Frammenti di storie

di Herondale7
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lexanneau ***
Capitolo 2: *** Delina ***
Capitolo 3: *** Aileen ***
Capitolo 4: *** Jacopo ***
Capitolo 5: *** Satrax e Zaziel ***
Capitolo 6: *** River ***
Capitolo 8: *** Nimia ed Evelnora ***



Capitolo 1
*** Lexanneau ***


Lexanneau

Era fatta.
Lexanneu Jacklyn stava per ripartire la sua magia nel Vecchio Impero senza nemmeno saperlo. Peccato che allo stesso tempo tre anni prima fosse già in corso una ripartizione, quella dell’Impero stesso.
Da quel giorno tutto era cambiato. Questo continuo frantumarsi di pezzi della realtà non aveva fatto bene a nessuno, specie a lei che con quell’ultimo atto, nella speranza di perdere qualcosa che non voleva più, aveva sacrificato tutto quello che le era rimasto: il suo amore, la sua casa, il suo titolo, il suo regno.
Ciò di cui voleva tanto liberarsi era un potere semidivino che Kethani, la Dea del suo mondo, le aveva donato in un impeto di impulsività e curiosità. Infatti quest’ultima l’aveva osservata tutta la vita e si era interessata alla piccola principessa, dopo aver passato millenni senza che gli esseri umani le suscitassero altro se non malinconia, per poi dividere a metà con lei la magia che può adoperare una Dea.
Lexanneau era fuggita di tutta fretta dall’ultima casa naturale, costituita stavolta da una scomodissima grotta, che ancora una volta era stata scoperta dalle guardie che si ostinavano a cercarla. Era stata denunciata solo pochi giorni prima dal padre del piccolo che portava in grembo per stregoneria, e non c’era stato modo di dissuadere sua madre dal dare l’ordine di cacciarla. Le aveva detto che non voleva due mostri in casa sua, ossia lei e il nascituro.
Essendo incinta non sarebbe andata lontano. Le si erano pure rotte le acque da quasi un’ora, perciò a breve suo figlio, o figlia, sarebbe nato nei boschi di Qraco e lei sarebbe sicuramente morta perché non ci sarebbe stata nessuna levatrice ad assisterla. Non le restava che pregare la Dea che l’aveva aiutata a modo suo fino a quel momento, e chiederle ancora una volta di proteggere il nascituro.
Kethani in verità aveva commesso un grave errore di valutazione nel pensare che una ragazza così fragile sarebbe riuscita a reggere quella responsabilità da sola. I poteri divini dovrebbero restare tali infatti, divini. L’universo stesso era subordinato a questa legge.
Durante il parto la giovane perse la maggior parte dei poteri che aveva ricevuto in dono, la sua magia si frantumò in sette pezzi e solo uno rimase a lei e al nuovo nato; poi, proprio come desiderava, gli altri sei si dispersero nell’ormai impropriamente detto Impero. Suo figlio era un bellissimo maschietto con una peluria castano scuro in testa, lei non poté far a meno di pensare che a suo padre sarebbe piaciuto vederlo così paffuto e sano, lo avrebbe amato solo per esser venuto al mondo.
Eppure lui non era lì, per colpa della magia che lo aveva spinto a condannare anche lei, la sua piccola protetta e amante. Quella dannata responsabilità non l’aveva nemmeno chiesta e le aveva procurato solo veri e propri incubi tramutati in realtà. Ecco ciò che aveva causato Kethani.
Distrutta, Lexanneau si accasciò a un grande albero secolare e iniziò a respirare più lentamente. Incredibilmente vide crescere dalle radici tanti prolungamenti che avvolsero il suo bambino creando una cesta di vimini. Poi successivamente si sentì venire meno tutte le forze. Capii che era giunto il momento di dirgli addio, per quanto lo amasse.
«Che qualcuno lo ritrovi! Oh Dea, solo tu mi sei rimasta in questo mondo di orrori e stragi, salva almeno lui nella culla di pietà che gli hai generato. Il mio bambino!» quella fu l’ultima volta che Lexanneu urlò. Se qualcuno l’avesse sentita, non ci sarebbe stata parola con la quale avrebbe potuto definire lo strazio di quello che sarebbe accaduto a breve.
Tutto divenne così freddo. La sua pelle si irrigidì, perse colore, i suoi capelli smisero di ondeggiare se non per causa del vento. La luce che le brillò negli occhi per ben venti anni sparì lentamente, come un ombra silenziosa che teme di essere notata da occhi indiscreti; poco dopo quelle perle azzurre furono coperte dalle palpebre. Si sentì solo un leggerissimo sospiro. Sarà quello che in modo riduttivo chiamano il respiro vitale, ma comunque venne via dal suo corpo levandosi verso l’alto. La natura si arrestò per un breve istante a compiangere la donna.
Il sole venne coperto a lutto da una nuvola scura.
Gli animali smisero di far sentire i loro versi, se non coloro che cantavano un canto triste.
Solo alla fine, il bambino pianse.
La Dea, che nulla fino a quel momento era riuscita a fare, pianse pure, esplose in lacrime liberatorie dall’alto del suo cielo di un blu sempiterno. Non voleva ancora raccogliere quell’anima pura che aveva involontariamente appesantito con il suo dono. Anche una Dea poteva sbagliare?
Non voleva ammettere che fosse possibile, ma i giochi erano fatti e presto o tardi qualcuno avrebbe visto il corpo della sua eletta, lo avrebbe portato a palazzo e lo avrebbe bruciato così come si faceva con i veggenti di eventi orribili.
Non poté permetterlo.
Raccolse quel respiro emesso poco prima e lo spinse all’interno dell’albero, dove Lexanneu sembrava dormire poggiata con la schiena. In pochi secondi il corpo stesso della giovane venne tirato a forza dalla corteccia dentro il tronco come se quest’ultima la avvolgesse.
Lexanneu sarebbe vissuta ancora se un suo erede avesse toccato quell’albero, ecco cosa aveva decretato la Dea. I suoi capelli avrebbero perso il colore castano da quel momento, e si sarebbero ricolorati con delle sfumature di verde che, semmai fosse riuscita a risvegliarsi, non avrebbero fatto altro che ricordarle quanto dolore può sopportare.
Non era molto, ma non era nemmeno nulla.




Spazio autrice:  Bene, rieccomi qui. Sfortunatamente mi sa che mi sentirete a ogni OS qui sotto perchè, mannaggia a me, temo sempre di non rendere giustizia ai miei personaggi. Sappiate che Lexa è una delle mie pg più simili alla vera me, ecco perché quando l'ho creata mi sono sentita in dovere di darle, tramite Kethani, un po' del mio potere. In fondo è lei che ha creato i Magici, come me quando ho creato il Vecchio Impero... Sì, probabilmente sono pazza ma fa nulla, mi adorate anche così, non è vero?
Spero che la sua storia vi abbia fatto sentire un po' più speranzosi per il suo futuro, perché ovviamente la rivedrete ;)
Alla prossima,
Herondale <3

