[Prototype] - Angels in the Hell di cartacciabianca (/viewuser.php?uid=64391)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo, Caduti nell'Inferno ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2° - Emily&William ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3° - People's prime ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4° - Cetriolini sott'olio ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5° - Ali ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6° - Un anno dopo ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7° - Scommessa ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8° - Angel 1-9-2 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9° - Blacklight ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10° - Arcangelo ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11° - L'arma più potente/Conoscere il nemico ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12° - Perdono e vendetta ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13° - La bestia che dorme ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14° - Cinque minuti ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15° - Rifiutate richieste d'aiuto ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16° - Cambio di piani ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17° - Burocrazia che evolve ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18° - Nuovi Cacciatori ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19° - Back to the Hell ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20° - Sete di sangue ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21° - Degni avversari ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22° - Tutta la verità ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23° - Rotrovarsi... in lacrime ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24° - Vecchie anime infette ***
Capitolo 25: *** Capitolo 25° - Le stelle tornano sempre ***
Capitolo 26: *** Capitolo 26° - Una guerra senza leggi, un gioco senza regole ***
Capitolo 27: *** Capitolo 27° - Attacco al Paradiso ***
Capitolo 28: *** Capitolo 28° - Ordini e Piani ***
Capitolo 29: *** Capitolo 29° - Polpetta al sugo ***
Capitolo 30: *** Capitolo 30° - Gemelli ***
Capitolo 31: *** Capitolo 31° - Nel vortice ***
Capitolo 32: *** Capitolo 32° - Inciso ***
Capitolo 33: *** Capitolo 33° - Welkome back 'tween us ***
Capitolo 34: *** Capitolo 34° - Orgoglio e Pregiudizio ***
Capitolo 1 *** Prologo, Caduti nell'Inferno ***
Capitolo
1° -
Prologo,
Caduti
nell'Inferno
«Siamo Angeli caduti nell’Inferno.
Il Governo
degli Stati Uniti d’America ha analizzato il Campione Zeus
estraendone un gene due volte più potente.
Siamo stati
scelti dal popolo, pescati dalla folla nell’anonimato.
Siamo stati
catturati come bestie e divenuti vittime dei loro scopi.
Siamo e
continueremo ad essere utili alla nazione, ma… quando non
serviremo più, sappiamo tutticon chiarezza cosa ne faranno
di noi.
Non so con
precisione quanti di voi sono come me.
Ma so per
certo che siamo quasi un centinaio e sparsi nel mezzo
dell’epidemia con un obbiettivo preciso:
trovare e
annientare ogni sorta di esponente positivo del Virus.
Abbiamo
accettato questa nostra missione, perseguito con animo il nostro
destino.
Abbiamo creato
una nostra base, un luogo dove riconoscerci e proteggerci.
Lo chiamiamo
il Paradiso, perché in ogni angolo di quartiere di questa
merda di città presiede almeno uno di noi!
Faccio questo
appello a chiunque voglia unirsi alla nostra battaglia.
Angeli o
umani, col gene Zeus nel sangue oppure no non fa alcuna differenza!
Il Virus
è un nemico comune, che ha preso piede oltre le barricate di
Manhattan e sta mietendo milioni di innocenti nelle principali
città americane…
New York per
prima…
Ma adesso San
Francisco e Los Angeles…
Domani
Washington D.C…
Ci
sarà un giorno in cui l’epidemia
toccherà l’oriente e defluirà in
Europa.
Le nostre ali
dovranno impedire tutto questo prima che il genere umano venga spazzato
via dalla faccia della Terra.
Sto
trasmettendo questo appello di fratellanza da una stazione mobile,
accerchiato da un branco di Cacciatori che non aspetta altro che la mia
carne siero positiva…
Oggi
è il 19° giorno dell’infezione.
Io sono il
Dottor Mark Walker.
Voi, e il
luogo nel quale state ascoltando questo messaggio, siete il Paradiso.
Chiudo».
GIORNO
DELL’INFEZIONE 569°
POPOLAZIONE
INFETTA: ---
L’aria divenne tersa, irrespirabile. Il
cielo era scomparso per sempre dietro una nube rosso sangue. I
grattacieli andavano in frantumi col passare del tempo, perdendo pezzo
dopo pezzo travi e componenti di metallo che si rovesciavano a terra
con boati assordanti, mentre i focolari ancora accesi qua e
là continuavano a far danni. I marciapiedi smontati, le
mille crepe nel terreno e i buchi nei palazzi.
Le strade di New York, intasate delle carcasse di
automobili, elicotteri e carri bruciate dall’esplosione,
erano quel giorno deserte.
Un presagio, una visione, un quadro apocalittico
che neppure i capitoli peggiori del Libro dell’Apocalisse.
C’era silenzio, ma non quel genere di
silenzio perché non si ha da fare, da dire o di che pensare.
Era un silenzio voluto, da tanto trattenuto e ostentato.
Mi trascinavo a fatica, un braccio attorno al
ventre e le ginocchia piegate, stanche che avrebbero ceduto a breve, ne
ero certa. I miei passi silenti vagano nella desolazione di Broadway,
dove il caccia The End
era piovuto e precipitato, radendo al suolo il quartiere.
The
End, la fine, la soluzione ai loro problemi; o
più comunemente la bomba nucleare installata
nell’artiglieria di un aereo militare che, precipitato nel
centro di Manhattan aveva spazzato via i palazzi e interrotto
definitivamente l’epidemia.
Gli alveari diffondevano per le strade la loro
puzza morta, assieme ai cadaveri della gente innocente buttati via,
carbonizzati accanto a quelli dei cacciatori
e dei portatori malati.
Ciò che restava attorno a me, dunque,
non poteva essere altro che un campo di rossa desolazione.
Indossavo i miei vestiti ancora integri, ma in me
si muoveva una sgradevole sensazione di dolore che partiva dai muscoli
delle gambe e arrivava sino alla base del collo. Ansimai, ma in fine
non riuscii a resistere oltre, e fermandomi nel centro di quel campo
desolato e polveroso, mi accasciai a terra.
La mia guancia premeva contro il sangue di corpi
sventrati e ustionati senza pietà, avvertivo sulle labbra il
freddo del metallo di forse alcuni frammenti di un’auto
volata chissà dove per l’esplosione.
Non tentai subito di alzarmi, godendomi quel poco
di riposo che mi era concesso. Mi girai di fianco, rovesciandomi a
pancia in su e soffocando in gola un tenue lamento.
I miei sensi vigili, svegli, amplificati
captarono subito la sua presenza. Mi stava osservando, nascosto
lì dove lui pensava non potessi vederlo.
E invece si sbagliava di grosso.
Sapevo benissimo che era lassù, sulla
cima di quelle rovine dell’Empire, in piedi sul pizzo di una
trave.
A quel punto provai ad alzarmi e, poggiando un
gomito a terra e facendo leva su di esso, mi misi a sedere il
più comoda possibile tra le macerie. Dopodiché
alzai il mento e guardai dove la sua figura nera, piccola e ben eretta
copriva i raggi del sole del tramonto, allungando la sua ombra sino ai
miei piedi.
Il fumo andava diradarsi. Erano trascorse poche
ore dall’esplosione, ma l’energia nucleare e tutti
i suoi gas più tossici si spostavano svelti sospinti da una
brezza bollente, quasi desertica.
I miei capelli scuri e ondulati mi ricadevano in
boccoli sporchi e unti sulle spalle. Il mio viso tondo, giovane, aveva
perso tutta la sua fanciullezza. Persino il mio sguardo, i miei occhi
marroni avevano perduto la loro lucentezza arrossandosi in un modo
spettrale e permettendo la comparsa di quelle occhiaie che consumavano
le mie guance bianche.
La mia pelle chiarissima, cadaverica quasi. Mi
guardai le mani che avevano impercettibilmente cominciato a tremare, ed
io con loro.
Non capii cosa mi stesse succedendo, non capivo
un bel niente. Mi sentivo debole, stanca… Andai subito nel
pallone dei sensi, non riuscendo a mettere a fuoco la vista e
percependo il fiato mancarmi nei polmoni.
Sciocchi umani illusi che avevano pensato bene di
sganciare una bomba nucleare per sbarazzarsi sia degli zombie
assatanati che di noi…
Risentivo degli effetti del nucleare sulla mia
pelle, ne avvertivo la consistenza e il malessere non riuscendo a
controllare i mie poteri. E pensare che un tempo, perché
c’era stato un tempo, giusto dieci giorni prima, in cui ero
riuscita a tener testa al più temuto di tutti i portatori
sani…
Era cominciato tutto pochi giorni prima, prima
che The End
si schiantasse sulla città a recasse fuori tutto e tutti,
abbandonando New York in quello stato.
Lo guardai con entrambi gli occhi
spalancati; “mi dispiace..” dissi
muovendo le labbra in mute parole, ma lui, da lassù, non mi
diede alcuna risposta.
Si limitò a gettarsi nel vuoto, con un
salto nel vento che gli sollevò appena i lembi del giubbetto
e la maglia bianca sotto di esso.
Un istante più tardi, la sua figura
composta e leggiadra si schiantò con ferocia al suolo,
sollevando uno strato di polvere che mi travolse a tutto spiano,
assieme al boato dell’asfalto che andava in frantumi.
Il ragazzo, lo vidi, si tirò su
lentamente continuando a fissarmi da lontano.
Chinai la testa, colpevole e assoggettata,
sfuggendo ai suoi occhi di un azzurro quasi grigio, innaturale.
Metà del suo viso era celato sotto il chiaro cappuccio, le
braccia lungo i fianchi, ad una decina di metri da me.
Mi accorsi che stava venendomi in contro troppo
tardi, perché tentai la fuga voltandomi tutt’altra
parte e tirandomi in piedi.
-Vattene, lasciami stare!- gridai.
Mecer continuò ad avanzare nella mia
direzione, ed io a sfuggire dalla sua.
-Cosa vuoi? Cosa vuoi ancora da noi?!- gli urlai
contro girandomi a guardarlo, continuando ad indietreggiare frettolosa.
–Basta, hai vinto! Lasciami in pace!-.
M’inquietava parecchio vederlo venire
verso di me così tranquillo, quasi fosse certo che in un
modo o nell’altro sarei morta comunque; per mano sua o no.
-Vattene, basta… ti prego…-
mormorai flebile. –Mi dispiace, mi dispiace Alex…-
aggiunsi.
Inciampai su qualcosa alle mie spalle e caddi a
terra di schiena.
Serrai i denti e tenni il dolore per me e per me
soltanto.
Zeus era proprio davanti a me: mi guardava con
null’altro in volto che non fosse un’immensa
serietà e pena che non mi aspettavo.
-Alzati- disse.
Esitai, incredula di tali parole.
-Ho detto alzati- ripeté.
Cercai e tentoni qualcosa a cui appoggiarmi, ma
prima ancora che potessi solo realizzare del tutto che la sua
intenzione non era di farmi ulteriormente del male, lo vidi porgermi la
mano.
Mi stupii non poco di quel gesto, e
ciò fece nascere nel mio interlocutore qualcosa che gli
diede parecchio fastidio.
Ritrasse il braccio, tornando a fissarmi con odio.
-Ti hanno mandato loro?- chiese.
-Loro chi?- domandai arrogante, ma a quanto mi
parve non fu contento della mia risposta.
Alex mi afferrò con violenza per la
giacca e mi sollevò così da terra, tenendomi
stretta con entrambi i pugni.
-Smettila di mentirmi, Emily! Ti hanno mandata
loro! Per uccidermi!- ruggì.
I miei piedi galleggiavano nel vuoto, mentre non
opponevo alcuna resistenza alla sua presa.
–Sì…- assentii.
Vidi i suoi occhi balenare di una luce diversa,
triste, e le sue labbra schiudersi incredule. -…Emily-
chiamò ancora il mio nome, allentando la stretta dei pugni
sul mio cappotto. –Perché, Emily?! Non siamo
uguali te ed io?! Non lo siamo?!- mi chiese avvicinando il viso al mio.
-No, Alex. Non lo siamo!- quanto mi
costò pronunciare queste parole… -Non lo siamo
mai stati e mai lo saremo, mi dispiace…- sussurrai,
poggiando delicatamente le mie dita su una sua mano.
–Credimi, mi dispiace davvero… tantissimo- cercai
il suo sguardo che invece mi sfuggì, e ciò che
vidi fu solamente la rabbia tornare ad attraversare gli zigomi del suo
volto.
-Adesso…- balbettai. –Adesso
mettimi giù, per favore…- sibilai.
–Alex…- tentai di chiamarlo, ma mi accorsi con non
poco stupore del vuoto nei suoi occhi, che già vagavano nei
ricordi confusi e annebbiati, ma piacevoli, che aveva di me e delle
poche e meritate esperienze trascorse assieme.
-Alex… ti prego- singhiozzai
debolmente, e una lacrima d’argento mi scese lungo la guancia.
Il modo in cui mi guardava, come speranzoso che
fosse tutta una balla, come in attesa che gli dicessi: “ah,
piaciuto lo scherzo?”… cosa che non feci, che non
potei fare, che nessuno mi aveva chiesto o ordinato di fare.
-Mettimi giù, Alex!- gemetti tra le
lacrime, cominciando a calciare il vuoto sotto i miei piedi e dimenarmi
forsennata.
Il ragazzo mi afferrò con una sola
mano sollevandomi più in alto, allontanandomi dal suo viso.
-Come vuoi!- sbraitò.
Mantenne la parola, ma non precisamente nel modo
che mi aspettavo.
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Capitolo 2 *** Capitolo 2° - Emily&William ***
Capitolo
2° -
Emily&William
«Per
arrivare a quel triste giorno, ho dovuto ripercorrere alcuni nessi
della mia mente, alcuni ricordi, alcune emozioni che speravo non avrei
mai intrapreso nella mia vita.
Ho
fatto cose… che voi neppure immaginate.
Ho
conosciuto persone… che hanno tentato di uccidermi.
Ma ne
ho conosciute altre… che mi hanno dato troppo del loro
affetto, e di cui adesso ho perso completamente la fiducia.
L’epidemia
era già cominciata quando ancora vivevo con i miei genitori
a Manhattan, in uno dei quartieri intatti ai bombardamenti militari e
immuni al virus.
Suonati
gli allarmi, io e la mia famiglia ci siamo trasferiti altrove. Sono
andata a vivere a Brooklin, col mio ragazzo, William, e ho trascorso
lì i giorni del terrore che hanno segnato
l’America con una profonda cicatrice.
E’
stato in un attimo, un giorno, un istante… in un secondo!
Mi
sono distratta, per la prima volta ero certa che la mia e la vita di
chi mi stava attorno sarebbe presto migliorata. E invece, quando
pensavo che tutto si sarebbe aggiustato nel migliore dei modi,
è cominciato l’inferno…»
Inciampando
su un gradino, il ragazzo biondo perse la presa sullo scatolone, e il
suo interno si rovesciò sul chiaro parquet del salotto.
-Dannazione!-
sbraitò lui chinandosi a raccogliere i libri e vari fogli
che erano sparpagliati a terra disordinatamente.
-Willy,
cosa…- mi affacciai dalla cucina e lo vidi. –Cosa
hai combinato?!- sbottai andandogli incontro.
-Scusa,
Emy, ma… sono scivolato, io…- balbettò
guardandosi intorno dispiaciuto, gesticolando confusamente.
-Willy,
guardami- dissi piegandomi alla sua altezza.
Il
ragazzo si volse affranto verso di me, riponendo lentamente un tomo
nello scatolone. –Ti guardo, ti guardo…-
mormorò.
Gli
poggiai una mano sulla guancia. –Qui siamo al sicuro, non
pensarci. Il virus non uscirà dall’isola
finché non saranno i nostri soldati a permetterlo-.
-Lo
so, piccola, ma…-.
-Allora
niente ma!- gli sorrisi afferrandolo per i polsi e tirandolo in piedi.
–Smettila di stare con la testa in mezzo ai siero positivi,
smettila di immaginarteli la notte, smettila, smettila…- gli
sussurrai all’orecchio abbracciandolo. –Fallo per
me- aggiunsi soave.
Le sue
braccia si strinsero attorno ai miei fianchi. –Va bene, ci
proverò- mi carezzò la schiena.
-Forza,
dammi una mano- ridacchiai cominciando a raccogliere i libri dal
pavimento e impilandoli nello scatolone.
Era un
ragazzo così dolce, e la sua premura nei miei confronti non
arrivava ai livelli di nessun altro. Avevo trovato in lui tutto
ciò che potevo desiderare, e altrettanto William sembrava
vedere in me. Ci eravamo conosciuti all’Università
e da allora non ci separammo mai. All’inizio come amici, e
poi come qualcosa di più. Eppure, lui così
timido, così riservato, così attaccato al suo
mondo e ai suoi corsi di medicina avanzata era finito per tralasciare
l’aspetto fisico del nostro rapporto. Quindi mi ritrovavo
ancora vergine all’età di 22 anni. Non la
consideravo una vergogna, anzi.
Allo
stesso modo di come sapevo restargli accanto quando mi rifiutava, lui
si mostrava altrettanto fedele.
Si era
offerto di ospitarmi in casa sua perché i miei nonni avevano
davvero un buco che bastava a mala pena a loro e ai miei genitori.
Altrettanto grande era la tana che il mio ragazzo si era offerto di
condividere con me, ma non potevo comunque lamentarmi. Dal mio vecchio
appartamento avevo portato giusto l’indispensabile e quello
scatolone che Willy aveva rovesciato a terra poco prima, e che ora ci
apprestavamo a risistemare insieme.
Ad un
tratto sfoderai un gioioso sorriso e incontrai i suoi occhi azzurri di
svista. Ricambiò la mia allegria con quel trasporto che
immaginavo, colorandosi appena le guance.
Stava
arrossendo, perché le situazioni imbarazzanti e stupide
quando capitavano a lui non gli piacevano proprio.
-Non
riuscirò mai a ringraziarti abbastanza- dissi spezzando quel
silenzio.
Il mio
ragazzo prese in braccio lo scatolone e si alzò in piedi.
–Stai scherzando, vero? Non dovrai mai ringraziarmi, mai-
ridacchiò lui andando verso la stanza in fondo al corridoio.
Lo
seguii a ruota e lo vidi poggiare la scatola sulla piccola scrivania
presente nel locale, che doveva trattarsi della sua camera da letto.
Era
piuttosto sobria come stanza: una piazza e mezza addossata alla parete,
un’ampia finestra sotto la scrivania, qualche armadio a muro
e l’ingresso di un bagno abbastanza grande che si ricollegava
attraverso una seconda porta anche al corridoio. Sullo stesso piano
dell’appartamento c’era l’angolo cucina,
davvero un buco, e il salotto, ampio e con delle ariose vetrate che
davano sulla stradina di quartiere. Era una giornata soleggiata, e
dalle finestre entrava parecchia luce che illuminava tutto il pianoro.
Il
secondo livello invece era ciò che rimaneva: la soffitta,
che però, da quanto sapevo, il mio Willy utilizzava come
studio.
-Ah,
bene- sorrisi. –Pensavo che sarei finita a dormire nella
soffitta- commentai sedendomi sul letto.
-Ecco,
sì… infatti- esitò lui incrociando le
braccia al petto. –Spero che non… che non ti
dispiaccia se dormiamo nello stesso letto-.
-Ah!-
alzai gli occhi al cielo. –Perché dovrebbe
dispiacermi, sentiamo?- sghignazzai alzandomi e avvicinandomi a lui.
–Te la fai ancora sotto?- lo derisi.
Il
ragazzo mi lanciò una di quelle occhiate cagnesche
che… lo rendevano molto sexy. –No-
sbottò solamente.
-E
allora che problema c’è?…- gli
sussurrai a fior di labbra.
Percepii
le sue mani poggiarsi sui miei fianchi ma indugiare oltre quel punto;
nel frattempo mi allungai ulteriormente verso di lui, stavo quasi per
baciarlo quando…
Il
campanello di casa ci fece sobbalzare entrambi.
-S-s-scusa-
balbettò William scostandosi bruscamente da me ed io,
sbuffando, mi lanciai a sedere sul letto, rimbalzando sul materasso.
Sentii
la porta aprirsi e una voce familiare che diceva:
-William,
tesoro! La mia Emily è qui?- domandò spigliata
Susan varcando l’ingresso senza che nessuno glielo avesse
chiesto.
«Susan
McSoil, detta Susy SeSiAccollaSeiFregata. Castana, di capelli, di occhi
e di pelle. La mia compagna delle elementari che mi sono ritrovata ai
corsi di genetica all’ultimo anno di Università.
Ora mia migliore amica, Susan non fa altro che riempire la mia rubrica
di messaggini di prevenzione alle catastrofi che sta portando il virus
nella nostra città. Ora non voglio mica essere razzista,
anzi… compatisco molto quella ragazza, che da quando ha
saputo che suo padre, unico sopravvissuto ad un disastroso incidente
aereo tra i due genitori, era stato contaminato dal virus, si era
attaccata a me e al mio ragazzo senza darci mai tregua. Speravo che
dopo la fuga in casa di William non riuscisse a trovarmi, ma a quanto
pare…».
-Sì,
è di là- balbettò William indicando la
stanza nella quale mi trovavo.
-Uh!-
gioì Susan. –Nella camera da letto? Roba sconcia
senza il mio permesso?- ridacchiò, e il suono dei tacchetti
delle sue ballerine risuonò nel corridoio.
Quando
comparve sull’ingresso della stanza, scattai subito in piedi
e cercai di darmi un contegno. Sembrava davvero che io e Willy avessimo
trescato fino ad allora, bastava guardare i miei capelli.
-Susy!-
corsi ad abbracciarla. –Mi hai trovata…-
brontolai, e il puzzo del suo profumino chanel mi offuscò la
vista. Esatto, la vista, non l’olfatto. Era così
pesante quel profumo che cominciarono a lacrimarmi gli occhi.
-Alle
sette, questa sera, People
Pub. Niente buca!- disse soltanto, e poi lasciò
l’appartamento.
Così
com’era venuta, se n’era andata.
Ed io
e William eravamo immobili come stoccafissi che ci guardavamo complici.
Scoppiammo a ridere subito dopo che la porta si fu chiusa alle spalle
di Susan.
-People
Pub?-
domandai incredula. –Ma in quel posto
c’è sempre il pienone! Bisogna prenotare un mese
prima per trovare un buco…-.
William
si strinse nelle spalle cacciandosi le mani nelle tasche dei jeans.
–Sai com’è fatta Susan- sorrise di
sottecchi.
-Sì-
risi con lui. –Però mi stupisce che anche con
l’epidemia che miete milioni di vittime quel locale sia
aperto…- sospirai andando a guardare nello scatolone sulla
scrivania.
Il
ragazzo mi si avvicinò con pochi passi. –Magari
fanno dei riti di commemorazione. Potrebbe essere divertente, e fallo
anche per lei… insomma-.
-Lo
so- lo anticipai. –Suo padre, lui è stato
contagiato e chissà se è ancora vivo in quel
bordello a Manhattan…- mormorai affranta.
-Adesso
sei tu quella che si deprime- commentò lui cingendomi le
spalle con un abbraccio.
Mi
appoggiai completamente al suo petto. –Non sono depressa,
vorrei solo trovare un modo per… reagire, combattere,
capisci?-.
-Forse
qualcuno- inarcò un sopracciglio –ha ascoltato
questa tua voglia di vendetta e potrebbe interessarsi a te come
macchina da guerra!- mi derise.
-Zeus…-
sospirai.
-Già
il fatto che tu conosca certe informazioni riservate non è
un bene- mi rimproverò.
-Mio
padre ha a che fare con l’esercito da sempre, cosa posso
farci?- sbottai voltandomi e trovandomi con il viso poco distante dal
suo.
-Tuo
padre lavora nell’aeronautica, non nei servizi segreti, non
dare la colpa a lui. Sei tu che ficchi il naso troppo oltre!- mi
punzecchiò con un dito.
-Andremo
al People,
ma non voglio sentirti mugolare alle mie spalle se una bella ragazza ti
fa la corte e tu vuoi andartene per paura di lasciarla in cinta!-.
-Ma in
quel caso…-.
-Niente
ma!- risi isterica. –Ti farebbe bene un po’ di sano
sesso, guardati! Sei teso come uno stecco!- sbraitai uscendo dalla
stanza e avviandomi con passo serrato verso il salotto.
-E tu
sei troppo nervosa!- ribatté lui.
-No!
Sono tranquillissima!- nel mio tono di voce c’era poco e
niente che certificasse uno stato d’animo
“sereno”.
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Capitolo 3 *** Capitolo 3° - People's prime ***
Capitolo
3° - People's
prime
«Ricordo
benissimo la piccola insegna luminosa del People Pub: il
locale è di origine inglese, e il suo timbro così
come la sua immagine rispecchia molto il simbolo della metropolitana di
Londra, se non fosse che nel centro dell’insegna rossa, al
posto della parola “underground”, vi è
una scritta blu luminescente che dice “people”. Non
era la prima volta che visitavo quel posto, che era finito per
diventare uno dei pub preferiti di Susan così come uno dei
miei. Credetemi, è una delle poche cose che abbiamo in
comune io e quella poveretta. L’ingresso non è
affatto sfarzoso, ma è conosciuto da molte persone alla
maggior parte delle quali è vietato entrare. La sua stretta
clientela, soprattutto di questi ultimi tempi, ha la sua fama, e ancora
mi domando come Susan, e ripeto… Susan, sia riuscita a
procurarsi tre ingressi quando la gente fa la fila con mesi di
anticipo. È situato in una zona poco frequentata nella
periferia di Greenpoint, alle spalle del McCarren Park; si tratta di un
quartiere residenziale fatto di piccole abitazioni, ma che durante le
serate estive e i weekend fa baldoria come fosse capo d’anno.
L’idea
di riavvicinarmi ai miei amici, dopo quello che è successo a
tutti noi, mi allietava, ma…
C’era
questo ed altro al centro dei miei pensieri.
Non
riesco a concepire, sono profondamente turbata dal fatto che con il
Virus in circolazione, ragazzi e ragazze ancora girovaghino per la
città a piede libero, e che le forze armate americane
permettano un così facile contagio, scambio di infezione.
Anche se il gene non si trasmette attraverso nessun altro contatto se
non quello del sangue, mi aspettavo come minimo qualche misura
più attendibile di precauzione. Bastava che un solo cliente
del People fosse contagiato e provasse a metterci le mani addosso ed
eravamo tutti spacciati lì dentro, al chiuso, con tutta
quella gente che intasa l’entrata e l’uscita sul
retro. Nessuna via d’uscita in caso di pericolo…
Senza
pensarci troppo, scovai una parte di me che era terribilmente in ansia,
preoccupata che si trattasse di una trappola. Dopotutto, i siero
positivi al virus si evolvevano velocemente, e non sto parlando solo
dei segugi e dei cacciatori, ma di maestri nel camuffamento. Basti
pensare a Zeus…
e a tutte quelle volte, in diretta sui giornali, che è
riuscito ad infiltrarsi nelle basi nemiche senza troppi problemi. La
sua abilità di mutar forma è ciò
contro combattono le forze dell’esercito da sempre,
ciò contro combatte mio padre ogni giorno.
Lavorando
all’aeronautica con un rango bello e buono da ufficiale, Mark
Walker, il mio paparino, mi ha raccontato di essersi scontrato con Zeus ben due volte,
durante le sue esercitazioni in elicottero, e di esserne scampato per
miracolo e maestria. Ma quelle volte non gli sono mai bastate a fargli
neppure un graffio. Alex Mercer sembra invincibile, non
c’è nulla che riesca soltanto a fargli il
solletico.
Proprio
per questo motivo sono una vittima costante della paura, sentimento che
quotidianamente nascondo sotto una maschera di coraggio, una maschera
che aiuti in primis me stessa ma anche che mi sta attorno, come il mio
ragazzo, per esempio. Ed ora, avanzando così verso il
pericolo, mi sembra una mossa poco saggia. Forse non sarei dovuta mai
uscire di casa, avrei dovuto barricare le finestre, sbarrare la porta,
isolare le comunicazioni, e attendere che accadesse qualcosa.
Qualsiasi
cosa.
Ma
sfortunatamente… non l’ho fatto.»
Fermai
l’auto qualche isolato prima dell’ingresso del
locale, trovando un buco di parcheggio dove infilare la mia macchina
proprio sotto la luce accecante di un lampione della strada. Quando
arrestai il motore ed estrassi le chiavi, mi voltai sorridente verso il
mio ragazzo, accorgendomi degli occhi bassi e l’espressione
contrariata che aveva William in volto.
Gli
angoli della mia bocca si riabbassarono lentamente. –Che ti
prende, adesso?- chiesi flebile.
Il
giovane si passò una mano tra i capelli, riscuotendosi
d’improvviso dai suoi pensieri. –Nulla, stavo
pensando- disse sinceramente sfuggendo al mio sguardo. Lo osservai
aprire la portiera e gettarsi svelto fuori dalla macchina, ed io feci
altrettanto.
C’incamminammo
mano nella mano sul marciapiede, avvicinandoci sempre più al
luogo dell’appuntamento prefisso con Susan. Ci saremmo visti
tra breve sull’angolo della strada per percorrere insieme gli
ultimi tratti dell’isolato, dato che per entrare nel locale
saremmo dovuti essere il gruppo al completo o la prenotazione saltava.
Ciò
che attirò fin dal subito la mia attenzione fu
l’inquietante silenzio che mi aleggiava attorno. Vedere
quelle strade così taciturne, immobili quando invece mi
sarei aspettata il solito baccano delle solite festicciole pubbliche
attorno al locale mi spaventò oltremodo, dandomi un
ulteriore possibile sospetto che sotto sotto la situazione fosse
tutt’altro che pulita.
-Emily!
William!- sentii chiamare, e mi voltai all’istante verso la
direzione dalla quale era venuta quella voce squillante.
Susan
aveva i lunghi capelli castani legati in una coda alta che le ricadeva
su una spalla, la fronte alta e pulita risaltava la mandorla fusa dei
suoi occhi incredibilmente neri quella notte senza stelle. Vestiva di
un abitino scuro che le arrivava fino alle ginoacchia, i mezzi tacchi
che portava nelle occasioni meno formali che tamburellavano
sull’asfalto della strada e un giacchetto di pelle; il tutto
abbellito da un corpo e delle gambe lunghe e snelle. Da lontano non mi
parve neppure la solita Susan alla quale ero abituata. Mi aspettavo che
si vestisse alla sua solita maniera, molto sfarzosa, come amava fare
nelle serate che passavamo assieme nei locali, ma invece…
era abbigliata nel modo più sobrio che le avessi mai visto.
-Susan?-
assentii stupita.
-Forse
mi sono dimenticata di dirti che non è
un’occasione speciale, e che quindi non c’era nulla
di speciale da indossare, ma vedo che non è poi un grande
problema, dato che non ti sei neppure cambiata!- commentò
allegra la ragazza.
William
fece un passo avanti cacciandosi le mani nelle tasche dei pantaloni.
–Ora puoi dirci perché hai organizzato
quest’incontro? E come mai il People ha aperto? E
perché non indossi i tacchi alti?!- chiese esasperato, e non
mi stupii del fatto che fosse rimasto colpito dagli stessi particolari
che avevano lasciato me alquanto sospettosa.
Susan
sfoderò un mesto sorriso. –Veramente gli ingressi
al People
‘sta sera sono gratuiti. Non ve l’ho detto
perché magari avreste pensato chissà che, ma
invece resterete molto stupiti di quello che organizzeranno- disse.
-E
cioè?- domandai sbuffando.
-Lo
vedrete…- stava per incamminarsi, ma William mi precedette e
afferrò la ragazza per il braccio, voltandola bruscamente
verso di noi.
-Ascolta-
sbottò serio. –Te lo dirò molto
semplicemente: non ce ne fotte un cazzo delle tue seratine, e tanto
meno non credere che siamo tutta questa gioia di venirti dietro.
Perciò spiegaci subito cosa diavolo sta succedendo e
perché il People dava ingressi gratis! Con il Virus che
gira, potrebbe trattarsi di una manovra del governo per sterminare una
massa di infettati! Magari siamo malati e loro lo sanno, ma noi no!
Susan, Cristo Santo, dicci che non è
così…- sibilò pungente.
Ero
con lui. Ero dalla sua parte, lo appoggiavo pienamente. Mi sentivo
turbata dalle stesse domande e gli stessi dubbi, perciò non
potei far altro che accompagnare la situazione con una brusca
occhiataccia verso la mia amica.
Susan
non disse nulla per diversi istanti, ma in breve la sentii prendere
fiato e ammirai l’espressione sul suo volto tramutare dalla
gioia alla compostezza. –Il People e tutti i
locali ancora aperti di New York organizzano una serata di beneficenza
per le vittime della Guerra. Sono stata invitata perché mio
padre è morto colpito dal Virus nel centro di Manhattan,
durante una delle prime repressioni. Volevo che mi accompagnaste
perché da sola non avrei potuto guidare ubriaca fino a casa-
sorrise. –Ovviamente non si tratta solo di questo, ma speravo
anche che vi facesse piacere, dopotutto siamo tutti sulla stessa barca,
no?- affermò più allegra.
Annuii
con forza, rivolgendo uno sguardo a William che ricambiò
complice.
-E va
bene- disse il mio ragazzo riprendendomi per mano.
-Andiamo,
avanti- aggiunsi io, e c’incamminammo lungo il marciapiede
l’uno affianco all’altra.
Non
credei ai miei occhi quando raggiungemmo l’ingresso del pub,
completamente deserto. Pensai addirittura che avessimo sbagliato
strada, ma non poteva certo essere così poiché
sentivo benissimo i bassi della musica tuonarmi nelle orecchie.
Guardai
l’insegna luminosa con sospetto, e successivamente, seguendo
Susan che era in testa alla fila, scendemmo la scala che portava nel
seminterrato dell’abitazione, poiché il locale
stesso ero situato sotto l’appartamento dei proprietari.
Sull’entrata,
dove prima dell’ingresso si apriva un piccolo cortile al
chiuso, trovammo una modesta massa di persone che facevano la coda per
entrare. C’era un solo buttafuori che ritirava foglietti di
carta volanti che avevano tutt’altro che l’aspetto
di un invito privato.
Man a
mano che si avvicinava il nostro turno, la musica si faceva sempre
più assordante, e potei ben scorgere alle spalle del
buttafuori un flash di luci blu e rosse.
D’un
tratto sentii la presa di William sulla mia mano farsi più
presente e guardai verso di lui.
-Che
succede, ora?- domandai scocciata.
Il mio
ragazzo guardava dritto di fronte a sé, seguendo Susan
davanti a noi come fosse la sua ombra. –Ho un cattivo
presentimento, tutta qua- disse.
Sbuffai
sonoramente distogliendo lo sguardo dalla fila e mi guardai un
po’ attorno, notando con stupore che dietro di noi non
c’era nessun altro che si preparava a varcare
l’ingresso.
Finalmente
Susan mostrò i biglietti e ci timbrarono a tutti e tre la
mano destra, dopodiché potemmo finalmente superare quella
benedetta soglia.
Non
appena fummo all’interno, ci precipitammo alla caccia di un
tavolo dove sederci e ordinare subito da bere, ma la cosa
risultò alquanto difficoltosa.
Quel
posto era strapieno, ma cos’ strapieno che sarebbe potuto
traboccare come un vaso pieno d’acqua da un momento
all’altro. La pista da ballo era coperta per intero da facce
nuove, che non avevo mai incontrato nelle mie precedenti volte
lì, quando invece mi aspettavo di riconoscere la solita
clientela del sabato sera.
Attraversammo
mezzo locale per trovare un posto dove ficcarci, mentre
l’intensità della musica andava diminuendo, fino
ad affievolirsi del tutto.
Mi
sistemai al fianco del mio ragazzo senza mai lasciargli la mano, nel
frattempo che Susan ordinava da bere ad un cameriere che fu subito da
noi.
-Allora-
sorrise la ragazza mettendosi comoda davanti a me. –Che
raccontate di bello?-.
-Si
vede proprio che gli ingressi erano gratis, guarda quanta gente!- si
stupì William.
-Effettivamente-
blaterai infastidita dall’aria che già mi mancava.
-Siete
tesi come stuzzicadenti. Beviamo qualcosa e poi ci gettiamo in pista,
ok?- esordì Susan, ma sia io che Willy la fulminammo con
un’occhiataccia.
La
ragazza scoppiò in una fragorosa risata. –Va bene,
se non vi va di ballare, allora facciamo quattro chiacchiere: Emy,
quand’è stata l’ultima volta che hai
sentito tuo padre?- chiese.
-Perché?-
assentii interrogativa.
Susan
si strinse nelle spalle. –Tanto per parlare di
qualcosa…- disse.
-La
settimana scorsa- cercai lo sguardo del mio ragazzo che
annuì in conferma alle mie parole. –Prima di
cominciare il trasloco- aggiunsi tornando a guardare lei.
Susan
tamburellò tre dita sul tavolo.
–Capisco… buffo, non trovi?-.
-No,
affatto- dissi. –E’ mia madre quella che si
preoccupa e chiama a casa ogni 24 ore, non papà- sorrisi
mestamente.
-E tua
madre ti ha chiamata?- domandò la ragazza.
Restai
spiazzata da quella richiesta, sbiancando lentamente.
–No…- ammisi preoccupata.
William
al mio fianco fece la mia stessa faccia. –Questo
sì che è strano- mormorò.
Susan
si sporse in avanti. -… L’altro motivo per il
quale vi ho portati qui è… è che ho
sentito delle voci- sussurrò.
Mi
feci immediatamente più attenta. –Che voci?!-
sibilai, come se il pericolo di contagio non fosse abbastanza.
-La
settimana scorsa ho incontrato un mio vecchio compagno del liceo che
veniva da Manhattan: stava lasciando la città con i suoi
cugini e per poco non m’investiva- sbottò.
-Che
ci facevi a Manhattan?- domandò William di colpo.
-Non
ero a Manhattan! Il mio amico veniva da Manhattan, ma percorreva la
statale e stava lasciando la città. E comunque dovevo
aiutare mio fratello a recuperare delle cartelle del lavoro dal suo
vecchio studio prima che si trasferisse a Washington. Ma tornando a
noi, questo mio amico mi ha raccontato delle cose che…- fece
una pausa, passandosi una mano in fronte. –Non potei
crederci, era impossibile…-.
Io e
William ci scambiammo una complice occhiata.
–Cioè?- chiedemmo all’unisono.
La
ragazza si sistemò più comoda.
–Tornando dal suo appartamento, questo mio amico mi ha
raccontato di aver visto Zeus vicino a Central Park, ma…-
disse con calma, ma subito la interruppi.
-Sappiamo
tutti dell’esistenza di Zeus, non è affatto una
novità, non devi spaventarti per questo- sbottai acida.
-No,
no, no!- si apprestò a ribattere Susan. –Ha visto
Mercer nel parco, ma assieme a lui, che si fronteggiavano,
c’erano… dei ragazzi che… avevano
simili poteri, che tramutavano come lui, che lo combattevano, tentavano
di ammazzarlo…- fece un respiro profondo.
–E’ difficile da credere, all’inizio lo
presi per matto, e magari voi due state pensando lo stesso di me,
ma… ma poi è successo un fatto che…
che ha dato maggior credito a queste immagini- disse.
-Spiegati-
sbottò William.
-Ho
motivo di pensare che si tratti davvero di una manovra del governo,
perché qualche giorno fa ho risentito al telefono questo mio
amico e mi ha chiesto se avevo conoscenze a San Francisco oppure a Los
Angeles-.
-E
allora?- feci io.
-Mi ha
consigliato di trasferirmi lì, di lasciare la costa est per
il Virus, ma anche perché…- esitò.
-Susan-
la richiamai.
-Perché
circolano delle voci, delle voci che raccontano di un siero scoperto
dal governo, che sta andando di casa in casa a catturare dei civili per
farne delle cavie! I ragazzi che ha visto a Central Park questo mio
amico, sono i primi esponenti di questo siero, un estratto da
chissà quale gene positivo o cacciatore-
farfugliò. –Ma il fatto è che non
sappiamo chi hanno intenzione di prendere, ed è la notte che
colpiscono, è la notte che ti entrano in casa e ti portano
via dal letto, e poi ti risvegli su un lettino di metallo con
chissà quali assurdi poteri e microcip impiantati in testa!-
strillò.
-La
conosciamo tutti la storia di Zeus- parlottai a capo chino.
–E sinceramente, non ho mai creduto nella storiella
dell’uomo nero che ti strappa dalle lenzuola- sbottai.
-Non
è una storiella!- ribadì Susan.
-Il
governo ha già abbastanza armi nucleari e missili atomici,
non va certo a caccia dei gruppi sanguinei più rari per
potersi procurare dei nuovi squartatori di masse! Zeus è un
esperimento mal riuscito, perché quel bastardo gli
è sfuggito dalle mani e ora fa di testa sua! Non
compierebbero mai lo stesso errore due volte, gli è bastata
la prima…- sibilai.
-Ti
sbagli. Io lo so, ho sentito una trasmissione, alla radio! Era tuo
padre, cazzo!- gridò.
M’irrigidii
d’un tratto. –Mio padre?- balbettai.
–Alla radio?-.
William
spostò i suoi occhioni verdi da me a Susan e da Susan a me
una decina di volte. –Cosa?!- eruppe.
La
ragazza che mi sedeva di fronte restò impassibile.
–Sì, tuo padre, Emily! Mark Walker, che fino
all’altra sera trasmetteva da una stazione mobile, nel cuore
di Manhattan! Devi credermi, lui…-.
Non
terminò il discorso che una voce reclamò
attenzione in sala.
-Gente
di New York!- strillò qualcuno col microfono alla bocca, e
subito mi sporsi a guardare verso il dj della serata, cogliendolo
sistemato su un’impalcatura in fondo alla sala, intento nel
preparare alcuni cd e pronto a mixare della nuova musica. Dunque la
voce non era la sua.
Sia io
che William ci guardammo attorno allo stesso modo di come fecero tutti
i presenti in pista, che fermando le danze si chiesero a chi
appartenesse quella voce.
-Spero
che il benvenuto sia stato di vostro gradimento- gioì ancora
costui, che aveva un tono prettamente maschile.
La
massa di ragazzi riunita sulla pista rispose in coro: -Sì!-.
L’euforia
era già a mille lì dentro, mentre sentivo
crescere in me un brutto, bruttissimo presentimento.
-E la
serata è appena cominciata!- disse ancora
l’occulto. –Ma prima di dare il via alla festa,
vogliamo premiare i fortunati vincitori della lotteria di questa sera-.
-Lotteria?-
si stupì William.
Attirai
l’attenzione di Susan schioccando le dita. –Ehi,
guarda se i biglietti sono numerati- sussurrai.
La mia
amica estrasse i tre biglietti dalla borsetta e li guardò
con attenzione. –No- assentì in fine.
–Ci sono scritti solo i nostri nomi-
m’informò, ma la cosa non mi piacque mica.
-Eeeeeeeee
i fortunati vincitori della serata sono!…-.
La
folla sulla pista da balla fece un coro di:
“ooooooooooh!”.
-Margaret
Smith. Lucy Malcom. Emily Walker. Emmett Word. Philip McGuire e Harry
Brown!-.
Ci fu
un caloroso applauso da parte dei presenti in sala, ed inizialmente non
me ne fregò un granché, ma poi…
-Ha
detto il tuo nome!- eruppe Susan.
-Sì,
è vero…- confermò incredulo William.
-…Non
ci credo- assentii guardandomi attorno.
Improvvisamente
una luce soffusa color blu fece il giro del locale e andò a
fermarsi proprio su di me, illuminando la mia posizione in mezzo a
tutta quella gente. Altri cinque fari colorati si puntarono addosso ai
restanti cinque vincitori della lotteria, dopodiché la voce
al microfono tuonò di nuovo in sala.
-Eccoli,
signore e signori! Vi preghiamo di venire a ritirare il vostro premio
presso l’uscita del locale e di non portare con voi alcun
estraneo al concorso, grazie- e detto ciò, la musica riprese
a palla come al solito.
William
si voltò verso di me. –Non so se è una
buona idea-.
-E’
solo un premio!- rise Susan. –Avanti, vai. Ti aspettiamo qui-
disse allegra.
-Io…-.
-Se
poi non ti piace, puoi darlo a me- ridacchiò.
Sbuffai.
–E va bene!- ammisi esasperata dirigendomi
all’uscita del locale, e la luce puntata su di me mi
seguì come un’ombra.
Gli
altri cinque ragazzi aspettavano davanti alla porta che fossimo al
completo, e poco dopo, quando il buttafuori si accorse che risultavamo
tutti all’appello, ci fece passare.
«Se
solo non avessi varcato quella soglia, oggi probabilmente la mia vita
sarebbe molto
diversa da com’è. Era nato tutto come un gioco, ma
principalmente come un’unica grande truffa. Lotteria del
cazzo. Per una buona volta mi sarei dovuta fidare del mio istinto, che
mi suggeriva tutto tranne ritirare quel dannato premio… La
verità è che premio
non fu, perché una volta superata l’uscita del
locale, ad aspettarci trovammo esattamente l’opposto che ci
aspettavamo di trovare. Erano una dozzina di uomini vestiti di nero, e
nel centro del gruppo sorgeva la figura di un anziano signore sulla
cinquantina d’anni, con la barba bianca e i capelli grigi
curati. Avrei detto un politico, ma mi accorsi alla svelta delle
pistole che portava sotto la giacchetta dell’elegante smoking
nero. La cravatta rossa, sobria e lo sguardo di ghiaccio che non avrei
più dimenticato in tutta la mia vita, anche
perché ancora oggi sto dando la caccia a quel bastardo.
Lewis
Martin. Capo
redattore e dirigente della sezione Angels.
Eccolo
lì lo stronzo che mi ha rovinato l’esistenza,
guardatelo! Ricordo perfettamente il giorno in cui ci siamo incontrati
per la prima volta, ovvero quella sera, sotto un cielo nero e senza
stelle. Mi ha guardata per prima e a sorriso in un modo che davvero non
mi aspettavo. Si è avvicinato a noi cinque con fare
prepotente, altezzoso e ha detto proprio così: -Benvenuti a
bordo, Angeli…-.»
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Capitolo 4 *** Capitolo 4° - Cetriolini sott'olio ***
Capitolo
4 -
Cetriolini sott'olio
«Margaret
Smith
festeggiava i suoi ventisette anni a marzo di quell’anno.
Aveva gli occhi marroni e un corpo snello, con indosso dei jeans
lunghi, delle ballerine e una maglietta scollata su una sola spalla.
Portava i capelli lunghi e biondi abbigliati, solo per quella sera, in
gonfi boccoli brillanti, perché si vedeva lontano un miglio
che era una banale piega, ad invidia di Lucy Malcom, i cui
boccoli rossi erano più che veri, acconciati in un taglio
corto ma ordinato. Gli occhi verdi brillanti e il naso piccolo; qualche
lentiggine qua e là che nascondevano i suoi
vent’anni sotto la maschera di una quattordicenne. Quella
sera indossava dei pantaloncini corti come quelli da spiaggia, che le
arrivavano a metà coscia, delle converse rosse coi lacci
bianchi e una maglietta con le maniche lunghe a righe orizzontali, in
pendant alle scarpe.
Harry
Brown era la
checca della situazione. Già che indossasse una camicia
azzurra mi inquietava non poco, e aveva la mania di portare i pantaloni
a vita a alta. I capelli neri quella sera erano fissati con una marea
di gel e tirati all’indietro, fatta eccezione per un ciuffo
scompigliato che gli copriva uno dei due occhi color mandorla.
Emmett
Word lo
ricordo per la sua espressione sempre seriosa, incazzato ventiquattro
ore su ventiquattro. La corporatura massiccia, ma non grassa, anzi;
nonostante indossasse una felpa larga color porpora con la scritta
“Oxford University”, la sua muscolatura accentuata
si notava eccome. La barba lasciata crescere e i capelli acconciati in
un taglio corto, e ci azzeccai quando gli chiesi si era stato nei
servizi militari inglesi. Nonostante il suo carattere barbare e
altezzoso, a fare di Emmett un comune mortale erano i suoi occhi
azzurri… anzi, neppure quelli.
Philip
McGuire
pensavo sarebbe stato il più normale del gruppo, ma in vece,
già da com’era vestito, sembrava che ad Oxford
avesse insegnato lui storia dell’arte ad Emmett. Portava
degli occhiali a lente fina, forse da riposo che si era dimenticato di
togliersi staccandosi dallo schermo del suo ufficio a Brooklin (esatto,
abitava dalle mie parti). I capelli lunghetti e di un color miele
acconciati ordinatamente dietro le orecchie; indosso aveva una camicia
bianca e dei semplici jeans, ma quand’era stato chiamato a
reclamare il premio della lotteria, aveva portato con sé una
giacchetta nera che ora aveva addosso.
Questi
cinque,
buffi, bizzarri e particolari elementi sarebbero stati i miei compagni
nelle prossime disavventure per il resto della mia vita.»
-Come cazzo ci
hai chiamati?!- sbottò Emmett arrogante, con un velo di
confusione nella voce.
Lewis
Martin fece
un passo indietro mettendosi le mani in tasca. –Angeli, vo ho
chiamato Angeli-
rispose molto tranquillamente.
-Dov’è
il nostro premio?- cambiò discorso Harry.
Durante
quella
conversazione, che non durò poi tanto, preferii restare in
silenzio e a braccia conserte. Lucy, dietro di me, scambiò
due parole con Margaret che annuì sussurrandole qualcosa che
non capii.
-Che
razza di
truffa è questa? Chi siete voi?- domandò
intelligentemente Philip, detto Phil, al mio fianco.
-Per
adesso chi
siamo noi non è importante- disse Lewis facendo un segno con
la testa, e gli uomini dietro di lui vennero verso di noi.
–Ma non disperate, reclamerete presto i vostri
“premi”!- rise in un modo malvagio che mi
spaventò oltremodo.
Irrigidii
le
gambe quando uno degli scagnozzi vestito di nero si avvicinò
troppo al mio corpo, e lo vidi tirare fuori qualcosa dalla tasca dei
pantaloni dello smoking.
-Non
toccarmi!-
ruggii a denti stretti, e quello indietreggiò.
Harry
ed Emmett,
dal fondo, mi guardarono con stupore, e altrettanta sorpresa comparve
sul volto di Lewis.
-Emily,
giusto?-
mi chiese il vecchio.
Lo
fulminai con
una di quelle occhiatacce che avrebbe dimenticato con
difficoltà. –Sì-.
-Se
ci lasci
lavorare, ti assicuro che potrai rivedere tuo padre-
sghignazzò, e quella fu la goccia che fece traboccare il
vaso.
-…
Mio
padre?!- assentii spaventata.
Fu a
quel punto
della serata che cominciai a temere davvero per la mia vita, quando
esattamente quel fiuto che avevo per il pericolo cominciò a
captare una certa puzza poco interessante. Mi riscossi dai miei
pensieri e, con un’espressione seria in viso dissi: -Non
voglio farne parte…- azzardai un passo indietro, ma lo
scagnozzo di Martin che avevo alle spalle mi afferrò per le
braccia immobilizzandomi.
Harry,
Margaret e
gli altri osservarono attoniti, ed Emmett tentò da subito di
liberarmi, dando uno spintone al tizio che aveva solo osato avvicinarsi
a lui e scazzottando la faccia di quello che mi serrava i movimenti.
-Azzardati
a
toccarla di nuovo!- ringhiò Emmett, e l’uomo
vestito di nero fece una smorfia massaggiandosi il mento.
-Grazie…-
mormorai guardandolo, e il ragazzo annuì composto.
-Signore-
un uomo
si avvicinò a Lewis. –Il tempo stringe, cosa ne
facciamo degli altri?- chiese.
Lo
sguardo di
Martin indugiò alcuni istanti su tutti noi, quasi ci stesse
analizzando uno alla volta, tentando di leggere e godersi il terrore
che avevamo sulle nostre facce.
-Prendeteli
ed
eliminate quelli nel locale. Tutti- dichiarò in fine.
Sbiancai.
–William…-.
-Cosa?…-
fece incredula Margaret.
-Perché!?-
azzardò Phil.
Martin
guardò a terra un istante. –Perché sono
infetti, così come lo siete voi. Vi abbiamo selezionato in
base a dei criteri molto sottili, nel vostro sangue, oltre al virus,
c’è qualcosa che gli invitati in quel locale non
hanno, perciò, per non rischiare ulteriori contagi, devono
essere abbattuti. Tutti quanti- spiegò.
-Tu
sei tutto
matto, amico!- parlò Harry.
-Basta-
Martin,
esaspetarto, fece un gesto con la mano e ci diede le spalle.
–Finiamo questa storia- aggiunse, ed ebbi solo il tempo di
guardarlo incamminarsi sulle scale assieme a due tizi.
-William!…-
mi voltai e feci per scappare, correndo verso l’entrata del
locale. –William!- gridai ancora, ma una presa salda mi tenne
incollata dov’ero facendomi male ai fianchi.
–WILLIAM!- mi dimenai ancora allungo, e altrettanto tentarono
i miei compagni, ma poi, come un morso di zanzara, nella pelle del mio
braccio sentii penetrarmi un ago.
Sgranai
gli occhi
percependo il sonnifero entrare in circolo nelle vene, la mia bocca si
aprì ma non ne venne alcun suono. Mi accasciai debole,
stanca, tra le braccia dello scagnozzo che aveva ricevuto
l’ordine di addormentarmi, e socchiusi le palpebre
lentamente. Come ultima cosa vidi una decina di uomini fare irruzione
nel locale, poi divenne tutto offuscato, suoni e colori, ma udii bene
le grida assatanate della gente in fuga e gli spari delle
mitragliatrici come se fossi sul fronte della 1° o della
2° Guerra Mondiale.
Con
la sola
differenza che questa somigliava più alla
3°…
«Durante
un’esercitazione sul campo, nel centro di Manhattan, mio
padre venne accerchiato da un gruppo di cacciatori che annientarono il
suo elicottero e lo mandarono fuori rotta. Si lanciò col
paracadute, ma precipitò nel mezzo della battaglia tra il
virus e l’esercito americano. Era disarmato, così
trovò riparo in una jeep dell’esercito e
riuscì ad attivare la sua stazione radio mobile. Trasmise
allora il suo messaggio, parlando degli Angeli come degli eroi,
pubblicizzando le loro gesta, e se solo avessi ascoltato quella
maledetta comunicazione, forse avrei fatto meno storie quando
chiamarono il mio nome a quella maledetta lotteria.
Martin
e i suoi
scagnozzi ci addormentarono con del sonnifero e ci portarono nella base
militare Phoenix,
proprio affianco ad uno degli Alveari più grossi di
Manhattan, che fortunatamente, all’epoca sfornava bestiole di
piccolo calibro, appositamente per i nostri addestramenti…»
<<…Siamo
stati scelti dal popolo, pescati dalla folla nell’anonimato.
Siamo
stati
catturati come bestie e divenuti vittime dei loro scopi…
>>
«Durante
la mia permanenza nei laboratori della base, ricordo di aver trascorso
quasi un giorno o due sdraiata su un lettino di metallo. Ogni tanto
aprivo gli occhi e mi guardavo attorno, ma la vista offuscata e
l’insieme caotico di suoni che mi rimbombavano nelle orecchie
erano solo un ulteriore disturbo, così finivo col preferire
addormentarmi e non risvegliarmi fin quando quella tortura (di
qualsiasi cosa si fosse trattato) non avesse fine.
Quelle
poche
volte che riuscii quasi a riprendermi del tutto potevo contare i
tubicini di plastica nei quali vedevo scorrere uno strano liquido
rosso, che riconobbi subito come il mio sangue. Mentre degli altri
sembravano iniettarmi una strana sostanza più rosata,
più chiara. In totale erano una dozzina, tutti attaccati in
vari punti del mio corpo. Era una specie di prelievo di massa che,
vidi, stavano applicando non solo su di me, ma anche sui miei compagni
di sventure.
Voltando
la testa
di lato, infatti, vedevo solo il corpo di Margaret nelle stesse
condizioni, con indosso una camicia lunga bianca simile a quelle
d’ospedale. Due tubicini erano piantati nella sua gola,
all’altezza della vena principale, altri sulle braccia e
altri ancora sulle gambe. I suoi occhi semi schiusi come in uno stato
di trans mi spaventarono, ma mi resi subito conto che in quello stato
c’ero anch’io. All’epoca non sapevo se ci
stessero effettivamente facendo del bene o del male, dopotutto la loro
causa, come avrei scoperto in seguito, era di cuore, ovvero annientare
il virus con le sue stesse armi. Però mi chiedevo
perché non appendere dei volantini e richiedere del
volontariato invece di accalappiarci come randagi per le strade.
Sembrava sciocco pensarci, dato che il tempo stringeva a tal punto da
non potersi permettere di fare le cose in amichevoli modi; e il Governo
sapeva bene come comportarsi in certi casi.
Mi
chiedevo dove
fossero tutti gli altri; perché in quella sala del nostro
gruppo c’eravamo solo io e Margaret? Dov’erano
Lucy, Emmett, Phil ed… Harry? A mala pena ricordavo i loro
nomi. Quello che notai con parecchio stupore fu comprendere di non
essere affatto sola. C’erano almeno un centinaio di lettini
come il mio, con altrettanti sfigati mezzi dormienti come me.»
<<…
Non so con precisione quanti di voi sono come me, quanti di voi siano
caduti così in alto, quanti di voi sono o saranno presto
stesi su uno di quei lettini da laboratorio del piccolo chimico!
Ma
so per certo che siamo quasi un centinaio e sparsi nel mezzo
dell’epidemia con un obbiettivo
preciso…>>
«Ad un
tratto, la testa prese a pulsarmi terribilmente, ero tutta un dolore.
Mi sentivo debole e stanca come non mai, quasi fosse sul filo della
vita e stessi per cadere giù, accasciandomi priva di forze.
Sentivo il vigore abbandonarmi goccia dopo goccia mentre il mio sangue
defluiva via da quei maledetti tubicini di plastica.
Il
laboratorio
nel quale ci tenevano era enorme, asettico, dalle pareti grigie e
vuote. Una decina di dottori o scienziati, quello che erano,
camminavano da una parte all’altra della stanza, controllando
i referti di noi “pazienti”. Quando uno di loro si
avvicinò al mio lettino, riuscii tremante a sporgere un
braccio dalla branda di acciaio. Questo mio gesto lo fece balzare dallo
spavento, così che la cartellina che aveva in mano
finì a terra.
-E’
sveglia!- aveva gridato costui guardandosi in giro. –Qui,
presto! Portate una dose di c49! E una barella!-.»
«Perché
il nostro
sangue?»
<<…Faccio
questo appello a chiunque voglia unirsi alla nostra battaglia.
Angeli
o umani, col gene Zeus nel sangue oppure no, non fa alcuna
differenza!…>>
«Cosa
ci faranno quando questa specie di cerimonia d’iniziazione
sarà finita?!»
<<…Abbiamo
accettato questa nostra missione, perseguito con animo il nostro
destino.
Abbiamo
creato una nostra base, un luogo dove riconoscerci e proteggerci.
Lo
chiamiamo il Paradiso, perché in ogni angolo di quartiere di
questa merda di città presiede almeno uno di
noi!…>>
«Cosa
stavano aspettando a liberarci?»
<<…Il Virus
è un nemico comune, che ha preso piede oltre le barricate di
Manhattan e sta mietendo milioni di innocenti nelle principali
città americane…
New
York per prima…
Ma
adesso San Francisco e Los Angeles…
Domani
Washington D.C…>>
«Cosa
volevano da noi?»
<<…Ci
sarà un giorno in cui l’epidemia
toccherà l’oriente e defluirà in
Europa.
Le
nostre ali dovranno impedire tutto questo prima che il genere umano
venga spazzato via dalla faccia della Terra…>>
«E
improvvisamente ricordai…»
William…
«…
E capii.»
…Alex
Sgranai gli
occhi, che mi si erano gonfiati e profondamente arrossati, avendo perso
la loro lucentezza azzurra. Spaventose occhiaie mi scolavano le guance,
consumate dagli infiniti prelievi che mi avevano fatto. Cominciai a
dimenarmi incontrollata, spasmodica, terrorizzata. Avevo una mascherina
sulla bocca che mi spazzai via dalla faccia con una zampata, scattai
seduta sul lettino, sollevando il busto d’improvviso, ma il
dottore che avevo affianco mi rimise giù con violenza mentre
in suo aiuto accorrevano altri medici.
-Finalmente
è sveglia! È stata una delle ultime, alleluia!-.
-Dobbiamo
portarla subito in vasca prima che si riaddormenti!- disse una donna.
-Esattamente,
perciò svelti, la dose!- sbraitò un altro.
Mi
tennero ferme
le gambe, le braccia, il busto e anche la testa. Ringhiai
più volte come una bestia posseduta, ma non mollarono molto
facilmente.
Almeno
fin quando
non sentii un ago penetrarmi la carne all’altezza del collo.
M’immobilizzai
dal dolore; fu talmente doloroso che smisi di respirare per quasi un
minuto.
<<…Io
sono il Dottor Mark Walker…>>
Gli scienziati
approfittarono della mia paralisi per caricarmi su una barella mobile e
trasportarmi fuori dal laboratorio.
Più
di
una volta le luci del soffitto di un lungo corridoio mi balenarono
negli occhi, che però non riuscii a chiudere, accecandomi.
Raggiungemmo
di
gran corsa una sala poco distante e quando fummo all’interno
sentii una ventata d’aria gelida. Mi venne la pelle
d’oca e sopportai spasmi di freddo continui.
Anche
questa era
una stanza molto grande come la precedente, ma invece di essere colma
di lettini, ospitava delle sottospecie di barattoli giganti
trasparenti, e all’interno vidi bene delle…
persone nude, rannicchiate in una posa fetale, con un centinaio di
tubicini, che partivano da terra e si attaccavano in varie parti del
corpo, cambiando continuamente posizione. Questi galleggiavano in un
liquido azzurrognolo quasi verde acqua; dormivano con gli occhi chiusi,
ma le attività dei loro organi interni, quali il cuore e i
polmoni, erano registrate su uno schermo ai piedi della rispettiva
vasca.
<<…
e Voi, …>>
I medici mi
sollevarono dalla barella e mi adagiarono su una specie di altare
rotondo. Mi lasciai spogliare da alcune scienziate del mio camice
così da restare al freddo e completamente nuda.
Dopodiché si allontanarono da me e attesero qualche istante,
fin quando dai bordi dell’altare, come un sipario che sale
all’incontrario, vidi annebbiarmi la vista verso
l’esterno un vetro abbastanza spesso da isolare le mie grida
di aiuto. Non appena fui completamente al silenzio, rinchiusa da quello
spesso strato trasparente, sopra la mia testa si aprì un
condotto che mi gettò addosso cubi su cubi di acqua calda,
ma che aveva un curioso colorito verdognolo. Gridai allungo
terrorizzata, fin quando l’acqua non fu abbastanza alta da
farmi galleggiare. Strusciai i palmi contro il vetro, chiedendogli
aiuto, ma nessuno degli scienziati lì presente a guardarmi
fece nulla. Ecco, si limitarono ad osservare se le procedure andavano a
buon fine.
Battei
ancora e
ancora i pugni, ma poi l’acqua crebbe a tal punto da farmi
toccare con la testa il soffitto della mia cella. In preda al panico
presi un’ultima boccata d’aria e
m’immersi, restando con le dita a premere sul vetro troppo
spesso della cabina.
Improvvisamente
mi resi conto di non aver bisogno d’aria, perché
erano già dei minuti che me ne stavo immobile a guardare il
mondo esterno. Era incredibile: i miei polmoni, il mio
cuore… sentivo in me una tale forza, un tale vigore che non
avevo mai provato, e questo potere
di respirare sott’acqua sarebbe stato solo un piccolo
assaggio di quello che veramente era essere un Angelo.
<<…e
il luogo dal quale state ascoltando questo messaggio,
…>>
Attraverso il
vetro vedevo come i dottori dai camici bianchi si complimentavano
l’uno con l’altro per la riuscita del progetto. Li
vidi che si stringevano la mano e si abbracciavano, ed in fine li
osservai abbandonare la sala enorme nella quale mi trovavo…
fortunatamente non da sola.
Mi
guardai
attorno e riconobbi Lucy, Phil, Harry ed Emmett nella mia stessa
situazione. Mi guardavano ognuno in un modo diverso, ma tutti e tre
meno spaventati di quanto mi aspettassi. Probabilmente erano
lì da molto tempo prima di me ed era altrettanto probabile
che avessero compreso quale triste destino comune ci aspettasse.
Restammo
allungo
a fissarci negli occhi, attraverso i vetri delle nostre prigioni.
D’un
tratto mi sentii pungere il piede come il morso di una zanzara e notai
con stupore un filetto metallico che si era stretto attorno alla mia
caviglia. Ne comparvero altri simili che mi punsero sulle braccia,
sulla schiena e, tutte assieme con uno strattone, mi tirarono verso il
fondo della vasca.
Guardai
verso i
miei amici e vidi che erano nelle mie stesse condizioni, ma
ciò che mi fece sorridere fu osservare come Emmett tentava
di stritolarli impazientemente e con rabbia.
Quando
anche lui
si fu lasciato accalappiare dalle sonde (che svolgevano il compito di
calibrare le attività del nostro corpo durante la permanenza
in vasca) e tutto divenne calmo, mi permisi di chiudere gli occhi,
concentrandomi su qualcos’altro.
E
solo allora
capii come si sentisse veramente un cetriolo sott’olio.
<<…siete
il Paradiso…>>
Note
Non
a caso il rating è arancione e nei generi ho anche aggiunto
“horror”. Horror credo sia una parola che in
sé raggruppa molto sotto-significati. E’ horror la
bambola assassina che spunta dall’armadio di casa con un
coltello nella mano, ma è anche horror un gruppo di ragazzi
che vengono spogliati e gettati in delle vaschette come cetriolini
sott’olio, no? Quest’assurda idea mi è
venuta in mente osservando una scatola di cipolline
sott’olio… certo, ora non pensate che sia una
sadica, ma… chissà, e poi una cosa simile
l’avevo già vista in Pokémon (il film)
Mew contro Mewtwo, per chi sa di cosa parlo, quando gli scienziati
creano il clone di Mew, ovvero Mewtwo, che però si ribella e
spezza la vasca nella quale si trovava, distruggendo il laboratorio.
°°
ops, troppi spoiler! XD Ciao, ciao!
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Capitolo 5 *** Capitolo 5° - Ali ***
Capitolo 5
- Ali
«Col passare dei giorni
il mio corpo subiva continue mutazioni: sentivo le ossa spostarsi, la
pelle ispessirsi, la schiena torcermisi senza che io dessi alcun
comando, o meglio… senza che il mio cervello lo facesse. Il
liquido caldo nel quale galleggiavo m’inebriava
dall’esterno delle sostanze sufficienti a completare la mia
trasformazione. L’aria di cui non necessitavo per respirare
divenne una voglia inarrestabile, quasi fosse una droga. Desideravo
poter tornare ad usare i miei polmoni, desideravo potermi staccare di
dosso quelle sonde, scalciare via quelle orribili sensazioni e spezzare
l’ampolla nella quale mi trovavo. La mia permanenza in quella
cella di vetro divenne man a mano una terribile ed odiata tortura, ma
la verità era parecchio triste da accettare: il sonno nel
quale mi ero calata fin dal primo giorno della mia immersione, mi aveva
fatta sua prigioniera. Non riaprii gli occhi per tutto quel tempo,
sentendo sulle labbra il gusto amaro dell’acqua verdognola
nella quale galleggiavo, mentre le sonde attorno al mio corpo nudo mi
solleticavano in punti sempre differenti.
Sì, esatto…
una tortura. E quando pensavo alla domanda “ma chi me
l’ha fatto fare?” non riuscivo a darmi una
risposta, perché ancora non conoscevo chi fosse davvero il
responsabile di quella follia, al quale avrei spaccato la faccia una
volta uscita di lì. All’epoca non immaginavo
minimamente chi, o cosa, o quale entità superiore avesse
ordinato tutto quello. Quando mi sforzavo di immaginare chi si celasse
dietro la maschera di intermediario tra il governo e questi scienziati,
mi compariva davanti al buio delle mie palpebre abbassate la faccia di
quel… quel certo Lewis Martin, che una sera di qualche
giorno fa aveva ordinato e coordinato la nostra cattura, come fossimo
bestie, attirate nella sua trappola… lotteria di merda.
…William.
Pronunciai il suo nome nel sonno,
ma quella dannata convalescenza subacquea non mi lasciava neppure
sognare.
Ricordai i volti dei miei amici,
tutti quanti.
Cosa avrei dato pur di rivederli
tutti, davanti a me in carne ed ossa, e poterli abbracciare uno ad uno
sentendomi finalmente in salvo, di nuovo a casa, circondata dalle
persone che amavo e dal calore di una famiglia che non mi era stata
data l’opportunità di godermi fino in fondo,
strappata alla vita così giovane, condannata a quegli
orribili esperimenti all’età di soli 21 anni.
Ma restava sempre e soltanto lui al centro del
vorticare dei miei pensieri.
Il mio piccolo Willy…
Volevo ricordare i momenti migliori
passati assieme, le notti, ma anche le giornate a passeggiare mano
nella mano per Central Park, prima che l’epidemia lo
trasformasse nel fronte della Guerra tra uomo e Virus. Avrei voluto
costruire con lui una famiglia, passare il resto della mia miserabile
vita con lui, a guardarci negli occhi fino a sera tarda e poi
addormentarci insieme nel letto della sua stanza, nel suo piccolo
appartamento di Brooklin. Ricordavo il trasloco, ricordavo la faccia di
mia madre nel sapere che finalmente mi mettevo in salvo, che finalmente
lasciavo Manhattan e mi scollavo dalla casa dei miei genitori. Ricordai
il volto di mio padre, la storia che qualcuno mi raccontò su
di lui, la sua trasmissione radio pubblicitaria
sugli Angeli…
…Angeli.
Cosa sono gli angeli?
Uomini con delle bianche ali
piumate attaccate alle scapole; ali magnifiche, chiare, ma a volte
anche scure, nere come la pece; dev’esserci comunque una
differenza tra le ali bianche e quelle nere. Si può capire
molto di una persona solo dal colore della pelle, lanciando pregiudizi,
perciò cosa dovrebbe essere differente quando si parla di
angeli? Ma è davvero questo un angelo? Una vittima di
discriminazioni e razzie, oppure una Sacra Entità? Angelo
è l’immagine di un essere superiore che sta a
metà tra cielo e terra, tra Dio e gli uomini, tra
l’infinito e il finito…
Ma perché chiamano noi Angeli?
Perché quest’appellativo che non credo di
meritarmi tanto… non credo di aver fatto mai del
volontariato, aiutando vecchiette ad attraversare la strada e sfamando
poveri anziani che non riescono a tener dritta una forchetta; spalare
strade dagli scarti di città, lottare per
l’ambiente contro il surriscaldamento globale, il buco
nell’ozono o l’abbattimento delle foreste. Non mi
passata per la testa neppure l’idea, la soffusa idea di fare
la raccolta differenziata!
Quindi… qualcuno mi
spieghi perché “angeli”.
Quello che ci stanno facendo, i
liquidi che ci hanno iniettato ci faranno crescere le ali, forse?!
Scusate tanto, ma in che modo un paio d’ali piumate
salveranno la terra dal Virus e annienteranno Zeus??? Necessitavo
di avere delle risposte, ma non le avrei certo trovate standomene
così allungo chiusa in un barattolo.
Quando mi svegliai, ricordo di aver
visto attraverso quel vetro i miei vecchi amici, di aver intravisto
l’immagine di William e Susan che mi sorridevano. Poggiai una
mano sulla superficie trasparente e accarezzai il loro riflesso che
sparì in quell’istante. Poi mi guardai attorno,
constatando di essere l’unica sveglia tra tutti i cetrioli
come me.
E solo allora realizzai che
qualcosa non tornava, che non sarei dovuta essere lì, che
quei bastardi avevano ammazzato il mio ragazzo trucidando una folla
d’innocenti, tra cui la mia unica amica. Bastò
questo pensiero a far scaturire in me la rabbia necessaria per reagire
e combattere…»
Spalancai gli occhi, che divennero
improvvisamente bianchi, vuoti; irrigidii i muscoli e
un’aurea nera, probabilmente di un rosso molto profondo,
avvolse il mio corpo. In quell’istante sentii la sirena di un
allarme attivarsi impazzita, e attraverso il vetro del mio barattolo
vidi una decina di scienziati fare irruzione nel laboratorio,
sparpagliandosi ai comandi delle macchine; altri rimasero a guardare
allibiti lo spettacolo.
Ed io, ero l’unico
soggetto in scena.
Strinsi i pugni, e sul vetro
davanti ai miei occhi saettò una crepa. E così
un’altra, e un’altra ancora, e poco a poco la
superficie cedeva, e ad ogni spacco in più, i tubicini che
percorrevano le mie gambe si afflosciavano, galleggiando molli nel
liquido verdognolo della mia vasca.
Sentii le grida di terrore delle
donne e degli uomini presenti, e quello fu il segnale: l’aura
attorno al mio corpo s’ingigantì tingendo tutta
l’acqua di nero e, con un’ultima crepa, il vetro
andò in frantumi.
Il liquido nero si
rovesciò sul pavimento della sala, investendo gli scienziati
e spazzandoli via come un’onda dell’oceano che
s’infrange sulla spiaggia.
Galleggiai nell’aria
senza che i miei piedi toccassero suolo, ammirando passivamente quello
spettacolo. Era come se qualcun altro possedesse il mio corpo ed io
potessi solamente stare a guardare attraverso i miei occhi.
Un brivido di freddo mi scosse da
parte a parta, ma avvertii distintamente alcune ossa della mia schiena
scricchiolare sonoramente, e quel suono malsano rimbombava nel
laboratorio lasciando stupefatti e attoniti gli scienziati presenti.
L’acqua che si era sparsa
a terra, andò a defluire in alcuni tombini piazzati tra i
grandi pannelli del pavimento, e questo restituì completa
libertà di movimento agli scienziati che erano rimasti
travolti dall’onda.
Un uomo col camice zuppo mi venne
incontro e s’immobilizzò esattamente di fronte a
me, fissando qualcosa oltre le mie spalle.
-È fatta…-
mormorò costui che aveva una lente degli occhiali spezzata.
–Ce l’abbiamo fatta!- gioì poi
voltandosi verso i suoi compagni.
Una gran massa di gente si
radunò attorno a ciò che restava della mia vasca
contenitore, e tutti mi guardavano allo stesso modo estasiato ed
incredulo, complimentandosi ancora e ancora, stringendosi le mani,
abbracciandosi e parlottando aumentando la confusione.
Da lassù e completamente
immobile dinnanzi a quella scena, non riuscii neppure a voltarmi, per
smentire le domande che mi stavano torturando da tempo. E ancora lo
scricchiolio continuava, sulla mia schiena, precisamente
all’altezza delle scapole. Percepii un qualcosa di umido e
denso traversarmi la pelle percorrendo la linea della spina dorsale.
Riuscii con difficoltà a muovere un braccio, così
da avvicinare la mia mano a quel punto. Sfiorai il liquido con due
dita, dopodiché lo guardai allibita: era sangue, e
gocciolava attorno a me dal grosso foro che avevo sulla schiena.
Guardai a terra, dove della luce
proiettava sul pavimento un’ombra davvero insolita della mia
figura.
E fu allora che ricordai di quando
Lewis Martin ci aveva chiamati Angeli.
E capii quale fosse davvero il mio
destino.
Erano delle ali che avevano un che
di originale, diverso da quelle che mi aspettavo, però
restavano sempre delle ali. Non riuscendo a voltarmi, ad ammirarle
com’erano, contemplai la loro ombra: cinque artigli ciascuna,
affilati, lunghi, e a sostituzione delle candide piume che mi aspettavo
di trovarvi v’era una gelatinosa, rossa e viscida membrana
sbrindellata, quasi inesistente, che non pensavo potesse tenermi
sospesa a mezz’aria in quel modo. Di fatti, i cinque artigli
per ala che avevo contato si erano aggrappati possentemente ai bordi
taglienti e ancora intatti della vasca, quasi fossi rimasta incastrata
e penzolante come una marionetta i cui fili si erano annodati. Fu
allora che mi accorsi di possedere come un secondo paio di braccia, di
poterle controllare senza difficoltà, di poterle sbattere,
muovere, e così provai, ma durò ben poco.
Era estremamente faticoso, e ad
ogni mio tentativo di muoverle, quelle ali sembravano scricchiolare
come arrugginite, troppo deboli per potermi solo sostenere. Non
riuscendo più a tollerare il dolore alla schiena, e perdendo
ormai troppo sangue dalla schiena, sulla quale si era aperto il foro
d’uscita delle ali, mi accasciai di peso
sull’altare rotondo che era rimasto intatto, con qualche
frantumo di vetro qua e là.
Respiravo a fatica, e mi
raggomitolai spaventata di ciò che avevo visto succedere. Mi
tagliai con alcune schegge di vetro che penetrarono la carne della mia
schiena e delle gambe quando toccai terra. Sanguinavo, e quando gli
scienziati lo notarono, alcuni si avvicinarono e mi caricarono su una
speciale barella, altri fecero scattare un allarme
d’emergenza per tutto il piano.
Prima di lasciare il laboratorio,
mi accorsi che Lucy, Harry, Phil ed Emmett, ancora galleggianti e
dormienti nelle loro vasche, rannicchiati in una raccapricciante posa
fetale, avevano sviluppato le mie stesse caratteristiche, dando
però meno segni di ribellione.
-È prematura, dobbiamo
portarla in sala e operare oggi stesso- sbottò una donna
mentre accompagnavano la mia barella di corsa.
-No, non possiamo metterla ancora
sotto i ferri, sarebbe rischioso. Aspetteremo- analizzò uno
scienziato.
In quell’istante un
artiglio della mia ala destra, che era rimasta a penzoloni fuori dal
lettino, prese di sua iniziativa il controllo e, tagliente,
saettò fulmineo e tranciò di netto il corpo di
uno dei medici, dividendolo letteralmente a metà dai fianchi
in giù. Quello non fece neppure in tempo a gridare, che
entrambe le parti del suo corpo piombarono a terra in una pozza di
sangue assurda.
-Dannazione!- sbraitò un
uomo, mentre la donna di prima si allontanava spaventata.
-Dobbiamo immobilizzarla! Presto!-
propose qualcuno fuori dal mio campo visivo.
-No, portiamola in sala!- disse di
nuovo lo stesso dottore.
-Cristo! Guardate come ha ridotto
Maurice! Dobbiamo sedarla!- furono le sue ultime parole,
perché di nuovo le mie ali (che sembravano fare di testa
loro) ripeterono una scena già vista…
-Via, via di qui!- gridò
la donna, e scapparono tutti il più lontano possibile.
Mi sollevai d’un tratto,
aiutata dagli artigli delle mie ali che si piantarono nelle pareti,
facendo leva e rimettendomi in piedi. Quando toccai terra, cercai di
riassumere il controllo, e per qualche istante ci riuscii, spiantando
gli artigli dal cemento dei muri del corridoio e ripiegandole oltre le
mie spalle. Ma ancora grondavo di sangue, sentendomi sempre
più debole. La ferita sulla schiena pulsava dolorosamente, i
tagli dovuti ai vetri della vasca non si rimarginavano, e come se non
bastasse, dalla porta infondo del corridoio, emersero un pugno di
uomini vestiti di armature nere e fucili ben attrezzati che mi
puntarono subito contro.
Restai immobile alcuni secondi,
aspettando come un’idiota che mi sparassero magari, ma fu una
fortuna accorgermi che ero completamente nuda davanti a tutta quella
gente, e il tentativo di coprirmi con le mie stesse ali, fu il
risultato di un possente e invalicabile scudo anti-proiettili.
Tentarono di colpirmi con
anestetici di tutti i tipi, dalle siringhe alle buffe palline gommose,
ma non percepivo altro che un lieve solletico, completamente avvolta
dalla lega robusta ed ignota delle mie ali.
Cessarono il fuoco improvvisamente,
sotto l’ordine di una voce che riconobbi quasi subito, e
aprii giusto un forellino tra un artiglio e l’altro
dell’ala per osservare la figura di un uomo avanzare verso di
me.
Era Martin, vestito diversamente
dall’ultima volta. Ora indossava una camicia bianca e dei
pantaloni scuri, un camice da medico con una penna nel taschino e degli
occhiali da vista sistemati tra i capelli bianchi e grigi.
-Suvvia, signorina Walker, le
sembra il modo di comportarsi?- ridacchiò.
Che
ti ridi, stronzo!? Pur di restare nascosta ad occhi
indiscreti, e preservando un certo umano imbarazzo all’idea
di mostrarmi nuda a quella gente, preferii starmene al calduccio dietro
le mie ali, all’interno del mio bunker fortificato.
Lewis continuò
tranquillo, giungendo le mani dietro la schiena: -La diverte tanto fare
sushi dei miei prestigiosi scienziati? Lei è a conoscenza di
quanto mi costi solo uno di loro?-.
Non
me ne fotte un cazzo se hai il portafoglio vuoto, bastardo!
-A quanto pare no, ma giustamente
non è di suo interesse una tale informazione-.
Ma
che bravo…
-Però lasci che le dica
una cosa: noi abbiamo bisogno di lei, signorina Walker-.
-Chi siete voi?!- risposi
d’un tratto, impulsiva. – Cosa volete da noi?! Che
cosa ci state facendo?! Voglio delle risposte!- gli artigli delle mie
ali si piantarono nel terreno con violenza, forando il pavimento zuppo
di sangue.
Molti dei presenti rabbrividirono,
altri non lo diedero a vedere, ma in qualche strano modo riuscivo a
fiutare la loro paura, sentivo il sapore del loro sudare freddo sulla
punta della lingua.
Proseguii: -Che cosa mi avete
fatto?!?!- sbraitai, e stentavo a riconoscere la mia voce.
-Mi chiamo Lewis Martin, e sono il
capo produttore, finanziatore e coordinatore del progetto Gabriel, in diretto
accordo col Presidente dei Stati Uniti d’America,
perciò non avete nulla da temere- sorrise.
-BUGIARDO!- ruggii con un che di
bestiale, tutt’altro che umano.
-Invece è tutto vero. Il
Governo Americano autorizza e finanzia i nostri progetti. Certo, non
sborsa una grande cifra perché siamo solo
all’inizio e potrebbe trattarsi tutto quanto di un gran
fallimento, ma se le interessa, noi siamo coloro che sperano in un
futuro migliore, signorina- allargò le braccia.
–questi uomini e queste donne sono come lei, partecipi
dell’alleanza che salverà il Mondo intero! Non ne
va fiera, signorina?-.
-Non so di cosa parli, idiota!-.
La discussione si fece man a mano
meno convenzionale. –Ascolta bene, ragazzina-
cambiò tono Martin. –È vero, siamo noi
i responsabili di quella che ti abbiamo sentito chiamare tortura, ma
prova solo a pensare a cosa c’è là
fuori!- indicò dietro di sé. –Il Virus
si sta liberando oltre Manhattan, e solo noi possiamo impedirlo!-.
-Come?!- feci io.
-Combattendo fianco a fianco con
determinazione e abilità- disse ferramente.
-… non ti seguo,
vecchio!-.
-Guardati- si addolcì
d’un tratto, ma sapevo si trattasse solamente di un diverso
approccio. –Guarda le armi che ti abbiamo donato, che Dio!
Che Dio ci ha donato per contrastare questa minaccia…-
mormorò profetico, e mi fece un po’ pena.
-Non credo in Dio- sbottai
tranquillamente.
-Ah, neppure noi. Abbiamo
abbandonato la speranza il giorno in cui ti abbiamo chiusa
là dentro!- rise, e con lui gli uomini armati che lo
circondavano.
Muori…
Fu istintivo per me scagliarmi
contro di lui, avventarglisi con una tale violenza che ero sicura non
sarebbe sopravvissuto al colpo, ma ancor prima che i miei artigli
potessero perforare la sua carne, da oltre le sue spalle vidi comparire
un paio di ali simili alle mie, ma tre volte tanto più
grosse e spesse; ma soprattutto taglienti, perché con un
rapidissimo scatto, Lewis riuscì a tranciare senza sforzo
tre dei miei artigli dell’ala destra, restando a braccia
conserte e sorridendo beffardo.
Mi inginocchiai dinnanzi a lui dal
dolore, avvolgendomi in quello che restava di entrambe le mie ali. Mi
strinsi le braccia attorno al seno, e portai la fronte al pavimento,
quasi stessi pregando. Gridai così forte, che i pannelli del
corridoio si raggrinzirono, accorgendomi di un’altra delle
mie caratteristiche.
Lui
è come me…
-Esatto- disse come se mi avesse
letto nel pensiero, e secondo me c’era riuscito.
–Sono come te, Emily- aggiunse. –Lo sono anche quei
ragazzi e quelle ragazze nella sala laggiù-
indicò dietro di me, precisamente il laboratorio dove ero
rimasta sott’olio parecchio, ma anche troppo poco tempo.
Immatura com’ero, probabilmente avevo avuto modo di
ribellarmi ai virus cerebrali che mi avrebbero impiantato in seguito,
come una droga, affinché ubbidissi come un cane da caccia ai
loro comandi.
Lewis si chinò alla mia
altezza, e ancora le sue ali vegliavano alle sue spalle. -Anche Lucy,
Emmett, Harry… chi altri? Ah, Philip… sono stati
scelti, come te… e sono come noi- mi sussurrò
all’orecchio. –Vi stiamo facendo del male, state
provando dolore, ma è per una giusta causa, e sai benissimo
di cosa si tratta…-.
-Sì…- strinsi
i denti.
-E cioè?-.
-…
Annientare…- serrai i pugni da dolore. –Annientare
il virus!- sbraitai.
-Sei sveglia, più di
quanto pensassi- Martin si tirò su.
–Perciò… ora dimmi-
m’interpellò. –Tu da che parte stai?-.
Esitai sulla risposta, e questo non
gli piacque.
-Non capisci, Emily, che ti abbiamo
resa più forte, invincibile contro qualsiasi sorta di
esponente del Virus affinché tu combattessi per noi? Dal tuo
sacrifico ne varrà la salvezza della specie umana, lo
capisci almeno questo?!-.
Annuii tremando, barcollando sulle
ginocchia.
-Benone, un passo alla volta-
gioì l’uomo. –E allora, avanti, unisciti
a noi…Emily- mi sussurrò.
-Signore, non…-
intervenne uno scienziato.
-Lei stia zitto!- lo riprese.
–Dov’eravamo?- si chiese tornando a guardare me.
–Ah, sì…- sorrise.
