Michelle

di Midnight Lies
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1 ***
Capitolo 3: *** 2 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***



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Prologo.




 



Ho poco tempo.

Sto per dimenticare tutto. Ogni singola cosa.

Non me lo posso permettere.

Ho deciso di scrivere tutto ciò che è successo, non lascerò che vada perso nel nulla, nell'oblio. La sola idea mi stringe la gola.

Voglio che tu sappia che questo non è un racconto.

Sarà forse assurdo, inverosimile, inspiegabile, ma è reale.

E non è solo un modo per rendere una storia finta più intrigante. Ma un disperato tentativo di convincere me stessa, quando avrò dimenticato tutto, di star raccontando la verità.

Quando il mio tempo sarà scaduto, non potrò più tenere questo diario con me: non mi è permesso possedere qualunque cosa possa ricordarmi l'accaduto. Perciò, lo passerò in segreto a qualcuno di cui mi fido.

Lei lo metterà in bella vista, dove tutti potranno leggerlo: più persone lo vedranno, più a lungo vivranno questi ricordi.

Chiunque lo leggerà, sarà testimone e custode di un segreto che ogni essere umano è sempre stato costretto a dimenticare.

Questo è il mio diario.

Ti sto invitando a leggerlo.

 
 

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Capitolo 2
*** 1 ***




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1.


 
 

Aprii la porta, entrando in casa con un sospiro esasperato, dopo una mattinata soffocante.

Nella cartella appesa ad una spalla, potevo sentire tutto il peso di piombo di quell'insufficienza, della ramanzina della mia insegnante di matematica e di quella che presto mi avrebbe dedicato anche mia madre.

Potevo già immaginarla gridare a squarciagola, in modo che anche i quattro venti potessero udire e spargere il suo verbo. Ore di studio inutili, esercizi svolti senza veri risultati, ottanta euro di ripetizioni buttati nel cesso, tempo di vita sprecato.

Non ho mai capito perché tutta quella gente dovesse farmelo pesare in questo modo. Di certo non sono io a decidere di andare male in matematica, e la faccenda fa già abbastanza schifo senza che rigirino il coltello nella piaga. Ma vaglielo a spiegare.

Nuvola, la mia bellissima cagnolina, venne a salutarmi.

Arrivai in camera mia, in quella casa vuota, e avevo tutta l'intenzione di godermi quest'effimera solitudine prima che si ripopolasse di voci che parlavano a macchinetta di cose inutili, ripetendo parole che potevo ormai dire di conoscerne a memoria ogni virgola e punto.

Buttato a terra quello zaino di mattoni, accesi lo stereo e lo misi almassimo, fregandomene bellamente del parere dei vicini riguardo ai miei gusti "satanici" in fatto di musica. Lanciai le scarpe in direzioni opposte, verso zone sconosciute ed inesplorate della stanza. Le avevo già perse prima ancora che toccassero il pavimento.

Mi stravaccai di pancia sul letto, esausta dallo schifo di mattinata e dal pomeriggio poco allegro che l'oroscopo sembrava starmi silenziosamente prevedendo. Anzi, "silenziosamente" una sega di niente, viste tutte le grida che già mi ero presa.

Non sono sicura di quanto tempo io abbia passato in quella posizione. Non troppo, in ogni caso.

La musica si fermò. "Oddio..." Sospirai rantolando, quasi come se l'improvviso fermarsi di una delle canzoni che preferivo mi avesse diffuso nel sangue un veleno che uccise, in ogni singola cellula del mio corpo, la voglia di alzarmi dal letto.

Con uno sforzo immane, per il quale avrei dovuto meritarmi un riconoscimento, riuscii a mettermi a sedere.

Sobbalzai, spaventata, sentendomi un'idiota totale. Il che si sostituì presto a scocciatura.

«Tu chi sei, scusa?» domandai, irritata.

La ragazza, o "l'intrusa", se vogliamo, sembrava di qualche anno più grande di me. Si poteva dire che suo abbigliamento, completamente nero, lasciava molto all'immaginazione, ma considerando quanto fosse attillato ne lasciava al contempo molto poco. Le calzature erano stivali borchiati con una vertiginosa zeppa. I capelli erano scuri e ricci, tanto lunghi da superare abbondantemente metà coscia. Forse da lisci si sarebbero quasi avvicinati alla caviglia.

