Walk Home, Run Home

di Heihei
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Home is nowhere ***
Capitolo 2: *** Desecrated ***
Capitolo 3: *** Like a bullet ***
Capitolo 4: *** Dead and hungry ***
Capitolo 5: *** Stranger. ***
Capitolo 6: *** Up the road ***
Capitolo 7: *** A place to start. ***
Capitolo 8: *** Smoke in the distance ***
Capitolo 9: *** Both ***



Capitolo 1
*** Home is nowhere ***


Home is nowhere.

 

“Hai sentito l’ultima?”
Aaron riesce a capire Daryl in un modo che al contempo lo allarma e lo mette a disagio. Ogni volta che deve parlargli, lo fa con una certa cautela. Non l’ha chiamata “buona notizia”, come chiunque altro avrebbe fatto, perché ha capito che per Daryl non esistono notizie buone o cattive finché non si rivelano per quello che sono. È semplicemente una notizia, che potrebbe essere brutta per ragioni che Aaron non può biasimare, anche se la trova allettante.
“Su Maggie?”, prova a indovinare, gettando via la sigaretta e osservando la cenere fluttuare oltre i fanali della sua moto.
“Maggie e Glenn.” Aaron scrolla le spalle, discreto come sempre, e comincia a fissarlo in attesa di una reazione che forse potrebbe essere peggiore di quanto si aspetta.
Immagino che dovremmo fare qualcosa per loro, pensa.
Proprio perché è Aaron, non ha bisogno di simulare falso entusiasmo o di nascondere la sua preoccupazione. Lui sa.
“Quando usciremo, potremmo anche vedere di trovare qualcosa per il bambino.” Aaron è un tipo pratico, ma c’è comunque un certo calore nella sua voce quando pronuncia quelle parole. In ogni caso, spera per il meglio.
Daryl sta cercando da tempo di ignorare il dolore, mettendolo semplicemente da parte, a premergli sulle spalle e sul petto come se qualcuno lo stesse stritolando. Ultimamente ha lavorato abbastanza sulla speranza, ma non può dirsi un esperto. Goffamente, cerca di essere ottimista.
“Già, credo che prima o poi avremo bisogno di quella roba...”
Si blocca quando si rende conto di aver già immaginato il peggio, cioè che Maggie muoia prima di mettere alla luce il bambino, il quale nascerà ma non in modo naturale: ha visto Maggie morire come Lori.
A volte può anche andare bene. A volte, per qualcuno, si dice, ed è il massimo della speranza che riesce ad avere. Che vada bene a Maggie e Glenn, a dire il vero, è la sua speranza più cara, ma allo stesso tempo è incazzato. È incazzato perché più desidera una cosa, più finisce nel sangue.
“Esatto”, dice Aaron con un piccolo sorriso. “Vado a salutare Eric e andiamo. Mi dai dieci minuti?”
Daryl annuisce con le mani in tasca. Non ha tutta questa voglia di uscire. In genere non vede l’ora di allontanarsi da quelle mura, ma andiamo, ritornare ?
Ne ha discusso con Glenn la sera precedente a quella in cui gli avrebbe annunciato che Maggie è incinta, con parole piuttosto pungenti. Da allora non sono esattamente in buoni rapporti e, neanche a farlo apposta, appena alza la testa lo vede attraversare la strada, dritto nella sua direzione.
“Ah, merda”, borbotta. Non riesce mai a stare un attimo da solo. Cosa dovrebbe fare? Costruire delle recinzioni da mettersi intorno?
Sbuffa, perché lui e Glenn non sono come due semplici vicini che possono mettere da parte le loro differenze per chiarirsi; Daryl morirebbe per Glenn e Glenn morirebbe per Daryl. Daryl può anche stare fuori per settimane, lasciando la situazione tra loro così com’è rimasta, ma Glenn no. Glenn se ne preoccupa. Ce l’ha scritto in faccia che vuole chiarire prima che lui torni di nuovo tra i boschi.
La sua espressione è tesa mentre si avvicina; le labbra ridotte a una linea sottile.
“Hey”, lo saluta guardando il cancello.
“Cosa vuoi dirmi, Glenn?”
Ha gettato via quella dannata sigaretta troppo presto e adesso lo osserva tentatrice dal terreno, conscia del suo rammarico per averla abbandonata.
Dopo aver sospirato e serrato più volte la mascella, Glenn tira fuori la rabbia che la volta scorsa ha messo da parte. “Dovresti andare avanti, Daryl.”
“Ah, dovrei? Non sono io quello che ha il problema.” Si è sentito come scottato, ma sa anche di aver appena detto una puttanata enorme.
“È già passato un mese e siamo stati fortunati. Niente che Rosita non possa gestire, ma questa comunità ha bisogno di un dottore e ne conosciamo solo uno attualmente vivente là fuori. Ora Maggie è incinta. Non vuoi che partorisca come Lori, giusto?”
Cazzo, non metterla così!
Daryl si limita a scuotere la testa, contraendo la mascella. È una situazione completamente diversa, ma non abbastanza diversa. I sensi di colpa cominciano a farsi sentire.
“Senti, ti ho già detto che ci tornerò, quindi non capisco che diavolo vuoi ancora da me”, dice tra i denti.
“Voglio tu capisca perché è importante. Voglio che ci pensi. Perché dovrei essere io a portare Aaron al Grady? È il tuo lavoro cercare le persone e conosci meglio l’ospedale.”
“Non sono brave persone.”
“Beh, non sono cannibali!” Glenn fa battere entrambe le mani sulle gambe in segno di esasperazione. “Ti capisco, ok? Non sarebbero stati neanche la mia prima scelta, ma di fatto lo sono, perché non c’è nessun altro! Ci siamo scontrati ed è andata male, ma non sono dei mostri. Stanno cercando di sopravvivere con una specie di loro organizzazione e magari tutto quello che gli serve è un posto come questo. Rick voleva farli venire con noi!”
Daryl ha scosso di nuovo la testa, ad ogni singola parola. “Se si fosse trattato di Maggie, saresti mai tornato indietro?”
Il silenzio che segue è più forte di una campana e sente di non riuscire più a respirare bene come prima. Qualcosa scatta nello sguardo di Glenn appena realizza quello che gli ha detto- quello che non ha mai avuto il coraggio di dire- e lui vuole solo smettere di guardarlo. È rimasto a bocca aperta, incapace di rispondere prontamente.
Tossendo silenziosamente, Daryl si volta e da un calcio alla cicca spenta ancora impiantata nel terreno. “No. Non torneresti.”
“Forse no”, risponde piano, “ma pensa alla prigione, a tutte le cose terribili che sono successe lì. Tara è comunque venuta con noi.”
Non è la stessa cosa e lo sa, quindi non gli risponde neanche. Lo guarda soltanto, perché è abbastanza intelligente da arrivarci da solo. La verità è che Daryl vuole tornare in Georgia per un solo motivo e il suo piano non include assolutamente che Aaron parli con quei bastardi del Grady per convincerli a venire ad Alexandria.
“Solo… pensa al bambino, per favore.”
“Glenn. Ho detto che ci vado”, ha parlato a malapena.
“Grazie, ma non è abbastanza. Devi vederla come una missione. Noi abbiamo bisogno di un dottore così come tu hai bisogno di tornare là.”
Daryl non può sapere che cosa avesse intenzione di dire con quelle parole, né ha intenzione di chiederglielo. Guarda semplicemente il terreno finché finalmente non sparisce dalla sua vista, lasciandolo solo con la sua moto e con la lunga strada che ha davanti.

 

 

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Sente una sveglia suonare, ma non è House of the Rising Sun degli Animals, il che è un peccato, perché Beth pensava che potesse essere una buona idea per una sveglia.
Cerca di muoversi per afferrare il suo cellulare, ma il sonno non l’ha ancora lasciata del tutto libera: riesce a muovere a malapena le dita e, tra l’altro, non è la suoneria del suo cellulare a svegliarla. È un trillo pulsante, ripetuto, stridulo, molto simile a un cinguettio. Forse proviene da un’altra stanza. Con un gemito, prova a muoversi di nuovo, inclinando la testa. Più che le dita, adesso tutto il suo corpo sembra pesante e affaticato, come se avesse dormito avvolta in un nodo strettissimo.
È buio. Forse è la sveglia di suo padre, il quale vorrà il suo aiuto per qualche lavoretto prima della scuola. Sua madre verrà a svegliarla a momenti. Apre gli occhi e non vede niente; si siede. Fa caldo, ma non ci sono coperte, e ha la gola secca. È in un ambiente chiuso e ristretto; la testa le fa dannatamente male.
Il panico prende subito possesso di lei. Le sue grida sono più forti dell’allarme dell’auto. Ora, infatti, può dire che non è la vecchia sveglia di suo padre a dirle di alzarsi, ma l’allarme, probabilmente antifurto, di un’auto. È così buio e la forma dell’abitacolo in cui è chiusa è strana, squadrata. Distende una gamba e allunga un braccio. La sua mano si blocca su un soffitto basso e metallico, mentre il suo piede incontra qualcosa di più morbido. Le nocche posate sul pavimento si scontrano con qualcosa di più duro e lungo, sempre di metallo: un piede di porco.
Si blocca non appena riconosce il piccolo ambiente. È chiusa in un bagagliaio e per qualche ragione ricorda esattamente come ci si sente, anche se è sicura di non essere mai stata chiusa in un cofano prima di quel momento.
Perché mi è così familiare?
I suoi occhi non si sono abituati all’oscurità, ma riesce a capire da che lato si trovano i sedili posteriori e la porta. Quest’ultima sembra essere chiusa, ma prega di riuscire ad abbassare i sedili con la leva che ha appena trovato sul pavimento.
Ti prego, funziona.
I sedili si abbassano e viene investita da una forte luce dorata. Deve essere mezzogiorno.
Quando si arrampica sui sedili posteriori di quella che scopre essere una Honda Accord nera e vi si siede, ancora intontita e con gli occhi che le bruciano per la troppa luce, si accorge di avere ancora il piede di porco nella mano non ingessata. Continua a stringerlo. Il pensiero di posarlo la fa sentire scossa, impaurita; quindi non lo fa, ma continua a mantenerlo come un’ancora di salvataggio mentre sbatte le palpebre. La sua vista si fa più nitida.
“Dove mi trovo?”, chiede, anche se non c’è nessuno che possa risponderle. Ha avuto bisogno di sentire la sua stessa voce, anche solo per assicurarsi di riuscire ancora a parlare.
Appena le si schiarisce la vista, da una sbirciata fuori attraverso i finestrini scuri, esce dall’auto e trova di fronte a sé uno stradone lungo e deserto. Più avanti, c’è un camion dei pompieri ribaltato e macchiato di quello che sembra sangue, o comunque di qualcosa di similmente orribile. Anche da quella distanza, riesce a vedere che i finestrini sono completamente ricoperti da schizzi di quella robaccia. È un disastro così imponente che le ci vogliono alcuni secondi per guardarsi attorno e rendersi conto che ci sono altre macchine, anch’esse dipinte di rosso e ferme in mezzo alla strada, noncuranti della possibilità di disturbare il traffico.
Si sente come se l’avessero catapultata in quel gioco in cui devi individuare tutto ciò che c’è di sbagliato in ciò che vedi. Se fosse stato davvero così, adesso avrebbe molte risposte da dare. Infatti, la prima cosa che si chiede è che ci facciano tutti quei veicoli dal lato sbagliato della carreggiata. A quel punto, il suo sguardo viene catturato dalle corsie destinate al senso di marcia opposto, che sono costeggiate da macchine ferme e vuote. Stando allo stato in cui si trovano, devono esserlo da anni.
Stringe il piede di porco con entrambe le mani e il suo gesso si curva, ma non può fermarsi. L’antifurto in lontananza smette di suonare; dev’essere morta la batteria. Le sue spalle si rilassano. Continuando a passarsi l’arma tra le mani, si accorge che c’è qualcosa a sporcare la sua mano ferita, qualcosa che si sta sbriciolando. Realizza di avere del sangue secco sotto le unghie, ed è dannatamente fastidioso. Lo trova anche sui capelli, ma ha paura di seguirlo fino alla fonte. Sa che viene dalla testa.
Fa comunque un tentativo, toccandola proprio lì dove si concentra il dolore, ma non sta sanguinando. In ogni caso, deve aver preso un brutto colpo alla testa.
E niente è più familiare o ha senso.
Tranne il fatto che mi trovavo in un bagagliaio.
Ripensa a quanto è stato strano svegliarsi lì, al buio, e si sente come se ci fosse già stata. Le viene in mente un’immagine, accompagnata da una sensazione.

È seduta all’interno di un grande bagagliaio, rannicchiata su se stessa; un lampo argentato le illumina il viso: la lama di un coltello. Non è sola, c’è un uomo seduto accanto a lei, mentre lì fuori sta succedendo qualcosa; qualcosa di chiassoso e feroce, come una tempesta. La luce si insidia nell’abitacolo tramite una piccola apertura e illumina una coppia di occhi azzurri e vigili...

Quella in lontananza è decisamente Atlanta, ma… non può essere. È morta.
Non c’è nessun altra parola per descriverla. Anche da quella distanza, Beth può infatti constatare che è priva di vita. Se dovesse raggiungerla, sa che troverebbe le stesse identiche cose: altre macchine, altre cose in frantumi, altro sangue.
Cosa è successo? Sono all’inferno?
Non ricorda di essere morta e forse non lo è. Non è sicura di quello che avrebbe potuto combinare per assicurarsi un posto all’inferno, o perché esso debba assumere le fattezze di Atlanta, ma non ha molti elementi a disposizione per capire.
Qual è il mio ultimo ricordo?, si chiede, ma le sfugge. Non ha un ultimo momento da ricordare; solo emozioni vaghe. Pensa a un suo vecchio compleanno; a come riuscire a sbrigare le faccende di casa nel modo più veloce possibile per poi uscire a cavalcare con suo padre; a come mettere le distanze tra lei e Jimmy senza che sembri imbarazzante; alle insoddisfazioni ottenute a scuola; al piacere di creare una playlist. Cose normali.
Non riesce a ricordare niente; niente che riguardi la sua ferita alla testa o la sua mano stretta con veemenza al piede di porco, né tantomeno qualcosa che la aiuti a capire lo stato del mondo in cui si è svegliata.
Perché sono sola?
Ha dimenticato delle cose. Ha dimenticato perché si è svegliata in quel bagagliaio, eppure ricorda un paio di occhi azzurri e la sensazione di essere al sicuro, nonostante la tempesta.
Improvvisamente, distoglie l’attenzione da Atlanta a causa di uno strano rumore. Sembra ringhioso, strisciante. C’è una persona accanto al camion dei pompieri. È nel bel mezzo della carreggiata e a stento si regge in piedi.
“Hey!”, grida lei, scattando in direzione di quella figura. “Aiutami! Ho bisogno di aiuto!”, la sua voce trema non appena sente la paura insidiarsi dentro di lei, ma non ne comprende il motivo.
L’estraneo si volta e comincia a muoversi verso di lei, permettendole di fermare quella patetica corsa.
“Stai bene?”, gli domanda, anche se non può stare bene: è visibilmente ferito ed è interamente grigio a causa della polvere e della sporcizia che lo ricoprono. Più si avvicina, più le sembra brutto e sporco.
“Oh mio dio...”
La paura la travolge definitivamente quando lo sente ringhiare. Nota che ha la mascella rotta, che gli ricade da un lato fino alle clavicole. Allunga le braccia verso di lei e la pelle gli scivola di dosso, scoprendo un osso rotto.
È vicinissimo al suo viso e non pensa a nulla, perché non ne ha bisogno. Il suo corpo sa cosa fare, anche se la sua mente è ancora focalizzata sull’immagine di quel morto vivente così affamato e disidratato. Il piede di porco si fa strada tra la carne putrefatta attraverso le sue fauci spalancate, infilzandogli il palato e sbucando nuovamente fuori dal centro della sua testa. Gli ha sbriciolato il tronco encefalico.
Sotto shock, Beth si ferma ad osservare quell’essere privo di vita. È così marcio e malandato che deve essere morto già da molto tempo, da prima che spingesse il piede di porco nella sua bocca.

L’ho abbattuto proprio così, attraverso la bocca!”
È la voce di Maggie; un lieve sussurro da molto tempo fa.
Sua sorella ha il viso ricoperto di sangue, ma sorride e ha le lacrime agli occhi.
“I ragazzi puntavano tutti ancora al petto, stavano cercando di perforare le armature!”, ride, cercando di pulirsi con un braccio.
I suoi occhi verdi sono quasi entusiasti mentre fa ruotare il suo pugnale, pulito almeno fino al punto in cui il manico non incontra la lama.

Ha un capogiro e fa qualche passo indietro, con il piede di porco insanguinato che le va a sbattere sulle gambe. Respira profondamente e cerca di non pensare a quanto le sue ginocchia siano diventate improvvisamente deboli. Ripensa a Maggie; a Maggie che uccide dei vaganti. A lei che uccide dei vaganti, ma solo dopo aver visto come lo fa lei e… come lo fanno gli altri. Ci sono degli altri. Ci sono degli altri, ma non riesce a ricordare le loro facce.
I vaganti sono ovunque. Sono persone- o meglio, sono quello che diventano quando muoiono. È per questo che il mondo è così adesso, ma da quanto?
Sembra un incubo, ma Beth comincia a cercare lentamente quello di cui ha bisogno nella sua testa. Si ricorda dei vaganti, ma non ha idea di come e quando tutto sia iniziato. Non ricorda chi si è trasformato.
Analizza la sua mano tremante, ma sembra decisamente viva. Lei non è un vagante, o almeno non lo è ancora.
Perché sono sola? Dove sono mamma e papà? Dov’è Maggie? E Shawn? Che fine hanno fatto Otis e Patricia?
Lei è la più debole e la più giovane di tutti. Dato che non è con loro, avranno sicuramente pensato che sia morta. Non ha molte altre opzioni da considerare: deve andare a cercarli e c’è solo un posto dove ricorda di averli visti tutti.
Nella sua testa, la fattoria dei Greene è ancora un paradiso. Non ha nulla a che vedere con l’inferno in cui si è svegliata.
Atlanta è morta.
La strada è lunga.
Ma casa sua è da quella parte.


 


 

Note traduttrice:

Ribadisco che questa storia non mi appartiene in nessun modo, mi sono semplicemente limitata a tradurla con il consenso dell’autrice, che è Alfsigesey, un’utente di fanfiction.net.

So che sto traducendo già un’altra sua storia, e ne approfitto per scusarmi immensamente per l’attesa. Il fatto è che… mi sono imbattuta in quest’altra che non avevo mai letto e mi ha decisamente rapito. Perciò, ecco a voi.

In totale, sono solo 11 capitoli ed è anche piuttosto breve. Quindi vi giuro che, se vi piace, non dovrete aspettare molto :)

Baci,
Heihei.


 

Note autrice (Alfsigesey)

Dopo le prime bozze, alla fine mi sono convinta a scrivere una Bethyl-amnesia! Probabilmente, non sarà così lunga (HA, VI RICORDATE L’ULTIMA VOLTA CHE HO DETTO UNA COSA DEL GENERE?!) e ho in piano di far recuperare la memoria a Beth in modo progressivo e abbastanza veloce.
Personalmente, sono dell’opinione che il proiettile abbia completamente mancato il suo cervello, o quasi, quindi questa storia è basata sulla teoria che sostiene che la traiettoria del proiettile NON sia un errore della produzione…
Alla fine, ci sono molte storie che iniziano con: “e se gli autori non avessero mandato tutto a puttane?!”
Comunque, un mio amico conosce qualcosa in più sulle ferite serie alla testa rispetto a me e, dopo avergli detto che secondo me il proiettile l’ha completamente mancata, mi ha detto che nell’ipotesi in cui il proiettile abbia solo sfiorato il suo cranio, nell’entrata e nell’uscita, Beth potrebbe essere viva e soffrire, oltre al trauma psicologico, di una temporanea amnesia e di uno shock idrostatico. Così, alla fine ho scrollato le spalle e gli ho detto “ok, lo scriverò”, quindi ecco qui la mia Bethyl-Amnesia!
Alcuni ricordi saranno momenti che abbiamo visto nella serie, altri sono dei potenziali missing moments.
Alternerò sempre i punti di vista di Daryl e Beth, come ho fatto in questo capitolo.
Sono accetti pensieri, battute, suggerimenti, critiche costruttive ecc.
Se la leggerete, grazie!

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Capitolo 2
*** Desecrated ***


Desecrated.

 

 

Il suo corpo è diverso.
Se n’è accorta praticamente subito, ma non le è piaciuto. O almeno, non le è piaciuto finché non ha dovuto mettersi a correre.
Ci sono troppi vaganti. Ne ha abbattuti due, ma riesce a vederne almeno altri sei aggirarsi tra gli alberi. Così, continua ad alternare la lotta alla fuga, tra l’altro con una naturalezza di cui non pensava di essere capace.
Il suo corpo, che aveva imparato a conoscere bene, così delicato e pulito, si è trasformato. È più tonico, più forte. Riesce a sentire vecchie cicatrici, ferite che ancora le bruciano mentre le sue gambe avanzano, in silenzio e senza impedimenti, tra i boschi. È come se questo corpo estraneo in cui si è svegliata abbia fatto della strada la sua nuova casa. È veloce, molto più di quanto riesca a ricordare. Sembra che le sue gambe siano abituate a correre così; reggono anche se il respiro si affanna, e i suoi stivali consumati non l’abbandonano.
I vaganti non si stancano, ma sono lenti; si sgretolano passo dopo passo. Beth, invece, diventa sempre più forte.
Il suo stomaco è come rimpicciolito. Non ha più fame come un tempo, mangerebbe solo se il suo corpo ne avesse estremo bisogno. Allo stesso tempo, però, butta l’occhio su tutto ciò che può somigliare a qualcosa di commestibile o, ancora più importante, a una fonte d’acqua.
Il mondo che la circonda è surreale. La strada principale è danneggiata, vuota, terrificante, ma i boschi sembrano ancora luoghi oscuri e sconosciuti. Non ha visto opzione migliore. Segue la strada come se fosse un fiume: non si addentra nella boscaglia più fitta per continuare a tenerla come riferimento, ma non vi si immerge.
Ha il passo svelto, corre quando può, finché non è troppo stanca e realizza di doversi fermare. Non ricorda l’ultima volta che ha mangiato, così come non capisce come si sia procurata tutte quelle cicatrici e tutti quei tagli, quindi non vuole forzare troppo la mano.
La sete la colpisce all’improvviso, duramente, e porta con sé un ricordo.

L’hai presa da qualche bagno?”
Ride, ma afferra comunque la bottiglia che le viene offerta.
L’immagine del ragazzo che gliel’ha data diventa perfettamente chiara, ma solo per una frazione di secondo. Indossa un cappello da sceriffo e arrossisce mentre le parla.
“Una parte.”
Scrolla le spalle e, chissà come, sa che le sta mentendo, ma beve lo stesso.
Non l’hanno bollita perché non possono accendere un fuoco, ma ha visto suo padre metterci due gocce di candeggina.

Perché non possiamo accendere il fuoco?
Frustrata, Beth ricomincia a camminare scoordinatamente, sperando che quel ricordo spinga la sua mente a recuperare qualcos’altro. Ha percorso molta strada e comincia ad essere stanca. Il cielo ormai si è oscurato da un po’.
Vuole ritrovare i suoi ricordi, sapere chi è adesso e com’è avvenuto il cambiamento. Voci e immagini diverse si sovrappongono nella sua mente come cocci di vetro, ma mancano i pezzi più importanti.
La strada è bloccata da un mucchio di veicoli abbandonati, riuniti chissà per quale macabro esodo. In auto ci metterebbe circa un’ora a raggiungere casa sua, ostacoli permettendo.
Non appena nota una macchina che potrebbe essere ancora in funzione, si avvicina e si mette in cerca delle chiavi, ma, anche quando ne trova una copia nell’aletta parasole, non riesce a metterla in moto. È effettivamente ferma da troppo tempo per poter ripartire senza la mano di un meccanico, ma a piedi il mondo è fin troppo dispersivo.
Più avanti, quelle sagome scure continuano a muoversi e lei, per quanto è esausta, sta camminando esattamente come loro. Vuole arrivare a casa in quello stesso giorno, lo vuole disperatamente, ma sa che la strada è troppo lunga per essere percorsa in un solo giorno, per di più senza provviste e alla mercé dei morti.
Una lurida pozzanghera si burla di lei e, se non fosse stata colpita dalla paura di prendersi la dissenteria, ci sarebbe anche cascata. Il cielo si è annuvolato già un paio di volte, ma non ha lasciato cadere neanche una goccia di pioggia.
Intravede tra i boschi un sentiero oscuro che spera porti a una proprietà privata. Decide di percorrerlo. Le auto sono state spogliate di qualsiasi risorsa utile: i cruscotti sono tutti aperti, le porte tutte forzate. Quasi sicuramente le case non saranno in condizioni migliori, ma almeno può trovare un bagno e sperare di recuperare un po’ d’acqua, così come le ha suggerito quel misterioso ragazzino con il cappello da sceriffo in uno dei suoi preziosi ricordi. Dovrà rischiare di accendere un fuoco, anche se ha ricordato che potrebbe, in alcuni casi, creare problemi.
La casa che trova a fine sentiero sembra la vittima di un’aggressione abbandonata a se stessa, lasciata a sanguinare per strada. Le mura sono consumate, le finestre rotte. Nota un paio di tombe all’esterno, ma non si sente un’intrusa mentre supera il cancello ed entra nella proprietà. Sente i suoi passi farsi più lenti mentre approccia al portico principale e nota come il suo respiro si sia ridotto a un flebile sussurro tra le sue labbra secche e spaccate. I muscoli delle mani si contraggono intorno al piede di porco.
Per tutta la giornata, per ogni vagante che ha ucciso in situazioni in cui non è dovuta subito fuggire via, si è fermata a controllare se avessero addosso delle armi. In un primo momento, non aveva neanche capito che cosa stesse facendo: quando il cadavere crollava a terra, s’inginocchiava automaticamente per perquisirlo.
Tutto ciò che ha rimediato sono stati un coltellino tascabile e qualche fiammifero; nulla che fosse migliore del piede di porco che ha trovato accanto a lei nel bagagliaio dove si è svegliata.
Solleva la sua arma e da un calcio alla porta, che si apre rumorosamente. Aspetta, ma non sente nulla. La tensione nelle sue spalle comincia ad affievolirsi.
Anche se non ricorda il perché, sa esattamente quello che deve fare, e cioè non precipitarsi all’interno. Deve aspettare ancora, ascoltare, assicurarsi che la casa sia davvero deserta, finché le pulsazioni della sua testa non la spingono a picchiettare con le nocche e i palmi, a ritmo e potenza diversi, sui coprifili.
Shave and a haircut!(*)”, grida. Bussa ancora, ma non c’è nessuno che le risponda “two bits” o qualsiasi altra cosa: quella casa è morta esattamente come tutto ciò che ha visto da quando ha aperto gli occhi.
Pensandoci, quando si è svegliata il sole era ancora alto nel cielo. Adesso è buio pesto e non ha ancora visto anima viva.
Devono esserci altre persone.
Ricorda di aver già provato altre volte sensazione come la paura, il terrore. Ma mai come in questo momento.
Perché mi sono svegliata da sola?
L’acqua del water, a meno che non sia prima evaporata, è già stata presa da qualcun altro. In ogni caso, non c’è.
La gola le fa male per quanto è secca; la testa, invece, comincia a bruciarle sul serio. La disidratazione non aiuta la ferita.
Dio, per favore… ti chiedo solo un po’ d’acqua.
Inaspettatamente, riceve una risposta alla sua preghiera, in forma di caldaia arrugginita. Era nascosta dietro a una porta bloccata che ha dovuto forzare con il piede di porco.
Scoperta quella nuova fonte d’acqua, corre in cucina e fruga tra i mobili in cerca di qualcosa in cui poterla bollire. Non c’è traccia di pentole o casseruole ma, scavando a fondo, trova una padella per friggere, che tra l’altro è anche carina. È infatti evidente che non sia mai stata usata: il manico è avvolto ancora in un piccolo nastro, su cui qualcuno, un tempo, ha lasciato un messaggio: - Congratulazioni, Robbie e Tiana! Con affetto, Bri.-
Lo rimuove lentamente, stupendosi di quanto sia strano vedere la sua mano sporca e livida sorreggere qualcosa di più o meno pulito.
Recuperato il contenitore, esce fuori per accendere un fuoco. Si inginocchia e le sue mani, compresa quella ingessata, agiscono per conto proprio: inizia a scavare nel terreno con fatica, muovendosi senza sapere davvero come e dove abbia imparato a farlo. Quasi come risposta alla sua domanda, vede apparire l’immagine sfocata di un altro paio di mani, più robuste, che scavano insieme a lei.

Se lo fai nel modo giusto, la fiamma non sarà alta e non la vedranno.”
La voce che sente è graffiata. Non le sembra familiare, ma ha un non-so-che di rassicurante. Deve essere uno degli altri che non riesce a ricordare bene, come il ragazzino con il cappello da sceriffo.
Stavolta, però, si tratta di un uomo cresciuto che le sta insegnando ad accendere il fuoco.
Ha le mani grandi e callose; le nocche, gonfie e grezze come quelle di un pugile, sfiorano le sue mentre la aiuta a rimuovere il terriccio superfluo rimasto nella loro piccola buca.

Davanti a quel contatto così rude, Beth s’imbarazza ancora, anche se è solo un ricordo. Infatti, è ancora nel cortile di quella casa abbandonata.
L’acqua è ancora calda quando la beve. La fa fuori in tre lunghi sorsi e decide di cercare qualcos’altro di utile, ammesso che ci sia.
Purtroppo, le dispense sono spoglie di cibo, i bicchieri tutti rotti. Riesce a trovare solo due vecchi biberon. Rabbrividisce immaginandone i proprietari, che devono essere non solo cresciuti, ma anche morti in pace.
Almeno la plastica non presenta crepe. Andranno più che bene come bottiglie.
Li riempie entrambi e li infila nello zaino che ha trovato all’ingresso, già pronto nel caso fosse costretta ad andarsene in anticipo.
Gli specchi sono tutti in frantumi. Vorrebbe usarli per dare un aspetto migliore a quella parte della sua testa dove si concentrano il dolore e il sangue secco, ma è comunque troppo buio. Dovrà aspettare che faccia giorno.
Prima di addormentarsi, compie un’altra precauzione istintiva, assicurandosi che tutte le porte siano sigillate.
Fuori dalla finestra di quella che doveva essere stata una stanza per gli ospiti, qualcosa cattura la sua attenzione: un cespuglio di more. Devono ancora maturare, ma non è il periodo giusto dell’anno per far crescere dei frutti.
Tuttavia, ricorda di averle già viste d’inverno, forse proprio il giorno di Natale. È successo in una serra. Le tende rotte facevano entrare il freddo, ma l’inverno non le aveva ancora uccise.

Saranno così felici quando le vedranno!”, dice entusiasta.
Il suo corpo somiglia di più a come se lo ricorda. È inesperta, non ancora così abituata a vivere per strada, ma nonostante le difficoltà è felice, perché ha trovato delle more.
“Carl, va’ a chiamare Rick!”
Deve essere successo molto tempo fa, perché le sue mani non sono ancora così forti e piene di ferite.
Prende una manciata di more e le ripone nel cappello di quel ragazzino, che si chiama Carl.

Certo che si chiama così, pensa, mentre quel nome le riporta alla mente tutta una serie di emozioni inaspettate.
Sa che Carl è dolce tanto quanto forte. Sa che vuole essere il figlio perfetto.
Non ricorda il modo in cui l’ha conosciuto, ma adesso ricorda il suo viso; ricorda di averlo consolato e abbracciato e ricorda di aver sperato, certe volte, che non dovesse essere così forte. Ricorda che gli vuole bene come il fratello minore che non sapeva di volere.
Nel frattempo, la scena nella sua testa continua.

Carl esce dalla serra gridando:“Papà!” e la lascia da sola con lui; con l’uomo dagli occhi azzurri e le mani forti.
Ha il suo nome sulla punta della lingua, ma non riesce ancora a dirlo.
Ci sono un centinaio di more; le stanno fissando entrambi. Così, senza aspettare che Carl ritorni con suo padre o con chiunque altro, si fiondano sullo stesso cespuglio. Le tracce lasciate dal freddo sono ben visibili, ma i frutti sono ancora morbidi e succosi.
Quando quell’alimento così perfetto tocca la sua lingua, chiude gli occhi e sospira compiaciuta.
“È la mora più buona di tutta la Georgia.”
“Mh… non credo. La mia è decisamente migliore”, risponde lui, e sembra avere ragione: prende la mora più grande che abbia mai visto in vita sua e la divora in un solo boccone, facendo gocciolare tutta la polpa nella zona tra il pollice e il palmo della mano.
Lei gli prende la mano e l’avvicina alla sua bocca, chiudendo le labbra su un pezzo di mora rimasto indisturbato sul suo pollice e succhiando via quel poco di scia viola rimasta.
Lui è teso; la vergogna gli arrossa le guance mentre sta per lasciarlo andare.
Davanti a quella scena, Beth lascia la presa sul suo polso con un unico, tempestivo movimento. La sua piccola mano comincia a tremare; vuole chiedergli scusa ma le parole le si bloccano in gola.
Tuttavia, il bisogno di eliminare l’imbarazzo svanisce nel nulla quando si accorge dell’impercettibile sorriso che gli ha appena curvato la bocca.
L’uomo si riporta la mano sulle labbra, succhiandosi le dita per ripulirle dal succo.
“Sì, la tua era migliore”, gli dice allora, pulendosi le labbra e sforzandosi di non guardare le sue.
È in quel momento, infatti, che realizza che in realtà il sapore che voleva sentire non era quello della mora, ma il suo.
Si chiede perché l’abbia fatto, perché non si sia fermata prima, e perché, piuttosto, non l’abbia fermata lui.
L’uomo si alza e lei sa che i loro occhi non s’incontreranno.
Quando cominciano a incamminarsi tra i boschi, le dà le spalle, mostrando due ali d’angelo.
“Puoi dirlo forte.”

