All, all, are sleeping, sleeping,sleeping, on the hill di Lalani (/viewuser.php?uid=32632)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** It is a boat longing for the sea and yet afraid(George Gray) ***
Capitolo 2: *** Genius is wisdom and youth(Alexander Throckmorton) ***
Capitolo 3: *** And then she died and haunted me, and haunted me for life(Fletcher&Ollie Mcgee) ***
Capitolo 4: *** You think your eye sweeps about a wide horizon(Griffy The Cooper) ***
Capitolo 5: *** Nevica sul mare(Mrs. Kessler) ***
Capitolo 6: *** Oceano in Scatola (Mrs. Sibley) ***
Capitolo 7: *** Gli Angeli della Città Incompresa(Franklin Jones) ***
Capitolo 1 *** It is a boat longing for the sea and yet afraid(George Gray) ***
It
is a boat
longing for the sea
and yet afraid
Un deserto
blu si stendeva dai suoi piedi fino all’orizzonte. Un dipinto
acquoso cosparso di sfumature candide e rosate, incorniciato da un
cielo senza contorni.
Temari
piegò la testa all’ingiù, come faceva
da piccola per osservare la sabbia dorata sottosopra; ora invece vedeva
un unico manto azzurro. Sorrise, la gola arsa dal desiderio di
dissetarsi bevendo tutta quell’acqua salata e cristallina,
così scarsa nella sua terra natale. Sorrise, nel vedere per
la prima volta il mare, dopo anni di mitici racconti e vestiti turchini
che non potevano essere paragonati a
quell’immensità acquamarina. Aveva sempre pensato
che il blu e l’azzurro fossero colori mitici e divini,
tonalità che gli uomini potevano copiare solo dal cielo,
sede delle divinità e della vita infinita. Mai avrebbe
pensato che molti uomini potessero toccarlo e berlo e sentirlo sulla
pelle arsa, quel colore divino.
Il
sorriso gioioso della ragazza svanì quando vide
un’ombra allungarsi sotto i suoi piedi, ingigantita dal sole
cocente.
“Te
lo puoi scordare.”
“Cosa
c’è, cry-baby, paura
dell’acqua?”
“Ti
ricordo che sei tu quella che non sa nuotare! Sei sicura di non aver
cambiato idea??” commentò Shikamaru con un
cipiglio sprezzante e allo stesso tempo speranzoso.
“Mai!
Ho dato la mia parola di kunoichi che dopo aver concluso questa noiosa
missione diplomatica, mi sarei goduta per la prima volta una bella gita
in barca!” esclamò Temari, estatica alla vista
delle vele bianche che danzavano con le onde.
Shikamaru
sbuffò annoiato e si schermò gli occhi neri per
proteggerli dal sole incandescente e si ritrovò a guardare i
lineamenti di Temari, meno tesi e più leggeri, come se
l’adolescenza fosse la sua vecchiaia, e alla vista del mare
fosse tornata bambina.
“Non
ho intenzione di spendere i miei risparmi per una stupida gita! Dovevi
tenerne conto prima di ingozzarti di dolci e sprecare tutto il tuo
denaro” ribatté Shikamaru, nel tentativo di
togliersi di mezzo questa seccatura del mare e di tornarsene a casa,
dove avrebbe potuto finalmente stendersi e sbarazzarsi del pungente
odore di salsedine.
Togliersi
il ricordo, il rimorso, di quel viaggio troppo breve.
“Ma
che razza di uomo sei?? Come puoi essere così spilorcio con
una signora?” protestò Temari senza staccare gli
occhi dall’orizzonte azzurrato.
“Quale
signora, di grazia?”
“Coglione.
Aguzza i tuoi sensi da super-genio e quei tuoi occhietti
cisposi.”
“Nonostante
la mia abilità nelle arti ninja, temo che questa richiesta
potrebbe risultare un po’ troppo difficile.”
“Per
uno sfaticato e fifone come te, di sicuro.”
“Oh,
taci, mendokuse”
“Demente”
“Vecchia
strega”
“Piagnone”
“Testa
d’ananas”
“COOOSA???!!”
Una
barca con le vele ammainate, in un porto.
In
realtà non è questa la mia destinazione
ma
la mia vita.
Shikamaru
si sporgeva da una piccola terrazza miracolosamente
all’ombra: sotto di sé, il porto era un via vai di
pesci freschi e agonizzanti, braccia sudate, barche vergini che
compivano il loro primo viaggio, barche anziane che arrancavano verso
il porto.
Shikamaru
non riusciva a decidersi a quale barca assomigliasse di più.
Probabilmente a nessuna della due.
“Ecco.
Tu sei una dannatissima barca ferma in porto”.
Shikamaru
dovette accendersi un’altra sigaretta per non essere tentato
dalla notevole altezza della terrazza, che gli avrebbe procurato
un’agognata e indolore fine.
Temari,
con i capelli increspati dal vento salato e gli occhi dalle sfumature
turchesi simili a quelli del mare sottostante, guardava con
curiosità e desiderio le barche tozze che scivolavano
leggere a pelo dell’acqua.
Shikamaru
si sedette sulla sottile ringhiera, incorniciata da gerani purpurei, e
sbuffò fuori una zaffata di fumo che si confuse presto
nell’aria salmastra.
“E
invece di rimanere in porto, dove dovrei andare secondo te?”
le chiese il ragazzo, buttando la testa indietro e chiudendo gli occhi
stanchi.
“Dovresti
semplicemente smettere di sbuffare e lamentarti” gli rispose
la voce forte di Temari “Sei un chuunin fra i più
prestanti nelle missioni interne ed esterne al tuo villaggio! E ho
sentito anche che molti nobili hanno richiesto la tua presenza nelle
loro carovane e nelle loro dimore. Dovresti lasciare il nido e volare
verso orizzonti più vasti. Cazzo, Shikamaru, potresti fare
quello che vuoi e ottenere il massimo rendimento, se solo lo volessi.
Potresti anche portarmi a fare una gita in barca, se lasciassi il porto
della tua pigrizia e la smettessi di essere così
sfaticato!”
Potresti
esaudire un mio desiderio, per una volta.
Shikamaru,
annoiato, strizzò gli occhi stretti e li puntò in
quelli enormi di Temari, pacati ma sicuri. Chissà
perché gli stava facendo quella predica, invece di tirargli
un pugno in pancia e costringerlo a dargli i soldi rimasti.
“
Piantala con questa menata della barca! E comunque, non
lascerò Konoha. La mia volontà è
quella del fuoco. Io vivo per servire il mio villaggio, i miei amici, i
miei parenti” le comunicò serio, mentre, di
malavoglia, tornava a guardare il mare, e quell’acqua tiepida
e smorta, così diversa dal fuoco che sentiva nel suo cuore.
“Serviresti
benissimo il tuo villaggio, se non fossi così pigro! Ma non
ce l’hai un minimo di ambizione? Non vuoi spiccare tra gli
abitanti della Foglia??” replicò Temari,
infastidita, mentre si mordeva un labbro al sapore di sale. Forse era
solo lei che sentiva questo bisogno, che lo agognava come acqua, la
stessa che invocava dopo mesi di siccità. Lei e i suoi
fratelli avevano dovuto scalare il muro dell’indifferenza
costruito dai loro stessi concittadini, mattone dopo mattone. Non
potevano rimanere i figli di quello sciagurato del Quarto Kazekage, che
aveva distrutto la moglie fino a costringerla a maledire il suo stesso
villaggio, che aveva trasformato suo fratello in una macchina di sangue
e sabbia.
Era
stata l’ambizione sacra e pulita di Gaara a riesumarli dal
fango. E ora quel cretino del Nara denigrava la sua ancora di
salvezza…ma perché stava cercando di spronarlo in
quel modo? Era inutile, come sbattere la testa contro un melone.
Shikamaru
buttò indietro la testa, sotto i raggi che cominciavano a
perforare l’ombra della timida terrazza, e si
rigirò nel palato la parola ambizione, assieme al fumo.
L’ambizione
mi chiamò
ma
io temetti gli imprevisti
La prima
volta che aveva davvero sentito l’ambizione nel suo animo, la
prima scintilla della sua volontà di fuoco, era stata
durante l’esame di selezione dei chuunin.
Quando
era stato travolto dagli applausi della folla multicolore, punteggiata
da facce orgogliose e note, sorprese. Aveva sentito il suo corpo
bagnato di stanchezza e adrenalina, mentre le sue orecchie erano piene
di schiamazzi, di grida, di voci dal timbro straniero e altre comuni
nella sua amata patria.
Aveva
visto con occhi intrisi di piacere il maturo corpo della sua avversaria
fremere e la sua sfacciataggine sbriciolarsi negli occhi chiari. Eppure
si era ritirato.
Non
sapeva ancora perché avesse rinunciato a infliggere una
sonora sconfitta a Temari. All’inizio si era ripetuto fino
alla stremo di non aver avuto voglia, anche se questa sua versione
aveva provocato lo sgomento del villaggio, le prese in giro degli amici
e l’ira di sua madre. E anche una promozione a chuunin, che,
tirando le somme, era risultata la conseguenza più seccante.
Ma
forse era stata la vista degli occhi di Temari, splendenti e fieri, che
gli avevano mostrato una forza e un’ambizione contro le quali
la sua fiammella da candela non poteva competere: un amore smisurato,
fanatico, per il suo villaggio, un orgoglio immenso e un fiducioso
amore fraterno.
Shikamaru
si era sentito indegno di vincere quella sfida; lui, il ragazzino pigro
e viziato contro quella ragazza erosa dal deserto, innamorata di Suna.
E
poi aveva ragione Asuma-sensei: era troppo pigro per fare qualsiasi
cosa, figuriamoci per seguire un’ambizione neonata e incerta.
Un’ambizione
vicina, ma che presentava l’imprevisto di essere troppo
stancante.
Il dolore
bussò alla mia porta,
e
io ebbi paura.
“Anche
il dolore può essere una fonte di cambiamento”
mormorò Shikamaru, mentre lasciava che il sole bagnasse la
sua fronte pallida, anche se sapeva che presto avrebbe desiderato
bagnarsi con l’acqua del mare turchese.
“Oppure
ti fa radicare le tue convinzioni su un terreno sterile. Ti
blocca” commentò Temari, mentre si arricciava un
boccolo, lentamente. Il suo dolore l’aveva rinchiusa nella
prigione che si era rivelata il suo stesso villaggio, la sua stessa
casa, la sua stessa famiglia. Aveva dovuto scavare e toccare il fondo
prima di poter risalire.
Invece
il dolore aveva fatto viaggiare Shikamaru per chilometri, lontano dal
nido, per estirpare la sua sofferenza.
E
quella sofferenza l’ aveva indubbiamente temprato
Temari,
durante la sua ultima visita, aveva trovato Shikamaru alle porte di
Konoha e durante quei pochi giorni si era dimostrato più
affabile e loquace. Solo alla sua partenza Temari era venuta a
conoscenza della morte di Asuma, il fedele e benevolo Asuma. E Temari
aveva scoperto cosa si nascondeva dietro l’apparente
serenità di Shikamaru, cos’era l’ombra
nei suoi occhi e il lieve tremore alle mani, cosa significasse per lui
parlare per la prima volta da settimane con una persona estranea alla
tragedia, una persona che non usava una voce più soffice o
cercava lacrime nascoste.
Per un
attimo, solo con lei, solo per lei, aveva lasciato il suo
porto.
Temari
abbassò di nuovo lo sguardo sull’ormai amato mare,
che l’affascinava sempre di più con le sue chiazze
di acqua chiara e scura, con i suoi gabbiani che stridevano contro il
tramonto imminente, con le sue vele che la chiamavano, preganti.
Temari
volse lo sguardo verso il profilo preciso e forte di Shikamaru,
ammantato della beatitudine marina.
“Anche
l’amore può far smuovere una barca dal suo porto,
no?”
Perché
l’amore mi si offrì e
io
mi ritrassi dal suo inganno
Shikamaru
sentì il sangue ribollire, che presto si
trasformò in calore, che presto si trasformò in
ansia, che presto si tramutò paura.
Ma
sul viso di Temari c’era un sorriso aperto, solare, semplice,
allegro, diverso dai canoni di seduzione o timidezza femminile. Diverso.
“L’amore
può essere un inganno” borbottò il
ragazzo mentre gettava la sigaretta giù per la terrazza, in
una tomba di luce.
Temari
si alzò e scosse la chioma lucente.
“O
forse no” sorrise.
Shikamaru
sentì le sue labbra stendersi, indipendentemente dal suo
volere e dal suo orgoglio.
Altro
sorriso.
“Allora,
barchetta, esci dal porto?”
“Col
cavolo che sono una barchetta!”
“Vero,
ora che ci penso assomigli di più a una
zattera…”
“Dovrai
sperare che le ananas galleggino, mendokuse che non sei altro!
È insultandomi che tenti di farmi uscire dal
porto?”
“Bè,
mi pare che come tattica funzioni! Infatti, ora compiremo il
primo passo: mi porterai a fare la gita in barca!E pagherai
tu”.
“Posso
sperare che dopo quest’inutile perdita di tempo e di energie
mi lascerai nel mio calmo e sicuro porto?”
“In
realtà, credo che potrei costringerti a farti uscire
più spesso. Magari verresti più spesso a Suna,
invece di fare di bradipo tutto il giorno!”
“Sei
proprio un ananas, mendokuse: spinosa fuori e aspra dentro!”
Per
non dire dolce dentro.
Temari
rise, forte, incurante dell’insulto che la sua mente
incantata ben presto trasformò in complimento.
Attese
un attimo, e poi, con la velocità di uno sprazzo di sole,
gli donò un fulgido bacio sulle labbra screpolate dal sale.
Temari
corse via, soddisfatta, col vestito e i capelli impregnati di granelli
di sabbia persi nel vento. Non vedeva l’ora di toccare il
colore divino.
Shikamaru
le corse dietro, felicemente sconfitto, agile nella brezza marina.
Non
vedeva l’ora di toccare il cuore di Temari.
E adesso
bisogna alzare le vele
e prendere
i venti del destino,
dovunque
spingano la barca.
Dare un
senso alla vita può condurre alla follia,
ma una vita
senza senso è la tortura
dell’inquietudine
e del vano desiderio.
Eccomi
tornata!* e il terrore calò su efp*
Buongiorno
care lettrici e cari lettori: LaLa, dopo un’assenza 4 mesi( o
cavolo O_O) è tornata sui vostri schermi.
Intanto,
questa fic è stata scritta per lo ShikaTema day, il
giorno più nero dell’anno! Sono fiera di
professare l’OMN, una filosofia di vita. Mi raccomando,
commentate tutte le perle nere che saranno postate oggi! Sono venuta a
conoscenza dell’evento soltanto ieri, e quindi ho avuto un
giorno di tempo per scriverla! Quindi linciatemi piano^^.
Ma
ora passiamo alla presentazione di questa nuova fic!Per scacciare il
blocco dello scrittore e la mia pigrizia, scriverò questa
raccolta ispirata dalle celebri poesie di Edgar Lee Masters, ovvero
tratte dall’Antologia
di Spoon River.
Queste
poesie sono scritte dal punto di vista degli abitanti del cimitero
della città, che raccontano le loro vite terrene e i loro
rimpianti: la mia interpretazione sarà libera e differente,
anche se cercherò di “risolvere” i
rimorsi dei morti con i personaggi di Naruto. Non credo che
riuscirò ad analizzare tutte le poesie, anche
perché sono 460 O_o e perché alcune sono a tema
politico, e non voglio scrivere sciocchezze o errori.
Il
protagonista di questa poesia è George Gray(scritto nel
titolo) un uomo che ha abbandonato le sue ambizioni per paura: si
considerava una barca forte e resistente ma che non si è mai
staccata dal porto. Mi ha ricordato il nostro Shika e poi ci ho
aggiunto una spruzzatina di Temari.Mi è venuta fuori una
roba un po’ filosofica, ma l’ho fatto per
rispettare le esigenze della poesia. Le frasi in corsivo non sono mie,
ovviamente, ma sono tratte dalla poesia, come il titolo, che
però ho conservato in lingua originale.
Spero
che vi sia piaciuta^_^
Non
mi resta che augurare tutti un buon ShikaTema day(la sentite, la
fuorviante energia del nero??*_*)
Grazie per
la vostra attenzione,
LaLa
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Capitolo 2 *** Genius is wisdom and youth(Alexander Throckmorton) ***
xxx
Genius is
Wisdom and Youth
Da
giovane, avevo ali forti e instancabili,
ma
non conoscevo le montagne.
Volo,
appoggiato alle spalle sottili di Kakashi-sensei. Ero sicuro che non
avrei più rivisto il suo volto soffocato dalla maschera o le
sue mani potenti.
Un
sorriso ricoperto di stoffa gli si modella sul volto, nonostante la
fatica e la sofferenza provocata dalla battaglia.
“Sono
fiero di te” mi mormora Kakashi, con una cadenza
affaticata e gentile.
Sorrido,
ancora e ancora, al mio maestro: è incredibile che dopo
tutti questi anni, assieme o separati, i suo complimenti e il suo
affetto paterno mi riempiano tuttora di orgoglio, e rinforzino le mie
ali rattrappite e stanche, aiutate da quelle del sensei.
Un
grumo di sangue assieme alle ultime fiamme nate dalla furia di Kyuubi,
stagnati nel mio petto, mi si incastrano in gola: Konoha è
sbriciolata, immersa nella polvere, mai così lontana dal
cielo, dal sole che al tramonto la sfiora, l’accarezza.
È
scomparsa, come il rifugio di Nagato; ma quello era fatto di carta e
odio...Konoha non era un preciso e vuoto origami. Konoha era sudore,
legno e amore. Era.
Ma
il villaggio non è morto: tutti gli abitanti, sconvolti e
insanguinati, vivi, si sono riversati nello spiazzo
occupato precedentemente dal bosco, ormai sradicato e bruciato.
Volano,
anche loro, tutti verso di me.
E,
per la prima volta, vedo sorrisi e saluti nella mia direzione, vedo la
folla che si accalcava sulle mie ali forti, più forti che
mai.
Konoha
è in polvere, erosa dall’odio, ma gli abitanti
ridono, piangono, urlano, mi dicono “sei tornato”
“sei il nostro eroe””ci hai
salvato”.
Dopo
anni di schiaffi e di pugni, le loro grida di giubileo e speranza sono
carezze.
Dovrei
correre e saltare, dovrei ridere e piangere assieme a loro, dovrei
spalancare le ali piene di chakra e felicità che mi spuntano
dalla schiena, e volare, volare, sempre più su.
Invece
non capisco e rimango fermo e spiazzato, per paura di rovinare il mio
sogno appena diventato realtà, per paura di essere un illuso
sonnambulo.
Non
capisco le pacche dei ninja, i loro sorrisi stanchi tra le barbe
bruciate, le loro cicatrici che si tendono, doloranti, pur di
assestarmi un pugno di riconoscenza. Non capisco i volti delle
kunoichi, impregnati di lacrime e di sorrisi che scavano fosse profonde
sulle guance, le mani che mi sfiorano come se fossi loro
figlio. Non capisco le parole stanche del sensei, mentre mi
sostiene con delicatezza. Non capisco l’orgoglioso cipiglio
di Shikamaru, appoggiato a Choji, o il perfetto sorriso di Ino.
Vorrei
correre via, vorrei abbracciare e stritolare, ma è tutto
troppo, troppo. Ho realizzato il mio sogno. Ed è troppo,
troppo.
Non
capisco le lacrime di Hinata, sei
viva, viva, viva, che si confondono con le sue iridi
perlacee. Quelle stesse iridi incastonate nel volto diafano(mai
così diafano, in contrasto con le mani bruciate di chakra)
che avevo visto duro e omicida, nella mia ora più buia. Non
avevo capito, e non capisco, la follia e la disperazione, la furia e la paura, che
c’erano nella sua voce ferma, quella vocina perennemente
spezzata da un balbettio frustrato.
Non
capisco il suo amore, incondizionato e potente, cha l’aveva
trascinata verso la rovina. Ma avevo capito e compreso l’odio
e l’ira che io avevo provato: l’ennesimo senso di
perdita, di essere un peso, di non aver visto il tuo cambiamento e la
tua crescita, Hinata, dopo anni che sei accanto a me, e lo sei sempre
stata, sempre; avevo capito che non potevo lasciarla lì, in
una tomba piena di polvere e senza fiori. Non la piccola Hinata, quella
ragazza piena, strapiena, di emozioni che sprizzavano dalla sua anima
timida come lacrime e chakra(da quando i tuoi occhi sono luminosi? Da
quanto sei cambiata? Da quanto sono stato cieco alla tua forza?).
Kyuubi era impazzita alla vista del Byakugan ribaltato verso il cranio(
proprio come aveva tremato nel vedere lo Sharingan di Sasuke) e io con
lei. Per la prima volta, io e la mia nemesi, eravamo esplosi assieme,
nel nome di Hinata, un nome pieno di sole.
Hai
detto che mi amavi. L’hai detto a me, e solo a me, senza
pudore e vergogna, sull’orlo della morte.
