Arena Colosseum

di Iskara
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cap. 1 ***
Capitolo 2: *** Cap. 2 ***
Capitolo 3: *** Cap. 3 ***
Capitolo 4: *** Cap. 4 ***
Capitolo 5: *** Cap. 5 ***
Capitolo 6: *** Cap. 6 ***
Capitolo 7: *** Cap. 7 ***
Capitolo 8: *** Cap.8 ***



Capitolo 1
*** Cap. 1 ***


Arena Colosseum. Un bellissimo nome per una scuola di magia e stregoneria italiana, quanto impronunciabile e antico. Mi chiedo se tutto ciò non sia colpa di Cicerone. Se c’è qualcosa di prolisso, ampolloso e complicato, è sempre opera sua. Per non parlare del fatto che inciampare su qualche pezzo di colonna e raschiare i denti…Volevo ovviamente dire che è all’ordine del giorno inciampare su qualche relitto di colonna romana, e finire spiattellati al suolo, solo perché il Professor Cicerone ha ordinato di lasciare tutto come era. Anche se in fondo non lo è. Dentro il Colosseo è ricostruito come nell’antica Roma, ma con qualche modifica qua e là. Come il fatto che è tre volte più grande, e tre volte più irto di corridoi di un labirinto, anche se gli Idiotus non lo sanno. Come non sanno che il Foro di Cesare è rimasto chiuso per così tanto tempo per “ristrutturazioni”, perché i Mangiamorte, hanno demolito la sede centrale del Ministero, per via di qualche incidente diplomatico, dovuto a qualche cretino che non ha letto bene le pergamene, all’Ufficio Magie Internazionali, in quello stabile. Chi diceva di stare con Voldemort, chi lo rifiutava, quindi i suoi docili seguaci, per non saper ne leggere né scrivere, hanno fatto saltare in aria Il Ministero Centrale. Anche se ora è tornato tutto in ordine. È passato qualche anno da questi fatti, e gli Auror sono tornati chi alle loro scartoffie, chi a inseguire qualche mago criminale, intento a dare qualche strano spettacolino a via del corso. Ma torniamo a noi, non mi sono ancora presentata. Il mio nome è Emma Cornelia Angelica Levante. Sì, qui in Italia nelle famiglie di maghi importanti, si danno nomi altrettanto importanti, si deve seguire la prassi. Il primo nome è a discrezione dei genitori, il secondo deve ricordare qualche personaggio romano dell’antichità (giuro, Cornelia non è il peggiore che io abbia sentito), e il terzo ricordare qualche avo deceduto, anche se le mie nonne, sono tutte vive e vegete, e caso ha voluto che si chiamassero entrambe Angelica. Ma torniamo di nuovo a noi. Mi chiamano tutti Emma, tranne qualche imbecille della Domus Caligolea, che si diverte a prendere in giro gli altri. Che poi che avranno da scherzare: il loro araldo rappresenta un cavallo senatore, al loro posto mi sotterrerei, e invece ridono. Ma il mondo è bello perché è vario, o per lo meno così dicono. Io faccio parte della Domus Augustea, intelligenti e creativi, dicono, come i miei genitori e mia sorella, dicono. Brillanti menti che si sono distinte ad Arena Colosseum, tanto distinte che mio padre è rimasto ad insegnare in questa scuola, anche se da due anni a questa parte, fa la pallina da flipper tra Romania, Ungheria, Ucraina e Australia, perché non so chi di importante, lo ha chiamato per aiutarlo, a non so a fare cosa, con i draghi. Già, papà insegna Cura delle creature magiche, ma ora è stato sostituito dal prof. Onirici, il cui cognome è tutto un programma: è narcolettico. Lo scorso anno, ha dimenticato di prendere la pozione per rimanere sveglio, e caso ha voluto che proprio quel giorno fossimo all’aperto e ci stesse mostrando come fare a calmare un Purvincolo, una specie di topo inglese acido, e molto, e ripeto, molto arrabbiato. Lo stava punzecchiando da un po’, per fare in modo che iniziasse a sputacchiare veleno, mentre ci spiegava per l’appunto, quali fossero gli effetti del morso di quell’animale, quando ad un tratto il prof. Onirici è caduto a terra, e ha cominciato a russare. Il Purvincolo a quel punto è balzato addosso ad un nostro compagno, ma per fortuna io sono cresciuta in una casa piena di creature magiche di tutti i tipi (con grande disappunto di mia madre), e sapevo come fermarlo. Che poi non feci nulla, era una diversa questione. Il Purvincolo aveva attaccato Kennet Larsen, un ragazzo dalle origini svedesi, o norvegesi, non ricordo mai, parte della Domus Cesarea, che mi ha sempre tormentata, da quando eravamo bambini. Sì, lo conoscevo da parecchio tempo. Purtroppo. Ma aspettare quarantotto ore e vedere che il morso della bestiola, gli avrebbe procurato fiamme dall’ano, sarebbe stato divertente. Quasi quanto quella volta che al posto del succo di zucca, gli feci trovare una pozione Ripulente, e aveva vomitato una settimana; solo che la mia amica Allegra non apprezza questo tipo di vendette, e mi aveva spinta a togliergli quell’animale da dosso, e a rimetterlo nell’apposita gabbia, con grande disappunto. Accidenti, sarebbe stato veramente divertente, vedere Larsen scorreggiare fiamme.
 
