Unravel Me

di Andy Black
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Uno (I) ***
Capitolo 2: *** 2. Due (II) ***
Capitolo 3: *** 3. Tre (III) ***
Capitolo 4: *** 4. Quattro (IV) ***
Capitolo 5: *** 5. Cinque (V) ***
Capitolo 6: *** 6. Sei (VI) ***
Capitolo 7: *** 7. Sette (VII) ***
Capitolo 8: *** 8. Otto (VIII) ***
Capitolo 9: *** 9. Nove (IX) ***
Capitolo 10: *** 10. Dieci (X) ***
Capitolo 11: *** 11. Undici (XI) ***
Capitolo 12: *** 12. Dodici (XII) ***
Capitolo 13: *** 13. Tredici (XIII) ***
Capitolo 14: *** 14. Quattordici (XIV) ***
Capitolo 15: *** 15. Quindici (XV) ***
Capitolo 16: *** 16. Sedici - XVI ***
Capitolo 17: *** 17. Diciassette (XVII) pt.1 ***
Capitolo 18: *** 17. Diciassette (XVII) pt. 2 + Epilogo ***



Capitolo 1
*** 1. Uno (I) ***


UNRAVEL ME.
ovvero risolvimi, nel senso di districami, sbrogliami.

UNA FRANTICSHIPPING (ma per finta) di Andy Black (ma lo sapevate).


Ecco a voi le solite, piccole note che metto prima della storia:
1. Questa è la prima storia dell'Universo Y. Che significa?! Che appartiene a quel polpettone che è la mia serie Courage?
Sì, significa questo, ma ciò non vuol dire anche che non possa essere letta indipendentemente da tutto ciò che è accaduto, dato che, essendo la prima storia della nuova fase, non ha alcun collegamento con tutto ciò che ho scritto in questi anni. Inoltre è un filler, quindi niente di grave.
Prendetela per quello che è: un disastro sentimentale, e quindi una cosa del tutto diversa da ciò che scrivo abitualmente (coi vari boom, urla, esplosioni, stupri e morti). Qui la sofferenza è dell'anima. Cazzo, almeno ci ho provato.
2. Con ogni probabilità White e Yvonne (Y, la Serena del manga Pokémon Adventures) sono OOC. La seconda soprattutto. Ma la volevo così, per fini di trama. Non vogliatemene, nabbi protettori della sesta generazione, ma la volevo francesina e leggermente zoccoletta. Amen.
3. Ufficialmente è una Frantic ma per qualche arcano motivo il rapporto tra lui e White è potenzialmente qualcosa di meraviglioso. Queendee è anche una Whitehat Shipping. Ho invece dovuto inventare il nome del pairing tra Ruby e Yvonne perché, ufficialmente, non esiste. Nè ho mai letto di loro.
Ho creato una nuova shipping! Viva me! (Smentitemi se necessario, se veniste a conoscenza del nome della coppia inviatemi un messaggio privato, contattatemi sulla pagina Facebook Pokémon Courage oppure scrivetemelo in una recensione). In ogni caso il nome che avevo scelto era Redflying Shipping. Ovviamente mi scoccio di spiegare perché ma, pensandoci, potreste arrivarci da soli.
4. Ho cercato di contestualizzare Austropoli, rendendola più attuale e mondana. Ovviamente ciò che ho visto nei videogiochi non mi è bastato e sono andato molto di fantasia.
Perdonatemi qualche incorrettezza.
5. Questa storia partecipa al circuito Courage For Christmas, sulla pagina che ho citato sopra. Sticazzi no? Sticazzi, sticazzi.
6. Ringrazio Levyan per avermela betata. È stato un lavorone immenso, ne sono cosciente, ma ovviamente gli amici servono a questo. Un grazie anche a Hancock e a Rely, per avermi dato i loro pareri.
7. Cosa che non serve per la comprensione del testo ma che comunque forse v'interesserà sapere (?): questa storia doveva essere una One Shot. Una One Shot un po' lunghetta, forse, fatto stava che doveva essere inclusa in un solo foglio word di non molte pagine.
E invece siamo arrivati a più di trenta complessive, e la storia, al momento della pubblicazione di questo capitolo, è ancora in via di stesura. Avevo davvero, davvero bisogno di scriverla, dato che mi ha fatto uscire da una crisi terribile, con questo blocco dello scrittore che imperversava. Forse il fatto che fosse un genere assai diverso da ciò che scrivo di solito mi ha aiutato molto.
Speriamo che TSR possa giovarne e vedere una fine.
8. Finisco sempre in pari.
9. Non è vero.
10. Maradona.
11. Non mentivo.
Buona lettura.



“È passato ormai un po’ di tempo da quando hai lasciato Albanova, Ru’… Qui il tempo scorre assai lento. E non è per via di questa pioggia leggera, che non accenna minimamente a finire; sai che è il periodo, questo, in cui passiamo più tempo in casa che fuori. Dicembre a Hoenn è così, ma non te lo devo spiegare, anche se manchi da casa da quasi un anno…”

- Universo Y, Unima, Austropoli, 10 Marzo 20XX
 
Unima era caotica.
Caotica come poco altro aveva visto. Ruby era nato nella ridente Olivinopoli, quasi trent’anni prima, quando i cellulari erano ancora grossi e doppi e non avevano la fotocamera integrata. Il posto dove viveva ospitava il porto più grande della regione di Johto ma non sarebbe mai riuscito minimamente a trovare il coraggio per paragonare il caos che affollava le vie, grandi o piccole che fossero, di Austropoli, con quelle della sua città natale.
Ricordava casa sua con una certa poesia.
Almeno prima di trasferirsi ad Hoenn e d’incontrare Sapphire, quella che sarebbe diventata la donna della sua vita.
Pagò il taxi, lasciando una buona mancia, quindi inalò quell’aria satura di smog; del resto era una grande città, quella, totalmente differente dallo stile di Hoenn. Si tuffò sul marciapiede, nuotando nella fiumana di gente indaffarata che s’avvicendava qua e là.
Non lo guardavano neppure negli occhi, limitandosi a qualche spallata maldestra seguita da imprecazioni poco carine sul lavoro di sua madre.
Ruby aveva sentito che la gente di Unima fosse parecchio più aggressiva ma non pensava fino a quel punto.
Alzò la testa, mantenendo il Borsalino con la mano destra e stringendo il manico della Samsonite con la sinistra.
“BW-Agency…” fece, leggendo la grossa insegna sulla facciata di un meraviglioso palazzo che si affacciava direttamente sul mare. Si fece spazio tra la folla e attraversò di netto il marciapiede, ritrovandosi a salire gli scalini che lo avrebbero immesso in un grosso atrio, dove due giovani signorine in divisa azzurra da hostess accoglievano gli avventori con gentilezza. Il giovane si guardò attorno, col viso soffiato d’aria piacevolmente calda. Quello era un marzo davvero freddo.
Gli piaceva quel luogo, così elegante e fine. Vi era un sottofondo lounge parecchio rilassante, che scivolava in background e rendeva le conversazioni della gente, della tanta gente presente, assai più piacevole. Sulla destra vi era un’ampia finestrata, che partiva dalla porta girevole e arrivava fino all’angolo del palazzo, proseguendo anche sulla parete perpendicolare, fino al muro.
Era luminosissimo, e diversi divanetti di pelle nera erano disposti in magnifici salotti attrezzati per la discussione di affari più o meno importanti.
Al centro della sala un grosso tappeto circolare, rosso come i suoi occhi, segnava al centro la dicitura Black&White Agency of Model Management.
Ruby rimase immobile, spaesato. Guardò sulla sinistra, dove c’era un grosso banco accettazione con dietro quattro ragazze bellissime, vestite con la stessa mise delle due all’accoglienza.
La gente si avvicinava a loro per chiedere informazioni, e quelle finivano quasi sempre col farli accomodare, in attesa di richiamarli.
Decise di rivolgersi a una di loro.
Sì avvicinò a una di loro, sorridente ed educato, leggendo il nome Layla sul cartellino.
“Buongiorno” disse.
Quella, dall’ampio sorriso e dai grossi occhi azzurri, chinò leggermente il capo.
“Buongiorno Signore, benvenuto alla Black & White Agency of Model Management”.
Ruby annuì, carezzando con lo sguardo la pelle diafana di quella. Focalizzò in particolar modo l’attenzione sui capelli biondi, sottili ed educatamente contenuti in un cappellino a barchetta.
“Pan Am” osservò Ruby, scatenando il sorriso di quella.
“Queste divise sono molto caratteristiche. Come posso aiutarla?”.
“Devo incontrare la Presidentessa”.
Quella spalancò gli occhi. “Oh, la signorina White. Certo. Ha un appuntamento?”.
“Veramente sì, tra dieci minuti. Ma mi sono anticipato”.
Quella annuì gentilmente. “Può accomodarsi lì” disse, allungando la sottile mano guantata. “Intanto gradisce qualcosa da bere?”.
“Berrei volentieri del Brandy”.
Annuì ancora, l’hostess che hostess non era. “Sarà servito subito. La richiamerò quanto prima”.
“Grazie, Layla” fece Ruby, sistemando il cappello sulla testa e spingendo la valigia fino alla poltroncina.
Tirò poi fuori il cellulare dalla tasca, vedendo un messaggio di Sapphire.
Sei arrivato? 15:56

 
Sì, amore, scusami se non ti ho contattata prima… Qui è tutto frenetico, la gente sembra sempre che stia scappando da qualcosa! 17:02


Rialzò la testa e vide una delle due ragazze all’accoglienza che faceva per avvicinarsi a lui, spingendo un carrellino bar. Aveva gambe infinite, e la minigonna sembrava allungarle ancor di più. Sorrideva, con lo sguardo cordiale e una ciocca di capelli, rossa e molto, molto riccia, sfuggita dalla presa del cappellino a barchetta.
Kimberly c’era scritto sul cartellino appuntato sulla giacca azzurra.
“Torres Jaime Primo” disse, prendendo una bottiglia di cristallo che conteneva quel preziosissimo liquido scuro.
Ruby spalancò gli occhi. “Cominciamo davvero bene”.
“Prego? Può ripetere?” domandò quella, aprendo il secchiello del ghiaccio.
“No… Intendevo che il brandy… Insomma…”.
“È molto buono, questo brandy”.
Lui annuì. “Intendevo questo, infatti. Questo brandy è delizioso”.
“Vuole del ghiaccio?” chiese poi la donna.
“No, grazie”.
Poi il cellulare vibrò. Abbassò subito lo sguardo.

Sei andato in quel posto? Com’è? 17:03

 
 
Meraviglioso! Come prima cosa sono andato direttamente in agenzia, e qui è tutto fantastico! 17:03
 
Sono contenta per te 17:03

 
 
Pensa, una modella vestita da hostess della Pan Am mi sta servendo un costosissimo brandy! 17:04
 
Modelle? 17:04

 
 
Era comprensibile che nella sede di un’agenzia di model management lavorassero delle modelle… 17:04
 
Le modelle sfilano, non servono il brandy 17:04

 
 
Kimberly sfila e serve il brandy, a quanto pare… 17:04
 
Sai anche come si chiama?! 17:04


“Prego” fece quella, vedendo il cliente alzare la testa distratto. Ruby lasciò cadere il telefono sulla coscia e prese il bicchiere.
"Grazie, Kimberly" le sorrise.
Quella ammiccò, sorrise e se ne andò, sculettando.
Lui avrebbe dovuto guardarle il sedere. Il cellulare però vibrò ancora.
La conosci la storia del giovane stilista morto? E rispondimi! 17:04

 
 
Non fare la gelosa. Tu sei il meglio in circolazione… 17:05
 
Beh? Quando incontrerai la presidentessa? 17:05
Vuoi finirla di parlare con Kimberly?! 17:06


 
 
Non sto parlando con lei. Mi ha servito il brandy e ne ho sorseggiato un po'... psicopatica 17:06
 
Ti stai trattando bene, senza di me... 17:06

 
 
Questo posto è... non lo so, Sapph... Ma tira fuori il meglio di me. Sembra tutto così meraviglioso... ed elegante!
Ha tutto un tono così alto, e aleggia un'aria di NONARRIVERAIMAIALMIOLIVELLO assurda! 17:06
 
In pratica è come la tua cameretta da ragazzo 17:06

 
 
No. Un po' meglio 17:08
 
Addirittura?! 17:08
 
 
Sì. Non credo d'aver mai visto qualcosa di così armonico ed elegante. Tranne il tuo viso... Mi manchi <3 17:08
 
Anche tu. Già mi manchi, amore. Quando tornerai? 17:08

 
 
Mi costa dirlo, ma si spera il più tardi possibile.
Vorrebbe dire che ho trovato il team di modelle di cui ho bisogno per i miei abiti 17:09
 
Lo so, ma ti vorrei qui con me. Però potrei raggiungerti io 17:09

 
 
Ci conto, scimmietta 17:09
 
 
 
"Ehm, signor Ruby?" lo chiamò Layla, davanti a lui. "La Presidentessa è qui".

 
 
È arrivata. Ora vado. Ti amo 17:10


"Sì, mi scusi, signorina..." fece, alzandosi in piedi. Lasciò scivolare il cellulare in tasca e si alzò, vedendo Layla defilarsi leggermente sulla destra. Alle sue spalle si presentò un'elegantissima donna, di poco più giovane di lui, dai lunghi capelli castani, mossi, che cadevano sulla giacca del tailleur, nera. Abbassò gli occhi sui pantaloni, bianchi e elegantissimi.
La trovava garbata e incantevole, con quello sguardo gentile e gli occhi azzurri atti a fissare quello che aveva creato.
"Buongiorno" disse il ragazzo, allungando la mano e sorridendo gioviale. La Presidentessa accolse la stretta e annuì.
"Sono felice d'incontrarti, Ruby. Vieni, saliamo nel mio ufficio".
Il ragazzo annuì e salutò con un cenno del capo Layla, cominciando a seguire il capo dell'agenzia.
E a lei guardò il sedere.
Era veramente una bella donna, anche se non avrebbe mai potuto superare la bellezza che aveva Sapphire al mattino, quando si svegliava e sbadigliava, stiracchiando ogni singolo muscolo del suo corpo, per poi sorridere e precipitarsi su di lui, a cavalcioni, baciandolo finché non avesse aperto gli occhi.
Sapphire era diversa.
Sapphire era un'altra cosa.
Aveva seguito la donna fino all'ascensore, trascinandosi la Samsonite alle spalle fino a quando le porte non s'aprirono.
Entrarono, rimanendo in silenzio per un secondo esatto, prima che lei cancellasse quell'imbarazzo con un sorriso
"Sono davvero molto felice che tu sia qui" disse, premendo la lettera A sulla tastiera dell'ascensore. "Ti seguo da tanto tempo, e anche alcune delle mie ragazze. Alcune di loro sognano d'indossare i tuoi modelli".
Le porte si chiusero e lui poté riflettere la propria immagine negli specchi: sotto la tesa del Borsalino i ciuffi corvini di capelli coprivano la cicatrice sulla tempia destra. L'attenzione, poi, era spostata direttamente allo sguardo, rosso come un rubino.
"La ringrazio, Presidentessa".
"Chiamami White. E spero, a mia volta, di poterti chiamare Ruby".
"Mi chiami come vuole".
"E dammi del tu".
"Certo. Questo palazzo è meraviglioso" ribatté serio il ragazzo. "L'idea delle divise da hostess, poi..." si scucì, sorridendo leggermente.
"Oh, la adoro!" esclamò, gesticolando vistosamente. "Inoltre le ragazze che lavorano giù la indossano con orgoglio...".
"Una cosa molto particolare, in effetti. Non l'ho mai vista".
White fece spallucce. "Alla fine non è niente di che... Sono hostess in una hall...".
"Non si butti giù" sorrise Ruby, quando le porte si aprirono.
"Dammi del tu".
Quella avanzò, col rumore dei tacchi alti attutito dalla moquette color antracite. L'ufficio era molto grande, di forma semisferica, col soffitto alto, bianco.
L'unica, enorme parete curva, era formata interamente da vetrate; la vista da lì era meravigliosa.
La Presidentessa camminò rapida e posata, sorpassando un piccolo salottino composto da una chaise-longue in pelle nera, abbinata a un paio di divanetti disposti attorno a un costosissimo tavolino di cristallo, per poi accomodarsi alla propria scrivania.
Semplice, anch'essa di cristallo, con su il laptop, una stilografica e un vasetto bianco con un fiore nero.
Minimale, qualche pianta ornamentale e un paio di piantane, il suo ufficio era tutto lì.
La musica in diffusione era classica.
Tutto elegante, come lei.
"Accomodati" fece quella, invitandolo a sedersi con la mano destra, mentre l'altra accendeva il Macbook.
Ruby sollevò la valigia, per non lasciare strisce sulla moquette, e si mise davanti a lei.
"Bene. Vogliamo parlare di lavoro?".
Quello sorrise e annuì. "Non ne vedevo l'ora, a dire il vero. Sono nervosissimo e...".
"La Black&White Agency si occupa di model management ma personalmente, e già te l'ho detto, ti ritengo uno degli stilisti più promettenti delle nuove generazioni. E hai pochi anni in più a me...".
"Ho trentun anni, io".
"Non ho vergogna a dire che ne ho ventisette, Ruby. Siamo quello che siamo" sorrise lei. "E lo dico sinceramente, voglio che anche tu un giorno possa lavorare ai tuoi abiti da un ufficio come questo. E per fare ciò dobbiamo riuscire a dare un ottimo impatto alla tua prima sfilata qui oltreoceano".
"Ow..." sorrise il ragazzo. "La prospettiva è allettante".
"E non solo per un discorso legato a far conoscere il tuo nome: economicamente sarà un successo, per come l'ho organizzata io".
Ruby rimase immobile, guardando la donna spostare il viso verso lo schermo del pc. Seguì con gli occhi il volto e le sue linee morbide, passando poi al collo che affondava nella camicetta.
Tre bottoni aperti.
Aveva un seno elegante, non particolarmente grande.
Insomma, stava in una coppa di champagne.
"E come l'hai organizzata?".
"Sono felice che tu me l'abbia chiesto. La prossima settimana cominceremo a valutare assieme a un team i modelli che hai preparato. Mentre io mi occuperò dell'allestimento di una grande sfilata a Sciroccopoli tu penserai alla produzione".
"Sciroccopoli?" sorrise Ruby. "Camelia?!" associò immediatamente.
White annuì. "Credo che sia una delle donne più belle che conosca. Mi basta una telefonata ed è qui".
"Sarebbe un sogno... Ho già in mente cosa farle indossare".
"Sì, certo... Ma questo significa che io e te dovremo firmare un contratto di collaborazione... però domani" sorrise lei. "Sei appena arrivato a Unima, non sei neppure andato in albergo a posare le tue cose...".
"Intendi la valigia?" fece lui.
"Sì" sorrise quella, addolcendo ancor di più lo sguardo. "Hai un grande attaccamento al lavoro... si vede che è la tua passione".
La notifica di una mail appena ricevuta le vece voltare il capo, coi ciuffi che le si spostavano davanti allo sguardo. Ruby si alzò in piedi e sorrise.
"In realtà in questa valigia ho alcuni dei modelli che ho realizzato...".
Gli occhi di White si spalancarono e un sorriso sorpreso si dipinse sul suo volto diafano.
"Davvero?".
Ruby annuì compiaciuto.
"E allora vediamoli!" esclamò quella, sgomberando la già vuota scrivania, vedendo l'altro sollevare sulla scrivania la grossa borsa rossa. Percorsa l'intera lunghezza della cerniera e rivelò due vestiti, uno blu zaffiro e uno rosso rubino.
"Prego" disse lui, lasciandole via libera.
Quella alzò velocemente il volto, poi lo riabbassò.
"Posso?" domandò.
"Vada pure".
"Dammi del tu, ho detto" rispose di rimando, accingendosi ad affondare le mani nella grande borsa. Tirò fuori il lungo vestito rosso, lasciando che cadesse lungo in verticale. Lo appoggiò sul suo corpo e fischiettò.
"Incredibile..." sussurrò, osservando le merlettature sotto la zona del seno e le trasparenze ben ricamate sui fianchi. "Questi me li regali, vero?".
Ruby sorrise sornione, vedendo il suo futuro capo piegare l'abito con minuzia e riporlo nella valigia. Fece poi per prendere quello azzurro, ma l'uomo la fermò rapidamente, mettendo la mano sulla sua.
"Ecco... Questo abito è per una persona speciale... E non è neppure completo. Vorrei che la prima a vederlo sia lei".
"Oh..." disse quella, ritraendo la mano. "Mi spiace, non volevo...".
"No, stia tranquilla".
"No, Ruby, cominciamo male. Se non mi dai del tu non ti assumerò mai".
Quello sorrise, portando una mano sul cappello bianco.
"Scusami, non lo faccio volontariamente...".
Il silenzio si sedimentò per qualche secondo, nuovamente, poi il ragazzo richiuse velocemente la valigia e la scese per terra.
"Beh... Dove dormi?" domandò lei. "Hai bisogno di un taxi? Te lo faccio chiamare".
"Sono all'Hotel Fortune".
"Beh, non chiamiamolo Hotel... È piuttosto squallido...".
Ruby fece spallucce.
"Ci accontentiamo di poco, noi...".
"Ora mi chiedo come stai. Perché è da un po' che non ci sentiamo. E la cosa non è semplice da affrontare, sai che non sono molto brava con le parole.
Sto cercando in tutti i modi di non sembrare tragica, perché lo sai, per me è più semplice saltare una montagna con un salto che spiegare ciò che ho nella testa. E ora, credo, di non riuscire neppure a camminare dritta per... la delusione?
Sono delusa, amore mio. Amore...
Sono atterrita da quello che ci è successo.
Mi chiedo per quale motivo si cambi in questo modo, nella vita."
12 Marzo 20XX

"Ru'...".
Il rumore della macchina da cucire riempiva l'intera stanza 104 dell'albergo. L'arredamento non era dei migliori, con una tappezzeria color ocra sui muri a fantasia arabesque. Le luci erano fioche, e illuminavano un piccolo armadio a due ante in legno consunto e un lento dal lenzuolo blu, sdrucito ma ben fatto.
Ruby era sul piccolo scrittoio, che spingeva sul pedale e seguiva una linea dritta coi punti.
"Hey, Sapph..." fece quello, col cellulare tra l'orecchio e la spalla.
"Come va?".
"Gne... Sono da due giorni in quest'albergo davvero, davvero squallido... ma per il momento non posso permettermi molto altro".
Sentì la donna sorridere. "Male male?"
"Male male..." ripeté, alzando gli occhi e guardando fuori dalla finestra: il profilo del palazzo che aveva difronte eclissava la vista, con le piccole finestre tutte uguali, come in una monotona scacchiera senza quadri bianchi. Solo alla fine, verso destra, riusciva a vedere un piccolo spicchio di mare, e la cosa lo rinfrancava: avrebbe lavorato duramente per raggiungere una vista meravigliosa, dalla finestra della sua stanza.
"Com'è, l'arredamento?".
"Mhm... Oserei dire kafkiano..." rispose, alzando il piede dal pedale.
"Giallo e pieno di scarafaggi?".
"Io e te siamo una cosa sola".
La sentì sorridere dall'altra parte della cornetta.
"Mi spiace di non aver risposto alla tua telefonata, ieri... Qui erano le quattro del mattino...".
"Oh, scusa. Non lo sapevo. Beh, questi orari non sono molto simpatici...".
"È lavoro, Sapph...".
"Quando torni?".
D'improvviso la ragazza sentì la macchina da cucire ricominciare a battere i punti.
"Con ogni probabilità non a breve. Sto preparando altri vestiti da mostrare a White e...".
"White, eh? Hai detto che è molto giovane".
"Sì, è più piccola di noi. Ed anche molto più ricca. Dovresti vedere il suo ufficio... una perla!".
"Ed è bella?".
"Sicuramente è una bella ragazza. Elegante, dal collo lungo. Ha delle belle mani e dei bei capelli...".
"Perché vuoi farmi ingelosire?! Non potevi dirmi che fosse la versione femminile di Walter?! Sarei rimasta tranquilla!".
"Rimani tranquilla a prescindere. Io non lavoro neppure per lei, al momento".
La macchina da cucire si fermò nuovamente.
"E in un certo senso ne sono soddisfatta ma... ma sei lì, adesso, sei lontano e hai una missione...".
"Che parola demodé..." sospirò lui, sbuffando. Si alzò, prendendo il cellulare tra le mani e avvicinandosi al vetro della finestra. Vi poggiò la fronte contro, vedendo la fiumana di gente che passeggiava sul lungomare, a qualche centinaio di metri da dove si trovava lui. Sembravano tutti così indaffarati e pieni di pensieri che neppure si accorgevano del luogo meraviglioso in cui si trovavano, né delle miriadi di opportunità che si nascondevano dietro ogni angolo.
La sera ormai si stava appropriando di quella giornata e il sole si tuffava nell'oceano, anche se Ruby non poteva vederlo.
Si specchiò; il suo riflesso risultava opaco sulla superficie della finestra ormai macchiata dal tempo. Vide un uomo dagli occhi stanchi e rossi, coi capelli spettinati e una grossa cicatrice sulla tempia destra. Le labbra erano screpolate, come in ogni periodo di freddo secco.
"E che parola avrei dovuto utilizzare?".
Sentiva un logorio mentale in quel momento non indifferente, portato principalmente dal non sapere quale sarebbe dovuto essere il suo destino. Si limitava a tessere e cucire, tagliare stoffe colorate e nere, pezzi grandi e piccoli di pizzo merlettato, immaginandoli sulla sua donna e adattandoli sul manichino senza volto che aveva montato accanto alla porta senza serratura del bagno.
Lo sapeva, Ruby, che era soltanto un momento di stallo della sua vita, quello che viveva.
Ma avrebbe voluto saltare tutta la parte dell'angoscia, della voglia di chiamare White per chiederle quando si sarebbero incontrati; avrebbe voluto addormentarsi in quell'istante e svegliarsi quando il suo cellulare avrebbe vibrato su quello scrittoio divorato dai tarli, col nome della Presidentessa in sovrimpressione a tagliare quell'ansia.
Indipendentemente dall'esito.
"Obiettivo".
Avrebbe trovato la pace.
"Non cambia molto...".
E quindi passava il suo tempo con la testa riversa nel lavoro, con le forbici e gli spilli a portata di mano e Sapphire come lontano faro che avrebbe dovuto raggiungere.
Con la quale ricongiungersi.
"Ogni parola ha il proprio peso, Sapph".
"Sei pesante".
"Pedante".
"No! Sei totalmente stronzo!".
Lui sorrise.
"Ti lascio lavorare. Vado a dormire" continuò quella, con la voce compressa.
"Buonanotte, scimmietta".
"Buonanotte, principessa..." sfotté lei, interrompendo la comunicazione.


"Eppure ricordo ogni cosa del nostro essere noi.
Ogni passo che abbiamo fatto assieme ha lasciato un'impronta indelebile sul mio cammino. Ero una ragazzina e mi hai fatto diventare donna. Ero una bambina e mi hai insegnato cosa fosse la vita.
Nonostante il tuo essere così delicato, assai più di me, hai sempre messo la tua vita a protezione della mia, dipingendomi uno scudo d'amore e disponibilità davanti agli occhi, che erano pieni soltanto di te e delle tue parole".

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Capitolo 2
*** 2. Due (II) ***


Piccola nota;
Ho dimenticato di dirlo al capitolo precedente e non c'entra assolutamente una ceppa per la comprensione del testo, ma chi volesse può ascoltare la canzone da cui sono stato ispirato (e che ha accompagnato l'interoprocesso creativo di stesura della longhetta in questione), l'omonima Unravel Me, della meravigliosa Sabrina Claudio, chiamata anche mia moglie ma lei non lo sa. Non ancora almeno.
Mettetela in ripetizione, rilassatevi e provatevi a immergere nel mondo nel quale si muovono i miei personaggi.
Cioè, nei limiti del possibile.
Perdonatemi per qualche errore, colpa di Levyan, nel caso. A presto!
TSR poi torna...

 
15 Marzo 20XX, quella sera
 
"Buongiorno" gli sorrise Kimberly, con perfetta dentatura splendente.
Mario Biondi cantava passionale nella hall dell’agenzia, dove un paio di persone stavano tenendo un acceso dibattito per l’aspetto economico della prossima sfilata che sarebbe avvenuta a Sciroccopoli. Ruby aveva sentito di quell’evento, che si chiamava semplicemente S A B B I A  ed era interamente basato sullo stile dei viaggiatori Navarra, gli antichi abitanti del Deserto della Quiete.
Ma utilizzare Camelia come top model in un evento del genere era piuttosto sbagliata come scelta. Ci pensava, mentre camminava verso il banco sulla sinistra.
“Buongiorno” sorrise Layla, annuendo giovale. Il foulard attorno al suo collo era ben sistemato e il cappellino a barchetta sulla testa pendeva da un lato.
“Avrei un appuntamento con…”.
“La Presidentessa è in riunione, in questo momento, ma può accomodarsi sulle nostre comode poltroncine e ordinare qualcosa da bere”.
“Oh… Va bene, volentieri. Un succo di mango e pesca andrà più che bene. Con ghiaccio, per favore”.
“Subito” sorrise quella, abbassando poi la testa e scrivendo l’ordinazione su di un foglio. Ruby si voltò e raggiunse i divanetti.
Si accomodò nello stesso posto di qualche giorno prima, quando l’ansia era assai di più e la paura lo attanagliava totalmente.
Col senno di poi si sarebbe tranquillizzato moltissimo.
Tornò a pensare a Camelia e al perché non fosse adatta a un lavoro del genere. E il motivo, in sostanza, era uno solo: colori.
Camelia era di carnagione chiara, dai capelli biondi e dagli occhi azzurri.
Una tipologia di persona nordica, che a Unima non era rara da incontrare ma che mal si accostava con quello che sarebbe stato il leitmotiv cromatico di quella sfilata.
Il beige, il giallo e il marrone sarebbero stati i colori principali, così come capì che avrebbero fatto contrasto spesso con pantaloni in tessuto verde, per richiamare in Cacturne.
Poi ritrattò: lì ad Unima vivevano i Maractus.
In ogni caso non cambiava molto.
Seta, tanta seta, vestiti larghi e a sbuffo e spesso visi coperti.
Quindi occhi chiari, per risaltare, e Camelia aveva gli occhi più azzurri che avesse mai visto.
Ma la pelle doveva essere scura.
La Campionessa Iris forse sarebbe stata perfetta, per una sfilata del genere.
Kimberly si avvicinò a lui e gli portò il succo di frutta, sorridendo sempre gioviale. La guardò, ne saggiò le proporzioni e la immaginò con addosso un suo vestito.
Pensò a Sapphire quasi automaticamente, ricordando del vestito che stava mettendo insieme per lei, e quindi prese il cellulare.

 
Hey piccola. Sono in agenzia che aspetto. Tu dormi ancora? Immagino di no, tu sei sempre la prima a svegliarsi tra i due … Allora forse starai lavorando. Beh, non voglio disturbarti. Fammi un messaggio quando hai finito. Ti amo.
Più di quanto potrei mai amare Kimberly.            08:58
 

E poi una voce che lo chiamava si mise di traverso tra il cellulare e il suo sorriso divertito.
“La Presidentessa la sta aspettando. Questo è il suo succo” fece proprio Kimberly, sorridendo pacatamente.
Il volto era stanco e un ciuffo di capelli, rosso e arricciato fino alla radice, cadeva libertino dal cappellino a barchetta celeste.
“Aspetta” fece, prendendole il succo di frutta dalle mani e poggiandolo sul tavolino. Si alzò e le si piazzò alle spalle, rapidamente, staccando la forcina che aveva lasciato cadere il ciuffo e risistemandole la capigliatura.
Quella sorrise.
“Oh… La ringrazio molto”.
“Dammi del tu, Kimberly”.
Si limitò a sorridere, la donna, prima di voltarsi e tornare alla propria postazione. Una guardata lasciva ai suoi movimenti sinuosi e poi fu pronto per prendere il succo e tirare la valigia verso l’ascensore.
Attico, come l’altra volta. Il suo ufficio intanto non si era spostato.
Mano a mano che saliva sorseggiava il succo di frutta, prendendo il cellulare e guardando se Sapphire avesse almeno visualizzato il messaggio.
Ma niente.
Un campanello annunciò l’arrivo al piano, anticipando l’apertura delle porte.
Fu in quel momento che Ruby fu costretto a sentire le urla di qualcuno che inveiva con fervore.
Non può essere White, pensò. Lei era calma e pacata, entusiasta e sveglia.
White non si arrabbiava.
 
“SIETE DEGLI STUPIDI INCOMPETENTI!”
 
Ruby si affacciò oltre la parete della sala ascensori, guardando nuovamente l'ufficio della Presidentessa e vedendo tre uomini in giacca e cravatta che la stessa donna , in piedi oltre la scrivania, stava usando come sacchi da boxe.
"Vi avrò ripetuto un miliardo di volte di contattare l'agente di Camelia per comunicare la variazione della data!" urlava, stretta in una camicetta bianca aperta fino al secondo bottone, lasciando intravedere il laccetto d'argento che si nascondeva nella scollatura.
I capelli, lucidi e perfettamente stirati, erano acconciati in una coda elegante.
Una regina, che manteneva per il collo tre uomini coi capelli impomatati e i visi perfettamente lisci.
"Presidentessa White, Presidentessa, noi..." provò a dire quello a sinistra, su cui gli occhi celesti della donna si fissarono, spegnendo ogni tentativo di giustificazione.
"Voi cosa?! Avevate un compito importante! E adesso non abbiamo più la top model principale! Davvero pensavate che la modella più importante di tutta Unima aspettasse voi?!".
"Potremmo contattare Anemone..." propose quello al centro, raggiunto subito dallo sguardo di quella, che sorrise quasi a mo' di sberleffo.
"Anemone?! Ma ti rendi conto delle puttanate che dici?! Anemone ha due tette giganti! Dovremo richiamare lo stilista e lavorare di nuovo sul davanti di quel vestito, e perderemmo troppo tempo! Inoltre Anemone non ha mai sfilato, e dovrai contare anche questo piccolo particolare, dato che  non ha il portamento di una modella! E seppure riuscissimo a fare tutto ciò dovremo convivere col fatto che Camelia deciderà, stronza com'è, di non lavorare più con noi, perché ovviamente si sentirà sostituita e di conseguenza meno importante di Anemone! E noi abbiamo bisogno di Camelia, perché è la donna più importante dell'intera regione!".
Il silenzio era interrotto a intermittenza dai respiri impauriti dei tre burattini. White alzò poi lo sguardo, vedendo Ruby che sorseggiava silenzioso il succo di frutta.
"Oh..." sbuffò poi, poggiando le mani sulla scrivania e abbassando il volto. "Ruby...".
Quei tre si voltarono quasi immediatamente, rimanendo in silenzio.
"Che brutta figura, Ruby..." disse la Presidentessa, con la faccia ancora rivolta verso la scrivania. "Mi spiace che tu abbia assistito a quest'orrido spettacolo".
Quello fece spallucce e annuì debolmente. "Immagino che spettacoli del genere capitino in tutte le grandi aziende".
White sorrise. "No. Nelle grandi aziende ci sono grandi dipendenti, che non rubano lo stipendio... Noi siamo una piccola agenzia dato che abbiamo piccoli dipendenti che fanno errori da principianti... Voi tre, per oggi non fatevi più vedere...".
"E per quanto riguarda Camelia?" domandò quello al centro.
"Me la vedrò da sola. Sparite".
I tre si alzarono e andarono via, lasciando Ruby in piedi davanti alla scrivania. Vide White sbuffare nuovamente e muoversi verso un piccolo tavolino sulla sinistra. Prese una bottiglia di liquore ambrato e se ne versò un bicchiere.
"Vuoi?" chiese, senza neppure guardarlo.
"No, ho già il mio drink".
Quella annuì e chiuse la bottiglia, voltandosi e tornando alla scrivania, affondando nella grossa poltrona di pelle nera.
"Dannazione. E non è neppure mezzogiorno..." disse, bevendo un sorso dal bicchiere. Lo poggiò accanto al cellulare, che vibrava insistentemente da un minuto. Lei non lo guardava neppure. "Certe volte rimpiango i momenti in cui facevo tutto io... Accomodati".
Ruby avanzò, trascinando la valigia blu coi campioni. Bevve un sorso e sospirò, cercando di focalizzare la propria attenzione su White e non sulla splendida vista che la donna aveva dalla grande finestra.
"Che succede?".
"La sfilata di giovedì, che doveva essere tenuta mercoledì a Sciroccopoli ma che per problemi di non so cosa è stata spostata".
"Camelia che c'entra?" domandò lui, sorseggiando il succo e guardando con sospetto quello che pareva essere whiskey, nel bicchiere della donna.
"Come credo tu abbia sentito, Camelia doveva indossare il capo più bello dell'intera collezione. Ma giovedì ha impegni in Palestra..." sbuffò quella. "Che diamine importa a noi dei suoi impegni in Palestra...".
"E immagino che non possiamo spostare la sfilata".
White alzò gli occhi verso lo stilista.
"Sai quanto costa fare ciò che dici?".
Ruby sorrise, alzando la mano destra. "Scusa. Non chiedo più".
Suscitò il sorriso anche nella Presidentessa, che fece cenno di no con la testa. "Figurati. Ma è una cosa da pazzi. Una volta spostata la sfilata avrebbero dovuto comunicarlo immediatamente a Camelia, ma hanno lasciato passare tre giorni prima di ricordarsi che la superstar fosse effettivamente una superstar. E quindi lei ha preso altri impegni e noi non abbiamo la Playmate del paginone centrale".
Ruby annuì. "Non potevi definirla in maniera più azzeccata, secondo me. Beh, se posso fare qualcosa...".
"Ma no, ma no... Anzi, ti ho fatto perdere un sacco di tempo e ti ho lasciato sulle spine... Scusami ma..." sorrise, divertita "... beh, come vedi qui c'è sempre da fare...".
"Ti ho maledetta solo un paio di volte, stai tranquilla".
White sorrise ancora, poi sorseggiò il whiskey. "Spero che la valigia sia piena di materiale, e non di roba tua. Non stai tornando a Hoenn, vero?".
Lui fece cenno di no con la testa. "Vestiti che ho messo insieme nella camera d'albergo".
Il cellulare vibrò nella sua tasca, ma si guardò bene dal prenderlo.
White, in ogni caso, allargò il sorriso solamente sul lato destro della bocca. Aprì un cassetto della scrivania e tirò fuori un grosso plico, con su scritto a penna RUBY, con elegante calligrafia.
“Quelli della sezione contratti fanno sempre un ottimo lavoro… Allora” disse, alzando i mezzi stivaletti che indossava sulla scrivania e leggendo la prima pagina.
“Il presente contratto, bla bla bla, bla bla bla, tra me e Ruby Normanson, nato a Olivinopoli… Sei di Johto?” chiese poi, allungando gli occhi oltre i fogli.
Ruby si limitò ad annuire.
“Credevo che fossi nato a Hoenn”.
“No. Mio padre è diventato Capopalestra lì quasi vent’anni fa, e noi lo abbiamo seguito. Avrebbe dovuto ricoprire la posizione di Chiara, a Fiordoropoli, ma è successo un casino che non ti vado a spiegare…”.
“Meglio, così non perdiamo tempo… Quindi…” disse, porgendo cordialmente all’altro la sua copia. “Controlla che tutti i dati siano corretti, quindi possiamo passare ai termini economici…”.
“Sì…” fece lui, posando il bicchiere ormai vuoto di succo di frutta sulla scrivania e spulciando col dito le lettere stampate ordinatamente sulla carta pregiata di quel contratto.
“Vuoi un altro succo?” domandò quella.
“No. In ogni caso i dati sono corretti…”.
“Meraviglioso. Ora, a pagina tre, ti spieghiamo che il tuo guadagno, per le prime dieci sfilate, è fisso. Non ti aspettare niente di molto alto, dobbiamo vedere che impatto avrai sull’ambiente. Dopo le dieci, guadagnerai in proporzione agli ordini che riceverai”.
“Riceverò?!” sorrise Ruby, divertito. “Non possiedo mica un atelier, White”.
Quella alzò gli occhi. “Ci arriveremo subito dopo”. Li riabbassò, nascondendosi ancora dietro il contratto. “Naturalmente sei vincolato per tutta la durata del contratto, e io spero anche oltre, ad assumere le nostre ragazze e i nostri ragazzi”.
“Io non possiedo un atelier” ripeté quello.
White abbassò i piedi e poggiò il contratto sulla scrivania.
“Lo so”.
Gli occhi rubini del ragazzo si spalancarono. Gli mancava qualche elemento che, evidentemente, la Presidentessa aveva già fatto suo. Rilesse qualche riga del contratto, cercando la parola atelier ma non riuscì a trovare nulla.
“Vorrei saperlo anche io”.
Quella inarcò un sopracciglio, sorridendo gentile. Svuotò il bicchiere e lo poggiò accanto al contratto.
“Fammi vedere cos’hai portato oggi”.
Ruby annuì, alzandosi e sollevando il trolley sulla sedia.
“Aspetta” disse lei. “Voglio vederlo indossato da una delle ragazze”.
Il ragazzo sorrise. “Chiama Kimberly”.
E quello strano divertimento sul volto dello stilista contagiò anche la Presidentessa. “Ti piacciono le rosse?”.
“È una ragazza meravigliosa. Sicuramente valorizzerà i miei vestiti”.
White rimase a guardarlo per qualche secondo, nel silenzio più che totale, poi inarcò entrambe le sopraccigli per un impercettibile secondo e sospirò.
“E Kimberly sia…”. Alzò la cornetta e premette il tasto 7, attendendo che qualcuno rispondesse. “Però non mi hai risposto…”.
“Sono fidanzatissimo, White” disse il ragazzo, distogliendo lo sguardo.
“Sì. Fatemi salire Kimberly. Grazie” disse la donna, attaccando poi il cordless sulla base.
“Ora sverrà dalla paura” osservò invece il ragazzo, suscitando nuovamente il sorriso.
“Ma no. Non sono quel tipo di capo”.
Ruby sorrise educatamente, evitando di contraddirla. Quei tre qualche minuto prima non li aveva certamente trattati con i guanti.
Rimasero in silenzio per un minuto buono, in cui Ruby aveva guardato White rispondere a una mail.
Ricordò poi di Sapphire e prese il cellulare.
 

