Riflessi nelle tenebre

di Deceptia_Tenebris
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Malboro rosse ***
Capitolo 3: *** Voce ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


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Riflessi fra le tenebre
 
 

Cecilia
 

La notte sembrava un gelido sentore di un’anima viva, pronta a ridare fiato ai comuni mortali.
La città vorticava in un riso folle, tagliente e la mia testa girava assieme ad essa, seguendo il ritmo di quel suono crudele, mentre i miei occhi vagabondavano vuoti senza osservare niente, confusi da quelle luci assordanti che mi trapanavano le retine. Sentivo le orbite andare a fuoco, il corpo fremere privo di controllo, lo stomaco contorcersi come una larva e qualcosa di duro premere contro la mia guancia. Cercai di allontanarla ma inutilmente, crollando di nuovo su di essa, rendendomi conto, in un lampo di lucidità, che ero distesa su un pavimento ed ero accerchiata da luci forti. Troppo forti. Non riuscivo a comprendere dov’ero e sentivo un lato della testa troppo pesante da sollevare. Una mano esitante mi sfiorò la spalla, ma la sentii a malapena.
Sembrava l’ombra sbiadita di una luce, in mezzo al buio che mi stava assorbendo dentro e che mi cuciva le palpebre con i gemiti deteriorati che provenivano in una parte indistinta della mia mente.
Udii poi qualcosa, forse il mio nome in lontananza, ma non feci segno di reagire, troppo presa dalle fitte che mi pugnalavano la pelle. Le sentivo tutte mentre mi congelavano i nervi fino alle viscere.  Dire che pativo il freddo era un eufemismo, ma non riuscivo a svolgere nessuna azione che mi permettesse di sfuggire a tutto quel gelo. Quel freddo e quell’oscurità, alimentati da un senso d’incoscienza, mi stavano portando a uno stato di paralisi mentale mai sperimentata.
La mano di prima poi, l’unica fonte di calore che il mio corpo avesse riconosciuto, si era dissolta nel nulla per poi essere sostituita improvvisamente da due braccia sorprendentemente forti, che mi sollevarono da terra da sotto le ascelle. Incominciarono a sballottarmi di malo modo. Qualcuno mi stava allontanando dal pavimento, verso una stanza candida come la neve e con bagliori argentei.
Sembrava la stanza di una fortezza di ghiaccio, uscita da un incubo.
E sebbene un senso di pericolo scattò flebilmente dentro di me come un campanello di allarme, non opposi resistenza e mi lasciai trascinare chissà dove, inerte come un fantoccio rotto.
Sentivo la testa a penzoloni sulla spalla mentre metà del volto era avvolto da una maschera composta da schegge di ghiaccio, rendendolo insensibile. Non percepivo altro, se non il buio.
E quelle luci. Quelle luci troppo forti e bianche, accompagnate da quella voce.
«Resisti.».
 
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Capitolo 2
*** Malboro rosse ***



Alice

 

 