 
-Signorina Levante, la mia lezione è troppo noiosa per te? – mi riportò alla realtà la professoressa Fluidi, docente di Pozioni. Se c’era una cosa che avevo sempre pensato, era che se si voleva insegnare Pozioni, bisognava essere stronzi; ma non stronzi e basta, proprio STRONZI, e non “Stronzi” con solo la “S” maiuscola, tutta la parola in maiuscolo. Sappiamo tutti la storia di Harry Potter, e di Piton, quella Idiotus della Rowling l’ha sciorinata ai quattro venti. Per fortuna nessun Idiotus ci ha creduto davvero, era solo una storia nuova, bella e piena di dettagli, e lei ci ha fatto un sacco di soldi. Qualcuno aveva pensato di Obliviarla, ma ormai era troppo tardi, aveva già scritto quattro libri quando ce ne siamo accorti, non potevamo Obliviare mezza Terra. Noi maghi non siamo molto a contatto con il mondo Idiotus, per lo meno chi non ha genitori Idioti, non sa nulla di quel mondo. Dimenticavo, Idiotus in Italia, è come dire Babbano in Inghilterra.
-Signorina Levante, parlo con te! – alzò la voce la prof Fluidi.
-No, prof. È interessantissima. – risposi, tornando alla realtà.
-Davvero? Dimmi di cosa parlo allora. – intimò la prof Fluidi. È tutt’ora una donna molto avvenente, alta, con i capelli sempre raccolti in una lunga treccia che le arriva fino ai fianchi, dai lineamenti delicati, ma severi, i cui occhiali ad occhi di gatto, non fanno che rendere il suo viso severo, solo più terrificante.
-Ehm… ecco… - ero distratta, aveva ragione, ma non perché fossi disinteressata a ciò che stava dicendo: proprio non me ne fregava nulla.
-Gelatina di drago. – sussurrò qualcuno alle mie spalle.
-Gelatina di drago. – risposi, a voce più alta. La prof. alzò un sopracciglio, come a domandarmi silenziosamente cosa mi passasse per la testa, prima che tutta la classe scoppiasse a ridere. Capii di essermi fidata di quel suggerimento volutamente sbagliato, come un’imbecille. Quando mi voltai Larsen, aveva le lacrime agli occhi dalle risate, e il viso dalla pelle chiara, rosso per lo sforzo da divertimento. Gli lanciai uno sguardo in cagnesco, mentre la Fluidi mi sbatteva fuori dall’aula, e Diana, un’altra delle mie amiche, mormorava qualcosa su quanto fossi “ancora piena di fiducia nelle persone, per l’appunto”. Diana usava sempre quell’intercalare alla fine delle frasi ad effetto, anche se quella più che d’effetto, avrei detto fosse di causa, perché volevo parcheggiale uno schiaffone sulla faccia, cosa che avrei voluto fare anche con Larsen. Quell’odioso figlio di… Ma non era colpa della mamma, se suo figlio era venuto su come un… Sì, le mamme c’entrano sempre, dice un autore Idiotus. Per cui me ne uscii fuori a testa bassa, arrabbiata più con me stessa che con quell’imbecille di Larsen. Diana mi dice sempre che il mio peggior difetto è la fiducia che ripongo negli altri, “Gratuita, per l’appunto.” Dice lei. Posai i gomiti sulle finestre che davano sul campo da Quidditch. Arena Colosseum è organizzata così: al centro del Colosseo, dove una volta si affrontavano i Gladiatori, ora c’è il campo da Quidditch con gli spalti. Dove erano i posti a sedere, ora sorgono dei colonnati che delimitano i corridoi, dove nei primi due piani si trovano le aule, mentre nei piani più alti ci sono i dormitori. Nelle curve si trovano i dormitori della Domus Augustea e Cesarea, mentre nelle tribune “Labicane” ci sono quelle della Domus Caligolea, e alle tribune “Celie” ci sono i dormitori per gli ospiti e gli uffici con rispettive stanze dei professori. Si, i nomi delle suddivisioni sono improbabili, ma il preside Bianchi farebbe di tutto pur di andare contro al Professor Cicerone. In fondo Cicerone di persona doveva essere stato anche più fastidioso di quanto lo sia il suo fantasma. Insegna latino e storia di magia romana, ed è molto fiero di questo. Certo qualche volta non si capisce un fico secco di quello che dice a lezione, e il fatto che ogni tanto sputacchi la lingua quando si arrabbia o che gli cadano le mani, o la testa, non aiuta affatto. Insomma uno schifo.
La campanella suonò e Diana e Allegra mi raggiunsero, portando la mia roba tra le mani, seguite da Massimo e Alessandro, i rispettivi fidanzati, magiche presenze evanescenti. Erano venute a trovarle quel giorno e avevano seguito la lezione di Pozioni per stare con loro, visto che i ragazzi avevano finito la scuola da un po’.  Io invece ero appena maggiorenne nel mondo magico e Idiotus, ma single da sempre. Ma giuro, ci provavo. Pensare che una volta qualcuno aveva suscitato il mio interesse. Avevo conosciuto un ragazzo Idiotus. Mi dava lezioni di scuola guida per macchine idiotus, sono sempre utili per due passi verso il mare, ma poco dopo mi sono convinta che le scope, dopotutto, sono più veloci e più sicure delle auto idiote, soprattutto più sicure degli istruttori di guida Idioti, e poi avevo imparato a smaterializzarmi, per cui…
-Credi che prima o poi la smetterai di farti cacciare dalla Fluidi? – gemette Allegra, incamminandosi accanto a me.
-Naaa. – risposi. – Ormai è uno sport olimpionico, è dal secondo anno, che vinco la medaglia d’oro. –
-Ma i tuoi voti non sono così alti mi sembra. – intervenne Diana. Diana Domizia Domitilla Guelfi, la studentessa cervellona del gruppo, che si preoccupava sempre di farci arrivare preparate agli esami, con programmi di studi estenuanti, che visti i miei voti non ho mai seguito. Allegra tentava, ma alla fine abbandonava, anche se a modo suo arrivava sempre a voti migliori dei miei. IO non sono mai stata una gran studiosa, a discapito di quello che si dice della mia famiglia. Ero e sono rimasta la pecorella nera. Papà nella sua vita, ha classificato insieme al figlio di Scamander, degli animali in Indonesia, e ha scritto un sacco di libri con il suo amico a riguardo, e a sua volta mio nonno, era appassionato di creature magiche, tanto da avere un allevamento, e mia nonna era professoressa di Erbologia. Mia madre era una strega provetta, diplomata con il massimo dei voti, e adesso lavora al Ministero, e dirige l’ufficio Incidenti Rilevanti, e i suoi genitori erano due Auror di fama. Mia sorella invece ha ereditato la passione per l’erbologia da mia nonna paterna, ma al contempo è specializzata nella cura delle persone. Insomma è un medico, e lavora all’infermeria della scuola come aiutante nel fine settimana, quando ci sono le partite di Quidditch, e il resto dei giorni lavora all’Ospedale Traiano, l’ospedale dei maghi. E io invece a scuola ero passabile. Non ho mai avuto voti eccellenti, ma nemmeno pessimi. Non avevo gradi aspirazioni, se non quella di diventare un Auror.
-Se vuoi diventare un Auror, dovresti impegnarti di più. – mi rimproverò Diana. – Invece stai sempre a giocare a Quiddich… -
-Per l’appunto! – intonammo insieme io e Allegra, scoppiando a ridere subito dopo. Diana alzò gli occhi al cielo e si diresse al corridoio che portava al piano di sopra, per la lezione di Difesa contro le Arti Oscure. I loro fidanzati, spariti in un magico sbuffo di scintille dorate. Camminavo accanto a lei quando un odore familiare, delicato e morbido mi arrivò alle narici, insieme ad un sussurro di derisione.
-Ti è piaciuta la gelatina di drago, Levante? – disse Larsen passandomi accanto, per poi oltrepassarmi, sghignazzando. Feci per seguirlo e dirgliene quattro a quel mentecatto, ma Allegra mi afferrò per la tunica.
-Lascialo perdere quel cretino, più gli dai importanza, più il suo ego si pompa. – disse, trascinandomi verso le scale di marmo. Gli avrei tirato volentieri il libro di Pozioni in faccia, magari per osmosi avrebbe imparato la ricetta di una Pozione Ammutolente.  
-Giuro che alla partita di sabato, lo scaravento giù dalla scopa, e gli faccio sbattere quella brutta faccia che si ritrova, sul palo dei punti. – dissi a denti stretti, seguendo Diana e Allegra.
-Emma ma tu non ci vedi, per l’appunto. – asserì Diana disgustata.
-No, infatti – convenne Allegra, schifata.
-State dicendo che Larsen è carino? È un imbecille! – lo sminuii io, sconcertata. Certo non si può definire brutta la sua faccia, i lineamenti sono delicati, i capelli ramati e gli occhi grigi come il metallo… dei pali da Quidditch dove gli avrei voluto far sbattere la faccia.
-No – si corresse Ally – Hai pestato non so cosa, e adesso ti sta anche risalendo sulla gamba… -
-E puzza da morire, per l’appunto. – considerò Diana tappandosi il naso.
Guardai in basso e notai una gelatina verde che si inerpicava sulla mia gamba, sotto lo sguardo attonito di altri studenti che percorrevano le scale insieme a noi.
-Per la barba di Giove! – sbottai. Era gelatina di drago, uno scherzo che vendono nei negozi di giochi magici.  Estrassi la mia bacchetta e mi scollai da dosso quella schifezza verde, esaminandola da vicino, prima di frullarla in un cestino.
-Mi correggo, lo prendo immediatamente a calci. – sentenziai, girandomi sui tacchi per andare a cercarlo.
-Per Diana! Emma torna qui! – disse Ally seguendomi. Poi si rivolse a Diana, costernata.
-Scusa. – asserì, verso la nostra compagna.
-Ci ho fatto l’abitudine. – minimizzò lei con un gesto della mano. Diana è bella, così bella che la metà della scuola si fa in quattro per ricevere attenzioni da lei. È bionda e ha gli occhi azzurri, un sorriso splendido davanti al quale, anche le macerie del vecchio Colosseo, si sarebbero ricomposte, e Dante avrebbe finalmente mollato Beatrice per scrivere poesie sul sorriso di Diana.
-Riprendila prima che questa volta lo uccida davvero. – pregò Ally. Diana sospirò mesta e prese la bacchetta, ma prima che potesse anche solo pensare ad un incantesimo mi ero già dileguata al piano di sotto. Larsen me l’avrebbe pagata stavolta. Ero stufa dei suoi scherzi malefici e dei soprannomi che mi aveva affibbiato. Il vero problema però non era Larsen in se e per sé, quanto la faida continua tra Domus Augustea e Domus Cesarea, nata per un futile motivo milioni di anni fa, seguita da un branco di imbecilli, milioni di anni dopo, come a dimostrazione che i cervelli maghi non cambiano mai. Mi spiego meglio: se nasci mago-deficiente, morirai mago-deficiente, senza aver la possibilità di diventare mago-intelligente, e la natura ha voluto che la Domus Cesarea, avesse solo mago-deficienti.
Trovai Larsen a cinguettare con due ragazze più piccole della Domus Caligolea, e gli andai dritta addosso.
-Sei un deficiente Larsen! – strillai prima che lui potesse vedermi. Kenneth si voltò lentamente, con un sorrisetto spavaldo sulla faccia.
-Oh ciao Svart. Deduco ti sia piaciuta la gelatina di drago. Sei venuta per prenderne ancora? – esordì lui.
-No, sono venuta a dirti che razza di deficiente sei. – ribadii piena di rabbia. Mi chiamava Svart Sau, che nella sua schifosa lingua norvegese, o svedese, o che cavolo è, significa “pecora nera”, ma a volte abbreviava anche solo in Svart, “nero”. Tutti sapevano che nella mia famiglia, c’erano persone molto intelligenti, che sfruttavano la loro intelligenza per un bene superiore, che eccellevano a scuola e nella vita, e poi c’ero io, che avevo voti da paura in materie come “Niente” o “Nulla di importante”, per cui ero un errore, la pecorella nera di cui sopra, e Larsen sapeva che questo mi feriva e lui infilava il dito nella piaga, perché a casa mia ci veniva spesso. Più meno da quando portava il pannolino.
-Tutto qua? Allora scusami, ma sono impegnato. – disse additando alle ragazzine, per niente felici di essere state interrotte dalla chiacchiera giornaliera che Larsen gli aveva concesso.
Non ci vidi più, gli assestai un pugno dritto in faccia, e mi feci tremendamente male. Percepii una fitta percorrermi il braccio fino alla spalla, e le nocche pizzicarmi. Non avevo mai picchiato nessuno prima di allora, ma quando Larsen incontrò di nuovo il mio sguardo ci lessi qualcosa di strano. I suoi occhi grigi si piantarono su di me, mentre con una mano si tamponava la bocca per vedere se perdeva sangue.
-Svart hai firmato la tua condanna a morte. – disse, e quando si voltò verso la piccola folla in silenzio che guardava stupita la scena, tutti ripresero a parlare o a fare quello che stava facendo prima che gli sferrassi un pugno, e solo in quel momento mi accorsi di essere intrappolata tra lui e il muro. Potevo sentire il suo respiro fresco sfiorarmi le labbra, e se non lo avessi odiato così tanto, sarebbe potuta sembrare quasi una scena romantica.
-Sta attenta sabato durante la partita, la tua scopa potrebbe sfilacciarsi, o un bolide potrebbe colpirti in testa. – sibilò tra i denti.
-Vai a farti fottere, Larsen. – ringhiai io a mia volta, ma lui sorrise lievemente.
-Di solito sono io, quello che fotte. – disse, mentre mi lasciava spiattellata al muro, con le narici fumanti, e lui se ne andava, seguito dalle sue galline.  
 

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Capitolo 2
*** Cap. 2 ***


Tornata rabbiosa sui miei passi, raggiunsi Ally a lezione di Difesa contro le Arti Oscure, ma quando varcai la soglia, il professor Necros, il cui ottimismo era molto rinomato, mi lanciò uno sguardo mesto e parlò con la sua solita voce strascicata.
-Levante, anche oggi in ritardo? – chiese.
-Mi scusi professore io… -
-Meno dieci punti alla Domus Augustea, e adesso siediti. – intimò.
Allegra mi lanciò uno sguardo sconsolato, prima di farmi posto accanto a lei, mentre Necros ricominciava a spiegare. Mi sfuggì un gemito, quando per prendere la piuma d’oca, sentii il polso infiammarsi di dolore.
-Che è successo? – mormorò Allegra, mentre studiava il mio braccio, lievemente gonfio.
-Ho dato un pugno a Larsen. – sussurrai in risposta, tastandomi il polso.
-Che hai fatto?! – chiese Allegra, tra lo sconcertato e il preoccupato. Stavo per controbattere, ma Necros non me lo permise.
-Donati, qualcosa non va? –
-No, prof. Tutto a posto. – rispose Allegra Laevina Lucrezia Donati, proveniente da una delle famiglie di maghi più antiche di tutta l’Italia, di origini toscane, con il viso ornato da riccioli castani. Qualche suo antenato era stato al servizio di Voldemort, come qualche membro della sua famiglia ancora in vita, ora a marcire ad Azkaban, ma Allegra è diversa. Non è una strega razzista, e non pensa che la ricchezza serva a qualcosa, se poi dentro si è poveri di emozioni.
Necros continuò a spiegare, mentre con mano dolente cercavo di prendere appunti, ma ad ogni parola che scrivevo, sentivo l’osso del polso gridare. Accidenti, mai avrei immaginato che avrei potuto slogarmi un polso per dare un pugno a Larsen. Magari era solo la botta iniziale, mi sarebbe passato. Anche se aveva comunque vinto lui.
 
Alla fine della lezione Gregorio, il mio giocatore titolare, non che Cercatore della squadra della Domus Augustea di Quidditch, mi placcò in corridoio.
-Capitano! – mi chiamò.
-Oh ciao Greg- lo salutai.
-Oggi gli allenamenti sono annullati. – mi avvertì col fiatone.
-Come sarebbe annullati!? Sabato c’è la partita, ho prenotato il campo per oggi pomeriggio da una settimana! – mi infervorai, mentre sul viso di Allegra si disegnava una smorfia sorpresa.
-Il preside lo ha concesso oggi alla Domus Cesarea. – disse Gregorio.
-Oh neanche per sogno! – sbottai.
-Lo so, e domani è occupato dai Caligolei. –
-Ma non giocano questo fine settimana! Accidenti è per le selezioni del Campionato Internazionale delle scuole! – strallai.
-Emma è stato Larsen. È vero che gli hai dato un pugno stamattina? –
-Sì. – risposi alzando gli occhi al cielo, prima di mollare tutti in corridoio e dirigermi alle tribune Celie, per parlare con il preside, che ovviamente non mi diede nemmeno uno sputo di ora per gli allenamenti.
Dannato Larsen e i suoi antenati.
 
