando il capo in segno di rispetto.
Dalla lunga giacca che copriva le spalle dell’elfo si levò uno sbuffo stizzito di fumo scuro che rimase ad aleggiare intorno a lui. La sua mano scese in direzione della fanciulla, quasi strappandole di mano la spada dall’eterea lama azzurra per appoggiarla sul tavolo che gli stava di fronte, accanto ad essa fece cadere la lama argentea della Spada del Fato, partorita dal suo braccio.
- Cosa vuoi ancora da noi, vecchio? – chiese la creatura dalla ciocca bianca – Abbiamo finito, laggiù, ho restituito quello che vi avevo chiesto in prestito, ora lasciaci andare. –

Commedia!

Oh, si. Questa è un’altra delle cose che ti sei persa.
Io e nostro padre abbiamo sviluppato un rapporto… complicato. Diciamo che è cominciato tutto quando mi ha trascinato qui appena reduce dalla vostra scomparsa per assistere all’esilio di un semidio malvagio nel Creato, o per lo meno credo che sia nato in quel momento.

- Commedia, credi davvero che il tuo lavoro sia finito? Le tue azioni hanno avuto ripercussioni ovunque. – L’uomo aprì il libro che gli stava di fronte, facendo scorrere le pagine di fronte ai suoi ospiti per mostrare le decine di pagine rovinate e imbrattate che le riempivano.
- Cosa dovrei fare io? Non sono un restauratore. –
- No. Tu sei una Musa. Riprendi in mano la mia spada. –
Svogliatamente l’elfo recuperò dal tavolo l’arma splendente, vedendola mutare tra le sue dita in una lunga penna nera dalla punta sporca d’inchiostro scuro.
- Potrai liberarti di quella piuma e di questo libro solo quando avrai sanato tutti gli strappi che ti sei lasciato dietro nel tessuto della realtà. E, ricorda, il libro sceglie sempre quali pagine mostrare al suo lettore. –
Gli occhi dell’uomo si spostarono sulla fanciulla inginocchiata reverenzialmente.
- Per quanto riguarda te, Epica, anche tu dovrai scontare i tuoi debiti con il Creato. Ti avevo affidato la mia arma perché tu potessi proteggere i tuoi fratelli e le tue sorelle e tu hai fallito. –
- Ne sono consapevole, padre. Accetterò qualunque pena voi decidiate. – rispose la fanciulla senza alzare lo sguardo da terra.
Gli occhi dell’uomo si accesero di una luce divertita. – Bene, in questo caso ecco la mia decisione. Finché Commedia non avrà terminato il suo compito, sarai costretta a rimanere al suo fianco. Questo è il mio mandato per te. –
- Ma padre! – provò a replicare la fanciulla, senza trovare parole per proseguire.
Lo specchio della realtà si ricompose, tornando a riflettere la vetta mozza del Flentu Gar.
Le due creature erano ancora una a fianco dell’altra, a fissare un punto inesistente verso occidente.
L’elfo guardò infastidito il libro che reggeva tra le mani, aprendolo con un gesto di stizza.
Decine di pagine rovinate da righe d’inchiostro e strappi nella carta si presentarono davanti a lui come soldati in formazione.
Si fermò ad una pagina a caso.
Razer Donier.
Riprese a far scorrere le pagine con ancor più risentimento nei loro confronti, bloccandone poi una tra le dita.
Noir Drakar.

Dannazione, non mi dà nemmeno l’impressione che sia una mia scelta il fato su cui mettere una pezza.

Le pagine ripresero a scorrere sotto le sue dita, senza voler accennare a giungere a quelle finali di quel volume.
Si bloccarono ancora.
Elise Barran.
Gli occhi dell’elfo saettarono sulle righe tracciate su quel foglio, in cerca di una risposta al dubbio che lo aveva colto.
La sua fronte piatta si corrugò.

È la ragazzina che è stata salvata da Noir.
Quella che, diventando un Buco nella Trama senza un apparente motivo mi ha permesso di ritrovarlo mentre scappava.
Con quale dannata logica mi stai proponendo su chi devo concentrarmi, maledetto libro?

