Sing

di matmatt98
(/viewuser.php?uid=417686)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Not That Kind ***
Capitolo 2: *** Coming Home ***
Capitolo 3: *** Give Me Love ***
Capitolo 4: *** Scared Of Happy ***
Capitolo 5: *** Stay ***



Capitolo 1
*** Not That Kind ***


Not That Kind

Fin dalla nascita ti educano al rispetto, all’audacia e all’amore. Ti raccontano di essere speciale e ti raccomandano di essere forte, di non arrenderti mai. Ti dicono di non preoccuparti, che dopo una sconfitta ci si rialza sempre, che dopo la tempesta il sole spunta inevitabilmente ad asciugare i fiori.

Poi maturi e scopri che sei cresciuto nell’ipocrisia. Perché la pioggia non cessa praticamente mai – almeno non dentro –, perché tutti in fondo cercano di vivere al meglio delle proprie possibilità e non c’è nulla di speciale nel sopravvivere. Perché le persone che dovrebbero dare un esempio ed esserlo, quelle che hanno il compito di elevare l’amore e donarlo al prossimo senza risparmio, quelle che dovrebbero difenderti dalle brutture dell’universo, sono proprio quelle che il loro prossimo lo calpestano e additano perché umano ed, in quanto tale, incapace di rifiutare i propri sentimenti.

Ti è sempre stato detto d’amare, fino a svuotarti di ogni cosa, ma poi, quando improvvisamente spalanchi la mente e con le braccia ti apri le costole per donare il tuo cuore decidendo di guardare al di là di una futile distinzione di sesso, cultura ed età, all’improvviso qualcosa cambia. Quel tipo d’amore, anche se così puro ed incondizionato come ti è stato rivelato che deve essere, non va più bene.

Francesco, diciannove anni portati male, pensava spesso a come avrebbe voluto che fossero il mondo sul quale continuava incessantemente a camminare ed il Cielo sotto il quale si disperava e alla fine, dopo anni passati a consolare sua madre di un dolore che entrambi non si meritavano, aveva capito che in realtà non c’è niente in cui sperare. Niente da pretendere.

Che il mondo è fatto così e tu ti devi adattare, altrimenti rimani emarginato. Diventi quello che tutti odiano e additano: la pecora nera della società. 

Per questo, dopo il divorzio dei suoi genitori e le parole e le botte ancora chiare e brucianti sulla sua pelle mulatta, aveva preso a girovagare per il parco con lo skateboard come tutti gli altri, a pisciare sui muri col suo amico Vito e a fumare come un pazzo quando qualcosa non gli andava a genio.

Questo era il suo modo di adattarsi a tutto ciò che di sbagliato aveva attorno.

In poco tempo aveva imparato ad essere menefreghista, eterosessuale, con il cuore di ghiaccio e ad avere sempre e solo parole sbagliate sulla punta della lingua.

Queste erano le sue caratterizzazioni, riconosciute da tutta la scuola.

Sconosciute a sua madre e a lei soltanto.

Francesco, comunque, seppur facesse parte del gruppo più scalmanato del liceo, non aveva mai alzato le mani su nessuno. Semplicemente se ne fregava, gli altri potevano fare quello che volevano, lui non interferiva, ma neanche contribuiva.

Lui continuava a vivere la sua vita adattandosi, ignorando i compiti, gli insegnanti e le persone.

Amici non ne aveva.

Quelli che frequentava a scuola poteva a malapena definirli conoscenti. Quelli con cui passava la maggior parte del tempo neanche sapevano avesse delle sorelle. Nessuno, a parte i suoi genitori, sapeva della sua omosessualità. E nessuno, a parte sua madre, l’aveva accettato.

Ciò che però sembrava non sfuggire a nessuno, era la sua età. Un ragazzo di diciannove anni che frequenta ancora la quarta non è una cosa che passa inosservata facilmente.

Ma, stranamente, invece di sfotterlo, le ragazzine gli leccavano i piedi. Ed i ragazzi, invece di girargli alla larga, facevano a gara per diventargli “amico”.

Tutto ciò, unito al fatto che se ne stava sempre in silenzio, seduto scompostamente nel suo ultimo banco posto accanto alla finestra, con le cuffie infilate perennemente nelle orecchie, sempre accanto ad Lorenzo, gli aveva procurato la fama.

Brutta o bella, aveva ben poca importanza.

Nella società è importante essere notati. Se le luci dei riflettori ti sono addosso allora sei okay, di te si parla. Ci si interessa.

Non ha importanza come o perché. Non ha importanza cos’hai fatto o chi sei. Non ha importanza cosa ti ha fatto diventare ciò che tutti vedono.

Solo la luce.

Francesco si era abituato presto a tutte le attenzioni, agli sguardi ciechi, alle risate spente, alle canne dolci, alle parole vuote.

Se quello gli poteva conferire un aspetto da conformista, adatto al mondo di cui faceva parte, allora andava bene.

Non aveva importanza neanche il fatto che l’unica cosa che potesse permettersi di guardare con gli occhi del vero se stesso fosse solo la nuca coperta di capelli biondissimi di Carlo Ballarin seduto due file davanti alla sua, in posizione centrale.

Quel ragazzino che con la massa non aveva niente a che fare. L’inetto della situazione. Quello che aveva il coraggio di essere ciò che era anche se era sbagliato, anche se essere se stesso lo metteva nei guai.

Anche se ogni mattina, all’intervallo, gli “amici” di Francesco lo prendevano e lo riempivano di insulti e botte solo perché «É un cazzo di frocio con dei capelli di merda, Cristo» diceva sempre Lorenzo, il capogruppo. Quello che comanda gli altri e si aspetta rispetto da chiunque, perfino dai professori.

Un ignorante senza palle, che se la prende coi più deboli soltanto per dimostrare qualcosa che non fa parte di lui realmente.

Francesco non rispondeva, se ne stava fuori dal cesso fino a quando Lore e gli altri non uscivano, con le nocche rosse e dei ghigni sporchi sui brutti visi.

