Di nuovo in due

di Giuf8
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Camere doppie ***
Capitolo 2: *** Tempo di cambiamenti ***
Capitolo 3: *** Luna piena ***
Capitolo 4: *** Luci ***



Capitolo 1
*** Camere doppie ***


Ciao a tutti!
Per quanto odi farlo, questa storia ha bisogno di una premessa. Non so esattamente dove mi condurrà questa storia, di solito non scrivo a capitoli, ma una cosa la so: non potevo sopportare di lasciare sospesa nella mia immaginazione la storia di Ethan e Jackson. Insomma, come si sono conosciuti? In che zona di Londra? Chi ha fatto la prima mossa? E il primo bacio?
Spero che anche voi abbiate la mia stessa curiosità, anche se tutto ciò che posso offrirvi è solo la mia versione della storia.
                                                     

Camere doppie


Ethan

Ethan era seduto sul bordo del letto nella sua camera di motel.
Ethan aveva mal di testa e suo fratello era morto.
Non riusciva ben a capire perché il suo cervello non riuscisse a focalizzarsi su altre cose che non fossero quel terribile martellio e l’assenza di Aiden. Non gli importava, non gli importava più di nulla in realtà. Tutte quelle cose a cui avrebbe prestato attenzione, il grado di pulizia della stanza, la cortesia dei padroni del motel… tutto sembrava superfluo.
Forse era per questo che si ritrovava nel bel mezzo della notte in una camera sudicia, con le coperte ingiallite e col rumore delle tarme nelle pareti che arrivava al suo udito sensibile.
Si guardò intorno nella camera doppia, proprio non ce l’aveva fatta a prendere una singola. Anche se sapeva benissimo che quell’altro letto sarebbe rimasto vuoto, prendere una singola significava ammettere qualcosa a cui ancora non era preparato.
Aiden c’era sempre stato per lui, era Aiden la parte forte della coppia, lui, Ethan, era sempre stato troppo sensibile. Si erano sempre completati loro due, erano gemelli, era naturale che lo facessero.
Ethan nella sua ingenuità, aveva sempre pensato che sarebbero anche morti insieme, giovani o vecchi non importava, ma insieme. Nemmeno nei suoi incubi peggiori aveva immaginato di dover piangere la morte del fratello, aveva sempre pensato che se proprio uno dei due fosse morto per primo sarebbe toccato a lui. Ora, da solo in una stanza doppia in uno squallido motel di periferia, Ethan si chiedeva se ne aveva la forza. Aveva la forza di tirare avanti? Di vivere anche per suo fratello? Di prenotare camere di motel singole?
 
Jackson
 
Era ormai un anno che Jackson aveva lasciato Beacon Hills, un anno che si trovava a convivere con la sua condizione mezzo lupo e mezzo canima, un anno senza vedere Lydia. In realtà non è che la vita gli andasse poi così male, aveva iniziato a frequentare una prestigiosa scuola privata, si era fatto nuovi amici ed era persino riuscito ad entrare nella squadra di cricket, certo non era lacrosse, ma lo aiutava a sfogarsi e se la cavava piuttosto bene. Eppure, eppure c’era qualcosa che gli faceva rimpiangere perfino la compagnia di Stiles. Doveva proprio essere impazzito.
Però era vero, la maggior parte dei giorni si sentiva il re del mondo, perfettamente integrato, circondato di ragazze, l’invidia di tutti in poche parole. Ma tutte le sere, quando rientrava nella camera del dormitorio, si sentiva un po’ più solo. Era l’unico in tutta la scuola a non avere un compagno di stanza. La maggior parte dei suoi amici pensava che fosse una vera fortuna, Erik, ad esempio, era capitato con uno che russava come una motosega, John con uno che dormiva con le scarpe sotto il cuscino e strillava come una ragazzina appena vedeva un ragno. Sembrava che non avere un compagno di stanza fosse una benedizione, eppure quando Jackson vedeva l’altro letto singolo della sua camera inesorabilmente vuoto, si sentiva come quel letto: svuotato ed inutile. Per carità, lui era Jackson Whittemore, poteva cavarsela anche da solo. Non era non avere un compagno di stanza che gli mancava, gli mancava non avere qualcuno con cui ammettere quanto fosse difficile mantenere la calma. Perché Jackson Whittemore era sempre arrabbiato, ed essere sempre arrabbiato quando sei un mezzo canima e un mezzo lupo mannaro non è una gran bella cosa. Solo che altre scelte aveva? Non poteva semplicemente prendere una persona a caso e dirgli:”Ehi, hai presente tutte le leggende che hai sentito in giro? Ecco sono tutte vere e io sono una di quelle”. No, decisamente non poteva farlo. Una volta aveva persino composto un numero a caso sul telefono e aveva spifferato tutto, lo sconosciuto era rimasto in silenzio, poi aveva detto:”Certo che deve avere roba buona il tuo fornitore”. 
Era quello il motivo che gli faceva desiderare di poter vedere almeno una delle persone che si era lasciato a Beacon Hills. Era anche lo stesso motivo che non gli permetteva di avere un compagno di stanza, perché se avesse perso il controllo Dio solo sa cosa sarebbe successo. Come poteva reagire un normale essere umano al luccichio dei suoi occhi? E agli artigli? E, Dio non voglia, alla coda? Quella faceva senso perfino a lui.
Essere un lupo mannaro e un canima a Londra era un mestiere difficile. Lì nessuno credeva, non c’erano branchi, non c’erano mostri terrificanti.
C’era solo Jackson. Jackson e una stanza doppia con un letto vuoto.

 

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Capitolo 2
*** Tempo di cambiamenti ***


Tempo di cambiamenti
 
Ethan
 
Ethan si svegliò, l’aereo che traballava paurosamente e il pilota che chiedeva di allacciarsi le cinture di sicurezza perché avrebbero incontrato una turbolenza. Eseguì i comandi veloce, non aveva mai volato da solo e la cosa lo innervosiva. Per un istante la sua mente si perse a chiedersi che cosa sarebbe successo se si fosse trasformato lì su quell’aereo, in mezzo a tutti, senza nessuno a coprirlo, niente maschere solo lui da lupo e i passeggeri.
“Dolce o salato?” la voce lo riscosse e fece un balzo sul sedile.
“Come?” chiese guardando negli occhi la hostess e sentendosi incredibilmente stupido.
“Dolce o salato? Lo spuntino, come lo vuole?”
“Ah… salato, salato e un bicchiere d’acqua” borbottò. Si pentì della scelta non appena si girò e vide che aspetto invitante avessero i biscotti del vicino, osservò schifato i… cos’è che erano esattamente? Grissini? Che salati c’è da dirlo erano salati.
“Sempre così prendi il salato e pensi sia meglio il dolce, se prendevi il dolce, invece, volevi il salato. Rubavi sempre quello che ordinavo io” la voce di Aiden gli arrivò così chiara che dovette guardarsi intorno per accertarsi che se la fosse solo immaginata.
Come tutti i viaggi in aereo che si rispettino perse velocemente la cognizione del tempo, sotto di sé vedeva soltanto un’enorme distesa blu. Si perse a guardare il mare, pensando ai kilometri che lo separavano sempre più dall’America. A pensarci si stupiva ancora di aver preso quel volo, si era come reso conto, dopo mesi vissuti in squallidi motel che la sua vita per ripartire aveva bisogno di un cambiamento. Era stato con un incredibile sforzo di volontà che si era alzato dal letto, si era rasato e con poco più di una sacca aveva preso il biglietto per il primo volo. Londra.
Devo essermi ammattito, nemmeno so che cosa ci sia a Londra, a parte il Big Ben, gli autobus rossi e la regina Elisabetta. Ormai è fatta Ethan, anche perché scendere da qui la vedo dura.
Reclinò il sedile e chiuse gli occhi cercando di riprendere il sonno da dove era stato interrotto.
 
