Je veux t'attendre

di lucille94
(/viewuser.php?uid=1036624)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 19 aprile 1199 ***
Capitolo 2: *** 20 aprile 1199 ***
Capitolo 3: *** 21 aprile 1199 ***
Capitolo 4: *** 29 aprile - 4 maggio ***



Capitolo 1
*** 19 aprile 1199 ***


Le strade erano fangose, i piedi ci rimanevano incollati. Il mondo sembrava tinto di diverse gradazioni di grigio: i muri erano grigi, il cielo era grigio e anche le poche persone che azzardavano uscire dalle case e sgusciavano via come topi, anche loro erano grigie. Non si sarebbe potuto dire se fosse giorno o notte, ma era sera ormai. Il campanile del monastero non lontano aveva scoccato il vespro. Lentamente, le vie si spopolarono del tutto. Il borgo brulicava solo di gocce che, fitte fitte, cadevano sul selciato turbando la superficie di innumerevoli pozzanghere. Una figura scivolò lungo un muro; un mendicante, forse l’ultimo, il ritardatario, si trascinava con la gamba zoppa verso il portone del castello. Colpì il battente con i pugni per farsi aprire e una guardia gli lasciò un varco sufficiente alla sua misera persona.
Circolavano voci da far accapponare la pelle: si diceva che Richard fosse morto. Ma lo si era detto tante volte e i più sollevavano le spalle e tracannavano vino. La guerra era guerra ed era il re a farla. Era plausibile che fosse morto, ma non certo. Quindi per il momento il re era ancora vivo. O meglio, era stato vivo fino a quella sera, quando l’arrivo di alcuni mercanti di passaggio aveva tolto ogni dubbio: Richard era morto a Chalus per una ferita infetta. Era sceso il silenzio nella sala ed era cosa così rara che anche i bambini avevano alzato gli occhi e teso le orecchie. Un pensiero era passato per la testa di tutti: e il signore? Che ne era stato di lui nell’inferno di quell’assedio? Perché le notizie erano misteriosamente cessate due settimane prima, proprio nel momento in cui il re spirava? E ora che il re era morto, chi sarebbe stato il suo successore in Normandia?
Terra contesa, teatro di scontri negli ultimi dieci anni. E i fieri normanni, conquistatori indomiti, si sentirono per la prima volta in balia di forze più grandi di loro. Re Philippe aveva alzato la voce, aveva occupato, assediato, razziato; Richard aveva risposto agli attacchi e aveva riacquistato all’Inghilterra un castello dopo l’altro. John non era stato tanto attento durante la reggenza e serpeggiava il sospetto che si sarebbe volentieri sbarazzato dei territori oltremanica. E Arthur di Bretagna, così giovane, sarebbe stato in grado di reggere l’urto della concorrenza?
Tante domande a cui nessuno avrebbe potuto dare risposta eccetto il fato. Maledetto Richard, c’era quasi da dire, maledetto per non aver lasciato un erede che fosse figlio suo. Il suo matrimonio si era dimostrato infecondo ed ora altri ne avrebbero pagato le conseguenze.
 
Rebecca dissimulò l’apprensione; chiese a una sua dama di compagnia di chiamare le serve con i panieri e si incamminò speditamente verso l’atrio dei poveri. Era un chiostro del castello separato dalla dimora padronale e da lei adibito a dormitorio per i poveri del borgo. Soprattutto uomini, ma non mancavano donne anziane e ragazzi orfani. Li vide schiacciati al riparo del quadriportico, accucciati ai piedi delle colonne che sostenevano gli archi a vela. Se non altro, le numerose rientranze riparavano dal freddo. La paglia era stata cambiata quel pomeriggio, prima che riprendesse a piovere, ed era ancora asciutta. Rebecca sospirò, promettendosi di provvedere presto ad un dormitorio più caldo e più accogliente: il grande salone in disuso che in precedenza era stato adibito a quello scopo era rimasto danneggiato da un incendio e quella era una soluzione di ripiego. I poveri tremavano, si stringevano gli uni agli altri e si coprivano con i mantelli. Quando vedeva un bambino, Rebecca sollevava gli occhi al cielo e bisbigliava un salmo in particolare, ma senza farsi sentire da nessuno. Era sola nel suo castello ed era l’unica ebrea per miglia e miglia. Nessuno le aveva assicurato che sarebbe andato tutto bene. Al suo apparire si sollevò il mormorio grato dei ricoverati. Pullularono mani da ogni involto di stracci: mani grandi e rugose, alcune con le vene sporgenti, altre piccole e incrostate di sporco, altre giovani ma logorate dalle condizioni del tempo e da lavori troppo duri. Spesso si trattava di contadini sfrattati, a volte erano soldati mutilati... ognuno aveva la sua storia di dolore. Rebecca scelse un pane da uno dei panieri e lo tese alla prima persona che vide: un uomo con la barba lunga e pochi capelli bianchi. Ne prese un altro e lo porse a un bambino che la guardava timidamente, sospinto dalla madre in ginocchio. Diede un pane anche a lei, sorridendo alle sue proteste di gratitudine. A loro, forse, non importava che fosse ebrea. Importante era che anche quella notte si stesse al riparo con un pane tutto per sé. Fame e freddo erano due spettri che in quel castello non avevano asilo.
Aveva già distribuito molti pani e le voci si erano assopite; quasi tutti spiluccavano la mollica con l’avidità di chi è abituato a conservare un misero pasto per lungo tempo. Le ultime preghiere furono esaudite e nessuno si mosse più dal proprio posto; Rebecca si congedò con un sorriso malinconico e accennò di portare il pane avanzato nelle cucine.
Solo le due dame più fidate la accompagnarono alla sua camera. Una le aprì la porta, mentre l’altra, seguendola da vicino, appena entrate cominciò a scioglierle i lacci sulla schiena. Rebecca prese qualche profondo respiro, quindi domandò: «Dormono?»
«Sì, signora» rispose quella che le aveva aperto la porta. Si sentì sollevata: forse non avevano capito quale grave notizia fosse giunta quella sera.
«E non ci sono novità, vero?» domandò ancora, nello stesso tono esausto. La seconda serva la aiutò a sfilare le maniche, quindi le slacciò la gonna che si afflosciò sul pavimento con uno sbuffo.
«No, signora» rispose ancora la prima dama. Era davanti a lei, ora, e rovesciava una brocca d’acqua in un piccolo catino d’argento. Rebecca, in sottoveste, si avvicinò e immerse le mani nell’acqua tiepida, quindi si spruzzò il viso e poi lo lavò più accuratamente. Asciugatasi, intinse il dito in una crema di sua fabbricazione e ne cosparse le guance e la fronte con un sottilissimo strato che presto fu assorbito dalla pelle. Solo allora si volse verso l’ampio letto. Un groppo alla gola le spezzò il respiro e gli occhi si appannarono di lacrime. Si lasciò cadere sul materasso di piume e si sdraiò quasi con fatica, come se il contatto con la morbidezza delle lenzuola le causasse un’enorme sofferenza. Le due dame le accomodarono le coperte e poi si coricarono a loro volta su due piccoli lettini da una parte. In condizioni di pace avrebbero dormito nella stanza adiacente, ma ora che era sola preferiva avere la loro compagnia.
Richard era morto, dunque. Il leone d’Inghilterra aveva dato l’ultimo ruggito; una ferita, forse banale, l’aveva portato via da questo mondo verso un altro che nessun vivente conosce. Forse lei avrebbe saputo curarlo; forse, se fosse stata là, l’Inghilterra non avrebbe pianto la morte prematura del suo sovrano e non avrebbe dovuto preoccuparsi di questioni dinastiche spinose. Ma in fondo non le importava nulla di queste cose: il suo cuore era turbato dal silenzio delle ultime settimane, dall’assenza di messi, dal ritardo delle lettere. Non aveva mai mancato una settimana: le scriveva di domenica, ogni domenica, perché di domenica i cristiani non combattono.
Si volse su un fianco e guardò nell’oscurità: se fosse stato lì... Accarezzò con la mano il cuscino dove avrebbe riposato il capo. Mancava da così tanto tempo che anche la stoffa aveva dimenticato il suo profumo. Due anni ormai. E pensare che fosse così lontano, che non fosse nemmeno in quella stessa Normandia straniera in cui lei aveva accettato di trasferirsi... Il respiro le si mozzò di nuovo e questa volta non fece nulla per frenare le lacrime. I suoi singhiozzi erano familiari alle due dame, le accompagnavano durante molte notti. Sempre al buio, però, perché la loro orgogliosa signora non voleva che la si vedesse piangere.
Rebecca riaprì gli occhi, le ciglia appesantite. Le voci non erano affidabili, viaggiavano su sentieri infidi e si armavano di conforto per fare breccia nel suo cuore; ed era raro che la notte trascorresse senza che queste dicerie facessero capolino almeno una volta nella sua mente. Così in quel momento: Rebecca ricordò che una serva aveva sentito dire dal cuoco, il quale era stato al mercato da un contadino che arrivava dai campi, che Bois-Guilbert era prigioniero dei francesi là a Chalus dove il re era impegnato in un assedio furibondo; ma poi le sovvenne di un mercante, giunto la settimana prima, che aveva sentito parlare di una missione molto delicata affidata al cavaliere, missione che l’aveva riportato in Inghilterra. Ma non le sembrava possibile che Richard si separasse da lui in un frangente di bisogno, e soprattutto che lo mandasse indietro in una terra dove ormai aveva più nemici che amici. E c’era un’ultima versione, la sua preferita, che infondeva in lei la speranza: Bois-Guilbert aveva ricevuto l’incarico di sorvegliare alcuni territori di recente riconquista ed era diretto lì. Da lì le avrebbe scritto, prima o poi, per confermarle che stava bene.
Ma era una speranza molto fragile, paragonata alle due opinioni contrarie; e alla luce degli avvenimenti – alla luce della morte del re – risultava quasi incredibile. Soffocò un grido di dolore e si contorse tra spasmi e sospiri, invocando la stessa sorte che era toccata al marito. Non sapeva quale, ma l’avrebbe accettata per amor suo. Rabbrividì al pensiero di quello che sarebbe potuto capitare a quel castello nei giorni successivi. La morsa si sarebbe stretta attorno ai vassalli francesi; si sarebbe fatta una scelta, Francia o Inghilterra. E si sarebbe rimasti a guardare chi l’avrebbe avuta vinta.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** 20 aprile 1199 ***


