Riley Jenkins e gli Dèi di Asgard - Il fardello di Sigyn

di Tinkerbell92
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sansa Stark mi fa volare sul fiume Charles ***
Capitolo 2: *** Mangiare il tofu di bestia o non mangiarlo? Questo è il dilemma! ***
Capitolo 3: *** Non avrete mai la mia fottuta gamba! ***
Capitolo 4: *** Mai entrare negli spogliatoi in disuso ***



Capitolo 1
*** Sansa Stark mi fa volare sul fiume Charles ***




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CAPITOLO 1  

Sansa Stark mi fa volare sul fiume Charles




Faceva ancora piuttosto caldo in quei giorni, nonostante la seconda settimana di Ottobre stesse ormai per giungere al termine: la maggioranza dei marciatori della Pride Parade bostoniana indossava t-shirt arcobaleno o indumenti leggeri, rievocando l’atmosfera della parata di Giugno.
Se quella mattina vi foste trovati a camminare sui marciapiedi di Back Bay, avreste potuto scorgere tra la folla, caricata sulle spalle di un gigantesco ragazzone di colore, una diciottenne allampanata con i capelli biondo cenere raccolti in due crespi codini, i lineamenti aguzzi e gli occhi grigioverdi, abbigliata con un top fucsia acceso, pantaloncini verde militare e scarpe da ginnastica colorate con diversi evidenziatori.    
Sì, quella ragazza ero io: Riley Barry Jenkins, per gli amici Ray, studentessa neoiscritta alla facoltà di Biologia Marina. O meglio, quella ragazza ero io prima che le incasinate vicende della mitologia norrena entrassero prepotentemente nella mia vita.    
Per nulla timorosa di cadere, stringevo tra le dita due estremità della bandiera arcobaleno, a volte sventolandola sopra la testa, a volte avvolgendola attorno al corpo come una cappa.     
- Sei sicuro di non fare tardi a lavoro? – gridai rivolta al mio migliore amico Dayo, alias il ragazzone che mi portava sulle spalle. – Quando vuoi puoi mettermi giù!    
- Nessun problema! – replicò lui, cercando di sovrastare la musica altissima e le voci della folla. – Oggi mi tocca il turno del pomeriggio, ho tutto il tempo che voglio!    
Sorrisi, accarezzandogli una mano e pizzicandogli affettuosamente un orecchio; in risposta, lui mi diede un buffetto sulla gamba.    
Dayo aveva quattro anni più di me, ma eravamo cresciuti assieme, visto che la villetta della sua famiglia si trovava proprio accanto alla mia; aveva due sorelle e tre fratelli, tutti molto più grandi di lui, perciò non era strano che passasse la maggior parte della giornata con l’unica compagna di giochi disponibile nel raggio di un isolato. Quando poi aveva imparato a leggere alla perfezione, si presentava spesso al cancello con un libro preso dalla Biblioteca dei Bambini; allora ci sedevamo su un telo in giardino e lui leggeva per me, senza mancare di mostrarmi tutte le figure.     
Crescendo, il nostro solidissimo rapporto fraterno non aveva subito alcun cambiamento, nemmeno dopo il mio coming out: a scuola, Dayo aveva avuto problemi con alcuni compagni per via delle sue origini nigeriane, perciò mal sopportava qualsiasi forma di discriminazione. Ecco perché non si faceva alcun problema ad accompagnarmi alle parate ed era in grado di fare amicizia con chiunque.
La celebrazione durò fino a mezzogiorno, fermandosi a Kendall Square.    
Scesi dalle spalle di Dayo, legando la bandiera a mo di mantello, e mi guardai attorno estraendo la custodia degli occhiali da vista dalla tasca dei pantaloncini: - Beh, direi che stavolta ti è andata bene, tempo di uno spuntino al bar e sei a pochi passi dall’ufficio.     
- Sei sicura di voler tornare a casa da sola? Posso accompagnarti, tanto comincio alle due…
Gli sorrisi, inforcando le mie amate lenti dalla montatura nera: - No, hai fatto già tanto per me, oggi. Potresti anzi fare una sorpresa a Liddy e pranzare con lei.    
Gli occhi grandi e gentili di Dayo si illuminarono non appena pronunciai il soprannome della fidanzata: - In effetti è da un po’ che non passiamo insieme la pausa pranzo… però mi dispiace lasciarti andare via da sola…
- Dayo – alzai un sopracciglio con fare ironico. – Non sono più una bambina, ricordi? Sono capace di tornare a casa senza perdermi. E poi – eseguii una specie di riverenza, allargando la bandiera-mantello dietro di me. – Attraversare il parco in solitudine mi fa sentire un’artista romantica dell’Ottocento.
- D’accordo, d’accordo – rise lui, scompigliandomi affettuosamente i capelli. – Però dritta a casa. E non fermarti a parlare con gli sconosciuti.
Ci abbracciammo calorosamente, come al solito. Nonostante raggiungessi quasi il metro e ottanta d’altezza, dovevo sempre alzarmi leggermente sulle punte per poggiare il mento sulla spalla marmorea di Dayo.
- Ci vediamo stasera – mi salutò poi, mentre mi affrettavo ad attraversare le strisce pedonali.
- A stasera! – risposi, agitando la mano non appena raggiunsi il marciapiede opposto.
Mi sembrò tutto così naturale e ordinario in quel momento, mai avrei potuto immaginare cosa stesse per succedere di lì a breve.
Non ci saremmo rivisti quella sera.



Charles River Esplanade, ovvero la camminata lungo l’argine che attraversa un incantevole parco, era senza dubbio uno dei luoghi che preferivo in assoluto nella mia città. In particolare mi piaceva passeggiare da quelle parti all’ora di pranzo, quando la via era quasi del tutto solitaria.
Mi fermai per qualche istante sulla sponda, sempre avvolta dalla bandiera arcobaleno: il fiume Charles scintillava come argento liquido sotto i raggi del sole. Mi tolsi gli occhiali, un po’ infastidita dal riflesso sulle lenti, concentrandomi sui punti più vicini in modo da non affaticare la vista, poi tirai fuori dalla tasca il mazzo delle chiavi di casa, a cui era appeso un portachiavi a forma di goccia. Feci scattare il meccanismo premendo un piccolo bottoncino e, come sempre, fece capolino la piccola foto chiusa all’interno dell’accessorio, nella quale io e mamma sorridevamo all’ombra di un ciliegio, io con i capelli sciolti e crespi e i vecchi occhiali dalla montatura viola, lei con i suoi delicati tratti orientali e la chioma scura raccolta da un grande fermaglio.
Peggy Jenkins non era la mia vera madre, naturalmente: per metà coreana dal lato materno, non si era mai sposata (a differenza delle sorelle minori, entrambe maritate subito dopo il college) e si era dedicata anima e corpo alla carriera di avvocato, coronando il sogno che si portava appresso sin da bambina. Mi adottò quando avevo poco più di un anno e, contro ogni previsione dei famigliari, riuscì senza problemi a essere una buona madre senza dover rinunciare al proprio lavoro.
Detti una sbirciata all’orologio e, dopo aver riposto il portachiavi nella tasca, mi avviai a passo spedito lungo il viale alberato, cominciando a riflettere su cosa potessi preparare per pranzo.
Avevo appena optato per un piatto di riso speziato alle verdure, quando due voci poco amichevoli mi costrinsero ad arrestare la marcia e alzare lo sguardo: una giovane coppia avanzava lungo l’argine nella direzione opposta alla mia. Il ragazzo era tozzo e di media altezza, dallo sguardo rude, e circondava con il braccio le spalle esili della ragazza, i cui lineamenti parevano affilati come rasoi.
Si fermarono a pochi passi da me, squadrandomi con disgusto: lei fece una grossa bolla con la gomma da masticare, giocherellando con uno degli enormi orecchini a cerchio appesi ai suoi lobi.
- Oh cielo – commentò, tirando nuovamente in bocca i resti del palloncino appena scoppiato. – Un’altra di ritorno dalla parata. Che cosa ridicola.
- Grazie per aver intasato il traffico con il vostro Carnevale – fece eco lui. – Che enorme accozzaglia di fenomeni da baraccone!
- Secondo te questa qui è un travestito, Butch? -  domandò Faccia di Spigolo, gettando un’occhiata dubbiosa alle mie forme poco pronunciate. – Così alta e piatta?
- Ma che ne so, può darsi, questi pagliacci sono tutti uguali per me- sputò Butch. – Froci, trans, lesbiche. Sarebbe da farci una bella fiaccolata.  
Se Dayo fosse stato con me, con i suoi due metri d’altezza e centocinque chili di muscoli, di sicuro non si sarebbero azzardati a lasciarsi sfuggire simili commenti, tuttavia non sentii affatto la mancanza del mio amico in quella situazione: gli insulti degli ignoranti mi ferivano quanto il pugno di un moscerino.
Senza attendere ulteriori perle di saggezza, sfoderai il mio miglior sorriso falso e augurai con voce affettata: - Buona giornata anche a voi – sorpassandoli con fare tranquillo.
Il silenzio alle mie spalle mi diede un’idea piuttosto nitida delle loro espressioni sconcertate e mi strappò un sorrisetto. Stavo nuovamente riflettendo sulle verdure da scegliere per il riso quando delle urla di terrore mi costrinsero a voltarmi così velocemente che per poco non mi volarono via gli occhiali.
Butch il Rozzo e Faccia di Spigolo erano appena volati gambe all’aria sul prato,  strillando come pazzi: a pochi metri da loro, un individuo decisamente poco raccomandabile avanzava minaccioso, trascinando i piedi e gocciolando. Mi ci volle qualche istante per rendermi conto che la pelle marcia e verdognola di quel coso somigliava in maniera preoccupante a quella degli zombie di The Walking Dead; mi ci volle altrettanto per capire che il coso in questione aveva in tutto e per tutto l’aspetto di uno zombie rimasto sepolto nel letto del fiume per chissà quanto tempo, sotto interi strati di melma.
Il corpo putrefatto era ricoperto di alghe mollicce e, cosa piuttosto ovvia, emanava un odore tremendo.
Una parte di me mi suggerì di scappare, abbandonando i fidanzatini al proprio destino. Due idioti in meno.
Un’altra parte mi disse che doveva trattarsi di uno scherzo o di un’allucinazione collettiva, perché gli zombie esistevano soltanto nei libri o in tv.
Una terza parte, infine, provò a convincermi che dovevo restare e fare qualcosa, magari non per i due scemi ma per le persone che il mostro avrebbe assalito dopo di loro.
Per mia somma sfortuna, decisi di dare ascolto a quest’ultima: raccolsi un ramo lungo e appuntito e mi portai furtivamente alle spalle dello zombie, conficcandogli la mia arma improvvisata nella nuca.
La punta del bastone penetrò con facilità attraverso la scatola cranica, producendo un suono orribile, tuttavia, quando tirai indietro il braccio con uno strattone, il mio avversario non crollò a terra, anzi, si voltò verso di me, fissandomi con le orbite vuote; un disgustoso liquido scuro gli colava dal buco sulla fronte.
Mi lasciai sfuggire un grido, mentre l’essere, furibondo, tendeva il braccio verso di me, gorgogliando parole incomprensibili.
Senza lasciare il mio bastone imbrattato di liquame zombie, cominciai a correre lungo il sentiero, sapendo senza dovermi voltare che il mostro mi stava inseguendo. Non era veloce ma sicuramente poteva contare sul fatto che mi sarei stancata prima o poi: mancavano ancora un paio di chilometri all’uscita del parco e, nonostante le gambe lunghe mi aiutassero nella velocità, non ero mai stata una campionessa di resistenza.
Mentre correvo mi guardavo attorno, alla ricerca di un nascondiglio o di qualsiasi cosa potesse fornirmi un vantaggio. Potevo provare ad arrampicarmi su un albero, con il rischio però di rimanerci intrappolata a lungo, magari esponendo altri passanti ignari al pericolo; oltretutto, chi mi garantiva che la carcassa ambulante non fosse in grado di arrampicarsi? Proseguiva abbastanza spedito per essere uno zombie normale e in più il mio colpo alla testa non l’aveva ucciso. Di solito in tv funzionava sempre…
Un’ombra volò sopra la mia testa, costringendomi ad alzare lo sguardo: una ragazza a cavallo, armata con una lunga lancia, si muoveva in cerchio a diversi metri da terra, tenendo lo sguardo fisso su di me. Aveva lunghi capelli rossi che volteggiavano da sotto l’elmo vichingo che le proteggeva il capo e vestiva con un’armatura dall’aria antica che avevo visto più volte nei libri di mitologia.
“Una valchiria?” pensai, riconoscendo i tratti caratteristici della misteriosa fanciulla. “D’accordo, qui abbiamo poche opzioni: sto diventando pazza, sto sognando, oppure…”
Ricordai di aver letto qualcosa sugli zombie dell’epica norrena: avevano un nome strano che iniziava per D, possedevano una forza sovraumana, poteri magici e potevano essere uccisi…
“Come cavolo si uccidevano?” riflettei disperata. “Forza sovraumana, poteri, contromisure… ferro! Il ferro li indebolisce! Ma dove posso trovare un’arma di ferro qui? In alternativa c’era… fuoco! Decapitazione e fuoco! Ma anche in questo caso, il fuoco dove lo trovo?”
Decisi di provare per lo meno a decapitare il mostro in qualche modo,  anche se continuavo a non trovare dei mezzi sufficienti attorno a me per portare a termine l’impresa.
Ero ormai giunta nei pressi di un piccolo ponte bianco e la fatica si stava facendo sentire. Avevo il fiatone e sapevo che non sarei riuscita a reggere ancora per molto.
Mi portai vicino a una coppia di alberi cresciuti vicini, tanto che i due tronchi si erano intrecciati tra loro, lasciando al centro una fessura grande quanto la ruota di un camion.
Udii un rumore poco rassicurante alle mie spalle e, voltandomi, trattenni a stento un grido: lo zombie aveva fatto ricorso ai propri poteri per trasformarsi in un grosso toro non-morto: tutta la metà destra del suo corpo era composta da un insieme di ossa scoperte, la metà restante era uno schifoso ammasso di carne putrefatta.
Fu allora che mi venne un’idea, seppur banale: mi posizionai davanti alla coppia di alberi, agitando la bandiera arcobaleno.
- Ehi! – gridai. – Vieni qui, stupido bestione! Vieni a prendermi!
Il toro sbuffò, facendo colare la saliva verdognola sul prato, batté un paio di volte lo zoccolo a terra e caricò, avanzando zoppicante ma rapido.
Mi scansai all’ultimo, portandolo a incastrarsi con la testa nel buco lasciato dai tronchi intrecciati, mentre le corna di ossa logore si spezzavano sul colpo; senza perdere tempo, cominciai a conficcare più volte la punta del bastone nella sua gola, per poi cercare di staccare la testa dal corpo con una serie di calci ben assestati.
Proprio mentre cominciava ad aprirsi uno spiraglio di carne marcia sull’attaccatura del collo, il bestione mutò nuovamente, tornando all’aspetto precedente, ma, invece che liberarsi dalla morsa dei due alberi, iniziò a crescere a dismisura.
Il legno dei tronchi scricchiolò paurosamente, mentre un grugnito rabbioso usciva dalla bocca del mostro. Alzai le braccia per colpirlo di nuovo col bastone, ma stavolta lui fu più svelto: serrò la mano destra a pugno, caricò il braccio e mi colpì in pieno con tutta la sua forza, facendomi volare contro il ponticello bianco.
Le lenti degli occhiali crepate, un forte colpo alla testa, il rumore di ossa rotte.
E poi il buio.
Per alcuni istanti vagai in un cieco oblio, finché non avvertii nuovamente il peso del mio corpo e una nauseante sensazione di vuoto sotto i piedi.
Aprii gli occhi, battendo le palpebre più volte e cercando a fatica di mettere a fuoco l’ambiente che mi circondava, finché non mi resi conto di essere sospesa diversi metri sopra il corso del fiume Charles.
Qualcuno mi stava sollevando per il polso, imprecando a bassa voce. Alzai lo sguardo: era la valchiria dai capelli rossi che avevo visto poco prima. Dimostrava circa una ventina d’anni, il suo volto pallido era abbellito da una leggere spruzzata di lentiggini sul viso, mentre i suoi magnetici occhi color ghiaccio mi fissavano freddi e severi.
Vedendola, pensai immediatamente all’immagine di Sansa Stark che avevo prodotto nella mia mente leggendo Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco: età e lentiggini a parte, era pressoché identica.
- Sei già cosciente? – domandò, senza lasciar trasparire emozioni. – Mh, no, sei sveglia ma in stato confusionale. Evita di agitarti troppo durante il tragitto.
Non so come, riuscì a trascinarmi sopra il suo strano destriero, costringendomi a serrare le braccia attorno alla sua vita e tenendomi i polsi stretti tra loro con la mano sinistra.
Spronò quindi il cavallo, che sfrecciò rapido lungo la scia del fiume, attraversando il parco per intero, svoltando bruscamente non appena si ritrovò a sorvolare la zona urbana.
Il movimento mi provocò un tremendo capogiro. Poco prima di svenire sperai si trattasse soltanto di un brutto sogno, poi le tenebre mi inghiottirono di nuovo.







