Iniezioni di humour

di Hiroshi84
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L’aprimitili ***
Capitolo 2: *** Il mercataro intelligente ***
Capitolo 3: *** I due Testimoni di Geova ***
Capitolo 4: *** Perché lo chiamano Mar Nero? ***



Capitolo 1
*** L’aprimitili ***





In quell'anno lavoravo dai Palazzo in qualità di commesso/magazziniere in un negozio di articoli casalinghi, precisamene per il quarto anno consecutivo e presto mi sarei licenziato in quanto ero in attesa di essere chiamato per il servizio militare.
Lavorare in quel negozio non mi dispiaceva affatto, ma c'erano parecchie note negative, a cominciare dagli orari di chiusura quasi mai rispettati, una salario piuttosto basso che si attestava sulle 240 euro al mese, l'intransigenza e la severità dei dispotici titolari ed infine i clienti che mi facevano andare fuori di melone in svariate occasioni.
In un tardo pomeriggio, mentre stavo sistemando in uno scaffale delle caffettiere e dei thermos, entrò una signora di mezza età dall'aria chiaramente borghesotta.
Non mi fu difficile etichettarla tale per via del ‘Buonasera!’ detto in maniera immodesta, dall'andatura rigida come se gli avessero piantato un palo nel culo e dal suo elegante completo grigio, lo stesso grigio dei suoi capelli.
Con circospezione cominciò a guardare in giro toccandosi più volte con il pollice e l'indice la montatura dorata degli occhiali e pregai mentalmente che non venisse a disturbarmi.
Riconoscevo praticamente fin da subito gli scocciatori e ahimè le mie preghiere non furono ascoltate.
«Mi scusi, sto cercando un aprimitili!» esordì.
«Un apri che?» chiesi, non afferrando cosa intendesse dire.
«Un aprimitili!» disse ancora.
«Un aprimirtilli?» storpiai erroneamente
«Un aprimitili!» mi corresse.
«Un aprimitili?» ripetei alzando gli occhi alla Leo, personaggio interpretato da Carlo Verdone in “Un sacco bello.”
Non ne venni a capo, la cliente non solo non mi aiutò ad identificare l'arnese dal nome curioso ma continuò la tiritera con frasi del tipo:
«Oh insomma, non le sto chiedendo nulla dell’altro mondo, desidero un semplice aprimitili!» - «Come fa a non sapere cos'è un aprimitili? È o non è un commesso in questo casalinghi?» - «Vuole che le faccia un disegnino?»
Non mi restava che affidarmi all’aiuto ad uno dei due anziani titolari, un azione che avrei preferito evitare in quanto avevano la tendenza di lamentarsi e di rimproverarmi aspramente se non riuscivo a servire adeguatamente i clienti.
«Signora Ada, la cliente desidera un aprimitili…» esposi non completando la frase temendo una sua prevedibile reazione non positiva.
«Aprimitili? E che è? Secondo me hai capito male!» mi disse sbuffando la vecchia.
La borghesotta ci squadrò con fare altezzoso e poi sdegnato, ci mancò poco che ci identificasse come degli incompetenti.
Persino il marito della proprietaria fu chiamato in causa ma si sentì anche lui in difficoltà e sollecitò la cliente nel dire in parole povere cosa fosse l'oggetto in questione apparentemente sconosciuto.
Non c’era verso, l’essere sibillina e la bastardaggine di quella lì proseguiva ad oltranza, sembrava farlo apposta.
Finché Pino, uno dei due figli dei titolari, essendo un esperto ed un perfetto conoscitore delle attrezzature casalinghe, avendo prestato in qualche modo attenzione alla situazione creatasi, lasciò per un attimo in sospeso un'altra cliente e andò a risolvere l’enigma.
«Giuseppe, la signora vuole un apricozze, i mitili sarebbero i molluschi!» mi informò acidamente e rimproverando il sottoscritto di peccare di ignoranza.
Inutile dire che i Palazzo diedero appoggio al figlio facendomi sentire un imbecille dopo che nemmeno i due coniugi stessi sapevano che fondamentalmente l'aprimitili rappresentava un maledetto coltellino.
La donna in “grigio” fu servita e finalmente si levò dalle scatole.
E dulcis in fundo, verso l'orario di chiusura, un'altra signora attempata volle da me un particolarissimo set, utilizzato ad esempio per la fondue di formaggi, di carne o per la cioccolata, ahimè collezionando immancabilmente l’ennesimo rimbrotto da parte dei titolari.
Fu la prima volta che sentii parlare dell’elvetico set da fonduta formato da un caratteristico caquelon, (una pentola in ghisa, terracotta o porcellana) un prodotto prevalentemente adoperato dagli svizzeri, dai piemontesi e dai valdostani di cui stranamente eravamo forniti.
Inutilmente provai a giustificarmi con i Palazzo sostenendo che nessuno nasce imparato, del resto non avevo molta dimestichezza del mondo della Cucina e soprattutto una totale conoscenza di tutti gli articoli del negozio.
 
