Little Talks

di Laix
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Diary ***
Capitolo 2: *** Ask your eyes not to kill me ***
Capitolo 3: *** Black Page ***
Capitolo 4: *** The devil in details ***
Capitolo 5: *** So much hate for the ones we love ***



Capitolo 1
*** Diary ***


Cap. 1: Diary






«Scienziata all'avanguardia, indiscutibilmente una delle migliori dell'intero globo e con il controllo di esperimenti di importanza mondiale...» mormorò Atsushi, alzando perplesso un sopracciglio mentre leggeva un foglietto giallo pallido che reggeva tra le dita «...mi chiede un pupazzo di Snoopy come regalo d'anniversario?»
«A me piace quello, non so cosa dirti.» Elena si strinse nelle spalle, continuando a scrivere degli appunti sul suo block notes distrattamente.
«Che cos'ha Snoopy che un gioiello prezioso, ad esempio, non ha?»
«Ha acume e ironia. Ed è carinissimo!» sorrise lei, stropicciando il foglio con decisi e scomposti tratti di penna.
Atsushi sospirò e scosse la testa, sorridendo di cuore. Sua moglie possedeva questa infantilità sommessa che era tanto bizzarra quanto squisita, in una donna del suo calibro.
«Voglio dire, hai mai letto anche un solo fumetto di Snoopy? Sai quegli stralci che si trovano online... sono davvero geniali. Quando non hai niente da fare cercalo su internet, cerca “fumetto Snoopy”»

«Ma certo, tra un esperimento che decida le sorti del mondo e una conferenza internazionale cercherò di ritagliarmi un minutino per leggere le perle di un cane.»

«Bravissimo! Mi ringrazierai. Però vedi di ricordarti, amerai il suo umorismo»
Atsushi ridacchiò, chinandosi sulla moglie corrucciata e stampandole un bacio sui capelli neri, tenendo le mani salde sulle sue spalle. Racchiuso nel palmo della mano destra teneva una piccolissima scatola giallo pallido, lo stesso colore del foglietto su cui aveva letto a chiare lettere la richiesta del pupazzo di Snoopy come regalo, e che aveva appunto estratto da lì. Il loro rituale d'anniversario era sempre stato questo: nascondere una scatolina con dentro un messaggio tra gli oggetti personali dell'altro, in modo che quando questi l'avesse trovata ci avrebbe letto il regalo d'anniversario desiderato. Atsushi era stato il primo a trovarla, quell'anno – non che ci fosse stata molta originalità nel nasconderla, l'aveva trovata in mezzo alle mutande e ai calzini... - ma di solito era Elena a detenere il primato. Se la scatolina non veniva trovata entro il giorno dell'anniversario, beh... il regalo era destinato a saltare.
«Senti, e tu? L'hai già trovata la mia scatolina?»
«Veramente no, non ho avuto il tempo.»
«Eddai, Elena... non l'ho messa in un posto poi così assurdo.»
«Lo so, è che proprio non ho la testa. Al massimo per quest'anno non ti faccio il regalo, non mi pare la fine del mondo, mi riscatterò il prossimo anno...»
«Il prossimo secolo. Cerca di trovarla il prima possibile, è un regalo importante per me.»
«Va bene...» rispose lei, alzando finalmente gli occhi su di lui e guardandolo con tutta l'intensità che i suoi occhi scuri erano in grado di comunicare.
Ad Atsushi mancò per un secondo il respiro. Ogni santa volta che lei gli incrociava lo sguardo con quegli occhi, lui doveva per forza escludere la possibilità di respirare. Non poteva fare entrambi, guardarla negli occhi e intanto prendere ossigeno, le due azioni non potevano andare di pari passo e ormai se ne era fatto una dolorosa ma piacevolissima ragione.
Era la donna più bella, più affascinante del pianeta. E mai avrebbe smesso di avere quell'effetto su di lui.
Il cielo all'esterno si era inscurito rapidamente, fuori da casa Miyano. Erano le 5 di pomeriggio d'autunno, il sole mangiato da una grossa nuvola nera seguita da molte altre più piccole, come un esercito cupo e astrale. Il vialetto esterno alla loro casa, tranquillo e residenziale, si stava già costellando di piccole macchie scure dovute alle gocce di pioggia. Elena sussultò, biascicando la frase “il bucato!”, ma si tranquillizzò nell'immediato quando ricordò di averlo già portato dentro un'ora prima, dopo aver guardato le previsioni meteo.
«Shihooooo!! Non aprire! Scema!» sentirono entrambi urlare dal salotto di casa. Loro due si trovavano in cucina, e riconobbero quella vocina come quella della figlia più grande, Akemi. Sembrava piuttosto allarmata. Di solito non se ne preoccupavano, poiché Akemi era una bimba piuttosto melodrammatica che amava esagerare le situazioni, ma questa volta c'era qualcosa in più nella sua voce. Gravità, ansia.
Elena si alzò di scatto e si diresse verso l'ingresso, seguita a passo deciso dal marito. Videro la figlia più piccola e bassissima, Shiho, saltare verso la maniglia della porta e abbassarla, facendo così entrare l'individuo che si stagliava all'ingresso in attesa. Alto, robusto, vestito di nero e con un cappello dello stesso colore sul capo.
Le facce di entrambi i genitori si oscurarono come aveva fatto il cielo poco prima, mentre in contemporanea sul volto dell'uomo nero si disegnava un sorriso spento e poco rassicurante.
«Ma che bambina educata. Mi ha visto qui fuori in attesa, e prima ancora che suonassi al campanello mi ha gentilmente aperto.»
«Già. Shiho non ascolta, quando le si dice che i brutti ceffi non vanno fatti entrare in casa!» ribatté Akemi forte di sé e con le mani sui fianchi, in direzione dell'uomo. Questi ridacchiò, mentre Elena correva verso la figlia e la rimproverava a gran voce di tenersi per sé certi commenti maleducati. Ovviamente era d'accordo con lei, ma era meglio non mostrarlo.
«Che cosa c'è, Pisco?» tagliò corto Atsushi guardando il nuovo arrivato e saltando a pié pari i convenevoli. «Entra, sta piovendo. Ti offro un caffè.»
«Cortese come sempre, Atsushi, ma sono di fretta. Sono qui per la chiavetta USB...»
Atsushi aprì fulmineo il cassetto di un mobile in corridoio, estrasse fulmineo una chiavetta USB di colore rosso e fulmineo si diresse all'ingresso per consegnarla all'uomo. Ogni volta che c'era da mandare via Pisco da casa loro, i movimenti dovevano essere fulminei.
«Grazie. C'è tutto?»
«Tutto. Sia i vecchi risultati degli esperimenti, sia quelli più recenti. In modo da poterli comparare e individuare i miglioramenti del progetto.»
«Grandioso. Siete davvero due bravi studiosi.» e poi fece saettare gli occhi bramosi prima sulla primogenita, e poi su Shiho. Si disegnò un altro sorriso sul volto, più subdolo. «E chissà che le vostre belle bambine non diverranno come voi, un giorno.»
«Chi lo sa. Buona giornata, Pisco» ribatté cupo Atsushi, indicandogli eloquentemente la porta e percependo dentro di sé un acuto fastidio all'altezza del petto. Pisco gli sorrise, falsamente affabile, si prostrò in un breve inchino e fece dietro front, uscendo nel vialetto sotto la pioggia.
«Ah! Un'ultima cosa.» si rivoltò verso di loro, con il piede destro fermo sul primo scalino. La sua silhouette nera si roteò come un nastro nero di un dono diabolico trovato fuori casa. Atsushi strinse le labbra, il sollievo che pensava avrebbe provato nel vederlo allontanarsi che di nuovo si trasformava in ansia pungente; con la coda dell'occhio vide lo stesso malessere sulle movenze corporee della moglie.
«Mi è già stato detto che, se per caso su questa chiavetta non si trovasse tutto il necessario richiesto, avrò il dovere di ritornare qui ed estorcerlo. In tutti i modi possibili che io conosca.» e guardò le due bambine con uno sguardo così orribile da rischiare di ferirle.
«Come già ti ho detto, e peccato, perché non mi piace ripetermi, lì troverete tutto. Io ed Elena non amiamo dilatare le tempistiche, lo sai bene. E' possibile che troviate anche di più rispetto alla mole di lavoro richiesta.»
«Oh, ma io non ho dubbi a riguardo. Era solo un breve appunto confidenziale per preservare il vostro bene.» mormorò Pisco.
Non ricevendo più impulsi da parte di Atsushi, l'uomo si afferrò il cappello nero con la mano destra e lo sollevò di alcuni centimetri dalla testa, in un cenno di saluto alla vecchia maniera che doveva sembrargli da vero gentleman. Poi si girò e se ne andò, senza più interruzioni.
Dopo aver richiuso la porta d'ingresso, Atsushi sospirò e si voltò verso la moglie, verso le figlie, che immobili lo fissavano. Verso la sua bellissima famiglia. Elena si inginocchiò all'altezza delle bambine, posando le mani sulle piccole schiene di entrambe.
«Okay, ragazze, siete state brave. A parte te, Akemi, che gli hai urlato quella frase sfrontata. E a parte te, Shiho, che gli hai aperto senza permesso...»
«E quindi esattamente quando saremmo state brave, mamma?» chiese Akemi, perplessa.
«Mh, hai ragione. In effetti non lo siete state. Ma siete state coraggiose, a vostro modo» sorrise Elena, stampando un bacio prima sulla guancia di una figlia e poi sull'altra.
Atsushi sorrise. Elena era un bel po' distratta e parlava spesso senza prima ponderare i suoi pensieri, ma poi trovava il modo di salvarsi in corner e di complimentarsi pure: una spontaneità che non riusciva a fare a meno di amare. Anche perché era il contrario di lui.
«Ma tornerà ancora tante volte, mamma? O questa è l'ultima?» chiese Akemi corrucciata. In tutta questa conversazione, Shiho non apriva bocca ma fissava curiosa e stupita tutte le persone che singolarmente parlavano.
«Non puoi chiedercelo tutte le volte, Akemi-chan. Non sapremo mai quando sarà l'ultima volta, ma per adesso no di certo, perché stiamo lavorando per lui e viene ogni tanto a ritirare i nostri lavori» puntualizzò Atsushi, avvicinandosi a loro e prendendo Shiho in braccio. La piccola aderì al corpo del padre, arpionandogli il collo. «Ma finché siamo qui, non dovete preoccuparvi di nulla. Okay?» le sorrise, e anche Akemi parve tranquillizzarsi.
Atsushi si voltò e tornò verso la cucina, stringendo il piccolo corpo della figlia a sé. Annusò il profumo dei suoi capelli ramati e morbidissimi, affondò le dita nella flanella del suo maglioncino e strofinò la propria guancia contro quella di lei.
E chissà che le vostre belle bambine non diverranno come voi, un giorno.
Strinse gli occhi, traendo più beneficio possibile dalla presenza e dalla consistenza della sua piccola stretta a lui, e gli mancò il fiato per un attimo. Aveva bisogno di quel contatto, di lei. Di loro.
Quelle visite improvvise dei membri dell'Organizzazione in casa sua, nel suo nido, erano quanto di più dannoso potesse invadere la loro vita pacifica e familiare. Lui vi mostrava sempre atteggiamento fermo e testa alta, senza mai vacillare, ma ciò non cambiava la gravità della cosa. Anche nei momenti più belli e più intimi, come il baciare Elena sulla testa e parlare con lei dei regali d'anniversario, come giocare con le bambine e preparare con loro decorazioni casalinghe per la festività di turno, erano tutti momenti tanto belli quanto potenzialmente rovinosi: in qualsiasi istante l'Organizzazione sarebbe potuta arrivare a bussare alla porta. E a interrompere tutto, come una grossa suola umana interrompe l'attività di un formicaio semplicemente calpestandolo, perché nemmeno l'ha visto e tanto meno si è accorto della sua importanza.
Ogni momento della loro vita era costantemente e invariabilmente minato da un'ombra oscura, qualsiasi fosse la sua brillantezza. E quest'ombra, nel suo cuore, ma era sicuro anche in quello di Elena, c'era ed era densa.
Si accorse di star stringendo un po' troppo Shiho quando lei emise un mugugno di fastidio. Allentò la presa, ma continuò a tenerla a sé, a rubarle un po' di profumo e di tatto, perché in quel momento trovò fosse la cosa più rassicurante al mondo. Se la allontanò di alcuni centimetri per guardarla in viso, in quel momento arrossato dal grande calore che il padre le stava trasmettendo: era bellissima, dolcissima. Zucchero puro, non ancora raffinato. Lei d'istinto gli sorrise e a lui si sciolse il cuore all'istante, perciò se la riportò addosso e le stampò due baci decisi sulle guance morbide.


***

«E' incredibile», riuscì solo a sussurrare Shiho. «Incredibile che mia madre tenesse sia delle audiocassette che un diario.»
«Sai, credo avesse molto bisogno di sfogare fuori tutto. Le sue frustrazioni, la paura. Le audiocassette erano un messaggio diretto per te e Akemi, mentre questo diario...» mormorò Rei Furuya, facendo un cenno con la testa in direzione del vecchio diario che Shiho teneva tra le mani, «...era il suo psicologo segreto. Era se stessa, fatta ad oggetto e raccontata pagina dopo pagina.»
Shiho alzò lo sguardo su di lui, e in silenzio annuì. Si morse un labbro.
Era molto strana la situazione che si era ricreata.
Sera tardi, poco dopo la mezzanotte. Rei e Shiho si trovavano sugli scalini di una scuola materna affacciata ad un parco giochi deserto, seduti ad altezze differenti; era estate e c'era una buona temperatura notturna, Shiho con indosso una leggera canottiera azzurra di cotone e lui con una camicia grigia di lino a mezze maniche. La brezza lieve scuoteva gli alberi e fomentava i profumi delle piante, ricordando la densità del silenzio; erano arrivati lì dopo che Rei le aveva chiesto, tramite un messaggio, di incontrarsi per parlare di una cosa delicata.

