Riley Jenkins e gli Dèi di Asgard - Il fardello di Sigyn di Tinkerbell92 (/viewuser.php?uid=236997)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sansa Stark mi fa volare sul fiume Charles ***
Capitolo 2: *** Mangiare il tofu di bestia o non mangiarlo? Questo è il dilemma! ***
Capitolo 3: *** Non avrete mai la mia fottuta gamba! ***
Capitolo 4: *** Mai entrare negli spogliatoi in disuso ***
Capitolo 1 *** Sansa Stark mi fa volare sul fiume Charles ***
CAPITOLO
1
Sansa
Stark mi fa
volare sul fiume Charles
Faceva ancora piuttosto caldo in quei giorni, nonostante
la seconda settimana di Ottobre stesse ormai per giungere al termine:
la maggioranza dei marciatori della Pride Parade bostoniana indossava
t-shirt arcobaleno o indumenti leggeri, rievocando
l’atmosfera della parata di Giugno.
Se quella mattina vi foste trovati a camminare sui marciapiedi di Back
Bay, avreste potuto scorgere tra la folla, caricata sulle spalle di un
gigantesco ragazzone di colore, una diciottenne allampanata con i
capelli biondo cenere raccolti in due crespi codini, i lineamenti
aguzzi e gli occhi grigioverdi, abbigliata con un top fucsia acceso,
pantaloncini verde militare e scarpe da ginnastica colorate con diversi
evidenziatori.
Sì, quella ragazza ero io: Riley Barry Jenkins, per gli
amici Ray, studentessa neoiscritta alla facoltà di Biologia
Marina. O meglio, quella ragazza ero io prima che le incasinate vicende
della mitologia norrena entrassero prepotentemente nella mia
vita.
Per nulla timorosa di cadere, stringevo tra le dita due
estremità della bandiera arcobaleno, a volte sventolandola
sopra la testa, a volte avvolgendola attorno al corpo come una cappa.
- Sei sicuro di non fare tardi a lavoro? – gridai rivolta al
mio migliore amico Dayo, alias il ragazzone che mi portava sulle
spalle. – Quando vuoi puoi mettermi
giù!
- Nessun problema! – replicò lui, cercando di
sovrastare la musica altissima e le voci della folla. – Oggi
mi tocca il turno del pomeriggio, ho tutto il tempo che
voglio!
Sorrisi, accarezzandogli una mano e pizzicandogli affettuosamente un
orecchio; in risposta, lui mi diede un buffetto sulla
gamba.
Dayo aveva quattro anni più di me, ma eravamo cresciuti
assieme, visto che la villetta della sua famiglia si trovava proprio
accanto alla mia; aveva due sorelle e tre fratelli, tutti molto
più grandi di lui, perciò non era strano che
passasse la maggior parte della giornata con l’unica compagna
di giochi disponibile nel raggio di un isolato. Quando poi aveva
imparato a leggere alla perfezione, si presentava spesso al cancello
con un libro preso dalla Biblioteca dei Bambini; allora ci sedevamo su
un telo in giardino e lui leggeva per me, senza mancare di mostrarmi
tutte le figure.
Crescendo, il nostro solidissimo rapporto fraterno non aveva subito
alcun cambiamento, nemmeno dopo il mio coming out: a scuola, Dayo aveva
avuto problemi con alcuni compagni per via delle sue origini nigeriane,
perciò mal sopportava qualsiasi forma di discriminazione.
Ecco perché non si faceva alcun problema ad accompagnarmi
alle parate ed era in grado di fare amicizia con chiunque.
La celebrazione durò fino a mezzogiorno, fermandosi a
Kendall Square.
Scesi dalle spalle di Dayo, legando la bandiera a mo di mantello, e mi
guardai attorno estraendo la custodia degli occhiali da vista dalla
tasca dei pantaloncini: - Beh, direi che stavolta ti è
andata bene, tempo di uno spuntino al bar e sei a pochi passi
dall’ufficio.
- Sei sicura di voler tornare a casa da sola? Posso accompagnarti,
tanto comincio alle due…
Gli sorrisi, inforcando le mie amate lenti dalla montatura nera: - No,
hai fatto già tanto per me, oggi. Potresti anzi fare una
sorpresa a Liddy e pranzare con lei.
Gli occhi grandi e gentili di Dayo si illuminarono non appena
pronunciai il soprannome della fidanzata: - In effetti è da
un po’ che non passiamo insieme la pausa pranzo…
però mi dispiace lasciarti andare via da sola…
- Dayo – alzai un sopracciglio con fare ironico. –
Non sono più una bambina, ricordi? Sono capace di tornare a
casa senza perdermi. E poi – eseguii una specie di riverenza,
allargando la bandiera-mantello dietro di me. – Attraversare
il parco in solitudine mi fa sentire un’artista romantica
dell’Ottocento.
- D’accordo, d’accordo – rise lui,
scompigliandomi affettuosamente i capelli. – Però
dritta a casa. E non fermarti a parlare con gli sconosciuti.
Ci abbracciammo calorosamente, come al solito. Nonostante raggiungessi
quasi il metro e ottanta d’altezza, dovevo sempre alzarmi
leggermente sulle punte per poggiare il mento sulla spalla marmorea di
Dayo.
- Ci vediamo stasera – mi salutò poi, mentre mi
affrettavo ad attraversare le strisce pedonali.
- A stasera! – risposi, agitando la mano non appena raggiunsi
il marciapiede opposto.
Mi sembrò tutto così naturale e ordinario in quel
momento, mai avrei potuto immaginare cosa stesse per succedere di
lì a breve.
Non ci saremmo rivisti quella sera.
Charles River Esplanade, ovvero la camminata lungo l’argine
che attraversa un incantevole parco, era senza dubbio uno dei luoghi
che preferivo in assoluto nella mia città. In particolare mi
piaceva passeggiare da quelle parti all’ora di pranzo, quando
la via era quasi del tutto solitaria.
Mi fermai per qualche istante sulla sponda, sempre avvolta dalla
bandiera arcobaleno: il fiume Charles scintillava come argento liquido
sotto i raggi del sole. Mi tolsi gli occhiali, un po’
infastidita dal riflesso sulle lenti, concentrandomi sui punti
più vicini in modo da non affaticare la vista, poi tirai
fuori dalla tasca il mazzo delle chiavi di casa, a cui era appeso un
portachiavi a forma di goccia. Feci scattare il meccanismo premendo un
piccolo bottoncino e, come sempre, fece capolino la piccola foto chiusa
all’interno dell’accessorio, nella quale io e mamma
sorridevamo all’ombra di un ciliegio, io con i capelli
sciolti e crespi e i vecchi occhiali dalla montatura viola, lei con i
suoi delicati tratti orientali e la chioma scura raccolta da un grande
fermaglio.
Peggy Jenkins non era la mia vera madre, naturalmente: per
metà coreana dal lato materno, non si era mai sposata (a
differenza delle sorelle minori, entrambe maritate subito dopo il
college) e si era dedicata anima e corpo alla carriera di avvocato,
coronando il sogno che si portava appresso sin da bambina. Mi
adottò quando avevo poco più di un anno e, contro
ogni previsione dei famigliari, riuscì senza problemi a
essere una buona madre senza dover rinunciare al proprio lavoro.
Detti una sbirciata all’orologio e, dopo aver riposto il
portachiavi nella tasca, mi avviai a passo spedito lungo il viale
alberato, cominciando a riflettere su cosa potessi preparare per
pranzo.
Avevo appena optato per un piatto di riso speziato alle verdure, quando
due voci poco amichevoli mi costrinsero ad arrestare la marcia e alzare
lo sguardo: una giovane coppia avanzava lungo l’argine nella
direzione opposta alla mia. Il ragazzo era tozzo e di media altezza,
dallo sguardo rude, e circondava con il braccio le spalle esili della
ragazza, i cui lineamenti parevano affilati come rasoi.
Si fermarono a pochi passi da me, squadrandomi con disgusto: lei fece
una grossa bolla con la gomma da masticare, giocherellando con uno
degli enormi orecchini a cerchio appesi ai suoi lobi.
- Oh cielo – commentò, tirando nuovamente in bocca
i resti del palloncino appena scoppiato. – Un’altra
di ritorno dalla parata. Che cosa ridicola.
- Grazie per aver intasato il traffico con il vostro Carnevale
– fece eco lui. – Che enorme accozzaglia di
fenomeni da baraccone!
- Secondo te questa qui è un travestito, Butch? -
domandò Faccia di Spigolo, gettando un’occhiata
dubbiosa alle mie forme poco pronunciate. – Così
alta e piatta?
- Ma che ne so, può darsi, questi pagliacci sono tutti
uguali per me- sputò Butch. – Froci, trans,
lesbiche. Sarebbe da farci una bella fiaccolata.
Se Dayo fosse stato con me, con i suoi due metri d’altezza e
centocinque chili di muscoli, di sicuro non si sarebbero azzardati a
lasciarsi sfuggire simili commenti, tuttavia non sentii affatto la
mancanza del mio amico in quella situazione: gli insulti degli
ignoranti mi ferivano quanto il pugno di un moscerino.
Senza attendere ulteriori perle di saggezza, sfoderai il mio miglior
sorriso falso e augurai con voce affettata: - Buona giornata anche a
voi – sorpassandoli con fare tranquillo.
Il silenzio alle mie spalle mi diede un’idea piuttosto nitida
delle loro espressioni sconcertate e mi strappò un sorrisetto. Stavo nuovamente riflettendo sulle verdure da scegliere per il
riso quando delle urla di terrore mi costrinsero a voltarmi
così velocemente che per poco non mi volarono via gli
occhiali.
Butch il Rozzo e Faccia di Spigolo erano appena volati gambe
all’aria sul prato, strillando come pazzi: a pochi
metri da loro, un individuo decisamente poco raccomandabile avanzava
minaccioso, trascinando i piedi e gocciolando. Mi ci volle qualche
istante per rendermi conto che la pelle marcia e verdognola di quel
coso somigliava in maniera preoccupante a quella degli zombie di The Walking Dead;
mi ci volle altrettanto per capire che il coso in questione aveva in
tutto e per tutto l’aspetto di uno zombie rimasto sepolto nel
letto del fiume per chissà quanto tempo, sotto interi strati
di melma.
Il corpo putrefatto era ricoperto di alghe mollicce e, cosa piuttosto
ovvia, emanava un odore tremendo.
Una parte di me mi suggerì di scappare, abbandonando i
fidanzatini al proprio destino. Due idioti in meno.
Un’altra parte mi disse che doveva trattarsi di uno scherzo o
di un’allucinazione collettiva, perché gli zombie
esistevano soltanto nei libri o in tv.
Una terza parte, infine, provò a convincermi che dovevo
restare e fare qualcosa, magari non per i due scemi ma per le persone
che il mostro avrebbe assalito dopo di loro.
Per mia somma sfortuna, decisi di dare ascolto a
quest’ultima: raccolsi un ramo lungo e appuntito e mi portai
furtivamente alle spalle dello zombie, conficcandogli la mia arma
improvvisata nella nuca.
La punta del bastone penetrò con facilità
attraverso la scatola cranica, producendo un suono orribile, tuttavia,
quando tirai indietro il braccio con uno strattone, il mio avversario
non crollò a terra, anzi, si voltò verso di me,
fissandomi con le orbite vuote; un disgustoso liquido scuro gli colava
dal buco sulla fronte.
Mi lasciai sfuggire un grido, mentre l’essere, furibondo,
tendeva il braccio verso di me, gorgogliando parole incomprensibili.
Senza lasciare il mio bastone imbrattato di liquame zombie, cominciai a
correre lungo il sentiero, sapendo senza dovermi voltare che il mostro
mi stava inseguendo. Non era veloce ma sicuramente poteva contare sul
fatto che mi sarei stancata prima o poi: mancavano ancora un paio di
chilometri all’uscita del parco e, nonostante le gambe lunghe
mi aiutassero nella velocità, non ero mai stata una
campionessa di resistenza.
Mentre correvo mi guardavo attorno, alla ricerca di un nascondiglio o
di qualsiasi cosa potesse fornirmi un vantaggio. Potevo provare ad
arrampicarmi su un albero, con il rischio però di rimanerci
intrappolata a lungo, magari esponendo altri passanti ignari al
pericolo; oltretutto, chi mi garantiva che la carcassa ambulante non
fosse in grado di arrampicarsi? Proseguiva abbastanza spedito per
essere uno zombie normale e in più il mio colpo alla testa
non l’aveva ucciso. Di solito in tv funzionava
sempre…
Un’ombra volò sopra la mia testa, costringendomi
ad alzare lo sguardo: una ragazza a cavallo, armata con una lunga
lancia, si muoveva in cerchio a diversi metri da terra, tenendo lo
sguardo fisso su di me. Aveva lunghi capelli rossi che volteggiavano da
sotto l’elmo vichingo che le proteggeva il capo e vestiva con
un’armatura dall’aria antica che avevo visto
più volte nei libri di mitologia.
