Miðnætti Sól

di marielou
(/viewuser.php?uid=962727)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Myrkraherbergi ***
Capitolo 3: *** Ljósmyndir ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Sole di mezzanotte - PROLOGO

Isola di Grímsey – Islanda

 12 Luglio 2007

Silenzio. Sublime silenzio. Si stagliava incontrastato, padrone di tutto, perfino del cielo grigio. Dalla sua posizione, poteva vedere le onde del mare che da tempo immemore abbracciavano il nero delle rocce vulcaniche, come un eterno combattimento senza vincitori né vinti. Tutta quella desolante bellezza era l'unico regalo che aveva deciso di farsi in ventitré anni di vita. Poteva percepire ogni singolo atomo della solitudine di quell'attimo. Gocce gelide, artiche e salate saltarono sul suo viso. Spalancò le braccia. Era mezzanotte precisa e la rifrazione del sole, bianco e coperto da una perenne coltre di nubi, era l'unica testimone silenziosa a farle compagnia in quel momento, macabro e grandioso al tempo stesso. Si sporse oltre il bordo della scogliera. Prese un ultimo, profondo respiro. La sua mente si svuotò e si concentrò soltanto sul suo battito cardiaco, sui suoi polmoni che incameravano aria. Si lanciò. Il cappuccio si abbassò mentre precipitava. Pensò che quello e soltanto quello era l'istante in cui stava vivendo davvero. I ricci biondi si aprirono a ventaglio nel vuoto, finalmente liberi. 

Un tuffo.

Il gorgoglìo delle acque scure.

Il freddo duro delle rocce.

E di nuovo il silenzio. Sulla scogliera, l'erba gelata e verde conservava ancora l'impronta dei suoi piedi, nel punto in cui l'aveva calpestata per l'ultima volta.

Una sciarpa rossa riemerse poco dopo dall'oceano. Il faro arancio svettava lontano, in tutta la sua maestosità.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Myrkraherbergi ***


Sole di mezzanotte 2

   "La luce può fare tutto.

Le ombre lavorano per me."

Man Ray                                                                                                                                       



Akureyri– 9 luglio 2017.

Scelse con cura estrema il fotogramma, fra migliaia di rullini che custodiva in un cassetto, rigorosamente chiuso a chiave. Mise a fuoco il negativo con l'ingranditore. Rimase completamente al buio.

Viveva per quel momento. Quando la luce rossa inattinica della camera oscura si accendeva, tutto il resto del mondo perdeva di significato. Osservò la carta impregnarsi dell'impressione che il negativo le stava generosamente regalando. Rientrò in sé dopo quell'attimo di estraniamento e versò il rivelatore e il fissatore nelle grandi vasche di plastica, accanto all'ingranditore. Staccò le pinze dai ganci della parete piastrellata e prese la carta impressionata. 

Una dose massiva di adrenalina si riversò nei suoi vasi. Ogni volta che giungeva a quel punto, provava una sorta di strana ansia, di eccitazione. Prese la carta e la immerse con le pinze nel bagno del rivelatore. Inalò a pieni polmoni l'odore pungente dei chimici.

Tutto era regolato alla precisione. Era un processo rigido, meticoloso. Ed era dannatamente in gamba nell'eseguirlo in ogni sua singola sfumatura. Temperatura e durata del bagno erano fattori essenziali.

La rassicurante esecuzione della procedura dava una sensazione di estrema sicurezza. Si sentì incredibilmente potente nel vedere i sali d'argento della pellicola ridursi e liberare l'argento metallico. Ed eccola, l'immagine visibile. Era la parte più affascinante del lavoro. Rivelare, quasi come per magia, il fermo immagine della realtà, celata dal bianco della carta.

Era indescrivibile la gioia della consapevolezza di aver portato alla luce l'espressione più inconsapevole, il sorriso più celato, le emozioni più inespresse, coperte dalla polvere della banalità quotidiana.

Tolse l'immagine neo formata dal rivelatore, la sciacquò sotto l'acqua corrente e la immerse nel fissativo.

Realtà bloccata. L'odore del tiosolfato annebbiò quasi del tutto i suoi sensi.

Aveva terminato per quel giorno. Prese la fotografia e la appese ai molteplici fili di spago che adornavano la camera oscura, insieme a tutte le altre. Insieme a tutti gli altri sorrisi, identici all'apparenza, diversi nell'essenza.

