L'incanto del sangue di Re'em

di Adhara
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 5: *** 5. ***
Capitolo 6: *** 6. ***
Capitolo 7: *** 7. ***
Capitolo 8: *** 8. ***
Capitolo 9: *** 9. ***
Capitolo 10: *** 10. ***
Capitolo 11: *** 11. ***
Capitolo 12: *** 12. ***
Capitolo 13: *** 13. ***
Capitolo 14: *** 14. ***
Capitolo 15: *** 15. ***
Capitolo 16: *** 16. ***
Capitolo 17: *** 17. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


L’incanto del sangue di Re’em

 

1.

Non era troppo fuori dall’ordinario che un mago appena diciannovenne diventasse Auror, tutt’altro: erano proprio quelli i migliori, quelli che, M.A.G.O. freschi freschi alla mano, si presentavano a reclamare il loro posto nelle fila dei più prestigiosi, misteriosi e rispettati agenti del Ministero. E non era neanche troppo strano che questi maghi completassero un addestramento più breve del previsto, manlevati da bendisposti superiori in grado di saper distinguere tra un buon Auror e un ragazzo pieno di combustibile a rapido rilascio. Poteva essere solo vagamente stupefacente che questi maghi ricevessero quindi, dopo il breve addestramento, già i primi casi da seguire in solitaria o, addirittura, con il supporto di una piccola squadra da dirigere. Era poi notabile quando questi Auror in erba, magari con i capelli neri e gli occhiali tondi, agenti sottoposti piazzati in giro per Londra e cartelle ammucchiate sulla scrivania, ricevevano un grosso ufficio personale nel Quartier Generale.

Questa era, naturalmente, la situazione dell’Auror Potter che se ne stava, in quella fredda mattina di Dicembre, seduto sulla sua poltrona, intento a leggere il rapporto che uno dei suoi uomini gli aveva fatto trovare in ufficio.

Il Bambino che è Sopravvissuto, che ormai di bambino non aveva più nulla, aveva iniziato a lavorare per il Ministero non appena aveva guadagnato i propri M.A.G.O.. Gli era stato possibile farlo solo tornando a scuola per un anno, sì, ma ne era valsa la pena: soltanto dopo i primi mesi al Ministero gli giunse voce che, alla proposta di offrire posti di lavoro ai valorosi di guerra, la maggior parte dei candidati presentatisi erano stati bugiardi, Confusi e spie in erba. E poi la sua avventura finale ad Hogwarts aveva portato tante novità nella sua vita.

L’Auror Potter sbuffò, scorrendo le immagini che l’Auror Richardson aveva scattato al loro uomo. Erano tutte identiche, una gran noia.

Quindi, le novità: per prima cosa, vedere la McGranitt insediarsi come nuova Preside era stato suggestivo e, senza sorprese, aveva aiutato l’intera comunità accademica a risollevarsi in fretta dalla Battaglia di Hogwarts. E poi tanti insegnanti si erano ritirati e molte cattedre erano state offerte a giovani promettenti, come Neville che aveva da poco tenuto la sua prima lezione di Erbologia. La scuola era rinata dalle sue ceneri più portentosa di prima e Harry, che il suo cuore tenero se lo teneva stretto sotto al distintivo cucito sulla divisa, era commosso di aver assistito a quella rinascita.

Toc toc.                                                           

L’Auror Potter alzò gli occhi dalla cartella.

«Oh, finalmente» disse, tornando rapidamente alla lettura. «Problemi in paradiso?»

L’Auror Weasley si lasciò cadere mollemente su una delle due sedie che si opponevano alla scrivania di Harry.

«Il vero problema di aver sposato il Ministro della Magia è che lei è quella che non può permettersi di fare tardi quindi io sono quello che deve riparare i danni causati da uno gnomo che si è ficcato nella nostra dispensa senza che nessuno se ne accorgesse» rispose Ron.

Harry sorrise, divertito.

«Sei fortunato a lavorare per il tuo migliore amico, allora» disse, il tono ironico ma vicino.

Ron alzò gli occhi al cielo.

«Con quel cazzone del mio migliore amico. Novità?»

Harry gli porse la cartella che non aveva ancora finito di leggere e Ron vi diede una scorta rapida.

«Praticamente questo non fa altro che girare per fiorai senza comprare nulla» mormorò l’Auror Weasley. «…e quindi?»

Harry alzò le spalle.

«Dovrebbe avere alle calcagna i medimaghi, non gli Auror» aggiunse Ron restituendogli la cartella. Harry la prese e la gettò sulla pila delle cartelle lette, poi si appoggiò alla scrivania coi gomiti.

«Come se la passa Hermione?» chiese.

«Oh, oggi aveva un incontro col nonsochi turco, mi sembra» rispose Ron. «Se avessimo una pausa pranzo la vedresti più spesso, ma chi ha bisogno di una pausa pranzo?»

Il giovane si massaggiò lo stomaco prima di saltare in piedi.

«Dove vai?» chiese Harry, aggrottando le sopracciglia. Ron gli sorrise.

«Aaah, sei pessimo. Mi hai dato un turno da spendere con Morris per evitare si metta a volare su una scopa per la Londra Babbana, ricordi?»

Harry si schiaffò una mano sulla fronte, lievemente, ma tanto da far risuonare un allegro ciack nell’ufficio.

«Scusa, Ron» disse. L’amico scosse la testa color carota.

«Sarà divertente» rispose, andando via con un occhiolino. Harry alzò la mano in risposta, per poi guardarsi attorno, un po’ dispiaciuto di essere rimasto solo nella sua comoda, calda gabbia dorata piena di lavoro da sbrigare. Afferrò la prossima cartella e si rimise a leggere, poggiando i tacchi sulla scrivania.

Ora, le novità del suo ultimo anno ad Hogwarts non sono finite. Lui e Ron erano stati catapultati al secondo livello del Ministero, Hermione invece al primo. Era dal 1811 che il ruolo di Ministro non veniva ricoperto da una strega e proprio quell’anno la comunità magica aveva rimediato. Ora la giovane donna era un uragano di disegni di legge, mozioni, trombature di corrotti e tanti, troppo tea da sorseggiare ampliando le reti diplomatiche della Gran Bretagna magica.

E poi, lei e Ron si erano sposati. Era successo l’ottobre scorso, nella casa di campagna dei coniugi Granger. Harry conservava con geloso affetto la bomboniera dello sposalizio, la teneva sul tavolino sotto alla finestra, in camera da letto: una bolla di vetro in cui un Jack Russell e una lontra fatti di fumo evanescenti giocavano eternamente.

Toc toc.

Harry alzò nuovamente il viso verso la porta aperta: sull’uscio una donna di mezza età attendeva, i grossi e spessi occhiali in bilico su un finissimo naso pallido.

«Sì, Candice?» fece Harry, tirando via i piedi dalla scrivania. Sapeva quanto alla sua segretaria preferita desse fastidio trovarlo ad in-

«Inzozzare in quel modo la scrivania!» esclamò la donna. «Signor Potter. La prego»

Harry sorrise.

«Dai, Candice, siamo maghi, mi basta un colpo di bacchetta per pulire, no?»

Le strizzò l’occhio ma lei alzò un sopracciglio in risposta.

«Oh, signor Potter» sospirò, scuotendo la testa. Poi tirò su il mento scheletrico. «Il Ministro gradisce vederla d’urgenza, temo. Prima che mi chieda cosa non vada, no, non so nulla»

Non appena aveva sentito la parola “urgenza”, Harry era saltato in piedi, muovendosi a lunghe falcate verso la porta.

«Grazie, Candice» disse, allontanandosi dal proprio ufficio e dalla segretaria che lo salutava con un cenno. Passando tra le scrivanie dei colleghi, il giovane salutò tutti senza fermarsi, precipitandosi verso l’ascensore in cui due gemelli vestiti in oro fissavano con sguardo vacuo il ragazzo ai comandi.

«Al primo livello, è urgente» lo sollecitò Harry e il ragazzo annuì con foga, mentre i due gemelli iniziavano a parlottare tra di loro.

«Noi eravamo prima» fece uno di loro con voce flebile, alzando un dito nell’aria. L’ascensore arrivò al livello e Harry, prima di scendere, diede loro una pacca sulla spalla ciascuno.

«Sappiate che, lasciandomi salire per primo, avete dato una grande mano al nostro Paese» disse prima di precipitarsi nel corridoio, lasciando i due a commentare colpiti su quel felice servigio alla patria.

Arrivato alla porta dell’ufficio di Hermione, Harry la trovò aperta. Non c’era nessuno a guardia: era così da quando la ragazza era diventata Ministro, non voleva che nessuno perdesse tempo a difenderla. Quindi entrò senza esitare nella bella stanza rotonda tutta in tinte purpuree, trovando Hermione seduta alla sua scrivania, posta al centro della sala.

«Harry» disse la giovane, alzandosi. Lui la raggiunse e si abbracciarono calorosamente.

«Mi dispiace non vederti mai» disse la giovane.

«Ehy, il Maragià turco era importante» sorrise Harry allontanandola gentilmente, le mani sulle sue spalle. Hermione era luminosa nella sua veste formale, il ritratto della passione.

Lei accennò un sorriso a sua volta.

«Non era un Maragià… ma comunque, c’è una cosa importante»

Fece segno a Harry di sedere e lui obbedì, in attesa.

«Avrei dovuto inviarti un file su una strega oscura, in questi giorni» iniziò a raccontare la giovane. Allungò a Harry una ciotolina piena di liquirizie e lui rifiutò con un gesto.

«Solo che la fonte che ce l’ha indicata tardava a dirci dove trovarla. È a Londra, vive una vita normale e sembra possa essere un gran pericolo, così intendevo mandarti a indagare sul posto. Solo oggi mi ha detto dove trovarla»

Harry raddrizzò la schiena, pronto, ma al silenzio prolungato di Hermione dovette lamentarsi.

«Dove sta?» fece allora. La giovane lo guardò preoccupata.

«Harry, tu devi proteggere chi le sta attorno» disse. «Ti prego di capire che non puoi fare distinzioni alcune»

«Ma cosa stai dicendo?» chiese Harry, confuso. Hermione sospirò, allungandogli una cartellina.

Lui la aprì. La foto di una donna sorridente era pinzata all’interno: una donna non troppo giovane ma dal viso liscio e tonico, incorniciato da lunghi capelli biondi. Il fascicolo indicava il suo nome: Inga Volkov.

«Da dove viene?» chiese Harry.

«Il gufo che mi ha portato i suoi dati veniva dal Ministero della Magia bielorusso» rispose Hermione.

Di stato libero, trentasette anni, figlia di un pozionista e di una casalinga. Purosangue. Nessun parente in vita.

«Non mi sembra così grave» considerò Harry.

«I ritagli di giornale che trovi lì sono tutti tradotti» si limitò a dire Hermione mentre il ragazzo voltava le pagine, trovandoli.

Il primo trattava di un omicidio. Era l’omicidio di due coniugi, un pozionista e sua moglie. Trovati riversi a terra sul pavimento della loro cucina. La figlia, Inga, che non vedevano da mesi, si diceva sconvolta. Il secondo ritaglio trattava dello strano, orribile caso di un bambino, trovato privo di vita in un bosco. Il suo cuore mancava.

Poi venne il terzo ritaglio e, stavolta, chi era stata trovata morta e senza il cuore era una ragazzina. Poi due fratelli, l’uno di tre, l’altro di sei anni. E infine una ragazza, una giovane uccisa nella sua casa e trovata senza cuore in petto la mattina del suo matrimonio.

«Mozyr, Vidzy, Olevsk» lesse Harry. «E poi Dresda. E poi Kolding. Ha girato mezza Europa»

Hermione annuì.

«Ma dov’è ora, Hermione? Perché mi hai fatto quel discorso?» chiese il giovane.

«L’ho appuntato nel fascicolo» rispose la ragazza, osservandolo.

Harry, sbuffando, continuò a leggere. Era a Londra da poco, si faceva chiamare Elena Kinach. Aveva trovato lavoro da poche settimane: un lavoro da commessa. Notturn Alley. Filtri e Pozioni…

«Piton?» esclamò Harry, alzando gli occhi su Hermione. Lei sospirò di nuovo.

«Devi avvicinarti a lei, Harry. Non sappiamo cosa voglia. Ho già richiamato i più prominenti esperti ma non abbiamo ancora nessun’idea. Devi proteggere Piton e aspettare che faccia una mossa falsa per fermarla»

Harry soppesò la cartellina.

«Ma come faccio?» chiese piano. «Lo sai che i rapporti con Piton sono… beh, quelli che sono»

Hermione si appoggiò alla scrivania con un gomito, puntando il mento sul pugno chiuso.

«Diventa suo amico. Amico di Inga» si affrettò a spiegare vedendo la bocca di Harry aprirsi per lasciar uscire una lamentela. «Sei il migliore»

Harry la osservò, cercando nelle sue pupille nocciola. Ci leggeva preoccupazione, un velo di stanchezza e tanta tenacia. Intravedeva anche il pezzo di torta che Molly aveva mandato a lei e a Ron e che sperava di mangiare, la sera, sul divano. E vedeva anche la stima che nutriva nei suoi confronti.

«Tenterò» disse Harry. Agitò in aria la cartellina. «Questa la tengo io. Piton non sa nulla, vero?»

«Non saprà nulla se non da te» rispose Hermione. L’Auror Potter si alzò e con lui lo fece anche il Ministro Granger, che si affrettò a raggiungerlo dall’altra parte della scrivania e ad abbracciarlo con slancio.

«Grazie» disse la giovane. Harry le accarezzò la schiena a mano aperta.

«Il lavoro è il lavoro» rispose. «Ci vediamo presto, ok?»

Hermione annuì.

«E mi raccomando, sta attento» aggiunse. Sciolsero l’abbraccio e Harry iniziò a camminare verso la porta.

«Sono morto da poco, non voglio ripetere presto l’esperienza, tranquilla» disse, un ghigno rassicurante sul volto. I due si guardarono ancora per un istante, quella voglia di chiudersi in ufficio a parlare e a mangiare dolci tutto il giorno che si faceva sempre più ingombrante. Ma poi Harry se ne andò e in mano gli restò la cartellina e una vaga nostalgia dei suoi migliori amici.

 

Riuscirono ad accordarsi per cenare assieme, la sera dopo quel giorno d’inverno, a furia di parlarsi correndo per il Quartier Generale o tramite aeroplani di carta violacea. Solo Harry, Ron e Hermione, così come ai vecchi tempi. Perché Harry non si lamentava di certo dell’unione dei suoi migliori amici, anzi, da quando si erano sposati erano forse ancora più divertenti perché l’acidità di Hermione e la goliardia di Ron sembravano essersi moltiplicate. Così si trovarono davanti al loro ristorante Babbano preferito, un italiano senza troppe pretese a Brixton e, davanti ad un piatto di gnocchi al pomodoro, una porzione di lasagne ai funghi e dei bocconcini di anatra alle cipolle, i tre amici si godettero una lunga e ridanciana cena a lume di candela.

Erano al dolce quando Ron si pulì la bocca col tovagliolo e si allungò verso Harry.

«E ora il momento dell’antipatico della festa» sorrise, facendo voltare con espressioni curiose gli altri.

«Antipatico?» chiese Hermione. Ron annuì.

«Dai, lo so che Harry sta lavorando a qualcosa di grosso per te» spiegò. Harry rivoltò il proprio tiramisù col cucchiaino.

«Ma no, Ron, cosa dici?» fece Hermione, ma il giovane restò con un sorrisino slavato sulle labbra. Harry guardò la ragazza con sguardo allertato e lei sospirò.

«Bene» fece. «Abbiamo un problema, sì, ma non ne dovremmo parlare» disse.

Harry guardò Ron e vide la delusione sul suo viso, quindi intervenne.

«Qualcuno ha accolto nella sua bottega una mina vagante» spiegò, ignorando le occhiate di Hermione. «E mi tocca andare a salvare il culo a Piton»

La giovane alzò un suono di protesta ma Ron, colpito, fece scorrere lo sguardo azzurrino su entrambi prima di scoppiare a ridere.

«Ok, ora capisco» disse. «Sono due giorni che non ti vedo sorridere. Due! E Hermione che gira per casa tutta nervosa senza aprire la porta a quel povero ciccione di Grattastinchi»

«Non è un ciccione» lo difese debolmente Hermione.

Harry aggrottò la fronte in modo teatrale.

«No, tesoro, certo» disse, fintamente rassicurante. «È solo obeso»

La ragazza si adombrò un momento prima di ridere assieme ai due giovani.

«Va bene, va bene» disse Ron. «Credevo sinceramente fosse qualcosa di estremamente grave»

«Può esserlo» puntualizzò Hermione.

I tre rimasero un attimo in silenzio.

«Ma ho già un piano» sorrise poi Harry. Guardò il suo migliore amico, posando una mano sul suo braccio. «E nel piano tu sei la mia più grossa speranza»

 

Quando la Guerra finì, i morti furono sepolti e le case ricostruite, molti rapporti costituitisi negli anni più bui andarono a picco. Non fu il caso di Fleur e Charlie, anche se il loro matrimonio era stato l’emblema della disperata fretta di unirsi, né di Remus e Sirius, i cui sentimenti rimasti sopiti per così tanti anni continuavano a friggere nell’aria della loro casetta nella periferica di Londra. Era stato, però il caso di Harry e Ginny, i quali un giorno, seduti su una panchina, si erano resi conto che loro, più di un fratello e una sorella, non potevano essere. Così si erano lasciati in comune accordo, Ginny aveva intrapreso una burrascosa relazione con il rampollo dei Malfoy e Harry aveva scoperto che quel freno che, nel retro della mente, aveva sempre sentito nei confronti di Ginny in camera da letto era dato dal fatto che, tra un seno e un paio di boxer lui preferiva di gran lunga i boxer.

La loro rottura non aveva alterato gli equilibri tra Harry e i Weasley: Ginny era stata troppo ottimista dopo quella mattinata al parco e Ron non poté dire nulla al suo migliore amico, perché nessuna sorellina era stata abbandonata. E la rivelazione sui gusti di Harry era stata accolta con poca sorpresa da Hermione, con un po’ di stranezza passeggera da Ron e un profondo disinteressamento dal resto del mondo. Così, quando Molly e Artur seppero, l’una pose sul tavolo la sua torta di rabarbaro preoccupata di non sconquassarla e l’altro afferrò il coltello per tagliarla, congratulandosi con Harry senza staccare gli occhi dal dolce ancora fumante. E quando era stata la volta di dirlo a Sirius e a Remus la scena fu più o meno la stessa, solo che sul tavolo furono posti un bel piatto di patate al forno e delle fette di carne alla piastra.

Fu, per Harry, una delle belle novità portate dall’ultimo anno nella nuova Hogwarts.

Per questo il suo rapporto con Ron non si era incrinato, anzi, sembrava che tra loro la vicinanza fosse ancora più profonda ora, dopo che Harry e Ginny si erano salutati e Ron e Hermione avevano detto “sì”. Ed era questa la causa del grande entusiasmo del giovane Weasley davanti al nuovo compito affidatogli da Harry: essere il suo aggancio e il suo sostituto in ufficio ora che lui doveva seguire una pista esterna. Inutile nascondere che Hermione accolse la notizia con un sorrisetto preoccupato.

Fu così che Harry, la settimana dopo, poté uscire dal suo appartamento nella Londra Babbana in jeans e cappotto, lasciando in un cassetto sigillato magicamente il distintivo. L’aria fredda lo accolse coi suoi baci irti di spilli e un gioioso via vai sul marciapiede lo colse, trascinandolo in una fiumana composta di pochi salmoni danzanti verso una piccola, oscura bottega in un angolo poco battuto di Notturn Alley.

 

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Capitolo 2
*** 2. ***


2.

Filtri e Pozioni Piton era un ambiente piuttosto stretto e dai soffitti bassi e, per accedervi, il cliente doveva scendere alcuni scalini che s’infossavano poco sotto il livello della strada. A lui si presentava, quindi, una porticina ben verniciata di un denso nero opaco sopra alla quale l’insegna recitava il nome del negozio in eleganti lettere argentee su sfondo nero. La sala che accoglieva i visitatori non godeva di una grande illuminazione e sin dalla mattina colonne di candele levitanti dovevano rischiarare l’ambiente con le loro fiammelle. La luce si riversava su scaffali carichi di ingredienti pozionistici, mazzi di erbe appesi, giare di spezie e alcuni manufatti alchemici poggiati su semplici tavolini in legno. Era una bottega piuttosto spoglia, in effetti, ma a detta del suo proprietario un negozio per Pozionisti non doveva avere i fronzoli di una boutique.

Chi fosse entrato in Filtri e Pozioni avrebbe, sicuramente, trovato alla cassa – una grossa cassa in ferro appollaiata su un lungo bancone – una donna minuta, le spalle strette e l’altezza modesta, che ogni mattina si pinzava i ciuffi biondi che le cadevano sul viso con una molletta a forma di gatto.

Si era presentata da Piton ormai una ventina di giorni prima. Lui ne era stato ben sorpreso, perché, naturalmente, non era abituato alle visite: aveva bussato attorno alle dieci del mattino per presentarsi con quelle parole che lui, purtroppo e per fortuna, non aveva potuto ignorare.

E ora eccola lì, a porgere sorrisi a clienti un po’ sorpresi, un po’ guardinghi.

Harry sapeva che quella mattina l’avrebbe trovata nel negozio. Passeggiando per Notturn Alley senza particolare enfasi, il giovane passò in rassegna i luoghi che lui stesso aveva fatto chiudere. Lì sorgeva la bottega che millantava di vendere potenti reliquie di Voldemort. Laggiù il negozio di un Mangiamorte era addormentato dal suo arresto. E qui e là, nei vicoli malfamati, l’Auror in incognito poteva anche notare altri traffici illegali che avrebbe volentieri sventato… ma sarebbe dovuto andare oltre. Quel giorno nessun Potter del Ministero stava camminando per quelle vie.

Quando fu a pochi passi dalla bottega dell’ex insegnante, Harry s’infilò in un vicolo buio sgombro, trasse dalla tasca la sua fida fiaschetta e ne bevve il contenuto. Il gusto nauseabondo della pozione Polisucco gli irruppe nella bocca.

Il ragazzo, che aveva indossato abiti e scarpe più larghe del solito, fu colto dall’ormai familiare sensazione di crescita. Il suo corpo aggiunse alcuni centimetri alla sua altezza, il suo petto si allargò e i capelli scombinati si ritrassero nel suo cuoio capelluto, diventando un fine, irto tappeto castano.

Jeremia Jill, impiegato all’Ufficio del Trasporto Magico, uscì dal vicolo e se ne filò direttamente nella bottega, aprendone la porta che scricchiolò con raffinato gusto gotico.

«Buongiorno!» trillò la voce argentina della donna dietro al bancone. Sorrideva cortese, le mani appoggiate sulla superficie perfettamente pulita.

Jeremia abbassò la testa cupamente in un saluto del tutto appropriato per la zona. Iniziò a camminare nello spazio angusto, guardandosi attorno: due grosse credenze mostravano bezoar, minerali di poco valore, giare piene di interiora di rospo e code di topo.

«Attenzione!» lo avvertì la donna quando, distrattamente, stava per inciampare in uno dei tavolini sparsi per la sala. Su di esso stava poggiato un teschio di bufalo.

Jeremia si voltò, non una parola, verso la parete su cui erano stati appesi diversi mazzi di erbe. Targhette di legno indicavano il nome dell’erba e il grado di freschezza che possedeva. Un altro tavolino, stavolta con un vaso pieno di ossicini. Jeremia si avvicinò al bancone.

«Cerco dell’oro» disse senza preamboli. «Oro in polvere. Mi serve per una pozione ringiovanente di terzo grado»

La donna dietro al bancone annuì.

«Arrivo subito allora» disse, prima di voltarsi e sparire oltre la porta che teneva alle spalle. Jeremia attese per un po’, guardandosi attorno. Poi la porta si aprì di nuovo e non fu solo la donna a uscirne ma anche un uomo dalla carnagione olivastra e i capelli corvini che, se non fosse stato per parecchi fattori, sarebbe potuto sembrare precisamente uguale a Piton.

Però non era lui, andiamo.

L’uomo aveva, innanzitutto, i capelli lunghi. Più lunghi del solito, comunque, e non solo sembravano lavati e spazzolati di fresco, ma erano anche legati in un nodo confusionario. Ed era anche vestito sì, di nero, ma non come un qualsiasi studente della vecchia Hogwarts se lo sarebbe aspettato, perché a contrastare i pantaloni neri indossava una camiciola di lino bianca che, probabilmente intento a mettere mano a quale intruglio, aveva arrotolato sugli avambracci.

«Cercava della polvere d’oro?» chiese l’uomo. Il tono della sua voce, invece, non era cambiato: strascicato, duro, quasi disinteressato. Però il dardeggiare dei suoi occhi esperti dimostrava il contrario.

«Sì» rispose semplicemente Jeremia. Piton lo squadrò, come riconoscendo qualcosa in lui, ma senza esitare trasse una bilancina da sotto il bancone e aprì la busta che aveva portato con sé.

«Quanto?» chiese.

«Due dramme» rispose Jeremia.

Piton versò una modesta quantità di polvere d’oro nella bilancina e, con occhio esperto, misurò e confezionò la merce. Poi consegnò la bustina alla donna, facendo un burbero cenno di saluto al cliente prima di sparire oltre la porta.

La donna sorrise a Jeremia.

«Sono cinquanta galeoni» disse.

Jeremia tirò fuori un sacchetto da cinquanta e li pose sul bancone. Poi sfilò dalle dita della commessa il pacchetto, salutò abbassando la testa e andò via.

Fuori, un vento gelido colse Jeremia. L’uomo iniziò a scendere lungo la via a passo lento, senza dare nell’occhio. Una volta in Diagon Alley si mischiò alla ressa che, quasi eterna, affollava la via dei negozi e lì, in un angolo di strada accanto al muro, si smaterializzò.

Riapparendo all’interno del locale di servizio dell’ascensore del suo palazzo, Harry diede una ginocchiata contro uno dei contatori che sbucavano dal muro e imprecò. Aprì la porta sbirciando, ma non vedendo nessuno si levò dallo stanzino umido e salì un paio di piani, entrando poi al numero 5 del palazzo.

Nel suo appartamento nessuno poteva materializzarsi o smaterializzarsi. Erano le protezioni più comuni accordate agli Auror per proteggere le mura domestiche. Harry si levò la giacca e l’appese ad uno dei ganci accanto alla porta d’ingresso, poi s’infilò in cucina e là lanciò sul tavolo, senza tanti complimenti, la bustina con le due dramme di oro in polvere.

«E cosa me ne faccio di cinquanta galeoni d’oro io…» mormorò, aprendo il frigo e prendendo il succo di arancia. Ne bevve un po’ direttamente dal cartone, pensieroso.

Aveva deciso da un bel pezzo di entrare nella bottega di Piton per sondare il terreno con Inga, ma non aveva messo in conto di sondarlo anche per quanto riguardava il commercio gestito dal suo ex insegnante. Però vedere che nulla di particolarmente prezioso era esposto gli aveva fatto specie e aveva inteso che, se avesse voluto spiare l’uomo a cui aveva salvato la vita più di un anno prima, avrebbe dovuto chiedere merce tenuta nel retro. E così la sua curiosità l’aveva avuta vinta.

Ed era stato strano. Non si era aspettato di vedere Piton cambiato, anzi. Non che il cambiamento fosse stato poi abnorme, ma era comunque evidente. Aveva un’aria più salubre, più curata e meditata. E poi vederlo senza le sue orribili palandrane aveva dimostrato che il fisico dell’uomo era comunque diverso da quelli dei soliti quarantenni con la pancia da birra. Era stato curioso e quasi piacevole, come spiare nella quotidianità di uno strano animale.

Harry ridacchiò tra sé e sé al pensiero. Piton era un piccolo rettile insensibile al caldo del deserto e lui era lo studioso che si imbacuccava nelle sahariane per andare a studiare.

Guardò l’orologio magico appeso sopra alla porta della cucina. Mancava ancora un bel po’ prima che la pozione finisse il suo effetto. Non che avesse fretta. Avrebbe dovuto ingannare il tempo finché non sarebbe stato pronto ad iniziare la seconda fase del suo piano.

 

Fu solo verso sera che l’Auror Potter poté tornare a Nocturn Alley. Aveva letto di nuovo il fascicolo sul suo obiettivo prima di vestirsi, poi, soddisfatto del proprio piano, era tornato per strada, a fendere il buio pesto che già era calato sulla città. Diagon Alley era una bomboniera di luci, dopo il tramonto: fu con piacere che Harry si appostò all’angolo da cui, poco prima, era partito per tornare a casa, attendendo che qualcuno si decidesse ad inciampare su di lui e sulla sua tazza di vin brulé.

Inga avrebbe dovuto smontare per le sei dalla bottega di Piton. Calcolando che probabilmente il vecchio acido l’avrebbe trattenuta, il tempo poi di salutare e di scendere lungo la via deserta, Harry sapeva che l’avrebbe incrociata entro breve.

E, infatti, non passò molto tempo prima di vederla avvicinarsi, sbucando dal buio di Nocturn Alley, i capelli biondi e il cappotto bianco bordato di pelliccia bordeaux che spiccavano nelle ombre della parte peggiore del centro. Harry attese di vederla arrivare al punto di non ritorno, poi allungò un passo e la donna e la sua tazza collisero perfettamente.

«Ehy!» esclamò lei, saltando su. Il vino caldo aveva macchiato il suo cappotto in una scia di violaceo disastro.

«Oh cielo» fece Harry. «Mi dispiace così tanto, io… permettimi»

Trasse la bacchetta e con un movimento si affrettò a riparare al danno mentre la donna lo guardava, la bocca socchiusa e l’espressione mista tra il divertito e l’arrabbiato.

Harry la guardò, desolato.

«Perdonami, camminavo rasente al muro per non essere spazzato via dalla gente ma ci siamo spazzati via a vicenda»

La donna sorrise.

«Non fa niente» disse. «Grazie di avermi pulito il cappotto»

Harry si strinse nelle spalle.

«Altrimenti avrei dovuto comprartene uno nuovo» scherzò, e lei fece una risata cristallina. Il suo viso pieno, tirato su da eleganti zigomi torniti, era di un candore eccezionale e, grandi e brillanti, sulla pelle spiccavano i suoi occhi castani.

«Mi chiamo Elena» si presentò lei, allungando una mano a Harry. Lui la prese e se la portò alle labbra.

«Sono Harry» fece lui. Elena abbassò le ciglia davanti alla galanteria dello sconosciuto e lui sorrise lievemente.

«Senti, lo so che probabilmente stavi correndo dal tuo ragazzo o a fare qualsiasi tu debba fare, ma… hai cenato?»

Elena rise ancora.

«Stavo correndo proprio a cenare» rispose. «Da sola. Nessun ragazzo»

«Allora mi permetti di offrirti qualcosa? C’è un bel posto poco lontano da qui… almeno posso rimediare alla brutta figura»

Elena lo guardò, sembrava studiarlo. Harry incassò tutti gli sguardi di lei, avvertendo quasi il suono dei suoi acuti meccanismi cerebrali. Ma finse così bene che lei sorrise e lo prese a braccetto.

«Quando uno sbadato gentile ti offre una cena non puoi rifiutare» disse.

S’incamminarono verso una taverna in cui Harry non era mai entrato se non con lo sguardo attraverso le vetrate da cui si vedevano le belle panche rivestite di cuscini rossi, i tavoli illuminati dalle candele e le coppie intente a discorrere. Il giovane aprì la porta ed entrò, tenendola poi a Elena.

«Che idillio» commentò lei. Harry non era sicuro le piacesse: sentiva, infondo, di non essere il solo a recitare. Però questo sentimento lo incuriosì ancora di più.

«Due?»

Una piccola cameriera si era avvicinata. Harry annuì e la ragazza scortò lui ed Elena ad un tavolo ben illuminato, imbandito di piatti di legno e fiori di poinsettia stregati che si aprivano e si chiudevano.

«Elena» disse Harry, gustandosi il suono di quel nome. «Non ho incontrato molte Elena nella mia vita»

La donna ridacchiò.

«Non che sia stata molto lunga, direi» commentò. Harry fece un cenno col capo.

«Touché» rispose. Lei si stava levando il cappotto, rivelando la tunica nera che le aveva visto addosso nella bottega.

«Ma comunque, io vengo dall’Ucraina» aggiunse a mo’ di risposta. «Il mio nome viene da laggiù»

La cameriera non permise a Harry di rispondere, presentando una lista poco variegata di bevande. Il giovane lasciò la scelta a Elena e, quando la cameriera si fu allontanata, poté continuare il discorso.

