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Non era troppo fuori dall’ordinario
che un mago appena diciannovenne diventasse Auror,
tutt’altro: erano proprio quelli i migliori, quelli che, M.A.G.O.
freschi freschi alla mano, si presentavano a
reclamare il loro posto nelle fila dei più prestigiosi, misteriosi e rispettati
agenti del Ministero. E non era neanche troppo strano che questi maghi
completassero un addestramento più breve del previsto, manlevati da bendisposti
superiori in grado di saper distinguere tra un buon Auror
e un ragazzo pieno di combustibile a rapido rilascio. Poteva essere solo
vagamente stupefacente che questi maghi ricevessero quindi, dopo il breve
addestramento, già i primi casi da seguire in solitaria o, addirittura, con il
supporto di una piccola squadra da dirigere. Era poi notabile quando questi Auror in erba, magari con i capelli neri e gli occhiali
tondi, agenti sottoposti piazzati in giro per Londra e cartelle ammucchiate
sulla scrivania, ricevevano un grosso ufficio personale nel Quartier Generale.
Questa era, naturalmente, la
situazione dell’Auror Potter che se ne stava, in
quella fredda mattina di Dicembre, seduto sulla sua poltrona, intento a leggere
il rapporto che uno dei suoi uomini gli aveva fatto trovare in ufficio.
Il Bambino che è Sopravvissuto, che
ormai di bambino non aveva più nulla, aveva iniziato a lavorare per il
Ministero non appena aveva guadagnato i propri M.A.G.O..
Gli era stato possibile farlo solo tornando a scuola per un anno, sì, ma ne era
valsa la pena: soltanto dopo i primi mesi al Ministero gli giunse voce che,
alla proposta di offrire posti di lavoro ai valorosi di guerra, la maggior
parte dei candidati presentatisi erano stati bugiardi, Confusi e spie in erba.
E poi la sua avventura finale ad Hogwarts aveva
portato tante novità nella sua vita.
L’Auror
Potter sbuffò, scorrendo le immagini che l’Auror
Richardson aveva scattato al loro uomo. Erano tutte identiche, una gran noia.
Quindi, le novità: per prima cosa,
vedere la McGranitt insediarsi come nuova Preside era
stato suggestivo e, senza sorprese, aveva aiutato l’intera comunità accademica
a risollevarsi in fretta dalla Battaglia di Hogwarts.
E poi tanti insegnanti si erano ritirati e molte cattedre erano state offerte a
giovani promettenti, come Neville che aveva da poco tenuto la sua prima lezione
di Erbologia. La scuola era rinata dalle sue ceneri
più portentosa di prima e Harry, che il suo cuore tenero se lo teneva stretto
sotto al distintivo cucito sulla divisa, era commosso di aver assistito a
quella rinascita.
Toc
toc.
L’Auror Potter
alzò gli occhi dalla cartella.
«Oh, finalmente» disse, tornando
rapidamente alla lettura. «Problemi in paradiso?»
L’AurorWeasley si lasciò cadere mollemente su una delle due sedie
che si opponevano alla scrivania di Harry.
«Il vero problema di aver sposato il
Ministro della Magia è che lei è
quella che non può permettersi di fare tardi quindi io sono quello che deve riparare i danni causati da uno gnomo che
si è ficcato nella nostra dispensa senza che nessuno se ne accorgesse» rispose
Ron.
Harry sorrise, divertito.
«Sei fortunato a lavorare per il tuo
migliore amico, allora» disse, il tono ironico ma vicino.
Ron alzò gli occhi al cielo.
«Con
quel cazzone del mio migliore amico. Novità?»
Harry gli porse la cartella che non
aveva ancora finito di leggere e Ron vi diede una scorta rapida.
«Praticamente questo non fa altro
che girare per fiorai senza comprare nulla» mormorò l’AurorWeasley. «…e quindi?»
Harry alzò le spalle.
«Dovrebbe avere alle calcagna i medimaghi, non gli Auror»
aggiunse Ron restituendogli la cartella. Harry la prese e la gettò sulla pila
delle cartelle lette, poi si appoggiò alla scrivania coi gomiti.
«Come se la passa Hermione?» chiese.
«Oh, oggi aveva un incontro col nonsochiturco, mi sembra» rispose Ron. «Se
avessimo una pausa pranzo la vedresti più spesso, ma chi ha bisogno di una
pausa pranzo?»
Il giovane si massaggiò lo stomaco
prima di saltare in piedi.
«Dove vai?» chiese Harry,
aggrottando le sopracciglia. Ron gli sorrise.
«Aaah, sei
pessimo. Mi hai dato un turno da spendere con Morris
per evitare si metta a volare su una scopa per la Londra Babbana,
ricordi?»
Harry si schiaffò una mano sulla
fronte, lievemente, ma tanto da far risuonare un allegro ciack nell’ufficio.
«Scusa, Ron» disse. L’amico scosse
la testa color carota.
«Sarà divertente» rispose, andando
via con un occhiolino. Harry alzò la mano in risposta, per poi guardarsi
attorno, un po’ dispiaciuto di essere rimasto solo nella sua comoda, calda
gabbia dorata piena di lavoro da sbrigare. Afferrò la prossima cartella e si
rimise a leggere, poggiando i tacchi sulla scrivania.
Ora, le novità del suo ultimo anno
ad Hogwarts non sono finite. Lui e Ron erano stati
catapultati al secondo livello del Ministero, Hermione
invece al primo. Era dal 1811 che il ruolo di Ministro non veniva ricoperto da
una strega e proprio quell’anno la comunità magica aveva rimediato. Ora la
giovane donna era un uragano di disegni di legge, mozioni, trombature
di corrotti e tanti, troppo tea da sorseggiare ampliando le reti diplomatiche
della Gran Bretagna magica.
E poi, lei e Ron si erano sposati.
Era successo l’ottobre scorso, nella casa di campagna dei coniugi Granger. Harry conservava con geloso affetto la bomboniera
dello sposalizio, la teneva sul tavolino sotto alla finestra, in camera da letto:
una bolla di vetro in cui un Jack Russell e una lontra fatti di fumo
evanescenti giocavano eternamente.
Toc
toc.
Harry alzò nuovamente il viso verso
la porta aperta: sull’uscio una donna di mezza età attendeva, i grossi e spessi
occhiali in bilico su un finissimo naso pallido.
«Sì, Candice?»
fece Harry, tirando via i piedi dalla scrivania. Sapeva quanto alla sua
segretaria preferita desse fastidio trovarlo ad in-
«Inzozzare
in quel modo la scrivania!» esclamò la donna. «Signor Potter. La prego»
Harry sorrise.
«Dai, Candice,
siamo maghi, mi basta un colpo di bacchetta per pulire, no?»
Le strizzò l’occhio ma lei alzò un
sopracciglio in risposta.
«Oh, signor Potter» sospirò,
scuotendo la testa. Poi tirò su il mento scheletrico. «Il Ministro gradisce
vederla d’urgenza, temo. Prima che mi chieda cosa non vada, no, non so nulla»
Non appena aveva sentito la parola
“urgenza”, Harry era saltato in piedi, muovendosi a lunghe falcate verso la
porta.
«Grazie, Candice»
disse, allontanandosi dal proprio ufficio e dalla segretaria che lo salutava
con un cenno. Passando tra le scrivanie dei colleghi, il giovane salutò tutti
senza fermarsi, precipitandosi verso l’ascensore in cui due gemelli vestiti in
oro fissavano con sguardo vacuo il ragazzo ai comandi.
«Al primo livello, è urgente» lo
sollecitò Harry e il ragazzo annuì con foga, mentre i due gemelli iniziavano a
parlottare tra di loro.
«Noi eravamo prima» fece uno di loro
con voce flebile, alzando un dito nell’aria. L’ascensore arrivò al livello e
Harry, prima di scendere, diede loro una pacca sulla spalla ciascuno.
«Sappiate che, lasciandomi salire
per primo, avete dato una grande mano al nostro Paese» disse prima di
precipitarsi nel corridoio, lasciando i due a commentare colpiti su quel felice
servigio alla patria.
Arrivato alla porta dell’ufficio di Hermione, Harry la trovò aperta. Non c’era nessuno a
guardia: era così da quando la ragazza era diventata Ministro, non voleva che
nessuno perdesse tempo a difenderla. Quindi entrò senza esitare nella bella
stanza rotonda tutta in tinte purpuree, trovando Hermione
seduta alla sua scrivania, posta al centro della sala.
«Harry» disse la giovane, alzandosi.
Lui la raggiunse e si abbracciarono calorosamente.
«Mi dispiace non vederti mai» disse
la giovane.
«Ehy, il
Maragià turco era importante» sorrise Harry allontanandola gentilmente, le mani
sulle sue spalle. Hermione era luminosa nella sua
veste formale, il ritratto della passione.
Lei accennò un sorriso a sua volta.
«Non era un Maragià…
ma comunque, c’è una cosa importante»
Fece segno a Harry di sedere e lui
obbedì, in attesa.
«Avrei dovuto inviarti un file su
una strega oscura, in questi giorni» iniziò a raccontare la giovane. Allungò a
Harry una ciotolina piena di liquirizie e lui rifiutò
con un gesto.
«Solo che la fonte che ce l’ha
indicata tardava a dirci dove trovarla. È a Londra, vive una vita normale e
sembra possa essere un gran pericolo, così intendevo mandarti a indagare sul
posto. Solo oggi mi ha detto dove trovarla»
Harry raddrizzò la schiena, pronto,
ma al silenzio prolungato di Hermione dovette
lamentarsi.
«Dove sta?» fece allora. La giovane
lo guardò preoccupata.
«Harry, tu devi proteggere chi le
sta attorno» disse. «Ti prego di capire che non puoi fare distinzioni alcune»
«Ma cosa stai dicendo?» chiese
Harry, confuso. Hermione sospirò, allungandogli una
cartellina.
Lui la aprì. La foto di una donna
sorridente era pinzata all’interno: una donna non troppo giovane ma dal viso
liscio e tonico, incorniciato da lunghi capelli biondi. Il fascicolo indicava
il suo nome: IngaVolkov.
«Da dove viene?» chiese Harry.
«Il gufo che mi ha portato i suoi
dati veniva dal Ministero della Magia bielorusso» rispose Hermione.
Di stato libero, trentasette anni,
figlia di un pozionista e di una casalinga.
Purosangue. Nessun parente in vita.
«Non mi sembra così grave» considerò
Harry.
«I ritagli di giornale che trovi lì
sono tutti tradotti» si limitò a dire Hermione mentre
il ragazzo voltava le pagine, trovandoli.
Il primo trattava di un omicidio.
Era l’omicidio di due coniugi, un pozionista e sua
moglie. Trovati riversi a terra sul pavimento della loro cucina. La figlia, Inga, che non vedevano da mesi, si diceva sconvolta. Il
secondo ritaglio trattava dello strano, orribile caso di un bambino, trovato
privo di vita in un bosco. Il suo cuore mancava.
Poi venne il terzo ritaglio e,
stavolta, chi era stata trovata morta e senza il cuore era una ragazzina. Poi
due fratelli, l’uno di tre, l’altro di sei anni. E infine una ragazza, una
giovane uccisa nella sua casa e trovata senza cuore in petto la mattina del suo
matrimonio.
«Mozyr, Vidzy, Olevsk» lesse Harry. «E
poi Dresda. E poi Kolding. Ha girato mezza Europa»
Hermione annuì.
«Ma dov’è ora, Hermione?
Perché mi hai fatto quel discorso?» chiese il giovane.
«L’ho appuntato nel fascicolo» rispose
la ragazza, osservandolo.
Harry, sbuffando, continuò a
leggere. Era a Londra da poco, si faceva chiamare Elena Kinach.
Aveva trovato lavoro da poche settimane: un lavoro da commessa. NotturnAlley. Filtri e Pozioni…
«Piton?»
esclamò Harry, alzando gli occhi su Hermione. Lei
sospirò di nuovo.
«Devi avvicinarti a lei, Harry. Non
sappiamo cosa voglia. Ho già richiamato i più prominenti esperti ma non abbiamo
ancora nessun’idea. Devi proteggere Piton e aspettare
che faccia una mossa falsa per fermarla»
Harry soppesò la cartellina.
«Ma come faccio?» chiese piano. «Lo
sai che i rapporti con Pitonsono…
beh, quelli che sono»
Hermione si appoggiò alla scrivania con un
gomito, puntando il mento sul pugno chiuso.
«Diventa suo amico. Amico di Inga» si affrettò
a spiegare vedendo la bocca di Harry aprirsi per lasciar uscire una lamentela.
«Sei il migliore»
Harry la osservò, cercando nelle sue
pupille nocciola. Ci leggeva preoccupazione, un velo di stanchezza e tanta
tenacia. Intravedeva anche il pezzo di torta che Molly aveva mandato a lei e a
Ron e che sperava di mangiare, la sera, sul divano. E vedeva anche la stima che
nutriva nei suoi confronti.
«Tenterò» disse Harry. Agitò in aria
la cartellina. «Questa la tengo io. Piton non sa
nulla, vero?»
«Non saprà nulla se non da te»
rispose Hermione. L’Auror
Potter si alzò e con lui lo fece anche il Ministro Granger,
che si affrettò a raggiungerlo dall’altra parte della scrivania e ad
abbracciarlo con slancio.
«Grazie» disse la giovane. Harry le
accarezzò la schiena a mano aperta.
«Il lavoro è il lavoro» rispose. «Ci
vediamo presto, ok?»
Hermione annuì.
«E mi raccomando, sta attento»
aggiunse. Sciolsero l’abbraccio e Harry iniziò a camminare verso la porta.
«Sono morto da poco, non voglio
ripetere presto l’esperienza, tranquilla» disse, un ghigno rassicurante sul
volto. I due si guardarono ancora per un istante, quella voglia di chiudersi in
ufficio a parlare e a mangiare dolci tutto il giorno che si faceva sempre più
ingombrante. Ma poi Harry se ne andò e in mano gli restò la cartellina e una
vaga nostalgia dei suoi migliori amici.
Riuscirono ad accordarsi per cenare
assieme, la sera dopo quel giorno d’inverno, a furia di parlarsi correndo per
il Quartier Generale o tramite aeroplani di carta violacea. Solo Harry, Ron e Hermione, così come ai vecchi tempi. Perché Harry non si
lamentava di certo dell’unione dei suoi migliori amici, anzi, da quando si
erano sposati erano forse ancora più divertenti perché l’acidità di Hermione e la goliardia di Ron sembravano essersi moltiplicate.
Così si trovarono davanti al loro ristorante Babbano
preferito, un italiano senza troppe pretese a Brixton
e, davanti ad un piatto di gnocchi al pomodoro, una porzione di lasagne ai
funghi e dei bocconcini di anatra alle cipolle, i tre amici si godettero una
lunga e ridanciana cena a lume di candela.
Erano al dolce quando Ron si pulì la
bocca col tovagliolo e si allungò verso Harry.
«E ora il momento dell’antipatico
della festa» sorrise, facendo voltare con espressioni curiose gli altri.
«Antipatico?» chiese Hermione. Ron annuì.
«Dai, lo so che Harry sta lavorando
a qualcosa di grosso per te» spiegò. Harry rivoltò il proprio tiramisù col
cucchiaino.
«Ma no, Ron, cosa dici?» fece Hermione, ma il giovane restò con un sorrisino slavato
sulle labbra. Harry guardò la ragazza con sguardo allertato e lei sospirò.
«Bene» fece. «Abbiamo un problema,
sì, ma non ne dovremmo parlare» disse.
Harry guardò Ron e vide la delusione
sul suo viso, quindi intervenne.
«Qualcuno ha accolto nella sua
bottega una mina vagante» spiegò, ignorando le occhiate di Hermione.
«E mi tocca andare a salvare il culo a Piton»
La giovane alzò un suono di protesta
ma Ron, colpito, fece scorrere lo sguardo azzurrino su entrambi prima di
scoppiare a ridere.
«Ok, ora capisco» disse. «Sono due giorni
che non ti vedo sorridere. Due! E Hermione che gira
per casa tutta nervosa senza aprire la porta a quel povero ciccione di Grattastinchi»
«Non è un ciccione» lo difese
debolmente Hermione.
Harry aggrottò la fronte in modo
teatrale.
«No, tesoro, certo» disse,
fintamente rassicurante. «È solo obeso»
La ragazza si adombrò un momento
prima di ridere assieme ai due giovani.
«Va bene, va bene» disse Ron.
«Credevo sinceramente fosse qualcosa di estremamente grave»
«Può esserlo» puntualizzò Hermione.
I tre rimasero un attimo in
silenzio.
«Ma ho già un piano» sorrise poi
Harry. Guardò il suo migliore amico, posando una mano sul suo braccio. «E nel
piano tu sei la mia più grossa speranza»
Quando la Guerra finì, i morti
furono sepolti e le case ricostruite, molti rapporti costituitisi negli anni
più bui andarono a picco. Non fu il caso di Fleur e
Charlie, anche se il loro matrimonio era stato l’emblema della disperata fretta
di unirsi, né di Remus e Sirius,
i cui sentimenti rimasti sopiti per così tanti anni continuavano a friggere
nell’aria della loro casetta nella periferica di Londra. Era stato, però il
caso di Harry e Ginny, i quali un giorno, seduti su
una panchina, si erano resi conto che loro, più di un fratello e una sorella,
non potevano essere. Così si erano lasciati in comune accordo, Ginny aveva intrapreso una burrascosa relazione con il
rampollo dei Malfoy e Harry aveva scoperto che quel
freno che, nel retro della mente, aveva sempre sentito nei confronti di Ginny in camera da letto era dato dal fatto che, tra un
seno e un paio di boxer lui preferiva di gran lunga i boxer.
La loro rottura non aveva alterato
gli equilibri tra Harry e i Weasley: Ginny era stata troppo ottimista dopo quella mattinata al
parco e Ron non poté dire nulla al suo migliore amico, perché nessuna sorellina
era stata abbandonata. E la rivelazione sui gusti di Harry era stata accolta
con poca sorpresa da Hermione, con un po’ di
stranezza passeggera da Ron e un profondo disinteressamento dal resto del
mondo. Così, quando Molly e Artur seppero, l’una pose
sul tavolo la sua torta di rabarbaro preoccupata di non sconquassarla e l’altro
afferrò il coltello per tagliarla, congratulandosi con Harry senza staccare gli
occhi dal dolce ancora fumante. E quando era stata la volta di dirlo a Sirius e a Remus la scena fu più
o meno la stessa, solo che sul tavolo furono posti un bel piatto di patate al
forno e delle fette di carne alla piastra.
Fu, per Harry, una delle belle
novità portate dall’ultimo anno nella nuova Hogwarts.
Per questo il suo rapporto con Ron
non si era incrinato, anzi, sembrava che tra loro la vicinanza fosse ancora più
profonda ora, dopo che Harry e Ginny si erano
salutati e Ron e Hermione avevano detto “sì”. Ed era
questa la causa del grande entusiasmo del giovane Weasley
davanti al nuovo compito affidatogli da Harry: essere il suo aggancio e il suo
sostituto in ufficio ora che lui doveva seguire una pista esterna. Inutile
nascondere che Hermione accolse la notizia con un
sorrisetto preoccupato.
Fu così che Harry, la settimana dopo,
poté uscire dal suo appartamento nella Londra Babbana
in jeans e cappotto, lasciando in un cassetto sigillato magicamente il
distintivo. L’aria fredda lo accolse coi suoi baci irti di spilli e un gioioso
via vai sul marciapiede lo colse, trascinandolo in una fiumana composta di
pochi salmoni danzanti verso una piccola, oscura bottega in un angolo poco
battuto di NotturnAlley.
Filtri
e Pozioni Pitonera un ambiente piuttosto stretto e dai soffitti bassi
e, per accedervi, il cliente doveva scendere alcuni scalini che s’infossavano
poco sotto il livello della strada. A lui si presentava, quindi, una porticina
ben verniciata di un denso nero opaco sopra alla quale l’insegna recitava il
nome del negozio in eleganti lettere argentee su sfondo nero. La sala che
accoglieva i visitatori non godeva di una grande illuminazione e sin dalla
mattina colonne di candele levitanti dovevano rischiarare l’ambiente con le
loro fiammelle. La luce si riversava su scaffali carichi di ingredienti pozionistici, mazzi di erbe appesi, giare di spezie e
alcuni manufatti alchemici poggiati su semplici tavolini in legno. Era una
bottega piuttosto spoglia, in effetti, ma a detta del suo proprietario un
negozio per Pozionisti non doveva avere i fronzoli di
una boutique.
Chi fosse entrato in Filtri e Pozioni avrebbe, sicuramente,
trovato alla cassa – una grossa cassa in ferro appollaiata su un lungo bancone
– una donna minuta, le spalle strette e l’altezza modesta, che ogni mattina si
pinzava i ciuffi biondi che le cadevano sul viso con una molletta a forma di
gatto.
Si era presentata da Piton ormai una ventina di giorni prima. Lui ne era stato
ben sorpreso, perché, naturalmente, non era abituato alle visite: aveva bussato
attorno alle dieci del mattino per presentarsi con quelle parole che lui,
purtroppo e per fortuna, non aveva potuto ignorare.
E ora eccola lì, a porgere sorrisi a
clienti un po’ sorpresi, un po’ guardinghi.
Harry sapeva che quella mattina
l’avrebbe trovata nel negozio. Passeggiando per NotturnAlley senza particolare enfasi, il giovane passò in
rassegna i luoghi che lui stesso aveva fatto chiudere. Lì sorgeva la bottega
che millantava di vendere potenti reliquie di Voldemort.
Laggiù il negozio di un Mangiamorte era addormentato
dal suo arresto. E qui e là, nei vicoli malfamati, l’Auror
in incognito poteva anche notare altri traffici illegali che avrebbe volentieri
sventato… ma sarebbe dovuto andare oltre. Quel giorno
nessun Potter del Ministero stava camminando per quelle vie.
Quando fu a pochi passi dalla
bottega dell’ex insegnante, Harry s’infilò in un vicolo buio sgombro, trasse
dalla tasca la sua fida fiaschetta e ne bevve il contenuto. Il gusto
nauseabondo della pozione Polisucco gli irruppe nella
bocca.
Il ragazzo, che aveva indossato
abiti e scarpe più larghe del solito, fu colto dall’ormai familiare sensazione
di crescita. Il suo corpo aggiunse alcuni centimetri alla sua altezza, il suo
petto si allargò e i capelli scombinati si ritrassero nel suo cuoio capelluto,
diventando un fine, irto tappeto castano.
Jeremia Jill, impiegato all’Ufficio del
Trasporto Magico, uscì dal vicolo e se ne filò direttamente nella bottega,
aprendone la porta che scricchiolò con raffinato gusto gotico.
«Buongiorno!» trillò la voce
argentina della donna dietro al bancone. Sorrideva cortese, le mani appoggiate
sulla superficie perfettamente pulita.
Jeremia abbassò la testa cupamente in un
saluto del tutto appropriato per la zona. Iniziò a camminare nello spazio
angusto, guardandosi attorno: due grosse credenze mostravano bezoar, minerali
di poco valore, giare piene di interiora di rospo e code di topo.
«Attenzione!» lo avvertì la donna
quando, distrattamente, stava per inciampare in uno dei tavolini sparsi per la
sala. Su di esso stava poggiato un teschio di bufalo.
Jeremia si voltò, non una parola, verso la
parete su cui erano stati appesi diversi mazzi di erbe. Targhette di legno
indicavano il nome dell’erba e il grado di freschezza che possedeva. Un altro
tavolino, stavolta con un vaso pieno di ossicini. Jeremia
si avvicinò al bancone.
«Cerco dell’oro» disse senza
preamboli. «Oro in polvere. Mi serve per una pozione ringiovanente di terzo
grado»
La donna dietro al bancone annuì.
«Arrivo subito allora» disse, prima
di voltarsi e sparire oltre la porta che teneva alle spalle. Jeremia attese per un po’, guardandosi attorno. Poi la
porta si aprì di nuovo e non fu solo la donna a uscirne ma anche un uomo dalla
carnagione olivastra e i capelli corvini che, se non fosse stato per parecchi
fattori, sarebbe potuto sembrare precisamente uguale a Piton.
Però non era lui, andiamo.
L’uomo aveva, innanzitutto, i
capelli lunghi. Più lunghi del solito, comunque, e non solo sembravano lavati e
spazzolati di fresco, ma erano anche legati in un nodo confusionario. Ed era
anche vestito sì, di nero, ma non come un qualsiasi studente della vecchia Hogwarts se lo sarebbe aspettato, perché a contrastare i
pantaloni neri indossava una camiciola di lino bianca che, probabilmente
intento a mettere mano a quale intruglio, aveva arrotolato sugli avambracci.
«Cercava della polvere d’oro?»
chiese l’uomo. Il tono della sua voce, invece, non era cambiato: strascicato,
duro, quasi disinteressato. Però il dardeggiare dei suoi occhi esperti
dimostrava il contrario.
«Sì» rispose semplicemente Jeremia. Piton lo squadrò, come
riconoscendo qualcosa in lui, ma senza esitare trasse una bilancina da sotto il
bancone e aprì la busta che aveva portato con sé.
«Quanto?» chiese.
«Due dramme» rispose Jeremia.
Piton versò una modesta quantità di
polvere d’oro nella bilancina e, con occhio esperto, misurò e confezionò la
merce. Poi consegnò la bustina alla donna, facendo un burbero cenno di saluto
al cliente prima di sparire oltre la porta.
La donna sorrise a Jeremia.
«Sono cinquanta galeoni» disse.
Jeremia tirò fuori un sacchetto da
cinquanta e li pose sul bancone. Poi sfilò dalle dita della commessa il
pacchetto, salutò abbassando la testa e andò via.
Fuori, un vento gelido colse Jeremia. L’uomo iniziò a scendere lungo la via a passo
lento, senza dare nell’occhio. Una volta in DiagonAlley si mischiò alla ressa che, quasi eterna, affollava la
via dei negozi e lì, in un angolo di strada accanto al muro, si smaterializzò.
Riapparendo all’interno del locale
di servizio dell’ascensore del suo palazzo, Harry diede una ginocchiata contro
uno dei contatori che sbucavano dal muro e imprecò. Aprì la porta sbirciando,
ma non vedendo nessuno si levò dallo stanzino umido e salì un paio di piani, entrando
poi al numero 5 del palazzo.
Nel suo appartamento nessuno poteva
materializzarsi o smaterializzarsi. Erano le protezioni più comuni accordate
agli Auror per proteggere le mura domestiche. Harry
si levò la giacca e l’appese ad uno dei ganci accanto alla porta d’ingresso,
poi s’infilò in cucina e là lanciò sul tavolo, senza tanti complimenti, la
bustina con le due dramme di oro in polvere.
«E cosa me ne faccio di cinquanta
galeoni d’oro io…» mormorò, aprendo il frigo e
prendendo il succo di arancia. Ne bevve un po’ direttamente dal cartone,
pensieroso.
Aveva deciso da un bel pezzo di
entrare nella bottega di Piton per sondare il terreno
con Inga, ma non aveva messo in conto di sondarlo
anche per quanto riguardava il commercio gestito dal suo ex insegnante. Però
vedere che nulla di particolarmente prezioso era esposto gli aveva fatto specie
e aveva inteso che, se avesse voluto spiare l’uomo a cui aveva salvato la vita
più di un anno prima, avrebbe dovuto chiedere merce tenuta nel retro. E così la
sua curiosità l’aveva avuta vinta.
Ed era stato strano. Non si era
aspettato di vedere Piton cambiato, anzi. Non che il
cambiamento fosse stato poi abnorme, ma era comunque evidente. Aveva un’aria
più salubre, più curata e meditata. E poi vederlo senza le sue orribili
palandrane aveva dimostrato che il fisico dell’uomo era comunque diverso da
quelli dei soliti quarantenni con la pancia da birra. Era stato curioso e quasi
piacevole, come spiare nella quotidianità di uno strano animale.
Harry ridacchiò tra sé e sé al
pensiero. Piton era un piccolo rettile insensibile al
caldo del deserto e lui era lo studioso che si imbacuccava nelle sahariane per
andare a studiare.
Guardò l’orologio magico appeso
sopra alla porta della cucina. Mancava ancora un bel po’ prima che la pozione
finisse il suo effetto. Non che avesse fretta. Avrebbe dovuto ingannare il
tempo finché non sarebbe stato pronto ad iniziare la seconda fase del suo
piano.
Fu solo verso sera che l’Auror Potter poté tornare a NocturnAlley. Aveva letto di nuovo il fascicolo sul suo
obiettivo prima di vestirsi, poi, soddisfatto del proprio piano, era tornato
per strada, a fendere il buio pesto che già era calato sulla città. DiagonAlley era una bomboniera
di luci, dopo il tramonto: fu con piacere che Harry si appostò all’angolo da
cui, poco prima, era partito per tornare a casa, attendendo che qualcuno si
decidesse ad inciampare su di lui e sulla sua tazza di vin brulé.
Inga avrebbe dovuto smontare per le sei
dalla bottega di Piton. Calcolando che probabilmente
il vecchio acido l’avrebbe trattenuta, il tempo poi di salutare e di scendere
lungo la via deserta, Harry sapeva che l’avrebbe incrociata entro breve.
E, infatti, non passò molto tempo
prima di vederla avvicinarsi, sbucando dal buio di NocturnAlley, i capelli biondi e il cappotto bianco bordato
di pelliccia bordeaux che spiccavano nelle ombre della parte peggiore del
centro. Harry attese di vederla arrivare al punto di non ritorno, poi allungò
un passo e la donna e la sua tazza collisero perfettamente.
«Ehy!»
esclamò lei, saltando su. Il vino caldo aveva macchiato il suo cappotto in una
scia di violaceo disastro.
«Oh cielo» fece Harry. «Mi dispiace
così tanto, io… permettimi»
Trasse la bacchetta e con un
movimento si affrettò a riparare al danno mentre la donna lo guardava, la bocca
socchiusa e l’espressione mista tra il divertito e l’arrabbiato.
Harry la guardò, desolato.
«Perdonami, camminavo rasente al
muro per non essere spazzato via dalla gente ma ci siamo spazzati via a
vicenda»
La donna sorrise.
«Non fa niente» disse. «Grazie di
avermi pulito il cappotto»
Harry si strinse nelle spalle.
«Altrimenti avrei dovuto comprartene
uno nuovo» scherzò, e lei fece una risata cristallina. Il suo viso pieno,
tirato su da eleganti zigomi torniti, era di un candore eccezionale e, grandi e
brillanti, sulla pelle spiccavano i suoi occhi castani.
«Mi chiamo Elena» si presentò lei,
allungando una mano a Harry. Lui la prese e se la portò alle labbra.
«Sono Harry» fece lui. Elena abbassò
le ciglia davanti alla galanteria dello sconosciuto e lui sorrise lievemente.
«Senti, lo so che probabilmente
stavi correndo dal tuo ragazzo o a fare qualsiasi tu debba fare, ma… hai cenato?»
Elena rise ancora.
«Stavo correndo proprio a cenare»
rispose. «Da sola. Nessun ragazzo»
«Allora mi permetti di offrirti
qualcosa? C’è un bel posto poco lontano da qui…
almeno posso rimediare alla brutta figura»
Elena lo guardò, sembrava studiarlo.
Harry incassò tutti gli sguardi di lei, avvertendo quasi il suono dei suoi
acuti meccanismi cerebrali. Ma finse così bene che lei sorrise e lo prese a
braccetto.
«Quando uno sbadato gentile ti offre
una cena non puoi rifiutare» disse.
S’incamminarono verso una taverna in
cui Harry non era mai entrato se non con lo sguardo attraverso le vetrate da
cui si vedevano le belle panche rivestite di cuscini rossi, i tavoli illuminati
dalle candele e le coppie intente a discorrere. Il
giovane aprì la porta ed entrò, tenendola poi a Elena.
«Che idillio» commentò lei. Harry
non era sicuro le piacesse: sentiva, infondo, di non essere il solo a recitare.
Però questo sentimento lo incuriosì ancora di più.
«Due?»
Una piccola cameriera si era
avvicinata. Harry annuì e la ragazza scortò lui ed Elena ad un tavolo ben
illuminato, imbandito di piatti di legno e fiori di poinsettia stregati che si
aprivano e si chiudevano.
«Elena» disse Harry, gustandosi il
suono di quel nome. «Non ho incontrato molte Elena nella mia vita»
La donna ridacchiò.
«Non che sia stata molto lunga,
direi» commentò. Harry fece un cenno col capo.
«Touché»
rispose. Lei si stava levando il cappotto, rivelando la tunica nera che le
aveva visto addosso nella bottega.
«Ma comunque, io vengo dall’Ucraina»
aggiunse a mo’ di risposta. «Il mio nome viene da laggiù»
La cameriera non permise a Harry di
rispondere, presentando una lista poco variegata di bevande. Il giovane lasciò
la scelta a Elena e, quando la cameriera si fu allontanata, poté continuare il
discorso.
«Sono stato in Ucraina» disse con
tono rievocativo. «Ero piccolo. In vacanza, coi miei zii»
Nulla di più falso la sua mente
avrebbe potuto produrre. Però riuscì a far passare una subitanea ombra sul viso
di Elena, che però la nascose bene.
«E cosa ricordi?» chiese. Nel mentre
la bottiglia di sidro che aveva ordinato arrivò e Harry riempì i bicchieri.
Elena afferrò subito il suo.