 
Hey piccola. Sono in agenzia che aspetto. Tu dormi ancora? Immagino di no, tu sei sempre la prima a svegliarsi tra i due … Allora forse starai lavorando. Beh, non voglio disturbarti. Fammi un messaggio quando hai finito. Ti amo.
Più di quanto potrei mai amare Kimberly.            08:58
 
Sono a fare ricerche sul campo, perdonami. Qui oggi diluvia e i Lotad stanno uscendo dai nidi. È un occasione ottima per studiarli        09:36
 
Meraviglioso. Studiali bene allora. Qui si parla di atelier               09:48
 

Il campanello dell’ascensore annunciò l’arrivo di Kimberly negli uffici del suo capo. Si sporse dall’antisala mostrando un paio d’occhi preoccupati sul volto finemente truccato.
“Signora, buongiorno”.
“Signora è mia madre” sorrise lei. “E rilassati, non ti voglio licenziare”.
Quella si liberò di un macigno e sospirò.
“Meno male…” disse, sollevata. “Stavo cercando di capire cosa avessi fatto di male per esser convocata da lei”.
“Non si viene convocati dal capo soltanto quando si fa qualcosa di male, tesoro” sorrise poi la Presidentessa. “Lui è Ruby”.
“Ciao” fece un cenno col capo il diretto interessato.
“Salve”.
“Quelli sulla valigia sono i suoi vestiti e tu li devi provare per me”.
Kimberly spalancò gli occhi, sorpresa. “Oh… Certo”.
“Andate nei bagni del mio ufficio. Ruby, preparala”.
“I-io?” chiese quello. “Certo” ribatté subito dopo. Chiuse il trolley e seguì la modella nei bagni.
Gli ambienti, anche lì, erano fini ed eleganti.
Minimali, con nessun accessorio alle pareti non essenziale. Fissò la proprio attenzione, Ruby, prettamente sul lavandino, dove l’acqua scendeva in una scanalatura scavata nel marmo nero.
“Ok…” disse lei, levando il cappellino e le scarpe. Si stava spogliando senza alcun problema lì davanti a lui, e la cosa per lei era normale.
Levò i guanti e li ripose ben piegati sul piano del lavabo, sbottonando poi la giacca e rimanendo con la camicetta bianca.
“Mi può aiutare coi bottoni sui polsi” fece.
Ruby la guardò negli occhi prendendole la mano destra e vedendo la sinistra che continuava a liberare le asole dai bottoni della camicia.
“Dammi del tu”.
Quella annuì, levò anche la camicetta e rimase con un body bianco che terminava dietro il bordo della gonna. Abbassò la zip sul lato e la sfilò, mostrando le lunghe gambe.
“Devo levare anche questo?” chiese.
Lui annuì, come se la cosa fosse ovvia, ripiegando tra le mani la gonna e poggiandola sul bancone.
“ E le calze?”.
Ruby abbassò lo sguardo, sporgendosi sul lato della coscia per vedere se fosse smagliata in qualche punto.
“Forse possiamo adattarle per qualche abito, ma per ora dovresti levarle. Scusami”.
“Figurati” rispose quella, sfilandole rapidamente. Sbottonò il body e rimase in intimo.
Quella ragazza era una statua, era mezza nuda e non sembrava per niente imbarazzata.
Ruby capì la dimensione professionale in cui si trovava solo grazie a quel dettaglio; lui, che aveva visto nuda soltanto la sua donna, ora si trovava davanti a un’indossatrice professionista che non aveva problemi a stare in mutandine e reggiseno davanti a lui.
“Fa freddo, lo so” disse lui, guardandola solo negli occhi e allungandole un bellissimo abito verde. La zip, coperta da volant di tulle, scendeva a spirale lungo tutta la lunghezza del vestito, terminando sul fianco sinistro.
Ruby lo lasciò cadere e vide Kimberly sorridere.
“Oh…” fece.
“Piace?”.
Lei sorrise, arrossendo e annuendo subito dopo.
“Questi colori risalteranno i tuoi occhi”.
“Aiutami”.
 
Pochi secondi dopo White vide uscire dal bagno una donna bellissima e dai lunghi capelli rossi, ben pettinati, che camminò con passo sostenuto ed elegante davanti a lei. Kimberly si fermò davanti alla scrivania, guardando la Presidentessa come se fosse una telecamera.
“Correggi la postura” le diceva il capo, continuando a fissarla attentamente. “Più attenta sul passo”.
Si voltò, Kimberly, ancheggiando lentamente e ritornando sui suoi passi. Si voltò, con le mani ai fianchi e il collo alto, e si fermò.
“Il vestito è meraviglioso” annuì White, alzandosi. “E a Kimberly sta benissimo, hai ragione”.
Raggiunse la modella e la prese per mano, facendola voltare.
“Sì, davvero. È meraviglioso… amo il particolare della cerniera, e il merletto delicato sotto il seno. Veramente ben fatto”.
E la risposta fu simile.
 
Per tutte e sette le volte che Kimberly sfilò per il suo capo davanti agli occhi compiaciuti di Ruby.
 
“Puoi cambiarti e tornare giù, Kimberly, grazie” fece White, sorridendole gioviale. Ruby l’accompagnò in bagno e chiuse la porta, vedendo Kimberly tirare un sospiro di sollievo. Poggiò le mani sul bordo marmoreo del lavandino, con Ruby che le scivolò alle spalle e le abbassò la zip.
“Finalmente è finita…” disse, suscitando il sorriso nel ragazzo, che l’aiutò a sfilare quel tubino nero aderentissimo. “Quella donna mi mette paura” continuò.
“È sicuramente un tipo particolare…”.
“Avevo paura mi riprendesse, e l’ha fatto”.
“Solo un paio di volte, non sarà mica la fine del mondo…”.
Quella alzò lo sguardo, guardando l’uomo nello specchio alle sue spalle che piegava il vestito e subito dopo le porgeva il body. Lei lo infilò e si vestì.
“Spero di poter contare di nuovo su di te, in futuro” disse Ruby, chiudendo la valigia.
“E io spero di averti portato fortuna” disse, chiudendo l’ultimo bottone della giacca. Infilò i guanti e prese tra le mani il cappello a barchetta.
“Aiutami solo coi capelli” fece poi, poggiandosi sul lavandino e vedendo lo stilista acconciarle i capelli in maniera educata ed elegante. Le prese il cappello e glielo poggiò delicatamente sul capo, sorridendole.
“Sei perfetta. Ora puoi tornare a lavoro”.
“Grazie Ruby” fece, ricambiando il sorriso e sparendo oltre la porta. Ruby rimase un secondo con se stesso, con una pesantezza nell’animo che non riusciva a spiegarsi.
Forse era la mancanza di Sapphire.
Uscì dal bagno e raggiunse White, che intanto era poggiata alla finestra, col telefono tra l’orecchio e la spalla destra e due fogli tra le mani.
“Sì, signor Brooke, sono profondamente interessata all’affitto di uno dei due locali al di sopra della Palestra di Artemisio… Uso atelier… No, per quel prezzo non ci siamo proprio. Il mio cliente diventerà una delle personalità più famose del mondo e lei mi conosce…” sorrise poi. “... Conosce le persone con cui lavoro, sa in che circuito girano e sa pure di che tipo di fama godono, quindi se ci punto sa dove arriveranno”.
Ruby avanzò, incrociando lo sguardo con lei, che gli fece cenno di mettersi a sedere. Lui annuì e poi eseguì le direttive, vedendola avvicinarsi a lui e porgergli quei fogli che teneva tra le mani. Prese poi il telefono tra le mani e cominciò a camminare, gesticolando vistosamente e cominciando a parlare di soldi.
L’unica cosa che in quel momento Ruby sapeva era che aveva due grosse fotografie del posto in cui sarebbe diventato famoso.
Era incredulo. Eccitatissimo.
“Ci risentiremo, ma sappiate che la convincerò a scendere di un altro dieci percento” sorrise White, ritornando alla scrivania e attaccando. “Bene, e questa è quasi fatta”.
Si sedette e mosse il mouse, guardando il monitor del pc. “Kevin Brooke è un ricco medico che possiede un paio di palazzine lungo la via principale di Austropoli, che io chiamo Via della Moda, Ruby. E devi esserci anche tu”.
“Io?”.
“Il tuo atelier, intendo” fece, guardandolo per un secondo. Tornò poi a fissare lo schermo. “Quante mail, dannazione, non posso sparire per dieci minuti che mi ritrovo mezzo mondo in cerca di qualcosa. Allora, che dicevamo?”.
“Parlavi di atelier, White. E ti ho detto, per l’appunto, che io non possiedo un atelier”.
“Ma io sto prendendo in fitto un locale perfetto per questo, ed entrerò come tua socia in affari. Divideremo il compenso equamente”.
“Non era scritto nel contratto, questo” ribatté confuso il ragazzo.
“Ovviamente, dato che non c’è scritto. È su quest’altro contratto” fece, aprendo il cassetto alla sua sinistra senza neppure guardarlo e tirando fuori un nuovo plico.
Atelier BW/Ruby Normanson, c’era scritto.
“Aprilo pure” gli fece, controllando poi il cellulare. “Uff…” sbuffò poi, alzando la cornetta del telefono fisso e premendo il tasto sette. “Vuoi un caffè?”.
“Sì, grazie” rispose l’altro, che intanto leggeva attentamente una delle tre copie di quei fogli.
“Due caffè in attico, Layla” fece poi. Poggiò la cornetta, posò il cellulare e tirò fuori un po’ d’angoscia con un lungo respiro.
“Ok” disse, sfilando dalle mani del ragazzo una delle tre copie. “Non è molto difficile. Il tuo contratto con la nostra agenzia è quello che hai visto prima. Noi organizzeremo per te dieci eventi compresi in un budget che determineremo in seguito, da cui tu trarrai un fisso che, indipendentemente dalla richiesta degli abiti, sarà quello e basta. Insomma, sei bravissimo e a me piace il modo in cui disegni i tuoi modelli ma  non abbiamo la certezza che la cosa vada bene. Sei una scommessa, per me”.
Ruby sospirò.
“Dopo le dieci sfilate, come già detto, il tuo stipendio sarà una percentuale dell’incasso complessivo. Il tutto per un totale di trenta sfilate in cui tu sei obbligato a utilizzare le mie modelle. Tutto chiaro?”.
Il ragazzo annuì.
“Per quanto riguarda il secondo contratto, dato che non hai un atelier io te ne ho procurato uno. Voglio diventare tua socia negli affari, finanziando la spesa che avresti con noi, seppur minima, il fitto dello stabile, gli stipendi ai ragazzi che lavoreranno con noi, la fornitura dei materiali e tutto ciò che gravita intorno a quel mondo. Tu, dal canto tuo, non avresti spese e avresti un posto dove lavorare tranquillamente e far conoscere a tutti il tuo nome. Tutto chiaro?”.
Ruby annuì nuovamente.
“In cambio ti chiedo la metà dei guadagni dopo l’undicesima sfilata. Mi pare equo”.
 
Lesse più e più volte tutte le righe di quei contratti, fino ad annuire un’ultima volta, quando poi prese una penna e decise di mettere per iscritto il suo impegno con la donna che aveva davanti.
Non sapeva perché, ma si fidava ciecamente di lei.
“Ora andiamo a pranzo”.
 
 
“Però avrei dovuto immaginarlo. Alla fine la distanza non aiuta mai, in nessun modo. Allontana soltanto i cuori. E la cosa strana è appunto questa: io e te non siamo mai stati lontani.
Mai.
Fin da quando ci siamo conosciuti siamo sempre stati pezzi indissolubili di un puzzle di soli due elementi, di due colori ben distinti e opposti.
Siamo sempre stati il bianco e il nero, il cielo e la terra.
Il rubino e lo zaffiro.
E abbiamo giocato coi ruoli, dato che da bambino eri tu quello insopportabilmente iperreattivo e io quella delicata e posata. Tu eri coraggioso e sapevi sempre come agire, usando spesso la pancia prima della testa.
Io mi bloccavo, e la cicatrice che hai sulla fronte me lo ricorda costantemente.
Mi ricorda costantemente di quanto io sia debole.
Sì, perché nonostante tutto, nonostante la volontà che ho impiegato nel tempo per cambiare, per diventare una persona più forte, che non deve chiedere aiuto a nessuno, e nonostante il tuo modo di vedere le cose si sia addolcito, beh... nessuno dei due è cambiato.
Alla fine tu sei rimasto il cavaliere errante e io una povera stupida.”
 

Ruby entrò per primo nel Marsilius, il ristorante che spacciava la sua cucina per italiana sulla via principale di Austropoli. Un signore di mezza età, dai pochi capelli sale e pepe sulla fronte ma tutto sommato di bella presenza, li fece accomodare.
"Buongiorno, Salvatore" disse White, accompagnando il tutto con cortese cenno del capo.
"Buongiorno signorina. Il solito tavolo è pronto".
"Grazie" sorrise lei, stringendogli entrambe le mani. "Oggi ho un ospite con me".
"Oh, salve" disse lui, chinando leggermente il capo e sorridendo giovialmente. "E benvenuto al Marsilius".
"Ruby. Piacere mio".
"Sentirà presto parlare di lui" aggiunse White, avanzando poi rapidamente verso il tavolo accanto alla lunga finestrata che dava sulla strada.
Si accomodarono, e entrambi tirarono fuori i cellulari dalle tasche.
Sapphire aveva risposto.
 
Meraviglioso. Studiali bene allora. Qui si parla di atelier               09:48
 
Atelier?! Devi aver fatto veramente colpo! Aggiornami!           09:54
 
Allora?         10:44
 
E rispondimi!            12:06



Ruby alzò per un momento gli occhi dal cellulare, pensando che un locale come quello non sarebbe per nulla piaciuto a una tipa come Sapphire.
Certo, non era quel genere di persona che privilegiava le trattorie ma si sentiva ampiamente fuori luogo nei locali di classe.
Il Marsilius, in effetti, l'avrebbe fatta sentire come un pesce fuor d'acqua, con quell'arredamento minimale che privilegiava molto colori come il grigio e il nero, con qualche punta di rosso qua e là.
Anche la gente che pranzava lì, in quel momento, sembrava essere appena uscita da un ritiro per aristocratici e uomini d'affari; rispettavano un silenzio religioso o quasi, lasciando che il jazz che suonava in sottofondo fluisse liscio e senza interruzioni di sorta.
Guardò gli orari, quello dagli occhi rossi, rendendosi conto della smania con cui Sapphire viveva quella situazione di distacco.
Si sentiva uno stronzo per aver fatto passare quasi cinque ore prima di rispondere.
 
E rispondimi!            12:06
 
Scusami se scrivo solo ora, ma abbiamo avuto una mattinata davvero pienissima! In pratica mi aspettavo che mi facesse firmare il contratto e invece ha chiamato una modella e le ha fatto provare in miei abiti, in una sfilata privata nel suo ufficio! È stato elettrizzante! Poi mi ha fatto firmare un contratto di collaborazione e uno di partnership! Apriremo un atelier qui ad Austropoli! White sarà la mia socia, e finanzierà tutto, dai materiali alla manodopera! Sto vivendo un sogno!         15:10
 
Contenta per te...                 15.11
 
Era arrabbiata.
E aveva persino ragione.

 
Sapph... stavo lavorando! Non volevo snobbarti! 15:11
 
Lo so... Non è semplice sentirti distante e pieno di cose da fare...                  15.11
 
Purtroppo non posso farci nulla. Non è di certo perché non ti rispondo a un messaggio che il nostro amore finirà. Anzi. Più tardi vedrò per una buona offerta aerea. Ti aspetto a braccia aperte in questa città meravigliosa!          15:12
 
Fammi sapere          15.12



Rialzò gli occhi, con White che scriveva sul cellulare qualcosa, molto velocemente.
"Uff... ora esplodo" sbuffò.
"Che succede?".
La donna puntò gli occhi cerulei su di lui, battendo ripetutamente le palpebre e annuendo.
"Stavo quasi per dimenticare che mi manca la playmate per il centerfold, come l'hai definita tu...".
"Ah, già. La storia di Camelia" sospirò lui. "Beh, non possiamo scegliere qualcuna delle ragazze che sono associate alla tua agenzia? Sono tutte bellissime".
"No" ribatté subito. "Nonostante siano bellissime mancano tutte del fattore wow di cui ho bisogno. Camelia è una superstar, le mie ragazze sono invece delle totali sconosciute".
"Quindi dobbiamo domandare a qualcuno di famoso e che sappia sfilare" disse Ruby, pronunciando le labbra e perdendo lo sguardo oltre la testa di White, dove la fiumana passava indifferente. Erano soltanto tante, tante persone, ognuna coi propri problemi, che se ne fregavano altamente di tutto ciò che li circondava. Usavano la vita in maniera asettica, come si fa con una puttana che, una volta pagata, ritornava sulla strada.
"Esattamente" annuì lei.
Sospirò, Ruby, White fece lo stesso e alzò la mano, cercando con lo sguardo un cameriere. Ci riuscì, tre o quattro tentativi dopo, quando un giovane cameriere dai lucidissimi capelli neri si avvicinò loro.
Ordinarono due piatti di spaghetti alla marinara con polpette, quindi tornarono nuovamente a guardarsi.
"Posso essere brutalmente sincero?" chiese Ruby, sorridendo.
"Più che puoi, per favore".
"Non credo che riuscirai a rimpiazzare Camelia. Dovrai spostare nuovamente l'evento, se vuoi che presenzi nella sfilata per la presentazione dei modelli Navarra".
White ruotò gli occhi e sospirò ancora, storcendo le labbra.
"Purtroppo lo temevo. Ma posso chiederti una cortesia?".
Quello annuì.
"Smettiamo di parlare di lavoro per un'oretta".
"Totalmente d'accordo. È che è tutto così... dannatamente nuovo e non so come muovermi...".
"Com'è l'albergo?".
"Beh..." sorrise Ruby. "Diciamo che è più una stamberga. Ma comunque, per quel che mi è servita va più che benone”.
White fece cenno di no con la testa. “Non va assolutamente bene. Non puoi avere quest’immagine così negativa di Unima!”.
“Beh, è l’unica immagine che le mie finanze al momento possano mettere davanti ai miei occhi”.
La donna sorrise. “Hotel Continental. Sei mio ospite fino a quando non faremo la prima sfilata. Poi coi ricavi potrai affittare qualcosa di carino”.
Ruby spalancò gli occhi. “Ma sei matta?! Non pensarci neppure, White, è già abbastanza il fatto che tu mi abbia dato fiducia!”.
“Non transigo” murò lei. “Lavorerai meglio”.
Il ragazzo abbassò prima lo sguardo e poi la testa. “Grazie mille. Non so che dire…”.
“Dimmi che in cambio mi accompagnerai a un noiosissimo incontro di boxe, questa sera. Devo incontrare un cliente importante e mi sembrava brutto dire scusa ma no, scusa, odio la boxe”.
“Beh, accetto volentieri. Sono obbligato. Da piccolo guardavo molta boxe. A mio padre piace”.
White fece spallucce.
“La reputo solo violenza inutile”.
 
 
Ricordo che addirittura ti persi di vista… Non avrei mai avuto l’ardire di ricordare, in principio, che tu fossi il ragazzino che mi aveva protetto durante quella brutta avventura. Eri così diverso.
Così cambiato.
Ma il tuo cuore era sempre lo stesso.
Il tuo cuore è sempre rimasto limpido”.

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Capitolo 3
*** 3. Tre (III) ***



UNRAVEL ME.
ovvero risolvimi, nel senso di districami, sbrogliami.

UNA FRANTICSHIPPING (ma per finta) di Andy Black (ma lo sapevate).
 
 
 
 
19 Marzo 20XX
 
Forse era la prima volta che Ruby camminava rilassato, per le strade di Austropoli. Non era mai sceso in città di sera, e costeggiare il lungomare sulla zona del porto, con le barche ormeggiate e i lampioni che inondavano di luce gialla i marciapiedi, era assai stimolante.
Le persone, di ogni razza ed etnia, la sera sembravano essere totalmente differenti da quelle viste quel giorno a pranzo.
Sembravano più rilassate.
Molte sorridevano, e la cosa era strana, dato che, tralasciando le ragazze che lavoravano nella hall dell’agenzia e White stessa, non aveva mai visto nessuno farlo, lì. Sembravano tutti così rappresi, come se il tempo fosse sempre insufficiente per essere gentili col prossimo, in maniera spontanea e disinteressata.
Si trovava davanti a una pizzeria con l’insegna rossa quando il cellulare squillò.
“Pronto?” fece.
Allora sei vivo. Che rivelazione!”.
“Hey, Sapph…” sorrise Ruby, sospirando e maledicendosi per aver dimenticato di telefonarla. “Ho un sacco di cose da raccontarti”.
Già! Tipo perché oggi non ti sei fatto vivo! Ho evitato di disturbarti coi messaggi e le chiamate, fino ad ora, perché avevo paura d’interrompere qualche situazione di lavoro in particolare… Mica stai lavorando?!” esclamò infine, preoccupata.
No” sorrise ancora il ragazzo. “No, sono per strada. Sto raggiungendo un posto in periferia, qui ad Austropoli. White mi ha chiesto di accompagnarla, è un match di boxe in cui lei dovrà parlare di lavoro”.
… Sei serio?”.
Ruby aggrottò la fronte. “Cosa?”.
Hai un appuntamento col tuo capo, stasera?! A te non piace neppure, boxe!”.
“Un appuntamento di lavoro! E poi la boxe è una nobile arte!”.
Fanculo la boxe! Stasera starete comunque da soli e… cazzo, non mi piace fare la parte della gelosa!”.
“Infatti non lo sei mai stata…” sospirò il ragazzo, grattandosi la nuca, con un grosso punto interrogativo in faccia.
Ma è logico!” urlò l’altra attraverso il cellulare. “Sono sempre stata vicino a te! Nessuno si sarebbe permessa di fare la stronza con me nei paraggi!”.
“Avrebbero avuto paura, ovviamente…” sorrise l’altro, schernendola con quella strana dolcezza che utilizzava solo con lei.
… Smettila. Per favore. Per me è una sofferenza…”.
“Lo so, Sapph. Mi spiace molto… Ma sto per svoltare, finalmente!”.
“Che significa, che stai per svoltare? Vuoi saperlo da me?! Te lo dico io! Significa che ti trasferirai lì in pianta stabile e che mi costringerai ad abbandonare il mio lavoro per seguirti!”.
No, Sapphire, fermati. Non ho mai detto nulla del genere”.
E che succederà se io non potrò seguirti?! Vivremo in questo modo?! Non finirò per chiamarti tutti i giorni per tutto il giorno!” urlava. “Questa è una situazione orribile!”.
“Calmati! Che cosa stai blaterando?!”.
Ho paura!” gridò. Due parole che raggiunsero la base del collo del ragazzo come una stilettata, stendendolo immediatamente. “Mi manchi e ho bisogno di averti qui!”. Respirò. “Quando tornerai?”.
“Io… Tornerò il prima possibile, Sapph. Ma non devi aver paura… Io sono lontano, è vero, ma sono sempre la persona che ti starà accanto per il resto della vita. Ce lo siamo promessi”.
Lo so…” sussurrò.
“E io mantengo sempre le mie promesse, Sapph, lo sai”.
Sì, lo so…”.
“Devi stare tranquilla. Tra poco sarà Pasqua. Che ne dici di venire qui per un paio di giorni? Saremo in un albergo lussuosissimo, tutto spesato dall’agenzia”.
Dall’altra parte solo il silenzio.
E come puoi permettertelo?”.
“Fino alla prima sfilata White vuole che stia nell’Hotel Continental, e sinceramente non ho avuto il coraggio di dirle di no troppe volte. Il buco dove stavo ora mi ricorda il Dolphin Hotel di quel film con John Cusack…”.
Odio quel film…”.
Anche io. Vieni qui, stiamo un po’ assieme, ti faccio conoscere le persone dell’ambiente e almeno ti tranquillizzerai un po’”.
“Pasqua?”.
“Un paio di settimane. Prenoto i biglietti”.
Mi vieni a prendere all’aeroporto?”.
“Certo”.
Va bene…”sbuffò. “Allora vedi per i biglietti…”.
Va bene. Sono arrivato. Ti faccio un messaggio più tardi. E stai tranquilla. Sai che ti amo”.
Anche io”.
Ripose il telefono nella tasca interna della giacca nera che indossava, non prima di aver tirato fuori l’angoscia che attanagliava il suo stomaco con un lungo sospiro.
“Gesù…” disse tra sé e sé. Voltò l’angolo e si trovò davanti a una lunga fila di persone. Tutti lì sembravano persone realizzate nella vita, sorridevano e sembravano non avere grilli per la testa. Contrariamente a ciò che pensava erano presenti molte donne, ingioiellate e avvolte in lunghe e costosissime pellicce che ormai sapevano di pacchiano, che accompagnavano uomini grassi e sudaticci chiusi nei loro completi Armani.
Stringeva tra le mani il lasciapassare che White gli aveva dato poche ore prima. Superò a destra la grande fila che lo guardava in cagnesco, fermandosi davanti al buttafuori.
Era un tizio di colore, alto e dai capelli rasati. Non sembrava che il freddo circostante lo interessasse, dato che indossava semplicemente una maglietta aderente nera.
I grossi bicipiti parevano esplodere.
Ogni volta che Russell, così c’era scritto sulla targhetta sul suo petto, apriva la porta dell’arena una baraonda infernale fatta di urla e musica ad alto volume si gettava sui volti dei prossimi che sarebbero entrati, avvilendoli leggermente. Stupendoli.
Accrescendo la loro impazienza.
“Prego” fece quello. Non era una domanda. Ruby tirò fuori il piccolo cartellino di plastica e vide l’adone nero annuire e fare un cenno con la testa a un secondo buttafuori, sempre di colore ma più minuto, che lo avvicinò e lo accompagnò dentro.
Non appena varcata la soglia, le orecchie s’ovattarono. Stavano scendendo un lungo corridoio fatto di scale, in cui la musica tecno veniva sparata ad alto volume. Sulla destra e sulla sinistra vi erano diverse porte, tutte chiuse, meno che la penultima.
La superarono, fermandosi davanti all’ultima. Il buttafuori si voltò e ripercorse le scale al contrario, lasciando il giovane di Hoenn da solo.
Per intuito, capì che dovesse aprire la porta. E lo fece, trovando un ambiente profondamente silenzioso. C’erano diverse poltroncine, ordinatamente distese davanti a una balaustra.
Erano vicinissimi al ring, ma erano in alto, e potevano vedere il match lontani dalla gente che si accalcava sugli spalti inferiori.
“Queste sono le tribune” sorrise White, accanto a lui. Ruby voltò la testa e la vide alla sua destra, con indosso un abito da sera molto elegante, nero. Manteneva un bicchiere di vino tra le mani.
Forse era Chardonnay.
“Buonasera, White”.
“Ciao, caro” sorrise quella, scambiando un paio di baci sulle guance con quello e sospirando. “Mr. Irishwound non ha la fama di persona puntuale”.
“Oh. Va bene” annuì lui, facendole spazio per farla passare davanti. Si accomodò, White, sulla penultima poltroncina. Era ovvio che Ruby dovesse sedersi su quella successiva, per lasciarla conversare di lavoro col ritardatario con quel cognome così particolare.
E lo fece, rilassando forse per la prima volta i muscoli e guardando davanti a sé: il ring era vuoto e la musica era forte ma meno aggressiva di quella incontrata in quel corridoio. Tutt’intorno gli spalti erano pieni di gente. L’entourage dei pugili, tali Micheal Blizzard Halliwell e John The Punisher Fazland, era già a bordo ring. Lo speaker incitava la folla ma, sinceramente, Ruby non riusciva a capire cosa stesse dicendo. La campanella suonò una prima volta, con i pugili che scendevano da due passerelle diverse, osannati dalla folla urlante. Salirono sul ring, i loro allenatori erano accanto a loro, li caricavano come molle impazzite, stringevano loro i guantoni, blu per Blizzard e neri per The Punisher. E subito dopo White fu rapita dall’eleganza della ring-girl, che passava elegantemente sul quadrato col cartellone del primo round in mano.
“Ruby…” lo chiamò lei, quasi con un sussurro. “Guardala”.
Distratto, lui, alzò lo sguardo e poi s’accigliò.
Era bionda, quella, coi capelli legati in una lunga treccia selvaggia che arrivava quasi alle natiche. Indossava una canottiera che metteva in risalto il corpo elegante e slanciato, dei pantaloncini molto corti e un paio di alti tacchi su cui sapeva camminare in maniera sopraffina, senza dimostrare la minima difficoltà di sorta.
“Quella ragazza è meravigliosa” sorrise la Presidentessa.
“Già… Davvero. Quella ragazza è davvero meravigliosa”.
Pochi secondi dopo Mr. Irishwound fece il proprio ingresso nel piccolo bussolotto, accompagnato da Irina, una ragazza dell’est che tutto voleva, quella sera, tranne che imbellettarsi e mostrare a tutti la glacialità siberiana di cui era dotata. E fu così che dovette resistere per circa un paio d’ore, col brusio costante del suo capo che parlava incessantemente di lavoro tra una pausa e l’altra in cui il povero Irishwound voleva guardare il match, con la fastidiosissima presenza della donna dell’est che tutto faceva tranne sentirsi a proprio agio, con ripetuti e freddi sospiri, e la voglia di vedere il round finire, per far passare nuovamente la ragazza col cartellone.
E quando succedeva, anche White finiva di parlare.
 
Finì ai punti. Dodici riprese, dodici uscite della donna e dodici volte che il battito diventava irregolare. Vinse Blizzard.
La serata terminò con White che, con un accordo di massima ottenuto col futuro cliente, decise di fare un colpo di testa.
Prese Ruby per mano e uscì fuori, immettendosi nel rumorosissimo corridoio e continuando a scendere giù, verso gli spalti.
“DOVE ANDIAMO?!” urlava Ruby, ma evidentemente White non lo sentiva per via del forte frastuono, dato che non rispose. Arrivò verso i cancelli per gli spalti inferiori.
Fu allora che Ruby la fermò. Si voltò, quella, con un grosso punto interrogativo sul volto.
“CHE C’È?!” domandò.
“COSA STAI FACENDO?!”.
“STO CERCANDO DI SALVARE LA MIA SFILATA!”.
Il ragazzo rimase in silenzio, vedendola parlare con un altro grosso omaccione, caucasico stavolta, probabilmente russo o dell’est Europa. Quello fece cenno di no alla domanda posta da White, che per tutta risposta cominciò a sbraitare qualcosa d’incomprensibile.
L’uomo puntò il grosso dito verso destra, White annuì e tornò indietro da lui, avvicinandosi all’orecchio del ragazzo.
“NON CI FA ENTRARE A PARLARE CON LEI, MA HA DETTO CHE POSSIAMO ASPETTARLA FUORI, NEI PARCHEGGI! SI CHIAMA YVONNE!”.
“YVONNE?!”.
“SI. SARÀ DI KALOS”.
“COME?!”.
“DI KALOS! SARÀ DI KALOS!”.
“KALOS?! E COSA DIAMINE CI FA QUI?!”.
“COSA?!”.
Ruby fece un cenno con la mano e voltò la testa, seguendo la Presidentessa. Rientrarono nel lungo corridoio e uscirono, trovandosi nella folla di chi aveva appena finito di vedere il match.
 
 
“Eppure non avrei mai creduto che tu avessi potuto avere occhi per un’altra donna. Anche solo per un istante”.
 
 
“Non sento più nulla…” disse il ragazzo, continuando a seguire la più rapida White che, sui tacchi alti, si faceva strada tra le persone. Lo stilista aumentò il passo e l’affiancò, vedendola col mento alzato, mentre cercava qualcosa.
“Gate 18” continuava a ripetere, ritornando sulla strada del lungomare e girando praticamente attorno al grosso palazzo in cui erano entrati.
Sul lato ovest, praticamente ai confini con la periferia, c’era un grosso cancello con su affisso un cartello ingiallito. 18 c’era scritto sopra, con vernice sbiadita dal tempo.
“Ecco!” fece, correndo come meglio poteva su quei tacchi. “Ecco il cancello”.
“Che hai intenzione di fare?” domandò quello. “Abbiamo da fare e…”.
“Yvonne?” domandò White a una persona che usciva dal cancello. Quello fece spallucce e si dileguò nel buio. “L’hai vista, no? Ha classe e portamento, e sa sfilare”.
“Ha camminato su di un ring con un cartello in mano, non alla Milano Fashion Week…”.
“Ecco perché sono dove sono, Ruby. Io vedo il potenziale. Così come ho fatto con te, anche in Yvonne vedo quel je ne sais quois… Quella ragazza ha talento”.
“È sicuramente una bellissima ragazza ma…”.
“Ho deciso così” concluse quella. “Ora aspetta qui con me, che questa zona è pessima. Hai Pokémon con te? Nel caso dovessimo difenderci”.
“Ehm… certo, ma…”.
“Benissimo, tesoro”.
 
Passarono quasi venti minuti, costellati di Yvonne a persone che non sapevano fare altro che alzare le spalle e sfilare via. Videro anche la Maybach di Blizzard e la Porsche di The Punisher.
E poi, quasi per ultima, uscì lei, stretta in un finissimo cappottino di pelle beige, coi capelli sciolti e il trucco sfatto sul volto.
White sobbalzò e Ruby dovette effettivamente ammettere a se stesso che quella fosse davvero, davvero bella.
“Yvonne!” esclamò la Presidentessa, vedendola spalancare gli occhi.
“O-oui?”.
“Oh, parli francese?! Non capisci la mia lingua?”.
Quella annuì, sospettosa. Vide però davanti una coppia di persone ben vestite, e non i soliti brutti ceffi che cercavano di portarsela a letto. “Capisco… Capisco…” fece, con un marcato accento francofono. “Ma non voglio niente. Vado a casa a dormire e basta”.
“Ma no, ma no, stai tranquilla! Io mi chiamo White e lui è Ruby. Gestisco un’agenzia di modelle e…”
“No. No, no, no, no, niente modelle. Non voglio problemi”.
“Ma come?! Ti pagherei! Contratto, vitto e alloggio! Che ne dici?!”.
“Vitto e alloggio?” domandò confusa, guardando Ruby.
“Casa e cibo” l’aiutò lui.
“Vitto e alloggio” ripeté Yvonne, annuendo. “E soldi?”.
“Sì, vitto, alloggio e soldi” annuì White, sorridente. “Lavoro alla BW Agency, ti farò lavorare e uscirai da questo posto… non bello, ecco” fece, sforzandosi di trovare una parola non volgare e porgendole il bigliettino da visita.
Yvonne allora mostrò uno splendido sorriso.
“Aspetto una tua chiamata” continuò White. E poi si voltò, lasciando la bionda nel vento di quella sera.
 
 
“Che poi non ne hai mai avuto bisogno. Sono sincera quando dico di aver fatto sempre il massimo per renderti felice, anche quando non riuscivo proprio a farmi andare giù qualcosa.
Una di quelle rare volte in cui il nostro essere diversi finiva non per completarci ma per dividerci.
Una di quelle rare volte in cui eravamo costretti a far capolino a vicenda l’un verso l’altra.
Dato che non eravamo vicini.
E la cosa rara era appunto quella: che non fossimo vicini”.
 
 
21 Marzo 20XX
 
Il cellulare vibrava sul comodino di Ruby quando lui aprì gli occhi, quella domenica.
E non ne aveva per nulla voglia.
Non era per niente quel tipo di persona che si svegliava ed era già attivo e operativo.
No, per nulla. Sapphire era così.
Lui si svegliava e passava una decina di minuti nel letto, scorrendo velocemente la bacheca di Facebook, leggendo le notifiche e indugiando sull’orologio che, inesorabile, aggiungeva un numero ogni sessanta secondi e contribuiva ad aumentargli l’angoscia.
Passati quei dieci minuti si alzava, si lavava e affogava i dispiaceri in un caffellatte, rigorosamente coperto di cacao magro.
Generalmente non lasciava il cellulare acceso durante la notte, a maggior ragione di domenica. Ma aveva lavorato fino a tardi al vestito color turchese che era praticamente rovinato sul letto, rotolato nel pigiama accidentalmente e s’era spento.
Lui, non il telefono.
Telefono che era rimasto in stand-by.
“P-pront-to…” bofonchiò, con la guancia destra totalmente affondata nel cuscino.
“Ha accettato. Scendi nella hall, ti aspetto, che andiamo a prenderla”.
“Ma chi è?” chiese, voltandosi di schiena e piazzando la testa tra i due comodissimi guanciali.
“Il tuo capo, White, la tua socia. Chi altri? Yvonne sta aspettando te”.
“Beh, che aspetti… devo farmi una doccia e…”.
“E nulla, scendi e fai presto”.
“…”.
“… Insomma?”.
“…”.
“…”.
“… Tra quanto tempo devo essere pronto?”.
“Due minuti fa”.
 
Mezz’ora dopo Ruby scese nella hall dell’albergo, con indosso una caldissima giacca di tweed e il solito borsalino sulla testa. Uscì dall’ascensore e si guardò intorno.
L'ambiente era fine ed elegante, ben diverso da quello dell'agenzia di White. Corcovado fluiva dagli altoparlanti denso e piacevole, caldo, immergendo tutti in un mood positivo.
Camminò in avanti, calpestando i costosissimi marmi di Carrara che rivestivano il pavimento. Sui divanetti davanti la reception vi era seduta la Presidentessa, con le gambe accavallate, auricolare all'orecchio e mani libere di gesticolare.
"Sì, Black, ma ti prego! Ti prego, ti prego, ti prego! Pensaci! So che hai fatto un viaggio all'inferno, andata e ritorno, ma pensaci. Dopo tutto quello che abbiamo passato assieme sarebbe anche un bel modo di rivederci! Da quando il lavoro mi pressa così tanto io non...".
Poi incontrò lo sguardo rubino del ragazzo di Hoenn, spalancò gli occhi e contrì le belle labbra carnose. "Ora devo andare... Lo so, lo so. Anche io... Fatti sentire".
Cliccò il tasto sull'auricolare e sbuffò, alzandosi in piedi.
Ruby la squadrò, apprezzando particolarmente i knickerbockers bianchi alla caviglia.
Quella destra era impreziosita da una cavigliera d'argento.
Loboutin di pelle, bianche come la camicetta, e giacca nera da sopra.
"Sei elegantissima, Presidentessa. Stai davvero bene".
"Ti ringrazio, mio caro" sorrise cordialmente quella. Smontò l'auricolare dall'orecchio e salutò con una coppia di baci lo stilista. "Non è cavalleresco far aspettare una signorina come me per tutto questo tempo".
"Pardon" disse, staccandosi e prendendo il cellulare tra le mani. C'erano due messaggi di Sapphire; li aprì.
 
Buongiorno dormiglione! Sto adnando a Petalipoli da tuo
padre! Uno degli Slaking sta per deporre un uovo e
sappiamo entrambi quanto sia difficile questa fase
08:23
 
*andando
08.24
 
Sì, mamma mi aveva detto che Lona fosse incinta. Mio padre ha voluto
lasciarla accoppiare per allevare qualche Slakoth. Non lo capisco proprio, li
lascia evolvere e gli Slaking sono Pokémon rozzi e pigri. Puzzano e sporcano e...
Non mi piacciono insomma, credo che siano Pokémon poco adatti al mio
modo di vedere le cose. Ho una sorpresa in serbo per te, comunque
11:10
 

"È la tua signora?" domandò White, mentre entrava sul taxi giallo. Scivolò di lato, facendo spazio a Ruby.
"Ehm... sì".
Quella lo fissò per qualche secondo, parecchio a disagio.
"Se t'infastidisce non faccio domande. Forse è un periodo un po' particolare e non ti va di parlarne..."
"No, ma che, ma che... no, no, no, non è questo. È che è la prima volta che siamo così distanti per così tanto tempo e qualche giorno fa, diciamo, abbiamo avuto una sorta di discussione...".
Poi il telefono di White squillò.
"Scusa un minuto..." fece, indossando nuovamente l'auricolare e cominciando a parlare.
Ruby riprese il cellulare e guardò la conversazione con Sapphire.
 
Sì, mamma mi aveva detto che Lona fosse incinta. Mio padre ha voluto lasciarla
accoppiare per allevare qualche Slakoth. Non lo capisco proprio, li lascia evolvere e
gli Slaking sono Pokémon rozzi e pigri. Puzzano e sporcano e... Non mi piacciono
insomma, credo che siano Pokémon poco adatti al mio modo di vedere le cose.
Ho una sorpresa in serbo per te, comunque
11:50
Tu dormi troppo
11.52
 
Sorpresa? Che sorpresa?
11.52
 
Che sorpresa sarebbe se te lo dicessi?
11:52
 
Non puoi mettermi la pulce nell'orecchio in questo modo e
poi tirarti indietro! Forza! Dimmelo!     
11.52
 
Non ti dico proprio niente. Ora accompagno White a prendere una modella
11:53
 
Sempre con questa? Che qualifica hai per scegliere una modella?
11.53
 
La qualifica del senso del bello, io. Ti devo ricordare che quando ti ho rivista
eri vestita con le foglie e avevi il fango in faccia e tra i capelli?
11:53
 
Zitto ero sexy
11.53
 
Ruby non riuscì a non sorridere.
 
Zitto, ero sexy   11.53
 
Non posso assolutamente negarlo
         11:54
 
Certo che non puoi!      
11.55
 
Comunque non mi fa così tanto piacere che tu vada con la tua bellissima
capa a prendere una modella. Non vorrei che in mezzo a tutte queste
donne incredibili e meravigliose ti dimenticassi come sono fatte le donne
vere e normali. Cioè me. 
11.57
 
Tu sei incredibile e meravigliosa. Non mi sconvolgono
questi quattro mucchietti d'ossa.
11:57
 
Ruffiano del cazzo. Ora torno al lavoro. Ti amo. 
11.57
 
Pure io. A dopo
11:57
 
E ripose il cellulare nella giacca. Gli mancavano quei battibecchi tragicomici, assieme alle scenate di gelosia velate di minaccia e umorismo.
Sapphire era il suo mondo.
E il suo mondo gli mancava in maniera incommensurabile. White parlava ancora col suo interlocutore, mentre il tassista, pakistano d'origine ma figlio di quell'Austropoli globalizzata li stava portando nella periferia della città, a Bellevie Avenue, uno dei luoghi meno gettonati dell'intera megalopoli.
Ruby si sistemò meglio in quel taxi, infastidito da quell'odore di curry che aleggiava nell'abitacolo. Si guardò le mani, passò poi a quelle di White, ben curate, con lo smalto passato da poco, quindi poggiò lo sguardo sulle gambe della donna, avvolte nel morbido tessuto dei pantaloni alla zuava.
Rialzò gli occhi, incontrando lo sguardo sfuggevole di quella, che poi poggiò la fronte su quel vetro gelido.
Lui fece altrettanto, ma dall'altra parte.
Forse quando Sapphire si sarebbe presentata lì quella malinconia che tanto lo dilaniava nel petto sarebbe finita.
 