«Sono stato in Ucraina» disse con tono rievocativo. «Ero piccolo. In vacanza, coi miei zii»

Nulla di più falso la sua mente avrebbe potuto produrre. Però riuscì a far passare una subitanea ombra sul viso di Elena, che però la nascose bene.

«E cosa ricordi?» chiese. Nel mentre la bottiglia di sidro che aveva ordinato arrivò e Harry riempì i bicchieri. Elena afferrò subito il suo.

«Ah, Odessa» rispose Harry. «La Scalinata Potemkin. Mi sentivo minuscolo davanti a quelle scale. E la Cattedrale. Con quelle cupole fatte d’argento»

«In Russia dicono che le cupole delle nostre chiese siano dorate così che Dio possa scorgerle meglio» disse Elena. Harry le sorrise.

«Ed è certamente così, sono meravigliose. Di dove sei?»

«Turka» rispose Elena. «Molto lontana da Odessa»

Harry rise.

«Devo sembrare un turista ottuso» disse.

Elena scosse la testa.

«No, non lo sembri. Mi manca, il mio Paese» disse, una vena di nostalgia nella voce. Harry la studiò, gli occhi verdi illuminati dalla luce delle candele.

«Cosa ti ha portata qui?» chiese. Elena, che aveva iniziato a sfogliare il menu, gli lanciò uno sguardo ma rispose senza alzare la testa.

«Sono una Pozionista. Quando ho finito la scuola ho iniziato a fare la gavetta nelle botteghe pozionistiche del mio Paese ma ho sempre sognato di venire qui a lavorare con un uomo… un uomo famoso nel settore»

Harry alzò un sopracciglio, curioso, ma Elena si sporse verso di lui con un bel sorriso.

«Credo prenderò una bella zuppa di pomodoro» disse.

«Mi lasci con la curiosità di questo signore?» chiese il ragazzo, e lei rise, leggera.

«No, no. Si chiama Severus Piton. Lo hai mai sentito?»

Il viso di Harry scolorò.

«Piton?» ripeté. Lei annuì vigorosamente.

«Siete pronti per ordinare?»

La cameriera era tornata, taccuino magico alla mano. Elena non attese oltre e richiese subito la sua zuppa. Harry, un po’ stranito, ordinò lo stesso.

«Sono… sorpreso» disse poi, quando la ragazza fu andata via. «Sono stato suo allievo. Di Piton, intendo»

Elena spalancò i grandi occhi castani.

«Davvero?» esclamò, e parve sinceramente colpita. «E com’era? Insomma, è evidentemente un tipo strano e… oh, cielo, scusami, ma da quando sono qui non parlo praticamente con nessuno e la prima persona che conosco…»

«…conosce Piton» concluse per lei Harry. La donna sorrise, abbassando le lunghe ciglia. Era un gesto che faceva spesso, quando le persone di norma sarebbero arrossite. Il giovane si trovò a pensare che la bellezza di Inga era davvero senza limiti e un po’ gli dispiacque ricordarsi che sotto quella bella pelle e quei boccoli biondi si nascondeva una minaccia.

«Avanti, dimmi tutto, non essere timida» la incitò, e lei iniziò a parlare a raffica del vecchio, burbero, solitario Piton. Sentendone parlare Harry si rese conto di quanto fosse divertente affacciarsi sulle opinioni altrui circa quell’uomo. Inga ne era illuminata. La sua eccitazione circa il lavoro alla sua bottega sembrava perfettamente reale e, infondo, Harry credeva potesse esserlo. Ma perché era così interessata a Piton? Era solo per una fama che, ne era certo, l’ex professore aveva guadagnato nella comunità pozionista?

Inga si lamentava con fare delizioso del temperamento burbero di Piton. Harry rise di gusto quando lo imitò, raccontandole quanto difficile era sopportarlo a scuola. Poi vide i suoi occhi brillare quando trattò dell’enorme sapienza del Pozionista e lui si ritrovò ad annuire. La zuppa finì in un mare di parole e il sidro restò ancora finché i piatti non furono portati via.

«Scusami, credo di aver davvero parlato troppo» disse a quel punto Elena, portandosi una mano alla bocca. Harry le lanciò uno sguardo e lei, di nuovo, abbassò le ciglia.

«Non hai parlato troppo» disse lui. «È bello sentire quanto tu sia entusiasta del tuo lavoro»

«E tu?» chiese la donna. «Tu cosa fai?»

Harry sospirò.

«Io lavoro al Ministero» rispose. Scrollò le spalle. «Non il posto che desideravo, ma niente»

Gli occhi di Elena si erano induriti e Harry fece finta di non notarlo. Piuttosto chiese, innocente: «Dolce?»

Lei scosse la testa.

«Forse dovrei andare a casa, domani sarà una lunga giornata»

Harry pagò la cena senza preoccuparsi di mostrare a Elena la gran quantità di denaro che aveva con sé. Lei lo notò e gli sorrise cortesemente quando uscirono dal locale.

«Quindi, che cosa ti fanno fare al Ministero?» chiese.

«Oh, mi occupo di uso improprio dei manufatti Babbani» rispose Harry. «Sai, un water intasato qui, una chiave rimpicciolita là»

Elena annuì.

«Niente maghi oscuri da cacciare, allora» disse, strizzandogli l’occhio. Harry abbassò le spalle in un gesto teatrale e lei rise.

«Dai, anche noi possiamo essere interessanti» sorrise il ragazzo. «Non sono gli Auror a gestire tutti i disastri che fanno certi maghi»

Elena lo prese di nuovo a braccetto.

«Hai ragione. Siamo simili, io e te: tu a gestire i lati più basilari della magia, io a vendere la merce più basilare delle pozioni»

«Senza di noi nulla funzionerebbe, se ci pensi» rispose Harry, la voce più profonda. Elena lo guardò.

«Sì, è vero. Siamo modesti ma valiamo» rispose.

Camminarono per un po’ in silenzio, finché Elena non si fermò accennando, con la testa, ad un palazzo sghimbescio.

«Io ho qui il mio appartamento» disse. Si allontanò un passo da Harry, poi lo afferrò e gli pose tre baci sulle guance.

«Grazie mille. Mi sono divertita» aggiunse.

Harry cercò di stare al passo col saluto ma non riuscì e lei rise. Il giovane si sfiorò la tempia con un dito.

«Buonanotte, Elena, e grazie della compagnia. È stato splendido»

La donna abbassò la testa, poi si avvicinò alla porta. La aprì e prima di entrare guardò ancora Harry.

«Se passi da queste parti fammi un fischio» disse. «Mi piacerebbe uscire con te, qualche volta»

«Tra un water intasato e un bezoar venduto» aggiunse Harry. Elena annuì, poi alzò una mano in seguo di saluto e sparì.

Harry attese di vedere la porta chiudersi, poi attese ancora, così da sembrare un innamorato da filmetto Babbano da due soldi. Poi riprese la strada, sicuro di avere addosso un paio di occhi. Occhi malvagi.

 

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Capitolo 3
*** 3. ***


3.

Non aveva idea di quanto potesse essere potente quella strega, così, per precauzione, Harry stregò la propria scia di modo che puntasse verso un palazzo della sua via, sì, ma a parecchia distanza dal suo. Quando arrivò a casa alzò delle barriere protettive in più, così come gli era stato ordinato da Hermione, e prima di andare a letto scrisse le sue impressioni su Inga.

Una persona strana. Aveva avvertito la sua pericolosità, spesso, e anche la sua intelligenza. Però sembrava davvero appassionata nella sua devozione per Piton, cosa incredibile sì, ma che non gli era parsa del tutto costruita. Invece l’Ucraina, la storia sui Pozionisti, quella era tutta finzione. Un’ottima attrice, certo, ma non abbastanza per un Auror.

Harry chiuse il suo taccuino nel cassetto stregato e si buttò a letto. Il giorno dopo sarebbe andato al Ministero, avrebbe fatto una capatina al terzo livello, avrebbe passato un po’ di tempo con Artur. E poi avrebbe lasciato una nota per Ron e per Hermione e sarebbe tornato a casa.

Era certo che tutte quelle precauzioni fossero di gran lunga esagerate, ma nessuno, nemmeno lui, poteva disobbedire al Ministro. Così si addormentò col pensiero di seguire il piano diligentemente, ignaro del fatto che Inga, nella cucina del bilocale che aveva preso in affitto, stava proprio lanciando la propria magia per seguire la scia di Harry.

Appena salita nel suo appartamento, la strega si era recata nel suo studio. Lì, adagiato sulla scrivania, un grosso pezzo di alabastro troneggiava, vagamente illuminato da una luminescenza verdastra che indicava essere sotto l’influsso di una potente magia. Inga si sedette al tavolo senza neppure levarsi il cappotto, interrogando il manufatto che lei stessa aveva concepito. Fece una ricerca approfondita, ma nulla: non c’era nessuno Harry nelle sue liste. Controllò una, due, tre volte, ma a quanto pareva l’impiegato all’ufficio uso improprio dei manufatti Babbani aveva detto il vero. A quel punto si levò la giacca, lasciandola raggrumata tra se stessa e lo schienale della poltrona. Poi mosse l’occhio della roccia verso la scia di Harry, seguendolo sino ad un quartiere Babbano. Un palazzo rosso, molti appartamenti. Nulla di notabile. Si spinse all’interno delle abitazioni, cercandolo, finché non inciampò in un blocco schermato da una potente magia difensiva. Forse il Ministero offriva ai propri dipendenti degli accomodamenti speciali per le loro famiglie. Inga sospirò. Era l’ora di dormire sogni sereni.

Nel palazzo rosso in Porter Street, il figlio adolescente dei Forster lanciò il cellulare sul tappeto. Era da quando era rientrato da scuola che né il computer né il telefono funzionavano.

 

La mattina dopo, Harry si materializzò nella solita viuzza oscura a pochi passi dal Ministero, la colazione in mano e i sensi ben allerta, pronto ad avvertire una qualsiasi stranezza nell’aria che lo avvolgeva, aspettandosi di essere osservato o seguito. Ma non avvertì nulla di tutto ciò, anzi, ed entrò negli schermi protettivi del Ministero certo di non essere stato seguito da nessun osservatore. Scese comunque al terzo livello, obbedendo a Hermione che temeva che qualche dipendente fosse Imperiato – cosa che Harry, dopo aver conosciuto Inga, non si sentiva di escludere – e trascorse l’intera mattinata alla scrivania di Artur, aiutandolo laddove poteva. Sembrava che Ron gli avesse anticipato che ci sarebbe stato un cambiamento nella composizione del suo ufficio e l’uomo, che era abituato ai misteriosi meccanismi del Ministero, non disse nulla, anzi diede a Harry una gran pila di volantini da leggere, chiedendogli quale riteneva più efficaci per una campagna di sensibilizzazione verso l’elettricità nelle case Babbane.

Stare accanto al signor Weasley era rilassante, per Harry. Si divertì a commentare i volantini e a spiare le conversazioni dei colleghi su brutti incidenti di maghi e streghe poco avvezzi alle abitudini Babbane finché un ragazzo non si avvicinò, chiedendogli di recarsi all’ufficio del Ministro per sbrigare delle pratiche. Harry allora salutò Artur e s’incamminò, piacevolmente stupito di quanto funzionasse bene il Ministero di Hermione, poiché nessuno, per ora, aveva proferito una parola fuori luogo sulla sua presenza al terzo livello, né era successo nulla che potesse mettere in allerta un possibile Imperiato.

Entrato nell’ufficio del Ministro, Hermione e Ron si voltarono a guardarlo.

«Chiudi la porta, Harry» disse subito Hermione e lui obbedì. Con un gesto della bacchetta la giovane impose il Muffliato alla sala.

«Come è andata?» chiese Ron, impaziente. Harry si sedette sulla sedia accanto a lui, fronteggiando il Ministro.

«Direi bene, mi ha preso in simpatia» rispose. «Credo abbia un po’ di sospetti, ma penso di essermela cavata»

«E Piton?» chiese Hermione.

Harry ripensò alla sua diserzione della mattina passata.

«Er, Piton» fece. «Inga è affascinata dal suo lavoro, credo lo sia davvero. Comunque sta bene. L’ho spiato, prima di agganciare Inga»

Hermione annuì, soddisfatta.

«Si è sbottonata su qualcosa?» domandò Ron. Harry scosse la testa.

«É… molto, molto intelligente» rispose. «Ha mentito sulla sua origine, dice di essere ucraina. Ma davvero, se uno non ci fa caso sembra la persona più normale del mondo»

Ron e Hermione annuirono, pensierosi, e cadde il silenzio.

«Hai seguito i miei ordini, oggi?» chiese poi Hermione.

«Sono stato tutta la mattina col papà di Ron» sorrise Harry. Il giovane Weasley rise.

«E la scia? Lo schermo? Sei certo che non ti abbia seguito?» chiese ancora la ragazza.

«Se lo ha fatto non ha visto nulla di diverso da ciò che le ho detto ieri» rispose, sereno, Harry. Hermione non sembrava convinta, ma Ron allungò una mano verso le sue, abbandonate sulla scrivania, e gliele strinse.

«Fidati» le disse, il tono dolce.

«Sono solo preoccupata» rispose lei, ma accennò un sorriso. Harry le rispose alzando lievemente gli angoli delle labbra, anche se la sua mancanza di fiducia lo infastidiva.

«Sono sopravvissuto a Voldemort, ricordi?» chiese. Il Ministro annuì.

 

Per un paio di giorni le giornate di Harry continuarono a vederlo alla scrivania di Artur Weasley, il che iniziò a farlo soffrire un po’ di noia, perché infondo la sua carriera di Auror lo appassionava anche per il lato meno cheto della cosa, quello che lo vedeva sempre in movimento. Ora però si sentiva come ancorato al suo finto impiego e fu con particolare gioia che ricevette l’invito di Hermione, tramite la loro vecchia moneta stregata, di recarsi di nuovo da Inga. Stavolta decise di fingere di passare davanti alla bottega per caso, così da non dover sembrare troppo pressante. Passeggiò quindi a lungo per Diagon Alley prima di allungarsi verso la zona meno battuta del centro, godendosi l’aria che, giorno dopo giorno, si faceva sempre più festiva. Era ormai il diciotto Dicembre, Londra era addobbata da abeti e luci già da un mese e lui si sentiva elettrizzato lì, fuori dal Ministero, nella calca vociante. Non gli andava granché di chiudersi nel negozio oscuro di Piton, né di vederlo e di incassare la sua ironia velenosa, ma si immaginava che dimostrando a Inga di non aver mentito su di lui potesse segnare un punto in più per guadagnare la sua fiducia. Così entrò nel negozio, dove trovò un paio di clienti a cui la donna stava vendendo un sacco pieno di misteriose erbe secche. Harry zampettò per l’ambiente guardandola e lei, servendo il mago delle erbe, vedendolo sorrise.

«Ha bisogno di altro?» chiese la donna al mago. Lui mormorò qualcosa che Harry non sentì e vide la donna sparire nel retrobottega. Con un brivido, si voltò, come sperando di non essere riconosciuto dall’uomo che sarebbe apparso, i capelli sciolto attorno al volto e tre grosse fiale piene di sangue di chissà quale creatura tra le mani.

Era intento ad osservare il teschio di bufalo quando una mano batté sulla sua spalla. Si voltò: Elena gli sorrideva.

«Ehy» fece Harry, «è un brutto momento?»

«Non più del solito» mormorò Elena, sorridendo. «Hai bisogno di qualcosa o…

«Volevo salutarti» rispose Harry. La donna si schernì col suo solito movimento di ciglia. Stava per rispondere quando la voce imperiosa di Piton la richiamò all’ordine:

«Elena! Il signor Wellfair non si serve da solo»

La donna lanciò un’occhiata di scuse a Harry e tornò rapidamente dietro al bancone. Fu in quel momento che Piton riconobbe il motivo per cui la sua commessa si era allontanata: il suo viso si stirò in una maschera neutra prima che il suo sopracciglio schizzasse verso l’alto.

«Potter» fece l’uomo, avvicinandosi.

«Signore» rispose Harry, a disagio.

Piton si fermò davanti a lui, voltandosi ad osservare Elena.

«Hai smesso di angustiarmi a scuola per distrarre chi mi aiuta in negozio?» chiese l’uomo. C’era una vena acida nel suo tono, ma Harry sentiva la determinazione a tenerla a bada. Ne fu sorpreso.

«Mi dispiace, conosco Elena e sono passato a salutare» rispose il giovane.

Piton lo squadrò.

«E dimmi, Potter, come te la passi? Ho saputo che hai cercato di guadagnarti i M.A.G.O. per…»

«Lavoro all’ufficio di regolamentazione dell’uso dei manufatti Babbani» lo interruppe rapidamente Harry. Fece un sorriso posticcio e Piton assunse un’espressione molto loquace: avvertiva che qualcosa non andava.

Il cliente servito da Elena se ne andò, così la donna li raggiunse.

«Severus, hai visto che coincidenza?» disse. «Harry mi ha raccontato di essere un tuo ex alunno»

«Ex alunno, ex incubo» rispose Piton. Studiò ancora una volta il viso di Harry, poi guardò Elena.

«Mi rincresce, Elena, ma non avrai tempo libero da perdere con questo individuo. Ti sto facendo un favore»

Elena rise, ma Harry si sentì montare la vecchia collera che Piton riusciva da sempre a tirargli fuori dalle budella.

«Non ce n’è bisogno, Severus» rispose la donna. «Ci vediamo dopo la chiusura?»

Harry guardò i grandi occhi della donna e si costrinse a sorridere, anche se il suo istinto gli gridava di piantare grane con quella stupida nuova versione più pulita e più affascinante di Piton.

Più pulita e più cosa?

«Certo» rispose il giovane. «Ti passo a prendere più tardi. Piton»

Harry si incamminò verso la porta e l’uomo lo osservò.

«Potter» fece, tornandosene nel retrobottega. La strega restò sola.

 

Irato, sconvolto e preoccupato, Harry prese a camminare per le strade a testa bassa. Cosa gli era preso? Non era neanche più capace di gestire i propri pensieri? E che pensiero era, poi, quello? Affascinante? L’Auror in incognito imprecò. Non poteva pensare una cosa del genere di quell’uomo, non dopo tutto quello che gli aveva fatto. E cosa ti ha fatto? sussurrò una vocina nella sua testa. È l’uomo più coraggioso che tu abbia mai conosciuto.

Scuotendo via il lato più distruttivo della propria coscienza, Harry si fermò davanti ad una vetrina. Guardò la merce esposta senza vederla. Lo aveva protetto, certo. Ma per amore di sua madre. Per amore della donna che aveva amato. Non aveva mai avuto un briciolo di affetto verso di lui. D’un tratto, Harry si chiese perché. Perché si erano odiati così tanto?

Un movimento nella vetrina lo riscosse: una madre stava comprando al figlio il trenino magico esposto. Il bambino aveva gli occhioni luccicanti. Non vedeva l’ora di portare il trenino a casa. Chissà, forse era il suo compleanno. Magari quella sera suo padre sarebbe tornato con una torta al cioccolato.

Harry riprese a camminare. Se lo ricordava bene, il peso del corpo di Piton tra le braccia. Quando aveva visto i suoi occhi chiudersi e aveva dato a Hermione la fiala coi suoi ricordi, prendendolo di peso, portandolo al sicuro. Correndo, correndo contro il tempo. Salvandolo.

Lui lo aveva capito, alla fine, che qualcosa di buono in quell’uomo fatto di ghiaccio e rancore era rimasto. Piton, di lui, invece, pensava ancora tutto il male del mondo. Un crampo attanagliò per un momento lo stomaco di Harry. Si ritrovò a sperare nel contrario. E nella sua mente si affacciarono gli occhi neri di lui e quei capelli corvini che quel giorno gli incorniciavano il viso quasi con grazia. Sembrava un uomo nuovo e Harry si sentiva, ahilui, terribilmente curioso di conoscerlo.

Trascorse tutte le ore restanti a zonzo per Diagon Alley, senza quasi accorgersi che la moneta di Hermione bruciava nella tasca dei pantaloni Babbani che indossava. Ci fece caso solo quando il cielo era ormai scuro e vi gettò un’occhiata:

? – bacio da h e r

Rispose con parole molto scarne, poi guardò l’orologio da polso. Era quasi l’ora. Tornò indietro e, arrivato alla bottega, si appoggiò al muro sul livello della via che correva oltre la porta incassata del negozio di Piton. Dovette attendere solo una decina di minuti prima di vedere la porta aprirsi e Piton che salutava Elena, guardando poi verso Harry. Come se avesse spiato dalle finestre buie, cercandolo. Lo fissò e Harry rispose al suo sguardo. Poi vide come le pupille di Piton scivolavano su di lui, studiandolo in tutta la sua figura. Harry si sentì arrossire, suo malgrado, e nonostante sperò di non farlo notare, Piton se ne accorse e fece un sorriso intimidatorio prima di sparire di nuovo nel negozio. La serratura magica, con pesanti tonfi, si chiuse.

«Buonasera» disse Elena, raggiungendo Harry. Lui spostò lo sguardo dalla porta a lei, un po’ a disagio dopo quegli sguardi. La donna però non diede peso alla sua espressione, prendendolo a braccetto.

«Mi offri la cena?» chiese. Harry annuì.

«Certamente» rispose, la voce bassa. Maledetta strega oscura, maledetto Piton, maledetta Hermione. Avrebbe chiesto di essere rimborsato, alla fine della questione.

 

Come se non fosse bastato il tempo speso sopportando Harry Potter finora, nei giorni che seguirono Severus Piton dovette rendersi conto che la vita aveva deciso di riportare nei suoi giorni, ormai splendidamente monotoni, quel ragazzino pieno di sé che sperava di non dover vedere mai più. Qualcosa, però, lo frenava dall’esserne del tutto annientato. Pareva che il ragazzo avesse fatto amicizia con Elena e, anche se il rapporto tra loro non lo interessava minimamente, poteva immaginare che qualcosa di più si preparasse ad accadere tra loro. La cosa non lo stupiva. Lo infastidiva, però, perché sapeva il rapporto di sinonimia assoluta tra “Potter” e “guai” e lui si era beato di aver trovato, finalmente, una collaboratrice decente.

Non era stupito però, quindi, perché Elena era davvero bellissima. Non lo aveva notato prima di vedere lei e Potter conversare nel suo negozio – non gli era minimamente interessato – ma ora vedeva i suoi capelli biondi, i suoi occhi grandi, la risata cristallina. Vedeva però anche qualcosa che quell’ingenuo di Potter di sicuro non aveva notato, cioè la sua profonda vena malvagia, ma non sarebbe stato che divertente vedere come questo lato di lei avrebbe influito nella loro relazione. Era un lato ben nascosto, che non si mostrava quasi mai, ma lui poteva vederlo perfettamente.

Di Harry, invece, lui la bellezza l’aveva notata subito. Non lo vedeva da quando aveva lasciato la sua stanza al San Mungo, un’eternità prima. Dopo che lo si erano scambiati un paio di parole, dopo che Severus lo aveva addirittura ringraziato. Ed era cambiato molto, da quel giorno: ora era un uomo in tutto e per tutto. Aveva perduto del tutto i tratti morbidi dell’infanzia e anche quelli acerbi dell’adolescenza se ne erano andati. E, sorprendentemente, aveva lasciato anche tutte le terribili somiglianze coi suoi defunti genitori: era, ora, davvero Harry Potter. Non più il figlio di Lily e James.

Quando lo vedeva arrivare, quindi, Piton non se ne fuggiva nel retro, le poche volte che girava per il negozio. Si salutavano freddamente, si osservavano come animali costretti a condividere il territorio. Ma una tacita amnistia vigeva tra loro e grazie a quella i loro sguardi poterono farsi via via meno nascosti, finché Piton non dovette prendere coscienza del fatto che quel giovane dipendente del Ministero, che aveva evidentemente qualcosa da nascondere, aveva, su di lui, una certa influenza.

Il che lo terrorizzava.

Non era, dicevamo, nulla che c’entrasse col vecchio sentimento per Lily, anzi, quello, dopo la Guerra, sembrava essere rimasto nella carcassa del vecchio Severus Piton che era rimasta chiusa in una tomba di silenzio. Ora il Pozionsta si sentiva libero di non vergognarsi più di se stesso, libero di non pensare più a quella ragazza da tempo sepolta, libero di non guardare più troppo insistentemente il Marchio Nero sul proprio braccio. Era, quindi, ancora peggio. Perché questo significava che Harry Potter lo attraeva, non il ricordo di qualcun altro, non la nostalgia, no, proprio lui.

Come se vederlo per pochi minuti al giorno fosse abbastanza per dimenticare tutto quello che era stato… tutto quello che erano stati.

«Severus»

L’uomo si riscosse, lasciando la presa sui suoi pensieri. Elena lo guardava con un sorriso.

«Sì?» fece lui. Si raddrizzò. Stava macinando una preziosa radice di rosa del deserto prima di cadere nei meandri della propria mente.

«Scusami, volevo solo sapere se ci sono novità per la mia ricompensa»

Severus guardò la donna, sondandone l’espressione. Poi chiuse con violenza la porta della propria mente e sorrise a sua volta.

«Scusa, Elena, purtroppo il viaggiatore a cui devo chiedere non è ancora arrivato. Sono certo che tra pochi giorni sarà a Londra»

Elena annuì, nascondendo la delusione.

«Grazie mille, Severus, io…» iniziò a dire, ma l’uomo alzò la mano.

«Per la figlia di Sofon questo ed altro» l’interruppe.

La donna abbassò la testa, tornando al suo posto, nel negozio. Il sorriso scolorò dalle labbra di Severus mentre riprendeva a macinare la radice.

Poi, lentamente, un pensiero curioso si fece strada nella sua mente.

 

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Capitolo 4
*** 4. ***


4.

Harry era intento a costruire un bel castello di carte quando un aeroplanino viola cadde proprio nella sua bella costruzione, facendola crollare. L’Auror prese il biglietto e lo aprì, sperando di leggere qualcosa che potesse spazzare via la sua noia.

So che stai facendo castelli di carte da gioco! Smettila! E vieni subito nel mio ufficio. H.

Ridacchiando, prese la sua via verso l’ufficio di Hermione. Erano ormai giorni che non si trovavano per parlare di Inga e fu con estremo disappunto che Harry constatò che quel giorno non sarebbe stato con Ron e Hermione a commentare le novità sulla strega, ma con Hermione e Piton.

«Cosa?» fece subito Harry, preso alla sprovvista. L’uomo era seduto davanti alla scrivania di Hermione, le gambe accavallate, e lo guardava con disprezzo. Hermione si alzò e andò a chiudere la porta, lanciando il solito Muffliato prima di far cenno a Harry di avvicinarsi alla scrivania.

«Il Signor Piton è venuto per il nostro bersaglio, Harry» disse la giovane, tornando alla propria poltrona. Harry restò in piedi, dove poteva vedere entrambi bene in faccia.

«Lei sa?» chiese, puntando gli occhi verdi sull’uomo.

«La signorina che state cercando di acciuffare è venuta da me, una sera» iniziò a dire, quasi ignorando Harry. «Si è presentata come la figlia di Sofon Kinach, un Pozionista che conobbi molti anni fa, un mago di tutto rispetto. Mi ha chiesto un favore, un favore che mi è parso subito molto strano, ma ho accettato. Ora, dopo che tu, Potter, hai iniziato a ronzare attorno alla mia bottega, credo di avere in mano abbastanza elementi per preoccuparmi»

Harry e Hermione si guardarono.

«Il signor Kinach non ha mai risposto alle sue lettere, è esatto?» chiese Hermione per portare avanti il discorso.

«Per l’appunto» rispose Piton.

«E cosa le ha chiesto?» lo incalzò ancora Hermione.

L’uomo sospirò.

«Uno degli ingredienti più difficili, pericolosi e preziosi» rispose Piton, guardando Harry. Lo fece con gravità, senza l’astio che Harry si era aspettato. «Sangue di Re’em»

Harry annuì, nascondendo la propria ignoranza.

«Cosa pensa voglia farsene?» chiese, il tono professionale. L’ex professore non fece una piega: forse non ne aveva mai parlato a lezione e Harry non doveva preoccuparsi poi troppo di fingere di sapere qualcosa sul sangue di Re’em, ma con una così grave Hermione accanto, il giovane decise di rimanere sul vago.

«Se quella donna avesse quattro cuori umani essiccati, diciamo di bambini non più grandi di dieci anni, e il cuore di un’innamorata» rispose Piton, «e se avesse con sé anche un calderone di tantalio, cosa che ha, e alcuni altri ingredienti che io stesso posseggo in negozio, allora potrebbe creare una pozione leggendaria… a cui nemmeno io credo, se devo essere sincero»

Harry si poggiò alla scrivania, osservando il Pozionista.

«Ci dica di più» mormorò. L’uomo abbassò gli occhi, fissando una piega che i pantaloni che indossava – pelle nera, pensò Harry – formavano sul suo ginocchio.

«Si dice che un uomo, molti decenni fa, inventò questo filtro» disse. «Si chiamava Julius. Uccise quattro bambini, strappò loro il cuore. Poi uccise il suo stesso figlio, innamorato del suo compagno. Fece seccare i loro cuori, li ridusse in polvere, li mischiò al sangue di Re’em in un calderone di tantalio, poi aggiunse del dittamo, della melissa e dell’iperico, li fece bollire assieme per tre notti e poi bevve la pozione e si rese conto di poter controllare l’intera magia del mondo. La leggenda dice che tolse il potere a ogni strega e ogni mago sulla terra ma qualcuno lo uccise quindi non poté fare altri danni e tutto tornò alla normalità. Ma non credevo qualcuno potesse crederci…»

«Lei pensa sia possibile?» domandò Hermione. Severus sospirò.

«Non sono tanto crudele da usare cuori umani nelle mie pozioni. Non so cosa ne uscirebbe» rispose.

Harry si allontanò, facendo un paio di passi, pensando. Sentì che Hermione diceva qualcosa circa l’impossibilità di arrestare Inga senza prove e un profondo fastidio si impossessò del suo stomaco. Non voleva che quella donna potesse neanche tentare di fare una cosa del genere, non dopo essere sospettata di aver perpetrato quei crimini orribili. Non accanto a lui. Doveva proteggerlo.

«Lei non le farà avere quel sangue» mormorò Harry. Piton si voltò a guardarlo, i capelli neri che si muovevano ai suoi movimenti. Harry lo osservò, incapace di frenarsi dal perdersi nei suoi occhi. Davvero non si era mai accorto di quanto fossero profondi?

«Certo che no, Potter» disse il Pozionista. Harry tornò sulla terra con un doloroso scossone.

«Ma dobbiamo fermarla prima che si accorga della nostra operazione» aggiunse Hermione.

«Sei il Ministro, Granger, non puoi farla arrestare e basta?» chiese, tagliente, Severus. Lei lo guardò con sguardo pungente.

«Non funziona più così. Non sotto il mio governo» ribatté, il tono imperativo. Il Pozionista non rispose e si alzò.

«Bene, allora direi che posso andare, o quella strega si insospettirà. Buon lavoro, Ministro»

Detto ciò l’uomo puntò dritto alla porta, aprendola e spezzando l’incantesimo lanciato da Hermione. Lei guardò Harry con urgenza e lui, comprendendo, si lanciò alle calcagna di Piton.

«Aspetti!» esclamò. Lo vide allontanarsi a lunghe falcate, allora gli corse dietro, afferrandolo per un polso. Lo trattenne con forza e l’uomo si voltò di scatto, affrontandolo.

«Deve farle dire perché vuole quel sangue» disse Harry, la voce bassa. Severus lo osservò, gli occhi ridotti a due fessure. «Deve farle ammettere il suo piano. Mi dia un motivo per arrestarla»

Severus alzò una mano, poggiandola sul petto di Harry. Il giovane, stranito, guardò verso il basso. Si sentì il viso andare in fiamme e, senza capire, fece per chiedere spiegazioni a Piton. Ma poi l’uomo lo spinse via, distanziandolo.

«Lasciamo più di tre centimetri tra le nostre bocche quando parliamo, d’accordo?» ironizzò Severus. Harry si schiarì la gola, imbarazzato.

«S-sì, scusi» rispose. Si accorse solo in quel momento che ancora teneva tra le dita il polso forte dell’uomo, così lo lasciò andare.

«Venga domani in negozio. Alle dieci. Sia puntuale» gli ingiunse duramente, prima di voltarsi e andare via definitivamente. Harry restò lì imbambolato per un attimo, poi si voltò, tornando verso l’ufficio del Ministro. Gli occhi di Hermione lo osservavano dall’uscio del suo ufficio, un sorrisetto sulle labbra rosee.

«Non meno di tre centimetri?» la sentì dire, ironica, mentre lui si nascondeva il viso tra le mani.

«Ti prego, non dire nulla» mormorò il ragazzo, andandosene, mentre le risa del Ministro lo accompagnavano.

