Cold eyes

di taisa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ricordi di un istante ***
Capitolo 2: *** Il valore della mia vita ***
Capitolo 3: *** Giochi di fantasia ***
Capitolo 4: *** Il suo valore ***
Capitolo 5: *** Senza di te ***
Capitolo 6: *** Una vita perduta ***



Capitolo 1
*** Ricordi di un istante ***


COLD EYES


Ricordi di un istante


Uscì dal laboratorio di fretta, rischiando quasi di far cadere al suolo le cianfrusaglie che reggeva a fatica tra le braccia. Un mucchio di vecchi esperimenti, di materiali che erano stati abbandonati e appunti su taccuini che negli anni aveva collezionato.

Si guardò attorno, facendo quasi fatica a riconoscere gli stessi corridoi che giorno dopo giorno aveva percorso da tempo immemore. I soldati che di solito camminavano per quello stesso percorso oggi stavano correndo. In braccio i fucili, intenti a gridare a qualche compagno ordini dei superiori.

Era il caos.

Un paio di uomini gli sfrecciarono davanti senza nemmeno guardarlo, troppo impegnati per notare un vecchio scienziato fermo davanti alla porta di un laboratorio con l’aria di non sapere dove andare. Altri tre soldati svanirono nella direzione opposta e contemporaneamente ad essi un altro commilitone comparve gridando da dietro una porta.

Un collega lo spintonò alle spalle, troppo spaventato per preoccuparsi del compagno di laboratorio. D’altra parte era lui che ancora sostava davanti alla porta. Si voltò per osservarlo un’ultima volta, consapevole quasi per certo che non lo avrebbe mai più rivisto. Non avrebbe mai più rivisto nessuna di queste persone, ne aveva quasi la certezza.

Non riuscì a riconoscere il socio, l’uomo correva a capo chino, stringendo a sé tutto quello che era riuscito a salvare. Anni di ricerca scientifica stipati tutti in un vecchio cartone che si trascinava via come se fosse qualcosa di prezioso.

Svanì anch'egli come i soldati, lasciando a chi lo stava osservando solo l’immagine del camice bianco che sparì dietro un angolo in mezzo alla folla. Era spaventato, ma lo erano tutti. Anche lui, che ancora non aveva deciso di muovere un passo dopo essere uscito dal rifugio del vecchio laboratorio.

“Il ragazzino sta venendo da questa parte. Dobbiamo fermarlo prima che raggiunga il Governatore” urlò qualcuno. Una voce indistinta ed indistinguibile che si sollevò alta sopra una cacofonia di suoni che rimbombava per i corridoi, dando quasi l’idea che anche l’edificio stesso volesse partecipare al panico generale.

Quell’affermazione sembrò generare paura nella paura, dando un senso d’urgenza, come se ogni movimento compiuto potesse essere l’ultimo.

Si mosse, sapeva dove andare, qual era l'uscita più vicina. Si voltò in quella direzione e cominciò a correre. Il suo incedere fu reso goffo dalla fatica di trasportare i suoi averi e le sue ossa non più nel fiore degli anni sembravano scricchiolare ad ogni passo. Non si sarebbe fermato… l’aveva promesso. Sarebbe tornato a casa quel giorno, in un modo o nell’altro.

Nuove urla si propagarono tra la folla, ma queste erano intrise di terrore e adrenalina. L’aria che si respirava portava con sé l'angosciante odore della polvere da sparo.

Quando raggiunse la porta che lo avrebbe portato al cancello più vicino si vide costretto a fermarsi. Una nube di pulviscolo si sollevò prima che lui potesse compiere il passo decisivo all’esterno dell’edificio, verso la salvezza.

Si bloccò sentendo l’urlo di un soldato, mentre questi fu sbalzato all’indietro sbattendo contro una parete che aveva alle spalle. “Quel dannato moccioso” mormorò l’uomo “I proiettili gli rimbalzano addosso” commentò verso nessuno in particolare. La manica della sua divisa cominciò a colorarsi di rosso e il soldato si toccò il punto in cui era stato colpito con una smorfia di dolore.

Osservando la scena con il fiato sospeso, gli occhi dell’anziano si scostarono poi in un punto poco più in là, dove un gruppo di soldati era rannicchiato al riparo dietro un muro. Erano una decina, i fucili puntati e le dita sui rispettivi grilletti che premevano a ritmo regolare.

“Fuoco! Continuate a sparare!” ordinò un ufficiale, concentrando la sua attenzione su qualcosa fuori dalla prospettiva dello scienziato che si era soffermato a guardare. Il comandante era un uomo grande e grosso al cui cospetto i suoi soldati parevano solo piccoli insetti. Fu l’istinto che lo fece voltare, tra un ordine e l’altro. I suoi occhi si spostarono in direzione della porta davanti alla quale l’uomo in camice bianco stava osservando la scena.

I loro occhi si incrociarono per una frazione di secondo, poi il soldato fu sbalzato all’indietro. “No!” urlò lo spettatore, mentre vide l’uomo ricadere inerme al suolo. “NO!” sbraitò di nuovo, lasciando la presa dei suoi averi che si frantumarono ai suoi piedi, “NOOO!”. Sotto il soldato cominciò a crearsi una chiazza di sangue che intrise la divisa marrone. Si mosse ancora, ma solo per un breve istante.

L’anziano cominciò a correre come mai aveva fatto in vita sua. Incurante dei pericoli, delle urla e di altri proiettili che sembravano rimbalzare come palline da ping pong. La sua incolumità non era più importante.

Quando raggiunse il soldato s’inginocchiò accanto a lui afferrandogli il capo, “No, no, no” mormorò poggiando la sua fronte su quella dell’uomo morente. Lui gli tese una mano, mentre in silenzio le sue labbra cercarono di pronunciare parole che si persero nel nulla. Lo scienziato afferrò la mano sanguinante del soldato e la strinse con forza.

Lo guardò un’ultima volta, osservando il volto del militare i cui occhi erano glaciali, di un pallido azzurro, ed in un ultimo tentativo di aggrapparsi alla vita osservò l’uomo inginocchiato al suo fianco. Infine, con lentezza, le sue pupille si spensero quando la forza lo abbandonò definitivamente.

Lo scienziato rimase lì, immobile. Il suo camice ora diventato rosso, il capo ancora appoggiato sulla fronte dell’uomo morto e la mano aggrappata con forza a quella dell’ufficiale.

“Mi dispiace, Dott. Gelo” farfugliò uno dei soldati che nel frattempo aveva smesso di sparare.


***


Si svegliò di soprassalto, annaspando in cerca d’aria. Faticò a respirare per un attimo che parve infinito. Dolorosamente, come se fosse appena riemerso dalle acque profonde dopo un lungo periodo sotto la superficie.