Arrivarono dieci minuti dopo.
White aveva terminato la telefonata, mostrando a Ruby i vestiti che avrebbero indossato le modelle e notando ogni singola espressione del volto, d'apprezzamento o di disappunto che fosse.
"Questo è quello che doveva indossare Camelia" disse poi, facendogli vedere la fotografia d'un abito lungo, color sabbia, con uno shesh che partiva dalla testa e, a spirale, girava intorno e scendeva, fino a terminare alla caviglia destra.
Elegante e d'avanguardia, ma eccessivo.
Il corpo d'Yvonne ben si adattava a quel tipo d'abito, essendo la ragazza alta e tonica nei punti in cui l'abito cadeva più stretto.
"Bellevie Avenue 47, siamo arrivati" aveva annunciato il tassista, voltandosi verso White, capendo che fosse lei quella che prendeva le decisioni. Ruby si voltò verso destra, vedendo un grosso albero dai rami spogli, probabilmente morto, all'interno d'un giardino in cui le assi delle staccionate lasciavano intravedere l'erba secca e qualche pneumatico tagliato in due.
"Dieci minuti e torniamo indietro con una terza persona... Aspetti qui" disse White, aprendo la portiera e uscendo con garbo per strada.
"Vieni" disse poi a Ruby, chiudendo lo sportello e girando attorno alla macchina. Assieme allo stilista raggiunse il cancello al centro della staccionata sdentata e attraversò il vialetto che tagliava in due il cadavere di quel giardino. Le mattonelle che avrebbero dovuto calpestare erano state totalmente divelte dal sentiero di terra battuta che era rimasto lì.
Salirono un paio di scalini e si trovarono davanti la porta.
COMMUNITY HOUSE OF BELLEVIE AVENUE c'era scritto sulla targhetta. La Presidentessa premette il campanello, facendo un passo indietro.
Ma la porta era semichiusa.
Ruby poggiò la mano sul legno di rivestimento su cui qualcuno aveva inciso la scritta PLASMA SUCKS, sentendo poi i cardini cigolare rumorosamente. Guardò White, inquietato.
Dentro non c'erano luci accese; nonostante non fosse primo mattino, tutte le finestre erano chiuse, lì.
"È permesso?" domandò White, avanzando piano. Ruby la seguì, le afferrò il polso, con quel senso d'inquietudine che continuava a crescere e la sorpassò.
L'atrio di quella comune non era composto da altro che un piccolo tavolino su cui vi era poggiato un candelabro interamente ricoperto di cera rossa, accanto a un paio di chiavi e un paio di monete di qualche altra nazione che lì non avevano alcun valore, ricoperte da una patina nerastra, propria dei soldi vecchi.
"Yvonne!" la chiamò lo stilista, uscendo dall'atrio e immettendosi nel salotto. Aveva un grande divano davanti, su cui una ragazza col piercing all'ombelico dormiva beatamente. Aveva i capelli biondi spettinati e un grosso tatuaggio che fuoriusciva dal bordo dei pantacollant.
Forse un tribale, forse una scritta, non lo riusciva a capire da lì.
Il tavolino davanti a lei era coperto da libri universitari, da un grinder che aveva impestato la stanza di odore di marijuana e da mozziconi di sigarette mai accese e filtri consumati dal fuoco di canne ammazzate da qualcuno. La tv era accesa senza volume, dove Tea di HChannel stava dando le notizie sportive.
Si parlava di Blizzard vs The Punisher. Ruby allungò l'occhio oltre il divano, vedendo la schiena nuda di un ragazzo alto e fuori forma che, di spalle, stava riempiendo con dell'acqua qualcosa.
Non s'era accorto di nulla.
"Ehm... Scusa" lo chiamò White, ancora stretta al polso da Ruby. Gli si fermò accanto, aspettando i biblici tempi di reazione di quello.
"Scusa!" ribatté Ruby, alzando la voce.
Non ottenne l'effetto sperato, ma fece svegliare la ragazza sul divano. Un grosso paio d'occhi verdi divenne protagonisti del suo volto.
"Chi... chi cazzo sareste voi?" domandò, con voce compressa.
"Cerchiamo Yvonne" rispose White.
"Se Sergei non l'ha già ammazzata dovrebbe..." poi sbadigliò "... dovrebbe essere al piano di sopra...".
"E chi cazzo sarebbe Sergei?" urlò la Presidentessa. Poi il ragazzo che era in cucina si voltò, con un enorme spinello in bocca, gli occhi arrossati che originariamente dovevano essere d'un delicatissimo color nocciola e i capelli biondi arruffati. Aveva un drago tatuato sul pettorale sinistro e un mandala tribale su quello sinistro, dove non aveva un capezzolo: una grossa cicatrice, difatti, partiva dal centro del muscolo a sinistra e attraversava l'intero fianco, fino a raggiungere la zona dell'anca.
Il grasso corporeo dell'uomo era tanto. Radi peli biondi gli coprivano la pancia.
"Il suo ragazzo" rispose quella sul divano. Voltò poi il capo, sentendo il biondo arrivare.
"Lui" aggiunse. "Lui è Sergei, ma è strafattissimo e non credo riuscirà a rispondere".
Ruby guardò White e aggrottò la fronte.
"Lui è il ragazzo d'Yvonne?!" domandò lo stilista, sconcertato.
Alla parola Yvonne quello sembrò rinsavire.
"Ivonn - gryaznaya shlyukha!" urlò, immensamente adirato.
White guardò immediatamente la ragazza. "Che diamine ha detto?".
"Che Yvonne è una lurida troia. Gde seychas?" fece poi, concludendo con una domanda.
"Ona ubezhala i zaperlas' v vannoy! Kak tol'ko on vyydet, ya klyanus', chto on plachet nozhom vo vlagalishche!" rispose quello, urlando come un forsennato. Si voltò, sedendosi lentamente sul divano accanto all'altra e prendendo una grossa boccata dalla sigaretta simpatica che aveva tra le dita.
"Che ha detto?" domandò invece Ruby.
"Niente di bello. Vuole ucciderla ma lei si è chiusa nel bagno. E ha detto anche altre cose che non sono belle da dire...".
"Lui non uccide proprio nessuno!" esclamò quella, voltandosi e tornando nell'ingresso, prendendo la scalinata che portava al piano di sopra.
"White!" la seguì il ragazzo. "Dobbiamo stare attenti!".
"Devo portare Yvonne fuori da questo cesso!" esclamò a sua volta la Presidentessa, con la coda di cavallo che seguiva il movimento delle anche di quella.
Salirono dodici scricchiolanti scale e si trovarono al piano superiore della comune.
"E ora dove cazzo è il bagno! Yvonne!" chiamò alterata la donna, seguita sempre dal fido Ruby. Aprì tutte le porte, una delle quali occupata da due ragazze intente a praticarsi del sesso orale a vicenda. L'ultima porta sulla destra era invece chiusa a chiave.
"È qui dentro! Ruby, sono White!".
"Vai via!" urlò l'altra, da dietro la porta. "Non voglio uscire!".
"Sono davvero io! Sono qui con Ruby! Siamo venuti a prenderti e a portarti via da qui!".
La donna in bianco batteva i pugni sulla porta, cercando in Ruby una risoluzione rapida al problema. Il solo pensiero che Sergei potesse salire da un momento all'altro la immergeva in una tinozza di panico da cui non riusciva a uscire.
"Ti prego, Yvonne! Dobbiamo andare velocemente via da qui!".
"Andatevene! Je veux m'éloigner de cette ville de merde!".
White impallidì. "E ora che cazzo ha detto..." sospirava, mentre poggiava la fronte sulla porta.
"Ha detto che vuole andare via da questa città di merda".
"Parli francese?" chiese l'altra, voltando il viso.
"Un po'... Yvonne" la chiamò. "Yvonne, sono Ruby. Ricordi? Ero con White".
"Andate via!" urlò ancora.
"Quando abbiamo parcheggiato qui avanti mi sono sorpreso di come una ragazza bella come te possa vivere in un luogo del genere. Dammi pure del superficiale..." sorrise lui, mettendo una mano sulla spalla di White "... ma credo che quelli come te siano diversi da tutti gli altri. E ciò che è certo è che non meritano di vivere col terrore di poter morire per mano di un drogato, che vive con lei".
Il silenzio fu rotto soltanto da un gemito di piacere proveniente dalla camera con le due donne.
"Sei venuta qui a Unima per vivere un sogno. Datti una possibilità" fece ancora il ragazzo.
Pochi secondi dopo la serratura scattò.
White sorrise, indietreggiando assieme all'altro e vedendo apparire la figura di Yvonne dietro la porta che si apriva.
Aveva il volto basso, i lunghi capelli biondi raccolti in una coda spettinata e il trucco sciolto sulle guance. Indossava una lunga maglietta, probabilmente di Sergei, sporca di mascara.
"Scusate. Grazie per quest'opportunità".
Ruby sorrise, vedendo White prenderla per mano e uscire fuori.
Dieci minuti dopo lei aveva chiuso un borsone con la sua roba e, assieme agli altri due, stava lasciando per sempre la comune.
Passarono davanti a Sergei, collassato sul divano, e all'altra ragazza dagli occhi verdi, che dormiva nuda su di lui.
Il taxi era ancora lì. Vi entrarono e ritornarono verso il centro di Austropoli. Per tutto il viaggio Yvonne non aveva pronunciato parola, mentre White continuava una discussione telefonica con un certo Black, che Ruby non aveva alcuna idea di chi fosse.
White la sistemò nell'albergo dove soggiornava Ruby.
Proprio la porta accanto alla sua.
 
 
"Il problema, ora, credo che stia nella mia testa. Perché ciò che ho visto, ciò che mi hai detto, ha creato un nodo nella mia mente che non riesco a sciogliere.
Ruby, riesci a sbrogliare il groviglio che ho qui dentro?"

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Capitolo 4
*** 4. Quattro (IV) ***




UNRAVEL ME.
ovvero risolvimi, nel senso di districami, sbrogliami.

UNA FRANTICSHIPPING (ma per finta) di Andy Black (ma lo sapevate).




Unima, Austropoli, Autumn Theatre, 21 Marzo 20XX

Gli occhi di White si alzarono dal cellulare giusto per un istante, guardando, nascosta dal velluto del palcoscenico, la sala gremita di gente. Sbuffò, per tirare fuori quell'angoscia che l'attanagliava, e poi sorrise.
Ruby era dietro di lei, con una cartellina in mano, che scorreva una lista. Sul suo volto non c'era nulla che lasciasse trapelare qualcosa di buono.
La Presidentessa si mosse velocemente, mentre la musica in diffusione cambiava, passando dalla tecno all'onnipresente raeggaeton.
"La sala è piena" disse, avvicinandosi a lui.
Ruby alzò lo sguardo e poi lo allungò alle spalle della donna, dove lo stilista di quella sfilata, l'eccentrico Marlon Merlin, sbraitava qualcosa alle sue modelle.
Quello era un omino assai strano: non molto alto, non aveva un singolo pelo sulla testa. Le sopracciglia erano bionde, così come la foltissima barba.
"Marlon, che succede?" domandò White, vedendolo profondamente alterato.
"Camelia non viene! E la sua sostituta è chiusa in bagno e non vuole uscire!".
La donna si voltò verso Ruby e fece spallucce.
"Sarà un'abitudine..." sospirò l'altro, facendo segno a una ragazza dai capelli neri e le lentiggini sul viso di voltarsi. Le sistemò meglio il vestito sui fianchi stretti e le diede le scarpe.
"Ci penso io" disse White a Merlin, che intanto aveva continuato a sbraitare in maniera poco mascolina qualcosa. Fu in quel momento che la Presidentessa aderì quasi totalmente al corpo di Ruby, e gli sussurrò una cosa nell'orecchio.
"Io so che tu sei qui soltanto perché te l'ho chiesto io. So che non è la tua sfilata è ho capito anche che Marlon ti sta sulle palle ma per favore: fai uscire Yvonne dal bagno e preparala. Preparala tu personalmente, che a quanto pare hai affinità con lei...".
Ruby indietreggiò per poterla guardare negli occhi.
"Non credo di averle mai sentito dire nulla, in questi giorni".
"È la tua vicina di stanza! Di te si fiderà sicuramente!".
Ruby fece cenno di no con la testa, sconfitto. Mise la cartellina tra le mani di White e si voltò, superando una fila di truccatrici all'opera e di modelle pronte per andare in scena.
I suoi passi battevano sul pavimento di luminol, prima che le mattonelle lo sostituissero, in corrispondenza del corridoio.
Il Salon Rouge - Montaigner era il centro adatto per una sfilata di quella portata, considerato che Camelia avrebbe dovuto calcare quella passerella.
E Austropoli non ne aveva di migliori: luci soffuse davano spazio alle ombre della sala, sterminate poi grossi fasci luminosi che illuminavano le modelle e il loro cammino.
In quel luogo c'era sempre profumo di rose.
Acquisito da una coppia di stilisti di Kalos nei primi anni sessanta, François Rouge e Amelie Montaigner per l'appunto, il vecchio Autumn Theatre era un gioiellino dell'architettura d'inizio secolo. Più che un teatro sembrava bordello con una sala centrale per le sfilate.
Col tempo era stato rimodernato e i discendenti della coppia lo avevano trasformato in uno dei posti più en vogue dell'intera città.
Era evocativo il fatto che lo stesso Ruby stesse percorrendo il corridoio che, più di un lustro prima, avevano calcato modelle del calibro di Verushka e Jean Shrimpton. Il bagno era la prima porta sulla sinistra.
E la porta era di nuovo chiusa.
"Chi è?" domandò Yvonne.
"Ruby, lo stilista. Dobbiamo evitare questa brutta abitudine di parlare con le porte di mezzo...".
La sentì sorridere.
"C'è qualche problema?" domandò poi il ragazzo. "Perché se vuoi possiamo tranquillamente risolvere ogni cosa...".
La porta del bagno si aprì, mostrando lo spettro di quella bella ragazza che viveva a pochi metri da lui: aveva i capelli e il trucco in ordine, ed era pronta per sfilare. Tuttavia indossava un top e un pantaloncino.
"Si gela, qui dentro..." sospirò lui, entrando nel bagno e chiudendo la porta. "Allora?".
Lei spostò gli occhi grigi verso il vestito e sospirò.
"L'abito è brutto. Bruttissimo... E lo stilista mi sta addosso come se fossi la protagonista di un film".
Ruby sorrise. "Oh, ma lo sei" disse quello, prendendola per mano e facendola spostare leggermente. "Stai sostituendo Camelia. Questo è il tuo lavoro, camminare con volto serio e sensuale. Ricordi negli scorsi giorni cosa abbiamo fatto?".
Quella pronunciò le labbra e si poggiò sul lavandino.
"Mi hai insegnato a sfilare. A tenere il collo alto e a guardare un punto indefinito davanti a me".
"Questo è ciò che fanno le modelle. Sfilano col collo alto e guardano un punto indefinito. Il cinquanta percento del loro lavoro è questo".
Yvonne sbuffò, portando le mani ai fianchi. "L'altro cinquanta è non mangiare più niente".
E lì Ruby sorrise, contagiandola e divertendo anche lei. Le prese entrambe le mani, stringendole. "Nonostante quel vestito sia orribile e Marlon Merlin sia uno stronzo il valore aggiunto devi essere tu. Hai tutto ciò che serve" sorrise lui, guardandola con delicatezza in viso, evitando di abbassare lo sguardo verso la scollatura.
Era lavoro, Yvonne era un manichino che respirava e niente più.
"Quindi ora levati i vestiti e ti do una mano a entrare in quell'abito. Poi uscirai lì fuori, sfilerai e ti prenderai un bello stipendio. E diventerai famosa come la modella che ha sostituito Camelia".
Yvonne addolcì lo sguardo e sorrise leggermente. Poi arrossì quando abbassò i pantaloncini, rimanendo in slip. Ruby s'era girato dall'altra parte e aveva preso il vestito, ritrovandola col braccio a coprire entrambi quei seni perfetti.
Al contrario di Kimberly, Yvonne non era abituata a stare nuda davanti a persone qualunque.
"Stai tranquilla, per me è solo lavoro" sorrise lui, voltandola e perdendosi per un secondo di troppo lungo quella schiena nuda.
Prese tra le dita la zip e l'abbassò.
Era effettivamente un vestito difficile da indossare, col velo puntato sul corpo dell'abito e la modella che doveva entrarci senza strapparlo.
Ci voleva l'aiuto di qualcuno.
"Perfetto, ora devi mettere prima una gamba e poi l'altra qui dentro..." fece il ragazzo dagli occhi rossi, sorridendole dolcemente e mantenendo lo sguardo sul suo, per evitare che s'imbarazzasse.
E lei lo fece, scoprendo il seno e impegnandosi ad essere più delicata possibile per non rompere nulla, e alla fine ci riuscì; era davanti allo specchio, con indosso l'abito e lo shesh poggiato sulla spalla. Ruby le tirava addosso il vestito, che cadeva morbido sul busto e si stringeva in corrispondenza dei fianchi della bionda.
"È stretto" fece lei.
"Non rimarrai col sedere da fuori, se è questo che temi" disse lui, lisciando il tessuto sulla pancia con la mano e poi afferrando il lembo superiore del corpetto, proprio vicino al seno. E tirò su, lasciando che quello calzasse alla perfezione.
Yvonne sorrise, annuendo. "Ora va meglio".
"Sei splendida" sorrise il ragazzo, senza neppure guardarla. "Fortunatamente non hai i tacchi, altrimenti non riuscirei a metterti lo shesh. Allora" fece, prendendole il velo sulla spalla e rimanendo un attimo a guardarla.
Era davvero bella. Voleva capire come risaltarle gli occhi e poi annuì.
"Che fai?" domandò quella.
"Niente, niente. Valuto" le rispose, avvolgendo il copricapo di seta inizialmente attorno al collo. Poi qualcuno bussò forte alla porta.
"E allora?! Manchi solo tu, dannata sgualdrina di Kalos!".
Era Marlon Merlin.
Ed era isterico.
Yvonne guardò Ruby attraverso lo specchio del bagno e lo vide annuire.
Andò ad aprire la porta, senza lasciargli intravedere la ragazza, uscì e se la richiuse alle spalle.
"Qual è il problema?" fece, ponendosi davanti a lui con le braccia incrociate.
"La tua amica deve essere pronta tra quattro secondi! Non può andare sempre tutto così male, durante le mie sfilate!" urlava quello, girandosi attorno senza controllo.
Ruby lo bloccò per le spalle e lo strinse.
"Prima cosa, non sei tu la superstar di questa sfilata, lo sono i tuoi vestiti. Quindi calmati. In secondo luogo, la sgualdrina di Kalos qui dentro sta indossando un vestito impossibile e senza proporzioni. Non hai avuto neppure l'accortezza di adattarlo alle sue misure".
"E lasciami!" aveva urlato quell'altro, dando una manata alle braccia di Ruby. "Se al posto di Camelia c'è questa troia è colpa solamente di White e della sua agenzia!".
"Calmo con le parole...".
"Siete degli incompetenti!" urlava ancora quello, indietreggiando. "Ma state tranquilli, non avrete mai più a che fare con me! Io sono uno stilista serio e pretendo...".
E poi Ruby lo colpì con un ceffone violento, che lo zittì.
"Hai finito?" gli domandò, mentre del fuoco impetuoso gli usciva dagli occhi.
Yvonne aprì immediatamente la porta, mostrandosi agli occhi di Merlin. Quello fissò Ruby, poi guardò la figura perfetta della modella alle sue spalle e constatò che, effettivamente, il vestito le andasse davvero bene.
"E ora fammi finire di lavorare" concluse l'altro, voltandosi e spingendo delicatamente la bionda all'interno del bagno.

La sfilata andò in maniera grandiosa.
Yvonne camminò a testa alta avvolta in un vestito non semplice da gestire, semplicemente con lo sguardo scoperto. Il trucco attorno agli occhi era pesante, in modo da farli risaltare, e anche il volto era stato appesantito dal phard. Due ciuffi biondi tagliavano in diagonale il viso della bella e uscivano verso l'esterno.
La donna tornò indietro ancheggiando vistosamente e poi fermandosi, abbassando lo shesh, come le aveva consigliato Ruby e aveva sorriso, facendo un occhiolino.
Marlon Merlin fu osannato dalla critica nei giorni a seguire ed evitò lo sguardo di Ruby per quasi un mese, quando lo incontrava in agenzia.

Già, perché la sgualdrina di Kalos era stata la chiave del suo successo.

Tornarono in albergo quando il sole stava per sorgere. Il concierge diede a Ruby e Yvonne le chiavi delle loro stanze e passarono i due minuti in cui aspettarono l'ascensore e arrivarono al piano in totale silenzio.
Lei poi abbassò lo sguardo, nel corridoio, sorridendo.
"Grazie, Ruby".
Lui si voltò verso di lei e fece spallucce. "E di cosa? È il mio lavoro".
"Sì, lo so, lo so, ma davvero... grazie di tutto" fece, con quell'accento marcato cha tanto gli piaceva. "Sei stato davvero gentile con me, mi hai aiutata col vestito, mi hai messa a mio agio per via del... nudo e... e poi con Merlin. Mi hai difesa".
"Merlin è un coglione coi fiocchi. Oltre a esser stato parecchio maleducato con te ti ha lasciata nel bagno a sperare che tu capissi come entrare in quella trappola...".
"Lo hai colpito".
"La cosa più bella della serata".
Yvonne rise.
Ed era bella, Yvonne.
Yvonne era bella.
Arrivarono alle stanze, trascinandosi ancora un po' di quel silenzio. Entrambi aprirono le serrature magnetiche con la card e sospirarono.
"Grazie ancora per stasera. Buonanotte" disse lei, avvicinandosi e poggiandogli un delicato bacio sulla bocca. I loro occhi s'incontrarono per un attimo d'imbarazzo, in cui Ruby, se avesse realmente voluto, avrebbe potuto tirarla a sé, aderire al suo corpo e saggiare ancora le morbide labbra di quelle.
Ma la parola d'ordine era Sapphire e la paura di rompere quel giocattolo era più della voglia di possedere quella bellissima donna, quella notte.
Il secondo passò, la magia finì e lei sparì nella sua stanza.
E Ruby rimase lì, inerme.


"Perché sei l'unica persona, in questo momento in grado di smontare ogni pezzo di me e rimontarlo daccapo.
Per capire cos'ho che non va... Dato che è ovvio che io abbia qualcosa che non vada.
Cos'è cambiato da prima che partissi?
Cos'è successo? Per quale motivo sei diventato quest'altra persona?
Non posso non prendermi le mie responsabilità, e forse avrei dovuto capirlo che la distanza ci avrebbe lentamente logorato da dentro".


Unima, Austropoli, Hotel Continental, Stanza di Ruby, 22 Marzo 20XX

Il piede premeva sul pedale della macchina da cucito mentre la mente vagava.
Pensava Ruby, al fatto che poche settimane prima si trovasse nelle stanze di una piccola stamberga e che dalla finestra dove lavorava vedesse il Revitalizer Building, con un pezzetto del golfo di Austropoli a colorare quella grigia visione.
Pensava al fatto che il suo letto fosse scomodo, col materasso sottile e la rete a cui mancava qualche molla, lasciando un buco fastidioso, mentre quella notte aveva dormito su morbido lattice e su doghe di larice.
E le luci: due lampadine, di cui una fulminata, illuminavano a malapena quella piccola stanzetta piena di macchie di muffa.
E forse era meglio così.
Al Continental, dove soggiornava ormai da una settimana, aveva contato ventidue corpi lampada, soltanto nella stanza dove dormiva.
Il bagno ne aveva un'altra decina.
Tutto l'ambiente era ben illuminato, c'era la televisione, la musica in diffusione (se voleva) e il frigobar veniva riempito come per magia ogni volta che rientrava in stanza.
Trovava sul cuscino una pralina di cioccolato finissimo.
Nel vecchio alberghetto ci avrebbe trovato al massimo uno scarafaggio.
Continuava a mettere punti su quel vestito blu dai particolari neri, ma quello che pensava, sostanzialmente, era che avesse fatto lunghi passi in avanti da quando aveva messo piede per la prima volta ad Unima.
Alzò per un attimo gli occhi, fissando il modellino che aveva disegnato e che aveva attaccato con lo scotch alla finestra.
Era a metà lavoro.
Pensò che ci stava mettendo davvero una vita ma quel vestito non era come tutti gli altri.
No, nessuno avrebbe visto quel vestito in nessuna delle sue collezioni.
Quello era un abito che avrebbe indossato soltanto Sapphire e ogni punto dato, ogni piega che effettuava, c'era il viso della sua donna a guidargli le mani.
Ci lavorava a tempo perso. Ci avrebbe messo un po' a finirlo.
Poi il cellulare squillò.


Incoming Call

W  H  I  T  E - B & W -  A  G  E  N  C  Y

Rispose.
"Pronto?".
"Grazie. Soltanto grazie per ieri. Non ho avuto l'occasione di dirtelo ma grazie davvero. Yvonne era perfetta e...".
"White?".
"Sì, sono White. Ti avevo chiamato per ringraziarti".
"Me ne sono accorto" sorrise lui. "Ma non preoccuparti. Dopo l'avventura di Bellevie Avenue sei diventata una sorta di sorella".
"Sì, certo" emulò il sorriso lei. "Ma lo stesso, non eri obbligato a darti da fare con Yvonne, ieri sera... E so anche dell'inconveniente scomodo con Merlin...".
"L'ho colpito".
"Me l'ha detto" tuonò. "Ma mi ha anche detto che hai risolto un problema col vestito di Camelia, adattandolo al corpo di Yvonne".
"Non voleva uscire dal bagno. Ansia da prestazione, forse" faceva quello, alzandosi e prendendo una Winston dal pacchetto. Aprì la porta della stanza e uscì, percorrendo il corridoio con passi lenti e posati.
"Del resto non era un esordio semplice. Ma è stata fantastica".
"Tutto merito della materia prima".
Ridacchiò, quella. "Vi state parlando? Insomma, risiedete nello stesso hotel...".
"La stanza accanto alla mia" rettificò il ragazzo, aprendo la porta del terrazzo e sospirando. Il vento quel giorno era forte e spazzava le cime dei pochi alberi piantati sul lungomare di Austropoli. "Ma comunque no. Cioè... Mi ha baciato, l'altra sera".
"COSA?!" urlò. Ruby strinse occhi e denti, allontanando il ricevitore dall'orecchio. "Ma lei sa di Sapphire?! E tu?! Tu l'hai baciata?!".
Al ragazzo venne da sorridere. Quella tosta donna d'affari sembrava una quattordicenne.
"Non penso sappia di Sapphire ma la cosa non si ripeterà. È stata strana e...".
"E nulla! Non è possibile!".
"Ma cosa, non è possibile? Credo sia stato il suo modo di ringraziarmi per..." e mentre parlava avvicinò la sigaretta alla bocca e la catturò tra la morsa delle labbra. Accese, o almeno provò.
Una, due, tre volte, ma l'accendino faceva cilecca.
"Ho finito il gas..." sbuffò quello, con la sigaretta ancora tra le labbra.
"Come?!".
"No, niente, stavo solo...".
E poi, dal nulla, apparve una fiamma davanti ai suoi occhi; senza pensarci due volte, il ragazzo avvicinò la sigaretta all'accendino e aspirò, riempiendo i polmoni di quel catrame così delizioso e contemporaneamente acido.
Non fumava spesso ma doveva ammettere a se stesso che in quei giorni ne aveva bisogno.
Troppo stress, troppe sorprese.
E quell'angoscia che lentamente continuava a consumarlo da dentro.
Guardò la fiamma, poi l'accendino, quindi la mano delicata che lo manteneva.
E poi, più in fondo, Yvonne, che sorrideva dolcemente.
"Sei tu" osservò Ruby. "White devo andare, ti saluto" concluse lui, riponendo il cellulare in tasca e gettando fuori dalla bocca fumo grigio, che si disperse nel vento.
Yvonne abbassò la testa in cenno di saluto.
"Me ne offri una?" domandò.
Quello non annuì neppure, prendendo il pacchetto di sigarette e poggiandolo sul cordolo del parapetto.
"Grazie. Come stai?".
Ruby annuì. "Bene. Bene, bene, sto lavorando. Mi serviva un attimo di pausa. Non sapevo fumassi".
Quella sorrise ancora, abbassando lentamente il volto. "Tu non mi conosci per nulla".
"Hai sentito quello che dicevo per telefono, vero?".
Lei annuì, accendendosi poi la sigaretta e guardando dritto, perdendo gli occhi nel vuoto oltre l'oceano. "Già".
Lo stilista la osservava con meticolosità, saggiandone ogni particolare del volto, come le labbra morbide e gli zigomi alti, i grandi occhi grigi e i lunghi capelli biondi, stretti in una più che pratica coda di cavallo.
Era perfetta. Per quanto potesse provare a cercarle un difetto era convinto che non ci sarebbe mai riuscito.
Yvonne non aveva crepe.
Anche in quella tuta rosa, con la zip leggermente aperta sulla canottiera nera, scollata il tanto che bastava, quella donna era sensuale. Ogni suo gesto, ogni suo movimento era setoso.
Pareva lasciare una scia di polvere dorata.
"Io intendevo...".
"A Kalos non ci baciamo sulle labbra, per ringraziarci di qualcosa...".
"Ma poi non avresti dovuto ringraziarmi di nulla" sorrise l'altro. "Era soltanto il mio lavoro".
"Non è il tuo lavoro proteggermi dalle parole cattive degli altri. Il tuo lavoro era vestirmi, e lo hai fatto. Ma tu sei stato gentile con me, senza chiedermi nulla in cambio, e da quando sono a Unima è la prima volta che accade" fece.
La sua voce era soffice e delicata.
Ruby si riconobbe attratto da lei ma pensò subito a Sapphire, e cancellò l'ultimo pensiero.
"Io non ho fatto nulla di speciale...".
"Ti ho baciato perché sei stato gentile e sentivo che fosse la cosa giusta da fare. Ma immagino che questa Sapphire sia qualcuno d'importante, per te".
Sospirò, guardandola negli occhi, ponendole una domanda implicita.
"Ho sentito il suo nome. È tua moglie?".
"No. No, no, non è mia moglie. Sapphire è la mia ragazza, e vive a Hoenn".
Yvonne alzò lo sguardo al cielo, sorridente. "Bella. Ci sono stata. Spiagge fantastiche".
"Bluruvia è meravigliosa" aggiunse il ragazzo, prendendo una boccata d'aria nera dalla sigaretta. "E anche a nord di Ferrugipoli l'acqua è fantastica".
"Sono stata a Porto Alghepoli".
"Oh, sì, anche lì...".
Rimasero in silenzio per qualche imbarazzantissimo secondo, prima che lei sospirasse e buttasse per terra mezza sigaretta.
"Ciao" gli disse, calpestandola e voltandosi.
Sparì oltre la porta d'emergenza, rientrando in hotel e lasciandolo lì da solo.
Negli occhi di Ruby era rimasto lascivo ancora il suo volto, e quella scia di polvere dorata, che il vento di quel giorno avrebbe dovuto spazzare via ma che finì per depositarsi davanti ai suoi occhi.


"Ma sapevo anche che la tua integrità ti avrebbe portato a stare lontano da situazioni del genere.
Il brutto di tutto questo è che i tuoi occhi hanno parlato per te, quella volta, e niente, proprio niente, è riuscito a levare dalla mia testa il tuo sguardo.
Tu che la guardavi.
Come guardavi me.
Innamorato.
Il problema è che non lo avresti mai ammesso davanti a me".




Unima, Ponentopoli, Aeroporto, 7 Aprile 20XX

L'aeroporto di Ponentopoli brulicava di vita, specialmente in quel periodo. La struttura prendeva le sembianze di un'enorme voliera, con tanto di esemplari di Pokémon uccello che saltavano da una trave all'altra. Grandi vetrate fotovoltaiche lasciavano trasparire la luce del sole, anche se quel giorno nuvole malvagie stavano prendendo il monopolio del cielo.
Ancora non pioveva ma Ruby aveva con sé il suo fido ombrello.
Il segnale acustico di sistema anticipava la comunicazione del ritardo del volo che sarebbe dovuto partire di lì a poco, diretto a Holon.
Odiava i ritardi in aeroporto, Ruby.
Il suo volo non aveva avuto problemi di sorta e, a quanto pareva, neppure quello di Sapphire. Attendeva di vederla sbucare dal gate in uscita, col suo trolley azzurro e lo sguardo spaesato che indossava quando si trovava in un posto che non conosceva.
Analizzava, lei, con gli occhi di chi non aveva avuto il tempo di girare il mondo.
Era in piedi, con un grosso uovo di cioccolata tra le mani, il suo caratteristico cappello bianco (che lo avrebbe reso riconoscibile a chilometri di distanza), e un lungo soprabito sportivo, che  lo aveva protetto dalle raffiche di vento, solite di quella città.
Eppure Ponentopoli era carina.
Non molto grande, era praticamente una città-aeroporto, in cui tutti i servizi e le attività erano per la gran parte nella zona ovest della città, in cui si gestivano gli arrivi e le partenze via aria di Unima.
L'affluenza dal gate aumentava, e lui non sapeva cosa aspettarsi. Fremeva dalla voglia di riabbracciare Sapphire e di gettarsi alle spalle le liti che diventavano mano a mano più frequenti.
"ECCOTI!" sentì poi urlare, e il rumore di un trolley strusciato per terra, lo costrinsero a voltarsi alle spalle.

Era lì.

Sapph era sorridente, quasi in lacrime; lasciava cadere la valigia per terra e saltava letteralmente in braccio a Ruby.
Lui sorrise, sentendo finalmente qualcosa sciogliersi dentro di sé. La strinse in vita con una mano, con l'altra che manteneva l'uovo di Pasqua. Alzò il collo, incontrando coi suoi occhi di rubino i suoi di zaffiro.
E si baciarono.
Appassionatamente, vivendo il tutto come una liberazione.
"Mi sei mancato!" esclamò lei, baciandolo ancora avidamente, prima che lui si staccasse e la poggiasse delicatamente per terra.
"Anche tu, piccola... Buona Pasqua" disse, dandole tra le mani l'uovo. Quella sorrise e annui.
"Grazie, anche a te".
Il ragazzo la vedeva sorridere e riempiva il suo cuore di gioia.
In quel mese i suoi capelli erano cresciuti, arrivando a toccare quasi le scapole, ma aveva comunque mantenuto la sua solita pettinatura, coi ciuffi sulla fronte ben piastrati e lunghi e una coda bassa dietro la nuca. I suoi occhi blu erano pieni di una gioia incontenibile.
Ruby perse qualche secondo in più a guardare quelle labbra che aveva venerato, senza mai un filo di rossetto e spesso screpolate, ma belle e morbide.
Abbassò poi gli occhi, vedendo che indossava un cappottino beige parecchio caldo e sotto delle parigine.
"Sei bellissima oggi, amore" fece quello, raccogliendole la valigia e sorridendo. Lei, con l'uovo tra le mani, alzò il braccio destro del suo ragazzo e si fece abbracciare.
"Solo oggi?" domandò.
"Esatto".

Uscirono dall'aeroporto e raggiunsero una grande automobile nera, di quelle con le porte che si aprivano al contrario e i vetri oscurati.
Un uomo col cappello nero e un completo Versace si avvicinò al ragazzo e prese la valigia di Sapphire, che lo vide aprire il portabagagli e infilarvi il trolley dentro.
Fu Ruby a farle strada nella grossa Mercedes. La ragazza entrò e la porta si chiuse automaticamente.
"Sei diventato ricco e non mi hai detto nulla?" domandò quella, sorpresa.
"No, che ricco, no. Ma White mi ha messo a disposizione questa macchina e viaggeremo molto più comodi che sull'autobus. All'andata ci ho messo quattro ore e non è stata proprio una passeggiata...".
"Oh, ma non era necessario" sorrise poi, quasi imbarazzata. "Mi piacerebbe conoscere questa White. Sembra così gentile. Non è una modella, vero?".
"È il capo delle modelle" spiegò il ragazzo.
"Ciò fa di lei una top model?".
E fu lì che il ragazzo sorrise di gusto, vedendola accigliarsi.
"Che diamine ridi a fare?!".
Ruby la strinse e le baciò la guancia.
"No. Non è una top model. È una donna comune, come tutte le altre".
Sapphire era stata messa in moto.
"Ancora con questa storia?! Non esiste una donna uguale all'altra! Nessuna è comune, perché tutte...".
L'altro sbuffò, cominciando a canzonare la fidanzata e a completare la frase che stava dicendo. "Perché tutte possono dare la vita, dannazione, me lo avrai ripetuto cinquecento milioni di volte... Quello che intendevo però era...".
La ragazza sorrise. "Lo so che intendevi. Ma adoro rimproverarti" fece, carezzandogli il volto. "Ho capito cosa intendevi, comunque. Volevi dire le donne vere, non quelle photoshoppate. Quelle con le maniglie dell'amore, le smagliature sulle tette e i capelli che al mattino costruiscono strane impalcature...".
Immediatamente nella testa di Ruby apparve Yvonne.
Lei era una donna vera, perché l'aveva vista davanti agli occhi, e non gli era parso d'aver visto maniglie dell'amore o smagliature sui seni.
Con donne del genere ci lavorava tutti i giorni ma vedeva sui loro volti cenni di disperazione dovuti ad anni di sacrifici.
In fondo le comprendeva.
Come ogni mestiere, anche quello della modella era fatto per gran parte da spirito di abnegazione. In più ci voleva il portamento e, ovviamente, la materia prima.
Ma quella non si acquisiva col tempo.
Yvonne invece non sembrava accusare quel tipo di problemi. Non aveva la malinconia negli occhi come Kimberly, né la paura reverenziale per il suo capo.
Anzi, pareva essere quasi che White temesse che lei decidesse di andare via.
Scrollò lontano quei pensieri.
Stava lavorando troppo in quel periodo.
"Hai una pessima cera" osservò Sapphire, fissandolo da distanza ravvicinata. I suoi occhi blu lo guardavano curiosi. Quello si voltò leggermente e sorrise.
"Ieri abbiamo aperto l'atelier, te l'ho detto... Abbiamo sistemato alcuni sarti nelle varie postazioni e ho consegnato i primi bozzetti agli assistenti. Tra poco affronterò la mia prima sfilata, coi miei abiti e..." sorrise poi, guardando avanti.
Sapphire lo emulò, perdendo la dolcezza nel volto e vestendolo di velata malinconia.
"Hoenn non ti avrebbe dato questa possibilità".
"No. Evidentemente no".
"Beh... Finché non diventerai un pezzo grosso non potrai abbandonare questo posto".
L'autista imboccò l'autostrada. Libecciopoli distava un'oretta di viaggio da lì.
Lo vide annuire.
"Qui è tutto così... grande" fece, perdendo ancora lo sguardo oltre il finestrino scuro. Poggiò la mano sull’appoggiabraccio in pelle nera, saggiandone la morbidezza. Allungò poi le dita, giocherellando col tasto del finestrino, senza mai aprirlo. "Unima è il fiume dove tutti gli animali bevono. E Austropoli è la foce".
"Che poetico" ridacchiò lei.
La guardò, lui, distratto: aveva accavallato le cosce, come faceva sempre, infilandovi la mano destra in mezzo, all'altezza delle ginocchia..
Aveva freddo.
Tuttavia non sembrava curarsene molto. Sopportava.
Aveva appoggiato la testa sul finestrino, allungando il collo e mordicchiandosi le labbra.
Ruby aprì le bocchette dell'aria calda e la vide sorridere.
Annuì, quella, allungandosi a lui e poggiando la testa sulla sua spalla.
Era tremendamente sexy. Voleva fare l'amore con lei, il ragazzo.

Arrivarono dopo un po' di tempo. Il viaggio era stato tranquillo. Avevano parlato, riso, litigato. Poi s'erano addormentati entrambi. Infine arrivarono; L'autista li lasciò davanti all'hotel.
"Grazie, Robert" disse Ruby, quando quello chiuse il portabagagli e poggiò per terra la valigia di Sapphire. Quella stava un passo indietro, con le braccia incrociate e il peso sbilanciato sulla gamba destra.
"Prego, signor Normanson".
L'autista si dileguò, lasciandoli lì.
"Signor Normanson "scimmiottò quella, ricevendo una smorfia in risposta.
Entrarono nell'albergo, e Sapphire si guardò attorno, attonita. Vedeva i divanetti, i lampadari, la musica, gli ascensori, le divise degli addetti.
Tutto, persino la clientela aveva una classe che non aveva mai saggiato.
"Uao..." disse sottovoce. "È questo che si prova a guardare il mondo coi tuoi occhi?".
Ruby sorrise.
"La cosa più bella non la vedi, però...".
Sapphire ruotò gli occhi e sbuffò.
"Delle volte sei così melenso che mi chiedo cosa ci veda in te...".
L'altro si limitò a sorridere e a premere il pulsante di chiamata per l'ascensore. Sapphire si voltò ancora, concentrando la propria attenzione sui ghirigori della moquette.
"Ho bisogno di una doccia" osservò il ragazzo, con tono lamentoso.
"Già. Puzzi".
"La mia puzza profumo più del tuo profumo" ribatté l'altro, con superiorità manifesta.
L'ascensore arrivò al piano, aprendosi.
"Non ho capito niente" fece, anticipandolo ed entrando. Si appostò accanto alla tastiera numerica e guardò il fidanzato. "White ti ha riservato l'attico o cosa?".
"Smetti di provocarmi" rispose l'altro, premendo il tasto al posto suo e piazzandosi accanto a lei. Vide le porte chiudersi e rimase in silenzio.
"Altrimenti che fai?" chiese quella, guardandolo col sopracciglio destro alzato.
Lui non raccolse, sospirando e guardando avanti.
"Poi ti faccio vedere".
"UOOO!" urlò, rumorosa come sempre. "E cosa vorresti farmi vedere?!".
Ruby annuì e sorrise. "Non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire".
Un altro segnale sonoro avvertì i due dell'arrivo al piano. Fu quando le porte si aprirono che Ruby mise per primo il piede fuori, guardandosi rapidamente attorno. Trascinò con sé la valigia e aspettò che Sapphire lo seguisse, per poi lanciare la valigia per terra e spingere delicatamente la ragazza al muro.
Quella spalancò gli occhi e lo vide aderire al suo corpo, poggiandole gli avambracci ai lati della testa.
"Cosa vorresti vedere, di preciso?" domandò lui, sorridendole.
Sapphire si limitò a seguire il suo sorriso, per poi baciarlo appassionatamente; sentiva le mani del ragazzo tastare sul suo corpo, afferrarle i fianchi e scendere in basso, a stringere le natiche.
E il fatto che chiunque avrebbe potuto vederli soltanto uscendo dalla camera la eccitava.
Fino a un certo punto.
"Andiamo in stanza" disse lei, ansimando.

