[Prototype] - Angels in the Hell

di cartacciabianca
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo, Caduti nell'Inferno ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2° - Emily&William ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3° - People's prime ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4° - Cetriolini sott'olio ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5° - Ali ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6° - Un anno dopo ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7° - Scommessa ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8° - Angel 1-9-2 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9° - Blacklight ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10° - Arcangelo ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11° - L'arma più potente/Conoscere il nemico ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12° - Perdono e vendetta ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13° - La bestia che dorme ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14° - Cinque minuti ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15° - Rifiutate richieste d'aiuto ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16° - Cambio di piani ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17° - Burocrazia che evolve ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18° - Nuovi Cacciatori ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19° - Back to the Hell ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20° - Sete di sangue ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21° - Degni avversari ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22° - Tutta la verità ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23° - Rotrovarsi... in lacrime ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24° - Vecchie anime infette ***
Capitolo 25: *** Capitolo 25° - Le stelle tornano sempre ***
Capitolo 26: *** Capitolo 26° - Una guerra senza leggi, un gioco senza regole ***
Capitolo 27: *** Capitolo 27° - Attacco al Paradiso ***
Capitolo 28: *** Capitolo 28° - Ordini e Piani ***
Capitolo 29: *** Capitolo 29° - Polpetta al sugo ***
Capitolo 30: *** Capitolo 30° - Gemelli ***
Capitolo 31: *** Capitolo 31° - Nel vortice ***
Capitolo 32: *** Capitolo 32° - Inciso ***
Capitolo 33: *** Capitolo 33° - Welkome back 'tween us ***
Capitolo 34: *** Capitolo 34° - Orgoglio e Pregiudizio ***



Capitolo 1
*** Prologo, Caduti nell'Inferno ***




Capitolo 1°
- Prologo, Caduti nell'Inferno

«Siamo Angeli caduti nell’Inferno.

Il Governo degli Stati Uniti d’America ha analizzato il Campione Zeus estraendone un gene due volte più potente.
Siamo stati scelti dal popolo, pescati dalla folla nell’anonimato.
Siamo stati catturati come bestie e divenuti vittime dei loro scopi.
Siamo e continueremo ad essere utili alla nazione, ma… quando non serviremo più, sappiamo tutticon chiarezza cosa ne faranno di noi.
Non so con precisione quanti di voi sono come me.
Ma so per certo che siamo quasi un centinaio e sparsi nel mezzo dell’epidemia con un obbiettivo preciso:
trovare e annientare ogni sorta di esponente positivo del Virus.
Abbiamo accettato questa nostra missione, perseguito con animo il nostro destino.
Abbiamo creato una nostra base, un luogo dove riconoscerci e proteggerci.
Lo chiamiamo il Paradiso, perché in ogni angolo di quartiere di questa merda di città presiede almeno uno di noi!
Faccio questo appello a chiunque voglia unirsi alla nostra battaglia.
Angeli o umani, col gene Zeus nel sangue oppure no non fa alcuna differenza!
Il Virus è un nemico comune, che ha preso piede oltre le barricate di Manhattan e sta mietendo milioni di innocenti nelle principali città americane…
New York per prima…
Ma adesso San Francisco e Los Angeles…
Domani Washington D.C…
Ci sarà un giorno in cui l’epidemia toccherà l’oriente e defluirà in Europa.
Le nostre ali dovranno impedire tutto questo prima che il genere umano venga spazzato via dalla faccia della Terra.
Sto trasmettendo questo appello di fratellanza da una stazione mobile, accerchiato da un branco di Cacciatori che non aspetta altro che la mia carne siero positiva…
Oggi è il 19° giorno dell’infezione.
Io sono il Dottor Mark Walker.
Voi, e il luogo nel quale state ascoltando questo messaggio, siete il Paradiso.
Chiudo».


GIORNO DELL’INFEZIONE 569°
POPOLAZIONE INFETTA: ---


L’aria divenne tersa, irrespirabile. Il cielo era scomparso per sempre dietro una nube rosso sangue. I grattacieli andavano in frantumi col passare del tempo, perdendo pezzo dopo pezzo travi e componenti di metallo che si rovesciavano a terra con boati assordanti, mentre i focolari ancora accesi qua e là continuavano a far danni. I marciapiedi smontati, le mille crepe nel terreno e i buchi nei palazzi.
Le strade di New York, intasate delle carcasse di automobili, elicotteri e carri bruciate dall’esplosione, erano quel giorno deserte.
Un presagio, una visione, un quadro apocalittico che neppure i capitoli peggiori del Libro dell’Apocalisse.
C’era silenzio, ma non quel genere di silenzio perché non si ha da fare, da dire o di che pensare. Era un silenzio voluto, da tanto trattenuto e ostentato.
Mi trascinavo a fatica, un braccio attorno al ventre e le ginocchia piegate, stanche che avrebbero ceduto a breve, ne ero certa. I miei passi silenti vagano nella desolazione di Broadway, dove il caccia The End era piovuto e precipitato, radendo al suolo il quartiere.
The End, la fine, la soluzione ai loro problemi; o più comunemente la bomba nucleare installata nell’artiglieria di un aereo militare che, precipitato nel centro di Manhattan aveva spazzato via i palazzi e interrotto definitivamente l’epidemia.
Gli alveari diffondevano per le strade la loro puzza morta, assieme ai cadaveri della gente innocente buttati via, carbonizzati accanto a quelli dei cacciatori e dei portatori malati.
Ciò che restava attorno a me, dunque, non poteva essere altro che un campo di rossa desolazione.
Indossavo i miei vestiti ancora integri, ma in me si muoveva una sgradevole sensazione di dolore che partiva dai muscoli delle gambe e arrivava sino alla base del collo. Ansimai, ma in fine non riuscii a resistere oltre, e fermandomi nel centro di quel campo desolato e polveroso, mi accasciai a terra.
La mia guancia premeva contro il sangue di corpi sventrati e ustionati senza pietà, avvertivo sulle labbra il freddo del metallo di forse alcuni frammenti di un’auto volata chissà dove per l’esplosione.
Non tentai subito di alzarmi, godendomi quel poco di riposo che mi era concesso. Mi girai di fianco, rovesciandomi a pancia in su e soffocando in gola un tenue lamento.
I miei sensi vigili, svegli, amplificati captarono subito la sua presenza. Mi stava osservando, nascosto lì dove lui pensava non potessi vederlo.
E invece si sbagliava di grosso.
Sapevo benissimo che era lassù, sulla cima di quelle rovine dell’Empire, in piedi sul pizzo di una trave.
A quel punto provai ad alzarmi e, poggiando un gomito a terra e facendo leva su di esso, mi misi a sedere il più comoda possibile tra le macerie. Dopodiché alzai il mento e guardai dove la sua figura nera, piccola e ben eretta copriva i raggi del sole del tramonto, allungando la sua ombra sino ai miei piedi.
Il fumo andava diradarsi. Erano trascorse poche ore dall’esplosione, ma l’energia nucleare e tutti i suoi gas più tossici si spostavano svelti sospinti da una brezza bollente, quasi desertica.
I miei capelli scuri e ondulati mi ricadevano in boccoli sporchi e unti sulle spalle. Il mio viso tondo, giovane, aveva perso tutta la sua fanciullezza. Persino il mio sguardo, i miei occhi marroni avevano perduto la loro lucentezza arrossandosi in un modo spettrale e permettendo la comparsa di quelle occhiaie che consumavano le mie guance bianche.
La mia pelle chiarissima, cadaverica quasi. Mi guardai le mani che avevano impercettibilmente cominciato a tremare, ed io con loro.
Non capii cosa mi stesse succedendo, non capivo un bel niente. Mi sentivo debole, stanca… Andai subito nel pallone dei sensi, non riuscendo a mettere a fuoco la vista e percependo il fiato mancarmi nei polmoni.
Sciocchi umani illusi che avevano pensato bene di sganciare una bomba nucleare per sbarazzarsi sia degli zombie assatanati che di noi…
Risentivo degli effetti del nucleare sulla mia pelle, ne avvertivo la consistenza e il malessere non riuscendo a controllare i mie poteri. E pensare che un tempo, perché c’era stato un tempo, giusto dieci giorni prima, in cui ero riuscita a tener testa al più temuto di tutti i portatori sani…
Era cominciato tutto pochi giorni prima, prima che The End si schiantasse sulla città a recasse fuori tutto e tutti, abbandonando New York in quello stato.
Lo guardai con entrambi gli occhi spalancati; “mi dispiace..” dissi muovendo le labbra in mute parole, ma lui, da lassù, non mi diede alcuna risposta.
Si limitò a gettarsi nel vuoto, con un salto nel vento che gli sollevò appena i lembi del giubbetto e la maglia bianca sotto di esso.
Un istante più tardi, la sua figura composta e leggiadra si schiantò con ferocia al suolo, sollevando uno strato di polvere che mi travolse a tutto spiano, assieme al boato dell’asfalto che andava in frantumi.
Il ragazzo, lo vidi, si tirò su lentamente continuando a fissarmi da lontano.
Chinai la testa, colpevole e assoggettata, sfuggendo ai suoi occhi di un azzurro quasi grigio, innaturale. Metà del suo viso era celato sotto il chiaro cappuccio, le braccia lungo i fianchi, ad una decina di metri da me.
Mi accorsi che stava venendomi in contro troppo tardi, perché tentai la fuga voltandomi tutt’altra parte e tirandomi in piedi.
-Vattene, lasciami stare!- gridai.
Mecer continuò ad avanzare nella mia direzione, ed io a sfuggire dalla sua.
-Cosa vuoi? Cosa vuoi ancora da noi?!- gli urlai contro girandomi a guardarlo, continuando ad indietreggiare frettolosa. –Basta, hai vinto! Lasciami in pace!-.
M’inquietava parecchio vederlo venire verso di me così tranquillo, quasi fosse certo che in un modo o nell’altro sarei morta comunque; per mano sua o no.
-Vattene, basta… ti prego…- mormorai flebile. –Mi dispiace, mi dispiace Alex…- aggiunsi.
Inciampai su qualcosa alle mie spalle e caddi a terra di schiena.
Serrai i denti e tenni il dolore per me e per me soltanto.
Zeus era proprio davanti a me: mi guardava con null’altro in volto che non fosse un’immensa serietà e pena che non mi aspettavo.
-Alzati- disse.
Esitai, incredula di tali parole.
-Ho detto alzati- ripeté.
Cercai e tentoni qualcosa a cui appoggiarmi, ma prima ancora che potessi solo realizzare del tutto che la sua intenzione non era di farmi ulteriormente del male, lo vidi porgermi la mano.
Mi stupii non poco di quel gesto, e ciò fece nascere nel mio interlocutore qualcosa che gli diede parecchio fastidio.
Ritrasse il braccio, tornando a fissarmi con odio.
-Ti hanno mandato loro?- chiese.
-Loro chi?- domandai arrogante, ma a quanto mi parve non fu contento della mia risposta.
Alex mi afferrò con violenza per la giacca e mi sollevò così da terra, tenendomi stretta con entrambi i pugni.
-Smettila di mentirmi, Emily! Ti hanno mandata loro! Per uccidermi!- ruggì.
I miei piedi galleggiavano nel vuoto, mentre non opponevo alcuna resistenza alla sua presa. –Sì…- assentii.
Vidi i suoi occhi balenare di una luce diversa, triste, e le sue labbra schiudersi incredule. -…Emily- chiamò ancora il mio nome, allentando la stretta dei pugni sul mio cappotto. –Perché, Emily?! Non siamo uguali te ed io?! Non lo siamo?!- mi chiese avvicinando il viso al mio.
-No, Alex. Non lo siamo!- quanto mi costò pronunciare queste parole… -Non lo siamo mai stati e mai lo saremo, mi dispiace…- sussurrai, poggiando delicatamente le mie dita su una sua mano. –Credimi, mi dispiace davvero… tantissimo- cercai il suo sguardo che invece mi sfuggì, e ciò che vidi fu solamente la rabbia tornare ad attraversare gli zigomi del suo volto.
-Adesso…- balbettai. –Adesso mettimi giù, per favore…- sibilai. –Alex…- tentai di chiamarlo, ma mi accorsi con non poco stupore del vuoto nei suoi occhi, che già vagavano nei ricordi confusi e annebbiati, ma piacevoli, che aveva di me e delle poche e meritate esperienze trascorse assieme.
-Alex… ti prego- singhiozzai debolmente, e una lacrima d’argento mi scese lungo la guancia.
Il modo in cui mi guardava, come speranzoso che fosse tutta una balla, come in attesa che gli dicessi: “ah, piaciuto lo scherzo?”… cosa che non feci, che non potei fare, che nessuno mi aveva chiesto o ordinato di fare.
-Mettimi giù, Alex!- gemetti tra le lacrime, cominciando a calciare il vuoto sotto i miei piedi e dimenarmi forsennata.
Il ragazzo mi afferrò con una sola mano sollevandomi più in alto, allontanandomi dal suo viso.
-Come vuoi!- sbraitò.
Mantenne la parola, ma non precisamente nel modo che mi aspettavo.


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Capitolo 2
*** Capitolo 2° - Emily&William ***


Capitolo 2° - Emily&William


«Per arrivare a quel triste giorno, ho dovuto ripercorrere alcuni nessi della mia mente, alcuni ricordi, alcune emozioni che speravo non avrei mai intrapreso nella mia vita.
Ho fatto cose… che voi neppure immaginate.
Ho conosciuto persone… che hanno tentato di uccidermi.
Ma ne ho conosciute altre… che mi hanno dato troppo del loro affetto, e di cui adesso ho perso completamente la fiducia.
L’epidemia era già cominciata quando ancora vivevo con i miei genitori a Manhattan, in uno dei quartieri intatti ai bombardamenti militari e immuni al virus.
Suonati gli allarmi, io e la mia famiglia ci siamo trasferiti altrove. Sono andata a vivere a Brooklin, col mio ragazzo, William, e ho trascorso lì i giorni del terrore che hanno segnato l’America con una profonda cicatrice.
E’ stato in un attimo, un giorno, un istante… in un secondo!
Mi sono distratta, per la prima volta ero certa che la mia e la vita di chi mi stava attorno sarebbe presto migliorata. E invece, quando pensavo che tutto si sarebbe aggiustato nel migliore dei modi, è cominciato l’inferno…»

Inciampando su un gradino, il ragazzo biondo perse la presa sullo scatolone, e il suo interno si rovesciò sul chiaro parquet del salotto.
-Dannazione!- sbraitò lui chinandosi a raccogliere i libri e vari fogli che erano sparpagliati a terra disordinatamente.
-Willy, cosa…- mi affacciai dalla cucina e lo vidi. –Cosa hai combinato?!- sbottai andandogli incontro.
-Scusa, Emy, ma… sono scivolato, io…- balbettò guardandosi intorno dispiaciuto, gesticolando confusamente.
-Willy, guardami- dissi piegandomi alla sua altezza.
Il ragazzo si volse affranto verso di me, riponendo lentamente un tomo nello scatolone. –Ti guardo, ti guardo…- mormorò.
Gli poggiai una mano sulla guancia. –Qui siamo al sicuro, non pensarci. Il virus non uscirà dall’isola finché non saranno i nostri soldati a permetterlo-.
-Lo so, piccola, ma…-.
-Allora niente ma!- gli sorrisi afferrandolo per i polsi e tirandolo in piedi. –Smettila di stare con la testa in mezzo ai siero positivi, smettila di immaginarteli la notte, smettila, smettila…- gli sussurrai all’orecchio abbracciandolo. –Fallo per me- aggiunsi soave.
Le sue braccia si strinsero attorno ai miei fianchi. –Va bene, ci proverò- mi carezzò la schiena.
-Forza, dammi una mano- ridacchiai cominciando a raccogliere i libri dal pavimento e impilandoli nello scatolone.
Era un ragazzo così dolce, e la sua premura nei miei confronti non arrivava ai livelli di nessun altro. Avevo trovato in lui tutto ciò che potevo desiderare, e altrettanto William sembrava vedere in me. Ci eravamo conosciuti all’Università e da allora non ci separammo mai. All’inizio come amici, e poi come qualcosa di più. Eppure, lui così timido, così riservato, così attaccato al suo mondo e ai suoi corsi di medicina avanzata era finito per tralasciare l’aspetto fisico del nostro rapporto. Quindi mi ritrovavo ancora vergine all’età di 22 anni. Non la consideravo una vergogna, anzi.
Allo stesso modo di come sapevo restargli accanto quando mi rifiutava, lui si mostrava altrettanto fedele.
Si era offerto di ospitarmi in casa sua perché i miei nonni avevano davvero un buco che bastava a mala pena a loro e ai miei genitori. Altrettanto grande era la tana che il mio ragazzo si era offerto di condividere con me, ma non potevo comunque lamentarmi. Dal mio vecchio appartamento avevo portato giusto l’indispensabile e quello scatolone che Willy aveva rovesciato a terra poco prima, e che ora ci apprestavamo a risistemare insieme.
Ad un tratto sfoderai un gioioso sorriso e incontrai i suoi occhi azzurri di svista. Ricambiò la mia allegria con quel trasporto che immaginavo, colorandosi appena le guance.
Stava arrossendo, perché le situazioni imbarazzanti e stupide quando capitavano a lui non gli piacevano proprio.
-Non riuscirò mai a ringraziarti abbastanza- dissi spezzando quel silenzio.
Il mio ragazzo prese in braccio lo scatolone e si alzò in piedi. –Stai scherzando, vero? Non dovrai mai ringraziarmi, mai- ridacchiò lui andando verso la stanza in fondo al corridoio.
Lo seguii a ruota e lo vidi poggiare la scatola sulla piccola scrivania presente nel locale, che doveva trattarsi della sua camera da letto.
Era piuttosto sobria come stanza: una piazza e mezza addossata alla parete, un’ampia finestra sotto la scrivania, qualche armadio a muro e l’ingresso di un bagno abbastanza grande che si ricollegava attraverso una seconda porta anche al corridoio. Sullo stesso piano dell’appartamento c’era l’angolo cucina, davvero un buco, e il salotto, ampio e con delle ariose vetrate che davano sulla stradina di quartiere. Era una giornata soleggiata, e dalle finestre entrava parecchia luce che illuminava tutto il pianoro.
Il secondo livello invece era ciò che rimaneva: la soffitta, che però, da quanto sapevo, il mio Willy utilizzava come studio.
-Ah, bene- sorrisi. –Pensavo che sarei finita a dormire nella soffitta- commentai sedendomi sul letto.
-Ecco, sì… infatti- esitò lui incrociando le braccia al petto. –Spero che non… che non ti dispiaccia se dormiamo nello stesso letto-.
-Ah!- alzai gli occhi al cielo. –Perché dovrebbe dispiacermi, sentiamo?- sghignazzai alzandomi e avvicinandomi a lui. –Te la fai ancora sotto?- lo derisi.
Il ragazzo mi lanciò una di quelle occhiate cagnesche che… lo rendevano molto sexy. –No- sbottò solamente.
-E allora che problema c’è?…- gli sussurrai a fior di labbra.
Percepii le sue mani poggiarsi sui miei fianchi ma indugiare oltre quel punto; nel frattempo mi allungai ulteriormente verso di lui, stavo quasi per baciarlo quando…
Il campanello di casa ci fece sobbalzare entrambi.
-S-s-scusa- balbettò William scostandosi bruscamente da me ed io, sbuffando, mi lanciai a sedere sul letto, rimbalzando sul materasso.
Sentii la porta aprirsi e una voce familiare che diceva:
-William, tesoro! La mia Emily è qui?- domandò spigliata Susan varcando l’ingresso senza che nessuno glielo avesse chiesto.

«Susan McSoil, detta Susy SeSiAccollaSeiFregata. Castana, di capelli, di occhi e di pelle. La mia compagna delle elementari che mi sono ritrovata ai corsi di genetica all’ultimo anno di Università. Ora mia migliore amica, Susan non fa altro che riempire la mia rubrica di messaggini di prevenzione alle catastrofi che sta portando il virus nella nostra città. Ora non voglio mica essere razzista, anzi… compatisco molto quella ragazza, che da quando ha saputo che suo padre, unico sopravvissuto ad un disastroso incidente aereo tra i due genitori, era stato contaminato dal virus, si era attaccata a me e al mio ragazzo senza darci mai tregua. Speravo che dopo la fuga in casa di William non riuscisse a trovarmi, ma a quanto pare…».

-Sì, è di là- balbettò William indicando la stanza nella quale mi trovavo.
-Uh!- gioì Susan. –Nella camera da letto? Roba sconcia senza il mio permesso?- ridacchiò, e il suono dei tacchetti delle sue ballerine risuonò nel corridoio.
Quando comparve sull’ingresso della stanza, scattai subito in piedi e cercai di darmi un contegno. Sembrava davvero che io e Willy avessimo trescato fino ad allora, bastava guardare i miei capelli.
-Susy!- corsi ad abbracciarla. –Mi hai trovata…- brontolai, e il puzzo del suo profumino chanel mi offuscò la vista. Esatto, la vista, non l’olfatto. Era così pesante quel profumo che cominciarono a lacrimarmi gli occhi.
-Alle sette, questa sera, People Pub. Niente buca!- disse soltanto, e poi lasciò l’appartamento.
Così com’era venuta, se n’era andata.
Ed io e William eravamo immobili come stoccafissi che ci guardavamo complici. Scoppiammo a ridere subito dopo che la porta si fu chiusa alle spalle di Susan.
-People Pub?- domandai incredula. –Ma in quel posto c’è sempre il pienone! Bisogna prenotare un mese prima per trovare un buco…-.
William si strinse nelle spalle cacciandosi le mani nelle tasche dei jeans. –Sai com’è fatta Susan- sorrise di sottecchi.
-Sì- risi con lui. –Però mi stupisce che anche con l’epidemia che miete milioni di vittime quel locale sia aperto…- sospirai andando a guardare nello scatolone sulla scrivania.
Il ragazzo mi si avvicinò con pochi passi. –Magari fanno dei riti di commemorazione. Potrebbe essere divertente, e fallo anche per lei… insomma-.
-Lo so- lo anticipai. –Suo padre, lui è stato contagiato e chissà se è ancora vivo in quel bordello a Manhattan…- mormorai affranta.
-Adesso sei tu quella che si deprime- commentò lui cingendomi le spalle con un abbraccio.
Mi appoggiai completamente al suo petto. –Non sono depressa, vorrei solo trovare un modo per… reagire, combattere, capisci?-.
-Forse qualcuno- inarcò un sopracciglio –ha ascoltato questa tua voglia di vendetta e potrebbe interessarsi a te come macchina da guerra!- mi derise.
-Zeus…- sospirai.
-Già il fatto che tu conosca certe informazioni riservate non è un bene- mi rimproverò.
-Mio padre ha a che fare con l’esercito da sempre, cosa posso farci?- sbottai voltandomi e trovandomi con il viso poco distante dal suo.
-Tuo padre lavora nell’aeronautica, non nei servizi segreti, non dare la colpa a lui. Sei tu che ficchi il naso troppo oltre!- mi punzecchiò con un dito.
-Andremo al People, ma non voglio sentirti mugolare alle mie spalle se una bella ragazza ti fa la corte e tu vuoi andartene per paura di lasciarla in cinta!-.
-Ma in quel caso…-.
-Niente ma!- risi isterica. –Ti farebbe bene un po’ di sano sesso, guardati! Sei teso come uno stecco!- sbraitai uscendo dalla stanza e avviandomi con passo serrato verso il salotto.
-E tu sei troppo nervosa!- ribatté lui.
-No! Sono tranquillissima!- nel mio tono di voce c’era poco e niente che certificasse uno stato d’animo “sereno”.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3° - People's prime ***


Capitolo 3° - People's prime


«Ricordo benissimo la piccola insegna luminosa del People Pub: il locale è di origine inglese, e il suo timbro così come la sua immagine rispecchia molto il simbolo della metropolitana di Londra, se non fosse che nel centro dell’insegna rossa, al posto della parola “underground”, vi è una scritta blu luminescente che dice “people”. Non era la prima volta che visitavo quel posto, che era finito per diventare uno dei pub preferiti di Susan così come uno dei miei. Credetemi, è una delle poche cose che abbiamo in comune io e quella poveretta. L’ingresso non è affatto sfarzoso, ma è conosciuto da molte persone alla maggior parte delle quali è vietato entrare. La sua stretta clientela, soprattutto di questi ultimi tempi, ha la sua fama, e ancora mi domando come Susan, e ripeto… Susan, sia riuscita a procurarsi tre ingressi quando la gente fa la fila con mesi di anticipo. È situato in una zona poco frequentata nella periferia di Greenpoint, alle spalle del McCarren Park; si tratta di un quartiere residenziale fatto di piccole abitazioni, ma che durante le serate estive e i weekend fa baldoria come fosse capo d’anno.
L’idea di riavvicinarmi ai miei amici, dopo quello che è successo a tutti noi, mi allietava, ma…
C’era questo ed altro al centro dei miei pensieri.
Non riesco a concepire, sono profondamente turbata dal fatto che con il Virus in circolazione, ragazzi e ragazze ancora girovaghino per la città a piede libero, e che le forze armate americane permettano un così facile contagio, scambio di infezione. Anche se il gene non si trasmette attraverso nessun altro contatto se non quello del sangue, mi aspettavo come minimo qualche misura più attendibile di precauzione. Bastava che un solo cliente del People fosse contagiato e provasse a metterci le mani addosso ed eravamo tutti spacciati lì dentro, al chiuso, con tutta quella gente che intasa l’entrata e l’uscita sul retro. Nessuna via d’uscita in caso di pericolo…
Senza pensarci troppo, scovai una parte di me che era terribilmente in ansia, preoccupata che si trattasse di una trappola. Dopotutto, i siero positivi al virus si evolvevano velocemente, e non sto parlando solo dei segugi e dei cacciatori, ma di maestri nel camuffamento. Basti pensare a Zeus… e a tutte quelle volte, in diretta sui giornali, che è riuscito ad infiltrarsi nelle basi nemiche senza troppi problemi. La sua abilità di mutar forma è ciò contro combattono le forze dell’esercito da sempre, ciò contro combatte mio padre ogni giorno.
Lavorando all’aeronautica con un rango bello e buono da ufficiale, Mark Walker, il mio paparino, mi ha raccontato di essersi scontrato con Zeus ben due volte, durante le sue esercitazioni in elicottero, e di esserne scampato per miracolo e maestria. Ma quelle volte non gli sono mai bastate a fargli neppure un graffio. Alex Mercer sembra invincibile, non c’è nulla che riesca soltanto a fargli il solletico.
Proprio per questo motivo sono una vittima costante della paura, sentimento che quotidianamente nascondo sotto una maschera di coraggio, una maschera che aiuti in primis me stessa ma anche che mi sta attorno, come il mio ragazzo, per esempio. Ed ora, avanzando così verso il pericolo, mi sembra una mossa poco saggia. Forse non sarei dovuta mai uscire di casa, avrei dovuto barricare le finestre, sbarrare la porta, isolare le comunicazioni, e attendere che accadesse qualcosa.
Qualsiasi cosa.
Ma sfortunatamente… non l’ho fatto.»

Fermai l’auto qualche isolato prima dell’ingresso del locale, trovando un buco di parcheggio dove infilare la mia macchina proprio sotto la luce accecante di un lampione della strada. Quando arrestai il motore ed estrassi le chiavi, mi voltai sorridente verso il mio ragazzo, accorgendomi degli occhi bassi e l’espressione contrariata che aveva William in volto.
Gli angoli della mia bocca si riabbassarono lentamente. –Che ti prende, adesso?- chiesi flebile.
Il giovane si passò una mano tra i capelli, riscuotendosi d’improvviso dai suoi pensieri. –Nulla, stavo pensando- disse sinceramente sfuggendo al mio sguardo. Lo osservai aprire la portiera e gettarsi svelto fuori dalla macchina, ed io feci altrettanto.
C’incamminammo mano nella mano sul marciapiede, avvicinandoci sempre più al luogo dell’appuntamento prefisso con Susan. Ci saremmo visti tra breve sull’angolo della strada per percorrere insieme gli ultimi tratti dell’isolato, dato che per entrare nel locale saremmo dovuti essere il gruppo al completo o la prenotazione saltava.
Ciò che attirò fin dal subito la mia attenzione fu l’inquietante silenzio che mi aleggiava attorno. Vedere quelle strade così taciturne, immobili quando invece mi sarei aspettata il solito baccano delle solite festicciole pubbliche attorno al locale mi spaventò oltremodo, dandomi un ulteriore possibile sospetto che sotto sotto la situazione fosse tutt’altro che pulita.
-Emily! William!- sentii chiamare, e mi voltai all’istante verso la direzione dalla quale era venuta quella voce squillante.
Susan aveva i lunghi capelli castani legati in una coda alta che le ricadeva su una spalla, la fronte alta e pulita risaltava la mandorla fusa dei suoi occhi incredibilmente neri quella notte senza stelle. Vestiva di un abitino scuro che le arrivava fino alle ginoacchia, i mezzi tacchi che portava nelle occasioni meno formali che tamburellavano sull’asfalto della strada e un giacchetto di pelle; il tutto abbellito da un corpo e delle gambe lunghe e snelle. Da lontano non mi parve neppure la solita Susan alla quale ero abituata. Mi aspettavo che si vestisse alla sua solita maniera, molto sfarzosa, come amava fare nelle serate che passavamo assieme nei locali, ma invece… era abbigliata nel modo più sobrio che le avessi mai visto.
-Susan?- assentii stupita.
-Forse mi sono dimenticata di dirti che non è un’occasione speciale, e che quindi non c’era nulla di speciale da indossare, ma vedo che non è poi un grande problema, dato che non ti sei neppure cambiata!- commentò allegra la ragazza.
William fece un passo avanti cacciandosi le mani nelle tasche dei pantaloni. –Ora puoi dirci perché hai organizzato quest’incontro? E come mai il People ha aperto? E perché non indossi i tacchi alti?!- chiese esasperato, e non mi stupii del fatto che fosse rimasto colpito dagli stessi particolari che avevano lasciato me alquanto sospettosa.
Susan sfoderò un mesto sorriso. –Veramente gli ingressi al People ‘sta sera sono gratuiti. Non ve l’ho detto perché magari avreste pensato chissà che, ma invece resterete molto stupiti di quello che organizzeranno- disse.
-E cioè?- domandai sbuffando.
-Lo vedrete…- stava per incamminarsi, ma William mi precedette e afferrò la ragazza per il braccio, voltandola bruscamente verso di noi.
-Ascolta- sbottò serio. –Te lo dirò molto semplicemente: non ce ne fotte un cazzo delle tue seratine, e tanto meno non credere che siamo tutta questa gioia di venirti dietro. Perciò spiegaci subito cosa diavolo sta succedendo e perché il People dava ingressi gratis! Con il Virus che gira, potrebbe trattarsi di una manovra del governo per sterminare una massa di infettati! Magari siamo malati e loro lo sanno, ma noi no! Susan, Cristo Santo, dicci che non è così…- sibilò pungente.
Ero con lui. Ero dalla sua parte, lo appoggiavo pienamente. Mi sentivo turbata dalle stesse domande e gli stessi dubbi, perciò non potei far altro che accompagnare la situazione con una brusca occhiataccia verso la mia amica.
Susan non disse nulla per diversi istanti, ma in breve la sentii prendere fiato e ammirai l’espressione sul suo volto tramutare dalla gioia alla compostezza. –Il People e tutti i locali ancora aperti di New York organizzano una serata di beneficenza per le vittime della Guerra. Sono stata invitata perché mio padre è morto colpito dal Virus nel centro di Manhattan, durante una delle prime repressioni. Volevo che mi accompagnaste perché da sola non avrei potuto guidare ubriaca fino a casa- sorrise. –Ovviamente non si tratta solo di questo, ma speravo anche che vi facesse piacere, dopotutto siamo tutti sulla stessa barca, no?- affermò più allegra.
Annuii con forza, rivolgendo uno sguardo a William che ricambiò complice.
-E va bene- disse il mio ragazzo riprendendomi per mano.
-Andiamo, avanti- aggiunsi io, e c’incamminammo lungo il marciapiede l’uno affianco all’altra.

Non credei ai miei occhi quando raggiungemmo l’ingresso del pub, completamente deserto. Pensai addirittura che avessimo sbagliato strada, ma non poteva certo essere così poiché sentivo benissimo i bassi della musica tuonarmi nelle orecchie.
Guardai l’insegna luminosa con sospetto, e successivamente, seguendo Susan che era in testa alla fila, scendemmo la scala che portava nel seminterrato dell’abitazione, poiché il locale stesso ero situato sotto l’appartamento dei proprietari.
Sull’entrata, dove prima dell’ingresso si apriva un piccolo cortile al chiuso, trovammo una modesta massa di persone che facevano la coda per entrare. C’era un solo buttafuori che ritirava foglietti di carta volanti che avevano tutt’altro che l’aspetto di un invito privato.
Man a mano che si avvicinava il nostro turno, la musica si faceva sempre più assordante, e potei ben scorgere alle spalle del buttafuori un flash di luci blu e rosse.
D’un tratto sentii la presa di William sulla mia mano farsi più presente e guardai verso di lui.
-Che succede, ora?- domandai scocciata.
Il mio ragazzo guardava dritto di fronte a sé, seguendo Susan davanti a noi come fosse la sua ombra. –Ho un cattivo presentimento, tutta qua- disse.
Sbuffai sonoramente distogliendo lo sguardo dalla fila e mi guardai un po’ attorno, notando con stupore che dietro di noi non c’era nessun altro che si preparava a varcare l’ingresso.
Finalmente Susan mostrò i biglietti e ci timbrarono a tutti e tre la mano destra, dopodiché potemmo finalmente superare quella benedetta soglia.
Non appena fummo all’interno, ci precipitammo alla caccia di un tavolo dove sederci e ordinare subito da bere, ma la cosa risultò alquanto difficoltosa.
Quel posto era strapieno, ma cos’ strapieno che sarebbe potuto traboccare come un vaso pieno d’acqua da un momento all’altro. La pista da ballo era coperta per intero da facce nuove, che non avevo mai incontrato nelle mie precedenti volte lì, quando invece mi aspettavo di riconoscere la solita clientela del sabato sera.
Attraversammo mezzo locale per trovare un posto dove ficcarci, mentre l’intensità della musica andava diminuendo, fino ad affievolirsi del tutto.
Mi sistemai al fianco del mio ragazzo senza mai lasciargli la mano, nel frattempo che Susan ordinava da bere ad un cameriere che fu subito da noi.
-Allora- sorrise la ragazza mettendosi comoda davanti a me. –Che raccontate di bello?-.
-Si vede proprio che gli ingressi erano gratis, guarda quanta gente!- si stupì William.
-Effettivamente- blaterai infastidita dall’aria che già mi mancava.
-Siete tesi come stuzzicadenti. Beviamo qualcosa e poi ci gettiamo in pista, ok?- esordì Susan, ma sia io che Willy la fulminammo con un’occhiataccia.
La ragazza scoppiò in una fragorosa risata. –Va bene, se non vi va di ballare, allora facciamo quattro chiacchiere: Emy, quand’è stata l’ultima volta che hai sentito tuo padre?- chiese.
-Perché?- assentii interrogativa.
Susan si strinse nelle spalle. –Tanto per parlare di qualcosa…- disse.
-La settimana scorsa- cercai lo sguardo del mio ragazzo che annuì in conferma alle mie parole. –Prima di cominciare il trasloco- aggiunsi tornando a guardare lei.
Susan tamburellò tre dita sul tavolo. –Capisco… buffo, non trovi?-.
-No, affatto- dissi. –E’ mia madre quella che si preoccupa e chiama a casa ogni 24 ore, non papà- sorrisi mestamente.
-E tua madre ti ha chiamata?- domandò la ragazza.
Restai spiazzata da quella richiesta, sbiancando lentamente. –No…- ammisi preoccupata.
William al mio fianco fece la mia stessa faccia. –Questo sì che è strano- mormorò.
Susan si sporse in avanti. -… L’altro motivo per il quale vi ho portati qui è… è che ho sentito delle voci- sussurrò.
Mi feci immediatamente più attenta. –Che voci?!- sibilai, come se il pericolo di contagio non fosse abbastanza.
-La settimana scorsa ho incontrato un mio vecchio compagno del liceo che veniva da Manhattan: stava lasciando la città con i suoi cugini e per poco non m’investiva- sbottò.
-Che ci facevi a Manhattan?- domandò William di colpo.
-Non ero a Manhattan! Il mio amico veniva da Manhattan, ma percorreva la statale e stava lasciando la città. E comunque dovevo aiutare mio fratello a recuperare delle cartelle del lavoro dal suo vecchio studio prima che si trasferisse a Washington. Ma tornando a noi, questo mio amico mi ha raccontato delle cose che…- fece una pausa, passandosi una mano in fronte. –Non potei crederci, era impossibile…-.
Io e William ci scambiammo una complice occhiata. –Cioè?- chiedemmo all’unisono.
La ragazza si sistemò più comoda. –Tornando dal suo appartamento, questo mio amico mi ha raccontato di aver visto Zeus vicino a Central Park, ma…- disse con calma, ma subito la interruppi.
-Sappiamo tutti dell’esistenza di Zeus, non è affatto una novità, non devi spaventarti per questo- sbottai acida.
-No, no, no!- si apprestò a ribattere Susan. –Ha visto Mercer nel parco, ma assieme a lui, che si fronteggiavano, c’erano… dei ragazzi che… avevano simili poteri, che tramutavano come lui, che lo combattevano, tentavano di ammazzarlo…- fece un respiro profondo. –E’ difficile da credere, all’inizio lo presi per matto, e magari voi due state pensando lo stesso di me, ma… ma poi è successo un fatto che… che ha dato maggior credito a queste immagini- disse.
-Spiegati- sbottò William.
-Ho motivo di pensare che si tratti davvero di una manovra del governo, perché qualche giorno fa ho risentito al telefono questo mio amico e mi ha chiesto se avevo conoscenze a San Francisco oppure a Los Angeles-.
-E allora?- feci io.
-Mi ha consigliato di trasferirmi lì, di lasciare la costa est per il Virus, ma anche perché…- esitò.
-Susan- la richiamai.
-Perché circolano delle voci, delle voci che raccontano di un siero scoperto dal governo, che sta andando di casa in casa a catturare dei civili per farne delle cavie! I ragazzi che ha visto a Central Park questo mio amico, sono i primi esponenti di questo siero, un estratto da chissà quale gene positivo o cacciatore- farfugliò. –Ma il fatto è che non sappiamo chi hanno intenzione di prendere, ed è la notte che colpiscono, è la notte che ti entrano in casa e ti portano via dal letto, e poi ti risvegli su un lettino di metallo con chissà quali assurdi poteri e microcip impiantati in testa!- strillò.
-La conosciamo tutti la storia di Zeus- parlottai a capo chino. –E sinceramente, non ho mai creduto nella storiella dell’uomo nero che ti strappa dalle lenzuola- sbottai.
-Non è una storiella!- ribadì Susan.
-Il governo ha già abbastanza armi nucleari e missili atomici, non va certo a caccia dei gruppi sanguinei più rari per potersi procurare dei nuovi squartatori di masse! Zeus è un esperimento mal riuscito, perché quel bastardo gli è sfuggito dalle mani e ora fa di testa sua! Non compierebbero mai lo stesso errore due volte, gli è bastata la prima…- sibilai.
-Ti sbagli. Io lo so, ho sentito una trasmissione, alla radio! Era tuo padre, cazzo!- gridò.
M’irrigidii d’un tratto. –Mio padre?- balbettai. –Alla radio?-.
William spostò i suoi occhioni verdi da me a Susan e da Susan a me una decina di volte. –Cosa?!- eruppe.
La ragazza che mi sedeva di fronte restò impassibile. –Sì, tuo padre, Emily! Mark Walker, che fino all’altra sera trasmetteva da una stazione mobile, nel cuore di Manhattan! Devi credermi, lui…-.
Non terminò il discorso che una voce reclamò attenzione in sala.
-Gente di New York!- strillò qualcuno col microfono alla bocca, e subito mi sporsi a guardare verso il dj della serata, cogliendolo sistemato su un’impalcatura in fondo alla sala, intento nel preparare alcuni cd e pronto a mixare della nuova musica. Dunque la voce non era la sua.
Sia io che William ci guardammo attorno allo stesso modo di come fecero tutti i presenti in pista, che fermando le danze si chiesero a chi appartenesse quella voce.
-Spero che il benvenuto sia stato di vostro gradimento- gioì ancora costui, che aveva un tono prettamente maschile.
La massa di ragazzi riunita sulla pista rispose in coro: -Sì!-.
L’euforia era già a mille lì dentro, mentre sentivo crescere in me un brutto, bruttissimo presentimento.
-E la serata è appena cominciata!- disse ancora l’occulto. –Ma prima di dare il via alla festa, vogliamo premiare i fortunati vincitori della lotteria di questa sera-.
-Lotteria?- si stupì William.
Attirai l’attenzione di Susan schioccando le dita. –Ehi, guarda se i biglietti sono numerati- sussurrai.
La mia amica estrasse i tre biglietti dalla borsetta e li guardò con attenzione. –No- assentì in fine. –Ci sono scritti solo i nostri nomi- m’informò, ma la cosa non mi piacque mica.
-Eeeeeeeee i fortunati vincitori della serata sono!…-.
La folla sulla pista da balla fece un coro di: “ooooooooooh!”.
-Margaret Smith. Lucy Malcom. Emily Walker. Emmett Word. Philip McGuire e Harry Brown!-.
Ci fu un caloroso applauso da parte dei presenti in sala, ed inizialmente non me ne fregò un granché, ma poi…
-Ha detto il tuo nome!- eruppe Susan.
-Sì, è vero…- confermò incredulo William.
-…Non ci credo- assentii guardandomi attorno.
Improvvisamente una luce soffusa color blu fece il giro del locale e andò a fermarsi proprio su di me, illuminando la mia posizione in mezzo a tutta quella gente. Altri cinque fari colorati si puntarono addosso ai restanti cinque vincitori della lotteria, dopodiché la voce al microfono tuonò di nuovo in sala.
-Eccoli, signore e signori! Vi preghiamo di venire a ritirare il vostro premio presso l’uscita del locale e di non portare con voi alcun estraneo al concorso, grazie- e detto ciò, la musica riprese a palla come al solito.
William si voltò verso di me. –Non so se è una buona idea-.
-E’ solo un premio!- rise Susan. –Avanti, vai. Ti aspettiamo qui- disse allegra.
-Io…-.
-Se poi non ti piace, puoi darlo a me- ridacchiò.
Sbuffai. –E va bene!- ammisi esasperata dirigendomi all’uscita del locale, e la luce puntata su di me mi seguì come un’ombra.
Gli altri cinque ragazzi aspettavano davanti alla porta che fossimo al completo, e poco dopo, quando il buttafuori si accorse che risultavamo tutti all’appello, ci fece passare.

«Se solo non avessi varcato quella soglia, oggi probabilmente la mia vita sarebbe molto diversa da com’è. Era nato tutto come un gioco, ma principalmente come un’unica grande truffa. Lotteria del cazzo. Per una buona volta mi sarei dovuta fidare del mio istinto, che mi suggeriva tutto tranne ritirare quel dannato premio… La verità è che premio non fu, perché una volta superata l’uscita del locale, ad aspettarci trovammo esattamente l’opposto che ci aspettavamo di trovare. Erano una dozzina di uomini vestiti di nero, e nel centro del gruppo sorgeva la figura di un anziano signore sulla cinquantina d’anni, con la barba bianca e i capelli grigi curati. Avrei detto un politico, ma mi accorsi alla svelta delle pistole che portava sotto la giacchetta dell’elegante smoking nero. La cravatta rossa, sobria e lo sguardo di ghiaccio che non avrei più dimenticato in tutta la mia vita, anche perché ancora oggi sto dando la caccia a quel bastardo.
Lewis Martin. Capo redattore e dirigente della sezione Angels.
Eccolo lì lo stronzo che mi ha rovinato l’esistenza, guardatelo! Ricordo perfettamente il giorno in cui ci siamo incontrati per la prima volta, ovvero quella sera, sotto un cielo nero e senza stelle. Mi ha guardata per prima e a sorriso in un modo che davvero non mi aspettavo. Si è avvicinato a noi cinque con fare prepotente, altezzoso e ha detto proprio così: -Benvenuti a bordo, Angeli…-.»

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Capitolo 4
*** Capitolo 4° - Cetriolini sott'olio ***


Capitolo 4 - Cetriolini sott'olio

«Margaret Smith festeggiava i suoi ventisette anni a marzo di quell’anno. Aveva gli occhi marroni e un corpo snello, con indosso dei jeans lunghi, delle ballerine e una maglietta scollata su una sola spalla. Portava i capelli lunghi e biondi abbigliati, solo per quella sera, in gonfi boccoli brillanti, perché si vedeva lontano un miglio che era una banale piega, ad invidia di Lucy Malcom, i cui boccoli rossi erano più che veri, acconciati in un taglio corto ma ordinato. Gli occhi verdi brillanti e il naso piccolo; qualche lentiggine qua e là che nascondevano i suoi vent’anni sotto la maschera di una quattordicenne. Quella sera indossava dei pantaloncini corti come quelli da spiaggia, che le arrivavano a metà coscia, delle converse rosse coi lacci bianchi e una maglietta con le maniche lunghe a righe orizzontali, in pendant alle scarpe.
Harry Brown era la checca della situazione. Già che indossasse una camicia azzurra mi inquietava non poco, e aveva la mania di portare i pantaloni a vita a alta. I capelli neri quella sera erano fissati con una marea di gel e tirati all’indietro, fatta eccezione per un ciuffo scompigliato che gli copriva uno dei due occhi color mandorla.
Emmett Word lo ricordo per la sua espressione sempre seriosa, incazzato ventiquattro ore su ventiquattro. La corporatura massiccia, ma non grassa, anzi; nonostante indossasse una felpa larga color porpora con la scritta “Oxford University”, la sua muscolatura accentuata si notava eccome. La barba lasciata crescere e i capelli acconciati in un taglio corto, e ci azzeccai quando gli chiesi si era stato nei servizi militari inglesi. Nonostante il suo carattere barbare e altezzoso, a fare di Emmett un comune mortale erano i suoi occhi azzurri… anzi, neppure quelli.
Philip McGuire pensavo sarebbe stato il più normale del gruppo, ma in vece, già da com’era vestito, sembrava che ad Oxford avesse insegnato lui storia dell’arte ad Emmett. Portava degli occhiali a lente fina, forse da riposo che si era dimenticato di togliersi staccandosi dallo schermo del suo ufficio a Brooklin (esatto, abitava dalle mie parti). I capelli lunghetti e di un color miele acconciati ordinatamente dietro le orecchie; indosso aveva una camicia bianca e dei semplici jeans, ma quand’era stato chiamato a reclamare il premio della lotteria, aveva portato con sé una giacchetta nera che ora aveva addosso.
Questi cinque, buffi, bizzarri e particolari elementi sarebbero stati i miei compagni nelle prossime disavventure per il resto della mia vita.»

-Come cazzo ci hai chiamati?!- sbottò Emmett arrogante, con un velo di confusione nella voce.
Lewis Martin fece un passo indietro mettendosi le mani in tasca. –Angeli, vo ho chiamato Angeli- rispose molto tranquillamente.
-Dov’è il nostro premio?- cambiò discorso Harry.
Durante quella conversazione, che non durò poi tanto, preferii restare in silenzio e a braccia conserte. Lucy, dietro di me, scambiò due parole con Margaret che annuì sussurrandole qualcosa che non capii.
-Che razza di truffa è questa? Chi siete voi?- domandò intelligentemente Philip, detto Phil, al mio fianco.
-Per adesso chi siamo noi non è importante- disse Lewis facendo un segno con la testa, e gli uomini dietro di lui vennero verso di noi. –Ma non disperate, reclamerete presto i vostri “premi”!- rise in un modo malvagio che mi spaventò oltremodo.
Irrigidii le gambe quando uno degli scagnozzi vestito di nero si avvicinò troppo al mio corpo, e lo vidi tirare fuori qualcosa dalla tasca dei pantaloni dello smoking.
-Non toccarmi!- ruggii a denti stretti, e quello indietreggiò.
Harry ed Emmett, dal fondo, mi guardarono con stupore, e altrettanta sorpresa comparve sul volto di Lewis.
-Emily, giusto?- mi chiese il vecchio.
Lo fulminai con una di quelle occhiatacce che avrebbe dimenticato con difficoltà. –Sì-.
-Se ci lasci lavorare, ti assicuro che potrai rivedere tuo padre- sghignazzò, e quella fu la goccia che fece traboccare il vaso.
-… Mio padre?!- assentii spaventata.
Fu a quel punto della serata che cominciai a temere davvero per la mia vita, quando esattamente quel fiuto che avevo per il pericolo cominciò a captare una certa puzza poco interessante. Mi riscossi dai miei pensieri e, con un’espressione seria in viso dissi: -Non voglio farne parte…- azzardai un passo indietro, ma lo scagnozzo di Martin che avevo alle spalle mi afferrò per le braccia immobilizzandomi.
Harry, Margaret e gli altri osservarono attoniti, ed Emmett tentò da subito di liberarmi, dando uno spintone al tizio che aveva solo osato avvicinarsi a lui e scazzottando la faccia di quello che mi serrava i movimenti.
-Azzardati a toccarla di nuovo!- ringhiò Emmett, e l’uomo vestito di nero fece una smorfia massaggiandosi il mento.
-Grazie…- mormorai guardandolo, e il ragazzo annuì composto.
-Signore- un uomo si avvicinò a Lewis. –Il tempo stringe, cosa ne facciamo degli altri?- chiese.
Lo sguardo di Martin indugiò alcuni istanti su tutti noi, quasi ci stesse analizzando uno alla volta, tentando di leggere e godersi il terrore che avevamo sulle nostre facce.
-Prendeteli ed eliminate quelli nel locale. Tutti- dichiarò in fine.
Sbiancai. –William…-.
-Cosa?…- fece incredula Margaret.
-Perché!?- azzardò Phil.
Martin guardò a terra un istante. –Perché sono infetti, così come lo siete voi. Vi abbiamo selezionato in base a dei criteri molto sottili, nel vostro sangue, oltre al virus, c’è qualcosa che gli invitati in quel locale non hanno, perciò, per non rischiare ulteriori contagi, devono essere abbattuti. Tutti quanti- spiegò.
-Tu sei tutto matto, amico!- parlò Harry.
-Basta- Martin, esaspetarto, fece un gesto con la mano e ci diede le spalle. –Finiamo questa storia- aggiunse, ed ebbi solo il tempo di guardarlo incamminarsi sulle scale assieme a due tizi.
-William!…- mi voltai e feci per scappare, correndo verso l’entrata del locale. –William!- gridai ancora, ma una presa salda mi tenne incollata dov’ero facendomi male ai fianchi. –WILLIAM!- mi dimenai ancora allungo, e altrettanto tentarono i miei compagni, ma poi, come un morso di zanzara, nella pelle del mio braccio sentii penetrarmi un ago.
Sgranai gli occhi percependo il sonnifero entrare in circolo nelle vene, la mia bocca si aprì ma non ne venne alcun suono. Mi accasciai debole, stanca, tra le braccia dello scagnozzo che aveva ricevuto l’ordine di addormentarmi, e socchiusi le palpebre lentamente. Come ultima cosa vidi una decina di uomini fare irruzione nel locale, poi divenne tutto offuscato, suoni e colori, ma udii bene le grida assatanate della gente in fuga e gli spari delle mitragliatrici come se fossi sul fronte della 1° o della 2° Guerra Mondiale.
Con la sola differenza che questa somigliava più alla 3°…

«Durante un’esercitazione sul campo, nel centro di Manhattan, mio padre venne accerchiato da un gruppo di cacciatori che annientarono il suo elicottero e lo mandarono fuori rotta. Si lanciò col paracadute, ma precipitò nel mezzo della battaglia tra il virus e l’esercito americano. Era disarmato, così trovò riparo in una jeep dell’esercito e riuscì ad attivare la sua stazione radio mobile. Trasmise allora il suo messaggio, parlando degli Angeli come degli eroi, pubblicizzando le loro gesta, e se solo avessi ascoltato quella maledetta comunicazione, forse avrei fatto meno storie quando chiamarono il mio nome a quella maledetta lotteria.
Martin e i suoi scagnozzi ci addormentarono con del sonnifero e ci portarono nella base militare Phoenix, proprio affianco ad uno degli Alveari più grossi di Manhattan, che fortunatamente, all’epoca sfornava bestiole di piccolo calibro, appositamente per i nostri addestramenti…»

<<…Siamo stati scelti dal popolo, pescati dalla folla nell’anonimato.
Siamo stati catturati come bestie e divenuti vittime dei loro scopi… >>

«Durante la mia permanenza nei laboratori della base, ricordo di aver trascorso quasi un giorno o due sdraiata su un lettino di metallo. Ogni tanto aprivo gli occhi e mi guardavo attorno, ma la vista offuscata e l’insieme caotico di suoni che mi rimbombavano nelle orecchie erano solo un ulteriore disturbo, così finivo col preferire addormentarmi e non risvegliarmi fin quando quella tortura (di qualsiasi cosa si fosse trattato) non avesse fine.
Quelle poche volte che riuscii quasi a riprendermi del tutto potevo contare i tubicini di plastica nei quali vedevo scorrere uno strano liquido rosso, che riconobbi subito come il mio sangue. Mentre degli altri sembravano iniettarmi una strana sostanza più rosata, più chiara. In totale erano una dozzina, tutti attaccati in vari punti del mio corpo. Era una specie di prelievo di massa che, vidi, stavano applicando non solo su di me, ma anche sui miei compagni di sventure.
Voltando la testa di lato, infatti, vedevo solo il corpo di Margaret nelle stesse condizioni, con indosso una camicia lunga bianca simile a quelle d’ospedale. Due tubicini erano piantati nella sua gola, all’altezza della vena principale, altri sulle braccia e altri ancora sulle gambe. I suoi occhi semi schiusi come in uno stato di trans mi spaventarono, ma mi resi subito conto che in quello stato c’ero anch’io. All’epoca non sapevo se ci stessero effettivamente facendo del bene o del male, dopotutto la loro causa, come avrei scoperto in seguito, era di cuore, ovvero annientare il virus con le sue stesse armi. Però mi chiedevo perché non appendere dei volantini e richiedere del volontariato invece di accalappiarci come randagi per le strade. Sembrava sciocco pensarci, dato che il tempo stringeva a tal punto da non potersi permettere di fare le cose in amichevoli modi; e il Governo sapeva bene come comportarsi in certi casi.
Mi chiedevo dove fossero tutti gli altri; perché in quella sala del nostro gruppo c’eravamo solo io e Margaret? Dov’erano Lucy, Emmett, Phil ed… Harry? A mala pena ricordavo i loro nomi. Quello che notai con parecchio stupore fu comprendere di non essere affatto sola. C’erano almeno un centinaio di lettini come il mio, con altrettanti sfigati mezzi dormienti come me.»

<<… Non so con precisione quanti di voi sono come me, quanti di voi siano caduti così in alto, quanti di voi sono o saranno presto stesi su uno di quei lettini da laboratorio del piccolo chimico!
Ma so per certo che siamo quasi un centinaio e sparsi nel mezzo dell’epidemia con un obbiettivo preciso…>>

«Ad un tratto, la testa prese a pulsarmi terribilmente, ero tutta un dolore. Mi sentivo debole e stanca come non mai, quasi fosse sul filo della vita e stessi per cadere giù, accasciandomi priva di forze. Sentivo il vigore abbandonarmi goccia dopo goccia mentre il mio sangue defluiva via da quei maledetti tubicini di plastica.
Il laboratorio nel quale ci tenevano era enorme, asettico, dalle pareti grigie e vuote. Una decina di dottori o scienziati, quello che erano, camminavano da una parte all’altra della stanza, controllando i referti di noi “pazienti”. Quando uno di loro si avvicinò al mio lettino, riuscii tremante a sporgere un braccio dalla branda di acciaio. Questo mio gesto lo fece balzare dallo spavento, così che la cartellina che aveva in mano finì a terra.
-E’ sveglia!- aveva gridato costui guardandosi in giro. –Qui, presto! Portate una dose di c49! E una barella!-.»

«Perché il nostro sangue?»


<<…Faccio questo appello a chiunque voglia unirsi alla nostra battaglia.
Angeli o umani, col gene Zeus nel sangue oppure no, non fa alcuna differenza!…>>


«Cosa ci faranno quando questa specie di cerimonia d’iniziazione sarà finita?!»


<<…Abbiamo accettato questa nostra missione, perseguito con animo il nostro destino.
Abbiamo creato una nostra base, un luogo dove riconoscerci e proteggerci.
Lo chiamiamo il Paradiso, perché in ogni angolo di quartiere di questa merda di città presiede almeno uno di noi!…>>


«Cosa stavano aspettando a liberarci?»


<<…Il Virus è un nemico comune, che ha preso piede oltre le barricate di Manhattan e sta mietendo milioni di innocenti nelle principali città americane…
New York per prima…
Ma adesso San Francisco e Los Angeles…
Domani Washington D.C…>>


«Cosa volevano da noi?»


<<…Ci sarà un giorno in cui l’epidemia toccherà l’oriente e defluirà in Europa.
Le nostre ali dovranno impedire tutto questo prima che il genere umano venga spazzato via dalla faccia della Terra…>>


«E improvvisamente ricordai…»

William…

«… E capii.»

…Alex

Sgranai gli occhi, che mi si erano gonfiati e profondamente arrossati, avendo perso la loro lucentezza azzurra. Spaventose occhiaie mi scolavano le guance, consumate dagli infiniti prelievi che mi avevano fatto. Cominciai a dimenarmi incontrollata, spasmodica, terrorizzata. Avevo una mascherina sulla bocca che mi spazzai via dalla faccia con una zampata, scattai seduta sul lettino, sollevando il busto d’improvviso, ma il dottore che avevo affianco mi rimise giù con violenza mentre in suo aiuto accorrevano altri medici.
-Finalmente è sveglia! È stata una delle ultime, alleluia!-.
-Dobbiamo portarla subito in vasca prima che si riaddormenti!- disse una donna.
-Esattamente, perciò svelti, la dose!- sbraitò un altro.
Mi tennero ferme le gambe, le braccia, il busto e anche la testa. Ringhiai più volte come una bestia posseduta, ma non mollarono molto facilmente.
Almeno fin quando non sentii un ago penetrarmi la carne all’altezza del collo.
M’immobilizzai dal dolore; fu talmente doloroso che smisi di respirare per quasi un minuto.

<<…Io sono il Dottor Mark Walker…>>

Gli scienziati approfittarono della mia paralisi per caricarmi su una barella mobile e trasportarmi fuori dal laboratorio.
Più di una volta le luci del soffitto di un lungo corridoio mi balenarono negli occhi, che però non riuscii a chiudere, accecandomi.
Raggiungemmo di gran corsa una sala poco distante e quando fummo all’interno sentii una ventata d’aria gelida. Mi venne la pelle d’oca e sopportai spasmi di freddo continui.
Anche questa era una stanza molto grande come la precedente, ma invece di essere colma di lettini, ospitava delle sottospecie di barattoli giganti trasparenti, e all’interno vidi bene delle… persone nude, rannicchiate in una posa fetale, con un centinaio di tubicini, che partivano da terra e si attaccavano in varie parti del corpo, cambiando continuamente posizione. Questi galleggiavano in un liquido azzurrognolo quasi verde acqua; dormivano con gli occhi chiusi, ma le attività dei loro organi interni, quali il cuore e i polmoni, erano registrate su uno schermo ai piedi della rispettiva vasca.


<<… e Voi, …>>

I medici mi sollevarono dalla barella e mi adagiarono su una specie di altare rotondo. Mi lasciai spogliare da alcune scienziate del mio camice così da restare al freddo e completamente nuda. Dopodiché si allontanarono da me e attesero qualche istante, fin quando dai bordi dell’altare, come un sipario che sale all’incontrario, vidi annebbiarmi la vista verso l’esterno un vetro abbastanza spesso da isolare le mie grida di aiuto. Non appena fui completamente al silenzio, rinchiusa da quello spesso strato trasparente, sopra la mia testa si aprì un condotto che mi gettò addosso cubi su cubi di acqua calda, ma che aveva un curioso colorito verdognolo. Gridai allungo terrorizzata, fin quando l’acqua non fu abbastanza alta da farmi galleggiare. Strusciai i palmi contro il vetro, chiedendogli aiuto, ma nessuno degli scienziati lì presente a guardarmi fece nulla. Ecco, si limitarono ad osservare se le procedure andavano a buon fine.
Battei ancora e ancora i pugni, ma poi l’acqua crebbe a tal punto da farmi toccare con la testa il soffitto della mia cella. In preda al panico presi un’ultima boccata d’aria e m’immersi, restando con le dita a premere sul vetro troppo spesso della cabina.
Improvvisamente mi resi conto di non aver bisogno d’aria, perché erano già dei minuti che me ne stavo immobile a guardare il mondo esterno. Era incredibile: i miei polmoni, il mio cuore… sentivo in me una tale forza, un tale vigore che non avevo mai provato, e questo potere di respirare sott’acqua sarebbe stato solo un piccolo assaggio di quello che veramente era essere un Angelo.


<<…e il luogo dal quale state ascoltando questo messaggio, …>>

Attraverso il vetro vedevo come i dottori dai camici bianchi si complimentavano l’uno con l’altro per la riuscita del progetto. Li vidi che si stringevano la mano e si abbracciavano, ed in fine li osservai abbandonare la sala enorme nella quale mi trovavo… fortunatamente non da sola.
Mi guardai attorno e riconobbi Lucy, Phil, Harry ed Emmett nella mia stessa situazione. Mi guardavano ognuno in un modo diverso, ma tutti e tre meno spaventati di quanto mi aspettassi. Probabilmente erano lì da molto tempo prima di me ed era altrettanto probabile che avessero compreso quale triste destino comune ci aspettasse.
Restammo allungo a fissarci negli occhi, attraverso i vetri delle nostre prigioni.
D’un tratto mi sentii pungere il piede come il morso di una zanzara e notai con stupore un filetto metallico che si era stretto attorno alla mia caviglia. Ne comparvero altri simili che mi punsero sulle braccia, sulla schiena e, tutte assieme con uno strattone, mi tirarono verso il fondo della vasca.
Guardai verso i miei amici e vidi che erano nelle mie stesse condizioni, ma ciò che mi fece sorridere fu osservare come Emmett tentava di stritolarli impazientemente e con rabbia.
Quando anche lui si fu lasciato accalappiare dalle sonde (che svolgevano il compito di calibrare le attività del nostro corpo durante la permanenza in vasca) e tutto divenne calmo, mi permisi di chiudere gli occhi, concentrandomi su qualcos’altro.
E solo allora capii come si sentisse veramente un cetriolo sott’olio.


<<…siete il Paradiso…>>








Note
Non a caso il rating è arancione e nei generi ho anche aggiunto “horror”. Horror credo sia una parola che in sé raggruppa molto sotto-significati. E’ horror la bambola assassina che spunta dall’armadio di casa con un coltello nella mano, ma è anche horror un gruppo di ragazzi che vengono spogliati e gettati in delle vaschette come cetriolini sott’olio, no? Quest’assurda idea mi è venuta in mente osservando una scatola di cipolline sott’olio… certo, ora non pensate che sia una sadica, ma… chissà, e poi una cosa simile l’avevo già vista in Pokémon (il film) Mew contro Mewtwo, per chi sa di cosa parlo, quando gli scienziati creano il clone di Mew, ovvero Mewtwo, che però si ribella e spezza la vasca nella quale si trovava, distruggendo il laboratorio.
°° ops, troppi spoiler! XD Ciao, ciao!

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Capitolo 5
*** Capitolo 5° - Ali ***


Capitolo 5 - Ali

«Col passare dei giorni il mio corpo subiva continue mutazioni: sentivo le ossa spostarsi, la pelle ispessirsi, la schiena torcermisi senza che io dessi alcun comando, o meglio… senza che il mio cervello lo facesse. Il liquido caldo nel quale galleggiavo m’inebriava dall’esterno delle sostanze sufficienti a completare la mia trasformazione. L’aria di cui non necessitavo per respirare divenne una voglia inarrestabile, quasi fosse una droga. Desideravo poter tornare ad usare i miei polmoni, desideravo potermi staccare di dosso quelle sonde, scalciare via quelle orribili sensazioni e spezzare l’ampolla nella quale mi trovavo. La mia permanenza in quella cella di vetro divenne man a mano una terribile ed odiata tortura, ma la verità era parecchio triste da accettare: il sonno nel quale mi ero calata fin dal primo giorno della mia immersione, mi aveva fatta sua prigioniera. Non riaprii gli occhi per tutto quel tempo, sentendo sulle labbra il gusto amaro dell’acqua verdognola nella quale galleggiavo, mentre le sonde attorno al mio corpo nudo mi solleticavano in punti sempre differenti.
Sì, esatto… una tortura. E quando pensavo alla domanda “ma chi me l’ha fatto fare?” non riuscivo a darmi una risposta, perché ancora non conoscevo chi fosse davvero il responsabile di quella follia, al quale avrei spaccato la faccia una volta uscita di lì. All’epoca non immaginavo minimamente chi, o cosa, o quale entità superiore avesse ordinato tutto quello. Quando mi sforzavo di immaginare chi si celasse dietro la maschera di intermediario tra il governo e questi scienziati, mi compariva davanti al buio delle mie palpebre abbassate la faccia di quel… quel certo Lewis Martin, che una sera di qualche giorno fa aveva ordinato e coordinato la nostra cattura, come fossimo bestie, attirate nella sua trappola… lotteria di merda.

…William.

Pronunciai il suo nome nel sonno, ma quella dannata convalescenza subacquea non mi lasciava neppure sognare.
Ricordai i volti dei miei amici, tutti quanti.
Cosa avrei dato pur di rivederli tutti, davanti a me in carne ed ossa, e poterli abbracciare uno ad uno sentendomi finalmente in salvo, di nuovo a casa, circondata dalle persone che amavo e dal calore di una famiglia che non mi era stata data l’opportunità di godermi fino in fondo, strappata alla vita così giovane, condannata a quegli orribili esperimenti all’età di soli 21 anni.
Ma restava sempre e soltanto lui al centro del vorticare dei miei pensieri.
Il mio piccolo Willy…
Volevo ricordare i momenti migliori passati assieme, le notti, ma anche le giornate a passeggiare mano nella mano per Central Park, prima che l’epidemia lo trasformasse nel fronte della Guerra tra uomo e Virus. Avrei voluto costruire con lui una famiglia, passare il resto della mia miserabile vita con lui, a guardarci negli occhi fino a sera tarda e poi addormentarci insieme nel letto della sua stanza, nel suo piccolo appartamento di Brooklin. Ricordavo il trasloco, ricordavo la faccia di mia madre nel sapere che finalmente mi mettevo in salvo, che finalmente lasciavo Manhattan e mi scollavo dalla casa dei miei genitori. Ricordai il volto di mio padre, la storia che qualcuno mi raccontò su di lui, la sua trasmissione radio pubblicitaria sugli Angeli…

…Angeli.

Cosa sono gli angeli?
Uomini con delle bianche ali piumate attaccate alle scapole; ali magnifiche, chiare, ma a volte anche scure, nere come la pece; dev’esserci comunque una differenza tra le ali bianche e quelle nere. Si può capire molto di una persona solo dal colore della pelle, lanciando pregiudizi, perciò cosa dovrebbe essere differente quando si parla di angeli? Ma è davvero questo un angelo? Una vittima di discriminazioni e razzie, oppure una Sacra Entità? Angelo è l’immagine di un essere superiore che sta a metà tra cielo e terra, tra Dio e gli uomini, tra l’infinito e il finito…
Ma perché chiamano noi Angeli? Perché quest’appellativo che non credo di meritarmi tanto… non credo di aver fatto mai del volontariato, aiutando vecchiette ad attraversare la strada e sfamando poveri anziani che non riescono a tener dritta una forchetta; spalare strade dagli scarti di città, lottare per l’ambiente contro il surriscaldamento globale, il buco nell’ozono o l’abbattimento delle foreste. Non mi passata per la testa neppure l’idea, la soffusa idea di fare la raccolta differenziata!
Quindi… qualcuno mi spieghi perché “angeli”.
Quello che ci stanno facendo, i liquidi che ci hanno iniettato ci faranno crescere le ali, forse?! Scusate tanto, ma in che modo un paio d’ali piumate salveranno la terra dal Virus e annienteranno Zeus??? Necessitavo di avere delle risposte, ma non le avrei certo trovate standomene così allungo chiusa in un barattolo.
Quando mi svegliai, ricordo di aver visto attraverso quel vetro i miei vecchi amici, di aver intravisto l’immagine di William e Susan che mi sorridevano. Poggiai una mano sulla superficie trasparente e accarezzai il loro riflesso che sparì in quell’istante. Poi mi guardai attorno, constatando di essere l’unica sveglia tra tutti i cetrioli come me.
E solo allora realizzai che qualcosa non tornava, che non sarei dovuta essere lì, che quei bastardi avevano ammazzato il mio ragazzo trucidando una folla d’innocenti, tra cui la mia unica amica. Bastò questo pensiero a far scaturire in me la rabbia necessaria per reagire e combattere…»

Spalancai gli occhi, che divennero improvvisamente bianchi, vuoti; irrigidii i muscoli e un’aurea nera, probabilmente di un rosso molto profondo, avvolse il mio corpo. In quell’istante sentii la sirena di un allarme attivarsi impazzita, e attraverso il vetro del mio barattolo vidi una decina di scienziati fare irruzione nel laboratorio, sparpagliandosi ai comandi delle macchine; altri rimasero a guardare allibiti lo spettacolo.
Ed io, ero l’unico soggetto in scena.
Strinsi i pugni, e sul vetro davanti ai miei occhi saettò una crepa. E così un’altra, e un’altra ancora, e poco a poco la superficie cedeva, e ad ogni spacco in più, i tubicini che percorrevano le mie gambe si afflosciavano, galleggiando molli nel liquido verdognolo della mia vasca.
Sentii le grida di terrore delle donne e degli uomini presenti, e quello fu il segnale: l’aura attorno al mio corpo s’ingigantì tingendo tutta l’acqua di nero e, con un’ultima crepa, il vetro andò in frantumi.
Il liquido nero si rovesciò sul pavimento della sala, investendo gli scienziati e spazzandoli via come un’onda dell’oceano che s’infrange sulla spiaggia.
Galleggiai nell’aria senza che i miei piedi toccassero suolo, ammirando passivamente quello spettacolo. Era come se qualcun altro possedesse il mio corpo ed io potessi solamente stare a guardare attraverso i miei occhi.
Un brivido di freddo mi scosse da parte a parta, ma avvertii distintamente alcune ossa della mia schiena scricchiolare sonoramente, e quel suono malsano rimbombava nel laboratorio lasciando stupefatti e attoniti gli scienziati presenti.
L’acqua che si era sparsa a terra, andò a defluire in alcuni tombini piazzati tra i grandi pannelli del pavimento, e questo restituì completa libertà di movimento agli scienziati che erano rimasti travolti dall’onda.
Un uomo col camice zuppo mi venne incontro e s’immobilizzò esattamente di fronte a me, fissando qualcosa oltre le mie spalle.
-È fatta…- mormorò costui che aveva una lente degli occhiali spezzata. –Ce l’abbiamo fatta!- gioì poi voltandosi verso i suoi compagni.
Una gran massa di gente si radunò attorno a ciò che restava della mia vasca contenitore, e tutti mi guardavano allo stesso modo estasiato ed incredulo, complimentandosi ancora e ancora, stringendosi le mani, abbracciandosi e parlottando aumentando la confusione.
Da lassù e completamente immobile dinnanzi a quella scena, non riuscii neppure a voltarmi, per smentire le domande che mi stavano torturando da tempo. E ancora lo scricchiolio continuava, sulla mia schiena, precisamente all’altezza delle scapole. Percepii un qualcosa di umido e denso traversarmi la pelle percorrendo la linea della spina dorsale. Riuscii con difficoltà a muovere un braccio, così da avvicinare la mia mano a quel punto. Sfiorai il liquido con due dita, dopodiché lo guardai allibita: era sangue, e gocciolava attorno a me dal grosso foro che avevo sulla schiena.
Guardai a terra, dove della luce proiettava sul pavimento un’ombra davvero insolita della mia figura.
E fu allora che ricordai di quando Lewis Martin ci aveva chiamati Angeli.
E capii quale fosse davvero il mio destino.
Erano delle ali che avevano un che di originale, diverso da quelle che mi aspettavo, però restavano sempre delle ali. Non riuscendo a voltarmi, ad ammirarle com’erano, contemplai la loro ombra: cinque artigli ciascuna, affilati, lunghi, e a sostituzione delle candide piume che mi aspettavo di trovarvi v’era una gelatinosa, rossa e viscida membrana sbrindellata, quasi inesistente, che non pensavo potesse tenermi sospesa a mezz’aria in quel modo. Di fatti, i cinque artigli per ala che avevo contato si erano aggrappati possentemente ai bordi taglienti e ancora intatti della vasca, quasi fossi rimasta incastrata e penzolante come una marionetta i cui fili si erano annodati. Fu allora che mi accorsi di possedere come un secondo paio di braccia, di poterle controllare senza difficoltà, di poterle sbattere, muovere, e così provai, ma durò ben poco.
Era estremamente faticoso, e ad ogni mio tentativo di muoverle, quelle ali sembravano scricchiolare come arrugginite, troppo deboli per potermi solo sostenere. Non riuscendo più a tollerare il dolore alla schiena, e perdendo ormai troppo sangue dalla schiena, sulla quale si era aperto il foro d’uscita delle ali, mi accasciai di peso sull’altare rotondo che era rimasto intatto, con qualche frantumo di vetro qua e là.
Respiravo a fatica, e mi raggomitolai spaventata di ciò che avevo visto succedere. Mi tagliai con alcune schegge di vetro che penetrarono la carne della mia schiena e delle gambe quando toccai terra. Sanguinavo, e quando gli scienziati lo notarono, alcuni si avvicinarono e mi caricarono su una speciale barella, altri fecero scattare un allarme d’emergenza per tutto il piano.
Prima di lasciare il laboratorio, mi accorsi che Lucy, Harry, Phil ed Emmett, ancora galleggianti e dormienti nelle loro vasche, rannicchiati in una raccapricciante posa fetale, avevano sviluppato le mie stesse caratteristiche, dando però meno segni di ribellione.
-È prematura, dobbiamo portarla in sala e operare oggi stesso- sbottò una donna mentre accompagnavano la mia barella di corsa.
-No, non possiamo metterla ancora sotto i ferri, sarebbe rischioso. Aspetteremo- analizzò uno scienziato.
In quell’istante un artiglio della mia ala destra, che era rimasta a penzoloni fuori dal lettino, prese di sua iniziativa il controllo e, tagliente, saettò fulmineo e tranciò di netto il corpo di uno dei medici, dividendolo letteralmente a metà dai fianchi in giù. Quello non fece neppure in tempo a gridare, che entrambe le parti del suo corpo piombarono a terra in una pozza di sangue assurda.
-Dannazione!- sbraitò un uomo, mentre la donna di prima si allontanava spaventata.
-Dobbiamo immobilizzarla! Presto!- propose qualcuno fuori dal mio campo visivo.
-No, portiamola in sala!- disse di nuovo lo stesso dottore.
-Cristo! Guardate come ha ridotto Maurice! Dobbiamo sedarla!- furono le sue ultime parole, perché di nuovo le mie ali (che sembravano fare di testa loro) ripeterono una scena già vista…
-Via, via di qui!- gridò la donna, e scapparono tutti il più lontano possibile.
Mi sollevai d’un tratto, aiutata dagli artigli delle mie ali che si piantarono nelle pareti, facendo leva e rimettendomi in piedi. Quando toccai terra, cercai di riassumere il controllo, e per qualche istante ci riuscii, spiantando gli artigli dal cemento dei muri del corridoio e ripiegandole oltre le mie spalle. Ma ancora grondavo di sangue, sentendomi sempre più debole. La ferita sulla schiena pulsava dolorosamente, i tagli dovuti ai vetri della vasca non si rimarginavano, e come se non bastasse, dalla porta infondo del corridoio, emersero un pugno di uomini vestiti di armature nere e fucili ben attrezzati che mi puntarono subito contro.
Restai immobile alcuni secondi, aspettando come un’idiota che mi sparassero magari, ma fu una fortuna accorgermi che ero completamente nuda davanti a tutta quella gente, e il tentativo di coprirmi con le mie stesse ali, fu il risultato di un possente e invalicabile scudo anti-proiettili.
Tentarono di colpirmi con anestetici di tutti i tipi, dalle siringhe alle buffe palline gommose, ma non percepivo altro che un lieve solletico, completamente avvolta dalla lega robusta ed ignota delle mie ali.
Cessarono il fuoco improvvisamente, sotto l’ordine di una voce che riconobbi quasi subito, e aprii giusto un forellino tra un artiglio e l’altro dell’ala per osservare la figura di un uomo avanzare verso di me.
Era Martin, vestito diversamente dall’ultima volta. Ora indossava una camicia bianca e dei pantaloni scuri, un camice da medico con una penna nel taschino e degli occhiali da vista sistemati tra i capelli bianchi e grigi.
-Suvvia, signorina Walker, le sembra il modo di comportarsi?- ridacchiò.
Che ti ridi, stronzo!? Pur di restare nascosta ad occhi indiscreti, e preservando un certo umano imbarazzo all’idea di mostrarmi nuda a quella gente, preferii starmene al calduccio dietro le mie ali, all’interno del mio bunker fortificato.
Lewis continuò tranquillo, giungendo le mani dietro la schiena: -La diverte tanto fare sushi dei miei prestigiosi scienziati? Lei è a conoscenza di quanto mi costi solo uno di loro?-.
Non me ne fotte un cazzo se hai il portafoglio vuoto, bastardo!
-A quanto pare no, ma giustamente non è di suo interesse una tale informazione-.
Ma che bravo…
-Però lasci che le dica una cosa: noi abbiamo bisogno di lei, signorina Walker-.
-Chi siete voi?!- risposi d’un tratto, impulsiva. – Cosa volete da noi?! Che cosa ci state facendo?! Voglio delle risposte!- gli artigli delle mie ali si piantarono nel terreno con violenza, forando il pavimento zuppo di sangue.
Molti dei presenti rabbrividirono, altri non lo diedero a vedere, ma in qualche strano modo riuscivo a fiutare la loro paura, sentivo il sapore del loro sudare freddo sulla punta della lingua.
Proseguii: -Che cosa mi avete fatto?!?!- sbraitai, e stentavo a riconoscere la mia voce.
-Mi chiamo Lewis Martin, e sono il capo produttore, finanziatore e coordinatore del progetto Gabriel, in diretto accordo col Presidente dei Stati Uniti d’America, perciò non avete nulla da temere- sorrise.
-BUGIARDO!- ruggii con un che di bestiale, tutt’altro che umano.
-Invece è tutto vero. Il Governo Americano autorizza e finanzia i nostri progetti. Certo, non sborsa una grande cifra perché siamo solo all’inizio e potrebbe trattarsi tutto quanto di un gran fallimento, ma se le interessa, noi siamo coloro che sperano in un futuro migliore, signorina- allargò le braccia. –questi uomini e queste donne sono come lei, partecipi dell’alleanza che salverà il Mondo intero! Non ne va fiera, signorina?-.
-Non so di cosa parli, idiota!-.
La discussione si fece man a mano meno convenzionale. –Ascolta bene, ragazzina- cambiò tono Martin. –È vero, siamo noi i responsabili di quella che ti abbiamo sentito chiamare tortura, ma prova solo a pensare a cosa c’è là fuori!- indicò dietro di sé. –Il Virus si sta liberando oltre Manhattan, e solo noi possiamo impedirlo!-.
-Come?!- feci io.
-Combattendo fianco a fianco con determinazione e abilità- disse ferramente.
-… non ti seguo, vecchio!-.
-Guardati- si addolcì d’un tratto, ma sapevo si trattasse solamente di un diverso approccio. –Guarda le armi che ti abbiamo donato, che Dio! Che Dio ci ha donato per contrastare questa minaccia…- mormorò profetico, e mi fece un po’ pena.
-Non credo in Dio- sbottai tranquillamente.
-Ah, neppure noi. Abbiamo abbandonato la speranza il giorno in cui ti abbiamo chiusa là dentro!- rise, e con lui gli uomini armati che lo circondavano.
Muori…
Fu istintivo per me scagliarmi contro di lui, avventarglisi con una tale violenza che ero sicura non sarebbe sopravvissuto al colpo, ma ancor prima che i miei artigli potessero perforare la sua carne, da oltre le sue spalle vidi comparire un paio di ali simili alle mie, ma tre volte tanto più grosse e spesse; ma soprattutto taglienti, perché con un rapidissimo scatto, Lewis riuscì a tranciare senza sforzo tre dei miei artigli dell’ala destra, restando a braccia conserte e sorridendo beffardo.
Mi inginocchiai dinnanzi a lui dal dolore, avvolgendomi in quello che restava di entrambe le mie ali. Mi strinsi le braccia attorno al seno, e portai la fronte al pavimento, quasi stessi pregando. Gridai così forte, che i pannelli del corridoio si raggrinzirono, accorgendomi di un’altra delle mie caratteristiche.
Lui è come me…
-Esatto- disse come se mi avesse letto nel pensiero, e secondo me c’era riuscito. –Sono come te, Emily- aggiunse. –Lo sono anche quei ragazzi e quelle ragazze nella sala laggiù- indicò dietro di me, precisamente il laboratorio dove ero rimasta sott’olio parecchio, ma anche troppo poco tempo. Immatura com’ero, probabilmente avevo avuto modo di ribellarmi ai virus cerebrali che mi avrebbero impiantato in seguito, come una droga, affinché ubbidissi come un cane da caccia ai loro comandi.
Lewis si chinò alla mia altezza, e ancora le sue ali vegliavano alle sue spalle. -Anche Lucy, Emmett, Harry… chi altri? Ah, Philip… sono stati scelti, come te… e sono come noi- mi sussurrò all’orecchio. –Vi stiamo facendo del male, state provando dolore, ma è per una giusta causa, e sai benissimo di cosa si tratta…-.
-Sì…- strinsi i denti.
-E cioè?-.
-… Annientare…- serrai i pugni da dolore. –Annientare il virus!- sbraitai.
-Sei sveglia, più di quanto pensassi- Martin si tirò su. –Perciò… ora dimmi- m’interpellò. –Tu da che parte stai?-.
Esitai sulla risposta, e questo non gli piacque.
-Non capisci, Emily, che ti abbiamo resa più forte, invincibile contro qualsiasi sorta di esponente del Virus affinché tu combattessi per noi? Dal tuo sacrifico ne varrà la salvezza della specie umana, lo capisci almeno questo?!-.
Annuii tremando, barcollando sulle ginocchia.
-Benone, un passo alla volta- gioì l’uomo. –E allora, avanti, unisciti a noi…Emily- mi sussurrò.
-Signore, non…- intervenne uno scienziato.
-Lei stia zitto!- lo riprese. –Dov’eravamo?- si chiese tornando a guardare me. –Ah, sì…- sorrise.
Ci pensai allungo, forse più del previsto. Quei maledetti avevano ammazzato il mio ragazzo, la mia unica amica, decimato gente innocente a sangue freddo, ed ora mi stavano trasformando in (un’altra) sottospecie di macchina da combattimento, servile ai loro giusti scopi.
Una parte di me aveva sempre desiderato farne parte: quand’ero bambina, entrare in aeronautica e pilotare caccia militari per andare in guerra, come mio padre faceva con gli elicotteri, era stato un mio grande sogno, ed ora avevo la possibilità di prestare altrettanto servizio alla nazione senza neppure il brevetto aereo e dieci anni di studi. Le ali me le avevano date loro, ma nonostante ciò… c’era quell’altra parte della mia anima che ancora rifiutava l’offerta. L’Emily orgogliosa, furiosa, arrabbiata, sdegnata. L’Emily che aveva sentito gli spari della scorsa notte davanti al pub, l’Emily che aveva ricordi felici di una vita normale, l’Emily che aveva sempre sognato non di pilotare aerei o combattere il male, ma l’Emily che desiderava una famiglia, dei figli… l’Emily alla quale avevano strappato il padre e tutto questo… quell’Emily era più prepotente che mai.
-Sto aspettando…- fece Martin beffandosi ancora di me, e chissà cosa ci trovava di tanto divertente nel vedermi strisciare in quel modo.
Ma alla fine, straziata dal dolore che sentivo lungo tutta la schiena e in ogni parte del corpo, accettai. Chinai la testa di più, e mormorai forse un “va bene” talmente debole che solo un super udito, come quello dell’uomo che avevo davanti, avrebbe potuto captare.

«Sangue o non sangue, morte o non morte, scelte o non scelte, Emily orgogliosa o Emily vendicativa! Tralasciamo tutto per un istante e guardiamo in faccia la realtà: non mi sembrava di avere molta scelta.»

-Voglio sentirglielo dire, signorina Walker- disse, e mi colpì non poco con queste parole. Si chinò alla mia altezza e sussurrò: -Quando la gente alza gli occhi al cielo, quando la gente ci indica e si chiede: “Cos’è quello?”- fece un buffa vocina. –Noi cosa rispondiamo?- sorrise malvagio.
Sollevai piano la testa, guardandolo dal basso verso l’alto e, non appena incontrai i suoi occhi, le mie labbra si schiusero giusto il necessario: -… Angeli…- mormorai, ma un istante dopo le mie difese crollarono, e mi accasciai a terra priva di forse per reggermi anche in ginocchio.
-Che succede?!- chiese colpito Lewis. –Perché è svenuta?!- cominciò ad allarmarsi guardandosi attorno; probabilmente non era normale che cedessi in quel modo, ma poi aggiunse, avvicinandosi ad un altro scienziato: -Perché le ferite non si rimarginano?!- lo afferrò per il colletto.
L’uomo rabbrividì quando si trovò le ali di Martin che puntavano alla sua gola, come denti affilati di una bestia.
-Non lo so, signore!- piagnucolò questi.
-Lewis, la ragazza è prematura- intervenne la donna del reparto, e il capo si voltò verso di lei. –La stavamo portando in laboratorio quando…-.
-Dannazione!- sbraitò. -Perché non ne sapevo nulla?! Avete lasciato che la ferissi in questo modo, idioti!- sbraitò gonfiando le ali, e minacciando i presenti.
-Pensavamo lo sapesse!- espresse un altro.
-Bhé, vi sbagliavate…- borbottò Martin staccando le mani dal camice dell’altro medico. –Allora cosa state aspettando?! Portatela subito via! Muoversi!- ordinò, ed ubbidirono all’istante.
Mi scortarono in una sala totalmente nuova e semplice, che pareva la stanza di un ospedale, e mi tennero lì il tempo necessario per rimarginare le ferite da taglio.
Restai sveglia durante tutta l’operazione, e vidi iniettarmi dell’altro liquido, ma ben presto persi nuovamente i sensi e non mi risvegliai per una quindicina di giorni.



*********
Link --------> le ali d’Angelo di Emily
Il fatto che ha solo cinque artigli è per via dell’immaturità.
Emily ha lasciato la vasca di contenimento in anticipo rispetto alla scadenza,
per questo è così debole e ha solo cinque artigli per ala.
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Capitolo 6
*** Capitolo 6° - Un anno dopo ***


Capitolo 6° - Un anno dopo

GIORNO DELL’INFEZIONE 384°

POPOLAZIONE MONDIALE INFETTA: 06, 00%


Il cielo era ancora scuro, ma all’orizzonte già s’intravedeva il leggero chiarore dell’alba ormai prossima. New York si svegliava lentamente, riacquistando i suoi colori e il suo puzzo di Virus e bruciato. Le strade erano deserte, silenziose, stranamente immobili. Un venticello fresco e primaverile spazzava via dall’asflato alcune vecchie cartacce, sollevandole verso l’alto e queste, trasportate dalla corrente, andarono ad ustionarsi nel fuoco di un appartamento del settimo piano ancora in fiamme.
Quella era Manhattan notturna, quieta e taciturna. I grattacieli distrutti dalle esplosioni e dai bombardamenti, giganteschi fori di bombe per le strade, crepe, continui pezzi di palazzi che venivano giù.
Ma un nuovo sole stava sorgendo sulla città, un nuovo giorno stava cominciando, una nuova battaglia sarebbe presto iniziata…
Ed io ero già in campo.
Un’esplosione: i frammenti dell’auto andarono ad espandersi tutt’attorno in un frastuono assordante, mentre una fiammata bluastra divampava verso l’alto. Lo scricchiolio del metallo che andava in frantumi, la puzza nauseabonda di benzina abbrustolita, e poi il vento dell’onda d’urto, che spazzò via interi detriti di cemento dal circondario.
Tossii maledicendo l’idea che mi era venuta di scagliare quell’infetto contro quell’automobile. Mi diedi della stupida. Alle mie spalle ascoltai il frastuono di alcune mitragliatrici, poiché i pochi superstiti dello scontro armato che c’era stato poco fa si stavano occupando di un gruppo di portatori insani di piccolo taglio.
-Ma che cazzo…- imprecai piegandomi per sistemarmi i lacci della scarpa sinistra. Quel giorno, uno come tanti, indossavo le mie converse nere basse, un po’ rovinate e con qualche foro qua e là, ma nonostante la scritta dietro fosse completamente cancellata e desse a sembrare che fossero false, andavo comunque fiera di quelle calzature che mi avevano accompagnato per un anno dal giorno del primo addestramento ad oggi.
Delle volte mi stupivo quasi del modo assurdo in cui fossi abbigliata: pantaloncini corti fino a metà coscia, di jeans con degli agganci laterali ai quali avevo legati alcuni arnesi di supporto ai miei poteri. Due cinturini di cuoio mi stringevano la coscia destra ed erano moniti del fodero di una torcia portatile e qualche sedativo. La maglia nera aderente senza maniche, quasi una canottiera, aveva il collo alto e delle cuciture rosso porpora mi correvano da un fianco all’altro, scoprendo un lembo di pelle per ciascun punto. I pantaloni mi andavano larghi, così portavo anche una cintura che da oggi alla prima volta che la indossai aveva perso sì e no parecchi gradi di colore a furia di smacchiarla dal sangue infetto.
I mezzi guanti di pelle, il polsino… si direbbe una semplice tenuta sportiva se non fosse per il modernissimo casco integrale nero: auricolare, satellitare e gps incorporato con diretto collegamento alla base Phoenix.
-Angel 1-9-2, mi ricevi?!- mi chiamarono. Era una voce maschile, giovane, sulla trentina.
Lupus in fabula… pensai io. –Qui Angel 1-9-2- sorrisi. Oggi era lui il mio coordinatore, e questo mi metteva di buon umore. -Sì, Matt, ti ricevo-.
-Dannazione Emily, ma che cazzo fai?! Sei impazzita?! Non puoi uscire da sola! Ad Emmett girano i ciglioni, Lucy è in pensiero, e mi dici come faccio a scollare Phil dal mio radar?!- sbottò il ragazzo.
Potevo immaginarlo seduto alla sua postazione, con attorno le imprecazioni di Emmett, gli spasmi di Lucy e le manacce di Phil che cerca di individuare la mia posizione sul radar in qualunque modo.
-Di’ a Phil che ho il segnalatore spento- ridacchiai.
-Cristo!- implose Matt. –Vallo a dire a Martin e poi ne riparliamo!- fece esasperato. –Ti abbiamo ripetuto mille volte di tenerlo acceso! Se proprio devi farci questi scherzetti, almeno lasciaci tener conto della tua posizione!-.
-Ma così non è più divertente- sbuffai divertita.
-Ora torna subito, prima che Lewis sguinzagli gli altri del tuo gruppo. Stanno diventando piuttosto gelosi della tua attività clandestina- mi avvertì.
-Gelosi?!- mi stupii io inarcando un sopracciglio.
-Adesso non fare domande, ti spieghiamo tutto quando sarai di nuovo tra noi! Chiudo- e la chiamata s’interruppe.
-Che strano…- commentai alzandomi la visiera del casco.
Non era mai capitato che mi richiamassero così d’improvviso. Di solito, quando si accorgevano che mancavo all’appello mattutino dei clan non si curavano molto del fatto che fosse già fuori a reprimere il Virus, anzi! Mandavano intere squadriglie nel luogo dove mi trovavo a darmi supporto, così da poter ingaggiare battaglia dove avevo cominciato. Perciò mi parve strano che oggi fosse cambiato qualcosa, e non potei far a meno di accorgermi che gli spari dei comuni militari alle mie spalle erano cessati. Intercettai le loro radio e venni a scoprire che la massa d’infetti si stava spostando verso il centro della penisola, e che quindi non mi restava molto lavoro da fare in quella zona.
Respirai un po’ di quell’aria puzzolente di Virus e mi riabbassai la visiera. Mi piegai su un ginocchio, portai una mano a terra e chinai la testa, mentre sulle mie spalle, con ancora un’immensa fatica, riuscivo a farmi spuntare quelle ali di cui andavo sempre più fiera.
Gli artigli non erano più cinque, ma molti, molti di più. Quella famigerata notte trascorsa sotto i ferri e incubata come una tossicomane mi era servita a stabilizzare la mia immaturità al gene mutante che c’è in me. Il risultato era spettacolare, davvero invidiabile.
Le mie erano le ali più complete e belle di tutta la squadriglia fenice della mia base.
Quello che mi mancava, nonostante fossi a distanza di un anno dal primo tentativo di alzarmi in volo, era il controllo su quel secondo paio di braccia attaccate alle mie scapole. Dovevo acquistare dimestichezza, allenarmi ogni giorno come una matta nella palestra della base. In quelle condizioni c’erano passati tutti, ma nonostante potessi vantarmi di una bella estetica, le mie erano anche tra le ali più scadenti e fragili.
Riuscii lo stesso ad alzarmi in volo, seppur con un po’ di difficoltà.