Quel ricordo aveva il brutto vizio di tornargli alla mente quando meno se lo aspettava, quando non voleva. Approfittando della sua vulnerabilità durante il sonno, esso si era fatto strada tra i suoi pensieri, sapendo che da sveglio faceva sempre di tutto pur di allontanare dalla memoria quei momenti vividi.

Si portò una mano al volto e non fu sorpreso di scoprire di avere il viso bagnato. Aveva pianto e stava ancora piangendo, mentre le lacrime scendevano lente sui suoi vecchi e scarni zigomi, fermandosi tra i folti baffi bianchi.

Era da solo nel suo rifugio, nascosto tra le montagne del nord. Nessuno alla quale chiedere conforto, non che lo volesse.

I suoi occhi si scostarono su una fotografia incorniciata sul comodino accanto al suo letto. Si soffermò ad osservarla per un istante, poi decise di afferrarla per poterla ammirare più da vicino.

Stava sorridendo, in quella foto, una timida increspatura delle sue labbra celate dai baffi che al tempo stavano cominciando a sbiancare. Accanto a lui il soldato del Red Ribbon con indosso la sua nuova divisa da ufficiale, la promozione risaliva a pochi giorni prima e con orgoglio l’uomo indossava la sua uniforme. Gli era stata fatta su misura, poiché la sua stazza era imponente. Alto con grosse spalle larghe, il doppio rispetto allo scienziato accanto a lui nell’immagine e che teneva stretto con una delle sue enormi mani. Nonostante la sua grandezza e il fisico allenato, il suo viso era gentile e nella foto un sorriso genuino gli abbelliva l’espressione. I suoi occhi color del ghiaccio sembravano scintillare ancora di vita, così come il giorno in cui quella fotografia era stata scattata.

Sarebbero potuti andare a festeggiare la promozione del soldato ovunque. Gelo gli aveva dato la scelta e gli aveva promesso che lo avrebbe seguito senza esitazione. Lui aveva optato per un semplice picnic a pochi chilometri di distanza dalla base militare nella quale un giorno avrebbe esalato l’ultimo respiro.

Il Dott. Gelo scese dalla branda, incamminandosi a piedi scalzi verso la scalinata che portava al piano di sotto.

Il laboratorio era così come l’aveva lasciato, buio, tetro e disseminato di cianfrusaglie sparse sul pavimento. Da qualche parte nella grande stanza, un computer rimasto acceso emesse un sommesso bip, quasi a volergli dare il benvenuto.

Camminò evitando vecchi scheletri di esperimenti, scartati perché non corrispondevano alle sue esigenze. Una mano metallica, una testa fatta di chip, una pallida armatura verde e il torso dai cavi bruciati. Si fermò solo quando raggiunse il tavolo da lavoro. Su di esso giaceva lo scheletro incompleto di un cyborg i cui circuiti erano ancora scoperti.

Gelo lo guardò, per un attimo. Solo in quel momento si rese conto che non aveva ancora abbandonato la fotografia. L’istinto gliel’aveva fatta stringere con forza e si era dimenticato di riporla da dove l’aveva presa. La fissò con l’intensità del suo dolore.

Con uno sforzo poggiò l'istantanea sul banco da lavoro e dopo averle dato un’ultima occhiata decise di rimettersi all’opera.


CONTINUA…


Originariamente doveva essere una one-shot, ma sarei stata costretta a tagliare molti elementi della storia. Così ho optato per una “breve long-shot”. XD

Spero di avervi incuriosito con questo primo capitolo.


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Capitolo 2
*** Il valore della mia vita ***


COLD EYES


Il valore della mia vita


I materiali per il suo lavoro erano tutti molto costosi o peculiari. In certi casi persino illegali. Non gli bastava entrare in una ferramenta o dall’elettricista per comprare quello di cui aveva bisogno.

Alcuni dei componenti usati per le sue creazioni venivano registrati e catalogati dagli enti pubblici e lui preferiva l’anonimato. D’altra parte lo scopo dei suoi esperimenti non era legale ed essere rintracciabili poteva risultare un problema.

Così era costretto a trovare altrove ciò che gli serviva per continuare il suo lavoro.

La città più vicina era abbastanza grande da avere un mercato nero, un segreto conosciuto a tutti, situato nella zona meno appetibile. I luoghi della clandestinità, dove ogni sorta d’illegalità si svolgeva dietro tutti gli angoli.

Non era la prima volta che si era visto costretto a camminare tra i vicoli malfamati e di certo non sarebbe stata l’ultima. Si era abituato ad ignorare i volti tetri della gente, gli sguardi avidi che lo fissavano studiando la sua postura cercando di capire chi fosse e perché un vecchio scienziato come lui dall’aria gracile, col viso segnato dall’età e dal dolore, si trovasse tra loro.

Gelo aveva imparato a percorrere le vie spettrali a testa alta. Non aveva nulla che valesse la pena rubare, per tutti i malintenzionati i suoi acquisti erano solo un inutile spreco di tempo. Nessun’altro a parte lui era interessato ad un’ammasso di ferraglia senza valore che aveva richiuso in una capsula nascosta nella tasca della sua giacca.

Si accorse di avere paura solo quando cominciò ad intravedere la vera vita della città all’orizzonte, lasciandosi la malavita alle spalle. Le strade diventarono ben presto più colorate e variopinte. I negozi non vendevano più merce sottobanco, erano attività florenti in una cittadina ricca. I passanti non avevano sguardi assassini, la gente era allegra qui, piena di energia.

Questo gli diede il voltastomaco. Preferiva di gran lunga camminare senza il terrore di essere la prossima vittima senza nome ritrovata in un angolo di strada, ma ciò non voleva dire che l’allegria delle persone lo mettesse più a suo agio. Odiava tutto questo, ogni individuo che gli camminava accanto era un’accoltellata immaginaria che faceva male.

Così aveva imparato a percorrere le strade più tranquille, quelle appartate dove non correva il rischio di incontrare anima viva. Questo gli fece abbassare la guardia.

Non ebbe modo di prevedere quella mano gelida che gli coprì la bocca in un lampo. Sgomento e colto alla sprovvista, il Dott. Gelo non ebbe modo di reagire quando con forza venne trascinato all’interno di un vicolo che incrociò sul suo percorso. Le sue spalle furono spinte contro la parete del viottolo senza quasi dargli il tempo di respirare.

Il dolore improvviso causato dall’impatto e dal fisico anziano lo costrinse a chiudere le palpebre per un breve momento. Quando le riaprì si ritrovò ad osservare la canna di una pistola puntata tra le sopracciglia nivee. L’arma gli impedì di guardare il suo assalitore, “I tuoi soldi e le tue capsule” gli disse questi. Era un ragazzo giovane, intuì dalla tonalità della sua voce.