 
 
 
Il sabato poco prima di entrare in campo, mi sorpresi ad assicurarmi che la mia scopa non fosse stata manomessa, trascinando Diana sotto le tribune, affinché anche lei dicesse che la mia scopa non era soggetta a nessun tipo di sortilegio. Sapevo che Larsen aveva in mente qualcosa e che spesso giocava sporco, ed essendo un Battitore, i suoi bolidi erano sempre diretti a me. Giustamente se il capitano della squadra crolla, è ovvio che si abbiano più possibilità di vittoria, in quanto la squadra avversaria non ha più un coordinatore. Per questo avevo istruito Gregorio a dovere. Lui era il Cercatore, e tutti gli altri sapevano che se finivo a terra, il loro compito era ascoltare lui. Io giocavo come Cacciatore dal secondo anno, ed ero stata eletta capitano dal terzo in poi e avevo mantenuto quel ruolo, perché sapevo farmi ascoltare. Alle volte con sfilze di coloriti insulti, altre volte solo con lo sguardo. E prima di entrare in campo, fu proprio quello a terrorizzare i miei compagni di squadra. Stava dicendo “Avete 206 ossa. Se perdiamo, ve le spezzo tutte”. Detto questo, entrai in campo, i Cacciatori si posizionarono con me al centro, sopra i battitori e ancora più su Gregorio. Larsen mi indirizzò uno sguardo divertito e allo stesso tempo provocatorio, ma non proferì parola, forse ammutolito dal mio sguardo grondante astio.
Io e Larsen ci conosciamo da quando siamo piccoli, ma non ci siamo mai piaciuti. Malgrado le nostre famiglie sperassero (invano), li abbiamo sempre delusi. Kenneth è il figlio del migliore amico di mio padre, ergo mi sorbisco Larsen più o meno tutti i Natali, i Capodanno e almeno un mese di estate. Crescendo ovviamente ci siamo allontanati, niente più scherzi o dispetti, o scaramucce da bimbi. Finchè non siamo entrati ad Arena Colosseum a quattordici anni. In Italia la scuola dei maghi dura solo cinque anni, si può decidere se farla durare altri tre, per specializzarsi. Larsen è capitato nella Domus Cesarea e io in quella Augustea. Una tragedia. Qualunque anno si frequenti, dai quattordicenni ai ventunenni, tutti provano odio tra questa due Domus. Perché non ci è dato saperlo, ma è insito in noi. Quindi come dicevo, una tragedia. Larsen e la sua cricca ha iniziato prima a rompere le scatole alla mia di cricca, poi al resto della Domus, una volta cresciuto abbastanza. Piccoli tiranni crescono, ma ad ogni suo scherzo o sopruso io ci finisco sempre in mezzo. O come diretta interessata, o anche solo di striscio, braccia o chiappe non specificate. Però anche Larsen ha dei pregi. O per lo meno così diceva “Radio Serva”, ovvero Nicola, uno dei miei battitori, che sapeva sempre tutti di tutti, non si sa come, né perché. O meglio, alla gente piace raccontare le proprie cose a Nicola, ripongono tutti fiducia in lui. Forse perché ha il visetto pulito e ancora acerbo da ragazzino, forse perché tutti pensano che esser gay ti faccia sembrare più saggio. In ogni caso non credo che Larsen gli raccontasse i fatti suoi volentieri, magari era stata la fidanzata di Kenneth a farlo. Stranamente Larsen era monogamo, anche se le sue battute a doppio senso, spesso facevano pensare il contrario. Da quello che Nicola diceva, Larsen era pazzamente innamorato sin dal primo anno di Clara Yen Gi, una ragazza di origini cinesi, o coreane, o giapponesi, che spesso faceva a gara con Diana, per ricevere più attenzioni dai ragazzi. Yen Gi anche è bella, ha gli occhi grandi e pieni di ciglia, a differenza di quanto accade con la maggiora parte dei… Degli orientali, e la sua pelle è come seta, come la chioma scura sempre ordinata che le oscilla sui glutei quando cammina. Io non riesco a sopportarla, anche se ricordo che una volta Larsen mi stava rompendo le scatole, ma Clara lo aveva strattonato per un braccio, incitandolo a smettere, e lui aveva sospirato, guardandola come solo un uomo innamorato, guarderebbe la sua donna, e aveva smesso. E io l’avevo invidiata. Perché era bellissima, e perché avrei voluto anche io che un uomo guardasse me, come Larsen aveva guardato Yen Gi. Poi Larsen se ne era andato e Clara mi aveva rivolto uno sguardo pieno di preoccupazione in quegli occhioni scuri a mandorla, chiedendomi se andasse tutto bene. Non avrei potuto dirle di no, perché in fondo non c’era un vero motivo per odiarla. Anzi non mi aveva proprio fatto mai niente lei.
Mi persi con lo sguardo a cercarla tra gli spalti, ma forse non c’era quel giorno. A Clara non piacevano le partite di Quidditch, veniva solo per fare contento Larsen, che poi alla fine della storia, neppure era interessato alla presenza della sua fidanzata durante le partite.
Il professor Botti fischiò e lanciò in aria la Pluffa, sulla quale mi gettai subito, afferrandola al volo, schivando quell’imbecille di amico di Larsen, capitano della squadra Cesarea. Era una piattola durante le partite, peggio del rossiccio svedese/norvegese/che-ne-so. Il polso mi faceva ancora male e a stento mi reggeva sulla scopa, ma tentai di non pensarci, anche se sia Diana che Allegra avevano provato a dissuadermi dal giocare quel fine settimana.
Schivai un altro giocatore, che si era tuffato su di me, e passai la palla ad un compagno. A quel punto vidi un bolide sfiorarmi la testa, e più su Larsen, poggiarsi la mazza sulla spalla, e sorridermi compiaciuto. Lo lasciai ai suoi bolidi, e mi diressi a protezione della Pluffa, ancora di nostra proprietà, quando ricevetti una spallata, che mi scaraventò fuori campo. Accidenti. Botti fischiò il possesso palla all’avversario. Nel Quidditch, se una squadra ha la palla, e uno dei giocatori finisce fuori campo, la Pluffa passa agli avversari. E i nostri nemmeno un secondo dopo, la imbucarono nell’anello centrale. Lanciai uno sguardo al portiere, ma non dissi nulla. Avevo visto un bolide seguire la sua traiettoria, se non si fosse spostato lo avrebbe preso in pieno, e addio portiere. Sfrecciai in centro campo, sbraitando a Nicola di tenere a bada quelle palle indemoniate e a Gregorio di non starsene impalato, e cercare il boccino. La partita seguitò a nostro svantaggio, per un’ora circa, ma poi riprese prima in parità e in seguito con noi in testa. Vidi finalmente Gregorio correre dietro al boccino, seguito subito dopo dal cercatore della Domus Cesarea. Tentai di dissuaderlo dal seguire Gregorio, tagliandogli la strada, per recuperare un passaggio perso, quando mi trovai Larsen addosso, e con una botta mi mandò di nuovo fuori campo. Arrabbiata tornai a sfrecciargli addosso, ormai era diventata una cosa personale, ma in quell’istante, mi resi conto che Larsen stava caricando per colpire un bolide nella direzione opposta alla mia, ma era già troppo tardi, e colpì me in piena faccia. Caddi dalla scopa come un sacco di patate, con il polso dolorante, per il pugno che gli avevo sferrato, che aveva ceduto per il male, facendomi caracollare a terra.

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Capitolo 3
*** Cap. 3 ***


Mi svegliai in infermeria, con il polso fasciato e un occhio nero, sotto gli occhi preoccupati di mia sorella, che puntualmente ogni volta che finivo per farmi male, ero di turno.
-Anche oggi hai fatto a botte invece di giocare a Quidditch? – ridacchiò appena mi vide sveglia.
Leila è il completo opposto di me, candida come mia mamma, con i boccoli biondi ad incorniciare quegli occhioni verdi smeraldo sempre pieni di premure per me. Io invece ero castana chiara, ma ogni settimana cambiavo colore di capelli: blu, viola, fucsia… mai lo stesso colore, al massimo sfumature diverse. I miei boccoli in quel periodo erano rossi fiammanti con le punte bionde. Era il colore perfetto per i miei occhi verde scuro. Leila mi offrì un bicchiere, e io la guardai diffidente.
-Dai aiuta a riassorbire gli ematomi. – disse mia sorella paziente.
-È come la schifezza che mi hai dato l’ultima volta? – gemetti.
-No, è peggio. Bevi. – intimò Leila.
Presi il bicchiere e trangugiai tutto d’un sorso. Il sapore era amarissimo, ebbi l’impulso di sputarlo, ma uno sguardo di mia sorella mi spinse a fare il contrario e quindi ingoiai, facendo sorridere Leila con la mia faccia schifata.
-Ti sei slogata anche il polso nella caduta. Ti do una pozione Ricostituente, devi prenderla la mattina a digiuno e la sera prima di cena, aiuterà il dolore e a guarire in fretta. – mi disse, piantandomi una boccetta dal colore ambrato sul comodino.
-Vieni a casa a Natale? – domandò poi.
-Certo, che domande. – risposi, mentre mi alzavo.
-Dove pensi di andare?! – chiese mia sorella, portandosi le mani sui fianchi. Quel movimento fece ondeggiare i boccoli biondi sulle sue spalle.
-A farmi una doccia, mi sono appena rotolata nella sabbia. – spiegai con semplicità.
-Hai pur sempre preso una botta in testa. Devo assicurarmi che tu non abbia subito un trauma cranico. – convenne Leila.
-Ma quale trauma! – dissi, cercando di oltrepassarla.
-Emma. – articolò perentoria. –Siediti su quel letto o ti lego. A fine partita vai dove ti pare. –
Mi conosceva troppo bene. Sapeva che non sarei andata a fare la doccia, ma sarei tornata al campo, a dare ordini ai miei compagni di squadra dagli spalti.
 
.
La partita si concluse ovviamente con la nostra sconfitta. Tenni il muso una settimana, mentre Larsen continuava a punzecchiarmi. Per l’occhio nero che lui stesso mi aveva fatto, per il polso slogato, perché lo sapeva che era stato l’impatto con la sua mascella a fare quel danno, e non la caduta dalla scopa.
Dannato Larsen e i suoi antenati.
Per fortuna la settimana dopo sarebbe stata quella di Natale, e quindi dovetti sopportarlo solo altri sette giorni. Una tragedia.
Da quando i nostri padri erano partiti per gli studi sui draghi, Larsen non passava più i Natali con noi, ed ero più che felice di quello, anche se non potevo vedere mio padre, spesso come avrei voluto. Certo ci mandavamo dei gufi, ma non era lo stesso.
Comunque torniamo alla tragedia.
Allegra mi riprendeva sempre per la collottola ogni volta che minacciavo di fare a pezzi Larsen. Diana invece…
-Sprecare energie in questo modo, non ti rende attraente per gli altri ragazzi, per l’appunto. – disse l’ultimo giorno, mentre nelle aule studio, raccoglievamo le nostre cose per andare a cena.
-Non mi importa un fico secco dei ragazzi. – sbuffai alzando gli occhi al cielo, mentre recuperavo il libro di pozioni.
-Se continui a comportarti come un maschiaccio… - continuò Diana.
-Non troverò mai un mago, per l’appunto. – la interruppi di getto. Allegra si lasciò sfuggire un risolino alle mie spalle, ma un’occhiataccia di Diana la zittì immediatamente.
-Sul serio non ti interessa? Sei così ottusa? – chiese poi.
-Ma che ottusa, dico solo che è presto. E poi so che non sarà Italiano l’uomo della mia vita. –
-Vuoi aspettare fino al matrimonio per… -
Diana fu interrotta da un mio movimento maldestro, procurato da Larsen, che passandomi accanto mi aveva regalato per Natale uno schiaffetto leggero sulla fronte, lasciando una scia di quell’odioso profumo morbido e delicato. Io per la sorpresa lasciai cadere a terra i miei libri, e mi voltai verso lo sghignazzante biondo svedese/norvegese/che-ne-so, che camminando all’indietro mi salutava con la mano.
-Buon Natale, Svart. – gridò dal fondo del corridoio, insieme ai suoi amici scemi e sghignazzanti.
Allegra mi afferrò preventivamente per la tunica, perché sapeva che gli sarei corsa dietro per picchiarlo a sangue, finché non avesse implorato pietà. No, non avrei smesso neppure in quel caso di prenderlo a calci.
-Se continui così, penserà che ti piace. – disse Diana, mentre mi rimetteva in mano i miei libri. A quel punto Allegra scoppiò a ridere a crepapelle e io inarcai un sopracciglio, come a chiederle se fosse impazzita.
-Le migliore storie d’amore nascono dall’odio. – disse ancora Diana.
-Sì, certo. – risposi sfilandole di mano il maledetto libro di pozioni. -È da quando siamo piccoli che ci odiamo –
-Per l’appunto. – concluse Diana.
Allegra sembrava non potersi riprendere dall’attacco di ridarella, neppure si fosse scolata una bottiglia di Acqua Allegra, mi voltai verso di lei rossa in viso.
-Si può sapere che hai da ridere? – domandai stizzita, mentre Diana ormai sorrideva, a reazione delle risate di Allegra.
-Mi sto immaginando la coppia. Un portento. – riuscì a dire seriamente, prima di sbottare di nuovo a ridere.
Guardai il libro di Pozioni. E lo tirai addosso ad Allegra, mancandola volutamente, mentre le sue risate si facevano più forti.
-Accio. – mormorai, per riprendere il libro da terra.
-Beh in ogni caso non ti libererai di Larsen così facilmente. – convenne Diana. – Lo hai sempre intorno anche a casa. Forse dovreste limitarvi ad ignorarvi. –
-Lo farei volentieri, se lui mi ignorasse a sua volta! Io mi difendo e basta! –
Allegra e Diana mi guardavano perplesse e un po’ titubanti.
-Beh?! Che avete da guardare? – dissi.
-La gelatina…- iniziò Diana, indicando la mia testa.
-Di drago. – disse Allegra, riducendo le labbra ad una linea sottile, per non scoppiare di nuovo a ridere.
Di istinto portai una mano alla fronte, e percepii un qualcosa di appiccicoso. Tentai di toglierla, ma si era arpionata ai miei capelli. Sbuffai rabbiosa.
-Io gli spacco la faccia! Dannato Larsen e i suoi antenati! -
 