«Spero non ti dispiaccia se te l'ho portato da leggere. E' da molto tempo che ce l'ho, lo trovai tra gli oggetti di Elena diversi anni fa, dopo la sua morte, decidendo di conservarlo. Non era giusto finisse in mani sbagliate...»
«Che probabilmente lo avrebbero bruciato.»
«Brava.»
«Perché ci hai messo tanto a consegnarmelo?» gli chiese Shiho d'istinto, senza alcun rancore nella voce e fissandolo con occhi semi-lucidi. Era solo una domanda di curiosità, non ce l'aveva con lui – anzi, era già molto lodevole che Rei si fosse ricordato di un oggetto simile in mezzo a tutto quello che malauguratamente si trovava ad affrontare nella quotidianità.
«Non avevamo quasi alcun rapporto fino a poco tempo fa, Shiho.» rispose lui in totale trasparenza, guardandola negli occhi; nessuno dei due pareva voler cedere a quello scambio di sguardi. «Che senso avrebbe avuto? Ricevere qualcosa di così importante e prezioso da uno che ti ha rivolto sì e no tre parole in vita sua? Immaginavo che poi avresti voluto qualcuno con cui parlarne, qualcuno che possibilmente conoscesse tua madre... e che potesse chiarirti alcuni punti.»
«E non ti sentivi di fare questo... da sconosciuto.»
«Esatto... per te, invece, sarebbe stato indifferente?»
Lei fece spallucce, interrompendo il contatto visivo. «Non è che adesso abbiamo chissà quale rapporto» constatò lapidaria, suscitando un lieve sorriso divertito sul volto di Rei.
«Certo che no. Ma almeno abbiamo parlato più di una volta, anche del nostro passato. Sei stata a casa mia una volta. Non abbiamo problemi a interagire. Già questo è un successo, specialmente con una persona come te...»
«Che vorresti dire?» chiese lei alzando un sopracciglio, captando della strana ironia nell'aria. Lui rise.
«Nulla di che. Era un vago complimento.»
«Se lo dici tu. Comunque no, certo che non mi dispiace...» la ramata riabbassò lo sguardo sul diario, sfiorando con le dita la copertina marrone rigida e segnata da graffi e altri segni di usura. Aveva un profumo di antico, con un aroma di fiore autunnale. «Anzi, è uno splendido regalo. Questo diario lo scrisse mia madre, ci sono racconti di me, di lei, della mia famiglia. E' come un lungo video familiare che, per quanto sia costretta a guardarmi da sola, almeno esiste.»
«Ma non sei da sola a guardarlo. Era proprio questo che intendevo poco fa.»
Shiho trattenne il fiato e rialzò lo sguardo su di lui. Strinse le labbra, mandando giù un groppo.
«Sei... certo che vuoi fare questa cosa? Aspettare assieme a me che io lo legga tutto? E perché, poi?» le uscì poco più che un mormorio. Era agitata, le batteva forte il cuore.
«Ne sono certo. Ero affezionato a tua madre. E se ora Elena ci sta guardando, beh... penso che questo possa renderla contenta.» sorrise lui, mettendo Shiho improvvisamente a proprio agio. «E poi, ecco...»
Sembrava sul punto di dire qualcos'altro, ma si bloccò. Scosse la testa e la riguardò con un sorriso, che Shiho classificò come forzato.
«E poi cosa?»
«Niente, Shiho.»
«Rei? Non voglio segreti. Non voglio sorprese.»
«Lo so. Scusami.»
Lui deglutì e abbassò lo sguardo, evitando per alcuni secondi di incrociare quello indagatore della ragazza. Poi lei, lentamente, sembrò capire.
«Andando avanti con questo diario...» disse lei aprendo il diario alla pagina a cui era arrivata, una delle prime. Tenne fisso lo sguardo su quella carta color ambra e dai contorni più scuri e sgualciti, senza né righe né quadretti ma ricolma di grafia nera, «...ci saranno scritte cose spiacevoli? Cose che mi faranno stare male?»
«E' possibile.» sentenziò lui, infilandosi le mani in tasca e rialzando lo sguardo su di lei.
«Quindi per questo rimani con me? Per evitare di farmi disperare da sola? Non ho bisogno del baby-sitter, sappilo.»
Si era offesa, forse. Il suo tono di voce si era indurito.
«In quel caso puoi anche andare.»
«Ma io...»
«Ciao.»
«Oh, Shiho... ma sul serio?» esclamò lui con gli occhi rivolti al cielo scuro. Che razza di reazioni.
«Non ho 4 anni, so gestire le mie emozioni!» esalò lei con voce squillante.
«Sì, già. Sto notando.»
Lei fece per rispondere in modo arrogante, ma si bloccò comprendendo il modo in cui si stava affossando da sola. In ogni caso, per precauzione, gli tenne ancora il muso.
«Non ti dispererai, Shiho. Ma forse alcuni avvenimenti trascritti lì sopra non ti faranno piacere, qualche brutta reazione potresti averla ed io voglio essere al tuo fianco. Tutto qua. Ti infastidisce?» si strinse lui nelle spalle, con sguardo calmo. «Se ti infastidisce me ne vado.»
«Secondo me non te ne vai comunque.»
«Ahah...»
«Comunque no. Va bene, rimani. Ma se ti chiederò di starmi alla larga in alcuni momenti, stacci»
«Agli ordini, capitano.»
Shiho gli rivolse un'occhiata sarcastica e accennò ad un sorriso.
Era stato davvero carino con quel pensiero, con l'arrivo di quel diario. Shiho lo richiuse e se lo portò al petto, abbassando il viso per poterlo sfiorare con le labbra.
Quello era un modo di entrare in contatto con sua madre intimamente, forse ancora di più che con le audiocassette. Vi erano riportate scene familiari e in questo modo avrebbe ricordato meglio il carattere del padre, della sorella, di se stessa da piccola... della madre. Di ciò che avevano fatto.
Sperava solo di non rimanerci troppo sotto.
Ma dopo questo pensiero riguardò Rei con la coda dell'occhio, fermo lì sul posto e con la piena volontà di accompagnarla lungo quel percorso. 









***
Ciao a tutti!
Come avrete capito, questa FF torna nel passato e scava nei reticoli di una delle famiglie più misteriose del manga. Mi preme sottolineare che mi reinventerò gran parte delle cose, comprese le caratterizzazioni dei Miyano stessi (ad eccezione di Shiho e forse un po' di Akemi) attenendomi ai pochi dati che abbiamo, specialmente per quel che riguarda il loro ruolo all'interno dell'Organizzazione e la fine che hanno fatto. Tuuuutto ricostruito :P Anche quelle poche cose che forse già sappiamo o diamo per certe.  
Questo revival avverrà tramite i personaggi di Shiho e Rei, il cui avvicinamento verrà dunque premesso in questa chiave. Oltre ad Elena e Atsushi, quindi, sono loro due a comporre il pairing principale di questa FF. 
Alla prossima, e grazie della lettura! Fatemi sapere! ^__^ 

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Capitolo 2
*** Ask your eyes not to kill me ***


2. Ask your eyes not to kill me





«Shiho-chan, hai voglia di aiutarmi ad apparecchiare? Ci riesci?»
La figlia ramata aveva da poco compiuto 5 anni e raggiunto l'altezza giusta per non farsi sbilanciare dal peso dei piatti di ceramica, ma Atsushi rimase comunque a contemplarla aspettando una risposta.
«Sì.» disse lei a bassa voce, e in silenzio aprì la credenza a terra della cucina estraendo 4 piatti. Poi, senza aspettare ulteriori indicazioni, aprì il secondo cassetto e ne tirò fuori le posate. Atsushi la guardò compiaciuto, contornata da raggi solari che faticosamente attraversavano le persiane per entrare in cucina, decisamente fiero dell'operato della piccola.
Akemi intanto aveva preparato in giardino il tavolo, decorandolo con una sgargiante tovaglia e appoggiandoci sopra tutte le bevande gassate che le capitavano a tiro. Stava tagliando le verdure da mettere poi in griglia, assieme alla madre. Atsushi e Shiho le raggiunsero in giardino, lui con la carne nel vassoio e la piccola coi piatti da distribuire sul tavolo.
«Allora, ragazze! Siete contente che oggi facciamo il barbecue?» chiese Atsushi mentre si dirigeva alla griglia per posarvi sopra i filetti di carne.
«Sììììì.» gridacchiò Shiho, attenta a non uscire troppo dai ranghi.
«Io assolutamente no!» Akemi sporse il labbro inferiore in un'espressione polemica. «Io da grande voglio essere vegetariana.»
Elena sbuffò una risata, guardando teneramente la figlia. «Brava, Akemi-chan, è una scelta molto etica e rispettosa. Te la appoggio, ma dovrai imparare a bilanciare i nutrienti che la carne non potrà più darti.»
«Certo, so tutto! Sto già tagliando tante verdure per questo. Io le adoro, mi rimpinzerò di verdure al posto della carne!»
«Legumi. Per sostituire la carne... i legumi. Non verdure.» mormorò Shiho seria e con le labbra strette, in direzione della sorella maggiore. La quale, sentendo questo insegnamento dalla maestrina sorella scricciolo, se la prese e arrossì, abbassando lo sguardo imbronciato. Elena rise, guardando fieramente la figlia più piccola. «Shiho-chan ha ragione. Devi stare attenta e assumere sì le verdure, ma soprattutto i legumi e altri alimenti proteici. Ci siamo intesi?»
«Ci siamo intesi? Ti metterai a studiare un po' di più, ora?» la riprese anche Shiho, con tono più rigido.
«Ma chi si crede di essere, mamma??» si lamentò Akemi, indicando la sorella e saltando sul posto. «Mi prende in giro!!»
«Sei una lagna. Sembri più piccola di me.» continuò imperterrita Shiho, fissando la sorella con sguardo impassibile.
Dal momento che era in arrivo una scenata di Akemi e un peggioramento dell'umore di Shiho, Atsushi intervenì nella situazione per la quale invece sua moglie se la rideva sotto i baffi alla luce del sole pomeridiano.
«Oh, adesso basta, bambine. Stop! Akemi, in questo momento non ho nessun sostitutivo della carne quindi ti chiedo di ingurgitare queste salsicce...»
«Mi prometti sarà l'ultima carne che mangerò, papà?»
«Sì, sì, ti comprerò un sacco di ceci e sui generis... e tu, Shiho-chan» chiese Atsushi, con un po' d'apprensione nella voce «vorrai anche tu i legumi? E poi fagiolini, verze e così via?»
«No. Schifo.» sentenziò semplicemente lei, seria, facendo scoppiare a ridere il padre.
Dopo pochi minuti iniziarono tutti a mangiare, fino a che Shiho e Akemi non furono assalite dalla voglia di lasciare il tavolo e giocare in giro per il giardino, un po' insieme e un po' separate. In realtà avevano ritmi diversi e anche curiosità diverse, per le quali ad esempio Akemi doveva per forza correre in lungo e in largo alla ricerca di qualcosa, mentre Shiho, per lo stesso motivo, doveva restarsene ferma in un punto per molti minuti a fissare qualcosa in mezzo all'erba. Nessuno conosceva i loro motivi, ma sicuramente c'erano.
Elena le guardava amorevole da dietro le lenti degli occhiali da sole, e spostando gli occhi su Atsushi si rese conto che anche lui non si lasciava scappare i loro movimenti. Sembrava ipnotizzato, un sorriso accennato e distratto installato sul volto.
«Certo che hanno due caratteri che proprio non collimano. Spero solo che Shiho non diventi antipatica come il padre...»
«Già, hai visto?» ribatté fieramente Atsushi, mentre si accendeva una sigaretta con un fiammifero. «Battutine fredde, insegnamenti saccenti, quegli occhietti vispi e acuti. E' tutta il suo papà.»
«Esatto, e questo è tremendo. Di saccente, freddo e ironico c'eri già tu in questa famiglia.»
«E di distratta, infantile ed emotivamente instabile c'eri già tu, eppure si è aggiunta anche Akemi.» concluse lui guardando di fronte a sé impassibile, espirando una nuvola di fumo. Elena lo incenerì con lo sguardo, nonostante lui fingesse di non vederla.
«Hai trovato la mia scatolina?» chiese lui dopo un po'.
«No, Atsushi... e sarà la quattordicesima volta che te lo dico...»
«In effetti è proprio la quattordicesima, le ho contate anche io.»
«Quindi lo capisci da solo quanto sei pesante?»
«E tu lo capisci da sola quanto sei poco amorevole nei miei confronti?»
Elena alzò gli occhi al cielo, prima di guardarlo con espressione sarcastica.
«Prima o poi la trovo, te lo prometto. E' sempre rosa chiaro?»
«Sempre rosa chiaro. In un posto molto facile, non nel congelatore e non sopra il tetto.»
Lei sghignazzò, senza molta energia, dopodiché tornò a guardare le bambine con sguardo neutro. Atsushi la fissò per alcuni secondi, perplesso.
«Tutto bene, tesoro?»
Elena non gli rispose, non si mosse nemmeno. Atsushi tornò con lo sguardo sul tavolo, se la moglie accusava malumori improvvisi o inspiegabili era meglio non insistere. Fissò la brace della sigaretta aumentare e rilasciare volute di fumo, in silenzio.
Udì un sospiro pesante, come tormenta di gelo grigio, provenire da lei.
«Voglio che Pisco la smetta di entrare in casa mia. E così chiunque altro di quella cerchia.» cominciò impulsiva, lo sguardo dietro gli occhiali che pareva indifferente. «Voglio che il nero non invada mai le mura di questa casa. Voglio che i colori, qui dentro, siano il tuo giallo pallido e il mio rosa chiaro. E i pigiami azzurri delle bambine. Il nero qui non c'entra niente.»
Atsushi si portò la sigaretta alle labbra, aspirando ferocemente. Non poteva vederle gli occhi, non voleva vederli. La visione della moglie rattristata da quelle elucubrazioni gli stordiva cuore e mente, lo sbatteva a terra ripetutamente come un uovo il cui guscio non vuole rompersi.
«Io lo voglio uccidere.» dopo averlo sussurrato fino a strozzarsi la gola, Elena si lasciò sfuggire un singhiozzo disperato. Lo voglio fare, ma non sono una persona cattiva.
Quante persone ho già ammazzato ad oggi?

Atsushi sentì il proprio petto comprimersi, spense la sigaretta e si alzò dalla sedia, controllando che le bambine fossero abbastanza lontane e distratte.
Si voltò e si inginocchiò per arrivare alla sua altezza, ancora seduta, le tolse gli occhiali da sole dal viso e lei poté specchiare le proprie lacrime sugli occhiali trasparenti di lui. L'espressione del marito era così delicata, affabile e sincera da rincuorarla abbastanza, facendola desistere dal pianto.
Cosa diavolo avrebbe fatto, lei, senza di lui? Tra le tante orride questioni, era la sola domanda che in quel momento si appropriò dei sistemi della sua mente. Era come un'ondata di luce che devastava cumuli di piante nere e morte lungo una landa desolata.
I sorrisi di Atsushi erano tutt'altro che usuali, una rarità. Ma quando li regalava, quei pochi che creava, erano pieni e vitali. Erano la vita stessa, la speranza.
«Abbiamo fatto un errore. Sì. Resisti ancora un po', resistiamo insieme. Perché nel frattempo abbiamo generato due creature che meritano la nostra forza e protezione. E che a loro volta, per noi, sono la nostra forza e la nostra protezione.»
Lei gli rivolse un vero sorriso in mezzo alle lacrime che, alla fine, erano riuscite a scendere. Ma non erano solo lacrime amare, come intendevano essere all'inizio di quella conversazione, e lo capì mentre lui avanzava una mano verso la sua per stringergliela forte. Poi lui si sporse in avanti e abbassò il capo fino a posarglielo sul petto, affondando il viso nella scollatura a V della sua maglia e allungando le braccia oltre i suoi fianchi per abbracciarla. Lei emise un gemito e scoppiò subito, abbracciandolo a sua volta e inarcandosi in avanti per inglobarlo tutto, con uno scatto quasi nevrotico, stringendogli forte i lembi della camicia bianca e aderendo il più possibile alla sua ampia schiena. Voleva entrare dentro, dentro, dentro di lui, proteggersi da dentro lui, essere avvolta da lui contro i pericoli dell'esterno. Iniziò a sussultare più volte, in preda ai singhiozzi, sentendo i suoni ovattati e concentrandosi solo sulla sensazione di tatto che la camicia di Atsushi le dava, sul profumo che emetteva. Vi aumentò la presa fino a farsi male.
«Io... voglio...» mormorò lei, tra i singulti. «...voglio che tu... stia sempre, sempre accanto a me...»
«Te lo promisi già al college. Non verrò mai meno ai patti.» sussurrò lui, provando a sciogliersi da quell'abbraccio tanto passionale quanto straziante e alzando il viso per guardarla negli occhi. Avvicinò il viso al suo, tanto da poter scorgere l'interno acquoso delle sue lacrime.
Una cosa che adorava davvero era l'uso frequente che Elena faceva del verbo "volere": quando parlava di qualcosa che avrebbe desiderato non si sprecava né con parafrasi né con timidi "vorrei", "mi piacerebbe", "quasi quasi penserei di", ma solamente "voglio". Io voglio, adesso. E in quella breve conversazione, quante volte aveva già usato quella parola?
Atsushi chiuse gli occhi e con i denti le afferrò il labbro inferiore, delicatamente e senza farle male, lo portò dentro alle sue labbra e lo tenne un po' lì, qualche secondo. Lei rispose e fece lo stesso. Alla fine lui riaprì le palpebre e la guardò, e di nuovo quegli occhi scuri, sensuali e penetranti lo investirono come nessuno e niente al mondo erano in grado di fare, gli raggiunsero l'anima e la scossero dal profondo.
«Mi hai ossessionato la mente dal primo giorno che ti ho vista, Elena Miyano. Ed ogni giorno che passa, mi ossessioni di più.»