Gli occhi nocciola erano pesantemente truccati. L'unica nota di colore, in tutto ciò, era il rosso acceso del suo rossetto che faceva risaltare i denti bianchi e luminosi.

Si guardava attorno quasi con disgusto. Doveva essere entrata poco prima, resa praticamente invisibile e inudibile dal volume della musica.

Chi era? Una sconosciuta cugina di ottantaquattresimo grado, e a quanto pare molto invadente, venuta dall'altra parte dell'Universo? In tal caso, doveva essere tornata anche mia madre, portando con sé sgradevoli ospiti a sorpresa. "Sgradevoli", almeno, dal mio perfettamente comprensibile punto di vista, in questo caso.

«La tua Fata Madrina, tesoro» rispose, con altrettanto ribrezzo, degnandomi finalmente d'uno sguardo.

«Scusami?» volli accertarmi, con un acido retrogusto della voce.

«Ti prego, non farmelo ripetere.»

«No, ferma un attimo» dissi, sollevandomi dal letto. «prima di tutto, chi ti ha detto che puoi entrare, scusa? E cosa ti dà il diritto di toccare la mia roba, come ti permetti?! Al massimo lo stereo lo spegni a tua sorella, hai capito?» Una piccola parte di me, rimase basita dalla mia stessa reazione.

Sollevò un sopracciglio. «Non l'ho spento.»

«Giustamente, si è spento da solo.»

«Senti, è un concetto complicato, non te lo sto a spiegare. Te lo dirò quando avrai voglia di ascoltare» disse, avvicinandosi allo scaffale. I pesanti tacchi risuonavano ad ogni passo.

Pensai a qualcosa di intelligente da dire. Non trovai nulla. «Vattene» sibilai spalancando la porta.

Solitamente non ero così scontrosa, ma quella era una palese violazione di privacy e domicilio. E della mia camera.

«Se dovessi esprimere un desiderio...» mormorò, ignorando totalmente ciò che avevo appena detto. Sfiorò con medio ed anulare i volumetti manga ordinatamente riposti sulla mensola della libreria. Prima che me ne rendessi conto, ne stava già sfogliando uno, senza nemmeno guardarlo. Guardava me. E sorrideva.

«Sarebbe quello di vederti mettere giù la mia roba e uscire dalla mia fottuta camera» sbottai, dirigendomi verso di lei, con tutta l'intenzione di cacciarla via con la forza. Il modo in cui si era posta non mi era piaciuto fin da subito, con tutta quella sfacciataggine. Oltretutto, c'erano cose riguardo alle quali ero terribilmente possessiva. Quel volumetto di Death Note in particolare, era una di quelle.

«Scusa, tesoro, ma quando cadiamo tutto diventa confuso. L'unica cosa a cui si pensa è il fatto di star cadendo, appunto, dimenticando per un attimo ciò che si ha attorno. Il che mi semplifica il lavoro.»

Non avevo capito metà di che cosa avrebbe mai potuto rappresentarmi quella frase apparentemente campata per aria, perciò la liquidai con un freddo "non me ne frega niente".

Prima ancora che potessi toccarla, fu lei a farlo, scaraventandomi a terra. Le sue leggere risa di scherno mi giunsero alle orecchie.

Rantolai leggermente, mettendomi a sedere. 

"Ok, wow..." pensai, guardandomi attorno. Quella poteva essere tutto fuorché la mia camera. Infatti ero in una cucina professionale, ma ciò che mi turbò parecchio era che non era casa mia. Ma nemmeno lontanamente. Mormorai un'imprecazione tra me e me, domandando a tutti e nessuno cosa diavolo fosse successo.

«È successo, genio, che sei talmente agile da riuscire ad inciampare nel niente» rispose acidamente divertita una ragazza poco lontano da me. Nella sua voce riconobbi la lieve risata di poco prima, che avevo pensato fosse invece appartenuta alla ragazza dagli abiti attillati. Mi ero sbagliata.

La guardai. Portava i capelli lisci tagliati a caschetto più corti dietro la nuca, biondo platino e con le punte lilla dalle quali facevano capolino due larghi orecchini ad anello, un viso pallido centrato da un naso all'insù, occhi nocciola chiaro delineati dall'eyeliner e labbra carnose colorate da un particolare rossetto viola opaco. Era alta e slanciata, gambe lunghe e vertiginose.

Scosse la testa, allontanandosi con un angolo della bocca alzato.