 

∂∂∂∂∂∂∂


Daryl sa che dovrebbe parlargliene prima di raggiungere la città. Non è una di quelle cose che possono essere dette così, all’ultimo secondo.
Avrebbe già dovuto farlo un paio di giorni prima, in realtà, ma le spiegazioni gli erano rimaste bloccate in gola.
Neanche durante le ore notturne e tranquille, quando non hanno avuto nient’altro da fare che stare accanto al fuoco a dirsi frasi di circostanza, è riuscito a parlare. Eppure lo sguardo di Aaron è sempre confortante e privo di giudizio e, inoltre, è passato abbastanza tempo. È giunto il momento di dirgli qualcosa. Magari non gli dirà il suo nome, ma deve dirgli qualsiasi altra cosa a riguardo.
Sta per farlo, ma digrigna i denti, furioso, mandando per l’ennesima volta tutto a puttane.
Ormai Atlanta è vicina. Fa rallentare la moto e la abbandona, inducendo anche Aaron a fermarsi. Devono formulare un piano per approcciare all’ospedale e, nonostante tutto, Daryl ritiene che non sia ancora strettamente necessario parlargli di ciò che avverrà dopo.
Aaron scende dalla sua auto senza controllare abbastanza accuratamente lo spazio circostante. Il suo atteggiamento tradisce più una cautela abituale che una reale preoccupazione, che sarebbe più che legittima da parte sua. Evidentemente si fida della protezione che Daryl riserva a entrambi; evidentemente è sicuro che, se non si fosse prima assicurato che la strada fosse completamente a posto, non si sarebbe mai fermato.
“Vuoi ancora che me ne occupi io?” Lo sguardo di Aaron è serio mentre cerca i suoi occhi e Daryl riesce a intuire che c’è qualche sottinteso nei suoi pensieri, una taciuta domanda su quanto fosse andata male.
È andata così tanto male che non vuole neanche tornarci, ma allo stesso tempo non così male da spingerlo a rifiutarsi categoricamente di farlo. In ogni caso, ha le sue buone ragioni per credere che non siano brave persone.
In fondo, come sicuramente si sta chiedendo Aaron, dato che li conosce già, non dovrebbe essere proprio lui la prima persona che dovrebbero vedere?
È una domanda legittima, ma la risposta è assolutamente no.
“Non ti ho detto abbastanza su questa faccenda”, ammette, cominciando a far scivolare lentamente il suo discorso in delle vere e proprie scuse. Imbarazzato, scrolla le spalle. “Ho sparato in testa al loro capo, più o meno tre settimane prima che tu ci trovassi.”
Aaron sgrana gli occhi, facendo sparire le sopracciglia tra i capelli. “Loro ci…?”
Gli ingranaggi cominciano a girare, ma sembra ancora troppo confuso e non lo biasima. Alla luce di questa nuova informazione, si starà solo chiedendo quanto sia plausibile, adesso, l’idea che si possano unire a loro.
“Gli abbiamo già proposto di unirsi a noi, ma non erano interessati. Però allora non gli stavamo offrendo nulla che avesse a che vedere con Alexandria.” Deglutisce, consapevole che sta quasi per terminare la parte semplice del discorso. “Non sarei arrivato così lontano se non credessi che adesso potrebbero volerlo. Noah una volta ci ha detto che erano convinti che qualcuno prima o poi sarebbe venuto a salvarli, o almeno ci speravano. Penso che quella speranza sia morta il giorno in cui ce ne siamo andati, ma...”
Incerto su come continuare, borbotta qualcosa di incomprensibile, ma non va oltre.
“Ho capito”, dice Aaron con fermezza, e lui non ne dubita. Sposta il peso da una gamba all’altra, sistemandosi in spalla la tracolla del fucile. Pensieroso, sfiora con le dita il manubrio della moto di Daryl e continua a parlare: “Magari posso presentarmi per primo e avvertirli che vedranno una faccia familiare. Forse questo renderà più semplici le presentazioni e ci permetterà di coglierli di sorpresa. Non credo si aspettino di rivederti.”
“Se credi che questo possa aiutare...”, ripete lui, guardando di sbieco la città in lontananza.
“Tu cosa pensi?”
Daryl gli rivolge un cipiglio e scuote la testa. “Io credo che meno parlerò, meglio sarà. Ma comunque vorranno delle spiegazioni.”
Annuendo, Aaron aspetta che parli ancora, osservandolo con occhi sinceri. “È tutto?”, gli chiede, anche se sa che non lo è.
A quel punto, Daryl tira una serie di respiri profondi, con il battito accelerato e tendendo i muscoli delle spalle. “...Ho sempre saputo che prima o poi sarei ritornato qui, ma non pensavo di poterlo fare. Non volevo allontanarmi quando avevano bisogno di me, così ho aspettato il momento in cui...”
In cui sarei stato forte, in cui sarei stato pronto ad appiccare un rogo funebre.
“…in cui la mia presenza non sarebbe stata più così richiesta, o qualcosa del genere.”
Sentendo improvvisamente caldo, apre la cerniera della sua giacca anche se il vento è piuttosto freddo.
“Abbiamo perso qualcuno quando siamo venuti qui. Abbiamo portato con noi il corpo fino a una quarantina di miglia fuori città. Dovevamo seppellirla, ma ci siamo imbattuti in una mandria. Allora l’ho chiusa in un bagagliaio in modo tale che non potessero toccarla, ma...”
Cerca invano le parole giuste per continuare. Viverlo è stato un inferno e parlarne gli riapre in petto vecchie ferite avvelenate.
Il dolore negli occhi di Aaron gli ricorda qualcosa di com’era il mondo prima dell’apocalisse. È facile, adesso, essere forti, prendere consapevolezza di quanto tutto sia brutto e sanguinoso. Le brave ragazze muoiono, i cani diventano cibo, gli amici si perdono e i loro corpi vengono lasciati indietro, dissacrati.
“...Ma lei merita di più”, dice semplicemente. Non aggiunge altro, perché non è una domanda.
Certo che merita di più.
“È vicina. Non eravamo molto lontani dalla città. Credo che se sceglieranno di venire ad Alexandria avranno bisogno di tempo per organizzarsi e per prepararsi a partire. Quando lo faranno… io mi occuperò di lei. È... importante.”
Finalmente, si sente un po’ meglio. È l’equivalente emotivo della rimozione di un proiettile: fa male e lo fa sentire debole, malato, come se fosse sul punto di svenire per l’agonia, ma una volta rimosso può respirare di nuovo.
Ancora in difficoltà, Daryl nota con molto piacere che Aaron non solo ha capito, ma non insiste per i dettagli. La sua mano gli si chiude sulla spalla, ma non dice nulla, limitandosi a trattenerlo qualche altro secondo prima di gettare uno sguardo cupo alla città.
Le strade sono perlopiù sgombre di vaganti, o almeno ce ne sono molti di meno rispetto all’ultima volta. Le mandrie devono essersi trasferite in un’altra area della città, perché i pochi vaganti presenti sono estremamente consumati, con gli arti spezzati o comunque con qualche altro impedimento che li rallenta nel raggiungerli.
Improvvisamente nervoso, realizza di non essere mai arrivato così lontano. È stato così occupato a pensare al suo prezioso compito che ha quasi completamente tralasciato la parte del reclutamento vero e proprio. È il suo lavoro adesso. Lui e Aaron hanno visto molte altre persone e spesso sono stati anche sul punto di avvicinarsi, ma sono sempre stati frenati da qualcosa, fatta eccezione per Morgan, ma lui è stato un caso a parte. È stata la prima persona che Daryl ha portato ad Alexandria, ma per come sono andate le cose è stato più lui a trovare loro. Con questa gente, invece, stanno per uscire allo scoperto quando ciò che li lega è una storia orribile che lui vorrebbe seppellire e dimenticare, ma del resto crede che in fondo vogliano farlo anche loro.
Mentre si avvicinano all’edificio, non hanno bisogno di parlare più di tanto. Si aspettano di vedere qualche sbirro o qualsiasi altra forma di vita, ma l’ospedale sembra pressoché vuoto. Un movimento proveniente da una finestra attira la loro attenzione, ma lo sparo proveniente dal fucile di Aaron conferma che è solo un vagante, rimasto intrappolato in una delle stanze riservate ai pazienti.
“Potrebbe non significare nulla”, dice Aaron con il suo solito ottimismo, anche se l’espressione seria che gli indurisce i lineamenti del viso lo induce a pensare che non sia davvero così ingenuo: sa perfettamente che molto probabilmente è davvero così come sembra. “Hai detto di essere stato all’ultimo piano e che alcune erano sbarrate, giusto?”
“Sì, al quinto piano”, dice Daryl con voce roca.
“Bene. Quello è il terzo; forse è uno di quelli che hanno bloccato.”
Questo posto sembra morto, pensa. Non sono passati neanche otto mesi e sembra già più trascurato, le macchine con le croci bianche sono ancora parcheggiate di fronte all’edificio, ma sono molte di meno di quante ne ricordava. Magari non tutti sono morti, ma evidentemente quelli rimasti vivi non stanno più lì.
Nonostante ciò, non possono andarsene prima di aver controllato. Anche se non ci dovesse essere anima viva, devono comunque vedere di trovare farmaci e roba simile. Magari anche qualche libro con cui Rosita potrà approfondire le sue conoscenze mediche.
Daryl non sa sentirsi sollevato o meno dal fatto che l’ospedale sia deserto. Attraversa i corridoi vuoti, abbatte i vaganti di turno e nota che, mentre qualsiasi altro posto in cui sono stati ha lasciato le tracce di storie ormai andate, il Grady Memorial è davvero un mistero. Non ci sono segni di un’invasione di vaganti o di altre persone; per quanto ne sanno, è solo vuoto. Magari è successo qualcosa tempo fa, e i cani e i vaganti hanno già ripulito tutto il casino. Le porte sono tutte aperte e le risorse utili sono sparite.
Forse possono ancora trovare qualcosa; forse garze, ecografi, libri. Aaron ha già trovato varie siringhe, dei camici e due stetoscopi, mentre Daryl ha messo insieme un malloppo di strumenti chirurgici mai usati. Sono tutte cose che già hanno ad Alexandria, ma un giorno potrebbero servirne di più. E poi è evidente che Aaron non abbia intenzione di tornare a casa a mani vuote.
Maggie ha bisogno di un dottore.
Gli torna in mente la discussione avuta con Glenn, seguita da una dose extra di senso di colpa. Magari lui non avrebbe voluto un dottore del Grady in casa sua, ma può capire perché Glenn invece lo voglia. È una faccenda importante e, in fondo, sa che lo avrebbe voluto anche lei, non solo perché è sua sorella, ma anche perché era convinta che in giro ci fossero ancora brave persone.
Guarda il cartello appeso al muro: è al quinto piano, ma se ne sarebbe accorto anche senza. Quelle scale se le ricorda fin troppo bene. Lei era così arrabbiata.
Mentre Aaron cerca di aprire un cassetto chiuso a chiave, Daryl si ritrova con le spalle al muro. Sapeva che si sarebbe sentito così; sapeva di non essere pronto a tornare dove tutto è successo. È stato così pesante.
Devono aver ripulito tutto il sangue. Non è rimasto niente, eppure sembra che la morte sia ancora sospesa su quel corridoio. Di recente, per lui la morte ha acquistato un nuovo significato. La sente ovunque, in ogni istante. Non fa altro che pensare al suo potere e quel dannato posto sembra più pericoloso degli altri, così denso di morte a tal punto che sembra quasi un luogo sacro.
Lei era così arrabbiata.
“Daryl?”
Non è sicuro del tempo che Aaron abbia passato a fissarlo; non ha contato i minuti. Indossa un’espressione che gli comunica che è arrivato il momento di andare, che hanno già preso ogni cosa che potesse tornare utile.
“Forza, andiamo. Abbiamo un’altra cosa da fare in questa città.”
Non sarai mai pronto per questo, si dice, ma annuisce, perché non gli importa più se è pronto o no: lei lo sta aspettando in un bagagliaio e non può lasciarla lì.
Ha perso molte persone, così tante che la morte aveva iniziato ad essere, più che una vera e propria paura, qualcosa che lo sfiniva. Questa volta è diverso. Mentre lasciano l’edificio, il suo cuore s’infuria. Lui ha avuto paura di perderla molto prima che se ne andasse davvero, e non è stato qualcosa che l’ha fatto sentire stanco. Lui ha continuato a seguire quell’auto, finché non si è fermato solo per piangere. Vederla andare via è stato qualcosa che l’ha definitivamente atterrato.
Quando è successo con gli altri, si è sempre convinto dell’idea che fossero in pace, e ci credeva. Anche se perdere qualcuno è una merda, è quello che ha sempre fatto. Si è sempre incazzato e ha sempre maledetto il mondo, ma può dire di essere stato sempre lo stesso. Quella convinzione, quella vocina che gli raccontava che in quel momento erano in pace, lo faceva sentire meglio.
Vorrebbe poter dire lo stesso di Beth Greene, ma sarebbe una bugia. Lo sente più che mai adesso che è tornato in quel posto: lei non è in pace. E neanche lui.


 

 

(*) Da Wikipedia (che ha indubbiamente risolto la mia confusione davanti a questo passo):
- “Shave and a haircut”, e la risposta associata “two bits”, è un botta e risposta spesso utilizzato alla fine di una performance musicale, per accentuare l’effetto comico. È usato sia come melodia che come ritmo, per esempio per bussare alla porta. -
Da quanto ho capito, è molto comune come modo di bussare alla porta, in America
.

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Capitolo 3
*** Like a bullet ***


Like a bullet.

 

 


Quaranta miglia non sono poi così tante. Con tutto il carburante che abbiamo, potremmo anche riportarla a casa sua, come volevate fare all’inizio.”
Continua a pensare alle ultime parole che Aaron gli ha detto prima che si dividessero e tornassero ai loro rispettivi veicoli per lasciare la città.
È sempre così gentile e disponibile; sapeva che lo sarebbe stato anche in quel momento. Continua a comportarsi come se la cosa non fosse un enorme inconveniente, sebbene Daryl sappia che invece è proprio così. Al di là di questo, vuole chiederglielo comunque.
Rallenta mentre si avvicinano a un tratto di strada stracolmo di auto abbandonate e ribaltate. Inizia a farsi strada tra di esse, gettando un’occhiata dietro di sé per assicurarsi che Aaron stia seguendo indenne la sua stessa pista. Alla fine il suo è stato un buon suggerimento, sopratutto se andranno in ogni caso alla fattoria. Potrebbero trovare qualcosa di utile per Maggie e Glenn, e forse qualche vecchio cimelio di famiglia potrà fargli perdonare il suo comportamento da cazzone. Con un po’ di fortuna, potrebbero anche trovare qualche vestitino per neonati.
Il camion rosso dei pompieri è il primo che riconosce tra i veicoli di fronte a sé. Non era stato presente per assistere alla scena, quindi non ha idea di come diavolo abbiano fatto a ribaltarlo. Il caso aveva fatto loro uno scherzo che nessuno aveva trovato particolarmente divertente, specialmente non Abraham: a quanto pareva, era il secondo mezzo che perdeva nel giro di pochi giorni.
Mentre si avvicina, le sagome grigie dondolanti intorno a quel puntino rosso cominciano a prendere forma e subito si rende conto che c’è qualcosa che non quadra: l’area in cui l’Honda nera sarebbe dovuta rimanere ad aspettarli è completamente sottosopra. C’è un grande assortimento di macchine, ma non sono nello stesso stato in cui ricordava che fossero. Chissà quando, in quegli otto mesi passati dall’ultima volta che è stato lì, qualcosa è andato storto. Sembra che ci sia stato un terremoto, anche se non è l’unica cosa esistente a poter essere capace di spaccare la strada in due. L’asfalto è sfregiato da una grande crepa, che inizia a centro strada e prosegue per circa cinquecento metri. All’inizio è solo una linea sottile, che poi si allarga fino a diventare abbastanza grande da poterci cadere dentro e rimanere incastrato. Forse è stata un’alluvione, oppure proprio quella mandria. Non riesce a ricordare quanti corpi avesse visto, ma gli era sembrata infinita; il loro peso deve essere stato enorme.
La corsia in cui è parcheggiata l’Honda nera è incrinata da un lato; la macchina stessa è stata spinta sul ciglio della strada, in modo che la parte anteriore sia più in alto di circa mezzo metro rispetto al cofano, che tuttavia sembra essere ancora intatto e solido. Niente sembra esserci entrato.
Sa che dovrebbe chiamare Aaron, ma è come se avesse la lingua stretta in un nodo. L’auto insanguinata è a dieci metri dal punto in cui aveva cominciato a mettersi male, in cui avevano deciso che la cosa migliore era scappare, cercare altre auto e lasciarsi quella mandria alle spalle. Ne ha vista una così grande solo un’altra volta e anche allora si è stupito di esserne uscito vivo.
Fatto sta che quell’auto non è per niente una tomba adatta a lei; quell’immagine lo ha perseguitato per otto mesi.
È stato così occupato ad osservare lo stato della strada e a lasciare in sosta la sua moto da non accorgersi che Aaron non l’ha ancora raggiunto. Tira un respiro profondo ma per fortuna, proprio in quel momento, sente il suo compagno chiamarlo.
“Daryl!”
Ha parcheggiato la sua auto qualche metro prima della sua moto. Lo osserva avvicinarsi con le mani strette intorno alla pistola, attento ad individuare eventuali segni di pericolo.
La sua gola si fa immediatamente più stretta. Dovrebbe dirgli qualcosa, almeno per fargli capire di esserci.
“È questa?” Aaron lo raggiunge con il respiro affannato, ma sempre fermamente concentrato sull’ambiente circostante. A parte qualche vagante solitario in lontananza, sono pressoché soli.
“Già.” Daryl si sistema la balestra sulla spalla e salta dall’altro lato della strada, percorrendo tutto il ciglio della voragine fino ad arrivare ad appoggiarsi all’Honda.
Aaron è proprio dietro di lui; si sorregge sul paraurti posteriore e sospira alla visione di quell’enorme crepa. Probabilmente sta pensando a una strategia fattibile per tornare indietro.
“Come facciamo a...”, prova a chiedergli, ma si ferma quando vede Daryl estrarre una chiave dalla tasca.
Quell’oggetto così piccolo pesa terribilmente tra le sue dita. Per tutti quei mesi, è stato come portare un macigno nella tasca. Aveva pure pensato di darla a Maggie, uno o due volte; non perché credeva che non sarebbero mai tornati a recuperare il suo corpo, ma perché piuttosto non sapeva che sarebbe stato lui a farlo. Tra loro due, Maggie è quella che ha più probabilità di vivere fino a vedere l’alba di una nuova era. È probabile che si mantenga in giro abbastanza a lungo da vedere il mondo tornare com’era un tempo; in lei vede quello spirito pratico e indissolubile di vivere e sopportare la vita che la circonda per quella che è.
Daryl, invece, su questo punto non è così sicuro di sé. Non lo è più da almeno otto mesi. Certo, può sopravvivere, ma vivere non è esattamente la stessa cosa. Ci sono stati vari momenti bui in cui si è chiesto se la cosa migliore da fare fosse stata dare la chiave a Maggie che, tra l’altro, non sa neanche che ce l’ha. Ma quandola inserisce nella serratura, si rende conto che è sempre stato lui, che è sempre stato suo il compito di andarla a prendere. È il suo fardello da portare in spalla.
Apre il bagagliaio e solleva la portiera, preparandosi alla possibilità di vedere qualsiasi cosa, tranne quella che effettivamente si ritrova davanti.
Beth Greene non c’è.

 

∂∂∂∂∂∂∂∂∂∂

 

Anche se è più sfinita di quanto possa ricordare di essere mai stata in vita sua, deve combattere con il sonno per evitare di sottomettersi ad esso. È una notte fredda, il dolore alla testa sembrava riecheggiare nei suoi sogni. Si è svegliata prima dell’alba, insoddisfatta nello scoprire di essere ancora intrappolata in quell’inferno.
In silenzio, si rende conto di voler ricordare altre cose, o almeno di voler avere altri sogni che la aiutino a mettere ordine tra i pezzi del puzzle.
Come ci è finita lì? Cosa è successo alle persone che erano con lei? Perché si è svegliata fuori città?
Tutte quelle domande non le danno pace. Con la stessa intensità, desidera delle risposte, ma ne ha paura. Dovrà pur significare qualcosa, in un modo o nell’altro.
Quanto tempo è passato?
Uscendo dalla stanza, Beth va in bagno e cerca di pulire il vetro del primo specchio rotto che trova. Strofina via la polvere che offusca l’immagine; stacca lentamente i sudici strati di sporcizia sfregando il palmo della mano contro la superficie, spostandone i frammenti ai lati di quella figura che la fissa dall’altra parte dello specchio. Quando si rivede, il respiro le si mozza in gola.
Chi è quest’estranea?
Ha il volto incrostato da uno strato spesso di polvere e sporcizia, al di sotto del quale sembra essere mutilato. È più grande; decisamente più grande. Forse anche solo di pochi anni, in realtà, ma è sicuramente diversa da quella ragazza che, nella sua mente, conosceva così bene. Il viso è più magro, i lineamenti meno dolci. È sfregiata e ferita; alcuni segni sono ancora freschi, come i due grandi tagli che ha sulla guancia e sulla fronte. I punti sono stati applicati in modo atroce. Non che importi molto, ma è sicura di non esserseli messa da sola; sarebbe stata di certo più delicata. Comunque, stanno guarendo.
Sul lato sinistro, poco più in basso dell’attaccatura dei capelli, ha un’altra ferita circolare. I suoi capelli biondi sono sporchi e arruffati. Una ciocca, che pare quasi ci sia rimasta attaccata, copre quasi tutto il cerchio rosso, grande quanto l’impronta del suo pollice. La scosta con cautela per poterlo esaminare meglio.
La pelle è gonfia, in via di guarigione, e non le piace essere toccata. Tuttavia, non riesce a capire di che ferita si tratti. Può essere che sia stata una puntura, ma sembra più un foro da proiettile, anche se non capisce come potrebbe essere possibile che sia stata sparata in testa.
A meno che questo non sia l’inferno.
Disgustata, lascia che la sua mano ruoti intorno alla macchia appiccicosa che ha anche dietro la nuca, senza ancora volerla toccare direttamente. Concentrandosi su quella zona, le pulsazioni, il torcicollo e il mal di testa diventano più forti.
Il sole sta sorgendo e la sua figura riflessa nello specchio sembra ancora più misteriosa, bagnata da quella luce bluastra. Le occhiaie che ha intorno agli occhi e tutte quelle cicatrici sembrano appartenere a qualcosa di selvaggio, a una creatura partorita direttamente da quel nuovo mondo.
Con un ultimo movimento, Beth lascia cadere il pezzo di vetro a terra, che si frantuma con un rumore metallico e, all’improvviso, sente bussare alla porta. Scatta subito in piedi.
“Ne ho sentito uno!”, sussurra una voce. “Forza, piccolo mostro, vieni fuori! Lascia che spacchi la tua schifosa testolina!”
È una voce femminile, giovane e cristallina, accompagnata da un rumore di passi.
Merda!
Nel frattempo, Beth si accorge di aver lasciato il piede di porco nell’armadio. Corre in bagno in cerca di una qualsiasi altra arma, ma il suo sguardo viene invece catturato dalla finestra: perderà le sue scorte, ma deve scappare. Anche se è curiosa di sapere a chi appartenga quella voce, il suo istinto vuole che lei vada via e i suoi muscoli fremono dal desiderio di scavalcare quella finestra rotta.
I pezzi di vetro cominciano a cadere quando fa passare le dita e i palmi lerci, per poi graffiarle il braccio. Lo ignora, cade a terra con un tonfo leggero, ma riesce a fare solo tre passi prima di essere afferrata da qualcuno alle spalle.
“Hey!”
Sono due braccia forti, quelle che la stringono. Riesce solo a distinguerne i muscoli, la pelle scura e una fede nuziale. Cerca di calpestargli i piedi, ma l’uomo la fa voltare senza sforzo, in modo da permetterle di guardarlo in faccia, tenendo ferma la presa sul suo braccio. Sembra sia un uomo di mezza età o giù di lì, con una barbetta brizzolata sulla quale non mette evidentemente mano da mesi.
“Calmati, ragazzina! Non ti faremo del male.”
Ha una voce profonda e gutturale. Le sue parole suonano di una certa sincerità, ma il suo istinto continua a dirle di scappare, se può.
In realtà, però, non può, dal momento che ha almeno un centinaio di chili a gravarle addosso. Anche se il braccio che stringe gronda di sangue, quell’uomo non sembra intenzionato a lasciarla andare.
“Siamo brave persone, ok? Siamo solo in due.” Le avvolge le spalle con l’altro braccio e la fa indietreggiare di qualche passo, senza mollare la presa. “Ti lascerò andare, ma prima… dovrei chiederti un paio di cose, non credi?”, dice poi con un grugnito che a tratti sembra un avvertimento.
“Tre domande?”, Beth espira e si ferma per qualche secondo. “Mi farai tre domande?”
Il battito del suo cuore accelera. Osserva lo sconosciuto, visibilmente in soggezione. Non sembra riconoscerla, ma la storia delle tre domande è un chiodo fisso nella sua testa.
“Qualcosa del genere.”
Ora è cauto mentre la guarda; le sopracciglia si abbassano velocemente sui suoi occhi neri. Un paio di occhiali da sole penzolano dal suo parka scuro.
“Scusa, è che… dammi solo un minuto” Lei tira un respiro profondo, nel tentativo di sforzare la memoria, e chiude gli occhi. “Quanti vaganti hai ucciso?”
Quella è la prima domanda. Non ha una risposta, ma lo sconosciuto ne ha una per sé stesso.
“Non ne ho idea. Centinaia.”
“Quante persone hai ucciso?” Si sente male solo a chiederlo.
Non ucciderei mai nessuno, pensa, ma è davvero così?
“Da quanto ne so, nove. Altri due probabilmente sono morti per la gravità delle loro ferite, ma non posso certo dire di averli scortati personalmente nell’aldilà”, risponde lui con più decisione.
Probabilmente si è guadagnata la sua antipatia. Sembra irritato, forse perché è lui a dover rispondere a delle domande e non lei.
“Perché?”
L’ultima domanda, la pone con più freddezza. Anche se non ha una risposta per la seconda domanda, per questa ce l’ha sulla punta della lingua.
Dovevo. Non mi hanno dato scelta.
Chi è che non le ha dato scelta?
“Perché avrebbero ucciso me, o Wanda… o tutti quelli che non sono più con noi.”
L’uomo fa un passo per scostarsi leggermente da lei e si volta a guardare la casa. Quando si volta anche lei, si sente come se fosse ancora davanti allo specchio: sulle scale del portico c’è una ragazza, probabilmente della sua stessa età, alta quanto lei e con i capelli biondi della stessa lunghezza dei suoi. Lentamente, quella che presume essere Wanda si avvicina a loro, con gli occhi azzurri guardinghi e la mano stretta all’impugnatura del pugnale che ha attaccato al fianco.
“Mi chiamo Hiatt”, dice lo sconosciuto. “E lei è la mia amica Wanda. Viaggiamo insieme da molto tempo ormai.”
“Io sono Beth Greene. Non so dirti da quanto tempo viaggio, ma sono sola.”
Non appena ha ammesso di essere sola, Hiatt si è rilassato. Mentre le indica la casa con lo sguardo, le sue spalle larghe si abbassano di qualche centimetro.
“Questo posto è tuo?”
Beth scuote la testa. “Solo per stanotte.”
Gli occhi dell’uomo scivolano in fretta sul suo polso insanguinato, che tiene premuto contro il braccio nella speranza di fermare il flusso.
“Se vuoi posso dare un’occhiata.”
“Sei un dottore?”
“Un medico dell’esercito.”
Quelle parole le donano una forte sensazione di calore. Le sembra quasi di conoscerlo, ma è come se avesse una faccia diversa, come se fosse più giovane e avesse gli occhi più tristi.
Bob...”
Perché ricorda quel nome e non quello dell’uomo che è in tutti i suoi ricordi?
“No, Hiatt.” L’uomo non sembra spazientito. Più che altro, sembra preoccupato; si vede dal modo in cui la sta squadrando da capo a piedi.
“Scusa se ho detto di volerti spaccare la testa, ho sentito un rumore e pensavo appartenesse a un morto… Hey, ti senti bene?” Wanda è finalmente abbastanza vicina da poter essere guardata meglio, e sembra preoccupata a sua volta.
Ricordando la figura sfregiata e selvaggia riflessa nello specchio, Beth non è sorpresa dal loro comportamento. Certo, non è che loro siano puliti, ma sono decisamente più curati di lei, forse perché sono in due e possono prendersi cura l’uno dell’altra. Per qualche ragione, quel pensiero le procura una fitta al cuore.
“Non lo so”, risponde, decisamente in ritardo. “Sono ferita e non ricordo alcune cose.”
“In che senso?”, Hiatt guarda il bosco e solo in quel momento Beth si accorge che ha tenuto la mano sull’elsa del pugnale per tutto il tempo. Non l’ha ancora tirato fuori, ma è pronto a farlo nel caso ce ne fosse il bisogno. Comunque, non sembra sia lei a preoccuparlo.
“Non ricordo come sono finita qui, né quello che è successo a quelli che erano con me. Mi sono svegliata in un’auto appena fuori da Atlanta e sto cercando di tornare a casa mia.”
Il viso di Wanda impallidisce sotto la patina di sporcizia che le copre il volto; le labbra si assottigliano e distoglie lo sguardo.
“Mi dispiace, spero per te che non sia troppo lontano”, dice Hiatt, cominciando a salire i gradini del portico e facendo cenno a entrambe le ragazze di seguirlo.
“È a Senoia.”
Qualcosa di quella risposta lo diverte, perché comincia a ridere, per poi fermarsi subito. “Beh, non è poi così lontano, poteva andarti peggio.”
Wanda sorride. “Io e lui ci siamo incontrati quando è scoppiato il caos e da allora ci siamo sempre mossi insieme. Siamo partiti dalla California; abbiamo entrambi parenti a Silver Spring.”
“Da quanto siete in viaggio?”
Ed è ancora lei a fare le domande. Più Hiatt la guarda, più si sente capace di capirlo, ma è consapevole che anche lui sta studiando lei. Vorrebbe dirgli che non ha niente da offrirgli, ma non è neanche una minaccia. È semplicemente sola, persa e ferita.
“È facile perdere la cognizione del tempo, ma… più o meno due anni.”
“Non è passato così tanto tempo”, Wanda lo contraddice, ma non sembra sicura. Infatti, poco dopo deglutisce e diventa leggermente più pallida. “Beh, forse è passato anche di più”, aggiunge con un mormorio.
“Hai già risposto a una delle domande che volevo farti”, Hiatt cambia argomento, osservando ancora l’abitazione.
“Sei sola?” Wanda incontra finalmente i suoi occhi, ma solo per una frazione di secondo. “Certo che lo sei… Hiatt, non credo ci stia mentendo. Guardala, è evidente che non ha nessuno che si prenda cura di lei.”
“Perché dovrei mentirvi?”, dice Beth, così piano che non è sicura di essere stata udita.
Incontrare nuove persone non è mai stato così terrificante. Il cuore le sta letteralmente scoppiando in petto. Non le piace stare in casa con loro, seduta sul tavolo della cucina con Hiatt che le ispeziona il polso tagliato e Wanda che perquisisce la casa. Entrambi, ogni tot di minuti, guardano fuori la finestra.
Nel suo zaino, Hiatt ha quasi un kit di pronto soccorso. Disinfetta il primo profondo squarcio sul palmo della mano; Beth osserva le sue mani ruvide lavare via il sangue secco rimasto intorno alla ferita e avvolgerla in una garza imbevuta di whiskey. Ora che la sua pelle è libera dalla sporcizia, delle linee rialzate catturano la sua attenzione. È stata così sotto pressione nelle ultime ora che non ci aveva ancora fatto caso, ma ora può vederle: ci sono delle cicatrici, sul suo polso.
Le ho fatte io.
Il sangue sembra sgorgare ancora al di fuori di esse, tanto che si è fatto vivido il ricordo. Aveva rotto lo specchio del bagno; non le aveva fatto tanto male tagliarsi con del vetro rotto, ma le tremavano le mani e singhiozzava. Non poteva e non voleva farlo davvero.
Le si contorcono le budella al solo pensiero. Anche se è certa che il suo stomaco sia quasi del tutto vuoto, si sente come se potesse vomitare da un momento all’altro.
Ho provato a uccidermi. Perché l’ho fatto? Come ho potuto fargli questo?
Le sue mani continuavano a tremare, ma ricorda il tocco gentile di suo padre e il suo sguardo grave. Le aveva fasciato il polso con estrema delicatezza. Le è tornato in mente con la stessa forza di uno tsunami. Era stata Maggie a trovarla e a lavare via il sangue, mentre suo padre si era occupato di curarla.
Ha il cuore a pezzi. Vorrebbe solo gridare.
No, no. Non può essere vero, non posso aver fatto una cosa del genere, pensa, ma di fatto ha delle cicatrici sul polso e una serie di nuovi ricordi incastonati nella sua mente che affermano il contrario.
Perché l’ho fatto?
Anche se Hiatt probabilmente le ha notate, non dice nulla a riguardo.
“Io… ehm, c’è dell’altro.” Beth deglutisce e trattiene le lacrime, mettendo da parte il ricordo del suo tentato suicidio.
Si ferma, perché vede Wanda fare il suo ingresso in cucina e posare la sua borsa sul pavimento. “Immagino che questa sia tua.”
“Sì… e anche il piede di porco nell’armadio.”
“Dannazione, davo già per scontato che potesse essere mio!”, Wanda sospira, ma sorride, con le guance colorate del più tenue rossore.
Guardandola con più attenzione, Beth realizza che non si somigliano poi così tanto, anche se a primo acchito chiunque potrebbe scambiarle per la stessa persona.
“Dell’altro?”, Hiatt zittisce Wanda con uno sguardo, rivolgendo l’attenzione alla sua paziente.
“È la mia testa. Non riesco a ricordare cosa sia successo, ma fa male e so che sanguinava. Potresti darle un’occhiata? Anche solo per dirmi quanto è grave...” Beth gli indica la parte posteriore della sua testa.
Aggrottando le sopracciglia, Hiatt si alza in piedi e, in tutta la sua altezza, fa il giro del tavolo. “Avevo notato il sangue tra i tuoi capelli, quando sei caduta dalla finestra...” Improvvisamente, però, smette di parlare. Beth sente i capelli appiccicati alla ferita, che continua a pulsare con vigore. Senza il bisogno di guardarla direttamente, si accorge che Wanda si è bloccata sul posto mentre osserva il suo compagno, per poi spostarsi per ottenere una visuale migliore.
“Oh, merda”, sussurra.
Hiatt riappare di fronte a lei con le labbra ridotte a una linea sottile. Sembra pensare che il commento di Wanda non fosse per niente necessario. Beth stenta a muovere la testa verso di lei, con un movimento quasi impercettibile.
L’uomo scosta delicatamente i capelli che le coprono la parte sinistra della fronte, accentuando il suo cipiglio; poi sparisce ancora dietro le sue spalle. Può sentirlo separare le ciocche attaccate alla ferita; le dita si fanno strada tra quel groviglio di capelli, tracciando una linea che parte dall’attaccatura e finisce sulla crosta appiccicosa che sente di avere dietro la testa. Per quello che sembra un interminabile momento di suspence, non dice nulla. Alla fine, però, si siede di peso sul tavolo, guardandola di sbieco e con gli occhi socchiusi.
“Non ricordi niente?”
Anche se non lo credeva possibile, la sua voce gutturale è ancora più profonda di prima, tanto da sembrare che rimbombi nello spazio che li circonda. Beth continua a non riuscire a vedere Wanda. Dopo quelle poche parole, è stata estremamente silenziosa.
Non scuote la testa, le fa troppo male il collo. “No.”
“Non vedevo una cosa del genere da quando lavoravo sui campi di battaglia.” Lo sguardo di Hiatt viaggia metri e metri oltre la finestra e, sotto la barba folta e nera, contrae la mascella.
“Beh, questo è un campo di battaglia”, mormora Wanda.
“Allora...”, l’uomo comincia lentamente a parlare, “hai una ferita lungo tutta la parte superiore della testa. Stando al livido che hai sull’attaccatura dei capelli, sembra che sia entrato un corpo estraneo e che sia uscito da dietro.”
“Un corpo estraneo?”, ripete Beth, imitando la sua voce atona e pacata. “Del tipo?”
“Probabilmente un proiettile.”
Per quasi un’eternità, in quella cucina nessuno parla o si muove. Hiatt e Wanda sembrano in attesa di qualcosa, ma Beth è nella più completa immobilità. Non sono solo i suoi muscoli, i suoi polmoni e forse il suo cuore a essersi fermati, ma ogni singola cellula del suo corpo, pronta a decadere. È la stasi della morte.