Gelo sbirciò oltre il revolver, riuscendo infine a vedere gli occhi del rapitore. Con un tuffo al cuore si ritrovò a fissare due pupille di un glaciale azzurro che scintillavano di una fredda determinazione.

Si sforzò di ricordarsi che non erano i suoi occhi che stava guardando, seppur così simili erano anche molto diversi. A parte il colore non c’era altro in comune, quelli del ragazzo che lo stava fissando erano molto sottili ed affinati.

“I tuoi soldi e le tue capsule” ripeté tra sé con rammarico. Sì certo, ma che importanza aveva? Non c’era nessuno a casa ad attenderlo, nessuno che avrebbe compianto la sua scomparsa. Nessuno che avrebbe chiesto giustizia.

“Non ho niente per te, ragazzo” gli rispose, la voce roca che uscì dalle sue labbra dimostrò la reticenza a proferire parola. Senza esitare poggiò la propria fronte sulla canna dell’arma ed attese.

Fissando gli occhi dell’assalitore si accorse della sua sorpresa, evidentemente non si aspettava una reazione tanto anomala. Approfittando della sua indecisione, lo scienziato afferrò con le mani la pistola e la strinse con le dita legnose segnate da anni di duro lavoro, impedendo al ragazzo di scostare l’arma.

Rimasero così per un tempo che apparve infinito. “Che stai aspettando?” gli bisbigliò l’anziano stringendo la presa sul revolver.

Il giovane sembrò indeciso, mai nessuno lo aveva provocato in quel modo e la sua reticenza fu leggibile nei limpidi occhi azzurri.

“Sbrigati, non ci resta molto tempo!” lo chiamò qualcuno alle spalle del ragazzo, il quale non parve aver bisogno di voltarsi per sapere chi avesse parlato. Al contrario, Gelo scostò lo sguardo per individuare il secondo assalitore. Tutto ciò che vide fu una giovane donna appoggiata dalla parte opposta del vicolo, la testa girata verso la strada parallela a quella che stava percorrendo il dottore.

Approfittando del momento di distrazione dello scienziato, il rapinatore strattonò la mano armata e l’abbassò.

Gelo ebbe modo di guardare meglio il volto del giovane. Non doveva avere molto più di vent’anni, il fisico magro e asciutto ed il viso fine in perfetta armonia con i suoi occhi.

“Vattene” gli disse, facendo sparire la pistola in una fondina che teneva legata dietro la cintura di un logro paio di jeans e che nascose sotto una maglietta strappata. Tuttavia all’ordine Gelo esitò, scoprendosi meno sollevato per essere stato risparmiato e più deluso che non avesse posto fine al suo dolore.

Il giovane assottigliò lo sguardo, “Non mi hai sentito? Ti ho detto di andartene, vecchio” ripeté di nuovo e questa volta fu ascoltato.

Il Dottor Gelo lo guardò per un’ultima volta, prima di voltarsi e riprendere il cammino che lo avrebbe inevitabilmente riportato al suo laboratorio.

Il giovane assalitore restò ad osservarlo per un po', fino a quando l’anziano non sparì dietro l’angolo e quindi dalla sua visuale.

Seguì con l’udito i passi che si avvicinarono alle sue spalle, aspettandosi di vederla comparire al suo fianco da un momento all’altro.

La ragazza lo raggiunse presto, avevano la stessa età e gli stesse fini occhi azzurri. “Quanto abbiamo guadagnato?” gli chiese incrociando le braccia. Il giovane non la guardò, ancora concentrato sulla vittima che aveva appena lasciato fuggire. “Nulla” le disse infine, lasciando scivolare le mani nelle tasche dei pantaloni. “Cosa? Mi stai dicendo che non gli hai preso niente?” esclamò incredula la ragazza.

Lui alzò le spalle in un gesto noncurante, un sardonico sorriso sulle labbra, “Rubare a un vecchio non è divertente” commentò quasi ridendo, anticipando la complice verso l’accesso del viottolo. Lei lo guardò di spalle con un’espressione contrariata, scosse il capo prima di seguirlo, “Tsk, certe volte ti comporti proprio come un moccioso, Lapis” brontolò.


CONTINUA…



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Capitolo 3
*** Giochi di fantasia ***


COLD EYES


Giochi di fantasia


I suoi sogni erano cambiati, negli ultimi tempi. Mentre stringeva a sé l’uomo morente, non erano più gli occhi del soldato che vedeva spegnersi senza vita. Erano quelli glaciali e sottile del rapinatore che, alcuni mesi prima, gli aveva puntato una pistola alla fronte per rubargli quel poco che aveva nelle tasche.

Gelo si era ritrovato a credere che si trattasse di una semplice associazione d’idee. Due momenti dal forte impatto emotivo che si fondevano tra loro in un unico groviglio nel suo subconscio. Si ritrovò ben presto a comprendere che non c’era soltanto quello.

Quando aveva rimesso piede in città, dopo la rapina, si era scoperto a guardarsi attorno in cerca di qualcosa. Percorrendo gli stessi viottoli della precedente occasione, il desiderio di rivedere il giovane dagli occhi azzurri era diventato sempre più intenso. La mera similitudine che aveva riscontrato gli suggerì che aveva bisogno di un conforto. I suoi occhi erano vivi, contrariamente al militare.

Non ebbe mai tale fortuna, il delinquentello di strada era scomparso nel nulla, dando l’impressione allo scienziato che forse lo aveva solo immaginato. Era probabile che il ragazzo avesse solo una vaga somiglianza, ma il suo dolore li aveva tramutati in una necessità.

Camminando per i vicoli malfamati della zona fu solo per fortuita coincidenza che un uomo, dal lato opposto della strada, attirò la sua attenzione. L'individuo in questione era un ometto di mezza età dall’aria scarna che continuava a guardarsi attorno ogni paio di passi.

Il Dott. Gelo si fermò ad osservarlo, mentre l’altro scostò lo sguardo con circospezione per constatare che non ci fosse nessuno nei paraggi. Era nervoso, non avendo notato il dottore che non lo perse di vista un istante, nascosto dietro un palo della luce.

L’uomo sospetto affrettò il passo, inoltrandosi in uno dei vicoli nei paraggi. Fu per puro istinto che il Dott. Gelo decise di seguirlo. Non aveva nessun’altra buona ragione per pedinarlo. Era un perfetto sconosciuto che con ogni probabilità non si era mai addentrato in questo particolare quartiere della città, oppure era consapevole che qualunque cosa stesse facendo era illegale o pericolosa.

Raggiunse il viottolo nella quale l’individuo si era rifugiato e si appiattì alla parete per non essere scorto.