 

Il giorno dopo, alle dieci in punto, Harry entrava nel negozio di Piton. Senza stupirsi, vide che l’uomo stava sfaccendando assieme ad Elena, e nessuno dei due diede segno di vederlo arrivare, anche se, Harry lo sapeva, Piton era rimasto ben allerta per notare se fosse giunto in anticipo o in ritardo. Quando mosse qualche passo nella bottega, Elena alzò la testa dai conti che stava facendo e sfoderò un gran sorriso.

«Harry!» esclamò. «Come stai?»

Il ragazzo si avvicinò al bancone, ignorando Piton che continuava a spostare giare su un mobile.

«Ora bene» rispose. Elena parve illuminarsi di colpo, come ricordandosi qualcosa di particolarmente felice.

«Severus, ho avuto un’idea!» disse. L’uomo si voltò lentamente, lanciando un’occhiata a Harry.

«Quale?» chiese, guardingo.

«Può venire anche Harry alla cena per la pausa natalizia?» chiese Elena. Il ragazzo, senza capire, fece la spola tra la strega e il Pozionista. Piton non sembrava molto felice della proposta della donna.

«Se ci tieni» rispose, tornando a spostare i barattoli. Elena batté le mani, felice come una bambina.

«Allora Harry, venerdì sera a casa di Severus?» domandò, elettrizzata.

Harry lanciò uno sguardo divertito al Pozionista.

«Ehm, certamente» rispose. «Sempre quel casermone nelle Highlands, Severus?»

Il Pozionista si voltò di scatto, smettendo di trafficare con le giare, e si avvicinò a Harry con fare minaccioso.

«L’appartamento qui sopra, Harry» ribatté, il tono mellifluo. «Uomo nuovo, casa nuova… tutto nuovo»

Il ragazzo accennò un ghigno ironico, ma l’ex professore fu più veloce di lui. Si guardarono per un lungo istante, i verdi fanali puntati nella nera oscurità. Harry iniziò a sentirsi strano e non fu il solo: la voce di Elena dovette riscuotere entrambi gli uomini quando, dopo aver ripreso in mano i suoi conti, annunciò a gran voce di aver finito.

Harry trasalì e Severus gli rivolse un altro sorriso – stavolta un sorriso più morbido, un sorriso che mai il ragazzo aveva visto sul suo viso.

«Benissimo Elena, puoi andare a mettere la pergamena di là nel faldone?» chiese rapidamente il Pozionista. La donna annuì, ricontrollando ancora i calcoli, e sparì oltre la porta, lasciando i due maghi soli.

Severus mosse un passo verso Harry, che restò immobile.

«Che cosa succede, Harry?» chiese l’uomo, la voce roca.

Harry deglutì.

«Dovresti dirmelo tu» sussurrò. Si sentiva il viso in fiamme e, quando Severus si avvicinò ancora, credette di prendere fuoco spontaneamente. Ma non accadde, anche se, quando la mano del Pozionista andò a posarsi sul suo fianco, il calore che avvertiva crebbe a dismisura.

«Credo che qualcosa sia andato storto» mormorò Severus. Inclinò il viso, avvicinandosi alle labbra di Harry. Lui non osava muoversi, ma non si ritirò avvertì la bocca del suo ex professore a un soffio dalla propria, anzi stava per annullare la distanza quando Severus si allontanò di colpo, lasciando Harry ad annaspare nel vuoto con fare goffo, mentre Elena tornava da loro.

«Spero di aver messo tutto bene in ordine» disse la donna. Severus, il volto sereno, le rivolse un cenno. Harry, invece, aveva il viso color pomodoro.

«Harry, stai bene?» chiese la donna, la fronte aggrottata.

«Io, uhm…» biascicò il ragazzo. Si toccò la fronte. «Credo di essermi preso un malanno…»

«Oh, che peccato» commentò Severus. Gli fece cenno di aspettare e girò attorno al bancone, chinandosi a prendere una fiala piena di un liquido ambrato. Gliela porse.

«Con questo omaggio non avrai la scusa di avere l’influenza, venerdì sera» sorrise.

Harry la prese, la mano tremante. Le loro dita si sfiorarono.

«Che cosa è?» chiese.

«Solo un ricostituente molto potente» spiegò Elena mentre Piton gli scriveva una nota, la piegava e la consegnava al ragazzo. «Fa miracoli contro i malanni di stagione»

Harry prese il biglietto da Severus.

«Grazie mille, allora» mormorò. «Io credo di dover andare via, scusami Elena, ma temo di sentirmi… sempre peggio»

Lanciò un’occhiata bruciante all’uomo che gli sorrideva.

Salutata Elena, Harry uscì dal negozio e, lungo la strada, aprì il biglietto. Vi erano scritte poche parole nella grafia che, lo ricordava bene, gli segnava tutti gli errori dei suoi temi di Pozioni.

Chissà che prossima settimana tu non venga qui per qualcun altro.

Harry avvampò di nuovo, piegando di nuovo il biglietto. Se lo ficcò in tasca, accanto al ricostituente, poi si allontanò a grandi passi. Aveva bisogno di parlare con Ron e Hermione.

 

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Capitolo 5
*** 5. ***


5.

 

°Hello daisies! Non voglio rubare per troppo tempo la scena ai nostri eroi, quindi cercherò di essere breve: grazie a tutti. Grazie a chi ha recensito, grazie a chi ha soltanto letto (e siete stati tantissimi, non me lo sarei mai aspettato). Il mio ritorno su EFP è stato molto emozionante ed è stato tutto merito di voi lettori. Quindi ecco, soltanto grazie. Godetevi il capitolo, commentate, criticate, fate chiasso, rendiamo viva la nostra minuscola isola letteraria! A.°

 

«Non credo di aver ben inteso il motivo della tua preoccupazione»

Ron alzò gli occhi dalla scacchiera su cui e Harry stavano giocando a Gobbiglie. Il Bambino che è Sopravvissuto si stropicciò il viso con un gesto stanco.

«Sei più preoccupato perché venerdì incastrerai quella tizia o perché quel pipistrello unticcio inizia a starti simpatico?»

«Non è più così unticcio» biascicò Harry. Fece la sua mossa, che si rivelò, senza troppa sorpresa, del tutto errata. Ron quindi tornò a osservare la partita mentre Harry si puliva il viso dal liquido puzzolente.

«Credo che Harry abbia più bisogno del nostro supporto che del nostro biasimo» commentò piccata Hermione, passando accanto a loro e andando a sedersi su una delle poltrone da cui poteva godersi la partita.

Ron decise di fare il proprio gioco e fu la mossa finale: le ultime gobbiglie in campo spruzzarono nuovamente addosso a Harry, che alzò le mani a coprirsi il volto.

«Bleah» si lamentò. «Non giocherò mai più con te»

Ron sorrise, buttandosi all’indietro, la schiena poggiata alle gambe del divano.

«Lo dici sempre» rispose.

Hermione, con un colpo di bacchetta, pulì a distanza il viso di Harry.

«Sono già le dieci e ancora non ci hai detto cosa ti turba» commentò, angelica.

Il ragazzo dai capelli corvini la guardò aggrottando le sopracciglia, poi osservò anche Ron.

«Ma ve l’ho detto» rispose. «Venerdì, Piton che sembra provarci…»

Ron fece una smorfia.

«Signor Potter, lasciamo più di tre centimetri tra le nostre bocche mentre parliamo?»

Harry fulminò Hermione con lo sguardo e lei alzò le spalle.

«Non dirmi che hai origliato!»

«Cosa significa?» esclamò Ron, impallidendo.

«Non ho origliato, sei tu che fai… cose davanti al mio ufficio!» si difese la giovane.

«Che cose?» disse ancora Ron, senza capire.

Harry sospirò.

«Sentite, non è come sembra. Quel giorno lo stavo rincorrendo come un idiota per tuo ordine, Hermione -» la ragazza arrossì, «- e oggi, oggi… è cambiato, va bene?»

Ron non accennava a riprendere colore.

«No, Harry» gemette. «Prendi mio padre. Prendi Hermione. Ma non Piton»

Hermione gli rifilò una manata sulla spalla, il punto che le era più facilmente raggiungibile, ma Ron non demorse, continuando a fissare il proprio migliore amico. Harry abbassò gli occhi, imbarazzato.

«Non lo so, Ron» mormorò. «Da quando la Guerra è finita io mi sento… diverso. Ci siamo disprezzati per così tanto a lungo che da quando l’ho visto morente mi sono quasi dimenticato del perché di tutto quell’odio»

Il silenzio dei due amici seguì le sue parole, così Harry continuò.

«E non so neanche se me lo prenderò, Ron, quindi non devi offrirmi tuo padre, per ora…»

Hermione accennò una risata tesa.

«Beh» disse piano Ron. «Dovrai avere pazienza e spiegarmi il perché di questa cosa a più riprese… e… e se verrà con te a Natale dai miei non posso prometterti di fargli troppi sorrisi, insomma, è comunque Piton…»

Harry si grattò nervosamente il collo.

«Ehm, non correre così in fretta, Natale è tra una settimana» mormorò.

«Sarà comunque solo per Natale, credo» intervenne Hermione. «Credo dovremmo invitarlo. Non tu, Harry» aggiunse davanti all’occhiata terrorizzata del giovane, «ma almeno io. Sta lavorando con noi, infondo…»

«Anche quel decerebrato di Morris sta lavorando con noi» le ricordò Ron. «E sai? Oggi ha fatto esplodere i tubi dell’acqua di una palazzina mirando ad un mago oscuro che si è poi rivelato essere un Babbano con i capelli strani. Invito anche lui per Natale?»

Harry scoppiò a ridere di gusto, immaginandosi il povero Morris che iniziava la catastrofe. Anche Hermione ridacchiò, ma diede comunque un’altra patta a suo marito.

«Dico solo che sarebbe un gesto cortese da parte nostra» disse.

Ron alzò gli occhi al cielo.

«Sei troppo buona. Anzi, sai che ti dico?, sulla bontà io ti sfido» Indicò Harry con in inquisitorio dito indice. «Tu lo inviterai. Lo sai come ha fatto mio cugino Ethan a sposare la figlia del suo capo? Invitandola ad uno dei famosi Natali alla Weasley. Tu rimorchierai Piton col Natale alla Weasley»

Questa volta non fu solo uno schiaffetto di Hermione a raggiungerlo, ma l’intera tavola di gobbiglie. Ridendo, Harry e Hermione lo assaltarono, e fu ululando e chiedendo pietà che Ron fu lasciato libero solo dopo molto tempo.

Quella sera, Harry andò a letto sereno. Parlare con Ron e Hermione non aveva aiutato a fare chiarezza, ma come al solito era stata la mossa migliore per non sentirsi solo. Stringendosi nel suo piumone rosso e oro, Harry si addormentò finendo per sognare una scenata epocale del suo padrino che lo accusava di aver sedotto Piton grazie al tronchetto di Natale di Molly.

 

Venerdì sera, quando Harry entrò nel cupo negozio in Notturn Alley, i suoi occhi captarono subito qualcosa di estraneo tra le ombre della sala. Elena, infatti, era un tripudio di velluto rosso, avvolta in un lungo abito scollato che sembrava emettere luce propria a contrasto con la scatola di carbone che la conteneva.

«Finalmente!» esclamò non appena lo vide, correndo a schioccargli un bacio sulla gota. Harry s’irrigidì quando lo fece. Tutti quei sotterfugi iniziavano a stargli stretti.

«Severus ha detto che quando saresti arrivato avrei potuto chiudere e salire» continuò la donna, sfoderando la bacchetta con cui chiuse la serratura del negozio. Era la prima volta che Harry la vedeva: una bacchetta molto più corta del normale, non superava i sei pollici. Il legno che la componeva era estremamente chiaro, quasi bianco, e non vi erano incisioni di sorta, solo una liscia, perfetta linea tondeggiante che finiva bruscamente in una punta mozza.

«Andiamo?» propose allora la donna, prendendo Harry per il gomito e portandolo oltre la porta del retrobottega. Là, uno stretto corridoio li portò al magazzino in cui, il ragazzo immaginò, Severus lavorava tutta la sua mercanzia. C’era un grosso tavolo, nel bel mezzo di alti scaffali in ombra, e poco lontano da quello una scaletta in ferro saliva verso il piano superiore. Mantenendo il silenzio, Harry seguì Elena su per i gradini che li portarono davanti ad una porta nera, gemella di quelle al pian terreno. La donna bussò con vigore e si volse a sorridere a Harry.

«Va tutto bene?» chiese. Harry fece una smorfia.

«Strascichi influenzali» rispose.

Elena fece una smorfia.

«Non hai preso la fiala di Severus abbastanza in fretta» gli rimproverò con voce monotona, osservandolo in tralice. Harry alzò le spalle.

«Però sono qui» sottolineò, un sorriso sulle labbra.

La momentanea freddezza di Elena si sciolse e anche lei sorrise, illuminandosi.

In quel momento la porta si aprì e Severus si mostrò ai suoi ospiti, studiandoli con sguardo pesante.

«Prego» disse, facendosi da parte. Elena entrò e, come di casa, se ne andò dritta a spiare oltre gli usci delle porte. Harry, invece, si fermò davanti alla porta, levandosi il cappotto.

Severus glielo tolse di mano. Quella sera aveva indossato una giacca alla coreana con le code e sembrava essere tornato al vecchio se stesso, a prima vista, ma Harry si prese tutto il tempo per notare che la camicia che occhieggiava oltre il colletto nero era di un bel bordeaux pieno e che i lunghi capelli del Pozionista erano elegantemente legati con un cordino in cuoio. Il giovane sorrise.

«Come ti senti oggi?» chiese, la voce bassa, Severus.

«Non mi è passata» rispose, vago, Harry. I due uomini si scrutarono ancora, scambiandosi sguardi confusi, intensi, sensuali. Poi però Elena gravitò verso di loro, poggiando le mani bianche sulle loro spalle.

«Già, credo non abbia preso la pozione in tempo» s’intromise. Severus alzò un sopracciglio.

«Conoscendolo se la sarà dimenticata nella giacca e l’avrà presa il mattino dopo» commentò, andando ad appendere il cappotto del giovane.

«Temo sia andata così» rispose Harry, casualmente, e senza attendere seguì Elena in una stanza attigua.

La donna era entrata nella sala e Harry se ne rimase sull’uscio, studiando l’arredamento che rispecchiava perfettamente il gusto di chi aveva sistemato anche il negozio. I mobili, dal taglio antico e soffocante, erano tutti di legno scuro che si coniugava con eleganza con il verde delle poltrone radunate attorno ad un bel tavolino in cristallo nero. La tavola, però, era stata imbandita con particolare sforzo e Harry si immaginò quanto Severus avesse patito nel scegliere quelle candele rosse e la tovaglia dorata punteggiata da dettagli scarlatti.

«Non gongolare troppo» sentì sussurrare alle sue spalle. Harry si fece da parte per far entrare il padrone di casa nella sala e Severus, passando, gli si strusciò casualmente addosso. Il giovane si passò una mano tra i capelli, nervoso.

«Hai gusto da vendere, Severus» si complimentò Elena, guardandosi attorno.

«Grazie» rispose senza calore l’uomo. «Spero lo abbia pensato anche chi si è introdotto in casa mia di soppiatto, l’altra notte»

Sia Harry che Elena lo guardarono con sguardo penetrante.

«Di soppiatto?» ripeté Harry, senza potersi frenare.

«Sono tornato e ho notato che qualcosa non era al suo posto. Sapete, piccoli particolare. Purtroppo io certe cose le noto» spiegò Severus, senza abbandonare il tono casuale.

«Che cosa orribile, Severus» commentò gelida Elena. Con una mano stava carezzando distrattamente lo schienale di una sedia, lo sguardo fisso sul Pozionista. Harry la osservò. I suoi grandi occhi belli erano pozzi di cattiveria.

«Mi indicheresti la toilette?» chiese poi, il tono argentino. Severus le indicò la stanzetta adiacente alla sala e lei vi si incamminò rapidamente, i tacchi rumorosi sul pavimento di marmo.

I due uomini attesero di sentire la serratura del bagno chiudersi.

«Era lei?» chiese sottovoce Harry.

«Immagino di sì» rispose Severus.

«Non può fuggire dal bagno, vero?» domandò ancora l’Auror.

Severus scosse la testa, avvicinandosi al tavolo. Trasse dalla tasca una minuscola fiala e fece cadere un paio di gocce di un liquido perfettamente trasparente in un bicchiere, poi lo consegnò a Harry.

«Il Veritaserum ha un odore molto forte che qualsiasi Pozionista riconoscerebbe» mormorò. Harry prese il bicchiere dalle sue dita e le carezzò distrattamente. Severus ebbe un brivido.

«E come faremo…?» chiese piano il giovane, avvicinandosi a lui.

Severus ghignò.

«Posso insegnarti come imbottigliare la fama e non come creare un Veritaserum senza odore, secondo te?» chiese, mellifluo, avvicinando il viso a quello di Harry. L’Auror alzò una mano a sfiorargli il petto, senza sottrarsi a lui quando la mano di Severus si poggiò sulla base della sua schiena.

«Tu ed io dobbiamo parlare di parecchie cose, credo» mormorò, roco.

Severus sorrise.

«Lo credo anche io» sussurrò. Il suono della serratura che si apriva li fece allontanare e Severus attese di vedere Elena tornare per richiamare una bottiglia di vino elfico e riempire il bicchiere a Harry.

«Oh, eccoti!» esclamò il ragazzo vedendola tornare. Il volto di lei era una maschera di posticcia felicità. Harry le offrì il proprio bicchiere di vino e lei lo prese.

«Scusatemi, credo di aver perso tempo» sorrise lei. Severus le rispose alzando gli angoli della bocca, l’espressione divertita. Harry prese un nuovo bicchiere pieno e, ignorando l’espressione vittoriosa del Pozionista, guardò Elena che avvicinava il naso al cristallo, distrattamente. Il liquido parve convincerla, perché qualcosa nella sua espressione si sciolse.

«Che splendido profumo» commentò.

Severus osservò il colorito ambrato-verdastro del vino.

«Una grande annata» annuì. «A voi. Buon Natale»

Harry ed Elena alzarono i bicchieri e bevvero.

«Davvero squisito!» esclamò la donna. Harry aveva notato che non aveva fatto nulla più che intingervi le labbra, ma scrutando Severus vide l’espressione ineguagliabile della vittoria.

«Ti piace?» chiese l’uomo.

«No, odio il vino elfico» rispose, uno smagliante sorriso, Elena. I suoi occhi si sgranarono, stupiti della propria stessa risposta, e si portò una mano alla bocca.

«Ma che dia…

«Via, Inga, non dovresti stupirti» disse Harry. La donna lo squadrò con orrore, una mano sulla bocca, l’altra sulla gola. Le sue pupille nocciola presero a fare la spola tra lui e Severus, allucinati.

«Maledetti!» gracchiò Inga, lasciando cadere il bicchiere. Quello cadde, infrangendosi a terra, e lei fece per gettarsi verso la porta, ma Harry la afferrò, stringendo a sé quel corpo che sembrava tanto minuto da essere quello di un passero. Con un gesto esperto il giovane afferrò le manette maniche che aveva tenuto sinora in una tasca e, lottando, cercò di mettergliele.

«Ti andrebbe di aiutarmi?!» esclamò quando Inga, scalciando, riuscì quasi a sottrarsi al suo abbraccio forzuto. Severus si godeva lo spettacolo girando tra le dita il calice di vino.

«Pensate davvero che non sia tutto sigillato dai blocchi ministeriali? O che ci si possa smaterializzare? Siete due sciocchi» commentò, la voce ridanciana.

Harry e Inga smisero istantaneamente di lottare e il giovane ne approfittò per tirare a terra la donna, che cadde con uno sbuffo. Le puntò un ginocchio sulla schiena, ammanettandola.

«Il gioco è finito» disse, duramente, Harry. Inga lo guardò. Aveva un incendio di odio che bruciava oltre le lunga ciglia nere.

«Per cosa ti sarebbe servito il sangue di Re’em?» l’interrogò l’Auror.

«La pozione di Julius Cristhianus» biascicò Inga.

«E a cosa ti sarebbe servita?» chiese ancora Harry, tirandosi in piedi. La lasciò sdraiata a terra a pancia in sotto.

«Il potere… tutto mio!» ringhiò Inga, la voce amplificata dall’esaltazione. «Vi avrei privati tutti del potere, sarei rimasta io sola…»

«Perché?» domandò di nuovo Harry.

«Perché nessuno se lo merita» gorgogliò la donna. «Voi credete sia solo una leggenda. Non lo è mai stata. E nessuno è mai stato abbastanza forte da farlo. Strappare i cuori dai loro petti… siete solo dei deboli!»

Lo sguardo di odio di Inga si puntò su Severus.

«Tu sei il più grande» mormorò. «Perché tu non ci hai tentato?»

L’uomo la guardò con disprezzo.

«Perché non sono un mostro tanto mefitico» rispose, la voce appena udibile. Inga riprese a lottare contro le manette dopo aver soppesato per un istante la sua risposta e Harry la afferrò, rimettendola in piedi.

«Sei in arresto» disse, il tono piatto. Guardò Severus.

«Devo portarla da Hermione» aggiunse. L’uomo annuì.

«Tornerai?» chiese piano.

Harry annuì a sua volta.

«быть проклятым» mormorò Inga lasciandosi trascinare via dall’Auror.

«Le manette inibiscono il tuo potere, Inga» le disse Harry. Con un gesto della bacchetta aprì la porta dell’appartamento. «Non puoi lanciarci incantesimi, se è quello che stavi tentando di fare»

«Tentavo, sì» mormorò Inga prima della smaterializzazione.

 

Sui giornali, la fotografia dell’Auror Potter accanto al Ministro della Magia inglese e quello bielorusso era un tripudio di luci dei flash delle decine di giornalisti che li attorniavano. La notizia della cattura di Inga aveva fatto il giro del mondo magico, anche se, alla fine dei giochi, nessuno aveva mai sentito parlare di lei. Ma i maghi erano fatti così: tutti a celebrare, davanti alla caduta del male. Anche se, prima di quella caduta, nessuno si era sentito in pericolo.

Severus chiuse il quotidiano e lo appoggiò sul tavolo, riprendendo in mano la tazza di tea fumante che gli aveva dato il buongiorno. Fortunatamente era in pausa per il periodo natalizio, sarebbe stato imbarazzante giustificare la sparizione della sua deliziosa commessa bionda. Sorseggiò un po’ della bevanda calda chiedendosi se mai la sua vita si sarebbe decisa a diventare un po’ più noiosa.

D’un tratto, la campanella che lo avvertiva che qualcuno stava bussando alla porta del negozio suonò. Stupito, l’uomo la guardò per un momento, poi si alzò e si infilò la giacca da camera prima di scendere lungo le scale buie. Spiò brevemente dai vetri della bottega prima di aprire la porta.

«Potter» fece, non appena la visione del giovane gli si presentò.

«Posso entrare?» chiese Harry. Era ben imbacuccato contro il gelo che spazzava le strade di Notturn Alley. Piton si strinse nella vestaglia e si fece da parte.

«Sei venuto per qualche nuovo mago oscuro?» chiese, il tono velenoso.

Harry gli sorrise.

«No, sono venuto per qualcun altro» sussurrò, prima di annullare la distanza con il Pozionista.

 

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Capitolo 6
*** 6. ***


6.

Nei film Babbani che Harry ed Hermione guardavano nelle loro estati di studenti e che commentavano con acida scientificità cinematografica in lunghe lettere indignate, le storie d’amore erano tutte travolgenti, rapide con i venti di un tornado, capaci di afferrare le persone e ribaltarle senza sforzo in mondi fatti di zucchero filato e teneri animaletti di cioccolato. Harry non aveva mai sospirato la mancanza di quel destino forzuto. Dover combattere Voldemort era stato, forse, il miglior antibiotico per il germe della nostalgia. Ma ora, mentre se ne stava beato nella sua bolla di caramello, un pensiero lo assillava: era così, infondo, la vita. Lente pozze di noia vischiosa, rapidissime montagne russe, staticità. E così seguitava quella buffa sceneggiatura che, dopo un lento tango con una pericolosa criminale, si risolveva in un disperato frugare di mani, baci languidi e parole mozze.

Come un fulmine a ciel sereno, il morbido bacio di Harry aveva scosso Severus sino alla spina dorsale. La sensazione di quelle labbra piene, morbide, e una lingua che gli ricordò l’arroganza insita del giovane uomo che stava stringendo lo colsero quasi impreparato, ma le sue braccia risposero per lui, stringendolo a sé, chiedendo al mondo di lasciargli un solo attimo di pace.

Harry sorrise sulle labbra di Severus. Era davvero ridicola, quella pellicola. I due eterni rivali che si mettevano a limonare sull’uscio di un negozio. Stucchevole.

«Voglio parlarti» sussurrò a fatica, schivando con debole determinazione le labbra del Pozionista. Severus riacciuffò la sua bocca, continuando a baciarlo.

«Non mi sembra ce ne sia bisogno» rispose l’uomo, una vena ferina nella voce. Harry rabbrividì avvertendola, stringendosi a lui con più forza. Le braccia di Severus lo allacciarono alla vita, sigillando quell’abbraccio.

«Davvero, Severus» mormorò Harry. Il fastidio di Severus si avvertì come se fosse stato solido, nell’aria calda che li avvolgeva. Ma l’uomo, lentamente, si staccò da Harry, osservandolo con occhi accesi di desiderio. Con una mano gli strinse le dita, indicando con la testa la porta del retro.

«Andiamo di sopra» sussurrò, portandoselo dietro come aveva già fatto, anni addietro, con meno cura e più agitazione, ignaro che da quel ragazzetto arrogante sarebbe nata una tale creatura forte e appassionata come l’Auror che ora lo seguiva.

«Te lo ricordi quando mi hai preso per il polso e mi hai trascinato alla nostra prima lezione di Legilimanzia

Severus sorrise tra sé e sé.

«Stavo pensando a quello, in effetti»

Harry strinse più forte la sua mano. Entrarono in casa e Severus gli sfilò il cappotto, baciandolo di nuovo, lasciando scivolare le lunghe dita rovinate sul suo petto protetto da un orrendo maglione color terracotta.

«Sei cambiato tanto…» sussurrò.

Harry gli sorrise, posandogli di nuovo un lieve bacio sulla bocca.

«Mmm, e tu? Mi spaventa quasi, il tuo cambiamento»

Severus frugò nei suoi occhi. Vide che c’era un fondo di verità in ciò che aveva detto e, anche se la voglia di leggergli la mente era la risposta a quella sua sete di conoscenza, si sforzò a condurlo in cucina, farlo sedere e offrirgli una tazza di tea. La sua si era ormai freddata, ma non importava. Voleva sentirlo dire tutto ciò che gli affollava il cervello, sperando di poter scacciare via i suoi dubbi. E di vedere i propri scacciati, anche.

«Cosa ti spaventa?» chiese allora, restando in piedi accanto al fornello. Si strinse nella vestaglia e attese, senza guardare Harry.

Lui avvolse le mani attorno alla tazza di tea, beandosi di quel calore. Aveva un sorriso triste sulle labbra: il timore di rovinare quella strana relazione con Severus lo attanagliava. Ma si fece coraggio e, a voce sottile, chiese:

«È per mia madre?»

Quelle poche, semplici parole colpirono Severus al cuore. Certamente. Lily. Una parte di lui se l’era aspettato.

«Era per tua madre quando eri un ragazzino ed io mi sentivo in dovere di proteggerti da tutte le diavolerie che combinavi» rispose. «Era per tua madre quando non riuscivo a guardarti negli occhi. Ed era anche per tuo padre. Non lo nego»

Harry lo guardava, ma lui non accennava a spostare lo sguardo dal quotidiano poggiato sul tavolo.

«Che cosa è, allora…?» sentì chiede ancora a Harry.

Qualcosa in Severus si mosse infastidita. Era tipico di un Grifondoro insicuro cercare risposte senza vergognarsi di porre le domande più stupide del mondo. Avrebbe voluto rispondergli con il veleno che meritava, ma si trattenne. Lo aveva appena detto, era passato quel tempo di disprezzo, no?

«Il problema del Bambino che è Sopravvissuto è proprio questo» disse allora l’uomo. «L’ombra dei suoi genitori. Ti ho visto per anni come il figlio di Lily e James ma soltanto rivedendoti ora mi sono reso conto che sei un’entità separata dalla loro memoria. E ora che sei cresciuto posso dirti finalmente che non sei la fotografia di tuo padre con gli occhi di tua madre. Sei Harry»

Il giovane sentiva battere il proprio cuore nel silenzio che gli era montato dentro. Aveva sempre sperato di essere riconosciuto come Harry – solo Harry. E certamente, Ron e Hermione lo avevano fatto, ma sapeva che per Severus Piton lo sforzo era stato di gran lunga superiore. Ma lo aveva voluto fare.

«Grazie…» mormorò. «Non hai idea di quanto valga questo, per me»

Severus, infine, lo guardò. Sentiva il bisogno di abbracciarlo, di non farlo sentire mai più alla mercé della notorietà che ancora lo perseguitava. Ma non era il momento.

«E tu perché?» chiese allora. Non gli interessava granché, in realtà, e infondo temeva anche un po’ la risposta che Harry gli avrebbe dato. Ma domandò per non far sentire Harry come l’unico in preda ai dubbi… perché lo sapeva che si sarebbe sentito così, altrimenti. La fiammella dell’anima del ragazzo si faceva sempre più visibile ai suoi occhi induriti.

«Quando ti ho visto agonizzare a terra» disse Harry. «E ti ho messo la mano sulla ferita. Non volevo tu morissi. Sentivo che, se fossi morto, sarebbe morto qualcosa di basilare, per me. Non era come pensare a Sirius o ai Weasley… non era come per un genitore. Neanche per Ron o Hermione. Era qualcosa che non capivo e quando ti ho portato in salvo, quando ti sono venuto a trovare, ho messo a tacere quella cosa. Era come se fosse appartenuta alla Guerra ma… quando ti ho rivisto ho capito che non era così»

Gli occhi verdi del giovane si puntarono su Severus. L’uomo rabbrividì sentendone la forza incontrastabile e dovette avvicinarsi a Harry, impossibilitato a tenersi a distanza, come in preda ad un incantesimo.

«E poi non eri più quel pipistrello spaventoso che ricordavo» sorrise il giovane, scuotendosi di dosso la tensione. Severus accennò un sorriso.

«Pipistrello spaventoso» ripeté, gli occhi dardeggianti.

Harry gli afferrò la mano. Imbarazzato, la fissò lungamente, evitando lo sguardo del Pozionista. Ma Severus gli alzò il volto e, chinandosi, lo baciò.

«Credi che sia possibile… ricominciare?» sussurrò poi, sulle sue labbra, godendosi il suo sapore a occhi chiusi. Harry annuì lievemente.

«Stiamo rinascendo dalle ceneri della Guerra. Possiamo farlo anche noi, ok?» sussurrò.

 

Quando Harry lasciò la sua casa, richiamato dalle scartoffie sul caso di Inga, Severus lo accompagnò alla porta, salutandolo con un profondo bacio. Harry era arrossito, sotto la luce di ghiaccio che pioveva dal cielo ricoperto di nuvole argentee, e si era incamminato guardandosi spesso indietro, finché la strada non lo inghiottì e Severus poté chiudere la porta e poggiarvisi contro.

Si passò una mano sul viso. Era davvero successo?

Un brivido di freddo lo colse, così se ne tornò di sopra. Avevano continuato a parlare, dopo che gli argomenti spinosi erano stati tolti di mezzo. Certo, non che lui avesse avuto il desiderio di parlare, con quel corpo atletico e scattante vicino, ma la vocina più delicata della sua coscienza lo aveva convinto a conversare con Harry e gli aveva fatto scoprire che, contrariamente a ciò che aveva sempre pensato, quel ragazzo era capace di pensieri più profondi di quelli formulati sui falli nel Quidditch. Era stato bello. Era stato nuovo.

Andò a fare ordine in cucina, levando di mezzo i resti della colazione che erano stati abbandonati a se stessi. Si era dimenticato di tutto, accanto a Harry, e una cosa del genere non gli accadeva spesso. Si era dimenticato anche di…

Come risvegliato dall’assenza del giovane, un pensiero ritornò nella mente di Severus. Inga. Ci aveva pensato a lungo, dopo che Harry l’aveva portata via. Quella leggenda, tanto potente da farsi forte della sua follia. Perché quella strega era tanto convinta della veridicità di quel filtro? Cosa era sfuggito all’intera comunità pozionistica? Era sfuggito qualcosa alla comunità pozionistica?