Hai
sentito, Kyuubi? Mi ama.
Forse
è proprio questo che mi blocca: dopo anni di sofferenza e
solitudine, sono paralizzato davanti a tanto amore. Cuore e cervello,
anima e braccia, non riescono ancora a riconoscere, a sentire, ad
annusare, ad abbracciare tutto l’amore del villaggio, è troppo,
troppo…troppo bello.
Ma
mentre guardo il pianto gioioso di Hinata tramutarsi in un sorriso
timido e i suoi occhi risplendere sotto un nuovo sole, sento che lei
può insegnarmi, ad amare.
Può
insegnarmi a volare, a battezzare con le nuvole e i sogni queste mie
ali da angelo.
Insegnami,
Hinata.
Quando fui
vecchio, conobbi le montagne
ma
le mie ali stanche non tennero più dietro alla visione-
La
mia schiena brucia, scorticata dall’odio di Pain e dal
miracoloso sacrificio del mio amore. Ancora vedo scintille di dolore e
di chakra verde esplodere nei miei occhi albini, risalire sulla mia
pelle. Ma non sono i soli: gli sguardi penetranti e feriti della mia
casata sono fissi sulla mia schiena, sulle mie ali stanche, bruciate.
Percepisco quasi i loro sospiri, muti e mendaci.
Perché,
Hinata-sama, vi siete gettate tra le fiamme dell’inferno per
salvare un demone da un suo simile? Perché un angelo pauroso
e sereno come voi ha dovuto sacrificare la sua anima per un mostro?
Loro
non capiscono che è Naruto l’angelo,
l’angelo caduto, scacciato: il ragazzo senza clan e senza
famiglia che, nel tentativo di salvare sé stesso dalle
tenebre, ha trovato il coraggio di salvare anche me. Guardate come
vola, guardatelo, voi Hyuuga ciechi e tronfi, guardate la sua forza e
la sua purezza, la purezza che non conosce e riconosce
l’amore perché nessuno gliel’ha mai
mostrato.
Io
invece conosco l’amore, Naruto-kun: è la montagna
della vita, quella che devi scalare per raggiungere il cielo, il
divino. Su quella montagna ci devi cadere, sudare, sanguinare, morire, per capire
quanta fatica e quanta dedizione e quanta costanza servono per
raggiungere il vero amore. Io non mi sono mai fermata su colline o
punte più pianeggianti: ho sempre cercato di raggiungere la
montagna più alta, quella irraggiungibile, quella innevata e
cosparsa di nuvole, la tua, solo la tua, l’unica per me.
Le
mie ali sono stanche, Naruto-kun: dopo anni di tentativi, dopo notti
insonni a guardare la tua vetta lontana come un fiore agogna il sole,
le mie ali si sono prosciugate, e ora devo avanzare a piedi, tra i
sassi e tra la polvere.
“è
tornato! È tornato a casa!” esclama Kiba con la
sua voce forte, e finalmente lo vedo, Naruto, che atterra delicatamente
sulla sua terra nativa. Dovrei ridere e urlare, ma piango, assieme alla
mia anima, ancora impaurita e ferita, ma, per la prima volta,
orgogliosa,.
Vedo
che sei sgomento, Naruto-kun, alla vista delle mie lacrime e delle
bruciature lasciate da Pain e dalla Volpe, ma io piango di gioia,
piango per amore. E un giorno lo capirai anche tu, Naruto-kun. Un
giorno raggiungerò la tua vetta.
Perché
so che con le tue ali immense potremo volare assieme, mano nella mano.
Allora,
io non sono brava a scrivere le NaruHina( da devota NaruSaku) e si
vede^^’. Ma LalyBlackangel mi ha chiesto una NaruHina e io
gliela dovevo.
Dunque,
questa brevissima poesia, narrata da Alexander Throckmorton, parla di
uomo che da giovane era forte e potente, ma non conosceva i veri
obbiettivi della vita. Solo nella vecchiaia li comprende, ma ormai
è troppo vecchio e stanco per raggiungerli.
Io
l’ho interpretata così: nel 450 Naruto ha una
faccia da ebete quando torna la villaggio(bellissima, ma da ebeteXD) e
quindi mi pareva che non riuscisse a comprendere l’adorazione
dei suoi concittadini, dopo tutte le mazzate che ha ricevutoXD. Hinata
invece conosce già l’amore( e chi meglio di lei??)
ma la timidezza e la sua infanzia rubata hanno indebolito il suo copro
e le sue ali. E alla fine c’è un scintillio di
speranza per i due;) Io però rimango fedele al
NaruSaku, sia chiaro! La fic non è bellissima, ma mi sono un
po’ commossa a scriverla…quindi mi sono detta, va
bè mettiamolaXD Spero che non ci siano troppi errori!
Recensori*_*:
temari nara: Sono
felice che ti sia piaciuta la mia fic!Comunque se la trovi commovente,
allora le altre ti sembreranno tragiche!!(infatti la precedente
ShikaTema, secondo i miei standard, era stranamente comica, quindi fa
un po’ tuXDXD)
Grazie!
bambi88: infatti
sono stata stranamente folgorata dall’ispirazione, grazie al
signor Masters! La poesia era scritta proprio per ShikaXD e sono
contenta che la trovi adatta! È certo, l’OMN
è pura filosofia!(dovremmo stillare i principiXD) Grazie!
LalyBlackangel:
cara, spero che ti sia piaciuta la NaruHina^^’*LaLa evita un
pomodoro*. Comunque se mi vuoi fare altre richieste, sono sempre ben
accette, anche su coppie che non mi piacciono. Al contrario, mi stimola
scrivere su coppie più ostiche…è un
po’ un esercizioXD Sono felice che tu sia un’amante
di queste poesie…sono davvero bellissime**.
Grazie!
Rinalamisteriosa: ma
va, cara, anche la tua fic era
carinissima!Evocativa…esagerata!Sono felice che continuerai
a seguire la mia raccolta*LaLa ha gli occhi sbarluccicosi*
Grazie!
x Saretta x:
già sono proprio loroXDXD!Adoro dare a Temari della spinosa
e dura testa d’ananas(le si addice perfettamente)!Sono felice
che seguirai la mia raccolta*_*!
Grazie!
_BellaBlack_: eh
sì, Temari è una mitica testa d’ananas,
dolce ma spinosa al punto giusto!Anche tu mi seguirai??*_* che bello!
Grazie!
Shatzy:
già già!L’energia del nero ci segue e
ci inonda della sua oscurità*LaLa fa faccina inquietante!*.
Grazie mille per i complimenti, è un onore: in
realtà l’idea ce l’avevo da un
po’…appena ho letto la poesia ho detto
“ma questo è ShikaO_O”. Si, il mare e
l’azzurro mi rallegrano sempre, anche perché
Milano ne è quasi totalmente priva=_=. Sono felice che ti
sia piaciuto il riferimento ai fratelli**: io Temari non riesco a
vederla senza quel dolore interiore nato dalla sua infanzia tragica e
senza l’amore infinito che prova per i
fratelli…è vuota senza questi sentimenti!
Grazie!
valy88: grazie per i
complimenti! Ma magari neanche in cartolina…povera Temari!
Infatti, mi è piaciuto che Shikamaru nonostante la sua
pigrizia sia riuscito a fare qualcosa di veramente importante per
Temari(che romanticone, il nostro pigroneXD). Che bello, io, Miss
Tragicità, sono riuscita a far ridere!Purtroppo prevedo che
le prossimo fic saranno un po’ più
tragiche^^’sorry!
Clahp: cara, non ti
ringrazierò mai abbastanza per avermi avvertito dello
ShikaTema Day…mi è sembrato di stare
più vicina a ognuna delle anima nere di efp**. Spero che le
prossime fic non siano troppo malinconicheXD Grazie mille per i
complimenti!
Grazie!
_Rael_89:
bè, c’è sempre una prima voltaXD!
Bellissimi i tuo complimenti mi hanno fatta diventare della clorazione
di un pomodoro e delle consistenza di un passato.
Grazie
per la vostra attenzione,
LaLa
|
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Capitolo 3 *** And then she died and haunted me, and haunted me for life(Fletcher&Ollie Mcgee) ***
Lucciole
di metallo, dense, color smeraldo, colano sotto i miei occhi come
lacrime. Da tempo avevo dimenticato questo dolore, questa pesantezza
sulle mie guance incavate, mangiate dalla vita.
Polvere, incandescente, sotto le mie dita, sotto la mia lingua, io
sarò polvere.
Non sento più le sue mani, callose e screpolate dal chakra
impetuoso, così diverse da quelle paffute e tremanti che
infestano i miei ricordi.
Anche lei mi ha abbandonato? Anche lei? Ha deciso di condannarmi alla
punizione che la vita, traditrice, mi ha scritto?
La mia punizione, vagare un limbo di lune rosse, lacrime dimenticate e
fantasmi ipnotizzati, senza vedere la mia ombra scontrarsi contro il
sole della realtà.
“Sasuke-kun…”
La mia punizione, sentire quelle parole rauche e assetate, sentire quel
suffisso pieno di rispetto e sollievo, ansia e amore, affiancarsi al
nome di un assassino. Lei è ancora lì, e il suo
chakra verde splende, nelle sue iridi. E si amalgamano,
perché sono fatti della stessa essenza, dello stesso amore.
Un enorme mostro dagli occhi verdi sbuca dalla selva nera che affolla i
miei sensi, ma non è invidia quella che vi scorgo, ma solo
adorazione.
La sua punizione.
Mi sta riportando alla vita, con le sue mani intrecciate, incrociate,
votate alla speranza e al destino.
E, alla fine, vedo. Di nuovo. Sento. Muovo. Grido.
Sento il suo capo, morbido e umido, posarsi sul mio cuore furibondo,
alla ricerca dell’amore che la mia anima non gli ha mai
concesso.
Muovo una mano, raggrinzita, sui suoi occhi aperti. Troppo aperti,
ciechi.
Grido, di dolore e di sollievo, aspiro sabbia e pioggia.
Vedo, la donna che mi ha salvato.
Mi hai salvato, Sakura. Hai salvato un traditore.
Sei una peccatrice.
P e c c a t r i c e.
E per questo sarai punita.
And
then she died and haunted
me,
And haunted
me for life.
La Città di LA
“Quando
torni?”
“Presto, Sakura, presto. Te l’ho già
detto”
“Ah sì…”
È sempre più difficile ingannarla. Sono passati
tre anni, solo tre dannatissimi anni e lei è sbocciata,
violentemente, in un esplosione di colori.
Eppure questa trasformazione sembra innaturale, come se avessero preso
un fiore acerbo, fresco, e l’avessero forzato e violato con
un kunai per obbligare i petali ad aprirsi verso la luce del sole,
sconosciuta ed accecante.
Lei stessa si è inflitta questo supplizio: il suo corpo reca
cicatrici e ferite recenti, frutto di un allenamento costante,
devastante.
In fondo è anche colpa mia. Solo un po’.
“Allora ti aspetto, mi raccomando” mormora Sakura
quieta ma decisa, mentre accarezza un gruppo di soffici fiori.
La sua mente lavora frenetica, la sento: i suoi pensieri intelligenti e
maturi si inceppano, cadono nella memoria confusa. Tocca ancora i
petali, mentre cerca di ricordare dove ha già sentito
quell’odore, quel profumo, perché le ricordano due
occhi color del cielo.
“Non ti sforzare troppo: non ti sei ancora
ristabilita” le ricordo per l’ennesima volta.
Lei si volta, sospettosa ma speranzosa: cerca tracce e conferme del mio
recente cambiamento. La sua fronte enorme e lucida sembra fumare nel
tentativo di scoprire il motivo della mia nuova, strana gentilezza.
Strana per i miei standard, si intende.
“Lo so, Sasuke-kun” sussurra dopo aver rinunciato a
stanare il mio segreto “Lo so benissimo!”.
Togli quel maledetto –kun, penso, infastidito, mentre sento
che i miei lineamenti sempre più stanchi si irrigidiscono.
Quel suffisso mi ricorda il passato, un passato fatto di sorrisi e
sudore, di ali tagliate e sangue, il passato che io stesso ho
distrutto, e che ora non posso ricomporre. Mi ricorda la pena e la
punizione che devo scontare.
“Ma non parlarmi con quel tono sofferente” mi
rimprovera, mentre esibisce lo stesso broncio che aveva da bambina,
quello che non è mai riuscita a cambiare “Sembra
che per te sia una punizione rimanere qui con me!”.
Io sospiro e mi allontano, scompaio, quasi, nella luce troppo intensa
di un sole incandescente e perenne.
Non sai quanto lo sia,
Sakura. Una punizione infernale che io stesso ho costruito, tassello
dopo tassello.
Un mosaico di dannazione
eterna.
“Torna presto Sasuke-kun, così riusciremo a
trovarla”.
Ancora quel dannato suffisso, un’espressione di rispetto e di
tenerezza che io non ho mai voluto. Basta, basta.
Mi volto, per ricordaglielo, come ogni volta; ma incontro i suoi occhi
di cristallo e il suo sorriso opaco ma fiero, fedele.
Perché ora è così difficile
distogliere lo sguardo da quel volto scheggiato dalla fatica? Forse
perché è solo un ricordo, appannato di latte e
nuvole.
“Vedrai che insieme troveremo la città di LA. E
poi tornerà tutto come prima”.
L’avete
visto in giro nel villaggio
un uomo con gli occhi bassi e il volto scavato?
E’ mio marito, è lui che per segreta
crudeltà
innominabile, mi prese gioventù e bellezza;
Lampi
d’alba invadono una notte di petrolio. Scivola via, oleosa,
come i miei incubi. Come le ciocche di mia madre e lo sguardo vuoto di
Itachi, che ossessionano la mia memoria. Vorrei solo raggiungerli,
stringerli, sentirli, per l’ultima volta.
Pezzi di vento incompleti portano nel silenzio della stanza odori,
rumori, parole, colori.
Gli stessi di sempre, gli stessi che sentivo secoli fa, nella mia
dorata dimora Uchiha(nella mia vita dorata, contornata di diamanti).
La mia punizione: la quotidianità e l’apatia, un
continuo scorrere di immagini rovinate e scivolose, viste e riviste.
Penso a lei, come lei ha fatto per tutti questi anni di lontananza; lo
so, gliel’ho letto in quegli occhi, che in un attimo si
illuminano e la fanno tornare bambina. In quegli occhi che mi tengono
prigioniero, che mi puniscono, che io punisco.
Le ho portato via tutta la sua ricchezza, l’ho derubata del
suo tesoro più grande: onore e amore.
In una città stravolta da Pain, nessuno si accorge di Sasuke
Uchiha, di un ombra scavata, mangiata, rannicchiata pronta a rubare
istanti di vita dalla sua aguzzina( o della sua vittima).
Un attimo prima era l’alba, ora il sole esplode, dietro le
colline.
E comincia un altro giorno di tortura, contornato da lucciole di
smeraldo, sangue, e dalla sua voce, sempre la stessa.
Ma
sapete cos’è che rode il cuore a mio marito?
Com’ero, e come mi
ha ridotta!
“Ma
dimmi, Sasuke-kun…”
Ancora quel dannato suffisso. Ancora e ancora.
“Quante volte ti ho chiesto di non chiamarmi in quel
modo?”
Ringhio, quasi.
“Mai”.
È vero. Dannazione.
Uno sguardo furbo, opaco a causa del sole soffocante, sempre
soffocante, mi squadra divertito. Non più un sorrisetto
timido e dolci occhi a fargli da contorno, ma una smorfia enorme e
gioiosa. Si alza, veloce, e allarga lo sguardo verde verso il cielo, il
regno dei sognatori. Accarezza, senza guardarle, alcune margherite,
senza ricordarne il nome o il colore, l’aspetto e
l’odore.
Dio, come ti ho ridotta, Sakura. Come ho ridotto la tua mente sveglia e
i tuoi occhi traboccanti di luce?
Si gira di nuovo verso di me, sicura di essere abbandonata di nuovo, e
vedo i suoi occhi, occhi che non vedono il tempo, la fame, il sole.
“Dimmi, Sasuke-kun…”
Ancora e ancora, il dannato -kun. L’ennesima punizione, un
affetto non meritato.
“Dov’è la città di
LA?” chiede Sakura, con voce timorosa, come se il suo mondo
splendido e luminoso potesse venire inghiottito e maciullato da zanne
ignote. Perché tutti hanno paura della città di
LA, anche quelli che non l’hanno mai vista, che non hanno
iridi e mente per vederla, eppure la sentono camminare, non si ferma
mai, la città di LA.
“Può essere dappertutto” le rispondo,
per l’ennesima volta al suo ennesimo, quesito, ennesima
punizione quotidiana “è sempre in agguato. Solo
chi ha gli occhi per vederla può avvicinarsi, può
comandarla. Dovresti temerla”.
Invece Sakura sa che tutto il suo mondo è scivolato via in
quella città sconosciuta, in quell’altro buio,
nella tana della volpe. E lei, innocente bambina, si perde nel
labirinto, si fa smembrare carne e ossa.
“Allora aspettiamola: che vanga a prenderci, a trovarci. Se
vuole giocare a nascondino, prima o poi dovrà smettere di
contare” mormora Sakura, decisa, una furia incontrollata in
quegl’occhi di giada, una madre che ha perso tutti i suoi
figli.
“Vedrai che riusciremo a tirarli fuori da lì. Mi
mancano, l’entusiasmo di Lee e, sai, anche un po’
Ino…l’acida e vanitosa Ino. Mi mancano
tutti” mormora mentre cerca i suoi amici verso
l’orizzonte invisibile.
Mi manca Naruto, agogno
la sua amicizia e il suo illuso amore come un prigioniero brama la
pioggia, il mare, il vento, i colori.
I miei occhi color alabastro si concentrano sul cielo lindo, macchiato
da un sole bianco e cieco.
“Credevo che la mia presenza di bastasse” sussurro,
sibilo, prego.
È invidia il veleno che imbratta il mio palato?
È davvero così disgustosa e bruciante,
l’invidia?
Lei non mi sente, troppo intenta a stanare la città di LA
dalla mia memoria, riempiendomi la testa di domande.
Perché LA? LA
come la nota musicale? O LA come al di là? O come articolo
determinativo? Oppure è il nome di una città
lontana lontana, come quelle delle favole? Eh, Sasuke-kun?
“Sasuke-kun, ma tu ci sei stato nella città di
LA?”
“Tempo fa”
“E come ne sei uscito?”
La guardo. Ha paura. Tenta di prendermi la mano, di trattenermi, di
salvarmi, un’altra volta, ma io scappo, un’altra
volta.
Lei si volta, malinconica, guarda il cielo, bianco, e non si ricorda
che una volta era azzurro.
Si appiglia agli unici ricordi che le sono rimasti, i ricordi dei
prigionieri della città di LA.
Io mi volto un’ultima volta, e la vedo, un fiore sbocciato
con una corolla di petali secchi, che io mi sono divertito a strappare,
durante la mia stolta gioventù.
Dio, come ti ho ridotta
Sakura? Che cosa ti ho fatto? Che cosa mi hai fatto?
La
sorreggo, ormai è solo una marionetta tremante: la sua pelle
è distrutta, sfasciata, nervi e ossa si intrecciano in
un'unica spirale di sangue. La mia cute invece è tornata
splendida e pallida, come sempre, come la luna.
Sento che non posso lasciarla lì, in balia del fango, in
balia della morte, che poco prima mi accarezzava.
E per la prima volta la guardo, la piccola Sakura, la bambina
seppellita nella mia memoria sterile, seppellita nelle mie braccia. Lei
mi guarda, persa nei miei occhi, addolorata, già nelle mani
della morte. E prega, una preghiera muta e silenziosa
Un oceano rosso si spalanca sotto il suo cielo turchino, per sempre.
I
giorni trascorsero come ombre,
i minuti ruotarono come stelle.
Ora
sono cominciati i giorni del buio, i primi giorni a tentoni, a carponi,
mentre
il mio mondo gira e traballa come un bambino capriccioso e
sbadato.
Un bambino che si è dimenticato del suo gioco.
Ho persino rischiato di farmi riconoscere da alcuni ninja del villaggio
confondo notte e giorno, fuoco e stelle. Per fortuna ora i ninja e
civili non portano kunai in mano, ma travi, chiodi, martelli per
risanare il dolore della defunta Konoha, uccisa da Pain.
E poi portano fiori, tanti fiori.
Posati su un enorme tomba che io avevo solo intravisto, mentre si
ingigantiva, colorata, e si espandeva in tutto il villaggio, come un
arcobaleno pieno di speranza.
E ora che le sono davanti, in una notte sempre più buia, la
mia notte, penso che, finalmente, sono io il più forte.
Penso che, come Kakashi-sensei, trovo conforto nel parlare, balbettare,
pregare davanti alla tomba del mio rivale, perché
è l’unico modo per dimenticarmi dei vivi, dei suoi occhi vivi,
quelli di Sakura. Per dimenticare i miei ex compagni di accademia, i
bambini che ho visto giocare e crescere e che ora non posso salutare,
ma posso solo vederli nella loro frustrazione e nella loro stanchezza,
mentre sono davanti alla tomba colorata o all’ospedale, da
lei.
