Oltre il braccio di Orione

di Raptor Pardus
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Uno ***
Capitolo 2: *** Due ***
Capitolo 3: *** Tre ***
Capitolo 4: *** Quattro ***
Capitolo 5: *** Cinque ***
Capitolo 6: *** Sei ***
Capitolo 7: *** Sette ***
Capitolo 8: *** Otto ***
Capitolo 9: *** Nove ***
Capitolo 10: *** Dieci ***



Capitolo 1
*** Uno ***


Oltre il braccio di Orione

 
L’ampio e candido corridoio del Palazzo della Libertà era vuoto e silenzioso, per nulla invaso dal frastuono proveniente dalle strade intorno, invase dalle fanfare che attraversavano il quartiere governativo della metropoli in festa.
L’Autarca Arseius osservava i gonfaloni di seta rossa e nera appesi ai muri lungo tutto il corridoio, in due infinite file, leggermente sospinti dalla brezza che si insinuava nel dedalo di stanze attraverso i balconi che ornavano la facciata principale del palazzo, troppo distanti perché lui li potesse vedere.
<< Bello stemma, vero? >> chiese il console Vessimer, avvicinandosi con calma alle spalle del capo di Stato. << Sono rimasto sveglio tre notti per giungere al bozzetto finale. >>
Arseius fissò il vessillo più vicino a lui, scrutando con occhio critico e poco convinto il grifone rampante rosso rubino che torreggiava sopra tre rose a trentadue punte, rosse anch’esse, allineate diagonalmente, da cui poi si allontanavano altre cinque rose, posizionate quasi a formare una clessidra in cui la bestia alata si ritrovava rinchiusa, urlando contro lo sfondo nero che la circondava, incapace di liberarsi.
L’immagine, che avrebbe dovuto rappresentare la loro nuova nazione su ogni pianeta liberato dal giogo della Federazione, gli scatenava in realtà più dubbi di quanto il suo collega e amico avrebbe voluto ma, proprio in nome della loro amicizia, preferì ingoiare il rospo e tacere piuttosto che smontare le convinzioni dell’uomo alle sue spalle.
<< Non è male. >> concluse infine dopo lungo indugiare, e si voltò verso la fine del corridoio, dove la folla lo attendeva << Come procede la campagna nel sistema Coriolis? >>
Si incamminò verso quello che lui affettuosamente chiamava “il patibolo”, seguito immediatamente dal console, che si pose al suo fianco ed estrasse un sorriso orribilmente finto.
<< Gli ultimi rapporti sono buoni, la Federazione batte in ritirata e lascia indietro molto materiale bellico. Vedo già la fine della guerra, non più di due anni, fidati. >> rispose con tono mieloso il console.
<< Vorrei fidarmi, Vessimer, ma il nostro ruolo lo impedisce. Procedi con i piedi di piombo, non possiamo permetterci errore. >> rispose l’Autarca, fissando il viscido compagno con la coda dell’occhio.
<< Tranquillo, la Terra deve ancora riprendersi dalla Piaga, e noi siamo imbattuti da Betelgeuse. >>
<< C’è sempre una prima volta, amico mio. Spera che sia ancora lontana. >> concluse cinico Arseius, facendo immediatamente sparire il sorriso dal volto del militare. << Ah, che infausto giorno quello in cui l’umanità torna a combattere con sé stessa. Sai quando è stata l’ultima guerra tra uomini? >>
<< No. >> rispose cupo Vessimer.
<< Oltre mille anni fa, prima ancora che la Terra iniziasse a colonizzare i pianeti al di fuori del sistema solare. Quanto grande è il fardello di cui ci siamo fatti carico… >>
Arrivarono davanti ad un bivio, al centro del quale era posta una grande porta in rovere sintetico; voltarono l’angolo e giunsero fino al termine del corridoio, che si allargava in un’ampia sala candida, piena di sfarzi, dorature e pesanti arazzi su cui erano narrate le grandi gesta della Grande Rivoluzione degli uomini extrasolari.
Sulla parete davanti a loro, sotto l’attenta guardia di due soldati rigidi sull’attenti, completamente avvolti nella loro lunga uniforme nera, si apriva una marmorea balconata, da cui provenivano i rumori della folla urlante, di uomini in marcia, di fuochi d’artificio e le feroci strofe del nuovo inno dell’Autarchia di Orionis, la nuova pedina sullo scacchiere galattico, che in pochi mesi era passata dall’essere la scintilla di una rivolta, nata in seno al Nucleo Interno Federale, a nuova potenza dominante e guida della razza umana.
Arseius poggiò le nocche sulla fredda balaustra in pietra e guardò in basso, scrutando con sommo piacere le truppe in parata che marciavano nella larga strada a venti corsie che girava tutt’intorno al palazzo e tagliava in due la città, colonne di fanti in perfetta sincronia, tutti con lo sguardo inchiodato sulla sua persona, i volti nascosti dalle maschere antigas e dai visori a infrarossi, i corpi perfettamente allenati gravati dal peso dell’attrezzatura militare e del gibernaggio.
Vessimer attendeva nell’ombra, nascosto dietro una tenda, gli occhi pieni di invidia fissi sull’Autarca, intento a passare in rassegna gli squadroni di carri armati levitanti che stavano passando sotto di lui in quel momento, ruotando le torrette corazzate e alzando i loro cannoni verso il balcone.
<< Vieni avanti, Vessimer. Non penso la folla ti divorerà. >> disse Arseius senza distogliere lo sguardo dalla parata, troppo concentrato sul salutare i suoi cittadini.
Vessimer fece un passo avanti, rivelando la sua pelle pallida alla luce della gigante rossa che dominava il cielo attraversato dai droni-telecamera dei mass media e da caccia lanciati in spericolate acrobazie.
<< È il momento, non trovi? >> chiese Arseius, sorridendo malinconico.
<< Penso di sì, mio Autarca. >>
Arseius allargò le braccia, lasciando che la folla si lanciasse in un’assordante ovazione, e sorridendo, in diretta interplanetaria, proclamò l’indipendenza dell’Autarchia di Orionis, mentre nella Federazione Terrestre ancora impazzava la Guerra Civile Galattica.
 
<< È inammissibile! Il Senato non può assistere passivamente ad un tale atto di sedizione! >> sbraitò il senatore Doralis davanti alla platea senatoriale, il pugno alto sopra la testa in un aperto segno di sfida nei confronti del Cancelliere Beotium, un anziano uomo ormai affaticato dai suoi doveri di capo di Stato e prossimo allo sfinimento, soverchiato dalle responsabilità e dai travagli che avevano afflitto per ormai un decennio il suo governo.
Doralis era al contrario un uomo giovane – per quanto possa essere giovane un senatore della Federazione – e pronto all’azione, di comprovata lealtà, come aveva dimostrato sui campi di battaglia della Grande Guerra Galattica, arguto e dalla fredda logica calcolatrice, sicuro del sostegno di molti dei presenti in sala, perfettamente in grado di ambire alla carica di Cancelliere della Federazione.
Il generale Gregorius lo fissò dalla loggia per gli ospiti che correva lungo tutta la sommità dell’enorme anello che componeva il palazzo del Senato, facendolo sembrare una versione molto più grande e moderna del Colosseo che ancora si ergeva su quello stesso continente.
<< Pensi che con lui al comando la situazione si risolverà? >> chiese uno scarno e baffuto colonnello seduto accanto a lui.
<< Non lo so, Drusus, ma tanto peggio di così non può andare. >> Gregorius si massaggiò la fronte e si spazzolò i cortissimi capelli neri, tagliati secondo l’etichetta militare. << La Piaga ha lasciato la nostra economia e il nostro esercito a pezzi, nessuno ha più fiducia nel governo centrale e la lealtà di interi sistemi diventa sempre difficile da trovare. >>
<< La leva potrebbe risolvere la carenza di reclute. >> suggerì il colonnello.
<< Ma ci inimicherà ancora di più la popolazione, salda sulle sue posizioni pacifiste. Siamo di fronte a un bivio, ed entrambe le strade portano verso il patibolo: se non rinforziamo l’esercito, i sistemi centrali saranno travolti dall’ondata rivoluzionaria e perderemo la guerra in meno di sei mesi, se rinforziamo l’esercito invece perderemmo il supporto popolare e non ci vorrà molto prima che i sistemi periferici si uniscano alla ribellione. Siamo condannati. >> osservò Gregorius fissando sconsolato il colonnello.
<< Le guerre civili non sono mai facili. >> disse Drusus.
<< Tu nei hai mai combattuta una? >> chiese con acido sarcasmo il generale.
<< No. Ho combattuto due guerre, però, penso siano abbastanza simili. >> rispose apaticamente il colonnello.
Il generale si zittì e tornò a seguire l’arringa del politico reazionario.
<< Come va la gamba? >> chiese dopo poco. << Fa ancora male? >>
<< No, ma il tessuto sintetico è una vera seccatura, necessita continuamente di essere idratato. >>
<< Perché non la fai controllare? Il ministero dovrebbe ancora coprire le spese di manutenzione. >>
<< No, grazie, non ci tengo a tornare sotto i ferri per un aggiornamento dalla dubbia utilità. >>
<< Pensaci bene. >>
<< Cos’è, vuoi di nuovo spedirmi al fronte? >>
<< Effettivamente, ho ricevuto l’ordine di muovere tre divisioni nell’Orlo Esterno, per rinforzare lo spazioporto di Palladium prima che cada in mani nemiche, pensavo di inviare anche il tuo reggimento. >>
<< Sarei onorato, generale. >>
<< Bene allora, prepara i tuoi uomini, hai dieci giorni. >>
<< Sarà fatto, signore. >>
Il colonnello abbandonò il loggiato, ritirandosi negli ombrosi corridoi interni.
Gregorius fissò il Cancelliere, visibilmente abbattuto, mentre veniva costretto ad assistere ad un’altra arringa, stavolta da parte del Senatore Irrakhis, un marziano brizzolato e dalla pelle cotta dal sole.
Tutta quella vicenda aveva dell’incredibile: prima l’aggressione Khorsiana e la Grande Guerra, poi a nemmeno un anno dall’armistizio la Piaga, un’invasione aliena dalle origini ancora poco chiare, che era cresciuta rapidamente come un cancro insinuandosi tra le Frange Orientale e Occidentale, spaccando in due la galassia per oltre tre anni, e mentre diversi sistemi erano ancora costretti alla quarantena e alla legge marziale in attesa che la loro disinfestazione si concludesse, questo.
Le prime agitazioni popolari erano state sottovalutate, affermando fosse colpa del duro periodo, ma quando le proteste erano cresciute e le richieste di maggior supporto da parte dei governatori locali erano state dibattute in Senato era ormai troppo tardi, e i ribelli, fatte affluire grandi quantità di uomini, mezzi e armi nel sistema di Alpha Orionis, avevano iniziato una vera e propria operazione militare, riuscendo in poco tempo a prendere il controllo dell’intero sistema e a trasformarlo in una fortezza inespugnabile, da cui poi avevano iniziato a muoversi in tutto il settore, accolti su molti pianeti come liberatori.
Come una tale manovra fosse passata inosservata era ancora motivo di indagine, ed i vertici militari sulla Terra avevano concluso quasi con invidia che l’operazione era stata ineccepibile sotto ogni aspetto, avrebbero osato dire perfetta, se questo non fosse significato giocarsi il posto di lavoro.
Era improbabile che i ribelli avessero agito da soli, ma nessuno aveva ancora avuto il coraggio di mettersi a scavare nella pozza di segreti e intrighi nascosta all’interno del Senato, perché era ovvio che, per qualcosa del genere, l’aiuto doveva essere arrivato da qualcuno molto in alto.
Gregorius si alzò e si stiracchiò, ascoltando con delizia lo schiocco delle ossa indolenzite intente a rimettersi in sesto.
Se non risolvevano velocemente la questione nell’Orlo esterno, presto tutta la Frangia Orientale sarebbe stata contro di loro, minacciandoli costantemente a pochi passi dalla loro porta di casa.
 
Il sergente Maester fissava le stelle attraverso l’unico oblò della sua cuccetta, che lui divideva con l’equipaggio del suo carro, e si domandava quando sarebbe tornato a casa, se fosse tornato a casa.
Maester non veniva dalla Terra, né da un qualsiasi altro pianeta del sistema solare, bensì era originario di un piccolo mondo polveroso nascosto tra le Pleiadi, proprio davanti alle porte dell’inferno, dove tutto era cominciato.
La campagna per quell’ammasso di stelle era durata abbastanza poco, e la Federazione ovviamente ne era uscita sconfitta e con la coda tra le gambe.
Maester non vedeva la sua famiglia da quasi un anno ormai, quando la divisione corazzata di cui faceva parte era stata inviata su un lontano pianeta nel braccio del Sagittario, al confine con l’Unione, per disinfestare il corpo celeste ormai prossimo a capitolare.
Prima che potesse tornare a casa Alpha Orionis era improvvisamente indipendente e le Pleiadi erano state invase.
Da allora nessuna notizia di sua moglie, dei suoi tre figli, dei suoi genitori, di suo fratello…
Chissà che fine avevano fatto i suoi amici rimasti là, chissà che fine aveva fatto quella compagna di scuola che non vedeva da una vita, chissà cosa era successo alla tavola calda dove aveva lavorato da ragazzo.
Probabilmente di loro non rimaneva che cenere, portata via dal vento in mezzo alle macerie fumanti dove avevano trovato la morte.
Ma lui poteva solo immaginarlo.
Pochi erano riusciti a fuggire dalla zona di guerra, colpa anche il fatto che i possessori di astronavi personali erano poche centinaia di persone a fronte di una popolazione di migliaia di miliardi.
Una sirena risuonò per tutto il ponte dell’astronave porta-truppe su cui si trovava, segnalando che presto sarebbero iniziate le operazioni di sbarco.
Guardò in basso, osservando la superficie scura del pianeta sul quale stavano per atterrare, così inospitale, così malsano.
Ispirava altamente il desiderio di non essere lì semplicemente guardandolo, colpa anche le vistose tempeste d fulmini che si scatenavano repentinamente qua e là nell’alta atmosfera.
Gli uomini si radunarono rapidi nelle rispettive baie di imbarco, dove furono assegnati ai loro mezzi.
Maester attraversò tutto il vasto hangar predisposto per i mezzi corazzati e camminò davanti a file e file di carri armati perfettamente disposti, temibili nel loro torreggiante aspetto, con corazze spesse fin quasi a 30 centimetri in acciaio, ceramiche e leghe di cui persino a lui sfuggiva il nome, tutti freschi di verniciatura con la nuova mimetica a toni di grigio, fino a giungere davanti al suo mezzo, dove gli altri due uomini del suo equipaggio lo attendevano, già pronti a infilarsi dentro gli angusti spazi del veicolo.
<< Sergente. >> salutarono gli uomini portando una mano alla tempia.
<< Riposo. >> disse Maester issandosi sulla torretta del mezzo ed estraendo dalla botola di accesso della sua postazione il suo casco integrale. << Siete freschi, ragazzi? >>
<< Ho la nausea da quando mi sono alzato dalla cuccetta, sergente. >> sbottò il pilota, visibilmente infastidito.
<< Prendi una pasticca, vedi che passa. >> rispose Maester scivolando con grazia all’interno della botola.
<< No, signore, preferisco rimanere lucido. >>
<< Non posso darti torto. Forza, controllo operatività. >> concluse il sergente chiudendo la botola sopra di sé.
Dopo venti minuti i carri vennero sollevati, pochi per volta, da un apposito argano che li infilò nei rispettivi VTOL, dove già i piloti attendevano la luce verde per decollare.
Attesero finché l’emisfero sopra il quale volavano non fu completamente avvolto dall’oscurità della notte e, sotto lo sguardo di una piccola luna sanguigna al primo quarto, iniziarono l’invasione, annunciata da un pesante bombardamento orbitale durato giorni.
Non appena abbandonarono i ganci magnetici a cui erano agganciati Maester scese dall’angusto carro e raggiunse i piloti nel loro spazioso abitacolo, da dove poteva osservare l’orizzonte, oltre il quale spariva ogni luce, farsi sempre più grande.
Quando il loro VTOL entrò nell’atmosfera, Maester poté osservare lo scuro cielo notturno saturo di gas di scarico, come era sempre in ogni sbarco Federale.
Una squadriglia di cacciabombardieri planò davanti a loro, scendendo carica di bombe intelligenti contro il suo poco inerme bersaglio.
<< Sembra più facile del previsto. >> sussurrò Maester osservando le luminose scie dei traccianti sparati contro di loro dalle mitragliere antiaeree.
Qua e là il cielo si illuminava a giorno, rischiarato dalle abbaglianti esplosioni dei razzi lanciati alla cieca contro l’ondata in arrivo, mentre tutt’intorno il buio li proteggeva, costringendoli però a fare completo affidamento solo sulla loro strumentazione, incapaci di vedere con chiarezza dove stessero volando.
<< Ci sono disturbi. >> osservò il copilota, indicando quello che Maester intuì essere un altimetro impazzito.
<< Possiamo stare tranquilli? >> chiese, sperando in una risposta positiva.
<< Sì, cercano solo di farci accendere i proiettori per individuarci. >> lo rassicurò il pilota, fin troppo sicuro di sé, per i suoi gusti.
Davanti a loro apparve una muraglia brumosa, che attraversarono rapidi e silenziosi, trascinando con loro i lembi strappati della coltre di nubi.
Il vetro dell’abitacolo iniziò a ricoprirsi di pioggia, gocce di acqua larghe almeno un pollice che impattavano contro la superficie trasparente esplodendo.
Un tuonò rombò sopra di loro, illuminando spettralmente le schiere di velivoli in rapida discesa.
<< Prepararsi allo sbarco. >> comunicò il pilota.
Il fuoco della contraerea si fece poco a poco più accurato, iniziando a mietere le prime vittime.
<< Cambio di rotta, stiamo incontrando troppa resistenza. >> disse il pilota al suo collega mentre Maester abbandonava l’abitacolo e tornava a bordo del suo mezzo.
Rabuleius, il pilota del carro, sonnecchiava all’interno della sua postazione, ignaro dell’inferno che lentamente andava scatenandosi all’esterno di quelle pareti d’acciaio.
Hakritus, l’artigliere, stringeva una foto tra le mani tremanti, il volto chino su di essa.
Maester picchiò col pugno lo scafo del carro, richiamando l’attenzione del suo equipaggio.
Rabuleius sobbalzò e si raddrizzò.
<< È ora? >> chiese.
<< Sì. >> disse Maester infilandosi nuovamente nella sua botola e facendo calare il visore dell’elmo sul suo volto, lasciando che la sua testa fosse avvolta dal complesso sistema protettivo.
Si calò nel piccolo antro e chiuse la botola sopra di sé, immergendosi nella luce pallida che illuminava il claustrofobico vano.
Sentì il mezzo inclinarsi paurosamente, trascinato dalle manovre del VTOL, messo in difficoltà dal fuoco in arrivo.
Sotto di loro sentiva il vuoto, mentre il velivolo si abbassava e riprendeva quota a più riprese in maniera repentina.
La luce divenne verde, e con piacere udì il suono rombante del vano di carico del trasporto che si apriva in due, rivelando la morsa magnetica a cui loro erano agganciati, calandola rapida sul soffice terreno sotto di loro e sganciando il carro sul suolo.
<< Andiamo, ragazzi! Si balla! >> urlò Maester nel microfono del casco, attaccandosi immediatamente all’iposcopio davanti a lui.
Fuori dal carro pioveva a dirotto, e sul terreno molle andava raccogliendosi una lieve foschia che nascondeva i dettagli dell’ambiente introno a loro.
Ogni tanto qualche lampo lontano rischiarava l’orizzonte, segnalando i combattimenti che stavano avvenendo a grande distanza da loro.
<< Ricongiungiamoci al nostro plotone, Rabu, sterza a destra. Hakritus, gira a sinistra di centoventi gradi, alzo di quindici, due colpi al fosforo in rapida sequenza, ora. >>
La torretta ruotò rapida, puntando il cannone da 120 mm, e sparò il primo colpo, vibrando violentemente sotto il rinculo dell’arma.
Una scia bianca attraversò il suo visore, seguita a breve distanza da una seconda annunciata dal boato del cannone, e scomparve dietro l’orizzonte, alzando una colonna di fumo bianco e una pioggia di scintille.
Per qualche secondo la notte divenne giorno, e il rumore di spari aumentò di intensità via via che le scintille cadevano lente e leggere al suolo.
<< Rabu, sterza a destra, dieci gradi, motori a media potenza. Avviciniamoci con calma. >>
I suoi uomini eseguivano i comandi in silenzio, senza osare fiatare nel microfono dei loro elmetti.
<< Hakritus, un colpo HEAT, attendi il mio segnale. >>
In mezzo alla bruma iniziò a delinearsi una sagoma scura, bassa e schiacciata.
Maester controllò il telemetro laser; segnava duemila metri.
<< Hakri, carro nemico davanti a noi, sulla destra, lo vedi? >>
<< Sì, sergente. >> gracchiò la voce dell’artigliere nella cuffia.
<< Ingaggio a millecinque. >>
<< Sì, sergente. >>
Il carro avanzò, solitario, girando intorno al nemico immobile.
<< Aspetta. >> ordinò Maester, avendo ora messo maggiormente a fuoco il bersaglio.
Era un semovente di artiglieria distrutto, la canna contorta e piegata in più punti, la torre verniciata di nero ulteriormente annerita dalle vampate dell’incendio che doveva essere scoppiato all’interno del mezzo.
<< Annullare. Rabu, di nuovo a sinistra, cerchiamo gli altri. >>
<< Nessun segno del nemico? >> chiese Hakritus, il viso incollato al poggiatesta da cui poteva prendere la mira per il cannone.
<< No. >> rispose Maester. << Né radar né visore termico segnalano niente. >>
Il carro girò sul posto e proseguì la sua marcia sotto la pioggia battente, mentre intorno a lui iniziavano a radunarsi diversi reparti di fanteria e i colpi lontani andavano via via scemando.
<< Ma dove sono tutti? >> si chiese Maester tra sé e sé, interrogando vanamente la radio.
Ogni tanto sparavano ancora un proiettile al fosforo per illuminare l’orizzonte, ma ancora non vedevano il nemico.
In poco tempo raggiunsero gli altri carri e fu presto approntato un primo perimetro per la testa di ponte appena sbarcata, ma quella notte non fu incontrato nessun nemico.

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Capitolo 2
*** Due ***


<< Le truppe sono sbarcate su Palladium, signore, ma hanno incontrato resistenza. >>
Il sottotenente fissò impaurito il generale Gregorius, intento a massaggiarsi con vemenza le tempie, visibilmente irritato dalla situazione.
<< Almeno sono a terra. Quanti morti? >> chiese, continuando a massaggiarsi le tempie.
<< Dodici trasporti pesanti abbattuti, signore, due carri distrutti, cinquecentosessantuno morti. >> rispose il sottotenente mordendosi un labbro.
Gregorius sospirò, stanco.
<< Puoi andare. >> disse infine, accennando con la mano alla porta.
Il sottotenente non se lo fece ripetere.
Gregorius si accasciò sulla sua poltrona, inspirando profondamente.
Non riusciva a credere ai suoi rapporti, per quanto trovava assurda la situazione.
Mentre le truppe da lui inviate erano ancora in viaggio a velocità iperluce per raggiungere Palladium, il sistema era stato occupato da forze ribelli, che erano riuscite ad aggirare lo schermo creato dalle fortezze orbitali e avevano conquistato la superficie senza quasi colpo ferire.
La battaglia che si preannunciava sarebbe stata lunga ed estenuante, ma quel sistema andava riconquistato ad ogni costo.
Senza lo spazioporto di Palladium, le navi Federali erano incapaci di raggiungere la Frangia Orientale, e sistemi vitali come quello di Castrum Perseus rimanevano isolati, alla totale mercé del nemico e del loro poco amichevole vicino, l’Impero.
E mentre già inviava rinforzi nel settore, completi di unità navali e del genio, il Senato aveva votato la sfiducia nei confronti del Cancelliere Beotium, nominando in via del tutto speciale il senatore Cassandor quale nuovo Cancelliere della Federazione, il quale non aveva perso tempo a istituire la legge marziale e ad approvare la reintroduzione della leva di massa, ormai abolita da oltre un millennio, e  altre manovre politiche volte a favorire l’industria che alimentava la macchina bellica, mentre intanto l’opinione pubblica si domandava se fosse eticamente corretto usare certe armi convenzionali contro altri esseri umani.
Ipocriti: finché davano fuoco a qualche alieno nessuno si lamentava, nonostante anche i Khorsiani fossero esseri senzienti e dotati di parola.
Anche se nell’immediato l’introduzione di tali riforme significava dare maggiori risorse alle forze armate, lo stato maggiore già prevedeva un aumento del dissenso pubblico, e diversi statisti aveva ipotizzato la secessione di almeno una decina di sistemi diversi.
C’era solo da scommettere su quale topo avrebbe abbandonato prima la barca ormai in procinto di affondare.
 
