Figlio dell'inverno di Old Fashioned (/viewuser.php?uid=934147)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
FIGLIO
DELL’INVERNO
Prologo
Nel silenzio della notte si udiva
un sussurro: “Santa Maria Vergine, Sant’Anna e Santa Elisabetta,
accogliete la mia unica preghiera...”
Al chiarore dorato di una
candela, una donna pregava inginocchiata dinnanzi a un altare. Aveva
i capelli biondi raccolti in una semplice treccia e i piedi scalzi, e
indossava una pesante veste da camera scura.
“Santa Maria Vergine,”
ripeté. Si guardò intorno per accertarsi di essere sola, poi prese
un involto di stoffa dal quale trasse un uovo, un mazzetto di erbe e
un po’ di terra, allineò tutte quelle cose sull’altare, poi
accese una seconda candela e pose anch’essa sulla superficie di
pietra.
Fatto questo, intrecciò le dita
così strettamente da far sbiancare le nocche. “Santa Maria,”
invocò per la terza volta, “Maria, madre di Dio, ascolta la mia
preghiera: fa che anch’io diventi madre.”
Chinò la testa fino a toccare
con la fronte le dita intrecciate.
In quel momento echeggiò una
voce maschile: “Hildegard? Sei tu?”
La donna scattò in piedi e si
affrettò a raccogliere tutto ciò che aveva disposto sull’altare.
Nascose l’involto nelle pieghe della veste giusto un attimo prima
che un uomo biondo e imponente entrasse nella piccola cappella. “Che
fai, Hildegard?” chiese il nuovo arrivato.
“Stavo pregando la Vergine,”
rispose la donna.
“E non puoi farlo di giorno?”
Si avvicinò, le circondò le spalle con un braccio.
Ella si limitò a scuotere la
testa.
“Fa freddo qui,” insisté
l’uomo sospingendola dolcemente verso la porta, “torna a letto.”
“Vorrei pregare ancora,
marito.”
“Per cosa preghi?”
La donna chinò la testa. “Lo
sai. Per la grazia di un figlio.”
“Arriverà.”
“Sono tre anni che siamo
sposati, e ancora non arriva.”
L’uomo la strinse a sé e nel
movimento si accorse dell’involto di stoffa. “Cos’è?”
chiese.
“Niente.”
“Fammi vedere,” disse lui
allungando la mano.
La donna cercò di sottrarsi, ma
nel movimento l’uovo cadde a terra. Al rumore del guscio che andava
in frantumi, i due si immobilizzarono per un istante, poi l’uomo
emise un sospiro e disse: “Quante volte ti avrò ripetuto che
queste stupidaggini da vecchie comari non servono a niente?”
Hildegard si limitò a chinare la
testa.
“Torniamo a letto, su,” la
esortò il marito, sospingendola verso la porta.
La donna non oppose resistenza.
“Domenica, dopo la messa,
chiederemo a padre Aloisius di pregare per noi.”
§
“Ite, missa est,”
proclamò padre Aloisius rivolto ai fedeli.
Tra i banchi della chiesa passò
un mormorio, poi la gente cominciò a muoversi per uscire. Il conte
Kuno von Hohenberg e sua moglie Hildegard si alzarono dai loro
scanni, ma invece di percorrere la navata per dirigersi alla porta,
si avvicinarono al prete.
Mentre la gente del paese
sciamava lentamente verso l’uscita, il conte esordì: “Padre,
dobbiamo parlarvi.”
Il religioso si voltò verso di
lui, ma prima che potesse aprire bocca si udì il cigolio dei
battenti che venivano spalancati. Subito dopo ci fu un attimo di
trasecolato silenzio, poi una voce di donna esclamò: “Santa madre
di Dio!”
Il tono era a metà fra la
meraviglia e lo spavento.
“Un bambino!” gridò qualcun
altro, questa volta un uomo. “Un bambino in fasce!”
A quelle parole la contessa, che
mesta accanto al marito sembrava indifferente a qualsiasi cosa,
rialzò la testa con un movimento repentino e prese a scrutare
intensamente il capannello che nel frattempo si andava formando.
Si udì un vagito.
“Così lo fate piangere!”
protestò una donna.
Hildegard svincolò il braccio da
quello del marito e percorse rapida la navata. “Fate largo, fate
passare!” diceva agitata a chiunque non fosse rapido a cederle il
passo.
Il bambino cominciò a piangere
forte.
“Fate passare!” ripeté la
contessa.
Il capannello si aprì al suo
arrivo, ed ella si trovò di fronte una donna che teneva fra le
braccia un fagotto di pellicce da cui proveniva un pianto disperato.
“Che succede?” chiese
agitata.
La donna si inchinò goffamente.
“Un bambino, mia signora.”
“Un bambino? Di chi?”
“Non lo so, mia signora. Era
sui gradini, quasi quasi Britta lo pestava quando è uscita.”
“Da dove viene?”
La donna fece un altro inchino.
“Iddio lo sa, mia signora. Qualcuno lo ha abbandonato.”
Hildegard aggrottò le
sopracciglia senza preoccuparsi di nascondere lo sdegno. Tese le
braccia. “Dammelo!” ordinò brusca. “Dammi subito quella povera
creatura!”
Afferrò il viluppo di pellicce e
se lo strinse al petto, poi cominciò a cullarlo dolcemente. Si sentì
invadere da una sensazione di calore che quasi le fece dimenticare il
gelo della neve appena caduta. “No, no… piccolino...” prese a
mormorare.
Pochi attimi dopo, il conte la
raggiunse, e anche lui chiese: “Di chi è quel bambino?”
La moglie sollevò lo sguardo e
lo fissò nel suo. “È mio,” rispose tranquilla, “è un dono di
Dio in risposta alle mie preghiere.” Sollevò un lembo della
pelliccia per osservarlo meglio.
Quando il visetto del neonato fu
messo a nudo, tutti, compreso il conte, si fecero indietro con un
moto di orrore: per quanto apparisse vivace e robusto, il bambino era
di un pallore cadaverico e aveva le ciglia, le sopracciglia e i
capelli completamente bianchi. Gli occhi, di una strana fissità
indagatrice, erano di un grigio bluastro che ricordava il metallo.
“È il figlio di Satana!”
esclamò qualcuno, segnandosi rapido. “O è frutto di stregoneria.
Ecco perché lo hanno abbandonato qui.”
La folla fu attraversata da un
mormorio spaventato, altri si fecero il segno della croce.
La contessa fece girare
tutt’intorno uno sguardo di fuoco. “È figlio mio,” ripeté
dura. “È il figlio che Dio ha voluto donarmi, e farò frustare
chiunque oserà affermare il contrario.” Si voltò verso il marito.
Questi le restituì lo sguardo,
quindi abbassò gli occhi sul misterioso bambino, che nel frattempo
aveva smesso di piangere e stava fissando Hildegarde con l'intensità
piena di meraviglia dei neonati.
Si limitò ad annuire. Stava per
dire qualcosa, quando sopraggiunse padre Aloisius con fare
sospettoso, la croce stretta in pugno come un’arma. Occhieggiò
l’involto tra le braccia della contessa.
“È tutto a posto, padre,” lo
prevenne il conte. “Desidero crescere questo bambino come mio
figlio.”
“State attento a chi vi
prendete in casa, mio signore,” lo ammonì il prete, “Il Maligno
si annida nei luoghi più impensabili.”
“È solo un povero innocente.”
Sotto lo sguardo dei conti von
Hohenberg, padre Aloisius non ebbe il coraggio di replicare. Si
limitò a inchinarsi farfugliando qualcosa in latino.
“Battezzatelo, padre,” ordinò
allora il conte, “così vedremo subito se è una creatura del
demonio o se è un normale bambino.”
“Ma...”
“Se è figlio di Satana, non
sopporterà i Sacramenti. In caso contrario, desidero che gli venga
messo lo stesso nome di mio padre, ovvero Adalrich.”
§
Kuno von Hohenberg stava
camminando lungo i bastioni. Al suo fianco si trovava Martin, il più
vecchio e autorevole dei suoi sergenti, che in virtù della sua
esperienza e del suo valore in battaglia, era spesso l'unico con cui
il conte si confidasse su certi argomenti.
L'aria era gelida, e il respiro
dei due uomini si condensava in nuvole bianche. Il cielo grigio
prometteva altra neve.
“E così ora avete un figlio,
mio signore,” buttò lì il sergente quasi con noncuranza.
Il conte si aggiustò il mantello
di pelliccia intorno al collo. Fece qualche altro passo, poi
semplicemente rispose: “Così pare.”
“Perché quel tono, mio
signore? Il bambino è forse malato?”
L'altro crollò il capo. “È il
bambino più sano che abbia mai visto: forte e vigoroso come un
piccolo cinghiale. Certo che...” si interruppe pensoso e volse lo
sguardo verso le campagne innevate.
Il sergente lo fissò stringendo
appena gli occhi nella luce forte. “Che cosa, mio signore?”
“È strano,” si decise a dire
il conte dopo una lunga pausa.
L'altro assentì. “È vero
quello che dicono, mio signore? Che è bianco come un morto e ha i
capelli di un vecchio?” Poi, forse temendo di aver esagerato,
soggiunse: “Scusate, mio signore.”
“Non scusarti, Martin, è la
verità.” Fece un gesto verso i campi innevati e disse: “Se lo
buttassi là in mezzo, non si vedrebbe nemmeno.”
Martin non rispose, i due
continuarono a camminare in silenzio per un po'. Da lontano, nitidi
nell'aria tersa, giungevano i richiami di un istruttore che stava
addestrando le nuove reclute. Dalle case del borgo si levavano esili
fili di fumo.
Come parlando a se stesso, il
conte proseguì: “Era avvolto in una pelliccia pregiata, ma non
aveva alcun segno di riconoscimento, né stoffe, né ricami, né
altro. Sa Dio chi può averlo abbandonato sui gradini della chiesa.”
“La signora contessa è felice,
mio signore?” chiese il sergente.
Kuno von Hohenberg sorrise. “Se
è felice? È al settimo cielo. Non lo lascia un attimo. Non sembra
nemmeno più la stessa donna.”
“Prima era sempre triste, in
effetti,” considerò Martin.
“E adesso invece non fa altro
che ridere. Forse quel bambino è davvero un dono di Dio.”
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Capitolo 2 *** Capitolo 1 ***
Chiedo
perdono a tutti i miei lettori e a tutte le mie lettrici, l’Alzheimer
e la forza dell’abitudine mi hanno fatto dimenticare una cosa
importantissima: i ringraziamenti a chi ha la pazienza di sciropparsi
i miei scritti!!
Quindi
sentitamente ringrazio per la cortese attenzione e per i gentili
commenti Saelde_und_Ehre, fiore di girasole, Jordan Hemingway,
morgengabe, Sagas, Dark_sky114, LyaStark, innominetuo, Syila,
miciaSissi, Me91, GothicGaia e Spettro94.
Capitolo 1
Konrad
von Obenstein si terse per l’ennesima volta il sudore dalla faccia.
Il sole picchiava con cattiveria e il caldo era insopportabile.
Si
guardò intorno: tolto suo padre e il loro seguito, il luogo sembrava
completamente disabitato. La cosa peraltro non lo stupiva: ovunque
volgesse lo sguardo, a perdita d’occhio, si estendevano alture
brulle e disseminate di pietre giallicce. Qua e là crescevano
cespugli contorti, dalle foglie dure come cuoio.
All’orizzonte
si vedevano solo le creste frastagliate dei monti, ricoperte da una
vegetazione aspra e scura. L’aria immobile odorava di lentisco e
ginestra.
Staccò
la borraccia dalla sella e bevve un sorso, quindi spronò il cavallo
fino ad affiancarsi al padre. “Manca molto?” gli chiese. Avevano
lasciato San Giovanni d’Acri da non più di due ore, e già gli
sembrava un’eternità.
Si
guardò intorno di nuovo. Era abituato ai boschi solenni delle sue
parti, così fitti che spesso non vi penetrava nemmeno la luce del
sole, alla brezza fresca e odorosa di resina, ai prati di smeraldo
costellati di fiori, alle case a graticcio coi tetti di paglia.
Paragonato
al suo paese, quel luogo gli pareva più inospitale di un girone
dell’inferno.
“Un’altra
ora e ci siamo,” gli giunse la risposta del genitore, distraendolo
bruscamente dalle sue riflessioni.
Konrad
si limitò ad annuire.
“Ci
fermeremo qualche giorno presso il castello dell’Ordine,”
soggiunse poi Ulrich von Obenstein, e il ragazzo notò che sembrava
soddisfatto all’idea.
Purché
non gli venga in mente di lasciarmi qui,
pensò preoccupato. Per seguire il padre nel pellegrinaggio in Terra
Santa aveva dovuto abbandonare le letture di retorica e poesia che
stava frequentando a Norimberga, e la sua intenzione era quella di
riprenderle il più presto possibile, magari addirittura presso la
famosa Università di Bononia. Rimanere in una pietraia arroventata a
combattere contro i nemici di Cristo, peraltro in compagnia di
cavalieri che avevano fatto della rinuncia ai beni terreni la loro
ragione di vita, era l’ultima cosa cui anelava.
Non
era minimamente nei suoi programmi rinunciare ai beni terreni, né ai
piaceri che la vita era in grado di offrire a un uomo di buone
sostanze e fine sentire.
Proseguirono
un altro po’ in silenzio, e dopo l’ennesima curva videro
finalmente il castello di Starkenberg stagliarsi in tutta la sua
imponenza su uno sperone di roccia a picco sulla strada.
Ulrich
von Obenstein fermò il cavallo, quindi nonostante il cappello che
portava si fece ombra con la mano e osservò a lungo la possente
struttura. Infine soddisfatto proferì: “Magnifico. Non è vero,
figliolo?”
“Sì,
padre.”
“Un’opera
superba. Da quando Hermann von Salza è diventato Gran Maestro,
l’Ordine Teutonico è in continua espansione,” disse in tono
soddisfatto. Dopo una pausa, soggiunse: “Spero proprio che mi darà
udienza.”
“Lo
spero anch’io, padre,” sospirò Konrad, al quale le vicende
dell’Ordine interessavano decisamente poco.
“Prima
noi tedeschi eravamo disprezzati,” proseguì imperterrito il
genitore, “Templari e Ospitalieri ci trattavano dall’alto in
basso.”
“Ora
non accadrà più, padre,” rispose il ragazzo.
“Certamente!
Guarda che fortezza possente. Ah, se avessi trent'anni di meno...”
Konrad
sorrise. “Che cosa fareste, padre?”
“Entrerei
nell'Ordine, ovviamente.” Si voltò verso di lui con aria di vago
rimprovero. “Mi stupisce che tu non ci abbia mai pensato.”
L'altro
represse un brivido di orrore e con decisione rispose: “Non fa per
me, padre. Preferisco lo studio e la contemplazione.”
“Delle
damigelle,” concluse Ulrich von Obenstein con un sorriso, e il
figlio non poté fare a meno di sorridere a sua volta.
Nello
stesso momento, sugli spalti del castello due soldati stavano
scrutando la colonna in avvicinamento.
Uno
dei due osservò il gruppo di uomini a cavallo e animali da soma e
disse: “Sono civili di sicuro. Guarda come vanno in giro
sparpagliati.” La voce aveva una vaga nota di disprezzo.
L'altro
annuì. “Lo vedo. Riesci a capire di dove sono?”
“Tedeschi.
Secondo me stanno venendo qui.”
“Quando
al castello c’è il Gran Maestro, c'è più confusione che al
mercato di Ulm. Sarà meglio avvertire il sergente.”
“Vado.”
Il
soldato corse lungo gli spalti e scese nel cortile. Individuò un
uomo imponente, con un mantello grigio sul quale spiccava la croce
nera dell’Ordine. Si fermò davanti a lui e annunciò: “Una
colonna in avvicinamento, sergente!”
L’altro
aggrottò le sopracciglia. “Dove?”
“Lungo
la strada di Acri, sergente.”
“Sono
cristiani?”
Il
soldato assunse un’aria assorta. “Vestono come tali,” rispose
alla fine.
Il
graduato annuì, evidentemente soddisfatto della risposta. “Fammi
vedere,” disse poi.
Insieme
si recarono sugli spalti. La colonna nel frattempo si era fatta più
vicina e già si distinguevano le insegne che esibiva. Il sergente la
seguì con lo sguardo facendosi ombra con la mano, quindi disse: “Due
nobili e il loro seguito. Sicuramente verranno qui.” Rimase un
altro po’ a fissare il gruppetto con espressione vagamente
infastidita, quindi brontolò: “Sarà meglio che vada ad avvisare i
Fratelli Cavalieri.”
Quando
se ne fu andato, i due soldati si scambiarono un’occhiata. Quello
che era andato a chiamare il sergente ghignò e disse: “L’unica
cosa che il vecchio Dorn odia più degli infedeli sono le delegazioni
di pellegrini che vogliono fermarsi al castello.”
L’altro
annuì. “Fanno disordine,” proclamò, imitando la voce possente
del graduato.
Quando
la piccola colonna arrivò alla base dello sperone di roccia su cui
sorgeva Starkenberg, la porta della mura si aprì e da essa uscirono
affiancati due cavalieri. Montavano due grandi destrieri grigi,
portavano l’usbergo e l’elmo, e sul mantello bianco avevano una
croce nera.
Si
fermarono qualche istante a osservarli, poi cominciarono a procedere
al passo lungo la discesa.
Stringendo
gli occhi nella luce forte, Konrad li osservò, trovandoli al tempo
stesso minacciosi e imponenti. Si volse verso il padre e a bassa voce
chiese: “Sono loro?”
“I
Fratelli Cavalieri,” confermò il genitore. “Ne bastano venti per
sbaragliare un esercito.”
Rimasero
in attesa.
I
due continuarono a scendere, gli unici rumori che si udivano, a parte
lo sbuffare di qualche cavallo accaldato, erano lo scalpiccio degli
zoccoli e il tinnire degli usberghi. Arrivarono sulla strada e di
nuovo si fermarono.
Ci
fu qualche lungo istante di silenzio, poi Ulrich von Obenstein si
fece avanti e presentò se stesso e il figlio. “Veniamo da Dürnau,
in Franconia,” disse poi. Scrutò indeciso le due figure immobili,
nella speranza di leggere nel loro atteggiamento qualche segno che lo
incoraggiasse a proseguire. “Siamo qui per compiere un
pellegrinaggio,” disse infine.
Uno
dei cavalieri si tolse l’elmo, rivelando il volto di un giovane
dagli occhi chiari. Sulla guancia aveva una cicatrice che scompariva
sotto il bordo del cappuccio di maglia. “Salute a voi,” disse
serio, “Io sono fratello Friedrich e il mio compagno è fratello
Albrecht.” Senza togliersi l’elmo, l’altro cavaliere chinò
appena il capo in segno di saluto.
“Il
Priore di Starkenberg vi offre la sua ospitalità.”
“La
accettiamo volentieri,” rispose Ulrich von Obenstein.
“Allora
seguiteci.”
Senza
aggiungere altro, i fratelli cavalieri fecero girare i destrieri e
presero a percorrere la salita che portava alla fortezza.
Entrarono
in un cortile lastricato, nel quale regnava un ordine scrupoloso. I
due fratelli cavalieri smontarono da cavallo, e subito dei servi
presero gli animali per le redini e li condussero via. Subito dopo
arrivarono gli scudieri, ai quali essi consegnarono gli elmi.
Si
fecero scivolare indietro il cappuccio di maglia con la disinvoltura
di un gesto abituale, si scambiarono qualche parola a bassa voce. Uno
disse qualcosa, l’altro assentì col capo. A Konrad diedero
l’impressione di essere circondati da muri invisibili, che li
separavano da chiunque altro.
Mentre
i servi prendevano in consegna le cavalcature dei pellegrini,
comparve sulla soglia dell’edificio principale un fratello
cavaliere che poteva avere una quarantina d’anni. Era alto e
imponente, con i capelli appena striati di grigio. La sua cotta
d’arme non differiva da quella degli altri se non per un sottile
ricamo d’oro che si sovrapponeva alla croce nera sul petto. Al suo
apparire, i due che li avevano accompagnati si inchinarono
rispettosamente.
Il
nuovo arrivato si fece avanti e disse: “Salute a voi. Io sono
fratello Burkhard, priore di Starkenberg. Vi porgo il benvenuto.”
A
quelle parole, Ulrich von Obenstein rispose: “Vi rendo grazie,
priore. È per noi un grande privilegio essere qui. Abbiamo sentito
parlare molto e bene di questo luogo, ed eravamo ansiosi di vederlo.”
“Per
prima cosa entrate, così potrete riposarvi e bere un po’ d’acqua.”
Condusse
padre e figlio in una sala dal mobilio essenziale, con volte a sesto
acuto sostenute da colonne, nella quale regnava una piacevole
penombra. Da lì proseguirono lungo un corridoio fino a una stanza
grande e arredata con tavoli e panche di legno. In un angolo c’era
un leggio con un libro aperto. Il segnalibro rosso che pendeva dal
volume era l’unica nota di colore dell’ambiente e spiccava con
insolita crudezza.
“Sedete,”
disse il cavaliere. La parola, pronunciata con l’intento di essere
un cortese invito, suonò come un ordine.
Quando
i due ebbero preso posto, a voce più alta chiamò: “Klaus!”
Da
una delle porte arrivò un giovane servo, che si inchinò e disse:
“Priore?”
“Klaus,
porta acqua fresca, frutta e pane per i nostri ospiti.”
Seduto
su una panca, Konrad continuava a pensare alla taverna del Grifo,
dove era solito andare la sera quando era a Norimberga. Avrebbe dato
tutto quel che possedeva per un bel boccale di vino del Reno e un
pasticcio di quelli che sapeva fare Grete, con la cannella e i chiodi
di garofano. Emise un sospiro.
Fissò
di nuovo lo sguardo sul segnalibro, che agitato appena da una lieve
corrente sembrava una sottile lingua di fuoco.
La
voce del priore lo distrasse dalle sue meditazioni: “Vi vedo
pensieroso.”
Konrad
quasi sussultò. “Non sono abituato a questo clima,” rispose.
L’altro
ebbe un lieve sorriso. “Già, vi capisco. Io sono di Lubecca.”
Ulrich
von Obenstein intervenne: “Allora soffrite più di noi con questo
caldo.”
“Ci
ho fatto l’abitudine.”
Tornò
il servo di nome Klaus, con un vassoio su cui si trovavano una
brocca, dei bicchieri, una forma di pane, dei datteri e delle arance.
Il
priore fece cenno al ragazzo di posarlo sul tavolo.
Questi
obbedì, quindi si inchinò e si allontanò. A questo punto Fratello
Burkhard dispose i bicchieri di terracotta davanti agli ospiti e li
riempì d’acqua, poi disse: “Bevete, sarete sicuramente
assetati.”
Konrad
rimpiangeva senza dubbio il vino del Reno, ma di fronte alla tazza di
acqua fresca non si fece pregare: la vuotò in un attimo, poi la posò
con un sospiro soddisfatto. Il priore gliela riempì di nuovo, ed
egli la vuotò con la stessa velocità della precedente.
“Ti
prenderai un malanno,” intervenne il padre.
“Il
malanno lo prendo se non bevo, padre mio,” rispose Konrad,
vagamente ansante per aver tracannato il contenuto del recipiente
tutto d’un fiato.
Per
un po’ rimasero a parlare tra loro nella frescura del refettorio.
Il priore chiese notizie della Germania, rispose alle domande di
Ulrich von Obenstein e in generale spiegò al nobile quali riforme
dell’Ordine stesse portando avanti il Gran Maestro Hermann von
Salza.
Infine,
l’altro chiese: “Sareste così gentile da mostrarci la fortezza,
fratello Burkhard?”
Konrad
represse un sospiro di esasperazione. Esausto e grondante di sudore
dopo la cavalcata sotto il sole, avrebbe di gran lunga preferito
continuare a sedere all’ombra bevendo acqua, in mancanza di vino
fresco, e mangiando datteri, ma già il genitore si era alzato e lo
fissava, certo che anelasse quanto lui a vedere il castello.
A
malincuore, abbandonò la panca.
Il
cavaliere condusse i due attraverso stanze e corridoi, spiegando di
volta in volta quale fosse la funzione dei locali che visitavano.
Videro armerie, magazzini, laboratori di artigiani, scuderie.
“E
qui è dove ci alleniamo,” disse infine fratello Burkhard,
indicando ai due una porta che si apriva sull’esterno. Da essa
provenivano clangore di armi, tramestio e voci.
Konrad
si affacciò: al di là vi erano fantocci di paglia, rastrelliere con
armi di legno o di metallo, scudi, protezioni per il corpo e in
generale tutto quanto era necessario all’esercizio marziale.
C’erano
due cavalieri che combattevano. Per quanto si stessero solo
allenando, il duello era serrato, e i colpi erano portati quasi a
pieno.
Il
ragazzo rimase per un po’ a seguirli con lo sguardo, e così
facendo notò una cosa che lo lasciò stupefatto: possibile che uno
dei due fosse un vecchio? Aveva i capelli candidi. Eppure era alto e
dritto come un abete, aveva spalle larghe, ma soprattutto si muoveva
con una velocità e una potenza che non potevano essere quelle di una
persona anziana.
Si
voltò verso il priore in una muta richiesta di spiegazioni.
L’altro
sorrise e annuì: evidentemente non era nuovo a tali reazioni di
fronte a quel cavaliere. “Quello è fratello Adalrich,” disse
semplicemente.
Konrad
aggrottò le sopracciglia. Avrebbe voluto chiedere se per caso era
ammalato, ma il vigore dei suoi movimenti faceva pensare a qualsiasi
cosa tranne la presenza di una malattia. Notò che a parte le guance
arrossate per lo sforzo, era di un pallore quasi diafano, come se il
sole non avesse il potere di scurire la sua carnagione.
“Quanti
anni ha?” chiese semplicemente, senza staccare gli occhi da lui.
“Ventuno.”
“Ma
ha i capelli bianchi.”
“È
nato così.”
Con
la coda dell’occhio, Konrad notò che a quelle parole il padre
aveva mosso la mano come per segnarsi, poi vi aveva rinunciato, forse
temendo di offendere il priore.
I
due si scambiarono un’occhiata.
Il
cavaliere, nel frattempo, stava portando a termine un ennesimo
assalto. Konrad lo vide incalzare l’avversario con forza, parando
senza apparente difficoltà ogni suo attacco, arginando i suoi sempre
più scomporti tentativi di difesa e rispondendo con precisione a
ognuno di essi.
Alla
fine, l’altro cavaliere lasciò cadere l’arma e alzò le mani in
segno di resa.
Il
primo, la spada ancora in posizione di attacco, si immobilizzò. I
due si scambiarono qualche parola che a causa della distanza Konrad
non riuscì a capire, poi quello con i capelli bianchi prese una
brocca, versò da essa un bicchiere d’acqua e lo tese al compagno.
L'altro,
un biondo con i capelli lunghi fino a coprire le orecchie e luminosi
occhi azzurri dall'espressione allegra, lo accettò, ne bevve la metà
e poi lo passò nuovamente al primo, che bevve a sua volta. Si
scambiarono di nuovo qualche parola, Konrad intuì che il cavaliere
con i capelli bianchi stava dicendo all'altro qualcosa sul duello che
avevano appena combattuto.
Il
biondo annuì, riprese la spada e la brandì. L'altro parve
soddisfatto: posò il bicchiere da una parte, raccolse a sua volta
l'arma e si mise in guardia. In breve stavano di nuovo duellando come
se dal loro scontro fossero dipesi i destini della Cristianità in
Terra Santa.
Il
priore per un po' li lasciò fare, poi a voce alta chiamò: “Fratello
Adalrich, fratello Hermann!”
I
due si immobilizzarono. Entrambi abbassarono le spade, si voltarono
verso di lui e si inchinarono rispettosamente.
Konrad
considerò che visto di fronte il cavaliere con i capelli bianchi
aveva un aspetto ancora più inquietante: non solo era candida la
chioma, ma anche le ciglia e le sopracciglia. La pelle era di un
pallore mortale.
In
quel volto bianco, gli occhi grigio bluastri risaltavano in modo
inquietante, e assieme ai lineamenti squadrati gli conferivano un
aspetto severo che metteva quasi a disagio.
Peraltro,
fratello Adalrich era alto almeno quattro dita più del compagno, che
pure era di statura decisamente imponente.
“Fratelli,”
disse il priore, “questi sono pellegrini che provengono dalla
Franconia. Sono il barone Ulrich von Obenstein e suo figlio Konrad.
Saranno nostri ospiti.”
A
quelle parole, il biondo esibì un largo sorriso. “Benvenuti!”
esclamò, “Io sono Hermann von Seebach.” Si guadagnò
un'occhiataccia da parte del priore. “Oppure solo fratello Hermann,
è più pratico. Vi fermerete molto?”
“Si
fermeranno il necessario,” replicò fratello Burkhard.
“Perché
qui ci sono dei bei posti da visitare, magari...”
“Fratello
Hermann.”
Il
giovanotto sorrise imbarazzato e chinò la testa. “Scusate, priore.
Mi faccio sempre prendere dall'entusiasmo.”
L'altro
sorrise a sua volta. “Non fa niente. Continuate ad allenarvi.”
Poi, rivolto agli ospiti: “E ora, voglio mostrarvi la nostra
chiesa.”
Si
incamminò verso uno stretto sentiero lastricato.
Mentre
alle loro spalle ricominciava il clangore delle armi, Konrad si
soffermò a pensare ai due cavalieri. Per quanto fossero stati
cortesi, perlomeno uno, aveva avuto di nuovo l'impressione di pareti
invisibili che li separavano dal resto del mondo.
Si
chiese come doveva essere, rinunciare a tutto per seguire i precetti
di Bernardo da Chiaravalle.
Mentre
era immerso in quei pensieri, udì suo padre chiedere al priore: “Per
caso il Gran Maestro è al castello?”
“Sì,
non vedete la bandiera sul mastio?”
Konrad
alzò gli occhi e in effetti vide sventolare il vessillo con la croce
di Gerusalemme nera e oro in campo argento.
Il
barone von Obenstein guardò a sua volta, poi chiese: “Potrei avere
la grazia di parlargli? Anche solo per poco tempo.”
“Il
Gran Maestro è molto impegnato, io temo che...”
“Per
favore. Solo poche parole.”
L'altro
sembrò esitare per qualche istante, poi rispose: “D'accordo,
sentirò se in questi giorni troverà un po' di tempo per voi.”
“Grazie,
sarebbe veramente un grande dono.”
“Faremo
il possibile.”
Proseguirono.
La chiesa, che comparve dietro una svolta, era un'imponente
costruzione realizzata in pietra locale. Lo spessore delle pareti,
l'esiguità delle finestre a sesto acuto e la potenza dei
contrafforti suggerirono a Konrad che fosse stata pensata come
estrema possibilità di difesa in caso di assalto al castello.
“Molto
bella,” apprezzò il barone von Obenstein.
“È
stata terminata meno di dieci anni fa. Una volta questo luogo era
tutto in rovina, è stato l’Ordine a riportarlo all’antico
splendore.”
“Davvero?”
“Il
Gran Maestro l’ha acquistato dalla famiglia De Milly e l’ha fatto
restaurare.” Il priore puntò i pugni sui fianchi e si guardò
intorno con espressione fiera. “Prima si chiamava chateau Montfort,
adesso è Starkenberg.”
“È
una costruzione imponente,” apprezzò il barone. Si rivolse al
figlio: “Non è vero?”
Konrad,
che durante lo scambio non aveva fatto altro che vagheggiare la
frescura che sicuramente doveva regnare all’interno della chiesa,
si limitò ad annuire.
“Molto
bello,” ripeté Ulrich von Obenstein.
Mentre
stavano parlando fra loro, la porta della chiesa si socchiuse e da
essa uscì un cavaliere che poteva essere un po’ più vecchio del
priore. Aveva la barba brizzolata e i capelli dello stesso colore.
Gli occhi castani avevano uno sguardo apparentemente morbido, dietro
il quale si indovinavano però una viva intelligenza e una volontà
adamantina. Vestiva una semplice cotta d’arme con la croce nera
ricamata d’oro, e portava sulle spalle il mantello bianco.
Il
priore si inchinò immediatamente. “Gran Maestro,” disse in tono
rispettoso. Anche i due ospiti gli rivolsero un inchino.
“Non
fate così,” disse il nuovo arrivato con un sorriso, “mi mettete
in imbarazzo. Siamo tutti uguali dinnanzi a Dio.”
I
tre si raddrizzarono, poi il priore disse: “Gran Maestro,
permettetemi di presentarvi il barone Ulrich von Obenstein e suo
figlio Konrad. Arrivano dalla Franconia per compiere un
pellegrinaggio.”
Von
Salza sollevò le sopracciglia in un’espressione piacevolmente
sorpresa. “Dalla Franconia?” ripeté.
Il
barone assentì col capo. “Sì, Gran Maestro.”
L’altro
lo prese familiarmente per una spalla. “Allora, mio caro amico, mi
piacerebbe che mi raccontaste cosa sta succedendo in patria.” Si
rivolse al ragazzo: “A voi non dispiace se mi intrattengo un po’
con vostro padre, Konrad?”
L’altro
si affrettò a scuotere la testa. “No. Certo che no, Gran Maestro.”
Von
Salza sorrise. “Torneremo presto.”
Il
giovane annuì. Il Gran Maestro era amico e consigliere
dell’Imperatore Federico II, parlava abitualmente con il papa, era
stato decorato sul campo per il suo valore nell’assedio di
Damietta, eppure sembrava quasi che si stesse scusando con lui perché
intendeva sottrargli il genitore per un’ora. “Aspetterò in
chiesa,” disse.
“Saggia
decisione,” approvò von Salza, “non siete ancora abituato al
caldo di questi luoghi.”
Si
allontanò al fianco di Ulrich von Obenstein.
Konrad
rimase a guardarlo per un po’ mentre camminava lentamente insieme a
suo padre, poi entrò in chiesa.
Dentro
c’era fresco, perlomeno rispetto alla calura esterna, e regnava una
piacevole penombra. Tolta l’eco dei passi sulle volte del soffitto,
l’edificio era immerso nel silenzio. Le strette finestre erano
chiuse da semplici vetri trasparenti e l’altare era di pietra
liscia e senza decorazioni. Gli unici ornamenti si trovavano nei
capitelli delle colonne, che rappresentavano scene di ispirazione
sacra.
Si
sedette su una delle panche e di nuovo ripensò a Norimberga. Si
chiese cosa stessero facendo in quel momento i suoi compagni di
studi. Data l’ora, probabilmente stavano andando tutti alla taverna
del Grifo, alla ricerca di Grete e dei suoi pasticci.
Emise
un sospiro mentre lo stomaco gli ricordava con un brontolio che era
quasi ora di pranzo. Niente pasticci da quelle parti, né tanto meno
belle ragazze. Nessuna lettura di poesia cortese, o di retorica.
Ripensò a Hermann von Salza e gli parve strano che un uomo dall’aria
così fine e intelligente riuscisse ad adattarsi a una vita così
priva di ogni piacere.
Ma
lui mica sta in questo posto dimenticato da Dio, se non è
necessario, disse fra
sé e sé, gira per le
corti, vede luoghi piacevoli, parla con persone erudite.
Il
rumore della porta che si apriva lo distrasse dalle sue
considerazioni.
Si
voltò e vide che stava entrando qualcuno che portava il mantello
bianco dei cavalieri con il cappuccio tirato fin sugli occhi. Guardò
incuriosito il nuovo arrivato, che percorse tutta la navata, quindi
si fermò di fronte all’altare maggiore e si scoprì il capo. A
quel punto Konrad riconobbe il cavaliere dai capelli bianchi.
Nello
stesso momento, questi si accorse di lui e si voltò a fissarlo.
“Fratello…
Adalrich?” chiese il ragazzo, vagamente esitante sotto quello
sguardo truce.
L’altro
si limitò ad annuire.
Konrad
si alzò, fece qualche passo verso di lui. “Combattete molto bene,”
gli disse.
Il
cavaliere gli rivolse un cenno del capo. “Grazie,” rispose poi.
Successivamente tornò a girarsi verso l’altare, dinnanzi al quale
si inginocchiò.
L’altro
rimase per qualche istante a guardarlo. Riusciva difficile pensare
che fosse di carne e sangue come chiunque altro. Sembrava piuttosto
fatto di ghiaccio, o di pietra.
Si
sedette di nuovo sulla panca. Il cavaliere rimase immobile, lo
sguardo fisso alla croce.
Dopo
un po’, Konrad si alzò e rinculò verso la porta cercando di fare
meno rumore possibile. Fuori c’era caldo, ma la presenza di
fratello Adalrich lo metteva talmente a disagio che il sole a picco
gli risultava preferibile. Una volta uscito, si imbatté nel priore.
Questi gli sorrise e gli chiese: “Cercate vostro padre?”
“No,
io…” Si morse il labbro inferiore. “C’era un cavaliere che
pregava, non volevo disturbarlo.”
L’altro
annuì consapevole. “Fratello Adalrich, vero?”
Il
ragazzo annuì.
“Non
dovete lasciarvi spaventare,” gli disse.
“Ma
veramente...”
“Suvvia,
ho visto come lo guardavate, e so che effetto fa a chi lo vede per la
prima volta. C’è chi parlerebbe di opera del Demonio, ma di certo
fratello Adalrich non porterebbe la croce sul petto con tanto
entusiasmo, se avesse qualcosa a che fare con il Maligno, non vi
pare?”
“Immagino
di no.”
“È
la spada migliore di Starkenberg.”
“Non
stento a crederlo.”
L’altro
emise un sospiro. “Eppure temo che nella sua vita abbia combattuto
molto più contro i Cristiani che contro gli infedeli. Persino qui in
Terra Santa hanno parlato di stregoneria.” Sorrise fra sé e sé.
“Il Gran Maestro degli Ospitalieri è arrivato addirittura a
insinuare che sia stato grazie ai suoi commerci con il Demonio che
l’Ordine Teutonico è riuscito ad acquisire e restaurare questo
castello. Non l'ha mai detto esplicitamente, è ovvio, ma la voce è
girata.”
Konrad
stava per rispondere quando cominciarono a farsi udire le voci di suo
padre e di von Salza in avvicinamento. “Tutto ciò che mi avete
narrato è del massimo interesse,” stava dicendo il Gran Maestro.
“Sono
solo piccoli fatti della nobiltà locale,” si schermì il barone.
“Spesso
dai piccoli fatti si possono apprendere cose che i grandi eventi non
insegnano.”
Quando
i due si avvicinarono, il ragazzo si inchinò nuovamente in segno di
rispetto. Il Gran Maestro accolse quell’omaggio con un cenno del
capo, ma subito dopo gli pose una mano sulla spalla e lo invitò a
rialzarsi. “Il vostro signor padre mi ha detto che studiate
retorica e poesia a Norimberga,” gli disse.
“È
così,” confermò Konrad.
“E
ditemi, vi piace?”
Nonostante
ogni buon proposito di mantenersi impassibile, al ragazzo si illuminò
il viso. “Oh, sì. Moltissimo.”
“Che
cosa vi piace di quella città?”
Konrad
tacque confuso, nulla di ciò che avrebbe voluto dire era adatto alle
orecchie di un frate combattente.
“Coraggio,
parlate. Non abbiate timore,” lo incoraggiò Hermann von Salza.
“Ecco...”
si decise a dire il ragazzo, certo di essere arrossito fino alla
radice dei capelli, “Ecco, Gran Maestro, ci sono le letture di
eruditi che vengono da tutta Europa, ci sono tanti altri studenti...”
“E
molte taverne,” soggiunse il cavaliere, “Dico bene?”
“Ecco…
sì. Credo che abbiate colto il problema.”
L’uomo
sorrise divertito, quindi si voltò verso il barone von Obenstein e
disse: “Vedete anche voi che vostro figlio non desidera questa
vita. O si è pronti ad abbracciare la regola dell’Ordine con tutto
il cuore, oppure essa diventa una sofferenza insopportabile. Il
giovane Konrad vuole studiare e svagarsi, e l’unico viaggio che
affronterebbe volentieri sarebbe quello per Bononia, dico bene?”
Konrad
annuì, sentendosi stranamente imbarazzato.
Von
Salza con tono tranquillo proseguì: “Il che non vieta comunque che
trascorriate presso di noi qualche giorno, per riposare e prepararvi
alle fatiche del viaggio che vi attende. Permettetemi inoltre di
invitarvi al nostro desco. Vi devo però chiedere di non parlare
durante il pasto: i fratelli cavalieri sono tenuti alla regola del
silenzio ed essa si estende a chiunque sieda a tavola.”
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Capitolo 3 *** Capitolo 2 ***
Adalrich 3
Ciao a tutti/e! Grazie per essere
ancora qui, siete troppo gentili…
Ringrazio
naturalmente tutti/e coloro che sono passati da queste parti e hanno
anche solo buttato un occhio a tutta la vicenda, ma in particolare i
miei ringraziamenti vanno a Saelde_und_Ehre, GothicGaia,
morgengabe, Me91, innominetuo, Crilu_98, Jordan Hemingway, Syila,
LyaStark, miciaSissi, Dark_sky114, Sagas, fiore di girasole e
molang.
Capitolo
2
Il
cappuccio tirato come sempre fin sugli occhi, fratello Adalrich
rivolse un’occhiata torva ai cavalli dei due ospiti, che
attendevano sellati e con le bisacce piene. Fratello Hermann, che si
trovava al suo fianco, in tono bonario gli disse: “Non ti
crucciare, almeno faremo un giro nei dintorni.”
“Potevano
mandare altri due.”