La mattina si annunciò con un progressivo imbiancare del cielo. Le nuvole che la sera precedente avevano rovesciato i loro carichi d’acqua sul castello sembravano riprendere le forze e prepararsi a una nuova scrosciata. Rebecca guardava in su, verso quelle nuvole, come aspettando che insieme alla pioggia cadesse anche qualche notizia di suo marito lontano. Stringeva tra le mani l’ultima lettera che le aveva spedito. Diceva che stava bene, che faceva freddo, che nonostante tutto si continuava a combattere. Era iniziato aprile, ma l’aria era ancora gelida nelle prime ore del mattino. E la distanza le rendeva ancora più difficili.
Un brivido la percorse in tutto il corpo e le mani, di colpo, accartocciarono la lettera. Un nuovo singhiozzo, subito strozzato, e gli occhi che all’improvviso cominciano a bruciare. Rebecca conosceva fin troppo bene quella sensazione di fatalità. Ma era sempre stata forte ed era per questo che lui l’aveva ammirata dal primo momento in cui si erano conosciuti. Doveva dimostrare che anche in quella situazione avrebbe saputo mantenere la sua lucidità.
Presto arrivarono le serve e la trovarono ancora alla finestra, fissa come una statua di pietra, una Madonna a mani giunte. L’ebrea, come la chiamavano quando non c’era, a volte sapeva rivestirsi di un ammanto quasi sacro, un candore austero che raramente le donne cristiane potevano sfoggiare. Per questo ispirava rispetto e, nonostante appartenesse a un popolo maledetto, non si sarebbe potuto maledirla. Rebecca si volse, l’espressione composta nel dolore, e posò la lettera sul davanzale; quindi si avvicinò, tendendo le braccia alle tre serve pronte ad aiutarla con il bagno. Il catino era già pronto, l’acqua calda vi era stata versata secchio dopo secchio e le essenze di erbe e fiori mescolate nelle dosi giuste. Rebecca, affidandosi al loro sostegno, scavalcò il bordo di assi di legno e si immerse. L’abbraccio caldo era rigenerante e, riaffiorando, la giovane donna trasse un respiro di sollievo. Una serva, dietro di lei, cominciò subito a pettinarle i lunghi capelli neri, mentre un’altra le passava una spugna sul corpo. Si permetteva un bagno a settimana e questo era un’altra delle tante consuetudini che facevano storcere il naso agli abitanti del castello.
«Come sta vostra madre, Jeanne?» domandò Rebecca ad occhi chiusi. La serva che la stava pettinando rispose: «Sta bene, signora. L’unguento l’ha aiutata a respirare»
«Ne sono contenta» disse sorridendo.
Le tre serve si scambiarono un’occhiata, quindi la più anziana, l’unica rimasta in piedi a guardare affermò: «Le notizie riguardo a re Richard sono state confermate da altri viaggiatori giunti questa mattina»
«Era difficile dubitarne, ormai... – convenne Rebecca socchiudendo gli occhi – Ora non possiamo far altro che aspettare...»
Non era chiaro cosa rimanesse in sospeso in quella frase: aspettare l’incoronazione del nuovo re d’Inghilterra? O aspettare il ritorno di Bois-Guilbert?
«Hanno dormito bene questa notte?» domandò ancora, reclinando il capo su una spalla e lasciandosi scivolare contro il bordo del catino.
«Constance dice di sì, signora» rispose puntualmente la terza serva. Rebecca aspettò ancora qualche minuto, quindi si alzò in piedi e uscì dall’acqua. La prima serva, quella che l’aveva pettinata, la avvolse in un telo pulito e la aiutò ad asciugarsi. Vestì un abito nero in segno di lutto per la morte del re. Sperò di non avere altri motivi per farlo.
«Voglio tornare dai poveri – confessò – Consegnerò loro un altro pane e comunicherò loro la notizia. Poi verrò nel salone per la colazione»
Si avviò sola lungo il corridoio e sola scese le scale e imboccò la strada che conduceva al quadriportico. Era una visita inusuale e i mendicanti non la aspettavano. C’era chi si sgranchiva le gambe con una passeggiata, chi si rincantucciava tra i propri stracci per patire meno il freddo, c’era chi scambiava qualche parola con i vicini. Al suo apparire tutti ammutolirono e si raggrupparono lungo una parete. Nel frattempo, da una porta usciva una fila ordinata di servi.
«Cari ospiti – cominciò a parlare Rebecca – Mi duole dirvi che qualche giorno fa, nell’assedio della città di Chalus, Richard Plantagenet, detto Cuor di Leone, è rimasto ucciso. Darò ordine che vengano celebrate le funzioni di suffragio per la sua anima»
Un mormorio crebbe tra tutti i poveri; con l’eccezione di tre figure, ammantate in spesse stoffe grezze, che guardavano da un angolo discosto. Rebecca li notò proprio perché, a differenza degli altri, la notizia non sembrava averli colti impreparati. Si avvicinò alla serva che l’aveva assistita nel suo bagno e bisbigliò: «Ricordate se quei tre erano presenti già ieri sera?»
La serva li osservò con attenzione, poi ribatté a bassa voce: «Non ricordo, mia signora, ma mi pare di no. Non sembrano così miserevoli come gli altri... E quei mantelli non sono quelli di un povero...»
«Sono arrivati questa notte – raccontò un servo che, essendo vicino, aveva ascoltato la conversazione – Hanno battuto tanto al portone, ma senza spiccicare neanche una parola. Li abbiamo condotti qui e abbiamo dato loro del pane avanzato, e ancora non hanno ringraziato! Li abbiamo tenuti d’occhio perché temevamo che volessero far del male a qualcuno...»
«Hanno dato problemi?» domandò ancora Rebecca, sentendo una morsa che lentamente le chiudeva la gola.
«Semplicemente non hanno dormito, mia signora. Sono rimasti svegli a parlare in una strana lingua»
«Come lo sapete?»
«Alcuni mendicanti si sono avvicinati per farli smettere, perché disturbavano il sonno degli altri. Questa mattina ci hanno riferito che i nuovi arrivati erano stranieri e arroganti»
Rebecca si prese un momento per pensare, poi chiese: «Avete pensato che forse non hanno risposto perché non conoscono la nostra lingua?»
«Non è possibile – negò quello – Se gli si dice di andare a destra o a sinistra, capiscono senza difficoltà»
«Dunque chi possono essere? Cosa potrebbero volere?» disse Rebecca, pensando tra sé e sé.
Li guardò meglio, cercando di notare qualcosa che prima le fosse sfuggito. Era un’operazione difficile, perché i tre si schiacciavano contro le pareti e si stringevano nei loro mantelli con attenzione quasi maniacale a non lasciare nulla in vista. Anche i visi erano occultati dai cappucci. Si intravedevano solo le labbra e il mento, coperto da una corta barba.
«Non sembrano affatto anziani... Sono forse mutilati? Sono zoppi, storpi?» incalzò con le domande.
«Uno zoppica e gli altri due lo aiutano» confermò il servo.
In quel momento, uno dei tre alzò lo sguardo; non abbastanza da rendere visibile il volto, ma abbastanza da lasciare intendere chi fosse l’oggetto della sua attenzione. Rebecca trasalì e pensò di aver infastidito lo sconosciuto con la sua insistenza inopportuna e si convinse che fosse meglio andarsene. Si sarebbe almeno tolta di dosso quella strana sensazione di pericolo.
«Andiamo. Lasciate qui i pani e che ognuno ne prenda quanto ne vuole»
«Ma scoppieranno litigi, signora... Ricordate lo scorso autunno, quando...» la riprese la serva.
Rebecca scosse il capo: «Oggi non voglio avvicinarmi di più. Antoine – disse poi, rivolta al servo con cui aveva parlato – Continuate a tenere d’occhio i tre sconosciuti e qualsiasi cosa doveste scoprire riferitemela. E se decidessero di andarsene, meglio per tutti»
 