 

***

Atsushi era attaccatissimo a Shiho. Non che non lo fosse anche con Akemi, certo che no, ma Shiho era praticamente diventata un prolungamento del suo corpo. Non riusciva a staccarsene, era come una piccola e graziosa droga.
Se doveva occuparsi di alcune faccende domestiche, chiedeva a Shiho di aiutarlo; se usciva a fare una passeggiata al parco o al torrente, portava Shiho con sé; gli veniva in mente qualcosa da insegnare a qualcuno? Lo insegnava a Shiho, sedendosi sul divano con lei di sera e leggendo insieme un libro alla luce della lampada. Chiedeva sempre alla piccola se preferiva dei libri illustrati, ma lei accettava raramente: si arpionava al suo robusto braccio e cercava di leggere le parole al suo stesso ritmo.
Elena notò un grande cambiamento nei suoi atteggiamenti, perché sorrideva più di quanto non facesse prima, a volte fischiettava per casa, fumava raramente. Tutte cose che in lui non si erano mai viste, non così accentuate, specialmente per quanto riguardava i sorrisi che prima erano quasi nulli. E anche Shiho, la piccola e sempre seriosa Shiho, cambiava aria in presenza di suo padre, quasi fosse consapevole che prima di tutto era lei stessa a provocare quel benessere nel genitore.
Per questo motivo, Elena sentiva un gran calore nel cuore ogni volta che li vedeva insieme. Chissà che anche la somiglianza fisica, che li vedeva entrambi ramati e con gli occhi di quel turchese particolare, giocasse a favore del loro genetico e stretto rapporto; un po' come a lei era accaduto con Akemi, che aveva i suoi stessi capelli e lineamenti del viso.
E sempre per questo motivo, quando Shiho venne temporaneamente sequestrata dall'Organizzazione e allontanata da casa, si sentì gelare il petto come fosse stato messo in ibernazione. Come se quel congelamento provvisorio potesse evitarle di sentire la sofferenza che il cuore le inviava senza pudore.

***




«Mio padre.» sussurrò Shiho fissando un punto di fronte a sé, come incantata. «Il vero feeling era tra me e mio padre.»
«E... la cosa ti sorprende?» chiese Rei sottovoce.
«Ero convinta fosse con mia sorella, o con mia madre. Mio padre era l'ultimo che mettevo in lista, non so perché. Non mi ricordo quasi nulla.» continuò lei, lasciandosi sfuggire un sospiro tremulo alla fine di quella frase.
Si sentiva terribilmente in colpa nei confronti del padre. L'aveva curata così tanto, tenuta in una campana di cristallo e coccolata con ogni forma di dolcezza esistente, nonostante ciò stridesse col suo carattere, e lei quasi non aveva considerato nessuno di quegli aspetti. L'aveva confinato in un angolo remoto dei ricordi.
«Non mi ricordo nulla, Rei.» ripeté, stavolta direttamente al ragazzo. Spostò lo sguardo su di lui, l'angoscia chiaramente visibile nei suoi occhi turchesi. «Non voglio non ricordarmi nulla.»
«Ehi...» la rassicurò lui, allungando un braccio per sfiorarle la spalla. «Stai tranquilla, è normale, avevi a malapena 5 anni.»
«Ma non è giusto. Non è giusto per niente. Mio papà... mio papà, per me...» disse lei con un'insolita carica emotiva nella voce. La vide portarsi una mano alla fronte per nascondere gli occhi.
«Tuo padre non ha fatto niente di quello che ha fatto perché tu lo ricordassi per forza negli anni a venire. L'ha fatto perché ti voleva bene, stop. Non ha senso che tu ora ti strugga per motivi inesistenti, okay?»
Shiho lo fissò a lungo, dopo quell'affermazione. Molto a lungo, ragionando sulle parole, e mettendo quasi Rei in un piacevole disagio. Rei provò a guardarla di rimando e rimase affascinato dal modo in cui i suoi occhi baluginavano alla luce della luna, l'unica vera fonte di luminosità a quell'ora di notte in un parco deserto. Vide la sua canottiera di cotone scuotersi lievemente al passaggio della brezza estiva, due ciuffi di capelli ramati e morbidi adagiarsi pigri al suo volto. Dopo un tempo incalcolabile lei annuì lentamente, riabbassando lo sguardo sulle pagine aperte del diario.
«Mpf.»
«Cosa ti diverte, ora?» chiese lui sottovoce e con un sorriso, preferendola ridacchiare piuttosto che il contrario.
«Le scatoline. Chissà se poi mia madre l'ha trovata.»
«Non aveva proprio voglia di cercarla quell'anno...»
«Che sfaticata, santo cielo» rise Shiho, fissando la pagina in cui Elena aveva riportato quell'evento. «Anche adesso, pensandoci, mi sento dalla parte di mio padre. Penso che lui avesse ragione ad insistere, in fondo cosa le costava?»
«10 minuti in più del suo tempo. Ma tua madre era piuttosto cocciuta.»
Shiho sorrise, girando lentamente le pagine e arrivando a quella seguente. Quella che avrebbe raccontato della sua triste permanenza alla sede dell'Organizzazione, sola e all'età di 5 anni. Il sorriso le si spense.
«Sei certa di voler leggere quella parte, Shiho?»
«Tutto. Non voglio saltare niente.»
«Okay.» mormorò lui, dopodiché si alzò dallo scalino dirigendosi non si sa dove. Shiho alzò di scatto il viso e trattenne il fiato, senza capire.
«Aspetta, Rei, dove vai?»
Il ragazzo fu bloccato dal tono di voce ansioso di lei. La fissò sbalordito, prima di parlare.
«Mmm... in bagno? Posso? C'è un bagno pubblico laggiù.»
«Ah, sì... sì. Certo. Certo che puoi.» sussurrò lei, schiarendosi la gola e ricomponendosi.
Lui ridacchiò, in parte contento di quella sua reazione. «Non ti lascio sola nelle prossime pagine, Shiho. Sono qua. Te l'ho promesso.»
Grazie buio, magnifico buio, che esisti e mi proteggi, fu il pensiero di Shiho rivolto al buio della notte che in quel momento si occupava diligentemente di nascondere il suo improvviso rossore. 

 






*********************************
Eccoci al secondo capitolo: nessun membro dell'Org. qui, non ancora, il capitolo come vedete è uno slice of life che descrive più che altro vicende sentimentali volte, comunque, ad entrare maggiormente nei legami dei Miyano e a tutto quello che sarà. La mia idea personale è piuttosto chiara, mi viene più facile associare Shiho e la sua proverbiale cupezza ad una somiglianza con il padre, per quanto anche la madre pare non fosse la stella del cabaret XD E' un processo inspiegabile e dettato da troppi pochi elementi, e che ripeto essere del tutto personale, lecito pensarla diversamente e anzi. Stesso dicasi per le due sorelline e il loro rapporto al momento molto infantile, d'altra parte con loro due si va un po' più sul sicuro poiché sappiamo come sono da grandi: diverse, ma con dei punti di vista comuni. Ma tanto, non è sul sicuro che vogliamo stare! *devil* Parallelamente, se state sentendo del ghiaccio scricchiolare e sciogliersi in modo graduale, può essere che sia Shiho nei confronti di Furuya man mano che alcune cose saltano fuori, ma chi lo sa XP
Infine grazie, GRAZIE per le bellissime recensioni e a presto, fatemi sapere! <3 

 

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Capitolo 3
*** Black Page ***


3. Black Page






«Mamma... mi fa male...» sussurrò Akemi una notte verso le 3 del mattino, mentre Elena era seduta sul suo letto per starle accanto. Si era svegliata di soprassalto a causa di un incubo, ma la madre era ancora sveglia e l'aveva sentita.
«Quando smette?» chiese Akemi implorante e con la voce impastata dal sonno, mentre il fazzoletto che teneva sul naso si impregnava di sangue.
La piccola soffriva da sempre di capillari fragili e la notte il naso rischiava di sanguinarle al minimo tocco sbagliato. In quei giorni, a causa della preoccupazione per Shiho, la pressione le era salita un po' causando più frequentemente quel disagio.
«Smette subito, Akemi-chan. Fai come sempre, tieni bene tamponate le narici col fazzoletto» le sussurrò Elena amorevolmente, aiutandola a tenere il fazzoletto ben aderito al naso e avvolgendole le piccole spalle con un braccio.
Akemi mugugnò a labbra serrate, intimorita da quel continuo flusso sanguigno che, nella sua concezione di bambina, le pareva interminabile e corposo. Faticava a respirare e il naso era bollente. Elena le carezzò la testa stampandole un lieve bacio sulla fronte, anch'essa calda. La poca luce che entrava nella stanza buia era quella della luna, che rischiarava le pareti, i mobili e i quadri di un lieve e debole argento. La ragazzina provò a tirare su col naso, ma tossì subito dopo; era già il terzo fazzoletto che andava impregnandosi.
«Quando torna la rompiscatole di Shiho...?» biascicò lei con voce rotta. Infatti, appena nominato il nome della sorella minore, Akemi sussultò con violenza. Poi iniziò a piangere, aumentando la velocità con cui il fazzoletto si colorava di rosso.
«No, no, Akemi-chan... non fare così» mormorò Elena apprensiva, togliendole il fazzoletto ormai pregno dal naso e trovandosi, nel giro di pochi secondi, vischiose strisce di sangue tra le dita delle mani. Elena esitò un istante, prima di prendere un altro fazzoletto: era solo sangue dal naso, ma non era mai una cosa piacevole.
Quando lo afferrò e lo accostò al naso imbrattato di Akemi, la madre provò a cantarle una canzone americana pop di quelle che piacevano a lei, in una versione più tranquilla e da ninnananna. Akemi parve calmarsi subito, sebbene qualche singhiozzo resistesse ancora e le lacrime le inondassero il viso, brillando al riflesso della luce lunare.
«Tua sorella tornerà presto. E in questo momento, se ti vedesse così, sai cosa farebbe? Ti sgriderebbe» bisbigliò Elena, al che la figlia annuì debolmente.
«E direbbe che sembro più piccola di lei...» ribatté Akemi chiudendo gli occhi stancamente, mentre le ultime lacrime si sedimentavano sulle sue guance e l'ultimo sangue nel fazzoletto. «Mamma... mi sento svenire...»
«Sei solo molto stanca. E' normale tu ti senta così.» rispose Elena con dolcezza e carezzandola ancora, la piccola testa che ciondolava avanti e indietro sul cuscino. Poi Elena la avvolse in un tenero abbraccio e la tenne stretta per quasi un minuto intero. Non troppo, perché temeva di influenzare in peggio il flusso dal naso, ma quel necessario per dare conforto alla piccola e soprattutto a se stessa. Sentiva il suo piccolo cuore ancora in piena accelerata. Percepire il calore del gracile corpo di Akemi trasferirsi nel suo era tutto ciò a cui aspirava quella notte, una potenza in grado di rinfrescarle cuore e mente e vene di una nuova energia più dolce e genuina, distante dall'angoscia che in quei giorni la stava logorando.
Akemi, dal canto suo e avvolta da quel caldo abbraccio, si addormentò quasi all'istante. Elena le asciugò le lacrime rimaste a imperlare il suo viso e anche le gocce di sangue che ancora sfuggivano alle narici, poi le accostò la testa sul cuscino facendo attenzione a mantenerle la testa sollevata. Con un sospiro si alzò e si diresse verso il salotto di casa, lievemente illuminato dalla lampada: visto che Atsushi non si trovava a letto accanto a lei, quando si era alzata, doveva trovarsi per forza lì. Era la terza notte consecutiva che il marito faticava a dormire.
«Hey... cool man» sussurrò Elena, una volta che lo vide seduto sul sofà. Si accostò vicino a lui, sistemandosi la camicia da notte e sollevando le gambe nude sul divano, appoggiò un gomito sul morbido schienale e con la mano si resse il capo, pronta a fissare intensamente Atsushi.
«Ciao.» bisbigliò lui, secco. Non si era neanche voltato. Guardava di fronte a sé, il viso alzato verso il soffitto, il braccio destro appoggiato sulla fronte come se si riparasse gli occhi dal sole, come se avesse un mal di testa perenne. Gli occhi, dietro gli occhiali, erano spenti. E lui era pallido come forse mai l'aveva visto prima, un pallore che alla luce della lampada sembrava ramato quasi come la sua chioma, solo più giallognolo.
Elena allungò una mano e gliela mise tra i capelli, carezzandolo delicatamente. Lui non reagì.
«Va tutto bene.» gli mormorò con la tonalità più dolce che potesse concepire.
Nessuna risposta. Solo vuoto, da parte di lui. Continuava a fissare il soffitto e respirava appena. Probabilmente si era ibernato anche lui.
Solo dopo diversi minuti lui riuscì a proferire parola con voce rauca.
«Non riesco a capire. Con Akemi non era successo. Nessuno era venuto qui per portarla via, nei loro laboratori di analisi per farle... dei test? Dei test mentali? Ma per cosa?»
«Per capire se è un maledetto genio. Come noi due.»
«Lo so, Elena, ma perché adesso? Perché lei? Ero ormai sicuro che questo pericolo non avrebbe mai intaccato le bambine, visto il loro disinteresse per Akemi. Ed ero felice a pensare che...»
«Non prendiamoci in giro, Atsushi. L'hai visto anche tu com'è Shiho. Ci vivi a pieno contatto. L'hai visto anche tu.» ripeté lei, sottovoce e fissandolo dritto negli occhi. Fu a quel punto che lui si voltò, incrociandole lo sguardo e rimanendone incatenato.
Lui emise un sospiro tremulo, continuando a guardarla.
«È colpa mia?» sussurrò lui.
«Che? Cioè... cosa?»
«Sono io che le sto insegnando molte cose. Che la faccio leggere tanto, spesso mi scappa di spiegarle cose complicate per una mente infantile come la sua. Ma lei le capisce, Elena. Non benissimo, ma lo vedo che quanto meno le schematizza. E ogni volta che si mette a scrivere cose strane sui fogli, io le do man forte e...»
«Lei è così, Atsushi. Che tu l'aiuti o no, prima o poi lo farà lei da sola. Anche con Akemi ci provasti, io me lo ricordo, ma lei è più estroversa e votata alla vita vera, quella fuori all'aria aperta, grazie al cielo. E piuttosto che ascoltarti andava fuori a farsi un giro. Shiho, invece...»
Elena si bloccò, abbassando lo sguardo abbattuto e portandosi una mano alla bocca. Essere forte per suo marito aveva un prezzo. Quello di comprendere sempre più, man mano che parlava, il tipo di pericolo a cui l'intelligenza di Shiho si stava legando in un rapporto fatale e terribile.
Atsushi allungò un braccio e le sfiorò una spalla. Quando si mosse parve quasi fare rumore, come una statua di pietra che finalmente riacquista movimento e coscienza.
«Facciamo una cosa. Domani scopro dove tengono la nostra bambina, ma lo scopro sul serio» sussurrò lui, deciso.
«Hai già cercato per tutti gli edifici dell'Organizzazione... e nessuno vuole rivelartelo, tutti temono di finire nei guai se te lo dicono...»
«Non tutti gli edifici, sono troppi. Semplicemente non andrò più alla cieca ma caverò fuori informazioni da qualcuno, ho già un'idea a riguardo. Dopodiché me la porto via. È nostra figlia, non qualcosa di loro proprietà.»
«Non te lo lasceranno fare, Atsushi.»
«A me non interessa cosa loro mi lasceranno fare. Mi interessa quello che di fatto farò.» e a quel punto si alzò, rinnovato di nuova energia. Si diresse verso la camera da letto.
«Vado a dormire, che domani mi serve il mio lato più meschino.» dichiarò lui voltandosi verso di lei con un sorriso, prima di sparire su per le scale.
Ripiombato il silenzio nella sala, Elena si rannicchiò sul divano abbracciandosi le ginocchia e sprofondando la testa nel morbido schienale. Si sentiva sfibrata. Chiuse gli occhi e cercò di resettare la mente.
Io adesso non sono lì con te. Ma sbaglia tutti i test, bambina mia... sbagliali tutti.