La porta si spalancò dietro la spinta distratta di Ruby, che stringeva con una mano la maniglia della valigia e con l'altra la vita di Sapphire.
Gettò la borsa per terra e chiuse col piede la porta. Poi morse il labbro della sua donna, stringendola forte e aderendo a quel corpo che tanto aveva desiderato in quei giorni in cui il vento d'australe gli soffiava addosso.
Come fosse una bambola, le spalancò il cappotto. Se non avesse avuto gli occhi chiusi, protagonisti della frenesia di quel bacio, avrebbe visto un lungo vestito bordeaux, in lana pettinata, che terminava poco prima delle parigine.
Il soprabito cadde ai loro piedi ma finirono per scavalcarlo velocemente.
Caddero sul letto e Sapphire condì il tutto con un piccolo urletto.
Lei sotto di lui, che gli stringeva il fianco destro e il collo. Le sue labbra davanti ai suoi occhi, la maglietta leggermente alzata e gli occhi rubini socchiusi, pregni di desiderio.
"Stavo aspettando questo momento dal primo momento in cui sei andato via da casa" disse lei. "Mi sei mancato un casino".
Avvicinò le labbra alle sue, incontrando la lingua in un bagnatissimo abbraccio; sentì le mani di Ruby carezzarle il corpo, scendere in basso e stringerle la coscia.
Lei era piena di desiderio.
Il ragazzo affondò oltre il bordo del maglioncino, salendo rapido e avvicinandosi al pizzo del tanga che indossava.
Era umido.
La ragazza fremeva di desiderio, carezzando gli addominali duri del fidanzato e sentendo la sua mano continuare a salire, carezzandole la pancia e terminando più sopra, stringendole il seno destro.
"Ti amo..." disse lui, lascivo, mentre modellava il corpo di Sapphire sotto le sue effusioni.
Pochi minuti dopo lui era dentro di lei.
Ed entrambi raggiunsero le stelle.

S’addormentarono, stretti in un abbraccio senza fine. Poi lei si voltò dall’altra parte, qualche ora dopo, svegliando il fidanzato.
Ruby si limitò ad aprire gli occhi, lento.
Inspirò profondamente, beato dal profumo che aleggiava nell’aria; tutto odorava di Sapphire, e della sua pelle morbida.
Voltò lentamente il viso, ammirandola nella statuaria quiete del suo sonno, assaggiandone con lo sguardo i capelli che si poggiavano morbidi sul cuscino e più giù, il collo lungo ed elegante e la schiena nuda, che qualche ora prima aveva baciato per tutta la lunghezza.
Guardò la linea della colonna, che si stagliava lunga su tutta la sua schiena e che si ammorbidiva in corrispondenza delle morbide natiche. Le fissò, coperte parzialmente dal solo lenzuolo bianco, e saliva in lui la voglia di avvicinarsi nuovamente a lei, far aderire quella schiena al suo petto, spingere contro il suo sedere, morderle il collo e stringerle i seni.
Sospirò.
S’affacciò verso di lei, schioccandole un timido bacio sul fianco, per poi alzarsi e infilare le pantofole.
Ancora si voltò, cercando di godersi ogni minuto di quel venerdì di Pasqua con lei, già pensando al fatto che pochi giorni dopo avrebbe dovuto riaccompagnarla all’aeroporto di Ponentopoli. Analizzò nuovamente la sua figura quando si accorse che, poggiato sullo scrittoio della suite, vi era il vestito che stava mettendo assieme per lei.
Lo avrebbe indossato per l’occasione più speciale che poteva venirgli in mente, e già immaginava Luminopoli, lui che s’inginocchiava davanti a lei con la Torre Prisma sullo sfondo.
L’anello, la proposta, le lacrime.
E quel vestito.
Lo ripose nell’armadio, lontano dai suoi occhi, e andò a farsi una doccia.


“E mi ripeto che sono stata una stupida! Una stupida enorme, perché sarei dovuta tornare lì e incatenarmi a te! Perdere la mia vita ma mantenere pulita la mia anima!
Perché io lo so che, se fossi rimasta lì, tu non avresti mai fatto una cosa del genere!
Alla fine dei conti ti avrei perdonato. Ti avrei perdonato se soltanto ti fosse interessato rientrare nella nostra casa e dormire con me nel nostro letto.
Ma tu sei lì da mesi ormai, e ogni cellula del mio corpo mi grida che non tornerai”.

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Capitolo 5
*** 5. Cinque (V) ***


UNRAVEL ME.
ovvero risolvimi, nel senso di districami, sbrogliami.

UNA FRANTICSHIPPING (ma per finta) di Andy Black (ma lo sapevate).
 
 


Unima, Austropoli, Main Street, 11 Aprile 20XX
 
Sapphire aveva preso troppi ascensori per i suoi gusti, da quando era atterrata a Unima.
Smooth Operator di Sade suonava in quella modalità polifonica così fastidiosa che non riusciva a capire come faceva il suo fidanzato ad avere stampato quel sorriso sul volto.
“Vedrai!” esclamava entusiasta Ruby. “È praticamente il mio regno!”.
E quando le porte si aprirono, una rientrando verso destra e l'altra verso sinistra, poté appurarlo da sola.
Eleganza, ovunque. E un calore non indifferente.
Il ragazzo sorrise ancora, stringendole la mano e trascinandola fuori, in quel grosso ambiente che altro non era che il suo atelier.
Due file di quattro scrivanie erano disposte larghe, e quattro ragazzi e quattro ragazze erano già all'opera, chi con spilli e forbici, chi con matite e tessuti tra le mani.
Il rumore delle macchine da cucire era intermittente ma sempre presente, nonostante la voce di Nina Simone in sottofondo cercasse di stemperare un po' la situazione.
Parquet sul pavimento e parete di sinistra interamente rivestita di quercia e tappezzata di lavagne, strumentazioni a parete, fotografie e, poco più avanti, manichini più eleganti di quanto Sapphire fosse mai stata.
La parete di destra era composta da un'unica grande finestrata, che si affacciava sul corso principale di Austropoli.
Ruby avanzò lentamente, sorridendo, quindi si voltò e allargò le braccia.
“Tesoro... benvenuto all'Atelier Automne!” esclamò, euforico. Poi si voltò, aspettando che la ragazza si avvicinasse. “E loro sono i ragazzi che lavorano me. Ragazzi!” urlò poi, attendendo che ogni macchina da cucito cessasse la propria attività.
Conquistò immediatamente il silenzio.
“Spero abbiate passato buone vacanze di Pasqua. E se non festeggiate la Pasqua, beh, vi siete riposati alla faccia nostra. Lei è Sapphire, mia fidanzata e musa ispiratrice” sorrise, mettendola in imbarazzo. “Ogni vestito che ideo, disegno, produco e rifinisco è immaginato addosso a lei... Può sembrare minuta ma è più forte e bella di qualsiasi modella che calcherà mai i nostri palchi”.
La ragazza sentì nove paia d'occhi addosso, affogando in una brodaglia di disagio.
“Okay, bando alle ciance! Oggi che abbiamo?” domandò poi il ragazzo, avanzando rapidamente e raggiungendo la porta di vetro satinato che aveva di fronte. Disse buongiorno a qualcuno e uscì con una cartellina tra le mani. Era di fronte alla forestiera, e pareva scorrere col dito una lista.
“Dei quindici vestiti, otto sono già stati prodotti. Meraviglioso!” urlò, coi ragazzi che applaudivano festanti. “Ma la sfilata è tra due settimane esatte da oggi ed è inutile dire che dovremmo dare il centodieci percento per riuscire a fare tutto! Ognuno di voi è essenziale per questo progetto, e l'atelier deve presentare degli abiti perfetti in ogni particolare! Avendo anche la fortuna di poter avere un contatto più diretto con le modelle col quale lavoreremo, tra qualche giorno le avremo qui, in questi saloni, per le prime prove e gli eventuali accorgimenti tecnici da adottare per fare in modo che tutto vada alla grande! E ora diamoci da fare!”.
I ragazzi capirono l'antifona e si gettarono subito al lavoro, euforici e caricati dal grande discorso dello stilista. Quello guardò per un attimo al di fuori della finestra e quindi annuì, voltandosi e dirigendosi lento verso l'office.
“Vieni” disse a Sapphire, che annuì e camminò nel piccolo corridoio tra le due file di banchi. Sopra ognuno vi era caos organizzato sotto forma di drappi di tessuto di varia forma e colore, rocchetti di cotone e spilli dalla capocchia bianca.
Tutti i ragazzi erano molto, molto giovani. Le femmine erano per la gran parte bionde, tranne una. Tutte però portavano i capelli legati, ed erano truccate in maniera sobria e delicata. Guardando i ragazzi, Sapphire fu colpita dal fatto che tutti avessero grosse barbe che arrivavano quasi alla sommità del collo.
Uno in particolare rubò la sua attenzione, col barbone ossigenato e i capelli rasati sui lati e tirati all'indietro. Aveva un paio d'occhi azzurri e glaciali, espressivissimi.
Assomigliava un vichingo.
Tutti però avevano una cosa in comune: gli occhi della tigre.
Ruby s'era accerchiato di persone ambiziose.
Quando raggiunse l'office, Ruby era al telefono, che indicava a una ragazza dagli occhi blu come il cielo di segnare ciò che ripeteva.
“Quindi... ventisette blu... settantaquattro dorato. Settantaquattro dorato?! Newton, ma hai sbattuto la testa contro un muro?!”.
La ragazza segnava le cifre su di un foglio di carta, aspettando di catalogare altri numeri. Sapphire poté riconoscere un candore eccezionale nel volto di quella, dalla pelle diafana e le labbra piccole ma carnose.
Una bambolina, dai lunghi capelli castani acconciati in maniera più che particolare: aveva due crocchie, grosse e rotonde, ai lati della testa, e un ciuffo spettinato sulla fronte.
“Whiteley, hai segnato?” domandò Ruby, coprendo il microfono con la mano.
“Certo, signor Normanson. Ventisette blu e settantaquattro dorato”.
Annuì e tornò a parlare. “Newton, non ci siamo. Siamo troppo alti, col prezzo”.
Si voltò subito dopo, accorgendosi della presenza di Sapphire e facendole segno di accomodarsi dietro quella che doveva essere la sua scrivania.
E lo fece, poggiando la sua borsa in pelle un po’ demodé sul piano in legno.
Rialzò lo sguardo, pensando di non aver visto negli occhi di Ruby la determinazione e la passione in ciò che faceva da quando, da ragazzini, girarono Hoenn per la prima volta. Abbassò poi lo sguardo sulla sua scrivania, in pieno caos organizzato, dove bozzetti di disegni lasciati a metà erano orfani delle matite, due delle quali accanto ai piedi della sedia. Il monitor era acceso e mostrava un programma di design lasciato in stand-by, dove un abito dorato e blu era indosso a un manichino virtuale.
“No, Newt, non ci siamo” ripeté. “Coi prezzi che mi spari gli abiti dovrò venderli a ventiquattro milioni di Pokédollari. Non ridere, sono serio”.
Lo guardava e lo riguardava, lei, sorprendendosi di quanto abilmente si muovesse in quell’ambiente in cui lei non era abituata a guardarlo.
E poi un rumore di tacchi la distrasse.
 
“SCUSATE! LARGO, SCUSATE!”
 
Spostò gli occhi in avanti e vide entrare una donna su un paio di tacchi alti, molto elegante all’interno del suo tailleur nero. Era giovane e bella, con occhi azzurri ben truccati e una smorfia di fastidio sul volto.
Gettò una Louis Vuitton sulla scrivania, proprio accanto alla sua borsa, e sparì oltre la porta accanto a lei, che con ogni probabilità doveva essere il bagno.
Ruby intanto continuava a parlare. “Sì, capisco che tu hai dei costi e che non lavori per la gloria, ma io ho necessità di acquistare il tuo prodotto e il tuo soltanto… certo, ma non posso rivendere un mio abito a un prezzo così alto! Lo capisci?!”.
Era tutto più grande.
Differente.
Prima che lui partisse vivevano entrambi in una casetta dignitosa
E lì si spense una lampadina, nella testa della giovane ricercatrice; guardava il candore della giovane Whiteley, e la perfezione di quella donna in carriera così perfetta, posata anche quando la natura metteva a dura prova la sua resistenza fisica.
Si sentiva fuori contesto.
Ruby invece no.
Lui pareva esser fatto per quel mondo.
Lo guardò, lui scivolò con lo sguardo su di lei, quasi attraversandola di netto, senza rimanere troppo a fissare i suoi occhi azzurri.
“Dobbiamo venirci incontro in qualche modo. Non sono un mio problema, i tuoi costi di gestione e produzione”.
Si chiese cosa ci facesse lì, Sapphire. Non era all’altezza, bastava vedere la borsa di quella stangona accanto alla sua. Il rumore dello scarico la risvegliò da quei pensieri d’inadeguatezza, e la donna uscì, col sorriso sul volto.
“Ora si ragiona” sospirò, sorridendo.
“Aspetta, ora ti faccio parlare con White…” fece Ruby, avvicinandosi a lei.
“White?!” chiese Sapphire, catturando l’attenzione del ragazzo.
“Aspetta un momento, tesoro… White, c’è Newton Mainard al telefono. Settantaquattro per il dorato”.
“Tesoro?!” esclamò White, sorridente. “Tu allora devi essere Sapphire! Sei meravigliosa!” fece gioviale, chinandosi su di lei e baciandole una guancia.
“White! Newton è al telefono!” esclamò invece l’altro coprendo il microfono con la mano.
“Oh, certo”.
Prese il telefono tra le mani e si lisciò i vestiti, come se l’uomo potesse vederla, quindi la sua espressione del volto mutò totalmente, incupendosi.
“Newton? Ciao, sono White. Sì, ho sentito che hai parlato con Ruby e… No, Newt, adesso parlo io. Non possiamo cominciare la produzione di qualcosa così fuori mercato, il prezzo netto diventa impraticabile…”.
Ruby si portò le mani ai fianchi e guardò la donna sui tacchi camminare freneticamente avanti e indietro, fino a fermarsi accanto a Whiteley.
“Scusami… Io non ti dico come fare il tuo lavoro e tu non devi dirmi come fare il mio… È normale che non porterò nei negozi i vestiti della sfilata, ma non credo che siano… Newt… Ci conosciamo da anni, non mi pare neppure giusto dover andare a interrompere rapporti professionali secolari per uno sconto in meno…”.
Whiteley spalancò gli occhi e alzò la testa, guardando la donna dai tailleur nero. Quella le fece cenno con la testa di alzarsi dalla sedia e Sapphire poté appurare l’effettiva eleganza della più piccola, che indossava una lunga gonna beige, una camicetta bianca dello stesso colore e una giacca nera con le spalline morbide.
“Appunto. Perfetto. Grazie, Newt, alla prossima”.
Attaccò e gettò delicatamente il cellulare sulla scrivania.
“Allora?” domandò Ruby. “Di quanto è sceso?”.
“Aspetta”.
La donna cercò una penna, che trovò sotto una busta da lettere aperta. La prese, voltò la busta e cominciò a scrivere.
Poi si alzò e poggiò delicatamente la mano sulla spalla dell’assistente, che riprese possesso del suo posto. White riacquistò finalmente il sorriso, recuperando serenità.
“Perfetto. Whiteley, tesoro, avverti Portia Thomas che stiamo andando a prenderci del tessuto dorato, specifica che chiami da parte di White e che tra meno di un’ora sedici… sedici?” si voltò verso Ruby.
“Newt?” chiese quello, non capendo.
“Sedici pezze di tessuto dorato, sì, credo che bastino. Io e te, signorina…” fece, prendendo la borsa e camminando attorno alla scrivania di Ruby. Prese poi Sapphire per mano e la fece alzare. “… Io e te usciamo assieme, oggi”.
“Ehm… ok?” fece quella, guardando il ragazzo e facendo spallucce.
“Ma cosa è successo?! Perché stai andando da Portia Thomas?!” urlava, proprio quello.
“Rimani qui e disponi il pagamento, ti sta inviando la fattura per mail”. Camminava, White, tirandosi Sapphire dietro, che ebbe soltanto il tempo di afferrare la propria borsa prima di sparire oltre l’uscio.
Ruby rimase a guardare Whiteley per qualche secondo, prima di sospirare e proferire parola.
“Io amo le donne... Ma non le capisco. E, a questo punto, mai le capirò”.
 
“Ruby parla di te in continuazione...” faceva White, premendo il tasto 0 sul pad dell'ascensore. Guardava la ragazza, molto più timida di quanto non sembrava dalle rare conversazioni che lo stilista le aveva fatto leggere dal suo cellulare.
“Oh, meno male” sorrise quella, spostando un ciuffo di capelli dietro l'orecchio. “Spero dica cose buone”.
“Sempre. Sembra davvero innamorato di te. Ed è difficile essere legati a una donna, in questo mondo”.
Sapphire spostò lo sguardo verso gli occhi di quella, con un grande punto interrogativo stampato sulla faccia.
“Gay. Molti stilisti, quasi tutti, almeno qui ad Austropoli. Poche mosche bianche”.
“Oh” sorrise ancora l'altra, sollevata. “Credevo che essendoci una quantità incredibile di donne, che si spogliano e si vestono in continuazione...”.
White rise di gusto.
“Oh, tesoro, no. No, non è neppure il caso di Ruby, questo... anzi. Ha avuto davanti parecchie donne. Per lui sono come manichini. Solo Sapphire, Sapphire, Sapphire! Sapphire di qui, Sapphire di là, quanto è bella Sapphire... Non hai di che temere!” esclamò la Presidentessa, proprio in corrispondenza dell'apertura delle porte.
Camminava sculettando, lasciando una scia di classe inarrivabile, che Sapphire poteva soltanto seguire con le sue Converse, macchiate sulla punta.
Entrarono nella porta girevole del palazzo, di quelle automatiche coi sensori di prossimità, che la facevano girare lentamente quando qualcuno era nei suoi pressi.
Uscirono fuori e Sapphire guardò subito in alto, appurando la timidezza di quel sole primaverile, nascosto dalle alte creste dei grattacieli.
Le persone scappavano da qualcosa che non conoscevano, cercando di raggiungere posti in cui non volevano andare. Uomini col cappio della cravatta al collo, le donne sugli spilli degli alti tacchi a bucare loro i talloni. Tutti eleganti, tutti perfetti, puliti e profumati.
Stringevano le valigette e si dribblavano tra di loro, parlando con costosi cellulari all'orecchio; i più fortunati avevano grossi auricolari che lampeggiavano di luci blu.
Pareva parlassero da soli.
Sulla sinistra vi erano dei giovani Allenatori, tutti in fila davanti la Palestra di Artemisio. Pensò che, probabilmente, assieme a Toro sarebbe riuscito a sconfiggerlo facilmente.
“In ogni caso oggi mi aiuterai ad aiutare Ruby, si?” fece, prendendo il cellulare e alzando una mano verso il taxi che si avvicinava a loro.
Tuttavia quello non si fermò, e proseguì.
Batté tre volte il dito smaltato sullo schermo del Blackberry, White, per poi avvicinarlo all'orecchio.
“Perdonami un attimo... Pronto, Black... Sì, sono appena uscita da un atelier. Come stanno andando le cose a Kanto?”.
Fece poi per alzare nuovamente la mano, dato che un nuovo taxi, dalla carrozzeria gialla e guidato da un uomo di origini mediorientali, si stava per avvicinare.
Tuttavia anche quello sfilò via.
“Oh, certo, certo. Beh, quando torni? Ah... ancora? Sì, lo so ma pensavo che avessi terminato con questa tua smania di... Lo sai bene che non posso muovermi da qui! Che cazzo domandi a fare certe cose se...”.
Nuovo taxi in avvicinamento, la mano si alzò di nuovo ma Sapphire decise di prendere la situazione di petto, infilando i mignoli tra le labbra e fischiando vigorosamente.
Tutti si voltarono a guardarla, White in primis.
“... Devo andare, adesso. Ci sentiamo stasera. Domani, allora, ciao, ciao... Uff, che faticaccia la vita. Non credevo che una rosellina come te sapesse fischiare come un omaccione!” sorrise stupita.
“Rosellina...” rispose al sorriso, vedendo poi il taxi fermarsi.
Salirono.
“Sì” continuò White. “Sembri così delicata, con questi occhi azzurri e profondi, e i volumi morbidi del viso... E poi hai anche un bel corpicino, guarda qui...” fece, toccandole il lato del seno con un dito. “Se vuoi, ti trovo lavoro immediatamente” sorrise.
Sapphire non si era mai sentita così in imbarazzo in vita sua.
“Ehm... grazie, ma no, grazie, sono una...”.
“Una ricercatrice, sì, lo so, come la mia amica Belle. Dovrei fartela conoscere. E cosa studi?”.
La ragazza di Hoenn la vide spostare subito lo sguardo sul cellulare. Sbuffò e rialzò gli occhi, quella, aspettando che l'altra rispondesse.
“Studio i comportamenti dei Pokémon nei propri habitat, per ottenere informazioni in caso di innesto forzato in natura...”.
“Pokémon rari, immagino...”.
“Per ora ci stiamo concentrando sugli Absol. Il commercio delle pellicce a Hoenn non si arresta minimamente e questo è terribile...”.
“Che persone orribili, i bracconieri...” sospirò la donna guardandosi nella scollatura e sistemando il colletto della camicetta.
Eppure Sapphire era assolutamente convinta che, semmai avesse aperto l'armadio dio White, ci avrebbe trovato una pelliccia di Minccino o di qualcosa del genere.
Sì, pensava che White fosse un tipo da pelliccia.
Poco dopo arrivarono all'albergo dove soggiornava Ruby.
“Attenda un attimo qui” disse la Presidentessa al tassista, scendendo dalla vettura con le gambe strette. Sapphire la seguì, incuriosita.
“Perché stiamo tornando in camera?”.
White non le rispose ma prese il cellulare e lo avvicinò all'orecchio. “Pronto... No, non sono interessata al trading online, non rompa più le scatole, grazie” fece, allungando l'ultima vocale e gettando con risentimento il telefono nella borsa.
“Prima o poi mi ricovereranno con un esaurimento...”.
Entrambe salirono le scale dell'albergo, passando sotto una passerella parapioggia col telone rosso, per poi entrare all'interno della hall.
Sulla sinistra, una donna con un Furfrou stava facendo il check-in, in piedi sugli alti tacchi a base quadrata dei suoi stivaletti di pelle marrone.
White non perse troppo tempo ad analizzare il suo vestiario, salendo poi verso i fianchi generosi e le spalle larghe.
“Cielo, quello è un uomo...” fece, continuando a camminare in direzione della sala. Davanti avevano gli ascensori e sulla sinistra il bar, stanza in cui entrarono.
Si avvicinarono entrambe al banco e la Presidentessa poggiò un biglietto da cinquanta davanti al naso del barman.
“Per me un whisky invecchiato più di vent'anni”. Fece per voltarsi, mancando per poco lo stupore negli occhi di Sapphire. “Mi fai compagnia o prendi qualcos'altro?”.
“Ehm... no, grazie, per me nulla”.
“Oh, avanti” sorrise White, stringendole il bicipite tonico tra le mani. “Non fare complimenti con me! Sai che sono una sorta di Iron Man per questa città... Posso certamente permettermi di offrirti qualcosa al bar”.
Sapphire rise. “Sei una donna decisamente migliore di Robert Downey Jr.”.
“Oh, ne ero sicura ma avevo paura di dirlo. Succo di frutta, come il sempreaddieta del tuo fidanzato? Pesca e Maracuja?”
“Sì” sorrise l'altra. “Andrà più che bene. La Maracuja cresce benissimo, dalle mie parti”.
White ordinò e poi si voltò nuovamente verso di lei, prendendola per mano e avvicinandosi ai divanetti, di pelle azzurra.
“Sono stata a Hoenn, qualche anno fa, col mio ragazzo. L'abbiamo girata in lungo e in largo...”.
Sapphire spalancò gli occhi. “Dove hai soggiornato, la prima notte?”.
“Porto Alghepoli. Del resto siamo arrivati a tarda notte e non avevamo tanta voglia di andare a sbizzarrirci, io e Black. Poi però il giorno dopo siamo andati immediatamente a Orocea”.
“Meravigliosa e suggestiva” sorrise Sapphire.
“Rimasi incinta, lì”.
“Eravate già sposati?”.
“Non siamo mica sposati! Dio ce ne scampi! E poi le mie ovaie funzionano anche senza avere un marito” sorrise l'altra. “Noi siamo così... Lui viaggia per il mondo, fa l'Allenatore e riempie il Pokédex e...”.
“Oh, lavora col Pokédex?”.
“Anche io lo feci, diversi anni fa. Per sbaglio, ma lo feci” sorrise ancora.
“Beh, io e Ruby ci siamo occupati della catalogazione dei Pokémon di Hoenn, per il Pokédex”.
“Quindi anche voi siete dei Dexholder”.
Sapphire infilò le mani nella borsa e tirò fuori un piccolo apparecchio rosso. “Eccolo qui. Quasi completo”.
“Incredibile” sorrise White, vedendo poi un giovane cameriere più interessato a guardarle le gambe che a poggiare correttamente il vassoio sul tavolino.
Se ne andò, e la domanda dell'altra arrivò spontanea.
“Maschio o femmina?”.
White alzò gli occhi. “Cosa?”.
“Hai detto che sei rimasta incinta, a Orocea. È nato un maschietto o una femminuccia?”.
White abbassò lo sguardo e affogò i tre successivi pensieri nell'aroma invecchiato del Canadian Club che l'era appena stato somministrato senza alcun foglietto delle controindicazioni.
“Abortii. Non credo di essere adatta a una vita del genere”.
Non lo fece volontariamente, ma Sapphire la congelò con lo sguardo; per lei era assolutamente impensabile una cosa del genere. Certo, non sentiva scorrere nelle proprie vene lo spirito materno, e la cosa, unita alla poca pazienza di cui era dotata, non la rendeva la futura madre migliore del mondo.
Probabilmente avrebbe combattuto contro l'istinto animale di prendere suo figlio e di sbatterlo contro il muro, con la sola colpa di averla svegliata per la quarta o quinta volta nel cuore della notte, in preda alle crisi isteriche.
La madre, con le crisi, non il figlio.
E se avesse avuto una figlia sarebbe stato del tutto impraticabile per lei avere una copia di Ruby in casa, con lustrini, fiocchetti e nastri vari. Non tanto nell'infanzia; lei temeva l'adolescenza, le mestruazioni e l'umore sballato, i pianti nervosi e le grida furiose.
Rifletté, poi riconobbe di aver fatto una perfetta descrizione di se stessa.
Non si sentiva una grande futura madre ma non aveva così poco rispetto della vita per decidere di fermare il suo corso. Abortire non era una di quelle cose che avrebbe preso in considerazione. Se fosse capitato avrebbe accettato la cosa e si sarebbe comportata di conseguenza.
Guardò White e decise di tenere un profilo basso. “Sono scelte, alla fine” disse, poi bevve nuovamente.
Gli occhi di Sapphire si poggiarono sulle labbra della donna, che si poggiarono sul bicchiere di cristallo. Sentiva l'odore dell'alcool fin da lì; era solo mezzogiorno del resto, ma doveva aspettarselo da una donna del genere.
“Già... Yvonne tarda sempre un po'... alla fine però arriva” fece, cambiando subito discorso.
“Yvonne... Stiamo aspettando lei?”.
White si limitò ad annuire, bevve ancora e vide di nuovo il cellulare vibrare. Rovesciò quindi la testa indietro e sbuffò.
“Ti prego” fece, allungando il Blackberry verso Sapphire. “Rispondi e di’ che sono morta”.
Una piccola risatina s'insediò sul volto della giovane, che annuì e afferrò il telefono.
“Questo è il cellulare della signora White...”.
Poi si accorse di non conoscere il suo cognome. Spalancò gli occhi e guardò impanicata la donna.
“Campbell – Defoe” sussurrò quella, a bassa voce. “White Campbell – Defoe”.
“Della signora White Campbell – Defoe. In questo momento la...”.
“Presidentessa...”.
“La Presidentessa non è in ufficio... Sì... ha chiamato il suo... il suo cellulare, sì...”.
White buttò giù il resto del drink, poi, con la mano, fece cenno alla ragazza di continuare.
“Lo ha dimenticato in ufficio. Non so dove sia andata, no. Vuole lasciarle un messaggio?”.
Poco dopo entrò nella sala una donna bellissima, dalla lunga treccia bionda. Il cappello a tesa rigida che aveva sulla testa era nero, come i leggins che le fasciavano le lunghe gambe.
“Riferirò, grazie” fece Sapphire, guardando l'ultima arrivata. Attaccò e lanciò il cellulare di White alla proprietaria, per poi continuare a fissare la bionda; quella pareva spaesata. Si guardava intorno, come se cercasse qualcosa o qualcuno.
Incrociarono i propri sguardi, la bionda proseguì rapida fino a quando non riconobbe il viso di White.
Le sorrise e cominciò ad avvicinarsi alle due.
“Grazie mille, stella, mi hai levato da un bel pasticcio...” fece la Presidentessa.
“È quella, Yvonne?” domandò invece l'altra, indicandola con un movimento del capo. Ottenne risposta positiva, quando quella si voltò e si alzò in piedi.
“Ciao, meraviglia della natura!” esclamò, sorridendo civettuola e stringendola in un breve abbraccio. Due baci sulla guancia, uno a destra, uno a sinistra, quindi la strinse alla vita e si voltò.
“E lei è Sapphire! La fidanzata di Ruby”.
Yvonne rimase a fissarla per qualche secondo, con quei profondissimi occhi grigi che non riuscivano per nulla a incastrarsi negli zaffiri che l'altra aveva sul volto.
La guardò dall'alto in basso, percorrendo l'intera lunghezza del suo corpo, dai capelli alle punte delle scarpe. Le fece poi un cenno, voltandosi poi verso White.
“Andiamo?” fece, con quell'accento francese che Sapphire non sopportava.
 
La matita lasciava linee nere di grafite sul foglio, morbide e continue.
“È molto bello” fece Whiteley, guardando il suo capo rifinire il vestito dorato che avrebbe messo assieme quel giorno.
“Grazie. Devo allargarlo sui fianchi, qui, perché Yvonne non ha il corpo di una modella tradizionale. “Ecco...”.
Alzò gli occhi, Ruby, guardando la giovane fissare la punta della matita.
Fu allora che il ragazzo salì col tratto, andando a definire i particolari delle spalle. Sentiva Whiteley avvicinarsi di più, e poteva percepirne il dolce profumo dei capelli, sempre acconciati in quella maniera fin troppo particolare.
“T'interessa tanto, eh?”.
Quella trasalì, lasciandosi andare a uno dei rari sorrisi che aveva fatto da quando lavorava lì.
Non sapeva nulla di lei, Ruby, ma in quel momento quell'abito era la cosa più importante.
La sfilata doveva andare bene.
“Mi scusi se le ho dato fastidio” disse, facendo un passo indietro. “Lei è bravissimo”.
“Ho trent'anni, Whiteley, non darmi del lei... Te l'ho detto mille volte” sorrise l'altro.
La vide arrossire. Era parecchio timida.
“Scusa”.
“Tranquilla”.
E continuò a lavorare sul disegno quando, una manciata di minuti dopo, il segnale sonoro dell'ascensore lo avvertì che qualcuno era salito nell'atelier.
Alzò gli occhi e vide un uomo tarchiato, con una salopette blu e dei grossi stivali antinfortunistici trainare un carrello con un grande pacco.
Alle spalle vi era White, che camminava come se fosse una vip sul red carpet alla premiazione del Golden Globe, con gli occhiali da sole dalla montatura delle lenti a mosca poggiati sul naso.
Alle spalle vi era Sapphire, col volto provato, che stringeva il gomito sinistro con la mano destra.
“Ecco il tessuto” fece la Presidentessa, sorridendo.
Ruby uscì dall'office, a dir poco contento.
“Ce l'hai fatta!” fece, rubando a una delle ragazze che lavoravano per lui un paio di forbici.
“Scarica pure qui, Bruce” disse la donna. Prese poi le forbici dalle mani del ragazzo e  incise lo scotch da imballaggio. Poco dopo il pacco era aperto e ben sedici pezze di tessuto dorato erano state tirate fuori.
Ruby se le passava tra le mani, felice. Ne strinse una tra i pugni e, sorridente come un bambino, si avvicinò a Sapphire, baciandola sulla guancia.
“Questo sarà il vestito più importante dell'intera collezione! Sono carichissimo! Grazie, White!”.
Sapphire si voltò, guardando la felicità negli occhi del suo ragazzo.
Aveva realizzato un sogno, e il suo viso pareva disteso e calmo. Pareva aver trovato il proprio posto nel mondo.
Ma fu quello che successe dopo, a sconvolgere la giovane ragazza di Albanova: il volto di Ruby mutò, si modificò, addolcendosi; le labbra si schiusero leggermente, il sorriso, dapprima pieno, divenne una linea più morbida. Gli occhi si chiusero in maniera lenta e graduale, per poi riaprirsi, ma non del tutto.
Ruby era consapevole di qualcosa. Sapphire aveva visto quell'espressione solo quando si era dichiarato innamorato di lei.
E in quel momento gli occhi del suo ragazzo stavano guardando Yvonne, appena entrata nell’atelier.
“Bionda, buongiorno” fece, staccandosi di un passo da Sapphire. “È arrivato il materiale. Andiamo a prendere le misure”.
La ragazza dagli occhi blu come lo zaffiro ebbe come un colpo dietro al collo.
E, involontariamente, partì una domanda che ormai portava con un sé una risposta più che ovvia.
“Yvonne… è la modella che indosserà… Yvonne indosserà l’abito dorato?”.
 
 
“Io non lo sapevo. Altrimenti mi sarei opposta con tutte le forze. Il problema è sorto quando ci ho provato, dato che questa situazione aveva cominciato a dilaniarmi dall’interno. E, credo, per la prima volta nella mia vita, di aver preso il coraggio a due mani per porti davanti a una scelta”.
 

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Capitolo 6
*** 6. Sei (VI) ***


UNRAVEL ME.
ovvero risolvimi, nel senso di districami, sbrogliami.

UNA FRANTICSHIPPING (ma per finta) di Andy Black (ma lo sapevate).
 




Unima, Austropoli, Main Street, Atelier Automne, 13 aprile 20XX
 
 
Amore, sei atterrata?     22:00
 
Era ormai buio da diverse ore, quando un Ruby più che preoccupato per la sua donna le aveva inviato un messaggio. Aveva controllato diverse volte sul nuovo Blackberry che aveva acquistato.
Ora aveva due cellulari.
Lo schermo del computer illuminava il suo volto, mentre i minuti passavano lenti.
Poi il telefono suonò.
Era il portiere del palazzo.
Una certa Yvonne chiede di salire; è una bella ragazza dai capelli biondi e gli occhi grigi. La lascio passare?”.
Era lì per provare il vestito.
“Sì, grazie Alan”.
Sospirò e prese il cellulare, vedendo il led verde lampeggiare.
 
Amore, sei atterrata?     22:00
 
Sì, un paio d’ore fa. Ma ero stanca e sono caduta nel sonno più profondo che conosca. Tu tutto bene? Qui c’è un bel sole       22:28
 
Qui è notte. Sono ancora nell’Office       22:28
 
Lavori ancora?       22:28
 
Sì, sta appena salendo Yvonne per gli ultimi aggiusti da fare all’abito.      22:28
 
Yvonne?! La bionda?! Siete da soli?!       22:29
 
E poi l’ascensore si spalancò.
Non lesse neppure l’ultimo messaggio che Sapphire le inviò, preoccupandosi più che altro del fatto che quella dovesse camminare al buio.
“Aspetta! Aspetta, Yvonne!” fece il ragazzo, alzandosi immediatamente e scavalcando le sue Azzaro, che aveva scalzato qualche ora prima quando aveva addentato il sandwich con gamberetti e maionese e che non aveva neppure finito.
La luce si accese, mostrandola pochi passi davanti all’ascensore che ormai si stava chiudendo. Sorrise, inclinando leggermente la testa.
Teneva tra le mani una busta, di quelle di carta spessa che davano nei negozi d’abbigliamento.
“Bonsoir” disse, facendo un leggero plié e chinando il capo.
“Ciao, bionda” rispose l’altro, attraversando il corridoio tra le otto scrivanie per salutarla. Lei sentì le mani del ragazzo cingerle la vita e stringerle il fianco destro. Fu lei ad aderire col petto su di lui, stringendolo al collo.
Si scambiarono un debole bacio sulla guancia, prima che Ruby la allontanasse con un impercettibile movimento del corpo; trovò che fosse troppo amichevole.
Ed era stupido, perché nel senso animale della cosa, avrebbe voluto saltarle addosso.
Ma non era un animale. Era Ruby.
E aveva Sapphire ad aspettarlo.
Yvonne sarebbe dovuta rimanere soltanto una fantasia chiusa in un cassetto, come Fiammetta Moore o Sabrina.
“Come va?” domandò lei, avviandosi subito verso l’office, non prima però di levarsi le scarpe e camminare sul parquet a piedi scalzi. Sospirò, sollevata.
“Odio questi trabiccoli…”.
“Hai imparato parole davvero complicate, étranger…” la seguiva lui. Spense le luci nella sala grande per poi accendere quelle del suo studietto.
“Imparo in fretta… Mi spiace che abbia dovuto aspettarmi fino a quest’ora”.
Lui alzò gli occhi rubini, incrociando le onde del mare in burrasca racchiuse nei suoi.
“Ah, tranquilla” sorrise. “Non sono rimasto con le mani in mano. Cominciamo?” domandò.
La vide annuire e posare la borsa sulla scrivania di Whiteley, quindi accese il climatizzatore.
“Meglio che non ti ammali…” rispose lui, alla domanda implicita che Yvonne pose con lo sguardo.
Sbottonò i pantaloni e li sfilò. Le calza fasciavano le cosce e il sedere.
“Levo anche queste?”.
“Sì, via anche le calze, voglio lavorare sui tuoi volumi reali”.
Quella inarcò un sopracciglio. “Non sono calze contenitive, queste…”.
Ruby ridacchiò, raccogliendo i pantaloni dal pavimento. “Hai definitivamente imparato molte parole, qui a Unima”.
“Aiutami coi bottoni dei polsini” fece poi quella, dopo aver raccolto le calze e averle lanciate addosso al ragazzo. Senza tacchi, Yvonne era pressoché alta come lo stilista, che le si avvicinò prendendole la mano destra.
Era sottile e fredda, liscia e ben curata. La carezzò, fino a raggiungere il polso, coperto da un piccolo braccialetto d’oro.
E la ragazza intanto lo guardava negli occhi mentre, con la mano libera, sbottonava la camicia.
Ruby abbassò lo sguardo, evitando di puntare gli occhi sul bel seno raccolto nel reggipetto merlettato bordeaux e guardando le sue mani.
“Anche di qua” disse poi l'altra, alzando il braccio sinistro.
Lui la guardò negli occhi e le liberò anche l'altro polso, per poi voltarsi. In quel momento c'era solo la sfilata.
In quel momento c'era solo il suo lavoro, il suo divenire, che doveva essere la cosa più importante. Niente Sapphire gelose, né Yvonne accaldate, soltanto lui e il suo sogno.
Si voltò e aprì un grosso armadio, prendendo l'abito dorato avvolto in una custodia sbiadita di plastica trasparente.
“È quello?” domandò la bionda, con le braccia lungo i fianchi. Ruby annuì, guardandola negli occhi. Tirò fuori poi il vestito e sorrise.
“Sono veramente soddisfatto” fece. Manteneva la stampella con una mano mentre con l'altra reggeva il centro dell'abito.
Interamente composto in tessuto dorato, il vestito faceva della sua semplicità un punto focale. Cadeva lungo ma un leggero distacco cromatico faceva pensare che quell'unico pezzo fosse uno spezzato. Due grosse fasce giravano attorno alle spalle, lasciando interamente scoperti il centro del petto fino all'ombelico.
“Provalo”.
Yvonne annuì, voltandosi e abbassando la testa, mostrandogli il collo.
“Slaccia” fece allo stilista, che col gesto rapido di una sola mano aprì il reggiseno. Poco dopo la schiena nuda della bionda si mostrava all'uomo, in tutto il suo candore Pochi centimetri sopra il bordo degli slip, la ragazza aveva da poco tatuato un simbolo giapponese.
Lo guardò per qualche secondo, prima di slacciare la zip del vestito e porgerlo all'altra, che lentamente lo indossò.
Di spalle, quella fece per aggiustare il pezzo davanti, quindi sorrise e si voltò.
 
Ruby era sconvolto.
“Sei... sei splendida”.
 
Yvonne avvampò. E non per quelle parole, che aveva sentito milioni e milioni di volte nella vita, quanto per gli occhi che indossava il ragazzo in quel momento.
Lui non guardava l'abito, e neppure il seno, scoperto per metà, che risultava terribilmente sensuale; no. Ruby la stava guardando negli occhi, profondi come pochi altri aveva mai visto in vita sua.
Vedeva le stelle e l’intero universo che, con l’intento di collimare verso l’infinito, si fermavano sulle sue labbra.
Quelle labbra che sapeva essere morbide e dolci come miele.
Carezzò con lo sguardo il collo, lungo, candido, profumato, che si tuffava educato in quel seno splendido. E poi ancor più giù, seguendo la linea alba fino all’ombelico, ornato da un piccolo piercing con brillante.
Il bordo dell’abito terminava la corsa in una V dorata, ma gli occhi di Ruby proseguivano, seguendo le linea delle cosce, fasciate dal morbido tessuto, prima di allargarsi sul pavimento.
“Davvero?” domandò quella, abbassando lo sguardo, timidamente.
“Davvero” fece l’altro, prendendole la mano e facendola ruotare lentamente. “Il vestito ti cade perfetto, addosso. Non credo che niente ti starà mai così bene…”.
“Che modesto” sorrise l’altra.
“Vuoi provare a sfilare un po’?”.
 