Per dimenticare la piccola, sottile fossa dietro la tomba enorme,
già scavata e pronta per essere riempita.
Non ho fiori da appoggiarci, non ho lacrime da versare, ma ho occhi con
cui guardarla, quella tomba vuota, stagliata contro il tramonto. Occhi
traballanti, occhi sempre più spenti, sempre più
neri.
E il giorno della fine
finisce.
La mia punizione non
finirà mai.
Questo
lo spinge al luogo dove giaccio.
Nella morte, dunque, sono vendicata.
Il
mondo dal cielo bianco mi esplode davanti agli occhi neri.
E lei è già lì ad aspettarmi,
sull’orlo del vuoto.
Mi guarda per la prima volta…da quanto?Mesi, settimane? I
suoi occhi, mai, mai, li ho visti così vivi, incerti,
pavidi, consapevoli.
“Sasuke-kun…”
E in un attimo la paura divampa nel mio corpo come un mare furioso, e
il mio mondo scricchiola, terrorizzato.
“Tu mi hai baciata, vero?”mormora emozionata,
impaurita, mentre si tocca le labbra sottili.
Schegge di mondo esplodono, mentre il nero si sazia del bianco.
Così
alla fine, avvizzita e coi denti gialli,
spezzata nell’orgoglio e in abietto avvilimento,
sprofondai nella fossa
Le
labbra di Sakura sono così scarne e gelide, in questo
mattino bellicoso.
In mezzo alle macerie del nostro nido nasce il più piccolo e
docile gesto d’amore, quello più falso, quello
più codardo.
Cos’è un bacio, se non disperazione e pazzia?
Cos’è un bacio, se non falsità?
Cos’è un bacio, se non un bacio?
Lei spreca il suo ultimo respiro con questo gesto scialbo, senza
promesse, eppure così importante per il suo cuore
rattrappito. Così importante da ridurla a uno spettro.
Così importante da lasciare una cicatrice, nella mia anima
lacerata, da incidermi l’immagine di Sakura(il mio primo e
ultimo amore) nella mia memoria ormai morta.
Cos’è un bacio, se non una punizione?
Mi
cavò dal cuore la pietà,
e la mutò in sorrisi.
Sakura
avrebbe voluto accarezzare i fiori, quei fiori che le ricordavano
Naruto, Konoha, il verde, la pioggia. Ma ora non
c’è più niente, tutto è
petrolio.
Il nero è immobile, pesante, pressante. Solo noi due siamo
sopravissuti alla furia di questo abominevole colore, di questo fiume
infernale.
Sakura è confusa, si agita come una sonnambula, i suoi occhi
sono comete di smeraldo piene di fuoco.
“È questa la città di LA?”
mormora, incerta, mentre mi guarda, ancora, ancora,
all’infinito “Gli altri sono qui?”.
“No, Sakura. Ci siamo solo noi due”.
Il buio è immenso e piccolissimo, non ha confini.
“Città di LA, Sakura, è il termine
usato per indicare un’altra dimensione. Ogni Genjutsu, ogni
tecnica illusoria che crea una realtà alternativa si chiama
città di LA”.
Sakura smette di barcollare e riacquista lucidità. Forse la
sua mente punita e distorta sta cominciando a capire.
“Gli Uchiha sono sempre stati maestri delle arti illusorie, e
all’epoca della grande guerra hanno terrorizzato numerosi
avversari con la minaccia di spedirli nella città di LA e di
non farli più uscire. È nostra figlia, nostra
alleata, nostra nemica, la città di LA”.
Lei mi guarda stupita ma con un viso di pietra, mentre il mio si
strazia, al ricordo del mio supplizio nella città di LA
creata da Itachi, dove ho perso forza e speranza. Alla fine,
è stata la città di LA a portarmi sul cammino
della perdizione, a trascinarmi lontano da Sakura, da tutto.
“Stai dicendo che gli altri non riusciranno più ad
uscire dalla città di LA?” mi chiede Sakura,
angosciata, senza il freddo autocontrollo che si è imposta
in tutti questi anni “Nemmeno…nemmeno
Naruto?”.
Ringhio, senza motivo, mentre una scintilla di gelosia mi esplode nel
petto.
“Sto dicendo che sei tu quella imprigionata nella
città di LA, Sakura”.
Forse l’ha sempre saputo. Forse ha sempre saputo che il cielo
non era bianco, che i fiori non erano reali, che persino io ero la
pallida ombra di me stesso. L’amore si sente, e lei lo
sentiva poco, nella persona gentile, troppo gentile, che
l’accudiva, nel suo inferno personale.
Si morde le labbra, annuisce, piano. E poi scruta la sua
città, la città di LA, la sua punizione.
Strizza gli occhi, accecata dal buio.
“Perché, Sasuke-kun? Perché tutto
questo…per me?” chiede, e il suo sorriso non sa se
mostrarsi deluso o imbarazzato.
“Perché lasciare la tua mente prigioniera della
città di LA era l’unico modo per tenerla attiva,
in vita. Il tuo corpo è distrutto, ma la tua mente poteva
sopravvivere. Tu…sei forte, sei sempre stata
forte”.
“Perché, Sasuke-kun?”
La guardo, e non so dove guardare.
Mi vorrà chiedere dove si trova il suo vero corpo, il suo
vero sangue, e io dovrei risponderle che si sta decomponendo nella
tenda adibita ad ospedale, visitata da amici senza speranza. Mi
chiederà del suo coma e della sua mente prigioniera, e io le
dovrei dire che non potrà spezzare le catene che la
imprigionano. Mi chiederà il perché le ho mentito
sulla sua famiglia e sui suoi compagni e io le dovrei dire che tutti i
suoi amici sono lontani, e che non li potrà più
rivedere. Le dovrei dire che il suo migliore amico è in
altra città di LA, la vera città di LA, quella
senza porte e finestre, ucciso dal Dolore, deposto in una collina di
fiori. Le dovrei dire che la sua tomba è già
stata scavata, che ho visto, toccato e annusato il fango che si
appiccicherà al suo gracile viso.
E invece mi chiede: “Perché sei venuto qui,
perché sei venuto per così tanto tempo nella mia
città di LA?”. È quasi affetto quello
che sento nelle sue parole, come se la sua città, il suo
regno, nero e scialbo, sia un gatto smanioso di coccole.
Parlo, e non so quando parlare.
Non posso dirle che devo subire la punizione divina, che io stesso mi
sono imposto, imposto di rimanere legato e prigioniero alla sua ombra,
lontano e vicino alla mia salvatrice. La mia punizione, sognare e
rivivere la mia tortura e la mia resurrezione, agognare la forza che
non mi aveva permesso di salvare Sakura, la mia Sakura. Non
posso dirle che ogni giorno, ogni giorno rientravo nella sua mente e
guardavo come un orgoglioso architetto la mia ciità, il mio
mondo folle. Non posso dirle che ogni giorno, ogni giorno rimanevo ore
ad osservarla, sofferente e immobile, imprigionata nel lettino
dell'ospedale. Le sono stato troppo lontano, e solo ora
riesco a vederla nella luce della verità, in questo mondo
buio. Perché non mi hai guardato così,
Sakura, quando hai gettato nel fango, nel buio, il tuo amore per
addolcire il mio orgoglio glaciale? Tutto è un circolo
vizioso, tutto questo è la mia punizione.
Non parlo, semplicemente non parlo.
E lei sorride. Ora è redenta, ora è luminosa come
un angelo, ha scontato la sua punizione. Vorrei un ultimo bacio, un
ultima carezza, ma lei si allontanerebbe, non vuole contaminarsi, una
povera santa appena nata.
Ma lei mi guarda, e il suo sguardo è una carezza, una
benedizione.
“Io mi sono ricordata del bacio perché la tua
illusione stava svanendo, perché tu la
indebolivi…perché proprio adesso hai deciso di
lasciarmi andare, Sasuke-kun?”
Poi la sua immagine sparisce, in un fascio di luce divina, e il fuoco
divampa dai miei occhi( fuoco o lacrime?).
Esco dalla città di LA, dalla mia città di LA,
fuggo dal mio angelo. Faccio appena in tempo a scorgere il vero corpo
di Sakura, mangiato dalla morte e un lampo mi acceca.
Finalmente lo Sharingan si è mangiato la luce, e i miei
occhi, pieni di sangue muoiono, assieme al mio amore.
Io non ti avrei mai abbandonata Sakura, ma il mio potere, la mia
benedizione e punizione, mi hanno distrutto gli occhi che ti avrebbero
salvata, aiutata, amata. Mi ha reso cieco.
Non sono stato abbastanza forte per resistere, per trovare il coraggio
di abbracciarti un’ultima volta, per confessarti le mie
colpe. E per questa mia debolezza io sarò punito,Sakura, e
sconterò la mia pena in una città di LA senza
luce, senza ombre.
Senza di te.
e
allora morì e mi ossessionò,
e mi ossessionò per la vita.
Dunque,
spero che la lettura sia stata piacevole e, soprattutto, chiara^^. Ora
vi faccio un riassunto: la città di LA è un
termine un po’ romanzato per un’illusione potente,
che crea un’altra dimensione. Quindi, per salvare Sakura,
Sasuke l’ha intrappolata in una città di LA da lui
creata per mezzo dello Sharingan in modo da tentare di
riattivare la mente della ragazza. Ogni giorno andava a trovarla
all’ospedale ed entrava nella sua stessa illusione, per
cercare di riportarla alla vita, ma senza successo. Alla fine, la sua
illusione si è indebolita per via dello Sharingan, che lo
stava rendendo cieco, e Sakura ne divenne consapevole, tanto da
distruggere la tecnica. La tomba piena di fiori è quella di
Naruto, morto nell’attacco contro Pain. Spero che sia tutto
chiaro^^
Che dire, scrivere sui pairing che non mi piacciono mi fa scrivere
certe robe depressive e autodistruttive. Sono molto felice della
posizione, considerando che ho scritto la fic in una settimana, e con
il lavoro di una settimana ho scioccato il giudice^^
Complimenti ancora a tutti i partecipanti e grazie alla giudice e alla
bannerista. Le poesia sono due, ovvero quelle di Flethcer e Ollie
Mcgee, marito e moglie(le loro poesia sono collegate^^). Le frasi di
Ollie McGee sono le seguenti:
"L’avete
visto in giro nel villaggioun uomo con gli occhi bassi e il volto
scavato?E’ mio marito, è lui che per segreta
crudeltàinnominabile, mi prese gioventù e
bellezza;"
"Così
alla fine, avvizzita e coi denti gialli,spezzata
nell’orgoglio e in abietto avvilimento,sprofondai nella fossa"
"Questo lo
spinge al luogo dove giaccio.Nella morte, dunque, sono vendicata."
Lei infatti condanna il
marito per averle fatto qualcosa di terribile, che le ha tolto la
giovinezza e la forza, anche se si è presa la rivincita
ossesionandolo col suo ricordo anche da morta. Le frasi di Fletcher
sono la terza, la sesta e l'ultima; questa poesia è
piuttosto complessa, e non si capisce bene cosa voglia dire: credo che
lui abbia tentato di plasmare sua moglie come voleva, ma che l'argilla
con cui la stava "costruendo" aveva preso sembianza demoniache e che
aveva preso una volontà sua. Perciò il ricordo di
Ollie, anche dopo la sua morte, continua a tormentarlo.
Soprattutto
grazie a:
LalyBlackangel:
sono felice che continuerai a seguirmi, guarda che ci conto!Sono felice
di aver scritto una bella NaruHina, da fervente NaruSaku che sono.
Probabilmente ne scriverò altre, ma ti avverto, questo
pairing lo so scrivere solo in chiave tragica^^’ Bacioni e
grazie ancora!
Shatzy: o
grazie, è sempre bello ricevere i complimenti di una fan
NaruHina^^! Sono felicissima che ti piaccia il mio stile, faccio del
mio meglio(anch’io ammiro moltissimo il tuo e lo sai^_^). Non
ti ignorerei mai!Infatti la NejiTen è la prossima della
lista!Bacioni, cara!LaLa
Rinalamisteriosa:
cara, mi fai arrossire, non merito tutti questi aggettivi^//^. Ma
figurati, riusciresti benissimo a fare una NaruSaku, basta che le
scrivi in chiave tragica e/o sadica e ti verrà naturaleXD(mi
sto tirando la zappa sui piedi da sola, peròXD) MinaKushi
accettata, ma prima scriverò la NejiTen!Bacioni, LaLa
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Capitolo 4 *** You think your eye sweeps about a wide horizon(Griffy The Cooper) ***
Un battito,
è tuono.
Una
scintilla, è fulmine.
Una
lacrima, è pioggia.
Un
sospiro, è bufera.
Quanto
è profonda la tua botte?
You
think your eye sweeps about
a wide Horizon
Il bottaio
deve intendersi di botti.
Ma
io conoscevo anche la vita,
e
voi
credete
di conoscere la vita.
Credete
che il vostro occhio abbracci un vasto orizzonte, forse,
in
realtà vedete solo l'interno della botte.
I
suoni rimbalzavano, contriti, filtrati; continuavano, imperterriti,
irrispettosi.
“Neji,
credi che riuscirò a centrare il bersaglio con tre kunai
contemporaneamente?”
“Dobbiamo
muoverci, o Gai-sensei ci rifilerà la solita tiritera sulla
giovinezza!”
“Neji,
un giorno posso venire a cena da te? Mi piacerebbe così
tanto vedere villa Hyuuga, sembra un palazzo…”
“Neji!Neji!”
Sin
da quando Neji aveva deposto la sua fragile ed eterea figura nella
botte, nello scudo di tradizioni e nozioni che si intrecciavano nei suo
pensieri, sin da quel momento ogni suono e ogni luce si erano
amplificati e, allo stesso tempo, attenuati.
E
la voce di Ten Ten era un urlo, che nella sua botte diventava un inno,
era un sussurro, che nella sua botte diventata una ninna-nanna.
Neji
aumentò il passò, lasciando che la voce acuta
della ragazza si insinuasse nel suo scudo, raro privilegio,
domandandosi se la luce dei suoi occhi sarebbe stata più
luminosa, se non fosse stata coperta dalla botte.
“Neji,
un giorno dovrai uscire da quella conchiglia che ti sei costruito
attorno!”
Un
passo più veloce, un lampo niveo.
Non si
può uscire dalla botte.
“Il
Clan Hyuuga è il più prestigioso di Konoha, la
perla della foglia, il sole e la luna della nazione”.
ÈVeroèveroèveroèveroèvero.
Allora
perché quel ragazzo pieno di luce, senza famiglia se non il
cielo che lo accudiva dall’emisfero divino, lo aveva
trasformato da astro a stella cadente, e lo aveva trascinato sulla
terra brulla?
“La
Casata Principale è nata per essere servita da quella
cadetta, in modo che il nostro segreto e il nostro potere venga
preservato nei secoli a venire”.
ÈVeroèveroèveroèveroèvero.
Allora
perché Hinata sembrava un fringuello muto, abbandonato tra
la neve, mentre lui volava con l’eleganza del falco tra
sprazzi di cielo e oltre l’arcobaleno?
“Uno
Hyuuga deve esser accompagnato da una donna elegante,
remissiva e, soprattutto, nobile: non possiamo permettere che il sangue
marcio della plebe si mischi con il nostro, sacro e prescelto.
Lascereste che la rosa si accoppi con una purulenta graminacea?
Dobbiamo mantenere il prestigio del clan Hyuuga, sempre e
comunque.”
ÈVeroèveroèveroèveroèvero.
Allora
perché gli occhi di Ten Ten, così scuri ma
così vivi, intensi, riscaldavano l’inverno e
rinfrescavano l’estate con una luce che nessun
Byakugan poteva aspirare a possedere?
Ma
ormai le risposte contrastanti alle domande retoriche e non scritte nel
clan erano da eliminare, da accartocciare e buttare nel fuoco
dell’obbedienza, quella candela che doveva essere alimentata
di giorno in giorno, di ora in ora.
La
botte era fatta di ordini, di precetti, di regole, di ferro e ghiaccio.
E ogni occhio, anche quello più sacro e potente, vedeva
quello che la botte vedeva.
“Tuo
padre è morto per volontà del clan. Il suo
sacrificio ha salvato Konoha e il nostro nome: il suo eroico gesto ci
ha miracolosamente salvato dalla miseria e dal disonore”.
ÈVeroèveroèveroèveroèvero.
“Dovresti
esserne fiero”.
Un
grido, è terrore.
Un
colore, è arcobaleno.
Una
lacrima, è pianto.
Una
perdita, è destino.
Quanto
è profonda la tua botte?
Non
riuscite a innalzarvi fino all'orlo
e
vedere il mondo di cose al di là,
e
a un tempo vedere voi stessi.
Siete
sommersi nella botte di voi stessi-
tabù
e regole e apparenze
sono
le doghe della botte.
“Ti
dico che i colori sono diversi. Non sono come li vedi tu: sono
più tenui, più accesi, più forti e
più scoloriti allo stesso tempo.”
“Dipende
dalla prospettiva”.
“No,
no, Ten Ten, non capisci, non dipende da questo! Dipende dalla botte,
dipende tutto dalla botte. Il clan mi ha insegnato che i tramonti sono
solo la fine del giorno e le tane dei nemici. Le sfumature rosse
nascondono sempre presagi nefasti e kunai nascosti”.
“Quindi
non vedi la magia dei colori? Non vedi la musica e il ritmo cadenzato
delle nuvole che fuggono via? Non vedi il fulgore delle prime stelle? E
il tuo miracoloso Byakugan?”
“Io
li vedo, figurati se non li vedo…ma non riesco a vederli che
li vedi tu! Magia, musica, ritmo…non ci riesco, non mi hanno
mai insegnato questi precetti, non a un cadetto come me. In
realtà non so neanche perché te ne sto parlando.
È come se vedessi il mondo attraverso una botte trasparente
e bellissima, rifinita di diamanti e cristallo, ma pur sempre un
prigione, resa visibile solo dal mio potere. Non riesco ad emozionarmi,
sì ecco, ad emozionarmi nel vedere un tramonto,
l’emozione per un evento naturale secondo la botte che mi ha
costruito il clan non ha senso, è inutile…quindi
anche per me è così. Perché io, nobile
esponente del clan Hyuuga, sono cieco?”
“E
perché non esci dalla botte, mio invincibile guerriero
astigmatico?”
“Non
scherzare. È impossibile uscire dalla botte, io non posso,
tu non puoi. Tu sei in una botte piena di precetti ninja, di favole
stantie, di regole di fisica, di colore e di gioia. Il tuo corpo
è come una radice e ne trae nutrimento, da tutti questi
sentimenti che ti accudiscono e intanto ti affogano, ti distruggono, ti
costruiscono la tomba”.
“Ma
io lo vedo, il tramonto!Giallo, arancio, rosa, verde e blu: li vedo,
eccoli la all’orizzonte!”.
“Sì,
ma allo stesso tempo non puoi vederlo come lo vedo io, non puoi vedere
il nemico e il senso di pericolo che trasmette questo spettacolo. E non
te ne rendi nemmeno conto, perché i tuoi occhi non possono
scalfire la botte. Non hanno il byakugan, non sono abbastanza forti.
Non sei abbastanza forte”.
“Sai,
Neji, sei proprio una conchiglia”.
“E
sai cos’è una conchiglia, Ten Ten? Un cadavere,
abbandonato sulla spiaggia, cimitero e deserto del mare.”
“Cos’è
una conchiglia, Neji? È una creatura che crede che il suono
che rimbomba nel suo corpo vuoto sia quello del mare. E invece
è solo un’illusione”
Una
conchiglia, è mare.
Quanto
è profonda la tua botte?
Spezzatele
e rompete la magia
di
credere che la botte sia la vita,
e
che voi conosciate la vita!
La
sua voce è vicina, vicinissima, troppo, troppo vicina.
Così
vicina che la botte freme, la botte lo mangia, lo gusta, quel suono
limpido, si lecca le dita per quegli occhi intensi e luminosi.
“Neji!Neji”
Eccola,
sull’orlo della botte, in alto, come un angelo.
Un
tuffo e poi eccola lì, in piedi, davanti a un paio di
allibiti occhi vuoti e ciechi.
“Ma
cos’hai fatto, Ten Ten?” urla Neji, un rantolo
nella botta vuota.
E
lei ride, ride, come sempre.
“Ora
sono anch’io nella tua botte: potrò vedere che
quello che vedi tu. Avremo gli stessi occhi”.
No,
è impossibile, due occhi benedetti non possono vedere come
due occhi prigionieri. Ten Ten, perché sacrificare la selva
misteriosa dei tuoi occhi con la scheletrica realtà delle
mie iridi di vetro?
“Non
puoi, Ten Ten. Nessuno può uscire dalla botte“
“Ma
ora sono qui, accanto a te, nella tua botte. Io guardo con il mio
cuore, Neji. E se non vedrò con il cuore, vedrò
con i sensi. E se non vedrò con i sensi, vedrò
con i tuoi occhi. E se non vedrò con i tuoi occhi,
vedrò con il tuo cuore, il tuo cuore che mi ama, Neji, ormai
lo so. E se non vedrò con il tuo cuore, diverrò
cieca, e morirò accanto a te, nella nostra botte.”