Le pagine tornarono a scorrere, libere da vincoli.
La mano magra della fanciulla si frappose sulla loro via, arrestando quella corsa.
Là dove le pagine erano riuscite a completare la loro corsa riposava una pagina miracolosamente intatta, dall’altra parte si poteva vedere solo l’interno della copertina rilegata del tomo.

Cosa ci sta cercando di dire…?

La creatura dal volto femminile alzò delicatamente la mano, rivelando un foglietto che non sembrava far parte di quel volume che si era nascosto sotto il suo palmo.
L’elfo lo raccolse con attenzione tra i polpastrelli, studiandolo con le iridi color smeraldo.
La sua mano cominciò a tremare mentre lo ruotava leggermente per permettere alla creatura al suo fianco di leggerne il contenuto.

Storia
Epistola
Melodia
Epica
Terrore
Passione
Commedia
Tragedia
Danza
Mistero
Mito
Profezia

Non era altro che una lista di parole, o nomi, appuntati malamente, frettolosamente, con una grafia che a stento ricordava quella curata delle pagine che riempivano quel libro.
Molte di queste erano state barrate da una mano che non sembrava la stessa che le aveva scritte.

Tu credi che…

Il libro sceglie sempre quali pagine mostrare al suo lettore, no?

Ma questo è troppo!
Noi non abbiamo una pagina dedicata in questo libro, noi siamo al di sopra di ogni fato, siamo liberi dal filo che conduce alla meta successiva!

Ho mio malgrado scoperto che non siamo così al dì sopra dei destini, purtroppo. O per fortuna, visto che quest’informazione mi è valsa la più importante delle vittorie.
E se fosse?
E se nostro padre ci avesse voluto dare quest’opportunità, alla fine di tutto?

Ma come poteva sapere?
Lui non ha controllo su cosa facciamo!

Epica, non lasciarti sopraffare.
Nostro padre è sicuramente il primo delle persone rimaste in grado di parlarmi che detesto, ma devo ammettere che ci è sempre stato centinaia di passi avanti.

Cosa intendi dire?

Ho passato alcune fasi… complicate, nell’ultimo secolo. Mi sono dovuto ridurre alla mia materia elementare per salvarmi da morte certa, sono sceso sul campo di battaglia più volte contro nemici che mi erano superiori…
E lui era sempre lì, al momento giusto. Per quanto facessi quello che ritenevo corretto, avevo sempre l’impressione che fosse esattamente quello che lui voleva da me.
Poteva lasciarmi ribollire in una pozza ai piedi di un vulcano per qualche decade, ma ha voluto donarmi il suo sangue perché io fossi presente nel combattimento finale e non ho mai capito perché avesse riposto così tanta fiducia in me.
Ora mi viene da chiedermi se ogni sua azione fosse stata pianificata perché io compiessi i suoi piani…

Ed ora? Cosa facciamo?

Non so cosa faremo.
So cosa sceglierò di fare io, come ho sempre fatto.
E poi, finalmente, sarà finita.

E andrai a vedere come stanno i pinguini?

Si, ma non solo. Ho un po’ di esplorazione di questo mondo in arretrato.

Hai ancora intenzione di esplorarlo con me? Come ai vecchi tempi?

L’elfo sorrise sommessamente.

Allora le mie visite non erano solo tempo perso…

La punta della penna nera si andò ad appoggiare sul foglietto appoggiato alla copertina, pronta a fare ciò per cui era stata creata, pronta a lasciare alle sue spalle un solco pregno di inchiostro.