«È trascorso esattamente un anno dal giorno in cui mi hanno rinchiusa in un ampolla di vetro, facendomi capire come si sente un cetriolo sott’olio. Interessante esperienza, non c’è che dire, ma quelle quattro settimane trascorse nei laboratori della base Phoenix cambiarono radicalmente la mia vita.
Esatto.
È successo tutto quello che temevamo.
-Il Virus ha superato Manhattan e si è infiltrato in città; è emigrato ad ovest e sta toccando in queste ore il Giappone. Questa non è più la nostra Guerra, la Guerra di noi valorosi americani, fratelli e patrioti, non più. Adesso il mondo intero sta risentendo dei nostri sbagli, della nostra ignoranza dinnanzi a stupidi test di chimica. Non c’è tempo da perdere, e ogni nostro piccolo sacrificio ne varrà la salvezza di un pugno di vite. Perciò, branco di femminucce, date il meglio di voi stessi in questa causa, e Dio vi ricompenserà col Paradiso! Quello vero!-.
Questo è il cazziatone che ci hanno fatto il primo giorno d’addestramento.
Lo ricordo come fosse ieri.
All’inizio pensavo si fosse trattato di un malinteso, ma alle lunghe capii che non era stato affatto così.
Mi avevano scelta, scelta per partecipare al progetto “Gabriel”; dal nome Gabriele di origine ebraica, che fu l’Angelo annunciatore della Vergine Maria.
Già, un angelo… ed è così che ci chiamano: Angeli.
Col tempo ho scoperto che è solo una copertura, un nome che cela, dietro una maschera di profondo rispetto e umanità, ciò di cui siamo davvero capaci. È per tenere buona la Chiesa e tutta la sua cerchia che ci è stato dato questo appellativo, e la gente lo apprezza, lo adula, lo teme…
Siamo dei muta-forma, e quello di farci comparire le ali è uno dei nostri mille potenziali nascosti; siamo l’uno con caratteristiche differenti dall’altro; rispettiamo ciascuno la nostra individualità, senza alcuna differenza di età, sesso o religione. Siamo stati suddivisi in famiglie (il gruppo del quale facciamo parte) e assieme ai membri del nostro clan combattiamo la minaccia che sta distruggendo il nostro pianeta, ovvero il Virus letale del quale ci cibiamo. Nonostante ciascuno di noi ami lavorare distaccato, sperato dal gruppo, è quando quando ci riuniamo e concentriamo le nostre menti in una soltanto che diventiamo davvero potenti e capaci di cose incredibili.
Ma… Qual è il nostro compito, precisamente?
So che ve lo state chiedendo…
Ebbene, in verità è molto semplice.
Veniamo sguinzagliati in clan per la città, spruzzati come disinfettante sulle ferite di New York, come pesticida sui portatori sani e non. Siamo a milioni, chi più grandi e forti e chi più piccoli e malati. Nel nostro sangue circola ormai la stessa essenza del virus, che è l’artefice dei nostri insani poteri. Questo è il semplice motivo per il quale, un giorno, quando tutto sarà finito, qualcuno dovrà ammazzare anche noi.
La gente ci chiama anche paladini o spazzini... ma personalmente, odio questo nome più di quanto disprezzi il mio.
Abbiamo l’ordine di scovare e distruggere ogni esponente del virus siero positivo, e ci è facile riconoscere gli infetti attraverso una speciale vista termica… un gioiellino donatoci dall’iniezione del campione Zeus nel nostro sangue. Roba da non credere.
Sebbene sia da Zeus che proveniamo, e abbiamo poteri simili ai suoi, ci è stato chiesto di eliminarlo…
Il mio gruppo va disperatamente a caccia di lui. Lucy, Emmett, Harry, Phil, tutti quanti si concentrano su di lui come fosse il bersaglio che vale cento volte tanto i punti di un solo cacciatore abbattuto.
Ecco, io questa cosa proprio non la capisco.
Perché è così importante sbarazzarsi di Zeus? Dopotutto lui è simile a noi più di quanto si possa immaginare, e mi sembra che stia facendo anche un ottimo lavoro con gli alveari. La ricerca del suo passato, la caccia al filo conduttore che manca nella sua mente, l’ha portato quasi dalla nostra parte, perché ormai la quantità di morti all’interno dei nidi del Virus è pari a quella dei militari americani. Diamine, è grazie a lui se il Virus avanza più lentamente del normale. Ma quello che probabilmente preoccupa i nostri finanziatori, i nostri scienziati e i ragazzi responsabili del nostro progetto è il fatto che presto potrebbe presentarsi come il nostro peggior nemico. Con poteri simili e a piede libero per la città, inconsciamente, Alex Mercer ha in mano il mondo, e qui entriamo in gioco noi.
Dobbiamo fermarlo prima che capisca davvero quant’è potente, e prima che il suo potere gli consegni Manhattan su un piatto d’argento. »

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Capitolo 7
*** Capitolo 7° - Scommessa ***


Capitolo 7° - Scommessa

Atterrai sul tetto della base trovandomi il sole contro gli occhi, e la visiera del mio casco divenne automaticamente scura. Ritrassi con un po’ di fatica le ali all’interno del mio corpo, e mi piegai sulle ginocchia avvertendo le forze mancarmi. Avevo combattuto all’aperto per un’oretta circa e già ero così stanca. Le mie condizioni peggioravano, e nessuno alla base sembrava capire cosa avessi a parte qualche malessere temporaneo, appellativo che mi trascinavo dietro da un anno.
Tutta colpa di quella dannata sera in cui tentai di fuggire, liberandomi dalla vasca nella quale sarei dovuta restare per ancora un bel po’. Invece mi ero solamente aggravata l’esistenza, e di ciò biasimavo continuamente me stessa. Avevo ricorso ad addestramenti intesivi, pratiche sempre nuove, cercando di sviluppare alcune diverse capacità al posto di altre, ma era andato tutto nei peggiori dei modi.
Camminai verso il centro della piattaforma e, non appena ci fui sopra, riattivai la comunicazione con il mio coordinatore giornaliero.
-Matt, Matt!- chiamai.
-Sì, Angel 1-9-2, ti ascolto- disse lui.
-Sono sul tetto, fammi scendere- lo informai.
-Agli ordini, ma non fare deviazioni per la colazione una volta dentro. È urgente che torni in sala comune!-.
-Ho capito!- detto ciò, la gigantesca lastra di metallo camuffata sotto i miei piedi si abbassò lentamente, fino a scomparire del tutto uno, due livelli più in basso rispetto al tetto.
Ebbi così libero accesso alla prima area interna della nostra base. Si trattava di un ampio spazio riservato, in primis, ad alcuni elicotteri di soccorso, qualche deltaplano e aerei vari, ma in secondo luogo alle macchine ad energia solare che tenevano in continua funzione i generatori dei laboratori e di tutto l’impianto.
A quell’ora del mattino non mi aspettavo affatto di trovare un gran traffico, così proseguii dritta sino agli ascensori in fondo alla pista. Una volta in cabina, digitai il piano che ospitava la sala comune del mio clan e guardai le porte chiudermisi davanti agli occhi.
Le pareti insonorizzate e di una robusta lega di metallo erano quasi riflettenti, e in esse potevo specchiarsi la mia immagine. C’era però un vero e proprio specchio che riempiva tutto un lato della cabina, e preferii osservarmi con attenzione in esso.
Alzai la visiera del casco integrale, ma un istante dopo me lo tolsi del tutto, mettendomelo sotto braccio.
Persino il mio taglio di capelli era parecchio cambiato da quando frequentavo questo posto. Sempre neri, ma acconciati in un taglio corto che impaffutiva il mio viso dandogli un aspetto ancor più fanciullesco, quasi da adolescente. Gli occhi azzurri e brillanti di una volta lasciavano spazio ad un grigio spento un po’ triste, che mi dava quasi fastidio notare.
Aggiustai gli ammennicoli della mia tenuta sportiva e mi allacciai per bene i lacci delle scarpe. Quando fui finalmente pronta, eretta e composta davanti alle porte dell’ascensore, queste si aprirono accompagnate da un leggero campanello.
-Sei una cazzona, Emily!-.
Mi sentii afferrare per il collo e sbattere con violenza contro la parete dell’ascensore. Si creò un bozzo profondo che avrebbe arrecato non poco fastidio ai meccanici della sezione, e una delle lampade si fulminò. La scossa di dolore mi passò da parte a parte del corpo, e i miei sensi si annebbiarono per una frazione di secondo, e questo non mi permise di reagire sull’immediato.
Emmett strinse maggiormente la presa, impedendomi di respirare. Il suo viso poco distante dal mio, mentre l’altra sua mano si era muta-formata in un una grossa palla fatta di aculei, e mi minacciava con essa tenendomi sospesa da terra. Era a torso nudo, e i suoi muscoli pulsavano minacciosi. La catenella del prestato servizio militare, assieme a quella di catalogo della sezione Angels, gli ricadevano sul petto, e bastarono i suoi agghiaccianti occhi azzurri ad immobilizzarmi.
-Mettimi giù!- digrignai.
-Emmett, Cristo Santo!- sbraitò Lucy volatilizzandosi al suo fianco. –Lasciala, che ti è preso?!- fece stupita.
-L’hai sentito Lewis, no?!- eruppe Word invigorendo la presa. –Questa stronza voleva beccarsi tutti i punti!- era furente, fuori di sé. Non l’avevo mai visto così arrabbiato, nonostante il trattamento su di lui avesse avuto certi simili effetti collaterali che garantivano un carattere molto più irascibile della norma.
-Punti?!- mi stupii. -Non so di cosa parli! Mettimi giù!- strillai ancora divincolandomi e scalciando. Quando lo colpii ai punti bassi, approfittai di un momento della sua esitazione per scagliarmi contro di lui. Riuscii a stanziarmi abbastanza dalla parete dell’ascensore per farmi crescere le ali, e con una di esse, spiccando un balzo, lo colpii in faccia lasciandolo un poco stordito e con un labbro spaccato.
-Che cazzo ti prende, stronzo?!- gli gridai euforica, atterrando salda sulle mie ginocchia.
Ecco il modo più facile per rovinarsi una buona e serena giornata di lavoro! Pensai.
Emmett mi venne addosso col doppio della forza e mi afferrò di nuovo per la gola, questa volta sollevandomi ancora più in alto e sbattendomi contro la parete opposta della cabina, che andò quasi in frantumi. –Non chiamarmi stronzo, puttana!-.
-Basta, smettetela!- stillò Lucy facendo un salto indietro spaventata.
-Allora?! L’hai trovato Alex oppure no?! A quanto ammonta il tuo contatore, adesso?!- sbraitò Emmett.
-Non so di cosa parli, idiota!- risposi.
Harry e Phil erano fuori dall’ascensore, alle spalle del ragazzo e osservavano allibiti la scena.
La ragazza Malcom tentò nuovamente di calmare il nostro compagno: -Basta, Emmo. Emily non poteva saperlo! Lasciala andare, mettila giù, avanti!-.
Percepii le dita di Emmett indebolirsi attorno al mio collo, e il suo braccio sinistro tornò allo stato normale in un insieme di fasci rossi e spuntoni neri. –Può averglielo spifferato qualcuno prima che il vecchio lo dicesse a noi!- sibilò lasciandomi andare improvvisamente, e mi accasciai a terra indebolita.
Lucy ed Harry vennero in mio soccorso, mentre Philip seguì Emmett fuori dalla cabina.
-Sei un’idiota, guarda che le hai fatto!- lo rimproverò.
Emmett gli lanciò un’occhiataccia. –Se l’è meritato. Non può fare di testa sua- sbottò.
Lucy ed Harry mi fecero sedere su una delle poltrone della sala.
-Come ti senti?- mi chiese la ragazza.
Annuii debolmente. –Bene…- mormorai. –Ma si può sapere cosa diavolo gli è preso?- domandai.
Harry ignorò del tutto la domanda e si allontanò verso il distributore d’acqua. Prese un bicchiere, lo riempì e me lo porse, ma solo mentre stavo bevendo si decise a rispondermi: -Lewis tornerà tra poco, e sarà lui a spiegarti tutto- disse.
-Va bene, ma almeno potete…- insistei dopo aver preso un altro sorso.
Phil ed Emmett si erano appartati sul fondo della grande sala comune del nostro clan, e stavano discutendo apertamente della situazione e con un tono di voce parecchio alto.
Il ragazzo con gli occhiali si passò una mano in volto, stirandosi gli zigomi. –Non sei tu che detti legge qui dentro- sibilò.
Emmett si voltò furente. –Solo perché hai la fascia del capitano, Philip, questo non ti autorizza a darmi ordini! Perciò neppure tu sei la legge qui dentro!- lo punzecchiò indicandolo con un dito.
-Infatti- proruppe una voce nuova.
Ci voltammo tutti quanto verso l’ingresso secondario della sala, quello che conduceva alle scale, e ci accorgemmo che Lewis Martin ci scrutava uno ad uno con attenzione. –Infatti, sono io che detto legge qui, signor Word- sorrise sornione avvicinandosi ai due Angeli.
Al suo seguito, entrarono nella stanza un paio di tecnici che si apprestarono subito a mettere mani sull’ascensore del piano, che era rimasto distrutto e inutilizzabile.
-E la prossima volta che la signorina Walker fa ritorno dalle sue scampagnate- ridacchiò –gradirei non dovermi fare otto piani di scale- disse ironico.
Chinai la testa da un lato, nonostante non fosse mia la colpa.
-Sì signore- assentì Emmett abbassando il mento. –Mi perdoni- aggiunse rispettoso.
Lewis sorrise compiaciuto e venne nella mia direzione. Quando mi fu abbastanza vicino, scattai in piedi con una rapidità incredibile e mi misi rigorosamente dritta.
-Signore- salutai.
-Riposo, Emily, riposo- risse l’anziano. –Sono felice di vederti tutta intera e così carica già di prima mattina, come sempre dopotutto- mi arrise.
-Altrettanto signore-.
Lucy ed Harry ai miei lati restarono silenziosi e immobili, ed Emmet e Phil si unirono a noi avvicinandosi a me.
-Suppongo che lei si stia chiedendo il motivo di una tale inusuale reazione da parte del signor Word- proferì Martin scoccando un’amara occhiata al sottoscritto.
Emmett sprofondò nei suoi muscoli col mento al petto.
-Esattamente- dissi io.
-Questa mattina all’alba ho fatto convocare i suoi compagni, signorina, per avvertirli di un’importante questione- cominciò lui avvicinandosi alle ampie vetrate che affacciavano sull’isola di Manhattan.

«La base Phoenix è situata sulla costa ovest di New York ed è un alto grattacielo riservato alle operazioni militari del settore Angeli. Dall’esterno sembra una comune palazzina pubblica, ma questo camuffamento nasconde ben altro che comuni appartamenti.
Quindici palestre di addestramento avanzato, un’ottantina di camere riservate ai combattenti, una dozzina di infermerie e laboratori. In quell’edificio lavorano sì e no mille persone tra Angeli, scienziati e coordinatori.
Il ruolo di ciascuno è molto semplice.
Noi siamo gli Angeli, i paladini della città e protettori della specie umana.
Gli Alchimisti si occupano della revisione e del controllo dei settori chimici della base, ovvero di quei laboratori dove veniamo creati. Ogni giorno arrivano due Angeli nuovi e ne muore uno. È un ciclo continuo che mi ha sempre affascinata, per questo, una volta terminato il servizio da Angelo, mi piacerebbe entrare a far parte degli Alchimisti, gli stessi che a mio tempo mi tirarono fuori dalla vasca quando tentai quasi la fuga.
Matt Morgan, il ragazzo che mi ha contattata poco fa, è un coordinatore. Esperti in tecnologia avanzata militare, la loro è forse la mansione più semplice ed essenziale tra tutte, ma non è raro che vengano continuamente cambiati di giorno in giorno. Ognuno di noi ha il suo coordinatore, e questo ha a sua volta il compito di tenere d’occhio la posizione del suo angelo, segnalargli sul gps i nemici e gli ostacoli, blocchi, aerei, elicotteri e armamenti vari dell’esercito, ma soprattutto, quando entra nel campo visivo del radar, di individuare il temutissimo Alex Mercer. Sono le nostre ombre, ci seguono dovunque andiamo e hanno più o meno l’ardito compito di farci da coscienza, tipo grillo parlante, ecco. »

Mi distrassi dai miei pensieri voltandomi verso di lui, e Martin riprese da dove aveva lasciato.
-In sua presenza, signorina Emily, sono costretto a ripetere il discorso che ho già anticipato ai suoi colleghi- mi disse.
Anuii, e con me i miei amici.
-Ottimo- sorrise Lewis, e le vetrate dietro di lui si oscurarono improvvisamente, lasciando la sala comune in balia del buio più nero.
-Schermata- disse il nostro capo, e le finestre assunsero d’un tratto l’aspetto di lavagne luminose, sulle quali comparvero una serie di indicazioni, numeri ai lati e un simbolo che conoscevamo bene nel centro.
-L’ONU si è riunito stamani a Londra per discutere della situazione. Ebbene le conclusioni sono semplici e concrete: il Virus sta dilaniando in Europa-.
Sobbalzai. –In Europa? Ma siamo sicuri?- domandai scettica.
-Sembra impossibile crederlo, ma i riscontri a Roma, Parigi e Amsterdam sono troppi per poter ignorare la cosa- disse Martin, e sulla schermata dietro di lui si materializzò una cartina ben dettagliata dell’Europa, con le rispettive Capitali attaccate dal Virus in evidenza.
-Sono stato contattato dalla base di Los Angeles- riprese Martin –e mi hanno detto che sono pronti a mandare una squadra di Alchimisti laggiù il prima possibile, ma non basta. Ho fatto questo discorso a tutti voi Angeli, e ho già reclutato alcune squadriglie che si sono offerte di emigrare in Europa senza ulteriore indugi. A Manhattan è rimasto poco da combattere, e altrettanti pochi come voi sono rimasti a farlo. Ma mi serve ancora il vostro supporto, signori, perché mentre i vostri compagni saranno in oriente a mietere vittime e siero positivi, noi dobbiamo occuparci di una minaccia ben più grave- ammise seriamente.
La schermata variò ancora, e su tutta la superficie comparve l’intero profilo del nostro arci-nemico.
-Alex Mercer- scandì bene Lewis.
Emmett incrociò le braccia al petto sospirando. –Che grand figlio di puttana- digrignò.
-Per me è carino- ridacchiò Lucy.
Harry dell’altra sponda concordò con la ragazza. –Non ho tutti i torti!- rise.
-Per favore, smettetela!- subentrò Phil. –Non siamo in uno show televisivo a dare giudizi ai più fighi in circolazione, ragazzi!- ci sgridò.
-Ah, allora ti piace!- sghignazzò Harry.
-Adesso basta signor Brown- interruppe Lewis. –Le parole di Philip sono sicuramente più sagge delle vostre, e vanno ascoltate, ora come ora-.
Ignorai del tutto le loro voci, avvicinandomi di un passo alla schermata. Non credevo davvero che quello fosse il reale motivo dei nostri guai. Insomma, quando ne sentivo parlare pensavo ad una bestia più o meno come Emmett, capace di farti paura anche da lontano.
Questo era un ragazzo normale, con camicia, felpa, cappuccio, giubbotto, pantaloni e scarpe. O almeno, sembrava un ragazzo normale, probabilmente poco più grande di me, e probabilmente arrabbiato per quello che i Blackwach gli avevano fatto. Così arrabbiato che giorno dopo giorno mieteva infetti, ma anche sabotava basi militari e si scontrava continuamente con noi Angeli, uscendone sempre vincitore. Personalmente, non avevo mai incontrato Alex Mercer, e neppure mai visto così vicino e così dettagliatamente, e accanto al suo profilo comparvero delle altre immagini che riscattavano alcuni dei suoi incredibili poteri, molti dei quali avevamo anche noi.
Scene raccapriccianti di come scuoiava la gente e riusciva a tramutarsi in essa senza problemi. Riusciva ad allungarsi le braccia, afferrando elicotteri e scatenando l’inferno al loro interno. Faceva esplodere carri-armati gettandovisi semplicemente addosso, e sollevava carichi cento volte lui.
Le fotografie corsero a fiumi davanti ai miei occhi, ed io le osservai rapita, senza spiccicare parola e a bocca aperta, quasi abbagliata dalla luce che mi proiettava addosso la lavagna luminosa; e la mia ombra si allungava alle mie spalle sul pavimento assieme a quelle dei miei compagni di clan.
Come ripeto, non avevo mai avuto la (s)fortuna di incontrare Alex per la mia strada. Alzandomi sempre presto la mattina e andando a caccia di “virussati” di piccolo taglio, non mi ero mai imbattuta in lui, ma ora la questione si faceva davvero più seria, molto di più.
Molti dei nostri compagni della base erano emigrati in Europa, e noi rimasti a Manhattan non dovevamo occuparci d’altro che non fosse lui, Alex. Questa era la nostra nuova ed unica missione: trovare e annientare Mercer. Ai siero positivi e malati restanti avrebbe pensato il Governo con i suoi militari, tanto ormai restavano davvero in pochi quelli contagiati. Manhattan l’avevamo quasi svuotata, ma restava ancora lui, il pezzo grosso, i cento punti del tiro a bersaglio.
Ecco perché Emmett era diventato improvvisamente così geloso e furente.
Pensava che qualcuno mi avesse spifferato tutta la questione e fossi andata a caccia di Alex da sola. E ovviamente aveva sperato che non tornassi viva dalla mia ricerca, perché lui, qualche mese fa, aveva avuto la cosìdetta (s)fortuna di incontrare quel bastardo nella strada.
Era successo ad agosto, credo. Emmett e Lucy stavano traversando assieme la strada che costeggia Central Park e pattugliavano in cerca di nidi dei cacciatori, quando d’un tratto se lo sono trovato davanti.
Ovviamente Emmett ha cominciato a fare di testa sua, gettandoglisi contro senza pietà. Ma il duello è stato lungo, e Lucy mi raccontò che durante tutto quel tempo lei non aveva fatto altro che guardare, troppo spaventata.
Sapete com’è finita la bella storiella?
Emmett ricoverato d’urgenza dagli Alchimisti, cosa che non fanno mai perché di solito se ne occupano i medici normali, e Lucy spedita nella sezione psichiatrica ad appuntamenti regolari per due settimane.
Insomma quel tipetto sullo schermo rendeva parecchio inquieti tutti i miei compagni di branco.
Tutti eccetto me.
-Bene, signori- Lewis batté le mani. –Oggi mentre sarete in palestra vi verranno consegnati degli schedari, cartelle contenenti la vostra porzione di Manhattan per questa splendida giornata di nuovo lavoro- ci sorrise.
Le immagini della lavagna s’interruppero, e le vetrate della sala tornarono di nuovo trasparenti, lasciando filtrare la luce accecante della prima mattinata.
-In palestra?!- eruppe Emmett. –E perché?! Non ci serve il riscaldamento, siamo pronti ad iniziare! Subito!- sbottò.
-Si dia una calmata, signor Word- ridacchiò Martin. –Posso capire che tra lei e Mercer è una questione un poco più personale…- lasciò la frase in sospeso e si avviò verso l’uscita della sala comune. –Ma, ecco- si voltò d’un tratto. –Mi ero scordato di dirvi che la palestra è stata giustamente attrezzata per l’occasione, al fine di istruirvi sulla tattica di combattimento adottata da Mercer. Questa simulazione vi permetterà di essere sufficientemente preparati quando entrerete in contatto con lui- ci sorrise gioiosamente. –È tutto- ed entrò nell’ascensore, che i tecnici, in tutto quel tempo, avevano riparato a dovere.
-Che stronzo- borbottò Emmett sbracandosi sulla poltrona.
-Emmo, avanti- Lucy gli si avvicinò poggiandogli le mani sulle spalle. –Lo fa per il nostro bene, in fondo tutti noi hanno avuto un brutto incontro con Alex, almeno una volta, e ognuno di noi è rimasto profondamente inciso da questo…- mormorò guardandoci uno alla volta.
-Veramente…- assentii io abbassando lo sguardo.
-Ah!- rise Emmett. –La bigotta è ancora verginella, eh?- sghignazzò malignamente.
-Vaffanculo- dissi schietta e fredda.
-Spero tanto che trovi quel figlio di puttana, Emily, così ti farai un’idea di quanto ce l’ha grosse quello lì- digrignò in risposta.
-Vuoi scommettere?- inarcai un sopracciglio.
-Va bene, ragazzina!- Emmett scattò in piedi e mi si avvicinò con un solo passo. Una volta che il suo brutto viso da cane fu abbastanza vicino al mio, aggiunse: -Se torni strisciando alla base e zuppa di sangue ti taglio quattro artigli dell’ala sinistra- fece serio.
Dolore. Un dolore assurdo. –Accetto- sbottai. –Ma se ne esco viva e senza un graffio, dovrai girare nudo per la base 24 ore- dissi altrettanto composta.
Emmett mi porse la mano e gliela strinsi reggendo il gelido brillio che mandavano i suoi occhi.
-Terrò le forbici a portata di mano- ridacchiò mentre le sue dita prendevano la forma di un forbicione gigante.
Continuai a stringergliela, e anche con maggior vigore. –Comincia a slacciare la cintura- lo fulminai, e un coro di “ooooh” si levò da Lucy ed Harry alle mie spalle.











Eccomi! Finalmente, sono un sacco di capitoli che non scrivo i commenti d’autrice o tanto meno ringrazio gli utenti. Bhé, che dire? Questo capitolo è un altro da aggiungere alla sequenza tranquilla della storia, ma vedrete, dal prossimo che ho già pronto in un cassetto della mia testa… uh-uh! Ne succederanno di tutti i colori!
Ma passiamo al dunque!

Saphira87
Costante e accanita non ti perdi un solo post! Bhé, devo ammettere di star correndo troppo con gli aggiornamenti, ma che ci posso fare se ho i capitoli pronti e la voglia di postare è troppa? *-* Comunque sul serio, non sai quanto sia contenta che questa ff ti piaccia così tanto, mi sembra di vivere un sogno, non mi sentivo così realizzata da quando ancora postavo i capitoli della storia di Elena! Infondo il corso del tempo va avanti, ma certi aspetti si ripetono! Insomma, abbiamo aperto una sezione nuova solo dei nostri lavori, quindi non posso che notare quanto sia simile ad una scena già vista nella categoria AC del sito! XD Vabbé, ora sclero e mi faccio prendere dall’emozione! Seriamente, ora che molti Angeli emigrano anche in Europa levandosi di torno, ci sono più probabilità che Alex incontri la mia protagonista! E che dire della scommessa fatta con Emmett? (Eheh, sì, bel nome, e volevo persino chiamare Lucy Alice, in onore dei miei personaggi preferiti di Twilight, che nel contesto odio nel profondo, ma vabbè!) La cosa della scommessa è stata un’idea inventata sul momento, spero sia gradimento! XD Bhé, ovviamente non aspettavi altro che il prossimo post, quindi posso immaginare che riceverò la tua recensione prima di domani! Bene, perché nel weekend parto per… Napoli! *-* Avevo intenzione di dirlo a Manu, ma ieri sera quando si è collegato non ho fatto in tempo. A proposito, sei completamente sparita da MSN °A° che è successo??? Facci un segno!!! XD Vabbò, a presto!

renault
Da poco ti sei aggiunta ai miei lettori e hai recensito con coraggio sei ardui capitoli in un giorno solo °O° Ti stimo ragazza, davvero! E sono contenta di “ucciderti” perché questa fan fiction ti piace! A prestissimo!!!

SnowDra1609
Non preoccuparti, Alex gli Angeli se li è mangiati a colazione, pranzo e cena! XD Ovviamente anch’io tifo per lui, quindi per me ed Emily (ndr) i cattivi resteranno sempre quelli che sono fissati con gli esperimenti genetici e hanno ammazzato il suo ragazzo, ovvero i tizi per i quali (obbligatoriamente) lavora.

Questa è una promessa: nel prossimo capitolo vedremo comparire definitivamente Alex Mercer! Per tanto, continuate a seguirmi! ;D Elik.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8° - Angel 1-9-2 ***


Capitolo 8° - Angel 1-9-2

In ascensore mi tenni il più lontano possibile da lui, ed Emmett fece altrettanto con me. Ogni tanto ci scoccavamo certe occhiate che avrebbero messo paura a Dracula in persona; Lucy tentava in tutti i modi di ostacolare questa nostra sfida mettendosi in mezzo tra me e il ragazzo ed Harry e Phil discutevano a bassa voce davanti all’ingresso della cabina.

«La tenuta maschile da Angelo consiste in una maglia degli stessi colori della mia, a collo alto e fatta di un materiale resistente, differente da quella femminile per via delle maniche lunghe e attillate. Sottostante, ognuno di noi può decidere cosa abbinarci secondo i propri gusti.
Io amo i miei pantaloncini jeans con le estremità arrotolate, la cintura e le miticissime converse nere; Lucy, in abbinamento coi colori rosso-nero della nostra maglia, porta una gonnellina corta tipo scozzese e delle scarpette ballerine nere piuttosto comode.
I maschietti, invece, preferiscono ovviamente i pantaloni lunghi e scarpe da ginnastica.»

La cosa che mi turbò durante il tragitto fino nella palestra, fu pensare che dopotutto aveva ogni motivo per essere sicuro della vittoria. Come Angelo, Emmett aveva avuto già un occasione di sfida con quel pezzo grosso, invece io sapevo a mala pena quale fosse la sua vera identità. Per me Mercer era un avversario tutto nuovo, forse troppo forte e questo mi spaventava. Non avevo la minima esperienza, cosa che invece rendeva fieri tutti i miei compagni di clan che, capitati almeno una volta nella (s)fortuna, si erano fatti i loro obbiettivi e prefissi i loro bersagli su di lui.
Ogni giorno muore un Angelo, in questa base, ed è tutto merito suo. Non c’è nessun altro che può fermarci, nessun altro con quelle capacità; molti di noi sono incolumi al nucleare, altri alle esplosioni, altri ancora a qualsiasi tipo di taglio o ferita da sparo, quindi quando l’esercito americano ci spara a vista non ci facciamo molti problemi.
Questi problemi non se li fanno loro, i miei compagni.
Ma io vivo ogni ora nel costante terrore che qualcuno mi colpisca con un proiettile o perfori con un coltello. Gli artigli delle mie ali impiegano settimane a riformarsi, la mia pelle, scalfita da schegge di vetro, necessita di giorni per rimarginarsi. Detesto questa mia debolezza, e anche se ho imparato a conviverci fino ad ora, non posso continuare in eterno.
Mi resi conto di star giocando con il fuoco, di star mettendo a repentaglio la mia incolumità e quella delle mie ali a causa della mia solita testardaggine, che era entrata in conflitto con l’ego di Emmett questa mattina.
Raggiunta la palestra, ci accorgemmo spensieratamente di essere in pochissimi.
Come ci aveva avvertiti Lewis, molti di noi si erano dileguati in Europa senza ripensamenti, e questo ci permise un veloce e personalizzato allenamento senza troppi intoppi. Oltre al nostro, però, di clan ce n’erano alcuni, chi più completo e chi con qualche membro mancante che era fuggito in oriente. Fatto sta, però, che quella mattina non superavamo comunque la cinquantina di persone.

«La sala addestramento consiste in una grande camera con le spesse pareti insonorizzate fatte di un cemento speciale. Il soffitto alto com’è serve a semplificare i nostri spostamenti viari; basti pensare che nell’ora di punta siamo quasi in cinquecento là dentro ad addestrarci.
Il pavimento sembrerebbe comune parquet, ma gli addestratori (la cui mansione è simile a quella dei coordinatori, ma per mera esercitazione) ci sorvegliano dall’alto di una camera oscurata; sono maestri nelle illusioni tecnologiche e campioni delle battaglie coi robot, perciò ci si può aspettare davvero di tutto.
Assieme a questi tizi qui c’è sicuramente il nostro amato Lewis, che appena entriamo in palestra, è pronto a darci il benvenuto e le prime istruzioni per l’uso.»

-Buon giorno, Angeli- salutò Martin e la vetrata in alto sulla parete si schiarì, mostrando l’intero team di giovani all’opera per renderci questa felice mattinata un Inferno. –Come ben sapete, oggi siamo riuniti nella nostra palestra per inaugurare una nuova era di caccia- sorrise. –Alex Mercer, detto Zeus, da oggi in poi sarà il nostro obbiettivo primario, ed ognuno di voi, senza distinzioni, è ben pronto ad affrontarlo-.
-Ah, come no…- borbottò Emmett in disparte.
Tentai di ignorarlo, ma mi fu impossibile e, non appena mi voltai verso di lui, di risposta ricevetti una sua solita occhiataccia barbara.
-Io e i miei tecnici qui alle mie spalle, abbiamo ben pensato di avvantaggiarvi nello scontro impartendovi alcune nozioni che non troverete mai nel vostro manuale da Angelo, ma potrete apprendere unicamente in questa sala. Si tratta di un kit di robot personalizzati che simuleranno la vostra resistenza e la vostra prontezza dinnanzi ai continui muta-forma del nostro futuro nemico. Alex Mercer, ricordate, possiede la forza congiunta di tutti voi, ma ancora questo non lo sa, e noi siamo qui per impedirgli di scoprire come usare in tale proposito i suoi devastanti poteri. Ormai il Virus è una minaccia più che estinta. Le strade di Manhattan sono più tranquille che durante la sera del Ringraziamento, ed è questo il motivo per il quale molti di voi si sono spostati ad est, oltre-oceano. I siero positivi non si contano più sulle dita di una mano da tempo, là giù, e questo preoccupa tutte le maggiori potenze mondiali. Perciò!- batté le mani soddisfatto. –Vi do una piccola dritta prima di vedere le vostre belle facce sorprese. Dimenticate le tecniche di combattimento apprese fin ora, non fatevi scrupoli, barate se necessario; abbandonate l’etichetta e il vostro orgoglio! Perché quando vi troverete faccia a faccia col maestro di quest’arte, tornerete a rimpiangere il momento in cui avete messo piede in questo luogo distrattamente, di vostra spontanea volontà oppure no! Forza, coraggio, audacia, agilità e prontezza! Vi auguro con tutto il cuore di arrivare fino a ‘sta sera abbastanza intatti da poter vedere la luce sul nostro pianeta brillare ancora una volta. Ben venuti in Paradiso, signori- ridacchiò, la comunicazione s’interruppe e le vetrate si scurirono di nuovo.
Mi guardai attorno un poco sperduta. –E ora?- domandai.
Lucy si strinse nelle spalle. –Diamoli tempo, magari si stanno ancora prepar…-.
Non terminò la frase che sul soffitto si aprì una gigantesca botola, dalla quale piovvero una marea di manichini in metallo, gli stessi che eravamo abituati a fronteggiare durante i nostri normali addestramenti.

«I robot da addestramento hanno una forma molto simile a quella umana. Si tratta di un corpo snello e semplice, con poche forme essenziali e fatta di una miscela di metalli resistente ad ogni tipo di impatto se non calibrato col giusto interesse e potenziale. La nostra base ne sforna a bizzeffe, ed ho sempre trovato che fossero bellissimi, di una grazia artistica eccezionale. Hanno un casco integrale simile al nostro, argentato e con una visiera di differenti colori a seconda del livello di difficoltà di combattimento che hanno caricato. Il rosso, ovviamente, è quello più difficoltoso. Via degradando, c’è l’arancione, poi il giallo, verde e in fine il blu, che segnala proprio “alle prime armi” ma non per il robot, bensì per il suo avversario. Sono abituata alle loro mosse eleganti e piene di etichetta, che delle volte tramuta nella simulazione di un attacco di un cacciatore, quindi non ho idea di cosa possano aver caricato sui micro-cip di questi tizi qua, se l’intenzione è addestrarci a combattere Alex Mercer. E per la prima volta, provo paura durante una simulazione.»

Questi si posizionarono agilmente e con ordine uno per uno davanti a ciascuno di noi, che eravamo sparpagliati per la palestra, divisa occasionalmente in piccoli settori quadrati da alcune strisce luminose.
Non appena mi ritrovai a fissare il vuoto nella visiera abbassata della macchina, cominciai a tormentarmi sul perché mi avessero affidato un robot arancio, quando io ero livello da verde. Persino Emmett, poco distante di me, si trovò dinnanzi un avversario col casco giallo, così come Lucy, Harry e Phil.
Non riuscii ad individuare nessun altro in palestra che avesse come me quel livello di avversario, e d’un tratto capii che la sfortuna di star rischiando la vita durante un addestramento era toccata a me. Tutto per via di una svista.
-Ehm, scusate!- provai a dire. –Scusate, ehi! Lassù!- indicai la cabina di osservazione con i vetri oscurati.
-Idiota, mettiti il casco e contatta il coordinatore!- mi riprese Emmett, e mi accorsi di essere l’unica a non indossarlo.
-Furbo…- mormorai infilandomi il casco. Accesi la trasmettente e provai a fare ciò che dovevo.
-Angel 1-9-2, ci sono problemi?- una voce femminile.
-Ecco, sì, vede…- esitai. –Credo che il mio grado di addestramento sia più basso rispetto al robot che mi avete assegnato- dissi. –Dev’esserci un errore!- eruppi.
La coordinatrice fece una breve pausa, controllando probabilmente in qualche nota del suo computer. –No, signorina Walker, il grado a lei assegnato combacia perfettamente con le sue abilità. Non c’è nessun errore nel sistema, è tutto nella norma- un’altra pausa. –Aspetti, il dirigente vuole parlarle-.
-Il dirigente?!- sobbalzai.
Qualcun altro prese la linea. –Emily- mi chiamò Lewis.
-Signora Martin…- balbettai incredula, e Lucy mi scoccò un’occhiata stralunata. Alzai le spalle comunicandogli che non ci stavo capendo nulla.
-Emily, calmati, non c’è nessun problema col sistema. Sono stato io ad assegnarti quel robot- disse.
-Ma signore, io…!!!- provai a replicare.
-So che potresti inizialmente non capire, ma fidati di me-.
-Che cosa vuole farmi?!- sbottai.
-Voglio testare le tue vere capacità, ragazza mia- rispose tranquillo.
-Cosa intende con…-.
Martin m’interruppe. –Adesso non c’è tempo, i tuoi compagni saranno impazienti di iniziare-.
-Aspetti, sign…!!!-.
La comunicazione cadde, e istintivamente guardai verso la vetrata oscurata della palestra, cercando di capire cosa diavolo stesse succedendo lì dentro.
-Emily- mi chiamò Lucy alla mia destra, nel settore di campo adiacente al mio. –Che ti prende?-.
Alzai gli occhi al cielo. –Hai visto chi mi hanno assegnato?!- boccheggiai indicando il manichino di metallo ad una decina di metri di fronte a me.
Lucy alzò la visiera del suo casco e seguì il mio sguardo. –Ehi… Phil!- gridò.
Il ragazzo si voltò all’istante. –Che c’è?!- eruppe.
-Guarda lì- indicò lei.
Philip si alzò la visiera anche lui. –Impossibile. Emily, parlane coi coordinatori! Cristo, quello ti ammazza!-.
Si scatenò una specie di reazione a catena che, non appena arrivò ad Emmett, questo si scompose non poco. –Ma che diavolo…- borbottò.
-Sentite, ci capisco meno di voi! Ho provato a contattare i coordinatori, ma è stato Lewis ad assegnarmi questo qui!- li informai.
I membri del mio clan mi guardarono scettici allungo, fin quando, improvvisamente, non ebbe inizio l’addestramento.
All’interno della visiera del mio robot si accesero due una coppia di luci azzurrognole, segno che era pronto ad ingaggiare battaglia.
Rabbrividii, restando immobile alcuni istanti, mentre molti degli Angeli attorno a me avevano già iniziato il duello. Non mi feci distrarre da ciò che accadeva nelle mie prossimità, e cercai di concentrarmi sul mio solo obbiettivo.
-Salve Angel 1-9-2- mi salutò la mia coordinatrice. –Pronta ad ingaggiare battaglia?-.
-Cazzo, no! Qualcuno mi spieghi perché il mio manichino è arancione!- sbottai.
-Angel 1-9-2, non sono autorizzata a rispondere alla sua domanda. Prego, risponda: pronta ad ingaggiare battaglia?-.
Alla fine dovetti arrendermi, e nel frastuono di esplosioni, grida di dolore e gemiti, come nel bel mezzo di uno stadio, annuii. –Sì- sospirai. –Angel 1-9-2 pronta ad ingaggiare battaglia…- sussurrai flebile.
-Bene, cominciamo: posizione di difesa!- mi disse la donna, ed ubbidii all’istante, sfigurando le mie bellissime e preziosissime ali e parandomi dietro di esse.
Il colpo arrivò improvviso, inatteso. Avevo solo eseguito gli ordini della mia coordinatrice che spesso e volentieri mi davano consigli durante l’addestramento e, dopo essermi parata dietro le mie stesse ali, mi accorsi di provare un incredibile dolore dappertutto.
-Che cazzo era?!- sbraitai.
La coordinatrice non rispose ciò che mi aspettavo: -Il suo bersaglio è in movimento. Si sta spostando alla sua sinistra, attivi la vista termica e incorpori quella infetta. Le sarà più facile individuarlo anche attraverso la spessa barriera che creeranno i suoi poteri per lei-.
Feci ciò che mi aveva detto, ed effettivamente vidi un certo veloce spostamento di materia rossastra, su sfondo blu, che veniva nella mia direzione.
-Zeus non è in grado di volare, ma i suoi iper-salti lo supportano con forza e velocità. Stia attenta ai suoi movimenti e cerchi di schivare i suoi attacchi tenendosi sempre a distanza aerea- mi disse.
-Grazie!- gioii e mi levai in volo con un balzo. Spalancai le ali, le gonfiai al vento e guardai sotto di me, dove il mio manichino avversario stava progettando di venirmi incontro.
-Anticipi i suoi movimenti e cerchi di scontrarsi con lui sono verticalmente-.
-In picchiata?!- feci stupita.
-Esattamente. Esegua- era tranquilla, anche troppo per i miei gusti.
Tentai di eseguire una picchiata, mutando il mio corpo per intero in una grossa lancia di metallo, ma non appena gli fui abbastanza vicino, il finto Alex tramutò le proprie braccia in due lunghe fruste d’acciaio, che mi afferrarono, interrompendo la mia mutazione, e sbattendomi con violenza quasi oltre il limite del settore di campo a noi assegnato.
Il colpo mi fece male, dolorosamente male dappertutto, e già rimpiangevo di non essere partita per l’Europa pur io. Mi sollevai lentamente, troppo per i gusti del mio manichino, che non esitò a scagliarmi addosso un altro dei suoi attacchi micidiali: lo vidi piegarsi con un ginocchio a terra, affondare un profondo pugno nel pavimento e in fine, sotto di me, si elevarono una decina di enormi spuntoni di metallo, alcuni dei quali mi infilzarono le ali, altri riuscii a schivarli aprendo le gambe e sollevandomi a verticale da terra.
- Angel 1-9-2, si tenga a distanza da terra- ripeté la coordinatrice.
-Dimmelo prima, stronza!- sbraitai, e pensare che era solo una simulazione. Sarei già morta se quello lì fosse stato il vero Mercer.
Perché Lewis mi aveva fatto questo?! Perché a me l’arancio quando ero abituata ad allenarmi, nelle peggiori occasioni, con il verde?! Dannazione, stavo impazzendo, mai il mio corpo era stato sottoposto ad un tale stress, mi sentivo svenire, era una tortura che non riuscivo a sopportare.
D’un tratto, il braccio destro del robot tramutò in una grossa e spessa lama, quasi più grossa di lui. Venne verso di me con passi lenti e misurati.
-Ehi, guardate! La bigotta è in difficoltà!- ridacchiò Emmett che aveva la meglio sul proprio manichino, tenendolo stretto in una morsa mortale tra le sue braccia tramutate in solide catene nere.
Lucy, attaccata al tetto tipo spider-man, si voltò a guardarmi. –Emily, reagisci!- intercettai la sua voce attraverso il casco.
-Non so che fare, questo tizio mi sta uccidendo!- risposi ingaggiando una comunicazione con lei e interrompendo quella con la mia coordinatrice. Questa cosa era vitatissima all’interno della palestra, ma Lewis, quello stronzo, aveva già un conto in sospeso con me.
-Devi allontanarti da terra! Puoi volare, fallo!- eruppe Lucy, e dopo di ché la chiamata cessò.
-Grazie tante…- borbottai spalancando le ali e spiccando un salto che mi portò a metà tra terra e cielo. –Bene, bastarda, dimmi come lo faccio fuori quel figlio di puttana!- sbraitai riagganciando la mia coordinatrice.
-…Provi un affondo alle spalle, signorina Walker-.
Sbiancai. –Signor Martin…- balbettai immobilizzandomi in aria.
-Attenta alla sua sinistra- rise.
Il robot spiccò un balzo e minacciò di colpirmi con un calcio volante, ma grazie al suggerimento di Martin schivai senza problemi. –Perdoni l’insistenza, signore, ma per cortesia, sarebbe così gentile da dirmi…-.
-Emily, hai sempre vissuto pensando di essere la più debole, qui dentro, e invece ti sbagliavi- mi anticipò. –In te si cela un grande potenziale, un potenziale che io e i miei Alchimisti abbiamo scoperto la notte in cui ti sei liberata dalla vasca, cosa che non era mai successa prima di allora. Occhio dall’alto!-.
Schivai anche quel colpo, e la lama Mercer mi passò a pochi centimetri dal naso. Conversavo con Martin, ma contemporaneamente tenevo d’occhio il mio avversario. –Signore, io non capisco…- sussurrai.
-Nessuno è mai riuscito a spezzare il cristallo di cui è composta la vasca, signorina Walker, ma lei sì. Il sangue che porta nelle vene supporta il virus che le abbiamo iniettato in un modo mai visto. Lei è predisposta almeno quanto Alex Mercer a diventare la più forte tra i portatori sani…-.
-Non ci credo!- risi istericamente schivando un altro affondo. Mi ritrovai in volo radente a pochi centimetri da terra e dovetti riprendere quota toccando il suolo con un piedi, ma nel momento in cui mi diedi la spinta, il robot comparve dal nulla alla mie spalle e mi si avventò contro, facendomi schiantare con un gran botto nel parquet del pavimento.
Gemetti di dolore, ma riuscii ad alzarmi non appena il finto Alex si stanziò abbastanza, preparando un nuovo attacco. –Impossibile, e perché non me l’ha mai detto prima?!-.
-Non ce n’era motivo- rispose tranquillo Martin, seduto sulla sua comoda poltrona nella sala d’osservazione della palestra. I gomiti poggiati sui braccioli, lo sguardo sereno che scrutava oltre le vetrate oscurate, le mani giunte a mezz’aria.
-E oggi?!- sbraitai. –Oggi che cosa succede di diverso?!-.
-Sarò sincero con lei, Emily. Il suo sangue, la sua predisposizione al virus che noi tanto cercavamo, corrisponde al campione Mercer-.
-Ah!- risi. –Mi sta dicendo che io e quel bastardo là fuori- feci una pausa, spiccando un salto ed evitando altri spuntoni che comparvero da terra. –Mi sta dicendo che abbiamo lo stesso gruppo sanguineo?!- gridai, ma avevo il fiatone e mi affaticavo inutilmente.
-In un certo senso…-.
-E questo che vuol dire?!-.
-Che solo tu sei in grado di ucciderlo-.
-Come?!-.
-Sano allenamento e confronto alla pari-.
-Si spieghi meglio!!-.
-Il vostro è un fattore genetico molto ricercato, che vi permette di fare cose che altri non si sognerebbero neppure-.
-Non siamo fratelli! Quindi com’è possibile che quello che aveva lui ce l’abbia anch’io?!-.
-Non venirlo a chiedere a me. Dio solo lo sa- rise.
-Non ci trovo nulla di divertente, signore-.
-Immagino, immagino- e invece continuò a ridere.
Il mio avversario robot mi scagliò addosso un macigno che chissà da dove aveva tirato fuori e mi schiacciò del tutto con esso. Per qualche istante non riuscii a sollevarmi, ma appena trovai la forza necessaria, alzai la pietra sulla sola potenza delle mie braccia e l’adagiai di lato.
Indebolita e con le ossa rotte da qualche parte, fulminai la lattina con un’occhiataccia.
-Basta, se dobbiamo parlare spenga quest’affare!- sbraitai scagliandomi addosso al robot. Riuscii a schiantarlo a terra e mi sollevai in aria subito dopo, restando a guardare la sua reazione.
-Interrompa l’Alex92- disse Martin rivolgendosi alla mia coordinatrice seduta da quelle parti.
-Sì signore- rispose ella digitando una sequenza di tasti.
Feci un profondo sospiro mentre gli occhi del mio avversario si spegnevano e il suo corpo da lattina di metallo assumeva una posa rigida e compatta.
-Grazie- mormorai perdendo quota, e mi misi a sedere sul pavimento respirando più tranquilla. –Ma ora mi dica una cosa, signor Martin-.
-L’ascolto, Emily- sorrise lui.
-Tra altri 500 ragazzi e ragazze come me, perché io? Cos’ho precisamente che anche Alex ha ma nessun altro qui dentro?- domandai.
-Emily- sospirò fieramente l’uomo. –I tuoi compagni sono solo una copertura, il vero unico angelo, qui dentro sei tu-.
-E lei?- domandai schietta, levandomi un attimo il casco e accorgendomi di averci sudato dentro. Quando me loro rimisi, mi notai che Lewis si era preso (troppo) tempo per rispondere. –Ogni cosa a suo tempo-.
-E lei?!- insistetti serrando i pugni.
-Io sono come te, Emily-.
-E allora perché non ci va’ lei a farsi fare il culo da Alex, scusi?!- eruppi profondamente offesa.
-Questo non è davvero un buon momento per parlarne, signorina Walker, e se non ha altre domande, sarò bel lieto di interrompere la conversazione all’istante!- mi ruggì contro.
-Va bene, capo- sbuffai. –Un’ultima cosa- dissi.
-Parli-.
-C’è veramente qualcosa dentro di me che può ammazzare quel figlio di puttana, oppure mi sta solo mandando al macello come fa con tutti gli altri?- domandai turbata.
Lewis scoppiò in una fragorosa risata. –Lei è la mia gallina dalle uova d’oro, signorina Walker, non la manderei mai nella macelleria Mercer senza un buon motivo-.
-E questo “buon motivo”…- abbassai lo sguardo, allacciandomi una scarpa. –Di che si tratta?-.
-Sono qui per scoprirlo, come lei, d’altronde- sorrise.
-Aspetti!- sbottai. –Lei mi sta dicendo che il manichino arancione mi serve a scoprire che cosa dentro di me può fare il culo ad Alex?!-.
-Lei è sveglia, Emily, più di quanto pensassi-.
-Va bene, doc, ci sto- mi sollevai in piedi fieramente.
-Suo padre sarebbe fiero di lei, signorina Walker…-.
M’irrigidii d’un tratto. –Cosa…- come osava parlare di mio padre in quel modo? Iniziai a dubitare che Lewis Martin sapesse qualcosa che io non sapevo.
-Non si faccia altri propositi, per oggi, signorina. Il suo addestramento riprenderà tra dieci secondi: stia pronta, le ripasso la sua coordinatrice tra tre… due…-.
Un breve pausa. –Salve Angel 1-9-2, pronta ad ingaggiare battaglia?-.
Attorno a me infuriava la battaglia tra robot e Angeli, ma inaspettatamente il mio sguardo cadde su un ragazzo che aveva il campo di fronte al mio. Non era della mia squadra, ma ricordavo di averlo visto più volte sia in palestra che nella mensa della base. Eppure, pensavo che il suo clan fosse in Europa, così la cosa m’incuriosì non poco.
Rimasi ad osservarlo allungo, notando nel suo modo di combattere qualcosa di estremamente familiare, ma al tempo stesso che mi spaventava. Il livello del robot che aveva assegnato era verde, come sarebbe dovuto essere il mio, ma su di lui stava sfogando una gran rabbia, una furia che davvero non mi aspettavo. Stava letteralmente facendo a pezzi il suo manichino, strappandogli le braccia, le gambe, e in fine la testa, che scagliò così lontano che raggiunse i miei piedi.
Granai gli occhi incredula e gli spostai più volte dalla testa decapitata di robot a lui, che col fiatone e le braccia ancora trasformate in due grosse lame bianche mi fissava furente.
Rabbrividii e distolsi del tutto lo sguardo, ma mi fu inevitabile arrossire anche sotto il casco.
Il ragazzo parve calmarsi guardandomi, e le sue braccia tornarono del tutto normali quando si accorse di me. Una dozzina di metri ci separavano, ma potevo ascoltare il battito del suo cuore farsi poco a poco più regolare. Si voltò e di fronte a lui si materializzò un secondo robot, e lui era pronto a riprendere l’allenamento.
-Angel 1-9-2! Pronta ad ingaggiare battaglia?!- si spazientì la donna.
Mi riscossi e mi misi in posizione, prendendo la giusta distanza dal robot. –Sì. Angel 1-9-2 pronta ad ingaggiare battaglia- sbuffai.



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Link -----------> ROBOT
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Perdonoooo!!!
Scusate, scusate tantissimo! Ho infranto la promessa, e non sapete quanto me ne penti, ma vedete il motivo per il quale neanche in questo capitolo tratto di Alex è semplice e davvero odioso!
Allora, vi confesso dicendo che ho dovuto sezionare un solo capitolo in due parti perché, dopo aver deciso di menzionare una piccola parte dell’addestramento, sono finita lo stesso con l’allungarla troppo! Ma le idee scorrevano a fiumi e… insomma, vi prego, non uccidetemi! Anzi, avete tutto il diritto di farlo! Comunque ve l’ho detto, l’altra metà di questo capitolo è l’avvincente momento, perciò, appena ricevo le vostre recensioni, lo posto subitissimo! Promesso! Bhé, vi confesso anche che… se non tagliavo il posto in due parti… avreste dovuto, ecco… <.< cuccarvi quasi 14 pagine in una sola volta e… >.< molto sinceramente, a me danno proprio sui nervi i capitoli lunghi, soprattutto in quest’ultimo periodo. Come si può ben notare, quelli di questa ff di fatti, non superano le sette pagine, ed ecco… >.> insomma, ci siamo capiti, no?
Ora: sapete tutti quanto vi voglio bene, perciò <.< saltiamo i convenevoli! Commentate, così posto subito lo scontro tra Emily ed Alex! ^^ Ops, spoilerone! XD
A prestissimooooooo!!!

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Capitolo 9
*** Capitolo 9° - Blacklight ***


Capitolo 9° - Blacklight

L’allenamento si protese per tutta la mattinata: intenso, duraturo, difficoltoso per molti che dopo due ore consecutive di duello si erano arresi dirigendosi alla mensa prima del tempo. I robot vincitori venivano richiamati nella botola dalla quale erano venuti e filavano dritti nella sala di riparazione e supervisione.
Del mio gruppo restavamo ancora attivi Emmett, Lucy ed io. Harry e Phil avevano deciso di aspettarci nel corridoio dopo aver clamorosamente gettato la spugna.
Schivavo le lingue di metallo che mi lanciava addosso la lattina quando vidi Lucy messa troppo alle strette dal suo avversario. Tentai di ingaggiare comunicazione con lei, di supportarla, ma la coordinatrice aveva richiesto assistenza remota per isolare qualsiasi aggancio esterno. La mia amica aveva le ali ferite e sanguinava da una guancia, cosa che le capitava raramente in allenamento.
Alla fine si arrese, accasciandosi al suolo priva di forze e respirando a fatica, e il suo manichino si auto-proclamò vincitore disattivandosi e dirigendosi passivo, con un balzo, verso la botola sul soffitto.
Un kit di Alchimisti la prelevarono dal campo, ma quando chiesi aggiornamenti dalla mia coordinatrice, ella mi disse che non era nulla di grave e che si sarebbe rimessa subito dopo una semplice puntura.
Di fatti, neppure mezz’ora più tardi, la mia compagna di clan ricomparve in palestra assieme ad Harry e Phil, affiancandosi al campo di Emmett e facendo il tifo per lui.
Il ragazzone stava davvero dando il meglio di sé in quel duello. Al robot mancava già un braccio che gli aveva strappato via senza pietà.
E che dire di me?
Neppure io me la passavo tanto male, ma diciamo che le cose stavano velocemente precipitando dalla terza ora consecutiva in poi. Le mie ali deboli non furono d’un tratto più in grado di sollevarmi, mi tremavano le mani e le ginocchia.
Ancora non capivo dove e cosa volesse andare a cercare Martin in me affidandomi un così alto livello di difficoltà. A spingermi tanto oltre vi era l’adrenalina, la consapevolezza di essere speciale, diversa, come diceva lui, ma in me sentivo mancarmi molto, molto altro.
Alla fine cedetti, dichiarai la resa alla mia coordinatrice che non appena mi ascoltò pronunciare quelle parole, mi passò subito Lewis.
-Scordatelo Emily- disse serio lui.
-Non ce la faccio. Basta, ti prego…- avevo il fiato corto, il cuore pompava così forte e veloce da farmi male dentro il petto.
-Non abbiamo ancora quello che ci serve. Devi continuare a combattere-.
-Ho capito dove vuoi arrivare! Tu vuoi uccidermi!- sbraitai.
-Neanche per idea, anzi! Sto cercando di spingere il tuo potenziale al limite delle tue capacità, e finché non ci riuscirai non lascerai questa palestra, sono stato chiaro?!-.
Muori, stronzo!
-Chiaro…- borbottai rimettendomi in posizione.
-Ottimo. Ora concentrati- furono le sue ultime parole.
Ormai nella palestra c’ero solo io e quel ragazzo che stava facendo il culo a strisce al suo terzo robot, ma il livello di difficoltà era passato dal verde all’arancione nel giro di poche vittorie.
Il mio avversario sfoderò attacchi sempre nuovi, che mi mettevano a tal punto in difficoltà che delle volte fui costretta a svolazzare fuori dal mio campo; fortuna che attorno a me non era rimasto a combattere nessun altro a parte Emmett, quel ragazzo laggiù e qualche altro Angelo con il manichino di livello blu.
Alla quarta ora di gioco cedetti del tutto, inginocchiandomi sul pavimento con le ali aperte e spiaccicate a terra. –Basta, basta!- mi levai il casco gettandolo di lato.
Il robot dinnanzi a me si disattivò all’istante e filò via verso la botola sul soffitto, mentre Lucy, Harry e Phil correvano in mio soccorso.
La ragazza mi prese sottobraccio aiutandomi ad alzarmi, ed Harry mi porse la sua bottiglietta d’acqua che afferrai tremante. Ringraziai e bevvi un lungo sorso.
-Sei stata micidiale! Hai retto l’arancio per quattro ore, Emily!- esultò Lucy accompagnandomi fuori dal campo.
Harry e Phil mi vennero dietro, mentre Emmett continuava il suo addestramento con più vigore di prima, soddisfatto che avessi mollato prima di lui.
Mi sedetti su una panchina sul bordo della palestra e bevvi ancora, finendo completamente l’acqua del mio amico. –Ops…- dissi porgendogliela. –Te la ricompro- promisi.
-Ma ti pare!- fece lui sedendomi accanto. –Piuttosto, come diavolo hai fatto a resistere così allungo?! Io ho mollato dopo la prima ora, ed era di livello giallo-.
-Altrettanto- proferì Phil in un sussurro.
Stavo per aprire bocca, quando la voce squillante di Lucy m’interruppe.
-Forza, ragazzi!- strillò gioiosa. –Facciamo il tifo per Emmo! Guardate, ha richiesto un cambio di robot! Ora è arancio!- disse indicando il nostro compagno.
Effettivamente il possente Emmett Word stava ora fronteggiandosi con un robot di livello arancio, richiesto probabilmente alla sua coordinatrice poco prima. Non potei fare a meno, però, di distogliere lo sguardo da lui e poggiarlo sul secondo ragazzo rimasto a combattere.
Si trattava di quel giovane che mi ero incantata a guardare prima di riprendere l’addestramento, e la scena si ripeté per ben due volte.
Non mi accorsi di avere la bocca aperta, e così Harry mi mise una mano sotto il mento e me la chiuse. –Non sbavarti sull’uniforme nuova- ridacchiò.
Mi riscossi violentemente. –Ma che dici?!- eruppi.
-Cole Turner- sogghignò Philip con stizza. –La sua squadra l’ha mollato ‘sta mattina, sono andati tutti in Europa tranne lui. C’è rimasto uno schifo, ed era pure capitano- ci informò.
-Che fatto curioso- fece Lucy interessata.
In quell’istante sia Cole che Emmett terminarono quasi allo stesso momento i rispettivi avversari, riuscendo uno ad estorcergli un braccio e l’altro staccandogli la testa in un’esplosione di scintille.
La loro vittoria sui robot arancio non creditava affatto le parole di Lewis di poco prima, perciò diventai più sospettosa che mai.
-Emmo!- Lucy gli corse incontro, spiccò un balzo e lo abbracciò con foga. –Sei stato grande! Stupendo! Gli hai fatto vedere chi sei- esultò.
Nessuno andò invece a congratularsi con Turner, così, non so con quale coraggio, mi alzai dalla panchina, ritirai le stanche ali nella mia schiena e mi diressi a piccoli passi verso di lui.
Quando gli fui accanto, il ragazzo non si accorse subito di me, troppo occupato a ritrovare tra le macerie del robot il casco che gli era scivolato via durante il combattimento.
Mi schiarii la voce e si girò all’istante.
Rimasi incantata dai suoi profondi e limpidi occhi verdi, il viso un po’ tondo, i capelli leggermente biondi acconciati in un taglio corto, ma scompigliato e imbrattato dal sudore; e in fine la barba lasciata un po’ crescere. Non disse nulla, si limitò a guardare me così come io guardavo lui.
Alla fine riuscii a spiccicare qualche parola. –Sei stato davvero bravo, complimenti- sorrisi timidamente.
-Oh- fece confuso lui. –Grazie, ma…- mi scoccò un’occhiata lunatica. –Ci conosciamo?-.
Sbiancai dall’imbarazzo, mentre l’unica cosa che aveva un po’ di colore divennero d’un tratto le mie guance, in contrasto col resto del mio viso. –Ecco, veramente no, ma ho visto come combatti, e… bhé, sei bravo!-.
-Anche tu non sei male- mi arrise. –Cole Turner- mi porse una mano, e gliela strinsi quasi subito ricacciando la timidezza.
-Emily Walker-.
Al sentirmi pronunciare quel nome parve irrigidire le spalle, e la presa attorno alle mie dita divenne del tutto nulla. –Emily Walker…- ripeté.
Annuii disorientata. –Cosa…-.
-La figlia di Mark, Mark Walker?- fece stupito.
-Sì…- pronunciai con altrettanto stupore. –Conoscevi mio padre?- domandai incredula.
-Ragazza, se lo conoscevo…- esultò lui lasciandomi la mano. –La mia vita la debbo a tuo padre, il giorno dell’incidente-.
-Che è successo?!- insistei, ma prima che Cole potesse aggiungere una sola parola, mi sentii chiamare alle spalle.
-Emily, dobbiamo andare a mensa! Ci danno le cartelle! Entriamo in servizio tra un’ora!- mi comunicò Lucy.
-Arrivo!- risposi voltandomi, e guardai i membri del mio gruppo avviarsi fuori dalla palestra.
-Dobbiamo andare- disse Cole. –Tutti e due- aggiunse venendomi affianco. –Vedrai, avremo occasione di riparlarne- mi sorrise.
-Lo spero-.
-È stato un piacere, Emily. A presto- mi salutò con un cenno militare e corse fuori dalla palestra.

A mensa, sul tavolo del nostro clan, trovammo adagiate cinque cartelle sigillate. Phil ce ne consegnò una ciascuno chiedendoci di non aprirle fin quando non fossimo stati liberati fuori dalla base e così ubbidimmo.
Dopo l’abbondante e sostanzioso pranzo, ci dirigemmo all’ultimo piano dell’edificio, e noi tutti Angeli ci sistemammo per bene sulla pista attendendo l’autorizzazione ad uscire dettata da Martin, che però non si fece vivo per parecchio tempo.
Ci chiedevamo che fine avesse fatto, ognuno raggruppato in un angolo col proprio clan attorno. Mi guardai in giro accorgendomi che Cole era come al solito tutto solo vicino ad un caccia militare; gli corsi in contro e lo salutai sorridente: -Ciao-.
-Ehi, ciao- fece allegro.
-Notizie di Martin? Ci stavamo chiedendo dove fosse, insomma… ci ha fatto richiamare con un’urgenza qua su e ci rimangono poche ore di caccia prima del tramonto- lo informai, ma probabilmente lo sapeva già.
-Sì, concordo, ma mi spiace, non ho idea di dove possa essere- si strinse nelle spalle.
L’uniforme da Angelo gli donava parecchio, lo rendeva davvero affascinante, esaltando i muscoli al posto giusto e la bellezza del suo corpo. Per la prima volta, confesso, conversavo con un ragazzo carino, ma una come me non aveva speranze, anche perché sembrava avere parecchi anni più di me.
-Quanti anni hai?-.
-Ventisette- rispose allegro. –E tu?-.
-Vent’uno…- balbettai non potendo credere ai miei occhi. –Te lo dicono che sembri più vecchio?-.
Turner annuì ridendo. –Bhé, sì, ma i primi capelli bianchi sono comparsi durante il trattamento degli Alchimisti!- scherzò, e risi alla sua battuta.
Improvvisamente suonò la sirena d’allarme, e noi tutti scattammo all’erta. L’edificio entrò nel panico, e così anche il piano sul quale ci trovavamo non appena dall’ingresso principale emersero una dozzina di uomini armati, militari, probabilmente.
Al seguito dell’armata comparve Martin, che si posizionò nel centro della pista d’atterraggio scrutando ciascuno di noi con attenzione.
Il rumore della sirena era assordante, pensai mentre accorrevo verso il mio clan e mi sistemano tra Harry e Phil, cercando di capire cosa stesse succedendo.
-Signori- cominciò Lewis gonfiando il petto. –Sono scontento di annunciarvi che…- sospirò. –Zeus ha penetrato internamente le difese e si nasconde nella nostra base da ventiquattro ore e passa-.
Un coro di voci si levò da noi Angeli, che cominciammo a sparlare di come fosse successo e perché, scettici di fronte alla notizia.
-Sembra assurdo, ma i nostri rivelatori termici hanno individuato questa notte spostamenti inconsulti di una differente composizione del Virus…- guardò un attimo verso di me, ma non seppi perché. –Riconosciuta come anomala dai nostri sensori, l’allarme non è entrato in funzione come ha fatto ora. Per tanto, vi chiediamo di restare immobili nelle vostre attuali posizioni affinché lo scanner possa rivelare se si trova tra voi in questo momento- disse rigorosamente serio e in parte tranquillo.
Rimasi immobile come aveva chiesto e osservai in silenzio come dall’ingresso principale comparvero delle strane ciambelle volanti che più volte avevo visto girare per la città. Si avvicinarono con cautela a noi, fluttuando a mezz’aria e facendo un circolo completo attorno a tutti i presenti.
La loro mansione era una ed una soltanto, e non appena la loro luce rossa si accese mandando un bagliore ad intermittenza, fu il panico.
Era tra noi, e per qualche istante la situazione restò invariata, immobile come doveva essere. Poi, improvvisamente, uno dei militari che stavano attorno a Martin, gettò l’arma a terra e si scagliò a tutta velocità contro il nostro capo. Lo spintonò al suolo con una gomitata e proseguì dritto di gran corsa sulla pista.
-Eccolo! Sparate!- gridò qualcuno.
Gli altri uomini armati aprirono il fuoco, ma fu totalmente inutile.
Alex Mercer rivestì il suo corpo di una robusta armatura e continuò a correre verso il bordo della terrazza.
-Angeli! In volo!- strillò Cole spalancando le sue ali e guidando lo stormo alla carica.
Mi sollevai immediatamente da terra e con un solo movimento delle mie ali superai tutti gli Angeli che mi avevano preceduta, sistemandomi in testa accanto a Turner.
Alex fece una piccola deviazione e tornò indietro, puntando contro di noi, prendendoci del tutto alla sprovvista: spiccò un balzo e, sospeso a mezz’aria alla nostra altezza, richiamò tutta la sua forza il caos tentacolare distruttore. L’attacco decimò molti di noi compreso Cole e altri, che precipitarono a terra privi di forze.
Io sola e qualche Angelo fortunato eravamo rimasti integri all’assalto, schivando abili i tentacoli più grossi e forse ferendoci con piccoli tagli fatti da quelli più piccoli.
Alex tornò a terra affondando un ginocchio nel cemento della terrazza, un suo pugno sbrindellò il pavimento, ma tutto ciò per evocare un altro dei suoi attacchi mortali: l’artiglio cimitero. Una decina di spuntoni neri emersero dal suolo e penetrarono le ossa di alcuni miei compagni, mentre io riuscivo ad evitarli con abili manovre aeree e veloci schivate laterali.
Mercer, ancora rivestito della sua armatura, si sollevò diritto in piedi e ammirò la sua opera con un che di soddisfatto.
Al tappeto, feriti e sanguinati, riconobbi i miei compagni di clan, ma nelle condizioni peggiori vi stava sicuramente Phil, con un’ala spezzata e un profondissimo taglio al costato che quasi lo divideva in due parti.
Distolsi lo sguardo raccapricciata, e mi accorsi che pochi Angeli superstiti si erano lanciati all’attacco contro Zeus tentando qualsivoglia tipo di affondo. Picchiate, calci volanti, prese da granchio, artigliate, mazzate, di tutto e di più, scatenando il vero e proprio Inferno sul tetto della nostra base.
Mercer rispondeva con prontezza a ciascun attacco, per nulla in difficoltà, anzi…
In pochi attimi sulla terrazza dell’edificio restavamo solo io e lui.
Non avevo ancora osato avvicinarmi, e troppo spaventata ero rimasta sospesa a mezz’aria. L’armatura argentata che lo rivestiva lo rendeva invincibile, e pensai di andare verso morte certa se mi fossi solamente avvicinata troppo.
-Angel 1-9-2, resta dove sei!-.
Finalmente il mio coordinatore si faceva vivo. –Matt!- esultai. –Grazie al cielo, oh Dio!-.
-Sta’ tranquilla, Emily, Lewis è qui con me e mi ha detto di dirti che non devi muoverti, hai capito?! Devi lasciarlo andare!-.
-Non mi sembra che abbia voglia di andarsene…- balbettai, e di fatti mi stava fissando proprio come io fissavo lui, l’uno con gli occhi puntati a quelli dell’altra, anche attraverso la visiera del mio casco e della sua armatura.
D’un tratto, prima che Matt potesse aggiungere altro, Alex si mosse, scattando veloce come un razzo verso il bordo della terrazza.
-Sta scappando!- gridai.
-No, Emily! No!-.
Euforica, carica e determinata, mi spinsi ancora più avanti. Non seppi perché lo feci, ma accellerai il battito delle mie ali trovandomi improvvisamente a svolazzare sopra Zeus senza fare nient’altro, senza attaccarlo, guardandolo correre solamente.
Quando fu abbastanza lontano dalla portata delle armi dei militari che si era lasciato alle spalle, l’armatura che lo rivestiva si dissolse e Alex restò del tutto indifeso, privo di corazza e a pochi passi da me; così vicino che potevo quasi toccarlo. I secondi divennero minuti, i minuti divennero ore quando una sua gelida, grigia occhiata incontrò la mia da sotto il cappuccio. Rimasi imbambolata com’ero, con le ali gonfie e lo sguardo fisso su di lui.
L’andatura della sua corsa rallentò: probabilmente si era accorto che la terrazza finiva, e dal tetto a terra erano parecchi, parecchi metri.
Ridacchiai, pensando che probabilmente non si sarebbe mai gettato da una tale altezza.
Dovetti ricredermi.
Arrivato sul bordo, Mercer spiccò un balzo e levitò nel vuoto a braccia aperte per alcuni secondi, poi si scagliò verso il basso assumendo una forma compatta e aerodinamica.
-Emily, torna subito indietro, Cristo!- Matt riprese la comunicazione.
-Puoi dire a Lewis…- sorrisi gonfiando le ali. –Che sono in missione!- e detto ciò, mi gettai a capofitto verticalmente verso il basso. Richiamai le ali attorno al mio corpo così da poter cadere più velocemente giù dalla base, inseguendo il più letale tra i portatori sani.
Mi avvicinavo a lui che era pochi piani sotto di me, ma entrambi precipitavamo veloci più del vento, che personalmente cominciò a fischiarmi nelle orecchie.
Non appena gli fui affianco, cercai di colpirlo con una spinta, ci riuscii e lo afferrai per un braccio tirandolo verso di me.
Ma Alex fu dieci volte più svelto: strattonandomi per la vita mi fece voltare e, con un calcio, mi spinse contro le vetrate della base.
Sprofondai tra i vetri scheggiandomi le braccia e il viso, rotolai all’interno di una buia stanza trascinandomi dietro i detriti della parete che avevo sfondato. Chiusi gli occhi agonizzante, perdendo sangue da tutte le parti. Il respiro divenne irregolare, il mio cuore batteva impazzito.
Ma che cazzo mi era saltato in mente?! Ero fuori di testa, stavo impazzendo, anzi, ero impazzita e ora sarei morta. Morta. O almeno ero stata messa fuori combattimento dal più temuto dei “virussati”. Andavo fiera dell’idea di essermi fronteggiata con Alex ed esserne uscita viva. Mercer era scappato, certo, ma almeno avevo vinto la scommessa, e ciò mi fece sorridere.
Tentai di rialzarmi e tossii del sangue, mentre i brandelli di vetro scivolavano via dal mio corpo rumorosamente.
Mi sistemai seduta con le ali spiazzate di lato ed esauste quanto me, feci per levarmi il casco, ma quando sentii una voce tetra, seria, arrabbiata forse, mi si gelò il sangue.
-…Cosa siete?- domandò Alex, e di lui potei scorgere solo una metà, poiché il resto fosse nascosto nella penombra della stanza nella quale ci trovavamo.
Sembrava una camera ampia, fresca e spaziosa, forse una sala comune di qualche clan partito per l’Europa, ma non m’importò poi tanto.
Alex Mercer era venuto ad uccidermi.
C’erano delle cose più importanti a cui pensare!
Mi rimangiai tutto quello che avevo solo pensato. Stavo per perdere la scommessa, ma una volta uscita di lì, Emmett non avrebbe potuto tagliare le ali a qualcuno che non ce le aveva, giusto?!
Stavo per scoppiare in lacrime dalla paura, cominciai a tremare impercettibilmente, ma con molte probabilità Alex poteva guardare ben oltre l’aspetto esterno delle cose.
Sapevo stesse fiutando la mia paura e se ne stesse beando l’animo, sentendosi forte, potente, superiore a qualsiasi altra bestia creata dal Virus.

«Bhé, cocco, lascia che ti dica una cosa.
Io sono diversa. Sono Emily Walker, ma tu puoi chiamarmi Angel 1-9-2 e non sono una facile avversaria, sappilo! Il mio compito è tagliare le corna a quelli come te, a quei pazzi bastardi che credono di poter fare quello che cazzo gli pare e andare in giro ad ammazzare i primi che gli capitano a tiro! Da oggi le cose cambiano, signorino! Oggi ci siamo noi, gli Angeli, e sì, che occhio, io sono una di loro! Ma indovina un po’??? Io sono più forte! Perché sono come te, cocco, sono più forte e incredibilmente potente di te! Hanno scoperto che siamo uguali, dentro, e ne vanno fieri! La mia predisposizione è l’arma per ucciderti, perciò preparati ad essere annientato!»

-Avanti, rispondimi!- ruggì d’un tratto spiccando un balzo in avanti, e in un frammento di secondo mi fu del tutto addosso, tenendomi per la gola con una mano e minacciandomi con l’altra. –Cosa siete?!-.
Restai ammutolita, terrorizzata. Il suo viso era vicinissimo al mio, potevo guardarlo negli occhi attraverso la visiera del casco che avevo ancora addosso. Io guardavo lui, ma lui guardava me? Mi domandai questo un centinaio di volte, pregando che non sbrindellasse quell’ultima barriera che mi era concessa portare. C’era una sottile lastra di plastica tra me e lui, ma sentirlo così terribilmente rigido, freddo sopra di me bastò a trasmettermi una sottile situazione d’imbarazzo.
Certo, però solo io riesco ad arrossire in simili casi, eh?!
-Devo sbarazzarmi anche di te, eh?!- mi diede uno scossone. –Eh?! Vuoi morire anche tu, è questo che vuoi?! Avanti, dimmelo! Dimmi cosa sei e chi ti ha creato!- mi strillò contro. –Dimmelo!-.
Non riuscii a ribellarmi, non riuscii a muovermi, avevo perso il controllo del mio corpo che ubbidiva unicamente alla paura che scorreva liquida nelle mie vene. La comunicazione con il mio coordinatore si era interrotta non appena Alex mi aveva sbattuto con violenza addosso ai vetri della base, e quindi il casco con auricolare doveva essere danneggiato così come il radar che non segnalava né la mia né la posizione di Mercer a quelli di sopra.
-Dimmi il nome del bastardo che mi vuole morto, avanti! Dimmelo!- chiese ancora, più insistente di prima. –Dimmelo o me lo prendo da solo!- mi afferrò la maglia con entrambe le mani.
Era questione di secondi, e da un momento all’altra Alex mi avrebbe assorbita così come faceva alle persone che gli stavano comode a ricordare o per intrufolarsi nelle basi militari. Sapevo che non avrebbe esitato, sapevo che non avrebbe trovato nessun pretesto per lasciarmi la mia vita com’era, ovvero al dì fuori del suo corpo infetto.

«Ma come?! Prima tenta la fuga, poi getta Lewis a terra con uno strattone e in fine mi viene a chiedere chi è l’uomo che ha ordinato tutto questo?! Ma Cristo Santo, ci sei passato tanto così dall’uomo che ti vuole fuori dai ciglioni, idiota!»

-Lewis…- mormorai. –Lewis Martin!- confessai.
-Chi ?!- eruppe incredulo.
-Lewis Martin!- ripetei quasi gridando. –L’uomo che hai spinto a terra quando sei fuggito!- gemetti.
-No, non è lui…- la sua presa attorno alla mia maglia s’indebolì.
Mi zittii confusa. –Come fai a dirlo?- mormorai.
-Vi ha creati lui?!- tornò vigoroso e furente.
-Sì!-.
-Perché?!-.
-Per ucciderti!-.
-Ne sei così sicura?!-.
-Bhé… sì- assentii. –Perché, c’è forse qualcosa che quello stronzo non ci ha detto?- domandai.
-Ah!- ridacchiò lui. –Ce ne sono di cose…-.
Non era affatto un buon segno. –Cioè?-.
Ma lui non mi rispose, si limitò a stizzirmi facendomi sbattere con violenza la testa a terra.
Nel silenzio e nel buio della stanza sentii dei passi, e poi un’esplosione e in fine qualcuno che gridava: -Eccolo! ‘Sta scappando!- un fischio, un’altra esplosione, suono di mitragliatrici, un’altra esplosione, un caldo soffocante, l’aria che manca, una terza esplosione.
Ancora mitragliatrici, grida strazianti, strappi, urla, metallo contro metallo, e ancora esplosioni.
Suoni sempre più confusi che al fine si riducono ad un unico, lento, mio sospiro. E persi i sensi.

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ARTIGLIO CIMITERO
CAOS TENTACOLARE DISTRUTTORE
Sono le mosse che usa Alex per mettere fuori combattimento
gli Angeli nell’arco di pochi…secondi.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10° - Arcangelo ***


Capitolo 10° - Arcangelo

Giorno dell’infezione 387°
Popolazione mondiale infetta: 06,02%

Tre giorni di convalescenza mi bastarono.
Ritornai lentamente cosciente del mio corpo svegliata dal ritmico segnale che mandava la macchina cardiaca accanto al mio letto. Quando schiusi con lentezza gli occhi, mi accorsi di essere in una stanza tenuta completamente al buio. La sola luce era quella proveniente dall’esterno, che filtrava attraverso le serrande abbassate proiettando sul pavimento e sulle pareti della camera un’ombra zebrata. La finestra era aperta, e da fuori venivano i normali rumori della città, come per esempio clacson, auto in corsa, ambulanze, sirene della polizia, e frastuono vario, ma molto soffuso e appena percettibile, come un sussurro. Dalle ante spalancate veniva anche una fresca corrente serale che percepivo lambirmi la pelle scoperta delle braccia e delle gambe nude, attorno alle quali si erano attorcigliate le lenzuola accaldate, resti probabilmente di un sogno non poco agitato.
Un tubicino di plastica mi correva su entrambe le guance, convergendo all’interno del mio naso. Molto lentamente me lo tolsi, adagiandolo da un lato del cuscino, e la stessa manovra la ripetei staccandomi con calma le sonde attaccate al mio ventre, sotto il camice da ospedale che indossavo e dal petto, lasciando in funzione solo il misuratore cardiaco che avevo al polso.
Sollevai con calma la testa, mi guardai attorno accorgendomi di essere del tutto sola. Era notte fonda, e la luminosità dell’esterno capii che fosse relativa alle luci dei palazzi, dei lampioni per la strada e dei fari delle automobili. Tentai di alzarmi con metà busto, e ci riuscii provando un leggero fastidio alla colonna vertebrale che si lamentò rumorosamente. Una volta seduta, sistemai qualche osso qua e là del collo e delle spalle, sentendomi dopo tanto tempo di nuovo padrona del mio corpo. Mi guardai le braccia, notando con stupore che la pelle fosse del tutto rigenerata e compatta; questo fattore mi lasciò alquanto stupita, abituata a quelle volte che ero stata costretta a tenere bende e garze per delle settimane, persino durante gli addestramenti e le traversate in città.
Per accertarmi delle mie condizioni, provai a richiamare alcuni dei miei poteri: riuscii a tramutare le cinque dita della mia mano in cinque poderosi artigli neri. Soddisfatta, decretai che fosse ora di alzarsi e tornare nella propria stanza.
Scansai le lenzuola e mi sistemai con le gambe a penzoloni, ma non appena poggiai i piedi a terra, la porta della camera si aprì silenziosamente scivolando dentro la parete.
Dal corridoio luminoso emersero due figure che riconobbi all’istante.
-Ferma dove sei!- disse Lucy venendomi in contro a braccia aperte. Mi si gettò al collo abbracciandomi così stretta che cominciai forse ad avvertire qualche ossa fuori posto.
Assieme a lei c’era Harry, che si sistemò comodo seduto sul letto. –Non sai che gioia vederti sveglia e tutta intera- ammise felicemente commosso.
-È stato terribile- gemé d’un tratto Lucy, senza staccarsi da me, stringendomi sempre più forte le braccia attorno al collo. –Temevamo che non ti saresti mai ripresa!- stava letteralmente piangendo sulla mia spalla.
-Che è successo?- domandai con la voce ridotta ad un sussurro.
Lucy non fu in grado di rispondere, troppo presa dalle lacrime che le rigavano il volto e stavano andando a bagnare la spallina della mia camicia da ospedale. Così Harry prese parola abbassando lo sguardo:
-E’ stata una strage, Emily. Dopo lo scontro con Alex dello scorso pomeriggio, siamo rimasti in pochissimi ancora…- esitò –svegli, ecco-.
Sgranai gli occhi incredula. -È un scherzo, vero?- ridacchiai scettica.
Lucy scosse la testa, continuando a singhiozzare.
Guardai Harry cercando di capire quanto la situazione fosse realmente grave, ma ciò che lessi nel suo sguardo rammaricato, basso e deluso furono le parole: “qualcuno di noi non ce l’ha fatta”.
Immediatamente chiesi. –Dove sono Emmett e Phil?…- mormorai, rivolgendomi sempre a lui, ma quella mia richiesta suscitò nella ragazza lì presente una reazione che lasciò oltremodo circoscritta la mia immaginazione.
Lucy si allontanò da me quasi con uno strattone, si voltò del tutto dandomi le spalle e si circondò il ventre con le braccia. –Emmett…- sigillò il suo nome sulle labbra, e portandosi le mani al viso nascose il suo pianto isterico dietro di esse.
Ingoiai il groppo che avevo in gola. –Non…-.
-Non sono morti- si apprestò a dire Harry andando incontro a Lucy e prendendola sotto braccio. –Nessuno degli Angeli è morto. Per ora si trovano tutti in una specie di stato vegetativo, convalescente come il tuo, Emily. Ovviamente speriamo che tu non sia l’ultima che si è risvegliata, ma non sei neppure la prima- proferì poco tranquillo.
-Capisco…- abbassai lo sguardo sui miei piedi.
-Siamo appena passati da Emmett- riprese Harry carezzando i capelli della ragazza, che inquieta al suo fianco non riuscì a frenare le lacrime che continuarono a scivolarle silenziose lungo il profilo del mento. –E avevamo intenzione di fare un salto a trovare Phil- disse guardandomi. –Te la senti di raggiungerci?-.
Annuii all’istante. –Sì, anche subito- sorrisi.
-No- eruppe Lucy d’un tratto, asciugandosi l’acqua dagli occhi con una manica della felpa larga che indossava. –Devono venire degli Alchimisti a controllarti- disse avvicinandosi a me, mi prese per mano. –Appena avranno finito, se sei sana ti lasceranno andare- m’informò.
-Va bene…- feci tenendo la mia confusione per me. –Ma voi?- chiesi. –Come state?- spostai gli occhi dalla ragazza ad Harry un paio di volte.
-Bene- arrise il ragazzo. –Noi stiamo bene. Alex ci ha presi solo di striscio, ma è bastato a metterci fuori gioco al primo colpo-.
-Siete feriti?- insistei.
-Emily, stiamo bene!- ridacchiò istericamente Lucy prendendomi il viso tra le mani. –Non preoccuparti per noi- mi sorrise dolce con gli occhi ancora arrossati per via del pianto.
-E come mai Emmo e Phil…- mi domandai.
Harry mi rispose prontamente: -Emmett e Phil si sono tenuti attivi, durante il combattimento, anche dopo il primo attacco di Alex, attacco che ha messo noi fuori partita. Il colpo più letale è stato il secondo, quando quegli…- ingoiò –quegli artigli sono comparsi da terra e…- non riuscì a proseguire, così lo interruppi con un gesto della mano.
-Ho capito, ho capito- mi risistemai per bene a letto, rannicchiando le ginocchia al petto. –Allora vi raggiungo più tardi…- mormorai.
Lucy si portò una mano alla bocca ed un istante dopo era già partita a razzo verso l’uscita della camera, seminando lacrime argentate lungo la strada.
Aggrottai la fronte. –L’ha presa piuttosto male- sospirai guardando Harry al mio fianco, il quale, però, si era lasciato andare pure lui.
Il ragazzo si massaggiò una guancia e distolse lo sguardo da me. –Senti, le cose sono più serie di quello che pensi, mettitelo in testa- eruppe serio.
M’irrigidii. –Harry, non ho mica detto che non me ne frega nulla!- sbottai.
-Lo so, lo so!- fece esasperato avviandosi verso la porta d’ingresso. –Ma vedi…- cominciò più calmo. –Non eravamo mai stato un clan tanto unito, per il semplice fatto che nessuno di noi aveva mai considerato una tale minaccia. Ognuno sprofondato nel proprio ego, nei propri sogni a rincorrere i proprio desideri!- sbroccò sadico. –Se solo fossimo stati un vero gruppo, una vera famiglia fin dall’inizio…- mormorò. –Tutto questo non sarebbe successo-.
-Come?- domandai confusa.
-Il motivo è molto semplice- si voltò del tutto dandomi le spalle. –Ma la risposta a questa domanda non ho l’ho ancora trovata, e tu?-.
Lasciò la stanza con quelle parole, che cominciarono a rodermi alla bocca dello stomaco minuto dopo minuto che trascorsi in camera, rannicchiata contro il cuscino come una bambina spaventata da se stessa.
Quando gli Alchimisti vennero a certificare le mie condizioni, mi ritrovai circondata da un gruppo folto di scienziati. La prima cosa che fecero fu accendere una luce abbagliante per tutta la stanza, e questo mi costrinse a chiudere gli occhi e tenerli così durante tutto il controllo. Dopo aver messo le mani un po’ ovunque, tra macchinari e siringhe, iniezioni di ogni forma e genere, prelievi e misurazione dei movimenti degli organi interni, gli Alchimisti mi reputarono finalmente sana.
Lasciarono la camera in balia di quella luce asettica e accecante, così, abituandomi lentamente a tanto chiarore, mi accorsi di essere in una delle stanzette con le pareti e il pavimento bianco tipiche dei laboratori-infermieria del terzo piano. Un intero livello dell’edificio era di fatti dedicato all’infermeria, che consisteva in una moltitudine di piccole camerette singole con un attrezzatura medica che faceva invidia alla NASA.
Risvegliando i sensi dopo il trattamento e guardandomi attorno notando di essere di nuovo sola in sala, mi alzai dal letto avvicinandomi al paio di vestiti comuni che qualcuno aveva lasciato su una poltroncina di pelle bianca.
Mi vestii con calma, senza fretta alcuna, e una volta pronta, mi diressi fuori dalla camera aspettando che la porta si fosse chiusa alle mie spalle.
Il lungo corridoio nel quale mi trovavo girava in circolo attorno ad un’unica grande sala con le pareti fatte di un vetro spesso e trasparente. La camera in questione consisteva in un salotto comune con al centro un ascensore che portava ai livelli superiori ed inferiori dell’edificio.
Mi guardai in giro circospetta, stupendomi dell’innaturale silenzio che animava quel piano del palazzo. Un silenzio colmo di rispetto, ansia e logorante speranza. Insomma, il solito silenzio nel quale ci si trova immersi durante l’attesa in una camera d’ospedale, quando è l’ora delle visite e ci sembra essere gli unici che ancora pregano perché qualcuno si sia rimesso.
Con un po’ di fortuna, avventurandomi per i corridoi, incontrai una dottoressa con un camice bianco e la fermai con educazione.
-Sto cercando Phil McGuire- dissi. –Potrebbe indicarmi la sua stanza di collocazione?-.
-Lei è Emily Walker, vero?-.
-Le ho fatto una domanda- feci imperterrita.
-Lewis Martin mi ha mandato a chiamarla. La vuole vedere nel suo ufficio- mi comunicò la donna serrando le dita attorno alla cartellina medica che aveva in mano.
Inarcai un sopracciglio. –Davvero?-.
L’altra annuì. –Prenda l’ascensore fino all’undicesimo piano. Corridoio sempre dritto, l’ultima stanza infondo-.
-Lo so dove si trova il suo ufficio, ma adesso non posso, io…-.
-Mi ha detto di dirle che è importante- insisté la scienziata.
-Capisco, ma non può riferirgli di aspettare?- sbottai. –Un mio compagno di clan sta morendo, Cristo!- eruppi esasperata.
La donna si strinse nelle spalle, ma non mostrò alcun segno di spavento o stizza dinnanzi al mio improvviso cambio d’umore. –Sono certa che il paziente Phil McGuire non lascerà la sua stanza molto presto, perciò ha tutto il tempo per andare e tornare dall’ufficio di Martin- mi fece un sorrisetto odioso. –Prego, da questa parte- mi indicò la strada.
-Va bene…- sbuffai mandandola a quel paese.
Mi diressi all’ascensore, entrai nella cabina e digitai per l’undicesimo piano. Una volta a destinazione, allungai un’occhiata in corridoio e rimasi stupita di trovarvi un silenzio assurdo anche lì.
Ma dopo tutto, non potevo davvero aspettarmi che ci fosse tanta confusione: tre quarti degli Angeli erano felicemente in Europa, e più della metà di quelli rimasti a New York erano convalescenti da tre giorni.
Percorsi il lungo androne e mi fermai solo davanti alla scrivania della segretaria di Lewis. La ragazza, che sembrava avere la mia età, staccò le dita dalla tastiera del computer e mi rivolse un luminoso sorriso.
-Emily, Lewis ti sta aspettando, entra pure- si alzò dalla sedia e, avvicinandosi all’ingresso, mi aprì la porta.
Non appena fui all’interno dell’ampio studio, mi stupii di tutti i particolari di quel luogo che non ricordavo dall’ultima volta che c’ero stata, forse un paio di mesi fa. C’era una vista mozzafiato sull’oceano che divideva la costa occidentale da Manhattan; mentre l’isola stessa, all’orizzonte, era un buio ammasso di palazzine distrutte, detriti di grattacieli e focolari accesi. Una soave melodia classica si diffondeva per tutto il locale: era una dolce sonata di violino e pianoforte, a forte contrasto con l’improvviso vocione severo di Martin che mi piombò nelle orecchie.
-… Come sarebbe a dire che siete bloccati?!- eruppe Lewis.
All’inizio pensai si stesse riferendo a me, soprattutto quando la sua occhiata nera, davvero incazzata, mi trafisse in pieno, ma col tempo capii stesse parlando al telefono attraverso un auricolare.
La segretaria mi fece dolcemente accomodare sulla poltrona davanti al tavolo, dietro il quale sedeva il dirigente del settore Angels con fare piuttosto occupato.
-Che cazzo dici?! Certo che avete quei permessi… Gli hai persi?!… Non venirmi a raccontare che un cacciatore vi ha mangiato le cartelle, che non me la bevo!- gridò furibondo. –… davvero?…- assentì lunatico. –Non posso crederci…- si passò una mano in volto, massaggiandosi la fronte. -…Va bene, allora ripassami il direttore, avanti…- fece una pausa, sorridendomi.
Ricambiai il muto saluto, ma un istante dopo Lewis tornò più furente di prima:
-Non mi frega un cazzo se non hanno i visti spagnoli, è chiaro?! Devono tornare subito!- sbraitò Martin facendo segno alla ragazza alle mie spalle di andare, e la giovane si dileguò chiudendo la porta a doppia anta dello studio.
Rimasi in silenzio, attendendo che finisse la telefonata.
-No…- eruppe Lewis. –Non voglio nessuna convalida! Devono imbarcarsi ora!- proruppe sempre più arrabbiato. –Ascolta bene, stronzo! Se i miei Angeli non montano su quell’aereo ora, mando a fanculo te e la tua compagnia, vi faccio chiudere e giuro che ci vengono da soli con le loro ali quaggiù!- un’altra pausa. –No, non ci siamo capiti! Devono rientrare subito!… Non ce le ho 24 ore, l’hai capito questo o no?!… Bene! E allora cosa stai aspettando, figlio di puttana?! Imbarca quei ragazzi!-.
Un messaggio della segreteria partì in viva voce: -Signore- era la segretaria. –A Londra un nostro gruppo è stato fermato. Sembra ci sia qualche problema con la febbre suina- informò la donna, e il messaggio terminò lì.
Lewis alzò gli occhi al cielo esasperato. –Contatti l’ONU e si faccia dare i visti da loro!- sbraitò tornando concentrato sulla telefonata. –Basta, con una faccia da culo come lei io non ci parlo. Se vuole bene alla sua nazione, veda di darsi una svegliata, o i soccorsi se li scorda fino alla fine dell’anno! Mi auguro che il Virus le mangi le chiappe, signore! Ora mi ripassi il mio ambasciatore!…- un’altra brevissima pausa. –Mike, lo stronzo non vi lascia passare. Governo spagnolo del cazzo. Vi voglio in volo tra venti minuti. Se ci sono problemi, non richiamarmi- sbottò più calmo. -… e se vi sparano, bhé…- ridacchiò. –Sì, esatto…- cominciò a sbellicarsi dalle risate. –Ma ricordatevi di dire che era per legittima difesa!- si lasciò scivolare sulla poltrona, appoggiandosi completamente allo schienale. –Contattami quando vedete la costa- sorrise. –Sì, ma fate attenzione, a presto…- sospirò, e portandosi un dito all’orecchio, digitò un tasto sull’auricolare interrompendo la chiamata.
I suoi occhi stanchi incontrarono finalmente i miei, fulminandomi con un’occhiata così serena che mi lasciò un poco sospettosa della situazione. –Sconvolta, eh?- ridacchiò.
-Ha ordinato di far rientrare gli Angeli?- domandai lasciandomi scappare un sorriso poco sincero.
-Sì- fece Martin sistemandosi più comodo. –Esattamente- sospirò di nuovo.
-Come mai?- insistei.
-Non ci arrivi da sola?- fu la sua contro-domanda.
Rimasi a pensarci per poco. –Alex?-.
L’uomo annuì.
-Ma perché?- eruppi. –Con un giusto addestramento potremmo farcela anche da soli. È stato imprudente lasciare che l’affrontassimo così presto, ma non ricapiterà e ci vorrà del tempo prima che si faccia di nuovo vivo, ma come le salta in testa di richiamare gli Angeli dall’Europa?!- strillai. –Scusi, ma è una follia!- aggiunsi lasciandomi sprofondare sullo schienale della poltroncina.
Martin si allungò sul tavolo e afferrò una bottiglietta contenente forse qualcosa di alcolico. Lo versò in un bicchierino che doveva aver svuotato più volte durante la giornata e bevve il tutto in un sorso solo. –Vuoi?- mi chiese tranquillo.
Scossi la testa. –No, grazie…- mormorai abbassando il tono.
-Emily, sai perché ti ho convocata qui?-.
-No, ma quello che so è che due dei miei compagni di clan stanno morendo, ed ora dovrei essere lì al loro fianco! Perciò, se non le dispiace e non ha nient’altro da dirmi se non confessare le sue pazze idee, avrei intenzione di…- feci per alzarmi.
-Resta dove sei, Walker- sbottò d’un tratto, più freddamente di quanto mi aspettassi.
Gli volsi un’occhiata sperduta, confusa forse. –Quindi c’è altro-.
-Sì, ovvero il motivo per il quale ti ho chiamata con urgenza in questo studio- disse riempiendo un’altra volta il bicchierino.
-E cioè?-.
-Voglio che tu sappia che da domani in poi, lavorerai da sola-.
Sbiancai, cambiando letteralmente colore di pelle. Un brivido impercettibile mi scivolò lungo la spina dorsale. –C-c-cosa?-.
-Hai sentito bene- assentì severo. –Hai chiuso con il clan. Da domani sei un giocatore singolo, come del resto hai sempre preferito, non è così?- inarcò un sopracciglio.
Cercai di frenare l’impulso di saltargli addosso e strangolarlo come si deve, sentendomi prima di tutto offesa da quelle parole. –Che cazzo dice?!- mi lasciai sfuggire.
Martin, tranquillissimo come al solito, giunse le mani a mezz’aria poggiando i gomiti sui braccioli. –L’unico Angelo che può davvero dare la caccia a Mercer sei te. Mi sono reso conto di aver fatto un grande sbaglio mandando al “macello” anche gli altri, nascondendo la mia gallina dalle uova d’oro dietro di loro. Ti sto chiedendo di perdonare questo mio errore e di comprendere a pieno quale sia la tua vera natura; una natura che hai sempre saputo di avere, ma che continuavi ad ignorare giorno dopo giorno volendoti sentire uguale agli altri, forte come gli altri!- disse profetico, incantandomi.
-Non la seguo…-.
-Sei speciale, Emily, lo sei sempre stata, e non è la prima volta che te lo senti dire da me-.
-Lo so, ma se non sbaglio- sghignazzai –anche lei è come me- lo fulminai con un’occhiataccia che lo lasciò boccheggiante per alcuni secondi.
-Esatto!- proruppe in ritardo. –Esattamente, Emily, io sono come te, e te sei come Mercer. C’è un fattore nel vostro sangue che vi accomuna, ma non posso dirti di più. Quando le analisi hanno riportato i risultati, quando ti accolsi tra le mie braccia…-.
Quando mi trascinasti a forza tra le tue braccia! Corressi.
-Quando diventasti una di noi… non potevo credere ai miei occhi. La perla più lucente della collana stava brillando tra le mie mani. Ho voluto insegnarti prima le fondamentali del combattimento, affiancandoti ai membri del tuo clan, assegnandoti dei coordinatori; volevo che ti sentissi normale, all’inizio, così da poter testare le tue vere capacità una volta apprese le basi-.
-Lei è molto ripetitivo, signore- lo punzecchiai.
-Tendo ad ampliare i concetti spiegandogli più volte, è nella mia natura di insegnante-.
-Lei insegna?- mi stupii.
-Insegnavo- mi corresse.
-Cosa? Dove?- tutto pur di posticipare le cose.
-Harward. Scienza e anatomia mutante-.
-Foooorte!- risi.
-Sì, lo era molto, all’epoca…- mormorò soprappensiero. –Quando tutto si fa per finta, per gioco, è molto foooorte- ridacchiò, ed io con lui. –Ma poi il Virus, i mutanti, e in fine lo stadio più avanzato di entrambe le cose…- sussurrò.
-… Alex Mercer- completai io.
-Esattamente-.
-La smetta di dire esattamente- sbottai.
-Perché?- chiese allegro.
Mi strinsi nelle spalle. –Mi fa sentire come se fossi…-.
Martin si allungò verso di me. -… a scuola?- ipotizzò.
-Sì!- risi. –Esatto!-.
-Tornando alle nostre questioni…- si schiarì la gola cercando qualcosa in un cassetto della scrivania.
-Davvero vuole escludermi dal mio clan?- domandai in un sussurro, scettica quasi.
L’uomo trovò quello che stava cercando e mi fissò allungo negli occhi. –No, assolutamente no. Non ho detto mica che verrai esclusa dai tuoi simili, per carità! Solo… i tuoi addestramenti di preparazione si svolgeranno in altro luogo, ma per il resto…-.
-Addestramenti…- rabbrividii. –di preparazione?- ingoiai il groppo che avevo in gola.
L’uomo adagiò lentamente sul tavolo una cartellina trasparente, l’aprì e vi trasse dei fogli. –Ma come?- chiese. –Pensavo che avessi capito che solo tu puoi fermare Mercer-.
Mi strinsi le braccia attorno al ventre, sentendo un certo rigetto salirmi dallo stomaco.
-…Perché?- domandai flebile; mi sentivo male alla sola idea di ritrovarmi faccia a faccia con quella bestia.
-Emily, te l’ho detto- sbottò serio Martin. –Ci sono dei potenziali che non immagini neppure di avere, e sono questi potenziali che la scorsa settimana ti ho chiesto di tirare fuori durante l’allenamento. Sfortunatamente non è successo, forse non eri abbastanza motivata, non so, gli Alchimisti stanno studiando la situazione con molta attenzione, ma devi trovare un modo per tirare fuori il mostro, se così può esser chiamato, che c’è in te-.
-Si spieghi meglio…-.
L’uomo sospirò pesantemente. –Questa conversazione potrebbe non essere piacevole, e lo capisco, ma devi sforzarti di prestare attenzione, Emily- disse.
-La sto ascoltando, ma…-.
-Ma?!-.
Alla fine cedetti: mi alzai con un gran frastuono e battei con violenza i pugni chiusi sulla scrivania, che a quel contatto ballò per intera. –In questa situazione di merda mi ci ha ficcato lei, ora trovi un modo per farmene uscire!- lo minacciai, cominciando a tramutare le braccia in qualcosa di più appuntito.
L’uomo si alzò in piedi all’istante, sovrastandomi in altezza. –Adesso calmati- mi ordinò.
-Non voglio andare là fuori da sola e dovermi confrontare con Alex a mani nude!!- sbottai sempre più arrabbiata. –Ha visto di cosa è capace quel bastardo!? Ha visto come ha ridotto 50 Angeli in un solo colpo?! Un solo colpo!! Ed io non sono forte neppure quanto la metà di loro!-.
-E’ qui che ti sbagli…- mormorò con malizia il vecchio.
-Ah!- alzai gli occhi al cielo, gettandomi di nuovo seduta sulla poltroncina. –Allora avanti! Mi dica con precisa esattezza come ammazzo Mercer e facciamola finita! Se lei mi da le chiavi, io guido la macchina, signore, ma voglio anche la patente- lo fulminai con un’occhiataccia.
-Mi stai dicendo che accetti?- fece sbalordito Martin, restando in piedi come uno stoccafisso.
-No- borbottai. –Le sto dicendo che accetterò solo se lei mi dice qualcosa di più su come faccio a metterlo K.O… insomma- cominciai io. –Riesco a mettere a tappeto un gruppo di infetti, qualche cacciatore, ma lo sforzo è abnorme, signore!- mi sporsi sul tavolo. –E anche tre giorni fa, quando Alex si è fatto vivo, io…- esitai, scuotendo la testa. –Io non ho retto più di una decina di secondi uno “scontro” con lui. Come un’idiota mi sono gettata dal tetto della base pretendendo chissà cosa, e come un’idiota mi sono sfregiata mezza tuta e distrutta le ali! Ecco cosa mi turba, signore, è questo il motivo per cui non le presto attenzione! Non riesco a credere che solo io, e ripeto, io soltanto abbia la forza di combattere Mercer, quando qui dentro ci sono Angeli molto più esperti e capacitati…- mormorai affondando il mento nel petto. –Il mostro che c’è dentro di me…- aggiunsi. –Non è che potrebbe spostarlo a qualcun altro?- chiesi.
-Che domande! Ovvio che no, ragazza mia. Non possiamo fare un trapianto di sangue completo, non è ancora stato inventato un modo per farlo!- ridacchiò.
-E allora mi spieghi, come le dicevo prima- dissi io. –Oh, meglio ancora!- esultai. –Mi dica perché non può farlo lei, dato che sostiene la nostra somiglianza. Quello che ho io, ce l’ha anche lei, e quello che abbiamo noi ce l’ha anche Mercer. Quindi si tratta di una battaglia ad armi pari…- mormorai soprappensiero. –Ma allora che senso ha, scusi?-.
-Emily- Lewis tornò seduto sulla sua poltrona e mi guardò dritto negli occhi. –Certe volte i nostri nemici necessitano di essere abbattuti con le loro stesse armi- assentì profetico.
-Io e Alex non siamo uguali- sbottai. –Sono sicura al cento per cento che quello che c’è in me non è affatto simile a quello che hanno fatto a lui. E’ impossibile, conosco la storia di Alex, lui…-.
Il vecchio m’interruppe bruscamente: -A otto anni tua madre ti perse a Central Park. Cosa ricordi di quella giornata?- mi chiese d’un tratto.
-Che…- feci confusa.
-Rispondi alla domanda!- eruppe.
-Nulla! Non ricordavo neppure che…-.
-Ti dice nulla il nomignolo “Blackwatch”?- sorrise compiaciuto.
Di nuovo quel brivido lungo la schiena. -… certo- balbettai. –Ma cosa c’entrano loro con me?!- cominciavo a spazientirmi di quella conversazione.
Il vecchio tese le labbra in un sorriso tutt’altro che caritatevole. –Ti stai ancora domandando cosa ti successe quella mattina ad otto anni?- formulò. -Ti stai ancora domandando perché non ricordi nulla, Emily?...-.
Alla fine feci due più due, e il risultato mi lasciò senza parole.
Anzi.
Le parole ce le avevo, m’imposi di dirle subito, prima di dimenticarmele.
Mi alzai lentamente dalla poltrona e feci alcuni passi indietro, dando le spalle all’ingresso dello studio. –Io…- mormorai. –Io…- ripetei.
Lewis Martin mi squadrò allungo da capo a piedi. –Il mio Arcangelo ci sta forse pensando?- ridacchiò.
-Io… devo rifletterci sopra- le ultime parole famose, poi mi voltai, aprii la porta e uscii di corsa dall’ufficio.