La brama di conoscenza di Severus gli sussurrava parole melliflue all’orecchio. Doveva sapere. Di certo il Ministero non si sarebbe interessato di approfondire le ricerche. Si sentì come in dovere di farlo, un po’ per la propria carriera accademica, un po’ anche per lui. Quando il vaso di Pandora viene scoperchiato nessuno può fingere che non sia successo.

Quando Harry tornò al proprio appartamento, quella sera, sfinito dalla lunga giornata, trovò un biglietto che qualcuno aveva infilato sotto la porta. Stupito, lo aprì senza neanche chiudere la porta. Lesse, poi lesse di nuovo. Sospirò. E si augurò di non dover correre a sud a salvare quell’uomo di cui già da ora sentiva la mancanza.

 

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Capitolo 7
*** 7. ***


7.

Trascorsero tre giorni in cui Harry non ricevette neanche un biglietto da Severus. Nonostante il giovane sapesse di potersi fidare di lui, ogni tanto la preoccupazione gli faceva trascorrere lunghi secondo a fissare il vuoto. Chissà dov’era, chissà cosa faceva. E soprattutto chissà come avrebbe passato il Natale dato che Harry, quel pomeriggio, stava annodandosi la cravatta per andare alla Tana a cenare con la sua grande famiglia. Ma senza di lui.

Si era infilato una camicia bianca che non usava quasi mai e vi aveva abbinato la cravatta rossa e oro che Sirius e Remus gli avevano donato quando aveva conseguito i suoi M.A.G.O.. Poi si gettò addosso direttamente il cappotto, sapendo che alla Tana lo attendevano un camino scoppiettante e un maglione fatto a mano. Si guardò brevemente allo specchio prima di uscire. Non aveva neanche provato ad appiattirsi i ciuffi ribelli: ormai si sentiva abbastanza certo che nessuno sforzo sarebbe stato ricompensato. Afferrò il grande sacchetto in cui aveva ficcato tutto i pensieri natalizi – anche grazie a Hermione, che vi aveva lanciato un incantesimo di Estensione Irriconoscibile – e, stringendosi al collo la sciarpa, uscì.

Nevicava su Londra, una Londra appallottolata sotto ad un cielo nero come l’inchiostro. Harry si sentì un po’ triste mentre i fiocchi di neve gli si posavano sui capelli. Ricordò una vecchia canzone malinconica e prese a cantarsela in mente, decidendo di camminare per un po’ sul marciapiede che iniziava ad imbiancarsi. Fu sorpassato da una famigliola ridente che sembrava tornare dalla pista di ghiaccio poco distante, i pattini legati al collo e i nasi rossi. Li osservò. Erano in tre. La ragazzina trottava in mezzo ai suoi genitori, felice. Chissà se qualcuno li attendeva a casa o se li aspettava un Natale intimo in cui stringersi nel calore di una piccola, gioiosa famiglia. Harry si fermò per un istante, lasciando che si allontanassero. Un’anziana accompagnata da un giovane gli sfilarono accanto, poi un uomo carico di regali.

Harry decise che forse era arrivato il momento di smaterializzarsi.

Poggiando le suole sulla neve fresca che circondava la Tana, Harry affondò di parecchi centimetri e, solo nel candore, si mosse rapido verso la casetta che, sotto il sole, mostrava senza vergogna le grosse riparazioni che aveva dovuto subire. Ora però brillava di luce gentile, illuminata dall’interno da candele, decorazioni e focherelli. Harry aprì la porta senza bussare e fu risucchiato in una cheta riunione di famiglia.

«Harry!»

I coniugi Granger gli sorridevano, un po’ a distanza dal resto degli invitati. Artur, accanto a loro, gli sorrise con calore.

«Buon Natale!» esclamò lui. Harry strinse le mani che gli venivano porte.

«Buon Natale» ebbe il tempo di rispondere prima che una massa di ricci castani gli offuscasse la visuale.

«Tanti auguri» disse Hermione sulla sua sciarpa. Si allontanò giusto per dare a Ron campo libero per un abbraccio stritolante, di quelli che ormai non si vergognava più di dare all’amico, così Harry si ritrovò a passare di abbraccio ad abbraccio, le braccia alzate, mentre ogni Weasley gli dava il benvenuto.

Quando Percy si allontanò, il giovane vide che Ginny gli sorrideva da poco lontano.

«Buon Natale, Gin» disse Harry. Lei si avvicinò a schioccargli un bacio sulla guancia, reggendo tra le mani pallide un grosso vassoio pieno di stuzzichini.

«È bello vedere la tua faccia, ogni tanto» rispose lei, strizzandogli l’occhio.

Proprio in quell’istante la porta si aprì di nuovo e Harry si levò di mezzo per far entrare gli ultimi arrivati. Si ritrovò faccia a faccia con Sirius, i cui occhi di ghiaccio si illuminarono non appena lo videro.

«Sirius!» esclamò Harry. Tuttora imbacuccato in cappotto e sciarpa, il sacchetto sempre in mano, si buttò addosso al suo padrino con pesantezza, facendolo retrocedere. Sirius lo strinse forte, ridacchiando.

«Scommetto che sei arrivato da un quarto d’ora e nessuno ti ha ancora fatto levare la giacca» mormorò l’uomo. Harry rise, annuendo impercettibilmente.

«Buon Natale» aggiunse poi il giovane quando Remus si affiancò a Sirius e fu a tiro di abbraccio. Harry strinse a sé i due uomini che sentiva così intensamente vicini, come un bambino che si rifugi nelle braccia dei genitori. Senza esitazione, loro risposero, ma ben presto furono a loro volta assaliti dalla calca festante e Harry poté allontanarsi e levarsi il cappotto.

Ron lo afferrò.

«Dormi nel mio letto» gli annunciò. Non ne era particolarmente lieto.

«Non dormi con Hermione?» chiese Harry, affidandogli tutto il superfluo e girandogli attorno per mettere i regali sotto l’albero che brillava di luci morbide.

«Sei matto? Mamma esploderebbe» rispose Ron. «A proposito, ha detto di farti andare in cucina quando arrivavi, ma credo che è meglio se stai lontano da quella bolgia»

«Hermione lo sa che quando non c’è parli come uno gnomo?» chiese Harry, divertito. Impilò pacchetti su pacchetti sotto le fronde, chiedendosi se davvero aveva avuto il coraggio di fasciare tutti quei doni.

«Non lo saprà se starai zitto» rispose Ron, calciandolo lievemente. Harry si alzò: Sirius e Remus erano ancora in preda alle mille chiacchiere che non li facevano avanzare dall’ingresso.

«Io li saluto dopo, penso mi tirerebbero una testata se andassi là anche io» sogghignò Ron.

«Portami da tua mamma, allora, una bolgia o l’altra dovremo pur affrontarla» disse Harry, muovendosi verso la cucina. L’enorme tavola imbandita accanto a cui passarono era sicuramente stata engorgiata con la magia. Hermione vi stava disponendo piatti di pigs in a blanket*.

«Ti ha dato da lavorare, eh?» commentò Ron, dispiaciuto.

«Sai com’è tua madre» rispose Hermione. Harry non si fermò: sapeva che Molly poteva risultare pesante a Hermione, a volte, e decise di non peggiorare la situazione restando a spiare moglie e marito. Aprì quindi la porta della cucina, colpendo la schiena di Ginny.

«Ops» fece. Lei si spostò e gli aprì la porta.

«Entra» gli disse. «C’è poco posto ma basterà»

«Harry!»

Per la seconda volta il suo nome venne strillato, con la differenza che furono due le voci ad alzarsi in quel caso. Molly e Fleur avanzarono verso di lui e il giovane si ritrovò stritolato nell’abbraccio della signora Weasley e poi baciato in fronte dalla mezza Veela.

«Buon Natale, Harrì» disse soave la francese.

«Sì, sì, buon Natale caro» gesticolò Molly. «Ti va di portare di là gli antipasti con Ginny? Non so più dove mettere il cibo!»

Gli consegnò un grosso piatto in cui aveva disposto una quantità indefinita di salmone affumicato con mostarda all’aneto.

Il Natale dai Weasley si era fatto ancora più selvaggio, dopo la Guerra. Harry lo notava ogni istante di più: c’era tanto più amore con cui riempire i vuoti, amore che però spesso restava stagnante nell’aria, come sprecato. Occhieggiò ancora verso Sirius e, quando vide che lui e Remus erano ancora irraggiungibili, quasi desiderò di avere un Natale soltanto con loro, come si era immaginato il Natale della famiglia che aveva incrociato per strada.

Severus aveva ragione. Era davvero cambiato.

«Novità sul professor Piton

La voce di Hermione lo fece sussultare. Ginny, accanto a loro, la guardò interrogativa.

«Se avessi lanciato il salmone sai che avremmo dovuto dormire sotto la neve, sì?» borbottò Harry.

«Il professor Piton?» chiese Ginny, senza lasciarsi scappare l’osso. «Per quella strega oscura? Ho letto sul giornale»

«Pensavo venisse, stasera» aggiunse Hermione. Ginny acuì l’espressione interrogativa.

«È partito» rispose piano Harry. «Starà via un paio di settimane»

Ginny lo squadrò.

«Tu devi dirmi qualcosa» disse severa. Hermione le annuì vigorosamente prima di sfilare verso la cucina con rapidità, pronta ad un nuovo carico di cocktails di gamberi.

«Abbi pazienza fino a domani» la pregò Harry. Ginny lo studiò seria, come avvertendo le tante premesse silenziose di quel discorso.

«Ma certo» gli promise, sorridendo. Si allontanò anche lei e, finalmente, alle spalle di Harry apparve Sirius, sgargiante in un completo grigio perla.

«Dammi un po’ del tuo senso estetico» rise Harry. Sirius gli sistemò il colletto della camicia con fare paterno.

«Credo sia impossibile da fare. Allora, che mi dici di raccontare un po’ di quella Inga

Harry si lasciò portare verso le poltrone mal assortite che attorniavano l’abete. La mano di Sirius sulla spalla gli era mancata.

 

La cena di Natale si dipanò tra antipasti, filetto alla Wellington, prosciutto glassato, una decina di contorni ed enormi vassoi straripanti di datteri, noci, arancia candita e biscotti dalle 18 sino alla mezzanotte. Erano tutti tanto sazi da accorgersi che il 25 Dicembre era scattato solo con mezz’ora di ritardo ed erano anche tutti un pelo brilli da iniziare a scambiarsi i regali soltanto oltre l’una.

Il processo fu lungo e lento, così Harry, Ron, Percy, Charlie e George salirono alla loro minuscola cameretta condivisa solo alle tre. E vi salirono in gran stile: quasi non si vedevano i loro visi oltre l’ammasso di regali ricevuti. Ebbero problemi a stipare tutto nella stanza così Harry finì ad indossare il maglione di Molly – quell’anno era di uno sgargiante color ambra – e a dormire abbracciato al mantello di Sirius e Remus.

«Quella pellicciona ti terrà un caldo boia» biascicò Ron vedendolo attrezzarsi a non creare troppo impegno nella stanza. Lui, d’altra parte, aveva a sua volta indossato i calzettoni di sua madre e, durante la notte trascorsa a dividersi un minuscolo letto singolo, i due si ritrovarono a schiene scoperte e braccia penzoloni.

Si svegliarono che le dieci erano appena arrivate, scossi dalle mani fredde di Hermione.

«Avanti, è tardi, Ron, tua madre dice di portarvi di sotto per la colazione» la sentì dire Harry.

«Colazione? Abbiamo mangiato come dei bufloni…»

«Bufali» lo corresse Hermione. Harry sentì il suono del bacio che si scambiavano e si allungò a prendere gli occhiali. Solo che aveva beatamente scordato di essere sul filo del letto, così cadde con un gran tonfo, facendo sobbalzare entrambi gli amici. Le loro risa lo raggiunsero prima di Hermione che lo aiutò ad alzarsi.

«Buongiorno» biascicò Harry, massaggiandosi il fianco che aveva dolorosamente sbattuto.

Anche quel giorno la Tana era nel più totale subbuglio. I genitori di Hermione erano partiti dopo lo scambio dei regali ma sarebbero ritornati a breve per il pranzo. Sirius e Remus, invece, erano già in sala quando Harry scese, e li trovò impegnati a parlare in serietà con Artur.

«…e poi ho azionato il congegno! Girava!»

«Sono sempre più certo tu ti sia imbattuto in un trapano, Artur» annuì Remus.

Harry, alle sue spalle, si sedette sul bracciolo della sua poltrona e l’uomo gli sorrise, dandogli una pacca sul ginocchio.

«Dormito bene?» gli sorrise Artur, ma la voce imperiosa di Molly lo richiamò in cucina, dove l’uomo fuggì rapido scusandosi.

«Quella camera è maledettamente stretta» lamentò a denti stretti Harry.

«Potevi venire a casa con noi» gli disse con un vago sorriso Sirius. Il giovane alzò le spalle.

«Finché posso rispettare la tradizione la rispetto, o Molly mi ucciderà» rispose.

In quel momento Ginny gli si avvicinò, una lettera in mano.

«Harry, è arrivata questa per te» disse, porgendogliela. «Era con un’enorme ulula. È rimasta qui fuori, credo aspetti una risposta»

Harry prese la lettera.

«Grazie, Gin» le disse piano. La ragazza era evidentemente divorata dalla curiosità, così lanciò un’occhiata a Harry. Lui raccolse, annuendo, ma Ginny si allontanò quando capì che non poteva parlare davanti al suo padrino e al rispettivo compagno.

«Chi ti manda gli auguri?» chiese Sirius, curioso. Harry fece un ghigno.

«Lo saprai a tempo debito» lo punzecchiò. Sirius guardò Remus con un’espressione sconvolta mentre Harry leggeva.

 

Sono in Siberia, va tutto bene, sarò di ritorno i primi giorni del nuovo anno.

Credo tornerò con notizie interessanti anche se mi manchi da impazzire e vorrei essere con te.

Anche se so dove sei, sì, vorrei essere lì con te.

S.T.P.

 

Harry piegò con cura la lettera e si alzò.

«Vado a rispondere e torno» disse, allontanandosi prima che Sirius potesse dare fiato alla bocca.

L’uomo tornò a guardare Remus.

«Se fossi Felpato annuserei disastri, vero?» chiese.

Remus gli accarezzò il viso con dolcezza.

«Non sarà il mio naso lupesco a toglierti la sorpresa» gli sorrise, prima di allungarsi a catturare la sua bocca in un bacio.

Harry trovò un foglio e una penna nella stanza accanto e restò in piedi a scrivere di fretta. Poi rilesse un paio di volte il proprio biglietto, sperando di non essere stato troppo sdolcinato.

 

Ti vorrei qui con me. Al diavolo quella pozione, torna presto.

Buon Natale,

tuo,

H.

 

«Ora mi spieghi?»

Ginny gli apparve davanti come sbucando dal pavimento. Harry sussultò.

«Ce l’avete con me, vero?» gemette, portandosi una mano sul cuore. La ragazza rise, poi lo prese per il polso e gli mostrò, fuori dalla finestra, l’ulula panciuta che attendeva.

«Ne voglio una, è bellissima» disse Ginny mentre Harry legava alla sua zampa il biglietto. Prese un biscotto gufico da una terrina poggiata sul davanzale della finestra, glielo diede e lei sbatté una volta le palpebre per poi volare via.

«Credo venga dalla Siberia» disse Harry chiudendo la finestra.

«E in Siberia chi…?» chiese Ginny. Il giovane sospirò.

«Severus Piton» rispose.

«Ok, quindi c’è ancora in ballo quella strega» annuì la ragazza. «E quello di cui parlavate ieri tu e Hermione

«Sempre Severus Piton» rispose Harry. Ginny lo guardò, spaesata.

«Ehm» mormorò. «Non ho capito il nesso»

Harry si mosse nervoso, poi si guardò attorno. Nessuno poteva sentirli: i più vicini erano Ron e Hermione che erano appena entrati in casa con una catasta di legna. Ron vide sua sorella e Harry e fece loro un cenno prima di allontanarsi.

«Io sto… uscendo con lui» disse piano Harry. «Cioè, lui non esce. Non usciamo, ecco. Ci vediamo e… e stiamo insieme»

«Insieme tipo me e te ora?» chiese Ginny, un vago senso di orrore nella voce.

«Insieme con me e te allora» rispose Harry. La ragazza lo fissò sconcertata per un lunghissimo momento, poi la voce di Molly risuonò chiamando a raccolta i ragazzi per la colazione. Ginny non si mosse ma posò una mano sulla spalla di Harry, come cercando equilibrio.

«Non ti offendere Harry, è solo che non me lo aspettavo per niente» mormorò la ragazza.

«Neanche io, sinceramente» rispose Harry.

Ginny lo studiò, la fronte aggrottata.

«Ma tu sei felice?» chiese. Harry annuì.

«Non fraintendermi, Gin, ma credo di non aver mai sentito le farfalle nello stomaco come ora» mormorò.

Ginny lo guardò ancora a lungo, poi un nuovo urlo di Molly risuonò nella casa.

«Credi che mamma si accorga se metto del whiskey incendiario nel latte?» pigolò la più giovane dei Weasley prima di dirigersi in cucina.

 

°°°

Qualche parola per disambiguare alcuni aspetti del Natale che ho inserito nel capitolo.

La tradizione inglese non è esattamente simile alla nostra in fatto di festeggiamenti ma, per non avventurarmi in un terreno a me troppo sconosciuto, ho preferito immaginarmi il Natale dei Maghi, nella mia storia, simile al nostro. Le portate mangerecce che ho inserito nel contesto, comunque, sono tratte dalla tradizione britannica.

 

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Capitolo 8
*** 8. ***


8.

Quando i poveri stomaci degli ospiti riuscirono a rispondere agli ultimi attacchi della valanga di cibo offerta da Molly e l’ultima fetta di torta al rabarbaro svanì misteriosamente nel transitare accanto a Ron, Harry e Sirius furono i primi a decidere per una passeggiata nella neve per sgranchire un po’ le gambe. Il sole splendeva sulla coperta scintillante della campagna innevata, quel giorno, e il freddo pungente rinvigorì Harry all’istante mentre, avvolto nel nuovo mantello, incedeva nell’atmosfera ghiacciata.

«Non mangerò più per un mese» commentò non appena Sirius chiuse la porta. L’uomo emise la sua risata canina, ficcando le mani nelle tasche del cappotto bordato in pelliccia che indossava. La neve, sotto le loro scarpe, alzava i suoi lamenti vetrosi.

«Molly è deliziosa ma certe volte va oltre l’esagerazione» annuì. Harry lo osservò, stringendo gli occhi a fronte dei fiotti affilati di luce che rimbalzavano sulla terra ghiacciata. Sapeva che tra lui e la signora Weasley vigeva un pacato disaccordo più o meno su tutto e il giovane era certo che una gran parte della loro muta sopportazione era data dalla presenza delicata e accomodante di Remus tra di loro.

«A volte mi sorprendo di quanto tu ti trattenga con lei» ghignò Harry. Col piede collise con qualcosa di solido nella neve e uno gnomo avvolto di foglie ingiallite e pregne di acqua lo guardò male prima di andarsene dal suo nascondiglio. I due uomini lo osservarono.

«Tu e Remus le volete troppo bene perché io non mi trattenga» sorrise Sirius. «E poi mi tocca fingere di essere cresciuto da quel punto di vista… dicono»

Harry rise. Un refolo di vento freddo gli si infilò giocoso nel colletto di pelliccia, così lo strinse assicurando l’ultimo gancio sotto al proprio mento.

«Saresti disposto a mettere via vecchie inimicizie per me, allora?» chiese vago Harry. L’espressione di Sirius ebbe un vacillamento e a Harry parve quasi di sentire i suoi pensieri affollarsi nella sua mente. Se fosse stato in forma canina le sue belle orecchie nere avrebbero compiuto un rapido giro nell’aria, all’erta.

«Sei troppo misterioso ultimamente» disse Sirius stringendo le labbra.

«Infatti io vorrei parlarti… però temo tu possa arrabbiarti a morte con me»

L’uomo scrutò gravemente il suo figlioccio, fermandosi. Gli posò le mani sulle spalle, stringendole.

«Harry» disse con voce ferma. «Tu sei come un figlio per me. Nulla che tu possa dirmi mi farà arrabbiare a morte con te»

Harry gli rivolse un sorrisetto.

«E tu sei come un padre per me… ma è per questo che temo la tua ira»

Sirius aggrottò un sopracciglio. Il suo viso perfetto, irto di piccole rughe e un vago filo di barba, riluceva tra i lunghi ricci neri che lo incorniciavano. La luce ultraterrena di quel panorama idilliaco lo rendeva ancora più bello di quanto era.

«Mi stai per dire qualcosa per cui tuo padre ti avrebbe riempito il letto di rospi, vero?»

«Ti denuncio a Remus seduta stante, sappilo»

Sirius accennò una risata, ma la sua espressione era mortalmente seria. Alle loro spalle, i giovani Weasley con Hermione erano usciti e i primi schiamazzi li raggiunsero mentre alcune palle di neve iniziavano a volare nell’aria. Li osservarono in silenzio per un secondo, poi Sirius lanciò a Harry una lunga occhiata.

«Io ho… ho una relazione» disse piano il giovane. Sirius fece un cenno affermativo con la testa fiera.

«E… e sono felice» aggiunse Harry. «È appena successo e… e quindi non è ancora una cosa granché seria. Ci andiamo piano. Io vorrei andarci piano…»

S’impappinò con le parole, il viso rosso di freddo e di vergogna. Sirius lo osservava, conciliante.

«Comunque, non è questo il problema»

«E il problema quindi è…?» lo incalzò Sirius. La sua tensione era evidente anche se s’impegnava a non darla a vedere.

«Se stessi con qualcuno che odi come la prenderesti?» chiese piano Harry. Sirius parve rimuginarci sopra.

«Non ho idea di chi possa essere» rispose. «Ma se ti piace… probabilmente non è così male. Sei un uomo ormai e sai che ti ritengo più assennato di quanto probabilmente dovrei ritenerti…»

«È Severus» disse rapidamente Harry. Fu come togliersi un dente legandolo al pomello di una porta: sbatti la porta, il dente va via. Ma il dolore? Sarebbe arrivato? «Severus Piton»

Gli occhi di Sirius, di quel colore incredibile che somigliava più alla neve che li circondava che a qualunque altra cosa la mondo, si sgranarono. Lo fissò vacuo, senza muoversi per un bel pezzo. Harry temette quasi per la sua salute ma non disse né fece nulla, in attesa.

«Non puoi essere serio» sussurrò quindi Sirius. Harry sospirò.

«Lo sono» rispose. Il suo padrino, che ancora non aveva tolto le mani dalle sue spalle, si rese conto in quel momento di avere ancora le braccia alzate, così le abbassò e si guardò attorno.

«Io non…» borbottò. «Non sono… io… va bene»

Respirò profondamente, chiuse gli occhi un momento, poi guardò Harry.

«Dammi un po’ di tempo… lo capisci, vero?»

Harry annuì.

«Sì, certo che lo capisco» mormorò. «Voglio solo che tu sappia che… io ti voglio bene. E spero tu ti fidi di me anche questa volta»

Sirius abbassò la testa, poi gli diede una pacca sulla spalla.

«Vai dai tuoi amici, Harry. Io devo digerire il pranzo di Molly e la notizia»

Il giovane lo guardò sofferente, ma si stupì vedendo che lo sguardo che gli rispose era ugualmente addolorato. Si fecero un ultimo cenno, poi Harry si voltò, incappando in Remus.

«Eccovi» disse l’uomo, stringendosi in una grande sciarpa marrone.

Harry gli sorrise.

«Io vado… vado verso la casa» disse, titubante. Quando si fu allontanato, Remus interrogò Sirius con uno sguardo carico di significato.

«Ah, no» fece Sirius. «Non guardarmi così. Non hai sentito cosa mi ha detto, non guardarmi così»

Remus sospirò. Lo prese a braccetto, stringendoselo al fianco.

«Avanti, sputa il rospo» mormorò.

Sirius lasciò vagare lo sguardo argenteo tutt’attorno prima di far cadere la testa e osservare il terreno, la neve sporca e calpestata e i propri pantaloni che, ormai, più che antracite erano neri di acqua.

«Harry ha una relazione con Severus» sussurrò. Le sue proprie parole lo fecero rabbrividire e lui non lo vide, ma anche il viso di Remus scolorò. Istintivamente, il lupo mannaro afferrò la mano del compagno, stringendola.

«Ah» fece solamente. Per un po’ restarono muti, persi ognuno nei propri pensieri. Poi Remus scrollò gentilmente Sirius.

«Amore… Harry è un adulto ormai» disse piano. «Non possiamo vietargli di avere relazioni con…»

«Con Piton?» terminò Sirius. «Andiamo, Rem. Era innamorato di Lily. Odiava James. Era un maledetto Mangiamorte. E ora io dovrei credere che non ha cattive intenzioni?»

«Ha trascorso anni a vegliare su di lui» rispose pacato Remus.

«Infatti. Anni in cui Harry era un ragazzino. Ti sembra una cosa normale?»

Remus abbassò la testa.

«No, mi terrorizza e mi stranisce. Ma cosa possiamo fare? Tu stesso sai cosa significa avere la propria famiglia contro…»

Sirius lo guardò dolente, allungando una mano verso il suo volto.

«Non mi fido di quell’uomo, lo sai» disse piano. Remus si avvicinò a baciarlo teneramente.

«Io voglio che tu ti fidi di Harry, non di Severus» gli sussurrò. Sirius si lasciò sprofondare nel suo abbraccio, incastrandosi alla perfezione sul suo profilo.

«È fottutamente innaturale» mormorò. Remus gli accarezzò la schiena con calma, cercando di infondergli un po’ di serenità.

«Dovremmo sentire le ragioni di Severus prima di giudicare, non trovi?» rispose.

Sirius tacque. Frugando nella giacca di Remus infilò le mani nel calore tra il suo cappotto e il pesante maglione che indossava, beandosi della morbidezza dei suoi abiti. Sospirò.

«Ti amo» disse piano. Remus sorrise.

«Anche io ti amo. E Harry ti vuole bene. Ricordatelo» rispose, prima di stringerlo con più forza.

 

I Granger se ne andarono alle prime calate dell’oscurità e Ron e Hermione li accompagnarono, l’una felicemente impegnata a discorrere coi propri genitori, l’altro con zia Muriel appesa al braccio e una maschera di sofferenza sul viso. Harry se ne rimase accoccolato in una poltrona a guardare la partita di scacchi che vedeva Percy e Bill accovacciati sul tappeto, concentrati, e una piccola folla attorno a loro. Ginny aveva cercato di estorcergli qualche parola, ma lui aveva lasciato cadere nel vuoto ogni suo tentativo, così ora la fiera ragazza era impegnata a discutere di draghi con Charlie.

Un lieve bussare sulla spalla lo fece voltare e, quando vide che a chiamarlo era Remus, non poté evitare di arrossire. Era certo che Sirius si fosse confidato con lui e, anche se sapeva che Remus era il meno radicale dei due, si sentì comunque stranito. Avrebbe voluto chiedergli scusa per non avergli detto nulla, per aver sconvolto Sirius, per essere sbagliato. Ma il sorriso dell’uomo gli infuse un calore pacioso nello stomaco.

«Noi stiamo andando via. Puoi venire un secondo di là?» gli chiese Remus con cortesia. Harry annuì e si alzò, seguendolo nella sala in cui aveva, quella mattina, risposto al biglietto di Severus. Sirius li aspettava lì, poggiato al muro a osservare il cielo che stava rotolando verso un blu sempre più scuro, sempre più nero.

«Il trentuno avete impegni tu e… lui?» chiese subito Sirius, senza guardarlo.

«Lui sarà fuori città fino ai primi di Gennaio, credo» rispose Harry fissandosi le scarpe. Sirius annuì.

«Allora puoi venire solo tu. A cena da noi, dico. Nulla di impegnativo»

Il giovane annuì a sua volta.

«Mi farebbe piacere» disse piano. Sirius gli lanciò un’occhiata in tralice e, dopo aver captato lo sguardo nocciola di Remus, si voltò.

«Quando verrai, ti andrà di spiegarmi perché? Non voglio assillarti. Ma credo mi aiuterebbe a… ad accettare un rapporto civile con lui, ecco»

Harry, senza guardarlo, il vuoto all’altezza dello stomaco e una gran voglia di sotterrarsi, non rispose: semplicemente avanzò verso il suo padrino e, affondando il viso nei suoi capelli, lo strinse forte. Sirius non esitò un istante a rispondere al suo abbraccio e lo cullò con fare protettivo.

«Ti voglio bene, Harry» sussurrò.

«Anche io Sirius, tanto» pigolò il giovane. Poi lo lasciò andare per stringere con altrettanta forza Remus che, un po’ stupito, gli accarezzò la testa.

«Grazie, Remus, grazie di cuore» sussurrò. L’uomo sorrise.

Si salutarono ancora, sull’uscio della Tana, e Harry li guardò allontanarsi nella neve. Le loro sagome, le dita intrecciate, i passi tanto diversi quando armonici, avanzarono nel buio. Poi, prima di sparire, li vide voltarsi e alzare le mani in segno di saluto. Harry fece altrettanto e, prima che potesse abbassare il braccio, i due si erano smaterializzati. Un po’ del gelo invernale era entrato in casa dalla porta aperta ma Harry non lo sentì. Una fiammella calorosa gli danzava gioiosa nello stomaco, riscaldandolo dalla testa ai piedi.

 

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Capitolo 9
*** 9. ***


9.

L’ultimo giorno dell’anno arrivò con la rapidità tipica del dolce far niente e Harry, già stanco al pensiero di dover tornare al lavoro dal secondo giorno di Gennaio, alle prime luci dell’alba se la dormiva della grossa, sordo a tutti i rumori che si alzavano dalla città che andava via via stiracchiandosi. Stava sognando di giocare a Quidditch e, intento a volare in un cielo plumbeo, stava giusto per acchiappare il Boccino quando un forte boato scosse il mondo, disarcionandolo quasi dalla scopa. Si guardò attorno: nulla si era mosso. Così ritornò a cercare il Boccino d’Oro ma un altro boato risuonò nell’aria, e poi un altro, un altro ancora, sempre meno lunghi, sempre più cheti, finché Harry non si svegliò di soprassalto riconoscendo il bussare alla porta d’ingresso. Inciampando nei pantaloni del pigiama e il petto nudo, il giovane afferrò gli occhiali appoggiati sul comodino e si precipitò alla porta.

«Eccomi!» esclamò. Sbirciò dallo spioncino Babbano sbadigliando e, appena riconobbe chi stava in piedi sul pianerottolo, si sbrigò ad aprire la porta e, con un balzo, fu addosso a Severus, stringendolo a sé con foga.

«Sei qui!» disse felice, le braccia allacciate al collo del Pozionista. Questi, preso alla sprovvista, ci impiegò un po’ per figurarsi la situazione, ma pose le mani fredde sulla pelle di Harry, facendolo sussultare, e con un sorriso lo guardò in volto.

«Sei mezzo nudo» sussurrò divertito. Harry lo liberò dall’abbraccio e lo trascinò in casa, chiudendo la porta di fretta e voltandosi poi subito per tornare a lui. Si scambiarono un profondo bacio e, quando le loro labbra si allontanarono, Harry lo abbracciò di nuovo.

«Non sei ferito, vero?» chiese piano. Severus, che si sentiva più a suo agio ora che non stavano abbracciati sulle scale, gli accarezzò la schiena bollente. Harry sospirò.

«No, sono stato attento» rispose. Abbassò il volto sul collo scoperto di Harry, baciandolo là dove la barba di un giorno incontrava la morbida pelle olivastra.

Le mani di Harry corsero ai capelli di Severus. Erano gelidi, ancora impregnati del freddo invernale che regnava al di fuori di quelle pareti. Le dita del giovane vi si annidarono, sciogliendo il nodo del nastro che li teneva legati. Solo quando lo trovò il ragazzo si accorse che si stava poggiando su un paio di gambe strette in possenti pantaloni di pelle di drago e un petto coperto da una giustacuore dello stesso materiale. Avvolgendo il corpo di Severus, Harry lo guardò negli occhi.

«Sembri tornato da una battaglia» disse. L’uomo gli rubò la voce con un bacio e Harry decise di concentrarsi ancora su quel curioso abbigliamento accarezzando la pelle dura e fredda, afferrando il fondoschiena di Severus e strappandogli un sorrisino.

«Vuoi che ci sediamo in salotto e che ti spieghi ora tutto?» lo canzonò. Le sue mani correvano sul petto nudo dell’altro, suscitandogli lunghi lampi di brividi sottopelle. Gli occhi di Harry saettarono.

«Aspetterò» rispose, allungando le dita ad aprire le fibbie che tenevano il lungo mantello nero appeso al giustacuore.