«Ah, Odessa» rispose Harry. «La
Scalinata Potemkin. Mi sentivo minuscolo davanti a
quelle scale. E la Cattedrale. Con quelle cupole fatte d’argento»
«In Russia dicono che le cupole
delle nostre chiese siano dorate così che Dio possa scorgerle meglio» disse
Elena. Harry le sorrise.
«Ed è certamente così, sono
meravigliose. Di dove sei?»
«Turka»
rispose Elena. «Molto lontana da Odessa»
Harry rise.
«Devo sembrare un turista ottuso»
disse.
Elena scosse la testa.
«No, non lo sembri. Mi manca, il mio
Paese» disse, una vena di nostalgia nella voce. Harry la studiò, gli occhi
verdi illuminati dalla luce delle candele.
«Cosa ti ha portata qui?» chiese.
Elena, che aveva iniziato a sfogliare il menu, gli lanciò uno sguardo ma
rispose senza alzare la testa.
«Sono una Pozionista.
Quando ho finito la scuola ho iniziato a fare la gavetta nelle botteghe pozionistiche del mio Paese ma ho sempre sognato di venire
qui a lavorare con un uomo… un uomo famoso nel
settore»
Harry alzò un sopracciglio, curioso,
ma Elena si sporse verso di lui con un bel sorriso.
«Credo prenderò una bella zuppa di pomodoro»
disse.
«Mi lasci con la curiosità di questo
signore?» chiese il ragazzo, e lei rise, leggera.
«No, no. Si chiama SeverusPiton. Lo hai mai
sentito?»
Il viso di Harry scolorò.
«Piton?»
ripeté. Lei annuì vigorosamente.
«Siete pronti per ordinare?»
La cameriera era tornata, taccuino
magico alla mano. Elena non attese oltre e richiese subito la sua zuppa. Harry,
un po’ stranito, ordinò lo stesso.
«Sono…
sorpreso» disse poi, quando la ragazza fu andata via. «Sono stato suo allievo.
Di Piton, intendo»
Elena spalancò i grandi occhi
castani.
«Davvero?» esclamò, e parve
sinceramente colpita. «E com’era? Insomma, è evidentemente un tipo strano e… oh, cielo, scusami, ma da quando sono qui non parlo
praticamente con nessuno e la prima persona che conosco…»
«…conoscePiton» concluse per lei Harry. La donna sorrise, abbassando
le lunghe ciglia. Era un gesto che faceva spesso, quando le persone di norma
sarebbero arrossite. Il giovane si trovò a pensare che la bellezza di Inga era davvero senza limiti e un po’ gli dispiacque
ricordarsi che sotto quella bella pelle e quei boccoli biondi si nascondeva una
minaccia.
«Avanti, dimmi tutto, non essere
timida» la incitò, e lei iniziò a parlare a raffica del vecchio, burbero,
solitario Piton. Sentendone parlare Harry si rese
conto di quanto fosse divertente affacciarsi sulle opinioni altrui circa
quell’uomo. Inga ne era illuminata. La sua
eccitazione circa il lavoro alla sua bottega sembrava perfettamente reale e,
infondo, Harry credeva potesse esserlo. Ma perché era così interessata a Piton? Era solo per una fama che, ne era certo, l’ex
professore aveva guadagnato nella comunità pozionista?
Inga si lamentava con fare delizioso del
temperamento burbero di Piton. Harry rise di gusto
quando lo imitò, raccontandole quanto difficile era sopportarlo a scuola. Poi
vide i suoi occhi brillare quando trattò dell’enorme sapienza del Pozionista e lui si ritrovò ad annuire. La zuppa finì in un
mare di parole e il sidro restò ancora finché i piatti non furono portati via.
«Scusami, credo di aver davvero
parlato troppo» disse a quel punto Elena, portandosi una mano alla bocca. Harry
le lanciò uno sguardo e lei, di nuovo, abbassò le ciglia.
«Non hai parlato troppo» disse lui.
«È bello sentire quanto tu sia entusiasta del tuo lavoro»
«E tu?» chiese la donna. «Tu cosa
fai?»
Harry sospirò.
«Io lavoro al Ministero» rispose.
Scrollò le spalle. «Non il posto che desideravo, ma niente»
Gli occhi di Elena si erano induriti
e Harry fece finta di non notarlo. Piuttosto chiese, innocente: «Dolce?»
Lei scosse la testa.
«Forse dovrei andare a casa, domani
sarà una lunga giornata»
Harry pagò la cena senza
preoccuparsi di mostrare a Elena la gran quantità di denaro che aveva con sé.
Lei lo notò e gli sorrise cortesemente quando uscirono dal locale.
«Quindi, che cosa ti fanno fare al
Ministero?» chiese.
«Oh, mi occupo di uso improprio dei
manufatti Babbani» rispose Harry. «Sai, un water
intasato qui, una chiave rimpicciolita là»
Elena annuì.
«Niente maghi oscuri da cacciare,
allora» disse, strizzandogli l’occhio. Harry abbassò le spalle in un gesto
teatrale e lei rise.
«Dai, anche noi possiamo essere
interessanti» sorrise il ragazzo. «Non sono gli Auror
a gestire tutti i disastri che fanno certi maghi»
Elena lo prese di nuovo a braccetto.
«Hai ragione. Siamo simili, io e te:
tu a gestire i lati più basilari della magia, io a vendere la merce più
basilare delle pozioni»
«Senza di noi nulla funzionerebbe,
se ci pensi» rispose Harry, la voce più profonda. Elena lo guardò.
«Sì, è vero. Siamo modesti ma
valiamo» rispose.
Camminarono per un po’ in silenzio,
finché Elena non si fermò accennando, con la testa, ad un palazzo sghimbescio.
«Io ho qui il mio appartamento» disse.
Si allontanò un passo da Harry, poi lo afferrò e gli pose tre baci sulle
guance.
«Grazie mille. Mi sono divertita»
aggiunse.
Harry cercò di stare al passo col
saluto ma non riuscì e lei rise. Il giovane si sfiorò la tempia con un dito.
«Buonanotte, Elena, e grazie della
compagnia. È stato splendido»
La donna abbassò la testa, poi si
avvicinò alla porta. La aprì e prima di entrare guardò ancora Harry.
«Se passi da queste parti fammi un
fischio» disse. «Mi piacerebbe uscire con te, qualche volta»
«Tra un water intasato e un bezoar
venduto» aggiunse Harry. Elena annuì, poi alzò una mano in seguo di saluto e
sparì.
Harry attese di vedere la porta
chiudersi, poi attese ancora, così da sembrare un innamorato da filmetto Babbano da due soldi. Poi riprese la strada, sicuro di
avere addosso un paio di occhi. Occhi malvagi.
Non aveva idea di quanto potesse
essere potente quella strega, così, per precauzione, Harry stregò la propria
scia di modo che puntasse verso un palazzo della sua via, sì, ma a parecchia
distanza dal suo. Quando arrivò a casa alzò delle barriere protettive in più,
così come gli era stato ordinato da Hermione, e prima
di andare a letto scrisse le sue impressioni su Inga.
Una persona strana. Aveva avvertito
la sua pericolosità, spesso, e anche la sua intelligenza. Però sembrava davvero
appassionata nella sua devozione per Piton, cosa
incredibile sì, ma che non gli era parsa del tutto costruita. Invece l’Ucraina,
la storia sui Pozionisti, quella era tutta finzione. Un’ottima
attrice, certo, ma non abbastanza per un Auror.
Harry chiuse il suo taccuino nel
cassetto stregato e si buttò a letto. Il giorno dopo sarebbe andato al
Ministero, avrebbe fatto una capatina al terzo livello, avrebbe passato un po’
di tempo con Artur. E poi avrebbe lasciato una nota
per Ron e per Hermione e sarebbe tornato a casa.
Era certo che tutte quelle
precauzioni fossero di gran lunga esagerate, ma nessuno, nemmeno lui, poteva
disobbedire al Ministro. Così si addormentò col pensiero di seguire il piano
diligentemente, ignaro del fatto che Inga, nella
cucina del bilocale che aveva preso in affitto, stava proprio lanciando la
propria magia per seguire la scia di Harry.
Appena salita nel suo appartamento,
la strega si era recata nel suo studio. Lì, adagiato sulla scrivania, un grosso
pezzo di alabastro troneggiava, vagamente illuminato da una luminescenza
verdastra che indicava essere sotto l’influsso di una potente magia. Inga si sedette al tavolo senza neppure levarsi il
cappotto, interrogando il manufatto che lei stessa aveva concepito. Fece una
ricerca approfondita, ma nulla: non c’era nessuno Harry nelle sue liste.
Controllò una, due, tre volte, ma a quanto pareva l’impiegato all’ufficio uso
improprio dei manufatti Babbani aveva detto il vero.
A quel punto si levò la giacca, lasciandola raggrumata tra se stessa e lo
schienale della poltrona. Poi mosse l’occhio della roccia verso la scia di
Harry, seguendolo sino ad un quartiere Babbano. Un
palazzo rosso, molti appartamenti. Nulla di notabile. Si spinse all’interno delle
abitazioni, cercandolo, finché non inciampò in un blocco schermato da una
potente magia difensiva. Forse il Ministero offriva ai propri dipendenti degli
accomodamenti speciali per le loro famiglie. Inga
sospirò. Era l’ora di dormire sogni sereni.
Nel palazzo rosso in Porter Street,
il figlio adolescente dei Forster lanciò il cellulare sul tappeto. Era da
quando era rientrato da scuola che né il computer né il telefono funzionavano.
La mattina dopo, Harry si
materializzò nella solita viuzza oscura a pochi passi dal Ministero, la
colazione in mano e i sensi ben allerta, pronto ad avvertire una qualsiasi
stranezza nell’aria che lo avvolgeva, aspettandosi di essere osservato o
seguito. Ma non avvertì nulla di tutto ciò, anzi, ed entrò negli schermi protettivi
del Ministero certo di non essere stato seguito da nessun osservatore. Scese
comunque al terzo livello, obbedendo a Hermione che
temeva che qualche dipendente fosse Imperiato – cosa
che Harry, dopo aver conosciuto Inga, non si sentiva
di escludere – e trascorse l’intera mattinata alla scrivania di Artur, aiutandolo laddove poteva. Sembrava che Ron gli
avesse anticipato che ci sarebbe stato un cambiamento nella composizione del
suo ufficio e l’uomo, che era abituato ai misteriosi meccanismi del Ministero,
non disse nulla, anzi diede a Harry una gran pila di volantini da leggere,
chiedendogli quale riteneva più efficaci per una campagna di sensibilizzazione
verso l’elettricità nelle case Babbane.
Stare accanto al signor Weasley era rilassante, per Harry. Si divertì a commentare
i volantini e a spiare le conversazioni dei colleghi su brutti incidenti di
maghi e streghe poco avvezzi alle abitudini Babbane
finché un ragazzo non si avvicinò, chiedendogli di recarsi all’ufficio del
Ministro per sbrigare delle pratiche. Harry allora salutò Artur
e s’incamminò, piacevolmente stupito di quanto funzionasse bene il Ministero di
Hermione, poiché nessuno, per ora, aveva proferito
una parola fuori luogo sulla sua presenza al terzo livello, né era successo
nulla che potesse mettere in allerta un possibile Imperiato.
Entrato nell’ufficio del Ministro, Hermione e Ron si voltarono a guardarlo.
«Chiudi la porta, Harry» disse
subito Hermione e lui obbedì. Con un gesto della
bacchetta la giovane impose il Muffliato alla sala.
«Come è andata?» chiese Ron,
impaziente. Harry si sedette sulla sedia accanto a lui, fronteggiando il
Ministro.
«Direi bene, mi ha preso in
simpatia» rispose. «Credo abbia un po’ di sospetti, ma penso di essermela
cavata»
«E Piton?»
chiese Hermione.
Harry ripensò alla sua diserzione
della mattina passata.
«Er, Piton»
fece. «Inga è affascinata dal suo lavoro, credo lo
sia davvero. Comunque sta bene. L’ho spiato, prima di agganciare Inga»
Hermione annuì, soddisfatta.
«Si è sbottonata su qualcosa?»
domandò Ron. Harry scosse la testa.
«É… molto,
molto intelligente» rispose. «Ha mentito sulla sua origine, dice di essere
ucraina. Ma davvero, se uno non ci fa caso sembra la persona più normale del
mondo»
Ron e Hermione
annuirono, pensierosi, e cadde il silenzio.
«Hai seguito i miei ordini, oggi?»
chiese poi Hermione.
«Sono stato tutta la mattina col
papà di Ron» sorrise Harry. Il giovane Weasley rise.
«E la scia? Lo schermo? Sei certo
che non ti abbia seguito?» chiese ancora la ragazza.
«Se lo ha fatto non ha visto nulla
di diverso da ciò che le ho detto ieri» rispose, sereno, Harry. Hermione non sembrava convinta, ma Ron allungò una mano
verso le sue, abbandonate sulla scrivania, e gliele strinse.
«Fidati» le disse, il tono dolce.
«Sono solo preoccupata» rispose lei,
ma accennò un sorriso. Harry le rispose alzando lievemente gli angoli delle
labbra, anche se la sua mancanza di fiducia lo infastidiva.
«Sono sopravvissuto a Voldemort, ricordi?» chiese. Il Ministro annuì.
Per un paio di giorni le giornate di
Harry continuarono a vederlo alla scrivania di ArturWeasley, il che iniziò a farlo soffrire un po’ di noia,
perché infondo la sua carriera di Auror lo
appassionava anche per il lato meno cheto della cosa, quello che lo vedeva
sempre in movimento. Ora però si sentiva come ancorato al suo finto impiego e
fu con particolare gioia che ricevette l’invito di Hermione,
tramite la loro vecchia moneta stregata, di recarsi di nuovo da Inga. Stavolta decise di fingere di passare davanti alla
bottega per caso, così da non dover sembrare troppo pressante. Passeggiò quindi
a lungo per DiagonAlley
prima di allungarsi verso la zona meno battuta del centro, godendosi l’aria
che, giorno dopo giorno, si faceva sempre più festiva. Era ormai il diciotto Dicembre,
Londra era addobbata da abeti e luci già da un mese e lui si sentiva
elettrizzato lì, fuori dal Ministero, nella calca vociante. Non gli andava
granché di chiudersi nel negozio oscuro di Piton, né
di vederlo e di incassare la sua ironia velenosa, ma si immaginava che dimostrando
a Inga di non aver mentito su di lui potesse segnare
un punto in più per guadagnare la sua fiducia. Così entrò nel negozio, dove
trovò un paio di clienti a cui la donna stava vendendo un sacco pieno di
misteriose erbe secche. Harry zampettò per l’ambiente guardandola e lei,
servendo il mago delle erbe, vedendolo sorrise.
«Ha bisogno di altro?» chiese la
donna al mago. Lui mormorò qualcosa che Harry non sentì e vide la donna sparire
nel retrobottega. Con un brivido, si voltò, come sperando di non essere
riconosciuto dall’uomo che sarebbe apparso, i capelli sciolto attorno al volto
e tre grosse fiale piene di sangue di chissà quale creatura tra le mani.
Era intento ad osservare il teschio
di bufalo quando una mano batté sulla sua spalla. Si voltò: Elena gli
sorrideva.
«Ehy» fece
Harry, «è un brutto momento?»
«Non più del solito» mormorò Elena,
sorridendo. «Hai bisogno di qualcosa o…?»
«Volevo salutarti» rispose Harry. La
donna si schernì col suo solito movimento di ciglia. Stava per rispondere
quando la voce imperiosa di Piton la richiamò
all’ordine:
«Elena! Il signor Wellfair non si serve da solo»
La donna lanciò un’occhiata di scuse
a Harry e tornò rapidamente dietro al bancone. Fu in quel momento che Piton riconobbe il motivo per cui la sua commessa si era
allontanata: il suo viso si stirò in una maschera neutra prima che il suo
sopracciglio schizzasse verso l’alto.
«Potter» fece l’uomo, avvicinandosi.
«Signore» rispose Harry, a disagio.
Piton si fermò davanti a lui, voltandosi
ad osservare Elena.
«Hai smesso di angustiarmi a scuola
per distrarre chi mi aiuta in negozio?» chiese l’uomo. C’era una vena acida nel
suo tono, ma Harry sentiva la determinazione a tenerla a bada. Ne fu sorpreso.
«Mi dispiace, conosco Elena e sono
passato a salutare» rispose il giovane.
Piton lo squadrò.
«E dimmi, Potter, come te la passi? Ho
saputo che hai cercato di guadagnarti i M.A.G.O.per…»
«Lavoro all’ufficio di
regolamentazione dell’uso dei manufatti Babbani» lo
interruppe rapidamente Harry. Fece un sorriso posticcio e Piton
assunse un’espressione molto loquace: avvertiva che qualcosa non andava.
Il cliente servito da Elena se ne
andò, così la donna li raggiunse.
«Severus,
hai visto che coincidenza?» disse. «Harry mi ha raccontato di essere un tuo ex
alunno»
«Ex alunno, ex incubo» rispose Piton. Studiò ancora una volta il viso di Harry, poi guardò
Elena.
«Mi rincresce, Elena, ma non avrai
tempo libero da perdere con questo individuo. Ti sto facendo un favore»
Elena rise, ma Harry si sentì
montare la vecchia collera che Piton riusciva da
sempre a tirargli fuori dalle budella.
«Non ce n’è bisogno, Severus» rispose la donna. «Ci vediamo dopo la chiusura?»
Harry guardò i grandi occhi della
donna e si costrinse a sorridere, anche se il suo istinto gli gridava di piantare
grane con quella stupida nuova versione più pulita e più affascinante di Piton.
Più
pulita e più cosa?
«Certo» rispose il giovane. «Ti
passo a prendere più tardi. Piton»
Harry si incamminò verso la porta e
l’uomo lo osservò.
«Potter» fece, tornandosene nel
retrobottega. La strega restò sola.
Irato, sconvolto e preoccupato,
Harry prese a camminare per le strade a testa bassa. Cosa gli era preso? Non
era neanche più capace di gestire i propri pensieri? E che pensiero era, poi,
quello? Affascinante? L’Auror in incognito imprecò. Non poteva pensare una cosa del
genere di quell’uomo, non dopo tutto quello che gli aveva fatto. E cosa ti ha fatto? sussurrò una vocina
nella sua testa. È l’uomo più coraggioso
che tu abbia mai conosciuto.
Scuotendo via il lato più
distruttivo della propria coscienza, Harry si fermò davanti ad una vetrina.
Guardò la merce esposta senza vederla. Lo aveva protetto, certo. Ma per amore
di sua madre. Per amore della donna che aveva amato. Non aveva mai avuto un
briciolo di affetto verso di lui. D’un tratto, Harry si chiese perché. Perché
si erano odiati così tanto?
Un movimento nella vetrina lo
riscosse: una madre stava comprando al figlio il trenino magico esposto. Il
bambino aveva gli occhioni luccicanti. Non vedeva
l’ora di portare il trenino a casa. Chissà, forse era il suo compleanno. Magari
quella sera suo padre sarebbe tornato con una torta al cioccolato.
Harry riprese a camminare. Se lo
ricordava bene, il peso del corpo di Piton tra le
braccia. Quando aveva visto i suoi occhi chiudersi e aveva dato a Hermione la fiala coi suoi ricordi, prendendolo di peso,
portandolo al sicuro. Correndo, correndo contro il tempo. Salvandolo.
Lui lo aveva capito, alla fine, che
qualcosa di buono in quell’uomo fatto di ghiaccio e rancore era rimasto. Piton, di lui, invece, pensava ancora tutto il male del
mondo. Un crampo attanagliò per un momento lo stomaco di Harry. Si ritrovò a
sperare nel contrario. E nella sua mente si affacciarono gli occhi neri di lui
e quei capelli corvini che quel giorno gli incorniciavano il viso quasi con
grazia. Sembrava un uomo nuovo e Harry si sentiva, ahilui,
terribilmente curioso di conoscerlo.
Trascorse tutte le ore restanti a
zonzo per DiagonAlley,
senza quasi accorgersi che la moneta di Hermione
bruciava nella tasca dei pantaloni Babbani che
indossava. Ci fece caso solo quando il cielo era ormai scuro e vi gettò
un’occhiata:
?
– bacio da h e r
Rispose con parole molto scarne, poi
guardò l’orologio da polso. Era quasi l’ora. Tornò indietro e, arrivato alla
bottega, si appoggiò al muro sul livello della via che correva oltre la porta
incassata del negozio di Piton. Dovette attendere
solo una decina di minuti prima di vedere la porta aprirsi e Piton che salutava Elena, guardando poi verso Harry. Come
se avesse spiato dalle finestre buie, cercandolo. Lo fissò e Harry rispose al
suo sguardo. Poi vide come le pupille di Piton
scivolavano su di lui, studiandolo in tutta la sua figura. Harry si sentì
arrossire, suo malgrado, e nonostante sperò di non farlo notare, Piton se ne accorse e fece un sorriso intimidatorio prima
di sparire di nuovo nel negozio. La serratura magica, con pesanti tonfi, si
chiuse.
«Buonasera» disse Elena,
raggiungendo Harry. Lui spostò lo sguardo dalla porta a lei, un po’ a disagio
dopo quegli sguardi. La donna però non diede peso alla sua espressione,
prendendolo a braccetto.
«Mi offri la cena?» chiese. Harry
annuì.
«Certamente» rispose, la voce bassa.
Maledetta strega oscura, maledetto Piton, maledetta Hermione. Avrebbe chiesto di essere rimborsato, alla fine
della questione.
Come se non fosse bastato il tempo
speso sopportando Harry Potter finora, nei giorni che seguirono SeverusPiton dovette rendersi
conto che la vita aveva deciso di riportare nei suoi giorni, ormai
splendidamente monotoni, quel ragazzino pieno di sé che sperava di non dover
vedere mai più. Qualcosa, però, lo frenava dall’esserne del tutto annientato.
Pareva che il ragazzo avesse fatto amicizia con Elena e, anche se il rapporto
tra loro non lo interessava minimamente, poteva immaginare che qualcosa di più
si preparasse ad accadere tra loro. La cosa non lo stupiva. Lo infastidiva,
però, perché sapeva il rapporto di sinonimia assoluta tra “Potter” e “guai” e
lui si era beato di aver trovato, finalmente, una collaboratrice decente.
Non era stupito però, quindi, perché
Elena era davvero bellissima. Non lo aveva notato prima di vedere lei e Potter
conversare nel suo negozio – non gli era minimamente interessato – ma ora
vedeva i suoi capelli biondi, i suoi occhi grandi, la risata cristallina.
Vedeva però anche qualcosa che quell’ingenuo di Potter di sicuro non aveva
notato, cioè la sua profonda vena malvagia, ma non sarebbe stato che divertente
vedere come questo lato di lei avrebbe influito nella loro relazione. Era un
lato ben nascosto, che non si mostrava quasi mai, ma lui poteva vederlo
perfettamente.
Di Harry, invece, lui la bellezza
l’aveva notata subito. Non lo vedeva da quando aveva lasciato la sua stanza al
San Mungo, un’eternità prima. Dopo che lo si erano scambiati un paio di parole,
dopo che Severus lo aveva addirittura ringraziato. Ed
era cambiato molto, da quel giorno: ora era un uomo in tutto e per tutto. Aveva
perduto del tutto i tratti morbidi dell’infanzia e anche quelli acerbi
dell’adolescenza se ne erano andati. E, sorprendentemente, aveva lasciato anche
tutte le terribili somiglianze coi suoi defunti genitori: era, ora, davvero
Harry Potter. Non più il figlio di Lily e James.
Quando lo vedeva arrivare, quindi, Piton non se ne fuggiva nel retro, le poche volte che girava
per il negozio. Si salutavano freddamente, si osservavano come animali
costretti a condividere il territorio. Ma una tacita amnistia vigeva tra loro e
grazie a quella i loro sguardi poterono farsi via via
meno nascosti, finché Piton non dovette prendere
coscienza del fatto che quel giovane dipendente del Ministero, che aveva
evidentemente qualcosa da nascondere, aveva, su di lui, una certa influenza.
Il che lo terrorizzava.
Non era, dicevamo, nulla che
c’entrasse col vecchio sentimento per Lily, anzi, quello, dopo la Guerra,
sembrava essere rimasto nella carcassa del vecchio SeverusPiton che era rimasta chiusa in una tomba di
silenzio. Ora il Pozionsta si sentiva libero di non
vergognarsi più di se stesso, libero di non pensare più a quella ragazza da
tempo sepolta, libero di non guardare più troppo insistentemente il Marchio
Nero sul proprio braccio. Era, quindi, ancora peggio. Perché questo significava
che Harry Potter lo attraeva, non il ricordo di qualcun altro, non la nostalgia,
no, proprio lui.
Come se vederlo per pochi minuti al
giorno fosse abbastanza per dimenticare tutto quello che era stato… tutto quello che erano stati.
«Severus»
L’uomo si riscosse, lasciando la
presa sui suoi pensieri. Elena lo guardava con un sorriso.
«Sì?» fece lui. Si raddrizzò. Stava
macinando una preziosa radice di rosa del deserto prima di cadere nei meandri
della propria mente.
«Scusami, volevo solo sapere se ci
sono novità per la mia ricompensa»
Severus guardò la donna, sondandone
l’espressione. Poi chiuse con violenza la porta della propria mente e sorrise a
sua volta.
«Scusa, Elena, purtroppo il
viaggiatore a cui devo chiedere non è ancora arrivato. Sono certo che tra pochi
giorni sarà a Londra»
Elena annuì, nascondendo la
delusione.
«Grazie mille, Severus,
io…» iniziò a dire, ma l’uomo alzò la mano.
«Per la figlia di Sofon questo ed altro» l’interruppe.
La donna abbassò la testa, tornando
al suo posto, nel negozio. Il sorriso scolorò dalle labbra di Severus mentre riprendeva a macinare la radice.
Poi, lentamente, un pensiero curioso
si fece strada nella sua mente.
Harry era intento a costruire un bel
castello di carte quando un aeroplanino viola cadde
proprio nella sua bella costruzione, facendola crollare. L’Auror
prese il biglietto e lo aprì, sperando di leggere qualcosa che potesse spazzare
via la sua noia.
So
che stai facendo castelli di carte da gioco! Smettila! E vieni subito nel mio
ufficio. H.
Ridacchiando, prese la sua via verso
l’ufficio di Hermione. Erano ormai giorni che non si
trovavano per parlare di Inga e fu con estremo
disappunto che Harry constatò che quel giorno non sarebbe stato con Ron e Hermione a commentare le novità sulla strega, ma con Hermione e Piton.
«Cosa?» fece subito Harry, preso
alla sprovvista. L’uomo era seduto davanti alla scrivania di Hermione, le gambe accavallate, e lo guardava con
disprezzo. Hermione si alzò e andò a chiudere la
porta, lanciando il solito Muffliato prima di far
cenno a Harry di avvicinarsi alla scrivania.
«Il Signor Piton
è venuto per il nostro bersaglio, Harry» disse la giovane, tornando alla
propria poltrona. Harry restò in piedi, dove poteva vedere entrambi bene in
faccia.
«Lei sa?» chiese, puntando gli occhi
verdi sull’uomo.
«La signorina che state cercando di
acciuffare è venuta da me, una sera» iniziò a dire, quasi ignorando Harry. «Si
è presentata come la figlia di SofonKinach, un Pozionista che conobbi
molti anni fa, un mago di tutto rispetto. Mi ha chiesto un favore, un favore
che mi è parso subito molto strano, ma ho accettato. Ora, dopo che tu, Potter,
hai iniziato a ronzare attorno alla mia bottega, credo di avere in mano
abbastanza elementi per preoccuparmi»
Harry e Hermione
si guardarono.
«Il signor Kinach
non ha mai risposto alle sue lettere, è esatto?» chiese Hermione
per portare avanti il discorso.
«Per l’appunto» rispose Piton.
«E cosa le ha chiesto?» lo incalzò
ancora Hermione.
L’uomo sospirò.
«Uno degli ingredienti più
difficili, pericolosi e preziosi» rispose Piton,
guardando Harry. Lo fece con gravità, senza l’astio che Harry si era aspettato.
«Sangue di Re’em»
Harry annuì, nascondendo la propria
ignoranza.
«Cosa pensa voglia farsene?» chiese,
il tono professionale. L’ex professore non fece una piega: forse non ne aveva
mai parlato a lezione e Harry non doveva preoccuparsi poi troppo di fingere di
sapere qualcosa sul sangue di Re’em, ma con una così
grave Hermione accanto, il giovane decise di rimanere
sul vago.
«Se quella donna avesse quattro
cuori umani essiccati, diciamo di bambini non più grandi di dieci anni, e il
cuore di un’innamorata» rispose Piton, «e se avesse
con sé anche un calderone di tantalio, cosa che ha, e alcuni altri ingredienti che io stesso posseggo in negozio,
allora potrebbe creare una pozione leggendaria… a cui
nemmeno io credo, se devo essere sincero»
Harry si poggiò alla scrivania,
osservando il Pozionista.
«Ci dica di più» mormorò. L’uomo
abbassò gli occhi, fissando una piega che i pantaloni che indossava – pelle nera, pensò Harry – formavano sul
suo ginocchio.
«Si dice che un uomo, molti decenni
fa, inventò questo filtro» disse. «Si chiamava Julius. Uccise quattro bambini,
strappò loro il cuore. Poi uccise il suo stesso figlio, innamorato del suo
compagno. Fece seccare i loro cuori, li ridusse in polvere, li mischiò al
sangue di Re’em in un calderone di tantalio, poi
aggiunse del dittamo, della melissa e dell’iperico, li fece bollire assieme per
tre notti e poi bevve la pozione e si rese conto di poter controllare l’intera
magia del mondo. La leggenda dice che tolse il potere a ogni strega e ogni mago
sulla terra ma qualcuno lo uccise quindi non poté fare altri danni e tutto
tornò alla normalità. Ma non credevo qualcuno potesse crederci…»
«Lei pensa sia possibile?» domandò Hermione. Severus sospirò.
«Non sono tanto crudele da usare
cuori umani nelle mie pozioni. Non so cosa ne uscirebbe» rispose.
Harry si allontanò, facendo un paio
di passi, pensando. Sentì che Hermione diceva
qualcosa circa l’impossibilità di arrestare Inga
senza prove e un profondo fastidio si impossessò del suo stomaco. Non voleva
che quella donna potesse neanche tentare di fare una cosa del genere, non dopo
essere sospettata di aver perpetrato quei crimini orribili. Non accanto a lui. Doveva proteggerlo.
«Lei non le farà avere quel sangue»
mormorò Harry. Piton si voltò a guardarlo, i capelli
neri che si muovevano ai suoi movimenti. Harry lo osservò, incapace di frenarsi
dal perdersi nei suoi occhi. Davvero non si era mai accorto di quanto fossero
profondi?
«Certo che no, Potter» disse il Pozionista. Harry tornò sulla terra con un doloroso
scossone.
«Ma dobbiamo fermarla prima che si
accorga della nostra operazione» aggiunse Hermione.
«Sei il Ministro, Granger, non puoi farla arrestare e basta?» chiese,
tagliente, Severus. Lei lo guardò con sguardo
pungente.
«Non funziona più così. Non sotto il
mio governo» ribatté, il tono imperativo. Il Pozionista
non rispose e si alzò.
«Bene, allora direi che posso
andare, o quella strega si insospettirà. Buon lavoro, Ministro»
Detto ciò l’uomo puntò dritto alla
porta, aprendola e spezzando l’incantesimo lanciato da Hermione.
Lei guardò Harry con urgenza e lui, comprendendo, si lanciò alle calcagna di Piton.
«Aspetti!» esclamò. Lo vide
allontanarsi a lunghe falcate, allora gli corse dietro, afferrandolo per un
polso. Lo trattenne con forza e l’uomo si voltò di scatto, affrontandolo.
«Deve farle dire perché vuole quel
sangue» disse Harry, la voce bassa. Severus lo
osservò, gli occhi ridotti a due fessure. «Deve farle ammettere il suo piano.
Mi dia un motivo per arrestarla»
Severus alzò una mano, poggiandola sul
petto di Harry. Il giovane, stranito, guardò verso il basso. Si sentì il viso
andare in fiamme e, senza capire, fece per chiedere spiegazioni a Piton. Ma poi l’uomo lo spinse via, distanziandolo.
«Lasciamo più di tre centimetri tra
le nostre bocche quando parliamo, d’accordo?» ironizzò Severus.
Harry si schiarì la gola, imbarazzato.
«S-sì,
scusi» rispose. Si accorse solo in quel momento che ancora teneva tra le dita
il polso forte dell’uomo, così lo lasciò andare.
«Venga domani in negozio. Alle
dieci. Sia puntuale» gli ingiunse duramente, prima di voltarsi e andare via
definitivamente. Harry restò lì imbambolato per un attimo, poi si voltò,
tornando verso l’ufficio del Ministro. Gli occhi di Hermione
lo osservavano dall’uscio del suo ufficio, un sorrisetto sulle labbra rosee.
«Non meno di tre centimetri?» la
sentì dire, ironica, mentre lui si nascondeva il viso tra le mani.
«Ti prego, non dire nulla» mormorò
il ragazzo, andandosene, mentre le risa del Ministro lo accompagnavano.
Il giorno dopo, alle dieci in punto,
Harry entrava nel negozio di Piton. Senza stupirsi,
vide che l’uomo stava sfaccendando assieme ad Elena, e nessuno dei due diede
segno di vederlo arrivare, anche se, Harry lo sapeva, Piton
era rimasto ben allerta per notare se fosse giunto in anticipo o in ritardo.