L’Autarca si accese un sigaro e si sistemò nella sua poltrona foderata di velluto rosso, fissando con malizioso piacere il piano in vetro davanti a lui, su cui era proiettata una perfetta riproduzione olografica della Galassia, con le varie fazioni segnate ognuna con un colore diverso, e con diversi simboli gettati qua e là per rappresentare le forze di stanza su uno specifico pianeta, o le battaglie in corso.
La macchia rosso rubino che rappresentava la loro giovane nazione pulsava, viva, e si espandeva lentamente, chiudendosi ad anello intorno alla Frangia Orientale.
<< Palladium è presa, l’Orlo Esterno è ormai nostro, e la Terra è ancora sotto costante minaccia grazie ai nostri avamposti nel Nucleo. >> disse Vessimer, indicando con l’indice sottile varie zone all’interno della mappa. << Ora siamo perfettamente in grado di commerciare apertamente con l’Impero, e… >>
<< L’Impero non lo farà, o si attirerà addosso le ire dell’Unione, cosa che non è negli interessi di nessuno. >> lo interruppe Arseius, rinfoderando l’accendino. << A proposito, vuoi un sigaro? Fatti nella mia piantagione personale, non sai che fatica procurarsi una vera pianta di tabacco dalla Terra. >>
<< Pensavo non lo coltivassero più. >> disse Vessimer, rifiutando con un gesto della mano l’offerta.
<< Hanno poche, minuscole coltivazioni. È un mercato ormai di nicchia, e se lo fanno pagare quanto l’oro. >> rispose Arseius, controllando l’ora sul suo orologio da taschino digitale. << Voglio presentarti una persona, Vessimer, un valido elemento all’interno della nostra astromarina, dovrebbe essere qui a momenti. Ah, un’accortezza, non parlare dell’Impero. >> disse, togliendosi il sigaro dalla bocca.
<< Perché? >> chiese Vessimer incuriosito.
<< DPTS. >>
<< Eh? >>
Il portone della sala si spalancò verso l’interno, annunciando l’arrivo dell’ospite tanto atteso e ponendo fine al loro dialogo.
Un soldato entrò, riferendo l’ingresso dell’ammiraglio Seraphus.
L’uomo che fece il suo ingresso subito dopo era alto e magro, il viso pallido, scarno e scavato dalle cicatrici di chissà quale malattia, segnato da un vistoso sfregio che solcava tutta la palpebra destra, gli occhi vibranti e in perenne ricerca di qualche minaccia, le pupille ridotte a due minuscole fessure.
I corti capelli castani erano ormai brizzolati, prematuramente segnati dallo stress, così come il pizzetto finemente sagomato che ornava il suo mento affilato.
<< Autarca Arseius, Ammiraglio Vritanius Seraphus Nebriter, per servirvi, signore. >> disse, facendo il saluto militare.
<< Riposo, ammiraglio. Prego, sedetevi. >> rispose Arseius, indicando una delle tante poltrone disposte intorno al tavolino. << Voglio presentarvi un mio fidato collaboratore, il console Vessimer, comandante dell’8a Armata, eroe di Betelgeuse e consigliere di palazzo. A proposito, desidera bere? >>
<< Ah, no, grazie. >> disse Seraphus stringendo la mano del generale e sedendosi. << Sono astemio. >>
<< Allora, come mai siamo qui? >> chiese Vessimer, intento a riempirsi, vicino ad un altro tavolino, un bicchiere di un liquore giallo cristallino dal nauseante odore.
<< Sapete entrambi che le nostre forze hanno occupato Palladium, punto nevralgico per il controllo della Frangia Orientale. >> rispose Arseius mentre il console prendeva posto. << La Federazione aveva già inviato uomini nel settore, ma non è riuscita ad anticipare la nostra mossa. Ora è fondamentale respingere lo sbarco che i Federali stanno organizzando in questo preciso momento, e mantenere il controllo di quel sistema, a ogni costo. >>
Seraphus strinse il pugno guantato, reprimendo qualsiasi possibile reazione.
<< Ho intenzione di inviare voi due al comando di truppe di rinforzo, vi reputo entrambi adatti a una tale missione. >> proseguì il capo di Stato.
<< Posso farvi una domanda, Autarca? >> chiese Seraphus.
<< Certo. >>
<< Quando ha intenzione di intavolare trattative per la pace? >>
<< Sicuramente non ora, navarca. >> rispose Arseius sorridendo sornione.
<< Se posso permettermi, non credo che gli uomini che si sono uniti a lei sotto questa nuova bandiera l’abbiano fatto per continuare a combattere. L’umanità è stanca della guerra, le conviene non tirare troppo la corda, o rischia che i domini degli uomini si frammentino. >> continuò Seraphus, sorvolando sul non essere stato chiamato col suo grado.
Vessimer lo fissò in tralice, gli occhi scuri e circondati da borse ridotti a due fessure.
<< Tratteremo con i Terrestri quando sarà il momento opportuno per farlo, non temete, tirerò questa corda quanto basta. >> concluse glaciale Arseius, per nulla toccato dall’insolenza del militare.
Vessimer bevve un sorso e si sacrificò per cambiare discorso.
<< Come si è trovato nella Federazione, ammiraglio? So che è un eroe di guerra. >> disse, cercando di mostrarsi vago ma interessato al passato dell’uomo.
<< Non sono un eroe. >> rispose Seraphus abbassando lo sguardo. << Non c’è eroismo nel salvarsi da una nave in fiamme. >>
<< Oh, penso proprio che sia il contrario, invece. Ma siamo due politici, cosa possiamo capirne. >> ribatté il console con fare mellifluo.
<< Cosa ci fa nell’esercito, se è un politico? >> chiese Seraphus, alzando un sopracciglio.
<< Il console Vessimer è con me dall’inizio di questa rivoluzione, capirà che all’inizio eravamo solo pochi uomini fidati. Mi creda, è perfettamente adatto al suo ruolo. >> lo interruppe Arseius.
<< Mi fido, Autarca. >>
<< Spero possa dimostrarmelo presto, navarca. >>
<< Sta insinuando qualcosa, signore? >> chiese Seraphus, aggrottando le sopracciglia, ignorando stoicamente la mancanza di etichetta del suo interlocutore.
<< Non me ne voglia, era comunque un ufficiale della Federazione. >>
<< Lei un senatore, se non ricordo male. >> ribatté l’ammiraglio.
<< Touché. >>
Vessimer scrutò il liquido all’interno del suo bicchiere.
<< Allora, possiamo parlare dei dettagli di questa missione? >>
Entrambi i suoi interlocutori si voltarono e lo guardarono storto.
 
Il velivolo a decollo verticale uscì dalla coltre di nubi e si abbassò silenzioso, rimanendo a velocità di crociera.
Il pilota diede l’ok, altitudine e condizioni meteo erano ideali, le coordinate erano esatte.
I sessanta incursori all’interno del trasporto si allinearono in due file davanti al portellone posteriore, in silenziosa processione, ognuno controllando l’equipaggiamento del precedente e battendo sulla spalla per segnalare che tutto era a posto.
L’ufficiale in testa alzò il braccio e diede il segnale, lanciandosi immediatamente fuori dal velivolo, tuffandosi nel vuoto, seguito immediatamente dai soldati al suo fianco e dietro di lui.
Reno inspirò a fondo, assaporando l’aria rarefatta filtrata dal suo elmetto, in attesa che arrivasse il suo turno.
Qualche passo rapido in avanti ed era sulla rampa del portellone, nemmeno un secondo e la sua testa era già fuori dal mezzo, il corpo adagiato tra le correnti che lo facevano galleggiare.
Azionò il vettore di volo e rallentò fino ad avere completo controllo sulla sua discesa, lasciando che il pilota automatico del suo zaino a reazione facesse il grosso del lavoro.
Ringraziò che nessuno li avesse notati e si fosse messo a sparare contro di loro, coperti com’erano dal novilunio.
Altre volte erano stati molto meno fortunati.
Ricordava perfettamente la volta in cui il serbatoio del suo zaino era stato colpito da un proiettile vagante e lui era stato costretto ad atterrare con il paracadute ausiliario, rischiando di rompersi una gamba.
Rallentò ulteriormente, sollevando sbuffi di polvere intorno a lui, e poggiò i piedi per terra, guardandosi subito intorno per cercare i suoi compagni.
Attivò il visore termico e individuò il campo nemico, intorno al quale, silenziosi come fantasmi, si andavano avvicinando gli altri incursori avvolti dall’ombra e ammantati di nero, attirati come falene dai proiettori che stoltamente erano stati disposti lungo tutto il perimetro.
Reno avanzò tenendosi il più basso possibile, l’arma puntata contro il nemico, finché non giunse ad una trincea improvvisata e piena di fango scuro.
L’avversario era totalmente impreparato, nonostante avesse avuto tutto il tempo necessario per prepararsi al loro prevedibile contrattacco.
Si infilò nella trincea e l’attraversò per quasi cinquanta metri, fermandosi solo quando davanti a lui si stagliò l’ombra di una sentinella, a guardia di uno dei grossi proiettori che illuminavano la desolata brughiera davanti a lui.
Reno piegò l’indice, una leggerissima ma decisa pressione sul grilletto del suo fucile d’assalto, ed un singolo proiettile si andò a conficcare nel cranio del nemico, il rumore completamente assorbito dal silenziatore avvitato alla bocca dell’arma.
Raggiunse il proiettore e ne individuò il cavo che lo collegava al generatore, afferrando il giunto di connessione e mettendosi in attesa.
Non appena la radio all’interno del suo casco trasmise il cicalino tanto atteso, Reno tirò il cavo e staccò il giunto, interrompendo l’afflusso di corrente, e così fecero tutti gli altri incursori giunti ognuno sul proprio obiettivo.
Le abbaglianti luci che circondavano il campo si spensero una dopo l’altra nel giro di un instante, lasciando che la base soccombesse nel buio e nel caos, mentre venivano lanciati i primi allarmi.
Qualche soldato confuso chiedeva cosa stesse succedendo, un altro ordinava di controllare i generatori, un altro ancora svegliava la truppa e disponeva una pattuglia.
Uno dopo l’altro, gli ordini furono sostituiti da rantolii.
La prima linea nemica era sfondata, ora bisognava penetrare fino al centro di comando e al magazzino, dove avrebbero potuto trafugare gli ordini dei nemici e distruggere le loro scorte di prezioso cibo e ancor più preziose munizioni.
Scavalcò il cadavere di un soldato, le mani contratte intorno alla gola squarciata da una pallottola, e si infilò in una tenda dove quattro uomini dormivano beatamente, completamente ignari del pericolo che stavano correndo in quel momento.
Tenda sbagliata.
Piazzò una carica di esplosivo proprio sull’entrata e uscì in silenzio, spostandosi qualche tenda più avanti.
Finalmente trovò il magazzino, un raffazzonato edificio modulare davanti al quale un altro incursore stava sgozzando il pover’uomo di guardia, colto alle spalle.
Non appena il cadavere della sentinella fu adagiato al suolo i due entrarono dentro il magazzino, iniziando a infilare cariche di esplosivo in mezzo agli scaffali ricolmi di materiale bellico.
Non appena finirono l’esplosivo, Reno inviò un segnale via radio al suo superiore e rimase in attesa del successivo comando.
Il suo commilitone gli fece cenno di seguirlo, e i due uscirono dal magazzino per infilarsi in un secondo edificio, identico, dove altri due incursori attendevano ordini.
Ogni tanto si sentiva ancora qualche grido, rapidamente soppresso da chi aveva il compito di mantenere il perimetro sicuro, ma il campo era ancora completamente addormentato.
Dalla radio arrivò il segnale di evacuazione, e gli incursori abbandonarono la base nel silenzio più totale, tornando da dove erano venuti, lasciando i soldati addormentati e ignari di quanto fosse appena accaduto.
Due minuti dopo, il centro di comando ed i magazzini esplosero in un pilastro di fiamme, e la Federazione subì il primo smacco sulla superficie di Palladium.
La battaglia per il pianeta aveva avuto inizio.
 
Maester poggiò la vanghetta da trincea a terra e fissò il disastro che i sabotatori ribelli avevano compiuto in uno dei tanti avamposti creati intorno al campo base Federale, costringendo i lealisti a ritardare di qualche giorno le operazioni militari.
Contemporaneamente, altri tre avamposti avevano subito attacchi simili, causando in totale fortunatamente solo un centinaio di morti, ma anche perdite di materiale per centinaia di migliaia di crediti Federali; tuttavia, considerando la facilità con cui il nemico aveva superato le loro linee, potevano ritenersi molto fortunati.
Era dall’alba che continuava a scavare in mezzo alle macerie del magazzino, cercando di recuperare qualcosa, ma finora era riuscito a salvare solo due barattoli di pesche sciroppate e una cassa di proteine concentrate, non un granché.
Alzò gli occhi al cielo e si asciugò col dorso della mano il sudore che copiosamente colava dalla fronte e finiva per inzuppare la canotta bianca che indossava in quel momento.
In cielo, accarezzate dai raggi dell’abbagliante sole, si stagliavano le grandi astronavi della Federazione adibite al trasporto di mezzi marittimi, dei bestioni bianchi lunghi almeno seicento metri e alti quanto un palazzo di dieci piani, in grado di trasportare perfino una portaerei nucleare.
In quel momento almeno una dozzina di quelle navi stavano ammarando nell’oceano che circondava l’isola su cui il contingente militare Federale si era insediato, scaricando lì altrettante cacciatorpediniere di ultima generazione.
Non era stato per niente entusiasmante, né per lui ne per i suoi superiori, scoprire che l’intera armata era relegata su un’isola grande quanto l’Irlanda Terrestre, separata dal continente principale da un canale largo poco più di cinquecento chilometri nel tratto più stretto, un’isola piatta e praticamente priva di qualsiasi rilievo degno di tal nome, così indifendibile che i pochi uomini della guarnigione ribelle si erano arresi dopo nemmeno un’ora di combattimenti.
Il nemico invece era là, sul continente, al sicuro dentro chissà quale fortificazione costruita negli almeno due mesi che avevano avuto per prepararsi al contrattacco Federale.
I generali Federali non sapevano quanti nemici avessero di fronte a loro, né come fossero armati, né dove fossero esattamente.
Qualsiasi tentativo di rilevazione dall’orbita era bloccato da un disturbo di segnale non identificato, e qualsiasi ricognitore, caccia o convertiplano che fosse, veniva abbattuto prima di entrare nelle acque territoriali.
Da settimane ormai le astronavi bombardiere colpivano dall’orbita la superficie del pianeta, sparando però quasi alla cieca e rischiando frequentemente di essere abbattute.
Ciononostante, l’ipotesi di uno sbarco frontale si faceva sempre più vicina.
L’unico punto adatto ad effettuare un’operazione del genere, ad una distanza accettabile sia dalla loro posizione sia dalla capitale del pianeta, era una linea costiera lunga circa centocinquanta chilometri, composta da una serie quasi ininterrotta di spiagge profonde fino a trecento metri intervallate in maniera incostante da piccole baie e falesie alte fino a venti.
Un vero inferno, a detta degli ufficiali superiori, ma l’unica altra opzione era tentare un nuovo sbarco aereo, ancora più difficile dato che non sapevano come fosse messa la contraerea avversaria che, data la loro fortuna, era sicuramente ancora in perfetta operatività.
Maester si rimise a scavare, spostando zolle di terra e detriti fusi con non poca fatica, ma ancora si tormentava pensando a cosa stavano andando incontro, impreparati e demoralizzati, privi delle conoscenze necessarie per compiere un’operazione di tale delicatezza e grandezza, senza ricognizioni, senza rifornimenti sufficienti e per poco senza neanche le munizioni.
Ma un aspetto positivo, per fortuna, c’era.
Almeno non era un fante.
 
Drusus fissò il piano olografico su cui stavano proiettando la simulazione della battaglia che presto si sarebbe svolta.
Il piano lo convinceva ben poco.
<< Voglio un bombardamento intensivo per tutte le ventiquattr’ore precedenti, inizieranno le bombardiere e si aggiungeranno in breve tutte le forze navali e infine i bombardieri aerei, tutto prima dell’alba, a scaglioni. Seguirà una prima ondata aviotrasportata, e le operazioni anfibie inizieranno esattamente al sorgere del sole. I ponti di volo sono pronti? >> chiese il generale Aforisis, il comandante in capo dell’operazione, un uomo anziano, basso e largo, dai radi capelli e dalla fronte lucida.
<< Sull’isola sono state preparate quindici piste di atterraggio, ma gli incursori nemici le hanno parzialmente danneggiate. >> rispose un attendente nascosto nell’ombra della vasta e scura sala di comando dell’ammiraglia su cui Drusus si trovava.
<< Attenderemo che vengano riparate e che i velivoli vengano trasferiti. Possiamo permetterci di rimandare l’assalto, sì? >> continuo Aforisis, asciugandosi la fronte con un fazzoletto di seta.
<< Il tempo non sembra intenzionato a peggiorare, anche se il rischio che si metta a piovere di nuovo è elevato. >> rispose un alto ufficiale dal petto decorato di medaglie e stemmi.
<< Bene. Intensificate la sorveglianza nei campi, non voglio si ripeta più un attacco del genere. >>
<< Sissignore. >> rispose l’attendente mettendosi sull’attenti e uscendo dalla sala.
Drusus guardò i volti degli altri presenti, una schiera di colonnelli, brigadieri e maggior generali tronfi e superbi, resi troppo sicuri delle capacità loro e dei loro uomini dalle precedenti campagne contro la Piaga.
Ma le pedine in gioco erano ben diverse questa volta: davanti non avevano un animale che, seppur intelligente, era comunque limitato dalla sua stessa natura primitiva, davanti avevano uomini uguali a loro, con le stesse capacità offensive e strategiche, un nemico che non avanza solo perché affamato e in cerca di cibo, bensì uno che sa quando è il momento di ritirarsi e quando invece è più conveniente colpire, ma soprattutto un nemico che combatteva per un ideale, e gli ideali possono spingere i soldati a gesta inumane.
<< Tre giorni, signori, tre giorni e inizierà l’operazione Tyr. Il consiglio è sciolto. >> concluse Aforisis, poggiando le nocche sul piano olografico, osservando le figure luminose che si muovevano nell’aria all’interno del sottile blocco di cristallo.
Drusus non era per niente sicuro di ciò che stavano per fare ma qualcosa, in una maniera o nell’altra, andava fatta.
E lui di certo non si sarebbe rifiutato di compiere il suo dovere.