“... ma avevi detto che mi avresti fatto uno sconto!” stava dicendo l’uomo, la voce tremante ed insicura. Gelo poté guardarlo solo di spalle, mentre lo sconosciuto, chino su sé stesso, stava implorando un misterioso interlocutore. Di quest’ultimo fu in grado di osservare solo le scarpe da tennis e i logori jeans, questi era infatti seduto su una parte sporgente della parete. Con una mano era intento a giocare con una capsula che lanciò in aria per poi riprendersela, ripetendo l’operazione con ritmo ipnotico. “Lo sconto valeva solo se mi fossi divertito a rubare quello che mi hai chiesto” spiegò l’uomo seduto, dalla cui voce fu facile intuire che si trattava solo di un ragazzino, “Questo è stato piuttosto noioso, quindi dovrai pagarmi il prezzo intero”.

L’uomo esitò ed abbassò il capo, lo alzò subito dopo e si guardò alle spalle, poi tornò ad osservare la capsula che si sollevò in aria per un secondo, prima di ricadere sul palmo del giovane. “Ma… ma… io” farfugliò indeciso. Il ragazzo smise di riacciuffare il contenitore, stringendolo ora tra le dita, “Beh, se non lo vuoi posso sempre trovare qualcun altro a cui venderlo” concluse, ritirando la mano con l’intenzione di far svanire l’oggetto in una tasca dei pantaloni.

L’uomo si protrasse in avanti “No… no… aspetta!” esclamò nervoso “Ti pagherò quello che mi hai chiesto” concluse, restando in attesa. Ci fu un breve silenzio seguito da una risata sottile, “Così mi piaci” replicò il giovane. L’interlocutore ravanò in una delle tasche della giacca ed estrasse alcune banconote che diede al ragazzo. Un breve istante ancora, il tempo che le contasse, infine gli consegnò la capsula, “È stato un piacere fare affari con te” sancì infine. Il tono era quello del congedo.

Il nervoso ometto si voltò senza farselo ripetere e rapido come il vento ripercorse la strada che lo aveva portato sin lì. Troppo teso anche solo per verificare che ci fosse il via libera, camminò svelto a testa china, non facendo caso all’anziano ancora appiattito contro la parete.

Solo quando l’individuo si allontanò, Gelo fu in grado di guardare in faccia il giovane. Era lui, constatò in un istante, riconoscendo i capelli scuri, i jeans malridotti e soprattutto gli occhi azzurri.

Il ragazzo sembrò rilassarsi, portò le braccia dietro la testa e si adagiò al muro. Restò lì immobile. Serrò le palpebre, rilassandosi. I minuti trascorsero veloci, mentre lo spettatore silenzioso continuò ad osservare senza muoversi a sua volta.

Quando il giovane si sollevò dal suo improvvisato sedile fu quanto mai inaspettato.

In piedi si stiracchiò sonnolento prima di far scivolare le mani nelle tasche dei suoi jeans. Sbadigliò e cominciò a camminare verso l’uscita del vicolo.

Il Dott. Gelo cercò di mimetizzarsi con la parete, assottigliandosi il più possibile. Non ce ne fu bisogno. Il giovane ladruncolo scelse di voltare nella direzione opposta a quella nella quale l’anziano era nascosto, percorrendo la strada che portava ai negozi illuminati e alla vita della gente comune.

Intenzionato a non lasciarselo scappare, Gelo lo seguì a discreta distanza concedendo al ragazzo la scelta sull’itinerario.

Il passo tranquillo e rilassato dell’ignaro rapinatore rese l'inseguimento piuttosto facile, sebbene entrambi fossero costretti a zigzagare tra la gente che affollava la strada. Accanto alla vetrina di un negozio, due donne erano immerse nella contemplazione di alcuni abiti all’ultima moda. Sebbene Gelo stesse tenendo d’occhio il giovane, rischiò quasi di non notare la mano dello stesso infilarsi nella borsa di una delle due malcapitate nel momento in cui le passò accanto.

Il ladro aprì il portafoglio ora a sue mani e ne estrasse una manciata di banconote. Svuotato il borsellino, fece sparire gli zeni recuperati nelle sue tasche per poi liberarsi dell’inconfutabile prova del misfatto. Tutto con una tale nonchalance da far credere che non avesse fatto nulla di male o illegale, senza la benché minima paura di essere visto o segno di rimorso.

Gelo superò il portafoglio nel punto in cui il suo obiettivo lo aveva lasciato cadere. Si distrasse un secondo per guardarlo, poi sollevò di nuovo lo sguardo e… lui era sparito.

Era bastato quell’attimo, quel secondo di distrazione per perderlo di vista. Svanito come se non fosse mai stato lì. Stava impazzando? Questo ragazzino esisteva davvero o era solo il frutto della sua affranta fantasia?

Sveltì il passo, percorrendo il tratto che lo separava dal punto in cui lo aveva visto l’ultima volta. Si guardò attorno, ma del delinquente di strada non era rimasta nemmeno l’ombra. Camminò svelto, guardandosi attorno in cerca di indizi, di un’immagine residua che potesse dare il segno del suo passaggio.

Stava cominciando a perdere le speranze, quando svoltò l’angolo in una strada meno affollata. La prima cosa che vide fu la pistola che gli comparve davanti agli occhi seguita dalla mano che, dopo essersi appoggiata sulla sua spalla, lo costrinse a sbattere la schiena contro la parete. Deja vu.

“Chi sei, vecchio? Perché mi stai seguendo?” gli chiese una voce a questo punto conosciuta. Dentro di sé, nonostante l’arma nuovamente puntata contro, Gelo tirò un sospiro di sollievo, soprattutto quando i suoi occhi s’incrociarono con quelli azzurri del ragazzo.

Come aveva fatto nella precedente occasione, afferrò con fermezza la canna della pistola e vi poggiò sopra la fronte, “Noi ci siamo già incontrati, ragazzo” gli bisbigliò in rimando. Ci fu un secondo di silenzio, seguito da un leggero click quando la sicura dell’arma tornò al suo posto, “Sei quel vecchio” constatò abbassando la mano con la rivoltella.

L’anziano lo guardò far sparire la pistola sotto la maglietta, com’era stato anche l’ultima volta. “Ho una proposta per te” gli offrì, tuttavia la sola risposta fu una semplice alzata di spalle, “E perché dovrebbe interessarmi?” “Perché ti pagherò il doppio”.

Questo sembrò cogliere il suo interesse, “Sentiamo” lo esortò incuriosito. Gelo lo fissò, “C’è una cosa di cui ho bisogno, ma io sono troppo vecchio per ottenerlo solo con le mie forze”. Il giovane assottigliò lo sguardo, in silenziosa contemplazione.