Allora… <.<
Su questo capitolo ho da dire qualcosinainainaina.
La trama contorta di Prototype mi sfugge tutte le volte che tento di scrivere qualcosa per questa ff che sia inerente al gioco, e ovviamente la mia compagna di sventure preferita (anche l’unica che possiede la guida ufficiale del gioco!) si dilegua nel momento del bisogno! >.> ‘Naggia, però! -.-‘ Ma insomma, quello che intendevo rivelarvi a proposito di questo post, che credo sarà anche l’ultimo per questa ff da qui ai prossimi 20 giorni, è che… nonostante abbia ricominciato il gioco da capo, ancora non ci capisco una mazza! Sarà che i sottotitoli mi danno sui nervi, sarà che m’incanto a guardare il protagonista sbavando sullo schermo della tv, sarà che impazzisco e mi dimeno per la città senza un cavolo da fare perché le missioni mi annoiano! (La gran parte delle missioni le fa mio fratello, e quel bastardo si è anche cuccato il filmato finale mentre io andavo a prendere un bicchiere d’acqua!!!!) ecco, saranno tutti questi piccoli particolari che fanno di me una gran smemorata. Domani mattina mi sveglio presto e mi attacco alla console per una buona oretta intensiva, così vediamo se ho qualcosa da ridire e correggere per questo capitolo.
Ma nel frattempo ^^’’’ eheh, ditemi la vostra! XD
Ora scappo!
Saluti a tutti gli amabili recensori del chappo precedente, e… a presto!

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Capitolo 11
*** Capitolo 11° - L'arma più potente/Conoscere il nemico ***


Capitolo 11° - L’arma più potente/Conoscere il nemico

Quando credevo che avrei continuato a correre, scappando da quel luogo, allontanandomi sempre più e nel minor tempo possibile, invece mi fermai. Solo allora mi voltai, accorgendomi di due uomini seduti su delle poltrone sistemate in una saletta. Erano Angeli, lo vidi bene dalle loro uniformi attillate e il casco che ciascuno di loro portava sotto braccio. Sembravano in ottima forma, energici e completamente risanati dopo lo scontro con Mercer di qualche giorno prima. Anzi, vi dirò, non sembrava affatto che avessero ingaggiato battaglia!
La mia improvvisa comparsa davanti alla sala d’attesa, nella quale si trovavano ad attendere il loro colloquio con Lewis, aveva suscitato in entrambi un emerito interesse nella mia figura, mentre io, immobile e succube al loro sguardo curioso, tentavo di assumere un’espressione in viso meno raccapricciante.
-Si sente bene, signorina?- mi chiese uno dei due preoccupato.
L’altro aggrottò la fronte. –Sembra che ha appena visto un fantasma…-.
-In effetti…- mormorai piegando la testa da un lato.
Decisi di ignorarli del tutto, riprendendo a camminare a capo chino verso l’ascensore sulla fine del corridoio. Si era radunata non poca gente attorno all’ufficio di Lewis in quei pochi minuti: Angeli, Alchimisti e coordinatori presi dal panico dovuto al ricordo della comparsa di Mercer, il cui nome di lì a tre giorni ancora suscitava scalpore per la base.
Pigiai sul tasto di chiamata per l’ascensore e attesi.
Dopotutto non mi aspettavo che le cose restassero invariate, neutrali all’accaduto. Alex era penetrato tranquillo a Phoenix e zitto zitto era strisciato sotto i nasi dei segnalatori nel corridoio e all’interno dei laboratori, settati per riconoscere il suo sangue.
Ma di conseguenza, anche il mio.
Tale pensiero mi turbava parecchio: se io che avevo lo stesso gene di Mercer nel sangue potevo passare inosservata per i piani della base, allora poteva farlo anche lui. Questo voleva dire che gran parte del settore di sorveglianza era gestito manualmente, e siccome all’uomo umano è concesso distrarsi, delle volte questo può causare delle viste. Sviste che a loro volta generano altre sviste, e così via fino alle battaglia apocalittiche sul tetto della base. Una catena di eventi inevitabili che stava creando disordine e scompiglio. Non eravamo preparati ad affrontare Mercer, non ci eravamo addestrati abbastanza, pensavo io entrando nella cabina. Ma poi le parole di Martin mi tornavano alla mente, costantemente nelle orecchie e a premermi sulle tempie, quasi potessi sentire il dolore che mi provocavano simile al colpo di un martello.
Ta! Ta! Ta! E ancora, e ancora le immagini della nostra discussione di poco prima. Ed io che mi sforzavo di ricordare qualcosa dei miei otto anni di vita.
Mi appoggiai alla parete dell’ascensore con una mano, adagiando la fronte a contatto col fresco metallo della cabina. Sentivo che il cervello stava per esplodermi, surriscaldandosi impazzito. Avevo bisogno di chiudere gli occhi, di distrarmi con dell’altro che non riguardasse nulla della vita che avevo condotto fin ora. Per esempio, mi venne un’improvvisa voglia di gelato, alla crema magari, con panna montata e cioccolato, tanto cioccolato. Il mio goloso desiderio, però, mi riportò lo stesso ad una tragica giornata di tredici anni fa…

È un rigoglioso prato verde luminoso. Il sole splende alto in cielo, i bambini giocano sulle giostre e a pallone sull’erba. Il vento soffia tra le foglie degli alberi in fiore, sistemati lungo il vialetto che sta percorrendo di corsa una bambina con un cappottino rosso acceso. Indossa anche delle ballerine nere con un fiocchetto rosso, assieme a dei pantaloncini corti fino a metà coscia, arrotolati. I capelli neri acconciati con un taglio corto e infantile che le addolcisce il viso tondo, da bimba. Il sorriso stampato sulle labbra, le guance arrossate e gli occhi azzurri che durante quella stagione brillano di tutta la loro tinta celeste. Sta ancora correndo, seguendo la stradina sterrata contornata dagli alberi, e finalmente giunge a destinazione, dopo aver traversato quasi metà parco. È stanca, ha il fiato corto e il cuore che batte forte nel petto, forte e velocissimo.
Si ferma davanti la bancarella dei gelati, attende il suo turno facendo come tutti la fila, e quando finalmente tocca a lei, si avvicina piano.
Il giovane dietro il banco le sorride divertito salutandola con un gesto della mano. –Dimmi pure, piccola-.
-Crema e cioccolato- risponde lei sistemandosi la frangia via dagli occhi.
-Va bene, Cono o coppetta?-.
-Cono!- ridacchia.
-Con o senza panna?- il signore estrae un cono dalla fila di cialde e attende la sua risposta.
-Con la panna, grazie!- annuisce la bimba.
Mentre il ragazzo dei gelati le prepara la sua ordinazione, la bimba mette la mano nella tasca del cappottino rosso e stringe i cinque dollari che le ha dato la mamma tra le dita. Sta per pagare, poggiando la carta accanto alla casa della bancarella, ma d’un tratto al fianco della bimba compare un uomo alto e vestito un po’ tutto di nero.
-Lascia, pago io per te, piccolina- le sorride affabile lo sconosciuto, che subito poggia un’altra banconota da piccolo taglio sul bancone.
La bimba arrossa ancora più le guance e, lentamente, ricaccia i soldi della madre nella tasca del cappotto. –Grazie…- mormora con gli occhi sgranati.
Il signore termina di preparare il suo gelato e glielo porge, sorridendo sia a lei che allo sconosciuto al fianco di lei. –Arrivederci- sorride.
La bimba stringe il cono con due mani e si allontana dalla bancarella, incamminandosi verso il vialetto che ha percorso all’andata. Con ancora la lingua di fuori e pronta a dare la prima appetitosa leccata alla crema, una goccia di cioccolato le casca sul colletto del cappottino. –Oh, no…- lagna lei.
L’uomo che le ha offerto il gelato le si avvicina da dietro e le passa un fazzolettino di carta. Lei lo afferra e ringrazia timidamente, diventando tutta rossa in viso.
-Come ti chiami?- domanda lui.
-Emily…- mormora pulendosi la macchia.
-Emily e basta?- chiede ancora il signore, ridendo.
-No!- sbotta lei. –Emily Walker- corregge.

Tornai in me battendo la testa al muro. Respiravo con affanno, il cuore cominciò a battermi all’impazzata improvvisamente. Mi appoggiai di spalle alla parete dell’ascensore, e mi lasciai scivolare fino a terra. Grondavo sudore per lo sforzo di reprimere il dolore fisico che mi dava rivivere quei ricordi. Un solo secondo di salto nel passato, mi mozzava il fiato in gola, lasciandomi ansimante. Mi portai le mani alle tempie, e tentati in tutti i modi di comprimere il fastidio. Mi lasciai sfuggire dei gemiti assurdi, delle volte alcune grida che ero sicura non sarebbero passate inosservate attraverso quelle quattro mura.
-Che.. che mi sta succedendo?!- strinsi i denti, e così anche i pugni, ma un nuovo flash di ricordi mi attanagliò le viscere dall’interno, puntando allo stomaco.
Soffitti e pareti grondanti e colorate di sangue. Sussurri di voci che non credevo di aver mai udito, grida, probabilmente le mie, un’esplosione! Suoni e immagini confuse di lunghi corridoio, visi nascosti da maschere bianche, armi, edifici in fiamme, e ancora urla di altra gente, tra le quali si mescolavano le mie.
Un crampo, una tensione di muscoli assurda, intollerabile interruppe il filo di quelle istantanee. La vista mi si annebbiava quasi del tutto, ero uno spasmo continuo lungo braccia e gambe. Rannicchiai le ginocchia al petto ed iniziai a provare poco a poco un briciolo di sollievo.
E solo allora capii che cosa mi stava succedendo: ciascuno dei ricordi che mi entravano e uscivano dalle orecchie, riportava in me e di conseguenza nel mio corpo una reazione fisica asseconda del ricordo stesso. La fame di gelato provata ad otto anni in quella mattina estiva, così come i giorni di dolore trascorsi tra iniezioni e tentativi sperimentali scientifici per mano dei Blackwatch.
Le porte dell’ascensore si aprirono in quell’istante, accompagnate da un campanello.
Mi ritrovai a guardare nella sala centrale dell’infermeria, ora popolosa di una dozzina di scienziati impiegati in una collettiva conversazione.
Bastò soltanto che uno di loro mi notasse, e come il domino tutti quanti si precipitrono attorno all’ingresso dell’ascensore.
-Ha avuto uno shock!- eruppe una donna avvicinandosi a me e aiutandomi ad alzarmi. In suo soccorso venne un altro dottore, mentre degli altri si gettavano a caccia di una barella sui cui trasportarmi.
Una volta in piedi, mi stanziai con uno strattone dalla dottoressa. –Sto bene!- eruppi sfrontatamente, con un ghigno malsano e furioso sul volto.
Mi allontanai dalla sala prima che potessero seguirmi o solo intuire dove fossi diretta. Mi avventurai per i corridoi dell’infermeria e mi allontanai il più possibile di lì, cominciando involontariamente a correre.
Svoltai l’angolo e andai a scontrarmi contro qualcuno che capitava nel posto sbagliato al momento giusto. Ci schiantammo entrambi sul pavimento, e solo accorgendomi su chi fossi completamente sdraiata riuscii a calmarmi del tutto.
-…Cole!- sussurrai con sorpresa, ritrovandomi tra le sue gambe mentre alcune ciocche dei miei capelli gli cadevano sul viso.
Il ragazzo mi guardò interrogativo un po’ troppo allungo, forse non ricordandosi di me. -… Emily?- assentì poi.
Mi sollevai in piedi con un balzo, e gli porsi una mano aiutandolo ad alzarsi. –Scusami, io… non ti avevo visto e…-.
-Ti hanno dimessa- commentò lui spolverandosi la maglietta. –Così presto?- fece stupito.
-Da non credere, eh?…- borbottai.
-Cosa ci fai qui?- domandò.
-Ecco…- esitai, non ricordando neppure il motivo per il quale fossi capitata lì. –Cosa ci fai tu qui!-.
Il ragazzo aggrottò la fronte. –Che domande, mi sono svegliato dal coma meno di un’ora fa e già la gente mi si scanna addosso-.
-Mi spiace tanto, davvero…-.
-Non darti pena- mi sorrise affabile. –Scommetto che hai un buon motivo per avere tanta fretta- aggiunse altrettanto amabilmente.
-Sì, infatti…- e d’un tratto ricordai ogni aspetto di quella mattina, dal risveglio nella stanza dell’infermeria fino alla discussione con Martin di poco fa. Guardai Cole dritto negli occhi per la prima volta da quando l’avevo scontrato in corridoio. –Sì, infatti stavo andando a trovare un mio compagno del clan- dissi.
-Ah, capisco. Allora ti lascio libera la strada- si fece da parte continuando a tenere quel sincero sorriso sulle labbra.
-Ci si becca in giro!- lo salutai incamminandomi.
-Veramente, pensavo che Lewis dovesse farci un discorso, questo pomeriggio a mensa- mi comunicò già lontano.
Mi fermai all’istante. –Davvero?-.
Il ragazzo si strinse nelle spalle. –Appena rilasciato, un coordinatore mi ha detto che Lewis sta organizzando un raduno di massa alla mensa per farci uno dei suoi soliti cazziatoni molto alla Mussolini!- ridacchiò.
Mi lasciai sfuggire una risatina, e pensai che probabilmente Martin non aveva fatto in tempo ad avvertirmi prima che lasciassi il suo studio con quella faccia sconvolta che avevo fino a poco fa.
-Va bene, allora ci vediamo là- sorrisi. –Ora devo andare!- e scappai di nuovo correndo.
Non seppi come, non seppi perché, ma raggiunsi la stanza che stavo cercando e, del tutto d’istinto, entrai con lentezza nella camera d’osservazione che affacciava con una vetrata sulla sala operatoria.
Harry e Lucy erano già lì, in piedi, rigidi come tronchi a guardare attraverso la vetrata. Sotto i ferri, al piano inferiore, c’era il nostro capo clan, circondato da un numero imprecisato di Alchimisti.
Mi affiancai alla ragazza lì presente, senza staccare gli occhi dal corpo del comandante addormentato sotto le lenzuola, steso in una posa innaturale, come se qualcuno ce l’avesse gettato sopra quel lettino di metallo. Fu raccapricciante, orribile vederlo in quello stato: incubato fino all’ultimo centimetro di pelle libera, addormentato in un sonno insano e agitato che lasciava il suo corpo vittima di continui spasmi.
Per l’ampia camerata si spostavano agitati un gruppo di Alchimisti che armeggiavano con siringhe, aghi, tubi, misurando la frequenza cardiaca del ragazzo e tenendo conto delle attività interne con rigorosa attenzione.
-Come sapevi dove trovarci?- chiese Harry in un sussurro, senza distogliere lo sguardo.
Molto sinceramente… non lo sapevo. Mi ero gettata in quel corridoio non sapendo affatto dove fossi diretta e cosa stessi cercando, poi, forse l’istinto, forse gli assurdi stessi poteri che muovevano anche nelle vene di Alex, mi avevano condotta lì. –Un’infermiera mi ha detto tutto…- mentii tranquillamente.
Lucy dimezzò la distanza che c’era tra me e lei e mi strinse un braccio, avvinghiandosi al mio gomito. Poggiò una guancia sulla mia spalla e la lasciai fare.
-Emmett come sta?- sussurrai ad Harry.
-Meglio, molto meglio di Philip, se è quello che t’interessa sapere…- rispose lui.
-Non ce la farà, Emily- tirò su col naso la ragazza. –Phil non ce la farà…-.
-Come fai a dirlo?-.
-Gli Alchimisti lo stanno spegnendo ora- la precedette il ragazzo.
-Perché?!- eruppi.
-Non ce la farà, Emily!- ruggì Harry voltandosi del tutto verso di me. –Abbiamo provato a convincerli, abbiamo tentato di farli ragionare, ma quei pazzi figli di puttana non vogliono saperne! Il colpo inferto dagli artigli di Alex l’ha reso invalido per metà, l’ha diviso completamente a metà!- gridò improvvisamente. –Se anche mantenessero le cure, non avrebbe senso! Fuori dalla base, Philip non camperebbe un solo giorno! Credimi, abbiamo fatto di tutto, volevamo parlare con Martin, chiedere il favore a lui di…-.
-E allora li farò ragionare a modo mio!- eruppi scostandomi con violenza da Lucy, la quale però mi tenne inchiodata dov’ero.
-Che…-.
-No- fece lei fulminandomi con un’occhiataccia. –E’ stato Lewis stesso a prendere questa decisione per Phil, e noi non ci opporremo. Sa quello che fa. Ho fiducia in lui-.
Non potei credere che l’avesse detto. -Tu non capisci…- alzai gli occhi al cielo. –A Martin non frega un emerito cazzo di voi! Non gli frega niente di nessuno qui dentro!-.
-Come fai a dirlo, sentiamo?- sbottò Harry lunatico.
-Ma vi ha fatto il lavaggio del cervello mentre eravate in coma?! Vi rendete conto di cosa state dicendo?!-.
-Lewis Martin è un buon uomo, Emily- disse Lucy sincera. –Senza di lui, tutto questo non sarebbe possibile, e Manhattan sarebbe ancora abbondante di infetti. Dobbiamo a lui la salvezza di New York, e fino ad un momento fa credevamo che tu la pensassi come noi!- fece stupita.
-Ammetto di averlo creduto, per un periodo, ma poi…- esitai.
-Poi cosa?!- eruppe Harry.
-Ma poi Alex…- feci una pausa, non sapendo come continuare, non volendo incappare in quelle questioni private che bastava poco che ci scappasse un’altra crisi tipo quella passata in ascensore. -…Tutta la storia della Gentek, i Blackwatch, e ora noi! C’è qualcosa che non mi convince in questa faccenda…-.
-Chi ti ha messo in testa certe idee?- domandò pungente il ragazzo.
-Lo stesso uomo che ha messo in testa a voi quelle sbagliate- sbottai acida.
-Alex Mercer è il nemico- proruppe Lucy. –Guarda cosa ha fatto a Phil! Guarda cosa ha fatto ad Emmett, a te e a tutti noi!- spalancò le braccia, affiancandosi ad Harry che stava dalla sua stessa parte. –Non devi ringraziare Martin se ora il nostro capo clan sta morendo, ma tutt’altra persona, Emily! Si può sapere cosa è cambiato in te in queste ultime ore?!- mi strillò contro. –Ti credevamo nostra sorella…-.
La loro era una meritevole reazione di difesa alle mie accuse. Non potendo minimamente immaginare di cosa avessi discusso con Lewis circa un’ora prima, non mi aspettavo che potessero capire l’enorme sbaglio di pensiero che si erano fatti su cosa fossero realmente gli Angeli. Cosa fossero realmente loro, cosa che non ero anch’io.
Martin li aveva chiamati “copertura”, il muro dietro il quale nascondere quegli unici veri esemplari come me. Avrei voluto parlare loro della verità, avrei voluto riallacciare l’argomento magari in un momento meno delicato. Due dei nostri compagni di clan ci stavano lasciando, ma nonostante sapessi bene che la colpa fosse unicamente di Lewis, continuavo a darmi della stupida, domandandomi cosa ci stessi a fare lì, perché fossi rimasta, e perché non me ne fuggivo tutt’altra parte.
La questione stava entrando nel dettaglio. Lucy ed Harry si erano accorti che in me era cambiato qualcosa, qualcosa di dannatamente drastico e peggio pericoloso. Sapevo di potermi fidare di loro, ed ero certa che parlandone e condividendo con qualcuno la situazione sarebbe potuta solo migliorare. Dopotutto Martin non mi aveva chiesto di tenere la bocca chiusa, non mi aveva esplicitamente ordinato di tenere la cosa nel silenzio, nel buio e nell’oblio della mia memoria mancante, in quel buco dove un tempo c’era stata una grossa fetta di torta, di cui ora restavano solo poche briciole.
Un nome mi balenò davanti agli occhi: Alex Mercer... L’improvviso e inatteso vuoto attorno alla bocca dello stomaco era la mancanza di ricordi, la necessità di sapere, di unirmi alla sua causa che d’un tratto sentivo divorarmi. Cominciai di conseguenza a considerare la possibilità che avevo di fuggire, abbandonando il settore Angeli della base Phoenix e andando per la mia strada, esattamente come aveva fatto lui.
Avevo terribilmente paura di questa scelta. Non avevo idea di cosa mi sarei trovata ad affrontare, quali pericoli, quali nemici, ma non solo. Quali domande ancora senza risposte… e poi diventare consapevole che la fame di vendetta che l’aveva divorato avrebbe presto attanagliato anche me, era l’ultimo dei miei pensieri, ma la prima delle mie fobie.
Ma allora perché io riuscivo a controllare la mia rabbia ed Alex no?
Rapirmi da piccola era stata una mossa saggia. I Blackwatch hanno potuto rimuovere del tutto quei miei ricordi, rimpiazzandogli con degli nuovi. Hanno permesso che tornassi dalla mia famiglia, che mi rimescolassi alla gente comune, crescendo come gli altri, cercando in tutti i modi di sentirmi come gli altri.
Aspettavano. Aspettavano che il Virus maturasse, forse più lento in me per quanto lo sia stato in Alex ed Elizabeth.
Martin non aveva fatto altro che ripetermi lo stesso concetto più di una volta.
Lui per primo mi aveva accolto tra le sue braccia e istruito a diventare qualcosa che non sarei mai potuta essere. Qualcosa che non era destino che fossi, qualcuno che in futuro, se le cose fossero andate diversamente, avrei desiderato essere.
La mia vita si stava limitando attorno ad un’area di scelta nella quale non avrei mai immaginato di incappare.
Da una parte, forse quella del bene ma chi lo sa, c’erano Lewis Martin, Lucy, Harry, i miei amici, insomma; gli Angeli e tutti i partecipanti attivi al progetto Gabriel. Ci accomunava un’esistenza dedicata alla lotta contro il Virus, lo schieramento di una battaglia nella quale ero cresciuta e dalla quale mi sarebbe venuto troppo difficile staccarmene.
Dall’altra, forse quella del male… Alex Mercer e la caccia alla vendetta che avevamo in comune. Lo stesso sangue infetto, mutante, residuo del Paziente Zero, che avevamo nelle vene mi stava lentamente trasportando verso i suoi ideali, e altrettanto lentamente stavo capendo ogni suo pensiero, comprendendo ogni suo tormento, assaggiando il suo dolore. Diventavo capace di prevedere le sue mosse, di anticipare le sue vittorie e le sue sconfitte.
Stavo entrando nella sua mentalità, nella mentalità del mio nemico.
Era questa l’arma più potente che avevo contro di lui.

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Capitolo 12
*** Capitolo 12° - Perdono e vendetta ***


Capitolo 12° - Perdono e vendetta

Giorno dell’infezione 387°
Popolazione mondiale infetta: 06,02%


«L’Angel 1-9-0 Philip McGuire morì quella sera alle ore 7.22 pm.
Lucy scappò a piangere nella sua stanza ed Harry andò con lei a consolarla, mentre io restavo del tutto scettica di fronte al macchinario che segnalava i battiti cardiaci del ragazzo steso sul lettino di metallo. Guardavo immobile il suo viso tutt’altro che sereno: contorto in una smorfia di alta sopportazione del dolore, i capelli scompigliati e sudati alla radice, i pugni stretti lungo i fianchi, sotto le coperte. La mani fredde, ma così fredde che quando gliene sfiorai una mi sentii bruciare il polpastrello.
In sala operatoria avevano tentato invano con le trasfusioni, ma la quantità assurda di virus che gli iniettarono e che avrebbe dovuto salvarlo, invece di contribuire alla rigenerazione dei tessuti muscolari, aveva avuto l’effetto contrario, corrodendo le ossa e i legamenti, e di conseguenza gli organi interni.
Phil, in conclusione, era morto ucciso dagli stessi Alchimisti che l’avevano creato forte e potente affinché coordinasse la nostra squadra e diventasse un valoroso capo clan.
Quando i medici accompagnarono il suo lettino fuori dalla sala operatoria e lo abbandonarono in una fredda stanza piena zeppa di altri cadaveri (vittime dell’assalto di Mecer di tre giorni prima) io, Harry e Lucy ci risparmiammo la terribile visione di entrare là dentro a dargli gli ultimi saluti. Lewis, bestia che non era altro, non ci aveva neppure lasciato il tempo di vederlo un’ultima volta prima che il suo corpo venisse congelato assieme agli altri. Dopo di allora, la mia compagna di clan e Brown si segregarono altrove a rimuginare su quello che avrebbero potuto fare se solo fossero stati più abili e forti, di come avrebbero potuto sbarazzarsi di Alex se avessero preso meno alla leggera la situazione.
Ma io continuavo a dargli degli stupidi, quello che stavano facendo era del tutto inutile!
I loro piagnistei e le loro lacrime non avrebbero riportato McGuire tra noi come per magia, e in tutti modi avevo tentato di riportarli coi piedi per terra, insistendo sul fatto che fosse tutt’altro che colpa loro.
L’unica idiota che aveva sottovalutato la situazione ero stata io, fin dal principio, quindi sarebbe toccato a me farmi l’esame di coscienza nell’angolino della stanza.
Ma non lo feci: troppo orgogliosa, fuggii dai corridoi dell’infermeria prima che qualcuno riuscisse a scoprire dove fossi diretta ed evitai il più possibile facce conosciute. Mi fermai solo quando raggiunsi l’androne che precedeva la mia e la stanza degli Angeli che componevano il mio clan. Mi avviai nella mia camera e trovai le mie vesti da Angelo ad attendermi ben ripiegate sul letto. Mi stupii piuttosto di non trovarvi né il casco né alcuni degli ammennicoli che servivano ad ampliare i miei poteri in combattimento, ovvero tutte quelle fiale e granate che portavo legate agli avambracci in casi di estrema necessità. Indossai la parte superiore dell’uniforme e misi a lucido le mie scarpe; strinsi per bene la cinta dei pantaloncini e mi avvicinai alle vetrate, sfiorandole con una mano, ammirando l’esterno.
Avrei voluto uscire, scappare da questo posto e dirigermi a Manhattan, schizzando tra i palazzi e cominciando da subito la mia caccia a quel bastardo. Infondo avevo già raggiunto un grado piuttosto elevato, nel settore; acquisito anche un po’ d’esperienza per via di un nostro sbadato primo incontro, perciò mi ritenevo più che pronta a confrontarmi di nuovo con Alex. Ma invece, quando avrei preferito uscire dalla finestra della mia stanza, proprio nell’istante in cui ero lì lì per spiccare un balzo e mandare in frantumo il vetro, la porta della camera si aprì lentamente…»

-Emily- chiamò Lucy. –Lewis vuole vederci nella mensa, tutti quanti- disse la ragazza sporgendo solo la testa, e attese una mia reazione.
Me n’ero completamente scordata. –Lo sapevo, grazie- le sorrisi, notando con stupore le voluminose occhiaie che aveva sotto gli occhi arrossati. Aveva pianto allungo, pensai; la faccenda l’aveva davvero distrutta, sia fisicamente che mentalmente. Dopotutto non potevo pretendere che una ragazza fragile come Lucy non desse di matto in una tale occasione. Lei aveva sempre considerato il clan come una famiglia, rinfacciandomelo tutte le volte che ne aveva la possibilità; era lei a ricordarmi quanto fosse importante che restassimo uniti, pronti a qualsiasi evenienza e pericolo che avremmo sempre affrontato insieme, più forti. Questa mentalità, ultimamente aveva contagiato anche Harry, che ponendosi quelle assurde domande, era venuto a cercare le risposte da me, come se io non vedessi l’ora di entrare in convento dopo quello che era successo.
-Allora, vieni?- insisté la ragazza.
Annuii debolmente. –Sì, vi raggiungo tra un secondo-.
-Bene- sorrise affabile richiudendo la porta.
Aspettai qualche minuto, attesi che la sala del nostro clan fosse del tutto vuota per poter raggiungere il piano nella mensa evitando sguardi indiscreti.
Una volta lì, entrai nella grande stanza comune e con passo scattante mi andai a sedere al nostro tavolo, senza guardare in faccia nessuno. Mi sedetti accanto ad Harry che era già lì, che ancora abbracciava Lucy con un ché di fraterno. Mi strinsi le braccia attorno al ventre e attesi, continuando a non far nient’altro che non fosse fissarmi i piedi, incastrati sotto quelli del tavolo tondo al quale sedevamo.
D’un tratto Brown mi rivolse un’occhiata rammaricata, e attirando la mia attenzione disse: -Ci dispiace per quello che abbiamo detto prima-.
Gli volsi uno sguardo confuso. –Di cosa stai parlando?- chiesi flebile.
-Del modo in cui ti abbiamo contraddetta io e Lucy- rispose il ragazzo guardando la giovane tra le sue braccia, che non si staccò da lui neppure con l’oro. –Invece di convertirti al nostro modo di pensare, avremmo dovuto capire quanto tu serbi ancora un profondo odio per tutto questo- mi sorrise docile.
-Io non odio nessuno…- mormorai tornando a fissare il pavimento. -…qui dentro- aggiunsi facendo riferimenti ad una delle persone che ultimamente avevano solo peggiorato le cose.
-Vedrai- fece dignitoso lui. –Glie la faremo pagare a quello lì- dichiarò.
Apprezzai il gesto, apprezzai le loro scuse, apprezzai i loro sorrisi. Era bello continuare a poter credere in qualcosa oltre la nostra comune alleanza, era bello poter scorgere al di là del clan qualcosa di più unito e potente; loro erano i miei amici, ed io avrei continuato a combattere al loro fianco qualsiasi cosa sarebbe successa o era già avvenuta. Passato o presente, non faceva più distinzione per me. Alex era un nemico che avremmo affrontato tutti, almeno una volta, e chi più forte e chi meno, ognuno di noi avrebbe fatto la sua parte. Perciò non riuscii a disarcionare la testa dal discorso che mi aveva fatto Martin nel suo ufficio, e che forse (sperai piuttosto di no) avrebbe ripetuto davanti a tutta questa gente nella mensa.
Mi accorsi con stupore che eravamo davvero in tanti lì dentro. Interi clan di Angeli avevano fatto ritorno dall’Europa con successo, anche se la minor parte del pubblico a mensa quella sera era composta dai superstiti all’attacco Mercer di tre giorni prima.
Mi guardai attorno con attenzione, fin quando la mia attenzione non venne calamitata da un volto familiare che si spostava con lentezza da un tavolo all’altro, avvicinandosi al nostro.
-Emmett…- mormorai.
Lucy scosse la testa. –E’ ancora sotto sorveglianza- disse affranta.
-Gli Alchimisti lo trattengono da ore, e nessuno ha voluto dirci nulla- eruppe Harry.
-No, ragazzi!- eruppi io. –Emmett! Là!- strillai indicando tra la folla di gente.
I due si voltarono e seguirono la linea immaginaria che tracciava il mio dito, e non appena Lucy ebbe sgranato gli occhi una dozzina di volte, scattò in piedi e volò via dal tavolo.
-Emmo!- gridò in preda alle lacrime, e ad un tratto spiccò un balzo, spalancò le ali per un istante e si fiondò addosso al ragazzo dopo aver sorvolato metà mensa.
Io ed Harry, troppo lontani per poter scorgere nel particolare, ci scambiammo un’occhiata stupita. Dopodiché anche il giovane Brown scattò in piedi e si diresse di corsa verso la coppietta.
Rimasi da sola al tavolo, cercando di cogliere l’intera scena anche da laggiù. Quando mi accorsi del mio clan che si dirigeva compatto nella mia direzione, mi scansai, lasciando il mio posto ad Emmett che si sistemò seduto con Lucy ancora in braccio.
Sembrava in ottima forma, completamente rigenerato. Mi vide, e ciò che ricevetti da lui fu solo uno dei suoi soliti sorrisi pieni di sottintesi. Quello che accadde a me, invece, fu di provare un po’ di gioia mista a compassione. Ero felice di rivederlo tra noi, di sapere che stesse bene e che su di lui la terapia del Virus aveva funzionato, cosa che non era successa con Phil.
-Dov’è Phil?- chiese il nuovo avvolgendo un braccio muscoloso attorno alla schiena di Lucy, che non appena sentì pronunciare quelle parole ebbe un leggero fremito.
Harry distolse lo sguardo, e così toccò a me raccontare la versione dei fatti.
-Non ce l’ha fatta- dissi, ed Emmett si voltò a guardarmi. Inizialmente sfuggii alla sua occhiata scettica, ma dovetti comunque arrendermi alla mia coscienza che m’implorava di approfondire la faccenda. –Gli Alchimisti non hanno voluto salvarlo; hanno interrotto la terapia, su ordine di Lewis-.
Il ragazzone abbassò lo sguardo, scuotendo la testa. –No… non Phil, non può essere- sussurrò.
-Uno degli artigli di Alex l’ha passato da parte a parte- lo informò Harry con ripugno. –Non ce l’avrebbe fatta comunque, terapia oppure no-.
Restammo allungo in silenzio, ognuno coi propri pensieri per la mente, ognuno con le proprie idee a riguardo della situazione. Vidi l’odio crescere sul volto di Emmett allo stesso modo di come era cresciuto sul mio mentre mi dirigevo nella mia stanza, pronta ad occuparmi in solitario di Mercer. Percepii il suo sconforto, e l’abbandono che stava provando nell’affidare l’intera sua anima alla rabbia e la collera. Sentimenti che fino a pochi minuti fa avevano fatto prigioniera anche me.
-Quel figlio di puttana ha cessato di vivere- digrignò Emmett serrando un pugno sul tavolo.
-Adesso non pensarci- sussurrò Lucy carezzandogli una guancia, e a quel tocco parve sbollentarsi del tutto. –Avremo la nostra vendetta- disse la ragazza guardandoci uno per uno. –Ma non oggi- aggiunse severa. –Sono sicura che Martin farà di tutto per prepararci al meglio, sono sicura che ci renderà più forti di Alex in poche settimane, ma quello che dobbiamo fare e pazientare, e solo allora la vendetta sarà nostra; quando assaporeremo il suo sangue così come lui ha assaporato il nostro- inclinò la testa da un lato.
Emmett si lasciò sfuggire un sorriso. –Che paroline…- fece divertito.
-Grazie- ridacchiò lei. –Ma sono la verità-.
Incrociai le braccia sul tavolo e appoggiai il mento su di esse. –Può darsi…- sospirai stanca. Annoiata, più che altro.
Harry si voltò verso di me. –Ti vedo sciupata, ragazza. Dovresti farti controllare da qualcuno-.
-Bhè- rise Emmett tra sé e sé. –Non siamo tutti una gran bella pasqua, Harry—
-Me ne rendo conto- balbettò il ragazzo. –Ma…- si guardò attorno. –Qualcuno di voi ha notizie di Lewis?-.
-Già- Emmo fece una smorfia. –Mi ha fatto chiamare dall’infermeria di gran corsa e…-.
-Come suo solito fa ritardo- terminò Lucy.
Improvvisamente girai di poco la testa alla mia sinistra, e oltre gli sguardi curiosi di una dozzina di ragazzi che non sembravano avere occhi che per me, incontrai il familiare sguardo di qualcuno che mi era capitato di incontrare più di una volta, e che ormai sembrava entrato a far parte della mia brutale esistenza.
Mi si colorarono le guance quando Cole Turner, seduto assieme al suo gruppo ad un tavolo, mi lanciò uno sfavillante sorriso. In principio mi salutò con un gesto della mano, ma poi, non appena i ragazzi e le ragazze che lo circondavano cominciarono a fare un po’ di caciara, si staccò dal gruppo alzandosi dal tavolo e venne verso di noi.
-Ragazzi, guai in vista- sibilò Lucy sollevando le sopracciglia.
Harry lanciò un fischio. –Emily, sbaglio o ultimamente le vostre strade s’incrociano più del normale?-.
Gli diedi una spinta allungandomi sul tavolo. –Idiota- digrignai.
-Quel tipo lì non mi piace- ringhiò Emmett. –Ha combinato già abbastanza guai-.
-Che intendi?- domandai curiosa.
-Quando Mercer ci ha attaccati, è stato lui ad ordinare un formazione sbagliata per il combattimento- eruppe Harry.
-Formazione?- chiesi confusa.
-Lascia stare…- Emmo fece un gesto di stizza con la mano. –Ma sappi che non lo voglio tra i piedi, chiaro? Soprattutto nel nostro clan- sbottò arrogante.
Proprio in quell’istante, Cole raggiunse il nostro tavolo e si sedette al mio fianco, preferendo rivolgersi a me piuttosto che ai membri del mio gruppo, che lo guardarono in cagnesco durante tutto il tempo che rimase seduto lì con me.
-Ho saputo dell’Angel 1-9-0- disse Turner. –Mi dispiace, Lewis non avrebbe dovuto interrompere la cura solo perché stava creando problemi- aggiunse.
-Non darti pena…- mi scappò di bocca, e dopo quelle parole Emmett mi fulminò con una delle sue solite occhiatacce a lungo raggio e durata.
-Lo conoscevo, Phil. Tutti noi capitani ci conoscevamo bene- pronunciò pentito. –Era un bravo ragazzo, ed un ottimo capo clan. Spero che Martin riesca a rimpiazzarlo con qualcuno del suo livello-.
-A quanto pare, qualcuno del suo livello però non se l’è cavata…- borbottò Harry fissando con rabbia il nuovo giunto.
-Adesso basta!- sibilò Lucy dandogli un calcio da sotto il tavolo, e sul viso di Harry comparve come per magia una smorfia di sopportazione all’alto dolore.
-In parte è stata colpa mia- fece Cole –E capisco che la maggior parte di voi ce l’abbiano con me. La formazione sbagliata l’ho ordinata io, e non avete idea di quanto me ne rammarichi ogni giorno ad ogni ora, ma…-.
Emmett lo interruppe bruscamente battendo un pugno sul tavolo. –Senti, Cole bello. Perché adesso non te ne torni dal tuo clan laggiù e ti fai i fattacci tuoi?! Non abbiamo bisogno delle tue condoglianze! E sappiamo benissimo che testa di cazzo sei, perciò puoi andartene da questo tavolo con la coscienza a posto!- sbraitò.
Restammo piuttosto sconvolti da quella reazione, ma fu il minimo che c’era da aspettarsi da uno come Emmett.
Cole abbassò lo sguardo sfuggendo a quello di Emmett e cercò il mio. Quando i nostri occhi s’incrociarono, non seppi che fare, dire o solamente pensare della situazione. Turner prese quella mia ignoranza come uno schieramento di parte, si alzò e disse: -Quello laggiù non è il mio clan, bensì i pochi capitani ancora vivi in questa base. Uomini e donne con coraggio da vendere che non sprecano tempo con quelli come voi; quindi hai ragione, Angel 1-9-1- si rivolse ad Emmett. –Se mi facessi un po’ più i fattacci miei è probabile che ora molti degli abitanti di quest’edificio fossero ancora vivi. Per un istante ho creduto che i membri del mio gruppo, i componenti della mia famiglia stessero facendo del bene in Europa, e fino a qualche secondo fa ne ero convinto. Invece la sua insolenza nei confronti dei tuoi superiori, signor Word, da dimostrazione di grande egoismo e fragilità mentale dovuta ad un pertinente stato di shock. Le consiglio del buon riposo, e magari, quando sarà un po’ meno occupato a fare insensate scommesse e sfide con gli stessi membri del suo clan, potrà venire da me a porgermi le sue scuse-.
Detto ciò, e dopo averci lasciati tutti quanti a bocca spalancata, Cole si allontanò dal nostro tavolo e si sedette di nuovo in mezzo ai capo clan con i quali si stava consultando in buona fede.
-Stronzo- sbottò Emmett.
Lo schiaffo che partì da Lucy arrivò sonoro sulla guancia del ragazzo, che si portò una mano sulla guancia coprendo l’arrossamento di quel punto.
Mi lasciai scappare una risatina a quella vista, mentre Harry mi fulminava con un’occhiata tutt’altro che divertita.
-Si può sapere cosa ti prende?!- ruggì Lucy.
Emmett serrò la mascella frenando l’impulso di rispondere in chissà quale modo all’offesa arrecatogli dalla sua ragazza.
-Cole Turner è davvero un tuo superiore! Per grado e abilità! Come ti salta in testa di parlargli in questo modo?!- continuò lei.
-…Che cazzo ridi tu?- mi ringhiò Emmett.
Il sorriso sulle mie labbra tramutò presto in una smorfia di poco più contegnosa. –Scusami, io…-.
Il ragazzo rivolse la sua attenzione verso di Lucy, che ancora seduta sulle sue gambe continuava ad attendere una risposta. –Forse ho esagerato- disse lui.
-Forse?!- sibilò Lucy.
-E va bene, ho esagerato!- eruppe Emmett. –Adesso possiamo smetterla di parlare di me?!- formulò guardandoci negli occhi uno per uno.
-E di chi altri vorresti parlare, sentiamo- proruppe Harry.
-Checca, non parlarmi in questo modo-.
Mi trattenei dal ridere osservando l’espressione stupita che comparve sul volto del ragazzino.
-Emily, ti prego…- mi supplicò Lucy. –Almeno tu-.
-Sì, hai ragione- mi ripresi dalla mia crisi. –Scusate-.
-Ehi ragazzina- mi chiamò Emmett.
-Hm?-.
-Non ho mica dimenticato la nostra scommessa- ridacchiò malizioso.
-Già- fece Harry. –Ma chi di voi due l’ha vinta?-.
Lucy alzò gli occhi al cielo, perdendo del tutto le speranze.
-Vediamo…- rifletté Emmett. –Alex si è fatto vivo, ma siamo stati messi fuori combattimento tutti e due- disse. –Suppongo che la situazione sia invalida, propongo di ripetere la scommessa e rinviare i risultati-.
-Ehi, aspetta- sbottai io. –Sono stata sconfitta dopo di te! Credo che questo mi valga almeno come bonus!-.
Il ragazzo scoppiò a ridere. -Stai scherzando, vero?-.
-Emmett, è la verità- disse Lucy.
Harry annuì quando lo sguardo di Word si posò su di lui.
-Non può essere- eruppe Emmett. –Solo il primo colpo di quel bastardo ha messo k.o. una decina di noi! Non potete dire sul serio!-.
-Eimly se l’è cavata egregiamente- annunciò Lucy, e mi sorrise. –Peccato che mi sono persa lo scontro uno contro uno…- pronunciò affranta.
-Uno contro uno…?- fece stupito l’Angel 1-9-1.
Harry annuì di nuovo.
-È una balla…- sibilò.
Prima che la nostra conversazione potesse andare oltre, la sala piombò improvvisamente nel silenzio più nero. Mi guardai attorno confusa, e la mia attenzione venne calamitata dalla figura di Lewis Martin, in piedi davanti all’ingresso della mensa. Attorno a lui c’erano un gruppo di Alchimisti e altra gente, che immaginai fossero dei coordinatori, tra i quali riconobbi Matt.
-Apprezzo il vostro onorevole silenzio- proferì il grande capo muovendo un passo avanti. –Apprezzo davvero-. Fece una pausa, probabilmente per aumentare l’atmosfera. –In queste ultime trentasei ore abbiamo perso il 56 % degli Angeli vostri compagni rimasti alla base durante la settimana- cominciò a muoversi tra i tavoli, camminando lentamente tra la gente che non gli staccava gli occhi di dosso. –La percentuale, come si può ben notare, è troppo alta. Quello che sto cercando di dirvi, è in realtà molto semplice, e non voglio rubarvi neppure un secondo di più del vostro tempo per ciò che la notizia richiede sapere. Alex Mercer…- prese fiato. –È troppo potente-.
Il rispettoso silenzio proseguì allungo anche dopo quelle parole, nonostante ciascuno di noi fosse terribilmente turbato dal loro significato.
-Nessuno di voi in questa base è abbastanza preparato… forte… agile… audace di corpo e di mente… per affrontarlo- scandì bene. –Nessuno-.
Chissà perché, ma non mi sento molto coinvolta in questo discorso… pensai.
-Nonostante gli allenamenti, le precauzioni, i potenziamenti, i coordinatori esperti che vi ho affidato e gli Alchimisti che vi hanno curato… nonostante tutto questo, Alex Mercer non è stato ancora fermato. È un anno ormai che gli stiamo addosso come api sul miele, ma è un anno ormai che impieghiamo le nostre forze sulla soppressione del Virus. Questi due aspetti del nostro mestiere, molto in contrasto tra loro, non vanno più d’accordo. Non possiamo pretendere di concentrare le nostre forze sulla caccia al Virus quando certi esperimenti mal riusciti come lui vagabondano per le strade di Manhattan e ora anche fuori!- alzò la voce prepotente. –Il fatto che più mi turba, innanzitutto, è il libero accesso che ha Mercer, non solo all’interno della nostra base, ma nel complesso all’esterno dell’isola! Quel pazzo è riuscito a soggiogare i presidi militari e i blocchi sui ponti senza problemi! E noi! Non! Possiamo! Permetterlo!- gridò ancora. –Siamo stati creati con uno scopo, uno soltanto! Mantenere il Virus nelle circostanze!- scandì bene. –E le circostanze, con Alex fuori da Manhattan, sono state V-I-O-L-A-T-E!- aumentò il tono e la presenza, mentre con mano ferma catturava la nostra attenzione e la nostra coscienza. –Siamo stati creati con un potere superiore a quello di Zeus, e si tratta del volo. Le ali che tutti noi abbiamo sulla schiena ci sono state donate dai nostri scienziati affinché avessimo qualcosa che Alex non potrà mai avere. Eppure noi sembriamo non sfruttare questa differenza che ci accomuna. E adesso passiamo alle questioni pratiche- fece tranquillo riprendendo a spostarsi da un tavolo all’altro, con le mani giunte dietro la schiena e il passo lento, mentre lo sguardo vagava nei nostri occhi fiutando la paura e il rispetto che avevamo di lui.
-Come prima cosa fondamentale… Tornerete a lavorare in gruppo. Non voglio venire a conoscenza di attività illecite al di fuori della base notturne o nella prima mattinata. A nessuno di voi verrà lasciata l’occasione di giocare questa partita in singolo, sono stato chiaro?-.
A molti di noi sfuggirono delle lamentele, compreso Emmett che sbuffò sonoramente.
-Perfetto- sorrise soddisfatto il vecchio Martin. –Come seconda cosa, il vostro equipaggiamento è stato revisionato e adattato alle difficoltà che potrebbero presentarvisi in un duello faccia a faccia con il nemico. Punto terzo: i coordinatori a voi assegnati resteranno quelli fino alla fine dei vostri giorni. Buona permanenza ad entrambi-.
Mi lasciai sfuggire un sorriso guardando verso Matt, che sembrava altrettanto soddisfatto della notizia.
-Punto quarto: tutti i clan ridotti a tre o meno individui verranno aggiunti e inglobati ad altri gruppi, così da formare una squadra meglio preparata e attrezzata. Ai clan rimasti senza capitani verrà assegnato un capitano rimasto, ovviamente, senza clan-.
Inizialmente non diedi troppo peso al quarto punto delle novità in corso, ma poi non seppi perché, mi ritrovai a pensare a Cole e al fatto che l’intero suo gruppo fosse partito per l’Europa lasciandolo solo.
Coincidenza: a noi serviva un capitano.
-No!- ruggì Emmett. –Perché?! Il ruolo di capitano, in successione toccherebbe a me, non è giusto!-.
-Ssssh!- Lucy gli poggiò una mano sulla bocca. –Adesso fa’ silenzio, ne riparliamo più tardi…- gli sussurrò all’orecchio.
-Punto quinto: i vostri addestramenti si svolgeranno individualmente ciascuno in una stanza differente, e una volta la settimana voi e il vostro clan apprenderete delle mosse collettive da applicare in combattimento. Ma per il resto, i coordinatori e i robot da allenamento serviranno ad alleggerire i vostri singoli movimenti ed irrobustire i vostri affondi, senza contare il rispetto che abbiamo della vostra individualità…- sorrise. –Punto sesto: ogni 24 ore verrete inoltre sottoposti ad iniezioni di potenziamento dei vostri poteri, e avrete una fiala a vostra disposizione ogni qual volta lascerete la base per avventurarvi a caccia di Mercer…- fece un’altra pausa, e solo allora mi accorsi di quanto fosse vicino a me, e i nostri sguardi s’incrociarono per un istante. –Ora- batté le mani. –Stabilite le questioni pratiche, passiamo a quelle tecniche- con un gesto del capo chiamò a raccolta i coordinatori che erano rimasti in piedi come stoccafissi sull’ingresso della mensa.
Il gruppetto di ragazzi e ragazze superò Lewis e cominciò a montare uno strano macchinario alle spalle dell’uomo. Si trattava di un proiettore che, una volta che le luci della sala furono spente, si accese e proiettò un’immagine sul fondo nero delle vetrate.
Comparve una dettagliata mappa 3D di Manhattan, con in evidenza di colore rosso i restanti nidi del Virus, e di blu le basi militari americane.
Lewis riprese la parola: -Qualche giorno fa i capi clan vi consegnarono una cartella personale all’interno della quale avete trovato una cartina geografica della zona dell’isola a voi assegnata. Ebbene, sappiate che le informazioni datovi da quelle cartelle non sono cambiate-.
Mentre diceva tutto ciò, la mappa 3D alle sue spalle si suddivise in una ventina di settori, ad ognuno dei quali era assegnata la foto di un capo clan. Guardai con attenzione, accorgendomi che la foto di Phil mancava, e così mi fu difficile immaginare quale capitano senza gruppo ci avessero assegnato.
-Le zone di Manhattan a voi assegnate sono sempre quelle, e saranno la vostra nuova casa nelle prossime… ma sì, stimiamo nelle prossime diciotto settimane. Ma sappiate bene una cosa…- si avvicinò al tavolo che aveva davanti. –Una volta là fuori, anche se siete accompagnati dal vostro gruppo e protetti dai vostri capitani, una volta di fronte a Mercer saranno due le possibilità che avrete: combattere o fuggire. Molto personalmente opterei per la seconda, nonostante il fatto che le possibilità di sopravvivenza si dimezzino- si strinse nelle spalle. –Ma nel caso sceglieste la prima…- ci fissò allungo negli occhi. -… sarete soli. In caso di aiuto non potrà soccorrervi nessuno, perché così come siete in difficoltà voi, lo possono essere anche i vostri compagni. Questa è una lotta alla sopravvivenza: siete come leoni che muovono in branco, ed è giunta l’ora di scacciare il leopardo solitario dai nostri alberi. L’augurio che vi faccio è di poter continuare a vedere il sole sorgere- sorrise.
La mappa alle sue spalle scomparve e nella mensa tornò la luce. Una cosa rapida e indolore, e in pochi minuti era riuscito a compensare un discorso di un’ora o due. –Bene- si avviò verso l’uscita. –Per le informazioni riguardanti i nuovi capitani o i gruppi nei quali siete stati spostati, prego, che un vostro rappresentate mi segua- fece un gesto con la mano e lasciò la sala. Svoltò l’angolo e nessuno lo vide più, almeno fin quando sia i coordinatori che gli Alchimisti lo seguirono con addietro una fila di Angeli che necessitava di alcuni chiarimenti.
Harry si alzò lentamente dal tavolo. –Ok, vado io a chiedere a Lewis chi è il nostro nuovo capitano. Ci vediamo nella sala comune quando ho finito- sospirò avviandosi.
Lucy, Emmett ed io ci dirigemmo verso le nostre stanze e aspettammo nel salottino quella che ci parve un’eternità. Si era fatta notte fondo, e fuori dalle vetrate della grande stanza si vedevano le luci lontane di Manhattan e i focolari di alcuni fuochi ancora accesi.
Ero seduta su una poltroncina, tutta rannicchiata nell’angolo e stringendo un cuscino tra il petto e le ginocchia. Senza scarpe e coi capelli tirati in una coda alta per il caldo che avevo cominciato a sentire.
Emmett e Lucy si stavano scambiando due parole poco lontano, teneramente abbracciati sul divano. Non m’interessava sapere di cosa stessero parlando, preferivo di gran lunga godermi la vista spettacolare che c’era oltre il vetro trasparente di quelle finestre.
Improvvisamente tutti e tre percepimmo lo stesso suono di passi provenire da oltre la porta d’ingresso, la quale si aprì lasciando emergere dal buio verso le lampade accese due figure.
-Ave al nostro nuovo capitano!- ridacchiò Harry lasciandosi scivolare seduto sul divano, accanto ad Emmett che aggrottò d’un tratto la fronte.
Lucy probabilmente era rimasta senza parole, perché io, distratta a guardare fuori, non sentii minimamente la sua voce.
-Grazie Harry, ma non c’era bisogno-.
Quella voce avrei potuto riconoscerla tra cento.
Mi voltai all’istante, scattai in piedi e rischiai quasi di ammazzarmi inciampando sullo stesso cuscino che mi era scivolato di mano. –Cole…!!!- sobbalzai.
-Adesso è il capitano Cole!- rise Harry incrociando le braccia.
Il nostro nuovo capo clan si fece subito serio. –Ho parlato con Lewis, Harry era presente, e abbiamo concordato sul ruolo che avremo nei prossimi mesi-.
-E cioè?- sbottò Emmett arrogante, che da quando era comparso Turner non aveva fatto altro che guardare tutt’altra parte.
Il capitano proseguì schietto: -Mi dispiace solo non aver ascoltato il vostro parere, ma ho immaginato che molti di voi avessero un conto in sospeso con Alex, per tanto… io ed Harry abbiamo dato la nominativa del nostro clan come offensiva. Tra tre settimane ci trasferiscono a Manhattan- dichiarò.







Eccomi tornata dalla Grecia, ed ecco l'aggiornamento della stagione. Con questo ho battuto il record, quasi nove pagine, spero che abbia chiarito qualche punto, perché mi sto rendendo conto che in fatto di trama la storia si sta facendo parecchio contorta. o.O' Ammetto che la faccenda di Emily e la Blacklight che ha fatto esperimenti anche su di lei è un po' confusa, ma col passare del tempo (e dei capitoli) si farà luce anche qui! Ringrazio gli utenti che seguono questa ff e i recensori dei capitoli precdenti, sperando che sia stato di vostro gradimento questo medesimo sclero! XD A presto!
Elik.

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Capitolo 13
*** Capitolo 13° - La bestia che dorme ***


Capitolo 13° - La bestia che dorme

Lewis mantenne la parola.
Per tre settimane gli allenamenti si fecero intensivi e individuali per tutti, e la scelta di difesa o offensiva non aveva alcuna differenza; Martin ci voleva pronti, specializzati e preparati ad ogni tipo di attacco. Alex Mercer, diventato la nostra priorità, se la sarebbe vista complicata, e questo era il nostro obbiettivo: fermarlo.
I robot da addestramento, divenuti di ultima generazione, vennero assegnati a tutti dello stesso sano e rigoroso livello: rosso. Ciascuno di noi svolse le proprie faccende separatamente dal resto del gruppo, e si rischiava di perdere i contatti quasi per un’intera settimana, perché gli addestramenti potevano durare sia giorno che notte se Martin stesso non era soddisfatto delle nostre prestazioni; e la sua voce continuava a ripetere: “Angel ta-da ta-da, ripeti l’esercizio”. Era così all’infinito, e fin quando non diventavi davvero uno straccio, spiaccicato a terra così come ci eri arrivato, lui non era contento. Voleva vederci sgobbare, faticare come non mai, e sembrava piacergli, rendergli la giornata più divertente.
Cominciai a sentirmi solo un fenomeno da circo, e con l’accumularsi delle ore che passavo nella saletta di allenamento che mi avevano dato, la mia rabbia e la collera verso di Alex si consumavano lentamente, venendo sostituite da un sentimento di dovere. Poteva essere un bene, e lo era, perché forse così facendo ci avrebbe resi tutti quanti più simili, uniti sotto un unico pensiero di vendetta e patriottismo che, alla fin dei conti, ci aveva fatti solo più forti.
L’unità era proprio quella che ci mancava. Di buone formazioni vincenti non se n’erano e mai se ne sarebbero viste, ne ero sicura. Nonostante tutti gli sforzi di Martin di unificarci come un’unica grande famiglia di predatori, continuammo lo stesso a farci i cosiddetti cazzi nostri sia durante l’allenamento che nella vita privata, all’interno della base. C’era una specie di contrapposizione tra queste due situazioni, (la protezione dell’individualità e l’unificazione delle forze) e inizialmente sembravamo eccellere in entrambe. Ma quando il tempo cominciò a mancare, e gli addestramenti a farsi man a mano più sopportabili, cominciammo ad intravedere la luce dell’esterno anche noi.
Nella prima settimana che trascorremmo alla base ci venne chiesto di combattere a mani nude, di allenare il nostro corpo e la nostra mente, di mantenere l’integrità di entrambe e di preservare sempre una parte di energie durante lo scontro. Avremmo dovuto confrontarci contro i robot con nient’altro che non fossero le nostre braccia, le nostre gambe e la nostra la testa; il che aveva una nota stonante per me. La mia, come la forza di tutti gli Angeli, presiedeva nelle ali, nella capacità di volare che noi avevamo ma Alex no, eppure ci vennero “disattivate” anche quelle, e a Martin, per farlo, bastò premere un pulsante.
Il Blootox rallentava il processo d’innesco dei nostri poteri. Invece di indebolirci, quel gas pieno di tossine accanite contro il virus, s’insinuava tra le particelle mutanti del nostro corpo e all’interno dell’organismo, così da generare una reazione immediata e duratura di sospensione dei poteri. Il che era un bene durante l’addestramento che Lewis aveva prefisso per noi.
Faccia a faccia col robot dal casco rosso che mi avevano assegnato, inizialmente non seppi che fare. Mi aspettavo che fosse quella lattina a scagliare il primo colpo, ma non appena il mio coordinatore mi contattò informandomi sulle mosse da eseguire, mi lasciai sfuggire un sorriso maligno che, ahimé, avrei presto rimpianto.
Nonostante fossi la “prescelta”, là più forte e l’unica di razza pura là dentro, quella lattina riuscì lo stesso a farmi le guance rosse, le ginocchia tremanti e il fiato corto. La tecnica (judo, samurai, o comunque lo stile orientale era quello) che ci venne insegnata ad usare stancava troppo sia mentalmente che fisicamente, e rischiavamo davvero lo svenimento, super poteri o meno. Si trattava di un insieme di mosse avanzate di entrambi gli stili citati prima, che in sé conservavano già il carattere e la forza necessaria che serviva per sopravvivere a Manhattan. Ma allo stesso tempo, noi così potenti ed abili riuscimmo a perfezionarle e renderle di un livello superiore, con affondi 10 volte più letali e parate tante volte più resistenti.
Rispolverai così le mie vecchie lezioni di karatè di quand’andavo alla scuola elementare.
Quella domenica che venne, come promesso, il nostro gruppo si ricongiunse per delle brevi 24 ore di continuo combattimento in gruppo. I coordinatori ci suggerivano gli attacchi combo da eseguire, e noi eseguivamo. All’inizio fu davvero semplice, soprattutto con il loro aiuto esperto alle nostre spalle, ma non appena le comunicazioni s’interruppero e fummo costretti a fare tutto da soli, ci ritrovammo di fronte un robot di livello rosso davvero alla pari di Mercer che, in pochi minuti, ci fece UN MAZZO COSI’.
Nella prima metà della seconda settimana una coppia di Alchimisti venne assegnata a ciascuno di noi, con l’arduo compito di manomettere l’integrità fisica che avevamo acquisito negli allenamenti precedenti, rendendoci, in parole semplici, le cose un po’ più complicate di com’erano. Testavano su di noi gli effetti dei poteri e degli attacchi di Alex, che solamente avvicinandosi, scatenava un processo di indebolimento all’interno delle nostre cellule, causandoci un temporaneo allentamento delle difese immunitarie.
La scoperta fu sconvolgente: finalmente sapevamo dare una spiegazione al fatto che riuscisse a metterci k.o. in un solo colpo! Per un attimo continuammo a credere di essere spacciati, mentre il caos dilagava per la base e molti di noi già gettavano la spugna.
Ma poi il miracolo: due giorni più tardi, Lewis ci fece radunare in massa nella mensa, e quello stesso giorno ci fecero la nostra prima iniezione di fatalità.
Il “vaccino” scoperto dagli Alchimisti era una semplice barriera immunitaria che restringeva il campo d’azione dei germi Mercer, costringendoci a tenere comunque le distanze soprattutto in combattimento, anche se una dosa triplicata dello stesso farmaco avrebbe potuto isolare del tutto il rischio di contagio.
Presto la grande paura che avevamo di Alex scomparve, e tutto grazie agli strabilianti traguardi scientifici raggiunti dai nostri Alchimisti, in onore dei quali si tenne una gradevole festicciola notturna.
Nonostante l’alcol assimilato la sera prima, il giorno successivo riprendemmo gli addestramenti più duramente che mai.
Nel weekend della seconda settimana testammo per la prima volta gli effetti catastrofici che i farmaci avevano su di noi, con risultato 100%.
Funzionava.
Durante quel periodo ci dedicammo del tutto all’impiego delle nostre forze per intero e, senza esclusione di colpi e con la perseverante presenza del Blootox nelle nostre stanze di addestramento, conquistammo una delle mete più gradite e desiderate che Martin si era prefisso.
La resistenza e l’agilità di ciascuno di noi, grazie non solo al vaccino, si moltiplicò del 200% e questo mandò su di giri l’intera base.
Quella stessa domenica si tenne un altro degli scontri di gruppo, il quale riuscì non diversamente dalla settimana precedente.
I sette giorni restanti furono forse quelli più divertenti.
Le immissioni di Blootox nelle camera d’addestramento cessarono improvvisamente, e ci venne affidato un intero arsenale di granate e armi da fuoco di piccolo calibro ma grande potenza da tenere sempre con noi, come equipaggiamento. I lacchi di cuoio attorno agli avambracci e alle cosce tornarono a riempirsi, e sentire il peso e il freddo del metallo sulla mia pelle fu una sensazione che avevo quasi dimenticato. Gli allenamenti che vennero perfezionarono la precisione e i riflessi, soprattutto quelli dovuti all’uso delle armi, che in onore di“Zeus” si erano modificate e irrobustite, con tanto di agenti chimici all’interno dei proiettili.
Quel bastardo non aveva scampo.
Solo nelle ultime 48 ore di addestramento ci venne consentito l’uso totale dei nostri poteri, che andava dalle ali fino al completo tramutarsi in oggetti taglienti o grandi massi rotondi, cosa che all’interno della base sapeva fare solo Emmett.
Insieme all’arsenale da combattimento, sempre in quelle restanti lezioni, i potenziamenti chimici dei nostri poteri divennero per noi come una droga. Le auto-iniezioni sempre più frequenti all’interno dei combattimenti costituivano sì un buon segno di dipendenza, ma anche ottimi risultati.
Personalmente ottenni la prima vittoria sul robot proprio in quelle ultimissime ore di continuo duello, ma la più grande delle vincite fu quella che ottenemmo io e il mio clan al completo la stessa domenica sera.
Durante tutto lo scontro, non seppi perché, ma non riuscii a staccare gli occhi dal nostro capitano, il quale riusciva a dirigere nella confusione di continue esplosioni e rumori di spari attacchi sempre ben coordinati. Il ruolo del comandante di un clan scoprii fosse molto difficile: il coordinatore assegnato a Cole aveva il mero compito di trasmettere informazioni, e Turner quello di elaborarle al meglio a seconda delle circostanze. Di fatti, i canali della comunicazione all’interno del nostro casco erano tre: una diretta al coordinatore, la seconda privata col capitano, e la terza, preferibilmente da trascurarsi, aperta a tutti i componenti del clan.
In quelle settimane avevo molto trascurato i miei compagni di gruppo, dedicandomi principalmente agli addestramenti, e all’inizio credevo che loro avessero fatto altrettanto, ovvero sgobbato 24 ore su 24 come avevo fatto io, con qualche intervallo ogni qual volta finivo al tappeto contro il mio robot.
Ma poi, la schiacciante verità arrivò proprio durante il duello collettivo, quando mantenendo attivi tutti e tre i canali di comunicazione all’interno del mio casco, mi ritrovai coinvolta in una conversazione di gruppo che saltava dalle tecniche di combattimento alle questioni private.
Ogni tanto mi feci anche qualche risata, sorridendo alle battute allegre di Emmett e ai commenti di Harry su quanto il nostro robot fosse del tutto fuori moda. Quelle lezioni collettive erano state le uniche occasioni per me di incontrare i miei compagni di gruppo nell’arco di 20 giorni, ma proprio durante quella conversazione mentre ci sparavamo a tutta birra addosso al nostro unico e solitario avversario, scoprii che gli allenamenti continui erano stati solo i miei.
Come detto da Martin nel nostro discorso di tempo fa, io ero speciale, e capace di cosa che nessun altro avrebbe mai immaginato. Scoprii che mentre mi scannavo contro il mio robot in solitario nella mia saletta d’allenamento, i miei compagni di gruppo se la spassavano altrove a fare salotto. Tutto questo in orario extra a quello di addestramento, che invece Martin mi aveva fatto credere che proseguisse ininterrottamente, mandando qualcuno a raccontare ai miei amici che io ero troppo stanca dopo i normali allenamenti per potermi godere una serata con loro.
Fu raccapricciante giungere alla conclusione senza l’aiuto di nessuno, senza parlarne con nessuno. Ma poi successe, sempre durante quel duello collettivo, che la mia comunicazione con gli altri membri del clan s’interruppe così come quella col coordinatore, lasciando attiva solamente la privata col capitano.
All’inizio non me ne accorsi. Credei semplicemente che si fossero azzittiti tutti affinché mantenessimo la concentrazione, ma poi sentii la sua voce.
-Emily-.
Non risposi, e in sospesa per aria a cinque metri da terra, mi voltai lentamente verso di lui che era dal capo opposto della sala d’allenamento. Lucy, Emmett ed Harry tenevano occupato il robot e anche loro, del tutto presi dal combattimento, non si accorsero di noi che avevamo tagliato in quel modo i contatti e la partecipazione.
Provai a nascondere l’imbarazzo causato da quell’inusuale modo di parlarci, anche se fin ora aveva parlato solo lui e pronunciato non più di cinque lettere, ma nonostante ciò io già arrossivo spudoratamente.
Non solo mi mostrai in quello stato, ma sulla mia faccia regnava ancora quell’espressione sconvolta che era rimasta lì da quella mattina, quando realizzai cosa realmente si fosse mosso per la base in quelle ultime tre settimane.
Anche attraverso il vetro oscurato del casco, sapevo bene che uno come Turner non si lasciava sfuggire quando un componente del suo gruppo era poco concentrato sull’addestramento, poco presente, ecco. L’aveva captato nei miei gesti, nei miei attacchi e nella mia poca resistenza, e quel duello collettivo non serviva ad altro se non a fare altrimenti: studiare i comportamenti altrui e riconoscere eventuali anomalie da prevenire e soffocare alla radice.
Ma quella volta l’intervento del capitano fu diverso; non appena mi fu abbastanza vicino da poter riuscire a guardarmi negli occhi, lo ascoltai pronunciare parole che mi lasciarono ancor più sconvolta.
-So cosa sei- aveva detto. –So cosa sei veramente, Emily. Come capitano, Lewis e i componenti del mio clan non hanno segreti per me. So tutto, ogni cosa. So che sei come Alex, e so che cosa hai patito in queste tre settimane; so anche che l’hai capito solo ora- si lasciò sfuggire una risatina, ed io un sorriso.
Lo lasciai proseguire, senza interferire nel suo bel discorso.
-Non c’è bisogno che lo nascondi, non c’è bisogno che nascondi il tuo sconforto, almeno non ora. Per adesso continua a combattere, e così facendo vedrai che ti sentirai meglio. Ne riparliamo dopo a quattr’occhi- disse, dopodiché lo guardai allontanarsi così com’era venuto.
Aveva detto poco, eppure le sue parole mi colmarono il cuore di gioia e orgoglio, quasi stessi cominciando a divenire fiera di quel che ero, della resistenza che avevo dimostrato nei miei allenamenti individuali e della forza di cui ero diventata padrona.
Furono Harry ed Emmett a prendersi tutto il merito del combattimento, perché con due colpi ben piazzati e in perfetta sincronia erano riusciti a mettere definitivamente al tappeto la lattina col ciuffo rosso.
Quella sera festeggiammo davvero, assieme ad una cinquantina di Angeli che come noi avevano mandato k.o. il robot d’addestramento almeno una volta, mentre gli altri avrebbero dovuto ripetere il combattimento durante la settimana successiva, quand’invece noi saremmo stati spediti all’estero, fuori da questa noiosa e monotona base.
Lewis Martin comparve improvvisamente alle nostre spalle, retto sull’ingresso della mensa con attorno la sua solita guardia personale composta da una dozzina di militari umani. Nella sala piombò il silenzio, e il vecchio capo mosse qualche passo in avanti.
-Sono contento che vi stiate divertendo- arrise guardandosi attorno. –Altrettanto felice che abbiate passato con successo queste tre intensive settimane- fece allegro. –Ma perdonate se interrompo il vostro giovanile festeggiare, ma c’è una cosa che voglio dirvi, e un’altra che voglio rammentarvi, ed entrambe di vitale importanza- prese una lunga pausa. -… il tempo corre, il nostro nemico si fa di giorno in giorno più potente e accanito, e le sue ricerche silenziose nella nostra base l’hanno condotto a schiaccianti verità che lo attirano ancor più presentemente contro di noi. Intrufolandosi in casa nostra, Mercer è entrato a conoscenza di file segreti riguardanti il Governo Americano e voi, e quindi nessun altri. I vostri dati personali, i nomi dei vostri figli, delle vostre madri, dei vostri padri e dei vostri parenti sono ora alla mercé del nemico, e spero che questo basti a far aumentare in voi la voglia di staccargli la testa; ma c’è una cosa, una soltanto, di cui lui non è a conoscenza…- abbassò di poco la voce, riducendola quasi ad un sussurro. –C’è una cosa che speriamo lo colga di sorpresa, un fattore che fin ora ha continuato ad ignorare e speriamo continui a farlo anche in futuro… un’arma segreta che da pochissimo abbiamo contro di lui, ma che non potremo mostragli se non nel caso più estremo di tutti!- sibilò.
Fece una lunga pausa per aumentare la sospance e ricominciò a camminare tra i tavoli.
-Qualche giorno fa, mentre Zeus era impegnato a trafficare come al solito per l’Isola e voi intenti nei preparativi alla caccia, io e un gruppo di capitani abbiamo sottratto a Mercer ciò che lui ha di più prezioso, forse l’unica cosa che lo rende umano. Sappiamo quanto Alex tenga a quello che gli abbiamo rubato, e siamo certi che non esiterà a venirsela a riprendere non appena verrà a sapere che ne siamo in possesso- disse. –Per tanto- prese fiato fermandosi e voltandosi verso di noi, squadrandoci uno alla volta. –Alcuni clan resteranno nella zona della base e controlleranno il perimetro giorno e notte. Gli altri, i tiratori scelti, se così possiamo classificarli, verranno spediti a Manhattan e non vi faranno ritorno fin quando il nemico Mercer non sarà del tutto eliminato! Ribadisco quindi che alcuni di voi, volontari, ovviamente, potranno restare a sorveglianza della base e della nostra arma segreta. A voi la scelta, miei Angeli- scandì bene. –Detto ciò- sulle sue labbra affiorò un nuovo sorriso. –Divertitevi-.
Lasciò la sala con al seguito la sua squadra di militari, e nessuno lo vide più di lì alla mattina successiva. Con la musica e l’alcol dimenticai presto le sue parole, senza rifletterci sopra per non più di una manciata di minuti. Pessima cosa.

Giorno dell’infezione 408°
Popolazione mondiale infetta: 09,32%


«Sono trascorse tre settimane dalla mia ultima visita in casa del nemico. Sarebbe andato tutto liscio se non fosse stato per quei maledetti segnalatori che hanno cominciato a funzionare nel posto giusto al momento sbagliato.
Ciambelle volanti del cazzo… ho pensato.
Le luci intermittenti sono diventate subito rosse non appena quell’affare mi è passato sopra la testa. Ho gettato l’arma a terra e ho cominciato a correre, mentre alle mie spalle sentivo gridare: -Eccolo! Sparate!-. Che idioti: gliel’avevo fatta sotto il naso, ero riuscito ad ingannare prima le vedette ai posti di blocco sull’isola, poi i segnalatori termici della loro base, e ora persino il gruppo scelto che mi sta alle calcagna. Si sono levati in volo spiegando le loro “ali”. Così le chiamano. I militari ai quali mi ero mimetizzato hanno continuato a spararmi addosso, ma indistruttibile, ho sfoggiato la mia robusta armatura, e quasi i proiettili mi rimbalzavano addosso tornando alla fonte. Una scena comica. È stato ancora più facile raggiungere il tetto della base e fare piazza pulita di una grande quantità di polli. Uno dopo l’altro cadevano come foglie secche che piovono dagli alberi. La furia nata in me in quegli istanti era grande a tal punto che avrei potuto annientarli tutti.
Tutti.
Tranne uno.
Mi correggo: una.
Si è fiondata ad inseguirmi, con la sua bella tutina e il corpicino da bambola che avrei potuto spezzarla come uno stuzzicadenti. Mi ha sfidato, si credeva divertente e forte quando l’ho vista gettarsi a capofitto dal palazzo, venendomi incontro che neppure eravamo a cento piedi dal marciapiede. Alle fine ho fatto quello che ho ritenuto giusto, ho schivato un suo scarso tentativo di afferrarmi ed ho sfruttato la sua forza contro di lei. I vetri sono andati in frantumi come fossero di carta, ma lei non si è fatta nulla: nessun graffio, nessuna goccia di sangue.
Si è rigenerata, come succede a me…
L’ho vista tentare di rialzarsi, stava per togliersi il casco, ma poi le ho fatto la domanda che temevo, la domanda che forse avrei dovuto farle al singolare.
-Cosa sei?- avrei dovuto chiederle. Ma già una volta avevo visto succedere quelle cose, già una volta avevo visto la pelle rigenerarsi ad uno di loro, ad uno come lei. Già avevo avuto l’onore di conoscere qualcuno come me, qualcuno che dovevo assolutamente dimenticare; qualcuno che poi ho dimenticato.
-Cosa siete?- le ho chiesto.
Ha messo a dura prova la mia pazienza, e non mi ha risposto.
Lì non ci ho visto più.
Mi sono scagliato su di lei, le ho stretto la gola, l’ho minacciata con gli artigli e il pugno, le avrei spaccato la faccia senza alcuna difficoltà! Le ho fatto altre domande, esitava, ma finalmente ha risposto. Meglio per lei. Alla fine il tempo stringeva, correva troppo per me e ho dovuto accorciare: le ho chiesto un nome, ma lei me ne ha dato uno inutile, che non avevo mai sentito, che non mi riportava a nulla se non al punto di partenza.
Infiltrandomi tra loro avevo scoperto quello che mi serviva sapere, avevo scoperto qualcosa che era di vitale importanza. Qualcosa che mi ha del tutto sconvolto, e dovevo parlarne con chi vicino mi era sempre rimasto…»

Tornato dalla mia escursione fuori dall’isola, mi precipitai al riparo sotto i tetti conosciuti di quella che ora chiamavo “casa”.
Era notte fonda, il buio pervadeva ogni angolo di quella strada, e il silenzio, amaro, pesante, opprimente quasi, faceva schiave le vite che abitavano i palazzi attorno e camminavano a loro rischio sui marciapiedi. Ogni tanto passava un carro armato, ogni tanto era in volo un elicottero, ogni tanto passeggiava un militare con l’arma stretta al in pugno; ogni tanto non passava nessuno, e durante quel “ogni tanto” passavo io.
Mi avvicinai all’ingresso della palazzina, salii i gradini camminando normalmente. Sprofondai nell’oscurità del mio cappuccio e alzai un braccio; citofonai. Attesi allungo, guardandomi attorno circospetto e scrutando oltre la mia ombra che si proiettava sulla parete dell’edificio. Squillai una seconda, una terza volta. Ma solo quando in me cominciò a crescere la paura che fosse successo accaduto, capii che probabilmente quello che avevo pregato non avvenisse, era successo.
-Dana…- mormorai sgranando gli occhi.
Mi piegai sulle ginocchia, caricai e in fine spiccai un balzo. Corsi lungo il muro del palazzo, camminando verticalmente tra un mattone e l’altro. Raggiunsi il piano e mi fermai trasformando il braccio destro. Affondai i cinque artigli nel cemento, mentre con l’altro pugno spaccavo i vetri della finestra. Mi fiondai all’interno dell’appartamento, ritrovandomi nel salottino che collegava le varie camere dello studio medico di Regland, al quale avevo affidato la mia sorellina.
-Dana- chiamai ancora. –Dottor Regland!- provai.
L’interno era buio, più buio della strada e della notte stessa; i miei poteri mi permisero di vedere oltre l’oscurità, ma ciò di cui mi accorsi non avrei mai voluto guardarlo.
La mobilia, i divani, il tavolo erano sotto sopra. Carte sparse ovunque sul pavimento, fogli ancora volanti, impronte fresche di esseri umani e un odore diverso dagli altri che non riuscii ad identificare, che seppi solo assimilarlo come un’agente sconosciuto del Virus, una puzza nauseabonda che avevo imparato a riconoscere. La mia visone termica vedeva tracce dappertutto.
D’un tratto sentii una voce, come un lamento.
-Aiuto!- era flebile, indistinto e veniva dalla stanza accanto. Andai in quella direzione, spedito come un proiettile. Entrai nella camera, e quello che vidi fu il corpo di uomo con una tuta nera mimetica che si trascinava al suolo grondante di sangue. Aveva un coltello piantato nel petto, moriva con dolore. L’arma gli era scivolata via di mano ed era finita sotto un tavolo della stanza. Era un militare.
Ci fu un attimo di totale silenzio, ma non appena mi riconobbe e le sue labbra sussurrarono il mio nome, tentò di riafferrare il fucile stendendo un braccio.
Lo precedetti e gli fui addosso, afferrandolo per la collottola dell’uniforme. Affondai un pugno nel suo costato, e sentii il suo sangue mescolarsi al mio nel frastuono dei suoi piedi che battevano a terra. Si dimenava, ma durò per poco. Una scia di immagini e suoni mi riempì la testa; mi portai entrambe la mani a spingere sulle tempie, e poi vidi:

Sbatte una porta, è un corridoio. Piombano in salone, armati; c’è una ragazza sul divano, e un vecchio di colore che indossa camice e occhiali affianco a lei.
-Eccoli! In alto le mani, forza!- grida un uomo con una tuta nera.
-Dana, fa’ come dicono!-.
-Dottore, che sta succedendo?!- è spaventata. –Chi siete?!- grida la giovane.
-State zitti, state zitti!- ripete l’uomo. –Avanti, alte le mani e fuori da casa! Avanti!- continua, mentre punta l’arma che ha in pugno alla nuca dell’anziano dottore.
La ragazza corre verso una stanza, apre la porta. È scappata.
-Tu! Prendi la ragazza!- grida l’uomo.
-Sì signore- un cadetto la insegue, sparisce nella stanza.
Si sentono degli spari; un grido, e una voce che dice: -Dannata! Maledetta puttana!- e un corpo che cade a terra con un coltello piantato nel petto, pesante, un’arma che scivola sul pavimento, due occhi che si socchiudono. Un respiro ansante, dei gemiti. La ragazza indietreggia, ma un altro militare compare alle sue spalle e l’afferra.
-Signore, ha ucciso Chase!-.
-Sicuramente non è morto! Forza, portatela via! Lei e il vecchio!-.
Nel silenzio, una voce chiama aiuto.

Sono in strada; la ragazza e il dottore sono a terra in ginocchio. L’uomo con la tuta nera si avvicina: ha due siringhe, punge il braccio ad entrambi e poi fa cenno ai suoi uomini di caricare i corpi addormentati sull’elicottero che è lì accanto.
Squilla un cercapersone alla cintura di un ragazzo. -Comandante- fa egli. –Ci richiamano alla base- dice.
-Questo è un brutto segno- digrigna il capitano. –Contatti il settore, sergente-.
-Sissignore!-.
La comunicazione è attiva; parla l’uomo: -Li abbiamo presi-.
-Di fretta, comandante, portateli qui. Che nessun uomo resti a terra. Ripeto: che nessun uomo resti a terra. Mercer non deve entrare in contatto coi nostri piani-.
-Siamo in volo, signore!-

«… Ero arrivato troppo tardi.
Avevano portato via Regland… e Dana.
Erano entrati in questa stanza e avevano Mi avevano sottratto ciò a cui tenevo di più…
Non potevo credere che fosse vero. Non potevo credere che stesse ricominciando tutto da capo. Prima gli Angeli, e adesso di nuovo il Governo che mi tormenta! Mi sono trascinato in piedi, ho rischiato persino di battere la testa da qualche parte, ma ero talmente sul punto di collassate che sarei potuto cadere sulle mie stesse gambe da un momento all’altro.
Era troppo. Avevano osato troppo. Non rimasi neppure a chiedermi come li avessero trovati. Non rimasi a chiedermi nulla. Il tempo di farsi domande era ufficialmente finito. Era ora di darsi delle risposte. Ed ero ben intenzionato a tornare a caccia di vite. Di tutti quegli uomini che ho assorbito…
Di tutti quegli uomini che ho assorbito…
Di tutti quei civili di cui ho letto le memorie…
Di tutti quei corpi in cui mi sono tramutato…
Ho sempre pensato che finalmente fossi giunto ad un buon punto, che finalmente avrei potuto dire basta a questa fame di sangue e morte altrui! Assaporavo la fine! Ero giunto alla conclusione, il circolo vizioso della mia memoria stava finendo! Ma poi…
Sono arrivati loro.
Gli Angeli.
Divenuti i miei nuovi nemici, hanno riaperto in me una vecchia ferita.
E perciò non ho motivo di risparmiare loro la vita.
È stata una loro scelta quella di schierarsi dalla parte perdente, dalla parte dei deboli, degli sciocchi. Dei nemici.
Sono loro gli unici che hanno causato tutto questo. Io sto solo cercando di fermarlo. Nel corso di quest’anno ho fatto molto: io da solo quasi il doppio di quello che hanno combinato loro in 300! Ho abbandonato i costumi della ricerca al mio passato, ho dato una speranza all’America, ho aiutato i bisognosi! E ancora insistono…
Gli sono scomodo, forse? Pensano che sia di troppo? Oppure danno la colpa a me se il Virus è arrivato in Europa e in Giappone? Pensano che sia colpa mia, e ora che ho varcato il confine dell’isola, troveranno questo pretesto altrettanto interessante per giustificare la loro mania omicida che hanno verso di me!
Bhé, si sbagliano di grosso.
La mia caccia è appena cominciata, e non potrò dichiarare vittoria fin quando tutti i pezzi del mio puzzle non saranno al loro posto. Solo quando le mie carni assorbiranno il responsabile del rapimento di mia sorella! Solo allora potrò dire basta. Solo allora ne avrò fin sopra i capelli della gente falsa e indegna che mi ha fatto questo.
Ma fino ad allora…
…Non ci sarà pietà…
Per nessuno.
All’inizio ero disperato; ciondolavo per la casa di Regland potendo sentire quasi le lacrime pungermi gli occhi. Stavo provando sensazioni che avevo del tutto dimenticato.
Paura…
Avevano trovato Dana. Avrebbero potuto farle qualunque cosa, avrebbero potuta usarla contro di me. Questo sentimento mi annientava, mi distruggeva demolendo le mie difese invalicabili, rendendomi debole al nemico. Un sentimento che sì, in effetti avevo del tutto dimenticato, e al quale non ero per nulla preparato.
E rabbia…
Oh, questa la conoscevo bene, molto bene. Nacque in me poco a poco, ma quel tanto che bastò perché le mie braccia tramutassero da sole. Mi rivestii di fasci neri come la notte e rossi come il sangue, ben intento a versarne dell’altro quella sera stessa. Ho soffocato un grido colmo di furore e la forza che ha sprigionato il mio corpo in quell’istante sbaragliò via i mobili dell’angolo cucina e spezzò le pareti. Quando di nuovo attorno a me ogni cosa muta è ritornata, i miei occhi hanno brillato di un rosso acceso nel buio del cappuccio.
Mai svegliare la bestia che dorme.
Mai.»
































Novità in corso: punto di panoramica da Alex Mercer! XD Una novità bella e buona, almeno spero. Mi spiace solo per Dana e Regland che nella mia storia non si sentono e non si vedono, e ora sono anche stati rapiti! ^^’’ Questo è un buon motivo che spinge Alex a continuare ad agire nel suo solito modo. Solo che sta volta lo attendono tante belle sorprese… muhahaha!!! Tengo a chiarire che durante quel famoso anno trascorso nel silenzio che non ho descritto, Alex ha abbandonato la caccia al suo passato. Questo probabilmente non l’ho ancora menzionato, o se l’ho fatto si nota troppo poco per dargli conto. Invece è un aspetto importante e che avrei dovuto approfondire: mi servirà più in là quando lui ed Emily s’incontreranno di nuovo, e già questo è un grande spoiler! Per quanto riguarda il primo capitolo introduttivo della ff, quello che narra delle vicende nel futuro, a distanza di un altro anno, trattasi di qualcosa che riprenderò tra le mani con non poche probabilità verso la fine della storia stessa. Nel gioco le vicende di Alex sono spezzettate da alcuni filmati che mostrano l’ultimo giorno dell’infezione, nella mia ff, per ora, e avendo altri tre capitoli pronti da postare, ancora non si prevedono interruzioni temporali di quel genere.
Chiarito questo punto, aspetto i vostri commenti! E sono pronta a ripostare da subito non appena avrò le vostre recensioni! Muahahaha! Mi dispiace solo per renault. O.o’ ammetto che non è molto che ho postato il 12° capitolo, ma sarà andata in vacanza pure lei? Almeno avvertisse!!! Grrr!!! XD Ma vabbé!
A presto!
Elik.