Ero troppo confusa per rispondere. Ma quanta antipatia.

Comparve un ragazzo dai capelli neri e spettinati, pulendosi le mani sul grembiule nero che gli cingeva la vita. Mi tese una calda mano, leggermente umida per non essere stata ben asciugata. «Ma che ti è successo?» rise.

"A saperlo te lo direi". L'afferrai ringraziando, per poi alzarmi. «Sono stata spinta» mormorai confusa, cercando di capire io stessa cosa fosse successo. Com'era possibile? Dov'ero?

«Rem, l'hai spinta?»

"Rem?"

«Ma non è vero, è caduta da sola!»

Notai che anche lei portava lo stesso grembiule nero, su cui era posto in bella vista, sulla larga tasca centrale, un logo:

Chocolate's Art

Cioccolateria

«Senti...» gli mormorai quando la ragazza alzò gli occhi al cielo e oltrepassò una porta schermata da una tendina in perline di legno. «Ti sembrerà una domanda stupida, ma...» inspirai ridacchiando nervosa, rassegnandomi all'imminente figura da idiota. «Non ho la minima idea di dove sia...»

«"Di dove sia" che cosa?» domandò confuso, complicando le cose.

«Di dove io sia...»

«Chi?»

«Io.»

«No, nel senso, chi è che non sa dove sei?»

«Io...»

«Cioè, tu non sai dove sei?»

«No.»

«Allora cosa?»

«Cioè... "No" nel senso "no, non so dove sono".»

«Ah...» Seguì un breve silenzio, durante il quale il suo viso divenne il riflesso della preoccupazione. «Ma seriamente?»

«Eh...»

«Hai battuto la testa?» chiese, alludendo ad una perdita di memoria.

Feci per rispondere di no, ma ci pensai un momento. Era una teoria abbastanza inquietante, ma riflettendoci, forse era più credibile dell'improponibile teoria del teletrasporto, e più rassicurante dell'idea di essere impazzita.

Però, per logica, la testa avrebbe dovuto farmi male.

«Non lo so, non credo...»

Poggiò una mano dietro la mia nuca, tenendomi il mento con l'altra, per poi farmi voltare prima a destra e poi a sinistra controllando che non mi sanguinassero le orecchie e sperando che non avessi un grave trauma cranico.

Le sue mani erano ancora calde e profumavano nitidamente di sapone con aromi al cacao. Mi sentii leggermente a disagio.

«Ti fa male quando muovi il collo?»

«No».

Sembrava quasi confuso. Forse il collo avrebbe dovuto farmene, invece.

«Sai come mi chiamo?»

Non l'avevo mai visto in vita mia.

Scossi lievemente la testa, alquanto preoccupata.

«Wow... Seriamente?» ripeté.

Gli bastò il mio sguardo.

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Capitolo 3
*** 2 ***




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2.






Nicholas Oak, il ragazzo spettinato, mi aveva consigliato di sedermi per un attimo e riprendermi, eventualmente.

Non appena il giovane si rimise al lavoro, offrendosi gentilmente di prepararmi una cioccolata calda, presi in mano il cellulare. Dovevo parlare con qualcuno. Qualcuno che conoscessi, preferibilmente.

Nick mi aveva detto che eravamo a Los Angeles. E gli risi in faccia, fu più forte di me, perché era palesemente impossibile. Come potevo io, Michelle, normalissima ragazza che fino a cinque minuti prima era ad ascoltare musica in camera sua, in un paesino fottuto dai lupi in provincia di Lecco, in Italia, essere ora a Los Angeles, nella costa più lontana a ovest degli Stati Uniti, con indosso un grembiule nero?

Avevo controllato. E a meno che non mi si fosse drogato il GPS, sembravo davvero essere a Los Angeles. Pensai fosse uno scherzo, era l'unico pensiero razionale che riuscivo a formulare.

Non capivo come avessero fatto, ma me lo avrebbero di certo spiegato dopo avermi mostrato la posizione delle telecamere. Per quanto riguardava il GPS, pensai non fosse così difficile farlo confondere.
Oltretutto, perché a Los Angeles stavamo tutti parlando italiano? A quella domanda, lui mi guardò, rispondendo che abbiamo sempre parlato inglese e che lui non conosceva una parola d'italiano. A stento aveva superato gli esami di spagnolo, a scuola, e malgrado l'immane sforzo non ricordava nemmeno più nulla, dalla consegna del test. Mi disse che lo stavo davvero preoccupando.

