Dovah

di _Polx_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Maschere di ferro ***
Capitolo 2: *** Brutti sogni ***
Capitolo 3: *** Pecore e maiali ***
Capitolo 4: *** Schiavi per natura ***
Capitolo 5: *** Al passo ***
Capitolo 6: *** Nere acque ***
Capitolo 7: *** False rese ***
Capitolo 8: *** Fin munseved ***



Capitolo 1
*** Maschere di ferro ***


 
Giunse a Riften stremata. I suoi piedi sanguinavano, le sue costole dolevano per il grande sforzo, la sua vista deformava ogni immagine.
Sapeva come scendere in profondità senza arrischiarsi nel Ratway. Era stato suo padre a dirglielo e per miracolo non se lo scordò, nello smarrimento e nella confusione in cui versava la sua mente.
Spinse sé stessa contro il meccanismo del sarcofago, poiché era tanto debole che le sue sole mani non sarebbero bastate, e scese a fatica la rozza scala a pioli.
Cadde a terra e la sua testa rimbombò per il gran clangore di spade e chiasso di voci. Qualcuno si stava fronteggiando, nell'arena della grande Cisterna: due membri della Gilda dei Ladri, che lì risiedeva in floridezza ormai da anni, si sfidavano in duello amichevole. Uno di essi era niente meno che il capogilda, il più alto e snello, così come il più brutale, colui che probabilmente avrebbe avuto la meglio se non fossero stati interrotti. Un Elfo Alto in armatura draconica dal volto segnato e il passo lesto.
Passo che impietrì quando la scorse.
"Sofie" chiamò mentre il suo viso sbiancava e la spada gli sfuggiva di mano.
Si precipitò da lei, ma la giovane aveva ormai ceduto all'abbandono dell'incoscienza e non vi fu modo per lui di riscuoterla. La adagiò su un letto, il più quieto e appartato che vi fosse in quell'immenso ambiente, e attese che si ridestasse, torturandosi mani e pensieri, mentre i peggior timori si facevano largo tra le sue preoccupazioni.
Fra i membri della Gilda si diffuse un muto trambusto. Vagavano in silenzio, sbirciando nervosamente il loro capo che sembrava preda d'un profondo sconforto.
"Non mi piace affatto" borbottò uno di loro, prestando attenzione a non essere udito dal diretto interessato "non ne viene mai nulla di buono quando il capo incappa in simili seccature".
"Sua figlia non è una seccatura, Vipir" replicò un altro.
Quello parve sorpreso da tali parole: "sua figlia? Una Nord purosangue?".
"L'ha salvata dalla strada nove anni fa, se non erro, quando lei ne aveva altrettanti" pettegolò una donna, che pure parlava senza malizia.
"E tu, Sapphire, come lo sai?" chiese indignato.
"Anche Runa lo sa" si giustificò lei.
Vipir si voltò fulmineo verso il compare e questi scrollò le spalle: "tutti lo sanno".
"Non io" esclamò "com'è possibile?".
"Te lo spiegherò" si unì una quarta voce "sei il miglior ciarliere, ma il peggior ascoltatore. Eccoti la spiegazione, Vipir".
"Ad ogni modo, Thrynn" deviò quello "sarai d'accordo con me che, se il problema dovesse allontanare il capo dalla base, la sua assenza potrebbe procurarci rogne".
Non parlava certo senza una dose di ragione. Non negavano infatti che il loro capo fosse il miglior dono che gli Otto avessero offerto alla Gilda da molto tempo, né che da quasi un decennio, ormai, nessuno più osasse prendersi gioco della potente organizzazione del Rift, ma assieme alla nuova gloria, egli aveva portato con sé grande aria di cambiamento: la Gilda complottava e corrompeva, s'arricchiva e si faceva beffe dei poteri forti, tenendo fede a tutto ciò che apparteneva alla sua più antica natura, tuttavia non vi erano più compromessi cui essa si piegasse. Il popolo non la odiava né temeva più di quanto non odiasse o temesse i propri governi e, se inizialmente vi si affidava solo in caso di necessità, ora ne chiedeva il supporto prima ancora di rivolgersi all'autorità ufficiale, poiché sapeva che avrebbe ottenuto risultati più rapidi e in modo pulito. Gli stessi Jarl, ormai, patteggiavano e discorrevano più che volentieri col capogilda e l'avrebbero considerato alla stregua d'un loro pari, se solo questi non si fosse ostinato a vivere un'esistenza tanto discreta e appartata.
"Sono già protettore di Skyrim in qualità di Dovahkiin, tuttavia l'intera regione pare essersene scordata" diceva "eppure non è passata che una decina d'anni dalla caduta di Alduin: la fine del mondo ci ha quasi colti tutti e già essa viene cantata da menestrelli e ubriachi senza consapevolezza né rispetto, quasi fosse una fiaba burrascosa. Se tale onore non è sufficiente a fruttarmi fama, certo non permetterò che il mio onere di pacificatore del Rift lo faccia al posto suo. Mi sono unito alla Gilda per necessità e ora continuo a guidarla per fiducia: accontentatevi del fatto che gli uomini che la compongono si comportino ormai in maniera accorta e lasciateci fuori dalla vostra politica, se non avete denaro da offrirci oltre alle vostre parole".
Era evidentemente una figura rispettata e temuta, poiché portava su di sé il titolo d'uccisore del divoratore di mondi e, al contempo, quello di domatore virtuoso d'una banda senza morale né princìpi. Dunque, come Vipir ben comprendeva, senza di lui se ne sarebbero andati gran parte del rispetto e della riverenza che i pezzi grossi ormai mostravano nei loro confronti.
"Ti stai sfondando le nocche prendendo a pugni un uscio spalancato" lo zittì Runa "è più che probabile che la ragazza abbia semplicemente ceduto alla curiosità di vedere la nostra sede e si sia messa in cammino sottovalutando i rigori del viaggio. Da qui a Windhelm la strada è lunga e perigliosa. Si sarà sfiancata. Domani il capo la riaccompagnerà a casa e vi rimarrà come suo solito per un paio di settimane, prima di tornare qualche giorno tra noi".
 
Quando Sofie si svegliò, il volto rigido e affilato dell'Elfo Alto fu tutto ciò che i suoi occhi seppero riconoscere: "pa', perdonami se non sono riuscita a parlarti appena arrivata, perdonami se sono crollata" bofonchiò "ma ho corso per giorni così da raggiungerti il prima possibile, ancor più rapidamente d'una missiva".
Lui la zittì con gesto lieve: "cos'è accaduto?" ma a quella domanda gli occhi di lei si colmarono di lacrime e i suoi denti batterono così forte che le riuscì difficile rispondere: "uomini mascherati sono entrati in casa nostra" singhiozzò.
Quelle parole parvero squarciargli lo stomaco: "che ne è di tuo fratello?" chiese in fil di voce "e di tua madre? Sofie, dimmi che ne è di loro" insistette, perché il pianto opprimeva a tal punto il respiro di lei da mozzarle le parole in gola.
"Ma'... lei l'ha difeso, l'ha difeso come una fiera, ma è una mercante, pa', non una guerriera".
Anche il respiro di lui si mozzò mentre la più crudele delle consapevolezze ne annichilì ogni speranza: "Sofie, che dici?".
"Ulfric ha promesso per lei un funerale onorevole e una nuova tomba è stata eretta in nome di Ysolda la dolce, nelle terre del feudo di Whiterun. Ho dovuto scegliere se partecipare alle esequie o venire da te".
Aveva sperato di trovare conforto in suo padre, ma ora che si trovava di fronte a lui vide nei suoi occhi solo orrore e smarrimento. Per la prima volta da quando lo conosceva, le parve debole e fragile come un fiore annientato dalla prima gelata.
"Cal" continuò nonostante tutto "è stato preso. 'Il bastardello gli somiglia: ha il suo sangue e tanto basta'. Queste sono state le loro parole" ora nel suo sguardo vi era colpa e rabbia oltre che cocente dolore "ti ho deluso e me ne vergogno. Io ero presente, ma mi hanno presa e legata perché assistessi al loro operato e così mi hanno lasciata, finché non mi sono liberata per conto mio, ma ormai era tardi: ma' era morta e loro spariti con Cal. Mi dispiace" ringhiò tra i singhiozzi "mi vanto d'essere tua allieva, ma se lo fossi degnamente nulla di tutto questo sarebbe accaduto".
Con mani tremanti, lui le carezzò il volto intriso di lacrime: "non vi è colpa che tu debba sobbarcarti. Hanno atteso che io fossi lontano per colpire. Troverò Cal. Lo troverò, Sofie, è una promessa che faccio di fronte agli Otto o ai Nove che siano, ma tu devi riposare e rimetterti in forze".
"Desidero venire con te".
"No" negò categorico "resterai qui. Nessuno verrebbe a cercarti in un covo criminale, ma questa è brava gente, se le ordino di esserlo. Sarai al sicuro" detto questo, si alzò e se ne allontanò senza darle modo di ribattere.
"Sapphire, te l'affido" disse marciando verso l'uscita.
"Sì, capo" annuì trattenendo qualsiasi obiezione.
"Brynjolf, a te la Gilda".
"Per quanto?" chiese l'altro.
"Per il tempo necessario".
 
Non vedeva tanti occhi puntati su di sé dai tempi in cui, per la prima volta, la follia degli eventi aveva trascinato in tutta Skyrim la voce che lui fosse il nuovo Sangue di Drago, eletto di Akatosh e salvatore del Mundus.
Tuttavia, stavolta in essi non trovò orgoglio, curiosità o ammirazione, ma solo pietà e turbamento.
Non permise loro di scalfirlo. Avanzò per le gelide vie, fino a che gli immensi portali del Palazzo dei Re non si stagliarono di fronte a lui. Entrò senza chiedere udienza, né attendere che le guardie dessero notizia del suo arrivo, ma nessuno gliene avrebbe fatto rimprovero, poiché lui era il più stimato cittadino di Windhelm, vanto e orgoglio della città, nonché del suo Jarl.
Quel giorno, due tra gli uomini più potenti di Skyrim, da molti anni rivali e al contempo cari amici, si sarebbero affrontati senza che vi fosse benevolenza o cameratismo ad unirli.
“Una promessa m'era stata fatta, Ulfric Manto della Tempesta, ossia che qui avrei avuto pace, che qui non avrei dovuto temere” fu la cruda accusa del Dovahkiin e s'era rivolto allo Jarl prima ancora di fare ritorno alla propria dimora, poiché non osava avvicinarvisi.
“Hanno attaccato nella notte e si sono dileguati prima che noi potessimo intervenire” si giustificò la guardia ufficiale di Ulfric, erta al suo fianco.
“Non è a te che mi rivolgo, Galmar, dunque taci”.
“Lama della Tempesta...”.
“Non chiamarmi a quel modo” zittì lo Jarl impunemente e non parve affatto risentirsene “non ho combattuto al tuo fianco, né ho sostenuto la tua causa”.
“Pure giungi a me con la pretesa di avere la mia protezione”.
“Quindi tale è la riconoscenza offerta all'uccisore del divoratore di mondi. Pochi anni e già dimentichi la parola data, Ulfric Manto della Tempesta”.
“Non eccedere con la tua arroganza, Elfo” ringhiò Galmar, ma Ulfric gli fece cenno di tacere.
“Comprendo la tua ira...” cercò piuttosto di mitigare.
“No, non la comprendi, Re Nord” sibilò con disprezzo.
Ulfric lo ignorò: “tuttavia le parole di Galmar sono veritiere: hanno agito nell'ombra e nell'ombra sono spariti. Riceverai la tua somma ereditaria appena le carte saranno siglate e ti assicuro che...”.
“Brucia la mia somma ereditaria con la tua maledetta superbia, Re Nord” inveì “e dimmi chi ha attaccato la mia casa, chi ha ucciso mia moglie. Dimmi dove hanno condotto mio figlio. O non avrai più alcun alleato in me”.
“Mai sei stato mio alleato”.
“Ho salvato la tua gente dall'ira di Alduin”.
“Non dall'ira dell'Impero”.
“Quello è un male che tu solo hai trascinato su te stesso, in nome di un popolo cui io non appartengo. Non mi pento d'essermi estraniato da questa guerra e non nego che ben poco interesse vi sia in me per chi la vincerà. Ora, Re Nord, rispondi alle mie domande, o augurami buona fortuna e dimmi addio”.
“Buona fortuna” era ciò che già andava affiorando sulle labbra di Galmar, ma Ulfric non era del medesimo avviso: “pare che un giovane soldato fosse di ronda nel tuo quartiere, quella notte. Ha parlato di scure figure, probabilmente penetrate in città col favore delle tenebre e, ahimè, della sventatezza delle guardie. Era molto turbato: è riuscito a fare ben poco e ancor meno è stato fatto in seguito. Mi perdonerai” troncò sul nascere un'astiosa protesta “ma la quasi totalità dei miei uomini combatte in prima linea, lontana da qui”.
“Convoca quel soldato, Ulfric, perché possa parlarvi. Confido in una piena libertà d'azione”.
“L'avrai” garantì il sovrano e lui se ne congedò con un secco inchino, austero e formale, l'unico che avesse mai concesso allo Jarl di Windhelm da quando, per la prima volta, mise piede in città. Certo non fu un gesto di rispetto o d'ossequio, bensì una provocazione, una burla satura di tutto il livore che quell'animo ferito reprimeva in sé, e il sovrano ben lo comprese.
 
“Mio signore” la giovane guardia s'impettì scorgendo l'alta figura elfica avanzare nelle tenebre, quando finalmente il Dovahkiin trovò la forza di tornare alla propria casa.
Il soldato attendeva sulla soglia ancora chiusa, lo sguardo fisso nel buio per evitare d'incrociare il suo: “ho saputo d'esser stato convocato, mio signore”.
“Non chiamarmi a quel modo” lo rimproverò “non sono tuo signore”.
“Tu non hai nome, mio signore. Proprio per questo il popolo ti chiama Dovah: non sa come altro rivolgersi a te”.
“Dunque tu fa altrettanto”.
Il soldato annuì timidamente: “d'accordo, Dovah, mio signore. Qual è il mio compito?”.
“Mi hanno detto che eri di ronda la notte dell'aggressione”.
Il volto del giovane Nord sbiancò. Non seppe come ribattere.
“Dunque?” insistette l'altro.
“Dovah, mio signore...”.
“Rispondi”.
“Lo ero”.
“Mi hanno anche detto che non hai combattuto”.
Il ragazzo abbassò lo sguardo, contrito e mortificato: “è così, Dovah, mio signore”.
“Non sono tuo signore”.
Il volto del soldato si contrasse: “perdonami, Dovah”.
“Sei fuggito?”.
Quello annuì. I suoi denti tremavano appena.
“Quanti erano?”.
“Tre”.
“Solo tre?”.
Quella domanda fu una pugnalata che accese in lui grande vergogna: “dominavano le arti arcane” balbettò “io...”.
“Da quanto sei in servizio?”.
“Due mesi, mio signore... Dovah” si corresse.
Quello lo squadrò con stupore: “due mesi appena?”.
“È così”.
Non a caso, dunque, il ragazzo sembrava fresco d'accademia.
“Da quando i novelli supervisionano le vie della città?”.
“Da quando i veterani cadono sul campo di battaglia” rispose con amarezza.
“Hai mai combattuto in prima linea?”.
Il giovane scosse il capo: “eravamo sei fratelli, fino a quattro anni fa. Ora rimango solo io, fedele ai Manto della Tempesta per onore. Mia madre ne morirebbe, se me ne andassi come loro. Per questo pensavo al congedo, per quanto riprovevole possa sembrare... perdonami, non dovrei assillarti con questioni tanto futili”.
“Certo non sono futili per lei”.
Con mano ferma ma animo scosso, Dovah ruotò la chiave nella serratura e questa scattò docilmente. Aprì la porta, ma non avanzò. Vi era solo buio ad accoglierlo.
“Entra” ordinò “accendi braciere e candele”.
Il giovane non sembrava propenso ad inoltrarsi in quell'oscurità spettrale satura di morte e mistero, ma non osò opporsi e fece quanto chiestogli.
Quando infine vi fu luce, Dovah varcò la soglia.
Aveva visto e inflitto morte, nel corso della sua vita, mai per diletto, mai con leggerezza, bensì spinto dalla necessità di sopravvivere in una terra ostile e straniera. Tuttavia, il suo stomaco si sconquassò e le vertigini lo colsero quando il naso odorò e gli occhi scorsero il sangue che impregnava il legno del pavimento. Il sangue di lei.
Quella casa aveva già assistito ad atti immondi. Lui stesso vi aveva posto fine, per poi acquistare la proprietà a prezzo conveniente, poiché nessun altro desiderava più mettervi piede. Ora, nuova vita innocente era stata spezzata tra quelle mura e se, fino ad allora, aveva creduto di conoscere l'oppressione del dolore e la rabbia dell'impotenza, dovette ricredersi.
Nel mezzo della grande pozza ormai irrancidita era un oggetto in ferro che Dovah raccolse senza indugi. Grezza e pesante, gli parve la scimmiottatura di maschere che già aveva visto in passato. Un simbolo spiccava sul suo retro: una mano dal palmo aperto e le dita ampie. La sua mente andò istintivamente alla Confraternita degli Assassini che per generazioni aveva ammorbato Skyrim, tuttavia da anni quella minaccia non era che un'ombra innocua. Lui stesso era stato causa della sua disfatta.
Inoltre, la mano che ora giaceva nella sua non era nera come pece, bensì rossa come il sangue. Il mignolo pareva mozzato.
Era un marchio che non conosceva e ciò lo sorprese, ma presto il giovane lo strappò da quei pensieri: “non c'era” assicurò “il corpo è stato portato via, la casa chiusa. E quella non c'era”.
Dovah sorrise amaramente: “mi provocano” mormorò.
“Chi, signore?”.
“Forse tu puoi dar risposta alla tua stessa domanda”.
Il ragazzo tardò a replicare, così incerto e smarrito: “mi spiace, signore, io...” ma a quel punto un ricordo tanto vago quanto prepotente tornò alla sua memoria “in effetti, sì, Dovah, signore. O, per lo meno, posso dire d'aver visto uno di loro, poiché non sapevano che io fossi presente e sono riuscito a spiarli”.
Dovah, ancora chino a terra, si alzò con la lentezza d'un meccanismo prossimo all'incepparsi: “dunque?”.
Tuttavia il giovane era restio a parlare, poiché l'immagine che si formò nella sua mente era bizzarra e non riusciva a darle significato. In realtà, era la sua fortunata mancanza di esperienza ad impedirgli di comprenderla: “ho visto un volto grottesco e cinereo, con iridescenti occhi d'ambra, che balenavano nella notte come fuoco”.
Al contrario suo, Dovah si orientò immediatamente in quella descrizione. I suoi denti si strinsero e le unghie penetrarono nei palmi: “hanno preso il bambino?”.
“È così” balbettò il ragazzo e la risposta fu sufficiente perché Dovah abbandonasse la dimora senza curarsi di chiuderla e senza congedare il soldato.
Abbandonò Windhelm. Sellò in fretta e furia la giumenta morella che riposava quietamente nelle stalle e spronò verso nord.
 