Quando mosse qualche passo nella bottega, Elena alzò la testa dai conti che
stava facendo e sfoderò un gran sorriso.
«Harry!» esclamò. «Come stai?»
Il ragazzo si avvicinò al bancone,
ignorando Piton che continuava a spostare giare su un
mobile.
«Ora bene» rispose. Elena parve
illuminarsi di colpo, come ricordandosi qualcosa di particolarmente felice.
«Severus,
ho avuto un’idea!» disse. L’uomo si voltò lentamente, lanciando un’occhiata a
Harry.
«Quale?» chiese, guardingo.
«Può venire anche Harry alla cena
per la pausa natalizia?» chiese Elena. Il ragazzo, senza capire, fece la spola
tra la strega e il Pozionista. Piton
non sembrava molto felice della proposta della donna.
«Se ci tieni» rispose, tornando a
spostare i barattoli. Elena batté le mani, felice come una bambina.
«Allora Harry, venerdì sera a casa
di Severus?» domandò, elettrizzata.
Harry lanciò uno sguardo divertito
al Pozionista.
«Ehm, certamente» rispose. «Sempre
quel casermone nelle Highlands, Severus?»
Il Pozionista
si voltò di scatto, smettendo di trafficare con le giare, e si avvicinò a Harry
con fare minaccioso.
«L’appartamento qui sopra, Harry» ribatté, il tono mellifluo. «Uomo
nuovo, casa nuova… tutto nuovo»
Il ragazzo accennò un ghigno ironico,
ma l’ex professore fu più veloce di lui. Si guardarono per un lungo istante, i
verdi fanali puntati nella nera oscurità. Harry iniziò a sentirsi strano e non
fu il solo: la voce di Elena dovette riscuotere entrambi gli uomini quando,
dopo aver ripreso in mano i suoi conti, annunciò a gran voce di aver finito.
Harry trasalì e Severus
gli rivolse un altro sorriso – stavolta un sorriso più morbido, un sorriso che
mai il ragazzo aveva visto sul suo viso.
«Benissimo Elena, puoi andare a
mettere la pergamena di là nel faldone?» chiese rapidamente il Pozionista. La donna annuì, ricontrollando ancora i
calcoli, e sparì oltre la porta, lasciando i due maghi soli.
Severus mosse un passo verso Harry, che
restò immobile.
«Che cosa succede, Harry?» chiese l’uomo, la voce roca.
Harry deglutì.
«Dovresti dirmelo tu» sussurrò. Si
sentiva il viso in fiamme e, quando Severus si
avvicinò ancora, credette di prendere fuoco
spontaneamente. Ma non accadde, anche se, quando la mano del Pozionista andò a posarsi sul suo fianco, il calore che
avvertiva crebbe a dismisura.
«Credo che qualcosa sia andato
storto» mormorò Severus. Inclinò il viso,
avvicinandosi alle labbra di Harry. Lui non osava muoversi, ma non si ritirò
avvertì la bocca del suo ex professore a un soffio dalla propria, anzi stava
per annullare la distanza quando Severus si allontanò
di colpo, lasciando Harry ad annaspare nel vuoto con fare goffo, mentre Elena
tornava da loro.
«Spero di aver messo tutto bene in
ordine» disse la donna. Severus, il volto sereno, le
rivolse un cenno. Harry, invece, aveva il viso color pomodoro.
«Harry, stai bene?» chiese la donna,
la fronte aggrottata.
«Io, uhm…»
biascicò il ragazzo. Si toccò la fronte. «Credo di essermi preso un malanno…»
«Oh, che peccato» commentò Severus. Gli fece cenno di aspettare e girò attorno al
bancone, chinandosi a prendere una fiala piena di un liquido ambrato. Gliela
porse.
«Con questo omaggio non avrai la
scusa di avere l’influenza, venerdì sera» sorrise.
Harry la prese, la mano tremante. Le
loro dita si sfiorarono.
«Che cosa è?» chiese.
«Solo un ricostituente molto
potente» spiegò Elena mentre Piton gli scriveva una
nota, la piegava e la consegnava al ragazzo. «Fa miracoli contro i malanni di
stagione»
Harry prese il biglietto da Severus.
«Grazie mille, allora» mormorò. «Io
credo di dover andare via, scusami Elena, ma temo di sentirmi…
sempre peggio»
Lanciò un’occhiata bruciante
all’uomo che gli sorrideva.
Salutata Elena, Harry uscì dal
negozio e, lungo la strada, aprì il biglietto. Vi erano scritte poche parole
nella grafia che, lo ricordava bene, gli segnava tutti gli errori dei suoi temi
di Pozioni.
Chissà
che prossima settimana tu non venga qui per qualcun altro.
Harry avvampò di nuovo, piegando di
nuovo il biglietto. Se lo ficcò in tasca, accanto al ricostituente, poi si
allontanò a grandi passi. Aveva bisogno di parlare con Ron e Hermione.
°Hellodaisies! Non voglio rubare per
troppo tempo la scena ai nostri eroi, quindi cercherò di essere breve: grazie a
tutti. Grazie a chi ha recensito, grazie a chi ha soltanto letto (e siete stati
tantissimi, non me lo sarei mai aspettato). Il mio ritorno su EFP è stato molto
emozionante ed è stato tutto merito di voi lettori. Quindi ecco, soltanto
grazie. Godetevi il capitolo, commentate, criticate, fate chiasso, rendiamo
viva la nostra minuscola isola letteraria! A.°
«Non credo di aver ben inteso il
motivo della tua preoccupazione»
Ron alzò gli occhi dalla scacchiera
su cui e Harry stavano giocando a Gobbiglie. Il
Bambino che è Sopravvissuto si stropicciò il viso con un gesto stanco.
«Sei più preoccupato perché venerdì
incastrerai quella tizia o perché quel pipistrello unticcio inizia a starti
simpatico?»
«Non è più così unticcio» biascicò
Harry. Fece la sua mossa, che si rivelò, senza troppa sorpresa, del tutto
errata. Ron quindi tornò a osservare la partita mentre Harry si puliva il viso
dal liquido puzzolente.
«Credo che Harry abbia più bisogno
del nostro supporto che del nostro biasimo» commentò piccata Hermione, passando accanto a loro e andando a sedersi su
una delle poltrone da cui poteva godersi la partita.
Ron decise di fare il proprio gioco
e fu la mossa finale: le ultime gobbiglie in campo
spruzzarono nuovamente addosso a Harry, che alzò le mani a coprirsi il volto.
«Bleah» si
lamentò. «Non giocherò mai più con te»
Ron sorrise, buttandosi
all’indietro, la schiena poggiata alle gambe del divano.
«Lo dici sempre» rispose.
Hermione, con un colpo di bacchetta, pulì a
distanza il viso di Harry.
«Sono già le dieci e ancora non ci
hai detto cosa ti turba» commentò, angelica.
Il ragazzo dai capelli corvini la
guardò aggrottando le sopracciglia, poi osservò anche Ron.
«Ma ve l’ho detto» rispose.
«Venerdì, Piton che sembra provarci…»
Ron fece una smorfia.
«Signor
Potter, lasciamo più di tre centimetri tra le nostre bocche mentre parliamo?»
Harry fulminò Hermione
con lo sguardo e lei alzò le spalle.
«Non dirmi che hai origliato!»
«Cosa significa?» esclamò Ron,
impallidendo.
«Non ho origliato, sei tu che fai…cose davanti
al mio ufficio!» si difese la giovane.
«Che cose?» disse ancora Ron, senza capire.
Harry sospirò.
«Sentite, non è come sembra. Quel
giorno lo stavo rincorrendo come un idiota per tuo ordine, Hermione
-» la ragazza arrossì, «- e oggi, oggi… è cambiato,
va bene?»
Ron non accennava a riprendere
colore.
«No, Harry» gemette. «Prendi mio
padre. Prendi Hermione. Ma non Piton»
Hermione gli rifilò una manata sulla spalla,
il punto che le era più facilmente raggiungibile, ma Ron non demorse,
continuando a fissare il proprio migliore amico. Harry abbassò gli occhi,
imbarazzato.
«Non lo so, Ron» mormorò. «Da quando
la Guerra è finita io mi sento… diverso. Ci siamo
disprezzati per così tanto a lungo che da quando l’ho visto morente mi sono
quasi dimenticato del perché di tutto quell’odio»
Il silenzio dei due amici seguì le
sue parole, così Harry continuò.
«E non so neanche se me lo prenderò, Ron, quindi non devi offrirmi
tuo padre, per ora…»
Hermione accennò una risata tesa.
«Beh» disse piano Ron. «Dovrai avere
pazienza e spiegarmi il perché di questa cosa a più riprese…e… e se verrà con te a Natale dai miei non posso
prometterti di fargli troppi sorrisi, insomma, è comunque Piton…»
Harry si grattò nervosamente il
collo.
«Ehm, non correre così in fretta,
Natale è tra una settimana» mormorò.
«Sarà comunque solo per Natale,
credo» intervenne Hermione. «Credo dovremmo
invitarlo. Non tu, Harry» aggiunse davanti all’occhiata terrorizzata del
giovane, «ma almeno io. Sta lavorando con noi, infondo…»
«Anche quel decerebrato di Morris sta lavorando con noi» le ricordò Ron. «E sai? Oggi
ha fatto esplodere i tubi dell’acqua di una palazzina mirando ad un mago oscuro
che si è poi rivelato essere un Babbano con i capelli
strani. Invito anche lui per Natale?»
Harry scoppiò a ridere di gusto,
immaginandosi il povero Morris che iniziava la
catastrofe. Anche Hermione ridacchiò, ma diede
comunque un’altra patta a suo marito.
«Dico solo che sarebbe un gesto
cortese da parte nostra» disse.
Ron alzò gli occhi al cielo.
«Sei troppo buona. Anzi, sai che ti
dico?, sulla bontà io ti sfido» Indicò Harry con in inquisitorio dito indice.
«Tu lo inviterai. Lo sai come ha fatto mio cugino Ethan a sposare la figlia del
suo capo? Invitandola ad uno dei famosi Natali alla Weasley.
Tu rimorchierai Piton
col Natale alla Weasley»
Questa volta non fu solo uno
schiaffetto di Hermione a raggiungerlo, ma l’intera
tavola di gobbiglie. Ridendo, Harry e Hermione lo assaltarono, e fu ululando e chiedendo pietà
che Ron fu lasciato libero solo dopo molto tempo.
Quella sera, Harry andò a letto
sereno. Parlare con Ron e Hermione non aveva aiutato
a fare chiarezza, ma come al solito era stata la mossa migliore per non
sentirsi solo. Stringendosi nel suo piumone rosso e oro, Harry si addormentò
finendo per sognare una scenata epocale del suo padrino che lo accusava di aver
sedotto Piton grazie al tronchetto di Natale di
Molly.
Venerdì sera, quando Harry entrò nel
cupo negozio in NotturnAlley,
i suoi occhi captarono subito qualcosa di estraneo tra le ombre della sala.
Elena, infatti, era un tripudio di velluto rosso, avvolta in un lungo abito
scollato che sembrava emettere luce propria a contrasto con la scatola di
carbone che la conteneva.
«Finalmente!» esclamò non appena lo
vide, correndo a schioccargli un bacio sulla gota. Harry s’irrigidì quando lo
fece. Tutti quei sotterfugi iniziavano a stargli stretti.
«Severus
ha detto che quando saresti arrivato avrei potuto chiudere e salire» continuò
la donna, sfoderando la bacchetta con cui chiuse la serratura del negozio. Era
la prima volta che Harry la vedeva: una bacchetta molto più corta del normale,
non superava i sei pollici. Il legno che la componeva era estremamente chiaro,
quasi bianco, e non vi erano incisioni di sorta, solo una liscia, perfetta
linea tondeggiante che finiva bruscamente in una punta mozza.
«Andiamo?» propose allora la donna,
prendendo Harry per il gomito e portandolo oltre la porta del retrobottega. Là,
uno stretto corridoio li portò al magazzino in cui, il ragazzo immaginò, Severus lavorava tutta la sua mercanzia. C’era un grosso
tavolo, nel bel mezzo di alti scaffali in ombra, e poco lontano da quello una
scaletta in ferro saliva verso il piano superiore. Mantenendo il silenzio,
Harry seguì Elena su per i gradini che li portarono davanti ad una porta nera,
gemella di quelle al pian terreno. La donna bussò con vigore e si volse a
sorridere a Harry.
«Va tutto bene?» chiese. Harry fece
una smorfia.
«Strascichi influenzali» rispose.
Elena fece una smorfia.
«Non hai preso la fiala di Severus abbastanza in fretta» gli rimproverò con voce
monotona, osservandolo in tralice. Harry alzò le spalle.
«Però sono qui» sottolineò, un
sorriso sulle labbra.
La momentanea freddezza di Elena si
sciolse e anche lei sorrise, illuminandosi.
In quel momento la porta si aprì e Severus si mostrò ai suoi ospiti, studiandoli con sguardo
pesante.
«Prego» disse, facendosi da parte.
Elena entrò e, come di casa, se ne andò dritta a spiare oltre gli usci delle
porte. Harry, invece, si fermò davanti alla porta, levandosi il cappotto.
Severus glielo tolse di mano. Quella sera
aveva indossato una giacca alla coreana con le code e sembrava essere tornato
al vecchio se stesso, a prima vista, ma Harry si prese tutto il tempo per
notare che la camicia che occhieggiava oltre il colletto nero era di un bel
bordeaux pieno e che i lunghi capelli del Pozionista
erano elegantemente legati con un cordino in cuoio. Il giovane sorrise.
«Come ti senti oggi?» chiese, la
voce bassa, Severus.
«Non mi è passata» rispose, vago,
Harry. I due uomini si scrutarono ancora, scambiandosi sguardi confusi, intensi,
sensuali. Poi però Elena gravitò verso di loro, poggiando le mani bianche sulle
loro spalle.
«Già, credo non abbia preso la
pozione in tempo» s’intromise. Severus alzò un
sopracciglio.
«Conoscendolo se la sarà dimenticata
nella giacca e l’avrà presa il mattino dopo» commentò, andando ad appendere il
cappotto del giovane.
«Temo sia andata così» rispose
Harry, casualmente, e senza attendere seguì Elena in una stanza attigua.
La donna era entrata nella sala e
Harry se ne rimase sull’uscio, studiando l’arredamento che rispecchiava
perfettamente il gusto di chi aveva sistemato anche il negozio. I mobili, dal
taglio antico e soffocante, erano tutti di legno scuro che si coniugava con
eleganza con il verde delle poltrone radunate attorno ad un bel tavolino in
cristallo nero. La tavola, però, era stata imbandita con particolare sforzo e
Harry si immaginò quanto Severus avesse patito nel
scegliere quelle candele rosse e la tovaglia dorata punteggiata da dettagli
scarlatti.
«Non gongolare troppo» sentì sussurrare
alle sue spalle. Harry si fece da parte per far entrare il padrone di casa
nella sala e Severus, passando, gli si strusciò
casualmente addosso. Il giovane si passò una mano tra i capelli, nervoso.
«Hai gusto da vendere, Severus» si complimentò Elena, guardandosi attorno.
«Grazie» rispose senza calore
l’uomo. «Spero lo abbia pensato anche chi si è introdotto in casa mia di
soppiatto, l’altra notte»
Sia Harry che Elena lo guardarono
con sguardo penetrante.
«Di soppiatto?» ripeté Harry, senza
potersi frenare.
«Sono tornato e ho notato che
qualcosa non era al suo posto. Sapete, piccoli particolare. Purtroppo io certe
cose le noto» spiegò Severus, senza abbandonare il
tono casuale.
«Che cosa orribile, Severus» commentò gelida Elena. Con una mano stava carezzando
distrattamente lo schienale di una sedia, lo sguardo fisso sul Pozionista. Harry la osservò. I suoi grandi occhi belli
erano pozzi di cattiveria.
«Mi indicheresti la toilette?»
chiese poi, il tono argentino. Severus le indicò la
stanzetta adiacente alla sala e lei vi si incamminò rapidamente, i tacchi
rumorosi sul pavimento di marmo.
I due uomini attesero di sentire la
serratura del bagno chiudersi.
«Era lei?» chiese sottovoce Harry.
«Immagino di sì» rispose Severus.
«Non può fuggire dal bagno, vero?»
domandò ancora l’Auror.
Severus scosse la testa, avvicinandosi al
tavolo. Trasse dalla tasca una minuscola fiala e fece cadere un paio di gocce
di un liquido perfettamente trasparente in un bicchiere, poi lo consegnò a
Harry.
«Il Veritaserum
ha un odore molto forte che qualsiasi Pozionista
riconoscerebbe» mormorò. Harry prese il bicchiere dalle sue dita e le carezzò
distrattamente. Severus ebbe un brivido.
«E come faremo…?»
chiese piano il giovane, avvicinandosi a lui.
Severus ghignò.
«Posso insegnarti come imbottigliare
la fama e non come creare un Veritaserum senza odore,
secondo te?» chiese, mellifluo, avvicinando il viso a quello di Harry. L’Auror alzò una mano a sfiorargli il petto, senza sottrarsi
a lui quando la mano di Severus si poggiò sulla base
della sua schiena.
«Tu ed io dobbiamo parlare di
parecchie cose, credo» mormorò, roco.
Severus sorrise.
«Lo credo anche io» sussurrò. Il
suono della serratura che si apriva li fece allontanare e Severus
attese di vedere Elena tornare per richiamare una bottiglia di vino elfico e
riempire il bicchiere a Harry.
«Oh, eccoti!» esclamò il ragazzo
vedendola tornare. Il volto di lei era una maschera di posticcia felicità.
Harry le offrì il proprio bicchiere di vino e lei lo prese.
«Scusatemi, credo di aver perso tempo»
sorrise lei. Severus le rispose alzando gli angoli
della bocca, l’espressione divertita. Harry prese un nuovo bicchiere pieno e,
ignorando l’espressione vittoriosa del Pozionista,
guardò Elena che avvicinava il naso al cristallo, distrattamente. Il liquido
parve convincerla, perché qualcosa nella sua espressione si sciolse.
«Che splendido profumo» commentò.
Severus osservò il colorito
ambrato-verdastro del vino.
«Una grande annata» annuì. «A voi.
Buon Natale»
Harry ed Elena alzarono i bicchieri e
bevvero.
«Davvero squisito!» esclamò la
donna. Harry aveva notato che non aveva fatto nulla più che intingervi le
labbra, ma scrutando Severus vide l’espressione
ineguagliabile della vittoria.
«Ti piace?» chiese l’uomo.
«No, odio il vino elfico» rispose,
uno smagliante sorriso, Elena. I suoi occhi si sgranarono, stupiti della
propria stessa risposta, e si portò una mano alla bocca.
«Ma che dia…?»
«Via, Inga,
non dovresti stupirti» disse Harry. La donna lo squadrò con orrore, una mano
sulla bocca, l’altra sulla gola. Le sue pupille nocciola presero a fare la
spola tra lui e Severus, allucinati.
«Maledetti!» gracchiò Inga, lasciando cadere il bicchiere. Quello cadde,
infrangendosi a terra, e lei fece per gettarsi verso la porta, ma Harry la
afferrò, stringendo a sé quel corpo che sembrava tanto minuto da essere quello
di un passero. Con un gesto esperto il giovane afferrò le manette maniche che
aveva tenuto sinora in una tasca e, lottando, cercò di mettergliele.
«Ti andrebbe di aiutarmi?!» esclamò
quando Inga, scalciando, riuscì quasi a sottrarsi al
suo abbraccio forzuto. Severus si godeva lo
spettacolo girando tra le dita il calice di vino.
«Pensate davvero che non sia tutto
sigillato dai blocchi ministeriali? O che ci si possa smaterializzare? Siete
due sciocchi» commentò, la voce ridanciana.
Harry e Inga
smisero istantaneamente di lottare e il giovane ne approfittò per tirare a
terra la donna, che cadde con uno sbuffo. Le puntò un ginocchio sulla schiena,
ammanettandola.
«Il gioco è finito» disse, duramente,
Harry. Inga lo guardò. Aveva un incendio di odio che
bruciava oltre le lunga ciglia nere.
«Per cosa ti sarebbe servito il
sangue di Re’em?» l’interrogò l’Auror.
«La pozione di Julius Cristhianus» biascicò Inga.
«E a cosa ti sarebbe servita?»
chiese ancora Harry, tirandosi in piedi. La lasciò sdraiata a terra a pancia in
sotto.
«Il potere…
tutto mio!» ringhiò Inga, la voce amplificata
dall’esaltazione. «Vi avrei privati tutti del potere, sarei rimasta io sola…»
«Perché?» domandò di nuovo Harry.
«Perché nessuno se lo merita»
gorgogliò la donna. «Voi credete sia solo una leggenda. Non lo è mai stata. E
nessuno è mai stato abbastanza forte da farlo. Strappare i cuori dai loro petti… siete solo dei deboli!»
Lo sguardo di odio di Inga si puntò su Severus.
«Tu sei il più grande» mormorò.
«Perché tu non ci hai tentato?»
L’uomo la guardò con disprezzo.
«Perché non sono un mostro tanto
mefitico» rispose, la voce appena udibile. Inga
riprese a lottare contro le manette dopo aver soppesato per un istante la sua
risposta e Harry la afferrò, rimettendola in piedi.
«Sei in arresto» disse, il tono
piatto. Guardò Severus.
«Devo portarla da Hermione» aggiunse. L’uomo annuì.
«Tornerai?» chiese piano.
Harry annuì a sua volta.
«бытьпроклятым»
mormorò Inga lasciandosi trascinare via dall’Auror.
«Le manette inibiscono il tuo
potere, Inga» le disse Harry. Con un gesto della
bacchetta aprì la porta dell’appartamento. «Non puoi lanciarci incantesimi, se
è quello che stavi tentando di fare»
«Tentavo, sì» mormorò Inga prima della smaterializzazione.
Sui giornali, la fotografia dell’Auror Potter accanto al Ministro della Magia inglese e
quello bielorusso era un tripudio di luci dei flash delle decine di giornalisti
che li attorniavano. La notizia della cattura di Inga
aveva fatto il giro del mondo magico, anche se, alla fine dei giochi, nessuno
aveva mai sentito parlare di lei. Ma i maghi erano fatti così: tutti a
celebrare, davanti alla caduta del male. Anche se, prima di quella caduta,
nessuno si era sentito in pericolo.
Severus chiuse il quotidiano e lo appoggiò
sul tavolo, riprendendo in mano la tazza di tea fumante che gli aveva dato il
buongiorno. Fortunatamente era in pausa per il periodo natalizio, sarebbe stato
imbarazzante giustificare la sparizione della sua deliziosa commessa bionda.
Sorseggiò un po’ della bevanda calda chiedendosi se mai la sua vita si sarebbe
decisa a diventare un po’ più noiosa.
D’un tratto, la campanella che lo
avvertiva che qualcuno stava bussando alla porta del negozio suonò. Stupito,
l’uomo la guardò per un momento, poi si alzò e si infilò la giacca da camera
prima di scendere lungo le scale buie. Spiò brevemente dai vetri della bottega
prima di aprire la porta.
«Potter» fece, non appena la visione
del giovane gli si presentò.
«Posso entrare?» chiese Harry. Era
ben imbacuccato contro il gelo che spazzava le strade di NotturnAlley. Piton si strinse
nella vestaglia e si fece da parte.
«Sei venuto per qualche nuovo mago
oscuro?» chiese, il tono velenoso.
Harry gli sorrise.
«No, sono venuto per qualcun altro» sussurrò, prima di
annullare la distanza con il Pozionista.
Nei film Babbani
che Harry ed Hermione guardavano nelle loro estati di
studenti e che commentavano con acida scientificità cinematografica in lunghe
lettere indignate, le storie d’amore erano tutte travolgenti, rapide con i
venti di un tornado, capaci di afferrare le persone e ribaltarle senza sforzo
in mondi fatti di zucchero filato e teneri animaletti di cioccolato. Harry non
aveva mai sospirato la mancanza di quel destino forzuto. Dover combattere Voldemort era stato, forse, il miglior antibiotico per il
germe della nostalgia. Ma ora, mentre se ne stava beato nella sua bolla di
caramello, un pensiero lo assillava: era così, infondo, la vita. Lente pozze di
noia vischiosa, rapidissime montagne russe, staticità. E così seguitava quella
buffa sceneggiatura che, dopo un lento tango con una pericolosa criminale, si
risolveva in un disperato frugare di mani, baci languidi e parole mozze.
Come un fulmine a ciel sereno, il
morbido bacio di Harry aveva scosso Severus sino alla
spina dorsale. La sensazione di quelle labbra piene, morbide, e una lingua che
gli ricordò l’arroganza insita del giovane uomo che stava stringendo lo colsero
quasi impreparato, ma le sue braccia risposero per lui, stringendolo a sé,
chiedendo al mondo di lasciargli un solo attimo di pace.
Harry sorrise sulle labbra di Severus. Era davvero ridicola, quella pellicola. I due
eterni rivali che si mettevano a limonare sull’uscio di un negozio. Stucchevole.
«Voglio parlarti» sussurrò a fatica,
schivando con debole determinazione le labbra del Pozionista.
Severus riacciuffò la sua bocca, continuando a
baciarlo.
«Non mi sembra ce ne sia bisogno»
rispose l’uomo, una vena ferina nella voce. Harry rabbrividì avvertendola,
stringendosi a lui con più forza. Le braccia di Severus
lo allacciarono alla vita, sigillando quell’abbraccio.
«Davvero, Severus»
mormorò Harry. Il fastidio di Severus si avvertì come
se fosse stato solido, nell’aria calda che li avvolgeva. Ma l’uomo, lentamente,
si staccò da Harry, osservandolo con occhi accesi di desiderio. Con una mano
gli strinse le dita, indicando con la testa la porta del retro.
«Andiamo di sopra» sussurrò,
portandoselo dietro come aveva già fatto, anni addietro, con meno cura e più
agitazione, ignaro che da quel ragazzetto arrogante sarebbe nata una tale
creatura forte e appassionata come l’Auror che ora lo
seguiva.
«Te lo ricordi quando mi hai preso
per il polso e mi hai trascinato alla nostra prima lezione di Legilimanzia?»
Severus sorrise tra sé e sé.
«Stavo pensando a quello, in
effetti»
Harry strinse più forte la sua mano.
Entrarono in casa e Severus gli sfilò il cappotto,
baciandolo di nuovo, lasciando scivolare le lunghe dita rovinate sul suo petto
protetto da un orrendo maglione color terracotta.
«Sei cambiato tanto…»
sussurrò.
Harry gli sorrise, posandogli di
nuovo un lieve bacio sulla bocca.
«Mmm, e
tu? Mi spaventa quasi, il tuo cambiamento»
Severus frugò nei suoi occhi. Vide che c’era
un fondo di verità in ciò che aveva detto e, anche se la voglia di leggergli la
mente era la risposta a quella sua sete di conoscenza, si sforzò a condurlo in
cucina, farlo sedere e offrirgli una tazza di tea. La sua si era ormai
freddata, ma non importava. Voleva sentirlo dire tutto ciò che gli affollava il
cervello, sperando di poter scacciare via i suoi dubbi. E di vedere i propri
scacciati, anche.
«Cosa ti spaventa?» chiese allora,
restando in piedi accanto al fornello. Si strinse nella vestaglia e attese,
senza guardare Harry.
Lui avvolse le mani attorno alla
tazza di tea, beandosi di quel calore. Aveva un sorriso triste sulle labbra: il
timore di rovinare quella strana relazione con Severus
lo attanagliava. Ma si fece coraggio e, a voce sottile, chiese:
«È per mia madre?»
Quelle poche, semplici parole
colpirono Severus al cuore. Certamente. Lily. Una parte
di lui se l’era aspettato.
«Era per tua madre quando eri un
ragazzino ed io mi sentivo in dovere di proteggerti da tutte le diavolerie che
combinavi» rispose. «Era per tua madre quando non riuscivo a guardarti negli
occhi. Ed era anche per tuo padre. Non lo nego»
Harry lo guardava, ma lui non
accennava a spostare lo sguardo dal quotidiano poggiato sul tavolo.
«Che cosa è, allora…?»
sentì chiede ancora a Harry.
Qualcosa in Severus
si mosse infastidita. Era tipico di un Grifondoro
insicuro cercare risposte senza vergognarsi di porre le domande più stupide del
mondo. Avrebbe voluto rispondergli con il veleno che meritava, ma si trattenne.
Lo aveva appena detto, era passato quel tempo di disprezzo, no?
«Il problema del Bambino che è
Sopravvissuto è proprio questo» disse allora l’uomo. «L’ombra dei suoi
genitori. Ti ho visto per anni come il figlio di Lily e James ma soltanto
rivedendoti ora mi sono reso conto che sei un’entità separata dalla loro
memoria. E ora che sei cresciuto posso dirti finalmente che non sei la
fotografia di tuo padre con gli occhi di tua madre. Sei Harry»
Il giovane sentiva battere il
proprio cuore nel silenzio che gli era montato dentro. Aveva sempre sperato di
essere riconosciuto come Harry – solo Harry.
E certamente, Ron e Hermione lo avevano fatto, ma
sapeva che per SeverusPiton
lo sforzo era stato di gran lunga superiore. Ma lo aveva voluto fare.
«Grazie…»
mormorò. «Non hai idea di quanto valga questo, per me»
Severus, infine, lo guardò. Sentiva il
bisogno di abbracciarlo, di non farlo sentire mai più alla mercé della
notorietà che ancora lo perseguitava. Ma non era il momento.
«E tu perché?» chiese allora. Non gli
interessava granché, in realtà, e infondo temeva anche un po’ la risposta che
Harry gli avrebbe dato. Ma domandò per non far sentire Harry come l’unico in
preda ai dubbi… perché lo sapeva che si sarebbe
sentito così, altrimenti. La fiammella dell’anima del ragazzo si faceva sempre
più visibile ai suoi occhi induriti.
«Quando ti ho visto agonizzare a
terra» disse Harry. «E ti ho messo la mano sulla ferita. Non volevo tu morissi.
Sentivo che, se fossi morto, sarebbe morto qualcosa di basilare, per me. Non era
come pensare a Sirius o ai Weasley…
non era come per un genitore. Neanche per Ron o Hermione.
Era qualcosa che non capivo e quando ti ho portato in salvo, quando ti sono
venuto a trovare, ho messo a tacere quella cosa.
Era come se fosse appartenuta alla Guerra ma…
quando ti ho rivisto ho capito che non era così»
Gli occhi verdi del giovane si
puntarono su Severus. L’uomo rabbrividì sentendone la
forza incontrastabile e dovette avvicinarsi a Harry, impossibilitato a tenersi
a distanza, come in preda ad un incantesimo.
«E poi non eri più quel pipistrello spaventoso
che ricordavo» sorrise il giovane, scuotendosi di dosso la tensione. Severus accennò un sorriso.
«Pipistrello spaventoso» ripeté, gli
occhi dardeggianti.
Harry gli afferrò la mano. Imbarazzato,
la fissò lungamente, evitando lo sguardo del Pozionista.
Ma Severus gli alzò il volto e, chinandosi, lo baciò.
«Credi che sia possibile…
ricominciare?» sussurrò poi, sulle sue labbra, godendosi il suo sapore a occhi
chiusi. Harry annuì lievemente.
«Stiamo rinascendo dalle ceneri
della Guerra. Possiamo farlo anche noi, ok?» sussurrò.
Quando Harry lasciò la sua casa,
richiamato dalle scartoffie sul caso di Inga, Severus lo accompagnò alla porta, salutandolo con un
profondo bacio. Harry era arrossito, sotto la luce di ghiaccio che pioveva dal
cielo ricoperto di nuvole argentee, e si era incamminato guardandosi spesso
indietro, finché la strada non lo inghiottì e Severus
poté chiudere la porta e poggiarvisi contro.
Si passò una mano sul viso. Era
davvero successo?
Un brivido di freddo lo colse, così
se ne tornò di sopra. Avevano continuato a parlare, dopo che gli argomenti
spinosi erano stati tolti di mezzo. Certo, non che lui avesse avuto il desiderio di parlare, con quel corpo atletico
e scattante vicino, ma la vocina più delicata della sua coscienza lo aveva convinto
a conversare con Harry e gli aveva fatto scoprire che, contrariamente a ciò che
aveva sempre pensato, quel ragazzo era capace di pensieri più profondi di
quelli formulati sui falli nel Quidditch. Era stato bello. Era stato nuovo.
Andò a fare ordine in cucina,
levando di mezzo i resti della colazione che erano stati abbandonati a se
stessi. Si era dimenticato di tutto, accanto a Harry, e una cosa del genere non
gli accadeva spesso. Si era dimenticato anche di…
Come risvegliato dall’assenza del
giovane, un pensiero ritornò nella mente di Severus. Inga. Ci aveva pensato a lungo, dopo che Harry l’aveva
portata via. Quella leggenda, tanto potente da farsi forte della sua follia. Perché
quella strega era tanto convinta della veridicità di quel filtro? Cosa era
sfuggito all’intera comunità pozionistica? Era sfuggito qualcosa alla comunità pozionistica?
La brama di conoscenza di Severus gli sussurrava parole melliflue all’orecchio. Doveva sapere. Di certo il Ministero non
si sarebbe interessato di approfondire le ricerche. Si sentì come in dovere di
farlo, un po’ per la propria carriera accademica, un po’ anche per lui. Quando il vaso di Pandora viene
scoperchiato nessuno può fingere che non sia successo.