Ci pensai allungo, forse
più del previsto. Quei maledetti avevano ammazzato il mio
ragazzo, la mia unica amica, decimato gente innocente a sangue freddo,
ed ora mi stavano trasformando in (un’altra) sottospecie di
macchina da combattimento, servile ai loro giusti scopi.
Una parte di me aveva sempre
desiderato farne parte: quand’ero bambina, entrare in
aeronautica e pilotare caccia militari per andare in guerra, come mio
padre faceva con gli elicotteri, era stato un mio grande sogno, ed ora
avevo la possibilità di prestare altrettanto servizio alla
nazione senza neppure il brevetto aereo e dieci anni di studi. Le ali
me le avevano date loro, ma nonostante ciò…
c’era quell’altra parte della mia anima che ancora
rifiutava l’offerta. L’Emily orgogliosa, furiosa,
arrabbiata, sdegnata. L’Emily che aveva sentito gli spari
della scorsa notte davanti al pub, l’Emily che aveva ricordi
felici di una vita normale, l’Emily che aveva sempre sognato
non di pilotare aerei o combattere il male, ma l’Emily che
desiderava una famiglia, dei figli… l’Emily alla
quale avevano strappato il padre e tutto questo…
quell’Emily era più prepotente che mai.
-Sto aspettando…- fece
Martin beffandosi ancora di me, e chissà cosa ci trovava di
tanto divertente nel vedermi strisciare in quel modo.
Ma alla fine, straziata dal dolore
che sentivo lungo tutta la schiena e in ogni parte del corpo, accettai.
Chinai la testa di più, e mormorai forse un “va
bene” talmente debole che solo un super udito, come quello
dell’uomo che avevo davanti, avrebbe potuto captare.
«Sangue o non sangue,
morte o non morte, scelte o non scelte, Emily orgogliosa o Emily
vendicativa! Tralasciamo tutto per un istante e guardiamo in faccia la
realtà: non mi sembrava di avere molta scelta.»
-Voglio sentirglielo dire,
signorina Walker- disse, e mi colpì non poco con queste
parole. Si chinò alla mia altezza e sussurrò:
-Quando la gente alza gli occhi al cielo, quando la gente ci indica e
si chiede: “Cos’è quello?”-
fece un buffa vocina. –Noi cosa rispondiamo?- sorrise
malvagio.
Sollevai piano la testa,
guardandolo dal basso verso l’alto e, non appena incontrai i
suoi occhi, le mie labbra si schiusero giusto il necessario:
-… Angeli…- mormorai, ma un istante dopo le mie
difese crollarono, e mi accasciai a terra priva di forse per reggermi
anche in ginocchio.
-Che succede?!- chiese colpito
Lewis. –Perché è svenuta?!-
cominciò ad allarmarsi guardandosi attorno; probabilmente
non era normale che cedessi in quel modo, ma poi aggiunse,
avvicinandosi ad un altro scienziato: -Perché le ferite non
si rimarginano?!- lo afferrò per il colletto.
L’uomo
rabbrividì quando si trovò le ali di Martin che
puntavano alla sua gola, come denti affilati di una bestia.
-Non lo so, signore!-
piagnucolò questi.
-Lewis, la ragazza è
prematura- intervenne la donna del reparto, e il capo si
voltò verso di lei. –La stavamo portando in
laboratorio quando…-.
-Dannazione!- sbraitò.
-Perché non ne sapevo nulla?! Avete lasciato che la ferissi
in questo modo, idioti!- sbraitò gonfiando le ali, e
minacciando i presenti.
-Pensavamo lo sapesse!- espresse un
altro.
-Bhé, vi
sbagliavate…- borbottò Martin staccando le mani
dal camice dell’altro medico. –Allora cosa state
aspettando?! Portatela subito via! Muoversi!- ordinò, ed
ubbidirono all’istante.
Mi scortarono in una sala
totalmente nuova e semplice, che pareva la stanza di un ospedale, e mi
tennero lì il tempo necessario per rimarginare le ferite da
taglio.
Restai sveglia durante tutta
l’operazione, e vidi iniettarmi dell’altro liquido,
ma ben presto persi nuovamente i sensi e non mi risvegliai per una
quindicina di giorni.
*********
Link
--------> le
ali d’Angelo di Emily
Il fatto che ha
solo cinque artigli è per via
dell’immaturità.
Emily ha
lasciato la vasca di contenimento in anticipo rispetto alla
scadenza,
per questo
è così debole e ha solo cinque artigli
per ala.
*********
|
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Capitolo 6 *** Capitolo 6° - Un anno dopo ***
Capitolo 6°
- Un anno dopo
GIORNO
DELL’INFEZIONE 384°
POPOLAZIONE MONDIALE
INFETTA: 06, 00%
Il
cielo era ancora scuro, ma all’orizzonte già
s’intravedeva il leggero chiarore dell’alba ormai
prossima. New York si svegliava lentamente, riacquistando i suoi colori
e il suo puzzo di Virus e bruciato. Le strade erano deserte,
silenziose, stranamente immobili. Un venticello fresco e primaverile
spazzava via dall’asflato alcune vecchie cartacce,
sollevandole verso l’alto e queste, trasportate dalla
corrente, andarono ad ustionarsi nel fuoco di un appartamento del
settimo piano ancora in fiamme.
Quella
era Manhattan notturna, quieta e taciturna. I grattacieli distrutti
dalle esplosioni e dai bombardamenti, giganteschi fori di bombe per le
strade, crepe, continui pezzi di palazzi che venivano giù.
Ma un
nuovo sole stava sorgendo sulla città, un nuovo giorno stava
cominciando, una nuova battaglia sarebbe presto iniziata…
Ed io
ero già in campo.
Un’esplosione:
i frammenti dell’auto andarono ad espandersi
tutt’attorno in un frastuono assordante, mentre una fiammata
bluastra divampava verso l’alto. Lo scricchiolio del metallo
che andava in frantumi, la puzza nauseabonda di benzina abbrustolita, e
poi il vento dell’onda d’urto, che
spazzò via interi detriti di cemento dal circondario.
Tossii
maledicendo l’idea che mi era venuta di scagliare
quell’infetto contro quell’automobile. Mi diedi
della stupida. Alle mie spalle ascoltai il frastuono di alcune
mitragliatrici, poiché i pochi superstiti dello scontro
armato che c’era stato poco fa si stavano occupando di un
gruppo di portatori insani di piccolo taglio.
-Ma
che cazzo…- imprecai piegandomi per sistemarmi i lacci della
scarpa sinistra. Quel giorno, uno come tanti, indossavo le mie converse
nere basse, un po’ rovinate e con qualche foro qua e
là, ma nonostante la scritta dietro fosse completamente
cancellata e desse a sembrare che fossero false, andavo comunque fiera
di quelle calzature che mi avevano accompagnato per un anno dal giorno
del primo addestramento ad oggi.
Delle
volte mi stupivo quasi del modo assurdo in cui fossi abbigliata:
pantaloncini corti fino a metà coscia, di jeans con degli
agganci laterali ai quali avevo legati alcuni arnesi di supporto ai
miei poteri. Due cinturini di cuoio mi stringevano la coscia destra ed
erano moniti del fodero di una torcia portatile e qualche sedativo. La
maglia nera aderente senza maniche, quasi una canottiera, aveva il
collo alto e delle cuciture rosso porpora mi correvano da un fianco
all’altro, scoprendo un lembo di pelle per ciascun punto. I
pantaloni mi andavano larghi, così portavo anche una cintura
che da oggi alla prima volta che la indossai aveva perso sì
e no parecchi gradi di colore a furia di smacchiarla dal sangue
infetto.
I
mezzi guanti di pelle, il polsino… si direbbe una semplice
tenuta sportiva se non fosse per il modernissimo casco integrale nero:
auricolare, satellitare e gps incorporato con diretto collegamento alla
base Phoenix.
-Angel
1-9-2, mi ricevi?!- mi chiamarono. Era una voce maschile, giovane,
sulla trentina.
Lupus
in fabula…
pensai io. –Qui Angel 1-9-2- sorrisi. Oggi era lui il mio
coordinatore, e questo mi metteva di buon umore. -Sì, Matt,
ti ricevo-.
-Dannazione
Emily, ma che cazzo fai?! Sei impazzita?! Non puoi uscire da sola! Ad
Emmett girano i ciglioni, Lucy è in pensiero, e mi dici come
faccio a scollare Phil dal mio radar?!- sbottò il ragazzo.
Potevo
immaginarlo seduto alla sua postazione, con attorno le imprecazioni di
Emmett, gli spasmi di Lucy e le manacce di Phil che cerca di
individuare la mia posizione sul radar in qualunque modo.
-Di’
a Phil che ho il segnalatore spento- ridacchiai.
-Cristo!-
implose Matt. –Vallo a dire a Martin e poi ne riparliamo!-
fece esasperato. –Ti abbiamo ripetuto mille volte di tenerlo
acceso! Se proprio devi farci questi scherzetti, almeno lasciaci tener
conto della tua posizione!-.
-Ma
così non è più divertente- sbuffai
divertita.
-Ora
torna subito, prima che Lewis sguinzagli gli altri del tuo gruppo.
Stanno diventando piuttosto gelosi della tua attività
clandestina- mi avvertì.
-Gelosi?!-
mi stupii io inarcando un sopracciglio.
-Adesso
non fare domande, ti spieghiamo tutto quando sarai di nuovo tra noi!
Chiudo- e la chiamata s’interruppe.
-Che
strano…- commentai alzandomi la visiera del casco.
Non
era mai capitato che mi richiamassero così
d’improvviso. Di solito, quando si accorgevano che mancavo
all’appello mattutino dei clan non si curavano molto del
fatto che fosse già fuori a reprimere il Virus, anzi!
Mandavano intere squadriglie nel luogo dove mi trovavo a darmi
supporto, così da poter ingaggiare battaglia dove avevo
cominciato. Perciò mi parve strano che oggi fosse cambiato
qualcosa, e non potei far a meno di accorgermi che gli spari dei comuni
militari alle mie spalle erano cessati. Intercettai le loro radio e
venni a scoprire che la massa d’infetti si stava spostando
verso il centro della penisola, e che quindi non mi restava molto
lavoro da fare in quella zona.
Respirai
un po’ di quell’aria puzzolente di Virus e mi
riabbassai la visiera. Mi piegai su un ginocchio, portai una mano a
terra e chinai la testa, mentre sulle mie spalle, con ancora
un’immensa fatica, riuscivo a farmi spuntare quelle ali di
cui andavo sempre più fiera.
Gli
artigli non erano più cinque, ma molti, molti di
più. Quella famigerata notte trascorsa sotto i ferri e
incubata come una tossicomane mi era servita a stabilizzare la mia
immaturità al gene mutante che c’è in
me. Il risultato era spettacolare, davvero invidiabile.
Le mie
erano le ali più complete e belle di tutta la squadriglia
fenice della mia base.
Quello
che mi mancava, nonostante fossi a distanza di un anno dal primo
tentativo di alzarmi in volo, era il controllo su quel secondo paio di
braccia attaccate alle mie scapole. Dovevo acquistare dimestichezza,
allenarmi ogni giorno come una matta nella palestra della base. In
quelle condizioni c’erano passati tutti, ma nonostante
potessi vantarmi di una bella estetica, le mie erano anche tra le ali
più scadenti e fragili.
Riuscii
lo stesso ad alzarmi in volo, seppur con un po’ di
difficoltà.
«È
trascorso esattamente un anno dal giorno in cui mi hanno rinchiusa in
un ampolla di vetro, facendomi capire come si sente un cetriolo
sott’olio. Interessante esperienza, non
c’è che dire, ma quelle quattro settimane
trascorse nei laboratori della base Phoenix cambiarono
radicalmente la mia vita.
Esatto.
È
successo tutto quello che temevamo.
-Il
Virus ha superato Manhattan e si è infiltrato in
città; è emigrato ad ovest e sta toccando in
queste ore il Giappone. Questa non è più la
nostra Guerra, la Guerra di noi valorosi americani, fratelli e
patrioti, non più. Adesso il mondo intero sta risentendo dei
nostri sbagli, della nostra ignoranza dinnanzi a stupidi test di
chimica. Non c’è tempo da perdere, e ogni nostro
piccolo sacrificio ne varrà la salvezza di un pugno di vite.
Perciò, branco di femminucce, date il meglio di voi stessi
in questa causa, e Dio vi ricompenserà col Paradiso! Quello
vero!-.
Questo
è il cazziatone che ci hanno fatto il primo giorno
d’addestramento.
Lo
ricordo come fosse ieri.
All’inizio
pensavo si fosse trattato di un malinteso, ma alle lunghe capii che non
era stato affatto così.
Mi
avevano scelta, scelta per partecipare al progetto “Gabriel”;
dal nome Gabriele di origine ebraica, che fu l’Angelo
annunciatore della Vergine Maria.
Già,
un angelo…
ed è così che ci chiamano: Angeli.
Col
tempo ho scoperto che è solo una copertura, un nome che
cela, dietro una maschera di profondo rispetto e umanità,
ciò di cui siamo davvero capaci. È per tenere
buona la Chiesa e tutta la sua cerchia che ci è stato dato
questo appellativo, e la gente lo apprezza, lo adula, lo
teme…
Siamo
dei muta-forma, e quello di farci comparire le ali è uno dei
nostri mille potenziali nascosti; siamo l’uno con
caratteristiche differenti dall’altro; rispettiamo ciascuno
la nostra individualità, senza alcuna differenza di
età, sesso o religione. Siamo stati suddivisi in famiglie
(il gruppo del quale facciamo parte) e assieme ai membri del nostro
clan combattiamo la minaccia che sta distruggendo il nostro pianeta,
ovvero il Virus letale del quale ci cibiamo. Nonostante ciascuno di noi
ami lavorare distaccato, sperato dal gruppo, è quando quando
ci riuniamo e concentriamo le nostre menti in una soltanto che
diventiamo davvero potenti e capaci di cose incredibili.
Ma…
Qual è il nostro compito, precisamente?
So che
ve lo state chiedendo…
Ebbene,
in verità è molto semplice.
Veniamo
sguinzagliati in clan per la città, spruzzati come
disinfettante sulle ferite di New York, come pesticida sui portatori
sani e non. Siamo a milioni, chi più grandi e forti e chi
più piccoli e malati. Nel nostro sangue circola ormai la
stessa essenza del virus, che è l’artefice dei
nostri insani poteri. Questo è il semplice motivo per il
quale, un giorno, quando tutto sarà finito, qualcuno
dovrà ammazzare anche noi.
La
gente ci chiama anche paladini
o spazzini...
ma personalmente, odio questo nome più di quanto disprezzi
il mio.
Abbiamo
l’ordine di scovare e distruggere ogni esponente del virus
siero positivo, e ci è facile riconoscere gli infetti
attraverso una speciale vista termica… un gioiellino
donatoci dall’iniezione del campione Zeus nel nostro
sangue. Roba da non credere.
Sebbene
sia da Zeus
che proveniamo, e abbiamo poteri simili ai suoi, ci è stato
chiesto di eliminarlo…
Il mio
gruppo va disperatamente a caccia di lui. Lucy, Emmett, Harry, Phil,
tutti quanti si concentrano su di lui come fosse il bersaglio che vale
cento volte tanto i punti di un solo cacciatore abbattuto.
Ecco,
io questa cosa proprio non la capisco.
Perché
è così importante sbarazzarsi di Zeus? Dopotutto lui
è simile a noi più di quanto si possa immaginare,
e mi sembra che stia facendo anche un ottimo lavoro con gli alveari. La
ricerca del suo passato, la caccia al filo conduttore che manca nella
sua mente, l’ha portato quasi dalla nostra parte,
perché ormai la quantità di morti
all’interno dei nidi del Virus è pari a quella dei
militari americani. Diamine, è grazie a lui se il Virus
avanza più lentamente del normale. Ma quello che
probabilmente preoccupa i nostri finanziatori, i nostri scienziati e i
ragazzi responsabili del nostro progetto è il fatto che
presto potrebbe presentarsi come il nostro peggior nemico. Con poteri
simili e a piede libero per la città, inconsciamente, Alex
Mercer ha in mano il mondo, e qui entriamo in gioco noi.
Dobbiamo
fermarlo prima che capisca davvero quant’è
potente, e prima che il suo potere gli consegni Manhattan su un piatto
d’argento. »
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Capitolo 7 *** Capitolo 7° - Scommessa ***
Capitolo
7° - Scommessa
Atterrai
sul tetto della base trovandomi il sole contro gli occhi, e la visiera
del mio casco divenne automaticamente scura. Ritrassi con un
po’ di fatica le ali all’interno del mio corpo, e
mi piegai sulle ginocchia avvertendo le forze mancarmi. Avevo
combattuto all’aperto per un’oretta circa e
già ero così stanca. Le mie condizioni
peggioravano, e nessuno alla base sembrava capire cosa avessi a parte
qualche malessere temporaneo, appellativo che mi trascinavo dietro da
un anno.
Tutta
colpa di quella dannata sera in cui tentai di fuggire, liberandomi
dalla vasca nella quale sarei dovuta restare per ancora un bel
po’. Invece mi ero solamente aggravata l’esistenza,
e di ciò biasimavo continuamente me stessa. Avevo ricorso ad
addestramenti intesivi, pratiche sempre nuove, cercando di sviluppare
alcune diverse capacità al posto di altre, ma era andato
tutto nei peggiori dei modi.
Camminai
verso il centro della piattaforma e, non appena ci fui sopra, riattivai
la comunicazione con il mio coordinatore giornaliero.
-Matt,
Matt!- chiamai.
-Sì,
Angel 1-9-2, ti ascolto- disse lui.
-Sono
sul tetto, fammi scendere- lo informai.
-Agli
ordini, ma non fare deviazioni per la colazione una volta dentro.
È urgente che torni in sala comune!-.
-Ho
capito!- detto ciò, la gigantesca lastra di metallo
camuffata sotto i miei piedi si abbassò lentamente, fino a
scomparire del tutto uno, due livelli più in basso rispetto
al tetto.
Ebbi
così libero accesso alla prima area interna della nostra
base. Si trattava di un ampio spazio riservato, in primis, ad alcuni
elicotteri di soccorso, qualche deltaplano e aerei vari, ma in secondo
luogo alle macchine ad energia solare che tenevano in continua funzione
i generatori dei laboratori e di tutto l’impianto.
A
quell’ora del mattino non mi aspettavo affatto di trovare un
gran traffico, così proseguii dritta sino agli ascensori in
fondo alla pista. Una volta in cabina, digitai il piano che ospitava la
sala comune del mio clan e guardai le porte chiudermisi davanti agli
occhi.
Le
pareti insonorizzate e di una robusta lega di metallo erano quasi
riflettenti, e in esse potevo specchiarsi la mia immagine.
C’era però un vero e proprio specchio che riempiva
tutto un lato della cabina, e preferii osservarmi con attenzione in
esso.
Alzai
la visiera del casco integrale, ma un istante dopo me lo tolsi del
tutto, mettendomelo sotto braccio.
Persino
il mio taglio di capelli era parecchio cambiato da quando frequentavo
questo posto. Sempre neri, ma acconciati in un taglio corto che
impaffutiva il mio viso dandogli un aspetto ancor più
fanciullesco, quasi da adolescente. Gli occhi azzurri e brillanti di
una volta lasciavano spazio ad un grigio spento un po’
triste, che mi dava quasi fastidio notare.
Aggiustai
gli ammennicoli della mia tenuta sportiva e mi allacciai per bene i
lacci delle scarpe. Quando fui finalmente pronta, eretta e composta
davanti alle porte dell’ascensore, queste si aprirono
accompagnate da un leggero campanello.
-Sei
una cazzona, Emily!-.
Mi
sentii afferrare per il collo e sbattere con violenza contro la parete
dell’ascensore. Si creò un bozzo profondo che
avrebbe arrecato non poco fastidio ai meccanici della sezione, e una
delle lampade si fulminò. La scossa di dolore mi
passò da parte a parte del corpo, e i miei sensi si
annebbiarono per una frazione di secondo, e questo non mi permise di
reagire sull’immediato.
Emmett
strinse maggiormente la presa, impedendomi di respirare. Il suo viso
poco distante dal mio, mentre l’altra sua mano si era
muta-formata in un una grossa palla fatta di aculei, e mi minacciava
con essa tenendomi sospesa da terra. Era a torso nudo, e i suoi muscoli
pulsavano minacciosi. La catenella del prestato servizio militare,
assieme a quella di catalogo della sezione Angels, gli ricadevano sul
petto, e bastarono i suoi agghiaccianti occhi azzurri ad
immobilizzarmi.
-Mettimi
giù!- digrignai.
-Emmett,
Cristo Santo!- sbraitò Lucy volatilizzandosi al suo fianco.
–Lasciala, che ti è preso?!- fece stupita.
-L’hai
sentito Lewis, no?!- eruppe Word invigorendo la presa.
–Questa stronza voleva beccarsi tutti i punti!- era furente,
fuori di sé. Non l’avevo mai visto così
arrabbiato, nonostante il trattamento su di lui avesse avuto certi
simili effetti collaterali che garantivano un carattere molto
più irascibile della norma.
-Punti?!-
mi stupii. -Non so di cosa parli! Mettimi giù!- strillai
ancora divincolandomi e scalciando. Quando lo colpii ai punti bassi,
approfittai di un momento della sua esitazione per scagliarmi contro di
lui. Riuscii a stanziarmi abbastanza dalla parete
dell’ascensore per farmi crescere le ali, e con una di esse,
spiccando un balzo, lo colpii in faccia lasciandolo un poco stordito e
con un labbro spaccato.
-Che
cazzo ti prende, stronzo?!- gli gridai euforica, atterrando salda sulle
mie ginocchia.
Ecco
il modo più facile per rovinarsi una buona e serena giornata
di lavoro! Pensai.
Emmett
mi venne addosso col doppio della forza e mi afferrò di
nuovo per la gola, questa volta sollevandomi ancora più in
alto e sbattendomi contro la parete opposta della cabina, che
andò quasi in frantumi. –Non chiamarmi stronzo,
puttana!-.
-Basta,
smettetela!- stillò Lucy facendo un salto indietro
spaventata.
-Allora?!
L’hai trovato Alex oppure no?! A quanto ammonta il tuo
contatore, adesso?!- sbraitò Emmett.
-Non
so di cosa parli, idiota!- risposi.
Harry
e Phil erano fuori dall’ascensore, alle spalle del ragazzo e
osservavano allibiti la scena.
La
ragazza Malcom tentò nuovamente di calmare il nostro
compagno: -Basta, Emmo. Emily non poteva saperlo! Lasciala andare,
mettila giù, avanti!-.
Percepii
le dita di Emmett indebolirsi attorno al mio collo, e il suo braccio
sinistro tornò allo stato normale in un insieme di fasci
rossi e spuntoni neri. –Può averglielo spifferato
qualcuno prima che il vecchio lo dicesse a noi!- sibilò
lasciandomi andare improvvisamente, e mi accasciai a terra indebolita.
Lucy
ed Harry vennero in mio soccorso, mentre Philip seguì Emmett
fuori dalla cabina.
-Sei
un’idiota, guarda che le hai fatto!- lo rimproverò.
Emmett
gli lanciò un’occhiataccia. –Se
l’è meritato. Non può fare di testa
sua- sbottò.
Lucy
ed Harry mi fecero sedere su una delle poltrone della sala.
-Come
ti senti?- mi chiese la ragazza.
Annuii
debolmente. –Bene…- mormorai. –Ma si
può sapere cosa diavolo gli è preso?- domandai.
Harry
ignorò del tutto la domanda e si allontanò verso
il distributore d’acqua. Prese un bicchiere, lo
riempì e me lo porse, ma solo mentre stavo bevendo si decise
a rispondermi: -Lewis tornerà tra poco, e sarà
lui a spiegarti tutto- disse.
-Va
bene, ma almeno potete…- insistei dopo aver preso un altro
sorso.
Phil
ed Emmett si erano appartati sul fondo della grande sala comune del
nostro clan, e stavano discutendo apertamente della situazione e con un
tono di voce parecchio alto.
Il
ragazzo con gli occhiali si passò una mano in volto,
stirandosi gli zigomi. –Non sei tu che detti legge qui
dentro- sibilò.
Emmett
si voltò furente. –Solo perché hai la
fascia del capitano, Philip, questo non ti autorizza a darmi ordini!
Perciò neppure tu sei la legge qui dentro!- lo
punzecchiò indicandolo con un dito.
-Infatti-
proruppe una voce nuova.
Ci
voltammo tutti quanto verso l’ingresso secondario della sala,
quello che conduceva alle scale, e ci accorgemmo che Lewis Martin ci
scrutava uno ad uno con attenzione. –Infatti, sono io che
detto legge qui, signor Word- sorrise sornione avvicinandosi ai due
Angeli.
Al suo
seguito, entrarono nella stanza un paio di tecnici che si apprestarono
subito a mettere mani sull’ascensore del piano, che era
rimasto distrutto e inutilizzabile.
-E la
prossima volta che la signorina Walker fa ritorno dalle sue
scampagnate- ridacchiò –gradirei non dovermi fare
otto piani di scale- disse ironico.
Chinai
la testa da un lato, nonostante non fosse mia la colpa.
-Sì
signore- assentì Emmett abbassando il mento. –Mi
perdoni- aggiunse rispettoso.
Lewis
sorrise compiaciuto e venne nella mia direzione. Quando mi fu
abbastanza vicino, scattai in piedi con una rapidità
incredibile e mi misi rigorosamente dritta.
-Signore-
salutai.
-Riposo,
Emily, riposo- risse l’anziano. –Sono felice di
vederti tutta intera e così carica già di prima
mattina, come sempre dopotutto- mi arrise.
-Altrettanto
signore-.
Lucy
ed Harry ai miei lati restarono silenziosi e immobili, ed Emmet e Phil
si unirono a noi avvicinandosi a me.
-Suppongo
che lei si stia chiedendo il motivo di una tale inusuale reazione da
parte del signor Word- proferì Martin scoccando
un’amara occhiata al sottoscritto.
Emmett
sprofondò nei suoi muscoli col mento al petto.
-Esattamente-
dissi io.
-Questa
mattina all’alba ho fatto convocare i suoi compagni,
signorina, per avvertirli di un’importante questione-
cominciò lui avvicinandosi alle ampie vetrate che
affacciavano sull’isola di Manhattan.
«La
base Phoenix
è situata sulla costa ovest di New York ed è un
alto grattacielo riservato alle operazioni militari del settore Angeli.
Dall’esterno sembra una comune palazzina pubblica, ma questo
camuffamento nasconde ben altro che comuni appartamenti.
Quindici
palestre di addestramento avanzato, un’ottantina di camere
riservate ai combattenti, una dozzina di infermerie e laboratori. In
quell’edificio lavorano sì e no mille persone tra Angeli, scienziati
e coordinatori.
Il
ruolo di ciascuno è molto semplice.
Noi
siamo gli Angeli,
i paladini della città e protettori della specie umana.
Gli Alchimisti
si
occupano della revisione e del controllo dei settori chimici della
base, ovvero di quei laboratori dove veniamo creati. Ogni giorno
arrivano due Angeli nuovi e ne muore uno. È un ciclo
continuo che mi ha sempre affascinata, per questo, una volta terminato
il servizio da Angelo, mi piacerebbe entrare a far parte degli
Alchimisti, gli stessi che a mio tempo mi tirarono fuori dalla vasca
quando tentai quasi la fuga.
Matt
Morgan, il ragazzo che mi ha contattata poco fa, è un coordinatore.
Esperti in tecnologia avanzata militare, la loro è forse la
mansione più semplice ed essenziale tra tutte, ma non
è raro che vengano continuamente cambiati di giorno in
giorno. Ognuno di noi ha il suo coordinatore, e questo ha a sua volta
il compito di tenere d’occhio la posizione del suo angelo,
segnalargli sul gps i nemici e gli ostacoli, blocchi, aerei, elicotteri
e armamenti vari dell’esercito, ma soprattutto, quando entra
nel campo visivo del radar, di individuare il temutissimo Alex Mercer.
Sono le nostre ombre, ci seguono dovunque andiamo e hanno
più o meno l’ardito compito di farci da coscienza,
tipo grillo parlante, ecco. »
Mi
distrassi dai miei pensieri voltandomi verso di lui, e Martin riprese
da dove aveva lasciato.
-In
sua presenza, signorina Emily, sono costretto a ripetere il discorso
che ho già anticipato ai suoi colleghi- mi disse.
Anuii,
e con me i miei amici.
-Ottimo-
sorrise Lewis, e le vetrate dietro di lui si oscurarono
improvvisamente, lasciando la sala comune in balia del buio
più nero.
-Schermata-
disse il nostro capo, e le finestre assunsero d’un tratto
l’aspetto di lavagne luminose, sulle quali comparvero una
serie di indicazioni, numeri ai lati e un simbolo che conoscevamo bene
nel centro.
-L’ONU
si è riunito stamani a Londra per discutere della
situazione. Ebbene le conclusioni sono semplici e concrete: il Virus
sta dilaniando in Europa-.
Sobbalzai.
–In Europa? Ma siamo sicuri?- domandai scettica.
-Sembra
impossibile crederlo, ma i riscontri a Roma, Parigi e Amsterdam sono
troppi per poter ignorare la cosa- disse Martin, e sulla schermata
dietro di lui si materializzò una cartina ben dettagliata
dell’Europa, con le rispettive Capitali attaccate dal Virus
in evidenza.
-Sono
stato contattato dalla base di Los Angeles- riprese Martin –e
mi hanno detto che sono pronti a mandare una squadra di Alchimisti
laggiù il prima possibile, ma non basta. Ho fatto questo
discorso a tutti voi Angeli, e ho già reclutato alcune
squadriglie che si sono offerte di emigrare in Europa senza ulteriore
indugi. A Manhattan è rimasto poco da combattere, e
altrettanti pochi come voi sono rimasti a farlo. Ma mi serve ancora il
vostro supporto, signori, perché mentre i vostri compagni
saranno in oriente a mietere vittime e siero positivi, noi dobbiamo
occuparci di una minaccia ben più grave- ammise seriamente.
La
schermata variò ancora, e su tutta la superficie comparve
l’intero profilo del nostro arci-nemico.
-Alex
Mercer- scandì bene Lewis.
Emmett
incrociò le braccia al petto sospirando. –Che
grand figlio di puttana- digrignò.
-Per
me è carino- ridacchiò Lucy.
Harry
dell’altra sponda concordò con la ragazza.
–Non ho tutti i torti!- rise.
-Per
favore, smettetela!- subentrò Phil. –Non siamo in
uno show televisivo a dare giudizi ai più fighi in
circolazione, ragazzi!- ci sgridò.
-Ah,
allora ti piace!- sghignazzò Harry.
-Adesso
basta signor Brown- interruppe Lewis. –Le parole di Philip
sono sicuramente più sagge delle vostre, e vanno ascoltate,
ora come ora-.
Ignorai
del tutto le loro voci, avvicinandomi di un passo alla schermata. Non
credevo davvero che quello fosse il reale motivo dei nostri guai.
Insomma, quando ne sentivo parlare pensavo ad una bestia più
o meno come Emmett, capace di farti paura anche da lontano.
Questo
era un ragazzo normale, con camicia, felpa, cappuccio, giubbotto,
pantaloni e scarpe. O almeno, sembrava un ragazzo normale,
probabilmente poco più grande di me, e probabilmente
arrabbiato per quello che i Blackwach
gli avevano fatto. Così arrabbiato che giorno dopo giorno
mieteva infetti, ma anche sabotava basi militari e si scontrava
continuamente con noi Angeli, uscendone sempre vincitore.
Personalmente, non avevo mai incontrato Alex Mercer, e neppure mai
visto così vicino e così dettagliatamente, e
accanto al suo profilo comparvero delle altre immagini che riscattavano
alcuni dei suoi incredibili poteri, molti dei quali avevamo anche noi.
Scene
raccapriccianti di come scuoiava la gente e riusciva a tramutarsi in
essa senza problemi. Riusciva ad allungarsi le braccia, afferrando
elicotteri e scatenando l’inferno al loro interno. Faceva
esplodere carri-armati gettandovisi semplicemente addosso, e sollevava
carichi cento volte lui.
Le
fotografie corsero a fiumi davanti ai miei occhi, ed io le osservai
rapita, senza spiccicare parola e a bocca aperta, quasi abbagliata
dalla luce che mi proiettava addosso la lavagna luminosa; e la mia
ombra si allungava alle mie spalle sul pavimento assieme a quelle dei
miei compagni di clan.
Come
ripeto, non avevo mai avuto la (s)fortuna di incontrare Alex per la mia
strada. Alzandomi sempre presto la mattina e andando a caccia di
“virussati” di piccolo taglio, non mi ero mai
imbattuta in lui, ma ora la questione si faceva davvero più
seria, molto di più.
Molti
dei nostri compagni della base erano emigrati in Europa, e noi rimasti
a Manhattan non dovevamo occuparci d’altro che non fosse lui,
Alex. Questa era la nostra nuova ed unica missione: trovare e
annientare Mercer. Ai siero positivi e malati restanti avrebbe pensato
il Governo con i suoi militari, tanto ormai restavano davvero in pochi
quelli contagiati. Manhattan l’avevamo quasi svuotata, ma
restava ancora lui, il pezzo grosso, i cento punti del tiro a bersaglio.
Ecco
perché Emmett era diventato improvvisamente così
geloso e furente.
Pensava
che qualcuno mi avesse spifferato tutta la questione e fossi andata a
caccia di Alex da sola. E ovviamente aveva sperato che non tornassi
viva dalla mia ricerca, perché lui, qualche mese fa, aveva
avuto la cosìdetta (s)fortuna di incontrare quel bastardo
nella strada.
Era
successo ad agosto, credo. Emmett e Lucy stavano traversando assieme la
strada che costeggia Central Park e pattugliavano in cerca di nidi dei
cacciatori, quando d’un tratto se lo sono trovato davanti.
Ovviamente
Emmett ha cominciato a fare di testa sua, gettandoglisi
contro senza pietà. Ma il duello è stato lungo, e
Lucy mi raccontò che durante tutto quel tempo lei non aveva
fatto altro che guardare, troppo spaventata.
Sapete
com’è finita la bella storiella?
Emmett
ricoverato d’urgenza dagli Alchimisti, cosa che non fanno mai
perché di solito se ne occupano i medici normali, e Lucy
spedita nella sezione psichiatrica ad appuntamenti regolari per due
settimane.
Insomma
quel tipetto sullo schermo rendeva parecchio inquieti tutti i miei
compagni di branco.
Tutti
eccetto me.
-Bene,
signori- Lewis batté le mani. –Oggi mentre sarete
in palestra vi verranno consegnati degli schedari, cartelle contenenti
la vostra porzione di Manhattan per questa splendida giornata di nuovo
lavoro- ci sorrise.
Le
immagini della lavagna s’interruppero, e le vetrate della
sala tornarono di nuovo trasparenti, lasciando filtrare la luce
accecante della prima mattinata.
-In
palestra?!- eruppe Emmett. –E perché?! Non ci
serve il riscaldamento, siamo pronti ad iniziare! Subito!-
sbottò.
-Si
dia una calmata, signor Word- ridacchiò Martin.
–Posso capire che tra lei e Mercer è una questione
un poco più personale…- lasciò la
frase in sospeso e si avviò verso l’uscita della
sala comune. –Ma, ecco- si voltò d’un
tratto. –Mi ero scordato di dirvi che la palestra
è stata giustamente attrezzata per l’occasione, al
fine di istruirvi sulla tattica di combattimento adottata da Mercer.
Questa simulazione vi permetterà di essere sufficientemente
preparati quando entrerete in contatto con lui- ci sorrise
gioiosamente. –È tutto- ed entrò
nell’ascensore, che i tecnici, in tutto quel tempo, avevano
riparato a dovere.
-Che
stronzo- borbottò Emmett sbracandosi sulla poltrona.
-Emmo,
avanti- Lucy gli si avvicinò poggiandogli le mani sulle
spalle. –Lo fa per il nostro bene, in fondo tutti noi hanno
avuto un brutto incontro con Alex, almeno una volta, e ognuno di noi
è rimasto profondamente inciso da questo…-
mormorò guardandoci uno alla volta.
-Veramente…-
assentii io abbassando lo sguardo.
-Ah!-
rise Emmett. –La bigotta è ancora verginella, eh?-
sghignazzò malignamente.
-Vaffanculo-
dissi schietta e fredda.
-Spero
tanto che trovi quel figlio di puttana, Emily, così ti farai
un’idea di quanto ce l’ha grosse quello
lì- digrignò in risposta.
-Vuoi
scommettere?- inarcai un sopracciglio.
-Va
bene, ragazzina!- Emmett scattò in piedi e mi si
avvicinò con un solo passo. Una volta che il suo brutto viso
da cane fu abbastanza vicino al mio, aggiunse: -Se torni strisciando
alla base e zuppa di sangue ti taglio quattro artigli
dell’ala sinistra- fece serio.
Dolore.
Un dolore assurdo. –Accetto- sbottai. –Ma se ne
esco viva e senza un graffio, dovrai girare nudo per la base 24 ore-
dissi altrettanto composta.
Emmett
mi porse la mano e gliela strinsi reggendo il gelido brillio che
mandavano i suoi occhi.
-Terrò
le forbici a portata di mano- ridacchiò mentre le sue dita
prendevano la forma di un forbicione gigante.
Continuai
a stringergliela, e anche con maggior vigore. –Comincia a
slacciare la cintura- lo fulminai, e un coro di
“ooooh” si levò da Lucy ed Harry alle
mie spalle.
Eccomi!
Finalmente, sono un sacco di capitoli che non scrivo i commenti
d’autrice o tanto meno ringrazio gli utenti. Bhé,
che dire? Questo capitolo è un altro da aggiungere alla
sequenza tranquilla della storia, ma vedrete, dal prossimo che ho
già pronto in un cassetto della mia testa… uh-uh!
Ne succederanno di tutti i colori!
Ma
passiamo al dunque!
Saphira87
Costante
e accanita non ti perdi un solo post! Bhé, devo ammettere di
star correndo troppo con gli aggiornamenti, ma che ci posso fare se ho
i capitoli pronti e la voglia di postare è troppa? *-*
Comunque sul serio, non sai quanto sia contenta che questa ff ti
piaccia così tanto, mi sembra di vivere un sogno, non mi
sentivo così realizzata da quando ancora postavo i capitoli
della storia di Elena! Infondo il corso del tempo va avanti, ma certi
aspetti si ripetono! Insomma, abbiamo aperto una sezione nuova solo dei
nostri lavori, quindi non posso che notare quanto sia simile ad una
scena già vista nella categoria AC del sito! XD
Vabbé, ora sclero e mi faccio prendere
dall’emozione! Seriamente, ora che molti Angeli emigrano
anche in Europa levandosi di torno, ci sono più
probabilità che Alex incontri la mia protagonista! E che
dire della scommessa fatta con Emmett? (Eheh, sì, bel nome,
e volevo persino chiamare Lucy Alice, in onore dei miei personaggi
preferiti di Twilight, che nel contesto odio nel profondo, ma
vabbè!) La cosa della scommessa è stata
un’idea inventata sul momento, spero sia gradimento! XD
Bhé, ovviamente non aspettavi altro che il prossimo post,
quindi posso immaginare che riceverò la tua recensione prima
di domani! Bene, perché nel weekend parto per…
Napoli! *-* Avevo intenzione di dirlo a Manu, ma ieri sera quando si
è collegato non ho fatto in tempo. A proposito, sei
completamente sparita da MSN °A° che è
successo??? Facci un segno!!! XD Vabbò, a presto!
renault
Da
poco ti sei aggiunta ai miei lettori e hai recensito con coraggio sei
ardui capitoli in un giorno solo °O° Ti stimo ragazza,
davvero! E sono contenta di “ucciderti”
perché questa fan fiction ti piace! A prestissimo!!!
SnowDra1609
Non
preoccuparti, Alex gli Angeli se li è mangiati a colazione,
pranzo e cena! XD Ovviamente anch’io tifo per lui, quindi per
me ed Emily (ndr) i cattivi resteranno sempre quelli che sono fissati
con gli esperimenti genetici e hanno ammazzato il suo ragazzo, ovvero i
tizi per i quali (obbligatoriamente) lavora.
Questa
è una promessa: nel prossimo capitolo vedremo comparire
definitivamente Alex Mercer! Per tanto, continuate a seguirmi! ;D Elik.
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Capitolo 8 *** Capitolo 8° - Angel 1-9-2 ***
Capitolo 8°
- Angel 1-9-2
In ascensore mi tenni il più lontano
possibile da lui, ed Emmett fece altrettanto con me. Ogni tanto ci
scoccavamo certe occhiate che avrebbero messo paura a Dracula in
persona; Lucy tentava in tutti i modi di ostacolare questa nostra sfida
mettendosi in mezzo tra me e il ragazzo ed Harry e Phil discutevano a
bassa voce davanti all’ingresso della cabina.
«La tenuta maschile da Angelo consiste
in una maglia degli stessi colori della mia, a collo alto e fatta di un
materiale resistente, differente da quella femminile per via delle
maniche lunghe e attillate. Sottostante, ognuno di noi può
decidere cosa abbinarci secondo i propri gusti.
Io amo i miei pantaloncini jeans con le
estremità arrotolate, la cintura e le miticissime converse
nere; Lucy, in abbinamento coi colori rosso-nero della nostra maglia,
porta una gonnellina corta tipo scozzese e delle scarpette ballerine
nere piuttosto comode.
I maschietti, invece, preferiscono ovviamente i
pantaloni lunghi e scarpe da ginnastica.»
La cosa che mi turbò durante il
tragitto fino nella palestra, fu pensare che dopotutto aveva ogni
motivo per essere sicuro della vittoria. Come Angelo, Emmett aveva
avuto già un occasione di sfida con quel pezzo grosso,
invece io sapevo a mala pena quale fosse la sua vera
identità. Per me Mercer era un avversario tutto nuovo, forse
troppo forte e questo mi spaventava. Non avevo la minima esperienza,
cosa che invece rendeva fieri tutti i miei compagni di clan che,
capitati almeno una volta nella (s)fortuna, si erano fatti i loro
obbiettivi e prefissi i loro bersagli su di lui.
Ogni giorno muore un Angelo, in questa base, ed
è tutto merito suo. Non c’è nessun
altro che può fermarci, nessun altro con quelle
capacità; molti di noi sono incolumi al nucleare, altri alle
esplosioni, altri ancora a qualsiasi tipo di taglio o ferita da sparo,
quindi quando l’esercito americano ci spara a vista non ci
facciamo molti problemi.
Questi problemi non se li fanno loro, i miei
compagni.
Ma io vivo ogni ora nel costante terrore che
qualcuno mi colpisca con un proiettile o perfori con un coltello. Gli
artigli delle mie ali impiegano settimane a riformarsi, la mia pelle,
scalfita da schegge di vetro, necessita di giorni per rimarginarsi.
Detesto questa mia debolezza, e anche se ho imparato a conviverci fino
ad ora, non posso continuare in eterno.
Mi resi conto di star giocando con il fuoco, di
star mettendo a repentaglio la mia incolumità e quella delle
mie ali a causa della mia solita testardaggine, che era entrata in
conflitto con l’ego di Emmett questa mattina.
Raggiunta la palestra, ci accorgemmo
spensieratamente di essere in pochissimi.
Come ci aveva avvertiti Lewis, molti di noi si
erano dileguati in Europa senza ripensamenti, e questo ci permise un
veloce e personalizzato allenamento senza troppi intoppi. Oltre al
nostro, però, di clan ce n’erano alcuni, chi
più completo e chi con qualche membro mancante che era
fuggito in oriente. Fatto sta, però, che quella mattina non
superavamo comunque la cinquantina di persone.
«La sala addestramento consiste in una
grande camera con le spesse pareti insonorizzate fatte di un cemento
speciale. Il soffitto alto com’è serve a
semplificare i nostri spostamenti viari; basti pensare che
nell’ora di punta siamo quasi in cinquecento là
dentro ad addestrarci.
Il pavimento sembrerebbe comune parquet, ma gli addestratori (la
cui mansione è simile a quella dei coordinatori, ma per mera
esercitazione) ci sorvegliano dall’alto di una camera
oscurata; sono maestri nelle illusioni tecnologiche e campioni delle
battaglie coi robot, perciò ci si può aspettare
davvero di tutto.
Assieme a questi tizi qui
c’è sicuramente il nostro amato Lewis, che appena
entriamo in palestra, è pronto a darci il benvenuto e le
prime istruzioni per l’uso.»
-Buon giorno, Angeli- salutò Martin e
la vetrata in alto sulla parete si schiarì, mostrando
l’intero team di giovani all’opera per renderci
questa felice mattinata un Inferno. –Come ben sapete, oggi
siamo riuniti nella nostra palestra per inaugurare una nuova era di
caccia- sorrise. –Alex Mercer, detto Zeus, da oggi in poi
sarà il nostro obbiettivo primario, ed ognuno di voi, senza
distinzioni, è ben pronto ad affrontarlo-.
-Ah, come no…- borbottò
Emmett in disparte.
Tentai di ignorarlo, ma mi fu impossibile e, non
appena mi voltai verso di lui, di risposta ricevetti una sua solita
occhiataccia barbara.
-Io e i miei tecnici qui alle mie spalle, abbiamo
ben pensato di avvantaggiarvi nello scontro impartendovi alcune nozioni
che non troverete mai nel vostro manuale da Angelo, ma potrete
apprendere unicamente in questa sala. Si tratta di un kit di robot
personalizzati che simuleranno la vostra resistenza e la vostra
prontezza dinnanzi ai continui muta-forma del nostro futuro nemico.
Alex Mercer, ricordate, possiede la forza congiunta di tutti voi, ma
ancora questo non lo sa, e noi siamo qui per impedirgli di scoprire
come usare in tale proposito i suoi devastanti poteri. Ormai il Virus
è una minaccia più che estinta. Le strade di
Manhattan sono più tranquille che durante la sera del
Ringraziamento, ed è questo il motivo per il quale molti di
voi si sono spostati ad est, oltre-oceano. I siero positivi non si
contano più sulle dita di una mano da tempo, là
giù, e questo preoccupa tutte le maggiori potenze mondiali.
Perciò!- batté le mani soddisfatto. –Vi
do una piccola dritta prima di vedere le vostre belle facce sorprese.
Dimenticate le tecniche di combattimento apprese fin ora, non fatevi
scrupoli, barate se necessario; abbandonate l’etichetta e il
vostro orgoglio! Perché quando vi troverete faccia a faccia
col maestro di quest’arte, tornerete a rimpiangere il momento
in cui avete messo piede in questo luogo distrattamente, di vostra
spontanea volontà oppure no! Forza, coraggio, audacia,
agilità e prontezza! Vi auguro con tutto il cuore di
arrivare fino a ‘sta sera abbastanza intatti da poter vedere
la luce sul nostro pianeta brillare ancora una volta. Ben venuti in
Paradiso, signori- ridacchiò, la comunicazione
s’interruppe e le vetrate si scurirono di nuovo.
Mi guardai attorno un poco sperduta. –E
ora?- domandai.
Lucy si strinse nelle spalle. –Diamoli
tempo, magari si stanno ancora prepar…-.
Non terminò la frase che sul soffitto
si aprì una gigantesca botola, dalla quale piovvero una
marea di manichini in metallo, gli stessi che eravamo abituati a
fronteggiare durante i nostri normali addestramenti.
«I robot da addestramento hanno una
forma molto simile a quella umana. Si tratta di un corpo snello e
semplice, con poche forme essenziali e fatta di una miscela di metalli
resistente ad ogni tipo di impatto se non calibrato col giusto
interesse e potenziale. La nostra base ne sforna a bizzeffe, ed ho
sempre trovato che fossero bellissimi, di una grazia artistica
eccezionale. Hanno un casco integrale simile al nostro, argentato e con
una visiera di differenti colori a seconda del livello di
difficoltà di combattimento che hanno caricato. Il rosso,
ovviamente, è quello più difficoltoso. Via
degradando, c’è l’arancione, poi il
giallo, verde e in fine il blu, che segnala proprio “alle
prime armi” ma non per il robot, bensì per il suo
avversario. Sono abituata alle loro mosse eleganti e piene di
etichetta, che delle volte tramuta nella simulazione di un attacco di
un cacciatore, quindi non ho idea di cosa possano aver caricato sui
micro-cip di questi tizi qua, se l’intenzione è
addestrarci a combattere Alex Mercer. E per la prima volta, provo paura
durante una simulazione.»
Questi si posizionarono agilmente e con ordine
uno per uno davanti a ciascuno di noi, che eravamo sparpagliati per la
palestra, divisa occasionalmente in piccoli settori quadrati da alcune
strisce luminose.
Non appena mi ritrovai a fissare il vuoto nella
visiera abbassata della macchina, cominciai a tormentarmi sul
perché mi avessero affidato un robot arancio, quando io ero
livello da verde. Persino Emmett, poco distante di me, si
trovò dinnanzi un avversario col casco giallo,
così come Lucy, Harry e Phil.
Non riuscii ad individuare nessun altro in
palestra che avesse come me quel livello di avversario, e
d’un tratto capii che la sfortuna di star rischiando la vita
durante un addestramento era toccata a me. Tutto per via di una svista.
-Ehm, scusate!- provai a dire.
–Scusate, ehi! Lassù!- indicai la cabina di
osservazione con i vetri oscurati.
-Idiota, mettiti il casco e contatta il
coordinatore!- mi riprese Emmett, e mi accorsi di essere
l’unica a non indossarlo.
-Furbo…- mormorai infilandomi il
casco. Accesi la trasmettente e provai a fare ciò che dovevo.
-Angel 1-9-2, ci sono problemi?- una voce
femminile.
-Ecco, sì, vede…- esitai.
–Credo che il mio grado di addestramento sia più
basso rispetto al robot che mi avete assegnato- dissi.
–Dev’esserci un errore!- eruppi.
La coordinatrice fece una breve pausa,
controllando probabilmente in qualche nota del suo computer.
–No, signorina Walker, il grado a lei assegnato combacia
perfettamente con le sue abilità. Non
c’è nessun errore nel sistema, è tutto
nella norma- un’altra pausa. –Aspetti, il dirigente
vuole parlarle-.
-Il dirigente?!- sobbalzai.
Qualcun altro prese la linea. –Emily-
mi chiamò Lewis.
-Signora Martin…- balbettai incredula,
e Lucy mi scoccò un’occhiata stralunata. Alzai le
spalle comunicandogli che non ci stavo capendo nulla.
-Emily, calmati, non c’è
nessun problema col sistema. Sono stato io ad assegnarti quel robot-
disse.
-Ma signore, io…!!!- provai a
replicare.
-So che potresti inizialmente non capire, ma
fidati di me-.
-Che cosa vuole farmi?!- sbottai.
-Voglio testare le tue vere capacità,
ragazza mia- rispose tranquillo.
-Cosa intende con…-.
Martin m’interruppe. –Adesso
non c’è tempo, i tuoi compagni saranno impazienti
di iniziare-.
-Aspetti, sign…!!!-.
La comunicazione cadde, e istintivamente guardai
verso la vetrata oscurata della palestra, cercando di capire cosa
diavolo stesse succedendo lì dentro.
-Emily- mi chiamò Lucy alla mia
destra, nel settore di campo adiacente al mio. –Che ti
prende?-.
Alzai gli occhi al cielo. –Hai visto
chi mi hanno assegnato?!- boccheggiai indicando il manichino di metallo
ad una decina di metri di fronte a me.
Lucy alzò la visiera del suo casco e
seguì il mio sguardo. –Ehi… Phil!-
gridò.
Il ragazzo si voltò
all’istante. –Che c’è?!-
eruppe.
-Guarda lì- indicò lei.
Philip si alzò la visiera anche lui.
–Impossibile. Emily, parlane coi coordinatori! Cristo, quello
ti ammazza!-.
Si scatenò una specie di reazione a
catena che, non appena arrivò ad Emmett, questo si scompose
non poco. –Ma che diavolo…- borbottò.
-Sentite, ci capisco meno di voi! Ho provato a
contattare i coordinatori, ma è stato Lewis ad assegnarmi
questo qui!- li informai.
I membri del mio clan mi guardarono scettici
allungo, fin quando, improvvisamente, non ebbe inizio
l’addestramento.
All’interno della visiera del mio robot
si accesero due una coppia di luci azzurrognole, segno che era pronto
ad ingaggiare battaglia.
Rabbrividii, restando immobile alcuni istanti,
mentre molti degli Angeli attorno a me avevano già iniziato
il duello. Non mi feci distrarre da ciò che accadeva nelle
mie prossimità, e cercai di concentrarmi sul mio solo
obbiettivo.
-Salve Angel 1-9-2- mi salutò la mia
coordinatrice. –Pronta ad ingaggiare battaglia?-.
-Cazzo, no! Qualcuno mi spieghi perché
il mio manichino è arancione!- sbottai.
-Angel 1-9-2, non sono autorizzata a rispondere
alla sua domanda. Prego, risponda: pronta ad ingaggiare battaglia?-.
Alla fine dovetti arrendermi, e nel frastuono di
esplosioni, grida di dolore e gemiti, come nel bel mezzo di uno stadio,
annuii. –Sì- sospirai. –Angel 1-9-2
pronta ad ingaggiare battaglia…- sussurrai flebile.
-Bene, cominciamo: posizione di difesa!- mi disse
la donna, ed ubbidii all’istante, sfigurando le mie
bellissime e preziosissime ali e parandomi dietro di esse.
Il colpo arrivò improvviso, inatteso.
Avevo solo eseguito gli ordini della mia coordinatrice che spesso e
volentieri mi davano consigli durante l’addestramento e, dopo
essermi parata dietro le mie stesse ali, mi accorsi di provare un
incredibile dolore dappertutto.
-Che cazzo era?!- sbraitai.
La coordinatrice non rispose ciò che
mi aspettavo: -Il suo bersaglio è in movimento. Si sta
spostando alla sua sinistra, attivi la vista termica e incorpori quella
infetta. Le sarà più facile individuarlo anche
attraverso la spessa barriera che creeranno i suoi poteri per lei-.
Feci ciò che mi aveva detto, ed
effettivamente vidi un certo veloce spostamento di materia rossastra,
su sfondo blu, che veniva nella mia direzione.
-Zeus
non è in grado di volare, ma i suoi iper-salti lo supportano
con forza e velocità. Stia attenta ai suoi movimenti e
cerchi di schivare i suoi attacchi tenendosi sempre a distanza aerea-
mi disse.
-Grazie!- gioii e mi levai in volo con un balzo.
Spalancai le ali, le gonfiai al vento e guardai sotto di me, dove il
mio manichino avversario stava progettando di venirmi incontro.
-Anticipi i suoi movimenti e cerchi di scontrarsi
con lui sono verticalmente-.
-In picchiata?!- feci stupita.
-Esattamente. Esegua- era tranquilla, anche
troppo per i miei gusti.
Tentai di eseguire una picchiata, mutando il mio
corpo per intero in una grossa lancia di metallo, ma non appena gli fui
abbastanza vicino, il finto Alex tramutò le proprie braccia
in due lunghe fruste d’acciaio, che mi afferrarono,
interrompendo la mia mutazione, e sbattendomi con violenza quasi oltre
il limite del settore di campo a noi assegnato.
Il colpo mi fece male, dolorosamente male
dappertutto, e già rimpiangevo di non essere partita per
l’Europa pur io. Mi sollevai lentamente, troppo per i gusti
del mio manichino, che non esitò a scagliarmi addosso un
altro dei suoi attacchi micidiali: lo vidi piegarsi con un ginocchio a
terra, affondare un profondo pugno nel pavimento e in fine, sotto di
me, si elevarono una decina di enormi spuntoni di metallo, alcuni dei
quali mi infilzarono le ali, altri riuscii a schivarli aprendo le gambe
e sollevandomi a verticale da terra.
- Angel 1-9-2, si tenga a distanza da terra-
ripeté la coordinatrice.
-Dimmelo prima, stronza!- sbraitai, e pensare che
era solo una simulazione. Sarei già morta se quello
lì fosse stato il vero Mercer.
Perché Lewis mi aveva fatto questo?!
Perché a me l’arancio quando ero abituata ad
allenarmi, nelle peggiori occasioni, con il verde?! Dannazione, stavo
impazzendo, mai il mio corpo era stato sottoposto ad un tale stress, mi
sentivo svenire, era una tortura che non riuscivo a sopportare.
D’un tratto, il braccio destro del
robot tramutò in una grossa e spessa lama, quasi
più grossa di lui. Venne verso di me con passi lenti e
misurati.
-Ehi, guardate! La bigotta è in
difficoltà!- ridacchiò Emmett che aveva la meglio
sul proprio manichino, tenendolo stretto in una morsa mortale tra le
sue braccia tramutate in solide catene nere.
Lucy, attaccata al tetto tipo spider-man, si
voltò a guardarmi. –Emily, reagisci!- intercettai
la sua voce attraverso il casco.
-Non so che fare, questo tizio mi sta uccidendo!-
risposi ingaggiando una comunicazione con lei e interrompendo quella
con la mia coordinatrice. Questa cosa era vitatissima
all’interno della palestra, ma Lewis, quello stronzo, aveva
già un conto in sospeso con me.
-Devi allontanarti da terra! Puoi volare, fallo!-
eruppe Lucy, e dopo di ché la chiamata cessò.
-Grazie tante…- borbottai spalancando
le ali e spiccando un salto che mi portò a metà
tra terra e cielo. –Bene, bastarda, dimmi come lo faccio
fuori quel figlio di puttana!- sbraitai riagganciando la mia
coordinatrice.
-…Provi un affondo alle spalle,
signorina Walker-.
Sbiancai. –Signor Martin…-
balbettai immobilizzandomi in aria.
-Attenta alla sua sinistra- rise.
Il robot spiccò un balzo e
minacciò di colpirmi con un calcio volante, ma grazie al
suggerimento di Martin schivai senza problemi. –Perdoni
l’insistenza, signore, ma per cortesia, sarebbe
così gentile da dirmi…-.
-Emily, hai sempre vissuto pensando di essere la
più debole, qui dentro, e invece ti sbagliavi- mi
anticipò. –In te si cela un grande potenziale, un
potenziale che io e i miei Alchimisti abbiamo scoperto la notte in cui
ti sei liberata dalla vasca, cosa che non era mai successa prima di
allora. Occhio dall’alto!-.
Schivai anche quel colpo, e la lama Mercer mi
passò a pochi centimetri dal naso. Conversavo con Martin, ma
contemporaneamente tenevo d’occhio il mio avversario.
–Signore, io non capisco…- sussurrai.
-Nessuno è mai riuscito a spezzare il
cristallo di cui è composta la vasca, signorina Walker, ma
lei sì. Il sangue che porta nelle vene supporta il virus che
le abbiamo iniettato in un modo mai visto. Lei è predisposta
almeno quanto Alex Mercer a diventare la più forte tra i
portatori sani…-.
-Non ci credo!- risi istericamente schivando un
altro affondo. Mi ritrovai in volo radente a pochi centimetri da terra
e dovetti riprendere quota toccando il suolo con un piedi, ma nel
momento in cui mi diedi la spinta, il robot comparve dal nulla alla mie
spalle e mi si avventò contro, facendomi schiantare con un
gran botto nel parquet del pavimento.
Gemetti di dolore, ma riuscii ad alzarmi non
appena il finto Alex si stanziò abbastanza, preparando un
nuovo attacco. –Impossibile, e perché non me
l’ha mai detto prima?!-.
-Non ce n’era motivo- rispose
tranquillo Martin, seduto sulla sua comoda poltrona nella sala
d’osservazione della palestra. I gomiti poggiati sui
braccioli, lo sguardo sereno che scrutava oltre le vetrate oscurate, le
mani giunte a mezz’aria.
-E oggi?!- sbraitai. –Oggi che cosa
succede di diverso?!-.
-Sarò sincero con lei, Emily. Il suo
sangue, la sua predisposizione al virus che noi tanto cercavamo,
corrisponde al campione Mercer-.
-Ah!- risi. –Mi sta dicendo che io e
quel bastardo là fuori- feci una pausa, spiccando un salto
ed evitando altri spuntoni che comparvero da terra. –Mi sta
dicendo che abbiamo lo stesso gruppo sanguineo?!- gridai, ma avevo il
fiatone e mi affaticavo inutilmente.
-In un certo senso…-.
-E questo che vuol dire?!-.
-Che solo tu sei in grado di ucciderlo-.
-Come?!-.
-Sano allenamento e confronto alla pari-.
-Si spieghi meglio!!-.
-Il vostro è un fattore genetico molto
ricercato, che vi permette di fare cose che altri non si sognerebbero
neppure-.
-Non siamo fratelli! Quindi
com’è possibile che quello che aveva lui ce
l’abbia anch’io?!-.
-Non venirlo a chiedere a me. Dio solo lo sa-
rise.
-Non ci trovo nulla di divertente, signore-.
-Immagino, immagino- e invece continuò
a ridere.
Il mio avversario robot mi scagliò
addosso un macigno che chissà da dove aveva tirato fuori e
mi schiacciò del tutto con esso. Per qualche istante non
riuscii a sollevarmi, ma appena trovai la forza necessaria, alzai la
pietra sulla sola potenza delle mie braccia e l’adagiai di
lato.
Indebolita e con le ossa rotte da qualche parte,
fulminai la lattina con un’occhiataccia.
-Basta, se dobbiamo parlare spenga
quest’affare!- sbraitai scagliandomi addosso al robot.
Riuscii a schiantarlo a terra e mi sollevai in aria subito dopo,
restando a guardare la sua reazione.
-Interrompa l’Alex92- disse Martin
rivolgendosi alla mia coordinatrice seduta da quelle parti.
-Sì signore- rispose ella digitando
una sequenza di tasti.
Feci un profondo sospiro mentre gli occhi del mio
avversario si spegnevano e il suo corpo da lattina di metallo assumeva
una posa rigida e compatta.
-Grazie- mormorai perdendo quota, e mi misi a
sedere sul pavimento respirando più tranquilla.
–Ma ora mi dica una cosa, signor Martin-.
-L’ascolto, Emily- sorrise lui.
-Tra altri 500 ragazzi e ragazze come me,
perché io? Cos’ho precisamente che anche Alex ha
ma nessun altro qui dentro?- domandai.
-Emily- sospirò fieramente
l’uomo. –I tuoi compagni sono solo una copertura,
il vero unico angelo, qui dentro sei tu-.
-E lei?- domandai schietta, levandomi un attimo
il casco e accorgendomi di averci sudato dentro. Quando me loro rimisi,
mi notai che Lewis si era preso (troppo) tempo per rispondere.
–Ogni cosa a suo tempo-.
-E lei?!- insistetti serrando i pugni.
-Io sono come te, Emily-.
-E allora perché non ci va’
lei a farsi fare il culo da Alex, scusi?!- eruppi profondamente offesa.
-Questo non è davvero un buon momento
per parlarne, signorina Walker, e se non ha altre domande,
sarò bel lieto di interrompere la conversazione
all’istante!- mi ruggì contro.
-Va bene, capo- sbuffai.
–Un’ultima cosa- dissi.
-Parli-.
-C’è veramente qualcosa
dentro di me che può ammazzare quel figlio di puttana,
oppure mi sta solo mandando al macello come fa con tutti gli altri?-
domandai turbata.
Lewis scoppiò in una fragorosa risata.
–Lei è la mia gallina dalle uova d’oro,
signorina Walker, non la manderei mai nella macelleria Mercer senza un
buon motivo-.
-E questo “buon
motivo”…- abbassai lo sguardo, allacciandomi una
scarpa. –Di che si tratta?-.
-Sono qui per scoprirlo, come lei,
d’altronde- sorrise.
-Aspetti!- sbottai. –Lei mi sta dicendo
che il manichino arancione mi serve a scoprire che cosa dentro di me
può fare il culo ad Alex?!-.
-Lei è sveglia, Emily, più
di quanto pensassi-.
-Va bene, doc, ci sto- mi sollevai in piedi
fieramente.
-Suo padre sarebbe fiero di lei, signorina
Walker…-.
M’irrigidii d’un tratto.
–Cosa…- come osava parlare di mio padre in quel
modo? Iniziai a dubitare che Lewis Martin sapesse qualcosa che io non
sapevo.
-Non si faccia altri propositi, per oggi,
signorina. Il suo addestramento riprenderà tra dieci
secondi: stia pronta, le ripasso la sua coordinatrice tra
tre… due…-.
Un breve pausa. –Salve Angel 1-9-2,
pronta ad ingaggiare battaglia?-.
Attorno a me infuriava la battaglia tra robot e
Angeli, ma inaspettatamente il mio sguardo cadde su un ragazzo che
aveva il campo di fronte al mio. Non era della mia squadra, ma
ricordavo di averlo visto più volte sia in palestra che
nella mensa della base. Eppure, pensavo che il suo clan fosse in
Europa, così la cosa m’incuriosì non
poco.
Rimasi ad osservarlo allungo, notando nel suo
modo di combattere qualcosa di estremamente familiare, ma al tempo
stesso che mi spaventava. Il livello del robot che aveva assegnato era
verde, come sarebbe dovuto essere il mio, ma su di lui stava sfogando
una gran rabbia, una furia che davvero non mi aspettavo. Stava
letteralmente facendo a pezzi il suo manichino, strappandogli le
braccia, le gambe, e in fine la testa, che scagliò
così lontano che raggiunse i miei piedi.
Granai gli occhi incredula e gli spostai
più volte dalla testa decapitata di robot a lui, che col
fiatone e le braccia ancora trasformate in due grosse lame bianche mi
fissava furente.
Rabbrividii e distolsi del tutto lo sguardo, ma
mi fu inevitabile arrossire anche sotto il casco.
Il ragazzo parve calmarsi guardandomi, e le sue
braccia tornarono del tutto normali quando si accorse di me. Una
dozzina di metri ci separavano, ma potevo ascoltare il battito del suo
cuore farsi poco a poco più regolare. Si voltò e
di fronte a lui si materializzò un secondo robot, e lui era
pronto a riprendere l’allenamento.
-Angel 1-9-2! Pronta ad ingaggiare battaglia?!-
si spazientì la donna.
Mi riscossi e mi misi in posizione, prendendo la
giusta distanza dal robot. –Sì. Angel 1-9-2 pronta
ad ingaggiare battaglia- sbuffai.
***********
Link -----------> ROBOT
***********
Perdonoooo!!!
Scusate,
scusate tantissimo! Ho infranto la promessa, e non sapete quanto me ne
penti, ma vedete il motivo per il quale neanche in questo capitolo
tratto di Alex è semplice e davvero odioso!
Allora,
vi confesso dicendo che ho dovuto sezionare un solo capitolo in due
parti perché, dopo aver deciso di menzionare una piccola
parte dell’addestramento, sono finita lo stesso con
l’allungarla troppo! Ma le idee scorrevano a fiumi
e… insomma, vi prego, non uccidetemi! Anzi, avete tutto il
diritto di farlo! Comunque ve l’ho detto, l’altra
metà di questo capitolo è l’avvincente
momento, perciò, appena ricevo le vostre recensioni, lo
posto subitissimo! Promesso! Bhé, vi confesso anche
che… se non tagliavo il posto in due parti…
avreste dovuto, ecco… <.< cuccarvi quasi 14
pagine in una sola volta e… >.< molto
sinceramente, a me danno proprio sui nervi i capitoli lunghi,
soprattutto in quest’ultimo periodo. Come si può
ben notare, quelli di questa ff di fatti, non superano le sette pagine,
ed ecco… >.> insomma, ci siamo capiti, no?
Ora:
sapete tutti quanto vi voglio bene, perciò <.<
saltiamo i convenevoli! Commentate, così posto subito lo
scontro tra Emily ed Alex! ^^ Ops, spoilerone! XD
A
prestissimooooooo!!!
|
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Capitolo 9 *** Capitolo 9° - Blacklight ***
Capitolo 9°
- Blacklight
L’allenamento
si protese per tutta la mattinata: intenso, duraturo, difficoltoso per
molti che dopo due ore consecutive di duello si erano arresi
dirigendosi alla mensa prima del tempo. I robot vincitori venivano
richiamati nella botola dalla quale erano venuti e filavano dritti
nella sala di riparazione e supervisione.
Del
mio gruppo restavamo ancora attivi Emmett, Lucy ed io. Harry e Phil
avevano deciso di aspettarci nel corridoio dopo aver clamorosamente
gettato la spugna.
Schivavo
le lingue di metallo che mi lanciava addosso la lattina quando vidi
Lucy messa troppo alle strette dal suo avversario. Tentai di ingaggiare
comunicazione con lei, di supportarla, ma la coordinatrice aveva
richiesto assistenza remota per isolare qualsiasi aggancio esterno. La
mia amica aveva le ali ferite e sanguinava da una guancia, cosa che le
capitava raramente in allenamento.
Alla
fine si arrese, accasciandosi al suolo priva di forze e respirando a
fatica, e il suo manichino si auto-proclamò vincitore
disattivandosi e dirigendosi passivo, con un balzo, verso la botola sul
soffitto.
Un kit
di Alchimisti la prelevarono dal campo, ma quando chiesi aggiornamenti
dalla mia coordinatrice, ella mi disse che non era nulla di grave e che
si sarebbe rimessa subito dopo una semplice puntura.
Di
fatti, neppure mezz’ora più tardi, la mia compagna
di clan ricomparve in palestra assieme ad Harry e Phil, affiancandosi
al campo di Emmett e facendo il tifo per lui.
Il
ragazzone stava davvero dando il meglio di sé in quel
duello. Al robot mancava già un braccio che gli aveva
strappato via senza pietà.
E che
dire di me?
Neppure
io me la passavo tanto male, ma diciamo che le cose stavano velocemente
precipitando dalla terza ora consecutiva in poi. Le mie ali deboli non
furono d’un tratto più in grado di sollevarmi, mi
tremavano le mani e le ginocchia.
Ancora
non capivo dove e cosa volesse andare a cercare Martin in me
affidandomi un così alto livello di difficoltà. A
spingermi tanto oltre vi era l’adrenalina, la consapevolezza
di essere speciale, diversa, come diceva lui, ma in me sentivo mancarmi
molto, molto altro.
Alla
fine cedetti, dichiarai la resa alla mia coordinatrice che non appena
mi ascoltò pronunciare quelle parole, mi passò
subito Lewis.
-Scordatelo
Emily- disse serio lui.
-Non
ce la faccio. Basta, ti prego…- avevo il fiato corto, il
cuore pompava così forte e veloce da farmi male dentro il
petto.
-Non
abbiamo ancora quello che ci serve. Devi continuare a combattere-.
-Ho
capito dove vuoi arrivare! Tu vuoi uccidermi!- sbraitai.
-Neanche
per idea, anzi! Sto cercando di spingere il tuo potenziale al limite
delle tue capacità, e finché non ci riuscirai non
lascerai questa palestra, sono stato chiaro?!-.
Muori,
stronzo!
-Chiaro…-
borbottai rimettendomi in posizione.
-Ottimo.
Ora concentrati- furono le sue ultime parole.
Ormai
nella palestra c’ero solo io e quel ragazzo che stava facendo
il culo a strisce al suo terzo robot, ma il livello di
difficoltà era passato dal verde all’arancione nel
giro di poche vittorie.
Il mio
avversario sfoderò attacchi sempre nuovi, che mi mettevano a
tal punto in difficoltà che delle volte fui costretta a
svolazzare fuori dal mio campo; fortuna che attorno a me non era
rimasto a combattere nessun altro a parte Emmett, quel ragazzo
laggiù e qualche altro Angelo con il manichino di livello
blu.
Alla
quarta ora di gioco cedetti del tutto, inginocchiandomi sul pavimento
con le ali aperte e spiaccicate a terra. –Basta, basta!- mi
levai il casco gettandolo di lato.
Il
robot dinnanzi a me si disattivò all’istante e
filò via verso la botola sul soffitto, mentre Lucy, Harry e
Phil correvano in mio soccorso.
La
ragazza mi prese sottobraccio aiutandomi ad alzarmi, ed Harry mi porse
la sua bottiglietta d’acqua che afferrai tremante. Ringraziai
e bevvi un lungo sorso.
-Sei
stata micidiale! Hai retto l’arancio per quattro ore, Emily!-
esultò Lucy accompagnandomi fuori dal campo.
Harry
e Phil mi vennero dietro, mentre Emmett continuava il suo addestramento
con più vigore di prima, soddisfatto che avessi mollato
prima di lui.
Mi
sedetti su una panchina sul bordo della palestra e bevvi ancora,
finendo completamente l’acqua del mio amico.
–Ops…- dissi porgendogliela. –Te la
ricompro- promisi.
-Ma ti
pare!- fece lui sedendomi accanto. –Piuttosto, come diavolo
hai fatto a resistere così allungo?! Io ho mollato dopo la
prima ora, ed era di livello giallo-.
-Altrettanto-
proferì Phil in un sussurro.
Stavo
per aprire bocca, quando la voce squillante di Lucy
m’interruppe.
-Forza,
ragazzi!- strillò gioiosa. –Facciamo il tifo per
Emmo! Guardate, ha richiesto un cambio di robot! Ora è
arancio!- disse indicando il nostro compagno.
Effettivamente
il possente Emmett Word stava ora fronteggiandosi con un robot di
livello arancio, richiesto probabilmente alla sua coordinatrice poco
prima. Non potei fare a meno, però, di distogliere lo
sguardo da lui e poggiarlo sul secondo ragazzo rimasto a combattere.
Si
trattava di quel giovane che mi ero incantata a guardare prima di
riprendere l’addestramento, e la scena si ripeté
per ben due volte.
Non mi
accorsi di avere la bocca aperta, e così Harry mi mise una
mano sotto il mento e me la chiuse. –Non sbavarti
sull’uniforme nuova- ridacchiò.
Mi
riscossi violentemente. –Ma che dici?!- eruppi.
-Cole
Turner- sogghignò Philip con stizza. –La sua
squadra l’ha mollato ‘sta mattina, sono andati
tutti in Europa tranne lui. C’è rimasto uno
schifo, ed era pure capitano- ci informò.
-Che
fatto curioso- fece Lucy interessata.
In
quell’istante sia Cole che Emmett terminarono quasi allo
stesso momento i rispettivi avversari, riuscendo uno ad estorcergli un
braccio e l’altro staccandogli la testa in
un’esplosione di scintille.
La
loro vittoria sui robot arancio non creditava affatto le parole di
Lewis di poco prima, perciò diventai più
sospettosa che mai.
-Emmo!-
Lucy gli corse incontro, spiccò un balzo e lo
abbracciò con foga. –Sei stato grande! Stupendo!
Gli hai fatto vedere chi sei- esultò.
Nessuno
andò invece a congratularsi con Turner, così, non
so con quale coraggio, mi alzai dalla panchina, ritirai le stanche ali
nella mia schiena e mi diressi a piccoli passi verso di lui.
Quando
gli fui accanto, il ragazzo non si accorse subito di me, troppo
occupato a ritrovare tra le macerie del robot il casco che gli era
scivolato via durante il combattimento.
Mi
schiarii la voce e si girò all’istante.
Rimasi
incantata dai suoi profondi e limpidi occhi verdi, il viso un
po’ tondo, i capelli leggermente biondi acconciati in un
taglio corto, ma scompigliato e imbrattato dal sudore; e in fine la
barba lasciata un po’ crescere. Non disse nulla, si
limitò a guardare me così come io guardavo lui.
Alla
fine riuscii a spiccicare qualche parola. –Sei stato davvero
bravo, complimenti- sorrisi timidamente.
-Oh-
fece confuso lui. –Grazie, ma…- mi
scoccò un’occhiata lunatica. –Ci
conosciamo?-.
Sbiancai
dall’imbarazzo, mentre l’unica cosa che aveva un
po’ di colore divennero d’un tratto le mie guance,
in contrasto col resto del mio viso. –Ecco, veramente no, ma
ho visto come combatti, e… bhé, sei bravo!-.
-Anche
tu non sei male- mi arrise. –Cole Turner- mi porse una mano,
e gliela strinsi quasi subito ricacciando la timidezza.
-Emily
Walker-.
Al
sentirmi pronunciare quel nome parve irrigidire le spalle, e la presa
attorno alle mie dita divenne del tutto nulla. –Emily
Walker…- ripeté.
Annuii
disorientata. –Cosa…-.
-La
figlia di Mark, Mark Walker?- fece stupito.
-Sì…-
pronunciai con altrettanto stupore. –Conoscevi mio padre?-
domandai incredula.
-Ragazza,
se lo conoscevo…- esultò lui lasciandomi la mano.
–La mia vita la debbo a tuo padre, il giorno
dell’incidente-.
-Che
è successo?!- insistei, ma prima che Cole potesse aggiungere
una sola parola, mi sentii chiamare alle spalle.
-Emily,
dobbiamo andare a mensa! Ci danno le cartelle! Entriamo in servizio tra
un’ora!- mi comunicò Lucy.
-Arrivo!-
risposi voltandomi, e guardai i membri del mio gruppo avviarsi fuori
dalla palestra.
-Dobbiamo
andare- disse Cole. –Tutti e due- aggiunse venendomi
affianco. –Vedrai, avremo occasione di riparlarne- mi
sorrise.
-Lo
spero-.
-È
stato un piacere, Emily. A presto- mi salutò con un cenno
militare e corse fuori dalla palestra.
A
mensa, sul tavolo del nostro clan, trovammo adagiate cinque cartelle
sigillate. Phil ce ne consegnò una ciascuno chiedendoci di
non aprirle fin quando non fossimo stati liberati fuori dalla base e
così ubbidimmo.
Dopo
l’abbondante e sostanzioso pranzo, ci dirigemmo
all’ultimo piano dell’edificio, e noi tutti Angeli
ci sistemammo per bene sulla pista attendendo
l’autorizzazione ad uscire dettata da Martin, che
però non si fece vivo per parecchio tempo.
Ci
chiedevamo che fine avesse fatto, ognuno raggruppato in un angolo col
proprio clan attorno. Mi guardai in giro accorgendomi che Cole era come
al solito tutto solo vicino ad un caccia militare; gli corsi in contro
e lo salutai sorridente: -Ciao-.
-Ehi,
ciao- fece allegro.
-Notizie
di Martin? Ci stavamo chiedendo dove fosse, insomma… ci ha
fatto richiamare con un’urgenza qua su e ci rimangono poche
ore di caccia prima del tramonto- lo informai, ma probabilmente lo
sapeva già.
-Sì,
concordo, ma mi spiace, non ho idea di dove possa essere- si strinse
nelle spalle.
L’uniforme
da Angelo gli donava parecchio, lo rendeva davvero affascinante,
esaltando i muscoli al posto giusto e la bellezza del suo corpo. Per la
prima volta, confesso, conversavo con un ragazzo carino, ma una come me
non aveva speranze, anche perché sembrava avere parecchi
anni più di me.
-Quanti
anni hai?-.
-Ventisette-
rispose allegro. –E tu?-.
-Vent’uno…-
balbettai non potendo credere ai miei occhi. –Te lo dicono
che sembri più vecchio?-.
Turner
annuì ridendo. –Bhé, sì, ma
i primi capelli bianchi sono comparsi durante il trattamento degli
Alchimisti!- scherzò, e risi alla sua battuta.
Improvvisamente
suonò la sirena d’allarme, e noi tutti scattammo
all’erta. L’edificio entrò nel panico, e
così anche il piano sul quale ci trovavamo non appena
dall’ingresso principale emersero una dozzina di uomini
armati, militari, probabilmente.
Al
seguito dell’armata comparve Martin, che si
posizionò nel centro della pista d’atterraggio
scrutando ciascuno di noi con attenzione.
Il
rumore della sirena era assordante, pensai mentre accorrevo verso il
mio clan e mi sistemano tra Harry e Phil, cercando di capire cosa
stesse succedendo.
-Signori-
cominciò Lewis gonfiando il petto. –Sono scontento
di annunciarvi che…- sospirò. –Zeus ha
penetrato internamente le difese e si nasconde nella nostra base da
ventiquattro ore e passa-.
Un
coro di voci si levò da noi Angeli, che cominciammo a
sparlare di come fosse successo e perché, scettici di fronte
alla notizia.
-Sembra
assurdo, ma i nostri rivelatori termici hanno individuato questa notte
spostamenti inconsulti di una differente composizione del
Virus…- guardò un attimo verso di me, ma non
seppi perché. –Riconosciuta come anomala dai nostri
sensori, l’allarme non è entrato in funzione come
ha fatto ora. Per tanto, vi chiediamo di restare immobili nelle vostre
attuali posizioni affinché lo scanner possa rivelare se si
trova tra voi in questo momento- disse rigorosamente serio e in parte
tranquillo.
Rimasi
immobile come aveva chiesto e osservai in silenzio come
dall’ingresso principale comparvero delle strane ciambelle
volanti che più volte avevo visto girare per la
città. Si avvicinarono con cautela a noi, fluttuando a
mezz’aria e facendo un circolo completo attorno a tutti i
presenti.
La
loro mansione era una ed una soltanto, e non appena la loro luce rossa
si accese mandando un bagliore ad intermittenza, fu il panico.
Era
tra noi, e per qualche istante la situazione restò
invariata, immobile come doveva essere. Poi, improvvisamente, uno dei
militari che stavano attorno a Martin, gettò
l’arma a terra e si scagliò a tutta
velocità contro il nostro capo. Lo spintonò al
suolo con una gomitata e proseguì dritto di gran corsa sulla
pista.
-Eccolo!
Sparate!- gridò qualcuno.
Gli
altri uomini armati aprirono il fuoco, ma fu totalmente inutile.
Alex
Mercer rivestì il suo corpo di una robusta armatura e
continuò a correre verso il bordo della terrazza.
-Angeli!
In volo!- strillò Cole spalancando le sue ali e guidando lo
stormo alla carica.
Mi
sollevai immediatamente da terra e con un solo movimento delle mie ali
superai tutti gli Angeli che mi avevano preceduta, sistemandomi in
testa accanto a Turner.
Alex
fece una piccola deviazione e tornò indietro, puntando
contro di noi, prendendoci del tutto alla sprovvista: spiccò
un balzo e, sospeso a mezz’aria alla nostra altezza,
richiamò tutta la sua forza il caos tentacolare distruttore.
L’attacco decimò molti di noi compreso
Cole e altri, che precipitarono a terra privi di forze.
Io
sola e qualche Angelo fortunato eravamo rimasti integri
all’assalto, schivando abili i tentacoli più
grossi e forse ferendoci con piccoli tagli fatti da quelli
più piccoli.
Alex
tornò a terra affondando un ginocchio nel cemento della
terrazza, un suo pugno sbrindellò il pavimento, ma tutto
ciò per evocare un altro dei suoi attacchi mortali: l’artiglio cimitero.
Una decina di spuntoni neri emersero dal suolo e penetrarono le ossa di
alcuni miei compagni, mentre io riuscivo ad evitarli con abili manovre
aeree e veloci schivate laterali.
Mercer,
ancora rivestito della sua armatura, si sollevò diritto in
piedi e ammirò la sua opera con un che di soddisfatto.
Al
tappeto, feriti e sanguinati, riconobbi i miei compagni di clan, ma
nelle condizioni peggiori vi stava sicuramente Phil, con
un’ala spezzata e un profondissimo taglio al costato che
quasi lo divideva in due parti.
Distolsi
lo sguardo raccapricciata, e mi accorsi che pochi Angeli superstiti si
erano lanciati all’attacco contro Zeus tentando
qualsivoglia tipo di affondo. Picchiate, calci volanti, prese da
granchio, artigliate, mazzate, di tutto e di più, scatenando
il vero e proprio Inferno sul tetto della nostra base.
Mercer
rispondeva con prontezza a ciascun attacco, per nulla in
difficoltà, anzi…
In
pochi attimi sulla terrazza dell’edificio restavamo solo io e
lui.
Non
avevo ancora osato avvicinarmi, e troppo spaventata ero rimasta sospesa
a mezz’aria. L’armatura argentata che lo rivestiva
lo rendeva invincibile, e pensai di andare verso morte certa se mi
fossi solamente avvicinata troppo.
-Angel
1-9-2, resta dove sei!-.
Finalmente
il mio coordinatore si faceva vivo. –Matt!- esultai.
–Grazie al cielo, oh Dio!-.
-Sta’
tranquilla, Emily, Lewis è qui con me e mi ha detto di dirti
che non devi muoverti, hai capito?! Devi lasciarlo andare!-.
-Non
mi sembra che abbia voglia di andarsene…- balbettai, e di
fatti mi stava fissando proprio come io fissavo lui, l’uno
con gli occhi puntati a quelli dell’altra, anche attraverso
la visiera del mio casco e della sua armatura.
D’un
tratto, prima che Matt potesse aggiungere altro, Alex si mosse,
scattando veloce come un razzo verso il bordo della terrazza.
-Sta
scappando!- gridai.
-No,
Emily! No!-.
Euforica,
carica e determinata, mi spinsi ancora più avanti. Non seppi
perché lo feci, ma accellerai il battito delle mie ali
trovandomi improvvisamente a svolazzare sopra Zeus senza fare
nient’altro, senza attaccarlo, guardandolo correre solamente.
Quando
fu abbastanza lontano dalla portata delle armi dei militari che si era
lasciato alle spalle, l’armatura che lo rivestiva si dissolse
e Alex restò del tutto indifeso, privo di corazza e a pochi
passi da me; così vicino che potevo quasi toccarlo. I
secondi divennero minuti, i minuti divennero ore quando una sua gelida,
grigia occhiata incontrò la mia da sotto il cappuccio.
Rimasi imbambolata com’ero, con le ali gonfie e lo sguardo
fisso su di lui.
L’andatura
della sua corsa rallentò: probabilmente si era accorto che
la terrazza finiva, e dal tetto a terra erano parecchi, parecchi metri.
Ridacchiai,
pensando che probabilmente non si sarebbe mai gettato da una tale
altezza.
Dovetti
ricredermi.
Arrivato
sul bordo, Mercer spiccò un balzo e levitò nel
vuoto a braccia aperte per alcuni secondi, poi si scagliò
verso il basso assumendo una forma compatta e aerodinamica.
-Emily,
torna subito indietro, Cristo!- Matt riprese la comunicazione.
-Puoi
dire a Lewis…- sorrisi gonfiando le ali. –Che sono
in missione!- e detto ciò, mi gettai a capofitto
verticalmente verso il basso. Richiamai le ali attorno al mio corpo
così da poter cadere più velocemente
giù dalla base, inseguendo il più letale tra i
portatori sani.
Mi
avvicinavo a lui che era pochi piani sotto di me, ma entrambi
precipitavamo veloci più del vento, che personalmente
cominciò a fischiarmi nelle orecchie.
Non
appena gli fui affianco, cercai di colpirlo con una spinta, ci riuscii
e lo afferrai per un braccio tirandolo verso di me.