La pesante stoffa cadde a terra con un suono liquido che, quasi come un gong, diede il via ad un lungo, sensuale profondo bacio costellato di graffi su una schiena nuda, abiti strappati via, passi incerti e gemiti, mani, abbracci. Harry spinse con forza Severus verso la camera da letto e lui, vorace, si mosse lentamente senza smettere di accarezzarlo, le labbra impegnate in una danza insaziabile, ruvida, virile. Quando si lasciarono cadere sul letto Harry gli sfilò la camicia senza aspettare oltre e Severus gli afferrò i fianchi muscolosi, premendoselo contro, facendogli sentire quanto il suo desiderio lo chiamava.

Gemendo, Harry si fermò, gli occhi puntati in quelli di Severus. Lui lo osservò a sua volta, sondando quelle verdi colline primaverili che deteneva sotto la patina vitrea degli occhi.

«Non ti senti…?» chiese piano l’uomo, imponendosi di rispettare quella pausa, di ignorare la voglia quasi dolorosa di farlo suo.

Harry gli sorrise. Poi si chinò su di lui e, muovendo i fianchi con un gesto sinuoso, gli strappò un lamento.

 

Quando Harry si accoccolò sul petto nudo di Severus e gli pose un bacio sulla mandibola, dalle finestre pioveva una luce fredda e acuminata che segnava l’avanzare del mattino. Severus lo strinse a sé, sospirando.

«Mi sei mancato in questi giorni» disse Harry, disegnando ghirigori immaginari sulla pelle di Severus. Lui lo guardò.

«Ho cercato di tornare il prima possibile» rispose, accarezzandogli i capelli.

«Dove sei stato?» chiese Harry, curioso, smettendo di muovere i polpastrelli sul suo petto nudo e abbracciandolo. Severus si mosse nel suo abbraccio, mettendosi comodo, e puntò lo sguardo al soffitto.

«Sono andato in Italia, a Sorrento» rispose. «Le vecchie storie su Julius Christianus sostenevano fosse là la casa in cui aveva passato i suoi ultimi decenni di vita a lavorare sulla pozione. Non pensavo di trovare granché, ma sono stato fortunato»

«Hai trovato tracce di Christianus?» chiese ancora il giovane.

«Ho trovato dei suoi parenti. Mi hanno raccontato la vera storia di Julius. Pare che in realtà nessuno ebbe la prova della riuscita di quella pozione. Viveva solo in campagna. E mi hanno detto che un giorno è scomparso nel nulla. Qualcuno disse che lo aveva visto svanire nel mare all’alba, così tutti pensarono al suicidio. La sua storia divenne una leggenda, la sua fine fu storpiata e la sua famiglia non ebbe mai le sue spoglie. E così ho fatto altre ricerche e sono andato ad Est, ho ripercorso le tracce di Inga. E l’ho trovato»

«Trovato?» ripeté Harry, lo sguardo attento.

Severus si rivoltò nel letto, mettendosi sul fianco, la testa poggiata al pugno chiuso. Harry si tirò su a sua volta, curioso.

«Julius Christianus è vivo e vegeto» disse.

Harry aggrottò la fronte.

«Ma non stavamo parlando di uno vissuto…

«Nato duecentoventisei anni fa» annuì Severus. «I maghi possono vivere incredibilmente a lungo, Potter, non costringermi a calarmi nel mio vecchio ruolo di professore»

Harry ghignò, intrufolando una mano sotto le coperte. Alla carezza intima che gli diede, Severus reagì con uno sguardo infuocato, e Harry lo baciò con trasporto.

«Sarebbe curioso» sussurrò il giovane sulle sue labbra. Severus gli afferrò i polsi, baciandolo ancora, ma poi lo costrinse a stare fermo e continuò.

«Quindi, Julius Christianus vive in una casetta nel paese natale di Inga. Quello in cui ha, probabilmente, ucciso i suoi genitori. Ha confessato?»

«Sotto veritaserum» annuì Harry, arrendendosi. «Ora pare dovremo trasferirla in Bielorussia»

Severus non commentò.

«Beh, praticamente Julius si ricorda una ragazza bionda che un giorno gli portò una scatola di biscotti. Era appassionata di pozioni e divennero amici, era come una nipote. Poi lei si trasferì, i suoi morirono, tornò e andò via di nuovo. E, anni dopo, Julius si accorge che i suoi appunti sulla pozione per cui era tanto erroneamente famoso erano stati trafugati»

Harry aggrottò la fronte.

«Così, a caso?» chiese.

«Appena mi ha visto mi ha offerto un piatto di semi di sesamo condito con della menta secca e della salsa di pomodoro. È molto anziano» rispose.

Harry scoppiò a ridere.

«È fuori di testa!» esclamò, sganasciandosi. Severus stava per riprenderlo: d’altra parte stava insultando una leggenda. Poi però si perse a guardarlo ridere, luminoso, e un sorriso gli spuntò sulle labbra. Avvicinandosi, se lo tirò contro, e Harry si fece abbracciare ancora scosso dalle risa.

«Scusa» singhiozzò Harry. «Ma ti immagino mentre questo ti porge il piatto di sesamo e tu alzi la mano e fai “oh no, grazie, sto bene così”»

Severus, suo malgrado, rise, e Harry fu piacevolmente stupito di sentirlo, per quella che forse era la prima volta, ridere. Aveva una risata profonda, modulata, e il giovane si strinse più forte a lui continuando a ridacchiare.

«Più o meno è successo così. È stato piuttosto imbarazzante»

«Avrei voluto vederti»

«No, il tuo posto era dai Weasley. Ti sei divertito?»

Harry gli accarezzò la schiena.

«Sì, beh, ho messo su tre chili in due giorni, credo. E, a proposito…» aggiunse, guardando Severus negli occhi. Lui parve accorgersi subito che c’era qualcosa di importante che Harry stava per chiedergli e si mise in allerta.

«Sì?» chiese.

«Stasera, ecco, potremmo avere un invito a cena» accennò il giovane. Severus lo interrogò con uno sguardo.

«Finisci di raccontare? Poi ti dico tutto?» propose, conciliante, Harry. Severus non parve convinto, ma continuò a raccontare.

«Quindi, verosimilmente Inga ruba gli appunti di Julius dopo averlo riconosciuto e se ne va per creare la pozione in pace. Solo che Inga non aveva addosso la pergamena con la ricetta, vero?»

«No» rispose Harry. «Forse l’ha distrutta per non farla trovare…»

«Se così non fosse abbiamo un grosso guaio per le mani, Harry» lo interruppe Severus. «Sei cosciente che avete squadernato al mondo la leggenda e tutto quello che ne consegue?»

Harry lo osservò, preoccupato.

«Ma non sappiamo se la pozione è davvero così devastante. Neanche Julius…»

Severus lo interruppe di nuovo.

«Potrebbe esserlo. È questo il problema. Non era in casa dei genitori di Inga, non era nel suo appartamento a Londra»

«Non ti chiederò se ti sei introdotto illegalmente in questi posti» mormorò Harry, lo sguardo accusatorio. Severus alzò le sopracciglia.

«Potter, vuoi farmi la predica?» chiese. Stavolta fu lui ad allungare le mani sul corpo di Harry: il giovane si tese, sorridendo. Ma stavolta la provocazione non si fermò e passò un po’ di tempo prima che le parole tornassero a risuonare nella stanza al posto di nuovi sussurri appassionati.

 

In definitiva: Severus era tornato, il lavoro incombente si era fatto più pesante di quanto si profilava essere, e ora il suddetto guardava Harry torvo, i capelli bagnati dopo la doccia e le mani intente a legarsi addosso la camicia nera.

«Se non fosse un idiota avrei paura di essere avvelenato» commentò acido l’uomo. Harry gli lanciò un’occhiataccia.

«Lui e Remus sono la mia famiglia. Dovrete fingere, almeno, di andare d’accordo e so che Sirius ci proverà. Per me. Lo farai anche tu?»

Gli aveva appena raccontato del Natale trascorso e dell’invito per la cena. E Harry, naturalmente, era felicissimo di averlo visto tornare prima del previsto – soprattutto per ciò che era appena accaduto nel suo letto. Ma ora iniziava a temere la serata che si apprestava.

«Va bene, va bene. Per te. Solo per te» mormorò Severus. Harry arrossì.

«Grazie» fece, la testa bassa. Per lui. Solo per lui.

L’uomo gli passò accanto, circumnavigando il letto.

«Devo andare a casa a cambiarmi. Ci vediamo quando? Per le sei?»

Harry gli sorrise e Severus, l’espressione seccata, sbuffò.

«Le sei vanno benissimo» rispose Harry, angelico.

«Sì» fece l’uomo. Si chinò a baciarlo. «Sei la mia dannazione»

Harry rise, guardandolo andare nell’ingresso a indossare il mantello.

«Non vedo l’ora di rivederti anche io!» gli urlò dietro. Quando la porta si fu chiusa alle spalle di Severus, Harry si lasciò cadere sul letto, un sorriso beota sul viso e l’incredulità più gioiosa verso quello che aveva appena vissuto.

 

Comunicazione di Servizio:

A fine di questa settimana partirò per una breve vacanza a Londra. Questo sarà l’inizio del periodo in cui i viaggi la faranno da padrone nella mia vita, quindi, probabilmente, aggiornerò molto lentamente. Cercherò comunque di postare qualcosa dopo il mio ritorno in Italia.

 

 

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Capitolo 10
*** 10. ***


10.

Era stato strano rivedersi, qualche ora dopo, entrambi avvolti in eleganti mantelli, entrambi appesantiti da diverse emozioni, entrambi taciturni. Però non era stato strano nel modo che Harry si era aspettato: si era immaginato un grande imbarazzo, dopo l’amore della mattina appena trascorsa, e invece Severus sembrava solo molto infastidito anche se gli aveva accarezzato il viso con delicatezza e baciato le labbra con forza. E sentirlo così lo aveva sì, un po’ impensierito, ma gli aveva anche scosso via tutto il disagio che aveva provato all’idea di rivedere l’uomo su cui, per tutto il giorno, la sua mente aveva spaziato senza pudore. Quindi si erano smaterializzati.

La casa che Sirius e Remus avevano acquistato dopo che tutto si era risolto era una bella villetta adagiata tra eleganti prati in un quartiere periferico di Londra. Quando si furono materializzati sul morbido tappeto di neve che copriva il giardino della casa bianca e nera, Harry e Severus si ritrovarono ammantati dall’oscurità. In quel punto, nessuno poteva vedere i visitatori magici arrivare e la luce che filtrava dalla tendina della cucina indicava loro che i preparativi per la cena erano già cominciati.

«Sei pronto?» chiese piano Harry. Severus lo squadrò.

«Con tutto il rispetto, Harry, ma non ho intenzione di temere le ire del tuo padrino come una verginella sprovveduta»

Harry, nonostante la tensione, sbuffò una risata e, allungandosi a baciare l’uomo che gli stava affianco, si ritrovò a pensare che, infondo, quel Severus tagliente e velenoso che veniva a galla per fronteggiare le avversità non era poi tanto male.

Aveva inviato il proprio Patronus per avvertire che sarebbe venuto accompagnato, quella sera, e si era armato di un’enorme Linzer torte per cercare di placare gli animi sin dal principio. I due si mossero verso il lato strada della casa e, saliti i gradini che portavano alla veranda, Harry bussò alla porta.

Quando la luce della casa irradiò la veranda, Remus sorrise loro, un maglione beige a collo alto addosso e il nervosismo ben nascosto sotto la solita espressione buona.

«Benvenuti» disse, facendoli passare. Harry gli si stinse contro brevemente prima di spingersi nel bell’ambiente dell’ingresso. Severus, guardingo, abbassò la testa.

«Buonasera, Remus» disse piano. Il padrone di casa sembrò stupito e anche deliziato di sentirsi chiamare per nome, e i suoi occhi luccicarono di una scintilla dal sapore antico.

«Entra pure, Severus» gli rispose, il tono particolarmente malandrino. Allungò una mano a prendere il mantello di Severus e, dopo un’occhiata, Harry decise di potersi fidare a lasciarli soli, così appese con un rapido gesto esperto il mantello prima di dirigersi direttamente in cucina.

«Permesso?» si ritrovò a chiedere. Sirius, che dava le spalle alla porta, si voltò a guardarlo.

«Da quando chiedi permesso?» gli sorrise, facendogli cenno di avvicinarsi. Harry gli porse la torta, un po’ come maneggiando un calumet della pace, e l’uomo sbirciò all’interno dell’involucro.

«Mmm, sai come comprare il mio perdono» disse. Harry abbassò la testa, ma Sirius gli scompigliò i capelli. Sapeva che ce la stava mettendo tutta, così lo seguì quando prese la torta e la posò sulla credenza.

«Ho anche mezzo chilo di cioccolato con me, ma penso di usarlo solo se avrò bisogno che Remus ti impedisca di aggredire Severus» tentò di scherzare. Il suo padrino, che come Remus cercava di mascherare la propria tensione ma ci riusciva meno bene, rise brevemente.

I passi che si avvicinavano alla porta li richiamarono: Severus si appoggiò sull’uscio della cucina. Sotto al mantello aveva indossato un paio di pantaloni gessati, una camicia bianca e un gilet, e spiando dalle finestre nessuno avrebbe mai inteso di avere davanti dei maghi se non fosse stato per le diverse bacchette che se ne stavano, per ora, tranquille nei foderi.

«Harry, mi aiuti con la tavola?» chiamò a gran voce Remus dalla sala. Il giovane lanciò un’occhiata seria a Severus, che lo rassicurò annuendo una sola volta. Poi fece per dire qualcosa, ma Sirius gli stava già porgendo una pila di piatti sormontati da bicchieri e un’elegante tovaglia bordeaux.

«Non farmi pentire di non aver usato la magia, con il servizio buono» ghignò l’uomo. Quando Harry se ne fu andato dalla cucina, attento a non fare danni, Severus entrò nella stanza.

Sirius lo guardava di sottecchi, molto simile ad un cane pronto a difendere la propria cuccia. Il suo bel viso era fosco e, lento, un boccolo sinuoso decise di scappare al nastro con cui si era assicurato i capelli, andando ad adombrare ancora di più la sua espressione.

«Non credo sia da esplicitare che né a te né a me piace la situazione che si sta creando tra noi» disse Severus, pacato.

«No, non è da esplicitare» annuì Sirius. «E la situazione che si sta creando tra te e Harry?»

«Quella non può che piacermi» rispose con un sorriso arrogante Severus. Vide che Sirius si tratteneva dall’affatturarlo, cogliendo tutti i sottintesi della sua risposta, o dal tirargli un piatto, o dal balzargli addosso.

«Sei cosciente del fatto che se tu gli facessi del male in qualsiasi modo non sopravvivresti per raccontarlo?» disse, il tono casuale, Sirius, poggiando una mano sulla superficie lignea del tavolo.

«Non voglio fargliene» mormorò Severus. I due uomini si guardarono con intensità.

«Remus vuole che lasci a Harry spazio. E io voglio che sia felice. Se sceglie te, va bene. Ma non riporre le tue speranze nel mio compagno, ti assicuro che è anche più protettivo di me verso Harry» aggiunse Sirius. Il suo tono si stava inasprendo sempre di più.

«Ho capito, Black» ringhiò Severus. Sospirò, passandosi poi una mano sul viso. «Vedere Harry che finalmente ha una vera famiglia è… bello. Non avrei mai pensato di dirlo ma sono quasi contento tu mi stia minacciando»

Sirius lo guardò stupito, poi scosse la testa.

«Mi suona strano sentire che tu, davvero, tieni a lui» mormorò. Severus accennò un sorriso.

«Suona ancora strano anche a me» rispose, tacendo poi quando le voci di Harry e Remus si avvicinarono. I due uomini in cucina guardarono verso il corridoio, ma nessuno li raggiunse: poco dopo, dei passi sulle scale li informarono che stavano salendo.

«Lo ami?» chiese poi, a bruciapelo, Sirius. Severus sgranò gli occhi, guardandolo.

«Non pensi che sarei davvero troppo avventato a risponderti?» ribatté debolmente. Sirius alzò un sopracciglio.

«Mmm. Ottima risposta, Mocciosus» disse, andando a dare un’occhiata ai fornelli. Severus fece una smorfia, ma si rese conto che ormai neanche quel nomignolo gli pesava più. Avvertiva che la strenua lotta tra lui e Black stava quasi mutando, forse contaminata da una nuova tensione. Era forse…?

«Non posso dire che tu sia il compagno che ho sempre sperato Harry trovasse, ma se lui ti vuole in famiglia così sia. Non dobbiamo per forza andare d’accordo. Ma vogliamo tutti il suo bene, no?»

Concordia. Una debole, pallida concordia.

Gli occhi grigi di Sirius gli bruciavano l’anima, un po’ minacciosi. Severus annuì.

«Certo» rispose seriamente. Sirius sospirò.

«È buffo, però» aggiunse. «Prima Lily, ora Harry… sarebbe imbarazzante se ti facessi notare l’antifona?»

«Sarebbe imbarazzante» confermò, la voce roca, Severus. I sentimenti contrastati che si stavano alzando tra le mura chiare della cucina sembravano quasi palpabili, così come lo sguardo che Sirius gli rivolse, ancora più acuminato di prima.

«Non c’è niente da dire» aggiunse Severus.

«Credo tu non sia nella posizione di evitare le mie domande» lo rimbeccò Sirius. Severus lo squadrò: non si stava godendo quella farsa da padre geloso, anzi, sembrava non voler sentire la risposta di Severus, temendo la verità, forse. Ma si sentiva in dovere di chiedere, di accertarsi, di ficcare il suo grosso tartufo canino nei loro affari. Severus fece una smorfia. Quella concordia non sembrava poi troppo facile da sostenere.

«La Guerra è finita, le miei maschere sono cadute. Sono stanco di vivere relegato nel passato. Non lo sei tu? Non sei stanco di essere il prigioniero di Azkaban

«Non ti sto chiedendo perché ora sembri uno della mia famiglia» ribatté Sirius, senza guardarlo.

Severus sospirò.

«Non voglio più essere l’uomo distrutto che ero, va bene? Non so se merito la felicità. Non so se merito Harry. So solo che sentirmi in dovere di piangere Lily fino alla fine dei miei giorni è stupido. Non la dimenticherò mai. Ma sono stanco di essere l’ombra di me stesso»

Sirius ascoltò attentamente le parole tremanti che uscirono dalla bocca di Severus. Il Pozionista, appoggiato al tavolo, aveva la testa bassa, come in preda ad un dolore acuto nel sentirsi dire quelle parole. Le aveva pensate e ripensate, certo, e ci credeva. Le aveva dette anche a Harry, sì, ma ora, dirle a quell’uomo che Lily se la ricordava, che l’aveva abbracciata, che l’aveva sentita ridere, faceva tutto un altro effetto. La stava lasciando andare davvero.

«Le mancavi, sai?» sussurrò Sirius. Severus lo guardò e lui, avvicinandosi, si ficcò le mani nelle tasche dei pantaloni di velluto blu.

«Avrebbe tanto desiderato che tu ti prendessi cura di Harry. Perché tu per lei eri come io ero per James. Insostituibile. Non voglio farti la predica, stavolta, dico solo che probabilmente Lily ti affatturerebbe» disse Sirius.

Severus rise, roco.

«Mi manderebbe al San Mungo, Black, non essere così delicato» mormorò. Sirius sorrise.

«Oh, sì. E poi ti manderebbe un giglio. E probabilmente leverebbe il saluto a Harry ma gli lascerebbe dei pasticcini di zucca sulla scrivania. E poi, in silenzio, lo accetterebbe. Era sempre così delicata, ti ricordi?»

«Delicata… sì. Pericolosa ma delicata»

I due uomini si guardarono, i ricordi vividi nelle loro menti. Sirius si passò una mano sul viso.

«Lascio a Molly Weasley la frase “lui non è Lily”?» disse piano. Il suo tono stava riprendendo la vena canzonatoria che Severus aveva sempre detestato, ma dopo quel vibrante momento la accolse quasi sollevato.

«Sì. Se ti fidi almeno un po’, sì» rispose.

Sirius accennò una risata.

«Mi fido di Harry. Te l’ho detto, dovete accontentarvi di questo» ribatté, tornando ai fornelli. Severus sospirò. Mettere da parte l’astio nei confronti di Black e Lupin era la cosa meno felice che intravedeva nel suo futuro.

 

Durante la cena e per quasi tutta la serata, infatti, le occhiate di Sirius non smisero di dare il tormento a Severus, ma lui le incassò senza lamentarsi, cercando di non far trasparire il proprio fastidio. Non avrebbe mai pensato di volerlo fare, ma sentiva il bisogno di dimostrare a Black e a Lupin che lui, a Harry, ci teneva davvero. Voleva dimostrare loro di essere degno della loro fiducia e si impose così di essere amabile al punto giusto – quindi appena accettabile per una qualsiasi persona che non lo conoscesse. Ma si trattenne dall’allungare neppure un dito verso Harry, gli sorrise con dolcezza e evitò di rispondere male a Lupin che lo interpellava educatamente, anche se  tanti anni trascorsi a scuola assieme gli davano le armi per notare quanto, infondo, lui e il suo compagno si stessero godendo il momento. Si sentiva un po’ in gabbia, a dire il vero.

Aveva visto Harry, però, che sembrava sollevato per la piega che aveva preso la serata. Chissà cosa si era immaginato accadesse. Era stato un turbinio di sorrisi e risate, al tavolo, e, seduto al suo fianco, gli aveva trasmesso il suo calore travolgente che, dopo anni di gelo, rappresentava per lui una strana e bella novità. Era una gabbia foderata di cuscini.

 

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Capitolo 11
*** 11. ***


11.

«Ti va di restare?»

Harry aveva afferrato il polso di Severus prima di chiederglielo. Ora lo guardava con intensità, gli occhi verdi stranamente luminosi nel buio dell’ingresso del suo appartamento in cui non aveva ancora acceso neppure una luce. Vide Severus soppesare la sua proposta, ma fu un millesimo di secondo e già il petto dell’uomo si delineava sul suo, mentre con una mano pallida chiudeva la porta alle proprie spalle.

In quel momento un forte rumore si alzò dalla strada, ma entrambi lo ignorarono. I festeggiamenti Babbani per l’arrivo del nuovo anno non li sfioravano minimamente, neanche quelli che dovevano certamente appartenere a turisti rumorosi. Erano troppo impegnati ad avvertire il calore l’uno dell’altro, stringendosi in un abbraccio in cui le loro labbra avide trovarono appiglio per le loro smanie.

Harry rabbrividì, alzando le braccia oltre il collo di Severus. Le mani dell’uomo scivolarono all’istante sotto i suoi abiti, sfiorando la pelle tesa sui suoi muscoli allenati, i polpastrelli freddi contro il calore del giovane uomo.

«Che cosa mi stai facendo…» sussurrò debolmente Severus sulle labbra di Harry, iniziando a sbarazzarsi dei suoi abiti e lasciandoli cadere a terra senza fretta.

Harry accennò un ghigno, le mani più goffe sulle fibbie del mantello dell’altro. Insinuò il viso oltre i fini fili di corvo che erano i suoi capelli – profumavano di spezie e cipria. La pelle pallida del Pozionista s’increspò al tocco delle sue labbra.

«Lo avresti mai detto, Severus?» mormorò Harry, premendo il viso nell’incavo del suo collo.

L’uomo gli cinse la vita, premendolo con forza contro di sé.

«Chi lo avrebbe mai detto?» ribatté gentilmente, lasciando le proprie mani scivolare lungo il profilo del corpo di Harry, facendo aderire i propri bacini con un movimento fluido che strappò all’Auror un sospiro. Severus sorrise.

«Se avessi immaginato tutto questo mi sarei fatto mettere in punizione più spesso da te…» sogghignò Harry, intrufolando una mano tra loro. Le sue dita, però, non arrivarono alla bruciante meta che agognavano: Severus gli afferrò il polso con violenza, facendo sussultare il giovane uomo, spingendolo via da sé.

I suoi occhi ardevano di risentimento.

«Che cosa stai dicendo?» esclamò, velenoso, il viso rapace segnato di contrarietà.

Harry teneva la bocca socchiusa, stranito.

«Cos-?» biascicò. Severus fece una smorfia. Aveva assunto l’espressione che Harry ricordava fin troppo bene dopo gli anni della scuola.

«Non dire mai nulla del genere» lo rimproverò, la voce bassa, Severus. «Eri uno studente. Eri sotto la nostra protezione. Non dirlo mai»

Era visibilmente scosso e piccato e Harry, capendo solo allora, abbassò la testa.

«Guarda che io non penso male di te solo perché eri un mio insegnante…» iniziò a rispondere, ma Severus ebbe un altro moto di stizza e si allontanò di un passo.

«Io non so cosa tu voglia, Potter, ma se hai intenzione di continuare questa cosa vedi di non accennare mai più al nostro passato in quel senso»

Harry avrebbe voluto far notare a Severus che sarebbe stato difficile ora che gli sembrava di essere di nuovo nei corridoi del castello con dinanzi il professore che più aveva odiato in assoluto, ma decise di tacere. Gli occhi neri di Severus lo fulminarono.

«Non sono un santo, ma anche la mia parte peggiore ha dei limiti» aggiunse, chinandosi a prendere il mantello che era scivolato a terra.

«Dai, Severus…» mormorò Harry allungando una mano verso di lui, ma il Pozionista si mise rapidamente il mantello addosso e aprì la porta.

«Buonanotte, Harry» ingiunse freddamente, lasciandogli addosso un’ultima occhiataccia. Il giovane lo vide sparire lungo le scale e non si mosse, anzi restò davanti alla porta aperta per un lungo momento prima di chiuderla con un gesto secco. Imprecò, calciando i propri indumenti a terra. Poi si chiuse in bagno, fremente di rabbia, e continuò ad ignorare gli schiamazzi di chi, in strada, non si era comportato da idiota.

 

Il secondo giorno del nuovo anno vide l’Auror Potter tornare al suo ufficio al Ministero. La neve, che aveva seguitato a cadere copiosa dal cielo, non era stata una scusa per evitare il rientro, né il silenzio che si era instaurato tra lui e Severus, anche se questo gli pesava tanto da tenergli la mente impegnata più di ogni altra cosa. Così tornò al Ministero immusonito e preoccupato, e quasi ignorò Ron quando gli si apprestò non appena lo vide, occupato a seguire il filo dei propri pensieri cupi.

«Harry? Harry, miseriaccia, non posso inseguirti tutto il giorno»

L’Auror Weasley sbatté con forza la cartella che teneva in mano sul petto dell’amico, e questi sussultò guardandolo.

«Scusa» mormorò. Si passò una mano sul viso ispido, non si era rasato, quella mattina. Aprì la bocca per aggiungere il perché della propria insofferenza, ma Ron non gli diede il tempo di farlo.

«Devi andare di corsa di là dal Wizengamot, la Volkov ha chiesto di vederti prima di essere rispedita a casa» disse sbrigativo. Gli puntò i luminosi occhi addosso. «Vai. Hermione mi ha stressato senza pietà»

Harry sospirò. Hermione era irreprensibile circa i diritti di indagati e carcerati.

«Scusa» ripeté. «Vado subito»

Ron annuì guardandolo andare via. A passo spedito, Harry raggiunse l’ala del tribunale imbattendosi subito in un piccolo crocicchio di persone. Hermione, che indossava una vibrante tunica azzurra, spiccava tra gli altri funzionari, e non appena i loro sguardi si incrociarono i due si scambiarono un cenno d’intesa. La giovane donna pose la mano sulla spalla dell’uomo al suo fianco, un alto mago pelato dagli occhi blu.

«Consigliere Masci, le presento Harry Potter, l’Auror che ha arrestato la signora Volkov» la sentì dire subito. L’uomo abbassò la testa verso di lui.

«Ma certo» disse, il pesante accento slavo. «Inutile dire che è un onore per me»

Harry non sorrise.

«Consigliere» fece, abbassando la testa a sua volta. «L’incarico di portare la Volkov in Biellorussia spetta a lei?»

L’uomo annuì, silenzioso, poi tornò a guardare Hermione.

«Harry, la signora Volkov chiede di te» disse lei, abbassando la mano con cui aveva richiamato l’attenzione del Consigliere su Harry. Gli fece cenno di entrare nell’aula aperta del tribunale e l’Auror annuì, avvicinandosi lentamente alla porta spalancata, facendo capolino nella grande sala al cui centro la famosa cella che aveva detenuto alcuni tra i più famosi Mangiamorte si ergeva.

Al suo interno, la schiena poggiata contro le sbarre e la testa reclinata all’indietro, stava Inga. Indossava la tenuta dei carcerati di Azkaban, una tunica a righe bianche e nere le cui maniche erano state arrotolate sino a oltre il gomito, lasciando visibili le fini braccia bianche. Harry notò che la sua pelle cerea era solcata, su entrambe le braccia, da tatuaggi di un vibrante nero inchiostro. Erano serpenti arrotolati e minuscole rune.

«Ciao, Inga» disse l’Auror quando fu a pochi passi dalla cella. La strega si voltò lentamente a guardarlo, un sorriso arrogante sulle labbra, senza mostrare l’intenzione di cambiare la propria molle posa.

«Speravo fossi a guardia della prigione, carino» rispose. La sua voce aveva un qualcosa di curioso, sembrava portare con sé un vago gracchiare. Harry non se ne stupì. Si aspettava di vedere una donna del tutto nuova, in quella cella.

«Mi spiace, non sono stato assegnato ad Azkaban» disse lui. Si mise le mani in tasca con fare casuale e Inga appoggiò la fronte alle sbarre.

«Ti piacciono?» chiese, il tono infantile. Mostrò le braccia, allungandole oltre il ferro che la teneva rinchiusa. Harry poté vedere meglio i tatuaggi. Ebbe un moto di ribrezzo.

«Voldemort marchiava i suoi seguaci con dei disegni molto simili» disse, freddo. Inga rise.

«Voldemort era un bamboccio»

Abbracciò le sbarre.

Harry accennò un sorriso.

«Te ne tornerai a casa, oggi» disse, alzando il tono della voce. Inga annuì.

«Mi mancherà l’Inghilterra. Sai, i parchi. Il Tamigi. La casa del tuo uomo. Sarà difficile ammazzarvi dalla Bielorussia, sì, mi mancherà, l’Inghilterra»

Gli occhi dei due erano fissi gli uni negli altri. Inga sorrideva, Harry era una maschera di sale.

«Puoi anche provarci» ringhiò. «Verrò a prenderti a calci in culo ovunque sarai»

«Te l’ho detto, Harry Potter» mormorò melliflua Inga. «Voldemort era un bamboccio. Io ti schiaccerò come uno scarafaggio»

L’uomo restò immobile sul posto, senza muovere un muscolo. La strega, invece, si voltò, e Harry vide che stava ridendo in silenzio, perché le sue spalle fini si scuotevano. Allora anche lui si voltò e iniziò a muoversi verso la porta.

«Potete cercarla ovunque, la ricetta» sentì dire. «Non la troverete mai. Ma non preoccupatevi. Ci terremo in contatto»

Harry uscì dalla sala con passo rapido, sotto gli occhi preoccupati di Hermione e lo sguardo freddo del Consigliere. Fu a lui che si rivolse per primo.

«Spero non prendiate sotto gamba la detenuta, Consigliere» disse, distaccato. L’uomo accennò un sorriso.

«Harry Potter, non lo pensi neanche per un istante» rispose. Si scambiarono una lunga occhiata, poi Harry sorrise a sua volta.

«Buon viaggio, allora. Devo assentarmi»

I due uomini si strinsero la mano con forza, poi Harry si voltò verso Hermione. Il bel viso della ragazza era attraversato da una vena di preoccupazione quasi invisibile che Harry conosceva però molto bene. Si guardarono intensamente, poi Harry si allontanò.

«A dopo, Ministro» fece, alzando una mano per salutarla. Hermione fece altrettanto. Poi Harry si voltò e se ne tornò al Quartier Generale.

 

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Capitolo 12
*** 12. ***


12.

«Ma stiamo parlando di una pazza. No? È come quando dico di mettermi a dieta. Lo sai che non succede»

Ron prese un sorso di Burrobirra dopo aver alzato le spalle e Harry sospirò. Erano seduti alla Testa di Porco, ancora avvolti nei mantelli per ovviare al gelo che entrava dalle finestre di legno. Fuori, Hogsmeade era un gioiellino cosparso di neve.

«Non lo so, Ron» rispose Harry. «È una strega potente»

«Possiamo tirare su i sigilli eccezionali, se non ti fidi» disse Ron.

I due giovani uomini si guardarono per un istante.

«Non lo so» ripeté Harry, prima di sparire per un attimo dietro al boccale di Burrobirra. Ron lo seguì, la bevanda calda a riscaldare i loro stomaci, l’odore di butterscotch che impregnava l’aria.