“Una
valchiria?” pensai, riconoscendo i tratti
caratteristici della misteriosa fanciulla. “D’accordo,
qui abbiamo poche opzioni: sto diventando pazza, sto sognando,
oppure…”
Ricordai di aver letto qualcosa sugli zombie dell’epica
norrena: avevano un nome strano che iniziava per D, possedevano una
forza sovraumana, poteri magici e potevano essere uccisi…
“Come cavolo
si uccidevano?” riflettei disperata. “Forza sovraumana,
poteri, contromisure… ferro! Il ferro li indebolisce! Ma
dove posso trovare un’arma di ferro qui? In alternativa
c’era… fuoco! Decapitazione e fuoco! Ma anche in
questo caso, il fuoco dove lo trovo?”
Decisi di provare per lo meno a decapitare il mostro in qualche
modo, anche se continuavo a non trovare dei mezzi sufficienti
attorno a me per portare a termine l’impresa.
Ero ormai giunta nei pressi di un piccolo ponte bianco e la fatica si
stava facendo sentire. Avevo il fiatone e sapevo che non sarei riuscita
a reggere ancora per molto.
Mi portai vicino a una coppia di alberi cresciuti vicini, tanto che i
due tronchi si erano intrecciati tra loro, lasciando al centro una
fessura grande quanto la ruota di un camion.
Udii un rumore poco rassicurante alle mie spalle e, voltandomi,
trattenni a stento un grido: lo zombie aveva fatto ricorso ai propri
poteri per trasformarsi in un grosso toro non-morto: tutta la
metà destra del suo corpo era composta da un insieme di ossa
scoperte, la metà restante era uno schifoso ammasso di carne
putrefatta.
Fu allora che mi venne un’idea, seppur banale: mi posizionai
davanti alla coppia di alberi, agitando la bandiera arcobaleno.
- Ehi! – gridai. – Vieni qui, stupido bestione!
Vieni a prendermi!
Il toro sbuffò, facendo colare la saliva verdognola sul
prato, batté un paio di volte lo zoccolo a terra e
caricò, avanzando zoppicante ma rapido.
Mi scansai all’ultimo, portandolo a incastrarsi con la testa
nel buco lasciato dai tronchi intrecciati, mentre le corna di ossa
logore si spezzavano sul colpo; senza perdere tempo, cominciai a
conficcare più volte la punta del bastone nella sua gola,
per poi cercare di staccare la testa dal corpo con una serie di calci
ben assestati.
Proprio mentre cominciava ad aprirsi uno spiraglio di carne marcia
sull’attaccatura del collo, il bestione mutò
nuovamente, tornando all’aspetto precedente, ma, invece che
liberarsi dalla morsa dei due alberi, iniziò a crescere a
dismisura.
Il legno dei tronchi scricchiolò paurosamente, mentre un
grugnito rabbioso usciva dalla bocca del mostro. Alzai le braccia per
colpirlo di nuovo col bastone, ma stavolta lui fu più
svelto: serrò la mano destra a pugno, caricò il
braccio e mi colpì in pieno con tutta la sua forza,
facendomi volare contro il ponticello bianco.
Le lenti degli occhiali crepate, un forte colpo alla testa, il rumore
di ossa rotte.
E poi il buio.
Per alcuni istanti vagai in un cieco oblio, finché non
avvertii nuovamente il peso del mio corpo e una nauseante sensazione di
vuoto sotto i piedi.
Aprii gli occhi, battendo le palpebre più volte e cercando a
fatica di mettere a fuoco l’ambiente che mi circondava,
finché non mi resi conto di essere sospesa diversi metri
sopra il corso del fiume Charles.
Qualcuno mi stava sollevando per il polso, imprecando a bassa voce.
Alzai lo sguardo: era la valchiria dai capelli rossi che avevo visto
poco prima. Dimostrava circa una ventina d’anni, il suo volto
pallido era abbellito da una leggere spruzzata di lentiggini sul viso,
mentre i suoi magnetici occhi color ghiaccio mi fissavano freddi e
severi.
Vedendola, pensai immediatamente all’immagine di Sansa Stark
che avevo prodotto nella mia mente leggendo Le Cronache del Ghiaccio e del
Fuoco: età e lentiggini a parte, era
pressoché identica.
- Sei già cosciente? – domandò, senza
lasciar trasparire emozioni. – Mh, no, sei sveglia ma in
stato confusionale. Evita di agitarti troppo durante il tragitto.
Non so come, riuscì a
trascinarmi sopra il suo strano destriero, costringendomi a serrare le
braccia attorno alla sua vita e tenendomi i polsi stretti tra loro con
la mano sinistra.
Spronò quindi il cavallo, che sfrecciò rapido
lungo la scia del fiume, attraversando il parco per intero, svoltando
bruscamente non appena si ritrovò a sorvolare la zona urbana.
Il movimento mi provocò un tremendo capogiro. Poco prima di
svenire sperai si trattasse soltanto di un brutto sogno, poi le
tenebre mi inghiottirono di nuovo.
***
Angolo
dell’Autrice: Eccomi qua. Non sono riuscita
a resistere, la saga di Magnus Chase mi ha presa troppo.
Chi mi conosce mi
odierà di sicuro visto che ho varie storie da aggiornare. Lo
so. Fate bene.
Mi chiedo se abbia fatto bene a inserire la storia in questa sezione,
boh. In caso sia necessario spostarla avvisatemi.
Comunque, qui su EFP
Riley è la seconda protagonista omosessuale di questo
profilo (ne ho altre LGBT su Tinkerbell92, ma, a parte Ryan di Hunger
Games, appartengono ad altre categorie della comunità). La
prestavolto che ho scelto per lei è Jamie Clayton, alias
Nomi Marks di Sense8, ma ovviamente voi potete immaginarla come volete
XD
Ah, nella mia mente la
valchiria che la salva non ha il volto di Sophie Turner, ma Riley ha
pensato a Sansa perché, al tempo, aveva appena iniziato a
guardare la serie tv di GoT ed era ancora legata all’aspetto
dei personaggi che si era immaginata leggendo i libri.
Bene, spero che questo
primo capitolo vi sia piaciuto, grazie a tutti per aver letto!
Tinkerbell92
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Capitolo 2 *** Mangiare il tofu di bestia o non mangiarlo? Questo è il dilemma! ***
RILEY JENKINS E GLI DEI
DI ASGARD
IL
FARDELLO DI SIGYN
CAPITOLO
2
Mangiare
il tofu di bestia o non mangiarlo? Questo è il dilemma!
- Tutto a posto, signorina?
Il tizio
con la barba incolta e l’ascia appesa alla cintura, Hunding,
picchiettò un paio di volte la punta del piede sul
pavimento, mentre mi guardavo attorno con aria disagiata: dopo un breve
soggiorno alla reception dell’Hotel Valhalla (sì,
avevano proprio detto “Hotel Valhalla), dove un energumeno
peloso aveva conficcato la punta di un coltello nell’occhio
di un altro omaccione della stessa stazza, ero stata condotta al
ventitreesimo piano, dove mi attendeva un’enorme e lussuosa
camera d’albergo, dal soffitto alto almeno sei metri. Il
centro era costituito da un ampio spiazzo di forma quadrangolare, da
cui si diramavano quattro larghi corridoi: uno di essi, quello che
conduceva al terrazzo, era attraversato da una specie di fiumiciattolo
che partiva dalla piscina di acqua salata posta in mezzo al quadrato
centrale; il corridoio di destra portava alla stanza da letto, mentre
quello di sinistra terminava di fronte a una porta scorrevole
verniciata di bianco, che supposi rappresentasse l’entrata
del bagno. Nel quarto corridoio, quello in cui mi trovavo, che partiva
dal piccolo atrio d’ingresso, c’era uno spazioso
salottino, provvisto di televisore a schermo piatto, caminetto
già acceso, un comodo divano, una coppia di poltroncine e
un’immensa libreria in legno chiaro, che somigliava in modo
impressionante a quella che tenevo in casa.
A dire il
vero, anche il resto del mobilio, dall’aria curata e un
po’ antica, mi ricordava i pezzi d’arredamento
della villetta in cui ero cresciuta.
Su una
piccola cassapanca erano state poste delle fotografie. Ne afferrai una
rimanendo sbigottita: era la stessa che occupava ormai da due anni un
posticino sulla mensola accanto al camino, quella che io e mamma
avevamo scattato a Londra. Eravamo alla stazione di King’s
Cross, io indossavo la sciarpa di Corvonero, lei quella di Serpeverde,
e ci eravamo disegnate una piccola cicatrice a forma di saetta sulla
fronte (con gli occhiali e i capelli crespi, la me sedicenne somigliava
a uno strano incrocio tra Harry Potter e Hermione Granger).
-
Signorina?
Riposi la
foto incorniciata al proprio posto, scuotendomi dai miei pensieri: -
Io… okay, riassumiamo la situazione: il tipo
all’ingresso, Helgi, mi ha detto che sono morta, rinata e poi
condotta qui, nel Valhalla, da una valchiria. Sono diventata
un’einherji,
una figura della mitologia norrena, possiedo un corpo nuovo,
addirittura “migliorato”, e sono proprietaria di
questa incredibile stanza. Le leggende nordiche sono vere e,
d’ora in poi, passerò la mia nuova vita
allenandomi in previsione del Ragnarok. Ho dimenticato qualcosa?
- Possiedi
anche la chiave del minibar – aggiunse Hunding, accarezzando
con le dita la punta della propria ascia. Non riuscii a capire se il
suo fosse un commento serio o se mi stesse semplicemente prendendo in
giro.
- Vorrei
almeno poter fare una telefonata a mia madre – borbottai.
- Per dirle
cosa? “Ciao mamma, non preoccuparti, sono stata uccisa da un draugr e
d’ora in poi passerò la mia nuova vita
nell’Hotel Valhalla, dove mi addestrerò per
entrare nell’esercito di Odino!”
- Non posso
restare qui! – protestai, stringendo con forza le dita tra i
capelli. – Sono iscritta all’università,
ho degli esami da fare, mia madre ha già pagato tutto! E i
miei conoscenti saranno preoccupati per me! Ho una vita là,
sulla Terra!
- Avevi una vita
sulla Terra, signorina. Adesso sei un’einherji e non
c’è modo di tornare indietro –
replicò l’omaccione, serafico. – Per
quanto mi riguarda, il mio compito si interrompe qui. Prima di
congedarmi, mi aspetto una mancia per il servizio.
Decisi di
lasciar cadere l’argomento “casa” e mi
frugai nelle tasche alla ricerca di qualcosa. Non trovai nulla, nemmeno
il cellulare, così mi guardai attorno, venendo colta da
un’improvvisa illuminazione.
- Un
momento…
Mi diressi
rapidamente in camera da letto e aprii il primo cassetto del comodino
sistemato accanto al grande giaciglio dalle lenzuola blu. Non mi ero
sbagliata: afferrai una manciata di piccole monete antiche, parte di
una vecchia collezione, e tornai all’ingresso, offrendole al
portiere barbuto.
Quello
osservò il pagamento per qualche istante,
dopodiché intascò soddisfatto ed
eseguì un rozzo inchino, assumendo un tono formale: - Le
auguro una buona giornata, signorina.
Non appena
uscì dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle, restai
per qualche istante immobile e in silenzio.
Provai a
mettere a fuoco la situazione, cercando di trovare una spiegazione
razionale ed evitare di vedere il castello delle mie certezze crollare
miseramente, ma fui costretta ad arrendermi all’evidenza: non
c’era nulla di logico o razionale in ciò che stavo
vivendo, ma non si trattava di un sogno.
Pensai a
mia madre, pensai a Dayo e al senso di colpa che avrebbe provato per
non avermi riaccompagnata a casa, pensai
all’università e agli esami che non avrei
più potuto dare, alla carriera che sognavo ormai finita
dritta dritta nel… com’è che la
valchiria dai capelli rossi aveva chiamato l’abisso che
avevamo sorvolato prima di raggiungere l’hotel? Ginnungagap?
Mi
accasciai sul divano, accartocciandomi su me stessa, nascosi la testa
nell’incavo delle braccia e cominciai a urlare,
abbandonandomi a una vera e propria crisi isterica.
Non mi era
mai successo di perdere il controllo in quel modo, ero sempre stata una
persona tranquilla e ragionevole, ma tutto quel casino andava ben oltre
il mio limite di sopportazione.
Mi alzai
all’improvviso, scagliandomi contro il muro più
vicino e cominciando a tempestarlo di pugni, ma balzai
all’indietro spaventata non appena mi resi conto che le mie
mani affondavano nella parete a ogni colpo, quasi mi stessi accanendo
contro una superficie di cartongesso.
Cercai
qualcos’altro su cui riversare la mia ira, ma dei timidi
colpetti alla porta spensero momentaneamente il mio sfogo. Mi sfilai
gli occhiali, asciugando le lacrime alla bell’e meglio, e mi
fiondai sulla maniglia, abbassandola e tirando verso di me.
Mi trovai
di fronte una ragazzina sorridente, con i capelli biondi raccolti in
due trecce. Non era molto alta, aveva guance tonde e piene,
tempestate di lentiggini, grandi occhi celesti e un fisico provvisto di
morbide curve.
Indossava
una T-shirt verde e un semplice paio di jeans e, tra le mani, reggeva
un vassoietto celato da una cupola di cartone rosa, simile a quelli
delle pasticcerie.