 
Tornai a casa per il cenone di Natale, la mattina dopo. Salutai Allegra e Diana, e uscii da Arena Colosseum per dirigermi alla Metro B per poi prendere il treno a Termini per tornare a casa. Abito nell’alto viterbese, su una collina sperduta nel nulla, dove mio nonno ha l’allevamento di creature magiche, lontano dal Mondo Idiotus, non sia mai che uno di loro veda un dorso rugoso di Norvegia, gironzolare libero nel nostro terreno, visto che mio padre ne tiene uno a casa. Ormai è vecchio e malandato, vola di rado, ma Pompeo è il drago più scemo che io abbia mai visto. Oltre che un gran coccolone. Papà ha cercato di ammaestrarlo, e invece… è uscito scemo, ma non tutte le ciambelle escono con il buco, dice un detto Idiotus.
Salii sul treno e feci un’ora di viaggio, e quando scesi trovai mia madre ad attendermi alla stazione. Sarebbe stata un’altra ora di viaggio per andare a casa, per cui ci materializzammo lì e iniziò il mio calvario. Come va a scuola, come sta Allegra, come sta Diana, che dice Gregorio, come è andata la selezione per i campionati internazionali e via dicendo. Sputacchiai qualche risposta semplice, finchè mia madre mi disse che papà sarebbe tornato per questo Natale. Il mio umore cambiò subito, e mi fiondai da mio nonno che stava appunto dando da mangiare a Pompeo, che quando mi vide fece un verso flebile, ma felice. Mi avvicinai e lo accarezzai, mentre salutavo il nonno. Mi piace passare del tempo con lui ad accudire le sue creature, mi sono sempre piaciuti gli animali, poi Pompeo, per quanto scemo, lo adoravo. Più tardi entrai in casa e trovai nonna intenta nei preparativi per la cena con la mamma e mia sorella. Mi proposi di apparecchiare, per cui sfoderai la bacchetta e feci volteggiare tovaglia e piatti.
-Oh devi aggiungere tre posti, oltre che quello per tuo padre. – mi comunicò mia madre, tutta felice mentre con un colpo di bacchetta, i suoi capelli biondi formavano una crocchia ordinata. Uno schianto di massa si abbatté al suolo.
-Emma! – dissero mia madre e mia nonna che passava da quelle parti con un cesto pieno di dolci. Il tono cantilenante, voleva essere di rimprovero, ma vista la mia faccia, mia nonna sbottò quasi a ridere.
Mia madre fece volteggiare la bacchetta e riparò i piatti, posandoli lei stessa sul tavolo, borbottando riguardo al danno che avevo combinato.
-Sei diventata scema?! – gracchiò mia madre. –No, scusa lo sei sempre stata. –
Uscì dalla sala da pranzo a passo di marcia e io rimasi solo con mia nonna. Lei era l’unica a sapere delle diverse scaramucce che avevo con Larsen, per cui mi offrì un dolcetto dalla cesta e si sedette al tavolo, e io la imitai imbronciata, mentre masticavo il primo morso.
-Non riesci proprio ad andarci d’accordo con quel ragazzo vero? – mi domandò a voce bassa.
-E come faccio? È deficiente! – risposi stizzita.
-Ti prende ancora in giro? –
-Ieri mi ha appiccicato una gelatina di drago sui capelli. Per fortuna che Diana è brava a fare incantesimi o avrei dovuto rasarli a zero. Solo a ripensarci lo darei in pasto a Pompeo. –
-Trova un altro animale a cui darlo in pasto: Pompeo è troppo scemo. –
-Giusto. – risposi mesta, appoggiando il mento sulle mani.
La nonna portò le sue sulle mie, con fare… nonnesco. Non materno, nonnesco. La dolcezza delle nonne, non è descrivibile.
-Hai mai pensato che il vostro è un modo per dirvi che vi piacete? – suggerì.
-Nonna. Ti prego. Lo dice anche Diana. E no. Io lo odio e lui odia me. E poi Larsen è impegnato, anzi Nicola dice che è strainnamorato di Clara. – le spiegai.
-Nicola qui, Nicola là… - disse mia nonna gesticolando in aria. –Che me ne importa di quello che dice Nicola. Tu che dici? –
-Dico che lo ucciderei se potessi. –
-Benissimo. Era la risposta che volevo sentire. – disse nonna alzandosi.
-Ma che significa? – chiesi stordita.
-Lo capirai da grande. – strillò lei dalla cucina.
Mah. Io volevo solo morire, non capire. In quel momento avrei voluto che Pompeo mi ingoiasse tutta intera, senza nemmeno sputare le ossa.
Ingoiata e digerita.
Ma niente, era troppo scemo, aveva ragione nonna. Per l’appunto.
 
Pensavo di passare un Natale sereno senza quella piattola pel di carota appiccicata alle chiappe, invece no.  Mandai subito una lettera ad Allegra, con Frankie, il gufo scemo di mio nonno. Un allevamento e nemmeno mezzo animale decente. Sapevo che sarebbe tornato la notte, con la risposta, e dovevo assolutamente calmarmi. Magari quel cretino di Larsen non sarebbe venuto, magri avrebbe passato in Natale da Clara. Dal grosso balcone della mia stanza però, mentre fumavo una sigaretta magica alla fragola di bosco, le mie ultime speranze costruite con fatica, crollarono come castelli di carte al soffio del vento. Kenneth camminava accanto a suo padre con un sorriso dolce, niente a che vedere con quel ghigno spregevole con cui lo incontravo ogni volta a scuola. Era la fotocopia giovane di suo padre, e sua madre una donna affabile e gentile. Il signor Larsen era un giocherellone, simpatico e svampito, proprio come mio padre. Come era uscito un figlio così spregevole, da una coppia del genere? Mi ricordai di non farmi domande, di cui non volevo avere risposte, per cui spensi la sigaretta magica, e scesi da basso, ricordandomi solo all’ultimo gradino che mia madre mi aveva intimato di cambiare il colore dei miei capelli, con uno più sobrio, ma era troppo tardi, perché gli ospiti avevano già varcato la soglia. Ci furono calorosi saluti, e per la prima volta nella sua vita Larsen mi rivolse un sorriso affabile e caloroso.
-Emma. – disse.
-Kenneth. – risposi, con lo stesso sorriso, mentre le nostre mani, invece rivelavano i trascorsi.
-Piccola mia, ma che hai fatto al braccio? – domandò mio padre, mentre ci spostavamo nella sala da pranzo. Istintivamente lanciai uno sguardo a Larsen, lui non ricambiò perché si stava sedendo, ma sapevo che aveva sentito.
-Sono caduta dalla scopa durante la partita di Quidditch, e mi sono slogata il polso. – mentii.
-In realtà è stato colpa mia. – disse Larsen, con mia grande sorpresa.
-L’ho colpita io con la mazza, ero di spalle e mi preparavo a colpire un bolide. Non l’ho vista e ho preso Emma. A proposito, scusami, non era mia intenzione. – sorrise di nuovo affabile.
Tutta una facciata. Il sorriso di Larsen assunse una vena impercettibilmente derisoria, forse perché lo stavo guardando con gli occhi ridotti a fessure.
-Oh abbiamo due giocatori di Quidditch a tavola stasera! Mi ero dimenticato che fossi il capitano della Domus Augustea, Emma! – esclamò papà Larsen.
-Già. – risposi io.
La cena si dispiegò con tranquillità tra una chiacchiera e l’altra, Larsen senior era simpatico come sempre, e Larsen figlio gentile e affabile. La madre di Larsen aiutava mia madre con le portate, sorridendo amabilmente. Ero presso che assente mentalmente dalla meravigliosa serata che gli altri stavano passando, quando mi arrivò un calcio sotto al tavolo. Trasalii per il male, e Larsen mi rivolse uno sguardo innocente.
-Era la tua gamba? – chiese.
-No, quella del tavolo. – dissi ironica tra i denti.
-Mi scuso con lui, allora. – asserì, ammiccando.
Tutta una facciata, non me l’avrebbe fatta così, sotto al naso. Sapevo io, che quel figlio di… La mamma. Povera la mamma. 