Rincasando, mia madre si accorse fin da subito che quella sera apparivo più avvilito e spossato del solito.
«Peppe, com'è andata la giornata? Hai fame?», mi domandò preoccupata, «Ti ho preparato le cozze!»
«Non ti ci mettere pure tu, mamma. Oggi sono proprio cotto, anzi no, fuso... come una fondue!»
 

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Capitolo 2
*** Il mercataro intelligente ***


Avevo da poco terminato il servizio militare e, nell'attesa di trovare un altro impiego, due volte a settimana, per trenta euro giornaliere andavo a lavorare al mercato, in ambito abbigliamento, con mio cugino Mariano e con i miei zii. 
Non si trattava di un lavoro particolarmente faticoso, sennonché dovevo alzarmi alle cinque del mattino, non vergognarmi ad abbanniare, cioè a urlare per attirare l'attenzione dei passanti al fine di reclamizzare la merce esposta, e mostrare una faccia tosta nel mercanteggiare con determinate tipologie di persone, tra cui gli indecisi e gli schizzinosi. 
In proposito, visto che non ero un modello di baldanza, ma soprattutto non ero competente di brand o marche, capitò un episodio memorabile. 
Una mattina, un'attraente ragazza bruna, nel tastare alcuni pantaloni, mi chiese un'informazione.
«Scusami, ho notato che siete sprovvisti di jeans Inblu, quando vi arrivano?»
«Ti sbagli, guarda quanti jeans in blu ci sono lì!» le risposi strizzando l'occhiolino e indicando con la mano una delle bancarelle.
La giovane sorrise, per poi dirigersi verso mio cugino, che in quel momento stava piegando un ammasso di vestiti, e si mettersi piacevolmente a parlare con lui.
Essendo una cliente fissa, non mi stupii della loro confidenza, tuttavia mi accorsi con un certo fastidio che mi deridevano a bassa voce. 
Una decina di minuti dopo, Mariano mi raggiunse e, con un'aria canzonatoria, mi diede una pacca sulla spalla. 
«Ehi, minchione, Inblu è un marchio.» 
«Che figura!» esclamai.
«Sai cosa mi ha detto quella gnocca di te?»
«No, cosa?» gli domandai strabuzzando gli occhi. 
«Quel ragazzo è bellino, peccato che è un po’ cretino.» 

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Capitolo 3
*** I due Testimoni di Geova ***