- Ciao,
vicina! – mi salutò allegramente, facendo
trasparire un lieve accento tedesco. – Era da un
po’ che non arrivavano nuove reclute al piano
ventitré. Io sono Liselotte Dashner, ma puoi chiamarmi
Lilly. Ti ho portato uno spuntino di benvenuto, spero ti faccia
piacere, appena ho saputo del tuo arrivo mi sono messa a sfornare mini bretzel dolci in
tempo record.
Feci
scorrere lo sguardo da lei al vassoio un paio di volte, poi mi schiarii
la voce, riuscendo a gracchiare un impercettibile
“grazie”.
Dovevo
essere in condizioni pietose, così provai ad abbozzare un
sorriso, che somigliò più a una smorfia di
dolore.
- Riley B.
Jenkins – lesse, osservando la scritta impressa sulla porta
della mia stanza. – Di dove sei?
- Di
Boston… - ignorai la fitta che mi tormentò lo
stomaco non appena mormorai il nome della mia città.
– Ti ringrazio per la tua gentilezza… Lilly.
Probabilmente avrai sentito le mie urla, prima…
- Oh, ma io
adoro dare il benvenuto ai nuovi arrivati!
Il suo
sorriso si allargò, scavando due graziose fossette nelle
gote morbide: - Non preoccuparti, Riley, è normale dare di
matto all’inizio, figurati che c’è
ancora chi…
Un urlo di
rabbia proveniente da una delle stanze vicine mi fece sobbalzare.
Seguì il rumore di uno schianto, accompagnato da altre grida.
- Appunto,
Alviss sta di nuovo avendo una delle sue crisi… -
borbottò Lilly. – Mi sa che devo proprio andare,
non mi fido a lasciarlo solo quando si trova in certe
condizioni… ti consiglierei di non guardare, visto che sei
nuova… ci vediamo più tardi a cena! Oh, tieni, il
tuo vassoio.
-
Ehm… d’accordo…
Mi ritirai
nella stanza, chiudendo la porta e raggiungendo nuovamente il divano,
dove mi sedetti posando il vassoio con i bretzel sulle ginocchia. Mi
sentii egoista, ma l’ultima cosa di cui avevo bisogno in quel
momento era assistere un einherji che dava di matto.
Rimossi il
coperchio con cautela, abbozzando un sorrisetto alla vista degli otto
dolcetti ancora caldi: erano piccoli, intrecciati e glassati con cura
ed emanavano un profumo invitante.
Ne presi
uno, staccandone un pezzo con un morso: era ripieno di crema di
nocciole.
In qualche
modo, quel sapore delizioso mi aiutò a tornare un
po’ lucida: cominciai a guardarmi attorno, facendo cadere lo
sguardo sul taccuino poggiato sul tavolinetto del salotto. Sulla
copertina in cuoio spiccava la scritta“Servizi per gli
ospiti”.
Lo
afferrai, dando un secondo morso al mio bretzel, e cominciai a
sfogliarlo con la mano libera: la piantina dell’hotel
attirò immediatamente la mia attenzione.
“Bene”
pensai. “Ho
una mappa, un elenco di regole, un menù… e un
sacco di libri. Manca ancora parecchio all’ora di
cena… forse un po’ di studio non mi
farà male…”
Un paio di
colpi decisi alla porta mi fecero quasi sobbalzare: alzai gli occhi dal
testo “Divinità
e creature della mitologia norrena”, mentre,
senza aspettare il mio invito, la valchiria dai capelli rossi che mi
aveva salvata fece il proprio ingresso nella stanza, gettando
un’occhiata leggermente stranita alla vista del marasma di
libri sparsi sul tavolo.
Portava la
lunga chioma ramata raccolta in una treccia che cadeva davanti alla
spalla, indossava un abito bianco e un po’ attillato che
sottolineava le sue piacevoli forme e, legata a un’elegante
imbragatura di cuoio, una lancia argentata faceva capolino da dietro la
sua schiena.
- Vedo che
ti stai già dando da fare – osservò,
incrociando le braccia al petto ben sviluppato.
Mi alzai,
sistemando gli occhiali che mi stavano scivolando giù dal
naso, e provai a farfugliare qualcosa: - Io… cerco di
comprendere meglio quello che mi sta capitando…
- Il mio
non era un rimprovero – replicò, facendo un passo
avanti, senza sciogliere l’espressione severa. – Io
sono Elizabeth, la tua valchiria.
-
Ciao… io sono…
- Lo so,
Riley Barry Jenkins, figlia adottiva di Margaret Jenkins.
Era
piuttosto alta, considerato che io, dal mio metro e settantotto, la
superavo di massimo cinque centimetri, ed emanava un profumo fresco di
menta e limone.
Non era il
mio tipo, sembrava troppo rigida per una persona tranquilla
come me, ma dovevo ammettere che era una ragazza affascinante.
- Hai
già conosciuto Lilly – disse, accennando al
vassioietto che conteneva ancora quattro bretzel. – Penso
troverai piacevole la compagnia dei ragazzi del piano
Ventitrè. Magari dovrai prima abituarti alle crisi di Alviss
e alla stupidità di Jace, ma a parte questo direi che ti
è andata piuttosto bene.
- Che
cos’ha Alviss? – domandai istintivamente, mentre
cercavo di mettere a posto i libri.
Elizabeth
sospirò: - Ti spiegheranno tutto i tuoi compagni. Ti
consiglio vivamente di cambiarti e indossare la maglietta
dell’hotel, tra poco ci chiameranno per la cena e tu dovrai
raccontare a tutti le gesta eroiche che ti hanno condotta fin qui.
-
Cos…
Prima che
potessi protestare, la mia salvatrice si diresse a falcate verso la
camera da letto, tornando pochi istanti dopo porgendomi un paio di
jeans e una T-shirt verde accuratamente piegati.
- Metti
questi – ordinò. – Sì, sono
della taglia giusta. Com’è possibile? Magia.
-
L’avevo intuito… - borbottai, obbedendo.
– Ma riguardo a quello che hai detto prima…
raccontare le gesta eroiche…
- I nuovi
ospiti del Valhalla devono dimostrare di meritarsi l’onore
che hanno ricevuto – rispose, facendosi passare la canotta
fucsia e i pantaloncini verdi che indossavo fino a poco prima e
adagiandoli su una sedia. – Perciò ti consiglio
vivamente di fare bella figura, se non vuoi ritrovarti relegata a
compiti ingrati. Senza contare poi che gli einherjar indegni
rappresentano la rovina per le proprie valchirie: dovessi farmi fare
brutta figura, te la farei pagare molto cara.
- Mi sento
molto più tranquilla, adesso – replicai
sarcastica. – Forse avrei dovuto leggere subito tutto il
taccuino dei Servizi
per gli ospiti, invece che limitarmi a studiarne mappa e
parte del regolamento…
- Cerca di
comportarti bene, io non metto a rischio la mia carriera per qualcuno
che non lo merita. Hai dimostrato coraggio affrontando quel draugr.
Ricordati di menzionare il bastone che tenevi in mano quando ti ha
uccisa, è fondamentale.
- Giusto,
un einherji deve morire con un’arma in mano –
ricordai, mentre mettevo i breztel avanzati al sicuro, per poi seguire
la mia valchiria fuori dalla porta.
Lilly
attendeva già in corridoio, insieme ad altri quattro ragazzi
che potevano avere massimo diciannove o vent’anni.
-
Eccola! – esclamò la biondina, battendo le mani
entusiasta. – Vieni, Riley, qui sono tutti ansiosi di
conoscerti!
La prima a
presentarsi fu una giovane guerriera dalla pelle color bronzo, unica
einherji femmina del corridoio oltre a me e Lilly: si aggirava attorno
al metro e settanta d’altezza, aveva gambe lunghe e forti, un
fisico un po’ spigoloso e capelli corti e neri, con un unico
ciuffo più lungo acconciato in una treccina che cadeva sul
lato sinistro del suo volto.
- Ciao, io
sono Sitala Tel’ula, figlia di Heimdall e ospite
dell’hotel Valhalla dal 1986.
Strinsi la
mano che mi stava porgendo: aveva parecchi tatuaggi sparsi sul corpo e
le sue iridi erano tanto scure da sembrare nere.
- Piacere
– risposi. – Figlia di… Heimdall? Quel Heimdall?
- Molti
residenti dell’hotel Valhalla sono semidei –
soggiunse un ragazzo dalla carnagione olivastra, facendo trasparire un
forte accento italo-americano. – Questo, però, non
vale per me e Lilly. Mi chiamo Benjamin Levin, ma puoi chiamarmi Ben.
Vivo qui dal 1953.
Notai con
un certo stupore il ciondolo con la stella di David che spiccava sopra
il tessuto verde della sua maglietta.
- Sei
ebreo? Come mai ti trovi…
-
Invischiato in una realtà estranea alla mia religione?
Sorrise,
scompigliandosi distrattamente i capelli scuri. Era alto più
o meno come me e i suoi occhi erano color verde ambra, illuminati da
una luce benevola.
- Diciamo
che ho imparato a convivere con entrambe le cose. Molti di noi si
trovano nella mia stessa situazione: una delle compagne valchirie di
Lizzie, per esempio, è musulmana, Sita è
cresciuta in una riserva, con le tradizioni e la mitologia del popolo
Miwok, e Lilly viene da una famiglia cristiana. Tu aderisci a qualche
Credo?
- Mmmh, no,
sono atea – replicai. – Il che mi rende un tantino
difficile credere a tutto questo…
Gettai
un’occhiata ai due ragazzi che non si erano ancora
presentati: uno era alto e allampanato, con i capelli lunghi e neri
raccolti in una coda, malinconici occhi grigi e carnagione chiarissima;
l’altro era più tarchiato e di media altezza,
aveva la mascella squadrata, vivaci iridi azzurre e una scompigliata
capigliatura color rame.
- Tiro a
indovinare: Jace e Alviss?
-
Naturalmente! – rispose il rosso, spavaldo. – Jason
Colbert, per gli amici Jace. Quindi per tutti i presenti tranne che per
Liz.
Fece la
linguaccia alla bella valchiria, la quale alzò gli occhi al
cielo con fare scocciato.
Lilly diede
una gomitata all’einherji più alto, il quale face
un passo avanti, tenendo gli occhi fissi al pavimento: - Ciao, io sono
Alviss, figlio di Nott… ti chiedo scusa per il casino che
hai sentito prima e che sentirai spesso nei giorni a venire…
- Ciao,
Alviss. Non ti preoccupare, non sono una vicina intollerante e
dispotica, spero tu stia meglio adesso.
Ero tentata
di chiedergli da cosa dipendessero quelle crisi, ma pensai che fosse
meglio prendere un po’ di confidenza prima di estorcere
dettagli personali troppo intimi.
Posai
distrattamente lo sguardo su una delle porte del corridoio opposto,
aggrottando le sopracciglia quando lessi il nome inciso
all’interno di un cerchio di rune vichinghe: MIA
DE MEDICI.
- Pensavo
fossimo tutti qui – osservai. – Insomma, tutti gli
inquilini del corridoio… Mia è già
andata a mangiare?
I volti dei
miei compagni si serrarono in un’espressione tesa. Anche
Elizabeth parve piuttosto a disagio.
-
Ecco… - cominciò Ben con fare incerto.
– Mia non è qui… lei… lei
è…
Il suono
assordante di un corno mi face sobbalzare, interrompendo il discorso
del giovane einherji.
Elizabeth
mi afferrò per un polso, trascinandomi via con fare
impaziente: - Parlerete dopo cena, non voglio arrivare in ritardo.
Stasera siederai al tavolo dei nuovi arrivi, perciò avrai
gli occhi di tutti puntati addosso. Meglio essere puntuali.
Non potevo
dire di sentirmi a mio agio, mentre prendevo posto a un tavolino che si
trovava a sinistra della tavolata principale, dove erano soliti cenare
i thanes,
i grandi capi.
La sala dei
banchetti aveva l’aspetto di un enorme stadio, al centro del
quale si ergeva l’imponente tronco di un grosso albero;
animali di svariate specie bazzicavano tranquilli sui rami, mentre, su
un lunghissimo spiedo, arrostiva una gigantesca carcassa fumante.
-
L’albero si chiama Laerdar – mi spiegò
Elizabeth, con la sicurezza di una guida turistica. – Su quel
ramo pascola la capra Heidrun. La vedi? Dal latte che cola dalle sue
mammelle si ricava l’idromele. Mentre l’acqua di
quel ruscello che scorre lungo il tronco, formando una cascata,
proviene dalle corna del cervo…
-
Eikthrymir, giusto?
La
valchiria annuì, mentre la mensa-stadio cominciava a farsi
man mano sempre più affollata.
- Noi lo
chiamiamo Ike. La bestia che arrostisce sullo spiedo è
Saehrimnir, ogni giorno viene uccisa per essere mangiata dagli abitanti
del Valhalla. Il mattino dopo risorge.
- Come le
capre di Thor, quindi – commentai, memore di quanto avevo
ripassato poco prima nei libri di mitologia norrena. – Che
destino infelice… solo che, ehm… ci sarebbe un
piccolo problema… io sono vegetariana…
- Il fianco
sinistro di Saehrimnir è fatto di tofu – rispose
prontamente Elizabeth, alzando appena un sopracciglio. – Il
suo corpo è fatto in modo tale da soddisfare i desideri di
qualsiasi commensale.
