Aprii la porta, entrando in casa con un sospiro esasperato, dopo una mattinata soffocante.
Nella cartella appesa ad una spalla, potevo sentire tutto il peso di piombo di quell'insufficienza, della ramanzina della mia insegnante di matematica e di quella che presto mi avrebbe dedicato anche mia madre.
Potevo già immaginarla gridare a squarciagola, in modo che anche i quattro venti potessero udire e spargere il suo verbo. Ore di studio inutili, esercizi svolti senza veri risultati, ottanta euro di ripetizioni buttati nel cesso, tempo di vita sprecato.
Non ho mai capito perché tutta quella gente dovesse farmelo pesare in questo modo. Di certo non sono io a decidere di andare male in matematica, e la faccenda fa già abbastanza schifo senza che rigirino il coltello nella piaga. Ma vaglielo a spiegare.
Nuvola, la mia bellissima cagnolina, venne a salutarmi.
Arrivai in camera mia, in quella casa vuota, e avevo tutta l'intenzione di godermi quest'effimera solitudine prima che si ripopolasse di voci che parlavano a macchinetta di cose inutili, ripetendo parole che potevo ormai dire di conoscerne a memoria ogni virgola e punto.
Buttato a terra quello zaino di mattoni, accesi lo stereo e lo misi almassimo, fregandomene bellamente del parere dei vicini riguardo ai miei gusti "satanici" in fatto di musica. Lanciai le scarpe in direzioni opposte, verso zone sconosciute ed inesplorate della stanza. Le avevo già perse prima ancora che toccassero il pavimento.
Mi stravaccai di pancia sul letto, esausta dallo schifo di mattinata e dal pomeriggio poco allegro che l'oroscopo sembrava starmi silenziosamente prevedendo. Anzi, "silenziosamente" una sega di niente, viste tutte le grida che già mi ero presa.
Non sono sicura di quanto tempo io abbia passato in quella posizione. Non troppo, in ogni caso.
La musica si fermò. "Oddio..." Sospirai rantolando, quasi come se l'improvviso fermarsi di una delle canzoni che preferivo mi avesse diffuso nel sangue un veleno che uccise, in ogni singola cellula del mio corpo, la voglia di alzarmi dal letto.
Con uno sforzo immane, per il quale avrei dovuto meritarmi un riconoscimento, riuscii a mettermi a sedere.
Sobbalzai, spaventata, sentendomi un'idiota totale. Il che si sostituì presto a scocciatura.
«Tu chi sei, scusa?» domandai, irritata.
La ragazza, o "l'intrusa", se vogliamo, sembrava di qualche anno più grande di me. Si poteva dire che suo abbigliamento, completamente nero, lasciava molto all'immaginazione, ma considerando quanto fosse attillato ne lasciava al contempo molto poco. Le calzature erano stivali borchiati con una vertiginosa zeppa. I capelli erano scuri e ricci, tanto lunghi da superare abbondantemente metà coscia. Forse da lisci si sarebbero quasi avvicinati alla caviglia.
Gli occhi nocciola erano pesantemente truccati. L'unica nota di colore, in tutto ciò, era il rosso acceso del suo rossetto che faceva risaltare i denti bianchi e luminosi.
Si guardava attorno quasi con disgusto. Doveva essere entrata poco prima, resa praticamente invisibile e inudibile dal volume della musica.
Chi era? Una sconosciuta cugina di ottantaquattresimo grado, e a quanto pare molto invadente, venuta dall'altra parte dell'Universo? In tal caso, doveva essere tornata anche mia madre, portando con sé sgradevoli ospiti a sorpresa. "Sgradevoli", almeno, dal mio perfettamente comprensibile punto di vista, in questo caso.
«La tua Fata Madrina, tesoro» rispose, con altrettanto ribrezzo, degnandomi finalmente d'uno sguardo.
«Scusami?» volli accertarmi, con un acido retrogusto della voce.
«Ti prego, non farmelo ripetere.»
«No, ferma un attimo» dissi, sollevandomi dal letto. «prima di tutto, chi ti ha detto che puoi entrare, scusa? E cosa ti dà il diritto di toccare la mia roba, come ti permetti?! Al massimo lo stereo lo spegni a tua sorella, hai capito?» Una piccola parte di me, rimase basita dalla mia stessa reazione.
Sollevò un sopracciglio. «Non l'ho spento.»
«Giustamente, si è spento da solo.»
«Senti, è un concetto complicato, non te lo sto a spiegare. Te lo dirò quando avrai voglia di ascoltare» disse, avvicinandosi allo scaffale. I pesanti tacchi risuonavano ad ogni passo.
Pensai a qualcosa di intelligente da dire. Non trovai nulla. «Vattene» sibilai spalancando la porta.
Solitamente non ero così scontrosa, ma quella era una palese violazione di privacy e domicilio. E della mia camera.
«Se dovessi esprimere un desiderio...» mormorò, ignorando totalmente ciò che avevo appena detto. Sfiorò con medio ed anulare i volumetti manga ordinatamente riposti sulla mensola della libreria. Prima che me ne rendessi conto, ne stava già sfogliando uno, senza nemmeno guardarlo. Guardava me. E sorrideva.