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Capitolo 2
*** Delina ***


Delina

Essere una schiava non aveva mai portato a una felicità che potesse essere definita duratura.
Provenire da una generazione o più di schiavi era addirittura peggio. La condizione peggiore di tutte, e Delina ne sapeva qualcosa. La famiglia che la crebbe non era molto facoltosa, ma grazie all’impresa mercantile era riuscita a guadagnarsi abbastanza da comprare una terza casa. Lei era rimasta nella seconda a lavorare per un cugino a quanto pareva.
Veniva trattata alla stregua di un oggetto e strumentalizzata per ogni cosa, appartenente a qualsiasi ambito della sua vita, che fosse il lavoro o la rabbia del padrone. L’anno prima le era stato comunicato che avrebbe portato in grembo suo figlio appena sarebbe stato possibile, poiché la moglie era arida e non ne poteva far nascere uno.
Ormai lei era una donna formata da diverse lune e non le importava nemmeno di quando ciò sarebbe stato scoperto, non sarebbe cambiato nulla per la sua condizione. Almeno non era utilizzata come schiava sessuale, e questo per una della sua categoria era davvero un miracolo. Ma quello che accade quella mattina fu totalmente spiazzante anche per lei, che nella vita aveva visto quasi di tutto.
Per tutto l’Impero si sentì un rombo fortissimo, la terra tremò per diversi secondi e poi tutti tacquero. Nello stesso istante Delina Blaires provò cosa volesse dire sentirsi ribollire il sangue nelle vene, avere un potere indefinito che la invadeva fino all’ultima unghia del piede. Era proprio inebriante.
Si trovava in cantina quando accadde, accanto a lei una sua simile si preoccupò e la avvolse in uno scialle quando la vide tremare, illudendosi che fosse per la paura del boato. Chissà quante volte glielo aveva ripetuto, a quella donna. Lei non provava più alcun genere di paura da tempo, eppure non voleva entrarle in testa.
Senza farlo volontariamente da lei partì un onda di qualcosa non meglio definito che sospinse via la sua aiutante e fece esplodere tutte le bottiglie di alcolici nella stanza. Fortunatamente la poveretta fu coperta con lo stesso scialle che aveva dato a Delina e non si fece nulla, mentre alla nascente Magica nobile non capitò nulla. Quello sarebbe presto diventato il titolo di coloro che avevano ricevuto la magia dalla semidea Lexanneau, principessa dell’Impero stesso.
Al contrario di quanto si possa pensare la giovane schiava non fu ferita né sporcata; i vetri sembravano schivarla o girarle intorno così come l’alcol che ne fuoriuscì, infatti la sua veste grigia rimase tale anche dopo il botto.
Chissà quanto si arrabbierà quel maniaco quando vedrà cosa ho fatto, ma di sicuro non mi vedrà più con questo straccio addosso, né con suo figlio in grembo.
Non sapeva cosa le era successo, né cosa era diventata, ma capiva benissimo che il suo corpo sembrava essere in un sovraccarico di energia, e questo non poteva che essere un bene per lei.
Con questi pensieri in mente si spogliò e salì al piano di sopra prendendo una camicia da notte bianca dalla moglie arida dell’uomo; la strappò affinché arrivasse poco sopra le ginocchia per far sì che potesse muoversi più agilmente, come desiderava. Aggiunse al suo nuovo “vestito” una cintura di seta nera che legò sotto il seno, poi si rimirò allo specchio.
L’ultima cosa che la divideva dall’essere una cittadina normale erano i suoi capelli, erano troppo corti, decise di lasciarli crescere da quel momento; erano di un biondo scuro che faceva un bel contrasto con i suoi occhi blu. Ma osservandosi più attentamente notò sulla sua pelle qualcosa che prima non c’era: una macchia nera all’altezza del cuore. Rappresentava un gatto ed era stilizzato e tutto nero, come se le avessero marchiato la pelle a fuoco; nonostante ciò attorno non c’erano segni di bruciature o cicatrici. Non le importò poi molto, anche se ammise a se stessa che il disegno non era affatto male.
Decise di andare via di lì, di sicuro i vicini avevano già sentito il botto della cantina e presto sarebbero andati a chiamare la padrona al mercato. Mise un piede fuori dalla casa, poi mosse un passo insicuro. Si guardò attorno e vide che qualche passante la guardava stranito, ma non si curava di lei per via dei suoi vestiti. Nessuno la riconobbe, in quanto era sempre chiusa in cantina, così iniziò ad allontanarsi a piedi e quando fu abbastanza lontana dal quartiere dove abitava prese a correre via di lì.
Dopo poco delle guardie iniziarono a inseguirla pensando che avesse rubato qualcosa. Lei si lasciò fermare per evitare malintesi e una volta perquisita si scusò per la scortesia dicendo che era di fretta per un appuntamento.
Già, uno molto importante con la libertà.
Pensò tra sé e sé.
Mentre correva notò che la sua vista e il suo udito erano migliorati molto; poteva sentire cosa si dicevano un cliente e un artigiano a cento metri di distanza in modo distinto, riusciva a vedere un brillante della collana di una nobile appena uscita dalla zona ricca della città, a grande distanza. Per non parlare della sua velocità o agilità nel saltare le scalinate.
Senza dubbio alcuno, Delina era rinata in quello scantinato.

 

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Capitolo 3
*** Aileen ***


Aileen

Ci aveva sempre pensato e ripensato, ma nella sua vita l’unico animale che l’avrebbe mai rappresentata non sarebbe stato di certo un diurno come l’orso della sua casata nobile, eh no. Lei era Aileen Phoen, ma l’unica cosa che l’avrebbe dovuta rendere superiore non riusciva proprio ad accettarla.
Si rivedeva in un volatile pronto ad aggirarsi durante la notte, librarsi laddove gli altri non avrebbero potuto osservarla chiaramente.
La giovane amava stare nelle parti più isolate del palazzo di Neca. I giardini, la biblioteca, la sala da ballo e i bagni lussuosi erano i migliori posti che aveva trovato in quegli anni della sua permanenza. Nonostante potesse girare per il castello quanto voleva, non amava stare in compagnia nemmeno per i pasti, semmai li saltava direttamente.
Era però consueta alzarsi durante la notte e scendere nelle cucine, che non si trovavano per nulla vicino alle sue stanze. Nella capitale le cucina delle cuoche erano a ben un chilometro di distanza dalle mura esterne, ma non le dispiaceva percorrere quel pezzo di strada a piedi durante il buio, perché in quel boschetto che attraversava quasi ogni sera incontrava il suo amato. Nessuno era al corrente di ciò.
Come avrebbero mai compreso il suo amore per l’intelletto di un uomo di basso rango? Molto probabilmente non lo avrebbero mai fatto. I suoi genitori erano esseri incapaci di amare, e la vita per loro fortuna li aveva accoppiati insieme. Il loro “amore” era nato per via della loro ricchezza, non per l’essere rimasti affascinati l’uno dell’altro.
Il suo primo incontro con lui però fu solo un anno prima della vicenda che leggerete, ma il loro amore in tutto quell’arco di tempo non era mai sfumato, sebbene non l’avessero consumato per via della famiglia di lei e dei loro controlli. Si doveva arrivare caste al matrimonio, le dicevano mentre le lavavano la schiena le serve. Si doveva stare con un uomo del proprio livello, le ripetevano ogni volta.
Se ne era stancata.
Non vi dirò il nome dell’amato. Sarebbe troppo doloroso scriverlo un'altra sola volta, difficilmente riuscirei a non versare una singola lacrima per ciò che gli accadde.
Quella notte lei non pensò all’orso che era stampato nei suoi abiti, né portò con sé la collana con lo stemma della famiglia. Quella notte si sentì libera nel percorrere a pedi nudi un breve tratto di strada coperto dal prato, e si sentì perfino meglio quando scese giù al fiume per vedere il suo uomo.
Ma quella notte restò sola. Colui che l’aveva tanto colpita probabilmente non aveva avuto modo di venire. Rimase qualche ora seduta su una pietra ricoperta di muschio, l’indomani avrebbe escogitato un modo per lavarla e non farsene accorgere ancora una volta da suo padre e dalle sue serve. Si specchiò nel fiumiciattolo aspettandolo, e osservò la sua chioma nera e mossa riflessa a tratti; a causa della corrente e della poca luce non riuscì a distinguere i suoi occhi azzurri.
Quando si stancò, si alzò per riprendere la strada di casa, ma qualcosa sembrò come colpirla al petto, e lentamente tutta la natura attorno a lei sembrò ravvivarsi di tante sfumature di grigio. Durò tutto un attimo, poi ritornò alla normalità.
Gli occhi di Aileen non avevano mai visto un’esplosione così bella, ma nemmeno avevano udito un urlo così straziante le sue tempie; era l’eco di una donna sofferente, lei stessa. Non sapeva cosa le stava succedendo, ma appena tutto cessò stava meglio di prima. Di quella notte non ricordò molto altro, però nei giorni a venire le serve videro il simbolo nero che le comparve sul braccio, e lo riferirono ai suoi genitori. Fu come un incubo diventato realtà.
Per tanto tempo aveva immaginato di potersi librare in aria e vedere tutto quello che i libri potevano limitarsi a spiegare a parole, avrebbe voluto vagare libera nella notte senza nessuna catena metaforica a tenerla agganciata a terra. Eppure quando tutto ciò le fu possibile, quasi costretto, si rese veramente conto che il desiderio che aveva espresso per tutti quegli anni era decisamente un’arma a doppio taglio.
In poco tempo le fu chiaro che abbandonare casa era l’unica opzione possibile se non voleva finire al rogo, e così fece. La magia che quella sera le si era risvegliata nel corpo le consentì di tramutarsi nell’animale che la rappresentava veramente: un pipistrello con un’ampia apertura alare.
Quanto le mancarono quelle mura resistenti, quanto le mancò il suo uomo. Egli fu accusato ingiustamente nel tentativo di difenderla. Anche se era riuscita ad avvertirlo che avrebbero potuto avere tutto ciò che desideravano se lei avesse lasciato casa, lui aveva detto di no, si era intestardito. Non voleva che lasciasse ciò a cui era legata per via del suo amore. Aileen aveva evitato apposta di parlargli della sua nuova natura, per evitare che scappasse terrorizzato.
Se solo gli avesse detto tutta la verità, probabilmente non avrebbe vissuto la stessa splendida vita che potrà vantarsi ora di aver trascorso nonostante tutto. Una vita pesante e difficile, una vita da rifugiata, ma anche una vita così intensa che nessun autore in nessun libro avrebbe mai potuto narrare.
Una vita con la magia.