A lui non era mai fregato un cazzo, gli bastava essere accettato. Essere parte integrante del gruppo.

Carlo era unicamente la pecora nera – o la mosca bianca, secondo alcuni, rari – che lui non sarebbe mai stato. Che nessuno avrebbe mai accettato.

Carlo era quel Francesco che lui non aveva mai avuto il coraggio d’essere.

 

***

 

I giorni, quell’anno, passavano più lentamente di quanto Francesco si aspettasse o volesse. Ed erano sempre fottutamente uguali.

O almeno, uguali fino a quel giorno di inizio maggio, quando una ragazzina del primo andò a chiamarlo dicendogli di recarsi nella sala insegnanti alla fine delle lezioni.

Ci andò con malavoglia, strascicando i piedi sul pavimento del corridoio e le mani chiuse a pugno infilate nelle tasche dei jeans neri strappati.

Lorenzo e Vito lo aspettavano all’uscita, nel frattempo – avevano detto – si sarebbero fumati un paio di sigarette. Poi sarebbero andati tutti insieme al parco, perché qualcuno gli aveva procurato dell’erba per sabato sera e davano una parte a testa.

Sbuffò, abbassando la maniglia e senza aspettare il permesso spalancò la porta.

I suoi occhi scuri, contornati da ciglia troppo lunghe, notarono subito sia la professoressa Luisa Rossi, seduta dietro la scrivania, sia Carlo, in piedi accanto a lei.

Aggrottò le sopracciglia folte e si chiuse la porta alle spalle. Non disse niente, attese.

Si sentiva bruciare le terminazioni nervose. Quella stanza odorava di vecchi libri, incenso alla mirra e Carlo.

«Sono contenta che tu sia venuto» esordì la Rossi, portandosi una ciocca di capelli rossi dietro l’orecchio pieno di buchi. Sembrava a suo agio, quasi contenta. Nel compiere il gesto i braccialetti tintinnarono attirando l’attenzione del biondino che, con quei cazzo di occhi blu, lanciò una rapida occhiata verso la donna, per poi spostarlo subito dopo verso una barca a vela in miniatura posta sulla libreria di legno. Quella a venti metri dalla spalla destra di Francesco.

Le barche a vela erano la passione del Preside. Di piccoli modellini costruiti da lui stesso ce n’erano ovunque, messi in bella mostra su ogni mobile, in ogni aula.

Inutile dire che il più grande non aveva mai capito tale scelta. Non solo perché aveva da sempre un brutto – bruttissimo – rapporto con l’oceano, ma proprio perché le trovava inutili e inadatte al resto dell’arredamento.

L’unica cosa decente da guardare in quell’aula, a parte la professoressa (di cui Lorenzo aveva una cotta dal secondo anno), era Carlo

Quel giorno il veneto indossava un maglione grigio e le solite Vans sgangherate. I pantaloni gli cadevano sui fianchi asciutti, mostrando l’orlo dei boxer colorati. In una mano teneva un foglio bianco, mentre l’altra la teneva infilata in tasca. Era veramente alto, superava di qualche centimetro persino la Rossi in tacchi, e aveva un profilo da capogiro.

«Ti starai giustamente chiedendo perché sei qui» continuò la donna, dopo qualche minuto, attirando le attenzioni su di sé. «Te lo spiego brevemente: mi serve qualcuno che canti allo spettacolo di fine anno e ho scoperto, grazie al signorino qui presente , che hai una bellissima voce. Dunque volevo chiederti se ti andasse di fare un duetto con lui, che suonerà la chitarra. Gli serve un compagno e tu sembri essere il più adatto».

Francesco guardò il viso giovanile della professoressa, quello pallido del biondo e poi tornò a fissare il niente. Gli sembrava illogico e assurdo, come se quello non stesse veramente succedendo proprio a lui.

Era come se gli alieni fossero appena atterrati nel giardino di casa sua o Babbo Natale fosse sceso dal camino di sua nonna. Si sentiva drogato.

Osservò l’orario sull’orologio appeso alla parete e si stupì di come il tempo fosse passato lentamente.

«Naturalmente ti saranno riconosciuti gli sforzi di stare più tempo a scuola, che potranno aiutarti più facilmente a superare l’anno» aggiunse la Rossi, ricalcando con la voce l’ultima parte della frase.

Lui annuì. Si sentiva rigido come una corda di violino, mentre le gambe erano assurdamente molli. «A te andrebbe bene?» domandò, rivolgendosi a Carlo.

Quest’ultimo sembrò sorpreso. Virò lo sguardo verso di lui e fece spallucce. «I crediti servono anche a me e sinceramente non saprei proprio a chi altro chiedere» rispose, con l’accento veneto particolarmente marcato.

La sua voce cozzò contro le pareti avide delle orecchie di Francesco. C’era qualcosa di strano in tutto ciò che girava attorno a quel ragazzo e l’altro, se avesse potuto, avrebbe preferito non averne niente a che fare.  Eppure l’anno doveva passarlo per forza. I crediti gli sarebbero stati molto d’aiuto e sua madre sarebbe stata contenta di sentirlo cantare nello spettacolo di fine anno. Amava la sua voce.

O forse c’era qualcos’altro. Una motivazione più profonda eppure brillante che Francesco non volle vedere.

«Puoi rispondermi domani, non c’è fretta» concluse la professoressa, alzandosi in piedi. Quel giorno indossava una gonna lunga nera che le copriva le Creepers. Sistemò delle carte con le mani piene d’anelli strani e sorrise, con le labbra cremisi. Il fatto che avesse solamente ventisette anni non era difficile da notare. «Andate pure».

Carlo salutò cordialmente, si sistemò l’Eastpack nero in spalla, ma non si mosse. Fissò l’uscio insistentemente finché Francesco si rese conto di essere rimasto tutto il tempo a due passi dalla porta.

Con più rapidità di quanta realmente volesse diede le spalle ad entrambi e uscì, senza nemmeno fare lo sforzo di salutare. 