Ah
bè…
L’ho
appena finita di leggere…e non ci ho capito nienteO_O.
Purtroppo questa fic non è ai livelli della precedente, e
per questo chiedo perdono…ma dovevo assolutamente
togliermela di mezzo, se no mi bloccavoXD
Vabbè,
ora tento di spiegarmi: a livello cronologico, la fic si svolge dopo
gli esami dei chuunin, quando Neji viene sconfitto da Naruto e comincia
ad interrogarsi sulla vita che aveva condotto fino a
quell’evento. Dato che non credo che sia cambiato in un
secondo, ho analizzato la sua situazione. La poesia di Griffy il
bottaio( che ho riportato tutta e pure in ordine^^) è una
perla: ogni uomo, anche se non se ne rende conto, è in una
botte, che si è costruito da solo a causa della
società, della famiglia, della condizione psicologica. Non
riesce a vedere ogni cosa in modo imparziale, ma si fa condizionare da
quello che gli hanno insegnato o dalle sue credenze(magari anche
errate) che lui stesso si è costruito. Insomma, appena
l’ho letta mi sono detta: cavoli, ma questo tipo ha ragione,
ha totalmente ragione. Ho cavoli, sono prigioniera di una botteO_O.
Ma
tornando a Neji: dopo che è stato battuto da Naruto, Neji si
rende conto che la sua vita era stata condizionata dalla
botte di credenze e ordini che gli aveva imposto il clan. Ora, il suo
Byakugan riesce persino a vedere la botte e Neji si rende conto che se
vuole vedere il mondo vero deve uscire dalla botte. Allo stesso tempo
però sa che è impossibile, perché non
si possono cambiare regole e imposizioni così radicate.
Allora Ten Ten, anche lei rinchiusa in una botte, per amore
è disposta ad entrare nella botte di Neji, a farsi corrodere
dalle sue regole amare e sbagliate, a perdere il suo punto di vista, la
sua botte, pur di rimanere con lui.
Mi
sa che non ci ho capito niente neanch’ioXD.
Ora
i miei amati recensori:
LalyBlackangel:
grazie mille per i complimenti, carissima^^. Ma sì, magari
un giorno, moooolto lontano, ce la farò a scrivere una
NaruHina più allegra e meno tragicaXD Bacioni!
Ayumi Yoshida:
guarda, anche a me non piace la coppia SasuSaku, quindi immagina che
parto sia stato!Sono felice che nonostante non sia una delle tue coppie
favorite tu l’abbia letta e mi abbia regalato questo
bellissimo commento. Sono commossa ed esterrefatta*_*. È
stato un onore gareggiare contro di te, il contest di Kimly
è stato fantastico: emozionante, pulito e soprattutto ci ha
soddisfatto tutti, senza dimenticare che ha donato delle bellissime fic
al fandom!Alla prossima, bacioni!
Hikaru_Zani: ciao
winner! Sono stata molto orgogliosa del tuo commento e del fatto che tu
abbia commentato una fic con una delle tue coppie sfavorite. Ah, sono
felice che qualcuno si ricordi del povero Naruto
defuntoç_ç. Rinnovo i miei complimenti per il tuo
meritatissimo primo posto e ribadisco che è stato un onore
perdere contro di te!Alla prossima!
Shatzy: o cara, sono
sempre commossa con i tuoi commenti, non so mai cosa
dire^^’’. Comunque, sì, se ti stai
chiedendo se questa è la tua NejiTen, sì, questa
schifezza è lei(e LaLa venne fucilata sul
posto^^’). Ti prometto che ci saranno altre NejiTen e saranno
decisamente più belle, è una promessa! Mano sul
cuore!Bacioni!
itachi_love:
figurati per la recensione, la tua storia mi è piaciuta
davvero tanto^^. Bè, sei una delle poche fan della coppia
tra i commentatori, quindi se piace sia a loro che a te, mi ritengo
soddisfatta! Sono felice che tu abbia capito questa fic super contorta,
allora non sono così complicata^^’Bacioni!
Rinalamisteriosa:
no, non puoi piangere, te lo impediròXD Nonostante la
sofferenza, sì, leggerei una tua NaruSaku in chiave
tragica(ma non esagerare, ne!). La prossima è la MinaKushi,
ovviamente^^!Bacioni!
Sarò
felice di accettare altre richieste!
Grazie per
la vostra attenzione,
LaLa
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Capitolo 5 *** Nevica sul mare(Mrs. Kessler) ***
Nevica sul Mare
Imparavo i
segreti di tutti
da
coperte e coltri, camicie e sottane.
Una
fiamma, e tutto divenne bianco. Come se i suoi occhi fossero immense
stelle immortali.
La
morte era nera, la morte era grigia, era il disonore, la fine, era
questo.
Ma
questa morte era bianca, era dolore, la morte erano due occhi grigi.
“E
dato che sono l’unica femmina, sono io, quella che si deve
umiliare a cucirti i pannolini!”.
I
grandi amori si annunciano in un modo preciso, appena la vedi dici: chi
è questa stronza?.
Questo
pensò Minato, subito dopo aver visto, sentito, annusato, che
quel grigiore non sapeva di morte, sapeva di pioggia, di fumo. Quel
grigiore era il cielo, che a Konoha era sempre blu. Sempre.
La
stronza continuava a parlare.
“Mi
ascolti, brutto porcospino giallo??Ti ho chiesto dov’
è finito il tuo coprifronte!Siamo sicuri che sei un ninja di
Konoha? A me sembri un po’ troppo
mollaccione…”.
Blateravano
e blateravano, quegli occhi grigi sormontati da una fiamma, da un sole
coperto dalle nuvole.
Perché
non gli diceva niente della missione al confine col Paese del Turbine,
di come si era conclusa dopo il suo svenimento? Ovviamente le femmine
non servivano mai, nei momenti critici.
“Ecco,
guarda come viene schiavizzata la migliore kunoichi di Uzu, solo
perché devi fare il sonnellino pomeridiano. Cucire, che
schifo! Che umiliazione!” sputa veleno, la stronza, mentre
gli getta in faccia i suoi pantaloni appena ricuciti. Ha le dita piena
di puntini rossi, la stronza, come papaveri, come piccoli soli.
Un
goccia di pioggia, che sembrava olio bollente, sulla fronte, di Minato.
Un ninja con la fronte scoperta è un ninja morto. Minato per
la prima volta sentì che la morte sarebbe stata preferibile
al disonore, che la morte non era disonore, la morte era la fine, la
vita era tutto. E la vita era anche disonore. Ma la vita era anche il
sole, e il sole, in quel momento, era il rosso di quella
fiamma(stronza).
Si
agitò, e vide negli occhi della bambina il suo stesso
riflesso: erano quelli gli occhi di un ninja senza coprifronte, senza
casa, senza onore?
“Capita
a tutti. Capiterà a tutti, di perderlo”
mormorò la bambina, e capì. Minato si chiese come
riuscisse, una bambina immersa dalla pioggia, a capire.
“È
un sogno essere immortali, esseri invincibili”
continuò la stronza con quegli occhi troppo concreti, troppo
reali, troppo tetri.
Minato
le avrebbe detto che i sogni a Konoha si toccavano con la punta delle
dita, e i sognatori come lui, che guardano sempre in alto, verso la
vittoria, verso l’infinito, hanno il cielo negli occhi, hanno
tutti gli occhi blu. Le avrebbe detto che i suoi occhi sono
così cupi perché ha passato la vita a guardare
cadaveri grigiastri e tombe smembrate, a non sognare.
E
Kushina, con la sua smorfia sghemba, gli avrebbe dato del cretino e gli
avrebbe fatto notare che il cielo era sempre grigio, a Uzu.
perché
le cose nuove diventano vecchie a lungo andare,
sono
rimpiazzate da migliori o non lo sono affatto.
Gira,
gira.
“Mi
sta venendo da vomitare”
Gira,
gira.
“Senti
porcospino, se non la smetti potrei rivelare a Choza la
verità sulle sue venti porzioni di ramen e della loro
terribile fine, immerse nel tuo schifoso stomaco…”.
Gira,
gira. Gira, gira.
Una
chioma crespa e bionda cadde a capofitto in un manto verde.
“Ti
viene la nausea solo se faccio ruotare un kunai? Sei proprio una
femmina mollacciona…” mormorò Minato
mentre strizzava gli occhi lesi sotto il prepotente sole di Maggio.
Girò la testa solo per godersi le labbra di Kushina
stringersi, ed evitò con prontezza il pugno che avrebbe
dovuto intaccare la sua guancia liscia.
Minato
fece ruotare di nuovo il kunai, adornato con nastri color arcobaleno.
“Esattamente!
E poi rischi di lasciarlo cadere su questo stupido costume”.
Costume
che immancabilmente stava cucendo: ormai si era sparsa la voce che
quella pallida e suscettibile kunoichi aveva maturato una buona
preparazione nel cucito… e che per qualche astrusa ragione
era rimasta a Konoha. All’inizio si era pensato a una
missione di spionaggio, forse per tenere d’occhio i clan
più potenti della città, o, come sospettavano i
preoccupati proprietari dell’Ichiraku ramen, per sgraffignare
la loro ricetta segreta, dato che i cibi di Uzu facevano notoriamente
schifo. Minato aveva addirittura teorizzato che potesse essere una
missione con lo scopo di screditare proprio, alias l’astro
nascente della Foglia, dato che da quando quella furia rossa e stronza
era giunta a Konoha sentiva in continuazione strane risatine alle sue
spalle.
“Il
maestro Atasuke sembrava una marionetta con tutte quelle
cuciture” bisbigliò Minato al cielo, come se
potesse sentirlo.
“Non
lo trovo un motivo giusto per abbandonare la carriera di
shinobi” sbottò Kushina, mentre assestava un altro
punto al mantello, con l’evidente desiderio di smembrarlo.
“Già…la
Foglia perde uno dei suoi migliori jounin!”
esclamò Minato, frustrato, mentre strappava qualche
innocente filo d’erba e lo liberava dalla terra per lascarlo
volare fino alle nuvole.
“Soprattutto
avrebbe dovuto sapere che avrebbero allestito quelle patetiche
festicciole da settantenne per la sua pensione. Nessun motivo
è giusto se implica la schiavizzazione della kunoichi
più promettente di Uzu!”.
“Festicciola
da settantenne?? Ma se io sarò il protagonista”
sbottò irritato Minato, ignorando il successivo
“ecco, appunto” sibilato a denti stretti dalla
kunoichi.
“Non
hai sentimenti, serpe!” continuò il biondo
“Il maestro Atasuke mi ha allenato per il corso specializzato
di sopravvivenza, mi ha insegnato a concentrare il chakra, ci ha
allevato negli anni all’accademia…Non mi merito il
suo kunai prediletto!”.
Un
altro giro. La vita gira. Ed è solo un
giro.
“Almeno il maestro Atasuke ha potuto farlo, il suo
giro” borbottò Kushina, concentrata sul suo lavoro
“Pensa che poteva fermarsi a metà e poi
interrompersi, tornare giù e ciondolare come una testa
mozzata. O non muoversi nemmeno.”
Un
movimento del dito, flebile, e il kunai, che stava per compiere un giro
competo attorno all’indice, tornò indietro, come
una campana.
Evitò
frasi di circostanza come “hai ragione, Kushina”:
era una femmina, no? E da quando le femmine avevano ragione??
Alzò
gli occhi turchesi al cielo, il giovane Minato: voleva girare, avrebbe
voluto farlo più volte, ma se la vita era un giro solo, il
suo sarebbe un stato un doppio, no, un triplo salto mortale.
“A
proposito, ho bisogno di comprarmi dei nuovi pantaloni. Quelli che mi
hai ricucito tu cominciano a starmi un
po’…”
Ed
ecco il famoso Minato, piccolo prodigio di Konoha, una grande speranza,
che ignorava le risatine della folla, con gli occhi sempre fissi
davanti a sè, senza mai voltarsi indietro, neanche per
vedere il ghigno sadico di Kushina e la toppa a forma di cuore che per
oltre due mesi aveva adornato il suo posteriore.
E gli
strappi e le toppe s’allargano col tempo;
non
c’è ago o filo che possano frenare la rovina.
Su
e giù, dolorosamente. Nervi, carne, pelle, ossa, niente
sfuggiva all’ago.
Una
distesa di ninja aveva preso il posto dell’erba, il rosso
aveva surclassato il verde. Corvi e rantoli.
Non
c’era anestesia per gli occhi troppo chiari di Minato, che
vedevano solo ombre fosche. Konoha aveva vinto, ma a che prezzo? Il
verde della Foglia era morto, e se ne stava lì, rattrappito,
sotto il sangue.
Kushina
cuce, cuce la sua ferita, nessun altro può farlo.
È
come un maglione, come un maglione, non è diverso da un
maglione, si ripetevano quegli occhi grigi, impauriti. Una maglione di
dolore.
“Sei
fortunato, porcospino. Andiamocene da questo schifo e cerchiamo un
ninja medico per questo taglio”.
“Ci
sono ferite che non si possono curare, Kushina”.
Ogni
giorno di guerra, era un nuovo baratro.
Minato
sapeva che a casa ci sono cuori angosciati e fra un po’ ce ne
saranno il doppio. Minato sapeva, e vedeva, il corvo che rubava il
braccio a un cadavere, sapeva che Jiraya-sensei quella sera stessa
avrebbe festeggiato la vittoria con le sue donnine e affogato i
ricordi, i morti, gli amici, nel sakè, sena rimpianti.
Gli
occhi di Kushina dovrebbero essere grigi e sicuri, freddi e forti. Ma
erano argentati di lacrime. Il baratro li stava ingoiando tutti e due.
Una
carezza: è solo questo il dono che Minato può
dare a quella scorbutica kunoichi senza intaccare il suo dorato
orgoglio. Solo una carezza, taglio su taglio, baratro su baratro. Uniti
da un ago.
“Dobbiamo
tornare a casa. Inoichi e Itsuko non ci permetteranno di mancare al
loro matrimonio” sorride Minato, mentre Kushina rabbrividisce
alla minaccia riguardo alla mancata presenza all’evento che
le aveva rivolto una delle sue poche amiche prima della missione:
qualcosa che centrava con una morte lenta e dolorosa.
Si
tennero per mano, taglio su taglio, e volarono via.
Fino
a dove potremmo ricucire?
Fazzoletti,
tovaglie, hanno i loro segreti-
la
lavandaia, la Vita, li conosce tutti.
Erano
passati solo pochi mesi da quando Kushina, a detta di Minato, era
diventata da stronza a bella stronza.
Erano
passati pochi mesi da quando Minato, a detta di Kushina, era diventato
da porcospino a istrice, e da quando era statonominato, sempre da
Kushina, Istrice gialla della Foglia.
Ma,
si sa, le vecchie abitudini erano dure a morire.
“No,
brutta e schifosa istrice, non cucirò i tuoi fottuti
bottoni!”
“Il fottuto
bottone, un solo dannato bottone Kushina!”.
Kushina
cercò rifugio nel suo ristretto appartamento e trattenendo
le sue nefaste intenzioni solo perché avrebbero implicato
macchie di rosso su tutta la sua immacolata cucina, ora che il giallo era di moda,
a Konoha.
Forse
era meglio tornare al cupo grigiore di Uzu, pensò la donna
mentre lei e il nuovo idolo di Konoha davano vita a un improbabile
inseguimento nella ristretta area della cucina.
“Ormai
ti conosco, Namikaze! Quando devo ricucirti i bottoni è
perché hanno finito il ramen e ti senti talmente angosciato
per questo che non hai più voglia di vivere, né
tantomeno di metterti a cucire”” sbottò
la donna con voce roca e forte, mentre si fermava a un angolo del
tavolo per calcolare la via di fuga più veloce.
Un
fulmine rosso e uno giallo balzarono fuori dalla finestra, uno agile e
fiammante e l’altro con un uniforme sgualcita tra le mani
forti.
“Quando
mi porti i tuoi giubbotti è perché :o Kami, o
Kami, o Kami, questa macchia è terribilmente antiestetica e
non va via, cosa dirà il mio povero fan club?? Altro che
fulmine, stupida istrice!” ghignò la donna,
balzando giù dal tetto e attraversando il prato su cui era
atterrata con leggerezza.
“Io
non penserei mai una cosa simile!” esclamò Minato,
sudando per il terrore di incontrare veramente qualche membro femminile
del famigerato Minato fan-club.
Un
lampo a ciel sereno, ed eccolo tra i fiori, dietro a Kushina, dietro al
fuoco.
“Ma
Uzumaki-chan, non hai mai preso in considerazione la
possibilità della nostalgia??” esclamò
ridendo, rideva troppo, quell’enorme porcospino alias istrice
“Non posso stare troppo tempo senza di te!”.
“No,
quando ti manco mi porti i pantaloni, per i bei ricordi!”
grida Kushina, ora ferma, splendente, in mezzo ai fiori, i fiori che
dovrebbe bruciare.
Turchese
e grigio, i due volti del cielo.
“E
se ti dicessi che ti ho portato anche un paio di calzini?”
“Prova
solo a tirare fuori una schifezza simile e ti togliere tutti gli
aculei, istrice!”
“Allora
non guardare!”
Un
soffio di vento, un movimento stizzito di un paio di labbra, sempre
loro, una finta, un lampo, miliardi di cieli, nessun cielo, una mano
enorme a coprire gli occhi grigi, labbra contro labbra, cuore contro
cuore, un bacio.
“Non
porterei mai dei calzini a una bella stronza come te!”
Un
pugno e una settimana in ospedale.
E
un sorriso e un battito di cuore, e una risata, e una fiamma
più allegra.
E
un giubbotto che rimase senza il suo bottone.
e ci sono
macchie che sfuggono al sapone,
e
ci sono colori che stingono vostro malgrado,
L’anima
di una bolla si raffredda e vola giù. E poi esplode,
esplode, implode, esplode di nuovo.
È
questo quello che ha fatto la tua anima, Itsuko? È diventata
una bolla, è spirata via, è tornata acqua?
Kushina
si aggrappava al panno lindo, solo a quello straccio, che asciugava le
lacrime di Itsuko. Si aggrappava come le unghie della donna hanno
strappato le lenzuola che l’hanno cullata con dolcezza, prima
di venire squarciate da un dolore e da un amore troppo forte.
Dovrà ricucirle.
Le
dita sottili di Kushina affondano, e vorrebbe distruggere anche loro:
perché deve essere sempre lei a riparare maglioni, cuore
spezzati, a lavare, a risciacquare per dare splendore ai sorrisi troppo
usati, troppo vecchi, perché lei deve lavare le lacrime
degli eroi e ricamare vite? Perché non può
strappare?
La
bambina di Itsuko era un angelo con la forza di un cinghiale, e stava
per distruggere la vita di sua madre come un bambino scherzoso come una
bolla.
Ora
dorme in una culla troppo grande, mentre sua madre lotta ancora per la
vita, la sua vita, la loro vita, in ospedale. Stupida, che aveva voluto
partorire a casa, per consacrare il letto nuziale con il miracolo del
suo amore.
E
ora il suo letto era intriso di morte: il sangue non andava via, non
c’era niente da pulire, se non la paura, invisibile.
Si
sentivano le urla di Inoichi, talvolta, dalla stanza accanto.
Kushina
era una kunoichi, era la cucitrice, era una salvatrice, un’
eroina, era la forte, scorbutica Kushina, Kushina doveva partorire tra
un mese.
Cosa
avrebbe portato il suo bambino?
Una
macchia, dolore, fine?
E
Minato? Il loro amore inaspettato sarebbe morto così? O si
sarebbe stinto, si sarebbe bagnato e piano piano, sciolto, come una
malattia?
Il
loro mondo sarebbe diventato grigio?
Ora
Minato non era più solo il suo Minato: era il Minato di
tutti, ognuno poteva, doveva, avere un suo pezzetto. Sarebbe stato
smembrato, il suo Minato, ogni frammento della sua vita sarebbe stato
spartito come cibo tra gli affamati, i suoi tesori sarebbero stati
donati ad altre vite, come il kunai di Atasuke che era passato al
giovane Kakashi?
Una
mano enorme sui suoi occhi. Non riuscirà a portarla via da
lì.
“Non
guardare, Kushina”.
“Ho
già visto del sangue, Hokage-sama”
“Non
lo vedrai più: i tuoi occhi sono stanchi, del rosso. Devi
poter guardare il cielo, devi poter tornare a sognare.”
“Credevo
che fossi già stato eletto…stai cercando di
comprare il mio voto?”.
La
gira, nel suo abbraccio. Vorrebbe guardarlo, vorrebbe assaporare con
gli occhi l’uomo che ama, che ha tutto di lei, si vede, che
si è caricato di ogni suo difetto, di ogni suo capriccio, di
ogni suo desiderio. Ma con tutto quel rosso, preferisce rimanere cieca.
“Voglio
restare qui… ma non voglio più vedere”.
“Vedrò
io per te. Vedrò tutto il dolore del mondo, solo per
te”.