All’anziano parve bastare, “Mi serve un chip, è molto prezioso e delicato, lo producono solo a scopi militari. Forse tu potresti rubarlo per me”. Sulle labbra del giovane si dipinse un sorriso sottile, “Mmm… sembra divertente” confessò.


CONTINUA…



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Capitolo 4
*** Il suo valore ***


COLD EYES

 

Il suo valore

 

Il sasso centrò in pieno la bottiglia di vetro allineata con meticolosa attenzione accanto alle sue compagne di disavventura. Il suono che produsse quando precipitò al suolo echeggiò per un breve istante nell’enorme magazino desolato.

La sua mano cercò un secondo ciottolo tra quelli ammassati accanto al materasso sulla quale era sdraiato e, come aveva già fatto, lo lanciò colpendo uno dei recipienti che erano il suo bersaglio. Con un’espressione annoiata constatò di non aver ancora sbagliato mira, non era di certo impressionato.

L’eco di vetri infranti si spense dopo appena un paio di secondi. Lapis sbadigliò, prima di scegliere un’altra pietra tra il mucchio che aveva in precedenza trovato nell’edificio abbandonato, in preparazione del suo gioco.

Sdraiato su un fianco, con la testa appoggiata sul palmo di una mano e sguardo annoiato, lanciò il sasso colpendo un’altra bottiglia. Nemmeno una mira quasi perfetta sembrò interessargli.

“Lapis, cos’è questo affare?” gli chiese una voce alle sue spalle. Lui si voltò con lentezza, sapendo che non avrebbe avuto nessuna sorpresa. Ed infatti la ragazza in piedi accanto al secondo materasso steso al suolo era esattamente la persona che si aspettava di vedere.

La bionda stava studiando una piccola busta di plastica trasparente, all’interno della quale era contenuto un microscopico chip. Lapis lo riconobbe all’istante e senza indugio riprese a giocare con i suoi sassi. Ancora il rimbombo di vetri infranti. “È l’affare che mi ha chiesto quel vecchio” le spiegò vago.

Le aveva raccontato dell’incontro con quello strano vecchietto avvenuto una settimana prima, mettendola al corrente della situazione. Sua sorella si era limitata a registrare mentalmente l'informazione dopo poche e brevi domande. Come faceva sempre.

Gli occhi azzurri della ragazza si scostarono dall’oggetto alla schiena del fratello, per poi tornare a concentrarsi sulla busta tra le sue mani. “Rubarlo è stata una vera impresa” commentò Lapis, ora stufo del suo gioco. Si mise a sedere, poi si stiracchiò voltandosi verso la sua interlocutrice. Lei sembrò riflettere per alcuni secondi.

“Lapis…” cominciò a dire e lui riconobbe il tono autoritario della sua voce. Anche l’assottigliarsi dello sguardo servì come campanello d’allarme. “Spero tu non abbia intenzione di fargli pagare meno solo perché ti sei divertito” lo ammonì.

Lui sorrise, lo conosceva troppo bene, “Ti preoccupi sempre troppo, sorella” “Mi preoccupo dei soldi” gli rammentò lei con estrema serietà. Lapis si alzò “Che problema c’è? Possiamo sempre rubarne altri” concluse noncurante.

Questo sembrò farla arrabbiare. Nel momento in cui le dita di suo fratello stavano per raggiungere il sacchettino nelle sue mani, lei ritirò il braccio. “Smettila di scherzare, sai bene perché non voglio rimanere senza soldi” sibillò nervosa.

Guardandola negli occhi identici ai suoi, Lapis sembrò trovare la sua serietà. Sì, sapeva da dove nasceva la sua preoccupazione, non aveva certo bisogno che fosse lei a ricordarglielo.

Non ebbero bisogno di altre parole e il resto del discorso si limitò a quel semplice scambio di sguardi. Fu lui il primo a distogliere gli occhi, alzò le spalle e riuscì a sottrarle l’oggetto del contendere. “Hai vinto tu Lazuli. Mi farò pagare il doppio, non uno zeni di meno” la rassicurò.

Lazuli sembrò tranquillizzarsi in minima parte. Sapeva che suo fratello era volubile e spesso poco affidabile quando si trattava di queste cose. Continuò a fissarlo, “Forse dovrei venire con te” “Stai dicendo che non ti fidi del tuo gemello?” la risposta a quella domanda fu una smorfia sul viso sottile della ragazza.

In generale non si fidava di nessuno, Lapis era un’eccezione. Lazuli sospirò, liberandosi della sua tensione, “Il doppio” sussurrò “Non uno zeni di meno” ripeté in responso lui.

Lapis le diede una breve buffetto affettuoso sulla testa, facendo sparire il chip nella tasca dei suoi pantaloni. Assicuratosi che la sorella non avesse altro da dire si fece strada tra i rottami abbandonati all’interno del magazzino. “Per festeggiare porterò a casa qualcosa di buono. Stasera mangeremo da ricchi” le promise.

 

***

 

Il ragazzo gli aveva detto, una settimana prima, di tornare entro sette giorni e così aveva fatto. Trascorso il tempo stabilito, Gelo si era trovato in città camminando per i viottoli malridotti nell’attesa che lui si facesse vivo. Il ladruncolo non gli aveva dato altre istruzioni, luogo e ora erano rimasti un mistero. “Sarò io a trovare te” gli aveva detto in congedo, prima di allontanarsi e svanire tra la folla, lasciando l’anziano scienziato al suo destino.

Come avesse fatto a rintracciarlo, sarebbe rimasto un mistero. Il Dottor Gelo si era visto contattare da uno sconosciuto all’oscuro di tutto fuorché del messaggio che portava. “Tra un’ora alla discarica” gli aveva sussurrato con voce roca, poi anche lui si era allontanato.

Un’ora più tardi Gelo si trovò circondato da carcasse annerite delle vetture più variegate che avevano esperito il loro utilizzo. Non ebbe la minima idea di dove si trovasse il ragazzo, pertanto fu costretto a muoversi tra il labirinto di rottami alla sua ricerca.

“Quest’auto era davvero un gioiello, per l’epoca” lo accolse una voce, svoltato un angolo fatto di spazzatura metallica. Gelo lo trovò seduto sul sedile di un’autovettura, dietro al volante distrutto. Alla macchina mancava il cofano e buona parte del tettuccio.

Sulla fiancata un riconoscibile simbolo sferico nella quale erano state disegnate due C, Gelo riuscì a trattenere a stento una smorfia di fastidio appena riconobbe il marchio di fabbrica.

Si soffermò ad osservare il giovane per un istante, avendo l’impressione di trovarsi davanti ad un bambino sommerso dai suoi giochi. “Anno settecentocinquanta…” stava continuando a dire il delinquentello, incurante dei pensieri dell’uomo, “Ottima annata per la Caps…” “Dov’è il mio chip?” tagliò corto lo scienziato.