E così la ragazza partì davanti all’ascensore, con un leggero sorriso ammiccante e le mani lunghe sui fianchi. I capelli, sempre legati in una lunga treccia, danzavano dopo ogni suo passo, seguendo le anche e poggiandosi sulla schiena nuda.
“Bravissima” sorrideva Ruby, seduto proprio in fondo al corridoio. La vedeva arrivare in sua direzione, elegante e col collo allungato.
“Poggia bene i piedi e stai attenta a non inciampare. Così” sorrise ancora. “Bene, vieni qui in fondo e poi posa con le mani ai fianchi”.
“In questo modo?” chiese.
“Non parlare, ascolta solo. Perfetto”.
Yvonne era praticamente davanti a lui, con le mani strette sui fianchi. Guardò quindi verso destra, verso sinistra, e fissò Ruby negli occhi.
“Ora” fece l’altro.
Sorrise leggermente, la donna, quindi ammiccò.
“Perfetta”.
Yvonne si voltò e tornò indietro, calcando il corridoio tra le scrivanie come se fosse la passerella. Si fermò davanti all’ascensore, sempre col volto serio e gli occhi che bucavano lo sguardo di chi la osservava. Portò ancora le mani ai fianchi.
Quindi sorrise.
“Com’è andata?” domandò, col sorriso pieno di gioia.
Ruby applaudì un paio di volte, prima che il cellulare squillasse.
“Come ho detto prima: perfetta. Se non esistessi dovrebbero crearti daccapo, e comunque non riuscirebbero a farti così perfetta”. Neppure finì di parlare che già stava rientrando nell’ufficio, rapido.
Ma appena afferrò il cellulare in mano, quello smise di suonare.
Classico.
“Succede sempre così…” bofonchiò il ragazzo, alzando gli occhi e vedendo Yvonne sorridere a mezza bocca. Vide poi che aveva dei messaggi.
 
 
Yvonne?! La bionda?! Siete da soli?!       22:29
 
RUBY TI CONSIGLIO DI RISPONDERE PRIMA CHE TI STACCHI LA TESTA DAL COLLO       22:30
 
RUBY CAZZO TI STAI SCOPANDO QUELLA?!            22:30
 
RISPONDI PORCA TROIA!      22:31
 
RISPONDI! RUBY!      22:32
 
Non riesco a credere che tu mi abbia tradita con quella   22:33
 
Sto prenotando un biglietto per Unima e appena ti vedo giuro che ti ammazzo di botte  22:50
 
Che ne dici di smetterla, brutta racchia?! Sto lavorando!   22:53
 
Mi spiace se non sono bella come Yvonne, ma conosco molti più modi di lei per ammazzarvi e farvi sparire nel nulla. Perché cazzo non rispondi al telefono?!       22:53
 
Cosa, del concetto STO LAVORANDO non capisci?!       22:53
 
Perché non mi rispondi al telefono?  22:53
 
S            22:53
 
T            22:53
 
O           22:54
 
L            22:54
 
A            22:54
 
V            22:54
 
O           22:54
 
R           22:54
 
A            22:54
 
N           22:54
 
Hai finito di fare il coglione?  22:54
 
D           22:54
 
O           22:54
 
 
Che poi che lavoro è vestire le modelle?! Sono troppo nude! Non posso vivere con questa cosa!  22:55
 
 
Il ragazzo poi alzò lo sguardo e sospirò.
“Permettimi una foto, signorina” fece alla bionda, che sorrise dolcemente, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi.
Era veramente fotogenica.
Ruby scattò la foto e la inoltrò a Sapphire.
 
 
Yvonne non è nuda          22:55
 
22:55
 
Ha le bocce totalmente da fuori, Ruby!               22:56
 
Non ha le bocce da fuori, Sapph… È soltanto il vestito ad esser fatto in questo modo        22:56
 
Non mi piace questo vestito!      22:56
 
…           22:56
 
Non è vero… Probabilmente lo guarderei in una vetrina e mi sentirei male perché non ho il fisico per indossarlo      22:57
 
 
Ruby riacquistò il sorriso.
 
 
Il tuo fisico è perfetto, per i miei gusti. Le donne devono essere toccate, strette tra le mani. Le modelle sono quasi tutte mazze di scopa.    22:57
 
 
Poi alzò gli occhi e guardò Yvonne.
 
 
Chiamare Yvonne mazza di scopa è da pazzi… nonostante, quando la vedo, ogni cellula del mio corpo sia magneticamente attratta verso la prima arma bianca a disposizione, devo ammettere che ha un corpo assurdo. Se mi piacessero le donne le sarei saltata addosso.           22:58
 
 
Appunto.
 
 
Ora vado. Ci sentiamo quando torno in albergo. Ti amo.   22:59
 
 
“Hai inviato la foto a White?” domandò Yvonne, cercando di allungarsi il più possibile per raggiungere la cerniera. Voleva uscire da quel vestito.
Il ragazzo posò il cellulare sulla scrivania e l’aiutò, cercando di non sgualcire l’abito.
Fece quasi per voltarsi, Yvonne, ma poi ricordò d’essere nuda e quindi si bloccò.
“Ehm… Ruby… Puoi girarti?”.
“Sì, scusami” fece l’altro, sovrappensiero, voltandosi e andando nuovamente verso la scrivania.
Il led del cellulare lampeggiava: era arrivata la risposta della sua donna.
 
 
Ora vado. Ci sentiamo quando torno in albergo. Ti amo.   22:59
 
Ok. Stai attento e mi raccomando. Io ti vedo. Sempre.    22:58
 
 
Il ragazzo sorrise, facendo cenno di no con la testa.
Sapphire non sarebbe mai cambiata. E forse amava con tutto se stesso quella gelosia asfissiante, che lo costringeva in una morse dolce da cui non voleva uscire.
“Ecco... Puoi voltarti” sentì Yvonne, dall'altra parte.
Quello si girò, vedendola in intimo, mentre infilava i pantaloni.
“Va benissimo. Appena hai finito qui torneremo in albergo. A meno che tu non abbia altro da fare...”.
“Che dovrei fare?” chiese poi l'altra, alzando lo sguardo e sorridendo.
“Non ne ho idea. Hai qualcos'altro da fare?”.
“Mangiare” fece quella. “Ho molta fame e oggi non ho toccato cibo...”.
Ruby la immaginò davanti a una di quelle piccole insalate striminzite che aveva visto più e più volte davanti a Kimberly. Poi pensò al fatto che quella fosse di Kalos. Immediatamente la sua testa si collegò ai formaggi, ai vini e alle baguette.
“Se vuoi...” disse quello, spostandosi verso la scrivania. “Ho qui mezzo sandwich... Lo avevo preparato per Whiteley ma quella ragazza fugge sempre. Sembra avere qualche segreto...”.
Lo allungò verso la bionda, che aveva appena finito di chiudersi la camicia.
“Volentieri...” disse, addentandolo velocemente.
Piccole briciole di pancarré caddero sul pavimento in parquet.
E anche in quel modo, coi bottoni dei polsini aperti, in piedi con la zip dei pantaloni ancora spalancata e scalza, quella donna riusciva a mantenere classe e grazia.
Divorava quel panino come avrebbe fatto una principessa.
“A Kalos cosa mangiavi, generalmente?”.
Il ragazzo poi girò attorno alla scrivania, controllando per l'ennesima inutile volta le mail.
Quella masticava, con lo sguardo rivolto in alto, a scavare nella memoria recente. Si avvicinò, poi, facendo spallucce e accomodandosi sulla poltroncina di pelle che quello aveva davanti.
“Mah... non molto” scoppiò poi in un piccolo sorriso, pulendo col dito il labbro. “Non sono mai stata una mangiona, nel vero senso della parola”.
“Anoressia portami via...” sbuffò il ragazzo, spegnendo il monitor e poggiando la testa sul gomito, ben puntellato sulla scrivania. “Scusami... Non è una bella cosa da dire...”.
“Non sono anoressica...” fece, masticando un altro boccone. “Anzi. Quando vedo un piatto di bouillabaisse non riesco a resistere...”.
Ruby inarcò un sopracciglio. “E che diamine sarebbe?”.
Bouillabaisse... Non dirmi che non hai mai mangiato la bouillabaisse?”.
La vide sorridere, vedendolo spaesato.
Bouillabaisse” ripeté lei.
“Bouioaba... builliaba...”.
E lì rise.
Bouillabaisse”.
Ruby sbuffò. “Odio il francese”.
“Anche io. Comunque la bouillabaisse è una zuppa di pesce”.
“Ti piace il pesce?” domandò lui.
“Oh, sì!” rispose l'altra, addentando l'ultimo morso di panino. Leccò le dita e sorrise. “Sacrebleu... ci voleva proprio...”.
“Se vuoi ne prendo un altro alla macchinetta qui fuori” fece il ragazzo, fissandola negli occhi, prima di vederla abbandonarsi sullo schienale.
“No, no, grazie Ruby, non preoccuparti...”.
“E come ti sei ritrovata qui a Unima?”.
Lei sorrise, tirando quelle belle labbra e mostrando la dentatura perfetta. Sospirò e incrociò le braccia sotto al petto.
“Beh... è una lunga storia”.
“Non abbiamo molto da fare...” le rispose prontamente, alzando i piedi sulla scrivania.
“Sì, lo so”. La vide emularlo e mettersi comoda. “Beh… partii da Kalos tre anni fa…  In principio dovevamo essere in due a lasciare Bourg Croquis. Io e la mia amica Shana avevamo il… il sogno di Unima…”.
“Bourg Croquis?” domandò Ruby. “Sarebbe Borgo Bozzetto?”.
“Non ho idea di come chiamiate le nostre città qui, ma posso dirti che era un paesino piccolissimo sperduto tra le montagne. Ci sono cresciuta ma non mi trovavo bene…”.
“E beh, immagino. Una donna così bella che cresce in un paesino deve avere per forza di cose gli occhi di tutti addosso”.
Yvonne rimase un secondo a guardare gli occhi del ragazzo, sorridendo subito dopo.
“Sognavo di diventare una cantante, da bambina”. La donna allargò il sorriso e sospirò. “Volevo calcare i palchi e vendere dischi”.
“Sai cantare?”.
“Per niente”.
Entrambi risero. “Ma eravamo solo ragazzine che non sapevano nulla del mondo. Sognavamo”.
“E poi?”.
Yvonne tirò poi le gambe sulla sedia, cingendole con entrambe le braccia.
“E poi crescemmo, e trovammo l’occasione per venire a Unima, ma Shana si tirò indietro”.
“E tu partisti da sola”.
“Esatto” sorrise ancora, spostando lo sguardo in basso. “Pagai poco per il viaggio. Certo, attraversai l’oceano via mare, su una grande nave. Ci mettemmo tre settimane. Fu lì che conobbi Sergei”.
Ruby sbuffò, prima di sorridere, quasi deridendo l’interlocutrice. “Già… Sergei…  Su di lui ho un paio di domande”.
Lei rise di gusto, rimarcando quelle fossette che aveva accanto alle labbra. “Oh, no! Ti prego! È stato l’errore più grande della mia vita…”.
“Com’è stato possibile?”.
“E beh, diverso tempo isolati su una nave… Prima di venire qui lui era anche un bell’uomo, magro, con l’aria distinta. Persi la testa, lo ammetto…”.
“E me ne sono accorto…”.
“I russi sono cattive persone” continuò lei. “Non mi aspettavo fosse così violento. Cominciò quasi subito dopo esser sceso a fare uso di droghe pesanti… E quando era fatto diventava manesco. Mi ha rotto una costola, l’anno scorso”.
Ruby storse il muso, guardando in basso. Poi risollevò lo sguardo e sparò una domanda a bruciapelo “Ti drogavi anche tu?”.
Yvonne lo fissò, indossando una maschera cerea sul volto, finendo con l’annuire.
“All’inizio sì. Poi capii che non potevo andare avanti così e lo lasciai. Mi trasferii a Bellevie Avenue”.
“Che è il luogo dove c’è la comune… dove ti abbiamo pescato, in pratica”.
“Esatto”.
“Ma Sergei era lì”.
“Si è presentato alla mia porta due settimane prima. Diceva di esser cambiato, di aver capito i propri errori e di aver cominciato un processo di riabilitazione…”. I suoi occhi si alzarono quasi immediatamente, e un leggero sorriso coprì il suo volto. “Mi aveva portato un bouquet di rose gialle. Le mie preferite”.
“E poi? A me Sergei sembrava un disadattato”.
“Lo era. Ha preso possesso della comune, ha fatto sesso con tutte le donne che vivevano lì ed era sempre sotto effetto di ketamina… Era totalmente assuefatto. E l’ultima volta, quando, ringraziando il cielo, siete venuti a prendermi, aveva provato ad accoltellarmi… Voi siete i miei angeli”.
Ruby la fissò, sconvolto.
“Mi dispiace molto”.
Yvonne si limitò ad abbassare il volto.
“Non devi dispiacerti…”.
I loro occhi s’incontrarono subito dopo; costruirono un ponte d’empatia, solido e pieno di calore. Poco dopo entrambi si misero i cappotti e scesero, tornando nelle proprie stanze.

 
“E hai scelto te”.




PIC by EFFEDIEFFE.
Grazie Fefé <3

 

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Capitolo 7
*** 7. Sette (VII) ***


UNRAVEL ME.
ovvero risolvimi, nel senso di districami, sbrogliami.
UNA FRANTICSHIPPING (ma per finta) di Andy Black (ma lo sapevate).
 


 
 
Unima, Austropoli, Leverack Street, FAME HUB, 25 aprile 20XX
 
Il vociare in sala era concitato.
Trenta file di persone erano incolonnate ordinatamente nella platea di quell'edificio meraviglioso che era il FAME HUB; ricavato da un vecchio mattatoio, fu rilevato agli inizi degli anni '00 da un ricco imprenditore di Ponentopoli, che lo trasformò, rendendolo uno dei posti più in di tutta la città.
Si respirava un'aria leggera, lì.
“Com'è la situazione?” domandava Ruby, immobile al centro del corridoio dietro le quinte. Modelle e truccatori s'inseguivano in una lunga danza d'accoppiamento, in cui le prime venivano catturate dai secondi e sottoposte a un processo che avrebbe reso i loro occhi più brillanti, la loro pelle più candida, le loro labbra più carnose.
Era in piedi, davanti a una finestra che dava direttamente sulla platea. Guardava le persone che parlavano.
I più parevano altezzosi omuncoli vestiti coi meglio abiti del mondo, pronti a sparare commenti gratuiti su quello che era stato definito il nuovo Micheal Kors.
A Ruby quel paragone pesava.
Pesava tanto.
“Ci sono quasi tutti. La zona dei giornalisti e dei fotografi è piena” fece White, che indossava per l'occasione un abito bianco e nero confezionato proprio da Ruby.
Erano rare le volte che lasciava i capelli sciolti ma quando lo faceva, come quella volta, riusciva a dare al proprio viso un equilibrio che la rendeva più bella.
“Non dire così...” rispose l'altro. “Tra poco svengo, Gesù...”.
Poi, alle sue spalle, uscendo dalla penombra, apparve Yvonne, stretta nel suo vestito.
Trucco e parrucco le erano già stati applicati. Il fianco candido era scoperto, sotto il bacio pallido dei deboli fari che illuminavano l'ambiente, e il seno era in bella vista, nonostante l'eleganza della fasce che le coprivano il petto, lasciando scoperto il centro della scollatura, fino all'ombelico e anche oltre.
“Stai tranquillo” disse la bionda, aderendo contro la sua schiena e cingendogli vita; poggiò il mento sulla sua spalla. “Andrà bene. Gli abiti sono tutti fantastici”.
Quello dagli occhi rossi riconobbe il profumo della donna, finendo per sospirare.
“Tu sei pronta?” le chiese, immobile.
“Mancano le scarpe. Le metto dopo”.
“Fatti aiutare e non rovinare il vestito”.
Poi White si voltò, la guardò e spalancò gli occhi. “Cielo, che meraviglia...”.
Si avvicinò a lei e la tirò via dallo stilista.
“Sei meravigliosa” disse, facendola voltare lentamente. Saggiava con le dita il tessuto delicato dell'abito, poggiate sulle curve deliziose di Yvonne, che reagì soltanto sorridendo.
Ruby non si curò di loro, avvicinandosi a sua volta alla finestra che dava sul pubblico.
E in prima fila la vide: Sapphire, in un elegante tubino nero con dei volant sull'ampio seno.
Gli occhi inconfondibilmente blu, e quella pettinatura caratteristica che aveva imparato ad amare.
“È qui” sussurrò.
Yvonne e White si voltarono, raggiungendolo. “Cosa?” domandò la prima, andando alla sua destra. L'altra invece aveva già capito, e gettò un occhio in sala.
“Non la vedo”.
“Quella col vestito nero, la terza sulla sinistra”.
White guardò dritto, fissando con attenzione la prima fila: vi era un uomo, dai lunghi capelli castani lasciati cadere sulle spalle; indossava un maglioncino di filo blu, parecchio attillato, a collo alto.
La lunga barba era incolta, e terminava poco prima della collana con la croce d'argento.
Prima di lui vi era un uomo con la coppola marrone e un lungo soprabito. Col cellulare, scattava foto in continuazione.
Infine vi era lei.
“Sì” replicò la Presidentessa, sistemando un ciuffo ribelle dietro l'orecchio destro. “Quella donna è Sapphire”.
Ruby sospirò, poggiando la fronte calda su quel vetro che pareva essere fatto di sottile e trasparente ghiaccio. L’ansia era troppa, e le aspettative che tutti gli stavano caricando addosso lo stavano flettendo lentamente: tutti i giornali parlavano di questo nuovo fenomeno, e il suo atelier stava acquistando rapidamente popolarità senza neppure possedere un abito a catalogo per la vendita.
Chiunque avesse letto una rivista di moda negli ultimi sette giorni sapeva che quel giorno, al FAME HUB, sarebbe nata una stella.
E quella consapevolezza, l'idea che tutti si aspettassero qualcosa di meraviglioso, gli triturava le costole. La presenza di Sapphire lì, poi, non lo metteva a proprio agio.
Non sapeva se quella sera sarebbe salito sul carro dei vincitori, e se così non fosse stato non avrebbe voluto guardare negli occhi la sua donna, mentre la gente gli dava del fallito.
Sospirò. Quell’insicurezza non era da lui.
“Andrà tutto bene” disse poi Yvonne, prendendogli la mano, quasi come se gli avesse letto le preoccupazioni nello sguardo. “Sapphire è qui per te. E in ogni caso sarà un successo”.
“Vero” rincalzò White, sorridendo contenta. “I tuoi vestiti sono meravigliosi”.
“Sì, me lo ripetete tutti...” sbuffò quello, infilando le mani nelle tasche dei pantaloni neri e attillati. “Ma è il momento di dimostrare qualcosa”.
Spalancò poi gli occhi, pieno di una nuova energia. “E forza tutte, ragazze!” urlò, spostando delicatamente Yvonne e avanzando al centro della sala. Analizzò con sguardo fisso ogni elemento, dai truccatori che stavano lavorando sulle ultime modelle, che ancora dovevano indossare gli abiti con cui avrebbero solcato le passerelle, ai tecnici delle luci, dietro le consolle, che urlavano ai loro aiutanti di regolare il fissaggio dei fari.
Respirava ad ampi polmoni, Ruby.
Forse era stato soltanto il panico a coglierlo: aveva desiderato per anni un momento come quello e proprio in quell'istante capì di volersi trovare da un'altra parte.
Persone su persone, tanta gente che lavorava per e con lui, ma lì, dietro la cascata di tessuto del palcoscenico, avrebbe voluto Sapphire. Soltanto lei.
White lo vedeva boccheggiare. Gli si avvicinò lenta, poggiandogli una mano sulla spalla.
“Hey... Manca un minuto all'inizio della sfilata. Preferisci che rimanga qui o posso andare a sedermi davanti, al mio posto?”.
Ruby si voltò, guardandola negli occhi.
“No, vai. Vai pure...”.
“Sei sicuro? Non ho alcun problema a stare con te, sia chiaro!” faceva la donna, sorpresa dalla situazione. Poi guardò negli occhi Ruby e ne saggiò la rinnovata determinazione.
“È stato… è stato solo un momento. Tranquilla. Posso fare ogni cosa, se voglio”.
White sorrise.
“Ora ti riconosco”.
La musica partì all’improvviso, facendo sobbalzare Yvonne, che poggiò una mano sul petto.
“Mon Dieu…”.
“Forza” le disse il ragazzo, carezzandole i lunghi capelli. “Finisci di prepararti. E voi!” fece, voltandosi verso le altre ragazze. “Stasera vi voglio perfette! Siete in grado di farcela?”.
Tutte annuirono, con gli occhi preoccupati.
“Ma andrà bene” sorrise poi, infilando le mani nelle tasche dei suoi pantaloni neri e cercando di distendere gli animi. “Perché siamo vincenti. Perché gli abiti sono ben fatti e voi, oltre a essere preparatissime, siete miracoli della natura. Kimberly” la chiamò poi, voltandosi e guardando la rossa, che si alzò immediatamente in piedi.
“Ruby” rispose, avvicinandosi.
Lui la guardò in volto, quasi del tutto struccata, perdendosi per un attimo nei suoi occhi. Passò poi a carezzarle con lo sguardo i capelli, chiusi in una grossa treccia a spina di pesce.
“Sei la prima. Mi raccomando”.
Quella annuì, sospirando e vedendo il ragazzo tenderle i lembi della giacca che indossava.
“Che succede?” domandò, guardandolo dall’alto dei quindici centimetri dei tacchi che la elevavano. “Tutto bene?”.
“Sì” rispose quello, allargando il bordo della gonna e prendendo una spilla dalla tasca. S’inginocchiò e, con l’ausilio di un paio di forbici, ne tagliò una parte.
“Ruby! Che fai?!” urlò White, impanicata.
La voce dello speaker, intanto, dava il benvenuto agli ospiti.
“Sta cominciando!” rincarò la Presidentessa.
“White, dopo, sto lavorando…” faceva lo stilista, mentre continuava a tagliare. Il tessuto della gonna beige della donna s’apriva in due, lasciando all’occhio la bellezza delle cosce della rossa.
“Perché mi spogli?” chiese invece Kimberly, totalmente immobile.
“Meglio nuda davanti a noi che in passerella…”.
“Il vestito è tagliato male?”.
Ruby alzò gli occhi, guardando con sufficienza la modella, che si limitò a sorridere.
“Facciamo che non rispondo”.
Inserì poi la spilla nel tessuto e la chiuse, rialzandosi in piedi.
“Come te lo senti?”.
Tutti guardavano Kimberly, mentre la musica andava e il palco, a qualche metro da loro, si apriva.
“Vai!” urlava White, spingendo la ragazza, evitando di farla cadere.
“Va bene, va bene!” rispondeva invece l’altra, indossando poi la poker face e cominciando a camminare con eleganza verso la luce bianca dei riflettori.
E fu lei la prima a calcare la passerella.
White sbuffò, tirando fuori tutta l’ansia repressa.
“Dannazione, Ruby!” fece, afferrandolo per il braccio e portandolo verso la finestra laterale, da dove ammirarono Kimberly arrivare in fondo e posare per le fotografie, prima di voltarsi e ritornare indietro.
“Fa’ che non cada, fa’ che non cada, fa’ che non cada, fa’ che non cada…” faceva la donna, stringendo sempre più forte la mano di Ruby, che intanto aveva poggiato l’avambraccio sul vetro e vi premeva contro la fronte.
“Non cadrà”.
Passò un secondo dalle parole di Ruby che White si voltò verso di lui, toccandogli la spalla.
“Perché le hai tagliato la gonna?”.
“Era troppo tesa sul bordo. O Kimberly stasera è gonfia o io ho sbagliato a prendere le misure”.
White sorrise e inarcò un sopracciglio. “Kimberly mi sembra tutto tranne che gonfia…” ribatté l’altra, guardando la figura perfetta e slanciata della modella che arrivava a capo della passerella.
Ruby guardava silenzioso, col cuore che batteva forte.
“Esci…” sussurrò, quasi come se le stesse parlando all’orecchio. Quella guardò fissa la luce bianca che aveva davanti, sparata dal riflettore che l’accecava e le faceva distinguere solo i flash dei fotografi, quindi uscì da dov’era entrata, camminando elegantemente.
Arrivò davanti ai due, col volto cereo.
Entrambi rimasero in silenzio, prima che quella si piegasse in due, vomitando tutto ciò che avesse in corpo, per lo più alcool e qualcosa che alcune ore prima era riconducibile a tre foglie d’insalata verde.
Il ragazzo corse da lei, sollevandole i capelli e mantenendole la fronte. Poi guardò White, col volto di chi sapeva e sospirò.
“Non sbaglio mai, quando prendo le misure…”.
 
La sfilata proseguì in quel modo. Non vomitò più nessuna. Le restanti tredici fecero il proprio lavoro, con White che fremeva dietro al vetro e sussurrava fa’ che non cada come se fosse un mantra, e Ruby che continuava a rimbalzare gli occhi tra le modelle e i loro movimenti sinuosi e le reazioni di Sapphire, che si limitava ad applaudire alla fine di ogni passerella, senza mai guardarsi attorno. Aveva sul viso un'espressione neutra, da cui non traspariva mai un'emozione.
Non sorrideva, né si mordeva l'interno delle guance, com'era abituata a fare spesso.
Ed era l'unico cruccio del ragazzo, che quella sera aveva guadagnato serenità man mano che le ragazze s’accalcavano, sfilando elegantemente sulle lastre nere e lucide della passerella.
Volle lasciare Yvonne per ultima.
Lei era pronta; era accanto all’ingresso in passerella, proprio davanti alla cassa che espelleva musica di dubbio gusto ad alto volume. Nei suoi occhi s’intravedeva però una vena d’insicurezza ed era strano.
Solo con lo sguardo Ruby le fece intendere di aver capito; Yvonne s'aggrappò a quegli occhi per un lunghissimo secondi, riuscendo quasi a parlargli.
E se solo avesse potuto, avrebbero detto:
 
 
“So che sfilo ormai da un po'... Non molto, in realtà, ma tre o quattro passerelle le ho calcate. Però non avevano questo peso, quest'importanza per me.
Tu mi chiederai: perché dovrebbe avere peso per te, questa sfilata?
La risposta è che lo ha perché ha peso per te; percepisco il tuo panico, il tuo dolore nel guardare Sapphire davanti a te, che non si scompone, che non guarda oltre il vuoto del palcoscenico né sorride.
Apatica, è lì. E lo so, può essere un problema se la donna che ami non ti apprezza, né ti dimostra il suo orgoglio per il tuo operato. Io però capisco quanto per te sia importante, questa sfilata, e non voglio sfigurare.
Perché ho indosso il tuo miglior vestito, fino ad ora, e se sfigurassi io automaticamente lo farebbe anche lui.
E voglio che diventi uno tra i grandi.
Perché mi hai teso la mano e mi hai tirato fuori dal fosso dov'ero bloccata; mi hai pulita dal fango e mi hai trattata come la più preziosa tra le rose che hai nel bouquet”.
 
 
“È il tuo momento...” le aveva detto quello.
Yvonne si era limitata ad annuire. Combatté contro il panico, che la costringeva a non muoversi da lì, quindi sospirò e fece tutto come avevano provato in atelier, poco tempo prima.
Avanzò, un passo, due, tre passi, le luci dei flash avevano inondato il suo volto e accecato i suoi occhi. Vedeva soltanto i led che delimitavano i bordi della passerella.
Al contrario di tutte le sue colleghe, il suo volto non era serio. Lei non era un manichino, lei era la protagonista, e quindi sorrise leggermente, con le braccia lunghe che ondeggiavano in corrispondenza di ogni suo sinuosissimo passo.
“Forza...” diceva Ruby, al di là del vetro opaco, stringendo la mano a White, che s'era totalmente zittita. Stava mantenendo il respiro.
“Presidentessa...” sussurrò lo stilista, continuando a guardare dritto. “Mi stai stritolando la mano...”.
“Lo so. Sopporta in silenzio”.
Yvonne camminava elegantemente, col viso che puntava dritto e quel sorriso che continuava a bucare le fotocamere.
Arrivò in fondo e posò le mani sui fianchi nudi, quindi, come provato in atelier, guardò prima a sinistra e poi a destra. Cercò Sapphire con lo sguardo ma quella non era più al suo posto.
Non rimase a pensare per troppo tempo, fissò dritto e contò.
“Uno... due...”.
Allargò il sorriso, sempre leggero, sempre delicato e nascosto dalle morbide labbra.
“Cielo...” fece Ruby, ridendo. “Lo ha fatto davvero”.
White sentiva le altre modelle, tutte alle loro spalle, commentare incredule.
La modella in passerella poi si voltò, mostrando l'incredibile lavoro che lo stilista aveva fatto sul retro del vestito. Arrivò quindi alla fine, si voltò ancora e fissò dritto, portando nuovamente le mani ai fianchi e rimanendo seria per un solo secondo, prima di esplodere in una risata.
Poi uscì dalla scena.
 
Si presentò davanti ai loro occhi con le lacrime pronte a scendere, col trucco che le illuminava il viso e i capelli che, ancora ben acconciati, le incorniciavano l'ovale. L'abito le stava addosso in maniera sopraffina, lasciandole scoperti parte del seno e l'intero centro addome, fin sotto l'ombelico.
“È andata!” sorrise, fiera, camminando rapida verso Ruby e gettandosi tra le sue braccia. “Ce l'ho fatta!”.
“Sei stata fantastica” le diceva l'altro, stringendola alla vita, delicatamente. White la vide affondare il viso tra la spalla e il collo di Ruby, avvolgendogli le braccia attorno al collo.
Era intimo. Sembravano totalmente isolati dal resto del mondo, uniti in quella stretta in cui entrambi attingevano dall'altro un po' di quel sollievo di cui necessitavano.
Quella sfilata li aveva messi a dura prova, portandoli l'uno di fronte all'altra e mettendo a nudo le loro insicurezze.
Tuttavia erano in mezzo ad altre quattordici modelle, l'intera crew di preparazione tra tecnici del suono, delle luci, truccatori, parrucchieri e assistenti, oltre alla stessa White, e la cosa cominciava a sembrare un tantino esagerata.
“Ragazzi...” disse la Presidentessa, avvicinandosi. “Forza...” faceva, staccandoli, quasi infastidita; suscitò in Ruby il sorriso. Quello s'isolò dal gruppo, riacquistando posizione presso il vetro.
“È andata via...”.
Nel petto il cuore batteva come una grancassa, spezzandogli il respiro ritmicamente, sistematicamente. Era dura.
Perché non era entrata lì? La musica suonava ancora ad alto volume e telefonarle era assolutamente fuori discussione. Tuttavia avrebbe potuto mandarle un messaggio.
Già, avrebbe potuto, se il cellulare non avesse esaurito la batteria.
“Non c'era” sussurrò Yvonne, avvicinatasi a lui. “Non appena sono arrivata alla fine della passerella, Sapphire era già andata via...”.
Quello sbuffò e sentì il presentatore chiamarlo.
I suoi occhi rubini si spalancarono e il panico lo avvolse interamente.
Cercò con lo sguardo aiuto in Yvonne, che si limitò a fare spallucce. Al contrario White, più reattiva, spostò una ciocca di capelli dietro l'orecchio e corse verso di lui, tirandolo poi a sé e spingendolo in direzione della passerella.
Fu praticamente sommerso dalle luci dei fotografi.
 
Lui è Ruby! E questo è l'Atelier Automne! Da domani su tutti i cataloghi online!
 
Per un attimo dimenticò tutto.
Dimenticò di essere un Dexholder, di avere Pokémon nella cintura di quei pantaloni di pelle. Dimenticò come si chiamava, da dove veniva. Dov'era nato e l'età in cui si era trasferito a Hoenn.
Dimenticò l'odore dei prati, il colore dei tetti di Albanova, e Albanova stessa, sonnacchiosa e sempreverde, priva di un qualsivoglia vagito di vita.
Dimenticò il nome dei colori, e quello dei suoi piatti preferiti.
Dimenticò il volto di suo padre, e la voce di sua madre. Niente più responsabilità, né cose da fare.
Dimenticò Rossella, Rocco, Adriano. Birch.
Dimenticò Groudon e Kyogre, e quella cicatrice che gli deturpava la fronte, testimone dei suoi errori, involontari lampi di un ragazzino senza troppi limiti imposti.
Dimenticò Sapphire e la fuga galeotta di quella sera, senza un motivo ben preciso.
Dimenticò la sua voce, i suoi occhi e il profumo dei suoi capelli. In quel momento non esisteva il suo odore, né la sensazione di vuoto che provava nello stomaco quando lei era stesa accanto a lui.
Dimenticò il suo seno, morbido e leggermente smagliato sul lato, totalmente in contrasto con l’addome tonico e il sedere sodo.
Dimenticò il fastidio che provava quando si svegliava e trovava i vestiti di quella, che indossava la sera prima, tutti sparpagliati per la stanza. E dimenticò anche di dimenticare sempre di arrabbiarsi con lei, in quelle circostanze, perché la vedeva dormire accanto a lui e se ne innamorava.
Ogni dannata e patetica volta.
Aveva dimenticato tutto.
Su quel palco era rimasto soltanto il guscio vuoto di una vita vissuta essendo qualcosa che in quel momento gli pareva distante anni luce.
Si stagliava silenzioso contro l'onda luminosa che catturava un'immagine distorta di quella che era la realtà. I flash violentavano il suo sguardo, mentre la musica si abbassava.
Lui era in alto e gli altri in platea, mentre le sue debolezze venivano spente, come cicatrici cauterizzate dal calore di persone che non conosceva e che l'indomani lo avrebbero osannato come il nuovo genio della moda.
Stringeva tra le mani un microfono. Lo guardò, mentre i flash continuavano a disorientarlo.
Il silenzio calò, mentre un leggero fischio si diffuse dalle colonne nere di JBL, al lato della passerella.
“Buonasera” sorrise poi. Era visibilmente commosso e la gente cominciò ad applaudirlo, quasi come per incoraggiarlo.
“Vorrei… vorrei ringraziarvi tutti. Non è la prima volta che mi trovo davanti a una platea così grande di persone, ma forse è la prima volta che mi sento… quasi nudo. E per uno stilista è quasi un paradosso”.
La gente rise.
“Speriamo soltanto che questa sia la prima di tante altre manifestazioni. Troverete i miei abiti sui migliori cataloghi online. Per informazioni prendete le brochure prima di andare via”.
Sorrise, quello, mentre i flash continuavano a catturare la sua immagine, a intermittenza.
“Vorrei comunque ringraziare tutti i ragazzi che sono dietro le quinte che... che hanno lavorato duramente...” diceva, allungando poi lo sguardo verso il grande maxischermo sulla sinistra, dove poteva vedere il suo volto, visibilmente scosso.
Analizzò per un decimo di secondo quell'uomo, ritenendolo estraneo ai propri occhi, nonostante avesse le sue stesse iridi rubine, gli stessi capelli corvini laccati e quella cicatrice che gli attraversava la tempia destra.
“Inoltre ringrazio i truccatori e i parrucchieri, i tecnici... e la mia amica White, presidentessa dell'agenzia che ci ha fornito le meravigliose modelle, che ora chiamo sulla passerella”.
Fu lui il primo ad applaudire, seguito dal resto della folla. Una ad una le ragazze uscirono eleganti, nella stessa sequenza in cui erano apparse al grande pubblico del FAME HUB. Con lo sguardo le cercò tutte, ricordando i loro nomi non appena fissava i loro occhi.
 
“Kendra, Kimberly... Faye... August, Blanche e Monique... Chanel e Naomi... Janice, Isis, Katie... Mallory... Valentina e Kelly... e poi Yvonne.
 
Ancora una volta fu rapito dal sorriso della bella bionda, che gli si avvicinò, stringendolo in vita.
Si sporse poi verso il suo orecchio, sussurrandogli una frase.
“Tres bien”.
“Loro sono le meraviglie della natura che indossano i miei abiti stasera. Applausi per loro e buonanotte a tutti”.
Il boato scemò un minuto dopo, quando cominciò la processione per il rientro verso le dimore.
 
Non ci volle molto prima che Ruby ritornasse da White, dietro le quinte.
Quella manteneva tra le mani una bottiglia di costosissimo Jéroboam, e sorrideva vistosamente. Ruby sentiva una stanchezza non indifferente in corpo, e la voglia di levare quel vestito nero confezionato da lui era più grande di quella di festeggiare.
Ma ovviamente White non lo capiva.
Si alzò, non appena lo vide avvicinarsi a lei.
“Mi hai addirittura incluso nei ringraziamenti finali” esordì, porgendo all'uomo la bottiglia e con quella l'onere di stapparla. Lui abbassò lo sguardo, fissando per un secondo la bottiglia di Portofino,   finendo poi per fare cenno di no con la testa.
“No, non è il caso che beva, credimi. Sono leggermente angosciato dalla situazione di Sapphire e ho il telefono scarico, non la posso neppure chiamare...”.
“Eh no” lo bloccò lei. “Dobbiamo festeggiare. Telefona a Sapphire e dille di raggiungerci. Magari ha avuto qualche contrattempo” disse, cercando nella borsa il Blackberry. Lo afferrò e guardò negli occhi vermigli lo stilista.
Riusciva a saggiarne il malessere, mentre aspettava con insana impazienza che quella gli cedesse il cellulare.
“Ma prima apri la bottiglia. Spetta a te. Ragazze, ragazzi! Si festeggia!” urlò poi la donna, alzandosi in piedi e lisciando l'abito. Si voltò, poi, in direzione di Yvonne, che intanto aveva smontato il vestito, mettendo addosso un jeans e un maglioncino con lo scollo a V. Seguita dalle altre, la bionda vide lo stilista stappare lo spumante con garbo e cederlo nelle mani di White, afferrando con un rapido gesto il cellulare.
Si allontanò subito dopo, uscendo dalla porta di servizio, che cigolò sotto la sua spinta.
La luna illuminava a malapena il vicolo su cui si affacciò il ragazzo. Da lì vedeva il cielo con difficoltà, attraverso la feritoia formata dalle fiancate dei due alti palazzi che lo circondavano.
 
Cinque... Quattro... Due... Sette...
 
Ripeteva a memoria il numero della sua ragazza, fin quando non premette il tasto verde.
Avvicinò il cellulare all'orecchio, guardandosi intorno e sospirando.
Uno squillo.
Due, tre squilli.
Poi rispose.
“Sapphire Birch”.
“Oi...” disse Ruby, in uno sbuffo figlio di un sussurro e un lamento.
Chi è?”.
Sono io, amore. Sto telefonando col numero di White...”.
Che diamine di fine hai fatto?! Sto cercando di chiamarti da trent'anni!”.
Il ragazzo sorrise leggermente. “Esageri sempre... Perché sei scappata via appena è uscita Yvonne?”.
“Non ho capito” rispose l'altra, mentre una leggera interferenza infastidiva la comunicazione.
Perché sei scappata via dalla platea, stasera, non appena è uscita Yvonne sulla passerella?”.
Sapphire rimase un secondo in silenzio.
Svitato... io sono ad Albanova. Ti stai drogando?”.
“No” ribatté immediatamente l'altro. “Io ti ho vista, tu eri in prima fila e hai applaudito in maniera fredda per tutta la sfilata”.
E secondo te è plausibile questa cosa?”.
“Cosa?”.
Che io, alla tua prima sfilata, applauda in maniera fredda... E comunque mi spiace di non averti potuto raggiungere... Ho cercato un volo che mi facesse essere in giornata lì per una settimana ma questi scioperi hanno rovinato tutto! Volevo farti una sorpresa!”.
“Cosa?! Sei a Hoenn?!” impallidì l'altro. “Ma non è possibile! Io ti ho vista!”.
Smettila di rompere le palle con questa cosa, Ruby! Ti ho detto mille volte che non ero io!”.
Ma ti assomigliava tantissimo! Gli stessi capelli e gli stessi occhi! Pure il seno e... e il portamento! Avevi un vestito nero!”.
Come i funzionari funebri? Ma sei matto?! Sembra che non ricordi ogni singolo indumento che ho nell'armadio!”.
Smettila di prendermi in giro!” s'alterò poi lui, sentendo la rabbia salire. “Eri qui! Ti ho vista!”.
“Ma sei matto?! E anche se fosse, come faccio adesso a essere a casa nostra?!”.
“... Sei a casa nostra?” chiese l'altro, dopo una breve pausa.
E sì! Senti la porta del forno che cigola?! Questo è il forno della nostra cucina! Quello che brucia il cibo sopra e lo lascia crudo dentro!”.
Al ragazzo venne da ridere, per un momento. “Dovremmo cambiarlo”.
Ormai mi ci sono affezionata. Ma perché sei così alterato?”.
Ruby fece spallucce, fissando una tag scomposta fatta con la vernice verde su quelle mura di mattoni ingrigite dallo smog. “Perché vorrei averti qui... E non ci sei. Per me è un giorno importante, questo, dentro stanno brindando e io sono qui perché vorrei soltanto stare con te...”.
“... Vieni da me, allora”.
Ruby sospirò.
“Ora non posso. Ho le sfilate da fare e devo aiutare White con la produzione e le vendite”.
Io sono piena di lavoro in questo periodo. Qui fiorisce e molti Pokémon cominciano il periodo dell'accoppiamento...”.
“Già...”.
Non fare battute sconce”.
“Non sono Gold. Ma ci sarebbe stata bene” sorrise l'altro.
La ragazza sorrise, addolcendo il cuore del fidanzato. Poi lasciò sedimentare qualche respiro e tossì leggermente.
“Entra e vatti a divertire. E stai lontano da Yvonne...”.
 
 
“Poi cambia poco, ora. Perché sappiamo entrambi che le scelte che fai sono quasi sempre definitive. Quindi a cosa mi serve più stare a guardare il cellulare, per ore, ore e ore, sperando che il display s'illumini e mostri il tuo nome?
A cosa serve rimanere a piangere sul letto, affondando il volto nel tuo cuscino per poter recuperare un po' del tuo odore.
Dopo tutti questi mesi, anche quello è sparito. Anche quello è andato via, lasciandomi sola in questa grande casa, un tempo piena di progetti, di voglia di costruire.
Oggi tomba di un amore che nel tuo cuore non trova più dimora”.

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Capitolo 8
*** 8. Otto (VIII) ***


UNRAVEL ME.
ovvero risolvimi, nel senso di districami, sbrogliami.

UNA FRANTICSHIPPING (ma per finta) di Andy Black (ma lo sapevate).
 
 
 
 
 
Unima, Austropoli, Hotel Continental, Stanza di Ruby, 26 Aprile 20XX
 
 
La testa doleva.
Come se fosse stata calpestata da una folla impanicata, senza mai riuscire a romperla del tutto. Le tempie pulsavano, pronte ad esplodere alla prima sollecitazione.
 
Ruby stava morendo.
 