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Capitolo 2
*** Brutti sogni ***


 
Non era originario di Skyrim. E neppure giungeva da Cyrodiil. Lui era un Altmer di Summerset, una terra che odiava profondamente e di cui, al contempo, provava grande nostalgia.
Risiedeva da appena una dozzina d'anni nell'estremo nord di Tamriel e, se inizialmente il freddo pareva al suo corpo e al suo spirito il peggiore dei nemici, ora non lo turbava affatto.
Costrinse la cavalla a moderare la propria andatura perché non capitombolasse tra neve e ghiaccio, nonostante l'esagitazione che sembrava scuoterla come una foglia fremente: le bestie si innervosivano nei pressi della grande Accademia di Winterhold e lui non poteva dar loro torto.
“Sangue di Drago, quale onore”.
Quell'esclamazione improvvisa lo fece sobbalzare, ma Dovah ne riconobbe la voce e l'istante d'esitazione si dileguò tanto rapidamente quant'era venuto: “Nelacar” salutò, legando la giumenta alla palizzata della locanda cittadina a cui il mago Altmer si poggiava, incurante del gelo.
“È da tempo che non metti piede in queste tristi terre” constatò quello “ti occorre il favore dello Jarl?”.
“Mi domando perché si pensi sempre e incorreggibilmente che le mie visite siano guidate dall'opportunismo anziché dalla cortesia”.
“Necessità, non opportunismo. Dunque non sei qui per conferire con lo Jarl. Deduco ti occorra il supporto dell'Accademia”.
Dovah lo scrutò labilmente e quello ridacchiò: “buona fortuna” concluse dandogli le spalle, ma l'altro lo fermò prima che potesse tornare nella locanda: “problemi all'Accademia?”.
“Avresti dovuto accettare il ruolo di Arcimago quando te l'hanno proposto anni fa, per quanto mediocre tu sia nelle arti arcane. I membri di quella setta ampollosa non sono in grado di gestirsi democraticamente e lo sono ancor meno a scegliersi un leader degno”.
“Chi li comanda?”.
“Nessuno, questo è il problema. Hanno organizzato un collegio e le comuni opinioni dovrebbero guidare l'operato di tutti, ma è solo una ridicola pagliacciata”.
“Vedo che le vecchie ferite tra voi non si sono sanate. Quanti anni dovranno trascorrere prima che il tuo disprezzo lasci il posto al buon senso?” chiese sornione.
“Quale buon senso? Riunirmi a loro per ingabbiarmi in mura di antica sapienza e nuova decadenza? Gli allievi diminuiscono di anno in anno e ormai il popolo guarda all'Accademia con indifferenza anziché con timore”.
“Non è forse meglio?”.
“Non direi. Il mondo si sta dimenticando dei maghi di Winterhold”.
“Temo che importi a me tanto quanto importi a te”.
“Dunque ben poco”.
La scrollata di spalle di Dovah non lo negò affatto: “sono qui a scopo di ricerca. Non ho intenzione di immischiarmi nelle questioni dell'Accademia”.
“Ti accoglieranno a braccia aperte” e gli diede le spalle con l'intento di tornare al caldo, accanto al braciere della locanda, con un bel calice di vino speziato a rallegrargli lo stomaco, ma di nuovo si fermò e stavolta fu lui a richiamare l'attenzione del Dovahkiin: “ti ho definito mediocre e non batti ciglio?”.
“Sono consapevole d'essere un ottimo guaritore. In caso contrario, sarei morto molti anni fa. Oltre a questo, però, conosco ben poco delle arti magiche”.
“La nostra stirpe ci ha concesso un grande vantaggio sulle altre razze. Ciò che fai è sciocco: dovresti sfruttarne il dono”.
“A volte rimpiango di non essere nato in questa terra, condividere il sangue della sua gente: mi avrebbe giovato molto più di una naturale predisposizione alla magia in cui non ho interesse”.
L'altro rise: “spergiuro” borbottò lasciandolo finalmente alle proprie questioni.
Dovah non indugiò oltre. Inforcò il sentiero che conduceva all'alto ponte di pietra e avanzò fino ai cancelli incustoditi.
 
L'Accademia era stata una delle prime destinazioni cui avesse volto la propria attenzione quando, fuggito dal ceppo del boia amaramente assaggiato a causa del terribile fraintendimento che, quasi tredici anni prima, l'aveva trascinato nell'ormai diruto villaggio di Helgen, s'era visto costretto a vagare in una regione a lui straniera, di cui nulla sapeva e nulla gli importava. Mai aveva avuto interesse o modo d'approcciarsi alle arti magiche e non aveva certo intenzione di cominciare all'interno della famigerata Accademia di Skyrim, tuttavia era solo e forestiero, ben lungi dallo scoprire ciò che si annidasse nel suo sangue e la gloria che il dono di Akatosh gli avrebbe concesso.
Suo malgrado, era rimasto invischiato in una faida interna, causa di grande scompiglio, cui lui aveva preso parte, perché si risolvesse pacificamente e senza causare sfaceli. Questo per poco non gli costò l'obbligo alla nomina di Arcimago, titolo che gli sarebbe stato conferito per pura gratitudine e disperazione.
Ebbe ovviamente il buon senso di rifiutare e da allora i suoi rapporti con l'Accademia erano sempre stati tanto buoni quanto irrilevanti.
Comprese immediatamente che le parole di Nelacar fossero veritiere quando, messo piede nel grande atrio, non udì Tolfdir impartire una delle proprie lezione a qualche mago novello.
Soprattutto, lo comprese quando trovò la porta del 'Arcanaeum chiusa a più mandate. Certo non se ne lasciò intimidire: si chinò con grimaldello alla mano, pronto anche a sfondarne i cardini, se fosse stato necessario.
“Ti si riconosce ovunque vai”.
Il grimaldello gli si spezzò tra le dita: “è forse divenuta abitudine dei residenti di Winterhold acquattarsi alle spalle di un povero ignaro per prenderlo alla sprovvista?” si lamentò Dovah, senza rialzarsi.
“Sei a capo di una delle più rinomate gilde di ladri in tutta Tamriel e lasci che ciò accada?”.
“E chi poteva immaginare che ci fosse qualcuno nei paraggi?”.
Dovah conosceva bene quel Bosmer: Enthir, ufficialmente membro dell'Accademia, ufficiosamente fornitore della Gilda di conoscenza arcane e artefatti magici.
“Ringrazia che sia stato io a scovarti”.
“In caso contrario, avrei chiesto perché mai l'Arcanaeum sia sigillato”.
“Perché Urag è assente e non desidera che altri mettano piede nella biblioteca senza la sua supervisione”.
“Urag assente? Impossibile: quell'Orco non abbandona mai il suo posto”.
“L'Accademia aveva bisogno di lui altrove”.
“Dunque è proprio vero che state colando a picco” provocò, ma non diede tempo a Enthir di ribattere “coraggio, apri”.
“Non posso”.
“Come sarebbe a dire?”.
“Urag gro-Shub è stato chiaro”.
“Come se te ne importasse qualcosa”.
“Non mi alletta l'idea di dover affrontare in duello quel Troll letterato”.
Dovah gli si avvicinò: “Enthir, non sono arrivato fin qui per andarmene a mani vuote. È importante, più importante di quanto tu possa immaginare. E se per entrare in quella maledetta biblioteca dovrò tagliare la lingua e mozzare le mani a ciascuno di voi per impedirvi di fermarmi, allora lo farò”.
Enthir sostenne il suo sguardo caparbiamente, ma non fu semplice. Dovah non parlava a vanvera e lui ne era ben consapevole. Ripensò alla minaccia e tremò all'idea che potesse verificarsi, poiché sapeva che quell'Altmer, di cui così poco conosceva all'infuori delle terrificanti doti belliche, avrebbe prestato fede alla propria parola, se necessario.
“Ascolta” azzardò “io non posso farlo. Dunque prendi uno dei tuoi grimaldelli e rimettiti all'opera. Non ti fermerò”.
“Non sei collaborativo quanto speravo, ma può bastare”.
Tornò al proprio posto e riprese ad armeggiare con la serratura.
“Come vanno le cose nel Rift?” chiese Enthir, poggiato allo stipite accanto a lui.
“A gonfie vele” rispose distrattamente.
“Sei riuscito a perseverare in un progetto intelligente, Dovah: sei incappato in un'istituzione che non t'aggradava e che pure sapevi di non poter estirpare e, per quanto possibile, l'hai plasmata a tua immagine e somiglianza, mantenendo il favore di tutti. Questo va ben oltre la magia dell'Accademia” ridacchiò compiaciuto.
“Starei ad ascoltarti tutto il giorno” lo interruppe, aprendo il grande portone “ma ho altro cui badare” e piantato in asso l'Elfo dei boschi, si chiuse nell'Arcanaeum.
Da anni non vi metteva piede e l'improvvisa consapevolezza che avrebbe dovuto rovistare tra le centinaia di libri che quel luogo preservava nella cieca speranza di trovare una risposta gli fece sfuggire un guaito da cane bastonato.
Tuttavia, un tonfo sordo attirò la sua attenzione e l'improvvisa scarica d'angoscia venne surclassata dalla più istintiva prudenza. Avanzò quietamente e neppure un gatto ne avrebbe udito il passo, ma i suoi nervi si sciolsero non appena riconobbe la goffa Dunmer che aveva lasciato cadere a terra un pesante tomo sull'arte dell'evocazione.
“Mi era stato detto che l'Arcanaeum fosse precluso a ogni visita”.
Altri tre tomi caddero con colpo sonoro.
“Rilassati, Brelyna. Non riconosci un vecchio amico?”.
“Vecchio amico, dici?” replicò lei aspramente “tanto amico che per poco non andavo dimenticando il tuo volto. Saranno tre anni che non metti piede qui”.
“Ho scritto più volte, per chiedere come procedessero i tuoi studi. Non mi pare d'aver mai ricevuto risposta”.
Brelyna tacque e, se non fosse stato per la carnagione cinerea, le sue goti sarebbero divenute scarlatte quanto i suoi occhi: “hai ragione” ammise “ben trovato, Dovah” salutò infine.
“Salve” ricambiò lui con un gesto del capo.
“Cosa ti porta qui?”.
“La necessità” senza aggiungere altro, s'immerse nella lettura di tutti i titoli che credeva potessero concedere informazione su un qualche clan votato alle arti magiche, il cui simbolo fosse la mano scarlatta riportata sulla maschera di ferro ancora custodita nella sua dimora di Windhelm.
Brelyna lo osservò senza interferire.
Rispettava quell'uomo. Erano entrambi giunti a Skyrim da poco quando si conobbero tra le mura dell'Accademia e lui l'aiutò molto, sopportandone gli impacciati esperimenti e i deturpanti strafalcioni. Non era mai divenuta una grande maga, tuttavia si considerava un'abile ricercatrice e una zelante studiosa.
“Posso esserti d'aiuto?” azzardò ad un tratto, perché da minuti interi lui frugava in molti volumi senza risultato.
“No” fu l'asciutta risposta, tuttavia trascorse poco tempo prima che un secco colpo di piede rovesciasse il tavolo su cui aveva poggiato alcuni libri.
Brelyna sobbalzò, ma aveva ormai smesso di prestargli attenzione e non comprese cosa fosse accaduto. Lo osservò per qualche istante, spaesata.
“Tutto bene?” gli chiese, avvicinandosi cautamente.
Dovah era chino su uno scaffale, scuoteva il capo e borbottava tra sé.
“Stai cercando qualcosa in particolare...”.
I suoi brontolii divennero infine tanto tonanti da farle aggrottare la fronte: “sto solo perdendo tempo” inveì “cerco un ago in un pagliaio”.
“Allora dimmi di che si tratta e cercheremo insieme”.
“No” negò fermamente “non ho intenzione di coinvolgerti”.
“Coinvolgermi?” lo scrutò perplessa “in quale guaio ti sei cacciato, questa volta?”.
“Se solo fosse dipeso da me” sibilò Dovah di rimando.
Mai le era capitato di vederlo tanto turbato e mai aveva immaginato che potesse accadere.
“Sarò pure una maga dalle dubbie abilità, ma compenso le mie lacune pratiche con lo studio e il sapere. Conosco questi tomi come solo Urag può vantare e sono certa di poterti essere d'aiuto”.
Dovah se ne convinse, poiché non aveva molte alternative cui affidarsi: “cerco un simbolo: una mano di sangue col mignolo mozzato”.
Se solo ne avesse avuto modo, il volto di Brelyna sarebbe sbiancato: “non è necessario perdersi in tomi e letture” disse sommessamente “quella mano appartiene a un gruppo mercenario stanziato nei pressi di Rorikstead”.
“Mercenari? È bizzarro. M'è stato riferito d'un vampiro intento ad agire nei pressi del luogo in cui è stato lasciato tale simbolo come monito”.
“Non è affatto bizzarro. Quei mercenari non collaborano coi vampiri: essi sono vampiri. E agiscono a pagamento per portare a termine incarichi in cui neppure la Confraternita Oscura osava immischiarsi”.
“Come sai tutto questo?”.
“Due anni fa hanno tentato un'azione contro l'Accademia. Hanno fallito, per grazia dei divini, ma questo certo non ci ha persuasi dall'indagare sull'accaduto. Abbiamo tentato di pedinarli e punirli, ma... ricordi Onmund e J'zargo? Hai memoria di questi due allievi ormai divenuti maestri?”.
“Certo” rispose lui stranito.
“Ebbene, li abbiamo ritrovati col ventre squarciato e le viscere sradicate dal corpo” distolse lo sguardo, come se bastasse a preservarla da quell'odiosa immagine, tornata dopo tanto tempo ad aggrovigliarle lo stomaco.
“Questo fanno” continuò Brelyna con voce tremante e occhi colmi d'odio “promettono dolore e donano morte. Nessuno ha più osato avvicinarsi a loro, ma io non ho mai interrotto le mie ricerche. Parli d'un dito mozzato? Secondo la loro simbologia la mutilazione significa tortura e pegno di sangue”.
Al contrario suo, il volto di Dovah divenne bianco come un cencio e tali dovevano essere l'orrore e la paura impressi nel suo sguardo che Brelyna comprese quanto tremenda fosse la situazione in cui era invischiato.
“Perché ti occorrono queste informazioni? Perché Ysolda non è con te?”.
Lui non rispose.
“È accaduto qualcosa ai tuoi ragazzi? Di solito Sofie t'è sempre appresso. Le è forse...”.
“No” negò di getto, rigido come uno stocco.
“Cal è con lei?” insistette, ma di nuovo trovò solo silenzio a risponderle.
“Lascia che ti aiuti”.
“Non ti coinvolgerò” ribadì “grazie, Brelyna. Ripagherò il favore che mi hai concesso, ma ora devo andare”.
 
Quasi stremò la propria cavalcatura, ma percepiva la morsa del tempo a tormentarlo e la fretta pompava angoscia nelle sue vene come il cuore da giorni in palpitazione pompava sangue.
Non chiese informazioni ai locali, una volta giunto a Rorikstead, poiché non desiderava essere causa di pericoli e, soprattutto, non voleva che vi fosse sentore di sé a precederlo: credeva di conoscere il proprio nemico, era certo di poterlo trovare e, ancor più, di poterlo affrontare, dunque avrebbe agito con la discrezione che la sola Nocturnal sapeva donare. E così fu.
Vagò a lungo, con cautela e pazienza.
Rischiò d'incappare in svariate ronde, gruppi arroganti e criminosi che poco avevano a che vedere con la guardia cittadina: non morti con vesti di pece e occhi d'ambra perlustravano la zona diligentemente e più volte i loro segugi dalle zanne di ghiaccio e la mente putrida furono a un passo dal scovarlo.
Tuttavia, ciò non avvenne, perché Dovah procedeva con fredda lucidità e caparbia determinazione: fu proprio a un passo dall'obiettivo che la sua risolutezza vacillò, non perché avesse ormai perduto la speranza, non per paura o dubbio, ma per lo stupore che lo colse quando infine scorse tra le selve un covo sul cui ingresso spiccava l'empia sagoma d'una mano di sangue.
Sospinto dalla buona fede, procedette d'un passo e non s'avvide che, tra le sterpaglie, s'annidava un rovo di rune. Uno schianto scosse le fronde e lui fu scaraventato nella piana, allo scoperto. Avvedutosi del terribile errore, impiegò un solo istante a issarsi in ginocchio, ma ebbe appena il tempo d'estrarre la spada prima che uno dei vampiri ormai consapevoli del suo agguato tentasse di prenderlo alle spalle. Dovah non glielo permise: lo trafisse al petto e questi stramazzò a terra esanime.
Che lo volessero vivo o morto era per lui irrilevante : combatté come se ne andasse della sua stessa anima e svariati caddero per mano sua. Tuttavia, altrettanti giunsero per rimpiazzarli.
Infine si trovò accerchiato come un cervo messo all'angolo da un branco di lupi e, quando l'ennesimo affondo fu pronto a colpire e squarciare, un dolore acuto ne percorse la schiena. Subito i suoi sensi si affievolirono.
Scosse il capo, barcollò come se una forte sferzata di vento avesse percosso le sue gambe e infine cadde in ginocchio.
“Preparate le catene” sentì confusamente “non uccidetelo. Ingabbiatelo”.
Uno dei mercenari si avvicinò impunemente, le mani strette su grosse corde. Si chinò per legargli i polsi, ma Dovah si voltò come una fiera a cui venga pestata la coda e lo pugnalò alla tempia destra. Non recuperò la propria daga: non ne ebbe il tempo.
“È ancora feroce” urlarono “attenti alle zanne del drago”.
E proprio in quell'istante Dovah tentò di attingere al proprio potere per scaraventare contro di loro un'ondata di fuoco e sangue, ma non aveva forza per parlare e la sua mente ragionava con lentezza.
Una scarica di gelo lo pervase. Cercò di alzarsi, ma il suo corpo era sordo a ogni comando.
Infine lo atterrarono in molti, poiché ne temevano il livore e non desideravano arrischiare la vita di altri uomini.
Dovah non trovò le energie per ribellarsi, né la prontezza di spirito per pensare a una qualche via di fuga alternativa. Era stato avvelenato, le sue membra erano intorpidite, la sua mente offuscata. Infine, mentre lo trascinavano nelle tenebre, gli occhi si velarono di fredda vacuità e la coscienza s'assopì.
 
Si svegliò di soprassalto.
Ansimava e le sue mani tremavano.
"Qualcosa non va?" fu una voce a lui nota, accorata e sorpresa, a riscuoterlo.
La guardò, ma i suoi occhi parevano non vederla.
"Dico davvero, tutto bene?" Ysolda si sedette accanto a lui. Gli carezzò il viso: le sue mani erano calde e lievi.
Lui non rispose. Era stranito, terribilmente confuso.
Lei rise: "sembra che tu stia guardando un fantasma".
Dovah tacque.
Si trovava a casa, ma vi era un gran silenzio attorno a lui.
Un gran silenzio.
Lo mormorò senza rendersene conto.
"Lo credo bene" commentò lei "la casa è vuota. Sofie è ancora a spasso con quel Pukka" storse il naso "lui è un bravo ragazzo e lei molto cauta, ma credo comincino ad esagerare. Lo so, lo so, ormai è una giovane donna, libera di frequentare chi più le aggrada, ma...".
"Sofie si trovava a Riften" la interruppe in un mormorio smarrito.
"Cosa? Quando?".
Non seppe rispondere.
"L'hai accompagnata tu? Non dirmi d'averla condotta alla Gilda".
"V'è arrivata da sola".
"E quando?" insistette "da giorni tu stesso non vi metti piede".
"Dov'è Cal?".
Ysolda fu presa alla sprovvista da quella domanda e tardò a rispondere. Lui ne fraintese il silenzio e si alzò con impeto, sedendo sul ciglio del letto, in preda a grande agitazione, incerto sul da farsi.
"Tesoro, si può sapere che hai? L'ho sempre detto che non dovresti dormire a metà giornata: la tua mente si scombussola, come quella d'un vecchio. Cal è nel Quartiere grigio, a giocare coi nipoti della vecchia Elydrel . Quante volte l'abbiamo ripetuto questa mattina?".
A quel punto ricordò.
"Da Elydrel" ripeté in un mormorio "ne sei sicura?".
"Ve l'ho accompagnato io stessa".
Non ne sembrava affatto convinto e lei sbuffò contrariata: "metti in dubbio la mia affidabilità?" chiese rialzandosi e tornando a sistemare il guardaroba "a volte ho nostalgia di come tu fossi prima dell'arrivo di Cal, quando l'avresti volentieri strappato dal mio ventre con le tue stesse mani pur di prevenire l'immenso fastidio che temevi ti avrebbe arrecato. Non eri affatto gentile con lui, i primi tempi, lo ricordi? E io ti odiavo per questo, ma almeno non dovevo fare costantemente i conti con la tua tremenda apprensione".
"Ho fatto un sogno... un incubo" biascicò Dovah.
"E pare che in esso siano accadute cose terribili" ironizzò Ysolda.
"È così" vi era grande serietà nella sua voce, una serietà che lei non riusciva a comprendere: "sei proprio un bambinone, che si lascia impressionare dai brutti sogni".
"Era vivido, terribile. E pareva reale".
"Come ogni incubo" poi sorrise, comprensiva e dolce "e tuttavia ogni incubo finisce. Sofie è con Pukka, Cal è da Elydrel" assicurò di nuovo.
"E tu sei qui".
Rise: "e io sono qui. Mi piacerebbe anche rimanervi: ti sarei grato se accettassi d'avventurarti nel freddo al posto mio per recuperare Cal, tra un paio d'ore. Lo faresti per me? Grazie davvero".
 