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Capitolo 4
*** Cap. 4 ***


Verso la fine della cena, uscii all’aperto a fumare una sigaretta magica, e Larsen si offrì di accompagnarmi sul balcone, per galanteria. Notai mia sorella strizzarmi l’occhio, mentre le passavo accanto. Avrei voluto dirle, che il mio polso era colpa di Larsen, non della sua mazza, ma della sua mascella. E per mazza, intendevo una vera mazza.
Percorremmo la distanza verso il balcone in silenzio religioso, e per educazione offrii una sigaretta anche a lui, i suoi occhi grigi guizzarono dalle sigarette a me, e poi sorrise ancora affabile.
Tutta una facciata. TUTTA UNA FACCIATA.
Cacciò fuori dalla tasca un pacchetto alla menta e ne accese una. Il silenzio si stava facendo pesante, forse avrei dovuto sferrargli un altro pugno, così, per testare la resistenza della sua mascella…
-Come va il braccio? – mi domandò, appoggiandosi al parapetto del balcone, per potermi guardare in faccia.
-Come se ti interessasse davvero. – sputai.
-Certo che mi interessa. O non lo avrei chiesto. – continuò tranquillo, prendendo un’altra boccata. Sul suo viso non sembrava esserci ombra della sua boriosità caratterizzante, ma non potevo dirlo con certezza, non incrociavo il suo sguardo, avevo paura di non rispondere di me stessa e di buttarlo di sotto se lo avessi fatto.
-Sei più loquace a scuola. – convenne.
-Mi prendi per il culo Larsen?! – sbottai, non reggendo più la situazione.
-Non so, tu che pensi Levante? – chiese, con un leggero sorriso sghembo.
-Che tu mi stia volutamente prendendo in giro. Ma sappi che non esiterò a prenderti a calci nelle palle, neppure davanti ai nostri genitori! – lo minacciai.
-Intendi in modo figurato o fisico? – ridacchiò lui, divertito.
-Larsen! – era più un richiamo ad essere serio, che altro.
-Levante… - disse lui, con tono mellifluo.
-Smettila, cretino. – lo rimproverai più calma, dopo un respiro profondo per lasciare andare la rabbia, come mi aveva insegnato Allegra. Mi aveva anche insegnato a contare fino a dieci prima di rispondere male a qualcuno. Peccato non arrivassi mai neanche a tre.
-Hai mai pensato che forse, potrei essere umano anche io, Levante? E che i tuoi insulti mi feriscano? – chiese.
-Tsk. Per favore, queste stronzate con me non attaccano. –
-Diana ti rimprovera spesso, se non sbaglio, perché regali la tua fiducia troppo semplicemente. – disse Larsen.
-E tu che ne sai? Mi segui adesso? –
-Ho i miei metodi per sapere le cose. –
-E che te ne frega di spiarmi? Non ti basta esasperarmi tutti i giorni? Vuoi altre armi per maltrattarmi?! Trovati una stupida del primo anno, non capisco perché debba essere io l’oggetto dei tuoi stupidi scherzi– ringhiai.
-Per due motivi- disse staccandosi dal parapetto, per ridurre la distanza tra me e lui. – Il primo è da indirizzare alle nostre diverse Domus. Il secondo è che… Mi piaci tu. –
-E ti sembrano validi motivi? – lo rimbeccai acida.
-Hai sentito cosa ho detto, o sul serio sei la Svart Sau della tua famiglia? – chiese.
-Certo che ho sentito, per questo ti ho chiesto… -
-Mi piaci tu, Levante. – mi interruppe lui.
Per un secondo mi girò la testa. Il mio cervello si domandava se avessi recepito bene, oppure no.
-In che senso? – chiesi.
Larsen sospirò, e mandò gli occhi grigi al cielo.
-Sei decisamente la Svart Sau. – sbuffò, spegnendo la sigaretta magica nel portacenere, che mangiò subito il mozzicone con annesso ruttino, e Larsen accese un’altra sigaretta, mentre io attonita aspettavo una spiegazione.
-Sai ne sono consapevole da poco anche io. – spiegò, appoggiandosi di nuovo al parapetto. Prese una boccata, e soffiò fuori, investendomi di un odore morbido e delicato. Ecco di cosa odorava. Sigarette magiche al mentolo. Quello che mi chiedevo era: che me ne importa di cosa odora Larsen?!
- Noi ragazzi abbiamo metodi diversi per farvi capire che ci piacete. Come ad esempio farvi i dispetti, per avere attenzioni da voi. –
Il mio stomaco fu sul punto di rigettargli la cena addosso, non so se per dispetto, o perché si fosse improvvisamente svegliato dentro di me un folletto salterino, in preda a crisi convulsive. A mio parere, era la notizia.
-Tu hai dei seri problemi. – scandii alla fine, inarcando un sopracciglio e storcendo le labbra.
Larsen scoppiò a ridere, e per la prima volta sembrava che fosse una risata pulita, cristallina.
-E ora perché ridi? – domandai a disagio.
-Perché è questo che mi piace di te. Le tue espressioni, il tuo modo di fare. Il modo che hai di prendertela quando ti do fastidio, o quando ti arrabbi con i tuoi stupidi compagni di squadra durante le partite. E i tuoi capelli. Adoro la tua volubilità.  – disse sorridendo.
Il folletto nel mio stomaco (o nel mio cervello?!) saltava vittima di epilessia, e continuavo a guardare Larsen come fosse impazzito.
Perché era impazzito.
Una persona sana di mente non avrebbe mai fatto quello che stava facendo lui quella sera. O meglio dicendo.
-Tu hai dei seri problemi. – ripetei.
Larsen rise amaro, e guardò da un’altra parte.
-Sapevo che avresti reagito così. – disse, più a se stesso che a me.
-Senti io… -
No. Non sapevo che dire, ma per fortuna Larsen mi tolse dall’incomodo di parlare, perché intrappolò la mia bocca con la sua. Quindi a ripensarci bene, non so, se definirla fortuna. Fatto sta, che rimasi talmente sconvolta che non mi mossi, e lo lasciai fare. Percepii un formicolio sulle labbra, quando la sua lingua le accarezzo, leggera e delicata, finché si infilò nella mia bocca, pronta ad esplorarmi. A quel punto mi riscossi e gli piantai uno schiaffo in faccia, senza dire nulla. Larsen rimase per un secondo attonito e poi sorrise.
-Fai la difficile ora? – chiese.
-La difficile?! Tu sei completamente fuori di testa! –
-Per un bacio? – si difese aggrottando le sopracciglia.
Non c’era ombra di scherno sul suo viso, sembrava solamente e realmente sorpreso di ciò che stava accadendo.
-Non ci credo che non provi attrazione per me. Perché lo percepisco, e il modo che hai di comportarti non fa che confermare la mia tesi. – disse.
-Tu sei pazzo. – intimai, prima di girare i tacchi per tornare dentro. Larsen mi agguantò per il braccio ferito, mi sfuggi un gemito, e mi lasciò andare immediatamente.
-Scusa, non volevo farti male. Vorrei che mi ascoltassi. –
-Credo di aver ascoltato abbastanza i tuoi vaneggiamenti, per stasera. Hai una ragazza Larsen. –
-Credi che non lo sappia?  Clara è fantastica ma... lei mi fa sentire in trappola. – spiegò, con espressione da cane bastonato.
-Oh povero cucciolo di Fwooper! E allora perché ci stai? Vedi che sei matto?! – dissi, battendomi due dita sulla tempia, per rimarcare quello che avevo detto.
-Sono obbligato a starci. – replicò lui con un sospiro.
-In che senso? – chiesi, inarcando un sopracciglio.
Okai.
Forse iniziavo a credergli.
-Nel senso che… -
Ma no. Lui era Larsen.
Non fece in tempo a finire la frase, perché un fruscio di ali mi distrasse e quando mi voltai vidi Frenkie schiantarsi addosso a Larsen, che aveva protratto le mani in avanti per proteggersi senza successo. Frenkie aveva probabilmente volato ad una velocità sconsiderata, visto che Larsen era indietreggiato verso l’interno della mia casa. Ringraziai mentalmente Frenkie per aver fatto il lavoro al posto mio, prima di recuperarlo e con lui la mia risposta da parte di Allegra.
-Ma che cavolo ha il tuo gufo?! – domandò Larsen, pigiandosi su una guancia, il dorso della mano. Frenkie lo aveva ferito in viso, altro lavoro che aveva fatto al posto mio. Liberai il gufo scemo, nella speranza che arrivasse all’uccelliera senza perdersi e portai la mia attenzione su Larsen.
-È vecchio e scemo. Fammi vedere. – dissi, spostandogli il braccio per esaminare la ferita. – è solo un graffio, un po’ di Pozione Ricostituente e domani starai bene. –
-Ragazzi! - gridò mia madre, passando per andare nella sala da pranzo. – Venite a mangiare i dolci! –
Larsen si ritrasse al mio tocco e rientrò con gli occhi grigi spogli di emozione, io rimasi un secondo immobile. Percepivo ancora le labbra umide, e poi non so perché le leccai. Un sapore morbido e delicato. Le sigarette magiche alla menta. Il sapore di Larsen.
Bleah. Bleah. Bleah.
 O forse…
No. Lui era Larsen.
Raccolsi da terra la sigaretta magica che lui aveva lasciato andare all’impatto con Frenkie, e la spostai nel posacenere. Dopo il ruttino di commiato, mi sorpresi a chiedermi.
Perché diavolo era obbligato a stare con quella… orientale?! Per le gonne di Giunone, avrei dovuto sguinzagliare il mio personale investigatore privato: Nicola. 

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Capitolo 5
*** Cap. 5 ***


La risposta di Allegra era ovviamente espressione della solita calma a cui cercava di addestrarmi. Non finii neppure di leggerla. La abbandonai sulla scrivania e mi sedetti sul letto con la mia bacchetta fra le dita. Nove pollici, legno di alloro e nucleo di corde di cuore di drago. Una bacchetta capricciosa come me. La accarezzai prima di riporla di nuovo sul comodino e coricarmi, ma anche avendo sonno, non riuscivo a dormire. Ripensavo a Larsen, al modo in cui mi aveva baciata. Il sapore del mentolo.
NO. Proprio no.
Mi girai dall’altra parte, ma il pensiero di Larsen non mi permetteva di dormire. Perché era obbligato a stare con quella orientale? Soprattutto: chi lo obbligava?
Soprattutto-tutto: che importava?!
Ficcai le mani sotto i cuscino e mi posizionai a pancia in giù.
“Nel senso che…” aveva detto. Quindi stava per dirmelo, ma perché dirlo proprio a me?!
Sbuffai e tornai seduta sul letto. Scostai le coperte e andai alla scrivania, presi la carta da lettere e iniziai a scrivere a Nicola. Avrei voluto attendere la mattina, ma non ci riuscivo ad aspettare ancora. Larsen mi aveva incuriosita, anche se probabilmente avrebbe sfruttato una mia qualche reazione per ridicolizzarmi ancora davanti a tutti. Non che me ne importasse qualcosa.
Okai, forse un po’, ma a chi piace essere preso in giro davanti a tutti !?
Avevo passato cinque anni di inferno Idiotus per colpa di Larsen e la sua cricca, quindi adesso mi serviva qualcosa contro di lui. Prima che lui usasse dell’altro contro di me.
Scribacchiai una richiesta di aiuto a Nicola, poche parole ma incisive, dopo di che infilai un mantello sopra al pigiama e mi diressi all’uccelliera. A metà tragitto mi resi conto che stavo esagerando. Che cos’era tutta quella fretta, quella curiosità di sapere se Larsen diceva la verità o mi stava solo prendendo in giro? Feci un respiro profondo e tronai in camera, ma quando arrivai la porta era socchiusa. Ed io ero sicura di averla chiusa. Spensi il bagliore che avevo utilizzato per farmi strada, dalla punta della bacchetta, e scostai un po’ la porta per guardare all’interno. La luce era accesa, e notai una figura appoggiata alla scrivania.
Larsen.
Irruppi nella stanza furibonda.
-Larsen! - gridai a voce bassa. Sempre che si possa gridare a voce bassa.
Lui si voltò per niente scosso dal mio ingresso nella stanza.
-Levante…- disse lui, a mo’ di saluto. Giocherellava con una piuma d’oca, in modo innocente, come se non fosse stato colto sul fatto a rovistare tra le mie cose.
-Che stai facendo nella mia stanza?!- gridai. Ovviamente sempre a voce bassa.
Lui bruciò la distanza che ci separava e per un attimo sperai mi baciasse.
No! Volevo dire, pensai.
Riformulo.
Pensai che mi avrebbe baciata. Oh, meglio.
Invece si affacciò dalla porta, controllò fuori e la richiuse alle spalle, poggiandosi sopra di essa, e puntò il suo sguardo metallico su di me.
-Smettila di gridare. Devo parlarti. - bisbigliò.
-Non voglio…- urlai, ma il mio grido fu interrotto da un altro bacio di Larsen. Lo spinsi via indignata, gli occhi roventi per come si stava comportando. Non riuscivo ad articolare parole per quanta rabbia avevo in corpo, ma se avessi cominciato, avrei forse smesso il giorno di Santo Stefano.
-Scusa, ma è l’unico modo che conosco per farti stare zitta. - mormorò.
-Dammi un solo buon motivo per non prenderti a calci nel culo immediatamente e sbatterti fuori, oltre che dalla mia stanza anche da casa! - ringhiai.
I Larsen passavano spesso i Natali con noi. Per cui altrettanto spesso li ospitavamo per le vacanze, visto che la loro abitazione di trovava a Venezia.
-Devo parlarti e la situazione è piuttosto urgente - disse il pel di carota.
-Mi prendi per il culo, Larsen? -
-Per quanto vorrei, stavolta sono serio, Svart- bisbigliò lui, con il volto corrucciato. Non permise che aprissi bocca per controbattere.
-Hai mai sentito parlare del Carro del Sole? - domandò.
-Che?!- chiesi incredula. Sì, ne avevo sentito parlare, ma era una leggenda. Larsen mormorò qualcosa nella sua lingua, mandando gli occhi al cielo. Ebbi l’impulso di dargli un pugno allo stomaco. E uno in faccia. E un calcio ai…
-Lo chiamano anche il Carro di Apollo. - proseguì lui.
-Lo so che cos’è, e conosco la leggenda. Sei venuto a raccontarmi la favola della buonanotte?! No, perché non so in Svezia come funziona…-
-Norvegia. - puntualizzò lui.
-Quello che è! - sbuffai io. -Ma qui le favole…-
-Vogliono rubarlo. - mi interruppe lui.
Rimasi per un momento attonita. Rubare una cosa inesistente? A quel punto ero sicura che si stesse di nuovo prendendo gioco di me.
-Mi prendi per il culo, Larsen. - asserii, e questa volta non era una domanda, ma una costatazione. Kenneth sbuffò, e mandò ancora gli occhi chiari al cielo.
-Come faccio a fare in modo che tu ti possa fidare di me? - domandò.
-È impossibile. E adesso vattene. - intimai.
-No, devi ascoltarmi - si fece perentorio lui. -La leggenda narra che il carro del Sole sia un oggetto magico in grado di portare l’oscurità sulla Terra. Immagina che cosa potrebbe succedere se capitasse nelle mani sbagliate. Ed è già nelle mani sbagliate.-
-E tu come lo sai? Tramite un gufo viaggiatore? E perché lo dici proprio a me? - domandai acidamente.
Avrei già dovuto cacciarlo a calci, ma il fatto che fosse appoggiato alla porta e soprattutto che fosse più alto di me, di almeno dieci centimetri, mi impediva di agire. Larsen sospirò, indeciso, se rivelare di più oppure no.
-Allora? Non hai la risposta pronta stavolta?! Che peccato! Evapora Lasen o mi metto a gridare. -
Ero abbastanza fiera della piega che stava prendendo quella conversazione. Lo stavo mettendo alle strette. Era nel mio territorio, e per quanto mio padre potesse essere docile e comprensivo, se qualcuno si fosse permesso di molestare la sua bambina, probabilmente lo avrebbe ridotto in poltiglia. Larsen sembrava scrutarmi con quegli occhi di ghiaccio, e mi sentii quasi a disagio. Era la prima volta in vita mia che qualcuno mi guardava in quel modo, e la prima volta in vita mia che sotto lo sguardo di Larsen mi sentivo strana.
-Emma devi ascoltarmi. - riprese. -Tu e la tua famiglia siete in pericolo-
Quello che aveva detto mi destabilizzò. Non perché temessi davvero che la mia famiglia fosse in pericolo, ma perché forse per la prima volta da quando eravamo diventati esseri dotati di senso etico e morale, Larsen mi aveva chiamata per nome. Mi riscossi da quell’intorpidimento.
-Larsen adesso basta, questo scherzo è assurdo e tu sei un cretino, perché ti sei inventato di meglio. E adesso vattene o ti prendo a calci nelle palle. E non in senso figurato! -
-Non mi sono inventato niente. È tutto vero. - si difese.
-Certo- replicai io acida. -Come quando hai detto che ti piaccio. Mi sto infastidendo Larsen, ergo manca una tacca prima che mi incazzi sul serio. Per cui se vuoi farmi il piacere di andartene, ne sarei molto lieta! -
Estrassi la bacchetta per sembrare più minacciosa, anche se di minaccioso a pensarci bene, non avevo nulla. Il mio pigiama era anti-tutto. Due gufi che si abbracciavano con un fumetto sulle loro teste che recava scritto “Hug”, e le mie ciabatte, erano due pinguini sorridenti con un cappello di lana. Accidenti.
-Non ho mentito. Mi piaci davvero Svart. - disse lui con sguardo grave, come se quelle parole avessero necessità di essere pronunciate solennemente. A quel punto lo vidi fare un passo verso di me, e la mia reazione fu quella di difendermi. Rimanendo immobile.
E di insultarlo.
Rimanendo in silenzio.
-Non hai idea del tuo potenziale Svart. - sussurrò Larsen, prima di sfiorarmi una guancia con il dorso delle dita. Io reagii irrigidendomi a quel tocco, perché percepii un brivido corrermi lungo la schiena come una scossa, il cuore cominciare a battermi in gola, e le guance arrossarsi, senza il mio permesso.
-Smettila di baciarmi! - sbottai.
-Non ti ho baciata. Non ancora per lo meno, e non come si deve- replicò Larsen abbassando la mano. -Ma a giudicare dalla tua reazione, non credo ti dispiacerebbe. -
Deglutii.
Rumorosamente in silenzio.
E a quel punto Larsen sfiorò le mie labbra con le sue, a posarvi un bacio leggero. Quando riaprii gli occhi, perché sì, li avevo chiusi, Larsen era sparito e la porta davanti a me era aperta. E io ero praticamente accartocciata su me stessa, nemmeno a dire che Larsen mi avesse lanciato contro un Anatema che uccide. Rimasi in piedi a fissare il punto in cui Kenneth era sparito, avevo la bocca secca, per cui mi leccai le labbra. DI nuovo. Mentolo.
No!
Chiusi la porta con un tonfo e me ne tornai a letto, indignata. Ma quella notte non riuscii a chiudere occhio. Continuavo a pensare a Larsen, a quello che aveva detto, a quanto era serio mentre parlava. E a quell’ultimo bacio che mi aveva dato. Non all’irruenza del primo, né all’urgenza del secondo, ma alla dolcezza e alla leggerezza del terzo.
 