***

Angolo dell’Autrice: Eccomi qua. Non sono riuscita a resistere, la saga di Magnus Chase mi ha presa troppo.
Chi mi conosce mi odierà di sicuro visto che ho varie storie da aggiornare. Lo so. Fate bene.
Mi chiedo se abbia fatto bene a inserire la storia in questa sezione, boh. In caso sia necessario spostarla avvisatemi.

Comunque, qui su EFP Riley è la seconda protagonista omosessuale di questo profilo (ne ho altre LGBT su Tinkerbell92, ma, a parte Ryan di Hunger Games, appartengono ad altre categorie della comunità). La prestavolto che ho scelto per lei è Jamie Clayton, alias Nomi Marks di Sense8, ma ovviamente voi potete immaginarla come volete XD
Ah, nella mia mente la valchiria che la salva non ha il volto di Sophie Turner, ma Riley ha pensato a Sansa perché, al tempo, aveva appena iniziato a guardare la serie tv di GoT ed era ancora legata all’aspetto dei personaggi che si era immaginata leggendo i libri.
Bene, spero che questo primo capitolo vi sia piaciuto, grazie a tutti per aver letto!
Tinkerbell92


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Capitolo 2
*** Mangiare il tofu di bestia o non mangiarlo? Questo è il dilemma! ***


RILEY JENKINS E GLI DEI DI ASGARD
IL FARDELLO DI SIGYN





CAPITOLO 2

Mangiare il tofu di bestia o non mangiarlo? Questo è il dilemma!






- Tutto a posto, signorina?
Il tizio con la barba incolta e l’ascia appesa alla cintura, Hunding, picchiettò un paio di volte la punta del piede sul pavimento, mentre mi guardavo attorno con aria disagiata: dopo un breve soggiorno alla reception dell’Hotel Valhalla (sì, avevano proprio detto “Hotel Valhalla), dove un energumeno peloso aveva conficcato la punta di un coltello nell’occhio di un altro omaccione della stessa stazza, ero stata condotta al ventitreesimo piano, dove mi attendeva un’enorme e lussuosa camera d’albergo, dal soffitto alto almeno sei metri. Il centro era costituito da un ampio spiazzo di forma quadrangolare, da cui si diramavano quattro larghi corridoi: uno di essi, quello che conduceva al terrazzo, era attraversato da una specie di fiumiciattolo che partiva dalla piscina di acqua salata posta in mezzo al quadrato centrale; il corridoio di destra portava alla stanza da letto, mentre quello di sinistra terminava di fronte a una porta scorrevole verniciata di bianco, che supposi rappresentasse l’entrata del bagno. Nel quarto corridoio, quello in cui mi trovavo, che partiva dal piccolo atrio d’ingresso, c’era uno spazioso salottino, provvisto di televisore a schermo piatto, caminetto già acceso, un comodo divano, una coppia di poltroncine e un’immensa libreria in legno chiaro, che somigliava in modo impressionante a quella che tenevo in casa.
A dire il vero, anche il resto del mobilio, dall’aria curata e un po’ antica, mi ricordava i pezzi d’arredamento della villetta in cui ero cresciuta.
Su una piccola cassapanca erano state poste delle fotografie. Ne afferrai una rimanendo sbigottita: era la stessa che occupava ormai da due anni un posticino sulla mensola accanto al camino, quella che io e mamma avevamo scattato a Londra. Eravamo alla stazione di King’s Cross, io indossavo la sciarpa di Corvonero, lei quella di Serpeverde, e ci eravamo disegnate una piccola cicatrice a forma di saetta sulla fronte (con gli occhiali e i capelli crespi, la me sedicenne somigliava a uno strano incrocio tra Harry Potter e Hermione Granger).
- Signorina?
Riposi la foto incorniciata al proprio posto, scuotendomi dai miei pensieri: - Io… okay, riassumiamo la situazione: il tipo all’ingresso, Helgi, mi ha detto che sono morta, rinata e poi condotta qui, nel Valhalla, da una valchiria. Sono diventata un’einherji, una figura della mitologia norrena, possiedo un corpo nuovo, addirittura “migliorato”, e sono proprietaria di questa incredibile stanza. Le leggende nordiche sono vere e, d’ora in poi, passerò la mia nuova vita allenandomi in previsione del Ragnarok. Ho dimenticato qualcosa?
- Possiedi anche la chiave del minibar – aggiunse Hunding, accarezzando con le dita la punta della propria ascia. Non riuscii a capire se il suo fosse un commento serio o se mi stesse semplicemente prendendo in giro.
- Vorrei almeno poter fare una telefonata a mia madre – borbottai.
- Per dirle cosa? “Ciao mamma, non preoccuparti, sono stata uccisa da un draugr e d’ora in poi passerò la mia nuova vita nell’Hotel Valhalla, dove mi addestrerò per entrare nell’esercito di Odino!”
- Non posso restare qui! – protestai, stringendo con forza le dita tra i capelli. – Sono iscritta all’università, ho degli esami da fare, mia madre ha già pagato tutto! E i miei conoscenti saranno preoccupati per me! Ho una vita là, sulla Terra!
- Avevi una vita sulla Terra, signorina. Adesso sei un’einherji e non c’è modo di tornare indietro – replicò l’omaccione, serafico. – Per quanto mi riguarda, il mio compito si interrompe qui. Prima di congedarmi, mi aspetto una mancia per il servizio.
Decisi di lasciar cadere l’argomento “casa” e mi frugai nelle tasche alla ricerca di qualcosa. Non trovai nulla, nemmeno il cellulare, così mi guardai attorno, venendo colta da un’improvvisa illuminazione.
- Un momento…
Mi diressi rapidamente in camera da letto e aprii il primo cassetto del comodino sistemato accanto al grande giaciglio dalle lenzuola blu. Non mi ero sbagliata: afferrai una manciata di piccole monete antiche, parte di una vecchia collezione, e tornai all’ingresso, offrendole al portiere barbuto.
Quello osservò il pagamento per qualche istante, dopodiché intascò soddisfatto ed eseguì un rozzo inchino, assumendo un tono formale: - Le auguro una buona giornata, signorina.
Non appena uscì dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle, restai per qualche istante immobile e in silenzio.
Provai a mettere a fuoco la situazione, cercando di trovare una spiegazione razionale ed evitare di vedere il castello delle mie certezze crollare miseramente, ma fui costretta ad arrendermi all’evidenza: non c’era nulla di logico o razionale in ciò che stavo vivendo, ma non si trattava di un sogno.
Pensai a mia madre, pensai a Dayo e al senso di colpa che avrebbe provato per non avermi riaccompagnata a casa, pensai all’università e agli esami che non avrei più potuto dare, alla carriera che sognavo ormai finita dritta dritta nel… com’è che la valchiria dai capelli rossi aveva chiamato l’abisso che avevamo sorvolato prima di raggiungere l’hotel? Ginnungagap?
Mi accasciai sul divano, accartocciandomi su me stessa, nascosi la testa nell’incavo delle braccia e cominciai a urlare, abbandonandomi a una vera e propria crisi isterica.
Non mi era mai successo di perdere il controllo in quel modo, ero sempre stata una persona tranquilla e ragionevole, ma tutto quel casino andava ben oltre il mio limite di sopportazione.
Mi alzai all’improvviso, scagliandomi contro il muro più vicino e cominciando a tempestarlo di pugni, ma balzai all’indietro spaventata non appena mi resi conto che le mie mani affondavano nella parete a ogni colpo, quasi mi stessi accanendo contro una superficie di cartongesso.
Cercai qualcos’altro su cui riversare la mia ira, ma dei timidi colpetti alla porta spensero momentaneamente il mio sfogo. Mi sfilai gli occhiali, asciugando le lacrime alla bell’e meglio, e mi fiondai sulla maniglia, abbassandola e tirando verso di me.
Mi trovai di fronte una ragazzina sorridente, con i capelli biondi raccolti in due trecce. Non era molto alta, aveva guance tonde e piene, tempestate di lentiggini, grandi occhi celesti e un fisico provvisto di morbide curve.
Indossava una T-shirt verde e un semplice paio di jeans e, tra le mani, reggeva un vassoietto celato da una cupola di cartone rosa, simile a quelli delle pasticcerie.
- Ciao, vicina! – mi salutò allegramente, facendo trasparire un lieve accento tedesco. – Era da un po’ che non arrivavano nuove reclute al piano ventitré. Io sono Liselotte Dashner, ma puoi chiamarmi Lilly. Ti ho portato uno spuntino di benvenuto, spero ti faccia piacere, appena ho saputo del tuo arrivo mi sono messa a sfornare mini bretzel dolci in tempo record.
Feci scorrere lo sguardo da lei al vassoio un paio di volte, poi mi schiarii la voce, riuscendo a gracchiare un impercettibile “grazie”.
Dovevo essere in condizioni pietose, così provai ad abbozzare un sorriso, che somigliò più a una smorfia di dolore.
- Riley B. Jenkins – lesse, osservando la scritta impressa sulla porta della mia stanza. – Di dove sei?
- Di Boston… - ignorai la fitta che mi tormentò lo stomaco non appena mormorai il nome della mia città. – Ti ringrazio per la tua gentilezza… Lilly. Probabilmente avrai sentito le mie urla, prima…
- Oh, ma io adoro dare il benvenuto ai nuovi arrivati!
Il suo sorriso si allargò, scavando due graziose fossette nelle gote morbide: - Non preoccuparti, Riley, è normale dare di matto all’inizio, figurati che c’è ancora chi…
Un urlo di rabbia proveniente da una delle stanze vicine mi fece sobbalzare. Seguì il rumore di uno schianto, accompagnato da altre grida.
- Appunto, Alviss sta di nuovo avendo una delle sue crisi… - borbottò Lilly. – Mi sa che devo proprio andare, non mi fido a lasciarlo solo quando si trova in certe condizioni… ti consiglierei di non guardare, visto che sei nuova… ci vediamo più tardi a cena! Oh, tieni, il tuo vassoio.
- Ehm… d’accordo…
Mi ritirai nella stanza, chiudendo la porta e raggiungendo nuovamente il divano, dove mi sedetti posando il vassoio con i bretzel sulle ginocchia. Mi sentii egoista, ma l’ultima cosa di cui avevo bisogno in quel momento era assistere un einherji che dava di matto.
Rimossi il coperchio con cautela, abbozzando un sorrisetto alla vista degli otto dolcetti ancora caldi: erano piccoli, intrecciati e glassati con cura ed emanavano un profumo invitante.
Ne presi uno, staccandone un pezzo con un morso: era ripieno di crema di nocciole.
In qualche modo, quel sapore delizioso mi aiutò a tornare un po’ lucida: cominciai a guardarmi attorno, facendo cadere lo sguardo sul taccuino poggiato sul tavolinetto del salotto. Sulla copertina in cuoio spiccava la scritta“Servizi per gli ospiti”.
Lo afferrai, dando un secondo morso al mio bretzel, e cominciai a sfogliarlo con la mano libera: la piantina dell’hotel attirò immediatamente la mia attenzione.
“Bene” pensai. “Ho una mappa, un elenco di regole, un menù… e un sacco di libri. Manca ancora parecchio all’ora di cena… forse un po’ di studio non mi farà male…”