Quando Harry tornò al proprio
appartamento, quella sera, sfinito dalla lunga giornata, trovò un biglietto che
qualcuno aveva infilato sotto la porta. Stupito, lo aprì senza neanche chiudere
la porta. Lesse, poi lesse di nuovo. Sospirò. E si augurò di non dover correre
a sud a salvare quell’uomo di cui già da ora sentiva la mancanza.
Trascorsero tre giorni in cui Harry
non ricevette neanche un biglietto da Severus.
Nonostante il giovane sapesse di potersi fidare di lui, ogni tanto la
preoccupazione gli faceva trascorrere lunghi secondo a fissare il vuoto. Chissà
dov’era, chissà cosa faceva. E soprattutto chissà come avrebbe passato il
Natale dato che Harry, quel pomeriggio, stava annodandosi la cravatta per
andare alla Tana a cenare con la sua grande famiglia. Ma senza di lui.
Si era infilato una camicia bianca
che non usava quasi mai e vi aveva abbinato la cravatta rossa e oro che Sirius e Remus gli avevano donato
quando aveva conseguito i suoi M.A.G.O.. Poi si gettò
addosso direttamente il cappotto, sapendo che alla Tana lo attendevano un
camino scoppiettante e un maglione fatto a mano. Si guardò brevemente allo
specchio prima di uscire. Non aveva neanche provato ad appiattirsi i ciuffi
ribelli: ormai si sentiva abbastanza certo che nessuno sforzo sarebbe stato
ricompensato. Afferrò il grande sacchetto in cui aveva ficcato tutto i pensieri
natalizi – anche grazie a Hermione, che vi aveva
lanciato un incantesimo di Estensione Irriconoscibile – e, stringendosi al
collo la sciarpa, uscì.
Nevicava su Londra, una Londra
appallottolata sotto ad un cielo nero come l’inchiostro. Harry si sentì un po’
triste mentre i fiocchi di neve gli si posavano sui capelli. Ricordò una
vecchia canzone malinconica e prese a cantarsela in mente, decidendo di
camminare per un po’ sul marciapiede che iniziava ad imbiancarsi. Fu sorpassato
da una famigliola ridente che sembrava tornare dalla pista di ghiaccio poco
distante, i pattini legati al collo e i nasi rossi. Li osservò. Erano in tre.
La ragazzina trottava in mezzo ai suoi genitori, felice. Chissà se qualcuno li
attendeva a casa o se li aspettava un Natale intimo in cui stringersi nel
calore di una piccola, gioiosa famiglia. Harry si fermò per un istante,
lasciando che si allontanassero. Un’anziana accompagnata da un giovane gli
sfilarono accanto, poi un uomo carico di regali.
Harry decise che forse era arrivato
il momento di smaterializzarsi.
Poggiando le suole sulla neve fresca
che circondava la Tana, Harry affondò di parecchi centimetri e, solo nel
candore, si mosse rapido verso la casetta che, sotto il sole, mostrava senza
vergogna le grosse riparazioni che aveva dovuto subire. Ora però brillava di
luce gentile, illuminata dall’interno da candele, decorazioni e focherelli.
Harry aprì la porta senza bussare e fu risucchiato in una cheta riunione di famiglia.
«Harry!»
I coniugi Granger
gli sorridevano, un po’ a distanza dal resto degli invitati. Artur, accanto a loro, gli sorrise con calore.
«Buon Natale!» esclamò lui. Harry
strinse le mani che gli venivano porte.
«Buon Natale» ebbe il tempo di
rispondere prima che una massa di ricci castani gli offuscasse la visuale.
«Tanti auguri» disse Hermione sulla sua sciarpa. Si allontanò giusto per dare a
Ron campo libero per un abbraccio stritolante, di quelli che ormai non si
vergognava più di dare all’amico, così Harry si ritrovò a passare di abbraccio
ad abbraccio, le braccia alzate, mentre ogni Weasley
gli dava il benvenuto.
Quando Percy
si allontanò, il giovane vide che Ginny gli sorrideva
da poco lontano.
«Buon Natale, Gin» disse Harry. Lei
si avvicinò a schioccargli un bacio sulla guancia, reggendo tra le mani pallide
un grosso vassoio pieno di stuzzichini.
«È bello vedere la tua faccia, ogni
tanto» rispose lei, strizzandogli l’occhio.
Proprio in quell’istante la porta si
aprì di nuovo e Harry si levò di mezzo per far entrare gli ultimi arrivati. Si
ritrovò faccia a faccia con Sirius, i cui occhi di
ghiaccio si illuminarono non appena lo videro.
«Sirius!»
esclamò Harry. Tuttora imbacuccato in cappotto e sciarpa, il sacchetto sempre
in mano, si buttò addosso al suo padrino con pesantezza, facendolo retrocedere.
Sirius lo strinse forte, ridacchiando.
«Scommetto che sei arrivato da un
quarto d’ora e nessuno ti ha ancora fatto levare la giacca» mormorò l’uomo.
Harry rise, annuendo impercettibilmente.
«Buon Natale» aggiunse poi il
giovane quando Remus si affiancò a Sirius e fu a tiro di abbraccio. Harry strinse a sé i due
uomini che sentiva così intensamente vicini, come un bambino che si rifugi
nelle braccia dei genitori. Senza esitazione, loro risposero, ma ben presto
furono a loro volta assaliti dalla calca festante e Harry poté allontanarsi e
levarsi il cappotto.
Ron lo afferrò.
«Dormi nel mio letto» gli annunciò.
Non ne era particolarmente lieto.
«Non dormi con Hermione?»
chiese Harry, affidandogli tutto il superfluo e girandogli attorno per mettere
i regali sotto l’albero che brillava di luci morbide.
«Sei matto? Mamma esploderebbe»
rispose Ron. «A proposito, ha detto di farti andare in cucina quando arrivavi,
ma credo che è meglio se stai lontano da quella bolgia»
«Hermione
lo sa che quando non c’è parli come uno gnomo?» chiese Harry, divertito. Impilò
pacchetti su pacchetti sotto le fronde, chiedendosi se davvero aveva avuto il
coraggio di fasciare tutti quei doni.
«Non lo saprà se starai zitto»
rispose Ron, calciandolo lievemente. Harry si alzò: Sirius
e Remus erano ancora in preda alle mille chiacchiere
che non li facevano avanzare dall’ingresso.
«Io li saluto dopo, penso mi
tirerebbero una testata se andassi là anche io» sogghignò Ron.
«Portami da tua mamma, allora, una
bolgia o l’altra dovremo pur affrontarla» disse Harry, muovendosi verso la
cucina. L’enorme tavola imbandita accanto a cui passarono era sicuramente stata
engorgiatacon la magia. Hermione
vi stava disponendo piatti di pigs in a blanket*.
«Ti ha dato da lavorare, eh?»
commentò Ron, dispiaciuto.
«Sai com’è tua madre» rispose Hermione. Harry non si fermò: sapeva che Molly poteva
risultare pesante a Hermione, a volte, e decise di
non peggiorare la situazione restando a spiare moglie e marito. Aprì quindi la
porta della cucina, colpendo la schiena di Ginny.
«Ops»
fece. Lei si spostò e gli aprì la porta.
«Entra» gli disse. «C’è poco posto
ma basterà»
«Harry!»
Per la seconda volta il suo nome
venne strillato, con la differenza che furono due le voci ad alzarsi in quel
caso. Molly e Fleur avanzarono verso di lui e il
giovane si ritrovò stritolato nell’abbraccio della signora Weasley
e poi baciato in fronte dalla mezza Veela.
«Buon Natale, Harrì» disse soave la francese.
«Sì, sì, buon Natale caro» gesticolò
Molly. «Ti va di portare di là gli antipasti con Ginny?
Non so più dove mettere il cibo!»
Gli consegnò un grosso piatto in cui
aveva disposto una quantità indefinita di salmone affumicato con mostarda
all’aneto.
Il Natale dai Weasley
si era fatto ancora più selvaggio, dopo la Guerra. Harry lo notava ogni istante
di più: c’era tanto più amore con cui riempire i vuoti, amore che però spesso
restava stagnante nell’aria, come sprecato. Occhieggiò ancora verso Sirius e, quando vide che lui e Remus
erano ancora irraggiungibili, quasi desiderò di avere un Natale soltanto con
loro, come si era immaginato il Natale della famiglia che aveva incrociato per
strada.
Severus aveva ragione. Era davvero
cambiato.
«Novità sul professor Piton?»
La voce di Hermione
lo fece sussultare. Ginny, accanto a loro, la guardò
interrogativa.
«Se avessi lanciato il salmone sai
che avremmo dovuto dormire sotto la neve, sì?» borbottò Harry.
«Il professor Piton?»
chiese Ginny, senza lasciarsi scappare l’osso. «Per
quella strega oscura? Ho letto sul giornale»
«È partito» rispose piano Harry.
«Starà via un paio di settimane»
Ginny lo squadrò.
«Tu devi dirmi qualcosa» disse
severa. Hermione le annuì vigorosamente prima di
sfilare verso la cucina con rapidità, pronta ad un nuovo carico di cocktails di gamberi.
«Abbi pazienza fino a domani» la
pregò Harry. Ginny lo studiò seria, come avvertendo
le tante premesse silenziose di quel discorso.
«Ma certo» gli promise, sorridendo.
Si allontanò anche lei e, finalmente, alle spalle di Harry apparve Sirius, sgargiante in un completo grigio perla.
«Dammi un po’ del tuo senso
estetico» rise Harry. Sirius gli sistemò il colletto
della camicia con fare paterno.
«Credo sia impossibile da fare.
Allora, che mi dici di raccontare un po’ di quella Inga?»
Harry si lasciò portare verso le
poltrone mal assortite che attorniavano l’abete. La mano di Sirius
sulla spalla gli era mancata.
La cena di Natale si dipanò tra
antipasti, filetto alla Wellington, prosciutto glassato, una decina di contorni
ed enormi vassoi straripanti di datteri, noci, arancia candita e biscotti dalle
18 sino alla mezzanotte. Erano tutti tanto sazi da accorgersi che il 25
Dicembre era scattato solo con mezz’ora di ritardo ed erano anche tutti un pelo
brilli da iniziare a scambiarsi i regali soltanto oltre l’una.
Il processo fu lungo e lento, così
Harry, Ron, Percy, Charlie e George salirono alla
loro minuscola cameretta condivisa solo alle tre. E vi salirono in gran stile:
quasi non si vedevano i loro visi oltre l’ammasso di regali ricevuti. Ebbero
problemi a stipare tutto nella stanza così Harry finì ad indossare il maglione
di Molly – quell’anno era di uno sgargiante color ambra – e a dormire
abbracciato al mantello di Sirius e Remus.
«Quella pellicciona
ti terrà un caldo boia» biascicò Ron vedendolo attrezzarsi a non creare troppo
impegno nella stanza. Lui, d’altra parte, aveva a sua volta indossato i
calzettoni di sua madre e, durante la notte trascorsa a dividersi un minuscolo
letto singolo, i due si ritrovarono a schiene scoperte e braccia penzoloni.
Si svegliarono che le dieci erano
appena arrivate, scossi dalle mani fredde di Hermione.
«Avanti, è tardi, Ron, tua madre
dice di portarvi di sotto per la colazione» la sentì dire Harry.
«Colazione? Abbiamo mangiato come
dei bufloni…»
«Bufali» lo corresse Hermione. Harry sentì il suono del bacio che si scambiavano
e si allungò a prendere gli occhiali. Solo che aveva beatamente scordato di
essere sul filo del letto, così cadde con un gran tonfo, facendo sobbalzare
entrambi gli amici. Le loro risa lo raggiunsero prima di Hermione
che lo aiutò ad alzarsi.
«Buongiorno» biascicò Harry,
massaggiandosi il fianco che aveva dolorosamente sbattuto.
Anche quel giorno la Tana era nel
più totale subbuglio. I genitori di Hermione erano
partiti dopo lo scambio dei regali ma sarebbero ritornati a breve per il
pranzo. Sirius e Remus,
invece, erano già in sala quando Harry scese, e li trovò impegnati a parlare in
serietà con Artur.
«…e poi ho
azionato il congegno! Girava!»
«Sono sempre più certo tu ti sia
imbattuto in un trapano, Artur» annuì Remus.
Harry, alle sue spalle, si sedette
sul bracciolo della sua poltrona e l’uomo gli sorrise, dandogli una pacca sul
ginocchio.
«Dormito bene?» gli sorrise Artur, ma la voce imperiosa di Molly lo richiamò in cucina,
dove l’uomo fuggì rapido scusandosi.
«Quella camera è maledettamente
stretta» lamentò a denti stretti Harry.
«Potevi venire a casa con noi» gli
disse con un vago sorriso Sirius. Il giovane alzò le
spalle.
«Finché posso rispettare la
tradizione la rispetto, o Molly mi ucciderà» rispose.
In quel momento Ginny
gli si avvicinò, una lettera in mano.
«Harry, è arrivata questa per te»
disse, porgendogliela. «Era con un’enorme ulula. È rimasta qui fuori, credo
aspetti una risposta»
Harry prese la lettera.
«Grazie, Gin» le disse piano. La
ragazza era evidentemente divorata dalla curiosità, così lanciò un’occhiata a
Harry. Lui raccolse, annuendo, ma Ginny si allontanò
quando capì che non poteva parlare davanti al suo padrino e al rispettivo
compagno.
«Chi ti manda gli auguri?» chiese Sirius, curioso. Harry fece un ghigno.
«Lo saprai a tempo debito» lo
punzecchiò. Sirius guardò Remus
con un’espressione sconvolta mentre Harry leggeva.
Sono
in Siberia, va tutto bene, sarò di ritorno i primi giorni del nuovo anno.
Credo
tornerò con notizie interessanti anche se mi manchi da impazzire e vorrei
essere con te.
Anche
se so dove sei, sì, vorrei essere lì con te.
S.T.P.
Harry piegò con cura la lettera e si
alzò.
«Vado a rispondere e torno» disse,
allontanandosi prima che Sirius potesse dare fiato
alla bocca.
«Non sarà il mio naso lupesco a
toglierti la sorpresa» gli sorrise, prima di allungarsi a catturare la sua
bocca in un bacio.
Harry trovò un foglio e una penna
nella stanza accanto e restò in piedi a scrivere di fretta. Poi rilesse un paio
di volte il proprio biglietto, sperando di non essere stato troppo sdolcinato.
Ti
vorrei qui con me. Al diavolo quella pozione, torna presto.
Buon
Natale,
tuo,
H.
«Ora mi spieghi?»
Ginny gli apparve davanti come sbucando
dal pavimento. Harry sussultò.
«Ce l’avete con me, vero?» gemette,
portandosi una mano sul cuore. La ragazza rise, poi lo prese per il polso e gli
mostrò, fuori dalla finestra, l’ulula panciuta che attendeva.
«Ne voglio una, è bellissima» disse Ginny mentre Harry legava alla sua zampa il biglietto.
Prese un biscotto gufico da una terrina poggiata sul
davanzale della finestra, glielo diede e lei sbatté una volta le palpebre per
poi volare via.
«Credo venga dalla Siberia» disse
Harry chiudendo la finestra.
«E in Siberia chi…?»
chiese Ginny. Il giovane sospirò.
«SeverusPiton» rispose.
«Ok, quindi c’è ancora in ballo
quella strega» annuì la ragazza. «E quello di cui parlavate ieri tu e Hermione?»
«Sempre SeverusPiton» rispose Harry. Ginny
lo guardò, spaesata.
«Ehm» mormorò. «Non ho capito il
nesso»
Harry si mosse nervoso, poi si
guardò attorno. Nessuno poteva sentirli: i più vicini erano Ron e Hermione che erano appena entrati in casa con una catasta
di legna. Ron vide sua sorella e Harry e fece loro un cenno prima di
allontanarsi.
«Io sto…
uscendo con lui» disse piano Harry. «Cioè, lui non esce. Non usciamo, ecco. Ci
vediamo e… e stiamo insieme»
«Insieme tipo me e te ora?» chiese Ginny, un vago senso di orrore nella voce.
«Insieme con me e te allora» rispose Harry. La ragazza lo
fissò sconcertata per un lunghissimo momento, poi la voce di Molly risuonò
chiamando a raccolta i ragazzi per la colazione. Ginny
non si mosse ma posò una mano sulla spalla di Harry, come cercando equilibrio.
«Non ti offendere Harry, è solo che
non me lo aspettavo per niente» mormorò la ragazza.
«Neanche io, sinceramente» rispose
Harry.
Ginny lo studiò, la fronte aggrottata.
«Ma tu sei felice?» chiese. Harry
annuì.
«Non fraintendermi, Gin, ma credo di
non aver mai sentito le farfalle nello stomaco come ora» mormorò.
Ginny lo guardò ancora a lungo, poi un
nuovo urlo di Molly risuonò nella casa.
«Credi che mamma si accorga se metto
del whiskey incendiario nel latte?» pigolò la più giovane dei Weasley prima di dirigersi in cucina.
°°°
Qualche parola per
disambiguare alcuni aspetti del Natale che ho inserito nel capitolo.
La tradizione inglese
non è esattamente simile alla nostra in fatto di festeggiamenti ma, per non avventurarmi
in un terreno a me troppo sconosciuto, ho preferito immaginarmi il Natale dei
Maghi, nella mia storia, simile al nostro. Le portate mangerecce che ho
inserito nel contesto, comunque, sono tratte dalla tradizione britannica.
Quando i poveri stomaci degli ospiti
riuscirono a rispondere agli ultimi attacchi della valanga di cibo offerta da
Molly e l’ultima fetta di torta al rabarbaro svanì misteriosamente nel
transitare accanto a Ron, Harry e Sirius furono i
primi a decidere per una passeggiata nella neve per sgranchire un po’ le gambe.
Il sole splendeva sulla coperta scintillante della campagna innevata, quel
giorno, e il freddo pungente rinvigorì Harry all’istante mentre, avvolto nel
nuovo mantello, incedeva nell’atmosfera ghiacciata.
«Non mangerò più per un mese»
commentò non appena Sirius chiuse la porta. L’uomo
emise la sua risata canina, ficcando le mani nelle tasche del cappotto bordato
in pelliccia che indossava. La neve, sotto le loro scarpe, alzava i suoi
lamenti vetrosi.
«Molly è deliziosa ma certe volte va
oltre l’esagerazione» annuì. Harry lo osservò, stringendo gli occhi a fronte dei
fiotti affilati di luce che rimbalzavano sulla terra ghiacciata. Sapeva che tra
lui e la signora Weasley vigeva un pacato disaccordo
più o meno su tutto e il giovane era certo che una gran parte della loro muta
sopportazione era data dalla presenza delicata e accomodante di Remus tra di loro.
«A volte mi sorprendo di quanto tu
ti trattenga con lei» ghignò Harry. Col piede collise con qualcosa di solido
nella neve e uno gnomo avvolto di foglie ingiallite e pregne di acqua lo guardò
male prima di andarsene dal suo nascondiglio. I due uomini lo osservarono.
«Tu e Remus
le volete troppo bene perché io non mi trattenga» sorrise Sirius.
«E poi mi tocca fingere di essere cresciuto da quel punto di vista…dicono»
Harry rise. Un refolo di vento
freddo gli si infilò giocoso nel colletto di pelliccia, così lo strinse
assicurando l’ultimo gancio sotto al proprio mento.
«Saresti disposto a mettere via vecchie
inimicizie per me, allora?» chiese vago Harry. L’espressione di Sirius ebbe un vacillamento e a Harry parve quasi di
sentire i suoi pensieri affollarsi nella sua mente. Se fosse stato in forma
canina le sue belle orecchie nere avrebbero compiuto un rapido giro nell’aria,
all’erta.
«Sei troppo misterioso ultimamente»
disse Sirius stringendo le labbra.
«Infatti io vorrei parlarti… però temo tu possa arrabbiarti a morte con me»
L’uomo scrutò gravemente il suo
figlioccio, fermandosi. Gli posò le mani sulle spalle, stringendole.
«Harry» disse con voce ferma. «Tu
sei come un figlio per me. Nulla che tu possa dirmi mi farà arrabbiare a morte
con te»
Harry gli rivolse un sorrisetto.
«E tu sei come un padre per me… ma è per questo che temo la tua ira»
Sirius aggrottò un sopracciglio. Il suo
viso perfetto, irto di piccole rughe e un vago filo di barba, riluceva tra i
lunghi ricci neri che lo incorniciavano. La luce ultraterrena di quel panorama
idilliaco lo rendeva ancora più bello di quanto era.
«Mi stai per dire qualcosa per cui
tuo padre ti avrebbe riempito il letto di rospi, vero?»
«Ti denuncio a Remus
seduta stante, sappilo»
Sirius accennò una risata, ma la sua
espressione era mortalmente seria. Alle loro spalle, i giovani Weasley con Hermione erano usciti
e i primi schiamazzi li raggiunsero mentre alcune palle di neve iniziavano a
volare nell’aria. Li osservarono in silenzio per un secondo, poi Sirius lanciò a Harry una lunga occhiata.
«Io ho… ho
una relazione» disse piano il giovane. Sirius fece un
cenno affermativo con la testa fiera.
«E… e sono
felice» aggiunse Harry. «È appena successo e… e
quindi non è ancora una cosa granché seria. Ci andiamo piano. Io vorrei andarci
piano…»
S’impappinò con le parole, il viso
rosso di freddo e di vergogna. Sirius lo osservava,
conciliante.
«Comunque, non è questo il problema»
«E il problema quindi è…?» lo incalzò Sirius. La sua
tensione era evidente anche se s’impegnava a non darla a vedere.
«Se stessi con qualcuno che odi come
la prenderesti?» chiese piano Harry. Sirius parve
rimuginarci sopra.
«Non ho idea di chi possa essere»
rispose. «Ma se ti piace… probabilmente non è così male.
Sei un uomo ormai e sai che ti ritengo più assennato di quanto probabilmente
dovrei ritenerti…»
«È Severus»
disse rapidamente Harry. Fu come togliersi un dente legandolo al pomello di una
porta: sbatti la porta, il dente va via. Ma il dolore? Sarebbe arrivato? «SeverusPiton»
Gli occhi di Sirius,
di quel colore incredibile che somigliava più alla neve che li circondava che a
qualunque altra cosa la mondo, si sgranarono. Lo fissò vacuo, senza muoversi
per un bel pezzo. Harry temette quasi per la sua salute ma non disse né fece
nulla, in attesa.
«Non puoi essere serio» sussurrò
quindi Sirius. Harry sospirò.
«Lo sono» rispose. Il suo padrino,
che ancora non aveva tolto le mani dalle sue spalle, si rese conto in quel
momento di avere ancora le braccia alzate, così le abbassò e si guardò attorno.
«Io non…»
borbottò. «Non sono…io… va
bene»
Respirò profondamente, chiuse gli
occhi un momento, poi guardò Harry.
«Dammi un po’ di tempo…
lo capisci, vero?»
Harry annuì.
«Sì, certo che lo capisco» mormorò.
«Voglio solo che tu sappia che… io ti voglio bene. E
spero tu ti fidi di me anche questa volta»
Sirius abbassò la testa, poi gli diede una
pacca sulla spalla.
«Vai dai tuoi amici, Harry. Io devo
digerire il pranzo di Molly e la notizia»
Il giovane lo guardò sofferente, ma
si stupì vedendo che lo sguardo che gli rispose era ugualmente addolorato. Si
fecero un ultimo cenno, poi Harry si voltò, incappando in Remus.
«Eccovi» disse l’uomo, stringendosi
in una grande sciarpa marrone.
Harry gli sorrise.
«Io vado…
vado verso la casa» disse, titubante. Quando si fu allontanato, Remus interrogò Sirius con uno
sguardo carico di significato.
«Ah, no» fece Sirius.
«Non guardarmi così. Non hai sentito cosa mi ha detto, non guardarmi così»
Remus sospirò. Lo prese a braccetto,
stringendoselo al fianco.
«Avanti, sputa il rospo» mormorò.
Sirius lasciò vagare lo sguardo argenteo
tutt’attorno prima di far cadere la testa e osservare il terreno, la neve
sporca e calpestata e i propri pantaloni che, ormai, più che antracite erano
neri di acqua.
«Harry ha una relazione con Severus» sussurrò. Le sue proprie parole lo fecero
rabbrividire e lui non lo vide, ma anche il viso di Remus
scolorò. Istintivamente, il lupo mannaro afferrò la mano del compagno,
stringendola.
«Ah» fece solamente. Per un po’
restarono muti, persi ognuno nei propri pensieri. Poi Remus
scrollò gentilmente Sirius.
«Amore…
Harry è un adulto ormai» disse piano. «Non possiamo vietargli di avere
relazioni con…»
«Con Piton?» terminò Sirius. «Andiamo, Rem. Era innamorato di Lily. Odiava
James. Era un maledetto Mangiamorte. E ora io dovrei
credere che non ha cattive intenzioni?»
«Ha trascorso anni a vegliare su di
lui» rispose pacato Remus.
«Infatti. Anni in cui Harry era un
ragazzino. Ti sembra una cosa normale?»
Remus abbassò la testa.
«No, mi terrorizza e mi stranisce.
Ma cosa possiamo fare? Tu stesso sai cosa significa avere la propria famiglia contro…»
Sirius lo guardò dolente, allungando una
mano verso il suo volto.
«Non mi fido di quell’uomo, lo sai»
disse piano. Remus si avvicinò a baciarlo
teneramente.
«Io voglio che tu ti fidi di Harry,
non di Severus» gli sussurrò. Sirius
si lasciò sprofondare nel suo abbraccio, incastrandosi alla perfezione sul suo
profilo.
«È fottutamente innaturale» mormorò.
Remus gli accarezzò la schiena con calma, cercando di
infondergli un po’ di serenità.
«Dovremmo sentire le ragioni di Severus prima di giudicare, non trovi?» rispose.
Sirius tacque. Frugando nella giacca di Remus infilò le mani nel calore tra il suo cappotto e il pesante
maglione che indossava, beandosi della morbidezza dei suoi abiti. Sospirò.
«Ti amo» disse piano. Remus sorrise.
«Anche io ti amo. E Harry ti vuole
bene. Ricordatelo» rispose, prima di stringerlo con più forza.
I Granger
se ne andarono alle prime calate dell’oscurità e Ron e Hermione
li accompagnarono, l’una felicemente impegnata a discorrere coi propri
genitori, l’altro con zia Muriel appesa al braccio e
una maschera di sofferenza sul viso. Harry se ne rimase accoccolato in una
poltrona a guardare la partita di scacchi che vedeva Percy
e Bill accovacciati sul tappeto, concentrati, e una piccola folla attorno a
loro. Ginny aveva cercato di estorcergli qualche
parola, ma lui aveva lasciato cadere nel vuoto ogni suo tentativo, così ora la
fiera ragazza era impegnata a discutere di draghi con Charlie.
Un lieve bussare sulla spalla lo
fece voltare e, quando vide che a chiamarlo era Remus,
non poté evitare di arrossire. Era certo che Sirius
si fosse confidato con lui e, anche se sapeva che Remus
era il meno radicale dei due, si sentì comunque stranito. Avrebbe voluto
chiedergli scusa per non avergli detto nulla, per aver sconvolto Sirius, per essere sbagliato. Ma il sorriso dell’uomo gli
infuse un calore pacioso nello stomaco.
«Noi stiamo andando via. Puoi venire
un secondo di là?» gli chiese Remus con cortesia.
Harry annuì e si alzò, seguendolo nella sala in cui aveva, quella mattina,
risposto al biglietto di Severus. Sirius
li aspettava lì, poggiato al muro a osservare il cielo che stava rotolando
verso un blu sempre più scuro, sempre più nero.
«Il trentuno avete impegni tu e…lui?» chiese
subito Sirius, senza guardarlo.
«Lui
sarà fuori città fino ai primi di Gennaio, credo» rispose Harry fissandosi le
scarpe. Sirius annuì.
«Allora puoi venire solo tu. A cena
da noi, dico. Nulla di impegnativo»
Il giovane annuì a sua volta.
«Mi farebbe piacere» disse piano. Sirius gli lanciò un’occhiata in tralice e, dopo aver
captato lo sguardo nocciola di Remus, si voltò.
«Quando verrai, ti andrà di
spiegarmi perché? Non voglio assillarti. Ma credo mi aiuterebbe a… ad accettare un rapporto civile con lui, ecco»
Harry, senza guardarlo, il vuoto
all’altezza dello stomaco e una gran voglia di sotterrarsi, non rispose:
semplicemente avanzò verso il suo padrino e, affondando il viso nei suoi
capelli, lo strinse forte. Sirius non esitò un
istante a rispondere al suo abbraccio e lo cullò con fare protettivo.
«Ti voglio bene, Harry» sussurrò.
«Anche io Sirius,
tanto» pigolò il giovane. Poi lo lasciò andare per stringere con altrettanta
forza Remus che, un po’ stupito, gli accarezzò la
testa.
«Grazie, Remus,
grazie di cuore» sussurrò. L’uomo sorrise.
Si salutarono ancora, sull’uscio
della Tana, e Harry li guardò allontanarsi nella neve. Le loro sagome, le dita
intrecciate, i passi tanto diversi quando armonici, avanzarono nel buio. Poi,
prima di sparire, li vide voltarsi e alzare le mani in segno di saluto. Harry
fece altrettanto e, prima che potesse abbassare il braccio, i due si erano
smaterializzati. Un po’ del gelo invernale era entrato in casa dalla porta
aperta ma Harry non lo sentì. Una fiammella calorosa gli danzava gioiosa nello
stomaco, riscaldandolo dalla testa ai piedi.
L’ultimo giorno dell’anno arrivò con
la rapidità tipica del dolce far niente e Harry, già stanco al pensiero di
dover tornare al lavoro dal secondo giorno di Gennaio, alle prime luci
dell’alba se la dormiva della grossa, sordo a tutti i rumori che si alzavano
dalla città che andava via via stiracchiandosi. Stava
sognando di giocare a Quidditch e, intento a volare
in un cielo plumbeo, stava giusto per acchiappare il Boccino quando un forte
boato scosse il mondo, disarcionandolo quasi dalla scopa. Si guardò attorno:
nulla si era mosso. Così ritornò a cercare il Boccino d’Oro ma un altro boato
risuonò nell’aria, e poi un altro, un altro ancora, sempre meno lunghi, sempre
più cheti, finché Harry non si svegliò di soprassalto riconoscendo il bussare
alla porta d’ingresso. Inciampando nei pantaloni del pigiama e il petto nudo,
il giovane afferrò gli occhiali appoggiati sul comodino e si precipitò alla
porta.
«Eccomi!» esclamò. Sbirciò dallo
spioncino Babbano sbadigliando e, appena riconobbe
chi stava in piedi sul pianerottolo, si sbrigò ad aprire la porta e, con un
balzo, fu addosso a Severus, stringendolo a sé con
foga.
«Sei qui!» disse felice, le braccia
allacciate al collo del Pozionista. Questi, preso
alla sprovvista, ci impiegò un po’ per figurarsi la situazione, ma pose le mani
fredde sulla pelle di Harry, facendolo sussultare, e con un sorriso lo guardò
in volto.
«Sei mezzo nudo» sussurrò divertito.
Harry lo liberò dall’abbraccio e lo trascinò in casa, chiudendo la porta di
fretta e voltandosi poi subito per tornare a lui. Si scambiarono un profondo
bacio e, quando le loro labbra si allontanarono, Harry lo abbracciò di nuovo.
«Non sei ferito, vero?» chiese
piano. Severus, che si sentiva più a suo agio ora che
non stavano abbracciati sulle scale, gli accarezzò la schiena bollente. Harry
sospirò.
«No, sono stato attento» rispose.
Abbassò il volto sul collo scoperto di Harry, baciandolo là dove la barba di un
giorno incontrava la morbida pelle olivastra.
Le mani di Harry corsero ai capelli
di Severus. Erano gelidi, ancora impregnati del
freddo invernale che regnava al di fuori di quelle pareti. Le dita del giovane
vi si annidarono, sciogliendo il nodo del nastro che li teneva legati. Solo
quando lo trovò il ragazzo si accorse che si stava poggiando su un paio di
gambe strette in possenti pantaloni di pelle di drago e un petto coperto da una
giustacuore dello stesso materiale. Avvolgendo il corpo di Severus,
Harry lo guardò negli occhi.
«Sembri tornato da una battaglia»
disse. L’uomo gli rubò la voce con un bacio e Harry decise di concentrarsi
ancora su quel curioso abbigliamento accarezzando la pelle dura e fredda,
afferrando il fondoschiena di Severus e strappandogli
un sorrisino.
«Vuoi che ci sediamo in salotto e
che ti spieghi ora tutto?» lo canzonò. Le sue mani correvano sul petto nudo
dell’altro, suscitandogli lunghi lampi di brividi sottopelle. Gli occhi di Harry
saettarono.
«Aspetterò» rispose, allungando le
dita ad aprire le fibbie che tenevano il lungo mantello nero appeso al
giustacuore.
La pesante stoffa cadde a terra con
un suono liquido che, quasi come un gong, diede il via ad un lungo, sensuale
profondo bacio costellato di graffi su una schiena nuda, abiti strappati via,
passi incerti e gemiti, mani, abbracci. Harry spinse con forza Severus verso la camera da letto e lui, vorace, si mosse
lentamente senza smettere di accarezzarlo, le labbra impegnate in una danza
insaziabile, ruvida, virile. Quando si lasciarono cadere sul letto Harry gli
sfilò la camicia senza aspettare oltre e Severus gli
afferrò i fianchi muscolosi, premendoselo contro, facendogli sentire quanto il
suo desiderio lo chiamava.