Al termine del pranzo il castellano le si avvicinò. La sua espressione tradiva i pensieri cupi della sua mente e la preoccupazione del suo cuore. Per questo Rebecca si preparò al peggio, sentendo già il respiro più affannoso. Dietro il maggiordomo si profilarono due figure, due uomini in armatura. Rebecca chiuse gli occhi e sussurrò una preghiera ebraica per allontanare da sé il male che quegli uomini le avrebbero procurato. Ormai, però, non si nascondeva il tenore delle loro notizie.
“Se non altro” pensò “uscirò da questo stato di sospensione. Saprò cos’è successo”
«Mia signora – la richiamò la voce alterata del castellano – Questi due signori sono nobili normanni che hanno notizie su vostro marito. Vogliono porvele di persona»
Rebecca annuì, si alzò in piedi e molti suoi vicini la imitarono. Era terrea in volto e poggiava le mani tremanti sulla tavola per tenersi stabile. Uno dei due uomini, il più alto e più vicino, chinò leggermente il capo in un gesto di cortesia, poi parlò con voce cavernosa: «Signora, ciò che ci è stato detto di voi non regge il confronto con ciò che siete. La vostra bellezza è mille volte più splendente di quanto la lingua mortale possa esprimere e il vostro contegno vi innalza su questa terra. Mi duole, quindi...»
Rebecca si morse le labbra e non riuscì a trattenere un gemito. Il suo interlocutore si trovò in difficoltà a continuare, ma quando i loro occhi si incontrarono nuovamente capì che era un desiderio comune terminare quel discorso appena cominciato.
«Mi duole – ripeté – informarvi della morte di vostro marito, il cavaliere Brian de Bois-Guilbert, durante l’assedio di Chalus»
Le sue braccia cedettero e Rebecca ricadde seduta sulla sedia, le mani premute sugli occhi. Il suo grido era stato straziante e molti le si erano accostati di slancio, lasciando da parte per un attimo i pregiudizi. La sua disperazione era la disperazione di tutti, sebbene fosse dettata da motivi diversi. Se Rebecca era dilaniata dal dolore della perdita, tutti gli altri erano consapevoli di ben altro affare: ora, senza più il signore a capo del castello e del feudo, senza più il re che era stato tanto generoso con il cavaliere e la sua famiglia, si promettevano tempi bui. Ora ne avevano la certezza e, di colpo, sentivano l’urgenza di mettersi al riparo dal pericolo incombente.
I pregiudizi fecero in fretta a tornare: sbarazzarsi dell’ebrea e dei suoi figli? Forse sì, ma quando sarebbe stato il momento opportuno? Certamente quando fosse stato chiaro chi sarebbe stato il nuovo duca di Normandia! Forse Arthur avrebbe concesso la protezione reale alla vedova del cavaliere del predecessore; John, sicuramente, avrebbe invece colpito lei e tutti i suoi fedeli non appena avesse avuto in mano il controllo del ducato. E Philippe Auguste non avrebbe avuto nulla da guadagnare da un’ebrea che si era unita in modo alquanto dubbio a un uomo che tempo prima era stato un Templare.
Rebecca piangeva lacrime pure, lacrime di paura, lacrime di dolore. Rivedeva tutti i loro momenti più cari, risentiva la sua voce come se fosse lì e le parlasse proprio in quel momento. Ma bastava scostare leggermente le dita dagli occhi per accorgersi che non era vero. Davanti a lei c’era quel cavaliere composto, con lo stemma di Richard sul petto.
«Quando è accaduto?» domandò a fatica, asciugandosi gli occhi con un fazzoletto che una dama le aveva porto. Il cavaliere attese che fosse pronta prima di rispondere: «E’ accaduto il secondo giorno del mese di aprile. È stato il re ad inviarci qui per informarvene...»
«E le sue spoglie?»
«Riposano a Chalus, mia signora. Non c’era modo di trasferirle qui... La Normandia è molto distante da Chalus» disse l’altro cavaliere. La sua voce era più giovane e cristallina rispetto a quella del compagno. Rebecca li guardò ancora per un istante, poi si volse verso una ragazza in abito semplice.
«Constance – chiamò – Fa’ venire qui i miei bambini, per favore»
La giovane si allontanò, ma non passò molto tempo prima che i piedini di un bambino rimbombassero nell’anticamera. E il bambino entrò nella sala quasi di corsa: aveva folti capelli neri e un paio di occhi azzurri come il cielo. Dimostrava circa quattro anni e tutta l’esuberanza che si addice a quell’età. La sua curiosità cadde sugli uomini in armatura e lo portò ad avvicinarsi.
«Siete cavalieri veri?» domandò indicando la lunga spada che pendeva al fianco dell’uomo più alto. Quello, imbarazzato, gli dedicò un’occhiata severa, fin troppo severa per un bambino. Ma il piccolo non lo notò nemmeno e si rivolse all’altro per avere una risposta: «Siete cavalieri del re?»
«David – lo chiamò sua madre, e solo allora, solo dal suo tono il bambino capì che era accaduto qualcosa di brutto – David, non essere insolente e vieni qui»
Constance si affacciò sulla porta reggendo tra le braccia una bambina di un anno e mezzo; anche lei aveva folti capelli corvini, ma neri erano anche i suoi occhi. Rimase abbagliata dalle armature e, proprio come il fratello più grande, mostrò una certa curiosità, balbettando qualcosa di incomprensibile. La balia la adagiò in grembo alla madre e la bambina rise istintivamente, cercando le coccole cui era abituata.
«Cos’avete, mamma?» domandò David, aggrappandosi alle sue ginocchia. La bambina le accarezzò la guancia e Rebecca la baciò, e poi la strinse a sé, sentì il suo cuoricino battere forte, poi si protese e baciò il suo David tante, tante volte. Alla fine, parlando con il figlio primogenito, rivelò tremando: «David, tuo padre non c’è più»
Il bambino storse il naso e inclinò la testa: «Non c’è mai stato, mamma» disse. Rebecca trasse un sospiro: era vero, suo figlio non mentiva. L’ultima volta in cui si erano incontrati era stata due anni prima e il bambino non poteva ricordarselo. Era cresciuto già orfano, come se il destino avesse voluto per lui questa sorte fin dall’inizio. Si decise quindi a parlare chiaro: «David, tuo padre è morto»
Il bambino ristette: il concetto non gli era nuovo, benché fosse così piccolo. Aveva visto morire fiori, animali, aveva anche sentito dire che un servo, una volta, era morto. E non avendo invece un chiaro concetto di cosa fosse un padre, non manifestò nessun dispiacere, sebbene lo colpisse profondamente l’aspetto disperato di sua madre. Era qualcosa che faceva male più a lei e David pensò che fosse naturale così e che sua madre gli stesse chiedendo di essere consolata.
«Mamma, io vi voglio bene lo stesso...» disse, cercando di venirle incontro. Rebecca gli accarezzò la testa, spettinandogli i capelli non troppo lunghi, e guardò la sua piccola Judith con occhi vacui.
«Anch’io vi voglio bene, figli miei...»