«No…no! NO! Lasciami andare, LASCIAMI ANDARE!».
Cercai di divincolarmi con tutte le forze, mentre quella mano mi stringeva e mi trascinava rudemente in un vicolo all’angolo della strada, con il freddo della sera che trapassava i vestiti, dato che non avevo nemmeno il giubbotto addosso. Un attimo prima ero in uno strato di trance, avvolta dall’atmosfera da discoteca con la musica che mi esplodeva nelle orecchie mentre mi ero seduta momentaneamente sul divanetto, non abituata a un ambiente così affollato e caotico. E poi di colpo mi ero ritrovata in piedi, per strada, mentre tentavo disperatamente di liberarmi da una stretta ferrea che mi scavava la pelle del polso. O ero decisamente ubriaca o avevano messo qualcosa nel mio drink. Suppongo la seconda perché non avevo bevuto molto.
Nel frattempo, l’uomo non faceva altro che darmi strattoni in silenzio quando tentavo di fermarmi o oppormi, sussurrando una qualche imprecazione di volta in volta. Ma per il resto del tempo non emetteva un fiato, non mi guardava nemmeno e una paura folle, angosciante mi accalappiò il cuore. Cazzo, stavo per morire. Probabilmente quello voleva stuprarmi e sgozzarmi, per poi buttare il mio cadavere in qualche cassonetto dell’immondizia.
A quel pensiero, lacrime copiose iniziarono a scivolare sul mio viso e uno strano squittìo, probabilmente un singhiozzo represso, uscì dalle mie labbra.
I polmoni divampavano disperatamente in cerca di ossigeno mentre mi sembrava di ingerire fuoco.
Sudori freddi sgorgarono dai pori della mia pelle, creandomi ancora più ansia e vari capogiri mi bombardarono le tempie come i battenti di un castello infestato. Iniziai a divincolarmi con sempre maggiore forza, i muscoli a reagire ai miei istinti disperati di sopravvivenza con scatti e tremori, facendomi apparire, e sentire, come un preda nelle spire velenose del suo predatore che cercava inutilmente di liberarsi. Tanto intensa era la paura che stava prendendo possesso di me che non riuscivo nemmeno a comprendere dove mi stesse trascinando, in quale parte della città avesse deciso di sancire la mia fine dato che le vie apparivano, nel buio della notte, tutte identiche fra di loro. Le stesse strade lastricate, gli stessi archi che precedevano i portici. Solo lampioni e pochi bar.
Da lì a poco, lo percepivo in un preambolo della mia mente come un presagio nebuloso, mi sarebbe giunto un attacco d’ansia che mi avrebbe bloccata completamente.
Non riuscivo a riflettere in quelle condizioni, tutto in me presagiva allarme senza reazione. Ero nella merda fino al collo e quell’uomo continuava a stringere il mio polso, neanche volesse staccarlo dal braccio. Tentai di deglutire ma avevo la bocca secca. Mi sembrava d’impazzire, i battiti del mio cuore erano talmente intesi che li percepivo nelle gambe e nello stomaco come i rintocchi di un orologio. E ogni rintocco era un vuoto che mi scavava dentro.
Poi, come un lampo in un temporale, sentii per la prima volta la sua voce.
«Vedi di calmarti, tipa. Non ti voglio mica mangiare» sbuffò quasi annoiato.
Tipa. Ma che…? Istintivamente mi fermai, come se avessi preso una forte scossa e con uno scatto, lui mollò la presa su di me e si fermò dinnanzi alla mia figura, quasi volesse inghiottirla. E poi vidi il suo sguardo e mi sentii avvampare dal petto alla gola, fino a farmi bruciare le orecchie.
Mi rivolse un mezzo sorriso, quasi un ghigno divertito.
Mi stava palesemente deridendo. «Cosa hai? Il gatto ti ha mangiato la lingua?».
Quelle parole furono l’atto finale in cui riuscii a recuperare il dono della parola.
Feci un passo indietro e con un’occhiataccia, gli sputai in faccia quello che avevo da dire.
«Chi cazzo sei?». Feci di nuovo un passo indietro, pronta a correre verso la discoteca per recuperare tutto ciò che avevo e chiamare qualcuno per farmi recuperare da quel pazzo. Non sapevo nemmeno spiegarmi il perché non avessi semplicemente alzato le chiappe per levarmi dai guai invece di rimanere qui a sbraitare contro sto qui, per avere spiegazioni.