Le pulsazioni nella sua testa e un debole fischio nell’orecchio si riversano su di lei. Quel battito straziante è più pesante e quel suono diviene sempre più forte, come una campana. Può sentirlo. Lei può ascoltarlo.
La sua testa viene colpita da uno sparo, ed è come essere colpiti da un fulmine. Non c’è nient’altro che luce, ma i suoi occhi si spalancano davanti a quel ruggito, a quell’esplosione di morte.

“Mi hanno sparato.”
Prima che possa rendersi conto di aver riacquistato la capacità di muoversi, la sua mano tremante raggiunge un lato del suo cranio.
“La mia ipotesi è che...”, Hiatt annuisce, parlando a bassa voce. “Non posso esserne sicuro senza una radiografia, ma il fatto che riesci ad andare in giro come se stessi più o meno bene dice molto.” Parla con cautela. Non vuole allarmarla, né darle troppa speranza. “Deve essere stato vicino.”
“Sì, lo era.”
Beth ricorda. Non tutto, ma almeno quei pochi secondi che hanno preceduto la scarica di fulmini che si era scatenata nella sua testa, prima che crollasse a terra.
“Lei era in piedi, proprio di fronte a me. Non l’ho neanche vista prendere la pistola.”
Ricorda quel volto così vicino al suo, ricorda la rabbia. Era furiosa, non sapeva come sentirsi. Anche se non ricorda il suo nome, sa che quella donna le ha fatto sentire la collera scorrerle fin dentro le ossa.
“Te lo ricordi?”, le chiede Wanda. Il suo tono è strano, incerto, come se stesse combattendo l’impulso di vomitare.
“Non molto bene, ma sì. C’era una donna con i capelli scuri… era curata e indossava un’uniforme. Eravamo vicinissime, i nostri nasi stavano praticamente per toccarsi. Aveva la pistola attaccata alla cintura, sul fianco.”
“Ha sparato da così in basso?” Hiatt si avvicina di più. “Dal fianco?”
“Non lo so. So solo che non ho visto la pistola, che la stavo guardando in faccia e poi...”
E poi non parla più. Non ha idea di quello che sia successo dopo, non riesce a ricordarlo.
“Se l’angolo è stato così ampio, è una cosa buona. Il tuo cervello non deve aver subito danni gravissimi.”
“Com’è possibile?” Beth vuole crederci, ma sente che non è così. Non ricorda le cose; quello già è un segno che nella sua testa c’è qualcosa che non va.
“Il proiettile potrebbe aver attraversato solo lo scalpo, senza prendere il cranio. Se ha perforato il cranio prima di uscire, forse ha solo sfiorato il cervello.”
La tempesta nella sua testa è sempre più lontana e porta con sé i fulmini. Con cautela, tocca di nuovo quel piccolo foro che ha sulla fronte.
Questo è il foro di un proiettile?
“Dalle dimensioni del foro di entrata e di quello d’uscita, direi che era di basso calibro, e che la traiettoria sia stata ad angolo retto. Sei stata fortunata.”
E allora perché mi guardi come se potessi morire da un momento all’altro?
“Credi più all’ipotesi che mi abbia preso il cervello, vero?”
“Beh, un po’ sì.”
Quando si parla del cervello, anche un po’ può essere pericoloso.
“Credo ti abbia perforato il cranio, ma che in realtà lo shock idrostatico abbia causato più danni del contatto tra il proiettile e il cervello.” Hiatt lancia un’occhiata a Wanda oltre la sua spalla, prima di continuare. “Comunque, se questa ferita era tutto ciò che ti preoccupava, dovresti stare bene. Stai in piedi e il foro di uscita è piccolo. Una piccola parte di calotta cranica si rimarginerà e lo stesso accadrà sulla tua fronte. In quei punti non ti cresceranno più i capelli, ma il tuo corpo ha scelto di vivere. Stai anche guarendo in fretta… non sarà quel proiettile a ucciderti.”
Ma qualcos’altro lo farà.
Non vuole chiedere, non vuole neanche sentirselo dire, perché questa parte del discorso le è piuttosto familiare. “Lo farà l’infezione.”
Hiatt non sembra darle conferma, ma almeno le fa la cortesia di guardarla negli occhi. “È molto probabile che tu prenda una meningite batterica. Sai, vivendo in queste condizioni...”, scuote la testa. “Purtroppo non ho nulla da darti per questo.”
“Mio padre è un dottore. Lui ha… alcune cose.”
O aveva alcune cose.
Beth spinge via la paura; andrà a casa in quel giorno stesso. Andrà a casa e suo padre sarà lì, con i medicinali alla mano per ogni evenienza. Ha la penicillina e qualsiasi altra cosa per un’infezione batterica. Le ha ricucito il polso e adesso la sta aspettando alla fattoria.
Deve esserci.
L’espressione di Hiatt lascia intendere fin troppe cose e Beth si sente mancare. Sta pensando a quello che lei ha paura di considerare; che suo padre ormai è morto da molto tempo, solo che lei non se lo ricorda, perché la sua mente è nel caos.
“A Senoia?”, le chiede.
“A Senoia”, risponde lei con fermezza. “Ci andrò oggi stesso.”
“Non dovresti andarci da sola”, interviene Wanda improvvisamente, avvicinandosi al tavolo per guardarla meglio. “Dovresti...”
Hiatt la interrompe, dicendo l’esatto contrario di quello che lei stava per dire: “Non possiamo farti venire con noi”, afferma con convinzione posando una mano sulla spalla di Wanda e accarezzandola dolcemente. “La meningite è contagiosa e si diffonde velocemente. Non possiamo rischiare. Tra l’altro, stiamo seguendo la direzione opposta.”
Comunque, l’uomo tira fuori qualcosa dal suo zaino- un piccolo taccuino e una penna- e comincia a scrivere.
“Questi sono gli antibiotici che ti avrei dato, se solo li avessi avuti e se fossimo stati ancora nel vecchio mondo.”
Strappa il foglio e glielo passa.

 

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Le ginocchia di Daryl ormai hanno preso la forma dell’asfalto sbriciolato sotto di esse. Poggia entrambe le braccia sulla portiera del bagagliaio; sente contemporaneamente la carrozzeria fredda e la terra bollente, che sta lasciando segni rossi e profondi sulla sua pelle.
Aaron è accanto a lui mentre si morde la lingua, nel tentativo di non piangere, ma non funziona.
Ogni tanto, il suo compagno si alza e uccide i vaganti che si avvicinano. Adesso sono quattro, distanti l’uno dall’altro, e Daryl pensa che è il momento di alzarsi per aiutarlo. Così, tira alcuni respiri profondi e si rimette in piedi.
Si ritrova ancora davanti a quel cofano vuoto e sente di nuovo la confusione mescolarsi con la furia nel suo petto. Aaron non dice niente, né gli intima di aiutarlo. Lo guarda e basta mentre ci entra dentro.
Disteso di schiena, osservando il cielo spietato oltre la tettoia incrinata, si concentra sul suo respiro, diventato di nuovo regolare. Non è proprio una sensazione di pace quella che lo attanaglia, ma un ricordo. Se si concentra e ascolta bene la sua mente, riesce ancora a sentirla cantare.
A quel punto, tutte le domande di carattere pratico vengono spazzate via. Resta solo un’unica, furiosa parola.
Perché?
Se solo avesse sbirciato dalla finestra prima di aprire quella dannata porta… se solo avesse evitato di essere uno sprovveduto figlio di puttana, in quel momento potrebbe essere ancora lì con lui. Non avrebbero mai lasciato quel posto. Ha tentato di scacciare quel pensiero più e più volte, perché sa che è inutile pensare a quello che avrebbe potuto fare di diverso; è quello che gli direbbe anche lei.
Ma avrebbe dovuto essere viva, perché Alexandria è esattamente il posto dove sarebbe dovuta essere, sana e salva e con la sua famiglia. Con lui.
Una volta ha avuto il coraggio di pensarci, a che tipo di vita avrebbero potuto avere insieme, e quella stessa volta gliel’hanno portata via. Ormai non ha più senso pensarci ancora.
Le nuvole si allontanano dal sole e la luce entra nell’abitacolo. Un fascio di luce che gli illumina il fianco attira la sua attenzione e nota che il sedile è abbassato. Riesce a vedere il parabrezza e il cielo soleggiato che si spalanca al di fuori di esso.
Perché qualcuno avrebbe dovuto prenderla?
Quella è un’altra domanda che non gli da pace.
Nei mesi passati ha avuto diversi incubi a riguardo, in cui tornava e lei non c’era più, ma non immaginava potesse succedere davvero. In alcuni sogni era la macchina stessa a non esserci, in altri veniva travolta da una frana; in altri ancora veniva risucchiata dalla strada, ma non avrebbe mai pensato di tornare lì e trovare una tomba vuota.
Chi l’avrebbe presa?
Lentamente, si siede ed esce dal bagagliaio; lascia cadere la chiave sull’asfalto e chiude la portiera.
“Potrebbe essersi trasformata.” Aaron lo osserva tornare con la fronte corrugata dalla preoccupazione. Sa che tutto ciò che Daryl vuole adesso sono delle risposte; risposte che lui non può avere, ma che può cercare.
“Le hanno sparato in testa”, mormora.
Lo sguardo del suo compagno si sposta sul cofano dell’auto. Sembra confuso quasi quanto lui. “Mi dispiace, Daryl. Ci tenevi così tanto… ma sono sicuro che anche lei lo sapeva.”
Daryl non ne è così sicuro. Non è mai stato bravo a guadagnarsi la simpatia della gente; i suoi meri tentativi di essere gentile sono sempre sfociati in risultati ridicoli. Con l’arrivo dell’apocalisse, però, le cose sono leggermente cambiate. Adesso sembra che almeno qualcuno riconosca il suo valore; di certo non è il tipo di uomo che costruisce un nuovo mondo, ma è il tipo di uomo che continua a sopravvivere, che non smette mai di lottare contro la morte, anche quando vorrebbe.
Anche se lui non piace alle persone, alle persone piace quello che lui ha da dare, e lui non si fa problemi a metterlo a disposizione.
Lei era diversa. Lei non aveva capito che tipo era, non subito. Non aveva niente a che vedere con lui. Era il tipo di persona che ama; il tipo di persona che vede il bene e accetta il male. Guardava gli altri senza alcun pregiudizio, aveva capito certi aspetti di lui a cui non pensava neanche. Ma non aveva capito tutto. Probabilmente, non aveva mai realizzato davvero quanto ci tenesse a lei. Al massimo si era fatta un’idea. Una ragazza del genere, con occhi così attenti e con un’innata capacità nel leggere le persone, magari aveva abbastanza esperienza e intuito da capire quando un uomo la desiderava. Daryl è sicuro di essere sembrato sciocco, di fronte a lei. Doveva per forza aver notato il modo in cui la guardava.
Tuttavia, non era così semplice tra loro e lei lo sapeva. Qualche volta, per un giorno o due, aveva quasi sperato che avesse potuto sentirsi allo stesso modo nei suoi confronti. In ogni caso, che l’avesse fatto o no, aveva un forte ascendente su di lui, in termini di anima e corpo. Ha tenuto a lei in un modo che brucia ancora nel profondo. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per lei. È entrato nell’inferno e ne è uscito indenne solo per vedere sana e salva, o almeno ci ha provato.
Alla fine, infatti, la sua battaglia è stata inutile. Non è riuscito a salvarla.
Lei è morta, lui vivo. E niente può cambiarlo.
“Hey”, Aaron gli indica la strada con un cenno della testa. Sull’altra corsia, un gruppo di vaganti sta venendo nella loro direzione. Ha un’espressione triste. “Andiamo comunque alla fattoria”, dice.
Daryl accarezza con il pollice il pugnale di Beth, a riposo nel suo fodero. Magari potrà essergli d’aiuto. “Ne sei sicuro?”
Non può dire che effetto gli farà tornare lì. Se lo farà stare peggio o se in qualche modo lo aiuterà vedere qualche sua foto di quando il mondo era più gentile e non c’era niente a metterla in pericolo.
Aaron alza il fucile e si volta verso la sua auto. “Non torneremo a casa a mani vuote.”

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Capitolo 4
*** Dead and hungry ***


Dead and hungry.

 

 

Non le dicono addio; non sono quel genere di persone. Wanda le fa un cenno, mordendosi le labbra. Il suo sguardo si muove sul viso di Beth come se la sua anima, incorniciata da tutte quelle cicatrici, fosse riflessa nei suoi intensi occhi blu.
“Grazie di tutto.” Beth le indica la garza avvolta intorno alla sua testa e le ciocche bionde perfettamente intrecciate. Dopo che Hiatt le aveva disinfettato e fasciato la ferita, Wanda infatti aveva provveduto a pettinarle i capelli, sistemandoli in una treccia per tenerli lontani dalla medicazione.
Hiatt la osserva attraverso gli occhiali da sole; ha il volto pallido. “Abbassa la testa fino a toccarti il petto con il mento.”
Cercando di seguire il suo suggerimento, Beth inclina il collo, ma un dolore lancinante la costringe a raddrizzarlo di nuovo e a emettere un piccolo sussulto. Guarda di nuovo il viso dell’uomo: ha le labbra arricciate tra i denti, in una smorfia risoluta. “Come pensavo. Riesci ad aprire un po’ di più la bocca? O ti fa troppo male?”
Stavolta non annuisce, certa che anche quell’azione fulminea le provocherebbe solo altro dolore. Alla fine Hiatt già sa di avere ragione, non ha davvero bisogno di una sua conferma.
“Forse è stato il colpo di frusta”, mormora, così a bassa voce che a stento si è sentita.
Lui, in compenso, l’ha fatto. “Forse”, la asseconda, “ma non ci scommetterei. D’ora in avanti, pensa che potresti avere una meningite batterica. Trova quegli antibiotici il prima possibile.”
Quelle sono le sue parole d’addio.
Infatti, i due cominciano ad allontanarsi di qualche passo nella direzione opposta e anche lei sparisce a sua volta tra gli alberi per riprendere la strada di casa. Sa che stanno parlando di lei, e sa anche in che modo.
“Non sopravviverà. Forse avremmo dovuto prendere le sue cose e andarcene.”
“I sintomi peggioreranno. Sarà sempre più stanca e confusa.”
“Non ce la farà.

“…Ma ce l’ho fatta!”, grida all’improvviso.
Ha le lacrime agli occhi.
“Non sono come te, o come loro, ma ce l’ho fatta!”

A chi stava parlando?
Fa un respiro profondo e si guarda intorno per rilevare qualsiasi tipo di minaccia. Concentrandosi sui suoi sensi, si ritrova persino a concentrarsi sugli odori di ciò che si trova intorno a lei. I morti, si sa, hanno un odore tremendo, ma ci è abituata e sono pochi i momenti in cui è abbastanza vicina a loro da sentirlo.
Dovrebbe mettere da parte l’acqua, ma è disidratata, quindi la beve tutta, ritrovandosi a mezzo miglio dalla fattoria con tutte le bottiglie vuote. Lì troverà dei pozzi, e probabilmente è passato abbastanza tempo; quello contaminato non dovrà essere più un problema da un pezzo.

Contaminato.
Maggie ha usato quella parola per spiegarle cos’è appena successo: quegli sconosciuti hanno ucciso un vagante nel tentativo di tirarlo fuori dal pozzo.
Viene scossa da un brivido.
È un tempo in cui ancora non è abituata a uccidere i vaganti, a uccidere le persone.
“Sono solo malati.”
“No, sono morti!”
Conosce quelle voci. Le ama entrambe, ma quella di suo padre ha decisamente torto.


Le sfugge il motivo, ma evidentemente all’inizio anche lei pensava che fossero solo malati. Sa solo che è quello in cui credeva anche suo padre. Ora, invece, che è sola, li vede esattamente per quello che sono: mostri. È gente morta, e affamata più che mai.
Nel bosco, i suoi occhi cercano il terreno. Non è un gesto intenzionale, ma qualcosa di già acquisito, come quando aveva saputo che l’unico modo per fermare quel vagante era infilzargli il cranio con il piede di porco e i suoi muscoli avevano agito per lei. Ci sono delle impronte di vaganti e può dire che sono abbastanza vecchie. Sa come sono fatte e sa che è passato del tempo e che quindi non c’è bisogno di preoccuparsene.
Più avanti, ci sono delle impronte di un cervo, e sono fresche. Riesce a riconoscere anche quelle.
Sto cacciando, realizza con stupore. So cacciare, e devo farlo per sopravvivere.
Tuttavia, oggi non può farlo, perché ha un altro obiettivo. I suoi piedi la spingono in avanti finché non arriva a vederla, la sua fattoria, e le si spezza il cuore. Non è evidente come lo è stato su quella strada di Atlanta dove si è svegliata, ma la familiare e allo stesso tempo più selvaggia linea di alberi che è diventata l’orizzonte che avvolge la casa dove ha trascorso l’infanzia, le trasmette un forte senso di morte.
Le nuvole sopra la sua testa coprono anche l’ultimo spiraglio di luce: sta per mettersi a piovere. Anche se è completamente dolorante e assetata, oltre che mezza affamata, corre di nuovo, perché è questo quel che si fa quando bisogna trovare un riparo, e la sua fattoria è un riparo solo nel senso letterale del termine. Non è di certo quello che sperava di trovare. La staccionata giace tra la polvere, calpestata. Riesce a malapena a superare i suoi resti, ormai in parte coperti dal terreno e dall’erba alta, e più avanti individua casa sua, sterile e spoglia proprio come temeva di trovarla.
Ogni suo battito accompagna i silenziosi ma comunque assordanti “no!” che si ripetono a loop nella sua testa. I piedi tengono il tempo e, anche se non può vederlo, può sentire il calore del fuoco che ha buttato giù il fienile. La casa non è stata incendiata, ma anche da quella distanza nota che manca parte della porta principale, che le finestre sono tutte rotte e che parte del portico è franata.
Non ci vive più nessuno; lei non ci vive più; la sua famiglia non ci vive più.
Ho sbagliato strada, pensa, ma non può essere. Quella fattoria è sempre stata il simbolo di tutto ciò che si potesse chiamare casa. Dove sarebbero potuti andare altrimenti? Suo padre non l’avrebbe mai lasciata.
Con il corpo intorpidito e un ronzio nell’orecchio che quasi copre il suono claustrofobico del suo stesso respiro accelerato, scorge delle ossa. Il prato ne è ricoperto. Sono ossa sporche e consumate di vaganti, e sembra che ce ne siano circa un centinaio buttate lì così.
Riesce a ricordare le grida; riesce a ricordare il sangue; riesce a ricordare di aver guardato dei corpi cadere.
No, no, no, no!
Soffoca quelle immagini, scacciandone via il ricordo. Attraversa il campo e si ritrova accanto a quel che resta del fienile, ma prova una forte avversione nel guardarlo, chissà per quale ragione. Un ricordo brucia nella sua mente, ma spinge via anche quello, seppellendolo sotto una montagna di no, e distoglie lo sguardo.
Non sono pronta.
Volta le spalle sia al fienile che alla fattoria, ma sa di non poter andare in quella direzione. Ha bisogno di cibo e di acqua e sa che la sua famiglia aveva messo da parte delle provviste. Con un po’ di fortuna, potrà ancora trovare qualcosa per lei, ma di certo non la sua famiglia. Adesso la vede davvero, la vuotezza di quel posto.
Voglio solo stendermi e piangere.
Pensa che il terreno andrà più che bene, anche se sarà circondata da ossa. Il dolore al collo, però, la fa retrocedere da quell’idea. Se si sdraiasse, dovrebbe combattere contro se stessa per non addormentarsi, ma lo farebbe e, quando si sarebbe svegliata, i sintomi con ogni probabilità sarebbero irreversibilmente peggiorati e sarebbe stata troppo male per prendersi cura di se stessa. Oppure, forse, non si sarebbe mai più svegliata.
Suo padre ha delle cose nascoste in casa, ma il solo pensiero di entrarci la fa sentire debole e fredda. Loro non ci sono più, anche se era sicura che fossero lì ad aspettarla. Poi, nelle stalle ci sono più medicine. Anche se sono fatte con gli stessi ingredienti, suo padre teneva i farmaci per gli animali separati da quelli per le persone. A meno che qualcun altro non abbia trovato la loro scorta, o che loro stessi non l’abbiano portata via quando se ne sono andati, dovrebbe essere ancora lì.
Appena entra, viene accolta da un vagante lento e senza gambe. Non lo riconosce, ma non lo osserva neanche più del dovuto prima di colpirgli il cranio con il piede di porco. Le ossa dei morti sembrano più morbide di quelle dei vivi. Evidentemente, si consumano col passare del tempo.
Facendo dondolare il polso, permette a gran parte del sangue di liberare la barra di ferro e schizzare via, disperdendosi nelle stalle vuote.

L’immagine di una bella donna con una lunga spada si fa strada nella sua mente.
Compie quello stesso elegante movimento del polso e il sangue gronda via dalla lama, mentre osserva con un cipiglio quello rimasto incrostato sull’arma.
“Ci tengo alla mia spada. Il sangue dovrebbe semplicemente scivolare via, ma quello dei vaganti è così appiccicoso...”, borbotta, per niente preoccupata per i vaganti che ha appena abbattuto.
“Tieni.”
Beth le passa un fazzoletto che aveva ripiegato nella tasca posteriore, accanto alla sua pistola.
Si trovano davanti a una grande struttura in cemento, circondata da una recinzione sormontata da del filo spinato.
Forse è una prigione.
La donna fa scorrere il fazzoletto lungo la lama, strofinando sulle macchie più resistenti di sangue scuro appartenente ai vaganti che ha ucciso.

Beth osserva il suo piede di porco, sporco di sangue. Ormai il suo braccio è abituato ad usarlo, anche se ha la mano ricoperta di calli. Ha bisogno di trovarsi un’altra arma, magari qualcosa di portatile o con dei proiettili.
Mentre continua a chiedersi chi sia quella donna, dove abbia trovato quella spada e che cosa abbia imparato da lei nell’osservarla, arriva agli scaffali sul retro, dove trova quasi tutti i farmaci perfettamente intatti. È praticamente una miniera d’oro nel bel mezzo del deserto, che aspetta solo di essere utilizzata. Dovrebbe essere felicissima, o quantomeno sollevata dall’aver trovato quello di cui aveva bisogno per sopravvivere, ma le sembra di aver vinto solo a metà.
Dove sono tutti?, si chiede ancora.
Che senso avrebbe continuare a vivere, se loro non ci sono più? Con un brivido, si ricorda delle cicatrici sul suo polso, ma continua a frugare tra le medicine finché non trova quello di cui ha bisogno, per poi andare a stendersi in una stalla chiusa e abbandonata a se stessa. È quella dove un tempo dormiva Nelly, il suo cavallo.

La sua stessa voce risuona in un fresco ricordo del primo mattino, in cui sta cantando per Judith.
“There is a house in New Orleans
you call the Rising Sun
and it’s been the ruin of many poor soul
and me, oh God, I’m one...”
Un’ombra si abbatte su di loro e la sua voce vacilla un po’, ma continua la strofa.
“If I listened to what mama said
I’d be at home today
being so young and foolish, poor girl,
I let a gambler lead me astray.”
Judith sembra affascinata e Beth, colta di sorpresa da quella pura adorazione, ricorda ogni sua ciocca di capelli, i suoi curiosi occhi azzurri, i suoi versi simili al tubare di una colomba e persino i suoi pianti.
Pensa di aver sempre voluto un bambino, e che quella bambina è praticamente appena nata. Ricorda il modo in cui il suo viso è cambiato nei mesi successivi, ma allora, in quel ricordo di quella ninna nanna, è da poco venuta al mondo.
L’ombra sposta il suo peso e lei alza lo sguardo: appartiene all’uomo dagli occhi chiari; quello per cui, per ricordarsi il suo nome, sforza la sua mente come non hai mai fatto per nessun altro.
“Scusami...ti ho svegliato? Sono venuta qui perché pensavo che nessuno potesse sentirmi...”
“È comunque meglio dei suoi pianti”, risponde lui a voce bassa.
Quel timbro così familiare la fa sussultare.
Per un momento stanno entrambi zitti, ma è un silenzio confortevole. La bambina è ancora irrequieta, ma almeno non minaccia più di piangere.
Beth si avvicina all’uomo, che allunga le braccia per farsela passare e, senza esitazione, la posa tra le sue braccia, sicura che lì sarà più al sicuro che da qualsiasi altra parte.
“Non hai praticamente mai dormito da quando è nata”, la sua voce si addolcisce mentre osserva il viso della bimba nell’oscurità. “Va’, posso stare io con lei per un po’.”
“Neanche tu stai dormendo molto in questi giorni”, ribatte lei con un sussurro, ma non pensa di rifiutare la sua offerta: ha il corpo dolorante, la schiena non vuole saperne di starsene dritta e gli occhi, sofferenti di una rigida insonnia, non riescono a guardare lo stesso punto per più di un certo tempo.
“Dormi un po’, Beth. Non preoccuparti per noi, conosco qualche pezzo dei Motorhead che potrebbe piacerle.”
È troppo buio per vederlo, ma sa che ha appena sfoggiato uno dei suoi rarissimi sorrisetti.
“Grazie, Daryl”, gli dice, posando fermamente la mano sul dorso della sua; la stessa che tiene sulla testa di Judith. È buio, ma con la stessa intensità con cui riesce a sentire la forza di quella mano, riesce a sentire il peso del suo sguardo su di lei.
Si aggrappa a lui per un’altra frazione di secondo, e poi se ne va.

Riapre gli occhi esattamente dove si è addormentata, nella stanza di Nelly. È stata così presa da quel ricordo che fortunatamente la sua testa non è stata la prima cosa a catturare la sua attenzione. Sente un tuono in lontananza, e sa che non è il primo, perché il battere delle gocce di pioggia sul legno diventa sempre più violento. Il tetto delle stalle è abbastanza resistente; ce ne vuole per farlo crollare.
Anche se è completamente asciutta, ha freddo ed è rigida. Lì dentro non c’è più l’odore dei cavalli, ma solo il fetore dei morti in putrefazione. Si rialza lentamente, cercando di mettere insieme tutto ciò che ha ricordato.
Ho una figlia?
La bambina che ricorda si chiama Judith, ed è bellissima.
Avendo ripreso padronanza della sua mente, si rimette in piedi, afferra altri farmaci e prende le sue pillole. Non sa per quanto tempo ha dormito, ma suppone che sia stato abbastanza. Si avvicina alla porta e osserva la pioggia che sta bagnando i campi diventare sempre più torrenziale. Fa scivolare le mani sulla cintura dei jeans, alla ricerca di qualche indizio. Se ha avuto davvero una bambina, dovrebbe essere in grado di capirlo, no?
Se ho una bambina, deve esserci anche un padre, pensa, deglutendo e afferrando lo stipite per darsi supporto.
Si chiama Daryl.
Si riscuote mentalmente, cercando di non far viaggiare troppo la sua mente, ma almeno adesso sa che quell’uomo che ricorda sia stato con lei in un bagagliaio, delle cui labbra ha voluto sentire il sapore, si chiama Daryl.
Si chiama Daryl e teneva in braccio quella bambina con tanta tenerezza.
Quella bambina potrebbe essere tua, e anche lui.
Rendendosi conto di non aver praticamente respirato per diversi secondi, Beth cerca di riprendere fiato, ma finisce per emettere un singhiozzo strozzato sul palmo della sua mano, per poi ricominciare a respirare profondamente. Il suo cuore soffre per una famiglia che non conosce neanche. È troppo.
Dove sono i suoi genitori, suo fratello e sua sorella? Dov’è la bella donna con la spada? Che fine hanno fatto Carl e suo padre? E la bambina e quell’uomo?
Perché mi sono svegliata da sola?
Adesso ha paura di conoscere la risposta. Forse la sua mente ha scelto di dimenticarla. Forse è stato solo il suo strano modo di proteggerla.
Ti sei svegliata da sola perché sono tutti morti. Sei l’unica rimasta.
“Non è vero”, si dice.
So che non è vero.
“Sono da qualche parte, vivi. Semplicemente, non sono qui.”
Tuttavia, sa anche che la probabilità che stia mentendo a se stessa esiste davvero, perché sente il peso del destino della sua famiglia gravarle sulle spalle da quando ha cominciato a ricordare, da quando ha cominciato a sentire il dolore, e non sa se mai smetterà di esserci, a prescindere dal fatto che la bambina sia sua o meno e indipendentemente dal fatto che i legami che ha con questi fantasmi della sua testa siano davvero così forti come li percepisce.
Alla fine dei conti, non conosce la sua gente. Neanche Maggie, non quella vera. Ripensando ai suoi ricordi, realizza di non poter sapere, adesso, chi sono diventati. Tra l’altro, non sa neanche chi è lei. Non sa se è una sopravvissuta, se è un’assassina, una cacciatrice o addirittura una madre.
Quell’uomo potrebbe essere il suo uomo, nonché il padre della sua bambina, e questa ipotesi le spezza il cuore. Si sente già schiacciata dal peso delle perdite che non ha ancora affrontato e che affronterà solo quando avrà ricordato.
Riporta lo sguardo sulle cicatrici sul suo polso, e rabbrividisce, mentre il cielo viene squarciato da un altro tuono. La pioggia continua a scrosciare come se volesse scavare nel terreno.
Per quasi un’ora, resta immobile a fissare quello scenario, finché la pioggia non comincia ad attenuarsi. Nei minuti restanti, il cuore smette di picchiare contro le sue costole e regolarizza il respiro. Anche se ha dormito a lungo, sente di poter chiudere gli occhi e addormentarsi ancora. Ora, mentre il cielo si asciuga, il suono della pioggia che schizza sul terreno è quasi diventato dolce.