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Capitolo 3
*** Tre ***


Maester osservò l’orizzonte attraverso lo stretto spiraglio che il portellone di sbarco del titanico aeroscafo, su cui erano stati imbarcati, lasciava aperto.
Aggrappato al bordo della lastra di acciaio, i piedi penzolanti, scrutava la spiaggia grigia su cui presto avrebbero messo piede, apparentemente vuota, ricoperta di ostacoli bruni lungo tutta la prima metà, troppo lontani per capire esattamente cosa fossero.
<< Quanto siamo distanti ancora? >> chiese il capocarro di uno degli altri tre corazzati caricati a bordo insieme al loro carro.
<< Ancora mille metri, ci siamo quasi. >> rispose Maester scrutando attentamente la costa scura e sabbiosa davanti a loro.
<< Il mare è mosso, non siamo partiti proprio bene. >> osservò l’altro stropicciandosi un occhio arrossato.
<< Non rompere. Avanti, meglio salire a bordo. >> disse Maester lasciandosi cadere e atterrando in piedi davanti al suo interlocutore.
I due si allontanarono dal portellone e raggiunsero ognuno il proprio mezzo, dando ordini ai propri uomini e issandosi sulle torrette, troppo nervosi per dire qualche parola in più che non fosse un comando.
L’ansia era palpabile, traspariva dai soldati immobili nelle loro postazioni, gli occhi sbarrati e fissi a guardare avanti, verso il nemico.
Un altoparlante annunciò l’imminente sbarco, mentre la nave iniziò a rallentare.
Dall’esterno arrivavano i sibili e i fischi dei razzi sparati contro le posizioni nemiche, bombardate da giorni con così tanta costanza che i soldati erano stati preparati ad affrontare non una fortificazione nemica, ma una devastazione di crateri e tane di volpe.
Nel caos crescente si udirono distinte le esplosioni delle granate fumogene lanciate a coprire il loro arrivo sulla spiaggia.
Un allarme risuonò per il ponte, mentre con un lieve sbalzo la nave scivolava sulla fine sabbia.
Il portellone calò accompagnato dal lugubre sibilo delle pesanti pompe idrauliche e la luce invase il vano di carico, investendo gli uomini.
<< Plotone carri, avanti! >> ordinò il tenente attraverso la radio, e contemporaneamente le ruggenti turbine dei mezzi muggirono, vomitando gas di scarico dalle fiancate.
I cingoli si mossero stridendo sull’acciaio e spinsero in avanti le temibili macchine, lanciate sulla rampa e contro il nemico, attraverso la cortina di fumo artificiale creata dalle navi.
Uno dopo l’altro, in fila indiana, i carri uscirono allo scoperto e affondarono nella battigia, avanzando a fatica e sollevando i fini granelli con le maglie dei cingoli.
La spiaggia, in tutta la sua lunghezza, pareva deserta, seppur ricoperta di una fitta muraglia di scuri ricci cechi in acciaio, segnati dall’acqua marina e tenuti insieme da nastro spinato, che occupavano tutta la prima metà della spiaggia e impedivano l’avanzata dei veicoli.
<< Partiamo bene. >> osservò Hakritus con tono acido, sollevando la testa e fissando il superiore, seduto immediatamente sopra di lui.
<< Carica esplosiva in canna, resta concentrato. >> gli rispose Maester dando un lieve calcio all’elmetto del compagno e scrutando negli iposcopi alla base della sua botola.
Ai loro lati, quasi con grazia, se paragonata ai loro pesanti e relativamente goffi carri, giungevano i blindati anfibi carichi di fanti, grondanti acqua dai loro scafi affusolati e dagli ugelli dei loro idrogetti.
I portelloni si abbassavano e gli uomini sbarcavano, posizionandosi rapidamente ai lati dei mezzi e avanzando a ventaglio fino agli ostacoli metallici.
<< Servono genieri, non ne vedo. >> osservò Maester, mentre il carro attendeva fermo davanti alla barriera invalicabile.
<< Segni del nemico? >> chiese il tenente alla radio.
<< No, signore, nessun movimento. >> rispose Maester.
Alcuni soldati tornarono sui loro blindati e iniziarono a tagliare il nastro non appena riuscirono a procurarsi delle tenaglie, avanzando lentamente e con molta cautela in mezzo ai varchi così aperti.
<< C’è troppa calma, non mi piace. >> osservò Hakritus.
<< Magari per una volta l’artiglieria ha fatto un buon lavoro. >> rispose ridacchiando il capocarro.
Un missile volò sopra di loro, andando a impattare contro chissà quale difesa nascosta oltre il crinale sabbioso che delimitava l’intera spiaggia, intorno al quale li attendevano altre due file di ricci e nastro spinato.
Fu l’ultimo tiro preparatorio della marina.
La fanteria superò la prima barriera, mentre i primi genieri iniziavano a posizionare gli esplosivi per liberare la strada ai carri.
Un soldato calpestò una mina e volò per almeno tre metri in aria in uno sbuffo di terra e sangue, le gambe ridotte a brandelli di carne e stoffa.
Un'altra mina esplose, investendo due soldati e lanciandoli contro gli spuntoni dei triboli, che passarono da parte a parte corazza e busto di entrambi.
<< Merda. >> commentò Maester.
Ormai tutta la battigia era occupata da aeroscafi da sbarco, così fitti e vicini tra loro che i blindati anfibi faticavano a trovare una via per la terraferma, e la spiaggia stessa iniziava a farsi affollata, fin troppo piena di uomini, mezzi e casse di munizioni, ma le operazioni anfibie non accennavano minimamente a voler rallentare.
Un fischio attraversò l’aria, e un proiettile d’artiglieria atterrò in mezzo ai fanti, facendo sparire i poveri malcapitati in una colonna di fuoco e sabbia.
Un altro fischio, e un blindato saltò in aria, il vano motore colpito in pieno, dilaniato dalle schegge della granata.
<< Merda! >> ripeté Maester.
<< Fuoco in arrivo, tenetevi! >> gracchiò la radio.
Un proiettile impattò a non più di due metri da loro, investendoli con la sua onda d’urto.
<< Rabu, portaci via di qui, ora! >> urlò Maester.
<< Ma gli ostacoli… >> ribatté il pilota attraverso la radio.
<< Non mi interessa, trova un modo! >>
La spiaggia divenne immediatamente un inferno, crivellata dai colpi d’artiglieria del nemico, e i soldati in preda al panico sciamavano in tutte le direzioni, chi cercando incautamente di raggiungere il crinale, affrontando i rasoi del nastro e le mine, chi nascondendosi dietro i ricci, affidandosi alla scarsa copertura che essi offrivano.
Gli aeroscafi vomitarono fuoco con le loro batterie a corto raggio, sollevando le rampe e riprendendo il largo mentre il fuoco nemico si spostava fin dentro l’acqua, bersagliando i mezzi in navigazione.
Il cielo si riempì di scie di fumo, e razzi volarono sopra le loro teste, esplodendo prima di impattare al suolo e investendo i fanti con una pioggia di frammenti e sfere in metallo, grandi quanto palle da baseball, che esplodevano all’impatto col suolo: bombe a grappolo che trasformavano la battigia in un campo minato.
I carri intanto correvano parallelamente alla spiaggia, cercando di raggiungere i lati della stessa e sperando così di trovare una via di fuga, ma tutto intorno a loro non vi erano che sabbia e morte.
<< Sergente, davanti a noi! >> disse Rabuleius alla radio.
Maester guardò attraverso l’iposcopio ricoperto di sporco e fuliggine: le esplosioni avevano miracolosamente aperto un varco in mezzo agli ostacoli in ferro e al filo, largo abbastanza da far passare un carro.
<< Avanti Rabu, avanza! >> ordinò Maester.
Il pilota non se lo fece ripetere.
<< Capo Rosso, qui Rosso-1, abbiamo trovato un varco. >> comunicò Maester alla radio.
<< Ricevuto Rosso-1, vi siamo dietro. >> rispose il tenente.
In colonna i carri attraversarono gli ostacoli e il campo minato, passando incuranti sopra gli ordigni antiuomo, troppo deboli per penetrare il loro spesso scafo.
Alla vista dei carri indifferenti alla pioggia di fuoco e alle trappole sotto di loro, in lenta avanzata verso il crinale, gli uomini ripresero coraggio e abbandonarono i loro ripari, ponendosi ad una certa distanza dietro i mezzi, sicuri che i veicoli avrebbero ripulito la strada coi loro cingoli, e non senza fatica trovarono riparo dietro il crinale, dove con esplosivi e tenaglie aprirono un altro varco nel filo spinato.
Dovettero rimanere mezz’ora sotto il fuoco dell’artiglieria prima che il varco fosse abbastanza largo per far passare i veicoli.
<< Plotone carri, qui Capo Rosso, distanziati in linea di battaglia, sparare a vista e avanzare. >> ordinò il tenente attraverso la radio.
<< Forza ragazzi, sul crinale e sparare a vista. >> comunicò Maester alla sua squadra.
Il capocarro guardò attraverso un iposcopio laterale e vide una squadra di almeno venti fanti lanciarsi oltre il crinale, avanzando carponi nella sabbia.
Non appena alzarono la testa oltre la cresta furono investiti dal fuoco delle mitragliatrici, venendo falciati e scaraventati all’indietro, i corpi passati da parte a parte dai proiettili di grosso calibro.
<< Bunker, davanti a noi! Fuoco immediato! >> comunicò Maester.
Il carro si impennò sulla cresta e ricadde violentemente in avanti, ondeggiando.
L’artigliere allineò il cannone e fece fuoco, centrando in pieno l’ala sinistra di un bassissimo edificio in cemento armato che spuntava dal terreno, un grosso trapezoide grigio a malapena visibile.
<< Ancora, HEAT, fuoco subito. >>
<< HEAT in canna, fuoco! >>
Il proiettile volò dritto nel foro creato dal primo colpo, sbriciolando il cemento armato ed esplodendo nel piccolo locale interno.
Le mitragliatrici del bunker si zittirono, ma intanto, a circa duecento metri uno dall’altro, altri bunker identici ancora spazzavano la spiaggia col loro fuoco.
<< Allargarsi, raddoppiare la distanza. >> ordinò il tenente.
I carri allargarono i loro ranghi, continuando a bersagliare i bunker.
Una missile colpì la fiancata destra di un carro, esplodendo subito prima di poter causare danni.
<< Tutto bene, Rosso-3? >> domandò Maester attraverso la radio.
<< Nessun danno, l’ERA ha parato il colpo. >> rispose il commilitone all’altro capo dell’apparecchio.
<< Da dove è arrivato? >> chiese il tenente.
<< Destra, ingaggio io. >> rispose Rosso-3, facendo ruotare sul posto il suo mezzo e fronteggiando chi aveva appena tentato di colpirli.
Tra un bunker e l’altro si allungava una trincea corazzata, ben coperta da cespugli e foglie, dalla quale il razzo sembrava essere partito.
Il carro avanzò fin quasi a ridosso del nemico, sparò un colpo, spazzando via la copertura della trincea, e iniziò a macellare gli occupanti con la sua mitragliatrice coassiale.
<< Avanti, non fermatevi! >> ordinò il tenente.
Altri bunker saltarono in aria, e la trincea fu presa d’assalto, mentre i fanti avanzavano strisciando fino alle feritoie nemiche, lanciando granate e ripulendo i bunker già danneggiati coi loro lanciafiamme portatili monouso agganciati sotto la canna del fucile.
Intanto, in spiaggia, altri corazzati e IFV venivano sbarcati, ancora sotto il fuoco costante dell’artiglieria, mentre intorno i blindati anfibi portavano i fanti direttamente in mezzo al combattimento, nella trincea.
<< Ma in tutto questo dove cazzo è il supporto aereo? >> chiese Hakritus, visibilmente irritato.
<< Non lo so, Hakri. Non ti distrarre >> rispose Maester.
<< Guardate, in fondo dietro le trincee. >> disse Rabuleius.
<< Rottami? >> chiese Maester, controllando il punto indicato attraverso il telemetro laser.
<< Saranno gli aviotrasportati? >> azzardò Rabuleius.
<< Temo di sì… dannazione. >> rispose il capocarro.
Il carro fu scosso da un’esplosione sul fianco sinistro della torretta.
<< Ah, merda! Altri missili! >> sbottò Maester.
<< Ci spostiamo subito. >> disse Rabuleius dando gas al motore.
Una seconda scossa, seguita dal rumore ovattato di un’esplosione all’interno del mezzo e da fumo nero.
<< Che è successo? >> chiese Hakritus, mezzo stordito dal colpo. << Brucia qualcosa? >>
<< Rabu, via di qua! >> urlò Maester nell’interfono.
<< Vado più veloce che posso! >>
<< Cazzo, il caricatore è andato, dobbiamo andare in manuale! >> urlò l’artigliere.
<< Me ne occupo io, tu continua a sparare su quella trincea! >> rispose il capocarro, sganciando rapidamente la paratia sulla sinistra del suo abitacolo e spostandosi davanti al magazzino stagno dei proiettili, dall’altra parte della culatta del cannone.
Un foro largo almeno un pollice aveva perforato la corazza, distruggendo il braccio meccanico che ora pendeva fumante dal soffitto della torretta.
Miracolosamente però i proiettili non erano esplosi uccidendoli tutti.
<< Rosso-1, tutto bene? >> gracchiò la radio.
<< Caricatore fuori uso, procediamo in manuale. >> comunicò Maester.
<< Ritiratevi se necessario. >>
<< Dietro di noi c’è l’inferno, signore. HEAT in canna, fuoco! >>
<< Abbiamo il fianco scoperto, serve la fanteria! >> sbraitò Hakritus, azionando il cannone.
La culatta arretrò per il rinculo ed espulse ciò che rimaneva del bossolo, lasciandolo cadere nel serbatoio apposito.
Maester aprì il magazzino, estrasse un pesante proiettile lungo quanto il suo braccio e lo infilò nella culatta dell’arma, che si sollevò sigillandosi.
<< HEAT in canna, fuoco! >>
La torre vibrò e il cannone retrocesse di nuovo, ripetendo il ciclo di sparo.
<< Rosso-4 distrutto! >> comunicò Rosso-3.
<< Non indietreggiare! >> rispose il tenente.
<< Bunker, due gradi a destra, HEAT in canna, fuoco! >> urlò Maester caricando un altro proiettile e lanciando una rapida occhiata al suo radar.
<< Prima linea sfondata, avanzare! >> comunicò il tenente.
Una seconda fila di bunker, ben più grossi e pericolosi, li attendeva alle spalle della trincea.
Cannoni spuntavano dalle feritoie, puntati dritto contro di loro.
<< AP in canna! >> urlò Maester.
<< Dammi un bersaglio! >> rispose Hakritus.
Maester si lanciò verso la sua postazione.
<< Bunker, davanti a noi. >> disse, scrutando attraverso l’iposcopio incrinato.
<< Eseguo. >>
Il carro fece fuoco, colpendo in pieno uno dei due cannoni da 155 mm all’interno del bunker, tranciando la canna e piegando le paratie scudate, facendo breccia nelle difese della piccola fortificazione.
Un razzo passò loro accanto, mancandoli per un soffio.
<< Non possiamo continuare così. Rabu, trova una copertura. >> ordinò Maester.
<< E dove? >> rispose stizzito il pilota.
<< Crateri, ne vedi? >>
L’artiglieria spostò il tiro, bersagliando la prima linea di bunker ora nelle mani della Federazione, falciando altre vittime.
Tra le varie trincee i soldati combattevano tra loro, cercando di guadagnare qualche palmo di terra, mentre piovevano sulle loro teste granate e colpi di mortaio, e proiettili fischiavano volando in tutte le direzioni.
 << La seconda linea sta cedendo, continuare a fare pressione. >> ordinò il tenente attraverso la radio.
<< Un cratere, sulla destra! >> comunicò Maester, ignorando il messaggio del superiore.
<< Vado! >> rispose Rabuleius.
Il carro girò su sé stesso e raggiunse la fossa scavata dai colpi di cannone, scivolando rapidamente all’interno.
Lì, al sicuro da colpi diretti, l’equipaggio poté finalmente tirare un sospiro di sollievo.
<< Hakri, la cassetta degli attrezzi, vediamo di riparare questo affare. >> disse Maester avvicinandosi al caricatore automatico.
<< Rosso-1, la tua posizione? >> gracchiò la radio.
<< Subito, tenente. >> rispose Maester, tornando alla sua posizione e premendo un pulsante sulla sua piccola consolle di comando. << È possibile avere un servente? Ho il caricatore fuori uso. >>
<< Non abbiamo tempo, ripara quell’affare. >>
Maester sbuffò, roteando gli occhi, e si mise al lavoro.
Dopo oltre un’ora e diversi pezzi sostituiti il braccio meccanico era di nuovo operativo, e la seconda linea era in mano ai Federali.
Le truppe ribelli battevano in ritirata, mentre le postazioni di artiglieria, ormai prive di copertura, decisero di retrocedere per non venire catturate.
Verso l’ora di pranzo, finalmente, giunse il supporto aereo.
 
Vessimer si morse il labbro inferiore, nervoso, cercando di trattenere il tic che gli faceva tremare tutta la gamba destra.
<< I Federali sono riusciti a sbarcare sul continente. >>
Seraphus lo guardò, piegando la testa da un lato.
<< La cosa ti preoccupa? >> chiese con una tranquillità disarmante.
<< Abbastanza. >> rispose il console sedendosi su una poltrona di fronte al suo interlocutore, dall’altro lato di una scrivania.
<< Hai fatto intervenire le brigate corazzate? >>
<< Reputavo i reparti sulla costa sufficienti. >>
<< Ti sbagliavi, a quanto pare. >>
Vessimer si massaggiò le tempie, reprimendo il livore che andava crescendo in lui.
<< Potresti fare qualcosa, invece di stare lì fermo a criticare? >> sibilò a denti stretti, guardando negli occhi stanchi e sgranati l’ammiraglio.
Seraphus si guardò intorno.
Erano nei suoi alloggi sulla sua ammiraglia, dei relativamente spaziosi appartamenti tappezzati di rosso e di insegne dell’Autarchia; uomini a lui fedeli governavano la nave ed erano pronti ad intervenire in qualsiasi momento ad un suo schiocco di dita, senza considerare che poteva procurarsi un’arma nel giro di tre secondi.
Non proprio il luogo ideale per Vessimer, per farsi un nemico.
<< La flotta ha già ingaggiato diversi convogli Federali, le loro linee logistiche ne stanno già risentendo. >> rispose Seraphus con tono pacato.
<< Non basta, devi distruggere la loro flotta! >> sbraitò Vessimer quasi sputando saliva e sbattendo un pugno sulla scrivania, scattando in piedi in un accesso d’ira.
Seraphus fissò l’esile uomo davanti a lui negli occhi iniettati di sangue.
Iniziava a non sopportare più la sua voce stridula.
<< Non possiamo permetterci mosse così azzardate. Se perdessimo anche un solo vascello, non potremmo rimpiazzarlo in tempi accettabili, non abbiamo le risorse per farlo. Quindi un attacco diretto per ora è da evitare. >>
<< E quindi che dovremmo fare? >>
<< Metti i tuoi uomini sulla difensiva, non cedere nemmeno un palmo di terra, a qualsiasi costo, porta la popolazione dalla tua parte, se già non lo è. E non ti azzardare più a dirmi come devo fare il mio lavoro. >>
<< Navarca… >> disse Vessimer puntandogli contro un indice sottile.
<< È esattamente il mio titolo, faccio questo lavoro da oltre vent’anni ormai, ho combattuto insieme agli stessi uomini che ora stiamo affrontando. Sono uguali a noi, conosco il loro modo di pensare, perché è il mio stesso. Lei invece è un politico che gioca a fare il generale. Si levi di mezzo e lasci fare a chi è più competente di lei... >> lo interruppe Seraphus, il volto contratto in una smorfia di disgusto.
Vessimer digrignò i denti e uscì dalla camera, lasciando Seraphus da solo coi suoi piani per salvare quella campagna.
Solo a cena l’ammiraglio venne a sapere che il console aveva abbandonato la nave ed era sceso sulla superficie del pianeta.

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Capitolo 4
*** Quattro ***


Maester era seduto sopra lo scafo del suo carro, intento a ricaricare i lanciagranate automatici del sistema di difesa attiva, svuotatisi durante la precedente battaglia, in attesa che con il nuovo carico di rifornimenti arrivassero i nuovi blocchi della corazza reattiva, completamente consumata sul fianco colpito dal missile.
Non se ne erano accorti, ma nel pieno del combattimento la fiancata era stata completamente spellata dalla raffica di una mitragliatrice pesante, un errore non da poco che sarebbe potuto costare loro la vita, se lo strato di corazzatura composita non avesse contenuto i danni al compartimento stagno di munizionamento.
Hakritus finì di controllare il lanciamissili quadrinato installato sul lato destro della torretta, assicurandosi che il dispositivo e i quattro razzi contraerei a corta gittata al suo interno non avessero subito danni.
Rabuleius, di ritorno dalla mensa da campo, li raggiunse di lì a poco.
<< Novità? >> chiese Maester non appena l’artigliere gli porse la gavetta ricolma di una poco invitante sbobba a base di riso colloso.
<< Siamo stati fortunati che nei giorni precedenti ha piovuto ancora. La zona tra la prima linea e il crinale sarebbe stata una vera trappola, altrimenti. >> rispose il pilota porgendo la seconda gavetta all’artigliere.
<< In che senso? >> chiese Maester mandando giù con sommo gusto la prima cucchiaiata.
<< L’hai vista quella sabbia nera, lungo tutto il crinale? Fosse stata asciutta sarebbe stata così morbida che ci saremmo affondati dentro. In alcuni punti i fanti andavano giù fino alla caviglia. >>
<< Un dannato colpo di fortuna, maledizione. >> commentò Hakritus divorando voracemente il contenuto della sua gavetta.
<< Già. Non possiamo continuare così, andando avanti a colpi di fortuna. >> disse Maester, scrollando il capo << Quanti morti ci sono stati? >>
<< Se ne stimano almeno diecimila, lungo tutta la costa. >>
<< Ma porca… >> sbottò Maester.
<< Abbiamo anche perso una quindicina di carri. >>
<< Che mattinata di merda. >>
<< Ed effettivamente quella roba là in fondo… >> concluse Rabuleius, indicando i rottami al limite del loro perimetro difensivo. << Sono ciò che resta dei paracadutisti. >>
<< L’ho già detto che è stata una mattinata di merda? >>
<< Sì. >> risposero in coro i due sottoposti.
Maester finì di mangiare e si pulì la bocca, infilando quindi una mano nella sacca dei suoi oggetti personali ed estraendo uno spazzolino.
<< Io vado a parlare col tenente, i ricambi non sono ancora arrivati e non voglio dover aspettare fino a domani, voi finite di mettere tutto a posto. >>
<< Ricevuto, non fare tardi. >> rispose Rabuleius infilandosi dentro il carro. << E chiedi del carburante, anche! Non ci hanno ancora fatto il pieno. >>
Maester alzò gli occhi al cielo e si mise in cammino.
 
Lo shuttle girò su sé stesso ed estrasse il carrello, adagiandosi sulla piattaforma di atterraggio.
Vessimer attese che il portellone pressurizzato si aprisse ed uscì all’aria aperta, guardando soddisfatto la città intorno a lui.
Erano atterrati al centro del presidio militare nella capitale di Palladium, una metropoli un tempo lucente ed esotica.
Ora sembrava una città fantasma.
Non che gli abitanti non ci fossero, ma non osavano mettere il naso fuori di casa, se non per estrema necessità, in alcuni casi rifiutandosi persino di andare a lavoro, congestionando così tutta la quotidiana routine della città.
Peccato che i collaborazionisti fossero così pochi, altrimenti avrebbero reso la situazione molto più semplice da gestire.
Un soldato in uniforme di servizio arrivò correndo davanti a lui, mettendosi subito sull’attenti.
<< Console Vessimer, non ci aspettavamo una vostra visita. Sono il capitano Octavius, al vostro servizio. >>
<< Spero abbiate degli alloggi pronti. >>
<< Certo, signore. >> rispose il capitano, facendo segno di seguirlo.
<< Bene. >> concluse Vessimer avviandosi verso l’entrata.
Il militare lo accompagnò all’interno della base, mentre il sole spariva dietro il profilo degli alti grattacieli, e la città veniva inghiottita dall’oscurità della notte.
Dopo sei ore due brigate meccanizzate, con in testa i loro reggimenti corazzati, uscirono dalla città, diretti verso il fronte, mentre attraverso le linee di comando si diramava l’ordine di attacco immediato.
 
Reno guardò l’orologio atomico da polso.
Erano in perfetto orario.
Niente pioggia, niente vento, tempo ideale per un lancio.
Eppure… non aveva un buon presentimento.
Quell’operazione gli pareva troppo improvvisata, preparata frettolosamente e senza avere chiare le condizioni del nemico, non l’ideale per lanciare qualche centinaio di soldati oltre le linee nemiche senza assicurare loro una via di fuga.
Non che il loro ufficiale generale sapesse esattamente come erano messi i suoi stessi soldati.
Reno aveva passato la precedente notte insonne, costretto a coprire la ritirata dei reparti ingaggiati la mattina precedente dalle forze Federali, e la testa ancora gli pulsava chiedendo riposo.
Il portellone posteriore del grande VTOL si aprì, e l’ufficiale ordinò di prepararsi.
Reno sbadigliò.
Fecero i soliti controlli di rito, attesero il segnale, iniziarono a lanciarsi.
Le difese nemiche tacquero ancora una volta.
Possibile che la contraerea nemica non riuscisse minimamente a rilevarli?
Il volo fu breve, l’atterraggio brusco, l’ingaggio rapido.
Davanti a loro vi erano file di cadaveri, nascosti sotto teli cerati, rischiarati solo dalla luce lunare, allineati lungo tutta la spiaggia vuota e segnata dalla battaglia.
I suoi compagni eliminarono le sentinelle con pochi colpi silenziosi.
Avanzarono attraverso il campo minato, ancora non completamente bonificato, sicuri che le mine intelligenti non avrebbero fatto storie.
Il campo nemico era subito dietro il crinale, già ben fortificato e sicuro.
Un autocannone della contraerea iniziò a sparare alcune raffiche, lanciò qualche missile, poi si zittì.
Un globo luminoso attraversò il cielo, schiantandosi lontano, verso le loro posizioni.
Dovevano aver abbattuto uno dei loro trasporti in rientro, probabilmente il pilota aveva preso quota sicuro di essere lontano dai radar, e invece aveva preso un granchio colossale.
Superare la prima linea non fu difficile, poche sentinelle, poco attente.
Alla seconda iniziarono ad avere problemi.
I colpi dell’ autocannone doveva aver messo sul chi vive i soldati, che adesso si aggiravano guardinghi per il campo, intuendo che qualcosa non andava.
Reno raggiunse una serie di carri parcheggiati in perfetto ordine, eliminando rapido il soldato di guardia, e posizionò degli esplosivi in mezzo ai loro cingoli.
Uno sembrava già fuori uso, quindi decise di ignorarlo, passando oltre.
Un grido d’allarme risuonò per il campo, seguito dal rumore di spari.
Reno alzò la testa, cercando la fonte del suono.
Il cielo buio si accese, illuminato da potenti proiettori.
Il mare alle sue spalle brillò, mentre diverse navi, rapidamente avvisate via radio, illuminavano coi loro fari la spiaggia dove erano atterrati.
<< K, missione annullata. >> sentì Reno attraverso la radio. << Raggiungere immediatamente il punto di evacuazione. >>
Reno si voltò, bloccandosi subito dopo.
Se la missione non era riuscita, non c’era nessun punto di evacuazione.
<< K0, fornire coordinate. >> sussurrò nel microfono dell’elmetto.
Nessuna risposta.
<< K1, raggiungi la mia posizione. >> arrivò poco dopo.
Le coordinate del mittente apparvero direttamente sul visore dell’elmetto.
Reno si mosse rapido e silenzioso, tenendosi basso per evitare di farsi vedere.
Le raffiche di mitra andavano via via aumentando di intensità.
Girò intorno ad una tenda e si ritrovò davanti la schiena di un suo compagno di squadra, intento a sbirciare dietro l’angolo del suo nascondiglio.
<< Nembo. >>
<< Tempesta. >>
<< Problemi, K7? >>
<< Hanno ucciso K0 e tutta la squadra J. >>
<< Come è successo? >>
<< Non ne ho la più pallida idea! >>
<< Abbassa la voce. >>
Il compagno si voltò, fissandolo attraverso il visore dell’elmetto.
<< Che facciamo? >>
Reno si guardò intorno.
<< La spiaggia è zona proibita, attraversiamo il campo e raggiungiamo quel punto. >> disse, sporgendosi poco sopra la tenda e indicando un campo di rottami ben distante dal campo. << Lì saremo al sicuro. >>
<< Temo che torneremo al campo a piedi. >>
Altri spari attraversarono l’accampamento, seguiti da urla concitate.
<< Vedi un mezzo su ruote? >> chiese Reno.
<< No. >>
<< Allora inizia a correre, ti copro io. >>
Il campo ormai era in subbuglio, completamente sveglio, cosciente della battaglia in corso.
K7 si lanciò in avanti, correndo a perdifiato verso il limite del campo.
Proiettili traccianti volarono nella sua direzione, illuminando come laser il corridoio tra le tende.
Reno sparò una breve raffica nella direzione da cui erano arrivati i proiettili, poi iniziò a correre anche lui.
K7 era lì davanti, nascosto dietro i resti di un bunker, e sparava per dargli copertura.
<< E se ci nascondessimo qua dentro? >> chiese non appena Reno lo raggiunse.
<< Anche questa è un’ottima idea. Dopo di te. >>
Alcuni proiettili rimbalzarono sul cemento, staccandone grosse schegge.
I due spostarono ciò che rimaneva di una porta blindata, scardinata da una bomba a mano, e si infilarono all’interno della minuscola fortificazione, attendendo che il campo si tranquillizzasse.
La sparatoria durò fino all’alba.
 