Gemendo, Harry si fermò, gli occhi
puntati in quelli di Severus. Lui lo osservò a sua
volta, sondando quelle verdi colline primaverili che deteneva sotto la patina
vitrea degli occhi.
«Non ti senti…?»
chiese piano l’uomo, imponendosi di rispettare quella pausa, di ignorare la
voglia quasi dolorosa di farlo suo.
Harry gli sorrise. Poi si chinò su
di lui e, muovendo i fianchi con un gesto sinuoso, gli strappò un lamento.
Quando Harry si accoccolò sul petto
nudo di Severus e gli pose un bacio sulla mandibola,
dalle finestre pioveva una luce fredda e acuminata che segnava l’avanzare del
mattino. Severus lo strinse a sé, sospirando.
«Mi sei mancato in questi giorni»
disse Harry, disegnando ghirigori immaginari sulla pelle di Severus.
Lui lo guardò.
«Ho cercato di tornare il prima
possibile» rispose, accarezzandogli i capelli.
«Dove sei stato?» chiese Harry,
curioso, smettendo di muovere i polpastrelli sul suo petto nudo e
abbracciandolo. Severus si mosse nel suo abbraccio,
mettendosi comodo, e puntò lo sguardo al soffitto.
«Sono andato in Italia, a Sorrento»
rispose. «Le vecchie storie su Julius Christianus
sostenevano fosse là la casa in cui aveva passato i suoi ultimi decenni di vita
a lavorare sulla pozione. Non pensavo di trovare granché, ma sono stato
fortunato»
«Hai trovato tracce di Christianus?» chiese ancora il giovane.
«Ho trovato dei suoi parenti. Mi hanno
raccontato la vera storia di Julius. Pare che in realtà nessuno ebbe la prova
della riuscita di quella pozione. Viveva solo in campagna. E mi hanno detto che
un giorno è scomparso nel nulla. Qualcuno disse che lo aveva visto svanire nel
mare all’alba, così tutti pensarono al suicidio. La sua storia divenne una
leggenda, la sua fine fu storpiata e la sua famiglia non ebbe mai le sue spoglie.
E così ho fatto altre ricerche e sono andato ad Est, ho ripercorso le tracce di
Inga. E l’ho trovato»
«Trovato?» ripeté Harry, lo sguardo
attento.
Severus si rivoltò nel letto, mettendosi
sul fianco, la testa poggiata al pugno chiuso. Harry si tirò su a sua volta,
curioso.
«Julius Christianus
è vivo e vegeto» disse.
Harry aggrottò la fronte.
«Ma non stavamo parlando di uno vissuto…?»
«Nato duecentoventisei anni fa» annuì
Severus. «I maghi possono vivere incredibilmente a
lungo, Potter, non costringermi a calarmi nel mio vecchio ruolo di professore»
Harry ghignò, intrufolando una mano
sotto le coperte. Alla carezza intima che gli diede, Severus
reagì con uno sguardo infuocato, e Harry lo baciò con trasporto.
«Sarebbe curioso» sussurrò il
giovane sulle sue labbra. Severus gli afferrò i
polsi, baciandolo ancora, ma poi lo costrinse a stare fermo e continuò.
«Quindi, Julius Christianus
vive in una casetta nel paese natale di Inga. Quello
in cui ha, probabilmente, ucciso i suoi genitori. Ha confessato?»
«Sotto veritaserum»
annuì Harry, arrendendosi. «Ora pare dovremo trasferirla in Bielorussia»
Severus non commentò.
«Beh, praticamente Julius si ricorda
una ragazza bionda che un giorno gli portò una scatola di biscotti. Era
appassionata di pozioni e divennero amici, era come una nipote. Poi lei si
trasferì, i suoi morirono, tornò e andò via di nuovo. E, anni dopo, Julius si
accorge che i suoi appunti sulla pozione per cui era tanto erroneamente famoso
erano stati trafugati»
Harry aggrottò la fronte.
«Così, a caso?» chiese.
«Appena mi ha visto mi ha offerto un
piatto di semi di sesamo condito con della menta secca e della salsa di
pomodoro. È molto anziano» rispose.
Harry scoppiò a ridere.
«È fuori di testa!» esclamò,
sganasciandosi. Severus stava per riprenderlo: d’altra
parte stava insultando una leggenda. Poi però si perse a guardarlo ridere,
luminoso, e un sorriso gli spuntò sulle labbra. Avvicinandosi, se lo tirò
contro, e Harry si fece abbracciare ancora scosso dalle risa.
«Scusa» singhiozzò Harry. «Ma ti
immagino mentre questo ti porge il piatto di sesamo e tu alzi la mano e fai “oh
no, grazie, sto bene così”»
Severus, suo malgrado, rise, e Harry fu
piacevolmente stupito di sentirlo, per quella che forse era la prima volta,
ridere. Aveva una risata profonda, modulata, e il giovane si strinse più forte
a lui continuando a ridacchiare.
«Più o meno è successo così. È stato
piuttosto imbarazzante»
«Avrei voluto vederti»
«No, il tuo posto era dai Weasley. Ti sei divertito?»
Harry gli accarezzò la schiena.
«Sì, beh, ho messo su tre chili in
due giorni, credo. E, a proposito…» aggiunse,
guardando Severus negli occhi. Lui parve accorgersi
subito che c’era qualcosa di importante che Harry stava per chiedergli e si
mise in allerta.
«Sì?» chiese.
«Stasera, ecco, potremmo avere un
invito a cena» accennò il giovane. Severus lo
interrogò con uno sguardo.
«Finisci di raccontare? Poi ti dico
tutto?» propose, conciliante, Harry. Severus non
parve convinto, ma continuò a raccontare.
«Quindi, verosimilmente Inga ruba gli appunti di Julius dopo averlo riconosciuto e
se ne va per creare la pozione in pace. Solo che Inga
non aveva addosso la pergamena con la ricetta, vero?»
«No» rispose Harry. «Forse l’ha
distrutta per non farla trovare…»
«Se così non fosse abbiamo un grosso
guaio per le mani, Harry» lo interruppe Severus. «Sei
cosciente che avete squadernato al mondo la leggenda e tutto quello che ne
consegue?»
Harry lo osservò, preoccupato.
«Ma non sappiamo se la pozione è
davvero così devastante. Neanche Julius…»
Severus lo interruppe di nuovo.
«Potrebbe esserlo. È questo il
problema. Non era in casa dei genitori di Inga, non
era nel suo appartamento a Londra»
«Non ti chiederò se ti sei
introdotto illegalmente in questi posti» mormorò Harry, lo sguardo accusatorio.
Severus alzò le sopracciglia.
«Potter, vuoi farmi la predica?»
chiese. Stavolta fu lui ad allungare le mani sul corpo di Harry: il giovane si
tese, sorridendo. Ma stavolta la provocazione non si fermò e passò un po’ di
tempo prima che le parole tornassero a risuonare nella stanza al posto di nuovi
sussurri appassionati.
In definitiva: Severus
era tornato, il lavoro incombente si era fatto più pesante di quanto si
profilava essere, e ora il suddetto guardava Harry torvo, i capelli bagnati
dopo la doccia e le mani intente a legarsi addosso la
camicia nera.
«Se non fosse un idiota avrei paura
di essere avvelenato» commentò acido l’uomo. Harry gli lanciò un’occhiataccia.
«Lui e Remus
sono la mia famiglia. Dovrete fingere, almeno, di andare d’accordo e so che Sirius ci proverà. Per me. Lo farai anche tu?»
Gli aveva appena raccontato del
Natale trascorso e dell’invito per la cena. E Harry, naturalmente, era
felicissimo di averlo visto tornare prima del previsto – soprattutto per ciò
che era appena accaduto nel suo letto. Ma ora iniziava a temere la serata che
si apprestava.
«Va bene, va bene. Per te. Solo per
te» mormorò Severus. Harry arrossì.
«Grazie» fece, la testa bassa. Per
lui. Solo per lui.
L’uomo gli passò accanto,
circumnavigando il letto.
«Devo andare a casa a cambiarmi. Ci
vediamo quando? Per le sei?»
Harry gli sorrise e Severus, l’espressione seccata, sbuffò.
«Le sei vanno benissimo» rispose
Harry, angelico.
«Sì» fece l’uomo. Si chinò a
baciarlo. «Sei la mia dannazione»
Harry rise, guardandolo andare
nell’ingresso a indossare il mantello.
«Non vedo l’ora di rivederti anche
io!» gli urlò dietro. Quando la porta si fu chiusa alle spalle di Severus, Harry si lasciò cadere sul letto, un sorriso beota
sul viso e l’incredulità più gioiosa verso quello che aveva appena vissuto.
Comunicazione di Servizio:
A fine di questa settimana partirò per una breve vacanza a
Londra. Questo sarà l’inizio del periodo in cui i viaggi la faranno da padrone
nella mia vita, quindi, probabilmente, aggiornerò molto lentamente. Cercherò
comunque di postare qualcosa dopo il mio ritorno in Italia.
Era stato strano rivedersi, qualche
ora dopo, entrambi avvolti in eleganti mantelli, entrambi appesantiti da
diverse emozioni, entrambi taciturni. Però non era stato strano nel modo che
Harry si era aspettato: si era immaginato un grande imbarazzo, dopo l’amore
della mattina appena trascorsa, e invece Severus
sembrava solo molto infastidito anche se gli aveva accarezzato il viso con
delicatezza e baciato le labbra con forza. E sentirlo così lo aveva sì, un po’
impensierito, ma gli aveva anche scosso via tutto il disagio che aveva provato
all’idea di rivedere l’uomo su cui, per tutto il giorno, la sua mente aveva
spaziato senza pudore. Quindi si erano smaterializzati.
La casa che Sirius
e Remus avevano acquistato dopo che tutto si era
risolto era una bella villetta adagiata tra eleganti prati in un quartiere
periferico di Londra. Quando si furono materializzati sul morbido tappeto di
neve che copriva il giardino della casa bianca e nera, Harry e Severus si ritrovarono ammantati dall’oscurità. In quel
punto, nessuno poteva vedere i visitatori magici arrivare e la luce che
filtrava dalla tendina della cucina indicava loro che i preparativi per la cena
erano già cominciati.
«Sei pronto?» chiese piano Harry. Severus lo squadrò.
«Con tutto il rispetto, Harry, ma
non ho intenzione di temere le ire del tuo padrino come una verginella
sprovveduta»
Harry, nonostante la tensione,
sbuffò una risata e, allungandosi a baciare l’uomo che gli stava affianco, si
ritrovò a pensare che, infondo, quel Severus
tagliente e velenoso che veniva a galla per fronteggiare le avversità non era
poi tanto male.
Aveva inviato il proprio Patronus per avvertire che sarebbe venuto accompagnato,
quella sera, e si era armato di un’enorme Linzer
torte per cercare di placare gli animi sin dal principio. I due si mossero
verso il lato strada della casa e, saliti i gradini che portavano alla veranda,
Harry bussò alla porta.
Quando la luce della casa irradiò la
veranda, Remus sorrise loro, un maglione beige a
collo alto addosso e il nervosismo ben nascosto sotto la solita espressione
buona.
«Benvenuti» disse, facendoli
passare. Harry gli si stinse contro brevemente prima di spingersi nel
bell’ambiente dell’ingresso. Severus, guardingo,
abbassò la testa.
«Buonasera, Remus»
disse piano. Il padrone di casa sembrò stupito e anche deliziato di sentirsi
chiamare per nome, e i suoi occhi luccicarono di una scintilla dal sapore
antico.
«Entra pure, Severus»
gli rispose, il tono particolarmente malandrino. Allungò una mano a prendere il
mantello di Severus e, dopo un’occhiata, Harry decise
di potersi fidare a lasciarli soli, così appese con un rapido gesto esperto il
mantello prima di dirigersi direttamente in cucina.
«Permesso?» si ritrovò a chiedere. Sirius, che dava le spalle alla porta, si voltò a
guardarlo.
«Da quando chiedi permesso?» gli
sorrise, facendogli cenno di avvicinarsi. Harry gli porse la torta, un po’ come
maneggiando un calumet della pace, e l’uomo sbirciò all’interno dell’involucro.
«Mmm, sai
come comprare il mio perdono» disse. Harry abbassò la testa, ma Sirius gli scompigliò i capelli. Sapeva che ce la stava
mettendo tutta, così lo seguì quando prese la torta e la posò sulla credenza.
«Ho anche mezzo chilo di cioccolato
con me, ma penso di usarlo solo se avrò bisogno che Remus
ti impedisca di aggredire Severus» tentò di
scherzare. Il suo padrino, che come Remus cercava di
mascherare la propria tensione ma ci riusciva meno bene, rise brevemente.
I passi che si avvicinavano alla
porta li richiamarono: Severus si appoggiò sull’uscio
della cucina. Sotto al mantello aveva indossato un paio di pantaloni gessati,
una camicia bianca e un gilet, e spiando dalle finestre nessuno avrebbe mai
inteso di avere davanti dei maghi se non fosse stato per le diverse bacchette
che se ne stavano, per ora, tranquille nei foderi.
«Harry, mi aiuti con la tavola?»
chiamò a gran voce Remus dalla sala. Il giovane
lanciò un’occhiata seria a Severus, che lo rassicurò
annuendo una sola volta. Poi fece per dire qualcosa, ma Sirius
gli stava già porgendo una pila di piatti sormontati da bicchieri e un’elegante
tovaglia bordeaux.
«Non farmi pentire di non aver usato
la magia, con il servizio buono» ghignò l’uomo. Quando Harry se ne fu andato
dalla cucina, attento a non fare danni, Severus entrò
nella stanza.
Sirius lo guardava di sottecchi, molto
simile ad un cane pronto a difendere la propria cuccia. Il suo bel viso era
fosco e, lento, un boccolo sinuoso decise di scappare al nastro con cui si era
assicurato i capelli, andando ad adombrare ancora di più la sua espressione.
«Non credo sia da esplicitare che né
a te né a me piace la situazione che si sta creando tra noi» disse Severus, pacato.
«No, non è da esplicitare» annuì Sirius. «E la situazione
che si sta creando tra te e Harry?»
«Quella non può che piacermi»
rispose con un sorriso arrogante Severus. Vide che Sirius si tratteneva dall’affatturarlo, cogliendo tutti i
sottintesi della sua risposta, o dal tirargli un piatto, o dal balzargli
addosso.
«Sei cosciente del fatto che se tu
gli facessi del male in qualsiasi modo non sopravvivresti per raccontarlo?»
disse, il tono casuale, Sirius, poggiando una mano
sulla superficie lignea del tavolo.
«Non voglio fargliene» mormorò Severus. I due uomini si guardarono con intensità.
«Remus
vuole che lasci a Harry spazio. E io voglio che sia felice. Se sceglie te, va
bene. Ma non riporre le tue speranze nel mio compagno, ti assicuro che è anche
più protettivo di me verso Harry» aggiunse Sirius. Il
suo tono si stava inasprendo sempre di più.
«Ho capito, Black»
ringhiò Severus. Sospirò, passandosi poi una mano sul
viso. «Vedere Harry che finalmente ha una vera famiglia è…
bello. Non avrei mai pensato di dirlo ma sono quasi contento tu mi stia
minacciando»
Sirius lo guardò stupito, poi scosse la
testa.
«Mi suona strano sentire che tu,
davvero, tieni a lui» mormorò. Severus accennò un
sorriso.
«Suona ancora strano anche a me»
rispose, tacendo poi quando le voci di Harry e Remus
si avvicinarono. I due uomini in cucina guardarono verso il corridoio, ma
nessuno li raggiunse: poco dopo, dei passi sulle scale li informarono che
stavano salendo.
«Lo ami?» chiese poi, a bruciapelo, Sirius. Severus sgranò gli occhi,
guardandolo.
«Non pensi che sarei davvero troppo
avventato a risponderti?» ribatté debolmente. Sirius
alzò un sopracciglio.
«Mmm.
Ottima risposta, Mocciosus» disse, andando a dare
un’occhiata ai fornelli. Severus fece una smorfia, ma
si rese conto che ormai neanche quel nomignolo gli pesava più. Avvertiva che la
strenua lotta tra lui e Black stava quasi mutando,
forse contaminata da una nuova tensione. Era forse…?
«Non posso dire che tu sia il
compagno che ho sempre sperato Harry trovasse, ma se lui ti vuole in famiglia
così sia. Non dobbiamo per forza andare d’accordo. Ma vogliamo tutti il suo
bene, no?»
Concordia. Una debole, pallida
concordia.
Gli occhi grigi di Sirius gli bruciavano l’anima, un po’ minacciosi. Severus annuì.
«Certo» rispose seriamente. Sirius sospirò.
«È buffo, però» aggiunse. «Prima
Lily, ora Harry… sarebbe imbarazzante se ti facessi
notare l’antifona?»
«Sarebbe imbarazzante» confermò, la
voce roca, Severus. I sentimenti contrastati che si
stavano alzando tra le mura chiare della cucina sembravano quasi palpabili,
così come lo sguardo che Sirius gli rivolse, ancora
più acuminato di prima.
«Non c’è niente da dire» aggiunse Severus.
«Credo tu non sia nella posizione di
evitare le mie domande» lo rimbeccò Sirius. Severus lo squadrò: non si stava godendo quella farsa da
padre geloso, anzi, sembrava non voler sentire la risposta di Severus, temendo la verità, forse. Ma si sentiva in dovere
di chiedere, di accertarsi, di ficcare il suo grosso tartufo canino nei loro
affari. Severus fece una smorfia. Quella concordia
non sembrava poi troppo facile da sostenere.
«La Guerra è finita, le miei
maschere sono cadute. Sono stanco di vivere relegato nel passato. Non lo sei
tu? Non sei stanco di essere il prigioniero di Azkaban?»
«Non ti sto chiedendo perché ora
sembri uno della mia famiglia» ribatté Sirius, senza
guardarlo.
Severus sospirò.
«Non voglio più essere l’uomo
distrutto che ero, va bene? Non so se merito la felicità. Non so se merito
Harry. So solo che sentirmi in dovere di piangere Lily fino alla fine dei miei
giorni è stupido. Non la dimenticherò mai. Ma sono stanco di essere l’ombra di
me stesso»
Sirius ascoltò attentamente le parole
tremanti che uscirono dalla bocca di Severus. Il Pozionista, appoggiato al tavolo, aveva la testa bassa,
come in preda ad un dolore acuto nel sentirsi dire quelle parole. Le aveva
pensate e ripensate, certo, e ci credeva. Le aveva dette anche a Harry, sì, ma
ora, dirle a quell’uomo che Lily se la ricordava, che l’aveva abbracciata, che
l’aveva sentita ridere, faceva tutto un altro effetto. La stava lasciando
andare davvero.
«Le mancavi, sai?» sussurrò Sirius. Severus lo guardò e lui,
avvicinandosi, si ficcò le mani nelle tasche dei pantaloni di velluto blu.
«Avrebbe tanto desiderato che tu ti
prendessi cura di Harry. Perché tu per lei eri come io ero per James.
Insostituibile. Non voglio farti la predica, stavolta, dico solo che
probabilmente Lily ti affatturerebbe» disse Sirius.
Severus rise, roco.
«Mi manderebbe al San Mungo, Black, non essere così delicato» mormorò. Sirius sorrise.
«Oh, sì. E poi ti manderebbe un
giglio. E probabilmente leverebbe il saluto a Harry ma gli lascerebbe dei
pasticcini di zucca sulla scrivania. E poi, in silenzio, lo accetterebbe. Era
sempre così delicata, ti ricordi?»
«Delicata…
sì. Pericolosa ma delicata»
I due uomini si guardarono, i
ricordi vividi nelle loro menti. Sirius si passò una
mano sul viso.
«Lascio a Molly Weasley
la frase “lui non è Lily”?» disse piano. Il suo tono stava riprendendo la vena
canzonatoria che Severus aveva sempre detestato, ma
dopo quel vibrante momento la accolse quasi sollevato.
«Sì. Se ti fidi almeno un po’, sì»
rispose.
Sirius accennò una risata.
«Mi fido di Harry. Te l’ho detto,
dovete accontentarvi di questo» ribatté, tornando ai fornelli. Severus sospirò. Mettere da parte l’astio nei confronti di Black e Lupin era la cosa meno felice che intravedeva nel
suo futuro.
Durante la cena e per quasi tutta la
serata, infatti, le occhiate di Sirius non smisero di
dare il tormento a Severus, ma lui le incassò senza
lamentarsi, cercando di non far trasparire il proprio fastidio. Non avrebbe mai
pensato di volerlo fare, ma sentiva il bisogno di dimostrare a Black e a Lupin che lui, a Harry, ci teneva davvero. Voleva
dimostrare loro di essere degno della loro fiducia e si impose così di essere
amabile al punto giusto – quindi appena accettabile per una qualsiasi persona
che non lo conoscesse. Ma si trattenne dall’allungare neppure un dito verso
Harry, gli sorrise con dolcezza e evitò di rispondere male a Lupin che lo
interpellava educatamente, anche setanti anni trascorsi a scuola assieme gli davano le armi per notare
quanto, infondo, lui e il suo compagno si stessero godendo il momento. Si sentiva
un po’ in gabbia, a dire il vero.
Aveva visto Harry, però, che
sembrava sollevato per la piega che aveva preso la serata. Chissà cosa si era
immaginato accadesse. Era stato un turbinio di sorrisi e risate, al tavolo, e,
seduto al suo fianco, gli aveva trasmesso il suo calore travolgente che, dopo
anni di gelo, rappresentava per lui una strana e bella novità. Era una gabbia
foderata di cuscini.
Harry aveva afferrato il polso di Severus prima di chiederglielo. Ora lo guardava con
intensità, gli occhi verdi stranamente luminosi nel buio dell’ingresso del suo
appartamento in cui non aveva ancora acceso neppure una luce. Vide Severus soppesare la sua proposta, ma fu un millesimo di
secondo e già il petto dell’uomo si delineava sul suo, mentre con una mano
pallida chiudeva la porta alle proprie spalle.
In quel momento un forte rumore si
alzò dalla strada, ma entrambi lo ignorarono. I festeggiamenti Babbani per l’arrivo del nuovo anno non li sfioravano
minimamente, neanche quelli che dovevano certamente appartenere a turisti
rumorosi. Erano troppo impegnati ad avvertire il calore l’uno dell’altro,
stringendosi in un abbraccio in cui le loro labbra avide trovarono appiglio per
le loro smanie.
Harry rabbrividì, alzando le braccia
oltre il collo di Severus. Le mani dell’uomo
scivolarono all’istante sotto i suoi abiti, sfiorando la pelle tesa sui suoi
muscoli allenati, i polpastrelli freddi contro il calore del giovane uomo.
«Che cosa mi stai facendo…» sussurrò debolmente Severus
sulle labbra di Harry, iniziando a sbarazzarsi dei suoi abiti e lasciandoli cadere
a terra senza fretta.
Harry accennò un ghigno, le mani più
goffe sulle fibbie del mantello dell’altro. Insinuò il viso oltre i fini fili
di corvo che erano i suoi capelli – profumavano di spezie e cipria. La pelle
pallida del Pozionista s’increspò al tocco delle sue
labbra.
«Lo avresti mai detto, Severus?» mormorò Harry, premendo il viso nell’incavo del
suo collo.
L’uomo gli cinse la vita, premendolo
con forza contro di sé.
«Chi
lo avrebbe mai detto?» ribatté gentilmente, lasciando le proprie mani scivolare
lungo il profilo del corpo di Harry, facendo aderire i propri bacini con un
movimento fluido che strappò all’Auror un sospiro. Severus sorrise.
«Se avessi immaginato tutto questo
mi sarei fatto mettere in punizione più spesso da te…»
sogghignò Harry, intrufolando una mano tra loro. Le sue dita, però, non
arrivarono alla bruciante meta che agognavano: Severus
gli afferrò il polso con violenza, facendo sussultare il giovane uomo,
spingendolo via da sé.
I suoi occhi ardevano di
risentimento.
«Che cosa stai dicendo?» esclamò,
velenoso, il viso rapace segnato di contrarietà.
Harry teneva la bocca socchiusa,
stranito.
«Cos-?» biascicò. Severus fece una smorfia. Aveva assunto l’espressione che
Harry ricordava fin troppo bene dopo gli anni della scuola.
«Non dire mai nulla del genere» lo
rimproverò, la voce bassa, Severus. «Eri uno
studente. Eri sotto la nostra protezione. Non dirlo mai»
Era visibilmente scosso e piccato e
Harry, capendo solo allora, abbassò la testa.
«Guarda che io non penso male di te
solo perché eri un mio insegnante…» iniziò a
rispondere, ma Severus ebbe un altro moto di stizza e
si allontanò di un passo.
«Io non so cosa tu voglia, Potter, ma se hai intenzione di
continuare questa cosa vedi di non accennare mai più al nostro passato in quel senso»
Harry avrebbe voluto far notare a Severus che sarebbe stato difficile ora che gli sembrava di
essere di nuovo nei corridoi del castello con dinanzi il professore che più
aveva odiato in assoluto, ma decise di tacere. Gli occhi neri di Severus lo fulminarono.
«Non sono un santo, ma anche la mia
parte peggiore ha dei limiti» aggiunse, chinandosi a prendere il mantello che
era scivolato a terra.
«Dai, Severus…»
mormorò Harry allungando una mano verso di lui, ma il Pozionista
si mise rapidamente il mantello addosso e aprì la porta.
«Buonanotte, Harry» ingiunse
freddamente, lasciandogli addosso un’ultima occhiataccia. Il giovane lo vide
sparire lungo le scale e non si mosse, anzi restò davanti alla porta aperta per
un lungo momento prima di chiuderla con un gesto secco. Imprecò, calciando i
propri indumenti a terra. Poi si chiuse in bagno, fremente di rabbia, e
continuò ad ignorare gli schiamazzi di chi, in strada, non si era comportato da
idiota.
Il secondo giorno del nuovo anno
vide l’Auror Potter tornare al suo ufficio al
Ministero. La neve, che aveva seguitato a cadere copiosa dal cielo, non era
stata una scusa per evitare il rientro, né il silenzio che si era instaurato
tra lui e Severus, anche se questo gli pesava tanto
da tenergli la mente impegnata più di ogni altra cosa. Così tornò al Ministero
immusonito e preoccupato, e quasi ignorò Ron quando gli si apprestò non appena
lo vide, occupato a seguire il filo dei propri pensieri cupi.
«Harry? Harry, miseriaccia, non
posso inseguirti tutto il giorno»
L’AurorWeasley sbatté con forza la cartella che teneva in mano sul
petto dell’amico, e questi sussultò guardandolo.
«Scusa» mormorò. Si passò una mano
sul viso ispido, non si era rasato, quella mattina. Aprì la bocca per
aggiungere il perché della propria insofferenza, ma Ron non gli diede il tempo
di farlo.
«Devi andare di corsa di là dal Wizengamot, la Volkov ha chiesto
di vederti prima di essere rispedita a casa» disse sbrigativo. Gli puntò i
luminosi occhi addosso. «Vai. Hermione mi ha stressato senza pietà»
Harry sospirò. Hermione
era irreprensibile circa i diritti di indagati e carcerati.
«Scusa» ripeté. «Vado subito»
Ron annuì guardandolo andare via. A
passo spedito, Harry raggiunse l’ala del tribunale imbattendosi subito in un
piccolo crocicchio di persone. Hermione, che
indossava una vibrante tunica azzurra, spiccava tra gli altri funzionari, e non
appena i loro sguardi si incrociarono i due si scambiarono un cenno d’intesa.
La giovane donna pose la mano sulla spalla dell’uomo al suo fianco, un alto
mago pelato dagli occhi blu.
«Consigliere Masci,
le presento Harry Potter, l’Auror che ha arrestato la
signora Volkov» la sentì dire subito. L’uomo abbassò
la testa verso di lui.
«Ma certo» disse, il pesante accento
slavo. «Inutile dire che è un onore per me»
Harry non sorrise.
«Consigliere» fece, abbassando la
testa a sua volta. «L’incarico di portare la Volkov
in Biellorussia spetta a lei?»
L’uomo annuì, silenzioso, poi tornò
a guardare Hermione.
«Harry, la signora Volkov chiede di te» disse lei, abbassando la mano con cui
aveva richiamato l’attenzione del Consigliere su Harry. Gli fece cenno di
entrare nell’aula aperta del tribunale e l’Auror
annuì, avvicinandosi lentamente alla porta spalancata, facendo capolino nella
grande sala al cui centro la famosa cella che aveva detenuto alcuni tra i più
famosi Mangiamorte si ergeva.
Al suo interno, la schiena poggiata
contro le sbarre e la testa reclinata all’indietro, stava Inga.
Indossava la tenuta dei carcerati di Azkaban, una
tunica a righe bianche e nere le cui maniche erano state arrotolate sino a
oltre il gomito, lasciando visibili le fini braccia bianche. Harry notò che la
sua pelle cerea era solcata, su entrambe le braccia, da tatuaggi di un vibrante
nero inchiostro. Erano serpenti arrotolati e minuscole rune.
«Ciao, Inga»
disse l’Auror quando fu a pochi passi dalla cella. La
strega si voltò lentamente a guardarlo, un sorriso arrogante sulle labbra,
senza mostrare l’intenzione di cambiare la propria molle posa.
«Speravo fossi a guardia della
prigione, carino» rispose. La sua voce aveva un qualcosa di curioso, sembrava
portare con sé un vago gracchiare. Harry non se ne stupì. Si aspettava di
vedere una donna del tutto nuova, in quella cella.
«Mi spiace, non sono stato assegnato
ad Azkaban» disse lui. Si mise le mani in tasca con
fare casuale e Inga appoggiò la fronte alle sbarre.
«Ti piacciono?» chiese, il tono
infantile. Mostrò le braccia, allungandole oltre il ferro che la teneva
rinchiusa. Harry poté vedere meglio i tatuaggi. Ebbe un moto di ribrezzo.
«Voldemort
marchiava i suoi seguaci con dei disegni molto simili» disse, freddo. Inga rise.
«Voldemort
era un bamboccio»
Abbracciò le sbarre.
Harry accennò un sorriso.
«Te ne tornerai a casa, oggi» disse,
alzando il tono della voce. Inga annuì.
«Mi mancherà l’Inghilterra. Sai, i
parchi. Il Tamigi. La casa del tuo uomo. Sarà difficile ammazzarvi dalla
Bielorussia, sì, mi mancherà, l’Inghilterra»
Gli occhi dei due erano fissi gli
uni negli altri. Inga sorrideva, Harry era una
maschera di sale.
«Puoi anche provarci» ringhiò.
«Verrò a prenderti a calci in culo ovunque sarai»
«Te l’ho detto, Harry Potter»
mormorò melliflua Inga. «Voldemort
era un bamboccio. Io ti schiaccerò come uno scarafaggio»
L’uomo restò immobile sul posto,
senza muovere un muscolo. La strega, invece, si voltò, e Harry vide che stava
ridendo in silenzio, perché le sue spalle fini si scuotevano. Allora anche lui
si voltò e iniziò a muoversi verso la porta.
«Potete cercarla ovunque, la
ricetta» sentì dire. «Non la troverete mai. Ma non preoccupatevi. Ci terremo in
contatto»
Harry uscì dalla sala con passo
rapido, sotto gli occhi preoccupati di Hermione e lo
sguardo freddo del Consigliere. Fu a lui che si rivolse per primo.
«Spero non prendiate sotto gamba la
detenuta, Consigliere» disse, distaccato. L’uomo accennò un sorriso.
«Harry Potter, non lo pensi neanche
per un istante» rispose. Si scambiarono una lunga occhiata, poi Harry sorrise a
sua volta.
«Buon viaggio, allora. Devo
assentarmi»
I due uomini si strinsero la mano
con forza, poi Harry si voltò verso Hermione. Il bel
viso della ragazza era attraversato da una vena di preoccupazione quasi
invisibile che Harry conosceva però molto bene. Si guardarono intensamente, poi
Harry si allontanò.
«A dopo, Ministro» fece, alzando una
mano per salutarla. Hermione fece altrettanto. Poi
Harry si voltò e se ne tornò al Quartier Generale.
«Ma stiamo parlando di una pazza.
No? È come quando dico di mettermi a dieta. Lo sai che non succede»
Ron prese un sorso di Burrobirra dopo aver alzato le spalle e Harry sospirò.
Erano seduti alla Testa di Porco, ancora avvolti nei mantelli per ovviare al
gelo che entrava dalle finestre di legno. Fuori, Hogsmeade
era un gioiellino cosparso di neve.
«Non lo so, Ron» rispose Harry. «È
una strega potente»
«Possiamo tirare su i sigilli
eccezionali, se non ti fidi» disse Ron.
I due giovani uomini si guardarono
per un istante.
«Non lo so» ripeté Harry, prima di
sparire per un attimo dietro al boccale di Burrobirra.
Ron lo seguì, la bevanda calda a riscaldare i loro stomaci, l’odore di butterscotch che impregnava l’aria.
La Testa di Porco, dopo la Guerra,
aveva visto i propri affari crescere in modo vertiginoso. Naturalmente non si
vedeva mai la ressa che interessava I Tre Manici di Scopa, ma era comunque raro
trovare la locanda vuota come un tempo. E ogni tanto i due amici ci entravano,
in quelle stanze scricchiolanti, per fare due chiacchiere con Neville o per
prendersi un attimo di pausa dal mondo. Quella sera si trattava della seconda
opzione. Erano seduti in un angolo, addossati ad una finestra, e parlavano
piano.
