3. Nubian

di Levyan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1: Qualcosa di familiare ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2: Ceramica ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3: Io non dimentico ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4: Mille occhi, mille braccia ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5: Marshmallows ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6: L'ultima spiaggia ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7: Dopo la paura ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8: Nel palmo della mia mano ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9: L'uomo delle stelle ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10: Una brutta giornata ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11: La breve storia ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12: Medusa ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13: Lo stesso, solito posto ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14: La cena del cameriere ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15: La nottola di Minerva ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16: Un solo, unico amico ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17: Vacanze in Islanda ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18: Il lupo solitario ***
Capitolo 20: *** Capitolo 19: Tiro al piccione ***
Capitolo 21: *** Capitolo 20: Il male minore ***
Capitolo 22: *** Capitolo 21: Niente al mondo ***
Capitolo 23: *** Capitolo 22: Il gioco e la candela ***
Capitolo 24: *** Capitolo 23: La girandola ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


NUBIAN
PROLOGO
 
              
A Biancavilla, il cielo era terso e illuminato da un sole sorto poche ore prima. Quel due luglio, l’aria era quieta e silenziosa, la piccola cittadina di Kanto sembrava ferma nel tempo, come in una fotografia. Qualche bambino usciva fuori a giocare, scorrazzando a piedi scalzi sull’erba umida, due vicine chiacchieravano tra loro, una innaffiava i gerani, l’altra controllava la cassetta delle lettere.
«Hai visto alla televisione cos’è successo a Porto Alghepoli?»
«Sì, incredibile...»
Poco distante, nell’allevamento adiacente al laboratorio, Margi Oak portava la colazione ai Pokémon del giardino. La ragazza era turbata, quella notte erano giunte tante brutte notizie e lei era rimasta lì, impegnata ad occuparsi del laboratorio di suo nonno, senza poter fare nulla. Il professore Oak non era ancora uscito dal suo studio. Probabilmente aveva passato l’intera nottata lì dentro, dopo esser stato svegliato dalla chiamata di suo nipote Green. Margi sospirava, pensando a quanto tutto il mondo sembrasse vibrare in attesa di qualcosa.
Samuel Oak, invece, sapeva che quel qualcosa stava già accadendo. Pochi minuti prima, un volatile era atterrato nel suo terrazzo, senza che nessuno eccetto lui se ne rendesse conto. L’uomo era uscito dalla porta-finestra e lo aveva trovato impegnato a pulirsi le penne dopo quel lungo viaggio. Conosceva bene quello Xatu, era venuto altre volte portando con sé un messaggio. Oak aveva preso anche quella missiva, e il pennuto si era alzato in volo per una seconda volta, svolazzando via e sparendo tra le nuvole dopo pochi minuti. Il professore era rientrato in casa, aveva aperto la lettera e l’aveva letta con attenzione. Si era concesso gli istanti successivi per riprendere fiato e metabolizzare gli avvenimenti degli ultimi giorni. Aveva stretto il Cellulare tra le mani per un tempo interminabile.
Poi, finalmente trovò il coraggio di chiamare.
«Samuel» rispose Elm, dall’altra parte.
«In quanti hanno preso la decisione?» chiese, sapendo bene che il collega avrebbe sicuramente capito.
«Dopo la nostra telefonata di stanotte, ho parlato con tutti gli altri» disse Elm.
«E...?»
«Ho l’appoggio di Kukui, Aralia, Platan e Alma».
«Dannati ragazzini... invece, per quanto riguarda Rowan e Birch?» proseguì Oak.
«Rowan non è d’accordo e Birch... lo sai, si tratta di sua figlia...»
«Tu che cosa ne pensi?»
«Non lo so ancora, ma forse hanno ragione loro, Arbor Vitae potrebbe essere l’unica speranza» la voce di Elm era tremante e insicura.
«Ci serve più tempo...» si lamentò Samuel.
«Potremmo non averne affatto, ormai».
Il professor Oak fissava la lettera che aveva appena ricevuto. Nella sua testa, rileggeva continuamente le parole che vi erano state scritte da colui che l’aveva spedita. Non riusciva a pensare a quanto Elm, il quale non sapeva dell’esistenza di quella lettera, sembrasse quasi averla letta prima di lui.
 
«Hai presente il grattacielo che è crollato stanotte, la Torre Faces? Beh, loro hanno salvato gli ostaggi che erano bloccati all’interno» spiegava uno dei chirurghi dell’ospedale di Porto Alghepoli ad uno dei suoi specializzandi che aveva appena iniziato il turno.
«Davvero? Loro sono quei famosi Dexholder?» il medico osservava i ragazzi con gli sguardi cupi che occupavano una delle sale d’attesa a pochi corridoi di distanza.
«Erano in tre, oltre a Ruby, una è la castana... alcuni dicono fosse la sua ragazza, peraltro».
«E gli altri?»
«Uno è in reparto terapia intensiva, Silver, mi pare si chiami. Trauma cranico, è in coma, gli amici sperano che si rimetta ma mi sembra difficile. L’altra è in quella stanza lì. Si chiama Crystal, è una brava ragazza, mio nipote la conosceva, era stato mandato in un orfanotrofio a Johto, anni fa, lei lo gestiva praticamente da sola».
«Ammirevole...»
«Già».
«E a lei che è successo?»
«Lacerazione dell’arteria femorale, l’hanno operata d’urgenza ma... hanno dovuto amputarle la gamba destra».
«Uh, brutta storia. Si è svegliata?»
«Sì, era disperata, hanno dovuto aumentarle il dosaggio di morfina, se per caso le si fosse riaperta qualche ferita...»
«Ma tutti gli altri chi sono?» chiese di nuovo la matricola.
«Non li conosci? Il castano è Green Oak, Capopalestra di Smeraldopoli e nipote del famoso professore. La ragazza è Blue, un’altra dei Dexholder di Kanto. Quello seduto a terra è Gold, di Johto, pure lui Dexholder. E l’ultima, la biondina, è Yellow, è la ragazza di Red, il Campione dell’Altopiano Blu, anche lei è una Dexholder».
«Red ha dato le dimissioni pochi giorni fa» lo corresse lo specializzando.
«Sì, lo so... avvolto nel mistero, tutti strani questi personaggi famosi».
«Sono sempre in mezzo ai guai, raccontano certe storie su di loro, fanno rabbrividire solo a sentirle».
«Non so... potrebbero essere delle trovate pubblicitarie, un po’ come il Campione di Iridopoli, Ruby».
«Quei ragazzi hanno fermato Rayquaza a Vivalet, sono degli eroi, mio fratello era lì e si è salvato per miracolo grazie a loro».
«Oh, non... non lo sapevo».
Il ragazzo non ribatté.
«Che diavolo... draghi che attaccano città, palazzi che crollano, è tutto così assurdo, che sta succedendo al mondo?»
Pochi corridoi più là, Blue si alzò in piedi. Il suo bel viso era appesantito dai segni della mancanza di sonno, aveva gli occhi stanchi e i capelli disordinati.
«Dove vai?» le chiese Green.
«Voglio parlare con Crystal, appena si sveglia» rispose lei.
«E’ inutile, per ora, dobbiamo solo lasciare che si riprenda» disse lui.
«Non possiamo farla stare da sola...»
Green sbuffò «fa’ un po’ come ti pare...»
Tuttavia la ragazza aveva ormai perso motivazione, si rimise seduta accanto a Gold, che stava mangiando un tramezzino preso dalla macchinetta in corridoio. Anzi, tutt’al più stava nutrendosi, addentava quel pasto dal sapore di detersivo senza alzare gli occhi come fosse solo la necessità di sopravvivenza a guidarlo.
Da parte, sedevano vicini Ruby e Sapphire. Lei aveva deciso di riavvicinarsi a lui, di provare a perdonarlo, di fargli capire che provava empatia. Il resto del gruppo si era rivolto a lui soltanto in toni ostili, fin dal loro primo incontro a Vivalet, poi era arrivato il colpo di grazia: da quando tutti loro avevano deciso di schierarsi definitivamente contro la Faces, in quanto responsabile dell’attacco di Vivalet e intenzionata ad attuare un piano decisamente più grande, Ruby era divenuto nient’altro che una delle armi del nemico. La Faces stava infatti tramando per prendere il controllo di ognuna delle regioni, per Hoenn aveva scelto lo show business, tenendo Ruby al guinzaglio e facendolo diventare uno dei personaggi più eminenti in quanto Campione e Coordinatore Pokémon.
Tuttavia, solo loro e pochi altri conoscevano la verità: per i media e per il popolo il famoso terrorista altri non era che Zero, ex Campione di Holon, latitante e pericoloso.
Ad un certo punto squillò un Cellulare, era quello di Ruby. Il ragazzo si alzò e rispose, accostandosi ad un muro, lontano dagli altri.
«Sono Ruby» mormorò. «Porto Alghepoli, ospedale».
Sapphire lo seguì con gli occhi. Immaginò stesse parlando con un suo agente o qualcosa di simile, una di quelle figure professionali che seguono i personaggi famosi in ogni loro movimento e gestiscono la loro vita e i loro impegni.
«Ok... ok... hanno ragione. Sarò lì tra poco» e riagganciò.
Il ragazzo tornò accanto a Sapphire.
«Mi vogliono a Ciclamipoli, è importante» spiegò.
«Per la televisione?» chiese lei.
Ruby annuì, accingendosi a riprendere le sue cose per andarsene.
«Vengo con te» fece Sapphire, imitandolo.
Lui ebbe un attimo di esitazione, ma si convinse quasi immediatamente che non ci fosse nulla di cui preoccuparsi.
«Dove andate?» chiese loro Green, notando il movimento. La domanda del Capopalestra attirò l’attenzione dell’intero gruppo.
«Mi vogliono alla HC One, i media devono occuparsi di quello che è successo» chiarì, alludendo al crollo del grattacielo Faces.
Green accennò di aver compreso.
«Continuerai a lavorare per loro?» chiese Gold, dalle retrovie.
Il ragazzo di Johto, due giorni prima, era stato informato da un membro della resistenza a proposito del pericolo che la Faces rappresentasse, lui aveva condiviso quel sapere con il resto del gruppo. E così, loro erano i pochi a sapere la verità dietro l’attacco di Rayquaza e la morte dei Superquattro di Holon. Se Ruby avesse continuato a parteggiare per la Lega di Iridopoli, avrebbe sostenuto la Faces stessa, che ormai si era profondamente radicata a Hoenn grazie ai suoi due anni da Campione.
«Non posso tradirli di punto in bianco» cominciò Ruby. «Continuerò ad assecondarli, ma allo stesso tempo aiuterò voi a distruggerla».
Il ragazzo si era scusato di aver nascosto ai suoi amici ciò che era stato costretto a fare negli ultimi due anni. Loro lo guardavano ancora con sospetto quando si avvicinava, li aveva abbandonati, li aveva dimenticati, poi aveva dimostrato di non avere fiducia in loro.
Gold annuì impercettibilmente. Ruby prese quel gesto come un via libera.
«A più tardi» salutò.
«Cosa intendi fare con le sfere che hai nel corpo? Hai detto tu stesso che corrodono gli organismi che le ospitano» chiese Sapphire non appena ebbero girato l’angolo.
«Non lo so, quando troverò il modo di estrarle, lo farò... è molto più difficile ora che sono due» rispose Ruby.
Sapphire rifletté su ciò che aveva appena compreso. Ruby aveva messo a rischio la propria vita senza nessuna sicurezza di salvarsi. Lavorare da solo, far ricadere il peso del mondo tutto sulle sue spalle.
«Fortunatamente, Groudon e Kyogre sono assopiti, in questo modo la forza delle sfere non è forte come quando le assorbirono Ivan e Max» sottolineò lui.
Sapphire sorrise, ripensando a sei anni prima. Aveva sentito dire che il passato, per quanto cupo, con il passare del tempo diventa sempre più luminoso. Forse era vero, oppure il mondo attorno a lei era solo peggiorato. Non voleva chiederselo, non voleva crearsi altre paranoie. Studiava i lineamenti del ragazzo notando soltanto un sottile accenno di serenità nei suoi occhi, niente di più.
I due Dexholder di Hoenn uscirono dall’ospedale, si accingevano a salire in groppa a Latios e Latias, quando avvenne qualcosa che cambiò la loro intera mattinata: una bambina che stava camminando a braccetto con la madre vide Ruby da lontano e gli corse incontro, saltando e abbracciandolo. Lui non capì, ma non fece in tempo a chiedere spiegazioni che la bimba lo mollò per cingere Sapphire allo stesso modo. La madre accorse preoccupata per le invadenti dimostrazioni di affetto della figlia, portava in mano due grossi mazzi di fiori.
«Oh, scusatela, dovete sapere... mio marito lavorava in quel grattacielo, era uno degli ostaggi» la signora era evidentemente scossa, le occhiaie profonde rendevano evidente che lei avesse passato la notte senza nemmeno un’ora di sonno, ma erano il solo particolare cupo della sua espressione serena.
«Il mio papà è salvo grazie a voi» esclamò la bambina sorridendo raggiante di gratitudine.
«Siete stati eroici e... ci dispiace molto per i vostri due amici, sappiamo quello che è successo» Ruby e Sapphire compresero che le condizioni di Silver e Crystal erano quindi di pubblico dominio. «Volevamo portare dei piccoli segni di gratitudine...» la donna mostrò i due mazzi di fiori che portava nelle mani.
Sapphire non sapeva come reagire, le sembrava tutto così strano. Poche ore prima, combattendo nella polvere, non immaginava che qualcuno avrebbe poi voluto ringraziarla per quel gesto. Ruby, dal canto suo, era più scafato e si trovava a suo agio in mezzo ai complimenti, dopo mesi di fama e incontri con i fan.
«E’ stato nostro dovere» ribatté carezzando i capelli alla bambina. «Come sta suo marito?»
«Bene, e non solo mio marito...» sorrise la donna.
Si resero presto conto che la signora e sua figlia erano solo le prime di una lunga processione di pellegrini che erano accorsi all’ospedale per portare fiori, lettere, doni per Silver, Crystal e loro due. Adulti, adolescenti, bambini accorrevano in massa a piccoli gruppetti felici di poter stringere loro la mano e di poter lasciare un tributo nei pressi delle stanze in cui riposavano i loro amici feriti. Quando era avvenuto il disastro di Vivalet, il gran numero di morti aveva concentrato l’attenzione del popolo sulla disgrazia e sul dolore, specialmente a Hoenn, dove la morte di Rayquaza aveva fortemente destabilizzato la popolazione. Con l’attacco al grattacielo, invece, erano stati capaci di evitare vittime, apparendo come eroi coraggiosi agli occhi dei civili.
«Anche Kalut meriterebbe questo» sussurrò Sapphire a Ruby mentre accompagnavano la bimba e sua madre a portare i fiori nelle stanze di Crystal e Silver.
Ruby non rispose, non annuì, non sorrise. Era cupo, approfittando di un momento in cui gli ammiratori non stavano guardandolo. Sapphire se ne rese conto. Attese di trovarsi sola con lui, di nuovo fuori dall’ospedale, per provare a rivolgergli una domanda.
«Ruby, perché sembri...» ma si interruppe. “...più triste di prima” avrebbe voluto continuare. Eppure, improvvisamente la risposta le era apparsa chiara: Ruby aveva visto morire quasi trecento persone a Vivalet, tra cui un suo amico, poi si era trovato con altri innocenti in pericolo da mettere in salvo e infine aveva visto altri due compagni in ospedale ridotti nel peggior modo possibile. Tutto questo era stato causato dall’organizzazione che lui stesso stava servendo da due anni, ormai. Ricevere la gratitudine di coloro che avevano vissuto i momenti più brutti della loro vita per colpa sua non era certamente benefico né tantomeno gradevole. «Niente...» si corresse.
«Sicura?» chiese il ragazzo, ormai incuriosito.
Sapphire annuì. «Sì, andiamo».
Intanto, in ospedale, in un momento di calma, Green aveva tentato di nuovo di avvicinarsi a Yellow. La ragazza, dopo essere scomparsa insieme a Red, qualche giorno prima, era tornata di nascosto dai suoi amici. Non aveva detto niente a proposito del proprio fidanzato, non rivelando a nessuno dove fosse e quale motivo l’avesse spinto a dimettersi dalla carica di Campione per poi sparire. Aveva supplicato gli altri di non andare avanti con le domande e si era scusata per essere scomparsa nel momento del bisogno.
«Come sta?» chiese Green.
«Avrebbe voluto darvi una mano» rispose lei.
«E perché non l’ha fatto?»
Yellow sospirò.
«E’ invischiato in qualcosa più grande di lui».
«E’ nei guai?»
«No» la ragazza si lasciò sfuggire un debole singulto.
Il giorno precedente alla sua sparizione, Red aveva appreso di avere il cancro, questo era stato il primo motivo a spingerlo a fare ciò che doveva, abbandonando i suoi amici senza un apparente motivo. Solo lei ne era a conoscenza, ma avrebbe voluto dimenticarsene. Sapere di andare incontro alla morte destabilizza il malato, ma corrode lentamente le persone a lui vicine in modo anche peggiore.
Green notò quella nota di tristezza nella voce dell’amica, ma fece finta di niente. Blue stava ascoltando e Gold era lì vicino, ma nessuno dei due volle intromettersi nella discussione.
Pochi minuti dopo, Green uscì a prendere un po’ d’aria e Blue andò a far visita alla stanza di Silver, lasciando Yellow e Gold soli. Il ragazzo dagli occhi d’oro si sedette vicino all’amica.
«Sta male, vero?» le chiese.
Yellow avvertì una goccia di sudore solcarle la tempia.
«Non vuole mostrarsi debole di fronte a noi» continuò Gold.
Il ragazzo conosceva Red troppo bene. Era stato suo allievo sul Monte Argento e, col tempo, i due avevano stretto un ottimo rapporto di amicizia.
«Allora è così...» il silenzio di Yellow era stato tradotto dalla mente di Gold come una risposta affermativa. Il ragazzo si portò le mani alla faccia come dovesse scrollarsi di dosso un brutto sogno. «Che cos’ha?»
Yellow non sapeva se rispondere o no. Quella domanda aveva un tono diverso dalle altre: era precisa, seria e determinata.
«Cancro».
Gold smise di respirare, si voltò, strinse le labbra. «Porca puttana...»
Yellow avrebbe voluto chiedere a Gold di non dirlo agli altri, ma sapeva che non ce ne fosse bisogno, non lo avrebbe mai fatto senza il suo permesso.
 
Poco tempo dopo, Ruby e Sapphire avevano già raggiunto Ciclamipoli. Il Campione era entrato alla HC One insieme ad un ospite, Sapphire aveva visto le persone scostarsi con riverenza al passaggio di Ruby. Tutti lì dentro rispettavano molto la figura del Campione, oppure avevano solo bisogno di farsi vedere gentili ed educati nei suoi confronti per fare i ruffiani. Presero l’ascensore e salirono fino al tredicesimo piano, dove invece Ruby fu accolto con molta più freddezza. Si ritrovarono in un ambiente molto diverso dal resto del palazzo, in mezzo a piastrelle nere e corridoi scuri illuminati soltanto da neon.
«Questi sono della Faces» spiegò il ragazzo, quando nessuno poteva sentirli. «Si occupano di monitorare il lavoro».
Sapphire si aspettava qualcosa tipo “non parlare con loro” o “non guardarli negli occhi”, era circondata dagli uomini del nemico. Invece non vide altro che un gruppo di lavoratori concentrati sul loro lavoro. Due di loro erano in pausa e scherzavano a proposito di qualcosa riguardante la cognata di uno dei due davanti ad una macchinetta del caffè, uno la urtò per errore girando un angolo e fece cadere alcuni fogli che portava in mano, si scusò immediatamente e raccolse tutto in fretta, a testa china. Sapphire si rese conto che nella Faces, organizzazione che in pochi giorni avevano imparato a temere e detestare, lavoravano per la maggior parte uomini del tutto normali che sarebbero potuti essere suoi vicini di casa.
«Metti il badge, da qui in poi, altrimenti ti guarderanno male» le intimò Ruby porgendole un cartellino con la scritta VISITATORE da appendere al top.
Lei obbedì ed insieme entrarono in una zona più scura e meno trafficata rispetto alla precedente.
«Se te lo stai chiedendo, no, loro non sanno che dietro tutti gli avvenimenti degli ultimi giorni ci sia l’organizzazione per cui lavorano» aggiunse il ragazzo.
Sapphire se lo era effettivamente domandato ed era pure giunta a tale conclusione in autonomia. «Ci ero arrivata... come fa la Faces a nascondere certe cose ai propri operatori?» chiese.
«Settorializza le operazioni, permette a pochi di conoscere il quadro completo. Ad esempio, quelli che lavorano qui si occupano soltanto dell’immagine della Lega di Iridopoli, non conoscono il lavoro dei loro colleghi a Johto o a Unima» spiegò lui. «Inoltre, gli affari sporchi sono gestiti solo dai piani alti».
«Come il tuo ricatto?»
Ruby annuì. Due anni prima la Faces lo aveva costretto a lavorare per loro affermandosi come astro e idolo di Hoenn, tenendo sotto tiro i suoi amici e rivendicando l’assassinio dei suoi genitori come avvertimento. Sapphire lo aveva saputo quello stesso giorno, ancora doveva abituarsi all’idea.
Ruby raggiunse alcune sale in cui del personale lavorava nell’oscurità a progetti digitali su un numero immenso di schermi contemporaneamente, si chiuse dentro uno dei laboratori, chiedendo a Sapphire di attendere qualche minuto. La ragazza notò la minuzia in tutto ciò che veniva creato lì dentro: due designer si stavano occupando della revisione del formato delle medaglie di Hoenn e le sembrò davvero esagerata l’elaborazione dietro ogni singolo, piccolo particolare.
Sapphire attese per qualche minuto, finché una terza presenza esterna non raggiunse quel luogo. Una ragazza dai capelli tinti di verde e vestita con un costoso abitino turchese apparve in quei corridoi scuri e tetri come un fiore tra l’asfalto. Sembrava attentamente truccata e la sua pelle era talmente curata da farla somigliare ad una bambola. Si trattava di Orthilla, famosissima stella delle gare di Hoenn, seconda per fama soltanto a Ruby. Sapphire l’aveva vista più volte nelle sue comparsate televisive e anche nella prima fase della sua carriera, quando ancora accettava di andare a vedere le esibizioni del suo ragazzo, e lei era sempre presente, in veste di astro nascente.
Orthilla le passò accanto squadrandola senza salutarla. Nei suoi occhi, Sapphire lesse un lampo di rispetto, ma fu evidente che la ragazza tentò appositamente di ignorarla. Ruby uscì dalla stanza in cui era entrato, trovandosi faccia a faccia con lei.
«Eccoti» le sorrise.

«Come stai?» chiese lei con aria preoccupata, allungando le mani verso il corpo del ragazzo, come per sincerarsi che non fosse ferito. «Mi hanno detto cos’hai fatto».
«Va tutto bene, a me è andata bene» rispose Ruby, non evitando il suo contatto, ma neanche ricambiandolo.
«Buon compleanno» fece Othilla, dolcemente. «Ti ho portato un regalo, l’ho lasciato nel tuo appartamento».
«Grazie» rispose Ruby stringendo i denti.
La ragazza gli stampò un bacio sulla guancia. Poi il suo volto divenne più cupo.
«E’ orribile... quello che sta accadendo» mormorò lei.
Ruby distolse lo sguardo, senza ribattere. Quella frase fece comprendere a Sapphire che neanche Orthilla era a conoscenza della verità a proposito della Faces.
«Sono d’accordo con la mia idea, comunque» cambiò argomento Ruby. «se apparissi io in pubblico si percepirebbe meno la mia presenza sul luogo del disastro, sarebbe più indicata la tua presenza negli interventi televisivi dedicati agli incidenti» spiegò.
«Ok, vogliono che inizi subito?»
«Credo di sì, hanno già qualche idea, ti aspettano in studio» Ruby fece per congedarsi.
«Aspetta» lo intercettò Orthilla. «Non mi presenti la ragazza?» chiese sfoderando un sorriso privo di insicurezze.
«Lei è Sapphire, una Dexholder» fece Ruby, chiaramente seccato. «Orthilla, Coordinatrice» proseguì, invertendo i ruoli.
Le due si strinsero la mano.
«Molto piacere» si sforzò Sapphire.
«Vi conoscete da molto tempo» disse Orthilla. «Come mai non ci siamo mai incontrate? Ruby mi ha presentato tutti i suoi amici» l’aria di sfida era evidente nella sua voce.
«Neanche tu mi hai mai parlato di lei, in effetti» ribatté Sapphire, rivolta a Ruby.
Il ragazzo era davvero a disagio, i suoi occhi oscillavano tra le due femmine con forte insicurezza.
«Bene, abbiamo tutti da fare, adesso» le separò bruscamente, portando Sapphire via.
Orthilla rimase nella sua posizione, salutando i due. «Fa’ attenzione» disse a Ruby, senza nascondere la luce nel suo sguardo.
I Dexholder ripresero l’ascensore in un silenzio imbarazzante, Sapphire non proferì parola fino al piano terra.
«Siete grandi amici?» chiese poi, acidamente.
«Lei è una collega...» rispose Ruby, elusivo.
«Sono tutte così le tue colleghe?»
«Sapphire, che succede?»
I due uscirono dal palazzo. Il cielo si era tristemente rannuvolato e il grigiore sembrava star diventando sempre più scuro.
«Niente, figurati...» si interruppe bruscamente. Si era resa conto che le parole uscivano dalla sua bocca sotto forma di morbide nuvolette. «Oh merda...» commentò, stringendo le braccia all’addome.
«Che c’è?» chiese Ruby, senza capire.
«E’ gelido» rispose Sapphire.
«Come?» Sapphire si ricordò che le gemme nel corpo del ragazzo avevano un effetto termoregolatore sul suo organismo, il che gli impediva di percepire la temperatura e gli sbalzi termici.
«Guarda» fece lei, alludendo al vapore che fuoriusciva dalle loro bocche quando respiravano e alla sua pelle d’oca. «A Hoenn non è così freddo neanche d’inverno, ci saranno tipo dieci gradi» la sua voce era stupefatta.
In quel momento, mentre Ruby iniziava a comprendere e a stupirsi, il Cellulare di Sapphire squillò all’improvviso.
«Platinum, che c’è?» rispose lei, ancora scossa per l’improvvisa escursione termica.
Aveva conosciuto la Dexholder di Sinnoh al torneo di Vivalet. Lei aveva dato una mano nella lotta contro Rayquaza, poi aveva accettato di tornare a casa ad indagare nella propria regione, Sapphire non poteva accettare che una tredicenne venisse con loro a rischiare la vita. Platinum aveva accettato, compiendo un atto di umiltà, si sarebbe resa utile da lontano poiché comprendeva le motivazioni dell’amica.
«Sapphire» dalla voce, sembrava quasi in pericolo, era fortemente allarmata. «E’ successo qualcosa».

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1: Qualcosa di familiare ***


I
Qualcosa di familiare
 
 
«Di che parli?» chiese Sapphire, allertata.
«Non so per quanto ancora avremo copertura, dovete venire qui a Sinnoh» Platinum, dall’altra parte, sembrava ansimare. «Sta nevicando!» esclamò.
«Che cosa?» fece lei, non potendo credere alle proprie orecchie.
«Sta nevicando, sta nevicando ovunque, c’è una bufera in tutta la regione!»
Sapphire cercò di convincersi di essere sveglia. Era il due luglio, l’inizio dell’estate, quella mattina aveva indossato un top leggero e degli shorts, poiché la temperatura si aggirava attorno ai trentacinque gradi a Hoenn. Pochi istanti prima il cielo si era rannuvolato di colpo, il caldo era scomparso e il clima era all’improvviso diventato autunnale. Poi la chiamata di Platinum, secondo la quale a Sinnoh stava addirittura nevicando.
«Dici sul serio? Sai cosa sta succedendo?» chiese la Dexholder.
«No, è cominciato tutto all’improvviso, non può essere casuale, ho bisogno di voi» ripeté l’altra.
«Va bene...» Sapphire metabolizzò gli avvenimenti. «Saremo a Sinnoh prima possibile» e riagganciò.
«Che succede?» chiese Ruby, lì accanto.
«A Sinnoh c’è una bufera di neve» spiegò Sapphire.
Il ragazzo sembrò cercare di credere a quell’affermazione.
«Devo passare a casa, dobbiamo fare i bagagli, ci servono dei vestiti pesanti» stabilì Sapphire.
 
Gold, Green e Blue erano in ospedale. Non sapevano neanche loro cosa stessero aspettando: avevano ricevuto da Kalut la proposta di unirsi alla Resistenza, un gruppo segreto di persone il cui obbiettivo era quello di rovesciare la Faces e sradicarla. Tutti e tre erano disposti ad accettare, più per vendicare Silver, Crystal e Emerald, che per altro. Si erano ormai abituati ad affrontare nemici pericolosi, lo facevano da una vita e probabilmente lo avrebbero fatto fino alla morte. Eppure, quella volta sembrava tutto diverso. Un loro amico era morto davanti ai loro occhi, e non solo. Ciò che era accaduto attorno a loro li aveva completamente destabilizzati. Stavano immobilizzati in quella sala d’attesa, forse sperando che Silver si svegliasse dal coma tramite un miracolo o che Crystal scendesse dal suo letto su tutte e due le gambe.
Poi c’era Yellow, ricomparsa nelle ultime ore dopo esser andata via misteriosamente assieme a Red. La ragazza era stata aggiornata su tutto: Faces, Vivalet, Kalut. Non aveva mostrato grande stupore, sembrava quasi che fosse già a conoscenza di tutto.
Un numero immenso di persone erano entrate in quell’ospedale, sotto il controllo e la guida degli infermieri per ringraziare di persona coloro che avevano salvato un loro parente o che ci avevano anche solo provato. Avevano imparato a riconoscerli in anticipo: quelli che avevano perso qualcuno li fissavano con i loro occhi vuoti e scavati, la matura gratitudine nel loro sguardo era involontariamente nascosta dalla rassegnazione. I più scenografici, avevano persino portato fiori e doni di ogni genere per i due Dexholder che erano rimasti coinvolti nell’incidente. Fuori dalle stanze dei due, erano stati accatastati nastri e composizioni floreali colorate.
Ad un certo punto, Green sentì suonare il Cellulare. Era una chiamata da parte di Sapphire. Rispose immediatamente.
 
«Sì?»
«Sono io, papà».
Il professor Birch aprì la porta repentinamente. Abbracciò subito sua figlia, avevano parlato al telefono dopo gli avvenimenti di Porto Alghepoli, ma rivederla di persona dopo averla lasciata a rischiare la vita, era tutta un’altra cosa.
«Sono felice che tu stia bene» le disse. Poi, l’espressione dell’uomo mutò di colpo, quando questi vide chi aveva accompagnato Sapphire a casa. «Ruby» mormorò vacuamente, senza sapere come reagire.
«Salve, professore...» rispose lui al saluto.
«Ragazzo, è da una vita che non ci vediamo» fece l’uomo con debole stupore.
I due ragazzi furono accolti in casa, Sapphire notò l’imbarazzo che si era creato tra suo padre e Ruby e cercò di rompere il silenzio. Il Dexholder era evidentemente a disagio, rimase in piedi tra il salotto e la cucina, rigido, con le mani in tasca.
«Le temperature sono scese improvvisamente, eh?» fece Birch a sua figlia.
«A Sinnoh nevica».
L’uomo rimase interdetto.
«E anche forte, stiamo per andare là, sta succedendo qualcosa e probabilmente sta succedendo a Sinnoh» spiegò la figlia.
«Ok, prendi quello che ti serve, allora» la esortò.
Sapphire corse su per le scale, verso la propria camera. Cercò di ignorare l’espressione contrita di suo padre, che cercava di nascondere coraggiosamente la paura di perdere sua figlia, la quale aveva corso pericoli mortali per tutta la settimana precedente. Rimasero solo il professore e Ruby, in un imbarazzante silenzio. I due cercavano di decifrarsi a vicenda.
A Birch era stata frettolosamente spiegata dalla figlia la situazione di Ruby con la Faces, il ricatto e l’insieme di eventi che lo avevano spinto a intraprendere quel cammino. Tuttavia, la comprensione di Sapphire non era stata sufficiente a fargli cambiare idea: Ruby era cambiato, quel ragazzo era diventato un Dexholder ed era entrato nella sua vita come una giovane promessa. Lo aveva accolto a casa sua in veste di amico di sua figlia per poi vederlo diventare sempre più importante per lei. Sulle ultime, aveva più volte avuto paura di lasciar loro casa libera, come qualsiasi padre che vede crescere la propria bambina in un batter d’occhio. Era diventata grande in fretta, troppo in fretta. Poi, un giorno, tutto iniziò a mutare rapidamente. Notava che i due cominciarono ad uscire sempre meno, Ruby non si vedeva più nei paraggi e Sapphire iniziava a restare chiusa da sola in camera sua sempre più tempo. Non era mai stato un padre invadente: lo stesso numero di sguardi che era stato sufficiente per fargli individuare l’inizio di una relazione era poi bastato per individuarne la fine. Poco tempo dopo, quel ragazzo era divenuto Campione di Hoenn e la sua faccia aveva iniziato a comparire su ogni rivista e canale televisivo. Contemporaneamente, la sua Sapphire aveva deciso di andare a conquistare le medaglie di ogni regione e divenne evidente che, più tempo riusciva a stare lontana da Hoenn, meglio stava. Il sentimento di paternità lo aveva portato a detestare il ragazzo che aveva spezzato il cuore di sua figlia e che era sparito ignorando tutti i suoi vecchi amici, mentre il gruppo dei Dexholder di Hoenn, Johto e Kanto aveva iniziato a stringere un legame sempre più forte.
«Com’è la vita da Campione della Lega?» chiese il professore, evitando argomenti legati agli ultimi giorni, poiché avrebbero toccato anche Sapphire.
Ruby sembrò stupito ma sollevato dalla domanda «Oh, è strano, anche dopo un anno e mezzo...» rispose.
«Un anno e mezzo, già... è un lungo periodo» mormorò Birch, non potendo evitare un velo di cattiveria.
«Non ci si abitua mai» ribatté Ruby, senza entusiasmo.
A quel punto nessuno dei due sapeva se stessero parlando della sua carica di Campione o del tempo che Sapphire aveva passato lontana da lui.
«Lino, invece, come se la passa?» chiese il professore.
«Lui, beh... sta bene, è felice di essere diventato il successore di papà, ma è triste per il fatto che se ne sia andato» Ruby esitò per un istante prima di pronunciare quelle parole.
«Manca molto anche a te?» lo sguardo di Birch si era fatto più comprensivo. L’argomento dei genitori di Ruby lo aveva toccato sul vivo, essendo più vicino alla propria sensibilità. D’altronde, anche Sapphire aveva perso sua madre moltissimi anni prima, tale tratto comune gli permetteva di mostrare un po’ più di pietà nei confronti del ragazzo.
Ruby sorrise amaramente. «Di nuovo, non ci si abitua mai» per una volta ricambiò il suo sguardo, dopo aver fissato le piastrelle dal primo momento in cui era entrato in quella casa.
«Senti» cominciò Birch dopo una breve pausa «so che gli ultimi due anni sono stati... particolari» utilizzò un eufemismo «ma io ti ho conosciuto molto bene e so che non sei una cattiva persona».
«Grazie» fece Ruby.
«Tuttavia ormai sei un adulto e hai delle responsabilità» proseguì «sii sempre onesto con gli altri, prendi sul serio la tua carica. E soprattutto, non azzardarti a far soffrire Sapphire, non una seconda volta» gli intimò in tono quasi minaccioso.
Sapphire era appena uscita dalla sua camera con in spalla la valigia pronta, era arrivata giusto in tempo per sentire la parte finale della conversazione. Ferma sul primo gradino, ascoltava senza essere vista e osservava suo padre, seduto e con le mani unite davanti al volto, nei suoi occhi leggeva la determinazione e il conflitto, poco distante c’era Ruby, a braccia conserte e testa china, immobile in mezzo alla stanza.
«Proteggila a qualsiasi costo» concluse il professor Birch.
La ragazza si rese conto della situazione assurda, in televisione e nella vita delle persone normali, i genitori si raccomandano a proposito di velleità come l’orario di rientro e le effusioni di affetto troppo spinte. Lei aveva appena sentito suo padre chiedere a Ruby di prendersi le sue responsabilità in quanto uomo più potente della regione e di difendere sua figlia davanti a qualsiasi pericolo mortale.
Ruby annuiva sommessamente.
«Pa’, dove sono i doposcì?» chiese a voce alta dal piano di sopra, soltanto per spezzare quella tensione che si era creata tra i due interlocutori.
«Nella cabina armadio, ricordi?» rispose Birch.
«Sì, adesso sì. Grazie».
Ruby sembrò apprezzare quella pausa concessa. Riuscì a rilassarsi per qualche istante. Poi Sapphire tornò al pianterreno. Aveva indossato un maglione bordeaux e dei pantaloni neri, calzava un paio di Dr. Martens e portava in una mano una grossa valigia e nell’altra un cappotto lungo.
«Ho preso tutto, andiamo» fece.
Ruby entrò in modalità gentleman e le tolse di mano la valigia, perché potesse portarla lui.
«Io aspetto fuori» disse, immaginando che Birch volesse rimanere solo con la figlia per salutarla. E così uscì fuori, senza avvertire lo sbalzo di temperatura tra l’esterno e l’interno, a causa degli effetti delle gemme sul suo corpo.
Sapphire rimase sulla porta di casa, il professore la abbracciò e lei lo strinse ricambiando il suo affetto.
«So che sarebbe impossibile convincerti a restare» disse lui, cupamente.
«Ce la faremo, papà» cercò di rassicurarlo lei.
«Sei stata forte, piccola. Ora dovrai esserlo ancora di più» non voleva lasciarla, aveva come l’idea che se l’avesse fatta sfuggire dalle sue braccia, sua figlia se ne sarebbe andata per sempre.
Ruby fu raggiunto da Sapphire sul vialetto di casa. Birch salutava entrambi dall’uscio, comunicava con lo sguardo col ragazzo dagli occhi di brace, intimandogli di tenere a mente le sue parole. Il professore li vide prendere il volo su Latios e Latias, avviandosi fianco a fianco verso l’ospedale, dove si sarebbero riuniti con i loro amici.
«Pensi che gli altri verranno con noi?» chiese il ragazzo.
«Non lo so, suppongo che prima vorranno tornare anche loro a prendere dei bagagli un po’ più pesanti» rispose Sapphire.
Il suono del vento sferzante e dell’aria che stavano cavalcando ad alta velocità li obbligava a gridare forte per sentirsi a vicenda. Ruby si rese conto di starsi voltando a guardarla troppe volte: il freddo aveva colorato il suo volto di un debole rossore nell’area del naso e degli zigomi, cosa che trovava tenerissima. Il bellissimo panorama che si stagliava sotto di loro sembrava slacciato dal mondo reale. Sicuramente, tutta Hoenn, già scossa per gli avvenimenti di quella notte, stava entrando nel panico per l’improvviso cambiamento delle temperature; eppure, dal loro punto di vista, la loro regione appariva calma, incorruttibile e immobile nel tempo.
«Prima mi ha contattato Lino, ci aspetterà a Iridopoli» annunciò Ruby ad un certo punto.
«Mi fa piacere, non ci scambio due parole da un bel po’» lei e quel ragazzo non avevano mai avuto lo stesso rapporto di amicizia che univa Lino con Ruby. Oltretutto, dopo la sua elezione a Capopalestra di Petalipoli, avevano perso sempre più i contatti.
Dopo poco tempo, sorvolati Albanova, Ciclamipoli e il Monte Pira, cominciarono a scorgere in lontananza la cittadina di Porto Alghepoli, con la sua forma a terrazze e le sue spiagge panoramiche. Nella zona dove sorgeva il palazzo della Faces, aleggiava ancora una debole cappa di polveri. Le macerie di cemento e lamiere erano visibili da molto lontano, le squadre stavano già agendo con i mezzi per liberare quell’area e ripulirla dai resti divelti della torre demolita.
Pochi minuti dopo, atterrarono di fronte all’ospedale. Ritrovarono gli altri nella stessa sala in cui li avevano lasciati. L’aria della squadra era tetra e cupa, ognuno affrontava l’inquietudine a modo suo: Yellow se ne stava in disparte, Gold camminava senza pace tra i corridoi, evitando persino di lanciare occhiate alle infermiere, Blue e Green parlottavano tra loro, sembravano discutere di faccende private.
Il gruppo si riunì, Ruby e Sapphire chiesero di eventuali novità a proposito di Silver e Crystal, ma non ebbe responsi.
«Secondo voi che cosa sta accadendo?» domandò Blue, spostando il discorso sul clima.
«Potrebbe essere qualcosa che ha a che fare con Rayquaza?» tentò Green.
«Ne dubito, è successo troppo in ritardo e, inoltre, perché la morte di Rayquaza dovrebbe giustificare un raffreddamento generale dell’aria?» rispose Ruby.
«Siamo soltanto sicuri che il centro focale di questi avvenimenti sia Sinnoh, ho visto il tg ed è lì che le condizioni sembrano più estreme: lì è diventato di colpo inverno, a Kanto e Johto, che sono le regioni più vicine, la temperatura è scesa di oltre venti gradi e qui, lo abbiamo visto, di poco meno» specificò il Capopalestra di Smeraldopoli «inoltre...» lasciò la parola a Gold.
«Sono stato contattato di nuovo da Aurora, che ci chiede di raggiungere lei e altri membri della Resistenza a Evopoli» asserì Gold «andiamo immediatamente».
«Io e Ruby prenderemo il suo aereo privato a Iridopoli, potete venire anche voi» propose Sapphire.
«Io ho bisogno di fare i bagagli, intendo tornare prima a Kanto» rispose Blue.
«E io vado con lei» si aggiunse Green.
«Comprerò quello di cui ho bisogno prima di partire, vengo con voi, non voglio perdere tempo» sostenne invece Gold. Il ragazzo non si era mai fatto scrupoli a proposito delle spese per il guardaroba.
«Yellow?» chiese Sapphire.
Tutto il gruppo si voltò verso la biondina. L’indecisione le si leggeva negli occhi.
«Credo che, per ora, io resterò con Crystal e Silver» affermò, insicura.
Il resto del gruppo comprese lentamente: mentre i suoi amici rischiavano la vita lei era scomparsa assieme a Red senza far parola con nessuno. Si sentiva in colpa per non essere stata al loro fianco.
«Abbiamo bisogno di un piano d’azione» propose Blue, cambiando argomento.
«Dopo Evopoli, voglio trovare Platinum» ribatté Sapphire, che era ormai divenuta l’anello di congiunzione tra i suoi amici e la Dexholder di Sinnoh.
«E’ tutto bellissimo, ma possiamo iniziare ad andare» ripeté Gold, impaziente.
Tutti erano d’accordo.
«Prima, però, vorrei provare a parlare con Crystal» annunciò Sapphire.
Dopo aver chiesto il permesso ai medici, ottenne il lasciapassare per visitare di nuovo la stanza della sua amica. Entrò sola, incontrando lo sguardo scavato della ragazza di Johto da dietro il vassoio del pranzo, che non era stato nemmeno toccato, ovviamente. La Catcher era ancora attaccata alla flebo, probabilmente di antidolorifici, con la mano destra stringeva il lenzuolo nel punto in cui avrebbe dovuto esserci la sua gamba. Non emetteva alcun suono, non sembrava nemmeno in grado di respirare.
«Ehi...» mormorò Sapphire, non avvicinandosi troppo a lei, come per evitare di provocarla.
Crystal non rispose, si limitò ad incrociare il suo sguardo.
«Noi stiamo partendo per Sinnoh, sta succedendo qualcosa...» tentò di rompere il ghiaccio, anche se quelle erano informazioni ovvie, l’amica aveva sicuramente seguito gli avvenimenti tramite la televisione che aveva in camera. «Ci dispiace per tutto, Crys» le veniva quasi da piangere.
L’amica taceva ancora, stringendo sempre più quel nodo che Sapphire avvertiva attorno allo stomaco.
«Mi dispiace per averti fatto stare male...» tentò ancora.
A quel punto, Crystal si mosse. Alzò la schiena, sollevandosi appena e allungò le mani verso la sua borsa che giaceva su una sedia nei pressi del letto.
«Attenta, non sforzarti troppo» era intervenuta Sapphire.
Ma quella non aveva dato segni di debolezza: aprì la borsa, cercò attentamente all’interno e ne estrasse il proprio Pokédex. Lo osservò per un breve istante, poi lo poggiò sul comodino, il più lontano possibile da se stessa.
«A me non serve più» sussurrò con voce spenta.
Sapphire rimase basita. Non seppe più come muoversi né cosa fare.
Il gruppo la vide uscire da quella stanza poco dopo. Aveva in mano qualcosa che riconobbero subito: era il Pokédex di Crystal. La ragazza spiegò brevemente gli avvenimenti. Il messaggio era chiaro: la ragazza aveva mollato.
 
Nel primo pomeriggio, i due lembi del gruppo si erano già separati: Blue e Green si erano avviati verso Ciclamipoli per prendere l’aereo che li avrebbe condotti a Kanto, Gold, Ruby e Sapphire erano invece in volo verso Iridopoli. Gold aveva comprato una giacca pesante e una sciarpa in un negozio di Porto Alghepoli per affrontare il lungo volo in altitudine senza uscirne con una polmonite. Quando avvistarono in lontananza l’arcobaleno creato dalla grande cascata stagliata di fronte all’entrata della Via Vittoria, si prepararono all’atterraggio. Scesero sulle mattonelle del viale, di fronte alla sede della Lega. Di fronte a loro si ergeva il sontuoso palazzo rosso e arancione costruito vari anni prima dai suoi fondatori. Lì davanti, in un cappotto bianco col bavero alto e con dei grossi scarponi ai piedi, c’era Lino.
Il Capopalestra di Petalipoli andò incontro a Ruby, abbracciandolo fraternamente con un braccio solo. In seguito salutò con maggiore educazione Gold e soprattutto Sapphire.
«Siete stati provvidenziali» li elogiò. «Mi dispiace per Silver e Crystal... ho saputo» disse cupamente.
Gold non ribatteva, Sapphire lo scrutava con occhi indagatori. Aveva conosciuto Lino quando era ancora un ragazzino pieno di insicurezze e paure, quello che aveva davanti in quel momento era un Allenatore più maturo e disilluso. Sembrava che le sue mille incertezze fossero state rimpiazzate dalle deprimenti conclusioni a cui giunge chi diventa adulto troppo presto. Non aveva mai notato come la sua personalità era mutata: la morte del suo mentore, Norman, il piano della Faces che aveva coinvolto Ruby e infine gli avvenimenti di Vivalet dovevano averlo trasformato dal profondo. Non aveva mai visto i suoi occhi così spenti e il suo sorriso così forzato.
«Come stai?» gli chiese quasi involontariamente, lasciando che uno dei suoi pensieri sfuggisse al suo controllo, fluendo all’esterno.
Lui sembrò stupito positivamente dalla domanda e attese qualche istante prima di rispondere: «Ho avuto giorni migliori» rassegnato e sincero, senza alcuna formula emolliente.
«Dobbiamo capire cosa sta succedendo ora a Sinnoh» spiegò Ruby.
«Doveste avere bisogno di aiuto...» suggerì.
«Grazie ma... ti preferisco qui a Hoenn. Tienila al sicuro, ok?» Ruby sembrava avere forte fiducia nel suo amico. Dopotutto, era anche quel ragazzo parte del retaggio che suo padre aveva lasciato dopo la morte.
«Stanne certo» non c’era entusiasmo in quella sua risposta.
«Comunque, cosa dovevi dirmi di importante?» cercò di sintetizzare Ruby.
Lino annuì, ripensando a ciò che contava davvero, in quel momento «Ho ricevuto un messaggio da lei» fece un’allusione che Ruby doveva evidentemente cogliore.
«E?» chiese Ruby.
«Ha trovato quello che cercava» gli porse un foglio piegato più volte su se stesso che Ruby infilò prontamente in tasca, senza neanche leggerlo.
Il loro linguaggio criptico disturbò non poco Gold e Sapphire, che però non potevano pretendere spiegazioni, essendo loro gli ospiti.
«Va bene, dille che potrà ricominciare a contattare direttamente me, adesso» Ruby sembrava soddisfatto. «Non preoccuparti, ti terrò comunque aggiornato» lo rassicurò.
«Ok, allora ci vediamo la prossima volta» Lino volle congedarsi.
I due si salutarono una seconda volta, il ragazzo dai capelli verdi si spostò per lasciarli passare.
«Ciao, Sapphire» le disse, vedendola allontanarsi, con grande stupore della ragazza.
Lino rimase così indietro, mentre loro entravano nel palazzo della Lega. Ruby li guidò all’interno degli appartamenti, i quali erano vuoti, dato che i Superquattro si trovavano nelle loro residenze private e non dormivano nelle sistemazioni fornite sul luogo di lavoro. I tre raggiunsero in fine la residenza di Ruby, che pure aveva una villa personale a Verdeazzupoli, ma aveva sostenuto di poter attingere a tutto il necessario per partire alla volta Sinnoh dall’appartamento a Iridopoli. Si cambiò in fretta, indossando vestiti pesanti che servivano solo per entrare nel mood della situazione, considerando che il suo corpo non percepiva più le temperature. Sapphire e Gold erano appena fuori dalla porta, quando lui tolse la maglia. Con una smorfia di disgusto, posarono gli occhi sulle linee scavate nel suo corpo. Le gemme avevano impresso dei complicati disegni rossi e blu sull’epidermide del giovane, creando complicati tatuaggi bicromatici aventi origine dal suo petto ed estesi fino alle spalle e all’addome. Sulla schiena, inoltre, Ruby mostrava delle evidenti ferite cicatrizzate sulla schiena, sulle braccia e sui fianchi, alcune rimediate dopo uno spiacevole incontro con una Sapphire incazzata e altre causate dal violento testa a testa avuto con Zero. Queste erano state cauterizzate all’istante, come se il suo corpo si fosse rigenerato: era un altro degli effetti delle sfere, purtroppo i segni erano rimasti, e più che evidenti.
«Non lo fai più il modello di intimo, con quelle» commentò Gold.
Sia Sapphire che Ruby rimasero stupiti dal suo intervento. Era sarcasmo, per quanto scialbo, ma aveva spezzato la freddezza con cui gli altri Dexholder avevano trattato il ragazzo da quando avevano ricominciato a parlare.
Ruby finì di vestirsi e si accinse a preparare la valigia «rovinano la mia immagine, in effetti» rispose, l’esteta.
Due minuti dopo uscirono di lì, alla fine Ruby aveva preparato un secondo bagaglio pure per Gold, prestandogli qualche panno che avrebbe potuto tornare utile a Sinnoh. Giunsero sulla pista di atterraggio retrostante alla Lega. Gli addetti alla sua gestione erano relativamente pochi, ma avevano richiesto l’allerta di Ruby almeno qualche ora prima dell’orario di partenza. Sia Gold che Sapphire rimasero lievemente stupiti di fronte all’immagine del jet privato del Campione, che peraltro era stato risistemato poco prima del torneo di Vivalet. Aveva una aerodinamica linea sottile, una cromatura nera con particolari rossi e la scritta in stile minimale Lega Pokémon di Hoenn sulla fiancata. Salirono sulle scalette ed entrarono, rimanendo basiti alla vista di quei raffinatissimi ambienti: sedili in pelle e moquette, ripiani in legno e persino qualche particolare in marmo. In una zona più ombreggiata e colorata della sezione centrale, c’era persino quello che sembrava un palo da pole dance.
Gold rise osservando lo spettacolo che era quel velivolo «si aspettava che ci facessi divertire durante il viaggio, con quello» commentò sottovoce a Sapphire.
Questa arrossì per pudore e gli diede una gomitata, sorridendo però alla battuta.
Ruby fece salire a bordo i due, che si sistemarono immediatamente sulle poltroncine nere a vicino ai secchi col ghiaccio «mettetevi comodi» suggerì «abbiamo parecchia strada da fare prima di arrivare a Sinnoh».

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Capitolo 3
*** Capitolo 2: Ceramica ***


II
Ceramica
 
 
Dalla cabina dell’aereo si udiva il debole rumore dei motori in funzione. Sapphire guardava le nuvole fuori dal finestrino scorgendo di tanto in tanto qualche piccolo frammento del paesaggio sottostante. Volavano da quasi un’ora, ma le sembrava di aver sprecato un pomeriggio intero. Ruby aveva lavorato al PC scambiando qualche parola con lei solo di tanto in tanto e Gold si era appisolato quasi subito su quei comodissimi sedili di prima classe.
Sapphire avrebbe voluto chiacchierare con Ruby, aveva bisogno di comprendere molte cose a proposito di... loro due. Lei lo aveva baciato, il giorno prima. Era avvenuto durante la lotta contro Zero, quando erano in pericolo e, si sa, tutti si amano nel pericolo, lo aveva imparato dai film americani. Ma comunque, quel bacio c’era stato. Poi, non era accaduto nient’altro. Non avevano avuto modo di parlare o di chiarirsi. Lei non era neanche più tanto sicura che quel ragazzo fosse innamorato di lei. D’altronde, non ne aveva mai davvero avuto la certezza.
«Simpatica, la tua amica... come hai detto che si chiama?» disse, prendendo coraggio.
«Orthilla?» chiese Ruby, ridendo.
Era evidente che la battuta altezzosa del non ricordo il suo nome non funzionasse quando la persona in questione era una star famosissima in tutta Hoenn.
«Sì, quella» arrossì Sapphire.
«Che vuoi sapere?»
«Da quanto vi conoscete?»
Ruby levò gli occhi dallo schermo del portatile e tolse gli occhiali. Controllò che non ci fossero hostess nei paraggi e che Gold dormisse profondamente. Sorrideva, forse aveva percepito la nota di gelosia nella sua voce.
«Lei era una Coordinatrice emergente, aveva talento. Ha fatto carriera e ci siamo ritrovati più volte a lavorare insieme» riassunse lui.
«Sa qualcosa a proposito della Faces?»
«Sa che lavoriamo per loro, non sa che sono dei criminali e che lo facciamo perché siamo costretti».
«Tu sei costretto, quindi lavora per te» dedusse lei.
«Lavora per me» confermò il ragazzo.
Sapphire non sapeva come continuare. Sperava che l’argomento Orthilla la aiutasse a tirare fuori a Ruby qualche informazione in più a proposito della sua vita amorosa, ma si era messa all’angolo da sola. Decise allora di far ricorso all’eleganza: «Te la sei fatta?»
Ruby sgranò gli occhi. Sapphire cercava di mantenere un’espressione di distacco, ma non poteva controllare il rossore che aveva invaso le sue guance.
«No, Sapphire» rispose il ragazzo.
«Ok» mormorò lei.
Per un intero minuto, i due evitarono di guardarsi negli occhi, nel silenzio imbarazzante.
«Tu, invece?» chiese.
«Io cosa?» Sapphire aveva frainteso la domanda.
«Hai qualcosa da raccontarmi... di questi due anni?»
«Oh. Beh, ho viaggiato molto» generalizzò «ho visto tanti bei posti...» era evidente che non sapesse cosa dire.
«Ho fame» grugnì Gold, aprendo gli occhi.
Ruby e Sapphire si resero conto in quel momento che probabilmente il ragazzo aveva ascoltato tutta la loro conversazione. In effetti, il sorrisetto che aveva sotto i baffi faceva ben intendere cosa ne pensasse.
Dieci minuti dopo, stavano mangiando sashimi accompagnato da sakè caldo. Le due hostess impeccabilmente truccate che si erano occupate di servirli indossavano un uniforme con lo stemma della regione di Hoenn sul petto.
«Abbiamo già viaggiato per Sinnoh insieme» affermò Gold, prima di portarsi alla bocca un pezzo di salmone.
«Tu e Sapphire?» chiese Ruby.
Quello annuì «bellissima» commentò «Sinnoh intendo».
Ruby contrasse il volto in un’impercettibile smorfia.
 
Green e Blue avevano raggiunto Kanto, riscontrando anche lì una temperatura molto più bassa del normale. I due avevano viaggiato scambiandosi pochi sguardi e qualche rara parola. Non c’era poi tanto di cui parlare, stavano attraversando uno di quei momenti in cui le chiacchiere erano superflue e tutti avevano solo bisogno di distrarsi o di non essere infastiditi.
«Potremmo passare prima a casa mia? Ho davvero bisogno di prendere alcuni vestiti» chiese Blue, mentre sorvolavano Zafferanopoli.
«Ok, ma fai in fretta» acconsentì Green.
La coppia scese precipitosamente verso la zona residenziale. Un anno prima, Blue aveva preso un piccolo appartamentino da settanta metri quadri al sesto piano di una vecchia palazzina di periferia. Non era casa sua, o meglio, lei non la considerava tale. Era la sua base, il luogo in cui ritirarsi temporaneamente tra un viaggio all’estero ed un altro. Lo aveva acquistato solo per la necessità di autonomia e di uno spazio personale al di fuori dalla casa dei suoi genitori. Green era entrato in quell’appartamento soltanto una volta, parecchio tempo prima, ma il ricordo era parecchio vivido. Quelle immagini cominciarono a riaffiorare alla sua mente non appena mise i piedi sullo zerbino con la scritta: ricorda di portare il vino.
Qualche secolo prima, aveva invitato Blue a cena, andando a prenderla a casa dei suoi. Quando si hanno ormai vent’anni le ragazze vanno invitate a cena, e non l’aveva mica portata in un ristorantino da quattro soldi, ma nel miglior bistrot che con il suo stipendio da Capopalestra aveva potuto permettersi. Da quel momento tutto era andato in discesa, la loro “relazione seria” sembrava funzionare, le cose andavano bene, nelle loro grandi differenze avevano trovato una sorta di armonia.
Poi Blue aveva cercato più libertà: era un periodo di cambiamento per lei, si era resa conto di aver raggiunto gli ultimi anni della propria gioventù e di star per entrare nell’età adulta. La cosa la spaventava, ma lei non se ne era ancora resa conto. Aveva stretto un forte legame con Sapphire, le due ragazze avevano cominciato a viaggiare in lungo e in largo. E intanto, la sua relazione con Green aveva iniziato a scricchiolare. Stare in compagnia di una ragazza che pativa per amore di un ragazzo non l’aveva certamente avvicinata al suo fidanzato. Un giorno, Blue era tornata a Kanto, intenzionata a dare al suo partner un’ultima possibilità. Aveva chiesto a Green di portarla fuori, spiegandogli la situazione.
Il ragazzo si trovò di nuovo a quel giorno, mentre Blue gli apriva per la prima volta dopo tanto tempo la porta di casa. Gli sembrava di essere di nuovo in giacca e camicia, con un grosso mazzo di fiori, in ansia per il suo secondo-primo appuntamento in cui la loro relazione avrebbe preso una tra le due strade possibili: terminare immediatamente o durare per sempre. Lei aveva aperto, bellissima come sempre, e insieme erano usciti. Avevano scherzato e riso tutta la sera, si erano guardati negli occhi come se non conoscessero già a memoria i loro rispettivi volti, si erano baciati lentamente e con tenerezza, come due liceali con i libri negli zainetti. Poi lui l’aveva accompagnata a casa e lei lo aveva maliziosamente invitato a salire. Si erano saltati addosso nell’ascensore, incapaci di attendere fino al sesto piano. Lui la baciava sul collo, lei lo stringeva a sé per la giacca. Poi lo scatto della serratura: il salotto di casa nuova e il suo corpo che sgusciava fuori dal vestito, i mobili vintage ripitturati da lei e la cravatta di Green stretta tra le sue unghie smaltate, i suoi quadri di ritagli di giornale e il colletto della camicia macchiato di rossetto.
“No!” aveva gridato.
Green era rimasto congelato. Teneva ancora una mano sulla sua coscia e l’altra nel mozzato tentativo di toglierle il reggiseno. Lo aveva allontanato con le mani, respirando a fatica. Il suo fiato era caldo, ma il suo sguardo era glaciale. Si fissavano, immobili. Blue aveva realizzato che non c’era più niente, che era una donna cambiata, e che Green faceva parte della sua vecchia vita.
“No” aveva ripetuto.
Green aveva capito. Si era rivestito alla ben e meglio, aveva preso la cravatta ed era uscito dall’appartamento, chiudendosi la porta alle spalle. Blue era caduta a terra, mezza nuda, col trucco sbavato e i capelli spettinati. Seduta sul freddo pavimento, aveva pianto tutta la notte.
Un anno dopo, Green tornava in quell’appartamento. Tra lui e Blue perdurava ancora un silenzioso accordo: nessuno avrebbe parlato di niente. E così erano riusciti ad essere amici, senza mai chiarirsi sul perché la loro relazione fosse deragliata.
«Scusa il disordine» mormorò Blue, mentre o invitava ad entrare. Era una frase di circostanza, ma risultava terribilmente adatta a quel contesto: casa sua era un disastro.
Green dedicò particolare attenzione alle innumerevoli tele dipinte abbandonate sul pavimento, su alcune erano perfettamente individuabili le impronte di vernice di alcuni piccoli Pokémon. Appesi al muro c’erano dei quadri nuovi: fiori secchi schiacciati tra lo sfondo di velluto e il vetro che li sigillava: Blue si era resa conto di non riuscire a gestire delle piante, essendo a casa un giorno no e l’altro neanche, quindi aveva ovviato al problema in quel modo. Nella camera della ragazza, sopra al futon blu mezzanotte, pendeva una nuvola di lampadine appese con dei fili colorati. Era sicuramente un’abitazione eccentrica, ma Blue non era mai stata famosa per la sua banalità.
Green pensò di fare apprezzamenti su certe scelte di arredamento; per lui, accanito compratore di mobili Ikea, tutto quel caos era praticamente una magia. Cambiò idea all’ultimo, per evitare di essere frainteso.
«Mi sbrigo, devo solo fare qualche bagaglio» lo rassicurò lei, spalancando l’enorme armadio a muro. «Prenditi qualcosa da bere, dovrei avere un succo di frutta o qualcosa di simile in frigo».
Green non rispose ed entrò in cucina. Il piano cottura era disordinato e pieno di cianfrusaglie, ma i fornelli sembravano essere stati utilizzati sì e no tre volte: Blue non era mai stata un’appassionata di cucina; al contrario, il forno a microonde sembrava come appena uscito da una guerra. Il ragazzo aprì il frigorifero, faticando ad individuare la maniglia, in mezzo a quella fitta corazza di calamite e adesivi di cui era ricoperto. Trovò due cartoni di latte talmente inacidito da essere potenzialmente fatale, un bricchetto di succo ACE mai aperto ma scaduto da sei mesi, una brocca d’acqua, una confezione sigillata di insalata di riso inutilmente messa in frigo e infine un pacco dai sei Tennent’s miracolosamente ancora bevibili. Ne afferrò due, stappandosi la prima sullo spigolo del tavolo. Sorseggiando il liquido dorato, gettò un occhio alla lavagnetta delle cose da fare magnetica attaccata al frigorifero. Lesse i due punti che ancora non erano stati spuntati: compra divano nuovo e visita ginecologica Yellow il 15/06. Rifletté che il quindici giugno era passato da quasi un mese, ragion per cui Blue non rientrava a casa da prima di quel giorno, altrimenti avrebbe spuntato l’impegno. Oltretutto, non gli era chiaro per quale motivo la ragazza avrebbe dovuto segnarsi la data della visita dal ginecologo di una sua amica. Un piccolo germoglio di dubbio cominciò a mettere le radici nel suo cervello, continuò a sorseggiare la birra per non pensarci, non era mai stato un fan sfegatato dei fatti altrui.
«Prendo il cappotto verde o il giaccone nero?» chiese Blue dall’altra stanza.
Green, non conoscendo la differenza tra i termini cappotto e giaccone, dovette raggiungerla per poter dare un’opinione ponderata.
La trovò immersa in un mare di vestiti riversati disordinatamente a terra, aveva indossato dei pantacollant neri strappati in più punti e una grossa felpa col cappuccio, in testa si era messa una cuffia di lana di colore rosso. Nelle mani stringeva due soprabiti completamente differenti, ma che Green, nella sua mente, aveva effettivamente identificato con la stessa parola.
«Quello lì» decise Green, indicandone placidamente uno a caso, tanto a Blue stava sempre tutto bene.
«Non esserne così entusiasta» borbottò.
Green non ribatté.
«Questo me lo hai comprato tu» aggiunse la ragazza, con un filo di voce.
Ottimo, Green Oak, te ne eri dimenticato. Effettivamente, il Capopalestra di Smeraldopoli aveva qualche vago ricordo che lo rimandava alle innumerevoli passeggiatine per negozi in compagnia di Blue alla ricerca di questo vestito Tommy Hilfiger o di quel profumo Versace. Tuttavia, le memorie più vivide riguardavano solo i prezzi esorbitanti e mai la natura dell’articolo acquistato.
«Dici sul serio?» chiese, non sapendo cos’altro dire.
«Delicato, Green» rispose visibilmente delusa, voltandogli le spalle.
«Dai...» si lamentò il ragazzo.
Blue continuò ad ignorarlo, sigillandosi le labbra.
«Va bene, in fondo sei stata tu a lasciarmi» rinunciò lui.
Lungo la schiena di Blue corse un brivido, lo scossone che ebbe al sentire le parole di Green fu più che evidente. Il Capopalestra di Smeraldopoli rotto il patto: improvvisamente, quello che fino a pochi istanti prima era il suo amico era tornato ad essere il suo ex ragazzo con cui aveva rotto bruscamente.
«Vuoi veramente parlare di questo?» chiese lei, indignata.
«No, ovviamente no, non serve parlarne» Green era acidamente sarcastico «non lo abbiamo mai fatto, perché mai dovremmo iniziare?»
«Ok, Mister Maturità, parliamone allora! Se davvero ne hai così tanto bisogno possiamo pure farne un saggio scritto».
«Dio, come mi dai fastidio quando fai così!»
«Dimmi una sola cosa che non ti dia fastidio, ti prego».
«Cerco solo di... argh, maledizione! Cerco solo di capire cosa ti frulla in testa».
«A che cosa serve? Tanto ti darei comunque fastidio!»
«Ci sono stato male, ok?!» gridò infine Green.
Blue era sul punto di rispondere aspramente, ma nessuna battuta fuoriuscì dalla sua bocca.
«Io ci credevo, mi piacevi veramente» disse, apparendo più calmo «poi tutto è precipitato e... niente, mi hai cacciato di casa e due settimane dopo tu eri di nuovo chissà dove con Sapphire in qualche posto lontano a divertirti con uno sconosciuto mentre io ero chiuso in quella maledetta palestra da solo» Green alternava deboli sguardi al terreno e amari sorrisi nei confronti della sua ex fidanzata.
Il ragazzo era ormai partito per la tangente. Blue si rese conto solo in quel momento di come dietro quella scorza dura ci fosse comunque un essere umano. Anche quando erano stati insieme, non aveva mai scoperto quel lato fragile di Green, non ne aveva mai avuto modo. Solo lì, riuscì a capirlo davvero. Lo vide mentre cercava di convincersi che la sua vita non era proprio da buttare e che forse condividerla con qualcuno l’avrebbe resa un poco migliore, per poi vedere ogni sua prospettiva era crollare in un solo momento lasciandolo solo e abbandonato, nella solita monotonia.
«Senti... lasciamo stare» il ragazzo mise le mani in tasca e si avviò verso l’uscita.
Blue si accorse in quel momento di star rimanendo immobile mentre Green lasciava quell’appartamento per la seconda volta. Lo fissava, vedendo ogni sua mossa al rallentatore. E nel frattempo, sentiva che una parte di sé chiedeva con insistenza di prenderlo per un braccio e costringerlo a rimanere. Quella parte di Blue aveva già sofferto troppo per poter tirare avanti ancora: aveva visto Emerald morire e Red voltare le spalle alla squadra, aveva visto Silver immobile sul letto di un ospedale, attaccato ad un elettrocardiogramma, e Crystal perdere ogni speranza e mollare il gruppo. Si sentiva abbandonata e maltrattata, aveva perso ogni punto fermo, le sembrava quasi che ogni singolo momento felice della sua vita dovesse risultare vano, alla fine.
«Aspetta» mormorò, con un filo di voce «non andartene» disse quella parte di Blue.
Green si immobilizzò «dammi un motivo per restare» sibilò.
Tutti se ne erano andati, ormai. Tutto il castello di carte che era la sua vita sembrava crollare sotto il soffio del vento. Persino lui la stava lasciando. Di nuovo. L’unico uomo che era stato capace di farla innamorare.
«Mi resti solo tu» mormorò Blue, nascondendo le lacrime con l’avambraccio.
Blue teneva gli occhi chiusi, ma udì bene i passi del ragazzo. Percepì del calore, comprese che erano le sue braccia strette attorno al suo corpo. Vi scivolò dentro, abbandonandosi sul corpo del suo uomo.
Si abbracciarono per duemila anni che a lei parvero due secondi e mezzo. Cercò le sue labbra nell’ispida cornice della sua barba di pochi giorni. I due si dettero conforto l’un l’altro, dimenticandosi del resto del mondo per qualche istante. Si abbandonarono sul letto, stanchi e devastati da tutto e da tutti. Sotto quella cascata di lampadine dai fili colorati tornarono a quel giorno di tanti mesi prima, quando il loro noi si era spezzato, tentando di rimetterlo insieme.
Nonostante tutto, Green era rimasto.
 