“Che
fai, discuti gli ordini? L’hai sentito anche tu il priore: la
migliore spada di Starkenberg dietro agli ospiti.” Fece una breve
risata, come se trovasse la cosa assai divertente.
“Smetti
di ripetere quell'appellativo stupido,” ringhiò l'altro.
“Scusa,
chi è che tenendo la spada nella sinistra ha sconfitto e disarmato
fratello Friedrich e fratello Gerhard che attaccavano
contemporaneamente?”
“Non
significa nulla.”
“E
gli infedeli?”
“Non
combatto né più né meno degli altri.”
“Ah,
certo. Dev'essere per quello che c'è una taglia sulla tua testa.”
“Gli
infedeli vogliono uccidere tutti i cavalieri dell'Ordine, non
soltanto me.”
L'altro
rinunciò a replicare. Con un'alzata di spalle soggiunse: “Speriamo
che i nostri stimati ospiti si degnino di uscire, piuttosto. Tra un
po' sarà più caldo che in una fornace.”
“Certa
gente dovrebbe restarsene a casa propria,” brontolò l'altro per
tutta risposta.
“Oh,
dai. Li portiamo alle chiese, li stanchiamo ben bene e vedrai che si
faranno passare la voglia di visitare la zona.”
Fratello
Adalrich non rispose. Controllò il sottopancia del suo cavallo, un
imponente destriero da guerra dal manto grigio, quindi montò in
sella e si spostò verso la parte del cortile che si trovava ancora
in ombra. Vide uscire dalla foresteria i due pellegrini: nonostante
si trovassero a Starkenberg da alcuni giorni, il padre conservava
l'espressione di commossa meraviglia che gli era comparsa sul viso
non appena aveva messo piede nel castello. Il figlio, per contro, non
faceva assolutamente nulla per nascondere il fastidio che la
situazione doveva procurargli. Anzi, si poteva addirittura dire che
lo ostentasse. Lo sguardo del cavaliere si fece sprezzante: un
giovanotto sciocco, viziato e pigro, che sbuffava alle loro regole e
cercava di sottrarvisi non appena se ne presentava l'occasione. Non
c'era pasto in cui la lettura dei testi sacri non fosse disturbata
dal cicaleccio ostinato dei suoi bisbigli, non c'era notte in cui non
comparisse un giaciglio di fortuna nel giardinetto dietro la chiesa,
dove il ragazzo aveva la pretesa di prendere il fresco.
Non
facendo parte dell'Ordine, nessuno poteva frustarlo per quelle
violazioni della Regola, e tutti si limitavano a sperare che prima o
poi capisse. O che proseguisse per la sua strada, magari.
Mentre
era immerso in quelle meditazioni, i due presero a guardarsi intorno,
soprattutto il più giovane, con l'aria di aspettarsi valletti,
battitori, cani e falconieri.
Lasciò
che fosse fratello Hermann a raggiungerli e a spiegare loro come si
sarebbe svolta la giornata.
Fratello
Hermann aveva molta più pazienza di lui. Come il loro Gran Maestro,
che per combinazione si chiamava allo stesso modo. Era anche più
cortese, e sapeva parlare alla gente in un modo che lo rendeva
gradito praticamente a chiunque. Non poté fare a meno di sorridere
fra sé e sé: uno strano sodalizio, il loro. Il più amabile e il
più odioso; quello più avvenente e quello la cui vista suscitava
orrore; quello allegro, gentile e affabile e quello burbero, cupo e
scostante.
Si
passò una mano sugli occhi, che come sempre soffrivano della troppa
luce, e rimase a osservare il confratello che parlava con i due
ospiti.
Stette
a guardarlo mentre illustrava ai due l'escursione che avevano
intenzione di compiere. Lo vide indicare un punto generico oltre le
creste dei monti più vicini, e annuire con vigore, come per
convincere i due von Obenstein della piacevolezza e della facilità
della passeggiata.
Poco
dopo, percorrevano in fila il sentiero che dalla fortezza conduceva
alla strada principale. Una volta che furono alla base dello sperone
di roccia, fratello Hermann disse: “Ora proseguiremo sulla strada
fino a che non incontreremo la deviazione per le chiese. La zona è
tranquilla, ma vi chiedo di non allontanarvi. Sappiate che in ogni
caso non avete nulla da temere: nessuno supera fratello Adalrich nel
combattimento.”
A
quelle parole, i due civili si voltarono nella sua direzione. Egli si
fece scivolare all'indietro il cappuccio che gli teneva in ombra il
volto. Per quanto il sole lo facesse soffrire, una volta fuori dalle
rassicuranti mura di Starkenberg, era necessario che occhi e orecchie
fossero liberi da impedimenti.
Senza
dire nulla spronò il cavallo e li distanziò di qualche passo,
infastidito da quegli sguardi, che nonostante i giorni di forzata
convivenza erano ancora gravati della meraviglia mista a ribrezzo di
chi sta osservando un animale strano.
Proseguì
così, mantenendosi davanti a loro.
Era
un mattino terso, nel cielo azzurro non c'era una nube. Il sole
picchiava costringendolo a mantenere gli occhi rivolti verso il
basso. Nella luce forte anche i colori del paesaggio sembravano
scomparire, e la vegetazione che copriva i fianchi delle montagne
diventava di un verde talmente scuro da sembrare nero.
Alle
sue spalle fratello Hermann parlava delle chiese ai due ospiti. “Sono
costruzioni molto antiche,” lo sentì dire, “e alcune sono ancora
parzialmente o completamente sepolte. Il Gran Maestro dice che si
trovavano qui prima dell’arrivo degli infedeli, e che si sono
salvate dalla distruzione unicamente perché si trovano in una
posizione nascosta e difficile da raggiungere.”
“Sono
lontane?” sentì chiedere al più giovane.
“Un
paio d’ore. Presto però abbandoneremo la strada principale e
proseguiremo nella macchia.”
Il
ragazzo sbuffò, peraltro senza nemmeno preoccuparsi di nasconderlo.
Il più anziamo invece disse: “Sono curioso di vedere questi
luoghi. Potete descrivermeli maggiormente, cavaliere?”
“Ma
certo,” rispose subito Hermann. Adalrich immaginò il sorriso
affabile che doveva aver accompagnato quelle parole. “Sono camere
scavate direttamente nella roccia. All’interno ci sono delle
pitture con immagini della Vergine Maria, di Gesù e degli Apostoli.
Ho portato anche un lume, così potremo vederle meglio.”
“Si
può pregare al loro interno?”
“Nulla
lo vieta,” rispose Hermann. Poi, dopo una pausa: “In effetti è
un luogo molto suggestivo. Penso che lo troverete interessante.”
A
quel punto intervenne il più giovane: “A parte gli affreschi, c’è
rimasto qualcosa dentro?”
“Purtroppo
no. Prima del nostro arrivo, questi luoghi sono rimasti per secoli in
mano agli infedeli, che le hanno depredate di ogni contenuto. In
alcune hanno addirittura distrutto le immagini sacre sulle pareti.”
Il
ragazzo non replicò. Anche il padre sembrava aver ricevuto tutte le
informazioni che gli servivano, perché non interrogò oltre il
cavaliere, e il gruppetto proseguì in silenzio.
Il
sole ormai era alto sulla volta celeste e le ombre si facevano sempre
più brevi. L’aria immobile era satura degli aromi di timo e
tanaceto.
Adalrich
si aggiustò meglio l’elmo alla normanna, il cui nasale col caldo
cominciava a dargli fastidio. Strinse gli occhi cercando di ignorare
la sensazione di bruciore della pelle esposta al sole.
A
lui non piacevano quelle chiese. A differenza del confratello,
trovava quel luogo sinistro e gravato di un'oscura sensazione di
minaccia. Probabilmente qualcuno avrebbe parlato di superstizione, e
avrebbe bollato le sue sensazioni come ennesima riprova del suo
commercio con il Demonio, eppure non si sentiva mai tranquillo quando
entrava nella gola su cui si affacciavano le chiese. Le loro porte
gli ricordavano le orbite vuote dei teschi, e nonostante fossero, o
almeno teoricamente dovessero essere, altrettante case del Signore,
lo rendevano inquieto.
Raggiunsero
i monumenti dopo circa due ore di cavalcata su un percorso quasi
invisibile ad occhio nudo, che attraversava una macchia di lecci e
ginepri in cui si udiva solo il frinire degli insetti.
Poco
prima di giungere a destinazione, il sentiero si incanalò nel fondo
di una gola polverosa e costellata di ginestre, quindi si allargò in
un anfiteatro naturale che nonostante l'ora risultava quasi
completamente in ombra.
“Eccoci
arrivati,” disse fratello Hermann.
Sulle
pareti di roccia si trovavano delle porte e delle piccole finestre,
alcune rozzamente quadrangolari, altre con un accenno di arco a tutto
sesto.
Le
chiese erano disposte su più livelli. Alle più basse si accedeva
direttamente, per quelle più alte era necessario percorrere tortuose
file di gradini scolpiti direttamente nella roccia.
Senza
scendere da cavallo, Adalrich percorse tutta la circonferenza
dell'anfiteatro. Per terra non c'erano tracce di alcun genere, e non
c'erano nemmeno deiezioni di capra, sebbene quegli animali fossero
perlopiù ghiotti del tipo di piante che crescevano nella gola.
Tirò
le redini e rialzò il capo, quindi si guardò intorno lasciando
scorrere lo sguardo sulla sommità delle pareti di roccia. Nemmeno lì
c'era nulla di strano.
“Potete
smontare,” disse alla fine della sua ispezione.
Il
ragazzo scese dal suo baio, lasciò le redini penzoloni e si stirò
inarcandosi all'indietro, poi si inoltrò deciso nella vegetazione.
“Dove vai?” gli gridò dietro suo padre.
“Natura
premit!”
giunse la risposta. A dispetto di ogni raccomandazione, si udirono i
passi allontanarsi e diventare sempre più fiochi.
Adalrich
lanciò un'occhiata a Hermann, che annuì, smontò da cavallo e
disse: “Vado a vedere.” Scomparve a sua volta nella vegetazione.
Calò
di nuovo il silenzio. Ancora in sella, il cavaliere si limitò ad
appoggiare le mani all'arcione e ad allentare le redini. Si girò
verso il barone von Obenstein, che sentendosi osservato alzò gli
occhi su di lui e chiese: “C'è pericolo?”
“Non
è mai consigliabile abbassare la guardia,” rispose l’altro
laconico. “Io e il mio confratello siamo responsabili di voi,
quindi è nostro dovere proteggervi.”
Pochi
istanti dopo, si udì il ragazzo gridare: “Guardatemi, padre!” La
voce proveniva dall’alto.
Adalrich
si voltò e lo vide stagliarsi alla sommità della parete di roccia.
Salutava facendo ampi gesti con un braccio. “C’è un sentiero per
salire fin qui!” esclamò trionfante.
Il
cavaliere strinse le labbra senza dire nulla, era sicuro che quello
stupido bellimbusto si fosse dileguato in mezzo alle piante per il
solo gusto di farsi inseguire da qualcuno obbligato a vigilare sulla
sua incolumità.
“È
bellissimo quassù!” stava gridando frattanto il ragazzo, “Dovete
assolutamente venire a vedere, c’è una vista magnifica.” Il suo
noncurante vociare spinse Adalrich ad aggrottare le sopracciglia.
Ulrich
von Obenstein smontò a sua volta da cavallo e disse: “Vieni giù,
Konrad, non vorrei che ti facessi male. E poi i fratelli cavalieri
dicono che non è bene abbassare la guardia.”
“Non
siamo mica in guerra, padre. Ho dato sfogo alla natura e ora do sfogo
alla mia curiosità. Che c’è di male?”
Corse
su e giù lungo il crinale, pericolosamente vicino al bordo. Di
nuovo, fratello Adalrich aggrottò le sopracciglia con
disapprovazione. “Vado a prenderlo,” ringhiò infine, smontando
anche lui da cavallo.
“È
solo il suo modo di scherzare, cavaliere,” si sentì in dovere di
specificare il padre.
“Un
modo di scherzare piuttosto irresponsabile. Questo luogo è antico e
non sempre solido come appare.”
Non
aveva finito di parlare che si udirono un rombo cupo di pietre che
crollavano e un grido del ragazzo.
“Konrad!”
urlò il barone von Obenstein, quindi si lanciò di corsa nella
direzione in cui il figlio si era allontanato.
Subito
dopo comparve sul crinale anche Hermann, che disse: “Lega i cavalli
da qualche parte, poi porta su la lanterna e la corda.”
Quando
Adalrich raggiunse gli altri, scoprì che fortunatamente non c’era
bisogno della corda: correndo su e giù, il ragazzo aveva fatto
crollare la volta di una delle antiche chiese, ed era caduto dentro.
Il volo però era stato molto breve, e le pietre rotolando giù
avevano creato una sorta di rampa tramite la quale si poteva scendere
nella camera anche senza ausili.
Il
giovanotto era già in piedi, e a parte la polvere sui vestiti,
sembrava non avesse riportato gravi danni.
“Konrad,
sei ferito?” chiese comunque il padre, infilandosi tra i due
cavalieri per riuscire a vedere meglio. Si protese sulla cavità.
Dal
basso, il ragazzo lo rassicurò: “Sto bene, padre. La Vergine Maria
deve avermi protetto, non mi sono fatto nulla.”
Mentre
i due parlavano, Adalrich scese con cautela. Se la luce era scarsa
vedeva meglio degli altri, e nonostante la camera fosse quasi buia,
non aveva bisogno della lanterna. Osservò l’ambiente: protetti per
secoli dalle intemperie, gli affreschi delle pareti erano così
vividi che sembrava fossero stati appena dipinti. Dietro l’altare
vi erano un’immagine della Vergine, una del Cristo e una
dell’Arcangelo Michele, rappresentato nell’atto di trionfare sul
demonio. Le altre pareti erano coperte di scene bibliche.
Il
cavaliere fece qualche passo nella piccola chiesa, si guardò intorno
alla ricerca della porta e quando l’ebbe trovata aggrottò le
sopracciglia perplesso. “È murata,” constatò.
Da
fuori giunse la voce di Hermann: “Cosa, è murata?”
“La
porta. E anche le finestre. Ecco perché non si vedeva da fuori.”
“Fammi
vedere.” Scesero tutti nella chiesa. Il barone von Obenstein portò
la lanterna accesa, e la fece girare tutt’intorno.
“C’è
qualcosa là in fondo,” disse Konrad indicando un angolo
particolarmente buio.
“Dove?”
“Là.
Si direbbe una cassa.”
Tutti
si avvicinarono. In effetti si trattava di una cassa di legno, ancora
robusta nonostante i secoli di abbandono. Era coperta da uno strato
di polvere e chiusa da corde che una volta dovevano essere state
robuste, ma ormai risentivano dell’azione inesorabile del tempo.
Le
dimensioni erano quelle di una bara.
I
quattro si guardarono perplessi. “Una sepoltura?” azzardò
Hermann.
“Ora
vediamo,” rispose Adalrich, quindi sguainò la spada e recise quel
che restava dei canapi, poi insinuò la lama sotto il coperchio e lo
sollevò.
Non
appena il contenuto della cassa fu visibile, nessuno degli astanti
poté trattenere un’esclamazione di stupore: si trattava di un
corpo incorrotto. Aveva la pelle scura e lucida come cuoio conciato,
era di spaventosa magrezza, ma per il resto sembrava che si fosse
appena addormentato. Pareva strano non vedere il petto che si alzava
e si abbassava negli atti del respiro.
Era
vestito di abiti di lino che il tempo aveva ormai ridotto a garze
impalpabili, portava intorno al collo quel che rimaneva di una stola
ricamata e in cintura aveva una fascia di stoffa annodata come una
specie di cilicio. Le mani erano giunte sul petto e tenute insieme
con una catena dalla quale pendevano una croce e un ciondolo di
cristallo di rocca in cui era sigillato un cartiglio.
Adalrich
si chinò per osservare meglio la misteriosa salma: aveva un volto
scavato, ascetico, dall’espressione austera. Diversamente da ogni
cadavere mummificato che aveva visto sino a quel momento, aveva le
palpebre bombate e non incavate, il che significava che i globi
oculari avevano conservato il loro turgore. Anche le labbra, per
quanto sottili, non sembravano disseccate come normalmente accadeva.
Le
mani avevano le unghie lunghe e adunche, ma la cosa non lo stupì più
di tanto: era ben noto che unghie e capelli continuavano a crescere
per settimane dopo che il cadavere era stato sepolto.
Prese
fra le dita il ciondolo di cristallo di rocca: il cartiglio che
conteneva recava una scritta in greco. “Athanasios,” lesse ad
alta voce, con qualche difficoltà per le lettere ormai sbiadite.
Seguì
un lungo silenzio. La luce danzante della lanterna guizzava sul volto
immobile e scuro, conferendogli una parvenza di vita che al cavaliere
parve piuttosto sinistra.
Infine
fu Konrad a rompere il silenzio. “Io credo, padre, che questo sia
un miracolo,” proferì in tono solenne.
L’uomo
si riscosse dalla contemplazione e lo guardò stupito.
“Un
miracolo,” insisté l’altro caparbio. “È stata la Vergine
Maria a muovere i miei passi fino a questa chiesa: vuole che il corpo
incorrotto di Sant’Atanasio sia traslato nella chiesa di Dürnau.”
“Sant’Atanasio?”
“È
scritto nel cartiglio. Non può essere che lui, padre.”
Intervenne
a questo punto Adalrich: “Sant’Atanasio morì ad Alessandria, e
poco dopo la sepoltura il suo corpo scomparve.”
Konrad
lo guardò storto, poi indicò la cassa. “Ecco dov’era.
Probabilmente è stato portato via per sottrarlo allo scempio degli
infedeli ed è stato nascosto in questa chiesa, che successivamente è
stata murata per far sì che nessuno potesse trovarlo.”
“È
un miracolo,” confermò il barone, contagiato dall’entusiasmo del
figlio, poi si inginocchiò assieme a lui e giunse le mani in
preghiera.
Alle
spalle dei due pellegrini, Adalrich fece un cenno al confratello e
gli indicò l’apertura da cui erano entrati. Si inerpicarono sulle
pietre e uscirono sul crinale, dove frattanto il sole si era fatto
ancora più cocente. “Tu che ne dici?” chiese poi quando furono
all’esterno.
Hermann
alzò le spalle. “Non saprei. Forse dovremmo andare a chiamare il
priore, o magari il Gran Maestro, se può venire.”
“Tu
credi che si tratti veramente di Sant’Atanasio?”
“Non
lo so. Però quel corpo è molto strano. Non sembra nemmeno morto.”
“L’ho
notato anch’io. E mi chiedo perché si trovi lì.”
“Forse
è veramente una sacra reliquia.”
“Potremmo
far venire qui il nostro sacerdote, lui riuscirà a capirlo.” Detto
questo, il cavaliere si tirò nuovamente il cappuccio fin sugli
occhi.
“Ti
dà molto fastidio?” s’informò premurosamente l’altro.
“Oggi
il sole è davvero forte.”
Hermann
alzò gli occhi verso il cielo, che a causa della calura era ormai
quasi bianco, e disse: “Senti, io vado a Starkenberg ad avvisare,
tu rimani qui a fare la guardia ai nostri ospiti, così magari te ne
stai un po’ all’ombra dentro quella specie di chiesa.”
“Non
voglio che la mia condizione mi impedisca di fare il mio dovere.”
“Ah,
smettila. Tu sei molto più bravo di me con la spada, quindi la cosa
più logica è che tu rimanga qui con gli ospiti e io vada a chiamare
il sacerdote. Torno prima che posso.” Senza attendere risposta andò
ai cavalli.
Inginocchiato
davanti alla cassa, Konrad teneva le mani giunte e ogni tanto
guardava di sottecchi il genitore, che stava pregando in silenzio.
Non
sapeva se fosse stata davvero la Santa Vergine a suggerirgli di
mettersi a saltellare su una volta pericolante, né sapeva se quello
che stavano contemplando fosse davvero il corpo di un santo. Quello
che gli era ben chiaro era che in fin dei conti a nessuno interessava
veramente se le sante reliquie fossero davvero sante, l’importante
era che si potessero venerare.
Una
volta il suo maestro di retorica gli aveva raccontato che c’erano
più pezzi della Vera Croce nelle chiese d’Europa che pulci addosso
a un cane. Questo perché alla gente piaceva avere delle reliquie,
davano un’idea di concretezza, facevano capire anche ai più
ignoranti che
le storie della Bibbia, dei Vangeli e dei Santi non erano solo vane
chiacchiere.
Sollevò lo sguardo sulla salma,
che così scura e ossuta dava un’idea di misticismo ascetico. La
immaginò sull’altare maggiore della chiesa di Dürnau, in
un’adeguata teca di cristallo adornata di gemme. Tutti sarebbero
accorsi per ammirarla e per pregare. E per lasciare offerte,
naturalmente, una parte delle quali sarebbe spettata di diritto al
feudatario.
“Io
credo, padre, che questo sia un miracolo della Santa Vergine,”
ripeté mantenendo le mani giunte, “dobbiamo riportare questo santo
in terra cristiana.”
“Certo,
figlio. Quando torneremo dal nostro pellegrinaggio lo porteremo in
patria.”
Konrad
si girò accorato verso di lui. “No, padre, dobbiamo farlo adesso.
La Vergine me l’ha fatto trovare adesso.
Se avesse voluto farci andare al Santo Sepolcro, ce l’avrebbe fatto
trovare al ritorno.” Fece una pausa, che utilizzò per lanciare uno
sguardo affettuoso al corpo rinsecchito, quindi aggiunse: “La
Vergine ripone in noi la sua fiducia.”
Vide il padre annuire commosso.
Tornò a raccogliersi in
preghiera, pensando frattanto che il suo maestro di retorica sarebbe
stato fiero di lui.
Sentì sulla nuca il tipico
pizzicore di uno sguardo altrui. Si girò e vide che il cavaliere dai
capelli bianchi lo stava fissando.
Per un attimo ebbe l’impressione
che quelle iridi metalliche appartenessero alla coscienza. Il
pensiero comunque non durò che un istante: in fin dei conti, cosa
stava facendo di male? Sarebbero tornati a casa, avrebbero evitato
tutti i pericoli della Terra Santa e in più avrebbero riportato una
preziosissima reliquia, che avrebbe donato lustro e ricchezze a
Dürnau e ai von Obesntein.
E in più, con i soldi dei
pellegrinaggi avrebbe potuto finalmente coronare il suo sogno, ovvero
studiare a Bononia e a Parigi.
§
Fu solo a pomeriggio inoltrato
che una delegazione di sacerdoti e cavalieri arrivò da Starkenberg
per esaminare la santa reliquia.
Per primo fece il suo ingresso
nella chiesa padre Georg, che teoricamente era un mite agnello del
Signore dedito al sacerdozio, e in pratica aveva passato a fil di
spada più nemici di Dio di molti fratelli cavalieri. Si avvicinò al
sarcofago spolverandosi la veste talare, che si era sporcata nel
discendere la rampa di pietre smosse, quindi appoggiò la sinistra
sul pomo della spada che portava al fianco e si rivolse al ragazzo:
“Sei tu che l’hai trovato?”
Konrad si alzò rapido e dovette
piegare un po’ all’indietro la testa per guardare in volto
l’imponente religioso. “Sì, padre,” rispose subito. “Io dico
che è stato un...”
“Lo
vedremo subito, cos’è stato,” lo interruppe brusco il prete,
quindi lo spostò da una parte e chiese: “È questo?”
“Sì,
padre.”
Il religioso si inginocchiò.
Indifferente agli sguardi carichi di aspettativa dei due nobili e dei
cavalieri che nel frattempo erano entrati nella chiesa, si prese
tutto il tempo per esaminare il corpo. Osservò dapprima i monili e
gli abiti, decretando che per foggia e stato di conservazione non
potevano avere meno di cinquecento anni. Un mormorio di meraviglia
passò tra gli astanti.
In seguito, insinuò due dita
sotto le mani giunte del cadavere e le sollevò leggermente. Con
stupore di tutti, esse cedettero senza quasi opporre resistenza. “È
un miracolo,” mormorò qualcuno.
“Fate
silenzio,” replicò ruvido padre Georg. “Anzi, fate una cosa:
uscite tutti. Devo compiere le mie osservazioni in pace.”
“Ma
padre...” azzardò Konrad.
“Anche
tu. E lascia qui la lanterna, prima di andartene.”
All’ombra di un sicomoro, la
schiena appoggiata al tronco, Adalrich osservava l’affaccendarsi
della gente intorno alla chiesa rupestre. “Sembrano formiche
intorno al loro nido,” disse.
“Hanno
solo trovato qualcosa di diverso dal solito,” rispose Hermann.
“Il
Gran Maestro non è venuto?”
“Quando
sono arrivato era già partito per Acri. Una questione urgente, mi
hanno detto.”
Adalrich emise un sospiro.
“Peccato, ci avrei tenuto a conoscere il suo parere.”
“Tu
pensi che quello non sia veramente un santo?”
“Non
lo so. Teoricamente si dovrebbe provare beatitudine di fronte a una
santa reliquia, giusto? Sensazione di pace, di vicinanza col
Signore.”
“E
tu non l’hai provata?”
L’altro strinse i denti, i suoi
lineamenti squadrati si fecero ancora più duri. “Il contrario,
direi. Qualcosa di simile a un senso di aspettativa funesta, come
quando sta per succedere qualcosa di brutto.” Fece una pausa che
utilizzò per contemplare gli astanti, molti dei quali già raccolti
in preghiera, quindi continuò: “E non capisco se davvero la mia
sensazione sia giusta, oppure se sia la mia natura che rifugge il
Signore, e quando è al cospetto di una santa reliquia si contorce
come una specie di serpe nell’avvicinarsi al fuoco.”
Hermann lo fissò stupito. “Ma
che stai dicendo?”
“È…
per come sono fatto. Forse la mia reazione di fronte a quella santa
reliquia è la riprova della mia natura diabolica.”
L’altro lo afferrò per le
spalle, lo costrinse a guardarlo in faccia. “Tu porti la croce sul
petto, Adalrich,” gli disse. “Hai votato la tua vita a Dio, hai
sparso il tuo sangue per lui. Credi forse che il Signore ti avrebbe
accettato nelle sue schiere, se la tua natura fosse diabolica?”
L’altro si svincolò dalla
presa e volse lo sguardo altrove. Come avrebbe potuto il biondo,
solare, allegro e cortese Hermann capire? Lui era una persona
fiduciosa, onesta e soprattutto onorevole. Guardava al cuore del
prossimo, non alla sua apparenza esteriore, e nella sua limpidezza
non lo sfiorava nemmeno l’idea che altri potessero non farlo.
Non sapeva cosa volesse dire
avere un aspetto che spingeva la gente a farsi il segno della croce,
o ad arretrare come di fronte a un appestato.
“Adalrich,
mi ascolti?” La voce di Hermann lo distolse bruscamente dai suoi
pensieri.
“Sì,
sì...” fu la risposta.
“No,
tu non mi ascolti,” sentenziò l’altro. “Ho appena detto che
sta arrivando un carro, per trasportare la cassa a Starkenberg.”
In quel momento, padre Georg
apparve sul crinale. Di nuovo si spolverò la veste, quindi scosse la
testa e si incamminò per scendere.
“Non
sembra molto soddisfatto,” osservò Adalrich.
Hermann alzò le spalle e
rispose: “Non vuol dire niente. Padre Georg non sembra mai
soddisfatto. Dicono che anche all’assedio di Damietta, quando
l’Ordine fu decorato sul campo per il valore dimostrato in
battaglia, abbia trovato qualcosa per cui protestare.”
Con un gran frusciare di foglie,
si fece avanti con ampie falcate il religioso. “Non avete niente da
fare, voi due?” li apostrofò, vedendoli fermi sotto l’albero.
“Stiamo
aspettando voi, padre,” rispose compunto Hermann.
“Non
fare il furbo con me, cavaliere,” ringhiò l’altro, ma si vedeva
che stava ridendo sotto i baffi.
Si fece avanti Adalrich. “Allora,
padre?”
Il prete si pose i pugni sui
fianchi e si erse in tutta la sua rispettabile altezza, senza
peraltro arrivare a quella del suo interlocutore. “Allora che cosa,
cavaliere?”
“Quel
corpo. È una santa reliquia o no?”
Da una parte sperava che lo
fosse, ovviamente, ma dall’altra quasi si augurava che il sacerdote
dicesse di no. Come avrebbe potuto spiegare, altrimenti, la
sensazione orribile che l’aveva pervaso da quando aveva aperto la
cassa e ancora non voleva abbandonarlo?
“È
materia complessa,”
rispose padre Georg. “Ci sono elementi a favore, ma ci sono anche
cose che non quadrano per nulla. Dovrò fare altri studi, e
probabilmente dovrò chiedere il parere del vescovo. E ora avete
qualcosa da bere? Oggi è un caldo infernale.”
Hermann gli porse una borraccia.
§
Fratello
Adalrich si svegliò di soprassalto. Spalancò gli occhi con un
sussulto e per qualche istante si guardò intorno ansimando. A parte
il russare di qualche confratello, la camerata immersa nel silenzio.
Il piccolo lume che doveva rimanervi sempre acceso stava ormai
languendo prossimo a spegnersi, il che significava che entro breve
sarebbe arrivata l’alba.
Si
passò una mano fra i capelli sudati, quindi raccolse l’involto dei
suoi vestiti e silenziosamente imboccò la porta.
La
notte era fresca, le stelle erano così luminose che davano
l’impressione di poter essere raggiunte semplicemente alzando una
mano. Da qualche parte gorgheggiava un usignolo.
Il
cavaliere salì sugli spalti, poi si appoggiò al bastione e lasciò
vagare lo sguardo sulla pianura. Da quando il corpo era giunto a
Starkenberg, non c’era notte in cui non si destasse in preda
all’angoscia dopo aver fatto un sogno terribile.
Non
riusciva a ricordare il sogno, ma era certo che fosse sempre lo
stesso.
Un
rumore lo fece voltare di scatto: dei passi si stavano avvicinando.
“Hermann?” chiese, certo di aver riconosciuto l’andatura.
“Non
dormi, Adalrich?” gli giunse dal basso la voce del confratello.
“Vieni
su,” disse l’altro per tutta risposta. Hermann lo raggiunse, e
quando fu al suo fianco ripeté la domanda.
“Faccio
sogni strani,” sospirò Adalrich.
“Di
che genere?”
“Non
lo so. Brutti, comunque.”
“E
da quando in qua? Hai sempre dormito come un sasso, persino alla
viglia delle battaglie.”
L’altro
emise un sospiro. “Da quando il corpo è arrivato qui. Di giorno ho
un senso di oppressione che non mi abbandona mai, e di notte faccio
questi sogni.”
“Ma
cosa sogni, esattamente?”
“Te
l’ho detto, non lo so. Però mi sveglio agitato, e devo uscire
all’aria fresca.”
“Ne
hai parlato con padre Georg?”
“Lo
sai com’è fatto. Mi ha detto che l'ozio è il padre dei vizi, che
mi devo stancare di più durante il giorno, così poi quando è ora
dormirò sicuramente meglio.”
I
due rimasero in silenzio per un po’, ascoltando i rumori della
notte, quindi Hermann disse: “Domani arriverà il vescovo,
finalmente.” Lasciò passare qualche istante, poi soggiunse: “Sai,
neanche a me piace l’idea di avere una cassa con un cadavere qui al
castello, anche se è chiusa in una stanza di cui solo il priore ha
la chiave. Niente sacramenti, niente funerale. Mah...”
§
Un
servo si affacciò sul cortile dove i cavalieri si stavano allenando
con la spada e disse: “Fratello Adalrich, fratello Hermann, il
priore chiede di parlare con voi.”
Subito
i due rinfoderarono le armi e abbandonarono il luogo per andare a
togliersi l’usbergo e prepararsi.
Poco
dopo, si diressero verso lo studio di fratello Burkhard. Nel
corridoio che conduceva a esso incrociarono Padre Georg. Di solito il
sacerdote non aveva un carattere particolarmente amabile, ma in quel
momento appariva addirittura furioso. Quando si accorse dei due, si
immobilizzò e disse: “Quant’è vero Iddio, certa gente non
capisce nulla. Prove inoppugnabili, dice, certezza assoluta. La
certezza di essere una bestia senza cervello, dico io.”
I
due si scambiarono un’occhiata perplessa. Non erano nuovi alle
sfuriate del sanguigno sacerdote, ma di solito si capiva almeno
l’argomento della requisitoria.
Il
prete, comunque, imperterrito proseguì: “Viene da Acri in pompa
magna con tanto di pastorale, si ferma giusto il tempo per far
riposare i cavalli, dà un’occhiata a quello là e se ne va dicendo
che sicuramente siamo di fronte a una santissima reliquia, che va
portata in Germania senza indugio. Bah! Sapete cosa farei io, senza
indugio? Ah, bocca mia, taci.”
Se
ne andò a grandi passi, le mani allacciate dietro la schiena,
continuando a imprecare.
I
due cavalieri si voltarono per un attimo a seguirlo con lo sguardo,
quindi andarono allo studio del priore, bussarono ed entrarono.
Fratello Burkhard li accolse con affabilità, quindi disse: “Ho un
compito da affidarvi.”
I
due rimasero in silenzio.
“Il
vescovo ha decretato che la reliquia di Sant’Atanasio deve essere
traslata in Germania prima possibile,” spiegò. I due notarono che
neanche lui sembrava particolarmente convinto dalla faccenda. “È
necessaria una scorta, quindi partirete voi due, il sergente Dorn e
venti uomini.”
Adalrich
si limitò ad annuire con un secco cenno del capo. “Quando?”
chiese.
“Partirete
domani.”
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Capitolo 4 *** Capitolo 3 ***
Ciao cari/e,
per
prima cosa vorrei ringraziare chi ha avuto l’abnegazione di
sciropparsi il precedente capitolo, ovvero morgengabe, fiore di
girasole, Saelde_und_Ehre, Syila, molang, Jordan Hemingway,
innominetuo, LyaStark, miciaSissi, Crilu_98 e Dark_sky114.
Spero
che resisterete, io faccio il tifo per voi!^^
Capitolo
3
Le
ultime miglia prima di arrivare a Dürnau furono un tripudio di
campane che suonavano, fiori gettati sulla strada e case ornate di
drappi colorati come per la processione del Corpus
Domini.
La
voce era corsa, complice anche il messaggero che era stato inviato a
portare la notizia, per far sì che fosse tutto pronto all'arrivo
della santa reliquia, e la gente festante salutava il passaggio del
convoglio.
Fratello
Adalrich e fratello Hermann procedevano ai due lati del carro che
trasportava la cassa, anch'esso ornato e inghirlandato per
l'occasione.
Il
primo era particolarmente torvo. A Starkenberg, più o meno tutti si
erano abituati al suo aspetto, ma nei mesi di viaggio da San Giovanni
d'Acri alla Germania era stato un continuo di gente che
indietreggiava spaventata o si faceva il segno della croce al suo
passaggio. E quello era il più piccolo dei problemi.
L'altro
– il maggiore – era il suo personale rapporto con quello che
c'era, o si supponeva ci fosse, all'interno della cassa.
I
suoi sogni erano andati peggiorando con il passare dei giorni.
Rimanevano sempre indistinti, ma adesso riusciva in qualche modo a
coglierne gli elementi principali: c'era qualcosa che uccideva delle
persone, e lui per qualche motivo non riusciva a fermarlo.
Aveva
smesso di parlarne per non far preoccupare Hermann, ma notte dopo
notte il carico di angoscia si faceva sempre più pesante da
sopportare.
La
preghiera peraltro non lo aiutava. Vi si dedicava con regolarità, ma
a parte un sollievo momentaneo, non riusciva a trarre da essa altri
vantaggi.
Fece
girare intorno uno sguardo cupo. Il ragazzo, Konrad, trottava su e
giù lungo la colonna salutando e stringendo le mani che si
protendevano verso di lui, specialmente se si trattava di mani
femminili. Il barone von Obesntein invece dava prova di maggiore
compostezza, forse a causa della sua età. Procedeva in testa al
gruppo, limitandosi a ringraziare quando qualcuno gli porgeva fiori o
li infilava nei finimenti del suo cavallo.
Tutti
gli animali peraltro, anche i buoi che tiravano il carro, erano così
adornati di rose e margherite che quasi non si vedeva più il colore
del loro manto. Anche i soldati ricevevano abbracci e pacche sulle
spalle dalla gente festante.
Gli
unici che rimanevano in un certo senso preservati da tali
manifestazioni di entusiasmo erano proprio lui e Hermann. Il manto
bianco, la croce nera e l'usbergo mettevano in soggezione, e nessuno
aveva il coraggio di avvicinarsi troppo ai loro imponenti destrieri.
Solo
una ragazza, più spavalda delle altre, con le trecce bionde raccolte
sul capo e ornate con i nastri della festa, si svincolò dalla presa
di quella che doveva essere la madre, corse verso Hermann e gli tirò
piano la falda del mantello. Quando il cavaliere abbassò lo sguardo
su di lei, ella gli porse timidamente un mazzetto di fiori di campo.
L'altro
rimase per un attimo interdetto, non sapendo se prenderlo o no, poi
le rivolse un sorriso e accettò il piccolo omaggio, giusto un attimo
prima che la madre afferrasse la giovane per una manica e la tirasse
bruscamente indietro.
Adalrich
si voltò a guardarla e la vide ridacchiare con un'altra ragazza,
forse una sua amica, fiera dell'impresa compiuta.
In
quel momento, qualcosa come una vertigine lo costrinse a chiudere gli
occhi per un attimo. Quando li riaprì, c'era una vecchia che con la
mano ossuta teneva una redine del suo destriero. La cosa lo stupì,
perché di solito l'animale non si faceva avvicinare dagli estranei.
L'anziana donna, con i capelli grigi raccolti in una treccia e un
lungo abito nero, sollevò lo sguardo fino a incontrare il suo e
sussurrò: “Cavaliere di Ghiaccio, figlio dell’inverno, io vedo i
tuoi sogni. Lui arriverà, ma la tua croce non potrà fermarlo.”
Rapida intrecciò qualcosa alla testiera del cavallo, e poi
scomparve.
Di
nuovo, Adalrich scosse il capo stranito mentre la vista gli si
annebbiava per un attimo. Fece per cercare la donna, ma non ve n'era
più traccia. Legati ai finimenti c'erano dei fiori gialli: iperico,
o erba di San Giovanni, un noto rimedio popolare contro le influenze
del Demonio e la stregoneria.
Fu
quasi grato al barone von Obenstein, quando decise che si sarebbe
fermato a Waldheim perché invitato a pranzo dal castellano del
luogo.
Naturalmente
avrebbero dovuto partecipare al pasto anche lui e Hermann, mentre i
soldati e il resto della scorta avrebbero trovato ristoro presso il
convento, ma almeno si sarebbero fermati un po'. Lo strano incontro
con la donna vestita di nero l'aveva lasciato scosso. Per tutto il
tragitto non aveva fatto altro che fissare i fiori gialli che
dondolavano appesi alle redini, e si sentiva esausto come se avesse
combattuto per ore e ore.
Smontò
da cavallo e per un istante dovette afferrarsi alla criniera. I fiori
continuavano a ondeggiargli davanti agli occhi come lingue di fuoco.
“Cos'hai?”
la voce preoccupata di Hermann lo fece quasi sussultare.
“Niente,
non preoccuparti.”
“Hai
l'aria di uno che ha visto un fantasma.”
Adalrich
fece un sorriso tirato. “Per caso mi vedi pallido?”
“E
dai.” Hermann gli diede un pugno scherzoso sulla spalla. “Lo sai
cosa intendo.”
L'altro
si tolse l'elmo alla normanna, si fece scivolare all'indietro il
cappuccio di maglia e per un attimo rimase a occhi chiusi con il capo
piegato all'indietro. “Ho incontrato una strana donna,” disse
infine, “che mi ha guardato e ha detto che vedeva i miei sogni. Poi
mi ha dato quei fiori.” Indicò l'iperico. “Da allora mi sento
così.”
Hermann
lo scrutò preoccupato. “Stregoneria?” mormorò. Si guardò
intorno con aria guardinga, come se temesse di veder spuntare da
qualche parte la vecchia vestita di nero.
Adalrich
scosse la testa. “Io credo che volesse aiutarmi. L'erba di San
Giovanni è benefica. Mi ha detto anche una cosa strana.”
“Che
cosa?”
“Che
lui arriverà, ma la mia croce non potrà fermarlo.”
“Lui,
chi?”
“Non
lo so.”
Hermann
aggrottò le sopracciglia. “Non mi piace,” ringhiò. Stava per
aggiungere altro quando si udì una vigorosa voce maschile che
chiamava: “Cavalieri!”
Si
voltarono: un uomo alto, dall'aspetto raffinato, in paramenti da
ciambellano, li stava fissando. “Fratelli cavalieri,” ripeté,
“il mio signore, il barone Otto von Neitschütz, sarebbe onorato se
voleste sedere alla sua tavola.”
“L'onore
è nostro,” rispose Hermann per entrambi, “dite al vostro signore
che arriveremo non appena avremo controllato la sistemazione dei
soldati e della santa reliquia.” Quando l'uomo se ne fu andato,
chiese al compagno: “Te la senti di mangiare?”
“Sì,
non preoccuparti.”
Tra
portate e racconti, il pranzo si protrasse fino al pomeriggio
inoltrato, e il barone von Neitschütz volle offrire a tutti
ospitalità per la notte.
Ai
cavalieri era stata assegnata una stanza molto semplice, con due
letti, un tavolino e lo stretto necessario. L’unico ornamento che
essa conteneva era un’immagine della Vergine appesa alla parete,
sotto la quale si trovava una piccola mensola con un vaso che
conteneva dei fiori d’iperico.