Non
lo vede, Kushina, ma sente i colori tornare a ridipingere il mondo.
Non
lo vede, Kushina, ma si stanno baciando.
Non
lo vede, Kushina, ma il cuore di suo figlio sta battendo, assieme al
suo.
la gente
può prosperare o decadere.
Guerra,
sangue e morte. Bianco, nero e rosso. Questa è la via del
ninja. E il sole non può penetrare questa
oscurità. Ma a Minato non serviva il sole per vedere, non
ora, non la luce, non serviva. Non c’era sole e non
c’era luce. C’è solo Kushina, con in
braccio un fagotto candido che prima non c’era. Cuciti
assieme, come in arazzo.
La
scorbutica Kushina e il testardo Minato: eccoli, lei con in mano una
piccola anima, una delicata bolla da non far scoppiare e lui, padre.
Incredibile,
impossibile.
Forse
domani ci sarà il sole, o forse la pioggia, o la tetra
nebbia, e più avanti l’arcobaleno. Ma
quel giorno avvenne un miracolo
Quel
giorno, nevicava sul mare.
Oddio,
c’è l’ho fatta.
Perdonate
il ritardo ma il troppo canon non fa per me^^. Bè, che dire,
alla fine credevo che venisse fuori moooolto peggio: non spicca di
originalità ed è terribilmente ovvia e lineare,
ma non è malaccio. Si può apprezzare.
Lo
so che il titolo centra poco, ma oggi, a Milano, nevica. E sono felice,
e mi è venuto in mente il titolo ora che tornavo a casa,
sotto la bufera. Dovevo usarlo, per forza. Un tocco natalizio.
Fic
per Rina: sono riuscita ad accontentare anche te!
Ma
ora parliamo della fic: la protagonista della poesia è la
signora Kessler, una donna che manteneva la famiglia facendo la sarta e
la lavandaia. La vita è paragonata agli abiti che si
rovinano, perdono il loro colore, come i corpi e le anime. Diciamo che
la caratterizzazione dei personaggi non mi piace granché:
Kushina è troppo mollacciona e Minato è troppo
stupido. Ma mi sono venuti così. Dimenticavo: quesat frase "I grandi amori si annunciano in un modo preciso, appena la vedi dici: chi è questa stronza?" non è mia, ma di Ennio Flaiano
Recensioni*_*:
celian4ever: grazie
mille!IC dici?? Meno male, credevo di aver scritto delle
assurdità! Guarda, io Ten Ten non so mai come
caratterizzarla(maledetto Kishy che non da spessore alle
signore!>_<) e quindi mi sono fatta guidare
dall’istinto. Grazie ancora!
LalyBlackangel: il
nonsense c’è tuttoXD Ti ringrazio molto per i
complimenti, se a una non-appassionata di NejiTen(come meXD) piace e
non la trova spenta, sono felice!Grazie mille, bacioni!
Shatzy: cara**Mi
dispiace per la “contortezza” della fic, ma la
poesia era troppo da Neji, non potevo non usarla!(splendida,
infatti^^). Ma certo, ci saranno sicuramente altre fic nere(intanto mi
diletterò a leggere le tue^^)Bacioni, alla prossima!
Rinalamisteriosa:
dear, ho fatto del mio meglioXD ma il troppo canon ha avuto la meglio e
ho partorito questa solaXD Ma sono felice di averti fatto apprezzare la
mia NejiTen^^(cioè, in realtà il pairing non
piace per niente , quindi non dovrei essere contentaXD). Attendo con
ansia la NaruSaku!Bacioni!
Grazie
per la vostra attenzione,
E
Buone
Feste!
LaLa
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Capitolo 6 *** Oceano in Scatola (Mrs. Sibley) ***
Ci sono molte cose che
il mare non conosce.
Non conosce il calore
di un abbraccio, e non perché non esistano braccia
abbastanza ampie per stringerlo, ma perché non sarebbero
abbastanza tenere e abbastanza calde neanche per concedergli la
sensazione di una carezza. È sempre e solo lui che stringe,
che soffoca, che coccola, che sfiora.
E tavolta allunga
timidamente le sue mani e ci ruba qualche fiore, qualche spiaggia,
qualche vita.
Non conosce la parola
casa: esiste davvero un angolo, tra gli innumerevoli luoghi che ha
bagnato, che possa essergli familiare e caldo, che possa essere solo
suo?
Un padre amorevole come
lui, che conosce l’unicità di ogni singolo
cristallo di sale e che accompagna le onde nella loro grigia e monotona
malinconia, dovrebbe avere un rifugio dove riposare, e sospirare, per
un attimo.
Non mi conosce, il mare.
Eppure ora mi sta
sfiorando i piedi, mi annusa e piange sopra le mie unghie. E io
sprofondo, un po’ di più.
Non avevo mai visto il
mare, prima d’ora.
Vorrei baciarlo, ma
né io né il mare sappiamo cosa sia un bacio.
Nella mia conchiglia di
solitudine, oggi ascolto la voce del mare.
E oggi il mare urla.
Oceano
in Scatola
La
vita si ascolta, così come si ascolta il mare...
Le
onde montano, crescono, cambiano le cose.
Poi,
tutto torna come prima ma non è più la stessa cosa
(Baricco)
Il segreto delle stelle,-la
gravitazione.
Un posto stretto,
comodo, un nido tra cielo e terra.
Ecco che cosa le
avevano promesso, e Shiho aveva accettato la proposta al volo: un
nastro tra i capelli svolazzanti, lenti enormi su iridi minuscole, una
gonna spiegazzata ed eccola lì, al suo primo colloquio di
lavoro, e un attimo dopo eccola nel suo disordinato studio, un angolo
luminoso profumato di cappuccino.
Certo, avrebbe dovuto
prevederlo: un istituto sismologico doveva avere i suoi terremoti, e i
giorni non potevano trascorrere tra aereoplanini di carta, timide
battute tra i colleghi e stracci di sole polveroso.
“Ma non avrei
mai immaginato…questo!” sbottò
disperata, con un’aureola di ciuffi crespi a coronarle il
volto sconvolto.
“Nessuno lo
poteva immaginare” le rispose, atono, il suo superiore.
Neji Hyuuga, viso
impeccabile, occhi di cristallo, voti incredibili e cuore di ghiaccio,
sembrava aver messo le radici in quell’istituto, nonostante
la sua austera bellezza non dimostrasse più di
trent’anni. Era un iceberg, intatto e prezioso, un eremita in
quello studio lontano dal mondo.
Mentre gli occhi
celesti di Shiho tracciavano i contorni delle guance incavate del suo
superiore, gli occhi di quest’ultimo erano fissi sul
sismografo impazzito.
Sembrava
l’elettrocardiogramma di un cuore esagitato.
Il mare stava per avere
un infarto.
“Conferma
all’istituto di Tokyo il messaggio che gli abbiamo inviato
pochi minuti fa” mormorò Neji, imperturbabile:
“Sta davvero arrivando uno tsunami”.
Shiho emise un singulto
strozzato e corse via, per riconfermare il messaggio e avvertire i loro
colleghi in timorosa attesa.
Stupidamente,
l’unico pensiero coerente che riuscì a formulare
fu che il mare sembrava così limpido e luminoso, accecante,
in quel profumato giorno di Maggio, mentre quella sera stessa avrebbe
raggiunto il cielo e mangiato le stelle.
“Gliel’avevo
detto, signorina Haruno, il mio ginocchio predice ogni sorta di
catastrofe! Dovrebbero esaminarlo, anzi, farci un documentario in
televisione! Lei mi accompagnerebbe, non è
così…?”.
Era incredibile come
l’allegria del paziente più anziano e
più esuberante del reparto, il signor Fujibara, non venisse
scalfita dall’imminente catastrofe che presto si sarebbe
abbattuta sulle loro coste, sulle loro anime.
“Interessante,
signor Fujibara…ma ora si dia una calmata, o mi
costringerà a riempirla di sedativi”
mormorò Sakura con l’ultima briciola di entusiasmo
che le era rimasta impigliata, quasi per sbaglio, nella fitta ragnatela
che attanagliava il suo cuore.
Strizzò
l’occhio al malato e poi fuggì.
Ma no, non poteva
fuggire: il mare era lì, ai suoi piedi, ai piedi del
minuscolo, frenetico ospedale che si era inciso nel suo animo con una
facilità disarmante. Non c’era paragone tra il
violento amore per il lavoro tanto agognato e il ricordo bruciante di
Tokyo e delle sue comodità, della sua famiglia e della sua
tranquillità.
Era sfuggita dalla
città con un cappello, una valigia e la sua tipica
ingenuità che rasentava l’infantilismo. In quel
piccolo ospedale era maturata, era entrata nell’estate della
sua vita: aveva assaggiato la frenesia e il terrore del mondo adulto.
Entrò nella
stanza con una mano ancora attorcigliata attorno ai ciuffi rosati e un
sorriso stretto e masticato fra i denti.
“Non
c’è pericolo: l’ambulanza
arriverà fra mezz’ora e noi abbiamo tutto il tempo
per prepararci”.
Uno scintillio di
speranza si accese in due paia di occhi celesti fin troppo simili.
“Insomma,
puoi andare a prenderti un caffè in tutta
tranquillità, Temari” mormorò atono il
ragazzo dai radi ciuffi rossi e le braccia atrofizzate attaccate alla
flebo.
La sorella maggiore
strinse le labbra con sofferenza, ma il suo sguardo non perse la
durezza e la forza, scolpiti in un’anima di ghiaccio, che
Sakura ammirava come una figlia stimava il proprio padre.
“Dì
la verità, fratellino, avevi paura che il mare ti portasse
via??” mormorò sollevata, pizzicando le ormai
insensibili braccia del ragazzo.
“Temari, non
preoccuparti, ti porto io un caffè”
mormorò quieta Sakura “Voi riposate: ci aspetta un
lungo viaggio” consigliò lasciando la stanza e la
sua intima atmosfera fraterna.
Il giovanissimo medico
sospirò: la sua nuova vita si era appena addomesticata ai
ritmi dell’ospedale ed ecco che il mare, quasi sconosciuto
per una cittadina come lei, sconvolgeva il suo perfetto e immacolato
ordine.
L’allarme
tsunami era stato diramato da pochi minuti e il piccolo paese era
già in preda al panico. L’ospedale sarebbe stato
evacuato e sarebbe rimasto solo a fronteggiare la furia
dell’oceano: la sua nuova casa appariva così
fragile e familiare, se paragonata alla fredda morsa
dell’imminente onda assassina.
Persino le stelle
avrebbero tremato, quella notte, e Sakura lo sapeva: il loro
più antico segreto, la gravitazione, la loro continua e
immobile danza nel cielo, sarebbe stato frantumato dagli elementi della
terra.
Solo i due fratelli
Sabaku, già sconvolti dalla malattia infinita di Gaara,
sembravano in sintonia con l’imminente tragedia: la loro
stanza pareva un acquario e Gaara ci galleggiava dentro, come una
bellissima stella cadente sciolta nel mare.
Sakura sospiro, sfinita.
Il suo sole era
così lontano, in quel momento.
Il segreto della terra,-strati
di rocce.
Me l’avevano
detto in molti; relativamente in molti, dato che conoscevo le stesse
quattro persone da tutta la vita.
Me l’avevano
detto in molti che sembravo vivere sottovuoto, come una ciliegia
ubriaca e rattrappita sotto l’alcol, sotto spirito.
Trovavo più
poetico dire che vivevo in una conchiglia, una di quelle candide e
semplici, sepolte sotto tonnellate di acqua salata, e che il mio
spirito era una perla, di quelle minuscole e dal valore incerto.
Bè, lui
rideva sempre di queste mie metafore: conducevo uno stile di vita
troppo filosofico ed eremita per lui, che aveva sulla pelle i segni
indelebili della vita cruda, reale, quella che mi era sempre stata
preclusa.
“Non posso
più cibarmi di sogni; sono esplosi come bolle”
aveva mormorato con il suo ghigno allegro e nascosto “e tu
dovresti cibarti di carne, o svanirai. Esci dalla conchiglia, mio goffo
paguro.”
Sotto il mare, sotto le
onde, sotto il mondo che non ho mai conosciuto, ci sono tesori preziosi
e perduti, come nella mia anima.
Ma per lui era diverso:
la sua anima era terra e fango. E sotto la terra ci sono solo rocce
senza vita, rocce che non possono essere distrutte.
Io ho perso sangue e
ossa nel tentativo di scalfirle e di affondare le mie mani nel suo
cuore ferito.
“Ripetimelo”.
“Questo
tsunami sarà la nostra salvezza! E tira giù i
piedi, l’auto è mia!”
“Ma se
l’estetista ha appena finito di farmi il
pedicure…”
“Pagato
sempre con i miei soldi, vorrei sottolineare!”.
Ino, dopo diversi mesi
di pacata collaborazione con Sasuke Uchiha, ancora non si capacitava di
come la sua iridata bellezza risultasse totalmente inefficace contro il
suddetto socio e di come spesso la trattasse come un peluche,
sprimacciandola e trascinandola di qua e di là a suo
piacimento.
Però in quei
mesi di rado aveva visto i suoi occhi d’ebano scaldarsi per
l’eccitazione.
“Rifletti:”
mormorò febbrile il ragazzo, mentre cercava di non rimanere
bloccato nel traffico che si era formato in quei minuti di panico dopo
la diramazione dell’allarme tsunami “gli antifurti
andranno all’altro mondo, la polizia se la darà a
gambe levate e i cavò saranno solo nostri!”.
La bocca di Ino si
spalancò, sconvolta, ed ebbe la sensazione che persino i
suoi capelli si stesero sciupando per l’oltraggio subito.
“Sasuke
Uchiha” cominciò, puntando un dito tremante contro
il guidatore “stai dicendo che io, Ino Yamanaka, sublime e
infallibile ladra di professione…”
“Fino a prova
contraria, io sono il ladro: tu se solo il palo”
ribatté atono Sasuke.
“Io dovrei
diventare uno sciacallo??” concluse la ragazza, ancora
incredula.
“Non vedo
differenza. Rimarrai la solita ladra goffa e vanesia”.
“Un ladro non
approfitta delle disgrazie per i suoi furti!”.
“Ah
no?” borbottò Sasuke, sardonico “forse
non te ne sei accorta, ma io non sono Robin Hood: nessuno scrupolo e
nessun beneficio per il prossimo; piantala di fare la santerellina! I
ladri di tutto il mondo ci staranno invidiando, nessuno di loro ha mai
avuto una simile fortuna!”.
Ino sbuffò,
grattandosi via i rimasugli dello smalto color vinaccia: era
impossibile discutere con l’Uchiha. La bellezza fragile e
quasi eterea del ragazzo era in totale contrapposizione con la durezza
e la forza di ogni sua frase e di ogni suo gesto. Era un diamante
perfetto, con un viso di cristallo e un’anima
d’acciaio. E, come ogni persona di questo genere, era solo,
immerso in un mondo pieno di angeli incompresi. E non si potevano
scalfire, tutte quelle rocce che imprigionavano il suo cuore.
Ino ci aveva provato,
ma i suoi solari ed entusiasti tentativi si erano scontrati troppo
presto con la durezza del socio. Lei, dopo essere scappata di casa,
complice la mancanza di soldi e di affetto, cercava solo un angolo
pulito e discreto dove rifugiarsi e respirare il vero odore della
vita…e invece si era trovata complice di un ladro e ladra a
sua volta. Un’anima errante.
“Non ti
preoccupare” mormorò Sasuke, come se avesse
percepito il suo nervosismo “Te l’ho detto, no?
Dopo aver racimolato quest’ultima somma, Tobi mi
rivelerà il nascondiglio di Itachi, ci divideremo il denaro
e poi voleremo verso orizzonti diversi, senza più problemi o
rimpianti”.
“Lo so, lo
so, ormai questa tua ossessione è diventata una
filastrocca” sbuffò Ino, mentre scrutava il cielo
che avrebbe probabilmente accolto lo tsunami: limpido e celeste.
L’unica
ragione per cui il distinto Sasuke Uchiha si era trasformato in un
ladro era ritrovare suo fratello, o meglio, i soldi che aveva rubata
alla miliardaria azienda Uchiha Corporation, che ormai era
sull’orlo del fallimento.
Una vendetta, ecco cosa
voleva rubare Sasuke Uchiha.
“E comunque,
come facciamo a fidarci di uno così?”
sbottò Ino “Si fa chiamare Tobi…Cristo,
Uchiha, il mio cane si chiamava Tobi!!”
“Cari
telespettatori, come potete vedere, la situazione, nonostante la sua
gravità, è sotto controllo!”.
Bisognava ammetterlo:
Lee non bucava solo lo schermo, ma probabilmente anche gli occhi e le
orecchie degli ascoltatori. Ma Ten Ten, che ormai lo seguiva con la sua
telecamera da diversi mesi, si era abituata ad avere gli occhi color
nocciola sempre puntati su quel sorriso enorme( almeno quanto le sue
sopracciglia) e ad apprezzarlo nella sua originalità.
“L’allarme
tsunami è stato lanciato pochi minuti fa, ma come sappiamo
il tempo a nostra diposizione prima dell’ arrivo
dell’onda assassina è sufficiente per permettere
un’ordinata evacuazione dei villaggi costieri più
a rischio! Non siate in ansia: le autorità competenti sono
continuamente aggiornate dai sismologhi di Tokyo e dagli esperti del
nostro studio! Quindi non temete per i vostri cari! Come potete vedere
in loro brucia il fuoco della giovinezza!” concluse con
entusiasmo.
Ten Ten si
precipitò ad inquadrare la piccola città che si
muoveva come un solo uomo verso l’interno del territorio:
nonostante l’enorme quantità di macchine, di
fuggitivi a piedi e di famiglie che cercavano di salvare i loro oggetti
più cari, i militari erano stati bene istruiti e
organizzavano l’operazione con sicurezza e
velocità.
Eppure gli occhi di Ten
Ten continuavano a saettare sul mare limpido, un gatto che ammaliava
con iridi dolci un topolino troppo avventato.
“Non lasciare
che la paura spenga il fuoco della giovinezza, Ten Ten!Il servizio non
è ancora terminato!” esclamò Lee.
Infatti avrebbero presto riavuto la linea dal loro telegiornale per
eventuali aggiornamenti sullo tsunami in arrivo.
Ten Ten aveva sempre
avuto una personalità entusiasta e intraprendente: appena
ricevuto il posto di reporter, invece di riprendere noiosi dibattici
politici o sfilate d’alta moda, si era buttata in disastri
ambientali, incidenti mortali, cronaca nera e solo la sua giovane
età le impediva di precipitarsi nelle zone di guerra.
Mai avrebbe sognato di
ritrovarsi in compagnia di un giornalista ancora più
scatenato e impavido di lei.
“Figuriamoci,
Lee, io non ho mai avuto paura in vita mia!”
esclamò fiera Ten Ten “Sei tu che sei
stancante!”.
Entrambi sorrisero,
complici, e approfittarono di quel momento di calma, così
raro nel loro lavoro, per sospirare, almeno per un attimo.
Erano sul balcone di un
modesto edificio abbandonato, stretto e illuminato da diversi gerani
color rubino, ed era incredibile il silenzio e la calma che regnavano
in quel piccolo regno tra cielo e terra, tra nuvole e onde. Era come se
la pioggia stessa avesse seminato e coltivato quel piccolo angolo di
paradiso.
Ten Ten si sporse,
appena appena, tanto per controllare che la terra fosse ancora
lì e non fosse volata via, o dissolta fra le nuvole.
“Ma…”.
“Non ti
preoccupare, Ten Ten” la interrupe Lee, con il suo solito
enorme sorriso, che aveva compreso l’ansia della collega
“Mancano ore, insomma, ore, all’arrivo dello
tsunami! La città è piccola, sarà
evacuata in un attimo e noi avremmo fatto un servizio
fantastico!”.
Ten Ten sorrise: la sua
indole coraggiosa ma a volte pessimista era ben compensata con la
solare allegria e l’infantile ottimismo di Lee.
“Speriamo
solo che l’elicottero si ricordi di
noi…” sospirò, sorridente. Il mare,
dietro di loro, ghignava.
Infatti i due
giornalisti erano atterrati sull’enorme condominio
abbandonato con l’elicottero della protezione civile, con il
quale stavano sorvolando la zona costiera, evidenziando alcuni problemi
ambientali per un servizio naturalistico. Ma quando era arrivato
l’allarme tsunami, l’incosciente Rock Lee aveva
fatto il diavolo a quattro per scendere a terra e registrare, a sua
detta, “un servizio storico, un trampolino di lancio per la
nostra carriera!”.
Il loro sacrificio, il
loro scavare rocce su rocce, le loro speranze li avevano portati
lì, a un passo dal mare, a un passo dal successo.
Queste parole avevano
convinto definitivamente Ten Ten, che aveva persuaso con maniere
più o meno lecite e ricatti più o meno sottili il
pilota a lasciarli sull’edificio prima di ripartire alla
volta di cittadini più bisognosi prima di tornare a
riprenderli.