 

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Capitolo 4
*** Jacopo ***


Jacopo


«Jaco, io oggi parto e starò via due settimane, ho un congresso a Parigi a cui non posso assolutamente mancare.» Suo padre gli si avvicinò e gli lasciò la copia delle chiavi di casa, scombinandogli leggermente i capelli. «Mi raccomando, è la prima volta che ti lascio a casa solo e non ti porto dalla nonna, non farmi pentire di questa decisione, chiaro?» Disse con il solito tono autoritario.
«Sì, papà.» Rispose una flebile vocina, ancora troppo acuta per ricevere una tale responsabilità.
Jacopo aveva a malapena undici anni. Era magrolino, cosa che lo caratterizzò a vita, con una massa incolta di capelli lisci, di colore castano chiaro e non troppo lunghi, che gli ricadevano sulla fronte. I suoi occhi erano verdi, ma non un bel verde acceso, né tendente al verde chiaro, bensì erano davvero scuri, come le foreste.
«Se ti senti solo guarda la tv o gioca alla console nuova, ma non invitare i tuoi amici, non voglio la casa a soqquadro.» L’uomo prese la sua ventiquattrore e il trolley da viaggio che aveva trascorso più tempo fuori casa che dentro il suo armadio, per poi dirigersi verso la porta di casa.
Il piccolo non poté far a meno di chiedersi come mai il padre gli facesse una tale raccomandazione. Non vedeva, per caso, i lividi sui polsi o i graffi sulle scapole? Quali amici avrebbe dovuto invitare se le persone che lo conoscevano meglio erano quelle che lo picchiavano?

 
Si chiedeva spesso cosa avrebbe dovuto farsene dei sentimenti.
Erano solo dei pesanti e ingombranti macigni che si trascinava dietro da quando sua madre lo aveva abbandonato alle cure di suo padre. Cure… si fa per dire. Effettivamente Jacopo non aveva mai avuto un gran rapporto con lui, ma di sicuro si aspettava di più che vederlo una volta alla settimana, ovvero quando andava bene e non era in viaggio per lavoro.
Fu in quegli anni che realizzò che nessuno mai sarebbe stato disposto ad ascoltarlo, gli stessi anni nei quali iniziò a subire bullismo dai suoi coetanei e venire allontanato dalle ragazze. Era stato marchiato come reietto, insultato giornalmente, tanto da convincersi che il disgusto che gli altri provavano nei suoi confronti avesse un qualche fondamento, ma abbastanza rispettoso di se stesso da non farglielo intendere.

 
«Ma che ti passa per la testa? Insulti la ragazza più carina della scuola e te ne vai via senza nemmeno pensarci due volte!»
Uno dei pochi amici che aveva in seconda superiore, Alessandro, lo stava rincorrendo l’ennesima volta per il cortile, all’ingresso della scuola. Come tutte le altre occasioni in cui questa scena si ripeteva, il suo compagno di classe ne aveva combinata un’altra delle sue. Aveva il fiatone ma non si fermò fin quando Jacopo non smise di camminare.
«Alex, dacci un taglio, non ho detto nulla che gli altri non condividessero. Non è colpa mia se è un’oca senza cervello e non sa niente di fisica, ma è colpa mia se dico che ha sbagliato a farsi il prof per avere il mio stesso voto? Sono entrambi dati di fatto.» Disse il castano dandogli ancora le spalle e mettendosi le mani in tasca per il freddo invernale.
«È comunque una persona, ha dei sentimenti e viene ferita se tutti le ridono in faccia, e non puoi trattare così le persone!» Alex ormai urlava, ma a lui non importava. Sapeva che avrebbe reagito così.
«Se non ti piace come tratto le persone… perché sei ancora qua?» Disse voltandosi appena.
Le parole gli uscirono dalla bocca senza accorgersene. Ci fu un momento davvero lungo di silenzio, nessuno dei due osò dire nulla. Forse era stato proprio quello il momento in cui Jacopo era diventato pienamente quello che era.
«Hai ragione, non ha un senso stare qua.»
Alex andò via, e non lo rincorse mai più.

 
Tutti coloro che gli erano stati vicino, durante i primi tempi alle superiori, affermavano che vivere come un automa e non avere empatia erano caratteristiche proprie dei robot, e che con gli esseri umani non avevano nulla a che fare. La maggior parte sosteneva anche che era da vigliacchi non voler provare quelle emozioni che ti smuovono da dentro, positive o negative che siano.
Eppure Jacopo riusciva a solo pensare che dimostrare agli altri i suoi sentimenti avrebbe cambiato il suo modo di essere, lo avrebbe esposto a qualcosa che gli faceva troppa paura per affrontarlo. Sarebbe stato come se fosse costretto a negare ciò che per tanto tempo gli era stato ripetuto.
Era diventato parte della sua natura volere che gli altri vivessero a distanza da lui. Ciò permetteva loro di non imbattersi in un ragazzo che non avrebbero potuto cambiare o apprezzare, senza spendere energie e risorse inutili, e inoltre gli consentiva di non alterare quelle che per lui erano certezze, ossia l'utilità del suo modo di affrontare la vita.
Fino a quel momento era andato tutto a meraviglia con quel metodo, perciò perché non continuare?
Forse perché una ragazza era andata fuori da questo schema di carnefici e buonisti, rendendo inutili tutte le verità che aveva trovato con le sue attenzioni.
Si chiamava…
 

«…Sirah, piacere di conoscerti! Mi sa che sono nella tua stessa classe perciò, se non ti spiace, vorrei chiederti di…» Disse straparlando la ragazza tendendogli una mano.
Jacopo la strinse debolmente e in poco meno di un minuto si era perso nel bel mezzo della parlantina della ragazza.
Senza nemmeno farci caso acconsentì a farle fare il giro dell’istituto, portandola anche nei posti dove i prof non cercavano i ragazzi e mostrandole i suoi rifugi: la biblioteca e il cortile sul retro.