Spiegazioni che non mi avrebbe mai fornito. “Stupida” mi rimproverai.
Mi fece di nuovo un altro sorriso. Più sincero. «Hai recuperato la lingua, molto bene».
Poi il suo sorriso svanì e si fece serio, gettando delle strane ombre sul suo sguardo già indecifrabile. I tratti del suo viso sembravano mutare in base a ogni suo sentimento e non sembrava possedere un volto suo, sebbene i colori e le forme restassero statici.
«Non voglio farti del male». Una dichiarazione dal nulla che nessuno aveva preteso che chiarisse.
Roteai gli occhi al cielo a quella incoerenza, sentendo ancora il polso pulsare.
«Eh, come no» sbuffai a mezza voce. Ormai  mi ero calmata ma pronta a scappare da un momento all'altro, la mano che istintivamente cercava il cellulare che non avevo con me.
«Beh, di certo non sarei qui a chiacchierare amabilmente con te» ribatté.
“Touché. Che poi chi utilizza più il termine “amabilmente”?” pensai.
Ero però anch’io fuori di testa se pensavo a certe frivolezze mentre un ragazzo mi aveva trascinata in un angolo della città contro la mia volontà. Gli lanciai un’occhiata per osservarlo meglio.
Era giovane, massimo sui ventitré anni, alto, con i capelli chiari sconvolti dal vento e vestito di scuro, tanto che si mimetizzava con l’atmosfera; le uniche cose spiccavano in lui era la carnagione bianchissima, praticamente nivea e il spessore del suo sguardo. Le labbra parevano dipinte con acrilico bianco. Sembrava un vampiro. Incrociai le braccia con atteggiamento difensivo.
Era una situazione adir poco surreale e mi girava ancora la testa, ma questa volta non per il panico.
Non mi sentivo molto bene. «Chi sei?» ribadii.
Il ragazzo ritornò a sorridere. Sembrava che non aspettasse altro che quella domanda.
Come se avessi detto l’unica cosa giusta del momento. «La persona che ti cambierà la vita.».
Ci un attimo di silenzio non solo fra di noi, ma anche nella mia testa. Come se dovessi assimilare e realizzare quella frase un attimo in più del solito. Poi il mio cervello riprodusse solo: “Oddio, da che ospedale psichiatrico sei uscito?”.
Mi sforzai a sorridere, ma ne uscì una smorfia nervosa. «Tu saresti chi?».
Non so perché ma mi ricominciai a tremare come un fuscello e mi resi conto che ero coperta solo da uno straccio di vestito che avevo scovato infondo all’armadio per quella sera. Mi strinsi le spalle.
Di certo non avevo programmato questo fine serata. Il tipo, accorgendosi che ero un essere umano dotata di una temperatura corporea incostante e che non ero un termosifone umano, mi lanciò uno sguardo stranamente premuroso e con un gesto di nonchalance infilò la mano nella tasca del suo cappotto, rovistando per trovare qualcosa. “Ecco, adesso starà cercando un coltello per sgozzarti”.
Fu un pensiero fulmineo ma che morì così come era nato. Mi sentivo poco bene.
Con un sospiro di sollievo, il tipo tirò fuori quello che dalla forma mi sembrò un pacchetto di sigarette e un accendino. Respirai affondo e percepii il mio sguardo illuminarsi, neanche avessi assistito ad un miracolo. Avevo bisogno di una cicca in quell’esatto momento, lo sentivo dal mio corpo che si era proiettato verso quel pacchetto come un magnete.
Il ragazzo, con calma snervante, sfilò fuori un paio di cicche e me ne porse una senza dire nulla. Io per un momento non sapevo se accettare o meno, ma il corpo reagì prima della morale e la mano afferrò quella che sembrava un oggetto di tregua o intesa. Optavo per l’ultima.
La mia pelle sfiorò casualmente la sua e un moto di stupore mi colse inatteso: era…calda.
Calda e asciutta, confortevole da turbarmi ancora più di prima. L’unica fonte di calore in una nottata di gennaio. Un brivido di piacere formicolò dal punto esatto in cui avvenne il contatto ma cercai di non avvicinarmi di più e di rimanere al mio posto, sebbene morissi di freddo. «Grazie».