Che diavolo fai, Greene?”, le chiede Daryl con massima cautela. Sembra spaventato.
“Chissà quando avrò di nuovo l’occasione di farmi una doccia”, spiega lei attraverso il tessuto bagnato.
Si sta sfilando la maglietta dalla testa; è la stessa polo gialla con cui si è risvegliata, ma non è ancora così sbiadita.
Forse quella è stata davvero la sua ultima doccia.
Lei e Daryl sono soli, lontani da tutto, nel bel mezzo di un temporale.
Quella sensazione di perfetto isolamento dovrebbe terrorizzarla, dal momento che sa che loro potrebbero essere le ultime persone rimaste sulla Terra, anche se ancora ricorda il perché, né per quanto tempo sia stato così.
Il bosco sembra invitarli di nuovo al suo interno. Hanno trascorso così tanto tempo lì, circondati dagli alberi, solo lui e lei. C’è anche una casa. Infatti, si trovano nel cortile di una vecchia fattoria in rovina. L’hanno già ripulita e non hanno trovato quasi niente, ma è comunque un rifugio e sta piovendo, anche se lei è decisa a restare fuori.
Sentire la pioggia scorrerle addosso è una sensazione magnifica; sembra lavare via il sudore e la puzza di bruciato dai suoi capelli. Si sfila definitivamente la polo sul portico principale, e la poggia sulla ringhiera. Fa lo stesso con la cintura e gli stivali, lasciandoli accanto alla porta, dove Daryl è rimasto impalato come una statua. Si sta bagnando anche lui, ma sembra che non voglia lasciarla sola, anche a costo di doverla guardare.
“Starò bene”, gli dice quindi, arrossendo.
Hanno trascorso così tanto tempo per strada con il gruppo che bene o male può dire di averli visti nudi, quasi tutti. Ha pensato che fosse lo stesso anche per lui, ma evidentemente non lo è. Forse lui è il tipo che bussa, che avvisa prima di voltarsi, che da le spalle a quei momenti imbarazzanti, ma Beth non è mai stata altrettanto diligente nel rispetto di quelle abitudini,
Ricorda di averlo visto mentre si cambiava, una volta. Stavano frugando in un vecchio outlet e la maglia che indossava era a brandelli. Dovevano essere i primi tempi, perché lui era più giovane, e anche lei. Aveva cercato di nasconderlo, ma era stato più che infastidito dalla sua presenza. Al tempo, aveva pensato che doveva essersi comportato in quel modo per via delle cicatrici che portava dietro la schiena, ma ora, sotto la pioggia, sta arrivando a pensare che la sua infanzia di merda forse non è l’unico motivo che l’ha spinto a cacciarla via.
“Se vuoi spogliarti dentro, puoi anche lasciarmi sola per cinque minuti.”
Sente il suo stesso viso andare a fuoco. Forse non è stata una buona idea. In ogni caso, la pioggia è forte e avrebbe comunque dovuto togliersi i vestiti bagnati di dosso.
“Ho trovato questo rifugio proprio per impedire che ci inzuppassimo”, borbotta lui, ma si sfila comunque il gilet e gli stivali, posandoli accanto alla porta. La osserva cauto, forse interrogandosi su come lei sia riuscita a coinvolgerlo.
“È solo un acquazzone estivo.”
L’acqua non è esattamente calda, ma non sta tremando, o almeno non lo sta facendo per il freddo.
Seguendo il suo esempio, Daryl comincia a sbottonare la sua camicia smanicata.
“Schiena contro schiena”, le ordina con la voce un po’ più alta del normale. “È più sicuro.”
“Sì, giusto”, risponde lei, cercando di impedire che le sue labbra si curvino in un sorriso che potrebbe mettere entrambi in imbarazzo.
“Non abbiamo visto nessuno per chissà quante dannate miglia, ma se qualcuno dovesse essere di passaggio, potrebbe approfittare del fatto di trovarci nudi e disarmati”, mugugna.
Quando Beth sente la sua schiena incontrare quella di lui, si sfila velocemente e allo stesso tempo i pantaloni e le mutande. Per quanto bagnati, infatti, i due indumenti si erano quasi incollati tra loro.
Si slaccia il reggiseno e posa tutto sulla ringhiera. La pioggia è meno forte, ma è comunque abbastanza da bagnarle la faccia quando spinge il collo indietro, insieme ai capelli. Non è un getto concentrato, come quello di una vera doccia, ma è comunque piacevole.
Oscilla sul posto a piccoli passi vacillanti mentre si massaggia lo scalpo e lascia che l’acqua le bagni anche il resto del corpo. Il terreno sotto i suoi piedi stanchi e doloranti, è freddo e morbido; il fango e l’acqua le scorrono tra le dita, solleticandole.
Anche Daryl forse si sta massaggiando i capelli, perché sente gocce più consistenti scenderle lungo le spalle e la schiena. Sorride tra sé e sé e, incapace di resistere a quell’impulso, raccoglie tutti i capelli davanti al suo viso. Aspetta qualche minuto, il tempo che diventino abbastanza zuppi, e poi li tira di nuovo indietro.
“Ma che cazzo...”, sente Daryl sussultare alle sue spalle. “Mi hai schizzato di proposito?”
“Come se cambiasse qualcosa”, risponde ridendo.
“Hai visto se in bagno c’è un po’ di shampoo?”
“Sì, non c’è.”
Sembra che quella vecchia casa non sia mai stata davvero abitata prima dell’apocalisse. Forse era una di quelle vecchie case che le persone usavano per passare i fine settimana; una di quelle che ereditavano e non sapevano bene che farci. Non hanno trovato nessuna traccia di cibo o roba simile; hanno visto solo mobili rotti e malandati, qualche coperta e alcuni vestiti negli armadi. Era tutto vecchio e mangiato dalle tarme.
“Hai fatto?”, brontola Daryl dopo alcuni minuti.
Può immaginarselo mentre la aspetta con impazienza, con i pugni serrati e il disagio di non potersi voltare a guardarla neanche per poco, neanche per un’occhiata veloce.
“No” gli risponde, mentre passa per l’ultima volta le mani tra i capelli. “Ora ho finito”, dice poi, riagguantando i suoi vestiti. “Entro io per prima. Vado nella stanza dei bambini.”
“Metterò la mia roba nella camera da letto principale. Già che ci sei, mi prendi una coperta?”
“No, sono tutte mie.”
“Pfft.”
Comincia a correre in casa, per poi fermarsi con un sorriso non appena lo sente farle una delle solite raccomandazioni.
“Tieni gli occhi aperti, hai capito?”
“Me la caverò”, risponde, cercando di zittire la risatina che le preme in gola. “Giuro che non ti ho guardato… tu l’hai fatto?”
“Tieni gli occhi aperti!”, le ripete, ignorando quella domanda.
“Mmh. Va be’, mi fido.” Le sue risatine rischiano di trasformarsi in un’enorme risata se non si dà una mossa. “Comunque… ti giuro che io non ho sbirciato!”
Finalmente, entra in casa. Sale le scale in pochi passi e si ferma di fronte alla porta della cameretta.
Non lo ha guardato.
Per tutto il tempo in cui sono stati sotto la pioggia, schiena contro schiena, ha cercato di essere rispettosa, si è tenuta per sé quel desiderio, ma non poteva fingere che lui non fosse lì. Controllare la sua mente è stato persino più difficile che controllare il suo collo, ma alla fine non si è voltata, neanche per un’occhiatina con la coda dell’occhio.
Le distanze tra loro si stanno accorciando. Lo sente, e crede che lo stesso valga per lui. Non vuole spingersi troppo in là, non troppo in fretta, perché non vuole metterlo in difficoltà. Dovrebbe prima sapere esattamente che cosa vuole da lui. È importante, ma non ne è ancora sicura, non in quel momento. Hanno modi diversi di essere forti e vulnerabili, ma insieme si sono indubbiamente rafforzati. Non sa che cosa ci sia tra loro, ma sa di essere felice di stare con lui e spera che anche per lui sia così.
In cima alle scale, Beth esita. Si chiede quanti altri
Mississippi Daryl conterà prima di entrare in casa e quanto ancora dovrà aspettare per vederlo giù a quelle scale.
A quanto pare, non molto, perché vede presto la sua ombra avvicinarsi e, sentendosi di nuovo in colpa, scappa via prima di riuscire a vederlo.
Mentre pensa di non avere quasi più bisogno di asciugarsi per quanto è arrossita, si chiude la porta alle spalle e vi si appoggia, ascoltandolo salire le scale.
È in quel momento che si rende conto di essere entrata nella stanza sbagliata. Infatti, lui afferra la maniglia e riesce ad aprire la porta solo di qualche centimetro, perché lei, con un piccolo strillo non intenzionale, si è schiacciata contro di essa con tutto il suo peso.
“Scusa! Devo essermi confusa… e ho sbagliato stanza.”
“Bene, allora l’altra è mia”, le dice attraverso la porta. Alla fine, sembra divertito, anche se la sua voce tradisce qualche nota di esasperazione.
“Mi prendi una coperta?”
“Mmh… no. Tutte mie.”
“Dai! Io te l’avrei presa!”
Daryl non le risponde; se ne va lasciandola con la sola compagnia dei suoi vestiti bagnati.
Alzando gli occhi al cielo, Beth si avvicina alla vecchia spalliera di ferro del letto e ci lascia i vestiti ad asciugare. La biancheria, a sua volta vecchia e polverosa, non sembra per niente comoda, ammesso che lo sia mai stata: le coperte sono umide, super inamidate; troppo sottili per l’inverno e troppo ruvide per il resto dell’anno.
Apre l’armadio e trova un’orribile vestaglia usurata dal tempo; all’interno di una delle tasche, c’è anche un flacone di sciroppo per la tosse. La indossa comunque e si asciuga i capelli con i pantaloni che un tempo erano di qualcun altro, per poi andare a incontrare Daryl in corridoio.
Ha una copertina di lana color porpora stretta alla vita. Con una mano si sta asciugando i capelli utilizzando un pigiamino rosa, e nell’altra stringe un fagotto grigio.
Beth lo osserva attentamente e questa volta non riesce a trattenersi; scoppia a ridere, coprendosi la bocca con le mani e provando a scusarsi attraverso le dita.
“Quindi non ci sono vestiti, solo coperte?”
“No.”
Daryl entra a posare il pigiama in camera da letto, anche se i suoi lunghi capelli scuri stanno ancora gocciolando. Forse l’ha fatto solo per farla ridere anche se, da quanto riesce a ricordare, è passato molto tempo dall’ultima volta che ha fatto qualcosa di simile a uno scherzo.
“Ho trovato una cosa, ma starà meglio a te”, le dice, passandole il fagotto grigio.
È un maglione, ma non somiglia per niente a quelli enormi e vecchi che ha trovato nell’armadio. È carino e il tessuto sembra morbido; non deve stare lì da molto tempo.
“Era piegato sotto il letto. Devono averlo dimenticato l’ultima volta che sono stati qui.”

La Beth nella stalla cerca di aggrapparsi a quel ricordo, di continuare a tenerlo vivido per sapere cosa è successo dopo, ma, quasi violentemente, lo sente scivolare via dalla sua mente frammentata. Accarezza il tessuto del maglione grigio che indossa sopra la polo: è lo stesso, ne è sicura. Forse ci ha pensato davvero, forse voleva qualcosa in più da lui, ma è evidente che in quel momento non dovevano stare ancora insieme.
Quando è nata la bambina?
Se è davvero sua, ed è anche di Daryl, i ricordi della prigione dovrebbero essere successivi a quelli in cui era sola con lui. Erano troppo tesi, troppo goffi l’uno con l’altra, troppo in imbarazzo. Se hanno davvero avuto una bambina, è successo dopo quel ricordo, ma allo stesso tempo sa che non è passato molto tempo. Indossa ancora gli stessi vestiti, anche se il colore della polo non era ancora così sbiadito, e il maglione è strappato. Potrebbe essere comunque passato un po’; la prigione, la bambina e tutto il resto potrebbero anche essere venuti dopo quel ricordo.
La sensazione di essere assolutamente sola è diventata dannatamente profonda ora che si ritrova a pensare ai tasselli che mancano nella sua memoria. Ricorda di essersi sentita sola anche quando era con Daryl, ma il loro mondo aveva ancora un senso, mentre adesso sembra più vuoto che mai. È sicura di essere stata da sola con lui per un bel po’, tanto da viverci insieme. Forse è stata in quella circostanza che è successo, forse è stato allora che sono diventati… beh, qualsiasi cosa fossero.
Quasi inconsciamente, si prepara ad andare via. Prende gli antibiotici e gli antidolorifici di cui ha bisogno, nel caso non dovesse riuscire a tornare indietro, nel caso in cui dovesse essere costretta a scappare. Per qualche strano motivo, la fine della pioggia per lei ha significato che, a prescindere che sia pronta o meno, è giunto il momento di entrare in casa.
Durante il tragitto, tenta in tutti i modi di prepararsi psicologicamente ma, una volta arrivata di fronte al portico, scopre di non esserlo per niente. Si sente come se ogni passo nella sua vecchia casa potesse avere il potere di spezzarle le ossa.
Nel momento in cui varca l’ingresso e vede i danni che ha subito, si sente subito debole, sul punto di svenire. È passata una mandria; è evidente. Bussa violentemente il ritmo di shave and a haircut sul telaio della porta, stringendo il pugno quasi con la stessa forza con cui il nodo che ha alla gola le sta impedendo di respirare. Quella sensazione di soffocamento coinvolge anche il suo petto, affaticando i battiti del cuore. La sua bellissima casa, che doveva essere un angolo di paradiso in mezzo a quell’inferno, è semplicemente vuota e in rovina come il resto del mondo. È stata violentata in ogni modo possibile: ci sono segni di un’alluvione e nidi di uccelli, vari gruppi di vaganti devono esserci entrati e usciti, e ce ne sono ancora alcuni. Aspetta che quei tre che vede si allontanino per uscire di nuovo ed osservarli, ma non troppo da vicino, per la paura di riconoscerli. Appena rallentano il passo, può dar loro un’occhiata e può constatare che non sono né sua padre, né sua madre, né sua sorella o suo fratello, e nemmeno qualsiasi altra persona che possa riuscire a riconoscere. Inoltre, c’è anche il corpo putrido di una donna; ha la mascella rotta e nulla più nelle sue orbite, e sta strisciando sulle scale del seminterrato. Tuttavia, al di là di quei quattro ritardatari, la morte deve aver lasciato la sua casa.
Dopo aver barricato l’ingresso principale, inizia a cercare la stanza meno danneggiata della casa, che scopre essere proprio la sua. Si siede ai piedi del letto e comincia ad osservare la carta da parati, finché la sua mente logora non fa riaffiorare nuovi ricordi.

Come hai potuto farlo?”
È la sua voce.
Ha fatto quella domanda a Lori, in un momento di rabbia.
Stringe il suo polso non ancora sfregiato, e scopre che lei è incinta.
Il mondo è finito, e Lori è incinta. Darà alla luce un bambino in quel disastro.

Ricordando il disgusto e il rammarico che aveva provato, Beth si riscuote da quel ricordo. Evidentemente, non riusciva ancora a capire la decisione di rischiare di avere un figlio in un mondo ormai sfasciato.
Lori è la madre di Judith.
Ora ricorda. Lori era incinta ed era preoccupata, perché la paura e l’avversione che aveva provato nei suoi confronti erano evidenti nei suoi stessi occhi.
Si sente morire al pensiero di quello che le ha detto quel giorno ed è grata a se stessa per non aver continuato a mettere il dito nella piaga. Era già abbastanza difficile, anche senza la sua insolenza adolescenziale.
Non è mia figlia.
Le sembra stupido, ma è dispiaciuta, perché in alcuni momenti ha pensato che quella bambina che cullava tra le braccia e a cui cantava le canzoni potesse essere davvero sua. In alcuni momenti, ha creduto di essere diventata mamma.
Judith ha già avuto una madre, e non sono io.
L’ha già avuta
, ripensa, e rabbrividisce.

Ho dovuto fare il cesareo… mi ha supplicata.”
Maggie scoppia a piangere. Non riesce a parlare, ma non deve farlo per forza.
Le avvolge un braccio intorno alle spalle…

Inorridita, Beth rigetta quel ricordo, spazzandolo via.
Comincia a scivolare lentamente dal letto per sedersi sul pavimento, con le ginocchia strette al petto.
“Ti racconterò tutto di tua madre, un giorno”, ricorda di aver sussurrato alla bambina.
Avrebbero dovuto farlo suo padre o suo fratello, ma erano troppo imperturbabili, troppo occupati a tirare avanti perché tornare indietro sarebbe stato troppo doloroso.
Questi ricordi, non riesce a sostenerli. Non riesce ad aggrapparsi a un pezzo e a capire che spazio debba occupare in quel puzzle. Questi ricordi non sono nitidi come quelli belli e adesso crede di sapere il perché: alcuni ricordi sono troppo dolorosi; è come se non li volesse, come se la sua mente li rifiutasse. Ogni volta che si avvicinano, una parte di lei alza un muro contro di loro. Non vuole ricordare la morte di Lori, avvenuta prima che riuscisse ad avere la sua bambina; non vuole ricordare la paura negli occhi di sua sorella.
Più mi spingo a ricordare, più vedo sangue, paura, morte.
Persino quella stanza la fa star male. È lì che aveva chiesto a Lori come avesse potuto scegliere di far nascere un bambino in quel mondo. Allora, non aveva più speranza e, per qualche ragione, sa che quello è stato uno dei suoi momenti più bui. Si era seduta in quella stanza illuminata dal sole, aveva guardato Lori negli occhi e non aveva avuto neanche un briciolo di fiducia nel futuro.
La paura del sesso che aveva all’epoca, poi, non l’aiutava di certo. Per molti aspetti, Beth era fiorita in ritardo. A sedici anni, in realtà, l’aveva superata, ma non era ancora stata sostituita dal desiderio. Più tardi ha capito meglio come stanno le cose: quando il mondo finisce, tutto ciò che vuoi è avere qualcuno accanto. Ha recuperato la fede, ha recuperato la speranza.
Perché era così un brutto momento? Perché ero così a terra?, si chiede, ma ha paura di scoprirlo. Ha paura di scoprire di non aver costruito un muro abbastanza alto.

Il ragazzino ha appena perso sua madre e il padre ha perso la testa.”
“Vado a cercarlo.”

È la sua voce che, insieme a quella di Daryl, risuona nella sua testa.
Quel semplice e veloce scambio di battute riecheggia intorno a lei.
Dopo la nascita di Judith e la morte di Lori, Daryl era preoccupato per Carl e le aveva chiesto di aiutarlo, perché sapeva come ci si sentiva.
Quando aveva cinque anni, era andata in vacanza in Florida con la sua famiglia. Erano in spiaggia, ed era entrata in acqua quando nessuno, compresa sua madre, la stava guardando. Nessuno si era accorto infatti che, proprio in quel momento, Beth era stata travolta da un’onda. Ricorda la sensazione di essere spintonata e gettata nella sabbia da una forza della natura; aveva perso l’aria, l’equilibrio e ogni senso di sicurezza.
Sapevo come ci si sentiva, perché non era passato molto tempo da quando avevo perso mia madre.
Ora se lo ricorda, ed era stato come se fosse stata ancora travolta da una di quelle onde. Erano state settimane di silenziosa paura, quelle con sua madre chiusa nel fienile.
“Sono solo malati”, diceva a se stessa. Anche Shawn era lì, ma in realtà nessuno dei due era davvero lì; erano già andati via da un pezzo.
Erano già morti da molto tempo.
Quando l’onda si era infranta su di lei, erano stati solo pochi secondi di panico, perché poi sua madre l’aveva tirata su, assicurandole che stava bene, anche se ancora tossiva acqua marina e singhiozzava.
Adesso, il panico non è durato solo pochi secondi, perché è ancora intrappolata nel disorientamento che solo quel mondo può creare, incapace di riprendere fiato e di ritrovare l’equilibrio.
Sono morti, si dice, e cade in avanti, spingendo la fronte sul pavimento. La ferita è proprio lì, ma non importa. Affonda le unghie nel cuoio capelluto.
Sua madre e suo fratello sono morti.
Suo padre…
“Perché hai così tanta paura di perderlo?”
L’avrebbe perso e sarebbe presto diventata orfana. Infatti, è andata proprio così.

Il luccichio di quella lama ha lo stesso effetto di un colpo di fulmine.
È la stessa spada che ha visto pulire da quella bella donna, quella che si lamentava della consistenza del sangue dei vaganti.
Infatti, il sangue dei vivi è diverso, di un rosso brillante.
Quel folle colpisce di nuovo il collo di suo padre, perché il primo colpo non è stato abbastanza fluido.

Non posso, non sono pronta.
Ormai non importa più. Non può spingere i ricordi ancora alla deriva, è troppo debole.
Non si meraviglia di aver perso la speranza in quella stanza, così come non si meraviglia di aver trovato il coraggio di tagliarsi le vene con un pezzo di vetro.
Il suo non era buonsenso, ma voglia di scappare, perché alla fine è stato proprio il buonsenso a tenerla ancora lì. Tuttavia, non riesce ancora a credere di essere stata di nuovo felice, che la sopravvivenza sia potuta essere qualcos’altro oltre che dolore e sofferenza per quello che ha passato.

Voglio farlo stanotte, in questo letto, e dovremmo farlo insieme.”
Sta supplicando Maggie di andare via con lei.

L’aveva supplicata anche lei. Ma mentre Lori l’aveva fatto per la vita di sua figlia, lei l’aveva fatto per la sua morte.
Ho perso così tanto.
Ha paura di pensare troppo e troppo a lungo a Maggie. E se avesse visto anche lei morire in modo atroce? E se fosse davvero così sola come si sente?
Nel dubbio, soccombe al peso dei suoi ricordi e si arriccia sul pavimento, in posizione fetale.

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Capitolo 5
*** Stranger. ***


Stranger.

 

GLENN VAI A TERMINUS

- MAGGIE

Beth se ne sta in piedi di fronte a quel messaggio disperato scritto col sangue per un tempo che sembra equivalere al passare di diversi giorni.
Otto mesi di ricerche e quel graffito sbiadito è l’unica traccia che ha trovato.
Si chiede da quanto tempo sia lì, perché è stato consumato dall’ambiente; la pioggia e le alluvioni devono averlo colpito più volte di recente, ma ha resistito: anche se è evidente che le lettere abbiano perso quel rosso intenso che deve averle caratterizzate all’inizio, sono ancora chiaramente leggibili.
Nell’immediato, non può fare a meno di sentirsi elettrizzata. Non ha mai avuto nessun ricordo di Maggie e Glenn che fosse posteriore alla caduta della prigione. Zero. Sa solo di aver avuto paura, perché ha pensato che fossero morti quello stesso giorno, come suo padre, ma allo stesso tempo sa di non poter contemplare quella sensazione troppo a lungo e permetterle di mettere le radici nel suo cuore. Insieme al sollievo, infatti, qualcos’altro scuote il suo subconscio ed è il terrore. È terrorizzata e lo è stata per tutto il tempo.
Maggie e Glenn sono sopravvissuti all’attacco alla prigione. Devono essere sopravvissuti, e Maggie probabilmente ha lasciato quel messaggio perché… devono essersi persi. Forse sono fuggiti insieme e qualcosa li ha costretti a trovare un altro punto d’incontro, in cui magari lei non ha potuto fermarsi.
Terminus.
Quel nome la fa rabbrividire; spazza via in un lampo ogni tipo di sollievo e speranza che è riuscita a provare nei loro confronti, lasciandole solo l’amarezza e la paura.
Prima di iniziare le ricerche, ha trascorso ben due mesi in convalescenza in cui è rimasta nei pressi della fattoria, uscendo solo per cacciare e cercare qualcosa di utile, ma appena ha cominciato ad allontanarsi da lì, la prima cosa a cui ha pensato è stata l’idea di tornare alla prigione. Senza preoccuparsi dei rischi che avrebbe potuto correre, ha percorso settanta miglia di strada, perché non sapeva cos’altro fare. Ha pensato di doverli trovare, ma la prigione non ha saputo offrirle nient’altro che ricordi. Ha fatto dietro front ancora prima di arrivare ai giardini, perché già guardarla da lontano faceva un male non indifferente. Perlomeno, dato che il percorso non presentava particolari problemi, si è messa a cercarli nei dintorni, anche se era passato così tanto tempo che ormai non aveva più senso. Tutto ciò che ha trovato, infatti, è stato un bus abbandonato, inutile e arrugginito e, allontanandosi ancora di più, ha visto quei cartelli che promettevano un rifugio.
Sembravano vecchi e trascurati, ma si era permessa di sperarci almeno un po’. Eppure, anche quella volta, più si avvicinava, più quella speranza diventava piatta e irrazionale. I cartelli hanno cominciato a riempirsi di avvertimenti del tipo “Non c’è nessun rifugio” e cose così, ma Terminus era vicina a Senoia. Non le costava nulla dare un’occhiata, ma ha trovato solo macerie bruciate. Proprio come la fattoria; proprio come la prigione. Il vuoto più totale.
“Glenn vai a Terminus.”
Nel ritrovarselo di nuovo davanti dopo molti mesi, rilegge il messaggio lasciato da Maggie tra i denti. Si sono separati dopo l’attacco alla prigione, proprio come lei e Daryl si sono separati dal resto del gruppo. Gli aveva lasciato un messaggio nella speranza che lo leggesse…
Ma non l’ha lasciato a te.
Deglutendo rumorosamente, Beth cerca di dare sia a se stessa che a sua sorella il beneficio del dubbio. Ancora non è sicura dell’ordine in cui si sono succeduti gli eventi, la sua memoria non rende ancora le cose del tutto chiare. Ci deve pur essere qualche ragione valida che abbia spinto a sua sorella a darla per spacciata, no?
Non le è servita una ragione, solo sapere che mi ha persa è stato sufficiente. Io non sono come gli altri, si risponde da sola.
Infatti, Glenn è stato il destinatario di quel messaggio perché lui era quello che sarebbe potuto sopravvivere. Maggie deve aver soppesato le loro possibilità di vita, le loro capacità, e aveva scelto la persona che più era possibile rincontrare per strada. E non era sua sorella.
Pensandoci, Beth realizza che Maggie ha avuto torto marcio sul suo conto. Volge il viso verso il calore del sole e tira una necessaria e profonda boccata d’aria.
Hanno rinunciato a me, conclude, espirando. Quindi perché io li sto ancora cercando?
I suoi pensieri vengono spezzati da uno scricchiolio proveniente dal bosco alle sue spalle. Raggiunge il coltello che porta sul fianco con la mano sinistra e afferra la pistola con la destra, per poi cominciare a muoversi il più in fretta e in silenzio possibile verso la sua auto. È stato un rumore isolato e veloce. Forse è stato di qualche animale, ma certamente non è stata opera di un vagante.
Senza mai voltare le spalle al bosco, si trascina lungo la fiancata dell’auto e raggiunge il cofano, dove può sostituire la pistola con uno dei vecchi fucili da caccia di Otis.
Quando sono fuggiti dalla fattoria, sono riusciti a portare via con loro la maggior parte delle armi, ma per fortuna è riuscita a trovare un paio di altre cose che Otis e Patricia dovevano aver nascosto prima di morire quando ancora non si fidavano dei loro ospiti.
Con il calcio del fucile poggiato sulla spalla, si avvicina alle file di alberi e valuta che quella cosa che ha sentito, qualsiasi essa sia, dovrebbe essere ancora almeno a una ventina di metri dai binari del treno, a meno che non si sia avvicinata per attaccarla senza che sia riuscita a sentirla. Utilizzando il mirino per osservare la fitta boscaglia, resta sull’attenti per un po’, con il fucile ben fissato sull’osso della sua spalla. In un primo momento non vede nulla, neanche una potenziale cena, ma poi un piccolo movimento attira la sua attenzione: a primo acchito, sembra solo un vagante spiaccicato sul terreno che ha ancora la forza di muoversi ancora un po’, di dimenarsi quel tanto che basta per farsi riconoscere. A quel punto, Beth abbassa il fucile, ma decide di doverlo abbattere prima di andare via.
La sua figura è così mimetizzata col terreno che chiunque potrebbe camminarci sopra senza accorgersene. Ora che sa che è solo un vagante solitario ed innocuo, è meno cauta nei movimenti e, quando è abbastanza vicina e con il coltello pronto all’uso, quella creatura sembra diventare improvvisamente più vigile. Poi gira la testa, ed è allora che si rende conto del suo grave errore.
Merda!
Si allontana con un grosso scatto all’indietro, mettendo tra loro alcune file di alberi e di cespugli. Raggiunge la sua auto, che la stava aspettando pazientemente sui binari, vi ci entra e accende il motore, partendo in retromarcia per ripercorrere le strisce che ha lasciato a terra quando, guidando lungo la ferrovia, aveva visto il messaggio di Maggie.
Solo quando rimette la prima per andarsene via, Beth si sofferma di nuovo su quello che ha appena visto: un essere umano, una persona vivente. Da quando si è svegliata, le ultime persone vive che ha visto sono state Hiatt e Wanda. Non è neanche riuscita a capire se fosse un uomo o una donna, quell’essere che sguazzava nel fango. Sa solo che non era un vagante e che non era affamato di lei, ma solo stanco. Deve essersi ricoperto di fango e di sangue per camuffarsi e dormire in santa pace.
Si era alzato in modo maldestro e lento, proprio come un vagante, ma poi aveva sbadigliato e lei non aveva mai visto sbadigliare un vagante. I vestiti che indossava erano troppo grandi e sporchi, così come lo erano il collo e il viso. Aveva i capelli lunghi fino alle spalle, arruffati e completamente incrostati di fango. Le sono sembrati quasi una sorta di elmo.
Non si è mai sentita così pulita come in quel momento, quello in cui ha scoperto che era vivo.
Quando la sua testa stava ancora guarendo, aveva dei capelli pessimi. Era troppo difficile prendersene cura senza tirare il cuoio capelluto e causare quell’atroce dolore pulsante che le restava impiantato nel cranio per ore. Come Hiatt aveva previsto, il foro d’uscita era abbastanza piccolo da permettere alle ossa e alla pelle di rimarginarsi da sole, anche se quella macchia rotonda, grande quasi come una moneta da venti centesimi, è leggermente infossata rispetto al resto del cranio e, anche se il suo cuoio capelluto si è cicatrizzato, le ha lasciato un punto della testa che sarà permanentemente calvo.
Gestire i suoi capelli da sola si era rivelato troppo oneroso, soprattutto con la ferita in via di guarigione e con una chioma così folta. Così, per pura frustrazione, ci aveva dato un taglio e la situazione era decisamente migliorata, le faceva anche meno male. Adesso, i capelli le arrivano alle spalle e, anche se è difficile avere una buona visuale della parte posteriore della sua testa, è certa che il punto calvo sia ancora visibile, a meno che non lo copra con una sciarpa.
Alla fine, se lei continuerà a non farsi vedere, nessuno lo vedrà comunque.
Continuando a pensare a quanto sia stato difficile prendersi cura di se stessa in quelle condizioni, si morde il labbro inferiore e osserva lo specchietto retrovisore.
Se Wanda e Hiatt non mi avessero vista quando ero ancora un disastro e non avessero deciso di aiutarmi, probabilmente ora sarei morta, si dice. E quella creatura nei boschi ha decisamente bisogno di aiuto.
Dannazione.
Il suo cuore accelera i battiti. Ha pensato a lungo e con impazienza alla possibilità di ricongiungersi con la sua famiglia e a volte, quando le fa troppo male pensarci, pensa a come sarebbe la situazione se trovasse qualcuno, chiunque, qualsiasi altra brava persona rimasta nel mondo. Odia stare da sola, ma allo stesso tempo, dal momento che ha paura di avvicinarsi a chiunque, pensa che è meglio così.
Sono passati più o meno otto mesi da quando hai visto altri esseri umani e potrebbero passarne altri otto prima che tu ne veda ancora. Potrebbe non accadere mai più.
Schiacciando il freno, Beth si volta a guardare il parabrezza posteriore, chiedendosi quale sia la scelta giusta da fare.
Potrebbe essere pericoloso.
Fa’ attenzione.

“Tutto è pericoloso ormai”, sussurra mentre fa inversione di marcia, con il cuore ancora a mille.
Allo stesso tempo, però, sa di non poter semplicemente tornare là e parlare con quella persone. Rischierebbe e si esporrebbe troppo.
Lo seguirò e lo osserverò. Solo allora, deciderò cosa fare.