-
Ma… - mi morsi il labbro dubbiosa, gettando un occhio alle
persone che si erano accomodate al mio stesso tavolo. Erano tre in
tutto, due ragazzi e una ragazza, accompagnati da altrettante
valchirie.
- Ma, anche
se prendessi il tofu del suo lato sinistro… non starei
comunque mangiando un animale?
- La magia
del Valhalla si adatta a qualsiasi stile di vita. Non so spiegarti il
concetto in modo più chiaro, spero ti basti sapere questo:
mangiare Saehrimnir, nel tuo caso, non rappresenterebbe uno strappo
alla regola. Anche se viene dal fianco di una bestia sacra, quello
è tofu a tutti gli effetti.
Sospirai,
indicando poi un imponente scranno sul quale stavano appollaiati due
corvi dalle lucide piume color pece.
- Quelli
sono Huginn e Muninn, giusto? I corvi di Odino…
- Esatto. E
quello è il trono del Padre degli Dèi. Di tanto
in tanto viene a farci visita, ma non accade molto spesso…
Un secondo,
assordante, suono di corno diede inizio al banchetto: centinaia di
valchirie volavano qua e là, servendo gli ospiti con calici
di idromele e portate dall’aria invitante.
A me venne
presentato un piatto con polpettine di tofu, patate al burro, pane
morbido e verdure alla griglia.
Dopo un
attimo di esitazione cedetti: il profumo del cibo era troppo inebriante
per essere ignorato. E poi Elizabeth mi aveva assicurato che mangiare
quelle polpette non mi avrebbe fatta andare contro i miei principi.
Lanciai
un’occhiata di sottecchi alla valchiria dal capelli rossi che
mi sedeva a fianco: a differenza di molti commensali, rozzi e spartani,
aveva un atteggiamento composto e signorile, perfettamente intonato al
suo accento inglese.
A giudicare
dalla postura dritta e dal modo elegante di mangiare le fette di
tacchino adagiate sul suo piatto, intuii dovesse provenire da una
famiglia altolocata.
-
Senti… - azzardai, dopo qualche minuto di silenzio.
– Ben ha detto che molti einherjar sono semidei…
sei anche tu una di loro?
La sua
mascella si indurì: - Preferirei sorvolare su questo
discorso. Tu, piuttosto, hai idea di chi siano i tuoi veri genitori?
Scossi la
testa: - No. La persona che mi ha portata in orfanatrofio, che suppongo
fosse mia madre, si è presentata con un nome falso: Jane
Doe. Figuriamoci. Ha soltanto insistito sul fatto che il mio come
completo fosse Riley Barry, senza preoccuparsi del cognome.
Chissà come mai. Dici che potrei essere figlia di una
divinità nordica?
- Tutto
è possibile – replicò Elizabeth.
– Qualunque sia la risposta, la scoprirai stasera, dopo la
presentazione, quando la vala
leggerà il tuo futuro nelle rune.
Avvertii
all’improvviso una fitta allo stomaco: il pensiero di mia
madre, sola e preoccupata, fu affiancato da uno strano senso di ansia.
In quegli
anni, avevo provato a pensare, di tanto in tanto, a chi potessero
essere i miei veri genitori, senza mai sperare realmente di scoprire
qualcosa di concreto. Si era sempre trattato di una semplice e
irraggiungibile fantasia.
Quella
sera, invece, avrei potuto addirittura ottenere un nome. Un volto.
Un’identità.
Mi trovai
scissa tra curiosità e paura.
Quando i
capiclan cominciarono a battere i calici, presto imitati dagli einherjar
presenti, capii che la cena era finita e che entro pochi minuti avrei
dovuto esporre le mie gesta davanti a un’intera sala per poi
scoprire, forse, qualcosa in più su me stessa.
Mi morsi la
lingua, sperando di non vomitare il tofu per la tensione: avrei parlato
per terza, il che mi rassicurò appena, poiché
avrei avuto modo di osservare i primi due senza portare sulle spalle
l’onere di dover chiudere in bellezza.
La prima a
presentarsi fu la ragazza: dimostrava poco più di
vent’anni, aveva i capelli corti e il naso un po’
appuntito.
Si
presentò come Yara Hansdòttir, lavorava come
infermiera in un ospizio: una delle sue colleghe, corpulenta e
irascibile, aveva dato di matto e cominciato a picchiare un anziano
indifeso in sedia a rotelle, così lei era intervenuta,
colpendo in testa la donna con una stampella e tramortendola. Prima di
perdere i sensi, però, l’infermiera pazza le aveva
dato una spinta, facendola ruzzolare giù dalle scale.
Il
direttore dell’hotel, Helgi, dopo aver ascoltato la storia
annuì con fare soddisfatto: - Senza dubbio il tuo gesto
è stato nobile. Stringevi ancora la stampella in mano,
quando sei caduta?
Yara
annuì, serrando le mani a pugno per la tensione.
I capi
confabularono per qualche istante, poi, Helgi riprese con entusiasmo: -
Yara Hansdòttir, ti giudichiamo meritevole del Valhalla.
Conosci le tue origini?
-
Sì, i miei genitori si chiamano Hans e Yelena - rispose lei,
tradendo un fremito nella voce. – So per certo di essere la
loro figlia biologica.
Il
direttore sorrise appena: - Molto bene, vediamo cos’ha in
serbo il futuro per te. A meno che il Padre Universale non voglia
intercedere… - si voltò verso lo scranno di
Odino, che rimase vuoto. – Bene, chiediamo il responso delle
rune.
Una donna
anziana abbigliata con una lunga cappa verde, che intuii dovesse essere
la vala, si avvicinò al tavolo, ponendosi di fronte a Yara
Hansdòttir. Tirò fuori da un sacchetto una
manciata di tessere di pietra, facendole cadere sul pavimento dopo aver
recitato qualche arcana formula sottovoce.
Helgi
batté le mani: - Yara Hansdòttir, nonostante tu
non possegga sangue divino avrai modo di dimostrare il tuo valore nel
Ragnarok. Domani, alla tua prima battaglia, verrai arsa viva!
Scoppiò
uno scroscio di applausi e urla, mentre la giovane si mordeva il
labbro, gettando un’occhiata nervosa al ragazzo che le sedeva
accanto.
Quello
inspirò a fondo, alzandosi in piedi e presentandosi come Lee
Fukuhara. Aveva origini asiatiche ed era morto salvando il fratello
maggiore durante uno scontro a fuoco. Stava per aggiungere
qualcos’altro, quando, all’improvviso, si
levò un mormorio di sorpresa: dallo stagno ai piedi
dell’albero Laerdar emersero tre donne
incappucciate, alte più di due metri, che avanzarono
lentamente verso di noi.
Elizabeth
si lasciò sfuggire un fremito di tensione: - Le Norne sono
qui… e si sono presentate prima che il ragazzo finisse di
parlare… non è un buon segno…
Helgi si
schiarì la voce con fare innervosito: - Molto
bene… a quanto pare questo giovane eroe ha in serbo qualche
sorpresa speciale per noi…
Lee
sbiancò quando le tre donne pronunciarono il suo nome,
parlando all’unisono. Una di loro allungò la mano,
affondandola nella nebbia che avvolgeva i loro imponenti corpi, poi,
quando la ritrasse, notai che reggeva sul palmo un insieme di candide
rune. Le lanciò e, invece che ricadere ai suoi
piedi, le piccole pietre si fermarono a mezz’aria. Una di
esse si illuminò.
ᚲ
- La runa
Kenaz… - mormorò Elizabeth, mentre un brusio
concitato si levava per tutta la sala. – Loki…
- Loki?
– ripetei incredula.
La
valchiria che aveva portato il giovane nel Valhalla si portò
le mani ai capelli, scuotendo la testa con aria sconvolta e ripetendo:
- No… no… no… non è
possibile…
Lee
sembrò sul punto di svenire ma, prima che qualcuno avesse
tempo di commentare qualcosa, o lanciare un piatto in direzione dello
sventurato, le Norne ripresero a parlare, recitando una profezia.
“Il seme del
coraggio è tutt’ora disperso
Si traccerà una
rotta lungo lo specchio del cielo terso
Fiamme divine
fomenterà il sangue dell’immolato agnello
Su terra e mare
graverà il crudele fardello
La stirpe del male
compirà scelta ardita
Scelta che porterà
trista morte o nuova vita.”
***
Angolo
dell’Autrice: Ecco il secondo capitolo!
Spero non ci siano
incongruenze, non sono sicura sull’ordine dei piani
dell’hotel, in caso ci sia qualcosa di sbagliato fatemelo
pure notare. Spero anche che la runa di Loki sia giusta XD
Riley sta per
conoscere la verità, ma pare che ci siano parecchi misteri
da svelare: chi è il ragazzo che ha provocato tanto
scompiglio? Cosa significano i versi della profezia?
Cos’è successo a Mia De Medici? Perché
Alviss soffre di forti crisi?
Grazie per aver letto,
alla prossima!
Tinkerbell92
|
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Capitolo 3 *** Non avrete mai la mia fottuta gamba! ***
RILEY
JENKINS E GLI DEI DI ASGARD
IL FARDELLO DI SIGYN
CAPITOLO
3
Non
avrete mai la mia fottuta gamba!
Il silenzio regnò per una manciata abbondante di
secondi, il che aveva dell’incredibile.
Le Norne si congedarono come nulla fosse, lasciando i presenti in preda
a un’evidente crisi interiore. Il povero Lee Fukuhara ormai
aveva assunto un colorito cinereo, così come la sua
valchiria. Si accasciò nuovamente sulla panca, facendosi
piccolo piccolo.
Finalmente, il direttore si schiarì la voce: - Bene,
ehm… una sorpresa a dir poco inaspettata…
- Mi dispiace! – strillò all’improvviso
la valchiria del ragazzo incriminato. – Mi dispiace, vi giuro
che non avevo idea fosse…
- Lidia, calmati! – le ordinò secca Gunilla,
fulminando il giovane semidio con lo sguardo. –
Questo… ragazzino
potrebbe averti ingannata, sappiamo come sono quelli della sua risma.
Penso servirà esaminare il caso prima di prendere una
decisione in merito.
- Eh? Ah, sì, senz’altro – si scosse
Helgi, non appena il capo delle valchirie gli rivolse
un’occhiata incalzante. – Che dire, le regole
parlano chiaro: questo ragazzo non è meritevole del Valhalla
e l’errore è da attribuire alla sua
valchiria… tuttavia…
- Errore?
Il suono della mia voce irritata risuonò per tutta la sala.
Generalmente non sono mai stata una persona impulsiva, ma in quel
momento fu più forte di me: mi alzai in piedi con aria
battagliera, squadrando uno a uno i volti sgomenti dei capiclan.
- Il fatto che questo ragazzo sia figlio di Loki vi porta
automaticamente a credere che sia stato un errore condurlo qui? Sul
serio? Vi basta questo per giudicare una persona senza darle nemmeno
una possibilità?
- Riley – mi ammonì Elizabeth con voce severa,
restando seduta e composta come una regina.
Stavo rischiando grosso, ma la rabbia mi offuscava ogni
capacità di giudizio.
Finché le offese venivano rivolte a me potevo portare
pazienza e farmele scivolare addosso, ma l’accanimento sugli
altri non ero mai riuscita a tollerarlo.
- Il Valhalla dovrebbe essere una specie di Paradiso, no? –
continuai. – Sulla Terra, tantissime persone vengono
discriminate ogni giorno, pensavo che almeno qui fosse diverso, ma a
quanto pare mi sbagliavo!
- Elizabeth – sibilò Gunilla, osservando la mia
valchiria con fare irrisorio. – Hai portato qui un futuro
Premio Nobel per la pace! Mi auguro non sia imparentata con questo vile
ingannatore, vista la foga con cui ha preso le sue difese…
- La verità – soffiai velenosa. –
è che detesto i bulli e i pregiudizi.
A quel punto, tutti i presenti in sala avevano la stessa espressione di
un cerbiatto abbagliato dai fari. Helgi fece scorrere lo sguardo da me
a Gunilla, che istintivamente aveva portato la mano
sull’impugnatura di uno dei martelli sistemati sulla sua
bandoliera. I suoi occhi azzurri sembravano lanciare lampi di odio e
sdegno.
- Tu… lurida insolente, io ti…
- Basta così – s’intromise infine il
direttore, riprendendo il controllo della situazione. – I
nuovi ospiti sono tenuti a parlare soltanto se interpellati. Signorina,
si sieda e aspetti il suo turno per parlare delle gesta che
l’hanno condotta qui, nessuno ha chiesto la Sua opinione
riguardo al caso da esaminare. Questo è un avvertimento: la
prossima volta che ci mancherà di rispetto, ne
pagherà le conseguenze.
Strinsi i pugni, dilatando le narici: ah, quindi ero stata io a mancare di
rispetto a loro?
Aprii la bocca nuovamente, quando la presa ferma di Elizabeth si
serrò sul mio polso, strattonandomi verso il basso e
costringendomi a sedermi.