«Di nulla» sospirò. L’ombra di un sorriso sembrava non abbandonare mai la sua bocca e i suoi occhi mi stavano ispezionando per bene il viso. Cosa cercasse, non lo capivo.
«Comunque sì, sono la persona che ti cambierà la vita. Hai capito bene» riprese.
Appariva tranquillo, come se stessimo discutendo del tempo. Si mise la cicca fra le labbra e l’accese, inspirando con calma. Lo guardai sconcertata. Era perfettamente serio.
«E avresti un nome “persona che mi cambierà la vista”?»
Fece un altro tiro, poi un sorriso in silenzio. Con l’accendino in mano, lo accostò alla mia faccia e mi accese la cicca cercando di catturare il mio sguardo, che evitavo palesemente di incrociare. Svoltai la testa verso la strada e inspirai lentamente, realizzata. Malboro rosse, riconobbi. Ci voleva. Feci un altro tiro e questa volta lasciai che restasse a intossicare i miei polmoni più del solito per poi espirare. Mi girò la testa e mi appoggiai alla parete, cercando di non svenire o vomitare dato che non avevo mangiato nulla.  Aspettavo che mi rispondesse.
«Federico».
Mi voltai a guardarlo e lui ricambiò lo sguardo. Altro silenzio. Non accennai ad aprir bocca.
«Tu invece sei Alice» concluse. Accennò una risata fra le nubi velenose vedendo la mia espressione. «Sì, so chi sei» dichiarò, come se mi si leggesse in fronte il nome che mi avevano affibbiato. Questo era un maniaco. «Questo dovrebbe inquietarmi parecchio, lo sai vero?».
«Lo so, è per questo che mi diverto».
 “Tu non sei apposto”. Erano le parole che erano scandite chiaramente in faccia.
Rise e la sua risata era venata da una strana amarezza. Me le aveva lette in faccia.
«Non sei la prima che me lo dice» sibilò, per poi recuperare quasi immediatamente il buon umore. «Devo proporti una cosa». No, sto tipo non era lunatico. Per carità.
«E non potevi propormela in una strada più affollata e richiamando la mia attenzione in modo meno drastico? Sai, senza farmi venire un attacco di cuore» sbottai sarcasticamente.
Giurai a me stessa che se aveva fatto tutta quella scena per chiedermi il numero di telefono o simili, gli avrei spento la cicca sulla lingua o in fronte. Che poi non me la sentivo di sopportare simili stronzate se poi riuscivo a malapena di finire la sigaretta da quanto stavo male: il sudore aveva incominciato a imbrattare la fronte, mi girava troppo la testa e vari attacchi di nausea iniziarono a farsi stadio in gola. Volevo solo buttarmi a terra o stendermi da qualche parte, pur di essere comoda.
«Nah, non sarebbe stata la stessa cosa».
«Immagino» tagliai corto.
«Allora, vuoi ascoltare la mia proposta?» domandò.
«Mi hai trascinata senza dire una parola, facendomi pensare che volevi stuprarmi o non so che altro e tu pretendi che ascolti quello che vuoi propormi –così a caso- perché sì, perché dovrei? Ma che cazzo di gioco malato è? Cos’è uno scherzo, una scommessa?» gli ringhiai contro. Il polso non la smetteva di bruciare e stava superando il limite.
«Beh, sai il mio nome» ribadì con calma, «E non è uno scherzo né niente di simile. Noi alla fine ci conosciamo più di quanto tu possa credere, veramente.».
Ma che…? «Ah beh, allora a sto punto sposiamoci» insinuai velenosa.
Troppe stronzate in una volta, davvero. E il fatto che lui ne sembrava seriamente convinto!
Doveva essere un pazzo scatenato, quasi quanto me, che non ero ancora scappata a gambe levate.
«Alice?».
«Ehm?».
«Ti senti poco bene?» . Appariva come una voce lontana. Si era spento ormai la cicca da un po'.
Respirai affondo e svoltai lo sguardo su un lampione non poco lontano che emetteva una luce adir poco abbagliante. Provai a fare un altro tiro, non riuscendo nemmeno a rispondere a Federico, ma la testa questa volta girò troppo forte e la cicca mi cadde di mano. Chiusi gli occhi e cercai di respirare aria fredda per ristabilire un po’ di lucidità. Sentivo tutto ma non volevo reagire.
Volevo solo chiudere gli occhi un attimo e vedere il buio.