Poco dopo sentì i passi lenti e misurati dell’altro seguirlo a qualche metro di distanza, ma non si voltò. Non avrebbe saputo cosa dire. Era semplicemente sorpreso che Carlo sapesse che lui avesse una bella voce.

D’altronde Maria, sua madre, lo diceva sempre a tutti. Se ne vantava spesso. Ed essendo amica della madre del biondo era possibile che le fosse scappato qualcosa, tra un discorso e un altro, ma era veramente strano che Carlo avesse pensato subito a lui e non magari a Michele del terzo anno. Anche perché pure quello là era gay, solo che non veniva preso per il culo perché stava insieme a Gabriele, campione regionale di wrestling.

«Non sentirti obbligato».

Le gambe di Francesco si mossero da sole, facendolo voltare. Carlo, preso in contropiede, inchiodò sul posto. I suoi occhi non tradirono alcuna emozione, ma il più grande lo sapeva che aveva paura. Ne poteva quasi sentire l’odore.

D’altronde era Lorenzo il suo peggior nemico. E con lui ci usciva ogni giorno. Erano “amici”.

C’è chi dice che il carattere di una persona si può comprendere dalle compagnie che frequenta. E Francesco frequentava la compagnia peggiore della città.

«D’accordo» ribatté, a bassa voce. «Ma ci penserò comunque».

Il volto di Carlo prese fuoco. «Allora grazie» soffiò nervoso. Si tirò su le cinghie dello zaino e a testa bassa lo superò scomparendo dopo qualche minuto dietro il portone d’acciaio della scuola.

Il profumo che si trascinò dietro, un misto di acqua di colonia e shampoo al cocco, fece sfuggire un sorriso all’altro, che se lo rimangiò subito, dandosi due sberle sulle guance mal rasate.

«Idiota» sbottò, ricominciando a trascinare gli stivaletti slacciati sulle piastrelle.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Coming Home ***


Coming Home

Naturalmente non raccontò a nessuno dell'incontro nella sala insegnanti, di aver rivolto la parola a Carlo Bellarin e di aver accettato di duettare con lui alla fine dell’anno. Non buttò fuori niente, perché non se la sentiva e non ne aveva voglia. Lorenzo non avrebbe capito,Vito non l’avrebbe ascoltato e sua madre sarebbe saltata subito a conclusioni affrettate.
Per questo non disse niente e decise di fare le prove a casa sua quando questa era deserta. A scuola sarebbe stato difficile avere un’aula vuota e spiegare. Nella sua testa si era già formato il pensiero che sarebbe stato meglio lasciare la sorpresa alla fine.
Dopo una buona esibizione avrebbe inventato di aver improvvisato, o di essere stato obbligato. Insomma, una cosa del genere.
Non poteva permettersi di far trapelare voci strane sul suo conto a così tanto dalla fine dell’anno. In un mese si sarebbero potute formare teorie assurde, le persone ci mettono troppo poco a tirare le conclusioni, anche se hanno pochissime informazioni. E lui non voleva che gli altri scoprissero che lui rivolgeva la parola a Carlo, che al pomeriggio stavano chiusi in un aula a cantare e suonare.
Gli altri non avrebbero capito.  
«E’ da tanto che aspettavi?»
La voce di Carlo gli arrivò alle spalle, ma non sobbalzò. Si voltò ed incrociò il suo sguardo vispo mettendo su un’espressione a metà tra l’annoiato e l’incazzato.
«Sei in ritardo» dichiarò, mentre dava una sbirciata all’orologio legato al suo polso magro. «Sono qui fuori da dieci min-»
Avrebbe sicuramente continuato a lamentarsi se solo la voce di Lorenzo non l’avesse preso in contropiede, ingarbugliandogli ogni frase sulla punta della lingua.
Si sentì congelare i muscoli e cercò di capire cosa fare per poter sfuggire al ragazzo prima che potesse vederlo in compagnia del veneto, ma assurdamente fu proprio il biondo a prendere la situazione in mano.
E non solo la situazione.
«Taci» disse, mentre le sue dita bianche si allacciarono al suo polso abbronzato per poi scendere verso la mano. Lottarono contro le sue falangi calde e poi le strinsero, legandole tutte in un nodo saldo.
Francesco cercò una risposta a quel gesto negli occhi di Carlo, ma l’azzurro splendente si era spento, arrivando ad un blu notte scuro quanto lo sconforto che stavano trasmettendo i lineamenti del suo viso. 
Si girò senza aggiungere nient’altro e prese a camminare velocemente trascinando Francesco con sé.
Mentre camminavano il cuore del mulatto perse un paio di battiti. Sentiva l’organo graffiare contro le costole ogni qual volta i suoi occhi ambrati si fermavano a fissare più del dovuto le spalle larghe dell’altro o la sua nuca bianca.
Il biondo era bello, aveva un profumo inebriante e lui aveva perso davvero troppo tempo a guardarlo di nascosto, sentendosi poi un coglione del cazzo.
Ci aveva provato, sul serio, con tutto se stesso, ma non ce l’aveva fatta a evitare i contorni saldi delle sue braccia nivee, le curve morbide delle sue labbra rosse o il colore acceso dei suoi capelli chiari.
«Stiamo andando a casa mia» annunciò finalmente quando furono abbastanza lontani dalla villa di Francesco, rendendolo partecipe del piano.  
Fermò quella corsa lenta e lasciò la presa, prendendo a camminare ad un passo normale con le mani infilate nelle tasche.
La mano ora vuota del maggiore pizzicava per il fastidio di non poterne stringere un’altra.
Per provare a lasciar correre via la sensazione si guardò attorno e si rese conto che si erano spinti verso le case color tè, quelle che piacevano tanto a sua sorella minore. Ogni volta che portavano fuori Lady si fermavano a guardarle e lei rideva indicandole. «Le case color tè!» trillava, battendo le mani piccole.
«Così uso la mia chitarra e non la tua» attaccò dopo un istante Carlo, come se il silenzio lo mettesse a disagio.   
«Sì, meglio».  
«Siamo arrivati».  
Casa di Carlo era – come aveva immaginato – di uno stravagante color tè verde sbiadito, piccola ma curata. Fuori dal garage era parcheggiata una macchina piccola che Francesco non aveva mai visto prima e nel giardino scorrazzava un Golden Retriever che non appena li vide arrivare prese a scodinzolare allegro.
«Marley, stai giù» lo rabbonì il biondo, aprendo il cancello verde scuro. Una volta entrato si chinò ad accarezzare il cagnolone dal pelo chiaro e poi con un fischio lo incitò ad entrare in casa.
L’altro chiuse il cancelletto e seguì entrambi senza fare un fiato. Si sentiva a disagio, ma provò a mascherare tutto dietro la solita espressione scocciata.
«Benvenuto» fece Carlo, con un tono quasi ironico, facendo scattare la serratura della porta bianca.
L’interno della casa era anch’esso curato ed essenziale. C’era qualche foto appesa alle pareti color panna, alcuni quadri di nessun artista in particolare e la mobilia vintage di un colore scuro. Forse era mogano.
Marley si avvicinò a Francesco solo quando Carlo scomparve in cucina.
«Hey» mormorò lui, accucciandosi sul parquet.
Il cagnolone dagli occhi scuri gli annusò la mano e poi si fece coccolare, dandogli anche qualche testata sotto al mento. Probabilmente aveva sentito l’odore del Bulldog francese di sua sorella, Lady
«Gli sei simpatico» esordì Ballarin, tornando con un bicchiere in mano. «Spero che la limonata ti piaccia».
Francesco prese il bicchiere e annuì, tirandosi su. «Certo, va benissimo».
«Bene. Andiamo in camera mia?»
L’unica cosa che gli riuscì di fare fu annuire. Dentro di lui si stavano condensando una variante infinita di emozioni e sensazioni, perfino sconosciute, e più provava ad ignorarle, più quelle andavano a sbattere contro le pareti del suo cervello.
Per tutta la sua adolescenza si era costruito una parte nel mondo completamente fasulla e infelice e ora con Carlo era la prima volta che non serviva a niente. Perché Carlo Ballarin gli assomigliava più di quanto fosse ammissibile ammettere.
«E’ una bella casa» sussurrò, prendendo a salire le scale.
Il padrone di casa gli rivolse un’occhiata gentile. L’apparecchio trasparente fece capolino sui denti dritti. «Grazie Checco».