Ma
Alex fu dieci volte più svelto: strattonandomi per la vita
mi fece voltare e, con un calcio, mi spinse contro le vetrate della
base.
Sprofondai
tra i vetri scheggiandomi le braccia e il viso, rotolai
all’interno di una buia stanza trascinandomi dietro i detriti
della parete che avevo sfondato. Chiusi gli occhi agonizzante, perdendo
sangue da tutte le parti. Il respiro divenne irregolare, il mio cuore
batteva impazzito.
Ma che
cazzo mi era saltato in mente?! Ero fuori di testa, stavo impazzendo,
anzi, ero impazzita e ora sarei morta. Morta. O almeno ero stata messa
fuori combattimento dal più temuto dei
“virussati”. Andavo fiera dell’idea di
essermi fronteggiata con Alex ed esserne uscita viva. Mercer era
scappato, certo, ma almeno avevo vinto la scommessa, e ciò
mi fece sorridere.
Tentai
di rialzarmi e tossii del sangue, mentre i brandelli di vetro
scivolavano via dal mio corpo rumorosamente.
Mi
sistemai seduta con le ali spiazzate di lato ed esauste quanto me, feci
per levarmi il casco, ma quando sentii una voce tetra, seria,
arrabbiata forse, mi si gelò il sangue.
-…Cosa
siete?- domandò Alex, e di lui potei scorgere solo una
metà, poiché il resto fosse nascosto nella
penombra della stanza nella quale ci trovavamo.
Sembrava
una camera ampia, fresca e spaziosa, forse una sala comune di qualche
clan partito per l’Europa, ma non
m’importò poi tanto.
Alex
Mercer era venuto ad uccidermi.
C’erano
delle cose più importanti a cui pensare!
Mi
rimangiai tutto quello che avevo solo pensato. Stavo per perdere la
scommessa, ma una volta uscita di lì, Emmett non avrebbe
potuto tagliare le ali a qualcuno che non ce le aveva, giusto?!
Stavo
per scoppiare in lacrime dalla paura, cominciai a tremare
impercettibilmente, ma con molte probabilità Alex poteva
guardare ben oltre l’aspetto esterno delle cose.
Sapevo
stesse fiutando la mia paura e se ne stesse beando l’animo,
sentendosi forte, potente, superiore a qualsiasi altra bestia creata
dal Virus.
«Bhé,
cocco, lascia che ti dica una cosa.
Io
sono diversa. Sono Emily Walker, ma tu puoi chiamarmi Angel 1-9-2 e non
sono una facile avversaria, sappilo! Il mio compito è
tagliare le corna a quelli come te, a quei pazzi bastardi che credono
di poter fare quello che cazzo gli pare e andare in giro ad ammazzare i
primi che gli capitano a tiro! Da oggi le cose cambiano, signorino!
Oggi ci siamo noi, gli Angeli, e sì, che occhio, io sono una
di loro! Ma indovina un po’??? Io sono più forte!
Perché sono come te, cocco, sono più forte e
incredibilmente potente di te! Hanno scoperto che siamo uguali, dentro,
e ne vanno fieri! La mia predisposizione è l’arma
per ucciderti, perciò preparati ad essere
annientato!»
-Avanti,
rispondimi!- ruggì d’un tratto spiccando un balzo
in avanti, e in un frammento di secondo mi fu del tutto addosso,
tenendomi per la gola con una mano e minacciandomi con
l’altra. –Cosa siete?!-.
Restai
ammutolita, terrorizzata. Il suo viso era vicinissimo al mio, potevo
guardarlo negli occhi attraverso la visiera del casco che avevo ancora
addosso. Io guardavo lui, ma lui guardava me? Mi domandai questo un
centinaio di volte, pregando che non sbrindellasse
quell’ultima barriera che mi era concessa portare.
C’era una sottile lastra di plastica tra me e lui, ma
sentirlo così terribilmente rigido, freddo sopra di me
bastò a trasmettermi una sottile situazione
d’imbarazzo.
Certo,
però solo io riesco ad arrossire in simili casi, eh?!
-Devo
sbarazzarmi anche di te, eh?!- mi diede uno scossone. –Eh?!
Vuoi morire anche tu, è questo che vuoi?! Avanti, dimmelo!
Dimmi cosa sei e chi ti ha creato!- mi strillò contro.
–Dimmelo!-.
Non
riuscii a ribellarmi, non riuscii a muovermi, avevo perso il controllo
del mio corpo che ubbidiva unicamente alla paura che scorreva liquida
nelle mie vene. La comunicazione con il mio coordinatore si era
interrotta non appena Alex mi aveva sbattuto con violenza addosso ai
vetri della base, e quindi il casco con auricolare doveva essere
danneggiato così come il radar che non segnalava
né la mia né la posizione di Mercer a quelli di
sopra.
-Dimmi
il nome del bastardo che mi vuole morto, avanti! Dimmelo!- chiese
ancora, più insistente di prima. –Dimmelo o me lo
prendo da solo!- mi afferrò la maglia con entrambe le mani.
Era
questione di secondi, e da un momento all’altra Alex mi
avrebbe assorbita così come faceva alle persone che gli
stavano comode a ricordare o per intrufolarsi nelle basi militari.
Sapevo che non avrebbe esitato, sapevo che non avrebbe trovato nessun
pretesto per lasciarmi la mia vita com’era, ovvero al
dì fuori del suo corpo infetto.
«Ma
come?! Prima tenta la fuga, poi getta Lewis a terra con uno strattone e
in fine mi viene a chiedere chi è l’uomo che ha
ordinato tutto questo?! Ma Cristo Santo, ci sei passato tanto
così dall’uomo che ti vuole fuori dai ciglioni,
idiota!»
-Lewis…-
mormorai. –Lewis Martin!- confessai.
-Chi
?!- eruppe incredulo.
-Lewis
Martin!- ripetei quasi gridando. –L’uomo che hai
spinto a terra quando sei fuggito!- gemetti.
-No,
non è lui…- la sua presa attorno alla mia maglia
s’indebolì.
Mi
zittii confusa. –Come fai a dirlo?- mormorai.
-Vi ha
creati lui?!- tornò vigoroso e furente.
-Sì!-.
-Perché?!-.
-Per
ucciderti!-.
-Ne
sei così sicura?!-.
-Bhé…
sì- assentii. –Perché,
c’è forse qualcosa che quello stronzo non ci ha
detto?- domandai.
-Ah!-
ridacchiò lui. –Ce ne sono di cose…-.
Non
era affatto un buon segno. –Cioè?-.
Ma lui
non mi rispose, si limitò a stizzirmi facendomi sbattere con
violenza la testa a terra.
Nel
silenzio e nel buio della stanza sentii dei passi, e poi
un’esplosione e in fine qualcuno che gridava: -Eccolo!
‘Sta scappando!- un fischio, un’altra esplosione,
suono di mitragliatrici, un’altra esplosione, un caldo
soffocante, l’aria che manca, una terza esplosione.
Ancora
mitragliatrici, grida strazianti, strappi, urla, metallo contro
metallo, e ancora esplosioni.
Suoni
sempre più confusi che al fine si riducono ad un unico,
lento, mio sospiro. E persi i sensi.
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Capitolo 10 *** Capitolo 10° - Arcangelo ***
Capitolo 10°
- Arcangelo
Giorno
dell’infezione 387°
Popolazione
mondiale
infetta: 06,02%
Tre giorni di convalescenza mi bastarono.
Ritornai lentamente cosciente del mio corpo
svegliata dal ritmico segnale che mandava la macchina cardiaca accanto
al mio letto. Quando schiusi con lentezza gli occhi, mi accorsi di
essere in una stanza tenuta completamente al buio. La sola luce era
quella proveniente dall’esterno, che filtrava attraverso le
serrande abbassate proiettando sul pavimento e sulle pareti della
camera un’ombra zebrata. La finestra era aperta, e da fuori
venivano i normali
rumori della città, come per esempio clacson, auto in corsa,
ambulanze, sirene della polizia, e frastuono vario, ma molto soffuso e
appena percettibile, come un sussurro. Dalle ante spalancate veniva
anche una fresca corrente serale che percepivo lambirmi la pelle
scoperta delle braccia e delle gambe nude, attorno alle quali si erano
attorcigliate le lenzuola accaldate, resti probabilmente di un sogno
non poco agitato.
Un tubicino di plastica mi correva su entrambe le
guance, convergendo all’interno del mio naso. Molto
lentamente me lo tolsi, adagiandolo da un lato del cuscino, e la stessa
manovra la ripetei staccandomi con calma le sonde attaccate al mio
ventre, sotto il camice da ospedale che indossavo e dal petto,
lasciando in funzione solo il misuratore cardiaco che avevo al polso.
Sollevai con calma la testa, mi guardai attorno
accorgendomi di essere del tutto sola. Era notte fonda, e la
luminosità dell’esterno capii che fosse relativa
alle luci dei palazzi, dei lampioni per la strada e dei fari delle
automobili. Tentai di alzarmi con metà busto, e ci riuscii
provando un leggero fastidio alla colonna vertebrale che si
lamentò rumorosamente. Una volta seduta, sistemai qualche
osso qua e là del collo e delle spalle, sentendomi dopo
tanto tempo di nuovo padrona del mio corpo. Mi guardai le braccia,
notando con stupore che la pelle fosse del tutto rigenerata e compatta;
questo fattore mi lasciò alquanto stupita, abituata a quelle
volte che ero stata costretta a tenere bende e garze per delle
settimane, persino durante gli addestramenti e le traversate in
città.
Per accertarmi delle mie condizioni, provai a
richiamare alcuni dei miei poteri: riuscii a tramutare le cinque dita
della mia mano in cinque poderosi artigli neri. Soddisfatta, decretai
che fosse ora di alzarsi e tornare nella propria stanza.
Scansai le lenzuola e mi sistemai con le gambe a
penzoloni, ma non appena poggiai i piedi a terra, la porta della camera
si aprì silenziosamente scivolando dentro la parete.
Dal corridoio luminoso emersero due figure che
riconobbi all’istante.
-Ferma dove sei!- disse Lucy venendomi in contro
a braccia aperte. Mi si gettò al collo abbracciandomi
così stretta che cominciai forse ad avvertire qualche ossa
fuori posto.
Assieme a lei c’era Harry, che si
sistemò comodo seduto sul letto. –Non sai che
gioia vederti sveglia e tutta intera- ammise felicemente commosso.
-È stato terribile- gemé
d’un tratto Lucy, senza staccarsi da me, stringendomi sempre
più forte le braccia attorno al collo. –Temevamo
che non ti saresti mai ripresa!- stava letteralmente piangendo sulla
mia spalla.
-Che è successo?- domandai con la voce
ridotta ad un sussurro.
Lucy non fu in grado di rispondere, troppo presa
dalle lacrime che le rigavano il volto e stavano andando a bagnare la
spallina della mia camicia da ospedale. Così Harry prese
parola abbassando lo sguardo:
-E’ stata una strage, Emily. Dopo lo
scontro con Alex dello scorso pomeriggio, siamo rimasti in pochissimi
ancora…- esitò –svegli, ecco-.
Sgranai gli occhi incredula. -È un
scherzo, vero?- ridacchiai scettica.
Lucy scosse la testa, continuando a singhiozzare.
Guardai Harry cercando di capire quanto la
situazione fosse realmente grave, ma ciò che lessi nel suo
sguardo rammaricato, basso e deluso furono le parole:
“qualcuno di noi non ce l’ha fatta”.
Immediatamente chiesi. –Dove sono
Emmett e Phil?…- mormorai, rivolgendomi sempre a lui, ma
quella mia richiesta suscitò nella ragazza lì
presente una reazione che lasciò oltremodo circoscritta la
mia immaginazione.
Lucy si allontanò da me quasi con uno
strattone, si voltò del tutto dandomi le spalle e si
circondò il ventre con le braccia.
–Emmett…- sigillò il suo nome sulle
labbra, e portandosi le mani al viso nascose il suo pianto isterico
dietro di esse.
Ingoiai il groppo che avevo in gola.
–Non…-.
-Non sono morti- si apprestò a dire
Harry andando incontro a Lucy e prendendola sotto braccio.
–Nessuno degli Angeli è morto. Per ora si trovano
tutti in una specie di stato vegetativo, convalescente come il tuo,
Emily. Ovviamente speriamo che tu non sia l’ultima che si
è risvegliata, ma non sei neppure la prima-
proferì poco tranquillo.
-Capisco…- abbassai lo sguardo sui
miei piedi.
-Siamo appena passati da Emmett- riprese Harry
carezzando i capelli della ragazza, che inquieta al suo fianco non
riuscì a frenare le lacrime che continuarono a scivolarle
silenziose lungo il profilo del mento. –E avevamo intenzione
di fare un salto a trovare Phil- disse guardandomi. –Te la
senti di raggiungerci?-.
Annuii all’istante.
–Sì, anche subito- sorrisi.
-No- eruppe Lucy d’un tratto,
asciugandosi l’acqua dagli occhi con una manica della felpa
larga che indossava. –Devono venire degli Alchimisti a
controllarti- disse avvicinandosi a me, mi prese per mano.
–Appena avranno finito, se sei sana ti lasceranno andare-
m’informò.
-Va bene…- feci tenendo la mia
confusione per me. –Ma voi?- chiesi. –Come state?-
spostai gli occhi dalla ragazza ad Harry un paio di volte.
-Bene- arrise il ragazzo. –Noi stiamo
bene. Alex ci ha presi solo di striscio, ma è bastato a
metterci fuori gioco al primo colpo-.
-Siete feriti?- insistei.
-Emily, stiamo bene!- ridacchiò
istericamente Lucy prendendomi il viso tra le mani. –Non
preoccuparti per noi- mi sorrise dolce con gli occhi ancora arrossati
per via del pianto.
-E come mai Emmo e Phil…- mi domandai.
Harry mi rispose prontamente: -Emmett e Phil si
sono tenuti attivi, durante il combattimento, anche dopo il primo
attacco di Alex, attacco che ha messo noi fuori partita. Il colpo
più letale è stato il secondo, quando
quegli…- ingoiò –quegli artigli sono
comparsi da terra e…- non riuscì a proseguire,
così lo interruppi con un gesto della mano.
-Ho capito, ho capito- mi risistemai per bene a
letto, rannicchiando le ginocchia al petto. –Allora vi
raggiungo più tardi…- mormorai.
Lucy si portò una mano alla bocca ed
un istante dopo era già partita a razzo verso
l’uscita della camera, seminando lacrime argentate lungo la
strada.
Aggrottai la fronte. –L’ha
presa piuttosto male- sospirai guardando Harry al mio fianco, il quale,
però, si era lasciato andare pure lui.
Il ragazzo si massaggiò una guancia e
distolse lo sguardo da me. –Senti, le cose sono
più serie di quello che pensi, mettitelo in testa- eruppe
serio.
M’irrigidii. –Harry, non ho
mica detto che non me ne frega nulla!- sbottai.
-Lo so, lo so!- fece esasperato avviandosi verso
la porta d’ingresso. –Ma vedi…-
cominciò più calmo. –Non eravamo mai
stato un clan tanto unito, per il semplice fatto che nessuno di noi
aveva mai considerato una tale minaccia. Ognuno sprofondato nel proprio
ego, nei propri sogni a rincorrere i proprio desideri!-
sbroccò sadico. –Se solo fossimo stati un vero
gruppo, una vera famiglia fin dall’inizio…-
mormorò. –Tutto questo non sarebbe successo-.
-Come?- domandai confusa.
-Il motivo è molto semplice- si
voltò del tutto dandomi le spalle. –Ma la risposta
a questa domanda non ho l’ho ancora trovata, e tu?-.
Lasciò la stanza con quelle parole,
che cominciarono a rodermi alla bocca dello stomaco minuto dopo minuto
che trascorsi in camera, rannicchiata contro il cuscino come una
bambina spaventata da se stessa.
Quando gli Alchimisti vennero a certificare le
mie condizioni, mi ritrovai circondata da un gruppo folto di
scienziati. La prima cosa che fecero fu accendere una luce abbagliante
per tutta la stanza, e questo mi costrinse a chiudere gli occhi e
tenerli così durante tutto il controllo. Dopo aver messo le
mani un po’ ovunque, tra macchinari e siringhe, iniezioni di
ogni forma e genere, prelievi e misurazione dei movimenti degli organi
interni, gli Alchimisti mi reputarono finalmente sana.
Lasciarono la camera in balia di quella luce
asettica e accecante, così, abituandomi lentamente a tanto
chiarore, mi accorsi di essere in una delle stanzette con le pareti e
il pavimento bianco tipiche dei laboratori-infermieria del terzo piano.
Un intero livello dell’edificio era di fatti dedicato
all’infermeria, che consisteva in una moltitudine di piccole
camerette singole con un attrezzatura medica che faceva invidia alla
NASA.
Risvegliando i sensi dopo il trattamento e
guardandomi attorno notando di essere di nuovo sola in sala, mi alzai
dal letto avvicinandomi al paio di vestiti comuni che qualcuno aveva
lasciato su una poltroncina di pelle bianca.
Mi vestii con calma, senza fretta alcuna, e una
volta pronta, mi diressi fuori dalla camera aspettando che la porta si
fosse chiusa alle mie spalle.
Il lungo corridoio nel quale mi trovavo girava in
circolo attorno ad un’unica grande sala con le pareti fatte
di un vetro spesso e trasparente. La camera in questione consisteva in
un salotto comune con al centro un ascensore che portava ai livelli
superiori ed inferiori dell’edificio.
Mi guardai in giro circospetta, stupendomi
dell’innaturale silenzio che animava quel piano del palazzo.
Un silenzio colmo di rispetto, ansia e logorante speranza. Insomma, il
solito silenzio nel quale ci si trova immersi durante
l’attesa in una camera d’ospedale, quando
è l’ora delle visite e ci sembra essere gli unici
che ancora pregano perché qualcuno si sia rimesso.
Con un po’ di fortuna, avventurandomi
per i corridoi, incontrai una dottoressa con un camice bianco e la
fermai con educazione.
-Sto cercando Phil McGuire- dissi.
–Potrebbe indicarmi la sua stanza di collocazione?-.
-Lei è Emily Walker, vero?-.
-Le ho fatto una domanda- feci imperterrita.
-Lewis Martin mi ha mandato a chiamarla. La vuole
vedere nel suo ufficio- mi comunicò la donna serrando le
dita attorno alla cartellina medica che aveva in mano.
Inarcai un sopracciglio. –Davvero?-.
L’altra annuì.
–Prenda l’ascensore fino all’undicesimo
piano. Corridoio sempre dritto, l’ultima stanza infondo-.
-Lo so dove si trova il suo ufficio, ma adesso
non posso, io…-.
-Mi ha detto di dirle che è
importante- insisté la scienziata.
-Capisco, ma non può riferirgli di
aspettare?- sbottai. –Un mio compagno di clan sta morendo,
Cristo!- eruppi esasperata.
La donna si strinse nelle spalle, ma non
mostrò alcun segno di spavento o stizza dinnanzi al mio
improvviso cambio d’umore. –Sono certa che il
paziente Phil McGuire non lascerà la sua stanza molto
presto, perciò ha tutto il tempo per andare e tornare
dall’ufficio di Martin- mi fece un sorrisetto odioso.
–Prego, da questa parte- mi indicò la strada.
-Va bene…- sbuffai mandandola a quel
paese.
Mi diressi all’ascensore, entrai nella
cabina e digitai per l’undicesimo piano. Una volta a
destinazione, allungai un’occhiata in corridoio e rimasi
stupita di trovarvi un silenzio assurdo anche lì.
Ma dopo tutto, non potevo davvero aspettarmi che
ci fosse tanta confusione: tre quarti degli Angeli erano felicemente in
Europa, e più della metà di quelli rimasti a New
York erano convalescenti da tre giorni.
Percorsi il lungo androne e mi fermai solo
davanti alla scrivania della segretaria di Lewis. La ragazza, che
sembrava avere la mia età, staccò le dita dalla
tastiera del computer e mi rivolse un luminoso sorriso.
-Emily, Lewis ti sta aspettando, entra pure- si
alzò dalla sedia e, avvicinandosi all’ingresso, mi
aprì la porta.
Non appena fui all’interno
dell’ampio studio, mi stupii di tutti i particolari di quel
luogo che non ricordavo dall’ultima volta che c’ero
stata, forse un paio di mesi fa. C’era una vista mozzafiato
sull’oceano che divideva la costa occidentale da Manhattan;
mentre l’isola stessa, all’orizzonte, era un buio
ammasso di palazzine distrutte, detriti di grattacieli e focolari
accesi. Una soave melodia classica si diffondeva per tutto il locale:
era una dolce sonata di violino e pianoforte, a forte contrasto con
l’improvviso vocione severo di Martin che mi
piombò nelle orecchie.
-… Come sarebbe a dire che siete
bloccati?!- eruppe Lewis.
All’inizio pensai si stesse riferendo a
me, soprattutto quando la sua occhiata nera, davvero incazzata, mi
trafisse in pieno, ma col tempo capii stesse parlando al telefono
attraverso un auricolare.
La segretaria mi fece dolcemente accomodare sulla
poltrona davanti al tavolo, dietro il quale sedeva il dirigente del
settore Angels con fare piuttosto occupato.
-Che cazzo dici?! Certo che avete quei
permessi… Gli hai persi?!… Non venirmi a
raccontare che un cacciatore vi ha mangiato le cartelle, che non me la
bevo!- gridò furibondo. –…
davvero?…- assentì lunatico. –Non posso
crederci…- si passò una mano in volto,
massaggiandosi la fronte. -…Va bene, allora ripassami il
direttore, avanti…- fece una pausa, sorridendomi.
Ricambiai il muto saluto, ma un istante dopo
Lewis tornò più furente di prima:
-Non mi frega un cazzo se non hanno i visti
spagnoli, è chiaro?! Devono tornare subito!-
sbraitò Martin facendo segno alla ragazza alle mie spalle di
andare, e la giovane si dileguò chiudendo la porta a doppia
anta dello studio.
Rimasi in silenzio, attendendo che finisse la
telefonata.
-No…- eruppe Lewis. –Non
voglio nessuna convalida! Devono imbarcarsi ora!- proruppe sempre
più arrabbiato. –Ascolta bene, stronzo! Se i miei
Angeli non montano su quell’aereo ora, mando a fanculo te e
la tua compagnia, vi faccio chiudere e giuro che ci vengono da soli con
le loro ali quaggiù!- un’altra pausa.
–No, non ci siamo capiti! Devono rientrare
subito!… Non ce le ho 24 ore, l’hai capito questo
o no?!… Bene! E allora cosa stai aspettando, figlio di
puttana?! Imbarca quei ragazzi!-.
Un messaggio della segreteria partì in
viva voce: -Signore- era la segretaria. –A Londra un nostro
gruppo è stato fermato. Sembra ci sia qualche problema con
la febbre suina- informò la donna, e il messaggio
terminò lì.
Lewis alzò gli occhi al cielo
esasperato. –Contatti l’ONU e si faccia dare i
visti da loro!- sbraitò tornando concentrato sulla
telefonata. –Basta, con una faccia da culo come lei io non ci
parlo. Se vuole bene alla sua nazione, veda di darsi una svegliata, o i
soccorsi se li scorda fino alla fine dell’anno! Mi auguro che
il Virus le mangi le chiappe, signore! Ora mi ripassi il mio
ambasciatore!…- un’altra brevissima pausa.
–Mike, lo stronzo non vi lascia passare. Governo spagnolo del
cazzo. Vi voglio in volo tra venti minuti. Se ci sono problemi, non
richiamarmi- sbottò più calmo. -… e se
vi sparano, bhé…- ridacchiò.
–Sì, esatto…- cominciò a
sbellicarsi dalle risate. –Ma ricordatevi di dire che era per
legittima difesa!- si lasciò scivolare sulla poltrona,
appoggiandosi completamente allo schienale. –Contattami
quando vedete la costa- sorrise. –Sì, ma fate
attenzione, a presto…- sospirò, e portandosi un
dito all’orecchio, digitò un tasto
sull’auricolare interrompendo la chiamata.
I suoi occhi stanchi incontrarono finalmente i
miei, fulminandomi con un’occhiata così serena che
mi lasciò un poco sospettosa della situazione.
–Sconvolta, eh?- ridacchiò.
-Ha ordinato di far rientrare gli Angeli?-
domandai lasciandomi scappare un sorriso poco sincero.
-Sì- fece Martin sistemandosi
più comodo. –Esattamente- sospirò di
nuovo.
-Come mai?- insistei.
-Non ci arrivi da sola?- fu la sua
contro-domanda.
Rimasi a pensarci per poco. –Alex?-.
L’uomo annuì.
-Ma perché?- eruppi. –Con un
giusto addestramento potremmo farcela anche da soli. È stato
imprudente lasciare che l’affrontassimo così
presto, ma non ricapiterà e ci vorrà del tempo
prima che si faccia di nuovo vivo, ma come le salta in testa di
richiamare gli Angeli dall’Europa?!- strillai.
–Scusi, ma è una follia!- aggiunsi lasciandomi
sprofondare sullo schienale della poltroncina.
Martin si allungò sul tavolo e
afferrò una bottiglietta contenente forse qualcosa di
alcolico. Lo versò in un bicchierino che doveva aver
svuotato più volte durante la giornata e bevve il tutto in
un sorso solo. –Vuoi?- mi chiese tranquillo.
Scossi la testa. –No,
grazie…- mormorai abbassando il tono.
-Emily, sai perché ti ho convocata
qui?-.
-No, ma quello che so è che due dei
miei compagni di clan stanno morendo, ed ora dovrei essere
lì al loro fianco! Perciò, se non le dispiace e
non ha nient’altro da dirmi se non confessare le sue pazze
idee, avrei intenzione di…- feci per alzarmi.
-Resta dove sei, Walker- sbottò
d’un tratto, più freddamente di quanto mi
aspettassi.
Gli volsi un’occhiata sperduta, confusa
forse. –Quindi c’è altro-.
-Sì, ovvero il motivo per il quale ti
ho chiamata con urgenza in questo studio- disse riempiendo
un’altra volta il bicchierino.
-E cioè?-.
-Voglio che tu sappia che da domani in poi,
lavorerai da sola-.
Sbiancai, cambiando letteralmente colore di
pelle. Un brivido impercettibile mi scivolò lungo la spina
dorsale. –C-c-cosa?-.
-Hai sentito bene- assentì severo.
–Hai chiuso con il clan. Da domani sei un giocatore singolo,
come del resto hai sempre preferito, non è così?-
inarcò un sopracciglio.
Cercai di frenare l’impulso di
saltargli addosso e strangolarlo come si deve, sentendomi prima di
tutto offesa da quelle parole. –Che cazzo dice?!- mi lasciai
sfuggire.
Martin, tranquillissimo come al solito, giunse le
mani a mezz’aria poggiando i gomiti sui braccioli.
–L’unico Angelo che può davvero dare la
caccia a Mercer sei te. Mi sono reso conto di aver fatto un grande
sbaglio mandando al “macello” anche gli altri,
nascondendo la mia gallina dalle uova d’oro dietro di loro.
Ti sto chiedendo di perdonare questo mio errore e di comprendere a
pieno quale sia la tua vera natura; una natura che hai sempre saputo di
avere, ma che continuavi ad ignorare giorno dopo giorno volendoti
sentire uguale agli altri, forte come gli altri!- disse profetico,
incantandomi.
-Non la seguo…-.
-Sei speciale, Emily, lo sei sempre stata, e non
è la prima volta che te lo senti dire da me-.
-Lo so, ma se non sbaglio- sghignazzai
–anche lei è come me- lo fulminai con
un’occhiataccia che lo lasciò boccheggiante per
alcuni secondi.
-Esatto!- proruppe in ritardo.
–Esattamente, Emily, io sono come te, e te sei come Mercer.
C’è un fattore nel vostro sangue che vi accomuna,
ma non posso dirti di più. Quando le analisi hanno riportato
i risultati, quando ti accolsi tra le mie braccia…-.
Quando
mi trascinasti a forza tra le tue braccia! Corressi.
-Quando diventasti una di noi… non
potevo credere ai miei occhi. La perla più lucente della
collana stava brillando tra le mie mani. Ho voluto insegnarti prima le
fondamentali del combattimento, affiancandoti ai membri del tuo clan,
assegnandoti dei coordinatori; volevo che ti sentissi normale,
all’inizio, così da poter testare le tue vere
capacità una volta apprese le basi-.
-Lei è molto ripetitivo, signore- lo
punzecchiai.
-Tendo ad ampliare i concetti spiegandogli
più volte, è nella mia natura di insegnante-.
-Lei insegna?- mi stupii.
-Insegnavo- mi corresse.
-Cosa? Dove?- tutto pur di posticipare le cose.
-Harward. Scienza e anatomia mutante-.
-Foooorte!- risi.
-Sì, lo era molto,
all’epoca…- mormorò soprappensiero.
–Quando tutto si fa per finta, per gioco, è molto
foooorte- ridacchiò, ed io con lui. –Ma poi il
Virus, i mutanti, e in fine lo stadio più avanzato di
entrambe le cose…- sussurrò.
-… Alex Mercer- completai io.
-Esattamente-.
-La smetta di dire esattamente- sbottai.
-Perché?- chiese allegro.
Mi strinsi nelle spalle. –Mi fa sentire
come se fossi…-.
Martin si allungò verso di me.
-… a scuola?- ipotizzò.
-Sì!- risi. –Esatto!-.
-Tornando alle nostre questioni…- si
schiarì la gola cercando qualcosa in un cassetto della
scrivania.
-Davvero vuole escludermi dal mio clan?- domandai
in un sussurro, scettica quasi.
L’uomo trovò quello che
stava cercando e mi fissò allungo negli occhi.
–No, assolutamente no. Non ho detto mica che verrai esclusa
dai tuoi simili, per carità! Solo… i tuoi
addestramenti di preparazione si svolgeranno in altro luogo, ma per il
resto…-.
-Addestramenti…- rabbrividii.
–di preparazione?- ingoiai il groppo che avevo in gola.
L’uomo adagiò lentamente sul
tavolo una cartellina trasparente, l’aprì e vi
trasse dei fogli. –Ma come?- chiese. –Pensavo che
avessi capito che solo tu puoi fermare Mercer-.
Mi strinsi le braccia attorno al ventre, sentendo
un certo rigetto salirmi dallo stomaco.
-…Perché?- domandai
flebile; mi sentivo male alla sola idea di ritrovarmi faccia a faccia
con quella bestia.
-Emily, te l’ho detto-
sbottò serio Martin. –Ci sono dei potenziali che
non immagini neppure di avere, e sono questi potenziali che la scorsa
settimana ti ho chiesto di tirare fuori durante
l’allenamento. Sfortunatamente non è successo,
forse non eri abbastanza motivata, non so, gli Alchimisti stanno
studiando la situazione con molta attenzione, ma devi trovare un modo
per tirare fuori il mostro,
se così può esser chiamato, che
c’è in te-.
-Si spieghi meglio…-.
L’uomo sospirò pesantemente.
–Questa conversazione potrebbe non essere piacevole, e lo
capisco, ma devi sforzarti di prestare attenzione, Emily- disse.
-La sto ascoltando, ma…-.
-Ma?!-.
Alla fine cedetti: mi alzai con un gran frastuono
e battei con violenza i pugni chiusi sulla scrivania, che a quel
contatto ballò per intera. –In questa situazione
di merda mi ci ha ficcato lei, ora trovi un modo per farmene uscire!-
lo minacciai, cominciando a tramutare le braccia in qualcosa di
più appuntito.
L’uomo si alzò in piedi
all’istante, sovrastandomi in altezza. –Adesso
calmati- mi ordinò.
-Non voglio andare là fuori da sola e
dovermi confrontare con Alex a mani nude!!- sbottai sempre
più arrabbiata. –Ha visto di cosa è
capace quel bastardo!? Ha visto come ha ridotto 50 Angeli in un solo
colpo?! Un solo colpo!! Ed io non sono forte neppure quanto la
metà di loro!-.
-E’ qui che ti sbagli…-
mormorò con malizia il vecchio.
-Ah!- alzai gli occhi al cielo, gettandomi di
nuovo seduta sulla poltroncina. –Allora avanti! Mi dica con
precisa esattezza come ammazzo Mercer e facciamola finita! Se lei mi da
le chiavi, io guido la macchina, signore, ma voglio anche la patente-
lo fulminai con un’occhiataccia.
-Mi stai dicendo che accetti?- fece sbalordito
Martin, restando in piedi come uno stoccafisso.
-No- borbottai. –Le sto dicendo che
accetterò solo se lei mi dice qualcosa di più su
come faccio a metterlo K.O… insomma- cominciai io.
–Riesco a mettere a tappeto un gruppo di infetti, qualche
cacciatore, ma lo sforzo è abnorme, signore!- mi sporsi sul
tavolo. –E anche tre giorni fa, quando Alex si è
fatto vivo, io…- esitai, scuotendo la testa. –Io
non ho retto più di una decina di secondi uno
“scontro” con lui. Come un’idiota mi sono
gettata dal tetto della base pretendendo chissà cosa, e come
un’idiota mi sono sfregiata mezza tuta e distrutta le ali!
Ecco cosa mi turba, signore, è questo il motivo per cui non
le presto attenzione! Non riesco a credere che solo io, e ripeto, io
soltanto abbia la forza di combattere Mercer, quando qui dentro ci sono
Angeli molto più esperti e capacitati…- mormorai
affondando il mento nel petto. –Il mostro che
c’è dentro di me…- aggiunsi.
–Non è che potrebbe spostarlo a qualcun altro?-
chiesi.
-Che domande! Ovvio che no, ragazza mia. Non
possiamo fare un trapianto di sangue completo, non è ancora
stato inventato un modo per farlo!- ridacchiò.
-E allora mi spieghi, come le dicevo prima- dissi
io. –Oh, meglio ancora!- esultai. –Mi dica
perché non può farlo lei, dato che sostiene la
nostra somiglianza. Quello che ho io, ce l’ha anche lei, e
quello che abbiamo noi ce l’ha anche Mercer. Quindi si tratta
di una battaglia ad armi pari…- mormorai soprappensiero.
–Ma allora che senso ha, scusi?-.
-Emily- Lewis tornò seduto sulla sua
poltrona e mi guardò dritto negli occhi. –Certe
volte i nostri nemici necessitano di essere abbattuti con le loro
stesse armi- assentì profetico.
-Io e Alex non siamo uguali- sbottai.
–Sono sicura al cento per cento che quello che
c’è in me non è affatto simile a quello
che hanno fatto a lui. E’ impossibile, conosco la storia di
Alex, lui…-.
Il vecchio m’interruppe bruscamente: -A
otto anni tua madre ti perse a Central Park. Cosa ricordi di quella
giornata?- mi chiese d’un tratto.
-Che…- feci confusa.
-Rispondi alla domanda!- eruppe.
-Nulla! Non ricordavo neppure che…-.
-Ti dice nulla il nomignolo “Blackwatch”?-
sorrise compiaciuto.
Di nuovo quel brivido lungo la schiena.
-… certo- balbettai. –Ma cosa c’entrano
loro con me?!- cominciavo a spazientirmi di quella conversazione.
Il vecchio tese le labbra in un sorriso
tutt’altro che caritatevole. –Ti stai ancora
domandando cosa ti successe quella mattina ad otto anni?-
formulò. -Ti stai ancora domandando perché non
ricordi nulla, Emily?...-.
Alla fine feci due più due, e il
risultato mi lasciò senza parole.
Anzi.
Le parole ce le avevo, m’imposi di
dirle subito, prima di dimenticarmele.
Mi alzai lentamente dalla poltrona e feci alcuni
passi indietro, dando le spalle all’ingresso dello studio.
–Io…- mormorai. –Io…- ripetei.
Lewis Martin mi squadrò allungo da
capo a piedi. –Il mio Arcangelo ci sta forse pensando?-
ridacchiò.
-Io… devo rifletterci sopra- le ultime
parole famose, poi mi voltai, aprii la porta e uscii di corsa
dall’ufficio.
Allora… <.<
Su questo capitolo ho da dire
qualcosinainainaina.
La trama contorta di Prototype mi sfugge tutte
le volte che tento di scrivere qualcosa per questa ff che sia inerente
al gioco, e ovviamente la mia compagna di sventure preferita (anche
l’unica che possiede la guida ufficiale del gioco!) si
dilegua nel momento del bisogno! >.> ‘Naggia,
però! -.-‘ Ma insomma, quello che intendevo
rivelarvi a proposito di questo post, che credo sarà anche
l’ultimo per questa ff da qui ai prossimi 20 giorni,
è che… nonostante abbia ricominciato il gioco da
capo, ancora non ci capisco una mazza! Sarà che i
sottotitoli mi danno sui nervi, sarà che m’incanto
a guardare il protagonista sbavando sullo schermo della tv,
sarà che impazzisco e mi dimeno per la città
senza un cavolo da fare perché le missioni mi annoiano! (La
gran parte delle missioni le fa mio fratello, e quel bastardo si
è anche cuccato il filmato finale mentre io andavo a
prendere un bicchiere d’acqua!!!!) ecco, saranno tutti questi
piccoli particolari che fanno di me una gran smemorata. Domani mattina
mi sveglio presto e mi attacco alla console per una buona oretta
intensiva, così vediamo se ho qualcosa da ridire e
correggere per questo capitolo.
Ma nel frattempo
^^’’’ eheh, ditemi la vostra! XD
Ora scappo!
Saluti a tutti gli amabili recensori del
chappo precedente, e… a presto!
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Capitolo 11 *** Capitolo 11° - L'arma più potente/Conoscere il nemico ***
Capitolo 11°
- L’arma più potente/Conoscere il nemico
Quando
credevo che avrei continuato a correre, scappando da quel luogo,
allontanandomi sempre più e nel minor tempo possibile,
invece mi fermai. Solo allora mi voltai, accorgendomi di due uomini
seduti su delle poltrone sistemate in una saletta. Erano Angeli, lo
vidi bene dalle loro uniformi attillate e il casco che ciascuno di loro
portava sotto braccio. Sembravano in ottima forma, energici e
completamente risanati dopo lo scontro con Mercer di qualche giorno
prima. Anzi, vi dirò, non sembrava affatto che avessero
ingaggiato battaglia!
La mia
improvvisa comparsa davanti alla sala d’attesa, nella quale
si trovavano ad attendere il loro colloquio con Lewis, aveva suscitato
in entrambi un emerito interesse nella mia figura, mentre io, immobile
e succube al loro sguardo curioso, tentavo di assumere
un’espressione in viso meno raccapricciante.
-Si
sente bene, signorina?- mi chiese uno dei due preoccupato.
L’altro
aggrottò la fronte. –Sembra che ha appena visto un
fantasma…-.
-In
effetti…- mormorai piegando la testa da un lato.
Decisi
di ignorarli del tutto, riprendendo a camminare a capo chino verso
l’ascensore sulla fine del corridoio. Si era radunata non
poca gente attorno all’ufficio di Lewis in quei pochi minuti:
Angeli, Alchimisti e coordinatori presi dal panico dovuto al ricordo
della comparsa di Mercer, il cui nome di lì a tre giorni
ancora suscitava scalpore per la base.
Pigiai
sul tasto di chiamata per l’ascensore e attesi.
Dopotutto
non mi aspettavo che le cose restassero invariate, neutrali
all’accaduto. Alex era penetrato tranquillo a Phoenix e zitto
zitto era strisciato sotto i nasi dei segnalatori nel corridoio e
all’interno dei laboratori, settati per riconoscere il suo sangue.
Ma di
conseguenza, anche il mio.
Tale
pensiero mi turbava parecchio: se io che avevo lo stesso gene di Mercer
nel sangue potevo passare inosservata per i piani della base, allora
poteva farlo anche lui. Questo voleva dire che gran parte del settore
di sorveglianza era gestito manualmente, e siccome all’uomo
umano è concesso distrarsi, delle volte questo
può causare delle viste. Sviste che a loro volta generano
altre sviste, e così via fino alle battaglia apocalittiche
sul tetto della base. Una catena di eventi inevitabili che stava
creando disordine e scompiglio. Non eravamo preparati ad affrontare
Mercer, non ci eravamo addestrati abbastanza, pensavo io entrando nella
cabina. Ma poi le parole di Martin mi tornavano alla mente,
costantemente nelle orecchie e a premermi sulle tempie, quasi potessi
sentire il dolore che mi provocavano simile al colpo di un martello.
Ta!
Ta! Ta! E ancora, e ancora le immagini della nostra discussione di poco
prima. Ed io che mi sforzavo di ricordare qualcosa dei miei otto anni
di vita.
Mi
appoggiai alla parete dell’ascensore con una mano, adagiando
la fronte a contatto col fresco metallo della cabina. Sentivo che il
cervello stava per esplodermi, surriscaldandosi impazzito. Avevo
bisogno di chiudere gli occhi, di distrarmi con dell’altro
che non riguardasse nulla della vita che avevo condotto fin ora. Per
esempio, mi venne un’improvvisa voglia di gelato, alla crema
magari, con panna montata e cioccolato, tanto cioccolato. Il mio goloso
desiderio, però, mi riportò lo stesso ad una
tragica giornata di tredici anni fa…
È
un rigoglioso prato verde luminoso. Il sole splende alto in cielo, i
bambini giocano sulle giostre e a pallone sull’erba. Il vento
soffia tra le foglie degli alberi in fiore, sistemati lungo il vialetto
che sta percorrendo di corsa una bambina con un cappottino rosso
acceso. Indossa anche delle ballerine nere con un fiocchetto rosso,
assieme a dei pantaloncini corti fino a metà coscia,
arrotolati. I capelli neri acconciati con un taglio corto e infantile
che le addolcisce il viso tondo, da bimba. Il sorriso stampato sulle
labbra, le guance arrossate e gli occhi azzurri che durante quella
stagione brillano di tutta la loro tinta celeste. Sta ancora correndo,
seguendo la stradina sterrata contornata dagli alberi, e finalmente
giunge a destinazione, dopo aver traversato quasi metà
parco. È stanca, ha il fiato corto e il cuore che batte
forte nel petto, forte e velocissimo.
Si
ferma davanti la bancarella dei gelati, attende il suo turno facendo
come tutti la fila, e quando finalmente tocca a lei, si avvicina piano.
Il
giovane dietro il banco le sorride divertito salutandola con un gesto
della mano. –Dimmi pure, piccola-.
-Crema
e cioccolato- risponde lei sistemandosi la frangia via dagli occhi.
-Va
bene, Cono o coppetta?-.
-Cono!-
ridacchia.
-Con
o senza panna?- il signore estrae un cono dalla fila di cialde e
attende la sua risposta.
-Con
la panna, grazie!- annuisce la bimba.
Mentre
il ragazzo dei gelati le prepara la sua ordinazione, la bimba mette la
mano nella tasca del cappottino rosso e stringe i cinque dollari che le
ha dato la mamma tra le dita. Sta per pagare, poggiando la carta
accanto alla casa della bancarella, ma d’un tratto al fianco
della bimba compare un uomo alto e vestito un po’ tutto di
nero.
-Lascia,
pago io per te, piccolina- le sorride affabile lo sconosciuto, che
subito poggia un’altra banconota da piccolo taglio sul
bancone.
La
bimba arrossa ancora più le guance e, lentamente, ricaccia i
soldi della madre nella tasca del cappotto.
–Grazie…- mormora con gli occhi sgranati.
Il
signore termina di preparare il suo gelato e glielo porge, sorridendo
sia a lei che allo sconosciuto al fianco di lei.
–Arrivederci- sorride.
La
bimba stringe il cono con due mani e si allontana dalla bancarella,
incamminandosi verso il vialetto che ha percorso all’andata.
Con ancora la lingua di fuori e pronta a dare la prima appetitosa
leccata alla crema, una goccia di cioccolato le casca sul colletto del
cappottino. –Oh, no…- lagna lei.
L’uomo
che le ha offerto il gelato le si avvicina da dietro e le passa un
fazzolettino di carta. Lei lo afferra e ringrazia timidamente,
diventando tutta rossa in viso.
-Come
ti chiami?- domanda lui.
-Emily…-
mormora pulendosi la macchia.
-Emily
e basta?- chiede ancora il signore, ridendo.
-No!-
sbotta lei. –Emily Walker- corregge.
Tornai
in me battendo la testa al muro. Respiravo con affanno, il cuore
cominciò a battermi all’impazzata improvvisamente.
Mi appoggiai di spalle alla parete dell’ascensore, e mi
lasciai scivolare fino a terra. Grondavo sudore per lo sforzo di
reprimere il dolore fisico che mi dava rivivere quei ricordi. Un solo
secondo di salto nel passato, mi mozzava il fiato in gola, lasciandomi
ansimante. Mi portai le mani alle tempie, e tentati in tutti i modi di
comprimere il fastidio. Mi lasciai sfuggire dei gemiti assurdi, delle
volte alcune grida che ero sicura non sarebbero passate inosservate
attraverso quelle quattro mura.
-Che..
che mi sta succedendo?!- strinsi i denti, e così anche i
pugni, ma un nuovo flash di ricordi mi attanagliò le viscere
dall’interno, puntando allo stomaco.
Soffitti
e pareti grondanti e colorate di sangue. Sussurri di voci che non
credevo di aver mai udito, grida, probabilmente le mie,
un’esplosione! Suoni e immagini confuse di lunghi corridoio,
visi nascosti da maschere bianche, armi, edifici in fiamme, e ancora
urla di altra gente, tra le quali si mescolavano le mie.
Un
crampo, una tensione di muscoli assurda, intollerabile interruppe il
filo di quelle istantanee. La vista mi si annebbiava quasi del tutto,
ero uno spasmo continuo lungo braccia e gambe. Rannicchiai le ginocchia
al petto ed iniziai a provare poco a poco un briciolo di sollievo.
E solo
allora capii che cosa mi stava succedendo: ciascuno dei ricordi che mi
entravano e uscivano dalle orecchie, riportava in me e di conseguenza
nel mio corpo una reazione fisica asseconda del ricordo stesso. La fame
di gelato provata ad otto anni in quella mattina estiva,
così come i giorni di dolore trascorsi tra iniezioni e
tentativi sperimentali scientifici per mano dei Blackwatch.
Le
porte dell’ascensore si aprirono in quell’istante,
accompagnate da un campanello.
Mi
ritrovai a guardare nella sala centrale dell’infermeria, ora
popolosa di una dozzina di scienziati impiegati in una collettiva
conversazione.
Bastò
soltanto che uno di loro mi notasse, e come il domino tutti quanti si
precipitrono attorno all’ingresso dell’ascensore.
-Ha
avuto uno shock!- eruppe una donna avvicinandosi a me e aiutandomi ad
alzarmi. In suo soccorso venne un altro dottore, mentre degli altri si
gettavano a caccia di una barella sui cui trasportarmi.
Una
volta in piedi, mi stanziai con uno strattone dalla dottoressa.
–Sto bene!- eruppi sfrontatamente, con un ghigno malsano e
furioso sul volto.
Mi
allontanai dalla sala prima che potessero seguirmi o solo intuire dove
fossi diretta. Mi avventurai per i corridoi dell’infermeria e
mi allontanai il più possibile di lì, cominciando
involontariamente a correre.
Svoltai
l’angolo e andai a scontrarmi contro qualcuno che capitava
nel posto sbagliato al momento giusto. Ci schiantammo entrambi sul
pavimento, e solo accorgendomi su chi fossi completamente sdraiata
riuscii a calmarmi del tutto.
-…Cole!-
sussurrai con sorpresa, ritrovandomi tra le sue gambe mentre alcune
ciocche dei miei capelli gli cadevano sul viso.
Il
ragazzo mi guardò interrogativo un po’ troppo
allungo, forse non ricordandosi di me. -… Emily?-
assentì poi.
Mi
sollevai in piedi con un balzo, e gli porsi una mano aiutandolo ad
alzarsi. –Scusami, io… non ti avevo visto
e…-.
-Ti
hanno dimessa- commentò lui spolverandosi la maglietta.
–Così presto?- fece stupito.
-Da
non credere, eh?…- borbottai.
-Cosa
ci fai qui?- domandò.
-Ecco…-
esitai, non ricordando neppure il motivo per il quale fossi capitata
lì. –Cosa ci fai tu qui!-.
Il
ragazzo aggrottò la fronte. –Che domande, mi sono
svegliato dal coma meno di un’ora fa e già la
gente mi si scanna addosso-.
-Mi
spiace tanto, davvero…-.
-Non
darti pena- mi sorrise affabile. –Scommetto che hai un buon
motivo per avere tanta fretta- aggiunse altrettanto amabilmente.
-Sì,
infatti…- e d’un tratto ricordai ogni aspetto di
quella mattina, dal risveglio nella stanza dell’infermeria
fino alla discussione con Martin di poco fa. Guardai Cole dritto negli
occhi per la prima volta da quando l’avevo scontrato in
corridoio. –Sì, infatti stavo andando a trovare un
mio compagno del clan- dissi.
-Ah,
capisco. Allora ti lascio libera la strada- si fece da parte
continuando a tenere quel sincero sorriso sulle labbra.
-Ci si
becca in giro!- lo salutai incamminandomi.
-Veramente,
pensavo che Lewis dovesse farci un discorso, questo pomeriggio a mensa-
mi comunicò già lontano.
Mi
fermai all’istante. –Davvero?-.
Il
ragazzo si strinse nelle spalle. –Appena rilasciato, un
coordinatore mi ha detto che Lewis sta organizzando un raduno di massa
alla mensa per farci uno dei suoi soliti cazziatoni molto alla
Mussolini!- ridacchiò.
Mi
lasciai sfuggire una risatina, e pensai che probabilmente Martin non
aveva fatto in tempo ad avvertirmi prima che lasciassi il suo studio
con quella faccia sconvolta che avevo fino a poco fa.
-Va
bene, allora ci vediamo là- sorrisi. –Ora devo
andare!- e scappai di nuovo correndo.
Non
seppi come, non seppi perché, ma raggiunsi la stanza che
stavo cercando e, del tutto d’istinto, entrai con lentezza
nella camera d’osservazione che affacciava con una vetrata
sulla sala operatoria.
Harry
e Lucy erano già lì, in piedi, rigidi come
tronchi a guardare attraverso la vetrata. Sotto i ferri, al piano
inferiore, c’era il nostro capo clan, circondato da un numero
imprecisato di Alchimisti.
Mi
affiancai alla ragazza lì presente, senza staccare gli occhi
dal corpo del comandante addormentato sotto le lenzuola, steso in una
posa innaturale, come se qualcuno ce l’avesse gettato sopra
quel lettino di metallo. Fu raccapricciante, orribile vederlo in quello
stato: incubato fino all’ultimo centimetro di pelle libera,
addormentato in un sonno insano e agitato che lasciava il suo corpo
vittima di continui spasmi.
Per
l’ampia camerata si spostavano agitati un gruppo di
Alchimisti che armeggiavano con siringhe, aghi, tubi, misurando la
frequenza cardiaca del ragazzo e tenendo conto delle
attività interne con rigorosa attenzione.
-Come
sapevi dove trovarci?- chiese Harry in un sussurro, senza distogliere
lo sguardo.
Molto
sinceramente… non lo sapevo. Mi ero gettata in quel
corridoio non sapendo affatto dove fossi diretta e cosa stessi
cercando, poi, forse l’istinto, forse gli assurdi stessi
poteri che muovevano anche nelle vene di Alex, mi avevano condotta
lì. –Un’infermiera mi ha detto
tutto…- mentii tranquillamente.
Lucy
dimezzò la distanza che c’era tra me e lei e mi
strinse un braccio, avvinghiandosi al mio gomito. Poggiò una
guancia sulla mia spalla e la lasciai fare.
-Emmett
come sta?- sussurrai ad Harry.
-Meglio,
molto meglio di Philip, se è quello che
t’interessa sapere…- rispose lui.
-Non
ce la farà, Emily- tirò su col naso la ragazza.
–Phil non ce la farà…-.
-Come
fai a dirlo?-.
-Gli
Alchimisti lo stanno spegnendo ora- la precedette il ragazzo.
-Perché?!-
eruppi.
-Non
ce la farà, Emily!- ruggì Harry voltandosi del
tutto verso di me. –Abbiamo provato a convincerli, abbiamo
tentato di farli ragionare, ma quei pazzi figli di puttana non vogliono
saperne! Il colpo inferto dagli artigli di Alex l’ha reso
invalido per metà, l’ha diviso completamente a
metà!- gridò improvvisamente. –Se anche
mantenessero le cure, non avrebbe senso! Fuori dalla base, Philip non
camperebbe un solo giorno! Credimi, abbiamo fatto di tutto, volevamo
parlare con Martin, chiedere il favore a lui di…-.
-E
allora li farò ragionare a modo mio!- eruppi scostandomi con
violenza da Lucy, la quale però mi tenne inchiodata
dov’ero.
-Che…-.
-No-
fece lei fulminandomi con un’occhiataccia.
–E’ stato Lewis stesso a prendere questa decisione
per Phil, e noi non ci opporremo. Sa quello che fa. Ho fiducia in lui-.
Non
potei credere che l’avesse detto. -Tu non
capisci…- alzai gli occhi al cielo. –A Martin non
frega un emerito cazzo di voi! Non gli frega niente di nessuno qui
dentro!-.
-Come
fai a dirlo, sentiamo?- sbottò Harry lunatico.
-Ma vi
ha fatto il lavaggio del cervello mentre eravate in coma?! Vi rendete
conto di cosa state dicendo?!-.
-Lewis
Martin è un buon uomo, Emily- disse Lucy sincera.
–Senza di lui, tutto questo non sarebbe possibile, e
Manhattan sarebbe ancora abbondante di infetti. Dobbiamo a lui la
salvezza di New York, e fino ad un momento fa credevamo che tu la
pensassi come noi!- fece stupita.
-Ammetto
di averlo creduto, per un periodo, ma poi…- esitai.
-Poi
cosa?!- eruppe Harry.
-Ma
poi Alex…- feci una pausa, non sapendo come continuare, non
volendo incappare in quelle questioni private che bastava poco che ci
scappasse un’altra crisi tipo quella passata in ascensore.
-…Tutta la storia della Gentek, i Blackwatch, e ora noi!
C’è qualcosa che non mi convince in questa
faccenda…-.
-Chi
ti ha messo in testa certe idee?- domandò pungente il
ragazzo.
-Lo
stesso uomo che ha messo in testa a voi quelle sbagliate- sbottai
acida.
-Alex
Mercer è il nemico- proruppe Lucy. –Guarda cosa ha
fatto a Phil! Guarda cosa ha fatto ad Emmett, a te e a tutti noi!-
spalancò le braccia, affiancandosi ad Harry che stava dalla
sua stessa parte. –Non devi ringraziare Martin se ora il
nostro capo clan sta morendo, ma tutt’altra persona, Emily!
Si può sapere cosa è cambiato in te in queste
ultime ore?!- mi strillò contro. –Ti credevamo
nostra sorella…-.
La
loro era una meritevole reazione di difesa alle mie accuse. Non potendo
minimamente immaginare di cosa avessi discusso con Lewis circa
un’ora prima, non mi aspettavo che potessero capire
l’enorme sbaglio di pensiero che si erano fatti su cosa
fossero realmente gli Angeli. Cosa fossero realmente loro, cosa che non
ero anch’io.
Martin
li aveva chiamati “copertura”, il muro dietro il
quale nascondere quegli unici veri esemplari come me. Avrei voluto
parlare loro della verità, avrei voluto riallacciare
l’argomento magari in un momento meno delicato. Due dei
nostri compagni di clan ci stavano lasciando, ma nonostante sapessi
bene che la colpa fosse unicamente di Lewis, continuavo a darmi della
stupida, domandandomi cosa ci stessi a fare lì,
perché fossi rimasta, e perché non me ne fuggivo
tutt’altra parte.
La
questione stava entrando nel dettaglio. Lucy ed Harry si erano accorti
che in me era cambiato qualcosa, qualcosa di dannatamente drastico e
peggio pericoloso. Sapevo di potermi fidare di loro, ed ero certa che
parlandone e condividendo con qualcuno la situazione sarebbe potuta
solo migliorare. Dopotutto Martin non mi aveva chiesto di tenere la
bocca chiusa, non mi aveva esplicitamente ordinato di tenere la cosa
nel silenzio, nel buio e nell’oblio della mia memoria
mancante, in quel buco dove un tempo c’era stata una grossa
fetta di torta, di cui ora restavano solo poche briciole.
Un nome mi balenò davanti agli occhi:
Alex Mercer... L’improvviso
e inatteso vuoto attorno alla bocca dello stomaco era la mancanza di
ricordi, la necessità di sapere, di unirmi alla sua causa
che d’un tratto sentivo divorarmi. Cominciai di conseguenza a
considerare la possibilità che avevo di fuggire,
abbandonando il settore Angeli della base Phoenix e andando
per la mia strada, esattamente come aveva fatto lui.
Avevo
terribilmente paura di questa scelta. Non avevo idea di cosa mi sarei
trovata ad affrontare, quali pericoli, quali nemici, ma non solo. Quali
domande ancora senza risposte… e poi diventare consapevole
che la fame di vendetta che l’aveva divorato avrebbe presto
attanagliato anche me, era l’ultimo dei miei pensieri, ma la
prima delle mie fobie.
Ma
allora perché io riuscivo a controllare la mia rabbia ed
Alex no?
Rapirmi
da piccola era stata una mossa saggia. I Blackwatch hanno potuto
rimuovere del tutto quei miei ricordi, rimpiazzandogli con degli nuovi.
Hanno permesso che tornassi dalla mia famiglia, che mi rimescolassi
alla gente comune, crescendo come gli altri, cercando in tutti i modi
di sentirmi come gli altri.
Aspettavano.
Aspettavano che il Virus maturasse, forse più lento in me
per quanto lo sia stato in Alex ed Elizabeth.
Martin
non aveva fatto altro che ripetermi lo stesso concetto più
di una volta.
Lui
per primo mi aveva accolto tra le sue braccia e istruito a diventare
qualcosa che non sarei mai potuta essere. Qualcosa che non era destino
che fossi, qualcuno
che in futuro, se le cose fossero andate diversamente, avrei desiderato
essere.
La mia
vita si stava limitando attorno ad un’area di scelta nella
quale non avrei mai immaginato di incappare.
Da una
parte, forse quella del bene ma chi lo sa, c’erano Lewis
Martin, Lucy, Harry, i miei amici, insomma; gli Angeli e tutti i
partecipanti attivi al progetto Gabriel.
Ci accomunava un’esistenza dedicata alla lotta contro il
Virus, lo schieramento di una battaglia nella quale ero cresciuta e
dalla quale mi sarebbe venuto troppo difficile staccarmene.
Dall’altra,
forse quella del male… Alex Mercer e la caccia alla vendetta
che avevamo in comune. Lo stesso sangue infetto, mutante, residuo del Paziente Zero, che
avevamo nelle vene mi stava lentamente trasportando verso i suoi
ideali, e altrettanto lentamente stavo capendo ogni suo pensiero,
comprendendo ogni suo tormento, assaggiando il suo dolore. Diventavo
capace di prevedere le sue mosse, di anticipare le sue vittorie e le
sue sconfitte.
Stavo
entrando nella sua mentalità, nella mentalità del
mio nemico.
Era
questa l’arma più potente che avevo contro di lui.
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Capitolo 12 *** Capitolo 12° - Perdono e vendetta ***
Capitolo 12°
- Perdono e vendetta
Giorno
dell’infezione 387°
Popolazione
mondiale infetta: 06,02%
«L’Angel
1-9-0 Philip McGuire morì quella sera alle ore 7.22 pm.
Lucy
scappò a piangere nella sua stanza ed Harry andò
con lei a consolarla, mentre io restavo del tutto scettica di fronte al
macchinario che segnalava i battiti cardiaci del ragazzo steso sul
lettino di metallo. Guardavo immobile il suo viso tutt’altro
che sereno: contorto in una smorfia di alta sopportazione del dolore, i
capelli scompigliati e sudati alla radice, i pugni stretti lungo i
fianchi, sotto le coperte. La mani fredde, ma così fredde
che quando gliene sfiorai una mi sentii bruciare il polpastrello.
In
sala operatoria avevano tentato invano con le trasfusioni, ma la
quantità assurda di virus che gli iniettarono e che avrebbe
dovuto salvarlo, invece di contribuire alla rigenerazione dei tessuti
muscolari, aveva avuto l’effetto contrario, corrodendo le
ossa e i legamenti, e di conseguenza gli organi interni.
Phil,
in conclusione, era morto ucciso dagli stessi Alchimisti che
l’avevano creato forte e potente affinché
coordinasse la nostra squadra e diventasse un valoroso capo clan.
Quando
i medici accompagnarono il suo lettino fuori dalla sala operatoria e lo
abbandonarono in una fredda stanza piena zeppa di altri cadaveri
(vittime dell’assalto di Mecer di tre giorni prima) io, Harry
e Lucy ci risparmiammo la terribile visione di entrare là
dentro a dargli gli ultimi saluti. Lewis, bestia che non era altro, non
ci aveva neppure lasciato il tempo di vederlo un’ultima volta
prima che il suo corpo venisse congelato assieme agli altri. Dopo di
allora, la mia compagna di clan e Brown si segregarono altrove a
rimuginare su quello che avrebbero potuto fare se solo fossero stati
più abili e forti, di come avrebbero potuto sbarazzarsi di
Alex se avessero preso meno alla leggera la situazione.
Ma io
continuavo a dargli degli stupidi, quello che stavano facendo era del
tutto inutile!
I loro
piagnistei e le loro lacrime non avrebbero riportato McGuire tra noi
come per magia, e in tutti modi avevo tentato di riportarli coi piedi
per terra, insistendo sul fatto che fosse tutt’altro che
colpa loro.
L’unica
idiota che aveva sottovalutato la situazione ero stata io, fin dal
principio, quindi sarebbe toccato a me farmi l’esame di
coscienza nell’angolino della stanza.
Ma non
lo feci: troppo orgogliosa, fuggii dai corridoi
dell’infermeria prima che qualcuno riuscisse a scoprire dove
fossi diretta ed evitai il più possibile facce conosciute.
Mi fermai solo quando raggiunsi l’androne che precedeva la
mia e la stanza degli Angeli che componevano il mio clan. Mi avviai
nella mia camera e trovai le mie vesti da Angelo ad attendermi ben
ripiegate sul letto. Mi stupii piuttosto di non trovarvi né
il casco né alcuni degli ammennicoli che servivano ad
ampliare i miei poteri in combattimento, ovvero tutte quelle fiale e
granate che portavo legate agli avambracci in casi di estrema
necessità. Indossai la parte superiore
dell’uniforme e misi a lucido le mie scarpe; strinsi per bene
la cinta dei pantaloncini e mi avvicinai alle vetrate, sfiorandole con
una mano, ammirando l’esterno.
Avrei
voluto uscire, scappare da questo posto e dirigermi a Manhattan,
schizzando tra i palazzi e cominciando da subito la mia caccia a quel
bastardo. Infondo avevo già raggiunto un grado piuttosto
elevato, nel settore; acquisito anche un po’
d’esperienza per via di un nostro sbadato primo incontro,
perciò mi ritenevo più che pronta a confrontarmi
di nuovo con Alex. Ma invece, quando avrei preferito uscire dalla
finestra della mia stanza, proprio nell’istante in cui ero
lì lì per spiccare un balzo e mandare in frantumo
il vetro, la porta della camera si aprì
lentamente…»
-Emily-
chiamò Lucy. –Lewis vuole vederci nella mensa,
tutti quanti- disse la ragazza sporgendo solo la testa, e attese una
mia reazione.
Me
n’ero completamente scordata. –Lo sapevo, grazie-
le sorrisi, notando con stupore le voluminose occhiaie che aveva sotto
gli occhi arrossati. Aveva pianto allungo, pensai; la faccenda
l’aveva davvero distrutta, sia fisicamente che mentalmente.
Dopotutto non potevo pretendere che una ragazza fragile come Lucy non
desse di matto in una tale occasione. Lei aveva sempre considerato il
clan come una famiglia, rinfacciandomelo tutte le volte che ne aveva la
possibilità; era lei a ricordarmi quanto fosse importante
che restassimo uniti, pronti a qualsiasi evenienza e pericolo che
avremmo sempre affrontato insieme, più forti. Questa
mentalità, ultimamente aveva contagiato anche Harry, che
ponendosi quelle assurde domande, era venuto a cercare le risposte da
me, come se io non vedessi l’ora di entrare in convento dopo
quello che era successo.
-Allora,
vieni?- insisté la ragazza.
Annuii
debolmente. –Sì, vi raggiungo tra un secondo-.
-Bene-
sorrise affabile richiudendo la porta.
Aspettai
qualche minuto, attesi che la sala del nostro clan fosse del tutto
vuota per poter raggiungere il piano nella mensa evitando sguardi
indiscreti.
Una
volta lì, entrai nella grande stanza comune e con passo
scattante mi andai a sedere al nostro tavolo, senza guardare in faccia
nessuno. Mi sedetti accanto ad Harry che era già
lì, che ancora abbracciava Lucy con un ché di
fraterno. Mi strinsi le braccia attorno al ventre e attesi, continuando
a non far nient’altro che non fosse fissarmi i piedi,
incastrati sotto quelli del tavolo tondo al quale sedevamo.
D’un
tratto Brown mi rivolse un’occhiata rammaricata, e attirando
la mia attenzione disse: -Ci dispiace per quello che abbiamo detto
prima-.
Gli
volsi uno sguardo confuso. –Di cosa stai parlando?- chiesi
flebile.
-Del
modo in cui ti abbiamo contraddetta io e Lucy- rispose il ragazzo
guardando la giovane tra le sue braccia, che non si staccò
da lui neppure con l’oro. –Invece di convertirti al
nostro modo di pensare, avremmo dovuto capire quanto tu serbi ancora un
profondo odio per tutto questo- mi sorrise docile.
-Io
non odio nessuno…- mormorai tornando a fissare il pavimento.
-…qui dentro- aggiunsi facendo riferimenti ad una delle
persone che ultimamente avevano solo peggiorato le cose.
-Vedrai-
fece dignitoso lui. –Glie la faremo pagare a quello
lì- dichiarò.
Apprezzai
il gesto, apprezzai le loro scuse, apprezzai i loro sorrisi. Era bello
continuare a poter credere in qualcosa oltre la nostra comune alleanza,
era bello poter scorgere al di là del clan qualcosa di
più unito e potente; loro erano i miei amici, ed io avrei
continuato a combattere al loro fianco qualsiasi cosa sarebbe successa
o era già avvenuta. Passato o presente, non faceva
più distinzione per me. Alex era un nemico che avremmo
affrontato tutti, almeno una volta, e chi più forte e chi
meno, ognuno di noi avrebbe fatto la sua parte. Perciò non
riuscii a disarcionare la testa dal discorso che mi aveva fatto Martin
nel suo ufficio, e che forse (sperai piuttosto di no) avrebbe ripetuto
davanti a tutta questa gente nella mensa.
Mi
accorsi con stupore che eravamo davvero in tanti lì dentro.
Interi clan di Angeli avevano fatto ritorno dall’Europa con
successo, anche se la minor parte del pubblico a mensa quella sera era
composta dai superstiti all’attacco Mercer di tre giorni
prima.
Mi
guardai attorno con attenzione, fin quando la mia attenzione non venne
calamitata da un volto familiare che si spostava con lentezza da un
tavolo all’altro, avvicinandosi al nostro.
-Emmett…-
mormorai.
Lucy
scosse la testa. –E’ ancora sotto sorveglianza-
disse affranta.
-Gli
Alchimisti lo trattengono da ore, e nessuno ha voluto dirci nulla-
eruppe Harry.
-No,
ragazzi!- eruppi io. –Emmett! Là!- strillai
indicando tra la folla di gente.
I due
si voltarono e seguirono la linea immaginaria che tracciava il mio
dito, e non appena Lucy ebbe sgranato gli occhi una dozzina di volte,
scattò in piedi e volò via dal tavolo.
-Emmo!-
gridò in preda alle lacrime, e ad un tratto
spiccò un balzo, spalancò le ali per un istante e
si fiondò addosso al ragazzo dopo aver sorvolato
metà mensa.
Io ed
Harry, troppo lontani per poter scorgere nel particolare, ci scambiammo
un’occhiata stupita. Dopodiché anche il giovane
Brown scattò in piedi e si diresse di corsa verso la
coppietta.
Rimasi
da sola al tavolo, cercando di cogliere l’intera scena anche
da laggiù. Quando mi accorsi del mio clan che si dirigeva
compatto nella mia direzione, mi scansai, lasciando il mio posto ad
Emmett che si sistemò seduto con Lucy ancora in braccio.
Sembrava
in ottima forma, completamente rigenerato. Mi vide, e ciò
che ricevetti da lui fu solo uno dei suoi soliti sorrisi pieni di
sottintesi. Quello che accadde a me, invece, fu di provare un
po’ di gioia mista a compassione. Ero felice di rivederlo tra
noi, di sapere che stesse bene e che su di lui la terapia del Virus
aveva funzionato, cosa che non era successa con Phil.
-Dov’è
Phil?- chiese il nuovo avvolgendo un braccio muscoloso attorno alla
schiena di Lucy, che non appena sentì pronunciare quelle
parole ebbe un leggero fremito.
Harry
distolse lo sguardo, e così toccò a me raccontare
la versione dei fatti.
-Non
ce l’ha fatta- dissi, ed Emmett si voltò a
guardarmi. Inizialmente sfuggii alla sua occhiata scettica, ma dovetti
comunque arrendermi alla mia coscienza che m’implorava di
approfondire la faccenda. –Gli Alchimisti non hanno voluto
salvarlo; hanno interrotto la terapia, su ordine di Lewis-.
Il
ragazzone abbassò lo sguardo, scuotendo la testa.
–No… non Phil, non può essere-
sussurrò.
-Uno
degli artigli di Alex l’ha passato da parte a parte- lo
informò Harry con ripugno. –Non ce
l’avrebbe fatta comunque, terapia oppure no-.
Restammo
allungo in silenzio, ognuno coi propri pensieri per la mente, ognuno
con le proprie idee a riguardo della situazione. Vidi l’odio
crescere sul volto di Emmett allo stesso modo di come era cresciuto sul
mio mentre mi dirigevo nella mia stanza, pronta ad occuparmi in
solitario di Mercer. Percepii il suo sconforto, e l’abbandono
che stava provando nell’affidare l’intera sua anima
alla rabbia e la collera. Sentimenti che fino a pochi minuti fa avevano
fatto prigioniera anche me.
-Quel
figlio di puttana ha cessato di vivere- digrignò Emmett
serrando un pugno sul tavolo.
-Adesso
non pensarci- sussurrò Lucy carezzandogli una guancia, e a
quel tocco parve sbollentarsi del tutto. –Avremo la nostra
vendetta- disse la ragazza guardandoci uno per uno. –Ma non
oggi- aggiunse severa. –Sono sicura che Martin
farà di tutto per prepararci al meglio, sono sicura che ci
renderà più forti di Alex in poche settimane, ma
quello che dobbiamo fare e pazientare, e solo allora la vendetta
sarà nostra; quando assaporeremo il suo sangue
così come lui ha assaporato il nostro- inclinò la
testa da un lato.
Emmett
si lasciò sfuggire un sorriso. –Che
paroline…- fece divertito.
-Grazie-
ridacchiò lei. –Ma sono la verità-.
Incrociai
le braccia sul tavolo e appoggiai il mento su di esse.
–Può darsi…- sospirai stanca. Annoiata,
più che altro.
Harry
si voltò verso di me. –Ti vedo sciupata, ragazza.
Dovresti farti controllare da qualcuno-.
-Bhè-
rise Emmett tra sé e sé. –Non siamo
tutti una gran bella pasqua, Harry—
-Me ne
rendo conto- balbettò il ragazzo. –Ma…-
si guardò attorno. –Qualcuno di voi ha notizie di
Lewis?-.
-Già-
Emmo fece una smorfia. –Mi ha fatto chiamare
dall’infermeria di gran corsa e…-.
-Come
suo solito fa ritardo- terminò Lucy.
Improvvisamente
girai di poco la testa alla mia sinistra, e oltre gli sguardi curiosi
di una dozzina di ragazzi che non sembravano avere occhi che per me,
incontrai il familiare sguardo di qualcuno che mi era capitato di
incontrare più di una volta, e che ormai sembrava entrato a
far parte della mia brutale esistenza.
Mi si
colorarono le guance quando Cole Turner, seduto assieme al suo gruppo
ad un tavolo, mi lanciò uno sfavillante sorriso. In
principio mi salutò con un gesto della mano, ma poi, non
appena i ragazzi e le ragazze che lo circondavano cominciarono a fare
un po’ di caciara, si staccò dal gruppo alzandosi
dal tavolo e venne verso di noi.
-Ragazzi,
guai in vista- sibilò Lucy sollevando le sopracciglia.
Harry
lanciò un fischio. –Emily, sbaglio o ultimamente
le vostre strade s’incrociano più del normale?-.
Gli
diedi una spinta allungandomi sul tavolo. –Idiota- digrignai.
-Quel
tipo lì non mi piace- ringhiò Emmett.
–Ha combinato già abbastanza guai-.
-Che
intendi?- domandai curiosa.
-Quando
Mercer ci ha attaccati, è stato lui ad ordinare un
formazione sbagliata per il combattimento- eruppe Harry.
-Formazione?-
chiesi confusa.
-Lascia
stare…- Emmo fece un gesto di stizza con la mano.
–Ma sappi che non lo voglio tra i piedi, chiaro? Soprattutto
nel nostro clan- sbottò arrogante.
Proprio
in quell’istante, Cole raggiunse il nostro tavolo e si
sedette al mio fianco, preferendo rivolgersi a me piuttosto che ai
membri del mio gruppo, che lo guardarono in cagnesco durante tutto il
tempo che rimase seduto lì con me.
-Ho
saputo dell’Angel 1-9-0- disse Turner. –Mi
dispiace, Lewis non avrebbe dovuto interrompere la cura solo
perché stava creando problemi- aggiunse.
-Non
darti pena…- mi scappò di bocca, e dopo quelle
parole Emmett mi fulminò con una delle sue solite
occhiatacce a lungo raggio e durata.
-Lo
conoscevo, Phil. Tutti noi capitani ci conoscevamo bene-
pronunciò pentito. –Era un bravo ragazzo, ed un
ottimo capo clan. Spero che Martin riesca a rimpiazzarlo con qualcuno
del suo livello-.
-A
quanto pare, qualcuno del suo livello però non se
l’è cavata…- borbottò Harry
fissando con rabbia il nuovo giunto.
-Adesso
basta!- sibilò Lucy dandogli un calcio lì da
sotto il tavolo, e sul viso di Harry comparve come per magia una
smorfia di sopportazione all’alto dolore.
-In
parte è stata colpa mia- fece Cole –E capisco che
la maggior parte di voi ce l’abbiano con me. La formazione
sbagliata l’ho ordinata io, e non avete idea di quanto me ne
rammarichi ogni giorno ad ogni ora, ma…-.
Emmett
lo interruppe bruscamente battendo un pugno sul tavolo.
–Senti, Cole bello. Perché adesso non te ne torni
dal tuo clan laggiù e ti fai i fattacci tuoi?! Non abbiamo
bisogno delle tue condoglianze! E sappiamo benissimo che testa di cazzo
sei, perciò puoi andartene da questo tavolo con la coscienza
a posto!- sbraitò.
Restammo
piuttosto sconvolti da quella reazione, ma fu il minimo che
c’era da aspettarsi da uno come Emmett.
Cole
abbassò lo sguardo sfuggendo a quello di Emmett e
cercò il mio. Quando i nostri occhi
s’incrociarono, non seppi che fare, dire o solamente pensare
della situazione. Turner prese quella mia ignoranza come uno
schieramento di parte, si alzò e disse: -Quello
laggiù non è il mio clan, bensì i
pochi capitani ancora vivi in questa base. Uomini e donne con coraggio
da vendere che non sprecano tempo con quelli come voi; quindi hai
ragione, Angel 1-9-1- si rivolse ad Emmett. –Se mi facessi un
po’ più i fattacci miei è probabile che
ora molti degli abitanti di quest’edificio fossero ancora
vivi. Per un istante ho creduto che i membri del mio gruppo, i
componenti della mia famiglia stessero facendo del bene in Europa, e
fino a qualche secondo fa ne ero convinto. Invece la sua insolenza nei
confronti dei tuoi superiori, signor Word, da dimostrazione di grande
egoismo e fragilità mentale dovuta ad un pertinente stato di
shock. Le consiglio del buon riposo, e magari, quando sarà
un po’ meno occupato a fare insensate scommesse e sfide con
gli stessi membri del suo clan, potrà venire da me a
porgermi le sue scuse-.
Detto
ciò, e dopo averci lasciati tutti quanti a bocca spalancata,
Cole si allontanò dal nostro tavolo e si sedette di nuovo in
mezzo ai capo clan con i quali si stava consultando in buona fede.
-Stronzo-
sbottò Emmett.
Lo
schiaffo che partì da Lucy arrivò sonoro sulla
guancia del ragazzo, che si portò una mano sulla guancia
coprendo l’arrossamento di quel punto.
Mi
lasciai scappare una risatina a quella vista, mentre Harry mi fulminava
con un’occhiata tutt’altro che divertita.
-Si
può sapere cosa ti prende?!- ruggì Lucy.
Emmett
serrò la mascella frenando l’impulso di rispondere
in chissà quale modo all’offesa arrecatogli dalla
sua ragazza.
-Cole
Turner è davvero un tuo superiore! Per grado e
abilità! Come ti salta in testa di parlargli in questo
modo?!- continuò lei.
-…Che
cazzo ridi tu?- mi ringhiò Emmett.
Il
sorriso sulle mie labbra tramutò presto in una smorfia di
poco più contegnosa. –Scusami, io…-.
Il
ragazzo rivolse la sua attenzione verso di Lucy, che ancora seduta
sulle sue gambe continuava ad attendere una risposta. –Forse
ho esagerato- disse lui.
-Forse?!-
sibilò Lucy.
-E va
bene, ho esagerato!- eruppe Emmett. –Adesso possiamo
smetterla di parlare di me?!- formulò guardandoci negli
occhi uno per uno.
-E di
chi altri vorresti parlare, sentiamo- proruppe Harry.
-Checca,
non parlarmi in questo modo-.
Mi
trattenei dal ridere osservando l’espressione stupita che
comparve sul volto del ragazzino.
-Emily,
ti prego…- mi supplicò Lucy. –Almeno
tu-.
-Sì,
hai ragione- mi ripresi dalla mia crisi. –Scusate-.
-Ehi
ragazzina- mi chiamò Emmett.
-Hm?-.
-Non
ho mica dimenticato la nostra scommessa- ridacchiò
malizioso.
-Già-
fece Harry. –Ma chi di voi due l’ha vinta?-.
Lucy
alzò gli occhi al cielo, perdendo del tutto le speranze.
-Vediamo…-
rifletté Emmett. –Alex si è fatto vivo,
ma siamo stati messi fuori combattimento tutti e due- disse.
–Suppongo che la situazione sia invalida, propongo di
ripetere la scommessa e rinviare i risultati-.
-Ehi,
aspetta- sbottai io. –Sono stata sconfitta dopo di te! Credo
che questo mi valga almeno come bonus!-.
Il
ragazzo scoppiò a ridere. -Stai scherzando, vero?-.
-Emmett,
è la verità- disse Lucy.
Harry
annuì quando lo sguardo di Word si posò su di
lui.
-Non
può essere- eruppe Emmett. –Solo il primo colpo di
quel bastardo ha messo k.o. una decina di noi! Non potete dire sul
serio!-.
-Eimly
se l’è cavata egregiamente- annunciò
Lucy, e mi sorrise. –Peccato che mi sono persa lo scontro uno
contro uno…- pronunciò affranta.
-Uno
contro uno…?- fece stupito l’Angel 1-9-1.
Harry
annuì di nuovo.
-È
una balla…- sibilò.
Prima
che la nostra conversazione potesse andare oltre, la sala
piombò improvvisamente nel silenzio più nero. Mi
guardai attorno confusa, e la mia attenzione venne calamitata dalla
figura di Lewis Martin, in piedi davanti all’ingresso della
mensa. Attorno a lui c’erano un gruppo di Alchimisti e altra
gente, che immaginai fossero dei coordinatori, tra i quali riconobbi
Matt.
-Apprezzo
il vostro onorevole silenzio- proferì il grande capo
muovendo un passo avanti. –Apprezzo davvero-. Fece una pausa,
probabilmente per aumentare l’atmosfera. –In queste
ultime trentasei ore abbiamo perso il 56 % degli Angeli vostri compagni
rimasti alla base durante la settimana- cominciò a muoversi
tra i tavoli, camminando lentamente tra la gente che non gli staccava
gli occhi di dosso. –La percentuale, come si può
ben notare, è troppo alta. Quello che sto cercando di dirvi,
è in realtà molto semplice, e non voglio rubarvi
neppure un secondo di più del vostro tempo per
ciò che la notizia richiede sapere. Alex Mercer…-
prese fiato. –È troppo potente-.
Il
rispettoso silenzio proseguì allungo anche dopo quelle
parole, nonostante ciascuno di noi fosse terribilmente turbato dal loro
significato.
-Nessuno
di voi in questa base è abbastanza preparato…
forte… agile… audace di corpo e di
mente… per affrontarlo- scandì bene.
–Nessuno-.
Chissà
perché, ma non mi sento molto coinvolta in questo
discorso… pensai.
-Nonostante
gli allenamenti, le precauzioni, i potenziamenti, i coordinatori
esperti che vi ho affidato e gli Alchimisti che vi hanno
curato… nonostante tutto questo, Alex Mercer non
è stato ancora fermato. È un anno ormai che gli
stiamo addosso come api sul miele, ma è un anno ormai che
impieghiamo le nostre forze sulla soppressione del Virus. Questi due
aspetti del nostro mestiere, molto in contrasto tra loro, non vanno
più d’accordo. Non possiamo pretendere di
concentrare le nostre forze sulla caccia al Virus quando certi
esperimenti mal riusciti come lui vagabondano per le strade di
Manhattan e ora anche fuori!- alzò la voce prepotente.
–Il fatto che più mi turba, innanzitutto,
è il libero accesso che ha Mercer, non solo
all’interno della nostra base, ma nel complesso
all’esterno dell’isola! Quel pazzo è
riuscito a soggiogare i presidi militari e i blocchi sui ponti senza
problemi! E noi! Non! Possiamo! Permetterlo!- gridò ancora.
–Siamo stati creati con uno scopo, uno soltanto! Mantenere il
Virus nelle circostanze!- scandì bene. –E le
circostanze, con Alex fuori da Manhattan, sono state V-I-O-L-A-T-E!-
aumentò il tono e la presenza, mentre con mano ferma
catturava la nostra attenzione e la nostra coscienza. –Siamo
stati creati con un potere superiore a quello di Zeus, e si tratta del
volo. Le ali che tutti noi abbiamo sulla schiena ci sono state donate
dai nostri scienziati affinché avessimo qualcosa che Alex
non potrà mai avere. Eppure noi sembriamo non sfruttare
questa differenza che ci accomuna. E adesso passiamo alle questioni
pratiche- fece tranquillo riprendendo a spostarsi da un tavolo
all’altro, con le mani giunte dietro la schiena e il passo
lento, mentre lo sguardo vagava nei nostri occhi fiutando la paura e il
rispetto che avevamo di lui.
-Come
prima cosa fondamentale… Tornerete a lavorare in gruppo. Non
voglio venire a conoscenza di attività illecite al di fuori
della base notturne o nella prima mattinata. A nessuno di voi
verrà lasciata l’occasione di giocare questa
partita in singolo, sono stato chiaro?-.
A
molti di noi sfuggirono delle lamentele, compreso Emmett che
sbuffò sonoramente.
-Perfetto-
sorrise soddisfatto il vecchio Martin. –Come seconda cosa, il
vostro equipaggiamento è stato revisionato e adattato alle
difficoltà che potrebbero presentarvisi in un duello faccia
a faccia con il nemico.
Punto terzo: i coordinatori a voi assegnati resteranno quelli fino alla
fine dei vostri giorni. Buona permanenza ad entrambi-.
Mi
lasciai sfuggire un sorriso guardando verso Matt, che sembrava
altrettanto soddisfatto della notizia.
-Punto
quarto: tutti i clan ridotti a tre o meno individui verranno aggiunti e
inglobati ad altri gruppi, così da formare una squadra
meglio preparata e attrezzata. Ai clan rimasti senza capitani
verrà assegnato un capitano rimasto, ovviamente, senza clan-.
Inizialmente
non diedi troppo peso al quarto punto delle novità in corso,
ma poi non seppi perché, mi ritrovai a pensare a Cole e al
fatto che l’intero suo gruppo fosse partito per
l’Europa lasciandolo solo.
Coincidenza:
a noi serviva un capitano.
-No!-
ruggì Emmett. –Perché?! Il ruolo di
capitano, in successione toccherebbe a me, non è giusto!-.
-Ssssh!-
Lucy gli poggiò una mano sulla bocca. –Adesso
fa’ silenzio, ne riparliamo più tardi…-
gli sussurrò all’orecchio.
-Punto
quinto: i vostri addestramenti si svolgeranno individualmente ciascuno
in una stanza differente, e una volta la settimana voi e il vostro clan
apprenderete delle mosse collettive da applicare in combattimento. Ma
per il resto, i coordinatori e i robot da allenamento serviranno ad
alleggerire i vostri singoli movimenti ed irrobustire i vostri affondi,
senza contare il rispetto che abbiamo della vostra
individualità…- sorrise. –Punto sesto:
ogni 24 ore verrete inoltre sottoposti ad iniezioni di potenziamento
dei vostri poteri, e avrete una fiala a vostra disposizione ogni qual
volta lascerete la base per avventurarvi a caccia di
Mercer…- fece un’altra pausa, e solo allora mi
accorsi di quanto fosse vicino a me, e i nostri sguardi
s’incrociarono per un istante. –Ora-
batté le mani. –Stabilite le questioni pratiche,
passiamo a quelle tecniche- con un gesto del capo chiamò a
raccolta i coordinatori che erano rimasti in piedi come stoccafissi
sull’ingresso della mensa.
Il
gruppetto di ragazzi e ragazze superò Lewis e
cominciò a montare uno strano macchinario alle spalle
dell’uomo. Si trattava di un proiettore che, una volta che le
luci della sala furono spente, si accese e proiettò
un’immagine sul fondo nero delle vetrate.
Comparve
una dettagliata mappa 3D di Manhattan, con in evidenza di colore rosso
i restanti nidi del Virus, e di blu le basi militari americane.
Lewis
riprese la parola: -Qualche giorno fa i capi clan vi consegnarono una
cartella personale all’interno della quale avete trovato una
cartina geografica della zona dell’isola a voi assegnata.