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Capitolo 14
*** Capitolo 14° - Cinque minuti ***


Capitolo 14° - Cinque minuti

Giorno dell’infezione 408°
Popolazione mondiale infetta: 09,32%


Fu la prima volta, di lì ad un anno che bevvi qualcosa di alcolico e particolarmente forte. Poi chissà, non fui neppure molto certa che avesse avuto effetto, dato che di droga me ne facevo da sola nella mia testa pensando e ripensando un centinaio di volte a quello che mi attendeva là fuori nelle prossime ore.
Seduta accanto ad Emmett e completamente abbracciata ad Harry che provava la stessa ebbrezza di una buona birra, persi del tutto la cognizione del tempo, ma soprattutto avevo perso di vista il capitano.
Sgranai gli occhi guardandomi attorno, cercando di scorgere la sua figura tra le luci a intermitezza e la musica messa a palla, come in discoteca.
-Emmo, dov’è Turner?- domandai attirando la sua attenzione.
Il ragazzo si strinse nelle spalle, comodamente stravaccato sul divanetto tra cuscini e bottiglie vuote. –Che ne so- rispose.
-Aveva delle pratiche da sbrigare- disse Lucy seduta al suo fianco, con un braccio di lui che le cingeva la schiena. –Come tutti i capitani, del resto- aggiunse.
-Che pratiche?- chiesi ancora.
La ragazza non seppe rispondermi, mentre con non poca sorpresa mi accorsi di come Harry mi era crollato addosso addormentandosi.
Lucy scoppiò a ridere non appena se ne accorse, e con una certa fatica riuscii a metterlo seduto, ma Harry Brown crollò dal capo opposto della poltrona finendo con la testa fuori dal divano.
-Poveraccio! Deve non reggere molto bene l’alcol, il ragazzo- fece Emmett terminando in quell’istante un’altra bottiglia di birra. –Bene!- si alzò tutto energico e afferrò la sua ragazza per i fianchi, sollevandola in aria e poggiandosela sulla spalla a mo’ di sacco di patate.
-Ehi!- sbottò Lucy. –Mettimi giù!- ridacchiò.
-Non so te, Emily, ma io e la mia bambolina andiamo a fare un po’di baldoria come si deve- fece malizioso il ragazzo, mentre Lucy si dimenava sulla sua spalla. –Domani prevedo che sarà una giornataccia!-.
Mi lasciai scappare una risatina sommossa a quelle parole, non riuscendo ad evitare alle mie guance di arrossarsi. Chissà se per l’alcol e per l’esplicito messaggio.
Li salutai entrambi con un gesto della mano. –A domani- sorrisi osservandoli avviarsi, e una volta scomparsi dalla sala mensa addobbata per la festa, rivolsi la mia attenzione ad Harry che ancora sonnecchiava completamente steso sul divano, riducendo il mio spazio a meno di cinquanta centimetri.
-E tu?- ridacchiai. –Non hai ancora abbordato nessuno qui dentro?- chiesi, ma nonostante avessi rivolto la domanda ad Harry che probabilmente non mi avrebbe risposto, si poteva benissimo dire che stessi parlando da sola, con me stessa.
Harry Brown era un gay dichiarato, e mi era sempre stato parecchio simpatico. Lui era da sé parecchio simpatico, solare, qualche volta scontroso e depresso, ma comunque se la cavava in questo mondo stato particolarmente ingiusto con lui.
Guardai il vecchio e grande orologio appeso sopra l’ingresso della mensa e, tra una luce colorata e un’altra, riuscii a scorgere l’ora, che si era fatta anche troppo tarda.
Decisi di occuparmi di Harry e lo presi in braccio, ricorrendo a parte dei miei poteri per poterlo portare fino nella sala comune del nostro clan. Poi lo accompagnai nella sua stanza e lo adagiai sul letto.
Aprii le finestre per far circolare un po’ d’aria, e in fine lasciai la camera in balia di una corrente primaverile rinfrescante.
Mi diressi nei miei alloggi e decisi di indossare al posto dell’uniforme da Angelo qualcosa di meno formale, così mi spogliai della canotta aderente nera a cuciture rosse e vestii il mio corpo del solito paio di jeans corti assieme ad una camicetta bianca.
Tornai nel salone comune, ma mi ritrovai con le mani in mano guardandomi attorno senza nient’altro da fare che non fosse il mio passatempo preferito: mi avvicinai alle ampie vetrate e cominciai a guardare fuori, scrutando oltre l’oscurità e raggiungendo con lo sguardo e la mente l’isola aldilà del fiume nero. Se mi concentravo, potevo già assaporare l’acre odoraccio di quelle strade, insaporite dal Virus e da una puzza di bruciato che ustionava la lingua.
I bagliori dei focolari ancora accesi e dei segnalatori degli elicotteri militari che sorvolavano la zona, davano a quel luogo un che d’intrigante e spettacolare, davvero attraente.
In breve mi ritrovai del tutto sommersa da quei pochi ricordi che avevo delle mie trasferte sull’isola. Dagli scontri contro i “virussati” di piccolo calibro, alle patite più ardue contro i cacciatori, fino ad arrivare agli assalti militari nei quali mi ero ritrovata coinvolta.
Il filo dei miei pensieri venne bruscamente interrotto dal suono della porta d’ingresso del salone che si apriva, e quando mi voltai scorsi una figura avanzare distrattamente verso un lato della stanza, dirigendosi verso un’altra delle porte.
Con molte probabilità non si era accorto che fossi lì, mezza nascosta dall’oscurità, ma io mi ero perfettamente accorta di lui.
-Capitano Turner- dissi seria, e l’uomo s’immobilizzò dov’era.
-Emily, Martin mi ha mandato a chiamarti. Ti aspetta nel suo ufficio-.
Quando i suoi occhi balenarono nel buio fermandosi a scrutare la mia ombra, cercai di assumere una posa di poco più dignitosa. –Dovevamo parlare, signore, si ricorda?-.
Cole restò per un istante paralizzato dalle mie parole. –Sì, mi ricordo- pronunciò contegnoso. –Ma non qui- si apprestò ad aggiungere, e proseguì spedito oltre l’ingresso. –Vieni- mi disse, ed ubbidii come si trattasse di un ordine.
Il capitano mi condusse fino nella sala comune del suo clan partito per l’Europa, del quale era rimasto solo lui. La stanza era ampia e identica a quella abitata dal mio gruppo, fatta eccezione per l’ordine impeccabile, il buio anomalo e il silenzio mostruoso.
Un volta lì, Cole accese qualche luce ma si diresse subito verso la sua stanza.

«La camera di un capitano è di molto più spaziosa delle nostre, ma sistemata in modo molto simile. C’è una scrivania affiancata ad un solo armadio a parete. Un ampio letto doppio, comodo, nonostante siano davvero poche le occasioni in cui dormiamo. Non siamo abituati a sprecare tanto tempo prezioso, e non necessitiamo di ripristinare in quel modo le nostre energie. Il pavimento fresco in alcuni punti è coperto da un semplice strato di moquette bianca, e le grandi finestre sul lato occidentale della camera contribuiscono, se aperte, a mantenere fresco l’interno. Il resto sono uno specchio da terra alto quanto me, qualche mobile vario, un quadro qua e là tanto per riempire le pareti e un piccolo bagno adiacente allo stanzino. Poi, a seconda della mansione che svolge l’Angelo che vi abita, ci sono dei cassettoni, nel caso del capitano, che ospitano documenti e referti medici di ciascuno dei membri del suo clan. Assieme a dettagli clinici e genetici che vengono continuamente aggiornati dal comandante stesso.»

Cole gettò sulla scrivania la cartella che aveva sotto braccio e andò a scostare le tende da davanti le finestre, illuminando la camera della luce artificiale che veniva da fuori assieme ai suoni della strada.
Restai in piedi fin quando, seduto sulla sedia della scrivania, Turner non mi fece gesto di fare altrettanto sullo sgabello che mi attendeva di fronte a lui.
Quando finalmente fui sistemata, guardai curiosa come gesticolava con alcuni foglio all’interno della cartella che aveva davanti. C’erano delle mie vecchie foto scattate da un obbiettivo nascosto; mi riconobbi qualche anno fa a Central Park mentre passeggiavo con William, poi in un’altra istantanea ero in un locale con alcuni miei vecchi compagni dell’università, in una cena commemorativa per la professoressa uccisa dal Virus che ancora era agli stadi più giovane e trascurabili.
-Prima ero anch’io nel suo ufficio: ho parlato con Lewis della tua situazione, mi ha spiegato tutto quanto, ma di molte cose avrebbe voluto parlartene di persona- disse Turner.
-Andrò da lui più tardi- dichiarai schietta.
-Come preferisci…- sospirò il ragazzo.
Mi mostrò documenti di nascita, cittadinanza, espatrio, passaporti e poi altre foto che ritraevano, sempre da un obbiettivo nascosto, i miei più cari amici e parenti. Non appena ebbi tra le mani un’istantanea dei miei genitori e me che mi compravano il gelato all’età di quattro anni, non riuscii a fermare quella lacrima bastarda che mi scivolò sulla guancia senza aver prima chiesto il permesso.
Apprezzai il gesto che stava facendo, desideravo tanto vedere quelle foto, ricordarmi cos’ero stata io e cos’era stata la mia vita prima di entrare in questa base. Restai a tal punto commossa dal vedere quelle foto, che dopo quella lacrima solitaria ne scesero delle altre.
D’un tratto nel mio campo visivo, ancora incollato a quell’istantanea durante una felice giornata estiva a Central Park con la mia famiglia, comparve una mano del ragazzo che mi porgeva un fazzoletto. Lo afferrai tremante e mi ci asciugai gli occhi che, una volta staccati da quelli di mia madre nella foto, si sollevarono fino nei suoi.
-Grazie…- mormorai.
Cole mi sorrise tristemente. –Questi ricordi tu li hai, ma hai sempre cercato di allontanarli… perché?-.
Mi lasciai sfuggire una risatina isterica. –Già, e chi lo sa…-.
-Sai da chi sono state scattate, vero?-.
Annuii mordendomi un labbro.
-E suppongo che tu sappia il perché, vero?- insisté allungandosi verso di me.
Annuii di nuovo, distogliendo lo sguardo da lui e tornando a fissare l’istantanea che avevo tra le mani. –Parlami di mio padre…- mormorai, e lo colsi alla sprovvista. –L’incidente- dissi. –Parlami di come lo conosci…-.
-Mi ero quasi dimenticato di parlartene…- ridacchiò. –Ma lui avrebbe voluto che tu lo sapessi- sospirò. –Quel giorno dell’incidente Walker fece domanda al suo comandante di poter rimpiazzare il suo tiratore, il quale si era giusto indebolito un po’ ma sospettava che fosse contagiato. Tuo padre scelse me, che all’epoca me la cavavo benino con le mitragliatrici d’assalto, ma che non avevo idea di come si funzionasse quella di un elicottero-.
-Eri nell’aeronautica?- domandai.
-No, non proprio…-.
-E allora come…-.
-Scarseggiavamo di uomini, Emily. Il Virus aveva già raggiunto Central Park e inglobato tutta l’area commerciale, nella quale si trovava la nostra base. Era già molto se alcuni di noi respiravano aria pulita, e Alex non migliorava le cose!- sbottò. –Prima di diventare un Angelo da volontario, mi occupavo delle torrette ai posti di blocco sui ponti. Ma ancora prima ero capo cannoniere nella recita scolastica delle elementari. Ero nato per diventare un tiratore scelto, e i miei mi hanno buttato dentro la scuola militare a sedici anni. Ma tornando a tuo padre… come già sapevi, un gruppo di cacciatori ci aspettavano sul tetto di un alveare, e assaltarono l’elicottero di tuo padre in una dozzina. Inesperto, non riuscii a salvare l’elica posteriore che andò in fiamme non appena uno solo di quelle bestiaccie ci si gettò addosso. Tuo padre afferrò il suo paracadute e lo porse a me, e non sapendo che altro fare lo accettai. Tutto questo nell’arco di pochi secondi, e nessuno poté far nulla per salvarlo. Dal tetto del nido, guardai l’elicottero precipitare tra gli edifici e una volta a terra mi fiondai in quella direzione, senza rispondere nemmeno ai comandi dell’ufficiale lì presente, che stava coordinando l’assalto all’alveare con una decina di carri-armati a disposizione. Ho trovato la carcassa dell’abitacolo, una radio non funzionante ma nessuna traccia di tuo padre, ma quando mi accorsi che era sopravvissuto e probabilmente si era allontanato dalla zona, capii effettivamente perché l’avesse fatto. Era precipitato nel fuoco incrociato tra cacciatori e carri corazzati dell’esercito. Da codardo sono fuggito, e non l’ho mai più rivisto; una volta rientrato alla base, ho ascoltato la registrazione inviata da tuo padre pochi minuti dopo lo schianto dell’elicottero. Parlava degli Angeli, e da lì l’idea di unirmi a loro. Da quel giorno ho sempre pensato di aver preso questa scelta per tuo padre, per onorare il suo coraggio. Ma ora basta…- fece un gesto con la mano come scacciando degli altri pensieri. –Torniamo alle questioni più serie…- disse.
Ancora scombussolata da quelle tante parole, Cole non mi diede altro tempo per rifletterci.
-Te la senti di continuare?- mi chiese con calma il capitano porgendomi un’altra foto, una di cui non avevo alcun ricordo, e come risposta l’afferrai e la guardai.
Ritraeva una bambina con dei fanciulleschi capelli neri acconciati a caschetto. La frangetta laterale gli cadeva davanti agli occhi azzurri, nascondendone uno. Il viso tondo, un po’ paffutello, ma invece del sorriso tipico dei bambini che mi aspettavo di trovarvi, intravidi una smorfia di paura sulle sue piccole labbra rosa. Indossava un cappottino rosso e dei pantaloncini jeans, assieme a delle ballerine nere. La foto le era stata scattata da qualcuno o qualcosa che sembrava metterle tutta quella paura che si specchiava nei suoi occhi, mentre sullo sfondo comparivano alcuni uomini vestiti di camici bianchi e altri di tute integrali e asettiche, quasi quella povera bimba nascondesse un virus letale e loro ne dovessero tenere la distanza.
Guardare quella foto mi fece venire un improvviso giramento di testa che sapevo non fosse affatto un buon segno. Mi portai una mano alla tempia, tentando di compensare il dolore che cominciava a premermi in quel punto, mentre una sfilza di flash e immagini mi correvano davanti agli occhi che tenevo chiusi stretti.
-Emily- mi chiamò Cole dandomi uno scossone. –Emily!- disse ancora.
Non avrei resistito allungo, lo sapevo; da un momento all’altro un nuovo doloroso ricordo degli esperimenti che avevano fatto su di me sarebbe tornato a galla, lo sentivo. Lasciai che la foto mi scivolasse via dalla mano finendo a terra, sotto la scrivania.
Il dolore divenne insopportabile, incontenibile, e alla fine cedetti.

È una stanza buia, e nel centro c’è uno spesso lettino di metallo. Il sangue è ovunque sul pavimento e sulle pareti. Tre ombre si muovono nel buio, d’un tratto si accende una luce.
-Dottore, il risultato è negativo- pronuncia una voce di donna.
-Dannazione…- erompe qualcun altro.
-Le abbiamo stimato qualche anno di vita, signore, nel caso la reazione non si manifesti come vogliamo- dice ancora la donna.
Le ombre si spostano, si avvicinano al lettino di metallo sul quale è stesa una bambina, il cui corpo e nascosto sotto una plastica che le fa da coperta.
-La soluzione allora è una soltanto… dobbiamo rimetterla al mondo e aspettare che manifesti qualche sintomo al contagio. Blacklight farà il resto…-.
-Sì signore- dice un’altra voce maschile.
-Dobbiamo assicurarci che i genitori ignorino l’accaduto, e…- la donna sembra preoccupata.
-Lasci stare i suoi parenti, dottoressa!- sbraita l’uomo. –Non abbiamo tempo per queste sciocchezze. Abbiamo una scadenza da rispettare-.
-Lo so signore, ma…-.
-Niente ma. Rimettete la bambina nella civiltà e tenete d’occhio qualunque dei suoi contatti. A cose fatte, dovremo preoccuparci di ben altro-.
-Ovvero- dice l’altro ragazzo –la caccia ad un nuovo paziente, e che questa volta risulti positivo!-.
-Abbiamo già alcuni nomi, ma adesso non ha importanza- sbotta il più anziano.
Le tre ombre si allontanano dalla stanza e la luce si spegne di nuovo; la camera torna avvolta da un manto nero pece, due occhi azzurri brillano nell’oscurità.

Tornai in me poco a poco, accorgendomi di essere completamente appiccicata al capitano Turner, le cui braccia mi circondavano la schiena mentre le mie gli cingevano il collo. Mi lasciai pervadere dal calore del suo corpo, addosso al quale mi ero gettata non appena abbassate le difese all’interno della mia testa. Avvinghiata a lui quasi con le unghie, a cavalcioni sulle sue gambe, come una bambina che ha appena scoperto il mostro nell’armadio, e come tale tremavo impaurita.
Una sua mano premeva sulla mai nuca, accompagnando la mia testa delicatamente poggiata sulla sua spalla. –Emily- mi sussurrò all’orecchio.
Il mio respiro affannato e irregolare pareggiava i battiti col mio cuore in tumulto, che si agitava a tal punto da farmi male contro il torace.
-Emily!- ribadì più presente, e la sua voce improvvisamente più dura mi fece sobbalzare.
Sciolsi la presa delle mie braccia da attorno il suo collo e mi allontanai da lui con violenza, continuando a tremare. Balbettai qualcosa d’incomprensibile con gli occhi gonfi di terrore, e non appena Cole mi colse in quello stato, avrebbe preferito che tornassi ad abbracciarlo.
-Che cosa hai visto?- mi domandò un volta che ritrovai rifugio nell’incavo del suo collo.
-Quello che già… sapevo- ingoiai.
-Cioè?-.
-La Blackwatch…- dissi. –…Hanno voluto loro che tornassi libera… e hanno aspettato che il virus maturasse, ma…-.
-Ma?- insisté lui.
-Ma non è successo…-.
-Questo è quello che pensi- sbottò il ragazzo.
-No. È quello che so- risposi io più sicura di me.
Quella volta mi scostai da lui più dolcemente, tenendo lo sguardo basso e cercando di non pensare alla situazione assurda (e soprattutto alla posizione assurda) nella quale ero incappata. Ma solo cercando di non pensarci, mi ritrovai lo stesso costretta a pensarci e questo presupposto mi diede una scusa per lasciare che, nonostante le circostanze, le mie guance si colorassero non poco.
-Adesso va’- fece più tranquillo. –Martin ti starà ancora aspettando nel suo ufficio-.
-Grazie… per il tuo aiuto- mormorai.
Il ragazzo mi sorrise. –Non ho fatto nulla-.
Mi allungai verso di lui e lo baciai.

«Avevo fatto proprio quello che mi ero prefissa di non fare entrando in quella stanza.
Era stato solo un flebile tocco, quasi una carezza delle mie labbra sulle sue mentre il suo respiro mi sfiorava una guancia. E poi aveva fatto tutto io! Di mia iniziativa, di mia spontanea volontà! E non avevo idea di come avrebbe reagito, di cosa mi avrebbe detto, del modo in cui mi avrebbe rimproverato solamente guardandomi. Insomma… parlandoci chiaro: lui è il capitano, ed io una maledetta matricola capitata nel posto sbagliato al momento sbagliato, per di più pericolosamente infetta! Non avevo scuse, non potevo nascondermi dietro alcun pretesto che non fosse l’alcol e la situazione scassa-crani dalla quale venivo fuori. Ero del tutto sconvolta, frastornata mentalmente dal ricordo passato pochi minuti prima. Una come me non poteva reputarsi sana, in tutti i sensi, e quella era l’eventualità nella quale una come me non sarebbe mai dovuta inciampare.
Le persone come me, come Alex, come Elizabeth… non possono provare questi sentimenti.
A loro non è più concesso fare certe cose, a quelli come loro… mi correggo: come noi… non hanno e mai più avranno la possibilità di vivere come persone normali. Da una parte era interessante, allettante convincersene, perché avevo sempre considerato la mia vita troppo monotona, simile a quella di tutti gli altri, ma del resto una tale mentalità era piuttosto diffusa, comune, ecco. Ma comunque sia, non ebbi affatto il tempo di continuare a torturarmi con certi pensieri, perché qualcuno che credevo di conoscere abbastanza bene, trovò un modo più interessante di trascorrere il resto della serata…»

Feci per allontanarmi, non ricevendo alcuna risposta da lui che era rimasto immobile fino ad allora, fissando il vuoto dritto di fronte a sé. Mi ero ormai quasi convinta che quello fosse un suo modo di rifiutarmi, di rimproverarmi, come dicevo io, ma invece, proprio nell’istante in cui provai a scendere dalle sue gambe tornando composta sulle mie, sentii le sue dita stringersi attorno al mio polso.
Voltai di un quarto la testa e mi accorsi che anche lui si era alzato, e che mi guardava dall’alto con un brillio anomalo negli occhi che non seppi distinguere.
Si chinò alla mia altezza avvicinandomi a sé e un suo braccio girò attorno alla mia vita.
Il suo fiato bollente mi s’infranse sulla pelle sensibile del collo, socchiusi gli occhi del tutto inebriata del suo profumo e lo lasciai giocare col mio corpo per quanto lo desiderasse.
Lambì delicatamente la pelle della mia schiena, portando una mano sotto il tessuto della camicetta. Nascosi l’imbarazzo della situazione chiudendo gli occhi e abbassando la testa, così che i capelli mi ricadessero davanti al viso nascondendo il colorito intuibile non solo delle mie guance, ma del volto in generale.
Guardai a terra, dandomi un solo motivo in più per maledirmi di quello che stavo facendo, per rimpiangere ogni mia azione commessa negli ultimi cinque minuti.
Cole mi sollevò il mento e incatenò ogni mio altro pensiero all’interno del mio corpo, sigillando l’ingresso sul mio viso con un bacio dolce e sereno, quasi potessi sentirlo sorridere mentre le nostre labbra si toccavano.
Quel gesto cambiò del tutto la mia prospettiva, così trovai il coraggio necessario per sollevare i lembi della sua maglietta e spogliarlo del tutto di quell’indumento, che lasciai scivolare dalle mie mani dimezzando la distanza che ancora ci separava.
Saggiai la solidità dei suoi muscoli circondandomi del suo calore, del suo profumo. Lo costrinsi ad indietreggiare, fin quando non si trovò intrappolato tra il mio corpo e il tavolo. Con un movimento svelto gettò a terra tutto il materiale su esso risposto: i miei documenti, i certificati medici, le fotografie mie e dei miei familiari svolazzarono per la stanza sonoramente andando a posarsi sulla moquette. Dopo aver fatto un po’ di spazio, le sue mani tornarono a lambire il mio corpo, sempre più in basso. Arrivato poco sotto le natiche, mi sollevò da terra facendomi sedere sulla scrivania e sistemandosi tra le mie gambe. Approfondì il bacio, con un tale trasporto che mi diede i giramenti di testa. Gli circondai il collo con le braccia e affondai le mani nei suoi capelli, mentre serravo le ginocchia attorno ai suoi fianchi attirandolo minuziosamente verso di me.
Mi sbottonai da sola il primo bottone della camicetta, ma cedei a Cole l’onore degli altri sei. Lasciai correre ogni cosa, dando una giustificazione, una scusa ad ogni mio gesto e pensiero; nonostante mi risultasse molto difficile “pensare” in un’occasione simile.
D’un tratto lo sentii esitare, sopprimendo poco a poco il vortice di sensazioni ed emozioni che trasmettevano ad entrambi il desiderio di andare avanti. Allontanò le sue labbra dalle mie e si appoggiò con i pugni stretti sul tavolo; alzò lo sguardo e cercò il mio.
-Lewis ti sta aspettando- mormorò improvvisamente serio come se mi stesse dando un ordine. –Non è il caso- scosse la testa guardando a terra.
Lo fulminai con un’occhiataccia gelida. –Al Diavolo Martin, Alex e la Blackwatch- sbottai.
Il ragazzo inarcò un sopracciglio, ma prima che potesse aggiungere altro mi avventai su di lui serrandogli la bocca con un altro bacio.
La sua presa sui miei fianchi si fece più salda, e senza troppa difficoltà mi alzò dal tavolo, si voltò e lasciò che cadessimo entrambi sul letto.
Cinque minuti cambiano la vita delle persone…
Disse una volta qualcuno, ed io mi ero appena giocata i miei.
















Hmm, lo ammetto! Non ero tanto sicura di far succedere questa “cosa” tra Cole ed Emily, ma siccome voglio drammatizzare il futuro (big spoiler °-°) mi serviva che accadesse. Perciò, non disperate se può sembrarvi insensata e stupida come cosa! Cole Turner in questa storia uno scopo ce l’ha, e ho già scelto di quale si tratta.
Però ora passiamo ai fatti:

*****
Link:
Ecco qualche immagine di Emily
Elaborata da me per voi su carta
Durante la vacanza in Grecia! ^-^
Emily 1
Emily 2
Emily 3
Non sono un granché come artista,
ma trovo divertente raffigurare i personaggi delle ff! XD
*****



Vediamo se riesco a postare un altro capitolo già sta sera! XD

X Saphy: qui c’è il Link al vestito di Margaret della tua FF sua AC come lo immaginavo. Ovviamente è solo una bozza e anche solo una parte; l'ho dovuto rifare, l'originale è andato perduto prima che facessi in tempo a fotografarlo! Spero che ti piaccia e di averci azzeccato, almeno con il collo a V e le maniche nere! XD *-* ------> LINK

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Capitolo 15
*** Capitolo 15° - Rifiutate richieste d'aiuto ***


Capitolo 15° - Rifiutate richieste d’aiuto

Giorno dell’infezione 408°
Popolazione mondiale infetta: 09,32%


«Si tratta dello stesso confine che ho varcato ben due volte nelle ultime settimane, ed è segnalato da blocchi militari, armati di torrette, piazzati sui ponti principali della città. Attrezzati di segnalatori, missili termici e quant’altro, restano tutt’ora piazzamenti voluti dal Governo del tutto inutili, gestiti da gente davvero deficiente che di qui a 365 giorni fa ha permesso che gli infetti transitassero, chissà come, fuori dall’isola…
Per farla breve, è un anno che il Virus miete vittime fuori da Manhattan, e quei maledetti piazzamenti militari ancora vietano il transito ai poveri sfollati che cercando di abbandonare quest’Inferno desolato. Perché non si arrendono? Perché non lasciano fuggire gli ultimi sani dall’isola e concentrano le loro forze altrove?! Perché continuare a perseguire una causa che non esiste, perché?!
È un anno che il Virus ha sbarcato sulla costa est.
È un anno che il la Russia e il Giappone registrano un numero sempre crescente di casi infetti.
Ma è sempre un anno che il settore Angels del progetto Gabriel mi da la caccia.
Sciocchi.
Gli ho visti partire, tre settimane fa: grossi stormi di uomini e donne alati che puntavano verso sud, ad un’altezza di forse un centinaio di metri ed una velocità impressionante.
È stato quel vedere a far nascere in me la bastarda curiosità di indagare.
Inutile continuare a nascondermi dove è situata la loro base, cosa che ho sempre saputo ma sempre ignorato per mancanza di tempo. Finalmente, però, il tempo e il pretesto per ficcare il naso nei loro sporchi affari l’ho trovato, scoprendo anche parecchie cose interessanti.
Un contatto all’interno della loro azienda sa più cose che io non so sul progetto Blackwatch. Sembra che qualcosa sia andato per il verso giusto (barra) sbagliato in uno dei primi esperimenti segreti. Accanto ad Elizabeth, la Gentek ha sfornato qualcun altro che però nel corso degli anni non ha manifestato la reazione al Virus che tanto si desiderava.
Lo stesso agente del virus che scorre nelle mie vene sembra averlo qualcun altro. Ma questo qualcuno è vissuto del tutto nell’anonimato, sotto sorveglianza continua della Blackwatch in attesa dei primi sintomi al trattamento.
Mi sono lasciato sfuggire l’unico dal quale avrei potuto scoprire qualcos’altro: un nome che ho sentito pronunciare da quella ragazza… Lewis Martin. Un’altra volta, quel bastardo dovrà vedersela con me.
Ma comunque, assorbito o no, continuo oggi a pagare il prezzo dei miei sbagli. Percepisco oggi il peso dei miei errori. Assaporo il sapore amaro della sconfitta, dell’ignoranza, della resa. Ed ora…
Non ho né un volto, né un profumo, né un nome. Non ho assorbito nessuno che sappia dirmi qualcosa di utile, e forse l’unica persona che mi sono lasciato indietro è stata quell’Angelo alla quale ho risparmiato la vita, come uno sciocco.
Pietà.
Può dirsi questo un sentimento umano? Forse, perché seppur con poche probabilità che emerga, qualcosa di umano in me ce l’hanno lasciato.
Il Blacklight… questo nome non mi è mai piaciuto, e giuro che sono involontari i brividi lungo la spina dorsale che sento al solo pronunciarlo. Se non fosse per quella cerchia di pazzi che un giorno decisero di fare un po’ di casino nel mondo, ora non sarei qui, ma molto probabilmente lontano da questa merda di prigione che è la mia testa, vuota di ricordi e abbondante di rabbia! La Gentek può dichiararsi fuori combattimento, il Paziente Zero non è più un problema; i mali peggiori della mia vita forse sono risolti… già, forse! Ma ogni nemico che anniento, il Governo Americano riesce a mettere le mani su qualcosa che ne sforna altri due.
All’inizio ero già certo che quel gruppo di esseri scelti e geneticamente modificati fossero nati per darmi la caccia. Molti di loro già mi intralciavano quando ancora seguivo l’ombra di Elizabeth Greene, e la quantità di mosche che mi danno fastidio è aumentata da ieri ad oggi, ma solo ultimamente si è strettamente dimezzata per via di questi raduni di massa fuori dal continente.
Le mie ricerche mi hanno condotto fuori dall’Isola. Katrine è morta 13 mesi fa; Regland e Dana sono scomparsi. Cerco la mia vendetta, la mia redenzione, ma questa volta più motivato e disperato di prima. Sono a caccia di chi sta ancora tentando di intralciarmi. A caccia di chi mi sta rendendo debole, privo di morale. A caccia di chi mi ha tolto quel poco di umano che restava in me, quel poco di amore che serbavo per ciò che resta della mia famiglia…
Finalmente so chi sto cercando e chi mi ha fatto questo, finalmente ho capito! E sono stufo di provare compassione per quei bastardi. Gli Angeli non sono affatto un problema: trascurabili, deboli insettini che si spiaccicano sul parabrezza della mia auto. Aspetterò che vengano da me, che la mia trappola sia quella vincente. Come mosche si fulmineranno e cadranno verso il cemento di strade distrutte e palazzi in fiamme.
Ma sento che qualcosa mi sfugge, che sto dimenticando un particolare di vitale importanza, e questo mi manda in bestia!
Molto nel profondo delle strade di questa città, sotto a tutto…
Sotto a macerie di palazzi, sotto canali puzzolenti e fogne intasate di Virus e abitate da profughi…
Sotto ad ogni mia presunzione, ad ogni mio grande timore, ad ogni mio sbaglio…
Sotto a tutta questa merda che è ora la mia vita, c’è qualcuno che mi sta rallentando; qualcuno di cui devo sbarazzarmi al più presto, qualcuno che sta tentando di fermarmi, di uccidermi…
È qualcuno nato con il solo scopo di farlo.
Ed io lo troverò.
Ma per vincere questa battaglia ho bisogno dell’aiuto di un amico.
L’aria qui è putrida del Virus: compatta, quasi pastosa. Alcuni residui del Bloodtox persistono mescolati al raro ossigeno. Il cielo è nascosto dietro una coltre di nuvole basse e gassose, di un colore innaturale simile al rosa salmone, che alla luce lunare di una notte senza stelle paiono uno spento ammasso rosso porpora. Così cala la sera nelle aree nord-occidentali dell’isola di Manhattan, dove il sole all’orizzonte si nasconde pigro ma svelto dietro i grattacieli della sana costa ovest, quella porzione di terra oltre il fiume e fuori dal confine di contenimento.
Le attività portuali di questa zona sono immobili da più di un anno. Un anno di detriti di cantieri navali e vecchi magazzini, un anno di confusione e paura in mezzo ai profughi ancora sani che si sono accampati sotto questi vecchi tetti arrugginiti, dove non sono più solo.»

Mi avvicinai ad uno degli antichi cantieri, mi calai abile giù da una parete e atterrai silenzioso sulla terrazza di cemento, al centro della quale c’era un grosso lucernario. Mi ci tuffai all’interno e, piegando le ginocchia, fui nel centro dell’ampia sala senza pareti.
Mi nascosi nell’ombra di uno spesso pilastro, attesi che fossero passati i due agenti militari che avevo fiutato, poi, silenzioso, mi avvicinai alle loro spalle e affondai entrambi i pugni nelle loro schiene. Non ebbero neppure il tempo di gridare, solo un lamento strozzato e il suono delle loro armi che scivolarono via dalla loro presa, finendo a terra sull’asfalto polveroso.
Li assorbii entrambi in pochi secondi, e già mi sentivo molto meglio, più forte e rigenerato di quanto non lo fossi stato un minuto prima.
Rimasi immobile nel centro dello spiazzo, esattamente sotto il lucernario dal quale ero entrato. Mi guardai attorno con vigili occhiate, senza voltare neppure la testa. E ancora aspettai.
Poi un suono, e qualcuno si trascinò pesantemente in piedi alzando della polvere poco distante da me. Sorrisi e andai nella sua direzione.
Il vecchio ubriacone sollevò un lembo dello scatolone nel quale era nascosto e alzò gli occhi verso di me. In mano, tra le dita sporche e il tessuto di ciò che resta dei suoi guanti, ancora stringeva una vecchia bottiglia di vodka. –Temevamo che non saresti mai tornato, grande eroe- sussurrò lui.

«In questo rudere mi chiamato tutti “grande eroe”. Per loro non sono chi ha fatto tutto questo, ma bensì rappresento chi sta combattendo per fermarlo. Parlo del Virus, e di come la Gentek si sia approfittata di me e delle scoperte mediche risvolte nel progetto dei Blackwatch traendo da entrambi solo vantaggi. È stato un breve periodo di baldoria, per quell’agenzia: poi sono arrivato io e ho fatto un po’ di casino.
I profughi che vivono in capanne di lamina di metallo sotto il tetto di questo vecchio cantiere, sono i miei unici veri amici, ma sarebbe meglio dire alleati, compreso il mezzo cieco che ho davanti.
Come lui, in questo putrido stato ce ne sono a centinaia, e abitano tutta questa zona del porto di Manhattan. Una zona poco controllata da militari, poco gestita e abbandonata a sé stessa dopo che le immissioni del Blootox hanno fatto il loro dovere.»

Non appena gli porsi una mano, l’uomo si aggrappò di peso al mio braccio, ed io lo tirai su senza fatica.
-Grazie per aver fottuto quei figli di puttana!- ridacchiò in piedi traballante. –Stavano per scoprirci-.
-Manderanno altre pattuglie- dissi io seriamente, facendo balenare i miei occhi argentati nell’ombra del cappuccio che mi celava il volto. –E potrei non arrivare in tempo la prossima volta-.
-Oh, Alex, cosa faremmo senza il tuo aiuto?!- esultò stringendomi riconoscente la mano.
-Non sono qui per salutare- sbottai fulminandolo con un’occhiata gelida. –Devo vedere Max-.
L’uomo restò un attimo interdetto dalle mie parole, e tentò invano di studiare le mie intenzioni osservando l’espressione contegnosa sotto il cappuccio.
Dopo poco si arrese dicendo: -Va bene! Vieni, ma fa’ silenzio. Qui la gente dorme…- borbottò avviandosi verso una fragile scaletta a chiocciola che saliva fino ad un piano superiore improvvisato su alcune travi di legno e cemento.
Lo seguii stando ben attento alle tende dei profughi che incontravo sul mio cammino, e non appena fui ai piedi della scala, cominciai a salirla gradino dopo gradino.
Chissà quand’è stata l’ultima volta che ho salito una scala in modo normale… Mi chiesi, ricordando di preferire la via più rapida delle pareti o dell’aria per spostarmi da un piano all’altro di un edificio.
Una volta al secondo piano del cantiere navale abbandonato, il vecchio ubriacone mi fece strada fino in fondo, attraverso altre tende di profughi impegnati in quell’ora della notte in un sogno poco tranquillo.
La passerella di cemento e travi di legno finiva, e proprio negli ultimi due metri di tragitto sorgeva una normalissima tenda fatta di stracci e colorata di diverse toppe. Dall’interno proveniva un leggero chiarore di una lampada accesa, accompagnato ad un chiacchiericcio di due voci che sussurrano un discorso articolato e motivato.
Prima che potessi anche solo avvicinarmi, dall’ingresso della “reggia” emerse una ragazza dai capelli castano-biondi raccolti in una coda alta. I comuni vestiti appositamente strappati in vari punti per renderli più comodi. Non appena mi fu accanto e dopo avermi riconosciuto, mi volse un flebile e sincero sorriso come saluto.
Ero lì lì per ricambiarla, ma preferii restare a capo chino fin quando non si fu allontanata abbastanza. La sentii proseguire sulla passerella, ricordandomi di ciò che gli avevo visto in mano: un kit medico ed una siringa nell’altra.
-Avanti, entra- mi riscosse dai miei pensieri il guardiano ubriaco.
Mi avvicinai alla tenda, scostai un lembo di questa e mi chinai per entrare.
L’interno era stretto, ridotto allo spazio necessario per tenere un comodino di legno mangiucchiato dagli insetti, qualche cartella medica sparsa qua e là sul pavimento coperto di vecchi tappeti, dei cuscini sporchi di sangue. Il tutto illuminato da una lampada attaccata ad una prolunga che pendeva dal soffitto. Vidi delle provette contenenti strani liquidi rossastri sistemate con disordine su una mensola piantata sulla parete di fondo. C’era inoltre una piccola branda sulla sinistra ed un mobile a cassetti sulla destra.
Catturò subito la mia attenzione la stretta gabbia di metallo adagiata sopra una bassa libreria. Al suo interno, dietro le sbarre, colsi solo l’ombra di quello che mi parvero una coppia di uccelli neri e col becco nascosto nelle piume del petto; due spennate Corvi dormivano rannicchiate in quella posa, l’una attaccata all’altra riscaldandosi a vicenda in quella fredda nottata di silenzio.
Distolsi lo sguardo, ma non perché mi sentissi scaldare il cuore da quella visione, bensì perché a far correre il mio sguardo altrove fu il rumore di un vetro che andava in frantumi.
-Dannazione!- un uomo che riconobbi subito, soprattutto per via del camice bianco sbrindellato e consumato che indossava, si chinò a raccogliere i frammenti di vetro da terra, stando ben attento a non toccare con le dita nude il liquido che vi si era liberato.

«Si chiama Max, ma qui dentro è conosciuto come il “Corvo” perché quand’era bambino aveva un intero allevamento di quelle bestiacce, ed ora ne tiene due anche nella sua tenda. Sulla cinquantina. I capelli grigi raccolti disordinatamente, molto alla Beethowen. Gli occhialetti nascosti tra una ciocca e un’altra, la barba lasciata crescere.
È a questo barbone che devo la mia vita.
Ci siamo conosciuti qualche giorno dopo che gli ho assorbito uno dei suoi uccelli (lo stesso giorno in cui mi sono sbarazzato della bomba nucleare e del capo cacciatore). C’è rimasto talmente male, che all’inizio neppure mi rivolgeva la parola, ma poi è successo una specie di miracolo, ad entrambi.
Prima dell’avvento del Virus, Max era un uomo normale come tutti i profughi nascosti in questo capanno. Un tempo aveva una famiglia, una moglie, due figlie. Quando è iniziata l’Apocalisse, un bombardamento militare ha colpito la sua casa che aveva in una zona di Manhattan che fu la prima ad essere recintata e assoggettata dai militari. Sua moglie morì sul colpo, ma lui e le sue figlie riuscirono a lasciare il quartiere prima di rimetterci le penne.
La più piccola, Susan di quattordici anni, venne contagiata e il Virus prese una brutta piega in lei; non appena Max lo capì, preferì sopprimerla piuttosto che vederla in quello stato tipo zombie girovagando ignobile e assetata di sangue per la città. Qualche settimana più tardi, la maggiore, Lisa ormai diciannovenne, si staccò da suo padre a causa di un gruppo di agenti militari che pattugliavano le strade; esattamente come i due che ho ammazzato prima. Non la uccisero, ma non voglio neppure pensare cosa le fecero. Fortunatamente la ragazza riuscì a fuggire, divenne autonoma a Manhattan senza riunirsi al padre per diversi mesi, e Max non ebbe più sue notizie.
Fu in quel periodo, quando Corvo girovagava da solo per l’isola ed io ero ancora a caccia del mio passato, che lo incontrai raccontandogli di come il suo uccello mi avesse salvato la vita. Lui ascoltò la mia storia, ed io ascoltai la sua, mentre, rifugiato in un palazzo distrutto dai bombardamenti, già raggruppava le speranze di poter lasciare l’isola. Il suo campo profughi cresceva, ma fu la sua laurea in medicina a darmi un’ottima scusa per tornare a trovarlo quasi tutte le sere. In un qualche modo era riuscito a sostituire Regland, il quale poco tempo prima l’avevo del tutto dato disperso assieme a mia sorella. Fu una mano santa poter ricevere il suo aiuto per continuare a gestire i miei poteri, dei quali sembrava intendersi non poco. Ovviamente a lui non dissi nulla del loro rapimento, e il nostro rapporto continuò ad essere sempre professionale, legato soprattutto da un patto di sopravvivenza.
Io assicuravo a lui e il suo campo profughi sano una trasferta sicura e priva di pattuglie militari, nonché una barca clandestina fino alla costa ovest, e lui mi prestava il dovuto supporto medico.
La mia vita prese una piega differente giusto una settimana fa.
Lisa rischiò grosso durante una sera, quando un gruppo di cacciatori l’aggredirono mentre cercava delle provviste per il gruppo profughi sani che lei aveva messo su da sola, qualche mese dopo essere fuggita dai militari e aver perso suo padre di vista.
Passavo da quelle parti.
Ho sentito le grida.
L’ho salvata.
Non ha voluto dirmi il suo nome, ma ferita l’ho portata da Corvo che l’ha riconosciuta subito. Da allora Max è diventato l’esatto opposto dell’uomo che avevo sempre considerato solo un appiglio per la mia malattia. Dopo aver rivisto sua figlia ed essersi reso conto che io non avevo fatto altro che portargli buone novelle, mi ha preso in simpatia come membro del suo campo.
In questo punto della storia è nata la nostra amicizia, basata non più sul patto che sigillammo quella notte che ci conoscemmo per le strade di Manhattan, ma bensì un sentimento che ci accomuna sotto un solo tetto: la speranza.
Da allora gli ho sempre prestato il mio corpo per dirigere i suoi esperimenti, e la sua indagine sul Virus Blacklight spero che un giorno lo conduca ad una cura. Se non lui, so che nel mondo esistono persone che già conoscono quell’antidoto, ma probabilmente sono fuori dalla mia portata.
Mi sono arreso a questa convinzione stabilendo in me nuovi ideali. Vado e sempre andrò a caccia del mio passato; continuerò a correre dietro chi mi ha fatto questo e sta contribuendo a farlo continuare, perché sono sicuro al cento per cento che qualcuno che se la passa meglio degli altri c’è, e deve pagare per quello che ha fatto a questa gente, alla gente che ancora patisce quest’Inferno rinchiusa dentro un’Isola che d’infetto ormai ha solo l’aria.
Ma soprattutto…
Deve pagare per avermi portato via mia sorella.»

Era talmente preso dal suo lavoro, che non si accorse di me neppure quando mi passò affianco per raggiungere uno scaffale alla mia destra. Afferrò un libro e cominciò a sfogliarne delle pagine tutto concentrato.
Mi lasciai sfuggire un sorriso quando adocchiai che cosa stava leggendo: era uno dei suoi diari, nei quali appuntava generalmente tutte le possibili mutazioni ed effetti che il Virus aveva su un essere umano. Annotazioni che si curava personalmente di prendere soprattutto quando uno dei profughi ospiti nel suo campo prendeva l’infezione.
A farmi ridacchiare in quel modo fu il fatto che fosse così di fretta, e che avessi visto sua figlia uscire dalla sua tenda con quella siringa nella mano.
Scossi la testa guardando a terra. –Quando la finirai di sopprimere i tuoi pazienti come animali?- feci allegro.
L’uomo si lasciò sfuggire di mano il libro per la sorpresa. –Dannazione, Alex!- sbraitò. –Mi hai fatto prendere un accidenti- blaterò chinandosi a raccogliere il volume.
-Dovresti indossarli ogni tanto quegli occhiali- lo derisi.
-Smettila di burlarti della mia vecchiaia, e dimmi perché sei qui!- sibilò abbassando la voce. –Oggi è stata una giornata infernale! E non ho affatto del tempo da dedicarti, mi spiace-.
-È per il Virus?- domandai tornando serio.
Il vecchio ripose il libro sullo scaffale, assieme agli altri. –Sì- pronunciò passandosi una mano in volto. –Ho mandato Lisa ad occuparsene, ma forse non avrei dovuto…- mormorò.
-È un bene che quella ragazza ti dia una mano- dissi invece io.
-Sì, sì! Lo so!- fece esasperato alzando gli occhi al cielo. –Ma già detesta doversela vedere con i portatori malati fuori dal campo!- indicò l’esterno. –Figuriamoci quelli che sviluppano dentro il gruppo…- borbottò.
Restai interdetto da quelle parole. –Cosa…?!- domandai stupito.
-Hai sentito bene- mi fulminò con un’occhiataccia. –Si stanno manifestando sempre più spesso, e non c’è nulla che possa fare- scosse la testa. –Ho provato a rallentare i sintomi, ad alleviare il dolore, ma non ho nulla tra le mani che possa fare altrimenti!-.
-Calma- lo rassicurai calandomi il cappuccio sulle spalle. –Prima stavo scherzando…- dissi. –Non pensavo che dovessi davvero sopprimerli come… animali- assentii flebile.
Casi di contagio si stavano manifestando all’interno del campo che Max e sua figlia avevano messo su affinché riuscissi a trovar loro un modo per lasciare l’isola; ma lo stretto contatto tra un individuo e l’altro, la scarsa igiene e prevenzione stava aumentando drasticamente le percentuali. E così Max si trovava in mano la responsabilità di dover spegnere la vita altrui prima che il Virus assumesse una forma sia negativa che positiva.
-Non potevi saperlo, però sono costretto, Alex. Se almeno vogliamo portare fuori di qui una piccola percentuale di noi, sono costretto a non tollerare nessuno- dichiarò sicuro di sé.
Lo guardai allungo negli occhi, e lui fece altrettanto. –E se Lisa…-.
-Non devi neppure pensarlo!- sbottò fissandomi in cagnesco. –Porteresti solo sfortuna…- si massaggiò la fronte andando a sedersi sul letto. –Tengo troppo alla mia bambina, non so se sarei capace di fare a lei quello che ho fatto alla sua sorellina e quello che faccio tutt’ora alla mia numerosa famiglia…- spalancò le braccia. –Capisci?- guardò me. -Non posso concedere il tempo al Virus di svilupparsi, non posso dare al paziente il tempo di scoprire se si tratta di un portatore sano o malato perché nel frattempo contagerebbe gli altri. Da quando si sono manifestati i primi casi, eseguo esami ogni 12 ore…- mormorò afflitto. –Ma non è sufficiente…- si portò le mani al volto, nascondendolo dietro di esse.
Rimasi in piedi nel centro della tenda, osservando quanto negli ultimi giorni, durante la mia breve assenza, quell’uomo si fosse distrutto l’anima.
-Ma cambiando argomento- sorrise affabile guardando verso di me. –Perché sei qui di quest’ora?- mi chiese più tranquillo.
Ancora una volta mi stupii di come riuscisse ad isolare ogni suo turbamento restando sempre concentrato sul prossimo.
-Mi serve il tuo aiuto- dissi.
-Come sempre!- rise il vecchio alzandosi e sistemandosi di fronte a me. –Cosa posso fare per te, ragazzo?- domandò sorridente stringendomi le spalle.
Lo guardai allungo negli occhi, attendendo che in parte riuscisse ad intuire il casino che avevo fatto.
Lentamente perse la compostezza che aveva, trasformando il suo sorriso affabile in una smorfia. –Che cosa hai combinato ‘sta volta?- chiese preoccupato e arrabbiato.
-Io? Io nulla- mi strinsi nelle spalle.
-E allora avanti, parla-.
-Hanno preso Regland- sbottai. -…E Dana- conclusi.
Il vecchio sbiancò all’improvviso. –Oh Santa la Miseria…- ma si riprese in fretta: -Dannazione, Alex! Te l’avevo detto che avresti dovuto portarli da me! Tutta Manhattan ormai è una zona rischiosa dove stare! Ma almeno qui avremmo potuto proteggere tua sorella meglio di quel vecchio cane!-.
Affondai il mento nel petto. –Già, ben detto…-.
-Quando?-.
-Non lo so con esattezza…- scossi la testa. –Quando sono tornato allo studio questa notte, l’ho trovato sotto sopra, e ho ricavato qualche informazione da un militare mezzo morto che ho sorpreso ancora vivo ma con un coltello piantato nel petto. Da allora non ho fatto altro che cercare, cercare, cercare…- feci una pausa. –E adesso sono qui-.
-Perché non sei venuto subito da me?! Se hanno Dana con sé, chiunque siano, vogliono tenderti sicuramente una trappola! Sciocco, non devi andartene in giro così come hai fatto fino ad un anno fa! Ora le armi per annientarti ce le hanno, dannazione!-.
-Lo so!-.
Corvo sospirò. –Hai scoperto almeno chi c’è sotto?- si passò le mani in volto.
-La Blackwatch. Sono ancora attivi, da qualche parte…- sibilai.
-No, ti sbagli- scosse la testa. –Quelli lì hanno rinunciato a riprendere le redini su di, Alex. Dev’esserci qualcun altro…- blaterò.
-Chi se non la Blackwatch, gli Angeli?- ipotizzai.
-Mah, è altamente improbabile-.
-E come fai a dirlo?- insistei. –Smettila di difendere quei bastardi. Ora che tenteranno di uccidermi, dovresti essere contento!- eruppi.
Max mi fulminò con un’occhiataccia. –Quella gente fa un onesto lavoro di pulizia della città almeno quanto te. Ho saputo che alcuni di loro sono partiti per l’Europa, Alex. Sono dei bravi ragazzi- annuì.
-Non esserne così convinto!- ringhiai. –È vero, alcuni di loro sono partiti per l’Europa, ma non vuol dire un accidenti. Non fanno beneficenza, è tutto nei loro interessi! Sono stato dall’altra parte della costa, e lì ho scoperto delle cose sconvolgenti, Max! Dietro il progetto “Gabriel” si cela la Blackwatch, qualcuno tra loro è come me e non ha altro scopo se non eliminarmi! E adesso so che sono stati gli Angeli!-.
-Aspetta un attimo…- m’interruppe.
-Che c’è?!-.
-Come sai tutte queste cose?- mi chiese truce.
Alzai gli occhi al cielo esasperato. –Ho varcato il confine, ma…-.
Il vecchio sbiancò dalla rabbia. –Tu che cosa hai fatto?!-.
-Hai sentito bene..- ridacchiai.
-Non farmi il verso, ragazzino- mi rimproverò. –E spiegami bene: quando, dove, perché!?- sembrava fuori di sé. –Hai varcato il confine! Ti rendi conto?! Ora è il minimo che ti diano la caccia! La colpa dell’espansione del Virus ricadrà su di te, e gli Angeli ti staranno addosso come le api al miele!-.
-Forse non avrei dovuto dirtelo- mi voltai e feci per uscire della tenda, ma l’uomo mi afferrò per il cappuccio tirandomi indietro.
-Scordatelo che tu vada a raccontare le tue pene a qualcuno che non sono io, Mercer- eruppe scontroso. –Starò ad ascoltarti, se è quello che vuoi, ma non puoi vietarmi di rinfacciarti quanto tu sia un totale idiota!-.
Mi voltai di colpo, e involontariamente tramutai una parte del mio braccio. –No ho bisogno che me lo ricordi…- serrai la mascella.
-Adesso calmati- mi diede una leggera spinta. –Non sei nella condizione di minacciarmi-.
-Perché?! Come fai a dirlo?!- mi avvicinai a lui e quasi lo sovrastavo in altezza, nel frattempo che le cinque dita della mia mano tramutavano in qualcosa di più appuntito e letale. –Come fai ad essere così sicuro che da un momento all’altro ti tagli la testa, razza di…-.
-Perché non lo vuoi- fece un minuzioso sorriso stringendosi nelle spalle. –O non saresti venuto fin quaggiù a chiedermi aiuto- ridacchiò sistemandosi gli occhialetti.
Cedetti del tutto alle sue parole, tranquillizzando il mio animo e di conseguenza il mio corpo. –Grazie…- mormorai poi. –Perdonami, non so che cosa mi sia preso-.
-Oh, invece io lo so bene- si beffò il vecchio dandomi le spalle.
-E sarebbe?- feci spazientito.
-Il motivo del tuo turbamento, a parte il fatto che sei uscito dall’isola, sta per entrare nella mia tenda- rise sotto i baffi il vecchio Corvo.
Mi voltai a guardare l’ingresso della “reggia” di Max, e mi accorsi in tempo di una figura che scostava un lembo della tenda entrando per metà.
-Papà, ho fatto tutto…- la ragazza s’interruppe non appena si accorse della mia presenza. -…Alex- mormorò, e inevitabile fu che le sue guance si colorassero di un rosa più intenso.
-Lisa, vieni avanti- la chiamò Max dal fondo della tenda. –E vedi se riesci a pulire il pastrocchio che ha fatto il tuo vecchio, ecco proprio qui a terra- indicò il punto in cui si era frantumata la fiala.
La ragazza distolse violentemente i suoi occhi dai miei, e si avviò verso il suo compito. Prese una pezza da un mobile e si chinò ad asciugare l’impiastro rosso che si era rovesciato sul cemento, evitando fortunatamente parte dei tappeti.
La mia occhiata si allungò oltre il dovuto, attratta a tal punto da poter scorgere nel dettaglio un motivo tribale tatuato nella parte più bassa della sua schiena, dove la maglia che indossava non arrivava a coprire prima della cinta dei pantaloncini.
Non appena ebbe finito di pulire, la ragazza si apprestò a lasciar la tenda, schizzando fuori come una molla e con le guance ancora rosse. –Buona notte- ci salutò entrambi, ma il suo sguardo timido e succube sfuggì lesto al mio.
-Alex, per favore!- ridacchiò il vecchio. –Si tratta pur sempre di mia figlia…-.
-Che ho fatto?- sorrisi poco sincero.
Corvo afferrò uno dei suoi diari da completare e si mise a scribacchiarci sopra qualche appunto. –Se posso dire la mia sulla faccenda- m’insospettii già a sentirgli pronunciare quelle parole. –Tu le piaci- mi disse sotto voce.
-Possiamo cambiare discorso?- digrignai.
-Come padre, sto ancora cercando di comprendere se lei piace a te- fece tranquillo.
Alzai gli occhi al cielo con modo esasperato. Dopotutto non era la prima volta che tirava in ballo l’argomento. –Perché la cosa non ti preoccupa? “Come padre” hai il dovere di proteggerla da quelli come me, non di incoraggiarla!- sbottai, perché la questione cominciava a darmi di nuovo, come tutte le volte, un poco sui nervi.
-Almeno lei ti piace?-.
-Max!-.
-Ti capisco- richiuse lentamente il taccuino che stava scribacchiando e si tolse gli occhiali. –Capisco quello che provi, e il fatto che tu ti senta diverso, pericoloso, da tenere lontano, dal quale prendere delle cosiddette distanze di sicurezza- mi disse sinceramente. –Ma devi anche convincerti di poter essere normale anche così come sei, Alex. Cambiare forma, assorbire le persone… tutto ciò che fai sai che non ti servirà a nulla, che qualunque cosa tu scopra ti riporterà sempre al punto di inizio. La caccia al tuo passato che hai intrapreso ti sta portando solo più lontano dal tuo obbiettivo-.
-E qual è il mio obbiettivo, sentiamo!-.
-La normalità-.
-Posso essere normale. Quando voglio. E ora quello non è più il mio obbiettivo. Ho accettato ciò che sono, e proprio grazie a ciò che sono troverò chi mia ha portato via Dana- digrignai.
-Trovare chi ha Dana con sé è un obbiettivo secondario, Alex. Tu cerchi ancora la normalità, ed è quello che hai sempre cercato, quello per cui hai sacrificato te stesso. Anche inconsciamente, Alex…- sussurrò profetico.
-Che vecchio pazzo…- blaterai.
-Normale non vuol dire indossare camicia e pantaloni- mi riprese. –Ma bensì sentirsi chi ci si sente davvero di essere. Sé stessi, capisci? Né altri, né ciò in cui gli altri ci hanno trasformato. Sei talmente preso dalla tua ricerca, dal tuo malsano obbiettivo di vendetta, che hai dimenticato chi sei-.
-LORO mi hanno fatto dimenticare chi sono! È colpa loro! Dei Blackwatch, della Gentek!- sbraitai.
-No, ti sbagli ancora- scosse la testa, continuando a scrivere sul suo diarietto di bordo. –Pensi che siano stati loro a renderti così, ma ti sbagli, Alex. Sei stato tu a volerlo-.
-Pazzo, di cosa parli?!- cominciai ad alzare la voce, e questo gli diede molto fastidio.
Corvo corrugò la fronte e mi guardò in modo storto, arrabbiato così come lo stavo diventando io. –Fin ora hai vissuto nella costante convinzione che qualcun altro ti abbia reso ciò che sei, ma invece ti sbagli. È stata la tua collera, la tua rabbia, la tua vendetta a renderti il mostro, l’assassino, il terrorista che dici di essere-.
-‘Sta zitto…- inclinai la testa da un lato guardando a terra.
-Mettiamola in questo modo- fece il vecchio interrompendo la scrittura. -È forse stato qualcun altro a mietere tutte quelle persone innocenti per le strade?- domandò provocandomi.
Avevo la risposta pronta: -Non erano innocenti- lo fulminai con un’occhiataccia.
-Ne sei del tutto certo?!- si allungò verso di me.
-Mi hanno usato per i loro scopi, mi hanno…-.
L’uomo fece un gesto di stizza con la mano. -Conosco la tua storia, o almeno, credo di conoscere una parte di essa-.
Se le stava letteralmente cercando. Voleva farmi incazzare, ma non aveva idea di come fosse Alex Mercer quand’era davvero incazzato. –Mi stai provocando?- e ci mancava davvero poco.
-Sei furbo- ridacchiò. –Ma no, non è mia intenzione-.
-E allora dove vuoi arrivare con questo discorso? Hai detto di non avere tanto tempo da dedicarmi, e invece trascuri tua figlia per farmi i tuoi soliti esami di coscienza! Non ho chiesto nulla di ciò!- spalancai le braccia sfogando tutto il fastidio accumulato fin ora.
Max scosse la testa ridendo sotto i baffi. -È proprio questo l’errore che ho sempre cercato di correggere in te; ma a quanto pare, ti ostini a non darmi ascolto-.
-Quale errore? Non capisco- borbottai.
-Hai ragione- disse guardandomi. –Adesso non abbiamo tempo per parlarne, e dobbiamo giungere a questioni molto più serie- si alzò dalla branda e mi venne incontro. –Avanti, dimmi che cazzo hai combinato fuori dall’isola, ragazzo?- mi chiese ironicamente allegro. –Sentiamo cosa puoi aver fatto di tanto sconvolgente da poterti izzare contro così d’un tratto tutti i tuoi nemici! Sentiamo!-.
Lo guardai allungo negli occhi, ma risposi anticipando la sua reazione. –Ho fatto una visitina al quartier generale degli Angeli-.
-Mi prendi per il culo?- inarcò un sopracciglio.
-No, no- sorrisi maligno. –Giuro-.
-Hai rischiato di farti ammazzare… e perché mai?-.
-Ho seguito delle tracce- dissi.
-Che tracce?- mi chiese lui cominciando a girarmi attorno.
-Un nome-.
-Quale nome?-.
-Mark Walker-.
Arrestò i suoi passi quando mi fu alle spalle. Lo sentii esitare, fiutando il suo sconforto. –Mark Walker è morto- dichiarò poi, riprendendo il giro.
-Grandioso!- eruppi.
-Perché lui?-.
-Sa qualcosa che io non so-.
-Quel figlio di puttana lavorava nell’aeronautica; uno come lui non è nessuno, cosa può sapere di così importante?-.
-Come pilotare un caccia?- risi tra me e me.
Max mi colpì in testa col suo taccuino. –Non fare il giocherellone con me, almeno non ora- fece serio. –Cosa credevi di trovare da lui?! E perché sei andato a cercarlo fin laggiù, in casa del nemico?!-.
-Ho ascoltato per caso la sua comunicazione alla radio di un anno fa. All’inizio non gli ho dato importanza, ma da quando gli Angeli mi danno la caccia è diventata una priorità. E comunque… loro sono i miei nemici, non i tuoi, se ho ben capito. Non devi farti problemi con loro- dissi cercando il suo sguardo. –E di conseguenza con me-.
-Sì, sì, lo so bene, ma allora cosa ci facevi in quella base? Non dirmi che hai tentato di sabotarli- sbottò.
-No, affatto. Te l’ho detto: sto solo cercando qualcuno che possa portarmi a Walker-.
-È morto!- ribadì Max.
-Non ha parenti?- formulai. –Una moglie, dei figli?-.
Il vecchio esitò di nuovo, stringendosi nelle spalle. –Non lo so, ma probabile che siano morti tutti quanti. Ora ascoltami: non puoi mettere piede fuori dall’isola! Azzardati di nuovo e ti getto di persona in un barattolo di Amuchina, hai capito?!-.
-Sì, ho capito. Ma a parte i missili militari che mi complicano il “transito”, un giorno dovrai dirmi perché non vuoi che lasci Manhattan- sbottai. –Aspetta un attimo- lo fulminai con un’occhiataccia. –Hai detto che uno come lui è di poco conto, ma allora perché lo conosci?- feci sospettoso.
-Ho contatti anche all’interno della marina, cosa c’entra?-.
-Menti-.
Il vecchio sospirò pesantemente. -Frequentavamo insieme il corso al College, ma lui ha mollato poco prima dell’esame. Non ci siamo più sentiti e rivisti, ma…-.
-Come sai che è morto? E come, soprattutto. Com’è morto?-.
-Fai troppe domande!- eruppe infastidito. –Se sei così bravo ad ammazzare la gente, cercatele da solo le risposte-.
-Ma ce l’hai solo tu quelle che mi servono, perciò dovrei uccidere te- ridacchiai.
-Sì, certo, come vuoi! Ma adesso non possiamo più parlarne- sbottò.
-Mi stai buttando fuori?!- mi stupii.
-No- rispose secco. –Ti sto solo ricordando che devi andartene da qui, allontanarti dalle basi militari piazzate nella zona così da non attirare attenzioni su di noi, e proseguire la tua ricerca da solo e altrove. Torna da me quando imparerai a far meno lo sbruffone e a portare rispetto alle persone che hai ammazzato. Forza, vattene- indicò l’ingresso della tenda. –Sei libero di fare della tua vita ciò che vuoi. Se il tuo obbiettivo ora è ritrovare Dana e il dottor Regland, non posso impedirti di perseguire una causa così sciocca. Ma non venire a piangere da me quando tu, preda, cadrai nella trappola del cacciatore- sbottò. –Sono stufo di assumermi la tua responsabilità sulla mia coscienza-.
Aggrottai la fronte. –Dove vuoi arrivare?- chiesi confuso.
-Ho detto vattene, dannazione!- imprecò.
-Max, che ti succede?- insistei mantenendo la serietà.
L’uomo distolse lo sguardo dalla mia figura e scosse la testa. –Non posso aiutarti, Alex-.
-Perché?- feci secco.
Ricevetti un’occhiata affranta e sconsolata dal dottore, che mi diede poi le spalle. –Se hai intenzione di immischiarti nei loro affari, non posso aiutarti- disse.
-Di cosa stai parlando?!- mi allungai in avanti.
-La posta in gioco è troppo alta, Mercer- eruppe scontroso. –Finché la tua è rimasta un’iniziativa contro la Blackwatch ti sono stato accanto come promesso, ho vegliato su di te come il nostro accordo stabiliva!- sibilò. –Ma adesso che vai incontro a quelli che solo per te sono il nemico, non voglio immischiarmi-.
-Sei davvero così sciocco?- sbottai. –E’ ovvio che dietro al progetto Gabriel gioca anche la Blackwatch! È un anno che senti poco parlare di loro perché per un anno non gli ho causato problemi, mettendomi da parte! Mi serve il tuo aiuto, Max! Se vado contro agli Angeli lo sto facendo per Dana, per mia sorella! Per la mia famiglia!-.
Parve irrigidirsi all’udire quell’ultima parola, e lentamente si voltò di profilo verso di me.
Proseguii avendo fatto centro nel suo ego: -Tu faresti lo stesso- aggiunsi.
-Mi stai chiedendo troppo- intervenne. –Non posso schierarmi con te in questa battaglia perché stai fronteggiando un nemico che non lo è! Dietro al progetto Gabriel non c’è la Blackwatch, Alex! C’è il Governo Americano! La TUA NAZIONE!- mi gridò contro.
Toccò a me la volta di restare interdetto. –Il Governo finanzia le loro azioni, non…-.
-Sono come poliziotti, Alex- mormorò lui. –Uccideresti un poliziotto se ne vedessi uno?-.
-Se sapesse qualcosa che m’interessa sapere sì!- ruggii.
-No, dannazione!- imprecò. –Qui sbagli!- mi punzecchiò con un dito. –E’ qui che stai sbagliando, non capisci?! Non sarai mai normale se continuerai a comportarti così!-.
-Così come?!-.
-La tua caccia alla Blackwatch era finita un anno fa, Alex! Chi è stata a farla ricominciare?! Chi se l’è andate a cercare nella loro base?! Io?!-.
-No- sbuffai. –Forse non avrei dovuto impicciarmi, e va bene! Lo ammetto! Entrare nella Phoenix è stato un errore, ma li ho trovato quello che cercavo, le informazioni che mi servono…-.
-Non posso crederci- scosse la testa assumendo un’espressione del tutto scettica. –Sei tu che hai voluto tutto questo: è come se fosse stata tua l’iniziativa di ricominciare da capo, e ti ostini a non comprendere…- si passò una mano sulla fronte.
-Allora dimmi- lo interpellai. –Dimmi se è stata mia l’idea di far rapire mia sorella!-.
-Questo cosa c’entra?! Dimentica Dana solo per un istante, dannazione. Pensa a quello che ha spinto te ad entrare in quella base! Pensaci, ti prego!-.
-Mark Walker!-.
-E’ morto!- fece esasperato.
-Lo so che non è così! Lo so che mi stai mentendo!- mi avvicinai ancor più a lui potendolo quasi guardare dall’alto in basso.
Corvo si allontanò da me dandomi di nuovo le spalle. Arrivò in fondo alla tenda: -Non posso… aiutarti-.
Si stava trattenendo dal dirmi qualcosa di importante, di assolutamente primario per la mia ricerca, la mia caccia. Nacque in me il furente bisogno di sapere la verità che mi stava nascondendo, e di perseguirla con qualsiasi mezzo. Riconobbi quello come l’impulso di consumarlo. E rabbrividii per averlo solo pensato.
Serrai i pugni lungo i fianchi. –Dimmelo- ringhiai. –Dimmi dove posso trovarlo, ma soprattutto… dimmi cosa c’entra con me-.
Max si voltò di colpo, e la sua occhiataccia mi fece quasi paura. –L’incidente del ’69- disse.
Mi feci subito più attento, mettendomi composto con il peso su entrambe le gambe, e Corvo proseguì.
-L’incidente del ’69, ce l’hai presente?- chiese.
Annuii.
Alzò la mano destra mostrando due dita, mentre le altre restavano strette al palmo. –Due sopravvissuti-.
M’irrigidii all’istante, e un brivido mi percorse la spina dorsale. –Non è possibile…- mormorai con gli occhi sgranati.
Il vecchio poggiò un dito della mano sinistra sul medio di quella destra, e lo abbassò: -Elizabeth Green- disse facendo riferimento al primo superstite, ma durante quella lunga pausa che si permise prima di aggiungere altro, piombò un silenzio terrificante per tutta la tenda. Poi Max poggiò il dito della sinistra sull’indice di quella destra e, abbassando anche quello, disse: -Mark Andrius Walker- scandì bene il nome.
-Menti…- ridacchiai scettico.
-Guarda la mia faccia- sbottò. –Ti sembra la faccia di un uomo che mente, questa?!-.
Scossi la testa continuando a ridere in maniera isterica. –E’ impossibile! Non posso crederci…-.
Max mi fissò allungò con serietà. -E invece devi-.

















Muhahahahah!!! Come speravo ho ricevuto subito le vostre rece, così ho postato all’immediato! Muhahahaha! E non sono nemmeno le sette di sera! A distanza di poche ore! Questo sì che è un record! *-* Me ha aggiornato e ora porta a spasso il cane! Muhahahaha!
Ma venendo a noi. U.U
Max e Lisa sono personaggi di mia invenzione. La loro storia sembrerebbe una fan fiction a parte, lo so, e infatti inizialmente l’idea era quella. Avrei voluto plasmare una ff su prototype proprio su una forma simile, ma questo mi avrebbe tenuta impegnata con due long-fic anche in questa sezione. Così ho deciso di inglobare una fan fiction nella fan fiction! XD Spero che a parte le pippe mentali di Alex all’inizio del capitolo, il post sia stato entusiasmante e pieno di rivelazioni. Ovviamente non è finita qui! La conversazione tra Mercer e Corvo continua nel capitolo prossimo: sono stata costretta a dividere i due post o qui vi toccava sorbirvi 19 pagine in una sola volta!
Credo comunque di aver attirato almeno un po’ la vostra attenzione, calamitandola sul fatto che Mark Andius Walker è il padre di Emily !!
^-° Perciò, penso proprio che ne vedremo delle belle!
Arrivata a questo punto, vi confesso anche che la storia sta cominciando a piacermi più del previsto, quindi premetto dicendo che gli aggiornamenti potrebbero farsi frequenti anche una volta esauriti i capitoli pronti da postare, di cui ne rimane solo uno! XD Nella sezione di AC sto andando avanti a song-fic e one-shot, non avendo più particolare riguardo per le mie long-fic in corso, che non sono neppure poi tanto seguite… <.< pubblicità occulta! XD Ma vabbé!
Quindi! Commentate, così posto subitissimo! *-*
Elik.

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Capitolo 16
*** Capitolo 16° - Cambio di piani ***


Capitolo 16° - Cambio di piani

-In tutto questo tempo, in tutti questi mesi… ho davvero pensato che fosse finita, che la morte di Elizabeth, la distruzione della bomba atomica, del capo cacciatore… Ho pensato che fosse tutto concluso, che la Blackwatch avesse esaurito le risorse! Ho pregato che fosse così! E se per un periodo ho continuato ad andare avanti, sperando di trovare dell’altro, ho capito che la mia ricerca era vana e ho impiegato i miei poteri nell’aiutare i bisognosi come te!- indicai Max. –E loro!- spalancai le braccia facendo riferimento ai profughi sani. –E invece guardali! Guardali quei bastardi figli di puttana come mi tengono nascosto sotto il mio naso un altro dei loro esperimenti da piccolo chimico tenuti in cattività!- ruggii.
-Aspetta un attimo- proruppe lui avvicinandosi. –Aspetta a fare pregiudizi e conclusioni, aspetta- mi tranquillizzò. –Mark non è il mostro che credi che sia- disse. –Non è un’arma della Blackwatch!-.
-Ah no?!- mi stupii.
-No- assentì serio.
Strinsi i denti e afferrai il vecchio per il camice, sbattendolo poi addosso ad un’improvvisata libreria. -Perché nel laboratorio dove ho trovato lei, non c’è anche lui?! Che cosa mi nascondi?! Lavoravi anche tu con loro?! Eri uno di loro?! Come fai a sapere tutte queste cose?!- strillai tenendolo sollevato da terra.
-Walker non è mai entrato in quei laboratori, Alex!- confessò. –Dopo l’incidente fuggì, capì tutto da sé e studiò i suoi poteri lontano dalla comunità! All’epoca era solo un ragazzino, ma trovò lo stesso la consapevolezza! Si ritirò sulle montagne, considerandosi da solo quello che era! Quando fu padrone del suo aspetto e della sua mente, tornò a New York, trovò un lavoro, una fidanzata, e costruì una famiglia! Capisci?! Mark Walker non era nemmeno il suo vero nome! Lo cambiò, divenne un cittadino normale, Alex! Normale! Visse la sua vita imparando a convivere con quello che gli era successo, lo tenne sempre nascosto, e nel migliore dei modi! Era questo che volevo farti comprendere…- abbassò il tono di voce, mentre lentamente la mia presa sul suo camice si allentava, ed io, troppo sconcertato, ancora non aprivo bocca.
-Era questo…- proseguì il vecchio. –Che desideravo per te- disse. –Lui ci è riuscito, e volevo che ci provassi anche tu…-.
Lo lasciai andare del tutto, guardandolo mentre cadeva a terra seduto e si rialzava con un po’ di fatica. Il mio sguardo era fisso davanti a me, dove sugli scomparti dell’improvvisata libreria mancavano alcuni tomi che si erano rovesciati a terra nel colpo di poco prima.
Max rimase allungo con gli occhi puntati sulla mia figura immobile, rigida nel centro della sua tenda. –Mi dispiace, non avresti dovuto saperlo-.
-Dei figli- mormorai con voce seria e afona. –Hai detto che ha avuto dei figli, ma che sono morti- ripetei. –E’ vero? È vero che li ha avuti?!-.
Il vecchio scosse la testa guardando a terra.
-Un’altra cosa- eruppi. –Dimmi cosa c’entra Walker con gli Angeli e perché ho trovato il suo nome nei registri del loro reparto!-.
Il vecchio si strinse nelle spalle. –Mi stupisce che tu abbia trovato solo quello su di lui…- borbottò.
-Dove potrei trovare dell’altro?!- chiesi ancora. –Anzi- risi istericamente. –Dimmi dove posso trovare lui direttamente e facciamola finita!-.
-Era la verità quando ti ho detto di aver perso i contatti con lui dopo il College!- mi ringhiò contro.
-Questo è solo un motivo in più per dargli la caccia- sbottai dirigendomi fuori dalla tenda.
-Alex, aspetta!- mi chiamò il vecchio.
Mi voltai issandomi il cappuccio sulla testa. –Che c’è ancora?-.
-Lui non è tuo nemico; dovresti invece considerarlo come un tuo alleato- sorrise modesto.
-Perché dovrei?!- eruppi. –Sentiamo: cosa non hanno in comune lui ed Elizabeth?!- feci esasperato.
-La loro storia- rispose prontamente.

Attraversai tutta la passerella, scesi le scale e silenziosamente mi dileguai nel buio delle tende dei profughi. Una volta sotto il mio adorato lucernario, mi piegai sulle ginocchia e feci per spiccare un balzo, ma una flebile vocina m’immobilizzò dov’ero.
-Dove vai?- chiese Lisa avanzando dall’ombra.
Tornai dritto all’istante e mi voltai verso di lei. –T’importa davvero saperlo?- eruppi infastidito.
-Ho solo fatto una domanda…- mormorò lei avanzando ancora, e la sua intera figura fu a quel punto succube del mio sguardo.
-Devo trovare una persona- dissi arrogante. –Anzi quattro- mi corressi, facendo riferimento a Dana, Ragland, il responsabile ancora senza nome della loro cattura e Walker.
-Allora è vero- si stupì la ragazza. –Hanno preso tua sorella-.
Chinai la testa guardando a terra, e contemporaneamente strinsi i pugni. –Sì…-.
-Mi dispiace- sussurrò lei venendomi vicino. Il verde dei suoi occhi si consumò nell’amarezza delle poche parole che mi aveva sentito pronunciare. –So come ci si sente- aggiunse dispiaciuta, e molto. –A perdere un parente così caro, forse l’unico che ti resta- alzò il viso e riuscì non so come ad incatenare il suo nel mio sguardo.
Ripensai alla sua sorellina Susan rimasta vittima del Virus, e Max che aveva dovuto sopprimerla come una bestia prima che mutasse in qualcosa di spaventoso come gli zombie che vagano per la città.
-Già- mi lasciai sfuggire un amaro sorriso. –Dispiace anche a me-.
-Se c’è qualcosa che posso fare per aiutarti- disse ormai vicinissima a me. –Qualsiasi cosa- mormorò, e due dita della sua mano andarono a sfiorare la mia. –Ti basta chiedere- mi arrise dolce, mentre da quel flebile contatto percepivo tutto il suo calore che però rifiutai con rigetto, ritraendo il braccio e distogliendo lo sguardo.
-Grazie lo stesso, ma non c’è nulla che tu possa fare- sibilai fulminandola con un’occhiata gelida, mentre la sua si faceva sempre più smarrita e scettica, interdetta da quella mia reazione nei suoi confronti.
Mi allontanai da lei lasciandola in balia di emozioni umane che mi parevano sciocche; mi sistemai nel centro sotto il lucernario sul tetto e in fine spiccai un balzo.
Fui trascinato dalla corrente estiva che soffiava in alto, sopra il porto, accompagnando quel misto di Blootox e Virus nei miei polmoni. Con uno scatto, fui sul molo di fronte, atterrai rotolando a terra e cominciai a correre verso la strada, che imboccai dritta proseguendo lungo la doppia striscia continua. Mezzo chilometro, e mi ritrovai sul confine.

«Avevo già abbastanza pensieri e tormenti.
Se ci si metteva pure sua figlia, andavo fuori di testa.
Max aveva ragione: contrapporsi agli Angeli era come andare contro il Governo Americano, che alle spalle della società aveva messo le mani dappertutto. Il Progetto Gabriel si basava sullo sterminio del Virus a Manhattan, ma siccome io ero sempre stato considerato “infetto”, indirettamente anche contro di me. Fu triste notare che soprattutto dopo la mia visita alla base la faccenda era diventata di botto molto più seria del previsto. La mia intrusione nei loro affari aveva giustificato i loro gesti, il loro tentativo di attirarmi in una trappola nella quale non sarei caduto così in fretta.
Alex Mercer ora aveva un nuovo obbiettivo: trovare Mark Andrius Walker, e non gli importava se sarebbe inciampato nel Governo Americano. La Balckwatch aveva le mani dovunque, persino all’interno del Settore Angels; le reti che collegano entrambi le scoprii a suo tempo infiltrandomi nella loro base, perciò qualsiasi tentativo di fermarmi da ambedue le parti, verrà represso nel sangue di vite sacrificabili. La mia fame di vendetta sta morendo soffocata da un sentimento di ricerca e comprensione verso un uomo le cui impronte dovrei seguire, la cui stessa strada mi aprirebbe gli occhi su un mondo del tutto nuovo e migliore.
Ho deciso: lascerò Ragland e Dana nelle mani degli Angeli fin quando non troverò Walker. Ma una volta trovato, so già cosa chiedergli.
L’alleanza per un’ultima sanguinosa battaglia.»




















Ta-da! ^°^
Con questo post chiarisco forse parecchi dei dubbi sugli insensati discorsi di Max. Per esempio, e sono contenta che abbiate apprezzato, nel capitolo precedente tiro in ballo la ricerca della normalità. Sì, esatto! Come il film “Alla ricerca della normalità!” XD Al posto de “Alla ricerca della felicità” con Will Smith! Ahaha, quanto sono spiritosa! Ma insomma, fatto sta che dietro a quelle insensate parole il vecchio corvo celava una morale molto profonda. Dopotutto, rimane da chiedersi se Emily è la figlia genetica di Mark, o se Max ha mentito dicendo che non era vero! Quale dei due casi è più allettante?! XD Questo devo ancora scoprirlo anch’io, dato che sono riuscita ad andare avanti di due capitoli che tengo già pronti ma non di più. Spero quindi che questo stralcio che compie due pagine e mezza di word vi sia piaciuto. È la parte conclusiva del loro accanito dialogo, quella mancante e la più sconvolgente (anche per me *°*). I pensieri di Alex alla fine del post lasciano pensare a male. Vi do piccolo spoiler: se Mark è morto, allora Alex quale membro della famiglia Walker sta cercando? Ah-ah! Ora avete capito!!! XD Me genialaccia del male! Muhahahah! Ora resta poco da scoprire, pochi intrighi da ampliare, sia a me che da scrivere che a voi da leggere. I prossimi chappi, dal 18 ° in avanti si prospettano pieni di azione e movimento. Sangue, morte e tanti Angeli che cadono *-* Se poi ci si mette anche il malsano egoismo di Emmett, allora il quadretto è completo per creare brutte situazioni! XD Ops, altro spoiler! Insomma, ci vediamo prestissimooooo!

Ringrazio utenti che hanno recensito:

Saphira87 (Ho corretta Regland-Ragland! *°* Grazie tantissime per averlo notato! ^-^ )
Snowdra1609

Ringrazio utenti che hanno aggiunto ff a preferiti e seguite:
Kasdeya
renault
comix
Saphira87
Snowdra1609
Aka_no_Hidan
suinogiallo (l'amministratore segue davvero la ff oppure mi sta spiando se metto codici htlm sbagliati??? °-°)
Grazie a tutti!
Elik.

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Capitolo 17
*** Capitolo 17° - Burocrazia che evolve ***


Capitolo 17° - Burocrazia che evolve

Giorno dell’infezione 409°
Popolazione mondiale infetta: 09,40%


«Rischiavo quasi di dimenticare come ci si sentisse ad andare a letto con qualcuno.
Eppure questo mi sembra un assurdo pretesto dietro al quale nascondere le mie azioni della serata precedente. Non nego affatto l’evidenza: io e il capitano Turner ormai avevamo una relazione, perché la nostra non poteva dirsi una notte di solo sesso. Durante le tre settimane trascorse ad allenarmi intensivamente fino ad arrivare a quella sera, non aveva fatto altro che pensare se fosse giusto o sbagliato quello che stavo facendo, i sentimenti che stavo provando, domandandomi per di più se lui provasse la stessa cosa nei miei confronti. Quei sorrisi, quei baci avevano solamente verificato e accertato tutto quanto, facendomi sentire un po’ più… normale.
Mi apprestavo a fronteggiare l’essere più pericoloso del pianeta col solo scopo di eliminarlo, e continuavo a ripetermi che perciò non avevo alcun diritto di trattarmi bene a sole poche ore dal definitivo rientro in “guerra”.
Eppure… trovai altrettanto assurdo questo pensiero.»

Quando mi risvegliai, trascinata al mondo dall’assenza di sonno, aprii gli occhi e mi ritrovai a guardare fuori dalla finestra della stanza, dove le tende erano rimaste un poco socchiuse e lasciavano entrare in camera un raggio di sole. Il fascio di luce si allungava sul pavimento e poi risaliva i piedi del letto arrivando sino alla mia gamba scoperta per metà fuori dalle lenzuola, che si erano attorcigliate attorno ad essa. Avevo la testa poggiata sulle braccia sistemate in una posa semi conserta, una mano a penzoloni fuori dal materasso e i capelli che potevo ben immaginare in che stato fossero: arruffati fino all’ultimo ciuffo, scomposti, così aggrovigliati che mettevo paura. Ero effettivamente nuda sotto le coperte, ma il solo pensiero mi fece sorridere, riportandomi la mente alle piacevoli ultime ore. Mi stiracchiai, allungando il mio corpo e sistemandomi più comoda a pancia all’aria, col seno nascosto dalle lenzuola. Voltai di poco la testa e mi accorsi solo allora di essere del tutto sola nella stanza.
Sul materasso accanto a me, dove le coperte erano del tutto assenti e potevo vedere solo un cuscino sprimacciato, Cole non aveva lasciato nient’altro che non fosse il suo profumo. Mi issai sulle braccia mentre una ciocca di capelli mi cadeva davanti al viso e sbuffai. Il bello fu pensare che non mi ero neppure accorta di quando se n’era andato, e questo mi mandava su tutte le furie, come se i miei sensi vigili da Angelo si fossero appannati.
Passandomi una mano tra i capelli mi guardai attorno, e a parte i miei e i suoi vestiti spariti dalla mia vista, attirò la mia attenzione la mia uniforme da Angelo che qualcuno aveva ripiegato per bene sopra la scrivania. Erano scomparse anche le cartelle e le fotografia della discussione di ieri, ma non ci badai poi tanto.
Mi alzai dal letto portando con me le lenzuola, e mi avvicinai al tavolo.
Ero sicura che fosse stato lui a prendersi cura di me in quel modo, lasciando accanto alla mia uniforme ripiegata e pulita, con tanto di pantaloncini, scarponcini, calzini e biancheria, un foglietto sul quale riconobbi la sua calligrafia.

Martin ti sta ancora cercando,
ma è furioso come un toro!
Vestiti, ci vediamo a mensa
p.s. sei dolcissima quando “dormi”

Ubbidii, e una volta pronta lasciai la stanza col sorriso sulle labbra.
Traversai il silenzioso salottino comune dell’ex clan di Cole e sfociai in corridoio. Presi l’ascensore, e raggiunsi la mensa senza incontrare un volto sul mio cammino. Cosa assai strana. Dentro la sala fui travolta come al solito dalla confusione di tanta gente riunita in un solo posto. Il profumo di caffè e cornetto era davvero allettante, e la luminosità che entrava dalle ampie vetrate spalancate quasi mi accecava. Si prospettava una stupenda giornata per sbarcare a Manhattan, ma molto probabilmente ce la saremmo presa parecchio comoda vista la “non fretta” che ognuno di noi aveva nel consumare la propria colazione.
Qualcuno alzò un braccio tra la massa di gente che intasava i tavoli, e fu così che individuai nella confusione il mio clan riunito al solito posto. Andai nella loro direzione e una volta che il gioioso sorriso di Cole si specchiò nei miei occhi, mi sedetti al suo fianco.
-Buon giorno!- ridacchiò Lucy sorseggiando the.
Emmett sembrava altrettanto rilassato (strano). –Te la sei presa comoda, eh?- si beffò.
-Sì, credo di sì- arrossii stirandomi i capelli all’indietro.
-Non resta comunque molto tempo- proruppe il capitano distogliendo lo sguardo da me. –La partenza per Manhattan è fissata per questa sera, ma durante la giornata hanno in mente qualcosa di divertente per noi- disse mescolando il suo caffè con un cucchiaino.
-E cioè?- domandò Harry col boccone. Nel suo piatto c’era solo mezzo cornetto.
-In palestra hanno istallato un poligono di tiro- c’informò Cole. –Ci ho fatto un salto questa mattina presto-.
-Grandioso, ma tutto qui?- si stupì Emmett.
Cole lo guardò in cagnesco. –No- sbottò. –Noi andremo lì per riscaldare le armi, ma Emily deve raggiungere Lewis nel suo ufficio- si rivolse a me. –Devono discutere di alcuni…-.
Lucy aggrottò la fronte. –È successo qualcosa?- domandò preoccupata.
Feci un gesto con la mano. –No, assolutamente nulla, non preoccupatevi-.
-Come vuoi. Non prendi niente, Emily?- mi chiese Harry allungandomi una tazza.
-Grazie- dissi sollevandola dal piattino. –Torno subito- mi alzai dal tavolo e andai verso le macchinette in fondo alla sala. Decisi di prepararmi un po’ di latte caldo, e così feci, ma mentre la tazza si riempiva, catturò la mia attenzione la conversazione di un folto gruppo di Angeli ammucchiati attorno ad un tavolo, al centro del quale vi era una ragazza con indosso la fascia da capitano sul braccio sinistro.
-… Stanno mutando, e troppo velocemente- diceva la donna con gli occhi del suo clan e altri puntati addosso. –Martin ha fatto installare il poligono per prepararci a quello che sta crescendo là fuori-.
-Sono pericolosi per noi?- domandò qualcuno.
-Non fatali, se è quello che intendi- rispose la giovane comandante. –Ma alle lunghe possono crearci problemi, e credo che durante la caccia a Mercer possano intralciarci la marcia. Più ne abbattete e meglio è, statene certi- ridacchiò lei.
-Ma davvero basteranno le armi per fermarli?- fece dubbioso qualcun altro.
-Questo non so dirvelo con precisione; sappiate solo difendervi al meglio e tener conto di qual è la vostra unica, vera missione-.
-Zeus sarà nostro, capo!- gioì un ragazzo.
La donna smontò giù dal tavolo. –Chiunque reclamerà il premio della sua testa- sorrise beffarda. –Non potrà che essere un bene per tutti- disse, e richiamando a raccolta il suo clan, abbandonò la mensa.
La mia tazza era ormai piena, ed io ero rimasta come uno stocca fisso con un braccio alzato nel vuoto per tutto quel tempo. Mi riscossi con violenza, afferrai la tazza e mi riavvicinai al mio tavolo sedendo, a sguardo basso, accanto al capitano.
Il mio atteggiamento pensoso, distante mentre attorno i miei compagni di clan ridevano e scherzavano, attirò su di me non poca attenzione.
Cole per primo chiese: -Emily, tutto bene?-.
Alzai il mento dal petto guardandolo negli occhi. –Sto bene, ovvio, ma ho sentito un capitano del clan laggiù che parlava di una cosa col suo gruppo che… mi ha lasciata un po’… ecco- mormorai distratta.
Emmett inarcò un sopracciglio. –Di che si tratta?- formulò serio. Lucy al suo fianco si mostrò altrettanto curiosa, e Harry smise improvvisamente di masticare, ingoiando il boccone intero.
Scossi la testa. –No, forse ho fatto solo presunzioni stupide…- borbottai.
-Non hai ancora detto nulla- rise Emmett. –Come fai a dire che è inutile?-.
-Lascia giudicare noi- mi sorrise Cole, e a quel gesto gettai l’ancora.
-Parlavano del Virus- dissi. –E di come sta maturando in fretta. Ma ad un certo punto mi è sembrato che stessero parlando di qualcuno, o qualcosa che potrebbe intralciarci durante la caccia ad Alex, e lì non ci ho visto più- li informai.
Il capitano allontanò la sua tazza di caffè e si mise a braccia conserte. –Dannazione- imprecò sotto voce.
-Ehi- sbottò Emmett. –C’è qualcosa che noi non sappiamo?!- domandò spocchioso.
Turner lo fulminò con un’occhiataccia. –Veramente sì, e non avreste dovuto saperlo fino a quando non fossimo stati tutti nella palestra-.
-Avanti- eruppe Lucy seria. –Ormai devi dircelo, Cole-.
Il capitano annuì. –Sì, è il Virus, come ha presupposto Emily. Sta mutando, e in qualcosa che nelle ultime settimane si è rivelato d’intralcio ai nostri scopi. Sono simili ai cacciatori, ma che col tempo hanno acquisito caratteristiche del tutto nuove; si evolvono velocemente in creature sempre più avanzate e dotate di una mente pensante che ragiona, pianifica, anticipa e capisce senza l’intervento del capo cacciatore. Martin se ne sta occupando, diverse squadre di Angeli sono partite lo scorso weekend, ma se ci tenete a saperlo, su sei membri per clan, ne sono tornati vivi solo la metà- pronunciò composto.
-Perché hanno aspettato tanto a dircelo? Ci saremmo potuti addestrare anche a questo!- eruppi.
-Non è così semplice- sbottò Turner voltandosi verso di me. –Questo pomeriggio al poligono testeranno su di noi un novo farmaco che dovrebbe darci la possibilità di contrastare tali nuovi nemici. Simuleremo per breve i loro spostamenti e i loro attacchi e…-.
Lucy lo interruppe: -Perché il poligono di tiro? Non potevano settare i robot?- chiese confusa.
Cole sospirò. –No, ve l’ho detto, loro…-.
-Qual è il problema ‘sta volta?!- sibilò Emmett.
Il capitano si appoggiò allo schienale della sedia. –Sanno volare, ecco qual è il problema-.
Rimasi senza parole, muta.
-Come volare?- balbettò Harry. –Vuol dire che…-.
-Sì, esatto- proruppe Cole. –Se sanno volare, hanno il libero transito fuori dall’isola! Per questo Martin ha fatto montare il poligono di tiro. Il Virus ha dato ad una forma avanzata di cacciatori la possibilità di volare, hanno sviluppato le ali, non simili e robuste come le nostre da Angelo, ma comunque un buon mezzo per portare il Virus fuori dall’isola ed espanderlo più velocemente nelle altre capitali. Ce ne siamo accorti troppo tardi: ecco com’è arrivato il contagio sull’altra costa!- digrignò.
-Ma allora- feci io. –Il poligono è solo per la difesa. A noi, come squadra d’offensiva, non spetta il compito, giusto?- chiesi.
-È qui che ti sbagli- mi disse Cole. –La capacità di volare li rende più forti e più difficili da abbattere. Fortunatamente solo una piccola percentuale di queste creature ha sviluppato l’intelletto necessario per poter ragionare con la propria testa e allontanarsi liberamente da Manhattan. Di questa piccola percentuale si occuperà una rispettiva percentuale degli Angeli che costituiranno la difesa della base e dell’ “arma segreta”. L’avete sentito tutti Martin la scorsa volta, no? Ecco. Ma anche noi offensiva, che andremo a caccia di Mercer sull’isola, avremo questo problema. I cacciatori difendono il territorio, azzannano tutto quello che gli capita sotto gli artigli; siete stati addestrati a combattere contro quelli di terra, ma per i nemici volanti vi serviranno tutti quei nuovi equipaggiamenti che vi sono stati assegnati nelle ultime tre settimane. Quali armi da fuoco e potenziamenti. L’ultimo farmaco, quello che andremo a testare nella palestra, è un gioiellino niente male, ve l’assicuro- sorrise.
-E sarebbe?- sbottò Emmett.
-Tra poco lo vedrai da te, non preoccuparti- fece tranquillo il capitano.
Finii di bere il mio latte caldo con una strana sensazione alla bocca dello stomaco. Avevo come un brutto presentimento, e per di più il pensiero che il Virus tramutasse velocemente in qualcosa di sempre più pericoloso divenne quasi una fobia. Ero terrorizzata all’idea che oltre a Mercer, un giorno gli infetti avrebbero potuto trasformarsi in qualcosa di simile a lui. Questo bastava a giustificare le nostre azioni, dandoci solo un motivo in più per scollare il sedere da quel tavolo e affrettare le manovre.
D’un tratto Turner si alzò dalla sedia e guardò verso di me. –Emily, adesso devi andare, e noi altrettanto. Forza- disse, e prendemmo le rispettive strade.
Salutai i miei compagni di clan e feci per avviarmi in corridoio, attraversando l’ingresso della mensa, ma mi sentii poggiare una mano sulla spalla e mi volati di scatto.
-Vacci piano con Lewis, la cosa non gli piace almeno quanto infastidisce te- disse Cole guardando alle mie spalle.
-Lo immagino- mormorai.
-Ascolta- fece avvicinandosi. –Prima che tu vada da Martin, volevo parlarti di quello che è successo ieri e…-.
Lo anticipai, spiccando un balzo in avanti allungandomi sulle punte per sfiorargli le labbra con le mie. –Non c’è bisogno che tu dica nulla…- gli sussurrai soave.
-Perfetto!- sorrise lui. –Era esattamente quello che avevo in mente di dirti!- ridacchiò allegro. –Però, a parte questo, Emily, ci tengo a precisare che sono ancora il tuo capitano- disse, ma accorgendosi della smorfia comparsa sul mio volto a quelle parole si apprestò ad aggiungere: -Non so se mi spiego…-.
-No, infatti- sbottai scettica.
Il ragazzo si passò una mano tra i capelli. –Potrebbe diventare pericoloso, capisci?-.
-No- eruppi sincera mettendomi a braccia conserte.
-Non ti sto chiedendo di dimenticare quello che è successo, assolutamente!- proruppe. –Ma devi tener conto dei pericoli che ci sono là fuori, del fatto che il tasso di mortalità all’interno della base è tornato quello di una volta e…- s’interruppe per una frazione di secondo. –Non fare quella faccia, ti prego- gemé.
-Quale faccia? Questa?- m’indicai. –Questa è la mia faccia, Cole, e sinceramente la mia faccia non capisce di cosa stai parlando!- sibilai forse troppo pungente. –Tasso di mortalità?! Ma di cosa parli?!- feci esasperata.
-Adesso va’ da Martin, che è meglio- borbottò lui dandomi le spalle. –Ne riparliamo più tardi, dato che non mi aspettavo che reagissi in questo modo- si avviò nella direzione opposta alla mia.
-Cole aspetta!- chiamai, ma non si voltò. –Cole, scusami, ti prego!- gridai ancora, ma non mi diede retta. –Cole!- strillai di nuovo. Sull’orlo del baratro tra la resa e la vittoria, provai un’ultima volta.
-Capitano Turner!-.
Quella volta si fermò e guardò verso di me, ma fu la tipica occhiata critica che ricevevo durante i primi giorni da matricola nella base. Non tornò indietro, si limitò a fissarmi da lontano così come io fissavo lui, con la sola differenza che nei miei occhi si specchiava lo smarrimento e la paura di chi pensa di essere appena stata scaricata dal suo ragazzo. Ma sapevo che non era così. Avevo capito benissimo di cosa stava parlando: probabilmente a Cole dava fastidio che durante le ore di servizio il nostro fosse un rapporto diverso da quello che lui poteva permettersi con gli altri membri del clan. Anche se la nostra doveva sembrare una famiglia, questo non voleva dire che ciascuno di noi doveva darsi del fratello o sorella a mo’ di convento. Anzi. Anch’io avrei dato di matto se fosse andata realmente in quel modo.
Quindi mi ritrovai d’un tratto nei suoi panni di capitano, con le sue responsabilità, la sua reputazione, e tutti quegli aspetti rigidi e severi che ciascun capo clan deve mostrare di se stesso.
Gli sorrisi, e fu così che lui capì che io avevo capito.