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Capitolo 3
*** Pecore e maiali ***


 
“È bello, ogni tanto, vederti uscire di casa con abiti normali, anziché bardato in quell'armatura”.
“Eppure quell'armatura mi occorre, se mi avventuro all'esterno. Abbi pazienza con lei: mi ha salvato molte volte”.
Ysolda sbuffò: “non so per quanto ancora avrà intenzione di farlo”.
A tali parole, fu lui a sbuffare: “non ricominciamo, per cortesia”.
“No, certo che no”.
“Combattere è ciò che mi riesce meglio e mi permette di portare a casa ottime somme. All'educazione dei ragazzi fa comodo”.
“E fa comodo al tuo spirito belligerante” gli concesse un frettoloso bacio “prego, immergiti nella tormenta e ricorda di far indossare entrambi i mantelli a Cal: fa davvero troppo freddo per vestirsi alla leggera”.
Lui annuì e mise mano alla porta.
“Ah, ringrazia Elydrel per il pasticcio di mele che ha consegnato ieri a Sofie”.
Annuì di nuovo e premette la maniglia.
“E falle presente che può passare quando più lo desidera a ritirare le lozioni che ha ordinato”.
“Perché non ci vai di persona, se avete tanto da dirvi?” replicò spazientito.
“Non sei in grado di farlo in mia vece? Troppe informazioni da tenere a mente?”.
Dovah storse il naso e si convinse una volte per tutte a darle le spalle, ma un lampo discreto, un lieve bagliore scarlatto catturò il suo sguardo.
Tornò indietro scansando Ysolda, che sospirò esasperata: “tesoro, ti rendi conto che tuo figlio di sei anni ha una soglia d'attenzione superiore alla tua? Che c'è ancora?”.
Scostò la libreria quel tanto che bastava a intravedere una sagoma dietro di essa, impressa sul muro. Una mano di sangue.
Il suo respiro si mozzò. Il silenzio che così aspramente l'aveva turbato al suo risveglio divenne improvvisamente insostenibile, tanto greve e pastoso da contorcergli la mente e squarciargli le orecchie.
Fu un solo istante, poi il buio lo colse e di nuovo precipitò nell'oblio .
 
“Chi diamine ha avuto la brillante idea di lasciare l'occhio in così bella vista?”.
Era il suono d'una voce remota, roca e sgradevole, che tuttavia non riuscì a scuoterlo dal torpore.
“È conservato in un vaso di linfa nera” fu una lontana replica di donna “come può intuire di che si tratta?”.
“Non lo so, ma qualcosa deve averlo riscosso: si sta già svegliando”.
Dovah cominciò ad avere nuovamente percezione del proprio corpo: sentì un gelo graffiante a percorrere la sua schiena e il suo petto, un tedioso formicolio a intirizzirgli le gambe e un dolore pungente ad anchilosargli spalle e polsi.
Poi i suoi occhi si aprirono e distinsero con fatica una sagoma scura, erta a un passo dal suo volto: due occhi d'iridescente ambra lo scrutavano dal basso. Comprese d'esser stato incatenato al soffitto d'una cella sotterranea, in un qualche antico, decadente bastione imperiale.
“Buongiorno, bestione” lo salutò il vampiro e le sue labbra si schiusero in un affilato sorriso “sei proprio una roccia. Tanto tempo sprecato in quel filtro e guarda il risultato”.
Pur non essendo ancora padrone di sé, Dovah agì con la rapidità d'una serpe quando comprese che il suo carceriere stava prendendo fiato per chiamare a gran voce i propri compari: sollevò le gambe già sospese e le avvinghiò attorno alla sua gola con tale forza da impedirne ogni respiro, poi si mosse con scatto letale e lo schiocco funereo d'un collo spezzato decretò la fine dello sciagurato.
Il corpo crollò come un sacco vuoto e Dovah si ritrovò nuovamente solo. Scosse le braccia, ma le catene ai suoi polsi erano ancorate con spessi bulloni che, seppur arrugginiti, parevano ancora ben saldi. Grazie a una secca spinta di reni, ecco le suole delle sue calzature poggiarsi al soffitto e le gambe fare leva con quanta forza vi era in loro, finché i ganci non cominciarono a cigolare e infine il metallo cedette. Cadde schiena a terra con uno schianto che gli scosse le ossa e spezzò il fiato. Solo dopo un lungo istante riuscì a prendere un profondo respiro e un dolore acuto ne morse costole e polmoni.
Attese, pregando che nessuno si fosse avveduto del chiasso che aveva causato e, poiché tutto taceva, arrancò fino al vecchio tavolo d'ebano su cui erano poggiati alcuni oggetti che lui conosceva, primo tra tutti il suo arco: tra i flettenti e la corda giaceva un'ampolla. Sul suo collo sottile era infilata una fede nuziale e una targhetta aderiva al vetro nero: Vaermina era il nome che vi lesse, impresso con inchiostro scarlatto.
Sfilò l'anello e lo guardò stranito: apparteneva ad Ysolda, identico a quello che lui ancora portava al proprio indice destro, ma molto più esile e sottile.
Ripensò alle parole del vampiro che ora giaceva morto ai suoi piedi: prese il vaso poggiato in bilico accanto al filtro daedrico e lo voltò verso di sé. Le sue dita s'aprirono istintivamente e il vetro si frantumò a terra, mentre la melma in esso contenuta s'espandeva pigramente sulla pietra e un bulbo ormai spento scivolava nel sudiciume. Con disgusto e respiro inibito si chinò per osservarlo a dovere.
Le sue gambe cedettero e si ritrovò ad arrancare a terra, retrocedendo inorridito, quando riconobbe l'occhio che tanto macabramente si volgeva verso di lui: un'iride ormai prossima all'appannarsi, ma di cui ancora traspariva il bruno corposo, un lampo smeraldino ad attraversarla da cima a fondo, così da spezzarne il calore terreo con un'ombra di dolce freddezza.
La sua schiena incontrò infine la dura roccia e lui più non seppe dove andare. Vi era pura confusione nella sua mente, un terrore che non conosceva e che, forse proprio per questo, non riuscì a dominare. I suoi pensieri vagavano forsennatamente, eppure non riusciva a capacitarsi del fatto che, di fronte a sé, giacesse quell'occhio. L'occhio di Cal.
Improvvisamente si accorse di essere impietrito, di non controllare più le proprie gambe; si accorse che le sue mani tremavano come foglie e che la sua testa era divenuta pesante poiché respirava tanto affannosamente da intorpidirla. Cercò allora di recuperare lucidità, di riacquistare padronanza di sé e, sebbene non riuscisse a trattenersi dall'ansimare come un cervo che avesse corso per miglia e miglia con un branco di lupi alle calcagna, la sua mente tornò a ragionare.
Pensò e rimuginò, poi espirò profondamente e, chiusi gli occhi, mormorò poche parole in una brezza lieve come rugiada, ma pregna di antico potere.
Laas ya nir.
 
Sedeva su uno scranno erto nell'antico salone della fortezza e alcuni dei suoi seguaci vegliavano su di lui e sul suo lauto pasto, pur non temendo alcuna minaccia. Kvash era il nome del loro signore, un vampiro antico ma rammollitosi nell'ozio della sua alterigia.
Si rizzò sulla propria seduta quando udì dei passi avanzare nelle tenebre. I suoi uomini lo attorniarono, in attesa: una figura imponente si mostrò al lume delle molte candele, un Altmer in vesti stregate che si avvicinava stringendo un ingombrante peso nella destra.
“Il prigioniero” mormorò Kvash “perché il prigioniero è libero?”.
Ma Dovah non concesse loro il tempo per alcuna risposta: lanciò ciò che portava con sé ai piedi del mortifero signore. Una testa orrenda e irsuta rotolò malamente tra le increspature della pietra e infine si fermò, il sangue che ancora sgorgava dalla rozza mozzatura.
“Altri otto dei vostri guerrieri giacciono nelle profondità del bastione” riferì cupamente “nessuno si è avveduto di me finché la lama che ho sottratto loro non ne ha squarciato la gola”.
Dovah non mentiva: si era fatto largo tra i molti carcerieri e, privato pressoché d'ogni avere, non s'era trattenuto dal rovistare in ciò che i vampiri avevano accumulato nel corso delle proprie cacce. Rubò la divisa d'un Inquisitore del Dominio Aldmeri e la indossò, preferendola, sebbene fosse per lui pressoché inservibile, alla lieve stoffa della sua casacca e dei suoi calzoni.
Non fu attaccato, perché Kvash taceva e i suoi uomini non osavano agire senza permesso.
Fu un mastino infernale, privo di costrizioni e di senno, a scaraventarsi contro di lui con le fauci spalancate e la morte a esalare da esse, ma Dovah lo rimproverò con poche, arcaiche parole che risuonarono tra le ampie mura di pietra come un tuono.
Kaan Drem Ov.
Quella bestia non era più una creatura di Kynareth e il Thu'um non le donò pace, bensì dolore. Si contorse in pietosi guaiti prima di ritirarsi nell'ombra con le zampe tremanti.
“Dunque è vero” mormorò il signore delle Mani di Sangue “colui che quei sacerdoti hanno preteso da noi era il figlio del Dovahkiin. In quale sciagura ci siamo gettati?”.
“Già, in quale sciagura, bestia della notte?” Dovah avanzò verso di lui e le mani del vampiro si strinsero frementi ai braccioli dello scranno su cui sedeva.
“Dov'è il bambino che avete preso prigioniero?”.
“Non più in nostra custodia, evidentemente” rispose con sardonica spocchia.
“Dunque di chi?”.
“Di coloro che così profumatamente ci hanno pagati per averlo”.
Dovah avanzò d'un altro passo e Kvash dovette ordinare ai propri uomini di attendere, o questi si sarebbero gettati alla cieca in un combattimento contro il prescelto di Akatosh. Sapeva come sarebbe andata a finire: troppi fratelli, troppi nomi illustri erano caduti sotto ai suoi colpi. Da anni quell'Altmer mieteva vittime tra i seguaci di qualsiasi Principe e lui aveva lo sgradevolissimo sentore d'essere a un passo dal divenire il prossimo.
“Tenevate l'occhio di mio figlio in un vaso” ringhiò Dovah, faticando come non mai a reprimere la propria ira “ditemi perché. Che ne è di lui?”.
“Il suo destino non ci riguarda” lo liquidò Kvash “per quanto concerne l'occhio, è il pegno di sangue e morte che ci spettava: poiché per stavolta non abbiamo potuto infliggere morte, ci siamo accontentati del sangue”.
Dovah non faticò a scorgere i gesti composti e subdoli d'un giovane vampiro che agiva alla sinistra del proprio signore, intento a estrarre una lama dal potere immondo per volgerla contro di lui. Era arrogante e debole.
Lo rimproverò, così come aveva rimproverato il cane che tanto gli pareva simile alle creature della notte cui ubbidiva.
Faas Ru. Solo due parole, ma furono sufficienti.
La mano del vampiro si aprì, tremante. Il pugnale che stringeva sfuggì alla sua presa e precipitò a terra con tintinnio sonoro. Infine lui indietreggiò di qualche passo, sopraffatto dalla paura, e fuggì.
“Renderò ciascuno di voi vile come una pecora” promise in un sibilo “e mentre il vostro corpo sarà sordo alla ragione e non vi darà modo di combattere, vi sgozzerò come maiali. Dimmi dove l'hanno portato”.
“Te ne andrai senza arrecarci altro male?” chiese Kvash e avrebbe provato pietà per sé stesso, se solo non fosse stato tanto sopraffatto dal terrore della morte.
Mai Dovah si era abbassato a un simile compromesso, mai la sua mano aveva esitato di fronte a bestie di tal stampo.
Ne aveva ammazzati di meno crudeli, per dovere, per diletto. La vita di questi gli spettava di diritto, poiché il sangue di colei che amava lordava le loro mani, così come l'orrendo torto d'aver arrecato dolore, d'aver seviziato e torturato il loro figlio. Eppure era una promessa che si ritrovò disposto a concedere, pur di salvarlo.
“Non infierirò su di voi” assicurò.
“Volgi a Labyrinthian. Lì troverai le risposte che cerchi. Io più di questo non so”.
Forse mentiva, forse vi era di più che potesse esser detto da quelle labbra cineree, ma Dovah non avrebbe creduto ad altre parole, poiché se la meta del suo viaggio era stata estorta con la paura, qualsiasi informazione dopo di essa si sarebbe macchiata di viltà e menzogna.
Voltò loro le spalle, ostentando fiera sicurezza e fingendo di non prestare attenzione alle loro mani frementi, ai loro sibili ferali. Uscì, non dal passaggio interrato e sudicio attraverso cui era stato condotto alle segrete del bastione, a meridione di questi e protetto dalle selve, bensì dal portale macilento eppure magnificente che ancora si ergeva a settentrione.
Qui, quasi l'inesorabile scorrere del tempo si divertisse a farsi beffe di lui, la sua cerca fu interrotta da un nuovo incontro spiacevole: una squadra di agenti Thalmor, tre soldati in armature elfiche, capitanati da un Inquisitore con indosso i medesimi abiti che fortuitamente Dovah sfoggiava in quel momento.
La sua copertura non fu sufficiente: gli sguardi dei Thalmor lo squadrarono con scetticismo, poiché non si aspettavano che uno di loro vagasse solo in quei luoghi perigliosi.
“Chi sei?” chiese l'Inquisitore.
“Non ti pare evidente?” azzardò Dovah.
“Perché ti trovo qui?”.
Decise di non mentire: “sono scampato alla morte, sfuggendo da un covo di vampiri annidati nei meandri di questo bastione”.
“Hai perso la tua squadra?”.
“Tu che dici, fratello?”.
“Non vi è bisogno di essere tanto pungenti. Non conosco il tuo volto e ammetterai che trovarti qui sia sospetto. Chi sei?”.
Dovah era consapevole che azzardare identità fittizie di fronte a un Thalmor di tale rango fosse rischioso, poiché sarebbe stato colto in fallo.
Quasi come se una mano superiore stesse guidando la sua, si ritrovò a frugare nella tasca della lunga casacca ed ecco le sue dita stringersi attorno a una piccola pergamena, sfuggita alle attenzioni dei vampiri. La scorse rapidamente prima di consegnarla all'Inquisitore.
Quello la lesse con sorpresa: “Arilion, Inquisitore di Summerset. Temevamo fossi caduto sul campo, appena messo piede in queste terre infernali, due settimane fa”.
Dovah ridacchiò: “per un attimo l'ho temuto io stesso. Dove siete diretti?”.
“A Morthal, signore” rispose uno dei soldati, una Altmer imponente e severa che pareva squadrarlo con persistente sospetto.
La mente di Dovah vagò freneticamente: per giungere a Labyrinthian senza aggirare i monti, avrebbe dovuto attraversare il Passo Meridionale di Roccia Fredda, nello Hjaalmarch. Mai, in circostanze diverse, si sarebbe abbassato ad affiancare un drappello Thalmor, ma viaggiare in loro compagnia gli avrebbe assicurato una marcia spedita e libera da qualsivoglia inconveniente.
“Posso unirmi a voi?” chiese senza tentennamenti.
L'altro Inquisitore accettò di buon grado: “hai già sperimentato sulla tua pelle quanto ostica sia questa regione di bruti. Non sarebbe saggio viaggiare soli. Io sono Allermo, di stanziamento nel nord di Tamriel da molto più tempo di quanto non sia opportuno”.
Senza perdersi in convenevoli, Dovah s'incamminò e i suoi nuovi compagni di viaggio lo seguirono con malcelata titubanza: non era raro incappare in compagni d'arme, anche di grado considerevole, senza conoscerli in viso, perché i trasferimenti di soldati, Inquisitori e persino Giudici tra Summerset, Cyrodiil e Skyrim avveniva di continuo e a ritmo sincopato. Tuttavia, quel fratello Altmer, vestito da mago ma imponente e solido quanto un guerriero, dal volto sfregiato e lo sguardo tetro, dava tutta l'impressione di nascondere molti segreti nel proprio silenzio: asseriva d'essere sfuggito alla morte, e il luogo in cui l'avevano trovato pareva comprovarlo, eppure non vi era turbamento né paura in lui, solo cocente determinazione, di cui loro non comprendevano le ragioni.

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Capitolo 4
*** Schiavi per natura ***