____
NOTA: I nomi dei bambini sono francesi, quindi "Davìd" e "Judìth"

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** 21 aprile 1199 ***


Aveva chiesto di poter dormire con i propri bambini. Quella notte era stata ancora peggio delle precedenti, ma per un motivo tutto diverso: ora che sapeva di dover abbandonare qualsiasi speranza di rivederlo, aveva paura che anche tutto ciò che amava le sarebbe stato portato via. I suoi figli prima di tutto, perché erano figli di tutti e due. David aveva rubato i suoi occhi e questo era fuori discussione. I tratti del suo viso mostravano già di aver ereditato qualcosa e il suo temperamento vivace l’aveva fatta sorridere molte volte in tempi più sereni. Ora le provocava solo nuovi scoppi di pianto quando credeva di aver ripreso il controllo di sé. Judith somigliava al padre in modo ancora indefinito: crescendo, però, avrebbe sicuramente portato la sua parte di eredità dal casato dei Bois-Guilbert.
Ripensare a quella notte la distoglieva un po’ dal pensiero della vedovanza: avrebbe dovuto imparare a convivere con questa nuova condizione e avrebbe dovuto farlo in fretta. Ora, a distanza di un giorno, Rebecca era ancora alla stessa finestra. La lettera che aveva lasciato stropicciata sul davanzale era stata portata via dal vento e chissà dov’era finita... ma dubitava che qualcuno avrebbe trovato interesse in un foglio scritto di fretta, in brutta grafia per via del sostegno scomodo cui lui doveva essersi appoggiato, contenente solo poche informazioni per nulla rilevanti. Il ricordo più intimo, e per questo più doloroso, era custodito nello scrigno del suo cuore. La sua mano sul petto contava i battiti, mentre i suoi occhi indagavano il paesaggio conosciuto delle campagne circostanti. Cosa si preparava là fuori? Minacce? Vendette? A distanza di un giorno dalla notizia, Rebecca non aspettava più che il marito tornasse, ma temeva che arrivasse qualcun altro che con violenza l’avrebbe cacciata dal castello con i suoi figli; perché lei era un’ebrea senza protettori.
«Signora...» la sorprese la voce della sua serva, che era comparsa sulla soglia senza che lei se ne accorgesse.
«Ditemi, cara Madeleine» rispose, quasi con timidezza.
«Non volete scendere dai poveri, oggi? Preferite forse farlo stasera?» domandò la serva.
Rebecca esitò, quindi rispose con un’altra domanda: «Quei tre sconosciuti sono ancora qui?»
La serva annuì senza parlare; Rebecca allora si scosse e corrugando la fronte disse: «Non oggi. Vedrò, forse un altro giorno... Forse quando quei tre uomini se ne saranno andati – si allontanò dalla finestra con fare pensieroso, poi aggiunse – Fatevi dire se desiderano del denaro o del cibo... E invitateli ad andare al monastero, se proprio cercano accoglienza. Dite loro che il numero dei questuanti abituali è già troppo alto per questo sfortunato castello»
 