Non aveva fatto tanta strada per arrivare fin lì ed intraprendere una discussione sulle vetture fabbricate da una compagnia che era sulla sua lista nera, prodotte un anno che avrebbe preferito dimenticare.

Il giovane lo guardò per la prima volta, scrutadolo dietro quelle pupille azzurre come il ghiaccio, “Quanta fretta, vecchio” brontolò, come un moccioso infastidito perché non poteva avere quello che voleva. Si alzò dal sedile e poggiò il braccio su quel che restava del tettuccio. Con flemma estrasse un sacchettino trasparente nella quale era contenuto l’oggetto del contendere. “Il doppio, come promesso” gli ricordò il delinquente, mostrandogli una mano a palmo aperto.

Il Dottor Gelo studiò a lungo la busta, il giovane e quindi la sua mano, poi tornò al chip, “D’accordo” disse, estraendo un plico da una tasca, per poi porgerlo al delinquentello. Il ragazzo sorrise, constatandone il peso. Si prese alcuni istanti per contare velocemente le banconote, “Ottimo” stabilì infine, passando il sacchetto all'anziano.

Gelo, ora in possesso del suo chip, lo guardò con attenzione. Era ciò che voleva e una volta giunto a questa conclusione infilò l’oggetto in una tasca interna della sua giacca. Nel contempo il ladro fece altrettanto con il suo compenso. Lo scienziato lo studiò per alcuni istanti ancora, soffermandosi per un breve momento sugli occhi azzurri.

“Sono sorpreso” ammise all’improvviso, costringendo l’altro a guardarlo, “Pensavo ti saresti divertito a rubare questo chip, perché non mi hai proposto uno sconto?” gli domandò, ricordandosi la conversazione che aveva udito tra lui e l’uomo dall’aria sospetta.

Il giovane parve rifletterci. Alzò le spalle, “Normalmente lo avrei fatto, ma ho promesso a mia sorella che oggi non ci sarebbero stati sconti” spiegò. “Sorella?” pensò tra sé il Dottor Gelo, assottigliando lo sguardo.

Separatosi dall’auto sulla quale era appoggiato, il ragazzo sembrò intenzionato ad andarsene. Compì pochi passi, “Aspetta” lo richiamò l’anziano “Ho un'altra proposta per te” disse.

Ci fu un attimo di esitazione nel suo passo, ed infine il giovane ladro si fermò, voltandosi appena alle sue spalle per osservare lo scienziato. “Che tipo di proposta?” volle sapere, interessato.

Sulle labbra del Dottor Gelo si dipinse un lieve sorriso nascosto dai folti baffi bianchi.

 

CONTINUA…

 

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Capitolo 5
*** Senza di te ***


COLD EYES

Senza di te

Lazuli era allo stremo delle forze, ma non poteva fermarsi. Smettere di correre equivaleva ad arrendersi, consentendo agli inseguitori di raggiungerla. Non poteva permettere che ciò accadesse, cercando dentro di sé la forza che le serviva per andare sempre avanti.
Tra le braccia stringeva una confezione di pane e alcune scatole di cui non conosceva il contenuto. Le aveva rubate a caso, prese dal bancone di un supermercato nella speranza di non essere scoperti dalle autorità.
Era andata male, questa volta, qualcuno li aveva notati, lei e Lapis, mentre sgraffiniavano qualcosa da mangiare tentando di sgattaiolare all’esterno senza essere visti. C’erano state delle urla e dei tafferugli, i due bambini si erano guardati negli occhi e avevano capito che questa era una di quelle volte in cui dovevano correre.
Lapis era sempre stato il più veloce e con un rapido scatto aveva attraversato la porta del negozio e si era fiondato all’esterno. Lazuli aveva fatto altrettanto, ma non era stata altrettanto fortunata. Qualcuno aveva visto il bambino fiondarsi verso l’uscita e con prontezza di riflessi aveva compreso che le urla dei commercianti e le richieste di fermare i ladri erano rivolte anche a lei.
Lazuli si era sentita afferrare per una spalla con una presa salda. La mano era presumibilmente quella di un uomo, la ragazzina non si era certo fermata a verificare.
Sapeva di aver urlato, una disperata richiesta d'aiuto rivolta al fratello che era ormai lontano. Lapis non poteva lasciarla, fermatosi sul bordo del marciapiede esitò per una frazione di secondo, voltandosi ad osservare la gemella divincolarsi con foga tra le mani del suo assalitore.
Disperazione e paura furono la forza alla quale si aggrappò. L’istinto le suggerì di mordere la mano stretta sulla sua spalla e l’uomo, colto alla sprovvista, allentò la presa quel tanto da permetterle di divincolarsi verso la libertà. Un sonoro strappo le suggerì che non tutto era rimasto integro. Ben presto si accorse che la manica della sua giacca si era strappata, pendendo sul suo braccio quasi interamente separata dal resto dell’indumento.
Non c’era stato il tempo per fermarsi, per riflettere, dovevano correre e dovevano essere veloci.
Conoscevano bene questa città, tutte le strade, i vicoli e le scorciatoie che nessun adulto aveva mai percorso.
Si seguivano a vicenda, dietro un istinto comune che li guidava come se avessero un unico cervello, come se fossero una persona sola.
La loro fuga durava da diversi minuti, ma i gemelli erano ancora troppo spaventati per potersi fermare a prendere fiato, terrorizzati non si erano mai guardati alle spalle per verificare la presenza di probabili inseguitori.
Fu Lazuli a frenare il passo per prima, fermandosi quando l’istinto le suggerì che poteva rilassarsi, che erano riusciti nel loro intento e forse stasera avrebbero mangiato qualcosa di buono e sostanzioso. Non amavano rubare, ma erano solo due ragazzini orfani senza un soldo la quale sopravvivenza era basata sul semplice istinto e sulla loro complicità.
Quando il fiato sembrò tornarle, Lazuli alzò lo sguardo, scoprendosi ad osservare una grossa cancellata che circondava un enorme edificio. Impiegò alcuni secondi per capire cosa fosse e dove la loro corsa li avesse portanti. A farle comprendere che stava guardando una scuola ci pensarono i suoi coetanei nel giardino circondato dalle inferiate.
Doveva essere una pausa, intuì, notando i diversi gruppi di bambini giocare e rilassarsi insieme agli amici con la quale condividevano banchi scolastici.
Lazuli si domandò con una punta di rammarico che sensazione si provasse a passare tutti i giorni seduti sulla stessa sedia, circondati da compagni della stessa età con la quale poteva condividere un pranzo.
Al suo fianco sentì un movimento. Non si voltò, sapeva che Lapis si era affiancato a lei e con altrettanta certezza seppe che nella mente del gemello stavano affiorando gli stessi pensieri.
Senza dire nulla Lapis le afferrò una mano e la strinse per confortarla. Lazuli fece altrettanto, trattenendo le dita del fratello per restituire in altrettanta misura l’incoraggiamento che da lui stava ricevendo.
Restarono così in silenzio per alcuni minuti, osservando bambini che non conoscevano fare cose che loro non erano in grado di fare. Le parole, tra loro, non erano necessarie.
In comune accordo si voltarono, cercando lo sguardo reciproco. Gli occhi identici dei due gemelli si cercarono per un unico breve istante. Ed ancora in silenzio si allontanarono insieme. Non avevano bisogno di compagni di gioco, di scuole e nemmeno di cibo. Tutto quello di cui avevano bisogno era l'uno dell’altra.