~•~•~•~•~•~•~•~•~•~
Spazio Autore:
Allora, ringrazio tutti quelli arrivati fin qui, non so nemmeno se sono riuscito a farvi apprezzare un minimo.
Di solito non scrivo cose così leggere, ma sono sto cercando di smollarmi un po’.
Dopo Insane non era il caso di continuare a fare tragedie, sarei diventato il Lana Del Rey di Efp...

Alla settimana prossima 🙂

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Give Me Love ***


Give Me Love

Scosse il capo afflitto, sapendo che già in partenza che con lui sarebbe stata sempre una partita persa. «Perché hai scelto Give me love?»
Quando aveva accettato di duettare si era scordato di chiedere cosa avrebbe dovuto cantare, ma dannazione, di certo non si aspettava Ed Sheeran. Era quasi convinto che la Rossi l’avesse fatto apposta. Quella donna aveva qualcosa di strano, sul serio. Con quei suoi anelli e i capelli troppo rossi.
Carlo, seduto sull’orlo del letto si sistemò la chitarra sulle gambe lunghe. Aveva un fisico da atleta. «Ma ti devi lamentare di ogni cosa?»
«E’ una canzone d’amore» ribatté lui, facendo spallucce.   
Le labbra carnose del biondo si allungarono, prendendo la forma di una mezza luna sdraiata. «Stai tranquillo che nessuno dubiterà mai della tua sessualità».
«Non intendevo questo».
«E allora cosa?»
Carlo era bello, bello da far schifo. Perfino con addosso una felpa sgualcita e l’apparecchio ai denti. «Tu sei gay».
«Oh, salve Capitan Ovvio, io sono Carlo Bellarin».
Francesco sospirò e si lasciò andare contro lo schienale della sedia girevole. Aveva scelto di accomodarsi lì e non sul letto perché la vicinanza con il veneto lo confondeva più di quanto fosse consentito. «Lascia stare» sbuffò, riprendendo a leggere il testo della canzone.
I versi erano semplici, il ritmo interessante e la versione acustica che stava adattando Carlo era veramente molto armoniosa.
«Tu fumi, giusto?»
Give me love like her, 'cause lately I've been waking up alone. «Sì».
«Se vuoi puoi fumare, basta che apri la finestra».
Francesco tirò un sospiro di sollievo. Aprì le ante senza farselo ripetere due volte. La vista sul giardino lasciava piuttosto a desiderare. «Perché hai pensato a me?» chiese, poggiando i gomiti sulla rientranza della finestra.
Il plettro toccò una corda, producendo un suono basso. Poi un’altra e un’altra ancora. «Hai una bellissima voce».
«Anche Michele però».
Carlo ridacchiò e Francesco inspirò la prima boccata di nicotina, riempiendosi i polmoni. Sua madre lo riprendeva spesso, ma ormai ne era dipendente.
Tutti hanno qualcosa, una dipendenza. C’è chi la mostra, chi ci convive e chi ci combatte ogni giorno.
«E’ così importante per te saperlo?»
«Sì» espirò fumo grigio. Diede le spalle al vuoto e con gli occhi tracciò il profilo del veneto, intento a memorizzare il pentagramma. «Sì, voglio saperlo».
«Gli altri potranno anche essere chiusi nel loro mondo distorto e cieco, ma io ci vedo Fra. E lo so che mi guardi a lezione, che ti piace il mio profumo e che non sei uno zero della scala Kinsey[i]».
Francesco inarcò inevitabilmente un sopracciglio. «Eh?»
«Perché hai accettato? Lo sai che ci sono altri modi per potere avere crediti facilmente. Magari non così semplici, ma non sei così idiota come vuoi far credere».
«Carlo?» lo richiamò. Non era importante dire il suo nome in quel momento, ma il semplice fatto di avere la sua completa attenzione su di sé lo mandava su di giri.
Il biondo lasciò perdere la chitarra e alzò il mento. Le sue iridi erano chiarissime, le sue gote rosse. Parlare così liberamente lo agitava.  
«Mi stai dando del gay?»
Carlo strabuzzò gli occhi, dopodiché la sua risata prese a riempire il silenzio. «Non arrabbiarti, dico solo che è strano. Tutto qui».
«E’ strano che io abbia accettato di duettare con te o che io ti guardi?»
«Entrambe le cose, direi».
«Per me è strano che tu abbia chiesto a me, che sono amico di Vito, e non a quel frocio di Michele» borbottò Francesco, buttando giù dalla finestra la sigaretta ancora a metà. «Quindi?»
Carlo scrollò il capo e si fece sfuggire un sorriso timido, il primo, dopo tutti quelli sfrontati di prima. «Quindi sono passati venti minuti e non abbiamo ancora provato niente».
«Allora cominciamo».