 

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Capitolo 3
*** Voce ***


Cecilia
 
 
 
Uno strano lampo di luce, accompagnata da un ronzio metallico, mi risvegliò bruscamente.
Socchiusi le palpebre, riconoscendo quel classico profumo d'incenso che aleggiava nella mia camera per coprire quello da fumo che si sentiva in tutta la casa. Con un mal di testa da record, che madonna santissima preferivo trapanarmi la tempia con un proiettile a bruciapelo, cercai di sollevare cautamente la testa con pochi risultati. Riuscivo a malapena ad aprire gli occhi e sentivo uno strano sapore acido in bocca, tutto pastoso. Un bel risveglio insomma.
«Buongiorno signorina. Sono le sei».
Oddio no. Non quella voce. Pregai che fosse semplicemente un’allucinazione per i fumi dell'alcool come per Edgard Allan Poe o che fosse un incubo in cui potevo risvegliarmi, con la certezza che lei non esistesse. M'immaginai con tutte le forze che quella voce fosse un frutto malato della mia mente. Ma a quanto pare non era così.
«Sveglia cogliona, lo so che ti sei sveglia. Non fingere».
Perfetto. Non era né un’allucinazione né un incubo, ma sicuramente la realtà. Ed era peggiore.
«Buongiorno anche a te, mammina cara» biascicai laconica, rintanandomi sotto le coperte.
Sclero fra tre, due, uno… «Mammina cara un corno, hai capito stronza? Alzati subito se non vuoi che ti alzi io come si deve. Con tutte le botte che dovresti meritarti, altroché» ringhiò.
Era sempre bello svegliarsi con una mamma affettuosa come la mia. Miele per le orecchie.
«Alzati ora, Cecilia. Se non vuoi che m’incazzi» replicò, trattenendosi di sbuffare come una stufa.
Se non vuoi che m’incazzi. Mi trattenni a replicare velenosamente per sfidarla e mi morsi la lingua. Trovavo sempre divertente quella frase perché poco dopo partiva giù di botte, da donna coerente che era. Ma era meglio ascoltarla, mi sentivo troppo uno schifo per discutere di prima mattina.
Con uno sforzo brutale, costrinsi il mio corpo a sollevarsi dal letto e l'ennesimo impatto con la realtà fu la figura di mia madre nell'angolo della stanza, che mi osservava cupamente, l'espressione del viso distorta da una furia bestiale a stento controllata. Dovevo ormai essere abituata a quella scena o almeno reagire con indifferenza, ma la medesima paura di quando ero piccola mi bloccò nel mio posto. L'avrei sempre detestata per il potere che aveva su di me quando mi guardava in quella maniera. Era più forte di me, non la sopportavo e automaticamente sentivo le sue mani su di me.
Ci un silenzio pesante, talmente denso da poter essere tagliato con un coltello. Non osavo respirare.
Lei trasse un respiro profondo, le narici a fremere impercettibilmente. Lo fece due volte di fila.
«Vestiti e vai a scuola, Cecilia. Non ti voglio neanche vedere in casa, sennò è la volta buona che ti mando in ospedale. Fuori dalla mia vista e basta» sussurrò. Era rimasta calma e aveva scandito lentamente le parole, come se volesse marchiarle a fuoco nella mia mente.
Non feci segno di reagire. Inchiodai gli occhi nelle assi del pavimento e attesi che se ne andasse dalla mia stanza, con il cuore che palpitava sulle orecchie. “Vattene via. Vattene”.
Era questo che mi dicevo da quando aveva incominciato a picchiarmi da piccola, quando desideravo semplicemente che non mi sfiorasse più. Una volta lei non era così. Ma quella era un'altra vita.
Dopo un paio di attimi, se ne andò, i passi a echeggiare per le scale. Ed io ritornai a respirare.
Con la lentezza di un bradipo, mi sistemai e mi vestii dopo aver bevuto una tachipirina per far tacere i fuochi d'artificio che scoppiettavano dentro la testa. Stavo utilizzando tutte le mie forze pur di uscire fuori da lì. Non volevo neanche sapere com'ero giunta a casa dopo la serata di ieri, anche se mi ricordavo vagamente di aver bevuto. Non m'importava. Con l'attività motoria di uno zombie, uscii di casa e sebbene camminassi piuttosto lentamente, feci in tempo a prendere il pullman senza ritardi.
Non che la mia voglia di andare a scuola quel giorno fosse al massimo eh.
Quando giunsi nella mia fermata, lì ad attendermi c'era il solito gruppo che appena mi vide, sbarrò gli occhi e assunse un’espressione o perplessa o stupita. Tutti contemporaneamente.
Dovevo essere uno spettacolo per lo sguardo.
«Madonna che aspetto... ».
«Di merda».
Guardai prima Veronica, che aveva incominciato la frase senza sembrare troppo maleducata, per poi spostare lo sguardo su Michael che aveva chiarito il concetto senza tanti giri di parole.
Sbuffai e sorrisi debolmente. «Ho passato giorni migliori. Andiamo?».
                                                                                                    