Ammirò con grande orgoglio lo spettacolo. Lei, il suo tutto.

Il centro esatto del suo universo. La sua principessa. La quadratura del suo microcosmo.

Daníella.

Spense la luce della camera oscura e uscì.


Roma - 12 luglio 2017.

Ingileif afferrò a tentoni il cellulare che vibrava insistentemente da almeno dieci minuti. Era domenica mattina, non potevano lasciarla in pace?

«Pronto?» non si curò nemmeno per un secondo di nascondere il suo accento. Non era ancora abbastanza sveglia per farlo.

«Inga?»

La voce di sua madre la riportò immediatamente nel mondo dei viventi. Gettò un'occhiata furtiva ad Anna, che dormiva ancora beatamente con la bocca semiaperta accanto a lei. Poi guardò la sveglia.

11:17

12 luglio 2017.

Daníella l'aveva lasciata esattamente dieci anni, undici ore, diciassette minuti e trenta secondi fa.

«Inga, ci sei?»

Sospirò e passò all'islandese.

«Sì.»

«Ha chiamato Katrìn oggi... Inga, devi tornare.»

No. Non sarebbe tornata. Aveva iniziato a parlare l'italiano in un modo più o meno decente.

«Perché?» chiese. Si infilò le ciabatte e sollevò la tapparella. Il rumore e la luce improvvisa distolsero Anna dal sonno. Ingileif la sentì mugugnare e si affrettò ad uscire dalla stanza, dirigendosi in cucina.

«Forse è meglio che lo vedi di persona.»

Era una trappola. Árna non si sarebbe fermata davanti a niente, pur di vederla tornare.

«Non posso, mamma. Ho una serie di corsi di aggiornamento da frequentare.»

Scusa debole, facilmente attaccabile. Non aveva l'obbligo di frequenza e sua madre lo sapeva. La sentì sbuffare. Recuperò l'accendino e accese la sigaretta preparata la sera prima. Anna le era saltata addosso prima di darle il tempo di fumarla.

«Hanno riaperto le indagini.»

Ingileif quasi si soffocò con la boccata di fumo inalata.

«Cosa?»

«Torna.»

Árna chiuse la comunicazione.


Anna apparve sulla soglia della cucina, ancora seminuda. Ingileif arrossì.

«Spero che tu abbia una scusa plausibile per avermi svegliato a quest'ora, di domenica.»

«Sono le undici.» biascicò Ingileif in italiano.

«Sì, ma ci siamo addormentate due ore fa.»

Ingileif la fissò, soffermandosi sulle sue forme perfette, sulla carnagione olivastra, così lontana dal suo incarnato di porcellana. Anna era una nuotatrice provetta. E mai nella sua vita avrebbe immaginato di finire a letto con una donna.

«Anna?»

«Sì?»

«Te ne devi andare.»

Le parole colpirono la ragazza con la potenza di uno tsunami.

«Te ne vai?» le chiese a bruciapelo. Doveva aver captato qualcosa della telefonata, forse non era del tutto addormentata. Le aveva insegnato qualche parola di islandese.

Ingileif annuì.

Anna sospirò.

«Ti accompagno.» disse, risoluta.

Ingileif fissò le sue iridi di miele in quelle verdi di Anna. Sì, aveva capito bene. Anna voleva seguirla.

«Non ha senso.» replicò, ma sapeva che invece ce l'aveva eccome. Due anni di relazione più o meno esibita giustificavano a pieno la proposta di Anna. Il problema era che lei non voleva. Quella parte della sua vita Anna non l'aveva capita e non l'avrebbe capita mai nessuno. Non aveva mai voluto che nessuno dei suoi pochissimi amici in Italia sapesse. Nemmeno Anna. Soprattutto Anna. La sua espressione non lasciava molto spazio ad interpretazioni. La ragazza capì.

«Sei una stronza, Ingileif.»

Inga non ebbe il coraggio di guardarla negli occhi. Rimase seduta in cucina, inerme, mentre Anna raccattava le sue cose dall'appartamento e usciva dalla sua casa e dalla sua vita per sempre. Assurdo come a volte un attimo possa cancellare anni di esistenza. Inga chiuse gli occhi quando udì la porta sbattere. Spense la sigaretta senza fumarla, si alzò dalla sedia e ritornò in camera.