 
“Mio signore, perché sei stato inviato a Skyrim?”.
Fu la possente Thalmor che con tanta insistenza preservava il proprio scetticismo nei confronti di Dovah a porre la domanda.
A un'occhiata perplessa e irritata di questi, lei tentò di giustificarsi: “non desidero apparire irrispettosa, ma da anni ormai il numero di Inquisitori sul territorio va calando e ve ne sono fin troppi, ora come ora, a gestire le nostre forze militari. Perché ti trovi qui?”.
“Leggi il messaggio che portavo con me e avrai risposta” replicò Dovah seccamente. Sperò tra sé di non aver osato troppo: aveva osservato quella pergamena il tempo necessario a scorgervi il nome di colui cui aveva sottratto il ruolo, ma non conosceva il contenuto della missiva.
L'Inquisitore al suo fianco, al contrario, l'aveva letta con cura, eppure non reagì: con sua fortuna, Dovah non era caduto in fallo.
Prestava attenzione affinché l'alto collo della sua casacca non lo tradisse, poiché un amuleto di Talos si nascondeva sotto di esso e neppure Akatosh in persona sarebbe riuscito a proteggerlo dalla verità, se quei Thalmor l'avessero scoperto.
“Mio signore, guarda” la voce d'uno dei soldati, il più anziano e sanguigno, li raggiunse dal ciglio opposto della strada, aggettante su una valle di neve e abeti.
Allermo lo raggiunse di malavoglia.
“È un peccato che non sia toccato a noi” si rammaricò il soldato.
Incuriosito e al contempo turbato, Dovah si sporse a sua volta dal margine malamente lastricato: un drappello Thalmor, che poco differiva dal loro, era incappato nel corso delle proprie peregrinazioni in una casupola di eretici. Era più che probabile che la loro incursione non fosse dovuta alla mera casualità, bensì a una qualche provvidenziale delazione.
Una donna giaceva in ginocchio, gravata da pesanti catene e dalle accuse dell'Inquisitore che si ergeva di fronte a lei. Due soldati vagavano per casa, mettendola a soqquadro in cerca di prove cui fingevano d'interessarsi.
“Guarda, Allermo, signore”.
L'Inquisitore seguì con lo sguardo il dito del soldato.
Questi sogghignava divertito: “un bastardello Nord che agogna ad accompagnare la madre eretica nella morte”.
Dovah strinse i denti vedendo un bambino poco più grande di Cal celarsi all'ombra di un tronco mozzato: assisteva inerme , colmo di smarrimento e paura.
La donna fu infine giustiziata e presto giacque a terra esanime. Il bambino reagì con un gesto tanto istintivo quanto sciocco: senza abbandonare il proprio riparo, impugnò la piccola fionda che portava con sé e la caricò con un sasso.
Dall'alto della sua appartata posizione, il soldato rise sguaiatamente: “guardate che leone” lo schernì “Allermo, signore, la minaccia che rivolge ai nostri commilitoni è sufficiente a giustificare una reazione?”.
“Se il colpo di quel piccolo pezzente eretico andasse a segno, sarebbe indubbiamente un affronto imperdonabile” constatò l'Inquisitore.
“Coraggio, Ilmaril” il veterano si tolse l'arco da tracolla e lo consegnò al soldato più giovane del trio, rimasto fino ad allora mesto e taciturno “è ora di iniziare questa verginella, non lo credi, Cirleya?” chiese poi all'altra compagna “è un bersaglio fermo e ben visibile”.
Il giovane Altmer guardò l'arco con occhi straniti: “Allermo, mio signore, avrà nove anni a dir tanto” obbiettò.
“Gli risparmieremo una vita barbara tra genti barbare. Un Nord in meno oggi è un eretico in meno domani. Credo che il tuo commilitone abbia ragione: impedisci a quel piccolo insolente di arrecar danno”.
Il respiro di Dovah si fermò quando vide il giovane Thalmor incoccare la freccia e puntarla verso la valle. Le sue mani fremevano dal desiderio di fermarlo, di abbatterli tutti alla stregua di lupi rognosi, ma come quel bambino rischiava d'abbandonare la vita troppo presto, allo stesso modo Cal si trovava in grande pericolo e lui aveva bisogno di raggiungerlo al più presto, senza intralci, senza ritardi, senza compromessi.
Tacque e pregò gli Otto perché fossero clementi con quella povera anima.
Intanto la freccia di Ilmaril indugiava nella scocca. Il suo compare lo esortava ad agire mentre il suo superiore fremeva d'impazienza, per l'insubordinazione cui temeva di dover far fronte più che per la fretta di fermare quella piccola mano in realtà innocua.
Il bambino esitava quanto il giovane che minacciava la sua vita, la fionda tesa e vibrante. I due soldati erano ancora intenti a sconquassare la sua casa. L'Inquisitore attendeva oltre la soglia.
“Abbassala”.
Questo Dovah sentì sibilare tra i denti di Ilmaril.
“Abbassala, bastardello”.
Infine i Thalmor impegnati nella perlustrazione si ritirarono. Il bambino lasciò cadere il sasso e corse a perdifiato nella foresta.
L'arco s'abbassò di colpo, la freccia morbidamente appoggiata alla corda.
Ilmaril sospirò profondamente e restituì l'arma al commilitone, che la guardò deluso e stranito.
L'istante di quiete fu breve, poi l'aria fu spezzata dal sonoro schiaffo che colpì il volto dell'indocile soldato: “è così che ubbidisci agli ordini?” inveì Allermo.
“Non aveva intenzione di agire” insistette tenacemente il giovane.
“Tali non sono decisioni che tu devi prendere. Ciò che ti viene comandato è legge e tu l'hai infranta”.
“Così come la infrange giustiziare sommariamente cittadini non colpevoli”.
“Chi è Nord è colpevole. Se la madre di quel bambino era eretica, lui lo sarà altrettanto”.
“Chiedimi dunque di occuparmene tra una decina d'anni, quando sarà in età da processo” fu zittito da un secondo colpo, più forte, più rabbioso.
“Dovrei rispedirti a Cyrodiil in catene” ma Dovah si frappose ai due, ponendo fine allo spiacevole diverbio: “è chiaro a tutti che il giovane Ilmaril abbia trattenuto la propria mano per vigliaccheria e non per senso del dovere come desidererebbe lasciarci intendere. È palesemente fresco d'accademia, un novellino senza spina dorsale. Dagli il tempo di forgiarla: non tutti sono fin dal principio fieri e integerrimi come noi siamo stati, Allermo”.
Quelle parole lusinghiere parvero acquietarlo: “i miei uomini camminano da ore” deviò “ci accamperemo per tre ore, il tempo necessario a recuperare le forze, poi ci rimetteremo in marcia”.
Dovah desiderava opporsi a una tale, sconcertante perdita di tempo, ma comprendeva di non disporre ai loro occhi di valide ragioni con cui giustificare la propria fretta.
Tacque ancora una volta e i suoi occhi tornarono alla casupola e al cadavere steso di fronte a essa: “dunque riposate, ma le mie gambe sono state ferme per giorni, in quelle gabbie vampiresche. Desidero sgranchirle. Scenderò a valle e mi assicurerò che i nostri compagni d'arme abbiano fatto un buon lavoro. Tornerò a breve”.
Non attese assensi né obiezioni: s'incamminò per l'impervio sentiero e presto raggiunse la soglia scardinata.
La donna morta ai suoi piedi era giovane. Sul suo collo spiccava il segno livido d'una catena che le era stata strappata in malo modo, probabilmente un amuleto di Talos che non aveva accettato di ripudiare.
Dovah guardò la panca in legno macilento che affiancava la porta di casa: vi erano stivali da uomo sotto di essa.
Alzò gli occhi al cielo: il tramonto stava ormai calando.
Lasciò che il suo sguardo vagasse tra i molti abeti: un sentiero malamente divaricato tra le frasche del sottobosco si dipanava verso est.
Lo imboccò, poiché una famiglia di Nord insediatasi in una zona tanto isolata non poteva che vivere di caccia ed era ormai ora di rientro, per un uomo la cui famiglia attendeva a casa il momento della cena.
Come previsto, entro breve i suoi passi incrociarono quelli di un giovane carico di selvaggina. La corda di lepri che teneva tra le mani cadde a terra quando scorse l'Inquisitore avanzare verso di lui.
“Pace” lo acquietò Dovah, mostrando i palmi aperti in segno di resa “non sono ciò che sembro e di certo non sono tuo nemico”.
“Nemico, mio signore? Io non ho nemici” azzardò penosamente.
“Ne hai, invece, e mi duole riferirti che hanno già compiuto più danno di quanto tu possa immaginare”.
A quelle parole, il volto del giovane sbiancò. Dimentico d'ogni paura, raggiunse l'imponente Thalmor e lo implorò a mani giunte: “mio signore, lo giuro, non vi è male che possiamo arrecarvi. Siamo solo umili cacciatori. Dì ai tuoi uomini...”.
Dovah frugò rapidamente nel collo della propria casacca ed estrasse l'amuleto di Talos che portava su di sé.
Il giovane lo guardò stranito.
“Non sono ciò che sembro” ribadì “ed è ormai troppo tardi. La tua dimora è stata violata”.
“Di che parli, Elfo?” chiese concitatamente.
Dovah indugiò per qualche istante: pareva troppo giovane per essere padre del bambino che aveva visto inoltrarsi nelle selve, ma d'altronde altrettanto pareva la povera sciagurata che ora giaceva nella polvere. Inoltre, indossava una fede al dito e la paura che si era impressa sul suo volto alla notizia che un drappello Thalmor fosse incappato nella sua famiglia era difficile da quantificare.
“La tua casa si trova a ovest di qui, ai piedi del clivo che conduce alla strada?”.
L'altro annuì.
“Una donna e un bambino abitano con te?”.
Annuì di nuovo.
“Mi duole riferirti che la tua sposa ha rifiutato di abiurare ed è stata giustiziata da un Inquisitore della Dominazione”.
A quelle parole le sue gambe cedettero d'un passo e il giovane indietreggiò malfermo.
“Il bambino ha rischiato di abbandonare il Nirn al suo fianco, ma ha avuto il buon senso di fuggire”.
Un velo di speranza parve rinvigorirlo: “l'hai visto?” chiese con fervore “hai visto mio figlio fuggire?”.
Dovah annuì: “e se desideri vivere in pace ti conviene sbarazzarti dell'amuleto che ti resta. Quello di tua moglie è stato la sua fine”.
Il giovane incespicò nelle proprie parole: “non vi è amuleto che...”.
L'Altmer ridacchiò sprezzante: “tale è il motivo per cui la mia gente vi considera carne da macello e schiavi per natura: siete a tal punto sciocchi da sentire le fauci d'un lupo nella vostra carne e insistere a definirlo un agnello. Dammi il tuo maledetto amuleto, ragazzino, e forse vivrete un giorno di più”.
Quello infine cedette.
“Voi Nord dovete imparare a pregare il vostro dio senza ostentarlo”.
“Tu stesso indossi il suo simbolo”.
“Non perché veneri Talos” negò fermamente e la spiegazione che seguì fu vaga quanto astrusa alle orecchie del giovane “io e lui abbiamo un patto diverso” indicò poi un punto nel folto “il bambino s'è diretto verso sud. Sei un cacciatore: seguilo, trovalo e andatevene da qui. A essere in te, mi dirigerei a Windhelm: è ancora un luogo sicuro, per un Nord eretico che desidera stare alla larga dal giogo del Dominio. Ora sparisci”.
Rimasto finalmente solo, Dovah bruciò l'amuleto ligneo in una tenue vampata di fiamme che scaturì dalla sua mano, quindi s'accinse a tornare all'accampamento.
Tre dei Thalmor suoi sgraditi compagni sedevano attorno a un fuoco. Allermo riposava nella tenda eretta per lui sul ciglio del sentiero.
“Ne desideri una anche per te, Arilion, signore?” chiese Cirleya.
Dovah negò seccamente e andò a sedersi in disparte, su una pietra imbiancata di licheni. Il suo sguardo si perse a nordest, dove era il passo che tanto gli premeva raggiungere.
Le sue rimuginazioni furono fugate da una timida intromissione: “ti ringrazio, signore, per avermi sottratto all'ira di Allermo”.
“Chiudi la bocca” Dovah zittì il giovane Ilmaril senza remore.
Il soldato non parve offendersi e sedette a terra, al suo fianco.
“Voglio però che tu sappia, signore, che non ho agito per vigliaccheria”.
“Devi inserire l'appellativo 'signore' in ogni affermazione, soldato?”.
“Non è forse la regola, signore?”.
Dovah si ritrovò a pensare che, in fin dei conti, non vi fosse grande differenza tra gli stranieri soldati Thalmor e i patriottici soldati Manto della Tempesta: animosi, asserviti, ubbidienti. Tutti quanti, o quasi.
“Conoscevo un giovane come te, forse persin più folle. Un Thalmor, di stanziamento qui a Skyrim ormai... sei anni fa, credo. Figlio d'un pezzo troppo grosso perché gli fosse concesso il congedo, ha deciso di disertare. Chissà, forse bazzica ancora queste terre, libero, indisturbato e traditore”.
Il ragazzo parve comprendere: “parli di Otar, signore? Otar, figlio di Turnfael?”.
“Lo conosci?”.
“E chi non sa di lui, almeno per sentito dire? È una delle macchie più amare del nostro Dominio. Per anni l'hanno cercato e ora credo abbiano semplicemente mollato l'osso: un solo cane non vale tanto affanno. Se mai dovessero trovarlo, stai pur certo, signore, che lo appenderanno a una forca e lo umilieranno di fronte a tutta la regione selvaggia in cui ha deciso di rintanarsi prima di concedergli la morte”.
“Suo padre è uno dei più influenti Giudici supremi a Cyrodiil. Non credi che intercederebbe per lui?”.
“Suo padre è un bastardo, signore” si rese immediatamente conto di ciò che aveva asserito così impunemente e serrò le labbra “perdonami, signore”.
Dovah sorrise: “non l'ho mai incontrato e probabilmente mai lo incontrerò. Nessuno oltre me saprà ciò che pensi di lui”.
“Neppure io l'ho mai incontrato, ma se c'è qualcuno che vuole Otar a bruciare e strillare come una serpe arroventata su un rogo, signore, quello è Turnfael”.
“Lo credi o lo sai per certo?”.
Il giovane Thalmor strinse le spalle, perplesso: “lo credo, signore”.
Lo sguardo di Dovah si perse nuovamente nell'orizzonte latteo. Per quanto impaziente, non era tanto sciocco o avventato da compromettersi, così prossimo alla meta.
“Perché ti sei arruolato?”.
Il ragazzo si guardò attorno, incerto: “dici a me, signore?”.
“A chi altri?”.
Quello ridacchiò: “be', pagano bene, signore... e, ovviamente, il Concordato”.
“Certo” anche Dovah ridacchiò “il Concordato”.
“E tu, signore? Perché hai accettato di stanziarti in questa terra vile e fredda?”.
“Il destino mi ha condotto qui”.
La fronte dell'altro si corrugò: “non è la risposta che mi sarei aspettato da te, signore”.
“Auri-El qui prende il nome di Akatosh, o sbaglio?”.
“Non sbagli, signore”.
“Ebbene, lui ha voluto che arrivassi a Skyrim. Aveva un dono per me” sospirò “ho avuto molto da fare”.
Il giovane Thalmor lo squadrò a lungo, in silenzio: “qual è il tuo dispiegamento, signore?”.
“Perché me lo chiedi? Ti piacerebbe richiedervi il trasferimento?”.
Quello annuì e Dovah rise sommessamente: “forse ne riparleremo in futuro”.