Raggiunsi l’ufficio di Martin e la sua segretaria mi fece subito accomodare all’interno, dicendomi che Lewis mi avrebbe raggiunta tra pochissimo perché delle questioni pratiche l’avevano trattenuto nella palestra più allungo del previsto. Immaginai che fosse all’opera coi suoi soliti monologhi che ipnotizzano gli adepti e così decisi, effettivamente, di prendermela comoda. Mi sistemai meglio sulla poltroncina e aspettai paziente e in silenzio per una decina di minuti. Avevo trovato il corridoio dell’ufficio piuttosto deserto, e di conseguenza l’unico rumore all’interno della stanza era il ticchettio della lancetta dell’orologio che segnava le undici e un quarto del mattino. Fuori dalle vetrate dietro l’ampia scrivania ordinata splendeva un sole estivo in un infinito cielo azzurro. L’isola appariva tranquilla da quella distanza: i palazzi distrutti, certo, una nube di poco rosata che ne sbiadiva i contorni nascondendone le vette, ma a parte questi particolari abituali, la situazione pareva immobile, serena. Un ottimo momento, in conclusione, per cominciare la caccia. Il clima e il vento favorevole ci avrebbero di gran lunga semplificato le manovre, e tanta quiete mi dava motivo di pensare che quest’oggi ad intralciarci il cammino sarebbero interferiti anche meno militari del solito.
Cominciavo ad annoiarmi: mi alzai dalla poltroncina e mi avviai dalla parte opposta della scrivania, accomodandomi al posto di Martin. Strinsi le mani sui braccioli, sprofondai nello schienale e misi le gambe accavallate. Si stava proprio bene, pensai. C’era un moderno computer, la cui tastiera era nascosta in un ripiano apribile della scrivania. Qualche taglia carte, dei libri, delle foto e in fine, uno sconosciuto giornale poiché la sede del New York News fosse andata del tutto distrutta coi bombardamenti.
Un articolo in prima pagina catturò da subito la mia attenzione: c’era un volto ben noto, ovvero quello di Alex, ma nella foto subito accanto comparivano un po’ sbiaditi alcuni di noi Angeli all’opera con dei “virussati” di piccolo taglio. L’articolo era prettamente informativo, dedussi, poiché gran parte di esso spiegava di cosa ci occupavamo noi del progetto “Gabriel”. La data di stampa risaliva a qualche mese fa, e curiosando in alcuni cassetti della scrivania scoprii una collezione di vecchi giornali che riportavano in prima pagina lo steso argomento: il settore Angels.
Martin aveva archiviato foto di paparazzi e quotidiani studiando con attenzione tutti i punti di vista e le prospettive che cadevano su di noi, così da assicurarci un lavoro libero, approvato e sicuro, finanziato oltretutto dal Governo Americano e, per quanto mi riguarda, con contributo della Blackwatch!
Lasciai il giornale così come lo avevo trovato, e altrettanto feci degli altri vecchi articoli riponendoli nei cassetti. Mi alzai dalla sedia di Lewis e tornai ad aspettarlo sulla mia poltroncina.
La porta alle mie spalle si aprì improvvisamente, mi voltai e vidi Martin entrare nello studio tutto di fretta.
-Perdonami, Emily- borbottò andandosi a sedere alla sua postazione. –Sarebbe dovuta essere una cosa veloce, non era mio interesse trattenerti allungo lontana dall’addestramento- si sistemò la cravatta, e finalmente pronto col suo discorso si rivolse a me giungendo le mani sul tavolo.
-Ah- mi stupii. –Perché dopo aver parlato con lei, devo anche andare ad allenarmi?-.
-Ovviamente. Quello che ho già detto ai tuoi compagni in palestra te lo diranno loro quando li raggiungerai, ma per adesso…-.
-Guardi che so già tutto- sbottai.
Martin sgranò gli occhi perplesso. –Di cosa parli?-.
-Il Virus ha evoluto alcuni cacciatori in creature alate. Lo so-.
-Chi te l’ha detto?- pareva una minaccia.
-…Alex ha anche il potere di leggere nella mente?- azzardai sfociando in un sorrisetto beffardo.
-Non prendermi in giro, Walker- eruppe Martin. –Chi te l’ha detto, avanti? E chi altro lo sa?-.
-L’ho scoperto da sola, li ho visti coi miei occhi- pronunciai schiva. –E non lo sa nessun altro-.
-Hmm- fece insicuro se credermi o no. –Mi dovrò accontentare; non abbiamo tempo per queste cose- disse afferrando da un cassetto alcune cartelle. –Suppongo che il capitano Turner non sia riuscito a trovarti la scorsa notte, ed ecco spiegata la tua assenza alla mia convocazione-.
-Sì, mi perdoni, e…-.
-Lascia stare- sbottò lui.
-Va bene, quindi di cosa voleva parlarmi?-.
-Quello che ti ho detto nella nostra ultima conversazione non è affatto cambiato. La tua è ancora una partita singola- proruppe.
-Ma lei, nella mensa!…- ero per ribattere, ma Lewis fece un gesto di stizza con la mano.
-Proprio a questo mi riferivo. Voglio ribadire che qui dentro l’unica col supporto necessario per mettere Alex K.O. sei tu, e nessun altro. Il capitano Turner, in caso di un avvistamento di Mercer, si prenderà l’incarico di allontanare e salvaguardare i componenti del clan, ma tu dovrai restare a fronteggiare Alex. Ricorda: non sei stata forgiata per far altro, sono stato chiaro?-.
-Questo già lo sapevo, signore- ridacchiai isterica sistemandomi comoda.
-Perfetto. Ora: prima che tu vada al poligono voglio farti un piccolo riepilogo delle capacità che tu e Mercer avete in comune-.
-Non ce n’è bisogno- dissi d’un tratto.
L’uomo restò non poco interdetto. –Presuntuosa sei, eh? No, Emily, ce n’è bisogno e come, perciò…-.
-È stato lei a dire che la maggior parte dei miei poteri nasceranno col tempo, così come sono nati a lui! Spontanei, a seconda del pericolo, delle necessità, dell’adrenalina! Non voglio perdere tempo nel suo studio a fare teoria, signore!- dichiarai.
-Le carte sono già in tavola, dunque…- borbottò pensoso Martin. –Questo mi rende assai felice, Angel 1-9-2. Ma convocandoti qui volevo sapere un’altra cosa-.
-Dica- sospirai appoggiandomi allo schienale.
-Devi farmi un rapporto completo del tuo primo ed ultimo scontro con Mercer-.
Sbiancai. –Quello di tre settimane fa, signore?-.
Annuì porgendomi una cartella aperta nella quale trovai ad attendermi un foglio bianco a righe tutto per me da riempire.
-Ma signore- dissi io afferrando la pena che sempre lui mi passò. –Perché sta diventando tutto così burocratico qui dentro?- domandai cominciando a scrivere.
-Il Governo Americano non solo finanzia il nostro operato, ma lo gestisce e lo controlla, Emily, perciò…- sospirò lui. –Se non ti dispiace- indicò il foglio.
-D’accordo…- sospirai.
Feci il rapporto come mi aveva chiesto, compilando prima quella pagina bianca di tutto ciò che ricordavo del mio incontro-scontro con Mercer. Non specificai di aver rivelato a Zeus il nome del nostro capo e mi dedicai alla richiesta di informazioni personali che ordinò Martin di lasciar scritte sempre sulla stessa cartella. Rimasi allungo in quello studio a firmare carte che mi prefissavo di leggere con attenzione e dedizione, ben attenta a grovigli politici nei quali non volevo mica incappare.
Quando ebbi finito, feci per alzarmi dalla poltrona poggiando le mani sui braccioli, ma poi, d’un tratto, mi ricordai di un leggero particolare al quale non avevo dato molto peso in quegli ultimi giorni, ma che mi premeva terribilmente discutere con Lewis.
-Signore- chiamai.
-Sì?-.
-Qualche giorno fa, durante il suo discorsetto alla mensa, saltò fuori l’argomento di una… “arma segreta”- dissi.
Il vecchio si sistemò più comodo dietro al tavolo. –Sono informazioni riservate, queste-.
-Ma io sono speciale- sorrisi. –Ci sarebbe questo e altro che potrei sapere, no?-.
-Ti sbagli. Ai miei occhi siete tutti uguali, a quelli di Alex no. E adesso va’, l’allenamento al poligono ti attende- indicò la porta alle mie spalle.
-Signore- eruppi. –Esigo sapere di cosa si tratta-.
-In un qualche modo credo che tu lo sappia già-.
-Bhé, si sbaglia!- sibilai.
Martin si allungò verso di me e assottigliò il tono di voce. –Ti sei chiesta come i nostri Alchimisti abbiamo fatto così tante scoperte ultimamente?-.
Scossi la testa.
-Posso dirti solo che abbiamo un nuovo alleato, se così può esser chiamato, che conosce tanto bene i punti di forza di Alex quanto quelli di debolezza…- sussurrò. –Un uomo che gli è stato accanto abbastanza allungo da poterci svelare molte cose interessanti che hanno fatto dei nostri scienziati delle potenti armi contro Zeus…- fece una pausa, aspettando la mia reazione, ma io tacqui. –Assieme a quest’uomo abbiamo anche qualcun altro che ci è e ci sarà particolarmente utile, vedrai…-.
-Non capisco, chi…-.
-Infatti non devi capire, almeno non ancora. Adesso va’-.
Quella volta ubbidii: uscii dallo studio e mi avviai rielaborando più volte le parole di Martin, cercando di comprenderne il significato. Ma arrivai in palestra che ero tornata al punto di partenza: io ero l’unica cosa che poteva fermarlo veramente, e Lewis avrebbe affidato a me qualsiasi genere di arma per farlo.

Trovai il poligono parecchio interessante: ricordai che addestramenti del genere erano riservati alle matricole dei primi mesi in caserma, perciò avevo già parecchio dimestichezza con le armi e bersagli. Ma quella volta fu del tutto diversa dalle passate: i bersagli erano mobili e aerei. Montati su tante grosse ciambelle galleggianti, si spostavano da parte a parte della palestra assumendo curiose formazioni. Il nostro scopo era ovviamente quello di centrare il punto più interno del bersaglio, ma risultò comunque un’ardua sfida persino per i nostri sensi sviluppati.
Il farmaco che m’iniettarono prima di gettarmi nel caos della palestra, lo avvertii subito, avviluppava la precisione e la sensibilità che avevo delle mie pistole e la resistenza del mio corpo ad eventuali “proiettili amici volanti”.
Il frastuono di spari era assordante, nonostante le cuffie in dotazione all’interno dei caschi che ci obbligarono ad indossare. Le ciambelle-bersaglio erano munite di mitragliette altrettanto potenti come le nostre armi; agili e caricate di un programma che le dava l’autorità di venirci addosso fisicamente, contribuivano a rendere la simulazione ancor più vera. I cacciatori con le ali che ci aspettavano a Manhattan non avrebbero guardato in faccia nessuno, e tanto meno non fecero i coordinatori nella saletta oscurata che si presero cura dell’addestramento, trasformandolo in un vero massacro di massa.
Ad un tratto, assieme a quelle ciambelle svolazzanti per aria, nella palestra fece la sua comparsa un robot con la visiera di calibro rosso, ovvero dell’ultimo livello. La voce di Martin al microfono ci avvertì della cosa comunicandoci che si tratta di un modello in collaudo che simulava, come in passato, gli attacchi di Alex Mercer.
Inizialmente la maggior parte degli Angeli si fondarono in massa contro di lui, in una maniera disordinata e grottesca da far paura. Il finto Alex ne uscì integro, e molti dei cadetti vennero scagliati senza difficoltà addosso alle mura della palestra. Lewis, per nulla soddisfatto, scese personalmente in campo e radunò, durante una pausa, i capitani di ciascun clan. Li prese da parte e fece loro un discorsetto che durò una decina di minuti, comunicandogli di tenere maggiore disciplina e ordine all’interno del gruppo.
Quando l’allenamento riprese una metà di noi, esausta, lasciò la palestra, mentre l’altra, all’interno della quale il mio gruppo era rimasto per intero, riuscì a collaudare qualche mossa efficace di gruppo contro una gran parte delle ciambelle volanti che esplosero come fuochi d’artificio.
Il collaudo Mercer venne fatto rientrare, e nella palestra si agitarono ancora per poco combattimenti e spari contro le ciambelle rimaste. Una volta annientate fino all’ultima, restavamo in campo in pochissimi, tra cui io, Cole, Emmett, Lucy e Harry assieme alla ragazza capitano che riconobbi come quella del discorso al suo clan della mattina, seduta sul tavolo con i componenti del suo gruppo seduti attorno. La sua famiglia di Angeli era al completo come la nostra, e così molti altri, tutti risultati, come poi ci disse Martin, selezionati per l’offensiva.
Rinfoderai la pistola ancora fumante nel fodero che portavo legato alla coscia, mi tolsi il casco che misi sotto braccio e riempii i polmoni dell’aria della vittoria. Dopodiché ritirai le ali nella schiena e mi apprestai a raggiungere Lewis che faceva il solito discorso di congratulazioni al centro del campo d’addestramento.
Nel frattempo, alle nostre spalle, gli spazzini-robot vennero a pulire il pavimento dai brandelli di ciambelle volanti esplose durante l’addestramento.
-L’offensiva è forse la squadriglia di cui vado più fiero- arrise Martin gioioso in volto. Quanto gli piaceva vantarsi delle sue capacità di addestratore e responsabile! –L’allenamento che avete passato con successo va a testimonianza delle vostre capacità di combattenti. Sono felice che tutti voi selezionati e volontari per formare la squadra d’attacco abbiate raggiunto lo stesso obbiettivo, e altrettanto contento nell’affidare nelle vostre mani il destino della nostra New York- fece una pausa. –Questa sera alle 21.00 vi attende la partenza per Manhattan. Vi chiedo di trovarvi pronti sul tetto della base almeno una mezz’oretta prima, perciò avete tutto il tempo di fare la dovuta attenzione ai preparativi per la traversata. Chi di voi vorrà affinare le sue capacità sfruttando questo tempo residuo per farlo, sappia che l’accesso in palestra è del tutto libero fino allo scadere del concesso. La mensa resterà altrettanto disponibile, così come le altre aree all’interno della base. Il mio consiglio è: riposate e gioite, miei Angeli, perché l’Inferno vi aspetta- ci sorrise e si avviò fuori dalla sua palestra con la solita scorta di militari appresso.

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Capitolo 18
*** Capitolo 18° - Nuovi Cacciatori ***


Capitolo 18° - Nuovi Cacciatori

«Non ricordo di aver fatto molto in quell’arco di libero tempo che ci concesse Martin. Probabilmente vagai senza meta per la base; passai in infermeria a vedere chi era ancora sul letto di morte, feci qualche solito esame e “cazzeggiai” (ecco il termine che non mi veniva), qua e là per i piani. Almeno credo, poiché i ricordi di quelle ultime ore nella base sono meno vividi degli altri, ovvero più facili da dimenticare…».

L’orologio alla fine del corridoio segnava le sette e un quarto del pomeriggio. Mancavano un’ora e quarantacinque minuti alla partenza per l’isola, ma ancor meno all’appuntamento sul tetto per chissà quale assurda cerimonia che Lewis aveva chiamato “sorpresa” riservando una certa quantità di informazioni fino a quel momento. Chissà cos’aveva in mente quel pazzo questa volta. Con la mia domanda a cosa si riferissero tutti quei fogli firmati dal governo era stato molto schivo e poco chiaro, e questo fece sorgere in me parecchi, non pochi dubbi e solite supposizioni. Fatto sta che mi ritrovavo comunque nel corridoio che collegava le stanze da letto del mio clan senza un cazzo da fare che non fosse fissare quell’orologio a muro. Aveva una cornice nera, quadrata, e anche i numeri al suo interno assieme alle lancette avevano una forma spigolosa. Una roba moderna che mi dava un po’ il voltastomaco.
Le mani nelle tasche dei pantaloncini, le scarpe ben allacciate, i capelli legati in una coda alta e lo sguardo perso nel vuoto del bianco muro davanti a me. Ero vuota delle mie armi e dell’equipaggiamento che mi sarebbe stato consegnato assieme al casco e ad una nuova divisa onoraria solo nel momento della partenza.
Ero appoggiata alla parete tra la porta della mia stanza e quella di una camera vuota che sarebbe dovuta appartenere a Margaret.

«Mi ritrovai così a pensare a quella poverina, che ci aveva rimesso le penne durante il trattamento all’inizio della nostra trasferta alla base Phoenix.
Margaret Smith. Capelli biondi corti, corpo sano, ma poco resistente a quanto pare.
La sfigatella era risultata negativa alle iniezioni e pochi giorni dopo la convalescenza nei laboratori, quand’ancora sembrava stesse dormendo al mio fianco, è deceduta. Il suo sacrificio è stato vano come molti, la sua vita è andata dispersa assieme a quelle degli altri pazienti che non hanno assimilato il Virus nel giusto modo, a differenza di me, di Emmett, Harry, Lucy, Phil… e così via. »

Quando venne il tempo di cominciare a prepararsi, entrai nella mia stanza e decisi di farmi una bella lavata. Preparai la doccia e mi lasciai bollire sotto il getto bollente abbastanza a lungo da dovermi poi spicciare per recuperare i minuti persi. Uscii dal bagno con indosso un grande asciugamano attorno al corpo e uno più piccolo in testa a mo’ di turbante. A andai verso l’armadio e afferrai la stampella che portava degli abiti puliti che stesi sul letto. Mi accorsi poco più tardi che quella che avevo preso non era la mia uniforme, ma qualcosa di molto meglio.
Alla stampella pendevano i miei soliti pantaloncini fai da te, assieme però ad una maglia aderente, elastica e fatta di un materiale e dei colori del tutto nuovi che non avevo mai visto. Aveva anche un grande buco sulla schiena, probabilmente per le ali, ma quel particolare riguardo l’aveva anche la mia vecchia uniforme. In fine, in allegato c’era un giubbottino senza maniche che indossato mi faceva quasi da gilet, corto com’era. Il colletto alto nascondeva il mio collo e la cerniera davanti era comoda e scorrevole, cosa rara negli indumenti di quel genere. Sul dietro appariva uno stemma ricamato nella pelle di cui era fatto: una figura araldica, con al centro uno scudetto suddiviso in quattro parti dove apparivano i colori della bandiera americana. Qualche abbellimento qua e là attorno al disegno che c’era al suo interno e sembrava raffigurare una maschera anti-gas di quelle che usano i militari per non infettarsi col virus, assieme a due pistole incrociate sul fondo, prima del back-ground fatto di stelle strisce. Ciò che attirò subito la mia attenzione, furono anche le ali d’angelo che si chiudevano a coppa attorno allo scudo come a proteggerlo.
Indossai il nuovo giubbetto e successivamente guardai nell’armadio, dove intravidi una quantità enorme di vestiti nuovissimi, incartati e stirati.
Il simbolo con lo scudo americano e le ali appariva su ciascuna parte di quella che sembrava essere diventata la nostra nuova uniforme ufficiale.
Mi luccicarono allungo gli occhi: ora non solo il Governo Americano finanziava il nostro operato, ma garantiva anche il dovuto supporto e delle nuove divise. Straordinario, pensai. Mi sentii come se fossi appena entrata in marina o nel servizio militare, e quella di oggi fosse la giornata in cui ci consegnano la prima medaglia al valore.
Qualcuno bussò alla porta ed io mi voltai di colpo.
-Permesso- disse Cole affacciandosi nella stanza.
-Vieni, entra pure- gli sorrisi andandogli incontro.
Il ragazzo fece ciò che gli avevo concesso e si richiuse la porta alle spalle. Una volta che fui retta e fiera davanti a lui, il giovane mi squadrò per bene dalla testa ai piedi.
-Vedo che hai trovato da sola quello che volevo mostrarti- ridacchiò.
-E’ bellissima- conclusi io. –Il dietro mi fa impazzire!- dissi voltandomi e indicando il disegno sul giubbetto.
-A chi lo dici…- gli sentii pronunciare, e avvertii distintamente il suo sguardo spostarsi di molto più in basso rispetto la linea delle mie spalle.
Mi schiarii la voce tornando composta. –Andremo a Manhattan con queste?- chiesi.
Lui annuì. –E devi anche sbrigarti, avanti- disse.
Finii di allacciarmi le scarpe e sistemarmi i capelli ancora bagnati in una più comoda coda alta; dopodiché uscimmo entrambi dalla mia stanza e ci avviamo fianco a fianco verso gli ascensori, che ci condussero sino al luogo d’incontro sul tetto della base.
Arrivati lì ci riunimmo al nostro Clan che attendeva fiducioso assieme agli altri Angeli l’arrivo di Martin e dell’artiglieria, mentre sopra di noi si apriva un magnifico cielo stellato e la pista di atterraggio raggiava della luce dei lampioncini disposti lungo il percorso di volo. Caccia militari ed elicotteri dell’esercito sembravano pronti alla partenza, disposti ordinatamente in file con il proprio pilota accanto e altri uomini forniti dall’aeronautica.
Come mi aspettavo, tutti gli Angels riuniti lì indossavano la commemorativa divisa onoraria del settore, simile alla mia; e alla luce della pista mi accorsi del tocco affascinante che questa dava a Cole accanto a me.
-Perché i militari vengono con noi?- domandò Emmett ad un tratto, col suo solito tono scontroso.
Il capitano gli rispose immediatamente: -Lewis ha ordinato una scorta durante la traversata-.
-Ah!- rise l’Angeli 1-9-1. –E come pretendono di esserci utili?!-.
-Dimentichi che là fuori c’è qualche dragone che ci aspetta- ridacchiò Harry.
-Tremo dalla paura…- si beffò Emmett.
Lewis arrivò assieme ad una sfilza di militari e piloti che si piazzarono subito nei caccia e negli elicotteri, mentre il grande capo prendeva posto davanti a noi che lo guardavamo con gli occhi sgranati.
-Perdonate l’indulgenza di questo mio medesimo ritardo, Angeli, ma la revisione del vostro nuovo equipaggiamento mi ha trattenuto oltre il dovuto- sorrise. –Fatto sta- batté le mani –che è tutto pronto e siamo solidi per cominciare la distribuzione. Caschi e armamenti di difesa alla mia sinistra. Armi da fuoco e potenziamenti alla mia destra- disse, e ci mettemmo in fila suddividendoci in due gruppi.
-Comincia la parte noiosa- borbottò Lucy.

Finii di allacciarmi tutto l’equipaggiamento dopo dieci minuti di attesa in coda e altri dieci di montaggio. Insomma i tempi bastarono giusti giusti a tutti quanti.
L’armamentario di un nuovo Angelo non mancava di nulla: avevamo due armi da fuoco a disposizione, ed io avevo scelto due pistole leggere e maneggevoli con un calibro potente e preciso, le stesse che usai al poligono. Ci vennero “installate” alcune parti di un’armatura fatta di resina d’argento e piombo; un materiale resistente agli impatti e che copriva nient’altro a parte spalle e ginocchia. Le siringhe coi potenziamenti erano tre e legate alla cintura dei pantaloni. Ciascuna fiala aveva un uso differente con effetti altrettanto dissimili. La prima per l’attacco, la seconda per la difesa, e la terza da utilizzare in casi di estremo bisogno, dopo esser stati messi alle strette di energia. Ci fecero un’iniezione che irrobustiva il corpo agli attacchi di Mercer che avrebbe tenuto per 48 ore. Dopodiché saremmo dovuti ritornare alla base per fare un nuovo vaccino. Era una specie di scudo naturale scoperto da uno scienziato di cui non ci volle essere riferito il nome. Meglio così, perché l’avrei comunque presto dimenticato.
Mi accorsi fin da subito che Lewis aveva indugiato con gli occhi su di me, e non appena fui completa dell’equipaggiamento e feci per avviarmi all’elicottero, ma Martin mi mandò a chiamare da un suo militare.
-Che succede?- domandò Cole che era già in piedi nell’abitacolo dell’elicottero, le cui pale già giravano potenti e rumorose, spazzando l’aria e la terra attorno a noi. Il mio clan al completo era giù sul velivolo, mancavo solo io. Il militare alla mia destra insisteva con la sua presenza.
-Un attimo- dissi e mi avviai di corsa seguendo il soldato armato che come se fosse la mia scorta mi accompagnò al cospetto di Lewis.
Ci mancava solo che si aspettasse che m’inchinassi.
-Capo- salutai.
Martin alzò il mento in modo altezzoso, ed io serrai la presa sul casco che tenevo sotto braccio, frenando l’impulso di scagliarglielo contro quella testa da idiota e brutto vecchiaccio che aveva. –Emily, la tua missione non è cambiata. Le tue mansioni sono sempre le stesse, i tuoi poteri si manifesteranno col tempo e la necessità di usarli, come hai saputo riconoscere tu stessa-.
-Infatti- annuii grave.
-Quello che ti chiedo è un ultimo favore, prima che tu vada-.
-E sarebbe?- domandai pronta a tutto.
-Se tu riuscissi a portare Alex qui vivo, magari. Condurre esperimenti su di lui ci aiuterebbe a comprendere molte cose-.
-Mi sta chiedendo troppo, non sarei in grado di…-.
-Sono sicuro che troverai un modo- mi sorrise malizioso.
-Posso provarci, ma nel caso fallissi, nel caso riuscissi ad ucciderlo, cosa…-.
-Non preoccuparti di questo. Tieni solo conto delle opportunità che hai per ottenere ciò che ci serve-.
Chinai la testa e me ne tornai sui miei passi montando in elicottero.
Quando fu tutto pronto, ci salutammo senza ulteriori convenevoli, noi e gli Angeli rimasti a guardia dell’”arma segreta”. Montammo sugli elicotteri che erano in totale quattro e ci levammo in volo salutando Martin, rimasto a terra, con un gesto prettamente militare.
Il gruppo di Angeli che era nel nostro stesso elicottero era quello capeggiato dalla ragazza bionda che sembrava saperla lunga sui nuovi infetti che abitano Manhattan. Stava discutendo con Cole proprio di quello mentre io e i componenti non principali dei rispettivi Clan ci tenevamo impegnati a modo nostro.
Il casco lo tenevo sulle ginocchia, e indosso avevo delle cuffie che mi permettevano di isolare il frastuono delle pale dell’elicottero, il quale aveva entrambi i lati aperti dai quali spuntavano delle grosse mitragliatrici. Il pilota e i militari venuti con noi si tenevano a debita distanza come se temessero più noi piuttosto che cadere dall’elicottero.
-E’ strano- fece una smorfia Harry seduto al mio fianco. –Mi aspettavo che Martin ci mandasse con le nostre ali- disse.
-Anch’io- annuii. –Ma avrà sicuramente le sue brave ragioni!- ridacchiai.
-Lo spero per lui!- sibilò Harry.
-Cos’hai?- chiesi confusa dal suo turbamento.
-Niente, sto bene…-.
Mentiva. –Non dirmi che soffri di vertigini!-.
-No, affatto! Solo che i miei sono morti in un incidente aereo quand’ero bambino, e ho paura di salire su questi cosi!- doveva gridare per parlarmi.
-Mi dispiace! Anche mio padre è morto in elicottero! Ti capisco!-.
-Sì!- sorrise lui. –Conosco la storia di tuo padre!- rispose.
Traversavamo proprio in quell’istante le acque che dividono l’Isola dalla costa ovest, e d’un tratto si udì un suono che riuscì a superare tutti gli altri. Pareva un ruggita, ma dieci volte più potente di quello di un leone.
Mi affaccia subito fuori dall’abitacolo, lanciando un’occhiata all’orizzonte oltre i vetri della cabina del pilota. E vidi.
Erano in branco, una dozzina e muovevano chiassosi, enormi e affamati verso di noi. Bestie di una stazza mai vista, persino da lontano ci sembrarono subito colossali.
-I cacciatori!- gridò Emmett slacciandosi la cintura che lo teneva attaccato al sedile.
L’elicottero eseguì una virata, i militari si piazzarono alle mitragliatrici e noi Angeli infilammo la testa nei caschi. La battaglia stava avendo inizio.
Il mio coordinatore fu subito messo in contatto con me; il collegamento si attivò non appena sulla visiera del casco comparvero le prime coordinate numeriche e le mappine 3D della zona messa a scanner dal satellite che vegliava sopra di noi.
-Ciao bimba!- mi salutò Matt.
-Non c’è tempo, idiota! Cosa dobbiamo fare?!- gli gridai contro slacciandomi la cintura.
Le mitragliatrici aprirono il fuoco e il caos e la confusione di suoni e ruggiti nemici divenne altissimo. I cacciatori si sparpagliarono attorno alla zona che stavamo traversando e cominciarono a fare quello per il quale si meritavano quel nome.
-Per adesso lasciate fare ai militari! L’elicottero vi scorterà fino a terra, ma cercate di restare calmi!-.
-Quei cosi ci vengono addosso!- ribattei.
-Emily, dannazione! Sono ordini di Martin!-.
Attivai la comunicazione con il capitano e gli altri membri del mio clan, sbattendo in faccia a Cole che era assurdo.
In quel preciso istante un cacciatore si scontrò con violenza contro l’abitacolo del nostro elicottero, che barcollò un poco e si riassestò con addosso qualche militare di meno. Gli uomini che erano alla mitragliatrice di sinistra precipitarono nell’acqua a cento metri da terra e sicuramente non molti sarebbero sopravvissuti ad una caduta simile.
Guardandomi attorno, mi accorsi che il gruppo di bestie mutanti stava causando dei danni colossali non solo al nostro ma anche agli aereo - motori che ospitavano gli altri clan dell’offensiva.
-Cole!- chiamai.
Il capitano si voltò verso di me, e ci scambiammo un’occhiata che bastò a dare pane per i nostri e i denti dei membri del nostro clan. Il ragazzo si slacciò la cintura e balzò in piedi sistemandosi nel centro dell’abitacolo. –Angeli in volo!- chiamò a raccolta.
-No, Turner!- ruggì la donna capitano dell’altro gruppo. –L’hai sentito Lewis!-.
-Se i cacciatori distruggono gli elicotteri noi non moriamo, ma questi uomini d’America sì!- disse lui facendo riferimento ai pochi militari che rimanevano sul nostro velivolo. La mitragliatrice che usavano perforava le ali di quelle bestie, ma non bastava solo quello a metterle fuori combattimento.
Harry aveva ragione: sembravano proprio dei dragoni, con tanto di ali da pipistrello gonfie di e pulsanti di Virus. Muscoli pompanti, quattro arti con sei artigli affilati ciascuno. Una coda tozza e coperta di spunzoni, assieme ad un collo grasso e flaccido che reggeva una testolina col mento sporgente, una grande mascella e due piccoli occhi famelici quanto i denti acuminati che spuntavano anche se la bocca era chiusa. Zanne che si avventarono contro l’elicottero dietro di noi perforandone il serbatoio e il telaio della coda, che andò in frantumi ed esplose in una marea di fiamme e scintille. Si udirono le grida degli umani che vi stavano all’interno, mentre dal fumo emersero i quindici Angeli completi delle loro ali. Questi cominciarono a fronteggiarsi a furia di calci, pugni, artigli e armi da fuoco contro le bestie, che però ebbero la meglio sul Clan che ne uscì perdente con nessun supersite.
E intanto il nostro elicottero proseguiva spedito verso Manhattan, con l’unico obbiettivo di scortarci nel bene o nel male dall’altra parte dell’Hudson.
-Basta, fuori di qui!- ordinò ancora Cole.
Ci alzammo tutti dai nostri sedili andando di corsa verso il foro che aveva fatto il cacciatore nell’abitacolo dell’elicottero. Armi alle mani, ci gettammo a mo’ di paracadutisti esperti uno alla volta giù dall’elicottero.
Quando fu il mio turno, subito dopo di Emmett, saltai nel vuoto con le gambe strette e distese, assieme alle braccia spalancate nel vuoto dell’aria che cominciò a frustarmi le parti di pelle scoperta, dove l’uniforme non arrivava. Ad un quarto dalla caduta diedi l’ordine delle mie ali di spalancarsi, e queste si gonfiarono veloci permettendomi di rallentare la caduta e cominciare a planare. Agganciai il mio bersaglio di mira e, stringendo le ali attorno al mio corpo, assunsi la vaga forma di un proiettile che andò a spezzare le ossa dell’ala sinistra di un cacciatore che svolazzava poco sotto il nostro elicottero. La mia caduta proseguì allungo, fin quando non fui ad un pelo dall’acqua e solo allora riaprii le ali che mi sollevarono di un metro o due. Al mio seguito c’era Cole che mi subito affianco. Emmett ci guidò avanti e poi di nuovo su, verso gli elicotteri che perdevano quota impegnati nel fuoco incrociato coi cacciatori.
Io ed Emmo ci slanciammo entrambi su un drago afferrandolo per le corna e, con un colpo preciso, calibrato e potente, spingemmo verso il basso spezzandogli l’osso del collo. La bestia precipitò nell’acqua dopo essersi lasciata sfuggire un mugolio strozzato.
Restavano una decina di cacciatori a darci noia: quando Harry si fu unito a me e Word, insieme noi tre aprimmo il fuoco sulle ali di una di quelle bestie che, per i troppi fori sulla membrana, si sbilanciò e precipitò anch’esso nelle correnti impetuose.
I loro punti deboli non sono protetti e abbastanza vulnerabili che basta un colpo, ma i loro artigli e i loro denti sono altrettanto potenti contro di noi. Tenere testa a quelle creature era come fronteggiare Alex con le sue stesse armi, consapevole che gli stessi potenti attacchi che possono uccidere te ce li hai anche tu contro di lui. Per me fu un ottimo buon allenamento per cominciare la giornata. Il nostro ritorno in Guerra era stato annunciato da un gruppo clandestino di cacciatori che ci intralciava la strada. Avremmo fatto bene a decimarli tutti, fino all’ultimo, così da risparmiare il lavoro ai clan restati alla base per la difesa della stessa.
Un cacciatore si avventò addosso ad un elicottero e l’impatto fu accompagnato dal boato di un’esplosione di fiamme e fumo. Il suo sacrificio ci era costato altri militari umani e un pugno di Angeli che non seppero liberarsi dai suoi denti che penetrarono le loro ossa. E la sua mascella li tenne ben stretti trascinandoli nel baratro delle correnti marine con sé.
La mandibola di uno di quei cosi bastava a stringere cinque di noi e ingoiarci interi. Balene simili con le ali non se n’erano mai viste. Impugnai al meglio le mie pistole e sparai senza pietà alla testa di uno di quei colossi, guadagnandomi il suo profondo odio non appena si fu accorto di me, insettino a suo confronto, che gli svolazzavo intorno come una mosca fastidiosa.
La sua zampata arrivò improvvisa e mi scaraventò contro le pale di un elicottero che si danneggiò a tal punto da fargli perdere quota.
-Emily! Emily sono io, Matt! Ma che diavolo succede?! Che cavolo state facendo?!-.
-‘Sta zitto!-.
Indebolita dall’impatto e con i vestiti già strappati a soli pochi minuti dall’inizio, serrai le ali e mi affrettai ad andare a recuperare l’abitacolo del veicolo che precipitava verso l’acqua. Lo superai e mi piazzai sulla punta, potendo ben vedere il pilota all’interno della cabina che gridava spaventato. Afferrai il muso dell’elicottero e gonfiai le ali, accompagnandolo con dolcezza sulla cresta della corrente senza ulteriori morti. Dall’abitacolo uscirono gli Angeli ospiti che si diressero in alto tornando nel vivo del combattimento.
Sbadatamente ero finita anch’io per metà in acqua, e per risollevarmi fu una gran fatica. Impiegai troppo tempo a riprendere quota per raggiungere l’ultimo elicottero rimasto integro che doveva vedersela con ancora cinque cacciatori, altrettanto impegnati da una trentina di Angeli.
Prima che riuscissi ad asciugarmi le ali abbastanza per poterle sbattere, pesanti com’erano, contro di me si avventò una di quelle bestie, e dovetti scartare malamente di lato evitando di pochi centimetri i suoi denti affilati che avrebbero potuto farmi a pezzetti. La bestia arrivò comunque a ferirmi con una zampata che mi scaraventò di nuovo in acqua.
Affondai di qualche metro, sentendo le ossa rotte e dovendo riaggiustarmele alla svelta. Il cacciatore attese che uscissi allo scoperto, magari che esaurissi l’ossigeno. La sua immagine mi appariva sfocata dall’altra parte dello specchio d’acqua nel quale ero prigioniera. Mi servii delle ali per spostarmi dietro la sua ombra e riuscire a riemergere alle sue spalle.
Ero stata una sciocca.
Un grosso aculeo della sua coda m’infilzò all’altezza dello stomaco passando da parte a parte. Persi tanto di quel sangue che avrei potuto tingere l’oceano, ma restava in me il vigore necessario per stringere l’impugnatura della mia pistola, puntare e premere il grilletto.
Il proiettile gli perforò il piccolo occhio destro. Mugolò di dolore in un grido acuto che arrivò nelle mie orecchie, anche attraverso lo spessore del casco.
Mi sfilai dal suo artiglio e rigenerai alla svelta i tessuti degli organi e dello stomaco. Con un urlo di furore mi avventai sul suo muso e, tramutando il mio braccio in una grossa lama nera e argento, lo infilzai nel cranio affondando più della metà dell’arto nel suo cervello da gallina.
Il suo dolore morì in quel mio ultimo gesto di togliergli la vita. Lasciai che il suo corpo precipitasse in acqua e, servendomi della sua carne come isolotto, potei finalmente asciugarmi le ali di ciò che bagnato restava. Attorno alla carcassa dell’animale si formò una densa nube di sangue che evaporava in gas tossici e fumi puzzolenti come se stesse già andando in decomposizione.
Approfittai di quel breve riposo per realizzare quello che era successo: guardai il mio braccio mentre tornava alla normalità dopo essersi mutato in qualcosa che non ero mai stata capace di padroneggiare. Fasci neri e rossi mi avvolsero l’arto per intero nel tentativo di ripetere l’accaduto, e della lama che divenne studiai ogni particolare.
-Stupenda…- passai la mano sulla sua superficie così tagliente che mi ritrovai senza un dito dopo averla solo sfiorata. Soddisfatta, e dopo aver rigenerato l’unghia mancante, attesi di tornare del tutto alla normalità.
Dopodiché mi allontanai da lì spiccando un balzo e caricando contro il mio prossimo bersaglio.
D’un tratto Matt mi contattò: -Emily, dannazione! Martin…-.
-Non mi frega un cazzo di quello che dice Martin! Chissà quanti militari ho salvato in quell’elicottero!- sbottai mentre la mia ascesa continuava, e le mie ali batteva forsennate quanto il mio cuore.
-… Come vuoi. Ma adesso dimmi: sei ferita?-.
-No!- gridai.
-Il tuo clan ha subito perdite?-.
-Non credo, perché me lo chiedi?- domandai confusa.
-Perché stiamo provando tutti quanti a chiederlo al tuo capitano da mezz’ora, ma Cole non risponde! La sua comunicazione è caduta! Non mi risponde, dannazione, non è da lui!-.
Mi si rizzarono i capelli, sbiancai in viso e in corpo, restando sospesa a mezz’aria. –Cosa?…- mormorai.















Su grande richiesta di Saphira87, dopo aver stimolato la sua curiosità con un spoiler che sconvolge, annuncio il postaggio di questo capitolo che… Muha, non saprei. Comunque devo farvi vedere un’immagine, ovvero un disegno fatto da me che raffigura un cacciatore volante. Non è molto simile ai cacciatori quelli che si trovano nel gioco, ho voluto rendere queste creature simili ai draghi per via della mia grande passione! ^-^


Allego anche la nuova uniforme del settora Angels con Emily come manichino! Ovviamente, di mia medesima creazione! ^-^


Allora, non ho molti commenti per questo capitolo, ma solo un avvertimento per uno speciale utente:

X Snowdra1690: dopo la lettura del capitolo, vorrei che lasciassi una recensione anche a quello precedente che non hai fatto in tempo a commentare. Vedi… mi preme troppo andare avanti con la storia, e a quanto pare preme parecchio all’altra famelica fan delle vicende di Emily che commenta questa storia. XD Quindi, ovviamente se non ti costa troppo tempo, pleeeese, commenta anche quello che ti sei lasciato addietro! *-*

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Capitolo 19
*** Capitolo 19° - Back to the Hell ***


Capitolo 19° - Back to the Hell

…Sei ore prima

-Lisa- chiamò Max entrando nella tenda, e assieme a lui fece capolino all’interno anche un raggio di sole proveniente dall’esterno, dove si prospettava una magnifica giornata e un cielo limpido e azzurrissimo.
La ragazza era seduta sul suo letto con le braccia strette attorno ad un cuscino di soffice piume bianca, e forse l’ultimo così pulito in tutto il campo. I capelli ancora legati e spettinati, sfuggivano dal codino; questo a testimonianza che aveva dormito senza neppure cambiarsi gli abiti.
Il vecchio andò a sedersi al suo fianco. –Che è successo?- chiese curioso.
Lisa si strinse nelle spalle affondando il mento nel cuscino. –Niente- socchiuse gli occhi.
-C’è poco nel tuo atteggiamento che riesce a convincermi- ridacchiò Corvo. –Avanti, si tratta di Alex, è così?-.
La ragazza sbuffò alzando gli occhi al cielo.
-Ah, lo sapevo!- scattò in piedi il vecchio dottore. –Su, forza, dimmi cosa…-.
-No, papà, adesso no- mormorò lei sollevandosi dal letto e lasciando il cuscino su di esso. –Mi stavi cercando: vuoi che faccia qualcosa?- chiese seria.
-Sì- disse lui tranquillo. –Come prima cosa voglio che tu ti dia una lavata. Come seconda, dovresti riempirmi queste fiale di alcuni campioni- aggiunse prendendo delle fiale dalla tasca del camice. Le porse alla figlia che se le mise tutte e tre attaccate alla cintura che portava sempre con sé. –Domani ho da fare parecchi controlli medici e mi servono anche dei tamponi e delle fiale nuove. Vedi se riesci ad arrivare al vecchio ospedale e trovarne qualcuno lì- sorrise affabile. –Tutto chiaro?- chiese orgoglioso.
Lisa si guardò i piedi e annuì. –Va bene. C’è altro?-.
-Potrei chiedere ad Alex se può accompagnarti…-.
-No, me la cavo- si apprestò a ribattere lei. –Vado da sola- disse incamminandosi e superando le spalle del padre. Afferrò una felpa da una sedia e una torcia dalla scrivania che mise assieme alle fiale stretta alla cintura dei pantaloni. Una bottiglietta d’acqua da un piccolo frigo bar che mise in una piccola sacca a tracolla che prese con sé.
-‘Sta attenta!- le augurò Max.
Lisa non si volse neppure e uscì dalla tenda senza aggiungere altro.
Camminò tutta la passerella con passo scattante e scese svelta dalle scale. Traversò il sentiero che andava per le tende di lamina e cartone dei profughi e sparì avvolta dalla luce del mondo esterno a quel vecchio magazzino.
Era una giornata stupenda, c’era un caldo a tal punto afoso e soffocante, che dall’asfalto della strada si intravedeva opaco di lì ad oltre.
La ragazza si allacciò alla vita la felpa e si slegò i capelli che le ricaddero in morbidi boccoli ondulati sulle spalle magre. Li rilegò per bene e ordinatamente per poi proseguire sulla sua strada.
Indossava una canottiera bianca sporca in alcuni punti e dei pantaloncini fino a metà coscia. Degli scarponcini comodi e da montagna che servivano soprattutto durante le traversate di macerie e palazzi in decomposizione. Raggiunse una zona interna della città proseguendo per vicoli e piccole stradine, scavalcando recinzioni e muri di detriti, corpi e polvere, ben attenta a non fare cattivi incontri.
Le pattuglie militari erano più frequenti di giorno che di notte, proprio per questo doveva essere molto paziente e portare parecchia cautela in ogni suo spostamento.
Si avviò spedita verso una parte residenziale abbandonata sia dai militari che dagli infetti, e lì trovò i residui di Virus che suo padre gli aveva chiesto come campioni. Si avvicinò a ciò che rimaneva di un piccolo alveare in rovina, estrasse dalla tasca dei pantaloncini un coltellino svizzero e, estraendo la lama, tagliuzzò uno dei secchi tentacoli rosso porpora che avvolgevano un detrito dell’edificio. Mise una radice in ciascuna fiala, dopodiché le ripose sicure nella borsa a tracolla e proseguì per la sua strada.
Raggiunse il pronto soccorso dell’ospedale nel tardo pomeriggio; guardò l’orologio dal polso che segnava le cinque e quaranta circa e, asciugandosi le gocce di sudore sulla fronte, cominciò a scalare il muro più esposto dell’edificio. Si issò su ciò che restava della scala antincendio della palazzina e salì sino al tetto. Una volta lì, trovò un ingresso facile da uno dei condotti dell’aria e s’infilò lì. Percorse lo stretto tunnel di lamina a carponi.
Era una anno che faceva quello come mestiere: l’esperienza e l’abilità necessaria da ladra l’aveva acquistata prendendosi cura di un gruppo profughi da sola per un anno. Lei così attiva, allenata e pronta a tutto, quand’era piccola aveva preso anche lezioni di karatè, che però non valevano molto quando ci si trovava faccia a faccia con un cacciatore.
Arrivò in uno dei magazzini di contenimento e buttò giù la grata di ventilazione che la divideva dal suo obbiettivo. Questa cozzò sul pavimento in un frastuono assurdo; si maledisse alla svelta di quello che aveva fatto, non appena mise i piedi a terra e vide entrare dall’ingresso principale due militari armati.
Era buio, la poca luce filtrava da delle piccole finestrelle allungate sulle pareti e passava tra un ripiano e l’altro del magazzino.
La ragazza si piegò sulle ginocchia nascondendosi dietro uno scatolone abbastanza spesso. I militari si guardarono attorno circospetti e cominciarono a pattugliare tutta la zona dividendosi.
Quello che veniva dalla sua sinistra stava quasi per raggiungerla. Quando le fu abbastanza vicino, Lisa sporse in un avanti una gamba sulla quale il soldato inciampò. Si rovesciò al suolo nel trambusto delle armi e tutto l’equipaggiamento.
-Ehi!- strillò l’altro. –Tutto bene, Sett?- domandò al compagno.
Lisa scattò in piedi e cominciò a correre.
-Eccola! Fermala, idiota!- ruggì il militare a terra.
Prima che uno dei due riuscisse a far fuoco, la ragazza scartò di lato e raggiunse lo scomparto con i tamponi. Afferrò al volo quello che le serviva e lo mise nella borsa. Poi fu il caos di proiettili che mandavano in frantumo ampolle, fiale, cotoni e scatoloni.
-E se è sana?!- domandò d’un tratto il secondo abbassando l’arma.
-Che cazzo se ne frega! Ha rubato qualcosa!- fu la risposta di quello che aveva il sedere ancora a terra. Il compagno lo aiutò ad alzarsi e insieme intrapresero una corsa folle nella sua direzione.
Lisa si nascose nella penombra di una stanza adiacente e più buia. Attese che i due proseguissero spediti più avanti, poi uscì allo scoperto e riprese a correre, tornando nella direzione dalla quale era venuta.
Si tuffò nel condotto di ventilazione e lo risalì fino a tetto. Abbandonò anche l’ultimo piano dell’ospedale e scivolò giù per la ringhiera delle scale antincendio. Arrivata al primo livello dell’edificio, si gettò su alcune macerie lì accanto e, piegando le ginocchia, atterrò rotolando.
Con il fiatone e il cuore che batteva a mille, rimase stesa a terra interminabili attimi pur di riprendere fiato. I capelli bagnati di sudore si erano attaccati alla fronte, le guance arrossate, il petto che si alzava e si abbassava gonfiandosi a dismisura. Scoppiò in una fragorosa risata per averla passata liscia di tanto così.
Si rialzò in piedi con un po’ di fatica e si avviò sulla via del ritorno.
Peccato che comunque il viaggio di rientro le costò troppo tempo, e calò la notte prima ancora che riuscisse ad intravedere la zona del porto. Accese la torcia e si fece largo tra le macerie di vicoli e stradine. Si mise anche la felpa lasciandola slacciata davanti, ma nel gesto di alzarsi il cappuccio sulla testa, udì un borbottio profondo e cupo provenire dall’oscurità alla sua destra.
Si voltò lentamente rallentando il passo fino a fermarsi del tutto. Scrutò allungo nel buio della strada senza lampioni dal quale aveva sentito levarsi quel verso, almeno fin quando tra un’ombra e l’altra balenarono due piccoli occhi porcini tinti di un rosso sanguineo. Il luccicare di due grosse zanne e in fine, quello che le era parso nel buio solo un cumulo di macerie, tramutò in un possente e colossale cacciatore alato che si innalzò su due zampe e ruggì il suo terrificante grido.
-Cazzo, non di nuovo …- gemé la ragazza lasciando cadere la torcia a terra.
Prima che gli artigli anteriori della bestia potessero zompargli addosso, Lisa scartò di corsa con il cuore in fermento e il viso già in fiamme.
Era la fine.

-Sul radar ho perso il segnale di entrambi! Siamo disperati e temiamo il peggio: sono i nostri uomini migliori! Vedi se sono nei paraggi! Se non ci sono devo avvertire Martin che ordinerà la ritirata!-.
Mi fiondai all’istante alla ricerca dei due, ma nell’aria attorno all’elicottero dove gli Angeli degli altri Clan e i restanti cacciatori si sfidavano all’ultimo sangue, non ne intravidi l’ombra. Contattai Lucy, gli diedi la notizia, ma lei era altrettanto spaventata. Quando parlai con Harry, fu lui a supporre che si erano diretti sull’isola.
-Emmett scassava le palle a Cole lagnandosi del fatto che fossimo qui ad esaurire munizioni invece che là!- indicò l’isola. –A cercare Mercer! Da solo!- aggiunse.
-Capisco, e poi?- dissi io mentre volavamo fianco a fianco diretti verso i grattacieli di Manhattan, o meglio, verso quello che ne restava.
Alle nostre spalle abbandonavamo i dieci Angeli rimasti vivi a parte noi che fronteggiavano i due cacciatori ancora da abbattere, salvaguardando l’ultimo elicottero in aria.
-La comunicazione è caduta non appena Cole gli è andato dietro per fermarlo! Si sono presi a parolacce fino ad allora! Ho ringraziato Dio quando abbiamo perso il segnale, mi scoppiano le orecchie!-.
Lucy ridacchiò isterica, ma io non riuscii a fare neanche quello.
Se Emmett aveva davvero intenzione di trovare Mercer da solo e sprovvisto di tutta la squadra, allora c’era poco da fare. Ero preoccupata per Cole, che non avrebbe potuto fare altro che fronteggiarlo pur di difendere un membro del clan.
Il mio ragazzo rischiava la vita per l’ego di un maledetto stronzo. Se Emmett ne usciva vivo ‘sta volta l’avrebbe pagare cara.
-Martin chiamerà la ritirata, cosa facciamo?- domandai io.
-Dobbiamo trovare Emmett!- lagnò Lucy.
-Ma se avessero incontrato Alex e Cole non ce l’avesse fatta?!- ipotizzai preoccupata.
-Non pensarlo nemmeno!- gridò la ragazza.
-Sarebbe il peggio che potesse accadergli- mormorò Harry fissando l’orizzonte oltre il suo casco, dove le acque del lago s’infrangevano sul porto di Manhattan in piccole onde spumose. Mantenendo la lucidità e la sua solita compostezza, il ragazzo ci guidò entrambe oltre il molo e la banchina, proseguendo in volo e in testa al triangolo che formavamo, attraverso i primi tetti della città. Proseguimmo raso terra con la strada asfaltata che conduceva verso il centro.
-Non abbiamo un localizzatore?- domandai.
-Ce l’hanno alla base, ma quei due idioti devono aver disattivato il GPS. Oppure qualcosa nei caschi si è danneggiato- borbottò il ragazzo. –Qualcosa mi dice che Emmett si è lasciato prendere la mano-.
-Quel deficiente ci ammazzerà tutti!- ruggii.
-La sua è stata una mossa poco dignitosa, ma dovete capirlo, è fatto così- assentì Lucy.
-Non provare a proteggerlo!- le ringhiai contro salendo di quota. –Non ti merita!-.
-Lui l’ha sempre pensato…- sussurrò la ragazza.
-Smettetela!- s’intromise Harry. E vedete di essere d’aiuto! Avanti, fiutate qualcosa!-.
Atterrammo nel centro della strada, tra macerie di palazzi e automobili carbonizzate da esplosioni. Altre carcasse di vetture erano rimaste vittime di incidenti stradali in quella zona deserta della città, dove l’aria inquinata di Virus era diventata padrona e tutto, cielo e luce, era tinto di un colore rossastro, nonostante fosse notte fonda. Le stelle in cielo erano oscurate da tossiche nubi rosate e i corvi danzavano in circolo sopra le file e i mucchi di cadaveri lungo i marciapiedi, allietandoci con la loro melodica canzoncina di morte e le loro note gracchianti.
-Bentornati all’Inferno- ridacchiai.
Harry mi fulminò con un’occhiataccia che potei ben immaginare anche oltre la visiera del casco che aveva. –Forza, andiamo- disse incamminandosi con passi lenti e misurati tra i corpi delle gante e le macerie.
La puzza nauseabonda penetrò violenta nei miei polmoni. Avvertii anche alcuni residui del Bloodtox decomposti nell’aria, ma in quantità minime da non darci fastidio. Camminammo lungo la striscia continua che andava sull’asfalto coperto di sangue e detriti, mentre i pochi lampioni funzionanti illuminavano poco e niente. Lontano, dove crescono i palazzi del centro dell’isola, si vedevano le luci di finestre e automobili che ancora ravvivano le parti più protette di Manhattan. I grattacieli lungo la costa, invece, sono spenti e bui come la notte, oscurando una fetta di cielo come se quella parte d’immenso fosse stata spopolata delle sue stelle. Le ombre delle vite che si sono spezzate in queste vie per mano di Mercer era come se potessi sentirle sussurrarmi di trovare quel bastardo ancora prima di cominciare a fiutare Emmett e Cole.
D’un tratto ebbi una vana sensazione di sentirmi chiamare; mi voltai e vidi solo un’ombra muoversi nell’oscurità di un vicolo che avevamo da poco passato, continuando a dirigerci verso il centro abitato.
-Siamo sicuri che siano andati di qua?- chiese Lucy.
-Il mio naso dice così! Se il tuo ha qualcosa in contrario dillo adesso!- eruppe Harry.
-Va bene, scusa…-.
Ero rimasta indietro mentre i due ragazzi proseguivano oltre l’incrocio attraversando sulle strisce; peccato però che da quelle parti non passava un’auto da mesi.
I semafori erano spenti, altri distrutti. Le pareti dei palazzi mangiati da tentacoli neri e rossi e avvolti dalla solita puzza di Virus. Mi guardai bene le spalle allontanandomi da quel vicolo e accelerando il passo.
-Ehi, aspettatemi!- chiamai.
-Emily, ora resti anche indietro?!- fece lui infastidito vedendomi arrivare di corsa sul marciapiede opposto.
-Scusate, ma… mi era parso di vedere…-.
-Perfetto!- Lucy alzò il occhi al cielo. –Ora hai anche le visioni!-.
-Non ho avuto una visione!- ruggii. –E non parlarmi in questo modo! Ti ricordo che è colpa del tuo ragazzo se siamo finiti qui a corto di munizioni ed energie, mentre magari quello che ho visto era Alex e sta solo aspettando che siamo di poco più deboli!- sbottai.
Lucy mosse un passo avanti accorciando la distanza che c’era tra noi. –Uno come Mercer non andrebbe mai a cercarsi avversari di poco conto come noi! Sarebbe un onore se Emmett stesse combattendo contro di lui adesso!- eruppe.
-Basta!- provò ad in promettersi Harry.
Ma fu del tutto inutile.
Alzai la voce e, spiccando un balzo così da annullare del tutto le distanze, mi ritrovai faccia a faccia con la ragazza. –Io sono una degna avversaria per lui più di quanto pensi!- digrignai.
-Emily, ti prego, basta- tentò ancora Harry. –Lucy, non…-.
Riuscì a terminare gli fu impossibile, perché in quell’istante l’Angel 1-9-4 Lucy Malcom si avventò su di me dandomi una spinta che mi sbilanciò all’indietro. –Sbruffona!- mi disse.
-Stronza!- ricambiai la spinta con un pugno allo stomaco che la fece schiantare di sedere sull’asfalto.
-Adesso ti faccio vedere io!- Lucy scattò in piedi, gonfiò le ali e si scagliò contro di me. Rotolammo sulla strada avvinghiate, mentre le sue mani si stringevano sulla mia gola e tramutavano in artigli che avrebbero potuto pungermi da un momento all’altro. Quando Harry tentò di fermarci era comunque troppo tardi. Intromettersi in una guerra tra donne era scavarsi la fossa da solo.
Lucy mollò la presa e afferrandomi il polso provò a lanciarmi contro un muro. La lasciai fare, e questo si sbriciolò in tanti frammenti che mi piombarono addosso sotterrandomi di polvere e pesanti macerie.
-Lucy, che cazzo fai?!- strillò Harry. –Sei fuori di testa, per caso?!-.
La ragazza diede le spalle al cumulo di detriti sotto il quale ero rimasta incastrata. –Ha cominciato lei, quella puttana che si crede chissà chi!-.
-Smettila, non siamo qui per farci battaglia a vicenda! Si può sapere cosa vi è preso?!-.
Lucy si avviò. –Avanti, andiamo!- ordinò allontanandosi.
-Ed Emily?!- fece Harry sconcertato. –Non possiamo lasciarla qui! Aiutami a tirarla fuori, dai!-.
-Ci raggiungerà, non temere! Adesso andiamocene, ho fiutato qualcosa…- si vantò di aver avuto la meglio.
Inizialmente Harry rimase impalato dov’era, e probabilmente guardava verso il cumulo di macerie che mi aveva sommersa. Ma non appena Lucy lo chiamò di nuovo, sentendosi sottomesso e dovendo rispettare il volere della donna di chi più muscoli di lui aveva, spiccò un balzo, gonfiò le ali e raggiunse la giovane che era già parecchio avanti.
Riuscii a liberarmi di alcuni blocchi di cemento dalla schiena spingendo sulle braccia e aiutandomi con le ali, ma quando mi sollevai in piedi, mi ritrovai sola e abbandonata a me stessa con nient’altro che la desolazione di Manhattan attorno. Diedi un’occhiata qua e là, e con piccoli saltelli mi scostai dalle altre macerie che mi circondavano. Non era stata una cosa intenzionale quella di sbarazzarmi di Harry e Lucy così di poter dare la caccia a Mercer per conto mio, ma la reputai comunque una mossa proprio astuta. Le probabilità che Emmett e Cole fossero in pericolo erano un fifty fifty con quelle che avevo io di incontrare Alex sul mio cammino. Decisa di questa speranza e ben intenzionata a non prendermi ulteriori pause, caricai di proiettili entrambe le pistole e, tenendole a portata di mano, m’incamminai con tutta calma.
Il quartiere che stavo traversando era un labirinto di macerie e cadaveri colmato dalla puzza persistente di Virus e Bloodtox. Restava poco da fare se non guardarsi attorno e inspirare quell’aria a pieni polmoni. Passo dopo passo era come se potessi sentire la sua vicinanze e la sua lontananza, come se sapessi che da un momento all’altro sarebbe spuntato dall’ombra del suo cappuccio. Vigile in ogni mia mossa, contavo persino i miei respiri, misurandoli lunghi e profondi, lenti e tranquilli come il mio animo che mi ero prefissa fin dall’inizio di tenere sempre quieto e contenuto nel barattolo che era il mio corpo. Sapevo che non sarei tornata alla base Phoenix a mani vuote oltre le 48 ore stimate dal vaccino fatto. Ero certa che qualcosa, magari uno stralcio di un combattimento, qualche graffio come ricordo di una prima sanguinosa battaglia, l’avrei comunque reclamato una volta fatto ritorno al cospetto di Martin e tutti gli Angeli del progetto Gabriel.
Il cielo stellato che si apriva sopra la mia testa dava testimoniava la zona meno infetta che stavo traversando. Lì l’odore del Virus era meno pesante e pastoso, l’aria di poco più sana, ma di pochissimo. Mi avvicinavo ad una zona controllata dai militari, e forse avrei fatto bene a cambiare direzione, ma qualcosa, il mio istinto, la mia innata percezione di piccoli particolari e la fame che avevo del mio nemico, mi spinsero ad andare avanti.
Camminai su una trave di ferro che era sospesa tra un cumulo e un altro di macerie, tenendomi in perfetto equilibrio su di essa che era spessa soli tre centimetri. Le ali nascoste nella mia schiena, i muscoli pronti ma rilassati allo stesso tempo. Balza giù dalla trave, piegai un ginocchio fino a terra per attutire il colpo, e mi ritrovai in una fossa polverosa scavata nella strada, residuo probabilmente di un’esplosione dovuta a qualche bombardamento o missile militare. Mi rialzai ben eretta e ripresi il cammino adocchiandomi attorno circospetta. Proseguii indispettita da un’insolita presenza che sentivo avvicinarmi, ma che ancora troppo distante non riuscii subito ad identificare. Ciò di cui ero certa era che non si trattava di Alex: se così fosse stato, avrei potuto fiutarlo anche a chilometri di distanza. Invece, questa piccola ombra che mi viaggiava incontro reclamava territorio camminando nella direzione opposta alla mia.
-Matt- chiamai.
-Sono qui, ma puoi cortesemente dirmi perché Lucy e Harry non sono con te? I loro coordinatori non riescono a farti comunicare con loro? Che succede?-.
-Ci siamo divisi per cercare Emmett e il Capitano, non preoccuparti, stanno bene-.
-A Martin la cosa non piacerà quando lo verrà a sapere-.
-Ma lui non lo verrà a sapere, vero?- feci una buffa vocina.
-Mi spiace, ma ci sono dei rapporti da scrivere su ciascuno di voi, e i dati sono registrati-.
-Dannato Governo Americano ficca naso!-.
-E’ burocrazia che evolve, bisogna fare così. D’altro canto si tratta del Presidente degli Stati Uniti d’America-.
-In persona?-.
-Hm hm- annuì.
-Perfetto, ma tornando a noi: vedi nulla sul radar?-.
-Parecchio, piccola, cosa stai cercando in particolare?-.
-Niente, dimmi cos’è quella più vicina-.
-Umano… aspetta, che vedo se…- fece una pausa. –Umano non infetto, procedi col soccorso-.
-Non ho tempo per il soccorso!- sbottai. –Ma sei fuori di testa?-.
-Fa’ come credi; per qualsiasi cosa sono qui- e chiuse la comunicazione.
Proseguii sulla strada asfaltata seguendo la striscia doppia continua. All’incrocio voltai a destra e superai un muro di macerie e detriti troppo grossi con un balzo. Una volta abbastanza in alto, spalancai le ali e planai fino alla via che faceva il lungo mare sul porto. Alla mia destra c’erano vecchi magazzini e cantieri navali abbandonati. Atterrai nei pressi di un lampione acceso che illuminava lì attorno e, sotto la sua luce argentata, sostai diversi minuti guardandomi attorno.
Fiutai l’aria delle vicinanze e fui perfettamente in grado di individuare la forma di vita che passeggiava sola sulla strada che seguiva la banchina del porto. Le onde s’infrangevano spruzzi spumeggianti sui moli e i corvi facevano la lotta coi gabbiani per appropriarsi di quello che restava di alcuni copri lasciati marcire sul marciapiede.
D’un tratto la vidi: era una ragazza che correva forsennata nella mia direzione, ansante e senza fiato. Emerse dal buio della strada e prima che potesse essermi sufficientemente vicina perché travedessi un solo particolare del suo viso, udii un ruggito che proveniva dalle sue spalle.
Riconobbi subito quel suono, e spalancai le ali all’istante.
-Cazzo!- strillai. –Matt, dannazione, avresti potuto avvertire che c’era anche qualcosa di grosso!-.
-Il radar non li vede ancora i cacciatori, Emily! Gli Alchimisti istallano domani il nuovo software! Se l’avessi saputo te l’avrei detto!-.
Il cacciatore drago comparve dall’oscurità inseguendo la ragazza a piedi. Sbatté le gonfie membrane pulsanti di virus e allargò le fauci gocciolanti di saliva e sangue. I suoi piccoli occhi porcini mandarono un bagliore rossastro non appena mi videro: la mia presenza distolse del tutto la sua attenzione della giovane che andò a rifugiarsi in un vicolo e proseguì dritto abbandonando il porto sempre di corsa.
Mi levai in volo e cominciai a sparare al muso della bestia evitando i suoi aculei dorsali e le sue poderose zampate. Salendo di quota lo attirai verso l’interno della città e cominciai a zigzagare tra i palazzi distrutti e le macerie per strada. Lui, poco agile e flessuoso, oltre che essere troppo grande per poter passare attraverso muri più stretti, si trovò parecchio in difficoltà nel pedinarmi.
D’un tratto mi voltai con una giravolta e gli puntai entrambe le canne delle armi agli occhi, centrandoli perfettamente. La bestia divenne cieca, ma il suo fiuto infallibile e affamato riuscì lo stesso a dirigere il duello.
Persi quota intraprendendo un volo radente mentre le sue grosse ali sbattevano sopra di me proiettando la sua ombra che copriva del tutto la mia. Piroettai ancora, sparai altri colpi e perforai la membrana delle sue vele; i fori furono sufficienti a dimezzare la sua velocità, e il cacciatore fu costretto ad atterrare.
Non mi ero accorta di essere tornata al punto di partenza, di trovarmi di nuovo in quella zona di Manhattan che costeggiava le acque dell’Hudson ed era controllata da una base militare più a sud. Il giro che avevo fatto attorno alle palazzine lì di fianco non era bastato a darmi il tempo sufficiente per eliminarlo del tutto.
Improvvisamente uno degli aculei della sua coda mi sfiorarono, ma arrivò comunque una folata di vento che mi spazzò addosso al muro di una palazzina, nella quale sprofondai per l’impatto che mi aveva di molto indebolita.
Persi ancora quota, dopo essermi liberata delle macerie, e atterrai cominciando a correre. Mi rifugiai in un vicolo attraverso il quale il cacciatore non riuscì a inserire la sua zampa che mi dava la caccia.
Ero come un topo in trappola, e dovevo pensare a qualcosa di più astuto per imbrogliare il gatto cattivo che voleva mangiarmi. I muri attorno a me cominciarono a cedere man a mano che la zampa e gli artigli del cacciatore scavavano per venirmi a prendere. Quando il foro fu abbastanza largo, inserì la testa e spalancò le zanne.
Il suo alito terribile quasi mi spazzò via, e dovetti inchiodare a terra le ali per non andarmi a perdere lontano per via del suo ruggito famelico. Lanciai un’occhiata all’interno delle sue zanne accorgendomi che tra i cordoni di bava che si erano formati tra un dente e l’altro, potevo vedere perfettamente la sua ugola e oltre.
Sveltissima, puntai l’arma e premetti il grilletto, ma…
Avevo finito le munizione, e feci per ricaricarle, ma il muso del dragone si avvicinò troppo e fui costretta a balzare via sentendomi ormai alla fine dei miei giorni.
D’un tratto qualcosa attirò l’attenzione del cacciatore che ritrasse la testa e la voltò altrove verso qualcosa alla sua sinistra che io, incastrata nel vicolo, non potevo vedere.
La bestia annusò l’aria putrida di Virus; poi ruggì furiosamente e si diresse di corsa sulle quattro poderose zampe, e con le ali ripiegate attorno al corpo, verso il “ciò” che l’aveva tanto infastidito più di me.
Feci un sospiro di sollievo e guardai in alto, dove si apriva uno squarto di cielo tra il tetto di un edificio e l’altro. Servendomi delle ali e dei loro artigli che penetrarono solidi tra i mattoni delle pareti raggiunsi lo sbocco e fui libera dalla mia trappola. Issandomi sul tetto della palazzina, guardai il cacciatore correre svelto incontro ad una figura troppo distante e avvolta nel buio perché potessi riconoscerne la forma o anche solo qualche tratto.
-Dannazione!-.
Cominciai a domandarmi cosa ci fosse di più importante e attraente per un cacciatore di un Angelo in carne, ossa e virus. Ma soprattutto come fosse possibile che, curando la scena con la vista termica in mio possesso, la figura che stava immobile nel centro della strada fosse completamente infetta.
-Matt! Matt!- gridai.
-Ti ascolto, piccola, che succede?- stava masticando qualcosa, e potevo ben immaginarmelo stravaccato alla sua postazione come un pashà.
-Avevi detto che non era infetta! Idiota! Che cazzo dici?!- sbraitai levandomi in volo con un salto. Sbattei le ali e mi diressi di fretta verso il cacciatore e il nuovo comparso.
-Infatti! Alla tua destra, piccola, è sana, guarda- mi disse lui controllando sul radar.
Mi voltai di colpo e vidi quella ragazza dagli occhi verdi e i capelli castano-biondi legati in una coda starsene nascosta dietro un cumulo di macerie. Teneva gli occhi chiusi stava rigida con le ginocchia strette al petto, spaventata. Atterrai poco distante da lei, e feci per andarle incontro, ma quando mi rivoltai verso il cacciatore e la sua nuova preda, mi accorsi che erano entrambi lì come li avevo lasciati: immobile l’uno davanti all’altro, l’enorme bestia grattava l’asfalto della strada con gli artigli fumando dalle narici che si allargavano e rimpicciolivano. Io che l’avevo reso cieco me ne presi tutto il merito. Gonfiò le ali e le sbatté sollevandosi sulle zampe posteriori, inarcò la schiena e il collo ruggendo spaventoso.
-…Matt- mormorai poi.
-‘Azzo, Emily! Sbarazzati di quel coso e falla finita!- sbottò esasperato.
-Che cosa c’è sul radar?- balbettai aggirando la bestia che mi dava le spalle, mentre il mio sguardo si perdeva sull’infetto che stava immobile davanti alla creatura.
-Un infetto, ammazzalo, dannazione! Il cacciatore e quel… aspetta- si arrestò d’un tratto.
Ingoiai il groppo che avevo in gola e caricai le armi di nuove munizioni.
-Quello è…- Matt sgranò gli occhi davanti allo schermo.
-Alex…- sussurrai il suo nome a fior di labbra, ma bastò quel flebile sospiro per attirare l’attenzione di Zeus su di me.
Il suo viso sotto il cappuccio si voltò di pochissimo nella mia direzione, mentre il cacciatore che frustava l’aria con la coda davanti a lui continuava a ruggire.
Mi abbassai di quota restando a debita distanza, nel frattempo che il braccio destro del ragazzo tramutava in quella grossa lama spessa e tagliente che conoscevo bene. Il suo sguardo tornò sul dragone che aveva davanti, e un aurea di fasci rossi e neri avvolsero il suo corpo per intero rivestendolo di una solida armatura di pietra bruna.
-Devo avvertire Lewis?- chiese Matt un po’ spaventato.
-No- risposi di botto. –Non dire niente a nessuno!- serrai i denti.
-E allora cosa vuoi che faccia?- domandò Matt inghiottendo.
-‘Sta zitto…- sibilai.
-D’accordo- balbettò il ragazzo.


******
Link:
Ecco come m’immagino Lisa
durante la sua caccia alle fiale e ai tamponi:
Lisa
Il disegno non è il mio,
ma è stato un colpo di fortuna beccarlo sul sito! XD
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Come prima cosa fondamentale, vorrei ringraziare SnowDra1609 per aver commentato un capitolo noioso come “Burocrazia che evole” nonostante non ce ne fosse bisogno, se non per via della richiesta di me utente di farlo! XD chiedo ancora perdono.

Saphira87 forse non aspettava altro che questo aggiornamento, dato che ci avviciniamo al momento dello spoiler! Muhahaha! Chissà cos’ho in mente, ma mi sa tanto che qualcosa hai dedotto da te! XD

rerault che bello sentirti, che bello sapere che sei tornata °-° e che coraggio recensire capitolo per capitolo quello che ti sei lasciata addietro! XD apprezzo il gesto!

Sackboy97 grazie per aver aggiunto la ff ai tuoi preferiti, sono contenta che la storia ti piaccia e che tu la segua! ^-^ fammi sapere presto cosa ne pensi attraverso qualche commento! Grazie ancora!

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Capitolo 20
*** Capitolo 20° - Sete di sangue ***


Capitolo 20° - Sete di sangue

«È scoccata la mezzanotte del giorno 410° dell’infezione, con più del 10% degli infetti sul pianeta. Una fetta intera d’America può ritenersi quindi da “eliminare”, ma la gran parte dei portatori malati si registrano in Europa e in Oriente. Il contagio è più lento in Russia dove le temperature sono sfavorevoli allo sviluppo del Virus, e Manhattan pullula di questi nuovi cacciatori alati che mi comparvero sotto il naso per la prima volta proprio quella sera, quando riuscii a soccorrere Lisa, e conobbi il mio peggior nemico…».

La sua voce mi giunse in un flebile sussurro dell’aria, accompagnata da un nuovo ruggito del cacciatore che mi alitava addosso tutta la sua cena, spalancando le sue fauci a pochi metri dalla mia figura.
Alex…
Mi sentii chiamare per nome, e alzai di poco lo sguardo oltre le ali gonfie e bucate del dragone che avevo davanti, dietro il quale si celava la figura piccola e indistinta di un Angelo. La riconobbi soprattutto per via delle sue ali sottili e il vestiario simile a quello del nostro ultimo incontro. Era lei, la ragazza che mi aveva parlato di Lewis Martin, l’Angelo a cui avevo risparmiato la vita come uno sciocco quando avrei potuto assorbirla e scoprire tutto quello che mi serviva sapere senza chiedere o pretendere. Mi stava guardando, e riuscivo a leggere il terrore che aveva di me nonostante la distanza. Fiutavo la sua paura che era maggiore nel guardare me che quell’enorme cacciatore alato che avevo davanti e mi stava ringhiando contro forsennato. Distolsi la mia attenzione da lei e tornai sul mio grosso nuovo nemico. Tramutai il braccio nella mia amata lama e in pochi secondi rivesti l’intero mio corpo dell’armatura più robusta tra tutte.
Spiccai un balzo e mi avventai sul cacciatore puntando alla testa. Aprii un grosso squarto sul collo e gli saltai sul muso tenendomi aggrappato alla pelle viscida con gli artigli che avevo al posto delle dita della mano sinistra. La bestia si lagnò di dolore per il taglio e il fastidio dovuto alla mia insignificante presenza. Si sbagliava se il suo cervello da gallina pensava di potersi sbarazzare di me con così tanta facilità, come una mosca che svolazza nelle sue vicinanze. Come avevo ben notato, era diventato cieco per via di due proiettili ben piazzati nei suoi occhi, perciò non si accorse da subito dei miei svelti movimenti e delle mie intenzioni.
Il cacciatore si dimenò allungo sbizzarrito nel tentativo di scollarmi dalla sua testa che smuoveva violentemente a destra e sinistra. La sua coda frustava l’aria spazientita, le sue ali sbattevano come lenzuoli senza tregua. Individuai il punto con maggior calore attraverso il suo cranio, e infilzai lì la lama che sparì nelle sue membra celebrali per più della metà. Il sangue e le sue viscere scorrevano tra un artiglio e l’altro del mio braccio destro che tramutò dalla lama alla frusta per poter andare più a fondo. In fine trapassai il cranio, la mandibola e tutta la bocca da parte a parte, facendo spuntare i miei artigli sotto al suo mento. Un foro circolare lungo due metri e largo mezzo che lo stecchì all’istante e dolorosamente.
Il suo corpo perse vigore improvvisamente: avvertii i suoi muscoli immobilizzarsi come congelati, mentre il suo peso lo trascinava lentamente a terra. Prima le zampe si stesero piatte e larghe sull’asfalto, poi le ali, e in fine il collo, dal quale scivolai giù fino a tornare coi piedi per terra ed un ginocchio piegato. Mi liberai della mia armatura e restituii al mio braccio la sua forma originale.
Mi tirai su con calma e a sguardo basso, vincitore di un duello che non era durato più di una ventina di secondi. Quando alzai gli occhi e guardai il cielo, lo trovai stranamente sgombro di qualsivoglia forma di vita, corvi o Angeli che fossero.
Risi tra me e me e me, pensando che le mie tattiche intenzioni si erano rivelate quelle appropriate ai miei scopi: gli avevo messo paura ed era fuggita.
Che codarda, pensai avviandomi con passo lento e misurato oltre la carcassa del cacciatore.
-Alex!- gridò Lisa uscendo dal suo nascondiglio.
Mi fermai dov’ero, a pochi metri da lei e la vidi corrermi incontro. Si lanciò su di me abbracciandomi disperata, intanto che i suoi singhiozzi spaventati mi riempivano le orecchie assieme al battito accelerato del suo cuore che sentivo scontrarsi sul mio petto. Il suo improvviso contatto mi lasciò interdetto, esitante, scettico più che altro. Le sue braccia erano strette attorno al mio petto e le sue mani si erano posate delicate sulla mia schiena, tra il giubbotto e la felpa. Legata a me con un filo di ragnatela che avrei potuto spezzare solamente muovendomi di un centimetro. Restai allungo immobile, succube del suo insulso piagnucolare che cominciava a darmi sui nervi. Era stato un caso che passassi di lì, l’avevo detto anche al barbone di guardia del suo gruppo profughi esattamente un giorno prima.
-Temevo che quel… mostro ti avrebbe ucciso!- si lagnava come una bambina, abbracciata al padre che non voleva consolarla se il brutto mostro dell’armadio l’aveva spaventata di nuovo. Davvero mi faceva così debole? Così insignificante? Oppure era solo la cosa più stupida e anche l’unica che le era venuta in mente da dire? Diventai insofferente della sua vicinanza, non volevo sentirmi una vittima dei suoi capricci da ragazzina spaventata! Se l’era cercata uscendo allo scoperto e girovagando di notte tutta sola per certe zone della città! Mi sembrava altrettanto assurdo che non si fosse presentato ancora nessun militare, dato che avevano una base a cinque isolati dal campo profughi, verso sud.
Dovevo sbarazzarmi di lei, del suo modo insulso e imbarazzante di ringraziarmi. Non potevo affatto rischiare che un Angelo ci vedesse in quello stato, o pensando di farmi del male avrebbero rapito anche lei…
E stranamente… in qualche modo assurdo… mi sarebbe dispiaciuto… molto.
Scacciai quei pensieri con un movimento rapido e conciso, che di per sé parlava da solo alla ragazza che avevo di fronte: le poggiai una mano sulla spalla e l’allontanai da me di scatto, facendole quasi male.
Vidi lo sconforto del mio rifiuto disegnarsi sul suo volto man a mano che sul mio si disegnava la solita compostezza e rigidità che avevano fatto di me una figura che i miei nemici temevano.
-Adesso vattene- pronunciai serio con gli occhi celati sotto il cappuccio.
I suoi, invece, di un verde denso e brillante, cominciarono a riempirsi di lacrime che aveva un colore differente da quello dei capricci infantili che aveva fatto fin ora.
-Vattene Lisa, torna a casa- le ordinai come se potessi pretendere di avere la completa autorità su di lei.
La ragazza mi guardò allungo fisso in volto, cercando di scrutare oltre il buio che avvolgeva metà del mio viso. –Grazie- mormorò asciugandosi i residui del suo pianto con una manica della felpa.
-Va’ da Max!- le intimai più presente.
La ragazza sobbalzò sentendomi strillarle contro in quel modo. Si strinse le braccia attorno al ventre e, più intimamente spaventata di prima, si allontanò dandomi le spalle.
La sua ombra si perse tra quelle dei lampioni spenti, la sua figura mi apparve un’ultima volta molto distante, quando la vidi chinarsi a raccogliere una torcia che aveva lasciato cadere per strada prima di intraprendere quella folle fuga, poco prima che c’incontrassimo.
Una volta scomparsa del tutto alla mia vista, chinai la testa e abbassai lo sguardo a terra, dove la mia immagine si rifletteva immobile in una pozza di sangue che apparteneva alla carcassa del cacciatore dietro di me.
Guardai le mie mani e le strinsi a mo’ di pugni lungo i fianchi, mentre una valanga di pensieri e immagini mi passavano davanti agli occhi che tenni chiusi allungo.
Mi sentivo come non mi era mai capitato, come se d’un tratto avessi fatto il più grande sbaglio della mia vita. E di fatti capii quasi subito il perché di quell’improvvisa vampata di sentimenti. Le immagini che vedevo erano i sorrisi della figlia di Max che in qualche modo assurdo riuscivano davvero ad addolcire una piccola parte di me. Forse. Ma io, imprigionato in questo corpo, non potevo saperlo con precisione. Guardare il mostro che ero diventato era troppo difficile; provare a sentirmi umano, normale, come una volta era troppo difficile.
Continuavo a darmi dello sciocco, io che rimpiangevo di crearmi assurdi pretesti pur di dare la colpa sempre a me stesso, quand’invece basterebbe porre delle domande e lasciare che siano gli altri a dare delle risposte.
Senza pretenderle, com’ero abituato (male) a fare.
Distratto, i miei sensi sempre vigili e all’erta non fiutarono il nemico; e i miei riflessi scattarono troppo in ritardo rispetto al colpo di pistola che mi lasciò in balia di una sensazione piuttosto dolorosa.
Il proiettile incastrato nella mia carne tra le scapole divenne parte di me e del mio sangue non appena l’armatura mi rivestì il corpo per intero, in un turbinio di fasci neri e rossi come il sangue che avevo sotto le suole delle scarpe. Mi voltai lentamente.
-Alex Mercer!- gridò l’Angelo distante venti metri sulla strada. Impugnava solo una delle sue pistole, mentre l’altra era riposta nel fodero stretto alla sua coscia. –Ai termini della Legge stabilita dalla Costituzione, e per i voleri del Governo Americano, su richiesta dell’ONU…- proseguì con la sua voce cristallina di donna resa rude dall’atteggiamento di superiorità di cui stava beando. Esitò per alcuni istanti, forse rimpiangendo il fatto di avermi sfidato così apertamente.
-Ti dichiaro in arresto- concluse poco convinta.

Lo vidi affondare la lama nel cranio del cacciatore, e premere sempre con più forza fin quando gli artigli non passarono dal capo opposto della testa di quella bestia, che si accasciò a terra morente.
Terrorizzata, spaventata da quello che avevo visto, dall’incredibile facilità con la quale si era sbarazzato di quel mostro, mi costrinsi a nascondermi sul tetto di un alto palazzo lì nei paraggi, tra le macerie di un piano e l’altro. Ripiegai le ali, mi misi in ginocchio a terra e restai a guardarlo anche mentre il suo corpo tornava ad una forma più umana, presentabile e formale. L’armatura si volatilizzò nel nulla formando una nuvola densa di fasci neri e rossi attorno alla sua figura, che restò allungo immobile in un’unica posa affianco alla carcassa della bestia.
Dopodiché non potei credere a quello che successe dopo.
La ragazza che fino ad allora era rimasta nascosta dietro quel cumulo di macerie, uscì dal suo rifugio e, nelle lacrime, si gettò ad abbracciarlo… ad abbracciare Zeus.
Un modo curioso per ringraziarlo, che lasciò sia me che lui profondamente turbati, come vidi bene zoommando la scena con un’opzione del casco.
-Matt- chiamai. –Lo vedi anche tu?- chiesi stupita.
-Diamine, sì…- disse incredulo il ragazzo senza staccare gli occhi dallo schermo.
Non provai neppure ad immaginare quali potessero essere i suoi pensieri in quel frangente, ma ciò che ascoltai poi mi fece comprendere che i due sembravano conoscersi.
Dopo averla respinta con violenza, Alex disse: -Adesso vattene-.
La ragazza fece quasi finta di non aver sentito, e spostando la mia attenzione su di lei la vidi in preda alle lacrime che non giustificavano più la sua paura, ma bensì qualcos’altro.
-Vattene Lisa, torna a casa- disse ancora Mercer.
-Matt, prendi nota- ordinai io.
-Lisa, Lisa, Lisa come?!- fece esasperato. –Ci sono almeno tremila Lise a Manhattan, come…-.
-Zitto, zitto!- sibilai.
-Grazie- mormorò flebile la giovane indietreggiando.
-Va’ da Max!- gridò invece Alex, spezzando il silenzio della strada dove si trovavano, l’uno a fissare la sua immagine riflessa negli occhi dell’altra.
Lisa andò via così, quasi correndo e ripercorrendo i suoi passi diede le spalle a Mercer che restò immobile in quel punto dell’asfalto, quasi del tutto coperto del sangue del cacciatore. Vi si bagnavano le sue scarpe, e vi si specchiava la sua figura.
-Cerca anche questo Max- dissi io sistemandomi di schiena contro un muro e mettendomi a sedere.
-Va bene, ma adesso cosa hai intenzione di fare?- chiese preoccupato.
Non risposi alla sua domanda: -Probabile che sia suo padre, perciò fai un’unica ricerca. Quando hai trovato qualcosa avverti Lewis. Forse se gli rubiamo la fidanzata s’incazzerà abbastanza come vuole Martin- ridacchiai.
-Ah!- fece Matt. –Credimi, p già parecchio incazzato, non abbiamo bisogno della sua fidanzata-.
-Hmm, come vuoi- borbottai preparando per bene le armi delle dovute munizioni.
-Cosa vuoi fare, Emily?!- domandò di nuovo.
-Secondo te?- feci una pausa. –Quello per cui sono nata- caricai le pistole e mi alzai da terra. Spalancai le ali e volai silenziosamente fino a terra, a venti metri dal mio nemico che mi stupì non poco non si fosse accorto di me. Atterrai lentamente, riponendo una sola delle due pistole nel fodero sulla mia coscia. Impugnai l’altra, presi la mira tra una scapola e l’altra, dove il disegno sul suo giubbotto formava un motivo tribale di un rosso acceso quanto il sangue versato ai suoi piedi, e in fine, sparai.
Mercer ricevette il colpo senza fare nulla, e i riflessi dei suoi poteri lo avvolsero della sua armatura troppo tardi rispetto ai tempi. Fu così che assorbì il mio proiettile che divenne parte della pietra bruna che lo rivestiva. Restò allungo di spalle, fin quando voltandosi con calma, non ebbe conferma di chi aveva osato quell’affronto.
-Alex Mercer!- strillai così che potesse sentirmi come se fossi a due passi da lui. –Ai termini della Legge stabilita dalla Costituzione, e per i voleri del Governo Americano, su richiesta dell’ONU…- dopo aver pronunciato tutti quei nomi che pesavano sulla mia coscienza come dovere di cittadina e paladina di Manhattan, esita per parecchi istanti, indebolendo anche la presa sulla mia arma.
-Ti dichiaro in arresto…- conclusi poco convinta.
-Emily- fece Matt. –Ti consiglio almeno uno dei tre potenziamenti…- balbettò in pena per me, e potei ben immaginarmelo seduto sulla sua poltrona davanti allo schermo che riproduceva tutto quello che vedevo io mentre si mangiava le unghie.
-Non ancora- dissi io tranquilla. –Non ancora- ripetei.
-Quello ti ammazza!-.
-Non esserne così sicuro, dai-.
-Vieni a prendermi, allora- disse Mercer tutt’ad un tratto, con un tono divertito e apertamente di sfida. Il suo braccio destro tramutò svelto nella lama nera e argento più grande di lui.
-Emily!- fece Matt. –Non ti serviranno le armi da fuoco su di lui! Sono del tutto inutili, soprattutto se ha addosso quella… cosa!- sbottò facendo riferimento all’armatura.
-‘Sta zitto, sto cercando di concentrarmi!- sibilai.
-Va bene, va bene…-.
-Senti, stacca la comunicazione… non ti dispiace, vero?-.
-Ovvio che mi dispiace! Scordatelo!-.
-Se non lo fai tu lo faccio io- ridacchiai.
-Come vuoi! Ma la riattivo ogni dieci minuti per sapere se sei viva… in bocca al lupo-.
Mi lasciai sfuggire un amaro sorriso. –Crepi-.
Il contatto tra me e Matt cadde in quell’istante, non appena Mercer fece un passo misurato nella mia direzione.
-Che coraggio a venire qui da sola!- si beffò il ragazzo. –A quale onore devo la visita?…-.
-Non è una visita tanto amichevole, se è quello che pensi- risposi io riponendo la pistola nel fodero, così da avere le braccia a completa disposizione e pronte per combattere alla vecchia maniera.
-Dov’è il resto del tuo gruppo?- chiese serio, rigido e composto venendo sempre più vicino. Il suono così elettrico della sua voce che era solo la seconda volta che ascoltavo, mi fece salire un brivido lungo la schiena.
Muovendo piccoli passi verso di lui, avvolsi il mio braccio destro in un turbinio di fasci rossi e neri mentre le ali alle mie spalle si spalancavano pronte a spiccare il volo.
-Il mio clan è molto lontano da qui, in questo momento- sbottai decisa, per la prima volta al suo livello durante tutta quella piccola conversazione introduttiva. –Fortunatamente per te…-.
-Ci siamo già incontrati, ricordi- ridacchiò lui ora che soli cinque metri ci separavano l’uno dall’altra.
-Come dimenticarlo…- digrignai cominciando a riscaldare le dita della mia mano che tramutarono in cinque poderosi artigli.
-Mi era sembrato un ottimo avvertimento, il nostro ultimo scontro- si beffò. –Perché vi ostinate ancora nella mia ricerca? Tu e la tua gente non provate più sentimenti come la paura, forse?- eruppe.
Noi dovremmo avere paura di lui solo?! Ah! Bella questa...
-I vent’otto Angeli che hai ucciso, se fossero vivi, sarebbero qui a combatterti al mio posto, credimi- serrai i denti. –Quello che hai fatto a noi basterebbe per lasciarti in prigione tutta la vita, ma il Governo chiede risarcimenti al suo esercito, mi spiace, e la pena si allunga anche oltre la morte- fui io quella volta a ridacchiare sommessamente. Ripensare a Phil e tutti quegli amici del reparto che avevano perso la vita a causa del mostro che avevo davanti, mi diede la scossa necessaria per cominciare a… mordere.
-Davvero pretendi di potermi battere?- domandò esilarato.
-Permettimi di stupirti…- mormorai maliziosa.
Poco più di due metri distavano tra la mia e la sua ombra, entrambe proiettate sull’asfalto da un lampione acceso sul marciapiede di fianco. La carcassa del cacciatore drago nel mezzo della strada puzzava in una maniera immonda di Virus, e il suo sangue si allargava sempre più fino ai nostri piedi.
Alex non aggiunse altro dopo quelle mie parole. Si limitò a restare immobile mantenendo quella distanza pressappoco assurda perché nessuno dei due scagliasse un primo attacco.
-Avanti, dai- sorrisi.
Mercer chinò la testa da un lato -Prima le signore- assentì placido.
Non attesi oltre: spiccai un balzo e fulminea mi avventai su di lui; ma prima che riuscissi a sfiorarlo con uno solo degli artigli della mia mano destra, il ragazzo sollevò la lama e parò il colpo disarcionandomi dal mio salto precario. Il contatto tra le due superfici esplose in una pioggia di piccole scintille, e provò in me la fastidiosa sensazione di graffiare la parete di un muro.
Mi ritrovai a terra con un ginocchio piegato e l’altro steso per lungo: mi spinsi di nuovo contro di lui questa volta portando in avanti le ali, così da poterle utilizzare come ulteriore arma d’offensiva. Riuscii a procurargli qualche graffio anche attraverso la robusta armatura, che si rimarginò più in fretta di quanto avrebbe fatto su un tessuto di pelle umano. Gli svolazzai sopra la testa e, sorpassandolo, andai a posarmi su un cumulo di macerie alle sue spalle. Attesi allungo, col fiato già grosso di tutta la forza che avevo impresso in quei letali due affondi andati a segno solo in parte.
-Tutto qui?!- si voltò improvvisamente e prendendo la rincorsa mi fu addosso, ma nonostante avessi richiuso le ali a coppa attorno al mio corpo come protezione, l’impatto mi catapultò comunque parecchi metri in aria e poi rotolante sull’asfalto come un birillo che aveva appena patito un bello strike.
Tentai di rialzarmi con un po’ di fatica, ma ancor prima che potessi riprendere le redini delle mie ali rimaste spiazzate al suolo dopo lo scontro, mi sentii trapassare il petto da qualcosa di appuntito e viscido allo stesso tempo. Mi sfuggì uno straziante lamento di dolore quando mi accorsi della lunga frusta con la quale Mercer mi aveva perforato da parte a parte; come un arpione i suoi artigli si erano piantati nella mia schiena scavando tra un organo e l’altro, spezzandomi persino la spina dorsale.
-Così sei troppo lontana, avvicinati!- sadico e furente ritirò la sua protuberanza, assieme alla quale trascinò anche me del tutto nulla e indebolita.
Quando gli fui abbastanza vicino, la sua carne infetta e mutante abbandonò la mia lasciandomi preda dell’agonizzante dolore e del mio stesso sangue che macchiò gran parte della mia divisa. Sul mio torace si apriva un foro circolare grande quanto una pallina da tennis, e prima ancora che riuscissi a rigeneralo completamente, spiazzata al suolo senza un briciolo di forze, vidi l’ombra di Alex sovrastarmi e osservarmi dall’alto.
-Non sono affatto stupito, anzi- ridacchiò. –Deluso, devo dire, e parecchio!-.
L’armatura scomparve dal suo corpo e potei finalmente guardarlo in faccia. –Mi dispiace solo che i tuoi compagni non potranno mai sapere chi è stato a farti questo- indicò il foro che andava rigenerarsi lentamente. –Si chiederanno se sia stato io- sorrise. –Oppure lui- indicò la carcassa del cacciatore alle sue spalle. –Perciò perché adesso non riattivi la comunicazione con il tuo coordinatore e mi lasci parlare con qualcuno che è di un grado superiore al tuo?- chiese cordiale, ma ovviamente per finta.
Come sapeva del mio coordinatore e della mia comunicazione bloccata?! Cominciai a sentirmi del tutto in trappola, spiazzata più da quelle parole che dal dolore fisico dilaniante per le carni del petto.
Strinsi i denti, ma non riuscii a proferire una sillaba.
Il ragazzo si chinò alla mia altezza afferrandomi per il giubbotto e, tenendomi sollevata con una sola mano da terra, chiese: -Fammi parlare con Lewis Martin-.
Non captando alcun segno di partecipazione da parte mia, mi diede un doloroso scossone. –Voglio parlare con Lewis Martin! Avanti, ricontatta la tua base!- m’intimò contro.
-Va bene, va bene!- strillai.
Mi presi del tempo, il foro si era ormai del tutto rimarginato; non potevo dargliela vinta così facilmente, senza non aver neppure alzato troppo un dito.
-Allora?- insisté lui.
Fui sveltissima a tramutare il mio braccio. -Ecco a te!- gridai affondando gli artigli nel suo petto. Penetrai le dita nel suo incarnato, sempre più in profondità tra una costola e l’altra. Il mio corpo si addossò completamente al suo: ero a tal punto vicina al viso da poter sentire il suo respiro strozzato soffiarmi su una guancia. Il fastidio dovuto al dolore si manifestava attraverso impercettibili tremori dei suoi muscoli. Il suo sangue macchiò la mia divisa ridotta in brandelli e bucata sul ventre, un suo sospiro arrivò a lambire la pelle del mio collo, mentre la sua presa attorno al mio giubbotto si allentava. Quando mi lasciò del tutto e il braccio tornò lungo il suo fianco, disteso e tremante, spalancai le ali e mi tenni sospesa sopra di lui sbattendole una, due volte, ma ancora i miei artigli persistevano e scavavano nella la sua carne infetta.
-Ti piace, eh?!- gli sibilai all’orecchio. –Ti piace passare da parte a parte della gente, eh?!- trovai soddisfacente trattarlo in quel modo spudorato. –Hai ragione, è piacevole!- affondai ancora e ancora; ad ogni mia spinta saggiavo il suo calore attraverso i nostri corpi l’uno legato a quello dell’altra; quel profondo penetrare di me nelle sue membra mi procuravano continue scosse di piacere. Oltrepassate le prime difese esterne, le sue ossa parevano fragili e friabili come se stessi spaccando stuzzicadenti.
Come la spada che traversa lo scudo, e come la freccia che perfora l’armatura e la cotta di maglia. –Ma ora te la faccio passare io la voglia di tagliuzzare le persone come carne da macello!- serrai la mascella e ingrandii gli artigli all’interno del suo corpo, così da frantumare ulteriormente le sue membra più spesse che avvertii cedere e infrangersi al mio passaggio.
Il suo mento poggiava sulla mia spalla, le sue labbra si schiusero ma non ne uscì alcun suono se non un medesimo spiro, un sussurro dovuto alle pene dell’Inferno che gli stavo facendo provare. La sua postura rigida e composta tremava come una foglia, la sua figura s’incrinava sempre più col passare dei secondi. In fine cadde in ginocchio ai miei piedi. Mi tenevo sospesa sopra di lui grazie alle mie ali che agitavano l’aria attorno a noi; i miei artigli insistevano al suo interno, violenti, assetati del suo sangue.
-Basta…- d’un tratto sentii la sua voce incrinata e spezzettata dal dolore. –Basta… ti prego…- mi supplicava di smettere: gli occhi sgranati e fissi nel vuoto davanti a sé perdevano la lucentezza sfumandosi dall’azzurro al grigio.
D’un tratto mi ricordai delle parole di Lewis prima che salissi sull’elicottero, di come mi aveva chiesto di consegnargli Alex vivo se ne fossi stata in grado. Immaginai di averlo privato di abbastanza energie e difese, così ritrassi gli artigli e tramutai il mio braccio alla forma umana.
Il suo cuore batteva lento contro il mio, forsennato; i muscoli rigidi del suo petto si scontravano col mio seno premuto su di esso. Quando inclinai lo sguardo per poter ammirare il mio operato, ovvero lo squarto profondo che gli avevo aperto tra un organo e l’altro, fu in un attimo che mi accorsi di aver commesso un medesimo errore.
I miei occhi incontrarono i suoi anche attraverso la visiera del casco, e li vidi balenare di una scintilla tutta nuova e malvagia. Le sue labbra si piegarono in un ghigno malsano, i tremori per tutto il suo corpo si annullarono in un ultimo sussulto del suo incarnato. Strinse i pugni e le sue braccia vennero avvolte da un turbinio di fasci neri e rossi come il suo sangue impresso sulla mia divisa.
-Che ingenua…-.
Tentai di alzarmi, sbattendo le ali e allontanandomi da lui prima che potesse accadere quello che non avevo previsto, che non avevo anticipato; ma una sua mano si strinse attorno al mio polso con forza inaudita e mi attirò di nuovo contro di sé.
-No, lasciami! Lasciami!- gridai, mi dimenai dissennata infilzando gli artigli delle ali nell’asfalto pur di trascinarmi lontano da lui che stava solo racimolando le forze necessarie. –Lasciami! No!!!- cominciai a scalciare, ma Alex mi teneva avvinghiata a sé stringendomi per la vita con un solo braccio, che fungeva da catena attorno a tutto ciò che restava di me e della mia uniforme sbrindellata.
Avvertii prima un fastidioso formicolio lungo la spina dorsale, la parte più a contatto con il petto di Alex, poi lungo il profilo del ventre sino ad arrivare alle ginocchia.
-È inutile che opponi resistenza…- mi sussurrò all’orecchio. –Rilassati, e forse non proverai dolore… ossia meno di quanto ne proveresti continuando ad intralciarmi- mi mormorò con voce soave, spietata, mentre avvertivo il suo fiato bollente infrangersi su ciò che restava della pelle del collo, che lentamente veniva consumata dalla sua.