Provarono per mezz’ora, fino a che Francesco non ebbe bisogno di bere ancora.
Quando Carlo tornò di sopra con un altro bicchiere pieno di limonata, l’altro si stava divertendo a strimpellare con la sua chitarra.
Sapeva un solo motivo e faceva pure schifo a suonarlo.
Il più piccolo lasciò il bicchiere sulla scrivania del computer e andò a sedersi accanto a lui, a una decina di centimetri dalla sua coscia. Rimase lì accanto a guardarlo, senza chiedergli di smetterla seppur stesse facendo solo un gran casino e Francesco si sentì strano.
Strano come si era sentito quando suo padre l’aveva trovato in camera sua a baciarsi con Federico, un anno più piccolo. Federico poi si era trasferito a Roma.
«Ascolta Fra-» si interruppe così, Carlo, mordicchiandosi nervosamente il labbro.
«Cosa?»
«Se ti dicessi che l’ho fatto apposta a chiedere di te come la prenderesti?» sorrise malinconico a qualcosa che Francesco non poteva vedere, ma che dinanzi a lui si stava formando nitidamente.
Era come quando pensi a qualcosa di bello, che però non puoi avere e ti senti un’idiota, ma non riesci a smettere. E’ che il desiderio e la speranza superano sempre le cicatrici di vecchie delusioni. E’ un circolo vizioso, non si può smettere di volere. Non si può smettere di sperare.
Non si può smettere di essere se stessi, o l’ombra di se stessi. Mettetela come volete.
Francesco posò la chitarra sul materasso. «Cioè?»
«Voglio baciarti, okay?»
Senza permettergli di elaborare la domanda inclinò il capo e, sorprendendolo per l'ennesima volta, lo prese per il colletto della camicia di jeans attirandolo a sé. L’altro non riuscì a fermarlo in tempo e le labbra del più piccolo, poco prima di incollarsi alle sue, sorrisero sornione.
Il cuore fece tre capriole, sbatté contro i polmoni ancora infuocati e rotolò giù, infilandosi nello stomaco, mentre la lingua del biondo sbatteva contro i suoi incisivi perfetti per poi superarli senza alcuna difficoltà.
Ci vollero diversi secondi prima che Il più grande sei due si rendesse davvero conto che gli aveva lasciato il libero accesso.
Le dita candide del biondo si sollevarono e sfiorarono la barba mal rasata sulle sue guance magre. Le sue invece si posarono sulle spalle larghe del veneto, ma invece di respingerlo come avrebbero dovuto lo attirarono più vicino, per poi obbligarlo a stendersi sotto al suo corpo.
Il modo in cui Francesco gli salì a cavalcioni e Carlo gli morse le labbra sembrò una reazione a catena.
Bruciava tutto ovunque, come tizzoni. Ogni zona sfiorata dai polpastrelli o dalla bocca del biondo prendeva fuoco divorandolo dall’interno.
Si baciarono a lungo, troppo a lungo, finché la ragione non prese il sopravvento sul sentimento del moro risvegliandolo da quello stato di trance.
Si staccò dalle labbra dell’altro e separò i loro toraci ansanti fino ad allora incollati uno sull’altro come se avesse appena preso una scossa elettrica. Scavalcò la coscia del biondo e si mise in piedi, sconvolto.
«E questo che- che cazzo era?» bisbigliò, con la voce strozzata. Aveva il fiatone.
Carlo si stropicciò i capelli. «Vai a casa Francè» disse, fissando il soffitto bianco. «Per oggi le prove sono finite. Vai a casa».
Francesco rise di rabbia mentre recuperava la giacca che aveva lasciato sulla sedia quasi un’ora prima. Bevve rapidamente la limonata e andò verso la porta senza neanche salutare.
Quando al piano di sotto incontrò Marley le grattò le orecchie e poi gli ordinò di non muoversi, mentre usciva sbattendosi alle spalle la porta d’entrata