 

∂∂∂∂∂∂∂∂∂

 

“Sembra stabile. Devono essere qui già da un po’ di tempo”, dice Aaron con cautela e a pochi centimetri dalla spalla di Daryl, che sente il calcio del suo fucile premergli al centro del petto mentre li osserva dal mirino.
“Quanti ne vedi?”, mormora. Lui, da lontano, è riuscito a individuarne solo due: un ragazzo asiatico piuttosto tarchiato e un uomo alto con degli occhiali da vista tenuti insieme da del nastro isolante sporco e argentato.
“Credo siano sei. Ho visto quattro uomini, una donna e forse c’è qualcuno malato o ferito nella tenda verde. Quello grosso è tornato mezz’ora fa con del cibo e l’ha semplicemente lasciato lì. Non riesco a capirci molto, ma dalle ombre sembra che ci sia una persona minuta, che apparentemente non riesce a tenersi in piedi.” Aaron gli dà un colpetto sulla spalla, indicandogli la tenda verde situata nel punto più lontano del campo, dietro a un albero.
Nel chiarore del mattino, la persona sdraiata al suo interno forma effettivamente un’ombra molto piccola. Aaron ha ragione, deve essere piccola e distesa di schiena. Magari ha la febbre, o cerca di non muoversi per il dolore.
“Nessuno sembra particolarmente squilibrato”, aggiunge il suo compagno con una nota di speranza.
Peccato che questo non basti, pensa, ma frena la lingua. Ha decisamente abbandonato l’idea di poter trovare qualcuno in quel viaggio, perché la sua mente è stata quasi sempre concentrata sul loro ritorno alla fattoria. Magari ci sono ancora delle scorte di cibo nel seminterrato, dato che quando sono scappati via hanno dovuto lasciarne indietro un bel po’; per non parlare poi delle altre scorte. Non c’era solo roba per bambini, ma anche il Winniebago di Dale, che non ha mai dimenticato. Certo, le probabilità che riesca a farlo funzionare dopo due anni che è rimasto fermo nello stesso posto sono piuttosto scarse, ma deve provarci lo stesso.
A essere onesto, la cosa che più è determinato a trovare sono le fotografie. Vorrebbe rivedere il suo viso, vorrebbe essere certo di poter mettere a posto le cose almeno nella sua testa. È davvero come se la ricorda? O l’ha trasformata in qualcosa di finto, di troppo perfetto per essere davvero stato vissuto? Ha bisogno di rivederla.
A dieci miglia dalla fattoria, hanno trovato questo piccolo accampamento e Aaron ha ragione: effettivamente, sembra che stiano lì già da un po’, anche se non sembrano abbastanza furbi. Sì, dalla strada nessuno potrebbe vederli perché sono abbastanza lontani, ma non sono davvero ben nascosti.
Vede l’asiatico dare un colpetto sulla spalla allo spilungone. È un gesto semplice, scherzoso, ma lo rassicura del fatto che almeno queste persone sono un gruppo. Magari non allo stesso modo in cui Rick ha trasformato tutti loro in una famiglia, ma c’è aria di qualcosa di simile. Forse non sono furbi, forse non sono una famiglia, ma non sono neanche un gruppo di stronzi che stanno insieme semplicemente per non morire. Già è qualcosa.
“Il tizio alto con gli occhiali non sembra poi così tanto un sopravvissuto”, dice.
Non li sta prendendo in giro, è solo curioso di sapere come quell’uomo abbia fatto a sopravvivere mentre altri, magari più forti di lui, non ce l’hanno fatta. Il modo goffo con cui maneggia in continuazione la pistola mentre torna al centro del campo la dice lunga: è evidente che odia portarla in giro, che non è abituato ad usarla; è paranoico e la guarda come se potesse spararsi da un momento all’altro sui piedi.
“Lui no, ma il resto sì e sembra che lo proteggano, che non sia solo un peso morto. Lo stesso vale per quello nella tenda”, ribatte Aaron.
Daryl annuisce, spostando il suo mirino per vedere qualcos’altro. “È difficile dirlo dato che ha tutta quella merda in faccia, ma l’asiatico mi sembra...”, taglia corto prima di dire la parola ‘familiare’ e punta lentamente l’unica donna del gruppo, quella che Aaron aveva già indicato. Ha i capelli ricci e castani, tirati indietro alla bell’ e meglio per comodità. Anche se indossa semplicemente una semplice canotta e dei jeans, c’è qualcosa di innegabilmente rigido nella sua postura, come se nella sua mente stesse indossando un’uniforme.
Shepherd, mi prendi per il culo?!”, sente gridare, e sposta velocemente il mirino sul ragazzo asiatico, per poi cercare l’uomo alto con gli occhiali. Alla fine, però, s’imbatte in un bestione con la testa rasata che non avrebbe potuto dimenticare così facilmente.
“Quel bastardo ha cercato di uccidermi una volta.”
“Quale?”, chiede Aaron bruscamente.
“Quello grosso. Si chiama Licari… conosco questa gente.” Abbassa il fucile e lo guarda con una smorfia. “Non ci crederai, ma sono quelli che stavamo cercando. Gli stronzi dell’ospedale per qualche ragione hanno abbandonato le uniformi e sono finiti a vivere per strada.”
Le sopracciglia di Aaron si avvicinano velocemente all’attaccatura dei capelli. “Il dottore c’è?”
Daryl annuisce. “È quello con gli occhiali. A quanto pare, è ancora vivo.”
“Visto che sappiamo chi sono, ci avviciniamo adesso o aspettiamo ancora per capire se ce ne sono altri? Potrebbero essersi uniti ad altre persone.”
“Sono solo in sei. I loro numeri sono crollati. Forse c’è altra gente, forse no...”, scuote la testa dopo averci pensato per un momento. “Ma io credo che non ci sia. Fa’ quello che devi fare.”
Il fatto che Aaron debba approcciare a quel gruppo lo rende piuttosto nervoso. L’ultima volta che l’hanno fatto Daryl era lì e non sono stati proprio gentili.
“Se qualcuno comincia a prenderti a pugni, non posso prometterti che non gli sparerò.”
Aaron sgrana gli occhi. Sa che fa sul serio. “Per favore, non farlo. Probabilmente reagiranno come ha reagito Rick quando ho trovato voi. Cerca di non pensarci, dà loro una possibilità. Ha già funzionato prima d’ora, no?”
Daryl annuisce per non preoccuparlo, ma riconosce in silenzio che il suo assenso è solo una bugia con le gambe corte, e Aaron sembra esserne consapevole.
Mentre il suo compare si avvicina a loro, cerca un punto di osservazione versatile da cui potrà essere in grado di seguire il discorso e al contempo di puntare il mirino in testa a chiunque si avvicini troppo ad Aaron. La sua presa intorno al fucile s’indurisce man mano che lo osserva avanzare.
Quel giorno li aveva quasi uccisi, quei maledetti figli di puttana. In quel corridoio sarebbe bastato un solo respiro per finire il lavoro e ficcare un proiettile in testa a ciascuno di loro. Il sangue scorreva sul pavimento e aveva sentito qualcuno gridare, ma l’unica cosa che sa è che un secondo dopo stava portando il suo corpo tra le braccia. Non gli importava più. Le loro teste potevano anche restare sulle loro fottute spalle, ma qualcuno doveva portarla via, e doveva farlo lui.
Adesso, a distanza di circa otto mesi da quel giorno, la rabbia ricomincia a farsi strada ed è tentato di ammazzarli tutti seduta stante, di nuovo. Le linee incrociate del mirino gli trasmettono ansia, prurito.
Non premere il grilletto. Ad Aaron non piacerà.
Non sparerà a nessuno solo perché lui gli ha chiesto di non farlo, ma è al limite dell’autocontrollo e sarà ancora peggio quando la polizia dell’apocalisse lo accoglierà con la cordialità che sta immaginando.
Aaron sta andando in direzione della donna. È sola, al di fuori del campo, a controllare le trappole e, nel momento in cui la vede sfoderare la pistola, Daryl capisce che non può starsene a guardare. Quel piano forse sarebbe andato bene per Eric, ma lui ha già visto morire altra gente senza fare nulla per impedirlo. È già successo troppe volte e non può restare ancora indietro. Sa che è una buona strategia e che ha senso, sa anche che sarebbe più utile ad Aaron se lo conservasse come piano di riserva nel caso le cose vadano male, ma ci sono buone probabilità che un giorno, approcciando in quel modo, qualcuno lo sparerà a vista. E tutto ciò che lui avrà fatto sarà stato guardare.
Ben consapevole di star facendo il suo primo esordio ufficiale da scout alessandrino, con un pizzico di speranza, Daryl ripone il fucile dietro la sua schiena e afferra la balestra, convinto di non poter assolutamente lasciare che Aaron faccia tutto da solo. Fa un giro piuttosto largo lungo tutto l’accampamento, puntandoli come un avvoltoio farebbe con il suo pranzo. Stanno facendo casino. Può sentire le loro voci rimbombare tra gli alberi. Molti chiedono spiegazioni, tuttalpiù gridando. Solo un paio di loro stanno cercando di mantenere la situazione sotto controllo. Non può sentire la voce di Aaron, ma è normale. Finché non ci danno un taglio non potrà mai sentirla. Infatti, solo quando finalmente c’è abbastanza silenzio, riesce a sentire qualcosa.
So che può sembrare sconvolgente e inaspettato, ma vi assicuro che non ho brutte intenzioni. Sono un amico e porto buone notizie.”
Stronzate!”, grida una voce gutturale, e gli altri sembrano acconsentire rumorosamente.
In quanti siete?”, chiede un’altra, ma poi le voci diventano così basse da essere inudibili.
Daryl ormai è in agguato nei loro pressi. Rallenta il passo e si nasconde, con la balestra alzata e caricata. Tra un battito e l’altro, comincia a calmarsi un po’, ma non abbastanza da sentirsi meglio. Vuole ancora entrare e portare via Aaron, ma sa che lui vorrà comunque parlare con loro, anche se è un rischio.
Alla fine, trova un compromesso con se stesso e si accovaccia a terra con la balestra pronta all’uso nel caso la cosa dovesse cominciare a degenerare, ma resta comunque in disparte come gli è stato ordinato.
Stanno guardando le foto in silenzio, e Aaron sta facendo il suo solito discorso, quello in cui dice che Alexandria è il paradiso che hanno sempre sperato di trovare, ma lo fa comunque con cautela. È troppo intimorito per dar voce alla fantasia.
Quello è Noah?!”, la voce di Shepherd sembra cambiare completamente quando i suoi occhi sbarrati cadono su una delle immagini.
Porca puttana. È lui”, dice Licari.
Già”, risponde Aaron velocemente. Tutti gli sguardi, ancora colmi di sospetto, finiscono su di lui. In qualche modo, sta fingendo di essere tranquillo nonostante lo tengano in ginocchio e con le mani alzate in modo tale che tutti possano tenerle d’occhio.
Abbiamo incontrato un altro gruppo qualche mese fa, su questa stessa strada. In verità, sono stati loro a mandarmi qui. Hanno detto che avremmo trovato un gruppo, in un ospedale, che avrebbe potuto unirsi a noi.
Noah è lì?
Aaron non sembra troppo ansioso all’idea di ammettere che Noah è stato solo pochi mesi ad Alexandria prima di morire, ma non fa in tempo a comunicare quella verità perché Shepherd, dubbiosa, gli pone un’altra domanda.
Quel gruppo… quelli che erano con Noah ti hanno mandato a prenderci?
Le brave persone sono difficili da trovare. Qui fuori ci sono dei veri predatori e quei pochi di noi che aspirano a un minimo di civiltà dovrebbero restare uniti.” Il petto di Aaron si alza e si abbassa freneticamente. È nervoso, e questo rende nervoso anche Daryl.
L’uomo che gli stringe le spalle sposta il suo peso e si muove quel poco che basta per permettere a Daryl di vedere una lunga lama raggiungere la schiena di Aaron e, dalla sua espressione, deve anche avergli già reciso la pelle.
“Basta così”, sussurra tra i denti mentre si alza in piedi e posa in automatico la balestra per afferrare di nuovo il fucile. “Non farete mai più cadere un’altra goccia di sangue dal corpo di nessuno dei miei”.
“HEY!”, grida quando è in parte ancora coperto dagli alberi. “Fatelo alzare! Nessuno qui ha cattive intenzioni, se non voi!”
Tutti i mirini delle loro armi si sono spostati su di lui ma, come si aspettava, vacillano. La mascella di Licari gli sbatte praticamente contro il petto quando lo riconosce. Daryl lo sente a stento mormorare un altro “porca puttana” pochi secondi dopo.
“Abbassate le armi, prima che uccida ognuno di voi.” Mantiene il fucile automatico su di loro, che sono armati di semplici pistole. Non c’è competizione: anche se provassero a sparargli, lui ne colpirebbe due o tre negli stessi secondi che impiegherebbero a cercare di prendere il bersaglio. “So quanto possano essere scivolose le vostre dita”, aggiunge poi, ringhiando.
“Daryl! Ti avevo detto di aspettare!”, dice Aaron con esasperazione, ma Daryl può comunque avvertire una nota di sollievo nel suo tono di voce.
“Sentite, stiamo dicendo la verità. So che chiedervi di fidarvi di noi è molto, ma ne vale la pena per quello che vi stiamo offrendo.”
Continuano a non abbassare le armi. Il dottore, che fino a quel momento ha mantenuto una distanza considerevole dalla discussione, comincia ad avanzare lentamente, stringendo a sua volta una pistola, anche se è evidente che non sa neanche come si usa. “Come funzionerebbe se decidessimo di venire con voi?”
Chiaramente sollevato dai suoi progressi, Aaron sospira. “Vi diamo un giorno per decidere e preparare la vostra roba. Conosciamo un posto dove potrebbero esserci rifornimenti e, prima di andarcene, vorremmo ripulirlo. Il viaggio è lungo, ma vi guideremo noi.”
“Quindi non ci direte dove stiamo andando?”
“Assolutamente no”, risponde lui con fermezza, come se potesse addirittura rassicurarli. “Non possiamo rischiare di farvi sapere dove siamo prima di essere sicuri che veniate. Non è per sembrare esagerati, ma l’ultima cosa che vogliamo è che qualcuno di voi si divida dal gruppo e spinga qualcun altro a saccheggiarci.”
“Qualche predatore?”, dice l’asiatico ridendo, ma un attimo dopo sembra preoccupato. Evidentemente, deve averci pensato abbastanza.
“In ogni caso, noi ce ne andiamo”, interviene Daryl. “Abbassate le armi e lasciatelo andare.”
Licari mantiene ancora il suo sguardo con intensità, ma poi allenta la presa su Aaron, liberandolo. “Tornerete domani e decideremo?”
“Se vi troviamo pronti ad andare e con la roba a posto, la sistemeremo e verrete con noi. Se invece deciderete di restare qui, non ci vedrete mai più. Ce ne andremo e basta.”

 

∂∂∂∂∂∂∂∂∂

 

Per la bellezza di quattro giorni, Beth ha provato a convincere se stessa che sta seguendo quella donna solo perché sta andando nella stessa direzione della fattoria, e non perché abbia bisogno di aiuto.
Lei non ne ha. Se l’è cavata benissimo da sola. Certo, quando era malata e ferita magari ne aveva bisogno, ma poi da quando è guarita, si è tagliata i capelli ed è tornata in se stessa, non ha più bisogno di nessuno: se le serve del cibo, lo caccia; se le serve dell’acqua, la trova; se le servono delle armi, trova anche quelle.
È stato in quel momento che ha iniziato ad allontanarsi molto dalla fattoria. Questa volta è stata via quasi per un mese, e ora sta tornando a casa forse proprio perché quella donna sta andando in quella stessa direzione. Seguirla sarebbe da matti: è, oltre che sempre a piedi, lentissima. Un paio di volte l’ha quasi completamente persa, ma poi è comunque riuscita a ritrovarla. Ha seguito le orme che ha lasciato nei boschi fino a scovarla, per poi scappare di nuovo in macchina. Mantiene la sua stessa traiettoria, ma sempre dalla strada principale. Ogni tanto, cerca ancora le sue tracce finché non capisce dove si sia cacciata quella volta.
Quel paio di scorci che è riuscita ad ottenere non le hanno detto molto. È una piccola donna; malnutrita, oltre che minuta di per sé. È ricoperta da così tanto sangue e fango che, se non fosse per gli occhi, non sembrerebbe neanche umana. Non sembra granché neppure come combattente.
Si chiede come abbia fatto a sopravvivere senza riuscire a imparare a difendersi sul serio. Continuare solo a correre e a fuggire non la porterà così lontano.
Con un sospiro, abbassa il mirino. Adesso, per esempio, ha un taglio piuttosto profondo su un braccio. È successo mentre scavalcava una finestra per cercare provviste e, dato che la ferita continua a sanguinare, ha attirato l’attenzione dei vaganti, che ne hanno sentito l’odore nonostante gli infiniti strati di sporcizia che la ricoprono. È braccata su un albero, dove ha trascorso immobile le ultime tre ore, mentre quattro vaganti la attendono con impazienza alla base del tronco. Sono a soli dieci miglia dalla fattoria. Se vuole davvero chiederle di unirsi a lei, deve farlo ora. Qualcuno deve pur insegnarle a difendersi, a prendersi cura di se stessa.
Forse io non ho bisogno di nessuno, ma lei sì.
Quella donna, in ogni caso, non sembra rendersene davvero conto. Anche se è bloccata su un albero con un braccio sanguinante, sembra ancora solo e semplicemente stanca. Ha trovato una posizione migliore tra il tronco e un lungo ramo, appoggiandosi su di esso. Ogni tanto, guarda giù per controllare se i vaganti siano ancora lì.
Sono solo quattro. Dovrebbe saperli gestire; tutti dovrebbero. Ma per qualche ragione lei non può.
Questa storia è durata abbastanza.
Nervosa, ma sicura che sia la cosa più giusta da fare, Beth si avvicina all’albero, ai vaganti e a quella donna. “We’ll meet again!”, comincia a cantare, alzando sempre di più la voce. “Don’t know where, don’t know when, but I know we’ll meet again, some sunny day!”
I vaganti cominciano, barcollando, a ritirarsi dall’albero per seguire la sua voce. La donna sul ramo si irrigidisce di colpo, ma non si gira a guardarla. Continua a focalizzare la sua attenzione sui vaganti.
Il più energico dei quattro è il primo a raggiungerla. Beth corre verso l’albero più vicino e usa il tronco come scudo per la maggior parte del suo corpo, mentre gli blocca un braccio. Sente le costole del vagante spezzarsi per lo sforzo prima di trafiggergli il cranio con il pugnale. Dev’essere morto di recente, perché le sue ossa sono dannatamente dure, tanto da richiedere il doppio dello sforzo per estrarre la lama. Nel frattempo, un altro l’ha raggiunta, ma lei continua a indietreggiare per affrontarlo separatamente dagli altri. È sempre più semplice avere a che fare con un vagante alla volta, quindi li fa gironzolare per il bosco finché non li abbatte tutti.
D’un tratto, però, si rende conto di essersi allontanata dalla donna più di quanto avesse voluto. Infatti, quando fa ritorno all’albero, il ramo è vuoto.
...È scappata, conclude, cercando di non sentirsi troppo delusa a riguardo.
In effetti, non è stata una reazione irrazionale, la sua. Ha fatto la stessa identica cosa anche lei, la prima volta che l’ha vista. Però, voleva farlo in quel momento ed evitare di seguirla ancora.
Le sue tracce sono diventate più selvagge. Deve aver corso. Per un miglio o poco più le sue orme sono distanti, a volte sovrapposte, come se si fosse voltata indietro a controllare una volta ogni dozzina di metri. In ogni caso, non ha mai cambiato direzione: continua ad andare verso la fattoria.
Con un cipiglio, dopo un po’ Beth nota che le impronte sono più vicine tra loro, ma ancora disordinate. Le sue gambe devono essere diventate più pesanti e goffe, portandola a perdere l’equilibrio. Infatti, una notevole crepa nel terreno le suggerisce che deve essere inciampata e caduta. Ci sono delle gocce di sangue.
Oh, no.
Le è sfuggito il pensiero che quella donna stava effettivamente perdendo troppo sangue e che era ancora troppo disidratata e malnutrita per correre così in fretta e così a lungo.
Il suono di alcune voci la induce a fermarsi, con un gemito, contro il tronco di un albero. Cautamente, fa qualche passo in avanti per dare un’occhiata finché non vede la donna distesa a terra una ventina di metri più in là. Intorno a lei ci sono tre uomini e, terribilmente a disagio, si sente come se avessero qualcosa di familiare.
Infatti ce l’hanno. Hanno solo l’abbigliamento sbagliato, perché dovrebbero essere in uniforme. Sono poliziotti.
Licari. Franco. Tanaka.
Quei nomi potrebbero averceli scritti persino sulla schiena, come una squadra di calcio.
Licari solleva con cura la donna e Beth sente il sangue scorrerle freddo nelle vene.
“Corri a chiamare il dottore, ok?”
Il dottor Edwards.
Beth conosce già il suo nome e si sente inquieta anche solo a sussurrarlo.
La porteranno all’ospedale e la faranno lavorare per loro.
“Sei in debito con noi.”

La memoria le riporta in mente quegli eventi, portandola a stringere con più forza sia la pistola che il pugnale.
“Io non vi devo proprio un cazzo.”
Nota subito che c’è qualcosa di strano. Al di là del fatto che non indossano le loro uniformi, le istruzioni che Licari ha dato a Tanaka avrebbero un senso solo se il dottor Edwards fosse nelle vicinanze e, almeno quando l’aveva conosciuto lei, quell’uomo non avrebbe mai lasciato l’ospedale.
Le persone cambiano. Io sono cambiata, si dice, ma sa che Edwards avrebbe lasciato l’ospedale solo se sotto costrizione. Ha ucciso delle persone per rimanere lì; se lui è per strada, allora probabilmente ce ne sono altri, forse tutti.
Per confermare i suoi sospetti e cercare di darsi delle risposte, Beth comincia a seguirli, ovviamente a debita distanza, mentre portano la donna al campo. Una volta arrivata, nota che la loro sistemazione sembra piuttosto permanente e che il dottor Edwards è lì, completamente fuori luogo con quel pugnale nello stivale e quella pistola attaccata alla cintura.
Prima di poter vedere altro, ritorna alla sua auto, senza sapere esattamente cosa pensare di tutta quella storia. Razionalmente, non può fare a meno di ammettere che il fatto che ci sia un dottore sia una cosa buona per quella donna, visti quel brutto taglio che ha sul braccio e tutta la sporcizia di cui è ricoperta, che potrebbe farla ammalare da un momento all’altro, ma che prezzo dovrà pagare per le loro cure?
Devo tornare alla fattoria e rimettermi in forze. Ora so dove sono e non sembra che stiano andando da qualche altra parte. Li terrò d’occhio. Se dovrò tirarla fuori da lì, la tirerò fuori da lì.
Ha abbastanza benzina per tornare a casa e pensare a un piano più solido.
Non voglio davvero ucciderli, ammette tranquillamente a se stessa, ma forse se lo meritano.

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Capitolo 6
*** Up the road ***


Up the road.

 

 

Ancora a un miglio di distanza dalla fattoria, Daryl rallenta e fa un cenno ad Aaron prima di fermarsi e spegnere il motore. Si volta a guardare la strada che si sono lasciati alle spalle: rispetto alle altre, sempre stracolme di auto arrugginite, corpi in decomposizione e ferite di battaglia, quella è libera. È semplicemente vuota e polverosa; una retta che svanisce nell’oscurità dell’orizzonte.
Tuttavia, vede una figura scura apparire sulla linea sfocata attraverso la quale il cielo si fonde con la strada. Si fa sempre più grande, per poi rallentare. È lontana, ma abbastanza vicina da permettergli di capire cos’è.
Forse quelli del Grady non sono così stupidi come sembrano.
Svita il tappo della sua borraccia e fa un lungo sorso mentre aspetta che Aaron scenda dalla sua auto, controlli i dintorni e lo raggiunga. Tiene anche lui gli occhi incollati su quella fetta di strada adombrata dal cielo, e sono illuminati da uno scorcio di consapevolezza. Deve averlo visto anche lui.
“Quando l’hai notato?”, gli chiede, con la voce ridotta a poco più di un sospiro.
“All’inizio è stata solo un’impressione, ma quando abbiamo attraversato quella serie di dossi mi è sembrato che fosse più vicino, perché ho sentito il rumore di un altro motore mischiarsi ai nostri”, risponde Daryl indicandogli la figura.
“Che hai intenzione di fare?” Aaron inarca vistosamente le sopracciglia mentre afferra la borraccia. Sembra preoccupato.
“Può essere che siano semplicemente prudenti, che vogliano solo vedere cosa stiamo combinando, o magari hanno un piano”, scrolla le spalle. “Avrebbero potuto dividerci, ucciderci e prendere tutto ciò che avevamo, ma poi gli hai detto che stiamo andando a fare rifornimento. Forse è quello che vogliono.”
“Che stavi dicendo sul fatto che potrebbero essere solo prudenti?” Aaron ha speranza, ma dietro alle sue iridi si nasconde una tempesta. Sta chiaramente considerando anche le opzioni peggiori.
“Ad ogni modo, dobbiamo saperlo con certezza. Se sono idioti, non ci servono; se sono prudenti, buono a sapersi.”
Daryl sta provando a formulare un piano nella sua mente, focalizzandosi sullo spazio che li circonda.
“Rassicurante”, dice Aaron.
“Sì. Avere qualcuno di intelligente fa la differenza. Certe stupide cazzate li faranno uccidere.”
“Peccato che di questi tempi tra le stupide cazzate rientri anche la fiducia nelle persone.”
Qualcuno li sta seguendo e probabilmente è qualcuno del Grady. Se il loro piano è rubare le loro provviste e ucciderli, è difficile averne la conferma prima che si presentino. Se invece stanno solo cercando di tenerli d’occhio perché non si fidano dei loro potenziali salvatori, allora sono più furbi di quanto pensasse. Non vuole rischiare di perdere la moto o qualsiasi altra cosa, ma, capendo quanto sia cruciale per loro sapere il motivo per cui li stanno seguendo, prende la sua decisione definitiva. Ordina ad Aaron di salire su un albero e di mettersi fuori dalla visuale di chiunque possa essere di passaggio, poi lascia delle tracce nel bosco, fino a una vecchia casa un quarto di miglio più avanti. Quando ritorna dove ha lasciato il suo compagno, cerca di cancellare al meglio le sue tracce prima di arrampicarsi su un albero di faggio.
Passa quasi un’ora prima che quel qualcuno si presenti. Con gli occhi attaccati alla strada, Daryl comincia a sentire il pesante rumore degli stivali sull’asfalto, quando una figura robusta si avvicina alla sua moto. Non riesce a sentire nessun altro al di fuori di lui.
Il rumore dei passi si fa sempre più forte, finché Licari non è proprio sotto di loro, accovacciato a terra a ispezionare le finte tracce che ha lasciato apposta per lui. Ha un coltello legato all’avambraccio e una pistola nella cintura dei pantaloni, ma almeno non è armato fino ai denti come loro e sembra sia venuto da solo.
Daryl incrocia lo sguardo di Aaron. Sembra che pensi che abbia buone intenzioni, ma non si muove dalla sua posizione. Il fatto che sembra che Licari sia venuto da solo e con poche armi non significa necessariamente che non sia venuto con l’intenzione di ucciderli. Magari ha lasciato qualcuno indietro ad aspettare, o magari è solo un arrogante bastardo che pensa di riuscire a sbrigarsela da solo.
Quando comincia a seguire le tracce e sparisce dalla loro vista, Daryl fa cenno ad Aaron di restare dov’è e comincia a scendere dall’albero il più silenziosamente possibile. Lo segue a debita distanza finché non vede la baracca. Sa bene che le orme conducono lì, ma non entra. Resta immobile ad osservarla per qualche minuto con uno sguardo teso. Sicuramente non ha l’atteggiamento di uno che vuole ucciderli.
Abbastanza soddisfatto, Daryl torna indietro. Per un attimo è a disagio quando trova l’albero di Aaron vuoto, ma alcune orme gli indicano dov’è andato, facendolo tornare a respirare tranquillamente. Infatti, Aaron è di nuovo in strada, tra l’auto e la moto, mentre gli indica il mezzo di Licari scuotendo la testa. È davvero solo.
Spalla a spalla, tornano dove l’hanno lasciato, con le armi alzate e pronte all’uso. È proprio dove Daryl l’ha visto l’ultima volta, accovacciato nella boscaglia ad osservare la baracca. Quando li sente arrivare, scatta in piedi e guarda con ferocia sia la canna del fucile di Aaron che la punta della balestra di Daryl. Non sembra sorpreso di non averli visti uscire dalla baracca. Più che altro, sembra in imbarazzo.
La sua faccia arrossata si contrae in un ringhio, ma non da nessuna spiegazione sulla sua presenza lì.
“Perché ci stavi seguendo, Licari?”, chiede Aaron, e Daryl non può fare a meno di pensare che abbia fatto bene a parlare per primo. Non riesce a immaginare se stesso mentre pone quella domanda senza dare l’impressione di volerlo uccidere con i denti, le frecce o le pallottole. La voce di Aaron, invece, è calma e indagatrice, come se stesse discutendo di qualche problema intellettuale.
“…Voi due sbucate fuori dal nulla”, Licari stringe il suo coltello con forza, anche se probabilmente sa che non può essergli utile in quelle condizioni, “tu soprattutto”, dice, inclinando la testa verso Daryl, “e vi aspettate che ci fidiamo di voi così facilmente?”
“No”, risponde Aaron, sempre con calma e tranquillità. Ancora una volta, Daryl pensa che sta dicendo tutto quello che anche lui vorrebbe dire, ma in modo migliore, senza far sembrare che voglia dare inizio a uno scontro. “Ci saremmo preoccupati di più se vi foste fidati di noi così presto.”
Le labbra di Licari si curvano leggermente, ma poi chiude gli occhi e comincia a parlare, sforzandosi in tutti i modi di addolcire i toni. “Noi vogliamo credervi, ma non vi conosciamo abbastanza.”
“Com’è giusto che sia”, Aaron annuisce. “Vieni con noi, facci delle domande e conosciamoci meglio, se è quello che ti serve per prendere una decisione.”
Licari sbuffa e per un secondo sembra che voglia ribattere. “Non riesci mai a conoscere una ragazza al primo appuntamento.”
“O ci hai seguiti per ucciderci, oppure perché vuoi scoprire qualcosa in più su di noi. Quale delle due opzioni è la verità?”, Aaron va dritto al punto e, ancora, la sua frase non sembra per niente minacciosa.
In tutta risposta, Licari inclina leggermente la testa, guarda il terreno e ripone il coltello al suo posto per poi alzare le mani.
Daryl abbassa la balestra e può sentire il suo compagno rilassarsi a sua volta. “Forza”, fa cenno a entrambi di seguirlo. “Se andiamo con una sola auto risparmieremo carburante”, aggiunge borbottando.
Dopo aver nascosto la moto di Daryl e l’auto di Aaron, salgono nel furgone di Licari e ripartono. Alla fine, è il veicolo che di fatto ha più spazio per contenere le provviste che dovranno recuperare.
Percorrono l’ultimo miglio verso la fattoria in un’atmosfera di pura tensione. Licari si asciuga continuamente il sudore dalla fronte con un certo fastidio, ma fuori non fa così caldo. A Daryl viene spontaneo chiedersi se sia stato da quelle parti con qualcun altro al di fuori dei suoi amici sbirri, dopo la fine del mondo.
“Cos’è successo al sesto membro del vostro gruppo?”
Aaron è seduto al posto del passeggero, così da poter osservare Licari mentre guida. Daryl, stravaccato sui sedili posteriori, è determinato a non proferire parola se non per dare indicazioni.
“Gira a sinistra”, mormora.
Licari li guarda entrambi e mette addirittura la freccia, cosa che fa inarcare di riflesso un sopracciglio a Daryl.
“L’abbiamo trovata ieri, nei boschi”, spiega, “non ha parlato con nessuno al di fuori del dottore. Sembra quasi che si conoscessero… da prima. Non sta bene. È ferita, ha un brutto taglio sul braccio e non ricorda l’ultima volta che ha fatto un pasto decente.”
A dispetto di se stesso, nell’ascoltare quelle parole, Daryl sente una stretta al cuore. Spera sia tutto vero. Spera che, nonostante tutti gli errori che hanno commesso, stiano provando ad essere brave persone. Tuttavia, nel formulare quel pensiero, si sente quasi in colpa.
Non possono essere nient’altro che mostri.
“Ha detto di chiamarsi Lily”, continua Licari, “e che qualcuno la stava seguendo, ma il dottore ha i suoi dubbi a riguardo. È stata qui fuori troppo a lungo, magari l’ha solo immaginato.”
“È alla fine della strada, non puoi sbagliare.” Daryl gli indica la direzione dal parabrezza, con la gola improvvisamente ristretta. Una parte di lui vuole ancora ucciderli tutti, ma fa un respiro profondo e si sforza di ricordare.
Lei diceva che ci sono ancora brave persone. Non dimenticarlo.
Fondamentalmente se ci ha mai creduto davvero è solo grazie a lei, ma è facile pensare a Licari e a quegli altri come cattive persone, come a una missione da compiere. Non avrebbero mai potuto essere le brave persone di cui parlava, non se sono stati la ragione per cui l’ha persa.
“Noah ci ha detto alcune cose su come funzionava l’ospedale”, dice senza rendersene davvero conto, prendendo atto che la rabbia in lui è riesplosa, spingendolo a superare il limite per cui doveva solo starsene seduto e dare indicazioni.
Licari impallidisce e lo guarda dallo specchietto retrovisore, mentre più avanti compare la fattoria dei Greene. Quella visione lo colpisce come un pugno, costringendolo a guardare altrove. È come rivedere un vecchio amico, ma mutilato e abbandonato a se stesso. Ormai è solo un’altra rovina a spezzare il paesaggio.
“...Il ragazzo ha avuto qualcosa da ridire su come funzionavano le cose al Grady”, ripete, ma in realtà Noah non ha mai amato parlarne. Ha solo raccontato qualcosa sul suo anno trascorso a fare da schiavo a Dawn e al suo distretto post-apocalittico, ma Daryl può immaginarlo. Prendevano le persone più deboli e si facevano servire, usandole. Davano loro un tetto sulla testa e del cibo, ma solo perché si legassero a loro. Era un sistema malato.
“Non è così ad Alexandria.”
“Le cose sono diverse ora”, risponde Licari con una certa calma. Quelle parole hanno assunto una qualità atona, ma Daryl riesce comunque a percepire un’esausta sincerità. “Lo sono da molto tempo.”
“Lo spero per voi”, mormora.
Giunto alla fine del sentiero, il furgone si ferma.
“È così”, ribatte Licari con fermezza. “Le cose non erano a posto prima, ma con la fuga di Noah e con quello che è successo a Beth...”
Non parlare di lei”, taglia corto Daryl con un ringhio, aprendo velocemente la portiera e schizzando fuori con la mascella contratta e i pugni stretti.
Si allontana di qualche metro e cerca di calmarsi, respirando più profondamente. L’aria che tira lì intorno è familiare, così come il profumo e tutta una serie di sensazioni che iniziano a crollargli addosso. È stato lì che ha cominciato a sentirsi bene per davvero. A volte pensa a quando Rick si è presentato al gruppo, a quando la fine del mondo non era ancora la fine di Daryl Dixon. Rick stava facendo i suoi primi passi da leader, ancora in lutto per il definitivo collasso della civiltà, della legge e dell’ordine. Lui tutte quelle cose non le aveva mai avute e quindi la vita non era poi così diversa, o almeno non lo è stata fino alla morte di Merle. Là, per un po’, la vita è collassata anche per lui.
Non era mai stato uno a posto. Fino al suo arrivo alla fattoria, aveva vissuto solo un disastro dopo l’altro, altri pugni nello stomaco da quando era nato. Alla fattoria Greene aveva trovato uno scopo; prima ritrovare Sophia, poi aiutare il gruppo a ritrovare se stesso. All’epoca, il fatto che qualcuno avesse bisogno di lui era un’esperienza del tutto nuova. Infatti, nella sua intera esistenza, mai nessuno ne aveva avuto bisogno e per qualche giorno quella fattoria aveva cambiato le cose.
Poi, ovviamente, è andato tutto a puttane.
La casa è così sfiancata e solitaria mentre lo osserva attraverso le sue finestre rotte, con il portico mangiucchiato dalle termiti. Deve distogliere lo sguardo almeno per un attimo, almeno per ricomporsi. Poi, la guarda ancora. Anche Aaron e Licari l’hanno vista, infatti avanzano nella sua direzione.
C’è una fossa enorme scavata nel prato. Daryl non sa esattamente se sia davvero una tomba, ma c’è qualcosa che gli dice che ci sono delle ossa lì dentro, probabilmente un mucchio di ossa. La terra è rovinata e ammucchiata su se stessa, costellata da una serie di grosse pietre. È passato un bel po’ di tempo da quando è stata scavata, è chiaro. Una serie di erbacce risalgono verso l’esterno.
“È una specie di fossa comune?”, Aaron guarda Daryl come se si aspettasse che lo sappia.
“Prima non c’era”, ammette lui, continuando ad osservare il prato.
L’ultima volta che è stato lì, una mandria di vaganti gattonava avanti e indietro, a destra e a sinistra. Ci dovrebbero essere delle ossa sparse sul terreno, ma niente. Qualcuno ha ripulito tutto.
Non importa. È morta.
“Invece importa.”