Da qualche parte non molto lontano…

-Lucy! Scappa!- gridò Harry.
S’udì un ruggito che squassò l’aria facendo tremare la terra. La ragazza si voltò e vide che il cacciatore volante veniva verso di loro in una corsa assatanata. Gli artigli imbrattati di sangue penetravano l’asfalto della strada, le zanne gocciolavano di rossa saliva, gli occhi piccoli e porcini erano fissi sul bersaglio, sulla preda.
Lucy Malcom spalancò le ali e si levò in volo assieme ad Harry che si mise subito in testa, guidandola magari verso un luogo sicuro o un rifugio.
Fuggirono veloci e salirono di quota percorrendo in volo il profilo di un alto grattacielo. Il cacciatore alle loro spalle gonfiò le ali e si diede una poderosa spinta con le zampe che poggiarono e frantumarono i vetri della palazzina. Le sue zanne passarono a tanto così da Lucy, che schivò senza difficoltà, ma Harry venne agguantato dalle fauci della bestia che si richiusero attorno a lui come una prigione. Ciò che precipitò verso terra fu un suo braccio, tagliato e sanguinante, mentre il suo corpo dimorava sulla lingua del cacciatore.
-Harry!!!- Lucy gridò disperata, estrasse la sua mitragliatrice e aprì il fuoco contro il muso della bestia abbastanza vicino al suo da poterlo quasi ammazzare. –CREPA! STRONZO!- il suo grido era accompagnato dal trambusto della mitraglietta e dei proiettili che perforavano il tessuto della viscida pelle del cacciatore, assieme al suo duro cranio fino ad arrivare al cervello.
Debole e presumibilmente… morta, la bestia precipitò verso terra schiantandosi sopra un intero palazzo.
-Harry! Harry!!!- chiamò Lucy raggiungendo la carcassa con la canna dell’arma ancora fumante. Si avvicinò alla bocca del mostro e tramutando il suo braccio in un grosso martello, spaccò i denti e tirò fuori di lì quello che restava del suo amico.
Trascinò il corpo del ragazzo lontano dalla puzza immonda che cominciò a trasudare il corpo morto del cacciatore, fin quando, abbastanza distante, si piegò in ginocchio al suo fianco.
Tagli e fori in via di rigeneramento traversavano il giovane Angelo, il cui viso era contratto in una smorfia di alta sopportazione del dolore.
-Harry…- piagnucolò lei. –Non mi lasciare, chiaro?- disse afferrandogli l’unica mano che gli restava. –Harry, avanti, alzati- singhiozzò.
-Va’…- mormorò lui. –Va’ a cercare Emmett…- fece una pausa. –… e Cole-.
-Non ti lascio, non ti lasciò finché non ti rigeneri!-.
-Potrei metterci i secoli, idiota!- strinse i denti. –Va’ a cercare Cole!-.
-Aspetta, aspetta!- la ragazza corse con una mano alla cinta dei pantaloni e trasse da lì la sua terza fiala, inserendola poi all’interno della siringa. –Posso usare questa, aspetta…-.
Harry le bloccò il polso prima che potesse avvicinare l’ago alla sua carne. –No, tienila… potrebbe servirti… in futuro- sussurrò. –Adesso vai, io me la caverò…- richiuse lentamente gli occhi e si addormentò in un lungo riposo ristoratore che avrebbe favorito il ricrearsi dei suoi tessuti.
Lucy obbedì, nascose il suo corpo in un vicolo e lo lasciò lì, segnalando al suo coordinatore le coordinate della posizione di Harry, così che lui potesse tenerne contro sul GPS. Si levò in volo e tornò a caccia del suo ragazzo e del capitano, ma solo quest’ultimo incontrò “casualmente” sulla sua strada qualche ora più tardi.

Da qualche parte dentro Manhattan…

-Figlio di puttana!- la voce di Emmett. -No, fermo, idiota! Che cazzo fai?!- aggiunse, e il suo grido rimbombò per la strada tra un palazzo e l’altro.
D’un tratto, si vide un corpo volare da una parte all’altra della strada asfaltata, che sembrava tanto la carcassa di un minuto cacciatore di terra.
-Pezzo di merda, dovevi assorbirlo!- sbottò Emmett.
-Scordatelo, stronzo!- digrignò Cole comparendo dal vicolo e incamminandosi sulla strada.
-Poteva dirci se aveva visto Alex da queste parti!- gli strillò dietro Emmett, che apparve alle sue spalle.
-Se pensi di poter combattere da solo con Mercer in questo stato ti sbagli!-.
-Ah!- ridacchiò Emmo. –Ma io non sono da solo! Ci sei anche tu, puttanella!- fece una pausa. –Possiamo farcela insieme, Cole!-.
Gravi offese al capitano, che all’interno del clan svolge il ruolo di pubblico ufficiale. Cole si voltò lentamente verso di lui. –Chiamami di nuovo in quel modo, e poi vedremo chi è la puttanella qui…- serrò la mascella.
Emmett si avvicinò a lui sorridendo. –Immagina la gloria, gli applausi che ci aspettano alla base se portiamo la testa di Zeus lì, e la gettiamo ai piedi di Lewis che innalza i nostri nomi tra le stelle e le strisce della bandiera Americana!- gli luccicarono gli occhi. –Insieme possiamo farcela, solo tu ed io!-.
-No- fu la risposta secca di Turner. –E il prossimo cacciatore che vuoi assorbire, non farai in tempo ad avvicinarti a lui che qualcuno- disse facendo riferimento a sé stesso. –si avvicini troppo a te!-.
-Senti, cazzone!- lo minacciò Emmett andandogli incontro. –Piantala di bruciare ogni mio tentativo di trovare quel pezzo di merda, chiaro?!- spuntarono cinque poderosi artigli al posto delle dita della mano destra, mentre con la sinistra impugnava la sua grossa mitragliatrice. –Se non è Alex il motivo per cui sei qui, allora vattene, testa di cazzo, non voglio più vederti! E questo vuol dire che IO posso fare quello che cazzo mi pare!-.
-Andiamo- pronunciò Cole serio e composto. –Dobbiamo tornare da Lucy, Harry ed Emily-.
-Dimentica la tua fidanzata, Cole!- ridacchiò Emmett. –Siamo in missione, l’hai detto anche tu a me qualche ora fa, ti ricordi?- continuò a beffarsi di lui.
Il capitano lo fulminò con un’occhiataccia.
-Esatto- si vantò Emmett. –So che avete fatto sesso la sera prima di partire, tu ed Emily. Durante gli addestramenti non le staccavi gli occhi di dosso, e improvvisamente sparite entrambi dalla circolazione a soli ventiquattrore dalla partenza!-.
-Non hai fatto tu la stessa cosa?-.
-Lucy è la mia bambolina- sibilò avvicinandosi. –Lo sanno tutti alla base che stiamo insieme. Mentre la tua, sembra tanto “una scopata e via”, mordi e fuggi, capito che intendo?- arrise.
Il capitano tenne lo sguardo basso. –Fatti i cazzi tuoi, cadetto-.
-Se amassi davvero quella ragazza, ora saresti da lei, a proteggerla! E non da me a scassarmi i coglioni! Levati dalle palle, Cole, non mi serve il tuo aiuto e lo sai benissimo! Inseguendomi fin qui senti di aver fatto un grosso errore, ed io ti sto concedendo l’opportunità di rimediare, di andare da lei- abbassò d’un tratto la voce, calmandosi. –Così dimostreresti a me che anche i gran figli di puttana come te hanno un cuore- fece un sorriso da ebete.
Dopo interminabili attimi di silenzio, il capitano Cole Turner rinfoderò la sua arma da fuoco. –Va’ verso est, traversa il centro e avvicinati all’area industriale. Troverai Mercer da quelle parti se sei fortunato- fece per voltarsi e andarsene.
-Ehi, aspetta!- Emmo gli afferrò il braccio con una presa salda. -Come fai ad esserne così certo?- digrignò.
-Ho un localizzatore fatto a posta, ma rivela la sua posizione nel raggio di tre chilometri. Giocateli bene- gli batté una mano sulla spalla. –Abbiamo una base a nord, tra la central station e il parco. Alla fine della caccia porterò il clan al sicuro sotto quel tetto. Ci vediamo lì- disse abbassandosi la visiera del casco. –Se Mercer ti fa il culo a strisce, crepa, stronzo- aggiunse levandosi in volo.



















°-°
Aggiornamento a sorpresa alle 2.38 del mattino! Holè!!!
Forse non avrei dovuto interrompere qui, ma solcata la nona pagina ho pensato che fosse abbastanza. Come al solito vi lascio col dubbio e l’ansia che vi corrodono lo stomaco fino alle viscere! Emily in balia di Alex che la sta assorbendo, Harry fatto a buchi dai denti del cacciatore come la groviera, Emmett a caccia di Alex che va verso la strada sbagliata! XD Eccoci al momento della verità per mooolti di voi, come Saphira87 che finalmente scopre il contesto dal quale ho estrapolato quel famoso spoiler di cui si parla tanto! XD Ma la prima sanguinolenta battaglia non finisce qui. Il capitolo che ho concluso da poco termina questa sequenza di cruente immagini. Questa è la mia visione dell’Horror, dato che nei “generi” ho aggiunto anche quell’avvertimento.
Ho stuzzicato la vostra curiosità spezzettando ancora di più il clan 190esimo? Ma ovviamente qui si parla anche di Alex e del suo modo cruento di battere la porta in faccia a Lisa. Le cose cambieranno (forse) <.< niente spoiler… nel prossimo capitolo?
Sta a voi scoprirlo!
Elik.

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Capitolo 21
*** Capitolo 21° - Degni avversari ***


Avvertenze:
Chiedo palesemente scusa, ma in questo capitolo farò diversi salti di punti di vista, da un personaggio all’altro con diverse ambientazioni, ecc, ecc…
E’ una cosa che a me da molto piacere fare, che mi diverte. Saltare da un personaggio all’altro è quel genere di intrattenimento della scrittura che adoro, ma alle lunghe so che per un lettore può diventare snervante e irritante.
Mi congedo e vi lascio a questo capitolo, sperano che non mi spellerete viva subito dopo averlo letto  °-°
Elik.


Capitolo 21° - Degni avversari

[:.Emily .:]

-Matt!- chiamai agonizzante. –Matt!!!- tentai di riallacciare la comunicazione, e non appena ci riuscii il ragazzo compreso subito cosa stava accadendo. –Vuole assorbirmi Matt, vuole assorbirmi!!!- gemetti.
Ci fu un lungo silenzio, ma proprio non appena il ragazzo riuscì a proferire una sola parola, questa s’interruppe nel velocissimo gesto di Alex, che mi slacciò il casco dalla testa e lo gettò lontano, mandandolo in frantumi addosso ad un cumulo di macerie.
Continuai a gridare allungo tenendo gli occhi chiusi, mentre il mio viso era alla mercé del suo famelico e sadico sguardo; quella tortura andava avanti poco a poco che il mio corpo scompariva nel suo, che il mio sangue si mescolava al suo.
-Aspetta! Aspetta, ti prego!- piagnucolai. –Ascoltami, ascoltami, ti prego!-.
Mercer acquietò il suo avido consumarmi, come se quelle mie parole avessero innescato in lui un certo interesse. –Parla- disse serio.
-Non farlo, ti prego…- singhiozzai. –Non uccidermi…-.
-Perché?- formulò restando rigido dinnanzi a me, quasi potessi immaginarmi la sua figura così vicina alla mia nonostante tenessi gli occhi chiusi e ben stretti, così come i denti, che per via del dolore avrei potuto rompermeli uno ad uno. Non mi sentivo più le gambe, la parte inferiore del mio corpo era sparita nel suo, era una sensazione orribile, una mancanza che non percepivo colmarmi seppur tentassi in tutti i modi di contattare i miei piedi che non c’erano.
-Noi…- inghiai il groppo che avevo in gola. –Noi ti abbiamo rubato qualcosa…- dissi senza fiato, senza coraggio per guardarlo, senza coraggio per guardare quello che mi aveva fatto. –Abbiamo qualcosa che stai cercando…-.
-Dana…- mormorò allentando del tutto la sua presa da attorno la mia vita, ma la cosa che mi teneva attaccata a lui non erano altro che le mie mani, finite a stringere la pelle del suo giubbotto nero.
-…Chi?- domandai riaprendo lentamente gli occhi colmi di lacrime per l’alta sopportazione di un’infame tortura.
Il ragazzo scosse la testa sfuggendo al mio sguardo troppo vicino al suo. –So che l’avete presa voi! Non ho bisogno che tu me lo dica, ma grazie per la conferma-.
-Non ho idea di chi o cosa il mio capo abbia ordinato di rubarti, Mercer!- gridai. –Ma se mi uccidi, loro si sbarazzeranno di quello che sta cercando e…-.
-‘STA ZITTA e CREPA!- digrignò ricominciando ad assorbirmi, e fino ai fianchi le mie ossa e i miei organi sparirono quasi del tutto. Sentii il fiato mozzarmisi in gola, l’aria mancarmi e il dolore dilaniarmi il cervello come se Alex stesse assorbendo anche quella parte di me. Alcune ciocche della frangia mi s’inumidirono di sudore appiccicandosi alla fronte, altre mi ricaddero selvagge davanti agli occhi che ricominciai a tenere chiusi.
-Smettila, basta! Ti prego!- lo supplicai infilzando le unghie nel suo giubbotto e attirandolo contro di me come se potessi utilizzarlo per scaricare tutte le mie sofferenze.
D’un tratto un’illuminazione, una vaga idea, una mezza speranza affiorò in me, sostituendo il dolore ad un forte desiderio di sopravvivenza. –Aspetta, aspetta!-.
Il ragazzo interruppe il consumo un’altra volta. –Queste saranno le tue ultime parole, e credimi se ti dico che sei piuttosto faticosa da consumare…- ringhiò esasperato.
Spalancai gli occhi e lo fulminai con un’occhiata differente, diversa da quelle di superiorità che gli avevo mandato fin a quell’ora. Addolcii il viso, cercando di procurargli quella pena, quella pietà che aveva provato anche durante il nostro primo incontro. –Posso… posso portarti da loro- dissi.
Del tutto calamitato da quell’offerta, Alex Mercer mi allontanò da sé con uno strattone.
-Ricomponiti- ordinò guardandomi dall’alto. –Mi fai schifo- disse spudoratamente.
-Era questo che volevi!- gridai cominciando a riassorbire il mio stesso sangue da quello che avevo perso a terra. –Era questo che cercavi fin dall’inizio! Il mio aiuto! Tu vuoi entrare nella base, vuoi…-.
-No!- sbottò. –Non voglio il tuo aiuto, non mi serve!-.
-E allora uccidimi!- recuperai parte delle mie gambe in un turbinio di fasci rossi e neri. –Che cosa stai aspettando, stronzo?! Uccidimi, avanti! Perché non mi assorbi, cazzo! Uccidimi!- gridai disperata, nel frattempo che avvertivo il tessuto dei miei muscoli tornare solido e compatto per tutta la lunghezza del mio corpo, e il dolore si alleviava poco a poco. –Consumami! Avanti! Uccidimi! Prima che lo faccia io al tuo posto!-.
Il ragazzo inarcò un sopracciglio. –Vuoi suicidarti?- ridacchiò sommessamente.
-Ma che cazzo hai in testa, fagioli?!- feci scettica. –Ehi, sveglia! Sono qui, guardami, stronzo!- ero del tutto fuori di testa. –Cos’è che ti frena, eh?! Cos’è che non ti “permette” di assorbirmi, eh?!- ma riscoprii piuttosto interessata a questo punto della conversazione.
Il ragazzo chinò la testa e si guardò le mani. –Non lo so…- d’un tratto sembrava essere tornato debole e vulnerabile come l’avevo trovato prima del nostro scontro, mentre fissava la sua immagine riflessa nella pozza di sangue di quel cacciatore. –Il tuo sangue…- aggiunse in un sussurro.  –È… diverso- pronunciò serrando i pugni e alzandosi in piedi.
Distesa a terra e del tutto rigenerata, ma ancora fiacca e indebolita, non seppi cosa dire o cosa fare. E se si fosse accorto che qualcosa nel mio codice genetico era dissimile a quello che si aspettava di incontrare? Dissimile a quello di tutti gli Angeli che aveva assorbito e fatto a brandelli durante le sue battaglie. E se fosse giunto alla conclusione che io mi ero prefissa di rinnegare? Non desideravo aiutarlo, preferivo di gran lunga perseguire il mio incarico di sterminarlo, più che altro.
-Posso portarti da lei- dissi d’un tratto, attirando la sua attenzione e distogliendola dal fatale argomento.
Il ragazzo aggrottò la fronte e l’ombra del cappuccio parve come allungarsi sul suo volto. Tacque, ed io proseguii.
-La persona che stai cercando- feci per alzarmi. –Posso portarti da chiunque essa sia-.
-È mia sorella- si decise in fine. –Si chiama Dana. Puoi portarmi davvero da lei?-.
Annuii.
-Perché lo faresti?- chiese seccamente.   
Scossi la testa guardando a terra. –Veramente non lo so…- mormorai. –È la seconda volta che mi risparmi la vita, non ho altro modo per sdebitarmi e poi…-.
Prima che potessi terminare di parlare, Alex mi si avventò contro e, afferrandomi per la gola, mi fece schiantare rumorosamente e dolorosamente contro la parete di cemento di una palazzina lì accanto, dopo il marciapiede. Mi tenne allungo sollevata da terra. –Ho detto che non mi serve il tuo aiuto, non mi frega un cazzo di te e credimi se ti sto dicendo che non ho idea del perché tu sia tanto più forte e resistente dei tuoi altri amichetti alati!- digrignò a pochi centimetri dal mio volto, fissandomi negli occhi. –Non sono uno sciocco! Dimmi cosa sei, cosa ci fai qui, perché mi perseguiti, perché tra le palle incontro sempre e solo la tua brutta faccia! Dimmelo che è un trappola!-.
-Ti sbagli! Puoi fidarti di me, posso portarti davvero dentro la base, da tua sorella!-.
Approfittavo di quel suo momento di debolezza, inconscio mentale passeggero per penetrare le sue ultime difese, arrivare dov’era più vulnerabile e scoperto, ritrovandomi a pensare che la mossa di Lewis di rapire sua sorella era stata una furbata. Sarei stata capace di farlo inginocchiare se solo avessi cominciato con un approccio meno rude, più delicato, magari. Cominciai a pianificare in mente una strategia vincente che mi avrebbe fatta arrivare sana fino alla fine della giornata, ma la stessa strategia avrebbe consegnato Mercer su un piatto d’argento a Martin e i suoi Alchimisti.
-Sei debole, ragazzina! Vendi così la tua causa al tuo nemico! Sei veramente l’Angelo più idiota che io abbia mai ammazzato. Mi spiace, ma rifiuto la proposta!-.
-No, fermo! NO!- gridai. –Io posso darti quello che stai cercando! Ma se mi uccidi loro ti toglieranno dell’altro!- fu del tutto inutile.
-BASTA!- Mercer mi lanciò dalla parte opposta della strada ed affondai nella parete di mattoni e macerie di un vecchio palazzo, che crollò sbriciolandosi in un cumulo di detriti e polvere sopra la mia testa.

[:. Alex .:]

«Era stata una sciocca a farmi un’offerta simile. Non sono mica nato ieri. Ho imparato a difendermi dai bugiardi come lei, come la sua gente, i suoi compagni di clan. Già in passato ero stato fregato da persone che per un breve lasso di tempo si erano mostrate utili, servili, ottime alleati. Quel tempo era finito per sempre, consumato in un profondo odio verso chiunque provasse solo ad avvicinarsi troppo a me. Un odio che avrei dovuto annullare consumando quella ragazza, cosa che invece non feci. La lasciai sotterrata sotto quelle macerie, ormai certo che non mi avrebbe più infastidito.
Una mosca in meno, e la tela resta tesa…»

Mi allontanai da quella zona di Manhattan ben conscio di dove il mio corpo e la mia mente assieme mi stessero portando. Arrivai al porto e m’infilai nella luce del lucernario scavato sul tetto di quel vecchio cantiere. Camminai tra le ombre delle tende e salii la scala sino alla passerella, che percorse tutta fino alla tenda di Max.
Trovai il vecchio dottore intento nell’analisi di una fiala posta sopra ad un bollitore. Si sistemò gli occhiali sul naso e guardò verso di me.
-Alex- assentì stupito di vedermi lì.
Mi guardai attorno circospetto. –Dov’è Lisa?- domandai serio, e ammetto, un po’ preoccupato.
Max sgranò gli occhi tutt’un tratto. –Non è qui… è uscita questa mattina per cercarmi degli oggetti, andava all’ospedale per delle fiale e dei tamponi, ma…-.
Non gli lasciai il tempo per terminare una sintattica frase. Uscii dalla tenda con la stessa fretta con la quale vi ero entrato. Cominciai a correre sulla passerella e mi lanciai giù scavalcando il parapetto. Arrivai sotto al lucernaio, caricai il salto, sparii nel buio di un cielo senza stelle e planai sino al palazzo più vicino.
Intrapresi una corsa folle attraverso strade, vicoli, pareti di edifici, ma fiutare il suo sangue umano, il suo profumo, mi fu del tutto impossibile. Non riuscivo a trovarla: pattugliai in lungo e in largo, in ansia, fremente e con la lama già a portata di “braccio”. Cominciai a temere il peggio, a pensare che oltre a qualche cacciatore volante, per le strade di Manhattan Lisa fosse potuta inciampare in un Angelo che sapeva troppe cose.

«Mi pentii ancora una volta del mio passato, di quello che avevo fatto e non. Se quell’Angelo dura da “assorbire” era resistita all’impatto, alla frana che le avevo fatto piovere addosso, era per me la fine. Il progetto Gabriel poteva considerarsi al completo delle persone che, se tolte da questo mondo, mi avrebbero reso la preda facile che loro tanto cacciavano e desideravano. Ero stato uno stupido! Uno STUPIDO! E continuai allungo a ripetermelo.
Aleeeeeeex!
Improvvisamente, udii un grido, la sua voce che chiamava il mio nome e strillava in note acute.
Fu un miracolo, forse… ma io non credo in Dio.
E di conseguenza nemmeno nei suoi messaggeri

[.: Cole, Harry & Lucy :.]

-Dov’è Emily?- chiese il Capitano mentre si caricava il corpo di Harry, addormentato, sulle spalle.
Lucy si prese del tempo per pensarci. –Ci siamo divisi per… per cercare lei ed Emmett, signore. Piuttosto, sa dirmi dove…-.
-Il tuo fidanzato sta bene, non disperare-.
-Capitano! Come fa ad esserne così certo?!- chiese in pena mentre s’incamminavano.
-L’ho indirizzato su una pista falsa a caccia di Mercer. Almeno non farà spiacevoli incontri di quel genere- mormorò. –Ora dimmi da che parte è andata Emily-.
La ragazza scosse la testa. -Non saprei- assentì flebile. –Quando ci siamo separati noi siamo venuti verso nord, quindi, siccome non ci ha ancora raggiunti, suppongo che lei si sia diretta a sud, lungo il molo- disse.
-Perfetto!- sbottò il capitano imboccando la strada deserta e notturna.
Camminarono allungo senza meta né direzione, fiutando una pista di tracce che si volatilizzavano col passare dei minuti.   
Improvvisamente Lucy alzò gli occhi da terra.
-Capitano, guardi…- mormorò la ragazza indicando un punto impreciso sulla strada, dove lampeggiava la luce di una torcia.
Il capitano Turner si sistemò meglio il corpo di Harry che portava sulle spalle. –Cos’è, Angel?- chiese.
Lucy effettuò uno scanner e contattò il suo coordinatore perché il casco del capitano era stato danneggiato. –Un’umana signore- disse la ragazza.
-Infetta?- domandò serio Cole.
-No- scosse la testa.
-Procedi con il soccorso- ordinò.
-Sì signore- annuì la ragazza. Spiccò un balzo, spalancò le ali e fu in volo verso la fonte del calore che le segnalava il GPS. Una volta che fu sopra la figura trasandata e traballante della giovane ragazza, Lucy perse quota e atterrò proprio davanti a lei, che si sbilanciò all’indietro e cadde di sedere sull’asfalto.
L’Angelo le scannerizzò il viso colmo di lacrime e arrossato che teneva sotto il cappuccio di una felpa stracciata in alcuni punti. Aveva lividi sulle gambe inferme e le braccia le tremavano strette al ventre. Bianca di pelle come se avesse appena visto un fantasma.
-Lisa Taylor- le comunicò il suo coordinatore all’auricolare del casco. –Aspetta un attimo…- le disse ad un tratto.
-Attendo in linea- fece Lucy tenendo attiva la comunicazione. Si avvicinò di un passo alla ragazza che non si mosse.
Lisa tirò su col naso asciugandosi le lacrime con la manica sinistra, mentre la mano destra stringeva ancora quella torcia che allungava l’ombra di Lucy e delle sue ali sulla strada.
-Qual è il tuo nome?- domandò la poliziotta.
-Lisa…-.
-Lisa Taylor?-.
Lei annuì scoppiando in un mare di altre lacrime.
-Ehi, che è successo?- domandò l’Angelo chinandosi alla sua altezza e carezzandole una guancia.
Lisa si ostinò in quel folle disperarsi ancora allungo, fin quando la comunicazione con il coordinatore di Lucy non tornò attiva.
-Angel 1-9-4, procedi col soccorso su richiesta diretta di Lewis Martin-.
-Come mai da lui in persona?- chiese confusa.
Il suo coordinatore non volle ascoltare repliche. -Sono ordini, ubbidisci-.
-Devi venire con me, Lisa- disse Lucy aiutandola ad alzarsi.
-No- la ragazza scosse la testa. –No, lasciami stare!- gemette lei ritraendo il braccio.
-Non fare così, avanti…- le porse la mano. –Vieni, ti porteremo in un posto sicuro, via dall’Isola- pronunciò radiosa.
-No- si ostinò balzando in piedi. –Non è vero! Bugiardi!- cominciò a correre, ma Lucy con un salto le fu di nuovo davanti bloccandola con le braccia. –Adesso calmati!-.
Il capitano Turner le raggiunse entrambe ripiegando le ali nella sua schiena.
-Capitano, dobbiamo soccorrerla su ordine di Lewis!- sibilò Lucy tenendo stretta la ragazza.
Cole adagiò il corpo di Harry a terra ed estrasse dalla cintura una fiala di liquido trasparente, che armò poi in una siringa. –‘Sta calma- mormorò poi avvicinando l’ago al braccio di Lisa, che Lucy scoprì tirandole su la manica.
-No! Fermi! No!!!- si dimenava lei calciando e gridando. –Alex! ALEEEEEEEX!- chiamò, e la sua voce raggiunse le vette dei grattacieli e gli abissi delle fogne.

[:. Alex .: ]

Ingrandii la lama e la tenni oltre la linea del mio fianco, alle mie spalle; stando piegato sulle ginocchia e guardando un punto fisso davanti a me, rivestii il mio corpo dell’armatura continuando a correre.
Lisa era lì, stretta tra le fauci di due Angeli che la immobilizzavano. Uno di loro teneva una siringa, e lì non ci vidi più. Mi avvicinai a loro e mi gettai addosso al primo, addosso a quello maschio, sbattendolo con violenza addosso alla carcassa di un’auto arrugginita. Gli frantumai alcune ossa, mentre fissavo con odio il ghigno di dolore che si disegnava sul suo volto di giovane uomo, più o meno della mia età. Lo afferrai per la gola e lo sbattei sull’asfalto, tramutai la lama in artigli e feci per affondarli nel suo petto, ma questi si conficcarono nel terreno quando abile, la mia preda si rigirò rotolando su un fianco. Il ragazzo balzò in piedi e mi fu alle spalle, colpendomi alla schiena con un pugno poderoso che mi spiazzò a terra.
Le grida di Lisa che guardava verso di me strillando il mio nome mi tuonavano nelle orecchie; l’immagine del suo viso in lacrime riempiva il mio campo visivo. Distratto, prima che riuscissi ad evitare il colpo, l’Angelo trasformò il suo braccio in artigli e tentò di graffiarmi più volte, con emerito successo.
Si aprirono dei piccoli tagli poco profondi sulla mia armatura, della quale mi sbarazzai per divenire più agile e veloce contro il mio nemico.
Scattante, affondai un mega pugno nel suo costato e lo scaraventai in aria verso l’alto di parecchi metri. Spiccai un salto, lo raggiunsi e cominciai a menarlo colpo dopo colpo sempre con maggior vigore e precisione. Stordito, il mio avversario restò allungo in balia della mia forza, fin quando le sue ali non si spalancarono facendone un potente scudo. Gli artigli delle sue protuberanze mi ferivano: erano come tante piccole lamette affilate poste inverse alla mia direzione, che al solo sfiorarle avrei potuto rimetterci un dito.
Fu uno scontro lento e sanguinoso per entrambe le parti, fatto senza esclusione di colpi, tattiche o finte. Nel frattempo che il secondo Angelo, una ragazza, iniettava un liquido trasparente nelle vene tese e gonfie della mia Lisa.
D’un tratto, me per il contraccolpo, e lui per l’attacco troppo devastante, venimmo scaraventati uno a destra e uno a sinistra della strada, sprofondando nelle pareti dei rispettivi palazzi che affacciavano su quel lato del marciapiede.
Mi riappropriai subito delle forze necessarie per riprendere da dove avevamo interrotto, pensando che finalmente mi era capitato tra le mani un degno avversario. Uscii allo scoperto e balzai fino a terra, dove trovai ad attendermi il mio nemico.
Ripreso possesso del mio corpo e della volontà che avevo di salvaguardare la figlia di Max, mi voltai e fissai allungo negli occhi il mio combattente. Dopodiché, ipnotizzandolo con qualche pugno a mano nuda che lui parò in altrettanto modo, riuscii a penetrare le sue difese ed indebolire abbastanza i suoi muscoli. Frantumai ciò che restava della sua immunità a me affondando la lama nel suo basso ventre. Questa uscì dal capo opposto della sua schiena, spezzettandogli la spina dorsale e le costole come… stuzzicadenti.
Ritirai il braccio che distesi lungo il fianco. Serrai i pugni ma rilassai le spalle, e lo guardai portarsi entrambe le mani al grosso e profondissimo solco che traversava le sue carni attraverso l’uniforme. Cadde in ginocchio guardando a terra, sfuggendo al mio sguardo di vincitore, e in fine si accasciò al suolo ormai fuori combattimento.
-NO!- sentii gridare da una voce familiare, femminile, squillante. E dal buio del cielo calò su di me l’Angelo alla quale non avevo spezzato le ali.

[:. Emmett .:]

Una distesa di palazzi distrutti, strade deserte e ponti crollati. Una visione di sangue, morte. Un presagio di distruzione e caos aveva appena abbandonato quelle lande abbandonate da Dio che stava traversando in volo. La base, per via del suo GPS danneggiato e la comunicazione interrotta, non era riuscito a contattarlo. Gonfiò le ali, planò sul tetto di un edificio e mirò oltre la linea dell’orizzonte della costa est dell’Isola di Manhattan. Pattugliava quella zona da ore, girovagava senza meta e aveva fiutato tanti di quegli infetti e combattuto contro tanti di quei cacciatori, che avrebbe potuto colmare il letto di un fiume e distrutto una diga coi loro soli cadaveri.
Rinfoderò le armi, si tolse il casco e ispirò l’aria puzzolente di Virus a pieni polmoni.
Era pronto a scommettere che Cole gli avesse raccontato tutte balle, pur di allontanalo dalla zona di fuoco della città. Non si sarebbe affatto stupito se una volta rientrato nel piccolo fortino costruito sull’isola dove si erano dati appuntamento, qualcuno tipo Lucy gli raccontasse di aver incontrato Mercer sul porto della costa ovest, dove sarebbe dovuto rimanere a combatterlo.
-…Ma che cazzo!- sbraitò gettando il casco a terra con violenza, e questo si frantumò in pezzi contro il cemento del tetto.
Il rumore che ne scaturì nel reclamò un secondo, nel mentre Emmett si voltava lentamente verso le sue spalle, dove un grosso serbatoio-cisterna cominciava a gonfiarsi di Virus, vivo. Scoppiarono i pistoni, le pareti si frantumarono nella confusione di ruggiti e gemiti.
Balzò fuori un piccolo cacciatore di terra. Gli ringhiò contro bavoso e parsimonioso, avido della carne di Angelo che già assaporava tra le storte e brutte zanne. Graffiò il terreno con gli artigli, caricò contro di lui, spiccò un balzo.
Emmett inarcò un sopracciglio e portò avanti il braccio. Cinque grossi artigli apparvero da terra e affondarono nel torace della bestia, che grondò sangue.

[:. Emily .:]

Un dolore lancinante alla schiena risaliva il collo, sino alla nuca; scendeva per le gambe, arrivava e alle caviglie, storte, sconnesse, così come le ginocchia e le ossa dell’intero mio corpo divennero friabili come carta pesta. Un crack dopo l’altro, persino i miei muscoli cominciarono a sentirsi soffocare dall’assenza di spazio, spiaccicati da polveri e macerie che sentivo penetrarmi la carne e comprimermi come la copertina di un libro fa con le sue pagine. Il buio dei miei occhi, dei miei sensi si dissolse in una nebbiolina bianca e opaca quando, d’un tratto, il mio braccio destro tornò sveglio e attivo. Spinsi, facendo leva sulle gambe, e fui finalmente libera di tutti quei macigni pesantissimi che mi schiacciavano nell’oscurità.
Emersi nella luce di un lampione che lampeggiava, storto, sul lato del marciapiede. Guardai in alto, dove un ampio cielo colmo di stelle stava schiarendosi dei primi colori dell’alba. Mi sollevai a fatica sulle braccia, trascinandomi fuori da quella tomba di pietre e massi che si era formata sopra la mia testa e tutt’intorno. Mi guardai circospetta da eventuali nemici, vecchio o nuovi, potenti o deboli, ma mi accorsi di essere rimasta sola per tutta la lunghezza del porto.
Mi accucciai piegando le ginocchia e mi sistemai i lacci della scarpa rimasta slacciata.
Se Alex pensava di essersi sbarazzato di me commetteva un grande errore, e l’avrebbe capito molto presto. Ero ben intenzionata di continuare a cercarlo fin quando il sole non fosse stato alto in cielo. Ora che avevo l’energia necessaria e il vigore per affrontarlo, senza contare il fatto che ero certa di averlo indebolito almeno un po’, non gli avrei dato la possibilità di leccarsi nessuna ferita. Più spietata che mai, mi sollevai da terra e spalancai le ali nel vento.
Mi allontanai dal porto seguendo una pista di tracce e odori, trovandomi ben presto in compagnia di un profumo che avrei potuto riconoscere tra mille.
-Cole…- mormorai il suo nome sulle labbra mentre alcune ciocche di capelli fuggite alla coda alta che avevo mi frustava il viso. Privata del mio casco e di qualsivoglia mezzo per mettermi in comunicazione con la base o il resto del mio clan, seguii la linea ondulata che tracciava il profumo del mio capitano nell’atmosfera.
In prossimità di un incrocio coi semafori ancora attivi, mi innalzai di quota e atterrai sul tetto di un palazzo che aveva un’ottima visuale su tutto il circondario. Mi guardai attorno, il profumo suo s’interrompeva proprio dov’ero, sopraffatto da un’altra grande quantità di Virus e Bloodtox. D’un tratto udii sentii un rumorosissimo schianto, il frastuono di macerie che rollano e in fine il silenzio.
Scesi sulla piazza, atterrai e allungai lo sguardo più a valle, dove nella nebbiolina di condensa che si era formata attorno ad una massa di polvere, vidi luccicare gli artigli di un paio di ali che riconobbi subito.
Mi alzai in volo e andai in quella direzione, attirata da una voce di donna che gridava il nome del mio peggior nemico, del mio bersaglio.
E in fine lo vidi: Alex Mercer, a due passi dal mio ragazzo, affondò la lama attraverso il suo corpo, attraverso la divisa e oltre il tessuto del giubbotto, perforando muscoli ed ossa.
Il ghigno che di disegnò sul volto di Cole, mentre le sue gambe cedevano e cadeva lentamente in ginocchio dinnanzi a Zeus, inizialmente mi spaventò lasciandomi vittima del suo stesso dolore. Assaporavo le sue sensazioni nei ricordi che avevo del mio scontro con Mercer di poche ore prima. Ma allo stesso tempo in me nacque quell’ultima particella di rabbia che mi avrebbe spinta a grande follie.
Superai Lucy che teneva stretta Lisa Taylor che gridava e si dimenava forsennata tra le sue braccia. Gonfiai le ali, mi diedi un’ultima spinta, e strillando: -No!!!- con tutto il fiato che avevo in gola, mi avventai sul mio bersaglio.
Lo colpii con forza sufficienza da scaraventarci entrambi metri e metri avanti sulla strada, fin quando il mio e il suo, al quale ero stretta, non precipitarono verso terra assieme, esplodendo poi in una nube di polvere e grossi frammenti d’asfalto. L’impatto allungò nel cemento una lunga e profonda scavatura, che mandò in frantumi tubature, cavi elettrici e condutture di ogni genere.
Chiusi gli occhi e attesi solo che quella tortura finisse, mentre continuavo a spingere l’incarnato di Alex contro qualsiasi ostacolo si presentasse davanti. E lui non fece allungo niente per fermarmi, anzi: subì uno ad uno gli impatti contro grossi e spessi tubi di metalli lasciandosi sfuggire un gemito sommesso ogni tanto. Il dolore del contraccolpo lo subivo anch’io e in modo presente, perciò la nostra poteva dirsi una sfida chi resiste di più: come una gara di testate contro un muro fin quando non ti si sfracella il cervello tra un mattone e l’altro.
Finì tutto nel silenzio nel momento in cui le mie ali si piantarono nel terreno lasciandomi a penzoloni nell’aria, mentre Alex si dava una spinta verso l’alto e, dopo un velocissimo scatto, planava oltre le mie spalle.
Mi voltai all’istante, già pronta con la lama al braccio, quando mi ritrovai a fissare il vuoto di tutti quei metri di “galleria” nell’asfalto che avevamo creato. Respiravo affannosamente, tenendomi malamente in equilibrio con l’ausilio delle ali, che mi apprestai all’istante di dispiegare nell’aria.
Ripercorsi tutta la strada, e tornai all’origine del nostro scontro. –Cole!- strillai atterrando di corsa, scivolai al suo fianco graffiandomi le ginocchia con vetri e residui di cemento, ma una volta che gli fui accanto, poggiai una mano sulla sua nuca e gli sollevai piano la testa.
Il foro longilineo ancora non si rimarginava. Perdeva troppo sangue che sentivo inzupparmi i pantaloni mentre mi gettavo ad abbracciarlo. –Cole, Cole, ti prego…- singhiozzai.
Una sua mano, tremando, si sollevò piano da terra e andò a sfiorarmi la schiena con delicatezza. –Ciao…- mormorò schiudendo gli occhi e con voce flebile come il suo respiro strozzato.
I miei singhiozzi cessarono all’istante e lo guardai con le lacrime che mi scivolavano sulle guance. –Ciao- risposi quasi ridendo per la gioia di sentirlo respirare. In completa balia della paura che avevo sentito dilaniarmi, e della felicità nel rivedere i suoi occhi accesi di amore per me, mi chinai di nuovo su di lui e lo baciai, premendo con foga le mie labbra sulle sue. Quando mi allontanai per riprendere fiato, gli carezzai una guancia.
-La… siringa…- disse lui sfiorando con due dita il mio fianco. –Usala…-.
-Sì, hai ragione!- afferrai la terza fiala, ma prima che riuscissi ad infilarla nel tampone, Cole mi fermò. –Non quella- pronunciò serio, e con lo sguardo mi fece capire che si stava riferendo ad uno dei miei potenziamenti d’attacco.
-Devo guarirti, prima!- sbottai io, disperata.
-Non c’è tempo…- con quelle poche forze che gli restavano, strattonò dalla mia cintura la fiala e ne ruppe il tappo mettendolo tra i denti. –Avanti, ammazza quel bastardo…- tossì.
Afferrai con mano inferma il contenitore di vetro e, versandone il liquido all’interno del tampone, mi feci di fretta l’iniezione. –Contento?!- strinsi i denti. –Ora lascia che…- stavo per riempire la mia siringa del curativo che volevo dargli, ma i tuoni di una mitragliatrice e un grido forsennato mi richiamarono a voltare il viso tutt’altra parte.

[.: Lisa :.]

Alex spiccò un salto, poi fece uno scatto nell’aria e andò a planare nascosto oltre un palazzo prima che quell’Angelo se n’accorgesse. Lisa sgranò gli occhi più volte, si dimenava ancora tra le braccia di quella ragazza che riusciva a tenerla ferma a terra senza il minimo sforzo. Gridava ancora e ancora: -Aleeeex! Aleeeex!- ma nessuno sembrava ascoltarla.
Improvvisamente l’Angelo con i capelli neri e gli occhi verdi si avvicinò al corpo del compagno caduto, con il quale Mercer si era fronteggiato poco prima. Fu a quel punto che Lisa capì quanto caro fosse quell’uomo a quella donna, che cominciò a singhiozzare sul petto squartato di lui infangandosi le mani del suo sangue. Lisa vide tutto: dalle carezze al bacio, e quasi poteva ascoltare quello che si stavano dicendo decifrando i movimenti delle loro labbra, mentre tutto attorno a lei si gonfiava di silenzio e tristezza.
Ad un tratto guardò in alto la ragazza, calmandosi tra le braccia dell’Angelo che si stupì non poco del suo improvviso nuovo stato d’animo. Lucy, si chiamava, la lasciò andare per un istante quando dal cielo piovve la figura di Alex, che si piantò nel terreno proprio davanti alle due fanciulle.
L’Angelo sfoderò le sue armi e spinse via la ragazza, e Lisa si trascinò il più lontano possibile rifugiandosi in un negozio la cui vetrina era andata in frantumi sul marciapiede. Il respiro ansante, irregolare; il cuore le batteva a mille nel gesto di stringersi le ginocchia al petto. Le orecchie captavano i suoni ma li ovattavano rendendoli un confuso insieme di borbottii distanti. Come il trambusto di una mitraglietta e lo sventolare di un paio di ali. Lanciò un’occhiata all’Angelo più lontano, quella ragazza dai capelli corvini che stava in piedi a pochi metri dal luogo in cui Lucy ed il suo Alex stavano fronteggiandosi: lei con quella futile arma da fuoco, e lui lasciando che i proiettili si frantumassero sulla sua lama in un’esplosione di scintille. L’Angelo dal viso scoperto si avvicinò ad Alex immaginando di poterlo cogliere di sorpresa. Il suo braccio destro tramutò in una poderosa zampa fatta di grossi artigli affilati. Andava verso di lui con rabbia e determinazione.
Lisa scattò in piedi e lasciò il suo nascondiglio.
Le azioni che convennero di lì in avanti, le fece per una persona solamente.
Perdonami, Alex…

[:. Emily .:]

Mi alzai da terra e abbandonai la vicinanza al corpo di cole con piccoli passi misurati. Tramutai il mio braccio in artigli, gonfiai le ali, accelerai finché non cominciai a correre e, nel momento in cui Alex trovò breccia nella difesa di Lucy scaraventandola via di parecchi metri, mi scagliai su di lui portando in avanti le unghie e le zanne.
Chiusi gli occhi, e il sangue che sentii scorrermi tra le dita, gli organi che avevo perforato, il petto che avevo trapassato da parte a parte, apparteneva ad un corpo umano… non… infetto.

[:. Alex .:]

La sua ombra scivolò sulla mia, la sua schiena si appoggiò alla mia con violenza, la sua mano s’intrecciò alla mia, il suo sangue percepii scorrermi sul giubbotto, lungo la spina dorsale. Il suo respiro si bloccò all’improvviso, il suo battere di cuore rallentò poco a poco, fino a diventare del tutto nullo. La delicatezza con la quale il suo corpo si appoggiò del tutto al mio. Mi voltai all’istante portando le braccia in avanti, e Lisa si lasciò andare contro il mio petto, crollando sulle sue gambe. Con lentezza l’adagiai a terra, piegando le ginocchia e restando china su di lei, sul suo viso candido, sulle sue guance arrossate e le sue labbra schiuse. Gli occhi sgranati e fissi nel vuoto, forse fissi nei miei; non avrei saputo stabilirlo comunque, troppo scettico dinnanzi al suo vano sacrificio.
Non dissi nulla; osservai la vita e il vigore abbandonare la sua anima e ciò che restava di essa, librandosi via nell’aria colma di Virus e Bloodtox attorno a noi e al luogo nel quale eravamo finiti a combattere. Mi si spezzò il fiato nel vedere un ultimo solare sorriso affiorarle in volto, mentre batteva le palpebre con troppa apatia.
Spostai lo sguardo sul suo corpo, dove sul ventre le era comparso un profondo squarto orizzontale che per poco non la traversava per intera. Sembrava allegra, soddisfatta delle proprie azioni; quand’invece doveva rendersi conto dell’abnorme sbaglio che aveva commesso pensando che un colpo di quel genere, che stava lasciando in vita lei, avrebbe potuto uccidere me.
Sollevai la testa e guardai in alto, in cielo, dove la figura di due Angeli che trascinavano un corpo, si allontanava nel buio della notte oscurando le stelle.

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Capitolo 22
*** Capitolo 22° - Tutta la verità ***


Capitolo 22° - Tutta la verità

[.: Alex :.]

-Mi dispiace…- le carezzai le fronte liberandola da una ciocca dei suoi capelli. Con un ginocchio piegato a terra, la tenevo con leggerezza appoggiata alla mia gamba come se fosse la cosa più delicata che avessi mai toccato. Le carezzai una guancia, i suoi occhi già umidi e le sue labbra schiuse che cercavano di dirmi qualcosa mentre tremava. Ancora su quella strada, tra macerie di palazzi e carcasse di dinosauri e infetti. Eravamo insieme sotto quel cielo senza stelle che si apriva sopra i tetti di una città ridotta a brandelli. I gabbiani del porto cantilenavano in coro assieme ai corvi affamati sulle nostre teste, svolazzando attorno le carni di un cacciatore e alcuni umani.
-Mi dispiace Lisa, non avrei dovuto permetterlo, è stata colpa mia che non ho fatto assolutamente nulla per impedirlo- e neanche la mia voce riconoscevo più, incrinata da un dolore dentro che non provavo da troppo tempo. Scossi la testa, sfuggendo al suo sguardo pungente, ancora vivo. –Ero lì! C’ero quando quell’Angelo ti ha colpita! Le mie spalle toccavano le tue, ma poi il tuo corpo si è crogiolato tra le mie braccia ed io… Perché?!- cambiai tono. –Perché, Lisa?! Perché l’hai fatto?!-.
Scivolò una lacrima sulla mia guancia mentre insistevo a tenere basso il volto, basso lo sguardo. Chiusi gli occhi e strinsi i pugni dietro la sua schiena. –Perché…?-.
-…Alex-.
Ad un tratto aveva parlato, sollevando una mano e andando a sfiorarmi il viso con le sue dita fredde e delicate. Scacciò via dalla mia pelle quell’unica lacrima e arrivò a lambirmi la linea del mento, perché le forze che le restavano non le concessero nient’altro. –Portami da papà…- mormorò lei. –… portami a casa- aggiunse.
La guardavo con gli occhi sgranati e lucidi d’incredulità quanto i suoi. –Sì- dissi. –Andiamo, hai ragione- mi sollevai in piedi caricandomela in braccio senza fatica. La testa le ricadde sulla mia spalla, il suo respiro freddo s’infrangeva sul mio collo, e finché avessi percepito il suo cuore battere, avrei potuto proseguire nella folle impresa di riportarla da Corvo.

Quando giungemmo in prossimità del porto, e poi attraverso il lucernario, cominciai a gridare il suo nome, nonostante l’ora. –MAX!- strillavo quasi piangendo. –MAAAAAAAAAAX!- barcollavo sulle mie gambe trottando tra le tende dei profughi, stringendo il corpo di Lisa al mio. –MAX!-.
La gente uscì dal letto e si sporse a guardare la fonte di tanto casino. Attorno a me, che mi dirigevo spedito alle scale, si formò un folto gruppo di uomini e donne. Salii i gradini dovendomi reggere alla ringhiera, e così anche sulla passerella che sembrava non avere fine. E continuavo a chiamarlo, senza ottenere risposta: -MAX! MAAAX!-.
Il battito del suo cuore si annullava poco a poco ad ogni mio passo. Rallentava di una frequenza ad ogni mio respiro, mentre io contavo i suoi sempre più dispersi, rari.
Entrai nella sua tenda e stesi Lisa sul lettino senza badare ai libri, i tavolini e i cuscini che sbaragliai al mio passaggio, creando una tale confusione.
In quell’istante s’udì un tuono, e su Manhattan cominciò la tormenta più nera della notte stessa. La furia della tempesta si abbatté violenta per le strade, l’acqua picchiava sui tetti delle case e sulle tende dei profughi, costringendo la gente a fuggire al riparo altrove. Non si era mai vista una bufera simile, e ancora come tante volte precedenti, non potei davvero credere che si trattasse di una coincidenza.
M’inginocchiai accanto al lettino, senza forze necessarie per tenermi in piedi solamente. Scuotevo la testa continuando a ripetermi che non poteva essere successo, e singhiozzavo, piangevo con la fronte premuta contro la sua, ma Lisa stava immobile, rigida e fredda. Gli occhi socchiusi così come le labbra dalle quali sentivo arrivare sulle mie un flebile respiro ogni tanto.
Il dottor Taylor entrò nella tenda di gran corsa, e quando i suoi occhi verdi dietro le lenti degli occhiali si posarono su di noi, ma sulla figlia per prima, dovette appoggiarsi alla libreria vicina per non crollare a terra sulle inferme ginocchia. Si portò una mano alla bocca, poi attorno alla gola e intanto il suo corpo traversato da tremiti continui parlava più delle parole che non riusciva a pronunciare.
-Mi dispiace!- gemetti guardandolo. –Mi dispiace, Max, non ho potuto fare nulla!-.
Il vecchio scattò in avanti e prese il mio posto accanto alla figlia dopo che mi fui alzato. –Mi dispiace…- dissi ancora indietreggiando fino ad inciampare con le gambe su uno sgabello sul quale caddi seduto. –Mi dispiace- nascosi il volto dietro i palmi.
-Lisa- chiamò Max con un filo di voce. –Lisa, piccola mia- mormorò carezzandole i capelli, avvertendo sui polpastrelli quel poco di calore che restava della ragazza. –Lisa, ti prego, parlami-.
-…Papà- schiuse gli occhi la giovane. -…fa male- pronunciò. –Fa tanto male-.
-Resisti, piccola, devi resistere!- la incitò lui.
Il dottore si alzò e andò a cercare tra gli scaffali una siringa. Gettò sul pavimento della tenda tutto ciò che gli era inutile, proseguendo nella sua sfrenata ricerca. Feci per alzarmi così da dargli un aiuto, ma Max mi fulminò con un’occhiata gelida e, respingendomi, mi spinse a sedere di nuovo sullo sgabello.
Dopodiché fece alla figlia un’iniezione di uno strano liquido rosato. –Ecco…- sussurrò. –Allevierà il dolore-.
Il grosso e profondissimo taglio che aveva in ventre non l’avrebbe tenuta in vita tanto allungo, ma forse qualche medicinale avrebbe potuto compensare i minuti che le restavano in un’ora buona. Quando il dottor Taylor estrasse l’ago dal braccio della figlia e tornò in piedi, si voltò verso di guardandomi in un modo tutto nuovo.
-So che hai fatto il possibile- disse serio gettando la siringa vuota in un angolo. Questa andò un frantumi sul pavimento. –Perciò non posso darti la colpa di tutto questo. Erano dei rischi che conosceva, e dei rischi che ha voluto correre sempre da sola- aggiunse mettendo al caldo la figlia con una spessa coperta. La mani di Lisa andò a cercare la sua, e Max gliela strinse tornando inginocchio al suo fianco. –La mia piccola Lisa…- sorrise guardando la figlia che ricambiò quel gesto allungando in modo simile le labbra.
Gli bastò un’unica occhiata per congedarmi. Mi sollevai in piedi lentamente e uscii dalla tenda senza voltarmi. Fuori di lì rimasi allungo in attesa di qualcosa che sapevo benissimo sarebbe accaduto. Lisa stava morendo, Max l’aveva accettato forse nel migliore dei modi.
Già, forse.
Il dottor Taylor mi raggiunse a capo chino fissandosi i piedi. Non appena mi fu affianco, si voltò verso di me e mi lasciò del tutto sorpreso quando mi abbracciò con foga e disperazione. Cercai il medesimo conforto per placare il dolore simile che stavamo provando entrambi in quel momento, ben consci di cosa potesse essere successo in passato, ma poco preparati ad imboccare il futuro.
-Va’ da lei- mi sibilò all’orecchio. –Ti supplico, Alex, va’ da lei e fallo. È quello che ha sempre desiderato, è quello che non ha fatto altro che chiedermi, implorarmi perché lo facessi. Il dolore era solo una scusa, il sacrificio solo un pretesto. Fallo, hai il mio consenso, e di certo il suo-.
Come un cane al padrone, ubbidii. Mi scansai dal medico di qualche passo ed entrai nella tenda così come n’ero uscito. Trovai Lisa dove l’avevo lasciata in balia di suo padre, sotto quella ruvida e spessa coperta col viso girato di lato verso la parete e il petto che si alzava e abbassava senza un ritmo costante in nervosi ultimi respiri.
Mi avvicinai a lei, afferrai lo sgabello e mi sedetti accanto alla branda continuando a guardarla da lontano.
-Alex…- chiamò a sorpresa la ragazza.
Sobbalzai sulla seggiola.
-Alex- chiamò di nuovo voltando la testa dalla mia parte, e il verde profondo, lucido e denso dei suoi occhi mi catturò come la tela di un ragno, mentre la sua voce d’un tratto melodiosa e cristallina mi incitava ad avvicinarmi. Così feci, spostando lo sgabello accanto a lei, abbastanza vicina da poter sentire il poco calore che emanava il suo fragile corpo disteso sul lettino. Con la coda dell’occhio, vidi la sua mano scivolare fuori dalla coperta e andare a sfiorare la mia. Senza interrompere la catena che si era formata tra le nostre pupille, intrecciai le mie dita alle sue. –Sono qui, Lisa- dissi solo.
-Bravo- mi sorrise debolmente. –Non andartene, allora- sembrava allegra.
-Mai- bruciai la distanza tra di noi nell’ultimo respiro di entrambi; chiusi gli occhi a posai le mie labbra sulle sue con delicatezza. Restai allungo chino su di lei, sul suo calore, sul suo profumo che improvvisamente si era sostituito alla puzza di Virus e Bloodtox che aveva quell’area della città, formando tutt’attorno a noi legati da quel flebile contatto, un’aurea di fasci rossi e neri che mai fino ad allora avevano avuto un carattere più magico.
Preservai una piccola parte della sua essenza dentro di me.
Per sempre.

Un uomo si avvicina ad un tavolo. Estrae da un bauletto una piccola fiala che contiene del liquido rossastro.
-Papà…-.
-Sì, piccola mia?- chiede quell’uomo mentre prepara un’altra iniezione.
-Che cosa vuoi fare?- domanda una ragazza.
-Questo può salvarti, Lisa- dice lui avvicinandosi alla giovane stesa sul lettino.
-Cos’è?-.
-Lo conservo da molto tempo…-.
-Dove l’hai preso, papà?- fa spaventata lei.
-Adesso non è importante che tu lo sappia-.
-No fermo!-.
L’uomo sgrana gli occhi.
-Non voglio- dice lei.
-Cosa…-.
-Non voglio guarire, papà-.
-Lisa, tu non…-.
-Chiamami Alex…- mormora. –Chiamami Alex, ti prego…-.
-Non dire sciocchezze, non…-.
-Voglio che mi assorba. Questo può davvero salvarmi-.
-È una follia! Ti rendi conto di quello che stai dicendo?!-.
-Lo amo, papà. E voglio restare per sempre con lui… questo può salvarmi, questo è l’unica cosa che voglio- sussurra.
L’uomo esita alcuni istanti. –È quello che desideri?- domanda alzandosi in piedi dallo sgabello e poggiando la siringa su una mensola della libreria.
La ragazza annuisce.

Max entrò nella tenda e mi trovò esattamente come si aspettava.
Ero steso con il busto sul letto, dove un tempo c’era stato il corpo di Lisa. Le braccia strette attorno alla testa, che avevo nascosto nel buio creatosi tra un gomito e l’altro. In ginocchio sul pavimento, crollato dallo sgabello giusto pochi istanti prima. Le lacrime ormai secche, del tutto asciutte sulle mie pallide guance. Il mio naso premuto sul tessuto della branda, che conservava ancora un poco del profumo di sua figlia.
Corvo mi venne affianco poggiandomi una mano sulla spalla. Sollevai il viso di colpo, facendo sobbalzare il vecchio che indietreggiò con un saltello.
-È finita- disse lui opaco e spento. –Grazie-.
Mi voltai a guardarlo con immenso rancore e tristezza. –Ne parli come se ti fossi liberato di un peso- blaterai.
Il suo schiaffò arrivò violento e penetrante, ed un istante dopo il rombo di un tuono squassò il cielo sopra l’Isola. Il dottore restò immobile scrutando con serietà l’espressione che mi si disegnò in viso subito dopo; peccato che avvertissi solo un 10% del dolore.
-Amo mia figlia- sbottò lui. –Ho voluto per lei la cosa migliore-.
-Ed io sarei la cosa migliore?- eruppi.
-No. Tu sei tutto quello che desiderava. È diverso- disse andandosi a sedere sullo sgabello.
-Se fossi stato un buon padre- cominciai –non l’avresti permesso-.
-Allora si vede proprio che non hai mai avuto figli, Mercer- ridacchiò isterico.
-Infatti, illuminami-.
-L’avrebbe resa felice-.
-Come fai a dirlo?-.
-Lo so e basta-.
-Come?!-.
-Perché sono suo padre!- scandì bene e con furia.
-Poteva guarire!- strillai. –E tu lo sapevi!-.
Max scosse la testa. –Tu non puoi capire…-.
-Sai una cosa?! Forse hai ragione! Forse non capisco, ma ora basta giocare, Max!- mi avventai su di lui afferrandolo per il camice sporco di sangue che indossava, sbattendolo successivamente contro la libreria, a mo’ di scena di già vista. –Dimmi la verità- digrignai a pochi centimetri dal suo viso. –Tutta la verità, a partire da quello!- indicai la siringa sulla mensola lì accanto alla sua brutta faccia. –Che cos’è?!- domandai dandogli uno scossone. –Dove l’hai preso?! E perché avrebbe potuto guarirla?!-.
-Aspetta, non è come pensi!-.
-Per tua fortuna ancora non sto pensando nulla! Adesso rispondi!-.
-Calmati, ti prego!-.
-MAX!-.
-Si tratta di un raro composto al mercurio!- balbettò il vecchio.
-Tutto qua?!- insistei.
-No, aspetta, fammi parlare!-.
-Dai!- invigorii la presa.
-Tutta la verità, eh? Va bene! Tutta quanta!- strillò isterico. –L’Angel 1-9-2 che ha colpito Lisa è Emily Walker!-.
Sgranai gli occhi, scettico, rigido. –Non è possibile…-.
-La figlia di Mark Andius Walker! Proprio lei!-.
-Hai detto che non aveva avuto figli!- ruggii spingendolo con più forza contro gli scaffali.
Al vecchio scappò un lamento di dolore. –E’ vero, ti ho mentito, ma davvero, non è come pensi!-.
-Spiegati!- eruppi. –Come sapevi che è stata lei ad uccidere Lisa?!-.
-Ho riconosciuto il taglio, il DNA coincideva! Quel composto con il quale avrei potuto guarirla l'avevo elaborato assieme a Mark, ipotizzandola come una cura! Il mercurio mangia i tessuti di una particolare molecola del Virus. Avrebbe permesso così a quelli di Lisa di rigenerarsi-.
-Come sai tutte queste cose?! Sei uno di loro, della Blackwatch, è così?!-.
-NO!- confessò. –Affatto!-.
-Allora parla, avanti!- un altro violento scossone che gli stampò in viso una smorfia di dolore.
-Dopo l’incidente del ’69 Walker si rifugiò dove ti ho detto, stette per i cazzi suoi e tornò a New York nell’anonimato! Il Blackwatch non sapeva assolutamente nulla di lui, ma adesso abbiamo tutti i motivi di sospettare il contrario! Io e Mark ci conoscemmo al College, te l’ho detto! Si confidò con me, mi parlò di tutto, dall’inizio alla fine! Mi raccontò di volersi costruire una vita normale e lo aiutai con le mie scoperte. Quando ebbe una figlia seppi subito di lei, la conobbi, era una bambina dolcissima, ma sana, Alex! Sana, sana del tutto sana! Poi il Blackwatch scatenò l’inferno, catturò voi, i pazienti, e li testò con il gene estratto da Elizabeth! Prese anche Emily, ma Mark non fece nulla per impedirlo pur di restare nell’anonimato! Lasciò correre ogni cosa, passarono gli anni, la bambina crebbe normalmente, senza manifestare alcuna reazione. Le preghiere di Mark sembravano essersi esaudite. Poi il Virus dilagò a Manhattan, nacque il settore Angels e il progetto Gabriel che volle con sé la piccola Emily. Walker rifiutò, all’inizio, e nel frattempo accresceva il suo prestigio in aeronautica- si calmò poco a poco. –Il giorno dell’incidente, con quella comunicazione radio, lasciò al settore Angeli un messaggio nascosto che dava la sua approvazione. Con quelle parole Mark consegnò sua figlia nelle mani di Lewis Martin, il responsabile del progetto. Da quel momento non ho più avuto sue notizie, ma…-.
Lasciai la presa sul suo camice adagiandolo lentamente coi piedi per terra. –Emily lo sa?- domandai in un sussuro.
-Cosa?- chiese confuso.
-Che suo padre è vivo. Lei lo sa?-.
-Non lo sa nessuno a parte noi, Alex- assentì dispiaciuto. –Mark stesso ha voluto darsi per morto, o il Blakcwatch avrebbe sospettato quello che non doveva sospettare sul suo conto. Sono del parere che quei pazzi furiosi siano morti tutti quanti, ma tu non sembri essere d’accordo. Dici che sono ancora attivi, che hanno le mani sul progetto Gabriel, ma non ti credo, non posso crederti, o Mark non avrebbe consegnato sua figlia a loro in quel modo-.
-Forse il messaggio non era un consenso- mormorai distante, pensieroso. –Ma magari… l’esatto contrario- supposi.
-Non penso nemmeno questo- disse scuotendo la testa.
-E’ tutto?- sbottai serio.
-Sì-.
-Quindi quell’Angelo…- strinsi i pugni.
-No, Alex. Non puoi andare da lei, piombando di nuovo in casa del nemico, e raccontarle una bella favoletta come se foste vecchi amici di scuola!- mi rimproverò.
-Non sto dicendo questo!- ringhiai.
-So dove vuoi arrivare, ma è sbagliato tentare un approccio con lei, Alex, fidati. Se vuoi farti degli alleati, devi partire dal principio. Risalire alla radice- pronunciò composto e profetico.
-Mark?- ipotizzai.
-Esattamente. Trova lui, e avrai tra le mani l’ultimo tassello del tuo puzzle- disse. –Dopodiché saprai tu cosa sarà giusto fare, ma voglio almeno che lo porti qui da me- aggiunse.
-Affare fatto- e uscii dalla tenda con quelle ultime parole.

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Capitolo 23
*** Capitolo 23° - Rotrovarsi... in lacrime ***


Capitolo 23° - Ritrovarsi… in lacrime

[:. Emily .:]

-Piano, Lucy, piano!- gemetti stringendo i denti.
-Ecco, mettiamolo qui-.
-No! No!- strillai. –Portiamo in una delle stanze, non sul tavolo, dai!-.
-Emily, sono stanca, non ce la faccio…- indebolì la presa attorno alle caviglie di Harry, il cui corpo io e la ragazza stavamo spostando da una parte all’altra del piccolo locale nascosto sotto le macerie di una vecchia palazzina. È una base scavata tra i detriti di soffitti e pareti che formano una resistente contenuta, un buon luogo cove ripararci in caso di pericolo. Questa zona di Manhattan nella quale ci trovavamo ora ospitava tre fortini di quel genere, e noi ci eravamo diretti al più vicino.
-Quel combattimento, io…-.
-Lucy!- gridai irrigidendomi, io che le mie braccia sorreggevano il peso morto di Harry afferrandolo sotto le ascelle. –Avanti, un ultimo sforzo! Aiutami!- la incitai.
La ragazza si ristabilì all’istante notando la mia disperazione. Tornò più presente nell’aiutarmi e insieme scortammo Harry in una stanzetta adiacente al salottino. La mobilia era composta di un materasso sul quale riposare, qualche vecchio cassettone di metallo e scaffali abbondanti di polvere. Nessuna finestra e tanto meno sbocchi sull’esterno al di fuori dell’unica entrata ed uscita, che affacciava sul corso centrale dell’Isola.
-Eccoci, piano…- mormorai adagiando delicatamente Harry sul materasso. Il ragazzo teneva gli occhi chiusi, era rigido, sempre più pesante, e ciò non poteva che essere un bene: voleva dire che i suoi tessuti si stavano rigenerano abbastanza in fretta.
Lucy crollò al suolo ormai prima di forze, sulle gambe inferme e tremolanti. Scivolò lungo la parete e, con la fronte imperlata di sudore, guardò verso di me col fiato grosso. –Mai faticato tanto… in vita… mia- disse ansante.
-Sei debole- risposi io sollevando delle coperte a coprire parte del nostro compagno di squadra. –Lo scontro ti ha infiacchita, e se hai preso qualche potenziamento, questo non può che essere l’effetto post trattamento- dissi. –Il tragitto in volo dal porto a qui non può che averti stremata ulteriormente…- aggiunsi uscendo dalla saletta. Mi fermai sull’uscio e vidi la ragazza che preferiva stare seduta per terra, su delle fredde tegole di cemento e metallo.
-Adesso… ti raggiungo- mormorò facendomi segno di andare, ed io tornai nel salottino. –Il capitano lo solleviamo insieme, non preoccuparti- fece divertita.
Le sorrisi grata e tornai nel salottino, dove sull’ingresso trovai adagiato sul pavimento, in una posa innaturale, il capitano della nostra squadra, che stava appoggiato allo stipite della porta con il mento premuto al petto. Gli occhi leggermente socchiusi dal dolore che stava provando e dal tentativo di tirarsi su, sollevandosi su di un braccio.
-Cole!- mi gettai al suo fianco aiutandolo ad alzarsi. –Cole, ti prego, non fare sforzi!- lo ammonii prendendolo sottobraccio e caricandomi parte del suo peso su una spalla.
-Emi…ly- chiamò lui senza fiato, voltando di poco la testa nella mia direzione. Sollevò leggermente la mano per sfiorarmi il volto con due dita, che percepii fredde e tremolanti sulla mia pelle. Quando le sue forze si fecero del tutto nulle e il suo intero corpo si accasciò sul mio costringendomi con le spalle alla parete, chiamai con la voce che mi restava in gola: -Lucy!-.
La ragazza accorse in mio soccorso sull’immediato, e insieme sistemammo il capitano in un’altra saletta adiacente, portandolo sino al materasso e poi disteso sul letto.
Ci affaccendammo entrambe nella ricerca di medicinali e qualcosa con la quale comunicare alla centrale le condizioni del nostro clan fatto a brandelli. Ma le comunicazioni radio sembravano saltate per via di una casina elettrica disattivata nel quartiere. Gli armadietti, gli scomparti e gli scaffali vuoti di qualsiasi oggetto utile ad un primo intervento sembravano essersi saccheggiati da soli.
-Abbiamo beccato il fortino senza rifornimenti! Cazzo!- sbraitai calciando il tavolo.
Lucy mi venne vicino facendomi voltare e, calmandomi con la sola serietà che aveva in volto, disse: -Emily, adesso va’ da lui. Vado io a cercare Emmett e qualcosa di utile fuori da questa baracca, ma tu devi restare con Harry e il capitano-.
-Lucy, non possiamo dividerci ancora!- sbottai.
-Per cortesia, lasciami fare! Sai bene che è l’unico modo che ho di rendermi utile! È colpa mia se siamo finiti in questo casino…- mormorò distogliendo lo sguardo, afferrando la sua roba dal tavolo e avviandosi all’uscita. –Non avrei dovuto permettere che ti staccassi da me ed Harry, non avrei dovuto litigare in quel modo con te. Mi dispiace, credimi, ma adesso lascia che metta in pericolo la mia vita per salvaguardare le vostre-.
-Lucy, non posso permetterlo, adesso…- non riuscii a terminare che la ragazza era già in volo fuori dal rifugio.
M’inginocchiai a terra, accanto al materasso sul quale era steso il capitano del nostro clan. Con delicatezza gli strinsi la mano intrecciando le mie dita alle sue. Rimasi allungo in attesa di un solo flebile segno di ripresa, ma i tremori che aveva lungo il corpo e gli spasmi impercettibili delle palpebre abbassate come se stesse sognando non mi davano alcun conforto. Cominciai fin da subito a temere il peggio. Alex era riuscito a ferirlo, a squartarlo nel vero senso della parola, e c’erano ben poche cose che potessimo fare anche solo per rallentare gli effetti catastrofici che avevano i suoi poteri su di noi. Considerai la possibilità che avevo di fare al ragazzo qualche genere d’iniezione con ciò che restava dei nostri potenziamenti, ma proprio come questa vana speranza era apparsa, col trascorrere dei minuti, delle ore che restai al suo fianco, la stessa si dissolse poco a poco. Guardai presto in faccia la realtà, quella cruda e immeritevole realtà che l’essere più spregevole del pianeta mi aveva schiaffato sulla faccia. Anche se ormai potevamo, io e Mercer, ritenerci alla pari coi danni arrecati l’uno dall’altra, non voleva dire che la battaglia fosse conclusa.
E fu così che cominciai a piangere.
Lacrime di vendetta, odio e amarezza mi solcarono le guance mentre un singhiozzo tirava l’altro.
D’un tratto sentii il portellone che portava all’esterno del rifugio aprirsi e richiudersi con un tonfo; dei passi che venivano verso di me, ma io che ero di spalle non mi accorsi di Emmett fin quando la sua ombra non si allungò sulla mia e la figura di Cole, steso sul lettino.
-Che testa di cazzo…- sbottò l’Angelo allontanandosi poi da quella stanza, puntando a quella più vicina nella quale si andò a rifugiare.
E così una parte del clan era rientrata nella base, ma della questione non mi curai affatto: dimenticai presto il ritorno di Emmett nel branco, la sua improvvisa comparsa con l’uniforme a brandelli, vuoto dei suoi potenziamenti e sporco in volto di polvere e terra. Aveva sicuramente passato una brutta giornata quanto noi, ma nonostante il desiderio di andare da lui a prenderlo a pugni si facesse sempre più scottante a fior di pelle, riuscii a trattenermi. Bastò il solo volere di restare accanto a Cole il più possibile, contando i suoi respiri spezzati e il rigenerarsi incerto della sua pelle, sul petto, sulle braccia, dove l’uniforme fatta a pezzetti lasciava scoperta la carne, le vene, i muscoli e il sangue che andò presto a macchiare parte del materasso.

[:. Emmett .:]

Quando raggiunse il rifugio dettatogli da Cole e lo trovò vuoto, portò la sua ricerca altrove, tornando sui suoi passi e giungendo in un altro dei fortini nascosti scavati tra le macerie per l’evenienza. Trovò l’ingresso socchiuso, in bella vista al primo cacciatore che passava ed entrò sbattendo la porta con violenza. Si guardò attorno e vide solo desolazione e un anomalo silenzio che inizialmente avrebbe potuto ingannarlo, facendogli credere che anche quel fortino fosse del tutto vuoto. Ma poi udì dei singhiozzi e, seguendo il suono di quella voce cristallina incrinata dal dolore straziante di un pianto, trovò Emily inginocchiata al lato di un materasso, sul quale era sdraiato il capitano della squadriglia Cole Turner. La ragazza piangeva disperata, trattenendo a stento singhiozzi e gemiti, nascondendo il viso tra una piega e l’altra della coperta che celava il corpo di Cole solo in parte.
Sulle labbra di Emmett si disegnò un amaro sorriso privo di compassione ma completo di sdegno e un po’ di rancore. Uscirono da sole le parole: “Che testa di cazzo…” che completavano l’idea e il pensiero mentale che si era fatto di un possibile sbadato incontro/scontro tra Turner e Alex Mercer. Alla fine aveva voluto fare tutto da solo il fighetto del gruppo, ed ecco i risultati! Era già molto che a quella vista Emmett Word non fosse scoppiato dalle risate. Lasciò quella stanza così com’era comparso, dirigendosi oltre di alcune soglie. Trovò Harry nelle simili condizioni e si spostò in una terza camera. Gettandosi sul letto, rischiò quasi di addormentarsi, mentre cresceva l’ansia che qualcosa fosse accaduta anche alla sua piccola Lucy…

[:. Emily .:]

Gli strinsi la mano con più forza, avvicinai il mio viso al suo e lo baciai per un’ultima volta. Fu una carezza delicata delle mie labbra tremanti sulle sue fredde e rigide quanto il resto del suo incarnato. Avevo gli occhi arrossati e lucidi per via del pianto che era andato ben oltre i miei record abituali, che non superavano i 5 minuti. Si era fatta ormai l’alba, di Lucy manco l’ombra, e Cole era morto lì, in quel rifugio, quando le sue ultime parole erano state il mio nome diviso malamente in sillabe e una volenterosa e muta richiesta di vendetta. Nessuno aveva fatto niente per impedirlo. Nessuno. Né io, né Lucy, Emmett, Harry… e così via. Eravamo stati abbandonati in quell’Inferno persino dai nostri coordinatori, la comunicazione con i quali si era interrotta chissà quante ore prima.
Quando Lucy rivenne nel rifugio a mani vuote e mi trovò distesa affianco al corpo di Cole, non disse o fece nulla, lasciandomi chiudere gli occhi abbastanza allungo per capire, analizzare e immaginare cosa avrei fatto di lì alle prossime 20 ore.

Vendetta.
Una parola, mille modi per ottenerla. Mille dolorosi metodi di estorsione del dolore altrui. Mille modi per far soffrire un uomo, per vederlo contrarsi dal dolore. Ma a quanto pare me ne restavano disponibili solo 999. La sua fidanzata, se così poteva chiamarsi, fui certa di averla uccisa quando quella mattina tarda, verso il mezzogiorno, lasciai la base per riprendere la caccia da dove l’avevo interrotta. Senza battere ciglio, giunsi nel salottino comune del nostro rifugio e trovai Emmett seduto al tavolo nel centro della stanza. Il ragazzo stava a petto nudo con indosso solo i pantaloni dell’uniforme. Sorseggiava del liquido fumante da una tazza con il bordo scheggiato. Il suo sguardo misterioso e profondo incontrò il mio ad un tratto, nel mentre Lucy frugava in alcune dispense qualcosa che potesse sostituire lo zucchero.
-Emily, ho fatto il tè, ne vuoi una tazz…- formulò lei.
-No- dissi seccamente interrompendola.
La ragazza si voltò sconvolta nella mia direzione, ed Emmett sembrò tornare tutto tranquillo a sorseggiare la sua camomilla.
-Io esco- mi avviai all’uscita del rifugio.
-Aspetta- mi chiamò Emmett con tono pacato. –Che ne facciamo del corpo?- chiese appoggiando un gomito allo schienale della sedia.
Mi fermai dandogli le spalle e, senza girarmi, annunciai così: -Lasciatelo là-.
-Dove hai intenzione di andare?- insisté lui.
-Ti prego, Emily, ragiona! Guarda cos’è successo, e ragiona: non puoi andare a cercare Alex da sola! Adesso che… il capitano…- ingoiò il groppo in gola e mi si avvicinò con un balzo. –Ti prego, torniamo alla base. Troviamo un passaggio sicuro e vediamo se riusciamo a portare qualche sano con noi- propose.
-Lucy, sei libera di lasciare l’Isola almeno quanto quel bastardo- indicai Emmett –è libero di fare quello che cazzo gli passa per la testa!- saliva la collera, aumentava il furore, la rabbia era alle stelle! Dio, che qualcuno fermi il mio braccio e l’impulso di strozzare quel figlio di puttana!
-Emily!- sbottò lei spaventata, tremante. –Ti prego…-.
-Adesso basta- eruppe Emmett scostando rumorosamente la sedia. –Mi fate venire il voltastomaco, tutte e due- e così dicendo si allontanò dal salottino per sparire nella sua stanza.
-Lucy- chiamai a testa bassa.
La ragazza fece per ignorarmi e tornare a circoscrivere i vari cassettoni e dispense in cerca di altro.
-Lucy, quello che ho detto ha un senso, devi fidarti di me- dissi.
-Non ti capisco quando parli in questo modo- sbottò lei.
-Porta con te quanti più sani puoi. Torna alla Phoenix, avverti Martin e tutto il settore. Se ne sei in grado- mi lasciai sfuggire un mezzo sorriso –trascina anche Emmett al tuo fianco, ma devi fidarti di me-.
-Non so più cosa pensare…- gemé la ragazza passandosi una mano tra i capelli, stirandosi all’indietro. –E’ successo tutto così… all’improvviso- una lacrima scappò sulla sua guancia.
-Una volta fuori dall’Isola Martin farà Emmett capitano e solo allora tornerete con qualche componente in più al clan. Ma fino a quel momento, devi lasciarmi qui… da sola…- feci una pausa. –Con Alex-.
-No!- sbraitò in lacrime. –Quella bestia ucciderà anche te! E per poco non se ne va anche Harry-.
Aggrottai la fronte. –Come sta?- chiesi.
-Male, Emily! Male!- singhiozzò. –I tessuti non si rigenerano, perde sangue a fiumi e…-.
-Prenditi cura di lui- dissi a sorpresa. –E anche di Emmett- mi allontanai aprendo la porta del rifugio che dava su un corridoio, le cui pareti andavano a stringersi dove il passaggio sfociava stretto sulla strada spopolata e travolta dalle macerie.
-Emily, non lasciarmi da sola…- mi venne incontro. –Mi dispiace per come abbiamo litigato prima, per quello che è successo! Cole non lo meritava, voi vi amavate tanto, si vedeva lontano un miglio. Ma ti prego: non mettere a rischio inutilmente anche la tua vita! Se tornassi con me alla base, potremmo…-.
-È qui che ti sbagli- ridacchiai isterica. –Sono venuta qui con una missione ben più grande di quella assegnata a tutti voi, che non avevate altro che il compito di proteggere voi stessi! Sono io l’unica che può uccidere Mercer- dissi con rigidità nei gesti, nelle parole soprattutto.
Lucy non azzardò nessuna risposta, neppure un segno di assenso o dissenso. Si limitò a tacere in quel modo sconsolato, disperato e silenzioso, straziandosi l’anima, che riusciva molto bene a noi donne.








Questo orrendo capitolo, oltre che essere cortissimo (pardon, ma ultimamente ho la testa ad altro! XD E credo che alcuni di voi sappiano a cosa mi riferisco XD) è venuto giù una vera schifezza. Cominciai a scriverlo circa una settimana fa, ma lo abbandonai del tutto appena cominciato lo studio del greco (-.-‘) dedicandomi in quel poco di tempo che mi restava alle numerose one-shot che contribuiscono alla causa “lista personaggi” della sezione Assassin’s Creed.
Ovviamente ringrazio i recensori dei capitoli precedenti augurandomi non averli annoiati troppo con questo post decisamente stampato proprio storto! XD
A presto, cavi! ^^

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Capitolo 24
*** Capitolo 24° - Vecchie anime infette ***


Capitolo 24° - Vecchie anime infette

[:. Alex .:]


“-So dove vuoi arrivare, ma è sbagliato tentare un approccio con lei, Alex, fidati. Se vuoi farti degli alleati, devi partire dal principio. Risalire alla radice- pronunciò composto e profetico.
-Mark?- ipotizzai.
-Esattamente. Trova lui, e avrai tra le mani l’ultimo tassello del tuo puzzle- disse. –Dopodiché saprai tu cosa sarà giusto fare, ma voglio almeno che lo porti qui da me- aggiunse.”

La pioggia si era placata. Il cielo sopra Manhattan si apriva di una nuova luce soffusa che filtrava attraverso la coltre di tossico veleno sospesa nell’aria, riempiendo di un rosa sbiadito l’orizzonte sopra il livello dell’asfalto. Era sorta l’alba, e in un qualche assurdo modo anche la città assumeva un tono differente dal giorno alla notte, nonostante fosse spoglia della sua gente e così silenziosa. Il cambiamento si avvertiva da qualsiasi prospettiva: in aria, dove la puzza di Bloodtox era davvero soffocante; a terra, dove vecchie radici ammuffite andavano a decomporsi assieme alle masse di cadaveri e carni infette. Nell’acqua che contornava tutta l’isola, increspata da una leggera corrente, dove si formava quella biancastra massa spumosa appiccicaticcia mista tra sangue e lerciume dovuto all’inquinamento. Un venticello gelido sollevava grumi di sangue secco mescolando particelle genetiche alle polveri del suolo. Ed era esattamente lì, in quella desolata Broadway, che trafficavo con le mie vane ricerche già da una buona mattina.
Mi trovavo a camminare nel silenzio e nelle ombre di una galleria che traversa nel sottosuolo metà isola. Le auto abbandonate ai lati della strada, il soffitto basso e oscurato dalle condense di smog e virus, alcuni tubi fuoriuscivano dalle pareti liberando nell’aria gas tossici e incendiabili, assieme ad una gran quantità di lerciume proveniente dalle fogne. I tombini sistemati a dieci metri di distanza l’uno dall’altro, infatti, erano scoperti e lasciavano traspirare quell’adorabile odorino.
Le mani in tasca, il volto infossato nell’ombra del mio cappuccio, gli occhi ridotti a due fessure per il dolore che avvertivo dilaniarmi il petto: ciondolavo per Manhattan mentre mia sorella e Ragland erano prigionieri dei miei peggior nemici. Per la testa avevo tanti altri di quei problemi… era stato un grosso sbaglio intraprendere quella via. Se Max voleva che trovassi questo Walker, dovunque egli fosse, avrebbe dovuto darmi informazioni più concrete! Non sapevo nulla di lui, niente… a parte… forse… il vano pensiero che accolsi fu quello di possedere effettivamente un qualcosa che potesse aiutarmi nella mia ricerca. Se l’Angelo con la quale mi ero scontrato il giorno prima era sua figlia, il sangue di lei che avevo assorbito poteva diventare un utile traccia. Nei meandri del mio corpo, negli angoli più remoti delle vene che traversano le mie carni infette, recuperai quel sapore, quel profumo tanto odiato che bastò poco per far nascere in me l’egoistico desiderio di ucciderla, piuttosto che portare in salvo suo padre.
Resi quel sangue parte di me ancora una volta, saggiai la sua contorta e malsana composizione genetica potendo quasi sentirmi bruciare la lingua. Dalla bocca al naso, e dal naso agli occhi: fu allora che vidi.
Un sottile barlume rosato attraverso la parete alla mia destra. Oltre quel muro di vecchi mattoni si celava chi sembrava corrispondere ad una carne tanto cercata. I miei sensi, la vista, l’olfatto e il gusto, captavano la sua presenza così vicina potendo rendere visibilmente consistente ciò che appariva solo come una massa informe costituita da una particolare essenza. Ma non un’essenza qualunque: quell’essenza, quel sangue e quel potere che per anni quell’uomo non ha mai mostrato al mondo. Ed ora, poterlo sentire così vicino a me, a solo due metri di spessore come barriera, mi dava un senso di soddisfazione e un vigore mai provato.
-Mark…- chiamai un sussurro, poggiando il palmo aperto sui mattoni scuri e bui.
Quel flebile mormorio non scaturì nella figura dall’altra parte del muro nessuna reazione. Stette immobile, chinata al suolo, probabilmente seduta su qualcosa. La vedevo di spalle, e man mano che la sua presenza si faceva più vivida nella mia mente riuscivo a scorgerne particolari quali la forma robusta delle spalle, la schiena ampia… quasi riuscii a coglierne l’abbigliamento mal ridotto ad una giacca di vecchia pelle sovrapposta ad un’uniforme militare mimetica di varie sfumature del blu-grigio. La polvere, i gas… m’impedivano di scorgere altro che non fosse la sua ombra.
Possibile che fosse lui? A così poca distanza da dove avevo cominciato le ricerche già ci incontravamo. Mi aspettavo che il suo fosse un nascondiglio nettamente migliore. Ipotizzai che dall’altra parte di quella parete di fosse una seconda galleria destinata alla corsia opposta di automobili e…
Un brivido mi salì lungo la schiena quando un rantolio cupo e profondo si diffuse nell’aria immobile del tunnel nel quale mi trovavo. Portai il braccio lungo il mio fianco, mi staccai dalla parete e, guardandomi attorno, solo allora scorsi nel buio infinito della galleria il proprietario di quel suono.
Un cacciatore volante abitava lì assieme ad altri due individui più minuti. Tutti e tre, da direzioni differenti e in perfetta sincronia tentarono di accerchiarmi, posizionandomisi uno alle spalle, l’altro al lato e l’ultimo di fronte. La bava colava dai loro denti mescolandosi alle viscere delle cenette recenti. I loro artigli penetravano l’asfalto, le punte dorsali sfioravano il tetto della galleria producendo quasi scintille. Le loro ali, strette attorno al corpo e perfettamente aderenti, luccicavano di quella membrana trasparente, fragile e sottile che faceva di loro facili predi in volo.
Azzardai un passo in avanti, preparando già la parte destra del mio corpo a tramutare, quando il primo dei cacciatori, quello che avevo davanti, strozzò un gemito di disapprovazione mettendosi accovacciato sull’asfalto. Fecero altrettanto anche gli altri due, sistemandosi comodi come gigantesche sfingi d’Egitto.
Attonito, strabiliato di quello che avevo appena visto, mi limitai ad attendere che a quella scena se ne aggiungesse una ancora più assurda.
-Non fare caso a loro- disse una voce profonda e maschile. –Mi spiace solo che delle volte… non sappiano distinguere i nemici- parlò ancora –dagli amici-.
Finalmente il proprietario di tali parole si mostrò, emergendo come un fantasma dall’ombra del sotto ala di un cacciatore. Mosse alcuni passi avanti, fermandosi a due metri da me.
-Mark Walker- pronunciai io con stupore.
-Finalmente ci incontriamo- arrise lui. Sul suo volto da cinquantenne vissuto si stagliava un sorriso malinconico: le guance bianche, gli occhi azzurri infossati nelle profonde occhiaie. Le sopracciglia folte, la barba lasciata crescere e sfatta, così come i capelli azzardati in un taglio di media lunghezza alla “fai-da-te” senza specchio. Indossava quegli stessi abiti che gli avevo “sentito” addosso poco prima. La giacca di pelle, con i rispettivi gradi militari dell’aeronautica sulle spalle e sul petto. Comodi pantaloni mimetici consumati dalle fatiche di anni trascorsi a nascondersi nelle fogne e in gallerie come questa, e in simili condizioni stavano anche gli stivali neri. Portava un orologio al polso, e una catenina militare al collo che andava a nascondersi dietro la cerniera del giubbotto.
Ciò che mi lasciò a tal punto interdetto, inizialmente non fu solo il fatto di trovarmi davanti una leggenda, l’uomo di cui avevo letto e scoperto molto quella volta che m’intrufolai nella base degli Angeli, ma soprattutto che riuscisse in qualche strano modo a… controllare i cacciatori.
-Non fare quella faccia- ridacchiò isterico avvicinandosi di un altro passo.
Sicuramente l’espressione che avevo in viso era bizzarra a tal punto da fargli pronunciare quelle parole. –Come…-.
-Sono miei- disse ad un tratto, sorprendendomi e attirando del tutto la mia attenzione su di lui.
Mark era tranquillo, sereno del fatto che i cacciatori stessero così accovacciati come gatti attorno a sé. –Se ti stai chiedendo come sia possibile, ti basti sapere che ubbidiscono a me perché li ho creati io- fece sincero.
-Cosa?!- eruppi del tutto scettico. –È un’assurdità, come…-.
-Le quantità di Virus in me è sufficiente quel che basta per regalarne ad altri- divenne improvvisamente serio.
-Allora sei un pazzo! Fai dono dei tuoi poteri ai cacciatori?! Perché mai?! Hai idea di quante vite hanno spezzato, quanti morti hanno procurato?!- gli gridai contro. Ciò di cui parlava era una tale assurdità, e sembrava andarne fiero.
-I miei cacciatori non hanno mai fatto male ad una mosca!- fu la sua risposta altrettanto potente.
-Ah!- risi. –Certo, come no… uno di loro per poco non si sgranocchiava tua figlia!-.
Il silenzio cadde su di no ( ma su Mark per primo ) come una secchiata d’acqua gelida.
L’espressione sul suo viso cambiò da così a così, tramutandosi in una vera e propria maschera di terrore, ansia…
-Emily…- mormorò a fior di labbra, come se pronunciare quel nome gli costasse troppa fatica per le sue vecchie ossa infette.
-Ti ricordi di lei, vero?- abbassai il tono di voce, comprendendo a pieno quali domande, quali dubbi e quali immagini lo stesso assillando in quel momento.
Mark si riscosse con violenza. -Certo che mi ricordo di lei!- sbottò con rabbia, e nel medesimo istante il cacciatore alle sue spalle balzò in piedi parandosi tra di noi. Mi mostrò tutta la sua taccagna dentatura ruggendomi contro, dopodiché una sua zampa arrivò a colpirmi ancor prima che riuscissi a schivare quell’attacco. Mi aveva del tutto colto di sorpresa, spiazzandomi con vigoroso vigore alla parete del tunnel. Sprofondai per alcune centimetri nei mattoni, e una nube di polvere e detriti mi avvolse. Poi, come da nulla, il secondo cacciatore volante lì presente mi si avvicinò afferrandomi per un braccio con i denti. Mi sbatté a terra con altrettanta violenza. Successivamente, mi sentii schiacciare la schiena dai suoi grandi artigli, tenendomi prigioniero tra due di essi.
Mark si mosse nella mia direzione, e mentre il suo “cucciolo addomesticato” mi teneva incollato al pavimento, l’uomo si chinò alla mia altezza restando in perfetto equilibrio sulle punte dei piedi.
-Cosa sai di mia figlia?- mi domandò più serio che mai.
Serrai la mascella, cominciando ad avvertire un solletico di dolore risalirmi la colonna vertebrale. –Poco e niente, te lo assicuro!-.
-Cosa ci fai qui?- chiese. Il cacciatore alle sue spalle mandò un profondo rantolio d’intimidazione.
-Max…- digrignai. –Maximilian Taylor… lui mi ha mandato a cercarti!- confessai.
Al suono di quel nome non ottenni in Mark la reazione desiderata, anzi… la zampa che premeva sulla mia schiena invigorì la presa e il cacciatore volante in questione mandò un altro poderoso ruggito.
-Come fai a conoscere Corvo?!- mi ringhiò contro Walker.
-Lui e sua figlia Lisa hanno allestito un campo profughi per i sani sopravvissuti al porto della costa ovest! Ci siamo incontrati per caso! Lui mi ha offerto il suo aiuto, ed io l’ho offerto a lui!-.
-Max non è tipo da chiedere aiuto a quelli come te…- eruppe avvicinando il suo viso al mio. –Perciò adesso dimmi cosa sai di mia figlia!-.
-Ti prego- mi lasciai sfuggire. –Devi credermi, non sono qui per farti alcun male…-.
-In tutta la mia vita ho imparato a fidarmi solo di me stesso e delle persone che mi hanno circondato donandomi la propria anima- sibilò lui. –Non credo di poter fare la stessa cosa con un essere tanto simile a me…-.
-Cosa…- mormorai sgranando gli occhi. –Di che stai parlando?-.
-Perché Max ti ha mandato a cercarmi?- non si risponde ad una domanda con un’altra domanda.
-Aspetta, dimmi…-.
-No, dimmelo tu!- si apprestò a tapparmi la bocca ordinando al suo “fedele cuccioletto” di premere un po’ di più con la zampa sulla mia schiena.
Mi sfuggì un lamento quando avvertii saltare una vertebra della spina dorsale.
-Avanti, parla!-.
-Prima levami questo coso di dosso e poi ti dico tutto quello che vuoi sapere!- sbraitai collerico.
Mark si sollevò in piedi d’un tratto, continuando a guardarmi dall’alto con uno sguardo enigmatico e severamente composto. Non disse o fece nulla perché il cacciatore si allontanasse da me liberandomi di quella morsa mortale. Successivamente andò ad accoccolarsi seduto assieme agli altri due alle spalle di Walker.
-Forza- mi esortò lui una volta che mi fui alzato. –Comincia dall’inizio-.
-Comincia tu dall’inizio!- ribaltai la domanda. –Cosa sei?! E come fai a controllare e creare queste bestie a tuo piacimento?!-.
-Elizabeth non faceva forse la stessa cosa con gli stessi identici sistemi?- arrise come fosse ovvio.
Ed effettivamente… lo era.
-E poi?- eruppi. –Perché tua figlia è entrata nel progetto Gabriel?-.
A quella domanda l’animo dell’uomo che avevo davanti si fece oscuro e tenebroso ancora una volta. –Questo non ti riguarda-.
-È qui che ti sbagli! Mi riguarda e come! Più di quel che pensi- arrisi isterico.
Mark serrò i pugni lungo i fianchi: sicuramente stava trattenendosi dal ferirmi di nuovo.
-Ho sentito la tua comunicazione alla radio- dissi precedendolo. –Il segnale nascosto in quel messaggio, l’okkey alla richiesta da parte loro di prendere con sé tua figlia…-.
-Se sai già tutte queste cose, allora cos’altro vuoi da me?!-.
-Quindi Lewis lo sapeva già- affermai.
-Cosa?-.
-Che Emily era tua figlia-.
-Ovviamente!-.
-No, non intendo quello…- sospirai inclinando lo sguardo. –Mi riferisco al fatto che… voi siete… come me- mi costò un patrimonio pronunciare quelle parole.
-Sì, Lewis lo sapeva, e l’ha sempre saputo-.
-Perché?-.
-È un Balckwatch-.
-E anche tu lo sei?-.
L’uomo scosse la testa. –Lo ero…-.
-Ma la loro organizzazione è nata dopo l’incidente dell’69!- apostrofai.
Mark si adombrò ulteriormente. -Ti ostini a chiamarlo “incidente”! Ma sappiamo entrambi che non fu così!-.
-Ah!- risi. –Questa mi è nuova…- blaterai.
-Io fuggii, Elizabeth e il suo bambino no perché in loro il trauma fu più forte, più intenso. In loro il Virus che colpì la gente nell’69 fu dieci volte più potente del mio, ma questi fattori, questi numeri in più andarono a consumarsi in tutti quei tentativi di estrarne qualcos’altro…-.
-Perché dici di essere uno di loro?-.
Walker sospirò. –Perché imboccando mia figlia al progetto Gabriel, sapevo benissimo incontro a chi e nelle mani di chi la consegnavo…-.
-In mano alla Black…-.
-Sì!- mi anticipò. –In mano loro!-.
-E adesso te ne penti?-.
-Se non l’avessi fatto a quest’ora sarebbe già morta-.
-Come fai a dirlo?-.
-Il Virus… come ha preso sua madre, avrebbe preso anche lei-.
-Quand’è successo a tua moglie?-.
-Poco dopo la sera in cui Lewis la portò via assieme al resto della squadriglia 190esima dal People Pub…-.
-Di che stai parlando?!- sbottai circospetto.
Mark fece un gesto con la mano. –Non puoi saperlo, e queste sono davvero cose che non ti riguardano- azzardò una brevissima pausa distogliendo i suoi occhi dai miei, ma quando essi tornarono a congelarmi del loro azzurro così intenso e splendente, l’accento nella sua voce divenne ancor più serio: -Adesso dimmi di Max- sbottò. –‘Sta bene, vero?-.
Annuii.
-E…-.
-Lisa è morta- lo informai schiettamente. –Tua figlia, Emily, l’ha uccisa per sbaglio mentre combattevamo…- mi lasciai sfuggire.
L’uomo, a differenza di quel che immaginavo, non parve per nulla stupito. –Lo so- disse. –Vi ho visto, quella sera…- aggiunse in un sussurro.
-Com’è possibile?!- scattai in avanti, ma a tale gesto un cacciatore volante alle spalle di Mark mostrò i denti sfogandosi in un possente ruggito, intimandomi di indietreggiare. E così feci.
-Non solo il legame che ho con loro- disse indicando le sue creature –mi permette di vedere attraverso i loro occhi, ma quando combatte, quando va a caccia, quando salva i sani e li porta alla base procedendo con la manovra di soccorso, quando spiega le sue ali…- assentì affranto. –Io ci sono sempre- aggiunse con la voce incrinata dall’emozione di pronunciare simili parole, rimaste allungo solo vani pensieri.
Parlava di sua figlia, e di come durante tutte le sue escursioni a Manhattan le fosse stato sempre accanto, soprattutto quando era lei a non accorgersi della sua presenza.