Maester si alzò di soprassalto, svegliato dal rumore degli spari.
Hakritus e Rabuleius erano già in piedi, le mitragliette in mano, accanto all’entrata della tenda.
<< Che succede? >> chiese Maester infilandosi gli anfibi.
<< Sabotatori, di nuovo. >> rispose Hakritus passandogli la sua arma ed afferrandone una identica da un piccolo cofanetto metallico.
<< Che ore sono? >>
<< Terrestri o locali? >>
<< Lascia perdere. Prendete gli elmetti. >>
I tre uomini presero armamenti e munizioni e uscirono dalla tenda, procedendo lenti verso il centro del campo.
<< Dove possono essere? >> chiese Rabuleius stringendo le mani intorno alla sua arma.
<< Si staranno ritirando, hanno fatto troppo casino. Se vogliono evitare lo scontro, di sicuro stanno provando ad abbandonare il campo. >> disse Maester.
Una raffica di mitragliatrice si udì lontana.
<< E se si fossero nascosti nei bunker? >> osservò Hakritus.
<< Buona idea. Troviamo un ufficiale, vediamo di capire cosa sta succedendo. >> concluse Maester.
Un soldato passò loro davanti, saltando sul posto non appena si accorse della loro presenza.
<< Alt! >> urlò, puntando il fucile contro di loro.
<< Abbassa l’arma, idiota! >> gli rispose Maester. << Chi è al comando? >>
<< Il colonello Oforos, è al centro di comando, ha ordinato di pattugliare il perimetro esterno. >>
<< Che facciamo? >> chiese Rabuleius.
<< Noi controlliamo i bunker. >> rispose Maester.
Il soldato si allontanò in silenzio, lasciandoli a loro stessi.
I tre si misero in cammino, raggiungendo in breve tempo ciò che rimaneva della trincea della prima linea.
Diversi soldati entravano e uscivano dal fosso, dirigendosi poi verso la seconda linea.
Maester fermò uno scorbutico tenente, chiedendo ordini, ma ottenne solo l’essere preso a male parole.
Fortunatamente, una pattuglia di cinque uomini si fermò accanto a loro, decidendo di ascoltarli, e di dividersi quindi i bunker da controllare.
Maester e i suoi uomini proseguirono verso sud-est, mentre gli altri soldati proseguirono nella direzione opposta.
Quando sorse il sole e gli spari terminarono, Maester e i suoi non erano ancora arrivati in fondo alla spiaggia.
 
Reno si svegliò con un sussulto, un sentore di minaccia addosso, e si guardò intorno impaurito.
K7 era accanto a lui, l’indice sulla bocca in segno di fare silenzio.
Aveva occhi grandi, di un azzurro intenso, e un viso tondo, fanciullesco.
Reno per un secondo pensò di non essere su un campo di battaglia.
Il ragazzo gli indicò l’entrata del bunker, da cui proveniva rumore di passi.
Qualcuno stava tentando di aprire la porta, bloccata da loro due la sera prima.
Reno e K7 indossarono l’elmetto e fecero calare respiratore e visore sui loro volti, attendendo che il nemico espugnasse il loro rifugio improvvisato.
Attesero per un lungo, interminabile minuto, finché uno stridente suono metallico non annunciò che la porta era stata aperta.
Reno tolse la sicura e puntò l’arma.
Rumore di passi sui pochi gradini all’ingresso, poi il corridoio, la brusca svolta a destra e sarebbero stati su di loro.
Reno si voltò e fece segno al compagno di spostarsi nella stanza accanto alla loro, dove un tempo erano poste le mitragliatrici con cui i soldati dell’Autarchia avevano battuto la spiaggia per respingere le forze Federali.
I due indietreggiarono, senza voltarsi, le armi puntate contro l’ingresso, e sparirono tra le casse vuote di munizioni.
Reno vide un fante entrare nella camera principale e guardarsi frettolosamente intorno, attendendo incerto, insicuro su cosa fare, poi qualcuno dietro di lui lo richiamò.
Il soldato guardò verso l’ingresso prima di una e poi dell’altra ala, poi si voltò e corse verso l’uscita.
Reno riprese a respirare.
C’era mancato davvero poco, ma per loro fortuna non erano gli unici a essere sotto stress quel giorno.
 
Maester fissò il campo che si faceva sempre più lontano alle spalle del suo carro armato, e la colonna di corazzati e mezzi militari che si allungava tra loro e la base.
Davanti a loro, sparsi come biglie, giacevano i rottami dei VTOL abbattuti due notti prima, carichi di paracadutisti, tutti morti prima di toccare terra.
Qua e là, tra le lamiere, si potevano notare le postazioni di mitragliatrici poste lungo il perimetro della loro testa di ponte.
Superarono il cimitero di mezzi ed entrarono in territorio nemico, una distesa arida e brulla, priva di coperture, attraversata solo da una larga strada asfaltata che collegava la cittadina costiera di Parsum, all’estremo orientale della spiaggia dove erano sbarcati, con la vicina città portuale di Antis, loro prossimo obbiettivo, e con la più grande metropoli di Ecumenes, nell’interno, da cui poi sarebbero potuti proseguire fino alla capitale di Palladium parecchio più a nord, Evandrum, una città così grande che durante la sua costruzione aveva completamente inglobato una catena montuosa.
Maester tese l’orecchio.
L’artiglieria aveva aperto il fuoco sulle campagne che circondavano Antis, ancora occupata dai ribelli, per quel che ne sapevano loro.
Dalla testa della colonna andavano e venivano mezzi di ricognizione, che tenevano aggiornato il comando su cosa si sarebbero dovuti aspettare.
La colonna si fermò, e i mezzi si disposero in linea, in attesa di ordini.
Davanti a loro, a circa dieci chilometri di distanza, vi era la cittadina di Antis, una basso agglomerato di case e strutture industriali, circondato da un’alta autostrada che cingeva il centro urbano come fosse una cinta muraria.
Il comandante dell’operazione non si prese nemmeno la briga di arringare gli uomini, ma ordinò subito l’attacco senza troppi fronzoli.
Per primi, abbandonando la strada, avanzarono i carri, compreso il plotone di Maester, il quale indugiava a volersi rinchiudere nella sua postazione.
I carri procedettero spediti contro la periferia cittadina, coperti dai cacciabombardieri e dai VTOL per attacco al suolo, lanciati a bassa quota nei cieli della città.
<< Sembra che non ci sia nessuno. >> comunicò alla radio il tenente a capo del plotone.
<< I cittadini? >> chiese Maester.
<< Nessuna traccia, a detta della ricognizione aerea. >> rispose il superiore.
<< Saranno rinchiusi in casa, e non è un buon segno. >> commentò un altro capocarro.
<< Proseguite, occhi aperti. >> concluse il tenente.
L’artiglieria cessò il fuoco non appena furono a meno di un chilometro dalle case, e lasciò che la formazione corazzata entrasse nel centro abitato.
Le strade erano deserte, le porte e le finestre sbarrate, ai lati della strada vuota erano ammassate auto parcheggiate, e l’unico rumore proveniva dal fruscio delle chiome degli alberi che ornavano i marciapiedi.
Nemmeno un segno di vita.
<< Procediamo fino al porto. >> arrivò dal comando << Tenete gli occhi aperti e mantenete la fanteria sui fianchi. >>
<< Ricevuto. >> risposero uno dopo l’altro i capicarro, mentre gli IFV aprivano i loro portelloni posteriori e schieravano le loro squadre di fanteria, alcune delle quali avevano già iniziato a sfondare le porte e ispezionare i palazzi.
<< La strada è troppo stretta, le auto ci impediscono di passare. >> arrivò ad un certo punto dalla testa della colonna formatasi sulla strada principale.
<< Non mi interessa, passaci sopra. >> rispose seccato il tenente.
Maester, da due traverse di distanza, vide l’esplosione di vetri e il metallo accartocciarsi sotto il peso del carro, un cingolo sopra il tettuccio della piccola vettura.
<< Qualcuno non sarà contento… >> mormorò tra sé e sé.
Il mare non era molto distante, già potevano vedere le enormi gru a ponte e le pile di container lucenti ammassati gli uni sugli altri, in attesa di navi cargo che non sarebbero più giunte.
La fanteria avanzò nel porto, un anello di cemento da cui si allungavano verso il centro cinque banchine in cemento, protetto dalle mareggiate da due lunghe e sottili dighe foranee, poste ai lati dell’insenatura.
Su un’estremità dell’anello si trovava un grande bacino di carenaggio, mentre sull’altro lato vi erano i raccordi ferroviari che portavano le merci nell’entroterra, e infine, esattamente a metà strada, il centro amministrativo, un maestoso edificio in stile retrò che dominava su tutta la cittadina.
<< Ancora niente? >> chiese Hakritus, guardando verso l’alto.
<< I rilevamenti termici sono tutti sballati, la città è piena di gente. >> rispose Maester frustrato.
Un colpo secco attraversò l’aria, un sibilo, ed un carro esplose, avvolto da un muro di fiamme.
<< Missili in arrivo! >> comunicò la radio.
<< Hakri, tra i container, sulla destra, spazza! >>
Hakritus manovrò il cannone, facendo girare la torretta, e scaricò un intero nastro della mitragliatrice coassiale contro l’ammasso di container da cui il missile era partito.
Altri razzi attraversarono l’aria, colpendo i corazzati scoperti.
Maester guardò attraverso l’iposcopio nella direzione del carro colpito.
Il mezzo stava uscendo dalle fiamme, intatto, salvato dalle sue difese attive.
Maester tirò un sospiro di sollievo.
Intorno a loro i carri e i blindati rispondevano al fuoco, mentre la fanteria tentava di aggirare il nemico, compito arduo considerando la forma del porto.
<< Avanti, Rabu! Portaci avanti! >>
Gli IFV superarono la linea di carri, iniziando a sparare salve brevi e precise sulle postazioni nemiche, i lanciamissili pronti a far fuoco.
Un VTOL passò a volo radente sulla baia, nebulizzando l’acqua marina coi suoi propulsori, e iniziò a lanciare una pioggia di micidiali razzi sui container e sul palazzo amministrativo, sbriciolando finestre e muri, facendo piovere calcinacci e detriti sui soldati appostati alle finestre dei piani sottostanti.
Un missile sfrecciò contro il velivolo, che scivolò di lato e lanciò una salva di flare per ingannare i sistemi di puntamento dell’arma.
Quando la fanteria fu respinta, venendo costretta a ripiegare in mezzo agli edifici intorno al porto, fu ordinato l’attacco aereo.
Due cacciabombardieri attraversarono il cielo e virarono sopra l’oceano, abbassandosi repentinamente di quota e schivando altri missili lanciati nella loro direzione.
Improvvisamente i due caccia si impennarono riprendendo quota, e un secondo dopo la facciata posteriore del palazzo amministrativo esplose in un fragoroso boato, scagliando all’esterno detriti e resti di mobilia.
La fanteria riprese ad avanzare.
<< È fatta, ma continua a tenere sotto tiro quei container. >> ordinò Maester ad Hakritus.
<< Squadra rossa, siamo richiesti nella zona industriale, forze nemiche ingenti. >>
<< Ricevuto, Capo Rosso. Sentito, Rabu? Inverti la marcia. >>
<< Subito. >>
La zona industriale non era molto distante dal porto, bastava seguire i binari completamente vuoti che si insinuavano tra la costa su un lato e le abitazioni sull’altro.
Già dal porto si sentivano i rumori della battaglia non molto distante, e dalla città iniziavano ad alzarsi colonne di fumo, là dove i caccia e i VTOL stanavano possibili nemici.
<< Squadra Rossa, qui Capo Tuono, mi ricevete? >> arrivò alla radio.
<< Forte e chiaro, Capo Tuono, qual è la vostra situazione? >> chiese Maester.
<< Tuono-2 e Tuono-3 distrutti, siamo inchiodati. Vi invio le nostre coordinate. >>
<< Rosso-1, guido io il plotone. >> comunicò il tenente.
Il suo carro accelerò, superando il carro di Maester che fino a quel momento era stato in testa al gruppo.
Un missile colpì frontalmente il carro di Capo Rosso, tranciando di netto il cannone e lanciandolo diversi metri più indietro.
<< Capo Rosso, mi ricevi? >> chiese Maester alla radio.
<< Forte e chiaro, Rosso-1. Sono fuori combattimento. >> rispose il tenente.
<< Prendo il comando, procediamo. Hakri, AP, segui la scia del razzo. >>
Hakritus fece fuoco, aprendo in due un vagone abbandonato in mezzo ai binari.
<< A tutte le unità, qui Comando. Ritirarsi immediatamente. >> comunicò un superiore.
<< Cosa? >> chiese Maester, sbigottito.
<< Capo Tuono colpito! >> rispose la radio, prima di tacere definitivamente.
Maester vide due esplosioni in mezzo alle ciminiere delle fabbriche, in rapida successione.
La squadra Tuono era stata annientata.
<< Ritirata, ragazzi. >>
I due soldati eseguirono gli ordini in silenzio, troppo cupi per osar fiatare.
 
Vessimer passava in rassegna i rapporti con fare annoiato.
<< Le brigate corazzate hanno ingaggiato il nemico? >>
<< Sì, signore, è bloccato in una sacca, ora. Non può più avanzare. >> rispose un attendente, indicando su una mappa olografica i punti in cui vi era stato contatto tra le due forze armate.
<< La riconquista di Antis è sicura? >>
<< Sì, signore, non più di due giorni per annientare le forze nemiche. >>
<< Spero vivamente non finisca come l’operazione di sabotaggio della scorsa notte, per il suo bene. >>
<< Certo, signore, sono rammaricato, signore. >>
<< Comunicate all’ammiraglio Nebriter che presto la flotta nemica rimarrà senza supporto a terra, consiglio vivamente di attaccare. E ora lasciatemi, voglio riposare. >>
<< Sì, signore. >>
L’attendente fece un inchino e uscì dall’ombrosa sala, lasciando che il console si ritirasse nel buio dei suoi appartamenti.
E mentre a qualche chilometro di distanza infuriava la battaglia, il comandante in capo delle forze rivoluzionarie sul pianeta se ne andò a dormire.
 
Maester diede il bersaglio e Hakritus fece di nuovo fuoco.
Ormai combattevano da quasi quattro ore ininterrotte, presi alle spalle dai corazzati nemici, stretti in una morsa mortale.
Il proiettile centrò il carro nemico, rimbalzando sulla spessa corazza e schizzando in cielo.
<< Ancora! >> ordinò Maester.
Non aveva mai visto carri del genere.
Non di fattura umana, quanto meno.
Hakritus fece di nuovo fuoco, pregando per il ritorno del supporto aereo.
Colpi di artiglieria atterrarono davanti a loro, sollevando zolle di terra e polvere.
Rabuleius fece ruotare il carro e diede gas, sperando di uscire dalla linea di tiro avversaria.
Un caccia ribelle volò sopra le loro teste, presto ingaggiato dalla loro contraerea.
Maester tornò a fissare i carri nemici.
Levitavano.
Stentava a crederci, ma i carri dell’Autarchia levitavano.
Non un mezzo Khorsiano, non uno Volosiano, ma un carro dell’Autarchia.
E loro stronzi della Federazione ancora andavano su cingoli e gomme.
 
Gregorius firmò l’ennesimo documento in triplice copia.
<< I rinforzi sono giunti su Palladium? >>
<< Non ancora, signore, fra due giorni. >>
Il generale si guardò intorno.
Il suo ufficio era più che mai pieno di scartoffie.
La situazione in Senato si faceva sempre più bollente, e intorno alla Cittadella, fulcro del governo Federale, stavano venendo ammassate sempre più truppe.
Per la sicurezza dei politici.
Certo.
Non perché Cassandor mirava a far pressione sui Senatori reticenti.
Credibilissimo.
Doveva levarsi di lì o sistemare la situazione, altrimenti il contraccolpo sarebbe stato più devastante di un’atomica.
Ma tra il dire e il fare c’era di mezzo lo Stato Maggiore della Difesa, e per quanti buoni contatti lui potesse avere, esso rimaneva una fortezza impenetrabile.
Eppure doveva tentare.

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Capitolo 5
*** Cinque ***


La colonna di carri rientrò ad Antis, malconcia e decimata.
Avevano preso una bella batosta, secondo Maester, ma almeno la città era loro.
Il campo base sarebbe presto stato spostato lì, mentre la spiaggia e il paesino di Parsum sarebbero rimasti sotto il controllo di una minuscola guarnigione.
Nel mentre, uomini e mezzi continuavano a fluire verso il fronte e, ora che avevano le giuste infrastrutture, potevano far atterrare i mezzi pesanti proprio lì, davanti al nemico.
Nelle zone dove i combattimenti erano stati più aspri numerosi veicoli da recupero rimuovevano macerie e trainavano via ciò che restava dei mezzi distrutti.
Al porto le file di cadaveri si allungavano, e questo senza contare i soldati rimasti della vallata antistante la città, dove i Federali avevano esposto il fianco.
Gli abitanti locali avevano accolto l’esercito di liberazione freddamente, cosa accaduta anche a Parsum, arrivando in alcuni casi a dimostrare vero e proprio astio nei confronti delle truppe Federali.
Maester era basito, incapace di comprendere come l’Autarchia potesse raccogliere così tanti consensi, quantomeno nelle città minori.
Nonostante l’ostilità locale, però, la giornata passò tranquilla, e così la notte.
Ogni tanto alcune squadre abbandonavano la città, dirette verso la vallata della battaglia, e raramente tornavano integre, ma ormai era ordinaria routine.
I rumori delle bombe fecero compagnia alla luna per tutta la notte, negando il sonno a molti, e l’arrivo dell’alba non servì a risollevare gli animi.
Un altro giorni di combattimenti era in vista.
 
Reno si sporse un poco, controllando con sguardo attento le campagne.
Mancava poco all’alba, e la zona era deserta, se si escludevano alcuni fuoristrada militari che ogni tanto si vedevano passare lungo il crinale.
Dopo due giorni chiusi là dentro, a mangiare gallette e razioni in scatola, Reno iniziava ad avere la nausea, complice anche la latrina appena intasatasi.
K7 si pose di fianco a lui, steso sui gradini dell’ingresso.
<< Andiamo? >>
<< Fino al villaggio, corri. >> rispose Reno dandogli una pacca sulla spalla.
Il ragazzo si alzò e si lanciò nella trincea, correndo il più velocemente possibile, senza nemmeno guardarsi intorno.
Reno attese qualche secondo, poi iniziò anche lui a correre, più cauto, stando attento ai fuoristrada che passavano poco sopra le loro teste.
Il villaggio era distante, dalla parte opposta della spiaggia, buio e silenzioso, ancora intorpidito dal sonno dei suoi abitanti.
Il cielo iniziava a schiarirsi, colorandosi di rosso là dove il sole stava per fare capolino.
Presto sarebbero stati allo scoperto, dei bersagli perfetti per le sentinelle.
Reno aveva già il fiatone, e ansimava a ogni passo, attivando il sistema di ventilazione della sua tuta, messa in allerta dal prolungato sforzo fisico.
Non osava guardarsi indietro per vedere quanto già avevano percorso.
Ormai la cittadina era davanti a loro, illuminata dalle prime luci dell’alba, a non più di cinquecento metri.
Reno allungò la falcata, alzando il passo, e inspirò a fondo, richiamando le ultime energie per lo scatto finale.
Quattrocento metri.
La trincea finiva proprio davanti a loro, risalendo dolcemente fino ad un ultimo bunker, coi muri crepati dal calore delle fiamme che l’avevano divorato.
Ormai poteva vedere le strade della cittadina, illuminate dalla flebile luce morente dei lampioni.
Trecento metri.
Qualcuno sparò una raffica contro di loro, Reno vide la polvere sollevata dai proiettili intorno a K7, che, più in forma e più giovane di lui, lo stava distanziando.
Reno sentì una fitta persistente al petto farsi sempre più dolorosa, il cuore intento a pompare così forte da poterne sentire il battito fino alle orecchie, pulsante, continuo, costante.
Il ruggito di un motore arrivò alle loro orecchie, mentre il fuoristrada che aveva aperto il fuoco contro di loro, lontano sulla loro sinistra, accelerava per inseguirli.
Duecento metri e sarebbero stati salvi.
Reno cercò di accorciare le distanze, succhiando l’aria come un poppante al primo pasto.
Le ventole del casco ronzavano come calabroni, spingendogli l’aria fredda su per le narici.
Sul visore apparve un avviso, consigliando di cercare riparo e fermarsi.
Cento metri.
Reno era addosso a K7.
Una raffica, uno sbuffo di terra lo accecò per un istante, prima che il visore adeguasse l’immagine in uscita.
Le case era davanti a lui, poteva vedere il loro profilo attraverso la polvere.
Saltò in avanti, lanciandosi tra gli edifici, mentre una terza raffica di proiettili fischianti volava dritta sopra la sua testa, staccando calcinacci dai muri davanti a lui.
Scivolò e cadde a terra, giusto in tempo per scartare di lato e nascondersi dietro l’angolo del primo edificio.
Era solo.
Si accostò al muro e sporse la testa, guardando la strada che aveva percorso.
K7 era lì, in mezzo alla strada, in una pozza di sangue che andava allargandosi, ancora in preda alle convulsioni mentre la vita lo abbandonava.
Reno si morse il labbro inferiore, trattenendosi dall’urlare.
Il fuoristrada arrivò davanti al cadavere, la torretta automatizzata che oscillava in cerca di un bersaglio.
Reno si nascose, cercando di riprendere fiato e di ideare un piano di fuga.
L’unica via era addentrarsi nel paese, ma sicuramente gli spari avevano richiamato l’attenzione degli altri soldati lì presenti.
“Pensa in fretta, pensa in fretta” si disse, ma l’unica cosa che gli veniva in mente era svuotare il suo caricatore sul vetro balistico del blindato, una malsana idea trattenuta solo dal pensiero del proiettile da 12 che gli avrebbe passato da parte a parte il petto.
La porta dell’edificio dietro il quale era nascosto si aprì, e la testa di un uomo fece capolino.
Era un vecchio dalla pelle annerita, la barba appena accennata incolta, il cranio perfettamente rasato, una profonda cicatrice sullo zigomo destro.
L’uomo gli fece cenno di avvicinarsi.
Reno non vedeva altra soluzione.
Si avvicinò silenzioso fino al vecchio e si lasciò trascinare in casa, afferrato saldamente per una spalla.
Appena fu dentro l’oscuro e piccolo corridoio, su cui si affacciavano diversi appartamenti, si accasciò al suolo e iniziò a rantolare, cercando di far rallentare il cuore.
Il vecchio lo trascinò poco gentilmente fino alla fine del corridoio e lo tirò all’interno dell’ultimo appartamento prima delle strette rampe di scale, gettandolo su un vecchio divano al centro del piccolo salotto che fungeva da ingresso.
Reno iniziò a vedere macchie viola, e non per colpa del cuscino in cui stava affondando la testa.
Chiuse gli occhi e inspirò a fondo.
Poi venne il buio.
 