28 aprile
 
Passarono sette giorni di preghiera e solitudine. Solo i due bambini erano ammessi nelle sue stanze; Rebecca non si sentiva che una povera creatura in balia del fato, sballottata, ingannata e quindi, presto, perduta. Le riflessioni cupe che aveva tentato con scarso successo di scacciare nei giorni precedenti non avevano più motivo di essere respinte. Si era abbandonata al lutto, rimandando a memoria le parole di un giorno lontano: “Anche il lutto ha dei limiti precisi. Superali e sarà come se tu avessi osato varcare le porte dell’Inferno per trarne la persona cara che hai perso: finiresti con il precipitare nell’abisso e a nulla varrebbero le parole degli amici a consolarti”. Già una volta aveva scelto di varcarle per lui: in quella settimana di lacrime aveva rafforzato questa decisione, giurando a se stessa che la sua vita sarebbe stata unicamente per il bene dei suoi figli. I figli di lui, di Brian. La sua vita era consacrata a loro.
L’ottavo giorno si mostrò nuovamente agli abitanti del castello. Aveva intenzione di parlare con i due cavalieri che le avevano portato la notizia: da un lato, era loro debitrice di qualcosa che aveva atteso a lungo; dall’altro, il castellano le aveva fatto sapere tramite la serva Madeleine che anche loro avrebbero voluto scambiare qualche parola con lei. Perciò, per non rimandare troppo a lungo un momento inevitabile, Rebecca li invitò nella stanza più intima del castello, una saletta spoglia, fornita solo di qualche sedia e un tavolino. Li attese in compagnia delle due dame che costituivano il suo corteo. Una, Bernadette, aveva quindici anni ed era promossa sposa al vassallo di un potente vicino; l’altra, Eleanor, ne aveva diciotto, senza che nessun fidanzamento fosse ancora stato stipulato. Rebecca le amava come fossero sue sorelle minori, le viziava ogni qual volta le capitava l’occasione, le educava secondo le regole della cortesia. E loro ricambiavano il suo affetto, nutrendo tuttavia una segreta diffidenza per le sue origini, la sua religione e la lingua incomprensibile che, talvolta, capitava loro di ascoltare dalle sue labbra.
I due uomini entrarono senza bussare e fecero sobbalzare tutte e tre le donne che aspettavano in silenzio oltre la porta.
«Signori – li accolse Rebecca, cercando di abbozzare un sorriso – Vi sono grata per avermi comunicato la triste notizia... Spero che l’ospitalità del nostro castello vi abbia ristorato dal lungo viaggio che vi siete lasciati alle spalle...»
Le parole facevano fatica a uscire dalle sue labbra senza un leggero tremito. Gli occhi lucidi manifestavano quanto profondamente fosse ancora scossa. Il cavaliere più anziano fece un passo avanti. Aveva i capelli brizzolati e molto corti, le guance accuratamente rasate, e un aspetto complessivamente curato. I suoi occhi castani avevano riflessi ambrati quasi intriganti e le sue labbra sottili donavano all’espressione un indizio di furbizia. Rebecca cercò di indovinare la sua età: forse quarant’anni... come Brian.
«Voi conoscevate mio marito, signore?» domandò di getto.
L’uomo tese le labbra e scoprì due file di denti regolari: «Non di persona, soltanto di fama. La sua fama era grande, signora, certo più grande della mia»
«Perdonate la mia maleducazione – continuò Rebecca – se non mi sono ancora interessata di conoscere i vostri nomi. L’ultima settimana è stata piuttosto faticosa»
L’uomo di fronte a lei chinò il capo con la stessa naturalezza del loro primo incontro e rispose: «Io sono ser Thomas de Limager, mentre il mio giovane compagno è Robert de La Blanche. Siamo cavalieri della corona inglese e abbiamo combattuto al fianco di re Richard nell’ultima guerra»
Rebecca affilò lo sguardo: «E non vi è mai capitato di parlare a mio marito? Nemmeno di vederlo, davvero?»
Limager, imbarazzato, alzò leggermente le spalle: «Mi è capitato di vederlo. Ma non ci siamo mai presentati né abbiamo mai parlato insieme...»
Rebecca abbassò gli occhi e sospirò. Cercava la vita là dove ormai non era altro che morte. Dove era perito il cavaliere era perito anche il re.
«Vi sono grata» ripeté in un soffio, accostandosi a una sedia. Prima di accomodarsi, invitò Limager e La Blanche a fare altrettanto.
«Signora – ribatté Limager, con voce ancora più cupa – vorrei parlarvi in privato. Senza nessun testimone»
Rebecca ristette, ancora in piedi. Era stata colta alla sprovvista e lì per lì non seppe cosa rispondere. Lanciò un’occhiata alle due dame e, balbettando, ordinò loro di accompagnare La Blanche nel salone. Fu Limager a chiudere la porta quando furono usciti. Rebecca nel frattempo si era seduta e attendeva che il cavaliere la imitasse. Contro tutte le aspettative, però, quello rimase in piedi e mosse alcuni passi prima di tornare a parlarle.
«Voglio comunicarvi – disse – Un messaggio più segreto da parte del re. E voglio farlo ora e qui perché questo messaggio riguarda entrambi, voi e me»
Rebecca spalancò gli occhi e lo invitò a proseguire senza indugi.
«La vostra condizione non è più sicura e credo che ve ne siate resa conto»
«Certo, ne sono consapevole» ribatté asciutta.
Limager annuì: «Richard si è preoccupato di garantire a voi e agli orfani un futuro al riparo da ritorsioni e da povertà. Ora che il re è morto, la decisione giacerà unicamente nelle vostre mani. Volete che prosegua descrivendovi il pensiero del re?»
Rebecca rabbrividì udendo la parola “orfani” riferita ai suoi bambini; c’era un che di spietato nel modo in cui quella parola era stata proferita, e per un istante la sua mente si offuscò. Poi, tornando padrona di sé, confermò di voler ascoltare quanto il cavaliere aveva da dire.
«Il piano del re era piuttosto semplice: sottrarvi allo stato vedovile appena fosse stato possibile. Io ero uno dei cavalieri di cui si fidava e uno dei pochi, tra questi, ancora celibe. Per questo ha scelto me per comunicarvi la notizia: affinché vi presentassi ufficialmente la mia proposta di matrimonio. Ora, io non avanzo nessuna osservazione contraria: so che siete un’ebrea, ma se il mio re ha ritenuto che questa unione sia per me una cosa lodevole, quasi un onore, io non posso che riconoscere, d’altra parte, che voi siete una donna molto bella e ancora piuttosto giovane. A voi la scelta, quindi. Valutate liberamente la vostra situazione e non sentitevi più legata dall’ordine regale, perché il re è morto. Vi basti sapere che Limager non si tirerà indietro»
Rebecca ascoltò con attenzione, impallidendo man mano sempre di più. Si prese un momento per riflettere, un momento molto breve, poi rispose: «Cinque anni fa un altro cavaliere mi presentò una proposta molto simile; e un re diede il suo benestare a un’unione che io stessa, non molto tempo prima, avrei rigettato. Allora non credevo che fosse possibile un matrimonio tra due popoli tanto diversi, tra due temperamenti tanto forti quali il mio e quello di mio marito. Oggi, signore, in tutta sincerità, preferisco la vedovanza vissuta con dignità a un secondo matrimonio contratto unicamente per convenienza. Se dovrò perdere ciò che re Richard mi aveva concesso attraverso mio marito, lo perderò senza rimpianti. Il dono più prezioso che mi era stato fatto è già perduto. Non voglio illudermi di poter trovare in voi ciò che lui era per me. Vi ringrazio, ma declino»
Limager accolse le sue parole con un’apparente tranquillità d’animo. Si riservò solo di aggiungere, dopo una pausa: «Oggi parlate scossa da un grande dolore, e comprendo che forse non discernete appieno il significato delle mie parole. Tuttavia avrete ancora tempo. Il tempo, sapete, è la medicina migliore contro questi mali. Bisogna solo essere in grado di servirsene nel modo giusto al momento opportuno»
Rebecca ricambiò quel consiglio con un’espressione rassegnata: «Anche se volessi, le usanze del mio popolo mi impongono un mese di lutto. Fino ad allora non sarò libera dal vincolo che mi lega a mio marito, mi è impedita qualsiasi festa e soprattutto il matrimonio. Vi prego, dunque, di rispettare la mia condizione e di non avanzare oltre sul cammino che il re vi ha indicato»
Limager chinò ancora il capo. Rebecca invece non distolse un momento gli occhi da lui.
«Così sia, mia signora. Passo allora a trattare di un altro grave problema: se Richard fosse ancora vivo, tornerei seduta stante da lui a offrire il mio braccio per la sua impresa. Non potrò più farlo; vi chiedo, dunque, di accordare al mio compagno e a me una permanenza più lunga, fino a che non saranno chiare le sorti di questa terra contesa. Non un giorno di più, mia signora. In questo modo avrete anche voi più tempo per prendere la decisione definitiva» concluse Limager, tornando a guardarla.
“La mia decisione è già definitiva” avrebbe voluto rispondergli, ma qualcosa la trattenne. Non una parola sfuggì alle sue labbra, non un lamento. Gli indirizzò un cenno di intesa e lo precedette uscendo dalla porta. Lui la seguì portandole il rispetto che si deve a una regina.
 