La Testa di Porco, dopo la Guerra, aveva visto i propri affari crescere in modo vertiginoso. Naturalmente non si vedeva mai la ressa che interessava I Tre Manici di Scopa, ma era comunque raro trovare la locanda vuota come un tempo. E ogni tanto i due amici ci entravano, in quelle stanze scricchiolanti, per fare due chiacchiere con Neville o per prendersi un attimo di pausa dal mondo. Quella sera si trattava della seconda opzione. Erano seduti in un angolo, addossati ad una finestra, e parlavano piano.

«Hermione ti accorderebbe subito i sigilli» aggiunse Ron.

«Ma non è necessario» rispose Harry. «Sono io ad essere paranoico»

«E Piton si sa difendere» gli fece notare Ron.

Harry annuì.

«Infatti, mi sentirei un idiota» mormorò. «”Ehy, ti ho fatto un regalo, cinque sigilli protettivi per la casa ed il negozio, così siamo sicuri che una strega in carcere in Bielorussia non ti possa fare del male”»

Ron scoppiò a ridere.

«Ti affatturerebbe» commentò.

Harry sorrise, guardando il fondo del proprio boccale.

«Sì, lo farebbe. Mi comporto da stupido»

Ron gli tirò un calcio sotto al tavolo, prendendolo di striscio e colpendo una gamba della sedia di Harry. Imprecò, mentre Harry rideva, e trascorse un momento con gli occhi strizzati e la bocca socchiusa lamentando il dolore alle dita del piede con cui aveva tentato l’assalto. Poi si rimise dritto, imprecò di nuovo e si lasciò cadere contro lo schienale della sedia.

«Non ti comporti da stupido, imbecille. È colpa tua se mi sono spappolato un piede. Non ti comporti da stupido»

Harry, asciugandosi le lacrime, rise ancora, ma stavolta si diede un contegno. Ron lo guardava con affetto, la faccia seria.

«Se si trattava di me e Hermione… Merlino sa quanti sigilli richiederei. Lei non me ne accorderebbe neanche uno. Ed è Hermione, no? Duella meglio di me. Ma la proteggerei. Chi se ne frega se sembrerei paranoico, la proteggerei»

I due amici si osservarono in silenzio. Ron era arrossito parlando, e Harry poteva quasi toccare il disagio che stava provando nel confrontare se stesso e sua moglie con Harry e Severus. Pensò che era stato quasi esagerato, ma sapendo che era stato uno sforzo non da poco non lo criticò.

«Grazie, Ron» sussurrò. L’altro annuì, bevendo.

«Beh, di cosa?» rispose. «Vedrai che non succederà nulla. Hermione si è raccomandata col Ministro bielorusso di tenere un occhio aperto su Inga»

«Il Consigliere è partito subito?» chiese Harry.

«Sì, credo contatteranno Hermione quando consegneranno Inga. Anzi…»

Il giovane guardò l’ora sul suo orologio magico da taschino e alcune ciocche di capelli ramati gli caddero sulla fronte.

«Tra poco finirà la riunione» aggiunse.

Harry gli indicò la porta della locanda con un gesto del capo.

«Vai. E contattatemi se ci sono novità su Inga» disse. Ron si alzò con calma, mettendosi in ordine gli abiti e lasciando sul tavolo un bel po’ di soldi. Harry gli avvicinò il gruzzolo, ma l’uomo lo fermò e gli impose di lasciarlo sul tavolo.

«Stasera offro io» lo rimbeccò Ron, prima di allontanarsi. Si salutarono con un cenno ed un sorriso, poi Harry lo osservò sparire oltre la porta. Aprendola, un fazzoletto nero punteggiato di fiocchi di neve rispose al suo sguardo. Stava ancora nevicando.

Il giovane restò seduto ancora per un po’, il tempo di finire la Burrobirra e di stare in pace nel silenzio. Fu disturbato soltanto una volta da Abertforth, che passò a ritirare il boccale di Ron e gli diede una poderosa pacca sulla spalla. Poi fu solitudine. Fuori dal vetro sporco, il panorama notturno lo invogliava a restare lì a dormicchiare ad occhi aperti.

Quando finalmente si alzò ed uscì sulla strada, il gelo si insinuò senza pietà sotto al suo mantello, accompagnandolo lungo la via oscura. Non c’era nessuno attorno a lui.

Harry fece una breve passeggiata, giusto per finire nel centro del paesino ad osservare le allegre luci che illuminavano le casette. In lontananza vide Madama Rosmerta aggirarsi brevemente attorno ai Tre Manici di Scopa prima di rientrare e gli parve di riconoscere anche una collega di Neville poco lontano, che se ne andava sulla via verso il castello. Attese di vedere entrambe le figure sparire dalla strada prima di guardarsi attorno. Poi decise di andare a casa.

 

Seduto su una grande poltrona, Severus pensava. Aveva le gambe accavallate e sulla coscia teneva una pergamena scribacchiata. In mano, la piuma. I suoi occhi neri fissavano con intensità le parole che vi aveva vergato, tanto da sembrare quasi risentiti verso quegli appunti. Sotto ai fini capelli corvini, legati sulla nuca da un cordino di cuoio, gli ingranaggi del suo cervello sembravano quasi mandare fini pigolii. Era immobile, ad eccezione della mano destra con cui teneva la piuma: una lunga piuma verdastra che seguitava a muoversi seguendo gli scatti nervosi del polso che, come scandendo il ritmo dei pensieri, si alzava e si abbassava impercettibilmente.

La grafia del Pozionista aveva vergato poche parole sulla pergamena, organizzate in una lista: quattro cuori di bambini, il cuore di un’innamorata, melissa, dittamo, iperico. Sangue di Re’em.

Secondo la leggenda bastava questo, un calderone di tantalio e il gioco era fatto. Ma mancava qualcosa. Ne era certo, eppure non capiva cosa. Severus si mosse piano, per la prima volta dopo un bel pezzo. Abbassò la gamba su cui era poggiata la pergamena, la prese tra le dita, la portò più vicina al proprio viso. Continuò a leggere e a rileggere gli ingredienti così, come se i suoi occhi abbisognassero di occhiali.

L’iperico. La pianta scaccia demoni per eccellenza. Il fiore capace di scongiurare la negatività, le febbri, la malinconia.

La melissa. L’antico rimedio ai problemi cardiaci e ai dolori psichici. Una delle piante più popolari se si volesse creare un filtro d’amore.

Il dittamo. Capace di curare ferite e mal di testa, problemi di stomaco e di infertilità. La strana pianta che, bruciata dai più esperti dei divinatori, sembrava essere capace di rendere visibili gli spiriti dei defunti.

Tre delle piante più importanti tra gli ingredienti pozionistici, almeno per i magi dell’epoca di Julius. Bastavano per assicurare la prestanza fisica di cui un mago che possedesse tutta la magia del mondo avrebbe avuto bisogno?

Severus sospirò, pinzandosi la base del naso con le lunghe dita pallide. C’era qualcosa che gli sfuggiva, ma il sottofondo degli altri suoi pensieri rendevano il suo studio praticamente inutile.

Era sbottato in modo violento la notte di Capodanno, con Potter. Potter. Se lo ricordava bene quando, ragazzino, sedeva nella sua vecchia aula – era il dramma di avere una memoria di elefante. Lo aveva sempre trovato ripugnante, frutto di un peccato primordiale, ultimo cimelio di una storia vergata col dolore e con le lacrime. E pensava di esserne scampato, poi, anche se sapeva, infondo, di dovergli la vita. Sospirò di nuovo.

Non era mai stato richiamato da Silente, mai. C’erano stati episodi spiacevoli, sì, e lui quei colleghi li aveva sempre guardati con disprezzo dall’alto delle finestre del castello, mentre se ne andavano con i loro bagagli, cacciati via dagli alunni che avevano agito come cioccolato tentatore nei giorni della Quaresima. Ma lui era sempre stato ligio, inflessibile: come, dal’altra parte, era sempre stato un po’ in tutto.

Si alzò dalla poltrona e, posata pergamena e piuma sul tavolino, si avvicinò a passi lunghi alla finestra. La neve non accennava a cadere e lui, che un po’ serpe si sentiva nelle carni, rabbrividì al pensiero di mettere il naso fuori di casa. Guardò giù: una strega e un paio di maghi stavano camminando lungo la via. Li osservò dall’alto, biasimandoli. Un mago si fermò proprio davanti alla porta della sua bottega, sembrava cercare qualcosa in tasca. La strega sparì dietro ad una porta.

Il mago fermo alzò il viso.

«Potter» ringhiò Severus, allontanandosi dalla finestra di fretta, raggiungendo con andatura sicura la porta dell’appartamento. Scese le scale che portavano alla bottega con un brivido, era la parte più fredda dell’edificio e i muri soffrivano dell’aria gelida che vi si appiccicava all’esterno. Entrò nel negozio come una furia in nero e spalancò la porta con violenza, facendo balzare all’indietro Harry.

«Ehy…» biascicò lui. Il suo viso era pallido, e sulla sua pelle risaltavano macchie di rose rosse sulle gote e sulla punta del naso. Era avvolto in una sciarpa rossa e oro ficcata senza particolare eleganza nel cappotto dal taglio babbano.

«Posso aiutarti?» chiese duramente Severus, scrutandolo. Harry allungò il collo, lanciando un’occhiata nel negozio, chiedendo tacitamente di essere invitato dentro. Severus non raccolse, l’espressione calcificata.

Allora Harry sbuffò, e il suo viso si illuminò di arroganza.

«Beh, non lamentarti eh, ma davanti a me vedo il Professor Piton»

Severus fece per sbattergli la porta in faccia, ma non si stupì quando Harry si piazzò nel mezzo, prendendosi il legno massiccio contro una spalla alzando un tonfo sonoro. Il Pozionista alzò un sopracciglio.

«E a me sembra di vedere un ragazzino che speravo fosse cresciuto» ribatté, e senza aggiungere altro girò i tacchi e riprese la via di casa. Harry fu rapido a seguirlo e a chiudere con cura la porta.

Salì le scale levandosi di dosso la sciarpa, più lento dei rapidi passi da insetto di Severus. Infine chiuse anche la porta dell’appartamento con particolare apprensione e nell’ingresso si passò la sciarpa sui capelli, bagnati da quelli che una volta erano stati fiocchi di neve.

Severus era sparito dietro la porta dello studio e Harry, ascoltando il silenzio, imprecò tra i denti.

«Come dici? Oh grazie tesoro, gradirei proprio una tazza di tea bollente!» aggiunse ad alta voce.

«La sai usare una cucina, no?» gli rispose la voce acida di Severus.

Harry restò immobile, in attesa: ma Severus non aveva intenzione di raggiungerlo. Così si levò anche il mantello e, i denti stretti, andò a preparare due tazze di tea nero. Severus se lo vide arrivare in studio dopo una decina di minuti, ma non alzò lo sguardo quando pose sul tavolino una tazza fumante. Il profumo di tea aveva invaso l’aria, assieme all’odore di neve e quello del dopobarba di Harry.

«Ascolta, scusami per quello che ho detto l’altra sera» disse piano l’Auror, occhieggiando verso Severus. Vedendo che lui non accennava a guardarlo, continuò: «Non avevo messo in conto che ti avrebbe potuto infastidire…»

«Mettere in conto?» ripeté Severus.

«Non ci avevo pensato» mormorò Harry.

Gli occhi neri di Severus si alzarono di scatto dalla pergamena che stava leggendo, andando a imprimersi con ira in quelli di Harry.

«È sempre quello il tuo problema, Potter» sputò, velenoso. «Tu non pensi. Non pensi mai che forse non sei sempre tu ad avere tutte le ragioni, che anche gli altri hanno una sensibilità, che non sei più il Bambino che è Sopravvissuto. Tu non pensi»

Harry ascoltò le parole di lui a testa china, e Severus fu quasi sorpreso nel vederlo contrito. Ma l’immagine dell’Harry Potter undicenne gli era ormai rimasta impressa nel retro degli occhi, e non poteva ignorarla. Un freno pesante quanto un macigno gli si era ora imposto e non avrebbe sbagliato cercando di toglierlo.

«Hai ragione, ti chiedo scusa» disse piano Harry.

«Scuse accettate. Ora va’ via» sentenziò, statuario, Severus. Avvertì lo sguardo di Harry su di sé, un misto di gioia e confusione. Poi una mano arrivò al suo ginocchio, in una carezza tenera.

«Non poss-?» stava chiedendo Harry, ma Severus lo cacciò.

«Abbiamo sbagliato ad avere quel ménage. Io ho sbagliato» disse. «Ti prego di andare via e di non tornare, perché da questo momento tu ed io non siamo niente insieme»

Harry allontanò la mano, come scottato, la bocca semi aperta, lo sguardo vacuo. D’un tratto tutta l’aria del mondo gli fu negata, e la sua gola si contrasse alla ricerca di qualcosa, o delle parole giuste da dire per far cambiare idea a Severus. Ma Harry non seppe cosa dire. Abbassò la mano sulla propria coscia e, lentamente, fletté le ginocchia; si alzò. Severus non lo guardava. Era una maschera di cemento. Harry avvertì il proprio pomo d’Adamo espandersi sino a diventare una boccia per pesciolini rossi piena di lacrime. Poi, dopo un minuto, dopo un anno, uscì dallo studio, afferrò il mantello, e se ne andò.

 

Non c’era nessuno con lui, a parte l’eco di voci soffocate e risate isteriche.

Guriy si strinse le braccia conserve al petto, affondando di più nella pesante veste di servizio che, da sette mesi, indossava ogni mattina per quattro giorni a settimana, più straordinari. Perché a Shemeli faceva sempre fresco e, all’interno di quelle mura maledette, faceva sempre freddo. Troppo freddo per parlare, pensare, mangiare, ridere: soltanto i prigionieri ci riuscivano perché, dopo dieci, venti, novant’anni di reclusione era quasi scontato abituarsi e perdere la меркаваньне*.

Lui, Guriy, certamente non aveva perso molto a stare lì. Lo pagavano bene, quella strega di sua sorella lo lasciava in pace da quando aveva iniziato a portare a casa un po’ di soldi, e non aveva granché da fare se non qualche giro di ricognizione ogni tanto. Come scosso dalla propria mente stessa, il ragazzo, poiché non contava più di diciannove primavere, guardò l’orologio appeso alla parete grigia della cella dei vigilanti in cui sedeva. Mancava poco alle cinque: ora dell’ultima ronda e poi a casa. Si alzò, riordinandosi la veste in lana color antracite, e si assicurò di avere la bacchetta pinzata nell’apposita tasca delle brache. Poi uscì dalla celletta, lasciandola aperta: le chiavi di quello stanzino le aveva perse il vecchio Nazar appena un mese e mezzo prima, così ne facevano a meno. I suoi stivali alzavano suoni cupi nel largo corridoio antistante le celle dei prigionieri. Trasse dalla tasca della giacca il grosso mazzo di chiavi magiche quando giunse alla prima porta: ne avrebbe aperte quattro, avrebbe salutato qualche vecchio amico, e poi via, che i ragazzi quella sera lo aspettavano al pub di Ganna per festeggiare la nascita dell’ultimo maschietto di Rudol’f.

«Come te la passi, vecchio?» borbottò Guriy transitando accanto alla cella di uno dei più anziani dei detenuti. Sulla branda, nell’ombra, un vecchino gli fece un sorriso sdentato: sembrava fatto di carta, tanta poca carne aveva sulle ossa.

«Non c’è male» gorgogliò. Guriy gli fece un cenno.

Gli piaceva essere sempre amichevole coi suoi detenuti: erano dei poveracci e molti non sarebbero mai usciti da lì se non coi piedi in avanti. Farsi dei nemici tra loro era inutile. Così scorrazzò oltre la terza porta salutando e parlando con tutti quelli che gli rivolgevano la parola, stringendo anche la mano ad un uomo che, stando alle parole di Nazar, era impazzito un paio di mesi dopo la cattura e da allora aveva la fissa di stringere le mani. Erano dei poveracci.

Quando, infine, Guriy arrivò all’ultima porta, allora si fermò un momento in ascolto. Lì, il silenzio era ancora più fondo: occhieggiò oltre le sbarre, ma era tutto in ordine. Aprì la porta: si alzò un cigolio. Era tempo di entrare nell’ala più sorvegliata del piccolo carcere magico di Shemeli.

Non aveva particolarmente timore dei carcerati speciali: ogni volta che entrava nella loro ala poteva avvertire gli scudi magici lasciarlo passare, riconoscendolo come guardiano, e d’altronde non erano che tre gli ospiti di quell’ala. Guriy si corresse: quattro.

Passò davanti alla prima cella, controllando: il vecchio mago che ci viveva era seduto a terra come sempre, la testa tra le ginocchia, scosso da un intenso risolino. Le sbarre della cella accanto, invece, cingevano un viso che si sporgeva, i denti marci a mordere un listello metallico di quella sua prigione.

«Ciao Guriy» sputacchiò il mago. «Mi hai portato la mia cioccolata?»

«No, Gleb, non è domenica oggi» rispose bonariamente Guriy. Gleb annuì.

«Giusto, giusto, oggi è giovedì» disse, e Guriy non lo corresse, ma andò avanti. Il terzo mago dell’ala era sdraiato a letto e il ragazzo restò ad ascoltare per avvertire il suo respiro: sì, dormiva. Certo, potevano fare ben poco se non dormire, quelli: erano messi l’uno accanto all’altro, le celle vuote davanti, apposta perché non avessero nessuno da guardare, ma soltanto gli sproloqui altrui da ascoltare. Ma poi c’era lei.

«Inga» salutò cortese Guriy. La strega seduta sulla branda alzò la testa e, come ogni giorno, gli rivolse un sorriso radioso.

«Guriy» sussurrò. Aprì le braccia: aveva strappato le maniche della divisa così da far diventare la casacca una blusa che lasciasse in mostra i serpenti che aveva tatuati addosso. «Ti piace? Mi sto dando alla sartoria»

Guriy rise.

«Ti dona molto, ma dovrei farti un richiamo per questo» rispose. Inga rise a sua volta e si avvicinò.

«Che importa, mi darebbero un’altra divisa se me lo facessi?» chiese. Guriy scosse la testa.

«Allora vedi? Al massimo prenderò freddo»

Il ragazzo annuì.

«Non trovi che queste divise non siano per niente adatte alle forme di una signora?» soffiò ancora Inga. Guriy alzò gli occhi al cielo.

«Che strega vanitosa» disse, e il suo tono era pieno di amichevolezza. Inga rise la sua risata leggera e argentina.

Di tutti i maghi e le streghe oscure della sua prigione, Guriy doveva ammetterlo, lei era la più simpatica.

 

*bielorusso, senno.

 

 

Non ci sono parole per esprimere quanto io sia mortificata per aver abbandonato questa storia. Spero soltanto che chi l’ha tanto apprezzata sia felice di vederla tornare, perché d’ora in poi mi impegnerò ad aggiornarla fino a vederla conclusa, ora che mille e mille impegni sono giunti ad un termine.

Sono solo una scribacchina e, senza il mio pubblico, non sono nulla: quindi, mio adorato pubblico, chiedo scusa per l’assenza.

 

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Capitolo 13
*** 13. ***


13.

Nei giorni che seguirono l’alterco con Piton, Harry ebbe modo di conoscere una parte di sé che gli era sinora rimasta sconosciuta, di cui forse il giovane aveva intuito l’esistenza, ma che non si era mai manifestata. Alla brusca, forte, sicura fine che il Pozionista aveva posto alla loro relazione, Harry reagì con la mestizia. Non era ancora sceso a patti coll’essere diventato qualcosa d’altro dal Bambino che è Sopravvissuto: se ne rese conto ora, stupendosi quando la proverbiale rabbia che avrebbe provato da ragazzo non arrivò, lasciandolo vuoto, a trascinarsi sovrappensiero tra casa e ufficio. Anche Ron e Hermione si accorsero del cambiamento nel suo umore: Harry sembrava una grossa macchia lavata male, un alone di vino rosso rimasto sulla tovaglia della festa. E metteva anima e corpo nelle sue attività quotidiane, come sempre, restando però nella sua bolla, quella da cui, quando qualcuno gli rivolgeva la parola, lui faceva capolino con occhi grandi e chiedeva di ripetere. Così i due giovani sposi decisero, il weekend successivo, di planare come falchi nel piccolo appartamento londinese che era la tana dell’Auror, armati di vino elfico e ben poco preavviso. Quando Harry aprì la porta, infatti, lo trovarono scarmigliato, gli occhiali storti sul naso, una t-shirt consunta e macchiata e un’espressione mista tra una faccia da funerale e una maschera di perenne sorpresa imbelle.

«Scusate, la casa è un casino…» disse subito, ma li fece entrare: a terra erano mollate scompostamente le sue scarpe, accanto ad un sacchetto da cui si era dimenticato di togliere un sacchetto di pane del Tesco* e il companatico – una giara di salsicce tedesche estremamente pallide.

«Ma va, non preoccuparti» rispose Hermione con un sorriso, ma Ron si piazzò davanti al proprio migliore amico e lo afferrò virilmente per le spalle.

«Mi stai spaventando, amico»

Hermione se n’era andata direttamente in cucina, da cui arrivò lo scatto metallico dell’interruttore della luce. Il vago pallore della lampadina dal vano poco distante si rifletté sul viso di Ron, colorandolo di toni cupi.

«Ma no, Ron, sono solo un po’ sbattuto…» rispose neutro Harry. Le mani di Ron, grandi e lunghe, gli bruciavano sulla pelle.

«Tanto lo sai che non ce ne andiamo finché non ci dici tutto» disse risoluto il giovane, lasciando andare l’amico, e raggiungendo Hermione in cucina. Harry sospirò, si guardò attorno come alla ricerca di un rifugio, ma poi si rassegnò e lo seguì.

Le doti culinarie di Hermione non erano particolarmente spumeggianti – era bravissima a fare dolci, con la sua perizia zelante da Pozionista, ma la mancanza di allenamento e di fantasia si faceva sentire in ognuna delle sue pietanze. Finirono così a mangiare le orride salsicce del Tesco con un contorno di fagiolini, che Harry non ricordava di avere nel frigo, e i due coniugi cercarono alacremente di inoculare in Harry una scintilla di verve, ma senza riuscirci.

«Oh Harry ora basta» sbuffò infine Hermione, dal nulla, facendo sobbalzare entrambi gli uomini. Stringeva in mano il bicchiere di vino elfico, affossato nel grembo, e se ne stava appollaiata sulla sedia con i tacchi incastrati nel piolo, le ginocchia vicine al petto. «Dicci che diamine è successo»

Ron, che finora aveva parlato di Quidditch senza raccogliere particolare entusiasmo dall’amico, annuì una volta, preparandosi ad ascoltare. Sembrava ancora più preoccupato.

Harry sospirò.

«E va bene» disse, «però sentite, non partite in quarta, state zitti e ascoltate»

«…lo sapevo…» mormorò Ron distrattamente, chinando la testa lievemente verso Hermione, ma Harry lo ignorò.

«Ho avuto un… uno scambio di idee con Piton» disse sbrigativamente Harry. Guardò i suoi amici come mettendo una fine al discorso, ma gli occhietti malvagi di Hermione lo invitarono ad andare avanti. Era spaventosa, a volte, una minuscola Molly dalle guance meno rubizze e i capelli più leonini.

«E mi ha… credo… piantato» aggiunse quindi Harry. Ron alzò la testa fiera con un guizzo.

«Quel viscido schifos-!» iniziò a dire, ma sia Harry che Hermione gli parlarono addosso.

«E tu è così che non parti in quarta?» esclamò Harry.

«Cosa diavolo ci voleva a dirlo ai tuoi migliori amici?» esclamò Hermione.

La cucina cadde in un silenzio sepolcrale. I tre si guardavano a vicenda come iene radunate attorno ad una preda: infine fu Hermione a sospirare, allungandosi a sfiorare la mano di Harry.

«Dai, dicci tutto» mormorò. «Non è bello vederti così»

 

Quando Harry ebbe raccontato, dopo che Ron si fece rosso rosso nel trattenere i commenti e Hermione ebbe scosso un paio di volte la testa pensando a quanto stupidi fossero gli uomini, i tre restarono per un po’ zitti. I piatti sporchi erano immobili davanti a loro, i bicchieri vuoti, e anche dalla strada salivano pochissimi suoni. Non si erano accorti che aveva ricominciato a nevicare: quello che li attendeva sarebbe stato uno degli inverni più nevosi degli ultimi dieci anni.

«Insomma, te lo potevi largamente risparmiare» commentò Hermione. «Ma dovresti anche essere contento della sua reazione, no? Non avrebbe mai iniziato una relazione con uno studente»

Ron fece una smorfia, immaginandosi la prospettiva di una relazione tra un giovane Harry e Piton, ma tacque.

«Certo, certo» annuì mollemente Harry. «Molto cavalleresco, molto onesto e molto bello. Ma mi ha comunque piantato, quindi sono stato un cretino»

«E che ci voleva a far finta di niente?» chiese allora Ron, «Sai quante volte io faccio il cretino? Hermione mi urla contro, a volte mi affattura, poi le porto un mazzo di fiori e dopo una settimana torna a parlarmi»

Hermione alzò un sopracciglio.

«Ma se hai capito che i fiori non risolvono niente, perché continui a portarmeli?» chiese. Harry accennò un sorriso.

«Aiutano, tu non lo sai, ma inconsciamente ti preparano al perdono» rispose saggiamente Ron. Guardò Harry con aspettativa.

«Non è il tipo da mazzo di rose, temo» disse lui, rispondendo alla domanda silenziosa.

Hermione tossicchiò.

«Beh, Harry, non so come dirlo, ma devi comunque rivederlo» mormorò. Le sue gote si erano tinte di un lieve tono pescato.

Ron si grattò la testa, sulle spine.

«Cosa state nascondendo voi due?» chiese Harry, allarmato.

«Ma niente» rispose la giovane Ministra**, «è che Ron mi ha detto che stavi pensando di mettere sotto sorveglianza Piton e così…»

Harry rivolse un lungo sguardo vacuo a Ron. Lui alzò le spalle.

«Dopo quello che mi hai detto alla Testa di Porco… » disse.

«Mi sembrava fossimo giunti alla conclusione che era un’idea idiota» boccheggiò Harry, sinceramente stupito. Ron abbassò la testa, le punte delle orecchie scarlatte.

«Quando mi è passato a prendere, quella sera, Ron era pieno di pensieri su questa cosa» intervenne Hermione, «Non voleva dirmi cos’era successo, finché prima di addormentarsi non ce l’ha fatta più. Era preoccupato, non per Piton, ma per te»

«Ti ho visto davvero in apprensione» soggiunse piano Ron.

«Quindi è colpa mia, ho avviato io le pratiche, ma se vuoi possiamo finirla qui, Harry» continuò Hermione. «Pensavo solo che ti avrebbe dato più serenità avere quei sigilli. E non mi costava nulla richiederli…»

Harry annuì lentamente, sentendosi ancora più stupido. Osservò i suoi due migliori amici con deferenza, come un cucciolo che si aspetti una sgridata, ma anche loro gli rivolsero la stessa occhiata: come un liquido tiepido nello stomaco, tutto l’amore del mondo lo riempì, e come sempre la vita tendeva a ricordargli, rivide i profondi segni che li avrebbero sempre tenuti uniti con affetto, stima e cura reciproci.

«Siete i miei angeli custodi» sorrise allora Harry, ricevendo un’occhiata confusa da Ron e un sorriso caldo da Hermione. La giovane donna si alzò e andò ad abbracciarlo e Ron, intuendo che Harry li aveva appena complimentati, la seguì, sigillando la loro stretta tripartita dall’alto del suo metro e novantacinque.

 

«Ma perché sei qui, Inga

Guriy non aveva mai posto quella domanda a nessuno dei suoi detenuti. Certo, era da poco che lavorava alla prigione senza nome di Shemeli, e Inga era quella con cui parlava di più ogni giorno, ma non gli era mai balenato in testa di farlo, anzi si era molte volte ripetuto, durante il primo periodo di lavoro, di non farsi mai i fatti dei prigionieri così da non lasciare che loro si facessero i fatti suoi. Ma ora invece se ne stava seduto davanti alla cella di lei, e per un attimo una vocina in testa gli chiese che diamine stesse facendo, ma gli occhi di Inga zittirono in un momento quel rimorso e il suo sorriso riportò tutta la sua attenzione su di lei.

«Non penso mi crederesti se te lo dicessi» rispose.

Le guardie di Shemeli non sapevano nulla dei loro carcerati: certo, Nazar la sapeva lunga sul conto di certuni di loro, perché quella era ormai la sua seconda casa, e così anche Guriy sapeva di che colpe si erano macchiati alcuni dei residenti del grigio edificio gelido che sorgeva sulla collina più alta della cittadina, che i Babbani avevano imparato a chiamare il Vecchio Castello. Ma per il resto era tutto un punto interrogativo, soprattutto circa quelli di cui la stampa non aveva parlato. Naturalmente dei più pericolosi maghi oscuri Guriy aveva sentito parlare: come di quello che si faceva chiamare Holaus, che stava dormendo a pochi passi da loro, che aveva sterminato un’intera linea genealogica dopo che il suo amore incestuoso non era stato ricambiato dalla più giovane nipote. Ma di Inga niente, non sapeva nulla: forse perché lui, la stampa estera, non la leggeva. E per estera intendeva anche il gazzettino di Kaboshi, che stava a pochi chilometri da lì, figurarsi i giornali nazionali. E poi era meglio, per lui, così: aveva la possibilità di sapere dalle labbra degli interessati, se voleva.

«Dai, che motivo avrei di non crederti?» la spronò gentilmente.

Inga si guardò le mani.

«Perché non so se sai quali crimini terribili possa compiere uno scricciolo di ragazza come me» disse piano, la voce incrinata. Guriy aggrottò la fronte: sentiva l’impulso di abbracciarla, di scacciare via il suo dolore, di cullarla. La osservò. E di baciarla, forse. Era una perla incastrata nel petrolio, lì, nel buio di quelle celle…

Senza rendersene conto, quest’ultimo pensiero scivolò via dalle labbra del ragazzo. Divenne rosso in viso, borbottando, ma Inga gli sorrise luminosa.

«Nessuno mi ha mai detto una cosa tanto carina» disse. Sembrava essersi tirata su di morale.

Guriy fece una smorfia.

«Non ci credo» disse, e i loro sguardi restarono per un po’ incastrati tra loro. Poi Inga abbassò la testa.

«I miei genitori mi volevano un gran bene» sussurrò. «Mi hanno istruita a casa, da sola, dopo che il mio fratellino morì. Ero felice. Non mi era mai venuto in mente che non avere la possibilità di farsi degli amici, di giocare con gli altri bambini, di andare a scuola potessero essere segni di una tale gelosia. Ma un giorno compii vent’anni e, sulla strada per il pozzo, incontrai il mio unico vero amore. Ci vedevamo là ogni settimana: mi chiese di essere la sua sposa. Così, stupida e ingenua, lo portai da loro. Erano ostili, refrattari, ma io avevo fiori incastrati sulle palpebre. Acconsentirono alla nostra unione e non capii finché, una settimana esatta dopo, il corpo del mio unico grande amore fu trovato riverso nel nostro pozzo. Era forte, pieno di gioia, ma dissero che si era suicidato»

A quel punto in Guriy l’istinto di prenderla a sé era diventato ardente come un tizzone. Gli occhi di Inga erano pozze di vuoto, fredde e secche – occhi di chi aveva già pianto via la propria anima. Le sue dita stritolavano dolorosamente il bordo della casacca, come cercando di farla a pezzi.

«Impazzii. Si trovarono legati al letto, una notte, e urlavano pietà quando li torturavo. Mi avevano tolto l’unico uomo che potesse amare una reietta come me. Morirono di stenti. Impazzita, vagai per giorni nella campagna, a chilometri e chilometri da qui. Mi trovarono che mangiavo bestie per sopravvivere. Scoprirono tutto e mi giudicarono troppo pazza, troppo pericolosa per poter finire in nessun posto che non fosse questa cella»

Il racconto di Inga cadde nel vuoto, lasciando lei in attesa, lui a bocca aperta. Rimasero in silenzio a lungo, tanto che alle orecchie di Guriy tornarono i rumori della prigione, i sussurri, i movimenti, i respiri. Si sentiva tornare a galla come una boa, di nuovo all’aria aperta dopo l’abisso. Ma sentiva su di sé un paio di occhi pieni di terrore e le parole che seguirono cementificarono alla realtà i suoi pensieri.

«Non mi parlerai mai più, non è vero?»

«Ma no» sussurrò il ragazzo. Tornò a guardare le mani di Inga: avrebbe voluto stringerle tra le sue, farle sentire il proprio calore, portarla in un posto in cui tutto quel dolore non sarebbe mai tornato.