Rispetto
alla camerata di Starkenberg, ai due parve comunque di un’opulenza
straordinaria.
Adalrich
si guardò intorno, poi tastò il letto con l’aria di non averne
mai visto uno in vita sua.
“Che
c’è?” volle sapere Hermann.
“È…
molle.”
L’altro
emise un sospiro. “È un normalissimo letto. Vacci dentro e dormi.”
Ma
il confratello continuava a indugiare. Versò altro olio nel lume,
controllò che la finestra fosse chiusa. Raddrizzò l’immagine
sacra, che secondo lui era un po’ storta.
“Adalrich?”
“Sì?”
“Si
può sapere perché non ti decidi ad andare a letto? Eppure dovresti
essere stanco.”
“Io…
penso che andrò a prendere una boccata d’aria.”
“Mettiti
il mantello, qui non siamo in Terra Santa.”
A
quelle parole, l’altro si sedette finalmente sul letto, giunse le
mani in grembo ed emise un sospiro. “Lo so.”
Hermann
si mise a sedere a sua volta, appoggiando i piedi sul pavimento in
modo da essere faccia a faccia con lui. “Ti dispiace di non essere
più là?” gli chiese con voce sommessa.
Il
confratello chinò la testa. “Sì.”
“Perché?”
“Non
lo so. Qui non mi sento più a casa mia. Forse non mi ci sono mai
sentito.”
Seguì
un lungo silenzio, così profondo che l’unico suono che si udiva
era il lieve crepitare della fiammella. Alla fine Hermann buttò lì:
“Quanto tempo è che ci conosciamo? Quattro anni? Cinque?”
“Di
più. Eravamo novizi
insieme.”
“E
quante volte ci saremo salvati la vita a vicenda? Tu più di me, per
la verità.” Sorrise.
“Non
mi ricordo più.”
“Parecchie,
vero?”
Adalrich
annuì. “Già.”
“E
non so nemmeno qual è il nome della tua famiglia.”
L’altro
alzò gli occhi e li fissò nei suoi. Aggrottò appena le
sopracciglia, le sue labbra si strinsero fino a diventare una linea
sottile. “È importante?” chiese alla fine.
Hermann
distolse lo sguardo. “No, è che io... insomma, ci conosciamo da
tanto tempo, siamo come fratelli, e...”
“Nell'Ordine
siamo tutti fratelli,” lo interruppe Adalrich con voce fredda.
Di
nuovo calò il silenzio. Hermann fissò l'amico, quindi si alzò, si
rivestì sommariamente, si mise sulle spalle il mantello e propose:
“Vogliamo andare a prendere quella famosa boccata d'aria?”
Senza
attendere risposta mise anche a lui il manto sulle spalle e lo tirò
per un braccio per convincerlo ad alzarsi. Adalrich lo lasciò fare.
Pensieri indegni di un cavaliere gli saettarono per la testa: che
Hermann gli stesse vicino per carità cristiana, che volesse
conoscere le sue origini per qualche forma di morbosa curiosità, per
capire da dove mai potesse arrivare uno con il suo aspetto. Si
obbligò a distogliere la mente.
“Ora
andiamo,” si fece udire la voce dell'altro, richiamandolo alla
realtà.
Lo
seguì docile, quasi vergognandosi di quello che aveva pensato solo
un attimo prima: Hermann era una persona troppo limpida per
attribuirgli sentimenti così meschini. Si chiese se fosse la sua
natura distorta a suggerirgli idee così malsane.
“Sei
sempre il solito: non mi stai ascoltando.” La voce dell'amico lo
richiamò ancora una volta alla realtà.
“Scusami.”
“Stavo
dicendo che questi corridoi sembrano il labirinto di Minosse.”
“Già.
Certo.” Adalrich notò che l'altro aveva abbandonato l'argomento
delle ascendenze non appena aveva capito che la cosa gli dava
fastidio.
Trovarono
finalmente una porta che conduceva all'esterno. Nonostante fosse
primavera inoltrata, la notte era fresca. Spirava una brezza leggera,
carica di profumi ai quali ormai non erano più abituati. Raggiunsero
gli spalti, e da lì rimasero a contemplare il paesaggio, morbide
colline coperte di foreste, illuminato dalla luce lunare.
Per
lunghi minuti rimasero in silenzio, ognuno immerso nei propri
pensieri, poi, come parlando a se stesso, Adalrich cominciò: “Non
ti ho mai detto il nome della mia famiglia semplicemente perché non
so quale sia. Fui abbandonato in fasce davanti alla chiesa di
Dachwig, in Turingia, e furono il conte e la contessa von Hohenberg
ad allevarmi come loro figlio. Lo sa Dio quello che hanno dovuto
sopportare per causa mia.”
“Perché?”
L'altro
emise uno sbuffo infastidito. “Lo vedi anche tu come sono fatto. Se
quei due bravi cristiani avessero ricevuto un Pfenning
per tutte le volte che sono stato definito figlio di Satana e frutto
di stregoneria, e per tutte le volte che si sono sentiti consigliare
di annegarmi nel fiume, a questo punto abiterebbero in un palazzo
tutto d'oro come l'Imperatore di Bisanzio.” Emise un sospiro.
“Comunque, evidentemente la Vergine Maria ha voluto ricompensare
quelle brave persone per la loro carità cristiana: poco tempo dopo
il mio arrivo, la contessa riuscì finalmente a concepire e partorì
un maschio. Nemmeno allora si liberarono di me.”
“Lo
credo bene,” replicò Hermann, “sei loro figlio.”
Adalrich
si voltò verso di lui, e lapidario rispose: “Non direi proprio.”
Fece un cenno a due sentinelle, che avevano interrotto il loro giro
di ronda per scrutarli da lontano, poi riprese: “Fui io a liberarli
della mia presenza appena ebbi l'età sufficiente per farlo. Dopo
tutto quello che avevano fatto per me, glielo dovevo. Scelsi di
entrare nell'Ordine, un po' perché la mia infermità a quanto pare
non mi impedisce di brandire una spada, e un po' perché speravo che
nell'Ordine avrebbero fatto meno caso al mio aspetto.”
“Ed
è stato così?”
“Penso
di sì. Ho dovuto sopportare nomignoli come 'neve', 'infarinato' o
'ricotta', ma perlomeno nessuno ha mai proposto di affogarmi o di
bruciarmi vivo.”
Hermann
gli appoggiò una mano sulla spalla. “Adesso però non ti chiamano
più così.”
“Non
in mia presenza.”
L'altro
sorrise. “Lo credo bene.” Poi, dopo una pausa: “E i tuoi li
senti ancora?”
“Non
sono i miei. Comunque sì, mando loro delle lettere. Li informo di
come sto e li ringrazio di tutto quello che hanno fatto per me. Non
voglio che mi credano un ingrato.”
“Non
li hai più rivisti?”
“No.”
Tornarono
a rivolgere la loro attenzione alle campagne. Da qualche parte stava
cantando un gufo, si udiva un latrare lontano di cani. Nel cavo dei
fossi e sotto gli alberi si vedeva già qualche lucciola.
Dopo
un po' Adalrich si rivolse al confratello e con voce sommessa chiese:
“E tu, Hermann?”
“Cosa?”
“Perché
sei entrato nell'Ordine?”
L'altro
sorrise. “Ora che ci faccio caso, in tutti questi anni non me
l'avevi mai chiesto. Sono il terzo figlio di un piccolo feudatario
nemmeno tanto facoltoso, mi piace viaggiare e non ho la minima voglia
di sposarmi, per cui eccomi qui.” Si inchinò con fare teatrale.
“E
tu li senti i tuoi?”
“Il
necessario per non fare la parte del figlio degenere. Adesso è
l'Ordine la mia famiglia.”
“Anche
la mia.”
Hermann
sorrise. “Quindi potremmo dire che siamo parenti. Saremo l’uno la
famiglia dell’altro, che ne dici?”
§
Il
giorno dopo, in pompa
magna, la santa
reliquia fu traslata finalmente a Dürnau. La strada era più carica
di fiori che mai; tutti i paesani, con addosso gli abiti della festa,
si assiepavano ai lati di essa; persino nobili di feudi vicini erano
accorsi con tutto il loro seguito, e i vivaci colori di cotte d'armi
e gualdrappe brillavano sotto il sole.
Preavvertiti
dalle missive inviate in Patria, erano presenti sia il vescovo di
Norimberga che quello di Fulda, che avrebbero concelebrato il
servizio divino.
Il
paese, normalmente quieto e laborioso, per l'occasione sembrava
essersi trasformato nella piazza di una grande città: data la
notizia che il feudatario avrebbe offerto un grande banchetto per
ringraziare il Signore di avergli fatto trovare la santa reliquia, si
erano dati convegno a Dürnau mendicanti, saltimbanchi e suonatori,
venditori ambulanti e semplici curiosi provenienti dai paesi vicini.
I bambini correvano su e giù eccitati dalla colorata novità, e
senza capire nulla di quello che stava succedendo, cercavano comunque
di intrufolarsi nei posti che offrivano una visuale migliore. Fin dal
primo mattino, gli anziani avevano collocato sedie ai margini del
sagrato, e pervicacemente le occupavano, in modo da non perdere il
posto conquistato. Da tutte le finestre pendevano drappi colorati e
ghirlande di fiori e foglie intrecciate con lunghi nastri; un
chierico vagante era salito sul bordo della fontana e stava
illustrando ai presenti, che già facevano capannello, le imprese del
glorioso Santo Atanasio di Alessandria.
Apparentemente
impassibili di fronte a tanta festosa confusione, i due cavalieri
dell'Ordine Teutonico procedevano ai lati del carro che trasportava
la cassa. Nel generale tripudio di colori, la severa sobrietà dei
manti bianchi e delle croci nere metteva in soggezione. Quando
passavano loro, gli strumenti musicali tacevano, i canti si
affievolivano e i balli cessavano. Persino i bambini smettevano di
fare chiasso, contagiati dal clima di rigore che sembrava circondarli
come un’invisibile barriera.
Arrivarono
davanti alla chiesa. Per l’occasione le porte erano state
spalancate, e l’interno era illuminato da centinaia di candele.
L’aria era opaca per le grandi quantità di incenso bruciate.
Padre
Caspar, il parroco di Dürnau, si affannava dentro e fuori dal
tempio, molto emozionato di avere ben due vescovi pronti a
concelebrare una messa solenne.
Quando
tutto fu pronto, la cassa fu scaricata con grande attenzione dal
carro, e fu portata in chiesa da otto soldati.
A
questo punto, arrivarono anche i due alti prelati. Uno si fece
portare sul sagrato seduto su una specie di sedia
gestatoria papale,
l’altro arrivò a cavallo di una mula bianca, con un paio di servi
che gli reggevano un parasole sulla testa e un terzo che conduceva la
bestia per le redini.
La
gente cominciò a sciamare in chiesa per la funzione.
Adalrich
fece cenno a Hermann che si sarebbero messi ai lati della porta, ma
uscì il barone von Obenstein in persona a chiamarli. “Senza di voi
il corpo del santo non sarebbe mai giunto fin qui,” disse,
sospingendoli verso la chiesa, “quindi ci tengo che siate al nostro
fianco durante la messa.”
Adalrich
approfittò dello svolgersi della cerimonia per osservare tutto. Era
tornata la sensazione di inquietudine, più forte che mai. Era come
trovarsi nel buio completo con la consapevolezza di avere alle spalle
qualcuno che invece vedeva benissimo: lui poteva solo percepirlo, ma
l’altro, chiunque o qualsiasi cosa fosse, sapeva perfettamente come
muoversi per assalirlo.
Fece
scorrere lo sguardo sulla navata gremita: davanti c’erano i nobili,
vestiti con gli abiti più belli, e poi man mano gente di ceto sempre
più basso, fino ai mendicanti, che avevano trovato a fatica un posto
in fondo, verso la porta. Notò una giovane donna che si era
rintanata in un angolo per allattare il figlio, e un vecchio che
nonostante i cori si era addormentato, e se ne stava appoggiato a una
colonna con il mento sul petto.
Vide
un soldato fare un gesto repentino verso un ragazzotto che ostentava
un’aria di perfetta indifferenza. Il giovane sussultò e fece per
divincolarsi, ma l’altro gli piegò il braccio dietro la schiena,
quindi gli frugò in tasca e ne trasse una scarsella, che restituì
al legittimo proprietario. Soldato e ragazzo uscirono dalla chiesa.
Spostò
lo sguardo sulla cassa. Essa era stata posata su un supporto ornato
di drappi colorati. Il coperchio era stato tolto, in modo che tutti
potessero vedere la reliquia che conteneva, ma il corpo era stato
coperto da un velo di vera seta di Bononia che celava la maggior
parte delle sue fattezze.
Tutt’intorno
ardevano i ceri, e la luce danzante delle fiammelle diede di nuovo al
cavaliere l’impressione che la figura si stesse muovendo lentamente
all’interno del sarcofago. Quasi sussultò quando vide il velo
sollevarsi appena, ma poi percepì una leggera corrente d’aria, che
faceva increspare l’impalpabile stoffa.
Sul
pavimento, accanto al supporto, c’era un sarcofago tutto d’argento,
ornato di pietre preziose. Per quanto ricco e splendido, Adalrich
sapeva che quello non era il reliquiario definitivo. Nel viaggio di
rientro dalla Terra Santa il barone von Obenstein aveva ordinato a
Venezia dei vetri di particolare pregio, che in quel momento stavano
venendo inseriti in una teca che avrebbe consentito anche la visione
del santo.
Cercò
con lo sguardo il barone e suo figlio. I due erano inginocchiati a
mani giunte. Il primo con la postura ieratica di un padre della
Chiesa, il secondo con lo sguardo furbetto di chi ormai ha già
saldamente in pugno tutto ciò che si era prefissato di ottenere.
Il
suo ruolo, ma soprattutto la Regola che aveva giurato di seguire,
deprecavano il pensare male degli altri, ma quel ragazzo metteva a
dura prova la sua volontà ogni volta che il suo sguardo si posava su
di lui.
Ricordava
bene tutte le sue fandonie sul miracolo della Vergine Maria, e
l’unica cosa che gli veniva in mente, guardandolo mentre ostentava
a beneficio del genitore lo sguardo pio di un pastorello che
contempla la Natività, era di frustarlo come avrebbe fatto con un
servo sorpreso a rubare.
Era
immerso in quei pensieri quando gli parve di notare in mezzo alla
folla qualcuno vestito di nero. Si voltò in quella direzione e si
trovò a fissare in viso la vecchia del giorno prima. Ella sollevò
la mano ossuta, nella quale stringeva un mazzetto di fiori gialli. Fu
solo un attimo, poi la gente ondeggiò, alcuni si spostarono e quando
nel gruppo tornò la calma non si vedevano più né abiti neri, né
trecce canute.
§
La messa era finita, ormai la
liturgia aveva ceduto il posto ai festeggiamenti, che erano in corso
un po' dappertutto.
Il parroco entrò nella chiesa
accompagnato dall’orafo, dal fabbro ferraio, dal falegname con i
suoi due apprendisti e dal macellaio. Seguivano alcuni frati del
vicino convento.
Poiché ormai era calato il
crepuscolo, egli accese due lumi. Uno lo tenne per sé e l’altro lo
consegnò al più autorevole degli artigiani, ovvero l'orafo.
Si fermarono tutti intorno alla
cassa con il corpo.
Il prete si fece il segno della
croce, quindi si avvicinò e tolse il velo di seta, rivelando
Sant'Atanasio in tutta la sua legnosa magrezza. Un mormorio passò
fra gli astanti.
“Ora
bisogna metterlo nella teca,” disse.
Tutti si guardarono irresoluti.
L’unico che dopo qualche istante si riprese fu il macellaio, che si
fece avanti e osservò accuratamente la salma, poi la toccò con un
dito e subito lo ritrasse con un’espressione indefinibile.
“Che
c’è?” gli chiese il fabbro.
“Mi
aspettavo che fosse rinsecchito.” Poi si girò verso il prete: “Con
rispetto, padre.”
“Certo,
figliolo.”
Si avvicinò di nuovo alla cassa,
ne osservò il contenuto con l’occhio dell’esperto, quindi
proclamò: “Lo prendiamo in quattro, due dalle spalle e due dai
piedi. Non dovrebbe rompersi. Sempre con rispetto, padre.”
“Ho
capito, figliolo. Fa’ il tuo dovere.”
“Sì,
padre.”
Sollevarono il corpo, che in
effetti si rivelò docile come quello di un dormiente, e lo deposero
nella teca ingioiellata. Con reverenza vi stesero sopra un drappo
ricamato, quindi si apprestarono a chiudere la cassa con il
coperchio.
Il falegname mandò i suoi
ragazzi a prenderlo. Certo, il mastro orafo l'aveva coperto di lamine
d'argento, bravo lui, ma la struttura, quella solida che avrebbe
sfidato i secoli, era fatta di buon legno di quercia lavorato nella
sua bottega. Gli apprendisti arrivarono, reggendo con attenzione il
pesante oggetto.
“Mettetelo
su,” ordinò. Poi si voltò verso il prete e, con l'intento di
fargli cosa gradita, aggiunse: “E dite un padre nostro, mentre lo
fate. Questa è una santa reliquia.”
I due cominciarono obbedienti a
recitare la preghiera. Si chinarono per appoggiare il coperchio, ma
Hans, quello che si trovava dalla parte della testa, non poté fare a
meno di fermarsi a fissare incuriosito quel volto ieratico, così ben
conservato che sembrava quasi vivo. Rimase a guardarlo come
ipnotizzato, mente il padre nostro si affievoliva fino a diventare un
sussurro stentato.
“Che
fai, dormi?” La voce del mastro falegname lo fece riscuotere
bruscamente. Il movimento fu così repentino che gli sfuggì la presa
del coperchio, il quale gli cadde imprigionandogli una mano contro il
bordo della cassa. Il ragazzo emise un urlo di dolore così forte che
riecheggiò in tutta la navata e cercò senza successo di ritrarre la
mano. Subito accorsero il fabbro e il falegname, che spostarono il
pesante pezzo di rovere liberando il ragazzo.
Hans si era procurato un profondo
taglio, dal quale il sangue era sprizzato su tutta la reliquia.
“Santo
cielo, guarda che cos'hai fatto,” brontolò il suo maestro,
fasciandolo alla meglio per arrestare l’emorragia.
“Scusate,
mastro Oswald,” balbettò il ragazzo, da una parte vergognoso per
quello che aveva combinato, ma dall'altra prossimo allo svenimento
perché impressionato dal sangue.
“Va'
in quell'angolo a sederti, mi sembri un cencio!”
“Scusate,”
ripeté Hans, quindi barcollò via alla meglio e si lasciò cadere
seduto alla base di un pilastro. La fasciatura di fortuna si stava
già arrossando.
Gli altri tolsero il coperchio.
“Che disastro,” grugnì scontento l'orafo. Tutti si guardavano
senza saper bene che fare.
Nemmeno il prete, cui i mastri
artigiani si volsero in cerca di consiglio, seppe dare istruzioni.
Alla fine fu mastro Kurt, il
macellaio, che con grande senso pratico cavò tutti d'impaccio. “A
cercare di ripulirlo rischiamo di fare peggio,” disse, “e due
gocce di sangue non hanno mai ammazzato nessuno. Ora chiudiamo, e poi
ci penseremo quando arriverà la cassa più bella.”
Le gocce per la verità erano ben
più di due, ma tutti approvarono con grande sollievo, e fecero come
l'uomo aveva suggerito.
Ancora mezzo intorpidito, Hans
seguì quello che i mastri artigiani stavano facendo con
l'impressione di avere la testa dentro la bambagia. Si passò la mano
sana sulla fronte, ritirandola coperta di sudore gelido. Gli mancava
il coraggio di guardare cos'era successo a quella ferita.
Gli altri trafficarono ancora un
po', poi il falegname si girò verso di lui e disse: “Ce ne
andiamo, vedi di muoverti.”
Il ragazzo si alzò alla meglio,
appoggiandosi al pilastro. Gli altri si stavano già dirigendo verso
la porta, e man mano che le lanterne si allontanavano, la navata di
faceva sempre più oscura. Gli parve di udire un cigolio come di
legno, e poi un fruscio alle sue spalle. Si voltò e vide un cane.
“Pussa
via, bestiaccia!” urlò indignato.
Gli altri tornarono indietro.
“Che c'è?” chiese mastro Oswald.
“Un
cane.”
L'uomo sollevò la lanterna per
fare luce nella navata ormai buia. “Si sarà infilato dentro quando
è entrata la gente. Dov'è andato?”
“Di
là.”
Nella direzione indicata non
c'era nulla. “Sei sicuro di averlo visto?” chiese il falegname.
Il ragazzo accennò di sì con la
testa. “Era grande come i mastini del cacciatore, giallo e con
delle macchie nere su tutto il corpo.”
“Mai
visto un cane del genere, secondo me te lo sei sognato.”
|
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Capitolo 5 *** Capitolo 4 ***
Come sempre, grazie a tutti coloro che
hanno dato un'occhiata a questa storia. Poiché tutti gli autori amano i
commenti, ringrazio in particolare fiore
di girasole, morgengabe, Saelde_und_Ehre, Syila, Dark_sky114,
miciaSissi, Me91, innominetuo, TotalEclipseOfTheHeart, PawsOfFire
e Spettro94 per avermene
lasciato uno^^
Capitolo 4
Non era ancora l'alba quando Udo
aprì gli occhi accanto a sua moglie Bertha. Stando attento a non
svegliare né lei né i due figli più piccoli, che dormivano insieme
a loro, scivolò fuori dalle coltri, raccolse l'involto dei vestiti e
andò nella stanza del camino. Accese un lume, quindi frugò nella
cenere alla ricerca di braci superstiti. Una volta che ebbe scavato
fuori qualche scintilla arancione vi buttò sopra degli sterpi
secchi.
Mangiò un pezzo di pane
nell'attesa che il fuoco si ravvivasse, poi vi aggiunse qualche
bastoncino più grosso e uscì. Il suo apparire fu salutato da un
coro di grugniti.
“Buoni,
buoni,” disse, mentre dava sfogo alla natura, “Adesso papà Udo
vi porta a mangiare.”
Finì di fare i suoi bisogni, si
sistemò e tolse il paletto a un recinto, dal quale subito si riversò
fuori un branco di maiali.
“Andiamo
nel bosco a cercare le ghiande,” annunciò, quindi prese un bastone
che teneva appoggiato al muro per la bisogna e cominciò con quello a
spingere gli animali verso la strada.
Il branco sapeva già dove
andare, e Udo non doveva fare altro che stare attento a non farlo
disperdere troppo. Inspirò soddisfatto e cominciò a fischiettare
un'aria, che echeggiava nel silenzio del primo mattino.
Poi all'improvviso si udì un
urlo. Qualcosa che non era né umano né animale, un lamento lungo e
sinistro che gli fece ghiacciare il sangue nelle vene e spinse i
maiali a fuggire stridendo in tutte le direzioni. “Signore Iddio!”
esclamò il porcaro, tappandosi le orecchie. Si guardò intorno: il
sole non era ancora comparso all'orizzonte, e nella penombra incerta
si vedeva troppo poco per capire se ci fosse qualche belva, o per
capire dove fossero andati a finire i porci.
Si spostò verso la strada e
cominciò a chiamare i suoi animali. Mentre era così impegnato, notò
che poco lontano c'era qualcosa per terra. Una sagoma scura e
immobile.
Per un po' rimase a guardarla
titubante, aveva ancora nelle orecchie quell'orrendo ululato e la
paura gli rendeva i piedi più pesanti del piombo, poi pian piano si
avvicinò, e quando fu alla distanza giusta si accorse che si
trattava di un uomo raggomitolato.
“Signore?”
chiamò incerto. “Signore? Viandante?”
Nessuna risposta.
“Signore?”
Si avvicinò ancora, l'uomo
rimaneva immobile, rannicchiato in una specie di viluppo scuro.
Alla fine, Udo si fece coraggio,
lo afferrò per una spalla e lo voltò sulla schiena.
Quello che vide gli fece fare uno
scomposto salto indietro. Rotolò a terra con un gemito di
raccapriccio, quindi si rialzò, si disinteressò del tutto dei
maiali e corse in paese più forte che poteva, urlando con quanto
fiato aveva in corpo.
§
Era da poco passata l’alba
quando il porcaro fu introdotto nella sala delle udienze del barone
von Obenstein.
Il pover’uomo stava ancora
tremando, ed era pallido come un morto. Mio signore!” esordì
prosternandosi, “Mio signore, una belva!”
Il nobile gli si fece più
vicino. “Una belva? Dove?”
“Ha
ucciso un uomo sulla strada per Norimberga.”
“Che
stai dicendo?”
Von Obenstein cercò di cavare
fuori altre notizie al porcaro, ma questi continuava a balbettare di
orsi e lupi e sembrava non sentire nemmeno le sue domande.
Alla fine, il feudatario
spazientito chiamò il guardiacaccia e alcuni armigeri, poi si
risolse ad andare sul posto personalmente.
Quando arrivò, notò per prima
cosa un capannello di gente che si scambiava commenti preoccupati.
Qualche volenteroso aveva radunato i porci di Udo, soprattutto per
impedire che andassero a grufolare intorno alle spoglie. Si palpava
il sollievo derivante dal fatto che la vittima era un forestiero.
Ulrich von Obestein scese da
cavallo, la folla fece ala al suo apparire. Il nobile ordinò per
prima cosa agli armigeri di far allontanare tutti, e i paesani,
brontolando sottovoce, si dispersero per tornare alle loro attività.
Successivamente si avvicinò alla
vittima, che si trovava ancora nella posizione in cui il porcaro
l’aveva lasciata. Si trattava di un uomo sui trent’anni, vestito
con dignitosa sobrietà, in uno stile che faceva pensare più a un
letterato o a un dottore in legge che a un mercante.
Il volto era cereo, impietrito in
una spaventosa espressione di orrore. I capelli di un rosso
fiammante, lunghi fino alle spalle, erano arruffati e
impiastricciati. La gola era stata squarciata con una forza che non
poteva essere umana.
Il barone si chinò per
osservarlo meglio, e notò che oggetti di valore e denari erano
ancora al loro posto. Il pugnale che il poveretto portava in cintura
non era uscito dal fodero, il bastone da viandante giaceva
abbandonato poco lontano.
Mentre era assorto nelle sue
osservazioni, la voce di Wernhart, il suo capo-guardiacaccia, lo
distrasse: “Voi permettete, mio signore?” Si inginocchiò anche
lui accanto al corpo e lo esaminò.
“Una
cosa del genere potrebbero averla fatta dei lupi,” disse dopo un
po’, “o forse un orso.” Fece una pausa, si tolse il cappello
adorno di una lunga penna di urogallo, si grattò la testa. Poco
convinto soggiunse: “Ma adesso non è stagione. Né di orsi né di
lupi. Non si avvicinano così tanto al paese, in primavera
inoltrata.”
“Una
lince, allora?” propose von Obenstein.
L’altro si strinse nelle
spalle. “Non c’è un’impronta,” disse poi. Si alzò, fece un
giro tutt’intorno scrutando il terreno, controllò anche le foglie
dei cespugli e i tronchi degli alberi. Scosse la testa, sembrava più
perplesso che deluso. “Niente,” concluse lapidario.
“Un
cinghiale?”
“Mio
signore, un cinghiale avrebbe lasciato molte più tracce, e data la
sua altezza l’avrebbe colpito al ventre.”
“Forse
l’uomo era chinato per qualche motivo.”
“E
soprattutto, mio signore, né cinghiali, né linci, né orsi né lupi
lasciano la loro preda praticamente intera ma senza più una goccia
di sangue in corpo.”
Il Barone lo fissò stupito. “Che
stai dicendo?”
“Che
io sia dannato se non è così, mio signore.” Indicò lo squarcio
che la disgraziata vittima aveva sulla gola. “Dov’è finito tutto
il sangue che sarebbe dovuto uscire da qui?” Si fece il segno della
croce e soggiunse: “Che Sant’Uberto ci protegga tutti, mio
signore.”
Il nobile alzò lo sguardo e notò
che anche gli armigeri si stavano lanciando l’un l’altro occhiate
cariche di preoccupazione. La cosa lo fece quasi sorridere: soldati
che scendevano in guerra senza la minima esitazione, si ammucchiavano
come pecore tremanti di fronte a un guardiacaccia che, probabilmente
troppo ubriaco per riconoscere le tracce di selvatico, cercava di
buttarla sul soprannaturale per salvare la faccia.
“Basta
con queste sciocchezze da comari!” esclamò. “Ordino che sia data
sepoltura cristiana a queste spoglie. Oltre ad affidare a Dio l'anima
di questo poveretto, padre Caspar si occuperà di risalire alla sua
identità, se sarà possibile, e farà restituire i suoi averi alla
famiglia. In caso contrario, li userà per opere di carità.”
Il barone rientrò al castello
immerso in tetri pensieri: c'era una belva nelle sue terre. Che si
trattasse di orso, lupo o lince, poco importava: era necessario
stanarla e ucciderla.
Una belva libera di predare
significava pericolo, e significava che i contadini non sarebbero
andati nei campi, i pastori non avrebbero più portato fuori le
greggi, e in generale nessuno avrebbe più fatto il proprio dovere.
“Bisogna
organizzare una caccia,” disse, rivolgendosi a Wernhart, che si
trovava ancora al suo fianco.
“Una
caccia, certo, mio signore. Per quando?”
“Partiamo
il prima possibile. Raduna i battitori e fa preparare i cani.”
“Volete
dire oggi, mio signore?”
“Sì,
questa non sarà una caccia di piacere. Dobbiamo uccidere la belva.”
Mastro Wernhart assunse
un'espressione indefinibile. Di nuovo si tolse il cappello, si ravviò
i capelli brizzolati e se lo rimise in testa, quindi estrasse dalla
camicia la medaglietta di Sant'Uberto che portava al collo.
“Non
sarà una caccia di piacere,” confermò.
I due si fissarono negli occhi
per un istante, poi l'uomo si inchinò e disse: “Con il vostro
permesso, barone, vado a preparare il necessario.”
Una volta che il guardiacaccia si
fu allontanato, von Obenstein fece chiamare anche i due fratelli
cavalieri.
“È
necessario stanare una belva,” li accolse sbrigativo, ancora sotto
l'effetto dello strano comportamento di mastro Wernhart, “Ho dato
ordine di approntare cani e battitori. L'animale è pericoloso, la
notte scorsa ha ucciso un uomo sulla strada per Norimberga, per cui
desidero che voi siate al mio fianco.”
I due chinarono il capo in segno
di assenso. Fratello Adalrich chiese: “Di che belva si tratta?”
“Non
lo sappiamo. Neppure il mio capo-guardiacaccia è riuscito a
capirlo.” Evitò di alludere alle strane preoccupazioni dell'uomo.
“Partiremo appena possibile,” disse.
Tornarono solo all'imbrunire, con
un niente di fatto. Una volta liberati, i cani avevano cominciato a
ululare in modo strano, come se avessero trovato la migliore delle
piste ma al tempo stesso fossero spaventati o confusi da qualcosa.
Peraltro non si erano lanciati a seguirla, erano rimasti tutto il
tempo intorno al gruppo dei cacciatori, badando a non allontanarsi
troppo. Nemmeno i veltri più intraprendenti e vigorosi avevano mai
interrotto il contatto visivo con i padroni.
I battitori avevano percorso il
lungo e in largo la foresta, ma non avevano trovato traccia di grossi
animali da nessuna parte.
Un po' in disparte rispetto al
resto del gruppo, i due cavalieri dell'Ordine procedevano fianco a
fianco. “Ti vedo pensieroso,” ruppe il silenzio fratello Hermann.
“Cosa c'è?”
L'altro scosse la testa. “Niente
di importante.”
“La
Regola consente la caccia. Inoltre, in questo caso non sarebbe
neppure da considerare divertimento, dato che c'è in giro una belva
pericolosa che bisogna uccidere.”
Fratello Adalrich emise un
sospiro. “Non è questo il problema.”
“E
allora cosa c'è?”
“Non
lo so. Ho una brutta sensazione, non riesco a spiegartelo meglio. Io
sapevo che oggi non avremmo trovato nulla, non chiedermi perché.”
“Fai
ancora quegli strani sogni?”
“Sì.”
Hermann stava per ribattere,
quando un grido lo riscosse: “Eccolo! Eccolo!”
I due si voltarono verso il
gruppo dei cacciatori, e videro che era animato di un insolito
fermento. C'erano uomini che preparavano picche e reti, i cani
latravano e ululavano come impazziti, ma nessuno di essi sembrava
volersi addentrare nella macchia.
Si avvicinarono al barone, che
subito disse loro: “Hanno visto un animale grosso, dal manto giallo
macchiato di nero.” Sorrise compiaciuto e aggiunse: “Lo dicevo,
io, che era una lince.”
Adalrich aggrottò le
sopracciglia. “Perché i cani non seguono la traccia?” chiese
insospettito.
Sotto l'effetto della frenesia
venatoria, il barone rispose: “E che ne so? Stupidi bastardi
pulciosi, dirò al guardiacaccia di punirli a dovere. Però ora
andiamo, non vorrei che scappasse!”
Spronò il cavallo e scomparve
nella selva, salvo poi tornare dopo poco con le pive nel sacco: si
stava facendo buio e la belva aveva fatto perdere le sue tracce. Non
era più possibile cacciare. “Domani torneremo,” promise al
misterioso animale, poi voltò il cavallo per rientrare.
§
Il bambino piangente in braccio,
Gertrud stava facendo del suo meglio per addormentarlo, ma fino a
quel momento senza alcun successo: la creatura continuava a vagire
con quanto fiato aveva in gola. Aveva provato a dargli il seno, a
cullarlo, a cambiarlo, ma il piccolo non ne voleva sapere di
calmarsi.
Con un sospiro, la giovane donna
si avvicinò alla finestra, appoggiò il lume sul davanzale e
socchiuse lo scuro per far entrare un po' d'aria fresca. In quel
momento udì un tramestio, e una figura passò rapida all'esterno,
attraversando il quadrato di luce che la candela proiettava per
terra. Era un uomo pallido come un morto, con i capelli rossi tutti
arruffati e un abito nero. Aveva la gola squarciata da un orecchio
all'altro.
“Santa
Vergine!” mormorò Gertrud, quindi si fece indietro e sbarrò la
finestra, poi corse a letto e si rannicchiò accanto al suo sposo con
ancora il figlio fra le braccia.
Svegliato di soprassalto, mastro
Oswald chiese: “Che c'è, moglie?”
Tremante, la donna si strinse a
lui e in un soffio disse: “Ho visto il morto.”
“Il
morto? Che morto?”
“Quello
di stamattina. È passato di corsa davanti alla finestra.”
L'altro emise uno sbuffo
infastidito. “Gertrud, te l'ho sempre detto: tu immagini troppe
cose. Chissà cos'avrai visto.”
“Ti
dico che era lui. L'ho guardato bene in faccia, quando Bertha e Leni
l'hanno cucito nel sudario.”
“Se
l'hai guardato così bene, avrai anche visto che era morto, e i morti
non camminano: giacciono sottoterra.”
“Era
lui,” ripeté caparbia Gertrud.
“Ti
ripeto che i morti non camminano,” rispose l'uomo accarezzandole la
schiena. “Ora dormi. Domattina andremo a parlare con Padre Caspar,
e vedrai che lui ti tranquillizzerà.”
§
Il giorno dopo, i coniugi
Schreiner, Gertrud con il figlio più piccolo in braccio e mastro
Oswald con quello più grandicello per mano, si presentarono alla
canonica.
Il prete li accolse affabilmente,
li condusse in chiesa. Mentre percorrevano a passi lenti la navata,
chiese: “Ebbene, volete dirmi cosa c'è?”
Mastro Oswald prese la parola:
“Mia moglie Gertrud ha bisogno della vostra rassicurazione, padre.”
Padre Caspar annuì. A volte
capitava che le giovani mogli si sentissero rivolgere determinate
richieste dai mariti, e spesso venivano proprio da lui a chiedere
cosa Dio permettesse nel talamo e cosa invece no. Lo stupì che la
giovane donna avesse con sé due figli: non era un po' tardi per
avere dubbi su cosa accadesse tra marito e moglie?
Le fece comunque cenno di
seguirlo, e continuando a camminare per la navata distanziò di un
po' mastro Oswald. “Ebbene, figlia mia, di cosa volevi parlarmi?”
le chiese.
Gertrud deglutì, prese un bel
respiro, e infine disse: “Padre, io ho visto il morto ieri notte.”
Il sacerdote interruppe il suo
lento passeggiare. “Eh?”
“Il
morto, quello di ieri. Io l'ho visto correre per il campo. Aveva i
capelli rossi e la faccia bianca, e la gola aperta così.” Si passò
sul collo la mano che non reggeva il figlio.
Padre Caspar emise un sospiro.
“Figliola, ti sarai sbagliata. Quel pover'uomo giace sotto due
braccia di terra dietro l'abside della chiesa.”
“So
quello che ho visto, padre,” rispose imperterrita Gertrud. Una ruga
verticale le si disegnò al centro della fronte pallida.
Il religioso scosse la testa:
dannate femmine dalla natura impressionabile, che vedevano sempre
cose che non c'erano e si spaventavano della loro stessa
immaginazione. “Quel pover'uomo era morto,” ripeté adagio, col
tono che avrebbe usato per parlare a una bambina, “quindi
certamente non poteva correre per il paese. Forse l'idea che ci sia
una belva qui nei boschi ti ha scossa e hai creduto di vedere
qualcuno.”
Gertrud abbassò la testa
evitando di replicare.
“Torna
alle tue faccende, figlia mia,” le suggerì il religioso, ma la
giovane donna sembrava tutt'altro che convinta.
“E
ora cosa c'è, mia cara?”
“Padre,
io l'ho visto. Ero affacciata alla finestra, e l'ho visto da qui a
dove siede Oswald.” Indicò il marito, che stava facendo saltellare
l'altro figlio sulle ginocchia.
Il prete sospirò di nuovo, poi
disse: “Va bene, dal momento che le mie parole non hanno effetto,
sai cosa facciamo? Ora andiamo fuori a vedere la tomba, così ti
convincerai finalmente che ieri notte hai fatto solo un brutto
sogno.”
Padre Caspar chiamò il
falegname, quindi tutti in fila uscirono per andare sul retro della
chiesa, dove, circondato da una siepe di prugnolo, si trovava il
cimitero.
“Ecco
figli miei,” disse il prete, “guardate con i vostri occhi.” Poi
volse lo sguardo in direzione della sepoltura, e l'unica parola che
riuscì a proferire fu: “Ma...”
Si fece il segno della croce.
La terra era stata spinta ai lati
della tomba, al posto della quale c'era solo una fossa irregolare.
Anche la tomba accanto, nella quale era stata sepolta la povera
Christine Klein, morta di parto due giorni prima, si trovava nelle
stesse condizioni. I fiori che la coprivano erano stati sparsi un po'
ovunque, la croce era stata divelta e la siepe era stata aperta da
qualcosa di grosso che l’aveva attraversata spezzando un paio di
rami. Padre Caspar azzardò un'occhiata in quel che restava della
tomba e si ritrasse pallido come un cencio. “Signore Iddio,”
mormorò con voce spenta.
In quel momento echeggiò un urlo
disperato: “Hans! Il mio Hans!”
Si affacciarono sul sagrato e
videro che stava arrivando di corsa una donna scarmigliata e
piangente.
“Il
mio Hans!” ripeté ella.
Attirate dai clamori, dalle case
intorno cominciarono a uscire altre donne. I negozianti si
affacciarono alla porta delle botteghe, e in generale chiunque era
sulla piazza rivolse la sua attenzione a quegli strazianti lamenti.
Oswald riconobbe la vedova Egger,
madre del suo apprendista più giovane.
Corse verso di lei. “Martha!
Che succede?”
La donna singhiozzava così forte
che non riusciva ad articolare le parole. “Hans...” balbettò.
Il falegname ricordò che il
giorno prima il ragazzo si era ferito. “La mano?” chiese,
immaginò che il taglio si fosse infettato.
“Non
c’è più!” urlò la donna per tutta risposta. “Hans è
sparito, non c’è più!” Di nuovo ruppe in singhiozzi scomposti.
Mastro Oswald la prese per le
spalle, la costrinse a calmarsi. “Come sarebbe a dire che non c’è
più? Oggi deve venire a bottega. Dov’è andato?”
“Lo
sa Iddio, dov’è andato. Questa notte l’ho sentito uscire per
andare alla latrina. Mi sono riaddormentata prima che rientrasse, e
quando mi sono svegliata stamattina lui non c’era più. È
scomparso!”
Dal capannello di gente che stava
ascoltando la vicenda si levò una voce: “Io questa notte ho
sentito un ululato terribile!”
“Anch’io!”
esclamò un’altra, “E di certo non erano lupi!”
“No,
nessun lupo fa un verso del genere. Mi ha fatto ghiacciare il sangue
nelle vene!”
A questo punto, si fece avanti
anche il prete. “Basta! Ora calmatevi tutti!” esclamò.
L’autorevolezza della figura
religiosa fece sì che pian piano la gente smettesse di agitarsi.
Tutti si voltarono verso di lui con aspettativa.
“Una
belva feroce si sta aggirando intorno a Dürnau,” proclamò allora
Padre Caspar, “Uccide le persone e profana le tombe.”
Un mormorio spaventato si levò
dalla folla riunita, il sacerdote continuò: “Quindi ora andrò ad
avvisare il barone, e gli spiegherò quello che sta accadendo qui in
paese. Per grazia di Dio, ci sono presso di lui anche due fratelli
cavalieri dell’Ordine Teutonico, e anche i loro soldati, che senza
dubbio ci difenderanno.”