Un paio di colpi decisi alla porta mi fecero quasi sobbalzare: alzai gli occhi dal testo “Divinità e creature della mitologia norrena”, mentre, senza aspettare il mio invito, la valchiria dai capelli rossi che mi aveva salvata fece il proprio ingresso nella stanza, gettando un’occhiata leggermente stranita alla vista del marasma di libri sparsi sul tavolo.
Portava la lunga chioma ramata raccolta in una treccia che cadeva davanti alla spalla, indossava un abito bianco e un po’ attillato che sottolineava le sue piacevoli forme e, legata a un’elegante imbragatura di cuoio, una lancia argentata faceva capolino da dietro la sua schiena.
- Vedo che ti stai già dando da fare – osservò, incrociando le braccia al petto ben sviluppato.
Mi alzai, sistemando gli occhiali che mi stavano scivolando giù dal naso, e provai a farfugliare qualcosa: - Io… cerco di comprendere meglio quello che mi sta capitando…
- Il mio non era un rimprovero – replicò, facendo un passo avanti, senza sciogliere l’espressione severa. – Io sono Elizabeth, la tua valchiria.
- Ciao… io sono…
- Lo so, Riley Barry Jenkins, figlia adottiva di Margaret Jenkins.
Era piuttosto alta, considerato che io, dal mio metro e settantotto, la superavo di massimo cinque centimetri, ed emanava un profumo fresco di menta e limone.
Non era il mio tipo, sembrava troppo rigida per una persona tranquilla come me, ma dovevo ammettere che era una ragazza affascinante.
- Hai già conosciuto Lilly – disse, accennando al vassioietto che conteneva ancora quattro bretzel. – Penso troverai piacevole la compagnia dei ragazzi del piano Ventitrè. Magari dovrai prima abituarti alle crisi di Alviss e alla stupidità di Jace, ma a parte questo direi che ti è andata piuttosto bene.
- Che cos’ha Alviss? – domandai istintivamente, mentre cercavo di mettere a posto i libri.
Elizabeth sospirò: - Ti spiegheranno tutto i tuoi compagni. Ti consiglio vivamente di cambiarti e indossare la maglietta dell’hotel, tra poco ci chiameranno per la cena e tu dovrai raccontare a tutti le gesta eroiche che ti hanno condotta fin qui.
- Cos…
Prima che potessi protestare, la mia salvatrice si diresse a falcate verso la camera da letto, tornando pochi istanti dopo porgendomi un paio di jeans e una T-shirt verde accuratamente piegati.
- Metti questi – ordinò. – Sì, sono della taglia giusta. Com’è possibile? Magia.
- L’avevo intuito… - borbottai, obbedendo. – Ma riguardo a quello che hai detto prima… raccontare le gesta eroiche…
- I nuovi ospiti del Valhalla devono dimostrare di meritarsi l’onore che hanno ricevuto – rispose, facendosi passare la canotta fucsia e i pantaloncini verdi che indossavo fino a poco prima e adagiandoli su una sedia. – Perciò ti consiglio vivamente di fare bella figura, se non vuoi ritrovarti relegata a compiti ingrati. Senza contare poi che gli einherjar indegni rappresentano la rovina per le proprie valchirie: dovessi farmi fare brutta figura, te la farei pagare molto cara.
- Mi sento molto più tranquilla, adesso – replicai sarcastica. – Forse avrei dovuto leggere subito tutto il taccuino dei Servizi per gli ospiti, invece che limitarmi a studiarne mappa e parte del regolamento…
- Cerca di comportarti bene, io non metto a rischio la mia carriera per qualcuno che non lo merita. Hai dimostrato coraggio affrontando quel draugr. Ricordati di menzionare il bastone che tenevi in mano quando ti ha uccisa, è fondamentale.
- Giusto, un einherji deve morire con un’arma in mano – ricordai, mentre mettevo i breztel avanzati al sicuro, per poi seguire la mia valchiria fuori dalla porta.
Lilly attendeva già in corridoio, insieme ad altri quattro ragazzi che potevano avere massimo diciannove o vent’anni.
- Eccola! – esclamò la biondina, battendo le mani entusiasta. – Vieni, Riley, qui sono tutti ansiosi di conoscerti!
La prima a presentarsi fu una giovane guerriera dalla pelle color bronzo, unica einherji femmina del corridoio oltre a me e Lilly: si aggirava attorno al metro e settanta d’altezza, aveva gambe lunghe e forti, un fisico un po’ spigoloso e capelli corti e neri, con un unico ciuffo più lungo acconciato in una treccina che cadeva sul lato sinistro del suo volto.
- Ciao, io sono Sitala Tel’ula, figlia di Heimdall e ospite dell’hotel Valhalla dal 1986.
Strinsi la mano che mi stava porgendo: aveva parecchi tatuaggi sparsi sul corpo e le sue iridi erano tanto scure da sembrare nere.
- Piacere – risposi. – Figlia di… Heimdall? Quel Heimdall?
- Molti residenti dell’hotel Valhalla sono semidei – soggiunse un ragazzo dalla carnagione olivastra, facendo trasparire un forte accento italo-americano. – Questo, però, non vale per me e Lilly. Mi chiamo Benjamin Levin, ma puoi chiamarmi Ben. Vivo qui dal 1953.
Notai con un certo stupore il ciondolo con la stella di David che spiccava sopra il tessuto verde della sua maglietta.
- Sei ebreo? Come mai ti trovi…
- Invischiato in una realtà estranea alla mia religione?
Sorrise, scompigliandosi distrattamente i capelli scuri. Era alto più o meno come me e i suoi occhi erano color verde ambra, illuminati da una luce benevola.
- Diciamo che ho imparato a convivere con entrambe le cose. Molti di noi si trovano nella mia stessa situazione: una delle compagne valchirie di Lizzie, per esempio, è musulmana, Sita è cresciuta in una riserva, con le tradizioni e la mitologia del popolo Miwok, e Lilly viene da una famiglia cristiana. Tu aderisci a qualche Credo?
- Mmmh, no, sono atea – replicai. – Il che mi rende un tantino difficile credere a tutto questo…
Gettai un’occhiata ai due ragazzi che non si erano ancora presentati: uno era alto e allampanato, con i capelli lunghi e neri raccolti in una coda, malinconici occhi grigi e carnagione chiarissima; l’altro era più tarchiato e di media altezza, aveva la mascella squadrata, vivaci iridi azzurre e una scompigliata capigliatura color rame.
- Tiro a indovinare: Jace e Alviss?
- Naturalmente! – rispose il rosso, spavaldo. – Jason Colbert, per gli amici Jace. Quindi per tutti i presenti tranne che per Liz.
Fece la linguaccia alla bella valchiria, la quale alzò gli occhi al cielo con fare scocciato.
Lilly diede una gomitata all’einherji più alto, il quale face un passo avanti, tenendo gli occhi fissi al pavimento: - Ciao, io sono Alviss, figlio di Nott… ti chiedo scusa per il casino che hai sentito prima e che sentirai spesso nei giorni a venire…
- Ciao, Alviss. Non ti preoccupare, non sono una vicina intollerante e dispotica, spero tu stia meglio adesso.
Ero tentata di chiedergli da cosa dipendessero quelle crisi, ma pensai che fosse meglio prendere un po’ di confidenza prima di estorcere dettagli personali troppo intimi.
Posai distrattamente lo sguardo su una delle porte del corridoio opposto, aggrottando le sopracciglia quando lessi il nome inciso all’interno di un cerchio di rune vichinghe: MIA DE MEDICI.
- Pensavo fossimo tutti qui – osservai. – Insomma, tutti gli inquilini del corridoio… Mia è già andata a mangiare?
I volti dei miei compagni si serrarono in un’espressione tesa. Anche Elizabeth parve piuttosto a disagio.
- Ecco… - cominciò Ben con fare incerto. – Mia non è qui… lei… lei è…
Il suono assordante di un corno mi face sobbalzare, interrompendo il discorso del giovane einherji.
Elizabeth mi afferrò per un polso, trascinandomi via con fare impaziente: - Parlerete dopo cena, non voglio arrivare in ritardo. Stasera siederai al tavolo dei nuovi arrivi, perciò avrai gli occhi di tutti puntati addosso. Meglio essere puntuali.