L’aria fredda gli faceva accapponare la pelle e condensare il fiato in calde nubi bianche. Correva. Sentiva il cuore battergli nel petto eccitato, il brivido della caccia. Gli artigli che si conficcavano nel terreno, i muscoli che si tendevano senza sforzo e lo lanciavano a velocità disumane. Era felice, libero, selvaggio. Poi lo avvertì. Un dolore lo colpì allo stomaco facendolo ruzzolare a terra, la leggiadria di un attimo prima volatilizzata nel nulla. Gli artigli, le zanne e gli occhi blu che lottavano per rimanere a galla, perché il dolore ti rende umano, il dolore non è cosa da lupi. Abbassò gli occhi all’elsa della spada che ancora fuoriusciva dal suo corpo. L’afferrò con una mano e provo ad estrarla ed i suoni intorno a lui si fecero ovattati, spenti come i colori che si andavano attenuando. Sentì un liquido colargli dalla bocca, impiegò qualche istante a capire che si trattava del suo sangue. Sangue nero che gli riempiva la vista, la bocca e i polmoni. Faceva male, male come niente in vita sua. Guardò in su e lo vide, soffriva anche lui, glielo leggeva negli occhi. Fu quello sguardo l’ultima cosa che vide. Poi fu nero, nero come il suo sangue. Ethan.
 
Ethan si rizzò a sedere, il fiato corto e gli artigli conficcati nel sedile. Si guardò intorno disorientato e i ricordi riaffiorarono poco a poco, Aidan, l’aereo, Londra. Trasse un profondo respiro, cercando di regolarizzare il cuore e infondendo calma nei nervi contratti di modo che riuscisse a ritrarre gli artigli. Lui, un licantropo appartenente ad uno dei branchi più potenti mai esistiti, lui, un ex alfa, che si ritrovava a perdere il controllo come un novellino e, per giunta, in uno spazio chiuso pieno di gente. Ma che gli stava succedendo?
“Metta il sedile diritto, per cortesia, stiamo per atterrare” gli disse gentile la hostess.
“Grazie al cielo” pensò.
Si chiese come fosse possibile sentirsi così oppressi e con quel senso di claustrofobia essendo a oltre diecimila metri di quota.
Ottomila, cinquemila, tremila. Vedeva le case farsi sempre più vicine e poco dopo sentì l’urto delle ruote che colpivano l’asfalto. Trasse un sospiro di sollievo e si accorse solo in quel momento di aver trattenuto il fiato per tutto quel tempo.
“Ethan che ti succede?” si disse.
Fortunatamente quando si è un lupo mannaro che passa la maggior parte del suo tempo a correre nei boschi non si ha un gran guardaroba, nemmeno quando il lupo in questione è molto attento alla moda. Ethan non amò mai tanto la sua natura come quando vide la folla accalcarsi urlante intorno al nastro di ritiro bagagli. Osservò la sua sacca, che veniva tranquillamente superata in misura dalle borse di alcune signore e un sorriso sghembo gli riempì il volto.
Si sentiva diverso, in quel posto in cui suo fratello non era mai stato forse non avrebbe avvertito così tanto la sua mancanza. Era stato in lutto a sufficienza, ora doveva trovare la forza per ricominciare davvero. Prese l’ennesimo respiro della giornata e si diresse verso l’uscita dell’aeroporto pieno di aspettative.
Le porte scorrevoli si aprirono lasciando intravedere il paesaggio umido di Londra. Nonostante la pioggia, il freddo e le persone nervose che si rubavano i taxi a vicenda si rese conto di essere felice come non gli accadeva da tempo.
Fece un passo verso l’esterno con un sorriso ebete sul volto, quando gli sembrò di essere travolto da un treno. La borsa che portava sulla spalla destra nell’urto cadde a terra, centrando in pieno una pozzanghera e schizzando acqua ovunque. Preso in contropiede dalla forza dello scontro si ritrovò a ruotare su se stesso per mantenere l’equilibrio.
“Ehi” urlò dietro al ragazzo che l’aveva colpito e che stava proseguendo come se nulla fosse.
“Ehi” ripeté “Sarebbe meglio se guardassi oltre il tuo brutto muso mentre cammini qualche volta”
L’altro si fermò, stette fermo così per un tempo infinito, tanto che Ethan si chiese che genere di problema avesse. Molto lentamente il ragazzo si voltò verso di lui.
“Fino a prova contraria, sei tu l’idiota che cerca di uscire dall’entrata” sbuffò con astio.
Rimase a guardarlo negli occhi ancora per qualche secondo, finché un suo amico tornò indietro a chiamarlo. Solo allora interruppe lo sguardo e proseguì per la sua strada.
Ethan si girò e quando vide un cartello enorme con un divieto d’accesso si sentì travolgere da un’ondata di imbarazzo.
Si chinò per raccogliere la borsa e così facendo tagliò la strada ad un uomo che aveva tutta l’aria d’essere molto di fretta.
“Ma dove hai la testa?” gli chiese questo.
Ethan si raddrizzò mettendosi la sacca zuppa d’acqua sulla spalla, incurante che questa bagnasse anche gli ultimi vestiti asciutti che gli erano rimasti: quelli che indossava.
“Ma dove ho la testa?”
Ethan proprio non lo sapeva, ma per la prima volta da davvero molto, molto tempo, i suoi pensieri non erano occupati dalle immagini di suo fratello agonizzante tra la sue braccia. Per la prima volta da molto tempo, quando batté le palpebre non vide le sue mani impregnate di sangue, ma un paio di bellissimi occhi azzurri, non sentiva i respiri strozzati di Aidan, ma una voce astiosa che gli dava dell’idiota.
 