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Scared Of Happy ***


Scared Of Happy

Quella mattina all’intervallo perse di vista Lorenzo per colpa di una tizia che continuava a chiedergli il numero di telefono.
Alla fine Francesco dovette dargli quello di Vito e fare finta che fosse il suo per potersene sbarazzare. Cambiò corridoio e ricominciò a cercare l’altro.
Stava per chiamareVito e chiedergli dove cazzo fossero finiti, quando gli arrivò un messaggio da Mikel, un altro compare della loro stupida banda.
“Siamo col frocio”.
Si sentì ribollire dentro. Era quasi deciso a lasciar perdere, ma non ce la fece. Di solito lasciava stare, rimaneva fuori dal bagno e poi se ne tornava in classe al suono della campanella. Ma dopo aver condiviso quello come avrebbe potuto?
Provò a pensare a cosa fare, alla fine prese a correre senza ragione. Sapeva già dove andare.
Entrò nel bagno spalancando la porta mentre Carlo se ne stava disteso in un angolo e Lorenzo incombeva su di lui con un pugno alzato.
«Stanno facendo dei controlli» buttò lì, con voce tesa.
I ragazzi presero quell’intonazione come paura reale e sloggiarono in meno di un minuto. Lorenzo gli diede addirittura due pacche di ringraziamento sulla spalla prima di superarlo.
Carlo si mise seduto e si schiacciò contro alle piastrelle, alzando in alto la testa. Gli sanguinava il naso e si teneva stretto una mano contro al torace.
«Dove ti hanno colpito?» si rese conto della stronzata che aveva appena chiesto e rimediò: «a parte la faccia».
Il biondo prese un respiro profondo. «Lo stomaco, credo».
«Riesci a levarti la maglietta?»
Con una noncuranza che non sembrò naturale si sfilò la t-shirt e sotto scoprì una distesa di pelle bianca come la neve, violacea e gialla (in alcuni punti). «Adesso ti interessa? I crediti ti servono sul serio allora» commentò ironico Carlo.
«Riesci a stare in piedi?» ribatté semplicemente lui.
Il più piccolo strisciò con la schiena sul muro e si alzò. Sembrava instabile, ma almeno non gli avevano rotto niente. «Direi di sì».
«Okay, allora ci vediamo» salutò Francesco, andando alla porta. La campanella doveva essere suonata svariati minuti prima. Prima di aprirla si voltò e fissò il labbro rotto del biondo con insistenza. «Come fanno i tuoi a non rendersene conto?»
Lo sguardo di Carlo si affilò come lame di acciaio. «Fatti i cazzi tuoi» sbottò, come non aveva mai fatto neanche con Lorenzo.
Il moro sentì la rabbia riversarsi su di lui come liquido caldo. Lasciò andare la maniglia e si avventò contro l’altro, premendolo contro la parete. «Io cerco di essere gentile e tu fai lo stronzo, mi spieghi che cazzo vuoi da me?»
«Sinceramente?»
Restò in silenzio ad aspettare la risposta. Ovvio che diceva seriamente.
«Mi fai un po’ pena».  
Era confuso, Francesco era confuso. Strinse la presa sulle spalle del ragazzo, bloccandolo. «Ti faccio pena?»
«Non sei né come loro pensano che tu sia, né come tu vorresti essere, quindi mi dispiace. Mi dispiace perché la tua vita deve essere davvero penosa se nemmeno tu riesci a sapere chi sia il vero te stesso».  
Il silenzio calato nel momento in cui le sue dita si chiusero intorno al collo del veneto gli fece percepire tutta l’assurdità del momento. Non lo stava stringendo, era quasi uno sfiorarsi tra pelle e pelle. Fu come se all'improvviso la sua giugulare calda, il suo respiro affannato e il suo profumo dolce prendessero tutto un altro significato, obbligandolo a pensare a se stesso e a lui in un altro modo.
La cosa lo fece piegare e fu Carlo a non lasciarlo cadere, afferrandogli i fianchi asciutti.
«I miei genitori sono morti sei anni fa, mio fratello non credo neanche si ricordi che faccia ho» mormorò il biondo. «Credo che peggio di non essere accettati ci sia il non poterci nemmeno provare, ad essere accettati».
Francesco cercò il suo sguardo, ma l’altro era assorto a fissare lo specchio al loro fianco. Il contatto mancato delle sue iridi fredde gli fece stringere lo stomaco. Gli piaceva il modo in cui lo guardava, il modo in cui gli parlava e lo vedeva. E non era solo vanità la sua, era bello perché finalmente poteva provare il piacere di essere visto per ciò che era davvero. E non visto solo dagli occhi amorevoli di sua madre, o da quelli disgustati di suo padre.
«Francè, spostati, devo tornare a casa. Non posso venire a lezione conciato così».
I suoi lineamenti delicati, ancora piuttosto bambineschi, i suoi occhi grandi, le sue labbra rosse, il suo profumo inebriante lo bloccarono lì. A qualche centimetro dal suo viso.
«Non baciarmi» ordinò Carlo. Si spostò delicatamente e scivolò con estrema facilità dalla sua presa. «Ci vediamo».
Il moro serrò le palpebre finché non fu sicuro di essere completamente da solo. Le rialzò e incontrò le sue iridi liquide attraverso lo specchio.
«Chi sei?» domandò a nessuno, mentre l’altro se stesso seguiva col labiale la frase.
Qualcosa dentro la sua testa rispose con l’accento veneto.
“Francesco”.


