Cold eyes di taisa (/viewuser.php?uid=14713)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ricordi di un istante ***
Capitolo 2: *** Il valore della mia vita ***
Capitolo 3: *** Giochi di fantasia ***
Capitolo 4: *** Il suo valore ***
Capitolo 5: *** Senza di te ***
Capitolo 6: *** Una vita perduta ***
Capitolo 1 *** Ricordi di un istante ***
COLD
EYES
Ricordi
di un istante
Uscì
dal laboratorio di fretta, rischiando quasi di far cadere al suolo le
cianfrusaglie che reggeva a fatica tra le braccia. Un mucchio di vecchi
esperimenti, di materiali che erano stati abbandonati e appunti su
taccuini che negli anni aveva collezionato.
Si
guardò attorno, facendo quasi fatica a riconoscere gli
stessi corridoi che giorno dopo giorno aveva percorso da tempo
immemore. I soldati che di solito camminavano per quello stesso
percorso oggi stavano correndo. In braccio i fucili, intenti a gridare
a qualche compagno ordini dei superiori.
Era
il caos.
Un
paio di uomini gli sfrecciarono davanti senza nemmeno guardarlo, troppo
impegnati per notare un vecchio scienziato fermo davanti alla porta di
un laboratorio con l’aria di non sapere dove andare. Altri
tre soldati svanirono nella direzione opposta e contemporaneamente ad
essi un altro commilitone comparve gridando da dietro una porta.
Un
collega lo spintonò alle spalle, troppo spaventato per
preoccuparsi del compagno di laboratorio. D’altra parte era
lui che ancora sostava davanti alla porta. Si voltò per
osservarlo un’ultima volta, consapevole quasi per certo che
non lo avrebbe mai più rivisto. Non avrebbe mai
più rivisto nessuna di queste persone, ne aveva quasi la
certezza.
Non
riuscì a riconoscere il socio, l’uomo correva a
capo chino, stringendo a sé tutto quello che era riuscito a
salvare. Anni di ricerca scientifica stipati tutti in un vecchio
cartone che si trascinava via come se fosse qualcosa di prezioso.
Svanì
anch'egli come i soldati, lasciando a chi lo stava osservando solo
l’immagine del camice bianco che sparì dietro un
angolo in mezzo alla folla. Era spaventato, ma lo erano tutti. Anche
lui, che ancora non aveva deciso di muovere un passo dopo essere uscito
dal rifugio del vecchio laboratorio.
“Il
ragazzino sta venendo da questa parte. Dobbiamo fermarlo prima che
raggiunga il Governatore” urlò qualcuno. Una voce
indistinta ed indistinguibile che si sollevò alta sopra una
cacofonia di suoni che rimbombava per i corridoi, dando quasi
l’idea che anche l’edificio stesso volesse
partecipare al panico generale.
Quell’affermazione
sembrò generare paura nella paura, dando un senso
d’urgenza, come se ogni movimento compiuto potesse essere
l’ultimo.
Si
mosse, sapeva dove andare, qual era l'uscita più vicina. Si
voltò in quella direzione e cominciò a correre.
Il suo incedere fu reso goffo dalla fatica di trasportare i suoi averi
e le sue ossa non più nel fiore degli anni sembravano
scricchiolare ad ogni passo. Non si sarebbe fermato…
l’aveva promesso. Sarebbe tornato a casa quel giorno, in un
modo o nell’altro.
Nuove
urla si propagarono tra la folla, ma queste erano intrise di terrore e
adrenalina. L’aria che si respirava portava con sé
l'angosciante odore della polvere da sparo.
Quando
raggiunse la porta che lo avrebbe portato al cancello più
vicino si vide costretto a fermarsi. Una nube di pulviscolo si
sollevò prima che lui potesse compiere il passo decisivo
all’esterno dell’edificio, verso la salvezza.
Si
bloccò sentendo l’urlo di un soldato, mentre
questi fu sbalzato all’indietro sbattendo contro una parete
che aveva alle spalle. “Quel dannato moccioso”
mormorò l’uomo “I proiettili gli
rimbalzano addosso” commentò verso nessuno in
particolare. La manica della sua divisa cominciò a colorarsi
di rosso e il soldato si toccò il punto in cui era stato
colpito con una smorfia di dolore.
Osservando
la scena con il fiato sospeso, gli occhi dell’anziano si
scostarono poi in un punto poco più in là, dove
un gruppo di soldati era rannicchiato al riparo dietro un muro. Erano
una decina, i fucili puntati e le dita sui rispettivi grilletti che
premevano a ritmo regolare.
“Fuoco!
Continuate a sparare!” ordinò un ufficiale,
concentrando la sua attenzione su qualcosa fuori dalla prospettiva
dello scienziato che si era soffermato a guardare. Il comandante era un
uomo grande e grosso al cui cospetto i suoi soldati parevano solo
piccoli insetti. Fu l’istinto che lo fece voltare, tra un
ordine e l’altro. I suoi occhi si spostarono in direzione
della porta davanti alla quale l’uomo in camice bianco stava
osservando la scena.
I
loro occhi si incrociarono per una frazione di secondo, poi il soldato
fu sbalzato all’indietro. “No!”
urlò lo spettatore, mentre vide l’uomo ricadere
inerme al suolo. “NO!” sbraitò di nuovo,
lasciando la presa dei suoi averi che si frantumarono ai suoi piedi,
“NOOO!”. Sotto il soldato cominciò a
crearsi una chiazza di sangue che intrise la divisa marrone. Si mosse
ancora, ma solo per un breve istante.
L’anziano
cominciò a correre come mai aveva fatto in vita sua.
Incurante dei pericoli, delle urla e di altri proiettili che sembravano
rimbalzare come palline da ping pong. La sua incolumità non
era più importante.
Quando
raggiunse il soldato s’inginocchiò accanto a lui
afferrandogli il capo, “No, no, no”
mormorò poggiando la sua fronte su quella
dell’uomo morente. Lui gli tese una mano, mentre in silenzio
le sue labbra cercarono di pronunciare parole che si persero nel nulla.
Lo scienziato afferrò la mano sanguinante del soldato e la
strinse con forza.
Lo
guardò un’ultima volta, osservando il volto del
militare i cui occhi erano glaciali, di un pallido azzurro, ed in un
ultimo tentativo di aggrapparsi alla vita osservò
l’uomo inginocchiato al suo fianco. Infine, con lentezza, le
sue pupille si spensero quando la forza lo abbandonò
definitivamente.
Lo
scienziato rimase lì, immobile. Il suo camice ora diventato
rosso, il capo ancora appoggiato sulla fronte dell’uomo morto
e la mano aggrappata con forza a quella dell’ufficiale.
“Mi
dispiace, Dott. Gelo” farfugliò uno dei soldati
che nel frattempo aveva smesso di sparare.
***
Si
svegliò di soprassalto, annaspando in cerca
d’aria. Faticò a respirare per un attimo che parve
infinito. Dolorosamente, come se fosse appena riemerso dalle acque
profonde dopo un lungo periodo sotto la superficie.