Alla fine degli anni Duemila dal momento che non utilizzavo l'automobile, mi muovevo tantissimo a piedi in diverse zone della mia città. In termini di salute ci guadagnavo in quanto mi tenevo in forma sia a livello fisico che mentale.
Oltre i pro, c'erano dei contro. Ad esempio imbattermi con certe persone non gradite, tra cui odiosi ex compagni di scuola, conoscenti perditempo, zingare con la manaccia tesa a mendicare e i Testimoni di Geova che giravano sempre in coppia. In riguardo quest'ultima cerchia, in base al vestiario, senza sbagliarmi, li identificavo all'istante: gli uomini in giacca e cravatta, invece le donne con delle lunghe gonne e le scarpe basse. Inoltre, saltava all'occhio una Bibbia alterata nonché le varie copie delle riviste Torre di Guardia e Svegliatevi! che si portavano dietro. 
Un giorno, mentre mi stavo recando al supermercato, all'improvviso due di essi di questa setta religiosa si piazzarono davanti a me. Non potei sfuggire.
«Salve, scusi il disturbo, le ruberemo solo qualche minuto.»
«Siete testimonial di Genova?»
«Testimoni di Geova!» esclamarono Cip e Ciop all'unisono per correggermi. 
«Vi avverto che sono satanista protestante!» puntualizzai tra il serio e il divertito.
Il duo, ignorando la mia spiritosaggine, cominciò ad attaccare con un sermone. Annuii più volte, ma non prestai particolare attenzione a quei discorsi, finché non indicai il mio orologio da polso, adducendo un impegno. 
«Non la tratteniamo ulteriormente. In ogni caso, sappia che settimanalmente teniamo le adunanze nella Sala del Regno, in via Roma, accanto al bar De Balzac» mi informò Testimone 1, un ometto calvo e dagli occhiali spessi.
«Sala del Regno? Quindi vi riunite in un castello! Chissà quante belle dame!» dissi, prendendoli per il culo. 
«Suvvia, non scherzi. Prima di lasciarla andare, le pongo un quesito: chi è colui e sottolineo colui che salverà il mondo?» mi interrogò alla Mike Bongiorno l'altro compare, un tizio alto, dal viso butterato e dai capelli radi e grigi. 
«James Bond!» risposi sornione.
Si susseguirono attimi di silenzio, dai loro sguardi da pesce lesso si capiva chiaramente che non avrebbero ricavato un ragno dal buco.
«Arrivederci!» mi salutarono in coro, così, di botto i due Jehovah's, scuotendo la testa. Ricambiai il saluto con uno strampalato "Arrivedergine!" e mi avviai al Conad.
«Eh sì, chi meglio di James Bond?» pensai ridendo sotto i baffi. «Si potrebbe trarre un film. Ho già il titolo: Operazione G.E.O.V.A. - Licenza di eluderli.»

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Capitolo 4
*** Perché lo chiamano Mar Nero? ***


Io e Caterina, la mia fidanzata di allora, decidemmo di trascorrere le vacanze estive in Bulgaria, precisamente a Varna, Mar Nero. Alloggiammo per una settimana in un hotel a 4 stelle davvero caruccio, soprattutto in termini monetari, in compenso a due passi c'era la spiaggia, bastava soltanto attraversare una strada trafficata principalmente dal via vai di turisti appiedati, infatti il passaggio dei mezzi non era consentito, tranne per le biciclette.
Il mare, fin da subito ci apparve spettacolare oltre che invitante e buona parte del nostro tempo veniva speso per nuotare e per immergersi in quella meravigliosa distesa.
Nel primo pomeriggio del nostro terzo giorno di vacanza, mentre io e la mia ex eravamo in acqua, nacque un piccolo dibattito.
«Amore, ma secondo te perché lo chiamano Mar Nero se il mare è azzurro?» mi domandò lei.
«Beh, oddio, diciamo blu scuro!» le risposi.
«Blu scuro non è nero!» insistette.
Ognuno di noi due espose la propria teoria, finché il mio spirito di patata non prese il sopravvento ma stabilii di sfruttarlo più in là.
«Amò, riflettendoci sopra in effetti il nome ha il suo giusto perché!» le dissi con espressione convinta.
«Ah sì? Quindi come mai?»
«Più tardi te lo dico, adesso nuotiamo, dai!» conclusi per troncare, anche se in verità non sapevo e non so nuotare.
La sera andammo a mangiare pesce al ristorante dell'hotel e a fine cena proposi alla mia ex di fare una passeggiata sul lungomare. Dopo una lunga comminata, ci sedemmo abbracciati in una panchina e come al solito mi prodigai a delle romanticherie essendo in quel periodo davvero molto innamorato di lei.
«Allora sapientone, perché si chiama Mar Nero?» mi chiese nuovamente Caterina ritornando all'argomento di cui avevamo già discusso nel pomeriggio.
Mi alzai dalla panchina e puntai il dito dapprima al cielo e poi al mare serale.
«Semplicemente perché sia di sera e sia di notte, il mare è piuttosto nero, guarda, non è assolutamente difficile arrivarci!» esposi con l’espressione di chi la sa lunga.
«Scemo!» esclamò e scoppiammo a ridere.
 

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