 
Il nome era quello di una stella, bella come quelle che studiava Galileo Galilei.
Aveva gli occhi di un verde chiaro, quasi di giada, e i capelli biondo cenere le cadevano leggermente mossi sulle spalle, allungandosi fino a metà schiena. Non era slanciata, ma nemmeno troppo bassa per la sua età. Aveva qualche accenno di curve che finalmente, a diciassette anni, comparivano sotto i suoi larghi maglioni chiari per poi scoprirsi totalmente sui suoi jeans stretti e scuri.
Nel corso di ben quattro anni non si era mai arresa con lui. Aveva continuato imperterrita a dimostrargli affetto, disponibilità e compassione per quel modo di agire, a suo parere inspiegabile, senza ricevere o chiedere nulla in cambio. Ma la cosa più importante, a dispetto di quanto valore desse alla loro amicizia, era che Sirah rappresentava il modello fiducioso e buono di umana, e lui la apprezzava per questo.
Erano difatti i primi tempi che la scienza si ritrovava spiazzata davanti a un evento su scala mondiale di mutazione genetica; chi stava ai vertici era incapace di adottare misure speciali per coloro che venivano chiamati “transitati”, una nuova specie che mostrava DNA umano fino all’adolescenza, età in cui si manifestava nei ragazzi da un giorno all’altro, esattamente come un virus latente.
I malcapitati, o fortunati che siano, ottenevano delle qualità o dei poteri che li elevavano a un’altra razza rispetto a quella umana, talvolta cambiando radicalmente anche i loro modi di agire o pensare, e rendendoli perciò pericolosi. La maggior parte di loro aveva un intelletto molto superiore alla media oppure era in grado di svolgere prestazioni fisiche inumane senza sforzi, ma tra loro v’era un gruppo più particolare.
Quelli che vi appartenevano erano in grado di modificare gli stati della materia, mutare il proprio corpo, praticare telecinesi o rendere immateriali o inesistenti gli oggetti. Li chiamavano metafisici, poiché rompevano ogni legge della fisica, persino quelle che trascendevano l’esistenza.
Sfortunatamente Jacopo ne faceva parte e, come un buon diffidente del governo, si teneva ben lontano da ospedali, laboratori di ricerca, centri di donazione del sangue e quant’altro. Quei posti pullulavano di gente desiderosa di conoscenza, e che l’avrebbe voluta ottenere a qualunque costo.
Se le persone avessero saputo che lui era in grado di assorbire cento colpi, avrebbero provato a dargliene centouno per pura curiosità, forse uccidendolo. Non ne era certo, ma ogni transitato esaminato dal governo aveva dei limiti fisici, perciò probabilmente li aveva anche lui, sebbene non sapesse fin dove si spingevano.

 
Jacopo aveva trovato pane per i suoi denti alle superiori. Arrivato al terzo anno alcuni ragazzi del quinto avevano preso a minacciarlo giornalmente, fargli scherzi molto pesanti e umiliarlo in pubblico.
Lui se ne stava per i fatti suoi nel frattempo, adottando la sua politica dell’impermeabile di indifferenza, ma sapeva che doveva fare qualcosa.
Quel giorno c’era caldo, davvero molto, ma lui aveva indossato una felpa leggera lo stesso. All’uscita di scuola li vide attenderlo fuori il cancello. Bastò uno sguardo solo al gruppetto per sapere cosa sarebbe successo. Fece un bellissimo sorriso di ironia, mettendo piede fuori il territorio scolastico.
Iniziò lui, provando a tirare al più grande un pugno, ma andò tutto storto e cadde perché si era sbilanciato troppo. Inaspettatamente non sentì la botta dell’asfalto sulla spalla o sul fianco, e nemmeno quelle che poi gli diedero gli adolescenti.
«Non mi state facendo niente, stronzi!» Prese a ridere mentre era steso. «Non mi fate nemmeno il solletico!» Tra un calcio e un altro si tirò su, e indirizzò tutta la sua frustrazione e rabbia repressa contro coloro che, per l’ennesima volta, provavano a tirarlo giù. «Adesso chi è che ride? Eh?»
Un sorriso davvero inquietante si fece strada sul suo volto, i suoi occhi sembravano infuocati, come se qualcosa di profondo li avesse oscurati.
Da lontano Sirah guardava, correva, urlava di fermarsi.
Da lontano Alex osservava, si allontanava, sbuffava tra sé e sé.

 
Sirah aveva scoperto la sua natura circa un anno prima, in seguito a quel pestaggio violento dal quale Jacopo era uscito “miracolosamente” illeso. Quello fu l’unico giorno in cui la ragazza ebbe paura di Jacopo.
Ogni tanto lei provava a convincerlo che magari, se avesse collaborato con il governo, un giorno avrebbero capito il perché delle mutazioni genetiche e sarebbero riusciti ad aiutarli, ma il ragazzo ci credeva poco. Sapeva che la giovane era troppo ingenua e che più verosimilmente sarebbe diventato una cavia da laboratorio.
Jacopo avrebbe voluto anche dirle, con tutta la delicatezza possibile, che quel suo insistere nel fargli cambiare idea era inutile, così come aspettarlo dietro scuola per fare strada insieme, presentarglisi a casa per aiutarlo in qualche materia e tentare di giocare ai suoi videogiochi preferiti per fargli compagnia il pomeriggio online.
Già, avrebbe voluto dirglielo.
Tuttavia qualcosa doveva essere andato storto nel passaggio tra i suoi pensieri e la sua lingua perché non ci riusciva, e chiaramente non ci credeva nemmeno. Era chiaro come il sole che Sirah lo stava cambiando; seppur molto lentamente e con grosse difficoltà, ci stava riuscendo. Ormai non avrebbe potuto più aver paura di lui.
La realtà infatti era che Sirah rappresentava per lui ciò che Galileo era per la Chiesa. Come quest’ultimo, lei gli aveva aperto una nuova visione sul vivere a colori, ma lui, troppo preso nel negare l’esistenza dei suoi sentimenti agli altri e a se stesso, non era riuscito a trovare dei motivi validi in grado di sostituire le sue certezze grigie con la verità limpida.
Anche se Jacopo era davvero tentato dall’idea di cambiare scuola, pur di richiudersi nelle sue scelte, non sapeva immaginarsi più da qualche parte dove lei non vi fosse. Forse era ciò che le persone chiamano amore, si disse. Se così fosse stato, doveva ammettere a se stesso che era un'emozione come un'altra, gestibile allo stesso qual modo, ossia nascondendola sotto il tappeto dell’indifferenza.
Eppure questa proprio non riusciva a controllarla, e questo faceva saltare in aria tutto ciò che era radicato dentro di lui. Dall’essere una delusione per gli altri fino all’idea di poter continuare a non reagire, ogni convinzione veniva scardinata.
Era come se, realizzato ciò che provava, fosse iniziata una caccia all'uomo. La sua consuetudine, armata di tanta sociopatia, cercava quel sentimento folle. Scavava dentro, dietro e davanti ogni suo organo, si appostava nel suo cervello e mirava attraverso le sue vene, scansando con cura il cuore, poiché la sua volontà, che sapeva bene che lo avrebbe trovato lì, non era disposta a lasciar spazio alla ragione. Non voleva uccidere anche quella ultima parte di lui in grado di esprimersi.
Nell'ultimo anno la caccia all'uomo era andata avanti senza sosta, e senza altrettante conclusioni. Da quando lei sapeva che Jacopo non era umano tutto era cambiato. Aveva iniziato a confidarle le sue riflessioni, i suoi dubbi, persino il fatto che aveva paura di quello che era diventato… cose che non avrebbe mai ammesso con nessuno. E lei era rimasta lo stesso.
 