L’indomani mattina mi alzai, un po’ stordita per gli eventi della sera precedente. Decisi di non pensarci, che in fondo erano solo stupidaggini, e mi diressi in cucina per fare colazione. Adoravo la colazione della mattina di Natale, la nonna faceva le brioche fatte in casa, e mentre percorrevo il corridoio potevo già inalarne l’odore, con conseguente acquolina in bocca. Mi fiondai giù per le scale, con lo stomaco che brontolava, ma quando varcai la soglia della cucina, vidi solo Larsen seduto sul bancone, con le gambe penzoloni che ridacchiava. Sentii lo stomaco torcersi, e il cervello vibrarmi.
-Emma! - disse mia nonna entusiasta, facendo capolino con la testa dietro al pel di carota. A quel punto lo sguardo di Larsen si posò su di me, e sorrise amabile.
Lui. Amabile.
Ma per piacere.
TUTTA UNA FARSA.
-Buongiorno Emma. - mi salutò, mentre saltava giù dal bancone. Io feci una smorfia con la bocca. Larsen sorrise di nuovo, prese una brioche calda dalla teglia e disse:
-Grazie Angelica, mi sei stata molto di aiuto. -
-Non c’è di che, caro- rispose mia nonna affabile.
Poi Larsen camminò verso di me, e mi oltrepassò, ammiccando. Io lo seguii con lo sguardo, finchè non si voltò. 
-Oh Emma, prima di pranzo ti va di ripassare qualcosa di Erbologia? - domandò con la bocca piena.
-Io non seguo più quel corso- lo liquidai.
-Lo so, ma tua nonna dice che sei brava a estrarre Mandragole, e ho bisogno delle loro radici per l’esame di Pozioni. Proprio come te. - sorrise lui con la faccia da schiaffi.
-Oh. - dissi. -Beh… io … -
-Fantastico, ti aspetto alla serra tra un po’. A dopo. - concluse e sparì in corridoio.
Pensavo che quella storia mi avrebbe fatto venire una serie di tic nervosi, per quanto la mia bocca stava dando luogo a spasmi di rabbia. Avrebbe potuto aspettare in eterno. Io alla serra non ci sarei andata.
Mi voltai con la faccia soddisfatta, per incorrere in uno sguardo nonnesco, di chi la sa lunga, che mi offriva la mia tazza di caffè latte.
-Cosa? - domandai prendendo la mia bevanda.
-Vi piacete. - disse a freddo mia nonna.
Per poco non mi andò di traverso un pezzo di brioche che avevo appena morso. Cominciai a tossire per la mancanza di aria, ma la nonna agitò la bacchetta e tornai a respirare. Affannosamente.
-Ma che ti salta in mente? Vuoi farmi morire il giorno di Natale? - la sgridai.
-Oh, scusa tesoro, non credevo che questa constatazione potesse farti questo effetto. -
-Noi non ci piacciamo, e basta. Piantatela tutti con questa storia. - replicai.
-Perché allora ieri sera era in camera tua? - domandò nonna, furbescamente.
-E tu che cosa ne sai? - chiesi strabuzzando gli occhi, mentre un pezzo di brioche che avevo intinto nel latte si staccava e cadeva nella tazza.
-Oh, beh… Le nonne sanno sempre tutto. Ti ha dato fastidio? - disse, facendo il giro del bancone per rimettersi all’opera. Mia nonna era una delle poche streghe credo, che impastasse la pasta a mano. Finchè non le faceva male la schiena, poi usava la bacchetta anche lei.
-Larsen? No, mi ha… ecco… dato un bacio. Ma è successo prima, quando eravamo in terrazza e poi dopo in camera altri due - sputai tutto come fosse una liberazione, mentre raccoglievo il pezzo di brioche con un cucchiaino.
-Davvero!?! E … -
-Ha detto che gli piaccio e che non vuole più stare con la cinese. - spiegai affranta.
Non sapevo perché, ma il pensiero che potesse baciare anche Clara mi infastidiva. No, forse mi infastidiva lei e la sua perfezione maledetta. Lei e quei capelli neri sempre perfettamente lisci. Lei e quegli occhioni a mandorla. Lei e il suo fisico perfetto.
-È giapponese - mi corresse mia nonna -Comunque io andrei alla serra. -
-Col cavolo! Quello non vede l’ora di avere altre armi per ridicolizzarmi! Pensa che potrebbe dire a scuola! “Ragazzi lo sapete che ho sedotto la Svart Sau e lei ci ha creduto come una stupida?” - lo imitai nella frase finale.
-Svart che? - chiese mia nonna.
-Niente è uno stupido soprannome che mi ha dato Larsen. E comunque: alla serra non ci vado. -
-Solo per studiare… - buttò là mia nonna.
-NO. -
-Okai, allora vai a prendermi qualche foglia salvia, devo condire la carne prima di cuocerla -
-Va bene… Ehi aspetta un attimo… è nella serra! - gracchiai.
-Certo, dove vuoi che sia. – sorrise furba mia nonna e usci dalla cucina. E il mio labbro superiore, ebbe di nuovo una serie di spasmi.
 

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Capitolo 6
*** Cap. 6 ***


Tra un spasmo e un’imprecazione finii di fare colazione, anche se non avevo più fame. Presi una decisione risoluta: non sarei andata a prendere la salvia, né tanto meno avrei incontrato Larsen. Piuttosto avrei inghiottito un rospo sano, ma proprio mentre pensavo al sapore del rospo, mia nonna tornò in cucina insieme a mia madre e mia sorella. Chiacchieravano tutte amabilmente.
Spasmo.
-Oh sei ancora qui Emma? La salvia. – disse mia nonna con un gran sorriso. 
-Ma…- stavo dicendo.
-Emma piantala, devi solo scendere alla serra e prendere un po’ di salvia, non è difficile come studiare. – borbottò mia madre.
Spasmo.
Mia nonna mi fece l’occhiolino e ridacchiò sotto i baffi, mentre mia sorella mi studiava dubbiosa.
Spasmo doppio.
-E sbrigati! – mi redarguì mia madre.
Triplo.
Mi alzai dal tavolo, e mi diressi nella mia stanza, seguita dai continui borbottii lamentosi di mia madre, che mi accusavano del mio perenne nervosismo, tutte le volte che passavo del tempo a casa. Salii i gradini a due a due, finché arrivai in camera. Mi cambiai e legai i capelli in una coda di cavallo, per poi riscendere di corsa.
 