***


«Avanti, dimmi dov'è. So che lo sai. E che l'hai vista.» gli sussurrò Atsushi, senza mollargli lo sguardo e a distanza ravvicinata dal suo viso. «Avrai una lauta ricompensa, se me lo dirai.»
Il ragazzotto giunto da poco nell'Organizzazione, visibilmente disturbato e segnato dai traumi più svariati di natura sconosciuta, sentiva incollati su di sé gli occhi di Atsushi ma non se ne curava. Guardava dritto di fronte a sé, la bocca serrata, gli occhi piccoli e verdi vigili e glaciali.
«Allora? Quanti pesciolini dell'Organizzazione smanierebbero per una fortuna come la tua? Quanti vorrebbero, dopo essere appena arrivati, salire già ai piani alti? Beh, tu puoi» continuò lo scienziato a mezza voce, standogli vicino, «perché se mi dirai tutto... io, che sono già importante qui dentro... metterò una buona, buonissima parola su di te con chi di dovere. Fidati.»
A quel punto il ragazzotto dai lunghi capelli biondi voltò lo sguardo di scatto verso di lui, spalancando gli occhi come farebbe una murena. Atsushi sussultò intimamente, e forse un pochino si notò: aveva capito da una primissima occhiata che quel tipetto non aveva nulla di rassicurante e che trasudava odio per l'umanità intera, ma guardarlo negli occhi a quella distanza e reggere quello sguardo malato sarebbe stata un'altra sfida.
«Non mi fido neanche della mia ombra. E non mi fido di te.» disse semplicemente Gin, con tono monocorde e profondo. Ad Atsushi parve di percepire una lieve scossa alla base del capo, da quanto era rabbrividito.
Tuttavia doveva insistere: sapeva che quel ragazzo era stato preso in carico da Pisco, colui che personalmente aveva diretto l'operazione di sequestro della sua Shiho, ed era ancora giovane e inesperto. Era la sua unica speranza di estorcere le informazioni che gli servivano: dove tenevano la piccola, in quell'enormità di posto ispezionato già in lungo e in largo senza successo, e cosa le stavano facendo. Perché nessuno, nessuno glielo diceva.
«Male, ragazzo, male. Non va bene non fidarsi neanche della propria ombra.» deglutì. «Ho già fatto questo favore ad altri, sai? Puoi chiedere a loro. Tu sai cosa comporta salire ai piani alti?»
«Non ne so molto. Mi va bene stare qui.»
«Quelli come te li chiamiamo “LSB”.»
«LSB?»
«Little Shark Baits. Piccole e insulse esche per squali grandi e grossi. Non mi sembri proprio il tipo che amerebbe essere denotato così, o sbaglio? Se mi sbaglio correggimi.»
Gin fece silenzio, guardò in basso. Atsushi lo controllò.
Il dottor Miyano era sempre stato piuttosto astuto nei confronti verbali: sapeva capire al volo le tendenze e le necessità dei suoi interlocutori, si metteva nei loro panni e, con abili giri di parole e uso massiccio di pulci nelle orecchie, offriva loro indirettamente una soluzione pratica e comoda, nonché oggetto del loro vero desiderio.
«Ho capito. Sei uno a cui piace fare l'esca e sacrificarsi per quelli importanti. Beh, Gin, è ammirevole che ne esistano ancora, ce ne fossero. E poi sei così giovane, e già così altruista. Bravo davvero.»
«Ti sbagli.»
«Mh?»
«Cosa fanno quelli più in alto?»
«Mah, varie cose. Hanno in mano un bel po' di potere. Sono gli Squali, ecco tutto, perciò... scovano, mangiano prede, terrorizzano. Niente che ti riguardi, comunque, Esca.»
«Non chiamarmi così.»
«D'accordo, smetto. Ma sappi che gli altri lo fanno alle tue spalle: il giovane Gin, la giovane esca. Usiamolo ancora un po', che ci fa comodo.»
«Cosa fa chi sta in alto?» ripeté Gin, cercando di non sembrare troppo indagatore e desideroso di informazioni. Atsushi sorrise tra sé e sé, attento a non farsi vedere da quel piccolo rapace assassino.
«Muovono le fila, Gin. Decidono ed eseguono le vere missioni che qui dentro contano. Hanno contatti importanti, soldi a palate, permessi speciali, armi potenti. Praticamente ogni cosa... è consentita. Compresa, specialmente, la crudeltà.»
Gin mosse impercettibilmente le labbra. Spostò gli occhi verso l'alto, pensieroso, attento.
«Io ci sono dentro, Gin. Sono nella sezione scientifica e muovo uno dei motori principali di questo posto, tutti ascoltano bene ciò che ho da dire. Ed è proprio un altro livello, sai, un altro stile. Qualcosa che le esche non vedranno mai, perché creperanno prima. Creperanno per noi.»
«Edificio 4, sala K.»
«Come dici?»
«E' dove tengono tua figlia. Ci vado con Pisco quasi ogni sera.»
Edificio 4.
Sala K.
Edificio lontanissimo da lì, che neanche aveva preso in considerazione nella sua ricerca disperata. Ma era lì che si trovava la sua Shiho.
Atsushi si tenne per sé il respiro accelerato, il tuffo al cuore e la testa in capogiro, mantenendo uno sguardo di pietra e proseguendo come se niente fosse.
«Molto bene. Perché ti porta lì?»
«Non lo so. Non sono uno scienziato. Ma vuole che io veda le nuove leve.»
«Le nuove... cosa?»
«Le persone che saranno il futuro dell'organizzazione. Credo stia pensando a tua figlia come ad un prossimo membro.»
Atsushi percepì lo stomaco accartocciarsi, attraversato da fitte, ma lo ignorò. «Beh, si sbaglia.»
«Tanto a me non frega un cazzo.»
«Questa è un'ottima notizia.»
Gin voltò di nuovo lo sguardo verso di lui, lento come un rettile nascosto tra le foglie secche di una buia foresta, fissandolo intensamente. Gli brillavano gli occhi di un cieco sadismo. «E adesso... come procederai, Miyano?»
«Ho dato la mia parola. Chiederò per te un trasferimento immediato in piani un po' più elevati di questo in cui ti trovi, a dir poco basilare. Per il resto, Gin, per scalare ancora, confido nelle tue personali capacità.»
Dare un contentino, sì, ma senza compiacere troppo. Gin annuì, più a se stesso che a lui, e poi aggiunse qualcosa per chiudere il discorso. Qualcosa che Atsushi, in tutta la sua vita, non avrebbe mai voluto sentir uscire dalla bocca di un soggetto come quello.
«E comunque spero se la tengano ancora un po'. Perché mi piace.»
«Ma di che stai parlando?»
«Mi piace vederla ogni sera fare quelle cose.»
«Che cosa, Gin, cosa
«Tua figlia.»
Per la percezione sensoriale di Atsushi, il mondo si bloccò. Una bolla d'aria incolore e priva di suoni si impadronì del suo cervello, si sentì intrappolato per alcuni secondi senza alcuna capacità di reagire. Non di reagire alle parole di Gin, ma anche al flusso dell'aria, alla lucentezza dei colori, alle vibrazioni dei suoni: Atsushi si era spento per un attimo e faticava a riaccendersi.
Poi si riebbe, come un fiume in piena e un vulcano in eruzione.
«Quelle cose, cosa?» gli uscì una voce piena d'odio che avrebbe voluto dosare meglio.
«Le attaccano elettrodi addosso. Fanno esperimenti mentali e fisici su di lei, ma soprattutto mentali. Ogni tanto fanno partire qualche scossa elettrica. Sai, per stimolarla» Gin sorrise, subdolo e maligno, ricordando con una certa goduria ciò che solo lui aveva in testa.
Atsushi non sapeva se strangolarlo o correre fuori da lì. Nel dubbio, rimase fermo dov'era a rimuginare sull'orrore che stava ascoltando e sentendo il petto in implosione.
«E lei reagisce. E' piccola ma reagisce, fa balzare i valori dei computer e nessuno capisce come contenerla. E' forte. Mi piace tua figlia.» Gin continuò con quel tono viscido, meschino, schifoso e nauseante. Sapeva di dargli fastidio. Con quegli occhi da vipera a cui ancora gocciola il veleno dai canini. «E sarà ancora più forte quando crescerà, non credi? Non vedo l'ora.»
Senza rendersi bene conto dei propri movimenti, la fronte imperlata di sudore, Atsushi si inarcò in avanti verso di lui e spalancò gli occhi, inchiodandolo con lo sguardo. Gin stesso ne rimase impercettibilmente atterrito, ma non distolse il viso.
«Tu, mia figlia, non la devi guardare nemmeno con la coda dell'occhio. Nemmeno in fotografia. Nemmeno ad un chilometro di distanza.» Uno come quello doveva starle solo molto, molto lontano. Atsushi alzò la voce bruscamente, fino a sgranarsi la gola, picchiando forte il pugno sul tavolo. «Mi hai capito?!»
Gin sorrise ancora e annuì, abbassando gli occhi. Atsushi fissò le proprie mani in preda al tremore, e prontamente se le portò dietro la schiena.
Si costrinse a direzionare i propri pensieri altrove, ad esempio all'edificio 4 che quella notte stessa avrebbe raggiunto. Per andare a riprendere Shiho, contro tutto e tutti.

***




«E questa cosa diavolo è?»
Shiho, a mezza voce e con la gola che pareva occlusa, espresse quell'opinione fissando la pagina che ora aveva davanti. Una pagina completamente nera. L'inchiostro nero doveva essere stato in quantità tali da ricoprirla tutta, bordi compresi.
«Non lo so...» rispose Rei a bassa voce, dicendo la verità. «Ma se vuoi una mia opinione, credo che su questa pagina fossero riportati dettagli più approfonditi su ciò che ti è successo lì dentro. Dettagli che tua madre ha appreso in qualche modo...»
«E perché sono stati cancellati?»
«Potrebbe averli cancellati lei.»
«E perché mai?!»
«Per non rivederli mai più.»
«Ormai li aveva scritti. Maledizione!» le tremavano le mani e si stava innervosendo.
«Shiho, perché ci tieni così tanto a leggere le cose orribili che devono esserti accadute e che grazie al cielo la tua memoria ha rimosso?»
«Tanto per cominciare» iniziò lei riacquistando pieno volume vocale, «saranno affari miei ciò che intendo o non intendo leggere, no? Non credo di averti mai fatto supporre di potermi dare lezioncine ogni volta che ti passano per la testa»
«Intendevi dire “consigli”?»
«Chiamali come ti pare, non mi interessano! Io e soltanto io decido cosa voglio o non voglio sapere! E avevo deciso di sapere tutto, ormai...»
Vedere quella pagina completamente nera la creava un vuoto inspiegabile, una profonda inquietudine.
Così improvvisa, tetra, assurda.
Immaginava sua madre mentre scriveva tutte le cose brutte che erano accadute in quel laboratorio, come per espiarle e sentirsi meno in colpa nei confronti della figlia. Dopodiché, non funzionando questo metodo, la vedeva mentre cancellava tutto ossessivamente con dosi e dosi di inchiostro.
«Mettiamo il caso che Elena sapesse che, un giorno, tu avresti preso in mano questo diario. Penso non volesse in alcun modo trasmetterti quel genere di cose, arrivando perciò a prendere questa decisione. Può essere?»
«Rei, proprio non riesci a capire.» Shiho richiuse il diario e si alzò, dirigendosi verso il parco giochi buio.
«Shiho, aspetta. Dove vai?»
Lui si alzò con l'intenzione di seguirla, ma lei lo bloccò.
«Non mi seguire.»
«E' notte fonda, dove diamine vuoi andare?» Rei strinse le labbra e sospirò fortemente. Perché cavolo lo faceva preoccupare così tanto? Si divertiva?
«Resto qua vicino. Vado sull'altalena, non so. Mi potrai vedere. Ma non voglio vicino nessuno.» sospirò e abbassò lo sguardo, vide due foglioline secche che si rincorrevano sull'erba in un piccolo vortice d'aria. Una delle due foglie, la più secca e marrone, tendeva a scappare dall'altra.
«Posso sapere almeno che ti succede?»
«Non ci arrivi da solo?»
«No. Sono un uomo.»
«Pf, quante scuse...» lei scosse la testa, accennando un sorriso per la battuta. Poi prese un respiro, decidendo di aprirsi un minimo. «Ho paura che... che in quella pagina ci sia qualcosa... con...»
«Con Gin?»
Shiho annuì, guardandolo con tristezza. Rei ne rimase folgorato, facendo fatica a rimanere sul posto senza avvicinarsi a lei per rassicurarla. Ma aveva deciso di rispettare le sue esigenze passeggere sulle distanze – aveva capito che ogni tanto ne aveva.
«Non è successo niente con Gin, tranquilla...»
«Come puoi saperlo?»
«Intuizione.»
«Non mi basta, Rei. Lo capisci adesso perché mi sento così?» Shiho si mise le mani sui fianchi, guardando in basso. «E' disgustoso. Lui faceva certi pensieri già a quell'epoca. E' disgustoso.» la sua voce si affievolì.
«Lo so. Ma ti va bene che, con la pagina nera, non hai la certezza che lui ti abbia fatto qualcosa...»
«Con la pagina nera non ho nemmeno la certezza che lui non abbia fatto qualcosa.»
Rei la fissò, capendo le sue motivazioni. Lei avrebbe potuto anche sopportare la peggiore delle ipotesi, ma quello che non digeriva era il non sapere nulla. Specialmente ora che era entrata in un loop continuo di informazioni nuove, visioni, coinvolgimenti, bruscamente bloccati dalla stessa Elena.
«In ogni caso non lo saprò mai. Mia madre non vuole farmelo sapere.» Shiho si strinse nelle spalle e, rassegnata, si avviò verso l'altalena.
Rei la guardò mentre si allontanava dandogli le spalle. Sorrise tra sé amaramente: non sapeva perché, ma la sensazione che non vi fosse alcun riferimento a Gin era forte. Rei credeva fermamente che, in quella pagina, vi fosse riportato qualcosa del tutto opposto, sensazioni personali e logoranti di Elena riguardo quella vicenda, o dettagli tecnici e scientifici sul trattamento che la piccola Shiho aveva dovuto subire nei laboratori. Optava per queste ipotesi, ma riusciva a comprendere il comportamento di Shiho rispetto a quelle che dovevano essere le sue paure primarie.
Eliminare ogni problema alla radice, evitando a vecchi traumi di insorgere di nuovo: era d'accordo col metodo di Elena. Shiho ormai stava bene. Sarebbe stato controproducente indurla a ricordare qualcosa che l'avrebbe fatta ripiombare nel baratro.
Pazienza se ora ce l'aveva con lui, con sua madre e col mondo intero, le sarebbe passata. Ma la capiva.
Un quarto d'ora dopo la vedeva ancora ondeggiare delicata sull'altalena. Il profumo di fiori nell'aria si era intensificato, col proseguire della notte, la brezza era divenuta più fresca e il rumore dell'aria un fruscio continuo, le chiome che ballavano in movimenti ipnotici. Però, ciò che davvero era ipnotico agli occhi di Rei, era l'ondeggiare di quell'altalena.
Se le si fosse avvicinato da dietro quatto quatto, lei l'avrebbe segato in due?
Decise di mettere tutto alla prova. Chiuse il diario e lo appoggiò sugli scalini su cui era seduto. Si alzò silenzioso, avvicinandosi con passo felpato all'altalena, arrivando in pochi secondi dietro di lei – che non si era accorta di nulla. Afferrò con le mani le corde che sorreggevano l'altalena, diminuendone l'andatura già molto lenta, e appoggiò il ginocchio destro sulla tavola di legno, accanto al fianco di Shiho: una tavola molto larga, dove avrebbero potuto starci due persone strette.
Shiho, stupita, alzò la testa completamente verso l'alto. Rei aveva piegato la schiena e abbassato il viso, e se lo trovò proprio di fronte al naso. Stettero così alcuni secondi, guardandosi, immobili e silenziosi. Shiho sentiva sulla propria schiena il calore del corpo di lui, aderito a lei dopo che si era appoggiato col ginocchio sulla tavola dell'altalena. Deglutì, poiché era il momento di distogliere lo sguardo da quello pericolosamente vicino di lui.
Non ce la fece.
«Beh? Non c'è bisogno che mi fai da cuscino, guarda che non cado.» riuscì a dire lei dopo un po', trovando come unica scappatoia l'ironia.
«Non si sa mai.» rispose lui con la stessa arma.
Tra l'altro Shiho cercò di non considerare a oltranza quanto il calore di quel corpo a contatto col suo, dopo che l'aria si era alzata e raffreddata, fosse confortevole. Inconsciamente si distese lievemente e si appoggiò al petto di lui, continuando il suo ondeggiare secondo un ritmo così lieve che, per Rei, fu facile da agganciare.
Lui salì sull'altalena anche col ginocchio sinistro, bloccandola del tutto dai fianchi, e oscillarono lenti avanti e indietro. Il cigolio della giostrina ricopriva i naturali suoni della notte.
«Ti avevo chiesto di starmi lontano.»
«Ho obbedito.»
«Per un quarto d'ora.»
«Direi che è molto tempo.»
«A me invece sembra poco.»
«Mi fa piacere che tu ti sia annotata mentalmente il tempo in cui ti sono stato lontano.»
Shiho aprì la bocca per rispondergli ma, dannazione, non le uscì nessuna risposta a tono che fosse adeguata.
Touchet.
«B-beh, quindi... si riprende col diario?» tentennò lei.
«Hai voglia subito?»
«Io...» e mentre ci pensava, il suo piede strisciò a terra impiantandosi contro una pietra per uno slancio inaspettato che Rei aveva impresso all'altalena: vacillò di colpo in avanti, ma coi dovuti riflessi Rei lasciò la corda destra per posarle la mano sull'addome, per trattenerla a sé. Shiho quindi non cadde, rimase seduta a percepire il calore che quella mano irrorava suo suo stomaco, sotto il seno. Si sentì davvero piccola sotto quel tocco, senza darsi una spiegazione.
Nonostante si fosse capito che ormai lei non sarebbe caduta, il ragazzo tratteneva la mano su quel punto. E ondeggiava, ondeggiava.
Lei si schiarì la gola.
«Sì. Meglio... meglio subito.»
«Subito cosa?» chiese Rei a mezza voce, abbassando nuovamente la testa per parlarle all'orecchio. Lei si sentì solleticata e, arrossendo un po', quasi volle dargli una testata.
«Il diario, Rei.» rispose secca. «E togli la mano da lì.»
Lo sentì ridacchiare ed eseguire, anche se con astuta lentezza. Shiho strinse le labbra, guardando in basso.
Era strana, tutta quella situazione. Era strano lui, strana lei. La presenza di Rei rendeva meno difficile e più piacevole la lettura di quel diario, il quale poteva rivelarsi spesso un'arma a suo danno, ma non era solo questo. C'era qualcosa in più, tra loro due, che non riusciva a identificare. Una tensione, forse, che però rapidamente diveniva distensione. Le sue spalle si erano rilassate quando lui si era avvicinato.
Aumentò la presa attorno alle ruvide corde dell'altalena.