“Certo che
ritornerà!Era un pilota estremamente giovanile”
esclamò Lee, fiducioso “E poi, i soldi che gli ho
allungato sono stati estremamente persuasivi!”
“Cosa???”
Il segreto del suolo,-ricevere
il seme.
Era una delle idee
migliori che il suo meraviglioso cervello avesse mai elaborato .
Non smetteva di
pavoneggiarsi, Suigestu, mentre nuotava elegante come una sirena tra un
banco di pesci argentati e sfiorava enormi anemoni variopinti.
Quale migliore idea
delle immersioni subacquee per chiudere la bocca alla sua eterna
appendice, o meglio, alla sua adorabile metà?
D’altronde
gliel’aveva detto lei stessa che se intendeva salvare la loro
relazione doveva trovare una soluzione originale e praticamente
miracolosa.
Bè, non che
Suigestu fosse amante di storie complicate e ragazze violente e irose
come la sua Karin, ma doveva ammetterlo: lei era l’unica che
riuscisse a smuoverlo dalla sua inerzia e avesse il fegato di
contestare le sue decisioni.
E poi non si sarebbe
mai potuto perdere lo spettacolo di Karin in tuta subacquea che si
agitava terrorizzata alla vista di un banco di innocue sardine che la
circondavano curiose.
Si diresse a salvare la
propria ragazza, la sua Karin con un cuore di pietra che lo faceva
penare
Le prese la mano e per
un attimo si soffermò sul mare color petrolio, la sua
seconda casa, il suo paradiso turchese. Ed era quasi commovente poterlo
condividere con Karin, in un etereo silenzio che sulla terra non
riuscivano mai a concedersi.
Erano dei semi a cui
era stato fatto il regalo più grande: poter scegliere il
loro suolo, un suolo morbido fatto di onde.
Quel giorno il mare era
una culla.
Erano anni che Neji
Hyuuga, cresciuto come un bonsai perennemente potato, non lottava come
un’ostinata edera sui rami della vita.
Ma non c’era
tempo, per la vita e per il decoro: i capelli di seta volteggiavano
come onde prigioniere del vento e il suo viso di cristallo era pieno di
crepe.
Correva, e il suo
cuore, così abituato alla calma e al riposo, correva con lui.
Dietro Neji, Shiho
incespicava come una variopinta farfalla nell’aria.
“Professor
Hyuuga! Aspetti! Non può scatenare il panico in
città per una supposizione infondata!!”
gridò Shiho con voce fioca e i capelli avvolti da
un’aureola di luce.
“No! Non
commetterò un altro errore!” borbottò
affaticato Neji, sotto lo sguardo incredulo della giovane collega
“Ti dico che i sismologhi di Tokyo sono stati troppo
ottimisti nel loro pronostico! Forse sulle loro coste lo tsunami
arriverà fra ore, ma per noi sarà già
troppo tardi! Sta prendendo velocità e arriverà
al massimo tra mezz’ora!”.
“Professor
Hyuuga!” gridò Shiho, in preda al panico
“Neji, aspetti!”.
Gli afferrò,
gelida.
“La prego
professore, non distrugga tutti questi anni di lavoro”
mormorò la ragazza, imbarazzata e spaventata: si sentiva
un’insignificante lucciola di fronte all’eterna e
splendente luna “Ma non capisce? Questo errore può
danneggiare inevitabilmente tutta la sua carriera a futura!”.
Questo seme del dubbio
potrà crescere e maturare in un edera che si sarebbe
arrampicato su Neji per il resto della sua vita. Avrebbe succhiato via
ogni sua possibilità di riscatto, assorbito veleno e ucciso
le radici di un nuovo germoglio.
Neji strinse la mano
della ragazza, una carezza gelata.
“Ho
già fatto un errore simile, un errore che mi ha incatenato e
trascinato a terra. La mia situazione non cambierà con un
altro sbaglio… ma oggi potrò espiare la mia
precedente colpa” mormorò con calma forzata.
Un’ultima,
forte, stretta alla mano nivea di Shiho e poi la paura si
affacciò di nuovo sul volto dei due sismologhi.
“Dobbiamo
sbrigarci a trovare un incaricato dell’operazione di
evacuazione, o meglio, raggiungere le stazioni radio o televisive non
ancora abbandonate! Se mandiamo adesso un messaggio a Tokyo, non
riusciranno a ricontrollare i dati in tempo!” disse Neji
sotto lo sguardo incerto ma risoluto della collega.
Nessuno dei due
sismologhi era un corridore e raggiungere le scale esterne
d’emergenza fu uno slalom di fogli vaganti e armadi
traballanti. Un penetrante odore di aria salmastra invase le loro
narici appena giunsero all’esterno dello studio, come a
confermare l’oscura forza marina che ribolliva tra le onde.
Scesero saltando i
gradini, con i camici al vento e i volti sconvolti; l’unico
rumore udibile era il tintinnio delle scale cigolanti e il battito
furioso del loro cuore impazzito.
“Aspetti,
professore!”.
Neji si
voltò. A metà scala vide Shiho si era
sporta nel vuoto e aguzzare le minuscole iridi dietro occhiali troppo
spesse.
“Professore,
guardi! Hanno una telecamera…e un
microfono…” borbottò la ragazza
lottando contro la sua scarsa vista.
Ma Neji poteva vedere
per entrambi, e la speranza, come una semplice candela in una stanza
buia, parve rischiarare il suo animo più del sole.
Con uno spirito
atletico nascosto nel suo rigido corpo, saltò dalla scala
d’emergenza fino a un pittoresco balcone
dell’enorme magazzino abbandonato praticamente attaccato allo
studio sismologico, vicino a quello su cui litigavano ferocemente due
ragazzi.
“Hai corrotto
il pilota?? Lee, sei un idiota! Faranno un’indagine, ci
copriremo di ridicolo, ci…o mio Dio, ci
licenzieranno!”
“Ten Ten, con
lo tsunami e tutto questo caos chi vuoi che si ricordi di qualche
banconota passata di mano?? Abbi fiducia nel forza della
giovinezza!”.
“Tu
l’hai mandata a quel paese la mia giovinezza, assieme al mio
lavoro e alla mia dignità…e lei chi
è?” chiese Ten Ten, lasciando per un attimo il
tenero collo di Lee, perfetto da strangolare, mentre Neji atterrava con
grazia sul balcone.
“Oh, ci
stanno ridando la linea…” mormorò Lee
con voce soffocata, tastandosi l’auricolare.
“Ottimo”
borbottò Neji, mentre Shiho scavalcava con fatica il balcone
e Lee esibiva il suo enorme sorriso.
“Ecco i nuovi
aggiornamenti sullo tsunami in arrivo!” esclamò
con enfasi e guardando fisso la telecamera di Ten Ten.
“L’allarme
non era preciso: l’onda arriverà sulle nostre
coste fra meno di mezz’ora!!” gridò
Neji, infilandosi fra la telecamera e il giornalista.
“Come??”
chiese Lee, attonito.
“È
inutile continuare l’operazione…”
“Ten Ten,
taglia, taglia!”
“Subito!
E…ma che diavolo! Molla la mia telecamera, talpa!”
“Vi prego,
fate parlare il professor Neji!”
“…Salite
sui piani superiori della abitazioni più alte e costruite di
recente, dovrebbero reggere alla forza
dell’urto…”
“Professore,
la sua tesi è estremamente giovanile, ma da quali elementi
è supportata?”
“Ma quale
professore, stai parlando con un pazzo, Lee! E tu mollami, lascia la
mia telecamera!!Regia, chiudete il collegamento!”
“Mi sa che ci
licenzieranno per davvero, Ten Ten!”.
“Graffi.
Tanti graffi”.
“Non sono
niente. Niente.”
Vero: non erano niente
in confronto alle cicatrici che vedevo nel suo animo.
Avevo incautamente
perso il conto di tutte le volte che quel giovane dal ghigno enorme e
l’animo martoriato era stato ricoverato
nell’ospedale di mio padre.
Era il primario, mio
padre: avrebbe dovuto capirlo, avrebbe dovuto avere pietà.
Ma proprio come con la
mia insensata debolezza, era stato cieco al dolore di quello spavaldo
giovane con il sole nel volto.
“I tuoi
genitori vengono a prenderti? Non sono preoccupati?” chiesi
in un giorno di vento.
Silenzio e una domanda
come risposta.
“Da quanto
sei qui?” mi chiese, quel giorno. Aveva visto che nei miei
occhi non c’era il colore del cielo?
Aveva visto che ero un
seme rinsecchito senz’ acqua?
“Da sempre:
mio padre dice che sono di salute molto cagionevole e mi lascia uscire
molto di rado”.
“Ma tu non
sei malata…e sei libera!” esclamò,
incredulo e permaloso.
Quanto può
essere libera, un onda, nell’immensità
dell’oceano?
Erano passati pochi
minuti dal delirante annuncio e il nuovo allarme, dichiarato certo e
imminente da quel pazzoide dagli occhi di ghiaccio, non era ancora
stato smentito.
“Come se ci
stessero riflettendo…ma, chissà, forse! Tanto
loro sono al sicuro nel loro studio e noi gli idioti a dieci metri dal
mare!” borbottò Sakura, mentre si dilaniava le
unghie e scrutava con odio la televisione che non annunciava niente di
preciso.
“Oh andiamo,
Sakura, l’hai visto anche tu, era un folle, non ci stava con
la testa!” ribadì deciso Shikamaru, il genio di
quel piccolo ospedale. Era spuntato come un germoglio screziato in un
mare di fiori bianchi.
“Vedrai che
riconfermeranno il precedente allarme e ci trasferiranno tutti con la
massima calma” concluse con tono seccato mentre la mano
scattava a prendere il pacchetto di sigarette.
Ma Shikamaru non
finì la frase e non agguantò le sigarette: un
addetto al piano di evacuazione si avvicinava con un viso che mal
celava un crescente nervosismo.
“Signori, mi
dispiace interrompervi, ma dobbiamo accelerare l’operazione.
Probabilmente abbiamo meno tempo del previsto”
borbottò concitato.
“Come??”
saltò su Sakura, mentre Shikamaru spalancava la bocca,
esterrefatto “Ma allora quello strano
professore…?”.
“Purtroppo
non è da escludere che avesse ragione”
mormorò “Ve ne dovete andare, adesso! Vi
riferiranno i dettagli al piano terra…”.
“No, non
possiamo!” sbottò Shikamaru “Ci sono
ancora i fratelli Sabaku!”.
“Gaara
necessita di un’ambulanza specializzata! Non possiamo
muoverlo altrimenti!” confermò Sakura.
“C’è
un malato così grave?” chiese spiazzata la guardia.
Non si
stupì, Sakura, dell’incredulità
dell’addetto. Il loro ospedale era un ex-sanatorio,
sull’orlo del mare, eroso dal glicine, semplice e minuscolo:
ben pochi malati gravi si sarebbero fatti ricoverare lì. Ma
i fratelli Sabaku non potevano permettersi altro: Sakura conosceva ogni
goccia di sudore sul volto di Temari, ogni lavoro che aggiungeva alla
sua lista per coprire i costi troppo elevati per le cure
dell’amato fratello, l’unico rimasto della famiglia
che l’aveva abbandonata. Conosceva la sofferenza e la
stanchezza, ormai apatica, di Gaara e la speranza che giaceva, morta,
nei suoi occhi pallidi. Quante volte aveva pregato per loro?
Sakura
scattò verso il telefono mentre Shikamaru cercava di
trattenere, inutilmente, la guardia ormai terrorizzata.
“Shikamaru,
non rispondono! Eppure l’ospedale centrale aveva promesso che
l’ambulanza sarebbe arrivata in pochi minuti!”
mormorò, disperata.
L’espressione
di Shikamaru era di pietra.
“Sakura,
ormai si è scatenato il panico: forse l’ambulanza
si è fermata a soccorrere qualche ferito in questo caos
oppure è bloccata o gli autisti se la sono
filata…sta di fatto che non arriverà in tempo.
Ormai l’ospedale è vuoto, manchiamo solo
noi”.
Dov’era,
il suo sole?
“Cosa
succede? Ma gli altri sono già stati tutti evacuati? E
l’ambulanza?”.
Shikamaru e Sakura
sospirano e distesero il viso, in modo che i loro volti non
riflettessero lo stesso panico di Temari.
Ma non potevano
nasconderle il pericolo ormai imminente.
“Preoccupata,
testa d’ananas?” Shikamaru mormorò con
voce incerta ma supponente “Non lo sai che il genio ha sempre
tutto sotto controllo?”.
Temari strinse gli
occhi con forza, la poca che la malattia di Gaara non le aveva rubato.
“Sai, tendo a
non fidarmi dei ragazzini” ribatté con un ghigno
appena accennato, rivolgendo poi la sua preoccupazione verso Sakura,
che aveva la gola secca e la mente spenta.
Shikamaru
sospirò, con forza. Perché doveva addossarsi lui,
tutte le cattive notizie e seccature varie?
“Temari,
ascolta…l’ambulanza…eccola! Visto?
Tutto sotto controllo!”.
Era proprio vero:
parcheggiata proprio sotto di loro, ecco la tanto agognata ambulanza.
Sakura si mise a
correre, finalmente euforica e con una gioia atavica che
l’esplodeva nel petto, la stessa che sgorgava dal suo petto
ogni volta che vedeva il sorriso di un paziente guarito. La stessa
gioia che seminava ogni giorno, nel suo lavoro, e dopo ore, minuti e
secondi diventavano fiori. La gioia che avrebbe voluto vedere riflessa
sul volto di Gaara.
Sakura
arrivò, estatica, al pian terreno: era pronta a baciare e
idolatrare l’autista, il suo salvatore…
“Sakura,
amore mio! Ti ho fatto una bella sorpresa, vero?? Il tuo Naruto
è venuto a salvarti dallo tsunami! E ho pure trovato il
tempo per comprarti un po’ di ramen!”.
O forse no.
Il segreto del seme,-il
germoglio.
Neji non era solo mio
cugino; era la mia guida, la mia spalla, un custode fedele, mio
fratello e
la mia ombra.
“No, non
possiamo fare un’accusa così grave? Ma ti rendi
conto? Non li conosciamo nemmeno!”
“Neji…c’è
qualcosa di oscuro, Neji, qualcosa di terribile nell’animo di
quel ragazzo!”
“Bambina”
mormorò con la poca sensibilità che possedeva
“sicuramente ti sei impressionata per qualcosa che ti ha
detto…dimmi, non starà cercando di
spaventarti?”
“No,
Neji…è lui che tenta di nascondermi il suo
dolore…”
“Allora non
ci dobbiamo intromettere! Ricordati: anche se tuo padre è un
medico e tu sei spesso a contatto con i suoi pazienti, non devi farti
influenzare dalle loro vite.”
“Neji…”
“Rimani qui,
bambina. Non farti portare via”.
Ha seminato il seme
dell’incertezza e dell’apatia, come ogni uomo nella
mia vita prima di lui. Ha disseminato nella mia anima germogli laceri e
rachitici.
Mi ha lasciato anche
lui, nel mare che non ho mai visto.
Ed è stato
il suo rifiuto che mi dato la forza di indagare, di salvarti, di vedere
chi ti infieriva quei tagli.
Non lo sapevo, non lo
sapevo.
Non lo sapevo se era la
prima volta che tuo padre alzava le mani su di te. Sembravi
così agile e forte, ma eri fragile come fiore, sotto le sue
urla.
Tu urlavi, e io ero
muta.
Eppure sono stata io a
ribellarmi: io che ti conoscevo a malapena, che non avevo mai visto
quello schifoso ubriacone di tuo padre, che non conoscevo il dolore e
la debolezza di tua madre, io che ti ho donato solo un sorriso quando
eri ricoverato nell’ospedale di mio padre, nella mia prigione.
Eppure sono stata io a
sparargli, a tuo padre.
Se non avesse lasciato
l’arma abbandonata tra le bottiglie, se tu non mi avessi
guardato con quegli occhi così neri, se io non fossi stata
così fragile.
Ma non ti preoccupare
per me. Ora il mare laverà via i miei peccati.
Ma non incolparti di
quello che è successo.
Tu hai seminato in me
coraggio e forza, e mi hai donato i fiori della speranza, nel mio modno
pazzo.
È proprio
così, il mio mondo, è proprio come il mare:
ovattato, immobile, denso. E giù, giù,
giù, nella mia anima, ci sono tutte le mie emozioni,
compresse, stuprate, schiavizzate, immense come l’oceano.
C’è
un oceano di emozioni, nella mia anima. Compresso, stuprato e
schiavizzato.
Un oceano imprigionato,
immobilizzato.
Un oceano sottovuoto.
Un oceano in scatola.
Forse fu proprio lei,
Ino, a percepire per prima l’imminente arrivo
dell’onda. Forse perché era abituata alle
catastrofi, alle frane che erano crollate sul suo cuore, a un
seminatore crudele, che, imparziale, disseminava dolori solo per lei.
Prima aveva perso l’affetto della famiglia
(l’aveva mai
avuto?) e poi la casa e il suo cuscino caldo.
Aveva poco da
lamentarsi, il suo “socio” Uchiha.
Forse.
“Sasuke…c’è
troppa confusione là fuori!” esclamò la
ragazza preoccupata.
“Sai, non
capita tutti i giorni che arrivi uno tsunami”
mormorò, atono come sempre, il collega.
“Ma prima si
stavano muovendo tutti in modo ordinato… e ora, guarda
là! Stano correndo come pazzi!”.
“Il solito
gruppo di isterici…non ti distrarre e ammira.”
Il suo compare stava
trafficando da qualche minuto con la minuscola ma precisa bomba che era
riuscito a fabbricare dopo mesi di lavoro e informazioni ricattate.
“Questo
gioiellino farà esplodere il cavò in un
nanosecondo” mormorò con un’espressione
estatica, quasi reverenziale “Ci basta attaccarlo alla
parete( tanto ormai tutte le guardie se la sono filata e possiamo
controllare le telecamere), aspettare che arrivi lo tsunami, farla
esplodere nella confusione e poi tornare subito a prendere il denaro.
Geniale, in effetti” concluse con una nota di fanatica enfasi
nella voce solitamente apatica, mentre attaccava sofisticata bomba alla
parete che li divedeva dal denaro.
Perché si
entusiasmava tanto per la bomba e non per la bella ragazza che gli sta
accanto? Si chiese Ino, sconfortata.
La ragazza era un
germoglio su cui sbocciavano fiori di amara delusione.
I suoi occhi celesti si
spostarono sulla finestra, fuori dalla banca che avrebbero svaligiato.
E la sentì
di nuovo.
La voce del mare che si
avvicinava.
Il mare era di
petrolio, denso e oleoso.
E nero, buio, come se
fossero sul suo fondo, sulla sua pelle.
Vide Karin stringere
gli occhi miopi e la stretta al suo polso, ansiosa: probabilmente non
l’aveva bevuta, la storia che il mare si era improvvisamente
oscurato perché una balena stava nuotando sopra le loro
teste.
Sarebbe stato
preferibile, di sicuro.
Suigetsu si strinse
ancora di più alla ragazza, alla sua ancora di salvezza,
nelle profondità oceaniche: il mare, suo amico fidato, la
sua seconda casa, tremava e gemeva, piangeva, sotto il peso
dell’onda gigantesca che aveva sfiorato le loro teste. Il
mare, oggi, era un pericolo.
Per la prima volta in
vita sua sperò che Karin cominciasse a starnazzare,
ciarlare, imprecare o emettere qualsiasi tipo di suono, tanto per
spezzare il silenzio e la paura che per la prima volta lo assalivano in
mare. Che facesse germogliare risatine o ghigni, battutacce o grida
assordanti.
E invece
restò zitta, assieme a lui, ad ascoltare l’onda
rotolare con fatica tra le sue sorelle, guardarli, accarezzarli appena
e poi proseguire nella sua furia disperata.
E per la
prima volta rimpianse il rumore.
In compenso, la sua
dolce metà si esibì in una moltitudine di gesti
indispettiti, usando il linguaggio a gesti dei sub: era davvero una
balena? Che fine aveva fatto il motoscafo? Era uno stupido scherzo,
vero, viscido mollusco?? Se era successo qualcosa ai suoi amati
salvagenti rosa di Hello Kitty, rimasti sul motoscafo,
l’avrebbe aperto in due come una cozza!
“Mi stai
dicendo che sei arrivato fino a qui da Tokio con
l’ambulanza??”
“Già,
e ho pure trovato il tempo per il ramen! Non sono stato
fantastico?”
“No, tu sei
pazzo, Naruto! Come hai potuto prendere un’ambulanza per i
tuoi scopi personali? Sei la solita testa quadra, non sei cambiato una
virgola dall’asilo nido! Ma chi ti ha fatto entrare nella
protezione civile??”.
“Scopi
personali?? Ma Sakura, io dovevo venire a salvare te! E poi ho appena
sentito alla radio che lo tsunami sarebbe arrivato nel tuo paese molto
prima che a Tokyo…”
“ Mi dispiace
molto interrompere questo momento così
toccante…” lo bloccò Shikamaru,
divertito dalla scoperta del nuovo e burrascoso carattere di Sakura.