Mi avvicinai furtivamente alla serra, neppure fossi una ladra. La porta era semi aperta, la scostai quel tanto per passarci in mezzo, ed entrai. La serra è composta all’incirca da un migliaio di stanze, piene di piante di tutti i tipi, anche se da fuori sembra sia molto più piccola. A seconda del tipo di vegetali all’interno, c’è un clima diverso. Passando tra una parte e l’altra, cercavo di nascondermi tra le piante più alte per evitare Larsen, ma ad ogni passo mi sentivo più sicura, perché di lui non c’era ombra. Girai in modo più disinvolto dentro la serra, anche se rischiavo di perdermi. Lo odiavo quel posto, e da bambina mi terrorizzava: troppo grande, troppo verde. Che poi a me nemmeno piace il verde. Trovai finalmente la pianta di salvia, e ne staccai qualche foglia.
-Pensavo non saresti venuta. – mi sussurrò Larsen all’orecchio. Se avessi avuto una molla sotto i piedi, il mio salto non sarebbe potuto essere più alto. Mi voltai sgomenta, per essere stata scoperta, e con disappunto notai quanto il corpo di Larsen fosse vicino al mio. Gli diedi una spinta e lo oltrepassai, indignata.
-Sei un vero deficiente. – ringhiai, camminando tra le piante, attento a non calpestale.
-Non lo pensi davvero. – intervenne lui seguendomi.
-Da quanto ti importa quello che penso? – lo incalzai.
-Più o meno da quando ho capito che mi piaci, Svart. E non è stato facile ammetterlo, né a me stesso, né a te. – disse.
-Povero cucciolo di Fwooper. – gracchiai.
-Ti fermi!? – chiese Larsen agguantandomi per un braccio.
-E non toccarmi! – mi rigirai, svincolandomi dalla sua presa. Poi presi un bel respiro, senza riuscire a guardarlo negli occhi.
-Senti Larsen… Siamo abbastanza adulti da poter fare a meno di queste stupidaggini. Basta scherzi, e basta prese in giro. Potremo limitarci ad ignorarci a vicenda. Ecco. – proposi, incontrando il suo sguardo alla fine.
Kenneth inarcò un sopracciglio ramato, stupito. Mi fissò per qualche secondo e poi scoppiò a ridere.
-Appunto. – sbuffai alzando gli occhi al cielo, per poi dargli ancora le spalle, e continuare a camminare verso l’uscita.
-No, Svart aspetta. – mi richiamò lui, inseguendomi di nuovo. A quel punto senza sapere il perché, mi inchiodai sul posto e mi voltai di nuovo a guardarlo. Ero stupita dal mio comportamento, e ne sembrava stupito anche Kenneth.
Larsen.
Non bisogna dare i nomi alle cose, altrimenti ti ci affezioni.
-Che vuoi Larsen? Mi stai esasperando. –
Lui sembrava confuso, combattuto. Poi indirizzò lo sguardo ai suoi piedi, e poi si guardò intorno. Infine mi oltrepasso e chiuse la porta. Ci trovavamo nella sala delle piante tropicali, l’umidità e il caldo riproposto la dentro, mi stava facendo sudare.
O forse era la situazione a farmi sudare.
Al centro c’era un tavolo in metallo, coperto di vasi e terra. Larsen si diresse lì, e sposto qualche vaso sul pavimento, e prima che potessi obiettare mi prese di peso, e mi ci appoggiò sopra, in modo tale che stessi alla sua altezza.
-Ma sei scemo?! – strillai, arpionando il piano in metallo con le mani, per darmi una spinta e scendere. Lui mi bloccò al tavolo e mi fissò intensamente negli occhi.
-Sei troppo bassa. Mi viene il mal di collo a guardarti in faccia. – si giustificò lui con tono altezzoso.
Mi venne voglia di agguantare un vaso e tirarglielo in testa, ma tra l’uccidere Larsen e ascoltare quello che aveva da dire, vinse la seconda. Quindi lasciai andare uno sbuffo, e incrociai le braccia al petto, con fare critico.
-È per questo che non hai un fidanzato, lo sai? Perché guardi tutti male. – mi informò Larsen.
-Qualcuno ha chiesto il tuo parere? – domandai guardandomi intorno, alla ricerca di qualcuno. – Ah. No. Per cui muoviti a parlare o me ne vado. –
-Sei in pericolo. – disse lui ignorandomi.
E io detestavo essere ignorata.
Feci per aprire la bocca, ma Larsen fu più veloce.
-Tu puoi attivare il Carro di Apollo, Svart. Ti vogliono rapire. In tutti questi anni non ho fatto altro che romperti le scatole, perché dovevo tenerti d’occhio, capire se sapevi qualcosa di questa storia, oppure no. – disse Larsen tutto d’un fiato.
Io lo guardavo con la bocca aperta, incredula. Senza sapere perché gli credevo…
Ma lui era Larsen.
Il principe dell’inganno.
-Perché non prenoti una visita all’ospedale Traiano? Perché sei fuori. – gli dissi.
-Svart, non ti sto prendendo in giro. È reale tutto questo… Mio padre… - sbuffò, come alla ricerca delle parole giuste.
-Mio padre paga per delle cassette di sicurezza alla Banca Romana, lì c’è il carro. Lo hanno minacciato, gli hanno detto che se non lo avesse custodito, avrebbero ucciso me e mia madre. – continuò Larsen.
-Bella storia. – replicai impassibile.
-Per questo devo stare con Clara. Il nostro fidanzamento sancisce l’accordo. –
-Quale accordo? – mi ritrovai a domandare.
-Quello per il quale mio padre, doveva rubare la bacchetta a tuo padre. Solo che ha scoperto che non è di legno di alloro, e non è dello stesso materiale del carro. La tua però è di alloro, Emma. –
Sentii i peli rizzarsi sulle braccia, quando Larsen pronunciò le ultime parole. Era vero, la mia bacchetta è di alloro.
-E perché lo stai dicendo a me? Pensi che ti creda? – chiesi, irritata.
-Perché non voglio ritrovarmi a raccogliere il tuo cadavere. – disse lui con sguardo grave.
-Ooooh. Certo. Levati dai piedi, imbecille. – lo scansai per scendere dal tavolo.
O per lo meno era l’intenzione iniziale. Che poi Larsen fosse troppo alto e troppo ben piazzato, perché una nana come me potesse anche solo spostarlo di un millimetro, era un’altra storia.
Triste e poco umoristica.
Perché infatti non ci mise nulla a riagguantarmi e ad inchiodarmi di nuovo al tavolo.
Accidenti.
-Lasciami andare Kenneth. – intimai.
Giusto perché mi ero ripromessa di non dare nomi.
-Svart, dico sul serio. Pensa al tuo cognome. Levante. –
-È un bel cognome. – asserì con fierezza.
-Sì, d’accordo, ma non ti fa pensare a qualcosa che sorge? Come il sole sul carro di Apollo? – insistette Larsen.
-Sì, ma è un po’ forzato. Ora se vuoi scusarmi devo portare la salvia a mia nonna, o non mangiamo. – lo liquidai e feci di nuovo per scendere dal tavolo, ma Larsen non ne voleva sapere di spostarsi.
-Come faccio a fare in modo che tu ti possa fidare di me? –
-Te l’ho detto ieri sera. Non puoi, è troppo tardi. E spostati, cavolo Larsen! – dissi arpionando questa volta il suo maglione bordeaux, ma il tutto non fece altro che farmi cadere di nuovo tra le sue braccia.
Spasmi e tic nervosi erano ormai diventati il mio pane quotidiano. Con i piedi per terra forse era più semplice spostarlo, anche se mi aveva avvolto tra le sue braccia.
Non che ci stessi male.
Ma ero dannatamente a disagio.
-Spostati… Lasciami! – gridai.
-Mi sposto o ti lascio? –
Il tono mellifluo che aveva assunto, mi fece tornare alla mente tutte le sue prese in giro. Quella vena mielata nella voce, la usava solo quando aveva intenzione di fare qualcosa di tremendamente idiota. E se avesse riprovato a baciarmi, a quel punto avrei dovuto attuare il mio piano malefico: spaccargli un vaso in testa.
-Magari entrambe le cose!? – dissi dimenandomi.
A quel punto mi mollò e si fece da parte per lasciarmi passare. Il che mi risultò strano: Larsen che non faceva resistenza? Larsen che non aveva l’ultima parola in un discorso?
Quel pel di carota mi avrebbe fatto uscire di senno, lo pensai nel momento in cui arrivai alla porta e notai la sua mano sopra la mia testa che premeva per tenerla chiusa. Percepii il suo respiro fresco sul collo, e accarezzarmi l’orecchio. Un brivido mi percorse tutta la schiena.
-Torni tra poco per le mandragole? – mi disse, con la voce così pacata, da farmi rabbrividire.
Deglutii.
Rumorosamente, in silenzio.
-Fammi uscire. – dissi solamente.
Sentivo l’aria mancarmi, e il cuore battere neppure ci fossero sette nani a scavare alla ricerca di oro. A chi l’arduo compito di far sapere ai suddetti, che non lo avrebbero trovato? E quindi sarebbe stato gradito che la smettessero?
Larsen fece un passo indietro, ed io imboccai la porta. Uscii di corsa, e per poco non mi prese un accidente. Ero sudata, neanche avessi corso per un miglio e più, e fuori faceva freddo. Il mio respiro non riusciva a tornare regolare, qualcosa dentro di me protestava, ma non capivo bene da dove provenisse, per cui rinunciai a capirlo.
E comunque alla fine si era rivelato ciò che era: aveva fatto resistenza, e aveva di nuovo avuto l’ultima parola.
Accidenti a lui.
 
Rientrai in casa e mi fiondai in cucina, mentre le altre donne di casa erano intente a preparare il pranzo. Posai le foglie di salvia frettolosamente sul bancone e mi dileguai. Feci giusto in tempo a vedere mia madre inarcare un sopracciglio stupita, prima di varcare di nuovo la soglia della cucina e salire di nuovo i gradini per la mia stanza. Presi la lettera che avevo scritto la sera prima per Nicola. Non feci aggiunte, e corsi all’uccelliera.
Frenkie era lì, e quando mi vide agitò le ali, prima di volarmi addosso.
-Sì, stupido piccione è per te. – lo insultai, prima di dargli la busta e liberarlo.
Ero tremendamente scossa dalla conversazione che avevo avuto con Larsen, dal suo modo di fare.
Di certo ci sapeva fare con le ragazze, e oltre ad essere carino, sapeva vendersi. Se avesse agito nel modo in cui aveva agito con me, con una ragazza del primo anno, quella si sarebbe strappata i vestiti di dosso all’istante.
Ma io, no.
Sono risoluta fino al midollo.
Non gli avrei dato quella soddisfazione, neppure in un’altra vita, o in un mondo parallelo.
Però i miei piedi tornarono, alla serra.
Accidenti.

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Capitolo 7
*** Cap. 7 ***


-Accidenti. - commentò Allegra, sorpresa quanto me, anche se i suoi occhi verdi nascondevano uno sguardo sornione.
-Cosa?! - grugnii già sapendo ciò che le passava nella mente senza essere una Legilimens.
-Raccontami di nuovo di come hai estratto le Mandragole. – disse accompagnano allo sguardo, questa volta anche un ghigno malefico.
-Allegra. – soffiai perentoria, mentre lei si sistemava con il mento appoggiato ai palmi sul tavolo in legno dell’aula studio. –Ti faccio diventare i capelli azzurri. – la minacciai.
-Anche di Capodanno. – seguitò lei imperterrita, appoggiando i gomiti sui libri aperti sotto il nostro naso.
-Dov’è Diana quando serve? – piagnucolai, infilandomi le mani nei capelli blu oltremare dalle lunghezze azzurre.
-A Hogwarts, il suo semestre lì è da questo Gennaio. E sai che ti direbbe le stesse cose che ti sto dicendo io. – mi disse Allegra senza togliersi quel ghigno dalla faccia.
-Invece ci direbbe “Basta chiacchiere, dovremmo studiare. Per l’appunto. – blaterai facendole il verso.
-Sì, sì, come ti pare. – rispose lei con un gesto della mano a lasciar correre. – Allora? –
-Non te lo racconto di nuovo. Il mio fegato chiederà lo sfratto per la bile. – conclusi aprendo il libro di “Antiche Rune”. Il tomo piuttosto grosso, aperto con foga fece un gran baccano e beccai un’occhiataccia dalla maggior parte dei presenti in aula. Decisi di ignorare gli occhi di Allegra piantati addosso, in attesa.
Della mia rovina.
-Emma… - cantilenò.
-Sto studiando. –
-E smettila, non ti va mai di studiare! – esclamò Allegra chiudendomi il libro sotto il naso.
Sbuffai indispettita e il ciuffo di capelli blu che mi copriva il viso, svolazzò in aria. Pensai di avere un’allucinazione quando vidi i capelli ricadermi davanti agli occhi, insieme ad un bigliettino a forma di aeroplanino, che si posò delicatamente sul libro chiuso di Antiche Rune. Allegra si drizzò con un sopracciglio inarcato e si guardò intorno circospetta, ma lì di nostra conoscenza non c’era nessuno. Ci scambiammo uno sguardo di intesa, e infine aprii il biglietto.
 