***
 
C’era sempre qualcosa d’inquietante nel qualcuno che stava ad ascoltarti. Ma ad ascoltarti veramente. Il volto contratto, inespressivo ma concentrato, la pelle del viso lievemente tesa come il sospiro mancato di un morto, decorato da un pallore spettrale simile alla carta che assorbiva le parole d’inchiostro che dettava la mia voce, le orecchie in allerta, l’ombra scura che velava lo sguardo quasi come in un senso di vuotezza che desiderava scavarti l’anima e accogliere tutto ciò che stavi buttando fuori. Il silenzio.
In quel momento, la benché minima traccia di quella sensazione non era presente.
Loro mi osservavano e la loro posizione suggeriva perfino un coinvolgimento emotivo di cui ero conoscenza, ma il silenzio non era liquido o sospeso, ma inquinato da tutti gli altri pensieri e problemi che li affliggeva dentro, destando quella poca attenzione alla sottoscritta che stava dando voce ai demoni interiori che mi stavano divorando viva. Non mi sentivo ossessionata. No, quello era un termine troppo crudele e specifico. Era la semplice verità e quella scioglieva la mente come acido. Quando terminai, assunsero quell’espressione che temevo tanto nelle persone quando mi guardavano. L’espressione di una che sembrava uscita di senno.
Poi Michael scoppiò a ridere nervosamente. «Non saprei seriamente che dirti».
Feci una smorfia e con un gesto sistemai una ciocca scura. «Sei proprio di grande aiuto».
Veronica mi guardò con serietà, anche se si vedeva che aveva per la testa altro. Probabilmente stava pensando a suo fratello, che non era uno stinco di santo. Non era andato a scuola nemmeno quel giorno, glielo si leggeva in faccia dalla preoccupazione che le segnava la fronte con delle impercettibili rughe. Mi sentii in colpa all’istante per non aver pensato neanche a lei.
«Non è la prima volta che ti capita una cosa simile…» incominciò. Mi lanciò un’occhiata di rimprovero. «E tu dovresti smetterla di bere come fa tua madre e di fare l’irresponsabile». Il viso si oscurò, parve sibilare dall’irritazione. «Soprattutto se è vero quello che dici».
Un luminoso abisso di consapevolezza mi colpì in pieno petto.
Svoltai il viso, non avendo nemmeno il coraggio di guardarla. Non avrei mai realizzato davvero quelle sue parole.
«Lo so.» mi limitai a dire, piena di vergogna.
L’ennesima ora di supplenza stava incorniciando quel momento catastrofico.
Con le guance che ribollivano e con l’attacco di tachicardia dovuta dall’ansia inattesa, mi rialzai barcollante e prima che il mio amico riuscisse a prendermi il polso e bloccarmi per farmi ragionare, sfuggii via senza una parola, con la pelle che stava ardendo incandescente. Uscii dalla porta senza chiedere il permesso al prof di turno, che per giunta non mi diede il minimo della sua attenzione, e sentii qualcuno che chiamò il mio nome. Quelle parole che Veronica aveva espresso con tanta asprezza, colpirono il segno come mi era accaduto spesso quando mi diceva la verità in faccia. Quando quei tratti armoniosi si mutavano inaciditi e taglienti quando si sentiva in dovere di riferire una realtà che non le piaceva, che non entrava nella sua filosofia. E il bere non faceva parte di essa.
Avevo bevuto, quella sera, per la violenta litigata che aveva avuto con mia madre, troppo intensa per essere sopportata normalmente. Mi sentivo giustificata, mi sembrava una scusa più che valida. Così avevo bevuto per scordare, anche se avrei dovuto incominciare a scrivere sulla mia vita per dimenticare veramente. Che cosa avevo pensato quando stavo mettevo giù l’ennesimo bicchierino?
Mi ricordo che sogghignavo amaramente. “Si beve per ricordare e si scrive per dimenticare”?
Faceva parte di un libro che avevo letto…  Il gioco dell’angelo forse? Sì, era quello.
Mi era piaciuto così tanto.
Ma quella persona, quella che mi aveva “aiutata”, che aveva sussurrato il mio nome.
E che non mi aiutava a scordare. Non era la prima volta che la incontravo.
Sembrava che m’inseguisse dappertutto, che non mi lasciasse un attimo di respiro. Sentivo i suoi occhi che assecondavano ogni movimento, anche da lontano, sebbene non lo avessi mai visto in faccia. Era un'ombra silenziosa che non demordeva, un alone oscuro che non possedeva un volto e che negli ultimi mesi, da quasi un anno, mi stava trascinando verso un baratro d'insicurezza e paura che mi rievocava dolori troppo intensi da rivivere. E che mi portavano a velocizzare il passo.
Mi rifugiai in bagno, mentre i postumi della sera prima improvvisamente desiderarono allegramente di farsi sentire di nuovo.
Mi ritrovai poco dopo piegata a metà nel water. Vomitai in maniera così inattesa che in un attimo di tregua, mi resi conto che tremavo convulsamente, sudavo e lacrimavo.