Nel frattempo, parecchie centinaia di chilometri più a nord, la neve scendeva silenziosamente sulla città di Evopoli. Nelle prime ore del pomeriggio, Sinnoh aveva avuto il primo momento di tregua dalla tormenta: la violenta bufera che aveva imperversato per l’intera mattina di quel due luglio aveva ricoperto l’intera regione con un bianco strato gelido. La società era nel caos, gli spazzaneve e i soccorritori erano stati costretti ad intervenire all’istante per mettere in sicurezza le zone più a rischio. La popolazione sembrava paralizzata da quell’insolito evento.
«Sono in viaggio, stanno venendo qui a Evopoli» disse Aurora, togliendo il piumino.
«E Ruby?» chiese una voce, dall’oscurità.
«Gold ha detto di volergli dare fiducia, io sono d’accordo con lui» la ragazza sfilò anche la sciarpa e il cappello, liberando i suoi capelli mori tinti di azzurro vicino alle punte. Aurora era la Capopalestra di Porto Stellaviola, a Holon. In quanto membro della Resistenza e nemica della Faces, si era mobilitata qualche giorno prima per informare e reclutare i Dexholder Gold, Green e Blue. Aveva intercettato Gold a Secondisola, parlando con lui per primo, il ragazzo avrebbe poi riferito le informazioni ai suoi amici. Aurora stava aspettando che l’intero gruppo raggiungesse Evopoli, dove li stava attendendo insieme ad un altro paio di membri della Resistenza. Li avrebbero raggiunti all’interno del vecchi palazzo abbandonato del Team Galassia, avevano avuto la possibilità di accedervi molto facilmente ed era subito risultato essere un luogo ottimale per i loro incontri che necessitavano di sicurezza e anonimato. Le luci non funzionavano, lasciando i corridoi di colore metallico in una semioscurità spezzata soltanto dalla luce che riusciva ad filtrare dalle assi con cui erano state sprangate le finestre. Ogni stanza di quell’edificio era stata lasciata al degrado: sui pavimenti erano riversate cianfrusaglie di ogni tipo, pezzi di intonaco scrostato e scrivanie rovesciate, quello che una volta forse era stato un luogo di lavoro serio e pulito, era diventato un triste scenario tetro e desolato.
«Abbiamo dato alla Faces troppo spazio di manovra, a Holon siamo caduti nella loro trappola» disse il ragazzo, lasciandosi intravedere da Aurora, tra una zona d’ombra e l’altra «ho bisogno di parlare con Antares».
«Antares non può risponderti, ora» ribatté una terza voce, da un angolo di quella stanza.
Aurora, seduta su una scrivania rovinata, vide emergere due figure dal buio: un ragazzo dai capelli bianchi e disordinati con indosso un pesante cappotto grigio e una giovane ragazza dalla lunga chioma bionda e delle profonde occhiaie sul viso.
«Antares ha altro a cui pensare, attualmente» precisò la ragazza.
Kalut, il ragazzo dai capelli bianchi la fulminò con gli occhi, ma la ragazza non si lasciò intimorire.
«Abbiamo bisogno di lui, Celia... è una situazione critica» disse Aurora, con lieve tono di rimprovero.
«Beh, non sono più la sua assistente, parlate direttamente con lui» la liquidò la bionda, prendendo una sigaretta da un pacchetto di Marlboro Gold che aveva in tasca e accendendola con un clipper nero. Lei era Celia, neo eletta Capopalestra di Vivalet, altro membro della Resistenza come Aurora e Kalut.
Nell’oscurità, il denso fumo della sigaretta cominciò a diffondersi per la stanza. Kalut non ne era infastidito, era una persona molto adattabile, ma Aurora, che era abituata all’aria salmastra e alla brezza marina della sua città, cominciò a storcere il naso.
«Per il momento non ti stai rendendo utile, Celia» sottolineò Kalut «potresti almeno darci una mano con tuo fratello Xavier» il ragazzo teneva le braccia strette al petto in segno di contegno, ma nella sua voce si percepiva una sottile vena aggressiva.
«Non riesco più a mettermi in contatto con mio fratello da un anno ormai» si giustificò la bionda.
«Allora vedi di mobilitarti di conseguenza» ordinò Kalut, alzando la voce «potrebbe essere l’unico modo di fermare tutto questo inferno di ghiaccio» mormorò.
Aurora non mise bocca, era d’accordo con il ragazzo ma non voleva mostrarsi ostile nei confronti della bionda. Celia, dal canto suo, voltò indignata le spalle a Kalut e continuò a fumare la sua sigaretta.
«Non riuscirei mai a portare mio fratello dalla nostra parte» mormorò, dopo un po’.
«Sei cosciente del fatto che potremmo doverlo affrontare, un giorno?» chiese Aurora.
Celia non rispose. Tossì un paio di volte a causa del fumo. Fece finta di non pensarci, ma in realtà, quel pensiero la affliggeva da molto tempo. 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3: Io non dimentico ***


III
Io non dimentico
 
 
Un brivido corse lungo la schiena di Sapphire quando mise piede fuori dal jet che l’aveva portata a Giubilopoli. La pista di atterraggio era completamente bagnata e la neve aveva anche messo in difficoltà i piloti al momento dell’atterraggio, ma ciò che più rendeva quella condizione climatica tanto ostile era il vento gelido e tagliente che incideva la pelle come la lama di un coltello.
«Ma come diavolo fanno a vivere a queste temperature?» si chiese la ragazza, cresciuta con il clima tropicale di Hoenn.
Gold scese dal velivolo dopo di lei. Salutò la regione di Sinnoh con un violento starnutò, cui seguì un’imprecazione e la ricerca di un fazzoletto.
Ruby mise per ultimo i piedi sulla terraferma. Lui non percepiva le temperature, quindi si limitò ad alitare per controllare la densità della nuvoletta di vapore che uscì dalla sua bocca, tanto per saggiare quanto quel clima fosse proibitivo.
I tre Dexholder furono intercettati da alcuni addetti dotati di indumenti catarifrangenti che guidavano un carrello con sopra le loro valigie. Ripresero immediatamente i bagagli e si incamminarono verso l’ingresso dell’aeroporto, infagottandosi goffamente nei loro piumini.
«Ci sono meno cinque cazzo di gradi» annunciò Gold leggendo le cifre sul suo Cellulare «è il maledetto luglio».
Uscirono dal complesso, passando inosservati agli occhi dei potenziali fan rompiscatole e si ritrovarono di fronte all’auto che utilizzata per il trasporto del Campione di Hoenn fuori dalla sua regione. Poco tempo dopo la sua elezione, Ruby si era occupato personalmente della selezione del modello, cambiando la vecchia Mercedes scelta anni prima da Rocco. Gold rimase con la bocca spalancata, di fronte a quella Jaguar XJ modello limousine dalla carrozzeria nera scintillante. Un macchinone del genere aveva attratto l’attenzione di tutti i presenti, facendo sembrare ogni utilitaria e ogni altra berlina che le passasse vicino come una sorta di carretto sgangherato. Ruby aprì la portiera per i suoi compagni, entrando per ultimo e chiudendosela alle spalle. L’autista che li aveva attesi pazientemente aveva già impostato Evopoli come meta sul navigatore di bordo.
«Insomma, dura la vita da Campione» scherzò il Dexholder di Johto affondando placidamente nel sedile di pelle «dov’è il secchio con lo champagne?»
«Non c’è, lo faccio portare solo per le occasioni speciali» ribatté Ruby, sorridendo.
«Tipo quando sei con qualche modella di Vogue?»
«Le modelle non bevono, altrimenti perdono la linea, con devi direttamente...»
«Vi sembra il momento?» si intromise Sapphire, seccata.
Gold sbuffò, Ruby alzò le sopracciglia.
«Chi hai detto che ci sta aspettando a Evopoli?» chiese la ragazza.
«Aurora, la Capopalestra di Porto Stellaviola, più qualche altro alleato» rispose Gold «e dovrebbe esserci anche Celia» aggiunse.
«Parli della nuova Capopalestra di Vivalet?» domandò Ruby.
«Sì, a quanto pare ha dei collegamenti con la Resistenza anche lei e ultimamente non è nella sua città» precisò Gold,
«Ho letto qualcosa su di lei quando ha conquistato il posto: era un’Allenatrice come le altre quando Antares, il Campione di Sidera, l’ha presa come allieva. Ha conquistato il posto di Capopalestra grazie alla raccomandazione del suo insegnante, sembra che sia un soggetto... particolare».
«Che vuol dire?» chiese Sapphire.
«Da tenere d’occhio» rispose lui «o almeno questo era scritto sui database della Faces.
«Quindi potrebbero aver capito che fa parte di un gruppo che trama per sventare i loro piani» dedusse Gold.
«Beh, non vorrei giudicare senza conoscere, ma non mi sembra una davvero capace di custodire un segreto così importante, potrebbe essersi fatta sfuggire qualche informazione» commentò Ruby, quasi sprezzante.
«Potrei capire che cos’ha di tanto strano questa Celia?» domandò Sapphire, che conosceva la ragazza di cui stavano parlando soltanto di nome.
Ruby annuì, digitando il nome della Capopalestra di Vivalet su un tablet che aveva estratto dallo sportello alla sua destra. Entrò nella sezione notizie di Google e lesse i primi titoli che reputò interessanti a voce alta.
«Capopalestra di Vivalet: assenza al galà di apertura del torneo, fotografata ubriaca ad un rave party; Celia, la giovane ribelle, l’accusa dei genitori dei fan: accanita fumatrice anche se ancora minorenne; Esibizionismo alle Supergare di Sidera, l’allieva di Antares scoperta... oh, merda, questa me la ricordo bene, ero presente» mormorò Ruby, senza leggere la notizia fino alla fine.
«Non mi piace» commentò Sapphire, gonfiando le guance.
«Bah, ormai quelli che fumano sono solo minorenni» affermò Gold, non dando troppo peso alla cosa.
«In ogni caso, stiamo attenti, non si sa mai quale...»
Tonk!
I tre ragazzi ebbero un sussulto. Il forte suono sembrava esser stato prodotto dall’esterno, come se qualcuno avesse colpito con forza l’automobile. I loro occhi balzarono da un finestrino all’altro, finché non individuarono il responsabile.
«Che cazzo sta succedendo?» mormorò Gold.
Un uomo sulla quarantina aveva assaltato l’auto di Ruby, colpendo con forza il finestrino con una stampella. Era mal curato, con la barba rada e grigiastra, la pelle rovinata e gli occhi ardenti di rabbia. Gridava qualcosa di indefinibile e continuava a sbattere il pugno sulla carrozzeria della Jaguar. Nessuno riuscì a capire integralmente cosa volesse dire, ma distinsero bene gli insulti lanciati nei confronti di Ruby e i suoi inviti ad uscire dall’auto per affrontarlo di persona. Evidentemente, aveva avuto l’opportunità di attaccare l’auto del Campione di Hoenn quando questa si era fermata ad un semaforo ed era pure andato alla cieca, poiché dall’esterno era impossibile guardare chi fosse dentro l’auto a causa dei vetri oscurati.
Intanto, il delirio del pover’uomo aveva attratto una capanna di curiosi e un paio di poliziotti, che si erano avvicinati con l’intento di calmarlo e magari anche accertarsi che non arrecasse danni a nessuno. Erano riusciti ad afferrarlo per le braccia e ad immobilizzarlo a qualche metro di distanza dalla Jaguar, quando il semaforo si fece verde, permettendo all’autista di Ruby di accelerare.
«Aspetta, fermo, accosta!» ordinò il ragazzo, ancora sospeso tra lo stupore e la paura.
L’autista seguì gli ordini e si fermò sul limitare del marciapiede, invece di continuare a muovere l’auto lontano da lì. Ruby scese, tenendo la cintura delle Ball stretta nella mano.
«Fermati, fermati o saremo costretti ad immobilizzarti con la forza!» stava gridando uno dei poliziotti, tenendo il braccio destro dell’uomo.
«Maledetto! Maledetto assassino!» gridava invece lo sconosciuto con gli occhi fiammeggianti rivolti verso Ruby.
«Che succede?» chiese il Campione di Hoenn.
I poliziotti non si curarono di lui, stavano solo svolgendo il loro lavoro di custodi della sicurezza e si accertarono solo che Ruby non si avvicinasse troppo al suo assalitore. Quest’ultimo, invece, con la comparsa del ragazzo sembrava esser divenuto dieci volte più combattivo.
«L’hai ucciso! Ci hai condannati tutti!» continuava a gridare l’uomo, nonostante i poliziotti stessero evidentemente perdendo la pazienza.
Non appena videro Ruby, il famoso Campione di Hoenn, le persone ferme a guardare cominciarono a moltiplicarsi, diventando sempre di più. Qualcuno tirava fuori il telefono e fotografava o riprendeva la scena con la fotocamera.
«Di che cosa parli?» chiese Ruby a voce alta, rivolgendosi all’uomo che aveva assaltato la sua auto.
Quello parve trovare il primo momento di calma nell’attimo in cui il ragazzo gli prestò attenzione: «Sei un assassino» lo accusò tenendo il suo tono di voce più basso «hai ucciso Rayquaza!»
Ruby non ribatté. L’uomo aveva smesso di dimenarsi e i poliziotti ne avevano approfittato per immobilizzarlo. Era zoppo e infatti per muoversi normalmente era costretto ad utilizzare una stampella. I due agenti gli permisero un momento di quiete, lasciando che Ruby ci parlasse faccia a faccia.
«L’hai ucciso! Tutto questo è colpa tua! Hai ucciso il drago dei cieli e ora il cielo distruggerà noi!» continuò quello.
Gold e Sapphire, che erano alle spalle di Ruby, non entrarono nella conversazione e, poiché neanche il Campione di Hoenn sembrava voler dare una risposta, i poliziotti decisero di portare via l’individuo.
«Lasciatelo andare» ordinò Ruby, riprendendo la mobilità «non torcetegli un capello» proseguì, avvicinandosi all’uomo.
Quello sembrò storcere il naso, quando ebbe il ragazzo troppo vicino al suo volto. Gli mostrava il lato del volto, come se guardarlo gli desse disgusto.
«Sei rimasto ferito nell’incidente di Vivalet?» gli chiese Ruby a bassa voce.
Quello strinse i denti, ma annuì impercettibilmente. Sapphire e Gold distolsero gli sguardi, per il senso di stretta allo stomaco che si manifestò in loro.
«So che non servirà a nulla, ma ti chiedo scusa» sussurrò il Campione di Hoenn, curandosi che la sua voce fosse più bassa possibile, in modo da non essere percepita da coloro che erano intorno o dai microfoni dei loro cellulari.
«Beh, hai ragione» mormorò l’uomo, quietandosi completamente «le tue scuse non servono a nulla, per me» sibilò, sputando sul volto di Ruby.
Non sarebbe stato capace di liberarsi dalla stretta dei poliziotti, ma nei suoi occhi si leggeva quanto ardesse il suo desiderio di scagliarsi contro il ragazzo e ucciderlo a mani nude.
 
La camera di Blue era un disastro. Sul terreno giacevano ancora tutti i vestiti che lei aveva estratto dal suo armadio in compagnia delle lenzuola stropicciate, dei cuscini e dei peluche che precedentemente si trovavano sul letto. Green teneva gli occhi chiusi, ma non dormiva affatto: stringeva il corpo di Blue al suo cercando di condividerne il calore. Blue lasciava che il ragazzo la trattenesse, anche lei faceva finta di dormire.
Ad un certo punto, il Cellulare di uno dei due prese a squillare.
«E’ il mio» mugolò il Capopalestra di Smeraldopoli. Si alzò lasciando Blue al freddo e lo estrasse dai pantaloni che aveva gettato malamente sul pavimento. Lesse il nome di Gold sullo schermo. Rispose.
«Che vuoi?»
«A che punto siete? Noi abbiamo appena raggiunto Evopoli» disse il Dexholder di Johto.
«Ahem, abbiamo avuto un contrattempo, ritarderemo, siamo ancora a Kanto» spiegò Green.
«Che rottura di palle, fate come volete...»
«Ci risentiamo».
«Sì».
La chiamata terminò.
Green si voltò verso Blue che, ancora nuda sul letto, lo guardava con in volto il barlume di un sorriso.
«Sono già arrivati a Evopoli» la aggiornò Green.
«Ci aspetteranno» fece lei «vieni qui» lo invitò.
Green tornò ad affondare il volto nei suoi profumati capelli castani. Era stanco di tutto e stare con Blue riusciva a fargli dimenticare lo stress come fosse una droga oppiacea.
«Sei bellissima» le sussurrò, in una delle sue rarissime manifestazioni di affetto.
«Lo so» scherzò lei.
Si abbracciarono per qualche secondo nel silenzio più totale.
«Puoi uscire, per favore» chiese Blue ad un certo punto.
«Perché?» nella voce di Green c’era un debole tono allarmato.
«Devo cambiarmi» spiegò.
Green non riuscì a connettere logicamente i due concetti: Blue era quel tipo di ragazza che ti invita ad entrare con lei nel camerino di un negozio, che dorme con la addosso la tua t-shirt e basta, che al mare perde “involontariamente” il costume solo per vedere che effetto fa.
«Che succede?» chiese il ragazzo, percependo la debole emergenza.
«Niente... dai, esci» continuò lei.
«Blue» il Capopalestra di Smeraldopoli si mise seduto, prendendo le mani della ragazza e guardandola negli occhi «dimmi che succede» disse, con voce calda e paterna.
Quella sospirò, infastidita. Aveva gli occhi altrove, per non dover reggere l’intenso sguardo del ragazzo.
«Blue...»
«Hai messo i pantaloni sul bordo del letto!» sbottò lei.
Green rimase basito, non riusciva a capire.
«Hai messo i pantaloni sul bordo del letto...» ripeté.
«Ho messo i pantaloni sul bordo del letto» la imitò Green, cercando di risolvere quell’enigma. Aveva l’orribile sensazione di aver dimenticato una di quelle cose che per le donne sono importantissime mentre per gli uomini contano quanto i peli del naso. Tipo gli anniversari o i vestiti indossati al primo appuntamento. O i figli.
«Hai messo i pantaloni sul bordo del letto, Green!» esclamò di nuovo la ragazza «lo facevi sempre quando venivi a casa dei miei...»
Green rimase ad ascoltare, ormai in ginocchio di fronte alla logica femminile.
«Dopo la prima volta che mio padre ci beccò, hai preso l’abitudine di lasciarli sempre lì, perché potessi metterli in fretta e fuggire dalla finestra, se fosse tornato» spiegò la ragazza.
Effettivamente, quando il ragazzo aveva raccolto i suoi jeans per prendere il Cellulare, li aveva poi sistemati e appoggiati sul limite del materasso in un automatismo quasi abitudinario.
«E’ come prima che ci lasciassimo...» mugolò Blue.
La ragazza aveva paura. Green riuscì quasi a vedere la cosa dal suo punto di vista. Si sentiva in colpa per averlo mollato e aver distrutto la loro relazione e in un certo senso aveva paura che, ripercorrendo quella storia, tutto si sarebbe ripetuto in loop, fino al punto in cui avrebbe di nuovo cercato di essere libera, spezzandogli e spezzandosi il cuore per la seconda volta.
Green metabolizzò ciò che Blue aveva detto, a parole e non, poi si sdraiò di nuovo accanto a lei, facendola adagiare sulla sua spalla. Entrambi guardavano il soffitto, nessuno di loro osava aprire bocca.
Sotto sotto, Green non riusciva a capire come facesse una cosa semplice ad essere tanto complicata, ma non voleva far scoppiare una lite. Dall’altra parte, Blue non sapeva se chiedere al ragazzo di rimanere con lei lì accanto o di uscire dall’appartamento. Quella situazione cristallizzata sembrava non voler cambiare. Green si voltò a guardarla, memorizzando ogni curva, ogni neo, ogni sfumatura della sua pelle. Ebbe quasi la sensazione che quella fosse l’ultima opportunità di vederla così da vicino. Lui era un uomo di poche parole, aveva sempre preferito i fatti alle chiacchiere, eppure, sapeva di dover dire qualcosa in quel momento. Aveva capito che certe situazioni necessitano delle parole giuste tra le infinite possibili, più che della forza nelle braccia.
Blue sembrava essere collegata ad un timer invisibile pronto a scadere da un secondo all’altro. Sapeva che ogni secondo vi era la probabilità che questo conto alla rovescia finisse: a quel punto la ragazza si sarebbe alzata, rivestita e lo avrebbe lasciato solo per sempre, sparendo dalla sua vita.
Green aveva una sola possibilità.
«Questa volta non ti lascio andare» disse, cercando di nascondere il tremolio della sua voce.
 
Il rumore dei passi dei tre Dexholder era attutito dal manto di neve che aveva ricoperto i marciapiedi di Evopoli. I loro scarponi emettevano ritmicamente quello scricchiolio di neve schiacciata, lasciando al passaggio delle impronte perfette e definite.
«All’edificio del Team Galassia?» chiese Sapphire.
«Sì, siamo noi i cattivi adesso» rispose Gold.
«Come facciamo ad introdurci senza farci vedere?»
«Farci vedere... da chi, di grazia?»
Effettivamente le strade erano quasi deserte. Il quartiere nord di Evopoli poteva sembrare disabitato, eccezion fatta per qualche coraggioso soggetto intento a spazzare il vialetto di casa o a riesumare la propria auto da sotto un cumulo di neve. Girato un angolo, dopo una larga strada a sei corsie, si trovarono immediatamente di fronte alla vecchia sede del Team Galassia. L’eccentrico palazzo era sovrastato da un grande globo metallico con sei grosse punte, circondato da un disco giallo. L’organizzazione capitanata da Cyrus che era stata contrastata dai Dexholder di Sinnoh oltre un anno prima aveva lasciato quel palazzo all’abbandono, dopo essersi sciolta. Alcune vetrate sfondate erano state sbarrate con delle assi e l’intero complesso, compreso di parcheggio e giardino circostante, era stata transennata e bloccata al traffico pedonale. I piani più bassi erano divenuti luogo di assidua frequentazione da parte di tossici e writers, che avevano lasciato porte e finestre divelte e muri graffitati e pieni di scritte.
«Entriamo?» domandò retoricamente Sapphire.
«Quarto piano, c’è una stanza segreta» informò Gold, riferendo le indicazioni fornite da Aurora.
I ragazzi scavalcarono le transenne, facendo attenzione a non essere oggetto di sguardi sospetti. Entrarono uno dopo l’altro nell’edificio, evitando le siringhe e i cocci di bottiglie vuote che ricoprivano il pavimento. Per salire, furono costretti a prendere le scale, facendosi luce in quella fitta oscurità con le torce dei telefoni.
«Accogliente, comunque» commentò il Dexholder di Johto.
Giunti al quarto piano, si guardarono attorno in cerca di coloro che li avevano fatti arrivare fin lì, ma tutti gli uffici erano vuoti. Esattamente come il resto del palazzo, quel piano sembrava abbandonato da secoli: neanche un occhio esperto sarebbe riuscito a dedurre che qualcuno si era introdotto lì poco tempo prima. I tre Dexholder agitavano le torce a destra e a sinistra tentando di individuare qualche sagoma amica, ma ebbero la sensazione di essere davvero soli lì dentro.
«Siamo qui!» esclamò Gold, sperando che qualcuno decidesse di emergere dal proprio nascondiglio.
«Gold, vieni qui, abbiamo trovato qualcosa» chiamò Sapphire.
Il ragazzo tornò dai compagni, che sostavano davanti ad una porta nascosta dietro una delle postazioni di lavoro, era davvero difficile da individuare, poiché era dello stesso colore del muro, priva di elementi che ne rompessero l’uniformità, fatta eccezione per la discreta maniglia e il minuscolo buco della serratura.
«Professionali... hanno organizzato pure la caccia al tesoro» commentò Gold.
Ruby bussò. Passarono alcuni istanti di silenzio.
«Siete in ritardo» disse Kalut, aprendo la porta.
I Dexholder si ritrovarono di nuovo faccia a faccia con il ragazzo dai capelli bianchi che aveva fatto visita all’ospedale poco tempo prima. Kalut li aveva aiutati durante la ricerca a Zero e l’attentato alla Faces, nei giorni precedenti, ma all’ultimo aveva deciso di non consegnare il pericoloso Campione di Holon alle forze dell’ordine, in quanto sarebbe stato un utile risorsa per la Resistenza. Era stato difficile accettare, per i Dexholder, ma la situazione li aveva costretti a fidarsi. In ogni caso, rivedere la faccia di Kalut evocò in loro la sincera voglia di prendere a pugni qualcosa.
«Dove sono gli altri?» chiese il ragazzo dai capelli bianchi.
«Green e Blue sono ancora a Kanto per dei contrattempi, hanno detto di non aspettarci» rispose Sapphire.
«Lui, invece?» Kalut indicò Ruby.
«E’ una spia» disse Gold, entrando nella stanza segreta «fatelo fuori».
«Vuoi andartene con la mia auto?» domandò Ruby.
«Devo presentarvi qualcuno» annunciò Kalut.
Si raccolsero tutti all’interno di quella stanza nascosta, che magari una volta poteva essere stata in uso in quanto archivio segreto o qualcosa di simile. C’era molta polvere nell’aria e non vi erano fonti di luce naturale, solo delle plafoniere di neon tenute accese da un Magnezone che forniva energia ai circuiti dall’esterno.
«Aurora, che Gold già conosce» presentò Kalut, riferendosi la ragazza dai capelli con lo shatush azzurro che era seduta su una scrivania «e Celia, che avrete sentito essere stata da poco eletta come nuova Capopalestra di Vivalet».
Ci furono un paio di strette di mani, ma il clima rimase freddo tra tutti loro, soprattutto dal momento che c’era di mezzo Ruby: Celia, la ragazzina bionda con le occhiaie sul volto, lo studiava come se avesse avuto una bomba sottobraccio che da un momento all’altro sarebbe sicuramente esplosa; Aurora, che ogni tanto lanciava qualche sorriso a Gold, perdeva ogni bagliore di positività quando i suoi occhi si posavano su Ruby.
«Allora, signori... abbiamo alcuni punti di cui discutere» esordì Kalut, richiamando l’attenzione.
Due mani appartenenti ad altrettante persone si levarono al cielo, per chiedere di intervenire. Erano quelle di Celia e Sapphire.
«Dovete andare in bagno?» domandò Gold, massaggiandosi la testa.
«Perché tanta segretezza?» chiese la Dexholder di Hoenn.
«Perché vi stanno pedinando» rispose semplicemente Kalut «ci siamo dovuti procurare la chiave e l’esatta posizione di questa stanza segreta appositamente per questo incontro... per il semplice motivo che avete dei simpatici amici che vi seguono come ombre alle vostre spalle e non ve ne siete ancora accorti» il ragazzo dai capelli bianchi sorrideva senza un vero motivo, il che rendeva tutto ancora più inquietante.
«Stai dicendo sul serio?» chiese Ruby.
«Tu dovresti essere abituato ad avere gente che ti segue ovunque, Vanity Fair» lo canzonò Gold.
«Forse non dovremmo includerlo in questa chiacchierata» intervenne Celia, che aspettava ancora con la mano alzata.
Tutti si voltarono verso di lei. Sapevano bene a chi si riferisse, ma attesero qualche secondo prima di risponderle.
«Hai paura che ti rubi l’anima?» Ruby era infastidito dalla faccia tosta della bionda.
«Sei uno dei nostri principali nemici» ribatté lei, come fosse ovvio.
«Perché sono stato obbligato a lavorare per la Faces? Che deve fare per convincervi che sono dalla vostra parte?»
«Magari smettere di stare dalla loro sarebbe un buon inizio».
«Celia» intervenne Kalut, smorzando la tensione che si stava facendo sempre più accesa «ne abbiamo già parlato».
Ruby scrollò le spalle, evidentemente stufo di essere bersagliato da tutti. Era lampante: aveva evitato di prendere le proprie difese nelle discussioni con i suoi amici per evitare di far scoppiare un grosso litigio, ma nel momento in cui era stato obbligato a discutere degli stessi argomenti con un’esterna, aveva avuto l’impulso di sfogare tutta la rabbia su di lei.
«Sapete bene come la penso» Celia si rimise al proprio posto, scuotendo la testa.
«Silenzio» emerse di nuovo Kalut, sovrastando tutti.
«Tu non ti permettere di...» provò Celia, ma il ragazzo le mise un dito sulle labbra.
Non aveva cercato di calmare le acque, aveva udito qualcosa provenire dall’esterno.
«Sono qui» sussurrò «gli agenti Faces... sono qui fuori».

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Capitolo 5
*** Capitolo 4: Mille occhi, mille braccia ***


IV
Mille occhi, mille braccia
 
 
«Dove diavolo sono andati a finire?» chiese il primo agente.
«Proprio in questo posto di merda dovevano entrare?» si lamentò il secondo.
«Faccio rapporto, tanto non li ritroviamo...»
Il secondo agente spense la torcia con un click.
«Riley a base, Evopoli, zona nord, distretto commerciale, edificio abbandonato, ex sede Team Galassia, abbiamo perso contatto con gli obiettivi alle quindici e zero due, sono entrati nel palazzo, non sappiamo da dove siano usciti, necessitiamo di una triangolazione satellitare al più presto, daremo aggiornamenti ogni dieci minuti, passo» disse il primo, in collegamento tramite un dispositivo.
«Usciamo di qui, Harper ci sta aspettando» esortò l’altro agente.
Si udì il suono della lampo di un piumino e i passi dei due individui divennero sempre più lontani, fino a sparire.
Poi, il silenzio perdurò per qualche gelido istante.
«Hanno un cazzo di satellite» esclamò Gold, rompendo la calma.
«Sono gli agenti delle squadre tattiche Faces, girano in incognito e servono a tenere d’occhio le situazioni di interesse» spiegò Kalut «ne ho dovuti seminare un paio ogni volta che mi sono incontrato con voi».
Ruby, Sapphire e Gold, in compagnia di Celia, Aurora e Kalut, i membri della Resistenza, avevano ascoltato gli agenti dalla stanza segreta del quarto piano dell’edificio del Team Galassia. Si erano occultati lì per rimanere in incognito e poter parlare fuori dalla portata di orecchie nemiche.
«Quindi la tua copertura è saltata?» domandò Aurora.
«Mi hanno tenuto d’occhio perché ero sospetto, ma non hanno ancora idea di chi sia» rispose lui, sicuro.
«Dobbiamo lavorare con questi alle costole?» chiese Ruby.
«Sono due anni che lavori con questi alle costole» gli disse Kalut.
Il Campione di Hoenn sorrise amaramente.
«Insomma, eravamo qui per una ragione...» cercò di fare il punto Aurora.
«La nevicata a luglio?» disse Gold.
«Sapete che cosa sta succedendo?» chiese Ruby, sperando che qualcuno gli concedesse maggiore chiarezza.
«Abbiamo delle informazioni» cominciò Aurora «da qualche mese teniamo d’occhio i movimenti di alcuni uomini che lavorano in incognito per la Faces...»
«Li pedinate come loro pedinano noi?» domandò Sapphire.
«Preferiamo combattere alla pari» ribatté Celia.
«In ogni caso, abbiamo seguito questa pista: agenti Faces con la passione per le scalate in montagna» continuò Aurora «non crederete mai a ciò che abbiamo scoperto poco tempo dopo».
«Scalavano montagne? Non capisco» borbottò Ruby.
«Hanno catturato migliaia di Pokémon di tipo Ghiaccio» chiarì Aurora «non è una stima approssimativa, se ne sono procurati in quantità incredibile. Hanno fatto in modo che il metodo di caccia non alterasse l’ecosistema distribuendolo tra territori diversi e catturando principalmente esemplari non a rischio... tutto con lo scopo di non essere individuati» proseguì.
«Hanno usato questi Pokémon per far scendere questo inverno?» chiese Sapphire, incredula.
«Vuoi sapere la cosa divertente? Non abbiamo idea di come abbiano fatto...» rivelò la ragazza «anche con tanti Pokémon di tipo Ghiaccio... nessuno sarebbe capace di concentrare tutta la loro potenza per far scendere la neve, non su un territorio tanto vasto... non per così tanto tempo... inoltre, dove avrebbero piazzato questi Pokémon?» aggiunse.
«Effettivamente, con ciò che è accaduto a Unima con il Team Plasma... sarebbero stati degli idioti a catturare migliaia di tipo Ghiaccio per ottenere praticamente gli stessi risultati» commentò Gold.
«Il dubbio resta: hanno usato quegli esemplari per evocare una glaciazione il cui centro focale fosse Sinnoh, ma in che modo?» fece Aurora.
«Nessuno si è chiesto per quale motivo avrebbero dovuto fare una cosa del genere?» domandò Ruby.
«Oh... lo sappiamo» rispose Kalut.
Il ragazzo dai capelli bianchi attirò l’attenzione dei Dexholder col suo fare misterioso di chi sa tutto di tutti.
«Congelare una regione... perché?» introdusse lui, lasciando la parola ad Aurora.
«Sinnoh è impossibile da conquistare economicamente, come la Faces ha già fatto con Sidera... è troppo fiorente, troppo grande, troppo ricca. C’è un enorme traffico di Allenatori in viaggio per sfidare le Palestre, affrontare il Parco Lotta, vincere le Gare e ci sono le grandi famiglie di imprenditori, come i Berlitz e i Granlotto» spiegò la ragazza.
«Intendono ucciderla...» dedusse Sapphire.
«Quasi. Intendono trasformarla» la corresse Kalut.
«Non potevano neanche divorarla dall’interno come hanno fatto con Hoenn, poiché non riuscivano a trovare la persona giusta e...»
Ruby guardò il pavimento, poiché tutti gli occhi si posarono per un breve istante su di lui.
«...hanno deciso di mutarla, una volta che Sinnoh avrà perso il proprio mercato, la propria ricchezza, il proprio potere a causa delle condizioni meteorologiche proibitive... diverrà un enorme parco tematico» concluse Aurora.
Il silenzio tornò nella stanzetta. Nessuno ebbe il coraggio di dire nulla. Persino Gold sembrava a secco di parlantina.
«Un parco tematico...» ripeté Sapphire.
«Una sorta di safari artificiale, un area giochi, un sito escursionistico... non conosciamo le peculiarità del progetto, solo l’idea generale» continuò Aurora.
«E’ orribile» commentò la Dexholder.
«E’ geniale» la contrastò Kalut «un’idea orribile, certo, ma anche lungimirante e intelligente, degna di una mente alquanto raffinata» aggiunse, inquietando tutti con il suo tono di ammirazione.
«Ogni tanto mi chiedo da che parte stai» lo criticò Celia.
«Insomma, tutto questo fa parte del loro piano per la conquista globale? E poi cosa? I chip sottocutanei e la fecondazione programmata?» fece Gold.
«Possiedono già Hoenn, Sidera, Alola e Kalos, a breve conquisteranno Holon, visti gli avvenimenti degli ultimi giorni e la strategia per incastrare Zero che era l’unica barriera tra loro e la sua regione e, se non li fermiamo, anche Sinnoh sarà loro» spiegò Kalut.
«Zero era davvero così importante?» chiese Sapphire, non potendo credere che il responsabile della disgrazia di Silver e Crystal fosse un così forte sostenitore della loro fazione.
«Zero riusciva a bloccare i loro tentacoli, Holon era ancora intatta, era lì che concentravamo le forze della Resistenza, utilizzavamo la sua regione come base operativa, prima...» riprese Aurora, con amarezza.
«Prima della nostra scissione» concluse Kalut.
«Ed è per questo che ora organizzate gli incontri nei palazzi abbandonati e non in una sala riunioni con la moquette e il caffellatte?» domandò Gold.
«Non sottovalutare le conseguenze della separazione di Zero dalla Resistenza» lo intercettò Aurora.
«No, non le sottovaluto, quelle conseguenze hanno ammazzato il mio amico e altre trecento persone, o ve ne siete già dimenticati?» inveì Gold, perdendo la pazienza.
Cadde di nuovo il silenzio.
«Perdonami... hai ragione» mormorò Aurora, abbassando lo sguardo «ti chiedo scusa» disse, mortificata.
«Comunque... il nostro obiettivo è scoprire come la Faces sia riuscita a congelare Sinnoh» fu Kalut a riprendere il punto della situazione.
«Basta così?» domandò Sapphire «niente a proposito di... fermarla, o qualcosa del genere?»
«Conseguentemente» approvò Kalut.
«Che diavolo vogliono ottenere, alla fine?» riprovò la Dexholder «per quale motivo intendono conquistare tutto questo potere?»
La discussione si chetò per la terza volta. Forse ognuno dei presenti si era reso conto che Sapphire era finalmente giunta al cuore della questione.
«Forse è il momento di raccontarvi la mia storia» mormorò Celia, ponendosi sotto i riflettori.
Tutti la guardarono: Gold, Sapphire e Ruby avevano gli sguardi accesi di curiosità. I Dexholder la studiarono a fondo, soffermandosi sui suoi capelli chiarissimi e sul suo sguardo troppo stanco per una della sua età; si resero conto che i suoi occhi, appesantiti dall’insonnia, brillavano di un’intensa sfumatura lilla. Sarebbe stata una ragazzina bellissima se non avesse avuto quell’aria grigia e deprimente.
«L’anno scorso, vivevo a Sidera con mio padre, ci eravamo trasferiti da poco. Il professor Jason Willow, un affiliato della Faces, ha chiesto a me e a mio fratello di lavorare per loro... senza rivelarmene le vere ragioni» cominciò Celia «mi hanno chiesto di utilizzare uno strumento particolare necessario alla creazione di un programma. Il dispositivo, chiamato PokéNet, raccoglieva dati e informazioni in automatico, per poi confrontarli e rielaborarli. Insomma, la Faces sta sviluppando una matrice da utilizzare per la sorveglianza di tutti gli Allenatori del mondo» si fermò per qualche istante, tanto i Dexholder pendevano dalle sue labbra «vogliono limitare l’universo dell’Allenamento Pokémon: tutto per impedire che altre associazioni come il Team Rocket, i Team Idro e Magma, il Team Galassia e così via possano sorgere e dal nulla diventare talmente potenti da scatenare eventi virtualmente apocalittici» spiegò.
«Il loro obiettivo è conquistare il mondo... per proteggerlo?» domandò Sapphire.
«Loro dicono di volerlo proteggere, ma ciò che intendono fare è mutilarlo» precisò Celia.
«I trecento morti a Vivalet per loro cosa sono? Incidenti di percorso?» chiese Gold.
«Evidentemente la conquista di Holon e la sconfitta di Zero valevano più della vita di quelle persone, per loro» chiarì Aurora.
I Dexholder cercarono di digerire ciò che avevano appena dovuto ingoiare, a proposito della Faces. Finalmente il pezzo centrale del puzzle sembrava più chiaro e definito.
«Ebbene, vi è stato spiegato come stanno veramente le cose, intendete ancora lavorare con noi?» chiese Kalut.
Ognuno dei presenti cercò di non prendersi la briga di rispondere per primo.
«E’ la cosa giusta» disse infine Ruby, spingendo anche i suoi amici a dare un parere.
«Ci sto» annuì Gold.
«Contate su di me» si aggiunse Sapphire.
«Non resta che comunicare tutto ai vostri due amici, Blue e Green, perché anche loro possano prendere una decisione» fece Aurora.
«Sono sicuro che accetteranno» anticipò Gold.
I membri della Resistenza trascorsero i dieci minuti seguenti a chiarire le curiosità dei Dexholder: i ragazzi avevano bisogno di sapere che i progetti della Faces riguardanti il controllo degli Allenatori fossero veramente pericolosi come erano stati presentati loro. Purtroppo, sia Celia che Aurora erano in possesso di poche informazioni superficiali, ma Kalut ebbe qualcosa di più interessante da proporre.
«La Faces prende contromisure per proteggere il mondo da se stesso» cominciò «ma costruisce un impero sulla menzogna e sull’inganno».
Ci fu un annuire generale.
«Quello che voglio dire è: il loro controllo non può essere la risposta, se dev’essere la conseguenza del dominio ottenuto con la forza. Intendono imporre dei limiti, intendono impedire che ciò che i professori Pokémon, i Capipalestra, le Leghe e in generale ogni singolo Allenatore di qualsiasi regione ha cercato di creare, continui a perdurare» riassunse.
Le sue parole furono sufficienti a muovere gli animi di tutti nella giusta direzione in maniera definitiva.
«Quindi per prima cosa dobbiamo capire come la Faces ha potuto far scendere l’inverno su Sinnoh» Ruby tornò all’interno del seminato «e magari fermarli, se siamo ancora in tempo».
«Conosciamo questo piano da un anno, ormai, ma non siamo mai riusciti ad ottenere niente» specificò Aurora «sono stati bravi a nascondersi e a eluderci, ma la loro copertura non può andare avanti ancora».
«Giorni fa ho incaricato Platinum di condurre qualche indagine qui nella sua regione» disse Sapphire «non pensavo trovasse qualcosa, il mio primo obiettivo era tenerla lontana dal pericolo, ma ci siamo date appuntamento per vederci, stasera. Probabilmente ha qualche indizio» spiegò.
«Ottimo, possiamo iniziare da lei, allora» annuì Kalut.
«Intendiamo muoverci tutti insieme?!» chiese Gold, retoricamente.
«Sì e dovremo impegnarci per lavorare in incognito» rispose Aurora.
«Dobbiamo anche uscire di qui, in incognito» sottolineò Sapphire.
«Spiegatemi perché dovremo muoverci in formato squadrone, ancora non mi è chiaro» riprese Gold.
«Voglio tenere d’occhio Ruby» rivelò Kalut, alla fine, creando il silenzio.
Nessuno ebbe alcunché da ridire. Il Campione di Hoenn sbuffò, rinunciando al dibattito. Si sentiva come in una sorta di libertà vigilata.
«Non perché non mi fidi di te» lo intercettò il ragazzo dai capelli bianchi «perché non mi fido della Faces... credi che non abbiano modi per farti giocare al loro gioco anche quando pensi di combatterli? Quando te ne dimentichi, ripensa allo scherzetto che hanno fatto a Zero» gli spiegò.
Ruby rimase piacevolmente colpito da quella realizzazione. Sorrise a Kalut, che era stato uno dei primi dopo tanto tempo a dirgli di avere fiducia in lui.
«Va bene, insomma, muoviamoci» ripeté Gold.
Con calma, i sei ragazzi provarono ad elaborare un modo di fuggire da quel palazzo senza essere individuati dagli agenti che sicuramente stavano sorvegliando il perimetro circostante: seminarli avrebbe sicuramente dato loro un grosso vantaggio.
«Hanno richiesto una triangolazione satellitare, probabilmente per individuarvi utilizzano i dispositivi che avete con voi capaci di collegarsi ad un satellite: cellulari, Cellulare, Pokénav e così via» spiegò Kalut.
«Dovremmo spegnerli, giusto?» chiese Sapphire.
«Aiuterebbe» rispose lui.
«Come usciamo di qui?» domandò Gold, tossendo per finta per attirare l’attenzione.
«Dall’alto» rispose Kalut «avete tutti dei Pokémon volanti?»
Quelli annuirono.
«Distrarrò le guardie, voi decollerete dal tetto e, una volta raggiunta l’alta quota, potrete evitare di essere individuati.
Il gruppo continuò a salire rampe di scale piene di detriti e pezzi di intonaco. Una volta giunti in alto, si trovarono davanti all’uscita di sicurezza sigillata.
«Devo forzarla?» chiese Sapphire, tenendo in mano la Ball di Gallade.
«Abbiamo le chiavi» rispose Aurora.
Era strano, ma nessuno di loro si chiese per quale motivo i membri della Resistenza fossero in possesso delle chiavi di un vecchio edificio appartenuto ad un’organizzazione criminale. Uscirono sul tetto, non senza difficoltà, vista la gran quantità di neve che vi si era ammassata sopra. Tornarono, con una boccata di sollievo, all’aria aperta. Erano rimasti parecchio tempo all’interno di quell’ambiente chiuso e claustrofobico, furono felici di ricominciare a respirare aria contenente ossigeno, anche se gelida. Gold starnutì immediatamente, stringendosi il Montgomery nero che Ruby gli aveva prestato, Sapphire ebbe un brivido e si sistemò la sciarpa attorno al collo, Celia mugolò come se avesse appena preso un ceffone. Gli unici a proprio agio sembravano Kalut, Ruby e Aurora. Il primo era una sorta di super umano la cui reale natura restava ancora ignota ai Dexholder, il secondo era termoregolato dalle Gemme e la terza era una Capopalestra di tipo Ghiaccio.
«Penso alle guardie, quando sentite il verso di uno Xatu decollate, ritroviamoci fuori dalla città, uscita ovest» fece Kalut, tornando dentro e lasciandoli sul tetto.
Chiuse la porta alle sue spalle.
“Squadra da pedinamento standard, tre agenti...” pensò il ragazzo dai capelli bianchi, scendendo le scale “uno sorveglia il perimetro, due entrano. Perso il contatto con l’obiettivo... sul perimetro passano i due, il terzo gira in ricognizione, probabilmente sale su un punto sopraelevato, poiché siamo in ambiente urbano” rifletté.
Cercò di sbirciare fuori: era al secondo piano, le finestre erano sbarrate con delle assi, ma riuscì ad osservare attraverso le fessure. Individuò un uomo seduto sulla panchina di un parchetto sorseggiare una bevanda calda, era il primo agente. Corse dall’altra parte del piano, affacciandosi ad una seconda finestra che dava dalla parte opposta. Da lì vide il secondo: era vestito di bianco in modo da confondersi facilmente con l’ambiente innevato, passeggiava lentamente senza dare nell’occhio fermandosi di tanto in tanto alle spalle di un cartello o dietro un albero. Kalut provò altri tre o quattro punti di osservazione, ma non riuscì ancora ad individuare il terzo agente. Non era sul tetto di un palazzo, non era a terra, non era in un’automobile.
«E va bene, Houdini» mormorò, tra sé e sé «intendi bloccarmi l’uscita dal parcheggio» dedusse.
Il complesso aveva un parcheggio interrato che avrebbe potuto essere utilizzato come uscita di sicurezza, per questo era intuibile che l’uomo si fosse appostato lì, per sorvegliare ogni possibile uscita. Kalut scese fino al piano interrato appendendosi al cavo dell’ascensore, dopo averne forzato le porte ed essere entrato nel vano. Liberò il suo Scolipede dalla Ball e si tolse la sciarpa, avvolgendola attorno alla mano.
«Sonnifero» ordinò al Pokémon, che subito rilasciò le sue spore soporifere sul tessuto della sciarpa.
Kalut arrivò fino all’uscita di sicurezza che dava sul parcheggio. Diede un calcio alla porta, spalancandola nel modo più rumoroso possibile. Poi tornò nel palazzo e fece il giro, giungendo alla seconda uscita, quella del personale. Si mosse silenziosamente tra le colonne del parcheggio, tenendo d’occhio ogni angolo buio. Quando i suoi occhi riuscirono ad oltrepassare l’oscurità, individuò una sagoma accucciata dietro un’automobile abbandonata. Il rumore della porta aveva attratto l’agente, che si era messo in copertura nei pressi dell’uscita di sicurezza, attento a tenerla d’occhio. Kalut lo aveva raggirato. L’agente non si rese nemmeno conto della presenza del ragazzo alle sue spalle, prima di ritrovarsi il panno intriso di sonnifero premuto sulle vie respiratorie. Perse subito conoscenza, svenendo senza emettere suoni. Kalut lo sistemò sotto l’automobile solo per divertimento, gli sottrasse tutta l’attrezzatura e la fece bruciare del suo Arcanine, ma tenne i suoi Pokémon che avrebbe liberato in seguito e l’auricolare. Estrasse di nuovo il Magnezone che aveva utilizzato per illuminare la stanza segreta, gli accostò il dispositivo di comunicazione.
«Qui Greaves, perimetro sud regolare, nessun cambiamento, passo» disse uno dall’altra parte.
«Ferrostrido» ordinò, premendo il tasto dell’audio.
Non sentì cosa avvenne dall’altra parte, ma era sicuro che i due agenti stessero imprecando.
«Riley, sei tu?» chiese Greaves.
«No!» rispose Riley.
«Harper, cosa sta succedendo? Rispondi» Greaves era in allarme.
«Raggiungo la sua posizione» fece Riley.
Kalut attese meno di trenta secondi, poi un altro agente raggiunse quel parcheggio con passo felpato e la torcia accesa in mano. Kalut, nascosto dietro una colonna, fece cenno a Magnezone di attaccare. L’agente non sentì arrivare il colpo, percepì una scossa lungo tutto il suo sistema nervoso e cadde a terra, anche lui privo di sensi. La sua attrezzatura era andata in corto circuito, rimanendo inutilizzabile, ma Kalut se ne sbarazzò lo stesso, tenendo ancora solo le Ball e l’auricolare.
«Riley, Harper, rispondete» chiamava Greaves, dall’altro capo. La sua voce era calma, probabilmente rassegnata.
Kalut poté uscire senza essere visto, l’agente era ancora seduto su quella panchina, apparentemente impassibile, aveva molti punti ciechi. Gli fu alle spalle, ma non intervenne, non lo avrebbe messo KO come gli altri, anche perché era all’aperto. Tese invece le orecchie.
Greaves finì di bere ciò che Kalut comprese essere caffè americano grazie all’odore. Poi prese un secondo strumento di comunicazione, una sorta di walkie-talkie più discreto e meno ingombrante «Greaves a base, Evopoli, distretto commerciale, emergenza di primo livello, gli obiettivi hanno scoperto che li seguiamo e hanno preso Riley e Harper, non riesco a determinare le loro condizioni, hanno interrotto il collegamento, attendo ordini, passo» disse, calmissimo.
«Base a Greaves, abbandonare la missione, manderemo una squadra per il recupero di Riley e Harper, ordine di rientro immediato, passo» rispose qualcuno dall’altro capo del collegamento.
«Greaves a base, ricevuto, faccio rientro immediato... passo e chiudo» e l’agente chiuse il collegamento «figli di puttana...» disse a bassissima voce, prima di alzarsi e andarsene, con la solita discrezione.
Quando fu abbastanza lontano, Kalut chiamò il suo Xatu.
“Quando sei pronto” gli disse, telepaticamente.
Quello emise il suo verso, allo stesso tempo silenzioso ma udibile in tutta l’area circostante. Da lontano, il ragazzo vide un gruppo di Allenatori spiccare il volo dalla cima del palazzo e sparire tra le nubi. Si incamminò, li avrebbe intercettati all’uscita della città, a ovest, come secondo accordi.
 
«Ok, ci sono» affermò Green, chiudendo la sua valigia.
Blue lo stava aspettando sulla porta, anche lei portava il suo bagaglio. I due ragazzi si erano dotati di abiti invernali per fronteggiare le gelide temperature di Sinnoh.
«Possiamo andare» sorrise Blue, alzandosi sulle punte per baciare Green sulle labbra.
«Ti va di passare al laboratorio, prima?» chiese il ragazzo.
«Sì, è un’ottima idea» acconsentì lei.
In quel momento si trovavano a Smeraldopoli, nell’appartamento di Green adiacente alla sua Palestra.
«Tanto siamo in largo anticipo, con l’aereo» aggiunse il castano.
I due abbandonarono quella casa, Green chiuse con diverse mandate, sicuro di dover rimanere fuori per parecchio tempo. Scesi in strada, ripresero i loro Pokémon volanti, per giungere velocemente a Biancavilla. Avevano capito che per muoversi in quel modo erano necessari cappello e sciarpa a causa dell’aria fredda e infatti si erano preparati di conseguenza. Giunsero al paesino di campagna dopo poche decine di minuti di volo. Atterrarono nel vialetto del laboratorio che un tempo era stata la casa di Green e in cui ora lavorava suo nonno con qualche assistente e suonarono il campanello.
«Chi è?» domandò una voce, preventivamente.
«Margi, sono io» rispose il Capopalestra.
Quella aprì.
«Un tempo lasciavamo le porte aperte» commentò Blue.
Margi sorrise e abbracciò entrambi. Fu un abbraccio sereno, rassicurante, entrambi si resero conto di sentirsi come se fossero tornati al nido. Biancavilla sapeva di casa, ma anche di nostalgia e lontananza da casa.
«Non vi aspettavo» fece lei, preparando il caffè.
«Infatti siamo qui solo per un saluto e per qualche... aggiornamento» tagliò corto il ragazzo.
«Come va a Sidera?» chiese Blue.
«Tutto bene, in realtà dovrò ripartire proprio domani, non hanno mie notizie da un bel po’, ormai» la sorella maggiore di Green aveva aperto un proprio laboratorio Pokémon a Sidera da qualche tempo, dove svolgeva il ruolo di professoressa Pokémon.
«Dai, capiranno, con tutto quello che è successo...» la rassicurò Blue.
«Già, appunto... Crystal e Silver... come stanno?» chiese Margi.
Nessuno dei due Dexholder si affrettò a rispondere, la ragazza recepì il messaggio.
«Dov’è il nonno?» domandò Green.
«Oh, di sopra, non credo vi abbia sentiti entrare, ultimamente lavora spesso con la radio accesa».
«Posso salire o chiediamo a lui di scendere giù?» chiese lui.
«Non vuole che nessuno metta gli occhi sui suoi lavori» rise Margi «gli chiederò di scendere».
Green annuì e cominciò a sorseggiare il caffè, mentre sua sorella si dirigeva verso il piano superiore del laboratorio.
 

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Capitolo 6
*** Capitolo 5: Marshmallows ***


V
Marshmallows
 
 
Samuel Oak scrutava i due Dexholder come se si aspettasse che da un momento all’altro dovessero morire davanti ai suoi occhi. Non era mai stato un uomo emotivo, ma il tempo lo aveva ammorbidito, soprattutto nei confronti dei suoi ragazzi. Seduti al tavolo, Green e Blue ricambiavano il suo sguardo, sorseggiando il caffè preparato da Margi nella cucina del laboratorio.
«Come state?» chiese il professore.
«Noi non abbiamo potuto combattere, nonno» rispose Green.
«Lo so, non mi riferivo a quello, voi...» unì ripetutamente indice e pollice della stessa mano «state di nuovo insieme?»
Green distolse lo sguardo, imbarazzato, Blue ridacchiò di lui.
«Ci stiamo provando» rispose il nipote, lasciando intendere a suo nonno che non avesse voglia di parlarne.
Oak sorrise «sono contento, dovete riuscire a trovare un po’ di pace, in tutto questo disastro...»
Tutti i presenti tornarono con la mente ai loro amici che erano ancora in ospedale.
«Dovrei far visita a Porto Alghepoli» disse il professore, cercando di non guardare il terreno.
«Sarebbe inutile, Crys è intrattabile e Silver è ancora... addormentato» ribatté Blue.
«Ho saputo che Crystal ha deciso di lasciare il suo Pokédex».
Green e Blue tacquero, come se si sentissero in colpa per la loro amica.
«E’ stata una sua decisione... a volte mi chiedo anch’io se questa sia stata o no la strada giusta per tutti voi» Oak riempì un bicchiere con l’acqua del rubinetto e si gettò in bocca una pillola, per ingoiarla bevendo.
«La strada giusta per noi?» domandò Blue.
«Il Pokédex» chiarì Oak «tutto ciò che è avvenuto negli ultimi anni, le organizzazioni criminali, gli eventi catastrofici, i folli criminali, tutto ha sempre coinvolto voi portatori del Pokédex, in un modo o nell’altro» proseguì.
«Nessuno di questi fatti era legato al Pokédex» ribatté Blue.
«Forse è vero... forse la responsabilità che avete assunto vi ha messo in pericolo ogni volta perché voi sentivate che quella fosse la strada giusta da seguire» l’uomo sospirò «sono fiero di quello che siete diventati... tutti voi, ma non meritavate e non meritate di portare il peso del mondo sulle spalle come se aveste un debito con esso».
Green e Blue non vollero ribattere.
«Non intendo dissuadervi dal partire» Oak rise amaramente «so che siete già pronti per raggiungere Sinnoh... cercate soltanto di tenere a mente che non siete obbligati a sacrificarvi come Emerald o a rischiare la vita come Crystal e Silver. Loro sono stati degli eroi... e anche degli stupidi» concluse.
Per la terza volta, aleggiò tra loro un silenzio glaciale.
«Red se n’è andato» disse poi Green.
«Lo so» fece il professore.
«Ma sono sicuro che non se ne sia andato per vigliaccheria» aggiunse.
Oak lo guardò negli occhi, scrutando il suo animo come se potesse vederlo ardere nell’iride verde di suo nipote.
«Ne sono sicuro anch’io» confermò.
Green giunse ad una conclusione cui non volle credere immediatamente. Suo nonno sapeva qualcosa, qualcosa che non intendeva rivelare loro. Magari era a conoscenza di cosa fosse accaduto a Red, magari era stato proprio lui a dirglielo. In ogni caso, aveva mostrato troppa sicurezza, quella non poteva essere stata soltanto una speculazione.
«Direi che è il momento di andare» decise Green, ad un certo punto.
I due Dexholder si rivestirono, ripresero le proprie valigie e lasciarono quel laboratorio, con i sintetici convenevoli a cui erano stati abituati dal professor Oak.
«Fate attenzione, quei bastardi fanno sul serio» li salutò l’uomo dall’uscio di casa, mentre loro salivano in groppa ai propri Pokémon volanti.
«Anche noi» ribatté Green, prima di spiccare il volo.
Quando furono ormai lontani, abbastanza per sembrare due piccoli puntini neri nel cielo foderato di nubi, Oak si permise di commuoversi «tornate indietro...» sussurrò loro, senza che anima viva potesse sentirlo.
 