Jackson
 
L’odore dell’erba appena tagliata gli arrivava alle narici con zaffate regolari, le luci del campo infastidivano i suoi occhi sensibili e il sudore salato che gli colava dalla fronte bruciava come acido. Eppure Jackson non avrebbe voluto essere da nessun altra parte al mondo. Sentire i muscoli in tensione, la mente focalizzata su un obbiettivo e tutta la sua forza incanalata nel suo corpo pronta ad agire. Tutto questo lo faceva sentire libero e, soprattutto, gli regalava qualche ora di tranquillità in cui non sentiva più la necessità di dover uccidere la prima persona che gli rivolgesse una domanda di troppo.
“Jackson vieni qui” gli urlò il coach a bordo campo.
Lasciò cadere la mazza piatta al suolo e si diresse irritato verso di lui, aveva appena iniziato a giocare, maledizione.
“Carl si è preso la polmonite” iniziò brusco l’allenatore “Vorrei che lo sostituissi per oggi.”
“Ma coach… Carl è un ricevitore, io non…” provò a protestare.
“Senti Jackson, tu fai ciò che ti dico, ok? Se ti dico di portare il culo in panchina tu esegui, se ti dico di andare a prendermi un caffè obbedisci e, maledizione, se ti dico che per oggi farai il ricevitore ti metterai due stupidissimi guantoni e riceverai. Sono stato chiaro?”
“Sì, coach” sputò irritato raggiungendo la sua nuova postazione.
“Io sono un battitore maledizione, non mi aiuta a sfogarmi prendere una palla al volo”.
L’allenamento proseguì senza altri intoppi e Jackson se la cavò molto bene nel suo nuovo ruolo, era fin troppo semplice. Questo almeno finche non toccò a Mick tirare ed impresse al tiro un affetto particolare  sembrò dare alla palla vita propria e contro cui il ricevitore non poté nulla. Jackson sentì il lupo che era in lui risvegliarsi alla vista di quel proiettile che gli veniva scagliato addosso. Normalmente non si sarebbe esposto così tanto, perché sapeva benissimo che quella palla per qualunque essere umano sarebbe stata imprendibile, mentre per i suoi riflessi non era nulla più di una palla che viaggiava a una velocità moderata a pochi centimetri da lui. Tuttavia sentiva ancora le parole del coach e la rabbia di fondo che gli lasciava un sapore acre in bocca e, quasi senza rendersene conto, si ritrovò con la palla tra i guantoni proprio mentre veniva fischiata la fine dell’allenamento.
Ricevette pacche sulle spalle dai compagni di squadra che si complimentavano per la presa.
Raggiunse la panchina bevendo un sorso d’acqua e buttandosi ciò che restava tra i capelli che poi sfregò con l’asciugamano. Si stava mettendo in coda per l’ingresso dello spogliatoio quando fu chiamato dal coach.
Lo raggiunse a passo veloce, mentre il sudore che gli si asciugava sulla pelle iniziava a farlo rabbrividire.
“Ottimo lavoro oggi” gli disse coinciso.
Quell’uomo gli piaceva per quello, sapeva trattarti come l’ultimo parassita vivente a questo mondo, ma era anche in grado di complimentarsi con l’atteggiamento più benevolo del mondo quasi fossi suo figlio e non faceva grandi giri di parole per dire ciò che pensava. Lo diceva e basta.
Per un secondo il pensiero gli corse a Bobby Finstock e si sentì invadere da una punta di nostalgia, si chiese perché mentre era a Beacon Hills vedeva Bobby solo come un cane pazzo, mentre ora gli sembrava, quasi, molto quasi, degno di rispetto.
“Mercoledì la squadra partirà per il Galles per sostenere la prima partita del campionato”.
Jackson trattenne il fiato. Era una faccenda dannatamente seria il campionato tra scuole private e il solo fatto che il coach gliene stesse parlando, a lui, che giocava a cricket solo da sei mesi a quella parte lo inorgogliva.
“Carl ha davvero la polmonite, quindi, se ti interessa il posto da ricevitore è tuo”.
Jackson rilasciò deluso tutto il fiato che aveva nei polmoni.
“Lo so che tu vuoi giocare come battitore, sei anche bravo, non lo nego. Ma non posso togliere il posto a chi gioca da molto tempo, questo lo capisci vero?”
Annuì.
“Bene, inoltre con i tuoi riflessi mi sei più utile come ricevitore che in qualsiasi altro ruolo. Allora, sei dei nostri?”
“Se mi da il permesso, coach, prenderò quegli stupidi guantoni e riceverò.”
“Ottimo Jackson, è l’atteggiamento giusto” disse dandogli una pacca sulla spalla.
“Ci vediamo all’aeroporto tra due giorni.”
 
Il taxi percorreva imperterrito le strade trafficate di Londra che il clima uggioso contribuiva solo a rendere più caotiche. Jackson se ne stava seduto sul sedile posteriore guardando fuori dal finestrino ed atteggiandosi a personaggio triste di un videoclip musicale. Quando l’auto si fermò davanti all’aeroporto il taxista scaricò il suo piccolo trolley e lo aiutò a sistemarsi la borsa della squadra più comodamente sulle spalle, in cambio, ovviamente, di una lauta mancia.
Un messaggio di John gli comunicò che l’amico era già arrivato e lo aspettava all’interno all’asciutto.
Si chiese come avrebbe fatto a reggere l’intera durata del volo seduto accanto a quell’essere che aveva il dono di riuscire a fare delle più piccole vicissitudini della vita della vere tragedie greche. Sentiva la sua parte lupesca agitarsi al solo pensiero.
Iniziò a camminare riflettendo su quale fosse il metodo più efficace per evitarsi quella lenta tortura, sapeva benissimo che un paio di cuffiette e fingere un sonno molto pesante non sarebbero serviti a nulla.
Fu forse perché la sua mente era persa in questi ragionamenti, o forse perché camminava guardandosi i piedi per non farsi cadere negli occhi la pioggia fine. Fatto sta che si ritrovò a urtare con tutta la sua forza contro qualcuno che stava uscendo proprio in quel momento. Nello scontro l’altro perse la borsa che portava sulla spalla che finì per centrare la pozzanghera ai piedi di Jackson schizzando i suoi pantaloni puliti, per non parlare delle scarpe.
Sentì il suo lupo, già nervoso, ringhiare nelle profondità del suo essere e risvegliare il canima.
“Maledizione oggi proprio non va”.
Non si voltò nemmeno a guardare il ragazzo che sapeva stava lottando per mantenere l’equilibrio, lo fece per il suo bene, perché sapeva quanto poco gli mancasse a perdere il controllo.
“Ehi” gli urlò l’altro.
“Pazzo di uno, non puoi lasciar correre una buona volta?”
“Ehi” ripeté l’altro “Sarebbe meglio se guardassi oltre il tuo brutto muso mentre cammini qualche volta.”
Jackson non poté nulla. Sentì gli artigli perforargli il palmo della mano che teneva serrato dalla rabbia. Il respiro gli si fece affannoso e la bocca si contrasse in una smorfia nel tentativo di non mostrare le zanne, con l’ultimo barlume di lucidità chiuse gli occhi per non mostrare il loro luccichio ai passanti. Poi li sentì.
“Fammi divertire un po’ anche me, ti prendi ssempre tutto il divertimento” sibilò il canima.
“Stattene buono nel tuo cantuccio rettile, il primo round è mio” tuonò il lupo.
“Sono più forte di te cane”
“Ma chi vuoi prendere in giro? Chi ha paura di una lucertola?”
“Statevene zitti tutti e due!” gli sembrò di urlare.
Iniziò a respirare lentamente a grandi boccate e sentì le zanne e gli artigli ritrarsi, mentre gli occhi perdevano il loro luccichio. Valutò la possibilità di andarsene senza ribattere, perché sapeva che facendolo avrebbe rischiato di perdere la calma, più di quanto avesse già fatto.
“Tanta potenza in un corpo cosssì codardo” sentì provenire dai meandri del suo essere.
“Non sono un codardo”.
Si voltò piano verso lo sconosciuto e sbuffò:“Fino a prova contraria, sei tu l’idiota che cerca di uscire dall’entrata” la voce resa roca dalla trasformazione mancata.
Rimase fermo sostenendo lo sguardo dell’altro ragazzo con superiorità, non si accorse di come quello sguardo astioso passò a perdersi negli occhi neri che lo ricambiavano, però accadde.
La rabbia che aveva accumulato dentro di se fino un attimo prima sembrò svanire. Sentì il suo lupo agitarsi dentro di lui, ma in un modo che non aveva mai sperimentato, un modo che non riconobbe.
“Jackson” si sentì chiamare. Con un pizzico di rammarico distolse il suo guardo e seguì l’amico.
 