******
D’un tratto ebbi una vana sensazione di sentirmi chiamare; mi voltai e vidi solo un’ombra muoversi nell’oscurità di un vicolo che avevamo da poco passato, continuando a dirigerci verso il centro abitato. -Siamo sicuri che siano andati di qua?- chiese Lucy.
-Il mio naso dice così! Se il tuo ha qualcosa in contrario dillo adesso!- eruppe Harry.
-Va bene, scusa…-.
Ero rimasta indietro mentre i due ragazzi proseguivano oltre l’incrocio attraversando sulle strisce; peccato però che da quelle parti non passava un’auto da mesi.
I semafori erano spenti, altri distrutti. Le pareti dei palazzi mangiati da tentacoli neri e rossi e avvolti dalla solita puzza di Virus. Mi guardai bene le spalle allontanandomi da quel vicolo e accelerando il passo.
-Ehi, aspettatemi!- chiamai.
-Emily, ora resti anche indietro?!- fece lui infastidito vedendomi arrivare di corsa sul marciapiede opposto.
-Scusate, ma… mi era parso di vedere…-.
-Perfetto!- Lucy alzò il occhi al cielo. –Ora hai anche le visioni!-.
******

-Se le vuoi così bene…- pronunciai io. –Perché non vai da lei e la porti via da quel posto?- chiesi. –Hai idea di quante sofferenze nascano e crescano in quella base? Un’idea dell’Inferno che ha passato quella ragazza vendendo così il suo corpo? Che razza di padre farebbe mai una cosa simile?-.
-Era l’unico modo…-.
-Per fare cosa?!-.
-Per salvarla…-.
-Da chi?!- insistei.
-Dalla Blackwatch!- ruggì lui. –Quando me la portarono via, quando la rapirono ancora bambina, temevo che sarebbe stata la fine, che avrebbero scoperto che razza di occasione era capitata loro tra le mani! Fu un caso che scelsero lei, nessuno sapeva chi fossi io e cosa poteva aver ereditato da me! Nonostante ciò, l’indisposizione al Virus, all’impianto, smontò nei Blackwatch ogni ideale su di lei, e l’abbandonarono alla corta esistenza che le restava da vivere. All’interno degli esperimenti che condussero su di lei, solo due uomini si accorsero del male che la mia Emily aveva nel sangue. Solo due su un milione si accorsero di che genere di gene straordinariamente potente serbava nel suo sangue! Costoro erano Maximilian Taylor e Lewis Martin, laureati con me al College con la lode in scienze genetiche mutanti…-.
-Continua- lo esortai.
Mark mi si avvicinò con cautela, fissando un punto nel vuoto oltre le mie spalle. –Max ed io avevamo un ottimo rapporto, eravamo sempre stati grandi amici, grandi colleghi… fu il mio desiderio di entrare in aeronautica a dividerci, per il resto eravamo come fratelli. Ma Lewis…- sospese lì la frase, lasciandomi intuire tutto il resto prima che potesse riprendere il discorso. –Lewis era il cancro della nostra classe di scienze al liceo e la pecora nera nel branco del College. Credeva molto sulla possibilità che un giorno, non molto più tardi di due anni fa, un virus letale avrebbe preso piede sul pianeta e mietuto miliardi di vittime. Era così bramoso di potere, che se non ci avesse pensato qualcun altro prima di lui, sarebbe stato Martin stesso a far esplodere l’epidemia. Quando la Blackwatch lo contattò in segreto, promise il posto di lavoro anche a Max, che in quegl’anni vagabondava come un disperato alla ricerca di un mestiere fisso mentre io, promosso già come ufficiale alla marina, mi sudavo sette camice per mettere in piedi una famiglia, nonostante il… “difetto” che mi trascinavo addietro. Giusto pochi anni prima ci fu l’incidente. Fuggii, appresi subito cos’ero diventato e imparai a governarlo. Quando tornai all’aeronautica, fu una tale vittoria scoprire di poter risultare negativo a qualsiasi tampone a piacimento-.
-Cosa accadde dopo?-.
Gli sfuggì un sorriso. -Comparisti tu- disse guardandomi. –Abbandonati gli esperimenti su mia figlia e su altri precedenti cavie, la Blackwatch trovò te e ti rese ciò che sei, ciò che ti piace tanto essere-.
-Non mi piace ciò che sono- digrignai, sentendomi profondamente offeso.
-Se conosci Max, deve per forza averti fatto tante di quelle prediche sul fatto che la tua è stata una scelta, quella di diventare tutto questo-.
-Non ci posso credere!- alzai gli occhi al cielo. –Anche tu!-.
Marck scoppiò in una fragorosa risata. –Ti rammento che fu Max il primo a sapere del mio segreto, ed io gli parlai per la prima volta dell’eventualità di una vita normale che mi si era proposta davanti. Sono stato io a fare di ciò che ti ha detto, una profezia- arrise.
Scossi la testa guardando a terra, mentre a stento riuscivo a tenere le labbra strette per via della risatina che mi saliva lo stomaco. –Cos’accadde a Lewis?- domandai sollevando il mento dal petto. –Perché è a capo del progetto Gabriel? E cosa c’entra con tua figlia?-.
Il vecchio pilota d’aeri sospirò. –Come ti ho detto la Balckwatch prese lui e Max con sé. L’inglobò entrambi nel progetto, ed entrambi inizialmente ne furono entusiasti. Non appena Max scoprì di mia figlia, ed ogni cosa che la riguarda, lasciò gli esperimenti dando le dimissioni. Deve ringraziare il cielo se in tutti questi anni nessun cecchino si è appostato davanti casa sua. Lewis, invece, rimase. Da Emily risalì direttamente a me, ma non appena seppe riconoscere ciascuno degli anelli della catena che ci teneva uniti, anche lui lasciò il progetto…- fece una pausa –ma con scopi ben più subdoli…-.
-Ah, ecco- ridacchiai. –Mi sembrava strano…-.
-Lewis lasciò il progetto, ma non esitò un solo istante a firmare il contratto propostogli dal Presidente che lo nominava responsabile del Gabriel!- espose.
-Ora è tutto chiaro-.
-Aspetta, c’è dell’altro…-.
-Emily?-.
-Esatto. Lewis ed io c’incontrammo nella basa dell’aeronautica due anni prima l’inizio del settore Angeli. Mi parlò del progetto come un Messia narra della Bibbia! Sembrava così entusiasta, e all’inizio lo fui anch’io come lo era Max. Ma a differenza del mio amico, sapevo fin dall’inizio quali piani malvagi Lewis serbasse fin dal principio. Quella sera stessa mi ricontattò per telefono, ero a casa, circondato dalla mia famiglia. Emily compieva a breve vent’anni e si avvicinava il natale. Quanto vorrei non aver mai risposto a quella chiamata…-.
-Cosa accadde?- domandai amareggiato.
-Alzando la cornetta, il suono della voce di Lewis fu come uno stiletto in pieno petto. In principio volle me. Mi disse di sapere tutto quanto, di conoscere cosa avessi di tanto anomalo nel sangue. Come qualsiasi persona avrebbe fatto al mio posto, negai l’evidenza, ma non appena Martin accennò a mia figlia e agli esperimenti che aveva personalmente condotto su di lei… le mie difese… crollarono. Mi rassicurò dicendo che non avrebbe fatto parola con nessuno della Blackwatch di tale scoperta, così come il segreto era andato avanti fino ad allora. Mi fidavo di lui. Come uno sciocco, ma mi fidavo. Il suo silenzio, però, aveva un prezzo. E quel prezzo era uno dei due-.
-Tu o…-.
-…Lei- concluse il pilota.  
-Perché non andasti tu?- sbottai. –Era tua figlia, no? Un po’ di bene gliene volevi, no?!-.
-Se Lewis avesse fatto di me un Angelo, ora saresti già morto, Mercer- fu la sua risposta.
Sbiancai, diventando più bianco di quanto lo fossi di solito. –Tu dici?-.
Mark annuì. –Non accettai subito le sue condizioni- disse riallacciandosi al discorso. –Mi presi del tempo, forse troppo, perché le chiamate continue e la presenza sempre più assidua di Lewis nella mia vita fece insospettire entrambi i membri della mia famiglia. Quando il Virus comparve a Manhattan… ci fu la goccia che fece traboccare il vaso. Ero lì per accettare, lì per consegnarmi nelle mani di Lewis che stava mettendo su la più grande organizzazione poliziesca mai esistita, perché d’altronde… gli Angeli non sono altro che pubblici ufficiali, come i carabinieri, le guardie svizzere, e i “mangiatori di ciambelle”- ridacchiò, alludendo alla polizia newyorchese.
-Ma poi?-.
-Ma poi…- sospirò. –Le mie attività militari mi tenevano troppo impegnato, e cominciai a fare di questo pretesto una scusa pur di rimandare, rimandare e rimandare… ma poi? Già, poi… poi ci fu l’incidente, dove rimase coinvolto anche un certo Cole Turner, non so se ne sai qualcosa, fatto sta che… avvertendo le forze venirmi meno, mentre tutti quei cacciatori mi accerchiavano, ho fatto l’unica cosa che potesse garantire una salvezza a questo modo per mia figlia. Sul baratro tra la vita e la morte, ho visto nelle ricerche e i traguardi del Progetto Gabriel l’unica opportunità che potevo offrire ad Emily di sfuggire al Virus… ma prima di tutto, a sé stessa-.
Rimasi allungo in silenzio, combattuto tra la verità di quelle parole e il dolore mescolato al rimorso delle mie azioni. I cacciatori alle spalle di Mark ostentavano in quello stesso mutismo colmo di rispetto per il loro padrone.
-Perché un tuo cacciatore ha cercato di ucciderla, allora?-.
-Hmm?- fece distratto.
-Quella volta, al porto…- insistei dubbioso. –Una delle tue bestie ha attaccato tua figlia. Sono dovuto intervenire- dissi.
-Non so di cosa stai parlando- sembrava sincero, e sconvolto soprattutto.
-Che buffo- constai.
-Sì, parecchio. Le mie creature non lo farebbero mai di loro spontanea volontà, e non c’è cacciatore volante che sfugga al mio controllo. Sono i miei burattini, li ho creati io!-.
-So per certo quello che ho visto!- ribadii. –Non essere dubbioso di questi occhi-.
-Non sono dubbioso, Alex- s’irrigidì. –Quello che mi hai appena detto mi porta ad una sola conclusione-.
-Quale?-.
-La Blackwatch sa di me-.
-Impossibile, o sarebbero già qui! E poi cosa c’entra?! Senza contare il fatto che quei bastardi si sono istinti, li ho uccisi tutti, te lo garantisco-.
-Ti sbagli di grosso. Sia Lewis che Max sono ancora vivi, e come loro molti altri possono sapere qualcosa che non sappiamo!- dichiarò lui, e non aveva tutti i torti.
-E allora cosa facciamo?- chiesi con maggior calma.
-Dobbiamo andare da loro-.
-Da chi?!- feci nervoso.
-Da Lewis e chiunque sia coinvolto in questa storia!-.
-E tua figlia?-.
-Emily deve starne fuori, e Lewis finalmente pagherà per quello che ha fatto- s’incamminò verso di me e fece per sorpassarmi, ma lo afferrai per un braccio costringendolo a voltarsi.
Ci fissammo allungo negli occhi. –Perché hai aspettato tanto a rivoltarti contro di lui?- domandai schietto, rigido quanto lui. –I tuoi poteri ti consentono di generare creature colossali e impadronirti della loro mente. Perché non hai ucciso Lewis molto tempo fa?- insistei col tenerlo stretto, e Mark non se lo fece ripetere.
-Aspettavo qualcuno abbastanza forte e motivato quanto me-.
-Chi?-.
-Te-.












Rieccoci!
Ah! Che bello! Sono soddisfatta in una maniera abnorme di questo capitolo! L’incontro tra Alex e il padre di Emily l’avevo in mente fin dall’inizio della storia, e le varie fasi di questo secolare dialogo le ho rivedute e controllate diverse volte. Diciamo che di novità da aggiungere alla trama ce ne sono parecchie. Lewis quindi è sempre stato qualcuno da eliminare, però Alex l’ha sempre ignorato per via della mancanza di collegamenti che poteva avere col progetto Balckwatch. Il futuro si prospetta interessante, le vicende si articolano in una maniera che neppure io ritenevo possibile, e sono molto fiera di questa storia! La prima tra tutte che riuscirò a concludere con una trama concreta e sensata! XD Bhé! Di sensato forse ha ben poco, ma paragonandola a quella di Prototype (che secondo me è intricatissima, peggio di tutte! XD) non si ha certo un confronto tanto stretto.
Bene, allora pregherò perché anche questo medesimo sclero della mia subdola fantasia vi sia piaciuto. Vi attendo come al solito nei commenti e nei prossimi capitoli sino alla fine! *eroe* A presto, amici! ^^


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Capitolo 25
*** Capitolo 25° - Le stelle tornano sempre ***


Capitolo 25° - Le stelle tornano sempre

[:. Alex .:]

-Perché non vuoi immischiare tua figlia in questa storia?- domandai pacato mentre ci dirigevamo a piedi fuori dalla galleria. Una volta in strada, emersi dall’oscurità del tunnel, mi voltai adocchiando per un istante alle nostre spalle, accorgendomi con stupore che i tre cacciatori fedeli a Mark ci seguivano come ubbidienti cagnolini da caccia.
Il vecchio pilota d’aerei stava al mio fianco, ed ad una distanza di un braccio l’uno dall’altro, puntavamo entrambi verso il centro di Manhattan e oltre. Probabilmente con destinazione il porto ovest, per poi giungere sulla costa dall’altra parte dell’Hudson e infiltrarci così nella base degli Angeli.
-La tua è una domanda così stupida…- borbottò l’uomo guardandosi attorno mentre traversavamo la strada sulle strisce pedonali.
Il silenzio, l’immobilità del tardo pomeriggio facevano di Manhattan la loro preda soprattutto in quelle ore del giorno. Quando cacciatori di piccole o medie taglie si rintanavano nei propri buchi per poi balzare fuori non appena fosse calata del tutto la notte. In lontananza le grida e le esplosioni di una guerra tra militari e infetti, ma noi puntavamo tutt’altra parte.
-Se è potente quanto te…- mormorai –il suo aiuto potrebbe farci comodo, non pensi?-.
Mark si fermò all’improvviso fissando un punto nel vuoto dinnanzi a sé.
-Sai che non ho torto- insistevo. –lasciare che continui a lavorare per Lewis, anche se per quel tempo che gli resta da vivere, è rischioso. Dovresti sapere bene che lei e la sua squadriglia mi danno la caccia da giorni, e…-.
-Sssh!- mi azzittì d’un tratto.
Inarcai un sopracciglio. –Che c’è?- domandai guardandomi attorno.
Non ottenni alcuna risposta da lui, piuttosto due dei tre immensi cacciatori volanti alle nostre spalle balzarono in avanti con un salto e intrapresero una corsa lungo la strada, dirigendosi di gran fretta chissà dove. Uno di loro ruggì, mentre il terzo svoltava alla nostra destra perdendosi in volo tra i grattacieli e i palazzi distrutti.
-Che succede?!- chiesi sconcertato.
-È qui- assentì lui in un sussurro voltandosi verso di me. –E ti sta cercando-.
-Chi, Emily?-.
L’uomo annuì indietreggiando di alcuni passi. –Non dirle nulla…- aggiunse riducendo gli occhi a due fessure. –Non deve sapere niente di me… e di quello che sono-.
-Cosa?!- feci scettico. –Aspetta, dove stai andando?!- mi sporsi verso di lui.
-Raggiungimi al porto. Ti aspetto da Max quando l’avrai seminata, ma… Non farle del male… E non dirle assolutamente nulla… Insomma… Sii te stesso come se non mi avessi mai incontrato!- ironizzò.
-Quindi non t’importa se è lei quella che prova a farmi il culo a strisce ed io non posso toccarla con un dito!-.
-Esattamente!- rise. –Visto? Sono o non sono un buon padre?- mi lanciò un’occhiata divertita.
Abbassai un secondo gli occhi, guardandomi le scarpe. –Oh, sì, certo! Il padre che tutti desiderano!-
-Arriva! ‘Sta in guardia…- disse solo, poi Mark sparì avvolto dal buio di un vicolo, dissolvendo la sua tra le ombre dei cassonetti.
Se un tempo dubitavo di chi aveva tentato di darmi ordini, quel tempo sembrava essere tornato. Il fatto che Mark stesse tenendo tutto così nell’anonimato a sua figlia mi turbava e parecchio. Nonostante questi dubbi e assillanti pensieri, decisi comunque di darmi da fare perché la messa in scena proseguisse come da copione.

[:. Emily .:]

Svoltai l’angolo, sparendo per alcuni istanti nell’oscurità di quella strada, completamente avvolta dalle tenebre. Mossi alcuni passi nel buio, tenendomi con le spalle contro la parete di mattoni di quel vicolo. I cassettoni sbrindellati dell’immondizia erano tracce della venuta di alcuni cacciatori, mentre altri si erano radunati ai piedi della palazzina di fronte, cibandosi di ciò che restava del corpo sano di una donna. Mi tenni a distanza dal branco, indietreggiando sin quando non avvertii il vuoto oltre le mie spalle, rendendomi conto che in quel punto ricominciava il marciapiede, che costeggiava entrambi i lati della strada.
Fu improvvisa la sensazione di captare la sua presenza, non di molto distante dalla mia. Stimavo al massimo un isolato o due, fatto sta che non avrei mai dimenticato o perso il contatto con quel penetrante e così arcinemico profumo. Avrei saputo riconoscere un’essenza del genere anche in mezzo a centinaia di altre. La sua era una composizione così intricata del virus, che potevo dire fosse quasi semplice accorgersi della sua vicinanza.
Una volta in strada mi apprestai a controllare per bene tutto il mio equipaggiamento, pezzo dopo pezzo. Tralasciai le armi, scariche e a corto di proiettili preferendo combattere alla vecchia maniera. Tramutai il mio braccio, ben conscia che un tale gesto avrebbe sicuramente attirato la sua attenzione su di me nonostante la distanza. Uno come lui poteva sentire e contare i passi di una formica; come non accorgersi della mia presenza così come io mi accorgevo della sua?
Allargai per bene gli artigli, addobbandoli di quei fasci sanguinei e truculenti che avvolsero tutto il mio braccio. Sul mio viso si stampò una smorfia di tale rabbia mista ad un vigore mai provato, assieme ai tremiti continui che mandava il mio corpo al ricordo della morte ( e la rispettiva causa ) di Cole.
-Alex Mercer- fu un gesto involontario quello di pronunciare il suo nome quando l’avevo solamente immaginato nella mia testa, morto, ai miei piedi, con tutti e cinque i miei artigli piantati nel petto. La mia fantasia si sbizzarrì allungo nel tragitto che percorsi quasi correndo, dirigendomi con passo spedito verso la provenienza di quel profumo.
Quando giunsi alla radice, risalendo alla madre di quella scia tanto odiata, sorpresi Mercer di spalle, a fissare un punto nel vuoto dinnanzi a sé, dove l’oscurità di un vicolo sembrava aver inghiottito i suoi sensi sempre vigili.
Prima che riuscissi a colpirlo, aggiungendo alla mia forza uno straziante gemito, Alex si voltò e fermò con una presa poderosa il mio braccio ancora in aria. La sua mano si strinse attorno al mio polso con quel tanto di vigore che bastò per lasciarmi scappare un sussulto al cuore. I suoi occhi, celati nell’ombra del cappuccio, mandarono una scintilla diversa dal solito, quasi cogliermi lì fosse più un piacere che una sorpresa. Le sue labbra si tesero in un sorriso che mi lasciò di molto interdetta, esitante dinnanzi a tanta confidenza.
-È morto, vero?- esordì lui con voce atona.
Strinsi i denti.
Era riuscito a fiutare il mio dolore.
Parlava di Cole.
La mia vendetta era stata scoperta, messa in bancarella.
Eppure non risposi.
-Anche lei- fu la sua affermazione con stesso tono pacato, ma un qualcosa nei suoi occhi mi sussurrava quanto gli fosse costato ammetterlo pubblicamente dinnanzi al suo nemico.
Diventai tutta un sasso, mentre un brivido mi correva lungo la schiena al ricordo della sua ragazza le cui carni erano state traversate per errore dai miei artigli. Gli stessi artigli che ora pendevano in aria a poca distanza dal suo bel faccino bianco, e che avrebbero potuto (se l’avessero voluto) graffiarlo come un gatto fa col divano nuovo della padrona.
Cosa cercava di dirmi con quelle parole?! E cosa credeva di ottenere pronunciandole?! Se immaginava che ricordarmi la nostra parità di debiti di vite fosse un buon motivo per risparmiargli la vita, si sbagliava di grosso! Aveva ucciso l’uomo che amavo, ed io avevo forse sottratto lui la stessa cosa! Ma non poteva ancora permettersi certe libertà con me, l’essere che più dovrebbe temere a questo mondo!
Non appena tali pensieri presero piede nella mia testa, sollevai un ginocchio colpendolo di sorpresa al costato. Nonostante la botta, e il lamento che gli sfuggì di bocca, Alex non lasciò mica la presa sul mio polso, ma la indebolì quel tanto che mi bastò per riuscire a muoverlo. Avventai gli artigli sulla sua spalla, aprendogli uno squarcio non molto profondo. Dopodiché fui io a stringere la sua mano, contorcendogli successivamente il gomito dietro la schiena, tutto ciò nell’arco di un secondo. Una volta in mia totale balia, riuscii quasi a farlo inginocchiare e, quando ci riuscii, compattandolo a terra come si fa con una lattina, mi appoggiai a lui mormorandogli all’orecchio: -Le tue ultime parole, stronzo?!-.
Non ottenendo un’immediata risposta come avrei voluto, invece di concentrare le mie forze nel tenere prigioniero il suo braccio dietro la sua schiena, tramutai il mio sinistro in cinque artigli, affondandoli successivamente nella carne del suo fianco. Penetrai le ossa, i muscoli, qualsiasi tipo di tessuto o tendine. Lacerai quanta più superficie della sua milza mi fu possibile pur di arrecargli quel dolore che sentii scorrergli nelle vene subito dopo.
-Parla! Voglio sentire la tua voce, avanti!-.
-Se mi uccidi- finalmente si era deciso a parlare –farai scontenta una persona a te molto cara!- disse senza ribellarsi. Accecata dall’ira non feci subito caso alle sue parole; sapevo bene di che genere di tattica si trattava la sua: racimolava forze nel tentativo di poterle espellere tutte in una volta.
Magari avrebbe… ehi… un attimo!
O.O
-Di chi parli?!- sbraitai dandogli uno scossone.
Alex voltò leggermente il viso verso di me, e guardandomi negli occhi con apprensione, strinse i denti e pronunciò: -Tuo padre-.

[:. Alex .:]

Forse non avrei dovuto… pensai.
La situazione aveva preso una piega inaspettata, e per un attimo avevo pensato di poterla contrastare, di poterla ferire… ma poi mi erano passate davanti le ultime volontà di Mark prima che si allungasse verso il porto. Volontà, a quanto pare, che ho rispettato solo in parte… un fifty-fifty che avrei potuto benissimo evitare.
E allora cosa mi aveva spinto ad agire in quel modo, quando sapevo che immobilizzarla e indebolirla il sufficiente perché se ne tornasse alla base come un cane bastonato sarebbe stata la cosa più logica e… semplice da fare! Le capacità per metterla K.O. le avevo anch’io! E l’idea che Emily mi considerasse un nemico di poca portata, non al suo livello, mi faceva perdere la testa, soprattutto in questi momenti, quando si è in bilico tra la destra e la sinistra, tra l’alto e il basso.
-Mio… padre?- mormorò lei del tutto colta in contropiede dalla mia affermazione. Vidi il terrore, l’ansia, il dubbio prendere forma sul suo viso così come nei suoi occhi azzurri più dei miei, che si riempivano di sconforto.
-Sì, Emily…- sussurrai inclinando la testa. –Tuo padre, Mark Walker…- presi fiato. –E’ vivo- le annunciai in fine.
L’Angelo ritrasse ogni offensiva, indietreggiando e poi cadendo a terra di sedere, cercando di allontanarsi da me strisciando. Quando si fermò fu solo per fissarmi con gli occhi sgranati. Qualcosa in me doveva averle mostrato che non stavo mentendo, forse i suoi assurdi poteri le conferivano anche questa caratteristica, oppure le stava accadendo quello che pregai, sollevandosi in piedi, non stessa accadendo.

 [:. Emily .:]
 
Al suono di quel nome, nella mia testa presero ad agitarsi voci, suoni confusi e fortissimi. Credevo di star impazzendo, ma invece, indietreggiando e poi finendo culo a terra per quello che stavo guardando, ovvero la verità, il buio e poi una serie di infiniti fasci rossi e neri riempirono il mio campo visivo.

E’ una solare giornata di sole.
Il mare, i gabbiani in cielo, la spiaggia, la gente in costume da bagno passeggia lungo la costa o si stende su teli da mare per abbronzarsi.
C’è una bambina dai neri capelli che corre verso un ombrellone sotto il quale dimora una donna.
-Mamma! Mamma! Guarda, guarda!- è entusiasta della bellissima conchiglia arricciata che ha in mano. –E anche questa!- mostra alla madre che si solleva gli occhiali dagli occhi anche una stella marina secca.
-Aaaah!- strilla la donna. –Emily, getta via quello schifo!- ridacchia la donna.
-Mamma, dai! E’ secca, vedi?!- arrossisce la bambina.
-Sìsì, come vuoi, ma vedi di sbarazzartene. Uh! Ecco il gelato!- dice la donna indicando un uomo che si avvicina all’ombrellone con due coni.
-Fragola e cioccolato alla mamma- egli ne porge uno alla donna. –Llimone e pistacchio alla sirenetta!- gioisce l’uomo.
Emily afferra il cono ma è costretta a poggiare stella e conchiglia sull’asciugamano della madre, che appena se ne accorge rimprovera la bambina di spostare quella roba da lì.
Emily cerca di qua cerca di là, ma l’unica cosa che resta è la conchiglia. La stella è sparita.
-Mamma, no! La stella è scappata!- si lagna.
-Oh, bhé, sarà tornata dalla sua mamma- risponde la donna gustandosi il suo gelato.
-Oppure dal suo papà- ridacchia l’uomo, avvicinandosi alla bambina.
-Uffa, mi piaceva la stella…- sbuffa la piccola. –Faceva paura alla mamma!- ride.
-Emily, sai cosa fanno le stelle?- le domanda col sorriso sulle labbra il padre.
Emily arriccia il naso. –No, cosa?- si siede sul telo stringendo forte la sua conchiglia.
L’uomo sorride. –Durante il giorno se ne vanno perché il sole le nasconde dietro l’oro dei suoi raggi, ma la notte…- avvicina una mano al viso della bambina e, come per magia, quando volta il palmo, sulla sua pelle è stesa la bellissima stella marina. –Tornano- dice porgendo la creatura alla bambina. –Sempre.-
-Sì! Sì! Le stelle tornano sempre, papà!- è felice Emily che comincia a giocherellare con la stella e la conchiglia. –Le stelle tornano la notte… sempre- continua a ripetersi, mentre papà e mamma si scambiano un bacio affettuoso.

-Le stelle…- mormorai con gli occhi in lacrime. –Tornano… sempre…- schiusi la bocca non riuscendo quasi a respirare per l’emozione. In balia del pianto cominciai a tremare tutta, e quelle parti del mio corpo tramutate tornarono normali mentre mi stringevo le ginocchia al petto, con la schiena contro i detriti di una vecchia macchina scaraventata in mezzo alla strada. –Le stelle, papà, tornano sempre…- continuavo a ripetere. Ero letteralmente impazzita, perdevo il senno, per di più dinnanzi al mio arcinemico che nel frattempo si gustava la scena guardandomi dall’alto.
Alex si era alzato in piedi ed era rimasto immobile, composto. La sua ombra si allungava al mio fianco, i suoi occhi scrutavano i miei grondanti di lacrime con un che di compassione, di pietà.
Stelle? Di cosa parli? Riuscii ad immaginarmi cosa stesse pensando, ma nonostante l’umiliazione e l’assurdità di quella situazione, continuavo a piangere senza freno.
Mio padre era vivo, aveva detto, ed io gli credevo perché sapevo che non aveva prove per dimostrare il contrario. Di conseguenza sentivo che era sincero. Persino l’odore che emanava poteva dirmi se si trattasse di una balla, unica per liberarsi di me così facilmente. Se fosse stato quello il suo piano fin dall’inizio, sarebbe riuscito nell’intento. Anzi. Era riuscito nell’intento di rendermi inoffensiva, debole, quel tanto che gli bastava per uccidermi se l’avesse voluto.
Ero debole. Debole davanti all’uomo che mi aveva rivelato la realtà, aperto gli occhi su ciò che non avevo minimamente considerato fin da quando Cole mi parlò di mio padre, quella volta che finimmo per andare a letto insieme.
-Come sai che non sto mentendo?- chiese Mercer cupamente.
Tirai su col naso, ma non risposi.

[:. Alex .:]

Ormai il danno è fatto. La porto ora dalla mia parte prima che torni in sé e si renda conto che può trattarsi di una trappola.
Mi avvicinai a lei con lentezza. –Emily, tuo padre è vivo. Dopo l’incidente è sopravvissuto è ha trasmesso quella comunicazione; solo allora se ne perdono le tracce-.
-Lo so…- gemette la ragazza. –Lo so che è sua la voce in quella registrazione… lo so!- mi gridò contro.
Capivo il suo dolore, in un modo o nell’altro riuscivo a sentirlo.

[:. Emily .:]

Mi sta usando. Vuole qualcosa da me, ma cosa?! O non avrebbe sparato una tale cazzata! E intanto continuavo a piangere.
-Cosa vuoi?- gli chiesi in fine asciugandomi gli occhi, ma mi tremava il braccio.
-Ah!- rise con isterismo. –Cos’è che vuoi TU da ME! Sbaglio o sono io quello su cui pende una taglia sulla propria testa?!- eruppe infastidito.
-Come se fosse colpa mia se vai in giro ad uccidere la gente! Cibandotene a mo’ di pane per la tua mente!- ribattei con violenza. –So perché lo fai! So che è il vuoto, la fame che provi nell’aver perso la memoria a spingerti a simili gesti! Lo so!-.
-Come?!- strillò lui.
Scattai in piedi. –Perché sono come te!- confessai, risalendo al principio della fine, e precipitando nel baratro dell’inizio.
Guardai i suoi occhi stemperarsi di quella poca lucidità che portavano con sé. Le sue spalle persero compostezza, tirò la testa leggermente indietro, come sopraffatto da una nuova verità così ovvia che gli avevo gettato sulla faccia così come lui aveva fatto con me pochi istanti prima.
Cos’ho fatto?…
Avevo commesso il più grande errore della mia vita. L’unico tra tutti che dovevo evitare, la clausola che mi teneva in vita, la costrizione per Lewis affinché potesse usarmi per i suoi scopi a fin di quello che consideravo il bene.
-Cosa… cosa intendi?- sussurrò senza altre parole.
Lo fissai allungo nell’oblio delle sue pupille, e lui fece altrettanto. Il mio cuore perse uno, due colpi, rallentando a tal punto da potersi dire silenzioso. –Uguali, di materia, di sangue; il nostro composto è simile a tal punto da poter essere l’unica cosa che garantisce la distruzione dell’altro- mormorai sfuggendo al suo sguardo subito dopo.
-Vuoi dire che… l’unica cosa che può uccidermi sei…- mi puntò il dito contro ed annuii ad un gesto muto ma chiaro.
…Tu.
-Ma il concetto è reciproco, non spaventarti- risi con isterismo dandogli le spalle. Mi misi a braccia conserte e chiusi gli occhi cercando di ordinare i pensieri, tentando con quel gesto di nascondergli l’imbarazzo di essergli scoppiata in lacrime davanti. –Come sai che mio padre…?- non riuscii a terminare la domanda.
-Ora capisco…- assentì invece lui, tutt’altra parte coi suoi pensieri. Si prese del tempo per sé, ragionando a modo suo, rielaborando le mie parole, e fu così che Alex esitò qualche istante prima di rispondere. –Io e lui… abbiamo avuto una discussione giusto poco fa, prima di incontrarti- ammise, e farlo gli costò parecchio.
Scattai sull’attenti. –Dove?!-.
-I sottopassaggi a sud- indicò l’orizzonte, i detriti, i fumi e i grattacieli distrutti di Manhattan lungo la strada. –Era lì che si nascondeva, ma probabilmente non da sempre-.
-Cosa c’entri tu con mio padre?! E di cosa avete parlato?!- allo sconforto si sostituì ben presto la collera.
-Di te, della Blackwatch e del Settore Angels. Se ciò che mi hai detto è vero, se siamo uguali, questa composizione non è casuale. Emily, posso ben immaginare che dopo avermi ascoltato, sarà per te semplicissimo… comprendere, perché è una cosa che sospettavi già da tempo, ma avevi paura di ammettere-.
Ora toccava a me fare la parte della confusa. –Di cosa parli?- mormorai.
-Lewis Martin ti ha ingannata- disse con severità. –Ti ha portata dalla sua parte perché lui è un Blackwatch-.
Sbiancai. –No, la Blackwatch è caduta, lui mi ha detto che… no, menti!- sbraitai.
-Emily, pensa a tuo padre! La sua versione dei fatti, solo la sua è quella vera, quella che smentisce tutte le altre! Ti prego di ascoltarmi!-.
-Perché all’improvviso piombi qui e pensi di potermi ingannare come una stupida, eh?!- gridai bollente di rabbia. –Basta, non ti sopporto più, facciamola finita una volta per tutte!-.
-NO!- prima che riuscissi a tramutare le braccia in armi letali pronte al combattimento, Alex si lanciò in avanti verso di me e, immobilizzandomi, mi sbatté contro il cofano della macchina alle mie spalle.
-Emily, ascoltami!-.
-Ci ero quasi cascata! Ci avevo quasi creduto!- cominciai a scalciare e dimenarmi sotto di lui, la cui forza pari alla mia riusciva a tenermi ferma il necessario per poter avvicinare il viso al mio.
-Tuo padre, un mio caro amico e Lewis Martin si conoscevano fin dalla notte dei tempi, quando la Blackwatch assoldò questi ultimi ai loro scopi! Maximilian Taylor, il padre della ragazza che hai ucciso davanti ai miei occhi! Ti dice nulla questo nome?!-.
-NO!!- strillai a squarciagola.
-Conosci almeno la versione completa dei fatti, no?! L’incidente, e tutto il resto!-.
-Sì, brutto stronzo! Ed è colpa tua se il virus è arrivato fuori da Manhattan! Hai contagiato i sani con la tua scampagnata nella nostra base, pezzo di merda!-.
Alex scosse la testa. –Max aveva previsto che Lewis avrebbe usato questo pretesto…-.
-Pretesto?! PRETESTO?! Per colpa tua sono morte migliaia di persone! E ancora ne moriranno!- ero fuori di me, accecata dall’odio improvviso per quell’uomo senza scrupoli che osava accusare la mia Divisa.
-Sforzati di ricordare, Emily! Come successo poco fa! Puoi farlo! Puoi vedere con i tuoi occhi!-.
-NON VADO A COMANDO QUANDO TI FA COMODO!-.
-E allora faremo a modo mio! Ah!- gli sfuggì un gemito quando parte della sua mano, tramutata in cinque poderosi artigli, mi passo il petto da parte a parte.
Il mio sangue si mescolò al suo, e per un attimo credei che avesse ingaggiato battaglia, cercando di uccidermi, ma poi, continuando a fissare l’azzurro dei suoi occhi, mi mormorò a fior di labbra:
-Hai l’occasione che cercavi… guarda, guarda la verità…- ansimò.
Il respiro mi si fece irregolare mentre mi sentivo invadere dalla sua essenza che entrava in contatto con la mia. Il suo DNA era a portata di mano, potevo finalmente smentire le bugie che cercavo, le bugie di cui avevo paura.
Alla fine, in un ultimo strillo, assecondai la mia fame di sapere, e mi bastò quella goccia del suo sangue per vedere coi suoi occhi nei miei.

E’ un tunnel avvolto dalle ombre, ma ce ne sono due più esposte e delineate delle altre. Una di queste sono io, vedo attraverso i suoi occhi che sono fissi immobili sulla seconda figura nella galleria.
-Se le vuoi così bene…- pronuncia un uomo dalla carnagione chiara che impersono, il volto celato sotto un cappuccio. –Perché non vai da lei e la porti via da quel posto?- chiede. –Hai idea di quante sofferenze nascano e crescano in quella base? Un’idea dell’Inferno che ha passato quella ragazza vendendo così il suo corpo? Che razza di padre farebbe mai una cosa simile?-.
-Era l’unico modo…- risponde un secondo uomo, nascosto nella penombra di un luogo inghiottito dalle tenebre.
-Per fare cosa?!-.
-Per salvarla…-.
-Da chi?!- insiste Alex Mercer.
-Dalla Blackwatch!- ruggisce l’altro uomo in risposta. –Temevo che sarebbe stata la fine, fu un caso che scelsero lei…-.

-Solo due su un milione si accorsero di che genere di gene straordinariamente potente serbava nel suo sangue! Costoro erano Maximilian Taylor e Lewis Martin…-.

-Eravamo sempre stati grandi amici… ma Lewis era il cancro… Credeva molto sulla possibilità che un virus letale avrebbe mietuto miliardi di vittime. Era bramoso… quando la Blackwatch lo contattò in segreto… Giusto pochi anni prima ci fu l’incidente…-.
Due cacciatori volanti si mettono seduti al comando di un uomo.

Le frasi s’interrompono senza un senso, la voce è tagliata, indiretta, come se mancassero dei dettagli che qualcuno non vuole si sappiano.

-Cosa accadde dopo?-.
All’uomo sfugge un sorriso. -Comparisti tu- dice. –Abbandonati gli esperimenti su mia figlia e su altri precedenti cavie, la Blackwatch trovò te e ti rese ciò che sei, ciò che ti piace tanto essere-.
-Non mi piace ciò che sono- sbotta quell’altro profondamente offeso…

-…Lewis lasciò il progetto, ma non esitò un solo istante a firmare il contratto propostogli dal Presidente che lo nominava responsabile del Gabriel!-.

-Emily?-.
-Quanto vorrei non aver mai risposto a quella chiamata…-.
-Tu o…-.
-…Lei- conclude.  
-Perché non andasti tu?Era tua figlia, no? Un po’ di bene gliene volevi, no?!-.
-Se Lewis avesse fatto di me un Angelo, ora saresti già morto, Mercer- è la sua risposta.

Il ricordo s’interrompeva così, con quella frase, quel nome… o meglio dire, quei nomi. Mercer e Lewis, rispettivamente quelli che avevo finalmente capito rappresentassero il bene e il male.
La verità mi era stata mostrata, e fu con questo pensiero che riaprii gli occhi trovandomi a pochi centimetri dal volto di Alex.
-Era mio padre…?- formulai in un sussurro non appena ne fui in grado, quando Alex ritrasse gli artigli e i tessuti del mio bacino si furono rigenerati.
Mercer annuì gravemente. –Ora mi credi?-.
Tacqui fissandolo a lungo.
-…Sì- conclusi in fine. –Ma se mio padre è vivo… perché non è qui con te? Dopo aver discusso vi siete divisi? Dov’è andato?-.
Alex scosse la testa. –Questo non posso dirtelo- sottolineò.
Mi adombrai. –Perché?!- eruppi.
-Mi ha chiesto lui stesso di tenere la bocca chiusa su questo e molto altro-.
-Ma tu…- feci con un pizzico di malizia –a quanto pare hai fatto di testa tua- conclusi.
-Ho tradito la sua fiducia già abbastanza- ammise a malincuore, eppure mantenendosi serio.
-Cosa accadrà ora?- chiesi in un sussurro.
Mercer aggrottò la fronte, probabilmente non capendo a cosa mi riferissi.
-Insomma…- esitai. –Ti ho detto di me… di noi- sfuggii ai suoi occhi penetranti. –E tu mi hai raccontato di mio padre, mi hai mostrato che è ancora vivo, ma adesso… adesso che ne sarà di quello in cui credevamo?- sussurrai quasi stessi parlando solo con me stessa.
-Parli della vendetta?- formulò con comprensione.
Annuii.
-Credo che tu adesso capisca quanto me che è di vitale importanza mettere da parte le divergenze, perché finalmente siamo riuniti sotto un vessillo comune, un nemico che minaccia entrambi- disse serio scostandosi da me per permettermi di alzarmi.
-Lewis Martin, se è come dici, non vorrà mai sbarazzarsi di me- sbottai. –Sei tu che gli vai poco a genio-.
-Per uccidermi lui ha bisogno di te!- sibilò Alex venendomi incontro, accorciando di nuovo la distanza tra noi perché la conversazione diventasse più intima. –Ma quando non servirai più ai suoi scopi…- cambiò del tutto tono –cosa credi che se ne farà di te e degli Angeli che lui stesso ha creato?- mi domandò come fosse ovvio, con sprezzante ironia.
Non potei credere a quelle parole, poiché fossero esattamente le stesse pronunciate da mio padre quella volta che trasmise il suo messaggio.
Alex parve leggermi nel pensiero quando disse: -“Siamo e continueremo ad essere utili alla nazione, ma… quando non serviremo più, sappiamo tutti con chiarezza cosa ne faranno di noi.” Riascoltai quella registrazione più e più volte quando entrai nella vostra base. Cercavo una testimonianza, qualcosa che la Blackwatch non avesse portato con sé nella tomba una volta crollato il progetto. Volevo chiarezze. Volevo la verità. Ma mi accorgo solo ora di averla avuta sempre a portata di mano… davanti ai miei occhi- sentenziò con serietà voltandosi verso di me.
Io, a differenza di lui che pareva mantenere un atteggiamento per quanto potesse neutrale a quelle rivelazioni, ero sconvolta nel profondo. Sentivo agitarmisi le farfalle nello stomaco.
Alex Mercer non solo aveva conosciuto di persona mio padre, scoprendo che era vivo, ma desiderava oltretutto stringere un alleanza con me… il suo nemico, l’unico che potesse ucciderlo veramente.
-Vieni con me, Emily, ti porterò da tuo padre e insieme rifletteremo sul da farsi- mi porse una mano in gesta di resa, di offerta e fiducia allo stesso tempo.
Guardai il suo palmo schiuso con insistenza, quasi potessi leggervi sopra tutte le sue sincere buone intenzioni.
Quando alzai gli occhi per spostarli nei suoi, riuscii a decifrarvi un sentimento che non gli si addiceva. Come una scintilla apparsa sempre rossa che ora aveva improvvisamente cambiato tonalità. L’infinito di quell’azzurro divenuto caldo, accogliente quasi, fu davvero quella scintilla.
Poggiai la mia mano sulla sua prima con un che di incertezza, ma poi, percependone il calore, mi decisi a stringerla con convinzione.
E’ fatta. Pensai. Ho firmato la mia condanna.
Fu una lunga stretta di mano, durante la quale nessuno allontanò gli occhi dall’altra.

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Capitolo 26
*** Capitolo 26° - Una guerra senza leggi, un gioco senza regole ***


Capitolo 26° - Una guerra senza leggi, un gioco senza regole

-Siamo arrivati- annunciò Alex.
Seguii il suo sguardo che posava sul malandato magazzino navale del porto, una bassa costruzione in cemento di al massimo due piani. Il silenzio tutt’attorno era spettrale e la soffusa foschia che si era creata conferiva un macabro aspetto.
-Mio padre è lì?- chiesi in un sussurro, più a me stessa che altro.
Infatti Alex non mi rispose. Fece un passo avanti e cominciò ad incamminarsi verso l’edificio. –Stammi vicina-.
Lo seguii senza replicare fingendomi la sua ombra. Richiusi le ali che mi erano servite per arrivare fin lì tra le mie scapole e proseguii in religioso silenzio coi sensi all’erta. Poteva spuntare qualche cacciatore e mi avrebbe trovata del tutto impreparata se non avessi sgombrato la mente e mantenuto la calma.
Esattamente come Alex, e per un istante mi chiesi come ci riuscisse. Così rigorosamente… taciturno, freddo. Dicono che il composto impiantato negli Angeli è un estratto del suo campione. Ma allora perché noi non siamo… depressi quanto lui? Forse perché il settore Angels è riuscito a migliorarlo…? M’interrogai.
Con un balzo, Mercer raggiunse il tetto della costruzione. –Perché non usiamo l’ingresso principale?- chiesi dopo aver fatto altrettanto aiutandomi con le ali.
Alex si mantenne in silenzio e avanzò verso il centro del tetto, e solo allora mi accorsi del grande foro circolare che vi era.
-Eccolo l’ingresso- sbottò lui saltando giù, sparendo inghiottito dall’oscurità dell’interno di quel luogo.
E se fosse una trappola?
Serrai i pugni lungo i fianchi e preparai le cellule del mio braccio a mutare. Balzai giù atterrando su un suolo quasi friabile, polveroso. Una puzza nauseabonda di sangue e medicinali mi riempì i polmoni. Arricciai il naso e attivai la vista termica, parte dei poteri agli Angeli conferiti.
Centinai di corpi caldi dimoravano nell’oscurità. Contai una ventina di corpi più piccoli, bambini forse, nascosti nelle tende di latta, metallo e cemento improvvisate come capanne primordiali.
-Dio mio…- mormorai esangue guardandomi attorno.
Dal nulla sentii posarmi una mano sulla spalla, mi voltai e feci per affondare gli artigli nel vivente che aveva osato. Ma poi riconobbi il barlume di ghiaccio di quei occhi e m’immobilizzai come una pietra.
Alex non si scompose, ma mi fulminò con un’occhiataccia. –Ti avevo detto di starmi vicina. Adesso seguimi- s’incamminò ed ubbidii all’istante.
Salimmo una fragile scaletta di metallo che portava ad un livello superiore improvvisato su un’impalcatura arrugginita. In fondo all’impalcatura si ergeva una tenda più grande delle altre, all’interno della quale si materializzavano due corpi umani.
Alex mi precedette scostando un lembo della tenda, e prima di entrare dopo di lui, udii un uomo chiedere chiaramente: -Lei dov’è? È al sicuro?-.
Mercer si fece da parte nella tenda ed io mi mostrai, muovendo due passi sul tappeto di pezza che ricopriva il pavimento di metallo.
-Emily…- sussurrò mio padre, Mark Walker, in piedi accanto ad un uomo della sua stessa età con un camice bianco da dottore sporco di sangue.
Max Taylor sgranò gli occhi e volse a Mercer un’occhiata eloquente. –L’hai portata qui!-.
Alex sostenne il suo sguardo senza aprire bocca.
-Emily…- ripeté più sorpreso mio padre.
-Papà- mi avvicinai a lui e lo abbracciai non credendo alle emozioni che stavo provando. Dopo anni trascorsi pensando che fosse morto, ore era di nuovo davanti ai miei occhi, esattamente come lo ricordavo, con la sua tuta militare mimetica bluetta. La stessa che indossava la volta dell’incidente…
-Papà…- singhiozzai sentendomi stringere dalle sue braccia.
Walker scambiò con Alex una silenziosa domanda, continuando ad abbracciarmi.
Mercer si adombrò ancora di più. –Lei ci serve-.
-No- ribatté Mark. –Lei non ci serve affatto. Così l’hai messa solo in pericolo- digrignò.
-Di cosa state parlando?- mormorai scettica e confusa scostandomi leggermente da lui, ma né uno né l’altro mi volsero una minima attenzione.
-Non possiamo rischiare di attaccare la base e dover scappare con la coda tra le gambe, non ci sarà una seconda occasione- insisté Mercer con una scintilla negli occhi. –Emily ci serve ora-.
-Attaccare la base?…- domandai io.
Venni nuovamente ignorata.
-Siamo abbastanza potenti tu ed io, Alex, non c’era motivo di coinvolgere anche lei!- eruppe mio padre.
Zeus guardò un istante nella mia direzione. –E se fosse una sua scelta?-.
-Non avresti dovuto darle questa scelta!- ruggì Mark.
-Papà! Dimmi cosa sta succedendo, cosa!…-.
Max Taylor mi allontanò da mio padre afferrandomi per un braccio. –Aspetta- mi disse, ed io, troppo sconcertata per reagire, ubbidii.
Entrambi abbandonammo la tenda lasciando discutere i due. Non mi ribellai quando Max mi portò con sé al piano di sotto. Mi chiese di stargli vicino come fossi la sua ombra, e capii da sola che aveva delle mansioni giornaliere da svolgere sui suoi pazienti.
Lo vidi estrarre delle siringhe dalla tasca del camice e applicare il “vaccino” a uomini, donne e bambini. Lo seguivo in silenzio in ogni suo movimento, mentre lentamente iniettava nel sangue dei profughi un composto che aveva attirato subito la mia attenzione, ma mai quanto la questione che andava discutendosi tra Alex e mio padre.
-Tuo padre non voleva che Alex ti portasse qui- spiegò Max d’un tratto mentre sedava un paziente. –I due si conoscono da poco e hanno scelto di collaborare contro un nemico comune, un po’ come sono certo che Alex abbia proposto a te-.
-In vena di accordi, il ragazzo…- borbottai mentre ci allontanavamo verso un’altra tenda.
-Sa solo distinguere i buoni alleati nelle occasioni migliori- rise il dottore.
-Lei sembra conoscerlo da più tempo- commentai.
Il vecchio annuì. -Conosco Alex da mesi, forse un anno. Mi ha aiutato a mantenere in piedi questa specie di ricovero- disse allargando le braccia. –Il mio nome è Max Taylor, dottore capo sala e padre della ragazza che hai ucciso…- fermandosi mi porse la mano, ma senza alcuna cattiveria.
Sgranai gli occhi. –Quella ragazza… era sua figlia…-.
Il vecchi mi sorrise e, vedendo che avevo dimenticato di stringergli la mano, la ritrasse. –Non temere, è acqua passata, ormai. Ti consoli il fatto che è stata una scelta ben conscia di Lisa quella di morire- disse incamminandosi.
In breve mi raccontò per filo e per segno gli ultimi avvenimenti, partendo da un quadro generale della sua responsabilità di medico in quella sezione di Manhattan. Mi parlò del virus che aveva visto espandersi di corpo in corpo e del dolore patito e poi dimenticato quando sua figlia aveva fatto la sua scelta.
-Il gesto di Alex è stato di grande cuore e coraggio. Unica testimonianza della sua capacità di amare- sospirò il vecchio.
Mi stupì con quelle parole. Anche i mostri possono amare…
-Quello che ti turba adesso è un altro discorso, e lo capisco- riprese lui. –Sei preoccupata per quello che sta succedendo a tuo padre e ti domandi che cosa c’entri lui in questa storia. Ebbene, avrei voluto che fosse stato lui a dirtelo, ma molto probabilmente non ce ne sarebbe stato il tempo. Stiamo organizzando un attacco, o meglio, loro stanno organizzando un attacco-.
-Alex e mio padre?- mi stupii. –Come?- chiesi, frastornata.
-Hanno entrambi più forza, potere e capacità di quel che hai sempre immaginato, Emily- disse lui scoccandomi un’occhiata eloquente che sottendeva mille pensieri, i quali non aveva intenzione di rivelarmi così direttamente.
Nell’arco di un quarto d’ora il dottor Taylor mi raccontò la mia e la storia di mio padre, ma non quella che avevo sentito mille volte da mia madre o da Mark stesso. No, non quella… bensì la versione più assurda che avessi mai ascoltato. Tacqui, immaginandomi un simile arco di tempo spezzettato da eventi e catastrofi naturali che avevano contribuito a rendere la mia e la vita di Mark un disastro. L’incidente del ’69 era stato una sorta di avvertimento, un primo tentativo fallito dalla Blackwatch, le cui intenzioni non erano altre che creare il proprio esercito personale di mostri.
E ci è riuscito… pensai.
Ma la cosa più assurda era che io ne facevo parte, ma presto, molto presto, avrei fatto di tutto per distruggerlo.
Mi correggo: quasi riuscito.
-È una guerra, Emily, una guerra spietata e senza leggi, un gioco di vita e di morte senza regole. Tuo padre controlla un esercito di Cacciatori Volanti e grazie al suo potenziale straordinario attaccheremo la base del settore Angels. Non possiamo indugiare oltre perché Lewis Martin già sospetta cosa Mark stava progettando da ancor prima che tu nascessi, e per questo motivo ha fatto e continuerà a fare qualsiasi cosa pur di eliminare te e tuo padre-.
-Posso capire che ce l’abbia con lui, ma… perché allora farmi combattere contro di Alex? Lui ce c’entra?-.
Il dottor Taylor sospirò e guardò a terra, cacciandosi le mani nelle tasche del camice bianco. –Da qualche parte ho letto un articolo di giornale che parlava dei lupi siberiani. Era molto interessante, diceva che due maschi capo branco che si scontrano tirano così allungo da distruggersi a vicenda se necessario, perché spesso e volentieri la forza di uno eguaglia quella dell’altro, e l’unico modo per difendere il branco è quello di tenere impegnato il nemico sino a morte certa. Era questo che Lewis voleva da te, Emily. Voleva che combattessi con Mercer e vi uccideste a vicenda per il semplice fatto che gli andavate entrambi scomodi in modi diversi- spiegò.
Tacqui alcuni istanti, pensosa. –Per quand’è fissato l’attacco?- chiesi in fine.
-Domani. All’alba- mi rispose il Corvo semplicemente. –Tuo padre non avrebbe voluto che ti porgessi questa domanda, ma ne ho un forte bisogno-.
Lo guardai negli occhi e lo vidi assumere un’espressione così seria da mettermi paura.
-Sarai dei nostri?- domandò con voce profonda.
Sollevai lo sguardo sul piano superiore. Lì vidi mio padre, accanto ad Alex Mercer, fissarmi a sua volta con le mani strette attorno al parapetto. Lanciai un’occhiata anche al giovane che gli era affianco, che ricambiò con un sorriso malizioso.
Riportai la mia attenzione sul dottor Taylor e risi.
Lewis Martin, preparati a ricevere tante botte: hai finito di vivere. -Facciamogli il culo a quel bastardo- dissi.
-Emily!- mi riprese mio padre.

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Capitolo 27
*** Capitolo 27° - Attacco al Paradiso ***


Capitolo 27° - Attacco al Paradiso

GIORNO DELL’INFEZIONE 420°
POPOLAZIONE INFETTA: 30, 8%

New York,
Settore Angels, Base Phoenix,
Ore 4.43 am

Matt prese il caffè dalla macchinetta e lo chiuse con un tappo apposito in plastica. –A più tardi, Sall- disse avviandosi fuori dalla mensa. Un uomo sulla quarantina, di fronte alla stessa machina ad ordinare la sua bevanda, si voltò e salutò il ragazzo con un gesto della mano.
Il giovane traversò l’ingresso della mensa lasciandosi alle spalle una grande sala buia e deserta, popolata solo di quei tanti o pochi coordinatori soliti a svegliarsi presto la mattina, per monitorare i loro Angeli sul campo, giù a Manhattan.
Matt traversò un lungo, bianco e asettico corridoio, sbadigliando. In una mano aveva il suo espresso fumante e ben tappato, l’altra era nella tasca dei jeans tenendo sottobraccio una rivista ripiegata. Giunto in fondo al corridoio, chiamò uno dei due ascensori e attese paziente che le porte si aprissero. Nel fare ciò, si guardò attorno scrutando il silenzio, pensando quanto fosse palloso il mestiere di coordinatore in pensione: ora che il suo Angelo aveva comunicazioni e satellite irraggiungibili, poteva ritenersi un disoccupato fuori servizio. La Phoenix e lo stesso Lewis Martin erano occupati nel costante tentativo di comunicare con Emily Walker, ma per uno, due, tre giorni era stato impossibile solo stabilire la sua posizione sull’isola. Matt era seriamente in pensiero, ma non quanto Lewis Martin.
L’ansioso capo della sezione dava di matto da una settimana. Alcuni giorni lo si vedeva correre da una parte all’altra della base dettando comandi senza logica a chiunque gli passasse accanto. A Matt era successo più di una volta, e si sentiva sempre in imbarazzo, spaventato da una tale furia. Per lo più erano ordini di carattere militare: Lewis stabiliva turni di guardia più severi, una sorveglianza maggiore e un minore riposo per tutti. Così, anche i coordinatori in “pensione” come Matt erano costretti ad ore piccole e alzatacce alle quattro del mattino.
Non erano da meno Emmett e Lucy, rientrati alla base giusto una settimana prima portando con loro il cadavere del Capitano Cole Turner e un gravemente ferito Harry Brown. Gli Angeli della Squadriglia 90esima erano tornati nelle condizioni tali da mettere in allerta tutti gli altri “schiavi del settore”. Da quel giorno, per la base Phoenix, si viveva una certa bastarda tensione.
L’ascensore segnalò il suo arrivo, le ante si schiusero e Matt entrò in cabina sbadigliando di nuovo. Pigiò il tasto del piano, si voltò e attese che l’ascensore richiudesse le porte e partisse fissando il vuoto del corridoio appena percorso.
Ad un tratto, dal fondo del corridoio, una ad una tutte le lampade al neon cominciarono a spegnersi come fulminate. Nel giro di pochi secondi, il piano intero restò completamente al buio con un silenzio spettrale. Le ante dell’ascensore erano bloccate per via dell’assenza di corrente, constatò Matt allarmato, ma fortunatamente, a rincuorarlo fu l’accensione istantanea delle luci blu d’emergenza.
Il ragazzo uscì dalla cabina affacciandosi di qua e di là nelle varie direzioni. –Ehi, c’è nessuno?- chiamò, ma effettivamente “nessuno” gli rispose.
Cercando qualcosa nella tasca del giacchetto targato Angels che indossava, trasse il filo di un auricolare collegato ad un palmare. Si apprestò a contattare il centro energetico, gestito da alcuni suoi colleghi nel sottosuolo della base e attese, sentendo squillare. Il numero composto era quello di un suo carissimo amico, un Angelo finito a lavorare nelle cantine della Phoenix dopo essersi danneggiato a vita l’ala destra. Il suo mestiere era livellare il consumo e il contenimento d’energia all’interno dell’edificio, quindi chi altri poteva meglio accertarsi delle condizioni del generatore, in caso fosse saltato qualche pistone?
-Avanti, Lillo, rispondi…- sibilò Matt, teso come una corda di violino. Nel frattempo gridò ancora: -Ehi, c’è nessuno?!- guardandosi attorno. –Perché non rispondi, razza di ubriacone italiano?!- gemé Matt accumulando nervosismo ogni minuto di più. Da piccolo aveva sempre avuto paura del buio e del mostro sotto al letto, perciò la situazione iniziava a metterlo a disagio.
Lasciò stare i suoi vecchi contatti e decise di rivolgersi direttamente alla centrale. Finalmente qualcuno rispose, ed era una voce elettronica femminile.
-Settore Angels, Centrale Energetica della base Phoenix. Identificarsi, prego-.
-Matt Wilson, Angel’s Coordinator 1-9-2. Si è verificato un salto di corrente al terzo piano della base, e per poco non restavo bloccato in ascensore. Richiedo un accertamento delle condizioni del generatore-.
-Matt Wilson, lei non è autorizzato ad effettuare nessuna richiesta di supervisione. La preghiamo di contattare un suo superiore-.
-Fottutissima lattina, devo tornare alla mia postazione prima delle 5! Non ho né tempo né voglia di salire a piedi fino all’ultimo piano e richiedere un appuntamento con Lewis Martin!- sbottò Matt ormai sull’orlo della sopportazione. –La mia pazienza ha un limite! Richiesta di un operatore umano!- dettò.
-Attendere prego- rispose la voce elettronica, e seguì una lunga pausa destinata a non interrompersi tanto in fretta…
-Ma che cazzo sta succedendo?- si chiese Matt sempre più ansia. –Meglio avvertire di sopra che farò un po’ tardi, allora…- borbottò cercando nei numeri più frequenti quello del piano Coordinatori, dove erano riuniti tutti gli Angels col suo stesso mestiere. Dopodiché aveva già in progetto di contattare direttamente l’ufficio di Lewis Martin, o comunque un suo delegato. Ma i suoi piani andarono a cattivo fine ugualmente.
-COME NON C’E’ CAMPO?!- strillò disperato guardando il palmare. Un’icona rossa lampeggiante segnalava l’assenza di linea tra mittente e destinatario della chiamata, nonostante nella base fosse in uso ormai da anni un sistema monitorato di rete interna privata.
-Ma vaff…- Matt si cacciò il palmare nella tasca del giubbetto e s’incamminò per il corridoio, tornando sui suoi passi verso la mensa. –Speriamo che il vecchio Sall non sia inciampato nei lacci delle sue scarpe rompendosi l’osso del collo…- borbottò.

«I sotterranei della base Phoenix sono cunicoli bui e strettissimi che collegano una camera di contenimento energetico all’altra. I sotterranei, non solo ospitano i macchinari che sostengono l’energia elettrica della base, ma per quei spessi e grossi condotti passano gas, ossigeno riciclato e materiali organici proveniente dai laboratori di ricerca dell’ultimo piano. Insomma, un vero e proprio smistamento di rifiuti e materie prime. Gli addetti al sottosuolo sono per la maggior parte Angeli infortunati o esseri umani. Poiché sono impianti, quelli, collegati anche alla rete fognaria esterna e comunicano con tutta New York, i lavoratori vestono di tute ermetiche nonostante il rischio di contagio sia minimo. In tutta la mia vita sono scesa là sotto una volta soltanto, ed era la mattina del giorno 420° dell’infezione.»

Qualche istante prima…

Davanti all grata fognaria che divideva New York dal sottosuolo della base, faceva la guardia un comune umano, il cui cuore batteva normale in petto. Poggiava le spalle sulla grata, fischiettando un motivetto allegro e tenendo le mani nelle tasche della tuta ermetica verde. Dietro di lui, nell’oscurità del tunnel che scavava per chilometri e chilometri il sottosuolo di New York, balenarono due occhi azzurri carichi di frenesia omicida.
Forse un ciottolo, forse un topo, fatto sta che sul terreno sbatté una piccola superficie che produsse un suono ticchettante e ritmico.
L’uomo di guardia si voltò allarmato, e scrutò allungo il buio del tunnel. Prese una torcia che portava legata alla cintura e fece per accenderla, ma Zeus fu più svelto.
Allungando e tramutando un braccio oltre la grata, Alex affondò gli artigli con un sonoro e brutalissimo “crack”, incassando il cranio tra le scapole di quel poveretto. Il sangue schizzò sulle buie pareti del tunnel, mentre costui non aveva avuto tempo neppure di mugugnare per il dolore. Mercer lasciò che il corpo si depositasse inerme a terra e ritirò il braccio nell’oscurità, tornando normale.
Perché ucciderlo? Poteva semplicemente stordirlo, pensai con una smorfia storcendo il naso. Il puzzo di sangue, se amico, sapeva darmi il voltastomaco. Quell’uomo potevo averlo incontrato nella mensa quando condividevo il tavolo coi miei compagni di clan, e ora giaceva ai piedi della grata che, il cacciatore volante alle nostre spalle, sfondò con una cornata.
Il frastuono che ne venne avrebbe messo sicuramente in allerta tutto il sotterraneo, ma guardando il sorriso malvagio comparso sulle labbra di Alex, al mio fianco, mi rendevo conto di quanto fosse entusiasta anche di questo.
Lo afferrai saldamente per il gomito prima che potesse fare un solo passo avanti. Il ragazzo mi scoccò un’occhiata gelida quanto l’azzurro intenso dei suoi occhi, ma fui ben capace di sostenere il suo sguardo.
-Attieniti al piano- mormorai schietta, semplice, circoscritta.
Alex avvicinò il volto al mio, e, per quanto mi fu possibile, riuscii a percepire il suo respiro freddo solleticarmi le labbra. –Anche tu…- sibilò in risposta, traboccante di malizia e cattive intenzioni.
Glielo leggevo nell’atteggiamento, e non solo negli occhi: quel ragazzo cercava ancora vendetta, la stessa interrotta un anno prima e ripescata qualche giorno fa, prima di vedersi entrare la sua peggior nemica nel gruppo di sabotaggio che il 420° giorno dell’infezione avrebbe messo a soqquadro la base Phoenix del settore Angels.
Alex avanzò, e con lui il fedele cacciatore volante, ora docile come un gatto da compagnia, ma nei prossimi minuti aggressivo e affamato come un leone selvaggio.
Alle mie spalle comparve una seconda creatura. La condussi in una direzione del tutto opposta, con un differente incarico ben preciso.
Il piano architettato da Mark Andrius Walker prefiggeva l’obbiettivo di eliminare qualsiasi comunicazioni interna della base, dalla rete telefonica alle segnalazioni computerizzate. Se le mie e le conoscenze di mio padre messe assieme potevano fornire buoni dettagli sulla posizione di tutti i posti di controllo e centraline elettriche, nessuno avrebbe mai sospettato che i tre portatori sani più pericolosi al mondo fossero coalizzati finalmente contro un nemico comune, tantomeno Lewis stesso. Il suo olfatto da Angelo predatore sarebbe servito a ben poco ora che, nell’arco di pochi minuti, l’intera base Phoenix sarebbe crollata nel caos.
I cacciatori volanti di mio padre erano serviti per volare indisturbati fino a destinazione, ovvero l’ingresso fognario costiero, collegato attraverso grossi tunnel e condotti a quello della base. Erano canali dei quali molti Angeli ignoravano l’esistenza, tunnel di evacuazione d’emergenza in caso di necessità che, fino ad ora, non c’era mai stato bisogno di utilizzare. Era stato Alex, qualche tempo prima della stesura del piano, a rivelarmene l’esistenza per la prima volta, nonostante avessi trascorso gli ultimi due anni della mia vita a combattere il virus dall’interno di quelle quattro mura. Mercer aveva usato questi condotti per infilarsi nella rete fognaria interna della base, e poi risalire fino ai laboratori. Grazie alle nostre conoscenze unite e l’alleanza di creature tanto pericolose come i cacciatori volanti controllati da mio padre, il settore Angels era destinato a soccombere prima del canto del gallo.
Niente più esperimenti, niente più sofferenza, morte… quello che Lewis Martin stava mettendo su con la sola scusa di abbattere il Virus, non era altro che un portentoso esercito personale di macchine inarrestabili e potenti come gli Angeli veri, al servizio di Dio. Se Martin credeva di avere ormai sentiero spianato, si sbagliava di grosso. Gli stessi mostri che prima la Blackwatch e poi il settore Angels avevano creato, stavano venendo a scassare le palle a qualcuno.
Proseguendo al buio col solo ausilio della vista termica, un tratto di strada lo feci scortata dal cacciatore volante, ma giunta alla prima destinazione, fui costretta ad indietreggiare perché a sorvegliare la cabina del controllo energetico c’erano non semplici umani, bensì due Angeli.
-Lillo, ti squilla il telefono!- disse un primo seduto comodamente alla postazione. Il secondo apparve poco dopo, venendogli incontro da un tunnel secondario. –Arrivo, non rispondere!- disse questi ripiegando le vecchie ali monche nella schiena. Si pulì le mani imbrattate di grasso sulla tuta ma, prima che potesse afferrare il telefono tesogli dal compagno, s’immobilizzò.
-Che ti prende?- chiese l’altro.
Lillo annusò l’aria. –Sarò pure vecchio, puzzolente e italiano, ma lo riconosco l’odore di virus- sibilò a denti stretti, nel frattempo che il suo braccio tramutava in un grosso spuntone nero petrolio.
L’altro si fece subito più attento. –Hai ragione…- confermò estraendo le ali dalla spina dorsale.
Tenendomi a distanza e ancora nascosta dietro l’angolo del tunnel, posai una mano sulla scapola del cacciatore volante. –Non far loro del male…- mormorai.
L’animale parve comprendere ogni sillaba e, nel momento in cui si lanciò all’attacco uscendo allo scoperto, colpì non fatalmente entrambi gli ex-angeli con un colpo di coda. Gli immobilizzò a terra schiacciandoli con le zampe artigliate e sbavò loro sulla faccia quando gli ruggì contro.
Era il mio turno di agire e così, uscendo dal tunnel, cercai di non badare agli sguardi sconvolti di uno e dell’altro.
-Traitrice! TRADITRICE!- strillò Lillo, il responsabile del settore energetico. Era un carissimo amico di Matt e aveva avuto modo di conoscermi in più di un occasione. Vedere il suo viso tirato in quel modo dalla paura di aver di fronte morte certa, mi ricordò i bei momenti trascorsi al fianco del mio Coordinatore. Rammentai anche le ultime scortesi parole che gli avevo detto prima di staccare definitivamente la comunicazione.
-Chi cazzo sei?!- gridò invece l’altro, intrappolato contro il pavimento tra un artiglio e l’altro del cacciatore volante.
Prima che qualcuno dei due potesse replicare, li misi a tacere con un fendente alla testa, fatale per un umano, ma stordente per un geneticamente-mutato. Quando mi risollevai, vidi il cacciatore fissarmi coi suoi grandi occhi rossi, e in quello sguardo carico di rammarico intravidi la coscienza di mio padre, legata alla sua. Gli carezzai il muso viscido e squamoso, ma fu giusto un istante di debolezza, perché udii un’esplosione assordante rimbombare per i tunnel del sottosuolo.
È il segnale, pensai sgranando gli occhi. La bomba è innescata: Alex sta cominciando a far danni e se tutto va come previsto, papà avrà libero accesso ai laboratori. L’attacco al Paradiso è iniziato. Ora sta a me muovere…
Corsi alla cabina di controllo e, tramutando il braccio in lama, feci più danni possibili con pochi affondi precisi e ben mirati là dove sapevo di dove colpire. In una frazione di secondo le luci tutte che illuminavano i tunnel sotterranei si disattivarono e la rete fognaria della base Phoenix, cadde nell’oscurità più intensa.
Stessa cosa fu per i piani compresi tra la mensa e i laboratori dell’attico.
Missione compiuta, pensai con una certa soddisfazione.
Ci fu una seconda esplosione.
Ecco Alex che disattiva la sorveglianza! Ridacchiai imboccando di corsa il primo corridoio che sapevo mi avrebbe condotta da lui. Seguivo il suo odore, e con la vista termica riuscivo a leggerne il calore anche attraverso i muri più spessi e i condotti più gassosi.
Trovai Mercer che finiva la sua opera straziando in più parti ciò che restava di un giovane Angelo, con tanto di giubbetto accademico con distintivo e casco integrale. Quando si voltò, incontrando la mia e la figura del cacciatore che era con me, aveva il fiato grosso non per lo sforzo, bensì per la furia.
-Sanno che siamo qui. Questa è solo una delle venti sentinelle che arriveranno venendo da quella parte- disse indicando una porta blindata che conduceva all’ascensore di servizio, unico ad arrivare sino al pian terreno dov’era situata la mensa. –Dobbiamo fare in fretta- ordinò andando in tale direzione.
-Va bene, ma… smettila per cortesia di farli a fette come animali…- gemei, -loro non c’entrano nulla. Insomma… È Lewis Martin il bersaglio, perciò gli altri lasciali andare, per favore- mormorai, seguendolo.
Alex si volò di colpo e m’inchiodò al muro con gli artigli, in un gesto tanto veloce che mi fu impossibile prevedere o anche solo contrastare. Mi fissò allungo negli occhi, mentre nei suoi potevo vedere riflessa la mia faccia sconcertata.
-Con o contro di me?- mi chiese in un sussurro freddo come il ghiaccio.
-Con…- bisbigliai esangue, spaventata ora più che mai.
Il suo braccio tornò normale, ma la sua presa salda attorno al mio collo persisteva. Mi tenne inchiodata al muro quel tanto che bastò perché alle sue spalle comparisse il cacciatore volante imbrigliato a distanza da mio padre. La bestia mandò un gorgoglio profondo e grattò il suolo con le unghie. Alex si fece allora da parte, ma non senza scoccarmi un’ultima occhiataccia, per poi riprendere il cammino nel tunnel.
Mi stanziai dalla parete accorgendomi del mio cuore che batteva forsennato nel petto. Posai una mano su di lui guardando la figura di Zeus che si allontanava nell’oscurità, seguito dal secondo cacciatore volante mentre il primo, fedelmente al mio fianco, mi osservava con sguardo carico di rimprovero.
-Non pensarlo nemmeno!- eruppi diretto a mio padre, che guardava me attraverso gli occhi della sua creatura. Mi avviai a grandi passi nel tunnel, raggiungendo Alex, e la bestia mi seguì a sua volta.
Alle mie spalle un telefono cellulare bagnato di sangue squillò tre volte, vibrando sul pavimento.








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Capitolo 28
*** Capitolo 28° - Ordini e Piani ***


Capitolo 28° - Ordini e piani



Con un affondo preciso di pugno, Alex disegnò un foro enorme sulla parete, aprendoci la strada in uno dei tanti salotti comuni che ospitavano gli Angeli. Il frastuono fu tale che l’intera squadriglia ospite in quelle stanze si riversò allarmata nella camera, puntando dritta verso il nemico. Questi, un clan di sette, otto elementi al massimo, erano provvisti della stessa uniforme nera e rossa aderente che indossavo io.
-Ops…- mormorò Alex con tono malizioso, tramutando le braccia in artigli e rivestendosi della sua imperforabile armatura.
-Era questo il piano?!- eruppi serrando i denti e sfoderando le ali dalle scapole.
L’ha fatto apposta! Io gliel’avevo detto che buttando giù quel muro saremmo piombati negli alloggi di una squadriglia, ma Alex non aveva voluto darmi ascolto, e così ci ritrovammo schiena contro schiena a dover affrontare il nemico ancor prima di poterci scambiare altre parole.
La battaglia iniziò a suon di sangue e ossa rotte nell’oscurità che, purtroppo, non giocava a favore di nessuno, perché nella stanza eravamo tutti quanti capacitati di vista termica. Se Mercer brillava di un rosso-arancio intenso come il tramonto e i Cacciatori Volanti al nostro seguito di un verde selva, gli Angeli, il nemico, sfolgoravano di un blu ciano acceso e incredibilmente brillante. Non appena mi riconobbi come bersaglio di un Angelo, scattai in un balzo laterale che mi permise di afferrargli l’ala destra e scaraventarlo contro la mobilia. Fui subito accerchiata da altri due che tentarono di bloccarmi per le braccia, ma divincolandomi a forza con tre agili mosse di judo (con tanto di versi caratteristici) gli atterrai prima che riuscissero a mettermi le mani addosso.
Dall’altra parte del salottino, Alex Mercer faceva più danni all’ambiente attorno a sé che ai suoi nemici. Affondò gli artigli nel pavimento e trafisse non due, bensì tre Angeli che si rovesciarono al suolo in una pozza di sangue, con tanti buchi in corpo quanti quelli di una groviera. I due cacciatori volanti controllati da mio padre si contendevano gli ultimi avversari tenendoli occupati, e ciò permise a me ed Alex di avviarci all’uscita del salottino, fuggendo in corridoio.

Alcuni Angeli fecero per inseguire i fuggitivi, ma si udì una voce squillante gridare:
-No! Lasciateli andare!-.
Il capo clan della squadriglia che Emily Walker e Zeus si erano lasciati alle spalle, emerse dall’oscurità spiegando le ali nere dietro le sue scapole.
Molti degli Angeli sopravvissuti all’imboscata guardarono la donna con stupore.
-Ma Victoria, non sono questi gli ordini!- obbiettò qualcuno, ma con grande stupore di tutti, i due Cacciatori Volanti rimasti nella stanza, si acquietarono improvvisamente appena videro comparire la capo clan. Victoria, i cui capelli di boccoli fiammanti sembravano far luce propria nella stanza buia, scrutò uno ad uno gli Angeli della sua squadriglia che si guardarono spaventati da quelle enormi bestie alate divenute improvvisamente così docili.
-Non temete, non andranno lontano…- mormorò la donna con una certa rigidezza nella voce che non le si addiceva.
Uno dei cadetti sgranò gli occhi essendosi accorto dell’inganno. Fece per aprir bocca, ma all’improvviso, il cacciatore volante più vicino a lui lo tagliò di netto con una delle punte sulla coda, affilate come coltelli. Il suo corpo si rovesciò a terra in una pozza di sangue, diviso a due parti uguali.
Gli Angeli attorno indietreggiarono spaventati, ma non ci fu via di scampo per nessuno quando il bel corpo femminile e pronunciato di Victoria tramutò nel robusto e ben piazzato vigore maschile del famigerato dottor Mark Andrius Walker.
Entrambi i Cacciatori Volanti al suo servizio si scagliarono sui combattenti restanti, dilaniando pezzo per pezzo la carne contaminata della squadriglia tutta.
-So io quali sono gli ordini- pronunciò assorto il dottor Walker assistendo immobile allo scempio.
Quando nella stanza restò solo un lago di sangue e ossa spezzate, Mark e i suoi fedeli segugi lasciarono il salottino a piccoli passi calmi.
Dietro di loro, però, qualcuno di vivo era rimasto: Victoria, quella vera, rigenerò le proprie carni assorbendole dal sangue altri e ricostituì il proprio corpo assieme alla divisa onoraria sbrindellata in alcune parti.
La ragazza, una volta in piedi seppur traballante per via del poco vigore nelle vene, spaccò i vetri della finestra vicina e si arrampicò fuori dall’edificio, salendo di un piano solamente. Piombò in una delle stanze private del clan centonovantesimo riversandosi al suolo nel trambusto di vetri spezzati e ossa rotte.
Il proprietario della camera, già allertato dai rumori proveniente dal piano di sotto, si chinò sulla ragazza che, quando lo riconobbe, mandò un bagliore con gli occhi.
Quelli di lui si accesero di altrettanta ira nel momento in cui Victoria sibilò quattro esatte parole:
-Walker e Zeus sono qui…- e poi, troppo debole, morì.
Emmett Word si sollevò da terra e corse fuori dalla sua stanza. Abbandonò il salotto del proprio clan con grande stupore di Lucy ed Herry, che se lo videro volare via sotto al naso. -Emmett, Aspetta! Dobbiamo rispettare il piano!!- tentò Harry, ma Lucy si frappose tra lui e l'altro ragazzo prima che questi potesse travolgerlo.
Appena fu in corridoio, Emmett spiegò le ali e si diede al volo con un grido rabbioso, avendo atteso quel momento anche troppo allungo.

Corsi dietro di lui verso le scale, ma Alex cambiò improvvisamente direzione e, aggirando i gradini, si diresse contro le ante chiuse dell’ascensore. Le sfondò entrambe con una spallata e, trovandosi sospeso a mezz’aria, intraprese una corsa verticale com’era suo solito fare sui palazzi di città.
Mi gettai anch’io nella tromba dell’ascensore e dispiegai le ali, restringendole di qualche metro, in modo tale da sfruttare la corrente dell’impatto, la stessa che Mercer trascinava dietro di sé.
-Bel casino, eh!- strillai quando gli fui abbastanza vicino.
Alex balzò su un’altra parete del corridoio e prese a correre su di essa. –Era necessario- eruppe, senza mai distogliere lo sguardo dall’ultimo piano avanti a noi di un centinaio di metri ancora.
Posando un piede su una centralina elettrica coperta, mi diedi una maggiore spinta verso l’alto, potendolo affiancare nell’ascesa. –Non era questo il piano!- lo incalzai.
-E chissene frega!- fu la sua brutale risposta quando balzò di nuovo spostandosi sulla terza parete.
Ormai in vista della cabina dell’ascensore, bloccata ad un piano preciso dell’edificio, Alex si diede un’ultima spinta coi talloni e, piegando le ginocchia, acquistò maggiore potenza quando, con un braccio teso, perforò pavimento e soffitto della cabina. Ricominciò poi a correre lungo la tromba dell’ascensore come se nulla fosse capitato sul suo cammino.
Stringendomi le ali al corpo passai da una parte all’altra dell’ascensore attraverso lo stesso foro, costantemente al suo inseguimento.
Chissà quanti Angeli erano già sulle nostre tracce, mi chiesi, e quanti ancora si sarebbero allertati sentendo tanto trambusto…
La corsa verticale di Alex s’interruppe solo a destinazione. Giunti in prossimità dell’ultimo piano della base, ospitante sia i laboratori che gli uffici della direzione, Mercer sfondò le ante chiuse con una medesima spallata e ci aprì la strada sull’asettico corridoio avvolto dalle tenebre.
Zeus si fermò sul pianerottolo guardandosi attorno e riprendendo fiato. Mi affiancai a lui richiamano le ali nella schiena e scrutando l’orizzonte con l’ausilio della vista termica.
-Dove sono tutti?- mi chiese lui in un sussurro, non individuando come me alcuna forma di vita, umana o mutante, nell’arco di cento metri dalla nostra attuale posizione.
Non seppi che rispondere.
Alex interpretò male il mio silenzio: mosse un passo avanti nel corridoio tramutando tutto il braccio in una grossa lama nera pece. –‘Sta pronta- disse, facendomi rabbrividire per quanto era fredda la sua voce in quel momento. –Stanno arrivando- aggiunse.
-Chi?- mi allarmai non poco.
-I tuoi amici- spiegò senza mezzi termini, e avanzò ancora nell’oscurità.
Sobbalzai, bianca in volto. –E hai intenzione di ucciderli?!- eruppi andandogli incontro.
-Se sarà necessario…- assentì freddo come il ghiaccio dei suoi occhi che, appena tentai di fermarlo, mi fulminarono come un tuono a ciel sereno.
-Aspett…!!-.
-‘Sta pronta- ripeté più duro della roccia, interrompendomi.
Lasciando che avanzasse per conto suo, mi guardai attorno con aria circospetta e spaventata.
Se ricordavo bene, ad attenderci avremmo dovuto trovare tanti Angeli arrabbiati e armati fino ai denti da far invidia ad una mischia di anarchici incazzati contro il governo. Invece, tutto ciò che di vivo c’era in quel corridoio eravamo io ed Alex, che tanto “vivi” non potevamo nemmeno definirci.
Ben presto persi del tutto di vista il mio compagno che improvvisamente sembrava essersi volatilizzato nel nulla. Allungai più volte la mia attenzione qua e là, ma era come se la mia stessa capacità di visione termica, in grado di riconoscere Alex anche attraverso i muri, fosse stata sabotata. D’un tratto avevo perso il suo profumo, smarrito la sua scia contaminata.
Ero sola.
Bella merda… pensai con leggera agitazione.
Ebbi paura di allertare qualcuno di troppo se avessi gridato il suo nome, nel vano tentativo di riallacciare i contatti.
Come al solito fa di testa sua! IDIOTA! Dovevamo restare uniti! Imprecai.
Senza ripetermelo due volte, avanzai spedita nel corridoio che sapevo conduceva direttamente all’ufficio di Lewis Martin. Ma come era successo alla scia di Alex, anche quella puzza malvagia di Arcangelo che apparteneva al mio ex-capo era scomparsa dalla mia portata.
Era strano pensare che in quegli uffici non avesse camminato nessuno per così tanto tempo perché non si lasciassero tracce. Cominciai ad insospettirmi già da subito, quando un curioso bagliore catturò la mia attenzione sulla destra.
Purtroppo mi spostai troppo lentamente, perché il grosso corpo contundente che mi scagliò contro, duro come l’acciaio, mi colpì in pieno fianco frantumandomi una decina di costole.
Finii spiattellata contro la parete opposta del corridoio e quasi vomitai le mie stesse budella mentre, a poco a poco, il tessuto interno di muscoli ed ossa si rimontava come i mattoncini del lego. Tossicchiai, premendo la guancia al muro e accorgendomi di avere la spina dorsale accartocciata in una posa innaturale. Udii dei passi, poi qualcuno alle mie spalle mi afferrò per i capelli con una presa salda di una grande mano.
Il suo tocco, che avevo assaggiato più volte sulla pelle, era inconfondibile: Emmett.
-Ciao, stronzetta- mi ringhiò in faccia quando mi ebbe sollevata alla sua altezza. I miei piedi toccavano terra, le sue grandi ali nere erano spiegate dietro le scapole e mi minacciavano coi loro artigli affilati.
All’interno del mio corpo continuava il riassestamento delle ossa che, conoscendomi, avrebbe impiegato il tempo necessario perché Emmett mi facesse un culo tanto.

















Perdonate il micro capitolo, ma di questi tempi è un miracolo se trovo tempo, modo e coraggio di scrivere! XD Ho sospeso tanto di quei lavori che neppure immaginate. Da una parte sono troppo fomentata all’idea di scrivere una long fic a più mani con goku94 su Dante’s Inferno, l’esclusiva ps3 e xbox360 versione rivisitata della nostra amata/odiata Divina Commedia! XD Senza contare la one che ho già postato... <.<
Dall’altra, invece, sono schiacciata dalla responsabilità di ben due commissioni per quanto riguarda AC! XD
Tra tutto questo vorrei aggiungere anche lo studio, il lavoro di recupero… vi ho mai accennato al mio cambio d’indirizzo? No? Ah, bene! XD In sintesi ho mollato il classico e cercato rifugio nell’artistico <.< e per questo i miei ancora mi odiano…
Vabbuò!
A presto! ^O^

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Capitolo 29
*** Capitolo 29° - Polpetta al sugo ***


Capitolo 29° - Polpetta al sugo

Mi portai le mani alla gola e le posai sopra le sue, nell’infantile tentativo di graffiarlo e sfuggire alla sua presa. Cosa vana che, piuttosto, fece sogghignare Emmett malignamente che, nel gesto di stringere più forte, mi tolse il fiato di cui non avevo poi gran bisogno per vivere. Eppure il mio viso aveva assunto un colorito davvero pallido, ma non perché mi mancasse il respiro o perché il sangue avesse interrotto forzatamente il suo ciclo all’altezza della carotide. No, affatto. Ero pallida perché avevo paura. Paura di cosa quell’uomo affogato nella sua stessa irascibilità aveva in mente di fare di me. Stavo per diventare carne da macello. Sul menù era già scritto “polpetta al sugo”.

«E per sugo… sapete cosa intendo, vero?»

Sgranai gli occhi, serrai i denti, conciai a calciare forsennata.
Ero terrorizzata dall’espressione soddisfatta e piena di goduria che vedevo disegnarglisi in volto con linee più marcate ad ogni secondo che trascorrevo in quella posa. Agonizzante come può esserlo un tonno nella rete dei pescatori, e facile preda della disperazione, persi ogni cognizione logica sia della parte umana di me che di quella mutata. In conclusione, ero troppo agitata per poter anche solo sferrare un attacco con un esito a mio favore.
Sapevo bene quanto Emmett Word fosse sempre stato più forte di me. Avevo chiari i ricordi degli addestramenti nella palestra, ma quello a farmi rabbrividire erano le immagini di quando l’avevo visto all’opera coi cacciatori di terra sull’isola di Manhattan. Dio, quell’uomo (se tale poteva definirsi) era la furia fatta persona.
E lì mi sorse spontanea più di una domanda: in cima alla lista c’era il perché Emmett fosse stato mandato da solo ad affrontare sia me che Alex (il quale, cazzo, si defilava come al solito nei momenti meno opportuni!!!).
In secondo luogo mi chiesi se io, Angel 1-9-2 predestinata ad abbattere Alex Mercer, sarei mai stata capace di trovare in me la forza immagazzinata allo scopo di abbattere Zeus e sfogarla piuttosto su un compatriota.
In fine, il dilaniante dubbio che fosse tutta una trappola cominciava a raschiarmi con le unghie la parete dello stomaco.  
Insomma, le cose si mettevano piuttosto male.
L’unico modo per evitare uno scontro diretto con chi sapevo essere dieci volte il mio peso e la mia forza (soprattutto così imbottito di collera) era scappare.

«Diciamola tutta: il piano era saltato. Alex era improvvisamente scomparso, di mio padre o i suoi cacciatori nemmeno l’ombra, senza contare il fatto che i laboratori e gli uffici della base erano silenziosi come cimiteri. C’era da preoccuparsi sul serio, e non solo perché Emmett stava giusto per giocare a shangai con le mie ossa. Cos’altro avrei potuto fare? Cosa avreste fatto voi?! Personalmente tenevo molto al mio culo… all’epoca.»

Peccato che allontanarsi di lì diventava altrettanto difficoltoso quanto prendere e fare il mazzo tanto al mio nuovo nemico.
-Dovresti sapere che è inutile agitarsi tanto- sghignazzò Emmett soffiandomi in faccia il suo alito freddo come una tempesta siberiana, a contrasto con le sue dita bollenti strette attorno al mio collo.
-Emmett… ti prego… lasciami! Lasciami spiegare!- biascicai con una voce che non riconobbi mia.
Il ragazzo mi sbatté alla parete oltre le mie spalle senza mai lasciare la presa. -Sei una sfottuta traditrice, Emily, non c’è nulla da spiegare! Ed io non te la farò passare liscia, costi quel che costi!- digrignò sprezzante a tanto così dal mio volto.
Perché adesso parla di costi?! Sono sicura che il settore pagherebbe invece di comprare qualcuno che si sbarazzi di me! Il lavaggio del cervello non l’hanno ancora scoperto, quindi, anche se volessero non tornerei mai a lavorare con gli Angeli! Quello che so basta e avanza per avere ragione ad ammazzare pure te, stronzo! Pensai fissandolo negli occhi, per quel che mi fu possibile.
All’improvviso avevo ritrovato il furore smarrito nel primo impatto. A sostenere i miei pensieri, i miei ideali c’era il ricordo di due dolorosi anni trascorsi nella convivenza con quest’essere. Forse avrei potuto pareggiare i conti, una volta per tutte, con la sua testa calda. Forse avrei potuto finalmente mostrargli di cosa sono fatta, mi dissi, e dargli magari un assaggio dell’Emily Walker che, se avesse voluto, avrebbe abbattuto il Blacklight con una mano sola!
Fu per me un dolore atroce sentire le ali venire dalla mia schiena e spingere contro la parete dietro di me, nel riuscito tentativo di portarmi in avanti quel tanto che bastò per finire addosso ad Emmett e scaraventarlo dal lato opposto del corridoio.
Lo schianto che produsse il suo corpo sbrindellò l’intera parete, che gli crollò addosso assieme ad una porta vetrata e dei frammenti del soffitto. I detriti lo ricoprirono lasciandomi il tempo necessario di tornare coi piedi per terra. Mi massaggiai il collo tirandomi dritta a poco a poco, senza mai distogliere la mia attenzione dal cumulo di macerie sotto al quale era “intrappolato” il mio avversario.
Spero che Lucy mi perdoni per quello che sto per fare… gemetti stringendomi il polso destro, e contemporaneamente tramutai la mano negli artigli che avevo visto usare più volte anche a Mercer. Dopodiché affondai il pugno nel pavimento del corridoio e sentii la mia essenza mescolarsi alla terra sotto ai miei piedi. Diedi lei una direzione precisa, portandola verso i detriti che schiacciavano l’Angel 1-9-1, e chinai il capo. Preferii non guardare quando una dozzina di spuntoni risalirono dal suolo e si conficcarono nelle macerie, spaccando oltremodo pavimento, pareti e soffitto.
Se un tempo sotto quelle macerie c’era stato il mio nemico, ora conficcati a quegli spuntoni che io stessa avevo evocato, non c’erano altro che blocchi di cemento armato.  
È scappato. Sgranai gli occhi. Quel maledetto figlio di puttana è scappato! Mi ripetei con più convinzione, constatando la sua sparizione con l’ausilio della vista termica.
-E ancora una volta, sbagli-.
La calda voce di Emmett alle mie spalle mi irrigidì all’improvviso. Il signor Word si era rigenerato dietro di me da una piccola pozza scura, strisciata dal cumulo di macerie a sotto le mie suole senza che me n’accorgessi. Un potere, quello, che non avevo mai visto in nessun Angelo prima di allora.
Feci per voltarmi, ma il ragazzo fu più veloce di me e mi afferrò le ali con entrambe le mani, spezzandole dov’erano più fragili, ovvero alle giunture, con un colpo secco.
Il dolore divenne atroce tutt’a un tratto e proprio non riuscii a trattenere un grido.
-Ti piacciono queste nuove abilità, Emily?!- mi ringhiò contro vedendomi inginocchiarmi ai suoi piedi. Mi afferrò per i capelli tirandomi indietro la testa, e allo stesso tempo affondò con violenza il tallone destro nella mia spina dorsale, rompendola. -È un vero peccato che tu ci abbia abbandonati prima di poterle ricevere- si beffò chinandosi alla mia altezza e costringendomi ad avvicinare il volto al suo. La sua mano tra i miei capelli tramutò in cinque affilati artigli che mi aprirono altrettanti tagli sulla fronte e sulla nuca. Il mio stesso sangue mi traversò la faccia e bagnò la schiena prima che potessi reagire in qualsiasi modo. Chiusi gli occhi, ma la mia linfa vitale m’inumidì le palpebre, rendendole appiccicose lo stesso.
Emmett, non riscontrando in me alcuna reazione, mi sollevò nuovamente da terra e con una forza disumana mi gettò contro una parete sana. Questa mi crollò addosso nella medesima maniera in cui aveva rinchiuso lui poco prima, con la sola differenza che la metà superiore del mio corpo restò esposta. Nel frattempo i tagli superficiali sulla nuca e sulla fronte si erano rimarginati e la spina dorsale scricchiolava macabramente.
Quando riuscii a guardare nella sua direzione, Emmett era seduto sui talloni a pochi passi da me, coi gomiti poggiati sulle ginocchia e gli artigli (sì, esatto, proprio quelli di Alex) che sfioravano il pavimento, grattandolo.
-Chi… chi ti ha dato questi poteri?- chiesi flebilmente, tossendo sangue subito dopo.
Emmett si strinse nelle spalle con naturalezza. –Un certo Bradley… dottor Bradlay Ragland. Sembra faccia parte del pacchetto assieme alla sorella di Mercer, che la squadra speciale ha portato alla base qualche mese fa- si beffò con una certa ironia. -Ti ricordi, no? L’arma segreta- aggiunse facendo l’occhiolino, sorridente.
Quelle parole risvegliarono in me i ricordi di poche ore prima dell’attacco alla base, quando Alex, Max, mio padre ed io ci stavamo ancora preparando ad attraversare l’Hudson…

Il fiume che circonda l’isola è una macchia densa e scura. L’orizzonte si confonde nei fumi e nelle macerie dei palazzi abbandonati di New York, vuota di ogni forma di vita. Le strade sono deserte e silenziose, una brezza invernale solleva le polveri di sangue secco. I teschi di bestie mostruose riposano sui marciapiedi, semafori spenti sono crollati nell’asfalto e scompaiono nelle nubi violastre di virus. Sulle coste nord della sponda opposta, l’unico edificio luminoso è la Base Phoenix del Settore Angels. Tutto il resto è avvolto da un cielo nero senza stelle.
È questa la vista meravigliosa che si apre davanti ai miei occhi quando raggiungo Alex sul tetto dell’edificio che ospita l’ospedale di Max. I profughi sono nelle loro capanne di latta già da ore; il nostro arrivo al “quartier generale” non ha minimamente disturbato il loro sonno stressato e costantemente minacciato dall’inalazione di qualche fatale gas che potrebbe trasformarli in quelle orrende creature alle quali fanno resistenza. Posso quasi sentire i loro respiri mescolarsi all’aria che io stessa getto nei polmoni, come se ne avessi bisogno. In realtà, il mostro che sono non avrebbe bisogno né di mangiare, né di bere, né di respirare. Se faccio tutto questo è solo per sentirmi umana quel tanto che basta per portare il nome che hanno scelto mia madre e mio padre per me.
Mercer fissa l’orizzonte dinnanzi ai suoi occhi, azzurri a tal punto da sembrarmi grigi. È in piedi a pochi passi ancora da me, e non distoglie la sua attenzione della Base Phoenix nemmeno un secondo. So bene che si è accorto di me. Eppure non dice o fa nulla per dimostrarmi quanto in realtà sia infastidito dalla mia presenza.
Mi avvicino ancora, se allungo un braccio posso quasi toccarlo all’altezza del gomito. Vorrei che si voltasse, ho bisogno di parlargli, di ringraziarlo per avermi portata dalla sua e dalla parte di mio padre, ma prima che posso solo saggiare la pelle del suo giubbetto sotto i polpastrelli, è lui a guardare nella  mia direzione.
Mi astengo dal sobbalzare per lo stupore, non aspettandomi di vedermi così trafitta dai suoi occhi celesti.
Ci fissiamo allungo, l’uno attendendo l’intervento dell’altra. La nostra attesa sembra durare in eterno, fin quando Alex non torna a fissare la sponda opposta di New York. Nelle sue pupille vedo specchiarsi le luci del mio ex quartier generale.
-Perché lo fai?- chiedo a tradimento.
Mercer inarca un sopracciglio, sorpreso dalla mia domanda.
-Cosa vuoi dimostrare ancora?- insisto. –La tua guerra è finita. Potresti andartene se vuoi, però non lo fai. Perché?- spiego meglio.
-Hanno preso mia sorella- risponde lui con naturalezza, -e un caro amico. Finché non li porto vivi fuori di lì è ancora la mia guerra- sottolinea impassibile.