“Emma alle 15 agli spalti.
Un bacio magico.
N.”
 
-Ti giuro che lo ammazzo. – dissi rilasciando la tensione accumulata nei cinque minuti dall’arrivo del biglietto, fino alla sua apertura.
-È Nicola. – informai Allegra.
-E aveva bisogno di tutta questa segretezza?! Credevo fosse Kenneth! –
-Sta zitta! – bisbigliai io, nella speranza che il mio tono di voce in qualche modo influisse sulla frase appena pronunciata da lei a voce troppo alta. –E non chiamarlo per nome. –
Che dopo ti ci affezioni. Avrei voluto aggiungere.
E se Allegra si fosse affezionata, i miei piani malefici di spaccare vasi in testa a Larsen o strozzarlo con radici di Mandragola, sarebbero stati solo vaghi ricordi.
E non erano gli unici modi con cui avrei voluto ucciderlo.
Ce ne erano tanti. Ci pensavo la notte.
Ma non è questo né il luogo, né il diario adatto per scrivere questo tipo di sciocchezze.
Per quelle farò un diario a parte. Sono troppe.
Tornando a noi: mancavano cinque minuti alle tre, per cui piantai Allegra in aula studio e mi fiondai correndo agli spalti. Come se Nicola potesse scappare.
Il problema era che dalla lettera che gli aveva inviato non avevo avuto più sue notizie, tranne tre parole scarabocchiate di corsa. Anzi due.
Fammi indagare
Un corno di Unicorno Nicola!
 
Arrivai in cortile trafelata, con i capelli appiccicati alla faccia, e l’uniforme sgualcita dalla corsa. Il libro di Antiche Rune sotto il braccio che forse faceva il mio peso senza copertina rigida.
-Nico! – sbracciai.
Il ragazzo impegnato nella lettura di un tomo leggero (mica il mio!), con un zazzera di capelli scuri e gli occhi azzurri, così chiari da sembrare di ghiaccio, si voltò e mi sorrise dolcemente come solo lui sapeva fare.
Nicola Massimo Augusto Giuli, proveniente da niente poco di meno che dalla famiglia giulia, antica come il Colosseo e gli stessi fori mi stava aspettando seduto sugli spalti. Non mi ero resa conto che una delle squadre si stesse allenando.
E che fosse proprio la Cesarea.
-Ciao splendore! – disse regalandomi un abbraccio. Il suo fare era indiscutibilmente effemminato, come i lineamenti. È talmente bello da essere scambiato per una donna e quegli occhi pieni di ciglia mi fanno proprio invidia. Nemmeno con otto chili di mascara i miei, sarebbero come i suoi al naturale.
Che odio.
-Mi prendi in giro Nico? – esordii prendendo posto accanto a lui.
-Perché? – chiese lui candido, scivolando come sempre dalle nubi.
-Lascia perdere. – dissi con un cenno della mano. – Perché volevi vedermi? –
-Andiamo Emma! – ridacchiò. – Il gufo che mi hai mandato a Natale. Ho qualche informazione, ma nessuna troppo fondata. Sono voci di corridoio. –
-Sono sempre voci di corridoio le tue. – sorrisi furba.
-Beh, da quello che ho scoperto… - iniziò assumendo la solita posa da uomo d’affari quale era. Mi chiedevo spesso se non facesse parte di qualche traffico particolare di informazioni, perché spesso e volentieri era difficile risalire ai suoi informatori.
E il fatto che conducesse uno spaccio interno alla scuola di sigarette magiche, in un posto dove ne era severamente vietato il consumo, qualche domanda la faceva venire spontanea.
In ogni caso il mio sguardo fu attirato dagli allenamenti che si stavano svolgendo al centro del campo. Era la simulazione di una partita con squadre miste tra i titolari e le riserve in caso di infortunio. Larsen stava litigando con il capitano della squadra, entrambi erano rossi in viso per lo sforzo di gridare. Le urla arrivavano agli spalti, ma non si distingueva ciò che si stavano dicendo. Ridussi gli occhi a fessura per cercare di leggere il labiale, ma erano troppo lontani.
-…Si piacciono, dicono. Ma il fatto che abbiano già una promessa di fidanzamento…- diceva Nicola.
-Che hanno?! – gracchiai tornando con l’attenzione a quello che stava dicendo il mio amico.
-Una promessa di fidanzamento. Quando finiranno la scuola si sposeranno. Emma tutto bene? Sei bianca… -
No. Non stavo bene.
Il fidanzamento sancisce l’accordo.” Aveva detto Larsen.
Sentì lo stomaco ribaltarsi.
-Che altro sai? – domandai ignorando la considerazione di Nico.
-Mormorano che ci sia qualcosa sotto, un matrimonio combinato per dei debiti dei Larsen nei confronti dei Yen Gi… -
Mio padre paga per delle cassette di sicurezza alla Banca Romana
Riportai lo sguardo con gli occhi sgranati al campo: Larsen aveva appena fatto un gestaccio al capitano per poi sfrecciare verso gli spogliatoi.  
-E diciamo che a conferma di questo c’è il fatto che… non hanno mai consumato. – concluse Nico.
-Che intendi? – chiesi, riportando l’attenzione su di lui.
-Avanti Emma! Non hanno mai, sai… - disse lui con un po’ di imbarazzo e qualche gesto strano verso il cielo.
-Fatto sesso? – conclusi con un’alzata di sopracciglio.
Nicola deglutì e arrossì. Non capisco perché gli costi così tanto parlare di sesso. Lo fanno tutti ed ormai è un tabù superato.
-Ecco. Sì, quello. – disse lui con un sorriso imbarazzato. –Ti va una burro birra? Emma! –
Ma io mi ero già alzata e stavo correndo verso gli spogliatoi.

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Capitolo 8
*** Cap.8 ***


-LARSEN! – urlai, spalancando la porta degli spogliatoi maschili con un calcio.
Okai, non era un calcio, ma una spallata. Solo che non ero stata in grado di regolarmi con la forza e la porta si era aperta con uno schianto assordante. Notai del vapore provenire dalle docce e il rumore dell’acqua scrosciare.
-LARSEN! – gridai di nuovo con quanto fiato avevo in gola.
Per un attimo pensai di averlo perso, forse se ne era già andato e il tipo sotto la doccia non era Kenneth.
Attesi qualche istante, nella speranza che i pensieri che mi stavano letteralmente bombardando il cervello si dessero una calmata, senza successo. D’un tratto scossi violentemente la testa e mi fiondai a passo di marcia verso le docce.
Feci capolino con la testa a sbirciare se fosse proprio lui.
-LA….! – il resto del nome mi morì in gola. O non lo so, le altre lettere probabilmente le ingoiai.
Kenneth era sdraiato a terra, privo di sensi.
-Cazzo! – dissi portandomi le mani al viso.
Non so se il problema fosse il fatto che era svenuto sotto la doccia, oppure che fosse nudo.
O tutte e due.
O…
-Ma porca…– mi inginocchiai accanto a lui ed iniziai a fare ciò che avrei sempre voluto fare nella vita. Sarebbe potuto diventare il mio passatempo preferito, prenderlo a sberle.
-Kenneth! Cazzo! – gli urlavo.
Mi venne in mente di cambiare la temperatura dell’acqua e di buttarcelo sotto, ma in quell’istante dopo una sessione di svariati schiaffoni, Larsen aprì gli occhi.
Quasi mi dispiacque.
-Oh! – dissi mo’ di saluto.
-Che è successo? – mi chiese, mettendosi a sedere a fatica.
In quell’istante percepii un campanello di allarme nella testa: qualcosa di sbagliato, non avrei dovuto essere lì. Poi capii dove fosse il problema: in mezzo alle gambe di Larsen, un problema grosso e in bella vista.
-Hai notato qualcosa che ti interessa, Svart? – sogghignò Larsen, provando ad alzarsi.
Avvampai e scattai in piedi, fiondandomi alle panche con il fiato grosso e il cuore pieno di sette nani, che si erano sicuramente moltiplicati dopo i cenoni delle svariate feste.
-Svart. – sentii.
-Che? – deglutii.
Rumorosamente in silenzio.
-L’asciugamano. –
Solo in quel momento mi accorsi di averlo appiccicato alla divisa. Cosa avevo addosso, la colla?!
Lo presi e lo consegnai al legittimo proprietario senza guardare, ma lo udii sghignazzare.
Accidenti a lui.
Larsen chiuse la doccia e uscì, sedendosi su una delle panche, io occupai quella di fronte a lui.
-Stai… Stai bene? – domandai incerta.
-Non lo so, qualcuno mi ha stordito. – disse lui passandosi una mano sulla nuca.
Quel movimento fece distendere l’addome piatto e muscoloso, cosi perfetto, che sembrava scolpito da Michelangelo.
Accidenti a Michelangelo e alle sculture greche.
E pure al David.
E dannato Larsen.
-E perché? – domandai a disagio.
Larsen lanciò uno sguardo alla sua borsa da Quidditch: era completamente sottosopra, e i suoi vestiti erano a terra.
-Ma che…! – esclamò dirigendosi svelto alle sue cose. Iniziò a frugarci dentro con gesti convulsi.
-Cazzo! – imprecò a denti stretti.
-Che succede manca qualcosa? –
-Porca …. – e seguitò ad imprecare per altri cinque minuti, continuando a spostare le sue cose.
Pensai di dileguarmi silenziosamente, ma le mie scarpe mi tradirono con dei rumori sinistri, mentre mi dirigevo alla porta e il mio tentativo di fuga, fu scoperto.
-È sparito. –
-Cosa? – domandai di getto. Non che mi interessasse, ma quella situazione era proprio strana e volevo capirci qualcosa.
Quindi sì, accidenti, mi interessava.
 -La Meridiana. – rispose tra un’imprecazione e l’altra.
-Eh? –
La Meridiana: manufatto magico utilizzato per rilevare la posizione di specifici oggetti o persone.
Dico manufatto perché in teoria non esistono più, o se esistono sono custoditi in teche di vetro al Museo Archeologico di Torino, e non vengono più utilizzate da migliaia di anni.
E gli Idiotus non sanno delle loro proprietà magiche.
E a meno che Larsen non fosse diventato un ladro professionista di fama, ciò che assolutamente non era, visto il suo spiccato egocentrismo e narcisismo e … Non poteva possederne una.
-Meridiana Svart? Ma i libri li studi o li porti in giro a prendere aria?! – domandò Larsen piantandomi gli occhi grigi addosso.
-Lo so cosa è una Meridiana. Quello che non so e forse non voglio sapere è: cosa te ne faresti tu, di un accidenti di Meridiana?! – sbraitai indispettita.
Kenneth sedette su una panca e si ficcò le mani nei capelli, l’espressione a metà tra ira e disperazione. Non credevo che sulla sua faccia potessero disegnarsi altre emozioni oltre al compiacimento.
-Serviva a tenerti d’occhio. – sbuffò.
La situazione stava diventando scomoda, ma soprattutto un tantino più assurda di quel che pensavo. Ciò fa notare quanto stessi iniziando a credere alle sue idiozie.
MA LUI ERA LARSEN.
IL PRINCIPE DELL’INGANNO.
Speravo che ripeterlo durante qualsiasi azione compissi nella giornata, mi aiutasse a non credergli.
A ricordarmi di che razza di stronzo fosse.
E invece alimentava solo curiosità.
Mannaggia agli gnomi da giardino.
In ogni caso quel commento mi provocò una risata isterica che avrebbe fatto in modo da non farmi più uscire dagli spogliatoi maschili di Quidditch.
Perché sarei morta.
La gente ci muore dal ridere, ma non dal piangere.
Quindi: perché ridevo di una situazione che avrebbe dovuto farmi piangere?!
-Svart non capisco cosa tu abbia da ridere. E poi che accidenti ci fai qui? –
Ammutolii.
Eh. Che ci facevo lì?!

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