«Che ne pensi dei cinema?» Disse a bassa voce.
«Sono posti silenziosi, un po’ freddini ma dove andrei volentieri. Perché me lo chiedi?» ribatté la ragazza.
«Volevo farti vedere una cassetta, ma qui a casa non ho un mangianastri per mostrartela… forse se chiediamo lì potremmo trovarne uno ancora funzionante.»
La ragazza si aspettò tutto tranne che quello strano invito. Pensava a qualche film, magari un fantasy o un distopico, o ancora un horror, ma di certo non pensò di vedere la videoregistrazione del quarto compleanno di Jacopo.
Due giorni dopo, infatti erano seduti in uno sgabuzzino del cinema ad armeggiare con quelle vecchie attrezzature. Su una parete bianca, nella quale erano affisse delle puntine, il proiettore mostrava un bambino che giocava felice con un vagone di un trenino giocattolo; aveva i capelli di un castano chiaro con sopra un cono con disegnati dei palloncini, una maglietta a maniche corte bianca e dei piccoli jeans.
In sottofondo si sentivano le voci di sua madre e suo padre cantare “tanti auguri a te”.
Sirah, alla fine della proiezione, non chiese nulla, si limitò a stringere forte Jacopo. Lui non versò una lacrima, ma ricambiò l’abbraccio.

 
Dentro di sé, lei sapeva che Jacopo non avrebbe retto ancora per molto senza parlare con qualcuno. Apparentemente lei non riusciva più a trovare una soluzione per far capire a quel ragazzo che la vita non è solo il mero trascorrere del tempo e delle persone o il rapido fuggire alle istituzioni. A volte le veniva solo voglia di urlargli contro, gridare che c'era molto di più nella sua vita che doveva essere vissuto appieno, poi prenderlo per mano e portarlo in un parco.
La ragazza decise così, di punto in bianco, di confessargli i suoi sentimenti. Aveva capito di provare qualcosa per lui dal secondo anno che lo conosceva circa. Ne erano passati altri due, durante i quali aiutarlo era diventato il suo obbiettivo primario, ricambiata o meno nei sentimenti. O la va o la spacca, si ripeteva, mentre quel giorno un fiume di parole che si sovrapponevano inondava il salotto di casa di Jacopo.
Lui continuò a tacere, anche quando lei smise di parlare.
Alla fin fine, il cecchino della sua ragione era stato costretto a mirare al cuore, e non per colpa di Sirah, ma perché Jacopo stesso sentiva l’esigenza di mettersi davanti a quel bivio che si era preposto sin da prima che la ragazza irrompesse con i suoi modi quattro anni prima. Fu in quel momento che dentro di lui scoppiò una vera e propria guerra civile.
Una parte avrebbe voluto cedere e lasciare che Sirah, l'eccezione nella sua realtà piena di grigi, riuscisse a demolire e ridurre in polvere tutto quello che nel corso degli anni si era costruito intorno per evitare di essere ferito, lasciando che una luce filtrasse.
L'altra parte non riusciva a far a meno di pensare che, se ciò fosse accaduto, avrebbe dovuto dare conto e soddisfazione in primis a se stesso, a tutte le emozioni che aveva accantonato, ma successivamente anche a lei, che si era impegnata tanto per scorgere il vero Jacopo e che molto probabilmente, si convinse, sarebbe rimasta delusa da quello che avrebbe trovato dietro i detriti della sua muraglia cinese.
Il solo pensare che ciò sarebbe potuto accadere gli bastò per ritirarsi come un paguro dentro le sue certezze. Certo, ormai erano un po' smontate e decisamente logorate, ma le avrebbe ricostruite. Non gli importava quanto tempo ci sarebbe voluto per trovare altre persone che lo avrebbero schernito o che si sarebbero arrese al solo conoscerlo, era abbastanza sicuro che quella sarebbe stata la scelta giusta.
Pensava tra sé e sé che, se il destino esisteva, gli aveva assegnato l’abilità di assorbire ogni colpo per un motivo preciso, e forse era proprio un segno di ciò che avrebbe dovuto fare in momenti come quelli.
Ma in tutto ciò si era dimenticato lui stesso che quel potere, così come il suo animo, prima o poi avrebbe rigettato tutto quello che pativa. Non gli era ancora successo, infondo non sapeva nemmeno lui se fosse possibile, ma lo intuiva.
C'è sempre un'altra strada, si disse, sperando che quel calore nel suo cuore e nei suoi occhi non si riversasse davanti alla ragazza, così come al cinema. Con la durezza e freddezza che solo un sociopatico può avere, Jacopo si strinse nelle spalle e mordendosi le labbra disse: «Mi dispiace, ma non ricambio ciò che senti.»
Mise le mani in tasca. Quella volta non avrebbero stretto quelle di Sirah, no.
Per una volta che aveva dato a se stesso la possibilità di lasciare uno spiraglio in quella che era stata sempre una porta chiusa e sbarrata, non era riuscito in alcun modo a coglierla; nonostante si fosse proteso in avanti, pronto ad afferrarne la maniglia, pronto a stringere ancora la sua mano come quattro anni prima, si era impietrito un secondo dopo, senza riuscirci.
Si chiese il perché diverse volte da quel momento e trovò varie risposte.
Perché farsi avanti, per una volta tanto nella vita, avrebbe implicato creare delle aspettative in lei che credeva di non saper soddisfare.
Perché in fondo Jacopo la amava molto più di quanto lei potesse immaginare, ma il terrore di perderla lo attanagliava.
Perché, l’unico perché, confessò a se stesso, era ben evidente.

Jacopo era un codardo.



 

Questa storia partecipa al contest “È nella mia natura...” indetto da Nirvana_04 sul forum di Efp.

Angolo autrice: Eccomi qui! Questa storia, come scritto sopra, partecipa a un contest, ma non è stata scritta solo per questo. l'idea di narrare la storia di Jacopo c'era già da un bel po', ma vi assicuro che parlare di lui visto dall'esterno è impossibile senza gettargli addosso una luce negativa. Essendo la prima introspettiva che scrivo mi piacerebbe ricevere qualche commento, ma so che le recensioni spesso non vengono fatte per noia, perciò fa nulla.
Alla prossima,
Herondale.