Quando vide sua madre apparire sulla soglia del salone, David le corse incontro: erano giorni che se ne stava chiusa nella sua camera e ormai il bambino pensava che non ne sarebbe uscita più. Quando vide che a seguirla da vicino c’era il cavaliere misterioso avvampò di gioia. Forse era proprio per merito del cavaliere che la mamma aveva deciso di comparire come una visione nel salone ancora addobbato a lutto. Non aveva mai visto un cavaliere, o almeno non ne ricordava nessuno: era la prima volta che vedeva un’armatura vera indosso a un uomo così alto e possente e di primo acchito aveva pensato che fosse suo padre tornato dalla guerra. Perché anche suo padre era un cavaliere grande e coraggioso. Ma suo padre era morto, cioè sparito. Come se non fosse mai realmente esistito. Invece il cavaliere era lì e anche il suo destriero, con cui aveva cavalcato miglia e miglia. Per un attimo si era domandato come fosse il cavallo di suo padre e aveva pensato che sarebbe stato bello poterlo vedere. Ma poi si era ricordato che suo padre era morto e probabilmente anche il cavallo era morto con lui. E anche il re era morto. Questo concetto gli sembrava un po’ vago e contraddittorio: non aveva mai sentito di un re che muore, semplicemente aveva sempre ritenuto che un re non potesse morire. Un re c’era sempre stato. Ma non gli importava davvero, come non gli importava che anche suo padre fosse morto. Nemmeno di un padre sapeva che potesse morire. I fiori muoiono, gli animali e anche i servi. Ora aveva scoperto che anche i padri e i re possono morire.
David si aggrappò alle ginocchia di sua madre, gioendo del vederla di nuovo in mezzo agli altri abitanti del castello. Constance, da lontano, l’aveva tenuto d’occhio cullando Judith. Rebecca si chinò e prese il bambino tra le braccia, sollevandolo per gioco. La risata di David riecheggiò nella sala, fino al soffitto, sovrastando le chiacchiere di quei distratti che non si erano accorti del sopraggiungere della loro signora. Tutti ammutolirono, e la risata di David crebbe più forte, mentre sua madre gli premeva la propria guancia contro la sua, in uno scambio di coccole da sciogliere il cuore più insensibile. Gli occhi azzurri di suo figlio si fissarono su di lei e le tolsero il respiro per un istante. Erano gli occhi di un morto, pensò. Rabbrividì, Rebecca, e strinse a sé il figlioletto alzando lo sguardo, per evitare di incontrare ancora le sue iridi colore del cielo.
David si aggrappò alle sue spalle e si sporse verso il cavaliere che seguiva sua madre. Gli tese la mano e gli sorrise, ma quello non gli corrispose nemmeno un briciolo di attenzione. Quasi ignorandolo si portò in disparte, avvicinandosi all’altro giovane cavaliere; questi aveva passato tutto il tempo da quando era entrato nella sala a discutere educatamente con Eleanor, mentre Bernadette giocava con lui.
“Siete fidanzata?” le aveva domandato a un tratto. David non conosceva il senso di quella parola e aveva chiesto spiegazioni. Il giovane, ridendo, aveva risposto: “E’ una cosa da grandi”. A David non piacevano risposte come queste, ma in quel momento era arrivata la mamma e tutto era passato in secondo piano.
«David, tranquillo...» sussurrò Rebecca al suo orecchio. Lo accarezzò sulla schiena e lo aiutò a tirarsi dritto, quindi gli diede un bacio sulla guancia e trattenne a stento le lacrime. La sua mente mescolò ai ricordi più lontani le parole che Limager le aveva rivolto solo qualche minuto prima e una sottile incertezza cominciò a insinuarsi dentro di lei: girò uno sguardo tutt’attorno, soffermandosi su ogni viso che incontrava. Erano visi pronti a tradirla, erano visi solo apparentemente cordiali e compassionevoli. D’un tratto si scoprì più vulnerabile che mai.
«Mamma, mi fate male!» pigolò David, divincolandosi. Si accorse così di averlo stretto a sé con troppa foga.
«Scusa, tesoro mio...» sussurrò ancora, cercando l’altra figlia, la dolce Judith, che giocava non lontano con un sonaglio. Si diresse speditamente verso di lei, con l’ansia di stringere anche lei tra le braccia e saperla vicina, forse al sicuro. Constance si stupì del suo stato al limite dell’allucinato e le cedette il posto sulla seggiola senza nemmeno aspettare che la sua signora glielo chiedesse. Mentre David sedeva sulla sua coscia destra, Rebecca si accomodò Judith sulla sinistra, baciandola sui capelli. La bambina festeggiò con teneri gridolini, lasciando da parte il giocattolo e tentando di afferrare i capelli di sua madre. Non riuscendoci, si aggrappò al sottilissimo velo che le celava il volto e glielo strappò dalla fronte. Un mormorio si alzò dai gruppi di spettatori, ma Rebecca non fece caso a loro. La sua attenzione ora era sui bambini e, segretamente, su Limager. Alzò fugacemente gli occhi nella sua direzione e incontrò il suo sguardo. Non l’aveva persa di vista nemmeno per un istante. Che si fosse già assunto il compito di proteggerla? All’improvviso, Rebecca non desiderò altro che la sua protezione.
Le tornò di colpo alla memoria il modo in cui uno dei tre sconosciuti, nell’atrio dei poveri, avesse girato il viso nella sua direzione. Quanto avrebbe dato per poterlo vedere in faccia! Invece il cappuccio celava la sua identità; e anche gli altri due uomini, nascosti dai loro mantelli, non le ispiravano affatto fiducia. Cominciò a riflettere sulla possibilità che quegli stranieri volessero il suo male: non a caso erano comparsi quando tutti i suoi protettori erano già scomparsi. Se solo Brian... No, inutile rifugiarsi nel passato: Brian non era più. Guardò ancora Limager, confortandosi con la sua presenza. Aveva la spada al fianco, l’insegna del re sul petto. I suoi bambini si dimenavano tra le sue braccia, vivaci come tutti i bambini: stavano bene. Il fatto che David dimostrasse già una simpatia per i due cavalieri contribuiva a rasserenarla. E Judith era così piccola che si sarebbe affezionata... Si scoprì immersa nella fantasia a immaginare qualcosa che in coscienza rigettava. Ma, d’altra parte, aveva trascorso quasi due anni ad aspettare e ora, d’un tratto, si trovava sciolta quasi come una fanciulla... E quell’uomo le aveva rivolto parole avvedute e, da un certo punto di vista, tiepide. Brian non era più. I suoi figli avevano bisogno di protezione...