Tornai in me quando Emmett stava per affermarmi di nuovo, pronto a spezzarmi definitivamente in pezzi come uno stuzzicadenti, ma un improvviso tuono di arma da fuoco mi rimbombò nelle orecchie.
Chiusi gli occhi giusto un istante, e, quando li riaprii, Emmett era piegato a terra su un ginocchio, voltato verso una figura avvolta dall’oscurità.
-Angel 1-9-1, ti ordino di fermarti! Ora!-.
Matt?!
Seguii lo sguardo dell’Angelo che si era posato sull’esile (in confronto a lui) figura di Matt, il mio coordinatore, apparso tutto trafelato e col fiato grosso sul pianerottolo delle scale lì accanto.
-Sparisci, moccioso! È una questione personale!- ruggì Emmett estraendosi il proiettile dalla spalle e alzandosi in piedi. Lanciò il bussolotto che andò a conficcarsi su un’anta dell’ascensore a pochi passi dal ragazzo.
-Non fare il coglione, Emmett; sai bene che Lewis la vuole viva!- strillò il mio coordinatore avvicinandosi all’Angelo con l’arma spianata.
-Fottiti! Io non prendo ordini né da te né da quel figlio di puttana!- ringhiò Emmett in tutta risposta.
Nel frattempo, alle spalle del mio ex compagno di Clan distratto da Matt sempre più vicino a noi, ero riuscita a sollevarmi su un gomito e liberarmi dalle macerie che mi schiacciavano. Una volta in piedi indietreggiai, avendo via libera per un buon pezzo.
Emmett si accorse troppo tardi della mia fuga imminente, quando Matt gli piantò in petto altri cinque colpi.
-Emily, scappa!- m’incitò il mio coordinatore, scaricando sul suo bersaglio tutto il caricatore.
Non indugiai un istante.
Aggiustandomi le ali in una frazione di secondo spiccai un balzo e mi librai in volo nel corridoio.
Emmett assorbì i proiettili nel proprio corpo e se ne liberò in pochi secondi, trasfigurandoli in appuntite puntine di metallo, che poi espulse addosso al ragazzo.
La pistola gli sfuggì di mano e Matt crollò a terra, in una pozza di sangue, bucato come una groviera.

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Capitolo 30
*** Capitolo 30° - Gemelli ***


Capitolo 30° - Gemelli

Volai allungo senza mai guardarmi indietro, fin quando non ebbi la certezza di aver messo almeno un chilometro tra me ed Emmett, pregando che il suo infallibile fiuto da segugio mi lasciasse riprendere fiato.
Non sapevo cosa sarebbe successo a Matt o in che modo sarebbe fuggito illeso dalla collera di Emmett, pur avendo una mezza idea. L’unica certezza era il penetrante puzzo di sangue umano che mi trascinavo dietro già da un pezzo, assieme alla terribile consapevolezza che non era mio.
Se Emmett era davvero in possesso di nuovi poteri come da lui detto, potevo considerarmi fortunata. Sfuggita o meno a morte certa, il mio ruolo di regina sulla scacchiera di mio padre non sarebbe certo cambiato.
Finalmente raggiunsi la destinazione del mio lungo viaggio.

«Se Alex aveva ricevuto il compito di mietere teste a destra e a sinistra, il mio colpiva direttamente alla radice: interrompere il processo di contaminazione dei corpi. In parole semplici, avrei dovuto mettere a soqquadro i laboratori di genetica e non lasciare in vita niente e nessuno all’interno di quelle vasche. Mark era stato chiaro, ma molto probabilmente era a conoscenza del fatto che non ne sarei mai stata capace fin dall’inizio.»

Sbattei le ali e, non appena fui con i piedi per terra, mi guardai attorno rapita da quel luogo.
Il laboratorio era esattamente come lo ricordavo dall’ultima volta che ero stata in uno di quelle gigantesche vasche, che si allungano dal pavimento al soffitto, riempite di un brillante liquido azzurro il cui chiarore, unica fonte di luce poiché la corrente era saltata in tutto lo stabile, proiettava la mia ombra sul pavimento.
Mi avvicinai ad uno dei contenitori e ne sfiorai il vetro spesso con due dita, mentre la mia attenzione cadeva sui corpi imprigionati in ciascuno di essi: uomini e donne galleggiavano in posizione fetale, dormienti, con una maschera davanti alla bocca e centinaia di tubicini collegati alle vene principali, dalla gola ai polsi.
Contai una dozzina di corpi sotto sperimentazione, ma i miei occhi finirono attratti su uno di loro in particolare, racchiuso in una vasca rossa, a differenza delle altre.
Mi allungai in quella direzione, ma non servì fare un passo in più perché riconoscessi il suo ospite. Mi sentii venir meno la forza nelle gambe, così caddi in ginocchio ai piedi della vasca, al cui interno, sommerso da un liquido color porpora, galleggiava nudo il capitano Turner.
Mi s’inumidirono gli occhi. -Cole…- singhiozzai posando entrambe le mani sul vetro, al quale mi aggrappai poi con le unghie. –Cole!- strillai in preda alle lacrime. –Cole! Cole!- gemetti premendo la fronte sulla superficie della vasca. –Cole, ti prego, svegliati!-.
Quel liquido rosso che lo avvolgeva doveva trattarsi di una sorta di processo di rigenerazione. Se Lewis conduceva esperimenti su di lui, voleva dire che l’uomo che amavo era ancora vivo. Non avrei mai trovato il coraggio di ucciderlo come Mark mi aveva detto di fare con le altre cavie. Non Cole. Il solo pensiero mi rigava le guance di lacrime disperate, mi riempiva la gola di urla disumane, chissà se di gioia o paura.
-Cole… Cole, svegliati…- tirai su col naso, provai a chiudere gli occhi, nel vano tentativo di trasmettergli i miei pensieri, se mai la nostra unione notti prima ci aveva concesso quel potere.

«Ero stata stupida. Avrei dovuto capire che si trattava di una trappola, e che l’uomo dentro quella vasca, non era lo stesso con cui avevo fatto l’amore.»

-A questo punto, penso sia inutile dire che non può sentirti-.
Quella voce era entrata con prepotenza nella mia testa e per un breve istante mi sentii gelare le ossa.
Lewis Martin…
Staccai la fronte dal vetro e guardai l’immagine dell’uomo riflessa sulla superficie della vasca che conteneva Cole.
Lewis era immobile sull’ingresso buio della sala, illuminato per metà dalla lucentezza di una vasca che gli era accanto. L’altra parte di lui sprofondava nell’oscurità del laboratorio. Indossava dei pantaloni scuri, una camicia bianca con le maniche arrotolate fino ai gomiti, ma per quanto avevo gli occhi annebbiati dalle lacrime, non seppi distinguere il colore della sua cravatta. Continuai a dargli le spalle anche mentre, a passi lenti e misurati, mi veniva incontro. Le braccia conserte, il portamento fiero, gli occhiali da lettura infilati tra i capelli d’argento tirati indietro. Sembrava appena uscito dalla pausa caffè. Era tranquillo a tal punto da mettermi ansia, piuttosto che infondermi altrettanto.  
-Sapevo che ti avrei trovata qui, a piangere sui non-morti-.
-Lui è morto- ringhiai.
-Tu dici?- mi stuzzicò inarcando un sopracciglio.
Attento, stronzo: come la distanza tra noi diminuisce,  l’ora della tua morte si avvicinava. Penso, ma nel frattempo Lewis mi era già accanto. Protese una mano verso di me, ed io in un primo luogo mi scansai fulminea, ma poi Lewis tentò nuovamente di posarmi la mano sulla testa, e, quando glielo lasciai fare, restai esterrefatta di tale gesto.
-Emily, sappiamo tutti e due che non è così che deve andare…- provò a dire, ma lo interruppi col mio veloce gesto di alzarmi da terra e allontanarmi di qualche passo.
-Perché lo tenete di nuovo sott’olio?!- eruppi.
Lewis guardò intensamente prima me, poi si voltò verso il mio Angelo dentro la vasca. –Secondo te? Quando Lucy ed Emmett hanno portato indietro il corpo era ancora… come dire?… ah, sì: vivo- mi scoccò un'occhiata eloquente.
Scossi la testa, scettica, e pallida come la neve. –Non è possibile… io… c’ero quando…-.
-Tutti commettiamo degli sbagli-.
-No…- mi ostinavo a non alzare gli occhi nei suoi, tenendoli bassi, puntati sul pavimento, e attraverso di essi rivivevo i ricordi di quel giorno che Cole mi si era spento tra le braccia. Sentivo ancora i brividi sulla pelle, il dolore nel cuore, la morsa allo stomaco, le palpebre umide e il fiato mancare di quella volta… Non poteva davvero essere. Ero fin troppo sicura di ciò che avevo provato, fin troppo sicura di aver sentito il suo profumo dissolversi, il suo calore disperdersi, la sua pelle irrigidirsi, l’anima lasciare il suo corpo. 
-Stai mentendo…- ipotizzai flebile. –Stai mentendo!- ripetei verso di lui, trovando finalmente il coraggio di “ucciderlo” con lo sguardo.
Lewis si tolse gli occhiali dalla testa e pulì le lenti con un angolo della camicia.
Ora che ci facevo caso, avendolo più vicino, mi sembrò parecchio ringiovanito rispetto a come lo ricordavo. Le borse sotto gli occhi erano scomparse, e così le rughe sia sul volto che sulle mani. Potevo dargli quasi una ventina d’anni di meno.
Probabilmente si accorse della mia profonda esitazione, perciò mi anticipò: -Non fare quella faccia- ridacchiò.
-Che ti è successo?- chiesi in un sussurro.
-Sono cambiate molte cose da quando non sei più tornata, Emily- rispose seriamente ripiegando e rimettendo gli occhiali al loro posto nel taschino della camicia.
-Spiegati meglio- sibilai pungente.
Lewis tacque, e per un istante pensai che non volesse rispondermi con le buone maniere. Trasformai il braccio in un’affilata nera e feci per spiccare un balzo nella sua direzione.
-Emily, ferma- mi ordinò una seconda voce maschile, e calma, altrettanto familiare.
Io, immobile coi muscoli tesi e i denti serrati, come se quel qualcuno mi avesse scattato e rimpiazzata con una fotografia, in silenzio, attesi.
Dalle ombre del laboratorio emerse la composta figura di mio padre affiancata da due Cacciatori Volanti, e fu allora che iniziai a capire.
Mark Walker si affiancò al mio nemico senza staccare gli occhi dai miei, aspettandosi chissà quale reazione da me, che invece insistevo col puntare la lama contro Martin.
-Emily, basta, è finita- disse il mio parente.
Il mio cuore perse un colpo, e d’un tratto la forza nelle mie gambe si dimezzò. –Cosa…?-.
Guardarli l’uno così vicino all’altro mi procurò una fitta dolorosa all’altezza dello stomaco, costringendomi ad abbassare la guardia. Restai allungo con la bocca schiusa e il palato secco. Sulla gola mi erano e continuavano a morire centinaia di parole che avrei tanto voluto dire, ma che in quella circostanza si rivelavano inopportune. Continuavo a guardare prima uno poi l’altro, senza riuscire quasi a distinguerli.
Lewis Martin e mio padre, Mark Andrius Walker, erano gemelli.
Faticavo a credere di non star solo facendo un brutto sogno.
-Papà… questo cosa significa?- mormorai con voce stridula e le lacrime agli occhi.
Mark mi venne incontro fino a potermi abbracciare, ed io restituii la forma originale al mio braccio, con l’involontaria intenzione di non ferirlo mentre lo fece. Richiusi le palpebre lentamente, lasciandomi avvolgere e stringendomi a lui a mia volta, con disperazione. Cominciai a piangere soffocando i singhiozzi sulla sua camicia, che portava indosso esattamente come l’aveva Lewis, poco distante da noi.
Forse la guerra era finita, senza che ci fosse stato bisogno di combatterla.
Dico…
Forse.

Sgrano gli occhi, interdetta. –Tua sorella?-.
Alex annuisce. -È successo il giorno dopo che mi sono infiltrato da voi. Pensavano che se avessero approfittato di me nella base, loro avrebbero avuto campo libero nel mio territorio. Hanno pensato bene, ma è stato un grosso sbaglio…- dice serrando i pugni lungo i fianchi.
-Io… io non potevo immaginare che…- esito. –Se avessi saputo, Alex, non… non avrei cercato di fermarti-.
-No, è come dici tu- m’interrompe bruscamente. –Non potevi saperlo-.
Chino il capo affranta, sconfitta dalle sue parole. –In tutta la mia vita mi è stata negata la verità, e ciò mi ha reso incapace di agire. Ora che conosco chi mi ha fatto questo, ora che so il nome e posso guardare in faccia le persone che hanno contribuito a questo…- dico alludendo al macabro spettacolo che c’è da quassù, -ora posso andare a riscuotere con la coscienza a posto. Ora quella gente che credevo mia nemica è il mio alleato più forte. Niente potrà impedirci di abbattere l’ingiustizia e far scontare la pena a chi ha osato mettersi contro la sua stessa nazione, per mero guadagno - aggiungo guardandolo, ed Alex si volta verso di me.
-Parli proprio come tuo padre- sorride lui.
Aggrotto la fronte, perplessa.
-Quando mi ha raccontato di sé, la prima volta che ci siamo incontrati, era così sicuro di quello che diceva che non ha avuto bisogno di ripetermelo. Ha parlato come parla un grande leader, un uomo che nel cuore ha solo la propria anima e l’amore per gli altri. Ho creduto davvero in lui, fin dall’inizio, senza esitazione. Vorrei non dovermi ricredere mai-.
Gli sorrido a mia volta. –Non succederà. Mio padre è esattamente l’uomo che pensi che sia-.
-Lo specchio di sua figlia- aggiunge con ironia.
Mi stringo nelle spalle. –Può darsi-.
Insieme torniamo a fissare l’orizzonte, oltre i grattacieli distrutti di New York City, sulla sponda opposta dell’Hudson, proprio là dove si annida il nostro più grande e comune nemico.

Mark ed io restammo abbracciati una dozzina di minuti, ma tutto sembrò spezzarsi come per magia quando feci una domanda precisa.
-Papà, dov’è Alex?- sussurrai socchiudendo un occhio solamente, così da potermi accorgere del sorriso malizioso e soddisfatto comparso sul volto di Lewis, alle sue spalle.
Mio padre s’irrigidì sotto il mio abbraccio e si prese del tempo per rispondere.
Troppo tempo.
Mi scansai da lui di colpo e menzionai la stessa domanda, rivolgendomi però ad entrambi.
-Emily, ne parliamo più tardi. Adesso vieni con me, andiamo a riposare- disse Mark porgendomi la mano.
Mossi un passo indietro, di getto. –Dimmi dov’è, dimmi che sta bene- insistei, e nel frattempo scoccai un’occhiata a Lewis, dietro di lui.
Aggrottai la fronte accorgendomi ancora una volta della sua esitazione. –Papà- lo richiamai.
Martin gli si affiancò e fece per alzare parola, ma lo azzittì nel semplice gesto di sprigionare le ali dalla mia schiena. –‘Sta zitto, tu!- strillai.
-Emily, calmati- s’intromise mio padre con una grane autorità nella voce.
Lo fulminai con lo sguardo sollevandomi in aria. –Non avvicinarti!- gli ruggii contro.
-Emily, vieni giù, ORA!- mi ordinò.
-DIMMELO! LUI DOV’È?!- domandai scavalcando il suo tono.
Un Cacciatore Volante alle sue spalle ringhiò mostrando i denti e Mark fu per replicare, ma Martin precedette entrambi.
-La palestra, secondo piano, ti ricordi, vero?- disse.
Pronunciate quelle parole mi diedi una spinta con entrambe le ali e volai fuori dal laboratorio.
Mark si voltò verso di lui, scettico, ma Lewis sembrava tranquillo.
-Lasciala andare- mormorò Martin. –Arriverà giusto in tempo per assistere al gran finale- arrise malignamente.
Mark rilassò le spalle e andò a carezzare il muso di uno dei due Cacciatori Volanti. –Potevi giocare anche meno coi suoi sentimenti- sibilò scoccando un’occhiataccia al gemello.
Questi si avviò per primo fuori dal laboratorio, seguito a ruota dal fratello e dai suoi cuccioli alati.

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Capitolo 31
*** Capitolo 31° - Nel vortice ***


Capitolo 31° - Nel vortice

Ero troppo sconvolta anche solo per fermarmi a riflettere su cosa stessi facendo o cosa avrei fatto. Il piano che non c’è mai stato è definitivamente saltato, pensavo continuando a ripetermi che non c’era più motivo di farsi domande.
Era tempo di agire.
Punto.
In una manciata di secondi traversai mezza base, ripercorrendo i miei e i passi di Alex per arrivare sino all’ultimo piano: mi gettai nella tromba dell’ascensore con le ali strette ai fianchi ad una velocità di caduta che superava i cento, centocinquanta chilometri orari. Le orecchie mi fischiavano, i pugni stretti, la mascella serrata e gli occhi dischiusi a causa della corrente d’aria che mi si schiaffava sulla faccia con tanta violenza. Arrivata all’ascensore bloccato, lo trapassai per lo stesso foro che Alex aveva fatto all’andata e sbattei le ali un paio di volte per darmi maggior spinta. Raggiunto il pian terreno, virai spalancando e in fine ripiegando le ali oltre le mie spalle, mentre le gambe si avviavano da sole in una corsa folle verso l’ingresso della palestra, dalla quale ero certa venissero i rombi di proiettili, le grida, le esplosioni e gli schianti poderosi.
Saggiai il peso delle pistole gemelle estraendole dai foderi, dopodiché non indugiai un istante prima di buttare giù l’ingresso della palestra.
Il primo Angelo che si parò sul mio cammino tentando di fermarmi, finì al suolo con due pallottole nella fronte. Spalancai nuovamente le ali e mi librai in aria per schivare l’affondo di un secondo Angelo che, dopo averlo passato da parte a parte con gli artigli, schiaffai alla parete più vicina in centro schizzi gravitazionali di sangue.
Nella confusione più assoluta e con l’adrenalina a mille, evitai una scarica di una mitraglietta torcendomi sulla spina dorsale. Tornando dritta mi accorsi che nella palestra c’erano anche soldati militari in tenuta nera e grigia, oltre ai normali visitatori della base.
Portando avanti le canne delle pistole, mi bastarono pochi colpi precisissimi per eliminare un’intera fazione di uomini a piedi. Librandomi più in alto, quasi a toccare il soffitto della palestra, vidi Alex Mercer intrappolato in un angolo della sala, intento a fronteggiarsi con una decina di Angeli che gli tenevano testa senza troppa difficoltà, sostenuti dalle armi da fuoco di altri nuclei militari sparsi qua e là.
Zeus schivò un colpo di bazooka che successivamente afferrò con una mano e, ruotando su se stesso come una trottola, scagliò alla fonte. Un gruppo di uomini con fucili di precisione si erano appostati alle finestre della “sala comandi” dove un tempo, durante gli addestramenti, sostavano Martin e i coordinatori dei robot da allenamento. Una dozzina di mirini rossi inseguivano la figura di Mercer in ogni suo più piccolo movimento, ma Alex, rivestito della sua impenetrabile armatura, riusciva lo stesso ad ignorare un’offensiva di così poco conto. Quello che metteva davvero Zeus in difficoltà erano i due Capitani di Squadriglia assieme ai membri mischiati del Clan 130esimo e 180esimo. Riconobbi i colori e i gradi sulle tenute e sui caschi, cominciando a temere il peggio fin da subito.
Dimenticando lo spettacolo di sdoppiamento al quale avevo assistito poco prima, mi scagliai in planata verso il fulcro del combattimento, tra i canti infernali delle armi da fuoco e il suono delle ossa frantumate che Alex strattonava con le proprie mani.
Quando il ragazzo si accorse di come avevo preso parte allo scontro, era già da un po’ che mietevo Angeli. L’una concentrata nella propria battaglia privata, senza mai voltarsi verso quella dell’altro. Così distanti, ma allo stesso tempo così vicini come gli estremi di una lunga catena che sta per congiungersi solo grazie ad un anello mancante.
Ma a noi bastava essere temuti per quel che realmente eravamo sempre stati classificati.
Due perfette macchine da guerra: come il cielo e la terra, l’aria e l’acqua, il fuoco e il vento. Era un vortice di sangue il cui unico scopo era portarci al compimento di un qualcosa più grande di noi: l’odio, il rancore, la vendetta. Questi tre sentimenti ci stavano lentamente consumando, offuscando la vista.
Ma per me, in un certo senso, era diverso.
Combattendo quelli che un tempo erano stati miei amici, alimentandomi del loro sangue, piantando pallottole nei loro corpi, frantumando le loro ossa… mi sentivo un’Emily che non ero mai stata e che forse, prima, non avrei mai voluto essere. Quegli Angeli mi riconoscevano, mi chiamavano per nome, mi imploravano di tornare dalla loro parte. Erano parole vuote, prive di alcun significato che già non conoscessi.
In poche parole, ignorando tutto ciò che mi circondava, mi piaceva pensare che stessi seguendo il mio istinto.
Dopo interminabili minuti di lotta sfrenata, riuscii a stanziare da me i restanti avversari per potermi avvicinare a Zeus che, affondando gli artigli nel terreno, scatenò l’Apocalisse tra un gruppo di militari, che finirono infilzati come spiedini.
-Alla buon ora- ruggì venendomi incontro.
Meglio tardi che mai- ribattei senza indietreggiare.
Alex si scoprì completamente della sua armatura. –Si può sapere dove sei stata?!-.
-Stavo per farti la stessa domanda!-.
-Era una trappola, hanno aspettato che ci dividessimo!- strillò lui, sventando un nuovo attacco da parte di Angelo, nel petto del quale Alex piantò gli artigli di entrambe le mani, per poi dividerlo in due parti uguali.
Cercai di nascondere i brividi quando Zeus si ripulì le dita delle carni di quel poveretto. –Dov’è tuo padre?- domandò Alex, nervoso.
Tremai.
-Abbiamo un problema…- mormorai.
Il ragazzo mi fulminò con un’occhiataccia, spostandosi alle mie spalle prima che la scarica di proiettili potesse colpirmi. Si protesse dai colpi dietro la grossa lama che evocò dal suo braccio destro.
-Che cosa vuol dire “abbiamo un problema”?!- ringhiò a denti stretti.
Piegandomi sulle ginocchia, spiccai un balzo e uscii dalla traiettoria dei proiettili. A mezz’aria spalancai le ali, dalle quali calò una pioggia di cento punte affilate più di rasoi, che infilzarono l’Angelo con la mitragliatrice come una groviera.
Improvvisamente, dal portellone infondo alla palestra provenne un rombo assordante di moori e due carrarmati si materializzarono dal nulla avvolti in una nube di fumogeno. Al loro seguito contai una dozzina di uomini a piedi, tra i quali due militari con bazooka, cinque con mitragliatrici, tre super-soldati e altri cinque Angeli.
-Emily!-.
Quando mi voltai, vidi Alex saltare e percorrere verticalmente un tratto della parete vicina. Appena fu abbastanza in alto, si diede una spinta sulle gambe, raggiungendomi.
Lo afferrai prontamente per le braccia e, sfruttando la forza gravitazionale come artisti circensi professionisti, lo scagliai contro il carro armato più vicino con il triplo della potenza.
A metà traiettoria Alex tramutò entrambe le mani in due grossi macigni. Successivamente calò sul cofano del primo carro con un possente affondo, facendo esplodere quest’ultimo in un gran botto.
Mercer riemerse dal fumogeno con un salto e atterrò al mio fianco, piegando un ginocchio per attutire il colpo.
-Il secondo è tutto tuo- disse senza guardarmi. Dopodiché prese una scattante rincorsa e si gettò di nuovo nella nube di fumo, dalla quale non tardarono a rinvenire gemiti umani e urla strazianti.
Mi voltai giusto in tempo per vedere la canna del secondo carrarmato puntare dritto su di me. Sgranai gli occhi e mi scansai all’istante, mentre il missilotto, fischiando, mi faceva il pelo ad un’ala e andava ad esplodere sul muro alle mie spalle.
-Vuoi giocare duro, eh?- insinuai a denti stretti.
La canna del carrarmato si spostò nella mia direzione.
-Ti accontento subito!-.
Balzai in aria, spalancai le ali e nell’istante in cui il proiettile venne sparato contro di me, le richiusi attorno ad esso. Piroettai come una pattinatrice sul ghiaccio e allo stesso modo di come Alex era in grado di deviare i colpi di bazooka a suo favore, scoprii di esserne altrettanto capace. Senza rallentare la potenza di fuoco del missilotto, lo indirizzai nuovamente verso la sua fonte.
Il tutto terminò in una colossale esplosione di fumo e fiamme.
Gli scontri successivi furono estenuanti e senza tregua alcuna: nonostante i nemici da abbattere fossero di poco conto, in quanto semplici militari forniti di armi da fuoco, mi ritrovai ben presto con qualche graffietto insanabile e il fiato grosso. La furia che concentrai nella battaglia ai super-soldati si condensò assieme a quella impiegata da Mercer col quale, comparso come per magia al mio fianco, sperimentai una serie strabiliante di mosse a catene che videro entrambi impegnati, davvero, come pattinatori sul ghiaccio. Simili acrobazie non sarei mai stata in grado di eseguirle da sola, in quanto il ruolo di Alex fosse fondamentale nel prendermi per i fianchi e scagliarmi addosso alla guardia geneticamente modificata, per quei danni maggiori che potevo infliggere. Poi i ruoli si invertivano, e Mercer si trovava sospeso a mezz’aria grazie alle mie ali, che accompagnavano entrambi ad un’altezza sufficiente per calare in picchiata sul nemico e frantumargli il cranio con un colpo di tacco del ragazzo. Credo proprio che se avessi avuto una telecamera, avrei ripreso il tutto per poi spedirlo ad una compagnia di artisti circensi. Avremmo fatto invidia ai migliori trampolieri russi nel Mondo.
Finimmo di dare spettacolo solo quando una brutale esplosione di fiamme bollenti ci divise, nel preciso istante in cui stavo per torcere il collo dell’ultimo super-soldato rimasto.  
La nube di fuoco e fumo mi scaraventò nella direzione opposta di Alex, che finì spiattellato su uno dei portelloni ancora integri per accesso alla palestra.
Proteggendomi con le ali, mandai in frantumi la parete alle mie spalle che avrebbe dovuto arrestare il mio viaggetto. Avevo traversato in volo più della metà per lungo della palestra, oltre che perso definitivamente di vista Alex Mercer.
L’inconfondibile suono di armi da fuoco che vengono caricate di colpi mi fece scattare in piedi all’istante. Mi riparai dietro le ali e planai lentamente a terra, preparandomi a ricevere la batosta dei tre Angeli che mi volteggiavano attorno.
-Arrenditi, Emily! Basta, è finita!- disse un uomo, la cui voce dentro al casco di protezione mi tornava lontanamente familiare.
Nonostante fosse la prima volta che mi trovavo davanti quelle facce, loro si rivolgevano a me come se mi conoscessero da una vita.
Forse hanno confuso il mio ruolo in questa faccenda… immaginai. Non hanno saputo che sono stata abbastanza riempita di bugie! Ora, cazzo, facciamo come dico io!
Con quelle parole a lampeggiarmi ad intermittenza nel cervello, mi scagliai contro il primo dei tre soldati volanti, accompagnandolo al suolo con un gran tonfo. Il pavimento della palestra si sgretolò sotto la sua schiena che insistevo nel premere violentemente su di esso, fin quando le ali non gli si staccarono dal resto del corpo e potei sollevarlo per la caviglia, scagliandolo successivamente addosso al secondo Angelo che tentò d’intralciarmi. Questi rotolarono in un angolo della palestra come birilli colpiti dalla palla da bowling, lasciandomi sola con la mia ultima avversaria: una ragazza sulla ventina, bionda, come dedussi dalle ciocche ricce che fuoriuscivano dal suo casco, che doveva essersi infilata un po’ di fretta.
Tramutai entrambe le braccia in minacciosi artigli affilati più di rasoi e le andai incontro a braccia aperte e ali spianate sulla schiena.
-Emily, non…- le parole le morirono in gola. Anzi: nello stomaco.
La forza dell’impatto le contuse qualche costola sull’addome e la spinse addosso ad una delle vetrate anti-proiettili che ospitavano la camera di controllo della palestra.
La ragazza scivolò sul vetro per poi spiaccicarsi al suolo venti metri più in basso, proprio come accade nei cartoni animati.
Tornata nuovamente a terra, scrutai il suo corpo mollemente riverso sul pavimento in una posa innaturale. Il vetro del casco si era frantumato in angolo, e proprio attraverso quel foro riconobbi un volto che avevo visto mezza volta in tutta la mia vita.
-M… Margaret?- balbettai.
-Emily, basta, Dio! Fermati!- strillò qualcuno alle mie spalle, piangendo, togliendosi il casco e sbattendolo a terra.
Sgranai gli occhi, voltandomi.
-Lucy…-.
Poco dopo, quelle due figure ammassate in un angolo della palestra, si sollevarono e mi vennero incontro, tornando a circondarmi.
Una di loro si tolse il casco. –Emily…- disse semplicemente sputando a terra del sangue. –Basta, davvero-.
Due lacrime mi graffiarono le guance. –Harry…- tremai, indietreggiando mentre le braccia tornavano normali. –Ragazzi… cosa…?- ero troppo sconvolta anche solo per mettere insieme una frase con un briciolo di senso sintattico.
-Tu dici “cosa” a noi?- eruppe un ragazzo nuovo del quale, nel corso del tempo, avevo anche dimenticato la voce. Il terzo Angelo si scoprì anch’egli il volto, mostrando piccoli occhi nascosti da un cascata di capelli castani, lisci. –Emily, per cortesia, stai anche delirando?-.
Guardai Philip McGuire con un’espressione del tutto contrariata, oltre che incredula, per la sua presenza lì, precisamente al centro del mio campo visivo.
Improvvisamente capii quanto fosse sempre stato alto il mio livello di stupidità. I numeri, i colori delle loro divise… come avevo fatto a non riconoscerli prima di tentare di colpirli?
-Emily, ti prego, devi ascoltarci:- intervenne Lucy. –Tutto questo è opera di Lewis solo per catturare Mercer. Tu non devi combatterci- spiegò con emozione crescente.
Harry tentò di avvicinarsi, porgendomi la mano, ma prima che potesse pronunciare una sola parola, questa gli morì alla base dello stomaco, dal quale vidi emergere ad un tratto l’enorme punta d’argento di una lama nera.
Mercer, emerso dal fumo alle spalle di Harry, sollevò l’angelo fino a non fargli toccare terra con gli stivali ed estrasse con estrema violenza la lama dalla sua carne. Il sangue che ne venne si riversò sul pavimento come un fiume in piena. Poche frazioni di secondi dopo, anche Harry cadde in ginocchio e poi riverso nella propria linfa.
-HARRY!- strillò Lucy in preda alle convulsioni gettandosi accanto a lui.
Phil schivò di un pelo l’affondo di lama che Mercer tentò per colpirlo e i due intrapresero una lotta all’ultima sangue, nel vero senso del termine.
Lucy mi volse un’occhiata impaurita, con la quale sintetizzava una penosa richiesta di resa, poi tornò ad occuparsi di Harry tentando di fermare l’emorragia del ragazzo.
La battaglia ricominciò a tuonare a pochi passi da me, dove Philip, nostro ex capo-squadriglia, e il mio presunto alleato in guerra si fronteggiavano a suon di artigli ed ossa spezzate, colpendosi con la furia doppia di due bestie dopate ai combattimenti illegali tra cani.
Il terzo portellone di accesso alla palestra si aprì lentamente, e da una luce accecante proveniente dall’esterno emersero due figure seguite da un numeroso contingente di Angeli, ma non solo…
Riconobbi mio padre, accanto a Lewis Martin, dietro al quale apparvero chiaramente I suoi fedeli Cacciatori Volanti. Fecero la loro comparsa anche una decina di squadriglie militari, e intanto la battaglia tra Alex Mercer e il mio ex capo-squadriglia Philip McGuire andava avanti…
Trascorsero diversi minuti, durante i quali ebbi la certezza di non riuscirmi a muovere. Qualsiasi gesto dettasse la mia mente, i miei muscoli si ribellavano gridando che la loro guerra si era estinta già attimi prima. Precisamente quando avevo scoperto di essere la nipote dell’uomo più crudele del pianeta, mio nemico ed unico bersaglio.
Stava succedendo tutto troppo velocemente ed io, con le mie ultime azioni, avevo semplicemente contribuito ad aumentare la velocità con la quale tutta la mia vita mi stava passando davanti agli occhi.
I morti erano tornati alla luce: Phil, Margaret… mi chiedevo come fosse mai possibile, o come, più semplicemente, avesse potuto permetterlo? La natura stava sputando in faccia all’uomo le sue creazioni peggiori allo scopo di porre fine ad una battaglia che, in realtà, non era mai cominciata. Avrei semplicemente voluto un qualche aiuto per completare il puzzle della mia tormentosa vicenda. Sapete, un intervento del pubblico, una telefonata a casa… qualsiasi cosa. Ero disperata. Sarei scoppiata a piangere da un momento all’altra. Era questione di minuti e il mondo da me fino ad allora conosciuto sarebbe esploso proprio come erano saltati in aria quegli stessi carrarmati che avevo distrutto con le mie mani.
Già… le mie mani.
Le stesse mani che avevano mietuto compagni e ferito amici. Quelle mani che avevano ucciso nel nome della libertà, della verità, ma guidato un camion carico di bugie, delle quali si alimentavano.
Sono una mercenaria.
Fu la prima cosa sensata che mi balzò alla testa dopo interminabili secondi di immobilità celebrale. La mia mente si sarebbe dovuta riallacciare alla realtà, fin quando non mi fossi sentita del tutto pronta ad imbracciare ancora le armi.
Sfortunatamente per me, e per chiunque mi gravitasse attorno in quel momento, continuai a sentirmi unicamente vittima di me stessa.
Caddi a terra, con le ginocchia intinte nel sangue di Harry che aveva dilagato fin lì. Serrai i pugni, strinsi i denti.
Un silenzio improvviso mi avvolse, mentre con gli occhi scorrevo sbadatamente da una figura all’altra. Prima su Phil, poco distante, che intrappolava Zeus con un ultimo affondo di artigli in una prigione di spuntoni emersi dal terreno. Vedendosi offeso dalle sue stesse armi, Mercer non riuscì a trattenere un grido di collera che mi giunse alle orecchie confuso e ovattato come qualsiasi altro suono attorno a me.
Mi allungai in avanti e posai entrambi i palmi nel sangue di Harry, percependone il calore rinfrescante quando si mescolò al mio.
Cercai invano di racimolare energie anche solo per restare a guardare quel supplizio.
I militari, assieme ad un branco di super-soldati, immobilizzarono definitivamente Alex Mercer aiutandosi con delle armi di ultima generazione che garantivano alte concentrazioni di scariche elettriche, in grado di fossilizzare un dinosauro.
Anche da quella distanza riuscii a scorgere nei dettagli il viso di Alex incrinarsi in una maschera di dolore che non avrei mai immaginato potesse esserglisi dipinta addosso con così poco.
Quando provai ad alzarmi, barcollai, ma mossi ugualmente qualche passo nella sua direzione. Gridai, ma il frastuono delle scariche elettriche copriva ogni sussulto delle mie e delle corde vocali di mio padre che, da lontano, m’incitava a restare distante.
Avanzai ancora, superando i corpi Harry e Lucy distesi a terra e, mentre la ragazza mi fulminava con un’occhiata sconvolta e terrorizzata, cadevo di nuovo in avanti, gridando a squarcia gola il suo nome.
Prima di svenire, Alex riuscì a guardarmi solo per un breve istante, che bastò lo stesso a congelare tutto il resto attorno a noi. I soldati si prepararono a caricarlo su una barella apposita per portarlo via. Era disteso sul pavimento con un braccio ancora per metà tramutato in una lama poderosa.
Il suo assassino e mio ex capitano, Philip McGuire, respirava a fatica poco distante da dove i militari formarono un cerchio attorno alla sua figura.
Sfuggii al suo sguardo pieno di rimproveri, ma quando tornai a guardare Alex, era già troppo tardi.
Zeus aveva chiuso gli occhi, permettendo ai suoi “becchini” di caricarlo sulla barella e avviarsi fuori dalla palestra, per un corridoio fatto sgombrare appositamente.
Fu allora che le gambe cedettero di nuovo, lasciandomi cadere coi pugni stretti contro il pavimento.
Avrei voluto morire.
Tutto ciò per cui avevo lottato mi era stato tolto.
Avrei voluto morire subito, ma dovetti accontentarmi di aver semplicemente perso i sensi per quello comunemente chiamato arresto cardiaco.
Mark s’inginocchiò al mio fianco e mi prese la mano. Mi chiamava per nome, glielo leggevo sulle labbra, perché improvvisamente ero diventata sorda.
Guardai la luce che veniva da quel portellone e vidi un quarto uomo a me fin troppo familiare entrare nella palestra, volando con le sue bellissime ali d’Angelo. Sempre sfocato come un sogno, mentre Mark mi teneva ancora per mano e Lewis se la rideva in un angolo con le braccia conserte, vidi quell’Angelo scambiare due frettolose parole con Philip, che alcuni Alchimisti stavano medicando.
Poi, quando mio padre si dissolse dal mio campo visivo, l’Angelo venne da me e sostituì la propria alla mano del signor Walker.
-Emily- mi chiamò per nome, e la sua voce, per qualche assurdo volere Divino, la sentivo pari all’inconfondibile calore delle sua pelle.
Chiusi gli occhi, con un accenno di sorriso sulle labbra.
-Resta sveglia, Emily!- mi ordinò Cole.











Perdonate il ritardo, ma in questi giorni (mesi, mi sa <.<) ho avuto troppo da fare con altre storie e la scuola, ovviamente.
Ma finalmente eccomi! Sono tornata, con un post scritto tutto in una giornata di oggi, sperando che sia stato di vostro gradimento.
Non posso dilungarmi troppo perché ho delle faccende da finire prima che faccia buio, e ci tenevo troppo ad aggiornare questa storia. ^^
Detto ciò, non mi resta che attendere le vostre recensioni e mettermi all’opera (non troppo presto) sul prossimo capitolo! Volevo inoltre aggiungere che la tecnica di combattimento adottata da Emily ed Alex durante la battaglia, per come me la sono immaginata, ricalca molto lo stile di Elika e il Principe in "Prince of Persia". ^-^
See you soon, friends!
p.s. Ile! °A° Mi manca ancora la tua rece al capitolo 30!!!

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Capitolo 32
*** Capitolo 32° - Inciso ***



Capitolo 32° - Inciso


-Resta sveglia, Emily!-.
Era tutto troppo confuso per sembrare la realtà. Non volevo credere alla piacevole sensazione di avere la mano rinchiusa in quella di Cole, la cui voce mi giungeva nelle orecchie profonda e armoniosa come un canto del Paradiso. Sulle mie labbra si ostinava un confuso sorriso, misto tra la gioia di avere accanto quell’Angelo custode che mi avrebbe guidata nella galleria che precede l’eterno riposo. La cortina di un sogno mi appannava la vista, mentre le luci di emergenza blu di un corridoio mi scorrevano davanti agli occhi socchiusi, dandomi la fastidiosa sensazione di essere a pochi passi da una sirena della polizia che brilla troppo intensamente ad intermittenza. La testa mi girava, ma avvertivo chiaramente il corpo disteso su una superficie morbida che slittava sul pavimento come una qualsiasi lettino di ospedale.  
-Emily, dannazione, resta sveglia! Mi senti? Emily, devi restare sveglia!-.
-È ferita?- chiese d’un tratto mio padre.
Aggrottai la fronte, sorpresa e dubbiosa del fatto che anche lui mi avrebbe accompagnando di fronte a Dio nostro Signore.
-Sono tagli superficiali dovuti allo scontro con gli Angeli. Si rimargineranno in poche ore- spiegò un totale estraneo.
La zattera sulla quale viaggiavo arrestò la sua corsa in una sala interamente bianca, asettica, nella quale ricordavo di essere già stata una sola volta prima di allora.
E fu a quel punto che mi resi conto di non essere morta, e di avere, per mia sfortuna, ancora tutta la vita davanti.
-Al mio tre!- una voce femminile che non riconobbi.
-Se non è ferita, si può sapere cos’ha?!- sbottò Mark.
-Credono sia sotto shock- spiegò il mio Angelo. –Non è nulla di grave, Mark-.
Cole e mio padre si davano del tu…
-Signori, fatevi da parte e lasciateci lavorare, per cortesia!- intervenne lo stesso estraneo di prima.
-Susan, dai,  pronta! Uno… due… tre!-.
Quattro deboli braccia umane mi sollevarono posandomi su un secondo lettino, decisamente più scomodo e interamente di metallo.
-Cosa le state facendo?- domandò Mark, turbato.
-Un’anestesia completa, signore- disse la donna, Susan.
-Perché?- eruppe Walker.
-Temono il suo risveglio…- incise Cole prendendo mio padre da una parte.
-Non ne hanno motivo! È mia figlia ed è innocua!- gridò collerico.
-Non dopo quello che ha visto, Mark-.
Mio padre tacque, probabilmente divorato dal rimorso di avermi sbattuto in faccia una scomoda realtà alla quale non sarei mai stata capace di credere, dato il contatore di bugie che continuava a salire sembrando avere sempre la meglio.
Improvvisamente tutti tacquero e per qualche istante nel laboratorio si udirono solo gli spostamenti dei vari Alchimisti che circondavano e armeggiavano con aghi, sieri e strumenti vari.
-E dopo?- domandò serio Andrius Walker.
-Di questo devi parlare con Lewis- gli rispose il mio Angelo.
-Non mi dirà nulla che io non sappia già- scherzò con una risata isterica.
-Signori, devo chiedervi di lasciare la sala- disse un dottore.
-Tra poco questa stanza sarà piena di altri Angeli che necessitano cure, Mark; dobbiamo levarci dai piedi- intervenne Cole, forse per rispondere all’espressione crucciata di mio padre.
Se ero davvero sotto shock come dicevano, le probabilità che un’anestesia avrebbe alleviato il dolore aumentavano. E battevano nettamente il contatore delle bugie.



***
Un piccolissimo inciso che si sarebbe dovuto collegare al capitolo precedente, ma che ho dimenticato di aggiungere. Spero non vi abbia annoiati! XD
P.S. Alex sta bene, non temete, e tornerà più carico e agguerrito che mai nei prossimi capitoli! ;D

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Capitolo 33
*** Capitolo 33° - Welkome back 'tween us ***


Capitolo 33° - Welkome back 'tween us


Qualche settimana dopo...



Che brutta sensazione era sapere di essere svegli ma non riuscire a muovere un solo muscolo.
Le luci bianche, asettiche dell’infermeria mi riempivano il campo visivo. Tutto ciò che vedevo era il soffitto a pannelli lucidi della grande sala. Avevo perso la cognizione del tempo: potevano essere trascorsi mesi come poche ore. Ero impossibilitata a spostare le gambe, voltare la testa o anche sollevare troppo il petto per agevolarmi la respirazione. Ero immobilizzata come una mummia, con la piccola differenza di essere stata sepolta viva. Se provavo a parlare, dalle mie labbra serrate veniva un animalesco mugolio acuto, dovuto in parte al fatto che, piuttosto che “parlare”, avrei voluto “gridare”, cosa che mi era tornata impossibile in quelle che ricordavo come le ultime 24 ore.
Sentivo chiaramente i battiti del mio cuore accelerare, fremevo dalla voglia di alzarmi da quel lettino e correre via a cercare i responsabili del mio malessere.
Per fortuna non ce ne fu bisogno, perché furono loro a venirmi a trovare.
In un angolo dei miei occhi sgranati si parò improvvisamente una figura femminile rivestita di una tuta integrale. Vedevo la sua faccia attraverso lo strato di plastica che componeva la visiera del suo casco. Indossava spessi guanti bianchi e sembrò gesticolare con un apparecchio elettronico fuori dal mio campo visivo, che rispondeva ad una serie di comandi o di cifre che l’Alchimista gli dava per via di una tastiera touch-screen.
A quel punto mi fu chiaro perché non riuscissi a muovermi. Il fatto che la donna indossasse quel genere di tuta smentiva ogni dubbio. Ero effettivamente nell’infermeria, sala che era stata riempita di un particolare composto di gas apparentemente inodore che agiva sugli Angeli feriti senza l’intervento specifico di nessuno. Avevo sentito parlare di un progetto simile quand’ancora era in stato di sperimentazione. Lewis stesso finanziava le ricerche, ma in segreto e di propria tasca, poiché il Governo degli Stati Uniti aveva chiaramente negato di poter infierire in tal modo su esseri pensanti: sarebbe stato come violare più principi della democrazia che gli USA e molti altri stati possedeva con onore e rispetto, oltre che un ulteriore danneggiamento del sistema liberale. Insomma, nella Costituzione si diceva chiaramente che, in caso ci fossero probabili rischi, nulla di chimico avrebbe potuto toccare un essere umano. Nel contratto di Volontariato dettato dal Settore Angels, poi, era esplicitamente garantita l’incolumità di tutti gli iscritti.
Gli Stati Uniti d’America avevano dato a Lewis Martin 3 semplici regole, che lui aveva violato tutte.
Il mio sembrava essere il lettino più vicino alla stazione di comando dell’infermeria, perché all’Alchimista bastarono altri due colpi di dito per disattivare il sistema fumogeno in tutta la sala.
A poco a poco, mentre la donna si allontanava da me, mi accorsi di aver riacquistato la libertà di movimento nelle articolazioni. Nel preciso istante in cui mi sollevai a sedere, feci caso ai tubicini che avevo collegati ai polsi e alle caviglie, ovviamente dove la vestaglia d’ospedale a pallini non arrivava a coprire. Sotto quel sottile strato di tessuto avvertii di essere completamente nuda. Staccai i tubicini colorati con un certa rabbia frenetica, dettata dal battere accelerato del mio cuore. Le mani mi tremavano, i miei spostamenti erano infermi e poco precisi, vedevo doppio. Mancai più volte di afferrare con le dita un tubicino, impiegando una ventina di secondi per togliermelo dal polso.
Quando mi guardai attorno, riuscii a contare una dozzina di altri corpi nelle mie stesse condizioni. Donne, uomini, ragazzi e ragazze si svegliavano dal coma mettendosi a sedere coi piedi a penzoloni fuori dal lettino. Erano decisamente più tranquilli di me, che invece sembravo un animale improvvisamente rinchiuso in una piccola gabbia. Gli altri Angeli cominciarono a parlare tra loro, armoniosamente, scambiandosi due parole sull’esperimento del quale avevano appena fatto parte.
Sgranai gli occhi, scettica.
Allora quella doveva davvero essere la prima volta che testavano il gas come curante.
Mi guardai i palmi delle mani, che ancora tremavano, ma non seppi più distinguere se per l’emozione che i ricordi dei giorni passati mi infondevano, oppure per qualche effetto collaterale della sperimentazione.
Per l’infermeria cominciò a regnare un tenebroso silenzio quando, mi accorsi, gli occhi degli Angeli si posarono su di me.
Alcuni mi fissarono con curiosità, altri con nient’altro nello sguardo che non fosse rancore, collera. Che probabilmente, mi dissi, dovevano essere gli stessi Angeli coi quali mi ero confrontata in battaglia.
Improvvisamente, il portellone di vetro trasparente e a doppia anta infondo alla sala si aprì, e dal corridoio scaturirono alcune figure distinte.
-Signori, vi ringraziamo per la collaborazione, e vi invitiamo a lasciare la sala- disse un Alchimista che vestiva della sua tuta integrale bianca e portava il casco sotto braccio, libero di respirare coi propri polmoni l’aria nella camera. Era un uomo di colore, non troppo alto, dal viso schiacciato, il naso grosso e un paio di occhiali neri. Quello di cui ero totalmente certa, fu di non averlo mai visto prima di allora. La poca distanza che ci separava mi consentiva, seppur con uno sforzo considerevole, di leggere il cartellino da medico sulla sua uniforme.

Dr. Bradley Ragland
- Direttore generale div. Alchimisti -
- Sett. Angels -

-I vostri effetti personali vi attendono negli alloggi privati- aggiunse anche, mentre le due Alchimiste donne alle sue spalle si sparpagliavano per l’infermeria aiutando gli Angeli a togliersi i tubicini di dosso.
Dopodiché, nel giro di pochi minuti, l’intera sala si svuotò dei suoi ospiti temporanei, che si riversarono nel corridoio al seguito di una terza donna. –Da questa parte, prego, seguitemi- aveva detto quella per attirare l’attenzione dei cadetti.
Il silenzio tornò a regnare. Il Dottor Ragland, che si accorse di me poco prima di voltare i tacchi e riuscire dalla sala, esitò nel gesto di avvicinarsi nella mia direzione. Forse mi aveva riconosciuta come alleata di Alex Mercer. Non c’era più nessuno in tutta la base che non avesse il mio nome sulla bocca per quello, ma io non potevo dire lo stesso di lui.
Larry Jefferson era stato un mio carissimo amico, nonché capo e direttore della sezione Alchimisti della nostra base dall’albore dei tempi. Ora al suo posto c’era un totale sconosciuto che mi squadrava dalla testa ai piedi, rimanendo a debita distanza.
Un’infermiera fece per muovere un passo verso di me, offrendosi di spiegarmi di nuovo che dovevo lasciare la sala, ma il dottore la richiamò bruscamente con l’ordine di starmi lontana.
La donna camminò sui propri passi e sparì assieme alla compagna nel corridoio.
Bradley indugiò ancora un istante su di me; poi annuì a se stesso, si voltò, uscì dall’infermeria e lo guardai allontanarsi nel corridoio attraverso il vetro del portellone a doppia anta, che si richiuse velocemente.

Una volta coi piedi per terra, saggiai il mio equilibrio sorprendendomi di essere perfettamente a posto almeno in quello. Andai verso la porta a vetri infondo all’infermeria e cercai di guardarvi attraverso, sbirciando nel corridoio, a caccia di un modo per uscire da lì.
-C’è nessuno?- gridai bussando col dito sul vetro. –Ehi! C’è nessuno?!- tentai ancora.
Ma il corridoio che guardavo era deserto, il silenzio assoluto ed io sembravo essere l’unica forma di vita per chilometri quadrati.
Lanciai un’occhiata all’aggeggio computerizzato con touch-screen che aveva usato l’Alchimista per disattivare il gas curante, ma compresi che per poterlo utilizzare era necessaria una password di 8 cifre da inserire assieme ad una chiave elettronica.
-Bella merda- sbuffai.
-Dovresti conoscere quella password-.
Al suono di quella voce sobbalzai e mi voltai.
Pochi metri separavano me e il mio superiore, immobile nel centro dell’infermeria a braccia conserte. Vestiva del suo solito smoking bianco, diventando un tutt’uno con le pareti, con il soffitto e, per via delle scarpe, anche col pavimento. I capelli d’argento stirati all’indietro, era senza occhiali, non avendone mai avuto bisogno, perciò i suoi occhi verdi, piccoli, penetranti come affilati stiletti medievali, mi facevano accapponare la pelle. Vederlo di nuovo così vicino a me dopo tutto quello che era successo e che avevo scoperto, mi lanciava continui brividi lungo la spina dorsale.
Lewis Martin Walker era stranamente solo. Mi aspettavo un ben più numeroso comitato di accoglienza, non so… magari qualcuno di armato in grado di difenderlo nel caso che gli fossi saltata al collo per strangolarlo.
Serrai i pugni lungo i fianchi. –Dovrei credere che le password di accesso alle sale sono rimaste le stesse?- formulai ilare.
-Non c’è mai stato bisogno di cambiarle- rispose Martin con naturalezza, sorridendo sfacciatamente.
-Cosa ci faccio qui?-.
-Nulla che non possa essere utile-.
-Per voi!- strillai.
-Per noi- mi corresse con prepotenza.
Tacqui. Che altro potevo fare? Se gli fossi davvero saltata al collo per ucciderlo, come i miei istinti più “umani” mi suggerivano di fare, sapevo che in un modo o nell’altro un magico folletto sarebbe comparso alle mie spalle e avrebbe attivato nuovamente il sistema di gas, immobilizzandomi come una mummia sepolta viva.
-In che lingua devo ripetertelo, stronzo?- digrignai sopraffatta dalla collera.
Lewis inarcò un sopracciglio. –Ti sembra il modo di rivolgersi a tuo zio, signorina?- si beffò.
La famosa goccia che fece traboccare il vaso…
Con uno scatto disumano, balzai nella sua direzione portando avanti il pugno chiuso; ma quando ordinai alle ali di uscire dalla mia schiena, compresi a mie spese che genere di gas era realmente in circolo nei miei polmoni.
Non comparve nessun folletto magico. Lewis si limitò semplicemente a schivarmi con velocità sorprendente. Dietro a dove una frazione di secondo prima c’era stato il suo solido incarnato, apparve un militare, piegato su un ginocchio, con un fucile da precisione che faceva invidia a Rambo. Era rimasto nascosto alle spalle di Lewis per tutto quel tempo, e ora la canna della sua arma puntava dritta verso di me. Sparò un colpo e mi prese nel centro esatto del petto.
Rantolai a terra come un cervo intercettato dal suo cacciatore durante la fuga. Mi scontrai con un lettino di metallo e il frastuono prodotto continuò a rimbombarmi nelle orecchie allungo. Riversa a pancia in su sul pavimento bianco, mi portai una mano al punto leso immaginando di poter sentire i tessuti della pelle ricrescere. Ciò, con mio grande stupore e sconforto, non accadde, e mentre Lewis mi veniva incontro a passi tranquilli e misurati, chinandosi alla mia altezza, i miei occhi si richiudevano lentamente, serrati da una forza, ma più che altro un dolore dovuto alla concezione, inarrestabile: avevo messo le mani nel mio stesso sangue.
-Ben tornata tra noi, Emily…- disse, accompagnato da una festosa risata.

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Capitolo 34
*** Capitolo 34° - Orgoglio e Pregiudizio ***


Capitolo 34° - Orgoglio e pregiudizio





GIORNO DELL’INFEZIONE: 501°
POPOLAZIONE MONDIALE INFETTA: - 44%





Non vedevo la pioggia da molto tempo.

Su Manhattan non piove da molto tempo.
La foga del temporale si abbatteva sui grattacieli distrutti e allargava le pozzanghere per le strade. L’asfalto in polvere si mescolava al fango della terra nei punti in cui le crepe s’insinuavano sotto il livello calpestabile. I resti delle macchine arrugginivano, la maggior parte dei lampioni erano spenti, mal funzionanti o distrutti, ridotti a brandelli dove le battaglie tra gli Angeli e i portatori malati avevano fatto danni. Era una rigida notte senza stelle e l’oscurità inghiottiva ogni cosa. Il rombo dei tuoni viaggiava per chilometri, preceduto dal bagliore giallastro che di tanto in tanto illuminava le nuvole, facendole apparire ancor più minacciose e possenti.
Attraverso la vetrata che ricopre un’intera parete della mia stanza, assistevo a quello spettacolo grandioso: madre natura aveva trovato la forza di ribellarsi e con le armi a sua disposizione stava spegnendo anche gli ultimi focolari di guerra troppo allungo rimasti accesi.
Se c’è una cosa che infastidisce parecchio sia gli infetti sia i cacciatori, è l’acqua piovana. Be’, per noi che l’abbiamo scoperto quasi per caso giusto poche settimane fa, non è affatto stupido o scontato come traguardo. Quelle che dovevano essere normali piogge autunnali, sono cominciate stranamente in anticipo solo quando il tetto di nuvole rosse, cariche di virus e infezioni, si è spostato via da New York sospinto dalla calda Corrente del Golfo del Messico che, improvvisamente e con grande stupore dei meteorologi, ha cambiato traiettoria diramandosi in queste zone. Da allora non ha fatto altro che piovere, giorno e notte.
Sedevo a gambe incrociate sul materasso del letto, spaziando con lo sguardo oltre il vasto spiraglio che le tende davanti alla vetrata mi concedevano.
Ero vestita con abiti che riuscivo a stento a riconoscere per il materiale di cui erano fatti: jeans fino alle caviglie, un maglioncino con collo a “V” sopra ad una t-shirt a doppie maniche. Scarpe comode, braccialetti, coda alta.
Sono i vestiti coi quali ero uscita di casa quella sera che avevo tenuto William per mano, diretti al nostro appuntamento al People con Susan. La notte che aveva scritto il mio destino, la notte della mia vita.
Ricordavo ogni particolare, persino il modo in cui erano vestiti Emmett, Lucy, Margaret, Harry e Phil, ma soprattutto le parole precise con le quali Lewis Martin ci aveva iniziati alla nostra missione. Ricordavo le urla, gli spari, e se mi sforzassi un po’, sarei capace di descrivere i volti di tutte le persone che, assieme a William e Susan, sono state ammazzate.
Dopo di allora si erano susseguiti giorni l’uno più agitato del precedente. C’erano state le cacce agli infetti, le mie fughe segrete dalla base per accattare qualche bonus, le sfuriate con Emmett, le missioni notturne nelle fogne per mangiarci a colazione qualche cacciatore. E così via fino al primo incontro ufficiale con Zeus. Dai nostri duelli, alle nostre strette di mano. La ricomparsa di mio padre e la verità scoperta tra lui e Lewis Martin: un legame di sangue che, pur di giovare ai loro scopi benefattori, mi avevano tenuto nascosto.
Seduta sul mio letto, con indosso quegli abiti e nella mente quelle immagini, ripensavo a molte altre cose, tutte quante finalmente concluse.
Come quella serata al People, ricordavo nei dettagli solamente un'altra notte della mia vita.
L’attacco alla Base Phoenix si era concluso con un’unica grande vittoria: annientare Alex Mercer.
Dopo il mio risveglio erano cambiate molte cose. Lewis e Mark mi avevano parlato a “sei occhi” spiegandomi la situazione, partendo dal principio. La loro giustificazione, ovvero l’unica delle altre 30 bugie che mi inculcarono, era stata di aver agito per il bene comune, di essersi guadagnati la mia fiducia e la mia alleanza per i loro scopi. Avevano ammesso di aver perseguito il successo con mezzi spregevoli, negli occhi di entrambi avevo trovato scritta la sincerità, ma nonostante fossi sembrata apparentemente convinta delle loro parole, mi ero alzata e allontanata dallo studio senza aggiungere altro. Avevo esplicitamente chiesto del tempo per pensare. Del tempo per maturare delle nuove opportunità, stabilire dei nuovi ideali, dei nuovi obbiettivi.
Erano trascorse così diverse settimane, durante le quali avevo preferito starmene per conto mio nella mia stanza vedendo una persona ogni tanto.
E questa persona era Cole Turner.
-Emily- il Capitano aveva sussurrato il mio nome entrando nella camera, una notte. Turner era rimasto allungo immobile nell’oscurità, attendendo un qualsivoglia gesto che gli desse il permesso di avvicinarsi ancora alla mia figura, che aveva scelto di stare rannicchiata sul letto, con le spalle al muro e le ginocchia strette al petto.
In quel momento non avrei voluto vedere nessuno, nemmeno me stessa, ma sapevo bene che sarebbe stato pressoché impossibile, a meno che, oltre allo specchio, non avessi deciso di rompere anche la finestra a vetri, che nei momenti più inopportuni si burlava di me, riflettendo la mia immagine.
Mi ero voltata lentamente verso di lui, pregandolo con lo sguardo di risparmiarsi le parole già ascoltate da mio padre o il motivo per il quale lui e Andrius Walker sembravano conoscersi affondo, ben oltre un rapporto generale-cadetto che ero stata tenuta a credere. Ormai avevo la testa talmente piena di menzogne, che avevo imparato a fare a meno della verità, ed ero perciò capace di continuare a vivere senza. Piuttosto avevo allargato le braccia e gli avevo fatto capire di avere ancora bisogno di lui, nonostante tutto ciò a cui non volevo credere, a partire dal fatto che fosse vivo.
Cole mi aveva sorriso in modo terribilmente dolce e aveva acconsentito ad abbracciarmi, stringendomi con estrema delicatezza, quasi avesse paura di rompermi come un delicato bicchiere di vetro. Io, al contrario, mi ero artigliata al suo corpo piantando le unghie sulla sua schiena e nascondendo una parte del viso nell’incavo della sua spalla. Il suo cuore, che batteva lento e regolare, si scontrava col mio che, nonostante le apparenze, mi correva forsennato nel petto.
Quando l’avevo visto morire davanti ai miei occhi nell’avamposto a Manhattan, circa un mese prima, ero stata sicura che non avrei mai più potuto bearmi in quel modo del suo calore, della sua presenza. Avevo faticato a ricordare il sapore delle sue labbra, i brividi che mi davano le sue carezze. Ora tutto questo era di nuovo a mia portata di mano, mi sarebbe bastato schioccare le dita e come per magia sarei tornata ad essere una persona capace di amare, e non solo desiderosa di ottenere vendetta.
Ma c’era ancora qualcosa che mi fermava… qualcosa che insisteva col tenermi lontana da lui. Anche quando il Capitano mi aveva baciata accompagnandomi distesa sul materasso, ero rimasta ferma, in attesa, frenata da quel qualcosa che premeva insistentemente nella mia anima.
Era la consapevolezza di non aver ascoltato, visto e compreso tutto a dovere prima di giudicare. Avevo dato per scontato che la situazione nella quale mi trovassi fosse quella più giusta, più favorevole ad una causa umanitaria, dimenticando o bandendo tutto il resto come il più grande sbaglio della mia vita. Ma il più grande sbaglio della mia vita era proprio quello: giudicare tale ciò che mi annebbiava la vista, ciò con cui ero stata battezzata, ciò che mi procurava piacere.
Non stavo semplicemente rivalutando Cole Turner come l’uomo che non amavo, ma in me si stava arrampicando una concezione ben differente di una visione più ampia che, nell’insieme, costituiva il mio prossimo scopo.
Quella, e molte delle notti successive, era successo ugualmente: io e Cole avevamo fatto l’amore, ma in modo totalmente diverso da l’unica volta che eravamo riusciti ad amarci, prima di inseguire assieme la nostra missione a Manhattan, nella caccia a Zeus.
I giorni erano condensati in settimane, le settimane in mesi. Dopo la grande vittoria su Alex Mercer, il Settore Angels aveva fatto baldoria per un lasso di tempo che aveva visto gli addestramenti sospesi e messo da parte la caccia agli infetti, in angolo dell’agenda giornaliera.
Non avevo allungo fatto domande su Zeus o su cosa gli fosse capitato successivamente alla sua cattura. Nonostante il mio interesse nei riguardi di Alex stesse aumentando di giorno in giorno, mi limitavo a tenere la mente impegnata o comunque isolata da tutto ciò che avrebbe potuto darmi informazioni su di lui.
Non vedevo molto spesso né mio padre né il resto della mia squadriglia. Come ho detto, l’unico che di tanto in tanto veniva a farmi visita era il mio Capitano, col quale finivo col trascorrere la notte quasi fosse diventato un rituale forzato. Non sapevo se Cole facesse parola con qualcuno di quella nostra relazione silenziosa. Mark Walker sicuramente sapeva di me e Cole, ma probabilmente aveva faccende più urgenti di cui occuparsi per potersi permettere di trascurare sua figlia in quel modo. Dal canto suo, Cole era cosciente del fatto che avevo bisogno di lui solo in quel modo, ma cominciava a sospettare che prima o poi avrebbe dovuto riportarmi alla ragione.
Vivevo in una prigione di carta che avrebbe potuto prendere fuoco da un momento all’altro. Le mie idee sulla guerra, i miei ricordi, le mie speranze e i miei nuovi ideali si stavano lentamente amalgamando come accade alla plastilina di vari colori. Ciascuna sfumatura trova il suo posto accanto all’altra, intersecandosi nella 3° dimensione come un puzzle che non ha una forma e che, per tanto, riserva infinite sorprese.
Una di queste sorprese fu scoprire, rinvenuta dalla convalescenza dopo il trattamento del gas, di non possedere più alcuno dei miei poteri da Angelo.
È successo tutto molto in fretta, ma ricordo ugualmente come sono andate le cose. Non è difficile immaginare quale e quanto sia stato il mio sdegno nell’apprendere quella verità. La mattina del 440° giorno dell’infezione mi ero svegliata nella mia stanza, la stessa dove mi trovo ora, e dove c’era mio padre seduto su una sedia accanto al mio letto, attenendo che mi svegliassi.
Aperti gli occhi, l’avevo guardato giusto un istante per poi tornare a chiuderli, desiderando ardentemente che non fosse là.
-Emily, per favore, devo parlarti. È importante- aveva detto serissimo.
-Come se non l’avessi capito…- avevo brontolato con voce roca. Mi ero schiarita la gola ed ero rimasta ad ascoltarlo per una decina di minuti. Mi aveva parlato in modo un po’ riassuntivo del progetto ricerca di Lewis, che consisteva nel far tornare “normali” tutti gli Angeli in servizio, e sostituirne con dei nuovi. La camera a gas dov’ero stata, nel giro di un trattamento intensivo 24 ore su 24, agiva all’interno del corpo sostituendo temporaneamente le particelle infette nelle nostre vene con dell’ossigeno. Questo dava il tempo e la capacità necessaria per effettuare una trasfusione completa di sangue in pochi minuti, ma il processo era ugualmente lungo.
Inizialmente ero senza parole, sorpresa di quella che sembravo aver ricevuto come congeda, della quale non avevo discusso burocraticamente con nessuno, a parte mio padre che, però, non aveva aggiunto altro e aveva preferito che ne avessimo continuato a parlare anche in presenza di Lewis. Fu allora che Mark mi convocò nello studio di suo fratello, all’ultimo piano della base, che raggiunsi subito dopo essermi vestita un’ultima volta con l’uniforme che avrei indossato solo quel giorno.
Mi ero guardata allungo allo specchio, prima di uscire, spiando in quanto possibili tutti i dettagli del mio abbigliamento. Ora che ero senza poteri, non sarei stata degna di indossare quell’uniforme, avevo pensato, ma tanto valeva provare a fingere che non fosse così. Avevo rinunciato in partenza a tentare di sfoderare le ali dalla schiena, o a trattenere il respiro senza aver bisogno di riprendere aria dopo meno di un minuto. In più, sul petto avevo scoperto di avere il resto del colpo fatale infertomi da quel militare la sera che mi ero svegliata nella camera a gas, aspettandomi delle dichiarazioni che Lewis non mi avrebbe mai dato.
Uscita dalla mia stanza, avevo camminato lungo i corridoi a testa bassa, lanciando un’occhiata qua e là dove la comparsa di vita attirava la mia attenzione. Avrei voluto sapere dove fossero Lucy, Harry, Emmett e Phil e cosa stessero facendo in quel momento, o più semplicemente se anche a loro erano stati tolti i poteri. Non c’erano dubbi che durante la traversata contavo meno Angeli di quanti ne ricordassi o di quanti, in media, si spostavano per la base. Dopo lo scontro con Emmett avuto prima di scoprire che avevano incubato Cole per farlo tornare in vita, mi chiedevo che fine avesse fatto Matt e se, anche se non era un Angelo, il settore sarebbe stato capace di riportare in vita anche lui.
Una volta raggiunto l’ufficio senza guardare in faccia nessuno, la segretaria mi aveva sorriso e mi aveva scortato fin dentro il piccolo salotto, facendomi accomodare di fronte a Lewis, che presiedeva dall’altro capo del tavolo, e al fianco di mio padre, seduto sulla poltroncina accanto.
Mark mi aveva preso la mano e mi aveva sorriso, nel frattempo che Lewis terminava un’importante telefonata.
-Sei contenta?- mi aveva chiesto Mark.
Io avevo annuito, mentendo, ovviamente. Ma cos’altro avrei potuto fare? Negare e gridare ai quattro che venti che preferivo di gran lunga fare a pezzi la gente e squartare le persone come animali? Non era il caso…
Dico che è successo tutto velocemente perché le parole spese da Lewis e Mark per raccontarmi la “verità” che mi rifiuto di accettare ancora ora, ma dalla quale sono schiacciata sempre più ad ogni respiro, mi avevano fatto vorticare la testa portandomi quasi allo svenimento. Era stato a quel punto che ero uscita dallo studio negando a me stessa di credere alle cazzate sul superiore bene comune roba varia da I Libro dell’Apocalisse.
-Il settore Angels è stato fondato per un solo scopo- aveva detto Lewis. –Tutto il resto è una copertura, Emily. Il Governo Americano ci finanziava al fine unico di catturare e annientare Alex Mercer. Definitivamente-.
Avevo sobbalzato sulla poltroncina, senza però darlo troppo a vedere.
-E a quanto pare, la missione è conclusa- aveva sorriso Mark, guardandomi.
A quel punto avevo abbassato la testa.
-Una copertura, eh…- avevo riso istericamente sotto voce. –Ho spacciato per morte persone che voi davate per scontato sarebbero spuntate come funghi! Quelle persone hanno sofferto, ma credevano nella loro causa lottando giorno dopo giorno col virus in tutte le sue forme, anche quelle più piccole. Hai davvero una bella faccia tosta a sfruttare così le persone, zio- l’avevo fissato con rabbia, soprattutto dopo averlo chiamato per la prima volta in tal modo.
Persino Mark al mio fianco era sembrato turbato dalla mia reazione alle parole di suo fratello, che invece si era limitato a mantenere un certo distacco.
-È una balla che ti sei inventato anche quella di dirmi che ero speciale, Lewis? Dirmi che ero come lui? Hai vomitato anche questa per mantenere la “copertura”?- lo punzecchiai.
Martin sembrò irrigidirsi sulla poltrona dietro la scrivania.
-Emily, adesso basta, non siamo qui per parlare di questo- intervenne mio padre.
-No, papà, ti sbagli! Per quanto ne so, non c’è altro di cui discutere- sibilai.
Lewis inarcò un sopracciglio. –Vuol dire che accetti la tua congeda?-.
-Perché, ho forse avuto scelta?!- eruppi balzando in piedi. –Anche quando mi davi la possibilità di scegliere, c’era ugualmente la buca in cui cadere, Martin! Mi hai usata, mi avete usata entrambi come una marionetta!-.
Mio padre sembrava terribilmente dispiaciuto. Lewis era un po’ il suo lato oscuro. Ma più notavo le loro differenze, e più ingoiavo affondo la realtà che fossero gemelli. Approfittando del silenzio che si era creato, continuai più pungente.
-Avete mai provato a pensare che le persone coinvolte nei vostri scopi hanno un cuore, un’anima e un cervello pensante?! Non solo avete infranto almeno un centinaio di diritti stabiliti dalla Costituzione dello stesso paese che servite con tanto onore, ma presto o tardi vi ritroverete alle costole un folto gruppo di persone con torce e forconi alle quali avete tolto una cosa molto preziosa, per noi esseri umani- feci una pausa, guardando prima uno poi l’altro gemello, ma dalle loro facce intuivo che già sapevano le esatte parole che stavo per dire.
-La dignità-.
-Hanno servito il loro paese, come noi, Emily. La dignità è ciò che non mancherà loro, vedrai- intervenne Mark.
-Ne sei così convinto, papà?-.
In quel momento avevo messo da parte i problemi secondari alla causa per la quale stavo lottando. Difendere la giustizia, la dignità, la libertà, i principi per cui i veri militari americani morivano ogni giorno in mezzo al deserto, era quello l’obbiettivo che aveva temporaneamente eliso tutti gli altri maturati durante la conversazione.
Lewis e Mark, dopo quella sentenza da me espressa, si limitarono ad informarmi che ero tenuta a rimanere alla base ancora per qualche mese. Il tempo necessario perché venissero bonificate le zone residenziali attorno all’isola con un intervento militare. Mi comunicarono, inoltre, che poca della gente che conoscevo era ancora in servizio.
-Emmet Word è stato trasferito nella base ad Atlanta- aveva detto Lewis leggendo un fascicolo. –Lucy Malcom ha accettato la congeda ed è tornata a vivere con i suoi nonni nell’Oregon. Harry Brown ha scelto di restare alla base ancora per un po’, finché non otterrà il permesso di soggiorno per l’Australia. Nella dichiarazione lascia scritto di aver bisogno di “una vacanza tranquilla”. Phil McGuire e Margaret Smith presteranno servizio per altri due anni. Devono recuperare le mancate prestazioni dei mesi passati. Hanno insistito entrambi di venir spostati in una nostra gemella in Russia, dove sembra che il Virus stia prendendo delle brutte pieghe. Altro che Cacciatori Volanti- aveva riso scambiando con il fratello un’occhiata complice.
Mark aveva sorriso in modo malinconico e mi aveva stretto più forte la mano, guardandomi.
Io ero una statua. –Quanti di loro hanno subito il trattamento?-.
-Ancora nessuno- aveva risposo tranquillamente Martin.
Mi ero voltata verso mio padre, immaginando che fosse stato lui il primo ad intercedere perché facessi parte di uno dei gruppi di sperimentazione ai gas, così che tornassi normale prima di far male a qualcuno.
-Credo sia tutto qua quello che t’interessa sapere- Lewis aveva richiuso il fascicolo.
-Il Capitano Turner- avevo interceduto, imbronciata.
Lewis aveva aggrottato la fronte. –Certamente- aveva detto afferrando un secondo fascicolo. –Capitano Cole Turner, eccolo qui- aveva viaggiato per una decina di fogli, ma era tornato a rivolgersi a me con un’espressione poco interessata. –Non ha lasciato dichiarazioni, ma ce ne occuperemo al più presto. Adesso vorrei discutere con tuo padre di un’ultima questione, ma in privato. Puoi andare- mi aveva sorriso affabile giungendo le mani sul tavolo.
Avrei voluto staccargli la faccia a morsi, ma avevo sorriso e ubbidito.

La scorsa notte, mi ero svegliata di soprassalto a seguito di un incubo. Avevo sognato le ultime ore di preparazione all’attacco alla base Phoenix. Avevo rivisto le scene dipinte nella mia mente da una prospettiva che non mi apparteneva, un occhio che avevo faticato a riconoscere e che mi aveva mostrato dettagli ai quali non avevo dato importanza. Dialoghi, scontri, atteggiamenti che qualcuno, al mio posto, sembrava aver assimilato meglio di me.
Mi ero voltata a guardare Cole, al mio fianco, che riposava nudo disteso tra le lenzuola. Sembrava sereno, probabilmente soddisfatto come sempre. Il petto si sollevava e si abbassava in un respiro tranquillo e regolare, impercettibile. Dallo spiraglio delle tende potevo scorgere la magnifica vista notturna sulle rovine di Manhattan che c’era da quell’altezza.
Non ero nella mia stanza, ma in quella del Capitano, situata sul lato che affacciava sulle apatiche acque nere dell’Hudson. L’Isola era un insieme confuso di macerie e grattacieli decadenti, bucherellati dai missili militari e ridotti come una groviera. Il cielo era ancora coperto di nuvole gonfie di virus, il silenzio era tombale in tutto l’edificio.
Lentamente ero sgattaiolata fuori dalle coperte. I poteri che mi erano stati tolti non mi permettevano di scorgere oltre il mio naso, e la prima cosa che mi capitò tra le mani con cui vestirmi fu parte della mia biancheria, i pantaloncini della mia uniforme e la camicia di Cole. Ero uscita dalla stanza scalza, arrotolandomi le maniche sino ai gomiti, e avevo attraversato metà base arrivando agli ascensori.
La mia destinazione era uno degli ultimi piani e per arrivarci non avevo la minima intenzione di usare le scale. Inutile dire che dopo aver perso i poteri, ero diventata una ragazza molto pigra, nel costante timore, come tutte le donne, di ingrassare.
Mentre ero nella cabina dell’ascensore che saliva troppo lentamente sui binari per i miei gusti, mi ero presa del tempo per riflettere su cosa stessi facendo di preciso e se era giusto farlo. In mente avevo una vaga idea di dove fossi diretta o cosa vi avrei trovato. Avevo raccolto informazioni qua e là per la base durante le anomale giornate in cui facevo due passi per il corridoio fuori dalla mia stanza, ma non oltre.
L’ascensore aveva raggiunto la sua meta, si era fermato e aveva aperto le porte. Il grosso portellone a doppia anta che mi si era parato dinnanzi era sorvegliato da un pannello di sicurezza, accompagnato da un touch-screen.
Mi ero avvicinata all’impianto e avevo fissato allungo gli spazi vuoti da riempire con un codice di otto cifre. Ricordando che Lewis aveva chiaramente detto di non aver cambiato le password, ero perfettamente in grado di aprire il portellone al primo colpo.
La sala che mi si era spalancata davanti al naso era il laboratorio dell’ultimo piano avvolto dall’oscurità, fatta eccezione per le celle allungate di vetro che andavano dal pavimento al soffitto, riempite di quel particolare liquido bluastro fosforescente che dava luce propria al salone.
Mosso un passo nel laboratorio, il portellone si era richiuso alle mie spalle con uno fruscio. Ero piombata nell’oscurità, mentre il bagliore azzurrognolo delle celle m’invadeva il volto e mi faceva luccicare gli occhi della stessa tonalità.
I 200 tubi erano disposti a piramide, la cui base toccava la parete molto infondo. Nel centro, come vertice, sorgeva un contenitore riempito di liquido bianco luminescente, sicuramente più brillante degli altri. Anche da quella distanza non mi fu difficile riconoscere solo una trentina di corpi dormienti, incubati dalla testa ai piedi, nei 199 contenitori retrostanti. Gli Angeli del futuro erano in quello stato vegetativo da due settimane e presto o tardi avrebbero visto l’alba sotto una luce del tutto nuova. Le sensazioni provate quei giorno stavano tornando a mordermi la pelle: le ossa che si spostano, i tessuti che invigoriscono, i muscoli contratti senza che il cervello lo ordini. E poi i calci dati al vetro, i lamenti, le punture di tutti quegl’aghi sulla pelle.
Scuotendo la testa avevo scacciato quei ricordi e, passandomi una mano tra i capelli, li avevo stirati all’indietro.
Il mio sguardo si era posato a quel punto sul contenitore nel vertice della piramide, occupato da un corpo di carnagione chiara, che sembrava un tutt’uno col liquido luminescente che lo avvolgeva. Era un uomo sulla ventina, dai muscoli ben sviluppati, i capelli corti, gli occhi chiusi; braccia e gambe mollemente abbandonati a galleggiare nelle acque che lo tenevano prigioniero, mentre una dozzina di sonde lo intrappolavano e altrettanti aghi lo pungevano in più punti. Dai polsi alle caviglie, dal petto ai fianchi: era incubato peggio di un vegetale, e dato il colore dei numerosi tubicini che lo pungevano, donava o riceveva continuamente del sangue. Alzando lo sguardo, avevo compreso che il vertice della piramide era collegato attraverso una struttura reticolata a tutti i contenitori dietro di esso. Avevo provato un immenso rigetto a quella concezione, ma non riuscivo comunque a credere ai miei occhi.
Alex Mercer era diventato la pappa reale di un centinaio di larve.
Avvicinandomi ulteriormente alla cella che lo imprigionava, avevo provato a sforzarmi di comprendere come fosse possibile che il possente e minaccioso Alex Mercer era stato ridotto in catene e sparpagliato come semi alle galline del pollaio. Col sangue che scorreva in quei tubicini, capii, Alex stava alimentando la crescita della nuova generazione di Angeli, allo scopo di costruire un esercito di reclute munite delle sue più temibili capacità.
Avevo rabbrividito violentemente, sentendo l’improvviso bisogno di mettermi seduta perché le gambe non reggevano. Ero lentamente scivolata in ginocchio ai piedi della cella di Zeus, posando una mano sul vetro e mormorando a fior di labbra le parole “mi dispiace”, mentre il primo singhiozzo m’incrinava il respiro e la prima lacrima mi solcava la guancia.
Avevo preso a piangere come una fontana, infischiandomene apertamente se nel laboratorio c’erano telecamere o qualcuno dei soggetti fosse sveglio. Il freddo del pavimento sui cui mi ero abbandonata mi aveva presto fatto salire i brividi fino alla spina dorsale, bagnando il vetro delle mie lacrime.
Erano trascorsi diversi minuti, forse un’ora, durante la quale avevo rivissuto quanto di quell’avventura mi aveva fatto sentire meglio. La vittoria che io e Alex avevamo sognato assieme si era definitivamente estinta, sia per l’uno che per l’altra. Non c’era più nulla che restasse da fare a nessuno dei due. Ormai le nostre vite avevano preso quella piega insolubile degli eventi, ormai prigionieri del destino che ci aveva riservato tante terribili sorprese.
Ma alla plastilina doveva ancora essere aggiunto un ultimo colore. Solo allora il quadro sarebbe stato completo. Il colore mancante era niente popò di meno che il nostro legame, già avvenuto in passato, quando Alex aveva tentato di assorbirmi.
Da quel momento, nonostante la trasfusione avvenuta con successo e i miei poteri scomparsi, le nostre essenze erano rimaste ugualmente legate l’una a quella dell’altro con un filo sottile a tal punto da non poter essere scorto ad occhio nudo. Per tanto, chi aveva provato a tagliarlo, aveva calato il coltello alla cieca e, presto o tardi, si sarebbe accettato un dito da solo.
Serrando la mascella, mi ero alzata da terra ed avevo camminato spedita verso il pannello di controllo che ricordavo di aver visto usare dagli scienziati la prima volta che anch’io ero stata in quelle celle liquide. Avevo inserito la password, selezionato i comandi e avviato il processo di interruzione della prima cella.
Il vertice della piramide aveva cominciato a  svuotarsi del liquido bianco, e lentamente il corpo di Alex veniva attratto verso il basso dalla forza di gravità. Quando tutta l’acqua fu assorbita dai condotti secondari, Mercer era rimasto sospeso con le punte delle dita dei piedi a pochi centimetri dal fondo della vasca, poiché alcune delle sonde più solide avevano resistito e non si erano staccate dal su corpo. Le braccia sollevate gli conferivano l’aspetto di un Crocifisso. La testa gli cadeva in avanti, centinaia di gocce argentate gli correvano lungo il profilo dei muscoli o scivolavano via dai capelli umidi.
Dal pannello di comando mi ero sbrigata ad attivare il controllo che aprisse il vetro della vasca. Trovato il comando, lo avevo attivato inserendo nuovamente la password. Poi i due strati di vetro sovrapposti che rinchiudevano Mercer avevano girato su se stessi, aprendo, in fine, un varco.
Mi ero gettata in quella direzione e, salendo sul fondo della vasca, avevo staccato con violenza le restanti sonde che tenevano Alex penzolante come Gesù Cristo. Gli aghi venivano via dalla sua pelle non senza un’abnorme concentrazione di forza, cosa che io stentavo ad avere dato i miei mancati poteri d’Angelo. Sfilato l’ago che gli inchiodava il braccio destro, questo si era riversato lungo il suo fianco nudo ed Alex aveva penzolato sulla destra. Nel gesto di sfilare anche l’ultimo ago dal braccio sinistro, il corpo privo di sensi di Alex mi era caduto addosso con tutto il peso dei suoi muscoli. Ero crollata sul pavimento, il suo incarnato mi schiacciava ma io, esausta, non ero in grado si smuoverlo. Alcuni istanti più tardi, dopo aver riacquistato un minimo delle mie forze, avevo tentato nuovamente si scansarlo da me, ma Alex aveva aperto gli occhi e mi fissava in modo confuso, probabilmente dal fatto che fosse (nudo) steso sopra di me.
Rabbrividendo, l’avevo scansato prima che potesse farsi chissà quali idee perverse, ma il ragazzo impiegò una frazione di secondo per tirarsi in piedi, sgranchirsi muscoli ed ossa e testare uno ad uno i poteri ancora in suo possesso. Alex aveva scelto bene di rivestirsi della sua armatura.
Terribilmente imbarazzata per come era avvenuto il suo risveglio, ero indietreggiata aspettando pazientemente che fosse lui a chiedermi una spiegazione.
Quando Alex si era voltato a guardarmi, i nostri sguardi erano rimasti incatenati un istante lungo un’eternità. Poi Zeus era tornato a guardare la struttura piramidale delle vasche davanti ai suoi occhi.
-Dove siamo?- aveva chiesto.
-Questo è il laboratorio centrale. Qui Lewis ci crea- gli avevo risposto, intimorita, ma sottolineando ugualmente il termine usato.
-Cosa ci facevo io… lì?- aveva domandato poi indicando i tubi e le sonde scollegate che penzolavano nella vasca vuota.
-Non lo so… questo non lo so, di preciso. Credo che Lewis voglia usarti per rafforzare i suoi Angeli, ma non avrebbe senso!-.
-Perché?-.
-Ha confessato che l’unico scopo degli Angeli è quello di trovarti ed eliminarti, Alex. Se sei ancora vivo, c’è qualcosa che non torna-.
-E tu cosa ci fai qui?-.
A quella domanda avevo esitato.
Non c’era un vero motivo per il quale fossi lì e avessi deciso di liberarlo. Avevo scoperto per caso che era vivo, non avrei mai pensato di trovarlo nei laboratori, dove invece ero diretta al solo scopo di conoscere la nuova generazione di Angeli prima di lasciare definitivamente la base.
La mia partenza era già fissata!
-Non lo so- avevo ripetuto.
-Perché mi hai liberato, allora?- sembrava divertito nel farmi quelle domande.
Avevo scossa la testa.
-Te lo dico io perché, Emily: hai scoperto che il mondo che ti gravita attorno non è quello in cui vorresti vivere-.
-Come fai a dirlo?- ero sbalordita, scettica.
-Questa è una domanda molto stupida- aveva ridacchiato.
Finché volavamo basso, nessuno ci avrebbe dato fastidio. Potevamo rimanere a parlare anche tutta la notte nel laboratorio. Per quanto il sistema fosse automatizzato, nessuno passava mai a controllare i progressi una volta che il processo di alimentazione partiva. Però cominciavo seriamente a pensare di aver compromesso la crescita di quegli Angeli… infondo, avevo interrotto la loro colazione.
Continuavo a non capire.
-Ti avranno pure fatto il lavaggio completo, Emily, ma non hanno cancellato la tua memoria, e siccome una parte di essa è ancora dentro di me, la nostra linea privata è ancora attiva-.
Parlava di linea privata come se fosse un canale alla televisione oppure una rete telefonica. In realtà, le nostre menti non potevano funzionare diversamente. Io e Mercer avevamo ancora della plastilina da modellare insieme.
-Il sogno… sei stato tu a…- non ero riuscita a concludere, che Alex aveva annuito.
-Elizabeth riusciva a controllare le sue creature con la forza della mente e il legame attraverso il sangue. Noi non siamo da meno, seppur in modi meno incisivi-.
Ero strabiliata.
Alex doveva inoltre essersi accorto che c’era qualcosa di strano in me. Aveva accennato ad un “lavaggio completo”, pertanto gli era bastato annusare l’aria che mi circondava per accertarsene.
-Sei tornata umana- aveva commentato con una nota amara nella voce.
Avevo annuito, appiccicando a quel gesto un flebile “sì” appena sussurrato. Se da una parte ero immensamente triste di ciò, dall’altra sentivo che era giusto così.
-Quindi vai via… lasci la base- aveva intuito.
-Non c’è più posto per me-.
-E il tuo Capitano? Cole?-.
-T’interessa davvero?-.
Alex si era stretto nelle spalle. –Un po’-.
-Lewis mi ha raccontato dei piani futuri di tutti i miei compagni di squadriglia. Alcuni combatteranno ancora, altri prenderanno un’altra strada… Cole… lui, be’… forse mi seguirà, forse no-.
-Non hai l’aria di una che ci ha scambiato due chiacchiere molto spesso-.
Avevo sorriso. –In compenso ho scambiato due chiacchiere con te-.
Alex aveva tenuto silenzio per qualche secondo. Nascosto nella sua armatura, non riuscivo a guardarlo in faccia, a leggere il suo viso. –Che cosa farai, domani?- aveva chiesto, a sorpresa.
-Probabilmente quando mi sveglierò nella mia stanza, mi laverò, vestirò, farò la valigia, raggiungerò la piattaforma sul tetto e salirò sull’elicottero che mi porterà nella casa del mio ex ragazzo (morto) a Brooklin. Tu, invece… cosa farai?-.
Alex aveva esitato un istante, impassibile, immobile come una statua. –Non me ne andrò da qui, se è quello che pensi. Non perché non voglia, non perché non posso farlo. Dov’altro potrei andare? Hanno ancora mia sorella e non esisteranno ad assottigliare la posta in gioco. Mi ricattano, Emily, se sono ancora qui è solo grazie al loro poco senso umanitario. Credi che non abbia già tentato di fuggire? In tutti questi mesi, credi che non abbia cercato di ribellarmi? Ci ho provato, ma tutte le volte tornavo indietro sui miei passi di mia stessa volontà. Non posso alzare un dito prima che loro ne stacchino uno a mia sorella. Non so dove la tengono, non so cosa le fanno, e non voglio nemmeno pensarci-.
-Posso aiutarti a trovarla! Posso portartela qui! Alex, devi andartene!-.
-È qui che sbagli, Emily. Chi ti dice che devo andarmene? Sono stanco di combattere. Come lo ero due anni fa, loro sono ancora. Se questo è un modo più semplice di affrontare il virus, allora ben venga che mi succhino fino all’ultima goccia di sangue! Comunque vadano le cose, non sarei mai capace di fare qualcosa di più utile. Adesso va’, torna da Cole, parti, va’ a casa, riposati. Te lo meriti-.
Lo avevo guardato allungo, sconvolta, a bocca aperta e gola asciutta. Non riuscivo a credere alle mie orecchie.
-Ora, per cortesia, saresti così gentile da…- aveva indicato il pannello di controllo, spogliandosi dell’armatura e rientrando nella vasca, approfittando del fatto che fossi voltata.
Come un fantasma, ero andata verso i comandi e avevo inserito nuovamente la password, confermando il processo di riempimento. Alex, rinchiuso tra le pareti di vetro, era rimasto immobile, fissandomi dall’interno della sua cella. Con un semplice clic, avevo riattivato le sonde e gli aghi che erano tornati a penetragli la carne. Un po’ ne aveva sofferto, ma tutto quello che gli avevo appena sentito pronunciare continuava a martellarmi le tempie. Il nostro legame mi suggeriva di interpretare le sue parole nel modo inverso. Quello che avevo di fronte era terribilmente incoerente con l’Alex Mercer al quale avevo stretto la mano.
“Comunque vadano le cose, non sarei mai capace di fare qualcosa di più utile.”
“Che mi succhino fino all’ultima goccia di sangue!”
“Non me ne andrò da qui, se è quello che pensi.”
“Sono stanco di combattere.”

Mentiva.
Mentiva spudoratamente.












Angolo d’Autrice:
Ok, raga! Ci siamo! Mancano 2 capitoli alla conclusione di questa storia, un altro, e l'epilogo.
Sono felice di notare (ma proprio felice felice, visto che siamo in termini di bugie <.<) che la Saphira87 è scomparsa! °A° Ma come?! Era la ultrà più accanita!
In compenso, sia io che Emily ringraziamo renault e SnowDra1609 per i commenti.
Aprendo una piccola parentesi qui, adesso, seduta stante, ci tenevo ad informarvi di due cose: il capitolo che avete appena letto è lungo 10 pagine! XD E vi meritereste un premio! Come seconda cosa, il capitolo che avete appena letto è un colossale flashback di Emily che, nella sua stanza il giorno della partenza, ripensa a tutto ciò che è successo (in modo un po’ riassuntivo, fatta eccezione per l’ultima parte e nel dialogo con Mercer). Ve ne sarete senza dubbio accorti dalla struttura imperfetto-trapassato prossimo che ho usato nei momenti in cui Emily racconta di sé, con qualche piccola svista dove i trapassati prossimi tramutano magicamente in passati remoti! XD Se leggete molti libri, sapete a cosa mi riferisco.
Ulteriori chiarimenti?
Naaaah! Almeno per ora non me ne viene in mente nessuno! XD

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