«Dove vi sta aspettando Platinum?» chiese Kalut.
«Canalipoli, ma è impossibile arrivarci in volo, i nostri Pokémon hanno a malapena sopportato un viaggio di pochi minuti» rispose Ruby.
«Hai ragione, è troppo freddo per loro» ammise il ragazzo dai capelli bianchi guardando il Tropius, il Flygon e il Togekiss che avevano utilizzato per volare.
Gold, Sapphire e Ruby si trovavano in compagnia di Celia, Kalut e Aurora appena fuori dalla città di Evopoli, all’inizio del Percorso 205. Erano vicini ad un laghetto su cui era stato costruito un piccolo pontile di legno, potevano osservare le acque del laghetto completamente congelate e la vegetazione circostante soffocata dalla neve.
«Andremo a piedi, è l’unica cosa da fare» decise Sapphire, che non era nuova a quelle esperienze.
«Ci metteremo un sacco di tempo» si lamentò Gold.
«Ma è l’unica cosa che possiamo fare» si intromise Aurora «prima che cali la notte riusciremo ad arrivare fino a Giardinfiorito, poi ci fermeremo in un motel o qualcosa del genere» programmò.
Ci fu un annuire generale, e così, il gruppo si incamminò lungo il Percorso 205, con gli stivali stretti e i cappotti imbottiti. Era freddo, la temperatura restava un bel po’ di gradi sotto lo zero, ma il movimento era utile per tenere tutti al caldo. Si resero conto di camminare in un ambiente in cui la neve era effettivamente scesa troppo in fretta. Videro tanti alberi spezzati dalla violenta bufera e incontrarono alcune squadre di addetti alla sicurezza intente a sistemare alcune zone boschive in cui la neve e il ghiaccio avevano creato situazioni pericolose per Pokémon o umani: incontrarono una squadra intenta a tagliare delle grosse querce pericolanti e un’altra a far cadere un grosso mucchio di neve accumulatosi sulle fronde di un albero. La fauna locale era ovviamente ridotta quasi a zero, i Pokémon più piccoli e deboli al freddo avevano tentato di trovare riparo come durante il letargo invernale, ma solo i più forti ci erano riusciti.
«Sì, sono morti, se è questo che vi state chiedendo» proferì Kalut quando Ruby e Sapphire si fermarono per qualche secondo a scrutare una famigliola di Cascoon e Silcoon curiosamente non intenti a scrutare l’esterno dalla fessura nel bozzolo «impotenti, congelati all’interno del loro stesso bozzolo».
I due Dexholder non risposero, Sapphire fece una smorfia. Capirono di doversi muovere, Kalut tirava dritto e il gruppo non intendeva rompere il ritmo.
Giunsero all’entrata del Bosco Evopoli, che risultò essere la via più lunga e scomoda. Fortunatamente, più membri del gruppo conoscevano un sentiero più breve che avrebbe necessitato soltanto di essere liberato da alcuni rovi per essere praticabile. Si infilarono in quella strettoia e continuarono a camminare. In poco tempo arrivarono ad una zona differente, non stavano più camminando in mezzo al bosco, si resero conto di star mettendo i piedi su un terreno duro e accidentato. Si trovavano su un versante inclinato composto da piccoli terrazzamenti di roccia. Divenne più difficile restare in equilibrio, a causa del ghiaccio, ma riuscirono a oltrepassare il punto di maggior pendenza senza rimetterci l’osso del collo.
Celia sembrava trovare maggior difficoltà nell’escursione, quella che invece era più a proprio agio, per quanto non avvezza ai territori nevosi, era Sapphire. La Dexholder di Hoenn non scivolò una sola volta, in alcune occasioni dovette pure salire su un albero per controllare che la direzione fosse quella giusta. Celia, invece, sembrava essere nuova a questo tipo di esperienze, inciampava spesso e si muoveva con grande insicurezza.
Quando il terreno diede loro occasione, Sapphire le si avvicinò per parlare «non mettere mai i piedi in verticale, dai sempre il fianco e non scivolerai» le spiegò.
«Grazie» rispose quella senza alzare la testa.
Sapphire notò che mise subito in pratica quell’insegnamento, trovando maggior stabilità «tu hai detto di avere un fratello, giusto?» le chiese, poi.
Celia non comprese per quale motivo Sapphire fosse interessata a lei, quindi la scrutò, cercando un doppio fine nel suo sguardo. Non sapeva ancora che poche erano le persone al mondo capaci di essere sincere quanto quella ragazza.
«Sì, si chiamava... beh, si chiama Xavier» rispose Celia «in realtà non è proprio mio fratello, suo padre mi ha adottato quando ero una bambina, è il mio fratellastro» spiegò.
«Capisco» fece Sapphire, cercando di mostrarsi delicata «anche lui fa parte della Resistenza?» domandò.
Il volto di Celia si curvò in un amaro sorriso «non esattamente...» rispose.
Sapphire non seppe discernere l’educazione dall’invadenza, in quel momento.
«Che gli è successo?» domandò.
Celia sembrò temporeggiare, il suo volto era contrito, il suo sguardo era cupo e triste.
«Lavora per la Faces» rispose Aurora, intromettendosi nella conversazione.
Celia si voltò di scatto, come se la Capopalestra di Holon l’avesse appena pugnalata alle spalle. La fissò per qualche lungo istante, interrompendo anche il passo. Poi strinse le labbra e assottigliò gli occhi, voltandole le spalle e tornando a camminare in silenzio. Sapphire non ebbe il coraggio di chiedere più informazioni.
Il gruppo giunse a Giardinfiorito quando ormai si faceva sentire il bisogno di mettere qualcosa sotto i denti per la cena. Il sole, sebbene nascosto dalle nubi, non sembrava voler tramontare, ancora: sembrava pieno inverno, ma era comunque luglio, le giornate erano molto lunghe. La maggior parte del viaggio era scorso nel silenzio, ma bastò uno sguardo collettivo per far accordare il gruppo sull’idea di fermarsi per riposare.
«Dovrebbe esserci una pensione, qui vicino» affermò Ruby, che si era curato di controllare un eventuale luogo di ristoro su Google Maps.
«Va bene qualsiasi cosa» gli rispose Sapphire.
«La pensione non è un posto dove vanno gli anziani?» domandò Gold.
Camminando per le vie innevate del paesino, che privato dei suoi caratteristici mari di fiori colorati sembrava una tavola piatta e triste, cominciarono a girare tra le baite di legno, costruzione tipica locale, sperando di incontrare il luogo indicato da Ruby. In giro non c’era nessuno. Il paese sembrava morto o disabitato.
«Eccoci» annunciò infine il Campione di Hoenn.
Si resero tutti conto di essere giunti davanti ad una baita di legno più grande e decorata delle altre. Anche se quasi completamente coperta dalla neve, era ben leggibile l’insegna che citava Locanda Tre Petali sopra la porta d’ingresso.
Un campanellino suonò quando i Dexholder aprirono la porta, avvertendo la receptionist. I viaggiatori presero tre stanze: in una sarebbero stati Ruby e Sapphire, nella seconda Kalut e Gold, nella terza Aurora e Celia. La donna che si occupò di ritirare i loro documenti per registrarli diede segno di riconoscerli, leggendo i loro nomi; Ruby la fece calmare promettendole qualche autografo in cambio del silenzio. Quando dovette dar loro le chiavi, la signora non riusciva a staccare gli occhi dal ragazzo.
«Green e Blue atterreranno tra poco a Giubilopoli, resteranno a dormire là» aggiornò Sapphire, leggendo i messaggi giunti sul suo cellulare, mentre Ruby apriva la porta della loro camera.
«Diciamolo anche agli altri» fece lui, entrando.
«Dopo, c’è ancora tempo» temporeggiò lei, gettando la sua valigia a terra.
Il Campione di Hoenn la guardò stendersi sul letto ancora completamente vestita, in cerca di riposo. Dormivano poco e male ormai da giorni: gli eventi di Holon li avevano costretti a dimenticare i loro ritmi circadiani naturali. Se non avesse avuto Sapphire a distrarlo, forse quella sarebbe stata la prima dormita decente da quasi una settimana a quella parte, pensava Ruby, togliendosi la felpa.
«Vado prima io, in doccia» si precipitò Sapphire.
«Ok» acconsentì lui, sfilandosi i pantaloni.
«Ho detto che vado prima io» ripeté quella, cominciando a svestirsi più velocemente possibile.
«Certo, fai con comodo» sorrideva Ruby, ormai mezzo nudo, entrando in bagno e aprendo il flusso dell’acqua.
Sapphire lo inseguì, per intercettarlo, lui la prese tra le braccia, la baciò sfilandole il reggiseno ed insieme entrarono nella cabina doccia.
A qualche muro di distanza, Gold stava attaccando il cellulare alla presa di corrente che era accanto al letto, mentre Kalut utilizzava il bagno. Ancora più là, Aurora e Celia si fissavano in cagnesco, allertandosi mentalmente di non superare la immaginaria linea che divideva la loro stanza in due.
 
«Dovremmo scendere per la cena» mormorò Sapphire.
«Non ti muovere o ti faccio male» le intimò Ruby.
Lei era scomodamente seduta sul bordo del letto, indossando il suo asciugamano a mo’ di vestito, mentre Ruby le spazzolava i capelli con delicatezza. Era bravo in quelle cose, più bravo di una ragazza, molto più bravo di Sapphire, che aveva scoperto l’invenzione del balsamo solo in età matura.
«Ti ricordi quel fascicolo che abbiamo letto durante l’attacco al grattacielo Faces? Quello che Zero aveva preso dall’ufficio del presidente» domandò la ragazza.
Ruby rispose di sì.
«Zero ha detto di essere stato modificato da suo padre tramite un esperimento genetico, forse è per questo che... insomma... è così strano».
«Kalut ha voluto salvarlo, ha spiegato che potrebbe rivelarsi utile come aiutante, ma secondo me c’è qualcos’altro dietro» fece Ruby.
«E’ orribile» commentò lei.
«Zero era distrutto, è assurdo credere che dentro la sua testa si nasconda un criminale che ha ucciso in quel modo i Superquattro di Holon e abbia tentato di far crollare quel palazzo in testa ai suoi dipendenti».
Sapphire non volle continuare quella conversazione.
«Che intendi fare, una volta che tutto questo sarà finito?» chiese al ragazzo.
«Non lo so, per ora penso solamente a come fermare la Faces» rispose Ruby continuando a spazzolarle i capelli.
«E poi? Nient’altro?» riprovò lei, con il tono di chi esige una risposta.
Il ragazzo si fermò. «Tu che cosa vorresti fare?» le chiese, di riflesso.
«La mia domanda era rivolta a te» rispose quella, voltandosi per poterlo guardare negli occhi.
«Beh, suppongo che per fare dei programmi sia necessario il consenso della mia ragazza» affermò, cercando di non indugiare su quell’ultima parola.
Sapphire cercò di guardare altrove, l’ultima volta che Ruby l’aveva definita la sua fidanzata era stato due anni addietro, prima del suo cambiamento. Tuttavia, non si fece ammorbidire dalla tenerezza, tenendo fisso l’obiettivo davanti agli occhi.
«Va bene, e se ti chiedessi di lasciare il ruolo di Campione?» domandò, velenosa.
Ruby ebbe qualche istante di esitazione. Non comprese il motivo di quella richiesta. Poteva essere un test, o magari Sapphire era sincera; in ogni caso, era una decisione che richiedeva riflessione.
«Dovrei abdicare?»
Quella alzò un sopracciglio, criticando l’abitudine di Ruby di utilizzare parole poco note al solo scopo di metterla in difficoltà.
«Perché me lo stai chiedendo?»
«E’ solo un’ipotesi... se te lo chiedessi, lo faresti?» continuò lei, seguendo con il dito le linee che il ragazzo aveva sul torace.
«Beh» temporeggiò lui «perché no?» rispose infine, poco convinto.
Sapphire rimase neutrale di fronte alla risposta di Ruby, evitando ogni minima reazione, anche involontaria. Poi disse: «Ok, andiamo di sotto» e sfuggì alle sue grinfie.
I due indossarono qualcosa e raggiunsero il resto della compagnia al piano di sotto, sedendosi al loro tavolo. Avevano già ordinato, ma tanto la locanda aveva un menù fisso, quindi alla cameriera bastò aggiungere solo altre due porzioni. Oltre loro, nella locanda alloggiavano solo un altro paio di viaggiatori: dagli stralci dei loro discorsi che li raggiunsero, i ragazzi compresero che erano stati costretti a trovare rifugio per la notte a causa della neve, ma che in realtà, erano Allenatori armati di tende e sacchi a pelo, divenuti inutilizzabili a quelle temperature.
«Green e Blue sono atterrati a Giubilopoli, li raggiungeremo domani e insieme a loro ci avvieremo verso Canalipoli» Sapphire aggiornò il gruppo.
«Hai detto loro dove siamo?» chiese Aurora.
«Sì, sanno che siamo qui ma...»
«Non farlo mai più» rispose, con la massima serietà.
Sapphire rimase interdetta. «Come mai?» chiese.
«La Faces sa come intercettare chiamate e messaggi, sono abili in queste cose, evitate di rivelare informazioni importanti oppure utilizzate un linguaggio in codice, qualcosa di simile» spiegò la Capopalestra di Holon.
Sapphire si rese conto di essere già a conoscenza di ciò, sentendosi stupida per aver scritto a Blue persino il nome della locanda, via Whatsapp.
«In ogni caso, domani dovrò lasciare il gruppo, mi hanno chiamato a Holon, c’è il caos nella mia regione» cambiò argomento Aurora.
«Che sta succedendo?» domandò Ruby.
«Con la caduta della Lega, sembra ci sia bisogno di creare un nuovo organo di controllo, i Superquattro sono morti e Zero è un ricercato, i Capipalestra si stanno unendo per far fronte a questo problema e ristabilire l’ordine» spiegò lei.
«E perché Celia rimane, nonostante sia la Capopalestra di Vivalet?» chiese Gold, con ben poca delicatezza.
La bionda si voltò verso di lui, accigliata.
«Perché lei è qui per suo fratello» spiegò brevemente Kalut.
«Oh, quello che lavora per la Faces?» domandò Gold, per evitare fraintendimenti.
Celia si coprì il volto con la mano, sospirando.
«Cristo, Gold» Sapphire gli diede una leggera gomitata.
«Quando lo avrò trovato, indipendentemente dal risultato, tornerò anche io a Holon, per ora possono fare a meno di me, tanto non sarei comunque utile, non conosco Vivalet e sono Capopalestra da pochissimo» chiuse il discorso Celia.
Un cameriere cominciò a servire la cena, Gold si gettò subito sulla sua bistecca, cominciando a trangugiarla selvaggiamente. Gli altri iniziarono a consumare in maniera più civile il loro piatto, Ruby lo schifò leggermente.
Una volta terminato il pasto, ognuno di loro tornò in camera, per dormire il più possibile prima di quella che sarebbe stata una giornata sicuramente lunga e difficoltosa. Nella stanza di Celia e Aurora, aleggiava ancora una certa tensione. Le due evitarono discussioni e chiacchiere, andando a dormire presto e guardandosi il meno possibile. In quella di Kalut e Gold, c’era ben poco di cui parlare: i due si conoscevano appena e Gold era lievemente inquietato da Kalut e infastidito dalla sua ambiguità, non andò a dormire con la paura che potesse pugnalarlo nel sonno, ma si addormentò con in testa il chiodo fisso del perché mai quel ragazzo avesse lasciato libero Zero, il responsabile di tanti crimini. Nella camera di Ruby e Sapphire, invece, la temperatura era un bel po’ più elevata che nelle altre.
«Vuoi dormire?» chiese il ragazzo alla sua donna, scivolando sotto le coperte accanto a lei.
Sapphire arrossì, scuotendo leggermente la testa: «non lo so» rispose, vaga.
«Ok, buonanotte, allora» fece Ruby, voltandole le spalle, fintamente indignato.
«Ehi» lo richiamò lei, mordendogli il collo con delicatezza.
«Che fai?» chiese lui.
«Stanotte lo facciamo come dico io...» affermò Sapphire, ponendosi a cavalcioni sopra il suo amante e sfilandosi la maglietta sotto la quale non indossava intimo.
 
Qualche decina di chilometri più a sud, nella stanza di un motel di Giubilopoli, avveniva una scena molto simile. Green e Blue erano scesi dall’aereo e si erano trovati un luogo in cui riposare in fretta e furia. Erano stanchi, ma non abbastanza per il sesso.
Lentamente, su Giardinfiorito, Giubilopoli e su tutta la restante Sinnoh, scese la notte fonda. La luna e le stelle erano nascoste da un fittissimo strato di nubi e l’intera regione era ricoperta dalla bianchissima neve. Quella notte sarebbe stata quieta come poche altre.

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Capitolo 7
*** Capitolo 6: L'ultima spiaggia ***


VI
L’ultima spiaggia
 
 
Il percorso 204 di Sinnoh era il versante di una collina su cui si erano formati dei grossi gradoni di roccia simili a terrazzamenti. La gelida temperatura e l’abbondante neve che era scesa su tutta la regione lo avevano reso complicato da attraversare, soprattutto alle otto di mattina. Kalut e Sapphire, quelli che trovavano meno difficoltà nella marcia, guidavano il gruppo assicurandosi che non fossero tesi loro brutti scherzi dal terreno accidentato. Dietro di loro: Aurora e Celia che continuavano a non scambiarsi alcuna parola e in fondo al gruppo Gold e Ruby, che intonavano un accorato lamento continuo, il primo a proposito dell’orario della sveglia, il secondo circa le condizioni della loro sgradevole passeggiata.
«Siamo quasi arrivati, avete abbottato» li richiamò Sapphire, poco prima di interrompere la marcia.
«Che succede?» chiese Aurora, da dietro.
Sapphire sembrava star cercando di ricordare qualcosa, qualcosa di importante. Aveva già viaggiato a Sinnoh, ma lo aveva fatto in piena estate e non riusciva a ricollegare quel sentiero ad uno dei suoi ricordi.
«Non mi ricordo questa discesa» confessò al gruppo.
Tutti la raggiunsero, per cercare di capire, trovandosi sul ciglio di un alta scarpata particolarmente ripida, impossibile da superare senza rimetterci l’osso del collo.
«Gold, come abbiamo oltrepassato questo punto?» domandò Sapphire.
Gold scosse la testa lentamente, non ne aveva memoria.
«Il Tunnel Roccioso!» esclamò Sapphire, recuperando quel ricordo all’improvviso «c’è una piccola grotta che aggira lo strapiombo, si trova...» la ragazza si rese conto di essersi voltata per indicare la neve e solamente la neve. La parete su cui sarebbe dovuta essere l’entrata della grotta era completamente stata ricoperta da un bianco e candido manto gelato. Sarebbe stata complicata da localizzare e quasi impossibile da aprire.
«Dobbiamo scenderla da questo lato» concluse Ruby.
Con ben poca fiducia nella propria abilità da montanari, si stavano accingendo a discendere quella ripida scarpata gelata, quando una voce giunse loro da dietro un albero.
«Sarà difficile recuperarvi se cadete da quell’altezza, persino per noi» disse qualcuno.
L’intero gruppo si voltò: un uomo alto qualcosa come due metri, la cui stazza ricordava quella di un grosso bufalo era giunto a loro armato di bacchette da scalata e vestito con pesanti abiti escursionistici. Sul petto portava il simbolo della regione di Sidera, che Celia notò immediatamente.
«Mi chiamo Bronn, sono un alpinista e stavo proprio piazzando delle funi per facilitare l’attraversamento della discesa ai viandanti» sorrise lui, gonfiando il faccione paffuto.
Il volto di Celia si illuminò immediatamente, il suo gruppo la vide correre subito avanti e togliersi il cappuccio, per farsi identificare dall’uomo.
«Signorina» esplose Bronn, riconoscendola e improvvisando un goffo baciamano.
Kalut, in disparte, sorrideva. Aurora sperava che quella scena sarebbe terminata in fretta, poiché voleva andarsene, i Dexholder erano invece particolarmente incuriositi da ciò che stava accadendo di fronte a loro.
«Vedete, quando la Resistenza ha scoperto il piano di glaciazione della Faces» cominciò a spiegare Celia «ha reclutato gli Alpinisti di Sidera come squadra di soccorso che avrebbe lavorato in tutta Sinnoh per aiutare i viandanti in difficoltà, mentre noi tentiamo di fermare il problema alla fonte, loro aiutano i civili» concluse.
«Siamo sempre pronti per dare una mano» sorrise quello.
«Come sta Ercole?» chiese Celia rivolgendosi esclusivamente a Bronn.
«Il capo sta bene, è felice di poter dare una mano qui, a voi» rispose lui.
«Salutalo da parte mia».
«Certamente» fece il montanaro, gioviale «adesso seguitemi, vi aiuto a scendere» li invitò.
Seguendo Bronn, giunsero alla famosa fune che lui aveva appena piazzato: la cima era assicurata al tronco di un grosso pino e si lanciava giù lungo la ripida discesa, arrivando a stringersi ad un secondo albero. La corda era tozza e fissata con dei moschettoni d’acciaio e presentava, per tutta la sua lunghezza, dei nodi equidistanti a cui aggrapparsi.
«Fate andare prima i più esperti» consigliò l’alpinista.
Sapphire e Kalut, stringendosi alla fune, si calarono lentamente giù dal bordo della parete. Il resto del gruppo li imitò, lasciando ultima Celia, che salutò Bronn prima di seguire gli altri. I ragazzi si allontanarono, con in sottofondo il suono di un martello: il montanaro che li aveva aiutati stava fissando ad un albero un cartello che rendesse evidente la posizione della corda.
Camminarono per altre decine di minuti. Quando iniziarono a scorgere i palazzi di Giubilopoli in lontananza, si resero conto di dover attraversare solo un ultima distesa di neve, prima di mettere i piedi sull’asfalto dell’ambiente urbano.
 
«Blue» fece Green, sorseggiando il suo caffè bollente.
«Dimmi» rispose la sua ragazza, con le guance rossicce che faceva capolino da una grossa sciarpa di lana rossa.
«Sei andata ad una visita ginecologica di Yellow?»
Blue fece una smorfia stranissima, presa alla sprovvista da quella particolare domanda.
«Ho letto una roba del genere sulla tua lista delle cose da fare» spiegò quello.
«Green, non so di cosa tu stia parlando»
«Non è che mica...»
«Eccoli» lo interruppe lei, vedendo in lontananza i volti infreddoliti di Sapphire e Gold.
Blue andò subito incontro ai suoi amici, presentandosi a Celia e ad Aurora, che si introdussero come membri della Resistenza. I suoi occhi, come quelli del Capopalestra di Smeraldopoli, scrutarono Kalut per qualche istante, come nel tentativo di decifrarlo.
«Vogliamo subito avviarci verso Canalipoli?» domandò Ruby, per movimentare le cose.
«La Dexholder di Sinnoh ci sta aspettando» sottolineò Kalut, col suo fare enigmatico.
Green e Blue acconsentirono, erano più freschi e riposati dei loro amici, necessitavano di un po’ di movimento. Gold e Sapphire sembravano non aspettare altro e Celia si convinse scuotendo la testa. Si concessero pochi minuti per riscaldare lo spirito con un buon caffè, prima di avviarsi verso ovest, alla volta del Percorso 218.
«Io vi lascio qui» disse a quel punto Aurora, cercando nella borsa le carte d’imbarco per Holon.
«Cerca di gestire Holon al meglio, ne abbiamo bisogno» le intimò Kalut, salutandola con un rapido abbraccio.
«Ci vediamo» la congedò Celia, rivolgendole uno sguardo di sopportazione.
La Capopalestra abbandonò il gruppo, incamminandosi verso l’aeroporto.
«Allora, avete un bel po’ di cose da spiegarci, immagino» iniziò Blue.
Attraversando l’intera città di Giubilopoli, i Dexholder riassunsero ai loro colleghi di Kanto ciò che i membri della Resistenza avevano comunicato loro nella giornata precedente. Raccontarono delle scoperte a proposito della Faces che aveva incaricato i suoi agenti della cattura di innumerevoli Pokémon di tipo Ghiaccio, dei loro piani per la conquista di Sinnoh, delle loro intenzioni ultime, a proposito della protezione del sistema di Allenamento.
Green non diede alcun cenno di stupore o di sorpresa, mantenne lo sguardo truce fisso sul marciapiede che era intento a calpestare, in una calma innaturale. Blue, partecipò con più interesse al resoconto, facendo domande e palesando la sua incredulità con qualche mormorio.
«E’ assurdo... un parco giochi...» diceva, prima che Kalut interrompesse la marcia alzando il braccio.
Si resero tutti conto di essere usciti dalla città e di trovarsi sull’ultima piccola striscia di terra prima di un ampio bacino di mare che separava Canalipoli da Giubilopoli. Era la baia dei pescatori, con pontili e scogli dai quali, nei mesi estivi, molti appassionati lanciavano i propri ami nell’acqua salmastra.
«Possiamo aggirarla, sarà difficile nuotare per dei normali Pokémon di tipo Acqua» propose il ragazzo dai capelli bianchi.
Gli diedero ascolto, avrebbero curvato a sud, per fare il giro della baia ed evitarne le gelide correnti. Impiegarono poco tempo, ma tra uno sterpo e un cespuglio innevato, oltrepassarono la fitta foresta di conifere non senza difficoltà. Non vi erano sentieri battuti, solo macchia.
Giunsero al varco quando ormai i languori del pranzo iniziavano a farsi sentire dai loro stomaci.
«Per quale motivo Platinum ci ha fatti arrivare a Canalipoli, maledizione...» si lamentava Gold, togliendosi la neve dal cappuccio, all’interno della zona di transito. L’addetta al bancone li fissava con occhi incuriositi, credeva di aver visto qualche faccia conosciuta, tra loro. Nel frattempo, nel grosso schermo che era appeso al centro di quel corridoio, scorreva lo spot di una fragranza Hugo Boss, il cui testimonial altri non era che il caro vecchio Ruby.
 
Platinum stringeva la tracolla della borsa nella sua mano sinistra, infagottandosi nel suo stesso cappotto per conservare il calore. Il suo collo era cinto da un’abbondante sciarpa e le sue mani da un paio di caldi guanti.
Trepidava dall’attesa, aveva alloggiato due giorni in un hotel a cinque stelle che apparteneva alla sua famiglia senza far nulla. Aveva solo atteso Sapphire e gli altri Dexholder, per comunicare loro ciò che aveva scoperto, perché potessero aiutare a rimettere a posto la gelida situazione di Sinnoh.
Non aveva portato i suoi anelli. La cosa l’aveva fatta riflettere parecchio: le pietre che vi erano incastonate le ricordavano i suoi amici, i due ragazzi che l’avevano accompagnata per il suo viaggio. Aveva dei bei ricordi circa le loro strane avventure. Avevano salvato il mondo senza la minima idea di cosa stessero facendo per la maggior parte del tempo.
Dopo gli eventi di Rayquaza, aveva preferito non allertarli, non chiamarli, dimenticarsi di loro. Dopo gli eventi di Vivalet, se ne era resa conto. Non avrebbe mai voluto far immischiare Diamond e Pearl in una questione tanto sanguinosa.
Erano delle persone dolcissime e fedeli, dei comici, dei sognatori. Ma non erano guerrieri.
Era stata egocentrica, ne era cosciente, ma sapeva di aver fatto la cosa giusta. Li stava proteggendo.
“Come stai?” era scritto nel messaggio inviatole da Diamond, qualche minuto prima.
“Sono ancora a casa, al sicuro” scrisse e inviò.
Rimise il cellulare al suo posto: nella tasca laterale della borsa. In quella principale c’erano invece le pozioni, i vestiti e gli altri strumenti necessari per sostenere un lungo viaggio. A Vivalet, aveva lasciato che Sapphire la mandasse a casa, per allontanarla dal pericolo. Le aveva concesso di farlo, rinunciando al proprio orgoglio.
Non sarebbe successo una seconda volta, l’avrebbe seguita e avrebbe lottato al suo fianco. Era la cosa giusta da fare. Lei era una guerriera.
«Platinum» la chiamò qualcuno, in lontananza.
Lady Berlitz si voltò, intravedendo le sagome di cinque Dexholder e di due persone la cui identità le era ancora sconosciuta. Alzò la mano per salutare, sorridendo elegantemente.
 
«Siete stati seguiti fin qui?» domandò Platinum, posando la sua cioccolata calda sul tavolino del bar.
«No, per ora siamo ancora in incognito» la rassicurò Kalut, che teneva sempre d’occhio tutto.
«Ripetimi, chi è lei?» chiese Celia a Sapphire, rivolgendo l’indice verso Platinum.
«Una Dexholder, intendo aiutarvi a risolvere i problemi che avete con la Faces» rispose Lady Berlitz, non volendo essere presentata da terzi.
Per un lungo istante, tutto il mondo si fermò e, tra loro, scese il silenzio. Ognuno, a quel tavolo, fissava Platinum. Quella non intendeva lasciar trapelare il godimento che stava provando nel solleticarli in quel modo e sorseggiava la cioccolata calda con fare disinvolto.
«Come sai della Faces? Nessuno a parte noi ne è a conoscenza» mormorò Green.
«Se ne sei convinto...» fece lei.
«Platinum, che cos’hai scoperto?» le chiese Blue, serissima in volto.
«Ero tornata a Sinnoh per indagare su qualcosa che potesse aver avuto a che fare con gli eventi di Vivalet» cominciò a spiegare quella «ho visitato le Palestre e parlato con i Superquattro, ho cercato informazioni ovunque, senza ottenere un bel niente. Finché non ho deciso di tornare a casa...» detto questo, prese dei fogli da una cartella che teneva in borsa e li posizionò sotto gli occhi di tutti, sul tavolino.
«Che roba è?» domandarono Sapphire e Gold, non vedendovi alcun’immagine, ma solo lettere e numeri.
«Contratti di finanziamento» rispose Green, che era dentro a quelle questioni da parecchi anni «da parte della Berlitz Enterprises».
«E’ la società della mia famiglia» spiegò «leggete il nome del destinatario delle donazioni».
«F.A.C.E.S. Corporation?» notò Blue «la tua famiglia ha finanziato la Faces?»
«Non esattamente» la corresse Ruby, che pure ne masticava abbastanza di materie burocratiche «i finanziamenti provengono da alcune imprese che fanno parte della sua società, non dall’intera organizzazione».
«La Faces ha richiesto dei soldi e loro hanno accettato di finanziarla... mi sono chiesta perché» fece Platinum «poi sono andata a studiare nel dettaglio ognuna di queste imprese».
«Di cosa si occupano?» chiese Green.
«Costruzione, manutenzione, amministrazione... delle infrastrutture dedicate al turismo invernale, qui a Sinnoh» Platinum cominciò a sfogliare documento per documento, alzando gli occhi ogni tanto per vedere le reazioni degli altri Dexholder «questa possiede alcuni centri di ristoro e accoglienza alle pendici del Monte Corona, questa ha costruito Pokémon Market e centri commerciali nelle zone di Nevepoli, questa ha creato tutte le piste da sci del versante est...» spiegò loro.
Blue fece i suoi collegamenti, osservando la neve scendere lentamente sulla cittadina già coperta di bianco, fuori dalla finestra del bar.
«La Faces si è fatta finanziare sulla promessa di una condizione favorevole in cui il loro fatturato sarebbe aumentato a dismisura» concluse Platinum «non poteva essere un caso, giusto?»
Tra i ragazzi seduti al tavolo vi furono un paio di occhiate di consenso.
«Platinum, devi sapere che la Faces è anche l’organizzazione che ha causato l’incidente di Vivalet per incastrare Zero» le spiegò Green.
Quella si toccò la guancia con due dita «effettivamente, due eventi del genere a così breve distanza tra loro...» le sembrò ovvio.
«Hai trovato altre informazioni?» le chiese Blue, non accontentandosi di dati che già conosceva.
Lei scosse la testa «questo è l’unico contatto che la Faces ha avuto con la società dei Berlitz» ammise.
«Insomma, non abbiamo niente di nuovo» riassunse Celia, con delusione.
«Forse sì» tentò Green.
Tutto il gruppo si voltò verso di lui.
«La Faces è un’organizzazione costituita da più enti» cominciò a spiegare «se è vero che la maggior parte dei suoi membri costitutivi non conosce il disegno completo dietro le azioni dell’intera organizzazione, difficilmente avranno fatto destinare questo finanziamento al conto bancario collettivo, avrebbero diffuso un dato troppo sospetto. Invece, penso che abbiano pensato di far intestare questa donazione ad una precisa sezione della società, o comunque ad un prestanome. A questo punto, basterebbe indagare nel dettaglio su quale impresa ne ha beneficiato per riuscire a tracciare una pista» sciorinò.
«E Hansel e Gretel?» chiese Gold.
«Puoi fare quello che ha detto Green?» chiese Blue a Platinum.
Ormai tutti aspettavano una risposta positiva, altrimenti avrebbero perso pure l’unico bagliore di speranza acceso dal Capopalestra di Smeraldopoli.
«Credo di riuscirci...» mormorò lei.
 
«Buongiorno, signorina» rispose il maggiordomo, sollevando la cornetta con i guanti di seta.
“Sebastian, ho bisogno del tuo aiuto” disse Platinum dall’altro capo del telefono.
«Certamente, mi dica solo come posso esserle utile».
“Ti ho inviato per mail il codice di un conto bancario, puoi controllare a chi è intestato?”
«Il signor Berlitz sa di questa sua necessità?» domandò l’uomo.
“Assolutamente sì” mentì lei.
Sebastian attese alcuni secondi, valutando le magre abilità da bugiarda di Platinum «andrò immediatamente a verificare, la richiamerò non appena avrò il risultato».
“Ok...” disse, prima di essere interrotta dalle voci indistinte di qualcuno “no, non richiamarmi, invia i risultati come risposta alla mia mail” si rettificò.
«Come desidera, signorina, le auguro una buona giornata» si congedò Sebastian.
Il maggiordomo di casa Berlitz posò il telefono e si avviò verso l’ala nord. La villa era quasi vuota, i corridoi silenziosi, e resi inquietanti da tutti i ritratti e le statue che vi erano stati esposti. Sebastian entrò nello studio del signor Berlitz, accese il computer e aprì la propria mail. Lesse il codice. Fece scrocchiare le dita, si sedette e si preparò al lavoro.
Era un uomo molto preparato negli ambiti più disparati: ottimo pianista e violinista, cuoco provetto, gran giocatore di golf, discreto pokerista, erudito di botanica, psicologia e fisica quantistica. Ma una delle materie in cui si sentiva più sicuro di sé era l’informatica.
Non impiegò molto ad accedere agli archivi privati dell’azienda, dati che il signor Berlitz, il nonno di Platinum, teneva solo per sé e pochi altri. Verificò che fossero presenti anche le informazioni relative alle altre compagnie. Trovò il file che cercava, in una sezione dedicata ad alcune transizioni effettuate dalla società a nome collettivo.
«Sebastian» disse qualcuno.
Il maggiordomo alzò lo sguardo verso la porta dello studio. Immobile, facendo capolino dal corridoio, c’era la signora Berlitz, nonna di Platinum: i denti perfetti, luminosi quasi quanto la sua collana di perle, il vestito impeccabile, i capelli acconciati quella mattina stessa.
«Signora» si alzò quello, senza tradire la minima preoccupazione.
«Che ci fai qui?» chiese lei, stupita, ma non allarmata.
Quello si schiarì la voce «mi ha beccato, signora, stavo giocando una partita a scacchi, non mi piace giocare da solo e... beh, nessuno dei giardinieri è al mio livello» ammise, con la massima calma.
«Oh, capisco, non preoccuparti, sta attento al modellino della M/N Anna del 1955, mio marito tiene più a quella barca che a me» disse, indicando il traghetto in scala che era sulla scrivania, accanto alla foto di famiglia.
«Nave, signora» la corresse lui, sorridendo smagliante «e, per essere puntigliosi, risale al 1953».
La signora Berlitz scosse la testa «voi uomini e le vostre fissazioni» disse, lasciando lo studio.
Sebastian tornò a sedersi, continuando la sua ricerca. Viaggiò tra dati bancari, fatturati, analisi di mercato e altre informazioni che ogni buon imprenditore sapeva come procurarsi sottobanco, in modo non esattamente legale, per essere sempre un passo avanti ai propri concorrenti.
Trovò quello che cercava.

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Capitolo 8
*** Capitolo 7: Dopo la paura ***


VII
Dopo la paura
 
 
«Andrò io» asserì Kalut, già pronto a salire sul primo Pokémon volante che gli sarebbe capitato a tiro.
«No, dobbiamo parlare» lo intercettò Green.
«Volete fermare la Faces? Avete bisogno di qualcuno in grado di farlo» lo contrastò lui.
«L’ultima volta che ti abbiamo lasciato fare, non siamo riusciti a salvare i nostri amici» entrò in gioco Blue.
«Non avreste fermato Zero se non...» cominciò Kalut.
«Ho detto che ne discuteremo» esclamò Green, autoritario.
Nessuno ebbe da ribattere. Ruby e Sapphire non si erano ancora espressi, Celia fumava distrattamente una sigaretta, Gold succhiava rumorosamente il fondo del suo frullato con la cannuccia. Il gruppo, una volta uscito dal bar, si era riunito in una piccola piazzetta, vicino alla zona portuale di Canalipoli. Platinum stringeva ancora il suo telefono, leggendo per la decima volta ciò che vi era scritto sopra: il messaggio del suo maggiordomo, Sebastian, che aveva indagato su chi fosse l’intestatario del conto corrente alla quale la Faces aveva fatto recapitare le donazioni.
 
Nome società: AxeCorp
Sede: Austropoli, Unima
 
«Ok, facciamo come dici tu» si arrese Kalut «siamo otto, alcuni di noi dovranno rimanere qui a Sinnoh per risolvere la questione della neve» parlava come se non stesse camminando su una strada coperta da un mantello bianco e gelido spesso cinquanta centimetri.
«Io propongo di mandare quelli che soffrono di più per il freddo» si intromise Gold.
«Gold, ti prego» lo richiamò Sapphire.
«No perché dovreste vedere quanto sta soffrendo il mio...»
«Gold!» esclamò Blue.
«Cerchiamo di essere ragionevoli» fece Ruby, richiamando l’attenzione di tutti «quali sono i nostri obiettivi? Intendiamo fare irruzione all’interno della sede di una società e puntare un’arma alla gola del primo che capita per farci dire cosa stia facendo per la Faces? Perché se è così possiamo anche restare tutti qui a Sinnoh» riportò tutti alla realtà.
«E’ vero» ammise Green «là dovremmo solo condurre qualche indagine».
«Invece, qui a Sinnoh, c’è una più alta probabilità di infilarsi in questioni spinose nelle quali saremo costretti a lottare, giusto?»
  «Intendi dire che dovremmo mandare a Unima quelli più scarsi nelle lotte?» domandò Celia, con un sopracciglio inarcato.
«A posto, mi toccherà restare a Sinnoh» si lamentò Gold.
«Intendo dire che dovremmo ottimizzare le nostre risorse» concluse Ruby.
«Posso andare io» si propose Platinum «se è vero che dovremo indagare su una società posseduta dalla mia famiglia, sono necessaria».
Tutti acconsentirono, riconoscendone la ragionevolezza.
«Blue, Sapphire» Green prese da parte la sua ragazza e la Dexholder di Hoenn «dovrebbe andare anche uno di noi, non è che non mi fidi di lei, ma non la conosciamo poi da così tanto tempo» sussurrò loro.
«Green, noi dovremmo rimanere a Sinnoh, siamo i migliori a fronteggiare gli psicopatici con le manie di distruzione» lo contrastò Blue.
«Solo una persona, dobbiamo essere certi di...»
«Io vado con la principessa» annunciò Gold, intercettando stralci della conversazione.
«Nemmeno tra duemila anni» inveì Green.
«A diventare un ghiacciolo sul Monte Corona, io non voglio andarci» si giustificò quello.
«Gold, ci andrà qualcun altro al...»
«Non ti sento, sono già in aereo, Austropoli, arrivo» fece quello, mettendosi le mani sulle orecchie e cominciando a girare attorno ad un’imbarazzatissima Platinum.
«Green, è meglio di niente» mormorò Blue, mentre il suo ragazzo si massaggiava le tempie per placare il nervosismo.
«Celia, tu vai con loro» disse Kalut ad un certo punto.
Quella, che era intenta a fare un tiro dalla Marlboro, esplose in una crisi di tosse e sembrò quasi strozzarsi.
«Stai scherzando? Io sono qui per mio fratello» protestò.
«Appunto, è un tuo punto debole che la Faces conosce» spiegò lui, senza sentir ragioni.
«Porca puttana, Kalut, no. Sono stata la prima a propormi per venire qui e...»
«Celia» Kalut le prese il viso tra le mani «guardami, fai passare la rabbia, rifletti bene e capisci che è oggettivamente la soluzione migliore» le intimò, col suo strano modo di parlare, di cui nessuno riusciva mai a comprendere il livello di serietà.
Quella resse il suo sguardò infuriato per alcuni secondi, prima di calmarsi.
«Vaffanculo... ok» si arrese, gettando la sigaretta.
 
Quel pomeriggio, dopo vari preparativi, l’intero gruppo si trovò all’aeroporto di Giubilopoli, dove Gold, Celia e Platinum avrebbero preso il jet privato di Ruby per raggiungere la regione di Unima.
«Abbiate cura di voi» salutò Platinum, mentre i vari addetti si facevano carico della sua valigia. Lady Berlitz sembrava a proprio agio sopra un aereo di lusso, ma la luce dei suoi occhi era smorzata dall’ansia dovuta alla situazione critica in cui versava la sua regione.
«Fate attenzione a mio fratello» li allertò Celia, salendo sulla scaletta. Ruby aveva impiegato parecchio per spiegarle che dentro il suo jet non fosse possibile fumare, quando lei lo aveva finalmente compreso, aveva iniziato a chiedere quali alcolici fossero disponibili a bordo.
«Mi tengo il tuo cappotto» disse Gold a Ruby, sparendo all’interno dell’aereo. Ne uscì di corsa qualche istante dopo «quanti anni hai detto che hanno, queste due?» chiese a Blue.
«Gold, Cristo!» lo calciò dentro, lei.
«Dimmi solo se rischio il gabbio o no!» provò a chiedere, prima che una delle hostess chiudesse il portellone.
«Non ho mai visto una compagnia tanto male assortita...» commentò Sapphire, scuotendo la testa.
Kalut non era presente, li stava aspettando fuori dall’aeroporto, per evitare di dover oltrepassare gate e dogane, casistiche in cui avrebbe dovuto fornire nominativo e documenti falsi, cosa che non lo aveva mai entusiasmato. Blue e Green salutavano con la mano, Ruby dava disposizioni ai suoi sottoposti che avrebbero accompagnato i suoi amici per il volo. Sembrava esserci qualche problema per il decollo, a causa della neve, ma la situazione meteorologica sarebbe migliorata progressivamente nelle vicinanze di Unima.
I Dexholder rimasti guardarono l’aereo prendere quota da dietro le vetrate di sicurezza. Il jet nero a linee rosse sparì dopo pochi minuti tra le nuvole, in lontananza, diretto a sud-est.
 
«Ci divideremo» decise Kalut, quando i quattro compagni furono di nuovo nel parcheggio dell’aeroporto.
«Il piano è ispezionare pezzo per pezzo tutta la catena montuosa di Unima?» chiese Ruby.
«In pratica sì, ma abbiamo degli indizi: dei punti focali attorno ai quali concentrarci» lo rassicurò il ragazzo dai capelli bianchi «in ogni caso, prima di tutto occorre dividere l’area in diversi settori che ci suddivideremo... qualcuno ha un Pokénav?»
Sapphire estrasse il suo e visualizzò la mappa di Sinnoh, porgendolo a Kalut.
«Dividiamo il Monte Corona in tre aree: area sud, non semplice da attraversare, ma con un clima più caldo; area centrale, clima più mite ma vette più alte; area nord, temperature più gelide, ma terreno privo di asperità» li indirizzò il ragazzo.
«Estraiamo a sorte?» propose Blue.
Si affidarono al caso: alla coppia Blue-Green capitò la zona sud, a Kalut beccò quella a nord, a Ruby e Sapphire quella centrale. Si sarebbero divisi il giorno stesso, avviandosi verso i propri obiettivi; prima di tutto, però, decisero di entrare in un Centro Pokémon per fare rifornimento di strumenti e oggetti necessari.
«Abbiamo abbastanza provviste? Staremo fuori per un bel po’» disse Sapphire ad un Ruby intento a infilarsi una sottile ma caldissima maglia di pile, dentro uno degli spogliatoi del Centro.
«Ci sono i rifugi, ma comunque sì, abbiamo degli zaini belli carichi. Tieni, indossala» le intimò, porgendole una maglia simile a quella che aveva appena messo, ma con un taglio più femminile.
«Come siamo messi ad Antigelo e Baccaperina?» chiese lei, togliendosi il giaccone e la felpa per infilarsi quella tenuta termica.
«Ho tutto sotto controllo» rispose quello, distraendosi alla fugace vista del suo corpo coperto esclusivamente dall’intimo.
«Girati, dai» arrossì lei, sentendosi osservata.
Ruby sorrise, voltando lo sguardo. Sapphire poté notare tutte le rigature sul suo collo, le linee blu e rosse che sembravano espandersi sempre di più, come un inquietante cruciverba magico.
«Hai intenzione di fare qualcosa per quello?» gli chiese, quasi impietosita.
«Cosa?» domandò Ruby, ma capì prima che Sapphire potesse specificare.
«Non riesci ad estrarle più?»
Ruby scosse la testa, evitando il suo sguardo.
«Non hai nessuno a cui chiedere un modo alternativo?»
«I nonni di Ester sono morti qualche anno fa e io non ho avuto modo di chiedere a lei se sapesse qualcosa» rispose lui.
«Non ne hai avuto il tempo?»
«Sapphire, secondo le dichiarazioni ufficiali, sono ancora sotto shock, in un letto di ospedale, al sicuro da stampa e giornalisti» spiegò lui «non posso andare dove voglio né tantomeno fare quello che voglio».
«Perché la Faces ti lascia girare a tuo piacimento? Loro sanno che sei qui».
«A quanto pare vogliono darmi l’idea di una sorta di libertà condizionata, alla fin fine ho fatto ciò che mi hanno detto di fare, no?»
«Non sei ancora al sicuro» continuò lei.
«No, voi non siete al sicuro» la corresse.
«Ruby!» sembrava arrabbiata, afferrandogli la felpa e stringendola come se dovesse minacciarlo «sei un idiota che continua a non fidarsi di altri tranne che di sé stesso» lo insultò, prima di soffocare la sua risposta con un bacio quasi violento.
Ruby la gestì con difficoltà, finendo con le spalle al muro, ma accolse le sue labbra con piacere.
«Troveremo un modo per tirarti fuori questa roba dal corpo e quando avremo salvato il mondo per l’ennesima volta, vincendo come sempre, andremo a vivere insieme» sussurrò Sapphire all’orecchio del ragazzo.
Ruby sorrideva, lasciando che la sua lei lo stringesse con quella sua attitudine da predatrice.
 
«Ci avete messo un secolo» si lamentò Kalut, quando i quattro Dexholder uscirono dal Centro Pokémon. Notò il loro cambio di abito, tutti avevano indossato tenute più pesanti e si erano procurati cappelli, sciarpe e guanti. Kalut, differentemente, aveva una maggiore fiducia nelle proprie capacità di adattamento e portava solo un lungo cappotto nero e uno scaldacollo grigio.
«Ci sarà modo di comunicare tra noi, quando saremo lassù?» gli domandò Blue.
«Non può esserci segnale» fece Ruby.
«Infatti non c’è» ribatté Kalut «diamoci un punto di ritrovo, organizziamo un rientro, in modo da incontrarci tutti insieme» propose.
Si accordarono, studiando accuratamente la mappa, per ritrovarsi a Memoride cinque giorni dopo, lì avrebbero confrontato e condiviso le informazioni, per poi eventualmente ripartire, se ce ne fosse stata la necessità.
«Ok, a questo punto, possiamo subito avviarci» disse Kalut, chiamando a sé uno Skarmory che si era appostato lì vicino ma che nessuno aveva notato.
«Tra cinque giorni a Memoride, nessun problema» annuiva Green.
«Fate attenzione» li allertò il ragazzo dai capelli bianchi, prima di spiccare il volo in groppa al rapace cromato.
«Noi continuiamo insieme fino a Mineropoli» disse Blue, giusto per puntualizzare.
«Siete sicuri di voler partire subito?» domandò Ruby, mentre il gruppo iniziava lentamente a muoversi.
 
Uscirono da Mineropoli prendendo la strada est, imboccando il percorso 203. In lontananza, iniziarono a scorgere la frastagliata sagoma del Monte Corona che copriva un’ampia area di cielo. Avendo indossato vestiti migliori ed essendosi ormai abituati a quell’ambiente, iniziarono a muoversi più in fretta. Giunsero in poco tempo al termine di quel sentiero, superate due o tre salite e oltrepassati alcune zone di macchia. Si trovarono ben presto di fronte ad una ripida parete, superabile solo in corrispondenza di un’apertura quasi invisibile, tra le sue rocciose irregolarità. Secondo il cartello che Green fu costretto a spogliare dal carico di neve e ghiaccio che lo ricopriva, quella era l’entrata del Varco Mineropoli. Lo imboccarono, fiduciosi. La grotta li accolse tra le sue tenebre, i quattro si trovarono a brancolare nel buio, dopo quei pochi passi che bastarono a farli allontanare dall’entrata.
Ruby prese una Ball dalla cintura e fece per lanciarla, ordinando: «Diancie, illumina il...»
Green gli impedì di terminare la frase «ci penserà Golduck» disse, facendogli cenno di mettere via il suo Pokémon.
Il messaggio balzò chiaro a tutti: non bisognava rischiare di attirare l’attenzione, nemmeno all’interno delle grotte, ragion per cui era preferibile l’utilizzo di un discreto Pokémon Papero a quello del raro esemplare posseduto da Ruby.
Continuarono a percorrere quel lineare tunnel scavato nella roccia, guidati dalla soffusa luce emanata dal Golduck di Green e seguendo lo scalpiccio delle sue zampe palmate.
Verso la metà del tunnel, incontrarono un piccolo manipolo di scout che, imbacuccati con grossi giacconi di lana, si stavano prendendo cura dei piccoli Pokémon che avevano trovato rifugio dal freddo all’interno di quell’antro. Li salutarono, come il codice non scritto del galateo montanaro richiedeva loro, ma si curarono di avanzare speditamente, per evitare di essere riconosciuti.
«Quanti anni avranno avuto?» chiese Blue al suo ragazzo.
«Non è importante» rispose lui.
«Erano dei ragazzini, Green» la Dexholder di Kanto era sempre stata particolarmente empatica nei confronti dei giovani, caratteristica probabilmente setacciata dai resti delle sue esperienze personali.
«Lo so... e stanno facendo il loro dovere» ribatté lui.
Blue non proseguì la discussione, tenne lo sguardo sul gruppo di giovani esploratori alle sue spalle, mentre il fidanzato la tirava per il braccio, spingendola ad avanzare.
Continuarono a camminare, oltrepassando un bivio in corrispondenza del quale si affidarono al Gardevoir di Ruby per selezionare la strada giusta, finché non intravidero in lontananza una debole luce bianca. Era passato da molte ore il mezzogiorno, ragion per cui l’uscita che dava a est era molto meno illuminata di quella che dava a ovest.
«Siamo arrivati» mormorò Sapphire.
A passo svelto, raggiunsero la fenditura che li avrebbe condotti all’esterno. Il forte chiarore li obbligò a socchiudere gli occhi, uscendo dalla grotta. Quando si furono finalmente abituati a quel candore, iniziarono a distinguere i contorni degli edifici e delle strade. Erano giunti a Mineropoli, città famosa per i suoi legami con l’industria di estrazione e raffinazione del carbone. Ovviamente, anche lì la neve aveva ricoperto l’intero insediamento umano, lasciando solo tetti appesantiti da uno spesso strato di farcitura bianca che spuntavano da marciapiedi ghiacciati e strade ricoperte di sale. A Mineropoli, la bufera sembrava aver portato molto più gelo e molta più neve, poiché l’intero complesso urbano si trovava in una depressione del terreno scavata tra due rilievi.
«Secondo le mappe fornite dagli alpinisti, il primo rifugio montano dovrebbe essere abbastanza vicino perché io e Blue possiamo raggiungerlo prima che faccia notte» disse Green, ricontrollando la cartina per l’ennesima volta.
«Io e Sapphire passeremo per la grotta del percorso 207» rispose invece Ruby «da lì dovrebbe essere facile raggiungere le vette del Monte Corona».
Blue abbracciò Sapphire. Green e Ruby si strinsero gli avambracci, cercando di fare sembrare il loro affetto genuino.
«Siate prudenti» si raccomandò Blue.
E così, i due Dexholder di Hoenn li guardarono allontanarsi, avventurarsi per uno dei sentieri che conducevano alle inclinate pareti della montagna. Quando entrambi furono scomparsi tra gli alberi coperti di neve, Sapphire fece un cenno con la testa, iniziando a muovere i primi passi verso l’uscita nord di Mineropoli.
«Aspetta, ho bisogno di un caffè» la fermò Ruby «e poi ho sentito che nella città del carbone fanno il migliore caffè nero del mondo» disse, con aria da intenditore.
Sapphire scosse la testa, ma lo assecondò.
Trovarono il bar più vicino a loro e vi entrarono. Sapphire, avendo un olfatto molto sensibile, storse il naso all’odore che aleggiava in quell’ambiente. Era un misto di birra e legna bruciata, ma a Ruby parve non importare.
«Cosa posso offrirti?» chiese alla sua ragazza.
«No, ora non...»
«Prendi qualcosa»
Sapphire scrollò le spalle, sospirando: «un macchiato».
C’erano poche cose che piacevano alla Dexholder di Hoenn, una di queste era il latte, che avrebbe bevuto sempre, comunque e ovunque.
Il barista, contorcendo in un sorriso il suo volto annerito dalla barba rada, prese le due ordinazioni e cominciò a giocare con le manovelle e le leve della sua macchina del caffè.
Così, mentre il rumore del trituratore di chicchi ottundeva l’udito di Ruby, Sapphire riuscì a distinguere qualche parola della conversazione dei due anziani signori seduti al tavolo tracannando birra a ritmo di briscola.
«Ho sentito che Rufus ha perso l’intero magazzino, povero diavolo» borbottò quello che aveva due assi in mano.
«Funziona sempre così, come la storia del garage di mio cognato» strideva l’altro, mordendosi le unghie per essersi fatto sfuggire una buona mano.
«Quello scherzetto dell’ingegnere ha ammazzato due bambine» riprese il primo.
«Questo maledetto tempo» inveì il primo, accaparrandosi uno dei due assi con il due di briscola.
Sapphire vide arrivare il suo macchiato sul bancone. Il colore scuro del caffè era stato inquinato dal candore del latte e Ruby le aveva già messo sul piattino una bustina di zucchero di canna, conoscendo le sue abitudini, ma si distrasse quasi immediatamente. Evitò la tazzina e fece viaggiare lo sguardo su tutti i tavoli del locale, finché non individuò il telecomando del televisore.
«Posso?» chiese al barista, indicandolo.
Quello fece cenno di non preoccuparsi.
Sapphire cliccò sui tasti in cerca del primo notiziario che le fosse capitato. Lo trovò sul canale tre, era la rimessa in onda del tg del mezzogiorno. Lesse in fretta tutti i titoli delle notizie.
 «Che succede?» chiese Ruby, incuriosito da questa sua improvvisa distrazione.
Lei guardò lo schermo, poi guardò Ruby, poi tornò a guardare lo schermo.
«Attualmente le vittime acce... accertate sono duecentosettantasei, indete... indeterminati i feriti e i dispersi» lesse lei, incespicando sulle parole più lunghe «duecentosettantasei morti in un giorno e mezzo a causa della neve» ripeté la ragazza, guardandolo inerme.
Ruby posò il cucchiaino all’interno della tazzina, incupendosi improvvisamente.
«Togli ‘sta roba, Peter» sbraitò al barista uno dei giocatori di briscola, riferendosi al notiziario «mi mette tristezza!»
 
Cinque minuti dopo, la caffeina non aveva neanche avuto il tempo di entrare in circolo, che Sapphire solcava la stretta gola innevata che collegava Mineropoli col percorso 207 a grandi falcate. Era determinata, aveva bisogno di sentirsi utile, voleva fermare quella follia.
Ruby tentava di tenerle dietro, con passo inesperto e meno preparato. La guardava scavalcare le irregolarità di quel terreno accidentato con lo sguardo ardente di rabbia. Adorava vederla incanalare quella forza e farla esplodere all’esterno come una fiamma incontrollabile, ma non riusciva a non pensare a quanto quella ragazza si stesse mettendo in pericolo. E non a causa della neve o del ghiaccio, quelli erano scherzetti per Sapphire, risultando invece molto più pericolosi per un uomo di città come lui.
No. Lui aveva paura di vederla assassinata da qualcuno, di sentire il suo corpo spegnersi tra le sue braccia, di vedere la vita fluirle fuori dalla bocca.
Gli era già accaduto, una volta, suo padre era morto guardandolo negli occhi. Lo ricordava bene, ricordava come avesse poi ricevuto una grazia da Celebi, riuscendo a riportarlo indietro. Dopo quel giorno, si era preparato a quando ciò sarebbe accaduto veramente, in futuro. Aveva immaginato di veder morire suo padre nel suo letto, anziano, canuto, debole. Aveva pensato che un giorno si sarebbe dovuto occupare della casa, della palestra, di sua madre.
Invece, due anni prima, aveva ricevuto una lettera nel suo camerino, nessuno dei mille individui che lavoravano con lui avevano avuto il coraggio di dirglielo in faccia. Sapphire era balenata lì con la massima rapidità. Lo aveva trovato in lacrime, con la lettera stropicciata stretta in una mano e la faccia gonfia nell’altra. Lo aveva abbracciato, nel silenzio più assoluto, e lui si era lasciato abbracciare, senza provare niente.
Tornato ad Albanova, si era reso conto che non c’era più alcuna casa ad aspettarlo. Solo un cumulo di macerie abbandonate, qualche mazzo di fiori, delle transenne, un paio di poliziotti, le foto dei suoi genitori su due lapidi simboliche, visto che le due tombe erano vuote.
Soltanto molto tempo dopo, si era reso conto di non aver provato la stessa emozione della prima volta. Non aveva guardato in faccia i suoi genitori sino all’ultimo istante, non li aveva neanche salutati, come suo tipico, probabilmente. Si stava quasi dimenticando di avere avuto dei genitori.
Così, quando guardava Sapphire correre verso il Monte Corona, in cerca di quei nemici che avevano già ammazzato così tante persone, non riusciva a non pensare a lei, stretta tra le sue braccia, fredda, ferita, morente. Quella scena, per lui, era l’ultima. Non c’era più un continuo, un dopo, un secondo atto.
C’era lui e tra le sue braccia il cadavere della ragazza che contava più di tutto il mondo. E poi il vuoto, il niente, l’oblio.
Ruby scosse la testa, si rese conto di aver perso terreno. Guardò il monte, guardò Sapphire che gli gridava di muoversi. Si fece forza, riprese il passo.

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Capitolo 9
*** Capitolo 8: Nel palmo della mia mano ***


VIII
Nel palmo della mia mano
 
 
«Fammi spazio, ho bisogno del tuo calore» sussurrò Sapphire, infilandosi a forza all’interno del sacco a pelo di Ruby.
«Sta’ attenta, così lo strappi» la ammonì il ragazzo.
«E’ incredibile come possa essere questa la tua priorità...» commentò lei.
I due Dexholder di Hoenn si accingevano a riposare, all’interno di una piccola baita di montagna che avevano trovato tra due crepacci. Con l’aiuto di Blaziken e Gallade avevano acceso un grosso falò con dei ciocchi di legna, ma la temperatura rimaneva terribilmente bassa e Sapphire, per non morire assiderata, era costretta a stringersi al corpo di Ruby, che aveva ancora la capacità di mantenere il calore, grazie alle gemme. Si stavano sistemando all’interno di un sacco a pelo, a pochi centimetri di distanza dal caminetto: in quel modo, era possibile superare la notte. Lo avevano imparato a loro spese: stavano vagando sulle montagne da quasi cinque giorni, in cerca di qualcosa che probabilmente si trovava altrove. Tuttavia, il tempo limite era quasi terminato, il giorno seguente sarebbero scesi a valle per incontrare nuovamente i loro amici e sapere se almeno le loro ricerche erano state fruttuose.
«Stringimi» disse Sapphire, arrossendo un po’.
Ruby sorrise, portando lentamente le braccia attorno al corpo della ragazza.
«Non fare lo splendido, sto crepando di freddo!» si lamentò lei bruscamente.
Sapphire sapeva di dover essere coerente con se stessa, ma non poteva ignorare le sensazioni che il caldo respiro di Ruby sul suo collo e le sue dita che scorrevano sulla sua pelle le davano, secondo dopo secondo. Sarebbe rimasta lì per sempre, con il naso arrossato e il fiato condensato in un’effimera nuvoletta bianca.
Inarcò lievemente il collo. Ruby percepì il segnale e si protrasse in avanti, per baciarla. Ormai conosceva bene il loro linguaggio in codice, lei non dava baci, doveva solo riceverli. Quando le loro lingue si separarono, Sapphire trattenne il ragazzo, mordendogli il labbro inferiore.
«Non vedo l’ora di tornare a dormire in un letto decente» sussurrò lei.
«Hai proprio ragione...» approvò il ragazzo.
«Hai la barba che pizzica».
«Zitta» le disse lui, con dolcezza, passandole le dita tra i capelli.
Sapphire fece le fusa, cercando di non darlo a vedere. In quella calda stretta, si addormentarono lentamente, ignorando il gelo esterno, la bufera, il ghiaccio.
 
«Abbiamo raggiunto il confine?» chiese Blue.
«A quanto pare...» confermò Green.
I due Dexholder di Kanto stavano camminando da giorni. Avevano attraversato tutta la zona sud della catena montuosa del Monte Corona, che nella parte meridionale era un insieme di ampi altopiani. La neve aveva raggiunto anche quelle zone, anche se in maniera molto più rada. Man mano che la latitudine andava abbassandosi, i loro scarponi pesanti divenivano sempre più superflui e il morbido pavimento candido lasciava sempre più spazio a un ruvido terreno roccioso, intervallato qua e là da zone di erba luccicante per la rugiada. Non avevano trovato ciò che stavano cercando, ma erano riusciti a raggiungere una zona abbastanza lontana dal centro focale da non avere il cielo coperto dalle nubi.
«Quella è Sidera?» domandò Blue.
«Sì, quello è il Monte Orologio» rispose il ragazzo, indicando un grosso massiccio che svettava proprio di fronte a loro, coprendo parzialmente la visuale dell’ampia pianura urbanizzata.
Erano giunti al limitare dell’ultimo altopiano, che dava a strapiombo su una fitta foresta di conifere. In lontananza, scorgevano alcune città, alla loro destra e alla loro sinistra c’era il mare. Stavano immobili a godersi il primo raggio di sole dopo una settimana di gelido grigiore.
«Forse dovremmo scendere da questo versante e poi andare a Memoride in volo» propose il Capopalestra di Smeraldopoli.
«Non intendo rifarmi tutta questa strada a piedi» approvò Blue, gettando un occhio al bianco piattume che avevano dovuto attraversare. Era quasi in pena, al pensiero di dover tornare a Sinnoh, ma sapeva che lì c’era davvero bisogno di lei.
«Arriveremo in anticipo, ma non possiamo fare nient’altro, qui» fece Green «possiamo iniziare a scendere» sentenziò, avviandosi verso il sentiero che portava verso la vallata.
 