Adorava quel monolocale. La sua famiglia era sempre stata abbiente quel tanto che bastava a farle togliere quasi tutti i suoi sfizi infantili. Sua madre era un avvocato di successo e suo padre era amministratore delegato di una delle più grandi aziende dell'Islanda, la Foodimport, che gestiva una larga parte delle importazioni alimentari dell'isola. Niente era coltivabile nella sua terra, se non in serra. L'unico periodo buio dell'azienda familiare e dell'Islanda intera era stata la crisi finanziaria nel 2008, un anno dopo la morte di Daníella. L'azienda era giunta sull'orlo del fallimento, con i classici effetti collaterali di licenziamenti di massa e scioperi degli operai. Ingileif ricordava soltanto vagamente quel periodo. Allora aveva diciassette anni ed era ancora troppo adolescente e troppo occupata a cercare un colpevole per il suicidio di sua sorella, per preoccuparsi delle sorti dell'azienda di famiglia. Sapeva che suo padre, Johanns, avrebbe trovato il modo per risolvere la situazione. Suo padre era in gamba. Daníella aveva preso tutto da lui: l'intraprendenza, il carisma e la sorprendente abilità a far quadrare i conti sempre e comunque. Sua sorella era destinata a guidare l'azienda di famiglia, non lei. Su questo non c'erano mai stati dubbi.

Eppure, per un periodo, suo padre aveva tentato di plasmarla ad immagine e somiglianza diDaníella. E c'era quasi riuscito: Inga aveva frequentato per un po' la facoltà di economia e direzione aziendale all'università di Akureyri, ovviamente con scarsi risultati. Dopo due anni, non aveva raggiunto i crediti sufficienti per iscriversi al terzo anno di università. La delusione dei suoi era stata cocente tanto quanto le sue fitte allo stomaco ogni volta che si ritrovava a studiare sui libri di sua sorella; una parte di lei era fermamente convinta che forse, se fosse stata lei a buttarsi da quella maledetta scogliera a Grímsey, i suoi genitori sarebbero stati meno addolorati. 

Così, un bel giorno, aveva chiesto a suo padre di prelevare anticipatamente la parte di eredità di sua sorella, ormai spettante a lei di diritto, per potersi pagare gli studi di antropologia in Italia. Suo padre aveva insistito, con minacce e lusinghe varie, rifiutandosi di darle i soldi, insistendo affinché lei completasse gli studi di economia e prendesse finalmente parte alla vita attiva dell'azienda. Lei lo aveva ignorato ed era partita comunque, lavorando come cameriera e facendo volantinaggio, ai limiti delle condizioni di sopravvivenza. Dopo sei mesi di silenzio, da oltreoceano era arrivata l'eredità di Daníella. Suo padre si era finalmente arreso, cedendole l'eredità contante ma non i pacchetti azionari suoi e di sua sorella, che lei avrebbe ottenuto soltanto alla morte di entrambi i genitori. Ad Inga andava bene anche così: quei soldi erano più che sufficienti per consentirle di vivere tranquillamente, seppur con qualche rinuncia, e aveva ridotto i turni come cameriera al solo fine settimana. Nessuno venne alla sua cerimonia di laurea a Tor Vergata, nemmeno quando concluse il master in Antropologia forense con il massimo dei voti. Eppure, Ingileif capiva che c'era qualcosa in lei che non andava. Nonostante il riscatto accademico, si sentiva insoddisfatta. A dire il vero, non sapeva se la sua fosse insoddisfazione vera e propria o irrequietezza: non voleva ammetterlo nemmeno con se stessa, ma la verità era che anche la vita in Italia, che aveva acceso tutte le sue forze vitali all'inizio, ora la stava lentamente spogliando e depauperando di tutto il suo entusiasmo.

Era alla continua ricerca di qualcosa, perennemente inquieta.