Quel
ricordo aveva il brutto vizio di tornargli alla mente quando meno se lo
aspettava, quando non voleva. Approfittando della sua
vulnerabilità durante il sonno, esso si era fatto strada tra
i suoi pensieri, sapendo che da sveglio faceva sempre di tutto pur di
allontanare dalla memoria quei momenti vividi.
Si
portò una mano al volto e non fu sorpreso di scoprire di
avere il viso bagnato. Aveva pianto e stava ancora piangendo, mentre le
lacrime scendevano lente sui suoi vecchi e scarni zigomi, fermandosi
tra i folti baffi bianchi.
Era
da solo nel suo rifugio, nascosto tra le montagne del nord. Nessuno
alla quale chiedere conforto, non che lo volesse.
I
suoi occhi si scostarono su una fotografia incorniciata sul comodino
accanto al suo letto. Si soffermò ad osservarla per un
istante, poi decise di afferrarla per poterla ammirare più
da vicino.
Stava
sorridendo, in quella foto, una timida increspatura delle sue labbra
celate dai baffi che al tempo stavano cominciando a sbiancare. Accanto
a lui il soldato del Red Ribbon con indosso la sua nuova divisa da
ufficiale, la promozione risaliva a pochi giorni prima e con orgoglio
l’uomo indossava la sua uniforme. Gli era stata fatta su
misura, poiché la sua stazza era imponente. Alto con grosse
spalle larghe, il doppio rispetto allo scienziato accanto a lui
nell’immagine e che teneva stretto con una delle sue enormi
mani. Nonostante la sua grandezza e il fisico allenato, il suo viso era
gentile e nella foto un sorriso genuino gli abbelliva
l’espressione. I suoi occhi color del ghiaccio sembravano
scintillare ancora di vita, così come il giorno in cui
quella fotografia era stata scattata.
Sarebbero
potuti andare a festeggiare la promozione del soldato ovunque. Gelo gli
aveva dato la scelta e gli aveva promesso che lo avrebbe seguito senza
esitazione. Lui aveva optato per un semplice picnic a pochi chilometri
di distanza dalla base militare nella quale un giorno avrebbe esalato
l’ultimo respiro.
Il
Dott. Gelo scese dalla branda, incamminandosi a piedi scalzi verso la
scalinata che portava al piano di sotto.
Il
laboratorio era così come l’aveva lasciato, buio,
tetro e disseminato di cianfrusaglie sparse sul pavimento. Da qualche
parte nella grande stanza, un computer rimasto acceso emesse un
sommesso bip,
quasi a volergli dare il benvenuto.
Camminò
evitando vecchi scheletri di esperimenti, scartati perché
non corrispondevano alle sue esigenze. Una mano metallica, una testa
fatta di chip, una pallida armatura verde e il torso dai cavi bruciati.
Si fermò solo quando raggiunse il tavolo da lavoro. Su di
esso giaceva lo scheletro incompleto di un cyborg i cui circuiti erano
ancora scoperti.
Gelo
lo guardò, per un attimo. Solo in quel momento si rese conto
che non aveva ancora abbandonato la fotografia. L’istinto
gliel’aveva fatta stringere con forza e si era dimenticato di
riporla da dove l’aveva presa. La fissò con
l’intensità del suo dolore.
Con
uno sforzo poggiò l'istantanea sul banco da lavoro e dopo
averle dato un’ultima occhiata decise di rimettersi
all’opera.
CONTINUA…
Originariamente
doveva essere una one-shot, ma sarei stata costretta a tagliare molti
elementi della storia. Così ho optato per una
“breve long-shot”. XD
Spero
di avervi incuriosito con questo primo capitolo.
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Capitolo 2 *** Il valore della mia vita ***
COLD
EYES
Il
valore della mia vita
I
materiali per il suo lavoro erano tutti molto costosi o peculiari. In
certi casi persino illegali. Non gli bastava entrare in una ferramenta
o dall’elettricista per comprare quello di cui aveva bisogno.
Alcuni
dei componenti usati per le sue creazioni venivano registrati e
catalogati dagli enti pubblici e lui preferiva l’anonimato.
D’altra parte lo scopo dei suoi esperimenti non era legale ed
essere rintracciabili poteva risultare un problema.
Così
era costretto a trovare altrove ciò che gli serviva per
continuare il suo lavoro.
La
città più vicina era abbastanza grande da avere
un mercato nero, un segreto conosciuto a tutti, situato nella zona meno
appetibile. I luoghi della clandestinità, dove ogni sorta
d’illegalità si svolgeva dietro tutti gli angoli.
Non
era la prima volta che si era visto costretto a camminare tra i vicoli
malfamati e di certo non sarebbe stata l’ultima. Si era
abituato ad ignorare i volti tetri della gente, gli sguardi avidi che
lo fissavano studiando la sua postura cercando di capire chi fosse e
perché un vecchio scienziato come lui dall’aria
gracile, col viso segnato dall’età e dal dolore,
si trovasse tra loro.
Gelo
aveva imparato a percorrere le vie spettrali a testa alta. Non aveva
nulla che valesse la pena rubare, per tutti i malintenzionati i suoi
acquisti erano solo un inutile spreco di tempo. Nessun’altro
a parte lui era interessato ad un’ammasso di ferraglia senza
valore che aveva richiuso in una capsula nascosta nella tasca della sua
giacca.
Si
accorse di avere paura solo quando cominciò ad intravedere
la vera vita della città all’orizzonte,
lasciandosi la malavita alle spalle. Le strade diventarono ben presto
più colorate e variopinte. I negozi non vendevano
più merce sottobanco, erano attività florenti in
una cittadina ricca. I passanti non avevano sguardi assassini, la gente
era allegra qui, piena di energia.
Questo
gli diede il voltastomaco. Preferiva di gran lunga camminare senza il
terrore di essere la prossima vittima senza nome ritrovata in un angolo
di strada, ma ciò non voleva dire che l’allegria
delle persone lo mettesse più a suo agio. Odiava tutto
questo, ogni individuo che gli camminava accanto era
un’accoltellata immaginaria che faceva male.
Così
aveva imparato a percorrere le strade più tranquille, quelle
appartate dove non correva il rischio di incontrare anima viva. Questo
gli fece abbassare la guardia.
Non
ebbe modo di prevedere quella mano gelida che gli coprì la
bocca in un lampo. Sgomento e colto alla sprovvista, il Dott. Gelo non
ebbe modo di reagire quando con forza venne trascinato
all’interno di un vicolo che incrociò sul suo
percorso. Le sue spalle furono spinte contro la parete del viottolo
senza quasi dargli il tempo di respirare.
Il
dolore improvviso causato dall’impatto e dal fisico anziano
lo costrinse a chiudere le palpebre per un breve momento. Quando le
riaprì si ritrovò ad osservare la canna di una
pistola puntata tra le sopracciglia nivee. L’arma gli
impedì di guardare il suo assalitore, “I tuoi
soldi e le tue capsule” gli disse questi. Era un ragazzo
giovane, intuì dalla tonalità della sua voce.