Ebbene, sappiate che le informazioni datovi da quelle cartelle non sono
cambiate-.
Mentre
diceva tutto ciò, la mappa 3D alle sue spalle si suddivise
in una ventina di settori, ad ognuno dei quali era assegnata la foto di
un capo clan. Guardai con attenzione, accorgendomi che la foto di Phil
mancava, e così mi fu difficile immaginare quale capitano
senza gruppo ci avessero assegnato.
-Le
zone di Manhattan a voi assegnate sono sempre quelle, e saranno la
vostra nuova casa nelle prossime… ma sì, stimiamo
nelle prossime diciotto settimane. Ma sappiate bene una
cosa…- si avvicinò al tavolo che aveva davanti.
–Una volta là fuori, anche se siete accompagnati
dal vostro gruppo e protetti dai vostri capitani, una volta di fronte a
Mercer saranno due le possibilità che avrete: combattere o
fuggire. Molto personalmente opterei per la seconda, nonostante il
fatto che le possibilità di sopravvivenza si dimezzino- si
strinse nelle spalle. –Ma nel caso sceglieste la
prima…- ci fissò allungo negli occhi.
-… sarete soli. In caso di aiuto non potrà
soccorrervi nessuno, perché così come siete in
difficoltà voi, lo possono essere anche i vostri compagni.
Questa è una lotta alla sopravvivenza: siete come leoni che
muovono in branco, ed è giunta l’ora di scacciare
il leopardo solitario dai nostri alberi. L’augurio che vi
faccio è di poter continuare a vedere il sole sorgere-
sorrise.
La
mappa alle sue spalle scomparve e nella mensa tornò la luce.
Una cosa rapida e indolore, e in pochi minuti era riuscito a compensare
un discorso di un’ora o due. –Bene- si
avviò verso l’uscita. –Per le
informazioni riguardanti i nuovi capitani o i gruppi nei quali siete
stati spostati, prego, che un vostro rappresentate mi segua- fece un
gesto con la mano e lasciò la sala. Svoltò
l’angolo e nessuno lo vide più, almeno fin quando
sia i coordinatori che gli Alchimisti lo seguirono con addietro una
fila di Angeli che necessitava di alcuni chiarimenti.
Harry
si alzò lentamente dal tavolo. –Ok, vado io a
chiedere a Lewis chi è il nostro nuovo capitano. Ci vediamo
nella sala comune quando ho finito- sospirò avviandosi.
Lucy,
Emmett ed io ci dirigemmo verso le nostre stanze e aspettammo nel
salottino quella che ci parve un’eternità. Si era
fatta notte fondo, e fuori dalle vetrate della grande stanza si
vedevano le luci lontane di Manhattan e i focolari di alcuni fuochi
ancora accesi.
Ero
seduta su una poltroncina, tutta rannicchiata nell’angolo e
stringendo un cuscino tra il petto e le ginocchia. Senza scarpe e coi
capelli tirati in una coda alta per il caldo che avevo cominciato a
sentire.
Emmett
e Lucy si stavano scambiando due parole poco lontano, teneramente
abbracciati sul divano. Non m’interessava sapere di cosa
stessero parlando, preferivo di gran lunga godermi la vista
spettacolare che c’era oltre il vetro trasparente di quelle
finestre.
Improvvisamente
tutti e tre percepimmo lo stesso suono di passi provenire da oltre la
porta d’ingresso, la quale si aprì lasciando
emergere dal buio verso le lampade accese due figure.
-Ave
al nostro nuovo capitano!- ridacchiò Harry lasciandosi
scivolare seduto sul divano, accanto ad Emmett che aggrottò
d’un tratto la fronte.
Lucy
probabilmente era rimasta senza parole, perché io, distratta
a guardare fuori, non sentii minimamente la sua voce.
-Grazie
Harry, ma non c’era bisogno-.
Quella
voce avrei
potuto riconoscerla tra cento.
Mi
voltai all’istante, scattai in piedi e rischiai quasi di
ammazzarmi inciampando sullo stesso cuscino che mi era scivolato di
mano. –Cole…!!!- sobbalzai.
-Adesso
è il capitano
Cole!- rise Harry incrociando le braccia.
Il
nostro nuovo capo clan si fece subito serio. –Ho parlato con
Lewis, Harry era presente, e abbiamo concordato sul ruolo che avremo
nei prossimi mesi-.
-E
cioè?- sbottò Emmett arrogante, che da quando era
comparso Turner non aveva fatto altro che guardare tutt’altra
parte.
Il
capitano proseguì schietto: -Mi dispiace solo non aver
ascoltato il vostro parere, ma ho immaginato che molti di voi avessero
un conto in sospeso con Alex, per tanto… io ed Harry abbiamo
dato la nominativa del nostro clan come offensiva. Tra tre settimane ci
trasferiscono a Manhattan- dichiarò.
Eccomi tornata dalla Grecia, ed ecco l'aggiornamento della
stagione. Con questo ho battuto il record, quasi nove pagine, spero che
abbia chiarito qualche punto, perché mi sto rendendo conto
che in fatto di trama la storia si sta facendo parecchio contorta. o.O'
Ammetto che la faccenda di Emily e la Blacklight che ha fatto
esperimenti anche su di lei è un po' confusa, ma col passare
del tempo (e dei capitoli) si farà luce anche qui! Ringrazio
gli utenti che seguono questa ff e i recensori dei capitoli precdenti,
sperando che sia stato di vostro gradimento questo medesimo sclero! XD
A presto!
Elik.
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Capitolo 13 *** Capitolo 13° - La bestia che dorme ***
Capitolo 13°
- La bestia che dorme
Lewis mantenne la parola.
Per tre settimane gli allenamenti si fecero
intensivi e individuali per tutti, e la scelta di difesa o offensiva
non aveva alcuna differenza; Martin ci voleva pronti, specializzati e
preparati ad ogni tipo di attacco. Alex Mercer, diventato la nostra
priorità, se la sarebbe vista complicata, e questo era il
nostro obbiettivo: fermarlo.
I robot da addestramento, divenuti di ultima
generazione, vennero assegnati a tutti dello stesso sano e rigoroso
livello: rosso. Ciascuno di noi svolse le proprie faccende
separatamente dal resto del gruppo, e si rischiava di perdere i
contatti quasi per un’intera settimana, perché gli
addestramenti potevano durare sia giorno che notte se Martin stesso non
era soddisfatto delle nostre prestazioni; e la sua voce continuava a
ripetere: “Angel ta-da ta-da, ripeti
l’esercizio”. Era così
all’infinito, e fin quando non diventavi davvero uno
straccio, spiaccicato a terra così come ci eri arrivato, lui
non era contento. Voleva vederci sgobbare, faticare come non mai, e
sembrava piacergli, rendergli la giornata più divertente.
Cominciai a sentirmi solo un fenomeno da circo, e
con l’accumularsi delle ore che passavo nella saletta di
allenamento che mi avevano dato, la mia rabbia e la collera verso di
Alex si consumavano lentamente, venendo sostituite da un sentimento di
dovere. Poteva essere un bene, e lo era, perché forse
così facendo ci avrebbe resi tutti quanti più
simili, uniti sotto un unico pensiero di vendetta e patriottismo che,
alla fin dei conti, ci aveva fatti solo più forti.
L’unità era proprio quella
che ci mancava. Di buone formazioni vincenti non se n’erano e
mai se ne sarebbero viste, ne ero sicura. Nonostante tutti gli sforzi
di Martin di unificarci come un’unica grande famiglia di
predatori, continuammo lo stesso a farci i cosiddetti cazzi nostri sia
durante l’allenamento che nella vita privata,
all’interno della base. C’era una specie di
contrapposizione tra queste due situazioni, (la protezione
dell’individualità e l’unificazione
delle forze) e inizialmente sembravamo eccellere in entrambe. Ma quando
il tempo cominciò a mancare, e gli addestramenti a farsi man
a mano più sopportabili, cominciammo ad intravedere la luce
dell’esterno anche noi.
Nella prima settimana che trascorremmo alla base
ci venne chiesto di combattere a mani nude, di allenare il nostro corpo
e la nostra mente, di mantenere l’integrità di
entrambe e di preservare sempre una parte di energie durante lo
scontro. Avremmo dovuto confrontarci contro i robot con
nient’altro che non fossero le nostre braccia, le nostre
gambe e la nostra la testa; il che aveva una nota stonante per me. La
mia, come la forza di tutti gli Angeli, presiedeva nelle ali, nella
capacità di volare che noi avevamo ma Alex no, eppure ci
vennero “disattivate” anche quelle, e a Martin, per
farlo, bastò premere un pulsante.
Il Blootox
rallentava il processo d’innesco dei nostri poteri. Invece di
indebolirci, quel gas pieno di tossine accanite contro il virus,
s’insinuava tra le particelle mutanti del nostro corpo e
all’interno dell’organismo, così da
generare una reazione immediata e duratura di sospensione dei poteri.
Il che era un bene durante l’addestramento che Lewis aveva
prefisso per noi.
Faccia a faccia col robot dal casco rosso che mi
avevano assegnato, inizialmente non seppi che fare. Mi aspettavo che
fosse quella lattina a scagliare il primo colpo, ma non appena il mio
coordinatore mi contattò informandomi sulle mosse da
eseguire, mi lasciai sfuggire un sorriso maligno che, ahimé,
avrei presto rimpianto.
Nonostante fossi la
“prescelta”, là più forte e
l’unica di razza pura là dentro, quella lattina
riuscì lo stesso a farmi le guance rosse, le ginocchia
tremanti e il fiato corto. La tecnica (judo, samurai, o comunque lo
stile orientale era quello) che ci venne insegnata ad usare stancava
troppo sia mentalmente che fisicamente, e rischiavamo davvero lo
svenimento, super poteri o meno. Si trattava di un insieme di mosse
avanzate di entrambi gli stili citati prima, che in sé
conservavano già il carattere e la forza necessaria che
serviva per sopravvivere a Manhattan. Ma allo stesso tempo, noi
così potenti ed abili riuscimmo a perfezionarle e renderle
di un livello superiore, con affondi 10 volte più letali e
parate tante volte più resistenti.
Rispolverai così le mie vecchie
lezioni di karatè di quand’andavo alla scuola
elementare.
Quella domenica che venne, come promesso, il
nostro gruppo si ricongiunse per delle brevi 24 ore di continuo
combattimento in gruppo. I coordinatori ci suggerivano gli attacchi
combo da eseguire, e noi eseguivamo. All’inizio fu davvero
semplice, soprattutto con il loro aiuto esperto alle nostre spalle, ma
non appena le comunicazioni s’interruppero e fummo costretti
a fare tutto da soli, ci ritrovammo di fronte un robot di livello rosso
davvero alla pari di Mercer che, in pochi minuti, ci fece UN MAZZO
COSI’.
Nella prima metà della seconda
settimana una coppia di Alchimisti venne assegnata a ciascuno di noi,
con l’arduo compito di manomettere
l’integrità fisica che avevamo acquisito negli
allenamenti precedenti, rendendoci, in parole semplici, le cose un
po’ più complicate di com’erano.
Testavano su di noi gli effetti dei poteri e degli attacchi di Alex,
che solamente avvicinandosi, scatenava un processo di indebolimento
all’interno delle nostre cellule, causandoci un temporaneo
allentamento delle difese immunitarie.
La scoperta fu sconvolgente: finalmente sapevamo
dare una spiegazione al fatto che riuscisse a metterci k.o. in un solo
colpo! Per un attimo continuammo a credere di essere spacciati, mentre
il caos dilagava per la base e molti di noi già gettavano la
spugna.
Ma poi il miracolo: due giorni più
tardi, Lewis ci fece radunare in massa nella mensa, e quello stesso
giorno ci fecero la nostra prima iniezione di fatalità.
Il “vaccino” scoperto dagli
Alchimisti era una semplice barriera immunitaria che restringeva il
campo d’azione dei germi Mercer, costringendoci a tenere
comunque le distanze soprattutto in combattimento, anche se una dosa
triplicata dello stesso farmaco avrebbe potuto isolare del tutto il
rischio di contagio.
Presto la grande paura che avevamo di Alex
scomparve, e tutto grazie agli strabilianti traguardi scientifici
raggiunti dai nostri Alchimisti, in onore dei quali si tenne una
gradevole festicciola notturna.
Nonostante l’alcol assimilato la sera
prima, il giorno successivo riprendemmo gli addestramenti
più duramente che mai.
Nel weekend della seconda settimana testammo per
la prima volta gli effetti catastrofici che i farmaci avevano su di
noi, con risultato 100%.
Funzionava.
Durante quel periodo ci dedicammo del tutto
all’impiego delle nostre forze per intero e, senza esclusione
di colpi e con la perseverante presenza del Blootox nelle nostre stanze
di addestramento, conquistammo una delle mete più gradite e
desiderate che Martin si era prefisso.
La resistenza e l’agilità di
ciascuno di noi, grazie non solo al vaccino, si moltiplicò
del 200% e questo mandò su di giri l’intera base.
Quella stessa domenica si tenne un altro degli
scontri di gruppo, il quale riuscì non diversamente dalla
settimana precedente.
I sette giorni restanti furono forse quelli
più divertenti.
Le immissioni di Blootox nelle camera
d’addestramento cessarono improvvisamente, e ci venne
affidato un intero arsenale di granate e armi da fuoco di piccolo
calibro ma grande potenza da tenere sempre con noi, come
equipaggiamento. I lacchi di cuoio attorno agli avambracci e alle cosce
tornarono a riempirsi, e sentire il peso e il freddo del metallo sulla
mia pelle fu una sensazione che avevo quasi dimenticato. Gli
allenamenti che vennero perfezionarono la precisione e i riflessi,
soprattutto quelli dovuti all’uso delle armi, che in onore
di“Zeus” si erano modificate e irrobustite, con
tanto di agenti chimici all’interno dei proiettili.
Quel bastardo non aveva scampo.
Solo nelle ultime 48 ore di addestramento ci
venne consentito l’uso totale dei nostri poteri, che andava
dalle ali fino al completo tramutarsi in oggetti taglienti o grandi
massi rotondi, cosa che all’interno della base sapeva fare
solo Emmett.
Insieme all’arsenale da combattimento,
sempre in quelle restanti lezioni, i potenziamenti chimici dei nostri
poteri divennero per noi come una droga. Le auto-iniezioni sempre
più frequenti all’interno dei combattimenti
costituivano sì un buon segno di dipendenza, ma anche ottimi
risultati.
Personalmente ottenni la prima vittoria sul robot
proprio in quelle ultimissime ore di continuo duello, ma la
più grande delle vincite fu quella che ottenemmo io e il mio
clan al completo la stessa domenica sera.
Durante tutto lo scontro, non seppi
perché, ma non riuscii a staccare gli occhi dal nostro
capitano, il quale riusciva a dirigere nella confusione di continue
esplosioni e rumori di spari attacchi sempre ben coordinati. Il ruolo
del comandante di un clan scoprii fosse molto difficile: il
coordinatore assegnato a Cole aveva il mero compito di trasmettere
informazioni, e Turner quello di elaborarle al meglio a seconda delle
circostanze. Di fatti, i canali della comunicazione
all’interno del nostro casco erano tre: una diretta al
coordinatore, la seconda privata col capitano, e la terza,
preferibilmente da trascurarsi, aperta a tutti i componenti del clan.
In quelle settimane avevo molto trascurato i miei
compagni di gruppo, dedicandomi principalmente agli addestramenti, e
all’inizio credevo che loro avessero fatto altrettanto,
ovvero sgobbato 24 ore su 24 come avevo fatto io, con qualche
intervallo ogni qual volta finivo al tappeto contro il mio robot.
Ma poi, la schiacciante verità
arrivò proprio durante il duello collettivo, quando
mantenendo attivi tutti e tre i canali di comunicazione
all’interno del mio casco, mi ritrovai coinvolta in una
conversazione di gruppo che saltava dalle tecniche di combattimento
alle questioni private.
Ogni tanto mi feci anche qualche risata,
sorridendo alle battute allegre di Emmett e ai commenti di Harry su
quanto il nostro robot fosse del tutto fuori moda. Quelle lezioni
collettive erano state le uniche occasioni per me di incontrare i miei
compagni di gruppo nell’arco di 20 giorni, ma proprio durante
quella conversazione mentre ci sparavamo a tutta birra addosso al
nostro unico e solitario avversario, scoprii che gli allenamenti
continui erano stati solo i miei.
Come detto da Martin nel nostro discorso di tempo
fa, io ero speciale, e capace di cosa che nessun altro avrebbe mai
immaginato. Scoprii che mentre mi scannavo contro il mio robot in
solitario nella mia saletta d’allenamento, i miei compagni di
gruppo se la spassavano altrove a fare salotto. Tutto questo in orario
extra a quello di addestramento, che invece Martin mi aveva fatto
credere che proseguisse ininterrottamente, mandando qualcuno a
raccontare ai miei amici che io ero troppo stanca dopo i normali
allenamenti per potermi godere una serata con loro.
Fu raccapricciante giungere alla conclusione
senza l’aiuto di nessuno, senza parlarne con nessuno. Ma poi
successe, sempre durante quel duello collettivo, che la mia
comunicazione con gli altri membri del clan s’interruppe
così come quella col coordinatore, lasciando attiva
solamente la privata col capitano.
All’inizio non me ne accorsi. Credei
semplicemente che si fossero azzittiti tutti affinché
mantenessimo la concentrazione, ma poi sentii la sua voce.
-Emily-.
Non risposi, e in sospesa per aria a cinque metri
da terra, mi voltai lentamente verso di lui che era dal capo opposto
della sala d’allenamento. Lucy, Emmett ed Harry tenevano
occupato il robot e anche loro, del tutto presi dal combattimento, non
si accorsero di noi che avevamo tagliato in quel modo i contatti e la
partecipazione.
Provai a nascondere l’imbarazzo causato
da quell’inusuale modo di parlarci, anche se fin ora aveva
parlato solo lui e pronunciato non più di cinque lettere, ma
nonostante ciò io già arrossivo spudoratamente.
Non solo mi mostrai in quello stato, ma sulla mia
faccia regnava ancora quell’espressione sconvolta che era
rimasta lì da quella mattina, quando realizzai cosa
realmente si fosse mosso per la base in quelle ultime tre settimane.
Anche attraverso il vetro oscurato del casco,
sapevo bene che uno come Turner non si lasciava sfuggire quando un
componente del suo gruppo era poco concentrato
sull’addestramento, poco presente, ecco. L’aveva
captato nei miei gesti, nei miei attacchi e nella mia poca resistenza,
e quel duello collettivo non serviva ad altro se non a fare altrimenti:
studiare i comportamenti altrui e riconoscere eventuali anomalie da
prevenire e soffocare alla radice.
Ma quella volta l’intervento del
capitano fu diverso; non appena mi fu abbastanza vicino da poter
riuscire a guardarmi negli occhi, lo ascoltai pronunciare parole che mi
lasciarono ancor più sconvolta.
-So cosa sei- aveva detto. –So cosa sei
veramente,
Emily. Come capitano, Lewis e i componenti del mio clan non hanno
segreti per me. So tutto, ogni cosa. So che sei come Alex, e so che
cosa hai patito in queste tre settimane; so anche che l’hai
capito solo ora- si lasciò sfuggire una risatina, ed io un
sorriso.
Lo lasciai proseguire, senza interferire nel suo
bel discorso.
-Non c’è bisogno che lo
nascondi, non c’è bisogno che nascondi il tuo
sconforto, almeno non ora. Per adesso continua a combattere, e
così facendo vedrai che ti sentirai meglio. Ne riparliamo
dopo a quattr’occhi- disse, dopodiché lo guardai
allontanarsi così com’era venuto.
Aveva detto poco, eppure le sue parole mi
colmarono il cuore di gioia e orgoglio, quasi stessi cominciando a
divenire fiera di quel che ero, della resistenza che avevo dimostrato
nei miei allenamenti individuali e della forza di cui ero diventata
padrona.
Furono Harry ed Emmett a prendersi tutto il
merito del combattimento, perché con due colpi ben piazzati
e in perfetta sincronia erano riusciti a mettere definitivamente al
tappeto la lattina col ciuffo rosso.
Quella sera festeggiammo davvero, assieme ad una
cinquantina di Angeli che come noi avevano mandato k.o. il robot
d’addestramento almeno una volta, mentre gli altri avrebbero
dovuto ripetere il combattimento durante la settimana successiva,
quand’invece noi saremmo stati spediti all’estero,
fuori da questa noiosa e monotona base.
Lewis Martin comparve improvvisamente alle nostre
spalle, retto sull’ingresso della mensa con attorno la sua
solita guardia personale composta da una dozzina di militari umani.
Nella sala piombò il silenzio, e il vecchio capo mosse
qualche passo in avanti.
-Sono contento che vi stiate divertendo- arrise
guardandosi attorno. –Altrettanto felice che abbiate passato
con successo queste tre intensive settimane- fece allegro.
–Ma perdonate se interrompo il vostro giovanile festeggiare,
ma c’è una cosa che voglio dirvi, e
un’altra che voglio rammentarvi, ed entrambe di vitale
importanza- prese una lunga pausa. -… il tempo corre, il
nostro nemico si fa di giorno in giorno più potente e
accanito, e le sue ricerche silenziose nella nostra base
l’hanno condotto a schiaccianti verità che lo
attirano ancor più presentemente contro di noi.
Intrufolandosi in casa nostra, Mercer è entrato a conoscenza
di file segreti riguardanti il Governo Americano e voi, e quindi nessun
altri. I vostri dati personali, i nomi dei vostri figli, delle vostre
madri, dei vostri padri e dei vostri parenti sono ora alla
mercé del nemico, e spero che questo basti a far aumentare
in voi la voglia di staccargli la testa; ma c’è
una cosa, una soltanto, di cui lui non è a
conoscenza…- abbassò di poco la voce, riducendola
quasi ad un sussurro. –C’è una cosa che
speriamo lo colga di sorpresa, un fattore che fin ora ha continuato ad
ignorare e speriamo continui a farlo anche in futuro…
un’arma segreta che da pochissimo abbiamo contro di lui, ma
che non potremo mostragli se non nel caso più estremo di
tutti!- sibilò.
Fece una lunga pausa per aumentare la sospance e
ricominciò a camminare tra i tavoli.
-Qualche giorno fa, mentre Zeus era impegnato a
trafficare come al solito per l’Isola e voi intenti nei
preparativi alla caccia, io e un gruppo di capitani abbiamo sottratto a
Mercer ciò che lui ha di più prezioso, forse
l’unica cosa che lo rende umano. Sappiamo
quanto Alex tenga a quello che gli abbiamo rubato, e siamo certi che
non esiterà a venirsela a riprendere non appena
verrà a sapere che ne siamo in possesso- disse.
–Per tanto- prese fiato fermandosi e voltandosi verso di noi,
squadrandoci uno alla volta. –Alcuni clan resteranno nella
zona della base e controlleranno il perimetro giorno e notte. Gli
altri, i tiratori scelti, se così possiamo classificarli,
verranno spediti a Manhattan e non vi faranno ritorno fin quando il
nemico Mercer non sarà del tutto eliminato! Ribadisco quindi
che alcuni di voi, volontari, ovviamente, potranno restare a
sorveglianza della base e della nostra arma segreta. A voi la scelta,
miei Angeli- scandì bene. –Detto ciò-
sulle sue labbra affiorò un nuovo sorriso.
–Divertitevi-.
Lasciò la sala con al seguito la sua
squadra di militari, e nessuno lo vide più di lì
alla mattina successiva. Con la musica e l’alcol dimenticai
presto le sue parole, senza rifletterci sopra per non più di
una manciata di minuti. Pessima cosa.
Giorno
dell’infezione 408°
Popolazione
mondiale infetta: 09,32%
«Sono trascorse tre settimane dalla mia
ultima visita in casa del nemico. Sarebbe andato tutto liscio se non
fosse stato per quei maledetti segnalatori che hanno cominciato a
funzionare nel posto giusto al momento sbagliato.
Ciambelle
volanti del cazzo… ho pensato.
Le luci intermittenti sono diventate subito rosse
non appena quell’affare mi è passato sopra la
testa. Ho gettato l’arma a terra e ho cominciato a correre,
mentre alle mie spalle sentivo gridare: -Eccolo! Sparate!-. Che idioti:
gliel’avevo fatta sotto il naso, ero riuscito ad ingannare
prima le vedette ai posti di blocco sull’isola, poi i
segnalatori termici della loro base, e ora persino il gruppo scelto che
mi sta alle calcagna. Si sono levati in volo spiegando le loro
“ali”. Così le chiamano. I militari ai
quali mi ero mimetizzato hanno continuato a spararmi addosso, ma
indistruttibile, ho sfoggiato la mia robusta armatura, e quasi i
proiettili mi rimbalzavano addosso tornando alla fonte. Una scena
comica. È stato ancora più facile raggiungere il
tetto della base e fare piazza pulita di una grande quantità
di polli. Uno dopo l’altro cadevano come foglie secche che
piovono dagli alberi. La furia nata in me in quegli istanti era grande
a tal punto che avrei potuto annientarli tutti.
Tutti.
Tranne uno.
Mi correggo: una.
Si è fiondata ad inseguirmi, con la
sua bella tutina e il corpicino da bambola che avrei potuto spezzarla
come uno stuzzicadenti. Mi ha sfidato, si credeva divertente e forte
quando l’ho vista gettarsi a capofitto dal palazzo, venendomi
incontro che neppure eravamo a cento piedi dal marciapiede. Alle fine
ho fatto quello che ho ritenuto giusto, ho schivato un suo scarso
tentativo di afferrarmi ed ho sfruttato la sua forza contro di lei. I
vetri sono andati in frantumi come fossero di carta, ma lei non si
è fatta nulla: nessun graffio, nessuna goccia di sangue.
Si è rigenerata, come succede a
me…
L’ho vista tentare di rialzarsi, stava
per togliersi il casco, ma poi le ho fatto la domanda che temevo, la
domanda che forse avrei dovuto farle al singolare.
-Cosa
sei?- avrei dovuto chiederle. Ma già una volta
avevo visto succedere quelle cose, già una volta avevo visto
la pelle rigenerarsi ad uno di loro, ad uno come lei. Già
avevo avuto l’onore di conoscere qualcuno come me, qualcuno
che dovevo assolutamente dimenticare; qualcuno che poi ho dimenticato.
-Cosa siete?- le ho chiesto.
Ha messo a dura prova la mia pazienza, e non mi
ha risposto.
Lì non ci ho visto più.
Mi sono scagliato su di lei, le ho stretto la
gola, l’ho minacciata con gli artigli e il pugno, le avrei
spaccato la faccia senza alcuna difficoltà! Le ho fatto
altre domande, esitava, ma finalmente ha risposto. Meglio per lei. Alla
fine il tempo stringeva, correva troppo per me e ho dovuto accorciare:
le ho chiesto un nome, ma lei me ne ha dato uno inutile, che non avevo
mai sentito, che non mi riportava a nulla se non al punto di partenza.
Infiltrandomi tra loro avevo scoperto quello che
mi serviva sapere, avevo scoperto qualcosa che era di vitale
importanza. Qualcosa che mi ha del tutto sconvolto, e dovevo parlarne
con chi vicino mi era sempre rimasto…»
Tornato dalla mia escursione fuori
dall’isola, mi precipitai al riparo sotto i tetti conosciuti
di quella che ora chiamavo “casa”.
Era notte fonda, il buio pervadeva ogni angolo di
quella strada, e il silenzio, amaro, pesante, opprimente quasi, faceva
schiave le vite che abitavano i palazzi attorno e camminavano a loro
rischio sui marciapiedi. Ogni tanto passava un carro armato, ogni tanto
era in volo un elicottero, ogni tanto passeggiava un militare con
l’arma stretta al in pugno; ogni tanto non passava nessuno, e
durante quel “ogni tanto” passavo io.
Mi avvicinai all’ingresso della
palazzina, salii i gradini camminando normalmente. Sprofondai
nell’oscurità del mio cappuccio e alzai un
braccio; citofonai. Attesi allungo, guardandomi attorno circospetto e
scrutando oltre la mia ombra che si proiettava sulla parete
dell’edificio. Squillai una seconda, una terza volta. Ma solo
quando in me cominciò a crescere la paura che fosse successo
accaduto, capii che probabilmente quello che avevo pregato non
avvenisse, era successo.
-Dana…- mormorai sgranando gli occhi.
Mi piegai sulle ginocchia, caricai e in fine
spiccai un balzo. Corsi lungo il muro del palazzo, camminando
verticalmente tra un mattone e l’altro. Raggiunsi il piano e
mi fermai trasformando il braccio destro. Affondai i cinque artigli nel
cemento, mentre con l’altro pugno spaccavo i vetri della
finestra. Mi fiondai all’interno dell’appartamento,
ritrovandomi nel salottino che collegava le varie camere dello studio
medico di Regland, al quale avevo affidato la mia sorellina.
-Dana- chiamai ancora. –Dottor
Regland!- provai.
L’interno era buio, più buio
della strada e della notte stessa; i miei poteri mi permisero di vedere
oltre l’oscurità, ma ciò di cui mi
accorsi non avrei mai voluto guardarlo.
La mobilia, i divani, il tavolo erano sotto
sopra. Carte sparse ovunque sul pavimento, fogli ancora volanti,
impronte fresche di esseri umani e un odore diverso dagli altri che non
riuscii ad identificare, che seppi solo assimilarlo come
un’agente sconosciuto del Virus, una puzza nauseabonda che
avevo imparato a riconoscere. La mia visone termica vedeva tracce
dappertutto.
D’un tratto sentii una voce, come un
lamento.
-Aiuto!- era flebile, indistinto e veniva dalla
stanza accanto. Andai in quella direzione, spedito come un proiettile.
Entrai nella camera, e quello che vidi fu il corpo di uomo con una tuta
nera mimetica che si trascinava al suolo grondante di sangue. Aveva un
coltello piantato nel petto, moriva con dolore. L’arma gli
era scivolata via di mano ed era finita sotto un tavolo della stanza.
Era un militare.
Ci fu un attimo di totale silenzio, ma non appena
mi riconobbe e le sue labbra sussurrarono il mio nome, tentò
di riafferrare il fucile stendendo un braccio.
Lo precedetti e gli fui addosso, afferrandolo per
la collottola dell’uniforme. Affondai un pugno nel suo
costato, e sentii il suo sangue mescolarsi al mio nel frastuono dei
suoi piedi che battevano a terra. Si dimenava, ma durò per
poco. Una scia di immagini e suoni mi riempì la testa; mi
portai entrambe la mani a spingere sulle tempie, e poi vidi:
Sbatte una
porta, è un corridoio. Piombano in salone, armati;
c’è una ragazza sul divano, e un vecchio di colore
che indossa camice e occhiali affianco a lei.
-Eccoli! In
alto le mani, forza!- grida un uomo con una tuta nera.
-Dana,
fa’ come dicono!-.
-Dottore, che
sta succedendo?!- è spaventata. –Chi siete?!-
grida la giovane.
-State zitti,
state zitti!- ripete l’uomo. –Avanti, alte le mani
e fuori da casa! Avanti!- continua, mentre punta l’arma che
ha in pugno alla nuca dell’anziano dottore.
La ragazza
corre verso una stanza, apre la porta. È scappata.
-Tu! Prendi la
ragazza!- grida l’uomo.
-Sì
signore- un cadetto la insegue, sparisce nella stanza.
Si sentono
degli spari; un grido, e una voce che dice: -Dannata! Maledetta
puttana!- e un corpo che cade a terra con un coltello piantato nel
petto, pesante, un’arma che scivola sul pavimento, due occhi
che si socchiudono. Un respiro ansante, dei gemiti. La ragazza
indietreggia, ma un altro militare compare alle sue spalle e
l’afferra.
-Signore, ha
ucciso Chase!-.
-Sicuramente
non è morto! Forza, portatela via! Lei e il vecchio!-.
Nel silenzio,
una voce chiama aiuto.
Sono in
strada; la ragazza e il dottore sono a terra in ginocchio.
L’uomo con la tuta nera si avvicina: ha due siringhe, punge
il braccio ad entrambi e poi fa cenno ai suoi uomini di caricare i
corpi addormentati sull’elicottero che è
lì accanto.
Squilla un
cercapersone alla cintura di un ragazzo. -Comandante- fa egli.
–Ci richiamano alla base- dice.
-Questo
è un brutto segno- digrigna il capitano. –Contatti
il settore, sergente-.
-Sissignore!-.
La
comunicazione è attiva; parla l’uomo: -Li abbiamo
presi-.
-Di fretta,
comandante, portateli qui. Che nessun uomo resti a terra. Ripeto: che
nessun uomo resti a terra. Mercer non deve entrare in contatto coi
nostri piani-.
-Siamo in
volo, signore!-
«… Ero arrivato troppo tardi.
Avevano portato via Regland… e Dana.
Erano entrati in questa stanza e avevano Mi
avevano sottratto ciò a cui tenevo di
più…
Non potevo credere che fosse vero. Non potevo
credere che stesse ricominciando tutto da capo. Prima gli Angeli, e
adesso di nuovo il Governo che mi tormenta! Mi sono trascinato in
piedi, ho rischiato persino di battere la testa da qualche parte, ma
ero talmente sul punto di collassate che sarei potuto cadere sulle mie
stesse gambe da un momento all’altro.
Era troppo. Avevano osato troppo. Non rimasi
neppure a chiedermi come li avessero trovati. Non rimasi a chiedermi
nulla. Il tempo di farsi domande era ufficialmente finito. Era ora di
darsi delle risposte. Ed ero ben intenzionato a tornare a caccia di
vite. Di tutti quegli uomini che ho assorbito…
Di tutti quegli uomini che ho
assorbito…
Di tutti quei civili di cui ho letto le
memorie…
Di tutti quei corpi in cui mi sono
tramutato…
Ho sempre pensato che finalmente fossi giunto ad
un buon punto, che finalmente avrei potuto dire basta a questa fame di
sangue e morte altrui! Assaporavo la fine! Ero giunto alla conclusione,
il circolo vizioso della mia memoria stava finendo! Ma poi…
Sono arrivati loro.
Gli Angeli.
Divenuti i miei nuovi nemici, hanno riaperto in
me una vecchia ferita.
E perciò non ho motivo di risparmiare
loro la vita.
È stata una loro scelta quella di
schierarsi dalla parte perdente, dalla parte dei deboli, degli
sciocchi. Dei nemici.
Sono loro gli unici che hanno causato tutto
questo. Io sto solo cercando di fermarlo. Nel corso di
quest’anno ho fatto molto: io da solo quasi il doppio di
quello che hanno combinato loro in 300! Ho abbandonato i costumi della
ricerca al mio passato, ho dato una speranza all’America, ho
aiutato i bisognosi! E ancora insistono…
Gli sono scomodo, forse? Pensano che sia di
troppo? Oppure danno la colpa a me se il Virus è arrivato in
Europa e in Giappone? Pensano che sia colpa mia, e ora che ho varcato
il confine dell’isola, troveranno questo pretesto altrettanto
interessante per giustificare la loro mania omicida che hanno verso di
me!
Bhé, si sbagliano di grosso.
La mia caccia è appena cominciata, e
non potrò dichiarare vittoria fin quando tutti i pezzi del
mio puzzle non saranno al loro posto. Solo quando le mie carni
assorbiranno il responsabile del rapimento di mia sorella! Solo allora
potrò dire basta. Solo allora ne avrò fin sopra i
capelli della gente falsa e indegna che mi ha fatto questo.
Ma fino ad allora…
…Non ci sarà
pietà…
Per nessuno.
All’inizio ero disperato; ciondolavo
per la casa di Regland potendo sentire quasi le lacrime pungermi gli
occhi. Stavo provando sensazioni che avevo del tutto dimenticato.
Paura…
Avevano trovato Dana. Avrebbero potuto farle
qualunque cosa, avrebbero potuta usarla contro di me. Questo sentimento
mi annientava, mi distruggeva demolendo le mie difese invalicabili,
rendendomi debole al nemico. Un sentimento che sì, in
effetti avevo del tutto dimenticato, e al quale non ero per nulla
preparato.
E rabbia…
Oh, questa la conoscevo bene, molto bene. Nacque
in me poco a poco, ma quel tanto che bastò perché
le mie braccia tramutassero da sole. Mi rivestii di fasci neri come la
notte e rossi come il sangue, ben intento a versarne
dell’altro quella sera stessa. Ho soffocato un grido colmo di
furore e la forza che ha sprigionato il mio corpo in
quell’istante sbaragliò via i mobili
dell’angolo cucina e spezzò le pareti. Quando di
nuovo attorno a me ogni cosa muta è ritornata, i miei occhi
hanno brillato di un rosso acceso nel buio del cappuccio.
Mai svegliare la bestia che dorme.
Mai.»
Novità in corso: punto di panoramica
da Alex Mercer! XD Una novità bella e buona, almeno spero.
Mi spiace solo per Dana e Regland che nella mia storia non si sentono e
non si vedono, e ora sono anche stati rapiti! ^^’’
Questo è un buon motivo che spinge Alex a continuare ad
agire nel suo solito modo. Solo che sta volta lo attendono tante belle
sorprese… muhahaha!!! Tengo a chiarire che durante quel
famoso anno trascorso nel silenzio che non ho descritto, Alex ha
abbandonato la caccia al suo passato. Questo probabilmente non
l’ho ancora menzionato, o se l’ho fatto si nota
troppo poco per dargli conto. Invece è un aspetto importante
e che avrei dovuto approfondire: mi servirà più
in là quando lui ed Emily s’incontreranno di
nuovo, e già questo è un grande spoiler! Per
quanto riguarda il primo capitolo introduttivo della ff, quello che
narra delle vicende nel futuro, a distanza di un altro anno, trattasi
di qualcosa che riprenderò tra le mani con non poche
probabilità verso la fine della storia stessa. Nel gioco le
vicende di Alex sono spezzettate da alcuni filmati che mostrano
l’ultimo giorno dell’infezione, nella mia ff, per
ora, e avendo altri tre capitoli pronti da postare, ancora non si
prevedono interruzioni temporali di quel genere.
Chiarito questo punto, aspetto i vostri commenti!
E sono pronta a ripostare da subito non appena avrò le
vostre recensioni! Muahahaha! Mi dispiace solo per renault.
O.o’ ammetto che non è molto che ho postato il
12° capitolo, ma sarà andata in vacanza pure lei?
Almeno avvertisse!!! Grrr!!! XD Ma vabbé!
A presto!
Elik.
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Capitolo 14 *** Capitolo 14° - Cinque minuti ***
Capitolo 14°
- Cinque minuti
Giorno
dell’infezione 408°
Popolazione
mondiale infetta: 09,32%
Fu la
prima volta, di lì ad un anno che bevvi qualcosa di alcolico
e particolarmente forte. Poi chissà, non fui neppure molto
certa che avesse avuto effetto, dato che di droga me ne facevo da sola
nella mia testa pensando e ripensando un centinaio di volte a quello
che mi attendeva là fuori nelle prossime ore.
Seduta
accanto ad Emmett e completamente abbracciata ad Harry che provava la
stessa ebbrezza di una buona birra, persi del tutto la cognizione del
tempo, ma soprattutto avevo perso di vista il capitano.
Sgranai
gli occhi guardandomi attorno, cercando di scorgere la sua figura tra
le luci a intermitezza e la musica messa a palla, come in discoteca.
-Emmo,
dov’è Turner?- domandai attirando la sua
attenzione.
Il
ragazzo si strinse nelle spalle, comodamente stravaccato sul divanetto
tra cuscini e bottiglie vuote. –Che ne so- rispose.
-Aveva
delle pratiche da sbrigare- disse Lucy seduta al suo fianco, con un
braccio di lui che le cingeva la schiena. –Come tutti i
capitani, del resto- aggiunse.
-Che
pratiche?- chiesi ancora.
La
ragazza non seppe rispondermi, mentre con non poca sorpresa mi accorsi
di come Harry mi era crollato addosso addormentandosi.
Lucy
scoppiò a ridere non appena se ne accorse, e con una certa
fatica riuscii a metterlo seduto, ma Harry Brown crollò dal
capo opposto della poltrona finendo con la testa fuori dal divano.
-Poveraccio!
Deve non reggere molto bene l’alcol, il ragazzo- fece Emmett
terminando in quell’istante un’altra bottiglia di
birra. –Bene!- si alzò tutto energico e
afferrò la sua ragazza per i fianchi, sollevandola in aria e
poggiandosela sulla spalla a mo’ di sacco di patate.
-Ehi!-
sbottò Lucy. –Mettimi giù!-
ridacchiò.
-Non
so te, Emily, ma io e la mia bambolina andiamo a fare un
po’di baldoria come si deve- fece malizioso il ragazzo,
mentre Lucy si dimenava sulla sua spalla. –Domani prevedo che
sarà una giornataccia!-.
Mi
lasciai scappare una risatina sommossa a quelle parole, non riuscendo
ad evitare alle mie guance di arrossarsi. Chissà se per
l’alcol e per l’esplicito messaggio.
Li
salutai entrambi con un gesto della mano. –A domani- sorrisi
osservandoli avviarsi, e una volta scomparsi dalla sala mensa addobbata
per la festa, rivolsi la mia attenzione ad Harry che ancora
sonnecchiava completamente steso sul divano, riducendo il mio spazio a
meno di cinquanta centimetri.
-E
tu?- ridacchiai. –Non hai ancora abbordato nessuno qui
dentro?- chiesi, ma nonostante avessi rivolto la domanda ad Harry che
probabilmente non mi avrebbe risposto, si poteva benissimo dire che
stessi parlando da sola, con me stessa.
Harry
Brown era un gay dichiarato, e mi era sempre stato parecchio simpatico.
Lui era da sé parecchio simpatico, solare, qualche volta
scontroso e depresso, ma comunque se la cavava in questo mondo stato
particolarmente ingiusto con lui.
Guardai
il vecchio e grande orologio appeso sopra l’ingresso della
mensa e, tra una luce colorata e un’altra, riuscii a scorgere
l’ora, che si era fatta anche troppo tarda.
Decisi
di occuparmi di Harry e lo presi in braccio, ricorrendo a parte dei
miei poteri per poterlo portare fino nella sala comune del nostro clan.
Poi lo accompagnai nella sua stanza e lo adagiai sul letto.
Aprii
le finestre per far circolare un po’ d’aria, e in
fine lasciai la camera in balia di una corrente primaverile
rinfrescante.
Mi
diressi nei miei alloggi e decisi di indossare al posto
dell’uniforme da Angelo qualcosa di meno formale,
così mi spogliai della canotta aderente nera a cuciture
rosse e vestii il mio corpo del solito paio di jeans corti assieme ad
una camicetta bianca.
Tornai
nel salone comune, ma mi ritrovai con le mani in mano guardandomi
attorno senza nient’altro da fare che non fosse il mio
passatempo preferito: mi avvicinai alle ampie vetrate e cominciai a
guardare fuori, scrutando oltre l’oscurità e
raggiungendo con lo sguardo e la mente l’isola
aldilà del fiume nero. Se mi concentravo, potevo
già assaporare l’acre odoraccio di quelle strade,
insaporite dal Virus e da una puzza di bruciato che ustionava la
lingua.
I
bagliori dei focolari ancora accesi e dei segnalatori degli elicotteri
militari che sorvolavano la zona, davano a quel luogo un che
d’intrigante e spettacolare, davvero attraente.
In
breve mi ritrovai del tutto sommersa da quei pochi ricordi che avevo
delle mie trasferte sull’isola. Dagli scontri contro i
“virussati” di piccolo calibro, alle patite
più ardue contro i cacciatori, fino ad arrivare agli assalti
militari nei quali mi ero ritrovata coinvolta.
Il
filo dei miei pensieri venne bruscamente interrotto dal suono della
porta d’ingresso del salone che si apriva, e quando mi voltai
scorsi una figura avanzare distrattamente verso un lato della stanza,
dirigendosi verso un’altra delle porte.
Con
molte probabilità non si era accorto che fossi
lì, mezza nascosta dall’oscurità, ma io
mi ero perfettamente accorta di lui.
-Capitano
Turner- dissi seria, e l’uomo
s’immobilizzò dov’era.
-Emily,
Martin mi ha mandato a chiamarti. Ti aspetta nel suo ufficio-.
Quando
i suoi occhi balenarono nel buio fermandosi a scrutare la mia ombra,
cercai di assumere una posa di poco più dignitosa.
–Dovevamo parlare, signore, si ricorda?-.
Cole
restò per un istante paralizzato dalle mie parole.
–Sì, mi ricordo- pronunciò contegnoso.
–Ma non qui- si apprestò ad aggiungere, e
proseguì spedito oltre l’ingresso.
–Vieni- mi disse, ed ubbidii come si trattasse di un ordine.
Il
capitano mi condusse fino nella sala comune del suo clan partito per
l’Europa, del quale era rimasto solo lui. La stanza era ampia
e identica a quella abitata dal mio gruppo, fatta eccezione per
l’ordine impeccabile, il buio anomalo e il silenzio mostruoso.
Un
volta lì, Cole accese qualche luce ma si diresse subito
verso la sua stanza.
«La
camera di un capitano è di molto più spaziosa
delle nostre, ma sistemata in modo molto simile.
C’è una scrivania affiancata ad un solo armadio a
parete. Un ampio letto doppio, comodo, nonostante siano davvero poche
le occasioni in cui dormiamo. Non siamo abituati a sprecare tanto tempo
prezioso, e non necessitiamo di ripristinare in quel modo le nostre
energie. Il pavimento fresco in alcuni punti è coperto da un
semplice strato di moquette bianca, e le grandi finestre sul lato
occidentale della camera contribuiscono, se aperte, a mantenere fresco
l’interno. Il resto sono uno specchio da terra alto quanto
me, qualche mobile vario, un quadro qua e là tanto per
riempire le pareti e un piccolo bagno adiacente allo stanzino. Poi, a
seconda della mansione che svolge l’Angelo che vi abita, ci
sono dei cassettoni, nel caso del capitano, che ospitano documenti e
referti medici di ciascuno dei membri del suo clan. Assieme a dettagli
clinici e genetici che vengono continuamente aggiornati dal comandante
stesso.»
Cole
gettò sulla scrivania la cartella che aveva sotto braccio e
andò a scostare le tende da davanti le finestre, illuminando
la camera della luce artificiale che veniva da fuori assieme ai suoni
della strada.
Restai
in piedi fin quando, seduto sulla sedia della scrivania, Turner non mi
fece gesto di fare altrettanto sullo sgabello che mi attendeva di
fronte a lui.
Quando
finalmente fui sistemata, guardai curiosa come gesticolava con alcuni
foglio all’interno della cartella che aveva davanti.
C’erano delle mie vecchie foto scattate da un obbiettivo
nascosto; mi riconobbi qualche anno fa a Central Park mentre
passeggiavo con William, poi in un’altra istantanea ero in un
locale con alcuni miei vecchi compagni
dell’università, in una cena commemorativa per la
professoressa uccisa dal Virus che ancora era agli stadi più
giovane e trascurabili.
-Prima
ero anch’io nel suo ufficio: ho parlato con Lewis della tua
situazione, mi ha spiegato tutto quanto, ma di molte cose avrebbe
voluto parlartene di persona- disse Turner.
-Andrò
da lui più tardi- dichiarai schietta.
-Come
preferisci…- sospirò il ragazzo.
Mi
mostrò documenti di nascita, cittadinanza, espatrio,
passaporti e poi altre foto che ritraevano, sempre da un obbiettivo
nascosto, i miei più cari amici e parenti. Non appena ebbi
tra le mani un’istantanea dei miei genitori e me che mi
compravano il gelato all’età di quattro anni, non
riuscii a fermare quella lacrima bastarda che mi scivolò
sulla guancia senza aver prima chiesto il permesso.
Apprezzai
il gesto che stava facendo, desideravo tanto vedere quelle foto,
ricordarmi cos’ero stata io e cos’era stata la mia
vita prima di entrare in questa base. Restai a tal punto commossa dal
vedere quelle foto, che dopo quella lacrima solitaria ne scesero delle
altre.
D’un
tratto nel mio campo visivo, ancora incollato a
quell’istantanea durante una felice giornata estiva a Central
Park con la mia famiglia, comparve una mano del ragazzo che mi porgeva
un fazzoletto. Lo afferrai tremante e mi ci asciugai gli occhi che, una
volta staccati da quelli di mia madre nella foto, si sollevarono fino
nei suoi.
-Grazie…-
mormorai.
Cole
mi sorrise tristemente. –Questi ricordi tu li hai, ma hai
sempre cercato di allontanarli… perché?-.
Mi
lasciai sfuggire una risatina isterica. –Già, e
chi lo sa…-.
-Sai
da chi sono state scattate, vero?-.
Annuii
mordendomi un labbro.
-E
suppongo che tu sappia il perché, vero?- insisté
allungandosi verso di me.
Annuii
di nuovo, distogliendo lo sguardo da lui e tornando a fissare
l’istantanea che avevo tra le mani. –Parlami di mio
padre…- mormorai, e lo colsi alla sprovvista.
–L’incidente- dissi. –Parlami di come lo
conosci…-.
-Mi
ero quasi dimenticato di parlartene…- ridacchiò.
–Ma lui avrebbe voluto che tu lo sapessi- sospirò.
–Quel giorno dell’incidente Walker fece domanda al
suo comandante di poter rimpiazzare il suo tiratore, il quale si era
giusto indebolito un po’ ma sospettava che fosse contagiato.
Tuo padre scelse me, che all’epoca me la cavavo benino con le
mitragliatrici d’assalto, ma che non avevo idea di come si
funzionasse quella di un elicottero-.
-Eri
nell’aeronautica?- domandai.
-No,
non proprio…-.
-E
allora come…-.
-Scarseggiavamo
di uomini, Emily. Il Virus aveva già raggiunto Central Park
e inglobato tutta l’area commerciale, nella quale si trovava
la nostra base. Era già molto se alcuni di noi respiravano
aria pulita, e Alex non migliorava le cose!- sbottò.
–Prima di diventare un Angelo da volontario, mi occupavo
delle torrette ai posti di blocco sui ponti. Ma ancora prima ero capo
cannoniere nella recita scolastica delle elementari. Ero nato per
diventare un tiratore scelto, e i miei mi hanno buttato dentro la
scuola militare a sedici anni. Ma tornando a tuo padre… come
già sapevi, un gruppo di cacciatori ci aspettavano sul tetto
di un alveare, e assaltarono l’elicottero di tuo padre in una
dozzina. Inesperto, non riuscii a salvare l’elica posteriore
che andò in fiamme non appena uno solo di quelle bestiaccie
ci si gettò addosso. Tuo padre afferrò il suo
paracadute e lo porse a me, e non sapendo che altro fare lo accettai.
Tutto questo nell’arco di pochi secondi, e nessuno
poté far nulla per salvarlo. Dal tetto del nido, guardai
l’elicottero precipitare tra gli edifici e una volta a terra
mi fiondai in quella direzione, senza rispondere nemmeno ai comandi
dell’ufficiale lì presente, che stava coordinando
l’assalto all’alveare con una decina di
carri-armati a disposizione. Ho trovato la carcassa
dell’abitacolo, una radio non funzionante ma nessuna traccia
di tuo padre, ma quando mi accorsi che era sopravvissuto e
probabilmente si era allontanato dalla zona, capii effettivamente
perché l’avesse fatto. Era precipitato nel fuoco
incrociato tra cacciatori e carri corazzati dell’esercito. Da
codardo sono fuggito, e non l’ho mai più rivisto;
una volta rientrato alla base, ho ascoltato la registrazione inviata da
tuo padre pochi minuti dopo lo schianto dell’elicottero.
Parlava degli Angeli, e da lì l’idea di unirmi a
loro. Da quel giorno ho sempre pensato di aver preso questa scelta per
tuo padre, per onorare il suo coraggio. Ma ora basta…- fece
un gesto con la mano come scacciando degli altri pensieri.
–Torniamo alle questioni più serie…-
disse.
Ancora
scombussolata da quelle tante parole, Cole non mi diede altro tempo per
rifletterci.
-Te la
senti di continuare?- mi chiese con calma il capitano porgendomi
un’altra foto, una di cui non avevo alcun ricordo, e come
risposta l’afferrai e la guardai.
Ritraeva
una bambina con dei fanciulleschi capelli neri acconciati a caschetto.
La frangetta laterale gli cadeva davanti agli occhi azzurri,
nascondendone uno. Il viso tondo, un po’ paffutello, ma
invece del sorriso tipico dei bambini che mi aspettavo di trovarvi,
intravidi una smorfia di paura sulle sue piccole labbra rosa. Indossava
un cappottino rosso e dei pantaloncini jeans, assieme a delle ballerine
nere. La foto le era stata scattata da qualcuno o qualcosa che sembrava
metterle tutta quella paura che si specchiava nei suoi occhi, mentre
sullo sfondo comparivano alcuni uomini vestiti di camici bianchi e
altri di tute integrali e asettiche, quasi quella povera bimba
nascondesse un virus letale e loro ne dovessero tenere la distanza.
Guardare
quella foto mi fece venire un improvviso giramento di testa che sapevo
non fosse affatto un buon segno. Mi portai una mano alla tempia,
tentando di compensare il dolore che cominciava a premermi in quel
punto, mentre una sfilza di flash e immagini mi correvano davanti agli
occhi che tenevo chiusi stretti.
-Emily-
mi chiamò Cole dandomi uno scossone. –Emily!-
disse ancora.
Non
avrei resistito allungo, lo sapevo; da un momento all’altro
un nuovo doloroso ricordo degli esperimenti che avevano fatto su di me
sarebbe tornato a galla, lo sentivo. Lasciai che la foto mi scivolasse
via dalla mano finendo a terra, sotto la scrivania.
Il
dolore divenne insopportabile, incontenibile, e alla fine cedetti.
È
una stanza buia, e nel centro c’è uno spesso
lettino di metallo. Il sangue è ovunque sul pavimento e
sulle pareti. Tre ombre si muovono nel buio, d’un tratto si
accende una luce.
-Dottore,
il risultato è negativo- pronuncia una voce di donna.
-Dannazione…-
erompe qualcun altro.
-Le
abbiamo stimato qualche anno di vita, signore, nel caso la reazione non
si manifesti come vogliamo- dice ancora la donna.
Le
ombre si spostano, si avvicinano al lettino di metallo sul quale
è stesa una bambina, il cui corpo e nascosto sotto una
plastica che le fa da coperta.
-La
soluzione allora è una soltanto… dobbiamo
rimetterla al mondo e aspettare che manifesti qualche sintomo al
contagio. Blacklight farà il resto…-.
-Sì
signore- dice un’altra voce maschile.
-Dobbiamo
assicurarci che i genitori ignorino l’accaduto,
e…- la donna sembra preoccupata.
-Lasci
stare i suoi parenti, dottoressa!- sbraita l’uomo.
–Non abbiamo tempo per queste sciocchezze. Abbiamo una
scadenza da rispettare-.
-Lo
so signore, ma…-.
-Niente
ma. Rimettete la bambina nella civiltà e tenete
d’occhio qualunque dei suoi contatti. A cose fatte, dovremo
preoccuparci di ben altro-.
-Ovvero-
dice l’altro ragazzo –la caccia ad un nuovo
paziente, e che questa volta risulti positivo!-.
-Abbiamo
già alcuni nomi, ma adesso non ha importanza- sbotta il
più anziano.
Le
tre ombre si allontanano dalla stanza e la luce si spegne di nuovo; la
camera torna avvolta da un manto nero pece, due occhi azzurri brillano
nell’oscurità.
Tornai
in me poco a poco, accorgendomi di essere completamente appiccicata al
capitano Turner, le cui braccia mi circondavano la schiena mentre le
mie gli cingevano il collo. Mi lasciai pervadere dal calore del suo
corpo, addosso al quale mi ero gettata non appena abbassate le difese
all’interno della mia testa. Avvinghiata a lui quasi con le
unghie, a cavalcioni sulle sue gambe, come una bambina che ha appena
scoperto il mostro nell’armadio, e come tale tremavo
impaurita.
Una
sua mano premeva sulla mai nuca, accompagnando la mia testa
delicatamente poggiata sulla sua spalla. –Emily- mi
sussurrò all’orecchio.
Il mio
respiro affannato e irregolare pareggiava i battiti col mio cuore in
tumulto, che si agitava a tal punto da farmi male contro il torace.
-Emily!-
ribadì più presente, e la sua voce
improvvisamente più dura mi fece sobbalzare.
Sciolsi
la presa delle mie braccia da attorno il suo collo e mi allontanai da
lui con violenza, continuando a tremare. Balbettai qualcosa
d’incomprensibile con gli occhi gonfi di terrore, e non
appena Cole mi colse in quello stato, avrebbe preferito che tornassi ad
abbracciarlo.
-Che
cosa hai visto?- mi domandò un volta che ritrovai rifugio
nell’incavo del suo collo.
-Quello
che già… sapevo- ingoiai.
-Cioè?-.
-La
Blackwatch…- dissi. –…Hanno voluto loro
che tornassi libera… e hanno aspettato che il virus
maturasse, ma…-.
-Ma?-
insisté lui.
-Ma
non è successo…-.
-Questo
è quello che pensi- sbottò il ragazzo.
-No.
È quello che so- risposi io più sicura di me.
Quella
volta mi scostai da lui più dolcemente, tenendo lo sguardo
basso e cercando di non pensare alla situazione assurda (e soprattutto
alla posizione assurda) nella quale ero incappata. Ma solo cercando di
non pensarci, mi ritrovai lo stesso costretta a pensarci e questo
presupposto mi diede una scusa per lasciare che, nonostante le
circostanze, le mie guance si colorassero non poco.
-Adesso
va’- fece più tranquillo. –Martin ti
starà ancora aspettando nel suo ufficio-.
-Grazie…
per il tuo aiuto- mormorai.
Il
ragazzo mi sorrise. –Non ho fatto nulla-.
Mi
allungai verso di lui e lo baciai.
«Avevo
fatto proprio quello che mi ero prefissa di non fare entrando in quella
stanza.
Era
stato solo un flebile tocco, quasi una carezza delle mie labbra sulle
sue mentre il suo respiro mi sfiorava una guancia. E poi aveva fatto
tutto io! Di mia iniziativa, di mia spontanea volontà! E non
avevo idea di come avrebbe reagito, di cosa mi avrebbe detto, del modo
in cui mi avrebbe rimproverato solamente guardandomi.
Insomma… parlandoci chiaro: lui è il capitano, ed
io una maledetta matricola capitata nel posto sbagliato al momento
sbagliato, per di più pericolosamente infetta! Non avevo
scuse, non potevo nascondermi dietro alcun pretesto che non fosse
l’alcol e la situazione scassa-crani dalla quale venivo
fuori. Ero del tutto sconvolta, frastornata mentalmente dal ricordo
passato pochi minuti prima. Una come me non poteva reputarsi sana, in
tutti i sensi, e quella era l’eventualità nella
quale una come me non sarebbe mai dovuta inciampare.
Le
persone come me, come Alex, come Elizabeth… non possono
provare questi sentimenti.
A loro
non è più concesso fare certe cose, a quelli come
loro… mi correggo: come noi… non hanno e mai
più avranno la possibilità di vivere come persone
normali. Da una parte era interessante, allettante convincersene,
perché avevo sempre considerato la mia vita troppo monotona,
simile a quella di tutti gli altri, ma del resto una tale
mentalità era piuttosto diffusa, comune, ecco. Ma comunque
sia, non ebbi affatto il tempo di continuare a torturarmi con certi
pensieri, perché qualcuno che credevo di conoscere
abbastanza bene, trovò un modo più interessante
di trascorrere il resto della serata…»
Feci
per allontanarmi, non ricevendo alcuna risposta da lui che era rimasto
immobile fino ad allora, fissando il vuoto dritto di fronte a
sé. Mi ero ormai quasi convinta che quello fosse un suo modo
di rifiutarmi, di rimproverarmi, come dicevo io, ma invece, proprio
nell’istante in cui provai a scendere dalle sue gambe
tornando composta sulle mie, sentii le sue dita stringersi attorno al
mio polso.
Voltai
di un quarto la testa e mi accorsi che anche lui si era alzato, e che
mi guardava dall’alto con un brillio anomalo negli occhi che
non seppi distinguere.
Si
chinò alla mia altezza avvicinandomi a sé e un
suo braccio girò attorno alla mia vita.
Il suo
fiato bollente mi s’infranse sulla pelle sensibile del collo,
socchiusi gli occhi del tutto inebriata del suo profumo e lo lasciai
giocare col mio corpo per quanto lo desiderasse.
Lambì
delicatamente la pelle della mia schiena, portando una mano sotto il
tessuto della camicetta. Nascosi l’imbarazzo della situazione
chiudendo gli occhi e abbassando la testa, così che i
capelli mi ricadessero davanti al viso nascondendo il colorito
intuibile non solo delle mie guance, ma del volto in generale.
Guardai
a terra, dandomi un solo motivo in più per maledirmi di
quello che stavo facendo, per rimpiangere ogni mia azione commessa
negli ultimi cinque
minuti.
Cole
mi sollevò il mento e incatenò ogni mio altro
pensiero all’interno del mio corpo, sigillando
l’ingresso sul mio viso con un bacio dolce e sereno, quasi
potessi sentirlo sorridere mentre le nostre labbra si toccavano.
Quel
gesto cambiò del tutto la mia prospettiva, così
trovai il coraggio necessario per sollevare i lembi della sua maglietta
e spogliarlo del tutto di quell’indumento, che lasciai
scivolare dalle mie mani dimezzando la distanza che ancora ci separava.
Saggiai
la solidità dei suoi muscoli circondandomi del suo calore,
del suo profumo. Lo costrinsi ad indietreggiare, fin quando non si
trovò intrappolato tra il mio corpo e il tavolo. Con un
movimento svelto gettò a terra tutto il materiale su esso
risposto: i miei documenti, i certificati medici, le fotografie mie e
dei miei familiari svolazzarono per la stanza sonoramente andando a
posarsi sulla moquette. Dopo aver fatto un po’ di spazio, le
sue mani tornarono a lambire il mio corpo, sempre più in
basso. Arrivato poco sotto le natiche, mi sollevò da terra
facendomi sedere sulla scrivania e sistemandosi tra le mie gambe.
Approfondì il bacio, con un tale trasporto che mi diede i
giramenti di testa. Gli circondai il collo con le braccia e affondai le
mani nei suoi capelli, mentre serravo le ginocchia attorno ai suoi
fianchi attirandolo minuziosamente verso di me.
Mi
sbottonai da sola il primo bottone della camicetta, ma cedei a Cole
l’onore degli altri sei. Lasciai correre ogni cosa, dando una
giustificazione, una scusa ad ogni mio gesto e pensiero; nonostante mi
risultasse molto difficile “pensare” in
un’occasione simile.
D’un
tratto lo sentii esitare, sopprimendo poco a poco il vortice di
sensazioni ed emozioni che trasmettevano ad entrambi il desiderio di
andare avanti. Allontanò le sue labbra dalle mie e si
appoggiò con i pugni stretti sul tavolo; alzò lo
sguardo e cercò il mio.
-Lewis
ti sta aspettando- mormorò improvvisamente serio come se mi
stesse dando un ordine. –Non è il caso- scosse la
testa guardando a terra.
Lo
fulminai con un’occhiataccia gelida. –Al Diavolo
Martin, Alex e la Blackwatch- sbottai.
Il
ragazzo inarcò un sopracciglio, ma prima che potesse
aggiungere altro mi avventai su di lui serrandogli la bocca con un
altro bacio.
La sua
presa sui miei fianchi si fece più salda, e senza troppa
difficoltà mi alzò dal tavolo, si
voltò e lasciò che cadessimo entrambi sul letto.
Cinque
minuti cambiano la vita delle persone…
Disse
una volta qualcuno, ed io mi ero appena giocata i miei.
Hmm,
lo ammetto! Non ero tanto sicura di far succedere questa
“cosa” tra Cole ed Emily, ma siccome voglio
drammatizzare il futuro (big spoiler °-°) mi serviva
che accadesse. Perciò, non disperate se può
sembrarvi insensata e stupida come cosa! Cole Turner in questa storia
uno scopo ce l’ha, e ho già scelto di quale si
tratta.
Però
ora passiamo ai fatti:
*****
Link:
Ecco
qualche immagine di Emily
Elaborata
da me per voi su carta
Durante
la vacanza in Grecia! ^-^
Emily
1
Emily
2
Emily
3
Non
sono un granché come artista,
ma
trovo divertente raffigurare i personaggi delle ff! XD
*****
Vediamo
se riesco a postare un altro capitolo già sta sera! XD
X
Saphy:
qui c’è il Link al vestito di Margaret della tua
FF sua AC come lo
immaginavo. Ovviamente è solo una bozza e anche solo una
parte; l'ho dovuto rifare, l'originale è andato perduto
prima che facessi in tempo a fotografarlo! Spero che ti piaccia e di
averci azzeccato, almeno con il collo a V e le maniche nere! XD *-*
------> LINK
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Capitolo 15 *** Capitolo 15° - Rifiutate richieste d'aiuto ***
Capitolo 15°
- Rifiutate richieste d’aiuto
Giorno
dell’infezione 408°
Popolazione mondiale infetta: 09,32%
«Si
tratta dello stesso confine
che ho varcato ben due volte nelle ultime settimane, ed è
segnalato da blocchi militari, armati di torrette, piazzati sui ponti
principali della città. Attrezzati di segnalatori, missili
termici e quant’altro, restano tutt’ora piazzamenti
voluti dal Governo del tutto inutili, gestiti da gente davvero
deficiente che di qui a 365 giorni fa ha permesso che gli infetti
transitassero, chissà come, fuori
dall’isola…
Per
farla breve, è un anno che il Virus miete vittime fuori da
Manhattan, e quei maledetti piazzamenti militari ancora vietano il
transito ai poveri sfollati che cercando di abbandonare
quest’Inferno desolato. Perché non si arrendono?
Perché non lasciano fuggire gli ultimi sani
dall’isola e concentrano le loro forze altrove?!
Perché continuare a perseguire una causa che non esiste,
perché?!
È
un anno che il Virus ha sbarcato sulla costa est.
È
un anno che il la Russia e il Giappone registrano un numero sempre
crescente di casi infetti.
Ma
è sempre un anno che il settore Angels del progetto Gabriel
mi da la caccia.
Sciocchi.
Gli ho
visti partire, tre settimane fa: grossi stormi di uomini e donne alati
che puntavano verso sud, ad un’altezza di forse un centinaio
di metri ed una velocità impressionante.
È
stato quel vedere a far nascere in me la bastarda curiosità
di indagare.
Inutile
continuare a nascondermi dove è situata la loro base, cosa
che ho sempre saputo ma sempre ignorato per mancanza di tempo.
Finalmente, però, il tempo e il pretesto per ficcare il naso
nei loro sporchi affari l’ho trovato, scoprendo anche
parecchie cose interessanti.
Un
contatto all’interno della loro azienda sa più
cose che io non so sul progetto Blackwatch. Sembra che qualcosa sia
andato per il verso giusto (barra) sbagliato in uno dei primi
esperimenti segreti. Accanto ad Elizabeth, la Gentek ha sfornato
qualcun altro che però nel corso degli anni non ha
manifestato la reazione al Virus che tanto si desiderava.
Lo
stesso agente del virus che scorre nelle mie vene sembra averlo qualcun
altro. Ma questo qualcuno è vissuto del tutto
nell’anonimato, sotto sorveglianza continua della Blackwatch
in attesa dei primi sintomi al trattamento.
Mi
sono lasciato sfuggire l’unico dal quale avrei potuto
scoprire qualcos’altro: un nome che ho sentito pronunciare da
quella ragazza… Lewis Martin. Un’altra volta, quel
bastardo dovrà vedersela con me.
Ma
comunque, assorbito o no, continuo oggi a pagare il prezzo dei miei
sbagli. Percepisco oggi il peso dei miei errori. Assaporo il sapore
amaro della sconfitta, dell’ignoranza, della resa. Ed
ora…
Non ho
né un volto, né un profumo, né un
nome. Non ho assorbito nessuno che sappia dirmi qualcosa di utile, e
forse l’unica persona che mi sono lasciato indietro
è stata quell’Angelo alla quale ho risparmiato la
vita, come uno sciocco.
Pietà.
Può
dirsi questo un sentimento umano? Forse, perché seppur con
poche probabilità che emerga, qualcosa di umano in me ce
l’hanno lasciato.
Il Blacklight…
questo nome non mi è mai piaciuto, e giuro che sono
involontari i brividi lungo la spina dorsale che sento al solo
pronunciarlo. Se non fosse per quella cerchia di pazzi che un giorno
decisero di fare un po’ di casino nel mondo, ora non sarei
qui, ma molto probabilmente lontano da questa merda di prigione che
è la mia testa, vuota di ricordi e abbondante di rabbia! La
Gentek può dichiararsi fuori combattimento, il Paziente Zero non
è più un problema; i mali peggiori della mia vita
forse sono risolti… già, forse! Ma ogni nemico
che anniento, il Governo Americano riesce a mettere le mani su qualcosa
che ne sforna altri due.
All’inizio
ero già certo che quel gruppo di esseri scelti e
geneticamente modificati fossero nati per darmi la caccia. Molti di
loro già mi intralciavano quando ancora seguivo
l’ombra di Elizabeth Greene, e la quantità di
mosche che mi danno fastidio è aumentata da ieri ad oggi, ma
solo ultimamente si è strettamente dimezzata per via di
questi raduni di massa fuori dal continente.
Le mie
ricerche mi hanno condotto fuori dall’Isola. Katrine
è morta 13 mesi fa; Regland e Dana sono scomparsi. Cerco la
mia vendetta, la mia redenzione, ma questa volta più
motivato e disperato di prima. Sono a caccia di chi sta ancora tentando
di intralciarmi. A caccia di chi mi sta rendendo debole, privo di
morale. A caccia di chi mi ha tolto quel poco di umano che restava in
me, quel poco di amore che serbavo per ciò che resta della
mia famiglia…
Finalmente
so chi sto cercando e chi mi ha fatto questo, finalmente ho capito! E
sono stufo di provare compassione per quei bastardi. Gli Angeli non
sono affatto un problema: trascurabili, deboli insettini che si
spiaccicano sul parabrezza della mia auto. Aspetterò che
vengano da me, che la mia
trappola sia quella vincente. Come mosche si fulmineranno
e cadranno verso il cemento di strade distrutte e palazzi in fiamme.
Ma
sento che qualcosa mi sfugge, che sto dimenticando un particolare di
vitale importanza, e questo mi manda in bestia!
Molto
nel profondo delle strade di questa città, sotto a
tutto…
Sotto
a macerie di palazzi, sotto canali puzzolenti e fogne intasate di Virus
e abitate da profughi…
Sotto
ad ogni mia presunzione, ad ogni mio grande timore, ad ogni mio
sbaglio…
Sotto
a tutta questa merda che è ora la mia vita,
c’è qualcuno che mi sta rallentando; qualcuno di
cui devo sbarazzarmi al più presto, qualcuno che sta
tentando di fermarmi, di uccidermi…
È
qualcuno nato con il solo scopo di farlo.
Ed io
lo troverò.
Ma per
vincere questa battaglia ho bisogno dell’aiuto di un amico.
L’aria
qui è putrida del Virus: compatta, quasi pastosa. Alcuni
residui del Bloodtox persistono mescolati al raro ossigeno. Il cielo
è nascosto dietro una coltre di nuvole basse e gassose, di
un colore innaturale simile al rosa salmone, che alla luce lunare di
una notte senza stelle paiono uno spento ammasso rosso porpora.
Così cala la sera nelle aree nord-occidentali
dell’isola di Manhattan, dove il sole all’orizzonte
si nasconde pigro ma svelto dietro i grattacieli della sana costa
ovest, quella porzione di terra oltre il fiume e fuori dal confine di
contenimento.
Le
attività portuali di questa zona sono immobili da
più di un anno. Un anno di detriti di cantieri navali e
vecchi magazzini, un anno di confusione e paura in mezzo ai profughi
ancora sani che si sono accampati sotto questi vecchi tetti
arrugginiti, dove non sono più solo.»
Mi
avvicinai ad uno degli antichi cantieri, mi calai abile giù
da una parete e atterrai silenzioso sulla terrazza di cemento, al
centro della quale c’era un grosso lucernario. Mi ci tuffai
all’interno e, piegando le ginocchia, fui nel centro
dell’ampia sala senza pareti.
Mi
nascosi nell’ombra di uno spesso pilastro, attesi che fossero
passati i due agenti militari che avevo fiutato, poi, silenzioso, mi
avvicinai alle loro spalle e affondai entrambi i pugni nelle loro
schiene. Non ebbero neppure il tempo di gridare, solo un lamento
strozzato e il suono delle loro armi che scivolarono via dalla loro
presa, finendo a terra sull’asfalto polveroso.
Li
assorbii entrambi in pochi secondi, e già mi sentivo molto
meglio, più forte e rigenerato di quanto non lo fossi stato
un minuto prima.
Rimasi
immobile nel centro dello spiazzo, esattamente sotto il lucernario dal
quale ero entrato. Mi guardai attorno con vigili occhiate, senza
voltare neppure la testa. E ancora aspettai.
Poi un
suono, e qualcuno si trascinò pesantemente in piedi alzando
della polvere poco distante da me. Sorrisi e andai nella sua direzione.
Il
vecchio ubriacone sollevò un lembo dello scatolone nel quale
era nascosto e alzò gli occhi verso di me. In mano, tra le
dita sporche e il tessuto di ciò che resta dei suoi guanti,
ancora stringeva una vecchia bottiglia di vodka. –Temevamo
che non saresti mai tornato, grande eroe- sussurrò lui.
«In
questo rudere mi chiamato tutti “grande eroe”. Per
loro non sono chi ha fatto
tutto questo, ma bensì rappresento chi sta combattendo per fermarlo. Parlo del
Virus, e di come la Gentek si sia approfittata di me e delle scoperte
mediche risvolte nel progetto dei Blackwatch traendo da entrambi solo
vantaggi. È stato un breve periodo di baldoria, per
quell’agenzia: poi sono arrivato io e ho fatto un
po’ di casino.
I
profughi che vivono in capanne di lamina di metallo sotto il tetto di
questo vecchio cantiere, sono i miei unici veri amici, ma sarebbe
meglio dire alleati,
compreso il mezzo cieco che ho davanti.
Come
lui, in questo putrido stato ce ne sono a centinaia, e abitano tutta
questa zona del porto di Manhattan. Una zona poco controllata da
militari, poco gestita e abbandonata a sé stessa dopo che le
immissioni del Blootox hanno fatto il loro dovere.»
Non
appena gli porsi una mano, l’uomo si aggrappò di
peso al mio braccio, ed io lo tirai su senza fatica.
-Grazie
per aver fottuto quei figli di puttana!- ridacchiò in piedi
traballante. –Stavano per scoprirci-.
-Manderanno
altre pattuglie- dissi io seriamente, facendo balenare i miei occhi
argentati nell’ombra del cappuccio che mi celava il volto.
–E potrei non arrivare in tempo la prossima volta-.
-Oh,
Alex, cosa faremmo senza il tuo aiuto?!- esultò stringendomi
riconoscente la mano.
-Non
sono qui per salutare- sbottai fulminandolo con un’occhiata
gelida. –Devo vedere Max-.
L’uomo
restò un attimo interdetto dalle mie parole, e
tentò invano di studiare le mie intenzioni osservando
l’espressione contegnosa sotto il cappuccio.
Dopo
poco si arrese dicendo: -Va bene! Vieni, ma fa’ silenzio. Qui
la gente dorme…- borbottò avviandosi verso una
fragile scaletta a chiocciola che saliva fino ad un piano superiore
improvvisato su alcune travi di legno e cemento.
Lo
seguii stando ben attento alle tende dei profughi che incontravo sul
mio cammino, e non appena fui ai piedi della scala, cominciai a salirla
gradino dopo gradino.
Chissà
quand’è stata l’ultima volta che ho
salito una scala in modo normale… Mi chiesi,
ricordando di preferire la via più rapida delle pareti o
dell’aria per spostarmi da un piano all’altro di un
edificio.
Una
volta al secondo piano del cantiere navale abbandonato, il vecchio
ubriacone mi fece strada fino in fondo, attraverso altre tende di
profughi impegnati in quell’ora della notte in un sogno poco
tranquillo.
La
passerella di cemento e travi di legno finiva, e proprio negli ultimi
due metri di tragitto sorgeva una normalissima tenda fatta di stracci e
colorata di diverse toppe. Dall’interno proveniva un leggero
chiarore di una lampada accesa, accompagnato ad un chiacchiericcio di
due voci che sussurrano un discorso articolato e motivato.
Prima
che potessi anche solo avvicinarmi, dall’ingresso della
“reggia” emerse una ragazza dai capelli
castano-biondi raccolti in una coda alta. I comuni vestiti
appositamente strappati in vari punti per renderli più
comodi. Non appena mi fu accanto e dopo avermi riconosciuto, mi volse
un flebile e sincero sorriso come saluto.
Ero
lì lì per ricambiarla, ma preferii restare a capo
chino fin quando non si fu allontanata abbastanza. La sentii proseguire
sulla passerella, ricordandomi di ciò che gli avevo visto in
mano: un kit medico ed una siringa nell’altra.
-Avanti,
entra- mi riscosse dai miei pensieri il guardiano ubriaco.
Mi
avvicinai alla tenda, scostai un lembo di questa e mi chinai per
entrare.
L’interno
era stretto, ridotto allo spazio necessario per tenere un comodino di
legno mangiucchiato dagli insetti, qualche cartella medica sparsa qua e
là sul pavimento coperto di vecchi tappeti, dei cuscini
sporchi di sangue. Il tutto illuminato da una lampada attaccata ad una
prolunga che pendeva dal soffitto. Vidi delle provette contenenti
strani liquidi rossastri sistemate con disordine su una mensola
piantata sulla parete di fondo. C’era inoltre una piccola
branda sulla sinistra ed un mobile a cassetti sulla destra.
Catturò
subito la mia attenzione la stretta gabbia di metallo adagiata sopra
una bassa libreria. Al suo interno, dietro le sbarre, colsi solo
l’ombra di quello che mi parvero una coppia di uccelli neri e
col becco nascosto nelle piume del petto; due spennate Corvi dormivano
rannicchiate in quella posa, l’una attaccata
all’altra riscaldandosi a vicenda in quella fredda nottata di
silenzio.
Distolsi
lo sguardo, ma non perché mi sentissi scaldare il cuore da
quella visione, bensì perché a far correre il mio
sguardo altrove fu il rumore di un vetro che andava in frantumi.
-Dannazione!-
un uomo che riconobbi subito, soprattutto per via del camice bianco
sbrindellato e consumato che indossava, si chinò a
raccogliere i frammenti di vetro da terra, stando ben attento a non
toccare con le dita nude il liquido che vi si era liberato.
«Si
chiama Max, ma qui dentro è conosciuto come il
“Corvo” perché quand’era
bambino aveva un intero allevamento di quelle bestiacce, ed ora ne
tiene due anche nella sua tenda. Sulla cinquantina. I capelli grigi
raccolti disordinatamente, molto alla Beethowen. Gli occhialetti
nascosti tra una ciocca e un’altra, la barba lasciata
crescere.
È
a questo barbone che devo la mia vita.
Ci
siamo conosciuti qualche giorno dopo che gli ho assorbito uno dei suoi
uccelli (lo stesso giorno in cui mi sono sbarazzato della bomba
nucleare e del capo
cacciatore). C’è rimasto talmente
male, che all’inizio neppure mi rivolgeva la parola, ma poi
è successo una specie di miracolo, ad entrambi.
Prima
dell’avvento del Virus, Max era un uomo normale come tutti i
profughi nascosti in questo capanno. Un tempo aveva una famiglia, una
moglie, due figlie. Quando è iniziata
l’Apocalisse, un bombardamento militare ha colpito la sua
casa che aveva in una zona di Manhattan che fu la prima ad essere
recintata e assoggettata dai militari. Sua moglie morì sul
colpo, ma lui e le sue figlie riuscirono a lasciare il quartiere prima
di rimetterci le penne.
La
più piccola, Susan di quattordici anni, venne contagiata e
il Virus prese una brutta piega in lei; non appena Max lo
capì, preferì sopprimerla piuttosto che vederla
in quello stato tipo zombie girovagando ignobile e assetata di sangue
per la città. Qualche settimana più tardi, la
maggiore, Lisa ormai diciannovenne, si staccò da suo padre a
causa di un gruppo di agenti militari che pattugliavano le strade;
esattamente come i due che ho ammazzato prima. Non la uccisero, ma non
voglio neppure pensare cosa le fecero. Fortunatamente la ragazza
riuscì a fuggire, divenne autonoma a Manhattan senza
riunirsi al padre per diversi mesi, e Max non ebbe più sue
notizie.
Fu in
quel periodo, quando Corvo girovagava da solo per l’isola ed
io ero ancora a caccia del mio passato, che lo incontrai raccontandogli
di come il suo uccello mi avesse salvato la vita. Lui
ascoltò la mia storia, ed io ascoltai la sua, mentre,
rifugiato in un palazzo distrutto dai bombardamenti, già
raggruppava le speranze di poter lasciare l’isola. Il suo
campo profughi cresceva, ma fu la sua laurea in medicina a darmi
un’ottima scusa per tornare a trovarlo quasi tutte le sere.
In un qualche modo era riuscito a sostituire Regland, il quale poco
tempo prima l’avevo del tutto dato disperso assieme a mia
sorella. Fu una mano santa poter ricevere il suo aiuto per continuare a
gestire i miei poteri, dei quali sembrava intendersi non poco.
Ovviamente a lui non dissi nulla del loro rapimento, e il nostro
rapporto continuò ad essere sempre professionale, legato
soprattutto da un patto di sopravvivenza.
Io
assicuravo a lui e il suo campo profughi sano una trasferta sicura e
priva di pattuglie militari, nonché una barca clandestina
fino alla costa ovest, e lui mi prestava il dovuto supporto medico.
La mia
vita prese una piega differente giusto una settimana fa.
Lisa
rischiò grosso durante una sera, quando un gruppo di
cacciatori l’aggredirono mentre cercava delle provviste per
il gruppo profughi sani che lei aveva messo su da sola, qualche mese
dopo essere fuggita dai militari e aver perso suo padre di vista.
Passavo
da quelle parti.
Ho
sentito le grida.
L’ho
salvata.
Non ha
voluto dirmi il suo nome, ma ferita l’ho portata da Corvo che
l’ha riconosciuta subito. Da allora Max è
diventato l’esatto opposto dell’uomo che avevo
sempre considerato solo un appiglio per la mia malattia. Dopo aver
rivisto sua figlia ed essersi reso conto che io non avevo fatto altro
che portargli buone novelle, mi ha preso in simpatia come membro del
suo campo.
In
questo punto della storia è nata la nostra amicizia, basata
non più sul patto che sigillammo quella notte che ci
conoscemmo per le strade di Manhattan, ma bensì un
sentimento che ci accomuna sotto un solo tetto: la speranza.
Da
allora gli ho sempre prestato il mio corpo per dirigere i suoi
esperimenti, e la sua indagine sul Virus Blacklight spero che un giorno
lo conduca ad una cura. Se non lui, so che nel mondo esistono persone
che già conoscono quell’antidoto, ma probabilmente
sono fuori dalla mia portata.
Mi
sono arreso a questa convinzione stabilendo in me nuovi ideali. Vado e
sempre andrò a caccia del mio passato; continuerò
a correre dietro chi mi ha fatto questo e sta contribuendo a farlo
continuare, perché sono sicuro al cento per cento che
qualcuno che se la passa meglio degli altri c’è, e
deve pagare per quello che ha fatto a questa gente, alla gente che
ancora patisce quest’Inferno rinchiusa dentro
un’Isola che d’infetto ormai ha solo
l’aria.
Ma
soprattutto…
Deve
pagare per avermi portato via mia sorella.»
Era
talmente preso dal suo lavoro, che non si accorse di me neppure quando
mi passò affianco per raggiungere uno scaffale alla mia
destra. Afferrò un libro e cominciò a sfogliarne
delle pagine tutto concentrato.
Mi
lasciai sfuggire un sorriso quando adocchiai che cosa stava leggendo:
era uno dei suoi diari, nei quali appuntava generalmente tutte le
possibili mutazioni ed effetti che il Virus aveva su un essere umano.
Annotazioni che si curava personalmente di prendere soprattutto quando
uno dei profughi ospiti nel suo campo prendeva l’infezione.
A
farmi ridacchiare in quel modo fu il fatto che fosse così di
fretta, e che avessi visto sua figlia uscire dalla sua tenda con quella
siringa nella mano.
Scossi
la testa guardando a terra. –Quando la finirai di sopprimere
i tuoi pazienti come animali?- feci allegro.
L’uomo
si lasciò sfuggire di mano il libro per la sorpresa.
–Dannazione, Alex!- sbraitò. –Mi hai
fatto prendere un accidenti- blaterò chinandosi a
raccogliere il volume.
-Dovresti
indossarli ogni tanto quegli occhiali- lo derisi.
-Smettila
di burlarti della mia vecchiaia, e dimmi perché sei qui!-
sibilò abbassando la voce. –Oggi è
stata una giornata infernale! E non ho affatto del tempo da dedicarti,
mi spiace-.
-È
per il Virus?- domandai tornando serio.
Il
vecchio ripose il libro sullo scaffale, assieme agli altri.
–Sì- pronunciò passandosi una mano in
volto. –Ho mandato Lisa ad occuparsene, ma forse non avrei
dovuto…- mormorò.
-È
un bene che quella ragazza ti dia una mano- dissi invece io.
-Sì,
sì! Lo so!- fece esasperato alzando gli occhi al cielo.
–Ma già detesta doversela vedere con i portatori
malati fuori dal campo!- indicò l’esterno.
–Figuriamoci quelli che sviluppano dentro il
gruppo…- borbottò.
Restai
interdetto da quelle parole. –Cosa…?!- domandai
stupito.
-Hai
sentito bene- mi fulminò con un’occhiataccia.
–Si stanno manifestando sempre più spesso, e non
c’è nulla che possa fare- scosse la testa.
–Ho provato a rallentare i sintomi, ad alleviare il dolore,
ma non ho nulla tra le mani che possa fare altrimenti!-.
-Calma-
lo rassicurai calandomi il cappuccio sulle spalle. –Prima
stavo scherzando…- dissi. –Non pensavo che dovessi
davvero sopprimerli come… animali- assentii flebile.
Casi
di contagio si stavano manifestando all’interno del campo che
Max e sua figlia avevano messo su affinché riuscissi a
trovar loro un modo per lasciare l’isola; ma lo stretto
contatto tra un individuo e l’altro, la scarsa igiene e
prevenzione stava aumentando drasticamente le percentuali. E
così Max si trovava in mano la responsabilità di
dover spegnere la vita altrui prima che il Virus assumesse una forma
sia negativa che positiva.