Osservò il suo riflesso nello specchio del grande armadio della camera da letto. Aveva messo su qualche chilo, a causa della cucina italiana e della sua ingordigia. Sorrise: in fondo continuava a piacersi anche così. Inga era profondamente differente dalla maggior parte delle giovani donne della sua età: era bella, molto più bella di Daníella, e sapeva di esserlo. Le sopracciglia chiare incastonavano perfettamente i suoi occhi tondi, grandi e color miele. Sbuffò esasperata alla vista dei suoi capelli disordinati e impagliati nella treccia della sera prima. Anche delle sue chiome era molto orgogliosa: non il solito biondo cenere, quasi bianco, delle ragazze islandesi, ma più intenso, color oro fuso. Il naso era dritto e ben proporzionato. La bocca grande, rossa e carnosa si sposava perfettamente con i denti bianchissimi che lei curava in modo quasi maniacale. Indossava ancora la felpa nera di Anna che aveva infilato confusamente la notte precedente, quando era stata colpita dal freddo dell'ipotermia notturna. L'unico cruccio di Inga era la statura, non molto elevata: ma col tempo si era rassegnata e aveva capito che non c'era bassa statura che un bel paio di décolleté non riuscissero a minimizzare.

Aveva freddo ai piedi, ma si tolse comunque le ciabatte. Ancora senza pantaloni, ritornò in cucina, prese una chiave da un barattolo di biscotti vuoto e si diresse verso un piccolo ripostiglio. Il suo ripostiglio.

Era largo non più di sette metri quadrati, ma lei l'aveva adibito a camera oscura. Daníella le aveva insegnato a sviluppare le foto. Aveva nove anni quando aveva sviluppato la sua prima foto, ora appoggiata in bella vista sul suo comodino in camera da letto. La portava sempre con sé: ironia della sorte, ritraeva tutta la sua famiglia proprio sulle scogliere di Grímsey.

Era il loro posto. Il posto suo e di Daníella. C'erano state tantissime volte a guardare il sole nel suo punto più alto a mezzanotte.

Come se la morte da sola, non facesse già abbastanza male, aveva voluto togliersi la vita proprio là, dove entrambe erano state felici.

Inga non se lo spiegava.

Accese la luce e sospirò. Le sarebbe toccato abbandonare la casa, pagare i mesi restanti al proprietario e soprattutto smantellare tutte le sue attrezzature da fotografia, i suoi libri e i suoi vestiti. Avrebbe lasciato gli utensili da cucina come omaggio ai futuri coinquilini. IL'improvviso pensiero di non lasciare niente dietro di sé, ovunque  lei andasse, le provocò un'improvvisa morsa al cuore.

Stava per spegnere la luce, quando notò qualcosa di strano. Sul piccolo ripiano in legno dove riponeva le bottiglie dei kit di sviluppo, era appoggiato qualcosa di inaspettato.

Un enorme muffin al cioccolato, con sopra una candelina  spenta a righe bianche e rosa.

E un bigliettino bianco, con un una scritta al computer in islandese.

"Til hamingju með afmælið, kķngsdķttir."

Buon compleanno, principessa.

Inga sentì il suo sangue gelarsi. Come faceva Anna a sapere che la chiave del suo ripostiglio era nel barattolo dei biscotti? Era stata attentissima a non far mai vedere dove la riponeva. Non perché sviluppasse chissà cosa, ma la fotografia era l'unico modo con cui riusciva a riconnettersi con Daníella. Nel silenzio della camera oscura, la sua risata viveva ancora.

C'erano troppe cose che non quadravano. Lei non festeggiava mai il suo compleanno. Per lei, significava soltanto ricordare che viveva anni a cui sua sorella non avrebbe mai più potuto prendere parte. Era il giorno della morte di Daníella, non dei suoi ventisei anni. Come faceva Anna a saperlo? E come poteva aver indovinato che i muffin al cioccolato erano i suoi dolci preferiti? E poi, perché sua madre aveva detto che Katrìn aveva chiamato? Cosa c'entrava lei  con sua sorella e le indagini riaperte?

Non lo sapeva. Così come era certa di non sapere tante altre cose. All' improvviso si sentì un po' troppo sola nel piccolo monolocale.

Chiuse la porta e tentennò un attimo, prima di tornare in cucina e buttare il muffin nella spazzatura. Conservò il biglietto nel portafogli e si tolse la felpa di Anna. L'avrebbe portata con sé. Anche dall' altro lato dell'Atlantico, avrebbe trovato il modo per farsi perdonare. Rimase in reggiseno e rabbrividì dal freddo.