**************************************
Eccoci qui col capitolo in cui il diario prosegue, interrompendosi anche. In cui viene dedicata una parte a Gin, nel pieno delle sue forze di giovane adepto folle (XD) e in cui Atsushi decide di prendere in mano la situazione, aggirando il nostro ben conosciuto MIB e partendo in quarta. E in cui a Shiho girano i cinque minuti per la decisione di Elena, dove quindi si può dire abbia avuto con lei quasi un “litigio indiretto” – decisione da parte mia presa solo dopo, ammetto di aver scelto di concludere così il capitolo dopo non poche ipotesi. Non ho molto da aggiungere, attendo considerazioni esterne che mi aiutino in questa impresa! ^.^ grazie a voi tutti <3 

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Capitolo 4
*** The devil in details ***


«Non mi interessa ciò che mi lasceranno fare o meno. Io vado a riprenderla, Elena.» Atsushi prese la giacca e uscì di casa, in piena notte. 

Elena si rannicchiò in solitudine sul divano, guardandolo sparire oltre la porta.
"Sbaglia tutti i test, bambina mia... sbagliali tutti." 

***





4. The devil in details 


«Da brava, piccola. Fammi toccare il tuo braccio.»

Shiho si raggomitolò a terra, chiudendosi su se stessa a guscio.

«Dammi... il braccio, piccola, così finiamo e tu vai a fare la nanna. Hai visto anche ieri com'è veloce. Forza, piccola, il braccio. Piccola.»

La bambina scosse velocemente la testa e si piegò ancora di più verso terra, nascondendosi le braccia. L'uomo molto alto nel camice bianco, uno dei tanti visti in quei giorni, era scuro in viso e il suo sorriso era brutto e sporco.

«E' solo una punturina. Poi finisce tutto, non sentirai male. I bambini forti non hanno paura delle punture, no? I bambini deboli invece piangono. E tu non sei debole. Dai, piccola!»

Lacrime sul viso minuto, il ricordo del dolore causato dall'ago. Il ricordo del liquido che entrava e gonfiava.

«Non ti ha fatto male ieri, no? Ti ricordi quant'è veloce? Eh, piccola!»

Strattone, braccio tirato e strattonato. Guscio rotto, guscio scoperto.

Ago in arrivo.

«NO!»

«DAMMI IL BRACCIO, PICCOLA MERDA!»


***

 

Le strade di Tokyo, nere e deserte a quell'ora di notte, scorrevano velocemente sotto le ruote della sua auto. Con sguardo fermo e determinato, Atsushi guidava verso la sede in cui sapeva si stessero svolgendo i test non solo su Shiho, ma su una serie di persone potenzialmente molto abili. Da far entrare, un giorno, in quel covo di dannati.
Beh, non era il destino che aveva pianificato per sua figlia.
Pigiò più a fondo il pedale dell'acceleratore e in pochi minuti si trovò finalmente sul posto, nei pressi dell'Edificio 4. La sala era la K, questo era riuscito a estorcere al giovane perverso chiamato Gin. Il parcheggio era semi-vuoto, vi sostò l'auto e poi, prendendo un bel respiro, si avviò verso l'ingresso del complesso di edifici in cemento armato. Brutto, grigio, insospettabilmente anonimo. Insospettabilmente colmo di orrore.
Non gli fu difficile, una volta dentro, trovare nel mezzo di quel reticolo labirintico il giusto corridoio che conduceva alla sala d'analisi. In teoria, essendo notte, Shiho doveva trovarsi dormiente in una delle stanzette; ma la teoria poche volte andava adottata come certa, nell'Organizzazione.
Infatti la trovò ancora sveglia. E la trovò chiusa in una stanza di un bianco accecante, a cui a nessuno era consentito l'accesso: anche lui poteva vederla solo attraverso uno spesso vetro.
La sala in cui entrò lui era buia, all'interno vi trovò alcuni scienziati e Pisco a fare da supervisore. Non c'era traccia del pazzo maniaco biondo. Pisco, quando udì la porta aprirsi di scatto per fare entrare un Atsushi privo di qualsivoglia permesso, sgranò gli occhi e si agitò.
«Atsushi? Che ci fai qui? Non è permesso entrare durante i test in cors...»
«Questi test li state facendo a mia figlia. Mi è permesso tutto.»
Pisco si ammutolì. Sapeva che quando Atsushi si metteva un'idea in testa era davvero un processo lungo e complicato fargliela cambiare.
«Bene. Allora accostati a me, in assoluto silenzio, e guarda tu stesso.»
Atsushi eseguì, di malavoglia. E il suo petto fu attraversato da una scossa di fitte lancinanti quando focalizzò meglio lo sguardo su sua figlia: seduta su una sedia imbottita, con dei lacci a tenerle stretti polsi e caviglie, ed uno più spesso a serrarle il collo, aveva la fronte tappezzata di piccoli elettrodi collegati a loro volta ad una macchina che raccoglieva dati. Gli elettrodi erano poi disseminati anche sul suo petto, sulle piccole gambe. Indossava solo una camicia da notte più larga della sua misura, lasciando intravedere diverse parti del suo esile corpo, che pareva pelle e ossa. Ma ciò che più lo colpì fu lo sguardo di Shiho: aveva la bocca serrata e gli occhi spalancati, rossi e acquosi. Costantemente aperti, non batteva quasi le palpebre.
Aveva molta paura.
Ce l'aveva da giorni. E i genitori non le erano stati affianco.
Atsushi aprì la bocca per protestare qualcosa, ma gli uscì solo un rantolo d'aria soffocato. Sentì il proprio stomaco accartocciarsi, il sangue lasciargli il cervello.
Piccola. Piccola mia, santo cielo.
«Tua figlia è straordinaria. Un vero portento. Ci ho visto giusto negli ultimi tempi che sono venuto da voi. In questi giorni ha risposto positivamente a quasi tutti i test, seppur con alti e bassi – ma le vanno concessi, non ha nemmeno 6 anni...» ridacchiò Pisco, sinceramente ammirato. «E la cosa migliore è che non lo faceva nemmeno apposta. Sembrava quasi non si volesse applicare, era molto refrattaria nei nostri confronti. Eppure il suo cervello ha lavorato da solo, messo sotto pressione e stress. Ti confesso anche sotto qualche velata minaccia e timori molto semplici da innescare nei bambini, ma Atsushi, avessi visto il risultato! Ha tirato fuori il meglio...»
Atsushi lo lasciò finire di parlare, poi senza dire una parola uscì velocemente da quella sala, sotto gli occhi perplessi di Pisco. Altrettanto velocemente si avviò fuori dall'edificio e, una volta scesi i gradini di cemento, si piegò in avanti sull'asfalto e vomitò di getto. Una, due, tre volte. Respirando affannosamente, quando capì di aver finito si asciugò bocca e sudore dalla fronte con un fazzoletto. Rimase fermo dov'era ancora per qualche attimo, ascoltando i propri respiri e alzando gli occhi al cielo, sentendo l'acido in bocca, fissando quel manto nero privo di stelle.
Doveva mantenere la calma. Doveva risultare abbastanza inamovibile e sicuro da poterla portare via da quella trappola.
Si avviò prima in bagno, per bere un sorso d'acqua e sciacquarsi il viso. Si guardò allo specchio e modellò la sua espressione nel modo più duro e autoritario che gli riusciva, pronto a rientrare in sala analisi.
Quando rientrò, Pisco gli chiese se andava tutto bene e lui affermò un “sì” secco. Poi, senza preoccuparsi delle conseguenze, Atsushi picchiettò le nocche sull'ampio vetro che lo separava dalla sua bambina e dalla stanza bianco accecante.
«Shiho! Guarda chi c'è? Sono il tuo papà!» disse ad alta voce, convinto che lei lo avrebbe udito.
Infatti Shiho voltò di scatto lo sguardo, per quanto le fosse possibile, verso la fonte della voce. La riconobbe e lo riuscì a distinguere dietro il vetro, nonostante l'altissima differenza di luminosità. I suoi occhi a quel punto cambiarono forma e si rilassarono, un sorriso spontaneo e colmo di speranza le catturò tutto il viso e anche il suo corpo entrò in uno stato di esaltazione, muovendosi nervosamente sul posto.
«Atsushi! Che stai facendo?! Così comprometti gli ultimi test, non devi distrarla!» sbraitò Pisco, seguito dagli sguardi torvi degli altri scienziati in sala.
«Il papà è venuto a prenderti, piccola!» continuò lui, ignorando completamente ciò che gli accadeva attorno. «Resisti ancora solo per qualche minuto!»
Vide Shiho annuire con forza, ripetutamente, guardando contenta il punto in cui credeva di aver distinto suo padre. Quel sorriso diede una forza enorme al cuore di Atsushi.
«Non se ne parla, Atsushi.» disse lapidario Pisco, guardandolo cupo.
«Fai uscire immediatamente mia figlia da quella stanza.» sibilò Atsushi voltandosi di scatto verso di lui e guardandolo dall'alto in basso con sguardo da rettile disturbato nel suo sonnellino: infatti era più alto di Pisco, e per la precisione pure più muscoloso e robusto.
«Non sei tu a dare gli ordini.»
«Chi ha dato l'ordine forse non ha capito che questa è una bambina di cinque anni che alle 4,30 del mattino dovrebbe essere a letto. Le avete già fatto molti test, giusto? Ti sei sbilanciato prima, e ho capito a che risultato siete arrivati. Sono uno scienziato anche io, non serve tutta questa banda di pagliacci che ti porti incollati al culo per capirlo. Non è più necessario continuare con lei, quello che volevi l'hai ottenuto: e adesso, prima che io mi arrabbi sul serio e faccia un po' di caos come si deve ai piani alti, e ai tuoi danni, è meglio che inizi a levare gli elettrodi dalla pelle di mia figlia. Vi do 120 secondi di tempo.»
«Ma chi vuoi minacciare, Atsushi?» rise sommessamente Pisco, alzando un sopracciglio. «Credi che il boss non sia dalla nostra parte? Anche lui è interessato ai progressi di tua figlia, il “caos ai piani alti” rischi di procurartelo da solo. Dai retta a me, stai buono e zitto. E poi vattene a casa.»
«Il boss è dalla tua parte anche quando gli parli delle percentuali che trattieni sul traffico d'armi all'estero, all'insaputa di tutti?» chiese Atsushi canzonandolo, con tono falsamente innocuo e scatenando un lampo d'incertezza negli occhi di Pisco. «Oh, aspetta... non mi vorrai dire che il boss non lo sa?» continuò, estraendo dalla tasca del cappotto il suo telefono cellulare.
«Di che parli, Atsushi?»
«Dei gran soldi che ti stai facendo alle sue spalle. Del fatto che quando mi affidi in amicizia il controllo della tua contabilità, io ci vedo un po' più lungo degli altri.» proseguì imperterrito Atsushi, digitando già sulla tastiera un numero poco gradito a Pisco.
«Okay, okay... aspetta. Fermo!» sussurrò Pisco agitato, afferrandogli il polso con forza e guardandolo torvo negli occhi. «Va bene. Ho capito» e si voltò verso gli altri scienziati in sala. «Entrate e liberate la bambina. Raccogliete i dati rimasti e poi spegnete tutto. Forza!»
Gli scienziati perplessi annuirono ed eseguirono l'ordine. Atsushi si liberò con uno strattone dalla presa di quel verme, gli scoccò un'ultima e terribile occhiata e poi corse nella sala bianca senza mai guardarsi indietro.
«Papà!» esalò la bambina, con un tono tanto vitale che forse non le aveva mai udito prima e con gli occhi che brillavano.
«Eccomi, tesoro! Eccomi qua! Adesso papà ti toglie questi brutti cosi di dosso»
“Si chiamano elettrodi”, avrebbe potuto sentirla mormorare in altre situazioni in cui la sua saccenza prendeva il sopravvento. Ma non in quel momento, dove erano la paura e la gioia, in totale parità, a fare da padroni.
Atsushi iniziò a staccarle di dosso gli elettrodi e a slacciarle nervosamente i lacci che la tenevano legata a quella sedia, e poi, non contento, diede un calcio violento al carrello che sorreggeva tutti i macchinari: questi caddero rovinosamente a terra, alcuni rompendosi e schizzando fuori delle scintille, nel rumoroso disappunto generale degli scienziati.
Prese Shiho in braccio, le protesse la testa e lasciò quella stanza come se stesse andando a fuoco, tenendola stretta e quasi correndo verso l'esterno.
La piccola gli teneva stretto il collo e il viso nascosto nella sua grande spalla. Avrebbe tanto voluto fermarsi un minuto, là fuori, per godersi finalmente la rinnovata vicinanza della figlia, per poterla consolare e farle sentire la sua protezione, la sua presenza mancata negli ultimi e scuri giorni. Ma preferiva correre verso la sua macchina, salirci e schizzare a casa, metterla a letto e stare appiccicato a lei per le restanti ore della notte.
Tuttavia, quando sentì Shiho piangere sommessamente contro la sua spalla, non resse più neanche lui. Durante la corsa esplose in un pianto sommesso come il suo, tenendola stretta a sé come se volesse inglobarla nel suo corpo e con la piena volontà di placare i suoi sussulti e le sue paure di bambina intrappolata.
«Bambina mia, ora papà è qui. Quei brutti ceffi non ci sono più, non ti toccheranno più» biascicò lui in mezzo ai singhiozzi, mentre Shiho aumentava la presa al suo collo e mormorava la parola “papà” a ripetizione. Lui voltò la testa e le baciò la guancia, la testa, la fronte, il naso, con gesti frenetici e ansiosi, come se temesse di vederla scomparire dalle sue braccia. Lei si fece fare tutto questo e in più spostò il viso dalla spalla alla guancia di lui, rimanendovi ancorata e bagnandola di lacrime, unendo le loro lacrime.