§
Seduti intorno al tavolo nella
sala delle udienze, il barone, suo figlio Konrad, il comandante delle
guardie, il capo-guardiacaccia e i due fratelli cavalieri ascoltavano
quello che padre Caspar stava raccontando.
“E
quindi, mio signore,” terminò di narrare il prete, “morti che
dovrebbero giacere in una sepoltura cristiana sono visti vagare per
il paese, le tombe sono profanate, la gente scompare, si odono
lamenti e ululati nella notte.” Fece una pausa durante la quale
fissò negli occhi i presenti uno per uno, interrompendosi giusto un
attimo prima di rivolgere lo sguardo su fratello Adalrich. Con voce
cupa concluse: “Io credo che il Demonio sia all’opera in questo
luogo.”
“Io
invece credo che si tratti di una lince,” rispose pacato von
Obenstein, senza lasciarsi contagiare dal clima di terrore mistico
che il prete aveva evocato. “Oggi andremo nuovamente a caccia e
cercheremo di stanarla, così metteremo fine una volta per tutte a
questa storia.”
“Ma
le tombe, mio signore...”
“L’animale
non ha discernimento. Avrà sentito l’odore del corpo sottoterra e
avrà pensato a una preda facile.”
Padre Caspar continuava a essere
poco convinto. “E l’uomo che è stato visto aggirarsi con la gola
squarciata, mio signore?”
“Un
brutto sogno di quella donna.”
Alla lapidaria affermazione seguì
un lungo silenzio, che fu interrotto dall’arrivo di un paggio che
annunciava una delegazione di paesani nel cortile: era stato
ritrovato il corpo del povero Hans: giaceva al limitare del bosco,
poco lontano da casa sua. Il latore della notizia riferiva che il
ragazzo aveva la gola squarciata ed era completamente dissanguato,
esattamente come il viandante che avevano sepolto il giorno prima.
Partì immediatamente la seconda
caccia, questa volta con molti più battitori e cani diversi. Fu
mandato un messaggio anche ai nobili dei feudi vicini, non certo
perché si trattasse di un evento mondano, quanto piuttosto per avere
più occhi e più spade a disposizione.
Furono battute le foreste in
lungo e in largo, ma la stagione non era adatta per la grossa
selvaggina, che era perlopiù nel profondo della selva ad allevare i
piccoli, e quindi la ricerca rimase infruttuosa.
Solo verso sera, mentre gli
uomini stanchi rientravano al castello, il barone von Obenstein
scorse di nuovo lo strano animale maculato, quasi invisibile nella
penombra del crepuscolo.
“Eccolo!”
gridò, e spronò il cavallo per in seguirlo.
La misteriosa bestia si voltò
per un istante nella sua direzione, puntandogli contro occhi che
sembravano ardere di un fuoco verde, quindi si gettò di corsa nella
foresta.
Il barone le galoppò dietro fino
a che non sbucò in una specie di radura. Si guardò intorno:
l’animale non c’era più, né si sentivano in giro rumori di
frasche smosse. C’era però un vecchio che stava raccogliendo degli
sterpi.
Il barone si voltò verso di lui:
l’uomo sembrava completamente assorto nel suo lavoro, tant’è che
al suo arrivo non aveva neppure alzato la testa. Preso da una strana
curiosità, spronò il cavallo e gli si avvicinò. “Buon uomo,”
disse.
L’altro fece come se non avesse
neppure sentito. Portava una casacca scura, che nella penombra si
confondeva con la vegetazione. Era a testa scoperta e aveva radi
capelli bianchi che gli scendevano fin sulle spalle.
“Buon
uomo!” ripeté il barone, alzando la voce.
Il vecchio finalmente alzò la
testa e lo fissò. Aveva un volto che sembrava antico di secoli,
scuro e rugoso, ma con occhi come carboni ardenti. Von Obenstein
dovette faticare per non indietreggiare sotto quello sguardo, che
sembrava trapassare come una lama. “Buon uomo, hai visto un grosso
animale giallo a macchie nere passare per di qua?”
Il misterioso vecchio esitò per
qualche istante, poi gli rivolse uno strano sorriso, che nonostante
l’età rivelò una dentatura inaspettatamente candida e robusta.
Scosse la testa e si addentrò nella macchia prima che il nobile
potesse replicare.
Il barone rimase per un po’
interdetto a fissare la vegetazione in cui l’uomo era scomparso.
Non gli pareva di aver mai visto quel vecchio tra i suoi contadini, e
si chiese da dove potesse venire.
Mentre era immerso in quei
pensieri, udì il fioco richiamo di un corno. Quel suono lamentoso
ebbe il potere di riportarlo alla realtà contingente: realizzò che
stavano calando le tenebre, e che tra un po’ non avrebbe visto a un
palmo oltre il suo naso. Spronò il cavallo per raggiungere i suoi.
Quando tornarono in paese videro
una lunga fila di persone che, con provviste e fagotti, stava
entrando in chiesa. Sulla porta c’era padre Caspar, che impartiva
la benedizione a ogni paesano che varcava la soglia.
Il barone smontò da cavallo,
chiamò i due cavalieri e si avvicinò al sacerdote. “Che succede?”
gli chiese.
Il prete fece cenno ai fedeli di
continuare a prendere posto in chiesa, quindi si allontanò di
qualche passo, costringendo il barone e i due Teutonici a fare
altrettanto. Quando furono al sicuro da orecchie indiscrete, a bassa
voce spiegò: “Il figlio della vedova Egger non era morto.”
“Come
sarebbe a dire che non era morto?” replicò il barone incredulo.
“Non aveva la gola squarciata?”
Il prete si strinse nelle spalle
e con un sospiro rispose: “Al momento di chiuderlo nel sudario,
quando sua madre si è chinata su di lui per dargli un ultimo bacio,
ha aperto gli occhi e l’ha azzannata alla gola uccidendola
all’istante. Subito dopo è saltato giù dal tavolo con la rapidità
di una lontra, ha fatto lo stesso con Leni e avrebbe ucciso anche
Bertha, ma per fortuna le urla hanno attirato mastro Kurt, che è
arrivato con la mannaia che usa per tagliare le carcasse.”
Il barone rimase in silenzio per
qualche istante, ponderando la spaventosa portata di ciò che aveva
appena udito, poi chiese: “E adesso dov’è?”
“Hans?”
“Sì.
È ancora qui? Si può vedere questo redivivo?”
I due cavalieri si scambiarono
uno sguardo.
Padre Caspar lanciò un’occhiata
alla fila di persone che stava continuando a entrare in chiesa.
Passarono un uomo che portava in spalla un vecchio avvolto in una
coperta e delle donne con i figli in braccio o attaccati alle gonne.
Riconobbe alla luce delle fiaccole Lise che accompagnava per mano la
madre cieca. La donna stava cantando in unno sacro, e la sua voce
tremula echeggiava nel generale clima di mestizia.
Infine disse: “Hans è
scappato, ma temo che possa tornare, e questo è il motivo per cui ho
detto alla gente di rifugiarsi nella casa del Signore. Almeno ci sono
muri solidi e porte di rovere rinforzato. E Dio, naturalmente.”
Toccò la croce che gli pendeva dal collo.
Von Obenstein fissò a sua volta
la fila di gente che ormai andava esaurendosi, quindi chiese: “E i
corpi?”
“Sono
chiusi nella bottega di mastro Kurt. Domani vedremo in che condizioni
sono. Mastro Kurt è già stato curato.”
“Si
era ferito?”
“Hans
l’ha morso, ma non in maniera mortale. Il macellaio si è difeso
con la mannaia e gli ha fatto mollare la presa.”
“Bertha?”
“L’ha
morsa solo leggermente,
è già con gli altri.”
“Manderò
degli armigeri.”
Padre Caspar scosse la testa. “In
chiesa non entrerà nessuno. Dio, prima dei muri e dei portoni, sarà
la nostra fortezza.”
“I
paesani sono tutti dentro?” domandò il barone, senza farsi
contagiare dall’empito mistico.
“No,
alcuni hanno preferito non abbandonare i loro averi, come se i beni
materiali fossero più importanti della vita.”
“Allora
manderò i soldati a pattugliare il paese questa notte.”
A questo punto prese la parola
fratello Adalrich: “Staremo noi in chiesa, e i soldati dell'Ordine
daranno man forte ai vostri.” La frase aveva il tono di
un’affermazione apodittica.
Il prete e il barone si
guardarono, poi si voltarono all’unisono verso il cavaliere, che
alla luce delle torce sembrava ancora più imponente e gelido di
quanto non apparisse sotto i raggi del sole. Nessuno dei due ebbe il
coraggio di contraddirlo. Lui e il confratello si accomiatarono dal
barone con un sobrio inchino, quindi entrarono in chiesa. Attesero
che anche il prete fosse dentro, quindi fratello Adalrich diede
ordine di serrare le porte.
§
Le ore passavano. Tolti i
classici rumori di un gruppo numeroso di persone, colpi di tosse,
movimenti, parole sussurrate, nella chiesa c’era silenzio. Qua e là
ardevano dei lumi, qualcuno aveva buttato a terra dei pagliericci e
stava cercando di dormire. L’uomo che era entrato col vecchio sulle
spalle aveva spezzettato un tozzo di pane in una scodella, vi aveva
aggiunto un po’ di latte e ora lo stava imboccando.
“Quello
è un figlio affezionato,”
osservò fratello Adalrich.
Fratello Hermann si voltò verso
di lui. “Cosa?”
“Guarda
com'è premuroso.”
L’altro sorrise. “Hai
ragione.”
Un bambino che poteva avere un
paio d’anni sgusciò via dal viluppo di coperte nel quale era
coricato e trotterellò nella loro direzione. Li guardò
alternativamente entrambi, infine nella sua innocenza tese le
braccine verso fratello Adalrich e fece qualche passo verso di lui.
Il cavaliere lo fissò imbarazzato, senza sapere bene che fare.
Nello stesso momento, una giovane
donna, probabilmente la madre del bambino, lo raggiunse di corsa e lo
tirò indietro prima che potesse arrivare a sfiorare il cavaliere.
Con il figlio saldamente in braccio alzò gli occhi su di lui, forse
a disagio per quella plateale dimostrazione di sospetto nei suoi
confronti, ma rinunciò a dire qualcosa. Si girò e tornò al suo
giaciglio.
In quel momento, echeggiò
all’esterno un ululato agghiacciante. Un lamento che cominciò cupo
e roco, poi si alzò di tono fino a terminare con uno lungo urlo
stridulo.
Nella chiesa calò un silenzio di
tomba mentre tutti si scambiavano occhiate cariche di preoccupazione.
Padre Caspar sollevò il
crocifisso e cominciò a recitare una preghiera, ma si udì un altro
ululato, più vicino del precedente. A esso fece seguito un terzo
orrendo lamento.
Qualcuno cominciò a
singhiozzare, in più punti si udiva il mormorio di preghiere
recitate a fior di labbra.
A bassa voce, Adalrich disse a
Hermann: “È sotto le finestre.” Accennò con la testa in quella
direzione.
Nello stesso momento, mastro Kurt
con voce roca balbettò: “Non mi sento molto bene.”
I cavalieri si voltarono verso di
lui: aveva il volto stranamente gonfio, pallido e umidiccio. Le
occhiaie avevano preso una sfumatura livida. Il respiro si era fatto
pesante, gli occhi febbrili. Come in cerca di aria, tentò di
togliersi la benda che gli era stata applicata sulla ferita.
L’urlo all’esterno si fece
udire nuovamente, qualcosa urtò contro una delle finestre, la gente
gridò facendosi indietro. La voce di padre Caspar, che imperterrito
continuava a recitare preghiere, salì di tono.
Poi si udì un coro di
esclamazioni: mastro Kurt era crollato a terra e rantolava con il
volto ormai illividito. La gente si faceva indietro urlando, si
udivano pianti e strilli d’orrore.
Fratello Adalrich lo raggiunse a
grandi falcate, lo scosse, ma l’uomo sembrava ormai in agonia. Un
istante dopo, il cavaliere percepì l’impatto di un corpo contro il
proprio: Bertha, il volto gonfio e biancastro come quello del
macellaio, gli era crollata addosso priva di sensi, ed era nelle
stesse condizioni dell’uomo. Il cavaliere spostò appena la benda e
vide che la ferita si era gonfiata e arrossata, e secerneva liquido
giallastro come una piaga infetta.
Sulla scena calò un silenzio
attonito, rotto soltanto da qualche singhiozzo qua e là nella folla.
Fuori continuavano a udirsi gli ululati orribili, che però erano
mescolati a richiami e grida delle guardie, e di coloro che non
avevano voluto entrare nella chiesa.
Il cavaliere si guardò intorno,
poi fissò lo sguardo sul prete, che si fece il segno della croce e
in un sussurro disse: “Il Demonio è all’opera qui a Dürnau.”
Stava per aggiungere altro quando da fuori giunse una cacofonia
particolarmente intensa di grida, colpi e lamenti.
“Aprite
la porta!” ordinò Adalrich.
“Se
apro, entreranno,” rispose il prete, “non posso.”
“Aprite,
vi dico! Io e il mio confratello dobbiamo uscire. Non sentite?”
Qualcuno stava chiamando aiuto,
si udivano strida orrende, ringhi e soffi.
“Aprite!”
Visto che padre Caspar non
sembrava intenzionato a ottemperare alla sua richiesta, Adalrich si
rivolse a Hermann: “Apri la porta!”
L’altro, abituato quanto lui a
mantenere il sangue freddo in combattimento, senza una parola andò
al catenaccio e lo tirò, poi schiuse il battente.
Fuori nel frattempo era calato un
silenzio di morte. Qua e là erano infisse delle fiaccole, una
giaceva abbandonata al suolo accanto al corpo immoto di un armigero.
Il sagrato sembrava deserto.
I due cavalieri avanzarono cauti,
le spade in pugno. Il soldato era morto, la gola squarciata come le
altre vittime. Non una goccia di sangue a macchiare il terreno
intorno. Adalrich percepì un fruscio e si girò di scatto, solo per
scorgere un’ombra che scompariva dietro la chiesa. “Purché non
trovino il modo di entrare,” disse, senza sapere bene di chi stava
parlando. Si avvicinarono al grande edificio di pietra, e dietro
l’abside cominciarono a udire il suono di qualcosa che veniva
ripetutamente strappato, insieme ad ansiti e gorgogli. L’aria era
gravata di un pesante tanfo di putrefazione.
Avanzarono ancora e si parò loro
dinnanzi la seguente scena: un ragazzo dal volto cereo e gonfio, con
una zazzera scomposta di capelli castani e una mano fasciata, era
chino su una tomba aperta, dalla quale stava estraendo brani di carne
che addentava e divorava. Al loro apparire, esso si voltò verso di
loro, rivelando una ferita che gli apriva la gola da un orecchio
all’altro. Con un grugnito di disappunto, saltò in piedi e si
dileguò nel buio.
Fratello Adalrich estrasse la
spada e senza esitare si lanciò al suo inseguimento. Uno dei pochi
vantaggi della sua infermità era che di notte vedeva meglio degli
altri, per cui anche nel fioco riverbero delle torce riusciva a
scorgere la sagoma del ragazzo che si allontanava di corsa.
Lo raggiunse in poche falcate.
“Ehi, tu!” lo chiamò.
Il ragazzo si immobilizzò come
se fosse andato a sbattere contro un muro, quindi si girò con la
repentinità di un serpente, piegandosi sulle gambe come per spiccare
un salto. Nel buio il suo volto appariva come una macchia bianca
nella quale si aprivano tre voragini nere: due erano gli occhi, e la
terza, innaturalmente ampia, la bocca.
Balzò in avanti con un ululato
gorgogliante, cercando di avventarsi contro di lui. Il cavaliere si
fece sotto, parò il morso con l’avambraccio protetto dall’usbergo,
lo passò da parte a parte con la spada, quindi indietreggiò, e nel
momento in cui il ragazzo cadeva a terra lo decapitò. Il corpo si
accasciò e rimase immobile.
Adalrich si guardò intorno. Il
silenzio non era più perfetto, si udivano vaghi tramestii, l’eco
lontana di qualche ringhio. Una sagoma, appena visibile nel vago
chiarore delle torce, comparve al fondo del sagrato, rimase immobile
per un istante e poi si rituffò nel buio del paese.
Stava ancora ponderando se
lanciarsi all’inseguimento, quando notò quello che sulle prime gli
parve un grosso cane. Era molto più robusto e alto di un cane
normale, aveva il manto giallastro e screziato di nero, i quarti
posteriori più bassi degli anteriori e le orecchie rotonde come
quelle di un orso. La sua chiostra di denti dava l’impressione di
poter staccare il braccio di un uomo con un solo morso.
L’animale alzò il muso verso
di lui e rimase immobile a mascelle semiaperte, probabilmente
cercando di fiutarlo. Adalrich si mosse deciso nella sua direzione,
ma il misterioso cane si girò e scomparve nel buio. Quando il
cavaliere raggiunse il punto in cui l’aveva scorto, non trovò nemmeno
un’impronta.
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Capitolo 6 *** Capitolo 5 ***
Questa è una gara di resistenza,
mi sa. Ringrazio sentitamente per il commento che mi hanno lasciato
Saelde_und_Ehre, Crilu_98, innominetuo, fiore di girasole,
morgengabe, Syila e miciaSissi.
Capitolo 5
Fratello Adalrich rinfoderò la
spada. Stava albeggiando, e una luce lattiginosa stava pian piano
rivelando la portata della devastazione notturna. Il cimitero era
stato profanato, perlomeno nella sua parte più recente; le tombe
erano aperte, e il loro contenuto era stato fatto a brani e divorato.
La bottega del macellaio aveva la porta spalancata, i corpi che vi
erano stati deposti erano spariti. Nel mezzo della piazza giaceva
ancora l’armigero che era stato ucciso durante la notte, nella luce
ancora incerta si intravedevano altri corpi più lontano.
Adalrich si guardò intorno alla
ricerca del confratello. Lo vide sopraggiungere da un vicolo, il
manto bianco spruzzato di sangue. “Hermann!” lo chiamò.
L’altro lo raggiunse.
“Sei
ferito?” gli chiese quando si fu avvicinato.
“No,
e tu?”
“A
posto.”
Rimasero a guardare in silenzio
la devastazione che li circondava, poi Adalrich chiese: “Tu l’hai
visto il cane giallo?”
Hermann annuì. “Più grande di
un lupo, con una bocca che sembrava quella di un leone. L’ho
inseguito per un po’ questa notte, ma mi è sfuggito. Emetteva
delle urla che facevano ghiacciare il sangue, non ho mai sentito
niente del genere.”
“Neppure
io.”
Con un sospiro, Adalrich si passò
una mano fra i capelli. “Cosa credi che sia?” chiese.
“Non
lo so, ma non è una cosa… di questo mondo.”
“È
quello che ho pensato anch’io.” Poi, dopo una pausa: “È il mio
sogno… qualcosa uccide tutti e io non sono in grado di fermarlo.”
“Lo
fermeremo. Dio è con noi.”
“Tu
credi?”
Hermann gli rivolse un sorriso.
“Se non credessi non sarei un cavaliere dell’Ordine, non ti
pare?”
Adalrich stava per ribattere
quando si udì lo scatto del chiavistello della chiesa, che nel
silenzio di morte che aleggiava ovunque risuonò come un rombo di
tuono.
Dapprima uscì la gente, che si
riversò sul sagrato come un’onda di piena, piangendo e gemendo.
Tutti sciamarono verso le rispettive abitazioni, e qua e là presero
a salire lamenti, laddove i paesani si imbattevano in qualche parente
ucciso o abitazione devastata.
Dopo un po’ comparve sulla
soglia anche il prete, reggendosi alla croce come se si fosse
trattato del bastone di uno storpio. Aveva le occhiaie e i capelli
scarmigliati. “Il Demonio è fra noi,” proferì lapidario non
appena scorse i cavalieri.
I
due lo raggiunsero. Prima che potessero aprire bocca, il religioso
proseguì: “sebbene non fossero particolarmente gravi, sia mastro
Kurt che Bertha sono morti questa notte fra atroci sofferenze, a
nulla sono valse le cure. Le loro ferite non erano naturali,
capite cosa intendo?”
I cavalieri annuirono in
silenzio.
Facendo scorrere lo sguardo sulle
loro tuniche chiazzate di sangue, padre Caspar chiese: “E fuori
cos’è accaduto?”
Adalrich lo aggiornò brevemente.
Mentre stava parlando,
sopraggiunse il barone, seguito dal capitano delle guardie e dal
capo-guardiacaccia. Tutti e tre avevano l’aria di non aver chiuso
occhio per tutta la notte.
Il cavaliere informò anche il
nobile di quello che era successo durante la notte.
Mentre anche i soldati
dell'Ordine si radunavano sul sagrato, fu padre Caspar a concludere
il racconto con quello che era successo in chiesa. Infine in tono
cupo ripeté: “Il Demonio è fra noi, riconosco le sue opere
immonde.”
Von Obenstein diede un’occhiata
tutt’intorno, quindi disse ai cavalieri: “Fratelli, vi dispiace
seguirmi?”
Si incamminarono. Fecero il giro
della piazza, il barone volle che gli fossero mostrati i punti dove
si erano svolti gli scontri. Infine disse: “Voi siete combattenti
esperti. Cosa ne pensate di tutto ciò?”
Prese
la parola Adalrich: “L’unica cosa che possiamo dire con certezza,
barone, è che non si tratta di un comune animale feroce. I morti non
trovano riposo, assalgono i vivi e profanano le tombe, ferite di poco
conto causano il decesso fra atroci dolori, e si aggira qui intorno
una bestia che non è mai stata vista prima.” Tralasciò di
aggiungere quello che gli aveva detto la vecchia vestita di nero, ma
in effetti la sua profezia stava cominciando ad avere un senso: Lui
arriverà.
“Quindi
ha ragione padre Caspar quando dice che il Demonio è fra noi?”
“Nulla
di quello che abbiamo visto si spiega secondo le leggi della natura.”
Alla frase seguì un lungo
silenzio, rotto solo dai pianti e dai lamenti che si levavano fiochi
qua e là.
Mentre erano fermi a parlare,
padre Caspar li raggiunse.
“Giusto
voi, padre,” lo accolse il barone, “con i fratelli cavalieri
stavamo per l’appunto valutando cosa sia opportuno fare.”
“Per
prima cosa sarà bene dare alle fiamme i corpi delle vittime di quel
demone,” disse il sacerdote, “solo il fuoco può purificarli
dalla presenza di Satana. Celebrerò anche una messa per la salvezza
delle loro anime.”
“E
per i vivi, padre?”
“Cercheremo
la protezione del Signore, ci rifugeremo in chiesa al calare del
sole.”
“Noi
resteremo qui fuori insieme ai soldati, barone,” intervenne
Adalrich. “Se quell’essere tornerà qui in cerca di preda, lo
uccideremo.”
Il prete annuì, poi dopo un po’
soggiunse: “Inoltre manderò una lettera al vescovo di Fulda,
peccato che sia già ripartito per la sua città. Ma lo richiamerò
indietro, lui o un suo plenipotenziario.”
Il barone aggrottò le
sopracciglia. “Perché, padre?”
L’altro gli rivolse uno sguardo metà tra
la degnazione e la sfida. “Perché laddove l’opera del
Maligno si manifesta, è d’uopo che siano sacerdoti esperti in
questo genere di cose ad occuparsene.”
“State
parlando di inquisitori, padre?”
“Se
il Maligno è arrivato, significa che qualcuno l’ha portato.” Si
interruppe, fece girare lo sguardo dapprima sul sagrato, poi sui suoi
interlocutori. Infine fissò Adalrich dritto negli occhi, quindi
concluse: “E chi lo ha portato è ancora qui tra noi.”
§
Le ombre del tramonto si
allungavano sulla piazza di Dürnau. Come la sera prima, una fila di
persone stava entrando in chiesa. Per ordine del barone, questa volta
nessuno aveva il permesso di rimanere presso il proprio focolare.
I due cavalieri erano già sul
sagrato e camminavano lentamente su e giù. I soldati erano già
stati inviati a gruppi di due o tre nei vari punti del paese. A un
certo punto, Adalrich alzò gli occhi verso il cielo e disse: “Il
sole sta per tramontare.”
Hermann annuì. “Entro breve
potremo contare solo sulle torce. Che ne dici di fare un giro tra le
case, finché c’è un po’ di luce?”
“Quell'essere
arriva col buio.”
“A
parte che non lo sappiamo per certo, e poi non sarebbe male avere
un’idea di come è fatto questo posto prima di doverci girare in
mezzo tentoni. Io non vedo al buio come te.”
“Va
bene.”
Cominciarono ad aggirarsi tra le
abitazioni deserte. Nel frattempo si stava facendo buio, e stava
calando un silenzio spettrale. Nemmeno i rapaci notturni facevano
udire i loro richiami.
Le case sembravano disabitate da
anni. Hermann fece un salto indietro quando un gatto balzò fuori da
una finestra e scomparve gnaulando dietro un angolo.
Quanto tornarono davanti alla
chiesa, notarono con stupore che la porta era ancora aperta. Sulla
soglia c’era padre Caspar che si guardava ansiosamente intorno.
“Qualcosa
non va, padre?” si informò Adalrich.
“Mancano
tre persone. Avete visto se qualcuno è rimasto nella propria casa?”
I due scossero la testa, il prete
si guardò intorno di nuovo, come aspettandosi di veder spuntare i
tre assenti da qualche vicolo.
“Volete
che andiamo a controllare, padre?”
“Mi
fareste una grazia.”
I cavalieri presero una lanterna,
visto che nel frattempo si era fatto buio, quindi si addentrarono di
nuovo tra i vicoli sterrati di Dürnau. A un certo punto udirono
provenire da una casa un rotolare di suppellettili e si voltarono
rapidi in quella direzione, solo per vedere un’anta di finestra che
oscillava lentamente. “C’è qualcuno?” chiese Hermann.
Non giunse risposta, ma più
oltre si udì un altro rumore. Adalrich fece cenno al confratello di
fare silenzio, quindi si mosse in quella direzione. Arrivarono
davanti a una porta aperta, legato alla maniglia c'era un pezzo di
corda che stava ancora oscillando.
I due si scambiarono un’occhiata.
Manovrare una spada negli spazi angusti di una casa, peraltro al
buio, rischiava di rivelarsi più pericoloso che entrare disarmati.
Adalrich rinfoderò l’arma ed
estrasse il pugnale che portava in cintura. Hermann lo fissò e
scosse la testa come per fargli capire che sarebbe stato troppo
pericoloso, ma l’altro gli fece cenno di stare tranquillo ed entrò
silenziosamente nella piccola abitazione
Rimase immobile per qualche
istante attendendo che gli occhi si abituassero al buio, poi fece
girare uno sguardo tutt’intorno. Il pavimento era ingombro di
suppellettili, qualche piatto di terracotta era in frantumi. Uno dei
pagliericci era stato squarciato e il suo contenuto era sparso in
giro. Percepì un odore strano, come di sangue fresco e terra smossa.
Era una di quelle cose, sentiva
su di sé il suo sguardo. Se si concentrava, riusciva addirittura a
cogliere la brama famelica con cui lo stava guardando.
Avanzò di un altro passo, udì
un rumore gorgogliante, e il raschiare di qualcosa che si spostava
sul pavimento.
Poi la creatura attaccò. Fu più
veloce del previsto, tanto che Adalrich dovette ripararsi la gola con
l’avambraccio sinistro. L’usbergo evitò che i denti lo
ferissero, ma la stretta delle mascelle lo fece comunque genere di
dolore.
Prima che il mostro abbandonasse
la presa, il cavaliere gli piantò il pugnale nel fianco fino
all’elsa. L’essere ululò e si fece indietro rovesciando altri
oggetti, poi balzò di nuovo in avanti, avvinghiandosi a lui con
forza sovrumana. I due rotolarono al suolo, e Adalrich si trovò con
la schiena a terra, e l’essere che cercava di azzannarlo nell’unica
parte scoperta, ovvero il volto. Lo afferrò per i capelli cercando
di tirargli la testa all’indietro, nel frattempo era riuscito a
liberare l’altro braccio e di nuovo gli piantò il pugnale nel
corpo. La creatura emise un secondo ululato, si divincolò
furiosamente, cercò di nuovo di azzannarlo. Alla fine Adalrich
riuscì a buttarla lontano da sé, quindi si rialzò rapido, estrasse
la spada e non appena essa si avvicinò di nuovo la decapitò con un
tondo rovescio, che data l'esiguità dell'ambiente finì la sua corsa
abbattendo una mensola con tutto quello che c'era sopra.
“Hermann,”
ansimò.
Non gli giunse risposta.
Tornò fuori. “Hermann?”
Il suo confratello non c’era
più. “Hermann!” chiamò a voce più alta. Si guardò intorno
ansiosamente, lo chiamò di nuovo.
Alla fine ricevette una flebile
risposta ai suoi richiami. Corse nella direzione da cui essa
proveniva e vide il suo confratello che stava combattendo con il cane
maculato. La lotta doveva protrarsi da un po’, perché Hermann era
ormai esausto. Lo sentiva ansare e coglieva che i suoi movimenti
stavano perdendo vigore. La cosa che lo stupì era che i colpi di
spada andavano tutti a segno, ma l’essere sembrava non risentirne
affatto.
Si avvicinò di corsa, sguainò
la spada e colpì la creatura con un fendente che nelle sue
previsioni avrebbe dovuto quasi tagliarla in due, ma che in pratica
la costrinse solo a farsi indietro con un ringhio di disappunto.
Adalrich vide la ferita che le
aveva procurato chiudersi a vista d’occhio.
La incalzò una seconda e una
terza volta con colpi pieni, che lasciarono altrettanti profondi
tagli.
L’essere rotolò indietro e di
nuovo si fece sotto, emettendo un ringhio che faceva ghiacciare il
sangue nelle vene.
Adalrich l’attese a pie’
fermo, e nel momento in cui esso balzò contro di lui, si abbassò e
gli piantò la spada nel ventre. Il misterioso animale si torse
nell’aria, ricadde all’indietro e per qualche istante rimase a
terra immobile, poi, sotto i suoi occhi attoniti mutò aspetto
trasformandosi in una figura umana alta e magra, e in quella forma
scomparve nella notte.
Il cavaliere rinfoderò la spada,
quindi si avvicinò al compagno. “Come stai?” gli chiese per
prima cosa.
“A
posto.”
“Ti
ha ferito?”
“No.”
Adalrich emise un sospiro di
sollievo. “Dio sia lodato.”
“E
tu sei ferito?” chiese Hermann.
“No,
nemmeno io.” Si voltò nella direzione in cui la misteriosa belva
era fuggita, e per un po’ rimase a scrutare nel buio. Infine tornò
a voltarsi verso l’altro e disse: “Tre colpi che avrebbero
abbattuto un toro, portati a pieno, ed è stato come se lo
accarezzassi con una piuma. Le ferite scomparivano un attimo dopo
essere state inferte.”
“Me
ne sono accorto.”
“E
poi ha cambiato forma”
“Sì,
l’ho visto.”
I due rimasero in silenzio per
qualche istante, poi Adalrich disse: “Lui arriverà, ma la tua
croce non potrà fermarlo.”
“Cosa?”
“È
quello che mi ha detto la vecchia vestita di nero.”
Hermann alzò le spalle. “Visto
che conosceva la faccenda così bene, quella vecchia poteva anche
dirti cosa ci vuole per fermarlo.”
Cercarono ancora le tre persone
che mancavano all’appello, ma ormai era notte inoltrata, e di esse
non vi era traccia da nessuna parte.
Continuarono a pattugliare il
villaggio, che sotto la luna aveva preso un aspetto spettrale. Per
quanto il cielo fosse limpido, a livello del suolo aleggiava una
nebbia che i raggi argentati rendevano fosforescente. Nulla turbava
in silenzio.
Poi d’un tratto echeggiò di
nuovo l’ululato spaventoso della creatura, e a quel grido
agghiacciante risposero altri richiami, in vari punti del perimetro
di Dürnau.
“Stanno
tornando,”
disse semplicemente Adalrich, stringendo la presa sull’elsa della
spada.
Le belve in effetti arrivarono. A
due e a quattro zampe, perché non soltanto gli abitanti umani di
Dürnau erano stati trasformati in creature folli e assetate di
sangue, ma anche gli animali. I due videro passare al galoppo un
maiale dal grugno spalancato e grondante bava, che emetteva strida
nonostante la gola squarciata. La bestia diresse la sua folle corsa
contro uno dei soldati, spiccò un balzo che un maiale normale non
avrebbe mai potuto compiere e azzannò l'uomo, rovesciandolo poi a
terra con il proprio peso. Altri soldati accorsero e uccisero la
creatura, ma il commilitone era già stato fatto letteralmente a
brani.
Poi si fece udire un altro
ululato, questa volta vicinissimo ai due cavalieri. Era un grido
spettrale, raggelante, carico di ferocia.
Sbucò da un vicolo quello che
restava di una delle donne uccise: la sua bocca innaturalmente ampia
era una voragine nera, gli occhi rossi e spalancati sembravano quelli
di un demone. Le mani erano diventate grinfie adunche.
L'essere si accucciò per un
istante guatando i due, quindi balzò verso Hermann con uno strido,
le fauci che schioccavano bramose nell'aria.
Prima che potesse arrivare a
ghermirlo, Adalrich la afferrò per i capelli e la strappò
all'indietro. La creatura si torse, gli si avvinghiò, gli piantò i
denti in una spalla, e di nuovo l'usbergo impedì che essa potesse
ferirlo, anche se la stretta del morso fu tale che il cavaliere sentì
le ossa scricchiolare.
A questo punto intervenne
Hermann, che sfoderò il pugnale e glielo piantò nella schiena,
quindi recuperò l'arma, afferrò a sua volta la creatura per i
capelli e riuscì a decapitarla.
“Questi
affari fanno rimpiangere gli infedeli,” ansò, una volta che
l'essere ebbe finito di agitarsi. Poi sollevò lo sguardo sul
compagno e pose la solita domanda: “Sei ferito?”
Massaggiandosi la spalla,
Adalrich rispose: “Sto bene.” Poi, dopo una pausa: “E tu?”
“Bene
anch'io.”
In lontananza si sentiva una
cacofonia di richiami e urla, evidentemente una pattuglia di soldati
aveva stanato uno di quei mostri. Fecero per muoversi, ma lo strido
di agonia della creatura fece loro capire che la lotta era già
finita.
Calò di nuovo il silenzio.
Continuarono a girare per le vie del paese.
Solo quando il cielo cominciò a
schiarirsi i due cavalieri si concessero un po’ di riposo.
Rinfoderarono le spade, si tolsero gli elmi e si fecero scivolare
all’indietro i cappucci di maglia, quindi raccolsero la lanterna
ormai spenta si diressero verso la chiesa camminando fianco a fianco.
Strada facendo, incontrarono il
loro sergente, con il quale scambiarono qualche commento sulla notte
appena trascorsa.
“Uomini
e animali come impazziti,” disse alla fine il graduato, “una cosa
del genere non si era mai vista.”
“Abbiamo
avuto molte perdite?” chiese Adalrich.
“Quattro
uomini. Ma abbiamo ucciso tutti quelli che abbiamo visto.”
“Molto
bene, sergente Dorn. Ora portate i soldati a riposare. Ai caduti
penserà il prete.”
“Agli
ordini, cavaliere.”
I due continuarono. La gente
stava cominciando a uscire dalla chiesa, e di nuovo si ripeteva la
scena del giorno prima: si udivano i lamenti di chi si imbatteva nei
resti straziati dei propri cari, o trovava casa e armenti devastati.
Passarono accanto al corpo di uno
dei mostri. Era stato pietosamente coperto con un telo, ma ne usciva
una mano trasformatasi in artiglio.
“Tu
cosa pensi che siano?” chiese Hermann.
Adalrich non poté fare a meno di
rivolgergli uno sguardo carico di sospetto. “Perché lo chiedi a
me?” ringhiò.
L'altro alzò le spalle. “Ero
solo curioso. Perché all'improvviso gli abitanti di un pacifico
villaggio diventano mostri? Cosa sta succedendo?”
“E
io cosa posso saperne, secondo te?” fu la brusca risposta del
confratello.
Hermann si voltò verso di lui.
“Ma... cos'hai?”
Come al solito, la limpidezza
priva di malizia del compagno ebbe il potere di mandare Adalrich in
confusione. “Scusami,” disse soltanto. Gli girò le spalle.
L'altro gli pose una mano sul
braccio. “Che c'è?”
“Niente
di importante.”
Senza abbandonare la presa,
Hermann gli disse: “Ormai ti conosco troppo bene: tu ti sei fatto
l'idea che io ti volessi velatamente accusare di avere legami con la
stregoneria.”
Adalrich scosse la testa. “No,
questo mai.”
“Eppure...”
“È
che sono troppo teso, scusami. So che non volevi dirmi nulla del
genere, ma siccome tutti gli altri invece lo fanno, mi è venuto
istintivo difendermi.” Si allontanò di qualche passo, e per un po'
rimase in silenzio, dando l'impressione di essere assorto nei suoi
pensieri. Infine disse: “Innanzitutto bisognerebbe sapere se questa
cosa è cominciata quando siamo arrivati noi o se era successa anche
prima.”
“Secondo
te
è una pestilenza?”
“Non
lo so. Non ho mai visto niente del genere. Sembra che sia il morso di
quegli esseri a trasmettere il contagio.”
Hermann
annuì. Fissò lo sguardo sul cimitero devastato, poi disse:
“D’accordo, ma… chi ha contagiato il primo di essi?”
§
Giunti
al castello, i due si diressero con passo pesante verso la camera che
il barone aveva assegnato loro. Dal tramonto all’alba avevano
pattugliato il villaggio, affrontando anche vari combattimenti, ed
erano molto stanchi.
Adalrich,
in particolare, era anche dolorante. Per quanto non gli avessero
bucato nemmeno il gambeson, i due morsi che aveva ricevuto erano
stati come due tagliole che gli si erano strette addosso. Il dolore
era andato aumentando con il passare delle ore, e ormai il braccio
gli faceva così male che quasi non riusciva a muoverlo.
Entrò
nella stanza e con fatica si slacciò la cintura della spada, poi
lasciò cadere l’arma sul letto. Fece per togliersi l’usbergo, un
movimento che in condizioni normali avrebbe compiuto senza nemmeno
pensarci, ma provò una tale fitta di dolore che vide dei puntini
luminosi danzargli davanti agli occhi. Gli sfuggì un gemito.
Subito
Hermann si voltò verso di lui. “Che c’è?” gli chiese
preoccupato. Lo scrutò attento, percorrendolo ansioso con lo
sguardo, le sopracciglia appena aggrottate e gli occhi velati di
apprensione. Era chiaro che temeva una ferita da parte di quelle
creature malefiche.
L’altro
gli rivolse un debole sorriso. “Non preoccuparti, la pelle è
intatta. Però quegli affari mordono forte.”
“Dove
sei stato morso?”
“Al
braccio e alla spalla.”
Hermann
lo toccò dove stava indicando, poi premette leggermente. “Fa male
qui?” volle sapere.
Adalrich
accennò di sì con la testa.
“Purché
non sia rotto...” mormorò l’altro continuando a palpargli il
braccio.
“No,
non credo che lo sia. Però aiutami a togliere l’usbergo, per
favore.”
“D’accordo,
dammi le braccia.”
La
cotta di maglia si sfilò e si afflosciò a terra
“E
ora il gambeson, forza.”
Man
mano, gli indumenti si ammucchiavano al suolo. Ogni volta che Hermann
gli toglieva di dosso qualcosa, Adalrich doveva mordersi il labbro
per non lamentarsi. “Mi chiedo come farò a reggere la spada quando
arriverà la notte,” ansimò.
“Ci
penseremo quando sarà il momento. Ti ricordi quella battaglia…
come si chiamava? Quando hai combattuto per tutta la notte con una
freccia nel fianco.”
“Alla
fine mi ero quasi abituato. Mi ha fatto molto più male quando me
l’hanno tolta.”
“Lo
credo bene, è stato il sergente Dorn a strappartela via, ricordi?”
“Anche
se campassi mille anni, è ben difficile
che riesca a dimenticarmelo.”
I
due si scambiarono un fugace sorriso come d’intesa, poi Hermann
disse: “Adesso togliti la camicia, voglio vedere come sei conciato
lì sotto.”
L’indumento
raggiunse gli altri.
Sulla
pelle candida di Adalrich c’erano due enormi lividi, uno quasi nero
sull’avambraccio, e uno largo almeno un palmo sulla spalla, che si
estendeva sia sul petto che sulla scapola. Hermann lo sfiorò con le
dita, suscitando nel confratello un fremito di dolore. “Fa male?”
L’altro
accennò di sì a denti stretti.
“Ti
metto un po’ di unguento, d’accordo? È quello dei frati,
dovrebbe rimetterti a posto.”
Adalrich
si sedette sul letto. Non gli piaceva per nulla farsi assistere in
quel modo, nemmeno da Hermann. Non gli piaceva nemmeno che la gente
lo vedesse spogliato, e più per il suo colore cadaverico che per
l'imbarazzo della nudità. Emise un sospiro di disappunto.
“Faccio
subito,” gli assicurò l’altro.
Di
nuovo, il primo si soffermò a pensare a quanto fosse limpido,
gentile e generoso il suo confratello, e a quanto invece lui stesso
fosse torvo, rabbioso e sempre portato ad attribuire agli altri i
sentimenti più spregevoli.
Quando
era lui l’unico a essere spregevole.