Sul suofianco sinistro, nel punto in cui più faceva male, si era fatta tatuare laspiga eretta del lupino. Il viola e il blu spiccavano nel candore della suapelle d'alabastro. Era il fiore preferito di Daníella. Uno dei tipici fiori checrescevano nelle enormi distese islandesi.


Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Ljósmyndir ***


Ljósmyndir

Akureyri. 12 luglio 2017.

Magnús sbuffò impaziente, fermo al semaforo sulla Pórunnarstæti, e si accese una sigaretta.

«Ti avevo detto che era tardi, Ari. Porca puttana!» sbraitò, abbassando il vetro del finestrino e appoggiando rassegnato la schiena sul sedile.

«Rilassati, per una buona volta, Magnús. Dofri ha avuto da fare, ieri sera all' Ölstofa, sarà in ritardo tanto quanto noi.»

Magnús ignorò lo sguardo allusivo del collega e staccò immediatamente la frizione allo scattare del verde.

Non intendeva farsi fregare da Dofri. Non quella volta. Sin da quando aveva messo piede al distretto di polizia di Akureyri, tre mesi prima, aveva capito che non sarebbe stato facile. Ma non aveva avuto molte alternative, eccetto quella di rimanere a Reykjavik.

E lui, a Reykjavik, non aveva proprio voglia di restarci.

L'ispettore Dofri Haraldsson non aveva visto di buon occhio l'ingresso di un altro detective nel team investigativo. Soprattutto quando si era reso conto che il detective in questione era in gamba, competitivo e ambizioso come Magnús.

Il livore nei confronti del nuovo arrivato, in effetti, era piuttosto condiviso al distretto. In quei pochi mesi di permanenza, Magnús era riuscito a legare soltanto con Ari. Sapeva di non avere un carattere facile e la condiscendenza non era esattamente il suo forte: più gli altri pensavano che fosse un bastardo, più lui dava loro pretesti per crederlo davvero.

Ari, lì dentro, era stato l'unico a capirlo e a destreggiarsi egregiamente nel mare dei suoi continui sbalzi d'umore. Accettava i silenzi cupi e tesi senza fare obiezioni, e quella era la cosa che più Magnús apprezzava di lui.

Nessuno, alla sezione Omicidi, aveva gradito il fatto che il novellino trasferito da Reykjavik pestasse loro i piedi definendoli, senza mezzi termini, una massa di incompetenti.

Ma Magnús era così. Qualcosa non andava bene? Doveva dirlo. Azionò i tergicristalli quando vide che l'onnipresente coltre di nubi stava per rovesciare su di loro un manto argenteo di pioggia.

La verità era che i colleghi di Magnús 
non erano degli incompetenti, anzi. Nonostante gli costasse una fatica immane ammetterlo, Magnús sapeva che perfino Dofri aveva un ottimo potenziale. Il problema consisteva nel fatto che fossero del tutto inesperti. L'Islanda stava cambiando e il volto del crimine cambiava con lei. Reykjavik era stata la prima a subire il contraccolpo dello sbarco della mafia lituana sulle sue coste, e a seguire tutte le sparute cittadine  meridionali.

E poi c'era stato il caso di Birna  Brjánsdóttir, nel gennaio precedente. Magnús se lo ricordava bene, dato che aveva attratto l'attenzione dell'intero emisfero boreale: Birna era stata trovata morta nella spiaggia vicino al faro di Selvogsviti, circa sessanta chilometri a sud di Reykjavík.

Era toccato a lui  risolvere il caso e  riacciuffare, insieme agli unici reparti armati specializzati Vikings della polizia islandese, i due marinai groelandesi, rei di aver ucciso la ragazza a causa di una notte brava di alcol e baldoria. Erano intervenuti prima che i due potessero salpare per altri porti con il loro peschereccio.

Magnús aveva raggiunto l'apoteosi della sua carriera. Tutta Reykjavik lo osannava come una sorta di giustiziere divino. Peccato che il suo ultimo successo gli fosse costato il matrimonio. A quel punto aveva deciso di andarsene e il sovrintendente Erik Axelsson gli aveva spalancato un'unica porta: quella di Akureyri.

"Ci servi qui, Thorsson gli aveva detto al telefono. "Siamo a nord, quindi più isolati, ma lo schifo prima o poi arriverà anche ad Akureyri. E vogliamo essere preparati."

«Sveglia, collega! Devi svoltare a destra!»