 

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Capitolo 5
*** Satrax e Zaziel ***


Satrax e Zaziel

Era quasi il tramonto, Satrax stava per tornare verso casa.
Aveva i capelli biondo platino e lisci nascosti sotto un cappuccio nero di una felpa del medesimo colore. I suoi jeans leggermente sgualciti lasciavano intendere che non si curava tanto di sé da quando viveva da solo. Il suo sguardo sembrava perso nel vuoto, di certo non valorizzava quelle iridi verdi, tanto insolite per un demone di sangue come lui; la sua aura era come spenta, opacizzata dalla monotonia che sembrava divorarlo vivo.
Quel giorno era stato difficile tirare avanti senza nutrirsi, ma ce l’aveva fatta così come i precedenti, e ne era più o meno soddisfatto. Si chiedeva come mai tutte le altre specie si dessero un gran da fare per proteggere gli abitanti di quel mondo tanto fragile; pensava che tanto, prima o poi, la specie umana sarebbe stata nient’altro che un ricordo. Che senso aveva tentare di rimandare l’inevitabile?
Fortunatamente quelli come lui, i “bevitori di sangue”, avrebbero avuto di che vivere anche nel caso in cui sarebbe scomparsa. Altri suoi simili non sarebbero stati così felici invece, era il caso dei demoni del dolore e di quelli dell’inconscio, e proprio per questo non avevano intenzione di attaccare i paladini dell’umanità. Per loro gli angeli rappresentavano in un certo qual modo coloro che dosavano le risorse, ossia gli umani, evitando che ognuno facesse ciò che gli pareva fino a estinguerli.
D’altro canto i tutti i demoni, senza distinzione alcuna, evitavano il sovrappopolamento sulla terra ormai da secoli, in particolar modo prima della pace tra le due razze, che sanciva accordi su ogni singola cosa.
Demoni e angeli probabilmente si dovevano tanto a vicenda, ma lungi dal ragazzo pensare che lo avrebbero mai ammesso.
Per la strada la mente gli si era affollata di questi pensieri. Era solito passare sempre per la stessa via una volta al mese, ma quella sera aveva svoltato al vicolo prima senza accorgersene, da quanto aveva lo sguardo perso. Un altro abitudinario, invece che passare per quella strada, ci dormiva direttamente ogni notte.
Appena il ragazzo si accorse da lontano di quella figura accovacciata rizzò la schiena e sollevò il mento, portando indietro le sue ciocche chiarissime. Uscì dalle sue labbra un suono basso e subito dopo corse davanti a quella sagoma piantandocisi di fronte.
«Fatti sotto se proprio devi, non ho intenzione di crepare senza difendermi!» disse togliendosi la felpa dalle spalle. «Che fai? Mi sottovaluti tanto perché sono-» Non ebbe il tempo di terminare la frase che l’altro rispose a tono.
«Sta’ zitto marmocchio, non lo percepisci?» Disse l’uomo ancora seduto per terra, stendendo una gamba e poggiando la testa nera sul muro dell’edificio, osservando gli ultimi istanti di luce nel cielo, prima della fine del tramonto.
Il giovane si sentì preso in contropiede. Non avendo mai visto uno di loro, un angelo, non sapeva proprio cosa intendesse dirgli. Provando a scrutarlo più affondo nell’animo notò che in quest’ultimo sembrava mancasse la gloria combattiva che quelli della sua specie vantavano in gran quantità, la sua aura era di un azzurro così spento che lo aveva scambiato per grigio, mentre quella di Satrax stava ricominciando a essere del colore del sangue, man mano che stava di fronte a lui. Constatato ciò non abbassò la guardia, ma decise di fare un passo avanti, probabilmente spinto dalla curiosità.
«Ora credo di capire… Sei un caduto, giusto? Sembri proprio in gran forma.» Sorrise sarcastico il demone. «Ti hanno scaraventato giù perché volevi unirti a noi? Ho saputo che quando assaggiamo il sangue di quelli come te, poi non riuscite più a starci lontani. Siete dei veri masochisti.»
L’uomo dai capelli neri, di nome Zaziel, si stancò di ascoltare e si tirò su con un’unica spinta. «Mi sembrava di averti detto di stare zitto.» Si avvicinò al demone con uno scatto e lo fissò con una mano alla parete opposta del vicolo. Era più alto, decisamente più atletico ma con vestiti trasandati. «Per colpa tua ora dovrò trovarmi un altro posto dove stare, complimenti. Ti auguro di non incontrarmi più durante queste ore del giorno, o testerò personalmente le voci che girano sulle vostre di debolezze, sono stato chiaro?» non lo avrebbe mai fatto, ma suonava buona come minaccia verso quello che considerava un bambino.
Senza attendere una vera e propria risposta lo lasciò andare; non che Zaziel se ne aspettasse una, ma era veramente stanco di dover continuare a girovagare, e bastava fissarlo per poco nei suoi occhi grigi per percepirlo. Trovare un vicolo nel quale gli angeli non passassero di ronda era difficile di per sé, e sarebbe anche stato meglio evitare quelli nei quali i demoni lo avevano visto o sarebbe diventato presto la loro cena. Considerato ciò si chiese se dopo quell’ennesimo incontro non sarebbe stato meglio andare a vivere nei boschi. Almeno lì nessuno lo avrebbe avuto intorno.
Satrax invece la pensava diversamente. Per quanto fosse intimorito da quel tipo, non voleva lasciarsi scappare l’occasione di conoscere un pennuto che gli potesse spiegare chi fossero gli angeli e che storia avessero. Ogni volta che ne parlava con gli altri demoni loro tergiversavano su altro, e lui sentiva sempre di più la frustrazione addosso.
Senza pensarci troppo gli tirò un pugno allo stomaco. Non lo aveva fatto per attaccare rissa, ma perché non sopportava i tipi presuntuosi come lui solo perché avevano qualche anno in più; e poi l’orgoglio, maledizione, ce n’era davvero in abbondanza in quel caduto, sarebbe stato bene dargli una lezione, pensò.
L’angelo non doveva essere per nulla in forma nonostante la sua forza, sembrava già essere uscito da qualche pestaggio di recente, poiché il pugno gli fece sputare sangue. Sangue che finì sulla camicia e sul collo del demone. Si accasciò a terra e tossì un po’ prima di guardarlo con un’aria veramente spaventosa.
«Oh, mi hai sporcato la camicia. Ci vorrà tempo per lavarla.» Disse con un tono fintamente dispiaciuto. «Semmai in altre ore del giorno ti andasse di dormire su un letto decente abito al venticinque di via Morrison.» Ciò che pronunciò furono parole uscite di getto, era solo interessato alla sua particolare aura, si disse.Non pensò di salutare, in fondo che cosa avrebbe dovuto dire a un angelo sconosciuto appena invitato a casa? Si limitò a sistemare indietro i suoi capelli platino e raccogliere con il dito una goccia cremisi dal suo collo, per poi portarla alla bocca. Era davvero delizioso.

 

Angolo autrice: Bene, eccomi qua! Devo ammettere che pubblicare su efp è stato più impegnativo che farlo su wattpad... Maledetto html. In ogni caso ce l'ho fatta, perciò spero che qualcuno dopo la lettura passi qui e non mi ignori, perché volevo comunicarvi che è possibile che su uno o più personaggi pubblichi più di un capitolo.
Comunque sia, fatemi sapere che ne pensate di questi due qui sopra ;)
Alla prossima,
Herondale.