Seraphus si massaggiò le tempie.
<< Niente rinforzi? >>
<< Non proprio, signore. Truppe sì, navi no. >> rispose l’ufficiale in seconda, sull’attenti dall’altra parte della scrivania.
<< Ma lo sa il comando che così siamo fottuti, vero? >>
<< Temo di sì, mio ammiraglio. >>
Seraphus guardò verso un largo monitor appeso alla parete sulla sua destra, da cui poteva osservare lo spazio esterno.
Dietro il profilo oscuro della luna, a ridosso della quale si stavano nascondendo, poteva scorgere la superficie in ombra di Palladium, sul quale le loro forze si stavano scontrando con la Federazione.
<< Non potremo andare avanti così per molto. Presto i Federali si accorgeranno che non possiamo sostenere una battaglia spaziale e decideranno di passare all’offensiva. >> disse, voltandosi di nuovo a guardare l’ufficiale. << Ma io mi chiedo, dove è finita la nostra flotta? >>
<< Impegnata nei sistemi interni, e sembra che tutte le risorse per nuove unità siano state impegnate in altri ambiti, mio ammiraglio. >> rispose il tenente con un lieve imbarazzo.
<< E dove, di preciso? >> chiese Seraphus, accigliato.
<< Ehm… segreti di Stato, mio ammiraglio. Ordini dell’Autarca, è l’unica cosa che sappiamo. >> rispose il tenente, schiarendosi la voce.
Seraphus si tirò il corto pizzetto, trattenendosi dal digrignare i denti.
<< Sto per tornare su Flamma e strangolare Arseius con le mie mani. >>
<< Signore… >>
<< Va’, lasciami da solo. >> sbottò Seraphus.
L’ufficiale uscì dalla stanza, abbandonando rapido gli appartamenti dell’ammiraglio.
<< Perché? Perché l’ho fatto? >> si chiese Seraphus appoggiando la fronte sulla scrivania. << Perché mi sono fatto abbindolare da questo stupido teatrino? Tanto è chiaro che finirà male! >>
Si alzò, avvicinandosi allo schermo e fissando le stelle lontane.
Perdevano così tanto, attraverso le telecamere.
<< Ma chi vogliamo prendere in giro. L’intera umanità è condannata, è questo è solo il male minore. >>
Si massaggiò la fronte, cercando di chiarirsi le idee, e per un attimo lo sfiorò l’idea di scendere in mensa per prendersi un tè.
<< Mi chiedo quanto ancora potremo resistere prima di doverci lanciare in un assalto suicida. Cosa mi nasconde Arseius? >>
 
Reno aprì gli occhi, sentendosi incredibilmente più riposato.
Tutta la stanchezza che avvertiva all’alba era finalmente sparita.
Alzò la testa e si guardò i piedi.
Era steso su un vecchio divano, e non aveva più elmetto, fucile e anfibi.
La placca pettorale della sua corazza leggera era stata rimossa, insieme a tutto il suo gibernaggio, sparito chissà dove.
Si sentiva nudo senza il suo equipaggiamento, inerme, indifeso.
<< Quanto ho dormito? >> chiese al soffitto con voce roca.
<< Dormito? Sei stato praticamente in coma. >>
<< Coma? Quanto tempo? >>
<< Quasi tutta la mattina. Ti ho girato, spogliato e preso a padellate la testa. Sei rimasto incosciente, per me eri in coma. >> replicò il vecchio, affacciandosi da dietro lo schienale del divano.
Stava mangiando qualche strana bacca, masticandola rumorosamente.
<< Vuoi una? >> disse, offrendo a Reno un baccello aperto.
<< No, grazie, ho le mie gallette. >> rispose Reno con un filo di voce. << Perché lo hai fatto? >>
<< Salvarti la pelle? >>
<< Sì. >>
<< Oh, avrei fatto lo stesso per un Federale. Ho visto le pile di cadaveri sulla spiaggia, uno in meno non penso che faccia differenza, non importa di che schieramento. >>
<< Grazie. >>
<< Di niente. >> disse il vecchio, estraendo un’altra bacca dal baccello e infilandosela in bocca.
<< Posso avere dell’acqua? >> chiese Reno, iniziando ad avvertire i morsi della fame.
<< Ma certo. >> rispose l’uomo, sparendo dal suo campo visivo.
Reno fissò di nuovo il soffitto marrone, pensando per solo un attimo al compagno lasciato a morire sul terreno, subito fuori dal villaggio.
<< I soldati… se ne sono andati? >>
<< Sì, hanno preso il cadavere e sono rientrati in caserma, ma sorvegliano le case con dei droni. >>
L’uomo apparve al suo fianco, porgendogli un bicchiere.
<< E come pensi di farmi uscire? >> chiese Reno prendendo il bicchiere.
<< E dove vorresti andare? >> rispose il vecchio sorridendo innocentemente.
<< Al comando, devo fare rapporto. >>
<< E vorresti attraversare il fronte? Pazzo. >>
<< E cosa dovrei fare, secondo te? >>
Reno si alzò sui gomiti, scuro in volto.
L’uomo sembrava contrariato: forse trovava che il discorso stesse volgendo verso argomenti spinosi.
Il vecchio lo guardò, tendendo un piatto.
Conteneva un panino.
<< Dammi il tuo equipaggiamento, lo nasconderò da qualche parte, dove nessuno potrà trovarlo. Tu puoi rimanere qua, o andartene, non importa, ma nessuno saprà chi sei… nessuno si farà più male. >>
<< Vuoi farmi disertare. >> concluse Reno, mettendosi a sedere e massaggiandosi le spalle.
<< Esatto. >>
<< E cosa ti spinge a farmi questa proposta? >>
<< Non voglio che tu sprechi la tua vita, ragazzo. >>
L’essere chiamato ragazzo quasi gli strappò un sorriso.
Non era più così giovane da potersi permettere un appellativo del genere.
<< Non fare lo stesso sbaglio di chi è già morto su quella spiaggia. >> continuò il vecchio indicando la finestra. << Non eseguire ordini tutta la vita, pensa con la tua testa, fatti una vita nuova in qualche campagna isolata. La periferia è… il paradiso. >>
Reno guardò l’uomo negli occhi.
Avevano uno strano colore, scurissimi, quasi neri, con una venatura rossa che si diramava tutt’intorno alla pupilla, in una maniera abbastanza inquietante.
<< No. >>
<< Andiamo, ragazzo, appena uscirai di qui conciato così i soldati ti salteranno addosso. >>
<< E come dovrei fare? >>
<< Aspetta la pausa pranzo ed esci con gli operai che danno il cambio turno, in questo palazzo ce ne sono diversi che lavorano nelle saline qui vicino. >>
<< Dovrei confondermi tra la folla e sparire? >>
<< Esatto. >>
Reno si grattò il mento.
Non era poi una così cattiva idea, almeno per uscire dal villaggio.
Ma abbandonare lì il suo equipaggiamento sarebbe potuto costargli caro.
<< Non posso. Ho fatto un giuramento davanti ad una bandiera. >>
<< Così come lo hanno fatto i tuoi comandanti. E guardali, hanno tradito la loro bandiera senza pensarci due volte. Per cosa, poi? Per l’indipendenza di quale cultura, di quale popolo? Abbiamo colonizzato le stelle, nulla del genere ha più senso. >>
<< Non è perché non crediamo più nella Terra che facciamo questo... >> rispose Reno. << …ma perché vogliamo ridare dignità all’uomo. Guardaci, siamo proni davanti alle ingerenze aliene. Crediamo di essere autonomi e indipendenti, ma non siamo altro che carne da macello per l’Unione. >>
<< E dopo questa ennesima guerra, cosa saremo? Carne da macello senza padrone? >>
Reno distolse lo sguardo, in cerca del proprio fucile.
<< Devo andare. >>
<< Aspetta il cambio del turno, qualunque sia la tua scelta. Riposati. >>
<< Tenterai di fermarmi? >>
<< No, non ci riuscirei. >>
Tra i due calò il silenzio.
Reno prese il piatto e addentò il panino.
<< Che contiene? >> chiese, sorpreso dall’inusuale sapore.
<< Prosciutto. >>
<< Eh? >>
<< Abbiamo un piccolo allevamento di maiali qui. Sulla Terra è un prodotto raro, ma da noi è abbastanza comune. >> rispose il vecchio, fissando divertito il volto del militare. << Cos’è, troppo abituato a larve e concentrati? >>
<< Larve? >>
<< Ma sai almeno cosa ti servono per rancio? >>
Reno sentì i morsi della fame allentarsi e pensò fosse meglio cambiare argomento, prima che l’appetito gli passasse del tutto.
O poteva anche vomitare, ma temeva di essere scortese.
<< Non mi hai detto il tuo nome. >> osservò dopo poco.
<< Puoi chiamarmi Gavril. >> rispose il vecchio.
Reno rimase un attimo in silenzio, confuso.
<< Cos’è, ti suona strano? Sono i vantaggi della periferia. A nessuno importa qui delle leggi sull’onomastica. >>
<< E quindi… >>
<< Un vecchio nome di famiglia. Peccato che morirà con me. >>
<< Non hai figli? >>
L’uomo si voltò e tornò in cucina.
<< Avevo… >>
L’aria si era improvvisamente fatta pesante.
<< Come… come ti sei fatto la cicatrice all’occhio? >>
<< Oh, questa? Pescando, sono caduto su uno scoglio. >> rispose Gavril tornando dalla cucina.
In mano aveva una bottiglia contenente un traslucido liquido ceruleo.
Porse a Reno uno dei due bicchierini che teneva nell’altra mano e vi versò il liquore sconosciuto.
<< Brindiamo. Purtroppo è una mezza schifezza industriale, ma qui non abbiamo di meglio. >>
Reno poggiò il piatto col cibo accanto a sé e fissò il bicchierino.
Lo buttò rapidamente giù, tutto d’un fiato.
Bruciava in maniera dannatamente forte.
<< Ah, penso che tornerò ad acqua e pane. >> disse lasciandosi sfuggire un colpo di tosse.
<< Siete di gusti difficili voi dell’esercito. >>
<< Non bevo molto. >>
Durante le poche ore che i due trascorsero insieme, Reno capì poco o nulla del passato dell’uomo.
Gavril era un pescatore abbastanza rinomato nel paese, vedovo da chissà quanti anni, un tipo solitario in realtà, pochi amici e tanto tempo in mare.
Chissà quanto tempo prima era morto suo figlio.
Quando giunse il momento, Reno chiese e ottenne un borsone, e vi infilò dentro razioni, elmetto e fucile, nient’altro.
Gavril gli diede vecchi abiti sdruciti e unti d’olio di motore, rammaricandosi di avere piedi ben più grandi di quelli dell’incursore.
Reno sperò solo che i suoi anfibi militari non lo tradissero.
Al cambio del turno, quando la strada fuori dalla finestra iniziò a riempirsi di rumori, Reno si alzò e si diresse verso la porta, calandosi in testa un pesante berretto che gli causava un prurito particolarmente fastidioso.
<< Quindi cosa farai? >> chiese Gavril prima che il soldato potesse chiudersi la porta dietro.
<< Farò ciò che devo... >> rispose Reno, pesando attentamente le sue parole. << …anche se non è ciò che è giusto. Addio. >>
<< Addio, ragazzo, non farti ammazzare. >> concluse Gavril, amareggiato. << E non farti notare da Max, nel primo appartamento, o sono un uomo fottuto. >>
Reno chinò il capo e chiuse la porta dietro di sé.
Il corridoio era debolmente illuminato, e alcuni uomini stavano uscendo dai loro appartamenti, procedendo silenziosamente, a capo chino, verso l’ingresso.
Un vecchietto tutto pelle ed ossa presiedeva all’uscita degli operai, scrutando con occhio vigile gli uomini diretti a lavoro.
Reno si affiancò ad un giovane ragazzo con la pelle precocemente invecchiata dalla fatica e dal calore ed evitò lo sguardo del vecchio.
Non appena fu fuori, in mezzo all’esiguo drappello di uomini, si allontanò, dileguandosi in una piccola via laterale.
Percorse pochi metri prima di uscire su un’altra strada principale, dove presto incrociò una pattuglia militare.
Si infilò nuovamente in mezzo alla folla, sperando di non dare nell’occhio, e raggiunse con i suoi nuovi compagni un autosnodato grigio intorno al quale i lavoratori delle saline si stavano accalcando.
Non vide altra soluzione che salire sul mezzo, pur di evitare i soldati che controllavano il flusso di operai.
Il viaggio fu breve, e in poco tempo arrivarono alle saline, delle distese bianche circondate da bassi edifici industriali, intorno ai quali erano state erette grandi montagne di sale ancora da lavorare.
Il parcheggio in cui scesero era desolato, se si escludevano alcune vetture appartenenti sicuramente agli amministratori di quell’azienda.
Non fu difficile per Reno staccarsi dalla massa di operai e trovare gli uffici, e non fu nemmeno difficile entrare in uno di essi, estrarre il fucile dal borsone e farsi consegnare le chiavi di un mezzo dallo spaurito impiegato che si trovava all’interno, ancora intento a mangiare il suo pasto.
Con la promessa di lasciare il mezzo all’ingresso di Evandrum, Reno abbandonò l’ufficio e tornò al parcheggio, dove riuscì finalmente ad infilarsi in un vecchio pick-up nero e a mettersi in moto, diretto finalmente verso la capitale.

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Capitolo 6
*** Sei ***


Maester era intento a revisionare i cingoli del suo mezzo, mentre un suo commilitone lo aggiornava sulla situazione, visibilmente colpito dalle notizie che circolavano tra le truppe.
<< Abbiamo preso un mezzo nemico, non troppo distrutto. >> diceva il sergente con fare concitato.
<< E quindi? >> chiese Maester apatico.
<< Abbiamo la loro tecnologia levitante, e indovina un po’? >>
<< È roba mai vista? >> chiese Maester sostituendo la placca gommata di una maglia.
<< Al contrario. >>
Maester finalmente alzò la testa incuriosito e guardò in faccia il suo interlocutore.
<< E cosa sembra? >>
<< Tecnologia Volosiana, perfettamente identico ai loro carri visti durante la Grande Guerra e durante l’Infestazione. >>
<< Ma i Volosiani non hanno mai voluto condividere la loro tecnologia con noi, come… >>
<< Appunto, aspetta che lo scoprano sulla Terra. >>
 
Drusus fissava il pianeta sotto di loro, così vicino a loro, e osservava le devastazioni dei bombardamenti che avevano compiuto per settimane.
Molti là sotto non sarebbero stati contenti, forse non era stata la mossa giusta.
Ma in qualche modo avrebbero dovuto ammorbidire il sito di sbarco prima dell’invasione.
<< I rinforzi sono arrivati al limite del sistema, signore, e il generale Aforisis ha richiesto la sua presenza in sala comando. >> gli comunicò un sergente appena arrivato alle sue spalle.
<< Lo raggiungerò subito. >> disse Drusus voltandosi.
Il sergente si mise a riposo e attese che il colonnello lo superasse.
<< Abbiamo inviato le prede belliche nel Nucleo, con le navi di supporto. Presto avremo risposta dalla Terra. >> disse, ponendosi al suo fianco e seguendolo
<< Presto è un termine relativamente ambiguo. >> rispose il colonnello abbozzando un mezzo sorriso.
<< Signore? >>
<< Le comunicazioni tra sistemi stellari non penso possano essere definite rapide. Avevamo finalmente la comunicazione istantanea, e poi abbiamo iniziato a colonizzare altri mondi, aumentando le distanze. Le nostre capacità comunicative sono tornate indietro di secoli. >>
<< Comprendo signore, ma non vedo altro modo… >>
<< Purtroppo non c’è. >> concluse Drusus.
<< Signore. >> rispose il sergente, accommiatandosi.
Drusus non ci badò nemmeno.
Continuò a vagare per la nave, perso nei suoi pensieri, fino a giungere al ponte su cui era situata la sala di comando del generale.
Non fu facile abituare subito gli occhi al buio che regnava sovente lì dentro, ma conosceva abbastanza il posto da potersi muovere anche senza l’ausilio degli occhi.
<< Colonnello. >> disse Aforisis, avvolto nell’ombra accanto al tavolo centrale.
<< Signore. >> disse Drusus, mettendosi sull’attenti.
<< Riposo. >>
<< Perché mi avete chiamato, signore? >> chiese Drusus.
<< Le operazioni vanno a rilento, colonnello, ho bisogno che lei guidi i rinforzi sul campo, non appena sbarcheranno. >>
<< E dove intende farli sbarcare? >>
Il generale premette qualche pulsante sulla consolle agganciata al fianco del tavolo metallico, proiettando immediatamente una mappa tridimensionale della superficie di Palladium, al centro della quale dominava una vasta metropoli.
Su un lato della mappa, segnato in rosso, era visibile il fronte di combattimento.
<< Direttamente alle porte di Ecumenes, dietro le linee nemiche. I rapporti dalla superficie indicano che le difese aeree nemiche sono ormai inesistenti, quindi siamo liberi di atterrare così vicini al fronte. >>
<< È sicuro che i soldati non si ritroveranno spaesati una volta a terra? Le simulazioni finora fatte presentavano scenari ben diversi. >>
<< Hanno ancora un paio d’ore per rimediare. >>
<< Non basteranno un paio d’ore nella realtà virtuale per prepararli a dovere. >>
<< Non abbiamo altra maniera. Il nemico non sembra intenzionato ad ostacolarci, quindi è meglio rinforzare l’offensiva terrestre finché possiamo. Questa operazione è già durata fin troppo. >>
Drusus chinò il capo e spostò tutto il peso sulla gamba artificiale.
<< Mi ricongiungerò al mio reggimento, una volta a terra? >>
<< Certo, e lascerà il comando delle truppe a chi di dovere. >>
Il colonnello fissò la mappa.
<< Sarà fatto, signore. >>
Il generale fece un cenno con la testa.
Drusus salutò e uscì dalla sala.
 
Maester fissò la devastazione che circondava la metropoli di Ecumenes, le cui campagne circostanti erano state bombardate con ogni sorta di proiettile a disposizione della Federazione nel corso delle precedenti settimane.
<< Diamine, che macello. >> borbottò, mentre il suo carro procedeva lento sull’autostrada semidistrutta.
Intorno a loro vi erano veicoli carbonizzati e crateri larghi anche centinaia di metri di diametro, ma nessuna traccia di cadaveri, forse completamente vaporizzati dalle terribili esplosioni, chi poteva dirlo.
La colonna era partita alcuni giorni prima, dopo aver dato battaglia per quasi settanta ore ininterrotte a due brigate corazzate nemiche ed essere riuscita a sfondare le loro linee solo con la forza dei numeri.
Avevano lasciato parecchi uomini e mezzi lì in quella vallata, davanti alle colline che separavano le due città.
Ma avevano passato di peggio.
I grattacieli davanti a loro brillavano nella luce del tardo mattino, illesi nonostante la tempesta scatenata a pochi chilometri da loro.
Prima ancora che giungessero alla periferia iniziò a piovere fuoco su di loro, portato dalle batterie di artiglieria a corto raggio.
La colonna corazzata si aprì a ventaglio, schierandosi in linea di battaglia e procedendo rapida verso le linee nemiche.
Arrivare fino alla città fu piuttosto semplice, poiché il fuoco dell’artiglieria non era abbastanza intenso da battere a tappeto tutta la loro linea di avanzamento ma, una volta all’interno delle strade cittadine, scoppiò l’inferno.
 
Drusus fissava le colonne di fumo nero che si alzavano dai maestosi palazzi di Ecumenes, mentre i combattimenti ancora si protraevano nei quartieri settentrionali.
Le prime due ondate di trasporti erano già atterrate in una vasta area cittadina nella periferia a nord, dove i ribelli continuavano però a opporre una strenua resistenza, mantenendo salde le loro posizioni in mezzo ai palazzi.
<< La popolazione? >> chiese Drusus ad un suo sottoposto, seduto accanto a lui nel vano di carico del VTOL che li stava portando a terra.
<< Molti sono scappati fuori città prima che iniziassero i combattimenti. Chi è rimasto è rinchiuso in casa. >>
<< Ti prego, dimmi che non hanno attraversato le campagne mentre bombardavamo. >>
<< Temo il contrario, signore. >>
Drusus si coprì il volto e chiuse gli occhi.
<< Dobbiamo stanare i ribelli, ma cerchiamo di limitare i danni agli edifici. >>
<< Temo sia troppo tardi per una simile direttiva, signore. >>
Drusus guardò fuori dal portellone.
Un drone si librò ronzante sotto di loro, mosso dai suoi quattro piccoli rotori, osservando il campo di battaglia con il suo obiettivo ad alta definizione.
Qualche proiettile volò contro di lui, mancandolo e volando oltre, verso il velivolo poco più in alto.
<< Chiudere il portellone! >> ordinò Drusus, e la paratia laterale scivolò sigillando il ventre del mezzo.
<< Quanto manca? >> chiese un soldato.
<< Fuoco in arrivo! >> urlò il pilota alla radio.
Drusus si alzò ed entrò nella cabina di pilotaggio, tornando a fissare lo scenario davanti a loro.
Qualche mitragliatrice pesante aveva deciso che doveva abbatterli e tentava vanamente di colpirli.
Se fosse riuscita a centrarli avrebbe sicuramente perforato lo scafo, ma difficilmente avrebbe messo a segno anche un solo colpo.
<< Dieci secondi allo sbarco. >> riferì il pilota facendo abbassare bruscamente il VTOL e calandosi in mezzo ai palazzi alti sei piani, ancora integri.
Il portellone posteriore si aprì, e una prima squadra abbandonò il velivolo, dispiegandosi al centro della strada.
Il reparto di comando del reggimento scese dal mezzo, al sicuro e lontano dagli scontri.
Lontani si udivano i rumori della battaglia, sommessi e innocui.
<< Il centro di comando? >> chiese Drusus, guardandosi intorno.
Il sottoposto indicò un palazzo sulla loro destra, un edificio giallo e visibilmente segnato dall’età, verso il quale la truppa si diresse immediatamente, mentre il VTOL riprendeva rapidamente il volo.
<< Assumo il comando delle operazioni. >> fu la prima cosa che Drusus disse non appena furono all’interno dell’improvvisato centro comando, nella sala da pranzo di un appartamento abbandonato dove alcuni sottoufficiali avevano posizionato una centralina radio.
Un soldato srotolò un pannello semirigido sul tavolo al centro della sala e vi collegò un piccolo generatore che aveva portato in spalla fin lì.
Il pannello si illuminò, trasformandosi in uno schermo interattivo su cui venivano trasmesse le riprese dei droni che sorvolavano la città, tenendo il comando aggiornato su ogni minimo dettaglio della sanguinosa battaglia.
Drusus toccò il pannello, spostando la visuale da un quartiere all’altro, passando in rassegna ogni drone, osservando i cruenti combattimenti che si stavano svolgendo nelle strade.
<< Tutti i fronti avanzano, bene. >> osservò compiaciuto, lo sguardo fisso sul pannello. << Sembra che il peggio sia già passato. >>
<< Se mi è concesso, signore, non esulterei così presto. >> osò dire un maggiore dalle guance scavate.
<< Lo so. Inviate la fanteria corazzata al centro, fate avanzare le riserve e chiudiamo questa faccenda. >> rispose Drusus vagando con un dito sullo schermo. << Mostriamo il pugno di ferro ed evitiamo di tediare ulteriormente la popolazione con altri spargimenti di sangue. >>
<< Non teme che i cecchini…? >> insistette il maggiore.
<< No, se i droni funzioneranno a dovere. >> lo interruppe Drusus. << Fate avanzare quei fanti. >>
Il maggiore si ammutolì e chinò il capo in un cenno d’assenso.
 