Gelo
sbirciò oltre il revolver, riuscendo infine a vedere gli
occhi del rapitore. Con un tuffo al cuore si ritrovò a
fissare due pupille di un glaciale azzurro che scintillavano di una
fredda determinazione.
Si
sforzò di ricordarsi che non erano i suoi
occhi che stava guardando, seppur così simili erano anche
molto diversi. A parte il colore non c’era altro in comune,
quelli del ragazzo che lo stava fissando erano molto sottili ed
affinati.
“I
tuoi soldi e le tue capsule”
ripeté tra sé con rammarico. Sì certo,
ma che importanza aveva? Non c’era nessuno a casa ad
attenderlo, nessuno che avrebbe compianto la sua scomparsa. Nessuno che
avrebbe chiesto giustizia.
“Non
ho niente per te, ragazzo” gli rispose, la voce roca che
uscì dalle sue labbra dimostrò la reticenza a
proferire parola. Senza esitare poggiò la propria fronte
sulla canna dell’arma ed attese.
Fissando
gli occhi dell’assalitore si accorse della sua sorpresa,
evidentemente non si aspettava una reazione tanto anomala.
Approfittando della sua indecisione, lo scienziato afferrò
con le mani la pistola e la strinse con le dita legnose segnate da anni
di duro lavoro, impedendo al ragazzo di scostare l’arma.
Rimasero
così per un tempo che apparve infinito. “Che stai
aspettando?” gli bisbigliò l’anziano
stringendo la presa sul revolver.
Il
giovane sembrò indeciso, mai nessuno lo aveva provocato in
quel modo e la sua reticenza fu leggibile nei limpidi occhi azzurri.
“Sbrigati,
non ci resta molto tempo!” lo chiamò qualcuno alle
spalle del ragazzo, il quale non parve aver bisogno di voltarsi per
sapere chi avesse parlato. Al contrario, Gelo scostò lo
sguardo per individuare il secondo assalitore. Tutto ciò che
vide fu una giovane donna appoggiata dalla parte opposta del vicolo, la
testa girata verso la strada parallela a quella che stava percorrendo
il dottore.
Approfittando
del momento di distrazione dello scienziato, il rapinatore
strattonò la mano armata e l’abbassò.
Gelo
ebbe modo di guardare meglio il volto del giovane. Non doveva avere
molto più di vent’anni, il fisico magro e asciutto
ed il viso fine in perfetta armonia con i suoi occhi.
“Vattene”
gli disse, facendo sparire la pistola in una fondina che teneva legata
dietro la cintura di un logro paio di jeans e che nascose sotto una
maglietta strappata. Tuttavia all’ordine Gelo
esitò, scoprendosi meno sollevato per essere stato
risparmiato e più deluso che non avesse posto fine al suo
dolore.
Il
giovane assottigliò lo sguardo, “Non mi hai
sentito? Ti ho detto di andartene, vecchio” ripeté
di nuovo e questa volta fu ascoltato.
Il
Dottor Gelo lo guardò per un’ultima volta, prima
di voltarsi e riprendere il cammino che lo avrebbe inevitabilmente
riportato al suo laboratorio.
Il
giovane assalitore restò ad osservarlo per un po', fino a
quando l’anziano non sparì dietro
l’angolo e quindi dalla sua visuale.
Seguì
con l’udito i passi che si avvicinarono alle sue spalle,
aspettandosi di vederla comparire al suo fianco da un momento
all’altro.
La
ragazza lo raggiunse presto, avevano la stessa età e gli
stesse fini occhi azzurri. “Quanto abbiamo
guadagnato?” gli chiese incrociando le braccia. Il giovane
non la guardò, ancora concentrato sulla vittima che aveva
appena lasciato fuggire. “Nulla” le disse infine,
lasciando scivolare le mani nelle tasche dei pantaloni.
“Cosa? Mi stai dicendo che non gli hai preso
niente?” esclamò incredula la ragazza.
Lui
alzò le spalle in un gesto noncurante, un sardonico sorriso
sulle labbra, “Rubare a un vecchio non è
divertente” commentò quasi ridendo, anticipando la
complice verso l’accesso del viottolo. Lei lo
guardò di spalle con un’espressione contrariata,
scosse il capo prima di seguirlo, “Tsk, certe volte ti
comporti proprio come un moccioso, Lapis” brontolò.
CONTINUA…
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Capitolo 3 *** Giochi di fantasia ***
COLD
EYES
Giochi
di fantasia
I
suoi sogni erano cambiati, negli ultimi tempi. Mentre stringeva a
sé l’uomo morente, non erano più gli
occhi del soldato che vedeva spegnersi senza vita. Erano quelli
glaciali e sottile del rapinatore che, alcuni mesi prima, gli aveva
puntato una pistola alla fronte per rubargli quel poco che aveva nelle
tasche.
Gelo
si era ritrovato a credere che si trattasse di una semplice
associazione d’idee. Due momenti dal forte impatto emotivo
che si fondevano tra loro in un unico groviglio nel suo subconscio. Si
ritrovò ben presto a comprendere che non c’era
soltanto quello.
Quando
aveva rimesso piede in città, dopo la rapina, si era
scoperto a guardarsi attorno in cerca di qualcosa. Percorrendo gli
stessi viottoli della precedente occasione, il desiderio di rivedere il
giovane dagli occhi azzurri era diventato sempre più
intenso. La mera similitudine che aveva riscontrato gli
suggerì che aveva bisogno di un conforto. I suoi occhi erano
vivi, contrariamente al militare.
Non
ebbe mai tale fortuna, il delinquentello di strada era scomparso nel
nulla, dando l’impressione allo scienziato che forse lo aveva
solo immaginato. Era probabile che il ragazzo avesse solo una vaga
somiglianza, ma il suo dolore li aveva tramutati in una
necessità.
Camminando
per i vicoli malfamati della zona fu solo per fortuita coincidenza che
un uomo, dal lato opposto della strada, attirò la sua
attenzione. L'individuo in questione era un ometto di mezza
età dall’aria scarna che continuava a guardarsi
attorno ogni paio di passi.
Il
Dott. Gelo si fermò ad osservarlo, mentre l’altro
scostò lo sguardo con circospezione per constatare che non
ci fosse nessuno nei paraggi. Era nervoso, non avendo notato il dottore
che non lo perse di vista un istante, nascosto dietro un palo della
luce.
L’uomo
sospetto affrettò il passo, inoltrandosi in uno dei vicoli
nei paraggi. Fu per puro istinto che il Dott. Gelo decise di seguirlo.
Non aveva nessun’altra buona ragione per pedinarlo. Era un
perfetto sconosciuto che con ogni probabilità non si era mai
addentrato in questo particolare quartiere della città,
oppure era consapevole che qualunque cosa stesse facendo era illegale o
pericolosa.
Raggiunse
il viottolo nella quale l’individuo si era rifugiato e si
appiattì alla parete per non essere scorto.