Non potevo dire di sentirmi a mio agio, mentre prendevo posto a un tavolino che si trovava a sinistra della tavolata principale, dove erano soliti cenare i thanes, i grandi capi.
La sala dei banchetti aveva l’aspetto di un enorme stadio, al centro del quale si ergeva l’imponente tronco di un grosso albero; animali di svariate specie bazzicavano tranquilli sui rami, mentre, su un lunghissimo spiedo, arrostiva una gigantesca carcassa fumante.
- L’albero si chiama Laerdar – mi spiegò Elizabeth, con la sicurezza di una guida turistica. – Su quel ramo pascola la capra Heidrun. La vedi? Dal latte che cola dalle sue mammelle si ricava l’idromele. Mentre l’acqua di quel ruscello che scorre lungo il tronco, formando una cascata, proviene dalle corna del cervo…
- Eikthrymir, giusto?
La valchiria annuì, mentre la mensa-stadio cominciava a farsi man mano sempre più affollata.
- Noi lo chiamiamo Ike. La bestia che arrostisce sullo spiedo è Saehrimnir, ogni giorno viene uccisa per essere mangiata dagli abitanti del Valhalla. Il mattino dopo risorge.
- Come le capre di Thor, quindi – commentai, memore di quanto avevo ripassato poco prima nei libri di mitologia norrena. – Che destino infelice… solo che, ehm… ci sarebbe un piccolo problema… io sono vegetariana…
- Il fianco sinistro di Saehrimnir è fatto di tofu – rispose prontamente Elizabeth, alzando appena un sopracciglio. – Il suo corpo è fatto in modo tale da soddisfare i desideri di qualsiasi commensale.
- Ma… - mi morsi il labbro dubbiosa, gettando un occhio alle persone che si erano accomodate al mio stesso tavolo. Erano tre in tutto, due ragazzi e una ragazza, accompagnati da altrettante valchirie.
- Ma, anche se prendessi il tofu del suo lato sinistro… non starei comunque mangiando un animale?
- La magia del Valhalla si adatta a qualsiasi stile di vita. Non so spiegarti il concetto in modo più chiaro, spero ti basti sapere questo: mangiare Saehrimnir, nel tuo caso, non rappresenterebbe uno strappo alla regola. Anche se viene dal fianco di una bestia sacra, quello è tofu a tutti gli effetti.
Sospirai, indicando poi un imponente scranno sul quale stavano appollaiati due corvi dalle lucide piume color pece.
- Quelli sono Huginn e Muninn, giusto? I corvi di Odino…
- Esatto. E quello è il trono del Padre degli Dèi. Di tanto in tanto viene a farci visita, ma non accade molto spesso…
Un secondo, assordante, suono di corno diede inizio al banchetto: centinaia di valchirie volavano qua e là, servendo gli ospiti con calici di idromele e portate dall’aria invitante.
A me venne presentato un piatto con polpettine di tofu, patate al burro, pane morbido e verdure alla griglia.
Dopo un attimo di esitazione cedetti: il profumo del cibo era troppo inebriante per essere ignorato. E poi Elizabeth mi aveva assicurato che mangiare quelle polpette non mi avrebbe fatta andare contro i miei principi.
Lanciai un’occhiata di sottecchi alla valchiria dal capelli rossi che mi sedeva a fianco: a differenza di molti commensali, rozzi e spartani, aveva un atteggiamento composto e signorile, perfettamente intonato al suo accento inglese.
A giudicare dalla postura dritta e dal modo elegante di mangiare le fette di tacchino adagiate sul suo piatto, intuii dovesse provenire da una famiglia altolocata.
- Senti… - azzardai, dopo qualche minuto di silenzio. – Ben ha detto che molti einherjar sono semidei… sei anche tu una di loro?
La sua mascella si indurì: - Preferirei sorvolare su questo discorso. Tu, piuttosto, hai idea di chi siano i tuoi veri genitori?
Scossi la testa: - No. La persona che mi ha portata in orfanatrofio, che suppongo fosse mia madre, si è presentata con un nome falso: Jane Doe. Figuriamoci. Ha soltanto insistito sul fatto che il mio come completo fosse Riley Barry, senza preoccuparsi del cognome. Chissà come mai. Dici che potrei essere figlia di una divinità nordica?
- Tutto è possibile – replicò Elizabeth. – Qualunque sia la risposta, la scoprirai stasera, dopo la presentazione, quando la vala leggerà il tuo futuro nelle rune.
Avvertii all’improvviso una fitta allo stomaco: il pensiero di mia madre, sola e preoccupata, fu affiancato da uno strano senso di ansia.
In quegli anni, avevo provato a pensare, di tanto in tanto, a chi potessero essere i miei veri genitori, senza mai sperare realmente di scoprire qualcosa di concreto. Si era sempre trattato di una semplice e irraggiungibile fantasia.
Quella sera, invece, avrei potuto addirittura ottenere un nome. Un volto. Un’identità.
Mi trovai scissa tra curiosità e paura.
Quando i capiclan cominciarono a battere i calici, presto imitati dagli einherjar presenti, capii che la cena era finita e che entro pochi minuti avrei dovuto esporre le mie gesta davanti a un’intera sala per poi scoprire, forse, qualcosa in più su me stessa.
Mi morsi la lingua, sperando di non vomitare il tofu per la tensione: avrei parlato per terza, il che mi rassicurò appena, poiché avrei avuto modo di osservare i primi due senza portare sulle spalle l’onere di dover chiudere in bellezza.
La prima a presentarsi fu la ragazza: dimostrava poco più di vent’anni, aveva i capelli corti e il naso un po’ appuntito.
Si presentò come Yara Hansdòttir, lavorava come infermiera in un ospizio: una delle sue colleghe, corpulenta e irascibile, aveva dato di matto e cominciato a picchiare un anziano indifeso in sedia a rotelle, così lei era intervenuta, colpendo in testa la donna con una stampella e tramortendola. Prima di perdere i sensi, però, l’infermiera pazza le aveva dato una spinta, facendola ruzzolare giù dalle scale.
Il direttore dell’hotel, Helgi, dopo aver ascoltato la storia annuì con fare soddisfatto: - Senza dubbio il tuo gesto è stato nobile. Stringevi ancora la stampella in mano, quando sei caduta?
Yara annuì, serrando le mani a pugno per la tensione.
I capi confabularono per qualche istante, poi, Helgi riprese con entusiasmo: - Yara Hansdòttir, ti giudichiamo meritevole del Valhalla. Conosci le tue origini?
- Sì, i miei genitori si chiamano Hans e Yelena - rispose lei, tradendo un fremito nella voce. – So per certo di essere la loro figlia biologica.
Il direttore sorrise appena: - Molto bene, vediamo cos’ha in serbo il futuro per te. A meno che il Padre Universale non voglia intercedere… - si voltò verso lo scranno di Odino, che rimase vuoto. – Bene, chiediamo il responso delle rune.
Una donna anziana abbigliata con una lunga cappa verde, che intuii dovesse essere la vala, si avvicinò al tavolo, ponendosi di fronte a Yara Hansdòttir. Tirò fuori da un sacchetto una manciata di tessere di pietra, facendole cadere sul pavimento dopo aver recitato qualche arcana formula sottovoce.
Helgi batté le mani: - Yara Hansdòttir, nonostante tu non possegga sangue divino avrai modo di dimostrare il tuo valore nel Ragnarok. Domani, alla tua prima battaglia, verrai arsa viva!
Scoppiò uno scroscio di applausi e urla, mentre la giovane si mordeva il labbro, gettando un’occhiata nervosa al ragazzo che le sedeva accanto.
Quello inspirò a fondo, alzandosi in piedi e presentandosi come Lee Fukuhara. Aveva origini asiatiche ed era morto salvando il fratello maggiore durante uno scontro a fuoco. Stava per aggiungere qualcos’altro, quando, all’improvviso, si levò un mormorio di sorpresa: dallo stagno ai piedi dell’albero Laerdar emersero tre donne incappucciate, alte più di due metri, che avanzarono lentamente verso di noi.
Elizabeth si lasciò sfuggire un fremito di tensione: - Le Norne sono qui… e si sono presentate prima che il ragazzo finisse di parlare… non è un buon segno…
Helgi si schiarì la voce con fare innervosito: - Molto bene… a quanto pare questo giovane eroe ha in serbo qualche sorpresa speciale per noi…
Lee sbiancò quando le tre donne pronunciarono il suo nome, parlando all’unisono. Una di loro allungò la mano, affondandola nella nebbia che avvolgeva i loro imponenti corpi, poi, quando la ritrasse, notai che reggeva sul palmo un insieme di candide rune. Le lanciò e, invece che ricadere ai suoi piedi, le piccole pietre si fermarono a mezz’aria. Una di esse si illuminò.

- La runa Kenaz… - mormorò Elizabeth, mentre un brusio concitato si levava per tutta la sala. – Loki…
- Loki? – ripetei incredula.
La valchiria che aveva portato il giovane nel Valhalla si portò le mani ai capelli, scuotendo la testa con aria sconvolta e ripetendo: - No… no… no… non è possibile…
Lee sembrò sul punto di svenire ma, prima che qualcuno avesse tempo di commentare qualcosa, o lanciare un piatto in direzione dello sventurato, le Norne ripresero a parlare, recitando una profezia.

“Il seme del coraggio è tutt’ora disperso
Si traccerà una rotta lungo lo specchio del cielo terso
Fiamme divine fomenterà il sangue dell’immolato agnello
Su terra e mare graverà il crudele fardello
La stirpe del male compirà scelta ardita
Scelta che porterà trista morte o nuova vita.”






***
Angolo dell’Autrice: Ecco il secondo capitolo!
Spero non ci siano incongruenze, non sono sicura sull’ordine dei piani dell’hotel, in caso ci sia qualcosa di sbagliato fatemelo pure notare. Spero anche che la runa di Loki sia giusta XD
Riley sta per conoscere la verità, ma pare che ci siano parecchi misteri da svelare: chi è il ragazzo che ha provocato tanto scompiglio? Cosa significano i versi della profezia? Cos’è successo a Mia De Medici? Perché Alviss soffre di forti crisi?
Grazie per aver letto, alla prossima!

Tinkerbell92

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Capitolo 3
*** Non avrete mai la mia fottuta gamba! ***


RILEY JENKINS E GLI DEI DI ASGARD
IL FARDELLO DI SIGYN




CAPITOLO 3

Non avrete mai la mia fottuta gamba!





Il silenzio regnò per una manciata abbondante di secondi, il che aveva dell’incredibile.
Le Norne si congedarono come nulla fosse, lasciando i presenti in preda a un’evidente crisi interiore. Il povero Lee Fukuhara ormai aveva assunto un colorito cinereo, così come la sua valchiria. Si accasciò nuovamente sulla panca, facendosi piccolo piccolo.
Finalmente, il direttore si schiarì la voce: - Bene, ehm… una sorpresa a dir poco inaspettata…
- Mi dispiace! – strillò all’improvviso la valchiria del ragazzo incriminato. – Mi dispiace, vi giuro che non avevo idea fosse…
- Lidia, calmati! – le ordinò secca Gunilla, fulminando il giovane semidio con lo sguardo. – Questo… ragazzino potrebbe averti ingannata, sappiamo come sono quelli della sua risma. Penso servirà esaminare il caso prima di prendere una decisione in merito.
- Eh? Ah, sì, senz’altro – si scosse Helgi, non appena il capo delle valchirie gli rivolse un’occhiata incalzante. – Che dire, le regole parlano chiaro: questo ragazzo non è meritevole del Valhalla e l’errore è da attribuire alla sua valchiria… tuttavia…
- Errore?
Il suono della mia voce irritata risuonò per tutta la sala. Generalmente non sono mai stata una persona impulsiva, ma in quel momento fu più forte di me: mi alzai in piedi con aria battagliera, squadrando uno a uno i volti sgomenti dei capiclan.
- Il fatto che questo ragazzo sia figlio di Loki vi porta automaticamente a credere che sia stato un errore condurlo qui? Sul serio? Vi basta questo per giudicare una persona senza darle nemmeno una possibilità?
- Riley – mi ammonì Elizabeth con voce severa, restando seduta e composta come una regina.
Stavo rischiando grosso, ma la rabbia mi offuscava ogni capacità di giudizio.
Finché le offese venivano rivolte a me potevo portare pazienza e farmele scivolare addosso, ma l’accanimento sugli altri non ero mai riuscita a tollerarlo.
- Il Valhalla dovrebbe essere una specie di Paradiso, no? – continuai. – Sulla Terra, tantissime persone vengono discriminate ogni giorno, pensavo che almeno qui fosse diverso, ma a quanto pare mi sbagliavo!
- Elizabeth – sibilò Gunilla, osservando la mia valchiria con fare irrisorio. – Hai portato qui un futuro Premio Nobel per la pace! Mi auguro non sia imparentata con questo vile ingannatore, vista la foga con cui ha preso le sue difese…
- La verità – soffiai velenosa. – è che detesto i bulli e i pregiudizi.
A quel punto, tutti i presenti in sala avevano la stessa espressione di un cerbiatto abbagliato dai fari. Helgi fece scorrere lo sguardo da me a Gunilla, che istintivamente aveva portato la mano sull’impugnatura di uno dei martelli sistemati sulla sua bandoliera. I suoi occhi azzurri sembravano lanciare lampi di odio e sdegno.
- Tu… lurida insolente, io ti…
- Basta così – s’intromise infine il direttore, riprendendo il controllo della situazione. – I nuovi ospiti sono tenuti a parlare soltanto se interpellati. Signorina, si sieda e aspetti il suo turno per parlare delle gesta che l’hanno condotta qui, nessuno ha chiesto la Sua opinione riguardo al caso da esaminare. Questo è un avvertimento: la prossima volta che ci mancherà di rispetto, ne pagherà le conseguenze.
Strinsi i pugni, dilatando le narici: ah, quindi ero stata io a mancare di rispetto a loro?
Aprii la bocca nuovamente, quando la presa ferma di Elizabeth si serrò sul mio polso, strattonandomi verso il basso e costringendomi a sedermi.
- Mi scuso a nome della mia assistita – disse quindi la rossa, lanciandomi di sbieco un’occhiata furente. – È terribilmente suscettibile. Se posso, però, vorrei poter dare un’opinione personale riguardo l’operato di Lidia.
- Finora hai mostrato ottime capacità di giudizio, Elizabeth – rispose Gunilla, apparentemente quieta. – Che cosa vorresti dire, in merito?
La valchiria inglese si alzò elegantemente, senza tradire alcun cenno di insicurezza: - Esaminando la profezia, in particolare gli ultimi due versi, si parla di una duplice possibilità per la stirpe del male: una sua scelta potrebbe portare “trista morte” o “nuova vita”, quindi abbiamo il cinquanta per cento di possibilità di ottenere un vantaggio. Per questo motivo, chiederei di non prendere provvedimenti troppo severi nei confronti della mia compagna Lidia, almeno fino a quando la profezia non sarà completa.
- Capisco. Sono in parte d’accordo con te, almeno per quanto concerne il destino di Lidia – rispose la figlia di Thor.
I capiclan cominciarono a parlottare tra loro, annuendo o scuotendo la testa di tanto in tanto.
La tensione sul volto dell’imputata aveva ormai raggiunto livelli trascendentali.
Infine, Helgi prese nuovamente parola: - Bene, ecco la nostra decisione: sospenderemo momentaneamente parte del servizio di Lidia, figlia di Tyr. Le sarà permesso seguire le proprie compagne in eventuali missioni se convocata da Capitan Gunilla, ma, fino a data da destinarsi, non potrà occuparsi della ricerca dei futuri einerjar. Detto questo, procediamo con il resto delle presentazioni: abbiamo perso fin troppo tempo con questa storia. Si alzi l’oratrice.
Obbedii meccanicamente, tra le risatine dei presenti. Accanto a me, Elizabeth mi rivolse un’occhiata di avvertimento.
Feci appello a tutte le mie forze per raccontare la battaglia contro il draugr, mettendo meno veleno possibile nel tono della voce. Non appena terminai il discorso, un feroce senso di ansia affiancò la rabbia: forse avrei finalmente conosciuto l’identità di uno dei miei genitori.
- Riley Barry Jenkins, le gesta compiute ti rendono meritevole del Valhalla. Sicuramente, molto più delle tue doti oratorie – disse Helgi.
Altro scroscio di risatine.
Gettai un’occhiata innervosita a Elizabeth, mentre il direttore proseguiva con la cerimonia. La mia valchiria non rideva: i suoi lineamenti erano congelati in un’espressione dura e stoica.
- Il Padre Universale vuole forse intercedere?
Lo scranno di Odino rimase vuoto.
- Molto bene. Venga avanti la vala.
La donna incappucciata ripeté il rito delle rune. Serrai i pugni talmente forte da conficcarmi le unghie nella carne.
I capiclan si sporsero, aggrottando la fronte con fare confuso: mi resi conto che la loro attenzione era concentrata su una delle piccole pietre, liscia e azzurra, con un simbolo semplice composto da due singole linee:



- Laguz, la runa dell’Acqua… - mormorò Helgi. – Njord…
 Si levarono diversi mormorii, le facce degli ospiti si tinsero di espressioni perplesse. Elizabeth storse il naso, non senza tradire un velo di delusione.
“Cosa c’è che non va, adesso?”  pensai esasperata. Frugai nei cassetti della memoria per trovare qualche informazione sulla divinità appena nominata: Njord, dio del mare, padre di Freyr e Freya…
All’improvviso capii il motivo di tanta perplessità: Njord era una divinità Vani. Da quanto avevo letto, il Valhalla era generalmente riservato ai discendenti degli Asi, mentre per quelli dei Vani c’era Folkvanger, il giardino governato da Freya.
- Beh… questa è senza dubbio una sorpresa… - mormorò infine Helgi. – Questa serata è stata piena di sorprese. Tuttavia… le rune hanno dato un responso positivo: Riley Jenkins, figlia di Njord, nonostante tu non possegga il sangue degli Asi, dimostrerai grande valore durante il Ragnarok. Domani, alla tua prima battaglia, sopravvivrai, ma con una gamba in meno!
Mi lasciai cadere sulla panca, ascoltando a malapena gli applausi dei presenti. Mi sentivo stordita e confusa, e di certo non per la questione della gamba…
L’ultimo a parlare rivelò di essere un semidio figlio di Thor, il che bastò a sollevare il morale dei thanes e degli altri ospiti dell’hotel.
Per quanto mi riguarda, rimasi in stato semi-catatonico fino alla fine del banchetto; una volta fuori dalla mensa, seguii meccanicamente Elizabeth, che mi condusse nuovamente alla mia stanza.
Rimanemmo entrambe in silenzio, fino a quando la mia valchiria chiuse la porta, rivolgendomi uno sguardo furente: - Sbaglio o ti avevo chiesto di comportarti bene? – sbottò, scuotendomi dal mio torpore. – Si può sapere cosa ti è saltato in mente? Hai intenzione di far licenziare me e finire a fare i lavori più degradanti fino al giorno del Ragnarok? Hai una vaga idea di quello che hai rischiato?
- Io mi sarei comportata male? – ribattei, alzando leggermente il tono. – Quel branco di idioti ignoranti si è accanito contro un poveretto che ha soltanto avuto la sfortuna di avere un padre psicopatico! Avrei dovuto starmene zitta e guardare mentre facevano i bulli con lui? È questo il vostro senso di onore e giustizia?
- Non ho mai detto che sia giusto!
Gli occhi azzurri della valchiria parevano capaci di trafiggere con schegge di ghiaccio: - Lo so quanto sia deplorevole e sbagliato tutto questo! Non credere che io sia d’accordo, Riley. Ma purtroppo è così che funziona: loro sono i capi e possono sbatterti nel fango con una semplice parola. Inimicarseli e dare pubblicamente della bulla al capitano delle valchirie non ha aiutato quel ragazzo in nessun modo. Non cambieranno idea su di lui.
Mi sedetti su una poltrona, stringendo i pugni: - Quelli là non sarebbero in grado di governare nemmeno una schiera di gabinetti! Sono ignoranti e stupidi: la punizione che hanno dato a Lidia è totalmente insensata e controproducente! Una valchiria inattiva non può portare nuovi einerjar all’hotel. Per fare tutto quell’assurdo teatrino contro Lee Fukuhara, si sono praticamente boicottati da soli! E noi dovremmo affidarci a gente del genere?
Elizabeth si lasciò cadere sul divano, portando le mani giunte davanti al viso. Sospirò a occhi chiusi e all’improvviso mi sembrò estremamente stanca.
- Mi rendo conto di tutto quello che non funziona, qui. E non sono l’unica. Ma al momento non si può fare nulla per cambiare le cose… o meglio, di certo non riusciremo a cambiare nulla facendo piazzate davanti a tutti. E forse ti suonerà egoista ma… questo lavoro è importante per me e non hai idea di quanto abbia dovuto faticare per ottenere la fiducia e la stima delle mie compagne. Non tutti hanno la fortuna di essere figli dalle divinità più acclamate…
La sua ultima frase mi riportò alla mente quanto accaduto poco prima, quando una semplice pietruzza aveva rivelato una delle informazioni più importanti della mia vita.
Avevo finalmente un nome, un indizio, un’identità. Un padre.
Provai per un istante l’impulso di chiamare Dayo per dargli la notizia, avvertendo una morsa allo stomaco non appena realizzai che ogni tipo di contatto con lui  era ormai off-limits, e che lo stesso valeva per mia madre.
Mi passai una mano tra i capelli, mentre con l’altra sfilavo gli occhiali, strofinando gli occhi lucidi contro il polso.
- Njord – mormorai. – Sei… delusa? Voglio dire, il fatto che mio padre sia uno dei Vani…
Elizabeth piegò appena l’angolo destro delle labbra verso l’alto: - No, non mi sono pentita di aver portato qui una figlia di Njord. Io non ho pregiudizi sui genitori altrui.
- Al banchetto mi era sembrato diversamente…
La valchiria drizzò la schiena, scuotendo la testa: - Visto quanto era accaduto poco prima, speravo saltasse fuori un genitore divino popolare, per quietare gli animi dei capi. Per fortuna, il responso della vala ha confermato che ti trovi nel posto giusto. Finora non mi sono mai sbagliata sul valore di coloro che ho portato qui. Ecco perché Gunilla ha una buona considerazione di me, nonostante…
Si bloccò, mordendosi la lingua con fare nervoso. Mi sporsi appena verso di lei.
- Elizabeth… hai fatto fatica a guadagnarti la loro fiducia per via del tuo genitore divino?
La rossa sospirò; capii di aver fatto centro.
- Nel caso te lo stessi chiedendo, non sono figlia di Loki – rispose. – Però… non scorre comunque un buon sangue nelle mie vene… preferirei evitare questo argomento.
Prima che potessi replicare qualcosa, si alzò, lisciando le pieghe dell’abito bianco: - Ti conviene riposare, ora. Domani ti aspetta una lunga giornata impegnativa.
- Già… – borbottai. – Non vedo l’ora di ritrovarmi a saltellare su una gamba sola…



- Ti basta una barretta di cioccolato? Sul serio?
Sitala Tel’ula osservò la mia misera colazione a occhi sgranati, imitata da buona parte dei miei compagni di piano.
Diedi un’alzata di spalle: - Dovremo affrontare una battaglia, no? Non voglio appesantirmi e rischiare di vomitare ovunque.
- Come succede spesso a qualcuno… vero Jace? – punzecchiò Lilly, gettando un’occhiata al piatto del rosso, stracolmo di uova e bacon.
- Non so di che parli – replicò lui con un ghigno furbo, per poi volgere gli occhi chiari verso di me. – Dunque, figlia di Njord: qualche commento a caldo?
Il suo volto aveva un che di famigliare, ma ero ancora troppo stordita per darci peso.
- Sovraccarico di informazioni ed emozioni – replicai. – E il sistema amministrativo qui fa schifo.
- Come più o meno ovunque – sorrise la ragazza bionda, passando ad Alviss una bustina di infuso ai mirtilli, che il giovane stralunato posò all’interno di una tazza, dove poi versò dell’acqua bollente.
Ben diede una spolverata di zucchero a velo sul proprio cornetto, gettando di sottecchi un’occhiata alla sedia vuota accanto a sé: - La prima battaglia è la più dura, solitamente. I veterani adorano accanirsi sui novellini, ma noi ti daremo tutto l’aiuto possibile.
- Comunque, puoi sentirti relativamente tranquilla – soggiunse Jace. – Te la caverai con una gamba mozzata. Poteva andarti peggio.
- Non lo metto in dubbio.
Alviss abbozzò un mezzo sorriso: - Oggi è sabato. Ci scateneranno contro la furia degli elementi. Ci sarà da divertirsi.