Maester fissò la strada vuota e invasa dai detriti e dalle carcasse in fiamme delle auto.
Pozze di fango e sangue ricoprivano l’asfalto, bossoli erano sparsi ovunque, mobili distrutti cadevano dai palazzi sventrati e prossimi a crollare, taniche di benzina e casse sfondate giacevano abbandonate qua e là, ma nemmeno un cadavere in vista.
Era inquietante quanto entrambe le fazioni fossero veloci nel portare via morti e feriti, poiché ciò che lasciavano, così ferocemente segnato dagli aspri e rapidi combattimenti che ancora impazzavano altrove, era uno scenario ai limiti del surreale.
Un campo di battaglia ancora vivo e sanguinante, eppure vuoto.
Non un soldato urlava in preda al dolore, non un uomo si dimenava spasmodico negli ultimi istanti di agonia, nessuno.
Erano soltanto loro tre, il carro, e i venti fanti dietro di loro che tenevano sott’occhio i tetti sopra le loro teste.
Un cecchino aprì il fuoco, mandando a terra un sottufficiale, immediatamente trascinato via dai suoi compagni.
<< Hakri, un grado a sinistra, missile termobarico sul palazzo di fronte, ottavo piano. >> disse Maester apatico.
Il lanciamissili sparò una delle sue quattro testate contro il palazzo, la quale esplose all’interno dei suo appartamenti, incendiando l’aria, sgretolando vetro e cemento, facendo crollare i piani sovrastanti in una nube di fuoco fin troppo rosso che per qualche secondo rimase sospesa nell’aria, arroventandola.
Maester osservò l’esplosione, lo sguardo spento.
Un vero peccato non aver avuto simili munizioni sulla spiaggia, per colpa dei sabotatori.
Superarono l’edificio distrutto e proseguirono in una via sulla destra, larga e piena di auto distrutte.
Un caccia abbattuto giaceva ai piedi di un edificio, la carlinga schiacciata e compressa, l’abitacolo ridotto a una fessura.
Un’ala, strappata dall’asfalto nel momento in cui il velivolo aveva toccato il suolo, era rimasta diversi metri più indietro rispetto al resto del mezzo.
Del pilota nessuna traccia.
Forse si era eiettato in tempo, o forse era lì in mezzo, schiacciato dalle lamiere.
Pochi metri più in là, ad un incrocio, incontrarono un’altra colonna, diretta come loro verso la periferia nord della città.
Lontano si udì il rumore di un altro sparo, segno che i tiratori scelti ancora li osservavano dai tetti, amici o nemici che fossero.
Gli edifici iniziarono a divenire più bassi e appariscenti, mentre i segni della battaglia si facevano sempre più freschi.
Un altro cecchino sparò nella loro direzione, mancando per un soffio un sergente nascosto dietro il carro.
Maester cercò il cecchino attraverso gli iposcopi.
<< Rosso-1, fermi. >> ordinò il sergente alla radio.
<< Apriamo il fuoco? >> chiese Maester.
<< Negativo, abbiamo distrutto fin troppi palazzi. >>
Il capocarro si voltò e guardò la strada alle loro spalle attraverso gli iposcopi posteriori, dove avevano fatto il deserto.
Un po’ tardi per dire di fare attenzione.
<< Ma siete seri? >>
<< Ordini appena arrivati, non guardare me. >>
Maester aprì il casco e si massaggiò le tempie, rimanendo in attesa.
<< Tutto a posto? >> gli chiese Hakritus dalla sua postazione.
<< Anticarro sulla destra, ci pensiamo noi. >> comunicò il sergente attraverso la radio.
Un cecchino salì sul retro del carro e appoggiò l’arma sulla torretta, prese la mira, trattenne il respiro.
Sparò il primo colpo, espirò, prese di nuovo la mira, trattenne ancora il respiro, sparò un secondo colpo.
Dal palazzo indicato un uomo cadde nel vuoto, scivolando sui calcinacci di una parete distrutta.
L’atterraggio non fu un bello spettacolo.
<< Avanzare. >> ordinò il sergente.
Un missile impattò al suolo davanti al carro, investendo il muso del mezzo con la sua esplosione.
<< Rabu? >> chiese Maester sigillando di nuovo l’elmetto.
<< Ancora vivo, capo. >>
<< Quanti cazzo sono? >> urlò Hakritus ruotando la torretta.
<< Hakri, fermo! >> gli ordinò Maester, inutilmente.
Hakritus attivò il lanciarazzi, sparando un secondo missile sul palazzo dai cui era provenuto il colpo, distruggendone completamente la facciata.
<< Sergente, tenga a bada la sua squadra! >> urlò il comandante alla radio.
<< Hakri, lascia quella cazzo di consolle! >> sbraitò Maester, schiacciando con un piede il casco del compagno.
Un altro missile anticarro atterrò sulla torretta, spellandola dell’ERA e mandando in avaria il lanciarazzi.
<< Ripiegare, sono troppi. >> arrivò dalla radio.
<< Maester, cingolo sinistro danneggiato! >> comunicò Rabuleius.
<< Merda! >>
Hakritus ruotò la torretta e fece fuoco col cannone, devastando un appartamento al terzo piano di una palazzina grigia sulla loro sinistra.
Da un palazzo lontano arrivò un terzo missile, che colpì la fiancata del carro e perforò lo scafo.
<< Il motore! >> avvertì Rabuleius.
<< Tutti alla botola! >> ordinò Maester. << Abbandonare il mezzo! >>
Il secondo carro dietro di loro spazzò via la palazzina sbagliata con un missile, la linea di tiro bloccata dal mezzo alleato in panne.
<< Rabu, gira il carro ed esci di lì! >> strillò Maester concitato, la voce roca.
Rabuleius fece girare il corazzato sul posto sfruttando il cingolo ancora funzionante, in modo da offrire il muso al nemico, e abbandonò la sua postazione, piegando il sedile all’indietro e aprendo una botola alle sue spalle, trascinandosi in un angusto corridoio fin sotto la torretta.
<< Hakri, apri! >> urlò all’artigliere, che ancora maneggiava cannone e mitragliatrice cercando di stanare il nemico.
<< Hakri, vai, copro io! >> gli ordinò Maester, mettendo mano ad una cloche e osservando su un piccolo schermo laterale i danni provocati dalla mitragliatrice media controllata in remoto sopra di lui.
Hakri, tirato per le caviglie da Rabuleius, si decise finalmente ad abbandonare la sua postazione e si calò fin sopra la botola, sganciandola e aprendo finalmente una via di fuga, mentre il motore iniziava a borbottare minacciando di esplodere.
Hakritus si calò nel varco, seguito subito dopo da Rabu.
Non appena furono entrambi fuori Maester abbandonò la cloche e aprì la botola sopra la sua testa, issandosi all’esterno del mezzo.
Colpi di mitragliatrice fischiarono intorno a lui, mancandolo per un pelo.
Rotolò sulla torretta e si gettò sul retro del carro, atterrando malamente sulle bocchette del radiatore, venendo trascinato fino a terra da un fante.
<< Allontanarsi! >> ordinò il soldato trascinandolo via.
Rabu e Hakri erano affianco a lui, le mani alte a proteggersi la testa, le schiene piegate per tenersi bassi.
<< Medico! >> urlò il soldato che lo stava salvando.
<< Sto bene, fammi camminare! >> disse Maester, afferrando la mano che lo teneva per il corpetto tattico.
<< Sanguini, amico. >> gli rispose il proprietario della mano.
Maester abbassò lo sguardo, fissandosi il ventre.
Il fianco sinistro era rosso, eppure non sentiva dolore.
<< Ce la faccio. >> rantolò mentre il soldato lo metteva al sicuro dietro la carcassa di un’auto.
Un’esplosione provenne dall’interno del carro, mentre dalla volata del cannone usciva denso fumo bianco e dalla botola della torretta si alzavano lingue di fuoco alte un metro.
Maester fissò stordito la scena attraverso i finestrini distrutti dell’auto, troppo intontito per poter reagire.
<< Ritiriamoci, prima di perdere un altro mezzo. >> disse il caposquadra.
<< Riesci a camminare? >> chiese Rabu a Maester, afferrandolo per le spalle.
<< Sì, tranquillo. >> rispose l’ormai ex-capocarro.
Rabuleius lo aiutò ad alzarsi e gli offrì una spalla e così, coperti dal carro in retromarcia, il drappello di soldati, sconfitto, si ritirò dalla battaglia.

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Capitolo 7
*** Sette ***


Reno fissò la città lontana, illuminata dalla piccola luna.
Ecumenes finalmente dormiva tranquilla, dopo essere stata stuprata dalla violenza dei suoi aggressori.
Non pensava che i Federali sarebbero arrivati a tanto, pur di riprendersi il pianeta.
Non sparare sui loro stessi cittadini.
Dal fumo che ancora si levava dagli edifici sventrati e si mescolava all’oscurità notturna, nascondendo le poche stelle in cielo, si capiva che doveva esserci stato l’inferno lì in mezzo, o forse c’era ancora.
Abbandonò la cresta del cratere dentro il quale si era nascosto e raggiunse la sua vettura.
Ecumenes, data la situazione, era quindi da evitare come la peste, e non rimaneva altra soluzione che puntare direttamente su Evandrum.
Evitare l’autostrada gli avrebbe fatto perdere tempo prezioso, però non aveva scelta, o sarebbe stato di nuovo catturato, poco ma sicuro.
Entrò nel veicolo e poggiò le mani sul volante, indugiando per un attimo.
Non andava per niente bene, per niente.
Mise la mano intorno alla chiave infilata nel blocco di accensione.
E se attraversando le campagne fosse finito in mezzo a un bombardamento?
Girò la chiave e mise in moto, dando gas al motore.
Forse un tiratore scelto avrebbe messo fuori uso il suo pick-up con un colpo ben piazzato, tenendo il secondo proiettile per il suo cranio.
E magari quel tiratore scelto era pure dalla sua parte.
Si allargò il colletto della sua uniforme nera mentre l’auto si muoveva in avanti, procedendo lenta in mezzo ai crateri e ai campi.
Forse il buio lo avrebbe nascosto sufficientemente ai velivoli in ricognizione, o forse non sarebbe arrivato all’alba del giorno dopo.
L’unica cosa sicura era che nel borsone gettato sui sedili posteriori gli rimanevano solo un caricatore e mezzo.
Pensare a come tornare a Evandrum lo aveva completamente distolto dal chiedersi su cosa avrebbe fatto una volta raggiunta la capitale.
La sua unità era stata annientata, lui era solo e disperso, e forse segnato come disertore.
O forse c’era ancora speranza, forse poteva ancora fare qualcosa per riportare la pellaccia a casa.
Di sicuro l’ultima cosa che voleva era morire lì su quel pianeta dannato, così lontano dal sistema Coriolis, dove era nato, dove la Piaga aveva spazzato via due terzi della popolazione, dove la Federazione aveva agito con accidia e lentezza, dove l’Autarchia aveva messo subito radici e aveva raccolto proseliti.
Ecumenes ormai era dietro di lui, sparita oltre la linea dell’orizzonte.
L’autostrada giaceva lontana sulla sua destra, dove era sparito il sole.
Nessun segno dei Federali, per sua fortuna.
Dei soldati dell’Autarchia, però, nessuna traccia.
Eppure il posto di blocco all’ingresso della capitale non doveva essere lontano, non doveva far altro che continuare a guidare.
 
Gregorius si conficcò l’unghia del pollice nell’indice, sperando che la sua vettura personale si muovesse più velocemente.
La strada purtroppo era praticamente intasata, colpa anche dell’ora di punta.
<< Non c’è modo di passare? >> chiese all’autista davanti a lui.
<< No, signore. C’è un posto di blocco davanti a noi. >>
Gregorius si morse il labbro inferiore, cercando di ragionare lucidamente.
<< Non c’è nessuna via laterale? >>
<< Bloccata, signore. >>
<< Oh, dannazione. Abbandoniamo il mezzo. >>
<< Ma… >>
<< Nessun ma, dobbiamo arrivare a casa. >>
<< Signore, i militari pattugliano tutto il viale. Temo non sia una buona idea. >> rispose il giovane autista, visibilmente preoccupato.
<< Al diavolo! >> sbottò Gregorius, sistemandosi sul sedile improvvisamente scomodo.
Il posto di blocco, lentamente, si fece poco a poco più vicino.
Un soldato si avvicinò all’auto e bussò sul finestrino lato guida.
<< Documenti, prego. >> ordinò non appena l’autista abbassò il vetro, la voce lievemente distorta dall’elmetto integrale.
Gregorius estrasse il portafogli e lo passò all’autista, il quale aprì il cruscotto, prese la sua tessera identificativa e la passò al militare, insieme a quella del suo superiore, appena sfilata dal portafogli.
<< Generale Ferris, chiedo scusa per il contrattempo, signore. >> disse il soldato non appena passò i due tesserini davanti allo scanner del suo tablet.
<< Riferisca di non preoccuparsi. >> disse Gregorius all’autista.
<< Abbassi il finestrino. >> ordinò il militare restituendo le tessere all’autista.
Gregorius non se lo fece ripetere.
<< Signore. Vedo che lascia i suoi uffici prima del tempo, signore. >> fece notare il soldato, fissando Gregorius attraverso le spesse lenti scure dell’elmetto.
<< Lo so, purtroppo sono richiesto a casa per motivi familiari. >> rispose il generale sudando freddo.
<< Problemi con sua moglie, signore? Spero nulla di grave. >> disse il soldato alzandosi e facendo segno agli altri militari di far passare la vettura.
Gregorius espirò, sollevato, mentre l’auto superava il posto di blocco e finalmente prendeva velocità raggiungendo rapida la superstrada che collegava i vari distretti cittadini.
La piccola villa in cui abitava, all’interno di uno dei parchi residenziali che dominavano tutti i quartieri alti della città, era modesta rispetto alle altre case del quartiere, un moderno edificio privo di fronzoli e pacchianerie tipiche dell’alta società.
I pochi servitori che pagava per tenerla in ordine lo accolsero stupiti, accompagnandolo subito dalla moglie, nella sua biblioteca personale.
<< Nile, tesoro, devi partire immediatamente. >> disse irrompendo nella lussuosa stanza.
<< Caro! Tutto bene? >> chiese l’anziana donna, sorpresa dalla presenza del marito.
<< C’è stato un colpo di Stato, il Cancelliere è stato deposto da Celsius… >>
<< Il ministro della difesa? >>
<< Sì. L’esercito è entrato in Senato ed è stato il caos. La polizia militare sostiene ancora Cassandor e protegge il suo gabinetto. Potrebbero esserci scontri in città. >>
<< E tu…? >> chiese la donna, guardando l’uomo provato dalla fatica negli occhi stanchi.
<< Io dovrò presto schierarmi, e qualsiasi scelta farò ci saranno delle conseguenze. Per questo ti ho preparato uno shuttle personale, un mio fidato amico ti porterà sulla Luna. Aspettami lì, se le cose dovessero mettersi troppo male abbandoneremo il sistema insieme. >>
<< Caro… >>
Lei si gettò tra le sue braccia, stringendolo forte.
<< Tranquilla, ne usciremo interi. >> la consolò Gregorius baciandole i folti capelli rossicci.
<< Vado a preparare i bagagli. >> disse lei staccandosi e asciugandosi una lacrima.
<< Non esagerare con le valige. Io devo andare in banca, sposto i soldi su un conto sicuro. Sullo shuttle riceverai una nuova carta, usa quella per qualsiasi acquisto. >> disse Gregorius controllando di avere ancora addosso il portafogli.
<< Va bene, a dopo, amore. >> rispose la moglie dandogli un rapido bacio e uscendo dalla stanza.
Gregorius sospirò, concedendosi un attimo di riposo.
L’autista bussò alla porta che sua moglie aveva chiuso dietro di sé.
<< Signore, tutto bene?  >> chiese gentilmente.
<< Sì, Mars, arrivo subito. >>
Gregorius si avvicinò alla porta, afferrando delicatamente la fredda maniglia.
Si fermò un attimo e si guardò indietro, passando in rassegna ogni scaffale ricolmo di libri presente nella stanza.
Probabilmente non avrebbe mai più rivisto nessuno di quei volumi.
Si voltò, abbassò la maniglia e abbandonò la sua casa.
 
Maester si grattò la scura barba ispida che ormai copriva il suo volto, fissando la strada vuota e distrutta che il suo nido sorvegliava.
Da quanto tempo erano in quella città?
Ormai aveva perso il conto dei giorni.
Nonostante la ferita fosse guarita ormai da un po’ il fianco ancora gli doleva, così forte che ogni tanto lo trovavano piegato per terra, in posizione fetale, il volto contratto in una smorfia di dolore e il corpo zuppo di sudore e scosso dai brividi, evento inizialmente abbastanza raro, per sua fortuna, ma che iniziava a presentarsi sempre più frequentemente nel sonno, subito prima della sveglia.
Almeno non aveva ancora preso a pisciarsi addosso nella branda.
Un movimento in fondo alla strada richiamò la sua attenzione.
Scattò in avanti, la mano già sul grilletto della mitragliatrice media posta davanti a lui.
Un’ombra, ecco cosa aveva visto, null’altro.
Rumore di sassi in caduta.
Si avvicinò al treppiede dell’arma e puntò la canna verso la fonte del rumore.
Silenzio.
Un pianto di bambino, non troppo lontano.
Una donna uscì allo scoperto, le mani in alto sopra la testa, chiedendo di non sparare.
Aveva il volto sporco, i capelli biondi spettinati, gli occhi azzurri umidi.
Attraversò la strada e sparì in mezzo agli edifici, così come era apparsa, e il bambino qualche secondo dopo tacque.
Maester si gettò indietro, tornando a stendersi sui sacchi di sabbia che circondavano il nido.
Rumore di spari, lontano, raffiche brevi.
Chissà quando sarebbero arrivati altri rinforzi.
Il terreno iniziò a vibrare, lieve.
Carri.
Una colonna di IFV arrivò alle sue spalle, proseguendo la sua marcia nella direzione da cui provenivano gli spari.
Maester si alzò in piedi e fissò i veicoli in movimento, gli occhi spenti e malinconici, mentre i capicarro si sporgevano per salutarlo.
Sui mezzi di coda, ammassati come topi sopra ai veicoli, sedevano altri fanti, i volti impassibili, seri.
La colonna sparì in mezzo alla polvere, lasciandolo lì, da solo, nella sua postazione.
Per un attimo Maester si chiese quanto fosse lecito provare affetto per una macchina.
 
Vessimer fissò la mappa proiettata sul muro.
<< Ecumenes resiste meglio del previsto, nonostante tutto. Notizie dalla capitale? >> chiese ad uno dei suoi attendenti.
<< I rinforzi ci sono stati negati di nuovo, mio console. >> rispose l’uomo.
<< Che diamine avrà in mente Arseius? >> borbottò Vessimer tra sé e sé.
Aveva un’intera brigata corazzata priva di mezzi, scampata per miracolo alle soverchianti forze Federali pronte ad annientarla.
Non si poteva certo dire che tutto stesse andando come sperato, ma appariva ormai chiaro che il motivo alla base di tutti i loro problemi fosse uno solo, il numero.
I loro mezzi, per quanto ne sapevano, erano superiori sotto ogni aspetto, ma la mancanza di rinforzi e la carenza di rifornimenti iniziavano a farsi sentire, mentre invece i Federali, già più numerosi, continuavano a far fluire sul pianeta uomini e armamenti.
Per non parlare dell’incostanza dell’ammiraglio Seraphus nel portare avanti una strategia offensiva efficiente.
Di questo passo sarebbero arrivati a dover contare solo sul materiale che la flotta riusciva a sottrarre al nemico, e di sicuro non bastava, se Seraphus non si decideva ad agire più aggressivamente.
Vessimer iniziava ad avere dubbi, il che non poteva portare a nulla di buono.
Arseius era riuscito col solo uso della parola ad organizzare tutto quello, Arseius era riuscito ad intavolare trattative con i Khorsiani, Arseius aveva radunato intorno a lui interi sistemi col solo uso della parola.
E adesso Arseius lo stava abbandonando a sé stesso.
Odiava sentirsi tagliato fuori.
Prima della fine della guerra Vessimer avrebbe avuto delle risposte dall’uomo che un tempo considerava suo amico.
Per adesso, l’unica cosa che poteva fare era tenere un trasporto pronto per tornarsene rapidamente in orbita.
 
“Raggiungere il posto di blocco non è stata poi una così brillante idea” pensò Reno mentre veniva trascinato di nuovo nella sua cella.
Il processo di rieducazione, per assicurarsi che il suo rapporto su quanto accaduto da Antis fino a quel momento fosse assolutamente veritiero, era stato una sorpresa tutt’altro che piacevole.
Almeno era l’ultimo giorno di quella dannata tortura, per sua fortuna abbastanza breve.
Da quel che aveva sentito la campagna andava male, stavano per rimanere a secco di qualsiasi cosa e la popolazione nella capitale non accennava a voler collaborare, a differenza degli abitanti dei paesi minori, che si erano dimostrati ben più accondiscendenti con le forze di invasione dell’Autarchia; peccato che tali centri minori fossero ormai stati liberati dai soldati della Federazione.
Se la situazione era davvero così, a difesa della capitale non sarebbero rimaste che milizie improvvisate e male addestrate, e ciò non poteva che portarli in una sola direzione.
Più il tempo passava, più ciò che gli aveva detto il vecchio pescatore gli risuonava nella testa, sempre più allettante.
Scosse il capo, facendo tornare a fuoco la porta blindata davanti a lui, e si asciugò il sangue che gli colava da dietro l’orecchio sinistro.
No, l’Autarchia aveva ancora bisogno di lui.

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Capitolo 8
*** Otto ***


Maester abbassò la testa e guardò il basso casale alla fine della strada, dove i ribelli si erano arroccati, da dietro l’angolo di una palazzina danneggiata.
Altri fanti erano nascosti dietro coperture improvvisate lungo tutta la via, inchiodati dal fuoco delle mitragliatrici nascosti nell’edificio.
I blindati erano rimasti indietro, incapaci di attraversare una strada così stretta e impegnati altrove da altri nemici.
<< Non c’è modo di aggirarlo? >> chiese a Rabuleius, dietro di lui.
<< Quel vicolo, dovrebbe girare intorno alla villa. >> rispose l’ex-pilota, indicando un’angusta viuzza davanti a loro, sulla destra.
<< Dovrebbe? E i droni che li teniamo a fare? >> chiese Maester mordendosi la lingua per non imprecare.
<< Abbattuti. >> rispose Rabuleius, facendo spallucce.
Una raffica di proiettili colpì lo spigolo del muro, facendo piovere calcinacci.
<< Allora, io vado per primo, Rabu segue, Hakritus copre. Avete cariche per il lanciafiamme? >> disse Maester guardando i due compagni di squadra dietro di lui.
Hakritus si sporse da dietro il compagno e lanciò al superiore un cilindretto metallico, che Maester afferrò al volo e inserì nell’apposito scomparto attaccato sotto la canna del suo fucile.
<< Pronti, vado. >> disse voltandosi e lanciandosi in mezzo alla strada.
Hakritus si avvicinò al margine del muro e iniziò subito a sparare.
<< Io mi chiedo perché cazzo non si sono portati dietro un lanciarazzi. >> bofonchiò Maester atterrando nel vicolo e prendendo fiato, mentre Rabuleius lo raggiungeva.
Maester prese posizione e iniziò a sparare sul nemico, dando copertura al compagno rimasto indietro.
Il vicolo era sudicio, buio e angusto, e piegava rapidamente a sinistra girando tutt’intorno al piazzale al centro del quale si trovava il loro obbiettivo.
Non ci volle molto per arrivare alle spalle dell’edificio, dove la strada si allargava di nuovo e si separava in un bivio.
<< Sembra essere stata una buona mossa. >> sussurrò Hakritus avanzando cauto insieme ai suoi due compagni.
Da una finestra apparve la bocca di una mitragliatrice.
<< A terra! >> urlò Maester, lanciandosi sull’asfalto sbrecciato.
Su di loro piovvero proiettili che spazzarono tutto il vicolo.
<< Ecco, ora siamo inchiodati anche qui! >> disse Hakritus sbraitante. << Bella mossa, Rabu! >>
Maester rotolò fino ad una porta.
<< Smettila di urlare e spara! >> ordinò, piazzando una carica plastica sulla serratura e allontanandosi strisciando.
L’esplosione che seguì abbatté la porta, piegandone il metallo e facendola cadere all’interno della casa.
<< Hakri, con me! Rabu, resta lì! >> ordinò Maester lanciandosi nel varco appena aperto.
Rabuleius, bloccato dal fuoco nemico sull’altro lato della strada, non ebbe nulla da obbiettare.
L’appartamento in cui entrarono Maester e Hakritus sembrava vuoto, ma il pianto di bambini tradiva i suoi occupanti, nascosti chissà dove.
<< Seguimi. >> disse Maester al compagno, avvicinandosi ad una finestra chiusa.
<< Abbiamo una linea di tiro pulita? >> chiese Hakritus avvicinandosi a lui.
<< Sì. Lancia una granata su quella finestra. >>
<< Non me lo faccio ripetere. >>
Hakritus si inginocchiò e poggiò il fucile sul davanzale della finestra, prendendo la mira.
Spostò la mano sul grilletto secondario del lanciagranate e si preparò a fare fuoco.
<< Al mio segnale. >> disse Maester alzando il fucile e preparandosi a colpire.
Il calcio dell’arma volò contro il vetro, impattando violentemente ma non provocando nessun danno.
<< Merda! >> urlò Maester ripetendo l’operazione una seconda volta.
<< Faccio io. >> disse Hakritus sparando due proiettili contro la finestra.
Maester colpì di nuovo il vetro che finalmente andò in frantumi.
<< Via! >>
Hakritus fece scivolare di nuovo la mano fino al lanciagranate e fece fuoco.
La granata volò dritta dentro la finestra a cui era appostato il nemico, la quale esplose nel giro di un secondo tra urla e fiamme.
<< Vado! >> disse Maester mentre Hakritus si allontanava dalla finestra, lasciandogli campo libero.
Il sergente si issò sul davanzale ricoperto di frammenti di vetro e saltò dall’altra parte.
Il fianco gli mandò una fitta tremenda, ma lui, pur zoppicando, continuò a correre.
Si affiancò alla finestra distrutta e attese qualche secondo.
 Poi si sporse e premette il grilletto del lanciafiamme attaccato alla canna del suo fucile.
Un getto di fiamme liquide volò dentro la stanza, dando fuoco a tutto ciò che incontrava sul suo cammino.
Il serbatoio si esaurì in pochi secondi.
Maester si gettò immediatamente contro il muro e attese ancora, poi alzò un braccio e mostrò il pollice ad Hakritus, che uscì dall’appartamento e gli si avvicinò insieme a Rabuleius, finalmente libero di abbandonare la propria copertura.
<< Via libera sul retro. >> comunicò alla radio.
Il fuoco sulla facciata della villa si interruppe.
<< Ottimo lavoro, sergente, ma è stato inutile. >> gli rispose un superiore.
<< Eh? >>
Un VTOL passò sopra le loro teste, librandosi a pochi metri dai tetti dei palazzi.
Le fiancate si aprirono, rivelando il suo carico.
Dieci esoscheletri alti quasi due metri si staccarono dal mezzo, atterrando subito, col solo ausilio di retrorazzi, sul fianco dell’edificio.
La mitragliatrice nemica riprese a sparare, inutilmente.
Uno di quei bestioni sfondò un muro con un pugno e incendiò i malcapitati all’interno della casa con un lanciafiamme agganciato al suo braccio.
Un altro scaricò un intero nastro della mitragliatrice attaccata al braccio sulla finestra dove la mitragliatrice nemica era nascosta.
Maester fissò ammutolito la scena.
Non era ancora abituato alle nuove diavolerie che la Federazione aveva messo in campo.
Uno degli esoscheletri si voltò verso di loro.
Il pilota li fissò attraverso l’elmetto, unico suo elemento che sporgeva dalla corazza dell’esoscheletro.
Maester per un attimo sentì il sangue gelarsi.
<< Rabu… dammi una mano, il fianco… >>
Rabuleius lo afferrò per la spalla.
<< Va tutto bene. >> disse il ragazzo, facendo segno ad Hakritus di andare via di lì.
Nella sera, il colonnello Drusus comunicò che la città di Ecumenes era ormai nelle loro mani.
 