“...
ma avevi detto che mi avresti fatto uno sconto!” stava
dicendo l’uomo, la voce tremante ed insicura. Gelo
poté guardarlo solo di spalle, mentre lo sconosciuto, chino
su sé stesso, stava implorando un misterioso interlocutore.
Di quest’ultimo fu in grado di osservare solo le scarpe da
tennis e i logori jeans, questi era infatti seduto su una parte
sporgente della parete. Con una mano era intento a giocare con una
capsula che lanciò in aria per poi riprendersela, ripetendo
l’operazione con ritmo ipnotico. “Lo sconto valeva
solo se mi fossi divertito a rubare quello che mi hai
chiesto” spiegò l’uomo seduto, dalla cui
voce fu facile intuire che si trattava solo di un ragazzino,
“Questo è stato piuttosto noioso, quindi dovrai
pagarmi il prezzo intero”.
L’uomo
esitò ed abbassò il capo, lo alzò
subito dopo e si guardò alle spalle, poi tornò ad
osservare la capsula che si sollevò in aria per un secondo,
prima di ricadere sul palmo del giovane. “Ma…
ma… io” farfugliò indeciso. Il ragazzo
smise di riacciuffare il contenitore, stringendolo ora tra le dita,
“Beh, se non lo vuoi posso sempre trovare qualcun altro a cui
venderlo” concluse, ritirando la mano con
l’intenzione di far svanire l’oggetto in una tasca
dei pantaloni.
L’uomo
si protrasse in avanti “No… no…
aspetta!” esclamò nervoso “Ti
pagherò quello che mi hai chiesto” concluse,
restando in attesa. Ci fu un breve silenzio seguito da una risata
sottile, “Così mi piaci”
replicò il giovane. L’interlocutore
ravanò in una delle tasche della giacca ed estrasse alcune
banconote che diede al ragazzo. Un breve istante ancora, il tempo che
le contasse, infine gli consegnò la capsula,
“È stato un piacere fare affari con te”
sancì infine. Il tono era quello del congedo.
Il
nervoso ometto si voltò senza farselo ripetere e rapido come
il vento ripercorse la strada che lo aveva portato sin lì.
Troppo teso anche solo per verificare che ci fosse il via libera,
camminò svelto a testa china, non facendo caso
all’anziano ancora appiattito contro la parete.
Solo
quando l’individuo si allontanò, Gelo fu in grado
di guardare in faccia il giovane. Era lui, constatò in un
istante, riconoscendo i capelli scuri, i jeans malridotti e soprattutto
gli occhi azzurri.
Il
ragazzo sembrò rilassarsi, portò le braccia
dietro la testa e si adagiò al muro. Restò
lì immobile. Serrò le palpebre, rilassandosi. I
minuti trascorsero veloci, mentre lo spettatore silenzioso
continuò ad osservare senza muoversi a sua volta.
Quando
il giovane si sollevò dal suo improvvisato sedile fu quanto
mai inaspettato.
In
piedi si stiracchiò sonnolento prima di far scivolare le
mani nelle tasche dei suoi jeans. Sbadigliò e
cominciò a camminare verso l’uscita del vicolo.
Il
Dott. Gelo cercò di mimetizzarsi con la parete,
assottigliandosi il più possibile. Non ce ne fu bisogno. Il
giovane ladruncolo scelse di voltare nella direzione opposta a quella
nella quale l’anziano era nascosto, percorrendo la strada che
portava ai negozi illuminati e alla vita della gente comune.
Intenzionato
a non lasciarselo scappare, Gelo lo seguì a discreta
distanza concedendo al ragazzo la scelta sull’itinerario.
Il
passo tranquillo e rilassato dell’ignaro rapinatore rese
l'inseguimento piuttosto facile, sebbene entrambi fossero costretti a
zigzagare tra la gente che affollava la strada. Accanto alla vetrina di
un negozio, due donne erano immerse nella contemplazione di alcuni
abiti all’ultima moda. Sebbene Gelo stesse tenendo
d’occhio il giovane, rischiò quasi di non notare
la mano dello stesso infilarsi nella borsa di una delle due malcapitate
nel momento in cui le passò accanto.
Il
ladro aprì il portafoglio ora a sue mani e ne estrasse una
manciata di banconote. Svuotato il borsellino, fece sparire gli zeni
recuperati nelle sue tasche per poi liberarsi
dell’inconfutabile prova del misfatto. Tutto con una tale
nonchalance da far credere che non avesse fatto nulla di male o
illegale, senza la benché minima paura di essere visto o
segno di rimorso.
Gelo
superò il portafoglio nel punto in cui il suo obiettivo lo
aveva lasciato cadere. Si distrasse un secondo per guardarlo, poi
sollevò di nuovo lo sguardo e… lui era sparito.
Era
bastato quell’attimo, quel secondo di distrazione per
perderlo di vista. Svanito come se non fosse mai stato lì.
Stava impazzando? Questo ragazzino esisteva davvero o era solo il
frutto della sua affranta fantasia?
Sveltì
il passo, percorrendo il tratto che lo separava dal punto in cui lo
aveva visto l’ultima volta. Si guardò attorno, ma
del delinquente di strada non era rimasta nemmeno l’ombra.
Camminò svelto, guardandosi attorno in cerca di indizi, di
un’immagine residua che potesse dare il segno del suo
passaggio.
Stava
cominciando a perdere le speranze, quando svoltò
l’angolo in una strada meno affollata. La prima cosa che vide
fu la pistola che gli comparve davanti agli occhi seguita dalla mano
che, dopo essersi appoggiata sulla sua spalla, lo costrinse a sbattere
la schiena contro la parete. Deja vu.
“Chi
sei, vecchio? Perché mi stai seguendo?” gli chiese
una voce a questo punto conosciuta. Dentro di sé, nonostante
l’arma nuovamente puntata contro, Gelo tirò un
sospiro di sollievo, soprattutto quando i suoi occhi
s’incrociarono con quelli azzurri del ragazzo.
Come
aveva fatto nella precedente occasione, afferrò con fermezza
la canna della pistola e vi poggiò sopra la fronte,
“Noi ci siamo già incontrati, ragazzo”
gli bisbigliò in rimando. Ci fu un secondo di silenzio,
seguito da un leggero click
quando la sicura dell’arma tornò al suo posto,
“Sei quel
vecchio” constatò abbassando la mano con la
rivoltella.
L’anziano
lo guardò far sparire la pistola sotto la maglietta,
com’era stato anche l’ultima volta. “Ho
una proposta per te” gli offrì, tuttavia la sola
risposta fu una semplice alzata di spalle, “E
perché dovrebbe interessarmi?”
“Perché ti pagherò il doppio”.
Questo
sembrò cogliere il suo interesse,
“Sentiamo” lo esortò incuriosito. Gelo
lo fissò, “C’è una cosa di
cui ho bisogno, ma io sono troppo vecchio per ottenerlo solo con le mie
forze”. Il giovane assottigliò lo sguardo, in
silenziosa contemplazione.