Xatu scuoteva le ali e arruffava le penne, cercando di liberarsi dalla neve. La bufera imperversava crudelmente, sulle creste nord del Monte Corona. Per le persone normali, l’area che superava i duemila metri di altitudine era completamente impraticabile, mentre quella sottostante era riservata solo ai più preparati. Per Kalut, girare su quella montagna era stato quasi come farsi una passeggiatina al parco. Camminava quasi senza sosta da ben cinque giorni, la sera stessa avrebbe disceso il versante est, per raggiungere Memoride e incontrarsi con gli altri Dexholder. Anche lui, sarebbe tornato dagli altri a mani vuote, privo di una pista e di qualcosa di interessante a proposito della FACES. Essendo giunta la sera, si accingeva a riposare all’interno di una sorta di piccola grotta naturale abitata solo da Geodude e Roggenrola, era un luogo troppo freddo persino per i Zubat. Kalut si depositò sul terreno, avvolgendosi strettamente nel suo cappotto. Ammetteva di star sentendo freddo, ma sapeva che sarebbe sopravvissuto e che ogni sofferenza fosse temporanea, quindi non aveva di che preoccuparsi. Si fece accendere un fuoco dal suo Arcanine con dei pezzi di legna fradicia che impiegarono un bel po’ per asciugarsi, ma alla fine gli sforzi furono ripagati, anche se con il contro di una fitta cappa di fumo. In ogni caso, dopo qualche minuto Kalut cominciò a prendere sonno, mentre l’entità di Xatu vegliava su di lui come ogni notte. Il Pokémon Magico non aveva bisogno di dormire, lui era un eterno, un essere a metà tra il mondo empirico e quello trascendentale. Evidentemente, rifletteva Kalut nel dormiveglia, essere delle entità metafisiche impediva di provare freddo, stanchezza e probabilmente anche emozioni.
“Stai dormendo sulla terra nuda, è la prima volta da giorni” sussurrava telepaticamente Xatu.
“Non saranno certo alcune notti su un materasso a rammollirmi” rispose il ragazzo, sempre con la mente.
“Non intendevo questo”.
“Stai parlando di...”
Kalut balzò in piedi, scrollandosi di dosso tutto il suo bisogno di riposo. Xatu aveva ragione, non aveva riflettuto su qualcosa di importantissimo. Prese uno dei tizzoni ardenti del fuoco e lo utilizzò in quanto torcia, strisciando come un segugio in ogni angolo di quella piccola grotta. Scrutava il terreno, studiava ciò che aveva attorno, raccogliendo le informazioni.
E nella sua mente, i pezzi del puzzle cominciavano a ricongiungersi: della cenere, un angolino riparato dal quale erano stati rimossi tutti i sassolini e tutti i detriti naturali, un’impronta quasi cancellata e finalmente, del cellophane, probabilmente l’incarto di una barretta energetica.
Resoconto, qualcuno era già stato in quella grotta, e anche recentemente. E soprattutto, qualcuno che non voleva lasciare tracce, visto e considerato che i resti carbonizzati del fuoco che aveva acceso erano stati spostati o nascosti, così come ogni altra traccia del suo passaggio.
“Siamo vicini a qualcosa” pensò Kalut.
Il ragazzo dai capelli bianchi, tenendo in mano quella pellicola di plastica come fosse il Sacro Graal, prese dalla sua borsa la mappa fornitagli dalla sua compagnia, verificando l’esatta posizione del luogo in cui si trovava. Si segnò le coordinate applicando una puntina sulla cartina del GPS.
“Non dovrei aspettare fino a domani” pensò, in comunicazione con Xatu.
“Sei stanco, dovresti invece...” gli consigliò il saggio Pokémon.
“Dovessi trovare qualcuno o qualcosa, non avrei tempo di intervenire, dovrò scendere dalla montagna per arrivare a Memoride”.
“Poco male, saprai dove tornare con l’intera squadra” ribatté lui.
Controvoglia, il ragazzo si rimise a riposo, chiudendo gli occhi quasi immediatamente e in maniera meccanica, come un computer mandato in standby. Si sarebbe svegliato dopo poche ore, quando il forte vociare della tempesta si era ormai chetato. Pochi secondi dopo la levataccia, Xatu lo vide catapultarsi fuori dalla grotta, affondando faticosamente gli scarponi nella neve. Dopo tutto quel tempo, aveva ormai imparato a capire l’impazienza di Kalut. Lo seguiva svolazzando, per riscaldare i muscoli e sorvolare lo scenario dall’alto, per tutto il giorno precedente aveva dovuto tenere le zampe a terra per via della bufera. Kalut non stava seguendo una strada precisa, ma sembrava ragionare, spremendo i complicati meccanismi del suo cervello. Il Pokémon eterno non finiva mai di stupirsi, di fronte al chiaro esempio di evoluzione dell’umanità che era Kalut.
«Ci impiegheremo l’intera mattinata» disse il ragazzo dai capelli bianchi «se la loro meta fosse stata più vicina, non si sarebbero accampati in una grotta».
Camminarono in una direzione incerta per qualche ora, oscillando tra alcuni dislivelli che spezzavano l’omogeneità di quel candido paesaggio. Kalut verificava che non ci fossero altri indizi: una roccia segnata, un cartello, qualche traccia lasciata involontariamente. Tuttavia, non trovarono nulla che lasciasse presagire il passaggio di anima viva in quei luoghi. Sembrava di girare per il polo sud, di camminare per lande sconfinate e mai calpestate dall’uomo. Evidentemente, chi aveva avuto degli interessi in quel luogo, si era impegnato per conservare tutto nel massimo segreto.
«Ho sentito qualcosa» sussurrò il ragazzo ad un certo punto.
Fece due passi, Xatu atterrò, i due avvertirono chiaramente il suono di due scarponi da neve muoversi in maniera ritmata, appena dietro un grosso massiccio che sembrava esser stato piazzato lì appositamente per occultare la vista. Kalut cominciò a muoversi, stringendo la propria silhouette contro la roccia e facendo attenzione a non emettere rumori.
“Dovresti aspettare e tornarci con gli altri” gli suggerì Xatu, entrando nella sua mente.
“Voglio dare solo un’occhiata” protestò lui.
Il rumore dei passi si fece sempre più lontano, fino a sparire. Kalut cominciò ad aggirare quel luogo, tentando di raggiungere un luogo alto da cui osservare. Scavalcò qualche roccia, oltrepassò due alberi completamente coperti di neve, si inerpicò lungo una ripida parete ghiacciata, poi giunse finalmente ad una sorta di piano rialzato, che dava direttamente sul luogo che gli era stato nascosto dal massiccio.
“Li senti?” chiese a Xatu.
Il volatile fece sì con la testa.
“Sono centinaia... forse migliaia di Pokémon” mormorò, scioccato, il ragazzo.
Xatu non ribatté, lui vedeva simultaneamente presente, passato e futuro, sapeva a che cosa sarebbero andati incontro.
“C’è un buco nel terreno, lì” notò Kalut “è l’entrata di... qualcosa”.
 
«Questo posto è assurdo» commentò Sapphire, muovendosi tra le rovine, zigzagando tra il colonnato distrutto.
«Dicono che sia il luogo in cui ebbe origine il mondo» ribatté Ruby.
I due ragazzi vedevano le proprie ombre proiettate verso ovest sul pavimento in marmo bianco del tempio della Vetta Lancia. Attorno a loro, c’erano le rovine dell’antico edificio sacro, il luogo in cui alcuni anni prima era avvenuto l’exploit del conflitto tra i Dexholder di Sinnoh e il Team Galassia. In quel momento, tutto sembrava fermo nello scorrere del tempo, come se quel luogo esistesse fuori dal continuum spazio-temporale del loro mondo. Un sottile strato di neve si era depositato sulla roccia circostante, ma la Vetta Lancia sembrava immune alle condizioni atmosferiche, come se pulsasse di vita propria, immobile ma in continuo movimento. Rimaneva fissa in una sorta di limbo: né troppo calda, né troppo fredda, priva di forme di vita, ma vibrante di energia.
«Sembra simile alla Torre Cielo» aggiunse Sapphire, con un filo di voce.
«Difficile, sono luoghi costruiti da popoli del tutto differenti» la contrastò razionalmente Ruby.
«Eppure c’è qualcosa...» mormorava lei.
Il Campione di Hoenn la seguiva con lo sguardo: Sapphire si muoveva lentamente, sfiorando il marmo con la punta delle dita, come se le rovine stessero comunicando con lei. Sembrava star vivendo un’esperienza extrasensoriale e Ruby era certo di non averla mai vista in quello stato.
«Tutto bene?» le domandò.
Lei parve non sentirlo. Ruby non insistette, la curiosità morse la lingua della ragione. Forse Sapphire riusciva veramente a percepire qualcosa che a lui era occulto, forse era davvero capace di incanalare quella strana energia che aleggiava in quel santuario. Dopotutto, aveva visto sfere capaci di controllare delle creature millenarie entrare all’interno di corpi umani, Pokémon realizzare desideri impossibili, gemme alterare la realtà.
Imitò il movimento della ragazza e toccò una delle colonne, sfiorandola come fosse il velluto pregiato di una giacca elegante. Non avvertì nulla, inizialmente. Nell’attesa di un qualche avvenimento, si distrasse guardando le imperfezioni della pietra su cui aveva poggiato la mano: i piccoli pori invisibili dalla distanza, le impercettibili striature del colore disomogeneo, l’imprecisa smussatura di alcuni angoli e le croste strappate dal tempo trascorso all’aria aperta. Non si rese conto di star quasi perdendo la cognizione del mondo reale, finché non riuscì a recuperare un minimo di coscienza.
Per un millisecondo, o qualcosa del genere, fu incapace di muoversi. Vedeva il marmo, ma non distingueva più i contorni della sua mano o del resto del suo corpo, come fosse lui stesso parte di quel tutto. Quella breve esperienza terminò in fretta, lasciando Ruby ansimante e tremante, con la mano ancora alzata verso la colonna e le gambe paralizzate.
Sapphire era lontana, sembrava non essersi accorta di nulla. A quel punto, Ruby protrasse nuovamente il palmo della mano, senza neanche dar voce al più banale buon senso che aleggiava nella sua mente. Questa volta, all’immediato tocco della colonna, avvertì il suo corpo implodere. Sentì una fortissima pressione lungo tutto il petto, le spalle, il ventre, il collo. Capì che, a pulsare in quel modo, erano le linee lasciate dalla presenza delle Gemme nel suo organismo.
Fu un istante, puff.
Ruby si sentì come fatto di etere, fuori dal tempo, fuori dallo spazio, fuori dall’ordine naturale delle cose. Sentiva come una sorta di brivido lungo tutta la sua... forma? Non sapeva neanche come autodefinirsi, non avvertiva più la propria presenza fisica nel mondo reale.
Alcune immagini scorsero davanti ai suoi occhi: le riconobbe bene. Sapeva in che sequenza temporale queste si sarebbero piazzate. Poi un fremito e, questa volta, fu una sua scelta personale. L’aria di cui era composto si fece più pesante, la sua mente divenne un cervello e la sua anima ricompose il proprio corpo. Ruby tornò nel mondo reale.
«Sapphire!» esclamò.
Questa volta, la ragazza parve sentirlo e si voltò lentamente. In volto, aveva un’espressione completamente priva di ogni emozionalità, all’apice dell’atarassia.
«Vieni qui, sbrigati!» le ordinò.
Quella sembrò risvegliarsi da un profondo stato di sonno. All’improvviso, una luce si dipanò nell’area, accecando entrambi.
«Uccideteli» sussurrò qualcuno.
 
Kalut scese dal rilievo, arrancando nella neve. Si stava indirizzando all’interno di quel buco nel terreno che somigliava ad un cenote innevato: una grotta circolare il cui fondo era troppo lontano per essere scorto. Gli operatori FACES avevano costruito una sorta di impalcatura che spiraleggiava lungo le pareti di roccia e ghiaccio, in modo da poter scendere e salire in libertà. Kalut avvertiva la presenza di molti Pokémon, tuttavia, non vi erano rumori nell’aria, il che stava a significare che gli esseri umani erano in numero ristretto.
“Fortunato” pensava “sarà più facile passare inosservati”.
Aveva già previsto la presenza di qualche telecamera, quindi si era mappato nel cervello un ipotetico tracciato da seguire lungo i punti ciechi, tanto per evitare gli obiettivi. Riuscì a navigare la prima parte di impalcature senza alcun problema. Man mano che si addentrava all’interno del budello roccioso, la luce del sole cominciava a farsi sempre più lontana e debole. Trovò la prima lampada a neon dopo qualche minuto, ormai il buio si faceva preoccupante, stava scendendo parecchio. I luoghi chiusi non lo facevano sentire a disagio, ma quelle strette pareti rocciose sembravano chiudersi su di lui in maniera sempre più minacciosa.
«Non vedo l’ora che Lawrence mi dia il cambio, sono qua da una settimana ormai...» disse qualcuno in lontananza, anticipando il rumore di due paia di stivali.
Kalut non ebbe il minimo indugio. Stava per incrociare le prime guardie, avrebbe affrontato la situazione con freddezza. Si guardò attorno: l’impalcatura era troppo stretta per potervi rimanere sopra restando invisibili, ma forse il buio lo avrebbe aiutato, fece un rapido calcolo: le guardie venivano da un cunicolo che si trovava a destra, nei pressi di quella zona vi erano solo due lampade ed entrambe illuminavano solo in orizzontale e verso l’alto. Sintetizzò le informazioni.
Balzando con passo felino, si gettò fuori dalla passerella di metallo, appendendosi al suo bordo, a pochi centimetri di distanza dal fondo roccioso. Si appese e si mise in sicurezza, trattenendo il respiro per un po’. Aveva emesso un singolo rumore a causa dello sfregamento dell’ingombrante piumino, ma quei due stavano parlando di qualche partita di pallacanestro avvenuta alcuni giorni prima, non avevano sentito nulla.
«Dovrei sostituire lo scaldabagno con una normale caldaia... certo che acquistare una villa in montagna è proprio una trappola per turisti, al giorno d’oggi» si lamentava uno dei due, ignorando la presenza ospite che era appesa alla passerella su cui stavano camminando.
Kalut li scrutò dall’oscurità, vedendoli passare accanto ad uno Xatu che risultava invisibile ai loro occhi. Quando furono lontani, tornò agilmente sull’impalcatura, scavalcando il corrimano con un forte lavoro di tricipiti.
Continuò a viaggiare. Più avanti, fu costretto a eludere in modo simile altri tre gruppetti di guardie, alcune erano a riposo e si godevano del caffè caldo, stillandolo da un thermos, altre passeggiavano chiacchierando del più e del meno. In ogni caso, il ragazzo dai capelli bianchi, tra casse, luci spente e punti ciechi, giunse al termine di quel lungo tunnel che si insinuava nelle viscere del Monte Corona. Scendendo sempre più giù, la temperatura si abbassava drasticamente.
«Guarda che roba...» commentò Kalut, giungendo ad una fessura nella roccia dalla quale si dipanava una tagliente aria gelida.
Si inserì nella strettoia, tanto nessuna guardia era così stupida da rimanere in quella stanza frigorifera. Si guardò attorno, perdendo ogni entusiasmo nel giro di un secondo. Si trovava in una stanza particolarmente ampia, una camera probabilmente scavata in mesi di duro lavoro.
Attorno a lui, c’era un sistema di cavi lungo chilometri e chilometri, intervallato da un numero immenso di grosse capsule. Queste ultime, composte da poli metallici e da un corpo centrale in vetro spessissimo, contenevano centinaia e centinaia di Pokémon. Erano tutti di tipo ghiaccio: Cryogonal, Glalie, Ninetales, Froslass, Abomasnow e molti altri. Sembravano addormentati, in una sorta di catalessi indotta artificialmente. Erano bucherellati da numerosi cavi che si immettevano, capsula dopo capsula, in quel complesso sistema di tubi e collegamenti che copriva il pavimento dell’intera grotta. Kalut rimase a vagare tra quei poveri esseri ingabbiati, contandone uno dopo l’altro, sembravano non finire mai, la grotta era ampia più o meno come un campo da calcio e non vi era un solo metro quadro privo di uno di quei grossi contenitori per Pokémon Ghiaccio.
Lentamente, il ragazzo seguì il corso dei cavi, spingendosi verso il centro della stanza. Si rese conto di non riuscire a percepire i pensieri di quei Pokémon, né tantomeno i loro sogni. Non erano svenuti, non erano addormentati, sembravano in coma.
Giunto al fulcro di tutto quel sistema di tubi, Kalut si trovò sul bordo di una nicchia scavata nel pavimento che dava su un piano sottostante: i numerosi cavi si univano a gruppetti, convogliandosi fino a divenire due unici cavi del diametro di uno scivolo e scendevano nella nicchia come due grossi serpenti costrittori. Intuibilmente, sottraevano un qualche tipo di energia a quei Pokémon che erano nelle capsule e la incanalavano tutta in due elettrodi grossi come scogli di mare. Kalut si affacciò, per vedere meglio, si rese conto di non capire. Impiegò qualche secondo per arrivare ad una conclusione e, quando ciò avvenne, il suo cuore perse qualche colpo.
Tra i due elettrodi, adagiato in quella profonda nicchia e illuminato da led biancastri, c’era un enorme nodo. Univa due funi larghe ognuna quanto tre dei cavi più grossi, fatte di un materiale indefinibile, probabilmente ancora sconosciuto all’uomo. Questo nodo, di colore nero opaco, sembrava sotto l’effetto di quegli elettrodi, era infatti ricoperto da una spessa patina di ghiaccio.
“E’ quello che pensi” rivelò Xatu, entrando nella mente di Kalut.
“E’ così che hanno causato la glaciazione” realizzò lui.
“Già... il nodo di Regigigas” sussurrò il volatile.

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Capitolo 10
*** Capitolo 9: L'uomo delle stelle ***


IX
L’uomo delle stelle
 
 
 
Ruby si gettò su Sapphire, entrambi caddero a terra. Non riuscivano ancora a vedere nulla, ma il Dexholder percepì chiaramente il rapido passaggio di qualcosa di affilato proprio nel punto in cui, un secondo prima, stava il collo della ragazza.
«Protezione» gridò Ruby, gettando a colpo sicuro la Ball di Milotic sul terreno.
Comparve attorno a loro il sinuoso Pokémon Tenerezza, che li avvolse nelle sue spire lisce e luminose, generando una barriera di energia attorno a sé. I due si stropicciavano gli occhi, cercando di recuperare il senso della vista. Sapphire, avendo degli occhi più sani, impiegò meno tempo.
«Merda» la sentì esclamare Ruby, mentre tutto attorno a lui era ancora una macchia sfocata «Stramontante!» gridò.
Il ragazzo percepì la barriera di energia infrangersi come una cupola di vetro poi udì chiaramente il suono del colpo di un Blaziken fare centro, il nemico aveva utilizzato Breccia, ma poi era stato intercettato dal Pokémon di Sapphire.
Finalmente, anche Ruby ricominciò a distinguere le immagini attorno a sé.
«Dragartigli» disse la voce di qualcuno.
La mente metodica di Ruby, che diede per scontato di dover fronteggiare un Pokémon di tipo Drago, ordinò a Milotic di rispondere con Codadrago. Dal nulla spuntò un Eelektross pronto ad affondare le unghie nelle sue prede, ma la sua melliflua figura fu immediatamente spazzata via dalla potenza di Mimi come un moscerino da un tergicristallo.
«Psicotaglio» continuò l’Allenatore sconosciuto.
Questa volta fu Sapphire ad intervenire, facendo intercettare il fendente da Blaziken, che lo neutralizzò con un Calciardente. A beccarsi il contrattacco fu un Gallade con le lame sfoderate, che cadde all’indietro, dopo essersi beccato un colpo rovente in pieno addome.
Finalmente, i due ebbero la possibilità di guardare in faccia colui che aveva tentato di ucciderli. Videro un ragazzo dai lunghi capelli castani e i lineamenti marcati che indossava un completo scuro, simile a quello degli agenti che avevano già incontrato, ma in versione invernale.
«E’ della FACES» affermò Sapphire, riconoscendo la tenuta.
Senza dare alcun cenno di volersi arrendere, il ragazzo prese altre due sfere dalla sua cintura.
«Milotic, congela le Ball!» esclamò Ruby, pronto al contrattacco.
Il ragazzo le lanciò ai due estremi opposti, una a destra, una a sinistra. Il Pokémon di Ruby ne riuscì a intercettare soltanto una, bloccandola in uno spesso blocco di ghiaccio e impedendone l’apertura. L’altra si aprì normalmente, lasciando uscire un enorme Noivern dagli occhi ardenti di rabbia.
«Mira ai due allenatori» gli ordinò l’Allenatore, con un filo di voce.
Il drago scattò verso il nemico trascinandosi dietro le ali a membrana, si muoveva come un enorme pipistrello. Un pipistrello di quasi due metri.
Fu Milotic a interporsi tra Ruby e Sapphire e quel grosso volatile, entrando in un conflitto corpo a corpo in cui avrebbe prevalso quello con le squame più resistenti. Ruby dava ordini e il serpente marino eseguiva, sferrando dei colpi micidiali con l’estrema grazia che lo caratterizzava. Sapphire, dal canto suo, lasciava che Blaziken facesse a botte con il Gallade nemico, il quale non aveva tardato a rialzarsi. Scizor, invece, era ancora in pieno stordimento, dopo quella codata immane che Milotic gli aveva sferrato.
 Per un istante, la ragazza ammirò quella scena, distraendosi dal combattimento. Ruby era stato colto di sorpresa, ma aveva preso la situazione in mano, lottava con gli occhi ardenti di sicurezza e determinazione, come pochi anni prima. Lei lo ammirava, anche se a volte la faceva sentire inferiore. Eppure, non riusciva ad ignorare la bellezza delle coreografie che lui improvvisava durante un combattimento. In quell’istante, mentre Blaziken malmenava un Gallade e Milotic sottometteva un Noivern intenzionati a ucciderli, si rese conto di una cosa: era un’Allenatrice con le spalle grosse. Non si era mai resa conto veramente del potere che stringeva nelle sue mani, ne aveva avuto il sentore il giorno in cui la stampa mondiale si era concentrata su di lei: l’Allenatrice con più medaglie al mondo, ma se ne convinse definitivamente solo in quel momento. Combattendo nella neve, accanto al Campione di Hoenn, per salvare la propria vita e forse quella di molti altri, si rese conto di avere il completo controllo della situazione.
«Zuffa!» ordinò al suo Pokémon Vampe.
Blaziken evitò un fendente e cominciò a colpire violentemente il corpo di Gallade, che rimase stordito dopo il terzo calcio alla tempia.
«Calciardente, liberatene!» continuò.
Blaziken, visto il tentennamento del suo avversario, si prese il tempo di indietreggiare con due saltelli. Poi scattò in una breve rincorsa e assestò un colpo devastante che scagliò l’avversario qualche decina di metri più lontano. Le fiamme che avvolsero il corpo di Gallade sciolsero la neve, affossando il Pokémon in un buco di vapori.
Accanto, Milotic si era alzata in tutta la sua maestosità, sottomettendo Noivern con un attacco Bora così potente da lasciarlo a terra, strisciante, in preda ad un nervoso tremolio. Quel dragone si era trasformato in un gatto spaventato.
Per qualche istante, i due Dexholder contemplarono la propria vittoria schiacciante, lasciando ai loro guerrieri il tempo di riprendere fiato. Fissavano con sguardo gelido l’Allenatore che li aveva attaccati, ma lui sembrava non esser stato neanche sfiorato dalla sconfitta. Sembrava accettare una silenziosa resa.
«La FACES ci manda contro una sola pedina?» gli domandò Ruby «non è da loro, sottovalutare gli avversari» affermò, in un moto di orgoglio.
«Non sono della FACES» si difese lui «per questo sono da solo» spiegò, cripticamente.
«Sei con le spalle al muro, non serve mentire...» gli intimò Sapphire, mentre Blaziken assumeva una posizione di guardia.
«Avete conosciuto Celia, vero?» chiese quello, lasciandoli spiazzati.
Nessuno dei due Dexholder rispose o accennò alcuna reazione. Xavier attendeva responsi che non sarebbero arrivati.
«Tu sei suo fratello?» gli chiese Sapphire, rivoltando completamente la frittata.
Xavier sembrò socchiudere gli occhi per un brevissimo istante, come se cercasse di metabolizzare ciò che aveva appena sentito.
«Stupida, idiota» borbottò a mezza bocca, facendo rientrare i suoi Pokémon esausti. Quando lo videro attingere alla sua cintura delle Ball, Ruby e Sapphire scattarono subito sull’attenti, rendendosi poi conto di non dover temere alcunché.
«Milotic, immobilizzalo» ordinò il Campione di Hoenn.
Nella frazione di secondo che intercorse tra la sua sentenza e il movimento fulmineo del serpente marino in direzione del nemico, lo videro estrarre qualcosa da una sorta di fondina attaccata alla cintura. Si udì un suono soffocato e Milotic cadde a terra, priva di forze. Ruby e Sapphire non ebbero il tempo di reagire, Blaziken fu più rapido e scattò in soccorso della compagna.
Il ragazzo vestito di nero prese di nuovo la mira, stringeva una semiautomatica con cui fece fuoco sul Pokémon, lasciandolo a terra, in preda a degli inquietanti e spasmodici tremori.
«Toro!» gridò soltanto Sapphire, che osservò quella brevissima scena con ogni muscolo in preda ad un fremito involontario, che la spinse a correre verso il suo Pokémon.
Ruby si trovò in difficoltà, il suo istinto non si faceva sentire e la sua mente lo faceva sentire come un bambino messo all’angolo dai suoi genitori. Se avesse estratto una terza Ball, quello avrebbe sparato ad un altro Pokémon, se avesse lasciato intervenire Sapphire, sarebbe stata lei a beccarsi un proiettile. Quelle scene lo avevano paralizzato, come una forte scossa lungo il sistema nervoso.
Poi, qualcosa lo spinse a muoversi. Il tempo cominciò a scorrere a rallentatore, vide il ragazzo estrarre un oggetto da una tasca di quel completo nero e privarlo della sua spoletta.
Nessuno se lo sarebbe aspettato.
«Sapphire!» esclamò, intercettando la ragazza e spingendola dietro di sé. Quella oppose resistenza, nonostante capisse razionalmente di non doverlo fare, per istinto di autoconservazione.
Il ragazzo vestito di nero prese la mira e attese. Attese due interminabili secondi, probabilmente ebbe le ultime remore che precedevano l’assassinio, forse era pure la prima volta che decideva di uccidere. Poi, si distaccò dalla realtà e gettò la granata in direzione dei due Dexholder, che nel frattempo stavano cercando di prendere le distanze.
Ruby si si gettò una seconda volta a terra con Sapphire tra le braccia. Cercò di beccare un luogo abbastanza protetto, parzialmente coperto da una delle colonne diroccate della Vetta Lancia. Udì il debole suono del metallo che tocca una superficie dura, chiuse gli occhi.
 
Green e Blue erano giunti a Memoride. Ritornare alla civiltà, dopo giorni di vagabondaggio, fece loro uno strano effetto. Erano degli Allenatori itineranti, o almeno lo erano stati, ma si erano sempre avventurati per luoghi frequentati da altri Allenatori, non sulle vette sperdute di una catena montuosa deserta. L’atmosfera del paesino antico li avvolse in maniera svogliata, la piccola cittadina era infatti quasi stata soffocata dalla neve, come molte altre aree urbane di Sinnoh. Si mossero lungo i sentieri ripuliti di paesani più volenterosi, raggiungendo il Centro Pokémon in fretta. Memoride era una piccola realtà e quello non era un periodo in cui si vedevano molti Allenatori in giro, per questo i pochi presenti all’interno del Centro, riconobbero subito due forestieri.
«Avremmo bisogno di affidarle i nostri Pokémon» fece Green, rivolgendosi all’infermiera.
«Ehm... certo» acconsentì lei, un po’ spiazzata dall’incontro con Green, lisciandosi i capelli.
«Ha il cartellino al contrario» sussurrò Blue all’orecchio del suo uomo.
I due Dexholder lasciarono le PokéBall sul bancone e si ritirarono presso i divanetti del bar, ordinando delle bevande bollenti. Dopo un minuto, la cameriera portò loro una tazza di caffè corretto con del liquore alla noce, un enorme mocaccino spruzzato di cacao e un vassoio di biscotti.
«Ne avevo proprio bisogno» esclamò Blue, sorseggiando avidamente il suo mocaccino «dopo cinque giorni in mezzo alla neve».
«Dovremmo aggiornare Gold e gli altri» mormorò Green.
«A proposito dei nostri progressi» ribatté Blue con sarcasmo.
«Beh, matematicamente, se noi non siamo riusciti ad ottenere nulla, qualcuno tra Kalut, Ruby o Sapphire avrà delle buone notizie, no?»
«Avremmo proprio bisogno di qualche buona notizia, ora» continuò lei, malinconica. Ovviamente, il suo pensiero si era subito spostato a Silver e Crystal, ancora costretti in ospedale «dovrei proprio chiamare Yellow, chissà se ci sono delle novità» decise, con un velo di speranza, estraendo il suo cellulare.
Green ebbe una lieve distorsione. Si sentì come se avesse dimenticato una cosa importante che, per un determinato motivo, era improvvisamente riaffiorata. Si chiese di che cosa potesse trattarsi ripercorrendo i suoi tracciati mentali mentre, in sottofondo, Blue parlava con Yellow al telefono.
Si rese conto dopo alcuni minuti di star facendo la figura dell’idiota, con quello sguardo fisso nel vuoto, aveva rischiato anche di mollare la presa sulla tazza di caffè. Diede una lunga sorsata, scavando nel sapore dolciastro della bevanda, in cerca dell’amaro sentore del liquore.
«Quindi ancora non vuole saperne... di parlare con nessuno?» chiedeva Blue alla sua amica, che era ancora nell’ospedale di Porto Alghepoli «vorrei essere lì» era sinceramente addolorata.
Green la vide tacere per qualche secondo, alzarsi dal divanetto, stringersi nelle spalle e abbassare notevolmente la voce. Pure il suo tono cambiò, perdendo le sue note acri e acquisendo un suono decisamente più dolce.
«Tu come stai, invece?» sembrò indugiare pure in un sorriso.
Green osservò attentamente quel suo cambiamento, lo trovò strano. Non tanto per l’atto in sé, quanto per il suo contesto.
«Ti senti bene?» domandò Blue, sembrando ancora intenzionata a non rendere Green partecipe della conversazione, come se stesse provando vergogna.
Il Capopalestra fece finta di non star fissando la castana, nel tentativo di decifrarla. Continuò a sorseggiare il suo caffè, pensando a quanto fosse gradevole bere quella bevanda bollente, visto il refrigerio esterno.
Oh, cazzo.
Refrigerio. Frigorifero. Green posò la tazza. Un flash improvviso balenò nel suo cervello: l’immagine di un foglio appeso al frigorifero di Blue, su cui la ragazza aveva trascritto alcuni dei suoi impegni.
Le parole tornarono a galla, come il testo della sigla di un cartone animato. E improvvisamente tutto fu più chiaro:
Compra divano nuovo e visita ginecologica Yellow.
Tornò a guardare la sua ragazza che parlava al telefono inclinando la testa e inarcando la spalla, come se volesse proteggere le parole che la sua amica stava pronunciando.
Ecco perché non l’aveva detto a tutti, settimane prima, stava aspettando il momento giusto. Poi, un dragone aveva fatto irruzione in uno stadio, uccidendo trecento persone e devastando una città intera. Le duemila avversità che erano stati costretti ad affrontare, non le avevano permesso di concedersi questa confessione, erano pochi coloro che sapevano la verità.
Yellow aspettava un bambino.
Ormai, niente era più un segreto, Green stava fissando Blue, con quello sguardo vuoto che poche volte si era concesso di mostrare. Blue continuava a parlare con la sua amica, ma tra sé e sé aveva capito, leggendolo nello sguardo del suo uomo, di aver lasciato trapelare troppe informazioni.
 
Kalut stava scendendo il versante della montagna verso sud-est, in direzione Memoride. Aveva raggiunto l’obbiettivo, si era trovato faccia a faccia con il centro del problema, ma aveva deciso di tornare indietro. Più che altro, era stato Xatu a riportarlo sulla retta via, facendogli capire che, agendo da solo e non tornando al punto di ritrovo nel giorno stabilito, avrebbe perso gli unici alleati disponibili. Inoltre, non aveva la minima idea di come affrontare ciò che si era trovato davanti, quindi aveva optato per il sostegno degli altri, magari sarebbero riusciti a cavare un ragno dal buco.
Ancora faticava a credere a ciò che aveva visto, la FACES aveva costruito un impianto avanzatissimo, un alveare all’interno del quale erano stati intrappolati centinaia di Pokémon di tipo Ghiaccio, collegati tutti ad un sistema che indirizzava la loro energia verso un centro focale: il Nodo di Regigigas. Intuibilmente, era stato quel macchinario a scatenare il gelo e a portare una nuova era glaciale su Sinnoh e territori limitrofi in pieno luglio. Il ragazzo dai capelli bianchi andava di fretta, non era mai stato un tipo paziente e stavolta fremeva dalla voglia di condividere con i compagni ciò che aveva scoperto.
Era necessario agire al più presto, non aveva seguito il telegiornali per giorni, ma il suo istinto gli diceva che le condizioni di Sinnoh, dopo il crollo iniziale per via del cataclisma improvviso e dopo essersi stabilizzate per un breve periodo, stavano di nuovo peggiorando in maniera drastica. Erano morte già quasi trecento persone, nei primi giorni di gelo, per le cause più varie.
Spesso, pronto a tagliare le gambe degli eroi, c’era il tempo. Il malefico e inesorabile tempo.

 

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Capitolo 11
*** Capitolo 10: Una brutta giornata ***


X
Una brutta giornata
 
 
Un fischio, soltanto un fischio.
Quando Ruby riprese i sensi, udì soltanto un fischio.
Poi iniziò a percepire il dolore. Digrignò i denti, strinse i pugni, contrasse i muscoli. Lentamente, quell’atroce sofferenza sembrava affievolirsi. O forse era solo lui che ci stava facendo l’abitudine.
Ricordava quello che gli era sembrato l’ultimo istante della sua vita: il ragazzo che aveva tentato di uccidere lui e Sapphire con i suoi Pokémon, come ultima spiaggia, aveva lanciato contro di loro una granata. Una mossa sicuramente poco leale e sportiva, non avevano saputo reagire. Ruby aveva fatto ciò che meglio gli era riuscito, negli ultimi giorni: prendere le bastonate. Quindi aveva coperto Sapphire, sperando che il fattore di rigenerazione delle gemme che aveva dentro il corpo funzionasse a dovere. E, conoscendo bene quella sensazione di bruciore che seguiva la guarigione spontanea delle sue ferite, era sicuro che stesse tutto lavorando più che dignitosamente: si sentiva ardere completamente la parte inferiore del corpo.
Lentamente, il fischiò si fece sempre più flebile, permettendogli di riacquistare l’udito. Non ne fu immediatamente troppo felice. Udì delle grida, grida che purtroppo conosceva molto bene. La ragazza a cui più teneva al mondo stava facendo stridere le sue corde vocali nel modo più atroce che le fosse mai riuscito: strillava come un’aquila, aveva perso ogni minimo controllo.
Ruby riaprì gli occhi. La cercò con lo sguardo, tentando a fatica di rimettere in funzione il suo senso della vista. Quando la trovò, di nuovo, si pentì di essere tornato nel mondo reale.
«Sapphire» gridò.
Quella inclinò appena il collo, cercando di incrociare il suo sguardo. Continuava a gridare e a contorcersi, non sembrò trovare alcuna consolazione negli occhi del suo ragazzo.
Ruby si fece forza, si guardò attorno per verificare che il ragazzo della FACES non fosse ancora nei paraggi, ma pensò che se solo li avesse visti riprendere conoscenza avrebbe immediatamente terminato quel semplice lavoro con le sue mani. Cercò di strisciare, dato che le sue gambe sembravano ancora inutilizzabili, verso la ragazza. Finse di ignorare il dolore atroce che, con il movimento, sembrava crescere a dismisura. Ignorò pure la striscia di sangue che si rese conto di lasciare dietro di sé al passaggio.
Non era importante, la sua priorità era Sapphire.
«Ehi, sono qui» le mormorò a denti serrati, raggiungendola.
Era peggio di quanto pensasse, sembrava essersi beccata l’esplosione in pieno. E lei non aveva le gemme. L’addome della ragazza era completamente ricoperto di sangue e lei, in preda a convulsioni e grida, sembrava provare il dolore più intenso che le fosse mai stato inferto. Ruby cercò di prenderle la mano, ma fallì, quindi le strinse il braccio. Lei sembrava non rendersi conto della sua presenza. Cominciò a respirare affannosamente, vedendo che la chiazza di sangue sotto il proprio corpo espandersi di secondo in secondo. Nel nervosismo generale che sembrava voler miscelare tutte le peggiori emozioni in un solo e unico momento di tortura, Sapphire cominciò pure a piangere.
«Maledizione, calmati» guaì Ruby, in quel pietoso e grottesco scenario.
Lui non riusciva ancora ad utilizzare le proprie gambe e stava cercando di rassicurare Sapphire, che era stata ferita fatalmente nel luogo più isolato dalla civiltà che ci fosse al mondo.
Sotto sotto, gli venne quasi da ridere, di fronte alla loro deprimente situazione. Smise di gridare a Sapphire le prime cazzate che gli venivano in mente, si accasciò a terra, sfiorando il corpo della ragazza e spalmandosi sul pavimento. Sentì la mattonella sulla guancia, non riusciva a capire se il marmo fosse caldo o freddo, percepì soltanto quanto fosse bagnato di sangue.
Anche a lui, venne quasi da piangere. Non aveva più alcuna speranza. Le ferite si stavano rimarginando, ma non era quello il suo problema. Il suo cervello aveva appena realizzato che Sapphire non sarebbe sopravvissuta.
 
Green e Blue avevano preso una delle stanze del Centro. Si erano fatti una doccia calda, in modo da scrollarsi di dosso tutto il gelo di quell’avventura inutile che avevano vissuto. Erano stanchi, sentivano il bisogno di riposare in un letto vero. Per questa ragione decisero di affittare la camera per l’intero pomeriggio. Si infilarono sotto le coperte, chiusero gli occhi, l’una nelle braccia dell’altro.
«Che ti ha detto, Yellow?» chiese Green, carezzando i capelli della ragazza che si era piazzata nell’incavo della sua spalla.
«Ancora nessuna novità, Silver non si sveglia e Crystal non vuole parlare con nessuno» rispose lei.
«E il resto?» continuò lui, cercando di portarla dove voleva.
«Di che parli?» chiese lei, con una debolissima nota stonata nella voce.
Beccata. Blue era un’ottima bugiarda, ma anche lei tradiva alcuni comportamenti sospetti, piccoli particolari che soltanto qualcuno che la conoscesse da molti anni riusciva a notare.
«Lo sai» affondò Green, con sicurezza.
Blue aveva capito perfettamente a cosa si stesse riferendo il suo ragazzo, ma la sua indole la obbligava a fare la finta tonta fino all’ultimo.
«Aspetta un bambino» rivelò, con un filo di voce.
Dopo quel debole sussurro, rimasero zitti. Le dita di Green continuavano meccanicamente a carezzare la chioma castana della ragazza, ma i loro occhi erano persi nel vuoto siderale.
Red se n’era andato, Yellow era incinta, attorno a loro, il mondo continuava a crollare. Entrambi avevano mille dubbi, mille domande, mille interrogativi a cui cercare una risposta. Tuttavia, erano già abbastanza stremati in seguito alle varie disavventure personali.
Si erano sdraiati su quel letto per recuperare qualche ora di sonno, ma non riuscirono a chiudere occhio. Rimasero immersi nell’oscurità, in una sorta di eterno dormiveglia in cui nessuno riusciva a proferir parola.
 
«Ruby» mormorò la ragazza.
Il Dexholder alzò lo sguardo.
Sapphire aveva il volto sfigurato dal dolore, i capelli erano bagnati di sangue e le labbra screpolate e ferite. Non sembrava volersi arrendere, ma la sua non era un’ultima, strenua resistenza. Fissava il ragazzo con occhi di supplica, la supplica di chi non è ancora pronto a morire. Sapeva di essere spacciata, ma non riusciva ad accettarlo.
Ruby si sentiva stringere ogni organo interno, per via di quella scena. Aveva condannato Sapphire a quel terribile degrado. Era soltanto colpa sua, non serviva girarvi attorno. Si chiese come avesse fatto a distrarsi, con quale errore avesse condannato la ragazza ad una morte tanto atroce.
Il suo cervello sfiorò l’alone luminoso di un pensiero positivo. L’unico in chilometri e chilometri quadri di oscurità.
Ruby rifletté su ciò che stava accadendo loro prima dell’arrivo dell’agente FACES. Non sapeva ancora cosa fosse esattamente accaduto, ma sentiva di dover manipolare quella sua piccola realizzazione. Percepiva una debole scintilla nella sua mente, come se questa avesse spontaneamente raggiunto una verità.
Si portò più avanti, strisciando con minore difficoltà. Ormai le ferite si erano quasi tutte rimarginate. Sotto di lui, c’era il corpo insanguinato di Sapphire. Lei lo stava guardando, ma aveva gli occhi vuoti di chi ha perso troppo sangue. Forse neanche si stava rendendo conto di ciò che avveniva attorno a lei, forse aveva già mollato, forse stava vedendo quella luce bianca a cui tutti fanno riferimento, nei medical-drama. A Ruby non interessava, il ragazzo cercava solo il contatto fisico.
Le mise la mano sul collo, percependo il debole e lentissimo battito cardiaco. Se ne stava andando. Doveva fare presto.
Si rese conto di star per improvvisare un’azione che era riuscito a compiere solo due volte, sei anni prima. Chiuse gli occhi, focalizzò l’obiettivo.
Qualcosa, nel cuore di Hoenn, si mosse.
La mente di Ruby scomparve, disintegrandosi nell’assoluto per qualche millisecondo. Torno subito a ricomporsi, rientrando nel suo corpo e animandone le membra. Il ragazzo apri le palpebre ed ebbe un brivido che gli corse lungo tutta la schiena, facendogli venire la pelle d’oca. Quello fu buon segno. Sentiva il calore, percepiva la temperatura delle cose attorno a sé, le gambe avevano smesso di bruciare, perdendo la loro capacità di autorigenerarsi, ma non sembrava essercene più il bisogno, a quel punto.
Cercò di guardare Sapphire, ma prima che potesse metterla a fuoco, una debole pulsazione fu avvertita dalle sue dita. Le sue dita che erano state poggiate sul collo della ragazza.
La vide. Dal punto in cui l’aveva toccata, migliaia di linee blu e rosse si dipanavano sulla pelle della ragazza. I tatuaggi che indicavano che il suo organismo aveva accolto le gemme si erano immediatamente diffusi su tutto il corpo e sembravano pulsare di energia pura.
Sapphire, in bilico tra lo svenimento e la morte, emise un grido strozzato. Stava percependo il bruciore, le sue ferite si stavano lentamente rimarginando. Per lei, era una novità. Ruby attese minuti che gli parvero giorni. Sentiva il mugolio soffocato della ragazza, lo sfrigolare della sua carne che riprendeva l’unità originale, il suono nervoso dei suoi denti che battevano per il freddo che percepiva per la prima volta da settimane.
Quando scese il silenzio, Sapphire smise di lamentarsi, cadendo in un profondo e stremato sonno. Il processo di rigenerazione era terminato, anche se i suoi vestiti erano ancora laceri e inzaccherati di sangue. Lei aveva perso conoscenza, ma il suo cuore aveva ripreso a battere. Le linee non brillavano più come prima, ma si erano sempre più diramate su tutta la superficie del suo corpo, un paio avevano pure raggiunto il volto. Ruby tentò di risollevarsi sulle proprie gambe. Quando fu capace di riacquisire la propria posizione eretta, rimase in equilibrio per qualche secondo, verificando che la parte inferiore del suo corpo funzionasse a dovere.
Prese Sapphire tra le braccia soltanto quando ne ebbe la completa certezza. Doveva portarla via da lì: l’avrebbe portata via da lì.
 
Kalut entrò a Memoride senza che anima viva se ne rendesse conto. Per lui, passare inosservato era quasi alla stregua di un’arte: non si trattava soltanto di camminare tranquillamente, mantenere un comportamento omogeneo alla massa e ammorbidire le sopracciglia, era una disciplina parecchio più ramificata. Al suo seguito, c’era il fedele Xatu. Il ragazzo aveva tolto alcuni degli abiti pesanti che il rigore delle vette del Monte Corona lo avevano costretto ad indossare, nonostante a valle ci fossero ancora quasi due metri di neve.
“Probabilmente Green, Blue, Ruby e Sapphire sono già al Centro” comunicò telepaticamente al pennuto.
“Secondo te riusciranno a presentarsi all’appuntamento” chiese lui.
“Sì, salvo imprevisti, dovrebbero esser tornati giù verso le...”
Il flusso di pensieri del ragazzo si interruppe. Era passato accanto ad un’edicola e la sua mente attenta ad ogni particolare circostante, sempre e comunque, gli aveva fatto notare qualcosa. Tornò indietro di qualche passo, calcando una seconda volta le orme che aveva appena lasciato nella neve. Girò la testa, lesse il titolo delle prime pagine di ogni quotidiano esposto nella mostrina.
«Porca puttana» disse.
“Non te lo aspettavi, vero?” chiese ironicamente Xatu, mentre Kalut attaccava a correre verso il Centro Pokémon, fregandosene di passare inosservato.
Il ragazzo sbuffò, senza rispondere. Certe volte quell’uccello riusciva ad essere davvero fastidioso, soprattutto quando scherzava su fatti che lui, dotato di precognizione, era riuscito a vedere in anticipo, mentre per gli altri avevano costituito un colpo di scena inaspettato.
“E’ evidente che sia tu la persona più indicata per intervenire, in questo caso” lo consigliò.
“Uccidimi se non è così, maledizione” ribatté lui.
“E’ una di quelle rare volte in cui riesco a percepire il tuo nervosismo, voi esseri umani siete davvero interessanti, nascondete quello che più volete gettare fuori e viceversa” commentò il Pokémon Magico.
Kalut giunse al Centro, calmando i bollenti spiriti in un millesimo di secondo. Salutò l’infermiera e le consegnò una delle sue Ball, per non destare sospetti, ma sfruttò l’occasione per lanciare un’occhiata alle sfere che si trovavano già nella macchina curativa. Conteggiò tutti e dodici i Pokémon di Blue e Green, intravedendoli dalla trasparenza, evidentemente Ruby e Sapphire non erano ancora arrivati.
Realizzò che probabilmente i due Dexholder di Kanto si trovavano in una delle camere, comprese di non potervisi introdurre in libertà. Ordinò un caffè nero al bar e sedette su uno dei divanetti. La caffeina non poteva intaccare il suo organismo e rilassarsi lo spingeva soltanto a riflettere su mille diavolerie nel tentativo di arginare i tic nervosi, ma era tutto ciò che poteva fare.
Studiò approfonditamente il tavolino che aveva davanti, riuscendo a individuare con precisione tutti gli snack che vi fossero stati consumati durante la mattinata, nonostante qualcuno fosse passato a pulire. Si rese conto di star sedendo su delle briciole di Pringles.
Osservò l’infermiera e ne decifrò la ridente vita sentimentale, in base al modo in cui osservava lo schermo del suo cellulare e alle volte che lo toccava, quando questo iniziava a vibrare. Ondeggiava giuliva, strusciando le dita sul bancone, ignorando la televisione e guardandosi spesso allo specchio, come se il suo nuovo ragazzo potesse farle visita da un momento all’altro.
Alla fine, accese la televisione, si sarebbe distratto con qualche brutto servizio del telegiornale. Mentre le notizie scorrevano, conteggiava il numero di parole utilizzate dai giornalisti e ne tracciava un profilo psicologico in base alla frequenza di aggettivi possessivi, intercalari e modi di dire utilizzati. Persino le loro voci standardizzate secondo i canoni da notiziario erano facili da decifrare, per lui.
“La situazione è ancora critica ad Austropoli” cominciò a dire la anchorwoman “il gruppo terroristico tiene ancora sotto scacco l’intera popolazione, impedendo l’intervento delle forze dell’ordine. Dopo il crollo del Ponte Freccialuce, gli anarchici hanno colpito e demolito le fognature e i moli, uniche vie di fuga per la popolazione inerme e minacciata. Alle ore quattordici e sei, altri otto morti sono state confermate dagli inviati: degli Allenatori hanno tentato la fuga per via aerea, in groppa ai loro Pokémon, venendo freddati dai cecchini, prima che la polizia potesse intervenire...”
Kalut si coprì il volto con le mani, sospirando profondamente: Celia, Gold e Platinum si erano recati ad Austropoli, cinque giorni prima. Lui e gli altri Dexholder erano spariti dalla circolazione, per la spedizione sul Monte Corona.
Una volta tornato, non si aspettava di certo tutto quel casino.
Ebbe un flash: si ricordò di accendere il cellulare. Trovò due messaggi di Celia:
“Ci sono problemi”
“Ci serve il tuo aiuto”
Celia non chiedeva aiuto, era troppo pigra per farlo. Evidentemente, il problema era più grosso di quanto chiunque si sarebbe mai aspettato, si chiese per quale motivo la ragazza non avesse insistito.
La risposta giunse prontamente dal notiziario, la reporter sottolineò che: “le infrastrutture e i cavi telefonici sono stati attaccati e demoliti, lasciando la popolazione isolata dal mondo esterno”.
«Maledizione» disse Kalut tra sé e sé.
Per quanto ne sapeva, i suoi alleati potevano anche essere già morti. Xatu non proferiva parola. Sostava accanto al ragazzo dai capelli bianchi, al centro del bar, senza che anima viva che non fosse Kalut potesse vederlo. Quest’ultimo, preso da un grigio momento di sconforto, ondeggiava la testa come un metronomo, strofinandosi le tempie e la fronte con le dita, nel tentativo di massaggiare il suo cervello e placare quella bufera di pensieri che vi imperversava. Austropoli era stata presa in ostaggio da dei terroristi, lui era di ritorno dalla scoperta di un impianto che canalizzava l’energia criogenica dei Pokémon verso uno dei nodi con cui sono stati stretti insieme i continenti. La sua vita era normale quanto un agrume meccanizzato.
Era in momenti come quelli che desiderava di ritrovarsi improvvisamente nel Bosco Lira, il luogo in cui si era svegliato, oltre un anno prima, senza il minimo ricordo della propria identità e della propria storia.
Ricordava i primi giorni della sua vita, l’erba fresca, i Pokémon amichevoli, il sonno all’ombra degli alberi, la vita semplice. Poi aveva conosciuto la civiltà, gli immensi agglomerati urbani, le altre persone, l’eterno Xatu e infine la Resistenza, coi suoi piani per fermare la FACES. Lui aveva accettato di aiutarli per gioco, non aveva idea di quale fosse il suo scopo nella vita, ma quelle persone avevano detto di conoscerlo, di conoscere persino un suo simile. Lui era una sorta di dio, l’anello di congiunzione tra l’uomo e i Pokémon, tra l’essere vivente e il complicato organismo della natura. Era stato dotato di capacità incredibili, una mente più potente di qualsiasi altra, un corpo adattabile a qualsiasi cosa... ma era riuscito comunque a conoscere lo sconforto e la paura. Il mondo doveva proprio essere uno schifo.
Diede un sorso al caffè, i suoi sensi riuscirono ad affermare con certezza che la barista che lo aveva preparato utilizzasse una crema mani all’aloe.
“Sei stanco, Kalut?” chiese Xatu, telepaticamente.
“Sto bene” rispose lui.
“Prendi una camera, riposati, puoi concedertelo” gli consigliò.
“Non preoccuparti, ho solo avuto una brutta giornata...” mormorò il ragazzo.

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Capitolo 12
*** Capitolo 11: La breve storia ***


XI
La breve storia
 
 
Il signor Johnson aveva sessantacinque anni. Il signor Johnson era un impiegato delle poste. Il signor Johnson non si receva a lavoro da alcuni giorni, l’ufficio era chiuso a causa delle avverse condizioni meteorologiche: erano rimasti solo pochi impiegati, necessari per lo smistamento di alcune missive burocratiche. Tipo bollette, acconti o simili. In realtà, sapeva di non essere comunque utile, in ufficio.
“Nessuno manda più lettere, al giorno d’oggi” diceva sempre il signor Johnson.
E aveva ragione, nessuno mandava più quelle maledette lettere, il web aveva completamente scardinato il traffico postale, le e-mail si erano rivelate più rapide, efficaci, ecologiche, economiche, comode e altri duecentomila aggettivi dall’accezione positiva. Ma tutto questo era avvenuto anni e anni fa, le lettere non le utilizzava più nessuno da anni, il mercato dei francobolli campava solo di collezionismo, le compagnie postali stavano fallendo, non era possibile comprare una busta delle lettere, poiché non le vendeva più nessuno, eccezion fatta per quelle di papiro elegante nelle quali vengono messi i biglietti di auguri di nozze.
Tuttavia, il signor Johnson continuava a dire “nessuno manda più lettere, al giorno d’oggi”. Maledizione, ormai era diventato il suo mantra, da quando aveva scoperto l’esistenza della posta elettronica. Quando poi erano stati inventati anche SMS, social network e WhatsApp, il signor Johnson neanche aveva voluto sentirne parlare. Non era interessato, era anziano, queste cose non facevano per lui.
Il signor Johnson continuava a dire “nessuno manda più lettere, al giorno d’oggi”. Ed effettivamente, nessuna dei sette miliardi di persone sulla faccia della terra mandava più quelle cazzo di lettere.
Ma questa è tutta un’altra storia.
Insomma, quel giorno, il signor Johnson era uscito per controllare se la sua vecchia cassetta delle lettere contenesse o no qualcosa che non fosse pubblicità, bollette del gas o vecchie multe non pagate. Non aveva neanche fatto in tempo a raggiungerla, navigando nei suoi scarponi lungo il vialetto di casa, che una scena lo aveva distratto.
Un ragazzo con la pelle violacea, i vestiti logori e i capelli pieni di ghiaccioli era appena entrato a Memoride, barcollando lungo la stradina che dava ad ovest, proprio di fronte alla villetta del signor Johnson. Aveva qualcosa tra le braccia: una sorta di grosso fagotto avvolto in un panno insanguinato, lo stringeva con le mani tremando per la fatica e per il freddo. Arrancava, ormai, sembrava a pezzi. Aveva lo sguardo perso, fisso nel vuoto più totale. Il signor Johnson gli vide fare gli ultimi tre passi, affondando i suoi piedi incerti nella neve, tentando di avanzare. Poi passò a scrutarlo attentamente mentre si fermava, chiedeva aiuto e cadeva a terra, perdendo i sensi sopra al suo fagotto.
Il signor Johnson capì di dover muovere il culo.
 
«Due pazienti, un maschio e una femmina, entrambi sui vent’anni» spiegava il medico del pronto soccorso a velocità supersonica, correndo insieme ai chirurghi d’urgenza e alle barelle lungo la corsia «lui ha riportato gravi lesioni alle gambe ed è in ipotermia, lei è priva di sensi, ha l’addome gonfio, potrebbe trattarsi di un’emorragia interna» le sale operatorie furono allestite con la massima rapidità, i due ragazzi furono immediatamente catapultati all’interno.
 
Dall’altra parte della città, Kalut sedeva ancora al bar del centro Pokémon. Tentava di distrarsi guardando tv spazzatura e bevendo una bevanda dopo l’altra, ma la cosa sembrava non funzionare. Stava aspettando da troppo tempo, Blue e Green non sarebbero usciti presto da quella stanza e lui aveva urgente bisogno di parlare con loro. Iniziava ad innervosirsi.
Due ragazzini entrarono nel centro, dirigendosi verso il bancone. Erano giovani e portavano delle pesanti tute da sci, probabilmente erano usciti a giocare con la neve. Kalut non poté fare a meno di origliare le loro chiacchiere: i suoi sensi lo costringevano a percepire e immagazzinare tutto ciò che orbitava attorno a lui.
«E’ successo quasi due ore fa» diceva il primo, la sua era la voce acuta di un ragazzino ancora non entrato nella pubertà.
«Ed è stato il signor Johnson a trovarli?» chiedeva l’altro, probabilmente erano coetanei.
«Sì, non hai visto l’elicottero diretto verso Rupepoli?»
Kalut aguzzò le orecchie, si trattava di qualcosa di grave, dal modo in cui ne stavano discutendo.
«Un ragazzo e una ragazza, uno dei due sembrava ferito gravemente, secondo mia madre erano due teppisti, lei era tutta piena di tatuaggi...»
Kalut smise di ascoltare, balzò in piedi e lasciò i soldi del conto sul tavolo. Si diresse verso le cuccette, quello era un piccolo Centro Pokémon, non sarebbe stato certamente dotato di molti posti letto. Svoltò nel corridoio, ne contò dieci. Cercò qualche suono, ma percepì soltanto la voce di un uomo adulto che parlava al telefono, le chiacchiere di due Pokémon Ranger che discutevano di alcune faccende a proposito della Federazione di Almia e il suono dell’asciugacapelli di qualcuno. Quest’ultimo non apparteneva di certo a Green o a Blue: loro erano lì dentro da ore e la doccia sarebbe stata la loro priorità. Non era riuscito a localizzare i Dexholder, poiché i loro Pokémon erano stati presi in custodia dall’infermiera, altrimenti sarebbe stato facile percepire i loro pensieri per trovarne la stanza. Non aveva idee, era pure abbastanza infastidito. Decise di provare il tutto per tutto.
«Dammi una mano» sussurrò al suo Arcanine, estraendolo dalla Ball.
Quello neanche attese un ordine, nella sua mente sapeva già cosa fare. Sbuffò, facendo scoppiettare delle fiamme tra le fauci possenti, una consistente nuvoletta di fumo si librò nell’aria, raggiungendo il soffitto.
«Ottimo lavoro» si complimentò Kalut, facendolo rientrare.
Il fumo sembrò scomparire, disperdendosi nell’aria e raggiungendo il rilevatore antincendio. L’allarme si attivò, la sirena cominciò a gridare, le porte si sbloccarono e le fontanelle iniziarono a gettare acqua in tutto il corridoio e all’interno delle camere. Kalut vide i due Ranger precipitarsi fuori per primi, seguiti dalla donna che aveva ancora i capelli bagnati e infine dall’uomo, che stava riattaccando il telefono in faccia a sua moglie. Per il ragazzo dai capelli bianchi non fu difficile non dare nell’occhio, nel caos generale. Finalmente, per ultimi, uscirono pure i due Dexholder.
«Eccovi, maledizione» li intercettò Kalut.
«Che diavolo succede?» chiese Green, infastidito dall’allarme e dalla pioggerellina artificiale.
«Dobbiamo raggiungere Rupepoli, datevi una mossa e recuperate le vostre cose» li pressò il ragazzo.
«Aspetta, che cos’è questa fretta? E Ruby e Sapphire?» domandò Blue.
«Appunto, sbrigatevi!» li spinse.
I due Dexholder di Kanto tornarono in stanza e ne uscirono qualche secondo dopo con le giacche e le valigie. Corsero tutti fuori dall’area riposo, insieme agli altri Allenatori. Nella sala principale del Centro, si era ammassato un gruppo di curiosi e i tre ragazzi furono costretti a muoversi tra la calca. Fortunatamente, l’infermiera aveva lasciato il bancone per tentare di calmare la clientela e l’addetto alla sicurezza stava combattendo con la sicura di un estintore, quindi Green e Blue riuscirono a riprendere le loro Ball dal banco attesa senza essere visti. Quando corsero fuori dal centro, tutti furono investiti dal terribile freddo esterno: avevano i vestiti fradici e la temperatura percepita era di parecchi gradi inferiore rispetto a quella effettiva.
«Puoi spiegarci che succede?» fece Green, battendo i denti.
«Ho aspettato per ore, ma Ruby e Sapphire non si sono presentati: ho appena saputo che si trovano a Rupepoli» spiegò.
«Che diavolo ci sono andati a fa...» fece Blue.
«In ospedale» aggiunse Kalut, facendo scendere il buio sui loro volti.
I tre Allenatori si diressero verso est, lottando contro le avverse condizioni meteorologiche. Kalut li guidava, a passo spedito. Il ragazzo dai capelli bianchi aveva quasi dimenticato di chieder loro se sapessero del caos che aveva investito Unima, dove si trovavano Gold, Celia e Platinum, ma la situazione critica lo costrinse ad affrontare un problema alla volta: prima Ruby e Sapphire, poi Austropoli.
 
«E’ stabile» affermò stancamente il chirurgo, togliendosi la mascherina.
«Hai dovuto amputare?» chiese uno dei medici.
«E’ tutto sulla cartella, comunque no, sono riuscito a salvargli entrambe la gambe, ha un organismo stranamente forte» sotto i loro occhi, il paziente veniva trasportato dalla sala operatoria ad una normale camera, seguito dalla flebo di morfina e dall’ECG.
«Incredibile... il Campione della Lega di Hoenn comparso misteriosamente a Sinnoh, in fin di vita e mezzo congelato» commentò il secondo medico «chi se la scorda, questa?»
«E la ragazza?» chiese il chirurgo, cominciando a camminare lungo il corridoio.
«Oh, lei è Sapphire, anche lei tra i pezzi grossi del World Tournament, era anche lei tra gli eroi che ha salvato Vivalet».
«Intendevo dire: come sta?» precisò il chirurgo.
«Non ci crederai mai» rispose il collega.
«Che cosa intendi dire?»
I due, intanto, avevano raggiunto la stanza in cui Sapphire stava riposando, ancora sotto l’effetto dell’anestesia.
«Il dottor Gordon ha inciso, per verificare l’entità dell’emorragia. Nel suo addome aveva delle schegge di metallo, secondo gli esperti sono i frammenti di una granata M67» spiegò il medico.
«Una bomba a mano?» chiese stupito il chirurgo.
«Aspetta, non è questa la parte più assurda, lo sai cos’è successo alla ragazza un istante dopo?»
«Cosa?»
«L’incisione si è rimarginata da sola» rispose il medico.
Il chirurgo tentò per qualche secondo di comprendere se il collega lo stesse prendendo in giro o fosse solo stremato dai turni di lavoro disumani.
«Stai scherzando» realizzò.
«No, è successo sotto gli occhi di tre medici, due infermiere e un anestesista. E in più ci sono i video dell’operazione» continuò il medico, serissimo.
 
Sapphire aprì gli occhi.
Si trovava in una stanza sconosciuta, non riusciva a ricordare come vi fosse arrivata. Ripercorse i nastri della sua memoria, guardandosi attorno spaesata. Ricordava la neve, i giorni trascorsi al gelo sulle vette del Monte Corona. Pian piano, qualcosa riaffiorava. Ricordava la Vetta Lancia, la lotta, il nemico.
Da lì, tutto diventava fumoso.
Si rese conto di essere sdraiata su un letto, ma di non essere affatto stanca. Portò le gambe fuori dal letto, facendo attenzione a non rimanere mezza nuda, considerata la consistenza di quel camice da paziente che stava indossando. Staccò la flebo, si tolse i sensori dell’elettrocardiogramma, che smise di emettere quel fastidioso bip a intermittenza, e balzò in piedi. Raggiunse il bagno, poiché sentiva il bisogno di sciacquarsi la bocca e il viso. Si ritrovò davanti alla sua immagine riflessa nello specchio che si trovava sopra il lavandino.
Sussultò.
Aveva dei segni sul collo, sulle braccia, sulle gambe: delle linee blu e rosse, pulsanti, quasi luminose. Seguendone il tracciato con lo sguardo, tolse il camice e si rese conto di essere quasi del tutto coperta da quei disegni. Erano gli stessi che aveva visto sul corpo di Ruby: quelli generati dall’assorbimento delle gemme di Groudon e Kyogre.
Improvvisamente, ricordò. La granata, l’esplosione, il dolore, le grida, il mondo che diventava nero, scuro, le sue palpebre che si facevano pesanti: tutto tornò a galla, riportandole alla mente i brividi di quell’esperienza orribile. Poi, il suo ippocampo riportò alla luce un istante particolare, quello in cui il suo corpo, ormai cedevole di fronte alla morte imminente, aveva percepito e imbrigliato un’energia esterna talmente forte da riportarla quasi ad uno stato di coscienza. Era stranissimo, paradossale: le sembrava di riuscire a ricordare il momento in cui era nata. Aveva provato quella sensazione, quando Ruby le aveva ceduto le gemme.
Ricostruendo la sua memoria pezzo dopo pezzo, Sapphire studiava il suo nuovo corpo: incapace di percepire la temperatura esterna e ricoperto di tatuaggi colorati, linee geometriche e cicatrici sbiadite, irretito di una forza che sembrava provenire dall’universo circostante, come se il mondo stesso fosse collegato al suo sistema nervoso e scambiasse costantemente impulsi con il suo cervello.
Poi giunse ad una realizzazione terribile: se le gemme erano nel suo corpo, Ruby era rimasto senza. Fu terrorizzata da tale prospettiva: detestava essere aiutata dagli altri, ma soprattutto non sopportava l’idea di aver portato al sacrificio il ragazzo di cui era innamorata.
Rimise il camice e si precipitò fuori dal bagno: trovò due medici e un’infermiera che erano balenati nella sua stanza non appena l’ECG scollegato aveva mandato loro un segnale di allarme. Sapphire scrutò uno per uno i loro sguardi, allibiti dalla sua perfetta forma fisica e mentale.
«Dove si trova il ragazzo che era con me?» chiese.
Trascorsero venti minuti infernali: i medici insistevano affinché lei continuasse ad assumere gli antidolorifici e si sottoponesse ad un intero pomeriggio di esami e verifiche, le infermiere tentavano in tutti i modi di riportarla sul lettino e di farla calmare. Sapphire non voleva saperne: lottava con le unghie e con i denti per liberarsi da quel nugolo di dottori e uscire a cercare Ruby. Alla fine, una delle infermiere fu costretta a pungerla a tradimento con una siringa di morfina che la stese immediatamente, lasciandola inerte sulle lenzuola che sapevano di disinfettante.
 