«Sapevo di dovermi aspettare una storia triste. E immaginavo che una creatura come te non fosse capace di alcun male se non costretta da gente cattiva»

Inga lo ringraziò con gli occhi, mesta, e accennò un sorriso spezzato.

«Ho un gran mal di testa» sussurrò a mo’ di saluto. Guriy si scosse di dosso la polvere di favola che gli si era sedimentata con la storia di Inga: si alzò.

«Riposa, allora» disse piano. Le sorrise con forza. «Io non ti giudico, Inga, nessuno qui dentro è un mostro»

La strega parve illuminata da quelle parole: lo guardò intensamente, riscattata, e arrossì lievemente. Poi, senza aggiungere altro, si alzò, andò alla branda e lo salutò con la mano.

Quando Guriy smontò, dieci minuti dopo, e lasciò Nazar alla prigione, si sentiva diverso. Il freddo pungente che aleggiava sulla collina gli morse violentemente il viso e le mani, ancora nude. Si ficcò i guanti con foga, poi si guardò attorno: la cittadina, una chiazza beige nell’atmosfera grigia, lo osservava da sotto ai suoi piedi. Avrebbe dovuto camminare cinquecento metri per Smaterializzarsi e tornare a casa, ma avrebbe atteso un poco. Una fiammella, tenera di fuoco primigenio, gli si era accesa nel cuore, piena di pietà. Era la pietà per Inga, che era troppo bella per quella prigione, troppo giusta per scontare i peccati degli uomini, troppo preziosa per marcire come una rosa abbandonata in un vaso. Il giovane guardiano della prigione di Shemeli si voltò a guardare la bocca oscura che era il portone ferrato dell’edificio:

«A domani, mia amata Inga» sussurrò, prima di mettersi lentamente in cammino.

 

 

*Tesco: una delle principali catene di supermercati britannici.

** il dubbio amletico sul femminile delle cariche istituzionali me lo ha risolto l’Accademia della Crusca, che ha diramato il comunicato che, con parole quali “ministro”, “assessore”, “deputato”, è bene comportarsi come con qualsiasi altro sostantivo che indichi figure professionali. Fonte: http://www.accademiadellacrusca.it/en/press-releases/crusca-risponde-ministro-ministra

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Capitolo 14
*** 14. ***


14.

Non accennava a smettere di nevicare. Sembrava che tutto il mondo fosse coperto da uno spesso strato di neve gelida e ovunque bambini in festa e cani si godevano quel tappeto naturale giocando fino a stancarsi, liberi da ogni pensiero. Anche Harry, la mattina dopo l’incursione dei coniugi Weasley-Granger, si era ritagliato un momento per sé: era domenica, così si era imbottito bene e ora se ne stava ai margini del bel parchetto di quartiere, a pochi minuti di strada da casa, intento a osservare in religioso silenzio tre fratelli che stavano costruendo un pupazzo di neve. L’aria che gli usciva dai polmoni creava nuvolette festose, e il silenzio ovattato che gli riempiva la testa prometteva con dolcezza di durare per sempre.

«Posso sentire gli ingranaggi del tuo cervello sin da qui»

Una voce conosciuta lo fece infine sussultare e si voltò: c’era Sirius a pochi passi da lui, avvolto in un pesante mantello nero che non si distingueva particolarmente da una costosa cappa babbana.

«Certo che sì, Felpato, sarebbe preoccupante il contrario» sorrise Harry prima di scambiarsi un forte abbraccio col padrino.

«Ero venuto a farti un saluto, passavo di qua» aggiunse Sirius, «e sono fortunato, vedo. Sei in ferie?»

«Hermione mi ha accordato una giornata di pausa» rispose Harry, tenendosi sul vago. Il suo tono disinvolto non trasse però in inganno il suo padrino, che lo squadrò con un sopracciglio alzato. I suoi occhi di ghiaccio sembravano scandagliargli l’anima.

«C’è qualcosa di cui vuoi parlare?» chiese allora Sirius. Harry accennò un sorriso: era davvero buffo quanto quell’uomo arrivasse sempre al momento opportuno. Non aveva vissuto un piccolo dramma quotidiano che fosse uno senza che Sirius vi capitasse causalmente in mezzo: quando era stato contuso in un inseguimento piuttosto colorito, quando una tubatura era esplosa in cucina. Il suo padrino era sempre arrivato portando consiglio, conforto e qualche sorriso.

«Ho litigato con Severus» rispose Harry dopo un istante. Sentì Sirius irrigidirsi, quindi attese, ma non arrivò commento dall’uomo al suo fianco, e il giovane poté apprezzarne lo sforzo titanico di tacere per dargli conforto. «Credo mi abbia lasciato»

Sirius sospirò e levò una mano: gliela posò sulla spalla, osservandolo.

«Come l’hai presa?» chiese.

«Non mi era mai capitata una cosa così» rispose semplicemente Harry. «Male, credo. Ma penso sia normale»

Sirius fece una smorfia.

«Sai che basta una parola e io…» iniziò a dire, ma Harry lo interruppe senza resistere all’aprirsi in un largo sorriso.

«Non andare a spaccargli le vetrine del negozio» disse, «Ho sbagliato io»

«Avrei suggerito un pugno ben assestato in effetti, ma immagino tu rimanga della tua idea» bofonchiò Sirius. Harry rise, e il viso del suo padrino si rischiarò, sollevato dall’udire quel suono limpido, giovane, che raschiava solo sul finire di una nota gutturale di uomo.

«Non ci hai detto nulla» aggiunse dopo un poco. Harry annuì gravemente.

«Non ne ho veramente parlato, finora. Ron e Hermione hanno fatto irruzione ieri per costringermi a raccontare» disse.

Sirius sorrise.

«Santi ragazzi» commentò. La sua mano era ancora sulla spalla di Harry, e parve accorgersene solo ora, così la rimise in tasca, al riparo dalla brillante atmosfera ghiacciata che li avvolgeva.

«Ehy, perché non pranziamo assieme? Remus è a casa?» propose Harry, volgendo il viso verso Sirius. A quelle parole il volto dell’uomo si incupì un istante.

«Harry…» disse piano. «Certo, sei sempre benvenuto a casa nostra. Però devo dirti una cosa prima di organizzare altro, ecco… non ero proprio nei paraggi per caso»

Harry avvertì la punta di urgenza nel tono del suo padrino, così si fece attento, puntando gli occhi color speranza nei suoi.

«Cos’è capitato?» chiese, attento. Sirius aprì la bocca come per rispondere, ma poi si fermò e invece trasse un giornale arrotolato dal mantello: lo porse a Harry, che con un’occhiata notò che non si trattava di una testata giornalistica britannica.

«Cos’è?» chiese di nuovo il giovane.

«Remus legge la stampa internazionale» spiegò brevemente Sirius. La testata giornalistica in questione si chiamava La Magiisto* ed era scritta in una lingua che Harry non conosceva. Stava per sollevare la questione con Sirius quando, sotto i suoi occhi, le lettere dei testi presero a tremare, a muoversi e a riordinarsi: così le frasi in esperanto si tramutarono in inglese e Harry poté comprendere il titolo a lettere cubitali che regnava incontrastato sulla prima pagina del quotidiano.

Strega oscura in fuga, l’eredità di Julius Christianus sulle nostre crape?

Harry imprecò a voce alta, tanto che i tre fratelli poco lontano alzarono le teste incappucciate e lo guardarono con un misto di disdegno, vergogna ed ammirazione.

«Immaginavo ti sarebbe interessato» annuì Sirius, «ed essendo domenica avevo il dubbio tu non avessi ancora letto i giornali»

«Proprio no» sussurrò Harry. Tese il giornale a Sirius.

«Devo andare al Ministero» disse. «Se quella strega torna a Londra…»

«Salva quell’untuoso di Piton, se devi» lo interruppe Sirius. Il suo tono non aveva nulla di scherzoso, i suoi occhi bruciavano sulla pelle di Harry. «Ma sta attento»

Il giovane mago guardò per un lungo momento il suo padrino prima di stringerlo di nuovo a sé. Sirius lo abbracciò con forza, quasi a non volerlo più lasciare, ma la fiducia sconfinata che provava verso di lui gli fece sciogliere la stretta, così lo guardò correre via, preoccupato, verso quella professione di pericolo che si era scelto.

 

Di solito di domenica il Ministero era deserto, poiché dalla fine della guerra si era voluto istituire un giorno del tutto dedicato al riposo. Harry quindi non prese in considerazione che non avrebbe dovuto trovare nemmeno una donna delle pulizie, almeno finché non si trovò ad entrare nell’edificio, ma il dubbio durò un momento, perché appena mosse un passo andò a sbattere contro un nugolo di maghi e streghe vocianti. Alta e austera, la voce di Hermione si alzava dal centro del nugolo.

«Certo che non lo sappiamo, Willhelm» stava dicendo, perfettamente controllata. «Potrebbe precipitarsi qua come andare ad annegarsi nel Mar Morto»

La folla concitata si muoveva come onde di un laghetto di montagna. Harry cercò di farsi largo.

«Il Ministro bielorusso ha mandato un altro gufo!» urlò un’altra voce. Harry sentì Hermione esplodere in una delle rarissime imprecazioni che pronunciava.

La raggiunse in quel momento e senza dire nulla le afferrò il polso. Probabilmente la notizia le era arrivata all’alba, perché quando si voltò Harry vide il suo viso tirato, senza il filo di trucco che aveva preso l’abitudine di indossare. Si era infilata un paio di jeans babbani e un lupetto beige per correre al lavoro più veloce della luce.

«Harry!» esclamò, ricambiando la sua stretta afferandogli una mano.

«È un casino, Harry» aggiunse. Gli indicò un punto imprecisato. «Và al mio ufficio, cerca nel primo cassetto della scrivania. La pratica Piton deve essere firmata dall’Auror assegnato al caso. Quando hai fatto mettila nello scivolo delle urgenze e aspetta lì»

Lo afferrò per un braccio e lo sospinse, tornando a nuotare nella bolla umana che la avvolgeva. Harry osservò la figura di lei svanire sotto i corpi dei suoi collaboratori, poi corse all’ufficio del Ministro.

Aprì la porta con violenza, senza curarsi di farla sbattere – un ritratto se ne lamentò ad alta voce – e scivolò sulla sedia aprendo con velocità il cassetto indicatogli da Hermione. C’erano pile e pile di fascicoli, e Harry imprecò tra sé leggendo cognomi conosciuti stampigliati sulle cartelle viola. Sul cassetto era imposto un incanto: Harry trasse più di una decina di fascicoli prima di trovare quello giusto, e da un lato si stupì dell’immenso lavoro che doveva svolgere ogni giorno Hermione, dall’altro non volle pensare alla ventina di fascicoli che giacevano sul fondo del cassetto e non aveva dovuto portare alla luce. Rimise tutto in ordine rapidamente ma con cura. Poi aprì il fascicolo Piton: il primo foglio era la richiesta dell’imposizione di un sigillo di livello due – civile, pericolo arancione. Harry ricordò di aver dovuto studiare qualcosa a proposito di quei sigilli: ad esempio, quelli imposti al suo appartamento erano per Auror britannici, pericolo livello bianco. Ce n’erano poi di rossi per civili minacciati direttamente da pericoli mortali. Per un momento si chiese come mai Hermione non aveva richiesto un sigillo rosso, ma subito si calmò: non doveva farsi prendere dall’ansia. Severus non era direttamente minacciato e, comunque, sapeva difendersi. Se lo ripeté. Poi firmò.

Afferrò il foglio e corse al trancio di parete sinistra libero da mobili su cui si aprivano le bocche di due scivoli: quello più in alto era argentato, per la posta quotidiana. Quello più in basso era rosso, per la posta celere. Infilò lì il modulo, confidando nella burocrazia perfetta del Governo della sua migliore amica. Poi lasciò cadere le spalle. Era tempo di attendere.

 

Hermione riuscì a tornare a galla soltanto dopo tre quarti d’ora. I suoi collaboratori le avevano presentato lettere, documenti e richieste senza sosta, e fu soltanto dopo aver trattato faccia a faccia tramite camino col Primo Ministro bielorusso che riuscì a chiudersi in ufficio con Harry.

«È un casino» disse non appena si fu chiusa la porta alle spalle. Si diresse rapidamente ad un grosso mobile ligneo addossato accanto alla finestra e lo aprì: ne trasse una sacca e, senza attendere oltre, si levò gli abiti babbani che si era ficcata addosso prima di uscire di casa per indossare una veste formale color vinaccia. Harry, arrossendo, scostò lo sguardo e si alzò dalla sedia su cui l’aveva finora attesa, andando a guardare fuori dalla finestra.

«C’è un motivo per cui ti stai cambiando in ufficio?» chiese.

«Il Primo Ministro bielorusso sta arrivando, non posso presentarmi in jeans» rispose la strega. Si legò alla vita una lunga cinta fibbiata e in ultimo trasse dal mobile un bolero molto démodé della stessa tinta della veste. «Puoi girarti» aggiunse, così Harry si volse a guardarla.

«Pronta ad ogni evenienza, eh?» disse piano il giovane, facendole nascere sul viso un sorriso amaro.

«Per forza» rispose lei.

Harry rimase in silenzio, osservandola con occhi carichi di significato. Hermione ci mise un paio di istanti a capire che c’era qualcosa da spiegare, ma alla fine si riscosse.

«Oh, giusto» fece, «Allora, Inga è fuggita dal carcere di Shemeli in cui era stata confinata. Ha ammazzato una guardia, non ho idea di come abbia fatto. E pare abbia lasciato una lettera minatoria»

Harry non domandò chi Inga minacciasse nella lettera: lo poteva immaginare, dopo essere stato spedito a richiedere quei sigilli straordinari.

«Il Ministro me la sta portando ora» aggiunse Hermione. Guardò verso la porta.

«Vengo con te» disse Harry, muovendosi verso di lei, ma la strega alzò una mano.

«Non posso permettertelo» rispose. «Hai motivi personali per prendere parte all’incontro, non presenzieresti in qualità di Auror. E poi serve che qualcuno sia pronto a prendere le carte controfirmate e vada ad apporre i sigilli»

Harry abbassò la testa, combattuto. Avrebbe davvero voluto assistere all’incontro, non che non si fidasse di Hermione, ma non poteva fingere di far finta di nulla e restare ai margini. D’altronde sapeva di essere uno dei bersagli di Inga e, lo aveva detto anche Hermione, era lui l’Auror incaricato del caso. Ma dall’altra parte sentiva l’urgenza di correre da lui, di metterlo al sicuro, di vederlo. Annuì.

«Va bene, lo farò» disse. «Ma tienimi informato»

«Non ho la moneta con me» rispose Hermione, dispiaciuta. Harry alzò le spalle.

«Mi farò vivo io, allora. Ron?»

«A casa, nel caso in cui arrivino gufi anche lì, cosa che di sicuro sta accadendo»

Hermione si stropicciò il viso, lasciando una traccia rosea tra gli occhi. La rivoluzione di cui faceva parte l’aveva inghiottita intera, viva e scalciante, e nei momenti come quello Harry poteva intravedere la stanchezza di lei. Ma fu solo un momento e la Ministra Granger si eresse nella sua statura, frizzante di giovane magia guizzante. Gli batté una mano sulla spalla e senza aggiungere altro uscì dallo studio.

Senza attendere oltre, Harry se ne andò all’Ufficio per l’Applicazione della Legge sulla Magia, dove trovò Henry Begum, una camicia da notte a fiori verdi sotto al mantello, seduto alla scrivania.

«Auror Potter!» fece il mago, i capelli bianchi sparati in aria. Harry gli sorrise.

«Mi spiace per l’imprevisto, Begum» gli disse, «Hai firmato?»

Begum gli porse l’autorizzazione che aveva spedito alla sua scrivania e Harry, salutandolo con un cenno, corse via. Doveva ancora andare a ritirare il sigillo da apporre a Casa Piton e poi sarebbe potuto andare. Svoltò l’angolo senza pensieri, nel silenzio di quella domenica mattina: si stupì quindi quando un corpo si frappose tra lui e la sua meta, troppo minuto per fare altro se non cadere all’indietro. Con uno scatto, Harry afferrò Candice prima di vederla rovinare sul pavimento: stupito, la osservò. Aveva i bigodini in testa e indossava una veste piena di volant color pervinca. Il marito di Candice doveva certamente trovare quella veste da camera sensuale, conoscendo i gusti della popolazione magica.

«Oh!» aveva esclamato la segretaria, e stringendo in mano una scatoletta metallica si lasciò rimettere in piedi, confusa.

«Scusami, Candice, pensavo non ci fosse nessuno in giro» disse Harry. Guardò ciò che la donna portava con sé. Lei gli porse la scatolina, battendoci sopra le unghie.

«Le stavo portando il sigillo, mi ha avvertita Charla» spiegò. Harry non riconobbe il nome della strega che lavorava per Hermione, perché erano davvero in troppi a collaborare con lei, e certamente Charla era una di quelli che poco prima stava sbraitando nell’Atrio. Afferrò la scatola contenente il sigillo.

«Grazie mille» sorrise a Candice. La donna lo guardò andare via con un lieve peso sullo stomaco. Tra sé e sé sperò che l’immensa fortuna di Harry Potter non lo abbandonasse mai. Poi se ne andò alla scrivania, elegantissima nella sua nuova camicia da notte.

Harry arrivò davanti alla bottega in tempo record. La via era deserta, affondata in un silenzio crepitante di gelo. Sentiva i battiti del proprio cuore a mille e, facendosi forza, stava lasciando fuggire un lungo sospiro: ma gli si strozzò in gola quando la voce di Severus, piatta e soffocata, lo sorprese.

«Cosa fai qui?»

 

 

 

*esperanto, il mago.

 

 

 

°Hello daisies! Con questo capitolo vi lascerò per un breve periodo di ferie in cui sarò, molto probabilmente, senza connessione internet. Il quindicesimo capitolo però è in corso d’opera, quindi, con la serenità vacanziera conto di concluderlo e caricarlo non appena avrò internet.°

 

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Capitolo 15
*** 15. ***


15.

Lo aveva trovato il suo vecchio collega alle quattro e mezza, quando era arrivato per iniziare il turno. Era steso a terra davanti alla cella di quella strega oscura arrivata da poco, solo che la cella era spalancata, la strega non c’era e per giunta tutte le altre porte erano chiuse, così che nessuno poteva accorgersi di nulla se non capitando proprio nell’ultima ala del carcere. Nazar, dopo aver appurato che la strega era riuscita in qualche modo a bluffare i sistemi di sicurezza, che ora erano attivi, si era chinato sul collega, scuotendolo per una spalla. Ma Guriy non aveva risposto, e non avrebbe risposto mai più. Non avrebbe mai potuto raccontare della forza invisibile che gli era scivolata come sciroppo nella testa, riempiendogli il cervello di adorazione per Inga, convincendolo che disattivare per cinque minuti i sistemi di sicurezza per lei era la cosa giusta. Come per portarla in infermeria, senza disattivare gli allarmi delle altre celle: solo che Inga non avrebbe trovato barriere all’uscita, e sarebbero potuti fuggire assieme, lontano, dove nessuno li conosceva. Ma poi era arrivata quell’onda d’urto che gli aveva bruciato gli organi interni, lasciandolo a terra come un sacco di patate, solo, sotto gli occhi degli altri carcerati. E loro questo lo avevano raccontato, a spizzichi e bocconi, alle autorità che Nazar era poi corso a chiamare. Su Shemeli cadde una coperta di tristezza e terrore. Le famiglie iniziarono a sbarrare le porte di casa, al calare delle tenebre. La sorella di Guriy vestì il lutto. E il testo della lettera che fu ritrovata nella tasca della divisa del defunto fece il giro del mondo magico.

Ma il pericolo fu presto lontano dal minuscolo centro magico arroccato nella più sperduta campagna bielorussa. Nessuno la vide fuggire, ombra tra le ombre, e i poveri e onesti maghi e streghe furono abbandonati nella paura mentre lei, gli occhi allucinati, le labbra piegate in un sorriso, si allontanava senza soffrire il freddo, né la paura dell’ignoto.

Nessun impiegato ministeriale arrivò alla prigione di Shemeli prima dell’ora di pranzo. Non dissero perché, nonostante il Ministero fosse stato avvertito non appena le autorità locali ebbero appurato che il vecchio Nazar diceva il vero. Nel paesello il tempo sembrava scivolare come melassa mentre, tutt’attorno, il mondo magico aveva già iniziato a tremare al pensiero di una nuova forza oscura.

Inga si nascose. Senza demordere, riuscì ad arrivare ad un bosco molto, molto lontano dalla prigione: aveva le gambe graffiate, era intorpidita dal freddo, e le scarpe che le avevano fornito si erano rotte ormai molto tempo prima, lasciandole grosse abrasioni sulle piante dei piedi. Ma si lasciò cadere a terra solo quando fu del tutto nascosta nel folto di quella macchia solitaria: cadde a faccia in giù e nessuno avrebbe potuto avvertire la risata che prese a scuoterla. Là rimase per un giorno intero: si procacciò del cibo, aggredendo le poche bestiole che abitavano la macchia, principalmente topi muschiati, e restò in attesa di venire scoperta o di averla vinta. Quando poi trascorse la notte e nessuno era venuto, allora Inga si alzò dal giaciglio che si era creata con rami e foglie e abbandonò il suo nascondiglio. Troppo presto, qualcuno avrebbe detto. Ma quel qualcuno certamente non sarebbe stato a conoscenza della pericolosità del veleno di Inga.

 

«Cosa fai qui?»

Harry si voltò: Severus, bardato di un pesante mantello nero bordato in pelliccia, lo scrutava. Si era tirato il cappuccio sulla testa per combattere i fiocchi di neve che continuavano a cadere copiosi.

«Ho bisogno di parlarti» rispose Harry. «È urgente»

«Lo credo bene»

Severus gli girò attorno e andò ad aprire la porta. Senza curarsi di lui entrò e Harry si trovò da solo nella buia bottega del Pozionista. Allora chiuse la porta con un sospiro.

Quando fu entrato nell’appartamento, Harry trovò Severus in cucina: si era liberato del mantello e ora preparava il tea con gesti rapidi e concisi.

«Ti sarai congelato, là fuori» borbottò Harry. L’altro non alzò il viso.

«Ho provato l’ebbrezza di una passeggiata sotto la neve» rispose, «ma come immaginavo, solo i cretini come te possono apprezzare quel freddo»

Harry non poté fare a meno di sorridere davanti all’insulto. Un calore piacevole gli si era sciolto nel petto vedendo Severus, e si sarebbe preso volentieri tutte le frecciatine del mondo pur di godere un po’ della sua vicinanza. Ma il pensiero di ciò che lo aveva portato lì gli ricadde addosso, un masso che rotoli da una scogliera pronto a schiacciare qualunque cosa si frapponga tra lui e la sua meta.

«Inga è fuggita di prigione» disse quindi Harry. Severus continuò a sfaccendare.

«E?» fece, per nulla impressionato.

Harry si mosse sul posto, seccato, trattenendosi. D’altronde se l’era aspettata una risposta del genere, o meglio, una totale mancanza di risposta.

«Il Ministero ha deciso di assegnarti un sigillo di protezione» aggiunse Harry. «Non puoi rifiutarlo o dovrei arrestarti. Inga potrà ancora avvicinartisi, ma non appena entrerà in questo edificio la mia squadra verrà allertata e verremo a prenderla con le mani nella marmellata»

L’Auror aveva abbassato la testa parlando, ad osservare la scatola metallica che racchiudeva il sigillo. Così non vide che Severus si era voltato a guardarlo, un ghigno sulle labbra fini, e che aveva preso a studiare ogni centimetro della sua figura.

«Il Ministero o tu?» chiese a voce bassa il Pozionista.

Harry rabbrividì sentendo quel tono. Lo guardò, finendo per annegare nei suoi occhi neri come pece, e l’istinto ti andare là e baciarlo, infilare le dita nei suoi capelli e stringerlo lo investì, tanto che non si accorse dei passi che mosse verso di lui. Ma poi si fermò.

«Non credo ci sia differenza, il Ministro in carica è la mia migliore amica» si ritrovò quindi ad ammettere. Severus non fece vacillare il sogghigno e fu lui, stavolta, ad avanzare. Si trovarono quindi a pochi passi di distanza e un silenzio elettrico cadde su di loro.

«Se rifiutassi quindi…?» chiese ancora il Pozionista. Ancora quella roca voce gutturale.

Harry non rispose. Non poteva permettersi, infondo, di ammettere che quella era stata una bugia bella e buona. In compenso appoggiò al tavolo la scatolina e annullò la distanza che ancora li separava.

Si parò dinanzi a Severus con forza, con l’espressione di uno che non lo avrebbero fatto indietreggiare nemmeno i cannoni. E Severus si prese il tempo di leggere all’interno delle sue pupille, quei cestini di erba primaverile recisa e mischiata ai fiori di tarassaco, pagliuzze dorate immerse nel verde. Alzò una mano e la pose sulla guancia di Harry. Lui chiuse gli occhi.

Si baciarono con foga stridente, spezzando d’improvviso la tela di lenta seduzione che avevano finora tessuto in quella minuscola frazione di tempo. Le gote ruvide di Harry, il respiro grosso di Severus, le mani che sfioravano, graffiavano, tastavano ovunque. Non fu con grazia che Harry spinse Severus al muro, aprendogli la camicia e mettendogli a nudo il petto pallido, intessuto di muscoli torniti ma timidi e di ossa spigolose. Non si curò di strattonarlo Severus quando lo afferrò per i capelli per baciarlo di nuovo, mordendogli le labbra con desiderio. E quando la bocca di Harry perse la bussola e scivolò sulla grossa cicatrice che un tempo lontano aveva lasciato sul collo di Severus, allora lui ringhiò e lo spinse via solo per poi afferrarlo e trascinarlo oltre la porta della cupa camera da letto, in cui pesanti tende oscuravano la vista sul panorama ghiacciato dei tetti di Notturn Alley. Schioccando l’aria con violenza, cinte furono strappate via dai pantaloni, camicie scivolarono a terra, gemiti si alzarono nell’etere. E furono infine nudi ad amarsi sulle coperte monocromatiche di quel grande letto mentre, in cucina, l’acqua per il tea bolliva, dimenticata.

 

«Ahia, stramaledetto affare…»

«Sempre fini vedo»

«Ah, sta zitto. Oppure provaci tu»

«Oh no, Auror Potter, non mi premetterei mai»

Avvolto nella vestaglia, Severus si allungò a baciargli il collo nudo e Harry sorrise, godendosi pacatamente il momento. Erano trascorse un paio d’ore da quando era arrivato e ora se ne stava in piedi dietro la porta d’ingresso dell’appartamento, in boxer, e stava cercando di installare il sigillo.

Imprecò ancora sottovoce e sentì Severus ridacchiare. Aveva acceso il camino, lui, dopo aver fatto l’amore: quell’inverno rigido lo congelava sino al midollo, Harry lo aveva notato, e accarezzando il suo stomaco piatto si era anche chiesto se forse non era anche a causa della sua magrezza. Ma aveva taciuto, o nulla lo avrebbe salvato da un’accusa di essere uguale a Molly.

Il sigillo alzò uno squittio: Harry allontanò le mani e finalmente l’aggeggio si era incollato al muro. Era simile ad un grosso insetto, ricoperto di un’armatura bronzea che lanciava ombre scure e metalliche sotto il sole.

Sistema di sorveglianza H.S.S. 23. Auror Potter?

Severus, che si era allontanato, si fece di nuovo vicino, incuriosito.

«Sono io» rispose Harry. Si pose le mani ad anfora sui fianchi, fiero come Artur quando era riuscito ad utilizzare il suo primo cacciavite a percussione.

Responsabile individuato. Entrata in funzione: tre – due – uno.

Si alzò un unico, alto bip dal sigillo, poi tutto tacque. Harry ci bussò con un dito, ma non accadde nulla.

«Bene, siamo a posto» disse quindi. Non sembrava molto convinto.

«E quello come farebbe ad evitare che Inga mi ammazzi nel sonno?» chiese Severus con un sopracciglio alzato. Harry lo fulminò con lo sguardo, poi se lo tirò contro e lo baciò profondamente.

«Rileva maghi e streghe oscure» rispose, «e mi manderà la diagnostica di chiunque entri nell’edificio»

Severus scosse piano la testa. Gli posò le mani sul petto.

«Forse non te ne sei accorto, ma siamo a Notturn Alley, qui ne girano parecchi di maghi oscuri»

Harry alzò una risata che per un momento infastidì Severus. Si sentì preso in giro, così strinse le labbra, ma dovette subito desistere perché un altro bacio lo raggiunse.

«Mi spiace deluderti, ma non siete così oscuri come volete farci credere» rispose Harry. Poi la sua espressione s’incupì.

«Non quanto Inga, almeno»

Severus lo vide abbassare gli occhi e sentì le sue braccia forti acuire la stretta sui suoi fianchi. Posò la testa nell’incavo del collo di Harry, beandosi del suo calore. Oh, gli era mancato, eccome se gli era mancato.

«Sono sopravvissuto all’Oscuro Signore» mormorò. «Inga non è certo la cosa peggiore mi sia mai capitata»

«E si da il caso che il tuo ragazzo sia l’Auror più figo in circolazione» sogghignò Harry.

La lieve spallata che lo colpì lo fece ridere.

«Dovrai tornare al Ministero ora»

Severus lo aveva sussurrato, non domandato, e a Harry parve di avvertire una nota di dispiacere nel suo tono. Non capì: non si aspettava quel genere di malinconia, da lui. Però il suo cuore buono rispose automaticamente e una mano salì ad accarezzare i capelli di Severus.

«Devo seguire gli sviluppi, voglio essere preparato a qualsiasi evenienza» rispose.

Le dita di Severus scivolarono lungo la pelle delineata dall’elastico dei suoi boxer. Harry rabbrividì.

«Allora ti va di tornare qui, dopo?» chiese piano il Pozionista. Harry s’irrigidì un istante, sorpreso. Non si sarebbe aspettato nemmeno una proposta del genere.

«Certo che mi va» sorrise quindi. Baciò Severus accanto all’orecchio, attento, ora a non toccargli la cicatrice.

Quando uscì dall’edificio di Notturn Alley non nevicava più, ma il cielo continuava ad essere uno spesso mare di cotone sporco di fuliggine. Si affrettò al Ministero, sperando, in cuor suo, di poter compiere spesso quel tragitto, streghe oscure in agguato a parte. La dimora che Severus si era creato dopo la guerra non era certo il suo genere, però era accogliente: fosca, scura, sì, ma tiepida, piena di angolini che un topo di biblioteca come Severus aveva sicuramente studiato con raziocinio, e poi c’era lui, e a Harry sembrava che tutto fosse meglio, con lui.

Quel pensiero lo agitava. Positivamente, perché si sentiva attratto a tornare indietro da lui come quando, da ragazzo, desiderava tornare al Quidditch. Ma era anche strano, perché infondo non aveva dimenticato che Severus era stato il suo professore di Pozioni. Ma non importava.

La Londra babbana, in quella domenica invernale, era un tripudio di famigliole a passeggio, ragazzi raggruppati agli angoli delle piazze, temerari che sfidavano le altre macchie di neve nei parchi, ma Harry notò anche un certo viavai magico, soprattutto nei dintorni del Ministero. Alcune facce note, giornalisti, giravano senza dare nell’occhio, in attesa come condor, e l’Auror dovette impegnarsi per scivolare via senza essere notato. All’interno del Ministero, infatti, la domenica era già conclusa: Harry entrò nell’Atrio per trovare la scorta del Primo Ministro bielorusso, sei uomini vestiti di nero, ad attendere. Lo guardarono, quando passò, e forse lo riconobbero come chi aveva ucciso Voldemort, ma non fecero nulla se non osservarlo in silenzio, così Harry andò dritto verso l’ufficio di Hermione.

«Ehy, amico»

La voce di Ron arrivò assieme ai suoi passi da corsa, poi una mano fu sulla spalla di Harry ed entrambi si fermarono a pochi passi dalla porta dell’ufficio.

«Sei evaso da casa?» chiese con un sorriso Harry.

Ron scrollò le spalle.

«Te lo ricordi il nostro vicino che alza il gomito, quello che abbiamo trovato due volte riverso nella fontanella per gli uccelli? Ecco, me ne stavo in giardino quando è passato e ha incontrato un’altra vicina, così l’ho sentito che diceva che c’era una frotta di giornalisti che girava per i dintorni»

Harry fece una smorfia.

«Ce ne sono anche qua fuori» annuì.

«Arrivano loro, me ne vado io» soggiunse Ron, «Ma non so se a Hermione farà piacere. Tu? Il sigillo?»

Harry avvertì i sottintesi di quella domanda e senza rendersene conto abbassò la testa, arrossendo un poco.