All’anziano
parve bastare, “Mi serve un chip, è molto prezioso
e delicato, lo producono solo a scopi militari. Forse tu potresti
rubarlo per me”. Sulle labbra del giovane si dipinse un
sorriso sottile, “Mmm… sembra
divertente” confessò.
CONTINUA…
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Capitolo 4 *** Il suo valore ***
COLD
EYES
Il
suo valore
Il
sasso centrò in pieno la bottiglia di vetro allineata con
meticolosa attenzione accanto alle sue compagne di disavventura. Il
suono che produsse quando precipitò al suolo
echeggiò per un breve istante nell’enorme magazino
desolato.
La
sua mano cercò un secondo ciottolo tra quelli ammassati
accanto al materasso sulla quale era sdraiato e, come aveva
già fatto, lo lanciò colpendo uno dei recipienti
che erano il suo bersaglio. Con un’espressione annoiata
constatò di non aver ancora sbagliato mira, non era di certo
impressionato.
L’eco
di vetri infranti si spense dopo appena un paio di secondi. Lapis
sbadigliò, prima di scegliere un’altra pietra tra
il mucchio che aveva in precedenza trovato nell’edificio
abbandonato, in preparazione del suo gioco.
Sdraiato
su un fianco, con la testa appoggiata sul palmo di una mano e sguardo
annoiato, lanciò il sasso colpendo un’altra
bottiglia. Nemmeno una mira quasi perfetta sembrò
interessargli.
“Lapis,
cos’è questo affare?” gli chiese una
voce alle sue spalle. Lui si voltò con lentezza, sapendo che
non avrebbe avuto nessuna sorpresa. Ed infatti la ragazza in piedi
accanto al secondo materasso steso al suolo era esattamente la persona
che si aspettava di vedere.
La
bionda stava studiando una piccola busta di plastica trasparente,
all’interno della quale era contenuto un microscopico chip.
Lapis lo riconobbe all’istante e senza indugio riprese a
giocare con i suoi sassi. Ancora il rimbombo di vetri infranti.
“È l’affare che mi ha chiesto quel
vecchio” le spiegò vago.
Le
aveva raccontato dell’incontro con quello strano vecchietto
avvenuto una settimana prima, mettendola al corrente della situazione.
Sua sorella si era limitata a registrare mentalmente l'informazione
dopo poche e brevi domande. Come faceva sempre.
Gli
occhi azzurri della ragazza si scostarono dall’oggetto alla
schiena del fratello, per poi tornare a concentrarsi sulla busta tra le
sue mani. “Rubarlo è stata una vera
impresa” commentò Lapis, ora stufo del suo gioco.
Si mise a sedere, poi si stiracchiò voltandosi verso la sua
interlocutrice. Lei sembrò riflettere per alcuni secondi.
“Lapis…”
cominciò a dire e lui riconobbe il tono autoritario della
sua voce. Anche l’assottigliarsi dello sguardo
servì come campanello d’allarme. “Spero
tu non abbia intenzione di fargli pagare meno solo
perché ti sei divertito”
lo ammonì.
Lui
sorrise, lo conosceva troppo bene, “Ti preoccupi sempre
troppo, sorella” “Mi preoccupo dei soldi”
gli rammentò lei con estrema serietà. Lapis si
alzò “Che problema c’è?
Possiamo sempre rubarne altri” concluse noncurante.
Questo
sembrò farla arrabbiare. Nel momento in cui le dita di suo
fratello stavano per raggiungere il sacchettino nelle sue mani, lei
ritirò il braccio. “Smettila di scherzare, sai bene
perché non voglio rimanere senza soldi”
sibillò nervosa.
Guardandola
negli occhi identici ai suoi, Lapis sembrò trovare la sua
serietà. Sì, sapeva da dove nasceva la sua
preoccupazione, non aveva certo bisogno che fosse lei a ricordarglielo.
Non
ebbero bisogno di altre parole e il resto del discorso si
limitò a quel semplice scambio di sguardi. Fu lui il primo a
distogliere gli occhi, alzò le spalle e riuscì a
sottrarle l’oggetto del contendere. “Hai vinto tu
Lazuli. Mi farò pagare il doppio, non uno zeni di
meno” la rassicurò.
Lazuli
sembrò tranquillizzarsi in minima parte. Sapeva che suo
fratello era volubile e spesso poco affidabile quando si trattava di
queste cose. Continuò a fissarlo, “Forse dovrei
venire con te” “Stai dicendo che non ti fidi del
tuo gemello?” la risposta a quella domanda fu una smorfia sul
viso sottile della ragazza.
In
generale non si fidava di nessuno, Lapis era un’eccezione.
Lazuli sospirò, liberandosi della sua tensione,
“Il doppio” sussurrò “Non uno
zeni di meno” ripeté in responso lui.
Lapis
le diede una breve buffetto affettuoso sulla testa, facendo sparire il
chip nella tasca dei suoi pantaloni. Assicuratosi che la sorella non
avesse altro da dire si fece strada tra i rottami abbandonati
all’interno del magazzino. “Per festeggiare
porterò a casa qualcosa di buono. Stasera mangeremo da
ricchi” le promise.
***
Il
ragazzo gli aveva detto, una settimana prima, di tornare entro sette
giorni e così aveva fatto. Trascorso il tempo stabilito,
Gelo si era trovato in città camminando per i viottoli
malridotti nell’attesa che lui si facesse vivo. Il ladruncolo
non gli aveva dato altre istruzioni, luogo e ora erano rimasti un
mistero. “Sarò io a
trovare te”
gli aveva detto in congedo, prima di allontanarsi e svanire tra la
folla, lasciando l’anziano scienziato al suo destino.
Come
avesse fatto a rintracciarlo, sarebbe rimasto un mistero. Il Dottor
Gelo si era visto contattare da uno sconosciuto all’oscuro di
tutto fuorché del messaggio che portava. “Tra
un’ora alla discarica”
gli aveva sussurrato con voce roca, poi anche lui si era allontanato.
Un’ora
più tardi Gelo si trovò circondato da carcasse
annerite delle vetture più variegate che avevano esperito il
loro utilizzo. Non ebbe la minima idea di dove si trovasse il ragazzo,
pertanto fu costretto a muoversi tra il labirinto di rottami alla sua
ricerca.
“Quest’auto
era davvero un gioiello, per l’epoca” lo accolse
una voce, svoltato un angolo fatto di spazzatura metallica. Gelo lo
trovò seduto sul sedile di un’autovettura, dietro
al volante distrutto. Alla macchina mancava il cofano e buona parte del
tettuccio.
Sulla
fiancata un riconoscibile simbolo sferico nella quale erano state
disegnate due C,
Gelo riuscì a trattenere a stento una smorfia di fastidio
appena riconobbe il marchio di fabbrica.
Si
soffermò ad osservare il giovane per un istante, avendo
l’impressione di trovarsi davanti ad un bambino sommerso dai
suoi giochi. “Anno settecentocinquanta…”
stava continuando a dire il delinquentello, incurante dei pensieri
dell’uomo, “Ottima annata per la
Caps…” “Dov’è il
mio chip?” tagliò corto lo scienziato.