Ore dopo, mentre l’aereo stava per terminare il suo volo e mentre John continuava a blaterare di cose futili accanto a lui, Jackson si sentiva ancora osservato da quegli occhi neri, li sentiva su di se come nessuno sguardo aveva mai fatto. In qualche modo era come se gli avessero scavato dentro, nel profondo, oltre il lupo, oltre il canima, oltre tutta la rabbia repressa e avessero scovato lui.
“Jackson non essere ridicolo” si disse “Nessuno può sapere che cos’hai dentro di te e soprattutto, Jackson, tu sei etero”.
Eppure, il ricordi di quegli occhi lo perseguitò per giorni.
 




Ciao a tutti!
Vorrei ringraziare tantissimo chiunque abbia sprecato del tempo per leggere questa… emh… cosa.
Ringrazio anche tutti quelli che hanno aggiunto la mia storia tra le preferite\seguite\da ricordare.
Spero di non deludere le vostre aspettative e che la storia, fino a qui, vi sia piaciuta.
Un abbraccio e al prossimo capitolo,
Giuf8

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Capitolo 3
*** Luna piena ***


Luna piena
 
Ethan
 
Ethan cercava in tutti i modi di convincersi di non essere un maniaco. Perché non lo era, vero?
Era questo il timore che ormai da un po’ lo tormentava e, mentre saltava su un taxi, si rese conto di non essere più tanto certo della risposta.
Ormai viveva a Londra da quasi dieci giorni, non aveva impiegato molto ai ambientarsi. Aveva da parte un po’ di risparmi con cui era riuscito ad affittarsi un appartamento molto carino e con una gran bella vista sul London Eye.  Deporre gli abiti nell’armadio gli aveva fatto un effetto strano, nemmeno ricordava l’ultima volta che lo aveva fatto, di solito una borsa era tutto ciò che aveva e gli bastava. Si era fermato davanti al guardaroba che sembrava urlargli di tuffarsi tra i negozi londinesi per riempirlo degnamente. Prese nota. Tuttavia dopo aver sistemato le sue cose, un po’ di scartoffie ed essersi ripromesso che, entro un mese, si sarebbe trovato un lavoro, Ethan si rese conto che non aveva poi molto altro da fare. Si sedette sul divano fissando dritto davanti a sé e sentendo il richiamo del computer che aveva acquistato giusto l’altro giorno.
“No, non lo farò” si disse.
Cercò di distogliere la sua attenzione da quell’oggetto, piuttosto inutilmente.
“Ho detto no”.
Si alzò dal divano, le mani in tasca, frustato fece scivolare lo sguardo su tutta la stanza finchè questo non gli si posò di nuovo sul pc.
“Al diavolo”
Era stato fin troppo semplice arrivare alla Southbank International School inserendo nel motore di ricerca il nome del logo della borsa che aveva visto al ragazzo dell’aeroporto.
Ethan ci aveva provato in tutti i modi a scordarsi quello sguardo azzurro, ma per qualche strano motivo gli era stato impossibile. Erano passati già alcuni giorni dal suo arrivo a Londra, eppure quando chiudeva gli occhi gli sembrava di avercelo ancora davanti. Quello sguardo severo e limpido lo tormentava ogni secondo di ogni giorno, perfino di notte non  lo lasciava mai. Per qualche strano motivo non era solo la sua parte umana ad esserne attratta, ma anche il lupo che c’era in lui sembrava esserne folgorato.
Era a questo che pensava mentre il taxi, viaggiando per le piovoso strade di Londra, si avvicinava sempre più alla Southbank International School, dove, gli aveva detto il Dio Google, si sarebbe disputata una delle partite di cricket del campionato studentesco che si teneva ogni anni tra le scuole private.
Scese nell’erba appena tagliata e pagò lautamente il taxista, alla sola idea di rivedere quegli occhi si sentiva già di buon umore. Purtroppo, o per fortuna, dipende da come la si guardi, la Southbank International School teneva alla privacy dei suoi studenti e non comunicava, oltre ai nomi, le foto dei partecipanti al campionato.
Si diresse a passo lento verso gli spalti mentre una pioggerellina sottile gli inumidiva i vestiti. Si accomodò nel posto più in alto sulla destra cercando di no attirare l’attenzione un gruppo di ragazze starnazzanti che attendevano l’arrivo dei loro belli.
Si rese improvvisamente conto di non essere molto diverso da loro, quante volte era stato sugli spalti a Beacon Hills osservado sognante Danny allenarsi? Era impossibile tenere il conto.
Osservò attentamente il campo ancora deserto cercando di indovinare da che lato sarebbe arrivato quel ragazzo. Aveva il viscerale terrore di non riconoscerlo, nonostante i suoi lineamenti gli fossero rimasti scalfiti nella memorie e nonostante, con la sua vista acuta, riuscisse a vedere distintamente i volti degli spettatori che attendevano l’inizio della partita dall’altra parte del campo.
“Ethan, datti un contegno maledizione.”
Si chiese come potesse tenerci così tanto quando nemmeno conosceva in nome di quel ragazzo con cui non aveva praticamnte mai parlato – si rifiutava di considerare il breve dialogo in cui gli dava dell’idiota-.
Non passò molto tempo che le gradinate si fecero gremite di persone tese in un’attesa febbricitante.
Mentre entravano i giocatori si rese conto di trattenere il fiato.
“stupida ragazzina che non sei altro” si disse costringendosi ad espirare.
Osservò, per quanto gli era concesso dai caschi i volti di tutti quelli che entrarono in campo e sentendosi sempre più disperato mano a mano che scartavo giocatori su giocatori.
“Quello no ha la mascella troppo sporgente, quello è troppo basso, quello troppo alto, quello ha il naso storto”.
Sembrava non andarne bene nemmeno uno.
Nel frattempo i giocatori si muovevano in campo e Ethan rimase spiazzato dal gioco, era sinceramente convinto che il cricket si giocasse con dei martelli e che consistesse nel far passare una stupida pallina sotto degli archetti, questo sembrava quasi un sorta di baseball. Gli c’era voluto del tempo per capire a pieno il lacrosse, ma quello, quello gli risultava del tutto incomprensibile e si trovò presto a fare cose imbarazzanti come rimanere seduto mentre tutti scattavano in piedi urlanti, oppure, molto peggio, il contrario. La sua ricerca però continuava a non dare frutti, possibile che si fosse sbagliato?
Proprio in quel momento sentì un rantolo provenire alla sua destra e vide un giocatore stramazzare a terra con l’affanno. Gli si attorniarono un gran numero di persone che lo aiutarono a raggiungere la panchina. L’allenatore si rivolse ai giocatori seduti e fece cenno di entrare in campo al numero 37, un certo Whittemore.
Ethan fissò intensamente le spalle del giocatore… possibile che?
Proprio in quel momento Whittemore si voltò con quegli occhi azzurri che a Ethan sembrava di coniscere da una vita, ma che gli parvero ancora più intensi della volta precedente.
Il trentasette fece ruotare la testa e, prima di entrare in campo, si girò per rendere omaggio alla panchina.
Ethan che era rimasto a boccheggiare osservò il suo sguardo passare sulle ragazze urlanti e raggiunger proprio lui che se ne stava in un cantuccio. Di tutta quella gente sugli spalti il suo sguardo si posò proprio su di lui, senza equivoci, non una persona più in là o una più sotto, ma proprio lui. Ethan si sentì scaldare da dentro mentre osservava gli occhi del ragazzo sbarrarsi per la sorpresa.
Quando l’arbitro fischiò, però, quell’istante svanì. Whitemore raggiunse il campo distogliendo lo sguardo ed Ethan rimase ad osservarlo con la scusante di osservare una partita, anche se i suoi occhi non seguirono mai la palla, ma solo il giocatore con il numero trentasette.
 