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Capitolo 6
*** River ***


Piccola premessa: 

Per comprendere appieno l'istituzione dell'Accademia e come opera è necessario aver letto la seconda OS, Nimia ed Evelnora, dove è presente un'accurata spiegazione che non sono riuscita a inserire qui senza suonare ripetitiva. Ho comunque provato a sintetizzare qualcosina, ditemi se per voi va bene o non capisce molto ^-^




River

Lo odiava.
Per quanto ci provasse, River non riusciva a comprendere come mai Braum la obbligasse tanto ad allenarsi quando lei voleva solo andarsene di nascosto dall’Accademia.
L’Accademia era una scuola dove si imparava come tenere un coltello, e un posto di lavoro con valori basati sull’indifferenza degli spietati, i clienti erano i mandanti degli assassini e le contrattazioni si basavano sull’importanza degli obbiettivi.
Era differenziata dalle scuole civili per l’uso della lettera A maiuscola all’inizio, ne esisteva una sola in tutti e cinque i regni; coloro che uccidevano all’infuori di questa istituzione erano criminali. La politica di adozione permetteva di accogliere sotto la sua ala qualunque infante venisse lasciato fuori le sue porte al di sotto dei cinque anni, età perfetta per plasmarli.
River era entrata proprio al limite di età, e nonostante fossero passati troppi anni per ricordare i volti, teneva ben a mente i nomi dei suoi genitori. Nel caso li avesse incontrati gliene avrebbe dette quattro, per poi ucciderli.
Questa sua rabbia era davvero ben consolidata, ma non aveva intenzione di trasformarla in un’arma. Il capo Accademia non era il tipo da lasciarsi battere in testardaggine da una tredicenne svogliata, perciò anche quella mattina era andato a ripescarla in camera per trascinarla l’ennesima volta in cortile, ma la bambina si era rintanata nei bagni preventivamente, e non sembrava aver intenzione di uscirne a breve.
Era rannicchiata in una delle docce, stringeva le sue gambe al petto e le teneva ferme con due piccole mani. I suoi corti capelli azzurri le cadevano anche davanti gli occhi del medesimo colore, ma ciò non le dava particolare fastidio.
Era abbastanza alta per la sua età, appena tredici anni, ma così raccolta non sembrava affatto, e tantomeno si vedeva il suo seno appena accennato. Poggiò il capo alla parete e assunse un’espressione neutrale che le fece riacquisire quell’aria matura che la caratterizzava sin da piccola, e iniziò a perdersi nei suoi pensieri.
Sapeva bene che l’Accademia non aveva bisogno di pesi morti ma, non avendo motivazioni per agire, non le importava. Preferiva di gran lunga allenarsi solo quando le andava e da sola nel cortile la notte, non insieme agli altri ragazzi, non voleva essere messa in mostra solo perché aveva delle doti naturali.
D’altro canto Braum non poteva permettere che una così buona risorsa andasse sprecata, perciò nei limiti le consentiva di fare a modo suo. Era chiaro che ciò non avrebbe funzionato in eterno, questo avrebbe minato la sua autorità ma, fin quando non avrebbe trovato qualcosa per farla muovere di sua volontà, non aveva altre opzioni che non includessero l’ucciderla per insubordinazione.
River rimase lì dentro fino a notte fonda; pensò anche che sarebbe potuta essere una buona idea trasferirsi lì tutte le notti. Quando si sollevò da terra per andare a dormire, credendo di aver scampato la sgridata di quel giorno, sentì un piagnucolare dall’esterno proveniente da una finestra aperta. Quando si affacciò dall’entrata, vedendo due ceste, non riuscì a far a meno di uscire.
Accanto a quella di destra v’era accovacciata una figura femminile che la notò e poi scappò via. Probabilmente la madre. Dalla bocca di River non uscì una sillaba riguardo il fermare la donna, così si limitò ad avvicinarsi di più e accovacciarsi in mezzo alle due costruzioni in vimini.
In quella a destra c’era una bambina smagrita con la pelle mulatta, una peluria scura in testa e due occhi socchiusi, non se ne vedeva il colore. La sua cesta era bellissima, decorata con dei fiori e con un lenzuolino di seta rosa. Senz’altro la sua famiglia di provenienza era benestante.
Nell’altra giaceva una bimba più rotondetta, era lei quella che piangeva per il freddo e si contorceva. La sua pelle era molto scura e i piccoli capelli erano pece, i suoi occhi erano chiusi fortemente, circondati da acqua salata. Non era dello stesso rango della prima, anzi, i vimini erano spezzati e non era presente nemmeno una coperta.
Le leggi dell’Accademia non prevedevano che due bambini potessero venire accolti nello stesso giorno. River le portò entrambe dentro, avrebbe detto che la più in carne era lì fuori da prima della mezzanotte, poiché toccandole la pelle era ghiacciata. In un primo momento non le importò se quella sarebbe stata la volta buona che Braum l’avrebbe ammazzata, ma ripensandoci si chiese se non avesse potuto fare qualcosa da viva per evitare che le due piccole venissero educate dagli insegnanti dell’Accademia.
Spesso si era chiesta se sarebbe stato possibile essere educati da altri membri, poiché in quel caso non le sarebbe toccato venire esposta come un gioiello grezzo. Le era stato detto di sì, se qualcuno l’avesse voluta, ma nessuno si era voluto prendere la responsabilità di crescere una bambina. Non avrebbe lasciato che quelle due avrebbero fatto la sua stessa fine, a prescindere dalle loro abilità; gli insegnanti dell’Accademia erano freddi, rigidi e pieni di sarcasmo, persone che dopo poco non avevi più voglia di vedere.
Per prima cosa, per richiedere di tenere lei le piccole, avrebbe dovuto ingraziarsi Braum con qualsiasi mezzo; così iniziò a pensare a tutti i modi di scusarsi esistenti: indirettamente, con le parole, riprendendo con indifferenza e costanza ad allenarsi (anche se ovviamente sempre sola…). Mentre saliva le scale era così presa dai suoi pensieri che non si accorse del segretario Joan, che vedendola dopo ore di ricerche si convinse a portarla con entrambe le neonate nell’ufficio del capo.
Quando Braum entrò River non riuscì a scegliere uno dei mezzi precedentemente citati e si limitò a fissarlo attendendo la sua prima mossa.
«Se vuoi fare entrare entrambe le marmocchie all’Accademia mi costringerai a mettere due date differenti, e questo ti costerà degli allenamenti con me.» Disse l’omone senza troppi giri di parole. Si mise braccia conserte, i suoi capelli già molto corti sembrarono mettere in risalto la fronte corrucciata e le sopracciglia nere abbassate.
«Voglio crescerle io, non voglio solo farle entrare. Quando compiranno tre anni me le dovrai affidare e nel frattempo non dovranno subire alcuna violenza.» La giovane sapeva di star osando con le richieste, essendo già nel torto, ma preferì infischiarsene e giocarsi il tutto per tutto. Voleva evitare che le due fossero seguite da persone rigide.
«Se tra due mesi entri in servizio come sicario mi sta bene.» ci fu un momento di silenzio assoluto, poi riprese. «Dammi una risposta certa domani, chiaro? Ti aspetto alle sei in armeria.» River annuì.
Quella notte la tredicenne pianse di gioia appena rientrata in camera con le due piccole, che presero a imitarla poco dopo. Era finalmente riuscita a trovare qualcosa per il quale valesse la pena impegnarsi e per cui avrebbe agito nel bene.
Da quel momento Braum smise di preoccuparsi, sedendosi alla scrivania e concedendosi un paio di bicchieri di vino; sapeva che ciò che era successo avrebbe reso River un membro attivo e non solo, infatti sarebbe stata la sicario donna più giovane in servizio dalla fondazione dell’Accademia. Non si preoccupò nemmeno per le due bambine.
Sapeva che le avrebbe cresciute bene.