-Non
potevi saperlo, però sono costretto, Alex. Se almeno
vogliamo portare fuori di qui una piccola percentuale di noi, sono
costretto a non tollerare nessuno- dichiarò sicuro di
sé.
Lo
guardai allungo negli occhi, e lui fece altrettanto. –E se
Lisa…-.
-Non
devi neppure pensarlo!- sbottò fissandomi in cagnesco.
–Porteresti solo sfortuna…- si
massaggiò la fronte andando a sedersi sul letto.
–Tengo troppo alla mia bambina, non so se sarei capace di
fare a lei quello che ho fatto alla sua sorellina e quello che faccio
tutt’ora alla mia numerosa famiglia…-
spalancò le braccia. –Capisci?- guardò
me. -Non posso concedere il tempo al Virus di svilupparsi, non posso
dare al paziente il tempo di scoprire se si tratta di un portatore sano
o malato perché nel frattempo contagerebbe gli altri. Da
quando si sono manifestati i primi casi, eseguo esami ogni 12
ore…- mormorò afflitto. –Ma non
è sufficiente…- si portò le mani al
volto, nascondendolo dietro di esse.
Rimasi
in piedi nel centro della tenda, osservando quanto negli ultimi giorni,
durante la mia breve assenza, quell’uomo si fosse distrutto
l’anima.
-Ma
cambiando argomento- sorrise affabile guardando verso di me.
–Perché sei qui di quest’ora?- mi chiese
più tranquillo.
Ancora
una volta mi stupii di come riuscisse ad isolare ogni suo turbamento
restando sempre concentrato sul prossimo.
-Mi
serve il tuo aiuto- dissi.
-Come
sempre!- rise il vecchio alzandosi e sistemandosi di fronte a me.
–Cosa posso fare per te, ragazzo?- domandò
sorridente stringendomi le spalle.
Lo
guardai allungo negli occhi, attendendo che in parte riuscisse ad
intuire il casino che avevo fatto.
Lentamente
perse la compostezza che aveva, trasformando il suo sorriso affabile in
una smorfia. –Che cosa hai combinato ‘sta volta?-
chiese preoccupato e arrabbiato.
-Io?
Io nulla- mi strinsi nelle spalle.
-E
allora avanti, parla-.
-Hanno
preso Regland- sbottai. -…E Dana- conclusi.
Il
vecchio sbiancò all’improvviso. –Oh
Santa la Miseria…- ma si riprese in fretta: -Dannazione,
Alex! Te l’avevo detto che avresti dovuto portarli da me!
Tutta Manhattan ormai è una zona rischiosa dove stare! Ma
almeno qui avremmo potuto proteggere tua sorella meglio di quel vecchio
cane!-.
Affondai
il mento nel petto. –Già, ben detto…-.
-Quando?-.
-Non
lo so con esattezza…- scossi la testa. –Quando
sono tornato allo studio questa notte, l’ho trovato sotto
sopra, e ho ricavato qualche informazione da un militare mezzo morto
che ho sorpreso ancora vivo ma con un coltello piantato nel petto. Da
allora non ho fatto altro che cercare, cercare, cercare…-
feci una pausa. –E adesso sono qui-.
-Perché
non sei venuto subito da me?! Se hanno Dana con sé, chiunque
siano, vogliono tenderti sicuramente una trappola! Sciocco, non devi
andartene in giro così come hai fatto fino ad un anno fa!
Ora le armi per annientarti ce le hanno, dannazione!-.
-Lo
so!-.
Corvo
sospirò. –Hai scoperto almeno chi
c’è sotto?- si passò le mani in volto.
-La
Blackwatch. Sono ancora attivi, da qualche parte…- sibilai.
-No,
ti sbagli- scosse la testa. –Quelli lì hanno
rinunciato a riprendere le redini su di, Alex. Dev’esserci
qualcun altro…- blaterò.
-Chi
se non la Blackwatch, gli Angeli?- ipotizzai.
-Mah,
è altamente improbabile-.
-E
come fai a dirlo?- insistei. –Smettila di difendere quei
bastardi. Ora che tenteranno di uccidermi, dovresti essere contento!-
eruppi.
Max mi
fulminò con un’occhiataccia. –Quella
gente fa un onesto lavoro di pulizia della città almeno
quanto te. Ho saputo che alcuni di loro sono partiti per
l’Europa, Alex. Sono dei bravi ragazzi- annuì.
-Non
esserne così convinto!- ringhiai. –È
vero, alcuni di loro sono partiti per l’Europa, ma non vuol
dire un accidenti. Non fanno beneficenza, è tutto nei loro
interessi! Sono stato dall’altra parte della costa, e
lì ho scoperto delle cose sconvolgenti, Max! Dietro il
progetto “Gabriel” si cela la Blackwatch, qualcuno
tra loro è come me e non ha altro scopo se non eliminarmi! E
adesso so che sono stati gli Angeli!-.
-Aspetta
un attimo…- m’interruppe.
-Che
c’è?!-.
-Come
sai tutte queste cose?- mi chiese truce.
Alzai
gli occhi al cielo esasperato. –Ho varcato il confine,
ma…-.
Il
vecchio sbiancò dalla rabbia. –Tu che cosa hai
fatto?!-.
-Hai
sentito bene..- ridacchiai.
-Non
farmi il verso, ragazzino- mi rimproverò. –E
spiegami bene: quando, dove, perché!?- sembrava fuori di
sé. –Hai varcato il confine! Ti rendi conto?! Ora
è il minimo che ti diano la caccia! La colpa
dell’espansione del Virus ricadrà su di te, e gli
Angeli ti staranno addosso come le api al miele!-.
-Forse
non avrei dovuto dirtelo- mi voltai e feci per uscire della tenda, ma
l’uomo mi afferrò per il cappuccio tirandomi
indietro.
-Scordatelo
che tu vada a raccontare le tue pene a qualcuno che non sono io,
Mercer- eruppe scontroso. –Starò ad ascoltarti, se
è quello che vuoi, ma non puoi vietarmi di rinfacciarti
quanto tu sia un totale idiota!-.
Mi
voltai di colpo, e involontariamente tramutai una parte del mio
braccio. –No ho bisogno che me lo ricordi…- serrai
la mascella.
-Adesso
calmati- mi diede una leggera spinta. –Non sei nella
condizione di minacciarmi-.
-Perché?!
Come fai a dirlo?!- mi avvicinai a lui e quasi lo sovrastavo in
altezza, nel frattempo che le cinque dita della mia mano tramutavano in
qualcosa di più appuntito e letale. –Come fai ad
essere così sicuro che da un momento all’altro ti
tagli la testa, razza di…-.
-Perché
non lo vuoi- fece un minuzioso sorriso stringendosi nelle spalle.
–O non saresti venuto fin quaggiù a chiedermi
aiuto- ridacchiò sistemandosi gli occhialetti.
Cedetti
del tutto alle sue parole, tranquillizzando il mio animo e di
conseguenza il mio corpo. –Grazie…- mormorai poi.
–Perdonami, non so che cosa mi sia preso-.
-Oh,
invece io lo so bene- si beffò il vecchio dandomi le spalle.
-E
sarebbe?- feci spazientito.
-Il
motivo del tuo turbamento, a parte il fatto che sei uscito
dall’isola, sta per entrare nella mia tenda- rise sotto i
baffi il vecchio Corvo.
Mi
voltai a guardare l’ingresso della
“reggia” di Max, e mi accorsi in tempo di una
figura che scostava un lembo della tenda entrando per metà.
-Papà,
ho fatto tutto…- la ragazza s’interruppe non
appena si accorse della mia presenza. -…Alex-
mormorò, e inevitabile fu che le sue guance si colorassero
di un rosa più intenso.
-Lisa,
vieni avanti- la chiamò Max dal fondo della tenda.
–E vedi se riesci a pulire il pastrocchio che ha fatto il tuo
vecchio, ecco proprio qui a terra- indicò il punto in cui si
era frantumata la fiala.
La
ragazza distolse violentemente i suoi occhi dai miei, e si
avviò verso il suo compito. Prese una pezza da un mobile e
si chinò ad asciugare l’impiastro rosso che si era
rovesciato sul cemento, evitando fortunatamente parte dei tappeti.
La mia
occhiata si allungò oltre il dovuto, attratta a tal punto da
poter scorgere nel dettaglio un motivo tribale tatuato nella parte
più bassa della sua schiena, dove la maglia che indossava
non arrivava a coprire prima della cinta dei pantaloncini.
Non
appena ebbe finito di pulire, la ragazza si apprestò a
lasciar la tenda, schizzando fuori come una molla e con le guance
ancora rosse. –Buona notte- ci salutò entrambi, ma
il suo sguardo timido e succube sfuggì lesto al mio.
-Alex,
per favore!- ridacchiò il vecchio. –Si tratta pur
sempre di mia figlia…-.
-Che
ho fatto?- sorrisi poco sincero.
Corvo
afferrò uno dei suoi diari da completare e si mise a
scribacchiarci sopra qualche appunto. –Se posso dire la mia
sulla faccenda- m’insospettii già a sentirgli
pronunciare quelle parole. –Tu le piaci- mi disse sotto voce.
-Possiamo
cambiare discorso?- digrignai.
-Come
padre, sto ancora cercando di comprendere se lei piace a te- fece
tranquillo.
Alzai
gli occhi al cielo con modo esasperato. Dopotutto non era la prima
volta che tirava in ballo l’argomento.
–Perché la cosa non ti preoccupa? “Come
padre” hai il dovere di proteggerla da quelli come me, non di
incoraggiarla!- sbottai, perché la questione cominciava a
darmi di nuovo, come tutte le volte, un poco sui nervi.
-Almeno
lei ti piace?-.
-Max!-.
-Ti
capisco- richiuse lentamente il taccuino che stava scribacchiando e si
tolse gli occhiali. –Capisco quello che provi, e il fatto che
tu ti senta diverso, pericoloso, da tenere lontano, dal quale prendere
delle cosiddette distanze di sicurezza- mi disse sinceramente.
–Ma devi anche convincerti di poter essere normale anche
così come sei, Alex. Cambiare forma, assorbire le
persone… tutto ciò che fai sai che non ti
servirà a nulla, che qualunque cosa tu scopra ti
riporterà sempre al punto di inizio. La caccia al tuo
passato che hai intrapreso ti sta portando solo più lontano
dal tuo obbiettivo-.
-E
qual è il mio obbiettivo, sentiamo!-.
-La
normalità-.
-Posso
essere normale. Quando voglio. E ora quello non è
più il mio obbiettivo. Ho accettato ciò che sono,
e proprio grazie a ciò
che sono troverò chi mia ha portato via Dana-
digrignai.
-Trovare
chi ha Dana con sé è un obbiettivo secondario,
Alex. Tu cerchi ancora la normalità, ed è quello
che hai sempre cercato, quello per cui hai sacrificato te stesso. Anche
inconsciamente, Alex…- sussurrò profetico.
-Che
vecchio pazzo…- blaterai.
-Normale
non vuol dire indossare camicia e pantaloni- mi riprese. –Ma
bensì sentirsi chi ci si sente davvero di essere.
Sé stessi, capisci? Né altri, né
ciò in cui gli altri ci hanno trasformato. Sei talmente
preso dalla tua ricerca, dal tuo malsano obbiettivo di vendetta, che
hai dimenticato chi sei-.
-LORO
mi hanno fatto dimenticare chi sono! È colpa loro! Dei
Blackwatch, della Gentek!- sbraitai.
-No,
ti sbagli ancora- scosse la testa, continuando a scrivere sul suo
diarietto di bordo. –Pensi che siano stati loro a renderti
così, ma ti sbagli, Alex. Sei stato tu a volerlo-.
-Pazzo,
di cosa parli?!- cominciai ad alzare la voce, e questo gli diede molto
fastidio.
Corvo
corrugò la fronte e mi guardò in modo storto,
arrabbiato così come lo stavo diventando io. –Fin
ora hai vissuto nella costante convinzione che qualcun altro ti abbia
reso ciò che sei, ma invece ti sbagli. È stata la
tua collera, la tua rabbia, la tua vendetta a renderti il mostro,
l’assassino, il terrorista che dici di essere-.
-‘Sta
zitto…- inclinai la testa da un lato guardando a terra.
-Mettiamola
in questo modo- fece il vecchio interrompendo la scrittura.
-È forse stato qualcun altro a mietere tutte quelle persone
innocenti per le strade?- domandò provocandomi.
Avevo
la risposta pronta: -Non erano innocenti- lo fulminai con
un’occhiataccia.
-Ne
sei del tutto certo?!- si allungò verso di me.
-Mi
hanno usato per i loro scopi, mi hanno…-.
L’uomo
fece un gesto di stizza con la mano. -Conosco la tua storia, o almeno,
credo di conoscere una
parte di essa-.
Se le
stava letteralmente cercando. Voleva farmi incazzare, ma non aveva idea
di come fosse Alex Mercer quand’era davvero incazzato.
–Mi stai provocando?- e ci mancava davvero poco.
-Sei
furbo- ridacchiò. –Ma no, non è mia
intenzione-.
-E
allora dove vuoi arrivare con questo discorso? Hai detto di non avere
tanto tempo da dedicarmi, e invece trascuri tua figlia per farmi i tuoi
soliti esami di coscienza! Non ho chiesto nulla di ciò!-
spalancai le braccia sfogando tutto il fastidio accumulato fin ora.
Max
scosse la testa ridendo sotto i baffi. -È proprio questo
l’errore che ho sempre cercato di correggere in te; ma a
quanto pare, ti ostini a non darmi ascolto-.
-Quale
errore? Non capisco- borbottai.
-Hai
ragione- disse guardandomi. –Adesso non abbiamo tempo per
parlarne, e dobbiamo giungere a questioni molto più serie-
si alzò dalla branda e mi venne incontro. –Avanti,
dimmi che cazzo hai combinato fuori dall’isola, ragazzo?- mi
chiese ironicamente allegro. –Sentiamo cosa puoi aver fatto
di tanto sconvolgente da poterti izzare contro così
d’un tratto tutti i tuoi nemici! Sentiamo!-.
Lo
guardai allungo negli occhi, ma risposi anticipando la sua reazione.
–Ho fatto una visitina al quartier generale degli Angeli-.
-Mi
prendi per il culo?- inarcò un sopracciglio.
-No,
no- sorrisi maligno. –Giuro-.
-Hai
rischiato di farti ammazzare… e perché mai?-.
-Ho
seguito delle tracce- dissi.
-Che
tracce?- mi chiese lui cominciando a girarmi attorno.
-Un
nome-.
-Quale
nome?-.
-Mark
Walker-.
Arrestò
i suoi passi quando mi fu alle spalle. Lo sentii esitare, fiutando il
suo sconforto. –Mark Walker è morto-
dichiarò poi, riprendendo il giro.
-Grandioso!-
eruppi.
-Perché
lui?-.
-Sa
qualcosa che io non so-.
-Quel
figlio di puttana lavorava nell’aeronautica; uno come lui non
è nessuno, cosa può sapere di così
importante?-.
-Come
pilotare un caccia?- risi tra me e me.
Max mi
colpì in testa col suo taccuino. –Non fare il
giocherellone con me, almeno non ora- fece serio. –Cosa
credevi di trovare da lui?! E perché sei andato a cercarlo
fin laggiù, in casa del nemico?!-.
-Ho
ascoltato per caso la sua comunicazione alla radio di un anno fa.
All’inizio non gli ho dato importanza, ma da quando gli
Angeli mi danno la caccia è diventata una
priorità. E comunque… loro sono i miei nemici, non i tuoi, se ho ben
capito. Non devi farti problemi con loro- dissi cercando il suo
sguardo. –E di conseguenza con me-.
-Sì,
sì, lo so bene, ma allora cosa ci facevi in quella base? Non
dirmi che hai tentato di sabotarli- sbottò.
-No,
affatto. Te l’ho detto: sto solo cercando qualcuno che possa
portarmi a Walker-.
-È
morto!- ribadì Max.
-Non
ha parenti?- formulai. –Una moglie, dei figli?-.
Il
vecchio esitò di nuovo, stringendosi nelle spalle.
–Non lo so, ma probabile che siano morti tutti quanti. Ora
ascoltami: non puoi mettere piede fuori dall’isola! Azzardati
di nuovo e ti getto di persona in un barattolo di Amuchina, hai
capito?!-.
-Sì,
ho capito. Ma a parte i missili militari che mi complicano il
“transito”, un giorno dovrai dirmi
perché non vuoi che lasci Manhattan- sbottai.
–Aspetta un attimo- lo fulminai con
un’occhiataccia. –Hai detto che uno come lui
è di poco conto, ma allora perché lo conosci?-
feci sospettoso.
-Ho
contatti anche all’interno della marina, cosa
c’entra?-.
-Menti-.
Il
vecchio sospirò pesantemente. -Frequentavamo insieme il
corso al College, ma lui ha mollato poco prima dell’esame.
Non ci siamo più sentiti e rivisti, ma…-.
-Come
sai che è morto? E come, soprattutto.
Com’è morto?-.
-Fai
troppe domande!- eruppe infastidito. –Se sei così
bravo ad ammazzare la gente, cercatele da solo le risposte-.
-Ma ce
l’hai solo tu quelle che mi servono, perciò dovrei
uccidere te- ridacchiai.
-Sì,
certo, come vuoi! Ma adesso non possiamo più parlarne-
sbottò.
-Mi
stai buttando fuori?!- mi stupii.
-No-
rispose secco. –Ti sto solo ricordando che devi andartene da
qui, allontanarti dalle basi militari piazzate nella zona
così da non attirare attenzioni su di noi, e proseguire la
tua ricerca da solo e altrove. Torna da me quando imparerai a far meno
lo sbruffone e a portare rispetto alle persone che hai ammazzato.
Forza, vattene- indicò l’ingresso della tenda.
–Sei libero di fare della tua vita ciò che vuoi.
Se il tuo obbiettivo ora è ritrovare Dana e il dottor
Regland, non posso impedirti di perseguire una causa così
sciocca. Ma non venire a piangere da me quando tu, preda, cadrai nella
trappola del cacciatore- sbottò. –Sono stufo di
assumermi la tua responsabilità sulla mia coscienza-.
Aggrottai
la fronte. –Dove vuoi arrivare?- chiesi confuso.
-Ho
detto vattene, dannazione!- imprecò.
-Max,
che ti succede?- insistei mantenendo la serietà.
L’uomo
distolse lo sguardo dalla mia figura e scosse la testa. –Non
posso aiutarti, Alex-.
-Perché?-
feci secco.
Ricevetti
un’occhiata affranta e sconsolata dal dottore, che mi diede
poi le spalle. –Se hai intenzione di immischiarti nei loro
affari, non posso aiutarti- disse.
-Di
cosa stai parlando?!- mi allungai in avanti.
-La
posta in gioco è troppo alta, Mercer- eruppe scontroso.
–Finché la tua è rimasta
un’iniziativa contro la Blackwatch ti sono stato accanto come
promesso, ho vegliato su di te come il nostro accordo stabiliva!-
sibilò. –Ma adesso che vai incontro a quelli che
solo per te sono il nemico, non voglio immischiarmi-.
-Sei
davvero così sciocco?- sbottai. –E’
ovvio che dietro al progetto Gabriel gioca anche la Blackwatch!
È un anno che senti poco parlare di loro perché
per un anno non gli ho causato problemi, mettendomi da parte! Mi serve
il tuo aiuto, Max! Se vado contro agli Angeli lo sto facendo per Dana,
per mia sorella! Per la mia famiglia!-.
Parve
irrigidirsi all’udire quell’ultima parola, e
lentamente si voltò di profilo verso di me.
Proseguii
avendo fatto centro nel suo ego: -Tu faresti lo stesso- aggiunsi.
-Mi
stai chiedendo troppo- intervenne. –Non posso schierarmi con
te in questa battaglia perché stai fronteggiando un nemico
che non lo è! Dietro al progetto Gabriel non
c’è la Blackwatch, Alex! C’è
il Governo Americano! La TUA NAZIONE!- mi gridò contro.
Toccò
a me la volta di restare interdetto. –Il Governo finanzia le
loro azioni, non…-.
-Sono
come poliziotti, Alex- mormorò lui. –Uccideresti
un poliziotto se ne vedessi uno?-.
-Se
sapesse qualcosa che m’interessa sapere sì!-
ruggii.
-No,
dannazione!- imprecò. –Qui sbagli!- mi
punzecchiò con un dito. –E’ qui che stai
sbagliando, non capisci?! Non sarai mai normale se continuerai a
comportarti così!-.
-Così
come?!-.
-La
tua caccia alla Blackwatch era finita un anno fa, Alex! Chi
è stata a farla ricominciare?! Chi se
l’è andate a cercare nella loro base?! Io?!-.
-No-
sbuffai. –Forse non avrei dovuto impicciarmi, e va bene! Lo
ammetto! Entrare nella Phoenix è stato un errore, ma li ho
trovato quello che cercavo, le informazioni che mi servono…-.
-Non
posso crederci- scosse la testa assumendo un’espressione del
tutto scettica. –Sei tu che hai voluto tutto questo:
è come se fosse stata tua l’iniziativa di
ricominciare da capo, e ti ostini a non comprendere…- si
passò una mano sulla fronte.
-Allora
dimmi- lo interpellai. –Dimmi se è stata mia
l’idea di far rapire mia sorella!-.
-Questo
cosa c’entra?! Dimentica Dana solo per un istante,
dannazione. Pensa a quello che ha spinto te ad entrare in quella base!
Pensaci, ti prego!-.
-Mark
Walker!-.
-E’
morto!- fece esasperato.
-Lo so
che non è così! Lo so che mi stai mentendo!- mi
avvicinai ancor più a lui potendolo quasi guardare
dall’alto in basso.
Corvo
si allontanò da me dandomi di nuovo le spalle.
Arrivò in fondo alla tenda: -Non posso…
aiutarti-.
Si
stava trattenendo dal dirmi qualcosa di importante, di assolutamente
primario per la mia ricerca, la mia caccia. Nacque in me il furente
bisogno di sapere la verità che mi stava nascondendo, e di
perseguirla con qualsiasi mezzo. Riconobbi quello come
l’impulso di consumarlo. E rabbrividii per averlo solo
pensato.
Serrai
i pugni lungo i fianchi. –Dimmelo- ringhiai. –Dimmi
dove posso trovarlo, ma soprattutto… dimmi cosa
c’entra con me-.
Max si
voltò di colpo, e la sua occhiataccia mi fece quasi paura.
–L’incidente del ’69- disse.
Mi
feci subito più attento, mettendomi composto con il peso su
entrambe le gambe, e Corvo proseguì.
-L’incidente
del ’69, ce l’hai presente?- chiese.
Annuii.
Alzò
la mano destra mostrando due dita, mentre le altre restavano strette al
palmo. –Due sopravvissuti-.
M’irrigidii
all’istante, e un brivido mi percorse la spina dorsale.
–Non è possibile…- mormorai con gli
occhi sgranati.
Il
vecchio poggiò un dito della mano sinistra sul medio di
quella destra, e lo abbassò: -Elizabeth Green- disse facendo
riferimento al primo superstite, ma durante quella lunga pausa che si
permise prima di aggiungere altro, piombò un silenzio
terrificante per tutta la tenda. Poi Max poggiò il dito
della sinistra sull’indice di quella destra e, abbassando
anche quello, disse: -Mark Andrius Walker- scandì bene il
nome.
-Menti…-
ridacchiai scettico.
-Guarda
la mia faccia- sbottò. –Ti sembra la faccia di un
uomo che mente, questa?!-.
Scossi
la testa continuando a ridere in maniera isterica.
–E’ impossibile! Non posso crederci…-.
Max mi
fissò allungò con serietà. -E invece devi-.
Muhahahahah!!!
Come speravo ho ricevuto subito le vostre rece, così ho
postato all’immediato! Muhahahaha! E non sono nemmeno le
sette di sera! A distanza di poche ore! Questo sì che
è un record! *-* Me ha aggiornato e ora porta a spasso il
cane! Muhahahaha!
Ma
venendo a noi. U.U
Max e
Lisa sono personaggi di mia invenzione. La loro storia sembrerebbe una
fan fiction a parte, lo so, e infatti inizialmente l’idea era
quella. Avrei voluto plasmare una ff su prototype proprio su una forma
simile, ma questo mi avrebbe tenuta impegnata con due long-fic anche in
questa sezione. Così ho deciso di inglobare una fan fiction
nella fan fiction! XD Spero che a parte le pippe mentali di Alex
all’inizio del capitolo, il post sia stato entusiasmante e
pieno di rivelazioni. Ovviamente non è finita qui! La
conversazione tra Mercer e Corvo continua nel capitolo prossimo: sono
stata costretta a dividere i due post o qui vi toccava sorbirvi 19
pagine in una sola volta!
Credo
comunque di aver attirato almeno un po’ la vostra attenzione,
calamitandola sul fatto che Mark Andius Walker è il padre di
Emily !!
^-° Perciò, penso proprio che
ne vedremo delle belle!
Arrivata
a questo punto, vi confesso anche che la storia sta cominciando a
piacermi più del previsto, quindi premetto dicendo che gli
aggiornamenti potrebbero farsi frequenti anche una volta esauriti i
capitoli pronti da postare, di cui ne rimane solo uno! XD Nella sezione
di AC sto andando avanti a song-fic e one-shot, non avendo
più particolare riguardo per le mie long-fic in corso, che
non sono neppure poi tanto seguite… <.<
pubblicità occulta! XD Ma vabbé!
Quindi!
Commentate, così posto subitissimo! *-*
Elik.
|
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Capitolo 16 *** Capitolo 16° - Cambio di piani ***
Capitolo 16°
- Cambio di piani
-In
tutto questo tempo, in tutti questi mesi… ho davvero pensato
che fosse finita, che la morte di Elizabeth, la distruzione della bomba
atomica, del capo
cacciatore… Ho pensato che fosse tutto
concluso, che la Blackwatch avesse esaurito le risorse! Ho pregato che
fosse così! E se per un periodo ho continuato ad andare
avanti, sperando di trovare dell’altro, ho capito che la mia
ricerca era vana e ho impiegato i miei poteri nell’aiutare i
bisognosi come te!- indicai Max. –E loro!- spalancai le
braccia facendo riferimento ai profughi sani. –E invece
guardali! Guardali quei bastardi figli di puttana come mi tengono
nascosto sotto il mio naso un altro dei loro esperimenti da piccolo
chimico tenuti in cattività!- ruggii.
-Aspetta
un attimo- proruppe lui avvicinandosi. –Aspetta a fare
pregiudizi e conclusioni, aspetta- mi tranquillizzò.
–Mark non è il mostro che credi che sia- disse.
–Non è un’arma della Blackwatch!-.
-Ah
no?!- mi stupii.
-No-
assentì serio.
Strinsi
i denti e afferrai il vecchio per il camice, sbattendolo poi addosso ad
un’improvvisata libreria. -Perché nel laboratorio
dove ho trovato lei, non c’è anche lui?! Che cosa
mi nascondi?! Lavoravi anche tu con loro?! Eri uno di loro?! Come fai a
sapere tutte queste cose?!- strillai tenendolo sollevato da terra.
-Walker
non è mai entrato in quei laboratori, Alex!-
confessò. –Dopo l’incidente
fuggì, capì tutto da sé e
studiò i suoi poteri lontano dalla comunità!
All’epoca era solo un ragazzino, ma trovò lo
stesso la consapevolezza! Si ritirò sulle montagne,
considerandosi da solo quello che era! Quando fu padrone del suo
aspetto e della sua mente, tornò a New York,
trovò un lavoro, una fidanzata, e costruì una
famiglia! Capisci?! Mark Walker non era nemmeno il suo vero nome! Lo
cambiò, divenne un cittadino normale, Alex! Normale! Visse
la sua vita imparando a convivere con quello che gli era successo, lo
tenne sempre nascosto, e nel migliore dei modi! Era questo che volevo
farti comprendere…- abbassò il tono di voce,
mentre lentamente la mia presa sul suo camice si allentava, ed io,
troppo sconcertato, ancora non aprivo bocca.
-Era
questo…- proseguì il vecchio. –Che
desideravo per te- disse. –Lui ci è riuscito, e
volevo che ci provassi anche tu…-.
Lo
lasciai andare del tutto, guardandolo mentre cadeva a terra seduto e si
rialzava con un po’ di fatica. Il mio sguardo era fisso
davanti a me, dove sugli scomparti dell’improvvisata libreria
mancavano alcuni tomi che si erano rovesciati a terra nel colpo di poco
prima.
Max
rimase allungo con gli occhi puntati sulla mia figura immobile, rigida
nel centro della sua tenda. –Mi dispiace, non avresti dovuto
saperlo-.
-Dei
figli- mormorai con voce seria e afona. –Hai detto che ha
avuto dei figli, ma che sono morti- ripetei. –E’
vero? È vero che li ha avuti?!-.
Il
vecchio scosse la testa guardando a terra.
-Un’altra
cosa- eruppi. –Dimmi cosa c’entra Walker con gli
Angeli e perché ho trovato il suo nome nei registri del loro
reparto!-.
Il
vecchio si strinse nelle spalle. –Mi stupisce che tu abbia
trovato solo quello su di lui…- borbottò.
-Dove
potrei trovare dell’altro?!- chiesi ancora. –Anzi-
risi istericamente. –Dimmi dove posso trovare lui
direttamente e facciamola finita!-.
-Era
la verità quando ti ho detto di aver perso i contatti con
lui dopo il College!- mi ringhiò contro.
-Questo
è solo un motivo in più per dargli la caccia-
sbottai dirigendomi fuori dalla tenda.
-Alex,
aspetta!- mi chiamò il vecchio.
Mi
voltai issandomi il cappuccio sulla testa. –Che
c’è ancora?-.
-Lui
non è tuo nemico; dovresti invece considerarlo come un tuo
alleato- sorrise modesto.
-Perché
dovrei?!- eruppi. –Sentiamo: cosa non hanno in comune lui ed
Elizabeth?!- feci esasperato.
-La
loro storia- rispose prontamente.
Attraversai
tutta la passerella, scesi le scale e silenziosamente mi dileguai nel
buio delle tende dei profughi. Una volta sotto il mio adorato
lucernario, mi piegai sulle ginocchia e feci per spiccare un balzo, ma
una flebile vocina m’immobilizzò dov’ero.
-Dove
vai?- chiese Lisa avanzando dall’ombra.
Tornai
dritto all’istante e mi voltai verso di lei.
–T’importa davvero saperlo?- eruppi infastidito.
-Ho
solo fatto una domanda…- mormorò lei avanzando
ancora, e la sua intera figura fu a quel punto succube del mio sguardo.
-Devo
trovare una persona- dissi arrogante. –Anzi quattro- mi
corressi, facendo riferimento a Dana, Ragland, il responsabile ancora
senza nome della loro cattura e Walker.
-Allora
è vero- si stupì la ragazza. –Hanno
preso tua sorella-.
Chinai
la testa guardando a terra, e contemporaneamente strinsi i pugni.
–Sì…-.
-Mi
dispiace- sussurrò lei venendomi vicino. Il verde dei suoi
occhi si consumò nell’amarezza delle poche parole
che mi aveva sentito pronunciare. –So come ci si sente-
aggiunse dispiaciuta, e molto. –A perdere un parente
così caro, forse l’unico che ti resta-
alzò il viso e riuscì non so come ad incatenare
il suo nel mio sguardo.
Ripensai
alla sua sorellina Susan rimasta vittima del Virus, e Max che aveva
dovuto sopprimerla come una bestia prima che mutasse in qualcosa di
spaventoso come gli zombie che vagano per la città.
-Già-
mi lasciai sfuggire un amaro sorriso. –Dispiace anche a me-.
-Se
c’è qualcosa che posso fare per aiutarti- disse
ormai vicinissima a me. –Qualsiasi cosa- mormorò,
e due dita della sua mano andarono a sfiorare la mia. –Ti
basta chiedere- mi arrise dolce, mentre da quel flebile contatto
percepivo tutto il suo calore che però rifiutai con rigetto,
ritraendo il braccio e distogliendo lo sguardo.
-Grazie
lo stesso, ma non c’è nulla che tu possa fare-
sibilai fulminandola con un’occhiata gelida, mentre la sua si
faceva sempre più smarrita e scettica, interdetta da quella
mia reazione nei suoi confronti.
Mi
allontanai da lei lasciandola in balia di emozioni umane che mi
parevano sciocche; mi sistemai nel centro sotto il lucernario sul tetto
e in fine spiccai un balzo.
Fui
trascinato dalla corrente estiva che soffiava in alto, sopra il porto,
accompagnando quel misto di Blootox e Virus nei miei polmoni. Con uno
scatto, fui sul molo di fronte, atterrai rotolando a terra e cominciai
a correre verso la strada, che imboccai dritta proseguendo lungo la
doppia striscia continua. Mezzo chilometro, e mi ritrovai sul confine.
«Avevo
già abbastanza pensieri e tormenti.
Se ci
si metteva pure sua figlia, andavo fuori di testa.
Max
aveva ragione: contrapporsi agli Angeli era come andare contro il
Governo Americano, che alle spalle della società aveva messo
le mani dappertutto. Il Progetto Gabriel si basava sullo sterminio del
Virus a Manhattan, ma siccome io ero sempre stato considerato
“infetto”, indirettamente anche contro di me. Fu
triste notare che soprattutto dopo la mia visita alla base la faccenda
era diventata di botto molto più seria del previsto. La mia
intrusione nei loro affari aveva giustificato i loro gesti, il loro
tentativo di attirarmi in una trappola nella quale non sarei caduto
così in fretta.
Alex
Mercer ora aveva un nuovo obbiettivo: trovare Mark Andrius Walker, e
non gli importava se sarebbe inciampato nel Governo Americano. La
Balckwatch aveva le mani dovunque, persino all’interno del
Settore Angels; le reti che collegano entrambi le scoprii a suo tempo
infiltrandomi nella loro base, perciò qualsiasi tentativo di
fermarmi da ambedue le parti, verrà represso nel sangue di
vite sacrificabili. La mia fame di vendetta sta morendo soffocata da un
sentimento di ricerca e comprensione verso un uomo le cui impronte
dovrei seguire, la cui stessa strada mi aprirebbe gli occhi su un mondo
del tutto nuovo e migliore.
Ho
deciso: lascerò Ragland e Dana nelle mani degli Angeli fin
quando non troverò Walker. Ma una volta trovato, so
già cosa chiedergli.
L’alleanza
per un’ultima sanguinosa battaglia.»
Ta-da! ^°^
Con
questo post chiarisco forse parecchi dei dubbi sugli insensati discorsi
di Max. Per esempio, e sono contenta che abbiate apprezzato, nel
capitolo precedente tiro in ballo la ricerca della
normalità. Sì, esatto! Come il film
“Alla ricerca della normalità!” XD Al
posto de “Alla ricerca della felicità”
con Will Smith! Ahaha, quanto sono spiritosa! Ma insomma, fatto sta che
dietro a quelle insensate parole il vecchio corvo celava una morale
molto profonda. Dopotutto, rimane da chiedersi se Emily è la
figlia genetica di Mark, o se Max ha mentito dicendo che non era vero!
Quale dei due casi è più allettante?! XD Questo
devo ancora scoprirlo anch’io, dato che sono riuscita ad
andare avanti di due capitoli che tengo già pronti ma non di
più. Spero quindi che questo stralcio che compie due pagine
e mezza di word vi sia piaciuto. È la parte conclusiva del
loro accanito dialogo, quella mancante e la più sconvolgente
(anche per me *°*). I pensieri di Alex alla fine del post
lasciano pensare a male. Vi do piccolo spoiler: se Mark è
morto, allora Alex quale membro della famiglia Walker sta cercando?
Ah-ah! Ora avete capito!!! XD Me genialaccia del male! Muhahahah! Ora
resta poco da scoprire, pochi intrighi da ampliare, sia a me che da
scrivere che a voi da leggere. I prossimi chappi, dal 18 ° in
avanti si prospettano pieni di azione e movimento. Sangue, morte e
tanti Angeli che cadono *-* Se poi ci si mette anche il malsano egoismo
di Emmett, allora il quadretto è completo per creare brutte
situazioni! XD Ops, altro spoiler! Insomma, ci vediamo prestissimooooo!
Ringrazio utenti che hanno recensito:
Saphira87
(Ho corretta Regland-Ragland! *°* Grazie tantissime per averlo
notato! ^-^ )
Snowdra1609
Ringrazio
utenti che hanno aggiunto ff a preferiti e seguite:
Kasdeya
renault
comix
Saphira87
Snowdra1609
Aka_no_Hidan
suinogiallo
(l'amministratore segue davvero la ff oppure mi sta spiando se metto
codici htlm sbagliati??? °-°)
Grazie
a tutti!
Elik.
|
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Capitolo 17 *** Capitolo 17° - Burocrazia che evolve ***
Capitolo 17°
- Burocrazia che evolve
Giorno
dell’infezione 409°
Popolazione
mondiale infetta: 09,40%
«Rischiavo
quasi di dimenticare come ci si sentisse ad andare a letto con
qualcuno.
Eppure
questo mi sembra un assurdo pretesto dietro al quale nascondere le mie
azioni della serata precedente. Non nego affatto
l’evidenza: io e il capitano Turner ormai avevamo una
relazione, perché la nostra non poteva dirsi una notte di
solo sesso. Durante le tre settimane trascorse ad allenarmi
intensivamente fino ad arrivare a quella sera, non aveva fatto altro
che pensare se fosse giusto o sbagliato quello che stavo facendo, i
sentimenti che stavo provando, domandandomi per di più se
lui provasse la stessa cosa nei miei confronti. Quei sorrisi, quei baci
avevano solamente verificato e accertato tutto quanto, facendomi
sentire un po’ più… normale.
Mi
apprestavo a fronteggiare l’essere più pericoloso
del pianeta col solo scopo di eliminarlo, e continuavo a ripetermi che
perciò non avevo alcun diritto di trattarmi bene a sole
poche ore dal definitivo rientro in “guerra”.
Eppure…
trovai altrettanto assurdo questo pensiero.»
Quando
mi risvegliai, trascinata al mondo dall’assenza di sonno,
aprii gli occhi e mi ritrovai a guardare fuori dalla finestra della
stanza, dove le tende erano rimaste un poco socchiuse e lasciavano
entrare in camera un raggio di sole. Il fascio di luce si allungava sul
pavimento e poi risaliva i piedi del letto arrivando sino alla mia
gamba scoperta per metà fuori dalle lenzuola, che si erano
attorcigliate attorno ad essa. Avevo la testa poggiata sulle braccia
sistemate in una posa semi conserta, una mano a penzoloni fuori dal
materasso e i capelli che potevo ben immaginare in che stato fossero:
arruffati fino all’ultimo ciuffo, scomposti, così
aggrovigliati che mettevo paura. Ero effettivamente nuda sotto le
coperte, ma il solo pensiero mi fece sorridere, riportandomi la mente
alle piacevoli ultime ore. Mi stiracchiai, allungando il mio corpo e
sistemandomi più comoda a pancia all’aria, col
seno nascosto dalle lenzuola. Voltai di poco la testa e mi accorsi solo
allora di essere del tutto sola nella stanza.
Sul
materasso accanto a me, dove le coperte erano del tutto assenti e
potevo vedere solo un cuscino sprimacciato, Cole non aveva lasciato
nient’altro che non fosse il suo profumo. Mi issai sulle
braccia mentre una ciocca di capelli mi cadeva davanti al viso e
sbuffai. Il bello fu pensare che non mi ero neppure accorta di quando
se n’era andato, e questo mi mandava su tutte le furie, come
se i miei sensi vigili da Angelo si fossero appannati.
Passandomi
una mano tra i capelli mi guardai attorno, e a parte i miei e i suoi
vestiti spariti dalla mia vista, attirò la mia attenzione la
mia uniforme da Angelo che qualcuno aveva ripiegato per bene sopra la
scrivania. Erano scomparse anche le cartelle e le fotografia della
discussione di ieri, ma non ci badai poi tanto.
Mi
alzai dal letto portando con me le lenzuola, e mi avvicinai al tavolo.
Ero
sicura che fosse stato lui a prendersi cura di me in quel modo,
lasciando accanto alla mia uniforme ripiegata e pulita, con tanto di
pantaloncini, scarponcini, calzini e biancheria, un foglietto sul quale
riconobbi la sua calligrafia.
Martin
ti sta ancora cercando,
ma
è furioso come un toro!
Vestiti,
ci vediamo a mensa
p.s.
sei dolcissima quando “dormi”
Ubbidii,
e una volta pronta lasciai la stanza col sorriso sulle labbra.
Traversai
il silenzioso salottino comune dell’ex clan di Cole e sfociai
in corridoio. Presi l’ascensore, e raggiunsi la mensa senza
incontrare un volto sul mio cammino. Cosa assai strana. Dentro la sala
fui travolta come al solito dalla confusione di tanta gente riunita in
un solo posto. Il profumo di caffè e cornetto era davvero
allettante, e la luminosità che entrava dalle ampie vetrate
spalancate quasi mi accecava. Si prospettava una stupenda giornata per
sbarcare a Manhattan, ma molto probabilmente ce la saremmo presa
parecchio comoda vista la “non fretta” che ognuno
di noi aveva nel consumare la propria colazione.
Qualcuno
alzò un braccio tra la massa di gente che intasava i tavoli,
e fu così che individuai nella confusione il mio clan
riunito al solito posto. Andai nella loro direzione e una volta che il
gioioso sorriso di Cole si specchiò nei miei occhi, mi
sedetti al suo fianco.
-Buon
giorno!- ridacchiò Lucy sorseggiando the.
Emmett
sembrava altrettanto rilassato (strano). –Te la sei presa
comoda, eh?- si beffò.
-Sì,
credo di sì- arrossii stirandomi i capelli
all’indietro.
-Non
resta comunque molto tempo- proruppe il capitano distogliendo lo
sguardo da me. –La partenza per Manhattan è
fissata per questa sera, ma durante la giornata hanno in mente qualcosa
di divertente per noi- disse mescolando il suo caffè con un
cucchiaino.
-E
cioè?- domandò Harry col boccone. Nel suo piatto
c’era solo mezzo cornetto.
-In
palestra hanno istallato un poligono di tiro-
c’informò Cole. –Ci ho fatto un salto
questa mattina presto-.
-Grandioso,
ma tutto qui?- si stupì Emmett.
Cole
lo guardò in cagnesco. –No- sbottò.
–Noi andremo lì per riscaldare le armi, ma Emily
deve raggiungere Lewis nel suo ufficio- si rivolse a me.
–Devono discutere di alcuni…-.
Lucy
aggrottò la fronte. –È successo
qualcosa?- domandò preoccupata.
Feci
un gesto con la mano. –No, assolutamente nulla, non
preoccupatevi-.
-Come
vuoi. Non prendi niente, Emily?- mi chiese Harry allungandomi una
tazza.
-Grazie-
dissi sollevandola dal piattino. –Torno subito- mi alzai dal
tavolo e andai verso le macchinette in fondo alla sala. Decisi di
prepararmi un po’ di latte caldo, e così feci, ma
mentre la tazza si riempiva, catturò la mia attenzione la
conversazione di un folto gruppo di Angeli ammucchiati attorno ad un
tavolo, al centro del quale vi era una ragazza con indosso la fascia da
capitano sul braccio sinistro.
-…
Stanno mutando, e troppo velocemente- diceva la donna con gli occhi del
suo clan e altri puntati addosso. –Martin ha fatto installare
il poligono per prepararci a quello che sta crescendo là
fuori-.
-Sono
pericolosi per noi?- domandò qualcuno.
-Non
fatali, se è quello che intendi- rispose la giovane
comandante. –Ma alle lunghe possono crearci problemi, e credo
che durante la caccia a Mercer possano intralciarci la marcia.
Più ne abbattete e meglio è, statene certi-
ridacchiò lei.
-Ma
davvero basteranno le armi per fermarli?- fece dubbioso qualcun altro.
-Questo
non so dirvelo con precisione; sappiate solo difendervi al meglio e
tener conto di qual è la vostra unica, vera missione-.
-Zeus
sarà nostro, capo!- gioì un ragazzo.
La
donna smontò giù dal tavolo. –Chiunque
reclamerà il premio della sua testa- sorrise beffarda.
–Non potrà che essere un bene per tutti- disse, e
richiamando a raccolta il suo clan, abbandonò la mensa.
La mia
tazza era ormai piena, ed io ero rimasta come uno stocca fisso con un
braccio alzato nel vuoto per tutto quel tempo. Mi riscossi con
violenza, afferrai la tazza e mi riavvicinai al mio tavolo sedendo, a
sguardo basso, accanto al capitano.
Il mio
atteggiamento pensoso, distante mentre attorno i miei compagni di clan
ridevano e scherzavano, attirò su di me non poca attenzione.
Cole
per primo chiese: -Emily, tutto bene?-.
Alzai
il mento dal petto guardandolo negli occhi. –Sto bene, ovvio,
ma ho sentito un capitano del clan laggiù che parlava di una
cosa col suo gruppo che… mi ha lasciata un
po’… ecco- mormorai distratta.
Emmett
inarcò un sopracciglio. –Di che si tratta?-
formulò serio. Lucy al suo fianco si mostrò
altrettanto curiosa, e Harry smise improvvisamente di masticare,
ingoiando il boccone intero.
Scossi
la testa. –No, forse ho fatto solo presunzioni
stupide…- borbottai.
-Non
hai ancora detto nulla- rise Emmett. –Come fai a dire che
è inutile?-.
-Lascia
giudicare noi- mi sorrise Cole, e a quel gesto gettai
l’ancora.
-Parlavano
del Virus- dissi. –E di come sta maturando in fretta. Ma ad
un certo punto mi è sembrato che stessero parlando di
qualcuno, o qualcosa che potrebbe intralciarci durante la caccia ad
Alex, e lì non ci ho visto più- li informai.
Il
capitano allontanò la sua tazza di caffè e si
mise a braccia conserte. –Dannazione- imprecò
sotto voce.
-Ehi-
sbottò Emmett. –C’è qualcosa
che noi non sappiamo?!- domandò spocchioso.
Turner
lo fulminò con un’occhiataccia.
–Veramente sì, e non avreste dovuto saperlo fino a
quando non fossimo stati tutti nella palestra-.
-Avanti-
eruppe Lucy seria. –Ormai devi dircelo, Cole-.
Il
capitano annuì. –Sì, è il
Virus, come ha presupposto Emily. Sta mutando, e in qualcosa che nelle
ultime settimane si è rivelato d’intralcio ai
nostri scopi. Sono simili ai cacciatori, ma che col tempo hanno
acquisito caratteristiche del tutto nuove; si evolvono velocemente in
creature sempre più avanzate e dotate di una mente pensante
che ragiona, pianifica, anticipa e capisce senza l’intervento
del capo cacciatore.
Martin se ne sta occupando, diverse squadre di Angeli sono partite lo
scorso weekend, ma se ci tenete a saperlo, su sei membri per clan, ne
sono tornati vivi solo la metà- pronunciò
composto.
-Perché
hanno aspettato tanto a dircelo? Ci saremmo potuti addestrare anche a
questo!- eruppi.
-Non
è così semplice- sbottò Turner
voltandosi verso di me. –Questo pomeriggio al poligono
testeranno su di noi un novo farmaco che dovrebbe darci la
possibilità di contrastare tali nuovi nemici. Simuleremo per
breve i loro spostamenti e i loro attacchi e…-.
Lucy
lo interruppe: -Perché il poligono di tiro? Non potevano
settare i robot?- chiese confusa.
Cole
sospirò. –No, ve l’ho detto,
loro…-.
-Qual
è il problema ‘sta volta?!- sibilò
Emmett.
Il
capitano si appoggiò allo schienale della sedia.
–Sanno volare, ecco qual è il problema-.
Rimasi
senza parole, muta.
-Come
volare?- balbettò Harry. –Vuol dire
che…-.
-Sì,
esatto- proruppe Cole. –Se sanno volare, hanno il libero
transito fuori dall’isola! Per questo Martin ha fatto montare
il poligono di tiro. Il Virus ha dato ad una forma avanzata di
cacciatori la possibilità di volare, hanno sviluppato le
ali, non simili e robuste come le nostre da Angelo, ma comunque un buon
mezzo per portare il Virus fuori dall’isola ed espanderlo
più velocemente nelle altre capitali. Ce ne siamo accorti
troppo tardi: ecco com’è arrivato il contagio
sull’altra costa!- digrignò.
-Ma
allora- feci io. –Il poligono è solo per la
difesa. A noi, come squadra d’offensiva, non spetta il
compito, giusto?- chiesi.
-È
qui che ti sbagli- mi disse Cole. –La capacità di
volare li rende più forti e più difficili da
abbattere. Fortunatamente solo una piccola percentuale di queste
creature ha sviluppato l’intelletto necessario per poter
ragionare con la propria testa e allontanarsi liberamente da Manhattan.
Di questa piccola percentuale si occuperà una rispettiva
percentuale degli Angeli che costituiranno la difesa della base e
dell’ “arma segreta”. L’avete
sentito tutti Martin la scorsa volta, no? Ecco. Ma anche noi offensiva,
che andremo a caccia di Mercer sull’isola, avremo questo
problema. I cacciatori difendono il territorio, azzannano tutto quello
che gli capita sotto gli artigli; siete stati addestrati a combattere
contro quelli di terra, ma per i nemici volanti vi serviranno tutti
quei nuovi equipaggiamenti che vi sono stati assegnati nelle ultime tre
settimane. Quali armi da fuoco e potenziamenti. L’ultimo
farmaco, quello che andremo a testare nella palestra, è un
gioiellino niente male, ve l’assicuro- sorrise.
-E
sarebbe?- sbottò Emmett.
-Tra
poco lo vedrai da te, non preoccuparti- fece tranquillo il capitano.
Finii
di bere il mio latte caldo con una strana sensazione alla bocca dello
stomaco. Avevo come un brutto presentimento, e per di più il
pensiero che il Virus tramutasse velocemente in qualcosa di sempre
più pericoloso divenne quasi una fobia. Ero terrorizzata
all’idea che oltre a Mercer, un giorno gli infetti avrebbero
potuto trasformarsi in qualcosa di simile a lui. Questo bastava a
giustificare le nostre azioni, dandoci solo un motivo in più
per scollare il sedere da quel tavolo e affrettare le manovre.
D’un
tratto Turner si alzò dalla sedia e guardò verso
di me. –Emily, adesso devi andare, e noi altrettanto. Forza-
disse, e prendemmo le rispettive strade.
Salutai
i miei compagni di clan e feci per avviarmi in corridoio, attraversando
l’ingresso della mensa, ma mi sentii poggiare una mano sulla
spalla e mi volati di scatto.
-Vacci
piano con Lewis, la cosa non gli piace almeno quanto infastidisce te-
disse Cole guardando alle mie spalle.
-Lo
immagino- mormorai.
-Ascolta-
fece avvicinandosi. –Prima che tu vada da Martin, volevo
parlarti di quello che è successo ieri e…-.
Lo
anticipai, spiccando un balzo in avanti allungandomi sulle punte per
sfiorargli le labbra con le mie. –Non
c’è bisogno che tu dica nulla…- gli
sussurrai soave.
-Perfetto!-
sorrise lui. –Era esattamente quello che avevo in mente di
dirti!- ridacchiò allegro. –Però, a
parte questo, Emily, ci tengo a precisare che sono ancora il tuo
capitano- disse, ma accorgendosi della smorfia comparsa sul mio volto a
quelle parole si apprestò ad aggiungere: -Non so se mi
spiego…-.
-No,
infatti- sbottai scettica.
Il
ragazzo si passò una mano tra i capelli. –Potrebbe
diventare pericoloso, capisci?-.
-No-
eruppi sincera mettendomi a braccia conserte.
-Non
ti sto chiedendo di dimenticare quello che è successo,
assolutamente!- proruppe. –Ma devi tener conto dei pericoli
che ci sono là fuori, del fatto che il tasso di
mortalità all’interno della base è
tornato quello di una volta e…- s’interruppe per
una frazione di secondo. –Non fare quella faccia, ti prego-
gemé.
-Quale
faccia? Questa?- m’indicai. –Questa è la
mia faccia, Cole, e sinceramente la mia faccia non capisce di cosa stai
parlando!- sibilai forse troppo pungente. –Tasso di
mortalità?! Ma di cosa parli?!- feci esasperata.
-Adesso
va’ da Martin, che è meglio- borbottò
lui dandomi le spalle. –Ne riparliamo più tardi,
dato che non mi aspettavo che reagissi in questo modo- si
avviò nella direzione opposta alla mia.
-Cole
aspetta!- chiamai, ma non si voltò. –Cole,
scusami, ti prego!- gridai ancora, ma non mi diede retta.
–Cole!- strillai di nuovo. Sull’orlo del baratro
tra la resa e la vittoria, provai un’ultima volta.
-Capitano
Turner!-.
Quella
volta si fermò e guardò verso di me, ma fu la
tipica occhiata critica che ricevevo durante i primi giorni da
matricola nella base. Non tornò indietro, si
limitò a fissarmi da lontano così come io fissavo
lui, con la sola differenza che nei miei occhi si specchiava lo
smarrimento e la paura di chi pensa
di essere appena stata scaricata dal suo ragazzo. Ma sapevo che non era
così. Avevo capito benissimo di cosa stava parlando:
probabilmente a Cole dava fastidio che durante le ore di servizio il
nostro fosse un rapporto diverso da quello che lui poteva permettersi
con gli altri membri del clan. Anche se la nostra doveva sembrare una
famiglia, questo non voleva dire che ciascuno di noi doveva darsi del
fratello o sorella a mo’ di convento. Anzi. Anch’io
avrei dato di matto se fosse andata realmente in quel modo.
Quindi
mi ritrovai d’un tratto nei suoi panni di capitano, con le
sue responsabilità, la sua reputazione, e tutti quegli
aspetti rigidi e severi che ciascun capo clan deve mostrare di se
stesso.
Gli
sorrisi, e fu così che lui capì che io avevo
capito.
Raggiunsi
l’ufficio di Martin e la sua segretaria mi fece subito
accomodare all’interno, dicendomi che Lewis mi avrebbe
raggiunta tra pochissimo perché delle questioni pratiche
l’avevano trattenuto nella palestra più allungo
del previsto. Immaginai che fosse all’opera coi suoi soliti
monologhi che ipnotizzano gli adepti e così decisi,
effettivamente, di prendermela comoda. Mi sistemai meglio sulla
poltroncina e aspettai paziente e in silenzio per una decina di minuti.
Avevo trovato il corridoio dell’ufficio piuttosto deserto, e
di conseguenza l’unico rumore all’interno della
stanza era il ticchettio della lancetta dell’orologio che
segnava le undici e un quarto del mattino. Fuori dalle vetrate dietro
l’ampia scrivania ordinata splendeva un sole estivo in un
infinito cielo azzurro. L’isola appariva tranquilla da quella
distanza: i palazzi distrutti, certo, una nube di poco rosata che ne
sbiadiva i contorni nascondendone le vette, ma a parte questi
particolari abituali, la situazione pareva immobile, serena. Un ottimo
momento, in conclusione, per cominciare la caccia. Il clima e il vento
favorevole ci avrebbero di gran lunga semplificato le manovre, e tanta
quiete mi dava motivo di pensare che quest’oggi ad
intralciarci il cammino sarebbero interferiti anche meno militari del
solito.
Cominciavo
ad annoiarmi: mi alzai dalla poltroncina e mi avviai dalla parte
opposta della scrivania, accomodandomi al posto di Martin. Strinsi le
mani sui braccioli, sprofondai nello schienale e misi le gambe
accavallate. Si stava proprio bene, pensai. C’era un moderno
computer, la cui tastiera era nascosta in un ripiano apribile della
scrivania. Qualche taglia carte, dei libri, delle foto e in fine, uno
sconosciuto giornale poiché la sede del New York News fosse
andata del tutto distrutta coi bombardamenti.
Un
articolo in prima pagina catturò da subito la mia
attenzione: c’era un volto ben noto, ovvero quello di Alex,
ma nella foto subito accanto comparivano un po’ sbiaditi
alcuni di noi Angeli all’opera con dei
“virussati” di piccolo taglio. L’articolo
era prettamente informativo, dedussi, poiché gran parte di
esso spiegava di cosa ci occupavamo noi del progetto
“Gabriel”. La data di stampa risaliva a qualche
mese fa, e curiosando in alcuni cassetti della scrivania scoprii una
collezione di vecchi giornali che riportavano in prima pagina lo steso
argomento: il settore Angels.
Martin
aveva archiviato foto di paparazzi e quotidiani studiando con
attenzione tutti i punti di vista e le prospettive che cadevano su di
noi, così da assicurarci un lavoro libero, approvato e
sicuro, finanziato oltretutto dal Governo Americano e, per quanto mi
riguarda, con contributo della Blackwatch!
Lasciai
il giornale così come lo avevo trovato, e altrettanto feci
degli altri vecchi articoli riponendoli nei cassetti. Mi alzai dalla
sedia di Lewis e tornai ad aspettarlo sulla mia poltroncina.
La
porta alle mie spalle si aprì improvvisamente, mi voltai e
vidi Martin entrare nello studio tutto di fretta.
-Perdonami,
Emily- borbottò andandosi a sedere alla sua postazione.
–Sarebbe dovuta essere una cosa veloce, non era mio interesse
trattenerti allungo lontana dall’addestramento- si
sistemò la cravatta, e finalmente pronto col suo discorso si
rivolse a me giungendo le mani sul tavolo.
-Ah-
mi stupii. –Perché dopo aver parlato con lei, devo
anche andare ad allenarmi?-.
-Ovviamente.
Quello che ho già detto ai tuoi compagni in palestra te lo
diranno loro quando li raggiungerai, ma per adesso…-.
-Guardi
che so già tutto- sbottai.
Martin
sgranò gli occhi perplesso. –Di cosa parli?-.
-Il
Virus ha evoluto alcuni cacciatori in creature alate. Lo so-.
-Chi
te l’ha detto?- pareva una minaccia.
-…Alex
ha anche il potere di leggere nella mente?- azzardai sfociando in un
sorrisetto beffardo.
-Non
prendermi in giro, Walker- eruppe Martin. –Chi te
l’ha detto, avanti? E chi altro lo sa?-.
-L’ho
scoperto da sola, li ho visti coi miei occhi- pronunciai schiva.
–E non lo sa nessun altro-.
-Hmm-
fece insicuro se credermi o no. –Mi dovrò
accontentare; non abbiamo tempo per queste cose- disse afferrando da un
cassetto alcune cartelle. –Suppongo che il capitano Turner
non sia riuscito a trovarti la scorsa notte, ed ecco spiegata la tua
assenza alla mia convocazione-.
-Sì,
mi perdoni, e…-.
-Lascia
stare- sbottò lui.
-Va
bene, quindi di cosa voleva parlarmi?-.
-Quello
che ti ho detto nella nostra ultima conversazione non è
affatto cambiato. La tua è ancora una partita singola-
proruppe.
-Ma
lei, nella mensa!…- ero per ribattere, ma Lewis fece un
gesto di stizza con la mano.
-Proprio
a questo mi riferivo. Voglio ribadire che qui dentro l’unica
col supporto necessario per mettere Alex K.O. sei tu, e nessun altro.
Il capitano Turner, in caso di un avvistamento di Mercer, si
prenderà l’incarico di allontanare e salvaguardare
i componenti del clan, ma tu dovrai restare a fronteggiare Alex.
Ricorda: non sei stata forgiata per far altro, sono stato chiaro?-.
-Questo
già lo sapevo, signore- ridacchiai isterica sistemandomi
comoda.
-Perfetto.
Ora: prima che tu vada al poligono voglio farti un piccolo riepilogo
delle capacità che tu e Mercer avete in comune-.
-Non
ce n’è bisogno- dissi d’un tratto.
L’uomo
restò non poco interdetto. –Presuntuosa sei, eh?
No, Emily, ce n’è bisogno e come,
perciò…-.
-È
stato lei a dire che la maggior parte dei miei poteri nasceranno col
tempo, così come sono nati a lui! Spontanei, a seconda del
pericolo, delle necessità, dell’adrenalina! Non
voglio perdere tempo nel suo studio a fare teoria, signore!- dichiarai.
-Le
carte sono già in tavola, dunque…-
borbottò pensoso Martin. –Questo mi rende assai
felice, Angel 1-9-2. Ma convocandoti qui volevo sapere
un’altra cosa-.
-Dica-
sospirai appoggiandomi allo schienale.
-Devi
farmi un rapporto completo del tuo primo ed ultimo scontro con Mercer-.
Sbiancai.
–Quello di tre settimane fa, signore?-.
Annuì
porgendomi una cartella aperta nella quale trovai ad attendermi un
foglio bianco a righe tutto per me da riempire.
-Ma
signore- dissi io afferrando la pena che sempre lui mi
passò. –Perché sta diventando tutto
così burocratico
qui dentro?- domandai cominciando a scrivere.
-Il
Governo Americano non solo finanzia il nostro operato, ma lo gestisce e
lo controlla, Emily, perciò…- sospirò
lui. –Se non ti dispiace- indicò il foglio.
-D’accordo…-
sospirai.
Feci
il rapporto come mi aveva chiesto, compilando prima quella pagina
bianca di tutto ciò che ricordavo del mio incontro-scontro
con Mercer. Non specificai di aver rivelato a Zeus il nome del nostro
capo e mi dedicai alla richiesta di informazioni personali che
ordinò Martin di lasciar scritte sempre sulla stessa
cartella. Rimasi allungo in quello studio a firmare carte che mi
prefissavo di leggere con attenzione e dedizione, ben attenta a
grovigli politici nei quali non volevo mica incappare.
Quando
ebbi finito, feci per alzarmi dalla poltrona poggiando le mani sui
braccioli, ma poi, d’un tratto, mi ricordai di un leggero
particolare al quale non avevo dato molto peso in quegli ultimi giorni,
ma che mi premeva terribilmente discutere con Lewis.
-Signore-
chiamai.
-Sì?-.
-Qualche
giorno fa, durante il suo discorsetto alla mensa, saltò
fuori l’argomento di una… “arma
segreta”- dissi.
Il
vecchio si sistemò più comodo dietro al tavolo.
–Sono informazioni riservate, queste-.
-Ma io
sono speciale- sorrisi. –Ci sarebbe questo e altro che potrei
sapere, no?-.
-Ti
sbagli. Ai miei occhi siete tutti uguali, a quelli di Alex no. E adesso
va’, l’allenamento al poligono ti attende-
indicò la porta alle mie spalle.
-Signore-
eruppi. –Esigo sapere di cosa si tratta-.
-In un
qualche modo credo che tu lo sappia già-.
-Bhé,
si sbaglia!- sibilai.
Martin
si allungò verso di me e assottigliò il tono di
voce. –Ti sei chiesta come i nostri Alchimisti abbiamo fatto
così tante scoperte ultimamente?-.
Scossi
la testa.
-Posso
dirti solo che abbiamo un nuovo alleato, se così
può esser chiamato, che conosce tanto bene i punti di forza
di Alex quanto quelli di debolezza…- sussurrò.
–Un uomo che gli è stato accanto abbastanza
allungo da poterci svelare molte cose interessanti che hanno fatto dei
nostri scienziati delle potenti armi contro Zeus…- fece una
pausa, aspettando la mia reazione, ma io tacqui. –Assieme a
quest’uomo abbiamo anche qualcun altro che ci è e
ci sarà particolarmente utile, vedrai…-.
-Non
capisco, chi…-.
-Infatti
non devi capire, almeno non ancora. Adesso va’-.
Quella
volta ubbidii: uscii dallo studio e mi avviai rielaborando
più volte le parole di Martin, cercando di comprenderne il
significato. Ma arrivai in palestra che ero tornata al punto di
partenza: io ero l’unica cosa che poteva fermarlo veramente,
e Lewis avrebbe affidato a me qualsiasi genere di arma per farlo.
Trovai
il poligono parecchio interessante: ricordai che addestramenti del
genere erano riservati alle matricole dei primi mesi in caserma,
perciò avevo già parecchio dimestichezza con le
armi e bersagli. Ma quella volta fu del tutto diversa dalle passate: i
bersagli erano mobili e aerei. Montati su tante grosse ciambelle
galleggianti, si spostavano da parte a parte della palestra assumendo
curiose formazioni. Il nostro scopo era ovviamente quello di centrare
il punto più interno del bersaglio, ma risultò
comunque un’ardua sfida persino per i nostri sensi
sviluppati.
Il
farmaco che m’iniettarono prima di gettarmi nel caos della
palestra, lo avvertii subito, avviluppava la precisione e la
sensibilità che avevo delle mie pistole e la resistenza del
mio corpo ad eventuali “proiettili amici volanti”.
Il
frastuono di spari era assordante, nonostante le cuffie in dotazione
all’interno dei caschi che ci obbligarono ad indossare. Le
ciambelle-bersaglio erano munite di mitragliette altrettanto potenti
come le nostre armi; agili e caricate di un programma che le dava
l’autorità di venirci addosso fisicamente,
contribuivano a rendere la simulazione ancor più vera. I
cacciatori con le ali che ci aspettavano a Manhattan non avrebbero
guardato in faccia nessuno, e tanto meno non fecero i coordinatori
nella saletta oscurata che si presero cura
dell’addestramento, trasformandolo in un vero massacro di
massa.
Ad un
tratto, assieme a quelle ciambelle svolazzanti per aria, nella palestra
fece la sua comparsa un robot con la visiera di calibro rosso, ovvero
dell’ultimo livello. La voce di Martin al microfono ci
avvertì della cosa comunicandoci che si tratta di un modello
in collaudo che simulava, come in passato, gli attacchi di Alex Mercer.
Inizialmente
la maggior parte degli Angeli si fondarono in massa contro di lui, in
una maniera disordinata e grottesca da far paura. Il finto Alex ne
uscì integro, e molti dei cadetti vennero scagliati senza
difficoltà addosso alle mura della palestra. Lewis, per
nulla soddisfatto, scese personalmente in campo e radunò,
durante una pausa, i capitani di ciascun clan. Li prese da parte e fece
loro un discorsetto che durò una decina di minuti,
comunicandogli di tenere maggiore disciplina e ordine
all’interno del gruppo.
Quando
l’allenamento riprese una metà di noi, esausta,
lasciò la palestra, mentre l’altra,
all’interno della quale il mio gruppo era rimasto per intero,
riuscì a collaudare qualche mossa efficace di gruppo contro
una gran parte delle ciambelle volanti che esplosero come fuochi
d’artificio.
Il
collaudo Mercer venne fatto rientrare, e nella palestra si agitarono
ancora per poco combattimenti e spari contro le ciambelle rimaste. Una
volta annientate fino all’ultima, restavamo in campo in
pochissimi, tra cui io, Cole, Emmett, Lucy e Harry assieme alla ragazza
capitano che riconobbi come quella del discorso al suo clan della
mattina, seduta sul tavolo con i componenti del suo gruppo seduti
attorno. La sua famiglia di Angeli era al completo come la nostra, e
così molti altri, tutti risultati, come poi ci disse Martin,
selezionati per l’offensiva.
Rinfoderai
la pistola ancora fumante nel fodero che portavo legato alla coscia, mi
tolsi il casco che misi sotto braccio e riempii i polmoni
dell’aria della vittoria. Dopodiché ritirai le ali
nella schiena e mi apprestai a raggiungere Lewis che faceva il solito
discorso di congratulazioni al centro del campo
d’addestramento.
Nel
frattempo, alle nostre spalle, gli spazzini-robot vennero a pulire il
pavimento dai brandelli di ciambelle volanti esplose durante
l’addestramento.
-L’offensiva
è forse la squadriglia di cui vado più fiero-
arrise Martin gioioso in volto. Quanto gli piaceva vantarsi delle sue
capacità di addestratore e responsabile!
–L’allenamento che avete passato con successo va a
testimonianza delle vostre capacità di combattenti. Sono
felice che tutti voi selezionati e volontari per formare la squadra
d’attacco abbiate raggiunto lo stesso obbiettivo, e
altrettanto contento nell’affidare nelle vostre mani il
destino della nostra New York- fece una pausa. –Questa sera
alle 21.00 vi attende la partenza per Manhattan. Vi chiedo di trovarvi
pronti sul tetto della base almeno una mezz’oretta prima,
perciò avete tutto il tempo di fare la dovuta attenzione ai
preparativi per la traversata. Chi di voi vorrà affinare le
sue capacità sfruttando questo tempo residuo per farlo,
sappia che l’accesso in palestra è del tutto
libero fino allo scadere del concesso. La mensa resterà
altrettanto disponibile, così come le altre aree
all’interno della base. Il mio consiglio è:
riposate e gioite, miei Angeli, perché l’Inferno
vi aspetta- ci sorrise e si avviò fuori dalla sua palestra
con la solita scorta di militari appresso.
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Capitolo 18 *** Capitolo 18° - Nuovi Cacciatori ***
Capitolo 18°
- Nuovi Cacciatori
«Non ricordo di aver fatto molto in quell’arco di
libero tempo che ci concesse Martin. Probabilmente vagai senza meta per
la base; passai in infermeria a vedere chi era ancora sul letto di
morte, feci qualche solito esame e “cazzeggiai”
(ecco il termine che non mi veniva), qua e là per i piani.
Almeno credo, poiché i ricordi di quelle ultime ore nella
base sono meno vividi degli altri, ovvero più facili da
dimenticare…».
L’orologio alla fine del corridoio segnava le sette e un
quarto del pomeriggio. Mancavano un’ora e quarantacinque
minuti alla partenza per l’isola, ma ancor meno
all’appuntamento sul tetto per chissà quale
assurda cerimonia che Lewis aveva chiamato
“sorpresa” riservando una certa quantità
di informazioni fino a quel momento. Chissà
cos’aveva in mente quel pazzo questa volta. Con la mia
domanda a cosa si riferissero tutti quei fogli firmati dal governo era
stato molto schivo e poco chiaro, e questo fece sorgere in me parecchi,
non pochi dubbi e solite supposizioni. Fatto sta che mi ritrovavo
comunque nel corridoio che collegava le stanze da letto del mio clan
senza un cazzo da fare che non fosse fissare quell’orologio a
muro. Aveva una cornice nera, quadrata, e anche i numeri al suo interno
assieme alle lancette avevano una forma spigolosa. Una roba moderna che
mi dava un po’ il voltastomaco.
Le mani nelle tasche dei pantaloncini, le scarpe ben allacciate, i
capelli legati in una coda alta e lo sguardo perso nel vuoto del bianco
muro davanti a me. Ero vuota delle mie armi e
dell’equipaggiamento che mi sarebbe stato consegnato assieme
al casco e ad una nuova divisa onoraria solo nel momento della
partenza.
Ero appoggiata alla parete tra la porta della mia stanza e quella di
una camera vuota che sarebbe dovuta appartenere a Margaret.
«Mi ritrovai così a pensare a quella poverina, che
ci aveva rimesso le penne durante il trattamento all’inizio
della nostra trasferta alla base Phoenix.
Margaret Smith. Capelli biondi corti, corpo sano, ma poco resistente a
quanto pare.
La sfigatella era risultata negativa alle iniezioni e pochi giorni dopo
la convalescenza nei laboratori, quand’ancora sembrava stesse
dormendo al mio fianco, è deceduta. Il suo sacrificio
è stato vano come molti, la sua vita è andata
dispersa assieme a quelle degli altri pazienti che non hanno assimilato
il Virus nel giusto modo, a differenza di me, di Emmett, Harry, Lucy,
Phil… e così via. »
Quando venne il tempo di cominciare a prepararsi, entrai nella mia
stanza e decisi di farmi una bella lavata. Preparai la doccia e mi
lasciai bollire sotto il getto bollente abbastanza a lungo da dovermi
poi spicciare per recuperare i minuti persi. Uscii dal bagno con
indosso un grande asciugamano attorno al corpo e uno più
piccolo in testa a mo’ di turbante. A andai verso
l’armadio e afferrai la stampella che portava degli abiti
puliti che stesi sul letto. Mi accorsi poco più tardi che
quella che avevo preso non era la mia uniforme, ma qualcosa di molto
meglio.
Alla stampella pendevano i miei soliti pantaloncini fai da te, assieme
però ad una maglia aderente, elastica e fatta di un
materiale e dei colori del tutto nuovi che non avevo mai visto. Aveva
anche un grande buco sulla schiena, probabilmente per le ali, ma quel
particolare riguardo l’aveva anche la mia vecchia uniforme.
In fine, in allegato c’era un giubbottino senza maniche che
indossato mi faceva quasi da gilet, corto com’era. Il
colletto alto nascondeva il mio collo e la cerniera davanti era comoda
e scorrevole, cosa rara negli indumenti di quel genere. Sul dietro
appariva uno stemma ricamato nella pelle di cui era fatto: una figura
araldica, con al centro uno scudetto suddiviso in quattro parti dove
apparivano i colori della bandiera americana. Qualche abbellimento qua
e là attorno al disegno che c’era al suo interno e
sembrava raffigurare una maschera anti-gas di quelle che usano i
militari per non infettarsi col virus, assieme a due pistole incrociate
sul fondo, prima del back-ground fatto di stelle strisce.
Ciò che attirò subito la mia attenzione, furono
anche le ali d’angelo che si chiudevano a coppa attorno allo
scudo come a proteggerlo.
Indossai il nuovo giubbetto e successivamente guardai
nell’armadio, dove intravidi una quantità enorme
di vestiti nuovissimi, incartati e stirati.
Il simbolo con lo scudo americano e le ali appariva su ciascuna parte
di quella che sembrava essere diventata la nostra nuova uniforme
ufficiale.
Mi luccicarono allungo gli occhi: ora non solo il Governo Americano
finanziava il nostro operato, ma garantiva anche il dovuto supporto e
delle nuove divise. Straordinario, pensai. Mi sentii come se fossi
appena entrata in marina o nel servizio militare, e quella di oggi
fosse la giornata in cui ci consegnano la prima medaglia al valore.
Qualcuno bussò alla porta ed io mi voltai di colpo.
-Permesso- disse Cole affacciandosi nella stanza.
-Vieni, entra pure- gli sorrisi andandogli incontro.
Il ragazzo fece ciò che gli avevo concesso e si richiuse la
porta alle spalle. Una volta che fui retta e fiera davanti a lui, il
giovane mi squadrò per bene dalla testa ai piedi.
-Vedo che hai trovato da sola quello che volevo mostrarti-
ridacchiò.
-E’ bellissima- conclusi io. –Il dietro mi fa
impazzire!- dissi voltandomi e indicando il disegno sul giubbetto.
-A chi lo dici…- gli sentii pronunciare, e avvertii
distintamente il suo sguardo spostarsi di molto più in basso
rispetto la linea delle mie spalle.
Mi schiarii la voce tornando composta. –Andremo a Manhattan
con queste?- chiesi.
Lui annuì. –E devi anche sbrigarti, avanti- disse.
Finii di allacciarmi le scarpe e sistemarmi i capelli ancora bagnati in
una più comoda coda alta; dopodiché uscimmo
entrambi dalla mia stanza e ci avviamo fianco a fianco verso gli
ascensori, che ci condussero sino al luogo d’incontro sul
tetto della base.
Arrivati lì ci riunimmo al nostro Clan che attendeva
fiducioso assieme agli altri Angeli l’arrivo di Martin e
dell’artiglieria, mentre sopra di noi si apriva un magnifico
cielo stellato e la pista di atterraggio raggiava della luce dei
lampioncini disposti lungo il percorso di volo. Caccia militari ed
elicotteri dell’esercito sembravano pronti alla partenza,
disposti ordinatamente in file con il proprio pilota accanto e altri
uomini forniti dall’aeronautica.
Come mi aspettavo, tutti gli Angels riuniti lì indossavano
la commemorativa divisa onoraria del settore, simile alla mia; e alla
luce della pista mi accorsi del tocco affascinante che questa dava a
Cole accanto a me.
-Perché i militari vengono con noi?- domandò
Emmett ad un tratto, col suo solito tono scontroso.
Il capitano gli rispose immediatamente: -Lewis ha ordinato una scorta
durante la traversata-.
-Ah!- rise l’Angeli 1-9-1. –E come pretendono di
esserci utili?!-.
-Dimentichi che là fuori c’è qualche
dragone che ci aspetta- ridacchiò Harry.
-Tremo dalla paura…- si beffò Emmett.
Lewis arrivò assieme ad una sfilza di militari e piloti che
si piazzarono subito nei caccia e negli elicotteri, mentre il grande
capo prendeva posto davanti a noi che lo guardavamo con gli occhi
sgranati.
-Perdonate l’indulgenza di questo mio medesimo ritardo,
Angeli, ma la revisione del vostro nuovo equipaggiamento mi ha
trattenuto oltre il dovuto- sorrise. –Fatto sta-
batté le mani –che è tutto pronto e
siamo solidi per cominciare la distribuzione. Caschi e armamenti di
difesa alla mia sinistra. Armi da fuoco e potenziamenti alla mia
destra- disse, e ci mettemmo in fila suddividendoci in due gruppi.
-Comincia la parte noiosa- borbottò Lucy.
Finii di allacciarmi tutto l’equipaggiamento dopo dieci
minuti di attesa in coda e altri dieci di montaggio. Insomma i tempi
bastarono giusti giusti a tutti quanti.
L’armamentario di un nuovo Angelo non mancava di nulla:
avevamo due armi da fuoco a disposizione, ed io avevo scelto due
pistole leggere e maneggevoli con un calibro potente e preciso, le
stesse che usai al poligono. Ci vennero
“installate” alcune parti di un’armatura
fatta di resina d’argento e piombo; un materiale resistente
agli impatti e che copriva nient’altro a parte spalle e
ginocchia. Le siringhe coi potenziamenti erano tre e legate alla
cintura dei pantaloni. Ciascuna fiala aveva un uso differente con
effetti altrettanto dissimili. La prima per l’attacco, la
seconda per la difesa, e la terza da utilizzare in casi di estremo
bisogno, dopo esser stati messi alle strette di energia. Ci fecero
un’iniezione che irrobustiva il corpo agli attacchi di Mercer
che avrebbe tenuto per 48 ore. Dopodiché saremmo dovuti
ritornare alla base per fare un nuovo vaccino. Era una specie di scudo
naturale scoperto da uno scienziato di cui non ci volle essere riferito
il nome. Meglio così, perché l’avrei
comunque presto dimenticato.
Mi accorsi fin da subito che Lewis aveva indugiato con gli occhi su di
me, e non appena fui completa dell’equipaggiamento e feci per
avviarmi all’elicottero, ma Martin mi mandò a
chiamare da un suo militare.
-Che succede?- domandò Cole che era già in piedi
nell’abitacolo dell’elicottero, le cui pale
già giravano potenti e rumorose, spazzando l’aria
e la terra attorno a noi. Il mio clan al completo era giù
sul velivolo, mancavo solo io. Il militare alla mia destra insisteva
con la sua presenza.
-Un attimo- dissi e mi avviai di corsa seguendo il soldato armato che
come se fosse la mia scorta mi accompagnò al cospetto di
Lewis.
Ci mancava solo che si aspettasse che m’inchinassi.
-Capo- salutai.
Martin alzò il mento in modo altezzoso, ed io serrai la
presa sul casco che tenevo sotto braccio, frenando l’impulso
di scagliarglielo contro quella testa da idiota e brutto vecchiaccio
che aveva. –Emily, la tua missione non è cambiata.
Le tue mansioni sono sempre le stesse, i tuoi poteri si manifesteranno
col tempo e la necessità di usarli, come hai saputo
riconoscere tu stessa-.
-Infatti- annuii grave.
-Quello che ti chiedo è un ultimo favore, prima che tu
vada-.
-E sarebbe?- domandai pronta a tutto.
-Se tu riuscissi a portare Alex qui vivo, magari. Condurre esperimenti
su di lui ci aiuterebbe a comprendere molte cose-.
-Mi sta chiedendo troppo, non sarei in grado di…-.
-Sono sicuro che troverai un modo- mi sorrise malizioso.
-Posso provarci, ma nel caso fallissi, nel caso riuscissi ad ucciderlo,
cosa…-.
-Non preoccuparti di questo. Tieni solo conto delle
opportunità che hai per ottenere ciò che ci
serve-.
Chinai la testa e me ne tornai sui miei passi montando in elicottero.
Quando fu tutto pronto, ci salutammo senza ulteriori convenevoli, noi e
gli Angeli rimasti a guardia dell’”arma
segreta”. Montammo sugli elicotteri che erano in totale
quattro e ci levammo in volo salutando Martin, rimasto a terra, con un
gesto prettamente militare.
Il gruppo di Angeli che era nel nostro stesso elicottero era quello
capeggiato dalla ragazza bionda che sembrava saperla lunga sui nuovi
infetti che abitano Manhattan. Stava discutendo con Cole proprio di
quello mentre io e i componenti non principali dei rispettivi Clan ci
tenevamo impegnati a modo nostro.
Il casco lo tenevo sulle ginocchia, e indosso avevo delle cuffie che mi
permettevano di isolare il frastuono delle pale
dell’elicottero, il quale aveva entrambi i lati aperti dai
quali spuntavano delle grosse mitragliatrici. Il pilota e i militari
venuti con noi si tenevano a debita distanza come se temessero
più noi piuttosto che cadere dall’elicottero.
-E’ strano- fece una smorfia Harry seduto al mio fianco.
–Mi aspettavo che Martin ci mandasse con le nostre ali- disse.
-Anch’io- annuii. –Ma avrà sicuramente
le sue brave ragioni!- ridacchiai.
-Lo spero per lui!- sibilò Harry.
-Cos’hai?- chiesi confusa dal suo turbamento.
-Niente, sto bene…-.
Mentiva. –Non dirmi che soffri di vertigini!-.
-No, affatto! Solo che i miei sono morti in un incidente aereo
quand’ero bambino, e ho paura di salire su questi cosi!-
doveva gridare per parlarmi.
-Mi dispiace! Anche mio padre è morto in elicottero! Ti
capisco!-.
-Sì!- sorrise lui. –Conosco la storia di tuo
padre!- rispose.
Traversavamo proprio in quell’istante le acque che dividono
l’Isola dalla costa ovest, e d’un tratto si
udì un suono che riuscì a superare tutti gli
altri. Pareva un ruggita, ma dieci volte più potente di
quello di un leone.
Mi affaccia subito fuori dall’abitacolo, lanciando
un’occhiata all’orizzonte oltre i vetri della
cabina del pilota. E vidi.
Erano in branco, una dozzina e muovevano chiassosi, enormi e affamati
verso di noi. Bestie di una stazza mai vista, persino da lontano ci
sembrarono subito colossali.
-I cacciatori!- gridò Emmett slacciandosi la cintura che lo
teneva attaccato al sedile.
L’elicottero eseguì una virata, i militari si
piazzarono alle mitragliatrici e noi Angeli infilammo la testa nei
caschi. La battaglia stava avendo inizio.
Il mio coordinatore fu subito messo in contatto con me; il collegamento
si attivò non appena sulla visiera del casco comparvero le
prime coordinate numeriche e le mappine 3D della zona messa a scanner
dal satellite che vegliava sopra di noi.
-Ciao bimba!- mi salutò Matt.
-Non c’è tempo, idiota! Cosa dobbiamo fare?!- gli
gridai contro slacciandomi la cintura.
Le mitragliatrici aprirono il fuoco e il caos e la confusione di suoni
e ruggiti nemici divenne altissimo. I cacciatori si sparpagliarono
attorno alla zona che stavamo traversando e cominciarono a fare quello
per il quale si meritavano quel nome.
-Per adesso lasciate fare ai militari! L’elicottero vi
scorterà fino a terra, ma cercate di restare calmi!-.
-Quei cosi ci vengono addosso!- ribattei.
-Emily, dannazione! Sono ordini di Martin!-.
Attivai la comunicazione con il capitano e gli altri membri del mio
clan, sbattendo in faccia a Cole che era assurdo.
In quel preciso istante un cacciatore si scontrò con
violenza contro l’abitacolo del nostro elicottero, che
barcollò un poco e si riassestò con addosso
qualche militare di meno. Gli uomini che erano alla mitragliatrice di
sinistra precipitarono nell’acqua a cento metri da terra e
sicuramente non molti sarebbero sopravvissuti ad una caduta simile.
Guardandomi attorno, mi accorsi che il gruppo di bestie mutanti stava
causando dei danni colossali non solo al nostro ma anche agli aereo -
motori che ospitavano gli altri clan dell’offensiva.
-Cole!- chiamai.
Il capitano si voltò verso di me, e ci scambiammo
un’occhiata che bastò a dare pane per i nostri e i
denti dei membri del nostro clan. Il ragazzo si slacciò la
cintura e balzò in piedi sistemandosi nel centro
dell’abitacolo. –Angeli in volo!- chiamò
a raccolta.
-No, Turner!- ruggì la donna capitano dell’altro
gruppo. –L’hai sentito Lewis!-.
-Se i cacciatori distruggono gli elicotteri noi non moriamo, ma questi
uomini d’America sì!- disse lui facendo
riferimento ai pochi militari che rimanevano sul nostro velivolo. La
mitragliatrice che usavano perforava le ali di quelle bestie, ma non
bastava solo quello a metterle fuori combattimento.
Harry aveva ragione: sembravano proprio dei dragoni, con tanto di ali
da pipistrello gonfie di e pulsanti di Virus. Muscoli pompanti, quattro
arti con sei artigli affilati ciascuno. Una coda tozza e coperta di
spunzoni, assieme ad un collo grasso e flaccido che reggeva una
testolina col mento sporgente, una grande mascella e due piccoli occhi
famelici quanto i denti acuminati che spuntavano anche se la bocca era
chiusa. Zanne che si avventarono contro l’elicottero dietro
di noi perforandone il serbatoio e il telaio della coda, che
andò in frantumi ed esplose in una marea di fiamme e
scintille. Si udirono le grida degli umani che vi stavano
all’interno, mentre dal fumo emersero i quindici Angeli
completi delle loro ali. Questi cominciarono a fronteggiarsi a furia di
calci, pugni, artigli e armi da fuoco contro le bestie, che
però ebbero la meglio sul Clan che ne uscì
perdente con nessun supersite.
E intanto il nostro elicottero proseguiva spedito verso Manhattan, con
l’unico obbiettivo di scortarci nel bene o nel male
dall’altra parte dell’Hudson.
-Basta, fuori di qui!- ordinò ancora Cole.
Ci alzammo tutti dai nostri sedili andando di corsa verso il foro che
aveva fatto il cacciatore nell’abitacolo
dell’elicottero. Armi alle mani, ci gettammo a mo’
di paracadutisti esperti uno alla volta giù
dall’elicottero.