Deglutendo, Daryl si allontana dalla tomba e raggiunge il portico logoro, avanzando fino alla porta d’ingresso. È chiusa e su di essa, nonostante sia coperto dall’ombra, c’è un messaggio:

-HO UNA BRUTTA FERITA ALLA TESTA
SONO SOLO
(*)
POTREI MORIRE DA UN GIORNO ALL’ALTRO
OGNI NOTTE LEGO IL MIO BRACCIO AL LETTO
NEL CASO MI TRASFORMASSI
NON LASCIATE CHE FACCIA DEL MALE A QUALCUNO-

Daryl fissa quella strana richiesta incantandosi per quasi un intero minuto, il tempo che gli altri due lo raggiungano. Non sa esattamente come si sente al pensiero che qualcun altro sia stato e abbia vissuto lì dopo che loro se ne sono andati. Ha senso, perché rispetto ad altri quel posto è quasi intatto, bello e fuori mano, ma chiunque sia stato quello sconosciuto, non prova comunque una bella sensazione a riguardo.
Al di là di questo, non può fare a meno di porsi alcune domande più pratiche: se avesse consumato tutte le provviste? Se fossero spariti tutti i vestiti per bambini e altre cose simili? Se gli album di famiglia si fossero bruciati?
Aaron lo supera e bussa rumorosamente alla porta, ma non ricevono nessuna risposta, né da un umano, né da un vagante. Aspettano abbastanza da capire che all’interno non c’è nessuna mandria pronta ad assalirli, finché Daryl non apre la porta. Controllano le stanze, ma non sembra ci sia alcun essere, morto o vivente. Aaron nota che le lenzuola al piano di sopra sono disfatte, ma non polverose. Qualcuno ci ha dormito di recente, ma non c’è altro segno.
“Se è rimasto qualcosa, il cibo dovrebbe essere nel seminterrato”, brontola Dary.
“Licari, vieni con me”, dice allora Aaron, dividendoli.
Non gli piace molto l’idea che Aaron resti da solo con lui, ma non è stupido, ci avrà già pensato. L’unica cosa che può fare a questo punto è drizzare le orecchie, nel caso si fossero sbagliati su quell’uomo.
Comunque, aveva bisogno di un momento per stare da solo.
Nel soggiorno c’è un album di foto sul tavolino, completamente ricoperto di polvere. Magari lo sconosciuto deve averlo preso per curiosità senza mai rimetterlo al suo posto, prima di morire per quella brutta ferita alla testa. Sfoglia velocemente le foto dei bambini, ma poi decide di poter fare la cosa giusta prendendone alcune. Maggie le vorrà, pensa, chiedendosi se possa essere davvero così.
Maggie vuole sopravvivere e a volte sembra che non sappia come farlo se non guardando avanti. Sempre al futuro, mai al passato. Eppure, prende una foto in cui è con suo padre e suo fratello fuori allo stagno delle anatre, e poi un’altra di un suo compleanno, dove abbraccia la sua matrigna e tutti sembrano felici.
Beth sembra così piccola in quelle foto, così diversa dalla donna che ricorda. Ne è solo un piccolo pezzetto; un grande paio di occhi blu con delle treccine bionde che culminano in dei riccioli scomposti. Sorride in tutte le foto e rivedere quel sorriso gli scalda il cuore, mentre pensa a come deve essere stata la sua vita prima dell’apocalisse.
Il suo mondo è sempre stato una merda, ma quello di Beth dev’essere stato molto dolce, almeno per un po’. Aveva una famiglia che la amava, degli amici, dei cavalli, un mondo sconfinato di possibilità, tanto da mangiare e un posto caldo dove riposare quand’era stanca. Niente di brutto sarebbe potuto accaderle.
Alla fine dell’album trova finalmente delle foto più recenti, ma ancora non gli sembra la stessa. Era cambiata molto in quegli anni, dopo la loro fuga alla fattoria. La ragazza delle foto viveva ancora in un mondo dove i morti erano morti, dove suo padre era ancora in vita e non esistevano proiettili con il suo nome scritto sopra. Daryl non riesce comunque a ricordare quant’era bella. Non riesce a costruirla, così come non riesce a immaginare quel lampo di vitalità che aveva negli occhi. La sua bocca si curva verso l’alto e, sforzando la memoria, può a malapena rivedere la sua figura, finché non gli si sfoca la vista e comincia ad imprecare.
Non smetterà mai di fare male.
Perdere suo fratello è stato come essere investiti da un camion. Può ancora ricordarlo, ma ha imparato a superarlo, a metterlo da parte. Così come ha fatto con Hershel. Anche in quel caso ha fatto fottutamente male, ma sforzandosi è riuscito a lasciarli andare.
Ma Beth. Qualcosa, nel perderla, è stato diverso. Non fa solo male, brucia. Vederla cadere ha scavato un buco nel suo petto che è ancora pulsante. A volte pensa che ha fatto più male di qualsiasi altra cosa e forse è stato davvero così, o forse la sua memoria non è abbastanza ferrata, ma se una cosa è certa, è che non passerà.
Non può metterla da parte, non può lasciarla andare.
Mette insieme altre foto della famiglia Greene e le infila nella sacca che avrebbe consegnato a Maggie quando sarebbe tornato. Sceglie, tra le ultime pagine, la foto di Beth che terrà per sé: è in piedi in cortile, contro il tronco di un frassino bianco. Sorride proprio nella sua direzione, con gli occhi di chi ha una bella vita che la aspetta.

 

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“Non lotterò più.”
Beth parla col suo riflesso nello specchio rotto del bagno, mentre cerca di formulare un piano.
“Non voglio. Voglio ricordare.”
In parte è una bugia. Da quando ha scoperto quello che è successo a Shawn e ai suoi genitori, ha sempre avuto paura di andare a fondo, paura che i ricordi la investissero in un altro momento vulnerabile.
E la bambina?
Se avesse dovuto assistere alla morte della piccola Judith senza poter fare niente?
E che mi dici di Daryl?
Se fosse stato fatto a pezzi davanti a lei, come Patricia?
Se fosse stata troppo debole per riuscire a salvare tutti loro?
Beth stringe la presa agli angoli del lavandino, mordendosi le labbra con più forza del dovuto mentre assottiglia gli occhi, ancora incollati a quella figura riflessa nel vetro rotto e sporco. Sibila un respiro ansioso e indietreggia, mollando la presa. Su quel mobile è cresciuto uno spesso strato di polvere. Nel mese in cui è stata via, la pioggia e il vento hanno portato ancora più sporcizia in casa.
Non ricorda molto del Grady e non vuole neanche farlo. Tuttavia, sente che questa cosa potrebbe fare la differenza. Pian piano, nei mesi che hanno seguito il suo risveglio, ha ricordato alcune cose, ma la maggior parte sono “ritornate” nei giorni immediatamente successivi. Certe volte, pensa che potrebbe aver perso per sempre il resto dei ricordi; altre, spera che tornino.
Ma prima di compiere questo passo, prima di rivolgere la parola a quelli del Grady, deve ricordarsi il più possibile su di loro, se può. Non vuole stabilirsi lì, anche se è stata casa sua. Ha messo a posto le ossa nel cortile, perché qualcuno avrebbe dovuto metterle a riposare; ha riordinato quel tanto che bastava per non vivere come un animale e il suo unico tentativo di riparazione è stato quello della porta d’ingresso. Non è di certo in grado di aggiustare il tetto o le finestre, o di abbattere il fienile, ma anche se si mettesse a lavoro, ciò significherebbe restare lì, da sola.
Non devi per forza essere sola.
La donna che ha seguito per giorni non è una predatrice. Non è pericolosa, e non lo è neanche in senso positivo. I poliziotti, tra l’altro, sembrano essere cambiati. Sembrava che volessero aiutarla sul serio, che fosse un atto genuino, il loro. O almeno, questo è quello che spera che sia successo. È molto più probabile che l’abbiano presa per abusare della sua presenza come hanno sempre fatto, ma vuole dar loro il beneficio del dubbio.
E se poi, osservandoli, si rivelassero delle brave persone? Che dovrei fare? Unirmi a loro, invitarli alla fattoria?
Non è un’idea così folle, ma il solo pensiero la fa star male. Non solo per le persone che hanno dimostrato di essere quando li ha conosciuti, ma anche perché agire in quel modo significherebbe arrendersi. Ha cercato la sua famiglia per tutto questo tempo e non ne ha trovato traccia, fatta eccezione per un messaggio da parte di sua sorella che non era neanche per lei. Magari, se all’inizio si fosse unita a Wanda e Hiatt, non sarebbe stato così male, ma dopo mesi passati in solitudine a cercarli, unirsi a qualcun altro significherebbe smettere di farlo.
Non posso fingere di non aver visto quelli del Grady.
Se sono brave persone potrei unirmi a loro, ma non so se voglio farlo davvero.
Se non sono brave persone dovrei ucciderli, ma non so se voglio farlo davvero.

Grattandosi la fronte, Beth si mette a letto e lega il polso alla spalliera. Ormai è un’abitudine, anche se giorno dopo giorno diventa sempre più sicura che quando chiude gli occhi li riaprirà la mattina dopo.
Non c’è fretta, si dice, ma i pensieri sulla gente del Grady e su quella donna continuano a tormentarla, volendole impedire di fare sogni tranquilli. Eppure, ci vorrà qualche giorno prima che quella donna possa essere in condizioni da andare da qualsiasi parte e l’accampamento le è sembrato quasi una cosa stabile. Può prendersi un giorno per riposare prima di cominciare ad osservarli, non corre un rischio chissà quanto grande. Le serve un giorno per dormire, pensare, ricordare.
Ha della carne di cervo nello zaino e un paio di bottiglie d’acqua che ha riempito nel pozzo più vicino. Si è rintanata nella sua stanza, l’unica in tutta la casa ad avere ancora le finestre intatte, anche se lo specchio in bagno è rotto. Non c’è niente che le impedisce di restare raggomitolata a letto tutto il giorno. A un certo punto, però, sente un fastidioso pizzico alla vescica che la costringe ad alzarsi.
Si infila gli stivali, prende lo zaino e la pistola ed esce dall’abitazione. Non esce mai di casa senza aver sistemato tutte le sue provviste. Non può sapere se sarà costretta a fuggire. Imbocca un sentiero tra gli alberi, lo stesso dove ha nascosto la sua auto, e si accovaccia a terra.
La fattoria è silenziosa e isolata. Uno degli errori che avevano commesso è stato quello di sentirsi al sicuro. Non si erano mai imbattuti in una mandria di quella portata, né potevano immaginare che la perdita di ogni cosa potesse avere effetti perversi su certe persone.
Controlla che la sua macchina sia il più possibile fuori dalla vista di chiunque, accertandosi di averla nascosta proprio come voleva, e ritorna nella sua stanza.
Si sta sfilando di nuovo gli stivali quando lo sente arrivare, il rumore del motore di un furgone in lontananza. È sempre più vicino, cresce a ritmo costante, ed è diretto proprio verso di lei.
Si rimette le scarpe e corre alla finestra. Con un groppo in gola, può ben vedere che quel furgone si sta avvicinando fin troppo velocemente. Non farebbe mai in tempo ad andarsene prima del suo arrivo, sarà costretta a uscire dal retro.
Con lo zaino in spalla e la pistola tra le mani, si fionda giù per le scale a passi leggeri, proprio mentre sente il veicolo parcheggiare fuori casa sua. Mentre dei passi pesanti fanno scricchiolare i gradini del portico, Beth raggiunge il retro, cercando di mantenere i suoi movimenti silenziosi, ed esce.
Una volta fuori, resta incollata alle mura laterali della casa. Non vuole rischiare che possano vederla mettendosi a correre davanti all’entrata principale. Non riesce ad avere una visuale del furgone abbastanza buona per capire quante persone ci siano dentro. In punta di piedi, prosegue da quel lato contenendo il più possibile l’affanno del suo respiro. Non sembra che siano già entrati in casa.
Il suo cuore accelera quando non li sente più. O sono rimasti fermi per qualche particolare circostanza, o si sono accorti della sua presenza e stanno aspettando il momento giusto per assalirla. All’improvviso, un forte BANG BANG proveniente dalla porta d’ingresso la fa sobbalzare. Si ammutoliscono di nuovo e, sentendosi ancora più ansiosa, si sporge quel tanto che basta per vedere che si tratta di tre uomini adulti, per poi ritornare velocemente al suo posto. Li ha guardati a malapena, ma ha visto abbastanza per essere ancora più nervosa. Ha notato un uomo vestito di nero entrare in casa per primo, in gran parte coperto dall’ombra. Gli altri due sono rimasti indietro a guardargli le spalle. Ce n’è uno che ha visto con meno chiarezza degli altri, perché oscurato dall’imponente figura muscolosa che è quasi sicura appartenga a Licari.
Da quanto sia riuscita a capire, non c’è nessuno ad aspettarli nel furgone. Sono solo in tre. Poteva andarle peggio, ma la situazione è comunque talmente pessima da farle scoppiare il cuore. Tre vaganti sono un gioco da ragazzi, ma potrebbe dire lo stesso di tre uomini cresciuti e armati fino ai denti, soprattutto se uno di loro non ha sicuramente un bel ricordo di lei? Non deve neanche pensarci.
Per percorrere la strada più breve per raggiungere l’auto, dovrebbe passare davanti al furgone. Se hanno qualcun altro nei paraggi, è meglio non rischiare di farsi vedere. Meglio fare più strada ed essere invisibili.
Mentre quei tre uomini entrano in casa e iniziano a perquisirla, Beth inizia lentamente a ripercorrere i passi con cui è venuta. Non devono essere necessariamente pericolosi. Magari cercano solo scorte, magari un rifugio. Forse non avrebbero alcuna intenzione di ferirla, ma non può metterci la mano sul fuoco. Cercando di essere il più possibile come un fantasma, ritorna sul retro della casa.
“Pesche sciroppate.”
Sente quella che è sicuramente la voce di Licari e le prende quasi un infarto per quanto è vicina. Abbassando lo sguardo, realizza di essere quasi entrata nella visuale della finestra del seminterrato. Voltandosi, osserva che ce n’è un’altra. È praticamente in trappola: non può andare in nessuna direzione senza che loro la vedano.
Stringendo i denti, poggia la schiena al muro e si siede a terra, con la pistola pronta per ogni evenienza.
Beh, sempre meglio di niente”, dice un’altra voce.
Quando ci avete detto che avevate un posto dove fare rifornimento...”, Licari non finisce la frase, ma non sta accusando il suo interlocutore. Più che altro, sembra che voglia porgli una domanda.
“In realtà, è più una specie di pellegrinaggio personale”, risponde l’altro. Ha una voce più mite e calma rispetto a quella di Licari, che lei ricorda per la sua sfacciataggine.
“È per questo che il tuo amico ha bisogno di stare da solo?”
La voce più gentile aspetta qualche minuto prima di rispondere, in cui l’aria fritta viene riempita solo dal rumore del cibo che viene infilato nei loro zaini.
L’ho seguito per settimane prima di parlare col suo gruppo.” Smette di riempire la sua sacca e, prima di continuare, sospira. “Non mi sono avvicinato prima di essere certo di potermi fidare di loro così come sono certo che cala la notte alla fine di ogni giorno. Non ho avuto la stessa sensazione nei confronti di nessuno di voi. Siamo qui adesso solo perché lui ha garantito per voi, nonostante quello che gli avete tolto. Non dimenticarlo.
Non intendevo mancargli di rispetto… però devi capire che siamo stati guidati da tre persone diverse, ed erano tutte e tre fuori di testa. Non mi piace che chi mi guarda le spalle abbia perso ogni tipo di lucidità. Lui può fare tutti i pellegrinaggi personali che vuole...”, la voce di Licari diventa più chiara mentre si avvicina alla finestra, e Beth si rannicchia ancora di più contro il muro, “...ma io devo pensare ai miei. Se ci unissimo a voi, avrei bisogno di sapere se ci state portando in un’altra città folle. Sei sicuro che stia bene? Sei sicuro che sia stabile?”
È normale che sia instabile.” L’altro uomo, sempre con calma, pronuncia quelle parole con una compassione che Beth non si aspettava di sentire. “Tutti lo siamo. Ora è così che vanno le cose.”
“...Riesce a controllarlo?”
“Forse lui è la persona più brava a gestire la sua instabilità che sia rimasta sulla faccia della terra.” Il suo tono sembra essersi alleggerito, ma è solo un attimo, perché poi ricomincia a dire cose di un certo spessore. “Non aprire mai l’argomento. Lui non ne parla, non è pronto. Fallo presente anche al tuo gruppo.
“Sì, va bene...”, taglia corto Licari, pensieroso. “Sai, al tempo ci avevo pensato, a cosa lei aveva potuto significare per lui.”
Dopo quelle parole, il silenzio ritorna ad essere il sovrano indiscusso. Beth lascia che brevi respiri entrino ed escano dal suo corpo, cercando di non girare la testa verso una delle finestre per non farsi sentire da Licari, ormai a pochi centimetri da lei.
“Probabilmente, significava ogni cosa.”
Per un’altra serie di minuti, continua a sentirli maneggiare le scorte di cibo.
Andiamo”, dice Licari, “controlliamo le camere da letto al piano di sopra. Mi pare di aver visto dei vestiti.”
Non appena il rumore dei loro passi svanisce dal seminterrato, è libera di muoversi, ma non ha più così tanta fretta di andarsene. Licari e il resto della gente del Grady stanno pensando di unirsi a qualcun altro. Se riuscissero davvero ad andare avanti, ad aiutare le persone, ad aiutarle sul serio, perché non avrebbe dovuto dar loro una possibilità?
Si ferma di nuovo davanti alla porta del retro, ma non prosegue. Chiude gli occhi, cerca di ricordare com’erano le cose al Grady, ma ricorda di aver provato solo rabbia e paura nei confronti di quelle persone. Ricorda che alcuni uomini erano soliti abusare delle donne, dal momento che erano praticamente le loro schiave. I peggiori erano Gorman e O’Donnel, ma fortunatamente sono morti, tutti e due per mano sua. Non ricorda di aver mai saputo qualcosa su Licari. Non l’aveva mai trattata male, ma non avevano neanche mai interagito davvero, né aveva fatto niente per frenare tutta quella situazione.
Non sembra neanche quasi più lo stesso gruppo. Lui non ha parlato di loro come Beth immaginava che avrebbe fatto quando erano ancora lì. Magari sta esagerando, magari non c’è un secondo fine dietro la preoccupazione per la sua gente e dietro gli aiuti offerti a quella donna. Può essere.
O forse no.
I pensieri continuano a gravarle in petto, scavando come un pugnale. Licari potrebbe essere a posto, la gente del Grady potrebbe essere cambiata.
L’uomo dalla voce calma sembra a sua volta a posto, oltre che molto fiducioso nel suo amico vestito di nero con la testa chinata, intrappolato nella penombra della casa.
Voglio la mia gente.
Beth si fa scappare un gemito, ma si copre subito la bocca. Odia stare da sola, ma anche se quei tizi non le sembrano così malvagi, non sono la sua famiglia. Non sono Daryl.
Il cuore palpita dolorosamente sotto le sue costole. È sicura di non essere mai stata felice al Grady. L’ultima volta che è stata felice… è stata quando era con lui, ne è sicura. È sicura che lui sia stato l’ultimo frammento di felicità che ha perso.
Osservando il bosco, pensa di voler scappare, pensa di voler andare il più lontano possibile da quelle persone e continuare a cercare per il mondo ciò che ha perso.
Va’ via da lì e non voltarti.
Espira profondamente, sentendosi come se avesse pianto per ore, anche se i suoi occhi non sono per niente umidi. Quasi senza rendersi conto di quello che sta facendo, si volta a osservare la casa dalla finestra, per gettare un’ultima occhiata alla sua infanzia prima di abbandonarla definitivamente.
Mi dispiace tanto.
Non può fidarsi di loro, non riesce a immaginare di stare con qualcun altro. Non vuole stare da sola, ma lo è stata fino a quel momento e non le ha creato poi così tanti problemi. Almeno è sicuro.
Decisa su come agire, Beth osserva il paesaggio alle sue spalle dal riflesso della finestra, accertandosi che la strada sia libera per quando dovrà scappare. Il vetro è rotto, così si alza in piedi per affacciarsi nel corridoio che porta al soggiorno.
In piedi, illuminato dalla luce che entra dalla finestra rotta, vede finalmente il terzo uomo.
Le da le spalle e tiene la testa bassa; cucite sulla sua schiena ci sono due figure che ricorda nei minimi dettagli.
Sono le ali che pensava di aver perso.

 

∂∂∂∂∂∂∂∂∂∂∂∂



Daryl lascia andare Licari e Aaron giù per le scale senza di lui, mormorando qualcosa sulla necessità di tenere d’occhio l’ingresso affinché nessuno arrivi a loro insaputa. Non è davvero necessario, ma almeno gli permette di avere qualche minuto in più per smettere di digrignare i denti e per abbassare la testa, in attesa di sbollire la rabbia.
Tornare lì sarebbe dovuto essere come ri-spezzare un osso guarito male, o almeno questo è quello che ha pensato fino a qualche ora fa. Ora che è lì, non ne è più così sicuro. La ferita infatti non guarisce; sono passati otto mesi e continua a sanguinare in un flusso costante.
Non ha neanche bisogno di chiedersi il perché. Ha trascorso varie notti insonni a pensare a cosa avrebbe potuto fare di diverso, a come sarebbero ora le cose se fosse ancora viva, se avesse impedito che la prendessero e che la uccidessero, ma non è mai stato bravo con quella roba, su ogni fronte. Tuttora, a distanza di tempo, non riesce a capire cosa esattamente abbia provato per lei. Quando erano insieme, non sapeva ancora come prendere quelle sensazioni e trasformarle in qualcosa di umano, qualcosa che lei potesse capire. E anche se fosse riuscito a comprenderle, non avrebbe mai potuto andare fino in fondo, perché sa di fare schifo con queste cose. Daryl non è esattamente un tipo che guarda al futuro, ma è stata lei a farglielo fare per la prima volta e lo sta ancora facendo. Ha fatto sì che riuscisse a sperare di nuovo, che immaginasse di poter raggiungere un posto migliore, un giorno, e di viverci addirittura. Con lei.
Ha messo via quella foto troppo in fretta. Non ha ancora finito di guardarla.
Tirandola fuori dalla tasca, esita per un secondo mentre sfiora la carta spessa, per poi incontrare subito i suoi occhi. Ora le sue mani sono più ferme, ma il cuore gli trema ancora.
Daryl!”
Lo ha sentito per davvero, ma è impossibile. Per un attimo, mentre gira la testa per controllare da dove provenga quel richiamo, pensa di essersi definitivamente giocato il cervello.
È stata Beth Greene a chiamarti. Ha bisogno di te.
L’aveva chiamato molte volte, in passato, per ricevere il suo aiuto. Altre volte lo faceva a bassa voce, con una piccola risata sulle labbra.
Quella voce ha continuato a ripetere il suo nome nei suoi sogni, ma adesso, nella sua testa, sembra così reale, proprio come la ricordava.
“DARYL DIXON!”
Quando la sente per la seconda volta, un ronzio gli infesta le orecchie e il cervello. Si volta di scatto giusto in tempo per vederla fare il suo ingresso dalla porta del retro, ed è proprio la ragazza che ha perso. Ha gli occhi lucidi come cocci di vetro.
Non riesce a pensare a nessuna motivazione plausibile per tutto ciò. Non riesce a pensare a nulla al di fuori del fatto che casa sua dev’essere infestata dal suo fantasma, o che magari Licari sia sbucato fuori all’improvviso per ficcargli la lama del pugnale nel cranio e adesso lei sia lì per condurlo a miglior vita.
Entrambe le ipotesi gli attraversano la testa come flash solo dopo la sua reazione, solo dopo aver assecondato il suo più profondo desiderio. Non gli importa se sia reale o meno, perché vuole renderlo tale finché può. Infatti, accorcia le distanze tra lui e quell’angelo, finendole addosso.
Le ginocchia cedono sotto il suo peso, trascinandola giù con lui. Il suo corpo è caldo, reale. Quando gli circonda le spalle con le braccia, sembra quasi che stia peggio di lui, che tremi mentre fa pressione sulla sua schiena, stringendo l’abbraccio. Ha gli occhi coperti dalle sue ciocche bionde; preme le labbra contro la curva della sua spalla così morbida e profumata, proprio come lei, proprio come ricordava. Affonda le dita ruvide tra i cuoi capelli; ha il fiato corto e per qualche istante non vuole staccarsi dalla sua pelle, neanche per guardarla di nuovo. Può sentirla singhiozzare a sua volta e stringersi a lui quasi con la sua stessa forza.
Sente i battiti del suo stesso cuore rimbombare attraverso i loro corpi, per poi concentrarsi sui suoi e capire cosa significano davvero, perché era da tanto ormai che pensava che fossero fermi. Ora, invece, vanno a ritmo con i suoi mentre gli riversa addosso il suo respiro veloce e spezzato. Le lacrime cadono; è viva.
È la stessa ragazza, la stessa anima che credeva di aver perso, in carne ed ossa. Mentre si attorciglia contro il suo corpo, sente ogni parte di lei, in quel momento, tutta per sé.

 

∂∂∂∂∂∂∂∂∂∂∂∂



Ha passato così tanti mesi a pensare a come sarebbe stato rivederlo, a chiedersi se fosse cambiato.
Ora quel momento è finalmente arrivato e non pensa neanche che non era così che aveva immaginato di rincontrarlo. Non ne ha il tempo, perché i suoi piedi stanno già correndo, impazienti di raggiungerlo.
Quando l’ha riconosciuto, ha perso ogni tipo di controllo su se stessa. L’ha chiamato per nome e quello che prima era un gemito ora si è trasformato in un grido mentre entra in casa per ricongiungersi con lui.
Se fosse stata più lucida, avrebbe certamente considerato i rischi di sorprendere un uomo alle spalle, così all’improvviso, ma ora come ora non le importa, così come non le sarebbe importato anche se avesse avuto qualche minuto in più per pensarci, anche se avesse potuto sforzarsi psicologicamente e fermarsi, prendendo coscienza della situazione anche solo per un singolo battito.
È diverso. Ha i capelli più lunghi e disordinati di quanto ricorda che siano mai stati, e persino il modo in cui si trattiene le sembra più teso. La rigidità che gli percorre la schiena, le braccia e il collo lo fa sembrare una statua. Si sente schiacciata dall’espressione che indossa, aggravata dal suo sguardo, anch’esso improvvisamente così rigido. Quando però incrocia finalmente quei suoi tristi occhi blu, si sente come se stesse facendo il suo primo vero respiro dopo mesi.
A quel punto, Daryl si fionda su di lei, facendola inciampare sulle ginocchia mentre cade sul pavimento con un tonfo. Così, inginocchiata su di lui, l’unico motivo per cui non è andata a sbattere contro il muro è il modo in cui la tiene stretta a sé.
Assaporando questa nuova aria nei polmoni, Beth lo sente respirare contro la sua spalla, mentre le cinge i fianchi con le braccia.
La stringe con così tanta fermezza che è quasi doloroso, come se volesse farle sentire il più possibile quanto abbia sentito la sua mancanza. Il cuore sta quasi per scoppiarle in petto quando le accarezza i capelli con le dita e si distacca lentamente: a meno che la sua mente lesionata non sia degenerata a tal punto da farle avere allucinazioni così vivide e perfette, è davvero lui, proprio come lo ricordava. Lo trattiene ancora, lasciando che si chiuda intorno a lei e che continui ad accarezzarla.
Terrorizzata che possa dissolversi nel nulla, strofina i palmi contro le sue spalle e la sua schiena, scendendo lungo le braccia. Lui indietreggia leggermente, lasciando che le sue dita, con una delicatezza inaspettata e disperata, percorrano il suo collo e disegnino col pollice delle linee immaginarie sulla sua guancia, fino a raggiungere la fronte, dove Dawn l’ha marchiata. Ha gli occhi spalancati e ancora vitrei di lacrime; la bocca è leggermente schiusa, ma non riesce a dire nulla.
Con improvvisa rapidità, fa scivolare la mano sulla punta delle sue labbra, per poi lasciarla cadere giù, mentre un brivido le pizzica il collo.
“Sei tornato a casa”, gli sussurra, buttandogli i capelli indietro per poter guardare meglio i suoi occhi. Se potesse, li berrebbe come se fosse l’unica riserva d’acqua rimasta nel deserto.
Tutto il suo corpo si rilassa contro di lei e si lascia scappare un sospiro. Chiude gli occhi e preme la fronte contro la sua.
“Sì, sono a casa.”

 

 

(*) In inglese gli aggettivi non hanno genere, quindi Daryl naturalmente non riesce a capire se chi ha scritto il messaggio sia maschio o femmina. Per immedesimarmi in lui, allora, l’ho tradotto col maschile.


Nota traduttrice: Mi scuso immensamente per il ritardo, ma è un periodo un po' frenetico e il tempo è sempre più ristretto.
Spero che il capitolo vi piaccia e che non mi abbiate maledetta troppo!

 

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Capitolo 7
*** A place to start. ***


A place to start.

 

E se il mondo ci avesse semplicemente lasciati qui, da soli?
Daryl non riesce ancora a mettere insieme le parole, a dar voce a quel milione di domande che ha da farle. Per il momento, però, non gli importa.
Sono impazzito? Me ne farò una ragione.
Com’è possibile? A chi diavolo importa.
Dov’è stata fino a questo momento? Lei è qui, adesso.
Sono morto? Ok.