***

«Me lo ricordo.» sussurrò Shiho col fiato corto, come se avesse fatto una maratona invece che leggere un diario. Era stanchissima e non aveva staccato gli occhi da quelle pagine nemmeno per sbattere le palpebre. «Cazzo, me lo ricordo adesso.»
«Ti ricordi del periodo in cui ti hanno tenuto lì?»
«No, quello per fortuna no. Ma grazie a queste pagine inizio a ricordare quella notte precisa, in cui mio padre fece irruzione in laboratorio. Ricordo che buttava giù i macchinari a calci e mi staccava tutti i cavi di dosso» mormorò lei, ridendo e scuotendo la testa. «Me lo ricordo, Rei!»
Disse tutto con entusiasmo misto a stupore misto a tristezza. Un miscuglio contraddittorio di emozioni che, con non molta sorpresa di entrambi, formò un paio di grosse lacrime negli occhi della ragazza.
«Mio padre... aveva infranto ogni singola regola imposta dall'Organizzazione... mi salvò contro tutto e tutti...» mormorò lei, tirando su col naso e con le spalle che tremavano leggermente. Rei cercò in tasca un pacchetto di fazzoletti e glielo porse.
«Ricordo così bene la luminosità di quella stanza. E ricordo di essere riuscita comunque a scorgere la figura di mio papà nel buio della loro sala. Non vedevo nessun altro che lui.» strinse le labbra, sentendo come quelle due lacrime sfuggivano al controllo scorrendole sulle guance. Se le asciugò con calma, respirando lentamente e abbassando la voce. «Ricordo che mi parlava dal vetro, mi diceva di stare tranquilla. Mi riportava a casa mentre gli altri gli urlavano addosso.»
Ricordava meno tutto il resto, la fuga da quel posto e l'abbraccio così intimo e caldo del padre. Peccato, perché sembrava essere stata la parte più bella.
«Credo che quella sera...» iniziò Rei, fissando le pagine del diario, «non ti avrebbe lasciato lì per nessuna ragione al mondo.»
«Lo credo anche io. Rei...» biascicò lei, con una inusuale voglia di confidenze; stava entrando in uno stato alterato, simile a quello dell'ubriachezza ma tutto impostato dalle emozioni. «...sta diventando difficile.»
«Cosa? Leggere il diario? Possiamo smettere quando vuoi.»
«No. Rendersi conto di essere stati così amati ma non averlo mai saputo prima con certezza, e non ricordarselo nemmeno.»
Rei le sorrise in modo amabile, un sorriso tanto dolce e sereno da imbarazzare la luce lunare che lo illuminava. Shiho incontrò i suoi occhi senza titubanza. «Avresti forse preferito il contrario?»
«No. Meglio saperlo adesso, piuttosto che il contrario.»
Lui annuì, sollevato. In cuor suo temeva che, se Shiho andando avanti fosse stata troppo male, avrebbe giustamente scagliato le colpe su di lui. Ma in ogni caso, comunque fosse andata a finire, era convinto di aver fatto la scelta giusta consegnandole il diario. In fondo si poteva dire fosse di sua proprietà, sua e della famiglia Miyano.
Shiho non riusciva a smettere di pensare ad Atsushi. A tutta la sana corrente sentimentale che lui aveva instaurato con lei, agli ostacoli che lui doveva quotidianamente superare per assicurarsi la felicità della sua piccola secondogenita, vista dall'Organizzazione come potenziale tassello di un diabolico progetto.
Non riuscì a bloccare il singhiozzo di pianto che la scosse senza preavviso; stava disperatamente cercando di ricordare la sensazione di calore che il padre doveva averle dato durante la fuga, durante l'abbraccio. La voleva nella sua memoria e nel suo corpo, tutta per sé, al più presto. Se era stato così intenso perché non lo ricordava? Forse sua madre aveva esagerato a riportare l'evento, visto che non era stata presente e aveva dedotto tutto dai racconti di Atsushi? No, si era fatta un'immagine di lei molto pignola e sistematica, non incline alle esagerazioni immaginarie. Semplicemente, Shiho doveva accettare il fatto che ricordava poco di un momento che doveva essere stato bellissimo e insostituibile.
«Stai bene?» le chiese Rei esitante e sì, anche preoccupato.
«Sono un po' sconvolta. Ma sono anche tanto, tanto euforica. Vado alle prossime pagine» disse lei di fretta, asciugandosi le lacrime e costringendosi a non lasciarsi andare.
«Sicura di non voler fare una pausa?» le chiese Rei con disinvoltura, ma lei non poté fare a meno di trovarci un secondo fine.
«No, ormai sono dentro a questo vortice. Perché me lo chiedi? Ti sembro stanca?»
«Mi sembri provata.»
«Lo sono, ma non nel senso negativo che forse stai pensando tu. Allora, ti va se continuo?»
Rei sospirò e poi, senza alcun preavviso, allungò una mano per afferrare quella di lei. Percepì subito la sua pelle morbida e lo spessore più esile della sua mano. Shiho, nel tentativo di rispondere qualcosa a quel gesto improvviso, riuscì solo a boccheggiare perplessa.
E poi tirò via la mano. 
«Scusa» si affrettò a dire Rei, nascondendo al meglio l'amarezza che sentiva montargli dentro. «Scusami, ho... agito d'impulso.»
«No, ecco... io...»

Rei guardò altrove, sentendo nelle orecchie il rumore dell'aria. Era solo brezza notturna, ma a lui pareva un frastuono in piena regola.  
Shiho tenne lo sguardo basso, fissandosi la mano che lui aveva afferrato pochi secondi prima. Secondo un "impulso", dichiarava lui. Con la coda dell'occhio lo vide grattarsi la nuca, forse preda dell'imbarazzo, forse alla ricerca di una soluzione. 
Parve trovarla dopo quasi un minuto di silenzio. 
«Speravo riuscissi già a fidarti un po' di me. Ma va bene così, in fondo io non ti conosco ancora bene e sei di certo una ragazza imprevedibile.
»  
«Stare mano nella mano dopo solo qualche ora tu lo chiami "fidarsi"?» provò lei scettica, evitando tuttavia di guardarlo negli occhi. «Perché sai, a casa mia si chiama diversamente.»
«Ah sì? E come, sentiamo?»
«"Flirt".»   
Rei scosse la testa emettendo una risata lugubre. «Si chiama così anche se, durante quelle ore, scavi nel passato assieme a qualcuno, ti lasci andare all'inebrianza dei tuoi ricordi e ti fai un giro in altalena con quel qualcuno per un quarto d'ora senza aver bisogno di parlare?» 
Shiho deglutì, decisa a rispondergli a tono. Alzò la testa per farlo, ma poi la riabbassò sulla mano.  
«Ho ascoltato i tuoi silenzi, Shiho. Li ho ascoltati tutti e tu sai che l'ho fatto, perché mi hai parlato con quelli. Non volevo approfittarmi di te e mai lo farò...
»  
«Non capisco perché tu voglia per forza farlo» sussurrò lei, a un volume così basso da costringere Rei ad aguzzare l'udito.  
Era così fastidiosamente trasparente, quel ragazzo. Così diretto in profondità. Si morse il labbro inferiore. 

«Senza starti a spiegare nulla, preferisco restare così mentre leggi i prossimi eventi. Avere un contatto con te. Vuoi provare a credermi?»
Lei lo fissò senza fiatare. Lui, sentendosi osservato, non si tirò indietro e la guardò allo stesso modo. Mantenendo il contatto lui provò di nuovo, non senza titubanza, ad allungare la mano verso la sua. Lentamente la afferrò, lentamente la avvolse. E stavolta non sentì il rifiuto né la fuga. 
"Ho ascoltato i tuoi silenzi, Shiho, li ho ascoltati tutti."
Lei distolse lo sguardo ma tenne la mano intrecciata alla sua, più grande e robusta, e molto calda. Se lui aveva optato per quel gesto, per starle vicino con un contatto a tutti i costi, significava forse che le prossime pagine sarebbero state poco piacevoli?
Prese un bel fiato, stringendo in modo impercettibile la mano di Rei e dandosi forza. Cercando di credergli. Riabbassò lo sguardo sul diario.


 

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Capitolo 5
*** So much hate for the ones we love ***


5. So much hate for the ones we love






«Grandi progressi in arrivo, ho sentito. Com'è che lo volevi chiamare? Silver Bullet?» le chiese Vermouth riferendosi al nuovo farmaco in sperimentazione, stranamente senza il suo tipico tono un po' languido da cui non si riusciva a capire se fosse realmente interessata o meno agli argomenti.
«Sì, penso lo chiameremo così.» rispose Elena a bassa voce, tenendo l'occhio al microscopio. «Ma non direi che si sono fatti progressi. E' un lavoro lungo e il primo vero progresso, se avverrà, non si vedrà prima dei tre mesi.»
«Awesome.» mormorò lei, e sembrava davvero colpita. Forse. Non si capiva mai.
«Lo pensi sul serio, Vermouth? O mi stai solo prendendo in giro come tutte le volte?»
«Un misto delle due. Lo penso davvero, ma non perdo nemmeno l'occasione di denigrarti un po'.»
«Sempre gentile.» sbuffò Elena, staccandosi dal microscopio al solo scopo di rivolgerle un'occhiata scocciata e sarcastica. Vermouth rise, ricambiando.
«Bisogna pur intrattenersi qua dentro. E dimmi, i suoi effetti saranno davvero... quelli richiesti in principio? Quelli che si suppone che siano?»
«Se tutto va bene.» confermò di malavoglia Elena, tornando con l'occhio al microscopio.
«Beh, ti vedo tranquilla. Nonostante sia qualcosa di davvero, davvero grosso. E pericoloso.»
«Preferisco definirlo innovativo.»
Vermouth rise di nuovo, stavolta più esposta ed esilarata.
«Come nascondi bene le verità dei fatti, darling.»
«Questo progetto non l'ho inventato io. Mi è stato richiesto, e malauguratamente il caso vuole che io abbia le competenze per svilupparlo.»
«Ci hai messo un po' del tuo, però. Ammettilo. Come un artista lascia la sua impronta e la sua firma su un dipinto, sebbene si tratti di una copia o di una riproduzione, credo che uno scienziato faccia lo stesso coi suoi esperimenti.»
«Beh, credi male. La scienza è molto più schematica e rigida dell'arte.»
«Oh, io non penso.»
«Si vedrà. Sta di fatto che, per quanto la tua compagnia sia di tanto in tanto piacevole, se mi continui a distrarre potrei davvero combinare qualche casino.»
«Ho anche sentito voci su tua figlia, quella minore. Grandi voci e grandi news.»
Elena tacque, ma smise anche di respirare e di muoversi. Il silenzio più assoluto e l'immobilità più ferrea la avvolsero, e Vermouth inclinò la testa di lato per scrutarla.
«Le voci girano, eh.» sussurrò Elena, rimanendo a testa bassa.
«Più veloci di quanto vorremmo. Cosa intendi fare con lei, per questa faccenda? Farle frequentare il posto o nasconderla tipo in un bunker?» continuò la bionda con un tono privo di sarcasmo che in realtà rasentava l'amichevole, forse perché concepiva la gravità del problema di Elena e dei Miyano.
«Se tu avessi una figlia piccola, Vermouth» ribatté Elena a voce più alta, staccandosi dal microscopio ma mantenendo lo sguardo basso, «e l'Organizzazione capisse che lei ha il tuo potenziale, sta ereditando le tue stesse facoltà che qui dentro servono, volesse tirartela via di forza, dal tuo grembo, per poterla testare e farle un po' di sana paura mentre tu non puoi aiutarla, cosa faresti?» Elena alzò gli occhi scuri su di lei, seria. «Le faresti frequentare il posto o la nasconderesti tipo in un bunker?»
Vermouth le restituì uno sguardo così trasparente e privo di qualsiasi ironia da stentare a riconoscerla. «La prenderei e la porterei via lontano, con me. In un altro Paese, in un'altra realtà.»
«Verresti perseguitata e uccisa, e tua figlia con te.»
«Farei di tutto perché ciò non accada. E infine le impartirei la lezione più importante: tenersi il più lontano possibile da tutte le cose che vede fare da sua madre.»
Elena sospirò e annuì, tornando a fissare il pavimento. Il suo viso doveva essere pieno di ombre. Constatò però che Vermouth, nella sua insensibilità di base corredata da dichiarata crudeltà, sapeva essere coscienziosa.
«Ti dirò una cosa. Se completo il Silver Bullet, ho già qualcuno in lista a cui somministrarlo, qui dentro. Magari con una variante un po' tossica.»
Vermouth ridacchiò. «Ed io ti appoggerei, cara. Lo sai perché gli altri hanno ragione quando ti soprannominano Hell Angel?»
«No. Non ne ho idea.»
Vermouth si avvicinò a lei riacquistando le sue belle saette negli occhi azzurri. «Perché vista da fuori sei così buona e disponibile. Ma dentro, appena qualcosa imbocca il binario sbagliato e viaggia storto, diventi veramente terribile.»