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** 29 aprile - 4 maggio ***


Prima di passare al capitolo, volevo scusarmi per il ritardo... Purtroppo la sessione invernale è stata impegnativa, in più ho altri lavori in cantiere e non riesco a essere costante... Grazie della pazienza!


Aveva dormito male quella notte. Pensieri agitati la turbavano, ma non erano più i pensieri delle notti precedenti. Percepiva un pericolo incombente, si rigirava spesso e altrettante volte si svegliava di soprassalto convinta che ci fosse qualcuno nella stanza. Invece, calmandosi con respiri profondi, si convinceva che fossero solo incubi e tornava a coricarsi. Quella notte era la prima che i suoi figli passavano di nuovo lontani da lei, nella loro stanza, con Constance. A tratti la assaliva il timore che potesse capitare loro qualcosa ed era sul punto di alzarsi e andare scalza a prenderli per portarli al sicuro. Ma non c’era più un posto sicuro nel castello. Più il tempo passava più si insinuava in lei il sospetto verso tutti gli abitanti, a partire da quelli che avevano con lei pochissimi rapporti ed avevano quindi ragione più degli altri di credere alle dicerie che serpeggiavano contro il suo popolo, condivise da tutte o quasi le bocche cristiane. Era nervosa e strappava le lenzuola da una parte all’altra del letto, contorcendosi nel sonno come se fosse distesa sui carboni ardenti. Se nelle settimane dell’incertezza il materasso sembrava fatto di spilli che più e più la tormentavano e smuovevano le sue preoccupazioni, ora sembrava costellato di tizzoni infuocati che le scottavano la pelle fino a penetrare nella carne. Erano le voci che si sollevavano contro di lei: le sembrava quasi di sentirli, nel buio della notte, mentre tramavano per consegnarla ai nemici. Chi erano? Cercava i loro volti, aguzzava la vista e si spingeva sempre più in là, finché, di punto in bianco, precipitava. E precipitando sobbalzava nel letto e si svegliava.
Questo nuovo turbamento la accompagnò ancora per giorni e giorni, fino a che cedette. Armandosi di coraggio e disperazione, con il bel viso sciupato dalla sofferenza, Rebecca domandò al castellano la cortesia di chiamare il cavalier Limager per un colloquio strettamente personale. Non cercava un nuovo marito, ma un alleato. Questa era la promessa che faceva a se stessa. Mentre si dirigeva nello studiolo dove si erano parlati la prima volta, fu fermata da Madeleine. La serva fedele si era presa cura di lei al suo risveglio, poi era scesa a sovrintendere alle mansioni delle altre giovani donne del castello. In quel momento stava tornando in tutta fretta alla camera della signora: aveva un messaggio urgentissimo.
«Signora – la chiamò in disparte, indicandole un cantuccio dove ripararsi – Ho notizie che vi faranno piacere»
Rebecca ascoltò il bisbiglio di Madeleine corrugando la fronte.
«Quale messaggio potrebbe darmi piacere in queste circostanze?»
Madeleine sorrise: «Eleanor è sistemata. La Blanche ha intenzione di chiedervi la sua mano»
Rebecca reagì violentemente: scosse la testa e cercò di sottrarsi, ma era con le spalle al muro. Perciò rispose scocciata: «Non posso impegnarmi in simili faccende in tempo di lutto! Se ne potrà parlare tra qualche tempo...»
«Ma signora – insistette Madeleine – Eleanor è già grande, se il cavaliere se ne andasse senza una promessa potrebbe non trovare un altro partito... E di certo non potrebbe trovarne uno migliore!»
«Non concederò nozze, non voglio nemmeno sentirne parlare. Non ora» ribatté Rebecca, aprendosi un varco tra la serva e la parete.
«Forse allora vi farà piacere sapere che i tre sconosciuti hanno lasciato il castello questa mattina molto presto. Credo siano andati a rifugiarsi al monastero»
Rebecca sospirò voltandosi di nuovo verso Madeleine: «E sapete – domandò con tono più sereno – se abbiano detto qualcosa prima di andarsene?»
La serva negò e aggiunse: «Antoine è molto scocciato»
«Grazie, Madeleine. Dite che oggi tornerò dai poveri a distribuire loro un po’ di cibo» sorrise. L’altra assentì con un cenno e proseguì sulla strada opposta a quella della padrona. Rebecca discese al piano terreno sentendosi un po’ più leggera. Quando scorse Limager che, avvisato, la stava aspettando in disparte, le sue labbra si schiusero spontaneamente in un timido sorriso.
«Mia signora» la salutò con un accenno di inchino.
«Cavaliere» ricambiò lei. I loro occhi si incontrarono di nuovo.
«Spero di ricevere da voi notizie incoraggianti... Dopo tutto, il mese di lutto dovrebbe essere terminato ieri»
«Il cuore di una donna non riconosce limiti prestabiliti ai propri sentimenti – ribatté serenamente – In ogni caso, se davvero sperate nel mio consenso, credo di potervi interrogare più a fondo su quanto avete intenzione di fare nel prossimo futuro»
Limager la invitò a passeggiare mentre parlavano: «Siete una donna prudente – rispose – E questa è una dote preziosa. Non potrò promettervi che i miei piani rimarranno inalterati da questo giorno a quello della mia partenza, poiché i venti di bufera soffiano forti e possono spingere la nave del mio destino verso altre spiagge...»
«Ciononostante, mi piacerebbe conoscere i vostri progetti» insistette.
Avevano attraversato la porta d’ingresso ed erano usciti nel chiostro principale. Il sole era già alto e caldo e li investì con i suoi raggi avvolgendoli entrambi in un clima più intimo di quanto Rebecca avesse immaginato.
«I miei progetti sono molto semplici, in realtà. Per prima cosa, partito da qui, risalirei verso il porto più vicino e lì mi imbarcherei per l’Inghilterra»
«Quindi siete già convinto che queste terre andranno perse?» lo interruppe. La turbava una preoccupazione materna per la gente che durante quei quattro anni aveva amministrato quasi da sola e per cui nutriva un affetto ormai forte. Immaginava i volti dei suoi poveri ricoverati al castello, sapeva che la loro condizione sarebbe difficilmente migliorata senza l’aiuto e il sostentamento che lei era disponibile ad offrire. D’altra parte, più passavano i giorni più si rendeva conto che non avrebbe potuto sopravvivere da sola. Sarebbe precipitata tra quei poveretti, a mendicare il pane per sé e per i propri bambini. Non aveva più nessuno cui affidarsi... Se non quel cavaliere con cui ora parlava.