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Capitolo 5
*** Al passo ***


 
“Arilion, signore” per tre volte fu costretta a chiamarlo prima che Dovah si riscuotesse dai propri pensieri.
“Che vuoi, soldato?”.
Cirleya ostentò ancora una volta dubbio e scetticismo: “che ti è stato fatto, nel covo presso cui ti abbiamo trovato? Non ti hanno lasciato andare: avevi ancora le catene ai polsi, spezzate, questo è vero, ma pur sempre catene. Ilmaril ti ha liberato dal loro peso, ma io sono più che certa che, se avessi posseduto gli strumenti adeguati, il suo aiuto ti sarebbe stato del tutto superfluo. Cosa è accaduto?”.
“Come credi che mi sia guadagnato il titolo di Inquisitore? Pagando profumatamente i miei esaminatori, o offrendo le mie più care virtù a qualche giudice supremo?” la provocò con malizia.
A stento lei nascose il proprio oltraggio.
“Se ora estraessi la tua spada contro di me” proseguì lui “impiegherei un solo istante a farti sanguinare”.
A quelle parole, Cirleya più non osò infastidirlo, né ne avrebbe avuto modo, poiché gli occhi di Dovah si volsero al passo, finalmente visibile oltre la bruma, e non vi era forza o volontà in tutto il Nirn che potesse strapparli da esso. O così credeva, poiché prima ancora d'immergersi nell'ampia cava ghiacciata del Passo di Roccia Fredda, due figure si stagliarono nere nel candore della neve. Procedevano con andatura lesta ma cauta, eppure non s'avvidero di loro.
Allermo ebbe modo d'ordinare ai propri uomini di farsi da parte, celandosi nella macchia, così da non insospettire i viandanti e impedirne la fuga, quando fosse giunto il momento. Tuttavia, Dovah fu sordo alle sue esortazioni e continuò ad ergersi nel mezzo del sentiero. Qualcosa pareva turbarlo e aveva su di lui un tale effetto da pietrificarlo con più gelo delle grida di una fatua madre.
All'ennesima imprecazione di Allermo, cercò d'accampare una scusa tale da giustificare la sua improvvisa avventatezza: “non sono che due giovani donne. Celatevi pure nell'ombra, se lo ritenete appropriato: le interrogherò personalmente. Se dovessi necessitare d'aiuto” continuò con ostentato sarcasmo “non esitate a uscire allo scoperto” dunque avanzò, ma c'era dubbio e apprensione nei suoi gesti.
Le due viandanti si bloccarono di colpo, scorgendolo procedere verso di loro. Lo riconobbero, si guardarono perplesse, persin smarrite, ma in men che non si dica l'ombra di lui le sovrastò.
“Perché siete qui?” la voce di Dovah sibilò a stento tra i denti serrati.
Sapphire e Sofie non seppero come rispondere e il silenzio, così come l'algido stallo che le inibiva, si protrasse troppo a lungo.
Con sospiro esasperato Dovah simulò un'accurata perquisizione: “come mi avete rintracciato?”.
“Sapevo che ti saresti recato all'Accademia per ricavarne informazioni, così è lì che ci siamo dirette. Brelyna era restia a comunicarci i tuoi movimenti, ma credo sia molto in pena per te e infine ha ceduto, indirizzandoci verso Rorikstead” spiegò Sofie con lodevole sintesi “come sei stato promosso a grado d'Inquisitore Thalmor in pochi giorni?” chiese di rimando con una vena ironica che a lui parve terribilmente fuori luogo.
“Fuggendo e fingendo”.
Legò i loro polsi.
“Che fai?” mormorò Sapphire, allarmata.
“Ancora non so, ma spero di escogitare un valido piano entro breve tempo, o della mia copertura resterà ben poco”.
Tuttavia, fece appena in tempo a volgere verso i commilitoni che un sibilo come di serpe affamata fendette l'aria e un dardo andò conficcandosi nell'occhio destro del veterano Thalmor, il quale stramazzò al suolo senza un lamento. Gli altri estrassero le proprie armi, ma una seconda freccia subito penetrò le loro guardie e trapassò la gola della donna.
Allermo e Ilmaril si ritrovarono soli, poiché Dovah aveva costretto Sofie dietro di sé e retrocedeva verso il passo, Sapphire a seguirli con il pugnale pronto nella guaina.
Proprio allora, un uomo uscì allo scoperto e con la foga d'un Troll di montagna si scaraventò contro Allermo, una lama pervasa di fiamme stretta nella sua destra. E sebbene ostentasse la furia di una belva, presto i suoi gesti mostrarono grande abilità e sapienza con la spada.
Quando Ilmaril cercò d'intervenire, per l'aggressore fu sufficiente investirlo con un saldo colpo di tacco in pieno petto ed egli fu scaraventato a terra.
Nessuno degli incantesimi dell'Inquisitore andò a segno, perché quell'uomo, che nulla aveva da invidiare alla stazza dell'Altmer contro cui combatteva, schivava e sviava come uno spettro del ghiaccio e infine la sua spada ebbe la meglio.
Solo quando la lama di fuoco volse contro Ilmaril, Dovah agì d'impulso e abbandonò la cautela per unirsi allo scontro. Non aveva armi con sé e non ebbe il tempo di strappare l'affilata spada di vetro dalla mano ormai inerme di Cirleya, ma in lui vi era un potere impossibile da sottrarre o disarmare. Prese fiato, pronto a liberarlo, ma si fermò interdetto quando il guerriero abbassò la propria arma e intimò al giovane di dimenticare il proprio onore e, per una volta, fuggire di fronte al pericolo.
Dopo un primo istante di disorientamento, Ilmaril ubbidì e corse a perdifiato verso sud.
L'altro sospirò sollevato, rinfoderando l'arma, e solo allora si voltò verso i tre superstiti.
Subito Dovah indietreggiò d'un passo e tornò ad ergersi davanti a Sofie, ponendosi tra lei e lo sconosciuto. Istintivamente, costrinse anche Sapphire al riparo.
“Sono Ebor” si presentò l'imponente guerriero “prego, ragazze, non ringraziatemi. È stato un piacere”.
Nessuno replicò alla sua bonaria provocazione, pure Sofie si sporse cautamente dalla scalpitante figura di suo padre e lo squadrò con circospezione: si sarebbe detto un Nord purosangue nel pieno degli anni, con lineamenti fieri e sguardo acuto, ma la sua carnagione era più olivastra di quanto non fosse comune nei nativi settentrionali e la sua corta chioma era nera come piume di corvo. S'era gettato nello scontro senza indossare un'armatura, bensì sobrie vesti che nulla potevano contro i colpi di spada e ben poco avrebbero potuto contro il freddo, se non fosse stato per l'ampio mantello adagiato sulle sue spalle.
“Proteggi con fin troppa dedizione i tuoi prigionieri, Inquisitore” stavolta fu Dovah a venir pungolato dalle sue parole.
“Con ciò che intendi dire?” provocò a sua volta, cauto.
“Che sei abile a fingerti ciò che non sei, finché è la tua vita ad essere in gioco e non quella di coloro che ami”.
Dovah non si mosse. Non comprendeva come avesse intuito, né riusciva a sondare i suoi intenti, ma non per questo desiderava perdervi il proprio tempo.
“Le liberi o cedi a me l'onore?” insistette il Nord.
Con una smorfia di disapprovazione in volto, Dovah slegò le corde che egli stesso aveva stretto ai loro polsi.
Soddisfatto, Ebor s'allontanò, chinandosi accanto ai cadaveri per frugare senza remore tra i loro averi.
Dimentico persino della sua presenza, Dovah parlò a Sapphire con un livore che di rado rivolgeva ai propri uomini, sebbene le sue parole fossero poco più d'un sibilo: “ti era stato chiesto di vegliare su di lei”.
“È tenace, capo”.
“E con questo?” ringhiò, poiché non vi era attenuante alla disubbidienza di Sapphire e certo lei non poteva sperare di ritorcere il proprio errore contro Sofie.
“Con questo, speravo d'averla persuasa dall'intento di seguirti, ma...”.
“Ma...” la incalzò di nuovo.
“Ma le hai insegnato bene, capo” rispose e la sua voce si faceva più ferma e altera al crescere della rabbia di lui “e io non ne ero al corrente. È fuggita e, quando l'ho rintracciata, aveva ormai percorso un buon tratto. Ho pensato che, se era giunta tanto lontano per conto proprio, allora...”.
“Allora cosa, Sapphire?” inveì “avrebbe potuto combattere al mio fianco? L'avresti condotta da me, dove io meno la desidero in questo momento, così da liberarti dal suo fardello e tornare ai tuoi bagordi alla Caraffa Logora?”.
“Nient'affatto, capo”.
Lui, tuttavia, non sentiva ragione: “già una volta hai rischiato che ti cacciassi dalla Gilda a calci, Sapphire, e per motivi ben più futili di questi. Se è quel che vuoi, allora persevera pure nella tua condotta e otterrai ciò che desideri prima di quanto credi”.
“Capo” incespicò, la colpa e la vergogna a smorzare gran parte del suo orgoglio “permettimi di rimediare. Io e Sofie torneremo a Riften e...”.
“No” s'oppose Dovah fermamente “non è a te che l'affiderò, non più”.
“Capo, giuro che...”.
“Se desideri continuare a chiamarmi tale, taci e torna a casa”.
Sapphire si volse verso Sofie: “la ragazza può essermi testimone: l'ho protetta e ho seguito ogni suo passo”.
“Pure, mi hai deluso e più non avrai a che vedere con lei”.
“Capo, se solo...” ma quando s'avvicinò a Sofie contro la volontà di lui, Dovah attinse al proprio potere e, con un impulso dettato dalla foga del momento molto più che dalla ragione, lo sprigionò contro di lei.
Fus.
Una sferzata ostile e risoluta la fece vacillare, costringendola a retrocedere.
Lo stesso Ebor, mostratosi fino a quel momento indifferente al chiassoso alterco e diligentemente immerso nella propria opera di perquisizione, si bloccò di colpo e li osservò con muta curiosità.
Fu un colpo lieve, innocuo, ma prepotente e spaventoso, poiché terribile pareva la forza del Dovahkiin a coloro che mai l'avevano sperimentata su di sé.
Sapphire ammutolì, impietrita, e lo stesso Dovah parve pentirsi della propria irruenza: “volgi verso casa, Sapphire” ripeté, più pacato ma non meno risoluto “dì ai tuoi compari d'avere pazienza e di attendere il mio ritorno”.
Con labbra tremanti Sapphire annuì, accennando un lieve saluto col capo, e s'incamminò con passo tanto spedito da sparire rapidamente nelle gelide ombre del valico da cui era venuta.
Sofie aveva taciuto per l'intera, penosa lite, né avrebbe osato frapporsi a loro pur trovandone il coraggio, ma il trattamento che suo padre aveva riservato a Sapphire l'aveva molto amareggiata e si sentì in dovere d'intervenire, per chiarire la propria posizione e alleggerire quella di lei: “ti ho seguito perché...”.
“Perché m'infuriassi” la sovrastò lui in un ruggito e la posatezza che pareva aver riacquistato con Sapphire fu spazzata via in un solo istante “dunque, Sofie, ciò che hai ottenuto ti soddisfa?” infierì con aspro sarcasmo.
Lei deglutì contritamente, lo sguardo basso e la fronte corrugata.
“Mi hai insegnato a combattere” azzardò in un mormorio.
“È vero” annuì Dovah “e dimmi: quanti nemici hai affrontato? Quante vite hai spezzato?”.
A tali domande lei s'infervorò: “se manco in esperienza è perché ti mi hai sempre impedito...”.
“Dovresti ringraziarmi!” tuonò e di nuovo Sofie ammutolì.
Conscio della collera che andava ribollendo sempre più indomita e rischiava di annichilire ogni ragione, Dovah prese un profondo respiro e s'impose il silenzio, fosse anche solo per pochi istanti.
“Desideravo aiutarti a ritrovare Cal” fu poco più d'un alito di vento, una voce lieve e contrita che a fatica uscì dalle labbra di Sofie e l'impeto con cui Dovah le rispose, già strappato al fallimentare tentativo di apparire composto e compito, mugghiò come onde in tempesta al suo confronto: “non mi occorre il tuo aiuto. Mi occorre saperti al sicuro. Mi occorre non avere altri pensieri all'infuori di lui. È forse così penoso da comprendere?” poi sospirò seccamente e la sua voce tornò quieta ma ferma “non verrai con me”.
“Dunque che dovrei fare? Tornarmene a casa?”.
“Certo che no” rispose Ebor, insinuandosi improvvisamente nella diatriba. La sua sacca era colma e lui pareva soddisfatto.
“Evidentemente, hai nemici temibile alle calcagna, ma non una sola idea di cosa vogliano da te, Sangue di Drago” continuò “non una sola idea di chi siano, innanzitutto. Per quanto ne sappiamo, la cattura di... Cal, sbaglio forse? Ebbene, la cattura di Cal potrebbe essere un mero artificio, uno stratagemma ordito contro di te, perché tu faccia come essi desiderano. Lascia la ragazza sola e senza protezione a vagare per le lande impervie di questa regione e concederai loro un ulteriore espediente”.
A tali parole seguì un greve silenzio, poiché erano assennate e lui inspiegabilmente lesto nell'intuire le loro tribolazioni, ma non per questo concedeva soluzione al problema.
“Starete a casa mia, per questa notte” concluse Ebor.
“Non ho tempo da perdere” Dovah gli si oppose, ma l'altro non demorse: “non sai dove altro andare”.
“So dove andare: Labyrinthian è la mia meta”.
“Non hai armatura, non hai armi, non hai provviste. Starete a casa mia, per questa notte” ripeté categorico e subito s'incamminò, così da non dar loro modo d'obbiettare.
“La mia dimora si trova a sud di Morthal, in un'ampia radura nella selva” spiegò a quel punto.
“Troverà tutto ciò che gli occorre nella tua baracca?” chiese Sofie, annaspando nella neve nel tentativo di tenere il passo.
“Chi ha mai parlato di baracche? La mia è una tenuta. Gestisco un allevamento di cavalli, creature splendide che acquisto in tutta Skyrim o che addestro per i cavalieri più maldestri e inesperti che non sono in grado di pensarvi in autonomia. La locanda, invece, è a nome di mia moglie. Suppongo tu non abbia un cavallo” commentò poi, rivolto a Dovah.
“Ce l'ho... purtroppo, però, si trova a Rorikstead”.
“Te ne cederò uno dei miei”.
“Perché t'affanni tanto ad aiutarmi?”.
“Qualsiasi cittadino di Skyrim che neghi il proprio aiuto al Sangue di Drago reca un torto alla propria patria. Dopotutto, ti dobbiamo la nostra salvezza, Dovah”.
Quello si fermò: “come sai il mio nome?”.
Anche i piedi di Ebor si piantarono come massi e lui s'azzittì, poi ridacchiò scuotendo il capo in gesto di rimprovero: redarguì tra sé la propria sventatezza, che ancora una volta l'aveva spinto a cadere in fallo. Tuttavia pensò che, compiuto ormai l'errore, non vi fosse più motivo di fingere: “non è così che ti chiami” lo guardò con sorriso difficile da decifrare “nato schiavo, cresciuto servo, fuggito da uomo libero, riforgiato quale guerriero. Tu hai un nome, ma lo disprezzi, per questo ti aggrappi tenacemente a ciò che hai scoperto d'essere. Solo un'anima conosceva la verità, una donna a cui avevi concesso di sapere e che s'azzardava a chiamarti col nome che t'appartiene, ignorando il titolo che il tuo potere ti ha attribuito, solo se non vi erano altri ad udirvi. Mi spiace che tu l'abbia persa”.
Dovah lo scrutava con dubbio rovente: “da chi hai appreso tutto questo?”.
“Da te”.
Ingenuamente, spinto dal disorientamento, Dovah si chiese se in quegli ultimi giorni l'angoscia e la disperazione l'avessero persuaso a perdersi nell'idromele di qualche locanda e se questo avesse forzato la sua mente a dimenticare d'aver interloquito con quel Nord, spifferando nell'ubriacatura quanto di più intimo vi fosse nella sua memoria.
“Non temere, non sei uomo che s'abbandona a simili frivolezze, né ne avresti avuto il tempo” intervenne ancora Ebor “inoltre, il mio corpo mal reagisce all'alcol e non m'è concesso berne in grandi quantità”.
Tale era lo smarrimento di Dovah che a lungo stette immobile, mentre Ebor procedeva imperterrito per la propria strada e in silenzio Sofie lo seguiva, talmente spaesata da essere completamente sottomessa alla piega degli aventi.
Infine lui si riscosse e, forzandosi a un cauto silenzio, recuperò il passo.
 

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Capitolo 6
*** Nere acque ***


 
Il buio era ormai calato sul Nirn e non vi erano che le maestose luci dell'aurora boreale a rischiarare l'orizzonte. Prima che la sera scemasse nella notte, tuttavia, ecco la grande tenuta stagliarsi nelle tenebre della selva e molte erano le lucerne a indicare la strada.
Scorgendo casa, Ebor allungò il passo e Dovah fu sollevato nel vederlo allontanare, poiché aveva alcune perplessità da condividere con la giovane Sofie: “hai visto gli occhi di quell'uomo?”.
Lei tardò a rispondere, tanto bizzarra le parve la domanda: “che hanno?”.
“Neri come petrolio. In ciascuna iride, due pupille” sospirò profondamente, tanto inquieto quanto determinato “quell'uomo si è venduto a Hermaeus Mora”.
“Da ciò che mi hai raccontato, il Principe di Apocrypha non s'affida a sacerdoti o vassalli come sono soliti fare gli altri suoi fratelli”.
“Che questo Ebor sia un'eccezione o una sperimentazione, non cambia la sua natura: è proprietà del Daedra”.
“Come molti lo sono di altri Daedra. Ci ha aiutati: sarebbe scorretto mostrarsi ostili nei suoi confronti”.
“Credevo d'averti esposto con sufficiente chiarezza le mie esperienze nel regno di Hermaeus Mora perché tu ne comprendessi la pericolosità”.
Sofie sminuì con un silenzioso sorriso: “sembra quasi che tu stia parlando di Mehrunes Dagon” ma a quelle parole Dovah la squadrò con rimprovero: “credi che sia meno pericoloso, solo perché non ha mai ostentato tanta arroganza da azzardare una guerra aperta? Non vi è astuzia, non vi è inganno, non vi è sapere che possa essere usato contro di lui”.
“Papà, siamo qui grazie a Ebor” ribadì categorica “se troverai prova ai tuoi timori, sono certa che avrai modo di dimostrargli chi comanda, ma per quanto ne sappiamo è un amico e desidera aiutarci. Cal vale il rischio”.
A questo, Dovah non ebbe di che ribattere.
“L'ultima volta che sono passato da queste parti, non vi erano che foschia e boschi ad accogliere i viandanti” alzò invece la voce affinché Ebor lo udisse.
“E a quando risale l'ultima volta di cui parli?” chiese quello, voltandosi verso di loro.
“Sei, forse sette anni fa. Non ho più avuto motivo d'attraversare lo Hjaalmarch”.
“Io e mia moglie abbiamo dato il via alla nostra attività cinque anni fa. Certo non è stato semplice, ma infine gli affari han cominciato a consolidarsi e ora vantiamo ottimi profitti. Venite” incitò “la locanda è vivace, a quest'ora”.
In effetti, era raro vederne di così affollate: vi erano due bardi e tre locandieri, un gran numero di avventori e, sebbene a un tavolo sedessero tre ceffi, probabilmente uomini di ventura pronti a cedere la propria lama al miglior offerente, già ubriachi d'idromele e irrequieti a causa del gioco a dadi che andava evolvendosi nella sfortuna per alcuni di loro, nessuno se ne curava, poiché quattro guardie private, una per ciascun ingresso della locanda, armate di tutto punto e protette da imponenti armature d'acciaio, non distoglievano i propri occhi da loro, assicurando quiete e sicurezza.
Per un istante, Dovah perse di vista la sua guida, poiché Ebor s'allontanò per contro proprio, facendosi largo fino al bancone, dove sedeva una donna intenta a scrivere una missiva, silenziosa nel mezzo del frastuono.
Le sue vesti erano scure quanto i lunghi capelli che scendevano fluenti come onde lungo la schiena e, quando si voltò verso di lui, Sofie riuscì, pur restando in disparte, a scorgerne il viso: lo trovò più bello d'una primula, sebbene fosse pallido come la neve e i suoi tratti difficili da comprendere, poiché parevano Nord e, al contempo, di molte etnie diverse. I suoi occhi affilati e luminosi come gemme sembravano persino portare tracce Mer nel proprio disegno. Il suo grembo era colmo di vita e, da come Ebor sorrise nel richiamarla a sé, carezzandole il volto e il capo corvino, comprese che dovesse essere la moglie di cui parlava. Ne ebbe conferma quando la donna s'avvicinò a lui e lo salutò con un bacio lieve.
Sofie combatté a fatica l'istinto di distogliere lo sguardo quando Ebor indicò Dovah al suo fianco, interloquendo brevemente con la giovane sposa. La prese poi per mano e l'accompagnò tra la folla perché conoscesse i nuovi ospiti. Un avventore, tuttavia, vi si frappose e la implorò perché s'attardasse un altro po'. Nelle sue mani teneva un liuto e glielo consegnò come fosse una reliquia. Con sorriso accondiscendente, lei annuì e sedette sullo sgabello posto al centro dell'ampio salone.
Il silenzio cadde come la notte, mentre lei intonava le prime note e la sua voce vibrava lieve come brezza su di esse. Mai Sofie aveva udito suono più dolce di quello.
Cantò di un'antica battaglia e d'una sofferta vittoria, ottenuta per merito di un'alleanza forgiatasi nella disperazione. Presto altre voci si unirono alla sua ed erano quelle di viandanti e forestieri, sgualdrine e ubriachi. Voci che altrove sarebbero risuonate sgraziate e sgradevoli, ma che la sua domava come le lune domavano le maree e fu un canto di conquista e al contempo di pace quello che s'insinuò nel cuore di Sofie, scaldandolo e colmandola d'orgoglio.
La canzone finì, ma subito le mani di lei tornarono a sfiorare le corde del liuto e una nuova melodia prese vita. Anni addietro, i bardi amavano cantare la leggenda del Sangue di Drago, il suo potere e il suo destino, tuttavia esso si era ormai compiuto e altre erano le storie che gli avventori amavano ascoltare. La giovane donna intonò dunque la vittoria del Sangue di Drago, la sconfitta del divoratore di mondi, e Sofie avrebbe giurato di vedere il suo sguardo puntarsi in quello di Dovah.
Suo padre avanzò d'un passo, confuso e sospettoso, quando la udì parlare nella lingua dei draghi. In realtà, si trattava d'un brano ben noto, che da secoli si tramandava tra le lande di Skyrim, tuttavia Sofie lo conosceva con un accompagnamento diverso, più tonante e dirompente. Quello che scaturiva dalle labbra della musicante era invece quieto e grave, un sapore ancestrale lo permeava e Dovah vi riconobbe il canto da lui udito a Sovngarde, presso l'Aula di Shor.
Solo quando il liuto tacque e la voce si spense, l'applauso del pubblico diede alla donna il permesso di raggiungere Ebor e, con lui, accompagnare i forestieri alla loro dimora, costruita sul versante opposto della radura, alle spalle delle scuderie, lontana dal chiasso della taverna.
“Io sono Zeala” si presentò lei, precedendoli lungo la via “Ebor mi aveva avvisato del vostro arrivo e, in sincerità, temevo avrebbe impiegato più tempo a trovarvi”.
“Trovarci?” chiese Sofie, perplessa.
Dovah, al contrario, tacque. La sua espressione era ostile e i suoi occhi guardinghi.
“Prego” Zeala li fece accomodare “al piano superiore è pronta la vostra stanza. Datemi qualche minuto e scalderò un piatto di carne per entrambi. Sofie, cara, se desideri darti una ripulita, al piano inferiore vi è un catino con lavello e acqua corrente. Ebor ti aiuterà con la caldaia”.
La ragazza ascoltava interdetta: ben di rado le era capitato di disporre di simili agi, tra le genti di periferia.
Ebor la incitò a seguirlo, ma Zeala lo fermò dopo pochi passi: “quasi dimenticavo: Hedil è ancora da Beresh. Forse dovresti..”.
“Che dorma pure da lei, per stanotte” la interruppe lui con una scrollata di spalle “lo recupererò domattina”.
Zeala sospirò, vagamente contrariata, ma non insistette e lo liquidò con un cenno della mano.
Dovah parlò quando fu certo d'esser rimasto solo con lei: “come sapevi chi sono?”.
“Ebor me l'ha detto”.
“E come conosci quella melodia?”.
“L'hai sognata” rispose con innocenza “ma non si trattava d'un sogno: tu eri presente, nel corpo e nello spirito. Tu hai vissuto ciò che talvolta riaffiora nel tuo profondo”.
“Parli di Sovngarde?” chiese avvicinandolesi “dell'Aula di Shor?”.
Zeala annuì e il suo sorriso era tanto dolce e radioso che fu impossibile per lui temere marchi malvagi ad alimentare la conoscenza che era in lei.
“Sei una sorta di chiaroveggente?” domandò, sentendosi sciocco, ma incapace di pensare ad altre possibilità.
Lei scosse il capo: “sono una maledetta da Vaermina”.
Dovah attese, in silenzio.
“Mia madre mi ha fatto questo” continuò Zeala “perché le era fedele mentre io la ripudiavo e il Daedra ha dato ascolto alle sue preghiere, per opprimermi, per punirmi. Divenni ciò che per lungo tempo sono stata: un'anima intorpidita, satura di incubi e pensieri che non mi appartenevano. Temetti d'impazzire” la sua voce si ridusse a un sibilo, i suoi denti si serrarono, frementi “rischiai d'impazzire, ma non permisi a quel Principe malvagio di annichilirmi. Ecco dunque ciò che ho fatto: ho trasformato la sua maledizione in benedizione, ho fatto della sua condanna la mia felicità. E non temo per i miei figli, poiché sono liberi e al sicuro da qualsiasi maledizione quel mostro dell'Oblivion abbia in serbo per loro”.
“Perché sei sicura di questo?”.
“Vaermina non osa opporsi a Ebor”.
Dovah restò ammutolito da quelle parole e Zeala lo intuì. Rise lietamente: “non preoccuparti, lui ti è amico: non hai da temere” poi deviò “suppongo non t'alletti l'idea di sapere tua figlia sola con mio marito: ancora non ti fidi di lui. Prego, raggiungila. Mangerete quando sarete entrambi puliti e liberi dalle vostre scomode vesti”.
Due colpi di nocche sfiorarono la porta d'ingresso e Dovah si rizzò come una serpe. Zeala, al contrario, andò ad aprire con la massima calma: sulla soglia vi era un'anziana Argoniana che stringeva a sé un bambino immerso nel sonno. Le braccia della vecchia parevano gracili e affaticate, ma quella creaturina non poteva avere più di tre anni ed era esile come un pulcino.
“Vi siete scordati qualcosa” fece notare con tono seccato.
“Ti chiedo perdono, Beresh” ridacchiò Zeala “abbiamo ricevuto visite questa sera e ci è risultato difficile badare al resto. Lo sapevo in mani fidate” prese il bambino, faticando non poco ad accomodarlo sulla propria spalla, dati gli impedimenti imposti dal suo corpo “mi sdebiterò”.
“Nessun problema, bambina. A saperlo l'avrei tenuto con me. La prossima volta avvisatemi: dopo tutto, abito qui di fronte. Non vi arreca grande sforzo” rimbrottò infine e, auguratale una buona notte, si ritirò.
Zeala scosse il capo, sorridendo dolcemente, e dopo aver carezzato la fronte del bimbo addormentato, camminò goffamente fino alla sua piccola e calda stanza, dove un lettuccio lo attendeva accogliente.
“Nessun problema, Ebor” concluse quando se ne fu allontanata “ci ha già pensato la vecchia Beresh”.
“Meglio così” fu la risposta che giunse dal piano interrato e, scacciato il temporaneo disorientamento, Dovah fece quanto suggeritogli da Zeala, trotterellando rapidamente per la solida scala lignea. Trovò Sofie già abbigliata con una confortevole camicia da notte mentre, nella stanza accanto, Ebor ancora armeggiava con la caldaia, perché si spegnesse senza consumare troppa legna.
“Bene, Sofie” esordì “non m'aggrada saperti sola in casa d'estranei... specialmente, questo genere d'estranei. Tuttavia non posso perder tempo: mi farò dare una lama e un'armatura degna di chiamarsi tale. Dopodiché m'incamminerò per Labyrinthian e spero di tornare al più presto con buone notizie al seguito”.
“Papà, non puoi ripartire ora: sei sfinito”.
“Resisterò”.
“Dalle ascolto”.
Dovah sobbalzò all'udire la voce di Ebor alle proprie spalle.
“Cal è vivo, per ora sta bene” continuò quello.
“Come lo sai?” s'infervorò, affrontandolo senza soggezione.
“Poiché possiedo una particolare inclinazione, che mi consente di vedere laddove altri non vedono. La mia conoscenza è vasta, se so dove cercare, e il sangue del Dovahkiin è facile da individuare, anche se annacquato. Inoltre, Zeala ha sorvegliato i suoi sogni nelle ultime notti e, seppur inquieti, sono ancora vividi e salubri”.
“Chi diavolo siete?” sibilò Dovah, il proprio volto a un soffio dal suo.
Ebor non si lasciò intimidire, tuttavia parlò con accortezza: “pare che qualcuno di astuto e potente sia molto contrariato, perché tu gli hai arrecato un grave torto, e ha disposto di tempo sufficiente a ergere una nuova offensiva”.
“Sono molte le entità terrene e daedriche che ho contrariato”.
“Questa in particolar modo ti porta grande rancore. Ciò che desidero è aiutarti, nulla più”.
Dovah percepì dentro sé uno smarrimento che parve ricondurlo agli amari istanti di panico patiti nell'antro in cui Cal era stato imprigionato e seviziato: era frastornato, perso; si sentiva impotente e stupido; non sapeva come agire e l'idea di poter fallire gli mozzava il respiro. Sofie aveva ragione: la sua mente era troppo stanca per ragionare, il suo corpo troppo intorpidito per combattere. Necessitava di riposo, di tempo per rinvigorirsi, e non gli restò che dar credito alle parole di Ebor.
 