***

Gli ombrelli cominciarono ad aprirsi appena le prime gocce di pioggia toccarono il terreno. Alla rinfusa la gente cominciò a cercare un luogo per potersi riparare dal rovescio incombente. La piazza si svuotò con rapidità, lasciando solo chi, uscendo di casa, aveva alzato lo sguardo per osservare i nuvoloni neri che si erano materializzati all’orizzonte e aveva preso un ombrello. In un modo o nell’altro tutti cercarono un metodo per restare all’asciutto. Tutti, ma non Lazuli.
Lei rimase sul marciapiede accanto alla piazzola davanti alla quale sostava. Sottili ciocche di capelli biondi si appiccicarono al viso sottile, accanto al bordo dei suoi occhi che non avevano smesso un secondo di osservare la strada con una certa scrupolosità. Non le importava di essere fradicia, di non avere un riparo dalla pioggia.
Lapis era scomparso da più di due settimane. Di lui non aveva notizie e l’idea che potesse essergli successo qualcosa la stava logorando. In tutta la loro vita non erano mai stati lontani per così tanto tempo. Erano nati insieme, avevano vissuto insieme ed erano sopravvissuti insieme. Senza di lui la sua vita era vuota.
“Lapis, dove sei?” si domandò con disperazione, sperando di vederlo comparire da dietro un angolo da un minuto all’altro senza spiegazione.

***

All’interno di una baracca che avevano costruito con gli scarti della discarica che la circondava, Lazuli era seduta a gambe incrociate. Sul pavimento, se così lo si voleva definire, aveva impilato con cura una serie di monetine.
Le contò con desolazione, constatando che non erano un gran numero. Il cibo che avevano rubato pochi giorni prima era quasi finito, di questo passo sarebbero stati costretti a sgraffignarne ancora da qualche altro supermercato.
“Lazuli, ho una sorpresa per te” esordì la voce del fratello, mentre questi si affacciò all’interno del loro nascondiglio dopo essersi arrampicato sopra un mucchio di cianfrusaglie abbandonate. La ragazzina lo guardò entrare e trovare spazio nell’angusto rifugio, le mani nascoste dietro la schiena e sulle labbra un sorriso sornione che suggerì qualche marachella. Lazuli inarcò un sopracciglio sottile “Che cos’hai combinato?” gli domandò diretta e lui sembrò quasi offendersi all’insinuazione. “Non so di cosa stai parlando” recitò, senza smettere di esibire un sogghigno soddisfatto. Lei attese.
Dopo alcuni istanti Lapis le mostrò quello che stava nascondendo. Tra le sue mani reggeva una giacca jeans sulla quale era attaccata ancora l’etichetta di un qualche negozio. “Ti piace? L’ho preso per te” le disse porgendole l’indumento.
Lazuli esitò per un istante, “Dove l’hai presa? Sai bene che non possiamo permetterci queste cose!” lo rimproverò, preoccupata più che altro. I suoi occhi azzurri si scostarno sulle monetine ancora impilate sul pavimento e quelli identici del gemello fecero altrettanto.
“Non essere stupida” le rispose, avendo compreso in quel breve lasso di tempo le preoccupazioni della sorella, “Non l’ho mica comprato” la rassicurò poggiando il capo d’abbigliamento sulle ginocchia della ragazzina. “L’ho rubato per te” spiegò additando la giacca di Lazuli e la manica che ancora pendeva attaccata ad essa grazie ad un mero pezzo di stoffa.
“Davvero?” gli domandò lei, senza riuscire a nascondere una certa gratitudine all’indirizzo del fratello che annuì in responso. “Coraggio, provala” le disse Lapis, in trepidante attesa. Lazuli perse un altro secondo a riflettere, ed infine si decise. Tuttavia prima ripose il gruzzolo di monete in una piccolo marsupio che nascose sotto la propria maglietta. Infine si sfilò la giacca rovinata ed infilò quella nuova.
Lapis osservò tutta l’operazione in silenzio. “Ho scelto bene?” le chiese alla fine. Lazuli ci pensò, era calda e la sensazione di un capo nuovo sembrò elettrizzarla. Cercò di sopprimere una leggera punta di vanità, prestando attenzione solo al senso di gratitudine che provò nei confronti del gemello. “Sì” gli rispose alla fine.

***

C’era un uomo dalla parte opposta della piazza. Nemmeno lui si era mosso, nonostante le intemperie.
Lazuli lo studiò con attenzione. Un signore anziano il cui viso era nascosto da grossi baffi bianchi. A ben pensarci Lapis aveva parlato di un vecchio di recente.
Lo fissò negli occhi, limpide pupille azzurre chiare quasi glaciali, che le ricordarono quelli del fratello. Quel pensiero, per quanto irrazionale, sembrò suggerirle che lui sapeva qualcosa.
L’uomo la stava a sua volta fissando. Si scrutarono dai lati opposti della strada, in mezzo tra loro gente coperta da ombrelli scorreva senza sosta. Quando lui assottigliò lo sguardo sembrò volerle sussurrare un messaggio.
“Seguimi” le stava dicendo, prima di voltarsi ed incamminarsi lungo il viale. Lazuli seguì il suo istinto. Doveva ritrovare Lapis ad ogni costo. Così, senza esitare, attese alcuni istanti prima di seguire l’uomo misterioso.
Si fermarono in un parco lontano dalla vita cittadina, deserto a causa della pioggia che non aveva ancora smesso di cadere. Lui si voltò, dandole l’opportunità di guardarlo di nuovo negli occhi glaciali. “Tu devi essere la sorella” sussurrò con voce roca. Lazuli lo studiò con attenzione per un breve momento, “Dimmi dov’è” ordinò.

CONTINUA…



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Capitolo 6
*** Una vita perduta ***


COLD EYES


Una vita perduta


Quando le sirene avevano cominciato a suonare, il panico non aveva impiegato molto a dilagarsi come un'emorragia. Soprattutto nei laboratori.