- Mi scuso a nome della mia assistita – disse quindi la
rossa, lanciandomi di sbieco un’occhiata furente. –
È terribilmente suscettibile. Se posso, però,
vorrei poter dare un’opinione personale riguardo
l’operato di Lidia.
- Finora hai mostrato ottime capacità di giudizio, Elizabeth
– rispose Gunilla, apparentemente quieta. – Che
cosa vorresti dire, in merito?
La valchiria inglese si alzò elegantemente, senza tradire
alcun cenno di insicurezza: - Esaminando la profezia, in particolare
gli ultimi due versi, si parla di una duplice possibilità
per la stirpe del male: una sua scelta potrebbe portare
“trista morte” o “nuova vita”,
quindi abbiamo il cinquanta per cento di possibilità di
ottenere un vantaggio. Per questo motivo, chiederei di non prendere
provvedimenti troppo severi nei confronti della mia compagna Lidia,
almeno fino a quando la profezia non sarà completa.
- Capisco. Sono in parte d’accordo con te, almeno per quanto
concerne il destino di Lidia – rispose la figlia di Thor.
I capiclan cominciarono a parlottare tra loro, annuendo o scuotendo la
testa di tanto in tanto.
La tensione sul volto dell’imputata aveva ormai raggiunto
livelli trascendentali.
Infine, Helgi prese nuovamente parola: - Bene, ecco la nostra
decisione: sospenderemo momentaneamente parte del servizio di Lidia,
figlia di Tyr. Le sarà permesso seguire le proprie compagne
in eventuali missioni se convocata da Capitan Gunilla, ma, fino a data
da destinarsi, non potrà occuparsi della ricerca dei futuri einerjar. Detto
questo, procediamo con il resto delle presentazioni: abbiamo perso fin
troppo tempo con questa storia. Si alzi l’oratrice.
Obbedii meccanicamente, tra le risatine dei presenti. Accanto a me,
Elizabeth mi rivolse un’occhiata di avvertimento.
Feci appello a tutte le mie forze per raccontare la battaglia contro il
draugr,
mettendo meno veleno possibile nel tono della voce. Non appena terminai
il discorso, un feroce senso di ansia affiancò la rabbia:
forse avrei finalmente conosciuto l’identità di
uno dei miei genitori.
- Riley Barry Jenkins, le gesta compiute ti rendono meritevole del
Valhalla. Sicuramente, molto più delle tue doti oratorie
– disse Helgi.
Altro scroscio di risatine.
Gettai un’occhiata innervosita a Elizabeth, mentre il
direttore proseguiva con la cerimonia. La mia valchiria non rideva: i
suoi lineamenti erano congelati in un’espressione dura e
stoica.
- Il Padre Universale vuole forse intercedere?
Lo scranno di Odino rimase vuoto.
- Molto bene. Venga avanti la vala.
La donna incappucciata ripeté il rito delle rune. Serrai i
pugni talmente forte da conficcarmi le unghie nella carne.
I capiclan si sporsero, aggrottando la fronte con fare confuso: mi resi
conto che la loro attenzione era concentrata su una delle piccole
pietre, liscia e azzurra, con un simbolo semplice composto da due
singole linee:
ᛚ
- Laguz,
la runa dell’Acqua… - mormorò Helgi.
– Njord…
Si levarono diversi mormorii, le facce degli ospiti si
tinsero di espressioni perplesse. Elizabeth storse il naso, non senza
tradire un velo di delusione.
“Cosa
c’è che non va, adesso?”
pensai esasperata. Frugai nei cassetti della memoria per trovare
qualche informazione sulla divinità appena nominata: Njord,
dio del mare, padre di Freyr e Freya…
All’improvviso capii il motivo di tanta
perplessità: Njord era una divinità Vani. Da
quanto avevo letto, il Valhalla era generalmente riservato ai
discendenti degli Asi, mentre per quelli dei Vani c’era
Folkvanger, il giardino governato da Freya.
- Beh… questa è senza dubbio una
sorpresa… - mormorò infine Helgi. –
Questa serata è stata piena di sorprese.
Tuttavia… le rune hanno dato un responso positivo: Riley
Jenkins, figlia di Njord, nonostante tu non possegga il sangue degli
Asi, dimostrerai grande valore durante il Ragnarok. Domani, alla tua
prima battaglia, sopravvivrai, ma con una gamba in meno!
Mi lasciai cadere sulla panca, ascoltando a malapena gli applausi dei
presenti. Mi sentivo stordita e confusa, e di certo non per la
questione della gamba…
L’ultimo a parlare rivelò di essere un semidio
figlio di Thor, il che bastò a sollevare il morale dei thanes e degli
altri ospiti dell’hotel.
Per quanto mi riguarda, rimasi in stato semi-catatonico fino alla fine
del banchetto; una volta fuori dalla mensa, seguii meccanicamente
Elizabeth, che mi condusse nuovamente alla mia stanza.
Rimanemmo entrambe in silenzio, fino a quando la mia valchiria chiuse
la porta, rivolgendomi uno sguardo furente: - Sbaglio o ti avevo
chiesto di comportarti bene? – sbottò, scuotendomi
dal mio torpore. – Si può sapere cosa ti
è saltato in mente? Hai intenzione di far licenziare me e
finire a fare i lavori più degradanti fino al giorno del
Ragnarok? Hai una vaga idea di quello che hai rischiato?
- Io mi sarei comportata
male? – ribattei, alzando leggermente il tono.
– Quel branco di idioti ignoranti si è accanito
contro un poveretto che ha soltanto avuto la sfortuna di avere un padre
psicopatico! Avrei dovuto starmene zitta e guardare mentre facevano i
bulli con lui? È questo il vostro senso di onore e giustizia?
- Non ho mai detto che sia giusto!
Gli occhi azzurri della valchiria parevano capaci di trafiggere con
schegge di ghiaccio: - Lo so quanto sia deplorevole e sbagliato tutto
questo! Non credere che io sia d’accordo, Riley. Ma purtroppo
è così che funziona: loro sono i capi e possono
sbatterti nel fango con una semplice parola. Inimicarseli e dare
pubblicamente della bulla al capitano delle valchirie non ha aiutato
quel ragazzo in nessun modo. Non cambieranno idea su di lui.
Mi sedetti su una poltrona, stringendo i pugni: - Quelli là
non sarebbero in grado di governare nemmeno una schiera di gabinetti!
Sono ignoranti e stupidi: la punizione che hanno dato a Lidia
è totalmente insensata e controproducente! Una valchiria
inattiva non può portare nuovi einerjar all’hotel.
Per fare tutto quell’assurdo teatrino contro Lee Fukuhara, si
sono praticamente boicottati da soli! E noi dovremmo affidarci a gente
del genere?
Elizabeth si lasciò cadere sul divano, portando le mani
giunte davanti al viso. Sospirò a occhi chiusi e
all’improvviso mi sembrò estremamente stanca.
- Mi rendo conto di tutto quello che non funziona, qui. E non sono
l’unica. Ma al momento non si può fare nulla per
cambiare le cose… o meglio, di certo non riusciremo a
cambiare nulla facendo piazzate davanti a tutti. E forse ti
suonerà egoista ma… questo lavoro è
importante per me e non hai idea di quanto abbia dovuto faticare per
ottenere la fiducia e la stima delle mie compagne. Non tutti hanno la
fortuna di essere figli dalle divinità più
acclamate…
La sua ultima frase mi riportò alla mente quanto accaduto
poco prima, quando una semplice pietruzza aveva rivelato una delle
informazioni più importanti della mia vita.
Avevo finalmente un nome, un indizio, un’identità.
Un padre.
Provai per un istante l’impulso di chiamare Dayo per dargli
la notizia, avvertendo una morsa allo stomaco non appena realizzai che
ogni tipo di contatto con lui era ormai off-limits, e che lo
stesso valeva per mia madre.
Mi passai una mano tra i capelli, mentre con l’altra sfilavo
gli occhiali, strofinando gli occhi lucidi contro il polso.
- Njord – mormorai. – Sei… delusa?
Voglio dire, il fatto che mio padre sia uno dei Vani…
Elizabeth piegò appena l’angolo destro delle
labbra verso l’alto: - No, non mi sono pentita di aver
portato qui una figlia di Njord. Io non ho pregiudizi sui genitori
altrui.
- Al banchetto mi era sembrato diversamente…
La valchiria drizzò la schiena, scuotendo la testa: - Visto
quanto era accaduto poco prima, speravo saltasse fuori un genitore
divino popolare, per quietare gli animi dei capi. Per fortuna, il
responso della vala
ha confermato che ti trovi nel posto giusto. Finora non mi sono mai
sbagliata sul valore di coloro che ho portato qui. Ecco
perché Gunilla ha una buona considerazione di me,
nonostante…
Si bloccò, mordendosi la lingua con fare nervoso. Mi sporsi
appena verso di lei.
- Elizabeth… hai fatto fatica a guadagnarti la loro fiducia
per via del tuo genitore divino?
La rossa sospirò; capii di aver fatto centro.
- Nel caso te lo stessi chiedendo, non sono figlia di Loki –
rispose. – Però… non scorre comunque un
buon sangue nelle mie vene… preferirei evitare questo
argomento.
Prima che potessi replicare qualcosa, si alzò, lisciando le
pieghe dell’abito bianco: - Ti conviene riposare, ora. Domani
ti aspetta una lunga giornata impegnativa.
- Già… – borbottai. – Non
vedo l’ora di ritrovarmi a saltellare su una gamba
sola…
- Ti basta una barretta di cioccolato? Sul serio?
Sitala Tel’ula osservò la mia misera colazione a
occhi sgranati, imitata da buona parte dei miei compagni di piano.
Diedi un’alzata di spalle: - Dovremo affrontare una
battaglia, no? Non voglio appesantirmi e rischiare di vomitare ovunque.
- Come succede spesso a qualcuno… vero Jace? –
punzecchiò Lilly, gettando un’occhiata al piatto
del rosso, stracolmo di uova e bacon.
- Non so di che parli – replicò lui con un ghigno
furbo, per poi volgere gli occhi chiari verso di me. –
Dunque, figlia di Njord: qualche commento a caldo?
Il suo volto aveva un che di famigliare, ma ero ancora troppo stordita
per darci peso.
- Sovraccarico di informazioni ed emozioni – replicai.
– E il sistema amministrativo qui fa schifo.
- Come più o meno ovunque – sorrise la ragazza
bionda, passando ad Alviss una bustina di infuso ai mirtilli, che il
giovane stralunato posò all’interno di una tazza,
dove poi versò dell’acqua bollente.
Ben diede una spolverata di zucchero a velo sul proprio cornetto,
gettando di sottecchi un’occhiata alla sedia vuota accanto a
sé: - La prima battaglia è la più
dura, solitamente. I veterani adorano accanirsi sui novellini, ma noi
ti daremo tutto l’aiuto possibile.
- Comunque, puoi sentirti relativamente tranquilla –
soggiunse Jace. – Te la caverai con una gamba mozzata. Poteva
andarti peggio.
- Non lo metto in dubbio.
Alviss abbozzò un mezzo sorriso: - Oggi è sabato.
Ci scateneranno contro la furia degli elementi. Ci sarà da
divertirsi.
Immaginavo che l’idea di divertimento per gli einerjar fosse un
tantino estrema, ma, ancora una volta, il mondo norreno
riuscì comunque a sorprendermi.
Prima di quel fatidico giorno, potevo vantare come massima esperienza
in combattimento lo scontro in cosplay con armi finte durante una fiera
a tema Il Signore degli
Anelli, avvenuta due anni prima – io
interpretavo Legolas.
Figurarsi come potessi sentirmi in mezzo a un enorme campo di
battaglia, con lenti a contatto fastidiose in sostituzione degli
occhiali e circondata da orde di einerjar
assetati di sangue. Poteva essere una semplice paranoia, ma avevo
l’impressione che molti di loro fossero ansiosi di
contendersi l’onere di compiere la profezia sulla mia gamba.
Mi domandai cosa ne avrebbero fatto, forse un trofeo da appendere in
camera, un personalissimo remo per guadare il fiume che scorreva in
mezzo al campo, una mazza per giocare a croquet… magari
l’avrebbero usata per picchiarmi…
- Tieni alta la guardia!
La voce di Sitala mi scosse, portandomi ad alzare istintivamente lo
scudo davanti al volto, appena in tempo per parare una freccia
scagliata da chissà dove.
La giovane nativa sorrise soddisfatta, per poi scagliare
un’accetta contro un avversario, atterrandolo
all’istante.
Osservai i miei compagni piuttosto colpita: Lilly pareva divertirsi un
mondo, agitando a destra e a manca un’enorme mazza chiodata,
più grande di lei; Alviss faceva stragi con una lunga frusta
argentata, lanciando terrificanti grida di battaglia; Jace pareva
possedere una scorta inesauribile di coltelli, che scagliava a
ripetizione contro chiunque si avvicinasse troppo, mentre Ben
bersagliava i nemici con i dardi di una balestra dall’aria
leggera ma resistente.
In mezzo a un gruppo simile, non era difficile individuare
l’anello debole, l’incapace che si limitava a
scansare o parare i colpi e ad agitare con poca convinzione una spada
un po’ troppo corta.