Sofie aveva per Ebor e Zeala molta più fiducia di quanta ne dimostrasse suo padre e le parole di lui la colmarono di speranza. Si coricò col cuore più leggero e dormì serenamente. Solo all'approssimarsi dell'alba il suo sonno fu interrotto da un pianto lieve di bambino, che s'insinuò nella sua mente intorpidita. Dovah era a tal punto sfiancato che non se ne accorse affatto e continuò a dormire indisturbato, nonostante il suo sonno fosse solitamente lieve e vigile.
Turbata dall'inaspettato risveglio e, tuttavia, incuriosita da esso, Sofie s'alzò e camminò scalza fino al pianerottolo. S'affacciò sull'ampio ambiente del soggiorno, dove era la stanza del piccolo che suo padre aveva avuto modo di scorgere, pur di sfuggita, la sera precedente. Ed era proprio quel bambino a piangere sconsolato. Neppure Ebor, che lo stringeva a sé amorevolmente, sembrava capace di rasserenarlo.
“Su, su, Hedil, non è accaduto nulla. Sei qui, ora, e sei al sicuro. Non aver paura” lo consolava, carezzandone il capo scarmigliato quanto il suo e baciandone il volto inumidito di lacrime, ma Hedil continuava a singhiozzare e incespicava in goffe parole che parlavano di incubi e neri tentacoli in un mondo di nere acque.
Zeala attendeva al loro fianco e pareva turbata: “Ebor” chiamò in un sussurro “non è troppo piccolo per questo?”.
“Io avevo la sua età quando sperimentai le prime ombre di Apocrypha. Sono terrificanti e sembrano reali, ma si tratta unicamente di proiezioni e non possono causare alcun male, a meno che non si decida volontariamente di varcarne il fragile velo per entrarvi con corpo e spirito, azione che, ad ogni modo, Hedil non è ancora in grado di compiere. Col tempo capirà che non vi è reale minaccia e tutto ciò che dovrà sopportare sarà qualche brutto sogno. Non è così?” chiese dolcemente, tornando a osservare il bambino che per inerzia continuava a singhiozzare pur senza versare più lacrime. Quello annuì senza comprendere e poggiò la testa alla sua spalla.
“Possiamo ancora sfruttare qualche ora di sonno” si unì Zeala “le trascorrerai con mamma e papà, d'accordo?”.
Hedil non rispose: s'era già riaddormentato e tra le braccia di Ebor gli incubi parevano lontani.
“A conti fatti, è un bene che Beresh l'abbia riportato a casa: quella povera vecchia non avrebbe compreso le sue farneticazioni” commentò lui in un sospiro.
Zeala carezzò il proprio ventre: “una famiglia per vivere in serenità, questo era l'obbiettivo, ma a quale prezzo? Non è forse egoismo il nostro?”.
“Non dire idiozie” la zittì seccato “non vi è né mai vi sarà creatura nel Nirn più amata e più serena dei nostri bambini. Io ho imparato a convivere con questi piccoli inconvenienti e così impareranno loro. Ti sembro forse un infelice?”.
Zeala sorrise mestamente: “no”.
“Dunque perché loro dovrebbero esserlo?”.
Non attese una risposta. Si sistemò Hedil tra le braccia e lo condusse nella loro camera. Zeala non aveva voglia di tornare a coricarsi, così nervosa e tesa. Vi erano ancora poche stoviglie da lavare nella tinozza e, azzardando qualche tintinnio di legno e ferro, decise di occuparsene in quel momento, nonostante il sole ancora tardasse a far capolino tra le ombre dell'aurora.
Sofie scese le scale in silenzio e la raggiunse con gran discrezione e leggerezza. Si fermò sulla soglia, ad osservarla di spalle mentre sfregava insistentemente boccali e posate, persa in chissà quali pensieri.
Parlò spinta dalla curiosità e dallo smarrimento, poiché tanto bizzarri sembravano ai suoi occhi gli abitanti di quella confortevole dimora che le pareva d'essere imprigionata in un qualche sogno vigile: “come vi siete conosciuti?”.
Le mani di Zeala s'aprirono e la ciotola che stringevano cadde con un tonfo nella tinozza insaponata.
Sofie s'impietrì: “perdonami, non desideravo spaventarti” ma la donna ridacchiò divertita, tergendosi la fronte col braccio: “perdonami tu, piuttosto: ero distratta. E dovrai perdonare anche Hedil: scommetto sia stato lui a svegliarti”.
“Non importa. Ho dormito molto bene”.
“Mi fa piacere” svuotò la bacinella nell'acquaio e s'accinse ad asciugare piatti e stoviglie con un panno profumato.
“Dunque?” insistette Sofie. A rischio d'apparire sfacciata, non intendeva demordere.
Zeala sorrise e la ragazza si ritrovò a pensare che, per quanto graziosa fosse agli occhi di sua madre e persino del giovane Pukka, mai avrebbe potuto ambire alla sua bellezza: “la nostra storia è difficile da narrare in poche parole e il tempo che abbiamo a disposizione non è molto”.
Sofie sospirò, delusa ma rispettosa, e pensò fosse ormai giunto il momento di ritirarsi. Tuttavia, la voce di Zeala la fermò, come un marinaio che venga colto nel sonno dal canto d'una sirena. Poiché questo faceva Zeala: cantava. E cantava il proprio passato.
 
Nella notte che cala sul Mundus,
per scelta d'altri e con gran paura,
anime maledette da volontà impura
vagan sole nell'oscurità che perdura.
 
Tra di essi vi è un Signore
che pure mai vanta potere
e, della propria gente mal volere,
fuggì da terre nostre eppur straniere.
 
Come lui una dama di poco conto
che certo altrettanta potenza non vanta
ma, quando nello spirito prova pena, canta
sì che la voce mai le è stata infranta.
 
Sofie sussultò, poiché finalmente comprese chi fossero coloro a cui tali parole si riferivano e pensò con sorriso inespresso che quello di Zeala fosse un modo assai bizzarro di parlare di sé e di Ebor.
 
Reietti che soli erravano nel rifiuto
e che pure trovaron nell'altro aiuto,
cosicché per ripicca mostrarono alle genti
l'ardore di vivere nella libertà delle proprie menti.
 
E, con non poco stupore,
scoprirono in tal ripicca amore.
 
“Io” balbettò Sofie “temo d'aver compreso molto meno di quanto in realtà non mi sia sfuggito”.
Zeala rise: “ciò che hai compreso è sufficiente. Tuo padre perdonerà la sfrontatezza di Ebor, ma lui s'è permesso di sondare i suoi pensieri riguardo al vostro domani: desidera estraniarti dalla missione che l'aspetta e io certo non gliene faccio torto. Tuttavia, pare che tu già gli abbia dato filo da torcere”.
Sofie abbassò lo sguardo, colpevole e in imbarazzo.
“Non temere: gli ho assicurato che più non avresti agito avventatamente e son certa che la mia fiducia non sia mal riposta. Sbaglio, forse?”.
“Non sbagli”.
“Bene” sorrise amabilmente “ora, prego, accomodati: ti preparerò una buona colazione”.

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Capitolo 7
*** False rese ***


 
Ebor scosse il capo per l'ennesima volta, irremovibile: “non mi allontanerò per quelle che potrebbero essere ore così come intere settimane. Labyrinthian è vicino, ma sappiamo che a questo genere di spedizioni occorre sempre più tempo di quanto non sembri”.
“Non ce la farà solo” obbiettò Zeala.
“È il Sangue di Drago: ce l'ha sempre fatta, solo”.
“Sono certa che lui avrebbe da ridire”.
Lui sbuffò: “Zeala, per favore, nascerà a giorni”.
“Di che ti lamenti? Mal che vada, ti risparmierai le mie grida e le mie imprecazioni ai Nove”.
“Anche quand'è nato Hedil mi trovavo lontano da casa”.
“Motivo in più per assentarti: eviterai il rischio di mostrare preferenze per l'uno o l'altro figlio”.
Ebor la squadrò con una tale sufficienza che lei alzò gli occhi al cielo, sospirando profondamente: “spero tu sappia che io non avrò bisogno di te: altri si occuperanno di me. Quel bambino, al contrario, è solo. Suo padre è solo. E sta pur certo che si farà ammazzare come un cane, pur di ritrovarlo. Loro hanno bisogno di te”.
Con immenso rammarico, Ebor cedette.
Temendo contrattempi di qualsivoglia genere, racimolò armi e scorte con cui caricò il castrone più forte e docile delle sue scuderie, così da non doverle trasportare a braccio e rischiare di sfiancarsi prima del tempo.
Dovah non parve né sollevato né rammaricato della sua presenza e Ebor non desiderò sondare il suo animo per averne certezza. Quell'Altmer era forte nello spirito e ferino nel corpo; poche erano le avversità di cui aveva timore e nessuna tanto ostica ai suoi occhi da convincerlo a rifuggirla: era consapevole che Dovah non si fidasse di lui, ma era anche certo che non avesse intenzione di trattarlo alla stregua d'un nemico, dunque ne sopportò il rude malanimo e lo guidò per i sentieri meno impervi, tanto che al calare delle tenebre le grandi rovine di Labyrinthian già si stagliavano contro il cielo cupo ma terso.
Non incapparono in inconvenienti troppo spiacevoli, fatta eccezione per un paio di troll particolarmente indocili, e Dovah seguì Ebor con perplessità, quando lo vide insinuarsi tra le imponenti vestigia per raggiungerne un recesso particolarmente appartato, che ben poca attenzione avrebbe attratto da parte di chiunque altro avesse perlustrato la zona.
“Più volte ho attraversato le vie perdute di questo luogo e ho vagato in ogni sua viscera” affermò il Dovahkiin “non comprendo cosa mai potremmo trovarvi di nuovo” ma dovette zittirsi quando posò lo sguardo su ciò che Ebor indicava a pochi passi di distanza, smosso nella neve.
“Una caditoia laddove prima non c'era nulla”.
“Mi pare di capire che da parecchio tempo non metti piede qui”.
“Perché avrei dovuto?”.
“Ebbene, quella caditoia v'è sempre stata” assicurò Ebor “ma da secoli nessuno vi metteva mano e giaceva celata sotto strati e strati di ghiaccio e neve”.
“Dunque è qui che l'hanno condotto. È qui che si trova Cal” avanzò senza esitazione e l'altro dovette afferrarlo per una spalla, così da trattenerlo: “senza troppo impeto. Hai parlato d'una maschera di ferro, abbandonata nella tua dimora in seguito al rapimento”.
“In verità, non ne ho mai accennato”.
Ebor ne parve perplesso: “oh, perdonami. Talvolta, nella distrazione, non distinguo ciò che m'è stato detto da ciò che apprendo per conto mio. Ebbene, ti ricorda forse qualcosa?”.
“Eccome, ma potrebbe significare tutto e niente: emulatori degli antichi Sacerdoti del Drago, Cultisti fanatici di qualche credo. Non ne ho interesse: ho affrontato sia gli uni che gli altri e li ho annientati tutti”.
“Lo so bene, ma comprendere con chi abbiamo a che fare potrebbe aiutarci a intuirne le ragioni. Qualcosa mi impedisce di sondare i segreti di questo luogo, una protezione, o una barriera. Suggerisco di agire con cautela”.
Dovah annuì, seppur di controvoglia, e riparato il cavallo e le provviste laddove non vi fosse intemperia o predatore che potesse causar danno, si calarono per l'oscuro cunicolo. Ebor sperò soltanto che il cibo messo a disposizione dalla sua bestia fosse sufficiente fino al loro ritorno: si trattava d'un foraggio assai costoso, che conservava in caso di simili emergenze e del quale bastavano dosi esigue perché un animale adulto conservasse forza e vigore per lungo tempo. Le imponenti cavalcature del nord erano abituate a dissetarsi con ghiaccio e neve, dunque non se ne faceva un cruccio. Tuttavia, temeva d'assentarsi più a lungo di quanto quell'ingordo di Rubeus avrebbe impiegato a terminare la mole di cibo lasciatagli nell'improvvisata stalla di pietra.
Non ebbe modo di soffermarsi troppo a lungo su tali rimuginazioni, perché presto si ritrovarono tanto in profondità che l'aria cominciò a pesare come terra. Era pregna di umidità e degli odori più pungenti, dal lino macilento delle antiche sepolture, alle muffe che, al riparo dal gelo, infestavano le antiche pareti, a quello più ancestrale e ostile di tutti: il lezzo di morte che scaturiva dalle tombe divelte e che in secoli di sopore non aveva trovato modo di disperdersi o attenuarsi, né vi sarebbe riuscito in futuro.
Nulla di nuovo agli occhi di Dovah, che di antiche cripte Nord ne aveva visitate e sanate molte. Tuttavia, procedevano senza parlare, in allerta, e nessuno dei due osava rompere il silenzio plumbeo che ammorbava quelle stanze.
Se Dovah procedeva col passo lieve che solo un prescelto di Nocturnal poteva vantare, Ebor non era altrettanto accorto e talvolta i suoi piedi cadevano in fallo, calpestando un coccio, spezzando un rugginoso strumento da imbalsamazione abbandonato a terra da tempo immemore o risuonando semplicemente con eccessiva rozzezza tra le aspre volte di pietra. Fu probabilmente il suo scalpiccio a ridestare uno degli spiriti inquieti che ammorbavano il sepolcro ed esso era uno dei più temibili e alteri, un Signore dei tempi antichi, dominatore della Voce.
“Ottimo lavoro” sibilò Dovah a denti stretti, portando la mano all'elsa della propria spada, ma Ebor gli accennò d'attendere e, per sorpresa più che per fiducia, lui gli diede ascolto.
Lasciarono che quell'antico Signore della Morte si avvicinasse e, se Dovah fremeva dal desiderio di dar sfogo al proprio potere per scaraventarlo lontano da sé, così da impedire che fosse il draugr a pensarvi per primo, Ebor avanzò a sua volta d'un passo, fino a fronteggiare il nemico come per sancirvi una tregua o persuaderlo dal proprio intento.
Parvero osservarsi a lungo, in silenzio, se non per l'ansare arrochito dell'ancestrale corpo macilento. Infine, questi indietreggiò e, volgendo loro le spalle, cacciò uno strido terribile, che forzò Dovah a tapparsi le orecchie e a contorcere il volto in una smorfia di dolore.
Seguì un silenzio che parve ancor più greve e il Signore della Morte s'allontanò da loro per fermarsi a breve distanza, accanto alla propria stessa tomba, erto contro la parete d'alabastro, con le mani strette avanti al ventre putrido e lo sguardo fisso nella penombra.
“Per gli Otto, che è accaduto?” bisbigliò Dovah a denti stretti.
“Abbiamo stipulato un accordo” spiegò Ebor con calma disarmante “non saranno i suoi fratelli ad affrontarci, bensì i tuoi nemici, coloro che desiderano il sangue del Dovahkiin. Li ha avvisati della nostra presenza”.
“Tale sarebbe l'accordo? Non mi pare molto vantaggioso”.
“Il bambino che cerchi è alle radici del mondo, nella più antica tomba di questo mausoleo, sotto ai nostri piedi: è lì che ti condurrebbero, se riuscissero a mettere le mani su di te. È lì che si trova Cal”.
Dovah sarebbe rimasto sconvolto da quelle parole, se non fosse stato per il guizzo inaspettato che catturò il suo sguardo e lo convinse, pur senza volontà, ad allontanarsi da Ebor, fino ad affiancare il docile draugr come mai aveva avuto modo di fare prima d'allora.
Vi era una feritoia orizzontale sagomata nella pietra ed essa permetteva di scorgere ciò che si celava in un androne inaccessibile a chiunque non vi fosse stato tumulato: una spirale di vento e polvere serpeggiava perpetuamente, spinta da forze non assoggettate alle leggi della natura, e trascinava con sé antichi fogli il cui contenuto era ormai andato perduto nella storia del tempo. Una pozza di liquame nero e denso aveva inghiottito il pavimento laddove, al centro della stanza, andava incuneandosi in una dolce concavità.
“Io ho già visto un luogo simile” mormorò.
La voce di Ebor proruppe alle sue spalle, ben più salda e decisa: “Apocrypha. Questo posto ne è una mera emanazione, eppure il potere di Hermaeus Mora è forte”.
Dovah si voltò: “per questo sapevi dove condurmi: tu conoscevi questo luogo”.
Ebor non ebbe l'ardire d'immergersi nei suoi pensieri, timoroso di scoprire cosa, su di sé, si celasse in essi. Si limitò ad annuire: “non ho mai osato mettervi piede, prima d'ora, ma da almeno una decina d'anni cresce e si fortifica, tra le radici di queste antiche rovine, custodito dai suoi nuovi seguaci”.
“Qualcun altro, dunque, s'è lasciato abbindolare dalle sue promesse”.
“Parrebbe di sì”.
“Ho avuto a che vedere con lui, con Hermaeus Mora: ne affrontavo il campione, imprigionato nel suo stesso regno, ma quando mi trovai a un passo dal prevalere, ecco il Principe interrompere il duello e calare la propria scure di morte su colui che l'aveva servito. Aveva compreso che avrei vinto, che avrei avuto la meglio sul suo paladino nonostante la protezione che lui gli aveva concesso. Sapeva che avrei trionfato pur senza il suo permesso. Giunse dunque a strapparmi la vittoria, pavoneggiandosi del proprio potere, ostentando un dominio sugli eventi che, per una volta, non gli era appartenuto, così da preservare la supremazia che sempre ha sfoggiato e l'incommensurabile ego che mai l'ha abbandonato”.
Ebor annuì di nuovo: “è da lui”.
“Pare che tu ne sappia molto” per la prima volta cercò di sondarne i segreti, ma altri inconvenienti li strapparono al confronto.
L'avvertimento del Signore della Morte non era stato ignorato e dieci guerrieri si riversarono nell'ampia sala.
Ebor estrasse la propria spada: “eccoli dunque. Non saranno un problema per noi, o per lo meno è ciò che spero: sgominata la minaccia, ci addentreremo dove il potere di questo luogo si fa più nitido e pungente. Basterà seguirne la scia per trovare tuo figlio”.
Pensò d'aver parlato a sufficienza e, senza indugiare oltre, partì alla carica come un toro aizzato da un branco di lupi impudenti.
Tuttavia, Dovah non era convinto delle sue parole: quei sotterranei, per quanto angusti e disagevoli apparissero, erano immensi e chissà quanto avrebbero vagato, prima di giungere alla meta che Ebor vantava di poter scovare affidandosi unicamente a un potere che lui, in verità, percepiva a stento. Cal era tenuto prigioniero laddove lui sarebbe stato condotto, se solo fossero riusciti a mettervi le mani: perché, dunque, arrischiarsi nel vagare a vuoto con la terribile possibilità di non giungere mai a destinazione, se vi era modo di lasciarsi condurre dove gli occorreva, senza pericolo d'errore o smarrimento?
“Sconfiggi coloro che cercheranno d'arrecarti danno” disse con rinnovata convinzione, facendosi avanti a mani basse “abbatti i tuoi nemici, ma non opporti ai miei”.
E i nemici di cui parlava parevano in tutto e per tutto fanatici appartenenti a un culto malevolo: indossavano lunghe tuniche impregnate di potere arcano e maschere sui volti che Dovah riconobbe al primo sguardo. Fu una di queste che fissò con insistenza, quando s'inginocchiò a terra e porse le proprie mani in segno di resa.
Ebor comprese le sue intenzioni e le ritenne sconsiderate. Cercò di raggiungerlo, per persuaderlo dal compiere una simile follia, ma gli fu impedito dai molti guerrieri che continuavano ad affluire da ogni dove, mettendo a dura prova la libertà del suo ragionare. Presto il campo di battaglia fu tutto ciò cui la sua mente poté volgere e lasciò che Dovah facesse quanto aveva deciso.
Se alle soglie del covo vampiresco, da cui con tanto orrore era fuggito, aveva combattuto come una fiera per sottrarsi alla cattura, pur finendo sopraffatto e sconfitto, qui Dovah accolse le catene del nemico e fissò con determinazione la maschera di colui che le stringeva ai suoi polsi. Gli parve identica a quella ritrovata nella sua dimora e di cui ricordava ancora l'odore del sangue che la impregnava.
Senza l'inganno di armi e veleno, ma con il palesato impiego d'una magia arcana che lui non comprendeva, lo forzarono all'oblio e Dovah lo accolse.
 