Immaginavo che l’idea di divertimento per gli einerjar fosse un tantino estrema, ma, ancora una volta, il mondo norreno riuscì comunque a sorprendermi.
Prima di quel fatidico giorno, potevo vantare come massima esperienza in combattimento lo scontro in cosplay con armi finte durante una fiera a tema Il Signore degli Anelli, avvenuta due anni prima – io interpretavo Legolas.
Figurarsi come potessi sentirmi in mezzo a un enorme campo di battaglia, con lenti a contatto fastidiose in sostituzione degli occhiali e circondata da orde di einerjar assetati di sangue. Poteva essere una semplice paranoia, ma avevo l’impressione che molti di loro fossero ansiosi di contendersi l’onere di compiere la profezia sulla mia gamba. Mi domandai cosa ne avrebbero fatto, forse un trofeo da appendere in camera, un personalissimo remo per guadare il fiume che scorreva in mezzo al campo, una mazza per giocare a croquet… magari l’avrebbero usata per picchiarmi…
- Tieni alta la guardia!
La voce di Sitala mi scosse, portandomi ad alzare istintivamente lo scudo davanti al volto, appena in tempo per parare una freccia scagliata da chissà dove.
La giovane nativa sorrise soddisfatta, per poi scagliare un’accetta contro un avversario, atterrandolo all’istante.
Osservai i miei compagni piuttosto colpita: Lilly pareva divertirsi un mondo, agitando a destra e a manca un’enorme mazza chiodata, più grande di lei; Alviss faceva stragi con una lunga frusta argentata, lanciando terrificanti grida di battaglia; Jace pareva possedere una scorta inesauribile di coltelli, che scagliava a ripetizione contro chiunque si avvicinasse troppo, mentre Ben bersagliava i nemici con i dardi di una balestra dall’aria leggera ma resistente.
In mezzo a un gruppo simile, non era difficile individuare l’anello debole, l’incapace che si limitava a scansare o parare i colpi e ad agitare con poca convinzione una spada un po’ troppo corta.
Per rendere le cose più difficili, l’intero cortile interno disponeva di chissà quale meccanismo magico che scatenava in modo  casuale la furia dei quattro elementi. Giusto un istante prima, una colonna di fuoco era piombata dal cielo, atterrando a pochi metri da noi e incenerendo una decina abbondante di combattenti.
Tentai di rendermi utile individuando un senso logico nei cataclismi che si scatenavano qua e là, ma le dimensioni del campo e la confusione della battaglia mi rendevano l’impresa assai difficile.
Decisi quindi di andare per gradi.
- Avviciniamoci al fiume! – suggerii. – Vorrei verificare una cosa.
 - Alto rischio di tsunami! – replicò Jace, per poi piegare le labbra in un sorriso furbo. – Sempre meglio delle colonne di fuoco.
Un rumore secco fu seguito da un fiotto di sangue caldo che mi schizzò dritto in faccia. Gridai.
Alviss barcollò, imprecando: la lama affilata di un’ascia era conficcata nella metà destra del suo volto, attraversando la zona tra fronte e zigomo e dividendo l’occhio in due.
Prima che avessi il tempo di reagire, il mio compagno cadde in avanti, dissolvendosi come una statua di sabbia al vento.
Ci mancò poco che rimettessi sul prato la barretta di cioccolato ingerita poco prima.  
- Stasera tornerà come nuovo – mi assicurò Lilly. – Allontaniamoci da qui, presto!
Cominciammo a correre verso il fiume, schivando per miracolo l’assalto di un’orrenda quercia ambulante – niente a che vedere con gli Ent di Tolkien – ma non avendo altrettanta fortuna con un tornado impazzito. Lilly, che si trovava un po’ più avanti rispetto il gruppo, venne risucchiata e portata via.
Saremmo stati assorbiti tutti quanti, se non fosse apparso all’improvviso uno strano portale magico: saltammo dentro senza pensarci due volte, ritrovandoci a diversi metri dal punto di partenza, proprio sulle rive del fiume.
- Ma cosa…
Sita mi rivolse un ampio sorriso, scoprendo i denti bianchi e perfetti: - I vantaggi di essere figli di Heimdall.
Un gigantesco ragazzone barbuto si lanciò contro di noi, roteando due enormi asce. Sitala diede un’ulteriore prova del proprio potere, allungando la mano verso di lui e aprendo un nuovo portale: l’energumeno ci finì dentro dritto dritto. Pochi istanti dopo, lo vidi riapparire a mezz’aria, proprio sopra il fiume: cadde in acqua con un tonfo, imprecando e sputacchiando.
- Stupido berserkr – sghignazzò Jace, giusto un secondo prima di finire decapitato da una mannaia rotante.
Ben indietreggiò, caricando la balestra: - Riley, ora che siamo vicini al fiume, hai un piano o qualcosa di simile?
- Qualcosa di simile – replicai, provando ad allertare al massimo i sensi. Mi sentivo un po’ stupida, ma la curiosità aveva ormai preso il sopravvento: ero figlia di Njord, una divinità legata all’acqua… forse, forse…
Rinfoderai la spada e tesi una mano sopra le sponde del fiume.
“Okay, come funziona? Devo gridare qualcosa? Devo fare un balletto?”
I miei compagni superstiti parvero intuire le mie intenzioni, infatti si schierarono per coprirmi le spalle.
Dapprima non avvertii nulla: restai immobile e con la mano testa come un’idiota. Poi, però, una specie di formicolio cominciò a solleticarmi le dita, insinuandosi all’interno delle mie vene e pervadendomi l’intero corpo.
Vagai con la mente alla ricerca di un ricordo che credevo di aver rimosso… era già successo, molto tempo fa… credevo si fosse trattato soltanto di un sogno, e invece…
Per poco non caddi a terra per la sorpresa non appena mi resi conto di udire una specie di voce, simile a uno scampanellio, o forse a uno strano flusso di coscienza. Percepivo l’essenza dell’acqua corrente, riuscivo a indovinare la profondità, la velocità del flusso, persino la temperatura, senza il bisogno di toccarla. E allo stesso modo, riuscii a percepire un imminente mutamento…
- Tsunami tra trenta secondi! – urlai.
Ben non ebbe il tempo di reagire: una lancia lo colpì al petto, passandolo da parte a parte. Sitala riuscì invece a respingere un avversario, voltandosi poi verso di me: - Vuoi provare a sfruttare i poteri di Njord?
- Io… non so se mi riuscirà…
- Decidi in fretta: posso aprire un portale per allontanarci da qui prima che colpisca.
Cominciai a ponderare rapidamente la mia decisione: in quel momento riuscivo a sentirmi connessa con le acque del fiume, ma non ero sicura che fosse sufficiente per controllarle, considerato soprattutto che era la prima volta che tentavo consapevolmente una simile impresa. Potevamo però sfruttare il potere di Sita, attirando verso di noi vari avversari e poi fuggire, lasciando che venissero travolti al posto nostro.
Non volendo rischiare, aprii la bocca per comunicarle la seconda opzione, quando un dolore lancinante alla gamba sinistra trasformò le mie parole in un grido. Qualcuno esultò, mentre crollavo a terra bocconi, priva di un perno.
- Riley!
 Cercai di sollevarmi sulle braccia, volgendo indietro lo sguardo con orrore: la mia gamba, ancora avvolta nel pantalone jeans blu, giaceva a pochi centimetri dal mio corpo, recisa all’altezza della coscia.
- Maledizione…
Strisciai di lato, afferrandola, mentre Sitala continuava a proteggermi, come una leonessa con il proprio cucciolo.
- Ce la fai ad alzarti? – gridò, spaccando con un pugno la mandibola a una ragazza bionda, che si era scagliata su di lei agitando un grosso martello. – Se resteremo qui, verremo travolte dallo tsunami!
Uno spaventoso gorgoglio fece eco alle sue parole: le acque del fiume si gonfiarono paurosamente, trasformandosi a velocità disarmante in una terrificante onda anomala.
In preda alla disperazione, tesi nuovamente la mano in avanti: con mia somma sorpresa, l’intento diede i suoi frutti, almeno per una manciata di secondi.
La grande massa fluida si abbatté sulla terraferma, descrivendo però un arco sufficiente a lasciare me e la mia compagna all’asciutto. Mollai la presa sulla mia gamba, tendendo anche l’altra mano. Il mondo attorno a noi si tinse di verdeazzurro; diversi corpi scuri si dibattevano disperatamente all’interno di quelle pareti liquide e turbolente.
Mi resi conto di star perdendo lentamente il controllo quando la bolla protettiva che avvolgeva me e Sitala cominciò a rimpicciolirsi.
- Sto cedendo! – gridai. – Portaci via da qui!
Uno squarcio quadrato si aprì tempestivamente sotto di me, facendomi precipitare.
Contai uno, due, tre secondi, poi, colpii duramente il terreno. Tutto si fece buio.



- Sopravvivere alla prima battaglia non è cosa da poco. Dovresti sentirti fiera di te stessa, lo sai?
Elizabeth aveva uno strano sorrisetto dipinto sul volto, non riuscivo a capire se fosse compiaciuta o divertita. Mi aveva appena prelevata dall’infermeria, dove mi avevano miracolosamente riattaccato la gamba – o forse mi era semplicemente ricresciuta, non saprei dirlo, visto che ero stata semi-incosciente per quasi tutta la durata dell’operazione – e ci stavamo dirigendo con passo tranquillo al Piano Ventitré.
Alzai gli occhi al soffitto: - Sono stata protetta per tutto il tempo dai miei compagni, mi hanno tagliato una gamba e poi sono svenuta. Sai che gran bella soddisfazione!
- Sita mi ha detto che hai tentato di utilizzare i poteri di Njord...
- Ci sono riuscita soltanto per pochi secondi.
- Beh che pretendi? Ti devi esercitare, era la tua prima volta.
Entrammo insieme nell’ascensore, mentre continuavo a tormentarmi nervosamente le dita delle mani tra loro.
- In realtà… - mormorai.- Ci avevo già provato. Tanto tempo fa, quando ero bambina. Avevo finito di leggere il primo libro di Harry Potter e mi ero messa in testa di fare magie. Così ho aperto l’acqua del rubinetto e… per un attimo ero riuscita a curvare la traiettoria del flusso. Col tempo, mi convinsi si fosse trattato di un sogno… e poi sai, io e mia madre siamo sempre state persone estremamente razionali…
- Sì, immagino. Comunque, ti consiglio di addestrarti con la piscinetta di acqua salata che si trova nella tua stanza. Njord è legato al mare, quindi dovresti far meno fatica. E ti suggerirei anche di studiare in modo approfondito la figura di tuo padre, in modo da individuare altre potenziali capacità soprannaturali.
Le porte dell’ascensore si spalancarono, offrendoci la vista famigliare del corridoio Ventitré.
Gli unici presenti tra i miei compagni erano Sitala e Jace, che chiacchieravano allegramente davanti alla porta della stanza di Alviss.
- Già in piedi, Jenkins? – sorrise lui, a mo di saluto. – Ti hanno rimessa in fretta!
- A quanto pare – borbottai. – Dove sono gli altri?
- Oh, vedrai che faranno in tempo tutti a riprendersi per l’ora di cena.
- Basta che non perdano la testa, giusto Jace? – s’intromise Elizabeth, sfoderando, per la prima volta, qualcosa che somigliava vagamente al senso dell’umorismo.
Il ragazzo le fece una smorfia: – Gnè gnè, sei simpatica come un calcio in faccia, Lizzie.
- Non incominciate – li riprese Sitala, rivolgendomi un sorrisetto esasperato.
C’era qualcosa di strano nel modo in cui la  valchiria e il mio compagno di piano interagivano, ma non ebbi modo di indagare, visto che la rossa decise di dileguarsi.
- Sentite, io ho un impegno urgente da sbrigare, ci rivedremo per cena.
- Uuuh dove vai Lizzie, hai un appuntamento? – la punzecchiò Jace, battendo le ciglia.
La ventenne lo fulminò con lo sguardo: - Piantala, idiota. È una faccenda importante.
Gli occhi scuri di Sitala si ridussero a due fessure: - C’entra forse… quella persona?
Elizabeth annuì: - Sono riuscita a parlare con Lee Fukuhara, in infermeria. Ho finalmente una pista.
- Lee? – domandai. – Il figlio di Loki? Si può sapere di che state parlando?
- Fatti spiegare da loro. Ci vediamo più tardi.
Osservai a occhi sgranati la valchiria dalla chioma fulva che si allontanava a passo spedito lungo il corridoio, poi mi voltai verso i miei compagni: - Perché Elizabeth ha dovuto parlare con Lee Fukuhara?
Sita e Jace si scambiarono un’occhiata eloquente.
- Ecco – cominciò la ragazza Miwok. – Da circa tre anni Elizabeth è impegnata a dare la caccia a un semidio molto pericoloso...
- Più che impegnata, diciamo che ne è ossessionata – la corresse Jace. – Presente il capitano Achab con Moby Dick? O Javert con Jean Valjean? O Zenigata con Lupin?
- Capito – replicai. – Come mai questo semidio è tanto pericoloso?
- Beh, sono anni che provoca disordini sulla Terra, sfuggendo continuamente alla giustizia e obbedendo agli ordini del proprio padre…
Sitala Tel’ula emise un grosso sospiro: - Quando Lee Fukuhara ha menzionato un fratello maggiore durante il proprio racconto, ieri sera, Elizabeth ha pensato potesse trattarsi di lui… e forse ha colto nel segno. Il nome di questo semidio è Dimitri Lagerfelt, figlio di Loki. E per quanto ne sappiamo… - la sua voce si abbassò di un tono. – potrebbe anche essere coinvolto nella sparizione di Mia.