«Hermione
ti accorderebbe subito i sigilli» aggiunse Ron.
«Ma non è necessario» rispose Harry.
«Sono io ad essere paranoico»
«E Piton
si sa difendere» gli fece notare Ron.
Harry annuì.
«Infatti, mi sentirei un idiota»
mormorò. «”Ehy, ti ho fatto un regalo, cinque sigilli
protettivi per la casa ed il negozio, così siamo sicuri che una strega in
carcere in Bielorussia non ti possa fare del male”»
Ron scoppiò a ridere.
«Ti affatturerebbe» commentò.
Harry sorrise, guardando il fondo
del proprio boccale.
«Sì, lo farebbe. Mi comporto da
stupido»
Ron gli tirò un calcio sotto al
tavolo, prendendolo di striscio e colpendo una gamba della sedia di Harry.
Imprecò, mentre Harry rideva, e trascorse un momento con gli occhi strizzati e
la bocca socchiusa lamentando il dolore alle dita del piede con cui aveva
tentato l’assalto. Poi si rimise dritto, imprecò di nuovo e si lasciò cadere
contro lo schienale della sedia.
«Non ti comporti da stupido, imbecille.
È colpa tua se mi sono spappolato un piede. Non ti comporti da stupido»
Harry, asciugandosi le lacrime, rise
ancora, ma stavolta si diede un contegno. Ron lo guardava con affetto, la
faccia seria.
«Se si trattava di me e Hermione… Merlino sa quanti
sigilli richiederei. Lei non me ne accorderebbe neanche uno. Ed è Hermione, no? Duella meglio di me. Ma la proteggerei. Chi
se ne frega se sembrerei paranoico, la proteggerei»
I due amici si osservarono in
silenzio. Ron era arrossito parlando, e Harry poteva quasi toccare il disagio
che stava provando nel confrontare se stesso e sua moglie con Harry e Severus. Pensò che era stato quasi esagerato, ma sapendo
che era stato uno sforzo non da poco non lo criticò.
«Grazie, Ron» sussurrò. L’altro
annuì, bevendo.
«Beh, di cosa?» rispose. «Vedrai che
non succederà nulla. Hermione si è raccomandata col
Ministro bielorusso di tenere un occhio aperto su Inga»
«Il Consigliere è partito subito?»
chiese Harry.
«Sì, credo contatteranno Hermione quando consegneranno Inga.
Anzi…»
Il giovane guardò l’ora sul suo
orologio magico da taschino e alcune ciocche di capelli ramati gli caddero
sulla fronte.
«Tra poco finirà la riunione»
aggiunse.
Harry gli indicò la porta della
locanda con un gesto del capo.
«Vai. E contattatemi se ci sono
novità su Inga» disse. Ron si alzò con calma,
mettendosi in ordine gli abiti e lasciando sul tavolo un bel po’ di soldi.
Harry gli avvicinò il gruzzolo, ma l’uomo lo fermò e gli impose di lasciarlo
sul tavolo.
«Stasera offro io» lo rimbeccò Ron,
prima di allontanarsi. Si salutarono con un cenno ed un sorriso, poi Harry lo
osservò sparire oltre la porta. Aprendola, un fazzoletto nero punteggiato di
fiocchi di neve rispose al suo sguardo. Stava ancora nevicando.
Il giovane restò seduto ancora per un
po’, il tempo di finire la Burrobirra e di stare in
pace nel silenzio. Fu disturbato soltanto una volta da Abertforth,
che passò a ritirare il boccale di Ron e gli diede una poderosa pacca sulla
spalla. Poi fu solitudine. Fuori dal vetro sporco, il panorama notturno lo
invogliava a restare lì a dormicchiare ad occhi aperti.
Quando finalmente si alzò ed uscì
sulla strada, il gelo si insinuò senza pietà sotto al suo mantello,
accompagnandolo lungo la via oscura. Non c’era nessuno attorno a lui.
Harry fece una breve passeggiata,
giusto per finire nel centro del paesino ad osservare le allegre luci che
illuminavano le casette. In lontananza vide Madama Rosmerta
aggirarsi brevemente attorno ai Tre Manici di Scopa prima di rientrare e gli
parve di riconoscere anche una collega di Neville poco lontano, che se ne
andava sulla via verso il castello. Attese di vedere entrambe le figure sparire
dalla strada prima di guardarsi attorno. Poi decise di andare a casa.
Seduto su una grande poltrona, Severus pensava. Aveva le gambe accavallate e sulla coscia
teneva una pergamena scribacchiata. In mano, la piuma. I suoi occhi neri
fissavano con intensità le parole che vi aveva vergato, tanto da sembrare quasi
risentiti verso quegli appunti. Sotto ai fini capelli corvini, legati sulla
nuca da un cordino di cuoio, gli ingranaggi del suo cervello sembravano quasi
mandare fini pigolii. Era immobile, ad eccezione della mano destra con cui
teneva la piuma: una lunga piuma verdastra che seguitava a muoversi seguendo
gli scatti nervosi del polso che, come scandendo il ritmo dei pensieri, si
alzava e si abbassava impercettibilmente.
La grafia del Pozionista
aveva vergato poche parole sulla pergamena, organizzate in una lista: quattro
cuori di bambini, il cuore di un’innamorata, melissa, dittamo, iperico. Sangue
di Re’em.
Secondo la leggenda bastava questo,
un calderone di tantalio e il gioco era fatto. Ma mancava qualcosa. Ne era
certo, eppure non capiva cosa. Severus si mosse
piano, per la prima volta dopo un bel pezzo. Abbassò la gamba su cui era
poggiata la pergamena, la prese tra le dita, la portò più vicina al proprio
viso. Continuò a leggere e a rileggere gli ingredienti così, come se i suoi
occhi abbisognassero di occhiali.
L’iperico. La pianta scaccia demoni
per eccellenza. Il fiore capace di scongiurare la negatività, le febbri, la
malinconia.
La melissa. L’antico rimedio ai
problemi cardiaci e ai dolori psichici. Una delle piante più popolari se si
volesse creare un filtro d’amore.
Il dittamo. Capace di curare ferite
e mal di testa, problemi di stomaco e di infertilità. La strana pianta che,
bruciata dai più esperti dei divinatori, sembrava essere capace di rendere
visibili gli spiriti dei defunti.
Tre delle piante più importanti tra
gli ingredienti pozionistici, almeno per i magi
dell’epoca di Julius. Bastavano per assicurare la prestanza fisica di cui un
mago che possedesse tutta la magia del mondo avrebbe avuto bisogno?
Severus sospirò, pinzandosi la base del
naso con le lunghe dita pallide. C’era qualcosa che gli sfuggiva, ma il
sottofondo degli altri suoi pensieri rendevano il suo studio praticamente
inutile.
Era sbottato in modo violento la
notte di Capodanno, con Potter. Potter. Se
lo ricordava bene quando, ragazzino, sedeva nella sua vecchia aula – era il
dramma di avere una memoria di elefante. Lo aveva sempre trovato ripugnante,
frutto di un peccato primordiale, ultimo cimelio di una storia vergata col
dolore e con le lacrime. E pensava di esserne scampato, poi, anche se sapeva,
infondo, di dovergli la vita. Sospirò di nuovo.
Non era mai stato richiamato da
Silente, mai. C’erano stati episodi spiacevoli, sì, e lui quei colleghi li
aveva sempre guardati con disprezzo dall’alto delle finestre del castello,
mentre se ne andavano con i loro bagagli, cacciati via dagli alunni che avevano
agito come cioccolato tentatore nei giorni della Quaresima. Ma lui era sempre
stato ligio, inflessibile: come, dal’altra parte, era sempre stato un po’ in
tutto.
Si alzò dalla poltrona e, posata
pergamena e piuma sul tavolino, si avvicinò a passi lunghi alla finestra. La
neve non accennava a cadere e lui, che un po’ serpe si sentiva nelle carni,
rabbrividì al pensiero di mettere il naso fuori di casa. Guardò giù: una strega
e un paio di maghi stavano camminando lungo la via. Li osservò dall’alto,
biasimandoli. Un mago si fermò proprio davanti alla porta della sua bottega,
sembrava cercare qualcosa in tasca. La strega sparì dietro ad una porta.
Il mago fermo alzò il viso.
«Potter»
ringhiò Severus, allontanandosi dalla finestra di
fretta, raggiungendo con andatura sicura la porta dell’appartamento. Scese le
scale che portavano alla bottega con un brivido, era la parte più fredda
dell’edificio e i muri soffrivano dell’aria gelida che vi si appiccicava
all’esterno. Entrò nel negozio come una furia in nero e spalancò la porta con
violenza, facendo balzare all’indietro Harry.
«Ehy…»
biascicò lui. Il suo viso era pallido, e sulla sua pelle risaltavano macchie di
rose rosse sulle gote e sulla punta del naso. Era avvolto in una sciarpa rossa
e oro ficcata senza particolare eleganza nel cappotto dal taglio babbano.
«Posso aiutarti?» chiese duramente Severus, scrutandolo. Harry allungò il collo, lanciando
un’occhiata nel negozio, chiedendo tacitamente di essere invitato dentro. Severus non raccolse, l’espressione calcificata.
Allora Harry sbuffò, e il suo viso
si illuminò di arroganza.
«Beh, non lamentarti eh, ma davanti
a me vedo il Professor Piton»
Severus fece per sbattergli la porta in
faccia, ma non si stupì quando Harry si piazzò nel mezzo, prendendosi il legno
massiccio contro una spalla alzando un tonfo sonoro. Il Pozionista
alzò un sopracciglio.
«E a me sembra di vedere un
ragazzino che speravo fosse cresciuto» ribatté, e senza aggiungere altro girò i
tacchi e riprese la via di casa. Harry fu rapido a seguirlo e a chiudere con
cura la porta.
Salì le scale levandosi di dosso la
sciarpa, più lento dei rapidi passi da insetto di Severus.
Infine chiuse anche la porta dell’appartamento con particolare apprensione e
nell’ingresso si passò la sciarpa sui capelli, bagnati da quelli che una volta
erano stati fiocchi di neve.
Severus era sparito dietro la porta dello
studio e Harry, ascoltando il silenzio, imprecò tra i denti.
«Come dici? Oh grazie tesoro,
gradirei proprio una tazza di tea bollente!» aggiunse ad alta voce.
«La sai usare una cucina, no?» gli
rispose la voce acida di Severus.
Harry restò immobile, in attesa: ma Severus non aveva intenzione di raggiungerlo. Così si levò
anche il mantello e, i denti stretti, andò a preparare due tazze di tea nero. Severus se lo vide arrivare in studio dopo una decina di
minuti, ma non alzò lo sguardo quando pose sul tavolino una tazza fumante. Il
profumo di tea aveva invaso l’aria, assieme all’odore di neve e quello del
dopobarba di Harry.
«Ascolta, scusami per quello che ho
detto l’altra sera» disse piano l’Auror,
occhieggiando verso Severus. Vedendo che lui non
accennava a guardarlo, continuò: «Non avevo messo in conto che ti avrebbe
potuto infastidire…»
«Mettere
in conto?» ripeté Severus.
«Non ci avevo pensato» mormorò
Harry.
Gli occhi neri di Severus si alzarono di scatto dalla pergamena che stava
leggendo, andando a imprimersi con ira in quelli di Harry.
«È sempre quello il tuo problema,
Potter» sputò, velenoso. «Tu non pensi. Non pensi mai che forse non sei sempre
tu ad avere tutte le ragioni, che anche gli altri hanno una sensibilità, che
non sei più il Bambino che è Sopravvissuto. Tu non pensi»
Harry ascoltò le parole di lui a
testa china, e Severus fu quasi sorpreso nel vederlo
contrito. Ma l’immagine dell’Harry Potter undicenne gli era ormai rimasta
impressa nel retro degli occhi, e non poteva ignorarla. Un freno pesante quanto
un macigno gli si era ora imposto e non avrebbe sbagliato cercando di
toglierlo.
«Hai ragione, ti chiedo scusa» disse
piano Harry.
«Scuse accettate. Ora va’ via»
sentenziò, statuario, Severus. Avvertì lo sguardo di
Harry su di sé, un misto di gioia e confusione. Poi una mano arrivò al suo
ginocchio, in una carezza tenera.
«Non poss-?»
stava chiedendo Harry, ma Severus lo cacciò.
«Abbiamo sbagliato ad avere quel ménage. Io ho sbagliato» disse. «Ti
prego di andare via e di non tornare, perché da questo momento tu ed io non
siamo niente insieme»
Harry allontanò la mano, come
scottato, la bocca semi aperta, lo sguardo vacuo. D’un tratto tutta l’aria del
mondo gli fu negata, e la sua gola si contrasse alla ricerca di qualcosa, o
delle parole giuste da dire per far cambiare idea a Severus.
Ma Harry non seppe cosa dire. Abbassò la mano sulla propria coscia e,
lentamente, fletté le ginocchia; si alzò. Severus non
lo guardava. Era una maschera di cemento. Harry avvertì il proprio pomo d’Adamo
espandersi sino a diventare una boccia per pesciolini rossi piena di lacrime.
Poi, dopo un minuto, dopo un anno, uscì dallo studio, afferrò il mantello, e se
ne andò.
Non c’era nessuno con lui, a parte
l’eco di voci soffocate e risate isteriche.
Guriy si strinse le braccia conserve al
petto, affondando di più nella pesante veste di servizio che, da sette mesi,
indossava ogni mattina per quattro giorni a settimana, più straordinari. Perché
a Shemeli faceva sempre fresco e, all’interno di
quelle mura maledette, faceva sempre freddo.
Troppo freddo per parlare, pensare, mangiare, ridere: soltanto i
prigionieri ci riuscivano perché, dopo dieci, venti, novant’anni di reclusione
era quasi scontato abituarsi e perdere la меркаваньне*.
Lui, Guriy,
certamente non aveva perso molto a stare lì. Lo pagavano bene, quella strega di
sua sorella lo lasciava in pace da quando aveva iniziato a portare a casa un
po’ di soldi, e non aveva granché da fare se non qualche giro di ricognizione
ogni tanto. Come scosso dalla propria mente stessa, il ragazzo, poiché non
contava più di diciannove primavere, guardò l’orologio appeso alla parete
grigia della cella dei vigilanti in cui sedeva. Mancava poco alle cinque: ora
dell’ultima ronda e poi a casa. Si alzò, riordinandosi la veste in lana color
antracite, e si assicurò di avere la bacchetta pinzata nell’apposita tasca delle
brache. Poi uscì dalla celletta, lasciandola aperta: le chiavi di quello
stanzino le aveva perse il vecchio Nazar appena un
mese e mezzo prima, così ne facevano a meno. I suoi stivali alzavano suoni cupi
nel largo corridoio antistante le celle dei prigionieri. Trasse dalla tasca
della giacca il grosso mazzo di chiavi magiche quando giunse alla prima porta:
ne avrebbe aperte quattro, avrebbe salutato qualche vecchio amico, e poi via,
che i ragazzi quella sera lo aspettavano al pub di Ganna
per festeggiare la nascita dell’ultimo maschietto di Rudol’f.
«Come te la passi, vecchio?»
borbottò Guriy transitando accanto alla cella di uno
dei più anziani dei detenuti. Sulla branda, nell’ombra, un vecchino gli fece un
sorriso sdentato: sembrava fatto di carta, tanta poca carne aveva sulle ossa.
«Non c’è male» gorgogliò. Guriy gli fece un cenno.
Gli piaceva essere sempre amichevole
coi suoi detenuti: erano dei poveracci e molti non sarebbero mai usciti da lì
se non coi piedi in avanti. Farsi dei nemici tra loro era inutile. Così scorrazzò
oltre la terza porta salutando e parlando con tutti quelli che gli rivolgevano la
parola, stringendo anche la mano ad un uomo che, stando alle parole di Nazar, era impazzito un paio di mesi dopo la cattura e da
allora aveva la fissa di stringere le mani. Erano dei poveracci.
Quando, infine, Guriy
arrivò all’ultima porta, allora si fermò un momento in ascolto. Lì, il silenzio
era ancora più fondo: occhieggiò oltre le sbarre, ma era tutto in ordine. Aprì la
porta: si alzò un cigolio. Era tempo di entrare nell’ala più sorvegliata del
piccolo carcere magico di Shemeli.
Non aveva particolarmente timore dei
carcerati speciali: ogni volta che entrava nella loro ala poteva avvertire gli
scudi magici lasciarlo passare, riconoscendolo come guardiano, e d’altronde non
erano che tre gli ospiti di quell’ala. Guriy si
corresse: quattro.
Passò davanti alla prima cella,
controllando: il vecchio mago che ci viveva era seduto a terra come sempre, la
testa tra le ginocchia, scosso da un intenso risolino. Le sbarre della cella
accanto, invece, cingevano un viso che si sporgeva, i denti marci a mordere un
listello metallico di quella sua prigione.
«Ciao Guriy»
sputacchiò il mago. «Mi hai portato la mia cioccolata?»
«No, Gleb,
non è domenica oggi» rispose bonariamente Guriy. Gleb annuì.
«Giusto, giusto, oggi è giovedì»
disse, e Guriy non lo corresse, ma andò avanti. Il terzo
mago dell’ala era sdraiato a letto e il ragazzo restò ad ascoltare per
avvertire il suo respiro: sì, dormiva. Certo, potevano fare ben poco se non
dormire, quelli: erano messi l’uno accanto all’altro, le celle vuote davanti,
apposta perché non avessero nessuno da guardare, ma soltanto gli sproloqui
altrui da ascoltare. Ma poi c’era lei.
«Inga»
salutò cortese Guriy. La strega seduta sulla branda
alzò la testa e, come ogni giorno, gli rivolse un sorriso radioso.
«Guriy»
sussurrò. Aprì le braccia: aveva strappato le maniche della divisa così da far
diventare la casacca una blusa che lasciasse in mostra i serpenti che aveva
tatuati addosso. «Ti piace? Mi sto dando alla sartoria»
Guriy rise.
«Ti dona molto, ma dovrei farti un
richiamo per questo» rispose. Inga rise a sua volta e
si avvicinò.
«Che importa, mi darebbero un’altra
divisa se me lo facessi?» chiese. Guriy scosse la
testa.
«Allora vedi? Al massimo prenderò
freddo»
Il ragazzo annuì.
«Non trovi che queste divise non
siano per niente adatte alle forme di una signora?» soffiò ancora Inga. Guriy alzò gli occhi al
cielo.
«Che strega vanitosa» disse, e il
suo tono era pieno di amichevolezza. Inga rise la sua
risata leggera e argentina.
Di tutti i maghi e le streghe oscure
della sua prigione, Guriy doveva ammetterlo, lei era
la più simpatica.
*bielorusso, senno.
Non ci sono parole per
esprimere quanto io sia mortificata per aver abbandonato questa storia. Spero
soltanto che chi l’ha tanto apprezzata sia felice di vederla tornare, perché d’ora
in poi mi impegnerò ad aggiornarla fino a vederla conclusa, ora che mille e
mille impegni sono giunti ad un termine.
Sono solo una
scribacchina e, senza il mio pubblico, non sono nulla: quindi, mio adorato pubblico,
chiedo scusa per l’assenza.
Nei giorni che seguirono l’alterco
con Piton, Harry ebbe modo di conoscere una parte di
sé che gli era sinora rimasta sconosciuta, di cui forse il giovane aveva
intuito l’esistenza, ma che non si era mai manifestata. Alla brusca, forte,
sicura fine che il Pozionista aveva posto alla loro
relazione, Harry reagì con la mestizia. Non era ancora sceso a patti
coll’essere diventato qualcosa d’altro dal Bambino che è Sopravvissuto: se ne
rese conto ora, stupendosi quando la proverbiale rabbia che avrebbe provato da
ragazzo non arrivò, lasciandolo vuoto, a trascinarsi sovrappensiero tra casa e
ufficio. Anche Ron e Hermione si accorsero del
cambiamento nel suo umore: Harry sembrava una grossa macchia lavata male, un
alone di vino rosso rimasto sulla tovaglia della festa. E metteva anima e corpo
nelle sue attività quotidiane, come sempre, restando però nella sua bolla,
quella da cui, quando qualcuno gli rivolgeva la parola, lui faceva capolino con
occhi grandi e chiedeva di ripetere. Così i due giovani sposi decisero, il
weekend successivo, di planare come falchi nel piccolo appartamento londinese
che era la tana dell’Auror, armati di vino elfico e
ben poco preavviso. Quando Harry aprì la porta, infatti, lo trovarono
scarmigliato, gli occhiali storti sul naso, una t-shirt consunta e macchiata e
un’espressione mista tra una faccia da funerale e una maschera di perenne
sorpresa imbelle.
«Scusate, la casa è un casino…» disse subito, ma li fece entrare: a terra erano
mollate scompostamente le sue scarpe, accanto ad un sacchetto da cui si era
dimenticato di togliere un sacchetto di pane del Tesco*
e il companatico – una giara di salsicce tedesche estremamente pallide.
«Ma va, non preoccuparti» rispose Hermione con un sorriso, ma Ron si piazzò davanti al
proprio migliore amico e lo afferrò virilmente per le spalle.
«Mi stai spaventando, amico»
Hermione se n’era andata direttamente in
cucina, da cui arrivò lo scatto metallico dell’interruttore della luce. Il vago
pallore della lampadina dal vano poco distante si rifletté sul viso di Ron,
colorandolo di toni cupi.
«Ma no, Ron, sono solo un po’ sbattuto…» rispose neutro Harry. Le mani di Ron, grandi e
lunghe, gli bruciavano sulla pelle.
«Tanto lo sai che non ce ne andiamo
finché non ci dici tutto» disse risoluto il giovane, lasciando andare l’amico,
e raggiungendo Hermione in cucina. Harry sospirò, si
guardò attorno come alla ricerca di un rifugio, ma poi si rassegnò e lo seguì.
Le doti culinarie di Hermione non erano particolarmente spumeggianti – era
bravissima a fare dolci, con la sua perizia zelante da Pozionista,
ma la mancanza di allenamento e di fantasia si faceva sentire in ognuna delle
sue pietanze. Finirono così a mangiare le orride salsicce del Tesco con un contorno di fagiolini, che Harry non ricordava
di avere nel frigo, e i due coniugi cercarono alacremente di inoculare in Harry
una scintilla di verve, ma senza riuscirci.
«Oh Harry ora basta» sbuffò infine Hermione, dal nulla, facendo sobbalzare entrambi gli
uomini. Stringeva in mano il bicchiere di vino elfico, affossato nel grembo, e
se ne stava appollaiata sulla sedia con i tacchi incastrati nel piolo, le
ginocchia vicine al petto. «Dicci che diamine è successo»
Ron, che finora aveva parlato di Quidditch senza raccogliere particolare entusiasmo
dall’amico, annuì una volta, preparandosi ad ascoltare. Sembrava ancora più
preoccupato.
Harry sospirò.
«E va bene» disse, «però sentite,
non partite in quarta, state zitti e ascoltate»
«…losapevo…» mormorò Ron distrattamente, chinando la testa
lievemente verso Hermione, ma Harry lo ignorò.
«Ho avuto un…
uno scambio di idee con Piton» disse sbrigativamente
Harry. Guardò i suoi amici come mettendo una fine al discorso, ma gli occhietti
malvagi di Hermione lo invitarono ad andare avanti.
Era spaventosa, a volte, una minuscola Molly dalle guance meno rubizze e i
capelli più leonini.
«E mi ha…credo… piantato» aggiunse quindi Harry. Ron alzò la testa
fiera con un guizzo.
«Quel viscido schifos-!»
iniziò a dire, ma sia Harry che Hermione gli
parlarono addosso.
«E tu è così che non parti in quarta?» esclamò Harry.
«Cosa diavolo ci voleva a dirlo ai
tuoi migliori amici?» esclamò Hermione.
La cucina cadde in un silenzio
sepolcrale. I tre si guardavano a vicenda come iene radunate attorno ad una
preda: infine fu Hermione a sospirare, allungandosi a
sfiorare la mano di Harry.
«Dai, dicci tutto» mormorò. «Non è
bello vederti così»
Quando Harry ebbe raccontato, dopo
che Ron si fece rosso rosso nel trattenere i commenti
e Hermione ebbe scosso un paio di volte la testa
pensando a quanto stupidi fossero gli uomini, i tre restarono per un po’ zitti.
I piatti sporchi erano immobili davanti a loro, i bicchieri vuoti, e anche
dalla strada salivano pochissimi suoni. Non si erano accorti che aveva
ricominciato a nevicare: quello che li attendeva sarebbe stato uno degli
inverni più nevosi degli ultimi dieci anni.
«Insomma, te lo potevi largamente
risparmiare» commentò Hermione. «Ma dovresti anche
essere contento della sua reazione, no? Non avrebbe mai iniziato una relazione
con uno studente»
Ron fece una smorfia, immaginandosi
la prospettiva di una relazione tra un giovane Harry e Piton,
ma tacque.
«Certo, certo» annuì mollemente
Harry. «Molto cavalleresco, molto onesto e molto bello. Ma mi ha comunque
piantato, quindi sono stato un cretino»
«E che ci voleva a far finta di
niente?» chiese allora Ron, «Sai quante volte io faccio il cretino? Hermione mi urla contro, a volte mi affattura, poi le porto
un mazzo di fiori e dopo una settimana torna a parlarmi»
Hermione alzò un sopracciglio.
«Ma se hai capito che i fiori non
risolvono niente, perché continui a portarmeli?» chiese. Harry accennò un
sorriso.
«Aiutano, tu non lo sai, ma
inconsciamente ti preparano al perdono» rispose saggiamente Ron. Guardò Harry
con aspettativa.
«Non è il tipo da mazzo di rose,
temo» disse lui, rispondendo alla domanda silenziosa.
Hermione tossicchiò.
«Beh, Harry, non so come dirlo, ma
devi comunque rivederlo» mormorò. Le sue gote si erano tinte di un lieve tono
pescato.
Ron si grattò la testa, sulle spine.
«Cosa state nascondendo voi due?»
chiese Harry, allarmato.
«Ma niente» rispose la giovane
Ministra**, «è che Ron mi ha detto che stavi pensando di mettere sotto
sorveglianza Piton e così…»
Harry rivolse un lungo sguardo vacuo
a Ron. Lui alzò le spalle.
«Dopo quello che mi hai detto alla
Testa di Porco… » disse.
«Mi sembrava fossimo giunti alla
conclusione che era un’idea idiota» boccheggiò Harry, sinceramente stupito. Ron
abbassò la testa, le punte delle orecchie scarlatte.
«Quando mi è passato a prendere,
quella sera, Ron era pieno di pensieri su questa cosa» intervenne Hermione, «Non voleva dirmi cos’era successo, finché prima
di addormentarsi non ce l’ha fatta più. Era preoccupato, non per Piton, ma per te»
«Ti ho visto davvero in apprensione»
soggiunse piano Ron.
«Quindi è colpa mia, ho avviato io
le pratiche, ma se vuoi possiamo finirla qui, Harry» continuò Hermione. «Pensavo solo che ti avrebbe dato più serenità
avere quei sigilli. E non mi costava nulla richiederli…»
Harry annuì lentamente, sentendosi
ancora più stupido. Osservò i suoi due migliori amici con deferenza, come un
cucciolo che si aspetti una sgridata, ma anche loro gli rivolsero la stessa
occhiata: come un liquido tiepido nello stomaco, tutto l’amore del mondo lo
riempì, e come sempre la vita tendeva a ricordargli, rivide i profondi segni
che li avrebbero sempre tenuti uniti con affetto, stima e cura reciproci.
«Siete i miei angeli custodi»
sorrise allora Harry, ricevendo un’occhiata confusa da Ron e un sorriso caldo
da Hermione. La giovane donna si alzò e andò ad
abbracciarlo e Ron, intuendo che Harry li aveva appena complimentati, la seguì,
sigillando la loro stretta tripartita dall’alto del suo metro e novantacinque.
«Ma perché sei qui, Inga?»
Guriy non aveva mai posto quella domanda
a nessuno dei suoi detenuti. Certo, era da poco che lavorava alla prigione
senza nome di Shemeli, e Inga
era quella con cui parlava di più ogni giorno, ma non gli era mai balenato in
testa di farlo, anzi si era molte volte ripetuto, durante il primo periodo di
lavoro, di non farsi mai i fatti dei prigionieri così da non lasciare che loro
si facessero i fatti suoi. Ma ora invece se ne stava seduto davanti alla cella
di lei, e per un attimo una vocina in testa gli chiese che diamine stesse
facendo, ma gli occhi di Inga zittirono in un momento
quel rimorso e il suo sorriso riportò tutta la sua attenzione su di lei.
«Non penso mi crederesti se te lo
dicessi» rispose.
Le guardie di Shemeli
non sapevano nulla dei loro carcerati: certo, Nazar
la sapeva lunga sul conto di certuni di loro, perché quella era ormai la sua
seconda casa, e così anche Guriy sapeva di che colpe
si erano macchiati alcuni dei residenti del grigio edificio gelido che sorgeva
sulla collina più alta della cittadina, che i Babbani
avevano imparato a chiamare il Vecchio Castello. Ma per il resto era tutto un
punto interrogativo, soprattutto circa quelli di cui la stampa non aveva
parlato. Naturalmente dei più pericolosi maghi oscuri Guriy
aveva sentito parlare: come di quello che si faceva chiamare Holaus, che stava dormendo a pochi passi da loro, che aveva
sterminato un’intera linea genealogica dopo che il suo amore incestuoso non era
stato ricambiato dalla più giovane nipote. Ma di Inga
niente, non sapeva nulla: forse perché lui, la stampa estera, non la leggeva. E
per estera intendeva anche il gazzettino di Kaboshi,
che stava a pochi chilometri da lì, figurarsi i giornali nazionali. E poi era
meglio, per lui, così: aveva la possibilità di sapere dalle labbra degli
interessati, se voleva.
«Dai, che motivo avrei di non
crederti?» la spronò gentilmente.
Inga si guardò le mani.
«Perché non so se sai quali crimini
terribili possa compiere uno scricciolo di ragazza come me» disse piano, la
voce incrinata. Guriy aggrottò la fronte: sentiva
l’impulso di abbracciarla, di scacciare via il suo dolore, di cullarla. La
osservò. E di baciarla, forse. Era una perla incastrata nel petrolio, lì, nel
buio di quelle celle…
Senza rendersene conto, quest’ultimo
pensiero scivolò via dalle labbra del ragazzo. Divenne rosso in viso,
borbottando, ma Inga gli sorrise luminosa.
«Nessuno mi ha mai detto una cosa
tanto carina» disse. Sembrava essersi tirata su di morale.
Guriy fece una smorfia.
«Non ci credo» disse, e i loro
sguardi restarono per un po’ incastrati tra loro. Poi Inga
abbassò la testa.
«I miei genitori mi volevano un gran
bene» sussurrò. «Mi hanno istruita a casa, da sola, dopo che il mio fratellino
morì. Ero felice. Non mi era mai venuto in mente che non avere la possibilità
di farsi degli amici, di giocare con gli altri bambini, di andare a scuola
potessero essere segni di una tale gelosia. Ma un giorno compii vent’anni e,
sulla strada per il pozzo, incontrai il mio unico vero amore. Ci vedevamo là
ogni settimana: mi chiese di essere la sua sposa. Così, stupida e ingenua, lo
portai da loro. Erano ostili, refrattari, ma io avevo fiori incastrati sulle
palpebre. Acconsentirono alla nostra unione e non capii finché, una settimana
esatta dopo, il corpo del mio unico grande amore fu trovato riverso nel nostro
pozzo. Era forte, pieno di gioia, ma dissero che si era suicidato»
A quel punto in Guriy
l’istinto di prenderla a sé era diventato ardente come un tizzone. Gli occhi di
Inga erano pozze di vuoto, fredde e secche – occhi di
chi aveva già pianto via la propria anima. Le sue dita stritolavano
dolorosamente il bordo della casacca, come cercando di farla a pezzi.
«Impazzii. Si trovarono legati al
letto, una notte, e urlavano pietà quando li torturavo. Mi avevano tolto
l’unico uomo che potesse amare una reietta come me. Morirono di stenti.
Impazzita, vagai per giorni nella campagna, a chilometri e chilometri da qui.
Mi trovarono che mangiavo bestie per sopravvivere. Scoprirono tutto e mi
giudicarono troppo pazza, troppo pericolosa per poter finire in nessun posto
che non fosse questa cella»
Il racconto di Inga
cadde nel vuoto, lasciando lei in attesa, lui a bocca aperta. Rimasero in
silenzio a lungo, tanto che alle orecchie di Guriy
tornarono i rumori della prigione, i sussurri, i movimenti, i respiri. Si
sentiva tornare a galla come una boa, di nuovo all’aria aperta dopo l’abisso.
Ma sentiva su di sé un paio di occhi pieni di terrore e le parole che seguirono
cementificarono alla realtà i suoi pensieri.
«Non mi parlerai mai più, non è
vero?»
«Ma no» sussurrò il ragazzo. Tornò a
guardare le mani di Inga: avrebbe voluto stringerle tra
le sue, farle sentire il proprio calore, portarla in un posto in cui tutto quel
dolore non sarebbe mai tornato.
«Sapevo di dovermi aspettare una
storia triste. E immaginavo che una creatura come te non fosse capace di alcun
male se non costretta da gente cattiva»
Inga lo ringraziò con gli occhi, mesta,
e accennò un sorriso spezzato.