Angolo dell'Autore:

Siamo dunque arrivati a quel momento.
Ho finito.
Ho finito un lavoro che mi porto dietro da anni.
MI mancherà tutto questo. Mi mancherà questo mondo, con le sue guerre e i suoi abitati. Mi mancheranno i miei prescelti, ognuno di loro, dalla prima all'ultima era. Mi mancherà il mio Commedia, il mio Viandante, il mio Vander, il mio Comvia, il mio commissario biondo e il mio Servitore del Fato. Mi mancherà questo pantheon. Mi mancherà tutto quello che ho costruito in questi anni, appoggiando strato su strato i fogli con cui ho scritto questa storia.
Non mi sentivo così da quando ho concluso Corsa contro la fine. Fa male al cuore sapere che tutto questo è finito.

Mentre sospiro e ricaccio le lacrime da dove sono arrivate, permettetemi di fare i dovuti ringraziamenti.

Innanzi tutto, quelli tra di voi che posso dire di aver "conosciuto" meglio.

  
    OldKey, o come si è più volte definita la mia prima follower. In parte è colpa sua se sono arrivato fin qui.

    la ragazza imperfetta, che mi ha sopportato negli ultimi mesi leggendo e correggendo ogni capitolo che vi è arrivato.

    whitesky, che mi ha accompagnato per una lunghissima tratta di questo viaggio.

    EragonForever, che mi ha aiutato a diventare un autore migliore e che, so, presto si rimetterà in pari con questa storia.

Ma non meno importanti sono tutti gli altri che mi hanno dato un segno tangibile del loro passaggio e del loro apprezzamento. Grazie a ognuno di voi, perchè mi avete dato un valido motivo per coltivare questa mia passione, che ogni settimana eravate a leggermi, in silenzio o meno, che mi avete sopportato nei miei deliri e nelle mie elucubrazioni.
Vorrei potervi nominare tutti per nome, ringraziarvi uno a noi, nonostante siate centinaia, se non migliaia, ad aver visitato alcuni miei capitoli, vorrei poter dedicare del tempo ad ognuno di voi.
Ma non posso farlo, non ho il nome di tutti voi sotto mano.
Farò quello che posso, ma, se il tuo nome non compare sotto, sappi che lo vorrei poter aggiungere, perchè è anche grazie a te che tutto questo è avvenuto e che ha raggiunto la sua meta.


    God of Lies

    Laurelindorean

    Laly of the Moonlight

    Lion_Shamsi

    Onyx Crysus

    TotalEclipseOfTheHeart

    dany the writer

    Shegar

    Kira Diana

    ladyathena

    hola1994

    TaliaMorrissey

    Tu. Proprio tu, che mi stai leggendo ora, anche se il tuo nome è già stato scritto. Ripetere ogni tanto non fa poi così male.


181 capitoli. Cento-ottantuno capitoli. Tre anni. Un lungo viaggio, è stato questo, non c'è che dire.
Ora, però, mi tocca mettere per un attimo la maschera di quello rompiballe.
Ho davvero bisogno che voi facciate qualcosa per me, ora.
Ho scritto tutto questo tempo sia per me che per voi, ho tirato dritto come un treno in corsa, ed ora che sono arrivato nell'ultima stazione ho BISOGNO di sapere cosa ne avete pensato voi del viaggio.
Vi prego, dunque, di lasciarmi scritto, anche in poche righe o parole, cosa nel pensate di tutto questo. Ho bisogno di sapere cosa ne pensate voi della storia, della trilogia, di tutto quello che ho prodotto.
Voglio migliorarmi e, per farlo, ho bisogno di voi.
Qualcosa non andava? Fatemelo presente.
Qualcosa vi è piaciuto più del resto? Ditemelo.
Ho necessità di avere un feedback, ora, da parte vostra. Qualunque sia il momento in cui arriverete qui, vi prego, lasciatemi una traccia dei vostri pensieri. Anche a distanza di mesi o anni.

Non ho più nulla da dire.
Mi sento vuoto e avrò bisogno di un po' di tempo prima di smettere di aspettare la mezzanotte che separa il venerdì dal giovedì per pubblicare.
Grazie ancora a tutti voi, per tutto.
Per l'ultima volta tra le pagine di questa trilogia.
Vago.
Spero ci rivedremo presto da qualche altra parte.

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