Jacksn
 
Era stufo marcio di starsene seduto in panchina. Non lo sopportava e, soprattutto non ne capiva il motivo, la settimana prima aveva giocato alla grande e ora veniva trattato come uno di serie B. Quasi che i suoi lamenti fossero stati ascoltati Carl, che aveva deciso nonostante il parere del medico, di ricominciare a giocare, si accasciò in campo.
“Grazie Dio, era ora”.
Sentiva già i muscoli tesi dall’adrenalina che gli scorreva nel vene, nonostante finora non avesse fatto altro che rimanermene a guardare. Si alzò in piedi scattante, pronto a sostituire Carl, ma una sensazione lo fermò. Fu quasi sicuro di sentire il suo lupo sussultare e mugugnare mentre si voltava alle spalle, perché, ne era certo, anche lui aveva percepito quella sinistra e vibrante percezione di essere osservati. Guardò le tribune, ma a una prima vista non sembrava esserci nulla di diverso dalle altre partite. Poi lo vide. Se ne stava in disparte cercando di non attirare l’attenzione, ma, in mezzo a quell’accozzaglia di ragazze, genitori e gruppi di amici, sembrava un pesce fuor d’acqua. I suoi occhi si incrociarono con quelli neri dell’altro e li rimasero, imprigionati. Avrebbe riconosciuto quello sguardo in mezzo a mille, perché era lo stesso che lo tormentava da giorni a quella parte, dalla sua partenza per il Galles.
Si voltò cercando di ignorarlo, non era possibile che fosse venuto per lui, giusto?
Sarebbe stato ridicolo e poi come diamine avrebbe fatto a sapere in che scuola andasse? Magari era solo una strana e assurda coincidenza. Eppure, mentre Jackson giocava sapeva perfettamente che, sebbene la sua mente era occupata a prevedere le mosse degli avversari, una parte più profonda e istintiva sentiva su di sé lo sguardo di quello sconosciuto. Centinaia di persone erano andate a guardarlo giocare nel corso della sua carriera sportiva, ma mai Jackson ne aveva percepito lo sguardo in quel modo.
 
Il fischio di fine partita lo riscosse, si diresse insieme agli altri negli spogliatoi dove si rinfrasco con una doccia e raccolse le sue cose e, uscendo, si diresse dall’altra parte del campus dove si trovava il suo alloggio. Aveva fatto solo qualche metro quando una voce da dietro lo fermò.
“Gran bella vittoria, complimenti.”
Si chiese come fosse possibile che una voce che si sia ascoltata solo una volta nella vita suonasse così famigliare.
“Aspetta… fammi ricordare… Tu eri quello che cercava di uscire dall’entrata all’aeroporto” gli disse socchiudendo gli occhi come se cercasse di ricordare qualcosa di molto lontano.
“L’idiota, sì” rispose l’altro sorridendo e andandogli un po’ più vicino.
Il cuore di Jackson fece un balzo. “Maledizione Jackson è un ragazzo, smettila” si disse, ma il suo battito non ne voleva proprio sapere di rallentare.
“Sai non mi capita spesso che mi chiamino così” continuò l’altro osservandolo a fondo con quegli occhi neri che sembrava essere al contempo impenetrabili e sinceri.
“Ti sembrerà strano ma nemmeno a me hanno mai dato del… com’è che era brutto muso?” ribatté cercando di ignorare quanto fosse secca la sua gola.
L’altro fece una risata lasciando correre i suoi occhi lungo la figura dell’altro.
“Me lo immagino” mormorò.
Calò un silenzio teso, finche Jackson non chiese:“Gioca qualcuno in squadra che conosci”
“Oh, no” disse l’altro che sembrava essere stato colto in contropiede dalla domanda “Non ancora almeno”.
“Senti io dovrei andare ora” disse Jackson avviandosi.
“Perché non viene come me? Avrai una fame da lupi dopo la partita e io non sono pratico della zona, potresti indicarmi qualche posto carino”
Jackson sorrise tra sé “Fame da lupi… non sai quanto”.
“Io non…” si ritrovò a boccheggiare “Cioè magari tu non hai capito, ma non sono…”
“Gay?” finì l’altro e Jackson si trovò a deglutire annuendo.
“Beh” sospirò il ragazzo alzando le spalle “Un gran peccato dal mio punto di vista”.
Jackson se ne stava già andando quando quello continuò: “Ma un motivo in più per accettare di uscire con me, cosa può succederti di male?”
“Quello in pericolo sei tu, non io” pensò Jackson il fiato corto per il poco spazio che gli separava e che faceva agitare il suo lupo in un modo del tutto nuovo.
“Allora che fai vieni?” sussurrò l’altro facendo riscuotere Jackson dal suo torpore.
“Va bene” acconsentì e non seppe esattamente da dove arrivasse quella decisione, se da lui o dal lupo, che se fosse stato possibile vederlo, avrebbe scodinzolato felice come il più patetico dei chihuahua. Si ritrovò a scuotere il capo, quasi potesse denigrarlo.
“Ethan”
“Come?” chiese, preso alla sprovvista mentre era immerso nei suoi pensieri.
Il ragazzo rise, mentre si avviava verso un taxi poco distante. Aveva una risata meravigliosa, incredibilmente contagiosa e che riusciva a coinvolgere tutti il viso. Rideva con gli occhi.
“Il mio nome… Ethan”
“Ah…” esclamò sedendosi sul sedile posteriore insieme a lui.
“Jackson sei proprio un cretino, cosa diavolo vorrebbe dire ah?” imprecò fra sé.
L’altro lo guardò sorridendo “Posso sapere il tuo nome o è un segreto di stato?”
“Maledizione Jackson collega il cervello”, ma tutto ciò che riusciva a pensare era quanto poco spazio lo dividesse da Ethan.
“Jackson” disse alla fine. Sperava che il suo aspetto esteriore non lasciasse trapelare quanto fosse agitato e sconvolto nel profondo. Solitamente era molto bravo a celare le sue emozioni, la sua vita si basava su quello, ma ciò che sentiva era ignoto perfino a lui stesso.
“Jackson…” disse l’altro osservandolo diritto negli occhi e lasciando che ogni lettera di quel nome gli accarezzasse le labbra e rotolasse fino a lui facendolo fremere “…allora, dove andiamo?”
 