E percepivo un gran freddo, che non aiutava di certo nella mia posizione, con il polso che aveva un alone rosso, forse perché mi c’ero appoggiata prima senza che me ne accorgessi. E avevo male dappertutto. Non riuscivo più nemmeno a reggermi per le braccia da quanto tremavano. Ero ancora in quel bagno lercio quando bussarono lievemente alla porta.
Con tre colpi quasi inesistenti. Conoscevo bene quel modo dii agire e d'istinto, forse per le parole che mi aveva detto Veronica e che ricominciarono nuovamente ad echeggiare nella mia mente, sentii dell'acido salirmi in gola e ritornai a salutare quello che in quel momento era il mio migliore amico. Il bussare alla porta si fece più insistente. Ansioso. Paranoico.
Con un colpo di tosse che mi bruciava la gola, dissi: «Lasciami stare.».
«Dai Cecilia. Per favore, fammi entrare». La sua voce era supplichevole. Dolcissima.
Il mio tono invece si fece più rabbioso. E disperato. Non volevo che entrasse, per niente al mondo. «Ti prego, lasciami stare. Non voglio nessuno... Soprattutto te. Non è il momento» cercai di farlo ragionare. Desideravo solo che uscisse dal bagno delle ragazze e ritornasse da dove era venuto, lasciandomi sola. Batté di nuovo la porta un paio di volte, poi non fece più niente.
Rimase lì, in silenzio, in attesa.
Poi parlò, con la sua voce che non era cambiata di una nota. «Lo sai che Veronica ha ragione».
Sputai sul water infastidita, per poi mettermi la testa fra le gambe per riprendere fiato.
«Lo so che ha ragione. Non avevo bisogno che venissi tu per ricordarmelo» gli ringhiai addosso.
Continuava a farmi ricordare. A non farmi trascurare neanche un singolo dettaglio di quello che mi bruciava. Mi veniva solamente da piangere, volevo che la sua presenza scomparisse senza lasciare nessuna traccia, che abbandonasse gli incubi di cui era diventato felicemente il re.
Sebbene il suo tono e i suoi modi, pescati dall’arsenale del diavolo per trascinare la mia anima in un bivio di terrore e tormento, facessero intendere tutt’altro.
 «Allora perché non la ascolti? Apri gli occhi una volta tanto». Eccolo di nuovo.
 «Lasciami. In. Pace. Lasciami!» urlai, stringendomi la testa fra le mani, afferrando le orecchie come se volessi strapparmele di dosso e non sentire più nulla. «Qualcuno mi aiuti!» gridai con tutto il fiato che avevo. La voce rimbalzò nelle pareti del bagno.
Ci fu interminabile momento di silenzio, con le mie urla che mi rimbombavano ancora in testa, io che attendevo un movimento o un colpo che sancisse la mia fine, qualsiasi cosa fosse.
Ed eccola lì, l’inquietudine di qualcuno che ti stava ad ascoltare. Niente calore, niente morbidezza. Solo uno stato mentale di statica freddezza che accoglieva tutto come un pozzo interminabile.
«Ci sono delle tachipirine nella tasca dei pantaloni. Prendile» sussurrò rigidamente, sentendo che stava accennando un passo in più verso la porta della mia cabina, per poi fermarsi e prendere saldamente la maniglia e percuoterla violentemente, come se avesse l’intento di strapparla. Iniziai a singhiozzare e a tenermi stretta fra le braccia, mentre sentivo che la presa diventava sempre più ostinata mentre non possedevo nel frattempo nessuna arma che mi potesse essere utile per difendermi da quel pazzo.
«Ti prego, ti prego...».                                                                                                                                                                                              
«Ragazza, apri la porta! Che succede?! Apri subito!». Ma quella non era la sua voce. Sembrava...una bidella. Quella che faceva sorveglianza alla terza ora. Con ancora il viso bagnato dal pianto, aprii la porta chiusa a chiave, completamente sfinita e pronta per ricevere su parole per urlato come se mi stessero squarciando viva, ma non feci nemmeno in tempo a riprendere fiato o a battere le palpebre, che fui presa e scaraventata per terra e due mani fortissime presero a spingermi contro il pavimento, mentre il suo corpo solido stava sopra di me per tenermi ferma. Iniziai a dibattermi ferocemente, le braccia distese lungo i fianchi bloccate dalle sue ginocchia. 
Ero completamente immobile, gli occhi serrati dalla paura più folle. Ero sicura che se li avessi aperti, sarebbe stato l’ennesimo errore che mi sarebbe costata cara la vita. O la sanità mentale.            
«Apri gli occhi Cecilia» sibilò. «Lo dovrai fare, lo sai vero? E allora ti renderai conto di chi sei».  Mi lasciò addosso un vago odore di fumo. Le riconobbi subito: malboro rosse. Le mie preferite.
 