Per rendere le cose più difficili, l’intero
cortile interno disponeva di chissà quale meccanismo magico
che scatenava in modo casuale la furia dei quattro elementi.
Giusto un istante prima, una colonna di fuoco era piombata dal cielo,
atterrando a pochi metri da noi e incenerendo una decina abbondante di
combattenti.
Tentai di rendermi utile individuando un senso logico nei cataclismi
che si scatenavano qua e là, ma le dimensioni del campo e la
confusione della battaglia mi rendevano l’impresa assai
difficile.
Decisi quindi di andare per gradi.
- Avviciniamoci al fiume! – suggerii. – Vorrei
verificare una cosa.
- Alto rischio di tsunami! – replicò
Jace, per poi piegare le labbra in un sorriso furbo. – Sempre
meglio delle colonne di fuoco.
Un rumore secco fu seguito da un fiotto di sangue caldo che mi
schizzò dritto in faccia. Gridai.
Alviss barcollò, imprecando: la lama affilata di
un’ascia era conficcata nella metà destra del suo
volto, attraversando la zona tra fronte e zigomo e dividendo
l’occhio in due.
Prima che avessi il tempo di reagire, il mio compagno cadde in avanti,
dissolvendosi come una statua di sabbia al vento.
Ci mancò poco che rimettessi sul prato la barretta di
cioccolato ingerita poco prima.
- Stasera tornerà come nuovo – mi
assicurò Lilly. – Allontaniamoci da qui, presto!
Cominciammo a correre verso il fiume, schivando per miracolo
l’assalto di un’orrenda quercia ambulante
– niente a che vedere con gli Ent di Tolkien
– ma non avendo altrettanta fortuna con un tornado impazzito.
Lilly, che si trovava un po’ più avanti rispetto
il gruppo, venne risucchiata e portata via.
Saremmo stati assorbiti tutti quanti, se non fosse apparso
all’improvviso uno strano portale magico: saltammo dentro
senza pensarci due volte, ritrovandoci a diversi metri dal punto di
partenza, proprio sulle rive del fiume.
- Ma cosa…
Sita mi rivolse un ampio sorriso, scoprendo i denti bianchi e perfetti:
- I vantaggi di essere figli di Heimdall.
Un gigantesco ragazzone barbuto si lanciò contro di noi,
roteando due enormi asce. Sitala diede un’ulteriore prova del
proprio potere, allungando la mano verso di lui e aprendo un nuovo
portale: l’energumeno ci finì dentro dritto
dritto. Pochi istanti dopo, lo vidi riapparire a mezz’aria,
proprio sopra il fiume: cadde in acqua con un tonfo, imprecando e
sputacchiando.
- Stupido berserkr
– sghignazzò Jace, giusto un secondo prima di
finire decapitato da una mannaia rotante.
Ben indietreggiò, caricando la balestra: - Riley, ora che
siamo vicini al fiume, hai un piano o qualcosa di simile?
- Qualcosa di simile – replicai, provando ad allertare al
massimo i sensi. Mi sentivo un po’ stupida, ma la
curiosità aveva ormai preso il sopravvento: ero figlia di
Njord, una divinità legata all’acqua…
forse, forse…
Rinfoderai la spada e tesi una mano sopra le sponde del fiume.
“Okay, come
funziona? Devo gridare qualcosa? Devo fare un balletto?”
I miei compagni superstiti parvero intuire le mie intenzioni, infatti
si schierarono per coprirmi le spalle.
Dapprima non avvertii nulla: restai immobile e con la mano testa come
un’idiota. Poi, però, una specie di formicolio
cominciò a solleticarmi le dita, insinuandosi
all’interno delle mie vene e pervadendomi l’intero
corpo.
Vagai con la mente alla ricerca di un ricordo che credevo di aver
rimosso… era già successo, molto tempo
fa… credevo si fosse trattato soltanto di un sogno, e
invece…
Per poco non caddi a terra per la sorpresa non appena mi resi conto di
udire una specie di voce, simile a uno scampanellio, o forse a uno
strano flusso di coscienza. Percepivo l’essenza
dell’acqua corrente, riuscivo a indovinare la
profondità, la velocità del flusso, persino la
temperatura, senza il bisogno di toccarla. E allo stesso modo, riuscii
a percepire un imminente mutamento…
- Tsunami tra trenta secondi! – urlai.
Ben non ebbe il tempo di reagire: una lancia lo colpì al
petto, passandolo da parte a parte. Sitala riuscì invece a
respingere un avversario, voltandosi poi verso di me: - Vuoi provare a
sfruttare i poteri di Njord?
- Io… non so se mi riuscirà…
- Decidi in fretta: posso aprire un portale per allontanarci da qui
prima che colpisca.
Cominciai a ponderare rapidamente la mia decisione: in quel momento
riuscivo a sentirmi connessa con le acque del fiume, ma non ero sicura
che fosse sufficiente per controllarle, considerato soprattutto che era
la prima volta che tentavo consapevolmente una simile impresa. Potevamo
però sfruttare il potere di Sita, attirando verso di noi
vari avversari e poi fuggire, lasciando che venissero travolti al posto
nostro.
Non volendo rischiare, aprii la bocca per comunicarle la seconda
opzione, quando un dolore lancinante alla gamba sinistra
trasformò le mie parole in un grido. Qualcuno
esultò, mentre crollavo a terra bocconi, priva di un perno.
- Riley!
Cercai di sollevarmi sulle braccia, volgendo indietro lo
sguardo con orrore: la mia gamba, ancora avvolta nel pantalone jeans
blu, giaceva a pochi centimetri dal mio corpo, recisa
all’altezza della coscia.
- Maledizione…
Strisciai di lato, afferrandola, mentre Sitala continuava a
proteggermi, come una leonessa con il proprio cucciolo.
- Ce la fai ad alzarti? – gridò, spaccando con un
pugno la mandibola a una ragazza bionda, che si era scagliata su di lei
agitando un grosso martello. – Se resteremo qui, verremo
travolte dallo tsunami!
Uno spaventoso gorgoglio fece eco alle sue parole: le acque del fiume
si gonfiarono paurosamente, trasformandosi a velocità
disarmante in una terrificante onda anomala.
In preda alla disperazione, tesi nuovamente la mano in avanti: con mia
somma sorpresa, l’intento diede i suoi frutti, almeno per una
manciata di secondi.
La grande massa fluida si abbatté sulla terraferma,
descrivendo però un arco sufficiente a lasciare me e la mia
compagna all’asciutto. Mollai la presa sulla mia gamba,
tendendo anche l’altra mano. Il mondo attorno a noi si tinse
di verdeazzurro; diversi corpi scuri si dibattevano disperatamente
all’interno di quelle pareti liquide e turbolente.
Mi resi conto di star perdendo lentamente il controllo quando la bolla
protettiva che avvolgeva me e Sitala cominciò a
rimpicciolirsi.
- Sto cedendo! – gridai. – Portaci via da qui!
Uno squarcio quadrato si aprì tempestivamente sotto di me,
facendomi precipitare.
Contai uno, due, tre secondi, poi, colpii duramente il terreno. Tutto
si fece buio.
- Sopravvivere alla prima battaglia non è cosa da poco.
Dovresti sentirti fiera di te stessa, lo sai?
Elizabeth aveva uno strano sorrisetto dipinto sul volto, non riuscivo a
capire se fosse compiaciuta o divertita. Mi aveva appena prelevata
dall’infermeria, dove mi avevano miracolosamente riattaccato
la gamba – o forse mi era semplicemente ricresciuta, non
saprei dirlo, visto che ero stata semi-incosciente per quasi tutta la
durata dell’operazione – e ci stavamo dirigendo con
passo tranquillo al Piano Ventitré.
Alzai gli occhi al soffitto: - Sono stata protetta per tutto il tempo
dai miei compagni, mi hanno tagliato una gamba e poi sono svenuta. Sai
che gran bella soddisfazione!
- Sita mi ha detto che hai tentato di utilizzare i poteri di Njord...
- Ci sono riuscita soltanto per pochi secondi.
- Beh che pretendi? Ti devi esercitare, era la tua prima volta.
Entrammo insieme nell’ascensore, mentre continuavo a
tormentarmi nervosamente le dita delle mani tra loro.
- In realtà… - mormorai.- Ci avevo già
provato. Tanto tempo fa, quando ero bambina. Avevo finito di leggere il
primo libro di Harry
Potter e mi ero messa in testa di fare magie.
Così ho aperto l’acqua del rubinetto e…
per un attimo ero riuscita a curvare la traiettoria del flusso. Col
tempo, mi convinsi si fosse trattato di un sogno… e poi sai,
io e mia madre siamo sempre state persone estremamente
razionali…
- Sì, immagino. Comunque, ti consiglio di addestrarti con la
piscinetta di acqua salata che si trova nella tua stanza. Njord
è legato al mare, quindi dovresti far meno fatica. E ti
suggerirei anche di studiare in modo approfondito la figura di tuo
padre, in modo da individuare altre potenziali capacità
soprannaturali.
Le porte dell’ascensore si spalancarono, offrendoci la vista
famigliare del corridoio Ventitré.
Gli unici presenti tra i miei compagni erano Sitala e Jace, che
chiacchieravano allegramente davanti alla porta della stanza di Alviss.
- Già in piedi, Jenkins? – sorrise lui, a mo di
saluto. – Ti hanno rimessa in fretta!
- A quanto pare – borbottai. – Dove sono gli altri?
- Oh, vedrai che faranno in tempo tutti a riprendersi per
l’ora di cena.
- Basta che non perdano la testa, giusto Jace? –
s’intromise Elizabeth, sfoderando, per la prima volta,
qualcosa che somigliava vagamente al senso dell’umorismo.
Il ragazzo le fece una smorfia: – Gnè
gnè, sei simpatica come un calcio in faccia, Lizzie.
- Non incominciate – li riprese Sitala, rivolgendomi un
sorrisetto esasperato.
C’era qualcosa di strano nel modo in cui la
valchiria e il mio compagno di piano interagivano, ma non ebbi modo di
indagare, visto che la rossa decise di dileguarsi.
- Sentite, io ho un impegno urgente da sbrigare, ci rivedremo per cena.
- Uuuh dove vai Lizzie, hai un appuntamento? – la
punzecchiò Jace, battendo le ciglia.
La ventenne lo fulminò con lo sguardo: - Piantala, idiota.
È una faccenda importante.
Gli occhi scuri di Sitala si ridussero a due fessure: -
C’entra forse… quella persona?
Elizabeth annuì: - Sono riuscita a parlare con Lee Fukuhara,
in infermeria. Ho finalmente una pista.
- Lee? – domandai. – Il figlio di Loki? Si
può sapere di che state parlando?
- Fatti spiegare da loro. Ci vediamo più tardi.
Osservai a occhi sgranati la valchiria dalla chioma fulva che si
allontanava a passo spedito lungo il corridoio, poi mi voltai verso i
miei compagni: - Perché Elizabeth ha dovuto parlare con Lee
Fukuhara?
Sita e Jace si scambiarono un’occhiata eloquente.
- Ecco – cominciò la ragazza Miwok. – Da
circa tre anni Elizabeth è impegnata a dare la caccia a un
semidio molto pericoloso...
- Più che impegnata, diciamo che ne è
ossessionata – la corresse Jace. – Presente il
capitano Achab con Moby Dick? O Javert con Jean Valjean? O Zenigata con
Lupin?
- Capito – replicai. – Come mai questo semidio
è tanto pericoloso?
- Beh, sono anni che provoca disordini sulla Terra, sfuggendo
continuamente alla giustizia e obbedendo agli ordini del proprio
padre…
Sitala Tel’ula emise un grosso sospiro: - Quando Lee Fukuhara
ha menzionato un fratello maggiore durante il proprio racconto, ieri
sera, Elizabeth ha pensato potesse trattarsi di lui… e forse
ha colto nel segno. Il nome di questo semidio è Dimitri
Lagerfelt, figlio di Loki. E per quanto ne sappiamo… - la
sua voce si abbassò di un tono. – potrebbe anche
essere coinvolto nella sparizione di Mia.
***
Angolo
dell’Autrice: Non so come sono riuscita ad
aggiornare. Spero mi venga ispirazione anche per le altre storie. O per
questa, magari per avere un capitolo in più in tempi
accettabili.
Mi auguro che questo sia stato perlomeno godibile e che non ci siano
incongruenze o errori.
Allora, ho un po’ scelto di prendermi licenze poetiche
riguardo i poteri dei semidei, visto che non ho trovato molte
informazioni a riguardo. E mi piaceva l’idea dei figli di
Heimdall che aprono portali, anche se a determinate condizioni.
Per quanto riguarda Riley, dovrà lavorare parecchio per
imparare a gestire i propri poteri, integrarsi e diventare
un’einerji degna di tale nome.
Nel caso ci sia un po’ di confusione riguardo il nome del
fratello di Lee Fukuhara, specifico che i due sono fratelli soltanto da
parte di padre, ma sono nati da madri diverse e in diverse parti del
mondo.
Per il momento è tutto.