Non replicai, ma quel discorso non stava né in cielo né in terra. Come fai a parlare in inglese così fluentemente senza nemmeno accorgertene, con la netta certezza di star parlando italiano? Ero confusa, ma non stupida. Avrebbero dovuto organizzarlo meglio, come scherzo. Anche se c'era una chilometrica lista di cose che non riuscivo ancora a spiegarmi.

Cercai Rebecca tra i contatti su Whatsapp ma notai subito la mancanza di tacche.

«Scusa...» esordii. Lui si girò, sorridendomi con disponibilità. «Qui non prende, internet?»

Aggrottò la fronte: di certo avrebbe dovuto funzionare. Poi alzò le sopracciglia, come avesse ricordato qualcosa d'improvviso.

«In cucina no. Devi andare in sala, oppure fuori» disse, porgendomi la tazza contenente del denso cioccolato, scuro, cremoso e fumante. Inspirai a fondo, riempiendo i polmoni del suo profumo, dolce e caldo.

«Prova» propose dopo che lo ringraziai, indicando con un gesto rilassato dell'indice la porta aperta, schermata dalla tendina in perline.

Mossi qualche passo oltre la porta. Solo il bancone mi separava dalla sala, ma già comparse la prima tacca.

«Bene, grazie» disse sbrigativa la ragazza dai capelli platino e lilla, prendendomi la tazza dalla mano e poggiandola su un piattino, poggiato a sua volta su un vassoio rotondo.

La fissai, interdetta.

Poggiò con fare artistico due marshmallows sul piattino e prendendomi di mano anche il telefono, infilandolo poi nella grande tasca del mio grembiule, mi porse il vassoio, che presi solo per istinto e non per cortesia.

«Tavolo cinque.»

Sollevai un sopracciglio.

Lei roteò gli occhi al cielo «Quello vicino alla vetrata all'angolo, Smemorina.»

«Io non lavoro qui.» mi decisi a farle notare, seccata, dal momento che parve non aver colto il dettaglio. Oltretutto, quella era la mia cioccolata, che Nick aveva preparato per me.

«Sì, è esattamente quello che dirai se non ti sbrighi a servire il tizio» mi liquidò, portando le mani alla mia schiena e proiettandomi verso la sala.

Qualcuno dei clienti si girò a guardarmi dopo la mia entrata improvvisa, per poi tornare a dare attenzioni alla propria ordinazione o alla persona con cui stavano facendo allegra riserva di colesterolo.

La cioccolateria era terribilmente familiare. La sensazione era quella di esserci stata, ma di non averci mai messo piede, al contempo. Forse in sogno, magari ne avevo vista una simile e il mio cervello stava associando le due immagini, trovando delle inquietanti somiglianze.

I tavoli non erano moltissimi, e solo quattro erano occupati. Una ragazza che leggeva un voluminoso romanzo sorseggiando una cioccolata bianca, due che parevano essere fratello e sorella, un bambino paffuto dai riccioli arancioni e grandi occhiali da vista che gli coprivano metà del volto, accompagnato da una ragazza dai lunghi e morbidi ricci rossi, troppo giovane per essere sua madre. Ed infine, nell'angolo accanto alla vetrina, un giovane dai capelli biondi, lunghi fino a coprirgli il collo, una giacca in pelle color catrame, chiusa a fasciargli torace e busto. Anche i pantaloni, che gli avvolgevano le gambe dalle caviglie incrociate in una posa rilassata, condividevano lo stesso colore della giacca.

Quando poggiai il piattino con la tazza, assieme ad una brioche al cioccolato, sollevò lievemente il mento che fino a quel momento era stato poggiato sul pugno chiuso, il gomito sul tavolo. «Grazie» disse con cortesia, senza guardarmi.

Quella voce, così bella e familiare, mi paralizzò. Avevo già sorriso, associando il suo aspetto a quello del meraviglioso personaggio, ma ogni dettaglio sembrava essere una piccola conferma all'impossibile.

Non mi aspettavo di avere Mello di Death Note di fronte, ovviamente, ma il fatto che gli somigliasse così tanto mi stava trasmettendo un'improvvisa aura di serenità.

Incantata, non mi ero mossa dal posto.

Non me ne accorsi.

Lui sì.