Quella sera il cielo era di un fantastico blu scuro, naturalmente senza un accenno di stelle a causa della città luminosa ed inquinata, ma comunque bello. La luna piena appariva come unico diversivo, risplendendo su tutto e tutti. Qualche volta da bambino pensando alla luna gli era capitato di paragonarla ad una madre protettiva e romantica, che si prende cura di illuminare la notte dei propri figli per non farla sembrare troppo oscura e spenta, che si prende cura del sonno dei bambini e dei grandi senza pregiudizi, che bagna tutti con la sua luce e rivanga il passato ed i bei ricordi. La luna è un po’ come la madre di tutti, che ogni notte arriva e fa breccia nel buio, se perdi un momento ad ammirarla scaccia via le tue paure.
Mentre se ne stava fuori casa di Carlo provò a fissarla a lungo, ma si sentì comunque pervaso da uno strano senso di inettitudine che gli stava facendo salire la nausea.
Solo il freddo di quella sera primaverile lo spinse a suonare il campanello.
«Hey» sussurrò il biondo, attaccato allo stipite. Indossava solo dei boxer, i lividi erano scomparsi quasi del tutto.
«Volevo» indugiò. Spostò il peso del corpo da un piede all’altro e ci ripensò di nuovo. «Sai, per le prove.. nelle ultime due settimane sono andate bene, ma ho dei dubbi e così mi chiede-»
Sorrise. «Entra» disse, spostandosi dall’uscio.
Dopo aver rifiutato qualsiasi cosa da bere o da mangiare e aver notato che Marley non era da nessuna parte, Francesco si rilassò sul divano della sala deserta. La televisione era spenta. «Stavi facendo qualcosa?»
«No» tagliò corto il veneto . Si accomodò al suo fianco e sospirò. «Cosa vuoi Frà?»
Era quello. Il modo in cui Carlo pronunciava il suo nome. Senza menzogna o paura, come se nel dirlo stesse scavandosi una stradina dritta verso il suo cuore.
«Non lo so» non riuscì a guardarlo, si stava spogliando della sua corazza e proprio non ce la faceva. «Non voglio che si sappia che sono gay, voglio solo fare questo stupido spettacolo e finire le superiori. Magari cambiare città, non so, rifarmi una vita».
«Bene, è un buon punto di partenza» lo sorprese quel suo modo sereno di rispondere, senza un accenno di ilarità. «E nella tua nuova vita sarai gay?»
Francesco si fece coraggio e lo guardò. Carlo ricambiava curioso, sorridente. «Perché mi hai baciato?»
«Lo sai».
Rimasero qualche istante in silenzio, contemplando il suono lontano delle macchine di passaggio.
«Non avresti dovuto».
L’altro annuì. «Lo so».
Sorprendendo se stesso si issò sui gomiti e si sporse sul biondo. Non riuscì più ad accantonare la certezza del suo corpo senza vestiti a qualche centimetro dal suo ed un caldo asfissiante lo pervase.
Si abbassò sempre più sul suo volto, fino a sfiorare la punta del naso contro la sua.
Quando Carlo piegò la testa il moro azzerò ogni distanza e lo baciò. Erano giorni che non pensava ad altro che a quel loro primo bacio rubato ed era stata un’attesa estenuante.
Quando le loro lingue si sfiorarono, mentre i denti cozzarono, tutto divenne Carlo. I suoi capelli biondissimi sotto le dita, la sua pelle candida sotto la bocca, il suo sapore sulle labbra, il suo profumo nelle narici, il suo petto addosso al suo, la sua voce soffocata nella sua gola.
Tutto ciò che respirava e voleva era un ragazzo, quello che lui non aveva mai avuto il coraggio di avvicinare, di essere, di amare. 
Le dita del biondo scesero, arrivarono all’orlo dei jeans e lui lo lasciò fare, portando a sua volta le mani a levare l’intimo all’altro.
Carlo nudo sopra di lui era un sogno così reale da fare male agli occhi.
Una volta che entrambi furono senza vestiti si fermarono un istante, fronte contro fronte. Afferrarono più aria possibile, racchiudendola nei polmoni gonfi quanto le loro bocche. Cercavano di sopravvivere a quell’esplosione di emozioni ignari che quello era semplicemente lo scoppio della vita.  
«Francè» soffiò il più piccolo, strusciandosi su di lui.

«Tornerai a casa stanotte» non era una domanda quella di Carlo, eppure l’intonazione e la supplica nella sua voce ci andavano molto vicine. Strofinò il naso sulla sua clavicola tatuata e si spostò dal suo corpo, sedendosi nel mezzo delle sue cosce.
«Sì».
Il biondo rise, niente di allegro o felice. Si alzò e si infilò i boxer. «Vuoi salutare Marley?»
«No, ora no». Oh

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Stay ***


Stay

Da quella sera erano passati quattro giorni e Carlo non gli aveva lanciato strane occhiate o altre robe simili.
La loro vita continuava come al solito e la cosa sorprese Francesco abbastanza da spingerlo ad entrare in bagno proprio due secondi e mezzo dopo che ci fu entrato l’altro.
Bloccò la porta con la chiave rubata al personale scolastico e ci si appoggiò sopra.
Il biondo lo fissò attraverso il riflesso dello specchio mentre si lavava le mani. «Ciao» biascicò, scrollando le braccia per lasciare asciugare la pelle.
«Non l’avrei mai detto». 
«Che anche io mi lavo le mani?»
Il più grande scrollò il capo. «Che l’avresti presa così bene. Pensavo fossi uno di quelli che dopo non si scolla più».
Carlo lo fronteggiò, fulminandolo con lo sguardo blu. «Se ti aspetti che ti dica che sei stato la scopata più memorabile della mia vita ti sbagli di grosso, Checco».
Il colpo, Francesco, lo assimilò bene. Mise su la solita maschera imperturbabile e sorrise. «Se la vuoi mettere così va bene».
«No» sillabò Carlo. «Non è che la sto mettendo così, è così e basta. Dal primo momento in cui sei entrato in casa mia ho capito come sarebbe finita e non mi sono mai aspettato niente più di quanto è accaduto perché lo so come sei fatto. E lo so benissimo che io sono io e tu sei tu e che – a parte la nostra omosessualità – non c’è nient’altro che potrebbe accomunarci».
«E lo spettacolo?»
I suoi grandi occhi si chiusero e con un profondo respiro riprese il possesso della sua solita tranquillità. «Manca una settimana, dopodiché tu ti rifarai una vita ed io continuerò la mia».
 