Per
anni si era detto che il suo aspetto era una croce che Dio gli aveva
dato per renderlo più vicino a Cristo, tanto che alle volte quasi si
era insuperbito di essere così, ma probabilmente era piuttosto un
marchio, come quello di Caino, in modo che tutti potessero
riconoscerlo e stargli lontano.
“Adalrich?”
La voce di Hermann lo fece quasi sussultare.
“Eh?”
“Al
solito. Quando sei perso nei tuoi pensieri non dai ascolto a nessuno.
Ti stavo spiegando quali sono le piante che rendono questo medicinale
così efficace.” Gli mostrò una scatoletta di legno dalla quale
proveniva un penetrante odore di erbe officinali.
“Scusami.”
“Fa
niente, tanto ormai so come sei fatto. Ora però sta fermo e lasciami
lavorare.” Si sedette accanto a lui sul letto. “È un po’
freddo,” lo avvisò, quindi prese una generosa quantità di
unguento e gliela depose sulla contusione che aveva sulla spalla.
Adalrich
si costrinse a rimanere immobile. Dopo un po' si voltò verso il
compagno, che in quel momento era talmente vicino che poteva sentire
il suo respiro caldo sulla pelle. Gli fermò la mano che stava
spalmando il medicamento e a voce bassa gli disse: “Hermann, se una
di quelle cose mi mordesse, tu...”
L'altro
fece per ritrarsi, ma il primo strinse leggermente la presa. “Tu...
mi uccideresti?” Si voltò a fissarlo negli occhi.
Hermann
distolse lo sguardo. “Ma cosa stai dicendo?”
“Se
venissi morso, diventerei come quei mostri. Non voglio che succeda.”
“Adalrich,
io...”
Il
compagno lo zittì con un gesto, poi aggiunse: “Tu dirai che potrei
porre fine da solo alla mia vita, che non è giusto che io ti
obblighi a macchiarti di un peccato al posto mio, ma non so se una
volta morso sarei ancora in grado di ragionare. Ho bisogno di essere
sicuro che non farò del male a nessuno, ecco perché lo sto
chiedendo a te.” Poi, dopo una pausa: “Dio capirà.”
Hermann
rimase in silenzio.
“Se
venissi morso non sarei più io,” insisté Adalrich, “mi
trasformerei in una bestia senza discernimento. Dimmi che lo farai.”
L'altro
emise un lungo sospiro. La sua espressione si era indurita, le
sopracciglia erano aggrottate, e gettavano un'ombra cupa sugli occhi
altrimenti limpidi. Riprese a spalmare l'unguento. I movimenti,
dapprima lievi e quasi esitanti, si fecero via via più nervosi,
tanto che alla fine Adalrich genette di nuovo.
Hermann
ritrasse la mano come se l'avesse posta sul ferro rovente. “Scusami.”
“Non
fa nulla.”
“Vorrei
poterti dire che lo farò,” sospirò l'altro alzandosi e mettendosi
a guardare fuori dalla finestra, “E so che sarebbe giusto farlo,
sarebbe un atto di pietà, se tu fossi colpito da quel morbo.” Fece
una pausa. “Forse sarebbe l'atto d'amore più grande.” Di nuovo
tacque. Adalrich, ancora seduto sul letto, vide i muscoli tendersi
sulle sue mascelle. “La verità è che non so se ce la farei.”
disse infine.
“Siamo
cavalieri, la nostra vita è al servizio di Dio. I nostri sentimenti
non contano.”
“Ma
siamo anche uomini, Adalrich, e tu mi stai chiedendo se ucciderei la
persona che amo di più al mondo. Non so se la mia mano e il mio
cuore riuscirebbero a fare ciò che la ragione, pur nel giusto,
ordinerebbe loro.”
L'altro
si alzò e lo raggiunse. Si mise al suo fianco, così vicino che le
loro spalle si sfioravano, e rimasero per un po' in silenzio a
guardare fuori. Alla fine, a voce bassa disse: “È lo stesso anche
per me, Hermann. Credi che mi sarebbe facile ucciderti, se per caso
una di quelle cose ti mordesse? Eppure lo farei.”
Tacquero
così a lungo che sembrava si fossero trasformati in due statue.
Fuori il sole brillava, si udivano lo stormire gentile delle fronde e
il cinguettio degli uccelli.
Alla
fine, Hermann diede un colpetto con la spalla al compagno e disse:
“Ma non indugiamo adesso su pensieri così foschi. Siamo cavalieri,
sono anni che viviamo con la spada in mano: se sarà necessario
faremo la cosa giusta, ne sono sicuro. E adesso va' a sederti, che
devo finire di spalmarti l'unguento.”
Adalrich
obbedì, grato all'amico per la sua capacità di alleggerire ogni
atmosfera cupa, più che per quel graveolente linimento che insisteva
con tanta pervicacia ad applicargli.
§
Padre
Caspar fece cenno ai contadini di buttare le fascine sulla pira che
stava facendo allestire. Se le cose fossero andate avanti di quel
passo, presto non sarebbe più rimasta legna per l'inverno. E
probabilmente non sarebbe rimasto più nessuno ad accendere dei
focolari.
Ogni
mattina era necessario bruciare sul rogo le spoglie di chi era
rimasto vittima del morbo. I cavalieri e i loro soldati pattugliavano
il villaggio tutte le notti, ma chissà come, quelle creature
malefiche e votate al Demonio trovavano ogni volta il modo di
spargere il loro infame contagio tra gli abitanti di Dürnau.
Forse
qualcuno, invece di combattere la presenza del Demonio, la stava
favorendo, chissà. Si rallegrò del fatto che presto sarebbe
arrivato un inquisitore inviato proprio dal vescovo di Fulda, una
persona notoriamente molto attenta alle contaminazioni da parte di
Satana.
Avvicinò
la torcia alla catasta, che impregnata di pece com'era prese subito
ad ardere crepitando. Avvolti nei sudari, i corpi delle vittime
cominciarono a consumarsi.
Quando
il calore divenne insopportabile, il prete si allontanò di qualche
passo, pur continuando a tenere d'occhio il rogo.
Mentre
era impegnato in quel gravoso compito, udì rumore di zoccoli. Si
voltò e vide che erano in arrivo il barone e suo figlio. Li salutò
con un inchino del busto.
Entrambi
avevano l'espressione preoccupata, ma il prete poteva supporre che i
motivi fossero del tutto diversi: il primo era giustamente in
apprensione per la sorte dei paesani. Come feudatario spettava a lui
proteggerli, in cambio del lavoro e delle tasse che essi gli
dovevano, ma pur con tutta la buona volontà non ci stava riuscendo,
e quelle fiamme che ora si levavano così rabbiose rappresentavano
principalmente una crepitante accusa nei suoi confronti.
Il
giovane Konrad, invece, era sicuramente inquieto per tutt'altro
motivo: dato il morbo che imperversava su Dürnau, egli vedeva
sfumare la possibilità di darsi alla bella vita a Norimberga, tra
letture di poesia e femmine compiacenti.
Il prete faticò a nascondere il
proprio disprezzo: una creatura fatua e sciocca, che davvero non
riusciva a immaginare come futuro feudatario di Dürnau.
La voce di Ulrich von Obenstein
lo distolse dai suoi pensieri: “Ebbene, padre, cosa pensate di
tutto questo?”
Il sacerdote sospirò: “Il
Signore ci mette alla prova. Ma del resto, l'uomo nasce per soffrire,
come la favilla per volare in alto[1].” Si interruppe, fece cenno a
uno dei contadini che lo assistevano di spingere vicino al rogo le
braci che ne erano rotolate via, poi compunto proseguì: “Sarà
quel che Dio vuole.”
Il
barone non replicò.
Il
prete gli rivolse un'occhiata, aprì la bocca come per dire qualcosa,
poi ci ripensò. Aveva in tasca la risposta del vescovo di Fulda: era
in arrivo padre Gerold, noto
per essere il più grande nemico delle opere del Demonio. Ci avrebbe
pensato lui, a sistemare le cose.
[1] Giobbe 5:7 – 17
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Capitolo 7 *** Capitolo 6 ***
Ciao a tutti/e! Procediamo con la
nostra storia. Intanto grazie a Saelde_und_Ehre, morgengabe, fiore
di girasole, crilu_98, innominetuo, Syila, LyaStark e miciaSissi
per avermi lasciato un commento!
Capitolo 6
Seduto nel carro coperto, le
tende di mussola ben chiuse per far entrare meno polvere possibile,
padre Gerold stava tentando di scrivere una lettera. All’ennesimo
sobbalzo del veicolo, staccò la penna dalla pergamena, richiuse il
calamaio e sospirò: “Non è proprio possibile, povero me.”
Si tolse le lenti che usava per
lavorare e le ripose in un astuccio foderato di seta, quindi si
rivolse a un segaligno frate di mezz’età e gli disse: “Leggimi
qualcosa, Peter, sii gentile.”
L’altro chinò la testa con
fare rispettoso e rispose: “Sì, padre. Cosa preferite?”
“Scegli
tu, l’importante è passare un po’ il tempo. Ci vuole ancora
molto per questo Dürnau?”
“Ora
chiedo, padre.”
Il frate si affacciò a uno dei
finestrini della copertura e scambiò qualche parola con qualcuno del
seguito.
“Ancora
un paio d’ore, padre,” rispose rientrando.
“Molto
bene, mio buon Peter, molto bene. E dimmi, cosa sappiamo di questa
santa missione che siamo chiamati a compiere?” La voce aveva una
vaga nota ironica.
Diligente, il frate spiegò:
“Pare che in quel paese sia all’opera il Demonio, padre.”
“Lo
so, ho letto da cima a fondo il dettagliato memoriale che mi ha
mandato il parroco del posto. Ma una missione così bislacca non si è
mai vista né sentita: cani infernali che galoppano su e giù, morti
che non trovano riposo… secondo le tue informazioni, è per caso
dedito al bere, il parroco di Dürnau?”
“Stando
a quelle che ho raccolto, è uomo di specchiata virtù, padre.”
“O
almeno così pare. E che mi dici di quella preziosa reliquia che
sarebbe stata riportata dalla Terra Santa? Come mai il vescovo non
l’ha fatta trasferire a Fulda?”
“Perché
c’era anche il vescovo di Norimberga, padre. Sicuramente non sono
riusciti a stabilire a quale delle due chiese spettasse.”
Il prete fece un lieve sorriso.
“Già, vedo che hai colto il problema. E del feudatario del posto
che cosa puoi dirmi?”
“Pare
sia uomo probo e giusto. Stava
compiendo un pellegrinaggio in Terra Santa quando si è imbattuto
nella reliquia, padre. Ho sentito dire che considera l'accaduto un
miracolo della Vergine Maria. In ogni caso, ha interrotto il viaggio
ed è rientrato nei propri possedimenti per traslarvi il corpo del
santo. L'hanno accompagnato due cavalieri dell'Ordine Teutonico che
sono ancora al castello.”
Il prete aggrottò le
sopracciglia con aria infastidita. “Due cavalieri dell’Ordine
Teutonico,” ripeté. “Sarà opportuno controllare quanto sono
malleabili.”
“Padre?”
“Sì,
i frati combattenti tendono a essere più bizzosi dei muli stanchi.
Hanno la pretesa di applicare quei loro molesti principi della
cavalleria in qualsiasi situazione, obbediscono solo ai loro
comandanti, e in generale ignorano tutte le sottigliezze che ci sono
richieste per compiere il nostro santo uffizio.” Emise un sospiro
infastidito. “Di solito sono una pena. Sappiamo come si chiamano
questi due?”
“Ho
preso informazioni: Hermann von Seebach e Adalrich von Hohenberg.”
“Uhm.
Dei conti Hohenberg di Turingia?”
“Sì,
padre. Si dice inoltre che quel cavaliere sia un... homo
albus[1].”
Padre Gerold sollevò le
sopracciglia. “Davvero?”
Frate Peter annuì con aria
compiaciuta.
“Opus
diaboli,”
commentò l'altro.
“Sic
est.”
Si
scambiarono un'occhiata, poi di nuovo il prete sospirò con aria
esasperata e si lamentò: “Per i vomeri infuocati di Santa
Cunegonda, un cavaliere, e per di più dei conti Hohenberg nonché
homo albus.
E poi abbiamo morti che non trovano riposo e reliquie di dubbia
attribuzione. Questa missione si preannuncia assai faticosa.”
Il frate annuì compunto.
Nello stesso momento, presso la
sala delle udienze del castello di Dürnau, il barone von Obenstein
stava parlando con il prete del paese.
Il nobile girava su e giù
nervosamente, i suoi occhi stavano mandando lampi. “E quindi avete
chiamato un inquisitore da Fulda,” sibilò, rivolgendo al religioso
uno sguardo irato.
“Era
necessario, barone,” replicò padre Caspar.
“Avreste
dovuto interpellarmi.”
Il prete strinse gli occhi. “Per
le questioni terrene vi do ragione, barone, ma per quelle celesti
rispondo solo a Dio.”
“Non
è esatto,” replicò von Obenstein, “Io sono l'autorità suprema
in questo feudo.”
“Ma
la vostra autorità viene da Dio.”
“Nemmeno
questo è esatto: viene dall'Imperatore.”
“Ma
all'Imperatore, barone, chi ha conferito il potere? Dio!”
L'altro
fece un gesto di impazienza e rispose: “Non stiamo a speculare se
sia nato prima l'uovo o la gallina, padre. Voi avreste dovuto
avvisarmi prima
di chiamare questo cosiddetto inquisitore, e non a cose fatte.”
“Ma
ero qui appunto per farlo!” si difese il prete, ritirando la testa
fra le spalle di fronte al cipiglio dell'altro.
“Dal
momento che questo padre Gerold sarà qui fra due ore, direi che non
vi siete certo mosso con soverchio tempismo.”
“Vi
chiedo perdono,” si limitò a rispondere il prete con fare
sbrigativo. “La mia mente era oppressa dalle preoccupazioni degli
ultimi eventi, l'avrò dimenticato. E ora, se me ne date licenza...”
Con un ultimo inchino prese a rinculare verso la porta.
Il barone lo fermò con un gesto.
“Non vi ho ancora congedato, padre.”
“Comandate
altro, barone?”
“Avete
usato la parola giusta: qui comando
io, e voglio che lo teniate bene a mente. Quel vostro padre Gerold è
un ospite, nemmeno tanto gradito, a dirla tutta. Potrà indagare e
studiare le opere del Demonio a suo piacimento, ma per ogni azione di
una certa importanza che ha in animo di compiere, che si parli di
imprigionare o interrogare gente, o peggio di condannarla, dovrà
ricevere la mia approvazione. E ora potete andare.”
Rimasto solo, il barone continuò
a girare su e giù per un po', poi chiamò un valletto e gli chiese:
“Erich, sono rientrati i cavalieri?”
“Sì,
mio signore.”
“Dì
loro che voglio vederli subito.”
Il giovane rispose con un
inchino, quindi uscì.
I cavalieri dovevano arrivare
direttamente da una notte trascorsa nel paese, perché avevano ancora
l'usbergo addosso e la veste macchiata di sangue. Nonostante la
stanchezza, avevano un'aria moderatamente soddisfatta.
“Com'è
andata, cavalieri?” li accolse il barone.
Prese la parola il più alto dei
due: “Sono due notti che il cane infernale non si fa vedere,
barone. I mostri erano meno del solito, e sono comparsi solo nelle
prime ore. Poi c’è stata calma fino al mattino.”
“Abbiamo
avuto delle perdite?”
“Nessuno,
barone.”
Von Obenstein emise un sospiro
sollevato e disse: “Meglio così. Pensate che la pestilenza sia
finita?”
“È
presto per dirlo, barone,” fu la risposta.
Il nobile stava per invitare i
due cavalieri a sedersi con lui, quando tornò il valletto e gli
riferì che si stava avvicinando una delegazione di religiosi dalla
città di Fulda.
“Riferite
al capo di costoro che mi aspetto di vederlo qui prima possibile,”
proclamò il barone, poi si voltò verso i fratelli cavalieri e
disse: “Il vescovo ha mandato qui un inquisitore.”
I due rimasero impassibili.
“Quella
è gente un po’ fastidiosa,” proseguì von Obenstein al protrarsi
del silenzio, “ficcano il naso dappertutto, e non smettono di
cercare finché non hanno trovato un colpevole.”
“Il
Demonio deve essere combattuto,” intervenne Fratello Adalrich con
voce neutra.
“Cavaliere,
la vostra limpidezza vi fa indubbiamente onore,” replicò il
nobile. Stava per aggiungere altro, quando il valletto gli annunciò
che padre Gerold attendeva di essere ricevuto.
“Fallo
entrare,” ordinò il barone.
Le porte della sala si
spalancarono su un ometto dall’espressione mite, con una calvizie
incipiente e una pinguedine appena accennata. Portava una semplice
tonaca nera e sul petto gli pendeva una croce d’argento.
Alle sue spalle c’era un frate
alto e ossuto che reggeva tra le mani un rotolo di carte.
“Venite
pure, padre,” lo invitò il barone.
Il
religioso si fece avanti. “Dominus
vobiscum,”
proclamò, non appena si trovò di fronte al feudatario.
“Et
cum spiritu tuo,”
rispose il barone von Obenstein, poi calò il silenzio.
Il prete si girò verso il suo
accompagnatore, che gli porse un rotolo di pergamena adorno di
vistosi sigilli. Questi lo prese e a sua volta lo porse al barone.
“Sono qui come plenipotenziario di sua eccellenza il vescovo di
Fulda,” esordì.
Alla frase seguì un altro
silenzio. Von Obenstein si limitò a far saltare i sigilli e a
leggere minuziosamente il contenuto della missiva.
Infine alzò gli occhi fino a
fissarli in quelli chiari e vagamente acquosi del nuovo arrivato e
disse: “L’ho già detto a padre Caspar e lo ripeto a voi: qui
l’autorità suprema sono io, non il vescovo di Fulda.”
“Ma
certo, ma certo,” rispose l’altro, non particolarmente
impressionato da quello sfoggio di potere, “Io sono qui solo per
porgere in tutta umiltà il mio aiuto, non certo per creare problemi.
Per grazia di Dio voi siete il feudatario, e tutto dovrà passare
attraverso la vostra approvazione.”
Mentre parlava all’iroso
castellano – e mai gli era capitato un castellano che fosse felice
di vederlo, quindi la cosa ormai non lo impressionava più di tanto –
si dava da fare per osservare ciò che lo circondava. Piccola
nobiltà, valori marziali. Un ambiente di buon gusto, moderatamente
ampio, moderatamente opulento ma senza sfarzo, con degli arazzi alle
pareti e un bel tavolo di quercia al centro. Notò che gli arazzi
ritraevano scene di battaglia e blasoni, ma nessuno di essi era di
ispirazione religiosa.
Alle spalle del barone si
trovavano i due cavalieri dell’Ordine Teutonico, che da quando era
entrato non avevano aperto bocca, e si erano limitati a rimanere
immobili. Notò che erano tutti e due molto alti e ben piantati, come
del resto ci si doveva aspettare da gente che aveva fatto del
combattimento la propria professione.
Fissò
in particolare lo sguardo sull’homo
albus.
Era la prima volta che ne vedeva uno, e ne era piuttosto incuriosito.
Aveva la corporatura di un Atlante, era quattro dita più del suo
confratello in altezza e in larghezza, ma aveva i capelli, le ciglia
e le sopracciglia di un vecchio, ed era pallido come un morto. In
quel volto bianco si coglievano a prima vista solo gli occhi, di uno
strano colore metallico, dallo sguardo di rapace.
Si chiese se quell'aspetto fosse
davvero un’opera del Demonio come dicevano.
Distolse lo sguardo da lui, poi
si rivolse al barone e disse: “Desidero conferire con il parroco
del paese, se è possibile, affinché mi aiuti a stilare una lista
delle persone da interrogare.”
“C’è
il mio capitano delle guardie, per questo.”
Con un sorriso, il prete gli
assicurò: “Verrà interrogato anche lui, statene certo.” Poi si
rivolse ai due cavalieri e aggiunse: “Non ritiratevi, confratelli.
Nel corso della giornata avrò bisogno di conferire anche con voi.”
Seduto
nella stanza che gli era stata messa a disposizione per condurre gli
interrogatori preliminari, padre Gerold si voltò verso il frate e
chiese: “Hai visto l’homo
albus,
Peter?”
“Sì,
padre.”
“E
che ne pensi?”
Il
frate si segnò. “Opus
diaboli,”
proferì poi lapidario.
“Tu
pensi che sia stato lui?”
“E
chi altri, padre? È un emissario del Demonio, non può essere stato
che lui.” Scrutò il prete alla ricerca della sua approvazione, ma
l’altro mantenne un atteggiamento piuttosto distaccato. Riordinò
le carte che aveva sparso sul tavolo, raddrizzò impercettibilmente
la penna e allineò i fogli con il sottomano, poi tirò fuori le sue
lenti da lavoro e posò sul tavolo anche quelle, infine spostò la
lanterna in modo che la sua mano non proiettasse ombra sul foglio
mentre lui scriveva.
“Perché
siamo qui, Peter?” chiese poi distrattamente.
“Per
combattere il Demonio e le sue opere immonde,” rispose pronto il
frate.
Padre
Gerold sollevò la testa e gli rivolse un sorriso benevolo. “Beati
pauperes spiritu,”
sospirò. “Noi siamo qui per ben altra bisogna, amico mio: dobbiamo
alzare un po’ di polverone, fare un po’ di paura a questi bravi
cristiani e in definitiva rinsaldare il potere della Chiesa laddove
esso rischia di vacillare. Mi capisci?”
Con aria zelante, Peter accennò
vigorosamente di sì.
“Molto
bene,” rispose il prete compiaciuto, “E allora fa entrare la
prima persona della nostra lista.”
Colui che si sedette di fronte al
tavolo di padre Gerold per primo fu Udo Lang, il guardiano di porci.
L'omone entrò imbarazzato, cincischiando il cappello tra le mani, e
rimase a guardare i due religiosi con un'espressione al tempo stesso
volonterosa e preoccupata.
Padre Gerold gli restituì un
sorriso incoraggiante. Giunse meticolosamente le dita sul piano del
tavolo, polpastrello contro polpastrello come se stesse incastrando
fra loro due parti di un complicato meccanismo, quindi esordì:
“Ebbene, mio buon Udo, che cosa puoi dirmi della persona che hai
trovato lungo la strada?”
Il porcaro cominciò a
raccontare. Mentre frate Peter annotava ciò che l'uomo stava
dicendo, padre Gerold scrutava in viso Lang, la cui espressione stava
virando verso il sollievo di essersi sentito rivolgere una domanda
alla quale sapeva rispondere.
“E
dei cavalieri che mi dici?” lo interruppe a un certo punto.
“Hanno
lottato contro quei mostri infernali ogni notte,” gli assicurò
convinto il porcaro.
“Tutti
e due? Anche l'homo
albus?”
“Non
capisco, padre.”
“Quello
più alto, pallido, con i capelli bianchi.”
L'uomo accennò vigorosamente di
sì.
“E
dove c'erano le creature del Demonio c'era sempre anche lui, dico
bene?”
“Sì,
padre. Le combatteva.”
“O
almeno così è parso agli occhi di un umile guardiano di porci.”
Gli rivolse un sorriso. “Molto bene, mio buon Udo, le tue
informazioni sono state preziose. Puoi andare.”
L'uomo non se lo fece ripetere, e
dopo qualche altro inchino e segno di croce si affrettò a uscire.
Subito dopo fecero entrare mastro
Wernhart, capo-guardiacaccia del barone von Obenstein. L'uomo si
presentò con tutt'altro atteggiamento rispetto a colui che l'aveva
preceduto: si inchinò senza cerimonie, e quando si tolse il cappello
fu solo per elargire un breve saluto, poi se lo rimise in capo subito
dopo. Si sedette senza che il prete l'avesse invitato a farlo, quindi
disse: “Facciamo presto, per favore, che ho i falchi giovani da
nutrire.”
Il prete strinse appena gli
occhi. Si lucidò le lenti da lavoro e le sistemò accanto al foglio
parzialmente scritto con ostentata lentezza. Alla fine alzò lo
sguardo fino a fissarlo in quello del suo interlocutore e rispose:
“Solo il Signore sa quanto tempo sarà necessario.”
L'altro non replicò. Rimase
comunque a fissarlo serio, in attesa delle domande.
“Parlatemi
di questa bestia misteriosa, mastro Wernhart,” chiese allora padre
Gerold, “è vero che è un animale infernale?”
“Non
saprei, padre.”
“Non
è forse vero che uccide le sue vittime senza lasciare loro in corpo
una goccia di sangue? E non è forse vero che alla vista della prima
vittima vi siete fatto il segno della croce e avete invocato
Sant'Uberto?”
“Sant'Uberto
è il patrono dei cacciatori,” gli ricordò mastro Wernhart a
disagio.
Padre Gerold sorrise. “Non
dovete sentirvi sotto accusa, mio buon guardiacaccia,” gli assicurò
premuroso. “Sto solo cercando di ricostruire quello che è accaduto
in questo villaggio flagellato dalla presenza nefasta del Demonio.
Ora ditemi: hanno avuto fortuna le cacce che avete organizzato per
prendere la bestia?”
“No,
padre.”
“Mai
una volta?”
L'altro scosse la testa.
“C'erano
quei cavalieri con voi?”
“Intendete
quelli dell'Ordine?”
“Proprio
loro.”
Mastro Wernhart annuì. “A
volte.”
“Anche
quello con i capelli bianchi?”
“Sì.”
“E
non avete preso niente, vero?”
“Non
abbiamo preso niente nemmeno quando quel cavaliere non era con noi,
se è per questo,” replicò il guardiacaccia.
Il prete sollevò le
sopracciglia. “E come mai vi siete sentito in dovere di fare questa
precisazione, mastro Wernhart?”
L'altro rimase in silenzio.
“Qui
è del Demonio che stiamo parlando,” gli ricordò il sacerdote in
tono tagliente, “non di una qualunque bestia selvatica. Dunque voi
avete notato una correlazione fra la presenza del cavaliere dai
capelli bianchi e quella della bestia misteriosa?”
“Non
ho detto questo.”
“Invece
me l'avete appena detto. Avete ritenuto di farmi notare che non avete
preso la bestia nemmeno
quando il cavaliere non era con voi. Questa è un'informazione molto
utile, di cui state pur certo che farò buon uso.” Si rivolse al
frate e chiese: “Hai scritto tutto, Peter?”
“Sì,
padre.”
“Molto
bene.” Poi, di nuovo al guardiacaccia: “E ora andate pure a
nutrire i falchi giovani, mastro Wernhart, non ho più bisogno di
voi.”
Uscito quello, fu il turno di
Grete, una servetta del castello. La ragazza entrò molto intimidita,
mordicchiandosi il labbro inferiore. Fece una riverenza e rimase in
piedi al centro del locale.
“Vieni
pure, figliola,” le disse padre Gerold in tono benevolo,
invitandola con un gesto ad avvicinarsi. “Siediti qui.”
Grete avanzò a passettini e si
sedette con l'aria di accomodarsi sui carboni ardenti.
Il prete le rivolse un sorriso e
le chiese: “Non hai paura di me, vero?”
Ella rimase in silenzio.
“Suvvia,
la incoraggiò il sacerdote con fare benevolo. “Non mangiamo
nessuno. Non è vero, Peter?”
“Certo
che no, padre Gerold. Proprio nessuno.”
La ragazza, occhi verdi e una
manciata di efelidi sul naso, sorrise, e le si crearono due graziose
fossette sulle guance.
“Molto
bene,” approvò il prete, “molto bene. E ora ti farò qualche
domanda, mia cara.”
“Va
bene, padre.”
“Dimmi
un po', al castello parlano di quello che sta succedendo in paese?”
Grete accennò di sì con la
testa. “Oh sì, padre, non si parla d'altro.”
Il prete annuì. “E cosa si
dice?”
Di nuovo, la ragazza si morse il
labbro. “Che... c'è il Diavolo, padre,” mormorò. Poi, a voce
più alta: “C'è davvero, padre?”
“Eh,
purtroppo temo di sì.”
“Ma
voi lo scaccerete, vero? Ci libererete dal Demonio che ora ci sta
facendo tanto male, vero?”
L'altro
accennò di sì con la testa. “Certo, figlia mia. Ma ho bisogno del
vostro aiuto, del tuo
aiuto per farlo.”
“Tutto
quello che volete, padre.”
Padre Gerold sorrise. “Brava
ragazza. E ora dimmi: che ne pensi dei due cavalieri?”
Grete abbassò lo sguardo.
“Stanno sempre per conto loro.”
“Non
si mescolano con gli altri?”
“Hermann...
voglio dire, il biondo è più gentile, delle volte parla con noi.”
“L'altro
vi tratta male?”
“No,
ma sta sempre per conto suo, non dà confidenza. E poi mi fa paura.”
“Perché?”
Grete si guardò le mani, poi se
le appoggiò in grembo. Infine disse: “È così strano... mia madre
dice che è opera del Demonio oppure è figlio di una strega, e non
capisce come faccia a portare la croce. Io non ci voglio avere niente
a che fare con il figlio di una strega.”
“Ma
certo, come è giusto. E dimmi, Grete: di notte cosa fa?”
“È
sempre fuori, e dorme di giorno.”
“Ah,
molto interessante.”
“Ma
anche l'altro...”
“Grazie,
Grete,” la interruppe padre Gerold, “Ora puoi andare, le tue
informazioni sono state davvero preziose.”
“Ma
padre, voi dovete sapere...”
“Certo,
certo. Ma ora lasciaci, figlia mia. Io e frate Peter abbiamo ancora
molto lavoro da fare.”
Padre Gerold interrogò per
ultimi i due cavalieri. La scelta di farli attendere era stata
operata a ragion veduta: uno stallone selvaggio va fatto stancare,
prima di provare a montargli in groppa.
Quei due non erano servi o
contadini: si trattava di nobili abituati a comandare, gente che
aveva fatto della battaglia la propria ragione di vita. Non sarebbe
bastato fare la voce grossa per spaventarli.
Fece chiamare prima fratello
Hermann. Questi entrò a testa alta, senza un'ombra di soggezione.
Negli occhi azzurri gli brillava una luce gelida e rabbiosa.
Rimase in piedi in mezzo alla
stanza.
“Venite
avanti, cavaliere,” lo invitò il prete.
L'altro si avvicinò mantenendo
un silenzio carico di minaccia.
“Sedetevi.”
“Che
cosa volete chiedermi?” ringhiò Hermann, rimanendo dritto in
piedi.
Con tono conciliante, padre
Gerold rispose: “Vorrei solo parlare un po' con voi.” Gli indicò
di nuovo la sedia. “Sedete, suvvia. Siete così alto che se state
in piedi mi fate venire il torcicollo.” Fece una risatina.
Il cavaliere si sedette senza
mutare espressione. “Ebbene, cosa volete sapere?” gli chiese
brusco. “È tutto il giorno che aspetto i vostri comodi.”
Il prete emise un sospiro. “Vi
chiedo perdono, cavaliere, ma la mia santa missione purtroppo
richiede a volte dei sacrifici. A me medesimo, oppure – cosa che mi
fa soffrire molto di più – ad altri.”
Il cavaliere continuava a
fissarlo impassibile.
“Da
quanto tempo conoscete il vostro confratello?” gli chiese allora
padre Gerold.
Hermann aggrottò le
sopracciglia. “Non si stava parlando della presenza del Demonio a
Dürnau?” ringhiò sospettoso.
“Ogni
cosa a suo tempo, cavaliere. Che cosa potete dirmi del vostro
confratello?”
Il crociato strinse gli occhi,
che divennero due lame azzurre, poi replicò: “Posso dirvi che è
la spada migliore della Palestina, e posso dirvi che non esiste
persona più coraggiosa, prode e onorevole di lui.”
“Ma
certo, non lo metto in dubbio,” concesse il sacerdote, poi chiese:
“E del suo aspetto che mi dite?”
“L'uomo
guarda l'apparenza, il Signore guarda il cuore.[2]”
“Vi
paragonate
al Signore, cavaliere?”
“No,
sto solo conformandomi al Suo insegnamento.”
Tra i due calò un silenzio
pesante, rotto solo dallo scricchiolio della penna di frate Peter
sulla carta.
Il prete decise di cambiare
tattica: “È nel vostro interesse, o meglio in quello del vostro
confratello, che voi parliate con cuore sincero, cavaliere. Tra le
persone che ho interrogato prima di voi, non ce n'è una che non mi
abbia riferito cose sospette su di lui.”
“Questo
capitò anche a Cristo, se non sbaglio.”
Padre Gerold fece un sorrisetto.
“Volete combattere con me a colpi di Sacre Scritture, cavaliere? Vi
avverto che se con la spada non avrei speranze di sconfiggervi, in
questo campo sono un degno avversario.”
“Se
voi parlate di sconfiggermi, padre, è segno che siamo nemici, e
quindi non vedo il motivo di porgervi aiuto. Ve lo ripeto: il mio
confratello è più degno di tutti noi di vestire la croce, è
impavido, nobile e generoso. Non ha nulla a che fare con demoni,
streghe o chissà che altro.”
Il
prete annuì come se si fosse aspettato da parte del cavaliere
proprio quelle esatte parole, poi disse: “Io di streghe non avevo
mai parlato. State attento, la troppa foga di difendere ottiene
spesso l’effetto contrario. Sapete come si dice, del resto:
excusatio non
petita, accusatio manifesta.”
Il cavaliere rimase impassibile,
ma padre Gerold fu certo di averlo colpito. “Potete andare, ora,”
gli disse in tono benevolo, “sarete sicuramente stanco.”
Hermann si alzò e uscì senza
dire una parola.
L’ultimo
a essere interrogato, ormai al calare del sole, fu l’homo
albus.
Nella stanza ormai in penombra,
rischiarata appena dalla lanterna posta sul tavolo, il suo pallore e
i suoi capelli bianchi risaltavano ancora di più, facendolo
assomigliare a una statua di ghiaccio. Sulla spalla sinistra e sul
petto aveva la croce nera dell’Ordine.
“Venite
avanti, cavaliere,” lo invitò padre Gerold. “Come vi chiamate?”
“Adalrich.”
“Adalrich,
e poi?”
L’altro gli rivolse uno sguardo
duro. “Fratello Adalrich. Questo è l’unico appellativo che in
quanto membro dell’Ordine posso e voglio portare.”
Il prete lo squadrò in silenzio
per qualche istante, poi disse: “Siete molto rigoroso, cavaliere.”
L’altro non rispose.
“Sedetevi.”
Adalrich prese posto sulla sedia
e rimase a fissare in silenzio il suo interlocutore.
“Sapete
che cosa mi hanno detto su di voi?” esordì padre Gerold.
“No.”
“Ne
siete certo?” lo provocò. “Io credo che in realtà ve lo
immaginiate.”
La penna di frate Peter
continuava a stridere sulla carta.
Alla fine, fratello Adalrich
rispose: “Che cosa conta qui, padre? I fatti o quello che io
immagino?”
“In
verità, entrambe le cose. Voi avete un’idea, ad esempio, di quello
che dicono di voi?” Poi, rivolto al suo aiutante: “Leggi un po’
la testimonianza della ragazza, per favore.”
Frate Peter scartabellò tra le
sue carte, estrasse un foglio, quindi compunto lesse: “Mia madre
dice che è opera del Demonio oppure è figlio di una strega, e non
capisce come faccia a portare la croce.”
Il cavaliere aggrottò le
sopracciglia.
“Vogliamo
leggerne un’altra?” propose padre Gerold. “Peter, quella del
guardiano di porci, per favore.”
“Dove
c'erano le creature del Demonio c'era sempre anche lui.”
Adalrich rimase immobile. Solo
dopo qualche istante, con voce dura disse: “Facciamola breve,
padre: dove volete arrivare?”
L’altro emise un sospiro.
“Voglio farvi capire, cavaliere, che voi vi trovate in una
situazione piuttosto ambigua: da una parte affermate di combattere il
male, ma dall’altra avete appena avuto la riprova di come tutti vi
considerino emissario di quello stesso male.”
“Io
non affermo
di combattere il male, padre,” ringhiò il cavaliere, mentre lo
sguardo gli si incupiva, “Io lo combatto.” Strinse i pugni e per
un istante fremette come se stesse per lanciarsi contro il sacerdote,
che infatti si trovò ad arretrare preoccupato.
“In
ogni caso,” proseguì padre Gerold, a rispettosa distanza, “ritengo
sia meglio non dare adito a ulteriori voci nei vostri confronti.
Anzi, mi meraviglio che il barone von Obenstein non abbia già preso
da tempo un provvedimento del genere.”
“Di
cosa state parlando?”
“È
meglio che questa notte rimaniate chiuso in una cella, così la gente
si rassicurerà nei vostri confronti.”
A quelle parole, Adalrich scattò
in piedi. “Cosa? Dovrei lasciare Hermann là fuori da solo con quei
mostri? Non se ne parla nemmeno.” Rimase a guardarsi intorno come
una belva in un branco di cani.
Il prete gli rimandò uno sguardo
neutro. Nella sua carriera di inquisitore ne aveva vista fin troppa
di gente che si agitava, sbraitava e minacciava. Quel cavaliere non
era certo il peggiore che gli era capitato. “Devo ricordarvi il
vostro voto di obbedienza? Io sono il plenipotenziario del vescovo.”
“Imprigionatemi
domattina, se proprio ci tenete. Questa notte c'è bisogno anche
della mia spada là fuori.”
Padre Gerold sorrise. Fissò il
cavaliere come se lo vedesse per la prima volta, sollevando
addirittura le sopracciglia con aria di cortese interesse. Si
accomodò all'indietro contro lo schienale, incrociò le braccia sul
petto e disse: “Ma guarda un po': piuttosto furbetto, questo
figlio del Demonio. Imprigionatemi domani. E intanto questa notte che
cosa fai, eh?”
Adalrich spalancò gli occhi,
spiazzato da quell'attacco frontale. “Cosa faccio?” ripeté.
“Perché non venite a vedere con i vostri occhi, padre? Sempre che
il cuore vi regga, naturalmente.”
“Non
ci tengo, di opere del Demonio ne ho viste fin troppe, nella mia
carriera. Ora, per il rispetto che nutro per il vostro Ordine,
abbiate la compiacenza di non creare problemi. Sarebbe davvero penoso
trascinare in cella un cavaliere teutonico che sbraita e si agita
come un volgare ladro di polli.”
Il barone non credeva alle sue
orecchie. “Ma stiamo scherzando?” ringhiò.
Padre
Gerold lo fissò con la più grande tranquillità. “Necesse
est,”
si limitò a comunicargli.
L'altro interruppe il passeggiare
nervoso e lo fissò con occhi che mandavano lampi. “Il latino non
rende le scempiaggini più assennate, padre. Sarebbe necessario, per
che cosa?”
Il prete assunse l'espressione di
Cristo dinnanzi al sinedrio. Con tono paziente, spiegò: “Barone,
quel cavaliere è vittima di dicerie di ogni genere. Quale modo
migliore per dimostrare la sua innocenza di quello che vi sto
proponendo? Essendo chiuso in cella, nessuno potrà ritenerlo
responsabile di alcunché.”
“E
allora perché non chiuderlo in una stanza?”
“Potrebbe
evadere.”
“Non
stiamo parlando di un criminale.”
“Oppure
potremmo dire: stiamo parlando di una persona che non sembra essere
un criminale.”
I due rimasero a fissarsi negli
occhi in silenzio. Persino i rumori dell'esterno sembravano essersi
affievoliti. Infine, il barone trasse un profondo sospiro come per
calmarsi, poi lentamente disse: “Fratello Adalrich è un cavaliere
dell'Ordine Teutonico. Nel lungo viaggio dalla Palestina a qui ho
imparato a conoscerlo bene, e vi posso dire che è una persona alla
quale affiderei senza esitazione la mia vita. Voi avreste la pretesa
che io lo buttassi in una segreta come una specie di delinquente
comune, venendo meno alle regole dell'ospitalità e della
cavalleria?”
Padre Gerold annuì, tranquillo
come se stesse parlando del tempo. “È solo una misura
precauzionale, non ho intenzione di fargli nulla. Voglio solo essere
sicuro di alcune cose.”
“Di
cosa, se è lecito?”
“Sapete
anche voi cosa si dice di quelli come lui: che siano emissari del
demonio e frutto di atti di stregoneria. Guardatevi
dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro son
lupi rapaci.[3]”
Von Obenstein strinse gli occhi.
“Che cosa vorreste insinuare?” ringhiò, “Che quel cavaliere
celi sotto il proprio aspetto una natura diabolica?”
“In
verità, barone, non cela proprio nulla. Quale sia la sua natura è
evidente a chiunque.”
“Non
c'è niente di diabolico in lui.”
L'altro
si strinse nelle spalle. “È quello che intendo provare, e se nel
vostro cuore non albergasse il dubbio,” si protese in avanti a
fissarlo negli occhi, “e io so
che invece vi alberga, non trovereste nulla da eccepire nella mia
proposta. Se il Signore è con lui, lo dimostrerà. E se non lo è...
ogni albero che non produce frutti buoni verrà tagliato e gettato
nel fuoco.[4]”
[1] Non ho trovato la definizione
di “albino” nel medioevo da nessuna parte, quindi ho dovuto
inventare. Se qualcuno la sa e me la dice mi fa un enorme piacere!
[2] Samuele, 16
[3] Matteo, 7:15-20
[4] Ibid.
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Capitolo 8 *** Capitolo 7 ***
Salve a tutti/e, eccomi qui con
un nuovo aggiornamento della nostra storia medievale. Ringrazio
tutti/e coloro che hanno avuto la gentilezza di commentarmi, ovvero
morgengabe, Saelde_und_Ehre, Syila, innominetuo, fiore di
girasole, Crilu_98, miciaSissi, LyaStark e naturalmente molang,
che si è pure fatta la maratona dei capitoli^^
Ringrazio
ovviamente anche tutti coloro che hanno messo la storia in qualche
lista o sono solo passati a dare un’occhiata.