Tutte queste domande sono seppellite dallo stupore. Se fosse per lui, potrebbe continuare a starsene lì a toccarle il viso un altro migliaio di volte, sentirne ogni centimetro, non dire mai una parola, apprezzare ogni sua cellula.
Potrebbe anche non chiedere mai.
Lei piange ancora, ma sono lacrime di gioia. I suoi occhi blu brillano nella luce dorata filtrata dalle finestre rotte. Schiude la bocca come se volesse dire qualcosa, ma tutto ciò che ne viene fuori è qualche singhiozzo soffocato e un accenno di risata mentre nasconde il volto nella sua spalla. Fa scorrere i capelli tra i suoi palmi, raccogliendoli nella parte posteriore della sua testa. Tocca con le punte delle dita la sua pelle nuda, sfiorando il foro d’uscita.
Porca puttana.
È lì che realizza il primo fatto concreto e tutta quell’euforia si spezza, lasciando spazio alla profondità di tutto ciò che è successo e aggiungendo al suo sollievo un pizzico di dolore. Non è mai morta. L’ha pianta per otto mesi, pensando di averla persa, ma era solo ferita. È persino guarita. E lui l’ha lasciata in un bagagliaio.
“Questo è fottutamente impossibile.”
Come se avesse avvertito una frustata sulla spalla, Daryl si volta di scatto, stringendola con una presa sicura sotto il suo braccio e cingendole i fianchi. Aaron e Licari devono averli sentiti. Del resto, come non avrebbero potuto? Non sono stati esattamente silenziosi. Certo, non hanno parlato, ma hanno pianto e devono averla sentita gridare il suo nome.
I due uomini sono in piedi sul ciglio del corridoio, con delle espressioni di totale incredulità sui loro volti. È stato Licari a parlare, ed ora è a bocca aperta, la stretta sul pugnale allentata. Aaron, invece, è il primo a tornare in sé. Gli angoli della bocca si curvano lentamente in un sorriso mentre sembra realizzare quello che è davvero successo.
“Tu devi essere Beth, giusto? Sei… la sorella di Maggie?”, domanda, mettendosi davanti a Licari, che d’altra parte sembra quasi sul punto di sbattere a terra e morire sul colpo.
“Maggie sta bene?”
La sua voce è venuta fuori con un forte tremore e Daryl sente un’altra ondata di sollievo schiantarglisi contro quando lo stringe più forte, sistemandosi nella curva del suo corpo. Non riesce a crederci. Non ha più controllo sulle sue mani, che le si allungano sulla schiena, tastandola centimetro per centimetro attraverso la maglietta. Sente il calore del suo corpo, il ritmo e la forza del suo respiro. Il battito è rapido e affannato mentre rimbomba attraverso il suo corpo.
“I-io… non me lo ricordo. Ho difficoltà a ricordare le cose”, confessa poi velocemente.
Aaron incontra gli occhi di Daryl, con una smorfia che presto cede a trasformarsi in un altro sorriso. “Non volevo metterti in testa false speranze, ma quando abbiamo raggiunto la macchina il sedile era abbassato… come se qualcuno fosse uscito dal bagagliaio.” Il suo sguardo si fissa su Beth. “Io sono Aaron. È incredibile conoscerti, Beth Greene.”
Anche Daryl aveva notato il sedile abbassato, ma non l’avrebbe mai collegato a un’ipotesi del genere. Non riusciva a immaginarsela mentre si arrampicava fuori dal cofano, non allora. Ma adesso tutte le prove sembrano confermare quella tesi. Effettivamente, l’auto non era stata perquisita o svuotata, il sedile era abbassato appena e il bagagliaio ancora chiuso a chiave.
“Sei tornato indietro...”, sussurra lei, ma la sua flebile voce viene subito sovrastata da quella di Licari.
Noi...”, dice infatti ad alta voce, indicando se stesso e Daryl, “...noi l’abbiamo visto. Ti abbiamo vista morire.”
“Avete visto che mi hanno sparato in testa”, risponde lei. “È ovvio che abbiate pensato che fossi morta.”
“Io… devo vederlo.” Licari scuote la testa e comincia ad avvicinarsi, ma, quasi in automatico, come se si fosse attivato premendo un pulsante, Daryl si frappone immediatamente tra loro, alzando il pugnale.
“Woah!”, Licari alza entrambe le mani, mantenendo a stento la presa sulla sua, di arma.
“Va tutto bene.” La mano di Beth premuta contro il suo petto lo riporta alla realtà, ma solo per qualche secondo, giusto il tempo di fargli salire un enorme groppo in gola. Deve mettere subito in chiaro che Licari e tutti gli altri devono tenersi lontani da lei.
“Va tutto bene”, gli ripete, voltandosi e dividendosi le ciocche di capelli in modo da mostrare a tutti la piccola chiazza calva dietro la sua testa.
La ferita lasciata dal foro d’uscita è così piccola. Per qualche strana ragione, nei suoi ricordi era più grande; forse perché quando l’avevano lasciata nel bagagliaio c’era più sangue. La chiazza ha quasi la forma di una moneta da venti centesimi, mentre la minuscola ferita lasciatole dal foro d’entrata sulla fronte è già sbiadita, così come gli altri segni. Le cicatrici, ormai bianche, paradossalmente rovinano e perfezionano il suo viso allo stesso tempo. È comunque bella come ricordava, se non di più.
“Credo che abbia colpito il cervello, ma non in profondità. Suppongo che deve averlo solo sfiorato”, dice, tracciando una linea immaginaria con il dito dal foro d’entrata e quello d’uscita, per permettere loro di capire.
“Hai detto di avere problemi a ricordare le cose.” Ora è Aaron ad avvicinarsi, ma ciò non lo rende nervoso. Piuttosto, continua a concentrarsi sullo sguardo sbalordito di Licari, ancora fisso su di lei.
“Mi sono svegliata in quel bagagliaio e all’inizio non ricordavo nulla di tutto questo, della fine del mondo, dei vaganti. Quando mi sono alzata avevo ancora sedici anni e le mie preoccupazioni erano ancora… futili.” Ride, ma è una risata isterica. Poi deglutisce, ricomponendosi un secondo. Gira la testa sul suo petto e, quando la sente respirare profondamente, avverte nuovamente quella vampata di gioia e sollievo. “Poi mi sono tornate in mente delle immagini, e lo stanno ancora facendo. Potrei anche non ricordare più nulla… del resto, come potrei saperlo?”
“Ma… ricordi quello che è successo?”, la incalza Aaron con un cipiglio preoccupato.
“Ricordo l’ospedale.” I suoi occhi si socchiudono leggermente mentre lancia una rapida occhiata a Licari.
Con un lampo di sospetto, Daryl si chiede cosa si ricordi di lui, di loro e di tutto il gruppo.
“Ricordo di aver provato a scappare con Noah”, aggiunge con tranquillità. “Poi hanno preso Carol. Era gravemente ferita e non volevano curarla, quindi ho rubato dell’epinefrina. Ricordo di aver sentito che stavate venendo a prenderci, ma Dawn non voleva lasciare andare Noah. Il resto non è molto chiaro… so di averla affrontata e che mi ha sparato, ma non ha molto senso.”
“Ho bisogno di sedermi.” Licari li supera e raggiunge la cucina, dove mette alla prova la forza di una delle sedie di legno con un bel calcio, prima di accomodarsi. “Non posso crederci”, aggiunge, facendosi cadere la testa tra le mani.
“Perché sei tornato alla macchina?”, gli chiede Beth a bassa voce. Riesce a sentire una domanda non pronunciata, una domanda che non gli avrebbe mai posto davvero.
Perché mi hai lasciata lì?
Forse ha dato per scontato che qualcosa fosse andato storto; ormai sa di quelle eventualità. Ha dovuto abbandonare il corpo di suo padre, entrambi i suoi fidanzati sono morti; anche Otis e Patricia sono stati lasciati indietro. In evidente difficoltà, Daryl prova a immaginare quali, tra quegli eventi, lei possa riuscire a ricordare.
“Per venire a prenderti”, le confessa. “Sapevo dove ti avevo lasciata. Volevo farti riposare in pace, una volta mi hai detto che t’importava.”
Il più piccolo e triste sorriso che avesse mai potuto rivolgergli le curva gli angoli della bocca. “Sì, me lo ricordo.” Aggrotta le sopracciglia, facendole avvicinare ai suoi occhi bagnati. “Vi ho cercati ovunque. Dove siete andati?”
“In Virginia”, risponde senza pensare, dimenticandosi per un secondo di Licari e di tutta l’altra gente del Grady.
“Richmond?” Le si illuminano gli occhi e Daryl sente una stretta al cuore. Non sa della morte di Noah.
“Questo posto è in Virginia?!”, chiede Licari, incredulo.
Aaron annuisce, confermando tutto senza preoccuparsi troppo di aver infranto il segreto. Alla fine, il fatto che sappiano che siano diretti in Virginia non è poi così rilevante, soprattutto se Beth gli ha dato ragione di credere che Alexandria si trovi a circa cento miglia da dov’è in realtà.
“Beth...” Daryl non vuole spezzare la gioia che sta provando per aver ritrovato la sua gente dandole la brutta notizia, ma aspettare ancora non può che peggiorare le cose. È meglio che quella bomba sia sganciata il prima possibile.
“Non mi sorprende che non sia riuscita a trovarti.” Beth ride e una piccola lacrima le spunta all’angolo dell’occhio, ma non la lascia cadere. “Prima non ricordavo che fosse a Richmond. Noah mi aveva detto di avere ancora una famiglia, ma non ricordavo fosse in Virginia.”
“Noah non c’è più.”
Non è mai stato bravo in queste cose. Le nuvole nei suoi occhi cominciano a rovesciarsi e lui non può fare a meno di ricordare l’ultima volta che le ha annunciato la morte di qualcuno. Il modo in cui l’aveva fatto non era stato un granché, ma lei aveva capito. Alla fine, era stata lei a consolare lui.
“Oh.” Il suo sguardo s’incupisce lentamente.
“Era un bravo ragazzo.”
“È stato con noi per qualche mese. È successo durante una missione.” Questo è tutto ciò che Aaron riesce a offrirle sull’accaduto. Deglutisce profondamente; sembra stanco.
Licari alza lo sguardo su di loro, liberandolo dalle sue mani. “Noah è morto?”
Aaron annuisce ancora.
“Ti sei dimenticato di menzionarlo.”
“Avete trovato la sua famiglia? È riuscito a rivederli anco-”, Beth si blocca mentre incontra nuovamente gli occhi di Daryl. È stata in grado di intuire anche questa storia.
“Oh”, mormora di nuovo, sconfitta.
“Anche Tyreese è morto. È successo subito dopo aver lasciato Atlanta, prima d i incontrare Aaron e gli altri.”
Non è mai semplice. Il dolore è un peso gravoso e, a un certo punto, ti spezza la schiena. A guardarla negli occhi, però, anche se intuisce che non è ancora arrivata a quel limite, è ancora più difficile. È sempre lo stesso montante, dritto sulle budella; è sempre la stessa storia. E non c’è scampo.
Sono stanco di perdere le persone.
Prova di nuovo a confortarla, anche se è davvero una merda in certe situazioni, ma lei si conforta da sola, confortando anche lui. Gli stringe la mano e gli dice che le dispiace, accarezzandolo con quel suo solito tocco caldo e incerto, con quella sua solita pelle così delicata ma resistente. Sembra che non sia solo per Noah e Tyreese, ma anche per la sua presunta morte. Scrutando i suoi occhi blu, Daryl è consapevole che deve averlo capito.
Per otto lunghi mesi ho pensato di averti persa.
È troppo presto per far svanire l’euforia, troppo presto per sentire qualcosa di diverso dall’intensità che gli trasmette la sua presenza, ma allo stesso tempo una voce nella sua testa non può fare a meno di metterlo in guardia: Non permettere che accada di nuovo, Dixon.
Infatti, è assolutamente determinato a non perderla una terza volta in quell’inferno. Non lo permetterà.
“Ti sei unito alla mia gente?” Beth osserva Licari con attenzione. Sembra sia molto cauta nell’affrontare l’argomento. Si volta di nuovo verso Daryl, in cerca di risposte.
“Questo è uno sviluppo recente”, ammette Aaron. “Alexandria ha bisogno di un dottore.”
“Rick ha ucciso quello vecchio”, aggiunge Daryl borbottando.
Beth solleva le sopracciglia. “Beh, avrà avuto le sue ragioni.”
“Se l’è cercata.”
“E tutti gli altri?”
Il suo cuore accelera; la lista è lunga. La caduta della prigione ha significato la perdita di molti di loro, e poi è andata anche peggio. Magari, in un altro momento, le parlerà di quello che è successo a Bob.
“Sasha, tua sorella, Glenn, Michonne, Carol, Rick, Carl e Judith...”
Judith!” grida senza mezze misure, coprendosi la bocca con le mani. Lacrime di gioia cominciano a inumidirle gli occhi. “Judith ce l’ha fatta?”
“Sì. Merito di Carol e Tyreese. Sta bene, cammina anche.”
Daryl le sorride leggermente e le lacrime cominciano a scorrerle sul viso. Non riesce neanche a parlare, quindi si ripiega nel suo petto. Appena l’ha vista ha seguito l’impulso di stringerla, senza pensarci molto. Sembrava giusto, sembrava l’unica cosa da fare, a vederla di nuovo lì. Ora riesce a vedere tutta la situazione per quella che è. È come quando sono stati in quel cesso dove hanno trovato il moonshine. Come quando lui era uscito fuori e se ne stava in piedi, anche se dentro di sé stava collassando su se stesso. Lei si era appoggiata sulla sua schiena come un paio di ali, pronte a impedirgli di cadere. L’aveva sentita sciogliersi su di lui e aveva pensato che poi sarebbe arrivato anche il suo turno; che sarebbe stato la sua spina dorsale quando le sue gambe avrebbero ceduto. Era stata dura da accettare, si era sentito così male che riusciva a malapena a tenersi in piedi. Ora lei sta sperimentando qualcosa di simile, ma dal sorriso che le piega la bocca mentre si schiaccia contro il suo petto gli suggerisce che il sentimento che le sta togliendo la forza non è altro che pura gioia. Rabbrividisce, quasi isterica, mentre alza la testa per respirare meglio.
Daryl dovrebbe pensare a dove sia giusto metterle le mani per tirarla su; ha bisogno di aria, ma per come la stringe, se non mette da parte le emozioni, potrebbe soffocarla.
Chiaramente ansioso, a dispetto di se stesso, Licari scatta in piedi. “Non dovremmo stare qui troppo a lungo. Dovremmo andare.”
Ha ragione, ma tutti lo ignorano per alcuni secondi, almeno finché Aaron non si volta e gli rivolge un cenno di assenso, curvando la testa in direzione delle scale.
Ancora con un leggero pizzico di shock a scorrergli nelle vene, Beth e Daryl si alzano e cominciano a spogliare la casa, insieme. Non ne hanno neanche dovuto parlare, lei sa già qual è il piano. Andrà con loro e ciò significherà abbandonare la fattoria, forse, quella volta, per sempre.
Non c’è fretta. Persino il suo battito ha cominciato a rallentare. I loro respiri seguono lo stesso ritmo e si chiede se l’abbia fatto inconsciamente, o se sia qualcosa che viene in automatico concentrandosi sull’aria che entra ed esce dal suo corpo, lenta, regolare, perfetta. È un insieme di piccoli sospiri, così vivi, che si ripetono ad ogni boccata, ancora e ancora.
Abbracciandola, è diventato estremamente consapevole del suo corpo, tanto che si chiede come abbia fatto a non sentire il suo respiro e il suo battito quando l’ha portata in braccio per cinque rampe di scale. Quando un corpo viene colpito in quel modo, si dimentica di ogni funzione, riducendole al minimo indispensabile per sopravvivere. Forse non respirava bene, forse non faceva nient’altro che dormire, lottando per non scivolare nell’oscurità. Tra l’altro, anche se ribolliva dalla rabbia, lui si era sentito gelare nelle ossa, sentiva ogni sua fibra tremare e questo non aveva aiutato. Non poteva vedere, né sentire. Riusciva a malapena a muoversi, mentre il rumore stridulo dello sparo continuava a rimbombare nella sua testa.
Beth si allontana da lui per recuperare una scorta di cibo nascosta in un mobiletto della cucina, ma riesce ancora a sentire il suo cuore battere attraverso il suo corpo e la pelle gli brucia ancora nei punti dove l’ha accarezzato. La osserva mentre si aggira per la casa raccogliendo ciò che resta; ogni tanto si volta a guardarlo, con il viso ancora bagnato dalle lacrime e la bocca tremante. Si concentra sulle sue labbra; un paio di spasmi gli suggeriscono che vorrebbe dirgli qualcosa, ma che evidentemente ha il suo stesso problema: da dove dovrebbero iniziare?
“C’è dell’altro?” Aaron riappare e Licari si affaccia sulle scale. Continua a studiare la fattoria e a scrutare gli esterni visibili dalle finestre rotte, ma è ritornato più calmo e distaccato, esattamente come prima.
“Sì, c’è molto di più nella mia auto. Vi seguo?”, risponde Beth.
Aaron sembra anticipare il pensiero di Daryl, nella sua risposta. “Tu va’ con lei. Io e Licari vi aspetteremo alla fine del viale.”

 

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Ero così vicina.
Mentre inizia a riconoscere la strada che porta al campo del Grady, Beth viene scossa da un brivido. Dal lato opposto, qualche giorno prima, aveva seguito quella donna tra gli alberi e li aveva spiati proprio da lì. Non riesce a fare a meno di pensare a quanto quella situazione sia stata diversa da quelle in cui si trova adesso. Era sola e stanca, e stava seguendo quella donna allo stesso modo in cui cacciava gli animali. Adesso è in gruppo e sente il corpo più leggero. Non aveva realizzato quanto fosse pensante la solitudine finché non le è scivolata addosso, così come non aveva realizzato quanto davvero le mancasse Daryl Dixon finché non si è gettato su di lei come una valanga. È stato assurdo.
Durante quel breve viaggio, le è sembrato che Daryl non avesse staccato gli occhi da lei neanche per un secondo, ma non le ha ancora detto nulla. Adesso che hanno seguito Aaron e Licari fino al punto in cui l’auto di Aaron e la moto di Daryl li stavano aspettando, dovrà essere Daryl a guidarli al campo, mettendosi in testa a quella fila di veicoli per verificare che la strada sia libera. Beth è proprio dietro di lui, seguita prima da Licari e poi da Aaron.
Prima di rincontrarlo, ha immaginato di dirgli così tante cose. Ha avuto le parole giuste inchiodate nella mente per tutti quei mesi in cui è stata da sola e non ha avuto nessuno a cui esternarle; le stesse parole che sono svanite nel nulla nel momento in cui l’ha rivisto, gli ha passato le dita tra i capelli e ha constatato di averlo veramente ritrovato. Seguendolo, alla vista di quelle ali che spiccano anche a distanza, cerca di ripescarle, ma sono sempre più confuse.
So che mi hai cercata.
So che mi hai persa.
So che fa male.
Fa male anche a me.
Abbiamo già perso così tanto tempo.

L’ha visto a malapena, prima di essere sparata. Non ha avuto il tempo di dirgli nulla di tutto questo, perché è andato tutto improvvisamente a monte. Prima di quell’evento, ricorda di essere stata con lui in una casa funeraria. Ricorda gli zamponi, i corpi vestiti nelle bare, l’eccitante prospettiva di avere un cane domestico; ricorda di aver cantato per lui e di aver sentito le sue guance bruciare mentre la guardava accarezzare i tasti di un pianoforte.
Fa caldissimo in Georgia. Anche con i finestrini abbassati, si sente cocente e le gira ancora la testa. Non sono però le lesioni celebrali che ha subito a farla sentire così, o almeno non sempre. Si è già sentita così prima; è iniziato più o meno da quando ha cominciato a riconnettersi ad alcuni dei suoi ricordi persi, ma con l’emozione è come se fosse più intenso. Adesso, infatti, ha ancora un forte flusso di calore nel cuore.
Ci sono ancora brave persone.
Ci sono e le hanno trovate. Aaron ne è la prova vivente e, in fondo, spera che le persone del Grady siano cambiate abbastanza da meritarsi a loro volta quell’appellativo. Non solo per la sua sicurezza personale, ma per quella di tutti. Se quello che ha detto è vero, resteranno lì per un po’.
“Magari potremmo restare qui per un po’.”
Sente le guance bruciare; le tremano le mani. Ricorda.
Beh, quello deve essere un buon posto per ricominciare.
Daryl si ferma lungo la strada, e lei lo imita. Aaron e Licari proseguono, sembra che vogliano lasciare le macchine più vicine al campo. A lei non importa di camminare, non se Daryl ha deciso di essere più cauto. Nel caso qualcosa andasse storto, hanno bisogno di un punto d’incontro dignitoso per riuscire a scappare. Troppo vicino si è fuori; troppo lontano non ci si arriva mai. A quarto di miglio dal campo, invece, sembra più comodo nel caso le cose non vadano come devono.
Spegne il motore e decide di lasciare le sue provviste in auto, per poi raggiungere Daryl a metà strada. Cominciano a camminare e non ci mettono molto a sincronizzarsi. Non hanno mai sentito il bisogno di parlare più del dovuto. Se lui avesse saputo cosa fare, lei l’avrebbe seguito, così come farebbe lui nel caso inverso. Non hanno mai dovuto lottare particolarmente per il controllo della situazione, tranne quando lei voleva bere e lui starsene tranquillo.
Mi sei mancato così tanto quando non c’eri, Daryl Dixon.
“Pensi che possiamo fidarci?”, gli chiede.
“Non so”, risponde lui; un ghigno gli arriccia le labbra. “Anche se è stato uno stronzo, Glenn mi ha detto una cosa, prima che partissi.” Sbuffa, rallentando un po’ il passo mentre si avvicinano al sentiero. Lei lo segue, controllando tra gli alberi i punti su cui non ha buttato l’occhio, e poi si volta a guardarlo. “Abbiamo incontrato gente cattiva, Beth, ed erano molto peggio di chiunque altro avessimo incontrato prima. Sfortunatamente, per come stanno adesso le cose, il fatto che quelli del Grady non abbiano provato a mangiarci è un punto a loro favore.”
Al Grady avevano un certo sistema. Era fuorviato, oltre che stupido. Pensavano di riuscire ad avere un certo tipo di controllo sulle persone in un mondo in cui ormai il caos regna sovrano. Avevano delle regole che cercavano di seguire e, anche se non erano proprio adatte a sopravvivere, erano un tentativo di conservazione di qualcosa appartenente al vecchio mondo. A malincuore, Beth deve ammettere che è un buon segno, dopotutto.
“Credi ancora che ci siano brave persone?”
Daryl si ferma per un momento, per poi guardare il terreno e prenderle la mano per aiutarla a percorrere una piccola salita. Non la lascia andare subito, anzi, stringe la presa allungando le dita sulle sue nocche.
“Ci sono”, dice con fermezza. “Presto ne incontrerai alcune, più del tuo genere”, aggiunge accennando un sorriso.
“Prima pensavi che quelli buoni non potessero riuscire a sopravvivere.”
Non appena ha realizzato quello che stava dicendo, ha allungato le parole, aumentandone la pesantezza. Daryl le lascia la mano per scostarle una ciocca di capelli dalla fronte, scoprendo una delle cicatrici e sfiorandola con le nocche.
“Perché hai cambiato idea?”
Il suo sguardo la cattura quel tanto che basta per farle capire che non ha davvero bisogno che lui risponda. Come quella sera nella casa funeraria, Beth già sa quello che vuole dire.
“Per te.”
Se un secondo fa ha pensato di non aver bisogno di sentirselo dire, se si è detta che riaverlo lì con lei e sapere che ha fatto bene a sperare- perché la speranza ha aiutato entrambi- era abbastanza, adesso può dire di essersi sbagliata. Ne aveva bisogno eccome, e ora che le si stringe la gola mentre lo guarda scavare nella sua anima con gli occhi, può esserne sicura.
Le prende il volto tra le mani con un gesto determinato, ma allo stesso tempo assurdamente gentile. “Solo essendo quello che sei, mi hai salvato e continui a farlo.”
“E cosa sono?”
“Una sopravvissuta. Una brava persona.” All’improvviso, sembra in imbarazzo e Beth può vedere tutta quella sicurezza crollare. Vuole dire qualcosa e sta per frenarsi, ma si sforza di sciogliere il nodo che gli attorciglia la lingua per continuare. In ogni caso, sembra ancora trattenuto. “Certe volte non c’è molta differenza tra l’essere vivi e l’essere morti, ma per te non è così. Ti avevo detto che saremmo potuti restare in quella casa perché ti piaceva… perché, se fossimo sopravvissuti o se fossimo morti, volevo stare con te.”
Certe volte si è chiesta se potesse essere stato un effetto collaterale del vivere isolati dal resto del mondo. Hanno dovuto fare affidamento l’uno sull’altra, stavano praticamente sempre insieme. Hanno dovuto imparare a fidarsi.
“È questo quello che stavo cercando di dirti. A volte… per qualche secondo, avevo immaginato che noi fossimo le ultime due persone rimaste.”
“Anch’io”, riesce finalmente a rispondergli. Di fronte a tutta quella onestà, uscita a fatica e con voce sommessa, Beth non può far altro che pensare a quanto sia cambiato. L’aveva già pensato quando erano rimasti soli, dopo la prigione, ma adesso è come se avesse continuato a percorrere quella stessa strada, anche se da solo.
L’ho davvero cambiato così tanto?
Non sono estranei, ma non sono neanche gli stessi di prima. Vede qualcosa di diverso in lui, e si chiede se anche lui pensi lo stesso di lei.
“Ah sì?”, la sua voce si addolcisce un po’.
“A volte ho pensato che potevamo essere rimasti da soli in un mondo di vaganti.”
Alla fine, anche se ci fossero state altre persone magari non le avrebbero mai incontrate. C’era la possibilità che loro due fossero tutto ciò che era rimasto a entrambi, e che sarebbe potuto essere così per sempre.
“Non mi...”, comincia, ma poi smette di parlare. Stava per dire che non le importava, ma non è esattamente così. Più che altro, era come se non fosse la fine. Anche se fossero stati solo loro due per il resto delle loro vite, sarebbero stati bene.
Sarebbero stati felici, al di là di tutto.
“Quando ci sei stata”, Daryl comincia lentamente a parlare, “...per un po’ non ho odiato questo mondo.”
Beth annuisce, intuendo il significato latente di quelle parole. Ora è lei ad avere la lingua attorcigliata.
Il rumore di una portiera che sbatte li spinge a riprendere a camminare. Probabilmente viene dal furgone che Licari ha parcheggiato sul ciglio della strada, in discesa.
Frenato da quell’interruzione, ma non del tutto sconfitto, Daryl si volta di nuovo per guardarla negli occhi con un velo di incertezza. “Andiamo. Dobbiamo ri-presentarti agli altri.”

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Capitolo 8
*** Smoke in the distance ***


Smoke in the distance.


 

È passata più o meno un’ora da quando ha ritrovato Daryl. È ancora difficile ricordare; è ancora difficile capire che tipo di persona è diventata. L’unica cosa che sa è che, da sola e in silenzio, è diventata quel che doveva diventare per sopravvivere. Se avesse continuato a stare da sola, avrebbe comunque avuto una vita, ma non sarebbe mai stata completa. Anche se il mondo è finito, non si può fare a meno degli altri.
“Magari potrei dirglielo io, prima che ti vedano”, borbotta l’uomo al suo fianco.
Mentre camminano, i loro corpi non sono più in contatto, ma è così vicino che è difficile non cedere alla tentazione di prendergli la mano.
“Sembra che molte cose siano cambiate”, risponde, cercando di soffocare il nervosismo della sua voce. “Li ho osservati a distanza, ma solo per un secondo o due. Poi mi sono spaventata e sono andata via. Adesso li conosci meglio tu.”
Nell’ascoltare quelle parole, Daryl sembra a disagio e rallenta il passo. Sono vicini al campo, abbastanza da vedere Shepherd e il dottor Edwards avvicinarsi alla strada. Affiancandolo, Beth nasconde la mano nella sua, stringendola con forza, e lui ricambia la pressione.
“Sembra che Aaron e Licari ci abbiano battuti sul tempo.”
Proprio quando vede quei due comparire sul ciglio della strada e incontrare Edwards e Shepherd nel campo, Daryl si volta, lanciando al suo viso uno sguardo fisso e indagatore. Non si sente a disagio, è evidente, ma Beth continua a chiedersi che cosa stia cercando nei suoi occhi, o se l’abbia già trovato.
“Che c’è?” batte le palpebre; le guance si riscaldano.
Lui risponde con una misteriosa alzata di spalle, ma continua a guardarla, facendola arrossire. Sente il suo sorriso allargarsi.
Shepherd ed Edwards li hanno raggiunti di corsa. Aaron lancia loro un’occhiata, per poi seguire Licari e gli altri nel campo. D’un tratto, Beth sente la voce di Licari gridare a tutti di andare a vedere. Ed è lì che comincia a sentirsi un fenomeno da baraccone, un po’ perché stanno correndo, un po’ perché anche da un numero consistente di metri può vedere le loro bocche e i loro occhi spalancati come dischi volanti. Così, si nasconde il più possibile dietro la schiena di Daryl, sperando di rendere le cose più semplici.
Hey. Già, sono viva. So che non alletta molto l’idea di viaggiare insieme, quindi statemi lontani, dice, ma solo nella sua testa.
Ci deve essere qualcosa da dire che non scateni il caos. Non ha nessuna intenzione di dare spettacolo, né di starsene lì a farsi controllare la ferita finalmente guarita dal dottor Edwards, né discuterne con lui. Non vuole neanche guardarlo, così come non vuole parlare con nessuno di loro, o essere costretta a ricordare quello che ha passato al Grady. Era pura schiavitù e a loro stava bene. Ci vorrà ancora molto tempo prima che ci passi davvero su.
È Shepherd ad arrivare per prima.
“Non stanno mentendo!”, grida alle sue spalle e, dopo aver dato voce alle ultime imprecazioni incomprensibili che aveva da esternare, riesce finalmente a chiudere il becco. È molto pallida.
Tra le persone del Grady, di lei si ricorda a stento. Shepherd le è sembrata subito una tirapiedi, una che sa di non poter comandare e quindi segue la personalità più forte, la quale non deve essere necessariamente la migliore. Ha manifestato più volte la sua antipatia per Dawn, ma manteneva rapporti amichevoli sia con Gorman che con O’Donnell, che Beth ricorda benissimo di aver ucciso.
Certamente, ha conosciuto meglio il dottor Edwards. È arrivata a disprezzarlo quasi quanto ha disprezzato Dawn, anche se non ha mai desiderato che morisse, cosa che invece ha desiderato nei confronti di altri. Lo ricorda come un debole, un codardo. Un debole e un codardo che, per eccessiva compensazione, tratta le persone che lo circondano come se fossero deboli e codarde. Infatti, non appena incontra i suoi occhi, il suo viso trasuda vergogna.
“I-io… io non potevo avvicinarmi a te. Non potevo vedere...” È ancora più incolore di Shepherd e le gambe che lo sorreggono sono instabili, come se lo shock potesse farlo svenire da un momento all’altro.
Forse intuendo la situazione, Shepherd si affretta ad acciuffarlo. Beth, in quel momento, realizza che se fosse stato per lei l’avrebbe lasciato cadere.
“È da lì che...” Edwards ha bisogno di fare qualche respiro profondo prima di completare la domanda. Avanza per il massimo che gli è concesso, fermandosi a tre metri buoni di distanza. La spalla di Daryl gli sbarra ancora l’accesso diretto al suo viso. Beth lo fissa senza interruzioni quando alza lentamente una mano verso di lei, indicando la fronte. “...È da lì che è entrato il proiettile?”
Beth gli concede un rapido cenno del capo, senza staccare gli occhi dal suo viso.
“Ho visto la traiettoria… per com’eri posizionata, ero certo che il proiettile fosse entrato dal mento...”, dice, appoggiandosi di peso a Shepherd per ricevere supporto fisico.
“Sto bene”, gli risponde seccata. “Sono viva, tutto qui.”
Edwards scuote la testa in segno di diniego, ma non dice più nulla. Non è finita e lei lo sa. Hanno dei conti in sospeso, ma per il momento le sembra sinceramente terrorizzato, e quindi innocuo. Perfetto.
“Hai un altro paziente adesso, no?” Distoglie finalmente il suo sguardo feroce da lui, rivolgendolo al campo. “Quella donna che avete trovato nei boschi, sola e ferita.”
Il dottore la guarda come se non l’avesse davvero sentita, come se si stesse ancora sforzando di respirare bene. Shepherd, al suo posto, spalanca di nuovo gli occhi e annuisce.
“Sì. L’hanno trovata Franco, Licari e Tanaka. Tu come…?”
“Sono ciò da cui stava fuggendo”, ammette. “L’ho seguita per un po’, per capire se potevo fidarmi di lei. È stata braccata da un gruppo di vaganti, ho cercato di aiutarla, ma l’ho spaventata, spingendola dritta verso di voi.”
“Non ci ha ancora detto praticamente nulla.” La donna rivolge un cipiglio in direzione del campo. “So che si chiama Lily, che era sola e che, da quanto sembra, deve esserlo da un pezzo.”
“È in condizioni di viaggiare?”
“Ha solo bisogno di molta acqua. Mi siederò accanto a lei per accertarmi che sia stabile”, risponde Edwards.
A quel punto, Beth si convince di non avere più niente da dirgli, o almeno per il momento. Se anche lo facesse, non potrebbe fare a meno di fare dei riferimenti al trattamento che hanno riservato a lei e agli altri inservienti quando era una schiava-prigioniera del Grady.
Daryl la conduce nel cuore del campo, dove tutti gli altri li stanno aspettando. Stanno raccattando la roba il più velocemente possibile per caricare le auto e partire. Le viene spontaneo chiedersi se stiano scappando da qualcosa in particolare, o se questo comportamento dipenda semplicemente dall’evidenza dei fatti, cioè che la loro situazione sarebbe stata sempre più incerta, perché stare nello stesso posto troppo a lungo causa problemi.
A ritrovarsi di nuovo a contatto con quella gente e con i loro squilibri, sente una morsa in petto per la sua vera famiglia. Certo, ha ritrovato Daryl, ed è più che abbastanza. Si sente riconnessa a quella sensazione di pace che ha provato quando è rimasta da sola con lui e con i morti, dopo la morte di suo padre. Avrebbe potuto tranquillamente continuare a vivere in quel modo; avrebbe potuto se lei, Beth Greene, fosse stata davvero l’ultima donna rimasta sulla terra e se lui, Daryl Dixon, fosse stato davvero l’ultimo uomo. La vita andava ancora vissuta, perché lui era abbastanza, ma non è quello il mondo in cui vive adesso. Le ha detto che Judith, Rick, Glenn, Maggie, Carl, Carol e Michonne sono tutti vivi, e questo non fa altro che rendere la sua attuale compagnia ancora più scadente di quanto non sia già. Shepherd, Edwards, Licari, Tanaka, Franco e Lily, quella donna praticamente muta, sono solo i sostituti più scadenti della sua vera gente.
Guarda Daryl e percepisce quell’energia selvaggia che da sempre gli scorre dentro, anche quando sembra tranquillo e pacato.
Corriamo a casa insieme.
Sente il suo cuore tremare mentre formula quel pensiero e si sforza di pensare a un modo con cui esternarlo.
Non possiamo semplicemente andarcene, dirgli che li incontreremo strada facendo?
Voglio raggiungere la mia famiglia.
Nel frattempo che ci pensa, però, acquista la coscienza necessaria per capire che non può essere un’opzione plausibile. Effettivamente, l’ultima volta che Daryl le ha detto di incontrarlo per strada non è andata poi così bene. E poi, oltre a questo, può facilmente intuire che quel ragazzo, Aaron, sia ormai parte integrante del loro gruppo, o almeno così sembra per Daryl, e il loro compito è reclutare quella gente. Non ha ancora capito perché, ma sembra importante; sembra che abbiano bisogno di loro, altrimenti Daryl l’avrebbe già portata via. Non possono lasciarlo indietro, così come non possono abbandonare quel gruppo, perché ne hanno bisogno.
Ma perché? Perché tornare in Georgia per un dottore? Va bene che è importante essere preparati e tutto il resto, ma sono centinaia di miglia. Sembra che si tratti di una situazione specifica, altrimenti ne avrebbero trovato uno più vicino, anche solo andando alla ricerca di chi ha un minimo di formazione medica. È sicura che Rick non avrebbe mai mandato Daryl così lontano, che non l’avrebbe mai sottoposto a un tale rischio se non fosse stata un emergenza. Ora che lo shock iniziale e l’euforia di averlo rincontrato si sono schiantati su di lei come un’onda anomala, adesso ormai distesa, si sente nella posizione di poter fare alcune domande pratiche, perché non sapere quello che sta succedendo la spaventa. Dopo mesi passati a occuparsi di se stessa, rimettersi nelle mani di qualcuno non avrebbe dovuto essere così semplice, ma si fida ciecamente di Daryl e, ogni volta che il cuore comincia a batterle più forte nell’osservare la lunga strada che hanno da fare, le basta guardarlo per ritrovare la calma.
“Credo che dovremmo cambiare i nostri piani.” Aaron li ha raggiunti non appena hanno superato la soglia del campo. Scavalcando sia Franco che Tanaka, ha attirato sia la loro attenzione che quella di tutti gli altri. “So che negli ultimi giorni non hai dormito più di quattro misere ore, ma credo che non sia il caso di aspettare domani per partire. Credo che dovremmo andare adesso.”
Daryl sta già annuendo, d’altronde lei sta facendo la stessa cosa. Deve essere ansioso di tornare, a maggior ragione ora che c’è anche lei.
“Sto bene, sono completamente sveglio. Potremmo percorrere buona parte della strada stanotte, fermarci a riposare qualche ora prima dell’alba, per poi riprendere al mattino. Carburante permettendo.”
È un piano piuttosto ottimistico; un piano che già avrebbe potuto avere problemi di realizzazione prima che il mondo finisse, quando le strade erano ancora sicure e il carburante non era un impiccio finché si possedeva una carta di credito. Nonostante ciò, né Aaron né Daryl sembrano preoccuparsene granché. Anche se fallissero nel compiere il viaggio in due giorni e ce ne mettessero quattro, non sarebbe comunque troppo male.
“Dovremmo averne abbastanza.” Aaron getta un’occhiata alle taniche di benzina che Licari sta sistemando sul pavimento di una grande Chevrolet gialla. “Hanno delle scorte anche loro, quindi non dobbiamo necessariamente finire quelle che abbiamo portato.”
Beth aveva già pianificato di lasciare lì la sua auto. Non vuole proprio gettarla via; magari un giorno, se mai si ritroverà a passare di là, le sarebbe tornata utile. Le ipotesi sono che qualcun altro possa ritrovarla, o che resti ferma per così tanto tempo da diventare inutilizzabile. In ogni caso, le ha fornito un bel servizio quando ha vagato da sola e non si sente come se la stesse abbandonando. Più che altro, la sta parcheggiando.
Nel giro di un’ora, hanno spostato i loro rifornimenti nella macchina di Aaron e il gruppo del Grady ha smesso di fissarla in modo strano, mentre trasferiva tutto il loro accampamento nel resto dei veicoli. La carovana è pronta a partire. Daryl è in testa, in sella alla sua moto. Lei è alle sue spalle e si tiene il più vicino possibile a lui, schiacciando la testa contro le ali d’angelo cucite dietro la sua schiena.