Il suono della voce di Ari distrasse Magnús dal suo sciame di pensieri. Azionò le frecce e parcheggiò nella zona riservata alle volanti. L'edificio era molto più spoglio e minimalista rispetto a quello di Reykjavik: aveva soltanto tre piani, e la facciata dipinta di blu sembrava quasi incastonarsi fra i pilastri bianchi esterni e le grandi finestre.

Magnús spense la sigaretta, scese dall'auto e seguì rapidamente Ari attraverso le porte scorrevoli dell'ingresso; fu allora che si ricordò di qualcosa.

«Ari, scusa... ma cosa dicevi prima, a proposito di Dofri?» chiese.

Ari gli rivolse un sorriso sgembo, prima di prendere la parola.

«Ero all' Ölstofa ieri... con Sandra Thorkelldóttir, non so se hai presente, la bomba strafiga che ho rimorchiato al Record due settimane fa... »

Magnús alzò gli occhi al cielo e sbuffò. 
«No, non ce l'ho presente, Ari. Ne cambi quattro al giorno, come potrei saperlo? Vai avanti...»

Ari apparve piuttosto compiaciuto dell'osservazione di Magnús: si passò una mano fra i capelli, in un atto di fulminea vanità, e proseguì.

«Beh, insomma, ero seduto con Sandra a prendere una birra, quando a un certo punto indovina chi salta fuori? Dofri, con Árveig.»

Magnús spalancò la bocca per la sorpresa.

«Il sostituto procuratore?» chiese e il sorriso di Ari si allargò.

«Sì, proprio lei» confermò.

Magnùs emise un ghigno.

«Però» commentò, ironico. «Non credevo che Árveig fosse capace di farsi imbambolare da Dofri.»

Ari annuì alla sua affermazione, poi si fermò al distributore automatico, inserì alcune monete e digitò la combinazione di tasti per regolare la quantità di zucchero.

«Ci sarà anche lei questa mattina. A sentire il sovrintendente Axelsson, ci sono elementi più che sufficienti per riaprire le indagini.»

Ari estrasse i due bicchieri dal distributore e ne porse uno a Magnús, che lo ringraziò.

****

L'ufficio riunioni di Axelsson era poco più grande di un bugigattolo, ma offriva una vista spettacolare sulle variopinte e rade case circostanti, adornate quasi tutte da porte e infissi bianchi.

Árelía, Magnús, Ari, Dofri e il sovrintendente Axelsson con Árveig erano tutti stipati alla meno peggio, seduti sparsi fra il mobilio in ciliegio e il piccolo tavolo. Magnús cominciò ad avvertire la consueta dispnea che faceva da spia ai suoi attacchi claustrofobici.

«Magnús» lo gelò Axelsson. «La prossima volta, vedi di arrivare puntuale. Vi stavamo aspettando già da dieci minuti.» 

Magnús maledì mentalmente Ari, ma si contenne alla vista del sorriso viscido che si stava dipingendo sul volto di Dofri.

«Certo, Erik» rispose e, per sua fortuna, Axelsson parve rilassarsi.

«Bene così...Árelía, facci un riassunto» disse.

La donna trasalì visibilmente: poteva avere al massimo l'età di Ari, attorno ai trenta, e non le piaceva affatto trovarsi al centro dell'attenzione, considerando la sua natura piuttosto riservata. Magnús capiva il suo disagio: come lui, si era trasferita da poco. Poi prese coraggio, si schiarì la voce e cominciò:

«Daníella Johannsdóttir, ventitré anni, studentessa di economia all'università di Akureyri. Si è buttata dalle scogliere di Grímsey esattamente dieci anni fa, nel luglio 2007.»

Magnús ascoltava con attenzione. Ari, invece, guardava con insolita intensità il volto di Árelía.

«Siamo stati chiamati dall'attuale inquilina del vecchio appartamento dei Johannsson, Katrín Agnardóttir. Stava facendo rimodernare il parquet e ha trovato questi sotto gli assi della vecchia stanza di Daníella.»

Árelía gettò sul tavolo alcuni fascicoli, ancora imbustati. Sia Dofri, sia Magnús si sporsero all'istante per prenderli. Ari, suo malgrado, non riuscì a trattenere un sorriso e Dofri cedette di malumore il materiale a Magnús.