O forse era soltanto colpa dell'alcool.
Aprì gli occhi lentamente, senza capire bene cosa stesse succedendo. Sentiva però l'inconfondibile odore del legno profumato dei mobili presenti nella sua stanza.
Quella camera sapeva di buono come poco altro avesse annusato in vita sua. I guanciali erano morbidi, perfetti per chiunque volesse riposare bene senza svegliarsi con la schiena bloccata.
Inoltre la sua camera era in una posizione meravigliosa per osservare l'oceano. Difatti era esposta a sud, e il sole primaverile riscaldava l'ambiente fin dalle 09:00, quando, come preimpostato, le tapparelle automatiche si aprivano, lasciando penetrare la luce.
Forse era stata quella lingua di sole a svegliarlo.
O magari era proprio il mal di testa; eppure non ricordava molto della serata precedente. Dei festeggiamenti, s'intende. L'emozione che aveva provato sulla sua prima passerella era rimasta impressa nella sua memoria come un marchio a fuoco.
E poi quella sosia, quel clone di Sapphire che forse altri non era che il risultato delle sue ansie e delle sue paure.
Della sua voglia di stringere al petto la sua donna.
La telefonata aveva chiarito tutto, e quasi come se lei lo avesse liberato da un peso raggiunse lo staff e le modelle col cuore più leggero.
Furono nove i tappi di spumante che saltarono quella sera, e quindi i brindisi, quattordici, uno per ogni modella che non lo aveva sconvolto.
E le modelle erano quindici.
Ovviamente il pensiero volò rapido verso Yvonne, mentre le palpebre provavano ad aprirsi, braccate impietosamente dalla luce aggressiva di quel sole di marzo.
Che poi era quasi aprile, pensò.
Mancavano due settimane alla seconda sfilata e in quel momento il suo unico pensiero era rivedere i suoi abiti e perfezionarli. Poi pensò al vestito di Yvonne, alle ampie fasce dorate che le coprivano la parte superiore del seno, lasciando libero il lato.
Pensava alla sua pelle candida e a quel tatuaggio sulla parte bassa della schiena.
Sexy.
Il volto della bella era d'improvviso il protagonista dei suoi pensieri; batteva le palpebre, quella, e gli occhi grigi venivano nascosti ritmicamente dalle lunghe ciglia.
E poi, da grigie che erano, le iridi diventavano celesti, e poi più scure, quasi blu.
Blu come uno zaffiro.
Le labbra di Yvonne divennero quelle di Sapphire. Ebbe quasi come l'impressione che quella fosse lì con lei, sentendone la presenza.
Ma non era possibile. Ruby era a Unima, Sapphire a Hoenn. L'aveva sentita la sera prima.
Aveva quasi deciso di aprire gli occhi, di far cominciare finalmente quella giornata, prima che nella sua testa apparisse White, col suo tailleur e la scollatura leggermente accennata.
Era elegante.
Pensò che avrebbe dovuto telefonarle  in mattinata, per parlare dell'eventuale processo di vendita. I suoi erano tutti abiti fatti a mano e se dopo la sfilata inaugurale la richiesta avesse superato i tempi d'attesa massimi, sarebbe stato costretto ad assumere altre persone nell'Atelier.
Abbozzò un sorriso, ancora immerso nel tepore delle coperte. Gli faceva piacere sapere che i nodi cruciali della sua vita fossero stati tutti sciolti: pensava all'amore e gli veniva in mente Sapphire, pensava al lavoro e gli veniva in mente la notte precedente.
Pensava al denaro e sapeva che non sarebbe più stato un problema.
L'unica cosa che si chiedeva era chi diamine avesse messo quel pacco di surgelati da frigo nel letto, vicino alle sue gambe.
 
No, non erano surgelati da frigo.
Erano piedi.
 
Fu un attimo, un impeto, un lampo nel buio della notte.
L'adrenalina lo fece saltare. Spalancò gli occhi e si voltò dall'altra parte, verso la porta.
E vide una donna.
Una donna senza maglietta, di spalle.
Una donna senza maglietta, di spalle, coperta fino alla vita dal lenzuolo, dai lunghi capelli biondi.
Ruby rabbrividì.
Non ricordava.
Non ricordava nulla di nulla. Solo la testa che scoppiava e la consapevolezza che Yvonne fosse nel suo letto.
O forse no.
Del resto era di spalle, nonostante avesse visto la schiena della ragazza trenta volte nelle ultime ventiquattr'ore non poteva avere la certezza matematica finché non avesse visto in volto chi occupava l'altra metà del suo letto.
E, pensandoci, non avrebbe neppure dovuto guardarle il viso; allungò la gamba, sollevando leggermente il lenzuolo.
E apparve. Apparve il tatuaggio.
 
Il gelo nelle vene, il sangue si rapprese e una lenta consapevolezza trasformò ogni suo pensiero nel volto di Sapphire.
Eppure lui non avrebbe mai tradito la sua ragazza; era la donna che amava, che avrebbe portato sulle spalle per il resto della vita.
La testa scoppiava. Sì, era colpa dell'alcool, sicuramente, che aveva annebbiato responsabilità, fedeltà. Volontà, forse.
Tuttavia un senso di sporco si stava espandendo a macchia d'olio nella sua coscienza, impregnando di nero il candore e il senso di giustizia.
Se Sapphire si fosse trovata in quella situazione probabilmente lui non l’avrebbe più guardata in faccia.
D’altronde sapeva che Sapphire non si sarebbe mai risvegliata nel letto di una modella bionda.
Gli veniva da piangere; aveva tradito la donna che amava.
Passò da steso a seduto, scivolando oltre il sottile lenzuolo, e poggiando le scarpe per terra.
Poi guardò meglio.
Aveva ancora le scarpe ai piedi.
Forse era l’alcool. Forse era ancora ubriaco.
Abbassò il capo, puntellando i gomiti sulle ginocchia e fissando le punte delle sue Armani, lucide ma non abbastanza, forse un po’ troppo opache.
In quel momento il mal di testa gli impediva di capire per quale motivo Yvonne fosse nuda nel suo letto e perché lui avesse ancora indosso i vestiti.
“Uh… ahn…”. La modella si stava per svegliare.
Il ragazzo si alzò in piedi, cercando di mantenere l’equilibrio e la calma ma dovette combattere con forza per evitare di risedersi e rimettere.
Guardò Yvonne, muoversi lentamente e allungare ogni muscolo del corpo. I piedi sgusciarono fuori dalle lenzuola. Ruby guardò ancora il tribale, coperto per metà, poi appoggiò gli occhi sulla schiena della bella.
Guardò quei quattro nei, tutti vicini, come stelle visibili di una costellazione luminosa, in un cielo vasto e senza nuvole. Si concentrò poi sul volto della ragazza, disteso, ancora assopito dal sonno.
“Yvonne…” la chiamò.
Ruby… que fais-tu dans ma chambre?” biascicando, mentre stropicciava le palpebre con le dita. Subito dopo si rese conto d’esser nuda e si coprì, spalancando lo sguardo. “Oh putain! Je suis nu!”.
Ruby sentì mille aghi penetrargli nella testa. S’appoggiò al muro e sospirò, chiudendo leggermente gli occhi.
“Non urlare, Yvonne… Questa è la mia stanza, non la tua”. 
Et pourquoi diable serais-je nu?!”.
“Io ho un completo addosso e ho dormito con le scarpe… Non farmi domande a cui non saprei rispondere…”.
“Chiudi gli occhi” ribatté lei.
“Già sono chiusi”.
Il ragazzo sentì un fruscio prolungato, sostituito poi dal respiro della donna.
“Okay. Apri”.
Ruby la guardò, avvolta nel lenzuolo preso dal letto, sporco in qualche punto di polvere e trucco sciolto. I capelli della donna erano spettinati, alti sulla testa, e parevano quasi assorbire la luce del sole pallido di marzo. L'occhio destro era quasi del tutto struccato mentre quello sinistro invece era in condizioni dignitose. Sbavature nere di mascara risaltavano di più sul lenzuolo che quella s'era avvolta addosso, all'altezza del fianco destro. In lavanderia avrebbero dovuto penare per pulire quella macchia.
“Bene. Comincerei col chiederti se ricordi se io e te abbiamo...”.
Ruby abbassò lo sguardo, poco prima che gli occhi di Yvonne si spalancassero. Li spostò verso il materasso, poi li ripuntò sullo stilista e fece cenno di no. “No. Non credo, no… non abbiamo fatto... quelle cose…”.
Fu come se una piccola carica avesse fatto saltare quella diga di preoccupazioni; fu subito investito da un'ondata di tranquillità.
“Non ho tradito Sapphire, quindi”.
Mon Dieu, non con me!” esclamò quella. “Non... non così, almeno...” disse, svincolando lo sguardo verso la porta. Ruby fece finta di non sentire quella frase ma non poté non ammettere a se stesso di non essere rimasto colpito.
“Anche perché generalmente quando faccio sesso le scarpe le levo...” sorrise, vedendo l'altra fare altrettanto.
“Abbiamo bevuto troppo…” fece Yvonne, turbata.
“Credevo di reggerlo lo spumante”.
La ragazza s'abbassò e raccolse il reggiseno. “Nessuno regge tanto alcool... Voltati”.
“Ho esagerato?” chiese l'altro, ubbidendo. Yvonne sgusciò fuori dal lenzuolo e infilò velocemente le bretelle del bra.
“Decisamente... Ricordo che White ci ha messi sullo stesso taxi...”.
“Sì... ha anche chiesto al tassista di assicurarsi che entrassi nell'hotel, ricordo...”.
“Probabilmente siamo collassati fuori la tua porta” sorrise l'altra, alzandosi. “Puoi guardare, sono coperta...”.
Ruby annuì, mentre levava le scomode scarpe e la giacca. Passò poi alla camicia, sotto gli occhi attenti di Yvonne.
“Che stai facendo?” gli domandò, cominciando a intravedere il petto del ragazzo.
“Una doccia, ovviamente. T'inviterei ma questa è una cosa che generalmente faccio da solo...” le rispose.
In Yvonne stava crescendo una strana attrazione nei confronti dello stilista, che prescindeva dal corpo nascosto dalla camicia e dai pantaloni. Aveva voglia di parlare con lui, di qualsiasi cosa, e il fatto la straniva. Lo guardò un’ultima e lasciva volta, prima di mettersi a cercare i suoi vestiti e raggiungere subito dopo la conclusione che lei, i vestiti, la sera prima non li aveva; sospirò e portò le mani alla fronte, fissando l'abito dorato appoggiato sull'anta dell'armadio.
“Sono uscita con quell'abito dal FAME...” disse, quasi rimproverandosi. Avrebbe dovuto lasciare nei camerini il vestito della sfilata e indossare la sua roba. “Che stupida!”.
Ruby sorrise, cominciando ad aprire i bottoni della camicia uno ad uno. La stava deridendo con l’estrema delicatezza che lo contraddistingueva. “Prendi il maglione bordeaux dall'armadio. È abbastanza lungo da coprirti le cosce fino al ginocchio.
Quella eseguì e, quando si voltò, Ruby non aveva la camicia. Fissò i pettorali di quello per un secondo di troppo, prima che lui si voltasse dall'altra parte e mettesse il cellulare sotto carica.
Quello si accese qualche secondo dopo.
Ma c'era troppo silenzio.
“Yvonne?” sorrise ancora.
O-oui?” balbettò, con le braccia stese lungo i fianchi; si riconobbe attratta dal corpo dell'uomo, e la cosa non accadeva sovente. Del resto Ruby era un ragazzo bellissimo, dagli addominali appena accennati e lo sguardo magnetico.
Fu però il sorriso del ragazzo a catturarla.
“Il maglione. È nell'armadio”.
Oui” sussurrò velocemente.
Ruby la sentiva parlare in francese e sorrideva. “Adoro quando non ti sforzi di usare la mia lingua”.
Crétin...” sbuffò l’altra, percependo qualcosa di strano oltre al freddo sulla pelle.
Se ne stava rendendo conto.
Subito dopo si voltò e spalancò le ante del grosso guardaroba grigio. L'odore del ragazzo, pungente e quasi amarostico, era ancor più forte, lì dentro; le ricordava quello di suo padre.
Tra le giacche e le camice appese vi era un abito azzurro, femminile e molto bello, avvolto nella camicia trasparente di plastica. Non era ancora terminato.
Evidentemente lo stilista lo stava ancora ultimando. Lo carezzò, saggiandone la morbida stoffa al di sotto della protezione, poi si rimproverò. Stava perdendo troppo tempo; mentre lei prendeva e indossava il maglione, Ruby accese il cellulare.
Ci fu un attimo di panico, in cui lo stesso dispositivo non sapeva quale notifica far apparire per prima, tra messaggi in segreteria, SMS arrivati e avvisi di chiamata.
Si preoccupò subito per Sapphire, aprendo la sua conversazione.
 
 
Ho provato a telefonarti per farti gli auguri... A dire il vero ho provato fino all'ultimo a venire lì, ad essere presente ma non ho trovato un aereo giusto che mi facesse essere lì a un orario decente. In ogni caso ti auguro il meglio per stasera. Ti amo tanto, campione <3     22:58
 
E cerca di fare un buon lavoro, altrimenti vengo lì ad ammazzarti a mani nude. Vestita da selvaggia =P    22:59
 
Hey... Rispondi al cellulare, per favore? Non farmi andare in paranoia ogni volta!  00:15
 
Come sempre non rispondi mai. Va beh, stasera l'hai vinta, sarai parecchio impegnato. È che... Dannazione! Volevo essere lì con te!               01:58
 
Non festeggiare troppo! Non lo reggi bene lo spumante!  02:00
 
Quando torni in albergo mandami un messaggio. 02:00
 
Figuriamoci... Starai dormendo crocifisso sul materasso, come tuo solito... Io che ti aspetto pure, poi...     03:42
 
Buongiorno, Casper.... Appena ti svegli mi dai un cenno? Ho letto alcune testate online che parlano benissimo di ieri sera. Stiamo per diventare ricchi!       11:12
 
 
Ruby sorrise. Ovviamente non era il suo obiettivo, arricchirsi tramite la moda. Lui stava vivendo il suo sogno e lì nessuno lo giudicava.
Forse molti lo davano già per gay. Odiava quello stupido luogo comune.
Si voltò per un attimo, fissando Yvonne e la dolcezza che esprimeva cercando di tirare su le maniche del maglione, troppo lunghe.
Poi riabbassò lo sguardo sullo schermo e aprì la conversazione con Sapphire.
 
 
Bambola, buongiorno. Ieri abbiamo tirato tardi e mi sono appena svegliato. In giornata dovrò sentire White e vedere quanti ordini abbiamo per i modelli in catalogo. Sarà un lavoraccio. Mangio un morso e vado, ti amo.                 12:01
 
 
Abbassò il cellulare e si voltò ancora. La ragazza cercava le scarpe e sembrava avesse fretta.
Un dubbio poi s’insinuò nella sua testa, fastidioso.
“Ehi, Yvonne... Anche se non è successo niente sai bene che sono fidanzato… se Sapphire dovesse venire a sapere una cosa del genere potrebbe mettere a rischio la mia relazione… Lo sai, vero?”.
Je sais. Savez-vous où sont mes chassures?” domandò subito dopo la ragazza, senza dare troppo peso a ciò che aveva detto Ruby.
Il ragazzo fu leggermente infastidito da quell'atteggiamento e si avvicinò subito alla bionda, afferrandola per le spalle. La fissò negli occhi.
Yvonne sussultò. Erano davvero molto vicini.
“Non sto scherzando e voglio che tu prenda seriamente questa cosa. Tengo a Sapphire più di qualsiasi altra cosa al mondo e non voglio perderla”.
Ruby non s'accorse che lo sguardo della donna s'incupì.
“Hai capito?”.
L’altra abbassò il viso, cercando di evitare gli occhi rossi dell’altro, fissando invece le labbra. Le fissò e poi lo guardò negli occhi.
Stava per succedere.
Lui però mollò subito la stretta, allontanandosi.
“Allora?” chiese ancora, cercando conferma.
“Sì. Sì, Ruby. Entendu…”.
“Perfetto” fece l’altro, aprendo la porta del bagno e chiudendosi dentro. “Chiudi la porta, quando esci”.
 
Unima, Austropoli, Molo 12, Bar AVANTGUARDIA, 26 Aprile 20XX, qualche ora dopo
 
Assente.
Nonostante affondasse in una comoda poltroncina di pelle rossa, in uno dei locali migliori in riva al lungomare di Austropoli, la testa d’Yvonne era da un’altra parte, e si perdeva oltre le balaustre che aveva davanti, di plexiglas trasparente, che le permetteva di guardare l’oceano blu, quel giorno tranquillo.
Si perdeva oltre il Ponte Freccialuce, dove piccoli furgoncini, perlopiù bianchi, s’alternavano a grossi autoarticolati. Emettevano fumo nero dagli scarichi, e il cielo su di loro era più cupo.
Yvonne sapeva che era solo per via di una nuvola passeggera ma le piaceva pensare che il caso volesse punirli per via dell’inquinamento che buttavano nell’aria.
Si perdeva oltre l’orizzonte, in quel punto indefinito in cui l’oceano e il mare s’incontravano, diventando una cosa sola.
Quando era a Kalos lei volava; indossava la sua tuta alare e si abbandonava alle correnti, librandosi nel vento di quei paesaggi così deliziosamente naturali, dove le città lottavano con tutte loro stesse per non essere inglobate all'interno del verde, talvolta fallendo.
E lei si era cibata del sogno di raggiungere quel punto indefinito in cui il cielo e la terra s'innamoravano, ma ogni metro che lei faceva per avanzare verso di lui quello s'allontanava, diventando di fatto irraggiungibile.
Era in quel punto preciso che il suo sguardo si perdeva, quel giorno. Ripensò a poche ore prima, a quando quel ragazzo bello e gentile, che le aveva dato l'opportunità di uscire dalla melma in cui affondava fin nelle ginocchia, le aveva detto di non rovinare la sua relazione quasi ventennale con la donna che amava.
E la cosa l'aveva turbata e infastidita.
Le onde s'infrangevano contro le banchine del porto, poco più in là, quando si rese conto che c'era una motivazione ben precisa se la cosa la infastidiva.
A lei Ruby piaceva.
E piaceva anche molto.
E non soltanto per una questione fisica; del resto era un ragazzo bellissimo e pieno di qualità, manualità, buona volontà. Parlava persino il francese, oltre ad essere gentile ed educato. Quasi le venne da sorridere, ripensando alla differenza abissale che c'era con Sergei.
La cosa quasi la sconvolse: come aveva fatto ad accontentarsi di un simile scarto umano?
E se la cosa si fosse limitata alla gentilezza e alla delicatezza con cui lui la trattava si sarebbe anche adagiata. Ma lei vedeva i suoi occhi quando lavoravano assieme, quando lei si spogliava e lui quasi tremava mentre le bretelle del reggiseno scendevano, e la sua schiena si mostrava nuda.
E si era appena resa conto di avere avuto la stessa reazione, quando la camicia del ragazzo si era aperta.
Prese un sorso dal calice di cuvée che stringeva tra le mani, nonostante non ne avesse per niente voglia dopo la sbronza della notte prima, quindi sospirò e pensò; quella strana consapevolezza, dell'effettiva attrazione che i due provavano l'un per l'altro non si limitava a una sfera unicamente fisica.
Lei aveva voglia di passare il tempo con lui, di parlare con lui.
Voleva trovare il coraggio per baciarlo e costringerlo a cancellare la sua intera vita passata.
Ma Sapphire appariva d'improvviso in ogni suo piano di felicità, a ricordarle che no, non poteva prendersi Ruby con tutta tranquillità.
Ruby era suo.
E più questo pensiero s'insinuava nella sua testa più un fastidio nero e denso le stringeva lo stomaco in una morsa inesorabile.
“Yvonne... Scusa il ritardo...” sentì poi. Gli occhi bassi le permisero di vedere un paio di stivaletti neri, di pelle, e un paio di caviglie candide. Una di questa era avvolta da una cavigliera.
Stretti jeans fasciavano due belle gambe, che si accomodarono sulla sedia davanti a lei.
“White” fece Yvonne. “Ciao... Scusa se ho ordinato e non ti ho aspettata”.
Quella sorrise, sistemando il colletto della camicia nera che fuoriusciva dal maglioncino di filo bianco. “Oh, ma non preoccuparti. Anzi, hai fatto bene... Che bevi? Cameriere!” urlò, alzando la mano.
Quel giorno la stessa Yvonne aveva chiamato White e aveva spinto per prendere un appuntamento, senza dirle di aver bisogno di sfogarsi e di ottenere un consiglio su come comportarsi.
Il cameriere arrivò al tavolino e fu White a parlare.
“Per me un Vodka – tonic senza ghiaccio e per la mia amica un altro spumantino…”.
Yvonne la vide annuire al ragazzo e sospirare, prendendo tra le mani la grossa bag di pelle.
“Comment ça va?” le domandò Yvonne, con le gambe elegantemente accavallate.
La vide annuire lentamente, mentre cercava qualcosa nella borsa.
“Bene. Bene, bene... Oddio, ho appena finito di litigare con Black...”.
“Black è il tuo uomo?” osservò l'altra, mentre la brezza le soffiava sul viso.
La vide annuire. Spostò poi i lunghi capelli castani, sciolti, sulla spalla destra. “Si, è il mio uomo... ormai sono diversi mesi che non ci vediamo...”.
Yvonne inarcò le sopracciglia, sorpresa. “Come mai?”.
“Lui è un Allenatore. Viaggia per il mondo in cerca di Pokémon e avventure e io sono qui, a gestire un'azienda multimilionaria e, da poco, un atelier...”.
“Vi amate tanto, per non esservi ancora lasciati nonostante la distanza...”.
White abbassò lo sguardo. “Ci vuole pazienza, immagino... Ma non ce la faccio più. Certe volte ho bisogno di averlo davanti, di stringerlo tra le braccia...”.
Gli occhi della Presidentessa cominciarono a vagare, e quella sua concretezza nelle cose di tutti i giorni si trasformò in liquida paura dell'ignoto.
“Ho voglia di farci l'amore. Sono mesi che non tocco un uomo”.
Yvonne annuì, comprensiva.
“Mi spiace molto. Dovresti prenderti qualche giorno di pausa e raggiungerlo”.
“La baracca non va avanti senza di me... Piuttosto, tu? Percepisco qualcosa di strano in te…”.
“Ehm... Dovrei parlarti” disse, sistemandosi meglio sulla sedia e poggiando entrambe le suole per terra.
“Sì, lo so... Ormai stiamo decisamente cavalcando l'onda del successo, anche grazie a Ruby e ai suoi abiti e la tua presenza sulla passerella non ti ha lasciata al buio...” sorrise l'altra, che poi aprì la borsa e cominciò a rovistarci dentro, tirando fuori infine una serie di fogli piegati in più parti. “Motivo per cui capisco la tua necessità di rinegoziare i termini contrattuali che abbiamo stipulato qualche mese fa...”.
Yvonne spalancò gli occhi. “Beh... Veramente....”.
White aprì i fogli e li poggiò sul tavolino davanti a loro, mettendoli sotto a un grosso posacenere di cristallo, per evitare che il vento se li portasse via.
“Prendili, portali a casa. Dagli un'occhiata. Posso garantirti che è un'ottima offerta! Hai ricevuto qualche proposta dalla concorrenza?!”.
La bionda sorrise. “Ma no... ma no, ma cosa vai a pensare... fou... In realtà avrei bisogno di un consiglio...”.
White sospirò, quasi sollevata. “Oh. Meglio così allora. Guarda lo stesso ciò che ti offro...”.
“Certo”.
“Di che consiglio hai bisogno?”.
Yvonne si mise comoda, sprofondando con eleganza nella poltroncina, per poi incontrare lo sguardo candido della Presidentessa.
“Io... io credo di provare qualcosa per Ruby”.
White spalancò gli occhi.
“Sei impazzita?!”.
Il tono della voce della donna non lasciava spazio a fraintendimenti; probabilmente, fosse stata Shana lì davanti a lei le avrebbe detto di gettarsi a capofitto in quell'avventura.
Ma Shana ovviamente non era White.
“Ruby ha mezzo piede in un matrimonio con una donna che conosce da vent'anni, Yvonne!” continuò l'altra, buttando giù il drink tutto d'un fiato e stringendo occhi e denti, prima di lasciar scivolare il bicchiere di cristallo sul vetro del tavolino.
“Lo so, lo so”.
“Hai intenzione di rovinare la loro storia?!”.
“No! Non lo so...” sospirò l'altra, sbuffando e portando le mani davanti al volto. “Non so più che pensare!” esclamò. “Sono estremamente combattuta, perché capisco che Ruby abbia una vita e che io non debba robinarla ma...”
Rovinarla”.
“Cosa?”.
“Si dice rovinarla. Hai sbagliato”.
“Sì, scusa. Intendevo dire...”
“So cosa intendevi dire. Ma non mi piace” fece l'altra, accavallando le gambe e incrociando le braccia.
Yvonne sentiva i suoi occhi fissarla, giudici atti a condannarla.
“Non guardarmi così... So che non è giusto ma non vuol dire che... Uff!” si lamentò. “Non lo so!”.
White sbuffò, visibilmente contrariata.
“Ruby e Sapphire devono stare assieme. E tu non puoi rovinare la loro storia in questo modo. Inoltre lui deve rimanere concentrato sul lavoro e sulle sfilate... Non devi assolutamente deconcentrarlo in nessun modo!”.
Yvonne distolse lo sguardo. Riusciva a vedere la concentrazione di Ruby volatilizzarsi ogni volta che la vedeva in déshabillé. Lui era attratto da lei, e la ragazzo lo sapeva.
E la cosa era reciproca.
E non si limitava alla sola voglia di vederlo ancora senza camicia, o di dargli altri baci. No.
Yvonne voleva sentire il suo odore, e percepire le mani dell'uomo toccarla, carezzarle il corpo. E dopo baciarla ancora.
E poi avrebbe voluto dormirgli accanto, e aprire gli occhi accanto a lui.
Magari vederlo dormire per qualche minuto, e svegliarlo con un tenero schiocco di labbra.
E poi avrebbe provato per lui. Lo avrebbe aiutato coi vestiti.
E sulla passerella avrebbe sfilato solo per tornare indietro e vederlo sorridere.
Stringerlo in un abbraccio, e vedersi riconosciuta come la musa del suo successo.
Senza mai prendersene il merito.
Forse non era amore, no. Non era innamorata di Ruby.
Ma per quanto tempo avrebbe potuto mentire a se stessa?
“Yvonne, per favore... Sei la donna più bella del mondo, puoi avere chiunque tu voglia! Lascia perdere Ruby!”.
White urlava a squarciagola; una donna col caschetto, con la ricrescita che aggressiva attaccava i capelli castani, la guardava confusa, ma passava oltre, salendo sul marciapiede e perdendosi nella fiumana di sconosciuti.
“Non credo sia questo il problema. Sono venuta qui a Unima alcuni anni fa ma nessuno mi ha mai fatta sentire veramente protetta. Quando tu e Ruby mi avete fatta sfilare io non avrei mai pensato di ritrovarmi… così”.
Sorrise dolcemente, sporgendosi in avanti e bevendo. Poggiò il flûte sul tavolino, accanto al bicchiere vuoto di White, e infine sospirò.
“Così come?” chiese la Presidentessa, ancora immobile ma con un’altra espressione sul volto.
“Parte di qualcosa. Parte fondamentale di qualcosa. Ruby mi ha fatta sentire necessaria, per la prima volta da quando sono qui. E mi piace sfilare…”.
“Questo non c’entra col fatto che tu debba lasciar vivere a Ruby la propria vita, senza interferire”.
Quelle parole risuonarono glaciali, ed ebbero l’effetto di un colpo di martello dietro la nuca.
I loro occhi s’incrociarono per qualche profondissimo istante.
“E io non dovrei vivere la mia vita? Se quello che voglio è lui perché non posso prendermelo?”.
White rimase in silenzio per qualche secondo.
“La cosa migliore da fare non è sempre quella giusta. Valuta le conseguenze delle tue azioni” rimbeccò l’altra. “E firma il contratto”.
Poggiò una banconota da venti Pokédollari sul tavolino, si alzò e se ne andò, lasciandola piena di dubbi.

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Capitolo 9
*** 9. Nove (IX) ***


UNRAVEL ME.
ovvero risolvimi, nel senso di districami, sbrogliami.

UNA FRANTICSHIPPING (ma per finta) di Andy Black (ma lo sapevate).
 
 


“In questo momento sto vivendo l’incubo che molte notti m’avvolgeva, rendendomi schiava di questo amore che ormai è finito. Il tuo amore, ormai è finito.
Perché, credimi, avrei scalato le montagne a mani nude se soltanto tu mi avessi chiesto di raggiungerti”.
 
 
Unima, Austropoli, Hotel Continental, Stanza di Ruby, 29 aprile 20XX
 
“Sì, come ti dicevo la richiesta è alta, Ruby. Whiteley sta impazzendo, temo ci servirà qualche centralinista. Sono in atelier, ti sto aspettando”.
“Domani…”.
Il telefono, tenuto tra la spalla e l'orecchio, avvertì il ragazzo che si stesse scaricando. Il caricabatterie era però troppo lontano dalla scrivania.
Sei in camera, Ruby?”.
Quello sbuffò, poggiando il lembo dell'abito azzurro, quello di Sapphire, accanto alla macchina da cucire.
“Sì, White.... Sono in camera” sospirò, decisamente provato.
E devi uscire. Dobbiamo lavorare, ci sono gli ordini da gestire e ora come ora non sono certa che i nostri otto sarti riescano a produrli velocemente”.
Il ragazzo si alzò in piedi e portò la mano sul fianco.
“Uff... è proprio necessario?”.
“Che diavolo di domanda è questa?! Certo che è necessario! Ci sono i nostri ricavi in ballo!” sbraitava quella.
“È che non ho dormito molto, ultimamente... Sto ideando una linea e...”.
“Linea futura?” si calmò quella.
“Già”.
Linea futura vuol dire soldi futuri. Invece bisogna incassare i soldi adesso! Quelli di ora!”.
“Io ho bisogno di tempo, White... Sono stanco e ho bisogno di tempo...”.
Dall'altro capo del telefono Ruby sentì un sospiro. Si voltò, allontanandosi dalla scrivania e avvicinandosi alla finestra.
Vi poggiò la testa contro, sospirando, mentre davanti a lui Austropoli viveva, illuminata dai lampioni della notte.
Non sarà mica successo qualcosa con Sapphire? Dimmi che non c’entra Yvonne o…”.
“Che vai blaterando, White… no… Non ho litigato con Sapphire né con Yvonne…”.
Ruby” tuonò la Presidentessa, zittendolo. “Era ovvio che non intendessi un litigio”.
Il ragazzo non capiva. “Che cosa dovrebbe succedere tra me e Sapphire, scusa? Lei è a Hoenn”.
Non parlavo di Sapphire. E non parlavo di litigi”.
“Ah…”.
Sì. Ah. Yvonne è una tua modella e non devo ricordarti che ci sono in ballo interessi economici molto importanti. Non è il caso di…”.
White…”.
È inutile che m’interrompi, io…”.
White”.
… le sfilate si fanno con modelle professionali e il suo comportamento potrebbe essere un…”.
White!” urlò infine Ruby. “Io non ho alcun problema con Sapphire, la amo e con Yvonne non c’è nient’altro che amicizia”.
“… Sai che non è così”.
Ruby abbassò ancora lo sguardo, per poi voltarsi in direzione dell’abito, recuperando il progetto di matrimonio e di vita felice che aveva con la sua vulcanica fidanzata. Però valutò anche le parole di White.
Era davvero così? Yvonne avrebbe distrutto quel castello che si erano costruiti col tempo?
Allontanò quel pensiero; lui amava Sapphire più di ogni altra cosa.
Più di se stesso.
“White...”.
Sia ben chiaro, a me non interessa della tua vita. Per me puoi anche andare fuori la Small Avenue a raccattare battone... L'importante è che non siano mie modelle. Perché le paghiamo...” fece, enfatizzando l'ultima frase. “Quindi fai quel che ti pare, ma io e te dobbiamo lavorare alla distribuzione e soprattutto Yvonne deve stare in passerella, e non nel tuo letto”.
Ruby fu attraversato da un fremito.
“Te l'ha detto…”.
“Oh porco Arceus! Detto cosa?! Lo sapevo!”.
“Oh... Non ti aveva detto nulla?” rabbrividì lo stilista. Abbassò lo sguardo verso la strada, dove la stessa Yvonne era appena scesa da un taxi.
No! Mi aveva detto soltanto che... Niente! Non mi aveva detto che siete stati a letto assieme!”.
“No, aspetta un momento! Non abbiamo fatto nulla! La notte della sfilata eravamo parecchio ubriachi e ci siamo risvegliati nello stesso letto... ma non c'è stato niente! Figurati che avevo ancora l'abito addosso!”.
“Ruby, io... Per favore, non rovinare tutto! Fallo per Sapphire, che ti ama tanto!”.
Fu quello il momento in cui il ragazzo cominciò a irritarsi.
“Ma di cosa parli?! Riesco ancora a pensare col cervello! Yvonne non è nient'altro che una modella, e il mio rapporto con lei si limiterà soltanto all'ambito professionale, da oggi in poi, se la cosa ti fa paura”.
Ruby sentiva l'ansia premere nello stomaco. In cuor suo gli era dispiaciuto dire quelle parole.
No, Ruby...” sospirò l'altra. “Non sono impaurita dal tuo rapporto con Yvonne... voi avete una bella sintonia è non è una cosa che si vede tutti i giorni... ma forse non è il caso che approfondiate la cosa, nel senso più fisico del termine”.
“Non farò sesso con lei. Voglio chiedere a Sapphire di sposarmi, sarebbe controproducente... Ora vorrei finire di lavorare sul mio progetto... Giuro che domani mattina sarò in ufficio a gestire gli ordini. Ci vediamo lì?”.
“... Devi venire adesso”.
Ruby sorrise sconfitto. “Non… uff…” sbuffò. “Dammi una ventina di minuti per dare gli ultimi punti all’abito e poi ti raggiungo”.
Grande. Porta da mangiare”.
Sei una grande rottura di palle, tesoro”.
“Ovvio. Bye, baby”.
 
Poco dopo rimase da solo, lui, nel silenzio della sua stanza. Guardò lo schermo del cellulare spegnersi lentamente. Poggiò il telefono sul davanzale della finestra e guardò dritto, perdendo lo sguardo oltre l’indefinito. Le parole di White ancora gli risuonavano nella testa; per lei era solo una questione economica, e qualsiasi sfaccettatura della vita delle sue modelle o dello stilista stesso potevano turbare le sfilate e quindi le vendite.
Quasi come se le modelle non fossero altro che manichini in grado di camminare.
Come se i vestiti fossero il modo per arricchirsi e basta; per Ruby quello era un sogno, non un modo per riempire il portafogli.
E nel suo sogno era compresa la dolce e bella Yvonne.
Tossì, il freddo stava lentamente cominciando a fare spazio al clima primaverile ma quando pensava che finalmente il caldo si fosse riappropriato delle giornate una tempesta di vento. Non sapeva mai come vestirsi.
Ripensò poi alle parole della Presidentessa e sospirò. Avrebbe davvero potuto evitare d'incontrare fuori dal lavoro la sua vicina di camera?
Pensò che avrebbe dovuto lasciare il Continental e trovarsi un appartamento non troppo lontano dall'atelier, limitando la sua frequentazione con la modella.
S'avvicinò al tavolo di lavoro e guardò l'abito di Sapphire: era praticamente finito; White gli aveva telefonato prima dell'ultimo punto.
L'ultimo punto prima che l'abito fosse pronto, e che la sua vita prendesse una nuova curva.
Avrebbe stretto la mano della sua donna, l'avrebbe resa sua moglie e avrebbe cominciato a programmare una vita assieme.
Tutto dopo quel punto.
Si sedette lentamente al tavolo, saggiando il tessuto azzurro e carezzando col piede il pedale della macchina da cucire.
Indugiando un po' troppo, forse.
Era davvero sicuro di volersi sposare?
Di legare la sua vita a quella di Sapphire, con tutti i compromessi che avrebbe dovuto affrontare?
Sarebbe tornato a Hoenn, con ogni probabilità; il lavoro di ricercatrice della donna non le consentiva di allontanarsi troppo spesso dalla regione, dato che il suo ufficio era la regione stessa. C'erano sempre pro e contro.
E lui aveva intrapreso quella nuova carriera, quell'avventura nel mondo della moda che tanto lo appagava, dandogli nuova linfa. Si sentiva completo, da quando viveva ad Austropoli, e dopo la sfilata qualcuno cominciava già a riconoscerlo.
Guardava l'ago, poi il vestito, e toccava ancora il pedale.
Una leggera pressione e poi la fede al dito.
Solo un punto e avrebbe potuto cominciare un'altra vita ancora, più calma.
Dove avrebbe dovuto necessariamente scegliere Sapphire a lui, Hoenn a Unima. Il vecchio contro il nuovo.
Certo, avrebbero potuto vivere una relazione a distanza fino a quando le cose non avrebbero trovato un livello di stabilità, ma il pensiero di finire come White e Black lo faceva rabbrividire.
Sentì per un attimo rumore di tacchi oltre la porta della sua stanza, attutito dalla moquette del corridoio. I passi rallentarono proprio davanti all'ingresso, per un piccolo secondo, prima di proseguire oltre.
Era Yvonne.
A testimoniarlo il bip della tessera magnetica che aveva sbloccato la serratura della sua stanza, pochi metri oltre.
Allontanò Yvonne dalla mente e torno a guardare davanti.
Un solo punto, e tutto quel lusso sarebbe diventato un ricordo; una vecchia pagina di un libro ingiallito nella sua memoria.
Valeva la pena vivere di quel rimpianto?
Gli sarebbe bastato premere sul pedale della macchina da cucito.
Un solo punto e avrebbe abbandonato la vista del golfo di Austropoli che gli baciava lo sguardo al mattino. Quella splendida città, piena di marcio e fiori, luci e ombre.
Un solo punto e Yvonne sarebbe diventata fumo bianco, il ricordo di un corpo meraviglioso, di un profumo dolce e di una voce calda.
Dell'unica donna che aveva toccato le sue labbra da quando Sapphire era entrata nella sua vita.
“Che vado a pensare...” sbuffò, arricchendosi di un coraggio che ricordava lontano e tendendo i lembi dell'abito azzurro.
 
Solo un punto.
Premette il pedale.
 
Solo un punto.
 
.
 
Nessun punto.
 