Quando fu il mio turno, subito dopo di Emmett, saltai nel vuoto con le
gambe strette e distese, assieme alle braccia spalancate nel vuoto
dell’aria che cominciò a frustarmi le parti di
pelle scoperta, dove l’uniforme non arrivava. Ad un quarto
dalla caduta diedi l’ordine delle mie ali di spalancarsi, e
queste si gonfiarono veloci permettendomi di rallentare la caduta e
cominciare a planare. Agganciai il mio bersaglio di mira e, stringendo
le ali attorno al mio corpo, assunsi la vaga forma di un proiettile che
andò a spezzare le ossa dell’ala sinistra di un
cacciatore che svolazzava poco sotto il nostro elicottero. La mia
caduta proseguì allungo, fin quando non fui ad un pelo
dall’acqua e solo allora riaprii le ali che mi sollevarono di
un metro o due. Al mio seguito c’era Cole che mi subito
affianco. Emmett ci guidò avanti e poi di nuovo su, verso
gli elicotteri che perdevano quota impegnati nel fuoco incrociato coi
cacciatori.
Io ed Emmo ci slanciammo entrambi su un drago afferrandolo per le corna
e, con un colpo preciso, calibrato e potente, spingemmo verso il basso
spezzandogli l’osso del collo. La bestia precipitò
nell’acqua dopo essersi lasciata sfuggire un mugolio
strozzato.
Restavano una decina di cacciatori a darci noia: quando Harry si fu
unito a me e Word, insieme noi tre aprimmo il fuoco sulle ali di una di
quelle bestie che, per i troppi fori sulla membrana, si
sbilanciò e precipitò anch’esso nelle
correnti impetuose.
I loro punti deboli non sono protetti e abbastanza vulnerabili che
basta un colpo, ma i loro artigli e i loro denti sono altrettanto
potenti contro di noi. Tenere testa a quelle creature era come
fronteggiare Alex con le sue stesse armi, consapevole che gli stessi
potenti attacchi che possono uccidere te ce li hai anche tu contro di
lui. Per me fu un ottimo buon allenamento per cominciare la giornata.
Il nostro ritorno in Guerra era stato annunciato da un gruppo
clandestino di cacciatori che ci intralciava la strada. Avremmo fatto
bene a decimarli tutti, fino all’ultimo, così da
risparmiare il lavoro ai clan restati alla base per la difesa della
stessa.
Un cacciatore si avventò addosso ad un elicottero e
l’impatto fu accompagnato dal boato di
un’esplosione di fiamme e fumo. Il suo sacrificio ci era
costato altri militari umani e un pugno di Angeli che non seppero
liberarsi dai suoi denti che penetrarono le loro ossa. E la sua
mascella li tenne ben stretti trascinandoli nel baratro delle correnti
marine con sé.
La mandibola di uno di quei cosi bastava a stringere cinque di noi e
ingoiarci interi. Balene simili con le ali non se n’erano mai
viste. Impugnai al meglio le mie pistole e sparai senza
pietà alla testa di uno di quei colossi, guadagnandomi il
suo profondo odio non appena si fu accorto di me, insettino a suo
confronto, che gli svolazzavo intorno come una mosca fastidiosa.
La sua zampata arrivò improvvisa e mi scaraventò
contro le pale di un elicottero che si danneggiò a tal punto
da fargli perdere quota.
-Emily! Emily sono io, Matt! Ma che diavolo succede?! Che cavolo state
facendo?!-.
-‘Sta zitto!-.
Indebolita dall’impatto e con i vestiti già
strappati a soli pochi minuti dall’inizio, serrai le ali e mi
affrettai ad andare a recuperare l’abitacolo del veicolo che
precipitava verso l’acqua. Lo superai e mi piazzai sulla
punta, potendo ben vedere il pilota all’interno della cabina
che gridava spaventato. Afferrai il muso dell’elicottero e
gonfiai le ali, accompagnandolo con dolcezza sulla cresta della
corrente senza ulteriori morti. Dall’abitacolo uscirono gli
Angeli ospiti che si diressero in alto tornando nel vivo del
combattimento.
Sbadatamente ero finita anch’io per metà in acqua,
e per risollevarmi fu una gran fatica. Impiegai troppo tempo a
riprendere quota per raggiungere l’ultimo elicottero rimasto
integro che doveva vedersela con ancora cinque cacciatori, altrettanto
impegnati da una trentina di Angeli.
Prima che riuscissi ad asciugarmi le ali abbastanza per poterle
sbattere, pesanti com’erano, contro di me si
avventò una di quelle bestie, e dovetti scartare malamente
di lato evitando di pochi centimetri i suoi denti affilati che
avrebbero potuto farmi a pezzetti. La bestia arrivò comunque
a ferirmi con una zampata che mi scaraventò di nuovo in
acqua.
Affondai di qualche metro, sentendo le ossa rotte e dovendo
riaggiustarmele alla svelta. Il cacciatore attese che uscissi allo
scoperto, magari che esaurissi l’ossigeno. La sua immagine mi
appariva sfocata dall’altra parte dello specchio
d’acqua nel quale ero prigioniera. Mi servii delle ali per
spostarmi dietro la sua ombra e riuscire a riemergere alle sue spalle.
Ero stata una sciocca.
Un grosso aculeo della sua coda m’infilzò
all’altezza dello stomaco passando da parte a parte. Persi
tanto di quel sangue che avrei potuto tingere l’oceano, ma
restava in me il vigore necessario per stringere
l’impugnatura della mia pistola, puntare e premere il
grilletto.
Il proiettile gli perforò il piccolo occhio destro.
Mugolò di dolore in un grido acuto che arrivò
nelle mie orecchie, anche attraverso lo spessore del casco.
Mi sfilai dal suo artiglio e rigenerai alla svelta i tessuti degli
organi e dello stomaco. Con un urlo di furore mi avventai sul suo muso
e, tramutando il mio braccio in una grossa lama nera e argento, lo
infilzai nel cranio affondando più della metà
dell’arto nel suo cervello da gallina.
Il suo dolore morì in quel mio ultimo gesto di togliergli la
vita. Lasciai che il suo corpo precipitasse in acqua e, servendomi
della sua carne come isolotto, potei finalmente asciugarmi le ali di
ciò che bagnato restava. Attorno alla carcassa
dell’animale si formò una densa nube di sangue che
evaporava in gas tossici e fumi puzzolenti come se stesse
già andando in decomposizione.
Approfittai di quel breve riposo per realizzare quello che era
successo: guardai il mio braccio mentre tornava alla
normalità dopo essersi mutato in qualcosa che non ero mai
stata capace di padroneggiare. Fasci neri e rossi mi avvolsero
l’arto per intero nel tentativo di ripetere
l’accaduto, e della lama che divenne studiai ogni
particolare.
-Stupenda…- passai la mano sulla sua superficie
così tagliente che mi ritrovai senza un dito dopo averla
solo sfiorata. Soddisfatta, e dopo aver rigenerato l’unghia
mancante, attesi di tornare del tutto alla normalità.
Dopodiché mi allontanai da lì spiccando un balzo
e caricando contro il mio prossimo bersaglio.
D’un tratto Matt mi contattò: -Emily, dannazione!
Martin…-.
-Non mi frega un cazzo di quello che dice Martin! Chissà
quanti militari ho salvato in quell’elicottero!- sbottai
mentre la mia ascesa continuava, e le mie ali batteva forsennate quanto
il mio cuore.
-… Come vuoi. Ma adesso dimmi: sei ferita?-.
-No!- gridai.
-Il tuo clan ha subito perdite?-.
-Non credo, perché me lo chiedi?- domandai confusa.
-Perché stiamo provando tutti quanti a chiederlo al tuo
capitano da mezz’ora, ma Cole non risponde! La sua
comunicazione è caduta! Non mi risponde, dannazione, non
è da lui!-.
Mi si rizzarono i capelli, sbiancai in viso e in corpo, restando
sospesa a mezz’aria. –Cosa?…- mormorai.
Su grande richiesta di Saphira87,
dopo aver stimolato la sua curiosità con un spoiler che
sconvolge, annuncio il postaggio di questo capitolo che…
Muha, non saprei. Comunque devo farvi vedere un’immagine,
ovvero un disegno fatto da me che raffigura un cacciatore volante. Non
è molto simile ai cacciatori quelli che si trovano nel
gioco, ho voluto rendere queste creature simili ai draghi per via della
mia grande passione! ^-^
Allego anche la nuova uniforme del settora Angels con Emily come
manichino! Ovviamente, di mia medesima creazione! ^-^
Allora, non ho molti commenti per questo capitolo, ma solo un
avvertimento per uno speciale utente:
X
Snowdra1690: dopo la lettura del capitolo, vorrei che
lasciassi una recensione anche a quello precedente che non hai fatto in
tempo a commentare. Vedi… mi preme troppo andare avanti con
la storia, e a quanto pare preme parecchio all’altra famelica
fan delle vicende di Emily che commenta questa storia. XD Quindi,
ovviamente se non ti costa troppo tempo, pleeeese, commenta anche
quello che ti sei lasciato addietro! *-*
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Capitolo 19 *** Capitolo 19° - Back to the Hell ***
Capitolo 19°
- Back to the Hell
…Sei
ore prima
-Lisa- chiamò Max entrando nella tenda, e assieme a lui fece
capolino all’interno anche un raggio di sole proveniente
dall’esterno, dove si prospettava una magnifica giornata e un
cielo limpido e azzurrissimo.
La ragazza era seduta sul suo letto con le braccia strette attorno ad
un cuscino di soffice piume bianca, e forse l’ultimo
così pulito in tutto il campo. I capelli ancora legati e
spettinati, sfuggivano dal codino; questo a testimonianza che aveva
dormito senza neppure cambiarsi gli abiti.
Il vecchio andò a sedersi al suo fianco. –Che
è successo?- chiese curioso.
Lisa si strinse nelle spalle affondando il mento nel cuscino.
–Niente- socchiuse gli occhi.
-C’è poco nel tuo atteggiamento che riesce a
convincermi- ridacchiò Corvo. –Avanti, si tratta
di Alex, è così?-.
La ragazza sbuffò alzando gli occhi al cielo.
-Ah, lo sapevo!- scattò in piedi il vecchio dottore.
–Su, forza, dimmi cosa…-.
-No, papà, adesso no- mormorò lei sollevandosi
dal letto e lasciando il cuscino su di esso. –Mi stavi
cercando: vuoi che faccia qualcosa?- chiese seria.
-Sì- disse lui tranquillo. –Come prima cosa voglio
che tu ti dia una lavata. Come seconda, dovresti riempirmi queste fiale
di alcuni campioni- aggiunse prendendo delle fiale dalla tasca del
camice. Le porse alla figlia che se le mise tutte e tre attaccate alla
cintura che portava sempre con sé. –Domani ho da
fare parecchi controlli medici e mi servono anche dei tamponi e delle
fiale nuove. Vedi se riesci ad arrivare al vecchio ospedale e trovarne
qualcuno lì- sorrise affabile. –Tutto chiaro?-
chiese orgoglioso.
Lisa si guardò i piedi e annuì. –Va
bene. C’è altro?-.
-Potrei chiedere ad Alex se può accompagnarti…-.
-No, me la cavo- si apprestò a ribattere lei.
–Vado da sola- disse incamminandosi e superando le spalle del
padre. Afferrò una felpa da una sedia e una torcia dalla
scrivania che mise assieme alle fiale stretta alla cintura dei
pantaloni. Una bottiglietta d’acqua da un piccolo frigo bar
che mise in una piccola sacca a tracolla che prese con sé.
-‘Sta attenta!- le augurò Max.
Lisa non si volse neppure e uscì dalla tenda senza
aggiungere altro.
Camminò tutta la passerella con passo scattante e scese
svelta dalle scale. Traversò il sentiero che andava per le
tende di lamina e cartone dei profughi e sparì avvolta dalla
luce del mondo esterno a quel vecchio magazzino.
Era una giornata stupenda, c’era un caldo a tal punto afoso e
soffocante, che dall’asfalto della strada si intravedeva
opaco di lì ad oltre.
La ragazza si allacciò alla vita la felpa e si
slegò i capelli che le ricaddero in morbidi boccoli ondulati
sulle spalle magre. Li rilegò per bene e ordinatamente per
poi proseguire sulla sua strada.
Indossava una canottiera bianca sporca in alcuni punti e dei
pantaloncini fino a metà coscia. Degli scarponcini comodi e
da montagna che servivano soprattutto durante le traversate di macerie
e palazzi in decomposizione. Raggiunse una zona interna della
città proseguendo per vicoli e piccole stradine, scavalcando
recinzioni e muri di detriti, corpi e polvere, ben attenta a non fare
cattivi incontri.
Le pattuglie militari erano più frequenti di giorno che di
notte, proprio per questo doveva essere molto paziente e portare
parecchia cautela in ogni suo spostamento.
Si avviò spedita verso una parte residenziale abbandonata
sia dai militari che dagli infetti, e lì trovò i
residui di Virus che suo padre gli aveva chiesto come campioni. Si
avvicinò a ciò che rimaneva di un piccolo alveare
in rovina, estrasse dalla tasca dei pantaloncini un coltellino svizzero
e, estraendo la lama, tagliuzzò uno dei secchi tentacoli
rosso porpora che avvolgevano un detrito dell’edificio. Mise
una radice in ciascuna fiala, dopodiché le ripose sicure
nella borsa a tracolla e proseguì per la sua strada.
Raggiunse il pronto soccorso dell’ospedale nel tardo
pomeriggio; guardò l’orologio dal polso che
segnava le cinque e quaranta circa e, asciugandosi le gocce di sudore
sulla fronte, cominciò a scalare il muro più
esposto dell’edificio. Si issò su ciò
che restava della scala antincendio della palazzina e salì
sino al tetto. Una volta lì, trovò un ingresso
facile da uno dei condotti dell’aria e
s’infilò lì. Percorse lo stretto tunnel
di lamina a carponi.
Era una anno che faceva quello come mestiere: l’esperienza e
l’abilità necessaria da ladra l’aveva
acquistata prendendosi cura di un gruppo profughi da sola per un anno.
Lei così attiva, allenata e pronta a tutto,
quand’era piccola aveva preso anche lezioni di
karatè, che però non valevano molto quando ci si
trovava faccia a faccia con un cacciatore.
Arrivò in uno dei magazzini di contenimento e
buttò giù la grata di ventilazione che la
divideva dal suo obbiettivo. Questa cozzò sul pavimento in
un frastuono assurdo; si maledisse alla svelta di quello che aveva
fatto, non appena mise i piedi a terra e vide entrare
dall’ingresso principale due militari armati.
Era buio, la poca luce filtrava da delle piccole finestrelle allungate
sulle pareti e passava tra un ripiano e l’altro del
magazzino.
La ragazza si piegò sulle ginocchia nascondendosi dietro uno
scatolone abbastanza spesso. I militari si guardarono attorno
circospetti e cominciarono a pattugliare tutta la zona dividendosi.
Quello che veniva dalla sua sinistra stava quasi per raggiungerla.
Quando le fu abbastanza vicino, Lisa sporse in un avanti una gamba
sulla quale il soldato inciampò. Si rovesciò al
suolo nel trambusto delle armi e tutto l’equipaggiamento.
-Ehi!- strillò l’altro. –Tutto bene,
Sett?- domandò al compagno.
Lisa scattò in piedi e cominciò a correre.
-Eccola! Fermala, idiota!- ruggì il militare a terra.
Prima che uno dei due riuscisse a far fuoco, la ragazza
scartò di lato e raggiunse lo scomparto con i tamponi.
Afferrò al volo quello che le serviva e lo mise nella borsa.
Poi fu il caos di proiettili che mandavano in frantumo ampolle, fiale,
cotoni e scatoloni.
-E se è sana?!- domandò d’un tratto il
secondo abbassando l’arma.
-Che cazzo se ne frega! Ha rubato qualcosa!- fu la risposta di quello
che aveva il sedere ancora a terra. Il compagno lo aiutò ad
alzarsi e insieme intrapresero una corsa folle nella sua direzione.
Lisa si nascose nella penombra di una stanza adiacente e più
buia. Attese che i due proseguissero spediti più avanti, poi
uscì allo scoperto e riprese a correre, tornando nella
direzione dalla quale era venuta.
Si tuffò nel condotto di ventilazione e lo risalì
fino a tetto. Abbandonò anche l’ultimo piano
dell’ospedale e scivolò giù per la
ringhiera delle scale antincendio. Arrivata al primo livello
dell’edificio, si gettò su alcune macerie
lì accanto e, piegando le ginocchia, atterrò
rotolando.
Con il fiatone e il cuore che batteva a mille, rimase stesa a terra
interminabili attimi pur di riprendere fiato. I capelli bagnati di
sudore si erano attaccati alla fronte, le guance arrossate, il petto
che si alzava e si abbassava gonfiandosi a dismisura.
Scoppiò in una fragorosa risata per averla passata liscia di
tanto così.
Si rialzò in piedi con un po’ di fatica e si
avviò sulla via del ritorno.
Peccato che comunque il viaggio di rientro le costò troppo
tempo, e calò la notte prima ancora che riuscisse ad
intravedere la zona del porto. Accese la torcia e si fece largo tra le
macerie di vicoli e stradine. Si mise anche la felpa lasciandola
slacciata davanti, ma nel gesto di alzarsi il cappuccio sulla testa,
udì un borbottio profondo e cupo provenire
dall’oscurità alla sua destra.
Si voltò lentamente rallentando il passo fino a fermarsi del
tutto. Scrutò allungo nel buio della strada senza lampioni
dal quale aveva sentito levarsi quel verso, almeno fin quando tra
un’ombra e l’altra balenarono due piccoli occhi
porcini tinti di un rosso sanguineo. Il luccicare di due grosse zanne e
in fine, quello che le era parso nel buio solo un cumulo di macerie,
tramutò in un possente e colossale cacciatore alato che si
innalzò su due zampe e ruggì il suo terrificante
grido.
-Cazzo, non di nuovo …- gemé la ragazza lasciando
cadere la torcia a terra.
Prima che gli artigli anteriori della bestia potessero zompargli
addosso, Lisa scartò di corsa con il cuore in fermento e il
viso già in fiamme.
Era la fine.
-Sul radar ho perso il segnale di entrambi! Siamo disperati e temiamo
il peggio: sono i nostri uomini migliori! Vedi se sono nei paraggi! Se
non ci sono devo avvertire Martin che ordinerà la
ritirata!-.
Mi fiondai all’istante alla ricerca dei due, ma
nell’aria attorno all’elicottero dove gli Angeli
degli altri Clan e i restanti cacciatori si sfidavano
all’ultimo sangue, non ne intravidi l’ombra.
Contattai Lucy, gli diedi la notizia, ma lei era altrettanto
spaventata. Quando parlai con Harry, fu lui a supporre che si erano
diretti sull’isola.
-Emmett scassava le palle a Cole lagnandosi del fatto che fossimo qui
ad esaurire munizioni invece che là!- indicò
l’isola. –A cercare Mercer! Da solo!- aggiunse.
-Capisco, e poi?- dissi io mentre volavamo fianco a fianco diretti
verso i grattacieli di Manhattan, o meglio, verso quello che ne
restava.
Alle nostre spalle abbandonavamo i dieci Angeli rimasti vivi a parte
noi che fronteggiavano i due cacciatori ancora da abbattere,
salvaguardando l’ultimo elicottero in aria.
-La comunicazione è caduta non appena Cole gli è
andato dietro per fermarlo! Si sono presi a parolacce fino ad allora!
Ho ringraziato Dio quando abbiamo perso il segnale, mi scoppiano le
orecchie!-.
Lucy ridacchiò isterica, ma io non riuscii a fare neanche
quello.
Se Emmett aveva davvero intenzione di trovare Mercer da solo e
sprovvisto di tutta la squadra, allora c’era poco da fare.
Ero preoccupata per Cole, che non avrebbe potuto fare altro che
fronteggiarlo pur di difendere un membro del clan.
Il mio ragazzo rischiava la vita per l’ego di un maledetto
stronzo. Se Emmett ne usciva vivo ‘sta volta
l’avrebbe pagare cara.
-Martin chiamerà la ritirata, cosa facciamo?- domandai io.
-Dobbiamo trovare Emmett!- lagnò Lucy.
-Ma se avessero incontrato Alex e Cole non ce l’avesse
fatta?!- ipotizzai preoccupata.
-Non pensarlo nemmeno!- gridò la ragazza.
-Sarebbe il peggio che potesse accadergli- mormorò Harry
fissando l’orizzonte oltre il suo casco, dove le acque del
lago s’infrangevano sul porto di Manhattan in piccole onde
spumose. Mantenendo la lucidità e la sua solita compostezza,
il ragazzo ci guidò entrambe oltre il molo e la banchina,
proseguendo in volo e in testa al triangolo che formavamo, attraverso i
primi tetti della città. Proseguimmo raso terra con la
strada asfaltata che conduceva verso il centro.
-Non abbiamo un localizzatore?- domandai.
-Ce l’hanno alla base, ma quei due idioti devono aver
disattivato il GPS. Oppure qualcosa nei caschi si è
danneggiato- borbottò il ragazzo. –Qualcosa mi
dice che Emmett si è lasciato prendere la mano-.
-Quel deficiente ci ammazzerà tutti!- ruggii.
-La sua è stata una mossa poco dignitosa, ma dovete capirlo,
è fatto così- assentì Lucy.
-Non provare a proteggerlo!- le ringhiai contro salendo di quota.
–Non ti merita!-.
-Lui l’ha sempre pensato…- sussurrò la
ragazza.
-Smettetela!- s’intromise Harry. E vedete di essere
d’aiuto! Avanti, fiutate qualcosa!-.
Atterrammo nel centro della strada, tra macerie di palazzi e automobili
carbonizzate da esplosioni. Altre carcasse di vetture erano rimaste
vittime di incidenti stradali in quella zona deserta della
città, dove l’aria inquinata di Virus era
diventata padrona e tutto, cielo e luce, era tinto di un colore
rossastro, nonostante fosse notte fonda. Le stelle in cielo erano
oscurate da tossiche nubi rosate e i corvi danzavano in circolo sopra
le file e i mucchi di cadaveri lungo i marciapiedi, allietandoci con la
loro melodica canzoncina di morte e le loro note gracchianti.
-Bentornati all’Inferno- ridacchiai.
Harry mi fulminò con un’occhiataccia che potei ben
immaginare anche oltre la visiera del casco che aveva.
–Forza, andiamo- disse incamminandosi con passi lenti e
misurati tra i corpi delle gante e le macerie.
La puzza nauseabonda penetrò violenta nei miei polmoni.
Avvertii anche alcuni residui del Bloodtox decomposti
nell’aria, ma in quantità minime da non darci
fastidio. Camminammo lungo la striscia continua che andava
sull’asfalto coperto di sangue e detriti, mentre i pochi
lampioni funzionanti illuminavano poco e niente. Lontano, dove crescono
i palazzi del centro dell’isola, si vedevano le luci di
finestre e automobili che ancora ravvivano le parti più
protette di Manhattan. I grattacieli lungo la costa, invece, sono
spenti e bui come la notte, oscurando una fetta di cielo come se quella
parte d’immenso fosse stata spopolata delle sue stelle. Le
ombre delle vite che si sono spezzate in queste vie per mano di Mercer
era come se potessi sentirle sussurrarmi di trovare quel bastardo
ancora prima di cominciare a fiutare Emmett e Cole.
D’un tratto ebbi una vana sensazione di sentirmi chiamare; mi
voltai e vidi solo un’ombra muoversi
nell’oscurità di un vicolo che avevamo da poco
passato, continuando a dirigerci verso il centro abitato.
-Siamo sicuri che siano andati di qua?- chiese Lucy.
-Il mio naso dice così! Se il tuo ha qualcosa in contrario
dillo adesso!- eruppe Harry.
-Va bene, scusa…-.
Ero rimasta indietro mentre i due ragazzi proseguivano oltre
l’incrocio attraversando sulle strisce; peccato
però che da quelle parti non passava un’auto da
mesi.
I semafori erano spenti, altri distrutti. Le pareti dei palazzi
mangiati da tentacoli neri e rossi e avvolti dalla solita puzza di
Virus. Mi guardai bene le spalle allontanandomi da quel vicolo e
accelerando il passo.
-Ehi, aspettatemi!- chiamai.
-Emily, ora resti anche indietro?!- fece lui infastidito vedendomi
arrivare di corsa sul marciapiede opposto.
-Scusate, ma… mi era parso di vedere…-.
-Perfetto!- Lucy alzò il occhi al cielo. –Ora hai
anche le visioni!-.
-Non ho avuto una visione!- ruggii. –E non parlarmi in questo
modo! Ti ricordo che è colpa del tuo ragazzo se siamo finiti
qui a corto di munizioni ed energie, mentre magari quello che ho visto
era Alex e sta solo aspettando che siamo di poco più
deboli!- sbottai.
Lucy mosse un passo avanti accorciando la distanza che c’era
tra noi. –Uno come Mercer non andrebbe mai a cercarsi
avversari di poco conto come noi! Sarebbe un onore se Emmett stesse
combattendo contro di lui adesso!- eruppe.
-Basta!- provò ad in promettersi Harry.
Ma fu del tutto inutile.
Alzai la voce e, spiccando un balzo così da annullare del
tutto le distanze, mi ritrovai faccia a faccia con la ragazza.
–Io sono una degna avversaria per lui più di
quanto pensi!- digrignai.
-Emily, ti prego, basta- tentò ancora Harry.
–Lucy, non…-.
Riuscì a terminare gli fu impossibile, perché in
quell’istante l’Angel 1-9-4 Lucy Malcom si
avventò su di me dandomi una spinta che mi
sbilanciò all’indietro. –Sbruffona!- mi
disse.
-Stronza!- ricambiai la spinta con un pugno allo stomaco che la fece
schiantare di sedere sull’asfalto.
-Adesso ti faccio vedere io!- Lucy scattò in piedi,
gonfiò le ali e si scagliò contro di me.
Rotolammo sulla strada avvinghiate, mentre le sue mani si stringevano
sulla mia gola e tramutavano in artigli che avrebbero potuto pungermi
da un momento all’altro. Quando Harry tentò di
fermarci era comunque troppo tardi. Intromettersi in una guerra tra
donne era scavarsi la fossa da solo.
Lucy mollò la presa e afferrandomi il polso provò
a lanciarmi contro un muro. La lasciai fare, e questo si
sbriciolò in tanti frammenti che mi piombarono addosso
sotterrandomi di polvere e pesanti macerie.
-Lucy, che cazzo fai?!- strillò Harry. –Sei fuori
di testa, per caso?!-.
La ragazza diede le spalle al cumulo di detriti sotto il quale ero
rimasta incastrata. –Ha cominciato lei, quella puttana che si
crede chissà chi!-.
-Smettila, non siamo qui per farci battaglia a vicenda! Si
può sapere cosa vi è preso?!-.
Lucy si avviò. –Avanti, andiamo!-
ordinò allontanandosi.
-Ed Emily?!- fece Harry sconcertato. –Non possiamo lasciarla
qui! Aiutami a tirarla fuori, dai!-.
-Ci raggiungerà, non temere! Adesso andiamocene, ho fiutato
qualcosa…- si vantò di aver avuto la meglio.
Inizialmente Harry rimase impalato dov’era, e probabilmente
guardava verso il cumulo di macerie che mi aveva sommersa. Ma non
appena Lucy lo chiamò di nuovo, sentendosi sottomesso e
dovendo rispettare il volere della donna di chi più muscoli
di lui aveva, spiccò un balzo, gonfiò le ali e
raggiunse la giovane che era già parecchio avanti.
Riuscii a liberarmi di alcuni blocchi di cemento dalla schiena
spingendo sulle braccia e aiutandomi con le ali, ma quando mi sollevai
in piedi, mi ritrovai sola e abbandonata a me stessa con
nient’altro che la desolazione di Manhattan attorno. Diedi
un’occhiata qua e là, e con piccoli saltelli mi
scostai dalle altre macerie che mi circondavano. Non era stata una cosa
intenzionale quella di sbarazzarmi di Harry e Lucy così di
poter dare la caccia a Mercer per conto mio, ma la reputai comunque una
mossa proprio astuta. Le probabilità che Emmett e Cole
fossero in pericolo erano un fifty fifty con quelle che avevo io di
incontrare Alex sul mio cammino. Decisa di questa speranza e ben
intenzionata a non prendermi ulteriori pause, caricai di proiettili
entrambe le pistole e, tenendole a portata di mano,
m’incamminai con tutta calma.
Il quartiere che stavo traversando era un labirinto di macerie e
cadaveri colmato dalla puzza persistente di Virus e Bloodtox. Restava
poco da fare se non guardarsi attorno e inspirare quell’aria
a pieni polmoni. Passo dopo passo era come se potessi sentire la sua
vicinanze e la sua lontananza, come se sapessi che da un momento
all’altro sarebbe spuntato dall’ombra del suo
cappuccio. Vigile in ogni mia mossa, contavo persino i miei respiri,
misurandoli lunghi e profondi, lenti e tranquilli come il mio animo che
mi ero prefissa fin dall’inizio di tenere sempre quieto e
contenuto nel barattolo che era il mio corpo. Sapevo che non sarei
tornata alla base Phoenix a mani vuote oltre le 48 ore stimate dal
vaccino fatto. Ero certa che qualcosa, magari uno stralcio di un
combattimento, qualche graffio come ricordo di una prima sanguinosa
battaglia, l’avrei comunque reclamato una volta fatto ritorno
al cospetto di Martin e tutti gli Angeli del progetto Gabriel.
Il cielo stellato che si apriva sopra la mia testa dava testimoniava la
zona meno infetta che stavo traversando. Lì
l’odore del Virus era meno pesante e pastoso,
l’aria di poco più sana, ma di pochissimo. Mi
avvicinavo ad una zona controllata dai militari, e forse avrei fatto
bene a cambiare direzione, ma qualcosa, il mio istinto, la mia innata
percezione di piccoli particolari e la fame che avevo del mio nemico,
mi spinsero ad andare avanti.
Camminai su una trave di ferro che era sospesa tra un cumulo e un altro
di macerie, tenendomi in perfetto equilibrio su di essa che era spessa
soli tre centimetri. Le ali nascoste nella mia schiena, i muscoli
pronti ma rilassati allo stesso tempo. Balza giù dalla
trave, piegai un ginocchio fino a terra per attutire il colpo, e mi
ritrovai in una fossa polverosa scavata nella strada, residuo
probabilmente di un’esplosione dovuta a qualche bombardamento
o missile militare. Mi rialzai ben eretta e ripresi il cammino
adocchiandomi attorno circospetta. Proseguii indispettita da
un’insolita presenza che sentivo avvicinarmi, ma che ancora
troppo distante non riuscii subito ad identificare. Ciò di
cui ero certa era che non si trattava di Alex: se così fosse
stato, avrei potuto fiutarlo anche a chilometri di distanza. Invece,
questa piccola ombra che mi viaggiava incontro reclamava territorio
camminando nella direzione opposta alla mia.
-Matt- chiamai.
-Sono qui, ma puoi cortesemente dirmi perché Lucy e Harry
non sono con te? I loro coordinatori non riescono a farti comunicare
con loro? Che succede?-.
-Ci siamo divisi per cercare Emmett e il Capitano, non preoccuparti,
stanno bene-.
-A Martin la cosa non piacerà quando lo verrà a
sapere-.
-Ma lui non lo verrà a sapere, vero?- feci una buffa vocina.
-Mi spiace, ma ci sono dei rapporti da scrivere su ciascuno di voi, e i
dati sono registrati-.
-Dannato Governo Americano ficca naso!-.
-E’ burocrazia che evolve, bisogna fare così.
D’altro canto si tratta del Presidente degli Stati Uniti
d’America-.
-In persona?-.
-Hm hm- annuì.
-Perfetto, ma tornando a noi: vedi nulla sul radar?-.
-Parecchio, piccola, cosa stai cercando in particolare?-.
-Niente, dimmi cos’è quella più
vicina-.
-Umano… aspetta, che vedo se…- fece una pausa.
–Umano non infetto, procedi col soccorso-.
-Non ho tempo per il soccorso!- sbottai. –Ma sei fuori di
testa?-.
-Fa’ come credi; per qualsiasi cosa sono qui- e chiuse la
comunicazione.
Proseguii sulla strada asfaltata seguendo la striscia doppia continua.
All’incrocio voltai a destra e superai un muro di macerie e
detriti troppo grossi con un balzo. Una volta abbastanza in alto,
spalancai le ali e planai fino alla via che faceva il lungo mare sul
porto. Alla mia destra c’erano vecchi magazzini e cantieri
navali abbandonati. Atterrai nei pressi di un lampione acceso che
illuminava lì attorno e, sotto la sua luce argentata, sostai
diversi minuti guardandomi attorno.
Fiutai l’aria delle vicinanze e fui perfettamente in grado di
individuare la forma di vita che passeggiava sola sulla strada che
seguiva la banchina del porto. Le onde s’infrangevano spruzzi
spumeggianti sui moli e i corvi facevano la lotta coi gabbiani per
appropriarsi di quello che restava di alcuni copri lasciati marcire sul
marciapiede.
D’un tratto la vidi: era una ragazza che correva forsennata
nella mia direzione, ansante e senza fiato. Emerse dal buio della
strada e prima che potesse essermi sufficientemente vicina
perché travedessi un solo particolare del suo viso, udii un
ruggito che proveniva dalle sue spalle.
Riconobbi subito quel suono, e spalancai le ali all’istante.
-Cazzo!- strillai. –Matt, dannazione, avresti potuto
avvertire che c’era anche qualcosa di grosso!-.
-Il radar non li vede ancora i cacciatori, Emily! Gli Alchimisti
istallano domani il nuovo software! Se l’avessi saputo te
l’avrei detto!-.
Il cacciatore drago comparve dall’oscurità
inseguendo la ragazza a piedi. Sbatté le gonfie membrane
pulsanti di virus e allargò le fauci gocciolanti di saliva e
sangue. I suoi piccoli occhi porcini mandarono un bagliore rossastro
non appena mi videro: la mia presenza distolse del tutto la sua
attenzione della giovane che andò a rifugiarsi in un vicolo
e proseguì dritto abbandonando il porto sempre di corsa.
Mi levai in volo e cominciai a sparare al muso della bestia evitando i
suoi aculei dorsali e le sue poderose zampate. Salendo di quota lo
attirai verso l’interno della città e cominciai a
zigzagare tra i palazzi distrutti e le macerie per strada. Lui, poco
agile e flessuoso, oltre che essere troppo grande per poter passare
attraverso muri più stretti, si trovò parecchio
in difficoltà nel pedinarmi.
D’un tratto mi voltai con una giravolta e gli puntai entrambe
le canne delle armi agli occhi, centrandoli perfettamente. La bestia
divenne cieca, ma il suo fiuto infallibile e affamato riuscì
lo stesso a dirigere il duello.
Persi quota intraprendendo un volo radente mentre le sue grosse ali
sbattevano sopra di me proiettando la sua ombra che copriva del tutto
la mia. Piroettai ancora, sparai altri colpi e perforai la membrana
delle sue vele; i fori furono sufficienti a dimezzare la sua
velocità, e il cacciatore fu costretto ad atterrare.
Non mi ero accorta di essere tornata al punto di partenza, di trovarmi
di nuovo in quella zona di Manhattan che costeggiava le acque
dell’Hudson ed era controllata da una base militare
più a sud. Il giro che avevo fatto attorno alle palazzine
lì di fianco non era bastato a darmi il tempo sufficiente
per eliminarlo del tutto.
Improvvisamente uno degli aculei della sua coda mi sfiorarono, ma
arrivò comunque una folata di vento che mi spazzò
addosso al muro di una palazzina, nella quale sprofondai per
l’impatto che mi aveva di molto indebolita.
Persi ancora quota, dopo essermi liberata delle macerie, e atterrai
cominciando a correre. Mi rifugiai in un vicolo attraverso il quale il
cacciatore non riuscì a inserire la sua zampa che mi dava la
caccia.
Ero come un topo in trappola, e dovevo pensare a qualcosa di
più astuto per imbrogliare il gatto cattivo che voleva
mangiarmi. I muri attorno a me cominciarono a cedere man a
mano che la zampa e gli artigli del cacciatore scavavano per venirmi a
prendere. Quando il foro fu abbastanza largo, inserì la
testa e spalancò le zanne.
Il suo alito terribile quasi mi spazzò via, e dovetti
inchiodare a terra le ali per non andarmi a perdere lontano per via del
suo ruggito famelico. Lanciai un’occhiata
all’interno delle sue zanne accorgendomi che tra i cordoni di
bava che si erano formati tra un dente e l’altro, potevo
vedere perfettamente la sua ugola e oltre.
Sveltissima, puntai l’arma e premetti il grilletto,
ma…
Avevo finito le munizione, e feci per ricaricarle, ma il muso del
dragone si avvicinò troppo e fui costretta a balzare via
sentendomi ormai alla fine dei miei giorni.
D’un tratto qualcosa attirò l’attenzione
del cacciatore che ritrasse la testa e la voltò altrove
verso qualcosa alla sua sinistra che io, incastrata nel vicolo, non
potevo vedere.
La bestia annusò l’aria putrida di Virus; poi
ruggì furiosamente e si diresse di corsa sulle quattro
poderose zampe, e con le ali ripiegate attorno al corpo, verso il
“ciò” che l’aveva tanto
infastidito più di me.
Feci un sospiro di sollievo e guardai in alto, dove si apriva uno
squarto di cielo tra il tetto di un edificio e l’altro.
Servendomi delle ali e dei loro artigli che penetrarono solidi tra i
mattoni delle pareti raggiunsi lo sbocco e fui libera dalla mia
trappola. Issandomi sul tetto della palazzina, guardai il cacciatore
correre svelto incontro ad una figura troppo distante e avvolta nel
buio perché potessi riconoscerne la forma o anche solo
qualche tratto.
-Dannazione!-.
Cominciai a domandarmi cosa ci fosse di più importante e
attraente per un cacciatore di un Angelo in carne, ossa e virus. Ma
soprattutto come fosse possibile che, curando la scena con la vista
termica in mio possesso, la figura che stava immobile nel centro della
strada fosse completamente infetta.
-Matt! Matt!- gridai.
-Ti ascolto, piccola, che succede?- stava masticando qualcosa, e potevo
ben immaginarmelo stravaccato alla sua postazione come un
pashà.
-Avevi detto che non era infetta! Idiota! Che cazzo dici?!- sbraitai
levandomi in volo con un salto. Sbattei le ali e mi diressi di fretta
verso il cacciatore e il nuovo comparso.
-Infatti! Alla tua destra, piccola, è sana, guarda- mi disse
lui controllando sul radar.
Mi voltai di colpo e vidi quella ragazza dagli occhi verdi e i capelli
castano-biondi legati in una coda starsene nascosta dietro un cumulo di
macerie. Teneva gli occhi chiusi stava rigida con le ginocchia strette
al petto, spaventata. Atterrai poco distante da lei, e feci per andarle
incontro, ma quando mi rivoltai verso il cacciatore e la sua nuova
preda, mi accorsi che erano entrambi lì come li avevo
lasciati: immobile l’uno davanti all’altro,
l’enorme bestia grattava l’asfalto della strada con
gli artigli fumando dalle narici che si allargavano e rimpicciolivano.
Io che l’avevo reso cieco me ne presi tutto il merito.
Gonfiò le ali e le sbatté sollevandosi sulle
zampe posteriori, inarcò la schiena e il collo ruggendo
spaventoso.
-…Matt- mormorai poi.
-‘Azzo, Emily! Sbarazzati di quel coso e falla finita!-
sbottò esasperato.
-Che cosa c’è sul radar?- balbettai aggirando la
bestia che mi dava le spalle, mentre il mio sguardo si perdeva
sull’infetto che stava immobile davanti alla creatura.
-Un infetto, ammazzalo, dannazione! Il cacciatore e quel…
aspetta- si arrestò d’un tratto.
Ingoiai il groppo che avevo in gola e caricai le armi di nuove
munizioni.
-Quello è…- Matt sgranò gli occhi
davanti allo schermo.
-Alex…-
sussurrai il suo nome a fior di labbra, ma bastò quel
flebile sospiro per attirare l’attenzione di Zeus su di me.
Il suo viso sotto il cappuccio si voltò di pochissimo nella
mia direzione, mentre il cacciatore che frustava l’aria con
la coda davanti a lui continuava a ruggire.
Mi abbassai di quota restando a debita distanza, nel frattempo che il
braccio destro del ragazzo tramutava in quella grossa lama spessa e
tagliente che conoscevo bene. Il suo sguardo tornò sul
dragone che aveva davanti, e un aurea di fasci rossi e neri avvolsero
il suo corpo per intero rivestendolo di una solida armatura di pietra
bruna.
-Devo avvertire Lewis?- chiese Matt un po’ spaventato.
-No- risposi di botto. –Non dire niente a nessuno!- serrai i
denti.
-E allora cosa vuoi che faccia?- domandò Matt inghiottendo.
-‘Sta zitto…- sibilai.
-D’accordo- balbettò il ragazzo.
******
Link:
Ecco come m’immagino Lisa
durante la sua caccia alle fiale e ai tamponi:
Lisa
Il disegno non è il mio,
ma è stato un colpo di fortuna beccarlo sul sito!
XD
******
Come prima cosa fondamentale, vorrei ringraziare SnowDra1609
per aver commentato un capitolo noioso come “Burocrazia che
evole” nonostante non ce ne fosse bisogno, se non per via
della richiesta di me utente di farlo! XD chiedo ancora perdono.
Saphira87
forse non aspettava altro che questo aggiornamento, dato che ci
avviciniamo al momento dello spoiler! Muhahaha! Chissà
cos’ho in mente, ma mi sa tanto che qualcosa hai dedotto da
te! XD
rerault
che bello sentirti, che bello sapere che sei tornata
°-° e che coraggio recensire capitolo per capitolo
quello che ti sei lasciata addietro! XD apprezzo il gesto!
Sackboy97
grazie per aver aggiunto la ff ai tuoi preferiti, sono contenta che la
storia ti piaccia e che tu la segua! ^-^ fammi sapere presto cosa ne
pensi attraverso qualche commento! Grazie ancora!
|
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Capitolo 20 *** Capitolo 20° - Sete di sangue ***
Capitolo 20°
- Sete di sangue
«È
scoccata la mezzanotte del giorno 410°
dell’infezione, con più del 10% degli infetti sul
pianeta. Una fetta intera d’America può ritenersi
quindi da “eliminare”, ma la gran parte dei
portatori malati si registrano in Europa e in Oriente. Il contagio
è più lento in Russia dove le temperature sono
sfavorevoli allo sviluppo del Virus, e Manhattan pullula di questi
nuovi cacciatori alati che mi comparvero sotto il naso per la prima
volta proprio quella sera, quando riuscii a soccorrere Lisa, e conobbi
il mio peggior nemico…».
La sua
voce mi giunse in un flebile sussurro dell’aria, accompagnata
da un nuovo ruggito del cacciatore che mi alitava addosso tutta la sua
cena, spalancando le sue fauci a pochi metri dalla mia figura.
Alex…
Mi
sentii chiamare per nome, e alzai di poco lo sguardo oltre le ali
gonfie e bucate del dragone che avevo davanti, dietro il quale si
celava la figura piccola e indistinta di un Angelo. La
riconobbi soprattutto per via delle sue ali sottili e il vestiario
simile a quello del nostro ultimo incontro. Era lei, la ragazza che mi
aveva parlato di Lewis Martin, l’Angelo a cui avevo
risparmiato la vita come uno sciocco quando avrei potuto assorbirla e
scoprire tutto quello che mi serviva sapere senza chiedere o
pretendere. Mi stava guardando, e riuscivo a leggere il terrore che
aveva di me nonostante la distanza. Fiutavo la sua paura che era
maggiore nel guardare me che quell’enorme cacciatore alato
che avevo davanti e mi stava ringhiando contro forsennato. Distolsi la
mia attenzione da lei e tornai sul mio grosso nuovo nemico. Tramutai il
braccio nella mia amata lama e in pochi secondi rivesti
l’intero mio corpo dell’armatura più
robusta tra tutte.
Spiccai
un balzo e mi avventai sul cacciatore puntando alla testa. Aprii un
grosso squarto sul collo e gli saltai sul muso tenendomi aggrappato
alla pelle viscida con gli artigli che avevo al posto delle dita della
mano sinistra. La bestia si lagnò di dolore per il
taglio e il fastidio dovuto alla mia insignificante presenza. Si
sbagliava se il suo cervello da gallina pensava di potersi sbarazzare
di me con così tanta facilità, come una mosca che
svolazza nelle sue vicinanze. Come avevo ben notato, era diventato
cieco per via di due proiettili ben piazzati nei suoi occhi,
perciò non si accorse da subito dei miei svelti movimenti e
delle mie intenzioni.
Il
cacciatore si dimenò allungo sbizzarrito nel tentativo di
scollarmi dalla sua testa che smuoveva violentemente a destra e
sinistra. La sua coda frustava l’aria spazientita, le sue ali
sbattevano come lenzuoli senza tregua. Individuai il punto con maggior
calore attraverso il suo cranio, e infilzai lì la lama che
sparì nelle sue membra celebrali per più della
metà. Il sangue e le sue viscere scorrevano tra un artiglio
e l’altro del mio braccio destro che tramutò dalla
lama alla frusta per poter andare più a fondo. In fine
trapassai il cranio, la mandibola e tutta la bocca da parte a parte,
facendo spuntare i miei artigli sotto al suo mento. Un foro circolare
lungo due metri e largo mezzo che lo stecchì
all’istante e dolorosamente.
Il suo
corpo perse vigore improvvisamente: avvertii i suoi muscoli
immobilizzarsi come congelati, mentre il suo peso lo trascinava
lentamente a terra. Prima le zampe si stesero piatte e larghe
sull’asfalto, poi le ali, e in fine il collo, dal quale
scivolai giù fino a tornare coi piedi per terra ed un
ginocchio piegato. Mi liberai della mia armatura e restituii al mio
braccio la sua forma originale.
Mi
tirai su con calma e a sguardo basso, vincitore di un duello che non
era durato più di una ventina di secondi. Quando alzai gli
occhi e guardai il cielo, lo trovai stranamente sgombro di qualsivoglia
forma di vita, corvi o Angeli
che fossero.
Risi
tra me e me e me, pensando che le mie tattiche intenzioni si erano
rivelate quelle appropriate ai miei scopi: gli avevo messo paura ed era
fuggita.
Che
codarda, pensai avviandomi con passo lento e misurato oltre la carcassa
del cacciatore.
-Alex!-
gridò Lisa uscendo dal suo nascondiglio.
Mi
fermai dov’ero, a pochi metri da lei e la vidi corrermi
incontro. Si lanciò su di me abbracciandomi disperata,
intanto che i suoi singhiozzi spaventati mi riempivano le orecchie
assieme al battito accelerato del suo cuore che sentivo scontrarsi sul
mio petto. Il suo improvviso contatto mi lasciò interdetto,
esitante, scettico più che altro. Le sue braccia erano
strette attorno al mio petto e le sue mani si erano posate delicate
sulla mia schiena, tra il giubbotto e la felpa. Legata a me con un filo
di ragnatela che avrei potuto spezzare solamente muovendomi di un
centimetro. Restai allungo immobile, succube del suo insulso
piagnucolare che cominciava a darmi sui nervi. Era stato un caso che
passassi di lì, l’avevo detto anche al barbone di
guardia del suo gruppo profughi esattamente un giorno prima.
-Temevo
che quel… mostro ti avrebbe ucciso!- si lagnava come una
bambina, abbracciata al padre che non voleva consolarla se il brutto
mostro dell’armadio l’aveva spaventata di nuovo.
Davvero mi faceva così debole? Così
insignificante? Oppure era solo la cosa più stupida e anche
l’unica che le era venuta in mente da dire? Diventai
insofferente della sua vicinanza, non volevo sentirmi una vittima dei
suoi capricci da ragazzina spaventata! Se l’era cercata
uscendo allo scoperto e girovagando di notte tutta sola per certe zone
della città! Mi sembrava altrettanto assurdo che non si
fosse presentato ancora nessun militare, dato che avevano una base a
cinque isolati dal campo profughi, verso sud.
Dovevo
sbarazzarmi di lei, del suo modo insulso e imbarazzante di
ringraziarmi. Non potevo affatto rischiare che un Angelo ci vedesse in
quello stato, o pensando di farmi del male avrebbero rapito anche
lei…
E
stranamente… in qualche modo assurdo… mi sarebbe
dispiaciuto… molto.
Scacciai
quei pensieri con un movimento rapido e conciso, che di per
sé parlava da solo alla ragazza che avevo di fronte: le
poggiai una mano sulla spalla e l’allontanai da me di scatto,
facendole quasi male.
Vidi
lo sconforto del mio rifiuto disegnarsi sul suo volto man a mano che
sul mio si disegnava la solita compostezza e rigidità che
avevano fatto di me una figura che i miei nemici temevano.
-Adesso
vattene- pronunciai serio con gli occhi celati sotto il cappuccio.
I
suoi, invece, di un verde denso e brillante, cominciarono a riempirsi
di lacrime che aveva un colore differente da quello dei capricci
infantili che aveva fatto fin ora.
-Vattene
Lisa, torna a casa- le ordinai come se potessi pretendere di avere la
completa autorità su di lei.
La
ragazza mi guardò allungo fisso in volto, cercando di
scrutare oltre il buio che avvolgeva metà del mio viso.
–Grazie- mormorò asciugandosi i residui del suo
pianto con una manica della felpa.
-Va’
da Max!- le intimai più presente.
La
ragazza sobbalzò sentendomi strillarle contro in quel modo.
Si strinse le braccia attorno al ventre e, più intimamente
spaventata di prima, si allontanò dandomi le spalle.
La sua
ombra si perse tra quelle dei lampioni spenti, la sua figura mi apparve
un’ultima volta molto distante, quando la vidi chinarsi a
raccogliere una torcia che aveva lasciato cadere per strada prima di
intraprendere quella folle fuga, poco prima che
c’incontrassimo.
Una
volta scomparsa del tutto alla mia vista, chinai la testa e abbassai lo
sguardo a terra, dove la mia immagine si rifletteva immobile in una
pozza di sangue che apparteneva alla carcassa del cacciatore dietro di
me.
Guardai
le mie mani e le strinsi a mo’ di pugni lungo i fianchi,
mentre una valanga di pensieri e immagini mi passavano davanti agli
occhi che tenni chiusi allungo.
Mi
sentivo come non mi era mai capitato, come se d’un tratto
avessi fatto il più grande sbaglio della mia vita. E di
fatti capii quasi subito il perché di
quell’improvvisa vampata di sentimenti. Le immagini che
vedevo erano i sorrisi della figlia di Max che in qualche modo assurdo
riuscivano davvero ad addolcire una piccola parte di me. Forse. Ma io,
imprigionato in questo corpo, non potevo saperlo con precisione.
Guardare il mostro che ero diventato era troppo difficile; provare a
sentirmi umano,
normale,
come una volta era troppo difficile.
Continuavo
a darmi dello sciocco, io che rimpiangevo di crearmi assurdi pretesti
pur di dare la colpa sempre a me stesso, quand’invece
basterebbe porre delle domande e lasciare che siano gli altri a dare
delle risposte.
Senza
pretenderle, com’ero abituato (male) a fare.
Distratto,
i miei sensi sempre vigili e all’erta non fiutarono il
nemico; e i miei riflessi scattarono troppo in ritardo rispetto al
colpo di pistola che mi lasciò in balia di una sensazione
piuttosto dolorosa.
Il
proiettile incastrato nella mia carne tra le scapole divenne parte di
me e del mio sangue non appena l’armatura mi
rivestì il corpo per intero, in un turbinio di fasci neri e
rossi come il sangue che avevo sotto le suole delle scarpe. Mi voltai
lentamente.
-Alex
Mercer!- gridò l’Angelo distante venti metri sulla
strada. Impugnava solo una delle sue pistole, mentre l’altra
era riposta nel fodero stretto alla sua coscia. –Ai termini
della Legge stabilita dalla Costituzione, e per i voleri del Governo
Americano, su richiesta dell’ONU…-
proseguì con la sua voce cristallina di donna resa rude
dall’atteggiamento di superiorità di cui stava
beando. Esitò per alcuni istanti, forse rimpiangendo il
fatto di avermi sfidato così apertamente.
-Ti
dichiaro in arresto- concluse poco convinta.
Lo
vidi affondare la lama nel cranio del cacciatore, e premere sempre con
più forza fin quando gli artigli non passarono dal capo
opposto della testa di quella bestia, che si accasciò a
terra morente.
Terrorizzata,
spaventata da quello che avevo visto, dall’incredibile
facilità con la quale si era sbarazzato di quel mostro, mi
costrinsi a nascondermi sul tetto di un alto palazzo lì nei
paraggi, tra le macerie di un piano e l’altro. Ripiegai le
ali, mi misi in ginocchio a terra e restai a guardarlo anche mentre il
suo corpo tornava ad una forma più umana, presentabile e
formale. L’armatura si volatilizzò nel nulla
formando una nuvola densa di fasci neri e rossi attorno alla sua
figura, che restò allungo immobile in un’unica
posa affianco alla carcassa della bestia.
Dopodiché
non potei credere a quello che successe dopo.
La
ragazza che fino ad allora era rimasta nascosta dietro quel cumulo di
macerie, uscì dal suo rifugio e, nelle lacrime, si
gettò ad abbracciarlo… ad abbracciare Zeus.
Un
modo curioso per ringraziarlo, che lasciò sia me che lui
profondamente turbati, come vidi bene zoommando la scena con
un’opzione del casco.
-Matt-
chiamai. –Lo vedi anche tu?- chiesi stupita.
-Diamine,
sì…- disse incredulo il ragazzo senza staccare
gli occhi dallo schermo.
Non
provai neppure ad immaginare quali potessero essere i suoi pensieri in
quel frangente, ma ciò che ascoltai poi mi fece comprendere
che i due sembravano conoscersi.
Dopo
averla respinta con violenza, Alex disse: -Adesso vattene-.
La
ragazza fece quasi finta di non aver sentito, e spostando la mia
attenzione su di lei la vidi in preda alle lacrime che non
giustificavano più la sua paura, ma bensì
qualcos’altro.
-Vattene
Lisa, torna a casa- disse ancora Mercer.
-Matt,
prendi nota- ordinai io.
-Lisa,
Lisa, Lisa come?!- fece esasperato. –Ci sono almeno tremila
Lise a Manhattan, come…-.
-Zitto,
zitto!- sibilai.
-Grazie-
mormorò flebile la giovane indietreggiando.
-Va’
da Max!- gridò invece Alex, spezzando il silenzio della
strada dove si trovavano, l’uno a fissare la sua immagine
riflessa negli occhi dell’altra.
Lisa
andò via così, quasi correndo e ripercorrendo i
suoi passi diede le spalle a Mercer che restò immobile in
quel punto dell’asfalto, quasi del tutto coperto del sangue
del cacciatore. Vi si bagnavano le sue scarpe, e vi si specchiava la
sua figura.
-Cerca
anche questo Max- dissi io sistemandomi di schiena contro un muro e
mettendomi a sedere.
-Va
bene, ma adesso cosa hai intenzione di fare?- chiese preoccupato.
Non
risposi alla sua domanda: -Probabile che sia suo padre,
perciò fai un’unica ricerca. Quando hai trovato
qualcosa avverti Lewis. Forse se gli rubiamo la fidanzata
s’incazzerà abbastanza come vuole Martin-
ridacchiai.
-Ah!-
fece Matt. –Credimi, p già parecchio incazzato,
non abbiamo bisogno della sua fidanzata-.
-Hmm,
come vuoi- borbottai preparando per bene le armi delle dovute
munizioni.
-Cosa
vuoi fare, Emily?!- domandò di nuovo.
-Secondo
te?- feci una pausa. –Quello per cui sono nata- caricai le
pistole e mi alzai da terra. Spalancai le ali e volai silenziosamente
fino a terra, a venti metri dal mio nemico che mi stupì non
poco non si fosse accorto di me. Atterrai lentamente, riponendo una
sola delle due pistole nel fodero sulla mia coscia. Impugnai
l’altra, presi la mira tra una scapola e l’altra,
dove il disegno sul suo giubbotto formava un motivo tribale di un rosso
acceso quanto il sangue versato ai suoi piedi, e in fine, sparai.
Mercer
ricevette il colpo senza fare nulla, e i riflessi dei suoi poteri lo
avvolsero della sua armatura troppo tardi rispetto ai tempi. Fu
così che assorbì il mio proiettile che divenne
parte della pietra bruna che lo rivestiva. Restò allungo di
spalle, fin quando voltandosi con calma, non ebbe conferma di chi aveva
osato quell’affronto.
-Alex
Mercer!- strillai così che potesse sentirmi come se fossi a
due passi da lui. –Ai termini della Legge stabilita dalla
Costituzione, e per i voleri del Governo Americano, su richiesta
dell’ONU…- dopo aver pronunciato tutti quei nomi
che pesavano sulla mia coscienza come dovere di cittadina e paladina di
Manhattan, esita per parecchi istanti, indebolendo anche la presa sulla
mia arma.
-Ti
dichiaro in arresto…- conclusi poco convinta.
-Emily-
fece Matt. –Ti consiglio almeno uno dei tre
potenziamenti…- balbettò in pena per me, e potei
ben immaginarmelo seduto sulla sua poltrona davanti allo schermo che
riproduceva tutto quello che vedevo io mentre si mangiava le unghie.
-Non
ancora- dissi io tranquilla. –Non ancora- ripetei.
-Quello
ti ammazza!-.
-Non
esserne così sicuro, dai-.
-Vieni
a prendermi, allora- disse Mercer tutt’ad un tratto, con un
tono divertito e apertamente di sfida. Il suo braccio destro
tramutò svelto nella lama nera e argento più
grande di lui.
-Emily!-
fece Matt. –Non ti serviranno le armi da fuoco su di lui!
Sono del tutto inutili, soprattutto se ha addosso quella…
cosa!- sbottò facendo riferimento all’armatura.
-‘Sta
zitto, sto cercando di concentrarmi!- sibilai.
-Va
bene, va bene…-.
-Senti,
stacca la comunicazione… non ti dispiace, vero?-.
-Ovvio
che mi dispiace! Scordatelo!-.
-Se
non lo fai tu lo faccio io- ridacchiai.
-Come
vuoi! Ma la riattivo ogni dieci minuti per sapere se sei
viva… in bocca al lupo-.
Mi
lasciai sfuggire un amaro sorriso. –Crepi-.
Il
contatto tra me e Matt cadde in quell’istante, non appena
Mercer fece un passo misurato nella mia direzione.
-Che
coraggio a venire qui da
sola!- si beffò il ragazzo. –A quale
onore devo la visita?…-.
-Non
è una visita tanto amichevole, se è quello che
pensi- risposi io riponendo la pistola nel fodero, così da
avere le braccia a completa disposizione e pronte per combattere alla
vecchia maniera.
-Dov’è
il resto del tuo gruppo?- chiese serio, rigido e composto venendo
sempre più vicino. Il suono così elettrico della
sua voce che era solo la seconda volta che ascoltavo, mi fece salire un
brivido lungo la schiena.
Muovendo
piccoli passi verso di lui, avvolsi il mio braccio destro in un
turbinio di fasci rossi e neri mentre le ali alle mie spalle si
spalancavano pronte a spiccare il volo.
-Il
mio clan è molto lontano da qui, in questo momento- sbottai
decisa, per la prima volta al suo livello durante tutta quella piccola
conversazione introduttiva. –Fortunatamente per
te…-.
-Ci
siamo già incontrati, ricordi- ridacchiò lui ora
che soli cinque metri ci separavano l’uno
dall’altra.
-Come
dimenticarlo…- digrignai cominciando a riscaldare le dita
della mia mano che tramutarono in cinque poderosi artigli.
-Mi
era sembrato un ottimo avvertimento, il nostro ultimo scontro- si
beffò. –Perché vi ostinate ancora nella
mia ricerca? Tu e la tua gente non provate più sentimenti
come la paura,
forse?- eruppe.
Noi dovremmo avere paura
di lui solo?! Ah! Bella questa...
-I
vent’otto Angeli che hai ucciso, se fossero vivi, sarebbero
qui a combatterti al mio posto, credimi- serrai i denti.
–Quello che hai fatto a noi basterebbe per lasciarti in
prigione tutta la vita, ma il Governo chiede risarcimenti al suo
esercito, mi spiace, e la pena si allunga anche oltre la morte- fui io
quella volta a ridacchiare sommessamente. Ripensare a Phil e tutti
quegli amici del reparto che avevano perso la vita a causa del mostro
che avevo davanti, mi diede la scossa necessaria per cominciare
a… mordere.
-Davvero
pretendi di potermi battere?- domandò esilarato.
-Permettimi
di stupirti…- mormorai maliziosa.
Poco
più di due metri distavano tra la mia e la sua ombra,
entrambe proiettate sull’asfalto da un lampione acceso sul
marciapiede di fianco. La carcassa del cacciatore drago nel mezzo della
strada puzzava in una maniera immonda di Virus, e il suo sangue si
allargava sempre più fino ai nostri piedi.
Alex
non aggiunse altro dopo quelle mie parole. Si limitò a
restare immobile mantenendo quella distanza pressappoco assurda
perché nessuno dei due scagliasse un primo attacco.
-Avanti,
dai- sorrisi.
Mercer
chinò la testa da un lato -Prima le signore-
assentì placido.
Non
attesi oltre: spiccai un balzo e fulminea mi avventai su di lui; ma
prima che riuscissi a sfiorarlo con uno solo degli artigli della mia
mano destra, il ragazzo sollevò la lama e parò il
colpo disarcionandomi dal mio salto precario. Il contatto tra le due
superfici esplose in una pioggia di piccole scintille, e
provò in me la fastidiosa sensazione di graffiare la parete
di un muro.
Mi
ritrovai a terra con un ginocchio piegato e l’altro steso per
lungo: mi spinsi di nuovo contro di lui questa volta portando in avanti
le ali, così da poterle utilizzare come ulteriore arma
d’offensiva. Riuscii a procurargli qualche graffio anche
attraverso la robusta armatura, che si rimarginò
più in fretta di quanto avrebbe fatto su un tessuto di pelle
umano. Gli svolazzai sopra la testa e, sorpassandolo, andai a posarmi
su un cumulo di macerie alle sue spalle. Attesi allungo, col fiato
già grosso di tutta la forza che avevo impresso in quei
letali due affondi andati a segno solo in parte.
-Tutto
qui?!- si voltò improvvisamente e prendendo la rincorsa mi
fu addosso, ma nonostante avessi richiuso le ali a coppa attorno al mio
corpo come protezione, l’impatto mi catapultò
comunque parecchi metri in aria e poi rotolante sull’asfalto
come un birillo che aveva appena patito un bello strike.
Tentai
di rialzarmi con un po’ di fatica, ma ancor prima che potessi
riprendere le redini delle mie ali rimaste spiazzate al suolo dopo lo
scontro, mi sentii trapassare il petto da qualcosa di appuntito e
viscido allo stesso tempo. Mi sfuggì uno straziante lamento
di dolore quando mi accorsi della lunga frusta con la quale Mercer mi
aveva perforato da parte a parte; come un arpione i suoi artigli si
erano piantati nella mia schiena scavando tra un organo e
l’altro, spezzandomi persino la spina dorsale.
-Così
sei troppo lontana, avvicinati!- sadico e furente ritirò la
sua protuberanza, assieme alla quale trascinò anche me del
tutto nulla e indebolita.
Quando
gli fui abbastanza vicino, la sua carne infetta e mutante
abbandonò la mia lasciandomi preda
dell’agonizzante dolore e del mio stesso sangue che
macchiò gran parte della mia divisa. Sul mio torace si
apriva un foro circolare grande quanto una pallina da tennis, e prima
ancora che riuscissi a rigeneralo completamente, spiazzata al suolo
senza un briciolo di forze, vidi l’ombra di Alex sovrastarmi
e osservarmi dall’alto.
-Non
sono affatto stupito, anzi- ridacchiò. –Deluso,
devo dire, e parecchio!-.
L’armatura
scomparve dal suo corpo e potei finalmente guardarlo in faccia.
–Mi dispiace solo che i tuoi compagni non potranno mai sapere
chi è stato a farti questo- indicò il foro che
andava rigenerarsi lentamente. –Si chiederanno se sia stato
io- sorrise. –Oppure lui- indicò la carcassa del
cacciatore alle sue spalle. –Perciò
perché adesso non riattivi la comunicazione con il tuo
coordinatore e mi lasci parlare con qualcuno che è di un
grado superiore al tuo?- chiese cordiale, ma ovviamente per finta.
Come
sapeva del mio coordinatore e della mia comunicazione bloccata?!
Cominciai a sentirmi del tutto in trappola, spiazzata più da
quelle parole che dal dolore fisico dilaniante per le carni del petto.
Strinsi
i denti, ma non riuscii a proferire una sillaba.
Il
ragazzo si chinò alla mia altezza afferrandomi per il
giubbotto e, tenendomi sollevata con una sola mano da terra, chiese:
-Fammi parlare con Lewis Martin-.
Non
captando alcun segno di partecipazione da parte mia, mi diede un
doloroso scossone. –Voglio parlare con Lewis Martin! Avanti,
ricontatta la tua base!- m’intimò contro.
-Va
bene, va bene!- strillai.
Mi
presi del tempo, il foro si era ormai del tutto rimarginato; non potevo
dargliela vinta così facilmente, senza non aver neppure
alzato troppo un dito.
-Allora?-
insisté lui.
Fui
sveltissima a tramutare il mio braccio. -Ecco a te!- gridai affondando
gli artigli nel suo petto. Penetrai le dita nel suo incarnato, sempre
più in profondità tra una costola e
l’altra. Il mio corpo si addossò completamente al
suo: ero a tal punto vicina al viso da poter sentire il suo respiro
strozzato soffiarmi su una guancia. Il fastidio dovuto al dolore si
manifestava attraverso impercettibili tremori dei suoi muscoli. Il suo
sangue macchiò la mia divisa ridotta in brandelli e bucata
sul ventre, un suo sospiro arrivò a lambire la pelle del mio
collo, mentre la sua presa attorno al mio giubbotto si allentava.
Quando mi lasciò del tutto e il braccio tornò
lungo il suo fianco, disteso e tremante, spalancai le ali e mi tenni
sospesa sopra di lui sbattendole una, due volte, ma ancora i miei
artigli persistevano e scavavano nella la sua carne infetta.
-Ti
piace, eh?!- gli sibilai all’orecchio. –Ti piace
passare da parte a parte della gente, eh?!- trovai soddisfacente
trattarlo in quel modo spudorato. –Hai ragione, è
piacevole!- affondai ancora e ancora; ad ogni mia spinta saggiavo il
suo calore attraverso i nostri corpi l’uno legato a quello
dell’altra; quel profondo penetrare di me nelle sue membra mi
procuravano continue scosse di piacere. Oltrepassate le prime difese
esterne, le sue ossa parevano fragili e friabili come se stessi
spaccando stuzzicadenti.
Come
la spada che traversa lo scudo, e come la freccia che perfora
l’armatura e la cotta di maglia. –Ma ora te la
faccio passare io la voglia di tagliuzzare le persone come carne da
macello!- serrai la mascella e ingrandii gli artigli
all’interno del suo corpo, così da frantumare
ulteriormente le sue membra più spesse che avvertii cedere e
infrangersi al mio passaggio.
Il suo
mento poggiava sulla mia spalla, le sue labbra si schiusero ma non ne
uscì alcun suono se non un medesimo spiro, un sussurro
dovuto alle pene dell’Inferno che gli stavo facendo provare.
La sua postura rigida e composta tremava come una foglia, la sua figura
s’incrinava sempre più col passare dei secondi. In
fine cadde in ginocchio ai miei piedi. Mi tenevo sospesa sopra di lui
grazie alle mie ali che agitavano l’aria attorno a noi; i
miei artigli insistevano al suo interno, violenti, assetati del suo
sangue.
-Basta…-
d’un tratto sentii la sua voce incrinata e spezzettata dal
dolore. –Basta… ti prego…- mi
supplicava di smettere: gli occhi sgranati e fissi nel vuoto davanti a
sé perdevano la lucentezza sfumandosi dall’azzurro
al grigio.
D’un
tratto mi ricordai delle parole di Lewis prima che salissi
sull’elicottero, di come mi aveva chiesto di consegnargli
Alex vivo se ne fossi stata in grado. Immaginai di averlo privato di
abbastanza energie e difese, così ritrassi gli artigli e
tramutai il mio braccio alla forma umana.
Il suo
cuore batteva lento contro il mio, forsennato; i muscoli rigidi del suo
petto si scontravano col mio seno premuto su di esso. Quando inclinai
lo sguardo per poter ammirare il mio operato, ovvero lo squarto
profondo che gli avevo aperto tra un organo e l’altro, fu in
un attimo che mi accorsi di aver commesso un medesimo errore.
I miei
occhi incontrarono i suoi anche attraverso la visiera del casco, e li
vidi balenare di una scintilla tutta nuova e malvagia. Le sue labbra si
piegarono in un ghigno malsano, i tremori per tutto il suo corpo si
annullarono in un ultimo sussulto del suo incarnato. Strinse i pugni e
le sue braccia vennero avvolte da un turbinio di fasci neri e rossi
come il suo sangue impresso sulla mia divisa.
-Che
ingenua…-.
Tentai
di alzarmi, sbattendo le ali e allontanandomi da lui prima che potesse
accadere quello che non avevo previsto, che non avevo anticipato; ma
una sua mano si strinse attorno al mio polso con forza inaudita e mi
attirò di nuovo contro di sé.
-No,
lasciami! Lasciami!- gridai, mi dimenai dissennata infilzando gli
artigli delle ali nell’asfalto pur di trascinarmi lontano da
lui che stava solo racimolando le forze necessarie.
–Lasciami! No!!!- cominciai a scalciare, ma Alex mi teneva
avvinghiata a sé stringendomi per la vita con un solo
braccio, che fungeva da catena attorno a tutto ciò che
restava di me e della mia uniforme sbrindellata.
Avvertii
prima un fastidioso formicolio lungo la spina dorsale, la parte
più a contatto con il petto di Alex, poi lungo il profilo
del ventre sino ad arrivare alle ginocchia.
-È
inutile che opponi resistenza…- mi sussurrò
all’orecchio. –Rilassati, e forse non proverai
dolore… ossia meno di quanto ne proveresti continuando ad
intralciarmi- mi mormorò con voce soave, spietata, mentre
avvertivo il suo fiato bollente infrangersi su ciò che
restava della pelle del collo, che lentamente veniva consumata dalla
sua.
Da
qualche parte non molto lontano…
-Lucy!
Scappa!- gridò Harry.
S’udì
un ruggito che squassò l’aria facendo tremare la
terra. La ragazza si voltò e vide che il cacciatore volante
veniva verso di loro in una corsa assatanata. Gli artigli imbrattati di
sangue penetravano l’asfalto della strada, le zanne
gocciolavano di rossa saliva, gli occhi piccoli e porcini erano fissi
sul bersaglio, sulla preda.
Lucy
Malcom spalancò le ali e si levò in volo assieme
ad Harry che si mise subito in testa, guidandola magari verso un luogo
sicuro o un rifugio.
Fuggirono
veloci e salirono di quota percorrendo in volo il profilo di un alto
grattacielo. Il cacciatore alle loro spalle gonfiò le ali e
si diede una poderosa spinta con le zampe che poggiarono e frantumarono
i vetri della palazzina. Le sue zanne passarono a tanto così
da Lucy, che schivò senza difficoltà, ma Harry
venne agguantato dalle fauci della bestia che si richiusero attorno a
lui come una prigione. Ciò che precipitò verso
terra fu un suo braccio, tagliato e sanguinante, mentre il suo corpo
dimorava sulla lingua del cacciatore.
-Harry!!!-
Lucy gridò disperata, estrasse la sua mitragliatrice e
aprì il fuoco contro il muso della bestia abbastanza vicino
al suo da poterlo quasi ammazzare. –CREPA! STRONZO!- il suo
grido era accompagnato dal trambusto della mitraglietta e dei
proiettili che perforavano il tessuto della viscida pelle del
cacciatore, assieme al suo duro cranio fino ad arrivare al cervello.
Debole
e presumibilmente… morta, la bestia precipitò
verso terra schiantandosi sopra un intero palazzo.
-Harry!
Harry!!!- chiamò Lucy raggiungendo la carcassa con la canna
dell’arma ancora fumante. Si avvicinò alla bocca
del mostro e tramutando il suo braccio in un grosso martello,
spaccò i denti e tirò fuori di lì
quello che restava del suo amico.
Trascinò
il corpo del ragazzo lontano dalla puzza immonda che
cominciò a trasudare il corpo morto del cacciatore, fin
quando, abbastanza distante, si piegò in ginocchio al suo
fianco.
Tagli
e fori in via di rigeneramento traversavano il giovane Angelo, il cui
viso era contratto in una smorfia di alta sopportazione del dolore.
-Harry…-
piagnucolò lei. –Non mi lasciare, chiaro?- disse
afferrandogli l’unica mano che gli restava. –Harry,
avanti, alzati- singhiozzò.
-Va’…-
mormorò lui. –Va’ a cercare
Emmett…- fece una pausa. –… e Cole-.
-Non
ti lascio, non ti lasciò finché non ti rigeneri!-.
-Potrei
metterci i secoli, idiota!- strinse i denti. –Va’ a
cercare Cole!-.
-Aspetta,
aspetta!- la ragazza corse con una mano alla cinta dei pantaloni e
trasse da lì la sua terza fiala, inserendola poi
all’interno della siringa. –Posso usare questa,
aspetta…-.
Harry
le bloccò il polso prima che potesse avvicinare
l’ago alla sua carne. –No, tienila…
potrebbe servirti… in futuro- sussurrò.
–Adesso vai, io me la caverò…- richiuse
lentamente gli occhi e si addormentò in un lungo riposo
ristoratore che avrebbe favorito il ricrearsi dei suoi tessuti.
Lucy
obbedì, nascose il suo corpo in un vicolo e lo
lasciò lì, segnalando al suo coordinatore le
coordinate della posizione di Harry, così che lui potesse
tenerne contro sul GPS. Si levò in volo e tornò a
caccia del suo ragazzo e del capitano, ma solo quest’ultimo
incontrò “casualmente” sulla sua strada
qualche ora più tardi.
Da
qualche parte dentro Manhattan…
-Figlio
di puttana!- la voce di Emmett. -No, fermo, idiota! Che cazzo fai?!-
aggiunse, e il suo grido rimbombò per la strada tra un
palazzo e l’altro.
D’un
tratto, si vide un corpo volare da una parte all’altra della
strada asfaltata, che sembrava tanto la carcassa di un minuto
cacciatore di terra.
-Pezzo
di merda, dovevi assorbirlo!- sbottò Emmett.
-Scordatelo,
stronzo!- digrignò Cole comparendo dal vicolo e
incamminandosi sulla strada.
-Poteva
dirci se aveva visto Alex da queste parti!- gli strillò
dietro Emmett, che apparve alle sue spalle.
-Se
pensi di poter combattere da solo con Mercer in questo stato ti
sbagli!-.
-Ah!-
ridacchiò Emmo. –Ma io non sono da solo! Ci sei
anche tu, puttanella!- fece una pausa. –Possiamo farcela
insieme, Cole!-.
Gravi
offese al capitano, che all’interno del clan svolge il ruolo
di pubblico ufficiale. Cole si voltò lentamente verso di
lui. –Chiamami di nuovo in quel modo, e poi vedremo chi
è la puttanella qui…- serrò la
mascella.
Emmett
si avvicinò a lui sorridendo. –Immagina la gloria,
gli applausi che ci aspettano alla base se portiamo la testa di Zeus
lì, e la gettiamo ai piedi di Lewis che innalza i nostri
nomi tra le stelle e le strisce della bandiera Americana!- gli
luccicarono gli occhi. –Insieme possiamo farcela, solo tu ed
io!-.
-No-
fu la risposta secca di Turner. –E il prossimo cacciatore che
vuoi assorbire, non farai in tempo ad avvicinarti a lui che qualcuno- disse
facendo riferimento a sé stesso. –si avvicini
troppo a te!-.
-Senti,
cazzone!- lo minacciò Emmett andandogli incontro.
–Piantala di bruciare ogni mio tentativo di trovare quel
pezzo di merda, chiaro?!- spuntarono cinque poderosi artigli al posto
delle dita della mano destra, mentre con la sinistra impugnava la sua
grossa mitragliatrice. –Se non è Alex il motivo
per cui sei qui, allora vattene, testa di cazzo, non voglio
più vederti! E questo vuol dire che IO posso fare quello che
cazzo mi pare!-.
-Andiamo-
pronunciò Cole serio e composto. –Dobbiamo tornare
da Lucy, Harry ed Emily-.
-Dimentica
la tua fidanzata, Cole!- ridacchiò Emmett. –Siamo
in missione, l’hai detto anche tu a me qualche ora fa, ti
ricordi?- continuò a beffarsi di lui.
Il
capitano lo fulminò con un’occhiataccia.
-Esatto-
si vantò Emmett. –So che avete fatto sesso la sera
prima di partire, tu ed Emily. Durante gli addestramenti non le
staccavi gli occhi di dosso, e improvvisamente sparite entrambi dalla
circolazione a soli ventiquattrore dalla partenza!-.
-Non
hai fatto tu la stessa cosa?-.
-Lucy
è la mia bambolina- sibilò avvicinandosi.
–Lo sanno tutti alla base che stiamo insieme. Mentre la tua,
sembra tanto “una scopata e via”, mordi e fuggi,
capito che intendo?- arrise.
Il
capitano tenne lo sguardo basso. –Fatti i cazzi tuoi,
cadetto-.
-Se
amassi davvero quella ragazza, ora saresti da lei, a proteggerla! E non
da me a scassarmi i coglioni! Levati dalle palle, Cole, non mi serve il
tuo aiuto e lo sai benissimo! Inseguendomi fin qui senti di aver fatto
un grosso errore, ed io ti sto concedendo
l’opportunità di rimediare, di andare da lei-
abbassò d’un tratto la voce, calmandosi.
–Così dimostreresti a me che anche i gran figli di
puttana come te hanno un cuore- fece un sorriso da ebete.
Dopo
interminabili attimi di silenzio, il capitano Cole Turner
rinfoderò la sua arma da fuoco. –Va’
verso est, traversa il centro e avvicinati all’area
industriale. Troverai Mercer da quelle parti se sei fortunato- fece per
voltarsi e andarsene.
-Ehi,
aspetta!- Emmo gli afferrò il braccio con una presa salda.
-Come fai ad esserne così certo?- digrignò.
-Ho un
localizzatore fatto a posta, ma rivela la sua posizione nel raggio di
tre chilometri. Giocateli bene- gli batté una mano sulla
spalla. –Abbiamo una base a nord, tra la central station e il
parco. Alla fine della caccia porterò il clan al sicuro
sotto quel tetto. Ci vediamo lì- disse abbassandosi la
visiera del casco. –Se Mercer ti fa il culo a strisce, crepa,
stronzo- aggiunse levandosi in volo.
°-°
Aggiornamento a sorpresa alle 2.38 del mattino! Holè!!!
Forse
non avrei dovuto interrompere qui, ma solcata la nona pagina ho pensato
che fosse abbastanza. Come al solito vi lascio col dubbio e
l’ansia che vi corrodono lo stomaco fino alle viscere! Emily
in balia di Alex che la sta assorbendo, Harry fatto a buchi dai denti
del cacciatore come la groviera, Emmett a caccia di Alex che va verso
la strada sbagliata! XD Eccoci al momento della verità per
mooolti di voi, come Saphira87
che finalmente scopre il contesto dal quale ho estrapolato quel famoso
spoiler di cui si parla tanto! XD Ma la prima sanguinolenta battaglia
non finisce qui. Il capitolo che ho concluso da poco termina questa
sequenza di cruente immagini. Questa è la mia visione
dell’Horror, dato che nei “generi” ho
aggiunto anche quell’avvertimento.
Ho
stuzzicato la vostra curiosità spezzettando ancora di
più il clan 190esimo? Ma ovviamente qui si parla anche di
Alex e del suo modo cruento di battere la porta in faccia a Lisa. Le
cose cambieranno (forse) <.< niente spoiler…
nel prossimo capitolo?
Sta
a voi scoprirlo!
Elik.
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Capitolo 21 *** Capitolo 21° - Degni avversari ***
Avvertenze:
Chiedo
palesemente scusa, ma in questo capitolo farò diversi salti
di punti di vista, da un personaggio all’altro con diverse
ambientazioni, ecc, ecc…
E’
una cosa che a me da molto piacere fare, che mi diverte. Saltare da un
personaggio all’altro è quel genere di
intrattenimento della scrittura che adoro, ma alle lunghe so che per un
lettore può diventare snervante e irritante.
Mi
congedo e vi lascio a questo capitolo, sperano che non mi spellerete
viva subito dopo averlo letto °-°
Elik.
Capitolo
21° - Degni avversari
[:.Emily
.:]
-Matt!-
chiamai agonizzante. –Matt!!!- tentai di riallacciare la
comunicazione, e non appena ci riuscii il ragazzo compreso subito cosa
stava accadendo. –Vuole assorbirmi Matt, vuole assorbirmi!!!-
gemetti.
Ci fu
un lungo silenzio, ma proprio non appena il ragazzo riuscì a
proferire una sola parola, questa s’interruppe nel
velocissimo gesto di Alex, che mi slacciò il casco dalla
testa e lo gettò lontano, mandandolo in frantumi addosso ad
un cumulo di macerie.
Continuai
a gridare allungo tenendo gli occhi chiusi, mentre il mio viso era alla
mercé del suo famelico e sadico sguardo; quella tortura
andava avanti poco a poco che il mio corpo scompariva nel suo, che il
mio sangue si mescolava al suo.
-Aspetta!
Aspetta, ti prego!- piagnucolai. –Ascoltami, ascoltami, ti
prego!-.
Mercer
acquietò il suo avido consumarmi, come se quelle mie parole
avessero innescato in lui un certo interesse. –Parla- disse
serio.
-Non
farlo, ti prego…- singhiozzai. –Non
uccidermi…-.
-Perché?-
formulò restando rigido dinnanzi a me, quasi potessi
immaginarmi la sua figura così vicina alla mia nonostante
tenessi gli occhi chiusi e ben stretti, così come i denti,
che per via del dolore avrei potuto rompermeli uno ad uno. Non mi
sentivo più le gambe, la parte inferiore del mio corpo era
sparita nel suo, era una sensazione orribile, una mancanza che non
percepivo colmarmi seppur tentassi in tutti i modi di contattare i miei
piedi che non c’erano.
-Noi…-
inghiai il groppo che avevo in gola. –Noi ti abbiamo rubato
qualcosa…- dissi senza fiato, senza coraggio per guardarlo,
senza coraggio per guardare quello che mi aveva fatto.
–Abbiamo qualcosa che stai cercando…-.
-Dana…-
mormorò allentando del tutto la sua presa da attorno la mia
vita, ma la cosa che mi teneva attaccata a lui non erano altro che le
mie mani, finite a stringere la pelle del suo giubbotto nero.
-…Chi?-
domandai riaprendo lentamente gli occhi colmi di lacrime per
l’alta sopportazione di un’infame tortura.
Il
ragazzo scosse la testa sfuggendo al mio sguardo troppo vicino al suo.
–So che l’avete presa voi! Non ho bisogno che tu me
lo dica, ma grazie per la conferma-.
-Non ho
idea di chi o cosa il mio capo abbia ordinato di rubarti, Mercer!-
gridai. –Ma se mi uccidi, loro si sbarazzeranno di quello che
sta cercando e…-.
-‘STA
ZITTA e CREPA!- digrignò ricominciando ad assorbirmi, e fino
ai fianchi le mie ossa e i miei organi sparirono quasi del tutto.
Sentii il fiato mozzarmisi in gola, l’aria mancarmi e il
dolore dilaniarmi il cervello come se Alex stesse assorbendo anche
quella parte di me. Alcune ciocche della frangia mi
s’inumidirono di sudore appiccicandosi alla fronte, altre mi
ricaddero selvagge davanti agli occhi che ricominciai a tenere chiusi.
-Smettila,
basta! Ti prego!- lo supplicai infilzando le unghie nel suo giubbotto e
attirandolo contro di me come se potessi utilizzarlo per scaricare
tutte le mie sofferenze.
D’un
tratto un’illuminazione, una vaga idea, una mezza speranza
affiorò in me, sostituendo il dolore ad un forte desiderio
di sopravvivenza. –Aspetta, aspetta!-.
Il
ragazzo interruppe il consumo un’altra volta.
–Queste saranno le tue ultime parole, e credimi se ti dico
che sei piuttosto faticosa da consumare…- ringhiò
esasperato.
Spalancai
gli occhi e lo fulminai con un’occhiata differente, diversa
da quelle di superiorità che gli avevo mandato fin a
quell’ora. Addolcii il viso, cercando di procurargli quella
pena, quella pietà che aveva provato anche durante il nostro
primo incontro. –Posso… posso portarti da loro-
dissi.
Del
tutto calamitato da quell’offerta, Alex Mercer mi
allontanò da sé con uno strattone.
-Ricomponiti-
ordinò guardandomi dall’alto. –Mi fai
schifo- disse spudoratamente.
-Era
questo che volevi!- gridai cominciando a riassorbire il mio stesso
sangue da quello che avevo perso a terra. –Era questo che
cercavi fin dall’inizio! Il mio aiuto! Tu vuoi entrare nella
base, vuoi…-.
-No!-
sbottò. –Non voglio il tuo aiuto, non mi serve!-.
-E
allora uccidimi!- recuperai parte delle mie gambe in un turbinio di
fasci rossi e neri. –Che cosa stai aspettando, stronzo?!
Uccidimi, avanti! Perché non mi assorbi, cazzo! Uccidimi!-
gridai disperata, nel frattempo che avvertivo il tessuto dei miei
muscoli tornare solido e compatto per tutta la lunghezza del mio corpo,
e il dolore si alleviava poco a poco. –Consumami! Avanti!
Uccidimi! Prima che lo faccia io al tuo posto!-.
Il
ragazzo inarcò un sopracciglio. –Vuoi suicidarti?-
ridacchiò sommessamente.
-Ma che
cazzo hai in testa, fagioli?!- feci scettica. –Ehi, sveglia!
Sono qui, guardami, stronzo!- ero del tutto fuori di testa.
–Cos’è che ti frena, eh?!
Cos’è che non ti “permette” di
assorbirmi, eh?!- ma riscoprii piuttosto interessata a questo punto
della conversazione.
Il
ragazzo chinò la testa e si guardò le mani.