“…ma
un’onda ci sta per travolgere! Il pigrone ha
ragione” concluse Temari, vagamente incredula di dover dare
ragione a Shikamaru.
Sakura
sospirò, e sorrise, sollevata: il suo sole era tornato. Era
tornato come un lampo, come un odore nostalgico e penetrante, come un
arcobaleno. Era tornata a casa.
“Forza, razza
di idiota. Aiutaci a portare Gaara al sicuro”
mormorò con la speranza nella voce e l’affetto che
si rifletteva negli occhi celesti del ragazzo.
Pochi minuti dopo erano
tutti sull’ambulanza che attraversava le strade deserte, dato
che tutti gli abitanti si erano rifugiati sui tetti delle
città più moderne, cosa che loro non potevano
fare, dato che il loro ospedale era vecchio e pericolante.
E proprio in quei
minuti, in quegli istanti prima dell’apocalisse, in quei
minuti dove Gaara sedeva apatico tra le amorevoli mani della sorella e
quelle ruvide di Shikamaru(una famiglia), tra le frasi sconclusionate e
preoccupate di Naruto, a Sakura parve di scorgere, sulla spiaggia, una
ragazza di vetro.
Un germoglio mai
fiorito.
Il segreto dell'uomo,-il
seminatore
Sono qui, a un passo
dal mare, a un passo dalla fine.
Un sussulto: le tue
braccia mi circondano. Perché sei venuto? Come hai fatto a
trovarmi?
“Hinata, ma
cosa stai facendo?? Lo tsunami arriverà a momenti!”
Sorrido, al mare.
“Non posso,
Kiba. L’ho ucciso, e la pena per me sarà la
prigione. Mio padre potrà dire quello che vuole,
potrà ripetere ai magistrati le sue teorie sulla mia
fragilità psicologica e fisica per le quali mi tiene chiusa
e prigioniera…ma la mia sorte è
segnata”.
“Mio padre
era uno schifoso maiale, e tu mi hai salvato!”
balbettò Kiba, stringendomi con forza “la tua
è stata legittima difesa, nessuno ti avrebbe incolpata!
Perché sei scappata, infrangendo gli arresti
domiciliari??”
Non capisci, Kiba. Io
sono come il mare. Non so cosa sia una casa, un abbraccio o un bacio, e
non mi serve; ho bisogno solo della libertà, come un seme
senza radici. Il mio seminatore mi ha lanciato in un deserto, e io ho
bisogno di acqua.
Stavo scappando dalla
giustizia e dalla mia stessa famiglia, quando ho sentito
l’allarme tsunami: era il mare, che mi chiamava, e mi
chiedeva di riposare nei suoi fondali per
l’eternità, per scontare la mia pena.
Per tornare a
casa.
Perché non
avrei potuto sopportare di vivere la vita con una simile colpa nella
mia anima altrimenti innocente.
“Non avrei
potuto sopportare ancora di più la prigionia, Kiba;
né quella legale né quella di mio padre. Sei
stato tu, a salvarmi. E io avrei tanto voluto salvare te”.
Perché sei
qui, Kiba? Perché voi scontare la mia pena, germoglio
innocente, seminato da un destino crudele?
La senti, Kiba, la voce
del mare?
Noi uomini siamo
seminatori, ma anche seminati: sono il mare e la terra che decidono
dove porre le nostre radici. E il mare le sta sradicando.
Io lo vedo sospirare e
ritrarsi, il mare, come se avvolgesse il suo vestito color cobalto per
lasciare che i suoi piedi avanzino sulla terra. Come se volesse
conoscerci.
Tu mi stringi, e sento
la tua determinazione nel rimanermi accanto fino alla fine. Testardo e
coraggioso.
Finalmente vedo il
mare…ed è un benedizione ammirarlo con te.
“Per la
cronaca, Uchiha, io ho sempre trovato i tuoi piani estremamente
stupidi”.
“Cosa?”
“Ma non ti ho
mai abbandonato, nonostante tutto”.
“Ma
che…”
Glielo doveva dire,
Ino. E gliel’aveva detto sotto un cielo splendente, turchese
e accecante.
Gliel’aveva
detto appena fuori dalla banca, fuori dalla loro miniera
d’oro.
“Nonostante
tutto, ti ho sempre amato”.
Gliel’aveva
detto in un posto senza tramonti e senza fiori, senza fiumi e senza
prati.
Ma pochi ragazzi
avrebbero potuto vantarsi di aver ricevuto una dichiarazione
d’amore con un’onda alta circa sette metri come
sfondo.
“Naruto, non
entrare in città!”.
“Cosa?? Sei
impazzito, bradipo ambulante?”.
Shikamaru si
voltò, scocciato e terrorizzato, verso Temari, che stringeva
con forza la mano del fratello, come ad attingerne energia e speranza.
Anche perché Gaara, con il sapore della morte in bocca, era
il più tranquillo tra i passeggeri dell’ambulanza.
Shikamaru strinse le
labbra e si rilassò solo perché sapeva che Temari
era troppo nervosa, per tutto, e che doveva scaricare la sua ansia.
“Ascoltatemi”
incominciò, interrompendo la protesta di Sakura
“Non riusciremo mai a raggiungere il centro della
città e i palazzi che non rischiano di crollare in tempo! La
maggior parte dei cittadini avrà abbandonato la propria auto
in mezzo alla strada e sarà fuggito! Non possiamo rischiare
di doverci fermare o trovare ostacoli, dato che non possiamo spostarci
a piedi per via di Gaara!”.
“Allora
lasciatemi qui! Non rischiate la vostra vita per me!”
esclamò con enfasi il ragazzo, prima di esser zittito dal
terrore dipinto sul volto della sorella.
“Non dire
fesserie” lo ammoni con decisione Shikamaru
“Dobbiamo raggiungere la collina sopra la città,
passando per la statale! È divisa dal mare da una foresta di
diversi metri, che potrebbero bloccare la furia
dell’onda!”.
L’ambulanza
cadde nel silenzio e Naruto scelse da solo la soluzione più
adatta: svoltò nella tangenziale, deserta, e
schizzò come un lampo verso la collina.
“Comunque, se
volete allentare la tensione o vi siete dimenticati di far merenda, vi
ricordo che c’è il ramen sul retro!”
La vita si ascolta,
così come si ascolta il mare... Le onde montano, crescono,
cambiano le cose. Poi, tutto torna come prima ma non è
più la stessa cosa.
Io ti ho sempre
ascoltato, mare, dalla mia conchiglia, dalla mia scatola. Sentivo
l’eco della tua melodia nella mia mente fragile, le tue note
cullarmi. Ogni melodia della mia vita era prodotta dal tuo canto. Ti ho
ascoltato per tanti, tanti anni.
Ora è il tuo
turno. Ti prego, ascoltami.
Io ti imploro, mare,
mio amato e sconosciuto mare, ti prego di risparmiare Kiba, che non
è fuggito, cha ancora mi abbraccia, nonostante la tua furia.
Lui è
innocente, ha seminato solo speranza e bontà, e la sua anima
è pura e libera.
Io sono la peccatrice,
ho seminato morte, e la mia anima è prigioniera.
Ti imploro di
liberarla, di aprire la conchiglia, la scatola dove è
racchiuso il mio oceano.
Ti imploro, mio amato e
sconosciuto mare.
Liberami.
Un ultimo sospiro, un
ultimo sorriso.
E in un attimo sono
dentro di te, mio amato mare.
Il segreto della donna,-il
suolo.
.
“Allora, stai
riprendendo??”
“Non
riuscirò a filmare un bel niente se continui a inserirti nel
mio campo visivo!”
Shiho, al dialogo,
aveva sempre preferito il silenzio, specialmente durante avvenimenti
tragici o almeno preoccupanti. E il fatto che quei due strambi
giornalisti continuassero a bisticciare mentre l’onda anomala
devastava la cittadina era inquietante agli occhi della timida
sismologa.
Fiori, bambole, fango,
sangue, tutto trascinato dall’acqua, che sfondava vetrine,
maciullava auto, sradicava alberi e case.
Li poteva sentire, i
cittadini rifugiati sui palazzi miracolosamente in piedi, come il loro,
trattenere il fiato mentre riconoscevano una portiera, una bicicletta,
forse una foto.
Il mare stava portando
via tutto, persino la terra dove Shiho poggiava i piedi, la terra che
accarezzava e si sbriciolava, delicata, tra le dita di un bambino,
quella stessa terra che girava con tutti gli uomini.
Sotto i loro piedi,
c’era solo il mare furioso e instabile.
Persino la sua terra,
la sua stabilità, le era stata portata via; ora era un fiore
senza suolo. C’era solo una certezza, una costante, una
fievole speranza: la mano di Neji, ghiacciata e diafana, ancorata alla
sua.
Gliel’aveva
svelato, sul quel tetto sopra il mare, in quei momenti di terrore, il
suo errore, il suo peccato: a causa della sua
superficialità, della sua freddezza, aveva lasciato che la
cugina, la sua fragile adorata bambina si caricasse sulle spalle il
dolore di Kiba, di quel ragazzo dal ghigno tormentato.
“Lei ti perdonerà” gli
sussurrò e Neji appoggiò la sua fronte su quella
della ragazza.
Come la terra
perdonerà il mare.
“Merda!”
Naruto
svoltò ed evitò per un pelo che
l’ambulanza cadesse nella scarpata, invasa
dall’onda assassina.
“Vai,
vai!” gridò Sakura, che lottava con i suoi
compagni per tenere ferma la barella di Gaara
“più
avanti c’è uno spiazzo abbastanza alto da poterci
fermare!”.
Ma il più
avanti si dimostrò molto lontano e Naruto
ingaggiò una vera e propria lotta tra l’ambulanza
e le forze della natura (e qualcuna della fisica) per sfuggire
all’onda.
Li sfiorava, li
attaccava, quasi li superava, li illudeva, come un intransigente boia.
Labbra venivano morse e urla venivano soffocate, in
quell’ambulanza.
Gocce e granelli di
sale penetravano nel veicolo come un’ombra.
“A destra, a
destra!!” ulularono i passeggeri mentre l’onda
sommergeva un enorme pino e seminava il panico.
“Forza, lo
spiazzo non è lontano!” gridò Sakura
mentre l’ambulanza sbalzava verso il dirupo e veniva
sballottato sulla barella.
E con
un’ultima epica frenata, Naruto raggiunse lo spiazzo,
incastrandosi con una discreta abilità tra due enormi pioppi.
Come per magia,
l’acqua, tormentata e sporca, sfiorò lo spiazzo,
lo accarezzò, con reverenza, e lo adottò come una
nuova spiaggia, una nuova terra, una nuova meta.
Il mare aveva
conquistato altro territorio, un altro pezzo di terra era diventato
lago. Erano su un’isola vagante.
“Gaara!
Gaara!” gridò Temari, spaventata e tremante,
mentre il fratello cominciava ad ansimare affaticato.
“Spostati,
Temari” le intimò velocemente Shikamaru, mentre
faceva stendere Gaara e lo attaccava alla flebo.
“Merda!”
imprecò nuovamente Naruto, pallido e sudato
“Guardate la!”.
Lui e Sakura si
sporsero e riconobbero la periferia della cittadina stravolta e
smembrata, letteralmente mangiata dall’elegante furia marina,
che ora, dopo il violento impatto, si stava fermando per creare una
palude di detriti.
E in mezzo al fango
sbucava una diafana chioma bionda, un’angelica aureola, che
rischiava di essere trascinata nelle fauci del mare.
“È
una ragazza!” esclamò Naruto.
Non necessitavano di
altre parole, Sakura e il suo sole, l’amico che aveva a
malincuore abbandonato per la sua nuova e intensa vita: si gettarono
lungo la scarpata e raggiunsero ben presto la ragazza, svenuta, tenuta
a galla da un ragazzo altrettanto sconvolto e da un paio di stravaganti
salvagenti rosa.
“Resisti!”
urlò Naruto al ragazzo e si gettò
incoscientemente tra le onde sporche e salate.
“Naruto,
torna indietro! La corrente è ancora troppo
forte!” lo avvertì Sakura, ma prima che potesse
sgolarsi a elogiare l’imbecillità del suo migliore
amico vide Naruto allacciarsi delle lunghe crode alla vita. Il giovane
medico strizzò gli occhi, e vide che sbucavano da un piccolo
motoscafo incastrato fra muri sbriciolati, probabilmente trascinato
lì dall’onda.
“Reggi!”
gridò il ragazzo mentre le lanciava le corde alla ragazza a
si avventurava tra i flutti per recuperare i due feriti.
Si sarebbe ricordata
ben poco, Sakura, di quegli infernali minuti in cui il suo fisico
minuto aveva dovuto sopportare il fuoco acido e pungente della fatica e
della paura. Nella sua memoria ferita c’erano soltanto
l’odore salmastro, il sangue e la sua pelle che si strappava
sotto la pressione delle corde, il suolo che le scivolava sotto i
piedi, e infine il sole negli occhi di Naruto, un Naruto trionfante che
portava sulle spalle, con delicatezza materna, i superstiti.
Il cielo, finalmente.
Mai lo scenario di
nuvole e sbuffi color celeste gli era stato caro.
Il mare era un
paradiso, ma la terra, là in fondo, era diventata un
inferno. E Suigetsu pensò, per l’ennesima volta,
che il mare era molto più sicuro del fango e del loro mondo,
del suolo, troppo freddo e grigio. Era solo troppo silenzioso, il mare
rispetto alla terra: talmente silenzioso che la morte ti passava sopra
la testa, mentre si prendeva tutto il tempo per decidere il tuo destino.
Forse il rumore era
piacevole, a volte.
Suigestu si tolse la
maschera e respirò, grato di poter compiere tale gesto.
Ma rimase in silenzio;
lei lo avrebbe riempito.
“Che diavolo
è successo, mollusco?? Il
motoscafo…dov’è?? C’erano
sopra la mia borsa, il mio cellulare…e i miei salvagenti di
Hello Kitty! Bastardo, parla, non fare il pesce, parla, che diavolo
è successo??”
“Karin…ti
ho appena salvato la vita! Se non avessi avuto la splendida idea di
rimanere sott’acqua, saremmo rimasti sulla terra e sommersi
dall’onda!”
“…”
“…”
“Avevo uno
tsunami sopra la testa e tu hai avuto il coraggio di dirmi che si
trattava di una balena?? Altro che tsunami: appena rimetto i piedi
sulla terraferma ti trasformo in un fritto misto!”
“Temari,
lascia che Sakura si occupi di Gaara e aiutami!”
gridò Shikamaru che stava soccorrendo la ragazza bionda.
Sembrava una bambola rotta, quella figura esile e sciupata.
Temari
lasciò, fiduciosa, il fratello tra le mani di Sakura e
strinse con tutte le sue forze un pezzo di stoffa intorno alla gamba
della ragazza, per fermare il sangue, che, copioso, la copriva come un
tragico sudario.
Sudore e polvere non
fermarono le mani della ragazza, avvezza a dolori ben più
profondi e velenosi, ai dolori del cuore. Strinse, strinse il pezzo di
stoffa come a scaricare tutta la rabbia per la sua vita rovinata, per
suo fratello, e per quella fata diafana che aveva lottato contro il
mare.
“L’abbiamo
recuperata!” annunciò trionfante Shikamaru, mentre
controllava l’elettrocardiogramma della ragazza e le teneva
una maschera sul viso per consentirle di respirare e tornare a ridere.
“Bravo! E tu
stai seduto, idiota!L’hai capito che potresti avere di tutto,
da emorragie interne a un trauma cranico?? Devi stare fermo!”
sbottò Naruto, trattenendo Sasuke che seguiva il soccorso di
Ino con la lucidità di un sonnambulo e si muoveva a scatti,
come un marionetta.
“E smettila!
Cos’è, ti sta scoppiando una bomba sotto il
sedere?”
Naruto non aveva mai
avuto grande sensibilità o una grande intuizione,
perciò non calcolò minimante il fremito di
terrore che scivolò nel corpo del sopravvissuto.
L’esplosione
della banca aveva creato un certo scompiglio, principalmente
perché diversi bigliettoni bruciacchiati ma in uno stato
comunque discreto, avevano cominciato a volteggiare sopra
l’acqua dello tsunami, sotto gli occhi desiderosi dei
supersiti.
Quindi Neji fu
l’unico, a vederlo.
A vedere il corpo
sconvolto e graffiato di Kiba riemergere dai flutti proprio grazie
all’esplosione e volteggiare, elegante, fino ai piedi del
loro edificio.
E mentre Ten Ten e Lee
esultavano per la creazione di servizio storico, lui scese come un
angelo dal magazzino e raccolse con delicatezza il giovane,
l’unico che aveva capito e salvato la sua Hinata.
Gli
sembrò di vedere una vetrosa scintilla nell’acqua,
sul quel pavimento instabile, su quel fondo
sterile.
Una scintilla, per un
attimo. E poi più niente.
Il mio oceano in
scatola piange di gioia, mentre la mia vita scivola via.
O mare, l’hai
risparmiato!
Ora posso purificarmi e
stare nel tuo abbraccio fraterno per sempre. Sei unico e perfetto,
forte e misericordioso.
È stato
piacevole, quasi un onore, poter lasciare il mio corpo sul tuo fondo.
Il mio segreto: sotto un tumulo
che non troverete mai.
Erano passati mesi, e
ancora i fiori profumavano di sale. Erano passati istanti per le
vittime dell’onda anomala, eppure i loro sorrisi erano cibo e
calore per la gente che li circondava.
Erano passati pochi
minuti da quando Kiba aveva stretto Hinata tra le sue braccia e
l’aveva sentita sua: una sorella, un’amante, una
salvatrice, una peccatrice, una santa, un’illusa. Ma sua. Non
erano stati minuti, ma lo sembravano.
Sembravano minuti, e
invece erano stati mesi, il tempo che Kiba aveva passato
all’ospedale per riconquistare la sua vita e la forza per
viverla. Ma solo dal punto di vista fisico: la sua sanità
mentale era guarita sotto quei flutti, tra l’abbraccio
dell’onda, negli ultimi istanti in cui aveva potuto stringere
le mani di Hinata. Avrebbe dovuto renderlo pazzo, e invece il
sacrificio della ragazza gli aveva ridato la vita. Lui, che dopo la
morte del padre era sprofondato nel ricordo della sua violenza, aveva
trovato la speranza nel rivedere, per un attimo, l’immagine
di Hinata in televisione, nel servizio dello tsunami presentato da uno
strano giornalista, fermo sostenitore della giovinezza.
Era sfuggita dalla
giustizia e Kiba era fuggito dalla sua disperazione. Era resuscitato,
dopo il calvario e la morte.
Era stato
l’ultimo, a guarire, tra tutti i supersiti che erano stati
catapultati in quel piccolo ospedale lontano dalle città
colpite. I primi erano stati Sakura e Naruto: era bastato raccontare la
loro rocambolesca fuga per purificare i loro ricordi e se mai
l’incubo dello tsunami sarebbe ritornato, si sarebbero
stretti la mano e avrebbero continuato a vivere, insieme. Infatti, dopo
la catastrofe, Sakura si era rifiutata di lasciare di nuovo Naruto, e
sarebbero tornati presto a lavorare insieme in quel piccolo ospedale
disseminato di glicine, dopo la sua restaurazione.
E poi, tutti insieme,
avevano visto Sasuke rifiorire, dopo che Ino aveva riaperto gli occhi
celesti e dopo aver scoperto che Itachi, a causa dei disordini creati
dallo tsunami, era stato rintracciato e arrestato, e che i soldi rubati
erano tornati nelle tasche di famiglia.
Ora poteva guardare
fiducioso il mondo negli occhi di Ino.
L’avevano
vista sbocciare, quella strana coppia che un giorno era salita su una
costosa Ferrari per poi sparire.
Shikamaru era guarito
dalla sua paranoia grazie alla nuova felicità di Temari, che
era esplosa in un giorno miracoloso, il giorno in cui il burbero
Sasuke, per sdebitarsi dal debito di vita che doveva ai suoi salvatori,
le aveva spedito un assegno la cui cifra copriva abbondantemente le
spese delle cure di Gaara.
E lui era tornato alla
vita, come una lucciola nella notte, sorretto dalla sorella e da quel
fenomenale team di medici che lo avevano nuovamente salvato. Ora
sorrideva, e camminava, Gaara.
Neji era guarito con
Kiba, passo dopo passo: salvandolo, il sismologo aveva esorcizzato
quella terribile colpa che non gli aveva consentito di salvare la
cugina. Si erano salvati a vicenda, in quei tumultuosi mesi
all’ospedale che Kiba aveva dovuto affrontare, tra i timidi
sorrisi di Shiho e speranze mai spente.
Gliel’aveva
chiesto tante volte, Neji, se gli sarebbe piaciuto partecipare al suo
nuovo programma televisivo: lui e Shiho sarebbero andati in giro per il
mondo per registrate servizi sui movimenti sismici più
sinistri e a rischio. Seguiti, ovviamente, dall’eccentrico
Lee e dalla telecamera di Ten Ten.
Ma Kiba non aveva
accettato: voleva la stabilità, non altri terremoti.