***

Non c’era voluto molto. Esattamente venti minuti dopo aver abbandonato le quinte ed essersi esibito accanto a Carlo nella canzone più assurda dell’universo e aver fatto un figurone, Lorenzo e Vito avevano preso a bombardarlo di domande.
E lui, che ancora si sentiva l’adrenalina scorrere nelle braccia, aveva usato la scusa dei crediti e che era stato tutto deciso all’ultimo minuto.
Lorenzo l’aveva preso per il culo per i primi dieci minuti, ma non appena aveva scoperto che a decidere il tutto era stata la Rossi aveva smesso e aveva preso a cercarla per il teatro.
«Voglio farle i complimenti per lo spettacolo» aveva detto, prima di scomparire tra la folla.
La madre di Francesco, Maria, si era commossa, aveva filmato il tutto con la mano tremante e gli aveva piantato due baci ai lati delle guance scavate facendogli una marea di complimenti.
Aveva chiesto anche di poter vedere Carlo, ma il ragazzo biondo subito dopo l’esibizione era evaporato e nessuno l’aveva più visto.
«Vieni fuori a fumare una sigaretta?» gli chiese Vito, prendendolo per un gomito e salutando con un cenno del capo la signora, ancora emozionata e commossa.
Il moro accettò perché di quel caldo assurdo non ne poteva più. La gente lo stava schiacciando.  
Si fermarono a qualche metro dall’entrata della palestra – dove si era tenuto lo spettacolo – e accesero le sigarette con un unico accendino, passandoselo di mano.
Sembrava sereno. «Quindi sei gay?» domandò, dandogli una spallata giocosa.
«Certo che no».
Il ragazzo dai capelli bruni sbuffò il fumo verso il cielo. «Anche se lo fossi non me ne fregherebbe. L’unico che si fa dei problemi è Lorenzo. Gli altri lo seguono perché non hanno un cervello, sono dei senza palle».
«Perché me lo stai dicendo? Ho detto che non lo sono».
«Lo so, era solo per dire».
Francesco buttò via la sigaretta e se ne accese un’altra.
La prima volta che si era sentito fuori posto fu quando negli spogliatoi della palestra, a undici anni, spiò un suo compagno sotto la doccia e gli venne un’erezione. La seconda quando baciò Federico e suo padre vedendoli cominciò a gridare e a prendere a calci le cose, per poi finire di sfogarsi direttamente su di lui. Sua madre l’aveva denunciato e avevano divorziato soltanto due mesi dopo.
La terza quando Lorenzo aveva spaccato il labbro a Carlo soltanto perché indossava una camicia rosa e lui se ne era stato zitto a guardare. E così via.
L’inadeguatezza l’ aveva incontrata in differenti momenti della sua esistenza e lo aveva travolto così prepotentemente da spingerlo ad inventarsi un’altra identità.
«Ci sono andato a letto» sussurrò, buttando fuori il fumo. Dirlo faceva molto meno male di quanto avesse sospettato.
Vito sorrise. «L’ho sempre pensato che c’hai la faccia da culo».
«Ma vaffanculo».
Il ragazzo rise, gli strizzò l’occhio verde e poi spense la sua sigaretta contro l’asfalto. «Comunque è seduto là» mormorò, indicando un punto imprecisato del parcheggio.
Gli ci volle un secondo a capire chi fosse quell’ombra scura seduta su un cofano. «Non ci vado là».
«Perché?»
«Lorenzo».
Vito gli tirò un pugno sul braccio, beccandogli proprio il nervo. Francesco si lamentò con un sibilo, ma non rispose. «Quello è un coglione, Frà. Ce l’ha tanto su coi gay e poi una volta l’ho beccato in bagno con Joèl. Ha detto che erano ubriachi marci, ma hey, quello era un cazzo di pompino!»
Scoppiò a ridere perché davvero, era incredibile. Si voltò per andare da Carlo e magari raccontargli la storiella di Lorenzo il frocio, ma il ragazzo era già scomparso. «Mi presti la moto? Te la porto domani».
«Basta che non me la sfasci».
Le chiavi gli tintinnarono in mano quando le strinse nel pugno.


Spense il motore di fronte al cancelletto del biondo e accarezzò la testa di Marley attraverso le grate. Il cagnolone smise subito di abbaiare.  
«Francesco?» chiese sorpresa la voce del veneto. Se ne stava sulla porta con le braccia incrociate e i jeans sbottonati.
L’altro alzò una mano. «Ti dispiace aprirmi?»
Per qualche minuto lo raggiunse solo il rumore del muso di Marley che si infilava tra le sbarre del cancello, poi riuscì ad udire distintamente un sospiro secco e lo schioccare umidiccio di un paio di labbra.
«Sì».
«Sì ti dispiace aprirmi o sì mi aprirai?» farfugliò, come un perfetto scemo.
Carlo piegò l’angolino della bocca. «Perché dovrei aprirti?»
«Perché ho capito una cosa e devo dirtela».
«Proprio ora?»
«Proprio ora».
«Francè, torna a casa. E’ tardi».
«Lasciami dire questa cosa, poi me ne andrò se lo vorrai».
Carlo si strinse nelle spalle e prese a camminare. Si fermò dietro al cancello e Marley gli saltò su una coscia. Scodinzolava come una pazza. «Dimmi».
«Così su due piedi?»
«Sì».
«Sei un bugiardo».
Il biondo allargò gli occhi. «Bene, ora puoi tornare a casa. Grazie della visita e-»
«Ascoltami per favore, sul serio» lo interruppe. «Sei un bugiardo perché io sono stato la scopata migliore della tua vita e tu la mia. E quindi qualcosa in comune ce l’abbiamo, io e te».
La bocca del biondo si distese completamente. «Sei serio?»
«Ovvio».
Il cancello si aprì. «Andiamo in casa, vieni» la voce gli si spezzò quando Francesco lo abbracciò forte, spingendoselo più addosso che poté. «Stanotte resti».
«Resto».



•~•~•~•~•~•~•~•~•~•~•~•
Spazio Autore

Non so come, ma questa storia l’ho partorita davvero difficoltosamente, un’agonia.
Cosa posso dire.. sono deluso da cosa ne è uscito? No, o almeno non troppo. Ho cercato di espandermi e provare una scrittura un po’ più leggera che potesse semplicemente far passare dieci minuti senza far pesare il mondo costantemente.
Purtroppo però sono andato contro me stesso un pochino, ho questa specie di passione per le cose un po’ più celate, più nascoste e più dark che avrei voluto e dovuto rispettare, ma si sa, il desiderio di cambiamento è perenne.
Ma mi pento di aver scritto questa storia? Ho rimorsi?
Assolutamente no, grazie ad essa ho capito meglio delle cose su di me che probabilmente ignoravo.

Ringrazio tutti voi per aver letto, sostenuto o criticato Sing. 
Mi siete mancati❤️

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3710664