«L’ho messo poco fa» rispose. Ron, che a sua volta colse il messaggio indiretto nelle parole dell’amico, gli batté una manata di solidarietà sulla spalla.

«Non volevi entrare, vero?» aggiunse poi, indicando la porta dell’ufficio di Hermione. «È col Ministro bulgaro, non l’ho ancora vista»

«Credo sia bielorusso» lo corresse Harry distrattamente. Si passò una mano sul viso, stropicciandoselo.

«Volevo davvero tanto entrare, sì» sospirò. Ron annuì, ma senza dire nulla gli fece segno di seguirlo e lo portò dove sinora lui stesso aveva aspettato. Si era impossessato di un’area visitatori incastrata a pochi passi da lì, nascosta dietro muretti bassi e vasi di fiori.

«Ma tu lo sapevi che di questi cosi ne è pieno il Ministero?» chiese Ron, buttandosi su un divanetto. Al centro di una piccola panca imbottita c’era un tavolino rotondo.

«Credo di non aver mai guardato attentamente questo posto» ammise Harry sedendosi davanti a lui. Non era proprio comodo, quell’angolo: le ginocchia di Harry si strizzarono dietro al rigido profilo del tavolino, mentre Ron doveva stare afflosciato con l’intera superficie in mezzo alle gambe. Si guardarono per un istante in silenzio, poi scoppiarono a ridere. Entrambi sembravano adulti incastrati in una casetta per bambini.

«Ssssh! La Ministra sta conducendo una riunione importante!»

Una strega accigliata passò loro accanto.

«Non mi dire!» rispose Ron, facendo scoppiare una seconda ondata di risa di Harry. La donna lo guardò scioccata, poi se ne andò via veloce.

«Probabilmente quella era una collaboratrice di mia moglie» aggiunse poi Ron scrollando le spalle. «Ne ha un sacco. Impossibile ricordarle tutte»

«Ti sei sempre ricordato tutti i tuoi fratelli» sogghignò Harry.

«No, capita ancora che mi dimentico di contare Percy» rispose Ron, ma sul finire della frase si ridusse a sussurrare per poi zittirsi: la porta dell’ufficio di Hermione si era aperta.

«…e ringraziarvi di tutto. Spero davvero ci rivedremo in situazioni più rosee» disse la voce di lei.

«Ma prego! È mio dovere signora, dovere politico e morale. Io spero potremo averla nel nostro bel Paese presto»

La voce del Primo Ministro bielorusso si fece vicina mentre Hermione lo faceva uscire dall’ufficio. Harry e Ron rimasero zitti, nascosti nell’area visitatori, a osservarsi lungamente, in ascolto.

«Sarà un piacere per me, dopo che questa urgenza sarà terminata»

Sottovoce, Ron borbottò che lui in Croazia non ci sarebbe andato. Harry si ficcò una mano sulla bocca per non ridere.

I due politici si mossero verso l’Atrio, seguiti da chi era rimasto con loro nell’ufficio. Quando furono abbastanza distanti, Harry e Ron si alzarono. Da lontano videro Hermione salutare gli ospiti che se ne sarebbero andati con la Metropolvere di emergenza dedicata solo ai politici di altri Paesi. Dopo qualche minuto, la folla dei collaboratori di Hermione le fu addosso e lei, a grandi passi, fece dietro front, illuminandosi quando vide chi la stava aspettando.

«Ciao!» esclamò avvicinandosi. Schioccò un bacio sulle labbra di Ron prima di afferrarli entrambi per i gomiti e portarseli nell’ufficio: con un gesto di una mano chiuse le porte davanti ai suoi uomini e i tre restarono soli nella sala.

 

 

°Comunicazione di Servizio:

 Ho pensato che vi avrebbe fatto piacere sapere che una nuova Snarry è apparsa nel mio account. È buffo, giacché io stessa continui a ripetere che sono una novizia della coppia e che scrivere di loro mi pare ancora strano, ma mentre ero in vacanza l’ho trovata in un angolo del PC – una prova prima della stesura de L’Incanto del Sangue di Re’em – e mi è sembrato opportuno darle la possibilità di essere letta. Quindi, se volete darle uno sguardo, ne sarò molto felice!

Inoltre, per me è ufficialmente arrivato quel magico periodo dell’anno in cui mi è possibile viaggiare. Sino ai primi di Settembre quindi organizzerò una schedula di upload per le storie che seguirà intervalli di tempo un po’ più ampi rispetto a quelli mantenuti sinora, per riuscire a lasciarvi qualcosa da leggere anche quando sarò in giro per l’Europa. Ma non sparirò di nuovo, promesso!°  

 

 

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Capitolo 16
*** 16. ***


16.

«Com’è che sei qua?» chiese subito guardando Ron, la fronte aggrottata.

«Ehm… ci sono un po’ di giornalisti in agguato, sia qui che a casa» rispose.

Hermione sospirò, andando a sedere alla scrivania. I due amici la imitarono, occupando le sedie libere.

«Immaginavo sarebbe successo» disse la giovane donna. «Tu Harry hai messo il sigillo?»

Per la seconda volta, Harry rispose positivamente.

«Bene» annuì Hermione. Gli altri pendevano dalle sue labbra, così sedette più comoda.

«Non abbiamo detto nulla di particolare, anche se siamo stati qua un’eternità» iniziò a raccontare, «Mi ha fatto vedere i fascicoli aperti su Inga e sulla sua fuga; è morto un ragazzo, sembra lei lo abbia convinto a farla evadere. Non l’hanno trovata da nessuna parte»

Harry abbassò la testa, fermandosi a metà nell’annuire. Lo sapeva, che Inga non era stata trovata, che stava avvicinandosi a loro, che una nuova minaccia stava apprestandoli. Per un momento una vocina fine, dentro di lui, gli domandò se, per caso, si sentiva stanco davanti a quella nuova sfida. Ma scacciò via quell’interrogativo, perché Harry Potter non poteva essere stanco, o comunque non ora.

«Insomma, sì, hanno trovato delle tracce nella neve, ma era già troppo tardi. Si è volatilizzata»

Harry parve rizzare le orecchie, in una disperata imitazione di un lupetto deputato a salvare il branco. Sbatté le palpebre una volta prima che la rabbia lo riempisse come un bicchiere di cristallo.

«Che cosa?» chiese.

Hermione annuì lievemente, chiarificando il dubbio opaco che in Harry si era delineato.

«Arrabbiarsi non serve a nulla ora, Harry» aggiunse la giovane strega. Il suo Auror migliore, seduto su quella poltroncina striminzita, apparve come svuotato, un pallone morso abbandonato in un angolo. «Ho provato a chiedere se avessero fatto abbastanza per trovarla, ma ovviamente ho trovato un muro di gomma…»

Davanti a quell’espressione babbana Ron assunse un’espressione confusa, ma non disse nulla: anche lui si era accorto dell’ira sconfortata di Harry.

«Ho visto la sua lettera» aggiunse Hermione, «però il Primo Ministro se l’è riportata via. Minacciava apertamente l’intero mondo magico e te, Harry…»

Hermione aveva imparato, ormai, che indorare le pillole al suo migliore amico non avrebbe aiutato. Lui infatti non ebbe particolari reazioni, anzi si limitò ad annuire ancora.

«E Severus?» chiese lui. I suoi amici si mossero sulle sedie in modo impercettibile, ma i suoi sensi allenati lo colsero. Certo, non era facile scendere a patti con la realtà della sua relazione col loro vecchio insegnante.

«I traditori, i bugiardi e i falsi misericordiosi» citò Hermione, spremendosi le meningi per ricordare parola per parola il testo. «Temo che la minaccia sia anche per lui. Ma non c’è da temere, Harry, hai apposto il sigillo»

«Resterò da lui, almeno finché non decide di rivolere i suoi spazi» disse piano l’Auror, sovrappensiero. «Preferisco essere pronto»

Hermione annuì e il silenzio cadde su di loro. Sembrava che, nonostante la loro gioventù, la loro abitudine al disastro e la loro buona lena, la minaccia di Inga li avesse sconvolti tutti. C’era un velo di ansia quasi palpabile teso su di loro, che impediva ora di parlare, di sorridere e di muoversi. Potevano solo stare seduti, abbandonati, a osservare a terra, o a osservarsi tra loro. Quel limbo durò per minuti interminabili, poi qualche temerario decise di bussare, e Hermione saltò in piedi.

«Oh, mi era scordata…» borbottò. Harry e Ron si alzarono a loro volta.

«Mi trovi in giro per il Ministero» la salutò dolcemente Ron, baciandola. Hermione annuì, accennando un sorriso, poi si allungò a prendere la mano di Harry.

«Cercami a Notturn Alley» disse lui come commiato. I tre si separarono. Fuori, gli assistenti di Hermione non aspettarono altro che vedere la porta aprirsi per riversarsi nell’ufficio. Harry e Ron risalirono la corrente umana che li investì, poi si fermarono là davanti alla porta, che venne richiusa.

«Teniamoci in contatto» disse Harry. Ron gli strinse una spalla.

«Per qualsiasi cosa chiamami» si assicurò. Harry gli restituì la pacca, poi con un gesto si salutarono, e Ron tornò nell’area visitatori. Harry, invece, riprese la propria via, diretto all’appartamento sopra alla bottega per Pozionisti.

Troppo preso dai pensieri che gli affollavano la mente, Harry Potter uscì dal Ministero andando ad inciampare dritto dritto nella tana dei serpenti. Come mossi da una folata di vento, una decina di giornalisti gli furono appresso, come lo staff di Hermione era saltato al collo di lei poco prima, e l’Auror ebbe il tempo di prendere un respiro e dare uno sguardo al briciolo di Londra che si apriva davanti a lui prima di cadere nel rumore.

«Harry Potter, anche stavolta al lavoro per salvare il mondo magico come lo conosciamo?»

«Chi è questa strega? Può darci delle informazioni su di lei?»

«Signor Potter, cosa ci dice riguardo la rubrica Indovina Io che ha ipotizzato che questa strega non sia altro che una sua amante in una crisi di nervi?»

Harry si fece largo nella folla, alzando le braccia.

«No comment!» esclamava a tratti, la testa bassa per sfuggire ai flash, muovendosi il più rapidamente possibile. La porta su quel lato del Ministero si aprì, e Harry vide con la coda dell’occhio un mago addetto alla sicurezza intervenire. I giornalisti fecero un passo indietro, ma non mollarono, finché Harry non fu abbastanza a distanza da poter salutare con un gesto l’impiegato ministeriale e poi Smaterializzarsi, ben nascosto dal crocicchio vociante.

Riapparve con un sonoro pop in un vicoletto di Notturn Alley, in un silenzio cupo rotto solo dal rumore di suole che se andavano via in fretta, portando altrove chissà cosa. Harry si guardò attorno: non si sarebbe lamentato se avesse potuto fare un arresto minore, nel mentre. Ma nulla di strano gli capitò sotto lo sguardo, chi stava nascondendo qualcosa se ne era andato e all’Auror non restava che andare a casa di Severus ad attendere.

Aveva smesso di nevicare; un pallido sole si faceva intravedere sotto la coltre di nubi, ma appariva solo come un medaglione nascosto da molti strati di lino, e non prometteva calore, né l’arrivo di un’imminente Primavera. Ma dentro casa Harry trovò un dolce tepore, quando aprì le porte che, notò, erano state stregate per lasciarlo entrare. Sorrise.

«Sono tornato» disse ad alta voce, guardandosi attorno.

«Sono qui»

La voce di Severus proveniva da una delle stanze che si aprivano attorno a Harry: dopo aver appeso gli abiti da esterno lo trovò affondato in una poltrona a leggere un grosso tomo polveroso, i capelli neri ficcati con malagrazia dietro le orecchie, il naso adunco nelle pagine. Harry ritrovò molto dei suoi anni a scuola in quel quadretto, ma sorrise, e si avvicinò a Severus rubandogli un bacio a fior di labbra.

«Novità?» chiese il Pozionista alzando gli occhi su di lui.

Harry prese la palla al balzo per levargli i capelli da dietro le orecchie: glieli tirò su goffamente, perché di capelli lunghi lui non ne sapeva molto, ma riuscì ad arrangiarglieli in un nodo alto, prima però che cadessero di nuovo. Severus allora sospirò, ma senza dire nulla gli allungò un laccetto che finora aveva tenuto legato al polso magro. Harry gli legò i capelli.

«Una strega oscura sta venendo qui per uccidermi e vendicarsi del mio partner» rispose Harry. «Quindi nulla di nuovo, direi»

Severus accennò una risata, ma non sembrava preoccupato. Anzi, picchiettò direttamente sul libro.

«Sai cos’è? Qualcosa non quadra» disse. «La ricetta di quel filtro. Sembra incompleta»

Harry aggrottò la fronte, facendosi attento.

«Cosa significa?» chiese.

«Non lo so» sussurrò Severus, pensieroso. «Devo fare delle ricerche»

Si alzò e poggiò il grosso tomo, poi tornò a Harry e gli cinse la vita. L’Auror sbatté le palpebre, osservandolo, e le loro bocche si trovarono con un sospiro.

«Posso aiutarti, se vuoi» disse piano Harry. Severus ghignò.

«Mi sono bastati quegli anni di incubo, grazie» rispose. «Tu puoi occuparti di altro»

Harry mise un broncio posticcio prima di baciare di nuovo Severus, allacciandogli le braccia al collo. Restarono stretti per un po’, lì, in piedi in mezzo alla stanza. Poi le finestre illuminate di argento tornarono al loro cupo oblio, grossi fiocchi di neve ripresero a turbinare, e i due dovettero andare ad accendere le candele per dare alle stanze una parvenza di vita.

 

Il Mare del Nord era una crosta grattata via da un quadro romantico. Grossi cavalloni si alzavano dalle sue profondità, più simili a figli degli oceani che di un mare. La neve, fine e farinosa, cadeva dal cielo plumbeo, apparendo molti piedi sotto le pance delle nubi, e svanendo a pochi palmi dalle onde, fusi nell’aria umidiccia. La nave, una piccola imbarcazione turistica, arrancava nella tempesta come un giocattolo di latta. Il capitano aveva spento le luci, ormai viaggiavano nell’oscurità da qualche decina di minuti. C’era stato chi si era lamentato della decisione, ma le hostess di bordo avevano messo a tacere le lamentele con parole secche e sguardi vacui. Sarebbero sbarcati sulle coste inglesi in mezz’ora. Per intanto, c’erano coperte in abbondanza.

Jacqueline, che quel viaggio lo aveva intrapreso con la voglia di svagarsi, e non di dare di stomaco su un mare in subbuglio, se ne stava raggomitolata nel sedile, avvolta nella ruvida coperta marrone che le avevano offerto. Teneva la borsetta in grembo e la valigia sotto ai piedi, che aveva liberato dalle scarpe da tennis. Erano partiti da Calais con un’ora di ritardo, quello che era bastato al capitano per decidere di intraprendere comunque l’ultima traversata della sera. E lei si era pentita di essere salita a bordo, ma il biglietto era costato caro e le era stato spiegato che se avesse deciso di tornare in albergo avrebbe perduto ogni diritto al rimborso. Così ora seguiva gli scossoni della nave col corpo magro, tenendo bene in mente che quel viaggio lo stava facendo per zia Ivonne, che da tempo le chiedeva una visita, sola com’era nella sua casa a Folkestone, a una ventina di minuti da Dover . Dopo che zio Maurice era mancato di un brutto male, zia Ivonne era rimasta isolata in quel paese straniero come una principessa rinchiusa in una torre. Era il minimo, per Jacqueline, sacrificare parte delle ferie per andare da lei.

«Mi scusi?» chiamò di botto Jacqueline nel suo buon inglese macchiato dal forte accento parigino. Aveva alzato la testa castana non appena, nel suo campo visivo, era entrata l’hostess. La ragazza, una giovane molto bassa, la squadrò – sembrava non vederla nemmeno.

«Dica» rispose. Jacqueline soffocò un sospiro. Per tutti i soldi che aveva speso, essere trattata così non le andava proprio. Si rizzò, quindi, e si chinò ad afferrare le scarpe da tennis: al diavolo l’acqua che voleva chiedere.

«Mi porti dal capitano, prego» disse quindi, duramente, e si alzò dopo aver infilato le scarpe alle bell’e meglio. La donna che sedeva poco lontano, reggendo il figlio addormentato, la guardò con una luce piena di rispetto negli occhi. La hostess, invece, non batté ciglio: la guardò ancora un istante, lo sguardo immobile, poi si voltò con un gesto rigido e Jacqueline le andò dietro, sussurrando alla donna di badare al suo bagaglio. La vide annuire, poi allungò il passo.

In effetti i traghetti che univano la Francia con la Gran Bretagna non li prendevano poi tanta gente, pensò Jacqueline. Non erano in più di trenta su quella nave, che però poteva contenere sino a cento passeggeri.

La hostess le fece imboccare un corridoio dove, da quanto aveva visto mentre ancora le luci erano accese, c’erano i servizi igienici. Il silenzio regnava ovunque, pasciuto dallo scontento dei viaggiatori. Finirono davanti ad una porta: Riservato, vi era scritto. La hostess si bloccò lì davanti: come un automa fece un passo indietro, poi alzò la mano.

«Prego» disse. Jacqueline la squadrò: la poverina doveva soffrire il mare. Certo era difficile lavorare così, cercando di non dare a vedere il proprio malessere. La giovane s’impensierì per lei, ma senza una parola la hostess se ne andò in quel preciso momento, lasciandola sola. Jacqueline guardò la porta. Poi la aprì.

«Permesso?» vociò subito.

La porta si aprì sulla cabina di comando, una piccola sala le cui pareti erano tutte vetrate. Da là si vedeva bene la costa inglese, nascosta dalla nebbia e dal buio, e le cime dei cavalloni che s’infrangevano sulla nave, alzando alti pennacchi bianchi di spuma. Davanti a quell’immagine, il capitano le dava la schiena, intento a manovrare. Alla sua sinistra, invece, era seduta una donna avvolta in una pesante pelliccia.

«È permesso?» chiese ancora Jacqueline, notando la figura seduta di lato. Un brivido di rabbia la colse: certo, il capitano non poteva lasciare a piedi la sua ragazza. Doveva partire per forza per lei.

«Vieni, vieni pure, Jacqueline» rispose allora la donna, senza voltarsi. La ragazza si gelò sul posto.

«Come fa a-?» balbettò, ma si zittì quando si vide avanzare: le sue gambe avevano mosso un passo senza che lei se ne accorgesse. Cercò di fermarsi, ma al secondo passo la porta si chiuse alle sue spalle. Solo allora la donna si voltò a guardarla.

 

 

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Capitolo 17
*** 17. ***


17.

Che la mattina era arrivata Harry lo capì solo dal movimento di Severus nel letto: scivolò via dal suo abbraccio, allungandosi ad afferrare la veste da camera per non affrontare il gelo mattutino nudo e crudo, e lasciò Harry lungo disteso sotto le coperte in lana, un piede scoperto, un braccio a penzoloni. Il giovane Auror mugugnò.

«Buongiorno, bella addormentata» disse con voce roca Severus. Si schiarì la gola: con vergogna si ritrovò a pensare che, forse, durante la notte avrebbe dovuto urlare meno. Il pensiero della lunga, selvaggia, appagante nottata gli ritornò in mente. Arrossì.

«Ma cosa fai, è presto» biascicò Harry, allungando una mano verso di lui per trascinarlo di nuovo a sé. Trovò però la sua schiena, e le sue dita non ebbero la forza di aggrapparsi alla stoffa della giacca da camera.

«Il negozio non si apre da solo» rispose Severus, «tu resta pure qua. Giù non mi serviresti»

Senza sentire veramente cosa gli aveva detto, Harry mugolò in approvazione e, quando Severus si fu alzato, se ne stava già dormendo.

Era da poco passata l’alba e, dopo le vacanze invernali, era per Severus il momento di tornare in attività. Sarebbero arrivati dei fornitori, quel giorno. Si preparò per la giornata con calma, si fece una doccia bollente, bevve un tea seduto in cucina, poi tornò in stanza a prendere gli abiti e trovò Harry a russare, così, alzando gli occhi al cielo, andò a vestirsi in studio.

Aprì la bottega alle sette e mezza spaccate, dopo aver messo tutto in ordine, aver passato la polvere e dato la cera a terra. Arricciò il naso davanti alla neve che si era sedimentata davanti alla porta nella notte, e con un gesto della bacchetta disegnò un bel sentiero nel bianco, per poi chiudersi nel proprio antro.

Una bottega per Pozionisti non era proprio come una boutique di alta moda: in pochi ci capitavano, ma i pochi che venivano avevano i loro affari, e non mancavano mai. Infatti alle otto spaccate il solito mago dall’aria poco raccomandabile entrò, comprò il solito bezoar e la solita ampolla di olio di origano, e quindici minuti dopo la vecchia strega gallese aprì la porta e si fece consegnare la solita pinta di pozione antiruggine. Che cosa se ne facessero, i suoi clienti abituali, di ciò che non mancavano mai di comprare, Severus non se lo domandava. Non era affar suo.

Dopo che la strega gallese se ne fu andata, comunque, l’uomo si ritirò nella stanzetta dove immagazzinava i prodotti più preziosi, attendendo i prossimi clienti solo verso le dieci e i fornitori alle dodici.

Ma rimase là sereno solo per poco perché, dopo pochi minuti, un tonfo lo fece voltare: c’era qualcosa nella bottega, qualcosa che non aveva aperto la porta.

Severus afferrò saldamente la bacchetta, pronto. Non si sarebbe fatto cogliere impreparato, anzi, e scivolò dietro al bancone con sinuosità, come aveva imparato a fare durante tutti i suoi anni da spia. Studiò la sala: nulla. Allora guardò meglio attorno: c’era qualcosa a terra, poco lontano dalla porta. Una busta viola. Severus imprecò.

«Maledetta Granger» esclamò, afferrando la busta.

Uno stampiglio sulla carta recitava: Ministero della Magia – Auror H. Potter. Missiva inviata dalla Segreteria Generale Impiegati Ministeriali.

La povera Granger, quindi, non era del tutto colpevole. Severus fece una smorfia: certo, avrebbe sicuramente potuto notare l’idiozia di comunicare coi propri impiegati in quel modo, ma pazienza.

In fretta, salì al piano di sopra, davvero poco intenzionato a lasciare il negozio incustodito oltre il dovuto. Entrò in camera da letto a passi lunghi e, flettendo il braccio per lanciare a Harry la missiva, si accorse solo in ritardo che il giovane uomo si era del tutto liberato delle coperte e ora giaceva nudo sul coprimaterasso sprimacciato, i muscoli torniti, la pelle scura, il pube scolpito lasciati in bella vista.

Severus deglutì.

«È arrivata questa per te» disse quindi, facendo subito dietrofront mentre Harry alzava il viso, svegliatosi di soprassalto all’impatto della busta con proprio stomaco. «E vedi che non diventi un’abitudine, non viviamo assieme»

Severus stava già uscendo dall’appartamento quando la voce impastata di Harry gli rispose.

«Per ora!» urlò, e Severus si dovette trattenere dal tornare in stanza e farlo pentire amaramente di averlo anche solo pensato.

 

Harry non avrebbe mai pensato che il suo ex insegnante di Pozioni fosse così insaziabile, a letto. La notte era caduta su di loro allacciati tra le coperte ed era diventata un’adulta velata che ancora i fianchi di Harry si muovevano contro il profilo di Severus, strappandogli gemiti rochi e urla soddisfatte. Era per questo che Harry quel giorno non riusciva proprio a svegliarsi, distrutto fisicamente e anche mentalmente dal disastro che stava consumandosi attorno a loro. Ma ora era sveglio, una fredda e gonfia busta gli stava in grembo, e dopo aver afferrato gli occhiali abbandonati sul comodino si mise dritto, mettendo a fuoco il mondo attorno a sé.

Prese la busta. Era la solita che riceveva quando aveva del lavoro da svolgere a casa, o un caso che non gli permetteva di andare in ufficio. Strappò la carta.

Un biglietto color panna svettava su quello che sembrava un quotidiano arrotolato.

 

Caro Harry,

 per prima cosa, come Capo dei tuoi capi ti ho ufficialmente assegnato al caso Inga, NON venire in ufficio, sarebbe utile solo ai giornalisti. Ci terremo in contatto.

Come stai? Io e Ron ti mandiamo un grande abbraccio, sai che qualsiasi cosa non vada puoi contare su di noi.

Comunque, ti mando un quotidiano babbano, è di oggi. In prima pagina, leggi bene e pensaci su. Non rispondere a questa mia, per ora, intanto, possiamo solo aspettare.

Tua,

 Mione.

 

Harry mise da parte il biglietto, curioso. Il quotidiano che Hermione gli aveva mandato era il Times. Scorse rapidamente la prima pagina.

A quanto pareva, una nave si era incagliata nella notte dopo la traversata da Calais. Era un traghetto turistico, di quelli che coprivano quotidianamente la tratta Calais-Dover, e chi aveva scritto l’articolo evidenziava che non si era spiegato il motivo per cui il capitano aveva deciso di mettersi in mare nonostante il mezzo fortunale che si era consumato nella Manica. Si ipotizzava che il capitano fosse sotto l’influsso di stupefacenti e i passeggeri raccontano che anche le hostess erano state strane durante il viaggio. Ma ancor peggio era che tutti erano sopravvissuti, sì, ma una ragazza era stata trovata morta nella cabina di pilotaggio: era stata assassinata con una pugnalata che le aveva squarciato la giugulare.

Harry rabbrividì, ricordandosi subito della cicatrice che svettava sul collo di Severus. Senza leggere oltre si alzò. Era stata Inga, lo sapeva. E ora era in Inghilterra e forse stava già arrivando a Londra.

Harry si vestì di corsa, poi scese nella bottega, lasciando biglietto e giornale nel letto sfatto. Sbucò nel negozio che Severus stava servendo un’anziana coppia.

«Dovremmo chiudere» gli sussurrò, dopo aver salutato con un cenno moglie e marito.

Severus lo guardò aggrottando le sopracciglia.

«Non tutti possono godersi ferie pagate illimitate» rispose, allungano una mano a prendere i soldi dei due anziani. Li guardarono uscire dalla bottega.

«Severus, sta venendo qui» ribatté Harry, piccato. Severus si voltò a guardarlo, gli occhi penetranti.

«Che venga» rispose con arroganza, il tono strascicato. «Non ho paura di lei»

«Io invece sì» ribatté Harry, «Ha imperiato l’intera crew di un battello per venire qua dalla Francia. Si sposta coi mezzi babbani. Non possiamo rintracciarla finché non arriva qui»

«Non chiuderò per lei» continuò a dire Severus.

«Ha ucciso una ragazza»

«Non è l’unica ad aver ucciso!» gridò Severus, gli occhi lampeggianti d’ira, lasciando Harry immobile, ormai silenzioso. Il Pozionista gli voltò le spalle, tremando nel tentativo di calmarsi.

«Molto bene allora» mormorò Harry. «Direi che siamo in tre, quindi. Scenderò se sentirò rumori di lotta»

E così dicendo tornò alle scale e risalì nell’appartamento, lasciando Severus aggrappato al bancone.

Fu proprio in quel momento che la porta della bottega si aprì di nuovo e Severus alzò gli occhi sul giovane mago biondo che stava entrando. Era una visione piuttosto singolare, soprattutto per Notturn Alley: l’uomo, che non sembrava contare più di venticinque primavere, indossava una veste a due pezzi di un sgargiante celeste, un giustacuore color ciano e un pesante mantello di pelliccia di coniglio grigia. Alla mano aveva una valigetta di pelle.

«Buondì» cinguettò giulivo.

«Desidera?» chiese Severus con tono cupo. Gli mancava solo un cretino, dopo il litigio con Harry. Sperò che il mago facesse in fretta e se ne andasse, perché il sorriso radioso che aveva sul viso lo infastidiva. Ma da come si stava guardando intorno con sguardo clinico Severus intese che non sarebbe stata una cosa rapida.

«Ho sentito tanto parlare di questa bottega» disse il mago a mo’ di risposta. I suoi denti brillavano come perle.

Severus non rispose.

«Lei è il proprietario?» aggiunse il giovane. Severus annuì lentamente.

A passi rapidi, il mago si avvicinò a lui e alzò la mano per presentarsi.

«Sono Owain Norum» disse. Severus annuì di nuovo, senza stringergli la mano. Owain, senza smettere di sorridere, abbassò il braccio e, con un gesto imperioso, fece da parte il mantello e appoggiò al bancone la valigetta.

«Lei è un ex insegnante di Hogwarts, vero?» chiese.

«Potrei esserlo» rispose Severus. «Lei è qui per qualcosa, signor Norum, oppure ha solo una gran voglia di annoiarmi?»

Owain rise di una risata cristallina.

«Ho una lista, in realtà» fece. Aprì la valigetta e vi scartabellò per un poco prima di trarne una pergamena su cui erano segnati una ventina tra ingredienti pozionistici vari. Severus alzò un sopracciglio. Avrebbe giurato di aver sentito uno squittio provenire dalla valigetta.

«A lei» disse Owain, porgendogli la lista. Il Pozionista la prese e iniziò a sfaccendare per servirlo.

«E mi dica, signor Piton» disse Owain guardandosi attorno, «quello che ho visto sparire là dietro era proprio Harry Potter?»

«Mmm, deve avere le traveggole» rispose in un borbottio Severus.

Se lo era aspettato, di dover far fronte a fan e curiosi, dal momento in cui Harry era rientrato a far parte della sua vita – e in modo tanto assiduo. Ma la cosa lo infastidiva ugualmente, prevedibile o meno.

«Oh no, ne sono certo» sorrise Owain. «Lei era il suo insegnante di Pozioni a Hogwarts, non è così?»

«Lei sa molte cose per uno che poco fa ha dovuto domandare se fossi io il proprietario» ribatté Severus, studiando Owain. Era certo non fosse nulla più di un curioso, nulla di preoccupante, ma il sorriso stampato sulla sua faccia gli metteva le mani nel sangue.

«Mi perdoni» disse Owain. Si zittì, e Severus continuò a pesare, tagliare, avvolgere ingredienti per lui. Finché dei passi non risuonarono sulle scale. Severus alzò la testa come un animale, ma Harry fu troppo veloce: imbacuccato nel giaccone apparve, alzando, da parte di Owain, un suono soddisfatto.

«Harry Potter!» esclamò l’uomo. Prima che Harry potesse accorgersi di qualcosa, il mago biondo gli strinse con forza una mano.

«Stavamo giusto parlando di lei» aggiunse Owain. Severus negò con voce stentorea, e gli occhi di Harry presero a palleggiare tra i due maghi mentre Owain si presentava nuovamente.

«Qualcosa mi dice che lei è appena sceso dalle stanze private del suo ex professore» ghignò Owain.

«Che cos-?» fece Severus, ma Harry lo interruppe.

«Ma lei chi è?» domandò, la voce tinteggiata di un tono gelido.

Owain prese un’espressione stupita.

«Io?» chiese, «Sono solo un cliente curioso»

Severus scivolò nel retrobottega per il terzultimo ingrediente. Harry si sbottonò la giacca, studiando Owain.

«E cosa stava dicendo, prima, col signor Piton?» chiese, il tono fintamente curioso che aveva imparato ad usare coi criminali – quel tono mellifluo, ferino, che parve mettere in allarme Owain.

«Mi era proprio sembrato di averla vista, prima di entrare» rispose lui, la voce meno allegra, più tagliente. Harry poteva quasi annusare nell’aria la puzza di finzione che aleggiava intorno al mago.

«Sa, Harry Potter col suo ex insegnante… è curioso» aggiunse Owain. In quel momento Severus tornò e mollò senza tanti complimenti un sacco pieno sul bancone.

«Sono novantatre Galeoni e nove Falci» disse duramente. Owain, il sorriso onnipresente, gli porse il denaro e, lentamente e in silenzio, prese il sacco. Quando lo smosse si alzò un rumore cristallino, di due oggetti che cozzassero, ma il mago non parve farci caso, anzi si caricò il sacco sulla spalla senza troppi complimenti. Harry e Severus lo fissavano, torvi.

«Buona giornata, signori» trillò quindi Owain, «Grazie della bella chiacchierata»

I due non risposero, né parve che Owain attendesse di sentire oltre da loro: girò sui tacchi afferrando con un gesto fluido la valigetta – ancora aperta – e se ne andò, andando a sparire oltre l’uscio.

 

 

 

 

 

 

 

°Tjena! Due righe soltanto per dirVi che, dopo questo capitolo, la storia sarà in pausa sino alla fine del mese/inizio di Settembre: le valigie sono pronte e i biglietti aerei stanno aspettando di essere presentati al check-in! Vi lascio ringraziandoVi di cuore per l’affetto che date alle mie storielle e auguro a tutti una felice pausa estiva!°  

 

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