***

Per la quarta volta, il liquido ambrato scese giù lungo la sua gola. Denso, aromatico, forte. Pesante. Ampie sorsate che le distesero i nervi, le rilassarono le spalle e le mandarono la testa in un giramento simile al vortice. La bocca pastosa, il sapore ancora presente sulla lingua e l'esofago che bruciava un po', ma sopportabile. Piacevole. Le gambe erano molli e perciò si risedette subito appoggiandosi con le braccia al tavolo della cucina, tenendo il quarto bicchiere di whisky invecchiato nella mano destra e riportandolo alle labbra.
Elena sorrise, un sorriso beota e poco consapevole.
«Quindi secondo te quand'è che potrò tornare a giocare con Shiho?»
Il sorriso le si spense.
La vocina di Akemi poneva curiosa quella domanda da alcuni giorni, da quando la piccola Shiho era tornata a casa in seguito a quel processo di test, o torture, ancora sconosciute a cui era stata sottoposta all'interno dell'Organizzazione. Nonostante vedesse che la risposta non arrivava mai, non nel modo che desiderava lei, Akemi continuava e continuava fino allo sfinimento. Elena chiuse gli occhi, inspirò profondamente e con altrettanta enfasi espirò, scrollandosi di dosso il piglio nervoso che la figlioletta le stava facendo venire. Ancora un piccolo sorso di whisky.
Era molto difficile sopportare il pensiero della piccola ramata che da giorni non parlava. Chiusa in se stessa dormiva di continuo, rannicchiata nel suo lettino ed esigendo il buio nella sua stanzetta, mangiava poco e di giocare con Akemi non se ne parlava. I motivi erano chiari. Forse poco alla sorellina, ma molto, moltissimo alla madre. Akemi glielo ricordava di continuo chiedendole cose a cui non sapeva minimamente rispondere, e in questo modo si sentiva davvero e del tutto fallita.
«Tra qualche giorno, Akemi-chan.» rispose con voce roca e leggermente lontana.
«Dici sempre così!»
«Perché è la verità.»
Silenzio tombale, il che era piuttosto raro da parte della primogenita. Udivano la pioggia fuori che scendeva fitta e colpiva il tetto, in un'acquazzone autunnale che sarebbe durato ancora ore. Elena immaginò la sua piccola al piano di sopra da sola, che come lei, come loro, udiva i ticchettii dell'acqua incessante sul tetto. Le vennero le lacrime agli occhi, voleva andare a farle compagnia ma non riusciva a salire le scale.
«Come fa ad essere la verità ogni giorno? Come faccio a sapere che, non lo so, per i prossimi cinque anni non continuerete a dirmi “fra qualche giorno”?»
«Akemi.» Elena si voltò verso di lei, abbassando la testa per guardarla negli occhi. La stanza girava, Akemi si sdoppiò per un brevissimo istante. «Non lo so. E sto lavorando. Devo finire tutto. Se non vuoi che l'uomo nero che detesti così tanto venga da noi altre volte perché non ho il lavoro completo da dargli, allora continua pure a disturbarmi.»
«Proprio non te ne frega niente, di Shiho?»
La donna si trovò nuovamente ad inspirare, trattenendo stavolta l'aria per molto più tempo. Con gesto nervoso mandò giù velocemente un altro sorso. Quella piccoletta lo stava facendo apposta. Akemi voleva delle risposte e, per ottenerle, sarebbe ricorsa a qualsiasi metodo: anche quello di far sentire sua madre come una merda umana priva di rispetto per la famiglia.
«Akemi.» ripeté lei, sibilando. Si alzò in piedi dalla sedia ma, una volta eretta, il ginocchio destro le cedette e per poco non crollò a terra: si tenne salda al tavolo poggiando sul gomito, emettendo una risata a tratti bassa e a tratti acuta. E dentro di sé, finalmente, lo pensò: era sbronza marcia.
La piccola si irrigidì: non era mai un bel segno quando la madre si ripeteva, anche solo con un nome, togliendo addirittura il suffisso “-chan”. E meno ancora se barcollava. Ma decise di non demordere, sostenne dunque lo sguardo tetro e duro della donna, sebbene poco lucido, tirando bene in fuori il petto. Per la sorellina questo ed altro.
La pioggia fuori non diminuiva la sua intensità, sentirono anche l'eco di un tuono in lontananza; quei rumori furono trafitti dalla voce bassa di Elena.
«Sparisci e fila in camera tua.»
«Ma tu...»
«Subito
Akemi fu percorsa da un brivido oscuro. Faceva davvero paura quel tono, era quello della sua rabbia più recondita e nessuno di loro amava tirarglielo fuori. Ma la piccola, dopo aver deglutito, proseguì più squillante di prima.
«Pensi solo a lavorare. Lei è solo una bambina e chissà dove l'hanno ficcata. E tu pensi solo a lavorare!»
«Ma per cosa pensi che io lavori, eh?! Per CHI pensi che lo faccia? Per divertirmi?!» Elena alzò la voce e picchiò il bicchiere sul tavolo, facendone schizzare fuori il liquido. «Lo faccio per VOI, maledizione! Per garantirvi un futuro migliore!»
«Un futuro come il tuo e quello di papà?! No, grazie!» sbraitò Akemi, facendosi male, malissimo alla gola.
Elena tentennò udendo quelle parole, ma non si fece abbattere. «Akemi, non ti azzardare! Io voglio solo che voi...»
«Non lo so perché lo fai e non mi interessa! A me va bene se l'uomo nero torna, fa lo stesso, ma facciamo ritornare Shiho-chan come prima!» saltò sul posto e scalciò, facendo più rumore che le riusciva con le scarpe sul pavimento. Nelle orecchie di Elena, quei rumori stavano rimbombando e la frastornavano. «E neanche papà mi risponde! Lui nemmeno mi guarda quando glielo chiedo! SIETE DEI CODARDI!»
Elena si morse le labbra, controllando anche le mani e i movimenti nevrotici delle dita: le tremavano, voleva darle uno schiaffo e farla smettere. Velocemente mandò giù un altro sorso e prese a fissare il bicchiere mentre Akemi proseguiva nel produrre rumori forti, adesso si era addossata alla parete battendo pugni e calci sul muro e urlando parole insensate, che erano più che altro versi. Elena si afferrò la mano destra con la sinistra, entrambe tremanti, tenendole ferme.
Una voce da fuori la cucina, autoritaria e roca, arrivò a salvare la situazione interrompendola bruscamente.
«Ehi, ehi! Ma siamo impazziti?! Ma che succede qua?»
Una donna dai corti capelli biondo chiaro e dall'atteggiamento mascolino piombò in cucina, gettando un'occhiata rapidissima ad una Elena mezza sdraiata sul tavolo, stremata, e ad una Akemi scalciante e isterica lasciata del tutto a se stessa. Volò dalla bambina e con forza, ma cercando di non farle male, le tenne ferme le braccia e la tirò a sé.
«Akemi, ma sei andata fuori di testa?! Ehi! Smettila, basta!»
La piccola era sempre un po' in soggezione, di fronte alla severità proverbiale della zia: avrebbe voluto scalciare ancora un po', senza dubbio, ma ritenne molto più saggio smettere specie nel momento in cui incrociò i suoi occhi smeraldo incattiviti. Con quelle occhiaie così paurose. La vedeva pochissimo, al massimo una volta all'anno, e in quelle occasioni aveva sempre il terrore.
«Allora? Abbiamo finito, piccina? O devo passare alle maniere forti?»
«Mary... lascia perdere, Akemi era solo un po' arrabbiata e...»
«Tu zitta e muta, Elena. Perché dopo di lei viene il tuo turno. E per fortuna, conciata come sei, non puoi scapparmi.»
Elena ridacchiò, roca e sconnessa.
La sorella era venuta quel giorno per aiutarla sia in casa sia psicologicamente: Atsushi era via da giorni per un progetto, e per Elena iniziava ad essere pesante il rimanere a casa per ore assieme a una figlia aggressiva e ad un'altra in post-trauma, con tutte le attività arretrate che c'erano da compiere a partire dai semplici mestieri. Contro le sue aspettative Mary aveva accettato, raggiungendola in poco tempo.
«Allora, Akemi, che ne dici di andare di sopra a fare compagnia a tua sorella? Qui adesso ci stanno le ragazze grandi. Su su» Mary le diede due colpetti sulla schiena, incoraggiandola.
«Io... io non voglio essere comandata!» provò Akemi, senza riuscire a guardare negli occhi la zia ma sfruttando l'impeto di coraggio che ancora non le si era esaurito.
«Oh, mi fa piacere. E' sempre bello sentire una donna parlare così, brava!» falso sorriso da parte della zia.
«Q...quindi posso rimanere, zia?»
«Ovviamente no. Perché neanche a me piace essere comandata. Tanto meno da una mocciosa.»
«Mary...!» provò Elena, ma la sorella la zittì e tornò a guardare in volto Akemi, che era sconvolta dalla risposta.
Mary afferrò il braccio della bambina senza tanti giri di parole e la trascinò fino alle scale. Akemi cercò di resistere, di liberarsi dalla morsa, gemendo forte (molto più del necessario, era chiaro) e battendo i piedi.
«Sei cattiva anche tu, zia! Come la mamma!»
«Sì, sì...» Mary non la degnò di uno sguardo, trascinandola.
«E tu glielo permetti, mamma?!» Akemi rivolse lo sguardo furente ad Elena che, in un attimo di lucidità, la guardò di rimando. Le faceva così male vedere tutta quella rabbia negli occhi della piccola.
«Lo so, hai ragione Akemi-chan e...» la sua voce uscì debole, sommessa.
«Voglio una vita normale! E anche Shiho so che lo vuole!»
«S-sì, io...»
«Vorrei che non fossimo mai nate da voi!»
A quel punto la piccola scoppiò in lacrime, divincolandosi dalla presa della zia e fuggendo via da quella stanza. Mary rimase un paio di secondi ferma a guardarla, forse sul punto di inseguirla e darle una botta in testa per punirla: anche dal moccioso arrogante che era suo figlio maggiore uscivano frasi poco simpatiche, anche se non di questa portata, e non l'aveva certo mai passata così liscia.
Elena sentì in bocca il sapore del sangue, tanto forte si era morsa il labbro. Si portò una mano al viso per nasconderselo, gli occhi le bruciavano, le spalle tremavano mentre udiva la figlia disperarsi in quel modo. Era poco lucida ma l'aveva visto tutto, nei suoi piccoli occhi, il segno di una rabbia, di un affetto, di un amore troppo grande che vedeva minacciato e poco salvaguardato.
«Lascia perdere. Per come la vedo io è una bambina ingrata che guarda solo ai tuoi errori, oltre che estremamente egocentrica» sbuffò Mary tornando verso di lei e posandole una mano sulla spalla per aiutarla a raddrizzarsi sulla sedia. «Puzzi di alcool, bella mia.»
«...grazie, lo so» rispose Elena, gli occhi lucidi sia per l'ebbrezza che per il dispiacere. «Mi aiuti ad alzarmi?»
Mary la aiutò, sorreggendola mentre la conduceva verso il divano in salotto. Una volta sprofondata sopra, Elena abbracciò un cuscino per affondarci il viso dentro.
«Sarà meglio che ti faccio un caffè, non ti vedevo così ubriaca da quando il tuo primo ragazzo ti ha sganciato il due di picche colossale. O era il secondo? Boh, comunque lo fecero tutti e due.»
«Smettila... che stronza...» la sua voce ovattata dal cuscino fece ridacchiare Mary, che andò a preparare il caffè per due.
Intanto Elena ripensò alle parole di sua figlia. Sentiva ancora rimbombare nella mente il suono delle scarpine che colpivano il terreno, tap tap tap, poi arrivava subito il silenzio. Nel silenzio era di nuovo sola, nel silenzio Akemi era sparita di sopra e adesso tutto era immobile, senza respiro, senza movimento, senza luce. Solo la pioggia fitta, in picchiata sulla casa, le testimoniava lo scorrere delle cose.
Hai ragione su tutto. E sai, per quanto io vi ami, quando vedo il dolore che dovete sopportare, a volte io stessa avrei desiderato non darvi vita in questa casa.

Mary arrivò dieci minuti dopo con due tazze di caffè, trovandola stravaccata lungo il divano e con lo sguardo perso nel vuoto.
«Mh. Fantastico.»
Iniziò a bere il suo, lasciando l'altro sul tavolino da salotto. La sala era immersa nella penombra della sera, un paio di abat-jour accese ai lati del divano.
«Se questa situazione ti attanaglia, Elena... devi darci un taglio.» mormorò Mary, guardando il pavimento ma in direzione della sorella.
«Non sai con che gente abbiamo a che fare. Gente con cui dare “tagli” non è possibile...»
«Trova comunque il modo.»
«Mary...»
«Altrimenti resta come sei ma non lamentarti.»
Elena sospirò, la testa le girava di meno ma il torpore era ancora molto presente. Capì che la sorella aveva ragione.
«Io e Atsushi, anni fa... abbiamo sbagliato nelle nostre scelte...» biascicò.
«Ok. Vi hanno fregato e l'avete constatato, è un passo avanti. Ora che lo sapete, che lo sai, è importante rimanere lucidi e trovare delle soluzioni» la guardò di sottecchi.
«E come dobbiamo fare...?»
«Non certo ubriacandoti da sola quando puoi essere scoperta.»
«Pensavo che Akemi fosse già a letto...»
«Figurati! 90 su 100 quella peste è qui nei dintorni che ci spia. Sembra mio figlio maggiore, un rompipalle uguale, meno male che non li abbiamo mai fatti incontrare... andrebbero troppo d'accordo e questo è inquietante»
«Smettila di parlare così di mia figlia. Se vuoi maltrattare il tuo accomodati, anche se sai che non approvo per niente, ma la mia non la tocchi...» si portò una mano alla tempia, per una fitta.
«Va beh, comunque hai capito. Tu e Atsushi dovete rimediare al più presto alle vostre cazzate, il sunto è questo»
«Sei brava a riassumere»
«O ci vanno di mezzo le piccole.»
«Ecco, sempre più brava...»
Il tono di Mary era duro, nonostante le parole affabili.
«E non affogare i tuoi dispiaceri nell'alcool. Devi rimanere lucida per aiutare Shiho, farle sentire la tua presenza come madre, o davvero non si riprende più. Non so cosa le sia accaduto ma...»
«Non lo so neanche io, Mary...!» esalò Elena, iniziando a singhiozzare sommessa. Si coprì il viso con il cuscino. «Non sono nemmeno riuscita a impedire che me la portassero via! Ho solo aspettato che... finissero di torturarla...»
Mary abbassò lo sguardo, udendo i lievi sussulti della sorella accanto a lei. Contro le sue usuali abitudini, alzò un braccio e le posò una mano sulla schiena.
«E poi Atsushi l'ha riportata, io l'ho abbracciata e... e cos'altro ho fatto? Dormo con lei, le racconto qualche storia e poi? Cosa sto facendo per farla uscire dalla sua apatia e per aiutarla?»
«E che cos'altro potresti fare? Va bene così. Stalle vicino. Quando sarà pronta, col vostro aiuto, uscirà da sola dal guscio.»
Elena placò i singhiozzi e provò a rilassarsi un po', al suono delle parole di Mary. Si sentiva ancora stordita, aveva sonno. Avrebbe voluto drizzarsi a sedere per abbracciarla, perché sapeva quanto quell'atteggiamento non fosse nelle corde di Mary – ma non lo fece per due motivi: la stanchezza, e la barriera emotiva che da anni persisteva in modo del tutto naturale tra lei e la sorella. Erano sempre andate abbastanza d'accordo, ma entrambe si erano premurate di mantenere una distanza corporea necessaria a tenere il loro rapporto in equilibrio. Fosse stato troppo, o troppo poco, prima o poi qualcosa avrebbe ceduto per via dei caratteri così diversi. Così, su quella linea d'equilibrio poco affettuosa ma sicura, andava più che bene.
Elena pensò alla scatolina di Atsushi, che ancora non aveva trovato, prima di addormentarsi profondamente e lasciando che il suo caffè gelasse. Non sentì la coperta di pile che Mary le mise sul corpo poco dopo, e non la sentì nemmeno salire le scale per andare a far compagnia alla nipotina Shiho, visto che quella sera la sua mamma era un po' stanca. Perché, a differenza di Akemi, tra zia Mary e Shiho scorreva un singolare feeling.

***

«Che poi, che cazzo di soprannome del cazzo è mai?»
«Atsushi, modera i toni. Che Akemi ha già mostrato una buona inclinazione a questo linguaggio che stai passando...»
«Ho capito, ma Elena! “Hell Angel”? Io ignoravo ti chiamassero così, ma che problemi hanno? Perché devono sempre soprannominare la gente? Che poi io lo so, è quella deviata di Vermouth che foggia tutte 'ste trovate...»
«Risposta esatta» ridacchiò Elena.
La mano di Atsushi scivolò sulla sua. La accarezzò.
«E' stata gentile Mary a tenere le bambine mentre noi siamo fuori» ammiccò lui mentre sorseggiava del vino rosso, lanciandole un'occhiata complice. La tavola del ristorante a cui erano seduti era armoniosamente imbandita.
«Sì, dovrò farle un regalo un giorno di questi.»
«Devi farne uno anche a me rimasto in sospeso, ti ricordi?»
«Fammi indovinare... la scatolina?»
Atsushi sorrise, sarcastico.
«Quando avrò tempo la cercherò...»
«Sei davvero terribile...» le strinse la mano più forte, continuando a carezzarne la superficie con il pollice. «...ed è una peculiarità che mi piace di te. Mi è sempre piaciuta.»
«L'essere terribile?»
«Sì. Un po' crudele.» si portò la sua mano alle labbra, baciandola dolcemente e poi aprendo la bocca, facendo guizzare la lingua su un paio di dita. Elena fu scossa da un brivido.
«Atsushi, ti prego... siamo in luogo pubblico» rise lei a bassa voce.
«Non sto facendo nulla di che...» sussurrò, leccando altre due dita senza farsi notare da nessuno, in modo sempre più lento e sensuale. Lei avvertì un piacevole dolore al bassoventre.
«Come sta andando... il progetto a cui ti sei dedicato nell'ultima settimana? Sei stato via un bel po'...» provò lei a cambiare discorso.
«Non lo so, penso bene. Ho voglia di fare l'amore con te.»
Lei abbassò lo sguardo e sorrise appena.
Attorno a lei avvertiva i dolci aromi che invadevano quel luogo, le luci soffuse e le fiammelle delle candele accese su ogni tavolo, le calde decorazioni appese alle pareti in pietra e le porte a vetri che davano sul giardino del ristorante, a sua volta costellato da lanterne cinesi appese ai rami di ogni albero. Immersa nel buio della sera si originava un'atmosfera armoniosa, alchemica, che aumentava il suo fascino grazie alla presenza di quell'uomo di fronte a sé, per quel che la riguardava. Fosse stata in compagnia di chiunque altro, era probabile non avrebbe neanche notato tutti quei dettagli – o non li avrebbe visti con gli stessi occhi.
«E' importante che sia andato bene... così non te ne vai più. Almeno per un po'.»
«Sai perché ho dovuto farlo. Una sorta di punizione. Tenermi lontano dalla mia famiglia per giorni per aver interrotto i test su nostra figlia»
«Ne è valsa la pena, però.»
«Assolutamente.» e lui riprese quel rito sulla sua mano, instancabile, ponderando ogni movimento. Nonostante le occhiate di rimprovero occasionali, Elena non ritrasse mai la mano.
Dall'arrivo del cameriere e delle pietanze, poi, la serata proseguì in modo fluido, ma la magia innescata non si spezzò.
Fino a che lui non avanzò domande.
«Hai qualche problema grave in questo periodo?»
Elena alzò la testa su di lui, perplessa, un pezzo di pane che le usciva dall'angolo della bocca. «In che senso? A che ti riferisci?»
«Intuito. Per via di due cose che hanno attirato la mia attenzione»
«Cioè?»
«La prima: la bottiglia di whiskey che ci ha regalato Pattinson dalla Scozia è finita, l'ho trovata vuota nella spazzatura. Seconda: Mary che evade prontamente il mio sguardo quando mi vede scoprire la bottiglia, e quando capisce che voglio chiederle qualcosa.»
Elena masticò lentamente, senza lasciargli lo sguardo ma saettando gli occhi sulla piccola fiamma della candela.
«Ti copre bene, tua sorella. Ringraziala anche per questo.»
«Atsushi...»
«Vorrei solo che me ne parlassi.»
«E' stato solo un momentaccio, come ce ne sono stati tanti. E come probabilmente ce ne saranno»
«Ce ne saranno ancora, tesoro, eccome, ma anche per quelli vorrei che me ne parlassi. Perché da sola non puoi reggere tutto, devi condividere, devi farlo»
«Io non devo fare proprio un bel niente.»
«Insomma, hai capito. Io mi preoccupo»
«Beh, fai male!»
«Non ti incazzare adesso. Non renderti insopportabile.»
«Smettila di dirmi cosa posso o non posso, cosa devo o non devo»
«Se ti sbronzi fino a crepare io, che sono tuo marito, devo pur sapere che cosa ti ronza nella testa, o no?»
«Sono crepata? Ti sembro crepata?»
Lei alzò la voce di qualche nota, anche se in realtà la stavano alzando impercettibilmente già da un po', attirando sguardi dai tavoli attorno. Stavano degenerando e ne erano consapevoli, ma ormai erano dentro.
«Oh, per adesso no, Elena, ma tu prova soltanto a tirarla ancora un po' questa corda.»
«Sono una donna adulta e so gestirmi»
«Ti sei concessa a queste crisi anche per altri fatti, figuriamoci adesso che nostra figlia è in stato di apatia. Ma se non reagisci tu, se non stai in piedi tu, non puoi pretendere che lo faccia Shiho da sola!»
«Ti sei messo d'accordo con Mary, su questo copione?»
«No, ma si vede che abbiamo entrambi buonsenso?»
«E tu che mi dici di Shiho, eh? O di Akemi, che sembra uscita di senno? Sei stato via una settimana, una fottuta settimana in cui lei non ti ha visto e in cui mi sono occupata di tutto da sola facendo anche le tue parti, quindi che cazzo vuoi da me?» afferrò rabbiosamente il calice di vino e ne vuotò metà. Atsushi rimase a fissarla a labbra strette.
«Finiscila, Elena. Sono stato via perché in alternativa mi avrebbero forato la tempia con una pallottola e lo sai benissimo.»
«E allora non venire a giudicare me e il mio modo di gestire da sola la situazione incresciosa che si è creata!»
«Non è ciò che ho fatto. Se preoccuparmi per mia moglie per te significa questo, vedi di cambiare la visione delle cose»
«E tu vedi di non darmi ordini»
«Vedi di starmi a sentire una volta, una sola volta nella tua vita! Credo tu abbia un problema serio, Elena, è tanto difficile da ammettere?!»
«L'unico problema che ho adesso, Atsushi, è quello di mandarti affanculo.»
Lui sospirò, e proprio come lei bevve con foga dal suo calice di vino. Elena non era un'amante del linguaggio scurrile – glielo aveva recriminato proprio all'inizio di quella serata – e il fatto che adesso ne facesse largo uso era sintomatico del suo stato d'animo facilmente alterabile. Litigare con lei non gli piaceva, non gli sarebbe mai piaciuto, non ci trovava nulla di eccitante e gli lasciava puntualmente un sapore amaro in bocca. Anche perché i motivi dei loro litigi erano sempre questi, sempre di una certa pesantezza, e avrebbe volentieri fatto a cambio con qualche stupida bisticciata casalinga. 
Aveva paura che lei lo stesse odiando fortemente, in quel momento. E forse, per un brevissimo istante, anche lui aveva provato lo stesso. L'aveva provato Elena nei confronti di Akemi, quando la piccola le era esplosa addosso senza ritegno? Tramite Mary aveva appurato la gravità della scena; lo aveva provato per Shiho, anche, per il suo atteggiamento chiuso e non incline a collaborare, nonostante a livello conscio sapesse che era solo una bimba traumatizzata? E Mary, Mary lo stava provando per loro e per la loro situazione? Per lui? Per aver coinvolto la sorella in tutto questo? 
Tutto quell'odio riversato sulle persone che si amano di più al mondo, seppur in piccole dosi, a cosa serviva? A far capire come l'umanità funzionava veramente? 
Lasciò passare almeno un minuto e mezzo di silenzio. Le tolse delicatamente il bicchiere di vino dalla mano, lei lo lasciò fare ma tenne lo sguardo basso. Lui glielo alzò con calma ponendo due dita sul mento.
«E allora mandamici.» sussurrò lui.
«No, non mi va più.»
«Mi fa piacere.»
Lei sorrise appena, e lui ricambiò con un sorriso largo il doppio. Poi fece passare il pollice sul suo labbro inferiore, leggermente umido per il vino bevuto poco prima.
«Di tutte le parole che sono state dette.» sussurrò lei all'improvviso, guardandolo complice.
«E di tutte quelle che non saranno mai ripetute.» rispose lui con lo stesso tono.