Voleva sposare la sua donna.
Si alzò e sospirò.
Tutto sommato le cose dovevano andare in quel modo; Ruby e Sapphire, Sapphire e Ruby.
Prese l'abito e lo stese sul suo corpo, sospirando nuovamente.
Forse aveva bisogno di una serata libera; niente Yvonne, niente White, niente vestiti. Solo un bicchiere di Baileys, il fuoco del camino e un buon libro.
Come ai vecchi tempi.
Magari avrebbe spazzolato il pelo di Nana. La cosa lo rilassava.
Spruzzò un po' di acqua alle rose sul vestito e lo infilò nella fodera trasparente di plastica.
Lo ripose nell'armadio e quindi sbuffò.
White lo stava aspettando.
Niente Baileys, niente camino, niente libro. Solo White e ancora vestiti.
Infilò il cappotto e aprì la porta, trovandosi davanti Yvonne, col pugno altro, pronta a bussare.
“Ciao” disse lui, vedendola abbassare il braccio.
“Buonasera, Ruby. Mi chiedevo se ti andasse di…”.
Il ragazzo abbassò lo sguardo e fece un passo in avanti, lasciando che Yvonne indietreggiasse. Si chiuse l’uscio alle spalle e infilò la tessera magnetica nella tasca interna del cappotto, interrompendo poi la bionda.
“Sto andando all’atelier, Yvonne. White mi sta aspettando per gestire gli ordini”.
“Sì. Anche io devo andare lì. Volevo chiederti se potessi farmi compagnia… Sai… è buio, e in una città grande come questa può accadere di tutto…”.
Gli occhi del ragazzo indugiarono sulla figura della modella, vestita in maniera molto sportiva, con un bomber nero, la cui zip era chiusa fin sotto alla scollatura. Gli stretti leggins le fasciavano le cosce, lasciandole scoperte le caviglie.
“Stai andando a… correre?”.
Yvonne quasi arrossì, nascosta dietro i capelli.
“Avevo intenzione di andare nella palestra dell’albergo ma mi sono accorta di aver dimenticato le cuffiette sulla tua scrivania…”.
“Ti presto le mie, se vuoi” le fece. “Così eviti di uscire”.
“No” ribatté presto lei. “Preferisco riprendere le mie…”.
Ruby fece spallucce. “Come vuoi. Ma poi dovrai tornare da sola, non so fino a che ora ci tratterremo io e White.
“Ma sì, ma sì… Prenderò un taxi…” disse, allungando l’accento dell’ultima parola. Ruby annuì e s’avviò verso l’ascensore, seguito un passo indietro dalla ragazza. Immaginava la faccia di White una volta entrato in ufficio accanto a Yvonne.
La vide premere il tasto che portava al pianterreno per poi voltarsi verso di lui.
Camminarono con passo svelto davanti alla reception. Sulla destra, una bambina di poco più di dieci anni teneva la mano del padre, che leggeva qualcosa da un dépliant informativo.
Incrociò lo sguardo con Yvonne, quella, fissandola poi finché non uscì dalla porta.
Ruby scese gli scalini molto velocemente, seguito agilmente dalla modella, che fece per muoversi davanti, dove un taxi giallo aspettava i clienti per una delle sue ultime corse serali.
Tuttavia Ruby virò verso ovest, camminando sul consumatissimo marciapiedi di Gorgon Street e proseguendo, fino a intersecare la terza strada.
“Vuoi andare a piedi?” domandò quella, raggiungendolo con un secondo di ritardo. Lo affiancò e gli strinse il braccio.
Ruby guardò le sue mani delicate, le dita smaltate.
Sentiva il suo profumo.
“No. Prendo qualcosa da mangiare per White. Tu hai cenato?”.
Lei catturò il suo sguardo.
“Volevo cenare dopo l'allenamento, a dire il vero”.
“Ti conviene”.
Camminavano praticamente a braccetto; sembravano una coppia in tutto e per tutto, con lui che scrutava la strada, a proteggerla dal mondo e lei che lo guardava innamorata.
Perché continuava a guardarlo in quel modo.
Forse avrebbe dovuto allontanarsi, lui. Farle capire che attorno al suo anulare, di lì a breve, ci sarebbe stata la promessa d'una vita costellata di piacere e sacrifici.
Forse sì.
Ma non voleva farlo.
Forse per il profumo dei suoi capelli.
O semplicemente perché, in fondo, gli piaceva avere quella donna accanto.
Sarebbero passati totalmente inosservati, quella sera di fine aprile, in cui il cielo notturno era colmo di stelle che non sarebbero mai riusciti a vedere, per via della luce dei lampioni, eretti nel duro asfalto ogni sei metri.
Yvonne fissava le poche auto che sfilavano, per lo più taxi dalle ruote consumate che stridevano sulle strade. S'era insediato tra di loro un silenzio che la ragazza reputava fastidioso.
Trovò un pretesto.
“Perché non ci fermiamo al carretto degli hot-dog all'angolo? Sono i migliori che abbia mai mangiato”.
Ruby rimase in silenzio, continuando a camminare dritto. Non la guardò neppure.
“Credi che White sia tipo da hot-dog?”.
Yvonne inarcò leggermente le spalle, sorridendo.
“Credo che White sia tipo da super alcool e basta, sincèrement...”.
“Infatti”. Il ragazzo emulò il sorriso, sentendola stringersi al suo braccio. “Un paio di hot-dog, un paio di birre...”.
I passi abbandonarono il buio che vi era tra un lampione e l'altro. Sulla sinistra, un mendicante vestito di stracci chiedeva qualche spicciolo.
“Non bevo birra da mesi...”.
Sorpassarono un Pokémon Market, aperto ininterrottamente dal settembre di sedici anni prima, quindi affondarono di nuovo in un cono d'ombra, dove un passante erroneamente sbatté con la spalla su Yvonne.
Un passante che barcollava.
Lì era tutto buio.
“Ehi!” sbraitò lei.
Erano fermi davanti l'ingresso di un vicolo. E quell'uomo era rimasto fermo a fissare Yvonne.
“Piccolo uccellino...” sorrise.
Ruby sentì Yvonne paralizzarsi, stringendo al suo braccio; mise meglio a fuoco, mentre un automobile illuminava coi fari opachi i loro volti.
Era Sergei, quello fermo davanti a loro. I capelli ricci erano più spettinati dell'ultima volta che lo aveva visto. Indossava un trench beige e sotto una camicia bianca, macchiata di vino rosso sull'addome. Le scarpe, di pelle nera, erano sporche di fango.
“Andiamo via” diceva il ragazzo, avanzando lentamente ma trovando la resistenza della bionda.
L'altro la stava tenendo per il braccio.
“No” disse.
La tirò a sé, strappandola alla presa dello stilista.
“Lasciami!” urlò Yvonne, guardando negli occhi l'uomo che aveva terrorizzato per mesi le sue notti.
“Cosa c'è?!” esclamò l'altro, col suo solito accento russo. “Non ti fa piacere rivedermi?!”.
Ruby fece per avventarsi su Yvonne ma le mani ruvide di Sergei la spinsero verso il buio denso del vicolo.
Urlò ancora, la donna, inciampando e cadendo davanti a un grosso cassonetto della spazzatura giallo, sporco di grasso e fuliggine.
Un Purrloin scappò via, spaventato, mentre Yvonne sentiva il cuore battere violentemente nel petto. Indietreggiava, facendo forza sui talloni e sui gomiti.
“Vattene via! Maledetto!”.
“Zitta! Troia!”.
Si avventò su di lei, quello, tirandole un grosso calcio sulla coscia destra. Quella urlò, prima che Ruby s'avventasse al collo dell'aggressore, stringendolo tra le braccia in una morsa strettissima.
“Sei ancora in giro, avanzo di galera?” gli chiese il Dexholder, accasciandosi lentamente dietro di lui. Sergei lo seguiva, stringendo con le mani i polsi del ragazzo.
Respirava con fatica, dimenandosi.
“Yvonne, vai via!” faceva il ragazzo, continuando a serrare la presa attorno alla testa di quello. “Scappa!”.
Lo sguardo di Ruby incontrava il suo, contrito, colmo di paura. Le labbra tremavano e le mani erano strette nei pugni.
Chto sluchilos', malen'kaya ptitsa? Vy menya obmanyvayesh'?”.
Il sorriso dell'uomo era sinistro.
“Cosa dice?” domandava quello che lo teneva stretto, ben saldo sulle ginocchia.
Yvonne non rispondeva. Si limitava a tremare, come una foglia al vento.
Vedeva Sergei continuare a dimenarsi, allargando la mano destra e cercando di colpire il volto di Ruby, senza riuscirci.
“Non pensare minimamente di provarci...”.
“Lasciami, mosca!” esclamò quello, voltandosi lentamente e poggiando le ginocchia per terra. Ruby fu costretto a seguire i suoi movimenti.
La forza di quell'uomo lo fece impallidire: riuscì a sollevarlo, alzandosi in piedi, per poi stringerlo alle cosce. Lo sbatté poi tre volte contro il muro, liberandosi dalla presa della morsa contro il collo.
Il cuore d'Yvonne saltò un battito. “Ruby!” esclamò, alzandosi poi in piedi e afferrando vecchia una bottiglia di Budweiser.
Sergei la guardò, sorridendo.
“Tu beve?!”.
La donna urlò, lanciandogliela contro e colpendolo sulla testa. Si frantumò in decine di pezzi taglienti ed ebbe l'effetto di confondere l'uomo, che si allontanò da un Ruby malconcio.
“Lascialo stare!” urlò quella, furibonda. Il cuore le pareva esploderle dal petto.
“Io ti ammazzo!”.
S'avventò su di lei, Sergei, afferrandola per il braccio e sbattendola contro il grosso cassonetto alle sue spalle.
Quello portò le mani sul suo collo, affondando le dita nella pelle morbida. S'avvicinò a lei, sentendo il fiato che fuoriusciva dalle belle labbra schiuse, e lo fece così tanto da poterle leccare le labbra senz'alcuna difficoltà.
Ma la cosa che lo eccitava di più era il suo sguardo, e le lacrime che cadevano dalle rime dei suoi occhi. Si spostò di lato, alitandole sull'orecchio destro.
E quindi le sussurrò poche parole
“Voglio vedere tua vita lasciare tuoi occhi...”.
 
Yvonne aveva paura.
Sentiva le gambe tremare e una mano che le stringeva lo stomaco. Le mani poggiavano sul ferro lercio di pattume del cassonetto ma erano paralizzate.
Non riusciva a fare nulla, se non pregare. L'alito di Sergei puzzava d'alcool e sangue e i suoi occhi, con quei capillari disposti a raggiera attorno all'iride color nocciola, dalla pupilla dilatata, la fissavano come fosse una preda.
“V-vai... v-vai via...”.
Le parole che disse risultarono tremule.
“Ti ammazzo” faceva invece quell'altro, stringendo sempre di più il suo collo.
La sentiva diventare sempre più debole, sciogliersi come burro e colarle tra le dita.
“T-ti p... ti prego...”.
 
“Lasciala!”.
 
Ruby lo colpì al collo, con violenza immane. Sergei perse la stretta sul collo di Yvonne e inciampò sulla destra.
“Non toccarla!” aveva esclamato Ruby, tirandola a sé e ponendosi tra lei e il suo aggressore.
Una luce illuminò parzialmente il vicolo. Seguì un cigolio sinistro.
 
“DROGATI DI MERDA! HO CHIAMATO LA POLIZIA! FINITELA DI UCCIDERVI SOTTO CASA MIA O VI BECCATE UN COLPO IN FRONTE!”.
 
Quando la finestra al secondo piano si chiuse, la luce fuggì via.
Ruby sentì Yvonne avvinghiarsi a lui, da dietro.
“Devi allontanarti da qui. Lui vuole te...”.
“Non ti lascio qui!”.
La ragazza non ragionava.
Entrambi videro Sergei rialzarsi in piedi, sorridendo.
“Yvonne... torna a casa con me”.
“Sei solo un drogato di merda! Vattene!”.
“Sono...” singhiozzò poi. “... sono cambiato” rise. S'avventò poi contro Ruby, stringendo tra le mani il collo della bottiglia di Budweiser che Yvonne gli aveva tirato contro.
Ruby lo guardò sferrare il colpo e indietreggiò, ma trovò nella donna l’ostacolo che lo bloccava.
Fu inevitabile.
Il vetro era affilatissimo e squarciò il tessuto della camicia dello stilista, che poco dopo si colorò di sangue rubino.
Ruby fu assalito da un bruciore allucinante. Il cuore prese a battere vigorosamente nel petto, mentre gli occhi cercavano di scavalcare il buio e guardare le mani.
Le dita erano imbrattate di sangue incandescente, che aveva difficoltà a mettere a fuoco.
“Ruby!” urlò Yvonne, vedendo ridere Sergei sornione. S’abbassò su di lui e gli strinse la testa al petto.
Poi si voltò verso l’aggressore; lo guardava, con l’aria di chi aveva fatto qualcosa di male e ne andava fiero. Gonfiava il petto, stringendo il collo di bottiglia reo di aver ferito il ragazzo vicino al suo cuore.
“Sei uno stronzo!”.
Ignara del pericolo, o forse troppo stupida e coraggiosa, gli si gettò contro, ma fu afferrata per le spalle dall’altro e sbattuta nuovamente sul cassonetto.
Produsse un tonfo sordo, quando si ritrovò nuovamente a contatto col ferro putrido.
“Perché reagisci, uccellino?” le domandò lui. “Io amo te” sorrideva. “Tu ami me e dobbiamo vivere insieme, in stessa casa”.
“Lasciami!” urlò Yvonne.
Lo vide allargare il sorriso. Sergei aveva appena ferito l’uomo che amava e sorrideva.
Gli sputò sul viso.
E la cosa cancello quell’espressione divertita dal suo volto. Sembrava quasi indignato, per quella mancanza di rispetto. Pulì la saliva con la manica del trench e sospirò.
Il fuoco aveva assorbito totalmente il suo sguardo.
“Troia!” rispose poi a tono, colpendola al muso con un forte manrovescio. Yvonne urlò, terrorizzata, col sangue che scendeva copioso dalle narici e colava sulle labbra carnose.
“Io faccio passare te voglia di fare puttana su passerella, uccellino…” le ringhiò contro, prima di avvicinarle il vetro insanguinato e carnefice al collo. “Basta solo qualche taglio su tuo bel faccino e tu diventi no utile a nessuno. Buona solo su ginocchia” rise.
E lo percepiva, il vetro tagliente della bottiglia, che le carezzava la parte morbida del collo, imbrattato ormai di sangue.
Poi il suo sguardo s’illuminò: Ruby era in piedi, coi denti stretti e la mano sul fianco; si muoveva lentamente, camminando con passi felpati alle spalle di Sergei.
Il cuore pompava con forza sangue nei muscoli, il respiro caldo dell’uomo, alcolico e rivoltante, s’univa al suo e gli occhi si muovevano frenetici sulla figura dell’eroe, per poi tornare a intrecciarsi in quelli dello sgherro.
Ruby aspettava soltanto che Sergei abbassasse l’arma.
“Allora?” domandò quello. “Vuoi fare fine di cane che porti con te?”.
“N-no… Sergei… lasciami…” disse, più calma.
“Io lascia te?!” esclamò poi, sorridendo. “Io ammazza te e scopa con tuo corpo”.
“T-ti prego. Verrò con te. Farò tutto quello che vuoi, ma non farmi del male!”.
Gli occhi del russo si riempirono d’un caldo compiacimento.
Il sorriso dell’uomo tornò ad allargarsi.
“Così piace tu a me. Tu deve avere paura di me”.
Yvonne abbassò lo sguardo. “Io sono terrorizzata da te…”.
“Bene” fece quello. Fu quando la mano armata s’allontanò di qualche centimetro dal collo che Ruby afferrò Sergei per le spalle, tirandolo indietro.
Yvonne colpì velocemente il polso sinistro dell’uomo, lasciando cadere il collo di bottiglia, e subito dopo Ruby colpi dietro le gambe l’avversario, con una ginocchiata.
Il rumore delle sirene cominciava a sentirsi per tutta Gorgon Street. Stava arrivando la polizia.
Con le mani strette attorno al volto, il Dexholder sbatté più e più volte la testa del russo sul pavimento, finché non sentì venirne meno le forze.
 
“POLIZIA DI AUSTROPOLI! FERMATEVI! CON LE MANI IN ALTO!”.
 
Fu tutto ciò che riuscì a sentire, prima di accasciarsi sul duro e freddo asfalto.
 
 
“Invece oggi non mi rimane altro che il ricordo delle tue parole. Di quelle parole che mi dicevi, che mi hanno convinto per anni a starti accanto, a innamorarmi di te e di quel tuo sorriso dolce, mai esagerato.
Del tuo stile classico, della tua educazione. Della tua disponibilità ad aiutare sempre il prossimo e a sacrificarti.
Tu hai sempre visto la bellezza in ogni cosa, anche in persone come me che di queste cose non sanno nulla. E le mie parole sono volontariamente piene di rimpianto, ma anche di rabbia, verso me.
E poi verso te.”.

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Capitolo 10
*** 10. Dieci (X) ***


UNRAVEL ME.
ovvero risolvimi, nel senso di districami, sbrogliami.

UNA FRANTICSHIPPING (ma per finta) di Andy Black (ma lo sapevate).
 
 
 
Unima, Austropoli, 30 aprile 20XX
 
“Dove lo portate?!”.
Yvonne inseguì per qualche metro la barella che trasportava Ruby in ospedale sui marciapiedi di Gorgon Street. Infermieri dalla divisa catarifrangente lo caricarono sull’ambulanza, che colorava di rosso e di blu le facce dei presenti. Una delle operatrici, una latina non molto alta ma dal petto prominente e dai fianchi larghi, le rispose.
“Al West Memorial, sulla quarantasettesima”.
“West... West Memorial...” ripeté la donna, mantenendo un fazzoletto davanti alle labbra. La donna la guardò per un secondo, prima che due poliziotti le si avvicinassero.
Uno aveva i capelli biondi e gli occhi azzurri; non indossava il cappello e aveva la divisa ben stesa sul corpo tonico. L'altro era un detective, col classico impermeabile, ma nero. Più basso dell'altro, più magro, forse con un filo di pancetta che s'intravedeva oltre il bordo della camicia bianca, e che per i suoi quarant'anni e oltre era giustificato. Aveva i capelli scuri e la barba sul volto di un paio di giorni.
Fu quest'ultimo a parlare per primo, prendendo penna e blocchetto dalla tasca interna del soprabito.
“Immagino sia lei la signorina… mhm... Yvonne Gabena...” lesse.
“Polizia di Austropoli” fece l'altro, portando le mani ai fianchi e squadrandola col sopracciglio destro inarcato. L'uomo sostava proprio sotto la luce di uno degli alti lampioni, dalla base in ferro battuto.
La donna si sporse verso destra, avanzando lentamente e fissando con attenzione l'ambulanza che si allontanava. Sentiva nel petto l'ansia che cresceva.
Ruby si allontanava e lei era lì.
Doveva andare da lui.
“Ho bisogno di un taxi...” fece, allungando nuovamente un passo verso destra, quando alto e muscoloso le si pose davanti.
“Deve rispondere prima a qualche domanda” le disse l'altro.
Yvonne incrociò lo sguardo con lui. Quei poliziotti erano d'ostacolo al suo obiettivo.
Come una leonessa, fiera, mostrò i denti.
 
Je dois aller àu West Memorial! Je dois aller àu Ruby!”.
 
“È di Kalos, questo bocconcino” sorrise il biondo, con ancora sul viso la stessa espressione.
Yvonne fece per avanzare ancora, quando il detective le strinse il polso.
“Non capisco il francese, signorina, ma aspetti un attimo: sarà libera di andare dopo aver risposto qualche domanda”.
Una Sabre verde sorpassò l'ennesimo taxi, che accostò pochi metri davanti a loro. Una coppia di anziani vi uscì, per entrare subito in un'alta palazzina.
Le urla di Yvonne, però, continuava a squarciare le interferenze della città.
“Devo andare! Devo andare da Ruby!”.
“Parla della vittima” riprese il biondo.
“Sì, Specter, l'ho capito”.
Gli occhi di quello senza divisa si spostarono dal collega alla modella. “A me servono solo cinque minuti. Un paio di domande...”.
“Uff! Avanti!” ribatté Yvonne, portando la mano destra al fianco, mentre la sinistra ancora premeva sul labbro superiore.
“Il signore al secondo piano del palazzo ha dichiarato che l'uomo coi capelli ricci la teneva stretta per il collo... e poi ha visto Ruby Normanson venire in suo soccorso”.
“Sì... è così”.
Un soffio di vento le congelò il sangue. La voce del detective le rimbombava nella testa.
“Conosceva l'aggressore?”.
“Era il mio... ex fiancè...”.
I due poliziotti si scambiarono un'occhiata fugace. L'investigatore segnò diverse cose sul taccuino.
“Può darci qualche informazione in più su quest'uomo?”.
Yvonne fece spallucce e sbuffò ancora, non riuscendo a nascondere l'impazienza di voler raggiungere Ruby all'ospedale.
“Che dovrei dirvi?” domandò, sconfitta.
“Le generalità, per esempio”.
Quella cercò nello sguardo dell'agente Specter una definizione per quella parola, che non riconosceva.
“Generalità?”.
“Nome, cognome...”.
“Sergei Burian...”.
“Russo?” domandò il detective.
L'altra annuì. “Russo. Ha trentasei... trentasette anni... li ha compiuti la settimana scorsa...”.
“Continui”.
“Che cos'altro dovrei dirvi?! Non so più niente!”.
“Si calmi, dolcezza” s'inserì nuovamente Specter. “Conosce il suo lavoro? O dove abita ora?”.
“Non ho idea di cosa faccia, erano mesi che non lo vedevo. Vivevamo assieme in una comune... a Bellevie Avenue...”.
“In periferia. Spacciava?”.
“Prima sì”.
La radio di Specter suonò, facendo allontanare il poliziotto.
“Poi?” continuò l'altro.
“Poi non lo so! Devo andare da Ruby!”.
Gli occhi color nocciola del detective indugiarono sulla testimone.
“Non sparisca. Può andare”.
 
La donna prese a correre. Il freddo aggrediva il suo volto, strappandole lacrime incandescenti dagli occhi. Aveva paura.
 
“West Memorial… quarantasettesima…”.
 
Ormai lo ripeteva come un mantra.
Nella sua mente rivedeva il sangue di Ruby che gl’impregnava la camicia, al di sotto del soprabito scuro. E il suo sguardo che si perdeva nella paura, le sue gambe che si piegavano.
Il cuore della ragazza stava per esplodere e intanto il respiro diventava fumo e si alzava in cielo.
Raggiunse l’uscita dell’hotel ma non c’era alcun taxi ad aspettarla.
“No!” urlò. Premette il fazzoletto davanti alla bocca per cercare d’arrestare la discesa del sangue e intanto si guardava attorno.
Guardò l’orologio. La mezzanotte sarebbe scoccata dopo appena una decina di minuti, non era tardi.
Continuò a guardarsi attorno, con la testa che girava e il cuore che esplodeva.
“Un taxi! Sacrebleu!”.
Non rimase ferma.
Riprese a correre mentre i polmoni bruciavano per l’aria congelata che li riempiva. Voltò l’angolo, verso la sesta e Skylar Avenue, e continuò a macinare metri su metri lungo quel marciapiede, superando, poco prima di un vecchio bar, una coppia che si baciava romanticamente.
Passarono sessanta secondi prima che un paio di luci calde illuminassero il suo volto.
“Taxi!” urlava Yvonne, agitando la mano libera.
Il fazzoletto che aveva davanti alla bocca era impregnato ormai di sangue seccato.
La mano tremava, le lacrime non riuscivano a fermarsi e il cuore batteva.
Pensava soltanto a Ruby e al coraggio che aveva avuto per difenderla, e sentiva il panico attanagliarle lo stomaco.
Era colpa sua. Tutta colpa sua.
“Taxi! Taxi! Ferma, taxi!” fece, saltando in strada, proprio davanti alla vettura.
I freni stridettero e le ruote s'aggrapparono all'asfalto, prima che un uomo d'origini mediorientali s'affacciasse dal finestrino.
“Che cazzo stai facendo?!” urlò, pieno di rabbia, con accento arabo.
“Al West Memorial!” ribatteva a tono la donna, balzando in avanti e aprendo la portiera, per poi sedersi sui sedili posteriori.
Quella macchina puzzava, i sediolini erano impregnati d'un mix di sudore e spezie. Qualcuno aveva dimenticato un guanto di pelle nera, che era caduto sul tappetino.
“Dove vai?! Devo andare al centro a prendere un cliente!” urlò ancora quello, voltandosi repentino.
“West Memorial! Sulla quarantasettesima! Ti prego!”.
“Non posso adesso!”
Yvonne lo fissò: aveva la pelle mulatta e la barba folta, ispida e corvina.
Poggiato sul naso aveva un doppio paio di lenti, di quelle semplici, senza montatura e con le asticelle sottili. I capelli erano sporchi, oleosi, corti ma non troppo.
“Le darò tutto ciò che ho in borsa!” piangeva quella, spalancando la pochette e rivoltandola sul sediolino. Caddero quattordici dollari e svariati centesimi, la tessera della stanza d'albergo e un Tampax ancora imbustato.
Forse fu la disperazione che trasmetteva, mista a quell'ansia, a quella frenesia che le attraversava lo sguardo, o forse le lacrime che le colavano dal mento, ma Rajesh Khalehed, così si chiamava il tale, rimase convinto.
“Va bene...”.
“Grazie!” urlò Yvonne, sorridente. Strinse il braccio dell'uomo con entrambe le mani, in segno di riconoscenza.
“Dove hai detto che dobbiamo andare?”.
“West Memorial!”.
“Quarantasettesima?”.
“West Memorial! Quarantasettesima!” esclamò, piena di paura. Pensava ancora a Ruby.
Pensava al peggio.
Il taxi si mise in moto e in sette minuti arrivò fuori al complesso ospedaliero.
Lasciò i soldi e l'assorbente sul sediolino e uscì fuori, alzando gli occhi davanti al grande edificio. Non tutte le finestre erano illuminate, forse per via dell'ora tarda.
Percorse il vialetto d'ingresso correndo velocemente, fino a raggiungere delle scalinate, che salì due a due, ad ampie falcate.
Il cuore pulsava, le luci bianchi dei neon inondarono il suo volto non appena mise piede nell’atrio, ampio, dai grossi pavimenti in marmo.
Molte persone sostavano in piedi, alcuni di loro indossavano un camice ma nessuno pareva degente o in attesa di soccorsi.
Del resto quello era l’ingresso principale.
Spedita, si gettò verso il bancone che aveva davanti, dove un infermiere era a colloquio con una signora attempata dal taglio d’occhi orientale.
Yvonne la spostò di peso, col panico sul volto e le lacrime agli occhi.
“Ruby Normanson! Dov’è?! Ruby! Si chiama Ruby! L’hanno portato qui! West Memorial!” sbraitava, totalmente sconvolta.
L’uomo al di là del bancone si alzò in piedi, spaventato.
“Signorina… si calmi…” faceva la vecchietta, stringendole un braccio.
“Devo vedere Ruby!” ribatté. La voce della donna riecheggiava tutt’intorno, salendo in alto, amplificata dalla grande volta presente sulle loro teste.
“Chi diavolo è Ruby?! Signorina, lei è in un ospedale! Non urli!”.
“Devo vedere Ruby!”.
L’infermiere guardò per un attimo la vecchietta e poi alzò il telefono. Digitò un numero e portò la cornetta all’orecchio.
Yvonne strinse il bordo in marmo del bancone tra le mani. Aveva ormai gettato il fazzoletto, l’epistassi si era fermata ma aveva lasciato il labbro superiore sporco di sangue secco.
“Sì, Marvin… Per caso in pronto soccorso avete ricevuto una certa… Ruby…” fece lui, guardando l’avventrice sconvolta con aria interrogativa.
“È un uomo! Ruby Normanson!”.
“È un uomo. Ruby Normanson… È passato di lì. Va bene”.
L’uomo abbassò la cornetta e guardò la donna.
“È arrivato venti minuti fa al pronto soccorso. Non è grave... quindi si calmi”.
“È qui!” esclamò.
“Sì, è qui… Imbocchi questo corridoio” fece, indicandolo con la mano, continuando a guardarla negli occhi. “Non il primo ascensore, il secondo… quinto piano. Lui è lì. Sta bene, attende di essere dimesso”.
“Grazie!” urlò, correndo a perdifiato lungo il corridoio in cui era stata direzionata dall’infermiere. A quell’ora tutte le porte erano chiuse. Le poche persone che la videro arrivare si avvicinarono al muro.
Sorpassò il primo ascensore e raggiunse il secondo, premendo il tasto di chiamata più e più volte, con foga.
I secondi passavano, il cuore batteva e l’ascensore non arrivava. L’ansia che aveva in corpo non accennava a diminuire, nonostante le rassicurazioni dell’uomo all’accettazione.
Doveva vederlo coi suoi occhi.
Cominciò a saltellare sul posto, impaziente, mentre guardava il led dell’ascensore illuminare il numero tre: era ancora al terzo piano.
“Forza! Putain, forza!”.
Undici secondi dopo, durati più di cinque minuti nella sua testa, le porte dell’ascensore si spalancarono. Lei si gettò nella cabina e premette il pulsante più e più volte, girandosi e guardandosi allo specchio.
Lo spettro che le si parò davanti era quello di una ragazza col volto e la maglietta sporca di sangue, i capelli biondi e spettinati e gli occhi arrossati, dai quali erano partiti fiumi di lacrime nere, che le avevano dipinto gli zigomi come acquerelli sulla tela.
Aveva freddo. Non le importava.
Si voltò quando il segnale sonoro l’avvertì che fosse arrivata al quinto piano. Aprì le porte e uscì dall’ascensore come se all’interno vi fosse stato appiccato un incendio.
Guardò a sinistra, dove diverse persone erano sedute in una sala d’aspetto, su poltroncine beige sdrucite, al pari delle loro facce.
A destra vi erano invece diversi dottori, tutti in camice bianco, affiancati da infermieri dal camice azzurro.
Davanti a lei un altro banco d’accettazione. Si mosse rapida.
“Ruby Normanson. Dov’è?!”.
L’infermiera si chiamava Tonia; era una corpulenta donna di colore dai capelli ricci e scuri.
“Il ragazzo accoltellato?” chiese, con una calma quasi irreale se messa a confronto con Yvonne.
“Sì! Devo vederlo!”.
“Lei è una parente?”.
“Sì! Dov’è?!”.
“Nella camera quarantacinque, ma deve aspettare un medico che la accompagni”.
Tutto fece, Yvonne, tranne che attendere. Dribblò dottori e infermieri mentre veniva richiamata, guardando i numeri accanto alle porte.
Quarante-trois… quarante-quatre… quarante-cinq! La voici!”.
Spalancò la porta e lo vide, seduto sul letto, senza maglietta e col torace fasciato da una grossa benda, che gli girava tutto attorno alle costole.
Alzò gli occhi, Ruby, la vide e li spalancò.
“Yvonne…”.
Quella si lasciò andare al pianto, correndo verso di lui e stringendolo con delicato vigore al collo.
Fu intimo ed essenziale.
Solo due cuori, il dolore, il sangue, le lacrime, e i loro respiri.
I loro petti si stringevano. I loro battiti si presero per mano.
“Sei sporca di sangue... Ti hanno medicato?” chiese lui, sentendo forte il suo profumo. L'odore che emanavano i suoi capelli era dolce e penetrante.
La sentì sussultare.
“Mi rispondi?”.
“Non importa”.
“Importa a me”.
Yvonne sospirò. “Scusa... Se sei qui è solo colpa mia...”.
“Non ti avrei mai lasciata nelle grinfie di quell'animale”.
Qualcuno bussò alla porta, alle loro spalle.
Senza neppure mollare la presa, la donna girò la testa, guardando un dottore dai capelli corti e radi sui lati.
“Ruby Normanson” fece quello, leggendo la cartella che aveva tra le mani. “Ferita di coltello sul fianco, lieve perdita di sangue...”. Alzò poi gli occhi. “Spero non sia stata questa signorina a conciarla così”.
Il ragazzo sorrise. “Credo che questa signorina mi concerebbe assai peggio...”.
“Meraviglioso. Bene... la Dottoressa Herbert le ha praticato la sutura e le ha prescritto i medicinali. Infine, e questo lo dico proprio alla signorina bionda: stanotte niente sesso. Non gli faccia fare sforzi... Domani non voglio venire a sapere che siete tornati perché gli si sono riaperti i punti”.
Mentre Ruby sorrise, il volto di Yvonne rimase granitico. I suoi occhi erano vuoti, senz’anima.
Il ragazzo la guardò e quindi sospirò.
“È ancora scossa…”.
“Comprensibile. Ora si vada a riposare e non faccia stupidaggini”.
 
Ripercorsero la strada inversa. Yvonne camminava come un fantasma, stringendo la mano dell’uomo che aveva accanto e mantenendo lo sguardo sul pavimento.
Entrarono nell’ascensore e mantennero il silenzio per tutta la discesa.
Fu quando tornarono in strada, in quella notte ormai troppo movimentata, che Yvonne percepì i primi accenni di stanchezza.
Il cuore rallentò il battito e le palpebre divennero più pesanti.
Ruby la guardava, mentre quella non faceva altro che fissare avanti col viso mezzo inclinato e gli occhi spenti.
“Yvonne… È tutto finito”.
Quella non lo guardò neppure. Avanzarono fino alla farmacia notturna, presero i farmaci e salirono su di un taxi.
“Fai piano” fece la donna, aprendogli la portiera e aiutandolo a salire quando quello gli si accostò accanto.
L'intero viaggio di ritorno fu un tappeto di silenzio steso sulle strade di Austropoli, interrotto ogni tanto da qualche osservazione di Ruby, che cercava di rincuorarla in qualche modo, vedendola attanagliata da un’angoscia quasi liquida.
Arrivarono all’hotel poco dopo. Ruby aprì la porta e vide Yvonne fare altrettanto, ma più velocemente, correndo dall’altra parte della macchina per aiutarlo.
“Non sforzarti” gli disse.
Lo tirò fuori dall'auto, con delicatezza, e sospirò.
“Non ho soldi con me… Ho dato tutto ciò che avevo all’altro tassista…”.
“Non preoccuparti…” disse il ragazzo, stringendo i denti quando dovette incrociare il braccio destro verso l’anca sinistra per provare a prendere il portafogli nella tasca interna del soprabito.
La ragazza lo fermò.
“Faccio io”.
Pagarono e salirono lentamente in stanza. Fu Yvonne a prendergli la tessera per aprire la porta della camera, ad accendergli le luci e a frugargli tra le tasche per passargli il cellulare.
“Telefona White e avvertila. Cerca di non farla preoccupare…” gli disse, in un tono inaspettato di maturità.
Ruby guardò il telefono, poi guardò la mano e quindi annuì.
“Io intanto vado a farmi una doccia…”.
 
Ti sto aspettando da quasi tre ore… Non le hai viste le sedici chiamate perse?”.
Ruby si limitò a sorridere, senza vedere Yvonne uscire dalla stanza, alle sue spalle, silenziosamente.
“In realtà il cellulare era nel cappotto”.
Con questo freddo, voglio sperare che il cappotto tu ce l’abbia addosso”.
“Ora no. Ora sono in stanza”.
Sentiva la donna respirare profondamente, dall’altra parte del ricevitore, mentre sentiva il dolore al fianco aumentare. Cercò meglio tra le tasche e staccò una compressa dal blister, mandandola giù senz’acqua.
Mi hai dato buca. Maturo, come comportamento. A maggior ragione quando ci sono i tuoi soldi in ballo…”. La sentì sospirare.
Yvonne rientrò nella camera con uno zaino tra le mani, e come qualche secondo prima, Ruby non se ne accorse.
“In realtà sono finito all’ospedale… al… al…”. Non ricordava.
“West Memorial” s’inserì Yvonne.
“Sì” annuì l’altro. “West Memorial”.
Che diamine stai dicendo?! E ora dove sei?!”.
“A casa. Cioè, in camera… Yvonne è qui con me e mi sta aiutando ma…”.
E che ti hanno fatto?”.
“Sono stato accoltellato al fianco”.
Ma porca puttana! Stai bene?!”.
“Ma sì, ma sì…”.
Alle sue spalle Yvonne tirò fuori dallo zaino uno slip rosa e un maglione lungo. Buttò la borsa accanto al letto e levò prima il giubbino e poi la maglietta, rimanendo col reggiseno sportivo.
Gettò per terra anche i vestiti per poi entrare nel bagno.
Ruby non si era accorto di niente. Ascoltava White parlare.
Austropoli è una grande città, queste cose accadono…”. Vi fu una piccola pausa, prima che continuasse.
E così sei con Yvonne... Saprà sicuramente farti da infermierina….”.
“È un tesoro. Comunque dovremmo rimandare questo briefing…”.
Già. Vado a mangiare qualcosa. Avverti Sapphire. A domani” chiuse, telegrafica.
“Buonanotte”.
Attaccò e sentì l’acqua della doccia che scendeva, scrosciando.
 
Si stava lavando lì, da lui.
 
Lentamente, Ruby si voltò, camminando piano fino a raggiungere il letto, circumnavigandolo e sedendosi proprio davanti ai vestiti della ragazza.
Li guardò, sospirando.
Aveva davanti agli occhi l’espressione che indossava quando, trapelata, s’era presentata alla sua porta d’ospedale; non vedeva altro che paura.
Yvonne aveva paura.
Raccolse la maglietta da terra, sottile e leggermente sporca di sangue. Sgualcita e piccola, tra le sue mani.
Come poteva una donna così bella e forte vivere nel terrore?
Come potevano un paio d’occhi meravigliosi come quelli avere ancora la facoltà di piangere?
Come poteva, una donna come Yvonne, provare sofferenza a tal punto da diventare irriconoscibile?
Le domande si accalcavano una dopo l’altra, prima che la mente di Ruby si poggiasse sull’effettiva realtà dei fatti.
 
Quella donna era sola.
 
Sempre stata sola, da quando aveva messo piede a Unima, partita carica di speranza e arrivata ad assaggiare la realtà: la vita faceva schifo.
E lo aveva imparato sulla sua pelle.
Yvonne era soltanto una ragazza bellissima col sogno dell'America. Un sogno che aveva da bambina.
Un sogno che poi si dovette scontrare con l’effettivo andamento delle cose, visto che nessuno le aveva regalato niente.
E quando si è da soli si fanno degli errori, anche abbastanza grossolani.
Uno degli errori d’Yvonne si chiamava Sergei, e vedere quell’errore minacciare una delle poche persone che, in tutta la sua vita, le avessero mai dato fiducia l'aveva portata allo stremo.
Ruby era con White quando l’aveva pescata dal nulla, e lui s’era messo in prima linea per difenderla.
Yvonne era poesia per i suoi occhi, e non un pezzo di carne da fottere.
Per via del suo aspetto s'era sempre accerchiata di persone mai interessate ad andare oltre il guscio.
Levò lentamente il cappotto, ormai imbrattato di sangue e guardò la fasciatura.
S’era davvero beccato una coltellata per una sua modella?
Ma la domanda vera e propria era: perché non aveva ancora chiamato Sapphire?
 
L’acqua della doccia interruppe la propria discesa. Ruby aveva ancora la maglietta della ragazza tra le mani, quando quella uscì dal bagno, coi capelli bagnati e il maglione lungo a coprirle le cosce.
S’avvicinò lentamente, battendo coi talloni sulla calda moquette, gli si fermò davanti e s’accasciò sulle ginocchia, incontrando gli occhi rossi.
“Metterò a posto domattina. Stenditi…”.
S’abbassò ancor di più, sciogliendogli i lacci delle scarpe e scalzandole.
Poi s’alzò. Ruby la vide sgambettare verso il frigobar, dove prese una bottiglia d’acqua e due bicchieri di plastica. Li portò, pieni, al ragazzo. Accese poi gli abat-jour e abbassò le luci, tornando in bagno.
L’urlo del phon coprì tutto.
Ruby si stese lentamente, buttando giù quel mix di antidolorifici in pasticche, e rimase a guardare la figura nello specchio, che di tanto in tanto incrociava lo sguardo con lui.
Doveva avvertire Sapphire, il cellulare era tra le sue mani, tuttavia gli occhi di Yvonne continuavano a fissare i suoi attraverso il riflesso, e sembravano parlare.
Doveva avvertire Sapphire ma il bruciore non accennava a diminuire e il pensiero di avere quella donna nel letto lo faceva impazzire.
Doveva avvertire Sapphire, e basta.
 
 
Amore… Scusami se ti contatto a quest’ora. Dormi? 01:03
 
 
Yvonne si era letteralmente voltata verso di lui, continuando a passare con la mano tra i capelli umidi. Il cellulare vibrò.
 
 
No. Non riesco a dormire 01:03
 
Perché non mi hai chiamato? 01:03
 
Credevo stessi riposando. Anche tu insonnia? 01:03
 
No. Non proprio. 01:03
 
Cosa succede? 01:04
 
 
Il ragazzo stava prendendo coraggio. Già immaginava la reazione.
 
 
In realtà ho avuto un piccolo problema. Sono finito al West Memorial. 01:04
 
Cos’è il West Memorial? 01:04
 
 
Praticamente un salto nel vuoto.
 
 
Ospedale. 01:04
 
 
Fu letteralmente come tagliare il filo rosso di una bomba. Il cellulare vibrò qualche secondo dopo.
 
 
 
Incoming Call
 
S A P P H I R E
 
 
 
Il nome della sua donna lampeggiava sullo schermo, dove la sua fotografia la mostrava in bikini, coi capelli bagnati, il primo giorno che raggiunsero Alola.
I suoi occhi erano più azzurri del cielo.
Stava per rispondere ma poi alzò gli occhi.
Yvonne lo guardava ancora, quando lui fece cenno con la mano di fermarsi.
Ci fu uno scambio di sguardi, in cui lui fu abbastanza abile da farle capire che qualcuno stesse telefonando e che non avrebbe dovuto capire che lei fosse lì.
Un po’ le dispiacque. Capì subito che fosse Sapphire.
Spense il phon e lo vide rispondere.
 
Cosa cazzo è successo, Ruby?!” esclamò quella. Il ragazzo riuscì a percepire il livello d’angoscia che stava vivendo l’altra, lontana circa un oceano.
“Ma nulla, amore, stai tranquilla…” fece, abbassando la voce. “Stavo andando in atelier e ci… ci hanno fatto una rapina”.
E perché sei andato in ospedale?! Dannazione, hai reagito, Ruby?! Che diamine ti salta in testa?! Non sei stato per abbastanza tempo un eroe?!”.
“Smettila di urlare. Era un ubriaco… ci ha aggrediti… e mi ha colpito col collo di una bottiglia…”.
Oddio… dimmi che non ti ha preso la faccia. Per favore”.
Ruby sorrise. “No. Mi ha soltanto graffiato il fianco”.
Ti hanno ricucito?”.
“Certo”.
Ti hanno dato dei medicinali?”.
“Ovviamente”.
“… Domani prendo il primo aereo e vengo lì. Sappilo”.
“Ma che dici, no… non preoccuparti” sorrise ancora lui. In quel momento si ricordò perché la sua donna fosse tanto straordinaria. “Sto bene. Il medico mi ha detto di riposare e non fare sesso”.
Appunto. Dovrei venire ad accoltellarti ogni settimana, in pratica…”.
“Potresti restare qui, a quel punto”.
Gli occhi di Yvonne si spalancarono, puntati su Ruby come fari nella notte.
Sai bene che non posso… Sei sicuro di star bene?”.
“Sì, Sapph… Sto bene, sto bene. Stai tranquilla. Volevo solo avvertirti…”.
Chiamami domani appena ti svegli. Ti amo, Rù…”.
“Anche io, Sapph”.
 
Poggiò il cellulare sul comodino e sospirò.
Amava la sua donna.
Alzò gli occhi e guardò Yvonne, prima di domandarsi:
 
Cosa diamine ci faceva quella donna coi capelli bagnati nella sua stanza?
 
Rimase in silenzio, lui, cercando il coraggio di cacciarla via di lì.
Sì. Rimase in silenzio, lui.
Si limitò a vederla mentre riaccendeva il phon, per asciugare le punte, stavolta con lo sguardo meno coraggioso, puntato a volte verso il pavimento, solo a volte verso lo specchio.
White era stata sottile quando lo aveva rimproverato, quella sera, dicendogli di non approfondire troppo il suo rapporto con Yvonne.
 
Nel senso più fisico del termine…
 
Ripensava a quelle parole.
Non doveva andarci a letto.
Forse, continuava a pensare, perché il coinvolgimento emotivo di Yvonne è a un livello superiore del mio.
Poco dopo aveva finito. Aveva spento l'asciugacapelli e aveva leggermente accostato la porta, sparendovi oltre.
Ruby intanto guardava il freddo del muro bianco che aveva difronte; continuava a macinare
quel pensiero.
A tirare i fili di quell'idea, accorciandone i lembi.
 
Yvonne è a un livello superiore...
 
La porta del bagno si spalancò e la donna ne uscì in fretta, a piedi scalzi e a gambe nude.
I capelli erano gonfi e vaporosi, biondi come spighe di grano. Nonostante non vi fosse traccia di trucco sul suo volto, Yvonne era sempre la donna più bella del mondo.
Manteneva con la mano destra il lembo del maglioncino, a righe orizzontali grigie e bianche, per paura che si sollevasse, mostrando più di quanto voleva che si vedesse. La mano sinistra, invece, reggeva una spazzola col manico in legno.
Ruby guardò per un attimo quelle gambe lunghe e affusolate, lucide e lisce. Profumate.
Si piegarono quando la donna si sedette sul letto, proprio accanto a lui.
“Era Sapphire?” chiese, cominciando a spazzolare con delicatezza la lunga e folta chioma.
Il ragazzo annuì ma lei, di spalle, non riuscì a vederlo.
“Era Sapphire, vero?” ripeté, voltandosi solo dopo qualche secondo. Continuava a pettinare i capelli, mentre i loro occhi s'abbracciarono.
“Sì”.
“Verrà qui, vero?”.
“Yvonne...”.
Spazzolò un ultima volta i capelli, quindi si avvicinò al comodino e vi posò la spazzola.
“Lascia stare” disse.
Il dolore al fianco lo pugnalò, in quel preciso istante. Lui lo aveva capito: Yvonne voleva lui.
“Cosa?”.
“Niente” disse, afferrando i lunghi capelli in una mano e legandoli stretti in una coda.
“Io credo che le cose non siano state totalmente...”.
“È tutto chiaro, Ruby” continuò. Alzò le lenzuola e fece in modo che le gambe del ragazzo vi s'infilassero sotto. Lo prese per mano e lo aiutò a stendersi, prima di seguirlo, voltarsi dall'altra parte e lasciare che le luci si spegnessero.
 

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Capitolo 11
*** 11. Undici (XI) ***


UNRAVEL ME.
ovvero risolvimi, nel senso di districami, sbrogliami.

UNA FRANTICSHIPPING (ma per finta) di Andy Black (ma lo sapevate).
 