Alzò lo sguardo, rivelando i suoi occhi azzurri e i suoi lineamenti. Non pensavo che una persona reale potesse somigliare così tanto ad un personaggio manga a due misere dimensioni, ma quel ragazzo era terribilmente identico.

Ma la prima cosa che notai, quando mi guardò, fu la mancanza della cicatrice, la bruciatura che occupava metà del suo viso e che scendeva lungo il collo fino alle costole.

«Ehm...» balbettai, in cerca di qualcosa da dire. Non potevamo fissarci per l'eternità.

Lui frugò nella tasca della giacca, tirando fuori qualche spicciolo.

Davvero pensava che lo stessi fissando insistentemente e, probabilmente, con un alone maniacale attorno agli occhi, solo perché volevo la mancia?

«No, no, scusami...» biascicai, rifiutando le monete. «È che mi ricordi qualcuno...»

«Davvero?» chiese senza stupore, ma con un lieve interesse.

«Già, assomigli un sacco a... Ehm... Un...» "...super meraviglioso personaggio di Death Note di cui sono praticamente innamorata, che cerco tra i volti dei passanti e che sogno la notte." «...tizio.»

A quel punto, però, mi affiorarono alla mente altre domande. Lo scherzo, inizialmente irritante, che stava decisamente migliorando con la presenza del sosia di Mello, doveva essere stato organizzato da qualcuno che mi conosceva bene, proprio per la presenza di quest'ultimo. Rebecca? Stefania? I nomi erano molti - ma nemmeno troppi - eppure un pensiero mi suggerì quello di Monya, ma dopo mesi, mesi e mesi senza esserci nemmeno parlate, mi pareva particolarmente improbabile. Solo che la situazione era familiare: io presunta cameriera in una cioccolareria, lui che, in veste di cliente, sedeva affianco alla vetrata, guardando fuori. La cioccolata calda, la brioche fumante, i due marshmallow. Era l'inizio della trama del nostro gioco di ruolo.
Capii che la sensazione di deja-vu riguardo la cioccolateria era dovuta al fatto che quella era la stessa ambientazione della role fatta con lei, durante la quale muoveva lo stesso Mello. Il che era inquietante, perché non avevamo mai descritto il luogo con precisione, ma era esattamente come lo immaginavo io. Che fosse uno scherzo o no, non poteva certo leggermi nel pensiero.

«Chi, se posso?» mi domandò il ragazzo, portandosi la tazza alle labbra e riportando me, invece, al "qui ed ora".

Mi ero quasi dimenticata di cosa gli avessi detto prima.

«Ehm...» "Preparati all'ennesima figuraccia" mi suggerì una vicina irritante all'orecchio. «Il personaggio di una storia. Un manga.» continuava a fissarmi, chiedendo silenziosamente dettagli. O forse ero io che volevo dare dettagli che al contempo non volevo dare, e mi stavo solo immaginando quella silenziosa richiesta. «E... anche anime. Uno dei personaggi più importanti, in effetti, senza il quale non sarebbe stata possibile la cat... Cioè, il trionfo di quelli dalla sua "stessa" parte, più o meno» spiegai, cercando di evitare lo spoiler della cattura di Kira. 
Per la prima volta, alzò lievemente l'angolo della bocca.

«Hai presente Death Note?» continuai.

Lo abbassò immediatamente.

Lanciò un veloce sguardo ai presenti in sala, per poi tornare a guardarmi.

«In che senso?»

«È un manga e anime» ripetei, notando il suo comportamento. «Un racconto, una storia a fumetti giapponesi» spiegai ancora.

Prese un'altra densa sorsata di cioccolata, che andava intiepidendosi. Smise di guardarmi. La voce era lievemente più morbida, più bassa. «E cosa sai di questo... manga?»

Aveva impostato la domanda in modo strano. La gente avrebbe chiesto di cosa parlava, non cosa ne sapessi io.

«Allora, in sostanza c'è uno Shinigami, un Dio della Morte, che, annoiato, butta nel mondo degli umani un Death Note, un quaderno sul quale se si scrive il nome di una persona di cui si conosce il volto, quella muore, principalmente per attacco cardiaco» riassunsi. «Il primo umano che lo tocca ne diventa il nuovo proprietario. Infatti un ragazzo che spera di rendere il mondo un posto migliore e senza criminali con...»

«Siediti» mi interruppe.

«Eh?»

«Siediti.»

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