***



«E adesso questo che diavolo significa?»
Maledizione, pensò Shiho tra sé e sé, perché doveva finire tutte le volte un set di pagine con quella frase in testa? “Che significa?”, oppure “ma che diavolo?” o ancora “e questo adesso?”
Chiarezza, chiedeva solo chiarezza. I suoi genitori erano ancora più enigmatici di lei.
Rei, se possibile, la irritò ancora di più col suo gesto seguente. Mostrò un bel sorrisetto spavaldo, guardò il cielo stellato e solcato dalle nuvole con aria di chi la sa lunga, stiracchiò un po' le braccia e infine, quando ritenne di aver fatto sufficientemente il misterioso, estrasse un piccolo libro dalla tasca dei pantaloni.
«E quello cosa diavolo è?» chiese Shiho.
Ecco, di nuovo. “E quello?”, “ma che diavolo?”, “gne gne?”
Sopportazione ridotta al minimo.
«Siccome lo sapevo, o quanto meno lo immaginavo, mi sono attrezzato.»
«Che cosa sapevi? Cosa immaginavi?»
Rei sorrise sotto i baffi e aprì il libro.
«Mi rispondi?»
«Sapevo che in mezzo a tutte le pagine che avresti letto, in mezzo a tutti quei fatti nuovi, sarebbero state quelle due frasi a colpirti. Ne ero sicuro.»
«B-beh...»
«Ma sì, chi se ne importa se eri in stato apatico, se tua madre ogni tanto si faceva un goccio mentre tua zia prendeva a pedate nel sedere Akemi, se Vermouth giocherellava in laboratorio. La cosa importante, signori miei, sono le due frasi senza senso mormorate a cena!»
Shiho lo fissò a lungo, cercando di selezionare l'espressione più terrificante che i suoi muscoli facciali avrebbero potuto produrre. Voleva terrorizzarlo, farlo scappare a gambe levate e ricordargli chi comandava. Ma in realtà lo guardava inespressiva e a tratti inebetita, troppo indecisa sul da farsi.
«Mi stai prendendo in giro, Rei?»
«Chi, io?»
«Con che diritto?»
«Mmmh, quello di divertirmi?»
Voleva dargli una botta in testa e poi, magari, dare un seguito con altre tipologie di schiaffi. Oh, se lo voleva, aspettava solo il comando dal cervello – che però era curiosamente in stand-by. Lui invece rideva.
«Non è che tutto il resto di ciò che ho letto non mi interessi, ovviamente. Solo che...»
«Solo che, quando scovi dei tasselli particolari e senza risposta, senza apparente senso, inevitabilmente catturano tutta la tua attenzione.» sussurrò lui, fissando il piccolo libro.
«E tu come lo sai?» chiese lei, rendendosi conto di avere la voce strozzata.
«Perché sto imparando a conoscerti.» alzò gli occhi su di lei.
Shiho gli restituì lo sguardo, in silenzio. Con solo gli occhi di lui nel suo quadro visivo, ora chiari ed ora scuri, a seconda di come la luna si comportava dietro le nuvole, udì le chiome degli alberi scosse da una folata notturna, un fruscio continuo e talmente totalizzante, talmente bello e naturale, da farle percepire brividi sul collo.
«Hai freddo?» chiese lui piano.
Lei lo ignorò.
«Come puoi dire una cosa simile? Ci conosciamo da troppo poco» di nuovo voce lieve, bassa. Sulla difensiva.
Lui si limitò a continuare quel contatto visivo, sorridendo appena. Non era più spavaldo come prima, solo consapevole ed empatico. Il suo intento era chiaramente quello di imprimere un messaggio, in quello sguardo, qualcosa che Shiho cercò di leggere. Le sembrò di capire che per Rei il tempo era un fattore di poco conto, nella conoscenza, a meno che non si trattasse di istanti. Istanti decisivi.
Lui sbatté le palpebre, interropendo la trasmissione.
«Si vede che un paio di cose mi sono già saltate all'occhio. Niente di più.» risolse lui, mentre lei continuava a guardarlo poco convinta. Da un lato la inquietava quella sua velocità nell'individuare i lati più nascosti degli altri, ma dall'altro la faceva anche sentire interessante. Rei non tornò più sull'argomento, comunque, anche perché trovò stuzzicante l'idea di lasciarla navigare per un po' in una brodaglia di mistero indotta da lui, e aprì il libriccino. «Non preoccuparti, in quelle frasi non c'era nulla di losco né messaggi in codice. Sono due frasi tratte da un libro che tua madre avrà letto sì e no un migliaio di volte, e che amava ripetere spesso ad alta voce fino a farle entrare anche nella testa di Atsushi. Il libro è di un autore cileno. Vuoi che ti legga tutto il passo?»
«Magari più tardi.» disse lei, forse per la perdita di interesse nei confronti di due frasi che adesso acquistavano un'identità che lei non poteva più indagare. Lui se la rise, fece spallucce e chiuse il libro.
«E' inquietante, comunque. Sembra quasi che mia madre e Vermouth andassero d'accordo» dopo quella frase, tacquero entrambi per svariati secondi guardando di fronte a sé. «Se penso a come invece, in seguito, quella donna si sia accanita contro di lei... e poi contro di me, per il solo fatto che ero la figlia...»
«Già, le cose cambiano. I rapporti pure, si incrinano. E da come la conosco io, Vermouth non è mai stata molto brava a mediare né a perdonare.»
«Anche per come la conosco io.»
Shiho ebbe un brivido. Rei si tolse il golf leggero di dosso e lo appoggiò sulle spalle di lei, in silenzio. Altrettanto in silenzio lei accettò volentieri. Nel nuovo tepore creatosi, Shiho si rilassò e ripensò velocemente agli eventi appena letti: al litigio dei suoi, che era tale proprio per l'amore che lo contrassegnava; alla sbronza di sua madre, che aveva deciso di inghiottire tutto il groppo da sola, alla zia Mary di cui ricordava poco o niente - se non che aveva il pugno di ferro e terrorizzava un po' tutti, e quelle pagine glielo avevano dimostrato. Le venne da ridere e lo fece, senza trattenersi. Ripensò a se stessa in quello stato con cui era uscita dai test di laboratorio e di cui però non ricordava la minima sfumatura, ad Akemi che scalpitava e stava male quanto lei e forse più di lei, perché voleva proteggerla ma non ne aveva le risorse, e il sorriso le si spense. Aveva solo realizzato la quantità di problemi che aveva creato in casa, anche se non era stata colpa sua.
A furia di pensare a tutto questo, Shiho si perse un po' nella sua testa e si chiuse a guscio, tenendosi saldamente il golf di Rei addosso. Le unghie conficcate nella pelle dei gomiti e la rigidità tipica di chi sta spegnendo temporaneamente il corpo, le sembravano tutti personaggi di un libro lontano e inconsistente. Ma era lei, erano loro, quella notte non avrebbe dormito e li avrebbe sognati tutti ad occhi aperti. 
«Ma devo andare avanti, devo continuare, finché non mi viene indicato che questo è il mio ultimo viaggio.»
Shiho si riebbe come da una trance, sentendo le parole uscire dalla bocca di Rei.
«Loro verranno a saccheggiare questo luogo e tenteranno di rimuovere tutto ciò che c'è di buono. E quando cercheranno di rimuovere il mio corpo, sia pure per l'impercettibile spazio di un filo, conosceranno l'arte dei nostri architetti, quelli che hanno calcolato il peso del mio cadavere, e tutto crollerà come se non fosse mai esistito.»
Lei abbassò gli occhi nell'oscurità, scorgendo il libriccino aperto su una pagina che Rei stava leggendo. Doveva essere il passo che a sua madre piaceva tanto.
«Ma niente andrà perduto, niente. Perché le mie ossa stanche saranno le fondamenta dell'eternità di questo luogo, di chi ci abita, di chi è con me. Di tutte le parole che qui sono state dette. Di tutte quelle che non saranno mai ripetute.»
E Shiho non seppe spiegarsi il perché, forse le parole, forse la voce calda di Rei mentre lo leggeva, ma le lacrime sgorgavano copiose sul suo viso senza il minimo controllo. Non produceva suoni, né sussulti, solo navigava tra il suo stesso sale. Rei chiuse il libro con calma, per poi afferrarle forte una mano senza temere conseguenze, senza commentare nulla.
Shiho, che in quel momento non ne aveva la testa né l'appropriato sentimentalismo, si sarebbe resa conto solo in seguito della sensibilità che quell'individuo stava dimostrando nell'essere andato a ripescare, tra le migliaia di cose e ricordi forse più importanti, tra le gioie dichiarate e i dolori nascosti, proprio le parole preferite del libro di Elena Miyano. Qualcosa di superfluo, futile, piccolo, inosservato, eppure così fondamentale, e lui l'aveva capito subito.
In quel momento lei vide solo una cosa.
Le sembrò che Elena avesse appena mormorato, scritto, esalato le parole della sua vita, delle sue più forti volontà.












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Eccomiiiiii, dopo una spappolante attesa! E in quanto tale, ho voluto regalarvi un capitolo un po' più lunghetto del solito in modo da recuperare e sentirmi un minimo a posto con voi altri :D :D
Allora, che ve ne pare? Cominciamo col dare poi, giusto per completezza, un simbolico allarme rosso: sono usciti dei file di cui non parlerò visto che sono spoiler, ma che si potrebbe pensare intacchino in qualche modo la trama delle FF che stanno parlando di questi argomenti che tratto anche io. Nel mio caso, comunque, voglio precisare che non cambierà nulla nella linea narrativa che ho definito dall'inizio, neanche se si dovesse scoprire qualcosa di pratico in più ;) Finisco qua perché sennò arriviamo in terreni ardenti! XD
Nella parte iniziale ecco arrivare un altro personaggio chiave della cerchia della BO, Vermouth, per la quale ho voluto ipotizzare un cenno di rapporto con Elena, che come vedete a questo punto è abbastanza neutrale e, anzi, sfocia anche in un pseudo-aiuto reciproco. Per la gioia di alcuni, me compresa, comparirà ancora per alcune questioni :D Come vi è sembrata? Nonostante gli argomenti toccati, forse non proprio tipici di Vermouth, ho provato a rimanere più IC possibile. Tutta la parte del disagio di Elena, invece (non solo la parte iniziale ma anche quella estesa al litigio col marito) è un pretesto per capire nel modo più ravvicinato possibile come questi due poveretti dovessero affrontare il problema dell'Organizzazione anche da un punto di vista più domestico e intimo, che a mio parere è ugualmente difficile a quello più manifesto e pericoloso delle visite a casa dei corvi, delle minacce e di tutto il resto.
Anche qui, come mi è già successo in passato, ho preso in considerazione l'ipotesi molto gettonata per cui Mary sia sorella di Elena. In quel caso, la domanda bonus è se vi è piaciuta la sua presenza e se è stata abbastanza prorompente come il personaggio di Mary richiede! U__U Mi sono troppo divertita a scrivere la sua parte :P
Il pezzo finale ShihoRei prosegue la linea degli altri, cioè quella di permettere ai due di conoscersi sempre un pochino meglio: continua ad essere il turno di Rei, a cui bastano davvero pochi elementi per iniziare a determinare gli aspetti più ricercati del carattere di Shiho. La quale, sentendoli scoperti uno dopo l'altro, viene colta da diverse reazioni che spaziano dalla violenza gratuita al rimanere inebetita di fronte a costui. Spero poi che il finale si sia compreso anche se non c'è una formula univoca, ciò che interessa è che tutte quelle informazioni, per Shiho, costituiscono anche emozioni.

Infine vorrei precisare che il passo finale che tanto mi è servito per questo pezzo è tratto dal libro “Incontro d'amore in un paese in guerra”, del celebre autore Luis Sepùlveda e che io consiglio vivamente a tutti.

E GRAZIE per le bellissime recensioni che mi scrivete, siete fenomenali. Davvero, vi stringo tutti in un enoooooormeeeee abbraccio!!! *___* Mi premuro di dirvi, sapendo di non esagerare, che questa FF la state componendo anche VOI, tramite i vostri suggerimenti o anche solo le vostre constatazioni. Fatemi sapere anche su questo, se potete! Siete così attenti e accurati che ad un certo punto diventa difficile fare a meno dei vostri pareri <3
A prestoooo!

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