«Ho un gran mal di testa» sussurrò a
mo’ di saluto. Guriy si scosse di dosso la polvere di
favola che gli si era sedimentata con la storia di Inga:
si alzò.
«Riposa, allora» disse piano. Le
sorrise con forza. «Io non ti giudico, Inga, nessuno
qui dentro è un mostro»
La strega parve illuminata da quelle
parole: lo guardò intensamente, riscattata, e arrossì lievemente. Poi, senza
aggiungere altro, si alzò, andò alla branda e lo salutò con la mano.
Quando Guriy
smontò, dieci minuti dopo, e lasciò Nazar alla
prigione, si sentiva diverso. Il freddo pungente che aleggiava sulla collina
gli morse violentemente il viso e le mani, ancora nude. Si ficcò i guanti con
foga, poi si guardò attorno: la cittadina, una chiazza beige nell’atmosfera
grigia, lo osservava da sotto ai suoi piedi. Avrebbe dovuto camminare
cinquecento metri per Smaterializzarsi e tornare a casa, ma avrebbe atteso un
poco. Una fiammella, tenera di fuoco primigenio, gli si era accesa nel cuore,
piena di pietà. Era la pietà per Inga, che era troppo
bella per quella prigione, troppo giusta per scontare i peccati degli uomini,
troppo preziosa per marcire come una rosa abbandonata in un vaso. Il giovane
guardiano della prigione di Shemeli si voltò a
guardare la bocca oscura che era il portone ferrato dell’edificio:
«A domani, mia amata Inga» sussurrò, prima di mettersi lentamente in cammino.
*Tesco: una delle principali catene di
supermercati britannici.
** il
dubbio amletico sul femminile delle cariche istituzionali me lo ha risolto
l’Accademia della Crusca, che ha diramato il comunicato che, con parole quali
“ministro”, “assessore”, “deputato”, è bene comportarsi come con qualsiasi
altro sostantivo che indichi figure professionali. Fonte: http://www.accademiadellacrusca.it/en/press-releases/crusca-risponde-ministro-ministra
Non accennava a smettere di
nevicare. Sembrava che tutto il mondo fosse coperto da uno spesso strato di
neve gelida e ovunque bambini in festa e cani si godevano quel tappeto naturale
giocando fino a stancarsi, liberi da ogni pensiero. Anche Harry, la mattina
dopo l’incursione dei coniugi Weasley-Granger, si era
ritagliato un momento per sé: era domenica, così si era imbottito bene e ora se
ne stava ai margini del bel parchetto di quartiere, a pochi minuti di strada da
casa, intento a osservare in religioso silenzio tre fratelli che stavano
costruendo un pupazzo di neve. L’aria che gli usciva dai polmoni creava
nuvolette festose, e il silenzio ovattato che gli riempiva la testa prometteva
con dolcezza di durare per sempre.
«Posso sentire gli ingranaggi del
tuo cervello sin da qui»
Una voce conosciuta lo fece infine
sussultare e si voltò: c’era Sirius a pochi passi da
lui, avvolto in un pesante mantello nero che non si distingueva particolarmente
da una costosa cappa babbana.
«Certo che sì, Felpato, sarebbe
preoccupante il contrario» sorrise Harry prima di scambiarsi un forte abbraccio
col padrino.
«Ero venuto a farti un saluto,
passavo di qua» aggiunse Sirius, «e sono fortunato,
vedo. Sei in ferie?»
«Hermione
mi ha accordato una giornata di pausa» rispose Harry, tenendosi sul vago. Il
suo tono disinvolto non trasse però in inganno il suo padrino, che lo squadrò
con un sopracciglio alzato. I suoi occhi di ghiaccio sembravano scandagliargli
l’anima.
«C’è qualcosa di cui vuoi parlare?»
chiese allora Sirius. Harry accennò un sorriso: era
davvero buffo quanto quell’uomo arrivasse sempre al momento opportuno. Non
aveva vissuto un piccolo dramma quotidiano che fosse uno senza che Sirius vi capitasse causalmente in mezzo: quando era stato
contuso in un inseguimento piuttosto colorito, quando una tubatura era esplosa
in cucina. Il suo padrino era sempre arrivato portando consiglio, conforto e
qualche sorriso.
«Ho litigato con Severus»
rispose Harry dopo un istante. Sentì Sirius
irrigidirsi, quindi attese, ma non arrivò commento dall’uomo al suo fianco, e
il giovane poté apprezzarne lo sforzo titanico di tacere per dargli conforto.
«Credo mi abbia lasciato»
Sirius sospirò e levò una mano: gliela
posò sulla spalla, osservandolo.
«Come l’hai presa?» chiese.
«Non mi era mai capitata una cosa
così» rispose semplicemente Harry. «Male, credo. Ma penso sia normale»
Sirius fece una smorfia.
«Sai che basta una parola e io…» iniziò a dire, ma Harry lo interruppe senza resistere
all’aprirsi in un largo sorriso.
«Non andare a spaccargli le vetrine
del negozio» disse, «Ho sbagliato io»
«Avrei suggerito un pugno ben
assestato in effetti, ma immagino tu rimanga della tua idea» bofonchiò Sirius. Harry rise, e il viso del suo padrino si rischiarò,
sollevato dall’udire quel suono limpido, giovane, che raschiava solo sul finire
di una nota gutturale di uomo.
«Non ci hai detto nulla» aggiunse
dopo un poco. Harry annuì gravemente.
«Non ne ho veramente parlato,
finora. Ron e Hermione hanno fatto irruzione ieri per
costringermi a raccontare» disse.
Sirius sorrise.
«Santi ragazzi» commentò. La sua
mano era ancora sulla spalla di Harry, e parve accorgersene solo ora, così la
rimise in tasca, al riparo dalla brillante atmosfera ghiacciata che li
avvolgeva.
«Ehy,
perché non pranziamo assieme? Remus è a casa?»
propose Harry, volgendo il viso verso Sirius. A
quelle parole il volto dell’uomo si incupì un istante.
«Harry…»
disse piano. «Certo, sei sempre benvenuto a casa nostra. Però devo dirti una
cosa prima di organizzare altro, ecco… non ero
proprio nei paraggi per caso»
Harry avvertì la punta di urgenza
nel tono del suo padrino, così si fece attento, puntando gli occhi color
speranza nei suoi.
«Cos’è capitato?» chiese, attento. Sirius aprì la bocca come per rispondere, ma poi si fermò e
invece trasse un giornale arrotolato dal mantello: lo porse a Harry, che con
un’occhiata notò che non si trattava di una testata giornalistica britannica.
«Cos’è?» chiese di nuovo il giovane.
«Remus legge
la stampa internazionale» spiegò brevemente Sirius.
La testata giornalistica in questione si chiamava La Magiisto*
ed era scritta in una lingua che Harry non conosceva. Stava per sollevare la
questione con Sirius quando, sotto i suoi occhi, le
lettere dei testi presero a tremare, a muoversi e a riordinarsi: così le frasi
in esperanto si tramutarono in inglese e Harry poté comprendere il titolo a
lettere cubitali che regnava incontrastato sulla prima pagina del quotidiano.
Strega
oscura in fuga, l’eredità di Julius Christianus sulle
nostre crape?
Harry imprecò a voce alta, tanto che
i tre fratelli poco lontano alzarono le teste incappucciate e lo guardarono con
un misto di disdegno, vergogna ed ammirazione.
«Immaginavo ti sarebbe interessato»
annuì Sirius, «ed essendo domenica avevo il dubbio tu
non avessi ancora letto i giornali»
«Proprio no» sussurrò Harry. Tese il
giornale a Sirius.
«Devo andare al Ministero» disse.
«Se quella strega torna a Londra…»
«Salva quell’untuoso di Piton, se devi» lo interruppe Sirius.
Il suo tono non aveva nulla di scherzoso, i suoi occhi bruciavano sulla pelle
di Harry. «Ma sta attento»
Il giovane mago guardò per un lungo
momento il suo padrino prima di stringerlo di nuovo a sé. Sirius
lo abbracciò con forza, quasi a non volerlo più lasciare, ma la fiducia
sconfinata che provava verso di lui gli fece sciogliere la stretta, così lo
guardò correre via, preoccupato, verso quella professione di pericolo che si
era scelto.
Di solito di domenica il Ministero
era deserto, poiché dalla fine della guerra si era voluto istituire un giorno
del tutto dedicato al riposo. Harry quindi non prese in considerazione che non
avrebbe dovuto trovare nemmeno una donna delle pulizie, almeno finché non si
trovò ad entrare nell’edificio, ma il dubbio durò un momento, perché appena
mosse un passo andò a sbattere contro un nugolo di maghi e streghe vocianti.
Alta e austera, la voce di Hermione si alzava dal
centro del nugolo.
«Certo che non lo sappiamo, Willhelm» stava dicendo, perfettamente controllata.
«Potrebbe precipitarsi qua come andare ad annegarsi nel Mar Morto»
La folla concitata si muoveva come
onde di un laghetto di montagna. Harry cercò di farsi largo.
«Il Ministro bielorusso ha mandato
un altro gufo!» urlò un’altra voce. Harry sentì Hermione
esplodere in una delle rarissime imprecazioni che pronunciava.
La raggiunse in quel momento e senza
dire nulla le afferrò il polso. Probabilmente la notizia le era arrivata
all’alba, perché quando si voltò Harry vide il suo viso tirato, senza il filo
di trucco che aveva preso l’abitudine di indossare. Si era infilata un paio di
jeans babbani e un lupetto beige per correre al
lavoro più veloce della luce.
«Harry!» esclamò, ricambiando la sua
stretta afferandogli una mano.
«È un casino, Harry» aggiunse. Gli
indicò un punto imprecisato. «Và al mio ufficio, cerca nel primo cassetto della
scrivania. La pratica Piton deve essere firmata dall’Auror assegnato al caso. Quando hai fatto mettila nello
scivolo delle urgenze e aspetta lì»
Lo afferrò per un braccio e lo
sospinse, tornando a nuotare nella bolla umana che la avvolgeva. Harry osservò
la figura di lei svanire sotto i corpi dei suoi collaboratori, poi corse
all’ufficio del Ministro.
Aprì la porta con violenza, senza
curarsi di farla sbattere – un ritratto se ne lamentò ad alta voce – e scivolò
sulla sedia aprendo con velocità il cassetto indicatogli da Hermione.
C’erano pile e pile di fascicoli, e Harry imprecò tra sé leggendo cognomi
conosciuti stampigliati sulle cartelle viola. Sul cassetto era imposto un
incanto: Harry trasse più di una decina di fascicoli prima di trovare quello
giusto, e da un lato si stupì dell’immenso lavoro che doveva svolgere ogni
giorno Hermione, dall’altro non volle pensare alla
ventina di fascicoli che giacevano sul fondo del cassetto e non aveva dovuto
portare alla luce. Rimise tutto in ordine rapidamente ma con cura. Poi aprì il
fascicolo Piton: il primo foglio era la richiesta
dell’imposizione di un sigillo di livello due – civile, pericolo arancione.
Harry ricordò di aver dovuto studiare qualcosa a proposito di quei sigilli: ad
esempio, quelli imposti al suo appartamento erano per Auror
britannici, pericolo livello bianco. Ce n’erano poi di rossi per civili
minacciati direttamente da pericoli mortali. Per un momento si chiese come mai Hermione non aveva richiesto un sigillo rosso, ma subito si
calmò: non doveva farsi prendere dall’ansia. Severus
non era direttamente minacciato e, comunque, sapeva difendersi. Se lo ripeté.
Poi firmò.
Afferrò il foglio e corse al trancio
di parete sinistra libero da mobili su cui si aprivano le bocche di due
scivoli: quello più in alto era argentato, per la posta quotidiana. Quello più
in basso era rosso, per la posta celere. Infilò lì il modulo, confidando nella
burocrazia perfetta del Governo della sua migliore amica. Poi lasciò cadere le
spalle. Era tempo di attendere.
Hermione riuscì a tornare a galla soltanto
dopo tre quarti d’ora. I suoi collaboratori le avevano presentato lettere,
documenti e richieste senza sosta, e fu soltanto dopo aver trattato faccia a
faccia tramite camino col Primo Ministro bielorusso che riuscì a chiudersi in
ufficio con Harry.
«È un casino» disse non appena si fu
chiusa la porta alle spalle. Si diresse rapidamente ad un grosso mobile ligneo
addossato accanto alla finestra e lo aprì: ne trasse una sacca e, senza
attendere oltre, si levò gli abiti babbani che si era
ficcata addosso prima di uscire di casa per indossare una veste formale color
vinaccia. Harry, arrossendo, scostò lo sguardo e si alzò dalla sedia su cui
l’aveva finora attesa, andando a guardare fuori dalla finestra.
«C’è un motivo per cui ti stai
cambiando in ufficio?» chiese.
«Il Primo Ministro bielorusso sta
arrivando, non posso presentarmi in jeans» rispose la strega. Si legò alla vita
una lunga cinta fibbiata e in ultimo trasse dal
mobile un bolero molto démodé della stessa tinta della veste. «Puoi girarti»
aggiunse, così Harry si volse a guardarla.
«Pronta ad ogni evenienza, eh?»
disse piano il giovane, facendole nascere sul viso un sorriso amaro.
«Per forza» rispose lei.
Harry rimase in silenzio,
osservandola con occhi carichi di significato. Hermione
ci mise un paio di istanti a capire che c’era qualcosa da spiegare, ma alla
fine si riscosse.
«Oh, giusto» fece, «Allora, Inga è fuggita dal carcere di Shemeli
in cui era stata confinata. Ha ammazzato una guardia, non ho idea di come abbia
fatto. E pare abbia lasciato una lettera minatoria»
Harry non domandò chi Inga minacciasse nella lettera: lo poteva immaginare, dopo
essere stato spedito a richiedere quei sigilli straordinari.
«Il Ministro me la sta portando ora»
aggiunse Hermione. Guardò verso la porta.
«Vengo con te» disse Harry,
muovendosi verso di lei, ma la strega alzò una mano.
«Non posso permettertelo» rispose.
«Hai motivi personali per prendere parte all’incontro, non presenzieresti in
qualità di Auror. E poi serve che qualcuno sia pronto
a prendere le carte controfirmate e vada ad apporre i sigilli»
Harry abbassò la testa, combattuto.
Avrebbe davvero voluto assistere all’incontro, non che non si fidasse di Hermione, ma non poteva fingere di far finta di nulla e
restare ai margini. D’altronde sapeva di essere uno dei bersagli di Inga e, lo aveva detto anche Hermione,
era lui l’Auror incaricato del caso. Ma dall’altra
parte sentiva l’urgenza di correre da lui,
di metterlo al sicuro, di vederlo. Annuì.
«Va bene, lo farò» disse. «Ma
tienimi informato»
«Non ho la moneta con me» rispose Hermione, dispiaciuta. Harry alzò le spalle.
«Mi farò vivo io, allora. Ron?»
«A casa, nel caso in cui arrivino
gufi anche lì, cosa che di sicuro sta accadendo»
Hermione si stropicciò il viso, lasciando
una traccia rosea tra gli occhi. La rivoluzione di cui faceva parte l’aveva
inghiottita intera, viva e scalciante, e nei momenti come quello Harry poteva
intravedere la stanchezza di lei. Ma fu solo un momento e la Ministra Granger si eresse nella sua statura, frizzante di giovane
magia guizzante. Gli batté una mano sulla spalla e senza aggiungere altro uscì
dallo studio.
Senza attendere oltre, Harry se ne
andò all’Ufficio per l’Applicazione della Legge sulla Magia, dove trovò Henry
Begum, una camicia da notte a fiori verdi sotto al mantello, seduto alla
scrivania.
«Auror
Potter!» fece il mago, i capelli bianchi sparati in aria. Harry gli sorrise.
«Mi spiace per l’imprevisto, Begum»
gli disse, «Hai firmato?»
Begum gli porse l’autorizzazione che
aveva spedito alla sua scrivania e Harry, salutandolo con un cenno, corse via.
Doveva ancora andare a ritirare il sigillo da apporre a Casa Piton e poi sarebbe potuto andare. Svoltò l’angolo senza
pensieri, nel silenzio di quella domenica mattina: si stupì quindi quando un
corpo si frappose tra lui e la sua meta, troppo minuto per fare altro se non
cadere all’indietro. Con uno scatto, Harry afferrò Candice
prima di vederla rovinare sul pavimento: stupito, la osservò. Aveva i bigodini
in testa e indossava una veste piena di volant color pervinca. Il marito di Candice doveva certamente trovare quella veste da camera sensuale,
conoscendo i gusti della popolazione magica.
«Oh!» aveva esclamato la segretaria,
e stringendo in mano una scatoletta metallica si lasciò rimettere in piedi,
confusa.
«Scusami, Candice,
pensavo non ci fosse nessuno in giro» disse Harry. Guardò ciò che la donna
portava con sé. Lei gli porse la scatolina, battendoci sopra le unghie.
«Le stavo portando il sigillo, mi ha
avvertita Charla» spiegò. Harry non riconobbe il nome
della strega che lavorava per Hermione, perché erano
davvero in troppi a collaborare con lei, e certamente Charla
era una di quelli che poco prima stava sbraitando nell’Atrio. Afferrò la
scatola contenente il sigillo.
«Grazie mille» sorrise a Candice. La donna lo guardò andare via con un lieve peso
sullo stomaco. Tra sé e sé sperò che l’immensa fortuna di Harry Potter non lo
abbandonasse mai. Poi se ne andò alla scrivania, elegantissima nella sua nuova
camicia da notte.
Harry arrivò davanti alla bottega in
tempo record. La via era deserta, affondata in un silenzio crepitante di gelo. Sentiva
i battiti del proprio cuore a mille e, facendosi forza, stava lasciando fuggire
un lungo sospiro: ma gli si strozzò in gola quando la voce di Severus, piatta e soffocata, lo sorprese.
«Cosa fai qui?»
*esperanto, il mago.
°Hellodaisies! Con questo capitolo vi
lascerò per un breve periodo di ferie in cui sarò, molto probabilmente, senza
connessione internet. Il quindicesimo capitolo però è in corso d’opera, quindi,
con la serenità vacanziera conto di concluderlo e caricarlo non appena avrò
internet.°
Lo aveva trovato il suo vecchio
collega alle quattro e mezza, quando era arrivato per iniziare il turno. Era
steso a terra davanti alla cella di quella strega oscura arrivata da poco, solo
che la cella era spalancata, la strega non c’era e per giunta tutte le altre
porte erano chiuse, così che nessuno poteva accorgersi di nulla se non
capitando proprio nell’ultima ala del carcere. Nazar,
dopo aver appurato che la strega era riuscita in qualche modo a bluffare i
sistemi di sicurezza, che ora erano attivi, si era chinato sul collega,
scuotendolo per una spalla. Ma Guriy non aveva
risposto, e non avrebbe risposto mai più. Non avrebbe mai potuto raccontare
della forza invisibile che gli era scivolata come sciroppo nella testa,
riempiendogli il cervello di adorazione per Inga,
convincendolo che disattivare per cinque minuti i sistemi di sicurezza per lei
era la cosa giusta. Come per portarla in infermeria, senza disattivare gli
allarmi delle altre celle: solo che Inga non avrebbe
trovato barriere all’uscita, e sarebbero potuti fuggire assieme, lontano, dove
nessuno li conosceva. Ma poi era arrivata quell’onda d’urto che gli aveva
bruciato gli organi interni, lasciandolo a terra come un sacco di patate, solo,
sotto gli occhi degli altri carcerati. E loro questo lo avevano raccontato, a
spizzichi e bocconi, alle autorità che Nazar era poi
corso a chiamare. Su Shemeli cadde una coperta di
tristezza e terrore. Le famiglie iniziarono a sbarrare le porte di casa, al
calare delle tenebre. La sorella di Guriy vestì il
lutto. E il testo della lettera che fu ritrovata nella tasca della divisa del
defunto fece il giro del mondo magico.
Ma il pericolo fu presto lontano dal
minuscolo centro magico arroccato nella più sperduta campagna bielorussa.
Nessuno la vide fuggire, ombra tra le ombre, e i poveri e onesti maghi e
streghe furono abbandonati nella paura mentre lei, gli occhi allucinati, le
labbra piegate in un sorriso, si allontanava senza soffrire il freddo, né la
paura dell’ignoto.
Nessun impiegato ministeriale arrivò
alla prigione di Shemeli prima dell’ora di pranzo.
Non dissero perché, nonostante il Ministero fosse stato avvertito non appena le
autorità locali ebbero appurato che il vecchio Nazar
diceva il vero. Nel paesello il tempo sembrava scivolare come melassa mentre,
tutt’attorno, il mondo magico aveva già iniziato a tremare al pensiero di una
nuova forza oscura.
Inga si nascose. Senza demordere, riuscì
ad arrivare ad un bosco molto, molto lontano dalla prigione: aveva le gambe
graffiate, era intorpidita dal freddo, e le scarpe che le avevano fornito si
erano rotte ormai molto tempo prima, lasciandole grosse abrasioni sulle piante
dei piedi. Ma si lasciò cadere a terra solo quando fu del tutto nascosta nel
folto di quella macchia solitaria: cadde a faccia in giù e nessuno avrebbe
potuto avvertire la risata che prese a scuoterla. Là rimase per un giorno
intero: si procacciò del cibo, aggredendo le poche bestiole che abitavano la
macchia, principalmente topi muschiati, e restò in attesa di venire scoperta o
di averla vinta. Quando poi trascorse la notte e nessuno era venuto, allora Inga si alzò dal giaciglio che si era creata con rami e
foglie e abbandonò il suo nascondiglio. Troppo presto, qualcuno avrebbe detto.
Ma quel qualcuno certamente non sarebbe stato a conoscenza della pericolosità
del veleno di Inga.
«Cosa fai qui?»
Harry si voltò: Severus,
bardato di un pesante mantello nero bordato in pelliccia, lo scrutava. Si era
tirato il cappuccio sulla testa per combattere i fiocchi di neve che
continuavano a cadere copiosi.
«Ho
bisogno di parlarti» rispose Harry. «È urgente»
«Lo credo bene»
Severus gli girò attorno e andò ad aprire
la porta. Senza curarsi di lui entrò e Harry si trovò da solo nella buia
bottega del Pozionista. Allora chiuse la porta con un
sospiro.
Quando fu entrato nell’appartamento,
Harry trovò Severus in cucina: si era liberato del
mantello e ora preparava il tea con gesti rapidi e concisi.
«Ti sarai congelato, là fuori»
borbottò Harry. L’altro non alzò il viso.
«Ho provato l’ebbrezza di una
passeggiata sotto la neve» rispose, «ma come immaginavo, solo i cretini come te
possono apprezzare quel freddo»
Harry non poté fare a meno di
sorridere davanti all’insulto. Un calore piacevole gli si era sciolto nel petto
vedendo Severus, e si sarebbe preso volentieri tutte
le frecciatine del mondo pur di godere un po’ della sua vicinanza. Ma il
pensiero di ciò che lo aveva portato lì gli ricadde addosso, un masso che
rotoli da una scogliera pronto a schiacciare qualunque cosa si frapponga tra
lui e la sua meta.
«Inga è
fuggita di prigione» disse quindi Harry. Severus
continuò a sfaccendare.
«E?» fece, per nulla impressionato.
Harry si mosse sul posto, seccato,
trattenendosi. D’altronde se l’era aspettata una risposta del genere, o meglio,
una totale mancanza di risposta.
«Il Ministero ha deciso di
assegnarti un sigillo di protezione» aggiunse Harry. «Non puoi rifiutarlo o
dovrei arrestarti. Inga potrà ancora avvicinartisi, ma non appena entrerà in questo edificio la
mia squadra verrà allertata e verremo a prenderla con le mani nella marmellata»
L’Auror
aveva abbassato la testa parlando, ad osservare la scatola metallica che
racchiudeva il sigillo. Così non vide che Severus si
era voltato a guardarlo, un ghigno sulle labbra fini, e che aveva preso a
studiare ogni centimetro della sua figura.
«Il Ministero o tu?» chiese a voce
bassa il Pozionista.
Harry rabbrividì sentendo quel tono.
Lo guardò, finendo per annegare nei suoi occhi neri come pece, e l’istinto ti
andare là e baciarlo, infilare le dita nei suoi capelli e stringerlo lo
investì, tanto che non si accorse dei passi che mosse verso di lui. Ma poi si
fermò.
«Non credo ci sia differenza, il
Ministro in carica è la mia migliore amica» si ritrovò quindi ad ammettere. Severus non fece vacillare il sogghigno e fu lui, stavolta,
ad avanzare. Si trovarono quindi a pochi passi di distanza e un silenzio
elettrico cadde su di loro.
«Se rifiutassi quindi…?»
chiese ancora il Pozionista. Ancora quella roca voce
gutturale.
Harry non rispose. Non poteva
permettersi, infondo, di ammettere che quella era stata una bugia bella e
buona. In compenso appoggiò al tavolo la scatolina e annullò la distanza che
ancora li separava.
Si parò dinanzi a Severus con forza, con l’espressione di uno che non lo
avrebbero fatto indietreggiare nemmeno i cannoni. E Severus
si prese il tempo di leggere all’interno delle sue pupille, quei cestini di
erba primaverile recisa e mischiata ai fiori di tarassaco, pagliuzze dorate
immerse nel verde. Alzò una mano e la pose sulla guancia di Harry. Lui chiuse
gli occhi.
Si baciarono con foga stridente,
spezzando d’improvviso la tela di lenta seduzione che avevano finora tessuto in
quella minuscola frazione di tempo. Le gote ruvide di Harry, il respiro grosso
di Severus, le mani che sfioravano, graffiavano,
tastavano ovunque. Non fu con grazia che Harry spinse Severus
al muro, aprendogli la camicia e mettendogli a nudo il petto pallido, intessuto
di muscoli torniti ma timidi e di ossa spigolose. Non si curò di strattonarlo Severus quando lo afferrò per i capelli per baciarlo di
nuovo, mordendogli le labbra con desiderio. E quando la bocca di Harry perse la
bussola e scivolò sulla grossa cicatrice che un tempo lontano aveva lasciato
sul collo di Severus, allora lui ringhiò e lo spinse
via solo per poi afferrarlo e trascinarlo oltre la porta della cupa camera da
letto, in cui pesanti tende oscuravano la vista sul panorama ghiacciato dei
tetti di NotturnAlley. Schioccando
l’aria con violenza, cinte furono strappate via dai pantaloni, camicie
scivolarono a terra, gemiti si alzarono nell’etere. E furono infine nudi ad
amarsi sulle coperte monocromatiche di quel grande letto mentre, in cucina,
l’acqua per il tea bolliva, dimenticata.
«Ahia, stramaledetto affare…»
«Sempre fini vedo»
«Ah, sta zitto. Oppure provaci tu»
«Oh no, Auror
Potter, non mi premetterei mai»
Avvolto nella vestaglia, Severus si allungò a baciargli il collo nudo e Harry
sorrise, godendosi pacatamente il momento. Erano trascorse un paio d’ore da
quando era arrivato e ora se ne stava in piedi dietro la porta d’ingresso
dell’appartamento, in boxer, e stava cercando di installare il sigillo.
Imprecò ancora sottovoce e sentì Severus ridacchiare. Aveva acceso il camino, lui, dopo aver
fatto l’amore: quell’inverno rigido lo congelava sino al midollo, Harry lo
aveva notato, e accarezzando il suo stomaco piatto si era anche chiesto se
forse non era anche a causa della sua magrezza. Ma aveva taciuto, o nulla lo
avrebbe salvato da un’accusa di essere uguale a Molly.
Il sigillo alzò uno squittio: Harry
allontanò le mani e finalmente l’aggeggio si era incollato al muro. Era simile
ad un grosso insetto, ricoperto di un’armatura bronzea che lanciava ombre scure
e metalliche sotto il sole.
Sistema
di sorveglianza H.S.S. 23. Auror
Potter?
Severus, che si era allontanato, si fece di
nuovo vicino, incuriosito.
«Sono io» rispose Harry. Si pose le
mani ad anfora sui fianchi, fiero come Artur quando
era riuscito ad utilizzare il suo primo cacciavite a percussione.
Responsabile
individuato. Entrata in funzione: tre – due – uno.
Si alzò un unico, alto bipdal sigillo, poi tutto tacque. Harry ci
bussò con un dito, ma non accadde nulla.
«Bene, siamo a posto» disse quindi.
Non sembrava molto convinto.
«E quello come farebbe ad evitare
che Inga mi ammazzi nel sonno?» chiese Severus con un sopracciglio alzato. Harry lo fulminò con lo
sguardo, poi se lo tirò contro e lo baciò profondamente.
«Rileva maghi e streghe oscure»
rispose, «e mi manderà la diagnostica di chiunque entri nell’edificio»
Severus scosse piano la testa. Gli posò le
mani sul petto.
«Forse non te ne sei accorto, ma
siamo a NotturnAlley, qui
ne girano parecchi di maghi oscuri»
Harry alzò una risata che per un
momento infastidì Severus. Si sentì preso in giro,
così strinse le labbra, ma dovette subito desistere perché un altro bacio lo
raggiunse.
«Mi spiace deluderti, ma non siete
così oscuri come volete farci credere» rispose Harry. Poi la sua espressione
s’incupì.
«Non quanto Inga,
almeno»
Severus lo vide abbassare gli occhi e sentì
le sue braccia forti acuire la stretta sui suoi fianchi. Posò la testa
nell’incavo del collo di Harry, beandosi del suo calore. Oh, gli era mancato,
eccome se gli era mancato.
«Sono sopravvissuto all’Oscuro
Signore» mormorò. «Inga non è certo la cosa peggiore
mi sia mai capitata»
«E si da il caso che il tuo ragazzo
sia l’Auror più figo in
circolazione» sogghignò Harry.
La lieve spallata che lo colpì lo
fece ridere.
«Dovrai tornare al Ministero ora»
Severus lo aveva sussurrato, non domandato,
e a Harry parve di avvertire una nota di dispiacere nel suo tono. Non capì: non
si aspettava quel genere di malinconia, da lui. Però il suo cuore buono rispose
automaticamente e una mano salì ad accarezzare i capelli di Severus.
«Devo seguire gli sviluppi, voglio
essere preparato a qualsiasi evenienza» rispose.
Le dita di Severus
scivolarono lungo la pelle delineata dall’elastico dei suoi boxer. Harry
rabbrividì.
«Allora ti va di tornare qui, dopo?»
chiese piano il Pozionista. Harry s’irrigidì un
istante, sorpreso. Non si sarebbe aspettato nemmeno una proposta del genere.
«Certo che mi va» sorrise quindi.
Baciò Severus accanto all’orecchio, attento, ora a
non toccargli la cicatrice.
Quando uscì dall’edificio di NotturnAlley non nevicava più,
ma il cielo continuava ad essere uno spesso mare di cotone sporco di fuliggine.
Si affrettò al Ministero, sperando, in cuor suo, di poter compiere spesso quel
tragitto, streghe oscure in agguato a parte. La dimora che Severus
si era creato dopo la guerra non era certo il suo genere, però era accogliente:
fosca, scura, sì, ma tiepida, piena di angolini che un topo di biblioteca come Severus aveva sicuramente studiato con raziocinio, e poi
c’era lui, e a Harry sembrava che tutto fosse meglio, con lui.
Quel pensiero lo agitava.
Positivamente, perché si sentiva attratto a tornare indietro da lui come
quando, da ragazzo, desiderava tornare al Quidditch.
Ma era anche strano, perché infondo non aveva dimenticato che Severus era stato il suo professore di Pozioni. Ma non
importava.
La Londra babbana,
in quella domenica invernale, era un tripudio di famigliole a passeggio,
ragazzi raggruppati agli angoli delle piazze, temerari che sfidavano le altre
macchie di neve nei parchi, ma Harry notò anche un certo viavai magico,
soprattutto nei dintorni del Ministero. Alcune facce note, giornalisti,
giravano senza dare nell’occhio, in attesa come condor, e l’Auror
dovette impegnarsi per scivolare via senza essere notato. All’interno del
Ministero, infatti, la domenica era già conclusa: Harry entrò nell’Atrio per
trovare la scorta del Primo Ministro bielorusso, sei uomini vestiti di nero, ad
attendere. Lo guardarono, quando passò, e forse lo riconobbero come chi aveva
ucciso Voldemort, ma non fecero nulla se non
osservarlo in silenzio, così Harry andò dritto verso l’ufficio di Hermione.
«Ehy,
amico»
La voce di Ron arrivò assieme ai
suoi passi da corsa, poi una mano fu sulla spalla di Harry ed entrambi si
fermarono a pochi passi dalla porta dell’ufficio.
«Sei evaso da casa?» chiese con un
sorriso Harry.
Ron scrollò le spalle.
«Te lo ricordi il nostro vicino che
alza il gomito, quello che abbiamo trovato due volte riverso nella fontanella
per gli uccelli? Ecco, me ne stavo in giardino quando è passato e ha incontrato
un’altra vicina, così l’ho sentito che diceva che c’era una frotta di
giornalisti che girava per i dintorni»
Harry fece una smorfia.
«Ce ne sono anche qua fuori» annuì.
«Arrivano loro, me ne vado io»
soggiunse Ron, «Ma non so se a Hermione farà piacere.
Tu? Il sigillo?»
Harry avvertì i sottintesi di quella
domanda e senza rendersene conto abbassò la testa, arrossendo un poco.