Capitolo
7
Per
la prima volta da quando tutto era cominciato, Hermann si era trovato
a pregare
perché una di quelle creature saltasse fuori.
Aveva
battuto il villaggio tutta la notte, aveva cercato nelle case, nelle
stalle, intorno al cimitero. Si era infilato in tutti i luoghi più
oscuri e pericolosi, quelli dove normalmente gli esseri si annidavano
in attesa della notte.
Niente.
Certo
non era bello desiderare il male, ma la sera prima aveva parlato con
il barone e l’aveva visto preoccupato in un modo che non gli era
piaciuto per nulla.
Si
guardò intorno: stava sorgendo un'alba radiosa, sembrava che
addirittura il sole fosse felice della notte appena trascorsa, nella
quale invece dei lugubri ululati che avevano funestato le precedenti,
non si erano uditi altro che il canto degli usignoli e il frinire dei
grilli.
Le
campane cominciarono a suonare. Hermann si spostò verso il sagrato e
vide le porte della chiesa aprirsi, e da esse sciamare fuori gli
abitanti di Dürnau. La gente aveva l'aria sollevata. Percepì risate
e frasi scherzose.
Quando
qualcuno gli passava di fianco, le frasi perlopiù si affievolivano.
Da
dentro la chiesa sentì provenire la voce di padre Caspar: “Guai a
voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri
imbiancati...[1]”
Poi
il prete giunse sulla soglia, lo scorse e bruscamente tacque. Chinò
lo sguardo e per un attimo sembrò sul punto di rientrare nell'ombra
della navata.
“Come
va, padre?” gli chiese il cavaliere.
“Oh,
ehm... abbastanza bene, grazie.” L'uomo fece una pausa, si schiarì
la gola, poi riprese: “Anzi, molto bene, direi. Finalmente la Santa
Vergine e il Santissimo Atanasio di Alessandria, che abbiamo pregato
per tutte queste notti, ci hanno fatto la grazia, e il flagello è
scomparso.”
“O
almeno così pare,” replicò Hermann.
Il
prete lo fissò con apprensione. “Che cosa vorreste dire,
cavaliere?”
“Non
lo so, mi sembra strano che se ne siano andati così.”
“Dio
ci è venuto in soccorso.”
§
Nelle
prigioni non c’era nessuno. Le celle erano tutte vuote, e l’unico
rumore che si udiva era lo sgocciolio di qualche infiltrazione
d’acqua negli angoli più bui e umidi. Nella penombra densa, appena
rischiarata da una piccola finestra sbarrata da due ferri a croce,
avvolto nel manto bianco, Adalrich sedeva sul pagliericcio.
Per
tutta la notte aveva vegliato, tendendo ansiosamente l’orecchio
alla comparsa dei raccapriccianti ululati di quei mostri, ma non
aveva udito nulla. Era rimasto a passeggiare su e giù davanti alla
porta della cella, pensando a Hermann, chiedendosi ansiosamente se
stesse bene.
Aveva
anche pregato, chiedendo a Dio che non fosse il suo confratello a
pagare per le sue colpe, e che quelle cose non lo ferissero, perché
in tal caso non avrebbe avuto accanto nessuno deciso a compiere
l’ultimo e più necessario dovere nei suoi confronti.
Il
rumore di un chiavistello che scattava attirò la sua attenzione. Si
alzò in piedi e vide una lama di luce disegnarsi sul pavimento di
pietra.
Afferrò
le sbarre.
Avanzarono
lentamente padre Gerold e il frate. Il secondo reggeva un pezzo di
pane e una brocca d’acqua.
“Buon
giorno, cavaliere,” salutò il prete. “Spero che la sistemazione
non sia risultata troppo scomoda.”
“Come
sta Hermann?” chiese Adalrich ignorando il saluto.
“Volete
dire il vostro confratello?”
“Sì.”
Il
sacerdote intrecciò le mani dietro la schiena e osservò il
prigioniero dal basso verso l’alto, come se stesse guardando un
animale particolarmente strano. “Difficile che possa stare male,”
rispose alla fine, “Dal momento che questa è stata la notte più
tranquilla che Dürnau abbia conosciuto da un anno a questa parte.”
“Dio
sia lodato,” sospirò il cavaliere. “Ora volete farmi uscire, per
favore?”
L’altro
lasciò passare qualche istante, poi lapidario rispose: “Non se ne
parla nemmeno.”
Adalrich
aggrottò le sopracciglia. “Come sarebbe a dire?”
“La
notte appena trascorsa eravate prigioniero e non è successo nulla,
mentre da quando siete arrivato qui, ogni mattina sono stati trovati
nuovi mostri e nuove vittime.”
“Questo
è ridicolo,” ringhiò il cavaliere. “Mi state accusando di aver
ucciso quelle persone?”
“Non
lo sto facendo io. I fatti parlano da soli.”
Di
nuovo calò il silenzio. Sotto lo sguardo cupo del crociato, il prete
prese uno sgabello, si sedette e fece cenno al frate che lo
accompagnava di deporre accanto alla cella il misero vitto che aveva
portato. Fatto questo, si sistemò meglio la tonaca, lucidò su dorso
della manica la croce che portava al collo e infine, col tono di una
banale conversazione, disse: “Non nego di aver forzato un po’ la
mano ieri, nel corso degli interrogatori preliminari. Ho fatto
domande ad hoc
e ho raccolto le risposte che volevo.” Fece un’altra pausa, annuì
con l’aria di complimentarsi con se stesso. “Ma evidentemente era
Dio che stava guidando le mie azioni, cavaliere, perché così
facendo, ho maturato la decisione di rinchiudervi qui e ho messo fine
al flagello che stava devastando il paese.”
“Voi
non avete messo fine proprio a nulla, quelle cose torneranno.”
“Oh,
ma certo. C’è stato un errore, vero?”
“Torneranno.”
“E
voi come lo sapete, di grazia?”
“Lo
so e basta. Il mostro più pericoloso, il cane infernale, non è
stato ucciso.”
“Ripeto
la domanda: e voi come lo sapete? Siete in contatto con lui, per
caso?”
“E
io vi ripeto: non siate
ridicolo. Lo deduco dal
fatto che non l’avete neppure nominato.”
Il
prete annuì grave. Fece passare qualche istante di silenzio, quindi
con voce fredda disse: “Qui
c’è un unico cane infernale, figlio di Satana ed emissario del
Demonio, cavaliere, e in questo momento è dietro le sbarre,
impossibilitato finalmente a compiere le sue opere nefaste.” Lo
squadrò di nuovo come se stesse osservando un animale mai visto,
quindi gli chiese: “Dite, come avete fatto a carpire la fiducia del
barone von Obenstein? Eppure non mi è sembrato uno sprovveduto.”
Fratello
Adalrich non rispose.
“Certo,
rimanete pure nel vostro sdegnoso silenzio, finché ne siete in
grado,” fu la pacata risposta, “Ma sappiate che nessuno è mai
riuscito a resistere ai miei interrogatori. Arriverà il momento in
cui vi rammaricherete di non avere più cose da dirmi.”
“Io
non ho nulla da dirvi, né l’avrò mai.”
“Vedremo,
vedremo,” rispose padre Gerold in tono condiscendente.
§
Hermann
rientrò al castello immerso in cupi presentimenti. Procedeva rapido,
quasi senza fare caso al fatto che a differenza dei giorni
precedenti, sul suo cammino non compariva anima viva.
A
un certo punto svoltò per un viottolo che non aveva deviazioni, e
una ragazza che camminava nella direzione opposta alla sua si
appiattì al muro e si segnò quando si incrociarono.
Perplesso,
il cavaliere la seguì per qualche istante con lo sguardo mentre si
allontanava, poi però tornò deciso sui propri passi.
Vide
le guardie all’entrata scambiarsi un’occhiata nervosa al suo
apparire. Per un attimo fecero quasi il gesto di sbarrargli il passo,
poi rinunciarono al loro proposito, ma evitarono di guardarlo,
rimanendo con gli occhi fissi dinnanzi a sé.
Hermann
cercò l’entrata delle prigioni e vi si diresse senza indugio.
Questa
volta, la guardia lo fermò.
“Fatemi
passare,” gli intimò il cavaliere, già inquieto per la notte
appena trascorsa e per l’atteggiamento strano dei paesani.
“Ho
ordine di non far passare nessuno.”
L’altro
lo fissò torvo. “Ordine di chi?”
Il
soldato si guardò intorno, constatò che erano soli e a bassa voce
rispose: “Veramente non potrei nemmeno dirvelo. Ordine
dell’inquisitore che è arrivato ieri.”
Il
cavaliere aggrottò le sopracciglia. Avrebbe voluto chiedere da
quando in qua in un castello un uomo di chiesa dava ordini al posto
del feudatario, ma di sicuro non era il soldato con cui stava
parlando colui che avrebbe potuto dargli una risposta. Lo salutò e
si allontanò.
Andò
a cercare il barone.
Trovò
il nobile nella sala delle udienze, con lui c’era anche padre
Gerold.
“Voi
dovete permettermi di interrogarlo secondo le prescrizioni del
vescovo!” stava dicendo il prete.
Hermann
non percepì alcuna risposta.
“Dovete
farlo! Quello che voi avete sempre considerato un servo di Dio,
quello al quale avete accordato la vostra incondizionata fiducia,
altri non è che un emissario di Satana.” Poi, dopo una pausa:
“Prima firmerà la sua confessione, prima potremo procedere a
eliminare definitivamente il male da Dürnau.”
“Che
cosa intendete per eliminare definitivamente?” disse il barone dopo
un lungo silenzio.
Prima
che il prete potesse rispondere, Hermann fece il suo ingresso nella
stanza. “Qui non si interroga proprio nessuno,” disse in tono che
non ammetteva repliche, “a meno che non sia presente un membro nel
nostro Ordine.”
“Io
sono il plenipotenziario del vescovo,” ringhiò padre Gerold
rivolgendogli un’occhiata velenosa, “quindi ho il diritto di
portare avanti un interrogatorio con i mezzi che ritengo più
adeguati, se ho il fondato sospetto che ci siano commerci con il
Maligno.”
Fratello
Hermann si erse in tutta la sua altezza, arrivando a sovrastare il
religioso di tutta la testa. Sul suo volto normalmente amabile e
sereno aleggiava l’espressione che egli assumeva nel corso delle
battaglie più feroci. “E io vi ripeto, padre, che richiedo, anzi
esigo
un membro nel nostro Ordine che porti avanti l’eventuale
interrogatorio insieme a voi.”
L’altro
lo fissò bellicoso. “Altrimenti?”
“Altrimenti...”
cominciò facendo un passo verso di lui, la mano gli corse al pomo
della spada.
Mentre
il prete arretrava mormorando qualcosa d’indistinto, il barone
afferrò il cavaliere per un braccio e lo trattenne. “Non giova a
nessuno farsi prendere dai sentimenti,” gli ricordò.
A
malincuore, Hermann si rilassò sotto la sua presa. Emise un sospiro
sconsolato e disse: “Certo, avete ragione.” Volse lo sguardo
verso di lui come per chiedergli aiuto.
Il
nobile annuì appena, quindi a voce alta disse: “Concordo con
quanto detto dal fratello cavaliere. Manderemo a chiamare un membro
dell’Ordine esperto in questo genere di cose.”
“Ma...”
intervenne il prete indignato.
“Così
è deciso,” replicò von Obenstein prima che l’altro avesse tempo
di finire la frase. “Potete tenere in cella il cavaliere, ma non
potete interrogarlo in alcun modo fino a che non sarà giunto un
cavaliere più anziano, o addirittura un fratello sacerdote che possa
assistervi nella bisogna. L’Ordine Teutonico ha uno statuto
particolare, del quale ovviamente non potete essere a conoscenza,
quindi è necessario che qualcuno più sapiente di voi in questo
campo vi affianchi e vi consigli.”
Il
prete aggrottò le sopracciglia. “Volete lasciare che il male
dilaghi nel vostro feudo?” lo provocò.
“Se
devo dar retta a voi, il male è attualmente chiuso in una cella del
mio castello, e da lì non può scappare.”
“Ma
può sempre esercitare la sua nefasta influenza.” Il sacerdote
dardeggiò occhiate verso i due interlocutori, che però gli
rimandarono sguardi di pietra. Il barone anzi disse: “Sono certo
che il nostro parroco, padre Caspar, gradirebbe molto scambiare altre
quattro chiacchiere con voi. Non capita tutti i giorni di avere a che
fare con un plenipotenziario del vescovo di Fulda.”
“Ma,
se permettete, barone...” tentò padre Gerold.
“Andate.
Il simile ama stare con i propri simili, non è così?”
Una
volta che il prete, con molti inchini e qualche rispettosa ma
inascoltata protesta fu uscito, Hermann si rivolse al barone e
semplicemente disse: “Adalrich è innocente.”
“Lo
so.”
“Sono
pronto ad affrontare qualsiasi ordalia per provarlo, non temo il
giudizio di Dio né quello degli uomini. Giuro sulla mia spada, e per
la croce che porto sul petto, che il mio confratello non ha mai fatto
altro che combattere quelle creature malefiche.”
“Lo
so, lo so,” sospirò di nuovo il barone, “non lo dovete dire a
me.”
“E
allora perché non lo fate liberare?”
“Non
è così facile. Qui non siamo in Terra Santa, le cose sono più
complesse. Ma posso pur sempre ordinare che al vostro confratello non
sia fatto alcun male.” Si interruppe, guardò verso la porta come
temendo di vedere affacciarsi l’inquisitore, poi soggiunse: “Per
ora.”
Hermann
lo fissò aggrottando le sopracciglia. “Come sarebbe a dire, per
ora?”
“Al
momento il vostro confratello ha a suo favore solo i vostri
giuramenti. Contro di lui invece ci sono prove purtroppo evidenti,
oltre al fatto che è un… come l’ha chiamato il prete? Homo
albus?”
“Sì.”
“Quelli
come lui di solito vengono uccisi da piccoli, lo sapete bene. Lui si
è salvato solo perché di famiglia nobile.”
“È
innocente,” ripeté Hermann per l’ennesima volta. Evitò di
tirare fuori l’argomento delle vere origini del confratello. Si
ripromise anzi, qualora le cose si fossero messe davvero
male, di scrivere ai conti von Hohenberg: se essi avevano accolto
Adalrich quando era in fasce e nonostante il suo aspetto lo avevano
cresciuto come figlio loro, di certo dovevano volergli bene. La
famiglia era antica e potente, e un suo appello a favore del
cavaliere non sarebbe rimasto inascoltato.
Hermann
chinò la testa, lasciando vagare per un po’ lo sguardo sulle
macchie colorate che il sole creava su muri e pavimento
attraversando i vetri delle finestre. Infine fissò il barone e
chiese: “Posso vederlo?”
L’altro
annuì. “Teoricamente, nessuno potrebbe avere contatti con il
prigioniero, ma vi porterò comunque da lui. Basta che mi promettiate
di trattenervi poco.”
“Voglio
solo scambiare due parole con lui, vedere come sta.”
“Non
gli è stato fatto del male,” si sentì in dovere di ricordargli il
barone.
Senza
quasi fare caso a quella rassicurazione, Hermann rispose: “Il
problema non è la sofferenza del corpo, barone. Sarà furioso e
umiliato, e quando è in quello stato d’animo tende a convincersi
di cose stupide.”
“Ad
esempio?”
“Ad
esempio che il prete abbia ragione, o scempiaggini del genere, ed è
troppo schietto per non dire con franchezza quello che pensa, anche a
proprio discapito. Devo andare a parlargli prima che peggiori da solo
la sua posizione.”
Inginocchiato
accanto al pagliericcio, immobile, Adalrich sembrava una statua di
marmo. La luce che penetrava dal finestrino lo investiva in pieno,
facendo risaltare il suo candore contro il buio che lo circondava.
Hermann
si avvicinò e rimase in piedi a guardarlo.
L’altro,
che stava pregando, disgiunse le mani e si voltò verso di lui. “Sei
tu,” disse. Gli rivolse un pallido sorriso.
Hermann
si fece avanti, afferrò le sbarre. “Adalrich...”
“Non
saresti dovuto venire,” lo ammonì il prigioniero.
“Perché?”
“Non
devono pensare che tu ed io siamo legati da altri vincoli a parte
quello di appartenere allo stesso ordine, altrimenti finiranno per
sospettare anche di te.”
Per
tutta risposta, in tono rabbioso Hermann disse: “Non permetterò a
quel prete di farti del male, dovessi frappormi fra te e lui con la
spada in pugno.”
Adalrich
non replicò. Si alzò in piedi, si avvicinò alle sbarre e pose le
mani accanto alle sue, abbastanza vicino da sfiorarle. “E se…
fosse vero?” mormorò evitando di guardarlo negli occhi.
“Che
cosa?”
“Che
io sono un emissario del Demonio. Che sono malvagio.”
“Per
la lancia di San Giorgio, Adalrich, ricominci?” sbottò il
confratello, avendo cura di far sì che la sua voce suonasse
particolarmente esasperata. “Se tu fossi di natura diabolica, come
potresti portare la croce sul petto?”
L’altro
abbassò gli occhi sulla propria cotta d’arme come se la vedesse
per la prima volta. “Non lo so,” disse candidamente. Staccò una
mano dalle sbarre e sfiorò con le dita la croce nera.
“Adalrich,
te l’ho sempre detto: dai un po’ troppo credito alle storie da
comari. Se tu sei di natura diabolica, allora Starkenberg deve essere
un girone dell’inferno, perché sei il migliore, il più valoroso e
il più devoto di tutti noi.”
“Adesso
non esagerare.”
“Dico
le cose come sono.” Distolse lo sguardo dal confratello e lo girò
verso la porta delle prigioni, constatando che essa era ancora
chiusa. Tornò a fissare gli occhi su di lui e a voce bassa disse:
“Cambiando discorso: tu che idea ti sei fatto di quello che è
successo?”
L’altro
fece per aprire la bocca, ma Hermann lo fermò con un gesto e lo
ammonì: “Non tirare fuori delle assurdità sul fatto che eri
rinchiuso qui. Lo sai meglio di me che non c’entri niente.”
“Hm.”
“Ne
sei convinto, vero? Non è che cominci ad autoaccusarti come uno
stupido appena giro l’angolo?”
“Ma
no, sta tranquillo.”
L’altro
lo squadrò critico. “Vedremo. Comunque: tu credi che la questione
dei mostri sia veramente finita?”
Adalrich
scosse la testa. “No, non è finita. Ho ancora la brutta sensazione
che mi porto dietro da quando abbiamo trovato quella reliquia.”
Deglutì. “Anzi, adesso è più forte che mai.”
“Credi
che il cane infernale tornerà?”
“Sì.
Per prima cosa, non è morto nemmeno dopo che l’ho colpito in pieno
almeno quattro volte. L’hai visto anche tu: si è rialzato ed è
andato via come se niente fosse. E poi non compariva tutte le notti,
ricordi? Si vede che esce solo quando è affamato, o qualcosa del
genere.”
“Quindi
è ancora da qualche parte.”
“Sì,
e tornerà.”
“Beh,
nel caso spero che vada a bussare alle finestre di padre Gerold, così
quella specie di rospo si convincerà che sei innocente.”
Un
cigolio lo avvisò che la porta delle prigioni si stava schiudendo.
Con un gesto repentino, egli pose la mano su quella che Adalrich
teneva ancora posata sulle sbarre e la strinse. L’altro non si
ritrasse. Si fissarono negli occhi, poi Hermann sussurrò: “Ricorda
quello che ci siamo detti e non fare cose stupide. Io ti tirerò
fuori di qui, fosse l’ultima azione che compio in vita.” Poi si
girò e senza dare all’altro il tempo di replicare, si diresse
rapido verso l’uscita.
Hermann
uscì dalle segrete piuttosto pensieroso. Una frase di Adalrich non
voleva uscirgli dalla testa: ho
ancora la brutta sensazione che mi porto dietro da quando abbiamo
trovato quella reliquia.
La
comparsa del mostro era coincisa con l’arrivo del suo confratello
al villaggio, e questo non si poteva negare, ma contestualmente era
arrivata anche un’altra cosa nel villaggio.
E
Adalrich aveva una brutta sensazione da
quando l’avevano trovata.
Rifletté
che nell’arco della loro lunga conoscenza quegli strani
presentimenti erano comparsi molto di rado, ma invariabilmente si
erano rivelati esatti.
La
voce del barone lo distrasse dai suoi ragionamenti: “Ebbene,
cavaliere, siete soddisfatto di quello che avete visto?”
“Adalrich
sta bene,” si limitò a rispondere Hermann.
“Non
gli è stato fatto alcun male,” si sentì in dovere di
puntualizzare ancora una volta von Obenstein.
L’altro
annuì. “Certo, ve ne sono grato. Posso sperare che non gliene
verrà fatto nemmeno in futuro?”
Il
barone si strinse nelle spalle e rispose: “Vorrei potervelo
promettere, ma...”
“Ma?...”
“Venite
con me, cavaliere. Sono certo che vi farà piacere visitare la nostra
armeria.” Il nobile si incamminò senza attendere risposta.
Hermann
non ebbe altra scelta che seguirlo.
Percorsero
un corridoio dalle pareti coperte di arazzi, discesero un paio di
rampe di scale e uscirono nel cortile, lo attraversarono e poi
imboccarono una porta. Da lì, scendendo alcuni gradini, raggiunsero
una stanza molto ampia, con i soffitti a volta di mattoni grezzi, a
stento rischiarata da una lanterna posata su un supporto accanto
all’entrata.
Tutto
l’ambiente era occupato da rastrelliere sulle quali erano allineate
armi di ogni tipo.
“Venite,”
ripeté il barone, “ora vi mostro le armi più belle.” Raccolse
la lanterna e si addentrò fra gli scaffali.
Giunsero
a una seconda scala, la discesero e arrivarono a un locale più
piccolo, con il soffitto più basso, nel quale stagnava un penetrante
odore di umidità. Non c’erano armi.
“Ora
possiamo parlare,” annunciò il barone. “Quando c’è in giro
certa gente, anche i muri hanno occhi e orecchie. Quaggiù almeno
abbiamo la garanzia che la conversazione rimarrà privata.” Spinse
la porta in modo da chiuderla, quindi appese la lanterna a un gancio
che usciva da una parete e disse: “Penso che l’avrete già
capito: l’inquisitore vuole un’esecuzione.”
Il
cavaliere fece qualche passo, il pavimento di terra battuta ne attutì
il rumore. Infine rispose: “Lo immaginavo.”
“Per
ora gli sto impedendo di fare qualsiasi cosa, ma appena potrà
comincerà con gli interrogatori.” Fece una pausa. “Voi sapete
cosa significa, vero?”
Hermann
si limitò ad annuire.
“Il
passo successivo sarà il rogo,” aggiunse il barone.
“Voi
potete negare il permesso. È il feudatario che autorizza la pena
capitale nel feudo.”
“Certo,
ma ci vogliono dei motivi validi per farlo. Le prove sono tutte
contro il vostro confratello, come vi ho già detto. Inoltre, se
padre Gerold comincerà a interrogarlo potrebbe anche riuscire a
ottenere una sua confessione, e in tal caso non avrei più nessuna
possibilità di oppormi alla sentenza.”
Hermann
strinse i denti. Si appoggiò con le spalle contro il muro e fissò
negli occhi il suo interlocutore. “Ci dev’essere un modo per
fermarlo,” disse alla fine, “Adalrich è innocente. Combatto
spalla a spalla con lui da anni, lo conosco meglio di me stesso.
Inoltre, ogni notte sono rimasto al suo fianco, non ha mai fatto
altro che lottare contro quelle cose, anche a rischio della propria
incolumità. Sono pronto a testimoniarlo di fronte a chiunque.”
“Non
ditelo troppo forte,” lo ammonì von Obenstein, “Per certa gente,
da testimone a complice il passo è breve, e rischieremmo di avere
due esecuzioni invece di una.”
“Meglio
morire con lui che rimproverarmi in futuro di non essere riuscito a
salvarlo!” rispose Hermann con veemenza, gli occhi azzurri che
mandavano lampi.
L’altro
gli fece cenno di calmarsi, poi disse: “Dato che avete richiesto la
presenza di un membro del vostro Ordine durante gli interrogatori,
vale la pena di sceglierlo con oculatezza.”
Il
cavaliere fece un sorriso tirato. “Potrei andare a chiamare il Gran
Maestro, dato che conosce bene, e ovviamente stima fratello Adalrich.
In fondo, da qui alla corte di Federico II non ci saranno più di due
mesi di viaggio, no?”
Il
nobile si concesse un fugace sorriso, quindi rispose: “Non c’è
bisogno di affrontare uno spostamento così lungo e pericoloso. Credo
che al convento di Marienbrunnen, a un giorno di cavallo da qui,
troverete la persona che fa per voi.”
“Allora
parto subito.”
“No,
partirete domani, ufficialmente con il compito di scortare mio figlio
verso Norimberga. Io dirò al prete che vi ho fatto allontanare con
una scusa per impedirvi di comunicare con il vostro confratello.”
“Devo
chiedere di qualcuno in particolare?”
“Fratello
Hildebrand. È un anziano cavaliere che non avendo più l’età per
portare le armi conduce una vita di studio e contemplazione presso il
convento.”
Hermann
immaginò un mite vecchietto, magari con qualche problema di memoria.
“Siete sicuro che sia la persona giusta?” chiese dubbioso. Per
come la vedeva lui, per rintuzzare le ignobili affermazioni
dell’inquisitore ci sarebbe voluto un cavaliere agguerrito, esperto
di Scritture ma anche abituato a combattere, che non si lasciasse
intimidire dalle invettive di padre Gerold sul Demonio. Oppure uno di
quei fratelli sacerdoti che avevano più spesso in mano la spada del
messale, come padre Georg di Starkenberg.
“Sono
sicuro.” La voce di von Obenstein lo riportò alla realtà
contingente. “E ora torniamo su, non vorrei che cominciassero a
chiedersi dove siamo finiti. Partirete domattina, Konrad verrà con
voi e vi indicherà la strada.”
§
Al
calare del sole, fratello Hermann si presentò al barone armato di
tutto punto. Nella sala delle udienze c’era anche padre Gerold, che
lo fissò meravigliato e chiese: “Dove andate, cavaliere?” Poi,
con una risatina: “Per caso c’è qualche drago da uccidere?”
“Il
cane infernale tornerà,” si limitò a rispondere Hermann.
“Davvero?
Per caso ve l'ha detto il vostro confratello?”
L'altro
ignorò la provocazione e si voltò verso von Obenstein: “Con
permesso,” gli disse, facendo un lieve inchino del busto. Si girò
per andarsene, ma il prete lo richiamò: “Aspettate un attimo, non
avete risposto alla mia domanda: è stato il vostro confratello ad
avvertirvi?”
Hermann
si morse il labbro inferiore. Scambiò un fugace sguardo con il
barone, quindi si volse verso il religioso e rispose: “È solo
prudenza da parte mia, padre.”
“Una
prudenza fuori luogo, direi.” Poi, dopo una pausa, rivolgendogli
un'occhiata sospettosa: “A meno che voi non sappiate qualcosa che
noi ignoriamo.”
Il
cavaliere era certo di essere impallidito, tuttavia sostenne lo
sguardo del sacerdote e con voce ferma rispose: “So quello che
sapete anche voi: il cane infernale non è stato ucciso.”
“Certo,
non ancora,”
rispose padre Gerold, “ma rassicuratevi: è chiuso in cella e non
può fare danni.”
“Adalrich
non è un cane, e tanto meno infernale!” sbottò il cavaliere.
Nella foga di difendere il confratello fece un passo verso il prete,
che arretrò spaventato.
In
quel momento, echeggiò, fioco ma inconfondibile, un lungo ululato.
I
tre si irrigidirono e si scambiarono un'occhiata. Il suono si ripeté.
“Un
lupo?” ipotizzò padre Gerold nel silenzio che era calato.
“È
il cane infernale,” disse Hermann con voce dura, poi si voltò
verso il barone: “È meglio che io vada.” Senza attendere
risposta si diresse rapido verso la porta.
Corse
fuori dalla sala delle udienze. Uscì a passo svelto dal castello, si
diresse verso il borgo. Qua e là brillavano delle fiaccole, c'era
gente sul sagrato, qualcuno stava piangendo. Vide che la siepe di
prugnoli che circondava il cimitero era stata in parte divelta, e i
rami degli arbusti giacevano sparsi qua e là. Da dietro la
vegetazione superstite proveniva una luce. Il cavaliere si avvicinò
e si imbatté in un gruppetto di persone che stavano contemplando una
tomba profanata. Al posto della sepoltura, eseguita il giorno prima,
era rimasta solo una fossa irregolare, intorno alla quale erano
sparsi brandelli di stoffa e fiori calpestati.
“Quando
è successo?” chiese d'impulso.
I
presenti si voltarono verso di lui e lo fissarono silenziosi.
Qualcuno addirittura fece l'atto di arretrare di fronte alla sua
croce nera.
“Allora?”
li richiamò alla realtà.
Fu
una ragazza a parlare: “Poco fa. Abbiamo sentito dei rumori e siamo
venuti a vedere, e abbiamo trovato... questo.” Fece un gesto verso
lo sfacelo della sepoltura.
“Dove
abitate?” chiese il cavaliere.
La
ragazza indicò un punto dall'altra parte del sagrato. “Hirtengasse,
vicino alla fontana.”
“Abitate
tutti nello stesso posto?”
I
paesani si limitarono ad annuire, sempre continuando a fissarlo con
sguardi a metà tra il sospetto e la paura.
“Vi
accompagno là,” disse il cavaliere, “poi chiudetevi in casa e
non aprite per nessun motivo fino a che non torna il sole.”
Un
uomo scosse la testa. “Non ci veniamo con voi, siete amico
dell'emissario di Satana.” Si fece il segno della croce.
Hermann
stava per ribattere, quando dal buio dei vicoli che circondavano la
piazza si levò ancora una volta l'ululato della bestia. Calò un
silenzio carico di apprensione.
“È
vicinissima,” si limitò ad ammonirli il cavaliere. “State
indietro.” Sfoderò la spada mentre la gente si appiattiva contro
il muro della chiesa.
Il
cane infernale uscì dall'ombra a grandi balzi, entrando nell'area
fiocamente illuminata del sagrato. I suoi occhi verdi sembravano
ardere di un fuoco interno, le mascelle irte di zanne grondavano
sangue.
Qualcuno
urlò alle spalle di Hermann, una donna scoppiò a piangere.
“State
indietro!” ripeté il cavaliere.
La
bestia si piantò sulle quattro zampe in mezzo allo spiazzo. Aveva
una cresta di pelo fulvo irta sulla schiena, ed era più possente di
un lupo adulto. Alzò la testa come per fiutare l'aria mentre un
ringhio basso le usciva dalla gola.
La
spada stretta in pugno, Hermann fece qualche passo in avanti. Il
mostro volse lo sguardo nella sua direzione, di nuovo emise un
ringhio. Si raccolse preparandosi a balzare.
“Fatti
sotto,” la provocò il crociato.
Sulla
spada, investita dalla luce delle fiaccole, guizzò un bagliore come
di metallo incandescente.
Il
mostro tese i muscoli, arricciò le labbra scoprendo ancora una volta
le zanne candide. Gli occhi non erano quelli di una bestia bruta,
brillavano anzi di un'astuzia e di una perfidia antiche.
“Fatti
sotto,” ripeté Hermann, facendo un altro passo avanti.
Il
cane infernale balzò. Il cavaliere sottrasse bersaglio e intercettò
la sua parabola con un fendente calato a due mani. Il colpo penetrò
profondamente, e un violento spruzzo di sangue gli imbrattò la cotta
d'arme. Con un urlo raccapricciante, il mostro rotolò da una parte,
quindi balzò in piedi. Il colpo di spada, che avrebbe dovuto
ucciderlo o perlomeno ferirlo gravemente, si stava richiudendo a
vista d'occhio.
Ringhiò,
si fece sotto di nuovo. Il cavaliere si raccolse, e mentre il mostro
lo superava con un balzo alzò la spada per squarciargli il ventre.
Si udì un orrendo ululato di dolore, la belva crollò al suolo e
mentre rotolava trasfigurò in un uomo alto e ossuto, dal colorito
scuro.
Fu
solo un istante, poi di nuovo prese la forma di un animale, scattò
in piedi e scomparve nel buio.
Ansante,
il cavaliere rinfoderò la spada e si voltò verso il gruppetto. “Ora
andiamo,” disse.
I
paesani, tre donne e due uomini, ondeggiarono ma non si mossero.
“Andiamo,”
ripeté Hermann in tono duro, “non fatemelo ripetere. Quella cosa
può tornare.”
Di
nuovo, l'unica che si fece avanti fu la ragazza, che poi si voltò
verso gli altri e disse: “Madre, padre: andiamo?”
Gli
altri quattro si scambiarono mute occhiate. Di nuovo echeggiò nel
buio l'ululato, i paesani ritirarono la testa fra le spalle ma non si
mossero.
Il
cavaliere porse una mano alla più giovane. “Come ti chiami?” le
chiese.
“Petra.”
“Per
favore, Petra, fidati di me. Se rimarrete qui fuori da soli
morirete.”
Da
qualche parte si udì un grido d'agonia. “Ha preso qualcuno!”
esclamò il padre della ragazza.
“Muoviamoci,”
ripeté il cavaliere, “o rischiate di essere i prossimi.”
Petra
fu la prima a farsi avanti, gli altri a malincuore la seguirono,
stretti fra di loro come pecore, dardeggiando intorno occhiate di
terrore.
Si
udì il raschiare degli unghioli nel buio, di nuovo un ringhio.
Hermann fu lesto ad abbandonare la mano della ragazza e a sfoderare
la spada. Subito dopo fu sbattuto all'indietro dall'impatto del
mostro. L'arma gli sfuggì. Vide il baluginare delle fauci nel buio e
d'istinto si protesse il volto con l'avambraccio. La bestia lo
afferrò, le sue zanne strapparono gli anelli di ferro dell'usbergo
come se fossero stati di carta. Il cavaliere estrasse con l'altra
mano il baselardo e glielo piantò nel collo fino all'impugnatura, il
mostro si fece indietro con l'arma ancora conficcata nel corpo, il
giovane ne approfittò per rialzarsi in piedi e recuperare la spada.
Subito dopo incalzò la belva, caricò un fendente e glielo calò
addosso a due mani. La lama penetrò nella folta pelliccia e produsse
uno squarcio dal quale sgorgò un fiotto di sangue. Il cavaliere
vibrò un secondo colpo, che di nuovo ferì il mostro, ma esso
arretrò, e dritto sulle quattro zampe ringhiò con aria di sfida. Si
udì il tintinnio del pugnale che cadeva a terra.
“Andate!”
ordinò il cavaliere ai paesani, senza perdere di vista l'orrendo
animale, “Correte via e chiudetevi in casa mentre lo tengo
impegnato.”
Petra
protestò: “E voi?”
“Andate!”
ripeté Hermann. Sentì che alle sue spalle la madre della ragazza
diceva qualcosa. I paesani si allontanarono rapidi.
La
belva si raccolse per balzare di nuovo, ma in quel momento si fecero
udire le voci di diversi uomini: con la coda dell'occhio il cavaliere
si accorse che si trattava del sergente con una decina di soldati,
tutti armati di fiaccole e picche. Con un ringhio rabbioso, il mostro
si girò e scomparve nel buio.
[1]
Matteo 23
|
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Capitolo 9 *** Capitolo 8 ***
Sapevatelo. Importanti
rivelazioni sulla Bestia di Dürnau, su Rieducational Channel!
Scusate
se non ho postato ieri, ma è stato un giorno un po’ caotico. Nel
frattempo ringrazio sentitamente chi mi segue e mi commenta, in
particolare Saelde_und_Ehre, fiore di girasole, morgengabe,
LyaStark, molang, innominetuo, miciaSissi, Syila, Crilu_98 e la
nuova maratoneta, che graziosamente si è sciroppata tutti gli
arretrati per giungere fin qui, by a lady.
Grazie
a tutti!!
Capitolo
8
Fratello
Hermann uscì nel cortile del castello. Era prima mattina, e il
piccolo spazio lastricato era ancora completamente in ombra. Le
pietre erano scivolose per l’umidità della notte.
Fuori
c’erano due cavalli già sellati: il suo destriero da guerra e uno
snello palafreno dal manto grigio. Immaginò che il secondo fosse
quello di Konrad von Obenstein.
Si
guardò intorno: a parte lui e un paio di mozzi di stalla, il luogo
era vuoto.
Raggiunse
la propria cavalcatura e cominciò a controllare i finimenti come
faceva ogni volta che doveva montare in sella.
Mentre
era così impegnato, una voce alle sue spalle attirò la sua
attenzione: “Siete pronto a partire, cavaliere?”
Hermann
si voltò. “Buon giorno, barone. Sì, sono pronto, grazie.”
“Il
braccio vi fa ancora male?”
“Non
tanto,” rispose il giovane, ma quando tentò di sollevarlo per
regolare la lunghezza dello staffile, dovette desistere mentre una
smorfia di dolore gli tendeva i lineamenti. “Forse un po’...”
si corresse.
“Siete
fortunato che quel mostro non ve l’abbia strappato. Ho visto il
vostro usbergo: da non credere.”
“Ha
sorpreso anche me.” Il cavaliere fece una pausa, poi a voce più
bassa chiese: “Difenderete Adalrich mentre sono via?”
Il
barone si voltò a fissarlo negli occhi. “Come se fosse mio
figlio.”
“Vi
sono molto obbligato.”
L’altro
scosse la testa. “No, sono io che vi sono obbligato. Avete protetto
i miei contadini a rischio della vostra vita.”
“Era
mio dovere farlo.”
“E
allora vedetela così: è mio dovere di feudatario proteggere le
persone a cui do ospitalità.” Poi, dopo una pausa: “L’usbergo
che vi ho fatto avere vi soddisfa?”
“È
di ottima fattura, barone. È anche più leggero del mio, sebbene non
meno robusto.”
“Spero
che vi servirà bene. Lo portava mio padre in battaglia, è stato
fatto dai migliori artigiani di Norimberga.”
Hermann
stava per rispondere quando una voce chiese: “A proposito di
Norimberga, padre, quando posso tornarci?”
I
due si voltarono: sulla soglia c’era Konrad in abiti da viaggio.
Dava l’idea di essersi alzato poco prima. “Salute a voi,
cavaliere,” disse svogliato. Si sistemò il cappello bordato di
passamaneria dorata.
“Salute,”
rispose neutro fratello Hermann, alzando appena lo sguardo verso di
lui.
Il
ragazzo si fece avanti e in tono meravigliato chiese: “Hai fatto
sellare Habicht, padre?”
“So
che è il tuo preferito.”
Senza
rispondere, il ragazzo montò in sella e fece qualche passo per il
cortile. Anche a quell’andatura, lo snello animale sembrava
letteralmente danzare sul selciato. Frustò l’aria un paio di volte
con la coda e alzò la testa impaziente di mettersi in marcia.
Hermann
gli rivolse uno sguardo. “È il vostro cavallo?” chiese.
“È
un corsiero berbero,”
rispose Konrad orgoglioso.
“È
un bell’animale.”
Detto
questo, anche lui montò in sella, quindi rivolse uno sguardo al
ragazzo, come per invitarlo a partire e a fargli strada.
Con
un sospiro, Konrad spronò il corsiero e uscì dal cortile al
galoppo, sperando di distaccare il più pesante cavallo da guerra.
Cavalcarono
in silenzio per un paio d’ore, ognuno immerso nei propri pensieri,
poi Konrad di punto in bianco chiese: “Da quanto tempo siete
nell’Ordine?”
“Da
quando avevo quattordici anni.”
Il
ragazzo emise un fischio di meraviglia. “Quattordici?”
L’altro
si limitò ad annuire.
“Adesso
quanti anni avete?”
“Venti.”
“Per
i dardi di San Sebastiano! E come fate a godervi la vita?”
“In
modi che voi non apprezzereste.”
Il
giovanotto scosse la testa con l’aria di non capacitarsi della
cosa. Dopo un po’ chiese: “E vi piace?”
“Sì.”
Konrad
si voltò a fissarlo sempre più incredulo. “Davvero?”
Di
nuovo, il cavaliere annuì.
Il
ragazzo si tolse il cappello, scosse la testa facendo ondeggiare ben
curati riccioli castani, quindi si rimise il copricapo. “Ma…
ecco, scusate se ve lo chiedo: che cosa c’è di bello?”
Hermann
gli rivolse un sorriso che aveva una vaga nota ironica, e poi
rispose: “Non credo che vi interesserebbe saperlo.”
Continuarono
a cavalcare in silenzio. Passò un altro po’ di tempo,
attraversarono un villaggio, qualcuno li salutò con la mano, un paio
di bambini li seguirono per un po’. Usciti dal centro abitato, si
imbatterono in una locanda dalla quale scaturivano musica e allegro
vociare. Konrad annusò l’aria con fare rapito, poi disse: “Qui
fanno un magnifico pollo al melograno. Vogliamo approfittarne?”
“Con
permesso, preferirei proseguire.”
“Ma
il pollo...”
“Lo
mangerete un’altra volta. Ora proseguiamo, per favore.”
Il
ragazzo emise un teatrale sospiro di esasperazione, brontolò
qualcosa di indistinto sulla gente che non sapeva godersi la vita,
quindi distaccò il cavaliere di qualche passo e proseguì così per
un po’.