Non era riuscito a
dirlo, ad Hinata. Non gliel’aveva detto che anche lui aveva
un oceano in scatola, nascosto sotto anni di sofferenza. E ora
l’avrebbe liberato, l’avrebbe donato al mondo,
l’avrebbe messo a disposizione dei bambini che, come lui,
avevano sofferto soffrivano ancora.
Uscì
dall’ospedale un luminoso giorno di fine estate: Kiba era sta
l’ultimo a guarire, ma sarebbe stato il primo a curare il
prossimo, con il suo sorriso.
Sull’orizzonte,
solo il mare.
Spero che siate ancora
vivi dopo la letturaXD^^.
La scuola mi sta
distruggendo ma se riesco a sopravvivere spero di riuscire a scrivere
di più.
La fic è
un’AU, ambientata nei giorni nostri. Si tratta della poesia
della signora Sibley, bella ma ostica, come la storia.
Grazie a Rina per i
complimenti^^Baci!
Grazie per la vostra
attenzione,
LaLa
|
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Capitolo 7 *** Gli Angeli della Città Incompresa(Franklin Jones) ***
Gli Angeli della Città
Incompresa
Solo che
l’uomo ha l’intelligenza d’un angelo
e vede la scure sin
dal primo momento!
1.Serafini
Sua
madre diceva sempre che una città era come un corpo umano. O
viceversa…e chi se lo ricordava?
Temari non aveva tempo per richiamare alla mente gli eventi passati:
lei era uno dei piedi di Suna, assieme agli altri cittadini e, si sa, i
piedi sostengono tutto.
Sabaku no Temari, nove anni, doveva già reggere sulle sue
spalle i fratellini, il caldo afoso del suo villaggio, le proteste di
suo padre su come Konoha fosse diventata una traditrice e meritasse di
venire scagliata tra le fiamme del centro della terra.
Temari non sapeva dove fosse il villaggio della foglia, ma doveva
essere molto, molto lontano. Forse il palloncino che in
quell’afoso giorno di agosto era riuscita ad acchiappare e
che sembrava aver visto chilometri di paesaggi sconosciuti, poteva
averla vista.
Era verde, quel palloncino, ma Temari ancora non lo sapeva.
Non esisteva il verde, nel disgustoso deserto di Suna.
E c’era un tesoro, dentro il palloncino. Un tesoro venuto da
lontano lontano. Forse proprio da Konoha.
O forse da un posto ancora più distante: da dove stava la
mamma.
Shikamaru Nara, sei anni, amava il verde.
Perché era il colore della sua città, e nessuno
si faceva domande su il perché fosse il tuo colore
preferito. L’amore patriottico distrugge ogni dubbio, ogni
domanda.
Perché procurarsi seccature cosmiche evidenziando la
bellezza delle sfumature tra il grigio e il nero o lo splendore del
rosso?
Per questo Shikamaru aveva scelto un palloncino verde smeraldo il
giorno dell’anniversario della fine della grande guerra. Un
palloncino che si sarebbe librato in cielo per portare la pace in un
orizzonte sconosciuto.
Ma mentre gli altri bambini cantavano, stonati, le nenie
degli antenati, Shikamaru ne aveva approfittato per inserire un tesoro,
nel suo palloncino. Non fazzolettini ricamati, non calze, non
caramelle, non poesiole.
Un tesoro, il tesoro del suo cervello troppo sveglio, che, solo per
quella volta avrebbe sopportato una seccatura colossale, pur di
compiere quel gesto.
Sbuffò, Shikamaru, mentre guardava volar via il suo
palloncino, contro il tramonto.
Temari aveva provato di tutto.
A decifrarlo, ad addentarlo, a disegnarci, ad ammorbidirlo, a
colorarlo.
Ma quella strana pedina con su scritto “Re” non
sembrava mutare o provocare qualcosa.
“Aahhh!” gridò, irritata
“è arrivato di sicuro da Konoha, da quella
città traditrice! Può abitare solo a Konoha un
cretino, sbruffone e cervellone che prende in giro gli altri mettendo
oggetti inutili nei palloncini!!”.
Strinse la pedina, Temari, e la tenne con sé per anni, a
ricordarle il suo astio per Konoha. L’aveva illusa,
l’aveva illusa che potesse esistere un posto migliore
dell’inferno di Suna.
Un posto che avrebbe potuto chiamare casa.
2.Cherubini
Un viso d’angelo per pregare.
Un viso da leone per combattere.
Un viso d’aquila per osservare il nemico.
“Per chi preghi?”.
E un viso d’uomo per parlare con gli scarti umani.
Questi erano i volti di un ninja: un ninja non aveva un viso suo,
personale, ma solo maschere.
Temari si strinse le braccia sotto il seno mentre osservava, altera, il
giovane che avrebbe affrontano il giorno dopo, per essere promossa
chuunin.
“Per i miei cari…e anche per te, povero
pivello” rispose sorniona(perché si dava tanta
pena per parlare con uno sconosciuto?) “Dopo
l’incontro di domani avrai proprio bisogno di tutte le mie
preghiere! Non oso pensare a come sarai ridotto!”.
Il ragazzo mormorò qualcosa come “spocchiosa
viziata velenosa seccatura grassa con i capelli per aria”
talmente velocemente che Temari gli concesse la grazia di non capire i
suoi insulti e mantenerlo in vita almeno fino al giorno dopo.
“E chi esaudirà questa tua clemente
preghiera?” chiese il ragazzo, sbadigliando.
“I miei antenati, ovviamente” rispose orgogliosa,
mentre osservava le stelle cucite in un cielo nero “Le stelle
non sono altro che le loro anime, e la loro luce ci dà
speranza e forza”.
“Capisco” borbottò il ragazzo
“La solitudine e la scarsa autostima sono la principale causa
di credenze e superstizioni. Ti consiglio di uscire di più
e…”.
Certo, Temari si trovava in un villaggio straniero e non poteva
attaccare un abitante della foglia, anche se si trattava di un elemento
di cui probabilmente non si sarebbe sentita la mancanza.
Tuttavia non poté frenare il suo istinto vendicativo e, con
il suo fedele kunai, diede una spuntatina alle doppie punte del codino
del ragazzo, che sbiancò all’istante.
Sogghignò, Temari, e per un attimo il suo volto non era
né d’aquila, né di leone, né
tantomeno d’angelo: era il suo viso. Il viso di Temari.
Shikamaru riprese fiato e colore, mentre imprecava contro quella
kunoichi simile a un grasso cactus. Un cactus con un ghigno allegro, un
cactus con un corpo armonioso e morbido. Un cactus che pregava.
Era per questo che si era avvicinato a lei: per vedere quanto fosse
diversa dalle altre donne della sua vita.
E lo era, fin troppo. Una seccatura di troppo. L’ennesima.
Un’epocale seccatura.
Shikamaru alzò lo sguardo sulle stelle e poi lo
abbassò sui suoi capelli mutilati. Forse gli serviva
davvero, l’aiuto degli antenati.
3.Troni
“La politica è come una ruota: gira e si interseca
con le altre. Solo così si può aspirare a far
funzionare tutto il meccanismo” protestò
l’anziano consigliere di Suna.
Dopo la morte del Kazegake, i suoi degni successori erano in netta
disarmonia con la linea politica della città: Kankuro e
Gaara, quel reietto che ora si spacciava per martire, non facevano con
inveire contro le loro decisioni.
“Suna non si può permettere di rifiutare una
richiesta d’aiuto da parte della Foglia”
replicò ferocemente Kankuro “o potrebbe
compromettere ancora di più la sua situazione. Le ruote,
come la chiama lei, devono girare in avanti, per il progresso; le
ricordo che noi abbiamo un debito nei confronti di Konoha!”
“Appunto: voi!” ribatté il consigliere
“è vero, la Foglia ci ha concesso il suo perdono
dopo l’attacco durante gli esami dei chuunin, ma le nostre
risorse sono comunque troppo ridotte per poter dare un contributo
incisivo alla Foglia! Per cosa, poi, per la fuga di un
ragazzino!”.
“Le sue motivazioni sono…”
“Inconcludenti” terminò Gaara, facendo
trasalire tutti i consiglieri per il gelo di quell’uncia
parola: un gelo estraneo al sole di Suna “Inconcludenti,
perché noi non siamo ruote di un meccanismo, ma che girano
libere sul sentiero della loro vita. Infatti, mia sorella è
già partita, senza rendere conto a nessuno”.
I consiglieri e Kankuro, tutti sconvolti dalla notizia, accorsero alle
finestre, ma non riuscirono a vedere la kunoichi del vento che teneva
stretto il suo segreto e correva contro il tramonto radioso.
Una ruota senza carro, libera, pensò Gaara, orgoglioso. E
spinosa quanto quegli strani cespugli che correvano tra le dune alla
disperata ricerca di acqua.
4. Dominazioni
Correva
sulla sabbia, sull’acqua, tra le foglie.
E
intanto mormorava, sperava, Temari.
Ma
soprattutto ricordava.
E
mordeva il suo segreto. Per sentirne ancora una volta il sapore.
Ferrei
giocolieri.
Freddi
amanti.
Ladri
di sorrisi.
Monetine
in un pozzo.
Foglie
morte.
Questo
erano i ninja.
Le
sue prime insegnanti le avevano messo un kunai in mano con lo stesso
affetto con cui una madre porgeva il seno al figlio, con un lieve
carezza disinteressata. Avevano insegnato a lei e alle altre fragili
bimbe dell’accademia che i ninja erano creature benedette,
nate con l’unico scopo di portare onore e pace al loro popolo
affamato e assetato.
Oh,
quale gravosa bugia.
I
ninja potevano anche atteggiarsi a salvatori, a uomini divini e
sorridenti. Ma era solo il primo volto.
Temari
li aveva visti per la prima volta, i ninja, durante l’attacco
a Konoha: prima il sorriso ingannatore, poi la violenza e il sangue,
occhi rossi in menti oscure. E poi solo scarti e resti, e corvi che
beccavano i moribondi.
E
infine morte, solo morte, la morte senza volto.
Lei
era stata condannata: quando era tornata a cercare Kankuro, lui
l’aveva vista. Quegli occhi intelligenti e pigri
l’avevano scovata tra i cespugli: perché proprio
per un fallito piagnucoloso le avrebbe fatto vedere l’ultimo
volto dei ninja, quello che donava la morte?
Aveva
sbuffato, quell’insulso mollusco.
“Forza,
sparisci, prima che ritorni Asuma-sensei: sei una seccatura troppo
seccante per essere sprecata. Sei un pezzo da collezione!”
aveva mormorato con la stessa noncuranza con la quale si era arreso
contro di lei durante l’esame.
Temari
non era mai arrossita in vita sua: non aveva permesso neanche alla
furia del deserto e della sabbia bollente, traditrice e omicida, di
scalfire le sue ruvide guance.
Perché
era crollata davanti a quel cretino??
Shikamaru
sperava che quella seccante ragazza tenesse per sé quel
bruciante segreto, che lo custodisse nel suo cuore gelato e lo
riportasse alla mente solo tra i sogni.
Perché
altrimenti era fottuto.
Perché
altrimenti si sarebbe dimenticata di lui.
E
lui sperava di poterla rivedere, un giorno,
quell’intramontabile seccatrice.
5.Potestà
“Avevi detto che i tuoi antenati ti guardavano dalle
stelle…”
“Ogni defunto può guardare la terra, non solo
quelli di Suna!”
“E secondo te che cosa sta pensando Asuma-sensei?”
Temari avrebbe voluto dirgli che, probabilmente, stava battendo la
testa sulle nuvole, in assenza di muri, per aver contagiato il suo
allievo prediletto con il terribile vizio del fumo.
Ma per una volta, una volta soltanto, si limitò a tossire
infastidita, arricciare il naso e sfoggiare la sua infima e nascosta
sensibilità.
“Sarà molto orgoglioso, no? Hai smosso quel tuo
pigro culone e l’hai finalmente vendicato! Insomma, scommetto
che non si sarebbe mai aspettato tanto da te!”
Ecco, questa era la sua sensibilità.
L’odore acre della sigaretta si fondeva con un vago sentore
di pioggia e l’invitante profumo di incenso. Di crisantemi.
Di lacrime.
Temari poggiò un fiore bianco sulla semplice tomba, assieme
agli altri mille portati dal suo team di allievi e da Kurenai.
Una stella in un mare nero.
“Vendetta…Naruto ha ragione: alla fine non ti
realizza, non cicatrizza, non cura, non ti asciuga le lacrime.
È come un contentino, una pensione, un ricordo grigio.
È un’ennesima malattia. Non vale la pena,
perseguirla” mormorò Shikamaru, aspirando
lentamente dalla sigaretta.
“Lo so, lo so bene” annuì Temari,
pensando a suo fratello, al suo adorato fratello dai tristi occhi
turchesi “Ma l’incontro con quello schizoide
dovrebbe averti dato più fiducia nelle tue
capacità: Asuma aveva ragione, puoi davvero aspirare a un
titolo onorevole nel mondo dei ninja!”
La sigaretta si spense, e morì tra le prime gocce di pioggia.
“Stai scherzando??” esclamò Shikamaru
con voce lamentosa “Un’altra seccatura in
più…ho già faticato troppo per battere
quel pazzo: ora non mi schioderò più dal mio
letto almeno per due settimane!”.
Mentre cercava di difendersi dalle imprecazioni di Temari, Shikamaru
rammentò quello che, nonostante tutto, la vendetta, sadica
maestra, gli aveva insegnato un ultimo monito: oltre la morte
c’era e ci sarebbe sempre stata la vita. La vita che
germogliava fra le braccia di Kurenai. La vita ardente negli occhi di
Temari.
Shikamaru sorrise, tra gli insulti della ragazza: sperò
intensamente che, le prossime volte, non dovesse morire nessuno per
dargli una scusa per rivederla.
6.Virtù
Temari
si raccolse i capelli biondi nei suoi tipici e disordinati codini.
Appena qualche goccia d’acqua per il viso, una ruvida carezza
per gli occhi stanchi. Un tramonto di sangue rischiarava la valle.
Scacciò di nuovo alcune mosche che si affollavano sul viso
di un cadavere.
“È per una vostra incertezza che
quest’uomo è morto? O per eccessiva
indulgenza?” chiese la ragazza, al compagno di una vita.
Shikamaru non staccò i suoi pigri occhi dalla grotta; non
poteva permetterselo. Un mostro con un viso d’angelo vi era
rinchiuso.
Temari si appoggiò lievemente ad una delle spigolose e
pallide rocce da cui erano nascosti: non l’avrebbe mai
capita, questa contagiosa ossessione.
“Lo fai per lui o per Naruto? È Naruto, che vi ha
avvelenato con la sua opaca idea del buonismo assoluto e
del’imminente fine di tutti i dolori? Cosa vi appanna la
mente, Shikamaru, io…non capisco” era quasi rotta
e malinconica, la voce roca della ragazza.
“Non esiste questo mondo, questo paradiso terrestre,
arrenditi” mormorò, fioca.
“Non c’è più speranza, per
Sasuke Uchiha”.
Gli occhi di Temari scorrevano, freddi, sui volti stravolti dei ninja
che avevano inseguito Sasuke, dopo che era sta tradito dal suo antenato
Madara: ormai era sconfitto.
Ino era un fantasma, un pallido riflesso, Choji batteva i denti e
là, più avanti, troppo avanti, una tremante
chioma rosa.
Naruto, una candela tra mozziconi di cera, era sparito nella grotta.
Una conchiglia dal rumore di un mare scarlatto.
Temari chiuse gli occhi: non li avrebbe mai capiti, i ninja, della
Foglia, in quella loro fanatica ossessione.
Non avrebbe mai capito l’amore della sua vita. E forse era
meglio così: era meglio lasciare un rompicapo irrisolto
piuttosto che perdercisi dentro, in un labirinto di nuvole e cuscini.
Shikamaru si godette per lunghi minuti l’espressione
sbigottita di Temari: buffa e tonda come non lo era mai stata.
La strinse, forte, aveva bisogno del suo colore, del suo odore; la
voleva proteggere, come aveva sempre fatto.
L’aveva protetta da sé stessa, dal suo orgoglio,
dalla sua impudenza e ora dalla sua aggressività, dalla sua
noncuranza, dalla sua violenza.
Sorrise di nuovo: Naruto era come resuscitato, dopo essere uscito dalla
grotta. Aveva concesso a Sasuke la libertà, il perdono:
l’Uchiha non sarebbe più tornato a Konoha, ma il
giovane neo-hokage aveva realizzato un nuovo miracolo. Una nuova alba,
per il mondo dei ninja.
Era un lampo di vita, un fulmine di speranza.
E mentre tutti si affollavano sul Naruto, il loro nuovo sole, Shikamaru
ne approfittò per rubare un bacio alla sua scioccata Temari.
7.Principati
A Shikamaru non importavano le decisioni dei consigli o i dilemmi
politici: li lasciava al loro indaffarato Sesto Hogake. E non gli
importavano seccature e scartoffie varie, granelli di sabbia o nuvole,
fiori o lampi. Non gli importavano gli improperi della madre e i moduli
da compilare, né gli odori della sua terra.
Vedeva soltanto il sorriso degli amici, tramonti scintillanti e
fratelli gelosi. Gli importava di Temari, la sua salvatrice, la
seccatura con cui voleva passare il resto dei suoi giorni. Gli
importava solo del loro amore che avrebbero visto sbocciare nel
deserto, tra sabbia e cielo.
Gli importava del loro sereno, pacifico e calmo matrimonio, senza
intoppi o seccature.
“Allora Shikamaru…il colore dei tovaglioli per il
buffet lo vuoi panna o crema?”.
Mai smettere di sperare, almeno
8.Arcangeli
“Non te lo consiglio, Shikamaru”
“Allora è un sì?”
“Non l’ho detto!”
“Seccatura, sei snervante! Lo guardo o no, questo
test?”
“Forse dovrei dirtelo a voce…”
“Forse…
“O forse no…”
“O forse no…”
“Shikamaru, non mi aiuti!”
“A me aiuterebbe sapere se tra nove mesi ci sarà
un’altra piccola testa d’ananas oppure
no!”
“Sverrai, lo so…”
“Allora è un sì??Sei già
stata a fare gli esami, lo sai di certo!!”
“E va bene, guardalo!”
“Allora lo guardo!”.
Ma il vero shock fu sapere che entro nove mesi ci sarebbero state due
teste d’ananas in più.
9.Angeli
U n
ultimo pensiero affiorò nella mente stanca di Temari, che si
accarezzava l’enorme pancia, mentre la sua dolcissima
metà usciva imprecando alla disperata ricerca di un
cocomero.
Lei era una città dispersiva e caotica, piena di affanni
politici e carestie, di povertà e inganni. Era un
città fantasma, una città incompresa. E Shikamaru
era stato il suo angelo, che era sceso sempre più in fondo,
sempre più a terra, tra la polvere, pur di guidarla e
guarirla.
Era un angelo, alla fine, il suo Shikamaru.
Un angelo che aveva rinunciato alle nuovle e alle sue ali, e, solo per
lei, era diventato
10.Uomo
L’ho finita adessoXD
Ah, si potrà notare che il primo capitolo era scritto
proprio per lo ShikaTema day dell’anno scorso. Si
potrà notare la mia velocità
nell’aggiornareXD
Ecco le note riferite alle gerarchie angeliche, su cui si basa ogni
capitolo:
Serafini:
continuamente cantano le sue preghiere: «Santo, santo, santo
è il Signore degli eserciti! Tutta la terra è
piena della sua gloria!». Molti cristiani credono che il
Diavolo sia un angelo decaduto nell’inferno e che una volta
fosse nei Cieli un Serafino.
Cherubini:
Hanno quattro ali e quattro facce, ovvero una umana, una di cherubino,
una di leone ed infine una di aquila. Si crede che, anche se sono stati
rimossi dal piano reale e materiale degli uomini, la luce divina che
essi filtrano giù dal cielo possa ancora toccare le vite
umane.
Troni:
Inoltre, sono descritti come ruote intersecate ad altre ruote, delle
quali una si muove avanti e indietro, e l'altra si muove da un lato
all'altro.
Dominazioni:
Essi compongono l'esercito dell'Apocalisse e da loro dipende l'ordine
universale e la disciplina ferrea alla quale gli angeli si rivolgono
per mantenerlo. (riferimento ai quattro cavalieri
dell’Apocalisse).
Potestà: Gli angeli della nascita e della morte sono
Potestà.
Virtù:
loro forma è simile a lampi di luce che ispirano
nell'umanità molte cose come l'Arte o la Scienza.
Principati:
Sono gli angeli guardiani delle nazioni e delle contee, e tutto quello
che concerne i loro problemi e eventi, inclusa la politica, i problemi
militari, il commercio e lo scambio.
Arcangeli:
questi angeli tendono ad essere i più grandi consiglieri e
amministratori inviati dal Cielo.
Angeli: sono
i più familiari agli uomini, poiché
sovraintendono a tutte le loro occupazioni.
Piccolo pezzo per Franklin Jones.
Aiuto che stanchezzaXD
Grazie per la vostra
attenzione,
LaLa
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