«In Inghilterra c’è più sicurezza che qui, mia signora. Philippe vuole sostenere Arthur, a quanto si dice. E così facendo vuole sollevare i vassalli normanni contro John, dando credito alla voce che vuole Arthur nominato erede da Richard in punto di morte» spiegò pacatamente Limager. Erano usciti dalle mura perimetrali e avevano imboccato un sentiero che scendeva nei campi aggrappati alle pendici del colle. Era una collina dal disegno dolce, sufficientemente alta da dominare sui territori circostanti, ma non degna di una rocca. I suoi fianchi erano facilmente percorribili e per lo più coltivati: i suoi frutti affluivano al castello per il sostentamento dei suoi abitanti e per le scorte. Rebecca guardò il paesaggio conosciuto e ne provò un senso di sicurezza, di abitudine. Qualcosa che per un attimo era stato infranto e, lentamente, recuperava dal passato ciò che aveva perso. Il vuoto non sarebbe mai stato colmato, no di certo: nemmeno Limager avrebbe potuto riempirlo con la sua imponente figura. Brian era stato lì, aveva calpestato quei sentieri, aveva cacciato in quei boschi... Era come se la natura sentisse la sua mancanza con nostalgia, tanto quanto la sentiva lei. E Limager era quasi un estraneo, uno straniero di passaggio. Tuttavia, l’ambiente la tranquillizzava. Gli uccellini, anche se tristi, cantavano ancora; i fiori, con le corolle un po’ pesanti, rialzavano già la testa; il sole scaldava come nei giorni sereni dell’autunno incipiente in cui lui era tornato.
«Voi mi state dicendo di abbandonare queste terre, signore?» domandò con un filo di voce.
Limager rispose guardando lontano, in direzione del nord: «Chiunque vi consiglierebbe di farlo, in simili circostanze»
«A volte mi capita di domandarmi come io sia finita qui e perché – confessò Rebecca, volgendo lo sguardo dalla parte opposta, verso sud – Tutto ha un significato nel piano divino. Ora mi domando perché io sia giunta qui, così lontano dalla mia casa natale e dai miei correligionari, così lontano dalle cose che mi erano familiari in Inghilterra... Quale scopo ha avuto la mia presenza qui, Limager?»
Lui tornò a guardarla e la guardò intensamente: «Se mi consentite, forse siete qui perché era previsto che noi ci conoscessimo»
«Forse sì – sospirò – Ma non sappiamo cosa debba derivare dalla nostra conoscenza»
Limager si avvicinò un po’ di più e bisbigliò: «Se dovessi pormi la vostra stessa domanda ora, risponderei senza esitare: sono qui per salvarvi. In Normandia non c’è più nulla di buono»
«E che senso ha avuto la sua morte?» domandò ancora, lo sguardo fisso a sud, verso Chalus.
«E’ da folli voler interpretare il volere di Dio – rispose serissimo – Forse vi state ostinando in una ricerca che non vi può più giovare»
Rebecca si volse di scatto. Per un attimo le parve di vedere un’ombra nei suoi occhi. Poi batté le palpebre e l’ombra si perse nelle profonde pupille.
«A cosa potrebbe giovarvi – continuò Limager – Sapere come e perché vostro marito sia morto? Potreste scoprire qualcosa di doloroso, qualcosa di infamante...»
«Infamante? – lo interruppe, stringendogli d’istinto la mano – Ditemi ciò che sapete, signore. Vi prego di parlare sul vostro onore di cavaliere e di confidare a un’afflitta tutto ciò che sapete»
Limager si liberò e indietreggiò di un passo. Rebecca, per un istante, si sentì cedere le ginocchia.
«Davvero volete sapere...?»
«Sì, ve ne prego»
Limager appariva molto imbarazzato. Si prese il mento tra le dita e abbassò lo sguardo. La sua persona non sembrava più imponente come prima.
«Vostro marito non è morto in battaglia, mia signora – confessò alla fine, con tono roco – E’ stato tradito... Accoltellato alle spalle mentre... Mentre si trovava nella tenda di una donna»
Rebecca si abbandonò a un forte capogiro; tese le braccia e Limager fu pronto ad afferrarle per tenerla in piedi. Le sue ginocchia si erano già piegate sotto il peso di quella rivelazione, senza che le parole avessero materializzato chiaramente davanti a lei l’immagine di ciò che fosse realmente avvenuto.
«Come?» bisbigliò mentre Limager la risollevava.
«Mi dispiace, mia signora. Se fosse stato per me, non ve l’avrei detto... Capisco che ora ne soffriate, se possibile, ancora di più...»
Rebecca si passò una mano sulla fronte: sentì il freddo contatto sulla pelle, il viso bruciato dalla vergogna e le dita ghiacciate dalla sorpresa. Non ebbe la forza di guardarlo di nuovo; cercò di ritrovare l’equilibrio, ma barcollava ancora sensibilmente. Limager le offrì il braccio.
«C’è altro, a questo punto, che devo sapere?» domandò ancora.
«Solo se vi sentite abbastanza in forza, mia signora. Io vi consiglierei di fermarvi qui»
«No, cavaliere. Se c’è altro, proseguite. Voglio mandar giù il veleno tutto insieme e morire d’un colpo, piuttosto che sorbire goccia per goccia e ricavarne una lunga sofferenza» ribatté.
Limager si prese ancora del tempo, forse per organizzare il discorso, quindi raccontò: «Immagino sappiate quanto sia penoso per un uomo rimanere lontano dalla propria donna per molto tempo. In guerra è facile cadere in tentazioni basse e disdegnate nel tempo della quiete. Vostro marito, in fondo, non era diverso dagli altri uomini e aveva scelto una giovane donna come sua compagna favorita. Con lei passava le notti in cui voleva scacciare lo spettro della solitudine»
Rebecca singhiozzò due o tre volte, stringendo la presa attorno al braccio del suo accompagnatore.
«Anche un altro uomo aveva messo gli occhi su quella femmina – continuò imperterrito Limager – Ma vostro marito rivendicava la priorità con il suo rango e la sua fama di grande cavaliere. Lei non faceva differenze e li accoglieva entrambi nel suo giaciglio, assicurandosi che nessuno dei due sospettasse di nulla. Se non che, quella notte, sia vostro marito sia il suo rivale desiderarono dormire con la loro amante. Ne seguì quanto vi ho detto, non appena il secondo cavaliere ebbe scoperto la tresca»
«E quel pugnale? Perché portare un pugnale a un incontro amoroso?» singhiozzò Rebecca, scuotendo la testa.
«In un campo di soldati non si gira mai disarmati, soprattutto di notte»
Ucciso da un commilitone per una questione di gelosia: fine terribilmente ironica per un uomo che diceva di aver rinnegato il proprio passato per amore di una rinnegata come lei. Era come se quel Bois-Guilbert che aveva imparato ad amare con il tempo e la frequentazione, che aveva poi aspettato incessantemente, non fosse mai esistito. Era una maschera sapientemente costruita, stratagemma con cui il normanno si era garantito una discendenza dalla donna che aveva desiderato. Nulla gli impediva di tornare alla sua vera natura quando era lontano.
«Riaccompagnatemi al castello, vi prego... Ho bisogno di stendermi...» balbettò, mentre sentiva tutta la sua vita crollare sotto i suoi piedi. Un velo nero avvolse i suoi occhi e le sue braccia, fredde come la morte, scivolarono dalla presa di Limager. Avvertì una fitta dolorosa alla fronte, poi più nulla.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3730126