Grazie per aver letto,
Tinkerbell92
|
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Capitolo 4 *** Mai entrare negli spogliatoi in disuso ***
RILEY
JENKINS E GLI DEI DI ASGARD
IL FARDELLO DI SIGYN
Capitolo
4
Mai entrare negli
spogliatoi in disuso
La cena era stata
piuttosto soddisfacente: Lilly era riuscita ad accaparrare degli ottimi
posti in quarta fila, sulle gradinate della mensa, in modo da avere una
buona vista sui posti d’onore, dove i due nuovi einerjar
avevano raccontato le loro imprese. Uno dei due aveva genitori umani,
l’altro si era rivelato discendente di Odino –
qualcosa come bis-nipote.
Tornata in stanza, cominciai a svolgere una ricerca approfondita su
Njord, la sua storia e i suoi poteri, appuntandomi possibili
esperimenti per testare le mie capacità.
La cosa buffa è che in ogni testo disponibile veniva
ripetuto almeno tre volte quanto fossero belli e perfetti i piedi di
Njord. I miei mi pareva non avessero nulla di speciale, anzi, grazie
alla mia fantastica taglia 42 faticavo non poco a trovare scarpe adatte
nei reparti femminili.
Dopo circa un paio d’ore di studio, qualcuno bussò
alla porta: esattamente come il giorno prima, mi ritrovai faccia a
faccia col sorriso di Lilly.
- Spero di non disturbarti – cominciò. –
Vedi, ogni tanto capita che Alviss faccia fatica ad addormentarsi,
così siamo abituati a spostarci nella sua stanza per
chiacchierare un po’… questo lo aiuta a prendere
sonno. Se ti va, puoi unirti a noi…
- Oh…
Ci conoscevamo da poco più di ventiquattro ore, ma i miei
compagni mi stavano aiutando molto a integrarmi. Perché
perdere un’occasione di conoscerli meglio?
- Ehm… sì, d’accordo.
Avevo una vaga idea di come potesse essere la stanza di Alviss e, in
parte, indovinai: i colori predominanti erano il nero e il viola, le
luci erano piuttosto soffuse, dando all’intero ambiente un
aspetto quasi spettrale; l’atrio d’ingresso si
affacciava a un ampio salotto, provvisto di un enorme divano
dall’aria antica, di forma circolare. Di fronte a esso
c’era un curioso caminetto, le cui fiamme erano tinte di
colori freddi.
I miei amici sedevano tutti sul divano. Mi sorpresi non poco vedendo
che tra loro c’era anche Elizabeth.
- Già tornata dalla caccia? – le domandai,
accomodandomi tra Sitala e Alviss.
La valchiria abbozzò un sorrisetto: - Penso che la mia
indagine proseguirà ancora per un po’. Quel
maledetto è bravo a nascondersi.
- Beh, che ti aspetti da un figlio di Loki? – la
punzecchiò Jace, allargando di proposito le ginocchia per
darle fastidio.
- Mettiti composto, idiota! – lo sgridò lei,
dandogli una pacca sulla gamba.
- Ehi, ehi, non incominciamo – intervenne Sita. – O
vi mettete in testa di andare d’accordo, o evitate di sedervi
vicini.
Improvvisamente, fui colta da un’illuminazione: - Un
momento… non mi direte che…
Elizabeth sospirò, alzando gli occhi al soffitto: -
Sì. Lui è mio fratello, purtroppo. Gemello, per
la precisione.
- Sottoscrivo il “purtroppo” – fece eco
il rosso. – Essere un einerji dovrebbe darti il vantaggio di
non vedere più i parenti rompipalle, ma resti fregato di
brutto quando tua sorella è anche la tua valchiria.
- Quindi… sei stata tu a portare Jace nel Valhalla?
La ventenne annuì: - Questo idiota si è fatto
ammazzare da un gruppo di delinquenti. Li ha visti in un vicolo, mentre
se la prendevano con un senzatetto muto e il suo cane, e si
è gettato contro di loro, colpendoli con lo skate.
Risultato? Un bel taglio alla gola con un coltellaccio sporco.
- Come se avessi potuto fare diversamente! –
esclamò lui.
Elizabeth lo fulminò con lo sguardo: - C’era quel
poliziotto nei paraggi, tanto per cominciare, quello che li ha
arrestati quando ormai per te era troppo tardi! Potevi richiamare la
sua attenzione mettendoti a gridare contro quegli stronzi, per esempio.
Ma ovviamente è più facile gettarsi nella mischia
senza riflettere e finire ammazzato come un cane, costringendo tua
sorella a raccogliere la tua anima!
- Beh, almeno il senzatetto e il cane si sono salvati!
Sgranai gli occhi, facendo scorrere lo sguardo da uno
all’altra. Lilly interruppe il momento di silenzio
schiarendosi la voce: - Siamo qui per aiutare Alviss a dormire, dubito
riuscirà a farlo, sentendovi litigare di continuo.
- Però… - mormorò il giovane figlio di
Nott, mettendosi a sedere più composto. – Riley
non sa come siamo finiti qui. Potremmo raccontarle le nostre storie.
Penso mi aiuterebbe, visto che le ho già ascoltate un sacco
di volte…
- In effetti sarei curiosa di conoscerle – replicai.
– Tu come sei arrivato nel Valhalla?
Alviss si accomodò nuovamente contro lo schienale del
divano:- Nulla di che, in realtà. Sono semplicemente caduto
in battaglia nel 1244… già, abito qui da un sacco
di tempo – aggiunse, notando la mia espressione sorpresa.
– Non è stato proprio un toccasana per la mia
già fragile salute mentale. Non ho avuto
un’infanzia particolarmente felice…
Mi aspettai che aggiungesse altro, invece si zittì,
perdendosi in chissà quali ricordi.
Lilly, seduta alla sua destra, gli carezzò la guancia con
fare materno: - È rimasto solo a lungo… ma ora ci
siamo noi. Io sono arrivata nel 1832: lavoravo
nell’orfanatrofio gestito dai miei genitori a
Würzburg. Un giorno, un gigante di fuoco fece irruzione,
attirato dalla presenza di un piccolo semidio, un figlio di Frigg; ai
miei occhi era apparso come un pazzo armato di esplosivi. Lo affrontai
con il fucile che mio padre teneva nel proprio studio, ma naturalmente
non bastò: fece saltare in aria l’intera
struttura. Fortunatamente, i miei genitori erano riusciti a mettere in
salvo i bambini nel cortile, ma insieme a me morirono tre cameriere, la
cuoca e uno dei giardinieri. Fu grazie alla mia valchiria, Jane, che il
gigante venne sconfitto.
- È… terribile – mormorai a fatica.
– Ora però capisco perché ami tanto
prenderti cura delle persone.
Lilly sorrise, dando una piccola alzata di spalle: - Vecchie abitudini
che mi rendono ancora felice.
Incrociai per un attimo lo sguardo con Alviss, che sembrava ancora
assorto nel proprio mondo. Non osai chiedergli quali orrori avesse
dovuto affrontare durante la propria infanzia, così mi
voltai a sinistra, verso Sitala: - E tu come sei finita qui?
La bella nativa scoprì la sua perfetta fila di denti
bianchi: - Ho affrontato anch’io un mostro mitologico, un
drago. Giunse alla nostra riserva e, in una notte, uccise tre persone e
ne trascinò via una. Il mattino dopo, mentre cercavamo nei
boschi i possibili resti della vittima rapita, fui avvicinata da un
uomo afroamericano alto e robusto: non mi diede il tempo di chiedergli
cosa ci facesse lì, si limitò a consegnarmi un
grosso fucile e un sacchetto con proiettili, a detta sua, adatti a
sconfiggere la creatura malvagia. Non avevo idea di chi fosse,
né come facesse a sapere del mostro, ma qualcosa dentro di
me mi spingeva a fidarmi di lui. Immagino tu abbia capito:
quell’uomo era Heimdall. Naturalmente, la notte stessa il
mostro tornò, ma riuscii ad affrontarlo grazie
all’arma che mio padre mi aveva donato. Lo attirai lontano
dalla riserva, per non mettere a rischio la mia gente, e lo uccisi,
anche se a costo della mia stessa vita. E questo… beh,
è quanto.
- Tuo padre è intervenuto per aiutarti? –
esclamai. – Pensavo che gli dèi non avessero
contatti diretti con i figli mortali…
- Dipende dalla divinità in questione –
spiegò la ragazza Miwok. – Alcuni ti ignorano
completamente, altri agiscono restando nell’ombra…
e poi ci sono quelli che, invece, cercano di essere presenti.
Provai una piccola punta di invidia: prima di diventare einerji,
percepivo i miei genitori biologici come vaghe idee, distanti e
irraggiungibili. Mi era capitato di fantasticarci su, qualche volta, ma
nulla di più; e poi, ero felice con Peggy, l’unica
figura materna che avrei sempre riconosciuto come tale.
Adesso, però, qualcosa era cambiato, avevo scoperto che mio
padre era una divinità norrena e che avrebbe potuto
benissimo darmi qualche cenno della propria presenza. Aveva avuto
diciotto anni di occasioni per farlo, ma evidentemente aveva scelto di
far parte del gruppo “Ignoriamo completamente”.
Molto carino da parte sua.
Alzai lo sguardo, incontrando quello di Ben che mi sedeva di fronte,
dalla parte opposta del divano rotondo. Le fiamme del caminetto
coloravano i suoi lineamenti di blu, verde e violetto e mandavano un
debole luccichio tramite il ciondolo con la Stella di David appeso al
suo collo.
Mi resi improvvisamente conto di provare timore per ciò che
avrebbe potuto raccontarmi.
- Ben… - esitai.
Le sue labbra ben disegnate si piegarono in un sorriso benevolo: -
Non amo molto raccontare la mia storia...
- Non ti preoccupare, capisco benissimo, non serve che tu lo faccia.
- Ti ringrazio - mormorò lui.
- E… per quanto riguarda Mia? Potrei sapere cosa le
è successo? O perlomeno come è arrivata qui? Il
suo cognome…
- De Medici – s’intromise Elizabeth. –
Sì, quei Medici, la famiglia che governò Firenze.
Un sorriso decisamente radioso illuminò il volto di Ben: -
Era figlia di Giovanni, fratellastro illegittimo di Lorenzo il
Magnifico, e di sua moglie, Luigia De Medici. Beh, questo almeno
ufficialmente…
- Il vero padre di Mia è Tyr – spiegò
Sitala. – Ma naturalmente, ha scoperto questa
verità dopo essere diventata einerji…
Si era creata una sorta di coralità, all’interno
del gruppo: ognuno sembrava desideroso di dire qualcosa sulla ragazza
scomparsa.
A prendere parola, questa volta, fu Alviss: - Mi ricordo il suo arrivo
nel Valhalla, nel 1480: è stata la mia primissima compagna
di piano. I primi tempi sono stati difficili per lei: già al
banchetto, quando la vala rivelò
l’identità di suo padre, aveva reagito piuttosto
male. Nel corso degli anni, abbiamo stretto amicizia e ci siamo fatti
compagnia per circa quasi quattrocento anni, prima che, finalmente,
arrivasse Lilly.
La bionda gli sorrise, posando la propria mano sulla sua con fare
affettuoso. Nonostante l’aspetto fisico e
l’età, si comportavano quasi come fossero madre e
figlio.
- Mia crebbe in un ambiente aristocratico –
continuò la ragazza tedesca. – Nonostante suo
padre fosse un figlio illegittimo, fu trattato dai fratellastri con
riguardo, tanto da contrarre il matrimonio con una delle loro cugine.
Mia ci mise poco a farsi conoscere dalla nobiltà fiorentina:
era nota per la sua bellezza ma anche, e soprattutto, per il suo
– mimò il gesto delle virgolette con le dita.
– caratteraccio.
- Beh, non ci si può aspettare che una figlia di Tyr sia
docile e obbediente – ridacchiò Jace. –
Ovviamente, per l’epoca, il suo comportamento ribelle era
ritenuto inaccettabile. Non stava mai ferma, scappava di continuo,
rispondeva per le rime e aveva una fissa per le armi e i combattimenti.
Quando è cresciuta, i suoi genitori hanno tentato
più volte di trovarle un marito, ma lei finiva sempre col
far scappare ogni pretendente. Finché non se ne
presentò uno particolarmente insistente…
Fui colta da un orrendo presentimento: - Ed è…
per colpa di questo pretendente che…
Elizabeth diede conferma alle mie parole: - Un giorno, Mia e una delle
sue sorelle passeggiavano in un tranquillo boschetto: lui le
seguì, tendendo un agguato per prendersi Mia con la forza.
Lei portava sempre un pugnale nascosto sotto la veste e lo
affrontò, per difendersi e per dar modo alla sorella di
scappare e chiamare aiuto; riuscì ad accoltellarlo ma, prima
di morire, lui le fece battere la testa contro il tronco di un albero.
- Santo cielo… - mormorai. La storia di Mia mi aveva lasciata a corto di parole. Fortunatamente,
Sitala ruppe in tempo la pesante cappa di silenzio che aveva avvolto
l’intera stanza.
- Mia è sparita nel nulla circa cinque mesi fa. Era tornata
di nascosto su Midgard, non sappiamo il perché, e da allora
non è più tornata. Ho chiesto a mio padre di
indagare, ma nemmeno lui è riuscito a trovarla.