Finirono per ritrovarsi in un locale che Jackson aveva scoperto qualche mese dopo il suo arrivo, le rifiniture in legno del bancone, gli specchi enormi e le luci soffuse gli conferivano un’aria accogliente e ariosa. Mentre mangiavano quello che era definito il miglior bacon burger di Londra non parlarono molto, per lo più si osservavano di soppiatto tra un boccone e l’altro sorridendo quando lo sguardo dell’uno incrociava quello dell’altro.
Ethan notò che Jackson aveva della salsa nell’angolo della bocca, il suo primo pensiero fu immaginare quanto sarebbe stato bello toglierla con un bacio, cercò di trovare un contegno. Comunque il momento duro poco perché l’altro corse subito al tovagliolo rovinando tutto i desideri peccaminosi di Ethan.
“Che c’è?” domandò Jackson notando che gli occhi dell’altro non si scollavano dalle sue labbra.
“Oh niente niente” si affrettò a dire Ethan abbassando lo sguardo, mentre un sorrisetto furbo gli increspava le labbra e una tinta porpora gli colorava le guancie.
“Diamine quanto è bello” Jackson trasalì per il suo stesso pensiero, ma era emerso nella sua mente prima ancora che potesse insabbiarlo in un angolo remoto come se non fosse mai esistito. Scosse il capo per schiarirsi la mente.
Ethan lo osservava quasi potesse vedere la lotta interiore del ragazzo che gli stava di fronte, ma non disse nulla in proposito, iniziò a parlare di cose futili come quanto un hamburger dovesse obbligatoriamente essere accompagnato con delle birre. Jackson nemmeno si rese conto di come avvenne quel cambiamento, ma fu estremamente sconvolto quando il barista gli si avvicinò di soppiatto e disse:”Ragazzi non voglio interrompervi, ma stiamo per chiudere”.
Nessuno dei due si era reso conto del tempo che passava e, me che meno, del locale che si andava svuotando. Pagarono velocemente e uscirono nella fredda notte londinese.
Ethan si offrì di accompagnarlo al suo alloggio.
“Non devi preoccuparti di me, so difendermi”
“Lo so, ma mi è di strada e poi ho bisogno di camminare un po’”.
“Dove abiti?” sorpreso nel constatare come quell’argomento non fosse mai venuto a galla.
“Vicino al London Eye” disse Ethan scuotendo le spalle.
“Ma è dall’altra parte!”
“Lo so, ma ho voglia di camminare molto stasera” rise l’altro.
Jackson non era mai stato trattato in quel modo. I suoi genitori gli volevano bene, certo, ma non ci avevano pensato due volte a farlo andare in Inghilterra non appena aveva iniziato ad essere un problema per loro. Nel branco di Scott aveva trovato parte dell’affetto che gli era sempre mancato, ma non aveva mai dimostrato quanto dovesse loro e, comunque, non era mai stato un membro effettivo quanto… quanto Lydia per esempio. Lei si che lo aveva amato, a suo modo, ma lui era troppo chiuso per riuscire a capire quanto fosse bello quello che avevano. Mai nessuno comunque era riuscito a trasmettergli le emozioni di quello sconosciuto che camminava al suo fianco, spalla contro spalla, i respiri condensati in un unico nuvola di vapore.
“Oh guarda, c’è la luna piena”
Jackson alzò gli occhi al cielo. Se ne era completamente dimenticato. Non che fosse un problema per lui, aveva imparato a gestirla, tuttavia ne avvertiva ancora l’influsso. Tranne quella sera, in quella notte fredda per qualche il motivo il suo lupo era calmo, assopito, c’era solo lui, Jackson e quel bellissimo ragazzi dagli occhi neri.
“Oh al diavolo”
Si sporse verso Ethan facendolo arretrare finché non si trovò a sbattere contro il muro. Le sue labbra andarono a cercare quelle dell’altro che erano piegate in un sorriso. Fu un bacio dolce, calmo, senza foga e senza urgenza. Si sentirono percorrere di pura elettricità, le gambe molli, il fiato corto. Si staccarono per guardarsi negli occhi, sorridendo ebeti sotto la luna.