Árveig, da parte sua, osservò in silenzio tutta la scena e Axelsson fece cenno ad Árelía di continuare.

«La scientifica ha analizzato il materiale: ci sono due serie di impronte. Una è quella di Daníella, l'altra non è stata identificata, non è nei nostri database.»

Magnús stava analizzando il materiale: si trattava di almeno una trentina di foto, ma molte ritraevano lo stesso soggetto: Daníella che abbracciava una ragazzina, proprio sulle scogliere di Grímsey. Il resto delle foto aveva una prospettiva strana: era come se Dan. ella fosse stata fotografata a sua insaputa mentre fissava le vetrine dei negozi.

«E questa, chi è?» chiese Magnús, indicando la giovane sconosciuta.

«È la sorella di Daníella, Ingileif. Attualmente vive in Italia, ma è stata avvertita dalla madre. Rientrerà ad Akureyri fra tre, massimo quattro giorni.»

Magnús passò le foto ad Árveig e Doffri si precipitò a osservarle insieme a lei. Árelía deglutì: aveva la gola secca.

«C'è dell'altro» disse. «Non abbiamo voluto aprirla, ma se la destinataria non torna in fretta...beh, saremo costretti a farlo.»

Árelía estrasse dai fascicoli una lettera, anch'essa imbustata. Stavolta Dofri fu più rapido: allungò la mano e prese il piccolo plico marrone avvolto dalla plastica.

«È indirizzata alla sorella» mormorò e Árelía annuì.

«Bene» commentò il sovrintendente Axelsson. «Questo è quanto. Resta da decidere chi si farà carico di tutta  questa bella storia.»

Nella stanza calò un silenzio tombale; la tensione si irradiava fra Magnús e Dofri con la stessa intensità dei fili della corrente ad alto voltaggio.

«Dofri» iniziò Axelsson, e l'ispettore gonfiò il petto per orgoglio.

«Ricontatta i genitori delle ragazze e fatti dire di preciso quando questa Ingileif tornerà. Ari, Árelía, parlate con Katrín. Voglio sapere chi era Daníella e anche che tipo è la sorella... quanto a te, Magnús» Erik parve esitare un attimo guardando Dofri, poi proseguì. «Studia le foto e la lettera. Árveig ti fornirà tutto il materiale relativo a dieci anni fa. Poi vai da Ingileif, consegnale la lettera, fai una chiacchierata con lei e dimmi che ne pensi. Il caso è affidato a te.La riunione è finita, ci aggiorneremo fra quattro giorni.»

Dofri poggiò con rabbia la lettera sul tavolo e uscì fuori prima degli altri, verde d'invidia.

Magnús, rimasto solo, si sedette sulla sedia di Axelsson e iniziò a studiare le immagini.

Aveva vinto, il caso era suo. Però il senso d'ansia, la fitta che trafiggeva il suo fianco ogni volta che il suo malsano istinto di competizione si palesava, non era ancora passata.

Tolse le immagini dall'involucro e andò alla finestra. La pioggia scoloriva e ingrigiva il paesaggio con la stessa intensità con cui spegneva il suo ardore. Fissò lo sguardo sui visi sorridenti delle due ragazze. Chissà se imparerò mai a non scottarmi, pensò.


NOTA D'AUTORE.

Ciao a tutti, ragazzi! Arrivati a questo punto, suppongo che molti di voi potrebbero avere problemi a gestire i nomi e i cognomi un po' ostici, per cui ho pensato di rendervi un po' più chiaro il sistema onomastico islandese con questa nota. In Islanda non esistono cognomi, ma patronimici: ovvero, ciascun soggetto viene a essere riconosciuto come figlio di un altro.

Per esempio:

"Daníella, figlia di Johanns" diventa: "Daníella Johannsdóttir".

"Magnús, figlio di Thor" diventa "Magnús Thorsson".

Un' altra cosa che tengo a precisare, in vista di altri capitoli futuri, è che in Islanda non esistono titoli come "signore" o "capo". Questo vale anche per le cariche pubbliche più importanti, dove si utilizza comunque  il nome proprio. Questo vi spiega come mai Magnús si rivolge al suo capo chiamandolo Erik.

Detto questo, spero che non ci siano difficoltà ulteriori e vi ringrazio se siete arrivati fin qui!

A presto,

Mary.


Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3724753