***
Angolo dell’Autrice: Non so come sono riuscita ad aggiornare. Spero mi venga ispirazione anche per le altre storie. O per questa, magari per avere un capitolo in più in tempi accettabili.
Mi auguro che questo sia stato perlomeno godibile e che non ci siano incongruenze o errori.
Allora, ho un po’ scelto di prendermi licenze poetiche riguardo i poteri dei semidei, visto che non ho trovato molte informazioni a riguardo. E mi piaceva l’idea dei figli di Heimdall che aprono portali, anche se a determinate condizioni.
Per quanto riguarda Riley, dovrà lavorare parecchio per imparare a gestire i propri poteri, integrarsi e diventare un’einerji degna di tale nome.
Nel caso ci sia un po’ di confusione riguardo il nome del fratello di Lee Fukuhara, specifico che i due sono fratelli soltanto da parte di padre, ma sono nati da madri diverse e in diverse parti del mondo.
Per il momento è tutto.
Grazie per aver letto,

Tinkerbell92

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Capitolo 4
*** Mai entrare negli spogliatoi in disuso ***


RILEY JENKINS E GLI DEI DI ASGARD
 IL FARDELLO DI SIGYN




Capitolo 4

Mai entrare negli spogliatoi in disuso





La cena era stata piuttosto soddisfacente: Lilly era riuscita ad accaparrare degli ottimi posti in quarta fila, sulle gradinate della mensa, in modo da avere una buona vista sui posti d’onore, dove i due nuovi einerjar avevano raccontato le loro imprese. Uno dei due aveva genitori umani, l’altro si era rivelato discendente di Odino – qualcosa come bis-nipote.
Tornata in stanza, cominciai a svolgere una ricerca approfondita su Njord, la sua storia e i suoi poteri, appuntandomi possibili esperimenti per testare le mie capacità.
La cosa buffa è che in ogni testo disponibile veniva ripetuto almeno tre volte quanto fossero belli e perfetti i piedi di Njord. I miei mi pareva non avessero nulla di speciale, anzi, grazie alla mia fantastica taglia 42 faticavo non poco a trovare scarpe adatte nei reparti femminili.
Dopo circa un paio d’ore di studio, qualcuno bussò alla porta: esattamente come il giorno prima, mi ritrovai faccia a faccia col sorriso di Lilly.
- Spero di non disturbarti – cominciò. – Vedi, ogni tanto capita che Alviss faccia fatica ad addormentarsi, così siamo abituati a spostarci nella sua stanza per chiacchierare un po’… questo lo aiuta a prendere sonno. Se ti va, puoi unirti a noi…
- Oh…
Ci conoscevamo da poco più di ventiquattro ore, ma i miei compagni mi stavano aiutando molto a integrarmi. Perché perdere un’occasione di conoscerli meglio?
- Ehm… sì, d’accordo.
Avevo una vaga idea di come potesse essere la stanza di Alviss e, in parte, indovinai: i colori predominanti erano il nero e il viola, le luci erano piuttosto soffuse, dando all’intero ambiente un aspetto quasi spettrale; l’atrio d’ingresso si affacciava a un ampio salotto, provvisto di un enorme divano dall’aria antica, di forma circolare. Di fronte a esso c’era un curioso caminetto, le cui fiamme erano tinte di colori freddi.
I miei amici sedevano tutti sul divano. Mi sorpresi non poco vedendo che tra loro c’era anche Elizabeth.
- Già tornata dalla caccia? – le domandai, accomodandomi tra Sitala e Alviss.
La valchiria abbozzò un sorrisetto: - Penso che la mia indagine proseguirà ancora per un po’. Quel maledetto è bravo a nascondersi.
- Beh, che ti aspetti da un figlio di Loki? – la punzecchiò Jace, allargando di proposito le ginocchia per darle fastidio.
- Mettiti composto, idiota! – lo sgridò lei, dandogli una pacca sulla gamba.
- Ehi, ehi, non incominciamo – intervenne Sita. – O vi mettete in testa di andare d’accordo, o evitate di sedervi vicini.
Improvvisamente, fui colta da un’illuminazione: - Un momento… non mi direte che…
Elizabeth sospirò, alzando gli occhi al soffitto: - Sì. Lui è mio fratello, purtroppo. Gemello, per la precisione.
- Sottoscrivo il “purtroppo” – fece eco il rosso. – Essere un einerji dovrebbe darti il vantaggio di non vedere più i parenti rompipalle, ma resti fregato di brutto quando tua sorella è anche la tua valchiria.
- Quindi… sei stata tu a portare Jace nel Valhalla?
La ventenne annuì: - Questo idiota si è fatto ammazzare da un gruppo di delinquenti. Li ha visti in un vicolo, mentre se la prendevano con un senzatetto muto e il suo cane, e si è gettato contro di loro, colpendoli con lo skate. Risultato? Un bel taglio alla gola con un coltellaccio sporco.
- Come se avessi potuto fare diversamente! – esclamò lui.
Elizabeth lo fulminò con lo sguardo: - C’era quel poliziotto nei paraggi, tanto per cominciare, quello che li ha arrestati quando ormai per te era troppo tardi! Potevi richiamare la sua attenzione mettendoti a gridare contro quegli stronzi, per esempio. Ma ovviamente è più facile gettarsi nella mischia senza riflettere e finire ammazzato come un cane, costringendo tua sorella a raccogliere la tua anima!
- Beh, almeno il senzatetto e il cane si sono salvati!
Sgranai gli occhi, facendo scorrere lo sguardo da uno all’altra. Lilly interruppe il momento di silenzio schiarendosi la voce: - Siamo qui per aiutare Alviss a dormire, dubito riuscirà a farlo, sentendovi litigare di continuo.
- Però… - mormorò il giovane figlio di Nott, mettendosi a sedere più composto. – Riley non sa come siamo finiti qui. Potremmo raccontarle le nostre storie. Penso mi aiuterebbe, visto che le ho già ascoltate un sacco di volte…
- In effetti sarei curiosa di conoscerle – replicai. – Tu come sei arrivato nel Valhalla?
Alviss si accomodò nuovamente contro lo schienale del divano:- Nulla di che, in realtà. Sono semplicemente caduto in battaglia nel 1244… già, abito qui da un sacco di tempo – aggiunse, notando la mia espressione sorpresa. – Non è stato proprio un toccasana per la mia già fragile salute mentale. Non ho avuto un’infanzia particolarmente felice…
Mi aspettai che aggiungesse altro, invece si zittì, perdendosi in chissà quali ricordi.
Lilly, seduta alla sua destra, gli carezzò la guancia con fare materno: - È rimasto solo a lungo… ma ora ci siamo noi. Io sono arrivata nel 1832: lavoravo nell’orfanatrofio gestito dai miei genitori a Würzburg. Un giorno, un gigante di fuoco fece irruzione, attirato dalla presenza di un piccolo semidio, un figlio di Frigg; ai miei occhi era apparso come un pazzo armato di esplosivi. Lo affrontai con il fucile che mio padre teneva nel proprio studio, ma naturalmente non bastò: fece saltare in aria l’intera struttura. Fortunatamente, i miei genitori erano riusciti a mettere in salvo i bambini nel cortile, ma insieme a me morirono tre cameriere, la cuoca e uno dei giardinieri. Fu grazie alla mia valchiria, Jane, che il gigante venne sconfitto.
- È… terribile – mormorai a fatica. – Ora però capisco perché ami tanto prenderti cura delle persone.
Lilly sorrise, dando una piccola alzata di spalle: - Vecchie abitudini che mi rendono ancora felice.
Incrociai per un attimo lo sguardo con Alviss, che sembrava ancora assorto nel proprio mondo. Non osai chiedergli quali orrori avesse dovuto affrontare durante la propria infanzia, così mi voltai a sinistra, verso Sitala: - E tu come sei finita qui?
La bella nativa scoprì la sua perfetta fila di denti bianchi: - Ho affrontato anch’io un mostro mitologico, un drago. Giunse alla nostra riserva e, in una notte, uccise tre persone e ne trascinò via una. Il mattino dopo, mentre cercavamo nei boschi i possibili resti della vittima rapita, fui avvicinata da un uomo afroamericano alto e robusto: non mi diede il tempo di chiedergli cosa ci facesse lì, si limitò a consegnarmi un grosso fucile e un sacchetto con proiettili, a detta sua, adatti a sconfiggere la creatura malvagia. Non avevo idea di chi fosse, né come facesse a sapere del mostro, ma qualcosa dentro di me mi spingeva a fidarmi di lui. Immagino tu abbia capito: quell’uomo era Heimdall. Naturalmente, la notte stessa il mostro tornò, ma riuscii ad affrontarlo grazie all’arma che mio padre mi aveva donato. Lo attirai lontano dalla riserva, per non mettere a rischio la mia gente, e lo uccisi, anche se a costo della mia stessa vita. E questo… beh, è quanto.
- Tuo padre è intervenuto per aiutarti? – esclamai. – Pensavo che gli dèi non avessero contatti diretti con i figli mortali…
- Dipende dalla divinità in questione – spiegò la ragazza Miwok. – Alcuni ti ignorano completamente, altri agiscono restando nell’ombra… e poi ci sono quelli che, invece, cercano di essere presenti.
Provai una piccola punta di invidia: prima di diventare einerji, percepivo i miei genitori biologici come vaghe idee, distanti e irraggiungibili. Mi era capitato di fantasticarci su, qualche volta, ma nulla di più; e poi, ero felice con Peggy, l’unica figura materna che avrei sempre riconosciuto come tale.
Adesso, però, qualcosa era cambiato, avevo scoperto che mio padre era una divinità norrena e che avrebbe potuto benissimo darmi qualche cenno della propria presenza. Aveva avuto diciotto anni di occasioni per farlo, ma evidentemente aveva scelto di far parte del gruppo “Ignoriamo completamente”. Molto carino da parte sua.
Alzai lo sguardo, incontrando quello di Ben che mi sedeva di fronte, dalla parte opposta del divano rotondo. Le fiamme del caminetto coloravano i suoi lineamenti di blu, verde e violetto e mandavano un debole luccichio tramite il ciondolo con la Stella di David appeso al suo collo.
Mi resi improvvisamente conto di provare timore per ciò che avrebbe potuto raccontarmi.
- Ben… - esitai.
Le sue labbra ben disegnate si piegarono in un sorriso benevolo: - Non amo molto raccontare la mia storia...   
- Non ti preoccupare, capisco benissimo, non serve che tu lo faccia.
- Ti ringrazio - mormorò lui.
- E… per quanto riguarda Mia? Potrei sapere cosa le è successo? O perlomeno come è arrivata qui? Il suo cognome…
- De Medici – s’intromise Elizabeth. – Sì, quei Medici, la famiglia che governò Firenze.
Un sorriso decisamente radioso illuminò il volto di Ben: - Era figlia di Giovanni, fratellastro illegittimo di Lorenzo il Magnifico, e di sua moglie, Luigia De Medici. Beh, questo almeno ufficialmente…
- Il vero padre di Mia è Tyr – spiegò Sitala. – Ma naturalmente, ha scoperto questa verità dopo essere diventata einerji…
Si era creata una sorta di coralità, all’interno del gruppo: ognuno sembrava desideroso di dire qualcosa sulla ragazza scomparsa.
A prendere parola, questa volta, fu Alviss: - Mi ricordo il suo arrivo nel Valhalla, nel 1480: è stata la mia primissima compagna di piano. I primi tempi sono stati difficili per lei: già al banchetto, quando la vala rivelò l’identità di suo padre, aveva reagito piuttosto male. Nel corso degli anni, abbiamo stretto amicizia e ci siamo fatti compagnia per circa quasi quattrocento anni, prima che, finalmente, arrivasse Lilly.
La bionda gli sorrise, posando la propria mano sulla sua con fare affettuoso. Nonostante l’aspetto fisico e l’età, si comportavano quasi come fossero madre e figlio.
- Mia crebbe in un ambiente aristocratico – continuò la ragazza tedesca. – Nonostante suo padre fosse un figlio illegittimo, fu trattato dai fratellastri con riguardo, tanto da contrarre il matrimonio con una delle loro cugine. Mia ci mise poco a farsi conoscere dalla nobiltà fiorentina: era nota per la sua bellezza ma anche, e soprattutto, per il suo – mimò il gesto delle virgolette con le dita. – caratteraccio.
- Beh, non ci si può aspettare che una figlia di Tyr sia docile e obbediente – ridacchiò Jace. – Ovviamente, per l’epoca, il suo comportamento ribelle era ritenuto inaccettabile. Non stava mai ferma, scappava di continuo, rispondeva per le rime e aveva una fissa per le armi e i combattimenti. Quando è cresciuta, i suoi genitori hanno tentato più volte di trovarle un marito, ma lei finiva sempre col far scappare ogni pretendente. Finché non se ne presentò uno particolarmente insistente…
Fui colta da un orrendo presentimento: - Ed è… per colpa di questo pretendente che…
Elizabeth diede conferma alle mie parole: - Un giorno, Mia e una delle sue sorelle passeggiavano in un tranquillo boschetto: lui le seguì, tendendo un agguato per prendersi Mia con la forza. Lei portava sempre un pugnale nascosto sotto la veste e lo affrontò, per difendersi e per dar modo alla sorella di scappare e chiamare aiuto; riuscì ad accoltellarlo ma, prima di morire, lui le fece battere la testa contro il tronco di un albero.
- Santo cielo… - mormorai. La storia di Mia mi aveva lasciata a corto di parole. Fortunatamente, Sitala ruppe in tempo la pesante cappa di silenzio che aveva avvolto l’intera stanza.
- Mia è sparita nel nulla circa cinque mesi fa. Era tornata di nascosto su Midgard, non sappiamo il perché, e da allora non è più tornata. Ho chiesto a mio padre di indagare, ma nemmeno lui è riuscito a trovarla.
Riuscii a sciogliere il nodo alla lingua: - E pensate che c’entri Dimitri Lagerfelt?
- Non può essere altrimenti! – sbottò Elizabeth, stringendo i pugni. – Sono anni che cerca di sabotare gli eroi del Valhalla! Quel… quel…
- Ssshhh – intimò dolcemente Lilly. Ci rivolse un sorriso, indicando Alviss poggiato contro la sua spalla. In qualche modo, si era finalmente addormentato.