Non
aveva fatto tanta strada per arrivare fin lì ed
intraprendere una discussione sulle vetture fabbricate da una compagnia
che era sulla sua lista nera, prodotte un anno che avrebbe preferito
dimenticare.
Il
giovane lo guardò per la prima volta, scrutadolo dietro
quelle pupille azzurre come il ghiaccio, “Quanta fretta,
vecchio” brontolò, come un moccioso infastidito
perché non poteva avere quello che voleva. Si
alzò dal sedile e poggiò il braccio su quel che
restava del tettuccio. Con flemma estrasse un sacchettino trasparente
nella quale era contenuto l’oggetto del contendere.
“Il doppio, come promesso” gli ricordò
il delinquente, mostrandogli una mano a palmo aperto.
Il
Dottor Gelo studiò a lungo la busta, il giovane e quindi la
sua mano, poi tornò al chip,
“D’accordo” disse, estraendo un plico da
una tasca, per poi porgerlo al delinquentello. Il ragazzo sorrise,
constatandone il peso. Si prese alcuni istanti per contare velocemente
le banconote, “Ottimo” stabilì infine,
passando il sacchetto all'anziano.
Gelo,
ora in possesso del suo chip, lo guardò con attenzione. Era
ciò che voleva e una volta giunto a questa conclusione
infilò l’oggetto in una tasca interna della sua
giacca. Nel contempo il ladro fece altrettanto con il suo compenso. Lo
scienziato lo studiò per alcuni istanti ancora,
soffermandosi per un breve momento sugli occhi azzurri.
“Sono
sorpreso” ammise all’improvviso, costringendo
l’altro a guardarlo, “Pensavo ti saresti divertito
a rubare questo chip, perché non mi hai proposto uno
sconto?” gli domandò, ricordandosi la
conversazione che aveva udito tra lui e l’uomo
dall’aria sospetta.
Il
giovane parve rifletterci. Alzò le spalle,
“Normalmente lo avrei fatto, ma ho promesso a mia sorella che
oggi non ci sarebbero stati sconti” spiegò. “Sorella?”
pensò tra sé il Dottor Gelo, assottigliando lo
sguardo.
Separatosi
dall’auto sulla quale era appoggiato, il ragazzo
sembrò intenzionato ad andarsene. Compì pochi
passi, “Aspetta” lo richiamò
l’anziano “Ho un'altra proposta per te”
disse.
Ci
fu un attimo di esitazione nel suo passo, ed infine il giovane ladro si
fermò, voltandosi appena alle sue spalle per osservare lo
scienziato. “Che tipo di proposta?” volle sapere,
interessato.
Sulle
labbra del Dottor Gelo si dipinse un lieve sorriso nascosto dai folti
baffi bianchi.
CONTINUA…
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Capitolo 5 *** Senza di te ***
COLD
EYES
Senza
di te
Lazuli
era allo stremo delle forze, ma non poteva fermarsi. Smettere di
correre equivaleva ad arrendersi, consentendo agli inseguitori di
raggiungerla. Non poteva permettere che ciò accadesse,
cercando
dentro di sé la forza che le serviva per andare sempre
avanti.
Tra
le braccia stringeva una confezione di pane e alcune scatole di cui non
conosceva il contenuto. Le aveva rubate a caso, prese dal bancone di un
supermercato nella speranza di non essere scoperti dalle
autorità.
Era
andata male, questa volta, qualcuno li aveva notati, lei e Lapis,
mentre sgraffiniavano qualcosa da mangiare tentando di sgattaiolare
all’esterno senza essere visti. C’erano state delle
urla e
dei tafferugli, i due bambini si erano guardati negli occhi e avevano
capito che questa era una di quelle volte in cui dovevano correre.
Lapis
era sempre stato il più veloce e con un rapido scatto aveva
attraversato la porta del negozio e si era fiondato
all’esterno.
Lazuli aveva fatto altrettanto, ma non era stata altrettanto fortunata.
Qualcuno aveva visto il bambino fiondarsi verso l’uscita e
con
prontezza di riflessi aveva compreso che le urla dei commercianti e le
richieste di fermare i ladri erano rivolte anche a lei.
Lazuli
si era sentita afferrare per una spalla con una presa salda. La mano
era presumibilmente quella di un uomo, la ragazzina non si era certo
fermata a verificare.
Sapeva
di aver urlato, una disperata richiesta d'aiuto rivolta al fratello che
era ormai lontano. Lapis non poteva lasciarla, fermatosi sul bordo del
marciapiede esitò per una frazione di secondo, voltandosi ad
osservare la gemella divincolarsi con foga tra le mani del suo
assalitore.
Disperazione
e paura furono la forza alla quale si aggrappò.
L’istinto
le suggerì di mordere la mano stretta sulla sua spalla e
l’uomo, colto alla sprovvista, allentò la presa
quel tanto
da permetterle di divincolarsi verso la libertà. Un sonoro
strappo le suggerì che non tutto era rimasto integro. Ben
presto
si accorse che la manica della sua giacca si era strappata, pendendo
sul suo braccio quasi interamente separata dal resto
dell’indumento.
Non
c’era stato il tempo per fermarsi, per riflettere, dovevano
correre e dovevano essere veloci.
Conoscevano
bene questa città, tutte le strade, i vicoli e le
scorciatoie che nessun adulto aveva mai percorso.
Si
seguivano a vicenda, dietro un istinto comune che li guidava come se
avessero un unico cervello, come se fossero una persona sola.
La
loro fuga durava da diversi minuti, ma i gemelli erano ancora troppo
spaventati per potersi fermare a prendere fiato, terrorizzati non si
erano mai guardati alle spalle per verificare la presenza di probabili
inseguitori.
Fu
Lazuli a frenare il passo per prima, fermandosi quando
l’istinto
le suggerì che poteva rilassarsi, che erano riusciti nel
loro
intento e forse stasera avrebbero mangiato qualcosa di buono e
sostanzioso. Non amavano rubare, ma erano solo due ragazzini orfani
senza un soldo la quale sopravvivenza era basata sul semplice istinto e
sulla loro complicità.
Quando
il fiato sembrò tornarle, Lazuli alzò lo sguardo,
scoprendosi ad osservare una grossa cancellata che circondava un enorme
edificio. Impiegò alcuni secondi per capire cosa fosse e
dove la
loro corsa li avesse portanti. A farle comprendere che stava guardando
una scuola ci pensarono i suoi coetanei nel giardino circondato dalle
inferiate.
Doveva
essere una pausa, intuì, notando i diversi gruppi di bambini
giocare e rilassarsi insieme agli amici con la quale condividevano
banchi scolastici.
Lazuli
si domandò con una punta di rammarico che sensazione si
provasse
a passare tutti i giorni seduti sulla stessa sedia, circondati da
compagni della stessa età con la quale poteva condividere un
pranzo.