–Non lo so…- d’un tratto sembrava essere
tornato debole e vulnerabile come l’avevo trovato prima del
nostro scontro, mentre fissava la sua immagine riflessa nella pozza di
sangue di quel cacciatore. –Il tuo sangue…-
aggiunse in un sussurro. –È…
diverso- pronunciò serrando i pugni e alzandosi in piedi.
Distesa
a terra e del tutto rigenerata, ma ancora fiacca e indebolita, non
seppi cosa dire o cosa fare. E se si fosse accorto che qualcosa nel mio
codice genetico era dissimile a quello che si aspettava di incontrare?
Dissimile a quello di tutti gli Angeli che aveva assorbito e fatto a
brandelli durante le sue battaglie. E se fosse giunto alla conclusione
che io mi ero prefissa di rinnegare? Non desideravo aiutarlo, preferivo
di gran lunga perseguire il mio incarico di sterminarlo, più
che altro.
-Posso
portarti da lei- dissi d’un tratto, attirando la sua
attenzione e distogliendola dal fatale argomento.
Il
ragazzo aggrottò la fronte e l’ombra del cappuccio
parve come allungarsi sul suo volto. Tacque, ed io proseguii.
-La
persona che stai cercando- feci per alzarmi. –Posso portarti
da chiunque essa sia-.
-È
mia sorella- si decise in fine. –Si chiama Dana. Puoi
portarmi davvero da lei?-.
Annuii.
-Perché
lo faresti?- chiese seccamente.
Scossi
la testa guardando a terra. –Veramente non lo so…-
mormorai. –È la seconda volta che mi risparmi la
vita, non ho altro modo per sdebitarmi e poi…-.
Prima
che potessi terminare di parlare, Alex mi si avventò contro
e, afferrandomi per la gola, mi fece schiantare rumorosamente e
dolorosamente contro la parete di cemento di una palazzina
lì accanto, dopo il marciapiede. Mi tenne allungo sollevata
da terra. –Ho detto che non mi serve il tuo aiuto, non mi
frega un cazzo di te e credimi se ti sto dicendo che non ho idea del
perché tu sia tanto più forte e resistente dei
tuoi altri amichetti alati!- digrignò a pochi centimetri dal
mio volto, fissandomi negli occhi. –Non sono uno sciocco!
Dimmi cosa sei, cosa ci fai qui, perché mi perseguiti,
perché tra le palle incontro sempre e solo la tua brutta
faccia! Dimmelo che è un trappola!-.
-Ti
sbagli! Puoi fidarti di me, posso portarti davvero dentro la base, da
tua sorella!-.
Approfittavo
di quel suo momento di debolezza, inconscio mentale passeggero per
penetrare le sue ultime difese, arrivare dov’era
più vulnerabile e scoperto, ritrovandomi a pensare che la
mossa di Lewis di rapire sua sorella era stata una furbata. Sarei stata
capace di farlo inginocchiare se solo avessi cominciato con un
approccio meno rude, più delicato, magari. Cominciai a
pianificare in mente una strategia vincente che mi avrebbe fatta
arrivare sana fino alla fine della giornata, ma la stessa strategia
avrebbe consegnato Mercer su un piatto d’argento a Martin e i
suoi Alchimisti.
-Sei
debole, ragazzina! Vendi così la tua causa al tuo nemico!
Sei veramente l’Angelo più idiota che io abbia mai
ammazzato. Mi spiace, ma rifiuto la proposta!-.
-No,
fermo! NO!- gridai. –Io posso darti quello che stai cercando!
Ma se mi uccidi loro ti toglieranno dell’altro!- fu del tutto
inutile.
-BASTA!-
Mercer mi lanciò dalla parte opposta della strada ed
affondai nella parete di mattoni e macerie di un vecchio palazzo, che
crollò sbriciolandosi in un cumulo di detriti e polvere
sopra la mia testa.
[:.
Alex .:]
«Era
stata una sciocca a farmi un’offerta simile. Non sono mica
nato ieri. Ho imparato a difendermi dai bugiardi come lei, come la sua
gente, i suoi compagni di clan. Già in passato ero stato
fregato da persone che per un breve lasso di tempo si erano mostrate
utili, servili, ottime alleati. Quel tempo era finito per sempre,
consumato in un profondo odio verso chiunque provasse solo ad
avvicinarsi troppo a me. Un odio che avrei dovuto annullare consumando
quella ragazza, cosa che invece non feci. La lasciai sotterrata sotto
quelle macerie, ormai certo che non mi avrebbe più
infastidito.
Una
mosca in meno, e la tela resta tesa…»
Mi
allontanai da quella zona di Manhattan ben conscio di dove il mio corpo
e la mia mente assieme mi stessero portando. Arrivai al porto e
m’infilai nella luce del lucernario scavato sul tetto di quel
vecchio cantiere. Camminai tra le ombre delle tende e salii la scala
sino alla passerella, che percorse tutta fino alla tenda di Max.
Trovai
il vecchio dottore intento nell’analisi di una fiala posta
sopra ad un bollitore. Si sistemò gli occhiali sul naso e
guardò verso di me.
-Alex-
assentì stupito di vedermi lì.
Mi
guardai attorno circospetto. –Dov’è
Lisa?- domandai serio, e ammetto, un po’ preoccupato.
Max
sgranò gli occhi tutt’un tratto. –Non
è qui… è uscita questa mattina per
cercarmi degli oggetti, andava all’ospedale per delle fiale e
dei tamponi, ma…-.
Non gli
lasciai il tempo per terminare una sintattica frase. Uscii dalla tenda
con la stessa fretta con la quale vi ero entrato. Cominciai a correre
sulla passerella e mi lanciai giù scavalcando il parapetto.
Arrivai sotto al lucernaio, caricai il salto, sparii nel buio di un
cielo senza stelle e planai sino al palazzo più vicino.
Intrapresi
una corsa folle attraverso strade, vicoli, pareti di edifici, ma
fiutare il suo sangue umano, il suo profumo, mi fu del tutto
impossibile. Non riuscivo a trovarla: pattugliai in lungo e in largo,
in ansia, fremente e con la lama già a portata di
“braccio”. Cominciai a temere il peggio, a pensare
che oltre a qualche cacciatore volante, per le strade di Manhattan Lisa
fosse potuta inciampare in un Angelo che sapeva troppe cose.
«Mi
pentii ancora una volta del mio passato, di quello che avevo fatto e
non. Se quell’Angelo dura da “assorbire”
era resistita all’impatto, alla frana che le avevo fatto
piovere addosso, era per me la fine. Il progetto Gabriel poteva
considerarsi al completo delle persone che, se tolte da questo mondo,
mi avrebbero reso la preda facile che loro tanto cacciavano e
desideravano. Ero stato uno stupido! Uno STUPIDO! E continuai allungo a
ripetermelo.
Aleeeeeeex!
Improvvisamente,
udii un grido, la sua voce che chiamava il mio nome e strillava in note
acute.
Fu un
miracolo, forse… ma io non credo in Dio.
E di
conseguenza nemmeno nei suoi
messaggeri.»
[.:
Cole, Harry & Lucy :.]
-Dov’è
Emily?- chiese il Capitano mentre si caricava il corpo di Harry,
addormentato, sulle spalle.
Lucy si
prese del tempo per pensarci. –Ci siamo divisi
per… per cercare lei ed Emmett, signore. Piuttosto, sa dirmi
dove…-.
-Il tuo
fidanzato sta bene, non disperare-.
-Capitano!
Come fa ad esserne così certo?!- chiese in pena mentre
s’incamminavano.
-L’ho
indirizzato su una pista falsa a caccia di Mercer. Almeno non
farà spiacevoli incontri di quel genere- mormorò.
–Ora dimmi da che parte è andata Emily-.
La
ragazza scosse la testa. -Non saprei- assentì flebile.
–Quando ci siamo separati noi siamo venuti verso nord,
quindi, siccome non ci ha ancora raggiunti, suppongo che lei si sia
diretta a sud, lungo il molo- disse.
-Perfetto!-
sbottò il capitano imboccando la strada deserta e notturna.
Camminarono
allungo senza meta né direzione, fiutando una pista di
tracce che si volatilizzavano col passare dei minuti.
Improvvisamente
Lucy alzò gli occhi da terra.
-Capitano,
guardi…- mormorò la ragazza indicando un punto
impreciso sulla strada, dove lampeggiava la luce di una torcia.
Il
capitano Turner si sistemò meglio il corpo di Harry che
portava sulle spalle. –Cos’è, Angel?-
chiese.
Lucy
effettuò uno scanner e contattò il suo
coordinatore perché il casco del capitano era stato
danneggiato. –Un’umana signore- disse la ragazza.
-Infetta?-
domandò serio Cole.
-No-
scosse la testa.
-Procedi
con il soccorso- ordinò.
-Sì
signore- annuì la ragazza. Spiccò un balzo,
spalancò le ali e fu in volo verso la fonte del calore che
le segnalava il GPS. Una volta che fu sopra la figura trasandata e
traballante della giovane ragazza, Lucy perse quota e
atterrò proprio davanti a lei, che si sbilanciò
all’indietro e cadde di sedere sull’asfalto.
L’Angelo
le scannerizzò il viso colmo di lacrime e arrossato che
teneva sotto il cappuccio di una felpa stracciata in alcuni punti.
Aveva lividi sulle gambe inferme e le braccia le tremavano strette al
ventre. Bianca di pelle come se avesse appena visto un fantasma.
-Lisa
Taylor- le comunicò il suo coordinatore
all’auricolare del casco. –Aspetta un
attimo…- le disse ad un tratto.
-Attendo
in linea- fece Lucy tenendo attiva la comunicazione. Si
avvicinò di un passo alla ragazza che non si mosse.
Lisa
tirò su col naso asciugandosi le lacrime con la manica
sinistra, mentre la mano destra stringeva ancora quella torcia che
allungava l’ombra di Lucy e delle sue ali sulla strada.
-Qual
è il tuo nome?- domandò la poliziotta.
-Lisa…-.
-Lisa
Taylor?-.
Lei
annuì scoppiando in un mare di altre lacrime.
-Ehi,
che è successo?- domandò l’Angelo
chinandosi alla sua altezza e carezzandole una guancia.
Lisa si
ostinò in quel folle disperarsi ancora allungo, fin quando
la comunicazione con il coordinatore di Lucy non tornò
attiva.
-Angel
1-9-4, procedi col soccorso su richiesta diretta di Lewis Martin-.
-Come
mai da lui in persona?- chiese confusa.
Il suo
coordinatore non volle ascoltare repliche. -Sono ordini, ubbidisci-.
-Devi
venire con me, Lisa- disse Lucy aiutandola ad alzarsi.
-No- la
ragazza scosse la testa. –No, lasciami stare!- gemette lei
ritraendo il braccio.
-Non
fare così, avanti…- le porse la mano.
–Vieni, ti porteremo in un posto sicuro, via
dall’Isola- pronunciò radiosa.
-No- si
ostinò balzando in piedi. –Non è vero!
Bugiardi!- cominciò a correre, ma Lucy con un salto le fu di
nuovo davanti bloccandola con le braccia. –Adesso calmati!-.
Il
capitano Turner le raggiunse entrambe ripiegando le ali nella sua
schiena.
-Capitano,
dobbiamo soccorrerla su ordine di Lewis!- sibilò Lucy
tenendo stretta la ragazza.
Cole
adagiò il corpo di Harry a terra ed estrasse dalla cintura
una fiala di liquido trasparente, che armò poi in una
siringa. –‘Sta calma- mormorò poi
avvicinando l’ago al braccio di Lisa, che Lucy
scoprì tirandole su la manica.
-No!
Fermi! No!!!- si dimenava lei calciando e gridando. –Alex!
ALEEEEEEEX!- chiamò, e la sua voce raggiunse le vette dei
grattacieli e gli abissi delle fogne.
[:.
Alex .: ]
Ingrandii
la lama e la tenni oltre la linea del mio fianco, alle mie spalle;
stando piegato sulle ginocchia e guardando un punto fisso davanti a me,
rivestii il mio corpo dell’armatura continuando a correre.
Lisa
era lì, stretta tra le fauci di due Angeli che la
immobilizzavano. Uno di loro teneva una siringa, e lì non ci
vidi più. Mi avvicinai a loro e mi gettai addosso al primo,
addosso a quello maschio, sbattendolo con violenza addosso alla
carcassa di un’auto arrugginita. Gli frantumai alcune ossa,
mentre fissavo con odio il ghigno di dolore che si disegnava sul suo
volto di giovane uomo, più o meno della mia età.
Lo afferrai per la gola e lo sbattei sull’asfalto, tramutai
la lama in artigli e feci per affondarli nel suo petto, ma questi si
conficcarono nel terreno quando abile, la mia preda si
rigirò rotolando su un fianco. Il ragazzo balzò
in piedi e mi fu alle spalle, colpendomi alla schiena con un pugno
poderoso che mi spiazzò a terra.
Le
grida di Lisa che guardava verso di me strillando il mio nome mi
tuonavano nelle orecchie; l’immagine del suo viso in lacrime
riempiva il mio campo visivo. Distratto, prima che riuscissi ad evitare
il colpo, l’Angelo trasformò il suo braccio in
artigli e tentò di graffiarmi più volte, con
emerito successo.
Si
aprirono dei piccoli tagli poco profondi sulla mia armatura, della
quale mi sbarazzai per divenire più agile e veloce contro il
mio nemico.
Scattante,
affondai un mega pugno nel suo costato e lo scaraventai in aria verso
l’alto di parecchi metri. Spiccai un salto, lo raggiunsi e
cominciai a menarlo colpo dopo colpo sempre con maggior vigore e
precisione. Stordito, il mio avversario restò allungo in
balia della mia forza, fin quando le sue ali non si spalancarono
facendone un potente scudo. Gli artigli delle sue protuberanze mi
ferivano: erano come tante piccole lamette affilate poste inverse alla
mia direzione, che al solo sfiorarle avrei potuto rimetterci un dito.
Fu uno
scontro lento e sanguinoso per entrambe le parti, fatto senza
esclusione di colpi, tattiche o finte. Nel frattempo che il secondo
Angelo, una ragazza, iniettava un liquido trasparente nelle vene tese e
gonfie della mia Lisa.
D’un
tratto, me per il contraccolpo, e lui per l’attacco troppo
devastante, venimmo scaraventati uno a destra e uno a sinistra della
strada, sprofondando nelle pareti dei rispettivi palazzi che
affacciavano su quel lato del marciapiede.
Mi
riappropriai subito delle forze necessarie per riprendere da dove
avevamo interrotto, pensando che finalmente mi era capitato tra le mani
un degno avversario. Uscii allo scoperto e balzai fino a terra, dove
trovai ad attendermi il mio nemico.
Ripreso
possesso del mio corpo e della volontà che avevo di
salvaguardare la figlia di Max, mi voltai e fissai allungo negli occhi
il mio combattente. Dopodiché, ipnotizzandolo con qualche
pugno a mano nuda che lui parò in altrettanto modo, riuscii
a penetrare le sue difese ed indebolire abbastanza i suoi muscoli.
Frantumai ciò che restava della sua immunità a me
affondando la lama nel suo basso ventre. Questa uscì dal
capo opposto della sua schiena, spezzettandogli la spina dorsale e le
costole come… stuzzicadenti.
Ritirai
il braccio che distesi lungo il fianco. Serrai i pugni ma rilassai le
spalle, e lo guardai portarsi entrambe le mani al grosso e
profondissimo solco che traversava le sue carni attraverso
l’uniforme. Cadde in ginocchio guardando a terra, sfuggendo
al mio sguardo di vincitore, e in fine si accasciò al suolo
ormai fuori combattimento.
-NO!-
sentii gridare da una voce familiare, femminile, squillante. E dal buio
del cielo calò su di me l’Angelo alla quale non
avevo spezzato le ali.
[:.
Emmett .:]
Una
distesa di palazzi distrutti, strade deserte e ponti crollati. Una
visione di sangue, morte. Un presagio di distruzione e caos aveva
appena abbandonato quelle lande abbandonate da Dio che stava
traversando in volo. La base, per via del suo GPS danneggiato e la
comunicazione interrotta, non era riuscito a contattarlo.
Gonfiò le ali, planò sul tetto di un edificio e
mirò oltre la linea dell’orizzonte della costa est
dell’Isola di Manhattan. Pattugliava quella zona da ore,
girovagava senza meta e aveva fiutato tanti di quegli infetti e
combattuto contro tanti di quei cacciatori, che avrebbe potuto colmare
il letto di un fiume e distrutto una diga coi loro soli cadaveri.
Rinfoderò
le armi, si tolse il casco e ispirò l’aria
puzzolente di Virus a pieni polmoni.
Era
pronto a scommettere che Cole gli avesse raccontato tutte balle, pur di
allontanalo dalla zona di fuoco della città. Non si sarebbe
affatto stupito se una volta rientrato nel piccolo fortino costruito
sull’isola dove si erano dati appuntamento, qualcuno tipo
Lucy gli raccontasse di aver incontrato Mercer sul porto della costa
ovest, dove sarebbe dovuto rimanere a combatterlo.
-…Ma
che cazzo!- sbraitò gettando il casco a terra con violenza,
e questo si frantumò in pezzi contro il cemento del tetto.
Il
rumore che ne scaturì nel reclamò un secondo, nel
mentre Emmett si voltava lentamente verso le sue spalle, dove un grosso
serbatoio-cisterna cominciava a gonfiarsi di Virus, vivo. Scoppiarono i
pistoni, le pareti si frantumarono nella confusione di ruggiti e
gemiti.
Balzò
fuori un piccolo cacciatore di terra. Gli ringhiò contro
bavoso e parsimonioso, avido della carne di Angelo che già
assaporava tra le storte e brutte zanne. Graffiò il terreno
con gli artigli, caricò contro di lui, spiccò un
balzo.
Emmett
inarcò un sopracciglio e portò avanti il braccio.
Cinque grossi artigli apparvero da terra e affondarono nel torace della
bestia, che grondò sangue.
[:.
Emily .:]
Un
dolore lancinante alla schiena risaliva il collo, sino alla nuca;
scendeva per le gambe, arrivava e alle caviglie, storte, sconnesse,
così come le ginocchia e le ossa dell’intero mio
corpo divennero friabili come carta pesta. Un crack dopo
l’altro, persino i miei muscoli cominciarono a sentirsi
soffocare dall’assenza di spazio, spiaccicati da polveri e
macerie che sentivo penetrarmi la carne e comprimermi come la copertina
di un libro fa con le sue pagine. Il buio dei miei occhi, dei miei
sensi si dissolse in una nebbiolina bianca e opaca quando,
d’un tratto, il mio braccio destro tornò sveglio e
attivo. Spinsi, facendo leva sulle gambe, e fui finalmente libera di
tutti quei macigni pesantissimi che mi schiacciavano
nell’oscurità.
Emersi
nella luce di un lampione che lampeggiava, storto, sul lato del
marciapiede. Guardai in alto, dove un ampio cielo colmo di stelle stava
schiarendosi dei primi colori dell’alba. Mi sollevai a fatica
sulle braccia, trascinandomi fuori da quella tomba di pietre e massi
che si era formata sopra la mia testa e tutt’intorno. Mi
guardai circospetta da eventuali nemici, vecchio o nuovi, potenti o
deboli, ma mi accorsi di essere rimasta sola per tutta la lunghezza del
porto.
Mi
accucciai piegando le ginocchia e mi sistemai i lacci della scarpa
rimasta slacciata.
Se Alex
pensava di essersi sbarazzato di me commetteva un grande errore, e
l’avrebbe capito molto presto. Ero ben intenzionata di
continuare a cercarlo fin quando il sole non fosse stato alto in cielo.
Ora che avevo l’energia necessaria e il vigore per
affrontarlo, senza contare il fatto che ero certa di averlo indebolito
almeno un po’, non gli avrei dato la possibilità
di leccarsi nessuna ferita. Più spietata che mai, mi
sollevai da terra e spalancai le ali nel vento.
Mi
allontanai dal porto seguendo una pista di tracce e odori, trovandomi
ben presto in compagnia di un profumo che avrei potuto riconoscere tra
mille.
-Cole…-
mormorai il suo nome sulle labbra mentre alcune ciocche di capelli
fuggite alla coda alta che avevo mi frustava il viso. Privata del mio
casco e di qualsivoglia mezzo per mettermi in comunicazione con la base
o il resto del mio clan, seguii la linea ondulata che tracciava il
profumo del mio capitano nell’atmosfera.
In
prossimità di un incrocio coi semafori ancora attivi, mi
innalzai di quota e atterrai sul tetto di un palazzo che aveva
un’ottima visuale su tutto il circondario. Mi guardai
attorno, il profumo suo s’interrompeva proprio
dov’ero, sopraffatto da un’altra grande
quantità di Virus e Bloodtox. D’un tratto udii
sentii un rumorosissimo schianto, il frastuono di macerie che rollano e
in fine il silenzio.
Scesi
sulla piazza, atterrai e allungai lo sguardo più a valle,
dove nella nebbiolina di condensa che si era formata attorno ad una
massa di polvere, vidi luccicare gli artigli di un paio di ali che
riconobbi subito.
Mi
alzai in volo e andai in quella direzione, attirata da una voce di
donna che gridava il nome del mio peggior nemico, del mio bersaglio.
E in
fine lo vidi: Alex Mercer, a due passi dal mio ragazzo,
affondò la lama attraverso il suo corpo, attraverso la
divisa e oltre il tessuto del giubbotto, perforando muscoli ed ossa.
Il
ghigno che di disegnò sul volto di Cole, mentre le sue gambe
cedevano e cadeva lentamente in ginocchio dinnanzi a Zeus, inizialmente
mi spaventò lasciandomi vittima del suo stesso dolore.
Assaporavo le sue sensazioni nei ricordi che avevo del mio scontro con
Mercer di poche ore prima. Ma allo stesso tempo in me nacque
quell’ultima particella di rabbia che mi avrebbe spinta a
grande follie.
Superai
Lucy che teneva stretta Lisa Taylor che gridava e si dimenava
forsennata tra le sue braccia. Gonfiai le ali, mi diedi
un’ultima spinta, e strillando: -No!!!- con tutto il fiato
che avevo in gola, mi avventai sul mio bersaglio.
Lo
colpii con forza sufficienza da scaraventarci entrambi metri e metri
avanti sulla strada, fin quando il mio e il suo, al quale ero stretta,
non precipitarono verso terra assieme, esplodendo poi in una nube di
polvere e grossi frammenti d’asfalto. L’impatto
allungò nel cemento una lunga e profonda scavatura, che
mandò in frantumi tubature, cavi elettrici e condutture di
ogni genere.
Chiusi
gli occhi e attesi solo che quella tortura finisse, mentre continuavo a
spingere l’incarnato di Alex contro qualsiasi ostacolo si
presentasse davanti. E lui non fece allungo niente per fermarmi, anzi:
subì uno ad uno gli impatti contro grossi e spessi tubi di
metalli lasciandosi sfuggire un gemito sommesso ogni tanto. Il dolore
del contraccolpo lo subivo anch’io e in modo presente,
perciò la nostra poteva dirsi una sfida chi resiste di
più: come una gara di testate contro un muro fin quando non
ti si sfracella il cervello tra un mattone e l’altro.
Finì
tutto nel silenzio nel momento in cui le mie ali si piantarono nel
terreno lasciandomi a penzoloni nell’aria, mentre Alex si
dava una spinta verso l’alto e, dopo un velocissimo scatto,
planava oltre le mie spalle.
Mi
voltai all’istante, già pronta con la lama al
braccio, quando mi ritrovai a fissare il vuoto di tutti quei metri di
“galleria” nell’asfalto che avevamo
creato. Respiravo affannosamente, tenendomi malamente in equilibrio con
l’ausilio delle ali, che mi apprestai all’istante
di dispiegare nell’aria.
Ripercorsi
tutta la strada, e tornai all’origine del nostro scontro.
–Cole!- strillai atterrando di corsa, scivolai al suo fianco
graffiandomi le ginocchia con vetri e residui di cemento, ma una volta
che gli fui accanto, poggiai una mano sulla sua nuca e gli sollevai
piano la testa.
Il foro
longilineo ancora non si rimarginava. Perdeva troppo sangue che sentivo
inzupparmi i pantaloni mentre mi gettavo ad abbracciarlo.
–Cole, Cole, ti prego…- singhiozzai.
Una sua
mano, tremando, si sollevò piano da terra e andò
a sfiorarmi la schiena con delicatezza. –Ciao…-
mormorò schiudendo gli occhi e con voce flebile come il suo
respiro strozzato.
I miei
singhiozzi cessarono all’istante e lo guardai con le lacrime
che mi scivolavano sulle guance. –Ciao- risposi quasi ridendo
per la gioia di sentirlo respirare. In completa balia della paura che
avevo sentito dilaniarmi, e della felicità nel rivedere i
suoi occhi accesi di amore per me, mi chinai di nuovo su di lui e lo
baciai, premendo con foga le mie labbra sulle sue. Quando mi allontanai
per riprendere fiato, gli carezzai una guancia.
-La…
siringa…- disse lui sfiorando con due dita il mio fianco.
–Usala…-.
-Sì,
hai ragione!- afferrai la terza fiala, ma prima che riuscissi ad
infilarla nel tampone, Cole mi fermò. –Non quella-
pronunciò serio, e con lo sguardo mi fece capire che si
stava riferendo ad uno dei miei potenziamenti d’attacco.
-Devo
guarirti, prima!- sbottai io, disperata.
-Non
c’è tempo…- con quelle poche forze che
gli restavano, strattonò dalla mia cintura la fiala e ne
ruppe il tappo mettendolo tra i denti. –Avanti, ammazza quel
bastardo…- tossì.
Afferrai
con mano inferma il contenitore di vetro e, versandone il liquido
all’interno del tampone, mi feci di fretta
l’iniezione. –Contento?!- strinsi i denti.
–Ora lascia che…- stavo per riempire la mia
siringa del curativo che volevo dargli, ma i tuoni di una
mitragliatrice e un grido forsennato mi richiamarono a voltare il viso
tutt’altra parte.
[.:
Lisa :.]
Alex
spiccò un salto, poi fece uno scatto nell’aria e
andò a planare nascosto oltre un palazzo prima che
quell’Angelo se n’accorgesse. Lisa
sgranò gli occhi più volte, si dimenava ancora
tra le braccia di quella ragazza che riusciva a tenerla ferma a terra
senza il minimo sforzo. Gridava ancora e ancora: -Aleeeex! Aleeeex!- ma
nessuno sembrava ascoltarla.
Improvvisamente
l’Angelo con i capelli neri e gli occhi verdi si
avvicinò al corpo del compagno caduto, con il quale Mercer
si era fronteggiato poco prima. Fu a quel punto che Lisa
capì quanto caro fosse quell’uomo a quella donna,
che cominciò a singhiozzare sul petto squartato di lui
infangandosi le mani del suo sangue. Lisa vide tutto: dalle carezze al
bacio, e quasi poteva ascoltare quello che si stavano dicendo
decifrando i movimenti delle loro labbra, mentre tutto attorno a lei si
gonfiava di silenzio e tristezza.
Ad un
tratto guardò in alto la ragazza, calmandosi tra le braccia
dell’Angelo che si stupì non poco del suo
improvviso nuovo stato d’animo. Lucy, si chiamava, la
lasciò andare per un istante quando dal cielo piovve la
figura di Alex, che si piantò nel terreno proprio davanti
alle due fanciulle.
L’Angelo
sfoderò le sue armi e spinse via la ragazza, e Lisa si
trascinò il più lontano possibile rifugiandosi in
un negozio la cui vetrina era andata in frantumi sul marciapiede. Il
respiro ansante, irregolare; il cuore le batteva a mille nel gesto di
stringersi le ginocchia al petto. Le orecchie captavano i suoni ma li
ovattavano rendendoli un confuso insieme di borbottii distanti. Come il
trambusto di una mitraglietta e lo sventolare di un paio di ali.
Lanciò un’occhiata all’Angelo
più lontano, quella ragazza dai capelli corvini che stava in
piedi a pochi metri dal luogo in cui Lucy ed il suo Alex stavano
fronteggiandosi: lei con quella futile arma da fuoco, e lui lasciando
che i proiettili si frantumassero sulla sua lama in
un’esplosione di scintille. L’Angelo dal viso
scoperto si avvicinò ad Alex immaginando di poterlo cogliere
di sorpresa. Il suo braccio destro tramutò in una poderosa
zampa fatta di grossi artigli affilati. Andava verso di lui con rabbia
e determinazione.
Lisa
scattò in piedi e lasciò il suo nascondiglio.
Le
azioni che convennero di lì in avanti, le fece per una
persona solamente.
Perdonami,
Alex…
[:.
Emily .:]
Mi
alzai da terra e abbandonai la vicinanza al corpo di cole con piccoli
passi misurati. Tramutai il mio braccio in artigli, gonfiai le ali,
accelerai finché non cominciai a correre e, nel momento in
cui Alex trovò breccia nella difesa di Lucy scaraventandola
via di parecchi metri, mi scagliai su di lui portando in avanti le
unghie e le zanne.
Chiusi
gli occhi, e il sangue che sentii scorrermi tra le dita, gli organi che
avevo perforato, il petto che avevo trapassato da parte a parte,
apparteneva ad un corpo umano… non… infetto.
[:.
Alex .:]
La sua
ombra scivolò sulla mia, la sua schiena si
appoggiò alla mia con violenza, la sua mano
s’intrecciò alla mia, il suo sangue percepii
scorrermi sul giubbotto, lungo la spina dorsale. Il suo respiro si
bloccò all’improvviso, il suo battere di cuore
rallentò poco a poco, fino a diventare del tutto nullo. La
delicatezza con la quale il suo corpo si appoggiò del tutto
al mio. Mi voltai all’istante portando le braccia in avanti,
e Lisa si lasciò andare contro il mio petto, crollando sulle
sue gambe. Con lentezza l’adagiai a terra, piegando le
ginocchia e restando china su di lei, sul suo viso candido, sulle sue
guance arrossate e le sue labbra schiuse. Gli occhi sgranati e fissi
nel vuoto, forse fissi nei miei; non avrei saputo stabilirlo comunque,
troppo scettico dinnanzi al suo vano sacrificio.
Non
dissi nulla; osservai la vita e il vigore abbandonare la sua anima e
ciò che restava di essa, librandosi via nell’aria
colma di Virus e Bloodtox attorno a noi e al luogo nel quale eravamo
finiti a combattere. Mi si spezzò il fiato nel vedere un
ultimo solare sorriso affiorarle in volto, mentre batteva le palpebre
con troppa apatia.
Spostai
lo sguardo sul suo corpo, dove sul ventre le era comparso un profondo
squarto orizzontale che per poco non la traversava per intera. Sembrava
allegra, soddisfatta delle proprie azioni; quand’invece
doveva rendersi conto dell’abnorme sbaglio che aveva commesso
pensando che un colpo di quel genere, che stava lasciando in vita lei,
avrebbe potuto uccidere me.
Sollevai
la testa e guardai in alto, in cielo, dove la figura di due Angeli che
trascinavano un corpo, si allontanava nel buio della notte oscurando le
stelle.
|
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Capitolo 22 *** Capitolo 22° - Tutta la verità ***
Capitolo
22° - Tutta la verità
[.:
Alex :.]
-Mi dispiace…- le carezzai le fronte
liberandola da una ciocca dei suoi capelli. Con un ginocchio piegato a
terra, la tenevo con leggerezza appoggiata alla mia gamba come se fosse
la cosa più delicata che avessi mai toccato. Le carezzai una
guancia, i suoi occhi già umidi e le sue labbra schiuse che
cercavano di dirmi qualcosa mentre tremava. Ancora su quella strada,
tra macerie di palazzi e carcasse di dinosauri e infetti. Eravamo
insieme sotto quel cielo senza stelle che si apriva sopra i tetti di
una città ridotta a brandelli. I gabbiani del porto
cantilenavano in coro assieme ai corvi affamati sulle nostre teste,
svolazzando attorno le carni di un cacciatore e alcuni umani.
-Mi dispiace Lisa, non avrei dovuto permetterlo,
è stata colpa mia che non ho fatto assolutamente nulla per
impedirlo- e neanche la mia voce riconoscevo più, incrinata
da un dolore dentro che non provavo da troppo tempo. Scossi la testa,
sfuggendo al suo sguardo pungente, ancora vivo. –Ero
lì! C’ero quando quell’Angelo ti ha
colpita! Le mie spalle toccavano le tue, ma poi il tuo corpo si
è crogiolato tra le mie braccia ed io…
Perché?!- cambiai tono. –Perché, Lisa?!
Perché l’hai fatto?!-.
Scivolò una lacrima sulla mia guancia
mentre insistevo a tenere basso il volto, basso lo sguardo. Chiusi gli
occhi e strinsi i pugni dietro la sua schiena.
–Perché…?-.
-…Alex-.
Ad un tratto aveva parlato, sollevando una mano e
andando a sfiorarmi il viso con le sue dita fredde e delicate.
Scacciò via dalla mia pelle quell’unica lacrima e
arrivò a lambirmi la linea del mento, perché le
forze che le restavano non le concessero nient’altro.
–Portami da papà…- mormorò
lei. –… portami a casa- aggiunse.
La guardavo con gli occhi sgranati e lucidi
d’incredulità quanto i suoi.
–Sì- dissi. –Andiamo, hai ragione- mi
sollevai in piedi caricandomela in braccio senza fatica. La testa le
ricadde sulla mia spalla, il suo respiro freddo s’infrangeva
sul mio collo, e finché avessi percepito il suo cuore
battere, avrei potuto proseguire nella folle impresa di riportarla da
Corvo.
Quando giungemmo in prossimità del
porto, e poi attraverso il lucernario, cominciai a gridare il suo nome,
nonostante l’ora. –MAX!- strillavo quasi piangendo.
–MAAAAAAAAAAX!- barcollavo sulle mie gambe trottando tra le
tende dei profughi, stringendo il corpo di Lisa al mio.
–MAX!-.
La gente uscì dal letto e si sporse a
guardare la fonte di tanto casino. Attorno a me, che mi dirigevo
spedito alle scale, si formò un folto gruppo di uomini e
donne. Salii i gradini dovendomi reggere alla ringhiera, e
così anche sulla passerella che sembrava non avere fine. E
continuavo a chiamarlo, senza ottenere risposta: -MAX! MAAAX!-.
Il battito del suo cuore si annullava poco a poco
ad ogni mio passo. Rallentava di una frequenza ad ogni mio respiro,
mentre io contavo i suoi sempre più dispersi, rari.
Entrai nella sua tenda e stesi Lisa sul lettino
senza badare ai libri, i tavolini e i cuscini che sbaragliai al mio
passaggio, creando una tale confusione.
In quell’istante
s’udì un tuono, e su Manhattan cominciò
la tormenta più nera della notte stessa. La furia della
tempesta si abbatté violenta per le strade,
l’acqua picchiava sui tetti delle case e sulle tende dei
profughi, costringendo la gente a fuggire al riparo altrove. Non si era
mai vista una bufera simile, e ancora come tante volte precedenti, non
potei davvero credere che si trattasse di una coincidenza.
M’inginocchiai accanto al lettino,
senza forze necessarie per tenermi in piedi solamente. Scuotevo la
testa continuando a ripetermi che non poteva essere successo, e
singhiozzavo, piangevo con la fronte premuta contro la sua, ma Lisa
stava immobile, rigida e fredda. Gli occhi socchiusi così
come le labbra dalle quali sentivo arrivare sulle mie un flebile
respiro ogni tanto.
Il dottor Taylor entrò nella tenda di
gran corsa, e quando i suoi occhi verdi dietro le lenti degli occhiali
si posarono su di noi, ma sulla figlia per prima, dovette appoggiarsi
alla libreria vicina per non crollare a terra sulle inferme ginocchia.
Si portò una mano alla bocca, poi attorno alla gola e
intanto il suo corpo traversato da tremiti continui parlava
più delle parole che non riusciva a pronunciare.
-Mi dispiace!- gemetti guardandolo. –Mi
dispiace, Max, non ho potuto fare nulla!-.
Il vecchio scattò in avanti e prese il
mio posto accanto alla figlia dopo che mi fui alzato. –Mi
dispiace…- dissi ancora indietreggiando fino ad inciampare
con le gambe su uno sgabello sul quale caddi seduto. –Mi
dispiace- nascosi il volto dietro i palmi.
-Lisa- chiamò Max con un filo di voce.
–Lisa, piccola mia- mormorò carezzandole i
capelli, avvertendo sui polpastrelli quel poco di calore che restava
della ragazza. –Lisa, ti prego, parlami-.
-…Papà- schiuse gli occhi
la giovane. -…fa male- pronunciò. –Fa
tanto male-.
-Resisti, piccola, devi resistere!- la
incitò lui.
Il dottore si alzò e andò a
cercare tra gli scaffali una siringa. Gettò sul pavimento
della tenda tutto ciò che gli era inutile, proseguendo nella
sua sfrenata ricerca. Feci per alzarmi così da dargli un
aiuto, ma Max mi fulminò con un’occhiata gelida e,
respingendomi, mi spinse a sedere di nuovo sullo sgabello.
Dopodiché fece alla figlia
un’iniezione di uno strano liquido rosato.
–Ecco…- sussurrò.
–Allevierà il dolore-.
Il grosso e profondissimo taglio che aveva in
ventre non l’avrebbe tenuta in vita tanto allungo, ma forse
qualche medicinale avrebbe potuto compensare i minuti che le restavano
in un’ora buona. Quando il dottor Taylor estrasse
l’ago dal braccio della figlia e tornò in piedi,
si voltò verso di guardandomi in un modo tutto nuovo.
-So che hai fatto il possibile- disse serio
gettando la siringa vuota in un angolo. Questa andò un
frantumi sul pavimento. –Perciò non posso darti la
colpa di tutto questo. Erano dei rischi che conosceva, e dei rischi che
ha voluto correre sempre da sola- aggiunse mettendo al caldo la figlia
con una spessa coperta. La mani di Lisa andò a cercare la
sua, e Max gliela strinse tornando inginocchio al suo fianco.
–La mia piccola Lisa…- sorrise guardando la figlia
che ricambiò quel gesto allungando in modo simile le labbra.
Gli bastò un’unica occhiata
per congedarmi. Mi sollevai in piedi lentamente e uscii dalla tenda
senza voltarmi. Fuori di lì rimasi allungo in attesa di
qualcosa che sapevo benissimo sarebbe accaduto. Lisa stava morendo, Max
l’aveva accettato forse nel migliore dei modi.
Già, forse.
Il dottor Taylor mi raggiunse a capo chino
fissandosi i piedi. Non appena mi fu affianco, si voltò
verso di me e mi lasciò del tutto sorpreso quando mi
abbracciò con foga e disperazione. Cercai il medesimo
conforto per placare il dolore simile che stavamo provando entrambi in
quel momento, ben consci di cosa potesse essere successo in passato, ma
poco preparati ad imboccare il futuro.
-Va’ da lei- mi sibilò
all’orecchio. –Ti supplico, Alex, va’ da
lei e fallo. È quello che ha sempre desiderato, è
quello che non ha fatto altro che chiedermi, implorarmi
perché lo facessi. Il dolore era solo una scusa, il
sacrificio solo un pretesto. Fallo, hai il mio consenso, e di certo il
suo-.
Come un cane al padrone, ubbidii. Mi scansai dal
medico di qualche passo ed entrai nella tenda così come
n’ero uscito. Trovai Lisa dove l’avevo lasciata in
balia di suo padre, sotto quella ruvida e spessa coperta col viso
girato di lato verso la parete e il petto che si alzava e abbassava
senza un ritmo costante in nervosi ultimi respiri.
Mi avvicinai a lei, afferrai lo sgabello e mi
sedetti accanto alla branda continuando a guardarla da lontano.
-Alex…- chiamò a sorpresa
la ragazza.
Sobbalzai sulla seggiola.
-Alex- chiamò di nuovo voltando la
testa dalla mia parte, e il verde profondo, lucido e denso dei suoi
occhi mi catturò come la tela di un ragno, mentre la sua
voce d’un tratto melodiosa e cristallina mi incitava ad
avvicinarmi. Così feci, spostando lo sgabello accanto a lei,
abbastanza vicina da poter sentire il poco calore che emanava il suo
fragile corpo disteso sul lettino. Con la coda dell’occhio,
vidi la sua mano scivolare fuori dalla coperta e andare a sfiorare la
mia. Senza interrompere la catena che si era formata tra le nostre
pupille, intrecciai le mie dita alle sue. –Sono qui, Lisa-
dissi solo.
-Bravo- mi sorrise debolmente. –Non
andartene, allora- sembrava allegra.
-Mai- bruciai la distanza tra di noi
nell’ultimo respiro di entrambi; chiusi gli occhi a posai le
mie labbra sulle sue con delicatezza. Restai allungo chino su di lei,
sul suo calore, sul suo profumo che improvvisamente si era sostituito
alla puzza di Virus e Bloodtox che aveva quell’area della
città, formando tutt’attorno a noi legati da quel
flebile contatto, un’aurea di fasci rossi e neri che mai fino
ad allora avevano avuto un carattere più magico.
Preservai una piccola parte della sua essenza
dentro di me.
Per sempre.
Un uomo si
avvicina ad un tavolo. Estrae da un bauletto una piccola fiala che
contiene del liquido rossastro.
-Papà…-.
-Sì,
piccola mia?- chiede quell’uomo mentre prepara
un’altra iniezione.
-Che cosa vuoi
fare?- domanda una ragazza.
-Questo
può salvarti, Lisa- dice lui avvicinandosi alla giovane
stesa sul lettino.
-Cos’è?-.
-Lo conservo
da molto tempo…-.
-Dove
l’hai preso, papà?- fa spaventata lei.
-Adesso non
è importante che tu lo sappia-.
-No fermo!-.
L’uomo
sgrana gli occhi.
-Non voglio-
dice lei.
-Cosa…-.
-Non voglio
guarire, papà-.
-Lisa, tu
non…-.
-Chiamami
Alex…- mormora. –Chiamami Alex, ti
prego…-.
-Non dire
sciocchezze, non…-.
-Voglio che mi
assorba. Questo può davvero salvarmi-.
-È
una follia! Ti rendi conto di quello che stai dicendo?!-.
-Lo amo,
papà. E voglio restare per sempre con lui… questo
può salvarmi, questo
è l’unica cosa che voglio- sussurra.
L’uomo
esita alcuni istanti. –È quello che desideri?-
domanda alzandosi in piedi dallo sgabello e poggiando la siringa su una
mensola della libreria.
La ragazza
annuisce.
Max entrò nella tenda e mi
trovò esattamente come si aspettava.
Ero steso con il busto sul letto, dove un tempo
c’era stato il corpo di Lisa. Le braccia strette attorno alla
testa, che avevo nascosto nel buio creatosi tra un gomito e
l’altro. In ginocchio sul pavimento, crollato dallo sgabello
giusto pochi istanti prima. Le lacrime ormai secche, del tutto asciutte
sulle mie pallide guance. Il mio naso premuto sul tessuto della branda,
che conservava ancora un poco del profumo di sua figlia.
Corvo mi venne affianco poggiandomi una mano
sulla spalla. Sollevai il viso di colpo, facendo sobbalzare il vecchio
che indietreggiò con un saltello.
-È finita- disse lui opaco e spento.
–Grazie-.
Mi voltai a guardarlo con immenso rancore e
tristezza. –Ne parli come se ti fossi liberato di un peso-
blaterai.
Il suo schiaffò arrivò
violento e penetrante, ed un istante dopo il rombo di un tuono
squassò il cielo sopra l’Isola. Il dottore
restò immobile scrutando con serietà
l’espressione che mi si disegnò in viso subito
dopo; peccato che avvertissi solo un 10% del dolore.
-Amo mia figlia- sbottò lui.
–Ho voluto per lei la cosa migliore-.
-Ed io sarei la cosa migliore?- eruppi.
-No. Tu sei tutto quello che desiderava.
È diverso- disse andandosi a sedere sullo sgabello.
-Se fossi stato un buon padre- cominciai
–non l’avresti permesso-.
-Allora si vede proprio che non hai mai avuto
figli, Mercer- ridacchiò isterico.
-Infatti, illuminami-.
-L’avrebbe resa felice-.
-Come fai a dirlo?-.
-Lo so e basta-.
-Come?!-.
-Perché sono suo padre!-
scandì bene e con furia.
-Poteva guarire!- strillai. –E tu lo
sapevi!-.
Max scosse la testa. –Tu non puoi
capire…-.
-Sai una cosa?! Forse hai ragione! Forse non
capisco, ma ora basta giocare, Max!- mi avventai su di lui afferrandolo
per il camice sporco di sangue che indossava, sbattendolo
successivamente contro la libreria, a mo’ di scena di
già vista. –Dimmi la verità- digrignai
a pochi centimetri dal suo viso. –Tutta la verità,
a partire da quello!- indicai la siringa sulla mensola lì
accanto alla sua brutta faccia. –Che
cos’è?!- domandai dandogli uno scossone.
–Dove l’hai preso?! E perché avrebbe
potuto guarirla?!-.
-Aspetta, non è come pensi!-.
-Per tua fortuna ancora non sto pensando nulla!
Adesso rispondi!-.
-Calmati, ti prego!-.
-MAX!-.
-Si tratta di un raro composto al mercurio!-
balbettò il vecchio.
-Tutto qua?!- insistei.
-No, aspetta, fammi parlare!-.
-Dai!- invigorii la presa.
-Tutta la verità, eh? Va bene! Tutta
quanta!- strillò isterico. –L’Angel
1-9-2 che ha colpito Lisa è Emily Walker!-.
Sgranai gli occhi, scettico, rigido.
–Non è possibile…-.
-La figlia di Mark Andius Walker! Proprio lei!-.
-Hai detto che non aveva avuto figli!- ruggii
spingendolo con più forza contro gli scaffali.
Al vecchio scappò un lamento di
dolore. –E’ vero, ti ho mentito, ma davvero, non
è come pensi!-.
-Spiegati!- eruppi. –Come sapevi che
è stata lei ad uccidere Lisa?!-.
-Ho riconosciuto il taglio, il DNA coincideva!
Quel composto con il quale avrei potuto guarirla l'avevo elaborato
assieme a Mark, ipotizzandola come una cura! Il mercurio mangia i
tessuti di una particolare molecola del Virus. Avrebbe permesso
così a quelli di Lisa di rigenerarsi-.
-Come sai tutte queste cose?! Sei uno di loro,
della Blackwatch, è così?!-.
-NO!- confessò. –Affatto!-.
-Allora parla, avanti!- un altro violento
scossone che gli stampò in viso una smorfia di dolore.
-Dopo l’incidente del ’69
Walker si rifugiò dove ti ho detto, stette per i cazzi suoi
e tornò a New York nell’anonimato! Il Blackwatch
non sapeva assolutamente nulla di lui, ma adesso abbiamo tutti i motivi
di sospettare il contrario! Io e Mark ci conoscemmo al College, te
l’ho detto! Si confidò con me, mi parlò
di tutto, dall’inizio alla fine! Mi raccontò di
volersi costruire una vita normale e lo aiutai con le mie scoperte.
Quando ebbe una figlia seppi subito di lei, la conobbi, era una bambina
dolcissima, ma sana, Alex! Sana, sana del tutto sana! Poi il Blackwatch
scatenò l’inferno, catturò voi, i
pazienti, e li testò con il gene estratto da Elizabeth!
Prese anche Emily, ma Mark non fece nulla per impedirlo pur di restare
nell’anonimato! Lasciò correre ogni cosa,
passarono gli anni, la bambina crebbe normalmente, senza manifestare
alcuna reazione. Le preghiere di Mark sembravano essersi esaudite. Poi
il Virus dilagò a Manhattan, nacque il settore Angels e il
progetto Gabriel che volle con sé la piccola Emily. Walker
rifiutò, all’inizio, e nel frattempo accresceva il
suo prestigio in aeronautica- si calmò poco a poco.
–Il giorno dell’incidente, con quella comunicazione
radio, lasciò al settore Angeli un messaggio nascosto che
dava la sua approvazione. Con quelle parole Mark consegnò
sua figlia nelle mani di Lewis Martin, il responsabile del progetto. Da
quel momento non ho più avuto sue notizie, ma…-.
Lasciai la presa sul suo camice adagiandolo
lentamente coi piedi per terra. –Emily lo sa?- domandai in un
sussuro.
-Cosa?- chiese confuso.
-Che suo padre è vivo. Lei lo sa?-.
-Non lo sa nessuno a parte noi, Alex-
assentì dispiaciuto. –Mark stesso ha voluto darsi
per morto, o il Blakcwatch avrebbe sospettato quello che non doveva
sospettare sul suo conto. Sono del parere che quei pazzi furiosi siano
morti tutti quanti, ma tu non sembri essere d’accordo. Dici
che sono ancora attivi, che hanno le mani sul progetto Gabriel, ma non
ti credo, non posso crederti, o Mark non avrebbe consegnato sua figlia
a loro in quel modo-.
-Forse il messaggio non era un consenso- mormorai
distante, pensieroso. –Ma magari…
l’esatto contrario- supposi.
-Non penso nemmeno questo- disse scuotendo la
testa.
-E’ tutto?- sbottai serio.
-Sì-.
-Quindi quell’Angelo…-
strinsi i pugni.
-No, Alex. Non puoi andare da lei, piombando di
nuovo in casa del nemico, e raccontarle una bella favoletta come se
foste vecchi amici di scuola!- mi rimproverò.
-Non sto dicendo questo!- ringhiai.
-So dove vuoi arrivare, ma è sbagliato
tentare un approccio con lei, Alex, fidati. Se vuoi farti degli
alleati, devi partire dal principio. Risalire alla radice-
pronunciò composto e profetico.
-Mark?- ipotizzai.
-Esattamente. Trova lui, e avrai tra le mani
l’ultimo tassello del tuo puzzle- disse.
–Dopodiché saprai tu cosa sarà giusto
fare, ma voglio almeno che lo porti qui da me- aggiunse.
-Affare fatto- e uscii dalla tenda con quelle
ultime parole.
|
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Capitolo 23 *** Capitolo 23° - Rotrovarsi... in lacrime ***
Capitolo
23° - Ritrovarsi… in lacrime
[:.
Emily .:]
-Piano,
Lucy, piano!- gemetti stringendo i denti.
-Ecco,
mettiamolo qui-.
-No!
No!- strillai. –Portiamo in una delle stanze, non sul tavolo,
dai!-.
-Emily,
sono stanca, non ce la faccio…- indebolì la presa
attorno alle caviglie di Harry, il cui corpo io e la ragazza stavamo
spostando da una parte all’altra del piccolo locale nascosto
sotto le macerie di una vecchia palazzina. È una base
scavata tra i detriti di soffitti e pareti che formano una resistente
contenuta, un buon luogo cove ripararci in caso di pericolo. Questa
zona di Manhattan nella quale ci trovavamo ora ospitava tre fortini di
quel genere, e noi ci eravamo diretti al più vicino.
-Quel
combattimento, io…-.
-Lucy!-
gridai irrigidendomi, io che le mie braccia sorreggevano il peso morto
di Harry afferrandolo sotto le ascelle. –Avanti, un ultimo
sforzo! Aiutami!- la incitai.
La
ragazza si ristabilì all’istante notando la mia
disperazione. Tornò più presente
nell’aiutarmi e insieme scortammo Harry in una stanzetta
adiacente al salottino. La mobilia era composta di un materasso sul
quale riposare, qualche vecchio cassettone di metallo e scaffali
abbondanti di polvere. Nessuna finestra e tanto meno sbocchi
sull’esterno al di fuori dell’unica entrata ed
uscita, che affacciava sul corso centrale dell’Isola.
-Eccoci,
piano…- mormorai adagiando delicatamente Harry sul
materasso. Il ragazzo teneva gli occhi chiusi, era rigido, sempre
più pesante, e ciò non poteva che essere un bene:
voleva dire che i suoi tessuti si stavano rigenerano abbastanza in
fretta.
Lucy
crollò al suolo ormai prima di forze, sulle gambe inferme e
tremolanti. Scivolò lungo la parete e, con la fronte
imperlata di sudore, guardò verso di me col fiato grosso.
–Mai faticato tanto… in vita… mia-
disse ansante.
-Sei
debole- risposi io sollevando delle coperte a coprire parte del nostro
compagno di squadra. –Lo scontro ti ha infiacchita, e se hai
preso qualche potenziamento, questo non può che essere
l’effetto post trattamento- dissi. –Il tragitto in
volo dal porto a qui non può che averti stremata
ulteriormente…- aggiunsi uscendo dalla saletta. Mi fermai
sull’uscio e vidi la ragazza che preferiva stare seduta per
terra, su delle fredde tegole di cemento e metallo.
-Adesso…
ti raggiungo- mormorò facendomi segno di andare, ed io
tornai nel salottino. –Il capitano lo solleviamo insieme, non
preoccuparti- fece divertita.
Le
sorrisi grata e tornai nel salottino, dove sull’ingresso
trovai adagiato sul pavimento, in una posa innaturale, il capitano
della nostra squadra, che stava appoggiato allo stipite della porta con
il mento premuto al petto. Gli occhi leggermente socchiusi dal dolore
che stava provando e dal tentativo di tirarsi su, sollevandosi su di un
braccio.
-Cole!-
mi gettai al suo fianco aiutandolo ad alzarsi. –Cole, ti
prego, non fare sforzi!- lo ammonii prendendolo sottobraccio e
caricandomi parte del suo peso su una spalla.
-Emi…ly-
chiamò lui senza fiato, voltando di poco la testa nella mia
direzione. Sollevò leggermente la mano per sfiorarmi il
volto con due dita, che percepii fredde e tremolanti sulla mia pelle.
Quando le sue forze si fecero del tutto nulle e il suo intero corpo si
accasciò sul mio costringendomi con le spalle alla parete,
chiamai con la voce che mi restava in gola: -Lucy!-.
La
ragazza accorse in mio soccorso sull’immediato, e insieme
sistemammo il capitano in un’altra saletta adiacente,
portandolo sino al materasso e poi disteso sul letto.
Ci
affaccendammo entrambe nella ricerca di medicinali e qualcosa con la
quale comunicare alla centrale le condizioni del nostro clan fatto a
brandelli. Ma le comunicazioni radio sembravano saltate per via di una
casina elettrica disattivata nel quartiere. Gli armadietti, gli
scomparti e gli scaffali vuoti di qualsiasi oggetto utile ad un primo
intervento sembravano essersi saccheggiati da soli.
-Abbiamo
beccato il fortino senza rifornimenti! Cazzo!- sbraitai calciando il
tavolo.
Lucy mi
venne vicino facendomi voltare e, calmandomi con la sola
serietà che aveva in volto, disse: -Emily, adesso
va’ da lui. Vado io a cercare Emmett e qualcosa di utile
fuori da questa baracca, ma tu devi restare con Harry e il capitano-.
-Lucy,
non possiamo dividerci ancora!- sbottai.
-Per
cortesia, lasciami fare! Sai bene che è l’unico
modo che ho di rendermi utile! È colpa mia se siamo finiti
in questo casino…- mormorò distogliendo lo
sguardo, afferrando la sua roba dal tavolo e avviandosi
all’uscita. –Non avrei dovuto permettere che ti
staccassi da me ed Harry, non avrei dovuto litigare in quel modo con
te. Mi dispiace, credimi, ma adesso lascia che metta in pericolo la mia
vita per salvaguardare le vostre-.
-Lucy,
non posso permetterlo, adesso…- non riuscii a terminare che
la ragazza era già in volo fuori dal rifugio.
M’inginocchiai
a terra, accanto al materasso sul quale era steso il capitano del
nostro clan. Con delicatezza gli strinsi la mano intrecciando le mie
dita alle sue. Rimasi allungo in attesa di un solo flebile segno di
ripresa, ma i tremori che aveva lungo il corpo e gli spasmi
impercettibili delle palpebre abbassate come se stesse sognando non mi
davano alcun conforto. Cominciai fin da subito a temere il peggio. Alex
era riuscito a ferirlo, a squartarlo nel vero senso della parola, e
c’erano ben poche cose che potessimo fare anche solo per
rallentare gli effetti catastrofici che avevano i suoi poteri su di
noi. Considerai la possibilità che avevo di fare al ragazzo
qualche genere d’iniezione con ciò che restava dei
nostri potenziamenti, ma proprio come questa vana speranza era apparsa,
col trascorrere dei minuti, delle ore che restai al suo fianco, la
stessa si dissolse poco a poco. Guardai presto in faccia la
realtà, quella cruda e immeritevole realtà che
l’essere più spregevole del pianeta mi aveva
schiaffato sulla faccia. Anche se ormai potevamo, io e Mercer,
ritenerci alla pari coi danni arrecati l’uno
dall’altra, non voleva dire che la battaglia fosse conclusa.
E fu
così che cominciai a piangere.
Lacrime
di vendetta, odio e amarezza mi solcarono le guance mentre un
singhiozzo tirava l’altro.
D’un
tratto sentii il portellone che portava all’esterno del
rifugio aprirsi e richiudersi con un tonfo; dei passi che venivano
verso di me, ma io che ero di spalle non mi accorsi di Emmett fin
quando la sua ombra non si allungò sulla mia e la figura di
Cole, steso sul lettino.
-Che
testa di cazzo…- sbottò l’Angelo
allontanandosi poi da quella stanza, puntando a quella più
vicina nella quale si andò a rifugiare.
E
così una parte del clan era rientrata nella base, ma della
questione non mi curai affatto: dimenticai presto il ritorno di Emmett
nel branco, la sua improvvisa comparsa con l’uniforme a
brandelli, vuoto dei suoi potenziamenti e sporco in volto di polvere e
terra. Aveva sicuramente passato una brutta giornata quanto noi, ma
nonostante il desiderio di andare da lui a prenderlo a pugni si facesse
sempre più scottante a fior di pelle, riuscii a trattenermi.
Bastò il solo volere di restare accanto a Cole il
più possibile, contando i suoi respiri spezzati e il
rigenerarsi incerto della sua pelle, sul petto, sulle braccia, dove
l’uniforme fatta a pezzetti lasciava scoperta la carne, le
vene, i muscoli e il sangue che andò presto a macchiare
parte del materasso.
[:.
Emmett .:]
Quando
raggiunse il rifugio dettatogli da Cole e lo trovò vuoto,
portò la sua ricerca altrove, tornando sui suoi passi e
giungendo in un altro dei fortini nascosti scavati tra le macerie per
l’evenienza. Trovò l’ingresso socchiuso,
in bella vista al primo cacciatore che passava ed entrò
sbattendo la porta con violenza. Si guardò attorno e vide
solo desolazione e un anomalo silenzio che inizialmente avrebbe potuto
ingannarlo, facendogli credere che anche quel fortino fosse del tutto
vuoto. Ma poi udì dei singhiozzi e, seguendo il suono di
quella voce cristallina incrinata dal dolore straziante di un pianto,
trovò Emily inginocchiata al lato di un materasso, sul quale
era sdraiato il capitano della squadriglia Cole Turner. La ragazza
piangeva disperata, trattenendo a stento singhiozzi e gemiti,
nascondendo il viso tra una piega e l’altra della coperta che
celava il corpo di Cole solo in parte.
Sulle
labbra di Emmett si disegnò un amaro sorriso privo di
compassione ma completo di sdegno e un po’ di rancore.
Uscirono da sole le parole: “Che testa di
cazzo…” che completavano l’idea e il
pensiero mentale che si era fatto di un possibile sbadato
incontro/scontro tra Turner e Alex Mercer. Alla fine aveva voluto fare
tutto da solo il fighetto del gruppo, ed ecco i risultati! Era
già molto che a quella vista Emmett Word non fosse scoppiato
dalle risate. Lasciò quella stanza così
com’era comparso, dirigendosi oltre di alcune soglie.
Trovò Harry nelle simili condizioni e si spostò
in una terza camera. Gettandosi sul letto, rischiò quasi di
addormentarsi, mentre cresceva l’ansia che qualcosa fosse
accaduta anche alla sua piccola Lucy…
[:.
Emily .:]
Gli
strinsi la mano con più forza, avvicinai il mio viso al suo
e lo baciai per un’ultima volta. Fu una carezza delicata
delle mie labbra tremanti sulle sue fredde e rigide quanto il resto del
suo incarnato. Avevo gli occhi arrossati e lucidi per via del pianto
che era andato ben oltre i miei record abituali, che non superavano i 5
minuti. Si era fatta ormai l’alba, di Lucy manco
l’ombra, e Cole era morto lì, in quel rifugio,
quando le sue ultime parole erano state il mio nome diviso malamente in
sillabe e una volenterosa e muta richiesta di vendetta. Nessuno aveva
fatto niente per impedirlo. Nessuno. Né io, né
Lucy, Emmett, Harry… e così via. Eravamo stati
abbandonati in quell’Inferno persino dai nostri coordinatori,
la comunicazione con i quali si era interrotta chissà quante
ore prima.
Quando
Lucy rivenne nel rifugio a mani vuote e mi trovò distesa
affianco al corpo di Cole, non disse o fece nulla, lasciandomi chiudere
gli occhi abbastanza allungo per capire, analizzare e immaginare cosa
avrei fatto di lì alle prossime 20 ore.
Vendetta.
Una
parola, mille modi per ottenerla. Mille dolorosi metodi di estorsione
del dolore altrui. Mille modi per far soffrire un uomo, per vederlo
contrarsi dal dolore. Ma a quanto pare me ne restavano disponibili solo
999. La sua fidanzata, se così poteva chiamarsi, fui certa
di averla uccisa quando quella mattina tarda, verso il mezzogiorno,
lasciai la base per riprendere la caccia da dove l’avevo
interrotta. Senza battere ciglio, giunsi nel salottino comune del
nostro rifugio e trovai Emmett seduto al tavolo nel centro della
stanza. Il ragazzo stava a petto nudo con indosso solo i pantaloni
dell’uniforme. Sorseggiava del liquido fumante da una tazza
con il bordo scheggiato. Il suo sguardo misterioso e profondo
incontrò il mio ad un tratto, nel mentre Lucy frugava in
alcune dispense qualcosa che potesse sostituire lo zucchero.
-Emily,
ho fatto il tè, ne vuoi una tazz…-
formulò lei.
-No-
dissi seccamente interrompendola.
La
ragazza si voltò sconvolta nella mia direzione, ed Emmett
sembrò tornare tutto tranquillo a sorseggiare la sua
camomilla.
-Io
esco- mi avviai all’uscita del rifugio.
-Aspetta-
mi chiamò Emmett con tono pacato. –Che ne facciamo
del corpo?- chiese appoggiando un gomito allo schienale della sedia.
Mi
fermai dandogli le spalle e, senza girarmi, annunciai così:
-Lasciatelo là-.
-Dove
hai intenzione di andare?- insisté lui.
-Ti
prego, Emily, ragiona! Guarda cos’è successo, e
ragiona: non puoi andare a cercare Alex da sola! Adesso che…
il capitano…- ingoiò il groppo in gola e mi si
avvicinò con un balzo. –Ti prego, torniamo alla
base. Troviamo un passaggio sicuro e vediamo se riusciamo a portare
qualche sano con noi- propose.
-Lucy,
sei libera di lasciare l’Isola almeno quanto quel bastardo-
indicai Emmett –è libero di fare quello che cazzo
gli passa per la testa!- saliva la collera, aumentava il furore, la
rabbia era alle stelle! Dio, che qualcuno fermi il mio braccio e
l’impulso di strozzare quel figlio di puttana!
-Emily!-
sbottò lei spaventata, tremante. –Ti
prego…-.
-Adesso
basta- eruppe Emmett scostando rumorosamente la sedia. –Mi
fate venire il voltastomaco, tutte e due- e così dicendo si
allontanò dal salottino per sparire nella sua stanza.
-Lucy-
chiamai a testa bassa.
La
ragazza fece per ignorarmi e tornare a circoscrivere i vari cassettoni
e dispense in cerca di altro.
-Lucy,
quello che ho detto ha un senso, devi fidarti di me- dissi.
-Non ti
capisco quando parli in questo modo- sbottò lei.
-Porta
con te quanti più sani puoi. Torna alla Phoenix, avverti
Martin e tutto il settore. Se ne sei in grado- mi lasciai sfuggire un
mezzo sorriso –trascina anche Emmett al tuo fianco, ma devi
fidarti di me-.
-Non so
più cosa pensare…- gemé la ragazza
passandosi una mano tra i capelli, stirandosi all’indietro.
–E’ successo tutto così…
all’improvviso- una lacrima scappò sulla sua
guancia.
-Una
volta fuori dall’Isola Martin farà Emmett capitano
e solo allora tornerete con qualche componente in più al
clan. Ma fino a quel momento, devi lasciarmi qui… da
sola…- feci una pausa. –Con Alex-.
-No!-
sbraitò in lacrime. –Quella bestia
ucciderà anche te! E per poco non se ne va anche Harry-.
Aggrottai
la fronte. –Come sta?- chiesi.
-Male,
Emily! Male!- singhiozzò. –I tessuti non si
rigenerano, perde sangue a fiumi e…-.
-Prenditi
cura di lui- dissi a sorpresa. –E anche di Emmett- mi
allontanai aprendo la porta del rifugio che dava su un corridoio, le
cui pareti andavano a stringersi dove il passaggio sfociava stretto
sulla strada spopolata e travolta dalle macerie.
-Emily,
non lasciarmi da sola…- mi venne incontro. –Mi
dispiace per come abbiamo litigato prima, per quello che è
successo! Cole non lo meritava, voi vi amavate tanto, si vedeva lontano
un miglio. Ma ti prego: non mettere a rischio inutilmente anche la tua
vita! Se tornassi con me alla base, potremmo…-.
-È
qui che ti sbagli- ridacchiai isterica. –Sono venuta qui con
una missione ben più grande di quella assegnata a tutti voi,
che non avevate altro che il compito di proteggere voi stessi! Sono io
l’unica che può uccidere Mercer- dissi con
rigidità nei gesti, nelle parole soprattutto.
Lucy
non azzardò nessuna risposta, neppure un segno di assenso o
dissenso. Si limitò a tacere in quel modo sconsolato,
disperato e silenzioso, straziandosi l’anima, che riusciva
molto bene a noi donne.
Questo orrendo
capitolo, oltre che essere cortissimo (pardon, ma ultimamente ho la
testa ad altro! XD E credo che alcuni di voi sappiano a cosa mi
riferisco XD) è venuto giù una vera schifezza.
Cominciai a scriverlo circa una settimana fa, ma lo abbandonai del
tutto appena cominciato lo studio del greco (-.-‘)
dedicandomi in quel poco di tempo che mi restava alle numerose one-shot
che contribuiscono alla causa “lista personaggi”
della sezione Assassin’s Creed.
Ovviamente
ringrazio i recensori dei capitoli precedenti augurandomi non averli
annoiati troppo con questo post decisamente stampato proprio storto! XD
A
presto, cavi! ^^
|
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Capitolo 24 *** Capitolo 24° - Vecchie anime infette ***
Capitolo
24° - Vecchie anime infette
[:.
Alex .:]
“-So
dove vuoi arrivare, ma è sbagliato tentare un approccio con
lei, Alex, fidati. Se vuoi farti degli alleati, devi partire dal
principio. Risalire alla radice- pronunciò composto e
profetico.
-Mark?-
ipotizzai.
-Esattamente.
Trova lui, e avrai tra le mani l’ultimo tassello del tuo
puzzle- disse. –Dopodiché saprai tu cosa
sarà giusto fare, ma voglio almeno che lo porti qui da me-
aggiunse.”
La pioggia si era placata. Il cielo sopra
Manhattan si apriva di una nuova luce soffusa che filtrava attraverso
la coltre di tossico veleno sospesa nell’aria, riempiendo di
un rosa sbiadito l’orizzonte sopra il livello
dell’asfalto. Era sorta l’alba, e in un qualche
assurdo modo anche la città assumeva un tono differente dal
giorno alla notte, nonostante fosse spoglia della sua gente e
così silenziosa. Il cambiamento si avvertiva da qualsiasi
prospettiva: in aria, dove la puzza di Bloodtox era davvero soffocante;
a terra, dove vecchie radici ammuffite andavano a decomporsi assieme
alle masse di cadaveri e carni infette. Nell’acqua che
contornava tutta l’isola, increspata da una leggera corrente,
dove si formava quella biancastra massa spumosa appiccicaticcia mista
tra sangue e lerciume dovuto all’inquinamento. Un venticello
gelido sollevava grumi di sangue secco mescolando particelle genetiche
alle polveri del suolo. Ed era esattamente lì, in quella
desolata Broadway, che trafficavo con le mie vane ricerche
già da una buona mattina.
Mi trovavo a camminare nel silenzio e nelle ombre
di una galleria che traversa nel sottosuolo metà isola. Le
auto abbandonate ai lati della strada, il soffitto basso e oscurato
dalle condense di smog e virus, alcuni tubi fuoriuscivano dalle pareti
liberando nell’aria gas tossici e incendiabili, assieme ad
una gran quantità di lerciume proveniente dalle fogne. I
tombini sistemati a dieci metri di distanza l’uno
dall’altro, infatti, erano scoperti e lasciavano traspirare
quell’adorabile odorino.
Le mani in tasca, il volto infossato
nell’ombra del mio cappuccio, gli occhi ridotti a due fessure
per il dolore che avvertivo dilaniarmi il petto: ciondolavo per
Manhattan mentre mia sorella e Ragland erano prigionieri dei miei
peggior nemici. Per la testa avevo tanti altri di quei
problemi… era stato un grosso sbaglio intraprendere quella
via. Se Max voleva che trovassi questo Walker, dovunque egli fosse,
avrebbe dovuto darmi informazioni più concrete! Non sapevo
nulla di lui, niente… a parte… forse…
il vano pensiero che accolsi fu quello di possedere effettivamente un
qualcosa che potesse aiutarmi nella mia ricerca. Se l’Angelo
con la quale mi ero scontrato il giorno prima era sua figlia, il sangue
di lei che avevo assorbito poteva diventare un utile traccia. Nei
meandri del mio corpo, negli angoli più remoti delle vene
che traversano le mie carni infette, recuperai quel sapore, quel
profumo tanto odiato che bastò poco per far nascere in me
l’egoistico desiderio di ucciderla, piuttosto che portare in
salvo suo padre.
Resi quel sangue parte di me ancora una volta,
saggiai la sua contorta e malsana composizione genetica potendo quasi
sentirmi bruciare la lingua. Dalla bocca al naso, e dal naso agli
occhi: fu allora che vidi.
Un sottile barlume rosato attraverso la parete
alla mia destra. Oltre quel muro di vecchi mattoni si celava chi
sembrava corrispondere ad una carne tanto cercata. I miei sensi, la
vista, l’olfatto e il gusto, captavano la sua presenza
così vicina potendo rendere visibilmente consistente
ciò che appariva solo come una massa informe costituita da
una particolare essenza. Ma non un’essenza qualunque:
quell’essenza, quel sangue e quel potere che per anni
quell’uomo non ha mai mostrato al mondo. Ed ora, poterlo
sentire così vicino a me, a solo due metri di spessore come
barriera, mi dava un senso di soddisfazione e un vigore mai provato.
-Mark…- chiamai un sussurro, poggiando
il palmo aperto sui mattoni scuri e bui.
Quel flebile mormorio non scaturì
nella figura dall’altra parte del muro nessuna reazione.
Stette immobile, chinata al suolo, probabilmente seduta su qualcosa. La
vedevo di spalle, e man mano che la sua presenza si faceva
più vivida nella mia mente riuscivo a scorgerne particolari
quali la forma robusta delle spalle, la schiena ampia… quasi
riuscii a coglierne l’abbigliamento mal ridotto ad una giacca
di vecchia pelle sovrapposta ad un’uniforme militare mimetica
di varie sfumature del blu-grigio. La polvere, i gas…
m’impedivano di scorgere altro che non fosse la sua ombra.
Possibile che fosse lui? A così poca
distanza da dove avevo cominciato le ricerche già ci
incontravamo. Mi aspettavo che il suo fosse un nascondiglio nettamente
migliore. Ipotizzai che dall’altra parte di quella parete di
fosse una seconda galleria destinata alla corsia opposta di automobili
e…
Un brivido mi salì lungo la schiena
quando un rantolio cupo e profondo si diffuse nell’aria
immobile del tunnel nel quale mi trovavo. Portai il braccio lungo il
mio fianco, mi staccai dalla parete e, guardandomi attorno, solo allora
scorsi nel buio infinito della galleria il proprietario di quel suono.
Un cacciatore volante abitava lì
assieme ad altri due individui più minuti. Tutti e tre, da
direzioni differenti e in perfetta sincronia tentarono di accerchiarmi,
posizionandomisi uno alle spalle, l’altro al lato e
l’ultimo di fronte. La bava colava dai loro denti
mescolandosi alle viscere delle cenette recenti. I loro artigli
penetravano l’asfalto, le punte dorsali sfioravano il tetto
della galleria producendo quasi scintille. Le loro ali, strette attorno
al corpo e perfettamente aderenti, luccicavano di quella membrana
trasparente, fragile e sottile che faceva di loro facili predi in volo.
Azzardai un passo in avanti, preparando
già la parte destra del mio corpo a tramutare, quando il
primo dei cacciatori, quello che avevo davanti, strozzò un
gemito di disapprovazione mettendosi accovacciato
sull’asfalto. Fecero altrettanto anche gli altri due,
sistemandosi comodi come gigantesche sfingi d’Egitto.
Attonito, strabiliato di quello che avevo appena
visto, mi limitai ad attendere che a quella scena se ne aggiungesse una
ancora più assurda.
-Non fare caso a loro- disse una voce profonda e
maschile. –Mi spiace solo che delle volte… non
sappiano distinguere i nemici- parlò ancora –dagli
amici-.
Finalmente il proprietario di tali parole si
mostrò, emergendo come un fantasma dall’ombra del
sotto ala di un cacciatore. Mosse alcuni passi avanti, fermandosi a due
metri da me.
-Mark Walker- pronunciai io con stupore.
-Finalmente ci incontriamo- arrise lui. Sul suo
volto da cinquantenne vissuto si stagliava un sorriso malinconico: le
guance bianche, gli occhi azzurri infossati nelle profonde occhiaie. Le
sopracciglia folte, la barba lasciata crescere e sfatta,
così come i capelli azzardati in un taglio di media
lunghezza alla “fai-da-te” senza specchio.
Indossava quegli stessi abiti che gli avevo
“sentito” addosso poco prima. La giacca di pelle,
con i rispettivi gradi militari dell’aeronautica sulle spalle
e sul petto. Comodi pantaloni mimetici consumati dalle fatiche di anni
trascorsi a nascondersi nelle fogne e in gallerie come questa, e in
simili condizioni stavano anche gli stivali neri. Portava un orologio
al polso, e una catenina militare al collo che andava a nascondersi
dietro la cerniera del giubbotto.
Ciò che mi lasciò a tal
punto interdetto, inizialmente non fu solo il fatto di trovarmi davanti
una leggenda, l’uomo di cui avevo letto e scoperto molto
quella volta che m’intrufolai nella base degli Angeli, ma
soprattutto che riuscisse in qualche strano modo a…
controllare i cacciatori.
-Non fare quella faccia- ridacchiò
isterico avvicinandosi di un altro passo.
Sicuramente l’espressione che avevo in
viso era bizzarra a tal punto da fargli pronunciare quelle parole.
–Come…-.
-Sono miei- disse ad un tratto, sorprendendomi e
attirando del tutto la mia attenzione su di lui.
Mark era tranquillo, sereno del fatto che i
cacciatori stessero così accovacciati come gatti attorno a
sé. –Se ti stai chiedendo come sia possibile, ti
basti sapere che ubbidiscono a me perché li ho creati io-
fece sincero.
-Cosa?!- eruppi del tutto scettico.
–È un’assurdità,
come…-.
-Le quantità di Virus in me
è sufficiente quel che basta per regalarne ad altri- divenne
improvvisamente serio.
-Allora sei un pazzo! Fai dono dei tuoi poteri ai
cacciatori?! Perché mai?! Hai idea di quante vite hanno
spezzato, quanti morti hanno procurato?!- gli gridai contro.
Ciò di cui parlava era una tale assurdità, e
sembrava andarne fiero.
-I miei cacciatori non hanno mai fatto male ad
una mosca!- fu la sua risposta altrettanto potente.
-Ah!- risi. –Certo, come no…
uno di loro per poco non si sgranocchiava tua figlia!-.
Il silenzio cadde su di no ( ma su Mark per primo
) come una secchiata d’acqua gelida.
L’espressione sul suo viso
cambiò da così a così, tramutandosi in
una vera e propria maschera di terrore, ansia…
-Emily…- mormorò a fior di
labbra, come se pronunciare quel nome gli costasse troppa fatica per le
sue vecchie ossa infette.
-Ti ricordi di lei, vero?- abbassai il tono di
voce, comprendendo a pieno quali domande, quali dubbi e quali immagini
lo stesso assillando in quel momento.
Mark si riscosse con violenza. -Certo che mi
ricordo di lei!- sbottò con rabbia, e nel medesimo istante
il cacciatore alle sue spalle balzò in piedi parandosi tra
di noi. Mi mostrò tutta la sua taccagna dentatura ruggendomi
contro, dopodiché una sua zampa arrivò a colpirmi
ancor prima che riuscissi a schivare quell’attacco. Mi aveva
del tutto colto di sorpresa, spiazzandomi con vigoroso vigore alla
parete del tunnel. Sprofondai per alcune centimetri nei mattoni, e una
nube di polvere e detriti mi avvolse. Poi, come da nulla, il secondo
cacciatore volante lì presente mi si avvicinò
afferrandomi per un braccio con i denti. Mi sbatté a terra
con altrettanta violenza. Successivamente, mi sentii schiacciare la
schiena dai suoi grandi artigli, tenendomi prigioniero tra due di essi.
Mark si mosse nella mia direzione, e mentre il
suo “cucciolo addomesticato” mi teneva incollato al
pavimento, l’uomo si chinò alla mia altezza
restando in perfetto equilibrio sulle punte dei piedi.
-Cosa sai di mia figlia?- mi domandò
più serio che mai.
Serrai la mascella, cominciando ad avvertire un
solletico di dolore risalirmi la colonna vertebrale. –Poco e
niente, te lo assicuro!-.
-Cosa ci fai qui?- chiese. Il cacciatore alle sue
spalle mandò un profondo rantolio d’intimidazione.
-Max…- digrignai.
–Maximilian Taylor… lui mi ha mandato a cercarti!-
confessai.
Al suono di quel nome non ottenni in Mark la
reazione desiderata, anzi… la zampa che premeva sulla mia
schiena invigorì la presa e il cacciatore volante in
questione mandò un altro poderoso ruggito.
-Come fai a conoscere Corvo?!- mi
ringhiò contro Walker.
-Lui e sua figlia Lisa hanno allestito un campo
profughi per i sani sopravvissuti al porto della costa ovest! Ci siamo
incontrati per caso! Lui mi ha offerto il suo aiuto, ed io
l’ho offerto a lui!-.
-Max non è tipo da chiedere aiuto a
quelli come te…- eruppe avvicinando il suo viso al mio.
–Perciò adesso dimmi cosa sai di mia figlia!-.
-Ti prego- mi lasciai sfuggire. –Devi
credermi, non sono qui per farti alcun male…-.
-In tutta la mia vita ho imparato a fidarmi solo
di me stesso e delle persone che mi hanno circondato donandomi la
propria anima- sibilò lui. –Non credo di poter
fare la stessa cosa con un essere tanto simile a me…-.
-Cosa…- mormorai sgranando gli occhi.
–Di che stai parlando?-.
-Perché Max ti ha mandato a cercarmi?-
non si risponde ad una domanda con un’altra domanda.
-Aspetta, dimmi…-.
-No, dimmelo tu!- si apprestò a
tapparmi la bocca ordinando al suo “fedele
cuccioletto” di premere un po’ di più
con la zampa sulla mia schiena.
Mi sfuggì un lamento quando avvertii
saltare una vertebra della spina dorsale.
-Avanti, parla!-.
-Prima levami questo coso di dosso e poi ti dico
tutto quello che vuoi sapere!- sbraitai collerico.
Mark si sollevò in piedi
d’un tratto, continuando a guardarmi dall’alto con
uno sguardo enigmatico e severamente composto. Non disse o fece nulla
perché il cacciatore si allontanasse da me liberandomi di
quella morsa mortale. Successivamente andò ad accoccolarsi
seduto assieme agli altri due alle spalle di Walker.
-Forza- mi esortò lui una volta che mi
fui alzato. –Comincia dall’inizio-.
-Comincia tu dall’inizio!- ribaltai la
domanda. –Cosa sei?! E come fai a controllare e creare queste
bestie a tuo piacimento?!-.
-Elizabeth non faceva forse la stessa cosa con
gli stessi identici sistemi?- arrise come fosse ovvio.
Ed effettivamente… lo era.
-E poi?- eruppi. –Perché tua
figlia è entrata nel progetto Gabriel?-.
A quella domanda l’animo
dell’uomo che avevo davanti si fece oscuro e tenebroso ancora
una volta. –Questo non ti riguarda-.
-È qui che ti sbagli! Mi riguarda e
come! Più di quel che pensi- arrisi isterico.
Mark serrò i pugni lungo i fianchi:
sicuramente stava trattenendosi dal ferirmi di nuovo.
-Ho sentito la tua comunicazione alla radio-
dissi precedendolo. –Il segnale nascosto in quel messaggio,
l’okkey alla richiesta da parte loro di prendere con
sé tua figlia…-.
-Se sai già tutte queste cose, allora
cos’altro vuoi da me?!-.
-Quindi Lewis lo sapeva già- affermai.
-Cosa?-.
-Che Emily era tua figlia-.
-Ovviamente!-.
-No, non intendo quello…- sospirai
inclinando lo sguardo. –Mi riferisco al fatto che…
voi siete… come me- mi costò un patrimonio
pronunciare quelle parole.
-Sì, Lewis lo sapeva, e l’ha
sempre saputo-.
-Perché?-.
-È un Balckwatch-.
-E anche tu lo sei?-.
L’uomo scosse la testa. –Lo
ero…-.
-Ma la loro organizzazione è nata dopo
l’incidente dell’69!- apostrofai.
Mark si adombrò ulteriormente. -Ti
ostini a chiamarlo “incidente”! Ma sappiamo
entrambi che non fu così!-.
-Ah!- risi. –Questa mi è
nuova…- blaterai.
-Io fuggii, Elizabeth e il suo bambino no
perché in loro il trauma fu più forte,
più intenso. In loro il Virus che colpì la gente
nell’69 fu dieci volte più potente del mio, ma
questi fattori, questi numeri in più andarono a consumarsi
in tutti quei tentativi di estrarne
qualcos’altro…-.
-Perché dici di essere uno di loro?-.
Walker sospirò.
–Perché imboccando mia figlia al progetto Gabriel,
sapevo benissimo incontro a chi e nelle mani di chi la
consegnavo…-.
-In mano alla Black…-.
-Sì!- mi anticipò.
–In mano loro!-.
-E adesso te ne penti?-.
-Se non l’avessi fatto a
quest’ora sarebbe già morta-.
-Come fai a dirlo?-.
-Il Virus… come ha preso sua madre,
avrebbe preso anche lei-.
-Quand’è successo a tua
moglie?-.
-Poco dopo la sera in cui Lewis la
portò via assieme al resto della squadriglia 190esima dal
People Pub…-.
-Di che stai parlando?!- sbottai circospetto.
Mark fece un gesto con la mano. –Non
puoi saperlo, e queste sono davvero cose che non ti riguardano-
azzardò una brevissima pausa distogliendo i suoi occhi dai
miei, ma quando essi tornarono a congelarmi del loro azzurro
così intenso e splendente, l’accento nella sua
voce divenne ancor più serio: -Adesso dimmi di Max-
sbottò. –‘Sta bene, vero?-.
Annuii.
-E…-.
-Lisa è morta- lo informai
schiettamente. –Tua figlia, Emily, l’ha uccisa per
sbaglio mentre combattevamo…- mi lasciai sfuggire.
L’uomo, a differenza di quel che
immaginavo, non parve per nulla stupito. –Lo so- disse.
–Vi ho visto, quella sera…- aggiunse in un
sussurro.
-Com’è possibile?!- scattai
in avanti, ma a tale gesto un cacciatore volante alle spalle di Mark
mostrò i denti sfogandosi in un possente ruggito,
intimandomi di indietreggiare. E così feci.
-Non solo il legame che ho con loro- disse
indicando le sue creature –mi permette di vedere attraverso i
loro occhi, ma quando combatte, quando va a caccia, quando salva i sani
e li porta alla base procedendo con la manovra di soccorso, quando
spiega le sue ali…- assentì affranto.
–Io ci sono sempre- aggiunse con la voce incrinata
dall’emozione di pronunciare simili parole, rimaste allungo
solo vani pensieri.
Parlava di sua figlia, e di come durante tutte le
sue escursioni a Manhattan le fosse stato sempre accanto, soprattutto
quando era lei a non accorgersi della sua presenza.
******
D’un
tratto ebbi una vana sensazione di sentirmi chiamare; mi voltai e vidi
solo un’ombra muoversi nell’oscurità di
un vicolo che avevamo da poco passato, continuando a dirigerci verso il
centro abitato. -Siamo sicuri che siano andati di qua?- chiese Lucy.
-Il mio naso
dice così! Se il tuo ha qualcosa in contrario dillo adesso!-
eruppe Harry.
-Va bene,
scusa…-.
Ero rimasta
indietro mentre i due ragazzi proseguivano oltre l’incrocio
attraversando sulle strisce; peccato però che da quelle
parti non passava un’auto da mesi.
I semafori
erano spenti, altri distrutti. Le pareti dei palazzi mangiati da
tentacoli neri e rossi e avvolti dalla solita puzza di Virus. Mi
guardai bene le spalle allontanandomi da quel vicolo e accelerando il
passo.
-Ehi,
aspettatemi!- chiamai.
-Emily, ora
resti anche indietro?!- fece lui infastidito vedendomi arrivare di
corsa sul marciapiede opposto.
-Scusate,
ma… mi era parso di vedere…-.
-Perfetto!-
Lucy alzò il occhi al cielo. –Ora hai anche le
visioni!-.
******
-Se le vuoi così bene…-
pronunciai io. –Perché non vai da lei e la porti
via da quel posto?- chiesi. –Hai idea di quante sofferenze
nascano e crescano in quella base? Un’idea
dell’Inferno che ha passato quella ragazza vendendo
così il suo corpo? Che razza di padre farebbe mai una cosa
simile?-.
-Era l’unico modo…-.
-Per fare cosa?!-.
-Per salvarla…-.
-Da chi?!- insistei.
-Dalla Blackwatch!- ruggì lui.