Kalut, Green e Blue giunsero a Rupepoli a tarda sera. Dovettero chiudersi nel primo Centro Pokémon per riacquisire una temperatura corporea accettabile e far riprendere colorito alla pelle. Erano ormai abituati alla lunghe scarpinate in montagna, erano reduci da cinque giorni di escursione privi di pause, ma ogni volta sembrava che il freddo avesse perfezionato il suo metodo di tortura. Ordinarono dei caffè bollenti che Kalut, avendone già fatto il pieno a Mentania, rifiutò educatamente e poi ripartirono in fretta alla volta dell’ospedale, che si trovava nel quartiere nord della città. I tre ragazzi avevano appena messo piede sull’asfalto dopo aver attraversato il Percorso 215, intricato labirinto di alberi e ponteggi, e rimasero impressionati dal volto che Rupepoli mostrava loro in quella situazione così invernale: i gradoni regolari e perfetti su cui era stata edificata erano stati ricoperti da mantelli di neve a loro volta geometrici e paralleli l’uno all’altro; il panorama cittadino appariva armonioso e preciso, come una grande architettura razionalistica. Passarono per il centro, dove le strade erano state liberate dagli spazzaneve, ma il traffico era ancora precluso alle automobili, passeggiando tra quei piani bianchi e perfetti giunsero finalmente alla facciata della metropoli che dava sul mare: la zona meno congelata della città.
Si resero conto che, nonostante le condizioni surreali, la popolazione sembrava essersi svegliata dal torpore. Nei primi giorni di gelo, Sinnoh sembrava morta, soffocata sotto il peso della neve; passato del tempo, per fortuna, qualcuno aveva ritrovato il coraggio di uscire di casa: alcune attività avevano riaperto, i servizi erano tornati attivi, le persone avevano ripreso ad uscire. La vita sembrava rinascere, dopo quel gelido inferno, soprattutto dopo i tragici resoconti a proposito di un numero di morti che raggiungeva le cinquecento persone in tutta Sinnoh.
I tre Allenatori entrarono nella sala d’attesa dell’ospedale e chiesero informazioni all’infermiera del banco ricezioni. Vennero guidati in un corridoio nel reparto riabilitazione e raggiunti da un medico dalla carnagione scura e l’accento del sud, probabilmente non originario di Sinnoh.
«Siete gli amici di Sapphire Birch e Rubin Harmonia?» domandò l’uomo in camice.
«Stanno bene?» chiese Blue, preoccupata.
«Sapphire è stabile, le sue condizioni non erano critiche, ma stiamo facendo ancora alcuni esami, a breve dovrebbe svegliarsi... il suo è stato un caso veramente particolare» esordì lui, indicando la stanza in cui riposava la Dexholder di Hoenn «Ruby ha rischiato di più, era ferito alle gambe e ha veramente sfiorato la morte per ipotermia e dissanguamento, è stato in sala operatoria per parecchie ore, ma anche lui si riprenderà, si trova in terapia intensiva» concluse il medico.
«Che cosa avevano, di preciso?» chiese Kalut.
«Non siamo ancora sicuri, è difficile identificare le cause delle loro ferite, ma durante l’operazione di Sapphire, i chirurghi hanno rinvenuto nel suo corpo alcune schegge metalliche probabilmente provenienti da una granata» rispose quello.
«Una granata?» ripeté, incredula, Blue.
«Sì» il medico si fece più cupo «proprio per questo devo chiedervi di attendere, prima di parlare con i due pazienti, probabilmente dovremmo chiamare la polizia e fare degli accertamenti» concluse.
«Non possiamo neanche vederli?» chiese Green.
«Vi consiglio di attendere in sala d’aspetto, riceverete degli aggiornamenti» si congedò il medico, passando alla terza cartella che aveva in mano.
I tre ragazzi furono condotti nuovamente sui divanetti, dove sedettero controvoglia e scomodamente. Che diavolo era successo a Ruby e Sapphire? Non era il momento di infilarsi in altri guai da dover strecciare, avevano bisogno di muoversi.
«Hai trovato qualcosa?» chiese Green a Kalut, rompendo il silenzio imbarazzante.
«Sì, adesso entrerò nella stanza di Sapphire, ho bisogno di tutti al più presto possibile» rispose lui.
«No, parlavo del Monte Corona...»
«Oh» ricordò Kalut, elaborando tutte le dodicimila informazioni che avrebbe comunicato loro se non si fosse presentato questo ulteriore inconveniente «sì, ma aspetterò che sarete tutti per spiegare».
Il responso positivo risollevò il morale di Green e Blue, che avevano viaggiato nella neve per cinque giorni senza ottenere niente, ma l’attesa li infastidì parecchio.
«Mentre recupero Sapphire, guardatevi un notiziario» disse loro Kalut, lasciando la sala d’attesa.
Green e Blue non capirono, ma seguirono il suo ordine: Kalut non parlava mai a sproposito e faceva sempre le cose per una precisa ragione. Strapparono ad un bambino il telecomando della tv che si trovava in quella saletta e rimpiazzarono Spongebob con un telegiornale, scatenandone le ire. Ma non c’era tempo per guardare cartoni animati e compresero immediatamente perché.
«La situazione è ancora critica ad Austropoli, il gruppo terroristico tiene ancora la città in ostaggio» diceva il presentatore «non è più possibile accedervi o uscirne e resta difficile mettersi in contatto con i cittadini. Le ultime comunicazioni dei criminali non fanno accenno ad alcuna condizione di resa, attualmente, non si conoscono le motivazioni che li hanno spinti a prendere il controllo della metropoli e, mentre le forze dell’ordine cercano una mediazione, la situazione resta ancora paralizzata da giorni...»
Blue e Green rimasero senza parole. Le foto che i reporter in elicottero stavano mandando in diretta erano apocalittiche: Austropoli, la città più grande di tutte le regioni, sembrava un inferno: il Ponte Freccialuce era stato abbattuto e allo stesso modo i cinque moli che davano sulla costa, da numerose zone della metropoli si alzavano verso l’alto delle scure colonne di fumo, sui tetti dei palazzi si erano appostati dei tipi armati di fucili di precisione e per le strade non sembrava esserci anima viva, soltanto qualche cadavere lasciato sul marciapiede e qualche auto abbandonata in mezzo alla strada.
Blue strinse il braccio del suo ragazzo «Dobbiamo contattare Gold, Platinum e Celia» disse «loro si trovavano là».

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Capitolo 13
*** Capitolo 12: Medusa ***


XII
Medusa
 
 
Blue schiacciò la sigaretta con il piede, non sapeva da quante ore fosse in piedi. Green era crollato pochi minuti prima sul divanetto della sala d’attesa, Kalut era scomparso da un po’, come al solito.
Il sole stava facendo capolino dalla linea dell’orizzonte, i suoi raggi accendevano di luce tiepida e rossastra gli sterminati paesaggi innevati di Sinnoh. A Blue tremavano le mani, le sue falangi violacee avevano ormai perso sensibilità e lei non riusciva più a compiere dei movimenti fluidi e precisi. Era su quel balcone da quasi mezz’ora e aveva dato fuoco a mezzo pacchetto di Marlboro.
Solo nel momento in cui il cielo decise di mostrarle il sole, il suo animo riuscì a calmarsi. Le sembrava di avere un alveare al posto della testa, un alveare in cui i suoi duemila problemi ronzavano incessantemente. Era stanchissima, ma non abbastanza da crollare, era terribilmente agitata, ma non abbastanza da entrare nel panico. Si trovava in quella zona grigia in cui i problemi non hanno mai soluzione. Un indefinibile numero di ore prima, aveva scoperto che Ruby e Sapphire sarebbero stati interrogati dalla polizia per aver rischiato la vita sul Monte Corona e che Gold, Platinum e Celia erano in trappola, nel bel mezzo di una guerriglia civile, ad Austropoli. Aveva provato in tutti i modi a collegarsi con uno di loro, ma le linee telefoniche sembravano non funzionare, nella capitale di Unima. Per quanto ne sapesse, potevano anche essere già morti.
Blue si stava accingendo a rientrare all’interno dell’ospedale, ma decise di attendere ancora qualche istante, stringendosi nel cappotto pesante e lasciando che la sciarpa le carezzasse le guance. Quella notte c’era stato un folto viavai di medici, infermieri e pazienti, la Dexholder aveva osservato quel flusso di esseri umani senza interessarsi al minimo particolare. Tuttavia, nel momento in cui stava per voltarsi e imboccare l’entrata, posò gli occhi su due individui che stavano passando accanto a lei, anch’essi intenzionati ad entrare nell’ospedale. I due uomini portavano dei pesanti cappotti scuri, sotto i quali erano nascoste delle cravatte che facevano capolino dalla collottola. Erano strani, la sua mente acuta non poté far a meno di notarlo: non avevano l’aspetto preoccupato e familiare di coloro che si recavano a trovare un parente e di sicuro non erano medici o altri addetti ai lavori. Blue decise di tenerli d’occhio, ma questi ultimi ricambiarono il suo sguardo senza accennare alla minima emozione, finché non la superarono. Gli occhi gelidi, le labbra sottili e serrate.
“Dovreste essere discreti” pensò la ragazza, prima di entrare con un ritardo di qualche secondo rispetto ai due uomini sospetti.
Qualche minuto più tardi, in una delle stanzette, Green fu svegliato dal suo sonno inquieto dalle indelicate mani di Blue.
«Che succede? Si sono svegliati?» chiese lui, con la voce pastosa e gli occhi semichiusi.
«Non lo so, ma ho visto qualcosa» fece lei, prima di spiegargli i particolari del suo incontro fortuito.
Green ascoltò attentamente, stropicciandosi gli occhi.
«Non hai pensato che magari sono solo due persone normalissime con la buona abitudine di vestirsi bene?»
«Green, hanno chiesto di parlare con il primario e hanno avuto il permesso seduta stante» aggiunse la ragazza «nessuno ordina un incontro col capo e viene accontentato, dai...»
«Ok, quindi è possibile che questi siano gli uomini mandati dalla Faces per occuparsi di Ruby e Sapphire?»
«E’ sicuro, dobbiamo portarli via prima che loro riescano a capire che cosa sia successo».
«Uff» Green rimuginò per qualche secondo «va bene, improvvisiamo una strategia, se Sapphire è quella che si trova in condizioni migliori, potrei provare a chiedere il suo aiuto» cominciò a pensare Blue, imboccando la porta e gettandosi nel corridoio.
«Forse dovremmo soltanto...» la lingua di Green si bloccò spontaneamente.
I due Dexholder, uscendo dalla stanzetta, si erano trovati di fronte all’ultima scena che avrebbero voluto vedere: i due uomini vestiti di nero stavano parlando con il medico che si era occupato di Ruby e Sapphire, uno dei due teneva gli occhi fissi sulla cartella, l’altro alternava sguardi audaci alla stanza dove giaceva la ragazza di Hoenn e occhiatacce rivolte ai due di Kanto.
«Ok, dobbiamo avvertire Kalut» fu il rapido cambio di piano di Green.
«Dove lo hai visto l’ultima volta?» domandò Blue.
«Controllo fuori, quasi sicuramente si trova sul tetto...» il Capopalestra di Smeraldopoli, infilandosi già le maniche del cappotto, fece per imboccare l’uscita, ma il medico, smettendo di parlare con i due uomini vestiti di nero, si voltò di novanta gradi e intercettò sia lui che la sua ragazza, venendo loro incontro. Green non poté ignorarlo e rinunciò al suo piano di fuga improvvisato, bloccandosi sul posto.
Il medico venne verso di loro, era evidente che avesse necessità di comunicare qualcosa di importante. In secondo piano, i due uomini in nero tenevano d’occhio la situazione, avevano l’aria di coloro che hanno portato a termine il proprio lavoro con successo.
«Ci sono novità?» chiese Blue al medico, rompendo la tensione.
«Beh, i due agenti sono arrivati giusto in tempo per chiarire la situazione, stavamo per chiamare la polizia per le indagini a proposito dei vostri amici» sorrise quello.
Blue e Green rimasero basiti, non riuscendo a comprendere all’istante le parole appena sentite.
«Certo che, in un periodo come questo, uno si lascia facilmente condizionare da una stranezza simile» commentò l’uomo con il camice, passando oltre e lasciandoli lì, come due stoccafissi, a fissare il punto in cui fino a pochi secondi prima c’era il loro interlocutore.
Mentre i due uomini in nero lasciavano quel luogo, congelandoli con le loro peggiori occhiate, Green e Blue cominciarono lentamente a far girare le rotelle. Si chiesero entrambi se ciò che il medico aveva appena detto fosse stato interpretato in modo unanime da entrambi: i due agenti vestiti di nero avevano appena fornito un alibi a Ruby e Sapphire, evitando che fossero coinvolte autorità e forze dell’ordine.
«Per quale motivo avrebbero dovuto farlo?» si chiese Green.
«Ormai e indubbio, sono due della Faces, evidentemente anche loro necessitano di rimanere in incognito. Almeno qui a Sinnoh, dove ancora non esercitano alcun potere» indovinò Blue.
«Chissà quale scusa sostenuta da prove adeguate avranno fornito ai medici di questo ospedale per spiegare l’incidente avvenuto a Ruby e Sapphire».
«Non mi interessa, mi sta bene anche che li abbiano corrotti, finché riusciamo ad evitare ulteriori guai».
«Dovremmo capire che cosa è successo veramente, a questo punto» riprese il Capopalestra «andiamo a parlare con Sapphire».
 
La ragazza riaprì faticosamente i suoi occhi cerulei. Era stata imbottita di anestetici e sedativi dai medici che avevano deciso di sottoporla a tutti i test necessari. I vari responsi si trovavano nella cartella che era appesa al suo letto e Green li stava sfogliando con attenzione, tentando di decifrare alcuni termini medici che non aveva mai sentito. Blue, più premurosa, si era piazzata al lato del lettino e aspettava impaziente che la sua amica riprendesse contatto con il mondo reale. Nel frattempo, osservava il suo corpo ricoperto di linee blu e rosse, come tatuaggi di luce pulsante impressa sulla sua cute.
«Che è successo?» chiese la ragazza di Hoenn, con un filo di voce.
«Va tutto bene, Sapph» la rassicurò Blue «sei in ospedale».
«Lo so dove sono, come sta Ruby?» continuò, ancora rallentata dall’anestesia.
«Lui si sta ancora riprendendo, ma starà bene anche lui».
«Devo vederlo».
«Ti prego, resta ancora un po’ a letto»
«No, spostati» Sapphire tentava di sporgersi verso il bordo della branda.
«Sapph, devi riposare ora» Blue sembrava una di quelle infermiere timorose che l’avevano tenuta a riposo fino a quel momento.
«Blue, porca puttana, ero già in piedi e in condizioni perfette prima che i medici mi imbottissero di morfina, ho le due Gemme di Hoenn in corpo, sono praticamente immortale, lasciami scendere dal letto» inveì lei, perdendo quella cera pallida da malata terminale.
Blue comprese la reale situazione e, sentendosi una sciocca, permise a Sapphire di rimettersi in piedi. La Dexholder di Hoenn cercò immediatamente la sua borsa, che stranamente era rimasta saldamente attaccata alle sue spalle anche dopo l’incidente. Ne estrasse alcuni vestiti puliti. Scelse dei comodi jeans, una camicia rossa a quadri e un paio di stivali di pelle. Ignorò gli sguardi indagatori dei suoi amici a proposito dei suoi tatuaggi, avendo già dato le necessarie spiegazioni. Una volta chiuso l’ultimo bottone della camicia, in modo che il colletto coprisse persino le linee che si erano avventurate più lontano, volle immediatamente catapultarsi fuori da quella stanza che sapeva di disinfettante.
«Avete finito?» chiese ai due amici, che erano un po’ restii a seguirla.
«Un momento» fece Green, immergendosi con maggior fretta nella lettura della cartella clinica di Sapphire.
«Green, andiamo» insistette lei.
«Qui dice che durante l’operazione il tuo corpo continuava a rimarginare autonomamente le ferite» lesse Green «che non è stata necessaria assolutamente alcuna operazione, tranne la rimozione di un frammento di metallo che era rimasto all’interno del tuo addome».
Sapphire non sembrava interessata.
«A quanto pare, il continuo tentativo di rigenerazione del tuo corpo, incontrando questo corpo esterno, ha causato un’emorragia interna che ha intaccato la vascolarizzazione della tua parete uterina per un esteso lasso di tempo».
A quel punto, la ragazza sembrò mostrare una maggiore attenzione.
«C’è un alta probabilità che tu non possa più avere figli» proferì Green, glaciale.
Blue non riuscì a sostenere lo sguardo della sua amica. Sapphire attese qualche secondo invece di ribattere, mordendosi il labbro per un paio di volte. Sembrava cercare qualcosa con lo sguardo, senza riuscire a trovarlo.
«Mi dispiace, Sapph» mormorò il ragazzo.
«Non fa niente, abbiamo altro a cui pensare» la Dexholder ingoiò il boccone amaro e passò oltre. Uscì dalla stanza da sola, ma lasciò la porta aperta affinché Green e Blue la seguissero.
I tre camminarono a passo svelto verso la terapia intensiva. Sapphire guidava il triangolo, Kalut era ancora assente. Il percorso fu breve, i tre incrociarono qualche barella portata in fretta e furia dai chirurghi e numerosi medici che si chiedevano come mai dei civili in borghese avessero la possibilità di girare in un ospedale con la massima libertà. Nel frattempo, Blue e Green spiegarono a Sapphire cosa fosse successo con gli agenti Faces che, apparentemente, avevano impedito che la polizia venisse a sapere di tutta la vicenda.
Raggiunsero infine la stanza di Ruby, all’interno della quale si intravedeva il corpo del ragazzo ancora immerso in un profondo sonno. Sapphire rimase per qualche secondo attaccata al vetro, come una ventosa. Poi decise di entrare, contravvenendo a qualsiasi regola del buon senso ospedaliero.
«Dove vai?» le chiese Blue, allarmata.
«Devo restituirgli il favore» spiegò lei.
La ragazza si accostò al corpo del ragazzo, pallido e debole, in mezzo ai macchinari che lo tenevano in vita e alle garze che lasciavano cicatrizzare le sue ferite. Mise una mano sul suo petto, lasciandola passare sotto il camice.
A quel punto, si concentrò come meglio poté. Avvertì molte strane sensazioni imperversare contemporaneamente tra le sue sinapsi. Tra tutte, un forte sapore nostalgico. Ricordò dell’ultima volta che aveva tentato di fare la stessa cosa: erano passati più di sei anni. Eppure, ogni sua azione sembrava venir fuori in automatico.
Anche lei percepì l’immobilità dell’universo e chiuse gli occhi. Si sentì scomparire, frammentarsi in miliardi di particelle. Tornò immediatamente in sé, ricomponendosi alla perfezione.
«Sapphire...» mormorò Blue, alle sue spalle «che succede?»
«Ho appena ridato le gemme a Ruby» rispose lei, dopo una discreta attesa «per farlo guarire».
La ragazza riaprì gli occhi. Comprese di aver commesso un errore, di aver sbagliato qualcosa, di non aver fatto tutto in modo corretto. Sul corpo di Ruby non erano comparsi tatuaggi o linee blu e rosse, le gemme non erano entrate nel suo corpo.
Sapphire percepì nella mano qualcosa di liscio e compatto. Strinse il pugno ed estrasse il tutto dal camice di Ruby. Quando aprì la mano, ebbe un tuffo al cuore. Stava guardando due sassi, due sassi dalla forma prismatica irregolare e gli spigoli non smussati, con una leggera sfumatura blu e rossa che aleggiava al di sotto del loro normalissimo marrone argilloso. Le gemme si erano spente, lei le aveva appena cedute e Ruby era ancora in gravi condizioni.
«Oh no...» mormorò.
Da dietro, Green e Blue si avvicinarono, scattando in modalità allarme.
«No, cazzo!» esclamò Sapphire «No! No! No!»
Due medici, avendo notato l’intrusione, vennero a controllare la stanza del paziente.
 
“...la condizione è critica, ad Austropoli, dove il più articolato attacco terroristico degli ultimi anni tiene la popolazione in una morsa da ormai diversi giorni...” diceva la presentatrice del notiziario.
Sapphire stringeva i denti, piena di rabbia. Tutto il caos degli ultimi giorni sembrava essere scoppiato soltanto per prenderli in giro. Così, come un gioco malato gestito da folli divinità che provavano gusto nel farli impazzire. Poco prima, era stata cacciata dalla stanza di Ruby, il quale era ancora sotto sedativi dopo l’intervento. In mano, stringeva quegli inutili sassi con tanta forza da farsi male alla palma della mano. Accanto a lei, Blue e Green rimanevano impassibili, seduti su un divanetto, silenziosi, inerti.
I medici dicevano che Ruby si sarebbe svegliato a breve, ma avrebbe impiegato molto di più a riprendersi completamente. Ad ogni modo, nessuno sapeva più che strada prendere. Kalut aveva accennato di aver trovato qualcosa, sulle montagne, mentre il viaggio di tutti gli altri era risultato essere un buco nell’acqua, ma non aveva specificato ed era pure scomparso da un momento all’altro. Quell’essere era utile ma spaventosamente inquietante.
«Sapphire, che cosa è successo a te e Ruby?» chiese Green, ad un certo punto.
Blue sembrò tendersi verso il suo ragazzo, come a chiedergli di andarci piano con le domande, ma la ragazza di Hoenn non si curò di questo.
«Siamo arrivati sulla Vetta Lancia, il nostro viaggio non aveva portato a nulla» cominciò «siamo stati attaccati da un Allenatore, un ragazzo, avrà avuto la nostra stessa età. Prima ha tentato di farci uccidere dai suoi Pokémon, ma gli abbiamo tenuto testa. A quel punto, ci ha lanciato contro una granata...» concluse.
Blue e Green rimasero a bocca aperta dall’eccessiva semplicità della storia. Non riuscivano a credere che fosse veramente tutto lì.
«Nient’altro, davvero?» domandò Green, indelicato.
«Solo sangue e tanto dolore, non ricordo di aver provato un’agonia simile in tutta la mia vita» rispose Sapphire.
Blue lo aveva notato, la loro amica aveva un tono di voce differente rispetto ai loro incontri precedenti. Sembrava più fredda, più distaccata, più metallica. Come se fosse stata radicalmente cambiata dalla sofferenza.
«Avete qualche idea su chi potesse essere?» domandò Blue.
«Non so Ruby, ma io no...» fece lei «era vestito come un agente della Faces, ma ha detto di non essere più uno di loro» ricordò poi Sapphire.
«In che senso?»
«Non lo so e non mi interessa, non so da dove iniziare per cercarlo, forse dagli archivi degli agenti Faces, ma come ben sai sarebbe inutile bussare alla loro porta e chiedere di poter dare un’occhiata ai documenti riservati» concluse la ragazza di Hoenn.
«Ha ragione, dobbiamo concentrarci su ciò che Kalut ha trovato... se solo si prendesse la briga di spiegarci» fece Green.
Calò il silenzio tra i tre Dexholder. Nessuno sapeva come continuare la conversazione. Sapphire continuava a masticarsi il labbro per sfogare la rabbia, Green era solo impaziente per via di quell’ennesimo momento morto, e Blue sembrava combattere contro un suo forte istinto.
La ragazza di Kanto si sedette accanto all’amica di Hoenn, come per rendere più intima la loro conversazione. Quasi si vergognava di rivolgerle quella domanda.
«Sapph, il potere di quelle Gemme...» chiese, alludendo agli odiati sassi che l’amica stava stringendo in mano «avrebbe potuto fare qualcosa per Silver, Crystal o Emerald?»
Sapphire non fu felice di rispondere a quella domanda. Per diecimila motivi diversi, ma soprattutto perché tutto ciò che avrebbe voluto in quel momento era dimenticare ciò che di brutto stava accadendo ai suoi amici.
«No» mormorò «prima di tutto perché sono le Gemme a scegliere il corpo ospite e non il contrario. Con me e Ruby ha funzionato perché le avevamo già assorbite anni fa, durante la battaglia di Hoenn».
Blue annuì, perdendo già ogni speranza. Non che la faccenda avesse alcuna importanza, ormai.
In quel silenzio, con un sottofondo composto da voci di medici impegnati nel loro lavoro e altri rumori di ospedale, un amara sonnolenza scese sui tre Dexholder. Forse qualcosa sarebbe cambiato, forse sarebbero riusciti a salvare il mondo ancora una volta. Ma per il momento non era importante. Era difficile pensare al mondo intero, quando le loro stesse vite sembravano cadere come foglie di un albero in autunno, prive di vita, pietrificate.

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Capitolo 14
*** Capitolo 13: Lo stesso, solito posto ***


XIII
Lo stesso, solito posto
 
 
«Almeno tu sei sveglia, finalmente».
I tre Dexholder si voltarono, trovandosi davanti la figura di Kalut, provato dalla stanchezza ma neanche appena prossimo alla caduta. Sapphire sorrise appena al ragazzo, ma mantenne un certo distacco, come d’altronde tutti, nei suoi confronti.
«Dov’eri finito?» domandò Green, quasi indignato dal comportamento del ragazzo dai capelli bianchi.
«Cercavo di mettermi in contatto con Celia, immagino abbiate visto ciò che sta succedendo ad Austropoli» spiegò Kalut, sedendosi su una delle poltroncine.
I ragazzi annuirono.
«Ok, ad ogni modo, ora dobbiamo concentrarci sul nostro lavoro. Poi sarà il momento di aiutare i nostri amici. Potrei aver trovato la causa dell’inverno che sta congelando Sinnoh, dobbiamo tornare sul Monte Corona e fermare questa follia».
«Siamo tutt’orecchi» lo esortò Blue.
«Sarà difficile crederci, ma provate ad immaginare: la Faces ha costruito una macchina gigantesca che convoglia l’energia di centinaia di Pokémon di tipo Ghiaccio in un solo punto» cominciò lui.
«Una sorta di macchina del meteo?» chiese Sapphire.
«No» rispose Kalut «l’energia... criogenica, per così dire, viene convogliata verso un punto preciso, un luogo particolare che non pensavo esistesse, a dir la verità».
«Di che si tratta?»
«Il Nodo di Regigigas» pronunciò il ragazzo.
La teatrale rivelazione fu seguita da alcuni secondi di silenzio in cui ognuno fece mente locale all’interno della propria mente, cercando le stesse parole appena pronunciate da Kalut.
«Ne ho sentito parlare» intervenne Green «ma avevo cinque anni, era una delle favole che Margi mi leggeva prima di andare a letto» precisò, scetticamente.
«Ti ho detto che neanche io credevo a questa leggenda» si difese Kalut.
«Qualcuno può spiegarci?» si lamentò Sapphire.
Kalut si rivolse verso le ragazze «conoscete Regigigas? Il Gigante Leggendario che si dice abbia trainato tutti i continenti con delle funi?»
«Sì, c’è qualcosa del genere nel database del Pokédex» fece Blue.
«Beh, secondo questa sorta di interpretazione mitica della deriva dei continenti, ci sarebbe un centro, un punto in cui questo Regigigas deve aver puntato tutte le funi utilizzate per trasportare le terre, in modo da fermarle al loro posto: un nodo, appunto» spiegò Kalut.
«Stai scherzando?» chiese Blue.
Ancora una volta, Kalut percepì quel tono di voce scettico e infastidito di chi crede di star perdendo solo tempo.
“Quanto sono ottusi, quando vogliono” comunicò mentalmente a Xatu, che era lì appresso senza che nessuno fuorché lui potesse vederlo.
“Hanno visto di tutto e di più, durante le loro avventure, e faticano a credere ad una cosa tanto piccola...” lo appoggiò lui.
«No, non sto scherzando» rispose a Blue «so cosa ho visto e so che dobbiamo fare qualcosa e dobbiamo farlo tutti insieme, quindi appena sarà possibile voi verrete con me nel punto preciso dove io vi guiderò e distruggeremo la macchina che sta causando questa glaciazione» decise, ferreo.
«Come funziona esattamente la macchina?» chiese Sapphire, dando idea di credergli.
«L’energia criogenica di tutti quei Pokémon non basterebbe ad estendere il gelo per un territorio di centinaia di migliaia di chilometri quadrati, evidentemente, è il congelamento del Nodo ad esserne l’indiretta causa. Non so quale legge fisica o scientifica determini ciò, ma credo debba essere questo, a grandi linee, il suo funzionamento».
«Concentrano l’energia dei Pokémon Ghiaccio» comprese Sapphire «e automaticamente si diffonde l’inverno».
Il gruppo intero impiegò alcuni secondi per metabolizzare le informazioni. Era difficile accettare che qualcosa di simile stesse accadendo, anche per loro, che avevano lottato contro alieni, Pokémon Leggendari, strane creature di laboratorio e folli visionari.
«Dobbiamo aspettare che Ruby si svegli?» chiese Green, tradendo una scintilla di impazienza.
«Io non vengo senza di lui» sottolineò Sapphire.
«E’ importante che il gruppo rimanga compatto» sostenne Kalut.
 
Nelle ore successive, i quattro Allenatori tentarono di non impazzire. L’attesa li stava corrodendo lentamente, e non c’era nulla che potessero fare di più. Kalut uscì tre o quattro volte a fare ricognizione, riportando agli altri qualche dato a proposito degli agenti Faces che si erano appostati all’esterno dell’ospedale, nel tentativo di recuperare le tracce dei loro movimenti, Green e Blue provarono un innumerevole numero di volte a mettersi in contatto con Gold, Sapphire, ormai non più considerabile una paziente, girava per i corridoi in preda al nervosismo, tornando ogni volta a controllare la stanza di Ruby, in attesa di qualche segno vitale.
Era il primo pomeriggio, quando il sonno arretrato cominciò ad inghiottire uno ad uno tutti i membri del gruppo. Blue si ritrovò a tracannare caffè americano sciacquato di fronte alla macchinetta che era nella sala d’attesa, mentre qualche ragazzino che veniva in visita ad un parente malato dava segno di riconoscerla, in lontananza. Sapphire la fiancheggiò, inserendo a sua volta una moneta nel distributore automatico e premendo il tasto 7, corrispondente di un cappuccino, nome in codice di insipida brodaglia marroncina.
«Dici che Gold e Platinum sono ancora vivi?» chiese la ragazza di Hoenn, per rompere il silenzio.
«Ti prego, non voglio parlare di questo...» la supplicò Blue.
Sapphire non insistette.
«Mi sono rimessa con Green» disse invece la Dexholder di Kanto.
«Sì... lo avevo capito» Sapphire finse di possedere un’ombra di intuito femminile.
«Secondo te è sbagliato?»
«No, perché dovrebbe esserlo?»
«Non so, mi sembra... strano».
«Che vuoi dire?»
Sapphire non stava cercando il dialogo, non riusciva semplicemente a comprendere il linguaggio criptico di Blue.
«Abbiamo già fatto questa esperienza, in passato abbiamo già capito di non essere fatti l’uno per l’altra, ma abbiamo deciso di riprovarci. Ho paura che sia scaturito tutto dalla situazione di pericolo in cui siamo piombati, ho paura che ci stiamo utilizzando a vicenda come una sorta di isola felice in cui dimenticare per un secondo tutto il casino che c’è attorno» sciorinò Blue.
«Perché dovreste essere capaci di utilizzarvi a vicenda? Voi vi volete bene, anche senza essere fidanzati siete comunque degli ottimi amici» disse ingenuamente Sapphire.
«Hai ragione, non dovrei farlo. Ma Green mi dava quel senso di sicurezza che non avevo, lui era sicuro di sé, maturo, responsabile. Adesso, non so più di che cosa ho veramente bisogno».
«Se provi qualcosa per lui, dovresti tenertelo stretto anche se non è ciò di cui hai bisogno al momento».
«Tu fai questo con Ruby?»
«Certo, io non ho bisogno di lui» arrossì Sapphire.
«Ma cosa vado a pensare? Il vostro amore è la cosa più forte che esista sulla faccia della terra, non potrei mai mettermi a paragone» scherzò Blue.
Sapphire non seppe interpretare correttamente quella frase, restando indecisa sulla reazione che avrebbe dovuto avere.
A rompere il silenzio imbarazzante, fu la voce di Green, che le chiamò da lontano.
«Ruby è sveglio» disse, senza alzare troppo la voce.
Sapphire scattò immediatamente, lasciando Blue immobile come uno stoccafisso. La ragazza di Kanto sorrise e continuò a sorseggiare il suo caffè.
Il gruppo raggiunse la stanza in cui stava riposando l’ultimo Dexholder. Ruby li accolse con un accenno di sorriso privo di espressività, quasi finto. Era provato, ma non sembrava in condizioni pessime. Forse il suo organismo aveva trattenuto le gemme talmente a lungo da aver conservato un minimo del loro potere senza perderlo tutto d’un colpo.
«Ruby» esclamò Sapphire, gettandosi sul corpo del ragazzo.
«Come stai?» le chiese lui.
«Io? Che diavolo... tu, come... stupido, idiota» sorrise lei, mordendosi le labbra.
«Siamo felici che tu ti sia ripreso» intervenne Blue.
«Sto benissimo» il ragazzo alzò indice e medio della stessa mano, sul primo dito aveva un pulsossimetro che monitorava le condizioni del suo sangue.
«Non vorremmo subito gettarti le brutte notizie addosso, ma urge il nostro intervento al più presto possibile» esordì Green, indelicato.
«Lasciamolo riposare, per ora» si oppose Sapphire.
«No, lascialo parlare» la chetò Ruby, stringendole la mano.
Brevemente, al Dexholder venne spiegato tutto ciò che si era perso durante il suo periodo di degenza. L’intervento degli agenti Faces che avevano fornito a lei e a Sapphire un alibi, la scoperta di Kalut sulle vette nord del Monte Corona, la conversione delle Gemme in semplici sassi, la situazione di Austropoli che si trovava nella morsa di un attacco terroristico, il silenzio totale dei loro contatti con Gold, Platinum e Celia.
Ruby non mutò minimamente espressione durante tutta la spiegazione. Si lasciò andare ad un silenzioso sospiro solamente alla fine, quando fu sicuro di non dover ingoiare altre brutte notizie. Era fin troppo sano per essere uno che quella stessa mattina versava in condizioni abbastanza raccapriccianti, ma nei suoi occhi c’era la vacuità di chi si è reso conto che era meglio rimanere addormentato.
«Dobbiamo muoverci più velocemente possibile, giusto?» chiese solamente.
Green annuì, senza aprire bocca.
«Sapphire ci ha detto che cosa vi è successo sulla Vetta Lancia» cambiò argomento Kalut «abbiamo qualcos’altro su cui indagare».
«Avrei un paio di idee sul come iniziare...» mormorò Ruby.
«Ti lasciamo riposare, per ora» si congedò Blue, portando con sé Green e Kalut.
Sapphire rimase seduta accanto al ragazzo, attendendo che i tre amici li lasciassero da soli per qualche minuto. Seguì con gli occhi il loro movimento, fino a vederli sparire dietro la porta, allora incrociò lo sguardo di Ruby, lasciando che il silenzio prendesse possesso della stanza.
«Mi hai salvato la vita, di nuovo» disse lei, quasi sentendosi vulnerabile nell’ammetterlo.
«Ho fatto il possibile».
«Hai rischiato di morire».
«Tu stai bene».
«Sei un idiota» ripeté lei.
Ruby non volle replicare, neanche con ironia. Sembrò respirare con difficoltà per alcuni secondi, cosa che spaventò Sapphire. Lui scosse la testa e la portò verso di sé, cingendola con il braccio destro. Le poggiò le labbra sulla fronte, immergendosi nei suoi capelli. Lei tramutò quel contatto in un bacio, portandosi poco più su con il viso.
Sapphire riusciva quasi a percepire i pensieri del suo ragazzo, come se potesse leggerli nel suo sguardo. Lui avrebbe voluto lasciarla lì e andarsene da solo a risolvere i problemi del mondo, tenerla al sicuro, portare il peso dell’umanità sulle spalle. Ruby non era mai stato capace di condividere il dovere con qualcun altro, fondamentalmente perché non aveva tanta fiducia nelle persone rispetto a quanta ne avesse in se stesso. Eppure, si stava sforzando, tentava in tutti i modi di collaborare, di far finta di essere lo stesso di un tempo come se gli ultimi due anni non fossero mai passati, come se il suo gruppo non avesse mai troncato i contatti con lui, come se i loro sguardi non fossero ancora colmi di sfiducia.
«Ti ricordi della nostra folle idea di comprare un bungalow ad Orocea e vivere lì?» chiese ad un certo punto il ragazzo.
«Ruby! Avevamo quindici anni!» arrossì lei.
«Ci ho pensato» lui era serissimo.
Sapphire lo lasciò proseguire.
«Tu hai idea di quanto sia complicato vivere in un bungalow isolati da tutto e da tutti?»
«Era un’idea stupida, eravamo dei ragazzini» banalizzò lei, sbuffando leggermente.
«E poi tu non saresti capace di vivere stabilmente».
«Dovremmo pensare a qualcosa di più serio...»
«Dovremmo viaggiare» disse lui, lasciandola di stucco «ci sono duemila posti che voglio vedere almeno una volta nella vita, voglio vederli con te».
«Intendi dire...?»
«Intendo dire che appena tutta questa vicenda sarà terminata, io e te facciamo le valige e ce ne andiamo, non so per quanto, non so per dove, ma ci infiliamo in un aereo e mandiamo tutto a fanculo per un po’»
«Ti fermeresti ovunque a comprare roba inutile e costosissima» commentò lei.
«E tu faresti finta di arrabbiarti» sorrise lui.
Sapphire sorrise.
«Mi dai una mano ad alzarmi?» chiese il ragazzo.
«No, fermati, devi riposare...»
«Ti prego, Sapph, non ce la faccio a rimanere qui» riprovò lui.
La ragazza rifletté qualche secondo. Anche lei aveva fatto la stessa cosa, contravvenendo a qualsiasi indicazione medica che le era stata data, ma era ancora in possesso delle Gemme.
«Come ti senti?»
«Una pasqua».
Non c’era niente da fare, Ruby era deciso ad alzarsi dal lettino. Mise una gamba fuori, poi un’altra, si spostò goffamente, non potendo fare pieno affidamento sui suoi arti inferiori. Sapphire lo aiutò a scendere. Sentire il pavimento freddo sotto le piante dei piedi sembrò farlo tornare alla realtà. Stringendo con il massimo impegno la barriera che era al bordo del letto e retto dall’altro lato dalla spalla della ragazza, Ruby mosse un primo passo, poi un secondo, poi un terzo. Infine, fu costretto a tornare in posizione supina, lungo sulle lenzuola odorose di disinfettante.
«Non posso aspettare così tanto» concluse.
«Possiamo farlo, tu ti impegnerai al massimo per rimetterti in sesto, altrimenti ti trascinerò io fin lassù» contravvenne Sapphire.
«No, non capisci, anche rimettendomi in forze in... non so, una settimana... non riuscirò mai a imbarcarmi immediatamente per un viaggio fino alle cime più alte del Monte Corona, non ne sarei in grado».
Sapphire stava lentamente realizzando quanto avesse ragione.
«Ricordi cosa ci è successo sulla Vetta Lancia?» cambiò argomento Ruby.
«Il combattimento con quel ragazzo?» chiese lei.
«No, prima».
«Di che parli?»
«Era tutto stranissimo, la nostra presenza in quel luogo, sembrava... attesa».
Sapphire stentava a capire. Ciò che era avvenuto prima dell’arrivo del ragazzo vestito di nero, le appariva fumoso e onirico. Ricordava chiaramente ogni singolo giorno di viaggio, il cibo in scatola, i fuochi di fortuna, le notti nelle grotte, all’interno dei sacchi a pelo, poi incappava in una sorta di fitto nebbione che terminava solo con il combattimento e... l’esplosione. La sensazione era la stessa che provava quando tentava di ricordare un sogno, i pezzi c’erano, ma non combaciavano gli uni con gli altri, dando vita ad un disegno sfocato e incomprensibile.
«Ruby, siamo stati solamente pochi secondi da soli, lassù» precisò.
Ruby, concentrato, fissava un punto della parete che era di fronte a lui. I suoi ricordi erano sicuramente più nitidi, lui non aveva rimpiazzato quella sezione della sua memoria con una piacevole esperienza di agonia molto vicina alla morte.
«Era tutto così strano, una sensazione diversa dal solito» rievocò Ruby «come se non fossi veramente lì».
Abbandonarono rapidamente l’argomento, d’altronde non era poi così importante. Sapphire lasciò la stanza poco dopo, lasciando il ragazzo a riposo. Aveva bisogno di confrontarsi con gli altri a proposito del da farsi, la faccenda diventava via via più complicata, rimuginandoci continuamente sopra.
 
Ruby era solo, uno dei medici al primo anno si era accertato che le sue condizioni fossero stabili, poi lo aveva lasciato a riposo. Negli occhi dello specializzando, aveva intravisto il disprezzo. Ma era sempre così, i lavoratori lo giudicavano, perché lui guadagnava grazie alla sua faccia, al suo nome, alla sua presenza in televisione. In una condizione simile, poi, dove i medici gli avevano salvato addirittura la vita. Nessuno di loro lo avrebbe dimenticato, rinfacciandolo a chiunque accennasse alla minima ammirazione nei confronti di Ruby. Poteva aver salvato persone, città, regioni. Rimaneva comunque un fenomeno da rivista.
Aveva avuto due anni di tempo per imparare a ignorare questa sensazione.
Ruby si allungò verso la sua borsa, che era stata poggiata accanto al suo letto, logora e rovinata, dopo le sue mille disavventure. Ne estrasse il cellulare e lo accese, ricevendo tutte le notifiche che in quei cinque giorni non erano riuscite a raggiungerlo. Lesse qualche articolo a proposito della situazione di Austropoli: erano tutti sullo stesso tenore, parlavano tragicamente della città più grande di Unima che era stata presa in ostaggio dai terroristi. Una intera città, una maledetta intera città.
Poi sorvolò sulla roba inutile: messaggi del suo agente, di qualche collaboratore all’HC One, di un paio di tizi del marketing, dei soci con cui aveva aperto la label, degli sponsor per l’atelier. Lesse con attenzione quelle due comunicazioni di servizio provenienti dalla Lega. Rispose ad Orthilla, che si era preoccupata per lui, dalla lontana Hoenn.
“Sto bene, stiamo lavorando per sistemare le cose qui a Sinnoh”.
Informale, magari anche banale, sicuramente falso, ma tanto quella ragazza baciava il terreno su cui Ruby metteva i piedi, avrebbe tentato di nuovo di contattarlo.
Infine, il ragazzo aprì la rubrica e cercò un numero, cliccò sul tasto chiamata. L’attesa durò una manciata di secondi.
«Ruby, che succede?» rispose una ragazza, dall’altra parte.
«Esther, ho bisogno di farti un paio di domande» spiegò il ragazzo.
La Superquattro di Hoenn si fece più interessata. I due non erano in rapporti particolarmente stretti, la presenza di Ruby a Iridopoli era rara e spesso innecessaria. Eppure, Esther aveva conosciuto il ragazzo molto tempo prima che questi indossasse il mantello del Campione: Esther era la nipote dei due anziani che avevano custodito le Gemme di Groudon e Kyogre fino all’arrivo di Max e Ivan, molti anni prima. Dopo la morte dei due nonni, lei era rimasta l’unico punto di riferimento a proposito di tale faccenda.
«Mi è successa una cosa particolare, potresti saperne di più...» esordì il ragazzo.

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Capitolo 15
*** Capitolo 14: La cena del cameriere ***


XIV
La cena del cameriere
 
 
Blue si svegliò di soprassalto. Aveva di nuovo sognato Vivalet. E anche Porto Alghepoli. Tutto insieme. Nel sogno, si trovava all’interno di un aereo che sorvolava una città, completamente inerme di fronte alla scena di cui aveva uno scorcio dal suo finestrino: l’enorme corpo di Rayquaza stava devastando palazzi e quartieri, stritolando edifici nelle sue spire e spazzando via intere strade con i suoi attacchi. E lei era immobile, limitata, in gabbia.
Green sembrò avvertire il movimento di Blue e aprì gli occhi ancora appesantiti dal sonno.
«Che succede?» le chiese.
«Nulla, è tutto ok...»
«Hai gli incubi?»
«Sì» rispose lei con un filo di voce.
«Da quanto... da quanto tempo non prendi le pillole?»
Blue si concesse una pausa di qualche secondo, prima di rispondere «quattro mesi».
«E’ la quinta volta in due giorni, che non riesci a dormire» si lamentò Green.
Il sonno che ancora lo annebbiava lo rendeva meno controllato e più diretto, nel manifestare i propri pensieri.
«Non voglio tornare a ingozzarmi di quella roba».
«Lo so, lo so... vieni qui, cerca di toglierti i brutti pensieri dalla testa» la supplicò Green, invitandola a sdraiarsi tra le sue braccia.
«Ok».
Blue si stropicciò gli occhi con il polso, accoccolandosi contro il petto del suo ragazzo. Tentò di chiudere gli occhi, di spegnere il cervello, ma tutti i suoi tentativi erano vani. Le grida agonizzanti delle persone, i ruggiti acuti del dragone, gli spaventosi crepitii del cemento.
Era tutto ancora lì.
 
Dal tetto dell’ospedale di Rupepoli, era possibile osservare tutte il candido panorama invernale circostante senza essere ostacolati da palazzi, grattacieli o torri. La città sorgeva su quell’altipiano geometrico e regolare, diverso dalla conformazione di tutta l’area montuosa circostante, irta di strapiombi, gole e insenature. Nell’aria gelida, quel panorama sembrava venir fuori da una cartolina, oppure da un wallpaper predefinito di un telefono Android.
«Penso sia il caso di pensare ad un piano B» propose Kalut.
“A proposito di?” chiese Xatu.
Il ragazzo detestava quelle domande idiote. Quello Xatu viveva sulla terra da migliaia di anni, aveva accompagnato l’umanità fin dal principio, poteva vedere contemporaneamente passato, presente e futuro... eppure si ostinava a far finta di non sapere come la conversazione sarebbe continuata, chiedendo precisazioni e ponendo domande, solo per far sentire a suo agio il suo protetto. Certo, una volta riflettuto su questo, Kalut iniziava a sentirsi stupido per essersi infastidito, Xatu gli stava facendo un favore, sarebbe stato strano parlare con un totem onnisciente che non può far altro che approvare e dare opinioni, poiché vede la realtà come fosse un film che conosce già a memoria.
«A proposito di Austropoli» precisò Kalut.
“Quante ne vuoi risolvere?”
«Tutte quelle possibili».
“Ricordami per quale motivo stai combattendo per questa causa tanto strenuamente, quando ti ho incontrato, un anno fa, stavi benissimo anche senza doverti immischiare in queste faccende”.
«Ero... era...»
Kalut non riuscì ad andare avanti.
«Maledizione, che domanda è? Dovrebbe farmi riflettere? Tu sai già tutto, non hai bisogno di chiedermelo» era infastidito.
“E’ qui che ti sbagli” quando lo correggeva, Xatu alzava il becco verso l’alto, era come un gesto di vanità “io conosco ciò che vedrò nel mio futuro, ma non significa che io abbia già previsto tutto ciò che farò nei prossimi anni, giorno per giorno, ora per ora”.
«Nel senso che, se non avessi fatto questa domanda...»
“Non l’avrei mai saputo” se fosse stato capace di parlare con il becco e non solo tramite la telepatia, si sarebbe schiarito la gola, “nel momento in cui decido di farti una domanda, non sto seguendo un copione. Io conosco la data della tua morte, Kalut, so cosa succederà ai tuoi amici in qualsiasi giorno della loro vita, so come sarà la terra tra trecento anni e chissà se sarò ancora qui, per quel momento... tuttavia, se non sono a conoscenza di un tuo pensiero e ti chiedo di illuminarmi, significa che non so ancora cosa stai per rispondermi, poiché non faceva parte del piano” sciorinò l’entità.
«Assurdo» commentò Kalut, che faceva sempre più fatica a capacitarsi dell’esistenza di quel Pokémon.
“La cosa ti stupisce?”
«No, mi rende solo più dubbioso» il ragazzo scuoteva la testa, strofinando il collo con la sciarpa che lo avvolgeva «insomma, da dove diavolo vieni, tu? Chi ti ha creato, ammesso che qualcuno lo abbia fatto? Chi ha elaborato questo disegno di cui parli? E perché hai scelto proprio me, come tuo protetto?»
“Come ti ho già spiegato, non esiste una risposta a tutto. O meglio, tutte le risposte esistono, ma alcune sono troppo lontane per essere raggiunte, anche per uno come me” spiegò lui “a proposito della mia origine, neanche io ne sono così sicuro, a dire il vero, ma sono certo che il disegno che io posso vedere realizzato nel futuro non è frutto di creazione o predestinazione, soltanto del semplice rapporto causa-effetto delle cose che sceglie di concretizzarsi in una via precisa piuttosto che nelle infinite alternative. Perché ho scelto te, beh, non è stata una scelta dettata dal caso. Un essere come te non nasce certo tutti i giorni. Ho sempre accompagnato uomini eccezionali nella loro vita, più e più volte nel corso dei secoli, ma tu sei il primo che riesce ad essere addirittura imprevedibile, per esasperare un po’ il termine”.
«Perché sono stato creato in laboratorio?»
“No, conosco altri esseri creati in laboratorio come Mewtwo o molti altri Pokémon artificiali e nessuno di loro è come te”.
«In che senso?»
“Tu sei stato creato in una provetta, ma non sei solamente figlio della scienza”.
«Sono anche figlio della fortuna?»
“Una specie” rise il Pokémon “è come se le tue azioni non seguissero perfettamente il disegno, come se tu fossi capace di modificarlo, senza riscriverlo completamente. In poche parole, se scoprissi da un momento all’altro che tu fossi dotato di un’onniscienza addirittura superiore alla mia e mi stessi ingannando dal primo momento, non mi stupirei”.
Kalut rimase stupito da quell’affermazione. Le cose erano due: o l’uomo, nel caso specifico Leonard Roland, creatore di Luna, lui e Zero aveva finalmente spodestato le divinità, con la sua invenzione, o qualche entità suprema aveva lanciato su di lui una benedizione... oppure Xatu era un buffone ridicolo.
“In ogni caso, non hai risposto alla mia domanda, perché fai tutto questo per loro?”
Kalut sembrò rovistare in un archivio mentale, temporeggiando per rispondere.
«Potresti direttamente leggerlo nel mio pensiero» rispose Kalut.
“Non leggo il tuo pensiero da mesi, ormai, sei molto più interessante se non so cosa hai in mente, anche perché i tuoi ragionamenti sono davvero astrusi” ribatté il Pokémon.
Kalut rise.
«Non so perché abbia preso a cuore questa causa... forse per analogia con il mio fratello artificiale, Zack. Oppure perché i membri della Resistenza mi avevano cercato per molto tempo e mi sembravano convincenti. Io volevo solamente divertirmi» si fermò per qualche istante «trovi che questa risposta sia banale?»
“Trovo che sia finta, evidentemente anche tu stesso devi ancora indagare a fondo nel tuo animo”.
«Non puoi aiutarmi, leggendolo tu stesso?»
“Sai bene che la telepatia non funziona così, i telepati non sono psichiatri due-punto-zero”.
Kalut non era deluso dalla risposta, scrollò le spalle e se ne fece una ragione.
«Comunque mi hai fatto riflettere, con quello che hai detto prima».
“A cosa ti riferisci?”
«Al concetto della tua onniscienza limitata».
“Limitata dalle mie scelte”.
«Potrei aver avuto un’idea grandiosa» esclamò, recuperando un po’ di entusiasmo.
 
«Ti stai riprendendo velocemente» notò Sapphire, concedendo a Ruby gli unici occhi dolci che mostrava una volta ogni sette anni.
«Forse il mio corpo è un po’ mutato, dopo aver tenuto le gemme per tanto tempo» ipotizzò lui, come fosse la cosa più normale del mondo, poggiando sulle coperte il libro che stava leggendo e togliendo gli occhiali che correggevano la sua vista ipermetrope.
Sapphire, nonostante lo preferisse senza, voleva bene a quegli occhiali. Le ricordavano tutti quei momenti in cui aveva osservato Ruby intento nei suoi lavori di sartoria. Quella che era rimasta per lei una fatica frustrante e incomprensibile, per lui sembrava la quintessenza dell’arte manuale. E i risultati si erano manifestati: i lavori partoriti dal suo lavoro erano stati apprezzati dai migliori critici e acquistati dalle maggiori etichette, portandolo alla decisione di fondare un proprio atelier ed affermarsi anche come stilista.
«Come stai?» chiese lei, pensando in ritardo a quante volte quella domanda gli fosse stata fatta nelle ultime ore.
«Credo di poter camminare» rispose Ruby.
«Davvero?»
«Sto bene, sul serio, dovrei riuscirci».
«Ok».
«Ok?»
«Ok».
Ruby sospirò, tamburellando con le dita sulla copertina di “Mr. Vertigo” che stava leggendo.
«Che succede?» le chiese dopo un interminabile silenzio.
«Niente» rispose lei, mordendosi l’interno della guancia e preparandosi alla prossima domanda.
«Sapph, non farmi insistere».
«No, insisti» fece lei a mezza bocca.
«Dimmi che hai» ripeté allora Ruby.
Sapphire lo guardò, con le labbra serrate.
«L’incidente deve aver fatto qualche danno che i medici hanno dovuto riparare».
Ruby la osservò coprirsi il ventre con la mano ed evitare il suo sguardo fisso negli occhi. Aveva già capito prima che Sapphire aprisse bocca.
«Dicono che non potrò avere figli».
Ruby non reagì immediatamente. Le prese la mano, la strinse, attese che l’atmosfera pesante che si era creata si diradasse naturalmente.
Poi mise anche la sua mano sull’addome di Sapphire, che la scansò subito, quasi ne avesse vergogna.
«Sai che la gravidanza fa ingrassare tantissimo?» esordì poi «e che le donne hanno un ormone particolare che le aiuta a dimenticare il dolore del travaglio per evitare di fermarsi al primo figlio?»
Ai lati della bocca di Sapphire nacquero due timide curve.
«Durante il parto c’è la possibilità di... inconvenienti, per così dire, intimi... capisci cosa intendo?»
La ragazza chiuse gli occhi, non potendo nascondere il sorriso.
«E le smagliature, il rischio di trombosi, l’astinenza da sesso, cibo crudo e alcool... potrei continuare tutto il giorno» sciorinava Ruby.
«Basta, ho capito» lo interruppe lei, agitando la mano.
«Non credo che tu valga meno per questa stupida ragione» concluse lui, con tono rassicurante.
Sapphire non seppe come reagire. Trovò strane le parole dette da Ruby, poco rassicuranti, benché positive. Volse lo sguardo altrove, sforzandosi mentalmente di trovare un altro argomento di conversazione. Avvertì la mano di Ruby avvicinarsi alla sua e stringerla affettuosamente. Lei vi affondò le unghie. Era il suo modo di fare, lo faceva quasi inconsciamente quando si sentiva a disagio.
«Vado a mangiare qualcosa» si congedò poi la ragazza.
«Non chiedi al malato se ha voglia di qualcosa?»
«No, la colazione te la portano le cameriere, non io» si chiuse la porta alle spalle.
Ruby sorrise, guardandola attraverso il vetro mentre si dirigeva a grandi falcate verso la caffetteria, sbagliando direzione e tornando sui suoi passi subito dopo.
Con un tempismo invidiabile, il cellulare di Ruby vibrò per un secondo. Lui lo prese e sbloccò lo schermo, leggendo il messaggio ricevuto.
 
Ho riunito quasi tutti, inizio a pensare che il tuo piano non è poi tanto male.
 
Ruby sussurrò un “perfetto” tra sé e sé, mettendo da parte il telefono.
Quindi portò le gambe fuori dal perimetro del letto, tentando di riprovare a camminare. Toccò il pavimento con un piede, poi con due. Si rese conto di fare più fatica del previsto. Mosse un passo, due passi, tre passi. Riuscì a raggiungere la maniglia della porta del bagno, la fece girare fino a percepire lo scatto del meccanismo. Entrò. Si nascose lì dentro per qualche minuto, recuperando il fiato che gli era venuto a mancare. Doveva rimettersi in sesto, c’era bisogno di lui, doveva rimettere a posto il suo mondo.
Dopo ciò che era successo con la Faces, nei due anni precedenti, aveva perso ogni speranza di ritrovare i suoi amici. E invece, i fatti erano andati diversamente. Sapphire lo aveva di nuovo accolto tra le sue braccia, gli altri Dexholder avevano ripreso a parlargli come un amico, o quasi. Allora era sorto il dubbio più grande: era veramente stato costretto a prendere le parti del nemico? Era davvero stato portato su quella via dal loro ricatto? O era diventato ciò che era diventato per la propria egoistica soddisfazione?
Forse non avrebbe mai trovato la risposta.
Durante il periodo di solitudine in cui la morte dei suoi genitori e il conseguimento della fama lo avevano catapultato, aveva maturato l’idea che i suoi amici fossero uniti solamente nel momento del pericolo. Red, Green e Blue non si sarebbero incontrati e non avrebbero fatto squadra, se non per combattere il team Rocket; Yellow non sarebbe mai stata accolta, se non avesse deciso di partire alla ricerca di uno scomparso Red; Crystal, Silver e Gold non avrebbero mai fatto amicizia, neanche se fosse comparso Arceus in persona davanti ai loro occhi, e in effetti era andata proprio così. Lui non avrebbe mai conosciuto Sapphire, se non fosse scappato di casa, se non si fossero ritrovati a lottare contro il Team Idro e il Team Magma. Stesso ragionamento per Emerald, con Guile Hideout.
Le loro vite erano come dei film: dei ragazzi che non c’entrano nulla l’uno con l’altro si erano ritrovati a collaborare o a concorrere perché a qualcuno era venuto in mente di distruggere il mondo. Le loro affinità elettive erano subentrate in un secondo momento, quando ormai si conoscevano tutti troppo bene per non andare d’accordo, si erano salvati più volte la vita a vicenda, mettendo a rischio la propria.
E poi? E poi il film era finito, il nemico era stato sconfitto, lo schermo era diventato nero ed erano iniziati i titoli di coda. E di loro cosa sarebbe rimasto? Non si sa mai come continua la vita dei personaggi di un film, dopo la fine.
Una volta qualcuno aveva detto che l’unico senso della vita è proprio quello di trovare un senso alla vita. Loro lo avevano trovato, erano nati, cresciuti e vissuti per salvare il mondo. Emerald era anche morto, provandoci. E allora, una volta che il mondo fosse stato finalmente in salvo? Che cosa avrebbero dovuto farsene?
In quel momento, c’era bisogno di lui. Probabilmente sarebbe riuscito ad uscire vincitore anche da questa guerra condotta contro un nemico che sembrava invincibile. E poi? Cosa sarebbe successo?
Ruby fissava le proprie iridi vermiglie nello specchio. Se avesse smesso di stritolare il lavabo, molto probabilmente lo avrebbe distrutto, spaccandosi completamente le dita e le nocche.
Aveva voglia di organizzare una cena, una maledetta cena con i suoi amici, priva di piani malvagi, folli mitomani, pazzi conquistatori, dei leggendari e altre stronzate. Voleva un pezzo di quella noiosa normalità di cui tutto il mondo moderno sembrava avere paura. Era veramente questo che voleva? Riuscire a svegliarsi la mattina in un letto decente, non in un sacco a pelo infangato. Andare al lavoro, non a fermare un cataclisma. Fare dei figli, non allenare dei Pokémon per combattere contro il mostro di turno. Era il suo reale obiettivo?
Sarebbe mai riuscito a vivere senza guerra?
 
«Kalut mi ha contattato, vuole vederci al più presto» disse Green, asciugando i capelli castani con l’asciugamano bianco fornito dal B&B.
«Va bene» rispose Blue con aria assente, senza staccare gli occhi dal televisore.
Green notò la sua mancanza di attenzione. La ragazza aveva dormito poco e male, aveva fatto la doccia prima del suo uomo, si era messa un maglione dal volume abbondante e dei jeans scoloriti. Non aveva ricomposto la valigia, tanto sarebbero dovuti rimanere lì finché Ruby non si fosse rimesso. Fissava lo schermo del piccolo televisore sintonizzato sul telegiornale nazionale, ascoltando l’audio ovattato e giocando con un ciuffo di capelli bagnati che sfuggiva all’abbraccio dell’asciugamano che aveva messo in testa a mo’ di cuffia. Sedeva a gambe incrociate, il suo sguardo era vacuo, disperso.
Green l’avrebbe fotografata in quella posizione, con quella luce. Ma Green non era un artista. O almeno, non aveva mai scoperto di avere tale sensibilità. Quindi si limitava a pensare a che cosa potesse mai affliggere l’animo della sua donna, senza soffermarsi ad osservare la sottile bellezza dell’angoscia che le gettava un’ombra sul volto. Le venne in mente di rassicurarla, di dirle qualche parola dolce, di condividere il suo dolore. Le immagini di Austropoli ridotta alla legge marziale e segregata dal blocco terrestre e navale erano impressionanti, era incredibile pensare che stesse succedendo tutto ciò nella vita reale.
«Finisci di prepararti, dobbiamo muoverci» fece Green.
Blue, restia, scese dal letto e si chiuse in bagno. Dopo qualche secondo, si udì il phon entrare in funzione. Green rimase solo, al centro di quella stanza. Non aveva nulla da fare. E lui era uno di quegli uomini che necessitava di qualcosa da fare. Sempre. L’attesa lo corrodeva come un acido potente e inarrestabile.
 