Gregorius fissò la fila di soldati all’entrata del Senato.
Iniziava a sentirsi male.
I politici e i burocrati erano costretti a sfilare ogni mattina lì davanti per raggiungere il loro posto di lavoro, neanche fossero dei prigionieri di guerra.
Celsius aveva ordinato che tutte le truppe ripetessero il giuramento alla nazione e aveva neutralizzato i dissidenti, Cassandor era sparito nel nulla e il ministro degli interni era stato giustiziato, senza nemmeno destare il giusto scalpore, poiché l’opinione pubblica era tutta concentrata a discutere sull’effettivo coinvolgimento dell’Unione nel traffico di armi e tecnologie che aveva foraggiato i ribelli fino a quel momento.
Era finita, e lui era stato messo da parte.
Un nuovo ordine era sorto, e lui ne era stato estromesso.
Nessuno era venuto a chiedere il suo parere o il suo supporto, nessuno era venuto a preoccuparsi sulla sua lealtà.
L’avevano lasciato a badare alla difesa di Palladium e avevano agito alle sue spalle.
Se fosse sparito probabilmente nessuno se ne sarebbe accorto.
Si massaggiò le tempie e si allontanò dalla finestra del suo ufficio, dal quale poteva osservare la quotidiana sfilata dei prigionieri.
Il Senato non era stato ancora sciolto, ma Celsius lo aveva già esautorato da qualsiasi forma di potere.
Parecchie teste erano già saltate, per assicurarsi la collaborazione dei vari corpi di pubblica sicurezza, e ormai il pianeta era in mano a un dittatore.
Tentennare ancora probabilmente sarebbe significato solo precludersi qualsiasi possibilità di abbandonare il pianeta; doveva agire ora, e in silenzio.
Chissà quanti senatori sarebbe riuscito a corrompere in ventiquattr’ore.
 
Arseius alzò il calice alto sopra la testa.
I suoi consiglieri lo imitarono, brindando al suo governo giusto ed equo.
Palladium aveva resistito anche più del necessario, e tutti lì credevano che la battaglia fosse ormai vinta.
Non potevano essere più lontani dalla verità.
Una sola cosa, però, era vera.
Sempre più sistemi si sottraevano al controllo Federale, dichiarandosi indipendenti e finendo per diventare campi di battaglia di una guerra che nessuno voleva.
Nessuno pensava all’Impero che premeva ai loro confini, pronto ad approfittare della loro debolezza.
La rabbia aveva reso tutti ciechi.
L’Unione era stata accusata di essere coinvolta nella nascita dell’Autarchia, e i Volosiani, dichiaratisi innocenti, avevano a loro volta accusato l’Impero, l’unico che avrebbe avuto un buon motivo per generare un tale caos.
L’Imperatore aveva risposto presentando quindi formale dichiarazione di guerra all’Unione, ritenendosi insultato da tali calunnie.
Eppure i Volosiani non potevano essere più vicini alla realtà.
Non era stato difficile, finita la Piaga, introdurre spie umane nei territori Volosiani, non dopo l’apertura dei confini che la Grande Tregua aveva causato.
Consegnare le informazioni apprese ai Khorsiani era stato di conseguenza un gioco da ragazzi.
Gli Imperiali avevano apprezzato il regalo che era stato loro fatto e avevano sviluppato in segno di ringraziamento un bel po’ di simpatici progetti tecnologici che erano tornati all’interno della Federazione in gran segreto sulle poco controllate rotte della Frangia Orientale.
Meno di un anno e Arseius avrebbe avuto la galassia ai suoi piedi, per questo doveva brindare.
 
Reno fissò i campi all’ingresso di Evandrum, il fucile in mano.
Il nemico ormai era lì, a un passo da loro.
Dovevano solo attendere che arrivasse a portata.
La città era presidiata da vecchi e ragazzi, feriti e solo pochi, disperati soldati in perfette condizioni.
Era finita.
Sagome scure apparirono all’orizzonte, mentre il cielo iniziava a riempirsi di puntini neri.
Le gambe non lo reggevano più.
Nonostante gli uomini intorno a lui, si sentiva tremendamente solo.
Le parole di Gavril ancora risuonavano nella sua testa, sempre più insistenti.
Ma come poteva accettare di macchiarsi di un crimine tanto grave?
Come poteva così ignobilmente sporcarsi la coscienza?
No, disertare non era un’opzione, non dopo aver faticato tanto per tornare sotto la sua bandiera, non dopo aver sostenuto tutto quanto era stato necessario per dimostrare la sua fedeltà.
Il primo missile volò nella loro direzione, schizzando a bassa quota per nascondere la sua traccia radar, sorvolando le loro teste e sparendo tra gli alti grattacieli, diretto verso le loro caserme, o forse verso l’aeroporto.
Un altro missile attraversò l’aria, mentre da lontano arrivava il rumore dell’esplosione del primo.
Le loro batterie iniziarono a sparare, cercando di rispondere al fuoco con lo stesso vigore del nemico.
I velivoli nemici si avvicinarono ancor di più, arrivando a portata.
La contraerea iniziò a sparare, ma non avevano nemmeno abbastanza proiettili per abbatterli tutti, figurarsi per un fuoco continuato.
L’artiglieria martellava mentre il suolo iniziava a vibrare.
I soldati, intontiti dalle esplosioni, attendevano passivi l’arrivo del nemico, nascosti negli edifici, in trincee improvvisate, intorno ai loro pochi corazzati rimasti.
Erano con le spalle al muro, non potendo evacuare il pianeta, prossimi a essere circondati.
Un secondo sbarco era avvenuto a nord, proprio alle loro spalle, e le truppe Federali, fresche e bene armate, ora sciamavano per tutto il continente, occupando una città dopo l’altra.
Reno abbassò l’elettrovisore e guardò i due compagni al suo fianco, mandati con lui in prima linea a tenere sott’occhio il nemico.
<< E adesso? >>
<< Attendiamo che entrino in città e poi vendiamo cara la pelle, non c’è altro da fare. >> rispose uno dei due.
<< E se ci arrendessimo? Cosa ci farebbero? >> chiese Reno innocentemente.
<< Temo finiremmo in una fossa comune, preferisco non pensarci. >>
<< Già, meglio non pensarci. >> mormorò Reno tornando a fissare l’orizzonte davanti a loro.
<< Andiamo, troviamo un riparo. >> concluse l’altro soldato.
I tre abbandonarono la strada e si dileguarono tra gli edifici.

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Capitolo 9
*** Nove ***


Vessimer bestemmiò, preso dall’ira, e scagliò un pugno contro lo schermo appeso al muro.
Lo schermo non subì danni, al contrario della sua mano.
Gemette per il dolore, massaggiandosi il palmo dolorante.
Tutti i presenti all’interno della sala comando distolsero lo sguardo e finsero che non fosse successo nulla, ignorando il crescente senso di imbarazzo che aleggiava in tutta la sala.
<< Il mio shuttle è pronto? >> sbraitò Vessimer, lo sguardo fisso sulla mappa proiettata sullo schermo.
Erano circondati ormai.
Inutile era stato lanciare controffensive, tendere imboscate, fare terra bruciata: divisione dopo divisione, le sue truppe venivano battute e respinte, e solo perché non aveva abbastanza uomini da poter mandare all’assalto.
E più il fronte si allargava, più la situazione si faceva critica.
Le pianure tra Ecumenes e Evandrum erano diventate un cimitero di carri, dove per ogni corazzato dell’Autarchia distrutto vi erano tre MBT Federali fuori uso; la foresta che un tempo ricopriva i colli a est ora non esisteva più, divorata dalle fiamme dei caccia precipitati al suolo; la terra era ancora attraversata da fiumi di sangue, dove migliaia di uomini erano caduti.
Era la fine, e lui non poteva far altro che osservare impotente il nemico venirgli incontro.
E tutto perché quelli che credeva suoi alleati non avevano collaborato.
Ma avrebbe avuto vendetta.
<< Abbondare la base. >> ordinò. << Ordinare l’evacuazione della città. >>
<< Signore, i Federali hanno la supremazia aerea. Non c’è modo di riportare le truppe in orbita. >>
Vessimer si voltò e fissò l’addetto radio, un uomo attempato e dal volto ricoperto di tatuaggi, raccattato chissà in quale prigione.
<< Sintonizzati sulle frequenze Federali. >> ordinò all’uomo.
<< Mio console? >>
<< Fallo! Comunica le coordinate della nostra flotta. >>
<< Ma, signore… >> replicò l’addetto radio.
<< È un ordine, soldato! >> urlò Vessimer.
L’uomo si ammutolì ed eseguì l’ordine.
<< Signore, il suo shuttle attende. >> riferì un soldato entrando nella stanza.
<< Fate alzare in volo tutti i caccia rimasti. >> ordinò Vessimer. << Andiamo. >>
 
Maester era aggrappato al tettuccio di un IFV lanciato contro le linee nemiche.
Sentiva lo stomaco sottosopra.
Le truppe aeree stavano già sbarcando in città, poteva vederlo da lì.
I combattimenti erano già iniziati.
Il blindato aprì il fuoco con la sua mitragliera, stordendo gli uomini seduti sulla torretta.
La città era vicinissima.
I primi missili anticarro volarono contro di loro che ancora non avevano raggiunto la periferia, ma il fuoco di sbarramento durò poco.
Gli IFV schierarono i loro fanti.
Ormai erano in mezzo alle case.
Maester scese e affiancò la squadra a cui era stato assegnato, avanzando guardingo fino al loro prossimo obbiettivo.
La città sembrava deserta, probabilmente gli abitanti si erano tutti rifugiati nelle campagne a nord, dove il fronte era più distante.
Alcuni ribelli uscirono dall’edificio, le mani alte sopra la testa, le armi a tracolla.
Una squadra li prese in custodia, sottraendo loro le armi, poi il sergente al comando li giustiziò sommariamente, uno dopo l’altro, con un colpo di pistola in pieno volto.
Continuarono ad avanzare per ore, incontrando sempre una blanda resistenza.
Alcuni ribelli usarono dei civili come scudi umani, cercando di difendere la loro postazione, ma un soldato della fanteria corazzata sfondò col suo esoscheletro il tetto dell’abitazione in cui erano arroccati e fece un massacro.
La via per il quartier generale ribelle era praticamente libera, nulla in confronto alla fatica fatta per conquistare Ecumenes, di gran lunga più piccola.
Maester sentiva uno strano sapore in bocca, amaro, ma non riusciva ad ammettere a sé stesso cosa lo provocasse, benché lo sapesse benissimo.
L’entrata del quartier generale fu sfondata con una testata termobarica, l’assalto fu tremendamente sanguinoso.
Per la prima volta i ribelli diedero davvero prova di coraggio, resistendo fino all’ultimo.
A sera il QG nemico era caduto, ma in alcuni punti della città i combattimenti proseguivano ancora, dove i ribelli rifiutavano di arrendersi e preferivano darsi a improbabili fughe e azioni di guerriglia.
Dello stato maggiore avversario non fu trovata traccia.
 
Vessimer affondò le unghie nel sedile del pilota.
<< Non puoi accelerare? >>
<< Signore, siamo a velocità massima. >> replicò l’aviatore.
Volavano bassi per allontanarsi dalla città, coperti dai pochi caccia che ancora avevano a disposizione.
Già abbandonare l’aeroporto era stata un’impresa, figurarsi ora prendere quota.
<< A tutti i caccia, velivoli sulla nostra scia. >> comunicò il navigatore alla radio.
<< Ricevuto, intercettiamo. >>
Lo shuttle finalmente prese quota, mentre Vessimer tornava nel vano passeggeri e attraverso gli oblò vedeva gli intercettori abbandonare la formazione e rimanere indietro, sacrificandosi per lui.
<< Siamo sicuri di riuscire a raggiungere la flotta? >> chiese ad uno degli ufficiali seduti intorno a lui.
<< Sì, signore. I caccia terranno il nemico impegnato il tempo necessario. >> rispose l’ufficiale.
<< Ci siamo salvati appena in tempo, se avessimo aspettato un altro po’ la flotta nemica ci avrebbe precluso qualsiasi via di fuga. >> riferì un altro ufficiale.
In poco tempo furono fuori dall’atmosfera, circondati dalle stelle.
Davanti a loro vi era la luna dietro la quale la loro flotta era nascosta.
La flotta nemica era in movimento, pronta ad abbandonare l’orbita del pianeta.
Sembrava diretta verso il loro stesso punto, ma fortunatamente era molto più lenta.
Vessimer sorrise, maliziosamente soddisfatto.
Prima che quel verme di Seraphus pagasse per la sua inerzia lui sarebbe già stato lontano e al sicuro, e se invece l’ammiraglio avesse prevalso sul nemico non sarebbe stata che un’altra magnifica vittoria per l’Autarchia.
In ogni caso aveva da guadagnarci, o meglio, peggio di così non poteva andare.
Di una cosa era certo, però.
Una volta nel sistema di Rigel-D Arseius gli avrebbe spiegato in ogni dettaglio perché aveva fatto fallire la più importante campagna della guerra e cosa diamine aveva in mente per mandare in malora anni di lavoro in maniera così sconsiderata.
 
Seraphus guardò le navi distrutte precipitare nell’orbita del piccolo pianeta al confine del sistema.
<< Anche oggi abbiamo un bottino da raccogliere. Inviate le squadre di recupero. >>
Il ponte di comando della sua ammiraglia, dove ora si trovava, era in festa.
Un altro convoglio Federale distrutto significava dar maggiore respiro alle loro truppe a terra, magari riuscire a prolungare i combattimenti quel minimo necessario per l’arrivo dei tanto agognati rinforzi.
Eppure, per ogni convoglio Federale catturato altri cinque arrivavano sul pianeta carichi di truppe fresche, munizioni, carburante e cibo.
Non potevano fermare così tanti vascelli, non da soli, non mentre loro rimanevano sempre più a corto di qualsiasi cosa.
Avevano già due volte evitato l’ingaggio con la flotta nemica, lanciata alla loro ricerca.
Per fortuna, escluse alcune schermaglie tra caccia, i Federali non erano ancora riusciti a dar loro battaglia.
Ma per quanto poteva andare avanti una situazione del genere?
Per quanto ancora Arseius avrebbe negato loro i rinforzi necessari a far proseguire la campagna?
Un sistema così importante per la loro vittoria rischiava di essere perduto in una maniera così stupida.
Chissà se altrove altre campagne procedevano alla stessa maniera, oppure avevano avuto più fortuna; purtroppo Seraphus non poteva saperlo, considerando quanto lente viaggiassero le informazioni nello spazio aperto.
Erano dannatamente isolati, impossibilitati ad abbandonare il sistema e incapaci di sapere cosa succedesse all’esterno.
Attraverso gli schermi che ricoprivano le pareti della sala Seraphus vide gli shuttle delle squadre di recupero raggiungere i rottami spaziali, affiancarli e iniziare le procedure di attracco.
L’addetto alle comunicazioni abbandonò la sua postazione e gli si avvicinò in silenzio.
<< Signore, richiesta immediata di tornare alla base. >> gli sussurrò sommessamente all’orecchio.
<< Cosa succede? >> chiese Seraphus, voltandosi verso di lui.
<< La flotta nemica si avvicina alle nostre posizioni. >> rispose il soldato, mantenendo basso il tono della voce.
<< Ci hanno scoperto? >> farfugliò Seraphus sbigottito, raggiungendo immediatamente la sua poltrona a centro sala e iniziando a sbraitare ordini. << Tutti gli uomini ai posti di combattimento! Flotta in allerta! Prepararsi alla battaglia! Richiamare le squadre di recupero, timoniere, rotta verso la base, comunicate alle altre unità di mantenere le distanze, evitare l’ingaggio in ogni modo fino al nostro arrivo. >>
La nave ruotò sul posto e fece rotta verso i pianeti interni, i motori alla massima potenza.
Dovevano muoversi, o sarebbero stato tagliati fuori dal nemico.
<< Radio, comunicare punto di rendez-vous, tutte le unità convergano su Palladium VI immediatamente. >>
<< Subito, ammiraglio. >>
Palladium VI era abbastanza vicino, le navi sparse per il sistema non avrebbero impiegato molto a raggiungerlo.
<< Siamo sicuri che le navi nemiche puntino su di noi? >> chiese Seraphus all’addetto radio, intento a comunicare gli ordini al resto della flotta.
<< Sì, ammiraglio. Hanno aggiustato la rotta non appena le nostre unità hanno iniziato a spostarsi. >>
<< Eravamo perfettamente occultati, come è possibile? >>
<< Signore, mi comunicano che il console Vessimer è a bordo della “Scilla” e ha destituito il capitano Juto. >>
<< Con che autorità? Mettetemi subito in comunicazione con lui. >>
<< Subito, ammiraglio. >>
Seraphus iniziò a tamburellare con le dita sul bracciolo della poltrona.
Non riusciva a crederci.
Si erano fatti fregare come idioti.
<< Ammiraglio, il console Vessimer è sulla sua linea privata. >> comunicò l’addetto radio dopo diversi minuti.
Seraphus aprì un piccolo scomparto nascosto nel bracciolo ed estrasse un auricolare.
<< Vessimer, cosa diamine fa con la mia nave? >>
L’auricolare rimase in silenzio, lasciando il suo interlocutore in attesa.
Non avrebbe ricevuto risposta finché la “Scilla” non fosse stata in vista, ma valeva la pena aspettare.
Palladium VI era ormai davanti a loro, già sorvegliato dal grosso della loro flotta.
Altri vascelli, provenienti da tutte le direzioni, erano in rapido avvicinamento.
Oltre Palladium VI, a meno di mezza unità astronomica, vi era il pianeta dove i loro eserciti si erano scontrati per il controllo del sistema, circondato dalle astronavi della Federazione.
La “Scilla” apparve davanti a loro, scivolando rapida nel cono d’ombra del sesto pianeta.
<< Nebriter, la battaglia è perduta, dobbiamo evacuare il sistema. >>
<< E le sue truppe, console? >>
<< Annientate. Ho salvato il salvabile. >> arrivò poco dopo all’auricolare.
<< Lei non va da nessuna parte con la mia nave, Vessimer. >>
<< La sua nave è requisita, navarca. L’esercito ne ha bisogno. >>
<< Non ce l’ha più un esercito! >>
<< Signore, i Federali ci sono addosso. >> comunicò l’addetto radar.
<< Linea di battaglia! Tutte le navi in linea di battaglia! Arretrare mantenendo la formazione! >>
Seraphus si sentiva prossimo a un esaurimento nervoso.
<< La mia presenza è richiesta nella capitale, buona fortuna con la sua battaglia, ammiraglio Seraphus. >>
<< Vessimer, non abbandoni il sistema! >>
La comunicazione era già stata chiusa.
La “Scilla” passò loro affianco, superandoli, diretta verso lo spazio profondo.
<< Cosa facciamo, ammiraglio? >> chiese il suo secondo in comando.
Seraphus avrebbe potuto aprire il fuoco sull’incrociatore in fuga, intimandogli di fermarsi.
Ma c’erano suoi uomini a bordo, e lui non era ancora diventato una bestia.
<< Ammiraglio! Cosa facciamo? >> ripeté il secondo.
Seraphus digrignò i denti, così forte che sentì il sapore del sangue in bocca.
<< Lasciateli andare, abbiamo una battaglia a cui pensare. >> ordinò infine, sconfitto.
Le navi Federali avevano ormai aperto il fuoco, lanciandosi sulle unità più lente della loro flotta: portastormo, navi ausiliarie, trasporti.
Incrociatori e ricognitori cedevano terreno, arretrando sempre più velocemente.
Alcune navi stavano ruotando sul posto, per offrire il ponte superiore, ricoperto di torri e cannoni, al nemico; altre ormai spacciate lanciavano i gusci di salvataggio; altre ancora, colpite gravemente, andavano alla deriva, i motori fuori uso.
<< A tutte le corazzate, convergere sulla mia posizione! >> ordinò Seraphus, sperando di poter distrarre abbastanza il nemico da permettere la fuga delle altre navi. << A tutte le altre unità, abbandonare il sistema. >>
Le corazzate lentamente formarono una punta di diamante intorno al suo vascello, facendo fuoco sulle navi nemiche in avvicinamento.
Nugoli di caccia erano lanciati contro le corvette in fuga, pronti a mettere fuori uso i loro motori iperluce, mentre altre navi, troppo lontane all’inizio della battaglia, continuavano a unirsi alla mischia, finendo per venire rapidamente circondate.
<< Signore, diverse navi rifiutano di ritirarsi. >> comunicò l’addetto radio.
<< Cosa? >>
<< Si uniscono a noi. >>
<< È… >> borbottò Seraphus, prima che un missile colpisse una delle loro torrette.
<< Danni lievi alla torre 3, ancora operativa. >>
<< Le navi nemiche si sono fermate. >>
Ormai era una questione di resistenza.
Non importava più la rapidità, il genio dei comandanti o la prontezza degli uomini al loro comando.
Vinceva chi riusciva a incassare più colpi.
Seraphus vide le sue corazzate e i suoi incrociatori mantenere coraggiosamente la posizione per oltre un’ora, nonostante il nemico, in soverchiante superiorità numerica, si stesse avvolgendo tutt’intorno a loro.
Solo quando furono circondati, sicuro che ormai chi era riuscito a sottrarsi alla battaglia fosse abbastanza lontano da poter avviare i motori iperluce, Seraphus ordinò di cessare il fuoco, stabilì una comunicazione con l’ammiraglia della flotta Federale e si arrese.