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Capitolo 4
*** Luci ***


LUCI
 
Jackson
 
Jackson si guardò per l’ennesima volta allo specchio sentendosi ancora più stupido. Ai suoi piedi giaceva una pila di indumenti scartati. Era andato a centinaia di appuntamenti nella sua vita, o almeno così gli sembrava, e mai una volta il vestiario lo aveva messo in difficoltà. Osservò di nuovo la sua immagine riflessa mentre si abbottonava una camicia azzurra che gli illuminava lo sguardo, aveva deciso di abbinarla con un semplice paio di jeans di modo da alleggerire il look elegante.
Era nervoso come non lo era mai stato in vita sua e non riusciva proprio a capirne il motivo.
“Forse è perché è un ragazzo” si disse “In fondo con le ragazze è semplice, so cosa piace loro, basta che una cosa sia dolce o… brillantinata ed è fatta. Un ragazzo è tutta un’altra storia. Inoltre non so che tipo di occhiate potrebbero lanciarmi le altre persone per la strada. Dovrebbe essere lui a riaccompagnarmi a casa o il contrario?”
Si accorse che stava iperventilando e cercò, inutilmente e per l’ennesima volta, di calmarsi.
“E se fosse solo Ethan ad agitarmi?” non appena quel pensiero gli balzò in mente seppe quanto fosse vero.
Ethan aveva stravolto tutto il suo essere, era partito dalle fondamenta e le aveva abbattute. Tutte le certezze che Jackson si era costruito con tanta fatica erano state minate.
Mai gli era importato di qualcuno, qualcuno che praticamente ancora non conosceva, a quel punto. Si, aveva amato Lydia, ma con lei era stato diverso, già prima di uscire si conoscevano e di lei aveva amato prima l’aspetto esteriore e solo col tempo aveva capito di amare anche qualcosa sotto quel finto atteggiamento da oca con cui continuava ad atteggiarsi. Jackson si vergognava ad ammetterlo, ma c’era voluto Stiles per farglielo capire.
Ethan, per qualche motivo, era diverso. Lo agitava ad un livello profondo, viscerale, sembrava toccare luoghi del suo essere che nemmeno lui conosceva.
Sentì il suo lupo agitarsi. C’era anche quella faccenda, come avrebbe fatto a tenergliela nascosta? Perché non poteva di certo dirglielo, vero? Da quando era stato trasformato però, non era mai uscito veramente con qualcuno e non sapeva come il lupo o, peggio, il canima avrebbero reagito se la cosa si fosse fatta… seria.
Sapeva quanto vicini fossero quando si sentiva agitato e i battiti gli salivano nel petto, era per quello che in quel momento gli avvertiva lì, appena sotto la superficie.
Lanciò un occhiata all’orologio maledicendosi per aver perso tanto tempo a rimuginare. Afferrò la giacca dall’appendiabiti e lasciò il rifugio sicuro della sua stanza.
Prese un taxi a cui comunicò l’indirizzo che gli aveva inviato Ethan il giorno prima.
“Presentati qui alle otto, al resto penso io” questo era tutto ciò che lasciava trapelare il messaggio.
L’auto accostò vicino a una curva del Tamigi e, non appena Jackson scese ed ebbe il tempo di guardarsi intorno, rimase senza parole.
“Un porto” pensò allibito “Come primo appuntamento mi ha portato in un porto”.
Jackson rimase pietrificato dai suoi stessi pensieri… non aveva ancora digerito completamente il fatto di uscire con ragazzo e il suo cervello ragionava già per appuntamenti.
Ethan lo aspettava appoggiato a una ringhiera, le mani in tasca, e si illuminò non appena lo vide arrivare.
Jackson si concesse un istante per osservare l’abbigliamento dell’altro: un paio di jeans grigi, un pullover bianco da cui spuntava il colletto di una camicia borgogna, gli mancò il fiato.
“Ti avverto che se la tua intenzione è quella di uccidermi sono un ottimo nuotatore” disse e se ne pentì subito perché si sentì ancora più stupido.
“Oh, non oserei mai, anche se ammetto che il pensiero di vederti con quella camicia bagnata addosso mi ha sfiorato” rispose l’altro avvicinandosi e dandogli un lieve bacio sull’angolo della bocca. Durò meno di un attimo e non era nemmeno un bacio vero, ma bastò a far girare la testa a Jackson che si scostò e rimase a fissarlo imbambolato.
“Vogliamo andare?”
“Dove esattamente?” chiese perplesso Jackson.
“Tu seguimi” e dicendo così lo prese per mano come se fosse la cosa più naturale del mondo e lo trascinò giù vicino all’acqua.
Proprio in quel momento da dietro la curva del fiume arrivò uno di quei traghetti turistici che fanno avanti e indietro lungo il fiume per tutto il giorno.
Solo allora Jackson notò una piccola comitiva di persone armate di macchine fotografiche che si erano radunate poco più in là.
“Non vorrai mica?”
“Oh si, perché hai paura?”
“No, però…”
“Allora sta zitto e seguimi”
Jackson obbedì, non poteva fare altrimenti, Ethan trasudava felicità e impazienza, sembrava essere molto più emozionato lui che sapeva esattamente che cosa aveva organizzato per tutta la serata di quanto lo fosse l’altro. Non ci volle molto perché quei sentimenti iniziarono a coinvolgere anche lui. Ethan, stava imparando, era esuberanza allo stato puro, certo aveva anche lui i suoi demoni, tra simili ci si riconosce e Jackson lo sapeva. Lo vedeva nel modo che aveva di corrugare la fronte mentre diceva qualcosa di apparentemente insignificante, nel modo in cui scostava lo sguardo non appena questo si faceva troppo profondo, quasi avesse paura di essere letto dentro. Sotto quella coltre di felicità statica erano uguali loro due, ma Jackson nascondeva i suoi demoni solo con la rabbia, stare con Ethan era una boccata di aria fresca che non aveva nemmeno sperato di poter trovare e di cui nemmeno sapeva di avere bisogno.
“Insomma dai! Sembra un bambino la mattina di Natale” pensò osservandolo mentre si protendeva verso il traghetto che ancorava al porticciolo e si voltava a guardarlo raggiante, quasi l’avesse costruita lui la barca.
“Patetico” il ringhio del lupo si sollevò dalle parti più recondite del suo essere e lo fece sobbalzare.
“Ehi tu, sta buono” gli disse e senti questo ritrarsi.
Ethan tornò a prendergli la mano, che aveva temporaneamente mollato nell’esaltazione dell’attracco, e lo trascinò sul ponte del traghetto.
“Ehi Mike!” salutò con un cenno quello che sembrava il capitano che contraccambiò.
“Vieni saliamo” disse trascinandolo su per le scale, era una forza inarrestabile.
Sul tetto del traghetto Jackson vide, in un angolo, un divanetto con tanto di tavolino e coperte. Si rese conto solo in quel momento di quanto l’aria si era fatta fredda condensando il loro fiati in bianche nuvole di vapore.
Si girò verso Ethan proprio nel momento in cui il traghetto veniva messo in moto. Una moltitudine di lucine dorate si accese di colpo, decorando la notte col loro chiarore artificiale.
“Wow” Jackson non riuscì a fermare quell’esclamazione.
“Ti piace?” chiese Ethan a metà tra lo speranzoso e il compiaciuto.
“Ethan è…” ma le parole gli morirono in gola, non lo sapeva descrivere.
“Vieni o ti congelerai” e gli fece cenno di raggiungerlo ai divanetti consegnandoli una coperta.
Jackson notò che si era procurato due coperte e apprezzò il gesto dell’altro. Ethan lo interessava come nessuno persona aveva mai fatto, ma era un’esperienza del tutto nuova per lui e una solo coperta crea davvero molta intimità.
Rimasero fermi così per un po’, chiacchierando e a tratti godendosi semplicemente la presenza dell’altro mentre erano cullati dallo sciabordio dell’acqua.
Quando passarono sotto il London Eye un bambino salutò nella loro direzione, ma Jackson non era sicuro che Ethan, con la sua vista da umano, potesse vederlo e fece finta di nulla. Rimase sorpreso quando questo alzò la mano per contraccambiare il saluto e si voltò verso di lui, quasi fosse stato scoperto a fare qualcosa di sconveniente.
Subito dopo puntò il dito verso una finestra “Ecco”:disse, “Quella è la finestra del mio soggiorno”.
Jackson si lasciò scappare un fischio “Devi avere un mucchio di soldi”.
Ethan si strinse nelle spalle “Gli ho ereditati” e non aggiunse altro, facendo morire l’argomento.
“Hai fame?” chiese per spostare l’attenzione su altro.
Per risposta lo stomaco di Jackson brontolò sonoramente facendolo arrossire.
“Lo prendo come un si” rise Ethan avvicinandosi a una sorta di servo muto che si aprì rivelando un enorme piatto di fish and chips e due birre.
“Non sapevo cosa ti piacesse, così sono andato sul classico”
“È perfetto”
Misero i piatti sul tavolino e continuarono a parlare mentre spiluccavano.
“E così sei nuovo di Londra” disse Jackson.
“Sì, sono nato in America e mi sono sempre spostato, sai prima per il lavoro dei miei, poi ti rimane nel sangue e non riesci più a smettere”
“Non c’è un posto che hai sentito più tuo?”
“Si una cittadina… bah piccola e strana, non saprei come altro definirla, però l’ho sentita davvero casa mia… per un po’”
“Sembra la descrizione di Beacon Hills” pensò Jackson “E poi non lo è più stata?”
Lo sguardo di Ethan si adombrò, ma fu solo per un secondo prima che fosse sostituito da un sorriso beffardo e, mentre gli si fece vicino, gli disse:”Poi sono dovuto venire a Londra perché avevo qualcuno da incontrare…”
Rimase per un istante a osservarsi negli occhi e poi esplosero entrambi a ridere.
“Scusa troppo sdolcinata, ma me l’hai servita su un piatto d’argento” disse Ethan tra le lacrime protendendosi verso Jackson.
“Dovevo aspettarmelo… quello, le coperte, le luci…” e strisciò sotto la trapunta dell’altro.
“Non ti piacciono le luci?” chiese Ethan improvvisamente serissimo “No, perché sai sono cose importanti da sapere l’uno dell’altro e poi tra un po’ è Natale e io amo le luci e…”
“Non me ne frega niente delle luci” lo interruppe i nasi praticamente a sfiorarsi, i respiri un tutt’uno.
“Come sarebbe a dire che non…” la protesta di Ethan fu smorzata dalle labbra calde di Jackson che in una danza lenta gli stuzzicarono il labbro inferiore, percorrendolo con punta della lingua. La sua bocca tornò a cercare quella dell’altro, perdendosi in essa, mordendo e succhiando. Si beò quando Ethan si lasciò sfuggire un mormorio di approvazione e approfittò del momento per schiudergli le labbra. Le loro lingue si intrecciarono, esplorandosi, cercandosi fameliche. Il rumore dei loro baci a riempire il silenzio della notte.
L’altro circondò con le braccia il collo di Jackson e accarezzando la pelle morbida della nuca e scendendo lentamente sulla schiena, sul torace e a lambire il colletto della camicia. Jackson sentiva le mani di Ethan come fuoco su di sé, lo bruciavano, ma più lo bruciavano più ne voleva in una tortura infinita.
E baciarlo… a Jackson non era mai piaciuto tanto baciare qualcuno.
Ethan, sempre senza interrompere il bacio, se non per prendere qualche rapida boccata d’aria, si mise a cavalcioni sopra a Jackson.
Fu un istante. Quasi non si rese conto di come quel gemito di piacere si trasformò in un basso ringhio. Chiuse forte gli occhi per impedire ad Ethan di vederli brillare, sentiva le unghie arcuarsi diventando letali artigli. Non se ne rese conto, un istante prima stava dando il bacio migliore della sua vita, quello dopo stava spingendo via brutalmente Ethan.
Questo, inspiegabilmente, non cadde rovinosamente al suolo, ci mise tuttavia alcuni secondi per elaborare le dinamiche dell’accaduto, secondi che furono preziosi a Jackson.
Fece respiri profondi e sentì gli occhi tornare del colore originario, i battiti del cuore rallentare e gli artigli ritrarsi. Non appena fu in grado di parlare si rivolse a Ethan.
“Scusami” disse, la voce roca anche se non sapeva bene se fosse per il bacio o per la perdita del controllo.
“Ehi, tranquillo Jackson, non è successo nulla” disse sedendosi accanto a lui “In realtà è più colpa mia che tua, dovrei andarci piano sapendo che è… una cosa nuova, per te.”
Lo guardò negli occhi “Solo che mi è dannatamente difficile se mi baci in quel modo”
Jackson fece una risata nervosa.
Rimasero a guardarsi ancora in affanno finché la voce di Mike non gli urlò:”Ragazzi, siamo arrivati”
Scesero a terra, le gambe malferme anche se entrambi dubitavano che fosse colpa della barca. Rimasero a guardare mentre Mike si allontanava a bordo del suo traghetto fin quando questo no fu più visibile.
Jackson stava pensando a che rischio aveva corso quella sera, a quando poco ci fosse mancato. E se la prossima volta non fosse riuscito a controllarsi e Ethan avesse scoperto che cosa fosse in realtà? O peggio, se lo avesse morso? Non poteva condannare anche lui a quella vita, non se lo meritava.
“Senti Ethan…” l’altro si voltò verso di lui con un sorriso estatico sulle labbra.
Jackson magari non amava, ancora, Ethan, ma andava pazzo del suo sorriso. Si immaginò quelle labbra gonfie di baci piegarsi in una smorfia di orrore non appena gli avesse detto:”Sono un lupo mannaro”. No, prima dell’orrore ci sarebbe stata l’incredulità, solo dopo l’orrore e, infine, Jackson che era da tempo che non si trovava così bene con qualcuno, sarebbe stato di nuovo solo.
“Si?” gli chiese Ethan che era ancora in attesa che completasse la frase.
“Per la prossima volta… Non amo la cucina tailandese, per il resto non ho gusti difficili” questo si concesse Jackson, solo un’altra uscita, un’altra settimana in cui sentirsi ancora parte di qualcosa.
“Ma le lucine vanno bene, vero?” chiese Ethan facendo ridere l’altro che roteò gli occhi.
“Si, le lucine vanno bene.”
“Perfetto allora” e si chinò a dargli un casto bacio sulle labbra.
 