Si svegliò con un violento singulto, come a colmarsi d'aria dopo una lunga apnea, e si scoprì in gabbia. Non vi erano guardiani a vegliare sulla sua prigionia, né vivi, né morti, e l'antica tomba pareva esser stata spogliata d'ogni bene.
Ripresosi dallo stordimento, si alzò e scosse le spesse sbarre di ferro daedrico, ma le scoprì più solide di fusti di quercia. Analizzò l'antro scuro in cui era segregato, alla ricerca d'una via di fuga, e fu allora che lo vide: un'esile figura, rannicchiata a terra come per trovarvi calore e immersa in un cupo sopore. Una sfera di magia l'avvolgeva, forse per impedirne la fuga, forse per impedirne il risveglio. Tre colonnine istoriate la circondavano, ciascuna con una gemma d'anima ad alimentare l'incantesimo.
Di nuovo il respiro di Dovah si mozzò: “Cal?”.
Ovviamente, non ottenne risposta. Chiamò con più impeto e di nuovo a replicargli vi fu solo silenzio.
Tornò a scuotere le sbarre, le calciò, col fuoco che scaturiva dalle sue mani cercò di plasmarle, ma non vi era calore sufficiente a piegarne il metallo. Vagò nella propria cella, camminando forsennatamente come un lupo famelico, finché i suoi occhi non si alzarono e videro la volta nera della gabbia: una lamina spessa e compatta, agganciata alle sbarre per mezzo di robusti bulloni, ma nessuna saldatura.
Attinse al più profondo dei suoi poteri e lo sprigionò, indifferente al chiasso che avrebbe causato.
Fus Ro Dah.
La struttura cigolò e tremò, i rinforzi s'incrinarono, ma non cedettero.
Sebbene il tempo necessario per rimpinguare le forze e invocare senza pericolo un nuovo Thu'um fosse considerevole, Dovah non se ne curò. Con quanta volontà vi era il lui, urlò di nuovo: due dei sei agganci si strapparono, gli altri fremettero. Tuttavia, si trovò ancora imprigionato.
La vista gli si appannava e le gambe cedevano. Gli pareva d'esser svuotato d'ogni energia e l'aria che riusciva a inspirare non era sufficiente a rinvigorirne il sangue, ma di nuovo invocò la furia della Voce e per l'ultima volta la sprigionò: finalmente la lastra si scardinò e come una foglia nella tormenta fu scaraventata lontano.
Sorrise con esaltazione, sebbene molte gocce di sudore freddo ne rigassero il volto. Avanzò d'un passo, ma il suo ginocchio s'afflosciò come uno stelo d'erba e lui cadde carponi. Cercò di rialzarsi, ma fallì. Arrancò fino alle sbarre e solo aggrappandosi ad esse fu in grado d'issarsi in piedi.
“Cal” chiamò di nuovo, ma la sua voce era troppo flebile, esausta quanto lui, e non sarebbe riuscita a riscuotere neppure la più insonne delle menti. Per un istante, fu tentato di abbandonarsi allo sfinimento, d'accasciarsi come il bambino e attendere che il suo corpo si rimettesse, ma se la carne del Dovahkiin era mortale e si sfiancava, altrettanto non poteva dirsi del suo spirito. Con sforzo inumano s'issò sulle sbarre e si gettò al di là di esse, rotolando malamente sulla fredda pietra, prima di fermarsi schiena a terra a pochi passi dalla sfera arcana.
Rantolò penosamente, issandosi su un gomito, e annaspò ai piedi della prima colonnina per privarla della gemma. Altrettanto fece con le altre e la protezione magica si estinse.
“Cal” mormorò il suo nome con speranza e paura. Il volto del bambino sembrava sereno e intatto. L'orbita destra sarebbe dovuta apparire sfregiata e vuota, invece la sua palpebra giaceva chiusa e distesa come l'altra, la pelle morbida e liscia, le ciglia integre.
Dovah ne carezzò la zazzera bruna, chiamandolo più e più volte, senza risultato.
“Cal, comprendo d'essere in ritardo, ma non punirmi per questo. Sii clemente con me”.
Il bambino respirava, seppur fiocamente e con gran lentezza, dunque vi era vita in lui, eppure il suo sonno pareva inscalfibile.
L'angoscia più cruda scosse le viscere di Dovah ed egli a fatica respinse la morsa del pianto che sentiva gravare sui suoi occhi.
Si sollevò in ginocchio: “Cal, ascoltami, l'incantesimo è infranto, sei libero. Riconosci la mia voce, non è vero? Ora, per favore... per favore, Cal, svegliati”.
Insistette a lungo e a lungo disperò di ritrovarlo, ma infine la costrizione della magia abbandonò il bambino che si contorse lievemente nel torpore, prima di aprire il solo occhio sinistro e puntarlo sonnolento su di lui. Impiegò qualche istante a riconoscerlo: “ciao” lo salutò infine in un alito appena accennato di voce.
Il petto di Dovah fu scosso da un breve colpo di risa. Una sola lacrima sfuggì al suo contegno: “grazie agli Otto. Grazie agli Otto, Cal” baciò la sua fronte “grazie agli Otto”. Lo strinse a sé con presa troppo salda e Cal cercò di ribellarvisi, ma non ne aveva le forze e dovette sopportare la sua morsa, ancora fremente d'un ancestrale terrore che poche volte Dovah aveva avuto modo di sperimentare nella propria esistenza, ciascuna di esse nelle sole ultime settimane.
Inalò un profondo respiro quando suo padre si staccò finalmente da lui per prenderne il volto tra le mani e guardarlo con apprensione: “come ti senti?”.
“Floscio” rispose soltanto.
Dovah scrutò i suoi occhi: il sinistro era aperto e vigile, il bruno terreo e intenso dell'iride brillava più vivido che mai; il destro, al contrario, era sigillato dalla magia indelebile apportatavi dalle brutali creature della notte che tanto s'erano divertite a mutilare il piccolo pur senza scalfirne il bel viso.
Si morse le labbra e la sua rabbia crebbe a tal punto che desiderò rimangiare la promessa data per tornare in quel bastione abbandonato dagli Otto e concludere ciò cui aveva dato inizio, ma fu solo un istante, un lieve cedimento nella gioia dirompente che era in lui: presto la consapevolezza di riavere Cal con sé tornò a dominare ogni sentimento e Dovah dimenticò il proprio rancore.
“Usciamo da qui” concluse e il grande entusiasmo quasi gli fece dimenticare lo sfinimento che gravava sul suo corpo.
Prese Cal in braccio e, solo quando fu in procinto d'alzarsi, s'avvide di quanto quel semplice gesto fosse proibitivo e terribilmente faticoso. Aggrappandosi tenacemente alla pietra grezza della parete, riuscì a ergersi, pur malfermo, sulle gambe e s'inoltrò nell'oscurità del profondo mausoleo.
Aveva rinunciato alla possibilità di sostenere un combattimento, dando sfogo a gran parte delle proprie energie, ma certo non era giunto a un tale estremo per volontà: la priorità di Cal aveva annichilito qualsiasi ragionevole pianificazione e ponderazione strategica, strappandolo da ogni logica riflessione, e ora si ritrovava a vagare in suolo nemico col bambino al seguito, ma completamente incapace di proteggerlo. Tuttavia, non potevano indugiare: dovevano muoversi e farlo rapidamente.
Dovah era consapevole d'aver lasciato Ebor solo ad affrontare molti nemici, eppure non era in pena per lui: non comprendeva appieno la sua natura, ma essa esulava dalle mere forze del Nirn ed era certo che qualche fanatico in armi non fosse sufficiente a causargli tribolazione.
Presto, tuttavia, altri furono i pensieri a turbare i suoi ragionamenti: dalla paura di vedersi aggredire senza possibilità di difesa, giunse a domandarsi perché non vi fosse un solo nemico ad ergersi sul suo cammino. Era stato imprigionato in mura pregne di potere arcano, dunque meritevoli d'essere ben protette e sorvegliate. Invece non v'erano che solitudine e silenzio.
Salì fin quasi in superficie e, più avanzava, più i suoi passi incappavano in corpi di cultisti riversi al suolo laddove molti draugr ancora attendevano passivamente accanto alle proprie tombe, vigili, ma indifferenti. Di certo, non avevano preso parte allo scontro.
“Voi non sapete spiegarmi cosa sia accaduto, non è così?” provocò Dovah, incrociando lo sguardo d'un Signore della Morte impettito e fiero, che respirava roco quanto un mantice e li seguiva con occhi fatui ormai svuotati d'ogni coscienza. Dentro sé, Dovah non credeva nella cruda rudezza che guerrieri e avventurieri attribuivano a quei morti inquieti: lui ne aveva affrontati molti e sapeva che vi fosse senno nelle loro menti. Erano guidati da spiriti ancora consapevoli, seppur malvagi.
“Cos'è, papà?” chiese Cal, il cui intorpidimento andava lentamente sopendosi e ora sembrava aver riacquistato gran parte delle proprie forze.
“Un nemico, ma abbiamo stipulato una tregua”.
“Come?”.
“Questo non lo so. Lo chiederai a Ebor”.
“Chi è Ebor?”.
“Se mai lo ritroveremo, lo scoprirai di persona”.
Cal svicolò tra le sue braccia e scese a terra. Con piglio fin troppo deciso s'incamminò verso il draugr e Dovah lo fermò agguantandolo per un polso, neanche fosse un'oca prossima a fuggire dalla stia. Lo trascinò verso di sé e il bambino si lamentò in un borbottio, massaggiandosi la mano con profonda offesa, quando l'ebbe libera.
“Perdonami, Cal” si scusò, conscio d'esser stato fin troppo grezzo “ma non sono innocui e non è il caso d'irritarli. Sta loro alla larga, intesi?”.
Cal annuì e accettò di proseguire con la mano di Dovah stretta sulla sua, di modo che qualsiasi gesto gli fosse pressoché precluso e mai una volta gli fu concesso di avvicinarsi a uno di quegli strani guerrieri dall'aria vecchia e macilenta, che non parlavano e non prestavano loro alcuna attenzione. Gli piacevano i loro occhi, brillanti e freddi come la neve che tante volte aveva visto cadere sulle strade della sua città. Molti pensieri, ricordi orrendi e spaventosi, cominciarono ad affollarsi nella sua mente, di nuovo lucida e libera da ogni torpore.
Dovah si sentì rivolgere domande che ne freddarono il sangue e che fino a quel momento non aveva pensato di dover affrontare, poiché era stato troppo preoccupato dall'evenienza di doversi arrendere alla perdita di Cal così come aveva accettato la perdita di sua madre per pensare a ciò che sarebbe seguito in caso d'un suo fortunoso salvataggio.
“Che è successo, papà?”.
“Chi sono queste persone?”.
“Cosa vogliono?”.
“Perché ci fanno questo?”.
E ancora.
“Dov'è la mamma?”.
“Le facevano del male: io l'ho visto. Sta bene, adesso?”.
Lui replicò bruscamente pur senza desiderarlo: “non ora, Cal”.
Non lo ascoltò: “dov'è Sofie?”.
“Al sicuro” finalmente ebbe modo di concedergli una risposta sincera e buona al punto da placare il battito secco e dolente del suo cuore “non preoccuparti per lei”.
“Sai, papà, è strano vedere solo per metà”.
Dovah sorrise con tenerezza, perché Cal pareva affrontare i torti a lui inferti con molto più spirito e prontezza d'animo di quanto lui stesso non fosse capace: “ti abituerai”.
Il bambino parve rabbrividire: “che male m'hanno fatto. Loro ridevano di me perché piangevo, ma come potevo non piangere? E se da una parte uscivano lacrime, dall'altra usciva sangue”.
“Cal” lo zittì e si sentì un inetto, poiché lui, veterano di molte battaglie, sopravvissuto a molte ferite, non riusciva a sopportarne l'ingenuo resoconto, mentre il piccolo tornava a quei ricordi senza paura.
Cal temette d'aver detto qualcosa di sbagliato: Dovah s'era fermato nel mezzo del cammino e teneva lo sguardo lontano da lui. Persino dalla sua bassa statura, riusciva a scorgere quanto corrucciato fosse il suo volto e quanto rigido il suo sguardo.
“Fermiamoci un poco, Cal. Siamo entrambi stanchi e fatichiamo a proseguire” sedette a terra, spalle al muro e, quando il bambino fu in procinto di accomodarglisi accanto, Dovah lo prese e lo adagiò sulle proprie gambe.
Cal si sentiva interdetto e vagamente stranito, perché suo padre si stava dimostrando fin troppo gentile e lui non era abituato a tante effusioni da parte sua: Dovah era sempre stato più estroverso nei confronti di sua sorella e, sebbene Cal fosse troppo piccolo per comprenderlo, vi era verità nella convinzione insinuatasi prima in Ysolda e poi, non appena fu matura a sufficienza da comprenderlo, in Sofie che, per un motivo o per l'altro, lui non avesse mai accettato del tutto quel figlioletto dal sangue misto.
Cal ricordava sua madre prenderlo in disparte, quando notava che con troppa insistenza i suoi occhi indugiavano su Dovah e sulla grande considerazione che questi aveva di Sofie, mentre minore era l'attenzione a lui dedicata: gli ripeteva che, non appena fosse divenuto più grande, anche a lui sarebbe stato insegnato a maneggiare la spada, a curare le ferite con la magia, a seguire le ombre per divenire leggero come la notte. Gli raccomandava d'avere “pazienza con papà, perché ti vuole un gran bene, ma ci sono strani fantasmi, giù nel suo passato più remoto fin su in quello più prossimo, che lo tormentano sempre e lui fatica a disfarsene”.
Pure, ecco che ora lo stringeva a sé come per proteggerlo da un gran freddo e Cal sentiva il suo mento premere contro il proprio capo.
Il sonno tornò a gravare sul suo solitario occhio di bruma, ma non era più quel sopore malsano e annichilente imposto dalla magia. Era piuttosto un tepore dolce e quieto, che lo faceva sentire caldo e al sicuro: “papà, dov'è la mamma?”.
Di nuovo il respiro di Dovah s'irrigidì.
“A Whiterun, Cal”.
“Perché?”.
“Perché quella era la sua casa, prima che venisse con me a Windhelm. Ti ho mai portato a Whiterun?”.
Lo sentì scuotere il capo.
“Ti ci porterò, Cal. È una bella città: pulita, semplice e c'è quasi sempre il sole”.
“La neve?”.
“Non c'è neve a Whiterun”.
“Che strano”.
Dovah sorrise, ma non v'era serenità in lui. Di nuovo si scusò: “perdonami, Cal, se sono arrivato tanto in ritardo. Ho fatto del mio meglio”.
“Non fa niente” sbadigliò e, coricatosi per bene tra le sue braccia, s'assopì.
Con grande fatica Dovah attinse ancora una volta al dono della Voce.
Laas ya nir.
Subito la vista gli si offusco, ma non per il potere del Thu'um, bensì per l'ennesimo sforzo imposto al suo corpo esacerbato. Infine, il mancamento passò e non vi furono ombre vermiglie a richiamare il suo sguardo, se non quelle di qualche cadavere vagante che, per una volta, non aveva interesse nel suo male.
Ebbe certezza d'esser solo e, suo malgrado, s'assopì con Cal.
 