Al
suo fianco sentì un movimento. Non si voltò,
sapeva che
Lapis si era affiancato a lei e con altrettanta certezza seppe che
nella mente del gemello stavano affiorando gli stessi pensieri.
Senza
dire nulla Lapis le afferrò una mano e la strinse per
confortarla. Lazuli fece altrettanto, trattenendo le dita del fratello
per restituire in altrettanta misura l’incoraggiamento che da
lui
stava ricevendo.
Restarono
così in silenzio per alcuni minuti, osservando bambini che
non
conoscevano fare cose che loro non erano in grado di fare. Le parole,
tra loro, non erano necessarie.
In
comune accordo si voltarono, cercando lo sguardo reciproco. Gli occhi
identici dei due gemelli si cercarono per un unico breve istante. Ed
ancora in silenzio si allontanarono insieme. Non avevano bisogno di
compagni di gioco, di scuole e nemmeno di cibo. Tutto quello di cui
avevano bisogno era l'uno dell’altra.
***
Gli
ombrelli cominciarono ad aprirsi appena le prime gocce di pioggia
toccarono il terreno. Alla rinfusa la gente cominciò a
cercare
un luogo per potersi riparare dal rovescio incombente. La piazza si
svuotò con rapidità, lasciando solo chi, uscendo
di casa,
aveva alzato lo sguardo per osservare i nuvoloni neri che si erano
materializzati all’orizzonte e aveva preso un ombrello. In un
modo o nell’altro tutti cercarono un metodo per restare
all’asciutto. Tutti, ma non Lazuli.
Lei
rimase sul marciapiede accanto alla piazzola davanti alla quale
sostava. Sottili ciocche di capelli biondi si appiccicarono al viso
sottile, accanto al bordo dei suoi occhi che non avevano smesso un
secondo di osservare la strada con una certa scrupolosità.
Non
le importava di essere fradicia, di non avere un riparo dalla pioggia.
Lapis
era scomparso da più di due settimane. Di lui non aveva
notizie
e l’idea che potesse essergli successo qualcosa la stava
logorando. In tutta la loro vita non erano mai stati lontani per
così tanto tempo. Erano nati insieme, avevano vissuto
insieme ed
erano sopravvissuti insieme. Senza di lui la sua vita era vuota.
“Lapis, dove
sei?”
si domandò con disperazione, sperando di vederlo comparire
da
dietro un angolo da un minuto all’altro senza spiegazione.
***
All’interno
di una baracca che avevano costruito con gli scarti della discarica che
la circondava, Lazuli era seduta a gambe incrociate. Sul pavimento, se
così lo si voleva definire, aveva impilato con cura una
serie di
monetine.
Le
contò con desolazione, constatando che non erano un gran
numero.
Il cibo che avevano rubato pochi giorni prima era quasi finito, di
questo passo sarebbero stati costretti a sgraffignarne ancora da
qualche altro supermercato.
“Lazuli,
ho una sorpresa per te” esordì la voce del
fratello,
mentre questi si affacciò all’interno del loro
nascondiglio dopo essersi arrampicato sopra un mucchio di cianfrusaglie
abbandonate. La ragazzina lo guardò entrare e trovare spazio
nell’angusto rifugio, le mani nascoste dietro la schiena e
sulle
labbra un sorriso sornione che suggerì qualche marachella.
Lazuli inarcò un sopracciglio sottile “Che
cos’hai
combinato?” gli domandò diretta e lui
sembrò quasi
offendersi all’insinuazione. “Non so di cosa stai
parlando” recitò, senza smettere di esibire un
sogghigno
soddisfatto. Lei attese.
Dopo
alcuni istanti Lapis le mostrò quello che stava nascondendo.
Tra
le sue mani reggeva una giacca jeans sulla quale era attaccata ancora
l’etichetta di un qualche negozio. “Ti piace?
L’ho
preso per te” le disse porgendole l’indumento.
Lazuli
esitò per un istante, “Dove l’hai presa?
Sai bene
che non possiamo permetterci queste cose!” lo
rimproverò,
preoccupata più che altro. I suoi occhi azzurri si scostarno
sulle monetine ancora impilate sul pavimento e quelli identici del
gemello fecero altrettanto.
“Non
essere stupida” le rispose, avendo compreso in quel breve
lasso
di tempo le preoccupazioni della sorella, “Non l’ho
mica
comprato” la rassicurò poggiando il capo
d’abbigliamento sulle ginocchia della ragazzina.
“L’ho rubato per te” spiegò
additando la
giacca di Lazuli e la manica che ancora pendeva attaccata ad essa
grazie ad un mero pezzo di stoffa.
“Davvero?”
gli domandò lei, senza riuscire a nascondere una certa
gratitudine all’indirizzo del fratello che annuì
in
responso. “Coraggio, provala” le disse Lapis, in
trepidante
attesa. Lazuli perse un altro secondo a riflettere, ed infine si
decise. Tuttavia prima ripose il gruzzolo di monete in una piccolo
marsupio che nascose sotto la propria maglietta. Infine si
sfilò
la giacca rovinata ed infilò quella nuova.
Lapis
osservò tutta l’operazione in silenzio.
“Ho scelto
bene?” le chiese alla fine. Lazuli ci pensò, era
calda e
la sensazione di un capo nuovo sembrò elettrizzarla.
Cercò di sopprimere una leggera punta di vanità,
prestando attenzione solo al senso di gratitudine che provò
nei
confronti del gemello. “Sì” gli rispose
alla fine.
***
C’era
un uomo dalla parte opposta della piazza. Nemmeno lui si era mosso,
nonostante le intemperie.
Lazuli
lo studiò con attenzione. Un signore anziano il cui viso era
nascosto da grossi baffi bianchi. A ben pensarci Lapis aveva parlato di
un vecchio di recente.
Lo
fissò negli occhi, limpide pupille azzurre chiare quasi
glaciali, che le ricordarono quelli del fratello. Quel pensiero, per
quanto irrazionale, sembrò suggerirle che lui sapeva
qualcosa.
L’uomo
la stava a sua volta fissando. Si scrutarono dai lati opposti della
strada, in mezzo tra loro gente coperta da ombrelli scorreva senza
sosta. Quando lui assottigliò lo sguardo sembrò
volerle
sussurrare un messaggio.
“Seguimi”
le stava dicendo, prima di voltarsi ed incamminarsi lungo il viale.
Lazuli seguì il suo istinto. Doveva ritrovare Lapis ad ogni
costo. Così, senza esitare, attese alcuni istanti prima di
seguire l’uomo misterioso.
Si
fermarono in un parco lontano dalla vita cittadina, deserto a causa
della pioggia che non aveva ancora smesso di cadere. Lui si
voltò, dandole l’opportunità di
guardarlo di nuovo
negli occhi glaciali. “Tu devi essere la sorella”
sussurrò con voce roca. Lazuli lo studiò con
attenzione
per un breve momento, “Dimmi
dov’è”
ordinò.
CONTINUA…
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Capitolo 6 *** Una vita perduta ***
Quando le sirene avevano
cominciato a
suonare, il panico non aveva impiegato molto a dilagarsi come
un'emorragia. Soprattutto nei laboratori.