 

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Verso l’una di notte, incontrano il primo ostacolo, che si preannuncia con una puzza di fumo nauseabonda. Atlanta è andata e sono quasi al confine di Stato quando notano quel lembo di luce dal quale si libera una scia grigia che arriva a coprire anche le stelle.
“Incendio boschivo”, grida Daryl, spingendola a stringersi ancora di più alla sua vita. “Solleva un pugno e tienilo alto finché Aaron non si ferma!”
Esegue prontamente le sue istruzioni e ci vogliono solo pochi minuti prima che le luci rosse dei freni si accendano dietro la macchina di Aaron. A quel segnale, tutta la carovana rallenta dietro di lui, ma Daryl accelera. Dalla cresta della collina, riescono a ottenere una visuale migliore: l’incendio è molto esteso, ma sembra che sia in corso già da un po’ e che non ci voglia molto prima che si esaurisca. L’aria è densa di fumo nero e oscura la strada. Tuttavia, nel buio, riescono ancora a individuare altre piccole torri di fuoco sparse qua e là.
“Pensi che si placherà entro domani mattina?”, gli chiede, non troppo entusiasta di fronte all’eventuale idea di provare ad attraversarlo.
“È lì già da un pezzo e il vento tira verso nord, ma non riesco a capire quanto altro legno ci sia ancora in giro. In ogni caso, non si fermerà finché non avrà inghiottito tutto.”
Fa inversione con la moto e Beth conclude quel pensiero da sola. Quell’incendio potrebbe farli tardare, soprattutto nel caso in cui li dovesse costringere a seguire una strada diversa. Tra l’altro, non sanno quanto sia estesa la regione colpita dalle fiamme e, di conseguenza, non possono neanche sapere quanto esattamente dovranno allungare. Aspetteranno il mattino per prendere una decisione.
Quando ritornano nel punto dove hanno lasciato tutti gli altri, gli occhi di Beth lacrimano ancora per il fumo. Se lo sente ancora nel naso, anche se sono abbastanza lontani da poter prendere una boccata d’aria fresca.
“Non sono riuscito a vedere nulla”, borbotta Daryl ad Aaron. “Ricontrolleremo all’alba, ma forse abbiamo sprecato solo tempo e carburante.”
Lanciando un’occhiata ai veicoli alle loro spalle, il ragazzo fa una smorfia. “Gli dirò che ci fermeremo qui per stanotte… e che farò io il primo turno di guardia”, aggiunge tempestivamente. “Tu hai bisogno di dormire.”
Daryl alza lo sguardo sul suo, come a voler ribattere, ma Aaron non gli permette di pronunciare neanche una singola sillaba, perché si è già voltato per raggiungere le loro potenziali reclute.
Nel frattempo, Beth raggiunge a sua volta la macchina di Aaron, aprendola dal lato del baule. Non deve prendere nulla, getta solo un’occhiata alle armi, alle munizioni e alle scorte di carburante per assicurarsi che sia ancora tutto lì. È ancora stordita da tutto quel fumo; il cuore le batte forte e le trema la pelle per le ore passate in moto, schiaffeggiata dal vento.
Daryl ha seguito il suo stesso percorso e, per la prima volta da quando l’ha rivisto, sembra imbarazzato dalla loro vicinanza. Dopo ore passate insieme a invadere il suo spazio personale, ora è strano rivederlo in piedi, a guardarla di sbieco come di solito fa quando è nervoso. È uno spettacolo piuttosto bizzarro, quello a cui assiste mentre lo osserva per qualche altro istante, con una mano ancora sulla maniglia del bagagliaio. Sotto i suoi stivali sporchi di fango, i pantaloni rattoppati, la cintura spessa, la camicia in flanella e il gilet da motociclista, lei sa che ogni suo muscolo è in tensione. La sua espressione, celata da un sottile strato di polvere, non è più tranquilla. È in quel momento che realizza che la sua dev’essere simile. Sono stati abbastanza vicini al fuoco da sporcarsi di cenere.
“Stai bene, signor Dixon?”, gli chiede, facendo scivolare nuovamente lo sguardo su di lui. Sta stringendo i pugni. È teso, attento, come se stesse aspettando che qualcuno, probabilmente lei, gli dica cosa fare.
La sua risposta è latente, lo sguardo profondo scava nei suoi occhi per qualche secondo prima di annuire e di arricciare le labbra tra i denti. “Sì, alla grande.” La bocca si curva in uno dei suoi rari sorrisi.
Adesso, spera di potergliene strappare uno ogni giorno.
“Dormirai in macchina di Aaron prima di dargli il cambio per il turno di guardia?”
Crede che sia questo il motivo per cui stava bazzicando lì intorno, prima di vederla e pietrificarsi. In risposta, alza le spalle, ma si dimentica di riabbassarle; le mani si fanno strada nelle tasche dei pantaloni.
“Beh, allora andiamo. Prendiamoci queste ore di sonno.” Beth si volta nuovamente verso il bagagliaio, decidendo di abbassare i sedili posteriori. Si sarebbero sentiti più sicuri con le armi a portata di mano, anche se l’idea di averlo così vicino basta e avanza.
È passato molto tempo dall’ultima volta che hanno dovuto dormire in uno spazio stretto. Infatti, quando richiude la portiera del bagagliaio, chiudendoli nel silenzioso abitacolo, le trema la mano. Le scappa una risatina isterica quando trova posto tra il petto di Daryl e una vecchia scatola di esche per pescatori, adesso riempita da proiettili da nove millimetri.
“Hai i miei capelli in faccia?”
Non le risponde, ma continua a muoversi, cercando di ritagliare il suo angolo di spazio. Dopo un po’, lo sente finalmente rilassarsi contro di lei.
La sensazione del suo petto che si espande sotto le sue spalle la fa rilassare a sua volta, spingendola a stringersi a lui finché non lo sente lungo tutta la lunghezza del suo corpo. Forse la sua testa è diventata ancora più invasiva.
“Hai… hai i miei capelli in faccia?”, chiede di nuovo, pensando di non essere stata ascoltata la prima volta.
Sente un leggero e incerto contatto sulla sua spalla. Il peso aumenta lentamente finché non riesce a riconoscere la sua mano, poggiata a malapena sul muscolo che le collega la spalla al collo. Le punte delle dita le sfiorano la clavicola, e il pollice arriva ad accarezzarle il collo. Un brivido le percorre la schiena. Si porta una mano al petto e la fa incrociare con la sua, intrecciando le loro dita.
“Mi piacciono.”

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Capitolo 9
*** Both ***


Allooora, da dove comincio? Beh, è passato più di un anno dal mio ultimo aggiornamento. Mi meriterei una vagonata di insulti, ma vi chiedo perdono in anticipo. Non è stato un anno semplice e non ho avuto tempo di fare praticamente nulla, quindi ho abbandonato completamente questo sito. Però ora le cose sono un po’ diverse, ho un po’ più di spazio e vorrei approfittarne per concludere le storie che ho lasciato in sospeso, e magari rimettere mano su altre traduzioni che non ho mai pubblicato.
Spero mi perdoniate e che abbiate ancora voglia di leggere queste storie.
Baci,
Heihei

 

Both.

 

Una volta sveglia, Beth si sente come se fosse appena uscita da una caverna buia. Era da un pezzo che non dormiva così. Prima di muoversi e aprire gli occhi, si accorge che la posizione del suo corpo è cambiata: è ancora supina, ma stavolta, rispetto a quando aveva il corpo di Daryl premuto contro la schiena, è completamente distesa. Aveva dato per scontato che si sarebbe svegliata quando lui sarebbe dovuto uscire. Guardando i sedili abbassati dell’auto supercarica di Aaron, sarebbe difficile credere che sia riuscito a scivolare fuori così in silenzio da non svegliarla. Voleva fare il turno di guardia con lui, ma evidentemente l’ha lasciata dormire.
Ad ogni modo, non è da sola in macchina. Gli stivali di Aaron sono distesi sul cruscotto; il sedile anteriore, dal lato del passeggero, è stato retratto al massimo in modo tale che la sua testa fluttui a pochi centimetri dalla propria. Se non fosse per le mani strette saldamente al fucile, la cui canna è sospesa contro un parabrezza sudicio, sembrerebbe quasi sereno, mentre dorme.
Beth cerca di trovare un via d’uscita veloce, facendo scricchiolare involontariamente un’innumerevole quantità di oggetti. Infatti, grazie ai suoi rumori, Aaron s’irrigidisce e spalanca gli occhi.
Non volendolo allarmare con movimenti rapidi, Beth si congela sul posto. I suoi occhi guizzano su di lei, e nel vederla rilascia un respiro profondo. “È l’alba?” Sembra confuso mentre osserva il cielo rosa dal finestrino, sfumato da strane tinte grigiastre.
“Credo di sì.”
Beth controlla che il suo pugnale e la sua pistola siano ancora dove li ha lasciati l’ultima volta, mentre l’ancora flebile luce del sole si fa strada tra i lembi di fumo. Visto che Aaron si è svegliato, è molto meno silenziosa nel raggiungere la porta e arrampicarsi fuori.
Appena si ritrova all’esterno, tossisce compulsivamente. Il fumo non è abbastanza denso da essere pericoloso, ma è molto peggio di com’era ore fa, quando si sono fermati. Cerca un fazzoletto nella tasca del giubbotto per legarselo intorno alla bocca e al naso, sperando che possa servire a qualcosa.
Aaron è proprio dietro di lei. A una certa distanza ci sono anche gli altri, sparpagliati in un punto dove il fumo è più sottile. A passo svelto, ci mettono circa trenta secondi a raggiungerli, ma prima incontrano Tanaka, anche lui con una bandana a coprirgli la bocca.
“Daryl lo sta attraversando in modo per aprirci la strada”, dice.
“Daryl è in mezzo?” Beth sente un buco aprirsi nel suo stomaco mentre osserva l’aria, ormai nera, che si alza su di loro.
“Gli ho dato una bombola d’ossigeno e una maschera”, dice Edwards velocemente, attraverso una mascherina chirurgica bianca. Tiene le mani alzate, come a volerla calmare. “Nel caso gli servissero”, aggiunge poi.
“Se la strada dovesse rivelarsi totalmente inaccessibile cosa faremo?” Shepherd si rivolge ad Aaron, che sembra più pallido di prima.
“Sfortunatamente le altre strade a nord sono messe molto peggio”, risponde incupendosi. “Tra inondazioni, incendi boschivi e mandrie ci restano poche altre opzioni concrete e sono tutte abbastanza… fuori strada.” Il suo sguardo viaggia su ognuno di loro, ma non sembra particolarmente nervoso. Evidentemente non vuole allarmarli. Se lui non si è fatto prendere dal panico, perché dovrebbero farlo loro?
A Beth, per il momento, non le importa granché della possibilità di dover sprecare riserve di carburante. Non riesce a smettere di pensare che hanno mandato Daryl in quel casino, da solo. In ogni caso, anche se sente la rabbia crescere, è certa che sia stato proprio lui a proporsi. Probabilmente è andata così e avrà avuto le sue buone ragioni, ma volta comunque le spalle a tutti loro e si allontana di qualche metro, sopprimendo il desiderio di aggredire qualcuno e affondando le unghie nei fianchi.
Mentre ascolta di sfuggita i loro discorsi si sforza di regolare il respiro; il cuore sta per scoppiarle in petto. Stare di nuovo da sola con loro la sta mandando in panico. Non può neanche fare respiri profondi, a causa del fumo che sta infestando l’aria.
Dobbiamo andare a cercarlo, dobbiamo attraversare l’incendio, pensa.
Deglutisce dondolando sui talloni. Subito dopo aver lasciato la fattoria, ogni volta che ha avuto un’idea non l’ha mai espressa. Non li conosceva ancora bene, non erano la sua famiglia e soprattutto non aveva ancora fiducia in se stessa e nel suo desiderio di sopravvivere. Anche se ora l’ha acquistata, quelle situazioni le ricordano molto quella attuale.
Dopo averli risparmiati un po’ dal fumo, Beth riapre gli occhi e li vede tutti, appoggiati alla Subaru verde e malandata in cui hanno viaggiato il dottor Edwards, la sua paziente, Shepherd e Tanaka. Lily non è ancora uscita dalla macchina per unirsi alla loro discussione. È seduta sui sedili posteriori, ma di lato, con le gambe che penzolano fuori dalla portiera aperta. Beth ha bisogno di battere più volte le palpebre per riconoscerla. L’ultima volta che l’ha vista era così ricoperta di sangue e sporcizia che era impossibile discernere molto del suo reale aspetto. Ora invece può vedere che è una donna minuta, che ha un viso triste ma armonioso, gli occhi verdi e chiari e i capelli castani mezzi ammaccati contro la testa. Tiene entrambi i pugni stretti: in uno stringe qualcosa di scuro, nell’altro qualcosa di chiaro e luccicante. I suoi occhi si fissano su di lei, in uno sguardo che a primo acchito si direbbe predatorio, ma avvicinandosi Beth si rende conto che è l’esatto contrario: Lily indossa la maschera terrorizzata e immobile di un piccolo roditore che spera che il predatore, più grande di lui, non l’abbia visto.
Beth comincia a camminare a passo più lento, abbassa il fazzoletto che ha sul volto e prova a sorriderle, ma non ci riesce. Ora che è vicina, nota che i suoi capelli ormai sono irrecuperabili, e che sta cercando di tagliarli per liberarsi dei nodi più grandi. In una mano stringe le forbici, nell’altra le ciocche che è riuscita a rimuovere.
“Vuoi una mano?”, le chiede, allungandosi verso le forbici.
È riuscita a tagliarsi solo le ciocche anteriori, quelle che le ricadevano sul viso e sulle orecchie. La guarda ancora una volta prima di annuire meccanicamente e passarle le forbici con mani insicure.
I suoi capelli sono appiccicati da fango, sangue, sporcizia, pus e altre sostanze che non riesce a identificare del tutto. Non c’è modo di aggiustarli, ma non sembra particolarmente turbata dal fatto che li sta tagliando direttamente dalla radice. L’hanno ripulita. L’odore di alcol isopropilico è ancora forte sul suo collo, dove ha dei piccoli tagli che Edwards deve aver rintracciato e disinfettato, perché sono lisci di bacitracina.
“Perché mi stavi seguendo?”, le chiede.
Beth impiega molto tempo a risponderle, anche se è perfettamente conscia di quanto sia inquietante continuare a tagliarle i capelli in silenzio quando le ha posto una domanda legittima. Il fatto è che non riesce a trovare una risposta che non sembri allarmante.
Ero sola. All’inizio pensavo che fossi un vagante, ma non è che ci sia molto da fare durante l’apocalisse.
“Non lo so”, dice finalmente. “Per una serie di ragioni. Molto tempo fa ho capito che per andare avanti in questo modo devi trovare qualcosa da fare, anche se non sai perché è importante.”
“In che senso?” Lily quasi gira la testa per guardarla, ma quando sente che sta ancora armeggiando con la sua nuca, s’irrigidisce all’ultimo secondo.
“Nel senso che devi avere uno scopo”, le risponde vagamente. D’altra parte non sembra avere nulla a cui fare riferimento. “Cosa facevi prima?”, le chiede poi.
Lily si prende il suo tempo prima di darle una risposta e, quando lo fa, parla con una certa tensione. “Ero un’infermiera. Mi prendevo cura di mio padre, di mia sorella… di mia figlia. Ero una mamma.”
Era. È tutto sempre al passato.
Segue un’altra lunga pausa da parte di Beth. Forse avere uno scopo non l’avrebbe aiutata allo stesso modo in cui ha aiutato lei.
“Se hai una preparazione medica, allora direi che hai uno scopo irrinunciabile”, le sussurra. “Sarò sincera, Lily. Ho difficoltà a credere che Alexandria sia davvero come la descrivono...”
Probabilmente non sarà come casa mia, o come la prigione. Bei posti in cui c’erano tante brave persone.
“...ma se esiste davvero questa possibilità, dovremmo andarci. Se esiste davvero un modo per riportare alla luce dei frammenti di ciò che abbiamo perso, trovarlo dovrebbe essere il nostro vero scopo.”
È comunque meglio che vagare tra i boschi.
Lily è scettica, ma senza tutta quella massa di capelli sporchi e rovinati sembra più luminosa, un po’ meno a pezzi. È tutto quello che ha potuto fare.
“E tu? Chi eri prima di tutto questo?” Corruga la fronte, sembra combattuta. Deve aver immaginato che Beth è giovane abbastanza da non avere chissà quante esperienze da adulta alle spalle.
“Avevo una famiglia, una casa. Una fattoria.”
“È tutto andato?” Non c’è nessuna cautela in quella domanda. Evidentemente già si aspetta una risposta orribile.
“Ho una...” le si stringe la gola. Non riesce a buttare fuori la parola sorella. “Maggie”, mormora semplicemente.
“È una buona cosa”, dice Lily atona. “Almeno hai ancora qualcuno.”
Beth si limita ad annuire, saltando la parte in cui dovrebbe essere onesta. Rivedere sua sorella potrebbe spezzarle il cuore per varie ragioni. Può già immaginare che la schiaccerà, in tutti i sensi. Quel messaggio sbiadito è ancora vivido nella sua mente:

GLENN VAI A TERMINUS
MAGGIE

“Ha rinunciato a me.”
Non voleva dirlo davvero. Le parole sono quasi venute fuori da sole e ora non riesce più a guardare Lily.
Lasciano entrambe che il silenzio, insieme al fumo, le avvolga. Nessuna delle due muove un muscolo per chiudere la portiera o per aprire la bocca e dire qualunque cosa. Dopo qualche secondo, però, Lily si strofina la testa spelacchiata e le spalle, spazzando via le ciocche di capelli rimaste. “Io non so neanche cosa sia successo a mia sorella. L’ho persa di vista ed ero disarmata, se non fossi fuggita sarei morta. Non l’ho mai più vista.”
Tra le nubi di fumo vedono Aaron avvicinarsi. “Abbiamo deciso di provarci, per non correre il rischio di non riuscire più a proseguire. Credo che a un certo punto incontreremo Daryl e ascolteremo anche il suo resoconto.”
Beth annuisce, svuotando i polmoni con un pesante sospiro di sollievo. Non vuole far altro che seguire la stessa direzione di Daryl.
“Verrai con me?”, le chiede un po’ incerto. Aaron è bravo a capire le persone, ma per qualche strana ragione non sembra aver ancora afferrato che lei non si fida di quella gente.
Scivola via superando Lily e ritorna all’auto di Aaron, abbassando di nuovo i sedili posteriori e sistemandosi dal lato del passeggero.
“Che ne pensi di loro?”, le domanda mentre cominciano ad attraversare la strada in cui il fumo si fa più denso. Stavolta sono loro in testa, il resto della carovana resta vicina. “In genere non invito le persone a venire con me finché non capisco chi sono davvero. Glenn crede che possano essere una speranza. Daryl era contrario, ma non ha davvero protestato. Se ci dovessero essere problemi, possono contare sulla sua parola?”
La bocca di Beth si è ridotta a una linea sottile che stringe tra i denti, mentre sceglie con attenzione le parole da usare. “Glenn non li ha mai incontrati, non sa assolutamente nulla di loro. Daryl li conosce un po’ meglio… o almeno dovrebbe.” Si lascia andare a un lento sospiro, stringendo di nuovo i denti.
“Se non ti fidi lo capisco. Neanch’io mi fido in realtà.” I suoi occhi si spostano leggermente per lanciarle un’occhiata veloce. “Pensavo volessi vederli per schiarirti le idee.”
“Ho già trascorso abbastanza tempo con loro e se quello non era il peggio potremmo anche fermarci e abbandonarli qui.” Si ritrova ad osservare le strade secondarie e i sentieri sterrati abbastanza larghi per la loro auto, strabuzzando gli occhi. Forse dovrebbero andarsene, Daryl potrebbe essere stato costretto a cambiare strada.
“Com’è stato?” Quella domanda gli è sfuggita dalle labbra e non appena se ne rende conto deglutisce e diventa leggermente più pallido. “Scusa… non devi dirmelo se non vuoi.”
Si chiede se debba lasciare in sospeso quella conversazione, mentre continua a fissare il parabrezza in cerca di qualche segno di Daryl nel fumo circostante. Ma tutto ciò che vede attraverso il vetro è il suo stesso riflesso. Ha un brutto aspetto, peggiore di tutti quelli che i suoi genitori o parenti avessero mai assunto. Le cicatrici sono diventate bianche e sottili ma le attraversano ancora il viso, dividendolo.
Un tempo ero carina, pensa, ma anche se è un pensiero triste non riesce a fare a meno di sorridere. Le piace questa nuova faccia, anche se è livida e piena di cicatrici. Quella che vede è un’altra persona, morta e rinata tra i mostri. Ciuffi di capelli biondi vengono mossi dal vento intorno a quel viso immobile. Continua a studiarsi finché non incontra i suoi stessi occhi e si stupisce per la loro freddezza.
“Ci sono alcune cose, in questo mondo… che non sono poi così male.”
Aaron aggrotta la fronte, ma non prova a contraddirla, anche se la sua reazione istintiva è l’incredulità. Aspetta, disposto ad ascoltare quello che ha ancora da dire.
“Voglio dire, è comunque terribile”, Beth scrolla le spalle. “È davvero brutto, ma in qualche modo mi sento… sveglia. Non so, sarà che quando è successo ero ancora una ragazzina… forse adesso mi sarei sentita così a prescindere. È che ci ho pensato. Nonostante le cose vadano male… è come se avessimo di fronte una lavagna da riempire.”
Pensa al momento in cui ha visto Daryl arrivare alla fattoria in sella alla sua motocicletta. È stata la prima volta che l’ha visto, sotto il sole cocente. In realtà, però, si sente come se l’avesse visto per la prima volta, per davvero, solo un giorno fa.
“È un’occasione per ricominciare, per lasciarci alle spalle le cose brutte del vecchio mondo.”
La fronte di Aaron si distende e, dopo un momento di silenzio, annuisce. “Credo di aver capito cosa intendi”, le sorride e non sembra che lo stia facendo solo per cortesia.
“Quando sono stata al Grady… ho avuto l’impressione che avessero gettato via tutto ciò che del vecchio mondo valeva la pena salvare. Hanno pensato di tenere in vita solo le cose peggiori ed è stato un vero peccato”, ghigna, cercando di soffocare una risata divertita. Non è divertente, non lo è neanche un po’, ma qualcosa di vizioso comincia a farsi strada nella sua mente: è il pensiero che non tutto sia dipeso da Dawn, che lei non fosse l’unico problema. “Hanno mantenuto la schiavitù, la paura, l’eccesso, lo stupro. Avevano creato una pseudosocietà in cui contava solo prendere il potere e sottomettere gli altri. È così che è stato.” Beth si guarda le mani, graffiate e livide esattamente come la sua faccia.
“...Questo non è quel che vedo adesso”, dice lui con tranquillità, gli occhi che guizzano sullo specchietto retrovisore per osservare il furgone che li sta seguendo. “Forse sono cambiati.”
“Forse.” Annuisce atona, pur sapendo che è davvero possibile. Qualsiasi cosa i cinici dicano, le persone possono cambiare. Lo fanno sempre e in continuazione, a prescindere dalla loro comprensione e volontà. Il fatto è che non sempre cambiano in meglio. “Sembrano diversi, migliori. L’ultima volta che li ho visti erano molto lontani dall’esserlo. Forse hanno ancora parecchia strada da fare.”
“Forse”, concorda Aaron emulando il suo stesso tono di prima e rivolgendole un sorriso incoraggiante. Rallenta, perché il fumo si sta facendo più denso. Hanno una visuale di circa trenta metri e non c’è ancora nessuna traccia di Daryl. “Ti ringrazio per avermelo detto, inizio a capirci di più.”
“Su di loro o su di me?” Beth si volta ad osservarlo.
“Su entrambi”, risponde lui, senza però ricambiare lo sguardo.
L’auto continua ad attraversare la nube di fumo e anche se rallenta resta in vantaggio rispetto alle altre, che si tengono a debita distanza. Anche se la visuale peggiora non accendono i fanali, forse per risparmiare le batterie.
“Puoi dirmi onestamente come stanno gli altri? Maggie, Glenn, Carol, Rick, Carl, la piccola, Michonne e Sasha?”
“A breve lo vedrai di persona.” Aaron alza leggermente il mento, ma il suo tono resta uniforme, come se quell’argomento non sia più leggero del precedente, come se non sia tranquillo come invece dovrebbe essere. “Sono sani e salvi all’interno delle mura, e spaventano tutti.” Adesso lascia che l’atmosfera si alleggerisca un po’, regalandole un altro sorriso.
“Ho paura...”, comincia a dire lei, ma si morde il labbro. Non è sicura di voler approfondire la questione, non se la sente di parlarne proprio in quel momento.
Voglio essere felice, quando rivedrò Maggie. Non voglio gridarle contro.
“Alla fine, è strano il pensiero di rivederli ancora.”
Si sente come se fossero ancora fuori dalla sua portata, come se potesse ancora succedere qualcosa che le impedirà di vederli. Non dovrebbe essere più semplice.
“Sai, ho già pensato a come potremmo dirglielo. Credo che per loro vederti tornare dalla morte sarà piuttosto… teatrale.” Ha usato il termine più delicato che potesse scegliere, le guance gli si colorano di rosso.
“Potresti dirglielo tu?” Per qualche ragione, il solo pensiero le fa tremare le gambe. Non riesce a immaginare di riuscire a reggersi in piedi di fronte a loro, non senza il corpo di Daryl a cui aggrapparsi.
Aaron annuisce, l’aveva già capito. “Certo”, dice senza esitazioni.
“È probabile che non ti crederanno.”
“Può essere.”
Daryl non ci aveva creduto, neanche quando se l’era ritrovata davanti agli occhi. Ha potuto vederlo nel suo sguardo: non sapeva se stesse guardando un fantasma o un’allucinazione, o se stesse sognando.
“Lui come sta?”, chiede piano, senza realizzare di non aver neanche detto il suo nome. Alla fine non importa, Aaron sa che sta parlando di Daryl. Del resto, chi altro avrebbe potuto essere?
Lui getta un’occhiata sulle sue mani, strette con forza ai lembi di tessuto della maglietta. “Meglio di come l’abbia mai visto”, dice, con un’aria così seria che le si annoda la gola. “Io l’ho incontrato poco tempo dopo che ti hanno sparato e posso dire che è passato dalla notte al giorno. È come uno che ha appena aperto gli occhi e ha scoperto che l’intera apocalisse è stata solo un incubo.”
Non ha esagerato. Anche lei ha avuto la stessa impressione.
“Da quando l’ho conosciuto è sempre stato forte e affidabile, ma anche profondamente spezzato… oltre che emotivamente paralizzato. Adesso è come se potesse camminare di nuovo.”
L’aria ora è meno densa, parte del legno bruciato e la lunga strada che stanno percorrendo riappaiono tra le colonne di fumo che strisciano sinuosamente verso il cielo. Una sagoma scura corre nella loro direzione.
“Eccolo lì”, dice Aaron. Il sollievo che traspare dalla sua voce è in perfetta sintonia con i battiti del suo cuore, che non riescono proprio a rallentare. Sta bene. Si è voltato verso di loro e adesso sta tornando indietro.
L’auto rallenta fino a fermarsi di fronte alla sua moto, che frena a sua volta. Non appena tocca terra con entrambi i piedi, Daryl abbassa il fazzoletto che gli copriva il volto e tira fuori la maschera per l’ossigeno dalla bisaccia, per poi respirare profondamente attraverso di essa.
Non ha un vero motivo per fare una cosa del genere, ma visto che il fumo sembra più sottile di prima Beth salta fuori dalla macchina e corre verso la motocicletta. Aaron, dal canto suo, non fa niente per fermarla.
“Hey!” Daryl lascia andare la maschera per qualche secondo e li chiama col fiato che gli resta. La parte superiore del suo viso, quella che non era protetta dal fazzoletto, è completamente nera di cenere. “Il peggio è passato! Tra circa un altro miglio la strada è libera, dovremmo approfittarne adesso che...”
Beth rallenta la sua corsa quando si trova circa a mezzo metro da lui, fermandosi completamente quando le mani raggiungono le sue spalle. Lui lascia cadere la maschera e le stringe la vita, apparentemente sorpreso di trovarsela all’improvviso così vicina. Accarezza la pelle del gilet con le dita, per poi farle scivolare sulla schiena mentre avvicina il viso al suo. Nonostante sia incredibilmente nervosa, ogni paura sparisce quando lo sente premere i palmi contro la sua schiena, anche se forse è stato solo un gesto impulsivo. Quando preme le labbra contro le sue, sente il suo stesso viso tremare, per poi ritrarsi un secondo dopo.
L’espressione di Daryl è di puro stupore; stupore che non si preoccupa di nascondere mentre arriccia le labbra tra i denti. Beth può ancora sentire il loro calore e il formicolio della barba contro la sua pelle. Vuole baciarlo ancora per non far sparire il suo sapore, ma è evidente dai suoi occhi spalancati e dalla sua espressione indecifrabile che un altro bacio lo farebbe secco.
“Non l’avevo mai fatto prima?”, gli chiede, e sente lo stomaco aprirsi nel momento che realizza che è proprio così. Non era sua intenzione prendersi tutta quella libertà, non se quello è stato il loro primo bacio. La sua mente fa ancora difficoltà a mettere insieme alcuni pezzi, ma da qualche parte nel profondo era certa di averlo già baciato. Lei sa che non stavano insieme, ma in un certo senso sì. O no? Non può essere stata solo fantasia. Non è possibile che la sua mente abbia costruito ricordi di ciò che voleva aver vissuto… o sì?
“No”, le risponde con un mormorio, schiarendosi la gola con qualche colpo di tosse. “No, non l’avevi mai fatto.”
“Oh.”
Ma lei se lo ricorda. Ricorda quel profumo e quel sapore, ricorda le sue mani che esplorano il suo corpo, ricorda le sue labbra e quello che ha sentito. Gli occhi di Daryl, però, sono troppo cauti. Poi, pensando a ciò che ha appena incontestabilmente e realmente sperimentato, anche se è stato assolutamente innocente e casto, Beth realizza che tutte quelle immagini sono state solo un inganno della sua testa malata.
“Beh, allora devo averlo voluto, una volta o due.” Sente le guance andare a fuoco. Sì, l’aveva decisamente voluto.
Daryl sembra incapace di reagire. È come se l’avesse drogato, quando in realtà gli ha solo dato un semplice, dolce bacio sulle labbra. Il resto della carovana è ancora dietro di loro e il fumo sta iniziando a farle lacrimare gli occhi. Sale sulla moto, prendendo posto dietro di lui e tirando la boccata d’aria più profonda che riesce a fare dalla bombola di ossigeno. Dopo un altro miglio percorso in quell’enorme nube di fumo, le file di alberi ricompaiono e la strada verso casa sembra di nuovo libera.

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