Hermann
si limitò a seguirlo in silenzio, immerso nei suoi pensieri.
Dopo
nemmeno due ore, il ragazzo fermò il cavallo, si voltò verso di lui
e chiese: “Ci riposiamo un po’?” Indicò una radura
ombreggiata.
“No.”
“Come
no? Io sono stanco!”
Il
cavaliere rimase impassibile.
“Devo
riposare.”
“Riposerete
a Marienbrunnen.”
“State
scherzando? Ci arriveremo questa sera.”
“Se
ci fermassimo, arriveremmo ancora più tardi.”
“Se
penso che mio padre avrebbe voluto farmi entrare nell’Ordine, mi
sento male.”
§
Chiuso
in cella, Adalrich girava su e giù nervosamente. Tutta la notte
erano risuonati nell’aria gli ululati della belva infernale.
Il
mostro, qualsiasi cosa esso fosse, aveva imperversato nel paese a suo
piacimento, e l’unico vantaggio dell’accaduto era che a questo
punto l’inquisitore avrebbe dovuto arrendersi di fronte alla prova
della sua innocenza e liberarlo.
Per
l’ennesima volta si chiese ansiosamente dove fosse Hermann, se
stesse bene. Senza dubbio era uscito per combattere il mostro, pur
consapevole del fatto che le armi normali non fossero in grado di
colpirlo.
Mentre
era immerso in quei tormentosi pensieri, un rumore lo fece
sobbalzare: proprio padre Gerold stava entrando, accompagnato
dall’immancabile frate Peter.
Il
sacerdote prese lo sgabello e come sempre si sedette davanti alle
sbarre. “Buon giorno,” salutò in tono ironico, “avete dormito
bene?”
Il
cavaliere si limitò a fissarlo senza parlare.
L’altro
fece un sorrisetto. “Tacete pure, finché potete,” lo irrise.
“La
bestia è tornata,” ringhiò Adalrich per tutta risposta, “l’ho
sentita ululare anche da qui.”
“Forse
vi stava salutando.”
Il
cavaliere aggrottò le sopracciglia. “Che intendete dire?”
“È
la vostra bestia, no? Siete voi che la chiamate e la scatenate sul
paese inerme.”
“Non
dite assurdità. Il mio confratello, piuttosto, sta bene?”
Il
prete accentuò il suo sorriso compiaciuto. Con fare insinuante
domandò: “Come mai ve ne preoccupate tanto? È vostro complice,
per caso? È lui che intrattiene commerci col Demonio in vostra
assenza?”
“E
vi aspettate che vi risponda?”
Padre
Gerold scosse la testa. “No, sono ragionevolmente sicuro che
continuerete a tacere con fare sdegnoso, onde dimostrare quanto siete
disgustato dalle mie ignobili accuse.” Scosse la testa come di
fronte al puntiglio sciocco di un bambino, quindi proseguì: “E
ditemi, come mai vi preoccupate tanto di quel vostro confratello?”
“Apparteniamo
allo stesso Ordine, abbiamo combattuto insieme per anni, è ovvio il
motivo.”
L'altro
annuì. “Concordo, il motivo è ovvio. Sicuramente tra voi c'è un
legame peccaminoso: siete complici nelle opere demoniache, l'avete
appena dimostrato, e chissà, forse anche amanti.”
“Come
vi permettete?” sbottò Adalrich inferocito. Afferrò le sbarre
come se avesse voluto strapparle via.
Il
prete annuì come di fronte a un fenomeno ampiamente previsto e molto
stupido. “Ma sì, ma sì. Fate pure la parte dell'indignato. Lo
vedono tutti che non vi preoccupate altro che di lui, che lo cercate
sempre, che volete sempre stare con lui...”
“Smettetela
con queste insinuazioni infamanti!” lo interruppe il cavaliere. Nel
suo viso bianco, le guance arrossate per l'ira sembravano due
pennellate di sangue.
“Ma
guarda un po': reagite con più veemenza a queste accuse che a quelle
di stregoneria. Non avrete la coda di paglia?”
Fratello
Adalrich non rispose. Rimase a fissarlo con le mani aggrappate alle
sbarre, le sopracciglia aggrottate e lo sguardo torvo. Il prete notò
che stava ansando leggermente.
“Non
potete accusarmi di nulla,” ringhiò alla fine il cavaliere, “né
di questo, né della vostra supposta stregoneria. Non avete prove, e
non le avete perché semplicemente non esistono.”
L'altro
sollevò le sopracciglia con aria di cortese interesse. Lasciò
passare lunghi istanti di silenzio, infine chiese: “Lo credete
davvero?” Senza attendere la risposta si alzò in piedi e mise le
mani dietro la schiena. Sotto lo sguardo feroce del prigioniero fece
qualche passo su e giù. Infine disse: “Voi nobili cavalieri non
vedete al di là del vostro naso. Avete solo tre concetti in testa,
coraggio, lealtà e onore, il che va benissimo durante una battaglia,
posto che il nemico ragioni allo stesso modo, ma vi rende dei poveri
ingenui in tutte le altre situazioni della vita.”
Fissò
il suo interlocutore, forse aspettandosi una risposta. Come prima,
fratello Adalrich si limitò a fissarlo in silenzio.
“Il
vostro destino è segnato,” proseguì allora il prete, “voi
sarete processato e arso sul rogo come stregone e sodomita. Ma
rassicuratevi: perlomeno il vostro sacrificio, chiamiamolo così,
servirà a rinsaldare in questo feudo il potere di Santa Madre
Chiesa, che in fin dei conti è anche la stessa istituzione che avete
giurato di servire a costo della vita. Non farete nulla di diverso da
ciò che ci si aspetta da voi, alla fine.”
Il
cavaliere rimase impassibile. Con voce di nuovo calma, rispose: “Io
sono innocente da ogni accusa. Dio non vi permetterà di compiere
questo abominio in suo nome.”
L'altro
scosse la testa. “Povero idiota. Coraggio, lealtà e onore: non
capite altro, vero?” Poi, rivolto al frate: “Andiamocene, Peter.
Sarebbe più stimolante parlare con un bue.”
§
Era
l'imbrunire quando finalmente le guglie della chiesa di Marienbrunnen
si profilarono all'orizzonte.
A
quella vista, Hermann spronò il cavallo, facendogli aumentare il
passo.
Dietro
di lui, Konrad disse: “Aspettate, fratello cavaliere. È tutto il
giorno che siamo in sella.”
“Lo
so.”
“Sì,
so che lo sapete. Volevo solo trovare un modo elegante per farvi
notare che sono esausto.” Poi, dopo una pausa: “Questa è
retorica,
per vostra informazione.”
“So
anche questo.”
Il
cavaliere tornò a fissare lo sguardo sul convento. Alle sue spalle
il ragazzo continuava a ciarlare, ma lui non lo sentiva nemmeno:
aveva davanti agli occhi l'obiettivo, e null'altro aveva più
importanza.
“Insomma,
mi ascoltate?” sbottò a un certo punto Konrad, che aveva spronato
il cavallo fino ad affiancarlo.
Fratello
Hermann inspirò profondamente a occhi socchiusi, quindi tirò le
redini e si fermò nel bel mezzo della strada. Si voltò verso il suo
petulante accompagnatore e chiese: “Chi è la persona che amate di
più al mondo?”
Il
giovanotto sbatté gli occhi, perplesso dall'inaspettata richiesta.
“Cosa? E questa che domanda sarebbe?”
“Una
domanda alla quale gradirei una risposta.”
“Mia
madre e mio padre, immagino.” Avrebbe voluto aggiungere qualcuna
delle cameriere della taverna del Grifo, ma non era proprio certo che
facessero parte delle persone che amava di più al mondo.
Il
cavaliere comunque annuì grave, quindi disse: “Ora immaginate che
vostra madre o vostro padre stiano rischiando di essere arsi sul
rogo, e che in questo convento ci sia qualcuno che forse può
aiutarvi a evitarlo. Voi quante pause fareste lungo la strada?”
Konrad
abbassò lo sguardo mordendosi il labbro inferiore, poi lo rialzò e
rispose: “Nessuna, credo. Anzi, farei la strada al galoppo.”
“Mi
capite ora?”
L'altro
annuì. Rimase in silenzio per un po', poi di punto in bianco disse:
“Scusate, cavaliere.”
Hermann
si voltò verso di lui. “Per cosa?”
“Sono
stato un po' sciocco. Scusatemi.”
“Non
fa niente.”
Di
nuovo fra i due calò il silenzio.
Konrad
rimase a fissarlo per un po', ma il cavaliere non aveva occhi che per
il convento. Lo guardava come un assetato avrebbe fissato una polla
d'acqua, o un affamato un'imbandigione.
Vide
anzi le sue mani stringersi sulle redini al punto che le nocche
sbiancarono.
Il
cavallo aumentò ancora l'andatura.
“Aspettate,
cavaliere,” gli disse, ma già l'altro l'aveva distaccato, e ormai
al trotto si stava dirigendo verso l'entrata di Marienbrunnen.
Fu
un frate di mezz'età, pingue e dall'aria pacifica, ad aprire loro il
portone. “Benvenuti, benvenuti!” li accolse, “venite dentro,
stavamo giusto per metterci a tavola. Ma tu sei il piccolo Konrad!
Quanto sei cresciuto? Mi ricordo di te che eri alto così!” Fece un
segno con la mano poco più su della cintura. “E come sta il barone
tuo padre?”
“Bene,
grazie.”
“Ah,
magnifico. Magnifico. Cosa ti porta da queste parti?”
Il
ragazzo indicò Hermann. “Ho accompagnato questo cavaliere.”
Il
frate sembrò accorgersi di lui solo in quel momento. “Un fratello
dell'Ordine!” esclamò gioviale. “Noi amiamo molto l'Ordine,
vedete la bandiera che sventola sul campanile? Croce nera in campo
bianco, se capite quel che voglio dire! Siete venuto per stare un po'
qui con noi? Troverete tanti altri confratelli, sia cavalieri che
sacerdoti.”
Contagiato
dal buonumore del religioso, Hermann non poté fare a meno,
nonostante lo stato d'animo plumbeo, di restituirgli un lieve
sorriso. “Mi piacerebbe molto,” rispose, “ma purtroppo sono qui
per motivi assai poco piacevoli, che vi spiegherò magari in seguito.
Sto cercando un mio confratello anziano di nome Hildebrand.”
“Fratello
Hildebrand? Sarà molto felice di vedervi, ne sono certo.”
“Posso
incontrarlo?”
“Ma
certamente. Lo vedrete nel refettorio assieme a tutti gli altri.”
“No!
Per favore, devo parlargli subito.”
“Ma
la cena sarà pronta fra poco.”
“Adesso.
Per favore.”
Sotto
lo sguardo accorato del giovane, il frate non ebbe cuore di
rifiutare. Gli pose un braccio intorno alle spalle e disse: “Venite
con me, ragazzo mio.” Poi, rivolto a Konrad: “Tu ci aspetti qui,
non è vero? Se hai fame puoi andare da frate Ewald, digli che ti ho
mandato io.”
Si
incamminarono attraverso il cortile. Il posto comunicava un senso di
pace raccolta: vi era una bella chiesa in pietra bianca, circondata
da edifici a graticcio. Nelle aiuole crescevano cespugli di rose e
piante medicinali, alberi da frutto di ogni genere erano in fiore e
nell’aria c’era profumo di miele e pane appena sfornato.
Entrarono
nell’edificio accanto alla chiesa, anch’esso di pietra, e
dall’ingresso percorsero un corridoio, per poi sbucare in un
chiostro al centro del quale si trovava un pozzo coperto di edera.
Tutt’intorno vi erano delle panche.
Nella
scarsa luce del crepuscolo, Hermann vide che su una di esse sedeva
qualcuno che portava il manto bianco dell’Ordine.
Si
avvicinarono ai sedili, poi il frate chiamò: “Fratello
Hildebrand!”
L’altro,
che stava probabilmente meditando, si riscosse e si alzò in piedi.
“Che cosa desideri, fratello Luitpold?”
Hermann,
che si era aspettato un mite vecchietto un po’ curvo, dovette
ricredersi: fratello Hildebrand era alto come lui, ma aveva le spalle
di fratello Adalrich. Il volto dall’espressione decisa, con la
fronte ampia e penetranti occhi grigi, era incorniciato da una
capigliatura di neve che arrivava a lambire le spalle. La folta
barba, che conservava qualche venatura di grigio, gli conferiva
l’aspetto solenne di un patriarca biblico.
L’imponente
vecchio volse nella sua direzione lo sguardo penetrante di un astore.
Il
cavaliere si fece avanti. “Sia ringraziato il Cielo,” non poté
fare a meno di dire. “Per fortuna vi ho trovato.”
L’uomo
sorrise. “Che cosa volete da me, giovane confratello?”
“Dovete
aiutarmi!” esalò Hermann disperato. D’istinto gli prese la mano.
Fratello
Hildebrand sollevò stupito le sopracciglia, quindi rispose: “Calma,
ragazzo mio. Ditemi prima cosa vi sta succedendo.” Gli indicò il
porticato. “Vogliamo passeggiare un po’ mentre mi parlate?”
Hermann
prese a raccontare. Disse tutto, cercando di non tralasciare alcun
particolare. Raccontò della belva, di quello che faceva e di come
fosse apparentemente immune alle ferite che le venivano inferte. “Sia
io che il mio confratello l’abbiamo colpita più volte,” spiegò,
“sempre in pieno e con tutta la forza. Le ferite guarivano a vista
d’occhio.”
Fratello
Hildebrand annuì grave, poi chiese: “Com’era fatta questa
bestia?”
Il
giovane la descrisse, e l’altro aggrottò le sopracciglia con fare
perplesso. “Non è possibile,” borbottò alla fine.
“Cosa,
non è possibile?”
“Questa
bestia. Se è come voi dite, non dovrebbe essere qui.”
Hermann
non poté fare a meno di intravedere un tenue barlume di speranza.
“Domando perdono,” chiese esitante, “voi sapete che cosa sia?”
“Venite
con me,” gli disse l’altro.
Uscirono
dal chiostro, salirono per una rampa di scale e arrivarono a un
vestibolo, dal quale accedettero a una sala immersa ormai
nell’oscurità, ma che si intuiva grande e col soffitto a volta.
Fratello Hildebrand accese un lume, rivelando pareti coperte di libri
dal pavimento al soffitto. Si mosse con sicurezza verso uno scaffale,
quindi estrasse un volume e lo pose sul tavolo che si trovava al
centro della sala. Cominciò a sfogliarlo.
Hermann
si fece avanti incuriosito: il libro era scritto in arabo e mostrava
disegni di animali che lui non aveva mai visto. Riconobbe il cane
infernale. “Ecco, è questo!” esclamò, indicando la figura di un
animale fulvo e picchiettato di nero, dalle orecchie rotonde,
tarchiato, con i quarti posteriori più bassi degli anteriori e una
robusta chiostra di denti.
“Siete
sicuro?”
“Lo
riconoscerei fra mille. È lui, non sbaglio.”
“Iena.”
Hermann
lo fissò con sguardo interrogativo.
“Iena.
È il suo nome.” spiegò fratello Hildebrand. Poi, dopo una pausa:
“E mi dite che l’avete visto trasformarsi in uomo?”
“L’ha
fatto due volte, sotto i miei occhi. La seconda volta ha anche
ripreso la forma animale ed è scappato.”
L’altro
si accarezzò pensoso la barba. “Non è possibile,” mormorò di
nuovo a mezza voce.
“Abbiate
la bontà di spiegarmi, fratello Hildebrand,” disse Hermann dopo un
lungo silenzio. “Continuate a ripetermi che non è possibile, ma
non capisco di cosa stiate parlando.”
L’altro
annuì grave, la sua espressione si era fatta cupa e carica di
preoccupazione. “Avete ragione,” confermò. “Avete il diritto
di sapere, ma non ora. Dovrò parlarvi, ma non è opportuno che lo
faccia mentre regna l’oscurità, questi sono argomenti che non si
possono affrontare al buio. Ora andiamo a prendere il pasto serale e
preghiamo. Domattina vi spiegherò tutto.”
Hermann
sbatté perplesso le palpebre. Si era immaginato una situazione
grave, ma non così
grave. “C’è di mezzo la stregoneria, per caso?” domandò
titubante.
“Domani.
Ora non è bene nominare certe cose.”
§
Il
giovane cavaliere trascorse la notte rigirandosi inquieto nel letto.
Le parole dell’anziano confratello lo avevano messo in uno stato di
tormentosa aspettativa, che si era unito alla preoccupazione per
l’amico rendendola ancora più opprimente.
Che
cosa stava succedendo? Perché non se ne poteva parlare se non alla
luce del giorno?
Si
alzò definitivamente dopo aver tentato invano di dormire, si vestì
e uscì all’aperto. Era ancora buio, sebbene i primi uccelli
cominciassero già a cantare. Scorse i frati che entravano in chiesa
per il mattutino[1] e si unì a loro, ma neppure nel corso della
preghiera riuscì a distogliere la mente dalle preoccupazioni, e le
parole della liturgia gli scivolavano addosso come acqua.
Pensava
ad Adalrich, tanto per cambiare, e costantemente si chiedeva se
stesse bene, e se il barone fosse realmente riuscito a proteggerlo
come gli aveva promesso.
Pensava
anche alle parole di fratello Hildebrand, e non faceva che domandarsi
cosa mai ci potesse essere di così terribile da non poter essere
narrato se non alla luce del sole.
Fu
il tramestio dei frati che uscivano dalla chiesa a distoglierlo dalle
sue ansiose meditazioni.
Riuscì
a incontrare fratello Hildebrand solo dopo la Prima[2]. “Voi volete
sapere,” gli disse l’uomo, fissandolo severo negli occhi.
“Sì,
per favore,” rispose Hermann. “Il mio confratello è in pericolo.
Ogni momento che trascorro lontano da Dürnau potrebbe essere quello
fatale.”
L’altro
annuì grave. “Venite con me,” gli disse alla fine.
Non
tornarono alla biblioteca. Uscirono dal convento e attraversarono un
frutteto bianco e rosa di fiori appena sbocciati, poi si addentrarono
in un boschetto di querce e seguirono per un po’ il corso di un
torrente.
Fratello
Hildebrand si fermò solo quando raggiunsero le rovine di una piccola
cappella ormai coperta di rampicanti. “Ci sono cose che non possono
essere udite da tutte le orecchie,” spiegò.
Hermann
annuì. “Ora mi racconterete del… Iena?” chiese fissandolo con
aspettativa.
“Per
prima cosa devo farvi una domanda: voi conoscete il Corano?”
“Il
libro degli infedeli?”
“Proprio
quello. Mi rifugio nel
Signore dell’alba nascente, contro il male che ha creato, e contro
il male dell’oscurità che si estende, e contro il male delle
soffianti sui nodi, e contro il male dell’invidioso quando
invidia.[3]”
Il
giovane cavaliere rimase per qualche istante in silenzio, quindi
chiese: “E questo cosa significa?”
“Questo
è un versetto del Corano. Anche presso gli arabi – o gli infedeli,
se preferite – c’è chi pratica la magia, e chi se ne serve per
fare del male. Avete mai sentito parlare dei jinn?”
L'altro
scosse la testa.
“I
jinn sono esseri soprannaturali creati da fiamme senza fumo, e
possono essere buoni o cattivi. Si nascondono nelle rovine e nei
luoghi disabitati. I più malvagi di essi sono definiti al-ghūl,
o semplicemente ghul. Essi si muovono di notte. Possono mutare forma
a piacimento, in esseri umani o nell’animale che avete visto,
bevono il sangue, profanano le tombe divorando i cadaveri, ed
emettono spaventosi ululati, in grado di ghiacciare il sangue nelle
vene.”
“È
proprio ciò che fa quella creatura,” mormorò Hermann.
“Esattamente le stesse cose.”
“Inoltre
creano progenie,” continuò l’altro, “contagiano le vittime cui
succhiano il sangue, facendo sì che esse riprendano vita come
versioni minori del ghul, che a differenza di esso, possono venire
uccise anche dalle armi normali.”
“E
quelle a loro volta ne contagiano altre,” concluse il più giovane.
“Proprio
così.”
Hermann
si sedette su un sasso poco lontano. Per un po’ rimase con lo
sguardo rivolto all’acqua che scorreva, quindi sollevò la testa,
fissò il confratello e disse: “Ma la domanda è: come ha fatto ad
arrivare qui un ghul?”
“È
quello che non riesco a spiegarmi. In Terra Santa ho parlato con
sapienti e guerrieri che li hanno combattuti, una volta penso di
averne anche sentito uno ululare, ma qui...”
Il
giovane buttò un sassolino nella corrente e rimase a osservarlo
mentre esauriva la sua inerzia e si mescolava con gli altri ciottoli.
Riandò con la mente all’escursione di qualche mese prima alle
chiese rupestri, rivide la cassa con dentro il corpo. “Com’è
fatto un ghul?” domandò, pregando di sbagliarsi, ma allo stesso
tempo augurandosi che non fosse così.
“Somiglia
a un uomo straordinariamente magro, con la pelle come cuoio conciato.
Veste ricchi abiti ricamati e ha da qualche parte qualcosa, una
fascia, una cintura o altro, tutta annodata. Al posto delle unghie ha
artigli ricurvi, i denti sono lunghi e aguzzi.”
Hermann
si sentì gelare. “Che Dio mi aiuti, fratello,” mormorò dopo un
po’, “siamo stati noi a portarlo qui.”
L’altro
lo fissò stupefatto. “Che stai dicendo, figliolo?” E poiché il
più giovane non rispondeva, lo afferrò per le spalle e lo scosse
con vigore. “Che stai dicendo?” ripeté a voce più alta.
Con
fatica, cercando di mantenere la voce ferma, Hermann gli raccontò
della presunta reliquia di Sant’Atanasio di Alessandria. “L’abbiamo
scortato fin qui, capite?” disse alla fine.
Fratello
Hildebrand annuì grave, poi chiese: “Com’è possibile che un
mostro del genere sia stato scambiato per un santo?”
“Hanno
pensato a un corpo incorrotto. Aveva la croce sul petto e in cintura
una fascia con dei nodi, che è stata scambiata per un cilicio.
Legato al polso aveva una specie di pendente di cristallo di rocca,
nel quale si trovava un cartiglio con scritto in greco Athanasios.”
Il
vecchio rimase in silenzio talmente a lungo che Hermann fu sul punto
di chiedergli se si sentisse male. Alla fine, rialzò la testa e
disse: “Non Athanasios, ma Athanatos, immortale. Poiché non
riuscivano a ucciderlo con le armi normali, hanno pensato di murarlo
dentro quella chiesa, ma lasciando un avviso sulla sua pericolosità.”
“E
noi ce lo siamo portato a casa,” concluse Hermann.
“Proprio
così.”
“Ma
perché ha ripreso vita solo a Dürnau?”
“Di
solito è un sacrificio di sangue che lo sottrae al suo letargo
secolare.”
Seguì
un lungo silenzio, infine il giovane disse: “Avete detto che non si
può uccidere con le armi normali.”
“L’hai
visto con i tuoi occhi, ragazzo.”
“Cosa
lo uccide, allora?”
“Vieni
con me.”
Tornarono
verso il convento. Attraversarono di nuovo il frutteto, questa volta
incrociando frati intenti a svolgere i lavori quotidiani, che li
salutarono rispettosamente al loro passaggio.
Qualche
pollo fuggì chiocciando dinnanzi al loro incedere deciso.
Entrarono
nell’edificio principale. Fratello Hildebrand si procurò una
lanterna, quindi condusse il suo accompagnatore verso la porta dei
sotterranei. Scesero alcune rampe di scale e arrivarono a una stanza
umida e fredda, nella quale nessuno sembrava avere messo piede da
anni. Lì il cavaliere più anziano estrasse dalla tunica una chiave
che teneva assicurata al collo e andò a un baule che si trovava
contro una parete.
Fece
scattare la serratura, quindi sollevò il coperchio. “Vieni a
vedere,” disse, facendo cenno all’altro di raggiungerlo.
Hermann
si avvicinò.
Fratello
Hildebrand estrasse da sotto un mucchio di stoffe un involto oblungo
di pelle legato con delle fettucce, poi lo consegnò al confratello.
“Che
cos’è?” chiese il giovane.
“Guarda
tu stesso.”
Egli
disfece l’involto, rivelando un’arma saracena dal semplice fodero
di metallo ricoperto di pelle. Sollevò lo sguardo interrogativo su
Fratello Hildebrand.
“È
un saif,
o scimitarra, se preferisci. Immagino che ne avrai incontrati
parecchi in Terra Santa.” Fece un cenno col capo. “Guardalo.”
Hermann
lo afferrò, con qualche difficoltà data l’impugnatura stretta, e
poi lo estrasse dal fodero: la lama era decorata con eleganti
caratteri arabi, e lucida come se fosse stata appena forgiata. Il
filo non aveva la più piccola intaccatura.
“È
stato benedetto da un Wali,”
gli spiegò il più anziano, “che sarebbe l’equivalente di uno
dei nostri santi.”
L’altro
vi fece scorrere sopra uno sguardo ammirato, quindi alzò gli occhi
sul confratello e chiese: “E questa ucciderà il ghul?”
“Sarà
in grado di ferirlo.”
Hermann
fece un lieve sorriso. “Se può essere ferito, può anche morire.”
§
Il
barone von Obenstein si affacciò al balcone della sala delle
udienze. Nel cortile era radunata una folla di persone, contadini,
artigiani e donne, composti ma inamovibili.
Alcuni
di essi avevano in spalla falci e forconi, qua e là crepitavano
fiaccole.
“Cosa
volete, buona gente?” chiese il nobile.
Si
fece avanti mastro Norbert, il fabbro, che evidentemente era stato
designato come portavoce. Si tolse il cappello con fare rispettoso,
quindi disse: “Anche questa notte sono state uccise tre persone.”
“Lo
so e me ne dispiace,” rispose il barone. “Stiamo organizzando
cacce tutti i giorni per trovare quella bestia infernale.”
L’altro
annuì, ma era evidente che la spiegazione non lo aveva convinto per
nulla. La folla rimase silenziosa, nessuno accennò ad andarsene.
Infine,
una donna che teneva un figlio in braccio disse: “Dobbiamo stare ad
aspettare che ci prenda uno per uno?”
Un
altro si aggiunse all’invettiva: “La bestia va e viene come
vuole, e se ci chiudiamo in chiesa devasta le nostre case e divora i
nostri morti!”
Dalla
folla cominciò a levarsi una cacofonia di proteste.
Il
barone sopportò per un po’, quindi intimò il silenzio con un
gesto. “Basta così,” disse poi. “Troveremo una soluzione, e
fino a quel momento accoglierò tutti coloro che lo vorranno nelle
sale del castello, dove la bestia non può entrare.”
Il
fabbro scosse la testa. “Con licenza, mio signore, questa non è la
soluzione.”
“Cosa
proponi allora?”
L’uomo
si scambiò un’occhiata con quelli che lo circondavano, più d’uno
gli diede una pacca sulla spalla come per incoraggiarlo. Quella che
doveva essere sua moglie gli sussurrò qualcosa all’orecchio.
“Quel
cavaliere,” disse allora mastro Norbert.
“Quale
cavaliere?” chiese il barone, fingendo di non aver capito.
“Quello
tutto bianco, mio signore. Padre Caspar ha detto che è un emissario
del Demonio, e che finché non sarà arso sul rogo la bestia
tornerà.”
Un
mormorio di approvazione attraversò la folla.
Il
barone rientrò dal terrazzo e scese nel cortile. Avanzò fino a
trovarsi faccia a faccia con il fabbro, quindi gli chiese: “Che ha
detto padre Caspar?”
L’uomo
tossicchiò imbarazzato. “Ha detto che quel cavaliere è figlio del
Demonio, e che è lui che chiama la bestia, mio signore.”
“Ma
tu l’hai visto combattere, no?”
“Ecco…
mio signore...”
“Sì?”
“Mio
signore, padre Caspar dice che faceva solo finta di combattere,
mentre in realtà segnava le case per farci andare la bestia.”
“E
queste cose padre Caspar come le sa?”
“Gliele
ha dette sua eccellenza, mio signore.”
“Chi?”
La
moglie del fabbro intervenne: “Il prete che viene da Fulda, mio
signore.”
Il
barone annuì grave, poi fece un passo indietro e a voce alta disse:
“Ascoltatemi tutti: d’ora in poi, chi oserà dire che il
cavaliere dell’Ordine Teutonico è un emissario del Demonio sarà
frustato, sono stato chiaro?”
Si
fece avanti Till il gobbo, che in virtù della sua deformità si
permetteva di dire a voce alta cose che molti altri non avevano
nemmeno il coraggio di mugugnare. Fece una grottesca riverenza al
barone e in tono forzatamente lamentoso gli chiese: “Ma allora, mio
signore, se quel cavaliere è innocente, perché continuate a tenerlo
in prigione?”
[1]
preghiera che viene recitata prima del sorgere del sole
[2]
preghiera delle 06.00 del mattino
[3]
Sura Al-Falaq, n.113
|
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Capitolo 10 *** Capitolo 9 ***
Ghul scatenati, su Rieducational
Channel! Ringrazio come sempre tutti/e coloro che mi hanno seguito
fin qui, in particolare ringrazio per i commenti Saelde_und_Ehre,
morgengabe, LyaStark, innominetuo, fiore di girasole, Syila,
Crilu_98, minciaSissi e by a lady.
Capitolo
9
Era
l'alba quando Hermann condusse il cavallo fuori dalle scuderie di
Marienbrunnen. Dietro di lui, sbadigliando, Konrad faceva lo stesso
con il corsiero berbero.
“Non
siete obbligato a seguirmi,” gli disse il cavaliere, “ormai
conosco la strada.”
Per
tutta risposta, il ragazzo sistemò il sottopancia del suo purosangue
e si assicurò che fosse ben stretto. Hermann stava per dire qualcosa
quando sulla porta del dormitorio comparve fratello Hildebrand.
“Sei
già in partenza, figliolo?” gli chiese quest'ultimo.
“Sono
due giorni che manco, non posso più aspettare.” Strinse i denti.
“È ora di rimandare quel mostro nell'inferno dal quale è uscito.”
“Sì,
è l'unica cosa da fare.”
Hermann,
che stava assicurando alla sella l'involto con la spada, abbassò le
mani e si voltò verso di lui. Con voce dura disse: “Così tutti
capiranno che fratello Adalrich è innocente. Spero solo di arrivare
in tempo.”
Fratello
Hildebrand si avvicinò e gli batté una mano sulla spalla. “Se è
un uomo di polso, il feudatario impedirà qualsiasi cosa fino al mio
arrivo.”
“Il
guaio è che non so quanto lo sia. Quel prete, con rispetto parlando,
vuole un'esecuzione, e Adalrich è la vittima ideale, visto l'aspetto
che ha.”
L'altro
annuì grave. “Io non posso più cavalcare a lungo, quindi devo
muovermi con un carro, ma tu va avanti e impedisci a chiunque di
toccare il nostro confratello. Con le armi se è necessario.”
“Con
le armi?” ripeté il più giovane stupefatto.
“È
il compito a cui siamo chiamati: impedire con le armi l'opera del
Demonio. Ora va, e sia Dio la tua guida.”
Hermann
si limitò ad annuire, quindi montò in sella.
Allo
stesso tempo, anche Konrad salì a cavallo, poi con decisione disse:
“Andiamo, cavaliere.” Spronò l'animale, e pur con ampi gesti di
saluto ai frati riuniti nel cortile, si diresse deciso verso il
portone.
L'altro
lo seguì.
Per
un po' cavalcarono in silenzio, poi il ragazzo disse: “Vedrete, mio
padre non permetterà a nessuno di toccare fratello Adalrich.”
“Voglia
il Cielo che sia così,” rispose Hermann.
Di
nuovo calò il silenzio.
Incrociarono
un gruppo di viandanti, che alla vista del manto bianco dell'Ordine
si segnarono rispettosamente. Hermann rispose nello stesso modo,
pensando frattanto a quanti segni della croce si sarebbero fatti
quegli stessi uomini al passaggio di padre Gerold.
La
voce di Konrad lo distrasse dalle sue meditazioni: “Vi ho portato
nel posto giusto, vero, cavaliere?” Aveva l'aria fiera come se la
decisione di accompagnarlo a Marienbrunnen fosse stata sua.
L'altro
comunque annuì. “Sì, è stato Dio a porre sul mio cammino
fratello Hildebrand.”
“Mi
sembra una brava persona,” osservò il ragazzo.
“Se
c'è qualcuno in grado di aiutare Adalrich, è lui.”
Data
la rapida andatura che avevano mantenuto, arrivarono a Dürnau verso
metà pomeriggio. Probabilmente gli abitanti del paese li avevano
visti arrivare da lontano, e combattuti tra l'obbligo di porgere
omaggio al figlio del feudatario e il terrore che ormai instillava in
tutti la croce nera in campo bianco, avevano preferito non farsi
trovare in giro.
Il
due percorsero strade deserte e arrivarono al sagrato. Lì fratello
Hermann si fermò e smontò da cavallo, poi disse: “Aspettatemi
qui, devo controllare una cosa.”
“Che
cosa?”
“Avete
presente San Tommaso? Ecco, io sono come lui.”
Entrò
in chiesa. Si sarebbe aspettato di trovare padre Caspar, ma non
incontrò nemmeno lui, segno evidente che neanche il religioso voleva
rischiare di finire tra l'incudine del collega di Fulda e il martello
del barone von Obenstein.
Percorse
la navata e raggiunse la cappella in cui era stato collocato il
reliquiario del cosiddetto Sant'Atanasio. Corrusca di gemme, la cassa
riluceva illuminata da due candele. Sul coperchio mirabilmente
sbalzato erano raffigurate scene della vita del santo, incluso il
momento in cui il suo corpo incorrotto era stato miracolosamente
ritrovato dal giovane Konrad von Obenstein.
Inspirò
profondamente come per calmarsi. Fece girare lo sguardo tutt'intorno,
ma a parte lui, la chiesa era completamente vuota.
Si
avvicinò alla cassa, quindi vi fece scorrere sopra le dita. Sapeva
che non era stata chiusa in modo definitivo, perché nelle intenzioni
del barone il corpo avrebbe dovuto essere trasferito in una teca più
bella.
Insinuò
le dita sotto il bordo del coperchio e fece forza, sollevandolo quel
tanto da poter guardare dentro: i suoi occhi incontrarono solo la
seta bianca del rivestimento.
Richiuse
la cassa, fece per andarsene, poi tornò indietro e rimase a guardare
la teca ingioiellata per qualche istante. Si morse il labbro
inferiore.
Di
nuovo si chinò, ma questa volta non si accontentò di una fessura:
spostò il coperchio da una parte. Il sontuoso contenitore era
desolatamente vuoto. Sul fondo erano rimasti solo il pendente di
cristallo di rocca, la catenella e la croce.
Il
cavaliere osservò il cartiglio: la scritta era ormai sbiadita, ma
avvicinandola alla candela si riusciva a leggere chiaramente
Athanatos. Immortale.
Chissà,
forse per l'entusiasmo di aver trovato una santa reliquia, dopo che
era uscito il nome di Athanasios nessuno aveva più ricontrollato il
cartiglio.
Uscì
pensieroso dalla chiesa.
Fuori
c'era ancora Konrad, che nel frattempo era smontato di sella e stava
tenendo i due animali per le redini. Al suo apparire esclamò: “Che
faccia scura! Cos'è successo?”
Hermann
lo fissò con durezza. In fin dei conti, era stato proprio il
capriccio di quell'azzimato giovane bellimbusto a scatenare tutto il
pandemonio. “Andate dentro,” gli suggerì, “e se avete forza
sufficiente, sollevate il coperchio del reliquiario. Potreste avere
una sorpresa.” Riprese le redini del suo cavallo e si preparò a
montare in sella.
“Che
intendete dire?” chiese l'altro.
“Andate
e guardate voi stesso.” Spronò il destriero e si allontanò al
trotto per il paese deserto.
Raggiunse
il castello, entrò nel cortile e per prima cosa staccò dalla sella
l'involto che vi aveva assicurato, poi andò alla ricerca del barone
von Obenstein.
Il
nobile lo ricevette subito nella sala delle udienze. “Adalrich?”
fu la prima parola che Hermann pronunciò, ancora prima dei saluti.
“Ho
dovuto combattere.”
Il
giovane deglutì. “Che intendete dire?”
“Padre
Gerold voleva cominciare con gli interrogatori, sperando di ottenere
una confessione completa, potete immaginare con che metodi, prima
dell'arrivo del fratello cavaliere da Marienbrunnen, in modo da
rendergli impossibile un'eventuale difesa.”
L'altro
emise un sospiro. “Lui sta bene?” chiese poi.
“Non
gli è stato fatto del male.”
“Dio
sia ringraziato,” mormorò il cavaliere. “Posso vederlo?”
L'altro
tentennò per qualche istante, poi gli rispose: “Sì, venite con
me. Vi accompagnerò personalmente.”
Quando
si affacciò sulle prigioni, Hermann come sempre pensò che il
candore del suo confratello rendeva ancora più cupa la penombra che
lo circondava.
Egli
era dritto in piedi nell'unico quadrato di luce che si disegnava sul
pavimento, e teneva lo sguardo rivolto alla piccola finestra da cui
essa penetrava come un rapace in cattività.
“Adalrich!”
lo chiamò.
Il
cavaliere si volse rapido nella sua direzione. “Hermann!” Sul suo
volto altrimenti severo comparve un accenno di sorriso.
“Adalrich,
come stai?”
“Bene,
non preoccuparti.”
L'altro
lo raggiunse, pose la mano libera sulle sbarre e gli mostrò
l'involto con il saif. “Guarda qui.”
“Che
cos'è?”
“È
una spada che può ferire quel mostro.” Fece sporgere l’impugnatura
dell’arma dalla custodia di cuoio.
“Davvero?
Dove l'hai trovata?” Posò la propria mano accanto a quella del
confratello.
“Ora
non ho tempo di raccontartelo, devo agire prima che faccia buio.”
L'altro
lo fissò con apprensione. “Perché? Cosa vuoi fare?”
“Vado
a cercare quella bestia, la ammazzo e la porto qui, così la
smetteranno di accusarti.”
Prima
che il prigioniero potesse ribattere, si fece udire la voce di padre
Gerold: “Bene, bene. Cosa c'è qui, strumenti del Demonio?”
Hermann
si voltò verso di lui e lo squadrò come se avesse voluto
incenerirlo. “Avete sentito benissimo,” ringhiò, “è un'arma
che può colpire il mostro.”
“Davvero?
E chi ve l'ha data? Qualche stregone? Magari in questi due giorni vi
siete recato da un servitore del Maligno per farvela forgiare?”
“Me
l'ha data un fratello cavaliere.”
“Ah,
uno della vostra risma, dunque.”
Hermann
fece un passo verso di lui, cosa che provocò un suo brusco
arretramento. “State attento,” lo ammonì in un ringhio, “non
tirate troppo la corda.”
L'altro
si rivoltò come una serpe: “No, state attento voi a non tirarla
troppo. Io rappresento sua eccellenza reverendissima il vescovo di
Fulda e voi, in quanto cavaliere crociato, mi dovete assoluta
obbedienza. Ora, io vi chiedo, anzi vi ordino
di darmi subito l'involto che avete in mano, affinché io possa
mostrarne il contenuto a una commissione di sacerdoti esperti nelle
opere del Demonio, che decideranno poi cosa farne.”
Hermann
strinse la presa sulla spada. Lo fissò dritto negli occhi, e a voce
alta proferì: “No.”
L'altro
gli restituì uno sguardo di fuoco. “Osate disobbedirmi?”
“Venite
a prenderla,” lo provocò il primo con glaciale calma. “Provateci
voi, o mandatemi contro tutta la risma di tirapiedi che vi siete
portato dietro da Fulda, e vedremo se ci riuscirete.”
Il
prete strinse i pugni adirato. “Cavaliere, voglio essere magnanimo:
terrò conto del vostro stato di grande agitazione. Datemi
quell'oggetto e dimentichiamo la faccenda.”
“Ve
l'ho detto: venite a prenderlo. E non sono agitato, voi non mi avete
mai visto così distante dall'agitazione.” Si voltò verso Adalrich
e gli disse: “Porterò qui il mostro, non preoccuparti.”
“Hermann...”
tentò l'altro, ma il confratello stava già correndo fuori.
Una
volta fuori dalle prigioni, Hermann si imbatté nel barone. “Ci
sono delle rovine qui in giro?” gli chiese senza preamboli.
L'altro
sollevò perplesso le sopracciglia. “Delle rovine?”
“Non
ho tempo per spiegarvi, tra un paio d'ore sarà buio e il mostro
uscirà per andare a caccia. So che si nasconde negli edifici
diroccati e devo riuscire a stanarlo prima del tramonto.”
“Volete
cercare il mostro da solo?”
“Prima
del tramonto,” precisò il cavaliere.
“Aspettate,”
disse l'altro, “faccio radunare i cacciatori, i soldati...”
“No,”
lo interruppe con foga Hermann, “vi prego: non c'è tempo. Io ho
un'arma in grado di colpirlo, e devo usarla prima che sia troppo
tardi.”
L'altro
lo fissò serio, infine gli disse: “A nord, a circa una lega da
qui, c'è una chiesa diroccata. La riconoscerete subito, perché si
trova su un'altura priva di vegetazione. Nessuno ci va mai, perché
la gente del luogo dice che la cripta è abitata da streghe e
diavoli.”
“La
strada, per favore.”
“Oltre
il torrione nord c'è un sentiero. Ma vi prego, datemi almeno il
tempo di chiamare mastro Wernhart.”
“Ditegli
di raggiungermi là.”