«Sarebbe quello di vederti mettere giù la mia roba e uscire dalla mia fottuta camera» sbottai, dirigendomi verso di lei, con tutta l'intenzione di cacciarla via con la forza. Il modo in cui si era posta non mi era piaciuto fin da subito, con tutta quella sfacciataggine. Oltretutto, c'erano cose riguardo alle quali ero terribilmente possessiva. Quel volumetto di Death Note in particolare, era una di quelle.
«Scusa, tesoro, ma quando cadiamo tutto diventa confuso. L'unica cosa a cui si pensa è il fatto di star cadendo, appunto, dimenticando per un attimo ciò che si ha attorno. Il che mi semplifica il lavoro.»
Non avevo capito metà di che cosa avrebbe mai potuto rappresentarmi quella frase apparentemente campata per aria, perciò la liquidai con un freddo "non me ne frega niente".
Prima ancora che potessi toccarla, fu lei a farlo, scaraventandomi a terra. Le sue leggere risa di scherno mi giunsero alle orecchie.
Rantolai leggermente, mettendomi a sedere.
"Ok, wow..." pensai, guardandomi attorno. Quella poteva essere tutto fuorché la mia camera. Infatti ero in una cucina professionale, ma ciò che mi turbò parecchio era che non era casa mia. Ma nemmeno lontanamente. Mormorai un'imprecazione tra me e me, domandando a tutti e nessuno cosa diavolo fosse successo.
«È successo, genio, che sei talmente agile da riuscire ad inciampare nel niente» rispose acidamente divertita una ragazza poco lontano da me. Nella sua voce riconobbi la lieve risata di poco prima, che avevo pensato fosse invece appartenuta alla ragazza dagli abiti attillati. Mi ero sbagliata.
La guardai. Portava i capelli lisci tagliati a caschetto più corti dietro la nuca, biondo platino e con le punte lilla dalle quali facevano capolino due larghi orecchini ad anello, un viso pallido centrato da un naso all'insù, occhi nocciola chiaro delineati dall'eyeliner e labbra carnose colorate da un particolare rossetto viola opaco. Era alta e slanciata, gambe lunghe e vertiginose.
Scosse la testa, allontanandosi con un angolo della bocca alzato.
Ero troppo confusa per rispondere. Ma quanta antipatia.
Comparve un ragazzo dai capelli neri e spettinati, pulendosi le mani sul grembiule nero che gli cingeva la vita. Mi tese una calda mano, leggermente umida per non essere stata ben asciugata. «Ma che ti è successo?» rise.
"A saperlo te lo direi". L'afferrai ringraziando, per poi alzarmi. «Sono stata spinta» mormorai confusa, cercando di capire io stessa cosa fosse successo. Com'era possibile? Dov'ero?
«Rem, l'hai spinta?»
"Rem?"
«Ma non è vero, è caduta da sola!»
Notai che anche lei portava lo stesso grembiule nero, su cui era posto in bella vista, sulla larga tasca centrale, un logo:
Chocolate's Art
Cioccolateria
«Senti...» gli mormorai quando la ragazza alzò gli occhi al cielo e oltrepassò una porta schermata da una tendina in perline di legno. «Ti sembrerà una domanda stupida, ma...» inspirai ridacchiando nervosa, rassegnandomi all'imminente figura da idiota. «Non ho la minima idea di dove sia...»
«"Di dove sia" che cosa?» domandò confuso, complicando le cose.
«Di dove io sia...»
«Chi?»
«Io.»
«No, nel senso, chi è che non sa dove sei?»
«Io...»
«Cioè, tu non sai dove sei?»
«No.»
«Allora cosa?»
«Cioè... "No" nel senso "no, non so dove sono".»
«Ah...» Seguì un breve silenzio, durante il quale il suo viso divenne il riflesso della preoccupazione. «Ma seriamente?»
«Eh...»
«Hai battuto la testa?» chiese, alludendo ad una perdita di memoria.
Feci per rispondere di no, ma ci pensai un momento. Era una teoria abbastanza inquietante, ma riflettendoci, forse era più credibile dell'improponibile teoria del teletrasporto, e più rassicurante dell'idea di essere impazzita.
Però, per logica, la testa avrebbe dovuto farmi male.
«Non lo so, non credo...»
Poggiò una mano dietro la mia nuca, tenendomi il mento con l'altra, per poi farmi voltare prima a destra e poi a sinistra controllando che non mi sanguinassero le orecchie e sperando che non avessi un grave trauma cranico.
Le sue mani erano ancora calde e profumavano nitidamente di sapone con aromi al cacao. Mi sentii leggermente a disagio.
«Ti fa male quando muovi il collo?»
«No».
Sembrava quasi confuso. Forse il collo avrebbe dovuto farmene, invece.
«Sai come mi chiamo?»
Non l'avevo mai visto in vita mia.
Scossi lievemente la testa, alquanto preoccupata.
«Wow... Seriamente?» ripeté.
Gli bastò il mio sguardo.