Dall’altra parte dell’universo, un cellulare vibrava. Il cellulare si trovava in una tasca, la tasca apparteneva ad un paio di pantaloni cargo, i pantaloni cargo erano indossati da una ragazza dai lunghi capelli biondi legati in una sobria coda. Si trovava a Porto Alghepoli, all’interno della Zona Safari, stava medicando attentamente le ferite di un Linoone, tentando di disinfettare la ferita nascosta tra il suo pelo setoso.
Yellow aveva trovato il modo di occupare le sue giornate, evitando di vivere in quel malinconico ospedale, di fronte al muro del silenzio di Crystal e al sonno comatoso di Silver. Si era proposta come curatrice e medicatrice dei Pokémon del safari, aveva già fatto molta esperienza in quel campo e, sebbene i suoi poteri non fossero sempre efficaci come un tempo, aveva discrete capacità mediche e veterinarie e un buon curriculum a dimostrarlo. In quel modo, riusciva a pagarsi il soggiorno e a non dover passare ore e ore a fissare il vuoto, ponendosi domande alle quali non avrebbe trovato risposta e tentando di sorridere allo specchio.
Rispose al saluto del ragazzo che lavorava nell’interno, del quale non ricordava esattamente il nome, tanto era numeroso il personale di quel luogo, che ogni volta aveva il brutto vizio di studiarla in ogni suo particolare, soffermandosi sui suoi zigomi pronunciati e ben modellati o sul suo fondoschiena alto atletico. Dipendentemente dal punto di vista. Non le dava fastidio, semplicemente, non si curava di lui. Insomma, era appena uscita da una storia con Red, il Campione di tutto il mondo, non era pronta per posare gli occhi su altri ragazzi. Che poi, neanche era tanto sicura di essere uscita, da questa storia. Si erano lasciati? Si erano dati una pausa? Certamente, la sua situazione non era delle migliori. Lui aveva un problema, ma lei era l’unica a saperlo, Gold l’unico ad averlo scoperto.
Il telefono vibrò di nuovo, questa volta Yellow decise di posare disinfettante e tamponi, togliere i guanti e andare a vedere chi fosse a cercarla. Era da qualche giorno che stava nella quasi totale solitudine, non le avrebbe fatto male parlare con qualcuno.
Trovò due messaggi:
 
Yellow, sono Kalut
 
Ho bisogno di parlarti di persona, stasera mi troverò nei pressi dell’ospedale di Porto Alghepoli
 
Niente di nuovo, niente di che.
Rimase un po’ delusa, aveva sperato si trattasse di uno dei suoi amici, ma era impossibile, loro avevano cose più importanti da fare. E poi, non era neanche sicura di sapere se la odiassero o no, dopo averli deliberatamente abbandonati nel bel mezzo dell’azione, durante le vicende di Zero.
Digitò un ok e spedì. Almeno quella sera avrebbe potuto parlare con qualcuno che non fosse il suo collega di lavoro della Zona Safari o il medico dei suoi amici della terapia intensiva. Lavò le mani, indossò un altro paio di guanti e si rimise a lavoro.

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Capitolo 16
*** Capitolo 15: La nottola di Minerva ***


XV
La nottola di Minerva
 
 
Il bar in cui Kalut aveva chiesto a Green e Blue di farsi vivi era un piccolo e discreto chioschetto all’angolo tra la via principale di Rupepoli e la strada che andava verso il mare, a nord. Quando entrarono nel locale, nessuno li riconobbe, imbacuccati com’erano nelle loro sciarpe. Una campanella segnò il loro ingresso e attirò verso di loro l’attenzione dell’uomo che era dietro al bancone, che sfoderò un luminoso sorriso.
«Salve, viaggiatori, accomodatevi pure» pronunciò quello, agitando sinuosamente i suoi folti baffi grigiastri.
Green e Blue si sentirono a disagio. Si erano abituati ai gelidi approcci della gente del nord, Sinnoh non era certo famosa per il suo calore umano. Tuttavia non disdegnarono l’idea di sedersi ad un tavolo e ordinare qualcosa di caldo e rinvigorente. Green prese un tè nero, Kalut una tisana allo zenzero e Blue un vin brule’ con una fetta di crostata. I primi due si scambiarono un’occhiata di disapprovazione per commentare l’ordinazione della loro compagna.
«Come sta Ruby?» chiese dopo alcuni minuti Blue, per rompere il silenzio.
«Le sue condizioni migliorano rapidamente» rispose Kalut.
«Riuscirà a venire con noi sul Monte Corona?»
«Probabilmente no, ma non escludo di potermi far venire in mente qualcosa».
«Ad ogni modo, andiamo al sodo, cosa vuoi dirci, di tanto urgente?» tagliò corto Green.
«Stasera io non sarò qui» introdusse Kalut «ragion per cui, voi dovrete sorvegliare l’ospedale, tenendo d’occhio gli agenti Faces che sono nei paraggi, preferirei liberarmene, ma sarebbe inutile, tanto non potremo muoverci da lì per un po’».
«Dove sarai?» gli chiese Blue.
«Sto andando a parlare con Yellow, intendo ritrovare Red».
Quel nome fece scendere il gelo tra i tre ragazzi, paralizzando la conversazione. Il loro amico se ne era andato senza dir niente a nessuno, giorni prima, abbandonandoli nel bel mezzo del casino di Holon, senza alcuna ragione. Poi, convocando una conferenza stampa, aveva dato le proprie dimissioni dalla carica di Campione dell’Altopiano Blu, scomparendo anche agli occhi dei giornalisti. Si era persa di lui qualsiasi traccia, fino al misterioso ritorno di Yellow.
«Non ha detto niente a noi, dubito che vorrà anche solo parlarti» sottolineò Blue, con velata frustrazione.
«Non ne sono così sicuro» ribatté Kalut.
«Come mai ti interessa Red, improvvisamente?» domandò Green.
«Sarebbe inutile fingere che io sia interessato alla coesione del gruppo?» postulò il ragazzo dai capelli bianchi. Green e Blue annuirono.
«Credo che lui sappia qualcosa più di noi» spiegò.
«Sulla Faces?»
«No, non avrebbe avuto una reazione tanto drastica da abbandonare i suoi amici» rispose Kalut.
«E su che cosa, allora?» chiese Blue.
«Su coloro che stanno giocando a farci lottare con la Faces» pronunciò.
Per la seconda volta, la temperatura scese drasticamente, nei pressi del loro tavolo.
«Di che cosa stai parlando?» il tono di Green era greve e cavernoso.
«Credo di aver iniziato a vedere il grande disegno di ciò che stiamo attraversando» cominciò Kalut «credo che il nostro principale nemico non sia la Faces in sé, quanto qualcuno che la sta manovrando... utilizzando come specchietto per le allodole».
Blue e Green continuavano a non capire, fissandolo con la bocca semi aperta e lasciando freddare le loro bevande, delle quali si erano del tutto dimenticati.
«Ciò che sta accadendo è fin troppo strano, la strage di Vivalet, l’attacco alla sede di Porto Alghepoli» elencò.
«Quelle vicende erano legate a Zero, lo abbiamo già appurato» lo confutò Green.
«E’ come se qualcuno lo avesse lasciato agire, non sono pienamente convinto del fatto che la Faces abbia davvero tentato di ostacolarlo...»
«La Faces lo ha ingannato, lo hai detto tu» riprovò Green.
«Appunto, che motivo avrebbe avuto di lasciare che succedessero tutti quegli incidenti, oltre alla propaganda del terrore? Non avrebbero rischiato e speso meno energie se avessero tentato di fermare Zack in gran segreto?»
«Effettivamente, alla fine Zero è riuscito ad attirare le indagini e i sospetti su di loro, abbattendo il palazzo Faces, era questa la sua strategia» confermò Blue.
«Non è solo questo, comunque: la glaciazione a Sinnoh è iniziata in perfetta sincronia con la fine degli eventi di Holon, l’attacco terroristico di Austropoli ha bloccato la città nel giorno stesso in cui Gold, Celia e Platinum vi hanno messo piede... per indagare sulla Faces».
Nei ben oliati meccanismi del ragionamento di Kalut, tutto sembrava combaciare, la sua logica asimmetrica e la sua intuizione laterale erano il filtro perfetto da cui osservare il complesso disegno della realtà.
«Pensi che qualcuno ci stia... mettendo nei guai di proposito?» chiese Blue, senza riuscire a trovare un’espressione migliore.
«Esatto, per questo, ipoteticamente, Red avrebbe abbandonato questa crociata del buon senso, che porta il vostro gruppo a risolvere qualsiasi problema si presenti sulla strada».
«Per non sottostare al giogo di questa operazione di depistaggio» continuò Green.
«A questo punto ho iniziato a chiedermi che cosa lo avesse spinto ad andarsene senza dirvi niente» continuò Kalut. «Se avesse conseguito una tale realizzazione, l’avrebbe di certo condivisa con voi. E invece se n’è andato, nel silenzio totale».
«Conoscendo bene Red, ci sono due possibilità» aggiunse Blue.
Kalut, conscio di poter apprendere qualcosa in più per la sua indagine, si mostro interessato e attento.
«O qualcosa ha suscitato il suo entusiasmo per le Lotte Pokémon» propose Blue, ricordando la volta in cui il loro amico si era ritirato in solitudine sul monte Argento con il solo scopo di allenarsi. «Ma la vedo difficile, vista la situazione critica».
«Oppure?» chiese Kalut, scartando quasi a prescindere questa prima opzione.
«Oppure è venuto a conoscenza di qualcosa... tanto orribile da non volerlo condividere con noi».
«In che senso?» chiese il ragazzo, cercando anche il contributo di Green.
«Sarebbe tipico delle persone come lui, trovarsi davanti ad un problema talmente grande non poterlo scaricare sulle spalle degli altri, portandolo solo sulle proprie» aggiunse il Capopalestra.
«Quindi i miei sospetti erano giusti, Red potrebbe aver trovato la chiave di volta di questa crisi?»
I due annuirono simultaneamente.
«E deve trattarsi di qualcosa di veramente grande, che intende risolvere da solo» continuò.
«Più che altro» lo corresse Blue «qualcosa che deve averlo toccato nel profondo, scoprendo il suo lato vulnerabile».
 
Sapphire girava da quasi mezz’ora per i corridoi del reparto maternità. Peregrinando, seguiva le urla più fastidiose e gli odori più nauseabondi come una falena attratta dalla luce. Sperava di rimanere traumatizzata da qualche scena turpe e terrificante, alla fine i bambini fanno abbastanza schifo, c’è da dirlo. Quel suo inquietante tour l’aveva portata a vedere cose che non si sarebbe mai aspettata esistessero. Aveva realizzato, appuntandoselo mentalmente, che la cosa che trovava più rivoltante era il pezzetto di cordone ombelicale che veniva lasciato attaccato all’ombelico anche dopo il taglio, le sembrava un parassita che stava entrando o uscendo da quei viscidi corpi ospitanti. In seconda posizione c’erano ovviamente i bambini appena nati per parto naturale, grinzosi e deformi da sembrare cuccioli di carlino. In terza, le agghiaccianti e demoniache grida delle mamme in travaglio. Avrebbe accettato di non potersi arrampicare sugli alberi per nove mesi, ma avrebbe preferito la morte a tutte quelle ore di tortura in attesa che un coso uscisse fuori da quella che lei reputava la sua zona più delicata e intoccabile. Aveva già fatto tanta fatica per prendere confidenza col sesso, le prime imbarazzanti volte con Ruby l’avevano segnata nel profondo, tanto da portarla a invidiare quella sicurezza sfacciata che avevano le modelle con cui il ragazzo aveva iniziato a lavorare, una volta divenuto stilista.
Si rese conto che il suo piano stava funzionando: lentamente, stava sempre più convincendosi che ciò che le era accaduto non era poi tanto negativo. Sarebbe riuscita a condurre una vita dignitosa sebbene priva di gravidanze. E questa realizzazione era arrivata appena in tempo, i medici avevano iniziata a guardarla strano, dopo averla vista passare per la quindicesima volta. Forse iniziavano a sospettare che non fosse lì per assistere una qualche parente, era troppo interessata a sbirciare nelle sale altrui.
Fece ritorno in modo discreto verso la stanza di Ruby, cercando di non dare ulteriori fastidi. Entrò e vide immediatamente il letto vuoto, con le lenzuola in disordine. Si guardò attorno, senza individuare il ragazzo. Mosse due passi verso la porta del bagno, a quel punto certa di trovarlo lì, e udì uno strano suono provenire dall’interno. Sembrava un lamento, ma sarebbe potuto essere anche una sorta di gemito. Con un misto di vergogna e paura, spalancò la porta, irrompendo nella toilette. Tirò un sospiro di sollievo, trovando Ruby in mutande e canottiera, in una situazione non sconveniente. Il ragazzo aveva una gamba tesa verso l’alto, con il tallone poggiato sul lavabo, come se stesse facendo uno strambo esercizio di stretching.
«Ruby, che succede?» chiese lei, positivamente stupita per averlo trovato in piedi e capace di camminare.
«Sei arrivata nel momento peggiore» disse lui, con la voce un po’ spezzata dalla fatica.
«Che stai facendo?»
«E una cosa che sapeva fare bene papà» Ruby sembrava alla ricerca di qualcosa, lungo la sua gamba sinistra, quella sollevata. Tastava dei punti precisi, lungo delle linee che il suo cervello sembrava cercare di ricordare. Uno alla volta, li oltrepassava, non soddisfatto. Quando il suo indice e il suo medio si trovarono alla latitudine che cercava, più o meno nei pressi dell’incavo del ginocchio, tra il tendine e la rotula, bloccò la prima mano, fissandola lì. Con l’altra, ricominciò a cercare, ripartendo dal quadricipite. Stavolta sembrò trovare subito il luogo esatto, poco sotto il gluteo, nella parte alta della coscia.
«Ok, zitta un momento» intimò a Sapphire, che non stava parlando.
Ruby fece un movimento, Sapphire udì uno schioccare di ossa talmente inquietante da farle dubitare che provenisse dal corpo del ragazzo. Portò una mano alla bocca, raggelata da quel suono. Ma Ruby non sembrava sentir dolore, anzi, le sue dita erano rimaste al loro posto, forse non era quella l’operazione che intendeva farsi.
«Aspetta, ho solo sistemato l’articolazione, adesso arriva il peggio» annunciò.
Sapphire credette di vomitare. Il suono delle ossa che si disarticolavano era stato terribile, ma mai avrebbe pensato che l’autolesionismo potesse arrivare a tanto. Ruby tese le proprie fasce muscolari, applicando una particolare pressione orientata nei punti di corrispondenza che aveva individuato. I suoi muscoli emisero un suono a metà tra una cima da attracco che viene tesa e un pezzo di cuoio che viene lacerato. Lui serrò le labbra, grugnendo di dolore, nella situazione più lontana dall’eleganza in cui Sapphire lo avesse mai visto calarsi. Ruby impiegò un po’ a riprendersi, respirava a fatica, si reggeva al bracciolo per i disabili, mostrava le arterie sul collo che pulsavano, gonfiava il petto per mandare più aria nei polmoni.
«Porca puttana... Ruby...» mugolò Sapphire.
«Come dicevo, me lo ha insegnato papà» diede segno di vita lui, minuti dopo «in quel dojo ha sviluppato varie tecniche di combattimento: attacco, difesa, ok... ma anche cura e trattamento del corpo. E’ roba orientale, lui credeva nell’energia, i flussi e altre cazzate del genere, era un esperto» spiegò.
«Mi pare ci creda anche tu» commentò lei, guardandolo scrollare la gamba e riportarla a terra, nel tentativo di normalizzarne la circolazione. Aveva riacquisito la capacità di camminare, anche se andava a passo insicuro, per via della disabitudine.
«Non posso dargli questa soddisfazione» ribatté lui, con un velo di malinconica ironia.
 
Il giorno passò in fretta. I medici sottoposero Ruby ad altri esami, senza riuscire a capire come avesse fatto quel ragazzo magro e innocuo a riprendersi tanto in fretta, Sapphire passò del tempo con Green e Blue, riuscendo anche a convincerli a pranzare tutti insieme, come un normale gruppo di amici. I due Dexholder di Kanto fecero anche un paio di giri di ricognizione, attorno all’ospedale, giusto per verificare che gli agenti Faces che li sorvegliavano ventiquattro ore su ventiquattro fossero ancora lì. Era assurdo, sembrava fossero lì appositamente per farli sentire pedinati e non per tenerli d’occhio. Blue fece finta di non curarsi di loro, percependo i loro sguardi affilati da rapaci. Green, al contrario, si appoggiò ad un muro e, fissandone uno come il peggiore degli stalker, si accese una sigaretta. Poi un’altra. Poi un’altra. Senza mai togliergli gli occhi di dosso. Lui non poté reagire, giustamente, si limitava a distogliere lo sguardo, apparire discreto, disinteressato. Sembrava una sfida, ma era solo un gioco. Inconsciamente, il ragazzo sperava solo che accadesse qualcosa, qualsiasi cosa, pur di rompere con quella frustrante monotonia.
Kalut, sul tetto dell’ospedale, era in procinto di partire, avrebbe raggiunto Hoenn entro l’ora di cena. Aveva dei tempi veramente restrittivi, ma alcune volte poteva concedersi di “barare”, ricorrendo a metodi che agli altri umani non erano permessi.
«Andiamo, Xatu» ordinò, sistemandosi la tuta da viaggio troppo leggera per il clima di Sinnoh.
“Sei sicuro di volerlo rifare?” chiese telepaticamente il pennuto.
«Ma sì, alla fine è divertente» rise lui, sarcastico.
“Ok, non sporcarmi le piume”.
Kalut mise la mano sul corpo del Pokémon, traendo un lungo respiro. Poi ci fu il silenzio. In un secondo, tutto il mondo scomparve, trasformandosi improvvisamente in qualcos’altro. L’aria cambiò, la luce cambiò, i suoni cambiarono, gli odori cambiarono.
Kalut stramazzò a terra, trattenendo a stento il vomito.
“La prossima volta andiamo in aereo” commentò Xatu, osservando i drammatici effetti collaterali che il teletrasporto sortiva su un essere come Kalut.
Alla maggior parte degli Allenatori era concesso teletrasportarsi, ma solamente per brevissime distanze, anche perché i loro Pokémon non erano in grado di arrivare tanto lontano. Kalut, invece, aveva imparato che la sua struttura genetica improntata su quella di un Pokémon riusciva a sopportare i teletrasporti chilometrici permessi dalle incredibili abilità psichiche di Xatu. L’unico prezzo era costituito dai numerosi disagi causati dal repentino cambio delle condizioni ambientali. Quindi il suo corpo doveva prendersi qualche minuto per adattarsi: era appena passato da una zona gelida e prossima alla montagna ad una dal clima tropicale e sul livello del mare, la pressione atmosferica appena moltiplicatasi stava per farlo implodere e il caldo atroce gli fece quasi venire la febbre.
“Tutto ok? Non voglio essere io ad ucciderti” gli comunicò Xatu.
Kalut alzò il pollice in segno di assenso, ansimando difficoltosamente. Aveva fatto la stessa cosa prima del combattimento con Zero, teletrasporandosi da Kanto a Hoenn, ma aveva avuto solo pochissime altre esperienze e non si era mai abituato.
Il ragazzo, riuscendo lentamente a riaprire gli occhi, si guardò attorno. Si alzò in piedi, soffiando con il naso chiuso tra le dita, per stapparsi le orecchie.
«Dove siamo?»
“E’ il tetto del Centro Commerciale di Porto Alghepoli” rispose Xatu.
«Vogliamo passare a fare acquisti?»
“Qualche rimedio contro il gelo potrebbe tornare utile, sul Monte Corona...”
«Magari poi ci ripassiamo, ora raggiungiamo Yellow».
Kalut mosse alcuni passi verso il bordo del palazzo, affacciandosi per guardare il panorama. Ne rimase colpito, poco distante dal quartiere residenziale costellato di palme in stile Beverly Hills, c’era l’ampio cantiere che aveva preso il posto del grattacielo Faces demolito da Zack. Era ormai scesa la sera, quindi le ruspe e gli scavatori erano abbandonati, ma si vedeva che in quei giorni erano stati subito affrettati i lavori per la rimozione delle macerie. Sembrava passato un secolo da quando quella torre di vetro e cemento era crollata nella notte di quel due luglio, invece il tutto era avvenuto soltanto una settimana prima. In ogni caso, nel silenzio di una mediocre sera estiva, la città sembrava calma. Nel porto non c’era alcun movimento, le vie erano poco trafficate, le luci erano soffuse e persino le zone turistiche sembravano abbandonate. Con tutto ciò che stava succedendo, la gente aveva iniziato ad avere paura di uscire di casa.
«Andiamo» fece Kalut, gettandosi, senza neanche accertarsi che Xatu lo afferrasse per un braccio, evitandogli di sfracellarsi sull’asfalto sottostante. Il Pokémon agì senza la necessità di richiesta, era ormai in completa simbiosi con il suo compagno di avventure.
Kalut fu nei pressi dell’ospedale dopo pochi minuti di camminata a passo svelto. Lentamente, percepì il sangue tornare a fluire normalmente, dopo la traumatica esperienza del teletrasporto che, tuttavia, sapeva che avrebbe dovuto ripetere.
Quando davanti all’entrata, cominciò a guardarsi intorno. La situazione era calma, non sembravano esserci o esserci state emergenze e altri imprevisti, quindi ben poche persone orbitavano attorno allo stabile. Yellow saltò immediatamente ai suoi occhi: era difficile non notare i suoi capelli biondi in mezzo alle teste scure tipiche dei nativi di Hoenn. Inoltre, la ragazza lo stava aspettando piazzata proprio davanti alla porta scorrevole principale, come se evitare di dare nell’occhio non fosse importante, per delle persone tranquille come loro.
«Sul tetto» le intimò con un filo di voce, non appena lei gli posò gli occhi addosso, da lontano.
Kalut era abbastanza certo che ci fossero degli agenti anche in quella zona, dopotutto, in quell’ospedale c’erano altri tre Dexholder, per quanto due di questi fossero abbastanza innocui.
Due minuti dopo, la porticina di servizio per la manutenzione, si aprì, lasciando passare la ragazza del Bosco Smeraldo. Kalut era poggiato ad un muretto, contava i pannelli solari che quell’ospedale avesse a disposizione e faceva un rapido calcolo di quale fosse l’energia fornita ogni giorno.
«Ciao» lo salutò la bionda.
«Come stai?» chiese Kalut, come fossero stati amici da sempre.
Che poi, ripensandoci, i due avevano parlato sì e no tre volte e soltanto dopo il ritorno di lei, quando Zero era stato già fermato.
«Tutto normale».
«Crystal e Silver?»
Era risaputo che la situazione dei due non avesse conosciuto alcuna evoluzione, la domanda di Kalut era scaturita dalla cortesia. Yellow scosse la testa, per tagliare corto.
«Che cosa volevi chiedermi?» fece, cercando di evitare la conversazione.
«Ho bisogno di ritrovare Red» rivelò Kalut.
«Non ci riuscirai».
«Tu sai dove si trova, puoi aiutarmi».
«Senti» la ragazza abbassava gli occhi spesso, quando parlava, il che impediva a Kalut di tentare di persuaderla «so che è inutile parlare con te, perché sei una specie di robot o non so cosa, esattamente... ma prova a capire, Red mi ha chiesto di non rivelare a nessuno dove sarebbe andato» i suoi occhi erano gonfi, ma la sua forza le impediva di farsi possedere troppo dalle emozioni.
«Io ti capisco, Yellow» Kalut tentò di mostrarsi umano e comprensivo.
«Da quando sono tornata, ho perso del tutto ogni tipo di contatto con i miei amici, perché sono sparita senza dir loro perché e sono tornata continuando a nascondere ogni cosa» si lamentò lei.
«Appunto» il ragazzo fece una pausa di qualche secondo «puoi fare di più, puoi aiutarmi, io ho bisogno di parlare con Red, io...» un’altra pausa «credo di sapere cosa gli è successo».
Yellow alzò gli occhi.
«Red era già a conoscenza di molte cose, prima ancora degli eventi di Vivalet, vero?»
La ragazza tentava di cercare qualcosa da osservare il più lontano possibile, ma lo sguardo magnetico di Kalut riusciva a vincere ogni sua resistenza.
«Lui ha sentito la necessità di agire in fretta...» continuava il ragazzo, sciorinando le teorie che aveva elaborato nei giorni precedenti «significa che ha visto qualcosa che potrebbe rappresentare un guaio più grande di tutti quelli che stiamo già fronteggiando, oppure esserne la causa e inoltre...»
Yellow aspettava solamente che lui ci arrivasse. E Kalut ci sarebbe sicuramente arrivato, ormai sapeva di essere costretta a parlare, per fare la cosa giusta.
«...significa anche che non ha molto tempo per intervenire, Red ha le ore contate».

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Capitolo 17
*** Capitolo 16: Un solo, unico amico ***


XVI
Un solo, unico amico
 
 
«E’ malato. Ha il cancro. È terminale» sussurrò Yellow.
Kalut non reagì. Inspirò profondamente, aspettando che il calore dell’empatia sciogliesse quello strato di ghiaccio appena formatosi tra loro. Yellow non sembrava essere stata messa alla prova, nel pronunciare quelle parole, ma Kalut sapeva che stesse fingendo. Non perché la conoscesse, sia ben chiaro. Lui non conosceva le persone, lui conosceva gli uomini.
«Mi dispiace» provò a dire.
Yellow strinse le labbra. Non era un suo amico, la sua partecipazione era pura etichetta. Oppure no. A dir la verità, non le importava. Lei era bloccata ad Hoenn per stare accanto ai suoi amici in ospedale, tentando di accettare il fatto che il suo ragazzo fosse ormai condannato e lei avesse davanti una vita di solitudine. O almeno, tale era la sua percezione.
«Dimmi dove posso trovarlo» riprovò Kalut.
«Mi ha chiesto di non farlo» fece lo stesso Yellow.
«Che cosa teme che faccia, esattamente?»
Yellow ci rimuginò un po’ sopra: «probabilmente niente, si aspettava che fossero i suoi amici a cercarlo, voleva impedir loro di seguirlo in questa sua ultima crociata, non immaginava certo che saresti stato tu il primo a seguire le sue tracce».
«Per favore, Yellow» insistette a quel punto Kalut, avvicinandosi a lei.
La Dexholder era gelida, distaccata, assente. Non riusciva a prendere una decisione, poiché tutto ciò che stava accadendo le scorreva addosso come foglie secche sull’asfalto.
Kalut cercava di ragionare. Aveva iniziato a far lavorare il cervello nel momento esatto in cui Yellow gli aveva rifilato il primo rifiuto. Purtroppo, la sua mente pragmatica lo obbligava a cercare una via di fuga attraverso le armi a sua disposizione, nel caso specifico: persuasione e manipolazione. Tutto il resto, non importava, Yellow sarebbe stata, per qualche riga di dialogo, solamente un ostacolo posto tra lui e il suo obiettivo.
«Scusami, Kalut, ma devo tornare a casa...» fece lei, voltando le spalle.
Che cosa avrebbe potuto rappresentare un punto debole su cui far leva? Che cosa gli avrebbe portato ciò di cui aveva bisogno? Kalut cercava di analizzare la persona che aveva davanti, esplorandone i più reconditi angoli dell’animo.
Giungendo in quello che sembrava un vicolo cieco, riuscì invece a trovare una falla.
«Sei tornata indietro» le disse, da dietro le spalle.
«E allora?» chiese lei, voltandosi.
«Tu saresti rimasta con lui, fino all’ultimo... e lui non sarebbe stato tanto crudele da dirti di no» ragionò il ragazzo.
Yellow non capiva, ma le parole di Kalut la stavano solleticando senza che lei se ne accorgesse. Se avesse esplorato nel suo animo, avrebbe capito dove il suo interlocutore voleva arrivare.
«Che cosa mai ti avrebbe spinto ad abbandonarlo?»
La distanza tra i due diminuiva progressivamente. Lei faceva un passo, lui un altro.
«Tu sei tornata perché... sei incinta di lui» realizzò Kalut.
Yellow non rispose, bloccandosi sul posto.
«Chi altro lo sa?» domandò il ragazzo.
«Blue».
«Soltanto lei?»
«Sì».
Kalut si prese qualche secondo.
«Mi dispiace...» mormorò, dandole ancor più fastidio «non immaginavo...»
«Intendi persuadermi facendo leva sul mio buon senso di madre?» chiese lei, a muso duro.
«No, anche se credevo davvero che avresti fatto la scelta giusta» si tirò indietro Kalut.
«Mi dispiace per te» lo scaricò lei «c’è qualcos’altro che posso fare?»
«No, non adesso».
«Allora posso andarmene, buonanotte, Kalut» si congedò Yellow, avviandosi verso le scale che collegavano il tetto all’ultimo piano dell’ospedale.
Kalut rimase solo con Xatu, visibile solamente a lui, sotto il cielo stellato e sereno di Porto Alghepoli, col vento caldo che gli carezzava la pelle e il canto delle cicale in sottofondo.
“Un buco nell’acqua” commentò Xatu.
«Decisamente».
“Vuoi tornare indietro?”
«No, non mi sono pienamente ripreso dopo l’ultimo teletrasporto, il mio organismo è completamente scombussolato, andrò sulla scogliera per un po’» Kalut fece per lasciare la zona, scendendo dal tetto dell’ospedale.
Xatu lo seguiva, silenzioso e impercettibile, tenendosi in stretto collegamento con i suoi pensieri e seguendone il flusso ininterrotto. Kalut sembrava avere una meta precisa. Imboccò l’ingresso dell’ospedale, muovendosi come al suo solito, senza mettere nessuno in allarme o in condizioni di sospetto. Raggiunse il reparto di terapia intensiva, svoltando un paio di volte. Si trovò davanti alla stanza di Crystal, che poté osservare attraverso le sottili fessure delle veneziane quasi serrate. Udiva perfettamente il pianto sommesso che proveniva dall’interno della stanza, grazie ai suoi sensi sviluppati. Non ne rimase stupito, se lo aspettava, Crystal era stata lasciata da sola, non aveva poi molto altro da fare, dentro quella stanza, al buio, giorno dopo giorno. Poco lontano, c’era invece Silver. Ancora silente, inerte, collegato a dei macchinari che alimentavano la sua debole fiamma vitale. Sembrava un’ombra, un fantasma, un oggetto inanimato messo lì solo per dar colore alle lenzuola di quel letto.
«Devi sentirti davvero frustrato» gli disse Kalut, sapendo bene di non poter essere ascoltato «in un certo senso, posso capirti...»
In fretta, lasciò quel luogo. Fuggì dall’ospedale, dal quartiere, da porto Alghepoli. Raggiunse la spiaggia, nascondendosi nell’unico angolino di mare che non era stato monopolizzato da lidi e chalet. Incespicando su quella sabbia mista a sassi e frammenti di legno, raggiunse la scogliera contenitiva che affiorava tra il promontorio e la grotta poco lontana. Lì non c’era civiltà, quella zona era frequentata solo da operai impegnati in controlli sporadici. Quei sassi artificiali erano stati posti lì anni prima, durante la fondazione della città, affinché si creasse una sorta di laguna protetta che sostituisse il mare aperto, attorno alle spiagge di Porto Alghepoli. Dopo di loro, vi era la vastità dell’oceano.
Kalut si sedette sullo scoglio più comodo, incurante del vento forte e degli schizzi di acqua salmastra. Camminava da una settimana in mezzo alla neve e al ghiaccio, quella era solo una boccata d’aria per il suo organismo. Si mise ad ascoltare il rumore delle onde che si infrangevano melanconicamente sulle pareti rocciose. Ogni tanto, dal fondale buio, affiorava qualche Lanturn, anticipato dal debole bagliore della sua antenna.
Kalut sospirò. Che cosa c’era, negli uomini, che lo portava a soffrire tanto? Qual era l’errore di programmazione che più volte aveva incontrato e aggirato, ma che adesso aveva ormai chiuso ogni possibile via di fuga? Lui non riusciva a percepire alcun legame. Zack, il penultimo esperimento di Leonard, era suo fratello. Così come quello precedente, Luna. Eppure, lui percepiva solamente ciò che il loro collegamento significava sul piano pragmatico e razionale. Che cosa avrebbero fatto, al suo posto, delle persone normali. Li avrebbero trattati da fratelli? Avrebbero condiviso con loro la gioia, il dolore, i progetti, i momenti quotidiani? Kalut non aveva amici, esclusa l’entità Eterna con cui aveva stretto un legame psichico. Da quando era capace di parlare in modo articolato, aveva solamente agito per conto della Resistenza, da quando Antares e Cassandra lo avevano reclutato come arma segreta contro la Faces. Non aveva fatto altro. Non aveva scoperto quali fossero i suoi interessi, le sue passioni, i suoi gusti. E non lo aveva fatto, perché non aveva nulla di tutto ciò. Kalut era una pagina bianca su cui era stata scritta soltanto una parola. Kalut non era una persona, era un insieme di abilità e poteri. Kalut non viveva, Kalut funzionava.
Si era posto quella domanda fin dal primo giorno: valeva davvero la pena di vivere per un obiettivo, senza indugiare in nulla che non fosse utile alla realizzazione del suo scopo?
“Non hai ancora trovato una risposta?” chiese Xatu, comparendo come tipico delle entità astratte come lui.
«E’ questo il problema» rispose Kalut, con le ginocchia strette tra le braccia «potrei averla trovata».
“Vuoi comunicarmela?”
Kalut non staccava gli occhi dal mare. Quella massa d’acqua agitata e scura che sembrava agitarsi costantemente su se stessa. Quando parlava con Xatu, non rispondeva mai telepaticamente, a meno che la situazione non lo richiedesse, preferiva parlare a voce alta. Era una delle poche volte in cui gli era permesso fare conversazione, senza doversi per forza concentrare sulla Faces.
«Credo di aver capito che l’umanità che ho sempre sognato di possedere... porti solamente dolore...» rispose il ragazzo, completamente privo di espressione.
Xatu non rispose, non ribatté, non fece alcun movimento. Rimase lì, fermo, più reale che mai, col vento tra le piume la luna riflessa nei grandi occhi sereni.
 
Centinaia di chilometri più a nord, il resto del gruppo si era riunito per l’ennesima volta nella stanza di Ruby. Stavolta, i medici avevano preferito tenerlo sotto osservazione per puro e semplice puntiglio scientifico.
«Quindi stai meglio?» chiese Blue.
«Decisamente, potrei affrontare la scalata nel giro di pochi giorni» rispose Ruby.
«Dobbiamo prima aspettare il ritorno di Kalut» puntualizzò Green.
Ruby storse il naso. Sapeva che quei problemi e quel continuo procrastinare dessero fastidio al Capopalestra di Smeraldopoli, ma non poteva fare molto altro per evitare di pizzicare la sua suscettibile pazienza. Green era molto maturo, forse il più maturo tra tutti i Dexholder, ma gli altri avevano sempre avuto difficoltà nel vederlo come una sorta di mentore, proprio a causa di quella sua indole scontrosa e poco accondiscendente.
«Vi ha detto che cosa avrebbe cercato, da Yellow?» domando Sapphire.
«Sembra che abbia intenzione di mettersi sulle tracce di Red...» accennò Blue.
Sapphire perse qualche grammo di entusiasmo, lasciando cadere l’argomento.
Il gruppo faceva ancora fatica a parlarne, anche dopo settimane. E forse era giusto così.
«Secondo voi che cosa troveremo nella base della Faces sul Monte Corona?» chiese Ruby. Non era ansioso, solamente incuriosito.
«Kalut ha parlato di questo macchinario...» fece Blue.
«No, intendo... dovremo combattere di nuovo» precisò lui.
«Beh, magari stavolta sarà un combattimento normale, ho visto agenti Faces utilizzare solamente pistole e bombe a mano» esclamò Sapphire, mettendosi una mano sul grembo.
«Ti aspetti che tentino di affrontarti con una squadra di Zubat?» domandò Green, scettico.
«Beh, no, ma...»
«Se è vero che hanno scoperto un luogo come il Nodo di Regigigas e ci hanno piazzato un macchinario così costoso, stai sicura che lo difenderanno con armi molto più pericolose di un Pokémon» affermò, pragmatico.
«Green, basta...» si lamentò Blue.
«Ad ogni modo, dovremmo cercare di vincere senza danneggiare niente, il macchinario che congela in Nodo potrebbe essere l’unica prova in nostro possesso per distruggere completamente questa organizzazione» sottolineò Ruby.
«Per evitare un altro buco nell’acqua come qualsiasi altra operazione fino a questo momento?» chiese Green.
«No, per fare in modo di portare a casa una vittoria, ci siamo sempre difesi, contro la Faces, questa sarebbe la prima volta che attacchiamo» ribatté il ragazzo di Hoenn.
«Spero soltanto che tu abbia ragione, altrimenti saremo di nuovo punto e a capo» chiuse l’altro.
«Green...» si rivolse a lui Blue, stupefatta.
«Che c’è?»
Solo in quel momento, il ragazzo si rese conto di quanto fossero state demolenti le sue parole. Nella sua testa, una vocina continuava a gridare di mantenere il gruppo saldamente unito, mentre tutto il mondo sembrava cadere a pezzi. Eppure, lui non era riuscito a contenere la sua frustrazione.
Ad ogni modo, non era una persona in grado di chiedere scusa tanto facilmente.
«Fanculo...» sbuffò, lasciando la stanza.
Ci furono alcuni secondi di imbarazzante silenzio.
«Che diavolo gli prende?» chiese Sapphire, infastidita.
«Non ne ho idea» rispose Blue.
La ragazza di Kanto ragionava, facendo incessantemente girare i meccanismi del suo cervello per trovare una spiegazione al comportamento di Green. Riuscì a giungere ad una sorta di conclusione solo dopo alcuni minuti, non sapendo poi bene se accogliere tale idea con un sorriso malinconico o una smorfia di ribrezzo.
Raggiunse il corridoio, guardandosi a destra e a sinistra. Trovò la prima uscita di servizio poco distante dal reparto di radiologia, vi si diresse, sicura di trovare Green lì fuori, con gli occhi fissi sul nulla sconfinato, insieme a un paio di specializzandi che fumavano. E lo trovò. Le stava inconsapevolmente dando le spalle, attraverso la porta trasparente con il maniglione antipanico. Aveva le mani nascoste nel suo giubbotto di pelle da aviatore. I capelli erano mossi dal vento e le gambe erano incrociate, seguendo l’annoiata inclinazione del suo corpo verso il muro d’angolo.
Avrebbe voluto uscire per andargli a parlare, ma non era questo il suo ruolo. Gli avrebbe fatto soltanto più male, se gli avesse parlato. Quindi si limitava a fissarlo, da lontano, con gli occhi consapevoli di una donna che è già riuscita a scandagliare approfonditamente l’animo del suo uomo. In qualche modo, in un certo senso, Green si sentiva incompleto. Erano state le parole di Kalut a risvegliare tali sentimenti in lui: dopo tutte quelle disavventure, dopo tutti quei morti, dopo tutto quel disastro, Green era soltanto preoccupato per Red.
 
I quattro trascorsero la notte nell’ospedale, in attesa del ritorno di Kalut. Quest’ultimo si fece rivedere soltanto la mattina seguente. Ricomparve con il volto pallido e scavato di chi aveva passato la notte in piedi. Entrò nell’ospedale nel momento in cui Ruby stava per essere rilasciato, quando i medici avevano ormai rinunciato all’idea di attribuire un filo logico alla sua cartella clinica.
«Sei già in piedi» notò Kalut, entrando nella stanza del Dexholder.
Ruby aveva già recuperato i suoi vestiti, in quel momento era intento a ricomporre la borsa e gli altri bagagli per ripartire.
«Mi hai sottovalutato» ribatté lui.
«Non voglio sapere come tu sia riuscito a rimetterti in sesto, dimmi solo se credi di poter sostenere un’altra escursione sul Monte Corona»
«Certo, sono come nuovo» sottolineò Ruby.
Kalut annuì «facciamo i preparativi, allora, devo spiegarvi con esattezza cosa andremo a fare».
Il gruppo si mosse verso un Pokémon Market. Acquistarono, anche se in quantità minore, gli stessi oggetti che si erano portati per il sopralluogo che avevano effettuato alcuni giorni prima, dividendosi. Si rifornirono di abiti termici, sacchi a pelo, provviste a lunga conservazione, bevande, integratori e strumenti utili contro il congelamento.
Ovviamente, la sorveglianza Faces non costituiva un impedimento: non potevano vedere che cosa stessero acquistando e tantomeno dedurre quali fossero i loro piani. Quegli agenti che li avevano pedinati per tutto il loro soggiorno a Sinnoh, se li erano fatti sfuggire da sotto il naso per ben cinque giorni, per poi vederli riapparire in un ospedale, dall’altra parte della regione. Non potevano immaginare che, nel frattempo, Kalut avesse scoperto il nascondiglio del Monte Corona. Per questa ragione, non avrebbero potuto lanciare l’allarme per allertare i loro compagni.
«Prima di avviarci verso la montagna, dobbiamo comunque liberarci di loro» puntualizzò Kalut.
«Intendi fare come ad Evopoli?» chiese Blue.
«No, non posso più permettermi di giocare con loro, se dovessero passare all’offensiva mentre siamo disarmati, stavolta, potremmo non farcela...»
«Sei tu a dirlo?» chiese Ruby, cosciente delle grandi abilità di combattimento di Kalut.
«Sono più forti di quanto pensiate, voi non avete ancora mai visto il loro reale potere» ammise il ragazzo.
La sentenza di Kalut contagiò tutti con la stessa inquietudine. Effettivamente, i tre Dexholder si resero conto di non aver mai affrontato veramente la Faces. Avevano combattuto contro alcuni agenti in dei rari casi isolati, avevano affrontato Rayquaza, avevano combattuto con Zero, che però non proveniva davvero dalle fila dell’organizzazione. Gli unici che avevano avuto un conflitto con uno dei loro ex agenti erano Ruby e Sapphire, che ci avevano quasi rimesso la vita, dopo quello scherzetto.
«Ho un’idea per quanto riguarda i nostri amici pedinatori» esordì Kalut ad un certo punto, mentre il gruppo stava percorrendo il Percorso 215, tra i pontili crollati a causa della neve e le scarpate guazzose.
«Spiegaci» lo esortò Sapphire, che come sempre era quella più a suo agio, nelle situazioni selvagge e ostili.
«Dovremmo di nuovo separare il gruppo».
«Non è un’ottima idea, gli agenti si divideranno per seguirci e saranno in contatto, una volta che tutti loro sapranno che la frazione di gruppo pedinata dagli altri sta comunque salendo sul Monte Corona, avranno capito la nostra strategia» lo confutò Green.
«E’ questo il punto, dobbiamo separarci, ma senza che loro se ne accorgano» spiegò meglio il ragazzo «non riusciamo a seminarli, ormai lo abbiamo capito, però possiamo distanziarli per un po’. Stanotte, dovremo fermarci a dormire in un luogo e, quando saremo sicuri di non averli alle costole, partiremo per il Monte Corona per tre sentieri diversi. Se anche dovessero riuscire a rintracciare qualcuno di noi, il che è probabile, comunque non avranno rintracciato tutti. A quel punto, semmai dovessero capire la nostra strategia, sarà già troppo tardi. Ci vuole poco più di un giorno, per raggiungere il luogo della macchina».
 Kalut entrò un po’ più nel dettaglio, al fine di spiegare per benino la sua idea al gruppo. Alla fine, si misero tutti d’accordo ed elaborarono il reale piano durante la passeggiata in direzione di Memoride, la città più comoda dalla quale partire per un escursione sulla montagna.
La raggiunsero verso il tardo pomeriggio e vi si fermarono per acquistare dei GPS professionali. Decisero un luogo dove incontrarsi dopo la scissione e si annotarono tutti le coordinate. Kalut aveva stimato approssimativamente il punto più vicino che riuscisse a ricordare al buco nella roccia che portava al Nodo di Regigigas.
Entrarono in una piccola locanda che odorava di pastafrolla, dove avrebbero dormito per alcune ore, prima di ripartire nel cuore della notte. Le stanze furono spartite come al solito: le due coppiette felici a due a due e Kalut solo soletto. Qualcuno, poche decine di minuti dopo l’arrivo, bussò alla porta di quest’ultimo.
«Sono Green» disse il visitatore, dal corridoio.
«Che succede?» chiese Kalut, aprendo.
«Non sei riuscito a farti dire niente, da Yellow?» domandò il Capopalestra, guardando altrove.
«E’ stato un buco nell’acqua» confermò l’altro.
«Immaginavo».
«Se Yellow non si decide a parlare, Red resta irraggiungibile...»
«Ecco, ero venuto a parlare proprio di questo».
«In che senso?»
«In realtà esiste un modo per rintracciare Red, se proprio hai necessità di parlare con lui» spiegò Green.
«Ossia?» Kalut era sinceramente incuriosito, il che era strano per uno come lui, che sembrava sapere sempre tutto prima degli altri.
«Io e Gold, per ritrovare Ruby ad Hoenn, abbiamo scaricato un programma sviluppato di nascosto in grado di rintracciare gli altri Pokédex attivi tramite una localizzazione satellitare» spiegò Green.
«Ma è eccezionale... e così semplice. Come mai non me lo hai detto prima?»
«Il vero problema è che» Green indugiò «questo programma è installato sul Pokédex di Gold, solamente» chiarì.
«Ah, perfetto... mai che qualcosa vada come deve andare» scosse la testa Kalut, facendo per rientrare in stanza.
«Dovremmo sbrigarci con questa faccenda del progetto Nubian e fermare la Faces a Sinnoh... Austropoli è in una situazione critica e richiede il nostro intervento immediato» sottolineò Green, intercettandolo da dietro le spalle.
«Sì, infatti, fermiamo i terroristi che tengono in ostaggio la metropoli più grande dello stato per ritrovare il vostro amico sparito, è un patto equo...»
«Sei stato tu il primo ad avere bisogno di Red, noi abbiamo dato priorità alla Faces, aspettando prima di cercarlo».
«Lo so, ma ad ogni modo, io non ho bisogno di lui, ma di quello che sa» continuò Kalut.
«Come puoi essere certo che lui possieda informazioni tanto importanti?»
«Si tratta di informazioni che non conosco... questo mi basta per presuppore che siano fondamentali» concluse il ragazzo dai capelli bianchi, rientrando nella sua stanza.

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Capitolo 18
*** Capitolo 17: Vacanze in Islanda ***


XVII
Vacanze in Islanda
 
 
«Fate attenzione» ordinò Kalut, per poi uscire per primo dalla finestra. Aveva un capotto grigio, per confondersi nell’oscurità e allo stesso tempo mimetizzarsi nella neve. Lui sarebbe uscito per primo, i Dexholder lo avrebbero seguito. Erano tutti piuttosto sicuri che, a quell’ora, sarebbero riusciti a sfuggire agli agenti Faces. Per metterli in difficoltà e depistarli, inoltre, ogni gruppo avrebbe seguito una strada differente: a Kalut toccava oltrepassare la grotta che perforava il Monte Corona e arrivare alle cime nord scalando da ovest, partendo da Evopoli, poi Green e Blue si avrebbero preso un percorso speculare, salendo in diagonale lungo le pareti est, per uno dei sentieri alternativi che partivano dal Percorso 211, infine Ruby e Sapphire sarebbero saliti tramite i tunnel che portavano alla cima, sbucando direttamente alle pendici dei rilievi settentrionali.
Il gruppo si sarebbe ritrovato alle coordinate stabilite, su una terrazza del Percorso 215, dove avrebbero proseguito verso la zona indicata da Kalut. Il viaggio sarebbe durato poco più di un giorno e tutto fu calcolato più o meno al secondo, in modo tale da evitare che i primi arrivati dovessero attendere il resto del gruppo per un tempo eccessivamente dilazionato. Il programma inziale comprendeva anche uno scalo a Nevepoli, sacrificando una giornata di cammino in più in cambio di un itinerario meno ostico. Tuttavia, quell’idea era stata scartata, in modo da evitare che altri agenti Faces stabiliti nella città li notassero e cominciassero a seguire i loro movimenti, costringendoli ad un secondo piano di depistaggio.
Contemporaneamente, si ritrovarono tutti costretti ad ulteriori scarpinate interminabili con la neve fino alle ginocchia. Ad alcuni di loro era spettato un percorso più comodo che ad altri ma, in ogni caso, l’aria di avventura nelle terre selvagge che avevano respirato per tutta la loro vita da Allenatori, continuava a ristagnare anche durante la loro maturità. E ognuno di loro ammetteva segretamente di esserne un po’ stufo. Il clima era proibitivo, il freddo tagliente era accentuato dall’orario improponibile e dall’altitudine alla quale si stavano progressivamente avvicinando. Sotto quel manto di ghiaccio e neve, un tempo, c’era stato un panorama estivo. La Faces aveva deciso di far scendere quella maledetta glaciazione proprio a luglio.
 
Chilometri e chilometri più in direzione dell’equatore, ad Hoenn erano tornati i trenta gradi all’ombra tipici del clima tropicale di quella regione. Dopo l’iniziale ondata di gelo sprigionatasi da Sinnoh, capace di mettere in freezer un’intera regione in poche ore e di far precipitare la temperatura di Hoenn di ben venti gradi, l’ordine metereologico era tornato nei suoi ranghi. Yellow stava dormendo nel letto del B&B in cui alloggiava, la signora che lo gestiva le aveva lasciato le chiavi di tutto il palazzo, per permetterle di rientrare all’ora che preferisse. La Dexholder tornava spesso a tarda notte, dopo aver fatto visita a Silver e Crystal, senza mai aver portato a casa nessun risultato. Solamente un paio di volte si era concessa di uscire a divertirsi. Risultato: aveva bevuto da sola al bancone di un pub sperando che nessuno le desse fastidio, al primo contatto con un tizio che diede segno di conoscerla, se n’era subito andata. Quella sera era andata al cinema da sola. Era entrata nell’Odeon di Porto Alghepoli senza neanche aver letto quali pellicole fossero nelle sale in quel periodo e si era lasciata guidare dalle locandine. Scartati un film per bambini, un romantico, un poliziesco, un horror e un indipendente, aveva ripiegato sul terzo remake di un vecchio cult che non aveva mai visto. Si era addormentata durante la riproduzione, svegliandosi solo con l’accensione delle luci e, uscendo dalla sala rossa per la vergogna, si era ripromessa di scegliere un supereroistico, la volta seguente. Tornata nella sua camera, aveva fatto un bagno ed era andata a dormire con il profumo del nuovo balsamo ancora intriso nei capelli. Lo aveva pagato uno sfacelo di Pokédollari all’erboristeria naturale nella zona est della città, le era stato presentato come un prodotto tipico, fatto artigianalmente con alghe locali secondo tecniche antiche e tradizionali. Non era risultato essere niente di speciale, ma almeno i suoi capelli profumavano di Arbre Magique aroma Mykonos.
In tutto questo, aveva almeno evitato di pensare a Red.
Poi, quel bastardo, con i suoi occhi fiammeggianti e il suo volto perennemente sorridente, aveva deciso di fare ritorno proprio quella notte. Nei sogni. Yellow lo stava guardando, anche se non si rendeva conto di star proiettando tutto nella sua mente. Red era dietro il banco della cassa di un grande supermercato e lei aveva un barattolo di sottaceti in mano, restia nel porgerlo sopra al nastro scorrevole. Dietro, la lunghissima fila di mamme con relativi pargoli piangenti al seguito, premeva come il gas sul tappo di uno spumante.
Poi la sensazione di vuoto sotto la spina dorsale. Yellow afferrò le lenzuola, cercando di aprire gli occhi annebbiati dall’oscurità della sua stanza. Era sveglia o no? Il suo mondo sembrava un pacco di farina che perdeva da ogni angolo, quindi sì, era decisamente sveglia. Ma che diavolo stava succedendo attorno a lei?
Un rumore, due rumori, tre rumori, un forte frastuono di vetri che si infrangono. Era in corso una scossa sismica di notevole intensità. Yellow rimase paralizzata, come bloccata da un nastro adesivo invisibile o come una fetta di carne infilata in una confezione sottovuoto. Fu scossa da qualcosa che difficilmente si sarebbe potuta definire paura, quanto insicurezza. Sentire l’instabilità della natura sotto i suoi piedi dava una sensazione simile a quella provata nell’istante che precede un salto nel vuoto, quello in cui si è ormai certi di essere morti. Il tutto, moltiplicato per minuti e minuti in cui il tremolio sembrava smorzarsi per poi tornare normale, in una continua, cinica alternanza.
Finalmente tornò la calma.
Yellow balzò in piedi con scatto felino, indossò una vestaglia e prese la cintura delle sue Ball, catapultandosi fuori dalla porta. Fortunatamente, prese le ciabatte, evitando di lacerarsi le palme dei piedi sui frammenti di vetro in cui si erano ridotte alcune foto appese al muro della camera dalla donna che la ospitava.
«Signora Mills, è tutto ok?» esclamò, verso la stanza della donna, senza curarsi di modulare la voce, nel caos generale che sapeva quel fenomeno avrebbe causato.
«Oh, che Santa Marta ci protegga!» invocava quella, facendo appello alla sua cultura agiografica degna di un amanuense del decimo secolo.
«Maledizione» Yellow si era resa conto dell’assenza di corrente, premendo l’interruttore della luce «Chuchu, Flash» ordinò, lanciando la sfera contenente il Pokémon di tipo Elettro.
Il roditore emise un verso smorzato dal sonno, ma prese subito a diffondere un bagliore giallastro in tutto il corridoio, fungendo da fiaccola per i movimenti della sua Allenatrice. Si diressero insieme fino alla camera della signora, tenendo d’occhio eventuali ostacoli e oggetti pericolanti sulla strada. La signora Mills era scioccata, inerme di fronte alla forte paura provata. Yellow si prodigò per aiutarla, prendendola sottobraccio e guidandola fino al portone. Passando davanti al divano, prese anche una coperta, perché questa potesse avvolgervisi una volta uscita all’aria aperta. Giunsero insieme all’uscita e, senza dimenticare le chiavi, Yellow si chiuse la porta di casa alle spalle.
Il B&B gestito dalla signora Mills era adiacente alla zona turistica di Porto Alghepoli e dava su una larga strada piena di negozi e boutique di marca che conduceva fino al mare. Yellow, mettendo piede fuori dal portone principale, si trovò davanti ad una scena buffa e raccapricciante allo stesso tempo. Tutti i residenti e i turisti di quella zona, in preda ad un sano panico post terremoto, si erano riversati in strada. Si guardavano attorno spaesati, tentavano compulsivamente telefonate che non partivano, per problemi di infrastrutture, chiacchieravano animatamente raccontandosi di come il sisma li avesse colti nel sonno, in bagno, durante il sesso. Quel meraviglioso spaccato sociale dava vita ad una scenografia senza eguali. Quel viale, in quel momento, sarebbe stato il perfetto set di un film, anziché durante il giorno in cui era trafficato da persone che si davano spallate e neanche si guardavano in faccia.
«Va tutto bene?» chiese Yellow alla signora Mills, tornando a concentrarsi su di lei.
«Sì, è solo il magone... sei stata tanto carina a darmi una mano» la ringraziò quella, col fiato ancora corto.
«Per un po’ probabilmente non sarà possibile rientrare a casa, almeno non prima di sapere se ci sono stati o no dei danni e soprattutto non prima delle scosse di assestamento» fece Yellow.
«Allora dormiremo nell’auto, anche se non sarà proprio un toccasana per la mia schiena» rise la signora. Era anziana ma ancora arzilla, dopotutto gestiva comunque un Bed & Breakfast da sola.
«Va bene, mi raccomando faccia attenzione» si raccomandò Yellow.
«Come, te ne vai?»
«Verrò più tardi, vorrei andare in ospedale».
«Ah, i tuoi amici. Corri cara, sbrigati» la esortò la signora.
«Farò in fretta» puntualizzò. Poi estrasse la Ball di Golem «Scorta la signora Mills, Gravy» ordinò, convocando il Pokémon Megatone.
Il lucertolone roccioso si accodò immediatamente alla donna, strizzando l’occhio alla sua Allenatrice. Yellow era intanto scattata verso il promontorio, ciabattando sul marciapiede e sfrecciando in canottiera e pantaloncini tra le persone che erano state buttate giù dal letto dallo spavento. Attraversando la città, osservava momento dopo momento quella fase in cui il popolo si riprendeva lentamente dal caos. Lo spavento aveva scosso fortemente gli animi, come solo un terremoto in una terra come Hoenn poteva fare. Era stato come accendere un fiammifero in un ripostiglio pieno di esplosivi. La gente del posto aveva assistito a cataclismi di portata epica, negli anni precedenti e, dopo il Torneo di Vivalet, il panico generale aveva iniziato a scorrere nelle vene della regione. Rayquaza, il Pokémon pacificatore dei due giganti leggendari in eterna battaglia, era stato ucciso. Groudon e Kyogre erano sopiti da due anni, che era un tempo ridottissimo per dei leggendari, e nessuno aveva la certezza che non si potessero risvegliare da un momento all’altro per distruggere finalmente il mondo, privi di qualsiasi vincolo. A conferma di tutto ciò, come un oscuro presagio, una debole scossa sismica immotivata e isolata aveva solleticato Hoenn nel momento appena successivo alla morte di Rayquaza.
Per queste ragioni, si erano iniziate a diffondere alcune voci: alcuni parlavano di un’apocalisse imminente, altri di una sorta di giudizio universale in procinto di porre termine al mondo. Si erano formati dei veri e propri movimenti e delle congreghe basate sulla credenza di un armageddon pronto al colpire gli umani, colpevoli dell’uccisione di un Pokémon leggendario. Ovviamente, la razionalità che muoveva il mondo aveva bollato tali superstizioni come fanatiche e infondate, ma il verbo aveva iniziato a diffondersi. Gli stessi Gold e Green, una volta giunti a Ciclamipoli in cerca di Ruby, settimane prima, avevano potuto ammirare un enorme graffito raffigurante Rayquaza dalla chiara pretesa profetica.
Chissà quale affluenza di nuovi fedeli avrebbero avuto tali dottrine se si fosse venuto a sapere che la Gemma Rossa e la Gemma Blu, gli unici oggetti in grado di dominare Groudon e Kyogre in assenza di Rayquaza, avevano perso il loro potere, tornando ad essere dei semplici sassi proprio nelle mani di Sapphire.
Ma Yellow non era a conoscenza di tutto ciò, lei non era cresciuta ad Hoenn e non possedeva le conoscenze per effettuare un simile collegamento. Le era appena giunta all’orecchio qualche chiacchiera a proposito di tali argomenti, ma non aveva mai approfondito. In quel momento, si stava preoccupando di tutt’altro: cominciava a scorgere l’ospedale in lontananza: nel parcheggio quasi vuoto, era stata attrezzata una tendopoli fornita di sale e camere ospedaliere improvvisate. I degenti in condizioni meno gravi e i più propensi a problemi legati ad ansia e stress cominciavano ad essere spostati all’esterno. L’obiettivo era quello di mettere al sicuro i malati da un possibile ma non augurato crollo dell’ospedale, che necessitava di un check-up di esperti, prima di poter essere considerato agibile. Alcuni pazienti, invece, erano volutamente stati lasciati all’interno, per evitare di sospendere determinate terapie necessarie per mantenerli in vita. L’area dell’ospedale era quindi stata designata al passaggio di pochi autorizzati, per lo più medici di pronto soccorso incaricati di verificare periodicamente le condizioni dei “pazienti a rischio”.
Yellow giunse nella tendopoli e cominciò a guardarsi attorno, alla ricerca dei suoi amici. C’era caos e un intenso traffico di barelle, infermieri e lettini, non era certo il momento migliore per improvvisare una visita, considerando anche che erano in arrivo i primi pazienti rimasti feriti in seguito al terremoto.
«Mi scusi, potrei sapere dove...» il medico al quale aveva rivolto la parola la oltrepassò, ignorandola «Per piacere, sa...» l’infermiera cui si era rivolta non poté evitare di scansarla con una spallata.
Erano tutti di fretta, tutti con qualcosa da fare. Fino a quando, tra la folla, Yellow non riuscì a scorgere Crystal. Cercò di raggiungerla, ma fu costretta ad una difficoltosa gimcana tra personale medico e barelle. Poco lontana da lei, seduta su una sedia a rotelle che era condotta da un infermiera molto giovane, Crystal si guardava attorno spaesata, con gli occhi gonfi dal sonno. Era avvolta in un telo termoriflettente che le evitava di disperdere calore. Il camice da paziente la copriva scarsamente fino al ginocchio, lasciando scoperta l’unica gamba che le rimaneva. Non era più attaccata alla flebo di analgesici, ma non sembrava averne bisogno. Almeno, non in quel momento.
«Yellow» esclamò con la voce rotta, vedendo l’amica avvicinarsi.
Era la prima volta che rivolgeva la parola a qualcuno, dopo l’incidente. Yellow le gettò le braccia al collo, stringendola forte un po’ per rassicurarla e un po’ per accertarsi che stesse bene.
«E’ tutto ok, Crystal, come stai?»
Quella non riusciva a rispondere. Era scoppiata in un pianto liberatorio e Yellow riusciva ad avvertirne il respiro irregolare e interrotto appena dietro l’orecchio, mentre i suoi capelli raccoglievano le sue lacrime.
«Silver, Silver è ancora dentro» formulò Crystal, ancora scossa dalle emozioni.
Yellow non fu sicura di poterla abbandonare così subito, titubò parecchio prima di ribattere, ma alla fine riconobbe che era la cosa migliore da fare: «Vado a cercarlo, tu aspettami qui, resta al caldo» le disse, prima di scomparire con passo felino.
La Dexholder di Kanto scivolò di nuovo in mezzo a quel viavai caotico e fitto di persone occupate a far fronte all’emergenza. Si inserì nel perimetro limitato al solo personale medico, ignorando i richiami dei bodyguard. Rientrò nell’ospedale da cui tutti sembravano fare a gara per uscire e salì di corsa al terzo piano, saltando i gradini due a due. La stanza del suo amico si trovava nel reparto di terapia intensiva, l’unico dotato di tutti i macchinari necessari per mantenerlo in vita. Aveva battuto quel tragitto centinaia di volte, anche più al giorno, da quando era giunta a Porto Alghepoli, ma mai con quella fretta, senza guardarsi attorno, senza pensare a qualcosa da dire a Crystal per strapparle anche solo una smorfia o alla possibile scena del risveglio di Silver.
Quando rimise piede nella stanza dove il fulvo alloggiava contro la sua volontà, con il fiatone e il cuore a mille, si rese conto di come stessero veramente le cose. Una grigia ondata di gelo le salì al cuore, salendo dal pavimento. Silver era ancora lì, in coma farmacologico, spento e inerme, in una stanza abbandonata, nel triste reparto di un ospedale. Nessuno si curava di lui, il mondo lo aveva abbandonato. Non era successo niente e se il terremoto avesse tolto la corrente all’ospedale, spegnendo i macchinari che gli facevano battere il cuore, probabilmente sarebbe morto senza che nessuno se ne accorgesse, in silenzio, da solo.
E Yellow era corsa lì... per che cosa? Per accertarsi che fosse ancora in coma, nonostante il panico generale? Ebbene, lui era ancora tranquillo, l’unico ancora tranquillo.
 
«Hai sentito, Siryl?»
Il piccolo Whismur rispose con uno sguardo sornione. Tutti lo avevano sentito, erano crollati dei palazzi. E lui era pure ironicamente dotato di orecchie ultrasensibili.
Le Cascate Meteora erano un luogo quieto, in cui era possibile udire il fruscio dell’acqua che scorre timidamente, all’interno di una delle grotte calcaree più antiche del globo. Eppure, il terremoto era riuscito a scuotere anche la proverbiale pace di quel luogo mistico. Una ragazza dai capelli neri, accampata nei pressi di una delle uscite che dava a sud est, scorgeva tutto lo skyline di Hoenn in lontananza: il Monte Camino, più vicino a lei e il Monte Pira, appena in secondo piano. Sullo sfondo, era possibile posare gli occhi anche sul cratere all’interno del quale sorgeva Ceneride e la sottile sagoma della Torre Cielo, ma il buio della notte impediva la vista anche ad un paio di occhi buoni come i suoi. Lei si rendeva conto di cosa stesse succedendo. Era così che tutto era iniziato la prima volta e allo stesso modo tutto sarebbe finito.
«Dobbiamo cercare lui, ancora una volta» disse la ragazza al suo Pokémon.
Come convocato da una forza telepatica, un Salamence spuntò fuori dalla coltre oscura, pronto a fungere da cavalcatura per la sua Allenatrice.
Lyris salì in groppa al dragone, sussurrò una destinazione al suo orecchio e partì alla massima velocità. Rayquaza era morto, Hoenn aveva bisogno di lei.