«L’ho messo poco fa» rispose. Ron,
che a sua volta colse il messaggio indiretto nelle parole dell’amico, gli batté
una manata di solidarietà sulla spalla.
«Non volevi entrare, vero?» aggiunse
poi, indicando la porta dell’ufficio di Hermione. «È
col Ministro bulgaro, non l’ho ancora vista»
«Credo sia bielorusso» lo corresse
Harry distrattamente. Si passò una mano sul viso, stropicciandoselo.
«Volevo davvero tanto entrare, sì»
sospirò. Ron annuì, ma senza dire nulla gli fece segno di seguirlo e lo portò
dove sinora lui stesso aveva aspettato. Si era impossessato di un’area
visitatori incastrata a pochi passi da lì, nascosta dietro muretti bassi e vasi
di fiori.
«Ma tu lo sapevi che di questi cosi
ne è pieno il Ministero?» chiese Ron, buttandosi su un divanetto. Al centro di
una piccola panca imbottita c’era un tavolino rotondo.
«Credo di non aver mai guardato
attentamente questo posto» ammise Harry sedendosi davanti a lui. Non era
proprio comodo, quell’angolo: le ginocchia di Harry si strizzarono dietro al
rigido profilo del tavolino, mentre Ron doveva stare afflosciato con l’intera
superficie in mezzo alle gambe. Si guardarono per un istante in silenzio, poi
scoppiarono a ridere. Entrambi sembravano adulti incastrati in una casetta per
bambini.
«Ssssh! La
Ministra sta conducendo una riunione importante!»
Una strega accigliata passò loro
accanto.
«Non mi dire!» rispose Ron, facendo
scoppiare una seconda ondata di risa di Harry. La donna lo guardò scioccata,
poi se ne andò via veloce.
«Probabilmente quella era una
collaboratrice di mia moglie» aggiunse poi Ron scrollando le spalle. «Ne ha un
sacco. Impossibile ricordarle tutte»
«Ti sei sempre ricordato tutti i
tuoi fratelli» sogghignò Harry.
«No, capita ancora che mi dimentico
di contare Percy» rispose Ron, ma sul finire della
frase si ridusse a sussurrare per poi zittirsi: la porta dell’ufficio di Hermione si era aperta.
«…e
ringraziarvi di tutto. Spero davvero ci rivedremo in situazioni più rosee»
disse la voce di lei.
«Ma prego! È mio dovere signora,
dovere politico e morale. Io spero potremo averla nel nostro bel Paese presto»
La voce del Primo Ministro bielorusso
si fece vicina mentre Hermione lo faceva uscire
dall’ufficio. Harry e Ron rimasero zitti, nascosti nell’area visitatori, a
osservarsi lungamente, in ascolto.
«Sarà un piacere per me, dopo che
questa urgenza sarà terminata»
Sottovoce, Ron borbottò che lui in
Croazia non ci sarebbe andato. Harry si ficcò una mano sulla bocca per non
ridere.
I due politici si mossero verso
l’Atrio, seguiti da chi era rimasto con loro nell’ufficio. Quando furono
abbastanza distanti, Harry e Ron si alzarono. Da lontano videro Hermione salutare gli ospiti che se ne sarebbero andati con
la Metropolvere di emergenza dedicata solo ai
politici di altri Paesi. Dopo qualche minuto, la folla dei collaboratori di Hermione le fu addosso e lei, a grandi passi, fece dietro front, illuminandosi quando vide chi la stava aspettando.
«Ciao!» esclamò avvicinandosi.
Schioccò un bacio sulle labbra di Ron prima di afferrarli entrambi per i gomiti
e portarseli nell’ufficio: con un gesto di una mano chiuse le porte davanti ai
suoi uomini e i tre restarono soli nella sala.
°Comunicazione di Servizio:
Ho pensato che vi
avrebbe fatto piacere sapere che una nuova Snarry è
apparsa nel mio account. È buffo, giacché io stessa continui a ripetere che
sono una novizia della coppia e che scrivere di loro mi pare ancora strano, ma
mentre ero in vacanza l’ho trovata in un angolo del PC – una prova prima della
stesura de L’Incanto del Sangue di Re’em – e mi è
sembrato opportuno darle la possibilità di essere letta. Quindi, se volete
darle uno sguardo, ne sarò molto felice!
Inoltre, per me è ufficialmente arrivato quel magico
periodo dell’anno in cui mi è possibile viaggiare. Sino ai primi di Settembre
quindi organizzerò una schedula di upload per le storie che seguirà intervalli
di tempo un po’ più ampi rispetto a quelli mantenuti sinora, per riuscire a
lasciarvi qualcosa da leggere anche quando sarò in giro per l’Europa. Ma non sparirò
di nuovo, promesso!°
«Com’è che sei qua?» chiese subito
guardando Ron, la fronte aggrottata.
«Ehm… ci
sono un po’ di giornalisti in agguato, sia qui che a casa» rispose.
Hermione sospirò, andando a sedere alla
scrivania. I due amici la imitarono, occupando le sedie libere.
«Immaginavo sarebbe successo» disse
la giovane donna. «Tu Harry hai messo il sigillo?»
Per la seconda volta, Harry rispose
positivamente.
«Bene» annuì Hermione.
Gli altri pendevano dalle sue labbra, così sedette più comoda.
«Non abbiamo detto nulla di
particolare, anche se siamo stati qua un’eternità» iniziò a raccontare, «Mi ha
fatto vedere i fascicoli aperti su Inga e sulla sua
fuga; è morto un ragazzo, sembra lei lo abbia convinto a farla evadere. Non
l’hanno trovata da nessuna parte»
Harry abbassò la testa, fermandosi a
metà nell’annuire. Lo sapeva, che Inga non era stata
trovata, che stava avvicinandosi a loro, che una nuova minaccia stava
apprestandoli. Per un momento una vocina fine, dentro di lui, gli domandò se,
per caso, si sentiva stanco davanti a quella nuova sfida. Ma scacciò via
quell’interrogativo, perché Harry Potter non poteva essere stanco, o comunque
non ora.
«Insomma, sì, hanno trovato delle
tracce nella neve, ma era già troppo tardi. Si è volatilizzata»
Harry parve rizzare le orecchie, in
una disperata imitazione di un lupetto deputato a salvare il branco. Sbatté le
palpebre una volta prima che la rabbia lo riempisse come un bicchiere di
cristallo.
«Che cosa?» chiese.
Hermione annuì lievemente, chiarificando il
dubbio opaco che in Harry si era delineato.
«Arrabbiarsi non serve a nulla ora,
Harry» aggiunse la giovane strega. Il suo Auror
migliore, seduto su quella poltroncina striminzita, apparve come svuotato, un
pallone morso abbandonato in un angolo. «Ho provato a chiedere se avessero
fatto abbastanza per trovarla, ma
ovviamente ho trovato un muro di gomma…»
Davanti a quell’espressione babbana Ron assunse un’espressione confusa, ma non disse
nulla: anche lui si era accorto dell’ira sconfortata di Harry.
«Ho visto la sua lettera» aggiunse Hermione, «però il Primo Ministro se l’è riportata via.
Minacciava apertamente l’intero mondo magico e te, Harry…»
Hermione aveva imparato, ormai, che indorare
le pillole al suo migliore amico non avrebbe aiutato. Lui infatti non ebbe
particolari reazioni, anzi si limitò ad annuire ancora.
«E Severus?»
chiese lui. I suoi amici si mossero sulle sedie in modo impercettibile, ma i
suoi sensi allenati lo colsero. Certo, non era facile scendere a patti con la
realtà della sua relazione col loro vecchio insegnante.
«I
traditori, i bugiardi e i falsi misericordiosi» citò Hermione,
spremendosi le meningi per ricordare parola per parola il testo. «Temo che la
minaccia sia anche per lui. Ma non c’è da temere, Harry, hai apposto il
sigillo»
«Resterò da lui, almeno finché non
decide di rivolere i suoi spazi» disse piano l’Auror,
sovrappensiero. «Preferisco essere pronto»
Hermione annuì e il silenzio cadde su di
loro. Sembrava che, nonostante la loro gioventù, la loro abitudine al disastro
e la loro buona lena, la minaccia di Inga li avesse
sconvolti tutti. C’era un velo di ansia quasi palpabile teso su di loro, che
impediva ora di parlare, di sorridere e di muoversi. Potevano solo stare
seduti, abbandonati, a osservare a terra, o a osservarsi tra loro. Quel limbo
durò per minuti interminabili, poi qualche temerario decise di bussare, e Hermione saltò in piedi.
«Oh, mi era scordata…»
borbottò. Harry e Ron si alzarono a loro volta.
«Mi trovi in giro per il Ministero»
la salutò dolcemente Ron, baciandola. Hermione annuì,
accennando un sorriso, poi si allungò a prendere la mano di Harry.
«Cercami a NotturnAlley» disse lui come commiato. I tre si separarono.
Fuori, gli assistenti di Hermione non aspettarono
altro che vedere la porta aprirsi per riversarsi nell’ufficio. Harry e Ron
risalirono la corrente umana che li investì, poi si fermarono là davanti alla
porta, che venne richiusa.
«Teniamoci in contatto» disse Harry.
Ron gli strinse una spalla.
«Per qualsiasi cosa chiamami» si
assicurò. Harry gli restituì la pacca, poi con un gesto si salutarono, e Ron
tornò nell’area visitatori. Harry, invece, riprese la propria via, diretto
all’appartamento sopra alla bottega per Pozionisti.
Troppo preso dai pensieri che gli
affollavano la mente, Harry Potter uscì dal Ministero andando ad inciampare
dritto dritto nella tana dei serpenti. Come mossi da
una folata di vento, una decina di giornalisti gli furono appresso, come lo
staff di Hermione era saltato al collo di lei poco
prima, e l’Auror ebbe il tempo di prendere un respiro
e dare uno sguardo al briciolo di Londra che si apriva davanti a lui prima di
cadere nel rumore.
«Harry Potter, anche stavolta al
lavoro per salvare il mondo magico come lo conosciamo?»
«Chi è questa strega? Può darci
delle informazioni su di lei?»
«Signor Potter, cosa ci dice
riguardo la rubrica Indovina Io che
ha ipotizzato che questa strega non sia altro che una sua amante in una crisi
di nervi?»
Harry si fece largo nella folla, alzando
le braccia.
«No comment!»
esclamava a tratti, la testa bassa per sfuggire ai flash, muovendosi il più
rapidamente possibile. La porta su quel lato del Ministero si aprì, e Harry
vide con la coda dell’occhio un mago addetto alla sicurezza intervenire. I
giornalisti fecero un passo indietro, ma non mollarono, finché Harry non fu
abbastanza a distanza da poter salutare con un gesto l’impiegato ministeriale e
poi Smaterializzarsi, ben nascosto dal crocicchio vociante.
Riapparve con un sonoro pop in un vicoletto di NotturnAlley, in un silenzio
cupo rotto solo dal rumore di suole che se andavano via in fretta, portando
altrove chissà cosa. Harry si guardò attorno: non si sarebbe lamentato se
avesse potuto fare un arresto minore, nel mentre. Ma nulla di strano gli capitò
sotto lo sguardo, chi stava nascondendo qualcosa se ne era andato e all’Auror non restava che andare a casa di Severus
ad attendere.
Aveva smesso di nevicare; un pallido
sole si faceva intravedere sotto la coltre di nubi, ma appariva solo come un
medaglione nascosto da molti strati di lino, e non prometteva calore, né
l’arrivo di un’imminente Primavera. Ma dentro casa Harry trovò un dolce tepore,
quando aprì le porte che, notò, erano state stregate per lasciarlo entrare.
Sorrise.
«Sono tornato» disse ad alta voce,
guardandosi attorno.
«Sono qui»
La voce di Severus
proveniva da una delle stanze che si aprivano attorno a Harry: dopo aver appeso
gli abiti da esterno lo trovò affondato in una poltrona a leggere un grosso
tomo polveroso, i capelli neri ficcati con malagrazia dietro le orecchie, il
naso adunco nelle pagine. Harry ritrovò molto dei suoi anni a scuola in quel
quadretto, ma sorrise, e si avvicinò a Severus
rubandogli un bacio a fior di labbra.
«Novità?» chiese il Pozionista alzando gli occhi su di lui.
Harry prese la palla al balzo per
levargli i capelli da dietro le orecchie: glieli tirò su goffamente, perché di
capelli lunghi lui non ne sapeva molto, ma riuscì ad arrangiarglieli in un nodo
alto, prima però che cadessero di nuovo. Severus
allora sospirò, ma senza dire nulla gli allungò un laccetto che finora aveva
tenuto legato al polso magro. Harry gli legò i capelli.
«Una strega oscura sta venendo qui
per uccidermi e vendicarsi del mio partner» rispose Harry. «Quindi nulla di
nuovo, direi»
Severus accennò una risata, ma non sembrava
preoccupato. Anzi, picchiettò direttamente sul libro.
«Sai cos’è? Qualcosa non quadra»
disse. «La ricetta di quel filtro. Sembra incompleta»
Harry aggrottò la fronte, facendosi
attento.
«Cosa significa?» chiese.
«Non lo so» sussurrò Severus, pensieroso. «Devo fare delle ricerche»
Si alzò e poggiò il grosso tomo, poi
tornò a Harry e gli cinse la vita. L’Auror sbatté le
palpebre, osservandolo, e le loro bocche si trovarono con un sospiro.
«Posso aiutarti, se vuoi» disse
piano Harry. Severus ghignò.
«Mi sono bastati quegli anni di
incubo, grazie» rispose. «Tu puoi occuparti di altro»
Harry mise un broncio posticcio
prima di baciare di nuovo Severus, allacciandogli le
braccia al collo. Restarono stretti per un po’, lì, in piedi in mezzo alla
stanza. Poi le finestre illuminate di argento tornarono al loro cupo oblio,
grossi fiocchi di neve ripresero a turbinare, e i due dovettero andare ad
accendere le candele per dare alle stanze una parvenza di vita.
Il Mare del Nord era una crosta
grattata via da un quadro romantico. Grossi cavalloni si alzavano dalle sue
profondità, più simili a figli degli oceani che di un mare. La neve, fine e
farinosa, cadeva dal cielo plumbeo, apparendo molti piedi sotto le pance delle
nubi, e svanendo a pochi palmi dalle onde, fusi nell’aria umidiccia. La nave,
una piccola imbarcazione turistica, arrancava nella tempesta come un giocattolo
di latta. Il capitano aveva spento le luci, ormai viaggiavano nell’oscurità da
qualche decina di minuti. C’era stato chi si era lamentato della decisione, ma
le hostess di bordo avevano messo a tacere le lamentele con parole secche e
sguardi vacui. Sarebbero sbarcati sulle coste inglesi in mezz’ora. Per intanto,
c’erano coperte in abbondanza.
Jacqueline, che quel viaggio lo
aveva intrapreso con la voglia di svagarsi, e non di dare di stomaco su un mare
in subbuglio, se ne stava raggomitolata nel sedile, avvolta nella ruvida
coperta marrone che le avevano offerto. Teneva la borsetta in grembo e la valigia
sotto ai piedi, che aveva liberato dalle scarpe da tennis. Erano partiti da
Calais con un’ora di ritardo, quello che era bastato al capitano per decidere
di intraprendere comunque l’ultima traversata della sera. E lei si era pentita
di essere salita a bordo, ma il biglietto era costato caro e le era stato
spiegato che se avesse deciso di tornare in albergo avrebbe perduto ogni
diritto al rimborso. Così ora seguiva gli scossoni della nave col corpo magro,
tenendo bene in mente che quel viaggio lo stava facendo per zia Ivonne, che da tempo le chiedeva una visita, sola com’era
nella sua casa a Folkestone, a una ventina di minuti
da Dover . Dopo che zio Maurice era mancato di un brutto male, zia Ivonne era rimasta isolata in quel paese straniero come una
principessa rinchiusa in una torre. Era il minimo, per Jacqueline, sacrificare
parte delle ferie per andare da lei.
«Mi scusi?» chiamò di botto
Jacqueline nel suo buon inglese macchiato dal forte accento parigino. Aveva
alzato la testa castana non appena, nel suo campo visivo, era entrata
l’hostess. La ragazza, una giovane molto bassa, la squadrò – sembrava non
vederla nemmeno.
«Dica» rispose. Jacqueline soffocò
un sospiro. Per tutti i soldi che aveva speso, essere trattata così non le
andava proprio. Si rizzò, quindi, e si chinò ad afferrare le scarpe da tennis:
al diavolo l’acqua che voleva chiedere.
«Mi porti dal capitano, prego» disse
quindi, duramente, e si alzò dopo aver infilato le scarpe alle bell’e meglio.
La donna che sedeva poco lontano, reggendo il figlio addormentato, la guardò
con una luce piena di rispetto negli occhi. La hostess, invece, non batté
ciglio: la guardò ancora un istante, lo sguardo immobile, poi si voltò con un
gesto rigido e Jacqueline le andò dietro, sussurrando alla donna di badare al
suo bagaglio. La vide annuire, poi allungò il passo.
In effetti i traghetti che univano
la Francia con la Gran Bretagna non li prendevano poi tanta gente, pensò
Jacqueline. Non erano in più di trenta su quella nave, che però poteva
contenere sino a cento passeggeri.
La hostess le fece imboccare un
corridoio dove, da quanto aveva visto mentre ancora le luci erano accese,
c’erano i servizi igienici. Il silenzio regnava ovunque, pasciuto dallo
scontento dei viaggiatori. Finirono davanti ad una porta: Riservato, vi era scritto. La hostess si bloccò lì davanti: come un
automa fece un passo indietro, poi alzò la mano.
«Prego» disse. Jacqueline la
squadrò: la poverina doveva soffrire il mare. Certo era difficile lavorare
così, cercando di non dare a vedere il proprio malessere. La giovane
s’impensierì per lei, ma senza una parola la hostess se ne andò in quel preciso
momento, lasciandola sola. Jacqueline guardò la porta. Poi la aprì.
«Permesso?» vociò subito.
La porta si aprì sulla cabina di comando,
una piccola sala le cui pareti erano tutte vetrate. Da là si vedeva bene la
costa inglese, nascosta dalla nebbia e dal buio, e le cime dei cavalloni che
s’infrangevano sulla nave, alzando alti pennacchi bianchi di spuma. Davanti a
quell’immagine, il capitano le dava la schiena, intento a manovrare. Alla sua
sinistra, invece, era seduta una donna avvolta in una pesante pelliccia.
«È permesso?» chiese ancora
Jacqueline, notando la figura seduta di lato. Un brivido di rabbia la colse:
certo, il capitano non poteva lasciare a piedi la sua ragazza. Doveva partire
per forza per lei.
«Vieni, vieni pure, Jacqueline»
rispose allora la donna, senza voltarsi. La ragazza si gelò sul posto.
«Come fa a-?» balbettò, ma si zittì
quando si vide avanzare: le sue gambe avevano mosso un passo senza che lei se
ne accorgesse. Cercò di fermarsi, ma al secondo passo la porta si chiuse alle
sue spalle. Solo allora la donna si voltò a guardarla.
Che la mattina era arrivata Harry lo
capì solo dal movimento di Severus nel letto: scivolò
via dal suo abbraccio, allungandosi ad afferrare la veste da camera per non affrontare
il gelo mattutino nudo e crudo, e lasciò Harry lungo disteso sotto le coperte
in lana, un piede scoperto, un braccio a penzoloni. Il giovane Auror mugugnò.
«Buongiorno, bella addormentata»
disse con voce roca Severus. Si schiarì la gola: con
vergogna si ritrovò a pensare che, forse, durante la notte avrebbe dovuto
urlare meno. Il pensiero della lunga, selvaggia, appagante nottata gli ritornò
in mente. Arrossì.
«Ma cosa fai, è presto» biascicò
Harry, allungando una mano verso di lui per trascinarlo di nuovo a sé. Trovò
però la sua schiena, e le sue dita non ebbero la forza di aggrapparsi alla
stoffa della giacca da camera.
«Il negozio non si apre da solo»
rispose Severus, «tu resta pure qua. Giù non mi
serviresti»
Senza sentire veramente cosa gli aveva
detto, Harry mugolò in approvazione e, quando Severus
si fu alzato, se ne stava già dormendo.
Era da poco passata l’alba e, dopo
le vacanze invernali, era per Severus il momento di
tornare in attività. Sarebbero arrivati dei fornitori, quel giorno. Si preparò
per la giornata con calma, si fece una doccia bollente, bevve un tea seduto in
cucina, poi tornò in stanza a prendere gli abiti e trovò Harry a russare, così,
alzando gli occhi al cielo, andò a vestirsi in studio.
Aprì la bottega alle sette e mezza
spaccate, dopo aver messo tutto in ordine, aver passato la polvere e dato la
cera a terra. Arricciò il naso davanti alla neve che si era sedimentata davanti
alla porta nella notte, e con un gesto della bacchetta disegnò un bel sentiero
nel bianco, per poi chiudersi nel proprio antro.
Una bottega per Pozionisti
non era proprio come una boutique di alta moda: in pochi ci capitavano, ma i
pochi che venivano avevano i loro affari, e non mancavano mai. Infatti alle
otto spaccate il solito mago dall’aria poco raccomandabile entrò, comprò il
solito bezoar e la solita ampolla di olio di origano, e quindici minuti dopo la
vecchia strega gallese aprì la porta e si fece consegnare la solita pinta di
pozione antiruggine. Che cosa se ne facessero, i suoi clienti abituali, di ciò
che non mancavano mai di comprare, Severus non se lo
domandava. Non era affar suo.
Dopo che la strega gallese se ne fu
andata, comunque, l’uomo si ritirò nella stanzetta dove immagazzinava i
prodotti più preziosi, attendendo i prossimi clienti solo verso le dieci e i
fornitori alle dodici.
Ma rimase là sereno solo per poco
perché, dopo pochi minuti, un tonfo lo fece voltare: c’era qualcosa nella bottega, qualcosa che non aveva aperto la porta.
Severus afferrò saldamente la bacchetta,
pronto. Non si sarebbe fatto cogliere impreparato, anzi, e scivolò dietro al
bancone con sinuosità, come aveva imparato a fare durante tutti i suoi anni da
spia. Studiò la sala: nulla. Allora guardò meglio attorno: c’era qualcosa a
terra, poco lontano dalla porta. Una busta viola. Severus
imprecò.
«Maledetta Granger»
esclamò, afferrando la busta.
Uno stampiglio sulla carta recitava:
Ministero della Magia – Auror H. Potter. Missiva inviata dalla Segreteria Generale
Impiegati Ministeriali.
La povera Granger,
quindi, non era del tutto colpevole. Severus fece una
smorfia: certo, avrebbe sicuramente potuto notare l’idiozia di comunicare coi
propri impiegati in quel modo, ma pazienza.
In fretta, salì al piano di sopra,
davvero poco intenzionato a lasciare il negozio incustodito oltre il dovuto.
Entrò in camera da letto a passi lunghi e, flettendo il braccio per lanciare a
Harry la missiva, si accorse solo in ritardo che il giovane uomo si era del
tutto liberato delle coperte e ora giaceva nudo sul coprimaterasso sprimacciato,
i muscoli torniti, la pelle scura, il pube scolpito lasciati in bella vista.
Severus deglutì.
«È arrivata questa per te» disse
quindi, facendo subito dietrofront mentre Harry alzava il viso, svegliatosi di
soprassalto all’impatto della busta con proprio stomaco. «E vedi che non
diventi un’abitudine, non viviamo assieme»
Severus stava già uscendo dall’appartamento
quando la voce impastata di Harry gli rispose.
«Per ora!» urlò, e Severus si dovette trattenere dal tornare in stanza e farlo
pentire amaramente di averlo anche solo pensato.
Harry non avrebbe mai pensato che il
suo ex insegnante di Pozioni fosse così insaziabile, a letto. La notte era
caduta su di loro allacciati tra le coperte ed era diventata un’adulta velata
che ancora i fianchi di Harry si muovevano contro il profilo di Severus, strappandogli gemiti rochi e urla soddisfatte. Era
per questo che Harry quel giorno non riusciva proprio a svegliarsi, distrutto
fisicamente e anche mentalmente dal disastro che stava consumandosi attorno a
loro. Ma ora era sveglio, una fredda e gonfia busta gli stava in grembo, e dopo
aver afferrato gli occhiali abbandonati sul comodino si mise dritto, mettendo a
fuoco il mondo attorno a sé.
Prese la busta. Era la solita che
riceveva quando aveva del lavoro da svolgere a casa, o un caso che non gli
permetteva di andare in ufficio. Strappò la carta.
Un biglietto color panna svettava su
quello che sembrava un quotidiano arrotolato.
Caro
Harry,
per prima cosa, come Capo dei tuoi capi ti ho
ufficialmente assegnato al caso Inga, NON venire in
ufficio, sarebbe utile solo ai giornalisti. Ci terremo in contatto.
Come
stai? Io e Ron ti mandiamo un grande abbraccio, sai che qualsiasi cosa non vada
puoi contare su di noi.
Comunque,
ti mando un quotidiano babbano, è di oggi. In prima
pagina, leggi bene e pensaci su. Non rispondere a questa mia, per ora, intanto,
possiamo solo aspettare.
Tua,
Mione.
Harry mise da parte il biglietto,
curioso. Il quotidiano che Hermione gli aveva mandato
era il Times. Scorse rapidamente la prima pagina.
A quanto pareva, una nave si era
incagliata nella notte dopo la traversata da Calais. Era un traghetto
turistico, di quelli che coprivano quotidianamente la tratta Calais-Dover, e chi aveva scritto l’articolo evidenziava
che non si era spiegato il motivo per cui il capitano aveva deciso di mettersi
in mare nonostante il mezzo fortunale che si era consumato nella Manica. Si
ipotizzava che il capitano fosse sotto l’influsso di stupefacenti e i
passeggeri raccontano che anche le hostess erano state strane durante il
viaggio. Ma ancor peggio era che tutti erano sopravvissuti, sì, ma una ragazza
era stata trovata morta nella cabina di pilotaggio: era stata assassinata con
una pugnalata che le aveva squarciato la giugulare.
Harry rabbrividì, ricordandosi
subito della cicatrice che svettava sul collo di Severus.
Senza leggere oltre si alzò. Era stata Inga, lo
sapeva. E ora era in Inghilterra e forse stava già arrivando a Londra.
Harry si vestì di corsa, poi scese
nella bottega, lasciando biglietto e giornale nel letto sfatto. Sbucò nel
negozio che Severus stava servendo un’anziana coppia.
«Dovremmo chiudere» gli sussurrò,
dopo aver salutato con un cenno moglie e marito.
Severus lo guardò aggrottando le
sopracciglia.
«Non tutti possono godersi ferie
pagate illimitate» rispose, allungano una mano a prendere i soldi dei due
anziani. Li guardarono uscire dalla bottega.
«Severus,
sta venendo qui» ribatté Harry, piccato. Severus si
voltò a guardarlo, gli occhi penetranti.
«Che venga» rispose con arroganza,
il tono strascicato. «Non ho paura di lei»
«Io invece sì» ribatté Harry, «Ha imperiato l’intera crew di un
battello per venire qua dalla Francia. Si sposta coi mezzi babbani.
Non possiamo rintracciarla finché non arriva qui»
«Non chiuderò per lei» continuò a
dire Severus.
«Ha ucciso una ragazza»
«Non è l’unica ad aver ucciso!»
gridò Severus, gli occhi lampeggianti d’ira,
lasciando Harry immobile, ormai silenzioso. Il Pozionista
gli voltò le spalle, tremando nel tentativo di calmarsi.
«Molto bene allora» mormorò Harry. «Direi
che siamo in tre, quindi. Scenderò se sentirò rumori di lotta»
E così dicendo tornò alle scale e
risalì nell’appartamento, lasciando Severus
aggrappato al bancone.
Fu proprio in quel momento che la
porta della bottega si aprì di nuovo e Severus alzò
gli occhi sul giovane mago biondo che stava entrando. Era una visione piuttosto
singolare, soprattutto per NotturnAlley: l’uomo, che non sembrava contare più di venticinque
primavere, indossava una veste a due pezzi di un sgargiante celeste, un
giustacuore color ciano e un pesante mantello di pelliccia di coniglio grigia.
Alla mano aveva una valigetta di pelle.
«Buondì» cinguettò giulivo.
«Desidera?» chiese Severus con tono cupo. Gli mancava solo un cretino, dopo il
litigio con Harry. Sperò che il mago facesse in fretta e se ne andasse, perché
il sorriso radioso che aveva sul viso lo infastidiva. Ma da come si stava
guardando intorno con sguardo clinico Severus intese
che non sarebbe stata una cosa rapida.
«Ho sentito tanto parlare di questa
bottega» disse il mago a mo’ di risposta. I suoi denti brillavano come perle.
Severus non rispose.
«Lei è il proprietario?» aggiunse il
giovane. Severus annuì lentamente.
A passi rapidi, il mago si avvicinò
a lui e alzò la mano per presentarsi.
«Sono OwainNorum» disse. Severus annuì
di nuovo, senza stringergli la mano. Owain, senza
smettere di sorridere, abbassò il braccio e, con un gesto imperioso, fece da
parte il mantello e appoggiò al bancone la valigetta.
«Lei è un ex insegnante di Hogwarts, vero?» chiese.
«Potrei esserlo» rispose Severus. «Lei è qui per qualcosa, signor Norum, oppure ha solo una gran voglia di annoiarmi?»
Owain rise di una risata cristallina.
«Ho una lista, in realtà» fece. Aprì
la valigetta e vi scartabellò per un poco prima di trarne una pergamena su cui
erano segnati una ventina tra ingredienti pozionistici
vari. Severus alzò un sopracciglio. Avrebbe giurato
di aver sentito uno squittio provenire dalla valigetta.
«A lei» disse Owain,
porgendogli la lista. Il Pozionista la prese e iniziò
a sfaccendare per servirlo.
«E mi dica, signor Piton» disse Owain guardandosi
attorno, «quello che ho visto sparire là dietro era proprio Harry Potter?»
«Mmm, deve
avere le traveggole» rispose in un borbottio Severus.
Se lo era aspettato, di dover far
fronte a fan e curiosi, dal momento in cui Harry era rientrato a far parte
della sua vita – e in modo tanto assiduo.
Ma la cosa lo infastidiva ugualmente, prevedibile o meno.
«Oh no, ne sono certo» sorrise Owain. «Lei era il suo insegnante di Pozioni a Hogwarts, non è così?»
«Lei sa molte cose per uno che poco
fa ha dovuto domandare se fossi io il proprietario» ribatté Severus,
studiando Owain. Era certo non fosse nulla più di un
curioso, nulla di preoccupante, ma il sorriso stampato sulla sua faccia gli
metteva le mani nel sangue.
«Mi perdoni» disse Owain. Si zittì, e Severus
continuò a pesare, tagliare, avvolgere ingredienti per lui. Finché dei passi
non risuonarono sulle scale. Severus alzò la testa
come un animale, ma Harry fu troppo veloce: imbacuccato nel giaccone apparve,
alzando, da parte di Owain, un suono soddisfatto.
«Harry Potter!» esclamò l’uomo.
Prima che Harry potesse accorgersi di qualcosa, il mago biondo gli strinse con
forza una mano.
«Stavamo giusto parlando di lei»
aggiunse Owain. Severus
negò con voce stentorea, e gli occhi di Harry presero a palleggiare tra i due
maghi mentre Owain si presentava nuovamente.
«Qualcosa mi dice che lei è appena
sceso dalle stanze private del suo ex professore» ghignò Owain.
«Che cos-?» fece Severus,
ma Harry lo interruppe.
«Ma lei chi è?» domandò, la voce
tinteggiata di un tono gelido.
Owain prese un’espressione stupita.
«Io?» chiese, «Sono solo un cliente
curioso»
Severus scivolò nel retrobottega per il
terzultimo ingrediente. Harry si sbottonò la giacca, studiando Owain.
«E cosa stava dicendo, prima, col
signor Piton?» chiese, il tono fintamente curioso che
aveva imparato ad usare coi criminali – quel tono mellifluo, ferino, che parve
mettere in allarme Owain.
«Mi era proprio sembrato di averla
vista, prima di entrare» rispose lui, la voce meno allegra, più tagliente.
Harry poteva quasi annusare nell’aria la puzza di finzione che aleggiava
intorno al mago.
«Sa, Harry Potter col suo ex insegnante… è curioso» aggiunse Owain.
In quel momento Severus tornò e mollò senza tanti
complimenti un sacco pieno sul bancone.
«Sono novantatre Galeoni e nove
Falci» disse duramente. Owain, il sorriso
onnipresente, gli porse il denaro e, lentamente e in silenzio, prese il sacco.
Quando lo smosse si alzò un rumore cristallino, di due oggetti che cozzassero,
ma il mago non parve farci caso, anzi si caricò il sacco sulla spalla senza
troppi complimenti. Harry e Severus lo fissavano,
torvi.
«Buona giornata, signori» trillò
quindi Owain, «Grazie della bella chiacchierata»
I due non risposero, né parve che Owain attendesse di sentire oltre da loro: girò sui tacchi
afferrando con un gesto fluido la valigetta – ancora aperta – e se ne andò,
andando a sparire oltre l’uscio.
°Tjena! Due righe soltanto per dirVi
che, dopo questo capitolo, la storia sarà in pausa sino alla fine del
mese/inizio di Settembre: le valigie sono pronte e i biglietti aerei stanno
aspettando di essere presentati al check-in! Vi lascio ringraziandoVi
di cuore per l’affetto che date alle mie storielle e auguro a tutti una felice
pausa estiva!°