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Capitolo 10
*** Dieci ***


Reno saltò oltre il muro distrutto e si nascose dietro il rottame di un autobus, una carcassa divorata dalle fiamme chissà quante ore prima.
Non aveva mai visto così tanta violenza.
Le mani gli tremavano per la fatica, o forse per la paura.
Estrasse il caricatore dal fucile e controllò, non senza difficoltà, quanti proiettili vi fossero ancora all’interno.
Le tasche del suo gibernaggio erano ormai completamente vuote, non aveva una borraccia e aveva finito le granate.
Era solo, circondato e psicologicamente distrutto.
Perché ancora si ostinava a combattere? Non era il suo pianeta dopotutto.
La catena di comando ormai non esisteva più, ognuno pensava solo a sé stesso, e lui non sarebbe stato da meno.
In fondo, perché morire lì, in maniera così stupida? La battaglia era già perduta, nessuno aveva più notizie del QG da diverso tempo, la radio aveva smesso di funzionare e i Federali si aggiravano per le vie della città aggressivi e numerosi come lupi affamati.
Lupi… avrebbe tanto voluto vederne uno dal vivo, chissà se esistevano ancora.
Forse un giorno l’avrebbe vista, la Terra.
Ma nulla era certo in quel momento.
Quanti uomini aveva già ucciso quel giorno? Era sicuro di aver aperto il fuoco sul nemico? O forse aveva passato la giornata a distribuire munizioni ai suoi compagni?
Forse era andata così; forse, chi poteva dirlo.
Aveva la nausea.
Gettò il caricatore che ancora teneva in mano a terra.
Era completamente pieno.
L’arma gli scivolò tra le dita, cadendo al suolo quasi senza emettere rumore.
Piegò le gambe e premette un pulsante sul lato del casco.
Il respiratore emise un sibilo, si separò dal visore e insieme a esso si sollevò sopra i suoi occhi, che gli facevano male, cercando di adattarsi al buio della notte.
Poche luci illuminavano le strade, la corrente era stata tagliata prima che la battaglia avesse inizio.
Allargò il soggolo che gli toglieva il respiro e si sfilò il casco, poggiandolo a terra accanto a sé.
Era stanco.
Si tolse i guanti da combattimento e si guardò intorno.
Non sapeva cosa ne sarebbe stato di lui, non sapeva dove andare, non sapeva come andarsene di lì.
Si alzò in piedi, quasi gemendo per la fatica e lo stress, e si incamminò senza una meta, sparendo nella foschia serale della battaglia, sperando che lo proteggesse dal nemico lanciato al suo inseguimento.
 
Drusus fissò il generale Aforisis, la fronte costantemente imperlata di sudore.
<< Accettate quindi le nostre condizioni? >> chiese l’ammiraglio nemico di fronte a loro.
<< Certo, potete recuperare i vostri feriti e abbandonare il sistema. >> confermò l’ammiraglio Crassus, comandante della flotta Federale, in piedi di fianco al basso generale.
<< Consegneremo subito le insegne e le armi, dunque. >> concluse l’ammiraglio, offrendo la mano al rivale. << È stato un onore scontrarsi con voi, ammiraglio Crassus. >>
<< Spero di rivedervi, ammiraglio Nebriter, non per forza sul campo di battaglia. >> rispose Crassus stringendogli la mano.
<< Addio. >> concluse Aforisis, porgendo a sua volta la mano.
Seraphus Nebriter strinse la mano del generale, quindi si sfilò uno dei guanti bianchi che indossava e poggiò il pollice sul palmare che un ufficiale Federale gli porse in quel momento.
La resa delle truppe ribelli all’interno del sistema era firmata.
<< Bene, allora. Addio, signori, è stato un piacere poter trattare con voi. >>commentò Seraphus rinfilandosi il guanto e facendo il saluto militare.
<< Spero sappia cosa stanno scatenando i suoi superiori, ammiraglio. >> disse Aforisis mentre Nebriter si apprestava ad abbandonare la sala.
<< Cosa intende? >> chiese Seraphus, già in procinto di voltarsi.
<< L’Impero e l’Unione sono di nuovo in guerra. Una seconda guerra galattica in meno di dieci anni, il vostro Autarca sarà contento. >> spiegò il generale asciugandosi la fronte.
<< Continuo a non capire, signore. Come tutto ciò dovrebbe riguardare l’Autarchia di Orione? >> continuò Seraphus, attento a ciò che stava per dire, confuso dalla notizia appena ricevuta.
<< Suvvia, secondo lei chi riforniva il vostro esercito di armi? >> tagliò corto l’ammiraglio firmando a sua volta il documento di resa.
Seraphus strizzò gli occhi, improvvisamente scosso da un brivido.
Interdetto, boccheggiò senza sapere cosa dire.
Un gelo improvviso gli attanagliava lo stomaco, bloccandogli le gambe.
Qualcosa era scattato in lui, risvegliando vecchi ricordi.
Vecchi incubi.
E se fosse stata una bugia?
Che motivo avevano di mentire?
Si sentiva improvvisamente tradito.
Da sé stesso.
Un sapore acre gli invase la bocca, provocandogli la nausea.
Doveva andarsene subito, aveva bisogno di restare da solo per un po’.
<< Io… devo dirvi addio, signori. >>
L’ammiraglio fece un goffo inchino e uscì rapidamente, visibilmente agitato.
Drusus guardò Aforisis porre il suo pollice sul tablet.
L’operazione Tyr era ormai conclusa.
Drusus si chiese quanti uomini fossero già morti per quel sistema.
Domani sarebbero giunti i dati precisi, ma per il momento l’unica risposta che potevano darsi era… il numero necessario, purtroppo, ma comunque troppi.
Si massaggiò il naso, domandandosi quando sarebbe finita.
Forse mai.
 
Reno guardò Palladium dal piccolo oblò accanto al suo scomodo sedile, chiedendosi quanti come lui erano riusciti a salvarsi.
Era stata una vera fortuna riuscire a imbarcarsi insieme a quei profughi su uno dei trasporti che li avrebbero portati verso nuovi mondi, lontano dalla guerra.
Evitare i controlli era stato piuttosto facile, e di questo doveva ringraziare solo il suo addestramento.
Si sarebbe fatto una nuova vita, chissà dove, ma sarebbe stato per sempre tormentato dal rimorso, un po’ per aver abbandonato i suoi compagni, un po’ per aver dato fiato a quella pazzia chiamata rivoluzione.
Un compromesso accettabile, nonostante tutto, vivere per sempre col senso di colpa e in cambio sparire per sempre dalla faccia della galassia.
Non ne avrebbe sofferto.
Non più almeno.
 
Gregorius mise piede sulla Luna non a cuor leggero.
Nel piccolo hangar dove erano atterrati lo attendevano la moglie e uno sparuto drappello di uomini a lui fedeli.
A cosa si era ridotto.
Dietro di lui scesero, quasi in religiosa processione, i quarantadue senatori che avevano accettato la sua folle offerta e avevano deciso di seguirlo in quell’avventura disperata.
<< È tutto pronto? >> chiese al comandante della base, affianco a sua moglie.
<< La nave è pronta, signore, attendiamo un suo ordine per partire. >>
<< Bene… imbarchiamoci subito. Assegnate un alloggio appropriato ad ognuno dei gentiluomini alle mie spalle, tanto non penso che staremo stretti. Nile, tesoro… hai già cenato? >> disse Gregorius avvicinandosi alla moglie e porgendole il braccio.
<< No, amore. >> rispose lei appoggiandosi al fianco del marito, rassicurata da quel semplice contatto.
<< Bene, ceneremo mentre si salpa, allora. È un viaggio lungo fino alla Frangia Occidentale. >>
I due si avviarono, circondati dai militari e dai politici, e si imbarcarono sull’incrociatore che li avrebbe portati nella neonata Federazione del Sagittario, che avrebbero fondato tutti insieme al loro arrivo.
Ormai la Federazione Terrestre non esisteva più, destinata a eclissarsi nel mare di signorie locali che andavano nascendo in ogni angolo dei suoi domini, ma loro avrebbero salvato i valori della democrazia in quel piccolo angolo di paradiso che si sarebbero ritagliati in un piccolo sistema isolato, lontano dal caos della guerra e troppo vicino al Nucleo Galattico per poter essere minacciato dalle ingerenze di Unione e Impero, dove avrebbero atteso che tornasse la pace nella Galassia.
In realtà Gregorius era dubbioso che ciò sarebbe accaduto presto, anzi, iniziava a dubitare che la quiete sarebbe mai arrivata nella Via Lattea.
Ma un uomo, nonostante ogni avversità, può sempre sperare.
Una cosa era sicura, però, in una situazione così tragica.
Erano all’alba di una nuova era dell’uomo, e loro erano lì per viverla.
 
Seraphus sospirò e avvicinò il bicchiere al labbro, buttando giù il liquore scuro e denso.
La sua ultima, piccola scorta, conservata nonostante tutto quello che avevano passato nelle settimane precedenti.
Ciò che rimaneva della sua flotta stava viaggiando a velocità superluminale verso il sistema di Rigel-D, verso Flamma, la capitale, verso casa.
Ci sarebbe voluto qualche giorno ancora, ma presto avrebbe riportato quegli uomini al sicuro.
Soldati e classarii avevano celebrato la consegna delle armi nell’hangar principale, in luttuoso silenzio, ripiegando la bandiera che fino al giorno prima pendeva sotto la torre di comando del ponte.
I feriti erano stati caricati, i bottini consegnati, le ancore levate e via, verso il Nucleo, ancora in fiamme per la guerra.
Fiamme che non si sarebbero spente presto.
Cosa sarebbe rimasto, oltre alla cenere?
La Federazione era spaccata e in preda ormai ai signori della guerra, Volosiani e Khorsiani sembravano intenzionati a eliminarsi tra di loro e, cosa più tremenda, era tutto vero, come gli era stato confermato da alcuni comunicati giunti sui pianeti dove avevano fatto scalo.
In mezzo a tutto quel caos, o Arseius era impazzito, o aveva in mente qualcosa che sfuggiva alla comprensione di Seraphus, tenuto all’oscuro di così tante cose.
Si sentiva colpevole, tremendamente colpevole.
Buttò un occhio al cassetto blindato della sua scrivania.
Bastava appoggiare un pollice…
Guardò avanti, verso la porta chiusa, spostando lo sguardo sui muri ricoperti di schermi spenti, trofei, medaglie e ricordi di casa.
Casa…
Nemmeno la ricordava più, casa, era stato così tanti anni prima, su una luna nella Frangia Occidentale.
Chissà cosa era successo a quel minuscolo ammasso roccioso.
Poco a poco, un’immagine dopo l’altra, i nebulosi ricordi della sua gioventù tornarono davanti ai suoi occhi.
L’infanzia agiata, il viaggio sulla Terra, le lezioni in accademia, la sfortuna con le donne, i pochi amici intimi e le loro pazzie suicide, la prima nave che aveva pilotato, le stelle sparse nel cielo nero, le nebulose attraverso cui aveva viaggiato per così tanto tempo, la guerra…
Il Khorsiano.
La testa fu scossa da un sussulto, mentre la bile gli risaliva lungo la gola.
Si era fatto manovrare una seconda volta, era stato manipolato di nuovo, nonostante si fosse promesso che non sarebbe mai più accaduto, e invece sarebbe successo ancora, e ancora, e ancora…
Doveva mettere un freno a tutto quello, a tutto quel dolore che gli bloccava il petto e gli toglieva il respiro.
Improvvisamente, sentì dentro di sé tutto il freddo dello spazio profondo in cui ora si trovava.
Rilassò la mente, svuotandola di tutto il caos che la attanagliava facendogli scricchiolare il cervello, stretto in una morsa d’acciaio.
Il Khorsiano non lo avrebbe preso di nuovo.
Il Khorsiano era morto, come poteva?
Eppure avvertiva la sua presenza, dietro di sé, gli sussurrava dolci parole, orribili eppure così suadenti.
Per la prima volta da quando era nato si chiese cosa ci fosse dopo, cosa dovesse spaventarlo o dargli un caldo conforto, ma non riusciva a darsi risposta, nonostante la parola che cercava fosse proprio lì, davanti a lui.
Nulla.
Semplicemente nulla, eppure la scoperta più che farlo sentire ancor più vuoto gli strappava un amaro sorriso.
La malattia probabilmente stava prendendo il sopravvento sulla sua mente, ma poco importava.
Era giusto ciò che aveva fatto?
Era giusto ciò che stava facendo?
Non riusciva più a pensare, troppo preso dai ricordi.
Cercò di concentrarsi sul momento, ma l’unica cosa che percepiva era la vibrazione che la piccola cassaforte sotto la sua scrivania emanava, chiamandolo a gran voce.
L’istinto gli diceva di seguire quella vibrazione, ma avrebbe avuto la forza per affrontare le sue scelte?
Lo sguardo gli cadde di nuovo sul cassetto.
In un’altra vita, con altre avventure alle spalle, probabilmente quella cassaforte avrebbe contenuto tutt’altro, un vecchio cimelio di famiglia, un giocattolo della sua infanzia, o forse solo altro alcool.
E invece era diventato paranoico, e aveva trasformato il suo ufficio in un bunker.
Aprì il cassetto con una leggera pressione e poggiò la mano sul pannello di riconoscimento digitale al suo interno.
Chiuse gli occhi mentre con un sibilo la piccola cassaforte si apriva, rivelando il suo contenuto.
Gli occhi sigillati, infilò una mano nel cassetto e si mise in pace con la sua coscienza.
 
Maester si tastò la fasciatura che gli copriva l’occhio destro.
Gli prudeva dannatamente, e pensare al costo che avrebbe avuto la protesi gli faceva mordere la lingua.
Rabuleius arrivò scortato da Hakritus, avanzando rapido con la sua nuova sedia a rotelle.
Mezzo centimetro più a destra e avrebbero dovuto ricostruirgli la spina dorsale, senza nemmeno garanzia che tornasse a camminare.
Maester maledisse a denti stretti l’artigliere che li aveva ridotti in quello stato e il soldato che gli aveva passato delle coordinate sbagliate per il tiro.
I suoi due compagni si disposero accanto a lui, mesti e abbattuti.
<< Com’è? >> domandò Hakritus, tirando su col naso.
Maester incrociò le braccia.
<< Avanti, vediamolo. >> disse al team di ingegneri davanti a lui.
L’immenso telo che copriva il loro nuovo mezzo fu sollevato, e loro poterono finalmente ammirare il nuovo modello di carro corazzato da combattimento appena messo in produzione, il motivo per cui tutte le squadre di carristi della base erano state radunate lì.
<< Le capacità della corazza reattiva sono state notevolmente migliorate, il sistema di disturbo IR è stato ulteriormente miniaturizzato e come potete vedere abbiamo ottimizzato la disposizione del lanciamissili, riuscendo a inserire un autocannone sul fianco opposto della torretta. >> iniziò a elencare il tecnico addetto alla presentazione del mezzo.
<< Manca un pezzo bello grosso, però. >> osservò un militare dietro di loro.
L’hangar era troppo stretto per tutte quelle squadre, ma a quanto pare nell’intera caserma non c’era nessun altra stanza disponibile.
<< Abbiamo sostituito il sistema di trazione su cingoli con uno a reazione. Adesso anche i nostri carri leviteranno sul campo di battaglia. >> rispose entusiasta il tecnico. << Dobbiamo ringraziare le recenti vittorie su Alpha Orionis per questo piccolo gioiellino tecnologico. >> concluse sorridendo radioso.
Maester e i suoi due compagni inclinarono la testa, poco convinti.
<< E quando inizierà la sostituzione dei vecchi mezzi? >> chiese un altro militare.
<< La prossima settimana i primi veicoli verranno assegnati ai reggimenti d’urto, seguiranno gli altri reparti d’élite. Il completamento è previsto entro la fine dell’anno. >>
 << Che dite, riusciremo a salirci, su uno di quelli? >> chiese Rabuleius, muovendo avanti e indietro le ruote della sua carrozzella.
<< Prima dobbiamo capire se ci spediscono su Beta Orionis o meno. >> rispose Maester continuando a fissare il nuovo mezzo.
<< Quando ti impiantano l’occhio nuovo? >> chiese Hakritus, avvicinandosi al corazzato fresco di verniciatura.
Un tecnico gli fece segno di rimanere indietro.
<< Tra due settimane, se tutto va bene. >>
<< Dirò la verità, la vita in caserma mi ha già annoiato. >> continuò Hakritus facendo un passo indietro.
Maester e Rabu lo fissarono, gli occhi spenti, malinconici.
<< Finirai per farti ammazzare. >> disse Maester, prima di voltarsi e abbandonare la sala.
<< Sei un po’ coglione. >> osservò Rabuleius prima di ruotare la carrozzella e seguire il suo sergente.
Hakritus guardò i suoi compagni, imbronciato, e si appoggiò al carro armato appena uscito di fabbrica.
Uno dei tecnici gli prese a schiaffi la mano.
 
Vessimer aprì il pesante portone ed entrò nei sontuosi uffici dell’Autarca Arseius.
<< Palladium è perduto, vero? >> chiese il capo di Stato non appena l’uomo arrivò davanti a lui, dall’altro lato di una maestosa scrivania.
<< Sì. Sono costernato, mio Autarca. >> rispose Vessimer chinando il capo.
<< Non importa. Anche Betelgeuse è caduta. >>
Il console rialzò la testa e sgranò gli occhi, ormai schiacciato dal corso degli eventi a loro avverso.
<< La flotta? >>
<< Batte in ritirata, diretta verso di noi. >>
Vessimer guardò a terra, fissandosi i piedi, cercando le parole giuste con cui iniziare la frase.
<< Autarca… la Federazione ha scoperto i piani degli Imperiali. Ora nulla impedisce all’Unione di partecipare attivamente alla guerra. >>
Arseius sorrise, gli occhi brillanti sotto la luce calda che illuminava la stanza.
<< L’Unione non sarà un problema. Volos è caduta. >>
Vessimer trattenne il respiro.
<< C-come… come è accaduto? >> chiese, schiarendosi la voce.
<< I Khorsiani sono riusciti ad accedere alle loro rotte Iperspaziali e hanno attaccato l’Unione al cuore, attraversando il Nucleo della Galassia. I Volosiani non se lo aspettavano, probabilmente non hanno nemmeno capito come l’Impero si sia impossessato delle loro tecnologie. >>
<< Una mossa… inaspettata. >>
<< Esatto. Ora i due giganti, di nuovo alla pari, si distruggeranno l’un l’altro, dissanguandosi a vicenda, e noi avremo carta bianca con la Federazione. >> disse Arseius alzandosi e girando intorno alla scrivania.
<< Ma la sorte ormai ci è contraria. Se la situazione non cambia, saremo sconfitti. >>
<< Oh, ma la sorte non ci è mai stata più favorevole. Seguimi. >> disse l’Autarca sorridendo, accennando con la testa ad una porta laterale.
La porta si aprì con un sibilo, sparendo nel muro, non appena loro le furono davanti.
Un breve corridoio, bianco e privo di qualsiasi ornamento, si celava dietro la porta.
Al termine del corridoio, li attendeva un ascensore.
<< A proposito, dov’è l’ammiraglio Nebriter? >> chiese Arseius avviandosi nel corridoio.
<< È… è morto, Autarca, si è suicidato prima che la flotta arrivasse nel sistema di Rigel. >>
Difficile giustificare l’arrivo della “Scilla” con oltre due giorni di vantaggio rispetto al resto della flotta.
<< Le notizie sugli Imperiali? Avrei dovuto aspettarmelo. Non importa, non ne sentiremo la mancanza. >>
Entrarono nell’ascensore, che si chiuse silenzioso ed iniziò a scendere nelle viscere del Palazzo della Libertà, al centro della capitale, Flamma.
<< Dove mi state portando, Autarca? >> chiese Vessimer preoccupato.
<< Tranquillo, voglio mostrarti la nostra carta vincente. Non sono rimasto fermo mentre tu tenevi bloccata la Federazione su Palladium. Al contrario, mi sono assicurato la vittoria. >>
Le porte dell’ascensore si aprirono, rivelando una balconata metallica.
Arseius fece qualche passo avanti e si appoggiò al sottile parapetto, osservando l’immenso ambiente in cui ora si trovavano.
Vessimer si guardò intorno.
Sembrava il magazzino di una fabbrica.
<< Ti presento il nostro nuovo esercito, Vessimer. Con esso sconfiggeremo la Federazione e assicureremo all’umanità il posto che le spetta nel pantheon galattico. Niente più ingerenze aliene, niente più conflitti, niente più giochi di potere alle nostre spalle e xenofobia. Solo pace. >>
Vessimer si fece avanti e guardò di sotto, trasalendo per lo stupore.
Un immenso esercito di robot antropomorfi era schierato in perfetto ordine sotto di loro, mentre ai lati della gigantesca sala erano visibili, attraverso gli ingressi di numerose forge, i nastri trasportatori e i bracci meccanici che producevano senza sosta quegli automi da guerra.
<< Sono soldati perfetti, non conoscono fame, né fatica o paura, sono in grado di ripararsi l’un l’altro e possono addirittura replicarsi. Astronavi appositamente progettate li trasporteranno da un pianeta all’altro in tutta sicurezza, e in battaglia saranno accompagnati da mezzi senza pilota in grado di colmare le loro lacune. Non dobbiamo far altro che lanciarli contro un pianeta, e loro lo conquisteranno e lo useranno come base per aumentare di numero e diffondersi nei sistemi vicini, divenendo un esercito infinito e sottomettendo per noi l’intera galassia. >> concluse Arseius, trionfante.
Vessimer guardò l’amico e collega, notando per la prima volta la scintilla della pazzia nei suoi occhi.
Tornò di nuovo a osservare l’esercito davanti a loro, e comprese che cosa erano diventati.
Quell’armata non era tanto differente dalla Piaga che aveva devastato la galassia fino a poco tempo prima, e loro non erano mai stati così lontani dall’essere uomini.
<< Mio Autarca, se mi è permesso, come controllerete le macchine? >>
<< Oh, mio caro amico, non potevi fare domanda più pertinente. >> rispose Arseius fissando il console. << Un’apposita IA, imbarcata su una delle navi, farà da unità centrale, gestirà questo esercito in qualunque punto della galassia si trovi, mantenendosi sempre collegata con ogni altro vascello. >>
<< E se quest’armata non soddisfa i vostri scopi? >>
<< Non può succedere, ho supervisionato personalmente ogni fase della sua creazione, e questi soldati sono a dir poco perfetti, in grado di adattarsi a qualsiasi situazione e mantenersi da soli. >>
<< È… magnifico, mio Autarca. Un vero miracolo. E… se mi è concesso chiederlo… quando questa armata entrerà in funzione? >>
<< I primi vascelli sono già partiti in direzione della Terra, l’unità centrale attenderà qui finché non riterrò opportuno spostarla. La guerra si è decisa in questo preciso momento, Vessimer. È oggi che tramonta la preistoria. >>
<< Autarca… non ho parole. >> concluse Vessimer con un nodo alla gola, terrorizzato da ciò che insieme avevano creato.
Solo adesso capiva quanto avrebbe dovuto vergognarsi di sé stesso.
Fissò l’uomo davanti a lui, troppo preso dal suo trionfo per preoccuparsi del sottoposto alle sue spalle.
Arseius si crogiolava nel suo autocompiacimento, ormai ubriaco di potere.
Vessimer non lo aveva mai visto con la guardia così bassa.
Avrebbe potuto persino…
Ma sarebbe poi riuscito a uscire di lì, o a giustificare la propria nomina ad Autarca?
Sicuramente no.
Però aveva un’idea, molto folle, ma pur sempre un’idea.
Non avrebbe potuto evitare che l’esercito partisse ma, forse, avrebbe potuto dare il suo contributo e, forse, avrebbe potuto dare una speranza all’umanità.
Purtroppo però non sarebbe sicuramente vissuto abbastanza a lungo per vedere ciò che sarebbe nato dalle loro ceneri.
Non che importasse.

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