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Capitolo 19
*** Capitolo 18: Il lupo solitario ***


XVIII
Il lupo solitario
 
 
«Ehi» mormorò Yellow.
«Ehi» rispose Crystal.
La bionda era comparsa accanto al lettino dell’amica, aveva con sé due tazze di cartone probabilmente colme di caffè. Si trovavano all’interno di una tenda che ospitava altri cinque pazienti. Tutti tranquilli, niente malattie infettive o casi particolarmente difficili, erano perlopiù pazienti in riabilitazione. Come Crystal.
«Ti va?» chiese timidamente la Dexholder di Kanto.
Crystal prese una delle due tazze e la afferrò con entrambe le mani. Aveva risposto al suo saluto e aveva accettato il caffè, due ottimi per quanto piccoli segni, per la speranzosa Yellow.
«Silver sta bene, la sua stanza è sicura, gli apparecchi non sono stati danneggiati» disse la bionda, tanto per fare conversazione.
«Tu dov’eri?» chiese Crystal.
Tre parole. Tre parole e la mente di Yellow sprofondò in un abisso di paranoia oscuro e opprimente. Non sapeva come rispondere. Non sapeva quale fosse esattamente la domanda. Che cosa voleva sapere, Crystal? Forse si riferiva all’incidente in cui lei aveva perso una gamba e Silver era entrato in coma. Dov’era Yellow, mentre un palazzo crollava addosso ai suoi amici? Oppure parlava di tutta la settimana passata all’inseguimento di Zero. Lei e Red erano scomparsi nel nulla, senza dire niente a nessuno.
«Dov’eri quando è arrivata la scossa?» chiese Crystal.
Yellow la fissò per qualche istante, senza rispondere.
«Dormivo. Ho una camera in un B&B, qui vicino» disse, osservando il viso dell’amica. Aveva profonde borse sotto gli occhi e guance scavate. Il suo sguardo era spento e assonnato. Non aveva dormito. Forse perché era spaventata, forse preoccupata per Silver, forse non dormiva affatto da giorni.
«Come stai?» la domanda scese sulla coppia come la lama di una ghigliottina.
Trascorsero alcuni glaciali secondi di mutismo corale.
«Signorina... Kotone» fece distrattamente un medico, passando per i regolari controlli «vedo che i suoi valori stanno tornando nella norma» mormorò il tipo in camice studiando la cartella clinica e lanciando una rapida occhiata alla paziente «ci dispiace che le cose siano andate in modo imprevisto, ma per ora questa stanza improvvisata è il massimo del comfort che possiamo assicurarle».
Il dottore trotterellò via, passando al lettino successivo.
«Sto lavorando alla Zona Safari» riprese parola Yellow, prendendo in contropiede un ulteriore silenzio imbarazzante «così mi tengo occupata».
«Come stanno gli altri?» domandò Crystal.
«Blue mi tiene aggiornata. Sono ancora tutti a Sinnoh, tentano di risolvere il problema della neve, so che Ruby e Sapphire hanno avuto un incidente, ma si sono ripresi».
«Perché non sei andata con loro?»
Yellow fu colpita in un punto debole. Crystal era una delle donne più forti che conoscesse, se ne fosse stata in grado, avrebbe fatto di tutto per correre in aiuto dei suoi amici, anche a costo di abbandonare Silver in ospedale. Come avrebbe fatto a giustificarsi per essere rimasta con le mani in mano, tutto quel tempo.
«Io... non potevo»
«Potrebbero aver bisogno di aiuto, chissà che cosa stanno passando là» il tono della Dexholder di Johto, però, non era accusatorio. Non sembrava voler attaccare Yellow per la sua debolezza «Gold è con loro, spero» chiese, come alla ricerca di un punto fermo a cui aggrapparsi.
Yellow ebbe un altro tuffo al cuore.
«Oh no» fece Crystal, cogliendo l’esitazione dell’amica.
«Lui... è ad Austropoli» pronunciò Yellow, senza guardare altro che il terreno.
«No, no... maledizione» si lamentò l’altra, coprendosi la bocca con entrambe le mani.
Non aveva parlato con nessuno per una decina di giorni, ma si era tenuta aggiornata. Sapeva bene delle condizioni in cui versasse la capitale di Unima, tenuta sotto scacco da un gruppo di terroristi e ridotta alla legge marziale.
«Mi hanno riferito che lui, Platinum e Celia, una dei membri della Resistenza, sono andati ad Austropoli per indagare su una società che sembra aver finanziato alcune operazioni della Faces. Sono partiti una settimana fa» spiegò Yellow.
«Non siete riusciti a mettervi in contatto?»
La bionda scosse lievemente la testa.
«Stupidi incoscienti» imprecò Crystal rivolta a non si sa di preciso chi.
«Sono certa che stanno ancora bene» cercò di confortarla Yellow.
L’attacco terroristico ad Austropoli aveva fatto quasi cento morti in una settimana, contando solamente quelle accertate. Le parole scivolarono addosso alla Catcher come pioggia sulle rocce.
«Devi andare da Blue e gli altri» pronunciò Crystal «aiutali a salvare Sinnoh e poi potrete andare anche ad Austropoli».
Questa volta, Yellow non aveva scuse.
«Non posso farlo» sussurrò.
Gli occhi adamantini dell’amica sembravano riflettere qualsiasi e nessun colore allo stesso tempo «io e Silver non abbiamo bisogno di te, perché non puoi?»
«Sono incinta».
Crystal tacque, tentando di nascondere ogni emozione che imperversava all’interno del suo cranio dietro ad un’espressione impossibile. Lo stupore e l’incredulità avevano avuto la meglio sulla gioia, senza riuscire però a estinguere l’ultimo accenno di sorriso. La ragazza sembrava star contemplando un bellissimo quadro del quale non riusciva a cogliere il reale soggetto.
«E’ di Red?»
«Sì».
«Lui lo sa?»
«Sì».
«Chi lo sa?»
«Solamente Blue... e adesso tu».
«E’ per questo che siete scomparsi?»
«No, insomma... anche. No».
«Maledizione»
«E’ una bella cosa...» la Dexholder di Kanto tentò di apparire sicura, ma fallì miseramente.
«Che diavolo sta succedendo?» pianse Crystal, alzando gli occhi gonfi al cielo.
 
I fiocchi di neve si agitavano violentemente nella convulsa danza del vento gelido. I pini erano immersi in una morbida coperta di neve e sulle soglie dalle rocce delle scarpate pendevano grosse stalattiti di ghiaccio. Gli Snover selvatici, che raramente scendono a quote dove il passaggio umano è più che frequente, si tuffavano tra i cespugli innevati come se stessero cercando qualcosa. Sapevano bene che, di lì a poco, il Percorso 215 sarebbe diventato un luogo pericoloso: al calare della notte, gli Sneasel iniziavano ad aggirarsi in cerca di prede e solamente gli Abomasnow più grossi erano in grado di tenere alla larga quelle malevole creature.
La calma naturale di quello scenario fu interrotta dalla comparsa di una figura poco in armonia con l’ambiente. Era un ragazzo avvolto in un piumino di colore nero che affondava i suoi pesanti scarponi nella neve. Questi giunse davanti all’entrata della grotta più grande, quella che d’estate era attraversata da tutti gli Allenatori diretti a Nevepoli, e si guardò attorno. Appurò di essere solo e sbuffò consapevolmente. A Kalut era stato assegnato il percorso più lungo ed era riuscito comunque ad arrivare per primo. Tipico. Gli Snover lo fissavano dai loro nascondigli. Vedevano in lui una creatura nuova, strana. Solitamente si mostravano amichevoli con i pochi umani che riuscivano ad arrivare da quelle parti, ma quello era differente. Percepivano un’aura di sacralità in lui che incuteva rispetto e ossequio, come se fosse stato allo stesso tempo un essere umano e uno dei grandi Abomasnow del loro clan. Lo videro avvicinarsi all’entrata della grotta e controllare se fosse possibile attraversarla senza rompere il ghiaccio che la bloccava per più della metà. Un corpo umano, appiattendosi contro la parete, ci passava normalmente. Bene.
Kalut si nascose sul ciglio dell’entrata, praticamente invisibile per chiunque si fosse avvicinato senza aspettarsi di incontrare qualcuno. Posò lo zaino sul terreno e controllò il GPS. Attese.
Trascorse una dozzina di minuti, prima che la sua percezione extrasensoriale lo allertasse di una presenza vicina. Anzi due. Non erano gli Snover, quelli li aveva già individuati al suo arrivo. La presenza si fece sempre più prossima, avanzando a passo svelto, seguendo un preciso percorso. Kalut si affacciò a guardare, spiando dall’angolino. Vide Green e Blue che venivano dal percorso a est, quello che conduceva ad uno dei valichi del Monte Corona. Erano stanchi e affaticati, camminavano da oltre un giorno. Le intemperie avevano ricoperto di neve e ghiaccioli le pellicce dei loro cappotti, il freddo aveva tinto di rosso le loro guance. Quando videro una figura umana spuntare improvvisamente dall’ingresso della caverna, esitarono per un brevissimo istante, prima di riconoscere il loro alleato. In una simultaneità quasi cronometrata, dall’interno della caverna giunsero alle orecchie di Kalut il suono dei passi di due persone, molto probabilmente Ruby e Sapphire.
Senza che nessuno potesse vederlo, un uomo stava assistendo da lontano a quella scena. Indossava la mimetica bianca degli agenti Faces, restava accucciato tra i blocchi di ghiaccio, poco sopra i Dexholder, e osservava il gruppo di cinque ricomporsi. Sapeva dove fossero diretti, lui li avrebbe seguiti.
 
«Quanto manca?» si lamentò Sapphire.
«Non molto, l’altitudine è questa, devo solo ricordare più o meno la zona» rispose Kalut.
«Dovremmo fare silenzio» ricordò a tutti Green.
Il gruppo, immerso nella neve e nella bufera fino alle ginocchia, tornò taciturno
«Non devi per forza essere così acido...» gli diede contro Blue, sottovoce.
«Shhh» la zittì Sapphire.
«Sapph, che diavolo...»
«Ha ragione, fate silenzio» la difese Kalut.
Improvvisamente, il, gruppo comprese che Sapphire e Kalut avevano percepito qualcosa.
«Sono da quella parte?» chiese lei, come controprova della sua deduzione.
«Sì, dovrebbero essere in due, probabilmente si tratta di un normale giro di ricognizione» rispose Kalut.
«Cosa facciamo?»
«Ho un’idea» si intromise Ruby, estraendo la sfera di Gardevoir.
Pochi minuti dopo, una coppia di agenti imbacuccati nelle loro tenute mimetiche bianche, apparve all’orizzonte, salendo da una scarpata poco distante. Camminavano svogliatamente, parlando di fatti personali. Uno dei due aveva un Glalie al seguito, un silenzioso osservatore dei ghiacci. Si guardavano attorno, giusto per dare alla loro ronda un tono di serietà, ma era completamente inutile. In quasi due settimane di permanenza della loro squadra, non si erano visti intrusi, nemmeno avventurieri finiti lì per caso. Neanche il gruppo che li aveva preceduti, quello che aveva curato l’installazione del macchinario Nubian, aveva avuto contrattempi del genere.
«La prossima missione voglio che sia ad Alola, ne ho abbastanza di questo freddo» esclamava uno dei due.
«Mi sarei portato il mio Hard-Disk con tutte le stagioni di Dr. House, se ci avessi pensato in tempo» ribatté l’altro.
«Ci pensi che quell’idiota di Jules, l’altro giorno, ha perso due dita per la scommessa? Siamo veramente alla frutta, ormai...»
I due avanzavano, senza rendersi conto che, a pochi metri da loro, ben cinque persone stavano trattenendo il fiato e pregando perché a nessuno dei due venisse in mente di tastare proprio la parete di quel massiccio al quale avevano aderito. Non sarebbe stato difficile individuare quel manipolo di persone abbigliate in tenute non propriamente mimetiche, se Ruru, la Gardevoir di Ruby, non avesse utilizzato una impeccabile tecnica Schermoluce per circondare il gruppo, rendendolo praticamente invisibile. La bufera, inoltre, aiutava a coprire la curvatura della luce che sarebbe stata alquanto sospetta a condizioni di visibilità naturali.
Le due sentinelle passarono oltre, continuando a parlare di fatti personali tanto per ammazzare il tempo. Quando furono abbastanza lontane, Gardevoir calmò la mente e spense lo Schermoluce. Ruby la ringraziò, facendola rapidamente rientrare nella sfera. La vide chiaramente tremare di freddo, quello non era un clima adatto ad un Pokémon come lei.
«Avevano dei fucili...» commentò Sapphire.
«Andrà tutto bene» la tranquillizzò Ruby.
«Se qualcosa dovesse andare storto...» si pose in antitesi Kalut, molto più realista.
L’intero gruppo si voltò verso di lui, aveva l’aria di dover dire qualcosa di importante.
«Ho allertato alcuni membri della Resistenza, sono pronti a darci una mano, in caso di necessità. Sperando che non ce ne sia comunque bisogno» spiegò.
«Di chi si tratta?» chiese Green, un po’ spiazzato da quella rivelazione inattesa.
«Alleati» tagliò corto Kalut, che non intendeva chiaramente parlarne.
Il gruppo riprese il passo, Kalut si guardava attorno con particolare attenzione, tanto per individuare eventuali sentinelle quanto per cercare di orientarsi in quel luogo sperduto e tutto uguale in cui solamente lui era stato.
Quando giunsero nei pressi di una sorta di piccolo dislivello nel quale si apriva l’entrata di una grotta, il ragazzo dai capelli bianchi sembrò illuminarsi all’improvviso. Affondò tre grosse falcate nello spesso manto di neve, come in un entusiastico impeto di soddisfazione. Aveva ritrovato la grotta in cui aveva dormito l’ultimo giorno di spedizione.
«Conosco bene questo luogo» rispose al gruppo che era interrogativo a proposito del suo improvviso cambiamento attitudinale «ci ho passato una notte, la base Faces è qui vicino» spiegò.
Come per accertarsi di non aver fatto una gaffe, entrò nella grotta. Era certo di non sbagliare, ma un controllo di sicurezza non avrebbe fatto male a nessuno. Mosse due passi al suo interno, si rese conto di star camminando su del terreno asciutto e compatto: qualcuno aveva dormito e acceso un fuoco lì dentro, non molto tempo prima. Ragionò rapidamente: probabilmente erano stati i due che avevano incontrato poco prima, sarebbe stata una supposizione plausibile.
«Andiamo, siamo sulla strada giusta» annunciò Kalut.
«Quanto manca ancora?» chiese Ruby, visibilmente più affaticato degli altri.
Kalut ebbe un momento di esitazione «poco più di un’ora, ma se preferite possiamo riposare qui, per un po’» rispose poi.
«Quando saremo là, dovremo combattere» sottolineò Blue.
«Sì» confermò Kalut, tornando all’interno della grotta e ricominciando a tastare il terreno.
«Quanto tempo fa si sono fermati qui?» chiese Green, capendo le azioni del ragazzo.
«Non riesco a capirlo bene dalle tracce, hanno nascosto tutto abbastanza bene, quanto abbiamo impiegato per arrivare qui, da quando li abbiamo incontrati?»
«Meno di un’ora» rispose Green.
«Non erano attrezzati per un’uscita prolungata, era solamente un giro di ricognizione, ma probabilmente avremmo qualche ora di sicurezza» fece Kalut «provate a riposare, ma non disfate i bagagli, io resterò di guardia».
Il gruppo prese posto in una zona non troppo profonda della grotta. Accesero un fuoco grazie ai loro Pokémon e si rifocillarono attingendo alle provviste che avevano portato. Ruby si sedette sul terreno e fece riposare la gamba, Sapphire fu pronta ad aiutarlo. Green e Blue si accoccolarono in un angolo e tentarono di chiudere gli occhi, senza alcun successo. Il gruppo rimase fermo per del tempo, i ragazzi attesero che i loro corpi riprendessero vigore. Parlarono del più e del meno forzandosi ad essere spensierati, fino a quando la stanchezza cominciò a zittirli, uno dopo l’altro. Ruby era seduto con la schiena addossata alla ruvida parete, ma protetta da essa dallo spesso strato di abiti da escursione. Sapphire era invece poggiata su di lui, nascondeva la sua impazienza, ma ogni tanto cominciava a batteva nervosamente il piede a terra, tradendosi. Kalut sedeva nei pressi dell’uscita, vigile e attento.
Ruby ascoltava il rumore delle gocce d’acqua che ticchettavano irregolarmente sulle rocce. Si muoveva il meno possibile per non scomodare Sapphire e ogni tanto tastava il muscolo della sua gambe per verificarne la funzionalità. Senza rendersene conto, chiuse gli occhi, cadendo addormentato.
 
Il chiaro di luna illuminava i terrazzamenti imbiancati del Monte Corona, la notte era calma e la neve aveva smesso di scendere. Una tranquillità che Sinnoh non provava da molti giorni, ormai. Kalut osservava il panorama dai ricercati colori che si stagliava di fronte a lui, sul ciglio della grotta in cui si era rintanato il gruppo. Durante il suo primo viaggio in quella zona, la bufera gli aveva impedito di apprezzare quella bellezza naturale.
Gli altri ragazzi stavano dormendo. Lui vegliava con attenzione, concentrandosi per espandere il proprio raggio di percezione.
“Lo stai sentendo” fece Xatu. Non era una domanda.
«Sì» rispose Kalut, perdendo tuttavia la concentrazione.
“Non perderlo di vista” lo esortò il Pokémon.
Kalut non parlò, tornò a focalizzarsi sull’entità che era riuscito a captare, in lontananza. La ritrovò.
 
«Cercami, hai bisogno di me se vuoi veramente salvare il mondo» disse qualcuno, dall’ombra.
Ruby percepiva una presenza. Sentiva una voce nella sua testa, ma la persona a cui apparteneva era lontana, quasi irraggiungibile. Era una voce conosciuta, i ricordi sembravano schiudersi lentamente come fiori in primavera. La sua mente era in completa confusione, non si sentiva più un essere umano. Dopo un tempo surreale, la sua mente rievocò l’esperienza avuta sulla Vetta Lancia, molti giorni prima. Si rese conto di star percependo la stessa sensazione: si sentiva incorporeo, parte di un enorme sistema universale che prescindeva dall’esistenza fisica, dal tempo, dallo spazio.
«Hai bisogno di me, per salvare il mondo» ripeté la voce. Era una chiaramente una donna.
«Chi sei?»
«Concentrati, Ruby, puoi arrivare a me, pacifica la tua mente».
«Sei lontana...»
«Ho bisogno di incontrarti, Hoenn ha bisogno di te, tutti hanno bisogno di te» la voce non stava rispondendo alle sue domande, sembrava parlare a vanvera e rendere Ruby partecipe dei propri pensieri.
«Svegliati, Ruby, svegliati».
Per un secondo, il mondo scomparve. La presenza smise di esistere, l’entità lontana scomparve oltre l’orizzonte, Ruby tornò un essere corporeo, umano, vulnerabile.
«Dobbiamo muoverci» esclamò Sapphire, ricomponendosi e tirandolo per un braccio.
Ruby fu subito in piedi. Si rese conto di essere sveglio. Si rese conto di essere vivo.
«Che succede?» chiese, con la bocca impastata.
«Kalut ha captato qualcuno, poco lontano da qui, non è un agente Faces e ha con sé dei Pokémon molto potenti» gli rispose Blue.
«Dobbiamo muoverci» ordinò Green.
Il gruppo fu di nuovo in movimento. I ragazzi si lasciarono la grotta alle spalle, voltando lo sguardo al percorso che Kalut stava indicando loro. Il ragazzo stava ragionando, cercava di dedurre l’identità di quel qualcuno che si era avvicinato così pericolosamente a loro. Difficilmente sarebbe potuto essere un esploratore, un avventuriero o un altro civile anonimo. C’era un motivo se quelle zone erano rimaste inesplorate per anni e nessuno avrebbe mai avuto motivo di girare da quelle parti, specialmente in quel periodo. Non aveva riconosciuto Yellow né tantomeno Red, quindi si trattava al cento per cento di un agente Faces, un pezzo grosso.
«E’ sicuro dirigerci direttamente verso la base e attaccarla?» chiese Blue, in extremis.
«Sì, credo sia l’ultima possibilità, la mia ipotesi è che abbiano mandato qualcuno di forte per fermarci... o comunque per provarci, il che vuol dire che si sono accorti che siamo arrivati qui» rispose Kalut.
«Abbiamo un piano?» domandò Ruby.
«Non ci serve, nella base troveremo una ventina di agenti al massimo, possiamo affrontarli frontalmente senza alcun problema» sottolineò il ragazzo.
«Ma così chiameranno delle squadre di supporto» lo contestò Green.
«In tal caso, farò intervenire gli alleati di cui vi parlavo prima, sono poco sotto di noi, su ogni versante del monte. Non abbiamo tempo per un azione stealth».
«Odio quando sei così misterioso» si lamentò Blue.
«I membri della resistenza non si fidano nemmeno di loro stessi, se facessi i loro nomi smetterebbero di aiutarmi» si scusò Kalut.
«Riesci a percepire ancora quell’Allenatore?» chiese Sapphire.
«Non riesco a concentrarmi così, prima ero in totale tranquillità... ma...»
«Cosa?»
«Percepisco altre presenze»
«Ci hanno raggiunti?»
«No, siamo arrivati» fece Kalut.
Erano stupiti di aver impiegato così poco tempo, probabilmente avevano corso senza rendersene conto, per evitare il possibile incontro con l’Allenatore sconosciuto. Oltrepassarono una grossa roccia ricoperta di neve e individuarono la ringhiera di una scaletta metallica. Davanti a loro si apriva il buco che collegava la superficie alla grotta, sembrava una voragine naturale, ma era stata scavata artificialmente. Non si vedevano guardie, attorno, le uniche due di guardia, erano lontane. I ragazzi si presero un momento, per far calmare le palpitazioni e prendere coraggio.
«Siete pronti?» domandò Kalut.

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Capitolo 20
*** Capitolo 19: Tiro al piccione ***


XIX
Tiro al piccione
 
 
Nel cenote innevato che dava accesso alla grotta del Nodo, l’impalcatura di metallo che sorreggeva la passerella emetteva rumori inquietanti. Non era una cosa anomala, era una costruzione provvisoria che spiraleggiava lungo la circonferenza di un grosso buco nel terreno, capitava spesso che il vento o la caduta di blocchi di neve o di ghiaccio la facessero cigolare. Lawrence, passeggiando lungo il tratto che dava accesso alla zona del macchinario, ascoltava quei rumori senza allarmarsi. Osservava il cerchio di luce che era una dozzina di metri sopra la sua testa, seguì con gli occhi l’andamento del ponticello che girava in circolo per quasi tre volte, prima di raggiungere la superficie. Era una giornata tranquilla, due colleghi erano usciti molto presto per la ronda e lui era riuscito ad accaparrarsi una colazione sostanziosa. Fortunatamente, la Faces pagava una piccola fortuna per stare in quell’inferno di ghiaccio. E lui aveva una moglie e tre figli, ad Adamanta. Aveva detto loro che sarebbe stato a Kalos per un corso di aggiornamento, come da protocollo. L’operazione Nubian era un progetto top secret a cui solo una ristretta sezione dell’organizzazione Faces aveva accesso. Perché lo includessero, aveva dovuto superare varie prove psicoattitudinali e numerosi test fisici e logici. Solamente a coloro che erano riusciti ad entrare nel progetto Nubian, era stata rivelata la vera natura di quest’ultimo. Ma nessuno aveva protestato, si erano tutti messi al lavoro. Un tipo del reparto ranger che era entrato nel progetto per il rotto della cuffia era andato a parlare con il direttore, chiedendo maggiori delucidazioni. Aveva dato le dimissioni la sera stessa e girava voce che si fosse anche trasferito. O che, in ogni caso, era scomparso.
«bzzz... Lawrence, controlla la zona alta della passerella, ci sono problemi di trasmissione, credo che una la telecamera dodici sia stata spostata dalla neve... bzzz» disse Conrad tramite la ricetrasmittente.
«bzzz... ricevuto, do un’occhiata... bzzz» rispose Lawrence.
Conrad era di turno nella sezione sorveglianza, doveva controllare numerosi monitor connessi con le telecamere. Era un tipo sveglio, veniva da Sidera, ma i suoi genitori erano di Alola.
Lawrence cercò di individuare la zona indicata rivolgendo gli occhi verso il cerchio luminoso, ma era difficile delineare precisamente le sagome, controluce. Ad un certo punto, una sagoma nera oscurò una piccola porzione di cielo.
«bzzz... Lawrence controlla anche la camera undici... bzzz» disse Conrad, notando un’anomalia in un secondo monitor. Poi si rese conto, che anche un terzo aveva smesso di funzionare a dovere. Allo stesso modo, un quarto.
«bzzz... Lawrence, rientra, Lawrence!» esclamò al walkie talkie.
«Conrad, ci sono problemi?» chiese Jules, dalla stanza vicina.
«Ho perso quattro telecamere e Lawrence non risponde, chiama Jackson e Watson, sono di ronda all’esterno, chiedi se hanno...» Conrad si interruppe. I suoi occhi erano fissi sul monitor della camera numero sette, che inquadrava la porta d’accesso alla sezione riservata: le braccia di un Pokémon avevano aperto una fessura tra le due ante scorrevoli della porta, la stavano forzando, aprendola senza troppa difficoltà «fermati Jules, lascia stare, prendi le armi» ordinò Conrad, attivando l’allarme.
In ogni stanza della base, scattò un ripetitivo segnale acustico, che allertò tutti gli agenti. Alcuni misero mano ai fucili, altri presero le Poké Ball.
«Jackson, Watson, siamo in emergenza» esclamò Conrad al comunicatore, con una mano sulla pistola che portava appesa alla cintura «chiamate i rinforzi esterni, rientrate immediatamente, è un codice rosso!»
 
«Dovrebbero essere armati, utilizzate mosse scudo, cercate di non uccidere!» ordinò Kalut.
Il gruppo penetrò nella galleria illuminata, accedendo alla zona riservata agli agenti. Ognuno aveva al seguito uno o due Pokémon, tutti sapevano quale fosse il piano d’azione. Green e Blue si diressero a destra, Ruby e Sapphire a sinistra, Kalut proseguì dritto.
I due Dexholder di Kanto si catapultarono dentro la prima stanza, una sorta di laboratorio pieno di macchine e rottami «Attenta!» esclamò Green, aiutando Blue ad evitare due colpi di arma da fuoco. I due si nascosero dietro un macchinario metallico.
«Quanti sono?» chiese lei, senza farsi intimidire.
«Due» rispose Green.
«Perfetto» Blue chiamò Ditto all’appello, il quale prese le sembianze della sua Allenatrice.
I due agenti armati videro la ragazza uscire fuori dal suo nascondiglio e cominciarono a sparare. Questa sembrava non curarsene, continuando a correre senza che alcun proiettile riuscisse a ferirla. Gli agenti non riuscivano a capacitarsene. La videro raggiungere l’altro polo della stanza e si scambiarono un’occhiata allibita. Avevano scaricato oltre dieci colpi nel vuoto senza buttare giù il nemico.
«Idropompa» disse una voce.
Due getti di acqua ad altissima pressione colpirono in pieno gli agenti, sbattendoli violentemente al muro. Entrambi caddero svenuti. Calma. Blue e Green vennero fuori dal nascondiglio. La ragazza fece rientrare Ditto ma tenne Blastoise pronto all’azione. Il Pokémon trasformista era stato crivellato di colpi, ma i buchi non erano riusciti a ferirlo. Il suo corpo si era rimarginato spontaneamente.
 
«Fermo, aspetta» disse Sapphire, bloccando Ruby prima che questo si catapultasse nella prima stanza. I due Dexholder erano a destra della porta «Kiruru» chiamò Sapphire, convocando il suo Gallade «riesci a captare la presenza delle persone qui dentro?»
Tre agenti si erano piazzati appena dietro alla porta d’ingresso, avendo udito i passi in avvicinamento. Stringevano i fucili in mano, pronti ad attaccare alle spalle chiunque fosse entrato. Impallidirono quando il muro al quale si erano appoggiati cominciò a gonfiarsi, i bulloni che tenevano insieme i pannelli di metallo a saltare e l’impalcatura di tubi a sgretolarsi. Un gigantesco Aggron sfondò la parete, rovesciandoli con un solo colpo poderoso. Tutti e tre si ritrovarono a terra, privi di sensi. Il Pokémon Corazza ruggì con arroganza, lasciando passare la propria Allenatrice.
 
Kalut camminava in sicurezza, non aveva imboccato quel percorso in maniera casuale. Sapeva che avrebbe incontrato principalmente Pokémon, anziché tizi armati. Un Drapion scattò verso di lui in un impeto convulso, uscendo fuori da una zona d’ombra.
Kalut non fece una piega, gli piazzò soltanto una mano sul carapace, tranquillizzandolo all’istante. Era un trucco che gli riusciva esclusivamente con i Pokémon selvatici e non legati ad un Allenatore, ma quegli esemplari erano stati preparati e allevati nei laboratori Faces e poi consegnati agli agenti solo per l’occasione. Era praticamente la stessa cosa. Drapion placò la sua furia cieca e zampettò al fianco di Kalut, pronto a difenderlo dai pericoli.
«Velenodenti, stordisci il tuo padrone» ordinò Kalut.
Drapion si rivolse verso il punto da cui era venuto, attaccando l’uomo che stringeva in mano la Ball da cui era uscito. L’agente Faces non ebbe tempo di comprendere ciò che era appena accaduto e cadde a terra, offuscato dalle tossine.
«Fielepunte alle mie spalle» ordinò lui.
Il Pokémon eseguì, piazzando una trappola di spine velenose sul terreno roccioso che Kalut aveva già percorso.
 
Gli agenti che si erano rintanati nella zona mensa udivano alcuni spari lontani, ma niente di più. Erano due e aspettavano, pronti ad attaccare gli intrusi. Erano stati sorpresi da quell’allarme e si erano armati alla ben e meglio. Uno dei due aveva portato la propria 9 millimetri, ma l’altro aveva ripiegato sull’ascia metallica del kit antincendio.
«Hai sentito?» chiese uno dei due, sussurrando.
«Non è niente» rispose l’altro.
«Erano dei passi».
«No, non è possibile» il rumore che entrambi avevano percepito era stato troppo flebile, all’interno di quella grotta, il rumore degli scarponi era amplificato dal riverbero fino ad essere udibile con chiarezza a metri di distanza «non di un essere umano, almeno» aggiunse.
Dal nulla sbucarono fuori un Plusle e un Minun, che rilasciarono numerosi chilowatt di energia elettrica attraverso i loro corpi. Gli agenti rimasero paralizzati sul terreno metallico. Ruby e Sapphire, recuperando i propri Pokémon, si fecero strada verso la prossima area.
 
«Spegni le luci» ordinò Green al suo Porygon-Z.
Il Pokémon Virtuale entrò nella centralina del generatore, bloccando il flusso di energia. I fari al neon di quell’area si spensero all’improvviso, lasciando quella grotta al buio. L’unico agente rimasto, non riuscendo a vedere più niente, uscì dal suo nascondiglio, cedendo alla paura. Si diresse verso l’uscita, inciampando nei cavi sparsi sul terreno.
Clunk!
Fu steso dalla Cozzata Zen del Golduck di Green, che riuscì a colpirlo in pieno ad occhi chiusi grazie ai suoi poteri psichici. I Dexholder di Kanto scavalcarono il suo corpo privo di sensi e passarono oltre.
 
«Vieni qui» esclamò Kalut al Pokémon che stava percependo
Un Druddigon si liberò spontaneamente dalla Ball del suo Allenatore. L’agente Faces si era nascosto dietro un angolo, pronto ad attaccare il ragazzo, la sfera gli esplose in mano e il Druddigon si rivolse contro di lui, stordendolo con un violento Dragofuria. Il rettile si unì al Drapion che agiva già al seguito di Kalut.
Il ragazzo dai capelli bianchi raggiunse l’obbiettivo. Davanti a lui, un portale metallico si stagliava come ultima barriera. Dalla sua destra spuntarono Green e Blue e dalla sinistra Ruby e Sapphire, tutti e quattro investiti da una intensissima scarica di adrenalina. Avevano evitato proiettili e combattuto contro esseri umani, neanche loro erano avvezzi a ciò. La situazione si era calmata e nella base era tornato il silenzio siderale che si addiceva ad un luogo tanto sperduto nel nulla.
«Gli agenti sono tutti inoffensivi?» domandò Kalut.
«Svenuti» rispose Green, non nascondendo un velo di insoddisfazione che suscitò un’occhiataccia di Blue.
«Oltre questa porta dovrebbe esserci il macchinario, Ruby, forzala».
Il Campione di Hoenn chiese l’aiuto di Swampert, che spalancò i due lembi del grosso varco metallico senza alcun problema. Gli Allenatori passarono alla stanza successiva venendo investiti da un’aria gelida particolarmente tagliente.
Kalut era già stato lì, ma i quattro Dexholder impallidirono di fronte a quello spettacolo. Centinaia di Pokémon di tipo Ghiaccio erano stati incapsulati in delle teche di vetro simili ad incubatrici, sembravano addormentati, comatosi. Ogni Pokémon era collegato con dei cavi a quello successivo e il pavimento era ricoperto da un fitto reticolo di connettori che si ramificava per tutta la stanza.
«Dio...» mormorò Sapphire.
Blue era inorridita, Ruby esterrefatto. Persino Green faceva fatica a nascondere le sue emozioni.
«C’è qualcuno» mormorò Kalut, attirando l’attenzione di tutti, ma non spezzando quel senso di orrore che permeava l’aria del gruppo.
Da una porticina che era sul lato di quella stanza, proveniva un rumore soffocato. Kalut entrò prima di tutti. Gli Allenatori si ritrovarono in una stanza piena di strumentazioni digitali e monitor.
«E’ la sala di sorveglianza, credo ci sia anche la consolle che controlla tutto lo stabilimento» comunicò Green.
«Hanno chiamato i rinforzi» notò Kalut, posando gli occhi sul comunicatore fisso che emetteva quel suono gracchiante.
bzzz... Conrad, ho mandato tra squadre di supporto, qual è la tua situazione? bzzz” disse qualcuno, dall’altro capo del collegamento.
«Ci penso io» fece Kalut, avvicinandosi al microfono «Acromio, abbiamo bisogno di una mano, puoi mandare tutte le truppe» disse tranquillamente.
Nessuno dei Dexholder comprese.
“...porca putt... hanno già preso possesso... vaffan... contatta il direttore, attiva il comando...” balbettò l’agente Faces dall’altra parte, sentendo la voce di qualcuno che non fosse Conrad.
«Green, mi serve il tuo Porygon-Z» fece Kalut.
Il Dexholder, continuando a non capire, lo estrasse dalla Ball.
«Disinnesca il comando di emergenza che stanno per inviare» gli ordinò Kalut.
Il Pokémon Virtuale penetrò nel computer centrale accedendo digitalmente al sistema della base.
Mentre il Pokémon di Green agiva, Kalut si rivolse al Drapion e al Druddigon che lo stavano seguendo «cercate nella base, trovate gli ordigni e recidetene i cavi» i due Pokémon si mobilitarono immediatamente.
«Che sta succedendo?» domandò finalmente Blue, esprimendo la titubanza dell’intero gruppo.
Kalut si rivolse verso di loro: «ho chiesto aiuto ad Acromio, è il capo della squadra dei rinforzi, è l’unico che è riuscito a fare breccia nella rete di comunicazioni della Faces, quindi l’ho allertato utilizzando questo dispositivo» indicò il comunicatore «ovviamente, l’agente Faces che era dall’altra parte, sentendo la mia voce, si è reso conto della gravità della situazione e ha lanciato il comando di autodistruzione della base, Porygon si sta occupando dell’input digitale e i miei Pokémon dei collegamenti analogici».
«Avrebbero fatto esplodere la base?» chiese Sapphire, esterrefatta «con tutti i Pokémon e gli agenti?»
«Per un bene maggiore» rispose Kalut, non rendendo il fatto più dolce.
«Come facevi a saperlo?» chiese Green, sospettoso.
«Ho visto parecchie basi Faces... e poi era intuibile» rispose lui.
«Chi è questo Acromio?» domandò Blue.
Kalut sorrise «se ve lo state chiedendo... sì, si tratta dell’ex secondo leader del Team Plasma».
La dichiarazione lasciò a tutti l’ultimo dubbio.
«Kalut, chi sono i nostri alleati?» chiese Green, ancora sull’orlo del sospetto.
«Una coalizione riunita da Acromio in persona formata da molti vecchi membri dei team che avete affrontato» rispose lui, senza paura «ci sono vecchi membri del team Rocket, alcuni del team Idro e Magma, un paio di reclute del team Flare e del team Galassia... è per questo che arrivati a Evopoli avevamo accesso al loro vecchio quartier generale».
«Dici sul serio?» fece Ruby, incredulo.
«C’è anche Rossella» gli rispose Kalut in contropiede «l’iniziativa è partita da lei e da pochi altri ex membri, si sono tutti mobilitati dopo le vicende di Vivalet, vedendo voi, i loro ex avversari, coalizzati contro una minaccia comune. Hanno contattato la Resistenza, alcuni di loro ne facevano già parte da molto prima. Ovviamente, non si sono subito uniti a noi, abbiamo mantenuto le debite distanze, sia da parte nostra, per sicurezza, sia da parte loro, per non rischiare» poi si focalizzò su ciò che aveva appena fatto, chiedendo l’aiuto di Acromio «Sono tutti a rischio, gente che si è rifatta una vita con difficoltà o che non ha trovato il modo di riscattarsi dal proprio passato: sarebbero intervenuti solamente con la certezza di riuscita. Ora che sanno che siamo penetrati fin nelle profondità della base e devono solo darci il tempo di agire, fermando i rinforzi della Faces, agiranno dalla nostra parte» concluse.
I Dexholder rimasero allibiti e stupiti da quelle parole.
«E’ tutto ciò che abbiamo, dobbiamo fidarci di loro» fece Kalut.
«Cerchiamo di fermare questo macchinario prima possibile...» tagliò corto Green, girando i tacchi.
Kalut abbassò lo sguardo sulla consolle che controllava l’intera base. Cercò ciò che più si avvicinasse ad un comando di shut-down generale, ma il macchinario era articolato e complesso, persino per lui. Continuò a spulciare tra le impostazioni del computer.
«Mi ci vorrà parecchio tempo. Ruby, per favore, cerca il quadro elettrico centrale, vorrei provare a... staccare la spina» chiese, con tranquillità.
«Vado» acconsentì lui.
«Ci sono alcuni comandi ai quali posso accedere solamente tramite un badge di riconoscimento, qualcuno può prendermene uno da uno degli agenti svenuti?» chiese ancora Kalut.
I suoi modi erano un tantino sgarbati, ma nessuno aveva niente da fare e la situazione era ormai perfettamente calma e controllata. Blue si diresse verso le stanze precedenti senza emettere risposta, Green la seguì con gli occhi, distraendosi dallo studio approfondito che stava conducendo sulle capsule dei Pokémon Ghiaccio. Le osservava, girava loro attorno. Probabilmente si stava chiedendo se, staccando all’improvviso tutti quei fili, avrebbe potuto salvare quegli esemplari di Pokémon dai quali stava venendo succhiata tutta l’energia. Sapphire, pochi filari di capsule più lontana, seguiva l’andamento dei cavi, che diventavano man mano meno numerosi, convergendo progressivamente in dei grossi fasci ordinati.
«Ragazzi, venite a vedere...» disse ad un certo punto.
Green e Ruby, gli unici ad averla sentita, la raggiunsero con fare titubante.
«Il Nodo di cui parlava Kalut» commentò Ruby.
I tre Dexholder stavano guardando una nicchia nel terreno nella quale serpeggiavano due tozzi fasci di cavi elettrici, collegati a dei grossi elettrodi. Tra questi ultimi, c’era un nodo, un intreccio di due funi fatte di un materiale nero e opaco, indefinibile, alieno. Il nodo, incastrato nella roccia profonda era immobile, aveva l’aria di essere completamente indistruttibile e impossibile da sciogliere. Era ricoperto da una spessa patina di ghiaccio, nel punto di convergenza dei due elettrodi, da esso si dipanava quell’aria gelida che riempiva la stanza.
«Regigigas avrebbe fermato i continenti con dei nodi come questo?» domandò Sapphire, rievocando il mito.
«Secondo quanto si narra a Sinnoh» rispose Ruby.
«Congelando il Nodo, si congela l’intera regione» dedusse Green «è assurdo, è antiscientifico» commentò.
«Dov’è Blue?» chiese Sapphire.
In quel momento, il suono di uno sparo esplose in tutta la grotta, mandando in frantumi il silenzio cristallino.
Kalut corse fuori dalla sala di sorveglianza. I Dexholder si precipitarono con lui. Green oltrepassò tutti, imboccò il portone divelto, si guardò attorno in cerca della sua donna. La vide, accasciata contro una parete della grotta, alla sua destra. Corse verso di lei, senza sentire le parole che stava pronunciando.
«Fermo, Green... è una trappola...» mormorava, con un filo di voce.
Il Capopalestra fece un passo di troppo.
«E’ colpa vostra» disse qualcuno, dall’ombra.
Green percepì il brivido lungo la schiena provocato dall’avere una pistola puntata addosso. Non reagì. Non ebbe il tempo di difendersi, voltarsi o provare a soccorrere Blue. Era spacciato.
«Bastardo» esclamò Sapphire, bloccando l’avambraccio dell’uomo armato, prendendolo alle spalle. Le unghie dell’altra mano affondarono nel suo collo, strappandogli un urlo spontaneo. Il colpo andò a vuoto, deviato dall’aggressione subita.
Il terzo a giungere sulla scena fu Ruby, che corse in aiuto della sua ragazza. Vide l’uomo vestito di nero provare a scollarsi Sapphire di dosso: lei aveva una presa salda, ma lui disponeva di un fisico non indifferente. Riuscì a liberarsi dalla presa e fece per voltarsi, con l’arma carica ancora nella mano. Ruby si fece avanti, bloccandogliela e sferrandogli un pugno sui denti con tutta la forza di cui disponeva in quel momento. La pistola rimase nella sua mano, l’uomo indietreggiò, sputando sangue e due denti.
Di riflesso, il Dexholder di Hoenn puntò sull’aggressore l’arma appena sottrattagli. Questo non sembrò intimorito, ma smise di muoversi bruscamente, limitandosi al portare la mano sul labbro spaccato, per tamponare la ferita. Finalmente, la luce di un neon riuscì a illuminarlo.
«F-figli di puttana» balbettò.
Ruby e Sapphire impallidirono. Era lui, era il ragazzo che li aveva attaccati sulla Vetta Lancia.

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Capitolo 21
*** Capitolo 20: Il male minore ***


XX
Il male minore
 
 
Il ragazzo barcollò, tamponandosi il labbro ferito. Ruby e Sapphire tenevano gli occhi esterrefatti fissi su di lui, lo riconoscevano. I capelli castani lunghi e scompigliati, il volto scavato e arrossito dal freddo, la tuta nera invernale ancora ricoperta di neve.
«Blue!» fece Green, precipitandosi sulla sua donna.
La Dexholder era appoggiata alla parete e stava lentamente stramazzando sul terreno. Teneva gli occhi bassi e le mani premute sull’addome. Il suo cappotto era inzaccherato di sangue, alcuni rivoli le scendevano lungo i pantaloni e raggiungevano il terreno.
«Cazzo... cazzo... cazzo...» mugolava lei, terrorizzata.
Nella stanza giunse anche Kalut, meno destabilizzato rispetto a tutti gli altri presenti poiché maggiormente dotato di sangue freddo. Si rivolse immediatamente verso l’aggressore, che era disarmato e ferito, ancora nel mirino di Ruby. Quello non poté opporsi, Kalut evitò un suo calcio, lo bloccò con un braccio e gli gettò l’altro attorno al collo, stendendolo in poco meno di cinque secondi.
«Aprile il cappotto, bisogna fasciare la ferita» fece poi rivolgendosi a Green e gettandosi alla ricerca di un kit medico.
Green scoprì la ferita di Blue, liberandola da tutti gli strati di vestiti che la coprivano «Va tutto bene, va tutto bene» ripeteva.
«Ho i brividi, Green».
«Blue, ti prego... resisti... Kalut! Sbrigati, cazzo!» la voce del Capopalestra tremava dal terrore.
Kalut esclamò qualcosa e tornò subito indietro, portando con sé una scatola bianca etichettata con una croce verde. Ne estrasse ovatta, garze e una siringa di antidolorifico. Green strinse il corpo di Blue, facendo in modo che si muovesse il meno possibile e sollevandolo il necessario perché Kalut potesse completare una fasciatura decente. Vi era soltanto un foro di entrata, che si trovava appena sotto il cardias, sopra l’ombelico della ragazza. L’emorragia era copiosa, ma i due Allenatori non avevano paura di sporcarsi le mani. Completarono la medicazione stringendo bene le garze che si tinsero immediatamente e completamente di rosso. Blue rimase a terra, appena cosciente. La rivestirono e Kalut le fece l’iniezione di morfina nel braccio, sollevandole la manica. Il dolore sembrò calmarsi, il suo respiro tornò regolare. Green continuava a stringerla. La situazione sembrava calma. Ruby e Sapphire erano rimasti paralizzati e immobili, con la pistola ancora in mano. Se il ragazzo si fosse mosso, probabilmente, non sarebbero stati neanche in grado di sparare. Quello sconosciuto li aveva quasi uccisi, sulla Vetta Lancia. Li aveva attaccati alle spalle e, trovandosi alle strette, aveva provato a finirli con una granata. A causa sua, erano entrambi andati tanto vicini alla morte come mai prima di quel giorno. Ed era poi tornato così: comparendo dal nulla, sparando alla loro amica e per poco anche a loro. Giaceva lì, immobile, privo di sensi, stordito da Kalut.
«Legatelo» ordinò quest’ultimo, svegliandoli dalla catalessi «e immobilizzate anche gli altri».
Tutti i Pokémon del gruppo furono liberati per le grotte, con l’incarico di sorvegliare ogni agente svenuto e rimetterlo a dormire, nel caso in cui si fosse svegliato. Green e Blue si rintanarono immediatamente nella sala dei monitor, che era l’unica con un sistema di riscaldamento decente. A Blue furono date tutte le coperte e i sacchi a pelo, perché non andasse in ipotermia. Ruby, Sapphire e Kalut portarono l’aggressore nei pressi del Nodo, lo privarono delle armi e delle Ball e lo immobilizzarono con dei legacci. Il ragazzo fu svegliato da un getto d’acqua lanciato dallo Swampert di Ruby. In quella stanza si congelava, essere zuppi non era certo una cosa piacevole.
«Chi sei?» esordì Ruby.
«Flegatemi...» mormorò quello tenendo gli occhi fissi sul terreno e parlando male a causa delle ferite che aveva in bocca.
«Chi sei?»
«F-flegatemi» ripeté, cominciando a balbettare a causa del freddo.
«Dicci chi sei o ti lasceremo morire di freddo, qui, solo» chiarì Kalut.
«Mi avete t-tolto mia f-forella!» sbraitò quello, sputando altro sangue «mi avete t-tolto t-tutto!»
Sapphire si avvicinò alla faccia del ragazzo, scrutando il suo volto attraverso i capelli bagnati e disordinati che gli pendevano davanti agli occhi «perché hai cercato di ucciderci? Che cosa vuoi da noi?»
«Avete f-fatto m-morire mia forella...» balbettò lui «f-fiete come loro, m-mi avete tolto tutto, m-mi avete tolto Felia».
A Kalut gelò il sangue in ogni vena del corpo. Ruby e Sapphire impiegarono più tempo per arrivarci.
«Sei Xavier...» sussurrò Kalut «tu sei il fratello di Celia...»
I due Dexholder di Hoenn ricostruirono pezzo dopo pezzo ciò che l’alleata di Kalut aveva detto loro, molti giorni prima. Aveva fatto fatica a rivelare quel particolare, ma aveva accennato ad un fratellastro che era stato reclutato dalla Faces, un anno prima.
«Lavori per la Faces?» gli domandò Kalut, fingendo di non essere stato sconvolto da quella rivelazione.
«No» risposero Ruby e Sapphire, prima che lui potesse rispondere vomitando altre parole sconnesse.
I due Dexholder ricordavano ogni singolo istante di quel giorno orrendo. Poco prima di lanciare contro di loro quella granata, Xavier aveva risposto alla stessa domanda.
«Ha detto di non lavorare più per loro» aggiunse Ruby.
«E perché si sarebbe messo contro di noi?» domandò Kalut.
Nessuno seppe ribattere.
«E’ vero ciò che dicono?» venne chiesto direttamente a lui.
«, n-non f-fono d-della Facef» confermò.
«Se non combatti dalla loro parte, perché ci hai attaccato?» chiese Ruby.
«P-perché avete uccifo m-mia forella» ripeté per l’ennesima volta.
«Noi non abbiamo fatto del male a Celia, lei lavorava con noi, probabilmente è ancora viva, anche se si trova ad Austropoli» fece Kalut.
Xavier sollevò lo sguardo, fissandoli con due occhi spiritati e terrorizzati allo stesso tempo «E’ andata ad Auftropoli?» chiese, con un filo di voce.
Non lo sapeva. Non era per quello che aveva sviluppato tanto livore nei confronti della Resistenza.
«Figli di puttana!» gridò, avventandosi in modo impacciato verso Kalut, inciampando su se stesso e finendo a terra senza neanche sfiorarlo «figli di puttana! Fiete tutti uguali!» continuava a gridare col volto spalmato sulla roccia gelida, sputando sangue e saliva.
I Dexholder e Kalut non infierirono ancora, non ebbero il coraggio di toccarlo.
«Datevi una mossa, bisogna fermare il macchinario!» esclamò Green, dall’altra stanza «Blue dev’essere portata in ospedale!»
Kalut scambiò una rapida occhiata con Ruby. Si capirono subito. Blue era spacciata, era impossibile portarla a valle in tempo con una ferita di quella portata, persino Ruby, che ci era riuscito con Sapphire, ne era cosciente. La Dexholder di Hoenn fu l’ultima a comprenderlo.
«No... no, no!» si intromise nella silenziosa intesa tra i due «non penserete di lasciarla morire?»
«Sapphire, Sapphire, ti prego...» tentò di calmarla Ruby.
«Cazzo, no, anche lei no!» continuava.
«Non possiamo distrarci dal nostro obiettivo, Sapphire» fece Kalut, guardandola negli occhi «Blue è stata colpita ad un’arteria, sta perdendo troppo sangue, pochi minuti alle temperature esterne a questa grotta basterebbero per ucciderla» spiegò, gelido.
«No, Blue» ormai la ragazza iniziava a piangere nervosamente «non possiamo lasciarla morire, non...» le parole le morirono in gola.
«Kalut, maledizione, ferma questo affare!» gridò ancora una volta Green.
«Arrivo» rispose, a voce alta «tieni d’occhio Xavier, non abbiamo finito con lui» intimò a Ruby, lasciando quel luogo.
I due Dexholder di Hoenn rimasero da soli. Sapphire si masticava il labbro e Ruby faceva di tutto per mantenere naturale il proprio ritmo respiratorio. Xavier, ancora spalmato sul pavimento, emetteva gemiti soffocati e batteva i denti dal freddo.
 
«Ho bisogno di tre squadroni per l’incursione frontale: il vivo della battaglia sarà sulla vetta alle coordinate che Kalut ci ha inviato. Rossella, Alan e Maxus saranno i luogotenenti» ordinò Acromio al dispositivo di comunicazione «il resto delle truppe si dividerà in cinque squadre sotto il comando di Sird, Saturno, Xante, Ada e Plumeria, e si posizionerà nei punti che ho segnato sul GPS, tutto chiaro?»
Nelle sue cuffie risuonarono in coro diverse conferme, Acromio non riuscì a contarle una per una, ma diede per scontato di non aver lasciato nessuno fuori. Stava sorvolando una delle cime del Monte Corona col suo elicottero insieme ad un pugno di uomini fidati della vecchia formazione del suo Team Plasma. Dal finestrino, riusciva a vedere la sua destinazione e alcune squadre della Faces che vi si avvicinavano accelerando con i loro gatti delle nevi. Non aveva la certezza di riuscire a farcela, ma in lui e nel meticcio che era riuscito a creare riesumando vecchie conoscenze e membri di team distrutti erano riposte le uniche speranze della Resistenza, e tanto bastava.
«Non voglio errori, se non siete convinti di gettarvi nella mischia, ormai è troppo tardi per tirarsi indietro, vendiamo cara la pelle» concluse, al microfono.
Staccò la comunicazione e cambiò le impostazioni al fine di collegarsi con la base Faces.
«Kalut, riesci a sentirmi, Kalut?» fece.
Nella sala della sorveglianza, Green era troppo coinvolto dalle condizioni critiche di Blue per preoccuparsi minimamente dei suoni che uscivano dalla radio. Kalut giunse in quella stanza appena in tempo. Ignorò i due Dexholder accasciati in un nugolo di coperte inzaccherate di sangue e rispose alla chiamata.
«Acromio, parla» pronunciò nel microfono.
«Sono in lieve ritardo rispetto al previsto, le squadre Faces saranno le prime a raggiungervi, preparatevi a resistere da soli, finché i miei uomini non saranno lì» scandì bene le parole senza sminuirne il significato. Non doveva indorare la pillola.
«Va bene, ma tu prova a far arrivare le prime squadre, ho bisogno di tempo, non devo vincere una battaglia» sottolineò.
«Kalut, ci sarà una battaglia e dovremo vincerla» chiarì Acromio.
«Lo so» il ragazzo trasse un sospiro «fai quello che puoi, chiudo» e interruppe il collegamento.
Kalut fece per lasciare la sala comunicazioni, ma Green tentò di intercettarlo con la voce.
«Devo portare Blue a valle» disse, in preda al panico «qual è la via più breve?» gridava.
Kalut non rispose.
«Può salvarsi, puoi fare in tempo» insistette.
«Green, ho da fare... dobbiamo barricarci qui dentro» rispose Kalut.
L’universo del Capopalestra di Smeraldopoli si accartocciò in una matassa informe.
«Non puoi dire sul serio...» balbettò, alzandosi «intendi lasciarla morire così?»
«Non è possibile» scandì Kalut «Salvarla. Non è possibile» e uscì.
Green rimase immobile a fissare il nulla. Alle sue spalle, Blue aveva di nuovo perso i sensi. Ognuno, nella grotta, udì delle urla straziate provenire dalla sala della sorveglianza.
Kalut prese a percorrere i cunicoli a ritroso, oltrepassando tutti i corpi esanimi delle guardie sconfitte poco prima, fino a giungere all’entrata principale. Sapphire gli fu presto alle spalle. Le lacrime le si erano congelate sulle guance e lo sguardo gelido le arrossava gli occhi gonfi. Aveva compreso.
«Che cosa devi fare?» domandò al ragazzo dai capelli bianchi.
«Ruby è con Xavier?» la ignorò lui.
«Come posso essere utile?» riprovò lei.
«Devo chiudere le entrate» spiegò Kalut «gli agenti Faces saranno i primi a raggiungerci, per qualche tempo dovremo resistere con le nostre sole forze.
«Intendi barricarci qui dentro?»
«Se vuoi vederla da questo punto di vista, sì» rispose, seccato.
«Voglio restare all’esterno» affermò.
«Cosa?» domandò Kalut.
«Dentro non ti servo più a nulla, puoi creare un muro di roccia o di ghiaccio e bloccarli per qualche minuto... io posso combattere» era decisa, temprata, inamovibile.
«Ruby...?»
«Ruby farebbe lo stesso» lo interruppe lei.
Kalut rifletté su quale fosse la decisione giusta da prendere. Fissava la ragazza di Hoenn negli occhi e vedeva il mare in tempesta.
«Va bene» acconsentì «blocca le entrate, io mi occupo del macchinario» le consegnò il compito, tornando sui suoi passi.
Sapphire rimase lì, di fronte alla passerella che portava alla superficie. Chiamò a sé i suoi Pokémon, che erano stati incaricati di vegliare sulle guardie, insieme agli altri. Questi la circondarono, condividendo empaticamente il suo forte senso di rassegnazione.
«Aggron, Donphan, restate nei pressi dell’entrata, quando vi darò il segnale, farete franare la roccia in modo da bloccarla» ordinò.
Kalut tornò alla sala del macchinario, aveva portato con sé il badge prelevato ad una delle guardie svenute. Provò far captare la scheda magnetica dal macchinario, ma la richiesta fu rigettata. Quella tessera apparteneva ad una recluta e c’era bisogno di una autorizzazione di grado più elevato per accedere alle impostazioni avanzate. In poche parole, gli agenti che erano nella base non avrebbero mai potuto spegnere il macchinario, a meno che un loro superiore non li avesse raggiunti.
«Cazzo...» il ragazzo provò a smanettare ancora un po’ ma il computer non sembrava dare risposte.
Uscì dalla stanza, ormai Green non lo seguiva neanche più con lo sguardo. Tornò da Ruby, in fondo alla sala delle capsule.
«Non riesci a fermarlo?» chiese il Dexholder di Hoenn, senza staccare gli occhi da Xavier.
«Sono a corto di idee» rispose Kalut.
«Dov’è Sapphire?»
«Le ho chiesto aiutarmi con un lavoro nei cunicoli iniziali» rispose Kalut, glissando sui particolari.
«Di preciso?»
«Barrica le entrate, dobbiamo prendere tempo, pare che gli agenti Faces arriveranno prima dei nostri alleati della Resistenza».
Ruby annuì, dando segno di aver capito «Mi avevi chiesto di cercare il quadro elettrico generale» ricordò poi «non potremmo staccare la spina?» chiese, riutilizzando le sue stesse parole.
«Ecco, ho studiato i pochi dati forniti dal computer... per la conformazione delle capsule, spegnerlo all’improvviso potrebbe portare il macchinario ad un’implosione» spiegò «la grotta crollerebbe... con tutti dentro» spiegò.
«Perfetto, quindi che possibilità restano?» domandò Ruby, non particolarmente allettato da quella opzione.
«Togliergli energia gradualmente, distruggendo le capsule» rispose Kalut.
«Questa mi sembra migliore...»
«Ma staccarne una senza aver prima disattivato tutto, ucciderebbe il Pokémon che vi è contenuto all’interno» precisò.
«Oh» fece Ruby, deluso.
«O riuscire a penetrare nel pannello di controllo... e qui potrebbe entrare in aiuto il nostro ospite» aggiunse, dirigendosi verso l’ex agente Faces.
«Non t-toccarmi» esclamò Xavier, terrorizzato.
Kalut lo prese per il giaccone e lo sollevò fino alla posizione eretta, guardandolo fisso negli occhi «Che grado avevi quando eri nella Faces? Sai come bypassare un protocollo riservato agli ufficiali?» gli chiese, quasi spuntandogli le parole in faccia.
Il gelo che proveniva dal nodo e la temperatura di quella stanza avevano colorato la sua pelle di un preoccupante colore violaceo, ma ciò non gli impedì di contrarre le labbra congelate e sputare sul volto di Kalut.
«Fei ftato t-tu a mandarla ad Auftropoli?» fece, mentre Kalut mollava la presa per pulirsi dal suo sangue e dalla sua saliva.
«Non ce l’ho mandata» urlò lui «lei collaborava con noi, faceva parte della Resistenza!»
Era tutto inutile «Fiete t-tutti uguali, t-tutti uguali» continuava a dire quello, come un disco rotto.
«Noi abbiamo aiutato tua sorella, quando lei ha voluto rifiutare di arruolarsi nella Faces» riprovò Kalut «la conosco la tua storia: il giorno in cui tuo padre è morto, hai accettato la proposta di diventare un loro agente. Contemporaneamente, Celia, l’unica di voi due con un po’ di sale in zucca, veniva presa da Antares come allieva. La sua protezione le ha evitato di essere uccisa poiché testimone delle azioni della Faces».
«Aveva quattordici anni!» gridò con tutte le sue energie Xavier, dando l’idea di recuperare un po’ di senno «e aveva appena perfo fuo padre!»
«Noi l’abbiamo aiutata, tu l’hai abbandonata...»
«L’avete coftretta a d-diventare qualcofa che non era. Era obbligata a vivere nella paura e a combattere per voi, non aveva le rimaneva altra fcelta» continuò «era morta dentro, ormai...»
«L’hai incontrata?» chiese Kalut, spontaneamente.
« che l’ho fatto... ho vifto le condizioni in cui si è ridotta» rispose Xavier.
Tornò il silenzio, per qualche secondo.
«Io ti capisco, Xavier» esordì Ruby «credendo di salvare le persone che amavo, ho lavorato per la Faces, anche loro hanno fatto di me qualcosa che non ero e mi hanno sfruttato per i loro scopi» cercò di far finta che il ragazzo a cui si stava rivolgendo non gli avesse mai lanciato una granata nel tentativo di ucciderlo a sangue freddo «ma ho trovato il modo di riscattarmi. Se adesso fermiamo la Faces qui, possiamo raggiungere Celia ad Austropoli ed aiutarla a tornare alla normalità...»
Xavier sembrò fermarsi a riflettere. Abbassò lo sguardo, per qualche secondo.
Il momento di calma fu spezzato dal suono cadenzato dei passi di qualcuno che si stava avvicinando. Pesanti, decisi, furiosi.
«Tu eri nella sala della sorveglianza!» esclamò Green giungendo sulla scena, puntando il dito contro Kalut.
Aveva lo sguardo stravolto, gli occhi gonfi e le lacrime che rigavano il viso. Sembrava dover esplodere da un momento all’altro.
«Tu eri nella sala della sorveglianza!» ripeté, sempre più arrabbiato.
«Green, calmati» provò Ruby.
«Zitto, sto parlando con lui» tornò a guardare Kalut «tu potevi vedere questo bastardo che si avvicinava attraverso le telecamere» e indicò Xavier «come hai potuto non accorgerti di lui e lasciare che sparasse a Blue?»
«Green... io...» provò Kalut.
«Come hai fatto a non accorgertene? Come hai potuto? Tu!» continuava.
«Ho sbagliato... io...» per la prima volta, a Kalut sembrava mancare una risposta «ho commesso un errore...» mormorò.
Xavier si trovava sull’orlo della nicchia in cui era incastonato il Nodo, Kalut gli dava le spalle, poco lontano, schiacciato tra lui e il dito accusatore di Green. Ruby era appena dislocato e osservava senza poter intervenire. Si rendeva lentamente conto che Green aveva ragione, per un essere eccezionale come Kalut che aveva dimostrato più e più volte di riuscire ad avere il controllo su qualsiasi cosa, quello stupido e banale errore risultava veramente inaspettato. Una disattenzione a proposito di un nonnulla che aveva significato la morte di Blue, un prezzo comunque troppo alto da pagare.
«Sei tu che l’hai uccisa, figlio di puttana! E’ tua e solamente tua, la colpa!» urlò Green, andando verso di lui.
Kalut indietreggiò di pochissimo, sapendo di avere Xavier alle spalle.
«La sua vita non valeva niente per te, ti interessava soltanto di riuscire a sfruttarla per i tuoi scopi!»
Kalut fece un ultimo passo indietro.
Con le sue ultime forze, Xavier lo arpionò per il cappotto.
«Voi uccidete sempre tutti...» gli sussurrò all’orecchio.
“Sei stato bravo” pensò Xatu, invisibile a tutti i presenti.
Kalut perse l’equilibrio, Xavier lo trascinò con se verso il buco, ma non vi cadde all’interno. I due rovinarono a terra insieme, ma Xavier crollò su se stesso mentre Kalut, che era in piedi, andò giù di spalle. Fece per riprendersi ed evitare di cadere nella nicchia, ma il suo collo finì contro il bordo roccioso di quel buco scavato in fretta e furia, spezzandosi.
Il suono delle vertebre che si rompevano riecheggiò in tutta la stanza, congelando le interiora di Ruby e Green. Xavier era un cencio, logoro, tremante. Ma era ancora vivo. Sopra di lui, il corpo morto di Kalut, freddo, spento, immobile. I suoi occhi fissavano vacuamente il soffitto.
Nel pensiero e nelle corde vocali, un ultimo pensiero che avrebbe voluto condividere con Xatu, il saggio Pokémon eterno che lo aveva accompagnato per gran parte della sua vita.
“Perché ho accettato la loro umanità?”