Gelo non era
stato il primo a
raggiungere la postazione con l’intento di salvare il suo
lavoro.
Al suo arrivo la maggior parte degli scatoloni e dei recipienti di
fortuna erano già stati raccolti da qualcun’altro.
Fu
costretto a scegliere con attenzione cosa salvare perché
avrebbe
dovuto portare con sé la sua refurtiva senza
l’aiuto di un
contenitore.
Decidere di
lasciare lì arti
metallici perfettamente funzionali sulla quale aveva faticato da tempo
immemore gli lasciò l’amaro in bocca, ma erano
troppo
pesanti e non sarebbe mai stato in grado di trasportarli. Le sue
anziane ossa non glielo avrebbero permesso. Tutto quello che era in
grado di racimolare furono alcuni materiali leggeri e dei vecchi
taccuini.
“Papà”
lo
chiamò una voce alle sue spalle e senza esitare il Dottore
si
voltò. A pochi passi dall’ingresso del laboratorio
un
soldato in alta uniforme lo stava fissando con una punta di
preoccupazione riflessa nei glaciali occhi azzurri. “Dovresti
andartene da qui” gli disse. Il Dottor Gelo lo
squadrò per
un ultimo secondo, tornando a raccogliere vecchi appunti,
“È quello che sto facendo” lo
rassicurò,
“Ma non voglio rischiare di perdere tutti i miei
studi”
spiegò afferrando due quaderni, ponderando su quale dei due
era
più opportuno portare con sé.
Alle sue spalle
il giovane soldato
sembrò valutare la situazione.
“D’accordo,
promettimi solo che quando avrai finito tornerai subito a
casa”
supplicò. Gelo annuì “Come
vuoi” concesse
vago.
“Signore!
I suoi uomini sono
radunati all’esterno come ha ordinato. Aspettiamo sue
istruzioni” si intromise un soldato, affacciandosi alla porta
per
osservare il superiore dal basso verso l’alto, vista la
considerevole stazza di quest’ultimo. L’ufficiale
si
voltò acconsentendo con un leggero cenno del capo,
“Avvisa
che sto arrivando” ordinò. Pochi secondi
più tardi
il militare sparì.
Gelo si era nel
frattempo voltato,
osservando il figlio, “Vai” gli disse quando i loro
occhi
azzurri s’incrociarono, “Ci vediamo quando tornerai
a casa
anche tu”. L’uomo indugiò un istante
ancora,
“Fai attenzione papà” si
rassicurò
un’ultima volta prima d’incamminarsi verso la porta.
Lo scienziato lo
vide allontanarsi.
Il figlio di cui era orgoglioso, l’uomo forte e coraggioso
che
aveva cresciuto. Quel soldato alto e dalle grosse spalle robuste. Dai
brillanti occhi chiari e dai capelli di un peculiare color arancione
carota.
Tornato ai suoi
esperimenti, Gelo
decise che tra i due quaderni avrebbe portato con sé il
taccuino
la cui copertina era segnata con un grosso numero otto.
All’esterno
della base le esplosioni sembravano avvicinarsi ogni secondo che
scorreva.
Son Goku,
fu il primo pensiero
che riempì la sua mente. Chi egli fosse non lo sapeva, non
con
certezza. Non lo aveva mai incontrato, di questo non dubitava.
Qualcosa nella sua testa sembrò
suggerire che lo scopo della sua esistenza era quello di eliminarlo.
Ucciderlo.
Tutto il resto?
C’era solo il vuoto. Non
c’erano altri pensieri o ricordi e nemmeno altre sensazioni. Son Goku, tutto qui.
Il proprio nome? Il proprio aspetto? Non sapeva
nulla di tutto questo, era stato tutto cancellato. Dimenticato.
Sembrava che nel suo cervello ci fosse spazio solo
per quello, Son Goku.
Lentamente aprì le palpebre, trovandosi
faccia a faccia
con il suo riflesso riverberato su un oblò dalla forma
sferica
poco distante dal suo stesso viso. La consapevolezza che fosse il
proprio riflesso fu causato da una sensazione di familiarità.
Si accorse di avere occhi azzurri come il ghiaccio
dai
lineamenti sottili. Il suo viso era fine ed appuntito e una ciocca di
capelli biondi seguiva le sue fattezze a pochi millimetri dal bordo del
suo occhio.
Fissò la sua immagine per alcuni
istanti, come a volersi
ricordare chi fosse, chiedendo al suo riflesso di rispondere a domande
di cui aveva un disperato bisogno.
Ebbe il desiderio di scostare i capelli da davanti
al proprio
viso, ma il luogo in cui si trovava era angusto, impedendole di muovere
il braccio.
Non soffriva di claustrofobia, almeno
così sembrava, ma
non ebbe il tempo di averne la certezza. L’oblò
che fino a
pochi istanti prima la stava fissando con il suo stesso viso si
aprì accompagnato da un cigolio metallico.
Libera di muoversi si scoprì ad
osservare quello che
sembrava essere un laboratorio. L’ambiente austero e
metallico,
computer disseminati in ogni dove e strane composizione in ferro che
sembravano avere fattezze umane.
Un piccolo bip
echeggiò per un breve momento, provenendo da un punto
sconosciuto della stanza.
Ipotizzò che non fosse un luogo
familiare, perché
il suo cervello non sembrò reagire, affidandosi ad una
nostalgia
che non esisteva. Il suo viso le aveva dato l’impulso, una
strana
sensazione di familiarità che non riscontrò in
quel luogo.
Compì un passo, uscendo dallo strano contenitore nella
quale era stata reclusa fino ad un secondo prima.
Si portò la ciocca di capelli dietro
l’orecchio.
Accanto a lei sentì un secondo stridio
che
rimbombò nella stanza e nella sua testa. Si
voltò, giusto
in tempo per vedere un secondo contenitore aprire la capocchia. Su di
essa riuscì ad intravedere solo il numero diciassette.
Ne uscì un ragazzo, avevano la stessa
età a
giudicare dal suo aspetto. Indossava una maglia nera e un paio di jeans
strappati, attorno al collo un foulard arancione.
C’era qualcosa di familiare in lui,
qualcosa che il suo
cervello riconobbe immediatamente, meglio persino della propria
immagine riflessa.
Chi era questo ragazzo? Perché sembrava
conoscerlo così bene?
Lui si voltò a guardarla, i fini occhi
azzurri come il ghiaccio trovarono i suoi. Fu allora che comprese.
Aveva dimenticato tutto della sua vita, dal suo
nome alle sue
paure, ma non aveva dimenticato lui. Come avrebbe potuto scordare il
suo gemello?
Anche lui doveva aver avuto la stessa sensazione,
poiché
il suo sguardo fino a quell’istante confuso sembrò
avere
un momento di lucidità, come se fosse appena tornato a
vivere
una vita perduta.
In un pensiero telepatico entrambi capirono che,
pur avendo
perso tutto, erano comunque ancora insieme e questa era la cosa
più importante.
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