***
 
 «Dai tesoro, svegliati. Fra poco arriva il pronto soccorso». Sentii qualcuno che mi stava tenendo le gambe, una mano leggera ma fresca che mi dava dei buffetti sulla guancia per tentare di farmi reagire. In un angolo recondito della mia testa, mi accorsi che non la smettevo di tremare e che avevo il corpo gelido. E che ero distesa su un pavimento. Questa sensazione sapeva molto di un déjà-vu parecchio sgradevole. Con perfino le palpebre che tremavano, aprii gli occhi e vidi quattro volti distesi su di me che mi osservavano tra il preoccupato, l’ansioso e il severo. Una delle bidelle, una con i capelli corti e rossi dal viso simpatico, da folletto, sorrise sollevata e fu la prima che vidi.
«Oh finalmente. Hai battuto la testa, mi sai dire dove ti fa male?».
Un dolore pulsante all’altezza della tempia destra rispose a quella domanda e con un dito, m’indicai il punto. Non riuscivo a parlare, la lingua sembrava fatta di carta vetrata. La bidella annuì. 
«Riesci a parlare? Sai dirmi il tuo nome? Prima hai anche urlato. C’è qualcuno che ti ha fatto questo?».
Annuii, le labbra secche e screpolate. «Sai dirmi chi?». Negai senza rispondere.
Le bidelle si scambiarono uno sguardo serio.
Madonna, neanche fosse in punto di morte. Con uno sforzo sovrumano, feci intendere che desideravo alzarmi e appoggiarmi da qualche parte, ma la bidella di prima mi fece segno delicatamente di mettermi giù con un sorriso e mi sorresse la testa mentre Veronica, che a quanto si diceva del suo viso era sia preoccupata, che furiosa, che in preda ai sensi di colpa, le porse una bottiglia d’acqua con una pastiglia che mi fecero buttare giù lentamente, senza il rischio che soffocassi. Una bidella bionda, piuttosto in carne e con un trucco improbabilmente blu, aggiunse: «Per fortuna abbiamo trovato quelle tachipirine sulla tua tasca, sennò non avevamo niente da darti. Dato che la tua amica ci aveva avvisato delle tue condizioni» mormorò piano, lanciando un’occhiata con l’interessata.
Quella non ricambiò lo sguardo.
Rimase in silenzio, non guardava nessuno se non il muro, il volto contratto da sensi di colpa così intensi da divorarle ogni altra espressione facciale. Non le diedi molto conto, perché rimasi paralizzata per ben altro. Furono quelle parole che disse prima:
Per fortuna abbiamo trovato quelle tachipirine nella tua tasca”.
Quelle tachipirine, nella mia tasca, non le avevo mai messe però. E appena arrivò l’ambulanza per scortarmi in pronto soccorso, con gli uomini che mi parlavano gentili e mi facevano delle domande mirate per capire la mia situazione, riuscii a realizzare che stavo impazzendo. Lo capii da come mi guardavano: nessuno mi credeva.
 

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