–Quando me la portarono via, quando la rapirono ancora
bambina, temevo che sarebbe stata la fine, che avrebbero scoperto che
razza di occasione era capitata loro tra le mani! Fu un caso che
scelsero lei, nessuno sapeva chi fossi io e cosa poteva aver ereditato
da me! Nonostante ciò, l’indisposizione al Virus,
all’impianto, smontò nei Blackwatch ogni ideale su
di lei, e l’abbandonarono alla corta esistenza che le restava
da vivere. All’interno degli esperimenti che condussero su di
lei, solo due uomini si accorsero del male che la mia Emily aveva nel
sangue. Solo due su un milione si accorsero di che genere di gene
straordinariamente potente serbava nel suo sangue! Costoro erano
Maximilian Taylor e Lewis Martin, laureati con me al College con la
lode in scienze genetiche mutanti…-.
-Continua- lo esortai.
Mark mi si avvicinò con cautela,
fissando un punto nel vuoto oltre le mie spalle. –Max ed io
avevamo un ottimo rapporto, eravamo sempre stati grandi amici, grandi
colleghi… fu il mio desiderio di entrare in aeronautica a
dividerci, per il resto eravamo come fratelli. Ma Lewis…-
sospese lì la frase, lasciandomi intuire tutto il resto
prima che potesse riprendere il discorso. –Lewis era il
cancro della nostra classe di scienze al liceo e la pecora nera nel
branco del College. Credeva molto sulla possibilità che un
giorno, non molto più tardi di due anni fa, un virus letale
avrebbe preso piede sul pianeta e mietuto miliardi di vittime. Era
così bramoso di potere, che se non ci avesse pensato qualcun
altro prima di lui, sarebbe stato Martin stesso a far esplodere
l’epidemia. Quando la Blackwatch lo contattò in
segreto, promise il posto di lavoro anche a Max, che in
quegl’anni vagabondava come un disperato alla ricerca di un
mestiere fisso mentre io, promosso già come ufficiale alla
marina, mi sudavo sette camice per mettere in piedi una famiglia,
nonostante il… “difetto” che mi
trascinavo addietro. Giusto pochi anni prima ci fu
l’incidente. Fuggii, appresi subito cos’ero
diventato e imparai a governarlo. Quando tornai
all’aeronautica, fu una tale vittoria scoprire di poter
risultare negativo a qualsiasi tampone a piacimento-.
-Cosa accadde dopo?-.
Gli sfuggì un sorriso. -Comparisti tu-
disse guardandomi. –Abbandonati gli esperimenti su mia figlia
e su altri precedenti cavie, la Blackwatch trovò te e ti
rese ciò che sei, ciò che ti piace tanto essere-.
-Non mi piace ciò che sono- digrignai,
sentendomi profondamente offeso.
-Se conosci Max, deve per forza averti fatto
tante di quelle prediche sul fatto che la tua è stata una
scelta, quella di diventare tutto questo-.
-Non ci posso credere!- alzai gli occhi al cielo.
–Anche tu!-.
Marck scoppiò in una fragorosa risata.
–Ti rammento che fu Max il primo a sapere del mio segreto, ed
io gli parlai per la prima volta dell’eventualità
di una vita normale che mi si era proposta davanti. Sono stato io a
fare di ciò che ti ha detto, una profezia- arrise.
Scossi la testa guardando a terra, mentre a
stento riuscivo a tenere le labbra strette per via della risatina che
mi saliva lo stomaco. –Cos’accadde a Lewis?-
domandai sollevando il mento dal petto. –Perché
è a capo del progetto Gabriel? E cosa c’entra con
tua figlia?-.
Il vecchio pilota d’aeri
sospirò. –Come ti ho detto la Balckwatch prese lui
e Max con sé. L’inglobò entrambi nel
progetto, ed entrambi inizialmente ne furono entusiasti. Non appena Max
scoprì di mia figlia, ed ogni cosa che la riguarda,
lasciò gli esperimenti dando le dimissioni. Deve ringraziare
il cielo se in tutti questi anni nessun cecchino si è
appostato davanti casa sua. Lewis, invece, rimase. Da Emily
risalì direttamente a me, ma non appena seppe riconoscere
ciascuno degli anelli della catena che ci teneva uniti, anche lui
lasciò il progetto…- fece una pausa –ma
con scopi ben più subdoli…-.
-Ah, ecco- ridacchiai. –Mi sembrava
strano…-.
-Lewis lasciò il progetto, ma non
esitò un solo istante a firmare il contratto propostogli dal
Presidente che lo nominava responsabile del Gabriel!- espose.
-Ora è tutto chiaro-.
-Aspetta, c’è
dell’altro…-.
-Emily?-.
-Esatto. Lewis ed io c’incontrammo
nella basa dell’aeronautica due anni prima l’inizio
del settore Angeli. Mi parlò del progetto come un Messia
narra della Bibbia! Sembrava così entusiasta, e
all’inizio lo fui anch’io come lo era Max. Ma a
differenza del mio amico, sapevo fin dall’inizio quali piani
malvagi Lewis serbasse fin dal principio. Quella sera stessa mi
ricontattò per telefono, ero a casa, circondato dalla mia
famiglia. Emily compieva a breve vent’anni e si avvicinava il
natale. Quanto vorrei non aver mai risposto a quella
chiamata…-.
-Cosa accadde?- domandai amareggiato.
-Alzando la cornetta, il suono della voce di
Lewis fu come uno stiletto in pieno petto. In principio volle me. Mi
disse di sapere tutto quanto, di conoscere cosa avessi di tanto anomalo
nel sangue. Come qualsiasi persona avrebbe fatto al mio posto, negai
l’evidenza, ma non appena Martin accennò a mia
figlia e agli esperimenti che aveva personalmente condotto su di
lei… le mie difese… crollarono. Mi
rassicurò dicendo che non avrebbe fatto parola con nessuno
della Blackwatch di tale scoperta, così come il segreto era
andato avanti fino ad allora. Mi fidavo di lui. Come uno sciocco, ma mi
fidavo. Il suo silenzio, però, aveva un prezzo. E quel
prezzo era uno dei due-.
-Tu o…-.
-…Lei- concluse il pilota.
-Perché non andasti tu?- sbottai.
–Era tua figlia, no? Un po’ di bene gliene volevi,
no?!-.
-Se Lewis avesse fatto di me un Angelo, ora
saresti già morto, Mercer- fu la sua risposta.
Sbiancai, diventando più bianco di
quanto lo fossi di solito. –Tu dici?-.
Mark annuì. –Non accettai
subito le sue condizioni- disse riallacciandosi al discorso.
–Mi presi del tempo, forse troppo, perché le
chiamate continue e la presenza sempre più assidua di Lewis
nella mia vita fece insospettire entrambi i membri della mia famiglia.
Quando il Virus comparve a Manhattan… ci fu la goccia che
fece traboccare il vaso. Ero lì per accettare, lì
per consegnarmi nelle mani di Lewis che stava mettendo su la
più grande organizzazione poliziesca mai esistita,
perché d’altronde… gli Angeli non sono
altro che pubblici ufficiali, come i carabinieri, le guardie svizzere,
e i “mangiatori di ciambelle”-
ridacchiò, alludendo alla polizia newyorchese.
-Ma poi?-.
-Ma poi…- sospirò.
–Le mie attività militari mi tenevano troppo
impegnato, e cominciai a fare di questo pretesto una scusa pur di
rimandare, rimandare e rimandare… ma poi? Già,
poi… poi ci fu l’incidente, dove rimase coinvolto
anche un certo Cole Turner, non so se ne sai qualcosa, fatto sta
che… avvertendo le forze venirmi meno, mentre tutti quei
cacciatori mi accerchiavano, ho fatto l’unica cosa che
potesse garantire una salvezza a questo modo per mia figlia. Sul
baratro tra la vita e la morte, ho visto nelle ricerche e i traguardi
del Progetto Gabriel l’unica opportunità che
potevo offrire ad Emily di sfuggire al Virus… ma prima di
tutto, a sé stessa-.
Rimasi allungo in silenzio, combattuto tra la
verità di quelle parole e il dolore mescolato al rimorso
delle mie azioni. I cacciatori alle spalle di Mark ostentavano in
quello stesso mutismo colmo di rispetto per il loro padrone.
-Perché un tuo cacciatore ha cercato
di ucciderla, allora?-.
-Hmm?- fece distratto.
-Quella volta, al porto…- insistei
dubbioso. –Una delle tue bestie ha attaccato tua figlia. Sono
dovuto intervenire- dissi.
-Non so di cosa stai parlando- sembrava sincero,
e sconvolto soprattutto.
-Che buffo- constai.
-Sì, parecchio. Le mie creature non lo
farebbero mai di loro spontanea volontà, e non
c’è cacciatore volante che sfugga al mio
controllo. Sono i miei burattini, li ho creati io!-.
-So per certo quello che ho visto!- ribadii.
–Non essere dubbioso di questi occhi-.
-Non sono dubbioso, Alex-
s’irrigidì. –Quello che mi hai appena
detto mi porta ad una sola conclusione-.
-Quale?-.
-La Blackwatch sa di me-.
-Impossibile, o sarebbero già qui! E
poi cosa c’entra?! Senza contare il fatto che quei bastardi
si sono istinti, li ho uccisi tutti, te lo garantisco-.
-Ti sbagli di grosso. Sia Lewis che Max sono
ancora vivi, e come loro molti altri possono sapere qualcosa che non
sappiamo!- dichiarò lui, e non aveva tutti i torti.
-E allora cosa facciamo?- chiesi con maggior
calma.
-Dobbiamo andare da loro-.
-Da chi?!- feci nervoso.
-Da Lewis e chiunque sia coinvolto in questa
storia!-.
-E tua figlia?-.
-Emily deve starne fuori, e Lewis finalmente
pagherà per quello che ha fatto-
s’incamminò verso di me e fece per sorpassarmi, ma
lo afferrai per un braccio costringendolo a voltarsi.
Ci fissammo allungo negli occhi.
–Perché hai aspettato tanto a rivoltarti contro di
lui?- domandai schietto, rigido quanto lui. –I tuoi poteri ti
consentono di generare creature colossali e impadronirti della loro
mente. Perché non hai ucciso Lewis molto tempo fa?- insistei
col tenerlo stretto, e Mark non se lo fece ripetere.
-Aspettavo qualcuno abbastanza forte e motivato
quanto me-.
-Chi?-.
-Te-.
Rieccoci!
Ah! Che bello! Sono soddisfatta in una maniera
abnorme di questo capitolo! L’incontro tra Alex e il padre di
Emily l’avevo in mente fin dall’inizio della
storia, e le varie fasi di questo secolare dialogo le ho rivedute e
controllate diverse volte. Diciamo che di novità da
aggiungere alla trama ce ne sono parecchie. Lewis quindi è
sempre stato qualcuno da eliminare, però Alex l’ha
sempre ignorato per via della mancanza di collegamenti che poteva avere
col progetto Balckwatch. Il futuro si prospetta interessante, le
vicende si articolano in una maniera che neppure io ritenevo possibile,
e sono molto fiera di questa storia! La prima tra tutte che
riuscirò a concludere con una trama concreta e sensata! XD
Bhé! Di sensato forse ha ben poco, ma paragonandola a quella
di Prototype (che secondo me è intricatissima, peggio di
tutte! XD) non si ha certo un confronto tanto stretto.
Bene, allora pregherò
perché anche questo medesimo sclero della mia subdola
fantasia vi sia piaciuto. Vi attendo come al solito nei commenti e nei
prossimi capitoli sino alla fine! *eroe* A presto, amici! ^^
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Capitolo 25 *** Capitolo 25° - Le stelle tornano sempre ***
Capitolo 25°
- Le stelle tornano sempre
[:.
Alex .:]
-Perché
non vuoi immischiare tua figlia in questa storia?- domandai pacato
mentre ci dirigevamo a piedi fuori dalla galleria. Una volta in strada,
emersi dall’oscurità del tunnel, mi voltai
adocchiando per un istante alle nostre spalle, accorgendomi con stupore
che i tre cacciatori fedeli a Mark ci seguivano come ubbidienti
cagnolini da caccia.
Il
vecchio pilota d’aerei stava al mio fianco, ed ad una
distanza di un braccio l’uno dall’altro, puntavamo
entrambi verso il centro di Manhattan e oltre. Probabilmente con
destinazione il porto ovest, per poi giungere sulla costa
dall’altra parte dell’Hudson e infiltrarci
così nella base degli Angeli.
-La tua
è una domanda così stupida…-
borbottò l’uomo guardandosi attorno mentre
traversavamo la strada sulle strisce pedonali.
Il
silenzio, l’immobilità del tardo pomeriggio
facevano di Manhattan la loro preda soprattutto in quelle ore del
giorno. Quando cacciatori di piccole o medie taglie si rintanavano nei
propri buchi per poi balzare fuori non appena fosse calata del tutto la
notte. In lontananza le grida e le esplosioni di una guerra tra
militari e infetti, ma noi puntavamo tutt’altra parte.
-Se
è potente quanto te…- mormorai –il suo
aiuto potrebbe farci comodo, non pensi?-.
Mark si
fermò all’improvviso fissando un punto nel vuoto
dinnanzi a sé.
-Sai
che non ho torto- insistevo. –lasciare che continui a
lavorare per Lewis, anche se per quel tempo che gli resta da vivere,
è rischioso. Dovresti sapere bene che lei e la sua
squadriglia mi danno la caccia da giorni, e…-.
-Sssh!-
mi azzittì d’un tratto.
Inarcai
un sopracciglio. –Che c’è?- domandai
guardandomi attorno.
Non
ottenni alcuna risposta da lui, piuttosto due dei tre immensi
cacciatori volanti alle nostre spalle balzarono in avanti con un salto
e intrapresero una corsa lungo la strada, dirigendosi di gran fretta
chissà dove. Uno di loro ruggì, mentre il terzo
svoltava alla nostra destra perdendosi in volo tra i grattacieli e i
palazzi distrutti.
-Che
succede?!- chiesi sconcertato.
-È
qui- assentì lui in un sussurro voltandosi verso di me.
–E ti sta cercando-.
-Chi,
Emily?-.
L’uomo
annuì indietreggiando di alcuni passi. –Non dirle
nulla…- aggiunse riducendo gli occhi a due fessure.
–Non deve sapere niente di me… e di quello che
sono-.
-Cosa?!-
feci scettico. –Aspetta, dove stai andando?!- mi sporsi verso
di lui.
-Raggiungimi
al porto. Ti aspetto da Max quando l’avrai seminata,
ma… Non farle del male… E non dirle assolutamente
nulla… Insomma… Sii te stesso come se non mi
avessi mai incontrato!- ironizzò.
-Quindi
non t’importa se è lei quella che prova a farmi il
culo a strisce ed io non posso toccarla con un dito!-.
-Esattamente!-
rise. –Visto? Sono o non sono un buon padre?- mi
lanciò un’occhiata divertita.
Abbassai
un secondo gli occhi, guardandomi le scarpe. –Oh,
sì, certo! Il padre che tutti desiderano!-
-Arriva!
‘Sta in guardia…- disse solo, poi Mark
sparì avvolto dal buio di un vicolo, dissolvendo la sua tra
le ombre dei cassonetti.
Se un
tempo dubitavo di chi aveva tentato di darmi ordini, quel tempo
sembrava essere tornato. Il fatto che Mark stesse tenendo tutto
così nell’anonimato a sua figlia mi turbava e
parecchio. Nonostante questi dubbi e assillanti pensieri, decisi
comunque di darmi da fare perché la messa in scena
proseguisse come da copione.
[:.
Emily .:]
Svoltai
l’angolo, sparendo per alcuni istanti
nell’oscurità di quella strada, completamente
avvolta dalle tenebre. Mossi alcuni passi nel buio, tenendomi con le
spalle contro la parete di mattoni di quel vicolo. I cassettoni
sbrindellati dell’immondizia erano tracce della venuta di
alcuni cacciatori, mentre altri si erano radunati ai piedi della
palazzina di fronte, cibandosi di ciò che restava del corpo
sano di una donna. Mi tenni a distanza dal branco, indietreggiando sin
quando non avvertii il vuoto oltre le mie spalle, rendendomi conto che
in quel punto ricominciava il marciapiede, che costeggiava entrambi i
lati della strada.
Fu
improvvisa la sensazione di captare la sua presenza, non di molto
distante dalla mia. Stimavo al massimo un isolato o due, fatto sta che
non avrei mai dimenticato o perso il contatto con quel penetrante e
così arcinemico profumo. Avrei saputo riconoscere
un’essenza del genere anche in mezzo a centinaia di altre. La
sua era una composizione così intricata del virus, che
potevo dire fosse quasi semplice accorgersi della sua vicinanza.
Una
volta in strada mi apprestai a controllare per bene tutto il mio
equipaggiamento, pezzo dopo pezzo. Tralasciai le armi, scariche e a
corto di proiettili preferendo combattere alla vecchia maniera.
Tramutai il mio braccio, ben conscia che un tale gesto avrebbe
sicuramente attirato la sua attenzione su di me nonostante la distanza.
Uno come lui poteva sentire e contare i passi di una formica; come non
accorgersi della mia presenza così come io mi accorgevo
della sua?
Allargai
per bene gli artigli, addobbandoli di quei fasci sanguinei e truculenti
che avvolsero tutto il mio braccio. Sul mio viso si stampò
una smorfia di tale rabbia mista ad un vigore mai provato, assieme ai
tremiti continui che mandava il mio corpo al ricordo della morte ( e la
rispettiva causa ) di Cole.
-Alex
Mercer- fu un gesto involontario quello di pronunciare il suo nome
quando l’avevo solamente immaginato nella mia testa, morto,
ai miei piedi, con tutti e cinque i miei artigli piantati nel petto. La
mia fantasia si sbizzarrì allungo nel tragitto che percorsi
quasi correndo, dirigendomi con passo spedito verso la provenienza di
quel profumo.
Quando
giunsi alla radice, risalendo alla madre di quella scia tanto odiata,
sorpresi Mercer di spalle, a fissare un punto nel vuoto dinnanzi a
sé, dove l’oscurità di un vicolo
sembrava aver inghiottito i suoi sensi sempre vigili.
Prima
che riuscissi a colpirlo, aggiungendo alla mia forza uno straziante
gemito, Alex si voltò e fermò con una presa
poderosa il mio braccio ancora in aria. La sua mano si strinse attorno
al mio polso con quel tanto di vigore che bastò per
lasciarmi scappare un sussulto al cuore. I suoi occhi, celati
nell’ombra del cappuccio, mandarono una scintilla diversa dal
solito, quasi cogliermi lì fosse più un piacere
che una sorpresa. Le sue labbra si tesero in un sorriso che mi
lasciò di molto interdetta, esitante dinnanzi a tanta
confidenza.
-È
morto, vero?- esordì lui con voce atona.
Strinsi
i denti.
Era
riuscito a fiutare il mio dolore.
Parlava
di Cole.
La mia
vendetta era stata scoperta, messa in bancarella.
Eppure
non risposi.
-Anche
lei- fu la sua affermazione con stesso tono pacato, ma un qualcosa nei
suoi occhi mi sussurrava quanto gli fosse costato ammetterlo
pubblicamente dinnanzi al suo nemico.
Diventai
tutta un sasso, mentre un brivido mi correva lungo la schiena al
ricordo della sua ragazza le cui carni erano state traversate per
errore dai miei artigli. Gli stessi artigli che ora pendevano in aria a
poca distanza dal suo bel faccino bianco, e che avrebbero potuto (se
l’avessero voluto) graffiarlo come un gatto fa col divano
nuovo della padrona.
Cosa
cercava di dirmi con quelle parole?! E cosa credeva di ottenere
pronunciandole?! Se immaginava che ricordarmi la nostra
parità di debiti di vite fosse un buon motivo per
risparmiargli la vita, si sbagliava di grosso! Aveva ucciso
l’uomo che amavo, ed io avevo forse sottratto lui la stessa
cosa! Ma non poteva ancora permettersi certe libertà con me,
l’essere che più dovrebbe temere a questo mondo!
Non
appena tali pensieri presero piede nella mia testa, sollevai un
ginocchio colpendolo di sorpresa al costato. Nonostante la botta, e il
lamento che gli sfuggì di bocca, Alex non lasciò
mica la presa sul mio polso, ma la indebolì quel tanto che
mi bastò per riuscire a muoverlo. Avventai gli artigli sulla
sua spalla, aprendogli uno squarcio non molto profondo.
Dopodiché fui io a stringere la sua mano, contorcendogli
successivamente il gomito dietro la schiena, tutto ciò
nell’arco di un secondo. Una volta in mia totale balia,
riuscii quasi a farlo inginocchiare e, quando ci riuscii, compattandolo
a terra come si fa con una lattina, mi appoggiai a lui mormorandogli
all’orecchio: -Le tue ultime parole, stronzo?!-.
Non
ottenendo un’immediata risposta come avrei voluto, invece di
concentrare le mie forze nel tenere prigioniero il suo braccio dietro
la sua schiena, tramutai il mio sinistro in cinque artigli,
affondandoli successivamente nella carne del suo fianco. Penetrai le
ossa, i muscoli, qualsiasi tipo di tessuto o tendine. Lacerai quanta
più superficie della sua milza mi fu possibile pur di
arrecargli quel dolore che sentii scorrergli nelle vene subito dopo.
-Parla!
Voglio sentire la tua voce, avanti!-.
-Se mi
uccidi- finalmente si era deciso a parlare –farai scontenta
una persona a te molto cara!- disse senza ribellarsi. Accecata
dall’ira non feci subito caso alle sue parole; sapevo bene di
che genere di tattica si trattava la sua: racimolava forze nel
tentativo di poterle espellere tutte in una volta.
Magari
avrebbe… ehi… un attimo!
O.O
-Di chi
parli?!- sbraitai dandogli uno scossone.
Alex
voltò leggermente il viso verso di me, e guardandomi negli
occhi con apprensione, strinse i denti e pronunciò: -Tuo
padre-.
[:.
Alex .:]
Forse non avrei
dovuto… pensai.
La
situazione aveva preso una piega inaspettata, e per un attimo avevo
pensato di poterla contrastare, di poterla ferire… ma poi mi
erano passate davanti le ultime volontà di Mark prima che si
allungasse verso il porto. Volontà, a quanto pare, che ho
rispettato solo in parte… un fifty-fifty che avrei potuto
benissimo evitare.
E
allora cosa mi aveva spinto ad agire in quel modo, quando sapevo che
immobilizzarla e indebolirla il sufficiente perché se ne
tornasse alla base come un cane bastonato sarebbe stata la cosa
più logica e… semplice da fare! Le
capacità per metterla K.O. le avevo anch’io! E
l’idea che Emily mi considerasse un nemico di poca portata,
non al suo livello, mi faceva perdere la testa, soprattutto in questi
momenti, quando si è in bilico tra la destra e la sinistra,
tra l’alto e il basso.
-Mio…
padre?- mormorò lei del tutto colta in contropiede dalla mia
affermazione. Vidi il terrore, l’ansia, il dubbio prendere
forma sul suo viso così come nei suoi occhi azzurri
più dei miei, che si riempivano di sconforto.
-Sì,
Emily…- sussurrai inclinando la testa. –Tuo padre,
Mark Walker…- presi fiato. –E’ vivo- le
annunciai in fine.
L’Angelo
ritrasse ogni offensiva, indietreggiando e poi cadendo a terra di
sedere, cercando di allontanarsi da me strisciando. Quando si
fermò fu solo per fissarmi con gli occhi sgranati. Qualcosa
in me doveva averle mostrato che non stavo mentendo, forse i suoi
assurdi poteri le conferivano anche questa caratteristica, oppure le
stava accadendo quello che pregai, sollevandosi in piedi, non stessa
accadendo.
[:.
Emily .:]
Al
suono di quel nome, nella mia testa presero ad agitarsi voci, suoni
confusi e fortissimi. Credevo di star impazzendo, ma invece,
indietreggiando e poi finendo culo a terra per quello che stavo
guardando, ovvero la verità, il buio e poi una serie di
infiniti fasci rossi e neri riempirono il mio campo visivo.
E’
una solare giornata di sole.
Il
mare, i gabbiani in cielo, la spiaggia, la gente in costume da bagno
passeggia lungo la costa o si stende su teli da mare per abbronzarsi.
C’è
una bambina dai neri capelli che corre verso un ombrellone sotto il
quale dimora una donna.
-Mamma!
Mamma! Guarda, guarda!- è entusiasta della bellissima
conchiglia arricciata che ha in mano. –E anche questa!-
mostra alla madre che si solleva gli occhiali dagli occhi anche una
stella marina secca.
-Aaaah!-
strilla la donna. –Emily, getta via quello schifo!- ridacchia
la donna.
-Mamma,
dai! E’ secca, vedi?!- arrossisce la bambina.
-Sìsì,
come vuoi, ma vedi di sbarazzartene. Uh! Ecco il gelato!- dice la donna
indicando un uomo che si avvicina all’ombrellone con due coni.
-Fragola
e cioccolato alla mamma- egli ne porge uno alla donna.
–Llimone e pistacchio alla sirenetta!- gioisce
l’uomo.
Emily
afferra il cono ma è costretta a poggiare stella e
conchiglia sull’asciugamano della madre, che appena se ne
accorge rimprovera la bambina di spostare quella roba da lì.
Emily
cerca di qua cerca di là, ma l’unica cosa che
resta è la conchiglia. La stella è sparita.
-Mamma,
no! La stella è scappata!- si lagna.
-Oh,
bhé, sarà tornata dalla sua mamma- risponde la
donna gustandosi il suo gelato.
-Oppure
dal suo papà- ridacchia l’uomo, avvicinandosi alla
bambina.
-Uffa,
mi piaceva la stella…- sbuffa la piccola. –Faceva
paura alla mamma!- ride.
-Emily,
sai cosa fanno le stelle?- le domanda col sorriso sulle labbra il padre.
Emily
arriccia il naso. –No, cosa?- si siede sul telo stringendo
forte la sua conchiglia.
L’uomo
sorride. –Durante il giorno se ne vanno perché il
sole le nasconde dietro l’oro dei suoi raggi, ma la
notte…- avvicina una mano al viso della bambina e, come per
magia, quando volta il palmo, sulla sua pelle è stesa la
bellissima stella marina. –Tornano- dice porgendo la creatura
alla bambina. –Sempre.-
-Sì!
Sì! Le stelle tornano sempre, papà!- è
felice Emily che comincia a giocherellare con la stella e la
conchiglia. –Le stelle tornano la notte… sempre-
continua a ripetersi, mentre papà e mamma si scambiano un
bacio affettuoso.
-Le
stelle…- mormorai con gli occhi in lacrime.
–Tornano… sempre…- schiusi la bocca non
riuscendo quasi a respirare per l’emozione. In balia del
pianto cominciai a tremare tutta, e quelle parti del mio corpo
tramutate tornarono normali mentre mi stringevo le ginocchia al petto,
con la schiena contro i detriti di una vecchia macchina scaraventata in
mezzo alla strada. –Le stelle, papà, tornano
sempre…- continuavo a ripetere. Ero letteralmente impazzita,
perdevo il senno, per di più dinnanzi al mio arcinemico che
nel frattempo si gustava la scena guardandomi dall’alto.
Alex si
era alzato in piedi ed era rimasto immobile, composto. La sua ombra si
allungava al mio fianco, i suoi occhi scrutavano i miei grondanti di
lacrime con un che di compassione, di pietà.
Stelle? Di cosa parli?
Riuscii ad immaginarmi cosa stesse pensando, ma nonostante
l’umiliazione e l’assurdità di quella
situazione, continuavo a piangere senza freno.
Mio
padre era vivo, aveva detto, ed io gli credevo perché sapevo che non
aveva prove per dimostrare il contrario. Di conseguenza sentivo che era
sincero. Persino l’odore che emanava poteva dirmi se si
trattasse di una balla, unica per liberarsi di me così
facilmente. Se fosse stato quello il suo piano fin
dall’inizio, sarebbe riuscito nell’intento. Anzi.
Era riuscito nell’intento di rendermi inoffensiva, debole,
quel tanto che gli bastava per uccidermi se l’avesse voluto.
Ero
debole. Debole davanti all’uomo che mi aveva rivelato la
realtà, aperto gli occhi su ciò che non avevo
minimamente considerato fin da quando Cole mi parlò di mio
padre, quella volta che finimmo per andare a letto insieme.
-Come
sai che non sto mentendo?- chiese Mercer cupamente.
Tirai
su col naso, ma non risposi.
[:.
Alex .:]
Ormai
il danno è fatto. La porto ora dalla mia parte prima che
torni in sé e si renda conto che può trattarsi di
una trappola.
Mi
avvicinai a lei con lentezza. –Emily, tuo padre è
vivo. Dopo l’incidente è sopravvissuto
è ha trasmesso quella comunicazione; solo allora se ne
perdono le tracce-.
-Lo
so…- gemette la ragazza. –Lo so che è
sua la voce in quella registrazione… lo so!- mi
gridò contro.
Capivo
il suo dolore, in un modo o nell’altro riuscivo a sentirlo.
[:.
Emily .:]
Mi sta usando. Vuole qualcosa da
me, ma cosa?! O non avrebbe sparato una tale cazzata! E
intanto continuavo a piangere.
-Cosa
vuoi?- gli chiesi in fine asciugandomi gli occhi, ma mi tremava il
braccio.
-Ah!-
rise con isterismo. –Cos’è che vuoi TU
da ME! Sbaglio o sono io quello su cui pende una taglia sulla propria
testa?!- eruppe infastidito.
-Come
se fosse colpa mia se vai in giro ad uccidere la gente! Cibandotene a
mo’ di pane per la tua mente!- ribattei con violenza.
–So perché lo fai! So che è il vuoto,
la fame che provi nell’aver perso la memoria a spingerti a
simili gesti! Lo so!-.
-Come?!-
strillò lui.
Scattai
in piedi. –Perché sono come te!-
confessai, risalendo al principio della fine, e precipitando nel
baratro dell’inizio.
Guardai
i suoi occhi stemperarsi di quella poca lucidità che
portavano con sé. Le sue spalle persero compostezza,
tirò la testa leggermente indietro, come sopraffatto da una
nuova verità così ovvia che gli avevo gettato
sulla faccia così come lui aveva fatto con me pochi istanti
prima.
Cos’ho
fatto?…
Avevo
commesso il più grande errore della mia vita.
L’unico tra tutti che dovevo evitare, la clausola che mi
teneva in vita, la costrizione per Lewis affinché potesse
usarmi per i suoi scopi a fin di quello che consideravo il bene.
-Cosa…
cosa intendi?- sussurrò senza altre parole.
Lo
fissai allungo nell’oblio delle sue pupille, e lui fece
altrettanto. Il mio cuore perse uno, due colpi, rallentando a tal punto
da potersi dire silenzioso. –Uguali, di materia, di sangue;
il nostro composto è simile a tal punto da poter essere
l’unica cosa che garantisce la distruzione
dell’altro- mormorai sfuggendo al suo sguardo subito dopo.
-Vuoi
dire che… l’unica cosa che può
uccidermi sei…- mi puntò il dito contro ed annuii
ad un gesto muto ma chiaro.
…Tu.
-Ma il
concetto è reciproco, non spaventarti- risi con isterismo
dandogli le spalle. Mi misi a braccia conserte e chiusi gli occhi
cercando di ordinare i pensieri, tentando con quel gesto di
nascondergli l’imbarazzo di essergli scoppiata in lacrime
davanti. –Come sai che mio padre…?- non riuscii a
terminare la domanda.
-Ora
capisco…- assentì invece lui,
tutt’altra parte coi suoi pensieri. Si prese del tempo per
sé, ragionando a modo suo, rielaborando le mie parole, e fu
così che Alex esitò qualche istante prima di
rispondere. –Io e lui… abbiamo avuto una
discussione giusto poco fa, prima di incontrarti- ammise, e farlo gli
costò parecchio.
Scattai
sull’attenti. –Dove?!-.
-I
sottopassaggi a sud- indicò l’orizzonte, i
detriti, i fumi e i grattacieli distrutti di Manhattan lungo la strada.
–Era lì che si nascondeva, ma probabilmente non da
sempre-.
-Cosa
c’entri tu con mio padre?! E di cosa avete parlato?!- allo
sconforto si sostituì ben presto la collera.
-Di te,
della Blackwatch e del Settore Angels. Se ciò che mi hai
detto è vero, se siamo uguali, questa composizione non
è casuale. Emily, posso ben immaginare che dopo avermi
ascoltato, sarà per te semplicissimo…
comprendere, perché è una cosa che sospettavi
già da tempo, ma avevi paura di ammettere-.
Ora
toccava a me fare la parte della confusa. –Di cosa parli?-
mormorai.
-Lewis
Martin ti ha ingannata- disse con severità. –Ti ha
portata dalla sua parte perché lui è un
Blackwatch-.
Sbiancai.
–No, la Blackwatch è caduta, lui mi ha detto
che… no, menti!- sbraitai.
-Emily,
pensa a tuo padre! La sua versione dei fatti, solo la sua è
quella vera, quella che smentisce tutte le altre! Ti prego di
ascoltarmi!-.
-Perché
all’improvviso piombi qui e pensi di potermi ingannare come
una stupida, eh?!- gridai bollente di rabbia. –Basta, non ti
sopporto più, facciamola finita una volta per tutte!-.
-NO!-
prima che riuscissi a tramutare le braccia in armi letali pronte al
combattimento, Alex si lanciò in avanti verso di me e,
immobilizzandomi, mi sbatté contro il cofano della macchina
alle mie spalle.
-Emily,
ascoltami!-.
-Ci ero
quasi cascata! Ci avevo quasi creduto!- cominciai a scalciare e
dimenarmi sotto di lui, la cui forza pari alla mia riusciva a tenermi
ferma il necessario per poter avvicinare il viso al mio.
-Tuo
padre, un mio caro amico e Lewis Martin si conoscevano fin dalla notte
dei tempi, quando la Blackwatch assoldò questi ultimi ai
loro scopi! Maximilian Taylor, il padre della ragazza che hai ucciso
davanti ai miei occhi! Ti dice nulla questo nome?!-.
-NO!!-
strillai a squarciagola.
-Conosci
almeno la versione completa dei fatti, no?! L’incidente, e
tutto il resto!-.
-Sì,
brutto stronzo! Ed è colpa tua se il virus è
arrivato fuori da Manhattan! Hai contagiato i sani con la tua
scampagnata nella nostra base, pezzo di merda!-.
Alex
scosse la testa. –Max aveva previsto che Lewis avrebbe usato
questo pretesto…-.
-Pretesto?!
PRETESTO?! Per colpa tua sono morte migliaia di persone! E ancora ne
moriranno!- ero fuori di me, accecata dall’odio improvviso
per quell’uomo senza scrupoli che osava accusare la mia
Divisa.
-Sforzati
di ricordare, Emily! Come successo poco fa! Puoi farlo! Puoi vedere con
i tuoi occhi!-.
-NON
VADO A COMANDO QUANDO TI FA COMODO!-.
-E
allora faremo a modo mio! Ah!- gli sfuggì un gemito quando
parte della sua mano, tramutata in cinque poderosi artigli, mi passo il
petto da parte a parte.
Il mio
sangue si mescolò al suo, e per un attimo credei che avesse
ingaggiato battaglia, cercando di uccidermi, ma poi, continuando a
fissare l’azzurro dei suoi occhi, mi mormorò a
fior di labbra:
-Hai
l’occasione che cercavi… guarda, guarda la
verità…- ansimò.
Il
respiro mi si fece irregolare mentre mi sentivo invadere dalla sua
essenza che entrava in contatto con la mia. Il suo DNA era a portata di
mano, potevo finalmente smentire le bugie che cercavo, le bugie di cui
avevo paura.
Alla
fine, in un ultimo strillo, assecondai la mia fame di sapere, e mi
bastò quella goccia del suo sangue per vedere coi suoi occhi
nei miei.
E’
un tunnel avvolto dalle ombre, ma ce ne sono due più esposte
e delineate delle altre. Una di queste sono io, vedo attraverso i suoi
occhi che sono fissi immobili sulla seconda figura nella galleria.
-Se
le vuoi così bene…- pronuncia un uomo dalla
carnagione chiara che impersono, il volto celato sotto un cappuccio.
–Perché non vai da lei e la porti via da quel
posto?- chiede. –Hai idea di quante sofferenze nascano e
crescano in quella base? Un’idea dell’Inferno che
ha passato quella ragazza vendendo così il suo corpo? Che
razza di padre farebbe mai una cosa simile?-.
-Era
l’unico modo…- risponde un secondo uomo, nascosto
nella penombra di un luogo inghiottito dalle tenebre.
-Per
fare cosa?!-.
-Per
salvarla…-.
-Da
chi?!- insiste Alex Mercer.
-Dalla
Blackwatch!- ruggisce l’altro uomo in risposta.
–Temevo che sarebbe stata la fine, fu un caso che scelsero
lei…-.
…
-Solo
due su un milione si accorsero di che genere di gene straordinariamente
potente serbava nel suo sangue! Costoro erano Maximilian Taylor e Lewis
Martin…-.
…
-Eravamo
sempre stati grandi amici… ma Lewis era il
cancro… Credeva molto sulla possibilità che un
virus letale avrebbe mietuto miliardi di vittime. Era
bramoso… quando la Blackwatch lo contattò in
segreto… Giusto pochi anni prima ci fu
l’incidente…-.
Due
cacciatori volanti si mettono seduti al comando di un uomo.
…
Le
frasi s’interrompono senza un senso, la voce è
tagliata, indiretta, come se mancassero dei dettagli che qualcuno non
vuole si sappiano.
…
-Cosa
accadde dopo?-.
All’uomo
sfugge un sorriso. -Comparisti tu- dice. –Abbandonati gli
esperimenti su mia figlia e su altri precedenti cavie, la Blackwatch
trovò te e ti rese ciò che sei, ciò
che ti piace tanto essere-.
-Non
mi piace ciò che sono- sbotta quell’altro
profondamente offeso…
…
-…Lewis
lasciò il progetto, ma non esitò un solo istante
a firmare il contratto propostogli dal Presidente che lo nominava
responsabile del Gabriel!-.
…
-Emily?-.
-Quanto
vorrei non aver mai risposto a quella chiamata…-.
-Tu
o…-.
-…Lei-
conclude.
-Perché
non andasti tu?Era tua figlia, no? Un po’ di bene gliene
volevi, no?!-.
-Se
Lewis avesse fatto di me un Angelo, ora saresti già morto,
Mercer- è la sua risposta.
Il
ricordo s’interrompeva così, con quella frase,
quel nome… o meglio dire, quei nomi. Mercer e Lewis,
rispettivamente quelli che avevo finalmente capito rappresentassero il bene e il male.
La
verità mi era stata mostrata, e fu con questo pensiero che
riaprii gli occhi trovandomi a pochi centimetri dal volto di Alex.
-Era
mio padre…?- formulai in un sussurro non appena ne fui in
grado, quando Alex ritrasse gli artigli e i tessuti del mio bacino si
furono rigenerati.
Mercer
annuì gravemente. –Ora mi credi?-.
Tacqui
fissandolo a lungo.
-…Sì-
conclusi in fine. –Ma se mio padre è
vivo… perché non è qui con te? Dopo
aver discusso vi siete divisi? Dov’è andato?-.
Alex
scosse la testa. –Questo non posso dirtelo-
sottolineò.
Mi
adombrai. –Perché?!- eruppi.
-Mi ha
chiesto lui stesso di tenere la bocca chiusa su questo e molto altro-.
-Ma
tu…- feci con un pizzico di malizia –a quanto pare
hai fatto di testa tua- conclusi.
-Ho
tradito la sua fiducia già abbastanza- ammise a malincuore,
eppure mantenendosi serio.
-Cosa
accadrà ora?- chiesi in un sussurro.
Mercer
aggrottò la fronte, probabilmente non capendo a cosa mi
riferissi.
-Insomma…-
esitai. –Ti ho detto di me… di noi- sfuggii ai
suoi occhi penetranti. –E tu mi hai raccontato di mio padre,
mi hai mostrato che è ancora vivo, ma adesso…
adesso che ne sarà di quello in cui credevamo?- sussurrai
quasi stessi parlando solo con me stessa.
-Parli
della vendetta?- formulò con comprensione.
Annuii.
-Credo
che tu adesso capisca quanto me che è di vitale importanza
mettere da parte le divergenze, perché finalmente siamo
riuniti sotto un vessillo comune, un nemico che minaccia entrambi-
disse serio scostandosi da me per permettermi di alzarmi.
-Lewis
Martin, se è come dici, non vorrà mai sbarazzarsi
di me- sbottai. –Sei tu che gli vai poco a genio-.
-Per
uccidermi lui ha bisogno di te!- sibilò Alex venendomi
incontro, accorciando di nuovo la distanza tra noi perché la
conversazione diventasse più intima. –Ma quando
non servirai più ai suoi scopi…-
cambiò del tutto tono –cosa credi che se ne
farà di te e degli Angeli che lui stesso ha creato?- mi
domandò come fosse ovvio, con sprezzante ironia.
Non
potei credere a quelle parole, poiché fossero esattamente le
stesse pronunciate da mio padre quella volta che trasmise il suo
messaggio.
Alex
parve leggermi nel pensiero quando disse: -“Siamo e continueremo
ad essere utili alla nazione, ma… quando non serviremo
più, sappiamo tutti con chiarezza cosa ne faranno di
noi.” Riascoltai quella registrazione
più e più volte quando entrai nella vostra base.
Cercavo una testimonianza, qualcosa che la Blackwatch non avesse
portato con sé nella tomba una volta crollato il progetto.
Volevo chiarezze. Volevo la verità. Ma mi accorgo solo ora
di averla avuta sempre a portata di mano… davanti ai miei
occhi- sentenziò con serietà voltandosi verso di
me.
Io, a
differenza di lui che pareva mantenere un atteggiamento per quanto
potesse neutrale a quelle rivelazioni, ero sconvolta nel profondo.
Sentivo agitarmisi le farfalle nello stomaco.
Alex
Mercer non solo aveva conosciuto di persona mio padre, scoprendo che
era vivo, ma desiderava oltretutto stringere un alleanza con
me… il suo nemico, l’unico che potesse ucciderlo
veramente.
-Vieni
con me, Emily, ti porterò da tuo padre e insieme
rifletteremo sul da farsi- mi porse una mano in gesta di resa, di
offerta e fiducia allo stesso tempo.
Guardai
il suo palmo schiuso con insistenza, quasi potessi leggervi sopra tutte
le sue sincere buone intenzioni.
Quando
alzai gli occhi per spostarli nei suoi, riuscii a decifrarvi un
sentimento che non gli si addiceva. Come una scintilla apparsa sempre
rossa che ora aveva improvvisamente cambiato tonalità.
L’infinito di quell’azzurro divenuto caldo,
accogliente quasi, fu davvero quella
scintilla.
Poggiai
la mia mano sulla sua prima con un che di incertezza, ma poi,
percependone il calore, mi decisi a stringerla con convinzione.
E’ fatta. Pensai.
Ho firmato la mia
condanna.
Fu una
lunga stretta di mano, durante la quale nessuno allontanò
gli occhi dall’altra.
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Capitolo 26 *** Capitolo 26° - Una guerra senza leggi, un gioco senza regole ***
Capitolo
26° - Una guerra senza leggi, un gioco senza regole
-Siamo
arrivati- annunciò Alex.
Seguii
il suo sguardo che posava sul malandato magazzino navale del porto, una
bassa costruzione in cemento di al massimo due piani. Il silenzio
tutt’attorno era spettrale e la soffusa foschia che si era
creata conferiva un macabro aspetto.
-Mio
padre è lì?- chiesi in un sussurro,
più a me stessa che altro.
Infatti
Alex non mi rispose. Fece un passo avanti e cominciò ad
incamminarsi verso l’edificio. –Stammi vicina-.
Lo
seguii senza replicare fingendomi la sua ombra. Richiusi le ali che mi
erano servite per arrivare fin lì tra le mie scapole e
proseguii in religioso silenzio coi sensi all’erta. Poteva
spuntare qualche cacciatore e mi avrebbe trovata del tutto impreparata
se non avessi sgombrato la mente e mantenuto la calma.
Esattamente
come Alex, e per un istante mi chiesi come ci riuscisse.
Così rigorosamente… taciturno, freddo. Dicono che il composto
impiantato negli Angeli è un estratto del suo campione. Ma
allora perché noi non siamo… depressi quanto lui?
Forse perché
il settore Angels è riuscito a migliorarlo…?
M’interrogai.
Con un
balzo, Mercer raggiunse il tetto della costruzione.
–Perché non usiamo l’ingresso
principale?- chiesi dopo aver fatto altrettanto aiutandomi con le ali.
Alex si
mantenne in silenzio e avanzò verso il centro del tetto, e
solo allora mi accorsi del grande foro circolare che vi era.
-Eccolo
l’ingresso- sbottò lui saltando giù,
sparendo inghiottito dall’oscurità
dell’interno di quel luogo.
E
se fosse una trappola?
Serrai
i pugni lungo i fianchi e preparai le cellule del mio braccio a mutare.
Balzai giù atterrando su un suolo quasi friabile, polveroso.
Una puzza nauseabonda di sangue e medicinali mi riempì i
polmoni. Arricciai il naso e attivai la vista termica, parte dei poteri
agli Angeli conferiti.
Centinai
di corpi caldi dimoravano nell’oscurità. Contai
una ventina di corpi più piccoli, bambini forse, nascosti
nelle tende di latta, metallo e cemento improvvisate come capanne
primordiali.
-Dio
mio…- mormorai esangue guardandomi attorno.
Dal
nulla sentii posarmi una mano sulla spalla, mi voltai e feci per
affondare gli artigli nel vivente che aveva osato. Ma poi riconobbi il
barlume di ghiaccio di quei occhi e m’immobilizzai come una
pietra.
Alex
non si scompose, ma mi fulminò con
un’occhiataccia. –Ti avevo detto di starmi vicina.
Adesso seguimi- s’incamminò ed ubbidii
all’istante.
Salimmo
una fragile scaletta di metallo che portava ad un livello superiore
improvvisato su un’impalcatura arrugginita. In fondo
all’impalcatura si ergeva una tenda più grande
delle altre, all’interno della quale si materializzavano due
corpi umani.
Alex mi
precedette scostando un lembo della tenda, e prima di entrare dopo di
lui, udii un uomo chiedere chiaramente: -Lei
dov’è? È al sicuro?-.
Mercer
si fece da parte nella tenda ed io mi mostrai, muovendo due passi sul
tappeto di pezza che ricopriva il pavimento di metallo.
-Emily…-
sussurrò mio padre, Mark Walker, in piedi accanto ad un uomo
della sua stessa età con un camice bianco da dottore sporco
di sangue.
Max
Taylor sgranò gli occhi e volse a Mercer
un’occhiata eloquente. –L’hai portata
qui!-.
Alex
sostenne il suo sguardo senza aprire bocca.
-Emily…-
ripeté più sorpreso mio padre.
-Papà-
mi avvicinai a lui e lo abbracciai non credendo alle emozioni che stavo
provando. Dopo anni trascorsi pensando che fosse morto, ore era di
nuovo davanti ai miei occhi, esattamente come lo ricordavo, con la sua
tuta militare mimetica bluetta. La stessa che indossava la volta
dell’incidente…
-Papà…-
singhiozzai sentendomi stringere dalle sue braccia.
Walker
scambiò con Alex una silenziosa domanda, continuando ad
abbracciarmi.
Mercer
si adombrò ancora di più. –Lei ci
serve-.
-No-
ribatté Mark. –Lei non ci serve affatto.
Così l’hai messa solo in pericolo-
digrignò.
-Di
cosa state parlando?- mormorai scettica e confusa scostandomi
leggermente da lui, ma né uno né
l’altro mi volsero una minima attenzione.
-Non
possiamo rischiare di attaccare la base e dover scappare con la coda
tra le gambe, non ci sarà una seconda occasione-
insisté Mercer con una scintilla negli occhi.
–Emily ci serve ora-.
-Attaccare
la base?…- domandai io.
Venni
nuovamente ignorata.
-Siamo
abbastanza potenti tu ed io, Alex, non c’era motivo di
coinvolgere anche lei!- eruppe mio padre.
Zeus
guardò un istante nella mia direzione. –E se fosse
una sua scelta?-.
-Non
avresti dovuto darle questa scelta!- ruggì Mark.
-Papà!
Dimmi cosa sta succedendo, cosa!…-.
Max
Taylor mi allontanò da mio padre afferrandomi per un
braccio. –Aspetta- mi disse, ed io, troppo sconcertata per
reagire, ubbidii.
Entrambi
abbandonammo la tenda lasciando discutere i due. Non mi ribellai quando
Max mi portò con sé al piano di sotto. Mi chiese
di stargli vicino come fossi la sua ombra, e capii da sola che aveva
delle mansioni giornaliere da svolgere sui suoi pazienti.
Lo vidi
estrarre delle siringhe dalla tasca del camice e applicare il
“vaccino” a uomini, donne e bambini. Lo seguivo in
silenzio in ogni suo movimento, mentre lentamente iniettava nel sangue
dei profughi un composto che aveva attirato subito la mia attenzione,
ma mai quanto la questione che andava discutendosi tra Alex e mio padre.
-Tuo
padre non voleva che Alex ti portasse qui- spiegò Max
d’un tratto mentre sedava un paziente. –I due si
conoscono da poco e hanno scelto di collaborare contro un nemico
comune, un po’ come sono certo che Alex abbia proposto a te-.
-In
vena di accordi, il ragazzo…- borbottai mentre ci
allontanavamo verso un’altra tenda.
-Sa
solo distinguere i buoni alleati nelle occasioni migliori- rise il
dottore.
-Lei
sembra conoscerlo da più tempo- commentai.
Il
vecchio annuì. -Conosco Alex da mesi, forse un anno. Mi ha
aiutato a mantenere in piedi questa specie di ricovero- disse
allargando le braccia. –Il mio nome è Max Taylor,
dottore capo sala e padre della ragazza che hai ucciso…-
fermandosi mi porse la mano, ma senza alcuna cattiveria.
Sgranai
gli occhi. –Quella ragazza… era sua
figlia…-.
Il
vecchi mi sorrise e, vedendo che avevo dimenticato di stringergli la
mano, la ritrasse. –Non temere, è acqua passata,
ormai. Ti consoli il fatto che è stata una scelta ben
conscia di Lisa quella di morire- disse incamminandosi.
In
breve mi raccontò per filo e per segno gli ultimi
avvenimenti, partendo da un quadro generale della sua
responsabilità di medico in quella sezione di Manhattan. Mi
parlò del virus che aveva visto espandersi di corpo in corpo
e del dolore patito e poi dimenticato quando sua figlia aveva fatto la
sua scelta.
-Il
gesto di Alex è stato di grande cuore e coraggio. Unica
testimonianza della sua capacità di amare-
sospirò il vecchio.
Mi
stupì con quelle parole. Anche i mostri possono
amare…
-Quello
che ti turba adesso è un altro discorso, e lo capisco-
riprese lui. –Sei preoccupata per quello che sta succedendo a
tuo padre e ti domandi che cosa c’entri lui in questa storia.
Ebbene, avrei voluto che fosse stato lui a dirtelo, ma molto
probabilmente non ce ne sarebbe stato il tempo. Stiamo organizzando un
attacco, o meglio, loro stanno organizzando un attacco-.
-Alex e
mio padre?- mi stupii. –Come?- chiesi, frastornata.
-Hanno
entrambi più forza, potere e capacità di quel che
hai sempre immaginato, Emily- disse lui scoccandomi
un’occhiata eloquente che sottendeva mille pensieri, i quali
non aveva intenzione di rivelarmi così direttamente.
Nell’arco
di un quarto d’ora il dottor Taylor mi raccontò la
mia e la storia di mio padre, ma non quella che avevo sentito mille
volte da mia madre o da Mark stesso. No, non quella…
bensì la versione più assurda che avessi mai
ascoltato. Tacqui, immaginandomi un simile arco di tempo spezzettato da
eventi e catastrofi naturali che avevano contribuito a rendere la mia e
la vita di Mark un disastro. L’incidente del ’69
era stato una sorta di avvertimento, un primo tentativo fallito dalla
Blackwatch, le cui intenzioni non erano altre che creare il proprio
esercito personale di mostri.
E ci è
riuscito… pensai.
Ma la
cosa più assurda era che io ne facevo parte, ma presto,
molto presto, avrei fatto di tutto per distruggerlo.
Mi correggo: quasi
riuscito.
-È
una guerra, Emily, una guerra spietata e senza leggi, un gioco di vita
e di morte senza regole. Tuo padre controlla un esercito di Cacciatori
Volanti e grazie al suo potenziale straordinario attaccheremo la base
del settore Angels. Non possiamo indugiare oltre perché
Lewis Martin già sospetta cosa Mark stava progettando da
ancor prima che tu nascessi, e per questo motivo ha fatto e
continuerà a fare qualsiasi cosa pur di eliminare te e tuo
padre-.
-Posso
capire che ce l’abbia con lui, ma…
perché allora farmi combattere contro di Alex? Lui ce
c’entra?-.
Il
dottor Taylor sospirò e guardò a terra,
cacciandosi le mani nelle tasche del camice bianco. –Da
qualche parte ho letto un articolo di giornale che parlava dei lupi
siberiani. Era molto interessante, diceva che due maschi capo branco
che si scontrano tirano così allungo da distruggersi a
vicenda se necessario, perché spesso e volentieri la forza
di uno eguaglia quella dell’altro, e l’unico modo
per difendere il branco è quello di tenere impegnato il
nemico sino a morte certa. Era questo che Lewis voleva da te, Emily.
Voleva che combattessi con Mercer e vi uccideste a vicenda per il
semplice fatto che gli andavate entrambi scomodi in modi diversi-
spiegò.
Tacqui
alcuni istanti, pensosa. –Per quand’è
fissato l’attacco?- chiesi in fine.
-Domani.
All’alba- mi rispose il Corvo semplicemente. –Tuo
padre non avrebbe voluto che ti porgessi questa domanda, ma ne ho un
forte bisogno-.
Lo
guardai negli occhi e lo vidi assumere un’espressione
così seria da mettermi paura.
-Sarai
dei nostri?- domandò con voce profonda.
Sollevai
lo sguardo sul piano superiore. Lì vidi mio padre, accanto
ad Alex Mercer, fissarmi a sua volta con le mani strette attorno al
parapetto. Lanciai un’occhiata anche al giovane che gli era
affianco, che ricambiò con un sorriso malizioso.
Riportai
la mia attenzione sul dottor Taylor e risi.
Lewis Martin, preparati a
ricevere tante botte: hai finito di vivere. -Facciamogli
il culo a quel bastardo- dissi.
-Emily!-
mi riprese mio padre.
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Capitolo 27 *** Capitolo 27° - Attacco al Paradiso ***
Capitolo
27° - Attacco al Paradiso
GIORNO
DELL’INFEZIONE 420°
POPOLAZIONE
INFETTA: 30, 8%
New
York,
Settore
Angels, Base Phoenix,
Ore
4.43 am
Matt
prese il caffè dalla macchinetta e lo chiuse con un tappo
apposito in plastica. –A più tardi, Sall- disse
avviandosi fuori dalla mensa. Un uomo sulla quarantina, di fronte alla
stessa machina ad ordinare la sua bevanda, si voltò e
salutò il ragazzo con un gesto della mano.
Il
giovane traversò l’ingresso della mensa
lasciandosi alle spalle una grande sala buia e deserta, popolata solo
di quei tanti o pochi coordinatori soliti a svegliarsi presto la
mattina, per monitorare i loro Angeli sul campo, giù a
Manhattan.
Matt
traversò un lungo, bianco e asettico corridoio,
sbadigliando. In una mano aveva il suo espresso fumante e ben tappato,
l’altra era nella tasca dei jeans tenendo sottobraccio una
rivista ripiegata. Giunto in fondo al corridoio, chiamò uno
dei due ascensori e attese paziente che le porte si aprissero. Nel fare
ciò, si guardò attorno scrutando il silenzio,
pensando quanto fosse palloso il mestiere di coordinatore in pensione:
ora che il suo Angelo aveva comunicazioni e satellite irraggiungibili,
poteva ritenersi un disoccupato fuori servizio. La Phoenix e lo stesso
Lewis Martin erano occupati nel costante tentativo di comunicare con
Emily Walker, ma per uno, due, tre giorni era stato impossibile solo
stabilire la sua posizione sull’isola. Matt era seriamente in
pensiero, ma non quanto Lewis Martin.
L’ansioso
capo della sezione dava di matto da una settimana. Alcuni giorni lo si
vedeva correre da una parte all’altra della base dettando
comandi senza logica a chiunque gli passasse accanto. A Matt era
successo più di una volta, e si sentiva sempre in imbarazzo,
spaventato da una tale furia. Per lo più erano ordini di
carattere militare: Lewis stabiliva turni di guardia più
severi, una sorveglianza maggiore e un minore riposo per tutti.
Così, anche i coordinatori in “pensione”
come Matt erano costretti ad ore piccole e alzatacce alle quattro del
mattino.
Non
erano da meno Emmett e Lucy, rientrati alla base giusto una settimana
prima portando con loro il cadavere del Capitano Cole Turner e un
gravemente ferito Harry Brown. Gli Angeli della Squadriglia 90esima
erano tornati nelle condizioni tali da mettere in allerta tutti gli
altri “schiavi del settore”. Da quel giorno, per la
base Phoenix, si viveva una certa bastarda tensione.
L’ascensore
segnalò il suo arrivo, le ante si schiusero e Matt
entrò in cabina sbadigliando di nuovo. Pigiò il
tasto del piano, si voltò e attese che l’ascensore
richiudesse le porte e partisse fissando il vuoto del corridoio appena
percorso.
Ad un
tratto, dal fondo del corridoio, una ad una tutte le lampade al neon
cominciarono a spegnersi come fulminate. Nel giro di pochi secondi, il
piano intero restò completamente al buio con un silenzio
spettrale. Le ante dell’ascensore erano bloccate per via
dell’assenza di corrente, constatò Matt allarmato,
ma fortunatamente, a rincuorarlo fu l’accensione istantanea
delle luci blu d’emergenza.
Il
ragazzo uscì dalla cabina affacciandosi di qua e di
là nelle varie direzioni. –Ehi,
c’è nessuno?- chiamò, ma effettivamente
“nessuno” gli rispose.
Cercando
qualcosa nella tasca del giacchetto targato Angels che indossava,
trasse il filo di un auricolare collegato ad un palmare. Si
apprestò a contattare il centro energetico, gestito da
alcuni suoi colleghi nel sottosuolo della base e attese, sentendo
squillare. Il numero composto era quello di un suo carissimo amico, un
Angelo finito a lavorare nelle cantine della Phoenix dopo essersi
danneggiato a vita l’ala destra. Il suo mestiere era
livellare il consumo e il contenimento d’energia
all’interno dell’edificio, quindi chi altri poteva
meglio accertarsi delle condizioni del generatore, in caso fosse
saltato qualche pistone?
-Avanti,
Lillo, rispondi…- sibilò Matt, teso come una
corda di violino. Nel frattempo gridò ancora: -Ehi,
c’è nessuno?!- guardandosi attorno.
–Perché non rispondi, razza di ubriacone
italiano?!- gemé Matt accumulando nervosismo ogni minuto di
più. Da piccolo aveva sempre avuto paura del buio e del
mostro sotto al letto, perciò la situazione iniziava a
metterlo a disagio.
Lasciò
stare i suoi vecchi contatti e decise di rivolgersi direttamente alla
centrale. Finalmente qualcuno rispose, ed era una voce elettronica
femminile.
-Settore
Angels, Centrale Energetica della base Phoenix. Identificarsi, prego-.
-Matt
Wilson, Angel’s Coordinator 1-9-2. Si è verificato
un salto di corrente al terzo piano della base, e per poco non restavo
bloccato in ascensore. Richiedo un accertamento delle condizioni del
generatore-.
-Matt
Wilson, lei non è autorizzato ad effettuare nessuna
richiesta di supervisione. La preghiamo di contattare un suo superiore-.
-Fottutissima
lattina, devo tornare alla mia postazione prima delle 5! Non ho
né tempo né voglia di salire a piedi fino
all’ultimo piano e richiedere un appuntamento con Lewis
Martin!- sbottò Matt ormai sull’orlo della
sopportazione. –La mia pazienza ha un limite! Richiesta di un
operatore umano!- dettò.
-Attendere
prego- rispose la voce elettronica, e seguì una lunga pausa
destinata a non interrompersi tanto in fretta…
-Ma che
cazzo sta succedendo?- si chiese Matt sempre più ansia.
–Meglio avvertire di sopra che farò un
po’ tardi, allora…- borbottò cercando
nei numeri più frequenti quello del piano Coordinatori, dove
erano riuniti tutti gli Angels col suo stesso mestiere.
Dopodiché aveva già in progetto di contattare
direttamente l’ufficio di Lewis Martin, o comunque un suo
delegato. Ma i suoi piani andarono a cattivo fine ugualmente.
-COME
NON C’E’ CAMPO?!- strillò disperato
guardando il palmare. Un’icona rossa lampeggiante segnalava
l’assenza di linea tra mittente e destinatario della
chiamata, nonostante nella base fosse in uso ormai da anni un sistema
monitorato di rete interna privata.
-Ma
vaff…- Matt si cacciò il palmare nella tasca del
giubbetto e s’incamminò per il corridoio, tornando
sui suoi passi verso la mensa. –Speriamo che il vecchio Sall
non sia inciampato nei lacci delle sue scarpe rompendosi
l’osso del collo…- borbottò.
«I
sotterranei della base Phoenix sono cunicoli bui e strettissimi che
collegano una camera di contenimento energetico all’altra. I
sotterranei, non solo ospitano i macchinari che sostengono
l’energia elettrica della base, ma per quei spessi e grossi
condotti passano gas, ossigeno riciclato e materiali organici
proveniente dai laboratori di ricerca dell’ultimo piano.
Insomma, un vero e proprio smistamento di rifiuti e materie prime. Gli
addetti al sottosuolo sono per la maggior parte Angeli infortunati o
esseri umani. Poiché sono impianti, quelli, collegati anche
alla rete fognaria esterna e comunicano con tutta New York, i
lavoratori vestono di tute ermetiche nonostante il rischio di contagio
sia minimo. In tutta la mia vita sono scesa là sotto una
volta soltanto, ed era la mattina del giorno 420°
dell’infezione.»
Qualche
istante prima…
Davanti
all grata fognaria che divideva New York dal sottosuolo della base,
faceva la guardia un comune umano, il cui cuore batteva normale in
petto. Poggiava le spalle sulla grata, fischiettando un motivetto
allegro e tenendo le mani nelle tasche della tuta ermetica verde.
Dietro di lui, nell’oscurità del tunnel che
scavava per chilometri e chilometri il sottosuolo di New York,
balenarono due occhi azzurri carichi di frenesia omicida.
Forse
un ciottolo, forse un topo, fatto sta che sul terreno sbatté
una piccola superficie che produsse un suono ticchettante e ritmico.
L’uomo
di guardia si voltò allarmato, e scrutò allungo
il buio del tunnel. Prese una torcia che portava legata alla cintura e
fece per accenderla, ma Zeus fu più svelto.
Allungando
e tramutando un braccio oltre la grata, Alex affondò gli
artigli con un sonoro e brutalissimo “crack”,
incassando il cranio tra le scapole di quel poveretto. Il sangue
schizzò sulle buie pareti del tunnel, mentre costui non
aveva avuto tempo neppure di mugugnare per il dolore. Mercer
lasciò che il corpo si depositasse inerme a terra e
ritirò il braccio nell’oscurità,
tornando normale.
Perché ucciderlo?
Poteva semplicemente stordirlo, pensai con una smorfia
storcendo il naso. Il puzzo di sangue, se amico, sapeva darmi il
voltastomaco. Quell’uomo potevo averlo incontrato nella mensa
quando condividevo il tavolo coi miei compagni di clan, e ora giaceva
ai piedi della grata che, il cacciatore volante alle nostre spalle,
sfondò con una cornata.
Il
frastuono che ne venne avrebbe messo sicuramente in allerta tutto il
sotterraneo, ma guardando il sorriso malvagio comparso sulle labbra di
Alex, al mio fianco, mi rendevo conto di quanto fosse entusiasta anche
di questo.
Lo
afferrai saldamente per il gomito prima che potesse fare un solo passo
avanti. Il ragazzo mi scoccò un’occhiata gelida
quanto l’azzurro intenso dei suoi occhi, ma fui ben capace di
sostenere il suo sguardo.
-Attieniti
al piano- mormorai schietta, semplice, circoscritta.
Alex
avvicinò il volto al mio, e, per quanto mi fu possibile,
riuscii a percepire il suo respiro freddo solleticarmi le labbra.
–Anche tu…- sibilò in risposta,
traboccante di malizia e cattive intenzioni.
Glielo
leggevo nell’atteggiamento, e non solo negli occhi: quel
ragazzo cercava ancora vendetta, la stessa interrotta un anno prima e
ripescata qualche giorno fa, prima di vedersi entrare la sua peggior
nemica nel gruppo di sabotaggio che il 420° giorno
dell’infezione avrebbe messo a soqquadro la base Phoenix del
settore Angels.
Alex
avanzò, e con lui il fedele cacciatore volante, ora docile
come un gatto da compagnia, ma nei prossimi minuti aggressivo e
affamato come un leone selvaggio.
Alle
mie spalle comparve una seconda creatura. La condussi in una direzione
del tutto opposta, con un differente incarico ben preciso.
Il
piano architettato da Mark Andrius Walker prefiggeva
l’obbiettivo di eliminare qualsiasi comunicazioni interna
della base, dalla rete telefonica alle segnalazioni computerizzate. Se
le mie e le conoscenze di mio padre messe assieme potevano fornire
buoni dettagli sulla posizione di tutti i posti di controllo e
centraline elettriche, nessuno avrebbe mai sospettato che i tre
portatori sani più pericolosi al mondo fossero coalizzati
finalmente contro un nemico comune, tantomeno Lewis stesso. Il suo
olfatto da Angelo predatore sarebbe servito a ben poco ora che,
nell’arco di pochi minuti, l’intera base Phoenix
sarebbe crollata nel caos.
I
cacciatori volanti di mio padre erano serviti per volare indisturbati
fino a destinazione, ovvero l’ingresso fognario costiero,
collegato attraverso grossi tunnel e condotti a quello della base.
Erano canali dei quali molti Angeli ignoravano l’esistenza,
tunnel di evacuazione d’emergenza in caso di
necessità che, fino ad ora, non c’era mai stato
bisogno di utilizzare. Era stato Alex, qualche tempo prima della
stesura del piano, a rivelarmene l’esistenza per la prima
volta, nonostante avessi trascorso gli ultimi due anni della mia vita a
combattere il virus dall’interno di quelle quattro mura.
Mercer aveva usato questi condotti per infilarsi nella rete fognaria
interna della base, e poi risalire fino ai laboratori. Grazie alle
nostre conoscenze unite e l’alleanza di creature tanto
pericolose come i cacciatori volanti controllati da mio padre, il
settore Angels era destinato a soccombere prima del canto del gallo.
Niente
più esperimenti, niente più sofferenza,
morte… quello che Lewis Martin stava mettendo su con la sola
scusa di abbattere il Virus, non era altro che un portentoso esercito
personale di macchine inarrestabili e potenti come gli Angeli veri, al
servizio di Dio. Se Martin credeva di avere ormai sentiero spianato, si
sbagliava di grosso. Gli stessi mostri che prima la Blackwatch e poi il
settore Angels avevano creato, stavano venendo a scassare le palle a
qualcuno.
Proseguendo
al buio col solo ausilio della vista termica, un tratto di strada lo
feci scortata dal cacciatore volante, ma giunta alla prima
destinazione, fui costretta ad indietreggiare perché a
sorvegliare la cabina del controllo energetico c’erano non
semplici umani, bensì due Angeli.
-Lillo,
ti squilla il telefono!- disse un primo seduto comodamente alla
postazione. Il secondo apparve poco dopo, venendogli incontro da un
tunnel secondario. –Arrivo, non rispondere!- disse questi
ripiegando le vecchie ali monche nella schiena. Si pulì le
mani imbrattate di grasso sulla tuta ma, prima che potesse afferrare il
telefono tesogli dal compagno, s’immobilizzò.
-Che ti
prende?- chiese l’altro.
Lillo
annusò l’aria. –Sarò pure
vecchio, puzzolente e italiano, ma lo riconosco l’odore di
virus- sibilò a denti stretti, nel frattempo che il suo
braccio tramutava in un grosso spuntone nero petrolio.
L’altro
si fece subito più attento. –Hai
ragione…- confermò estraendo le ali dalla spina
dorsale.
Tenendomi
a distanza e ancora nascosta dietro l’angolo del tunnel,
posai una mano sulla scapola del cacciatore volante. –Non far
loro del male…- mormorai.
L’animale
parve comprendere ogni sillaba e, nel momento in cui si
lanciò all’attacco uscendo allo scoperto,
colpì non fatalmente entrambi gli ex-angeli con un colpo di
coda. Gli immobilizzò a terra schiacciandoli con le zampe
artigliate e sbavò loro sulla faccia quando gli
ruggì contro.
Era il
mio turno di agire e così, uscendo dal tunnel, cercai di non
badare agli sguardi sconvolti di uno e dell’altro.
-Traitrice!
TRADITRICE!- strillò Lillo, il responsabile del settore
energetico. Era un carissimo amico di Matt e aveva avuto modo di
conoscermi in più di un occasione. Vedere il suo viso tirato
in quel modo dalla paura di aver di fronte morte certa, mi
ricordò i bei momenti trascorsi al fianco del mio
Coordinatore. Rammentai anche le ultime scortesi parole che gli avevo
detto prima di staccare definitivamente la comunicazione.
-Chi
cazzo sei?!- gridò invece l’altro, intrappolato
contro il pavimento tra un artiglio e l’altro del cacciatore
volante.
Prima
che qualcuno dei due potesse replicare, li misi a tacere con un
fendente alla testa, fatale per un umano, ma stordente per un
geneticamente-mutato. Quando mi risollevai, vidi il cacciatore fissarmi
coi suoi grandi occhi rossi, e in quello sguardo carico di rammarico
intravidi la coscienza di mio padre, legata alla sua. Gli carezzai il
muso viscido e squamoso, ma fu giusto un istante di debolezza,
perché udii un’esplosione assordante rimbombare
per i tunnel del sottosuolo.
È il segnale, pensai
sgranando gli occhi. La
bomba è innescata: Alex sta cominciando a far danni e se
tutto va come previsto, papà avrà libero accesso
ai laboratori. L’attacco al Paradiso è iniziato.
Ora sta a me muovere…
Corsi
alla cabina di controllo e, tramutando il braccio in lama, feci
più danni possibili con pochi affondi precisi e ben mirati
là dove sapevo di dove colpire. In una frazione di secondo
le luci tutte che illuminavano i tunnel sotterranei si disattivarono e
la rete fognaria della base Phoenix, cadde
nell’oscurità più intensa.
Stessa
cosa fu per i piani compresi tra la mensa e i laboratori
dell’attico.
Missione
compiuta, pensai con una certa soddisfazione.
Ci fu
una seconda esplosione.
Ecco Alex che disattiva la
sorveglianza! Ridacchiai imboccando di corsa il primo
corridoio che sapevo mi avrebbe condotta da lui. Seguivo il suo odore,
e con la vista termica riuscivo a leggerne il calore anche attraverso i
muri più spessi e i condotti più gassosi.
Trovai
Mercer che finiva la sua opera straziando in più parti
ciò che restava di un giovane Angelo, con tanto di giubbetto
accademico con distintivo e casco integrale. Quando si
voltò, incontrando la mia e la figura del cacciatore che era
con me, aveva il fiato grosso non per lo sforzo, bensì per
la furia.
-Sanno
che siamo qui. Questa è solo una delle venti sentinelle che
arriveranno venendo da quella parte- disse indicando una porta blindata
che conduceva all’ascensore di servizio, unico ad arrivare
sino al pian terreno dov’era situata la mensa.
–Dobbiamo fare in fretta- ordinò andando in tale
direzione.
-Va
bene, ma… smettila per cortesia di farli a fette come
animali…- gemei, -loro non c’entrano nulla.
Insomma… È Lewis Martin il bersaglio,
perciò gli altri lasciali andare, per favore- mormorai,
seguendolo.
Alex si
volò di colpo e m’inchiodò al muro con
gli artigli, in un gesto tanto veloce che mi fu impossibile prevedere o
anche solo contrastare. Mi fissò allungo negli occhi, mentre
nei suoi potevo vedere riflessa la mia faccia sconcertata.
-Con o
contro di me?- mi chiese in un sussurro freddo come il ghiaccio.
-Con…-
bisbigliai esangue, spaventata ora più che mai.
Il suo
braccio tornò normale, ma la sua presa salda attorno al mio
collo persisteva. Mi tenne inchiodata al muro quel tanto che
bastò perché alle sue spalle comparisse il
cacciatore volante imbrigliato a distanza da mio padre. La bestia
mandò un gorgoglio profondo e grattò il suolo con
le unghie. Alex si fece allora da parte, ma non senza scoccarmi
un’ultima occhiataccia, per poi riprendere il cammino nel
tunnel.
Mi
stanziai dalla parete accorgendomi del mio cuore che batteva forsennato
nel petto. Posai una mano su di lui guardando la figura di Zeus che si
allontanava nell’oscurità, seguito dal secondo
cacciatore volante mentre il primo, fedelmente al mio fianco, mi
osservava con sguardo carico di rimprovero.
-Non
pensarlo nemmeno!- eruppi diretto a mio padre, che guardava me
attraverso gli occhi della sua creatura. Mi avviai a grandi passi nel
tunnel, raggiungendo Alex, e la bestia mi seguì a sua volta.
Alle
mie spalle un telefono cellulare bagnato di sangue squillò
tre volte, vibrando sul pavimento.
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Capitolo 28 *** Capitolo 28° - Ordini e Piani ***
Capitolo
28° - Ordini e piani
Con un affondo preciso di pugno, Alex
disegnò un foro enorme sulla parete, aprendoci la strada in
uno dei tanti salotti comuni che ospitavano gli Angeli. Il frastuono fu
tale che l’intera squadriglia ospite in quelle stanze si
riversò allarmata nella camera, puntando dritta verso il
nemico. Questi, un clan di sette, otto elementi al massimo, erano
provvisti della stessa uniforme nera e rossa aderente che indossavo io.
-Ops…- mormorò Alex con
tono malizioso, tramutando le braccia in artigli e rivestendosi della
sua imperforabile armatura.
-Era questo il piano?!- eruppi serrando i denti e
sfoderando le ali dalle scapole.
L’ha
fatto apposta! Io gliel’avevo detto che buttando
giù quel muro saremmo piombati negli alloggi di una
squadriglia, ma Alex non aveva voluto darmi ascolto, e così
ci ritrovammo schiena contro schiena a dover affrontare il nemico ancor
prima di poterci scambiare altre parole.
La battaglia iniziò a suon di sangue e
ossa rotte nell’oscurità che, purtroppo, non
giocava a favore di nessuno, perché nella stanza eravamo
tutti quanti capacitati di vista termica. Se Mercer brillava di un
rosso-arancio intenso come il tramonto e i Cacciatori Volanti al nostro
seguito di un verde selva, gli Angeli, il nemico, sfolgoravano di un
blu ciano acceso e incredibilmente brillante. Non appena mi riconobbi
come bersaglio di un Angelo, scattai in un balzo laterale che mi
permise di afferrargli l’ala destra e scaraventarlo contro la
mobilia. Fui subito accerchiata da altri due che tentarono di bloccarmi
per le braccia, ma divincolandomi a forza con tre agili mosse di judo
(con tanto di versi caratteristici) gli atterrai prima che riuscissero
a mettermi le mani addosso.
Dall’altra parte del salottino, Alex
Mercer faceva più danni all’ambiente attorno a
sé che ai suoi nemici. Affondò gli artigli nel
pavimento e trafisse non due, bensì tre Angeli che si
rovesciarono al suolo in una pozza di sangue, con tanti buchi in corpo
quanti quelli di una groviera. I due cacciatori volanti controllati da
mio padre si contendevano gli ultimi avversari tenendoli occupati, e
ciò permise a me ed Alex di avviarci all’uscita
del salottino, fuggendo in corridoio.
Alcuni Angeli fecero per inseguire i fuggitivi,
ma si udì una voce squillante gridare:
-No! Lasciateli andare!-.
Il capo clan della squadriglia che Emily Walker e
Zeus si erano lasciati alle spalle, emerse
dall’oscurità spiegando le ali nere dietro le sue
scapole.
Molti degli Angeli sopravvissuti
all’imboscata guardarono la donna con stupore.
-Ma Victoria, non sono questi gli ordini!-
obbiettò qualcuno, ma con grande stupore di tutti, i due
Cacciatori Volanti rimasti nella stanza, si acquietarono
improvvisamente appena videro comparire la capo clan. Victoria, i cui
capelli di boccoli fiammanti sembravano far luce propria nella stanza
buia, scrutò uno ad uno gli Angeli della sua squadriglia che
si guardarono spaventati da quelle enormi bestie alate divenute
improvvisamente così docili.
-Non temete, non andranno lontano…-
mormorò la donna con una certa rigidezza nella voce che non
le si addiceva.
Uno dei cadetti sgranò gli occhi
essendosi accorto dell’inganno. Fece per aprir bocca, ma
all’improvviso, il cacciatore volante più vicino a
lui lo tagliò di netto con una delle punte sulla coda,
affilate come coltelli. Il suo corpo si rovesciò a terra in
una pozza di sangue, diviso a due parti uguali.
Gli Angeli attorno indietreggiarono spaventati,
ma non ci fu via di scampo per nessuno quando il bel corpo femminile e
pronunciato di Victoria tramutò nel robusto e ben piazzato
vigore maschile del famigerato dottor Mark Andrius Walker.
Entrambi i Cacciatori Volanti al suo servizio si
scagliarono sui combattenti restanti, dilaniando pezzo per pezzo la
carne contaminata della squadriglia tutta.
-So io quali sono gli ordini-
pronunciò assorto il dottor Walker assistendo immobile allo
scempio.
Quando nella stanza restò solo un lago
di sangue e ossa spezzate, Mark e i suoi fedeli segugi lasciarono il
salottino a piccoli passi calmi.
Dietro di loro, però, qualcuno di vivo
era rimasto: Victoria, quella vera, rigenerò le proprie
carni assorbendole dal sangue altri e ricostituì il proprio
corpo assieme alla divisa onoraria sbrindellata in alcune parti.
La ragazza, una volta in piedi seppur traballante
per via del poco vigore nelle vene, spaccò i vetri della
finestra vicina e si arrampicò fuori
dall’edificio, salendo di un piano solamente.
Piombò in una delle stanze private del clan centonovantesimo
riversandosi al suolo nel trambusto di vetri spezzati e ossa rotte.
Il proprietario della camera, già
allertato dai rumori proveniente dal piano di sotto, si
chinò sulla ragazza che, quando lo riconobbe,
mandò un bagliore con gli occhi.
Quelli di lui si accesero di altrettanta ira nel
momento in cui Victoria sibilò quattro esatte parole:
-Walker e Zeus sono qui…- e poi,
troppo debole, morì.
Emmett Word si sollevò da terra e
corse fuori dalla sua stanza. Abbandonò il salotto del
proprio clan con grande stupore di Lucy ed Herry, che se lo videro
volare via sotto al naso. -Emmett, Aspetta! Dobbiamo rispettare il piano!!- tentò Harry, ma Lucy si frappose tra lui e l'altro ragazzo prima che questi potesse travolgerlo.
Appena fu in corridoio, Emmett spiegò le ali
e si diede al volo con un grido rabbioso, avendo atteso quel momento
anche troppo allungo.
Corsi dietro di lui verso le scale, ma Alex
cambiò improvvisamente direzione e, aggirando i gradini, si
diresse contro le ante chiuse dell’ascensore. Le
sfondò entrambe con una spallata e, trovandosi sospeso a
mezz’aria, intraprese una corsa verticale com’era
suo solito fare sui palazzi di città.
Mi gettai anch’io nella tromba
dell’ascensore e dispiegai le ali, restringendole di qualche
metro, in modo tale da sfruttare la corrente dell’impatto, la
stessa che Mercer trascinava dietro di sé.
-Bel casino, eh!- strillai quando gli fui
abbastanza vicino.
Alex balzò su un’altra
parete del corridoio e prese a correre su di essa. –Era
necessario- eruppe, senza mai distogliere lo sguardo
dall’ultimo piano avanti a noi di un centinaio di metri
ancora.
Posando un piede su una centralina elettrica
coperta, mi diedi una maggiore spinta verso l’alto, potendolo
affiancare nell’ascesa. –Non era questo il piano!-
lo incalzai.
-E chissene frega!- fu la sua brutale risposta
quando balzò di nuovo spostandosi sulla terza parete.
Ormai in vista della cabina
dell’ascensore, bloccata ad un piano preciso
dell’edificio, Alex si diede un’ultima spinta coi
talloni e, piegando le ginocchia, acquistò maggiore potenza
quando, con un braccio teso, perforò pavimento e soffitto
della cabina. Ricominciò poi a correre lungo la tromba
dell’ascensore come se nulla fosse capitato sul suo cammino.
Stringendomi le ali al corpo passai da una parte
all’altra dell’ascensore attraverso lo stesso foro,
costantemente al suo inseguimento.
Chissà quanti Angeli erano
già sulle nostre tracce, mi chiesi, e quanti ancora si
sarebbero allertati sentendo tanto trambusto…
La corsa verticale di Alex s’interruppe
solo a destinazione. Giunti in prossimità
dell’ultimo piano della base, ospitante sia i laboratori che
gli uffici della direzione, Mercer sfondò le ante chiuse con
una medesima spallata e ci aprì la strada
sull’asettico corridoio avvolto dalle tenebre.
Zeus si fermò sul pianerottolo
guardandosi attorno e riprendendo fiato. Mi affiancai a lui richiamano
le ali nella schiena e scrutando l’orizzonte con
l’ausilio della vista termica.
-Dove sono tutti?- mi chiese lui in un sussurro,
non individuando come me alcuna forma di vita, umana o mutante,
nell’arco di cento metri dalla nostra attuale posizione.
Non seppi che rispondere.
Alex interpretò male il mio silenzio:
mosse un passo avanti nel corridoio tramutando tutto il braccio in una
grossa lama nera pece. –‘Sta pronta- disse,
facendomi rabbrividire per quanto era fredda la sua voce in quel
momento. –Stanno arrivando- aggiunse.
-Chi?- mi allarmai non poco.
-I tuoi amici- spiegò senza mezzi
termini, e avanzò ancora nell’oscurità.
Sobbalzai, bianca in volto. –E hai
intenzione di ucciderli?!- eruppi andandogli incontro.
-Se sarà necessario…-
assentì freddo come il ghiaccio dei suoi occhi che, appena
tentai di fermarlo, mi fulminarono come un tuono a ciel sereno.
-Aspett…!!-.
-‘Sta pronta- ripeté
più duro della roccia, interrompendomi.
Lasciando che avanzasse per conto suo, mi guardai
attorno con aria circospetta e spaventata.
Se ricordavo bene, ad attenderci avremmo dovuto
trovare tanti Angeli arrabbiati e armati fino ai denti da far invidia
ad una mischia di anarchici incazzati contro il governo. Invece, tutto
ciò che di vivo c’era in quel corridoio eravamo io
ed Alex, che tanto “vivi” non potevamo nemmeno
definirci.
Ben presto persi del tutto di vista il mio
compagno che improvvisamente sembrava essersi volatilizzato nel nulla.
Allungai più volte la mia attenzione qua e là, ma
era come se la mia stessa capacità di visione termica, in
grado di riconoscere Alex anche attraverso i muri, fosse stata
sabotata. D’un tratto avevo perso il suo profumo, smarrito la
sua scia contaminata.
Ero sola.
Bella
merda… pensai con leggera agitazione.
Ebbi paura di allertare qualcuno di troppo se
avessi gridato il suo nome, nel vano tentativo di riallacciare i
contatti.
Come
al solito fa di testa sua! IDIOTA! Dovevamo restare uniti! Imprecai.
Senza ripetermelo due volte, avanzai spedita nel
corridoio che sapevo conduceva direttamente all’ufficio di
Lewis Martin. Ma come era successo alla scia di Alex, anche quella
puzza malvagia di Arcangelo che apparteneva al mio ex-capo era
scomparsa dalla mia portata.
Era strano pensare che in quegli uffici non
avesse camminato nessuno per così tanto tempo
perché non si lasciassero tracce. Cominciai ad insospettirmi
già da subito, quando un curioso bagliore catturò
la mia attenzione sulla destra.
Purtroppo mi spostai troppo lentamente,
perché il grosso corpo contundente che mi scagliò
contro, duro come l’acciaio, mi colpì in pieno
fianco frantumandomi una decina di costole.
Finii spiattellata contro la parete opposta del
corridoio e quasi vomitai le mie stesse budella mentre, a poco a poco,
il tessuto interno di muscoli ed ossa si rimontava come i mattoncini
del lego. Tossicchiai, premendo la guancia al muro e accorgendomi di
avere la spina dorsale accartocciata in una posa innaturale. Udii dei
passi, poi qualcuno alle mie spalle mi afferrò per i capelli
con una presa salda di una grande mano.
Il suo tocco, che avevo assaggiato più
volte sulla pelle, era inconfondibile: Emmett.
-Ciao, stronzetta- mi ringhiò in
faccia quando mi ebbe sollevata alla sua altezza. I miei piedi
toccavano terra, le sue grandi ali nere erano spiegate dietro le
scapole e mi minacciavano coi loro artigli affilati.
All’interno del mio corpo continuava il
riassestamento delle ossa che, conoscendomi, avrebbe impiegato il tempo
necessario perché Emmett mi facesse un culo tanto.
Perdonate
il micro capitolo, ma di questi tempi è un miracolo se trovo
tempo, modo e coraggio di scrivere! XD Ho sospeso tanto di quei lavori
che neppure immaginate. Da una parte sono troppo fomentata
all’idea di scrivere una long fic a più mani con goku94
su Dante’s Inferno, l’esclusiva ps3 e xbox360
versione rivisitata della nostra amata/odiata Divina Commedia! XD Senza
contare la one
che ho già postato... <.<
Dall’altra,
invece, sono schiacciata dalla responsabilità di ben due
commissioni per quanto riguarda AC! XD
Tra
tutto questo vorrei aggiungere anche lo studio, il lavoro di
recupero… vi ho mai accennato al mio cambio
d’indirizzo? No? Ah, bene! XD In sintesi ho mollato il
classico e cercato rifugio nell’artistico <.< e
per questo i miei ancora mi odiano…
Vabbuò!
A
presto! ^O^
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