 

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Capitolo 8
*** Nimia ed Evelnora ***


Nimia ed Evelnora

Il castello non le era mai piaciuto.
Sembrava un luogo così pieno di tranquillità all’apparenza, come un colorato prato fiorito. In realtà poteva dire con cognizione di causa che sarebbe potuto essere ben rappresentato, senza nemmeno dover esagerare, come un cespuglio dalle ramificazioni contorte e dalle foglie pungenti, nel quale stentavano a crescere fiori o frutti.
Nimia Gramien era una giovane donna che lavorava ufficialmente come cameriera e donna di piacere a corte, ma veniva spesso assunta come informatrice da parte dell’Accademia. I suoi erano lavori scomodi, in particolar modo questo.
Spesso doveva appartarsi con il mandante per evitare che qualcuno li sentisse quando le veniva richiesto di riferire una commissione, poiché la persona interessata avrebbe potuto sentire e richiedere che lei venisse uccisa prima di mandare il messaggio. Fortunatamente erano pochi gli assassini dell’Accademia che andavano contro la legge esplicitata di non uccidere i loro ambasciatori, ma per un gruzzolo di soldi in più non c’era pietà in tempi di fame.
Le suddette commissioni erano difatti omicidi per lo più, ma erano frequenti anche minacce, estorsioni, infanticidi che arrivavano a riguardare la stessa corte, i nobili o le sette religiose. L’Accademia, a dispetto del nome pacifico, era questo infatti, una scuola dove non si imparava a leggere, ma come tenere un coltello. I valori che rappresentava non erano le virtù dei saggi, ma l’indifferenza degli spietati.
Era differenziata dalle scuole civili con la lettera A maiuscola all’inizio, e ne esisteva una sola in tutti e cinque i regni; coloro che uccidevano all’infuori di questa istituzione erano criminali, coloro che lo facevano all’interno erano orfani. Ecco perché la politica di inclusione permetteva di accogliere sotto la sua ala qualunque infante venisse lasciato fuori le sue porte al di sotto dei cinque anni, età perfetta per plasmare gli esseri umani.
In un certo senso, se Nimia non fosse stata una persona ragionevole, avrebbe potuto cambiare gli obbiettivi e giocare con la vita delle persone, come altri prima di lei avevano fatto in precedenza. Eppure la sua purezza d’animo era stata preservata nonostante tutto, persino quando certe notti avrebbe solo voluto evadere dalla stanza del cortigiano di turno o più semplicemente aggiungere il suo nome a una commissione.
Mentre si specchiava nelle sue stanze, perdendo lo sguardo nel riflesso delle sue iridi castane, pensò che poi la sua vita non era così orribile da desiderare il suicidio (o meglio omicidio), almeno non da quando, grazie agli incarichi che le veniva detto di riportare, aveva conosciuto l’assassina scura. La chiamavano così per via della sua pelle, ma il suo vero nome era Evelnora. Lo aveva involontariamente ascoltato quando era andata dal capo dell’Accademia a riferire un grosso incarico; l’uomo era occupato ma nessuno l’aveva avvertita, così aveva sentito casualmente il suo nome da dietro la porta e poi entrò senza bussare.
«Informatrice Nimia, al vostro servizio.» Disse imbarazzata, carezzandosi i capelli color ambra per auto-rassicurazione. «Scusi l’interruzione, se vuole ritorno dopo…»
Il Capo, silenzioso, le fece cenno di accomodarsi in una sedia dove alle sue spalle con due pugnali, uno per mano, stava la donna dalla pelle nera. Non la vide di fronte, ma la riconobbe dalla descrizione fisica di cui era venuta a sapere dai reali. Si sedette e notato il silenzio riprese a parlare.
«Devo riferirle una commissione da parte del regnante, si tratta di un omicidio e un possibile infanticidio. Non è dato sapere il motivo per quest’ordine, in più l’obbiettivo è una donna ricercata; da quanto ne so personalmente è una donna di piacere fuggita dalla corte diversi mesi fa.» C’erano tutte le carte in regola per presuppore che questa donna fosse l’amante del re, con tanto di figlio in grembo.
«Hanno dato un indirizzo?» La ragazza la precedette.
«Ovviamente no.» a quelle parole il Capo sbuffò.
«Da quando hanno legalizzato l’Accademia pretendono che, oltre a crescere un esercito di mercenari, riusciamo a localizzare gli obbiettivi come un pugno di investigatori reali.» La persona, fino ad allora nascosta nell’ombra smise di parlare e sorseggiò un po’ di caffe, ci penso un attimo e riprese poco dopo. «Di’ al re che, per quanto impreciso, l’incarico è accettato dall’assassina scura, e fagli la richiesta del dieci percento in più per il disturbo delle ricerche.»
La giovane donna chiamata in causa fece un verso stizzito e usci dalla stanza, seguita a ruota da Nimia che, dopo aver rivolto i suoi saluti, se la diede a gambe pur di non stare da sola davanti al Capo Accademia.
Quest’ultima tirò un sospiro di sollievo varcato l’uscio dell’edificio, ma non ebbe il tempo di rilassarsi appieno perché davanti a lei stava Evelnora, seduta sulla gradinata con i gomiti puntellati sulle ginocchia e i pugni a sostenere il mento. Aveva i capelli neri e grigio scuro legati in una coda. Sembrava provata fisicamente e la sua mezza armatura pareva pesare un macigno sulle sue spalle, ma lei la teneva fieramente, senza incurvare la schiena, come se facendolo non ne sarebbe stata degna.
Nimia si fece coraggio e si sedette nel suo stesso gradino, leggermente più lontana, la osservò per quello che poteva. Scorse una cicatrice verticale che passava per il suo occhio sinistro; era molto più chiara della sua pelle, ma questo non la rendeva meno bella. La sua non era una bellezza elegante, bensì una guerriera.
«Puoi anche parlarmi, non faccio mica male.» Disse a un certo punto l’altra.
«Mi chiedevo come mai non ti fai vedere in giro. Gli altri come voi escono e se la spassano quando non lavorano, ma tu no. Non ho mai sentito che l’assassina scura sia andata a prendersi una bevanda in qualche locale nel centro.»
«Non amo bere da sola, né in compagnia.» Per un momento la più grande pensò di chiudere lì la discussione, ma poi riprese. «Tu invece? Le cortigiane vivono bene anche senza dover fare le intermediarie, perciò che ti porta qui?» Chiese sdraiandosi sul gradino.
Nimia tentennò nel rispondere. Non voleva dirle che sperava che qualcuno la uccidesse proprio per questo, ma nemmeno voleva affermare di conseguenza che fare il cosiddetto “corvo nero” fosse bello. Optò per una via di mezzo.
«Sono solo subentrata ai lavori di mia madre da quando è stata uccisa, entrambi pagano bene, perciò perché non seguire il suo esempio?» un piccolo cenno di un sorriso amaro sembrava essersi fatto strada nel suo volto per una frazione di secondo, troppo poco perché qualcuno lo notasse. In fondo era sempre stato così, era brava a nascondere ciò che voleva o meno agli altri.
Evelnora rimase in silenzio a terra per qualche altro minuto e dopo si alzò. Senza voltarsi indietro, dandole ancora le spalle, disse a bassa voce: «Quando vorrai dire la verità a qualcuno passa pure dall’Accademia, fai il mio nome e ti faranno entrare, tanto so che lo hai sentito.» Infine camminò verso l’ingresso della scuola per sicari.




Angolo autrice: Bene bene, siccome ho già circa sette OS pronte, ho deciso che ne pubblicherò una ogni due o tre giorni, in base a quando avrò tempo. In questa OS avete conosciuto due delle ragazze più in gamba e problematiche (a livello mentale) che io abbia mai creato. Probabilmente non riscriverò di loro, perciò non è spoiler dirvi che Evelnora è più o meno senza empatia, raramente ne dimostra qualche traccia con River, il suo capo (di cui mi ostinerò a non mostrarvi nulla fino alla sua OS), e con Nimia, della quale rispetta davvero tanto la forza interiore. Nimia invece è parecchio chiusa, si limita a rivivere la vita della madre e prova incosapevolmente a dimostrare che quella vita vale la pena di essere vissuta, altrimenti non si spiegherebbe tutto ciò che ha passato sua madre per lei.
Adesso mi fermo perchè lo spazio autrice sta diventando un capitolo a sé :')
Alla prossima, 
Herondale.

 

 

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