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Capitolo 22
*** Capitolo 21: Niente al mondo ***


XXI
Niente al mondo
 
 
La porta della camera di sorveglianza si spalancò. Green si precipitò all’interno, le membra intorpidite e tremanti. Si accucciò accanto ad una Blue ormai morente in una crisalide di coperte. Il corpo del Capopalestra era paralizzato, i suoi occhi spalancati. Non riusciva a credere a ciò che era appena accaduto. Aveva serrato la porta, barricandosi dentro con la sua donna. Nell’altra stanza c’erano soltanto Ruby, Xavier e il corpo privo di vita di Kalut. Non voleva pensarci, non riusciva a pensarci.
«Green» lo chiamò Ruby, che era arrivato dietro la porta «Green, maledizione!» ripeté, non ricevendo risposta.
Il Campione di Hoenn forzò la serratura ed entrò. Una folata di aria gelida lo accompagnava, proveniente dalla sala in cui era in funzione il macchinario di congelamento del Nodo.
«Ho bisogno che tu di mia una mano...» disse il ragazzo di Hoenn «non ci riesco, da solo» cercava di nascondere lo shock, cercava di ignorare che la reazione avventata del suo amico, due minuti prima, aveva causato la morte di Kalut.
«Dov’è Sapphire?» chiese Green, per fornirgli un’alternativa.
«Ha dei compiti da svolgere all’esterno, Green... ti prego... mi serve il tuo aiuto» lo supplicò lui.
Il Capopalestra di Smeraldopoli non reagiva. Le sue pupille fissavano il vuoto, le sue braccia stringevano Blue, praticamente in fin di vita.
«Se non fermiamo questa macchina, non ci sarà assolutamente alcuna possibilità di salvarla» sottolineò Ruby, avvicinandosi.
Green continuava a non rispondere, a non dare segni di vita.
Ruby attese qualche secondo e poi lasciò la stanza, senza aggiungere altro. Tornò nelle grotte dove giacevano i corpi svenuti delle guardie, sorvegliati da tutti i loro Pokémon. Si chiese per quale motivo non vedesse nessuno dei membri della squadra di Sapphire. Raggiunse l’entrata e non vide nessuno, alzò lo sguardo. Percorse la passerella fino alla cima superiore e individuò la sua donna: vegliava sulla zona circostante, restando in piedi su una roccia che si elevava sopra le altre. Osservava tutto ciò che c’era attorno.
«Sapphire, che cosa ci fai qui?» le chiese, senza che lei venisse colta alla sprovvista.
«Stanno arrivando le squadre nemiche» rispose lei.
«E i nostri rinforzi?»
«Sono in ritardo...»
«La tua idea era di combattere da sola fino all’arrivo degli uomini di Acromio?» chiese Ruby, sentendosi come tradito.
«Kalut riuscirà a fermare la macchina in tempo» lo rassicurò lei.
Ruby guardò il terreno, scuotendo la testa «Kalut è morto» pronunciò.
Sapphire non ricevette il messaggio. Voltò la testa inarcando le sopracciglia per qualche istante e non diede peso alla frase. Quando si rese conto che Ruby era completamente serio, lasciò che lo stupore le riempisse i lineamenti.
«Come è possibile?» chiese, ancora incredula.
«C’è stato un brutto incidente con Green e Xavier, è caduto e... è stata una cosa così stupida...»
Sapphire scese dalla roccia «Come facciamo a fermare il macchinario?» chiese, completamente privata di qualsiasi speranza.
«Non lo so, voglio mettermi in contatto con Acromio» propose Ruby.
Sapphire esitò, il suo sguardo si rivolse verso le montagne, sapeva che di lì a poco sarebbe stato necessario combattere. Ma qualsiasi resistenza sarebbe stata inutile se poi non fossero riusciti a bloccare quel computer. Il suo buon senso prese il sopravvento e lei si accodò a Ruby.
«Dono, Rono, restate qui, sapete qual è il vostro compito» ordinò ai suoi Pokémon che erano fermi nei pressi dell’entrata, incaricati di far crollare l’imbocco della grotta in caso di emergenza.
«Prendi i badge delle guardie, prendine più che puoi» ordinò Ruby, chinandosi a sua volta sui corpi esanimi degli agenti.
I due Dexholder rovistarono tra le divise e le borse, mettendo le mani addosso alle guardie con cui avevano combattuto al loro arrivo. Dopo cinque minuti, avevano le mani piene di schede magnetiche che servivano come passe-par-tout per le varie aree della base, funzione che a loro non interessava, visto che le porte le avevano tutte forzate. Tuttavia, Kalut aveva accennato alla possibilità di riuscire ad accedere alle funzionalità del macchinario tramite identificazione.
Svoltando per gli intricati e freddi cunicoli, raggiunsero di nuovo la sala delle telecamere. Ruby ignorò il fagotto in cui erano accasciati Green e la sua Blue morente, Sapphire vi posò lo sguardo impietosito solo per un istante.
«Dobbiamo provarli tutti, fammi vedere come funziona questo apparecchio» fece Ruby, conoscendo bene l’avversione di Sapphire verso la maggior parte degli apparecchi elettronici.
Il Campione di Hoenn si sedette alla postazione. Davanti a lui c’erano i monitor della sorveglianza. Alcuni funzionavano, altri erano stati manomessi per facilitare la loro incursione. Uno schermo più grande, invece, mostrava il menù di impostazioni del macchinario, sembrava un programma complesso e articolato, ma disponeva di poche funzioni, la maggior parte degli elementi a schermo erano parametri e valori che venivano monitorati. Ruby cliccò sui tasti che sembravano più promettenti, accedendo ai comandi primari. Raggiunse facilmente l’opzione di shut-down ma, cliccandovi, ottenne solamente un banner che lo informava di non avere l’autorizzazione per proseguire. Veniva richiesto un codice o in alternativa, vi era la possibilità di far passare un badge nel vano a scorrimento de computer. I due Dexholder si misero sotto. Inserirono un tesserino preso a caso dal mucchio: accesso negato, ne inserirono un secondo: accesso negato, ne inserirono un terzo: accesso negato. La cosa andò avanti fino alla fine, Kalut aveva ragione ancora una volta: nessuna delle guardie presenti era autorizzata a fermare il macchinario, loro facevano solo da sorveglianti.
«Devo mettermi in contatto con Acromio» pensò allora Ruby.
Smanettare con la radio fu meno complicato, alla fine si trattava di un apparecchio molto più semplice. Fu ritrovata la frequenza aperta per ultima, dalle casse cominciò a diffondersi un brusio stridulo.
«Acromio... Acromio...» provò a chiamare Ruby, attivando il microfono che era sulla scrivania.
«...lut, che... ccede?» disse una voce robotica dall’altra parte della comunicazione.
«Acromio, sono Ruby, Kalut non può più aiutarci» scandì il ragazzo «dobbiamo fermare il macchinario da soli».
«...uby? Do... è Ka...? Che vi ser...?»
«Qualcosa ha capito, il collegamento sta migliorando» sussurrò Sapphire.
Ruby annuì «Dobbiamo fermare il macchinario senza l’aiuto di Kalut, spiegaci come fare» chiese.
«Ok... capisco...» le interferenze sembravano diminuire progressivamente «non so per... Kalut non poss... far... da ...lo» anticipò il capo della squadra dei rinforzi «ma posso ...trare nel sistema, ho bis... di un paio di minuti... solo che...» si interruppe.
«Che cosa?» chiese Ruby.
«Non è sicuro, preferisco ...e ...lut lo faccia da lì» insisteva lui.
«Acromio, Kalut è morto per un incidente, noi non sappiamo continuare ciò che lui stava facendo» rivelò Ruby «ci serve il tuo aiuto, è necessario».
«Morto...?» mormorò quello dall’altra parte «...aledizione... ascoltatemi, allora» Ruby e Sapphire tesero le orecchie, fortunatamente, il collegamento era migliorato «è più sicuro bloccare il sistema dalla sala in cui siete ora, Kalut ha sicuramente isolato il terminale» Ruby e Sapphire ipotizzarono che Acromio parlasse del Porygon-Z di Green che si stava occupando di respingere il comando di autodistruzione inviato dalla sede Faces «perché io possa farlo da qui, è necessario creare una breccia nella sicurezza il che vuol dire che anche la Faces potrà di nuovo accedere ai server» spiegò.
«Quindi la base riceverà il comando di autodistruzione?» dedusse Ruby.
«Non se io riesco a disattivare il macchinario prima, non si accorgeranno immediatamente che il sistema di sicurezza è stato bucato, io potrei addirittura riuscire a farcela prima che loro possano intervenire» rispose Acromio.
«Aspetta, le cariche sono già state trovate e disinnescate da Kalut» fece Sapphire, ricordandosi.
«Di sicuro non sono state disattivate tutte, la maggior parte si trova sotto terra».
Non c’era niente da fare, bisognava rischiare il tutto per tutto.
«Va bene, cosa dobbiamo fare, noi?» chiese Ruby.
«Aprire un canale nel sistema di sicurezza installato da Kalut» rispose Acromio.
Ruby e Sapphire si guardarono, spaesati.
«C’è un Porygon-Z, stai parlando di lui?» chiese Green.
«Sì, sì... meno male, dovrebbe essere più semplice» Acromio sembrava sollevato «chiedetegli di aprire un canale preferenziale, ditegli che ho bisogno di accedere ai server della Faces lui capirà» ordinò l’uomo.
Ruby e Sapphire, sentendosi due deficienti, accettarono. Il Pokémon Virtuale fece capolino dall’hard-disk del computer come un pesce che emerge appena sopra il ciglio dell’acqua, alternando la sua forma fisica a quella digitale.
«Hai sentito che cosa ha detto Acromio?» gli chiese Ruby.
Quello annuì, per fare in modo che l’umano capisse.
«Bene, fai attenzione, allora».
Prima di tornare all’interno del mondo virtuale, il Pokémon gettò un’occhiata al suo Allenatore, ancora accoccolato nell’angolo, con le braccia che stringevano il corpo di Blue.
«Ruby, un’ultima cosa» ritornò Acromio, ancora in collegamento «anzi, due. Primo: se Kalut è morto davvero, fruga nelle sue tasche, dovrebbe esserci una chiavetta o un dischetto... qualcosa che può contenere dei file, prendilo e conservalo. Secondo: avete circa dieci minuti prima che la Faces vi raggiunga, sarete da soli, dovete combattere con tutte le vostre forze, voi siete rimasti in quattro e loro sono a decine» Ruby si scambiò un’occhiata con Sapphire, prima di rivolgere lo sguardo verso Blue e Green, entrambi inabili alla battaglia «i miei uomini arriveranno prima possibile».
«Va bene, Acromio, grazie per il tuo aiuto, di nuovo» chiuse il collegamento Ruby.
Senza una parola, Sapphire uscì dalla stanza, sicuramente rivolta verso la zona del nodo, dove si trovava il cadavere di Kalut. Ruby attese qualche istante prima di seguirla. La conosceva troppo bene per ignorare il suo comportamento, Sapphire stava sotterrando ogni emozione, non aveva neanche posato gli occhi su Blue, non sembrava essersi accorta del fatto che una sua amica stesse morendo. Le comparve alle spalle, qualche secondo dopo, raggiungendola al centro della folta foresta di capsule contenenti Pokémon Ghiaccio. La trovò china sul corpo di Kalut, intenta ad inserire le dita in ogni tasca avessero i suoi abiti. Xavier era ancora a terra, a pochi metri di distanza, sanguinante, mezzo congelato e completamente inerte.
«C’è una chiavetta» annunciò, rinvenendo il tesoro.
«Voglio vedere cosa contiene» disse Ruby.
«Abbiamo tempo?»
«Abbiamo una decina di minuti, secondo Acromio»
I due Dexholder di Hoenn tornarono nella sala degli schermi. Ruby inserì il dispositivo nella porta USB, l’unica componente normale di quel computer futuristico. Immediatamente, sul monitor principale, sul quale era in corso un lungo sciorinarsi di stringhe di codici in una pagina dallo sfondo nero, si aprì la finestra dell’avvio automatico. Nella chiavetta c’erano due file: una cartella che pesava diversi gigabyte denominata “Ricerca e sviluppo, soggetto 4” ed un leggero file video, dalla breve durata, chiamato “Kalut”.
Ruby non dubitò un solo istante e cliccò sul video, mettendolo in riproduzione. Sullo schermo, in pessima qualità, degna di una camera vecchia di almeno dieci anni, comparve il volto pallido di un uomo sulla cinquantina. La sua barba era trascurata, i suoi occhi cerchiati da profonde occhiaie, i suoi capelli unti e spettinati. Quando aprì la bocca, sembrò fare molta fatica, come un bambino al quale viene chiesto di raccontare un fatto traumatizzante.
«Mi chiamo Leonard Roland, sono uno scienziato, lavoro per... sono costretto a lavorare per la Faces» non era una presentazione, sembrava più una formula che lo aiutava a tenere fisso in mente ciò che avrebbe voluto dire «se state guardando questo video, molto probabilmente sono morto. Intendo mandarlo alla persona di cui più mi fido e sarà stata lei a diffonderlo tra coloro che si troveranno a combattere quella piaga che la Faces sarà diventata» si accorse di star divagando «Mi chiamo Leonard Roland, sono uno scienziato» ripeté, come una cantilena «ho lavorato ad un progetto per conto della Faces, ho condotto degli esperimenti, ho studiato il genoma umano in relazione a quello Pokémon, secondo la loro matrice comune: il DNA di Mew. Le mie ricerche mi hanno portato a scoprire il metodo per creare un ibrido delle due specie, che abbia le qualità dell’una e dell’altra specie, e nessuno dei difetti. La Faces ha le mie ricerche e i miei dati, io li allego anche a questo video, così che pure voi, che intendete fermarla, abbiate i miei materiali...» sembrò rigettare indietro un conato di vomito, per la fatica «...negli anni precedenti, ho sperimentato questa tecnica su delle cavie, prima di ottenere risultati soddisfacenti, l’ultima sono stato io, quelle precedenti sono tutte morte, come me, a breve. Sfrutto allora uno dei miei rari momenti di lucidità per rivelarvi l’identità dei miei tre esperimenti riusciti, o perlomeno, sopravvissuti. La prima è stata Luna, una orfana che ho trovato in un ricovero, aveva un anno quando ho tentato di alterare il suo DNA miscelandolo con quello di un Mew. L’esperimento è andato male, Luna ha manifestato segni di instabilità e nevrosi, la mutazione ha intaccato il suo corretto sviluppo cerebrale, il suo genoma era impossibile da alterare, già a quell’età. Il secondo è stato Zack, mio figlio...»
Ruby e Sapphire si scambiarono un’occhiata. Senza muovere le labbra, si capirono a vicenda. Si trattava di Zero.
«La sua mutazione è stata indotta in fase embrionale, il suo DNA ha accolto le nuove sequenze, essendo ancora malleabile. I risultati, tuttavia, sono ancora ben distanti dalla corretta riuscita, le sinapsi di Zack rimangono instabili, seppur molto intelligente e dotato di enormi capacità, con la crescita manifesterà una forte instabilità tendente alla vera e propria follia. Mi occuperò di sopprimerlo, potrebbe causare dei danni, in futuro» l’uomo si prese una pausa, come se dovesse pesare le parole.
«Le conoscenze della Faces arrivano fin qui, ma io ho un ultimo progetto che ho mantenuto segreto: Kalut. Tramite il DNA di Zack ho creato un clone al cui genoma di base ho unito dapprincipio quello di un Mew. La creatura è stata incubata, la gestazione è avvenuta artificialmente. Ho affidato ad un Pokémon la cura del bambino, che secondo le mie previsioni maturerà e crescerà correttamente, evolvendo nell’essere perfetto al quale i miei studi miravano. Insomma, la Faces non possiede tutti i miei progetti e non è ancora capace di ricreare Kalut, ma lo sarà. Allora io vi lascio questo monito: prima che lei possa riuscirci, cercate Kalut, tra tredici o quattordici anni, sarà arrivato alla maturazione completa, avrà risvegliato ogni sua capacità. Cercatelo, lo troverete a Sidera, molto probabilmente nel Bosco Lira, trovatelo e chiedetegli di agire per fermare la Faces. Lui è l’unico in grado, l’unica creatura che abbia una possibilità di cambiare le sorti del mondo. Kalut è l’unica arma contro la Faces. Senza di lui, tutto è perduto» terminò il video.
Ruby e Sapphire non commentarono, ma si scambiarono una lunga occhiata. Rimasero immobili per qualche secondo, prima di riprendere coscienza del mondo reale.
«Dobbiamo uscire» asserì Sapphire, soffocando ancora una volta la tempesta che le imperversava all’interno.
Ruby si accodò. Green rimase ancora una volta da solo, col corpo di Blue tra le braccia. I due Dexholder di Hoenn raggiunsero la passerella e la percorsero fino alla cima del cenote. Nel silenzio di quella vetta innevata, riuscirono subito ad udire il rumore dei motori in avvicinamento. Le squadre Faces erano dotate di gatti delle nevi e motoslitte, evidentemente. Li avrebbero raggiunti nel giro di pochi minuti. Sapphire fissava l’orizzonte, Ruby, di sottecchi, studiava ogni suo lineamento e ogni minima contrazione dei suoi muscoli facciali. Era inutile negare che quella sarebbe potuta essere l’ultima occasione di farlo.
«Ce la faremo» le mentì.
Sapphire alzò gli occhi verso il ragazzo.
«Io sono più forte di te» rispose lei.
Ruby non capì immediatamente le ragioni di quell’affermazione.
«Dovessimo salvarci, ti sfiderò, vincerò e prenderò io il titolo di Campionessa della Lega di Hoenn» affermò con certezza la ragazza.
Ruby non nascose un sorriso. La Sapphire infantile, che sembrava essere scomparsa due anni prima, era finalmente tornata.
«Non credo che riusciresti a battermi» la provocò.
«Non farmi ridere... e poi il mantello del campione starebbe molto meglio a me che a te» i loro sguardi si incontrarono, sorridendosi reciprocamente.
«Sono cambiate tante cose» mormorò Ruby.
«Lo so».
«Sarà difficile rimettere tutto a posto...»
«Tu non sei cambiato» fece lei.
Ruby alzò le sopracciglia, positivamente stupito. Sapphire lo guardò un’ultima volta.
I rombi dei motori erano ormai a poche centinaia di metri di distanza. Entrambi i Dexholder misero mano alle loro Poké Ball, pronti a fronteggiare una minaccia decisamente più grande di loro. All’improvviso, dalla vallata che era sotto di loro spuntarono decine e decine di macchioline nere. Gli agenti Faces erano più numerosi di quanto si aspettassero.
«Non sacrificarti per me» sibilò Sapphire.
Ruby socchiuse gli occhi, si voltò verso di lei e la prese per un braccio, trascinandola verso di sé. La baciò con tutta la forza che aveva in corpo, premendo le sue labbra gelide e morbide su quelle di lei, che erano calde e screpolate. Sapphire si abbandonò a lui ma prima di staccarsi lo afferrò per il cappotto.
«Noi combattiamo insieme» gli intimò.
Simultaneamente, furono lanciate le sfere di Aggron e Milotic verso gli agenti Faces che si avvicinavano.
 
Green era ancora sul pavimento. I capelli coprivano gli occhi e le lacrime solcavano le guance. Il suo volto era scavato, tra le braccia aveva il corpo di Blue. Ormai, di lei, non era rimasto altro. I sacchi a pelo in cui l’avevano avvolta erano completamente inzaccherati di sangue, il suo viso era pallido, freddo, privo di vita. Il ragazzo si accucciò un ultima volta su di lei. Non sapeva cosa farsene del resto del mondo, ormai. Odiava ammetterlo, Green, ma il suo lavoro era diventato frustrante. Da ragazzino aveva dovuto combattere per salvare il mondo, aveva vissuto il pericolo, aveva affrontato situazioni impossibili... era sempre stata quella la sua dimensione. Con Blue, quel passato non sembrava ogni giorno più lontano, con Blue, era come se il mondo potesse tornare in pericolo in ogni momento.
Ormai, per lui, era arrivato il momento di crescere. Non bisognava più affrontare il Team Rocket o sconfiggere il Pokémon Leggendario di turno. Quando i grandi sono in pericolo, le cose smettono di essere divertenti.
Green fissò la porta da cui erano usciti Ruby e Sapphire per andare a lottare da soli contro decine di agenti Faces. Si chiese come potesse essere stato tanto vigliacco. Si alzò in piedi, lasciando il cadavere di Blue sul pavimento insanguinato di quella stanza. Finse di dimenticarsi della sua esistenza, nella grigia speranza che, di lì a poco, quell’incubo sarebbe finito e tutto sarebbe tornato alla normalità. Prese le sue Poké Ball, si diresse verso l’uscita.

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Capitolo 23
*** Capitolo 22: Il gioco e la candela ***


XXII
Il gioco e la candela
 
 
 “Violenza e forza sono due concetti ben lontani” diceva Furio, allenandosi sotto la cascata “impara a sferrare un pugno contro la roccia, capirai la differenza”.
L’addestramento a cui Green si era sottoposto, sotto la guida del Capopalestra di Fiorlisopoli, gli aveva impartito la formazione necessaria a diventare lui stesso il leader di una Palestra e il detentore del titolo di Dexholder specializzato nella crescita dei Pokémon.
Machamp sollevava un masso come fosse fatto di cartapesta, scagliandolo contro uno Skarmory nemico. Un’abbondante massa di neve si staccava dalla discesa a causa dell’onda d’urto, ma nessuno se ne curava, nel caos generale.
«Charizard, Fuocobomba!» esclamava. Ed al bagliore scarlatto seguivano una fitta cortina di vapore e una folata di aria calda che faceva venire in mente a Ruby il Monte Camino.
I Pokémon nemici cadevano come tessere del domino, uno dietro l’altro, sotto la ferocia e la furia del Capopalestra di Smeraldopoli. Poco distanti, anche i due Dexholder di Hoenn erano impegnati nel combattimento, ma cercavano di controllare i loro attacchi anziché scadere nella brutalità perpetrata dal loro amico. L’Aggron di Sapphire immobilizzava un Raticate avversario, lo Scizor di Green quasi staccava la testa di netto ad un Medicham; il Casform di Ruby congelava un Kingler e il Pidgeot di Green conficcava gli artigli nella carne di un Luxray.
«Terremoto, Rhyperior!» esclamava il nipote di Oak, quasi non rendendosi conto di poter danneggiare anche i suoi stessi Pokémon o quelli dei suoi amici.
I tre combattevano infatti con le intere squadre schierate, non era possibile porsi dei limiti né tantomeno seguire delle regole da combattimento ufficiale. Da ogni parte sbucavano ogni minuto dei nuovi tizi vestiti di nero e armati di Ultra Ball marchiate Faces. In mezzo a quella piccola piana innevata che dall’alto doveva apparire come un buco nel candore cristallino delle vette del Monte Corona, decine di Pokémon lottavano simultaneamente in un’ingloriosa Battaglia Reale.
«Toro, Doppiocalcio!» ordinava Sapphire.
Il suo Blaziken, ben cosciente del compito assegnato, cominciò a balzare tra i nemici, evitando colpi pericolosi e sferrando potenti calci sugli avversari più stanchi e vulnerabili, stendendoli all’istante. Mise KO un Golem, due Magnezone e un Kangaskhan. Minimo sforzo e massimo rendimento. Poi dovette immediatamente spostarsi, per non essere centrato da un Idropompa lanciata dal Golduck di Green che era stata disordinatamente lanciata contro un Magmortar avversario.
«Sta’ attento» gli fece Sapphire, sperando di ricevere delle scuse.
Green sembrò non percepire altri suoni oltre la propria voce che ringhiava indicazioni a questo e a quel membro della sua squadra. E forse neanche quella.
Dietro al baluardo costituito da quel trio, c’era l’entrata della grotta che quegli agenti avevano ricevuto l’ordine di conquistare, senza saperne il vero motivo. Ogni tanto, qualche furbo novellino provava a eludere il combattimento, sorvolandolo con il suo Pokémon alato, ma venendo prontamente fulminato da Plusle e Minun, che se ne stavano lontani dalla rissa, pronti ad intervenire in caso di emergenza.
«Quanti ce ne sono ancora?» chiese Sapphire a Ruby.
Il numero degli agenti sul campo continuava ad aumentare e i Pokémon del trio iniziavano a battere la fiacca. Tutti tranne quelli di Green che, alimentati da una forza innaturale, sembravano concentrare tutta la frustrazione nei colpi che sferravano sui nemici.
«Swampert! Gardevoir!» esclamò Ruby, lanciando ai propri Pokémon due piccoli oggetti scintillanti. Questi afferrarono al volo le proprie Megapietre, mentre il loro Allenatore attivava il bracciale. Tra la calca, si manifestarono due luci: da un lato emerse un anfibio gigantesco che con la sua mole sovrastava tutti i Pokémon nemici e dall’altra uno spettro dalla sagoma eterea che emanava un’aura abbagliante. Sapphire fece lo stesso, Megaevolvendo Blaziken e Gallade. Quest’ultimo, sembrava una furia. Era l’ultima entrata nel team della Dexholder di Hoenn, nel quale figurava da circa due anni, ma si era perfettamente adattato allo stile di combattimento della sua Allenatrice.
«Milotic, Codadrago!» ordinava al suo Pokémon il Campione di Hoenn, per allontanare un Druddigon nemico e possibilmente rispedirlo contro il suo Allenatore, quando la sua vista si sfocò all’improvviso. Non era tornata la bufera, non gli erano caduti gli occhiali, anche perché portava le lenti a contatto. Semplicemente, la sua percezione della realtà aveva avuto una leggera distorsione. Gli venne un capogiro, dovette sostenersi e poggiarsi ad una roccia. Sapphire lo notò.
«Ruby» lo chiamò.
Il ragazzo alzò la mano, per tranquillizzarla. Aveva lo sguardo vuoto e la mente chiusa da una cappa di fumo. Ricollegò immediatamente la sensazione a quella percepita sulla Vetta Lancia, giorni prima. Pazientemente, attese che la foschia si diradasse.
 
«Ci siamo, Acromio» esclamò Rossella dall’altra parte dell’auricolare. Insieme al suo squadrone, si stava avvicinando al luogo della battaglia in groppa ad un Mamoswine.
«Com’è la situazione?» chiese lui, senza staccare gli occhi dallo schermo del computer. Era ancora in elicottero, tentando di fare breccia nei sistemi della Faces senza farsi individuare.
«Siamo arrivati in tempo» rispose l’ex fiamma del Team Magma.
«Cerca Ruby, ho bisogno di qualcuno all’interno della base, mi serve subito del supporto» esclamò il leader dei rinforzi.
«Lo vedo, stiamo per raggiungere il luogo».
«Fate presto» ordinò Acromio «e cercate di non morire» si concesse, senza trasporto.
Rossella prese tutte le Ball della propria cintura e le lanciò contemporaneamente. La sua squadra di Pokémon fuoco si materializzò al suo fianco. Similmente fecero gli Allenatori che la seguivano.
Green non si rese conto di niente, ma Ruby e Sapphire videro comparire uno stuolo di Allenatori all’improvviso. Alcuni avevano facce conosciute, altri avevano indossato le vecchie uniformi con il logo del Team Plasma o del Team Galassia appositamente per farsi riconoscere. Davanti a tutti, una dei luogotenenti del vecchio Team Magma. Come un’onda, i rinforzi si abbatterono sugli agenti Faces, dando un minuto di tregua alle squadre dei tre Dexholder, che era ormai allo stremo. Rossella lanciò all’attacco un Camerupt e un Crobat, ma si tirò subito indietro, lasciando agire i suoi sottoposti.
«Siamo arrivati in tempo?» chiese, avvicinandosi a Ruby.
«Forse, qualche minuto prima...» rispose lui, sotto sotto felice di incontrarla.
«Per vederti c’è bisogno di scatenare un cataclisma, dolcezza» fece lei, sorridendo con i suoi zigomi rosei e i suoi occhioni opalescenti.
«E’ vero, l’ultima volta ci siete quasi riusciti» subentrò Sapphire, con un’accentuata punta di veleno.
Rossella arrossì appena, ma non diede segni di insicurezza «vi siete dati da fare, in mia assenza» disse soltanto.
Alle sue spalle, le ex reclute avevano intrapreso una strenua, caotica ed accalcata lotta contro le squadre della Faces. Il numero di Pokémon in campo era praticamente raddoppiato, in aria e ai lati schizzavano fiammate e raggi di energia, la calca di creature ammassate era costellata di luci e vibrava per le grida, i ruggiti e le onde d’urto.
«Acromio vi chiede di rientrare, ha bisogno di voi all’interno della base» disse Rossella, apprestandosi ad entrare nel vivo del combattimento.
«Grazie per l’aiuto» annuì Ruby, iniziando a far rientrare i propri Pokémon nelle Poké Ball.
«Cosa faresti senza di me?» lo provocò la ex Fiamma del Team Magma, rivolgendosi verso la battaglia.
Ruby e Sapphire si ricomposero e imboccarono la scalinata, scendendo nella grotta gelida per l’ennesima volta.
«Quella ha cercato di ammazzarti, una volta» puntualizzò Sapphire, dal nulla, mentre stavano rientrando nei cunicoli della base Faces.
Ruby sorrise e non affermò il contrario, lasciando cadere la questione.
«E’ una sciacquetta, si vede a un chilometro» proseguì Sapphire.
Raggiunsero il salone del nodo e imboccarono, appena prima dell’entrata, la stanza delle telecamere. Messo piede sul pavimento di pannelli metallici, si bloccarono, paralizzati. Avvolta nei panni e nei sacchi a pelo, c’era Blue, rannicchiata accanto alla stufetta portatile. Era tutta inzaccherata di sangue, il volto pallido e le labbra viola. Restava lì, immobile, gelida. Sapphire soffocò un singhiozzo, Ruby si costrinse al silenzio. Fissarono quel corpo privo di vita per un intero minuto, forse di più. L’avevano lasciata tra le braccia di Green, consapevoli che quel tempo, impiegato in qualcosa di utile, sarebbe stato prezioso, forse provvidenziale. Poi era scoppiato il combattimento e Green li aveva seguiti, sradicato dal senso del dovere. Blue era morta da sola. Il suo ragazzo era ancora fuori, sfogava la sua furia sui nemici, forse sperava di cadere combattendo.
La voce di Acromio cominciò a gracchiare nella ricetrasmittente, attirando la loro attenzione. Ruby e Sapphire si scambiarono un’occhiata, ricordandosi a vicenda il compito da svolgere.
«Siamo qui, Acromio» rispose Ruby, avvicinando la bocca al microfono e premendo il tasto dell’audio.
«Sono al punto di non ritorno» fece lui «dovete ascoltarmi attentamente» sotto la sua voce, si udiva chiaramente il suono della tastiera su cui stava rapidamente digitando.
«Ok, va’ pure».
«Mi basta scrivere una stringa di codice per inviare il comando di spegnimento» spiegò «ma la Faces si è accorta dell’intrusione e mi ha raggiunto. Li sto bloccando io da almeno cinque minuti, precludendogli l’accesso. Se avviassi lo spegnimento del macchinario, però, non sarei più capace di fermarli: avrebbero qualche secondo per inviare il comando di autodistruzione».
«Che cosa succederebbe?»
«E’ questo il punto: non lo so, non ho idea di quale comando il computer considererà prioritario. Non possiamo permetterci di sbagliare se la base esplodesse morirebbero tutte le persone presenti su quella vetta e la Resistenza perderebbe tutte le prove per incriminare la Faces, è importante salvare il laboratorio intatto».
«Quindi?» chiese Ruby.
«Chiamate di nuovo Porygon, tenetevi pronti. Se sullo schermo appare il comando di spegnimento, lasciate stare tutto, se invece dovesse apparire quello di autodistruzione, ordinategli di chiudere tutti gli accessi al mainframe, tutto chiaro?»
Ruby e Sapphire risposero affermativamente, spostando immediatamente lo sguardo sulla finestra che era aperta sul monitor centrale. Sullo sfondo nero, erano state digitate numerose stringhe di codice, ma c’era un’ultima sequenza che continuava a digitarsi e a cancellarsi da sola, rapidamente, ad una velocità altissima:
 
/crackdown
 
Era terribilmente inquietante. Ma l’adrenalina nelle loro vene non permetteva a Ruby e Sapphire di pensarci.
«Porygon, abbiamo bisogno di te» lo convocò Sapphire.
Il Pokémon Virtuale emerse di nuovo dal dispositivo soltanto per metà, dovendo mantenere il controllo sulla struttura digitale interna.
«Stai facendo un ottimo lavoro, ma se ti diamo l’ordine, tu chiudi immediatamente qualsiasi accesso al mainframe» gli comunicò Sapphire, sentendosi un po’ stupida nel parlare di materie che non conosceva.
«Va bene, Acromio, dicci quando» fece Ruby.
«Ragazzi, ricordate...» mormorò lui, greve «se non dovesse funzionare... insomma. Siate forti...»
«Di che parla?» chiese Sapphire.
Ruby non rispose, aveva gli occhi fissi sullo schermo.
«Tre secondi» disse Acromio.
Porygon-Z si mise in posizione. Ruby smise di battere le palpebre.
«Tre... due... uno...»
Sullo schermo non apparve nulla. Il codice di autodistruzione si era cancellato, senza ricomparire subito dopo. Ruby non seppe cosa fare. Nell’istante successivo, lo schermo fu scosso da dei glitch e improvvisamente chilometri e chilometri di stringhe comparvero tutte insieme, come fossero state digitate dalle mani più veloci del mondo.
«Chiudi tutto» sussurrò Ruby a Porygon.
Il Pokémon scomparve con un sibilo all’interno del computer. In quell’esatto momento, i codici smisero di apparire. Tutto era fermo, nella finestra del computer. Porygon riemerse dal dispositivo. Ormai il suo aiuto non era più richiesto.
«Che cosa è successo?» chiese Acromio, gridando tra le interferenze.
Ruby e Sapphire si scambiarono un’occhiata.
«Blocca tut... Ruby, bl... tu...» gracchio la sua voce, prima di scomparire del tutto in un brusio.
La Faces era stata più lungimirante. I due Dexholder non avevano la minima idea di cosa fosse successo, ma le cose non erano andate bene. Ruby rimase immobile davanti allo schermo, con i pugni stretti e gli occhi privi di luce.
«Che cosa facciamo?» chiese Sapphire.
Silenzio. Ancora. Silenzio.
«Dobbiamo fermare la macchina» rispose Ruby.
«Sì, ma come? Acromio...»
«Kalut mi aveva detto che c’era un unico modo per farlo, da qui» proferì il ragazzo, con un filo di voce «dobbiamo staccare le capsule, una per una».
«Facciamolo» Sapphire non capiva, l’alternativa non poteva essere così semplice.
«Scollegare le capsule in questo modo... ucciderà i Pokémon all’interno» spiegò Ruby.
 
«Ma quanto ci mettono?!» esclamò Alan, ex generale del Team Idro, ora schierato con la Resistenza, sotto la guida di Acromio.
«Batti la fiacca?» gli chiese Rossella, mentre il suo Ninetales faceva terra bruciata attorno ad un Alakazam nemico, evocando una fitta cortina di vapore.
Alan gli ringhiò contro. Rossella sorrise, canzonatoria. In realtà, anche lei iniziava a sentire la fatica. Le squadre di supporto erano arrivate parecchio tempo prima, sostituendo i Dexholder sul campo di battaglia. Il loro leader aveva assicurato loro che sarebbe stata una battaglia breve e funzionale alla sola difesa della base per un limitato periodo di tempo, ma non si avevano notizie da nessuno da parecchi minuti, ormai.
«Acromio» chiamò Rossella, attraverso la ricetrasmittente «Acromio».
Nessuna risposta.
La ex Fiamma del Team Magma continuò a lottare, schierando i suoi ultimi Pokémon in sostituzione dei membri ormai esausti della squadra. Attorno a lei, c’era il caos più totale. Gli ultimi Allenatori di supporto lottavano strenuamente contro le forze della Faces, che sembravano moltiplicarsi. Alcuni suoi compagni erano costretti a ritirarsi per curare i propri Pokémon e rimandarli in battaglia subito dopo. La Faces li stava schiacciando numericamente, i soldati vestiti di nero sembravano moltiplicarsi, continuavano ad arrivare, ancora e ancora. In mezzo a quella battaglia campale, Green continuava a mietere vittime senza alcun controllo di sé. Combatteva da più tempo di tutti, non si era concesso alcuna pausa, aveva tenuto fisso il posto di avanguardia. Eppure, sembrava che niente fosse in grado di rallentarlo, era come impossessato da uno spirito guerriero, indomabile, irriducibile.
 
«Non possiamo farlo...» mormorò Sapphire, pallida come un cencio.
«Lo so, cazzo» ribatté Ruby.
«Tu sei... sicuro che abbia detto così?» domandò la ragazza, arrampicandosi sugli specchi.
Lo sguardo di Ruby non lasciava spazio a interrogativi. Era inutile perdere ancora tempo: Kalut era morto, Acromio aveva perso la possibilità di fare qualsiasi cosa e anche quella di mettersi in comunicazione con la base e loro due da soli non sarebbero mai stati capaci di escogitare una via alternativa. Fuori da quella base, imperversava ancora la battaglia, gli scagnozzi Faces mandati a riconquistare quelle grotte non accennavano a cedere, i rinforzi giunti dalla Resistenza li stavano trattenendo, ma non avrebbero potuto farlo per sempre.
«Sono stati loro ad ucciderli» fece Sapphire, dal silenzio.
Nella stanza, si udiva soltanto il gracchiante suono della ricetrasmittente che tentava di riconnettersi con Acromio, senza successo.
«Li hanno uccisi loro, catturandoli e infilandoli in delle capsule, per sfruttarne l’energia» continuò «noi li stiamo solo liberando da questa agonia» cercò di convincersi.
La Dexholder lasciò la stanza, tornando nel salone del Nodo. Ruby la seguì, senza esserne troppo convinto. La vide mettere piede in quell’ambiente dal clima glaciale, stringersi nel suo cappotto e prendere coraggio, respirando profondamente. Sapphire era immobile, davanti alla prima capsula, contenente un Froslass. Il Pokémon era collegato a dei cavi che uscivano fuori dalla capsula e si connettevano a centinaia di loro simili, formando le lunghe e intricate spire che raggiungevano il Nodo di Regigigas. Il Pokémon era addormentato, o almeno così pareva. Sul vetro della capsula si era formata una fitta condensa, ma non era difficile guardare all’interno, e notare i quasi impercettibili tremori che ne scuotevano il corpo a intervalli irregolari. Era come se stesse tentando volta dopo volta di svegliarsi, di muoversi, di fuggire.
«Mi dispiace» mormorò Sapphire.
In uno scatto, afferrò il grosso cavo di alimentazione che forniva alla capsula la corrente necessaria al funzionamento. La staccò.
La luce che illuminava il Pokémon all’interno si spense improvvisamente, i led che indicavano lo status del dispositivo morirono. Poi tutto parve fermarsi.
«Che succede?» chiese Ruby in un lapsus automatico.
Probabilmente, Sapphire sperò un’ultima volta che lo spegnimento della capsula, al contrario di come era stato detto da Kalut, non avesse conseguenze sul Pokémon contenuto. Soltanto in un secondo momento, notò la patina di ghiaccio che stava lentamente coprendo il vetro, internamente. Froslass era ancora immobile e inerte, quando il gelo cominciò a coprirlo del tutto. Dopo pochi secondi, l’interno della capsula non era più visibile, il ghiaccio l’aveva occultato completamente.
Il silenzio, fu spezzato da uno stridio. Era come il suono di una corda di violino suonata con un coltello. Un corpo pesante, congelato, compatto, cadde all’interno della capsula, appoggiandosi contro il vetro. Era perfettamente distinguibile, in controluce, l’ombra del corpo di Froslass. Era immobile, paralizzato.
Sapphire non pianse. Aveva già versato troppe lacrime, quel giorno.
«Vaffanculo» sibilò, tappandosi la bocca con la mano, quasi nel tentativo di soffocarsi «cazzo, cazzo, cazzo...»
Non aveva mai ucciso nessuno, ma aveva lottato contro molti uomini. Uomini cattivi, uomini che avrebbero fatto del male a degli innocenti e che si erano potuti difendere dai suoi attacchi. C’era sempre stato un tacito accordo, una convenzione, una regola.
Ruby fece un passo avanti, verso la seconda capsula, nella quale era contenuto uno Snover. Lentamente, strinse anche lui il cavo e tirò, finché questo fu estratto dalla presa, privando la macchina della corrente. Stessa reazione: doveva essere una conseguenza propria dello spegnimento delle funzioni del macchinario. Il ghiaccio rivestì l’interno della capsula, ricoprendo completamente il Pokémon, che emise appena un gemito. Poi cadde anche lui, morto, congelato, privo di vita.
Il salone conteneva un centinaio di quella capsule, con Pokémon provenienti da tutto il mondo. In fondo, c’era il Nodo, verso il quale convergevano tutte le connessioni. Poco lontano: Xavier. Ancora coperto di acqua, gelido, tremante e ferito. Aveva smesso di sanguinare a causa della temperatura artica. Era quasi svenuto per alcuni minuti, dopo essere caduto, nel tentativo di portare Kalut con sé. Si era risvegliato con quella scena, davanti a Ruby e Sapphire che, uno dopo l’altro, scollegavano quei Pokémon innocenti, condannandoli a morte all’interno delle loro prigioni. Lui aveva contribuito a quello scempio: aveva catturato molti dei Pokémon contenuti lì dentro, lavorando per la Faces. Nessuno gli aveva ancora detto che uso ne sarebbe stato fatto, ma probabilmente lui neanche ci avrebbe creduto.
Tentò di rimettersi in piedi, probabilmente pure i legacci iniziavano a cedere. Non aveva le sue Ball, ma si trovavano sicuramente lì nei paraggi. Fissò il terreno, roccia gelata illuminata dai led sparsi per tutto il salone. Si guardò attorno: una grotta segreta del Monte Corona piena di Pokémon incapsulati la cui energia serviva a far scendere un inverno perenne su Sinnoh.
Come era arrivato a tanto?

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Capitolo 24
*** Capitolo 23: La girandola ***


XXIII
La girandola
 
 
«Siamo usciti dal loro raggio d’azione, le interferenze dovrebbero scomparire» allertò il pilota, rivolgendosi al suo capo.
Acromio riprese la ricetrasmittente e aprì il portatile. I dispositivi sembravano funzionare, la Faces non riusciva più a bloccarlo a distanza.
«Ruby» chiamò «Ruby, mi senti? Qualcuno mi sente?» insisteva.
Nella sala delle telecamere, la voce di Acromio parlava al vuoto. All’ascolto, c’era soltanto il corpo senza vita di Blue. Ruby e Sapphire erano fuori, nel salone del Nodo, impegnati a scollegare le capsule che alimentavano il macchinario della Faces. Uccidendo i Pokémon contenuti all’interno.
«Acromio, ti abbiamo perso per parecchi minuti» disse Rossella, nel suo auricolare. In sottofondo, si sentivano le grida degli Allenatori in combattimento, i versi dei Pokémon e i suoni della battaglia che imperversava «ci sono aggiornamenti?»
Il leader non seppe come rispondere «Come sono le situazioni? Squadre di supporto collaterale: Sird, Saturno, Xante, Ada, Plumeria. Fatemi un resoconto» chiese.
«Le nostre forze scarseggiano» rispose Saturno.
«Sono più numerosi e più forti» si lamentò Ada.
«Questi bastardi fanno sul serio!» esclamò Plumeria.
Dagli ultimi due luogotenenti, non giunse risposta. Forse per interferenze, forse perché non erano più in grado di parlare.
«Nel piazzale, invece?» proseguì Acromio.
«Non reggeremo ancora a lungo» rispose Maxus.
«Stiamo facendo il possibile» ribadì Rossella.
Acromio trasse un sospiro. Doveva prendere una decisione importante.
«Quanto tempo serve ancora a Ruby e Sapphire?» domandò la ex Fiamma del Team Magma «possiamo resistere ancora» affermò.
La risposta di Acromio giunse dopo parecchi secondi di silenzio: «abbiamo perso Kalut, la Faces ci ha impedito di fermare il macchinario a distanza» spiegò «ritiratevi, abbandonate il combattimento, disperdetevi. Avete fatto il possibile, andare oltre sarebbe soltanto un suicidio» ordinò «mettetevi in salvo, noi non possiamo fare più niente» concluse.
«No, no» esclamò Rossella «prenderanno Ruby, non possiamo lasciarli così!»
Si stava progressivamente innalzando il livello di allarme nel suo cervello. Si guardava attorno, cercando un bagliore di sostegno negli occhi di Alan e Maxus, gli altri due luogotenenti che combattevano al suo fianco, ma ottenne solamente delle tristi occhiate di rassegnazione.
«Acromio, no! I miei uomini restano! Non possiamo abbandonare!» gridò Rossella.
Acromio trasse un altro sospiro «Alan, ti affido lo squadrone di Rossella, porta quegli uomini in salvo».
«No, cazzo, Acromio!» gridò nuovamente Rossella, trattenendo le lacrime. Ormai non stava più neanche dando ordini ai suoi Pokémon, che continuavano a lottare da soli, privi di una guida, contro decine di nemici. La maggior parte dei soldati di supporto si stavano allontanando dalla battaglia, sotto gli ordini di ritirata dei due luogotenenti.
«Rossella, ascolta» fece Acromio, con una voce più vicina e chiara, priva di altri rumori di fondo: aveva azzerato chiuso le comunicazioni con gli altri, stava parlando soltanto con lei «sapevi a che cosa saremmo andati incontro, ti avevo chiesto di non farti coinvolgere sul lato personale» le intimò «ho voluto affidarti il comando proprio per questo, avresti guidato gli altri con estrema determinazione».
«Acromio, non farmi andare via» lo supplicò.
«Non puoi salvarlo, nessuno può. Abbiamo fallito, io ho fallito. Morire renderebbe inutile il suo sacrificio. Ho bisogno di te e dei tuoi uomini, possiamo ancora combattere la Faces insieme» le disse.
«Mi dispiace, Acromio» mormorò la ragazza.
Il capo delle squadre di supporto sentì un suono morbido, ottundente, la voce di Rossella si allontanava sempre di più.
Alan e Maxus stavano portando in salvo i loro soldati, Plumeria, Ada e Saturno facevano lo stesso, alle pendici della montagna. Gli uomini della Faces avevano il preciso ordine di raggiungere la base e non di sconfiggere l’esercito nemico, quindi non si curarono di inseguire i fuggitivi. Lentamente, le forze nemiche già superiori numericamente, divennero insostenibili persino per Green, che lottava incessantemente dall’inizio. Decine e decine di Pokémon furono più che necessarie per buttare giù uno alla volta ogni membro della sua squadra. Lui non combatteva per difendere la base, lui combatteva per vendicare Blue. Quando i soldati Faces lo compresero, vedendolo ringhiare contro di loro, anche allo stremo delle forze, lasciarono che un Toxicroack lo atterrasse con un colpo alle spalle, lasciandolo privo di sensi sul terreno, in mezzo alla neve, circondato dai suoi Pokémon esausti.
Rossella aveva tolto l’auricolare e non poteva più udire la voce di Acromio. Aveva gettato un’ultima occhiata per accertarsi che tutti i suoi uomini seguissero Alan e si allontanassero dal pericolo, mettendosi in salvo. Era la più vicina all’imbocco della base, ordinò ad alcuni dei suoi Pokémon di portare in salvo dei soldati che erano rimasti sdraiati sul campo di battaglia, allo stremo delle forze. Ninetales diede ad uno le energie di salvarsi, Mightyena si caricò un altro sulla groppa. A Swellow diede invece l’ordine di occuparsi di Green, non appena i soldati Faces si fossero allontanati.
Rossella voltò le spalle al combattimento, imboccò la passerella che portava alla porta della base e la scese in fretta e furia, rischiando di scivolare sul ghiaccio. Giunta alla fine, si infilò nel portone divelto, in cerca di Ruby. Le prime guardie Faces, nel frattempo, avevano raggiunto la passerella, poco dietro di lei.
 
Sapphire staccò il cavo di una capsula all’interno della quale era contenuto un Beartic, uccidendolo dopo pochi secondi. Così fece per uno Snorunt, un Cryogonal, un Lapras, un Cloyster, uno Sneasel. Aveva lasciato dietro di sé decine e decine di capsule congelate, piene di nient’altro che cadaveri. Allo stesso modo, Ruby. Avevano quasi terminato quel lavoro ignobile, restavano poche decine di Pokémon. La ragazza aveva i denti serrati e gli occhi lucidi, le lacrime rischiavano di rimanere congelate sulle sue guance. A Ruby tremavano le mani e le gambe sembravano cedere.
«Potete ancora falvarvi» disse una voce, da lontano.
I due Dexholder di Hoenn non si distrassero dal loro lavoro, ma non finsero di non ascoltare.
«Il Nodo ha dei poteri più grandi di quanto fi immagini, è fatto del materiale di cui è compofto l’universo, è ftato creato da Dialga e Palkia, all’inizio dei tempi» disse Xavier, rimessosi in piedi a fatica. Era claudicante e insicuro, sanguinava dalla bocca, era piegato dal dolore e dal freddo «danneggiandolo per errore, durante gli fcavi, due operai fono fcomparfi, li abbiamo ritrovati a Giubilopoli, in feguito» rivelò «io c’ero. Il Nodo altera il tempo e lo fpazio. Se lo tagliate, vi ritroverete lontano da qui e avrete diftrutto il macch...»
«Che cosa vuoi da noi, figlio di puttana?! Hai ammazzato Blue e ci hai condannati tutti! Adesso vuoi far finta di essere un amico?!» sbottò di colpo Sapphire, avventandosi verso di lui e non aggredendolo solamente perché sarebbe stato uno spreco di tempo.
«No, Sapphire, vuole solamente salvarsi, ma non può farlo da solo. Ha tradito la Faces, è spacciato anche lui, se rimane qui» dedusse Ruby, gelido, adamantino, schierandosi al suo fianco.
Xavier li guardava dal basso verso l’alto, piegato su se stesso, appoggiandosi ad una capsula che non era ancora stata disattivata. Sapphire ne scollegò il cavo, questa cominciò a raffreddarsi internamente, uccidendo il Glalie che vi era contenuto. Xavier dovette togliere la mano, per evitare di perderla a causa del gelo improvviso, e cadde a terra pietosamente. Aveva il volto contorto in una smorfia di disapprovazione e vergogna.
Ruby e Sapphire girarono i tacchi e lo abbandonarono lì, smettendo di curarsi di lui. Xavier, senza farsi notare, cominciò a gattonare via, verso il Nodo.
«Non sapevo di questa cosa e a quanto pare neanche Kalut... ma rimane il fatto che tagliare il cavo sarebbe come rompere l’intero macchinario, la base imploderebbe, facendo crollare la cima della montagna. Tutti, qui fuori, sarebbero seppelliti» spiegò Ruby, sottovoce «non possiamo uccidere tutte quelle persone, né i soldati della Faces, né tantomeno Green e gli altri alleati».
Sapphire sospirò. Non era delusa, anche se forse, per qualche secondo, il suo lato più egoista aveva sperato. Allungò la mano verso Ruby, prima di rivolgersi verso la prossima capsula da scollegare. Lui la prese, cercando i suoi occhi.
«Detesto farlo sempre nei momenti sbagliati» fece lei, stringendolo con le dita.
«E’ tutto ok» la tirò lui, portandola tra le sue braccia «va tutto bene...»
Abbracciare Sapphire era come abbracciare un ragazzino, sembrava voler sempre uscire da quella presa. Era rigida e fredda, tremendamente a disagio. Eppure, a Ruby sembrò di poter approdare su un’isola del paradiso, in mezzo a tutto quel mare di veleno che lo circondava. La strinse, lasciando fluire la tensione e la disperazione sotto forma di lacrime. Non si stava più trattenendo ormai. Tutto sembrava silenzioso, attorno a loro.
«Ruby! Sapphire!» li chiamò Rossella, comparendo in quel salone «oddio...» mugolò, trovandosi davanti tutte quelle capsule in cui erano imprigionati dei Pokémon morti. In mezzo a quello scenario, individuò i due Dexholder, che si scioglievano dal loro abbraccio.
«Che succede?» chiese Ruby, allarmato.
«I supporti si stanno ritirando, i soldati Faces arrivano qui, scappate, non c’è più niente da fare» li allertò.
Per un momento, i due Dexholder rimasero atterriti. Erano agli sgoccioli, ormai.
«Possiamo fermarlo, stiamo disattivando il macchinario» ribatté Ruby.
«Ma... non potrete andarvene» commentò Rossella.
Non ci fu risposta. Solamente due sguardi rassegnati.
«Avete bisogno di tempo?» chiese lei, lasciando scorrere le lacrime.
«Per finire il lavoro, sì» rispose Ruby.
Ormai, erano tutti e tre condannati, non c’erano dubbi.
«Va bene... va bene così» commentò Rossella.
I due Dexholder si voltarono, ricominciando a disattivare le capsule, per togliere potenza al macchinario.
«Sapphire» la chiamò Rossella, all’ultimo.
La ragazza si voltò.
Gli occhi della moretta oscillavano tra i due, come se Ruby e Sapphire fossero due immagini tra le quali bisognava trovare le differenze «sei una ragazza fortunata, trattalo bene per quando me lo riprenderò» le intimò, con un sorriso disperato.
I due la guardarono afferrare le Ball e tornare da dove era venuta, pronta a opporre un’ultima, strenua resistenza contro i soldati della Faces.
«Andiamo» mormorò Ruby, afferrando e staccando il cavo di un'altra capsula.
Sapphire lo seguì, ormai, era l’ultima scena.
 
I primi Allenatori vestiti di nero che si erano infilati nei cunicoli furono bloccati da un muro di fiamme che si diffuse per l’intero corridoio. Un Crawdaunt le spense con un getto d’acqua. In quella strettoia, si trovarono davanti una ragazza in uniforme rossa schierata al fianco del suo Camerupt.
In massa, si avventarono verso di lei.
 
«Ce ne sono cinque laggiù!» esclamò Ruby, indicando delle capsule ancora non disattivate.
«Aiutami» chiese Sapphire.
Ormai, i soldati stavano arrivando, i primi avevano già messo piede nel salone, trovandosi davanti all’orrido spettacolo. Alcuni erano sicuramente entrati nella sala della sorveglianza, per riprendere il controllo della base. Altri stavano cercando gli ultimi superstiti, loro due, per eliminarli.
«Hai scollegato le due a destra» indicò la ragazza.
«Sì, abbiamo...» Ruby si interruppe.
Sapphire si voltò e seguì la linea del suo sguardo. Accucciato sulla nicchia del Nodo, Xavier si era teso verso di esso. Aveva preso un coltello dalla cintura di Kalut, il cui corpo era ancora sul terreno, lì vicino. Stava tentando di colpire il Nodo con la punta di quest’ultimo, nel disperato tentativo di danneggiarlo.
«Fermo!» esclamarono Ruby e Sapphire, all’unisono, gettandosi verso di lui.
Il Nodo era completamente congelato, la bassissima temperatura ne aveva alterato le caratteristiche fisiche. Il coltello d’acciaio riuscì a scalfirlo, dopo numerosi colpi. La crepa, si espanse, il Nodo si incrinò, come se fosse fatto di vetro. Un ultimo colpo e tutto andò in frantumi.
Ruby e Sapphire, lanciatisi verso Xavier, persero la cognizione del tempo. In un istante, il loro cervello avvertì migliaia e migliaia di sensazioni diverse. Ultima, di nuovo quella stranissima che avevano provato sulla Vetta Lancia. Il loro corpo si sgretolò, astraendosi dal mondo reale. La loro mente esplose in pezzi, trascendendo l’empirico.
Tutto fu buio, poi tutto fu luce.
 
Green aprì debolmente gli occhi. Stava gelando. Sentiva l’aria fredda accarezzare il suo corpo come una lama tagliente. Si rese conto di essere sospeso a mezz’aria. Stava volando, anzi, qualcosa lo stava portando in volo. Alzò lo sguardo: era uno Swellow.
La battaglia doveva essersi conclusa. Lui ricordava solamente gli avversari che si moltiplicavano attorno a lui e di colpo riuscivano a vincerlo con la forza del numero. Mugolando, si fece portare a terra. Faceva fatica a reggersi sulle gambe, si sentiva come soffocato da un’ottundente sensazione di torpore. Era come avere i postumi di una sbornia. Si guardò attorno, in cerca dei suoi amici, in cerca di Blue. Soffocò il suo stesso respiro. Fissò il terreno per qualche minuto, come in attesa di qualcosa. Era rimasto solo.
Tastò una dopo l’altra le Ball della sua cintura. C’erano tutte, ma tre dei suoi Pokémon non erano ancora rientrati. Girò nel raggio di qualche metro e individuò Charizard e Golduck, erano entrambi esausti, riversati sulla neve. Fortunatamente, entrambi ancora vivi. Porygon-Z, invece, doveva trovarsi ancora all’interno della grotta, nel computer della Faces. Riprendendo i suoi Pokémon con sé, si accorse di non sapere cosa fare. Ruby e Sapphire si trovavano nella base, probabilmente, intenti a fermare il macchinario della Faces. Diresse il suo sguardo verso la zona dell’entrata. Vide una dozzina di agenti Faces sorvegliarne l’entrata. Erano arrivati alla base? Erano riusciti a vincere?
Doveva intervenire, doveva fare qualcosa. Dov’erano finite le squadre di rinforzo? Gli Allenatori che avevano lottato con lui? Era di nuovo tutto sulle sue spalle. E forse era giusto così. Kalut, Xavier, Blue... il susseguirsi di eventi che aveva vissuto all’interno di quella grotta sperduta su una cima del Monte Corona lo aveva completamente massacrato. Aveva perso tutto. E tutti.
Mise mano alla Ball di Machamp, doveva riprendere il...
Crock.
Un suono cupo e secco fece tremare il terreno sotto i suoi piedi. In lontananza, vide le guardie Faces cadere a terra come se qualcuno le avesse spinte con violenza. L’epicentro doveva essere vicino a loro. Il suono della neve che viene compressa e del ghiaccio che viene spezzato, si diffuse nell’aria, debole ma letale. Green assistette ad uno spettacolo aberrante: l’intera zona dell’ingresso alle grotte del Nodo, dove era stata combattuta la battaglia, si accartocciò su se stessa come un foglio di carta. La terra implose, il terreno rientrò in se stesso, inghiottendo gli agenti che erano lì attorno, le rocce si spezzarono. Come un pallone che viene sgonfiato, quel cucuzzolo si compresse, appiattendosi e scomparendo in un batter d’occhio. Il rumore si propagò per tutta la zona, venendo ribadito due o tre volte dall’eco, poi scomparve. Rimase solamente un brusio di fondo, un fremente gorgogliare che sembrava sempre più vicino.
Era una valanga. Lo Swellow si alzò in volo, riprendendo Green con le zampe artigliate. Il ragazzo vide la terra innevata farsi sempre più lontana. Poi rialzò lo sguardo verso il picco: non era rimasto niente, era persino difficile individuare quale fosse la zona in cui era stato aperto il buco che dava accesso alle grotte. La base era stata certamente distrutta, sepolta da metri di roccia, con tutte le persone che vi erano all’interno. Il ragazzo tornò a guardare giù: vide il punto in cui si trovava fino a cinque secondi prima venire investito da una celere ondata di neve che continuò il suo percorso verso il basso, fino alla prima vallata.
Green chiuse gli occhi. Mentre il mondo continuava a crollare sotto di lui.
 
Ruby si alzò di scatto, quasi si stesse svegliando da un brutto sogno. Aveva avuto l’impressione di cadere nel vuoto, come quando era bambino. Era tutto molto buio, ma nell’aria c’era un forte odore di fogliame. Si rese conto di avere dei vestiti pesanti, adatti ad un’escursione in alta montagna, ma la temperatura era decisamente più alta. Barcollando, si rimise in piedi, per aprire il cappotto, togliere la sciarpa, scalzare i guanti. Vide Sapphire, a pochi metri di distanza dal punto in cui si era svegliato. Anche lei era vestita con abiti da alpinismo.
Ruby aveva una tale emicrania. Non riusciva a capire come fosse finito lì, gli sembrava di aver dormito per giorni interi. Si guardò attorno. Finalmente, i suoi occhi cominciavano a scorgere qualche contorno e qualche colore, in quell’oscurità. Vide molti alberi, dei cespugli di erba alta, un prato selvatico. Un po’ più là, scorse una staccionata, oltre la quale sembrava esserci un sentiero di terra battuta. Ancora più lontano, si udiva debolmente il rumore del mare, tranquillo e pacato. Era notte, ma c’erano poche stelle in cielo. Le cicale frinivano e alcuni Hoothoot bubolavano tra gli alberi. Il ragazzo si accucciò, per svegliare Sapphire, che aprì gli occhi a fatica, proprio come lui.
«Ruby...» mormorò «che c’è?»
La aiutò a rialzarsi e a togliersi il cappotto pesante. Era tanto frastornata quanto lui. Entrambi non avevano la minima idea di come fossero finiti in quel luogo.
«Dove siamo?» chiese Sapphire con un filo di voce, tenendosi la testa tra le mani, come se potesse sfuggirle da un momento all’altro.
«Vicino Fiordoropoli, Johto» rispose Ruby.
Si era reso conto di conoscere quel luogo: aveva passato l’infanzia a Fiordoropoli, prima di trasferirsi a Hoenn all’età di undici anni. Quello era il Percorso 34, stradina costiera piena di Pokémon selvatici nella quale era solito giocare e intraprendere i primi combattimenti con i Pokémon Scout.
«Che sta succedendo?» si domandò il ragazzo.
I due Dexholder giunsero alla staccionata e la scavalcarono. Per la strada, non c’era nessuno. In lontananza, cominciarono a scorgere le luci della metropoli, capitale di Johto. Dall’altra parte, gli alberi si infittivano sempre più: era il Bosco di Lecci. Il mare bagnava il fianco occidentale di quella stradina, appena agitato dal vento.
Sapphire guardò l’orizzonte. Pensò ad Hoenn. Come mai non era là, a casa sua? Strinse il cappotto che portava tra le braccia. Le sembrò freddo e umido, ancora intriso di neve. Un brivido le corse lungo la schiena. Nella sua mente riapparvero le immagini del Monte Corona, della grotta, degli uomini della Faces, del corpo morto di Blue sul pavimento, delle capsule contenitive, del macchinario, del ghiaccio, dei Pokémon a cui lei aveva tolto la vita, di Xavier, di Kalut, di Green, del Nodo, dell’ultimo istante che ricordava chiaramente, in cui il Nodo si infrangeva in mille pezzi e del buio che l’aveva inghiottita, subito dopo.
Lentamente, cercò lo sguardo di Ruby. Trovò i suoi occhi, illuminati da un bagliore spettrale, da un’emozione terribile. Comprese che anche lui aveva ricordato tutto.
«Oddio...» mormorò.
In un guizzo di intuito, cercò nella tasca il suo cellulare. Ricordava di averlo sempre avuto con se, ma di averlo tenuto spento poiché inutile, in cima ad una montagna. Lo accese. Lo schermo si illuminò.
«Sapphire, che giorno è?» domandò Ruby, terrorizzato.
Erano saliti sul Monte Corona il dodici luglio, la vicenda si era conclusa il giorno successivo con la rottura del Nodo.
Quando la data comparve sul display, la ragazza la lesse con un filo di voce: «Ventisei ottobre... è stato più di tre mesi fa...»
Ruby non disse niente. Nel silenzio di quella notte, tutto il mondo sembrava fermo, tranquillo, immobile.
 
 
Nubian
Fine

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