Riuscii a trascorrere un paio di settimane in modo relativamente tranquillo, almeno, secondo gli standard dell’Hotel Valhalla. Avevo cominciato a formare un legame piuttosto solido con i miei compagni, studiavo e mi esercitavo duramente per riuscire a diventare una guerriera decente.  
Naturalmente, Elizabeth pensò bene di interrompere il mio momento di “quiete” una sera, a cena, con un simpaticissimo annuncio.
- Un attimo di attenzione, prego! – ci richiamò Helgi. – Dopo un’attenta e accurata analisi dell’ultima profezia delle Norne – occhiataccia rivolta al povero Lee Fukuhara. – abbiamo deciso di organizzare una spedizione. Capitan Gunilla ha scelto di affidare l’incarico alla sua valorosa compagna Elizabeth Colbert.
Fece cenno alla valchiria di alzarsi, cedendole la parola. Lizzie si schiarì la voce, osservando il proprio pubblico con fare deciso: - Abbiamo ragione di credere che la profezia voglia spingerci alla cattura del pericoloso criminale Dimitri Legerfelt, figlio di Loki…
- Oh, no, eccola che ricomincia! – borbottò Jace, alzando gli occhi al cielo. – Questa volta è riuscita a convincerli!
- Il nostro compagno, Lee Fukuhara – continuò la valchiria. – Ha confermato di essere rimasto ucciso per colpa del famigerato fratellastro mentre questi cercava di impossessarsi di un’antica reliquia contenente il sangue versato dal dio Tyr, il giorno in cui il lupo Fenris lo privò della mano destra.  
- Il seme del coraggio… - mormorò Alviss. – Possibile che si riferisse a questo?
Elizabeth proseguì con maggiore zelo: - Si parla poi di una rotta da tracciare lungo “lo specchio del cielo”. È piuttosto ovvio che queste parole indichino il mare: le Norne ci hanno suggerito di intraprendere un viaggio alla ricerca della reliquia scomparsa e fermare Lagerfelt. In qualità di leader della spedizione, mi è stato concesso di scegliere la mia squadra: saranno gli einerjar del piano Ventitré ad accompagnarmi.
Sgranai gli occhi, mentre il respiro mi si mozzava in gola. Per un istante, temetti di vomitare la salsiccia di soia ingerita poco prima.
Doveva esserci un errore, o forse si trattava di uno scherzo di pessimo gusto: Elizabeth non poteva aver incluso anche me nella missione, giusto?
Lanciai un’occhiata sconvolta in direzione di Sitala, la quale mi rivolse un sorriso comprensivo.
- Non vorrà che venga anch’io, no? – domandai con un filo di voce. – Sono appena arrivata, sarei… sarei solo d’intralcio… non sono pronta per una cosa del genere!
- Beh… è previsto un viaggio per mare – replicò Ben, con una punta di amarezza. – E tu sei figlia di Njord, signore delle navi… la tua presenza è fondamentale…
Maledissi mentalmente le mie origini, pizzicandomi continuamente le gambe per convincermi che si trattava soltanto di un brutto sogno.
Sfortunatamente, non stavo affatto dormendo.



Non riuscii a dormire bene per le tre notti seguenti, così,  il giorno della partenza, mi ritrovai con due occhiaie spaventose e la vitalità di un telefonino scarico. Feci una fatica immane a indossare un corpetto protettivo sotto i vestiti, tanto che al primo tentativo lo misi addirittura storto – e attribuire la colpa alla mia taglia minuscola di reggiseno non mi aiutò a sentirmi meno stupida.
Fortunatamente, i miei compagni di piano attesero che tutti quanti fossero presenti in corridoio, prima di partire. Avessi dovuto recarmi da sola al punto di ritrovo, mi sarei sicuramente persa.
Ognuno di loro recava con sé l’arma preferita e un po’ li invidiai: io non avevo ancora trovato un’arma con cui riuscissi a sentirmi in sintonia, così mi ero accontentata del lungo pugnale che mi aveva procurato Jace, un gentile omaggio del reparto Oggetti Smarriti.
- Quindi… uno dei passaggi per la Terra… o Midgard, insomma… si trova in uno degli spogliatoi della piscina? – domandai, mentre entravamo in ascensore.
- Già – confermò Sitala. – L’unico spogliatoio perennemente in disuso. Volendo, in realtà, potrei aprire dei varchi io stessa, ma dovrei avere le idee chiare sul luogo da raggiungere. Essere stata fisicamente in quel posto, insomma. Una volta Jace mi ha convinta a provare una destinazione sconosciuta, e… - lanciò un’occhiataccia al compagno rosso. – Beh, non è andata molto bene. Ci siamo ritrovati a Nidavellir ed è stato piuttosto complicato uscirne vivi.
- Bah, non puoi dire non sia stato divertente – ribatté l’altro, tenendo lo sguardo fisso avanti a sé.
Lilly gli posò una mano sulla spalla: - Jace, c’è qualcosa che ti turba?
Il ragazzo alzò gli occhi al soffitto: - Non mi convince per niente questa missione. Lizzie fa girare tutto attorno a quel dannato Dimitri Lagerfelt. Diventa totalmente irrazionale quando si tratta di lui. Non sono un grande interprete, ma dubito che la profezia si riferisse a Lagerfelt: sono piuttosto convinto che mia sorella abbia manipolato le informazioni per convincere il direttore a organizzare una spedizione contro di lui.  
- Sì, anche secondo me l’interpretazione dei versi è stata molto approssimativa – borbottò Alviss. – Il seme del coraggio… perché parlare di seme, se l’oggetto della ricerca è una reliquia con il sangue?
- Mia mi ha parlato, una volta, di quell’oggetto – intervenne Ben. – Ha detto che è un tesoro inestimabile, perduto da anni, che può essere reclamato soltanto da uno, o una, discendente del dio.
- Che proprietà avrebbe? – domandai. – Dona coraggio? Aiuta ad affrontare le battaglie?  
- In un certo senso. Permette di affrontare con successo qualsiasi tipo di battaglia. Fisica e… interiore.
Gli ingranaggi del mio cervello cominciarono a mettersi in moto: - E se… e se Dimitri volesse veramente questa reliquia… potrebbe aver effettivamente rapito Mia. Una figlia di Tyr gli servirebbe per trovarla…
- Assai probabile – annuì Sitala. – Giustificherebbe la sparizione della nostra amica e darebbe conferma ai sospetti che nutriamo da tempo.
L’ascensore si fermò. Uscimmo piuttosto rapidamente, raggiungendo gli spogliatoi maschili della zona sauna. Elizabeth ci aspettava con impazienza di fronte a un camerino dalla porta mezza scassata, su cui era stato appeso il cartello “Fuori Servizio”.
- Bene, eccovi qua! Avete preso tutto?
- Noi sì – rispose Jace, con una smorfia. – Tu invece? Se non sbaglio, ci servirà una nave...
- Già risolto. Ne ho noleggiata una, che ci aspetta ormeggiata al porto di Boston. Allora, siete tutti pronti?
Replicai mentalmente con un “no”, mentre lei spalancava la porta dello spogliatoio in disuso: mi aspettai di trovarmi davanti a un portale magico e luminoso, invece, l’interno del camerino era un semplice… interno di camerino un po’ spoglio. Un pavimento con piastrelle rovinate, una panca sconquassata e un paio di grucce appese al muro.
La valchiria percepì la mia perplessità, infatti mi rivolse un sorriso poco rassicurante: - Non preoccuparti, Riley. Siamo nel posto giusto. Aspetta e vedrai.
Fece un passo avanti e… scomparve nel nulla.
Trattenni a stento un gemito di sorpresa.
- Andiamo – incitò Lilly, offrendomi la mano. – È la tua prima volta. Attraversiamo insieme?
Annuii, serrando le dita attorno alle sue, piccole e morbide. Varcammo quindi la soglia dello stanzino e, da quel momento, tutto attorno a noi parve accelerare.
Mi sentii rivoltare lo stomaco come un calzino, mentre un lieve ma fastidioso pizzicore mi tormentava ogni singolo centimetro di pelle.
Provai a voltarmi verso Lilly: sentivo la stretta della sua mano nella mia, eppure la mia amica pareva essersi trasformata in un insieme di macchie di colore incorporee. Improvvisamente, la sua vocina rimbombò nella mia testa.
- Qualcosa non va… - disse. – Sta durando troppo… non dovrebbe essere…
Prima che terminasse la frase, i nostri corpi subirono un tremendo scossone, prima di venir catapultati contro qualcosa di duro.
Eseguii diverse capriole – in modo del tutto involontario – sbattendo, di tanto in tanto, contro qualcosa che deviava la traiettoria dei miei ruzzoloni.
Quando, finalmente, il mondo si fermò, mi ritrovai rannicchiata in posizione fetale, con la testa che girava e i succhi gastrici che cercavano in tutti i modi di risalire lungo l’esofago.
Un fischio piuttosto fastidioso mi tormentava entrambi i timpani.
Ansimante e dolorante, col volto nascosto tra le braccia, cercai di mettere ordine ai pensieri e, soprattutto, di trovare il coraggio di aprire gli occhi.
Finalmente, quando il fischiò si affievolì, riuscii a percepire il suono di una voce femminile. Era ovattata e indistinta, ma dubitavo appartenesse a una delle mie compagne.  
Con uno sforzo immane, riuscii ad afferrare alcune parole.
- Blitz, eccone un’altra! Guarda!
Mi sforzai di dischiudere le palpebre. Furono necessari diversi tentativi prima di mettere a fuoco qualcosa, oltre ai pallini neri che mi danzavano davanti alle orbite. Dalle tonalità dell’ambiente che mi circondava, intuii dovesse esser scesa la sera.
Vedevo nitido a metà: la lente sinistra degli occhiali era attraversata da una lunga crepa. Fantastico, ci voleva proprio.
C’erano due figure chine su di me. Quella più vicina, che capii essere inginocchiata, era una ragazza piuttosto carina, bassa e formosa, con la pelle abbronzata e grandi occhi celesti. Portava i capelli castani sciolti e diversi ciuffi le cadevano davanti al viso.
La seconda figura era un giovane uomo, tarchiato e abbigliato con abiti sporchi e trasandati, che capii essere un senzatetto. Aveva una carnagione piuttosto scura e continuava a passarsi la mano sulla barba con fare pensieroso.  
Per un attimo, mi parve di scorgere una lieve somiglianza tra i due, ma pensai di essere ancora confusa dalla strapazzata appena ricevuta: cosa potevano avere in comune un povero barbone sporco e una giovane donna assai graziosa e pulitissima?
- Sono einerjar – continuò lei. – Sono piombati dal cielo all’improvviso… hanno bisogno d’aiuto…
- Sì, è evidente – borbottò il senzatetto. – Maledizione, Tara, che tempismo… ormai è sera, devo andare dal ragazzo e dare il cambio a Hearth…
- Non ti preoccupare, ci penso io.
- Sei sicura?  
- Assolutamente.
Una mano gentile mi diede alcuni lievi colpetti sulla spalla: - Tranquilli, mi occuperò di voi.
Aprii la bocca per rispondere qualcosa, per strillare, per chiedere dove fossero i miei amici. Invece, fui scossa da un violento colpo di tosse, giusto un istante prima di essere sopraffatta dalla confusione e da un violento turbinio di emozioni.
Come ogni brava semidea che si rispetti, finii col perdere conoscenza, sprofondando nell’oblio.





***
Angolo dell’autrice: Sono riuscita ad aggiornare in fretta, ero piuttosto ispirata.
Per due settimane starò via, come ho scritto anche nelle note d’autrice della nuova storia pubblicata l’altro giorno, quindi probabilmente non avrò connessione, se riuscirò a scroccarla, magari proverò ad aggiornare le long.
Comunque… questo capitolo è stato di passaggio e l’ho dedicato principalmente alle storie degli altri einerjar. AVVISO: Ho eliminato la storia originale di Ben perché penso non sia rispettoso usare certi argomenti per scopi fittizi.
In compenso, i ragazzi hanno ottenuto una missione (con grande gioia di Riley) e hanno incontrato una nostra vecchia conoscenza. Ebbene sì, Hearth e Blitz faranno parte della storia. Sorpresa!
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, grazie a tutti per aver letto!
Un bacio,

Tinkerbell92

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