Hermann
corse in cortile, montò in sella. Mentre spronava il cavallo, liberò
la spada saracena dalla custodia di cuoio, che poi lasciò cadere per
terra.
Spinse
il destriero al galoppo. C'era ancora luce, ma le ombre si stavano
allungando sui campi. Già gli animali cominciavano a tornare ai
ricoveri notturni.
Poco
dopo apparve in lontananza la chiesa. Era un rudere scuro, diroccato,
dall'aria sinistra. Le finestre aperte sul vuoto gli evocarono occhi
grifagni che lo scrutavano con malevolenza. Sebbene la zona fosse
ricca di vegetazione, intorno a quel che rimaneva dell'edificio non
si spingeva neppure il verde dell'erba.
Il
cavaliere mise il destriero al passo e si avvicinò lentamente. Si
chiese cos'avrebbe provato Adalrich di fronte a quelle rovine, perché
lui stesso, che di certo non aveva la sua sensibilità, aveva
l'impressione che un artiglio di ghiaccio gli stesse stringendo il
petto. Inspirò profondamente a occhi socchiusi, combattendo il
sempre più forte impulso di girare il destriero e fuggire al
galoppo.
Mormorò
una preghiera a fior di labbra e avanzò fino alla base della piccola
altura. Lì smontò da cavallo, pose le redini sul collo dell'animale
e sfoderò il saif. Lo mosse appena nell'aria, cercando di renderselo
familiare, e dovette reprimere un gemito nel momento in cui un gesto
diverso dal solito richiamò il dolore del morso che aveva ricevuto
al braccio.
O
forse era quel luogo che faceva tornare il dolore inflittogli dalla
creatura?
Non
perse tempo a speculare sulla questione, anche perché la luce stava
rapidamente calando ed era necessario agire prima possibile.
§
Konrad
entrò al galoppo nel cortile, e la prima cosa che vide fu la
custodia di cuoio abbandonata in un angolo. Si guardò intorno alla
ricerca di fratello Hermann, ma sia lui che il suo cavallo erano
scomparsi. Smontò dal corsiero, affidò le redini a un mozzo di
stalla e si lanciò su per le scale chiamando a gran voce suo padre.
Fu
il barone a raggiungerlo. “Konrad! È successo qualcosa?” gli
chiese preoccupato.
“Dov’è
il cavaliere, padre?” chiese il ragazzo per tutta risposta.
“È
andato alle rovine. Cosa sta succedendo?”
“Perché
alle rovine?”
“Ha
detto che il mostro si nasconde là, e che deve raggiungerlo prima
che faccia buio. Ma in nome di Dio, mi vuoi dire cosa succede?”
“La
teca è vuota, padre! Non c’è niente dentro.”
L’altro
lo fissò stupefatto. “Il santo?”
“Non
c’è mai stato nessun santo. Era quello il mostro, capite? È tutta
colpa mia!”
Abbandonò
il genitore, corse alle prigioni. Quando fu dinnanzi alla porta si
fermò e si costrinse a calmarsi. Tirò il catenaccio lentamente,
cercando di fare meno rumore possibile, quindi schiuse appena l’anta
e sgusciò dentro in punta di piedi, poi andò a staccare dal gancio
cui era appeso l’anello con le chiavi. Una volta che lo ebbe
nascosto tra le pieghe dell’abito, raggiunse la cella in cui era
rinchiuso fratello Adalrich.
Il
cavaliere era inginocchiato accanto al pagliericcio e aveva le mani
giunte. Il volto aveva un’espressione tesa e concentrata. Dava
l’idea di essere convinto che la salvezza del mondo dipendesse
dall’intensità delle sue preghiere.
Konrad
si avvicinò piano e per un po’ rimase semplicemente a guardarlo.
Se non fosse stato per il fatto che ogni tanto il crociato sbatteva
le palpebre, si sarebbe detto un’immobile statua di marmo. Non si
vedeva nemmeno il respiro, sotto l’ampio mantello.
“Cavaliere,”
lo chiamò sottovoce.
Fratello
Adalrich, che sembrava totalmente concentrato in quello che stava
facendo, si girò rapido e fissò lo sguardo nella sua direzione.
“Siete Konrad?” sussurrò.
Il
ragazzo si avvicinò. “Sì, sono io.
“Che
cosa volete?”
L’altro
estrasse il mazzo di chiavi e cominciò a provarle una dopo l’altra
sulla serratura. “State zitto e ascoltatemi,” diceva intanto,
“dopo vi spiegherò tutto, ora non c’è tempo. Il vostro
confratello è andato alle rovine per uccidere il mostro, ma si sta
facendo buio, e temo che avrà bisogno di aiuto.”
“Dove
sono le rovine?”
“A
nord, a circa una lega da qui. Maledizione, questa chiave non si
trova!”
“Quanto
tempo fa è partito fratello Hermann?”
“Ormai
sarà un’ora, dobbiamo sbrigarci.” Il mazzo gli scivolò dalle
mani tremanti e cadde tintinnando sul pavimento. “Maledizione,”
ringhiò fra i denti, poi cominciò a palpare il pavimento alla
ricerca delle chiavi.
“State
tranquillo,” gli suggerì Adalrich, “respirate, non fatevi
prendere dall’agitazione.”
“È
una parola. Io non sono un guerriero come voi.”
Continuò
a muoversi sempre più frenetico. Gli sfuggì un singhiozzo.
“Konrad,”
lo richiamò allora il cavaliere.
“È
tutta colpa mia,” disse l’altro per tutta risposta.
“Che
cosa volete dire?”
Con
voce rotta, il ragazzo rispose: “È
colpa mia, sono stato io. Lo sapevo che non era un miracolo della
Vergine, ma avete visto com’è mio padre: crede a tutto quello che
gli dico. E allora, siccome volevo tornarmene qui, mi sono inventato
la storia del santo.”
Il
cavaliere cercò di mantenere un tono di voce neutro. “Konrad, per
favore, ne parliamo dopo. Ora fatemi uscire, prima che arrivi
qualcuno a impedirvelo.”
“Sì,
certo. Scusate. Non servo neppure a questo.” Ritrovò finalmente le
chiavi, e tirando su col naso ricominciò a provarle una dopo l’altra
nella serratura.
Alla
fine si udì uno scatto, e la porta girò cigolando sui cardini.
Adalrich
balzò fuori e con cautela stirò le membra irrigidite dalla
cattività. “Mi servono un cavallo e una spada,” disse.
“Aspettate,
non volete il vostro usbergo?”
“Non
c’è tempo.”
“Ma
non potete andare così!”
“Mi
bastano la mia spada e il mio destriero.”
§
Il
sole stava ormai avviandosi a scomparire dietro l’orizzonte quando
fratello Adalrich poté lanciarsi al galoppo lungo il sentiero che
conduceva alle rovine. Strinse gli occhi: anche quella poca luce,
dopo il buio delle segrete, era forte come il sole a mezzogiorno.
I
raggi aranciati del tramonto tingevano i prati già umidi di rugiada,
dando loro una sfumatura dorata; le poche nubi che solcavano il cielo
scintillavano come illuminate da un fuoco interno. Non c’era un
alito di vento e la natura immobile sembrava in attesa di quello che
sarebbe accaduto.
Il
cavaliere si rizzò sulle staffe per avere una visione più ampia, e
oltre una macchia vide sorgere la nuda collina su cui si stagliava il
rudere, ormai nero nel cielo che andava facendosi sempre più scuro.
Arrivò
ai piedi dell’altura e scorse il cavallo di Hermann che stava
pascolando. Fermò il proprio e smontò, ma nel momento in cui i suoi
piedi toccarono terra, si sentì cogliere da una vertigine e dovette
aggrapparsi alla criniera dell’animale. “Non adesso,” mormorò
fra i denti, mentre la vista gli si annebbiava. “Non adesso,
maledizione.”
Si
voltò verso la collina, che però apparve al suo sguardo annebbiato
solo come una confusa macchia nera.
Qualcosa
di giallo cadde ai suoi piedi. Abbassò lo sguardo e la vista pian
piano gli si schiarì, rivelando un mazzetto di fiori di iperico.
“Figlio
dell’inverno,” lo chiamò una voce femminile.
Il
cavaliere si voltò in quella direzione e si trovò davanti la
vecchia vestita di nero. Era una donna alta, solenne, dal volto
scavato e ieratico. Adalrich pensò che gli ricordava una Norna. “Chi
siete, signora?” mormorò.
“Nella
chiesa alberga il male antico,” gli disse la vecchia ignorando la
sua domanda. “Non fidarti dei tuoi occhi, perché esso può
prendere qualsiasi forma.”
“Che
cosa significa?”
“Chiedi
a chi ami se ricorda il passato.”
Adalrich
avrebbe voluto chiederle ancora qualcosa, ma di nuovo ebbe
l’impressione di sentirsi mancare, e quando si riebbe la misteriosa
figura era scomparsa. Solo il mazzetto di iperico, ancora per terra
ai suoi pedi, testimoniava che non si era trattato di un sogno.
Alzò
lo sguardo verso il rudere e subito percepì un artiglio di ghiaccio
che gli stringeva il petto. Era come se l’oppressione che da mesi
gli toglieva tranquillità e riposo si fosse moltiplicata
all’infinito, e si trovò a respirare lentamente per combattere la
sensazione di disastro incombente che sembrava inchiodargli i piedi
al suolo.
“Non
vincerai tu,” ringhiò fra i denti, quindi sfoderò la spada e
prese a salire con risolutezza lungo il fianco della collinetta.
§
Hermann
si rammaricò di non essersi portato dietro una torcia. Era sceso
nella cripta, e sebbene fuori ci si vedesse ancora, lì dentro la
penombra era assai densa.
Peraltro,
il sotterraneo era molto più ampio di quanto si sarebbe aspettato
dalle dimensioni della chiesa, ed era ingombro di vecchie cose
consumate dal tempo.
Fece
qualche passo, udì qualcosa muoversi. Si guardò intorno e gli parve
di vedere, nella luce che andava scemando, una figura in piedi, così
immobile che si confondeva con le colonne della cripta.
Sfoderò
la lama saracena, che sembrò emettere un lungo sospiro bramoso. Il
filo arcuato catturò gli ultimi bagliori di luce mandando uno
scintillio di metallo.
“Fatti
avanti,” disse Hermann.
Dal
buio provenne un rumore raschiante, come di una lima che graffiasse
un antico legno: il ghul stava ridendo.
Il
cavaliere deglutì e si impose di non indietreggiare. Avanzò anzi,
deciso a porre fine alla lotta finché riusciva a vedere qualcosa.
Raggiunse quella che pensava essere la figura del mostro, ma si
accorse che era solo un vecchio brandello di tenda che pendeva dal
soffitto. Lo tagliò con un fendente ed esso si afflosciò al suolo
in una nuvola di polvere.
Di
nuovo udì il rumore raschiante, questa volta alle sue spalle.
Si
girò di scatto, e la testa di una statuetta sacra rotolò ai suoi
piedi. “Fatti avanti,” ripeté.
Qualcosa
si mosse, delle assi caddero facendolo sussultare. Hermann si mosse
in quella direzione, e si sentì proiettare in avanti da un colpo
alla schiena che sembrava il calcio di un mulo. Crollò a terra con
il respiro mozzo, rotolò sul dorso e pose la spada a difesa del
collo giusto un attimo prima che la creatura gli piombasse addosso.
Mentre si faceva indietro vide baluginare nel buio un’orrenda
chiostra di denti, e colse il sinistro lucore di occhi senza pupille,
lattiginosi ma accesi di un malvagio fuoco interno.
Si
rialzò e tirò un tondo dritto, ma il movimento gli strappò un
gemito di dolore. Il mostro ghignò, evidentemente consapevole della
sua condizione. Si rintanò di nuovo nell’ombra, scomparendo dietro
i mucchi di detriti.
Hermann
arretrò verso la scala, sperando di attirare il mostro su un campo
di scontro più favorevole, il ghul gli si avventò addosso e tentò
di rovesciarlo al suolo, ma questa volta il cavaliere riuscì a
puntellarsi con la schiena contro qualcosa e lo spinse via da sé.
Sferrò un tondo rovescio che evidentemente colpì nel segno, perché
l’essere emise un ululato di dolore, poi rimase a guatarlo
ringhiante.
Il
cavaliere non perse tempo: subito lo incalzò con un fendente dritto,
e poi lo raddoppiò con un rovescio, causando ogni volta un
arretramento della creatura. Tentò poi l’assalto finale, ma il
ghul gli si aggrappò al braccio che reggeva l’arma e vi affondò i
denti, strappando via la cotta di maglia come una vecchia stoffa.
Piegò il collo da una parte torcendo il braccio di Hermann, che
emise un gemito e lasciò andare la spada. Il mostro allora gli
sferrò una zampata alla testa, facendolo crollare malamente al
suolo.
Fece
per chinarsi sul cavaliere privo di sensi, ma qualcosa gli fece
alzare bruscamente la testa. Fiutò attento l’aria, quindi
scomparve nel buio.
Hermann
emise un gemito, e nonostante la testa gli girasse come impazzita,
tentò di rialzarsi puntellandosi su un gomito.
Adalrich
giunse alla sommità della collina quando ormai il cielo conservava
solo una lieve linea aranciata all’orizzonte. Si guardò intorno, e
nella luce incerta del crepuscolo percepì qualcosa di chiaro
approssimarsi dall’interno della chiesa. Si voltò in quella
direzione e gli mancò il respiro per l’orrore: era Hermann, che
grondava sangue da una ferita alla testa e teneva il braccio destro
penzoloni come se fosse rotto. Barcollava malamente e sembrava
stremato.
“Aiutami,
Adalrich,” mormorò. Cercò di fare qualche passo in avanti, ma
perse l’equilibrio e con un gemito appoggiò un ginocchio a terra.
“Aiutami,” ripeté.
L’altro
fece per lanciarsi in avanti, ma subito si fermò titubante,
ripensando alle parole della vecchia.
Hermann
alzò lo sguardo su di lui. “Per favore, sto perdendo molto sangue.
Perché non mi aiuti?”
Adalrich
aggrottò le sopracciglia. “Sei davvero tu, Hermann?”
“E
chi dovrei essere?”
“Il
mostro.”
“Non
essere ridicolo. Guardami: sono io, sono Hermann. Aiutami, per
favore.”
L’altro
strinse gli occhi. Era Hermann, ma al tempo stesso non lo era. Troppo
sfrontato, troppo insistente nel chiedere aiuto. O faceva così solo
perché stava soffrendo molto?
O
era lui che si era lasciato influenzare eccessivamente dalle parole
di una vecchia megera?
Però
la sensazione opprimente era più forte che mai.
“Adalrich...”
lo richiamò alla realtà il confratello.
“Hermann…
dimmi che cosa ti ho detto quando ci siamo trovati io e te da soli in
quel villaggio abbandonato, durante la missione per controllare il
passo di Amka.”
Il
cavaliere lo fissò con espressione stupita. “Ma ti sembra il
momento?”
“Dimmelo.
Non puoi essertelo dimenticato.” Poi, dopo una pausa: “Ti
ricordi? Eravamo solo tu ed io, la luna era alta, e c’era un gran
silenzio.”
L’altro
chinò la testa. “Ah, quello,” mormorò, poi rialzò su di lui
occhi che anche in quella penombra sembravano brillare come zaffiri.
“Hai detto che…” deglutì.
“Che?...”
“Che
mi amavi.”
Adalrich,
che stringeva ancora la spada in mano, rimase per qualche istante
immobile. Fece un passo verso il compagno, che sorrise lieve e tese
una mano verso di lui. Il primo si arrestò prima di venire toccato,
poi caricò un fendente e glielo calò addosso con tutte le sue
forze. Sotto quel colpo, Hermann trasfigurò, diventando una creatura
magra e legnosa, con la pelle come cuoio conciato. Emise uno strido e
scomparve nella cripta.
“Quello
l’ho solo pensato,” disse serio Adalrich.
Scese
a sua volta nel sotterraneo. Nel buio vedeva un po’ meglio degli
altri, e colse subito la sagoma della creatura che si chinava. La
raggiunse e vide che Hermann – quello vero, stavolta – era a
terra. Si sosteneva su un gomito e stava arretrando malamente, con
l’altro braccio quasi inservibile e la parte destra del volto
coperta di sangue. Accanto a lui c’era la spada che gli aveva
mostrato quando era in cella.
Valutò
velocemente la situazione: il mostro era tra lui e l’arma, ma
doveva comunque fare un tentativo di prenderla, o non ci sarebbe
stata alcuna speranza per Hermann.
Strinse
la spada che aveva ancora in pugno e la piantò fino all’elsa nel
corpo ossuto della bestia. Il colpo sarebbe stato letale per chiunque
altro, ma essa emise un ululato e rapida come una serpe si torse
nella sua direzione, spalancò le fauci e lo azzannò tra la spalla e
il collo.
Il
cavaliere emise un lamento e tentò di strapparsi di dosso il mostro,
che però a ogni attimo rinsaldava la presa affondandogli
maggiormente i canini nella carne, e muoveva la testa come per
allagare sempre più lo squarcio che aveva prodotto.
Adalrich
crollò a terra, e mentre con un braccio tentava di sciogliere la
presa mortale della creatura, con l’altra mano palpava
freneticamente il pavimento alla ricerca della spada.
Infine
percepì l’impugnatura sotto le dita, la strinse e colpì la belva
con la lama benedetta. Il mostro balzò via con un ululato, Adalrich
si rialzò ansando e lo incalzò con un fendente, che di nuovo gli
produsse un’ampia ferita. Il ghul si arrampicò soffiando come un
gatto su una catasta di vecchi mobili, e da lì gli balzò addosso di
nuovo. Rotolarono avvinghiati, il mostro dilaniava con artigli e
denti, Adalrich colpiva con la spada, e ogni volta che la lama
affondava nella carne della creatura, essa emetteva un ruggito di
rabbia e dolore.
Alla
fine il cavaliere riuscì a buttare il mostro lontano da sé, e nel
momento in cui esso si muoveva per attaccarlo di nuovo, sferrò un
fendente rovescio e lo decapitò di netto. La testa rotolò via con
un rumore sordo mentre il corpo si afflosciava.
Poi
il crociato lasciò cadere l’arma e crollò pesantemente al suolo,
con la tunica zuppa del sangue che ancora gli sgorgava dallo squarcio
che aveva nel collo.
Cercò
di rialzarsi, ma le forze lo stavano abbandonando velocemente. Vide
una figura chiara che si avvicinava e le labbra gli si stirarono in
un lieve sorriso. “Hermann,” mormorò con voce appena udibile.
L’altro
si chinò su di lui. Gli passò una mano dietro le spalle e lo
strinse a sé. “Adalrich,” disse con voce tremante. “Adalrich,
perché sei venuto qui?… Non dovevi… Non così...”
“Hermann,
sai… quello che devi… fare.”
Il
confratello represse un singhiozzo. “Oh, no. Ti prego, non
chiedermi questo.”
C’erano
ancora così tante cose che doveva dirgli, e che dovevano fare
insieme. C’era un mondo che sarebbe stato vuoto e buio senza di
lui.
“Ti
prego… Non farmi morire
così...”
Hermann
lo adagiò sul pavimento, quindi estrasse il pugnale. Per quanto
Adalrich fosse la persona che amava di più al mondo, razionalmente
sapeva che se non l’avesse fatto, l’avrebbe condannato a
riprendere vita come mostro assetato di sangue.
Le
lacrime che gli scendevano copiose dagli occhi gli annebbiavano la
vista, tuttavia puntò la lama contro il cuore del compagno, quindi
pose le due mani sull’impugnatura e si preparò a fare forza con
tutto il suo peso.
§
Una
lunga mano ossuta si posò sulle sue fermando il gesto che stava per
compiere. “No,” disse una voce di donna dalle note basse e
solenni.
Hermann
sollevò lo sguardo e nel buio ormai completo colse solo l’ovale di
un viso femminile.
“No,”
ripeté.
Il
cavaliere non abbandonò la lama. “Signora, io devo,” le rispose.
Ella
annuì, come per dire che capiva, e Hermann ebbe la sensazione che
davvero sapesse tutto. Lesse su quel volto scavato una saggezza
antichissima. D’istinto, le disse: “Aiutatelo, signora. Sento che
voi lo potete.”
Di
nuovo balenarono nel buio i fiori gialli dell’iperico, poi la donna
posò una mano sulla fronte di Adalrich e pronunciò parole in una
lingua che Hermann non conosceva. Il cavaliere pensò fugacemente che
l’atto cui stava assistendo era ciò che comunemente veniva
definito stregoneria, ma rimase immobile.
Infine
l’anziana donna gli disse: “Il male antico non prevarrà sul
figlio dell’inverno. Egli ha il nostro sangue.”
Prima
che Hermann avesse il tempo di chiederle di che sangue stesse
parlando, ella si coprì il volto con un lembo dell’abito nero,
confondendosi con l’oscurità che la circondava.
Subito
dopo, il cavaliere cominciò a sentire un vociare confuso che
proveniva dall’esterno, associato a latrare di cani e nitrire di
cavalli. Qualcuno arrivò con delle fiaccole alla sommità delle
scale, proiettando nella cripta fasci di luce.
“Sono
qui!” Gridò Hermann. “Siamo qui!”
Si
voltò in direzione della donna, ma non la vide più. “Signora?”
mormorò, ma in qualche modo gli fu chiaro che ella se n’era
andata.
“Siamo
qui!” ripeté. “Presto, fratello Adalrich è ferito!”
Sentì
i passi di numerose persone, la luce si fece più intensa man mano
che scendevano uomini dotati di torce e lanterne. Abbassò gli occhi
sul suo confratello e il cuore minacciò di fermarglisi nel petto:
egli giaceva immobile, il volto era di un pallore ancora più intenso
del solito, gli occhi erano chiusi. Tra la spalla e il collo aveva
un'orribile squarcio, dal quale il sangue era sgorgato copioso,
inzuppandogli completamente l'abito.
Mentre
in fondo alla cripta si levavano i clamori di coloro che stavano
osservando le spoglie del ghul, una mano sulla spalla lo fece quasi
sussultare. La voce di fratello Hildebrand chiese: “È vivo?”
“Non
lo so,” rispose angosciato Hermann.
“Ora
vediamo,” rispose l’altro, e si chinò su Adalrich. Prese la
lanterna che aveva con sé e la tenne sospesa per illuminarlo. Con la
mano libera gli prese il mento fra le dita e gli voltò delicatamente
la testa. Osservò la ferita e aggrottò le sopracciglia.
Hermann,
che stava seguendo ogni suo movimento, gli chiese: “È molto grave,
fratello?”
“Lo
vedi da te che è grave. Ma per qualche motivo ha smesso di
sanguinare.”
“Ma
lui è...”
“È
vivo, sì. Ha perso molto sangue, è ferito ovunque, ma per qualche
ragione che mi sfugge è ancora vivo.”
Il
giovane cavaliere emise un sospiro. “Dio, ti ringrazio,” mormorò.
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Capitolo 11 *** Epilogo ***
Adalrich 11
Bene, gente, come
vedete siamo
giunti all’epilogo della vicenda. È stato molto bello portare
avanti quest’avventura medievale con voi, sono stato molto felice
di costruire una vicenda e dei personaggi e presentarveli. Ringrazio
tutti coloro che sono passati di qui, e con la loro presenza hanno
fatto sì che la storia prendesse vita.
In
particolare, ringrazio sentitamente per avermi lasciato il loro
parere LyaStark, morgengabe, Saelde_und_Ehre, fiore di girasole,
Crilu_98, Iossy90, miciaSissi, innominetuo, Syila e GothicGaia,
che si sta facendo tutta la maratona dei capitoli^^
Grazie
davvero, è stato bellissimo condividere quest’avventura con voi!
Devo peraltro rivolgere un ringraziamento particolare all'ottima,
bravissima e coltissima Saelde_und_Ehre,
che con la sua costante supervisione ha fatto sì che il mo medioevo
germanico fosse storicamente attendibile.
Epilogo
Fratello
Adalrich aprì lentamente gli occhi. Da qualche parte, lontano,
qualcuno stava cantando:
Da
pacem Domine, in diebus nostris…
Cercò
di mettere a fuoco quello che lo circondava: si trovava su un letto,
in una stanza con il soffitto sostenuto da travi. C’era una
candela, che proiettava intorno una debole luce ambrata.
...Quia
non est alius qui pugnet pro nobis…
Rievocò
la lotta contro la creatura, la ferita, la sensazione di cadere in un
baratro buio e la strenua lotta contro la voluttà di abbandonarsi
all’oblio. Gli ultimi ricordi che aveva erano quelli di Hermann
chino su di lui, con il viso rigato di lacrime. Fece un tentativo di
muoversi, ma il suo corpo gli rimandò un’immediata fitta di
dolore. Emise un sospiro di frustrazione, riabbassò le palpebre e
per un po’ si concentrò sul canto che percepiva fioco.
...Nisi
tu Deus noster.
Fiat
pax in virtute tua: et abundantia in turribus tuis.
Fu
il rumore di un oggetto che cadeva ad attirare nuovamente la sua
attenzione. Girò lo sguardo in quella direzione e si accorse che
accanto al letto c’era Hermann addormentato su una sedia. Aveva le
mani in grembo, nella posizione di chi sta reggendo qualcosa, ma
ovviamente in mano non aveva più nulla.
Sul
volto gli si compose un pallido sorriso. Chissà da quanto tempo era
lì, e chissà quanto doveva essere stanco, se nemmeno il rumore
l’aveva svegliato.
Provò
a chiamarlo, ma l’unico suono che gli uscì dalla gola fu un rauco
mormorio.
Strinse
i denti, e concentrò tutta la propria volontà nel far uscire un
braccio dalle coperte. Lo spinse piano verso il confratello, al quale
riuscì a sfiorare una mano.
A
quel pur lievissimo tocco, Hermann saltò su come qualcuno l’avesse
punto. “Adalrich!” esclamò preoccupato.
Si
sporse verso di lui e l’altro vide la sua espressione trasfigurare
nel momento in cui si rendeva conto che aveva gli occhi aperti.
“Adalrich!”
ripeté. Sul volto gli passarono tutte le possibili sfumature di
confusione, sollievo e gioia. “Adalrich, ti sei svegliato,
finalmente.” Gli prese la mano e la strinse delicatamente fra le
sue. “Ho temuto di perderti,” mormorò poi sedendosi accanto a
lui sul letto.
“Hermann...”
“Dio,
ti ringrazio,” disse semplicemente l’altro, quindi staccò una
mano dalla sua e gliela passò adagio fra i capelli. Si chinò a
baciarlo sulla fronte. “Ti ringrazio,” ripeté.
Adalrich
socchiuse gli occhi.
Ancora
chino su di lui, Hermann chiese: “Hai sete, vero?” Poi, senza
aspettare risposta: “Sì che hai sete. Ora ci penso io.” Andò a
prendere un bicchiere, quindi gli passò una mano dietro la nuca, gli
sollevò delicatamente la testa e gli appoggiò il recipiente alle
labbra.
“Ho
avuto paura di perderti,” ripeté mentre lo aiutava a bere.
Adalrich
avrebbe forse dovuto rispondere che erano cavalieri, che i loro
sentimenti non contavano, che la loro esistenza doveva essere votata
a Dio e a nient’altro, ma l’unica cosa che riuscì a mormorare
fu: “Anch’io.”
Quando
si fu dissetato, Hermann lo fece riadagiare delicatamente sul
cuscino. Nella luce dorata della candela i suoi occhi azzurri, lucidi
di pianto trattenuto, erano trasparenti come acquemarine. Di nuovo
gli accarezzò i capelli, facendosi scivolare tra le dita le ciocche
candide. Continuava a guardarlo, come se non riuscisse a convincersi
che si era davvero ripreso.
“Sto
bene,” si sentì in dovere di assicurargli Adalrich.
“Sì,
sia ringraziato Dio. Stai bene.” La mano che gli stava passando tra
i capelli scese ad accarezzargli la guancia, poi Hermann si piegò di
nuovo su di lui e in un gesto fugace, appena accennato, gli sfiorò
le labbra con le proprie.
§
“Che
posto è questo?” chiese Adalrich guardandosi intorno. Non
riconosceva nulla di ciò che lo circondava.
Seduto
accanto a lui, Hermann gli spiegò: “Siamo nel convento di
Marienbrunnen. Dopo quello che è successo, fratello Hildebrand ha
insistito per farti portare qui, diceva che c’è un monaco
particolarmente esperto nel curare le ferite.”
“Chi
è fratello Hildebrand?”
“Sono
io, giovanotto,” disse una voce profonda, “e da come ti sei
ripreso, direi che la mia fiducia nelle capacità di fratello Walther
è stata ben riposta.”
L’anziano
cavaliere entrò nella camera. Squadrò Adalrich con occhio attento,
poi chiese: “Ebbene, come ti senti ora?”
“Molto
meglio, grazie.”
L’altro
prese una sedia e si accomodò accanto al letto, quindi gli chiese:
“Vuoi sapere cos’è successo in questi giorni, ragazzo?”
Hermann
sorrise fra sé e sé alla perplessità del rigido Adalrich nel
venire apostrofato in quel modo. Per l’imponente fratello
Hildebrand l’etichetta era un concetto piuttosto relativo. Dopo i
primi formalismi, tutti i cavalieri che avevano meno di trent’anni,
a prescindere da rango o titolo, diventavano ‘giovanotto’ o
‘ragazzo’. ‘Ragazzo mio’, se proprio gli risultavano
simpatici.
Adalrich,
che era nel convento già da qualche giorno, pur essendo rimasto
sempre incosciente era già considerato ‘ragazzo’.
“Vi
sarei molto obbligato,” rispose il ferito, che invece aveva
impiegato mesi per smettere di rivolgersi a Hermann con il voi.
“Beh,
ragazzo mio, pare che qualcuno, nella diocesi di Fulda, abbia fatto
il passo più lungo della gamba. E soprattutto nella direzione
sbagliata.”
“Che
intendete dire?”
“Un
certo padre Gerold ha dimostrato un notevole entusiasmo e una
singolare mancanza di scrupoli nel portare avanti la sua santa
missione. Chi di dovere ha ritenuto che tanto zelo meritasse
obiettivi più elevati di un umile servo di Cristo dai colori un po’
inconsueti, e l’ha inviato a catechizzare i pagani in Prussia.”
Fece una pausa, poi con fare modesto soggiunse: “Dati
i trascorsi,
qualcuno ha pensato di
preparare un’adeguata accoglienza per il buon padre, e ha scritto
un paio di lettere a qualche membro dell’Ordine, raccontando quello
che è successo a Dürnau.” Ghignò soddisfatto, quindi concluse:
“Penso proprio che lassù gli daranno un caloroso benvenuto.”
Adalrich
rimase in silenzio per un po’, quindi chiese: “La bestia è
davvero morta?”
“Nemmeno
un ghul sopravvive decapitato.”
“Un…
che cosa?”
“Ghul.
Jinn malvagio, se preferisci.”
“È
quello che chiamavamo cane infernale?”
Fratello
Hildebrand assentì, soddisfatto come il precettore che sente
l’allievo ripetere una poesia senza errori. “Proprio così. Il
ghul può trasformarsi in una iena, che è una specie di cane, ma più
grosso.”
“Ho
capito.”
§
Fratello
Hermann e fratello
Hildebrand stavano camminando fianco a fianco. “Come sta?” chiese
il più anziano.
L’altro non
poté fare a meno
di atteggiare il volto a un lieve sorriso. “Si riprende a vista
d’occhio. Ogni volta mi stupisco di quanto sia forte.”
“In
effetti è una specie di miracolo. Credevo proprio che quella ferita
lo avrebbe ucciso.”
Hermann emise
un sospiro.
“Anch’io.” Si voltò in direzione nell’edificio in cui si
trovava la camera di Adalrich. Rallentò il passo.
L’altro lo
prese per una
spalla. “Hai bisogno di riposare e di prendere un po’ d’aria.
Lui è in buone mani.”
“Lo
so, fratello,” rispose Hermann ricominciando a camminare, “Sarà
anzi in mani migliori delle mie, visto che frate Walther è esperto
nella cura delle ferite, però...” Si interruppe, di nuovo si voltò
verso l’edificio.
Fratello
Hildebrand lo spinse in
avanti. “Muoviti,” gli disse in tono bonario.
Camminarono per
un po’ fianco a
fianco, addentrandosi nel frutteto. Era pomeriggio inoltrato e il
sole era ormai basso sull’orizzonte. Sull’erba si disegnavano
ombre lunghe, spirava una lieve brezza.
Hermann abbassò
lo sguardo e
vide che per terra c’erano dei fiori gialli. Subito si guardò
intorno, e al limitare del campo, confusa fra i tronchi, vide una
snella figura vestita di nero. Diede un’occhiata a fratello
Hildebrand, che stava continuando a camminare apparentemente ignaro,
quindi si mosse verso la silenziosa presenza.
“Chi
siete, signora?” chiese quando si fu avvicinato.
Senza
rispondere, la donna gli
tese un mazzetto di fiori di iperico. “Portali a lui,” disse
semplicemente.
“Ditemi
chi siete,” insisté Hermann, “voi gli avete salvato la vita.”
Ella scosse la
testa. “Tu
gliel’hai salvata. È rimasto per te.” Di nuovo gli porse i
fiori.
Il giovane
cavaliere si morse il
labbro inferiore. “Io… stavo per ucciderlo, signora,” mormorò
chinando la testa.
La donna gli
accarezzò una
guancia. Aveva dita ruvide e secche come legno antico. In tono grave
gli disse: “È il sacrificio più grande, uccidere chi si ama per
evitargli maggiore sofferenza.”
Hermann stava
per rispondere, ma
una voce alle sue spalle lo fece sussultare: “Ragazzo!”
Si girò:
fratello Hildebrand lo
stava fissando perplesso. “Che fai, parli agli alberi?” gli
chiese.
Il giovane si
voltò verso la
donna, ma non c’era più nessuno. Abbassò gli occhi sulla propria
mano, e si accorse che stringeva un mazzetto di fiori di iperico.
“Signore Iddio,” mormorò stupefatto.
Il più anziano
gli rivolse uno
sguardo interrogativo. “Beh?”
“Io…
c’era una donna che mi stava parlando, e...” si interruppe: non
c’era nessuno nel raggio di cento passi. Si voltò verso fratello
Hildebrand con l’aria di chiedergli aiuto.
“Forse
è meglio che mi racconti tutto da principio, ragazzo mio,” gli
consigliò il più anziano.
Alla fine del
racconto, fratello
Hildebrand non pareva né particolarmente stupito, né
particolarmente spaventato. “Una strega,” disse.
Il più giovane
fece tanto
d’occhi. “Una strega?” ripeté.
“In
effetti sarebbe più corretto dire ‘una donna che pratica la
magia’. Ce n’è ancora qualcuna.”
“Ma...”
Fratello
Hildebrand alzò le
spalle, tranquillo come se stesse parlando del tempo. “Sì, so cosa
stai pensando: le streghe sono malvagie. Ma così come ci sono uomini
di chiesa che praticano il male, e tu ne hai conosciuto uno non più
tardi di qualche giorno fa, ci sono anche streghe che praticano il
bene. Anzi, per la verità sono la maggior parte.”
Hermann annuì.
“Ha salvato la
vita ad Adalrich,” disse dopo un po’, poi abbassò gli occhi sui
fiori che aveva in mano e soggiunse: “Mi ha dato questi per lui.”
“Io
credo che l’abbia fatto per proteggerlo. Secondo la tradizione,
l’iperico allontana il male.”
Il
giovane ripensò a ciò che era successo nel sotterraneo della chiesa
diroccata. Gli tornarono in mente le parole che la donna gli aveva
detto: egli ha
il nostro sangue.
Adalrich
non sapeva chi fossero i suoi veri genitori, ed era stato abbandonato
in fasce.
Ricordò una
storia che aveva
sentito quando era piccolo: la magia passava di madre in figlia, e i
figli maschi delle streghe, se mai vedevano la luce, venivano
generalmente uccisi appena nati. Forse la vera madre di Adalrich non
se l’era sentita di ucciderlo, e l’aveva abbandonato dove sapeva
che sarebbe stato cresciuto nel modo migliore. Forse le streghe
riconoscevano in lui uno della loro razza, e lo aiutavano.
Si
voltò verso fratello Hildebrand. Per un attimo lo sfiorò l’idea
di metterlo a parte dei suoi dubbi, ma subito dopo rinunciò al
proposito: di certe cose era meglio parlare il meno possibile. “Penso
che andrò a portargli questi fiori prima che appassiscano,” disse
semplicemente. Si inchinò appena. “Con licenza, fratello.”
L’altro sorrise
bonario. “Va’
pure.” Riprese la sua passeggiata scuotendo affettuosamente la
testa.
§
Vestito per la
prima volta dopo
giorni, Adalrich indugiava seduto sul letto. Aveva voglia di alzarsi,
e per quanto detestasse il sole, gli mancavano l’aria e gli spazi
aperti, ma si sentiva ancora terribilmente debole. Fratello Walther
gli aveva spiegato, nel corso delle varie medicazioni, che aveva
perso molto sangue, e già era un miracolo che fosse ancora vivo,
tuttavia non riusciva a capacitarsi di come il suo corpo, una volta
forte e scattante come quello di una belva, ora facesse fatica anche
nelle minime cose.
“Ti
riprenderai,” gli disse Hermann, che come al solito aveva
perfettamente indovinato quali fossero i suoi pensieri. “Hai solo
bisogno di un altro po’ di riposo.”
Adalrich annuì
e l’altro gli
mise una mano sulla spalla. “Tornerai più forte di prima,” gli
assicurò.
“Lo
spero.”
“Certo
che sarà così.” Poi, dopo una pausa: “C’è una persona che
voglio presentarti.”
Adalrich lo
fissò stupito.
“Chi?”
“Vedrai.
Ora fa il bravo, appoggiati a me.”
“Ma
Hermann...”
“Obbedisci.”
Lo fece alzare e si passò il suo braccio intorno alle spalle. “Ce
la fai così?”
“Sì,
non preoccuparti.”
“Allora
andiamo.”
Scesero nel
chiostro. Lì, seduto
su una panca, c’era il figlio del barone von Obenstein. Adalrich si
voltò perplesso verso Hermann e gli chiese: “Dov’è la persona
che mi devi presentare?”
“Ce
l’hai davanti.”
“Ma
è Konrad.”
L’altro
scosse la testa. “No, è fratello
Konrad. O perlomeno lo sarà quando avrà completato il noviziato.”
“Stai
scherzando?”
“Mai
stato così serio.” Poi, a voce più alta: “Fratello Konrad!”
Il ragazzo si
alzò e li
raggiunse. “Non sono ancora un fratello,” disse con un sorriso
modesto, “ ma spero di diventarlo prima possibile.” Si volse
verso Adalrich: “Salute a voi, fratello cavaliere.”
“Voi
nell’Ordine?” chiese l’altro per tutta risposta.
Il ragazzo
emise un sospiro.
“Sembra strano, vero? Eppure quello che è successo mi ha spinto a
pensare, e ho capito delle cose.”
Adalrich lo
fissò ancora
diffidente. “Che cosa, ad esempio?”
Konrad chinò la
testa. “Io
credevo che ascoltare qualche lettura di retorica di giorno e far
festa con gli amici di notte fosse tutto ciò che un uomo poteva
chiedere dalla vita. Niente impegni, niente responsabilità. Solo
divertimento.” Fece una pausa, deglutì imbarazzato. “E poi è
successo quello che è successo, e sono morte molte persone a causa
della mia ottusità.”
Adalrich
continuava a fissarlo in
silenzio.
“E
insomma, per farla breve, ho pensato che stare un po’ di tempo
nell’Ordine non mi avrebbe fatto male, ecco tutto.” concluse alla
fine il ragazzo.
L’altro era
ancora muto.
“Beh,
che ne dite?” chiese Konrad dopo un po’. Dava l’idea di
aspettarsi delle felicitazioni.
Lapidario,
Adalrich rispose: “Penso
che tornerò a sdraiarmi, è stata un’emozione troppo forte.”
“Non
siete contento?”
“Ma
certo che è contento,” intervenne Hermann prima che l’altro
potesse replicare, “è solo troppo riservato per dimostrarlo.”
Konrad sorrise
e disse: “Beh,
avrà tempo di prendere confidenza con la cosa durante il viaggio di
ritorno a Starkenberg.”
Adalrich lo
fissò, questa volta
francamente inorridito. “A Starkenberg?”
“Ovviamente!
Dove andrei senza i miei maestri?”
“Chi
sarebbero i vostri maestri?”
“Ma
voi e fratello Hermann, è chiaro. Ho già in mente un poema epico
sulla vostra impresa, sapete? Come
due cavalieri dell’Ordine Teutonico uccisero un terribile mostro
del deserto.
Volete sentire le prime strofe?”
“Oh,
no!”
“Vi
assicuro che sono bellissime. Prima di prendere i voti ho seguito le
letture di poesia dei migliori maestri, sapete?”
Adalrich si
svincolò dal
sostegno del confratello, e nonostante la prostrazione fece per
allontanarsi lungo il porticato, ma Konrad imperterrito gli tenne
dietro.
Hermann rimase
a fissarlo con un
sorriso sulle labbra: Adalrich era cupo, scontroso, permaloso, di una
franchezza imbarazzante, prendeva qualsiasi cosa sul serio, ringhiava
peggio di un mastino da guerra, ma era anche la persona più
coraggiosa, nobile e generosa che conoscesse, e qualcuno, chissà se
era stato Dio o qualcun altro, gli aveva concesso di averlo accanto
ancora per un po’.
“Facci
sentire un po’ di quella poesia, Konrad!” esclamò, già
pregustando la reazione dell’amico.
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