Gelo non era stato il primo a raggiungere la postazione con l’intento di salvare il suo lavoro. Al suo arrivo la maggior parte degli scatoloni e dei recipienti di fortuna erano già stati raccolti da qualcun’altro. Fu costretto a scegliere con attenzione cosa salvare perché avrebbe dovuto portare con sé la sua refurtiva senza l’aiuto di un contenitore.

Decidere di lasciare lì arti metallici perfettamente funzionali sulla quale aveva faticato da tempo immemore gli lasciò l’amaro in bocca, ma erano troppo pesanti e non sarebbe mai stato in grado di trasportarli. Le sue anziane ossa non glielo avrebbero permesso. Tutto quello che era in grado di racimolare furono alcuni materiali leggeri e dei vecchi taccuini.

“Papà” lo chiamò una voce alle sue spalle e senza esitare il Dottore si voltò. A pochi passi dall’ingresso del laboratorio un soldato in alta uniforme lo stava fissando con una punta di preoccupazione riflessa nei glaciali occhi azzurri. “Dovresti andartene da qui” gli disse. Il Dottor Gelo lo squadrò per un ultimo secondo, tornando a raccogliere vecchi appunti, “È quello che sto facendo” lo rassicurò, “Ma non voglio rischiare di perdere tutti i miei studi” spiegò afferrando due quaderni, ponderando su quale dei due era più opportuno portare con sé.

Alle sue spalle il giovane soldato sembrò valutare la situazione. “D’accordo, promettimi solo che quando avrai finito tornerai subito a casa” supplicò. Gelo annuì “Come vuoi” concesse vago.

“Signore! I suoi uomini sono radunati all’esterno come ha ordinato. Aspettiamo sue istruzioni” si intromise un soldato, affacciandosi alla porta per osservare il superiore dal basso verso l’alto, vista la considerevole stazza di quest’ultimo. L’ufficiale si voltò acconsentendo con un leggero cenno del capo, “Avvisa che sto arrivando” ordinò. Pochi secondi più tardi il militare sparì.

Gelo si era nel frattempo voltato, osservando il figlio, “Vai” gli disse quando i loro occhi azzurri s’incrociarono, “Ci vediamo quando tornerai a casa anche tu”. L’uomo indugiò un istante ancora, “Fai attenzione papà” si rassicurò un’ultima volta prima d’incamminarsi verso la porta.

Lo scienziato lo vide allontanarsi. Il figlio di cui era orgoglioso, l’uomo forte e coraggioso che aveva cresciuto. Quel soldato alto e dalle grosse spalle robuste. Dai brillanti occhi chiari e dai capelli di un peculiare color arancione carota.

Tornato ai suoi esperimenti, Gelo decise che tra i due quaderni avrebbe portato con sé il taccuino la cui copertina era segnata con un grosso numero otto.

All’esterno della base le esplosioni sembravano avvicinarsi ogni secondo che scorreva.


***


Son Goku, fu il primo pensiero che riempì la sua mente. Chi egli fosse non lo sapeva, non con certezza. Non lo aveva mai incontrato, di questo non dubitava.

Qualcosa nella sua testa sembrò suggerire che lo scopo della sua esistenza era quello di eliminarlo. Ucciderlo.

Tutto il resto?

C’era solo il vuoto. Non c’erano altri pensieri o ricordi e nemmeno altre sensazioni. Son Goku, tutto qui.

Il proprio nome? Il proprio aspetto? Non sapeva nulla di tutto questo, era stato tutto cancellato. Dimenticato.

Sembrava che nel suo cervello ci fosse spazio solo per quello, Son Goku.

Lentamente aprì le palpebre, trovandosi faccia a faccia con il suo riflesso riverberato su un oblò dalla forma sferica poco distante dal suo stesso viso. La consapevolezza che fosse il proprio riflesso fu causato da una sensazione di familiarità.

Si accorse di avere occhi azzurri come il ghiaccio dai lineamenti sottili. Il suo viso era fine ed appuntito e una ciocca di capelli biondi seguiva le sue fattezze a pochi millimetri dal bordo del suo occhio.

Fissò la sua immagine per alcuni istanti, come a volersi ricordare chi fosse, chiedendo al suo riflesso di rispondere a domande di cui aveva un disperato bisogno.

Ebbe il desiderio di scostare i capelli da davanti al proprio viso, ma il luogo in cui si trovava era angusto, impedendole di muovere il braccio.

Non soffriva di claustrofobia, almeno così sembrava, ma non ebbe il tempo di averne la certezza. L’oblò che fino a pochi istanti prima la stava fissando con il suo stesso viso si aprì accompagnato da un cigolio metallico.

Libera di muoversi si scoprì ad osservare quello che sembrava essere un laboratorio. L’ambiente austero e metallico, computer disseminati in ogni dove e strane composizione in ferro che sembravano avere fattezze umane.

Un piccolo bip echeggiò per un breve momento, provenendo da un punto sconosciuto della stanza.

Ipotizzò che non fosse un luogo familiare, perché il suo cervello non sembrò reagire, affidandosi ad una nostalgia che non esisteva. Il suo viso le aveva dato l’impulso, una strana sensazione di familiarità che non riscontrò in quel luogo.

Compì un passo, uscendo dallo strano contenitore nella quale era stata reclusa fino ad un secondo prima.

Si portò la ciocca di capelli dietro l’orecchio.

Accanto a lei sentì un secondo stridio che rimbombò nella stanza e nella sua testa. Si voltò, giusto in tempo per vedere un secondo contenitore aprire la capocchia. Su di essa riuscì ad intravedere solo il numero diciassette.

Ne uscì un ragazzo, avevano la stessa età a giudicare dal suo aspetto. Indossava una maglia nera e un paio di jeans strappati, attorno al collo un foulard arancione.

C’era qualcosa di familiare in lui, qualcosa che il suo cervello riconobbe immediatamente, meglio persino della propria immagine riflessa.

Chi era questo ragazzo? Perché sembrava conoscerlo così bene?

Lui si voltò a guardarla, i fini occhi azzurri come il ghiaccio trovarono i suoi. Fu allora che comprese.

Aveva dimenticato tutto della sua vita, dal suo nome alle sue paure, ma non aveva dimenticato lui. Come avrebbe potuto scordare il suo gemello?

Anche lui doveva aver avuto la stessa sensazione, poiché il suo sguardo fino a quell’istante confuso sembrò avere un momento di lucidità, come se fosse appena tornato a vivere una vita perduta.

In un pensiero telepatico entrambi capirono che, pur avendo perso tutto, erano comunque ancora insieme e questa era la cosa più importante.


FINE

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