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Capitolo 8
*** Fin munseved ***


 
 
Fu un grugnito ferale a riscuoterlo. Non appena i suoi occhi si liberarono dal velo di sopore che li annebbiava, ecco che un draugr scalzo e armato di un'ascia sbeccata si stagliò sopra di lui, erto in attesa di ricevere risposta.
La stretta di Dovah su Cal si rafforzò, ma non osò muoversi. Continuò a sedere, in attesa.
“Fin munseved los til” così gli disse il cadavere inquieto mentre il suo braccio putrido si stendeva a indicare verso est.
Dovah annuì appena e il draugr si ritirò.
“Che ti ha detto?” Cal sussurrò con estrema cautela e lui si stupì di scoprilo sveglio.
“Ha provato a parlare con me” continuò il bambino “ma non lo capivo. Sono rimasto fermo come una lucertola perché è quello che mi hai detto di fare e lui è restato lì ad aspettare”.
“Bravo, Cal. Hai agito bene”.
“E cosa ti ha detto?”.
“Mi ha indicato dove trovare Ebor”.
“Possiamo andare, ora?” persisteva nel parlare in bisbigli sommessi e Dovah non riuscì a trattenere una risata lieve: “sì, Cal. Non c'è pericolo. Forza, in piedi” s'alzò con un gran dolore a intorpidire le sue gambe. Tuttavia, si scoprì più saldo e in forze di quanto sperato. Tese la propria destra: “coraggio” lo incitò e Cal strinse la sua mano, pronto a riprendere il cammino.
Seguirono la via indicata e infine giunsero al grande salone in cui volontariamente Dovah aveva permesso la propria cattura.
Molti corpi vi erano disseminati e ancor più sangue lordava la pietra, fluendo verso il centro dell'ampia pavimentazione, dove una solida grata di ferro nero lo catturava e rigettava nelle viscere del Nirn. Tuttavia, vi era anche dell'altro a insozzarla: una sostanza più densa e scura del sangue e che con esso s'amalgamava a fatica, di molto rassomigliante al petrolio e che pareva convergere verso lo scolo non per spinta d'inerzia, bensì per volontà. Nell'oscurità del baratro spariva senza lasciare traccia alcuna dietro di sé e Dovah pensò di riconoscere quel limo ripugnante.
Solo quando i suoi occhi s'alzarono dallo scempio cui tanto erano attratti, vide Ebor, distante da lui e apparentemente inconsapevole della sua presenza. Vi era un fuoco di lingue turchine a lampeggiare al suo fianco e lui vi si rivolse come per riscaldarsi. Ma tale non era il suo proposito: teneva un libro in mano e persino da quella distanza Dovah riusciva a scorgerne le pagine del tutto annerite. Senza esitazione Ebor lo gettò tra le fiamme: gli ultimi tentacoli di melma nera rovinarono attraverso la grata.
Dovah non riuscì a immaginare cosa Ebor avesse compiuto in sua assenza, come avesse abbattuto i nemici che ora giacevano ai suoi piedi, né quali bestie diaboliche avesse evocato perché combattessero al suo fianco.
“Che bello vederti di ritorno”.
Sobbalzò all'udire la sua voce e certo non lo accolse con altrettanto entusiasmo.
“Dunque ecco Cal” Ebor sorrideva ampiamente, avvicinandosi con una leggerezza a guidare i suoi passi che molto cozzava con il grande sfacelo a circondarlo “è un piacere conoscerti”.
Quando, però, fu abbastanza vicino da tendere la propria destra verso il bambino, Dovah si frappose ai due, forzando Cal dietro sé.
A lungo lui ed Ebor si guardarono in silenzio e un grande senso d'attesa gravava su entrambi.
Fu Dovah, infine, a parlare: “in principio credevo che fossi un sacerdote di Hermaeus Mora, un'eccezione al suo operato, forse in cerca di redenzione o di perdono per un voto di cui ormai provavi pentimento, ma nessun Daedra terrebbe in così alto conto un proprio affiliato da cedergli simili poteri”.
Ebor ascoltava e taceva, lo sguardo cupo, il respiro fermo.
“Dunque, cosa sei?” chiese Dovah, ma il suo tono non invogliava alla sincerità, poiché trasudava minaccia e repulsa.
“Una sfida a Mara e alla purezza delle creature che, nel Nirn, nascono da ventre di donna. Questo è quanto devi sapere e questo è quanto devi accettare. Se così non è, dunque qui ci salutiamo e più non metterai piede in casa mia, perché non voglio animi ostili attorno alla mia famiglia” vi fu silenzio prima che aggiungesse poche, lapidarie parole scandite in fil di voce “io ti sono amico”.
Dovah non replicò. Con gesto seccò gli voltò le spalle: “non permetterò a Cal di avvicinarsi a quello scempio né di guardarlo un solo istante in più. Ci rifocilleremo all'ingresso, poi torneremo alla tua tenuta”.
Nessuno avrebbe osato contestarne gli ordini.
 
Della sacca da viaggio, che Ebor aveva salvato dallo scontro e poi ripreso con sé, avanzarono molte scorte, poiché non avevano trascorso che due giorni tra le soffocanti mura di quella cripta senza nome.
“Rulf, sei un maledetto ingordo”.
Il cavallo aveva già mangiato metà del foraggio lasciatogli da Ebor e questi borbottò contrariato, mentre raccoglieva il rimanente e lo ordinava così da poterlo riportare a casa: “hai mangiato ciò che solitamente consumeresti nel doppio del tempo. Certo non ti risparmierò un giorno di digiuno”. Lo caricò delle provviste, ma lasciò la sella libera perché Cal potesse sedervi e trascorrere il viaggio in comodità.
Dovah non ne parve entusiasta, poiché era una cavalcatura dalle dimensioni notevoli e non ne conosceva il temperamento, ma Ebor si fece scherno dei suoi timori, affermando che non vi fosse castrone più affidabile di quello in tutta Skyrim e che, in ogni caso, l'avrebbe accompagnato per le briglie lungo l'intero tragitto.
Così partirono e Rulf si dimostrò a tal punto quieto e sereno che Cal s'addormentò sull'ampia sella dopo una sola ora di viaggio.
Ebor ne approfittò per parlare apertamente: “certo ciò cui abbiamo assistito non lascia ben sperare”.
“Tu dici?”.
Ignorò l'aspro sarcasmo di Dovah: “cercavano il potere del Sangue di Drago e chissà che non siano riusciti a ricavarne con la loro folle magia”.
“Il potere del Sangue di Drago è un dono divino, non ereditario”.
“Infatti Cal non mostrerà il tuo talento per la Voce, né sarà costretto al medesimo destino, tuttavia quello del Dovahkiin è un marchio potente e persiste nello scorrere delle generazioni, come un retaggio o una reminiscenza. Questo è ciò che hanno tratto da lui”.
“Vale a dire?”.
“Da lui, hanno tratto te. O, per lo meno, un'ombra di ciò che sei. Prega le divinità che non sia sufficiente”.
“Sufficiente per cosa?”.
“Io questo non lo so. Non riesco a vederlo”.
Dovah tacque e più non s'azzardò in supposizioni. La sua mente era scissa e vi era lotta in lui tra la gioia più sincera ed egoista per aver ritrovato Cal e saperlo finalmente al proprio fianco, vivo e salvo, e la consapevolezza d'aver appena smascherato una grande opera di male, ramificatasi nell'ombra.
Mancava meno d'un miglio alla loro destinazione quando un giovane in abiti contadini corse loro incontro e pareva avere una gran fretta di parlare con Ebor.
“Ebor, signore, finalmente sei tornato: è nata! Una femmina, sana e in carne. È accaduto la scorsa notte, poco prima del sorgere del sole. Zeala ti aspetta”.
Certo Dovah pensò che fosse una gran bella notizia, da accogliere con gioia ed entusiasmo, invece Ebor sbiancò all'udirla e, passato il pallore, le sue gote si tinsero d'un inaspettato rossore. Sembrava adirato e il suo borbottare rabbioso certo non ne mascherava il malcontento. Cedette le redini a Dovah senza proferir parola e si precipitò alla tenuta, dove trovò Zeala accomodata accanto al focolare, l'infante assopita tra le sue braccia, quieta e inconsapevole.
Quando si accorse del suo arrivo, lo salutò con un ampio sorriso, ma subito si rabbuiò, scorgendo lo sguardo tetro che lui le ricambiò.
“Tu lo sapevi, non è così?” proruppe Ebor “l'avevi sognato, forse? Te ne era giunta premonizione?”.
Gli occhi di lei si colmarono di stupore e sgomento: “a che ti riferisci?”.
“Per questo avevi tanta fretta che lasciassi casa?”.
“Insinui forse che desiderassi allontanarti di proposito?”.
“Insinuo che volessi convincermi a partire quanto prima per assistere Dovah, poiché si trattava d'una decisione che avrei probabilmente titubato a prendere, se avessi saputo della nascita tanto imminente”.
Zeala non replicò. Voltò lo sguardo, duro e ostile, e più non badò a lui.
“Ora sei tu a mostrarti di malumore?” insistette Ebor.
“Sto tacendo, o sbaglio?” replicò con ostentata noncuranza.
Anche lui tacque, colto da un certo disagio. Infine, le si avvicinò e tese le proprie mani: “posso tenerla?”.
“Oh, guarda” esclamò Zeala, dando finalmente sfogo alla propria stizza “dunque t'interessa. Credevo fossi troppo preso dal tuo malanimo per accorgerti di lei”.
Ebor sospirò: “andiamo, Zeala”.
Con occhi di brace allentò la presa sul fagotto stretto tra le sue braccia: “prendila” disse soltanto, scostando nuovamente lo sguardo.
Ebor ignorò una volta per tutte il suo livore: raccolse la creaturina con gran delicatezza e questa si mosse appena nel sonno.
“Per carità, non svegliarla”.
Ma era troppo tardi: presto Ebor si ritrovò a guardare due occhi d'intenso cobalto, pressoché ciechi e molto accigliati.
“Salve, Helsy!“ la salutò con entusiasmo e le parlò come se davvero lei potesse cogliere il senso delle sue parole. Tale era la gioia nel suo sorriso e con tale attenzione la piccola pareva seguire il moto della sua voce calda e dolce che l'animo di Zeala non poté evitare d'ammorbidirsi un poco, accantonando gran parte della propria acredine.
Riuscì tuttavia a rivestirsi d'ostinazione quando di nuovo Ebor si rivolse a lei. Lui stesso pareva essersi pentito del proprio animoso rientro: “abbiamo salvato il bambino” le disse.
“Lo so. Ne sono felice” e così era, sebbene non lo sembrasse.
Ebor sorrise con tenerezza, poiché era fiera e caparbia e tuttavia ancora sfibrata, provata dal grande sforzo fisico, il volto pallido e gli occhi vagamente cerchiati di stanchezza. Le si sedette accanto, Helsy che si muoveva piano tra le sue braccia: “è andato tutto per il meglio? Stai bene?”.
“Sì”.
Non demorse di fronte alla sua testardaggine: “a Hedil piace?”.
Quella domanda le strappò un lieve sorriso. Scrollò appena le spalle: “pare esserne un po' geloso”.
Ebor ridacchiò: “nulla di più prevedibile”.
Si persero nei loro lieti convenevoli più del previsto e solo dopo lunghi minuti Ebor s'avvide che Dovah tardava ad arrivare. Cedette di nuovo Helsy a Zeala e s'accinse ad uscire per andarlo a cercare, ma quando la sua mano si posò sulla maniglia della porta, ecco questa scattare e aprirsi.
“Mi chiedevo che fine aveste fatto” esclamò, fronteggiando Dovah e sorridendo a Cal, un poco interdetto al suo fianco, lo sguardo ancora impastato di sonno.
“Mi hai aiutato molto e siamo tuoi ospiti: mi pareva il minimo occuparmi delle provviste e del tuo cavallo”.
“Sei fin troppo gentile, Dovah” con una certa difficoltà, Zeala s'alzò e andò loro incontro.
Lui richiuse la porta dietro sé per impedire che il freddo della sera incombente guastasse il tepore del focolare. La salutò con un compito cenno del capo: “la buona notizia s'è rivelata esser vera: le mie congratulazioni”.
Lei ricambiò il suo sorriso e di nuovo passò la bambina a Ebor per potersi rivolgere a Cal senza impicci: “è così bello vederti, piccolo Cal. Eravamo in pena per te” tese la propria mano e il bambino attese il consenso del padre prima di stringerla “tua sorella sarà così felice quando ti saprà di nuovo a casa. Giusto poco fa l'ho mandata in paese per una commissione di cui non potevo occuparmi personalmente e sarà di ritorno domattina... spero di non averti contrariato, Dovah: era assieme ad altri due mercanti che spesso attraversano queste contrade, gente fidata con cui non corre pericolo alcuno. È stata lei a chiedermi di tenerla impegnata”.
Dovah negò bonariamente, ostentando una fiducia nei confronti di Zeala che senza remore aveva negato a Ebor, poiché ogni parola rivoltagli da quella donna s'era rivelata vera e si fidava del suo buonsenso.
Di nuovo Zeala si rivolse al bambino: “sarai molto stanco, mio piccolo Cal. È già stato preparato un giaciglio per te, caldo e comodo. Ti piacerà. Prima, però, pensiamo a riempirti la pancia”.
“Zeala, per grazia dei Nove, siedi e sta quieta” la rimbrottò Ebor “ci penserò io”.
“Non v'è molto da fare” lo liquidò “Wulda ci ha consegnato un bel pasto caldo dalla locanda e tra non molto la vecchia Beresh riporterà Hedil a casa”.
Così, si rifocillarono, si scaldarono e finalmente poterono coricarsi in un letto accogliente, ma soprattutto, poterono riposare privi da crucci e angosce.
Dovah s'addormentò subito, ma non fu altrettanto semplice per Cal: la pressante stanchezza s'era ormai sopita e le ombre della notte gravavano sulla sua mente come spettri feroci. Nel buio, il suo occhio ormai solitario generava immagini spaventose e, sebbene le sapesse irreali, poiché le riconosceva dai propri ricordi, non gli incutevano meno paura.
Sgusciò dal proprio letto e con immensa discrezione s'infilò in quello di Dovah. A casa, mai gli era capitato d'azzardare tanto, poiché suo padre non desiderava che dormisse con lui e Ysolda: ormai era grande a sufficienza da restare nel proprio letto, così asseriva. Quando proprio non riusciva a prendere sonno, attendeva che suo padre s'addormentasse per chiedere a sua madre di fargli un poco di spazio e lei glielo concedeva, stando bene attenta a non svegliare il marito. In casi disperati, piuttosto che nulla, accettava di dormire con Sofie e lei di rado lo mandava via.
Tuttavia, ora non vi era mamma o sorella ad accoglierlo. Sperò di svegliarsi per tempo, così da tornare nel proprio letto prima che Dovah se ne accorgesse, e presto precipitò nel sonno, poiché accanto alla sua presenza sicura il buio perdeva potere e la giovane mente tormentata trovava quiete.
Ad ogni modo, non si svegliò come auspicato. Semmai, Dovah si destò prima dell'alba a causa d'un colpo di gomito che Cal gli inviò alle costole, preda d'un sogno agitato.
Si stupì nel vederlo accanto a sé e si chiese come il piccolo fosse riuscito ad aggirare il suo sonno per intrufolarsi con tanta maestria.
Pensò fosse il caso di svegliarlo: lo scrollò rudemente e Cal si riscosse in un singulto. Prima ancora d'essere ben presente a sé stesso, si mise a sedere e scese dal letto.
“Che fai?” gli chiese Dovah, interdetto.
“Torno al mio posto” rispose lui con sorprendente lucidità, nonostante lo sguardo greve e la voce impastata di sonno.
“Che hai capito? Sognavi e non facevi che colpirmi: per questo ti ho svegliato”.
Cal grugnì: “posso restare?”.
Dovah tornò a coricarsi tra le calde coltri: “puoi restare” gli assicurò.
Come un gatto, Cal s'infilò sotto il suo braccio e in pochi istanti si riaddormentò.
 
Per molte ore riposò serenamente. Poi, ecco nuove ombre addensarsi nei suoi sogni e turbarli, finché riprese ad agitarsi e muoversi nel sonno: fu la sua stessa irruenza a svegliarlo.
Si scoprì solo: ormai il sole filtrava dal piccolo lucernario discretamente schermato da una sottile pelle conciata. Dovah s'era evidentemente svegliato prima di lui, aveva creduto di fargli una cortesia lasciandolo dormire un altro po' e la sua mente incosciente era riprecipitata nella confusione, sentendosi sola.
Si stropicciò l'occhio, si mise a sedere e sobbalzò quando scoprì d'essere osservato: un bambino molto più piccolo di lui, eppure con scuri occhi sorprendentemente vispi e acuti, lo fissava incuriosito.
“Hai fatto un brutto sogno?” gli chiese Hedil e la sua voce suonò tanto squillante quanto briosa.
Cal lo squadrò perplesso.
“Anche io faccio spesso brutti sogni. Che ha il tuo occhio?”.
Tacque.
Hedil non se ne fecce un cruccio e subito passò oltre: “la colazione è pronta. Ne vuoi?”.
Annuì.
“Allora vieni con me” trotterellò contento per le scale e Cal lo seguì.
Vide suo padre seduto al grande tavolo del soggiorno ligneo, intento a discutere sommessamente col padrone di casa. Fu questi che Hedil chiamò: “papà, Cal ha fame. E anche io”.
Lo sguardo di Ebor fu strappato alla fitta conversazione e lui sorrise ampiamente vedendoli avvicinare, Hedil trotterellando come un piccolo saltimbanco, Cal camminando lentamente e con aria terribilmente circospetta. Quasi inconsapevolmente andò da Dovah e si fermò al suo fianco, pur senza degnarlo di molta attenzione.
Quasi sussultò quando ne percepì la mano posarsi sul suo capo e carezzarlo teneramente: “di che hai paura, Cal?” gli chiese con voce tenue “siamo in casa d'amici. Va tutto bene”.
“Sì, lo so” disse senza convinzione.
Dovah lo prese e l'accomodò su un ginocchio.
“Credevo che avrei trovato Sofie” confessò il bambino.
“Hai sentito Zeala: è andata per lei a fare una commissione e tornerà a breve. La rivedremo presto” assicurò. Baciò la sua fronte e di nuovo Cal fu scosso da una bizzarra sensazione, poiché quei gesti affettuosi lo smarrivano più che rincuorarlo.
Ogni turbamento fu spazzato via dall'involto dolce che Ebor gli offrì, posandolo ancora tiepido di cottura proprio sotto al suo naso.
Dovah fermò l'esile mano che subito si fiondò sulla fetta più vicina: “ascoltami attentamente: di queste cinque te ne concedo due. So che altrimenti tartasserai tutti quanti con la tua nausea. Ci siamo capiti?”.
Cal annuì e Dovah più non disturbò la sua colazione.
Fu Hedil, piuttosto, a strapparlo dalle ultime briciole e, presolo per mano, lo trascinò con sé. Cal non era solito intrattenersi con altri bambini, specialmente se tanto vivaci, e si lasciò condurre pressoché passivamente.
Infine Ebor s'alzò e si congedò da loro, poiché i cavalli e l'attività lo chiamavano, e così Dovah restò solo, accomodato al tavolo e immerso nelle proprie rimuginazioni.
La sedia ormai vuota accanto a lui fu occupata da altri, una figura esile e in vesti scure, con un neonato al seno.
“Mi ricordi mia moglie” commentò lui senza neppure volgere lo sguardo verso di lei “non un solo istante a riposo”.
Zeala rise quietamente: “questo mondo non concede il lusso del riposo” il suo sguardo seguì quello di Dovah, finché non s'insinuò nell'ambiente attiguo dove, al tepore del focolare, Hedil s'intratteneva con Cal, investendolo senza remora alcuna di domande e attenzioni.
Il volto di quel bambino era esso stesso sprone per molte curiosità, perché aveva un aspetto delizioso eppure raro, come non se ne incrociavano molti nelle terre di Skyrim e, probabilmente, di Tamriel tutta: la sua carnagione era chiara e i suoi occhi forti e marcati come quelli dei Nord. Tuttavia, per quanto armoniosi e belli, i suoi lineamenti erano affilati e le orecchie lievemente appuntite.
“È bizzarro” ammise a quel punto, con un dolce sorriso ad ammorbidire le sue parole “voi Altmer solitamente non vi ibridate”.
“A esser sincero, non avevo intenzione d'ibridare” ammise Dovah “Cal è stato un amaro imprevisto. O almeno, tale mi pareva al tempo”.
“Pure, ti sei dato così da fare per lui”.
“Tu dici?” il suo sguardo si rabbuiò: “a me non pare”.
“Perché pensi questo? Sta bene ed è di nuovo con te”.
“Dopo aver assistito alla morte di sua madre. Dopo che un occhio gli è stato cavato dal volto” sospirò amaramente tra i denti serrati “desidero solo riportarlo a casa. Desidero restarvi, con lui e con sua sorella, che la faccenda in cui siamo odiosamente incappati si sia conclusa o meno” sospirò profondamente “io non posso rischiare di nuovo la sua vita. Non posso”.
“Non accadrà” gli assicurò “e Sofie è in viaggio, dunque scoprirà a breve che suo fratello è salvo e in salute”.
“Ebor non pare irrequieto per quanto abbiamo visto e combattuto”.
Lei ridacchiò: “Ebor non è mai irrequieto, se non in casi estremi. Se ti pare consapevole ma tranquillo, dunque questo è un buon segno”.
Due colpi di nocche percossero la porta e squillante come un flauto giunse la voce di Sofie che annunciava il proprio rientro. Uditala fin nella stanza dove si trovava, Cal balzò in piedi come un capriolo e si precipitò ad accoglierla.

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