Riuscii a sciogliere il nodo alla lingua: - E pensate che
c’entri Dimitri Lagerfelt?
- Non può essere altrimenti! – sbottò
Elizabeth, stringendo i pugni. – Sono anni che cerca di
sabotare gli eroi del Valhalla! Quel… quel…
- Ssshhh – intimò dolcemente Lilly. Ci rivolse un
sorriso, indicando Alviss poggiato contro la sua spalla. In qualche
modo, si era finalmente addormentato.
Riuscii a trascorrere un paio di settimane in modo relativamente
tranquillo, almeno, secondo gli standard dell’Hotel Valhalla.
Avevo cominciato a formare un legame piuttosto solido con i miei
compagni, studiavo e mi esercitavo duramente per riuscire a diventare
una guerriera decente.
Naturalmente, Elizabeth pensò bene di interrompere il mio
momento di “quiete” una sera, a cena, con un
simpaticissimo annuncio.
- Un attimo di attenzione, prego! – ci richiamò
Helgi. – Dopo un’attenta e accurata analisi
dell’ultima profezia delle Norne – occhiataccia
rivolta al povero Lee Fukuhara. – abbiamo deciso di
organizzare una spedizione. Capitan Gunilla ha scelto di affidare
l’incarico alla sua valorosa compagna Elizabeth Colbert.
Fece cenno alla valchiria di alzarsi, cedendole la parola. Lizzie si
schiarì la voce, osservando il proprio pubblico con fare
deciso: - Abbiamo ragione di credere che la profezia voglia spingerci
alla cattura del pericoloso criminale Dimitri Legerfelt, figlio di
Loki…
- Oh, no, eccola che ricomincia! – borbottò Jace,
alzando gli occhi al cielo. – Questa volta è
riuscita a convincerli!
- Il nostro compagno, Lee Fukuhara – continuò la
valchiria. – Ha confermato di essere rimasto ucciso per colpa
del famigerato fratellastro mentre questi cercava di impossessarsi di
un’antica reliquia contenente il sangue versato dal dio Tyr,
il giorno in cui il lupo Fenris lo privò della mano destra.
- Il seme del coraggio… - mormorò Alviss.
– Possibile che si riferisse a questo?
Elizabeth proseguì con maggiore zelo: - Si parla poi di una
rotta da tracciare lungo “lo specchio del cielo”.
È piuttosto ovvio che queste parole indichino il mare: le
Norne ci hanno suggerito di intraprendere un viaggio alla ricerca della
reliquia scomparsa e fermare Lagerfelt. In qualità di leader
della spedizione, mi è stato concesso di scegliere la mia
squadra: saranno gli einerjar del piano Ventitré ad
accompagnarmi.
Sgranai gli occhi, mentre il respiro mi si mozzava in gola. Per un
istante, temetti di vomitare la salsiccia di soia ingerita poco prima.
Doveva esserci un errore, o forse si trattava di uno scherzo di pessimo
gusto: Elizabeth non poteva aver incluso anche me nella missione,
giusto?
Lanciai un’occhiata sconvolta in direzione di Sitala, la
quale mi rivolse un sorriso comprensivo.
- Non vorrà che venga anch’io, no? –
domandai con un filo di voce. – Sono appena arrivata,
sarei… sarei solo d’intralcio… non sono
pronta per una cosa del genere!
- Beh… è previsto un viaggio per mare –
replicò Ben, con una punta di amarezza. – E tu sei
figlia di Njord, signore delle navi… la tua presenza
è fondamentale…
Maledissi mentalmente le mie origini, pizzicandomi continuamente le
gambe per convincermi che si trattava soltanto di un brutto sogno.
Sfortunatamente, non stavo affatto dormendo.
Non riuscii a dormire bene per le tre notti seguenti,
così, il giorno della partenza, mi ritrovai con
due occhiaie spaventose e la vitalità di un telefonino
scarico. Feci una fatica immane a indossare un corpetto protettivo
sotto i vestiti, tanto che al primo tentativo lo misi addirittura
storto – e attribuire la colpa alla mia taglia minuscola di
reggiseno non mi aiutò a sentirmi meno stupida.
Fortunatamente, i miei compagni di piano attesero che tutti quanti
fossero presenti in corridoio, prima di partire. Avessi dovuto recarmi
da sola al punto di ritrovo, mi sarei sicuramente persa.
Ognuno di loro recava con sé l’arma preferita e un
po’ li invidiai: io non avevo ancora trovato
un’arma con cui riuscissi a sentirmi in sintonia,
così mi ero accontentata del lungo pugnale che mi aveva
procurato Jace, un gentile omaggio del reparto Oggetti Smarriti.
- Quindi… uno dei passaggi per la Terra… o
Midgard, insomma… si trova in uno degli spogliatoi della
piscina? – domandai, mentre entravamo in ascensore.
- Già – confermò Sitala. –
L’unico spogliatoio perennemente in disuso. Volendo, in
realtà, potrei aprire dei varchi io stessa, ma dovrei avere
le idee chiare sul luogo da raggiungere. Essere stata fisicamente in
quel posto, insomma. Una volta Jace mi ha convinta a provare una
destinazione sconosciuta, e… - lanciò
un’occhiataccia al compagno rosso. – Beh, non
è andata molto bene. Ci siamo ritrovati a Nidavellir ed
è stato piuttosto complicato uscirne vivi.
- Bah, non puoi dire non sia stato divertente –
ribatté l’altro, tenendo lo sguardo fisso avanti a
sé.
Lilly gli posò una mano sulla spalla: - Jace,
c’è qualcosa che ti turba?
Il ragazzo alzò gli occhi al soffitto: - Non mi convince per
niente questa missione. Lizzie fa girare tutto attorno a quel dannato
Dimitri Lagerfelt. Diventa totalmente irrazionale quando si tratta di
lui. Non sono un grande interprete, ma dubito che la profezia si
riferisse a Lagerfelt: sono piuttosto convinto che mia sorella abbia
manipolato le informazioni per convincere il direttore a organizzare
una spedizione contro di lui.
- Sì, anche secondo me l’interpretazione dei versi
è stata molto approssimativa – borbottò
Alviss. – Il seme del coraggio… perché
parlare di seme, se l’oggetto della ricerca è una
reliquia con il sangue?
- Mia mi ha parlato, una volta, di quell’oggetto –
intervenne Ben. – Ha detto che è un tesoro
inestimabile, perduto da anni, che può essere reclamato
soltanto da uno, o una, discendente del dio.
- Che proprietà avrebbe? – domandai. –
Dona coraggio? Aiuta ad affrontare le battaglie?
- In un certo senso. Permette di affrontare con successo qualsiasi tipo
di battaglia. Fisica e… interiore.
Gli ingranaggi del mio cervello cominciarono a mettersi in moto: - E
se… e se Dimitri volesse veramente questa
reliquia… potrebbe aver effettivamente rapito Mia. Una
figlia di Tyr gli servirebbe per trovarla…
- Assai probabile – annuì Sitala. –
Giustificherebbe la sparizione della nostra amica e darebbe conferma ai
sospetti che nutriamo da tempo.
L’ascensore si fermò. Uscimmo piuttosto
rapidamente, raggiungendo gli spogliatoi maschili della zona sauna.
Elizabeth ci aspettava con impazienza di fronte a un camerino dalla
porta mezza scassata, su cui era stato appeso il cartello
“Fuori Servizio”.
- Bene, eccovi qua! Avete preso tutto?
- Noi sì – rispose Jace, con una smorfia.
– Tu invece? Se non sbaglio, ci servirà una nave...
- Già risolto. Ne ho noleggiata una, che ci aspetta
ormeggiata al porto di Boston. Allora, siete tutti pronti?
Replicai mentalmente con un “no”, mentre lei
spalancava la porta dello spogliatoio in disuso: mi aspettai di
trovarmi davanti a un portale magico e luminoso, invece,
l’interno del camerino era un semplice… interno di
camerino un po’ spoglio. Un pavimento con piastrelle
rovinate, una panca sconquassata e un paio di grucce appese al muro.
La valchiria percepì la mia perplessità, infatti
mi rivolse un sorriso poco rassicurante: - Non preoccuparti, Riley.
Siamo nel posto giusto. Aspetta e vedrai.
Fece un passo avanti e… scomparve nel nulla.
Trattenni a stento un gemito di sorpresa.
- Andiamo – incitò Lilly, offrendomi la mano.
– È la tua prima volta. Attraversiamo insieme?
Annuii, serrando le dita attorno alle sue, piccole e morbide. Varcammo
quindi la soglia dello stanzino e, da quel momento, tutto attorno a noi
parve accelerare.
Mi sentii rivoltare lo stomaco come un calzino, mentre un lieve ma
fastidioso pizzicore mi tormentava ogni singolo centimetro di pelle.
Provai a voltarmi verso Lilly: sentivo la stretta della sua mano nella
mia, eppure la mia amica pareva essersi trasformata in un insieme di
macchie di colore incorporee. Improvvisamente, la sua vocina
rimbombò nella mia testa.
- Qualcosa non va… - disse. – Sta durando
troppo… non dovrebbe essere…
Prima che terminasse la frase, i nostri corpi subirono un tremendo
scossone, prima di venir catapultati contro qualcosa di duro.
Eseguii diverse capriole – in modo del tutto involontario
– sbattendo, di tanto in tanto, contro qualcosa che deviava
la traiettoria dei miei ruzzoloni.
Quando, finalmente, il mondo si fermò, mi ritrovai
rannicchiata in posizione fetale, con la testa che girava e i succhi
gastrici che cercavano in tutti i modi di risalire lungo
l’esofago.
Un fischio piuttosto fastidioso mi tormentava entrambi i timpani.
Ansimante e dolorante, col volto nascosto tra le braccia, cercai di
mettere ordine ai pensieri e, soprattutto, di trovare il coraggio di
aprire gli occhi.
Finalmente, quando il fischiò si affievolì,
riuscii a percepire il suono di una voce femminile. Era ovattata e
indistinta, ma dubitavo appartenesse a una delle mie compagne.
Con uno sforzo immane, riuscii ad afferrare alcune parole.
- Blitz, eccone un’altra! Guarda!
Mi sforzai di dischiudere le palpebre. Furono necessari diversi
tentativi prima di mettere a fuoco qualcosa, oltre ai pallini neri che
mi danzavano davanti alle orbite. Dalle tonalità
dell’ambiente che mi circondava, intuii dovesse esser scesa
la sera.
Vedevo nitido a metà: la lente sinistra degli occhiali era
attraversata da una lunga crepa. Fantastico, ci voleva proprio.
C’erano due figure chine su di me. Quella più
vicina, che capii essere inginocchiata, era una ragazza piuttosto
carina, bassa e formosa, con la pelle abbronzata e grandi occhi
celesti. Portava i capelli castani sciolti e diversi ciuffi le cadevano
davanti al viso.
La seconda figura era un giovane uomo, tarchiato e abbigliato con abiti
sporchi e trasandati, che capii essere un senzatetto. Aveva una
carnagione piuttosto scura e continuava a passarsi la mano sulla barba
con fare pensieroso.
Per un attimo, mi parve di scorgere una lieve somiglianza tra i due, ma
pensai di essere ancora confusa dalla strapazzata appena ricevuta: cosa
potevano avere in comune un povero barbone sporco e una giovane donna
assai graziosa e pulitissima?
- Sono einerjar – continuò lei. – Sono
piombati dal cielo all’improvviso… hanno bisogno
d’aiuto…
- Sì, è evidente – borbottò
il senzatetto. – Maledizione, Tara, che tempismo…
ormai è sera, devo andare dal ragazzo e dare il cambio a
Hearth…
- Non ti preoccupare, ci penso io.
- Sei sicura?
- Assolutamente.
Una mano gentile mi diede alcuni lievi colpetti sulla spalla: -
Tranquilli, mi occuperò di voi.
Aprii la bocca per rispondere qualcosa, per strillare, per chiedere
dove fossero i miei amici. Invece, fui scossa da un violento colpo di
tosse, giusto un istante prima di essere sopraffatta dalla confusione e
da un violento turbinio di emozioni.
Come ogni brava semidea che si rispetti, finii col perdere conoscenza,
sprofondando nell’oblio.
***
Angolo
dell’autrice: Sono riuscita ad aggiornare
in fretta, ero piuttosto ispirata.
Per due settimane
starò via, come ho scritto anche nelle note
d’autrice della nuova storia pubblicata l’altro
giorno, quindi probabilmente non avrò connessione, se
riuscirò a scroccarla, magari proverò ad
aggiornare le long.
Comunque…
questo capitolo è stato di passaggio e l’ho
dedicato principalmente alle storie degli altri einerjar. AVVISO: Ho eliminato la storia originale di Ben perché penso non sia rispettoso usare certi argomenti per scopi fittizi.
In compenso, i ragazzi
hanno ottenuto una missione (con grande gioia di Riley) e hanno
incontrato una nostra vecchia conoscenza. Ebbene sì, Hearth
e Blitz faranno parte della storia. Sorpresa!
Spero che il capitolo
vi sia piaciuto, grazie a tutti per aver letto!
Un bacio,
Tinkerbell92
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