Ethan
 
Ethan entrò nel suo appartamento felice come non gli sembrava di essere mai stato, si sentiva fluttuare appena sopra il livello del suolo. Iniziò a spogliarsi mentre canticchiava tra sé un motivetto allegro. Si ritrovò a passare in boxer davanti allo specchio, mentre era alla disperata ricerca di una maglietta. Faceva davvero troppo freddo per dormire solo in mutande. Le vide appena nella penombra della notte. Si fermò di fronte al suo riflesso osservando le ombre scure di due botte che andava formando sopra le sue spalle. Cercò di ricordare se avesse battuto da qualche parte durante il giorno, ma non gli venne in mente nulla.
“A meno che…” gli tornò in mente la scena di Jackson che lo spingeva lontano.
“Ma no, un umano non potrebbe lasciarmi questi segni, devo essere io che sono sempre più sbadato”
Si mise a letto cercando di addormentarsi, ma era tutto inutile.
Si chiese se fosse mai stato così felice, lo dubitava.
Jackson era tutto ciò che aveva sempre cercato, certo doveva andarci cauto con lui, quella sera ne era l’esempio lampante. Tuttavia sentiva di essere perfetto per quel ragazzo degli occhi azzurri.
“Anche se ha detto che non gliene frega niente delle lucine… posso perdonarlo” si disse per poi maledirsi un istante dopo imponendosi di fare il serio una volta tanto.
Osservò il computer.
“Più serio di così” si disse alzando le spalle.
Andò sul sito della Royal Opera House, sfogliò il calendario finché non arrivò a un anno esatto da quella sera e acquistò due biglietti per lo spettacolo serale. Incredibilmente molti posti erano già stati venduti.
Ethan adorava l’opera e sarebbe stato un buon pretesto per vedere Jackson tirato a lucido e in smoking.
Emise un sospiro al solo pensiero.
Era sempre stato quel tipo di ragazzo. Magari non proprio il tipo che sa esattamente cosa cerca, ma era sempre stato in grado di capire quando una cosa era stata messa sul suo cammino apposta per lui. Jackson Whittemore era una di queste e mai, per nessun motivo al mondo, se lo sarebbe lasciato scappare. 
 
 
 
 
Ciao a tutti!
Chiedo scusa per il ritardo nella pubblicazione, ma sono stati giorni frenetici.
Spero che questo capitolo vi piaccia e spero anche di riuscire ad aggiornare la settimana prossima, ma tengo davvero molto al nuovo capitolo, quindi spero che mi perdonerete se non sarà così.
Come sempre ringrazio chiunque dedichi il suo tempo a leggere le mie storie, chi le aggiunge alle proprie liste e chi si ferma a commentare…
Non so nemmeno dirvi quanto mi renda felice!
Un abbraccio e alla prossima
 

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