 
Unima, Austropoli, Salone HART, 9 maggio 20XX
 
Era quasi desolante Sidney Bechet, con la sua Summertime.
La sfilata era finita da un’oretta e tutto l’agglomerato di stilisti e modelle dell’Atelier Automne si era ritrovato come sempre dietro le quinte.
Yvonne era stata l’ultima a uscire dal camerino di prova: aveva indossato nuovamente gli abiti con cui era arrivata lì. Era stato un sollievo smontare quelle scomode scarpe dall’altissimo tacco per indossare nuovamente le sue Skechers. La musica continuava a fuoriuscire dall’impianto, lenta e quasi liquida, pareva colasse dagli altoparlanti. Rallentava le parole della gente, i movimenti, i respiri.
La donna strinse il cellulare tra le mani mentre attraversava un nido di modelle col volto annoiato.
Qualcuno la chiamava, lei si limitò ad alzare la mano.
Era troppo impegnata, al momento, per gli altri.
Sentiva il profumo di qualcuna delle sue colleghe, davvero troppo forte; era Kendra, lo sapeva, ma non aveva neppure alzato lo sguardo in loro direzione.
Non che si ritenesse tanto differente da loro, facevano lo stesso lavoro.
Solo che pensava fossero frivole.
Kimberly le afferrò il polso, tirandola indietro.
“Ehi…” fece, sporgendosi dal gregge. I capelli, gonfi e legati in una coda bassa, le ricadevano sulle spalle lentigginose. Indossava una semplice canottiera bianca, senza reggiseno. “Dove vai?” chiese.
“Vado via” rispose rapida Yvonne.
Il volto della rossa s'incupì.
“Perché?”.
La bionda strattonò leggermente, per liberarsi dalla stretta dell'altra, ma invano.
Si arrese e sbuffò.
“Cosa?”.
“Perché vai via?”.
“Non ho voglia di rimanere. Sono stanca, ho da fare”.
Sempre stringendole la mano, Kim si staccò dal gruppo e la tirò in disparte, trascinandola fino al muro accanto. Yvonne si  appoggiò di fianco all'estintore, guardando in basso.
“Cosa c'è che non va?” chiedeva l'altra, poggiandole una mano sulla spalla. Vedeva Yvonne sospirare, stanca. Non l'aveva mai vista in quel modo.
“Non c'è nulla che non vada, Kim” fece, evitando il suo sguardo.
“Non sei mai stata così e...”.
La rossa si guardò attorno, incrociando per un attimo gli occhi di Ruby. Lui fissava Yvonne.
In tutto il cast c'era la convinzione che la bella di Kalos fosse la preferita dello stilista: passavano molto tempo insieme, condividevano lo stesso albergo e spesso si facevano vedere insieme in giro per Austropoli.
Erano così intimi da sembrare una coppia. Yvonne ronzava sempre attorno a lui.
Invece, durante quella festa, Ruby brindava con White e la modella fuggiva via dalle quinte, con gli occhi spenti e le labbra screpolate.
Kim non lo sapeva. Forse avevano una relazione. Forse avevano appena troncato.
O forse no.
“Posso andare ora?” domandò la bionda.
L'altra fece spallucce.
“È che non ti ho mai vista così, Ypsey... Si vede che qualcosa ti turba e vorrei che tu stia bene...”.
“Non mi turba nulla, Kim”.
Staccò le spalle dalla parete e la dribblò velocemente, camminando dritta verso la porta e passando davanti alla Presidentessa e allo stilista, senza neppure guardarli in viso.
 
“Non ci ha neppure salutati...” osservò White, stringendo il flute tra  le dita ingioiellate.
“Ho rovinato tutto” sbuffò l'altro, poggiato a un grosso tavolo di freddo acciaio ricoperto di tulle.
Gli occhi della donna scrutarono nell'animo dello stilista.
“Non hai rovinato nulla. Hai evitato che il castello crollasse”.
Il ragazzo si voltò, poggiando le labbra sul bicchiere e bevendo. Lo spumante era fresco e frizzante.
Pensò che bastasse un soffio di vento, per far crollare un castello di carta.
Di carta, sì. Perché si sentiva fragile.
“Hai fatto la cosa giusta” aggiunse White. “Non l'hai illusa”.
“Non lo so, sono sincero... Mi piaceva che mi sorridesse. La sua presenza era speciale...”.
“Pensa a Sapphire”.
I loro occhi s'incrociarono.
“So benissimo cosa rappresentano queste due donne, per me. Sapphire è una cosa e Yvonne un'altra... Io amo Sapphire, non Yvonne”.
“Già. Con Yvonne c'è solo attrazione fisica”.
“Non solo... a me piace la sua mente. La sua storia... Io credo di apprezzarla molto, come donna. E sono settimane che non mi guarda negli occhi”.
White sospirò.
“Forse è arrivato il momento di prenderti una pausa. Torna a casa e metti la testa nel ghiaccio...”.
Ruby annuì.
“Sono pronto, Presidentessa...”.
“Pronto a cosa?” chiese quella, coi capelli legati in una coda alta e le guance rosate, un po' per il trucco, un po' per l'alcool che le riscaldava il sangue.
“Chiederò a Sapphire di sposarmi”.
La donna sorrise dolcemente. In cuor suo era sollevata che Yvonne non avesse vinto quel duello con un più che disarmatissima Sapphire. Non che la sua modella le fosse antipatica, anzi: aveva carisma, e soltanto il suo nome era un'ottima pubblicità per la BW Agency, dopo le sfilate fatte in quei mesi.
In più l'aveva letteralmente salvata da una vita che non meritava. La cosa l'aveva fatta affezionare a lei non di poco.
Era una ragazza bella e determinata.
Una ragazza potente.
L'unico suo difetto era però quell'ostinazione innata, unita alla positivissima voglia di ottenere qualcosa con tutte le proprie forze.
White posò il bicchiere accanto a quel ragazzo dal volto delicato e sospirò.
Il fatto che Yvonne volesse proprio Ruby la preoccupava dato che, oltre a rappresentare una forte turbativa per i suoi affari, avrebbe mandato sulla graticola l'unica persona che non c'entrava assolutamente nulla, in tutta quella storia, che era Sapphire.
Tuttavia il volto di Yvonne, pochi secondi prima, testimoniava la mancanza di quell'armonia tra i due che tanto la preoccupava ma che era senz'alcun dubbio una delle cose più belle da vedere.
“Yvonne lo sa?”.
“No”.
Ruby tirò indietro i capelli, ben pettinati, ordinati e laccati. Sentiva un po' di stanchezza fisica, che forse un'intera notte di sonno gli avrebbe scrollato dalle spalle.
“Yvonne mi ha messo di malumore... Torno in albergo. Fumo una sigaretta e poi vado a dormire”.
“Andrai da lei, vero?” chiese quella.
Un attimo di pausa anticipò la risposta dello stilista, che fece cenno di no con la testa.
“Con lei è solo lavoro”.
La Presidentessa annuì e gli si avvicinò, baciandogli la guancia.
“Spero che sia così. Sapphire merita altro”.
 
Pioveva, quella sera.
Il taxi su cui Ruby era salito era pulito e ordinato. Il tergicristalli gemeva sistematicamente ogni volta che batteva sulla parte centrale del vetro, asciutta nonostante l'acqua che cadeva dal cielo e investiva Austropoli.
La testa del ragazzo era appoggiata sul finestrino, nel vano tentativo di riuscire a scorgere i suoi occhi rubini nel riflesso.
Ma non ci riusciva. Poteva vederne soltanto il contorno.
Il cellulare, stretto tra le mani, lo avvertiva che fosse ormai troppo tardi sia per cenare che per telefonare a Sapphire.
Le scrisse un messaggio. Non si aspettava una risposta prima dell'alba.
Ripensò a quella sera e notò, già durante la prova degli abiti, che lei s’era dimostrata spenta, con lo sguardo distratto da altro.
Pareva a disagio quando le sue mani, che prima accoglieva, le accarezzavano la pelle; i contatti si erano limitati a quello, dato che Ruby riusciva a saggiare nettamente la distanza che si era posta tra i due.
Non gli piaceva la cosa ma la capiva.
Lei non gli aveva rivolto parola, neppure quando lui le aveva fatto i complimenti per la sfilata; si era limitata ad annuire, ad abbassare il volto e a proseguire verso lo spogliatoio.
Ormai aveva fatto la sua scelta, che era quella più ovvia. Aveva scelto Sapphire.
La poco dolce e rude Sapphire, la perennemente nervosa Sapphire.
Quella dal cuore d’oro.
Semmai gli si fosse posta davanti una scelta, ovviamente. Erano anni che quella ragazzina dagli occhi blu s’era accampata nel suo petto e non sarebbe bastata una Yvonne qualunque per scalzarla.
Perché Sapphire era speciale.
Aveva acquistato già un anello, che lo aspettava ben custodito nel cassettone centrale del comò, nella sua stanza. Lo avrebbe messo al dito della donna soltanto dopo averle fatto indossare l'abito che aveva confezionato per lei.
Sarebbe stato tutto perfetto.
Sarebbe stato tutto magico.
Eppure il lato amaro di quel bicchiere d'ambrosia, dolce per definizione, non apparteneva al contesto di ciò che sarebbe andato a trovare.
Cosa avrebbe lasciato?
Il taxi percorreva Main Street, trafficata come se fosse mezzogiorno, quella notte, mentre i suoi dubbi si accavallavano, cercando di prevalere l'uno sull'altro.
Era pronto a lasciare la sua relativa libertà?
 
Era convinto di sì.
Certo, non del tutto. Forse erano stati gli occhi spenti di Yvonne a fargli fare un passo indietro, come se cercasse la sua approvazione per quel grande passo.
Approvazione che non avrebbe mai ricevuto.
Era diventato tutto troppo strano e incoerente. Amava Sapphire e l'avrebbe sposata ma contemporaneamente desiderava le attenzioni della sua modella.
Contraddittorio. Ruby non era così.
Il tassista imprecò in una lingua che il ragazzo non conosceva mentre, tra le fastidiose interferenze della radio, un triste blues stava riempiendo l'abitacolo di una pesantezza che quasi stancava.
Stancava più del normale.
Ruby era logoro, quella sera; la sfilata era andata in maniera grandiosa ma sembrava non interessargli più di tanto, come se il risultato fosse stato scontato.
Forse era soltanto arrivato al limite: non sopportava più quella solitudine controllata, in cui riusciva a isolarsi anche in mezzo alle persone.
Amava Unima ma era casa sua la cosa che più gli mancava.
 
“Ventisette dollari” esordì il tassista, che aveva accostato sul marciapiedi davanti all'albergo. Un piccolo rivolo d'acqua piovana camminava lento sotto il cordolo dello scalino, sull'asfalto nero, fino a tuffarsi nella grata di un tombino.
Ruby pagò con tre banconote da dieci, lasciò il resto all'uomo e rimise il portafogli nella tasca interna della giacca. Lentamente salì i gradini dell'albergo ed entrò nella hall.
Ogni passo era pesante, ogni pensiero si trascinava dietro una straziante scia di consapevolezza, che lo metteva davanti a una scelta.
Odiava le scelte.
“Buonanotte, signore” disse il facchino, ben avvolto nella sua divisa blu bardata. Ruby gli fece un cenno con la testa e s'inserì nel vortice della porta girevole automatica.
Quando entrò nella hall la temperatura era più mite. Era fin troppo abituato alla pioggia lui, a Hoenn, ma da quando era stato adottato da quella città aveva imparato a disprezzare sia le giornate di sole che quelle uggiose.
E le giornate di riposo, troppo lunghe e fastidiose.
E le persone. Odiava le persone.
Prese la tessera d'accesso alla camera, facendo un cenno col capo anche al concierge, e si avviò all'ascensore.
Premette il tasto di chiamata e intanto il cellulare vibrò, una volta, brevemente.
Lo prese. Pensò che fossero secoli che non sentiva suonare il cellulare ma, volente o nolente, era diventato un prolungamento della sua mano.
Ormai non poteva fare più nulla senza cellulare. Doveva gestire troppe persone, troppe situazioni, e non avrebbe mai potuto farlo in altro modo.
Era White.
 
 
Evita di parlare con Yvonne, stasera. Magari a mente fredda ne parliamo tuti e tre           02:37
 
 
Decise di non volerle rispondere. Lo infastidiva quell'atteggiamento che la Presidentessa stava avendo con lui.
Lo faceva sentire un ragazzino che non riusciva a tenere l'aggeggio nelle mutande.
Aveva paura che il suo autocontrollo non funzionasse e alle fine potesse rovinare tutto.
Sbuffò, poi lasciò cadere il telefono in tasca e sospirò, quando le porte dell'ascensore si aprirono davanti a lui.
Vi entrò. La musichetta, a quell'ora, non suonava.
Il problema forse erano le aspettative, pensò: tutti si aspettavano qualcosa da lui ma nessuno credeva che riuscisse a farlo. White era la prima a porre il suo dubbio su di lui, e Yvonne non lo guardava neppure più in faccia.
Le voci che giravano dietro la passerella, tra le sue modelle, sostanzialmente lo additavano come parte della coppia che si era andata a stabilire con la bella di Kalos.
Le ragazze non facevano sentire Yvonne a disagio, ma lo additavano come uno che se la spassava con le sue modelle e la cosa lo infastidiva di non poco.
Arrivò al piano e poco dopo davanti la sua stanza.
Strisciò la tessera nel lettore mentre pensava che, paradossalmente, l'unico pilastro su cui sapeva di poggiare fosse la sua Sapphire.
Bruciava la ferita sul fianco, digrignò i denti. Di tanto in tanto accadeva.
Si chiuse la porta alle spalle e accese le luci. La borsa era già pronta sul letto, piena di regali per sé e  per i suoi, da consegnare una volta arrivato a Hoenn.
Dentro c'era anche il vestito blu.
Fu l'unico momento in cui sorrise sinceramente e in maniera sfuggevole.
Stava per voltare pagina.
Vedeva la sua storia con Sapphire come una traversata lunga ed epica attraverso un oceano d'inconvenienti.
Una scalata sulla montagna più impervia mai vista.
E tutto ciò tenendole sempre stretta la mano.
Immaginava la sua proposta: l'avrebbe costretta a indossare quell'abito, dopo una sfilza infinita di spiegazioni e di perché, e poi l'avrebbe portata a vedere il tramonto da Brunifoglia, dove la cenere scendeva giù lenta e il sole dipingeva il cielo di rosso, rosa e arancione, mentre il blu della notte s'espandeva vorace. Le si sarebbe inginocchiato davanti e le avrebbe chiesto di diventare sua moglie.
Guardò il comodino. La scatolina ricoperta di velluto rosso conteneva un anello con diamante. Sarebbe stato lui il protagonista di quella serata, forse.
Sigaretta.
Si voltò verso la scrivania in larice e prese il pacchetto, quindi uscì nuovamente all'esterno.
Un tuono rombò tutt'intorno ma non sobbalzò. Sentiva la pioggia cadere fitta oltre la porta tagliafuoco che dava sul terrazzo.
Quando la aprì non fu in grado di vedere oltre le balaustre: litri e litri d'acqua si gettavano sulle mattonelle e sulle sdraio, rimbalzavano per terra, scivolavano sulle finestre.
Tagliavano il fumo delle sigarette.
Yvonne era lì.
Yvonne fumava lì.
Ruby la guardò, stretta nel suo cappotto grigio, che si stagliava oltre quella pioggia di spilli d'acqua. Manteneva la sigaretta tra le dita con la sua solita eleganza mentre lo sguardo vagava, un po' qua, un po' la.
I loro occhi s'incrociarono, quando la porta cigolò, chiudendosi.
Furono i sei secondi più lunghi che lui avesse mai vissuto. Stringeva tra le dita la Marlboro Gold, nascondendola dietro la coscia per evitare che si bagnasse.
I loro respiri diventavano condensa e salivano in alto, bucati dal temporale.
“Se... se vuoi vado via” fece lui, immobile.
Yvonne tornò a guardare dritto, senza voltarsi.
“Puoi fare quel che vuoi. Questo posto non è mio, no”.
“Grazie”.
Quella sorrise.
“Non ringraziarmi”.
Ruby sospirò. Se avesse potuto vedere il suo volto in quel momento, con ogni probabilità si sarebbe convinto di dover andare a dormire. Tuttavia un'ultima sigaretta non si nega neppure a un condannato.
Tirò fuori l'accendino dalla tasca del giubbotto e lo avvicinò alla bocca, ma quando si accorse che la rotella girasse a vuoto alzò gli occhi al cielo. Nonostante fosse al coperto, una goccia di pioggia gli baciò il viso.
“Oggi non me ne va bene una...” sbuffò, gettando il Bic verso le ringhiere.
E poi lo sguardo dell'uomo si spostò nuovamente verso l'altra.
La compagna di sigaretta.
“Hai da...?”.
Lo guardò con tanta sufficienza da fargli dubitare di essere lì. La vide portare la mano alla tasca del giaccone e tirare fuori una scatola di fiammiferi. Gliela porse, nonostante fosse a più di dieci metri da lui. Non accennò a muoversi.
No. Era Ruby, quello che doveva bagnarsi per raggiungerla.
E così fu.
Attraversò la parete d'acqua che c'era tra di loro, per ripararsi sotto al balcone del piano di sopra e mettersi accanto a lei. Era da troppo che non sentiva il suo profumo.
Afferrò i fiammiferi e aprì la scatolina.
Ne strisciò uno contro il muro alle loro spalle e tirò dentro un po' di quell'ossigeno sporco di cui tanto aveva bisogno.
“Grazie”.
Quella non rispose.
Un tiro, due tiri, tre tiri, e nessuno dei due ancora aveva aperto bocca.
Ruby avrebbe dovuto aprire il discorso in qualche modo. Giustificare le sue scelte in qualche modo, spiegarle i motivi che lo avevano spinto a scegliere la sua fidanzata storica.
Come se quello non fosse già un buon motivo.
Era difficile. Come poteva spiegare a quella donna il motivo per cui non avrebbero mai potuto essere qualcosa?
In mancanza di argomentazioni valide preferiva rimanere in silenzio.
Fu invece Yvonne la coraggiosa tra i due.
“Domani parti” osservò.
La pioggia continuava a battere impietosa.
“Sì. Domani torno a Hoenn”.
“Hai deciso?”.
Un tuono cadde scenico, proprio dopo quella domanda.
Il ragazzo la guardò e poi annuì, anche se lei non lo vide. “Credo sia arrivato il momento”.
Yvonne sorrise, amaramente. Si voltò, carezzando con gli occhi il viso bagnato dalla pioggia, le curve delicate che i suoi zigomi prendevano attorno al suo ovale.
Lo vedeva poggiare le labbra attorno alla sua sigaretta, ormai a metà. Il desiderio di essere quella Marlboro s’alternò col fastidio di non potervi mai riuscire, se non rubando l’ennesimo bacio, dove lui l’avrebbe stoppata.
Eppure a lui piaceva, lo sentiva.
Sentiva il corpo incastrarsi perfettamente col suo, quando erano vicini. Si chiedeva se anche con Sapphire succedesse.
“Il momento per cosa?”.
“Per crescere”.
“Sposarsi non vuol mica dire crescere”.
Ruby sorrise. “Sposarsi vuol dire incamminarsi su dei binari sicuri, e farlo in maniera ponderata. E, per quanto mi riguarda, ponderare le scelte significa crescere”.
Uno a zero, palla al centro. Yvonne si guardò le punte degli stivali, bagnati, per poi tornare a fissare i rubini dell'altro.
“È un peccato...” fece, tirando l'ultimo tiro dalla sua Winston Blue.
“Cosa?”.
“Negarci una possibilità”.
I loro occhi continuavano a tessere una trama che cominciava in maniera gelida ma s'incontrava al centro del mondo, nel nucleo denso e incandescente.
C'era vita, in quello sguardo. C'era passione, c'era sesso.
C'era rimpianto.
“Mi spiace che tu abbia frainteso le mie intenzioni”.
“No” sorrise lei. “È sempre stata colpa mia. Colpa mia che ti ho ripetutamente baciato e... mon Dieu, che ti giravo apposta nuda davanti...”.
“Come mille altre donne del resto...”.
Lei rimase a fissarlo per qualche secondo.
“Io non sono come le mille altre donne che ti ronzano attorno...”.
Ruby annuì. “Convengo”.
“E sai perché?”.
“Credo di sapere perché”.
“Perché io non voglio i tuoi soldi, né la tua compagnia sterile. Non m'interessa vederti nudo, Ruby, non voglio fare sesso con te”.
“Cosa vuoi, allora?”.
Yvonne sbuffò, quasi impercettibilmente. Gettò la sigaretta ormai esaurita nell'acqua e gli si avvicinò rapidamente. Era ferma a pochi centimetri dal suo volto, il suo profumo si univa a quello della pioggia, inebriandolo.
“Il tuo tempo, Ruby. Io voglio il tuo tempo. E voglio che tu voglia darmelo”. Fece cenno poi di no con la testa, sorridendo amaramente. “E quindi no, Ruby... Io non sono come tutte le altre. Perché alle altre interessa l'abito, il cappello e la sigaretta... A me interessa questo” concluse, toccando col dito lungo e affusolato il petto in corrispondenza del cuore.
“E so anche di esserci, qui dentro...” picchiettò ancora sulla bella camicia azzurra.
“Non è così...”.
“Invece sì. Il problema è che io non sia più su...”.
Col dito risalì il corpo del ragazzo, graffiandogli il collo e poi il mento, quindi il naso. Si fermò alla fronte.
“Il problema è che non sono qui dentro”.
E poi fu solo silenzio.
Yvonne si aspettava qualcosa, una parola, forse qualche frase, o un urlo. Anche uno schiaffo.
Voleva una reazione, buona o cattiva che fosse.
Ma Ruby rimaneva lì, in silenzio, con la sigaretta bagnata tra le labbra screpolate dal freddo, e le mani congelate, una nella tasca destra dei pantaloni e l'altra lungo la coscia sinistra.
La pioggia scendeva, la vita continuava e lui era immobile.
E Yvonne andò via.
“Buonanotte Ruby. Auguri per il tuo matrimonio”.

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Capitolo 12
*** 12. Dodici (XII) ***


UNRAVEL ME.
ovvero risolvimi, nel senso di districami, sbrogliami.

UNA FRANTICSHIPPING (ma per finta) di Andy Black (ma lo sapevate).
 

 

“Rimango spesso a pensare a quando ti ho lanciato quelle parole contro, ignara di essere stata la causa di tutto questo. Rimango a ricordare i tuoi occhi, il tuo dolore.
Che stronza che sono stata.
Ma sapevi pure che io sono così. E che è stata la rabbia a muovere il mio corpo e la mia bocca.
Com’era stato l’amore a muovermi poco prima, quando sotto la doccia siamo stati in paradiso.”
 
 
Hoenn, Albanova, 10 Marzo 20XX
 
Lasciò che il sole di Albanova gli baciasse le guance.
Era da parecchio tempo che Ruby non calpestava il selciato che si snodava tra i prati e le casette in legno d'abete del piccolo paesino.
Erano ormai mesi che mancava da lì ma sembrava che l'intero paese, abitanti compresi, fossero stati immersi in un'enorme goccia d'ambra.
Uguali gli ampi giardini in fiore, uguali i tetti  marroni delle villette, ognuna delimitata nell'abbraccio degli steccati bianchi. Ogni cancelletto era aperto, ogni cassetta della posta piena di pubblicità inutile che sarebbe stata cestinata poco dopo.
Tutto tranquillo, tutto statico.
“Ciao, Ruby” salutò il vecchio signor Hershel, agitando la mano col sorriso stampato sul volto.
Lo stilista gli fece un cenno col capo e proseguì, mentre un leggero soffio di vento spostò le fronde degli alberi che circondavano quel luogo dimenticato da dio.
Non vi erano auto, ad Albanova, ma soltanto biciclette. L'unica vettura presente nell'intero paese era proprio del vecchio Bob Hershel, che da giovane attraversava verticalmente l'intera regione per andare a raccogliere la cenere del Monte Camino, a Brunifoglia.
La casa di sua madre era quella più vicina ai boschi, infatti non era raro che qualche Pokémon insetto, più coraggioso che furbo, s'infilasse nelle finestre delle camere superiori. Passò a salutarla, lei sorrise gioviale come sempre e gli offrì una tazza di tè, ammonendolo sul suo eccessivo dimagrimento.
“Hai ragione”.
“Quanti chili hai perso?!”.
“Sette”.
“Sei pelle e ossa!”.
Era dovuto al fatto che saltasse tre pasti alla settimana, forse, più tutte le colazioni.
Si dileguò, promettendole di rimediare al fatto e di passare in Palestra a salutare suo padre, più tardi, ma in cuor suo Ruby sperava di non dover arrivare fino a Petalipoli.
Almeno non prima di aver salutato Sapphire che, a quell'ora, non era ancora rincasata.
La loro villetta era quella più a sud di tutta Albanova ed era rivolta verso l'interno del paese. La loro vicina di casa era la vecchia signora Markle, che di tanto in tanto bussava alla loro porta offrendo buon cibo fatto in casa in cambio di qualche minuto di compagnia.
Era sola, lei. Vedova da più di vent'anni, quattro figli di cui tre volati in giro per il mondo. Il quarto era il padre di Lino.
Poppy Markle era una grande Allenatrice. Raccontava spesso dei suoi viaggi a Kanto quando, da giovane, aveva partecipato alla prima edizione della Lega Pokémon.
Ruby trainò il trolley fino alla porta di casa sua, che aprì poco dopo.
Odore di Sapphire.
Odore di Sapphire ovunque.
Odore di casa.
Passò una mano tra i capelli e sospirò, guardando la valigia. Al suo interno vi era quel vestito, che sapeva di futuro.
Aveva programmato le cose per bene, lui, e di conseguenza sapeva che ci fosse parecchio da fare per rendere tutto perfetto, prima che Sapphire terminasse il suo turno di lavoro.
Mise il cofanetto di velluto rosso che conteneva l'anello sul tavolino davanti alla televisione, cercando di organizzarsi mentalmente. Sapeva tutto ciò che doveva fare e sapeva da dove cominciare.
 
Era un'opinione, il meteo a Hoenn.
Il sole s'era riparato dietro una coperta di nuvole in tempesta che arrivava da nord-est, e Albanova era finita sotto la pioggia.
Spilli d'acqua freddi, ancor di più perché si poggiavano sulle carni di Sapphire, bollenti di natura  ma riscaldate dai primi calori di maggio, si conficcavano rigidi su tutta la parte meridionale della regione.
Le sue scarpe da corsa affondavano nell'erba bagnata, alzando schizzi che terminavano sugli ampi vialetti.
Correva, lei, stringendo la tracolla al fianco destro e utilizzando una cartellina di pelle nera per ripararsi dalla pioggia.
“Dannatissimo clima tropicale!” fece, voltando l'angolo e percorrendo l'intera via secondaria fino a raggiungere il laboratorio di suo padre.
“Aprite!” urlava, dando dei calci più che nervosi alla porta dello studio. “Aprite, cavolo! Sta diluviando!”.
Pochi secondi dopo i cardini cigolarono e Melvin Stratos, uno degli addetti all'osservazione delle aree marine, gli si parò davanti.
Alto lui, perennemente abbronzato e in muta da surf, dai lunghi capelli biondi e dagli occhi verdi; un adone con le labbra ricoperte di salsedine.
“Oh, la figlia del padrone di casa...”.
Le sorrise gentilmente, spalancando la porta, poggiandosi con le spalle sul montante di sinistra e incrociando le braccia.
“Levati dalle palle, Stratos...” lo spintonò quella, cercando di passare, ma invano.
Melvin non cedeva.
“Cos'è un po' d'acqua, suvvia...”.
Gli occhi blu della donna si poggiarono su quelli color giada dell'interlocutore, assumendo un'espressione di sufficienza.
“Fin quando la pioggia è un po' potrebbe anche andare bene... Credo di avere un acquario, nel reggiseno. Ora levati davanti” rispose, spingendolo ancora e creando un varco, nel quale s'inserì.
Lo sorpassò, lasciandolo sull'uscio.
Sapeva che la stava squadrando, da dietro. E sapeva anche che, nell'acquario, Melvin avrebbe voluto farsi un giro.
“Aspetta” fece poi l'altro, correndole dietro. Le afferrò una spalla ma Sapphire si liberò subito.
“Che diamine vuoi?” gli domandò scocciata, proseguendo lungo il corridoio. Salutò con la mano alcuni colleghi che visionavano la macchina climatica e affidò la borsa con gli studi prodotti quel giorno a Flyss, l'assistente di suo padre dai lunghi capelli rossi.
“Che zona hai visionato, oggi?”.
“Limitrofa Ciclamipoli...”.
“E?”.
La ragazza si bloccò immediatamente, voltandosi e sbattendo contro il petto prestante dell'altro. Alzò gli occhi e lo vide sorridere.
“Mi sembrava di esser stata chiara, Stratos!”. Puntò il dito affilato contro di lui, minacciosa.
“Sto solo facendo conversazione” rispose l'altro, tirando i capelli indietro. “Non c'è nulla di male”.
I loro occhi si fissarono ancora per qualche secondo, prima che la ragazza gli afferrasse il colletto della muta.
“Ti ho già detto che non mi interessi. Non m'interessano i tuoi muscoli dorati né il pacco che cerchi di imbottire, mi sembri soltanto uno di quei tizi che cercano di passare per etero in tutti i modi. Inoltre sono fidanzata e non mi sembra rispettoso nei...”.
“... confronti di Ruby, sì, lo so, Sapphire, ma lasciami...” diceva quello, che mai era stato vicino a lei in quel modo, se si levava l'episodio di sette giorni prima, quando lui aveva provato a baciarla e aveva ricevuto un pugno sul naso. “Volevo solo parlare”.
Il suo sorriso si allargò, mostrando una dentatura perfetta.
“L'ultima volta non sembravi così interessato alla conversazione”.
Abbassò la testa, portando entrambe le braccia dietro la testa. Si massaggiò il collo e poi annuì. “È vero, è vero... ma questo perché mi piaci tanto, Sapph...”.
“Dottoressa Birch, per te, Stratos. E ora lasciami andare”.
Riprese la borsa, poi si voltò e lo lasciò lì, dirigendosi verso il piano superiore. Le scale erano in legno levigato e l'ultimo gradino era di qualche millimetro più alto degli altri, cosa che portava molti a inciampare.
 
Click – click.
 
Suo padre era dietro la sua enorme scrivania. Mucchi di fogli erano sparsi sul piano senza un ordine preciso, e due grossi tomi finemente rilegati in pelle, uno verde e uno blu, erano impilati proprio accanto al monitor.
L'uomo, ormai leggermente stempiato e con la classica capigliatura sale e pepe di chi si era avviato da diversi anni nel secondo step degli -anta, stava premendo con determinazione le dita sui tasti del mouse.
“Hai intenzione di romperlo?” chiese sua figlia, gettando le sue cose sulla poltroncina in pelle azzurra posta proprio accanto alla grande cartina di Hoenn, in stile anticato, che aveva acquistato al centro commerciale di Verdeazzupoli più di venticinque anni prima. Era stata incorniciata e appesa.
“Questo dannatissimo affare non funziona...” rispose l'altro, con una calma quasi glaciale.
Sapphire gli si avvicinò, circumnavigando la scrivania e abbassandosi.
“Cosa, non funziona?”.
“Il mouse. Sto cercando di andare...”. Mentre parlava, però, suo padre si voltò a guardarla. “Sei bagnata fradicia, tesoro. Non è il caso che tu vada a cambiarti?”.
“Ovviamente, papà...”.
“Perché perdi acqua sulla mia moquette”.
La ragazza sbuffò.
“E questo sarebbe il ringraziamento per aver cercato di aiutarti?!”.
“Dopo passa a casa da tua madre e prendi qualcosa da mangiare...”.
Quella storse il muso.
“Non ho molta fame, a dire il vero...”.
“La verità è che ti scocci di andare...”.
“Ma piove troppo!”.
“E allora prendi il mio ombrello”.
“Papà...” sospirò l'altra, voltandosi e tornando a prendere la tracolla e la cartellina. “Prenderò il tuo ombrello, ma soltanto per tornare a casa mia. Ho bisogno di una doccia...”.
“Infatti...”.
“E smettila!”.
 
Uscì dal Laboratorio, Melvin Stratos si era dileguato e lei era più che decisa a fare altrettanto. Con l'ombrello col manico in mogano, Sapphire camminò tranquilla verso casa sua.
Ma qualcosa non andava.
Le luci erano accese.
“Oh diamine... Ladri ad Albanova? Questa è bella...” sorrise a mezza bocca.
Sbuffò, chiudendo l'ombrello e gettandolo nel cespuglio davanti alla porta. Prese poi la sfera del suo Blaziken e girò rapidamente attorno alla casa, bassa sulle ginocchia, diretta verso la finestra della cucina. Lì alzò leggermente la testa, mentre la pioggia ancora la investiva, e vide la tavola, la sua tavola, imbandita con diverse leccornie, fiori e una bellissima torta.
“Che ladro strano...” fece. Tornò a guardare, cercando chi fosse l'autore di quel banchetto ma non vide nessuno. Allora si alzò e raggiunse la porta sul retro, dove alla fine entrò.
Le luci erano state accese con intelligenza. Come se l'autore di quella trovata volesse concentrare l'attenzione su diversi punti.
E il primo era l'ingresso. Sapphire pensò che sarebbe dovuta entrare dalla porta.
Una luce era accesa sul salotto, un'altra sul banchetto e una terza sul corridoio che portava al piano superiore. Il rumore dell'acqua la incuriosì; non proveniva dall'esterno, non era la pioggia.
No, era la doccia.
La sua inquietudine si calmò e si trasformò in speranza quando vide le scale cosparse di petali rosa.
Sentiva quel profumo, inconfondibile, più forte e rinnovato.
Il cuore cominciò a battere a ritmi irregolari e il sorriso fu un sintomo quasi automatico di quella felicità che stava nascendo.
Avrebbe potuto evitare ogni gesto, ogni parola, ma l'unica cosa che le venne spontanea fu lasciar cadere tutto per terra e correre sopra, mantenendosi ai due corrimano in ferro battuto per evitare di scivolare, dato che aveva le scarpe bagnate.
Quando anche l'ultimo gradino fu storia, si gettò verso la prima porta del corridoio, quella sulla sinistra con i pannelli in vetro satinato che lasciavano filtrare la luce.
Ed entrò nel bagno.
Ad aspettarla c'era l'acqua calda, che fluiva invitante dal miscelatore della doccia. Poi alle sue spalle cominciò a cantare in sottofondo D'Angelo, con la sua Send it on.
E fu con un sorriso che nacque spontaneo che la speranza divenne certezza.
Fece dietrofront e spalancò la porta della sua camera da letto e Ruby era lì, in piedi, ad accendere le candele.
“Amore!” esclamò lei, correndo da lui e impattando forte contro il suo petto.
Non le interessava di essere sporca e bagnata, né di chiazzare il parquet che aveva lucidato pochi giorni prima.
Non c'erano più priorità se Ruby era lì con lei.
Cercò a fatica di trattenere le lacrime ma quando lui le sorrise dolcemente, nel silenzio più che totale, alla fine di quell'abbraccio inesauribile, piangere fu naturale. I suoi occhi vermigli erano puntati su di lei, e la sua bocca era tesa in uno dei suoi bellissimi sorrisi.
Lo baciò.
Il suo sapore era rimasto lo stesso.
 
Il resto divenne una logica conseguenza di tutti i suoi gesti preparatori.
Lei lo aveva tirato nel bagno, dove il vapore aleggiava statico e il calore rinfrancava le carni della bella, raffreddata dalla pioggia che, all'esterno, non accennava a terminare.
Lo baciava, intanto lo spogliava e gli carezzava l'addome, poi il petto, poi le braccia e poi più giù.
“Sei tornato” fece, mentre lui le levava i vestiti bagnati. “Sei tornato”.
“Sono qui”.
La baciò ancora, aprì la cabina e si gettarono sotto la cascata calda.
“Sei qui...”.
Le parole rimbombavano sui vetri della doccia, rimbalzavano, tornavano indietro, si univano ai sospiri, si mischiavano al getto d'acqua e al sapone e scivolavano giù sulle loro carni, prima fredde e poi bollenti.
Carezzavano il petto di lui e la schiena di lei, che aderirono per poi separarsi e aderire di nuovo. Le loro labbra s’incontravano fameliche e i baci acquistavano il sapore dell’altro, che mancava da troppo.
Le mani di Ruby carezzavano l’addome della donna, salivano verso il seno e il collo, e quelle di Sapphire cercavano il sesso del suo uomo e lo indirizzavano dentro di lei.
Lui era il suo centro, lei il suo universo, pioveva calma calda che portava giù tutta la frustrazione di quei mesi quando, allungando la mano dall’altra parte del letto, non trovavano altro che il lenzuolo.
E fu liberatorio.
 
I capelli erano ancora bagnati ma la pioggia s’era calmata. Entrambi erano seduti al tavolo che Ruby aveva apparecchiato, uno accanto all’altra, e mangiavano.
Lui lo faceva in maniera composta ed educata mentre lei sembrava non aver mai messo nulla del genere sotto i denti.
Si guardarono, sorrisero morbidi e Sapphire si poggiò su di lui, che le era seduto accanto.
“Sono contenta che sei tornato”.
Gli occhi del ragazzo si chiusero dolcemente, accompagnati da un sorriso.
“E io sono contento di essere qui…”.
Prese un temaki con le dita e lo inzuppò nella salsa, versò un po’ di birra nei bicchieri di entrambi.
“Non hai perso il tuo tocco, in cucina…” osservò la bella dagli occhi blu, divorando letteralmente un piatto di zuppa di miso. Il ragazzo sorrise ancora e si fermò a riflettere su come fosse possibile che due persone tanto differenti come loro si amassero alla follia.
Del resto non credeva al cliché che gli opposti si attraessero; erano i simili a cercarsi, e prima di trovarsi avrebbero perso dignità e speranza, e probabilmente sarebbe stato già troppo tardi quando i loro occhi si fossero incontrati.
Tuttavia lui e Sapphire, nonostante le differenze, erano accomunati dalla strada che avevano intrapreso, e che terminava nello stesso punto.
Cosa costava tenersi per mano durante il tragitto?
“Dopo ti asciugo i capelli, selvaggia”.
“Ti ho fatto un complimento, prima” ribatté quella, seccata.
“Lo so, grazie. Ma rischi di prenderti qualcosa”.
Quella sbuffava, alzando i capelli dalle spalle e cercando con lo sguardo in giro.
“Mi dai un codino?” chiese.
Lui sorrise. “Perché dovrei avere un codino?”.
“Ti ronzano così tante donne attorno…” disse Sapphire, facendo partire un missile e assumendo un’espressione di malcelato fastidio. “Specie quella Yvonne… Se ti chiedesse un codino non glielo daresti?”.
Ruby sorrise ancora e annuì. Stette al gioco.
“Farei carte false per darle il mio codino”.
“Lo so…” s’incupì lei, facendo una smorfia col lato basso della bocca.
Il ragazzo la osservò meglio, mentre quella si alzava e sculettava verso il bagno. Ne uscì poco dopo coi corti capelli legati in una coda. Gli occhi caddero poi sulle cosce, scoperte, e più su, sulla pancia lasciata scoperta dalla canottiera piegata.
“Inutile che guardi. Sono bassa e grassa se mi confronti con Miss Luminopoli…”.
Ruby sorrise per la terza volta ma quella situazione aveva cominciato a stufarlo.
“Smettila”.
Quella ruotò gli occhi e sbuffò, tirando i piedi sulla sedia. “A te, quella piace”.
Il ragazzo si alzò e cominciò a sparecchiare.
“Con quella ci lavoro e basta, Yvonne, finiscila…”.
Gli occhi di Sapphire si spalancarono.
“Come mi hai chiamata, scusa?!”.
Si mosse di scatto, afferrando il piatto e lanciandoglielo contro. Fu soltanto l'agilità a consentire a Ruby di evitare di venire colpito. Una grossa macchia di salsa di soia insozzava le pareti.
Il ragazzo la guardò, esterrefatto dal gesto.
“M-ma... m-ma sei matta?!” disse, tentennando, incredulo.
“Come cazzo hai osato chiamarmi?!” urlò lei, prendendo anche il bicchiere con la birra e svuotandoglielo totalmente contro. Si alzò poi in piedi, circumnavigando il tavolo e affrontandolo muso a muso.
Quello la vedeva iraconda, a pochi centimetri dal suo volto. Il suo profumo era il più buono.
“Ho sbagliato, okay! Ma è stato un lapsus, non volevo chiamarti col suo nome!”
Passò qualche secondo, in cui Sapphire stava raggiungendo rapidamente la temperatura d’ebollizione e Ruby si era reso conto di aver commesso un autogol clamoroso. Sospirò e abbassò la testa, stropicciandosi gli occhi.
“Sapph… Sapph, non Yvonne… È stato semplicemente un lapsus…”. Si alzò in piedi, cominciando a sbottonarsi la camicia, intrisa di birra, per poi sbuffare. Gli occhi si spostarono infine sulla parete. “Guarda qui che guaio hai combinato… Non capisco perché tu sia gelosa di Yvonne”.
La ragazza gli diede un colpo al braccio.
“Non vorrai farmi credere che tu non abbia visto quell’appendiabiti con le tette e la parrucca bionda senza vestiti, vero?!” ribatté, agitandogli l’indice davanti al viso. “L’hai vestita e spogliata migliaia di volte! Perché non dovrei essere gelosa di lei?!”.
“Perché è il mio lavoro!” rispose a tono lui, allargando le braccia. Il petto del ragazzo si mostrò agli occhi di Sapphire quando anche l’ultimo bottone si liberò dall’asola. “Vedo lei e altre decine di modelle, in quel modo!”.
“Lei non ti guarda come le altre!”.
Ruby si bloccò. Riconobbe che la sua donna avesse ragione da vendere. Ciononostante mentì lo stesso.
“Per me è come tutte le altre modelle”.
Sapphire spalancava gli occhi a ogni parola del fidanzato, come se volesse vederne ogni sfumatura. “Non vivono accanto alla tua porta, loro! E non ti accompagnano all’ospedale e non passano tutto il loro tempo a fare le zoccole con te!”.
Ruby sorrise, ma amaramente.
“Stiamo davvero facendo questa discussione?” domandò, con calma recuperata. Al contrario, Sapphire non riusciva minimamente a celare il proprio nervosismo.
“A te che pare?!”.
“A me pare che tu stia urlando immotivatamente…”.
“Immotivatamente?!”.
E poi la castana colpì con un ceffone il braccio di Ruby. “Tu che scambi il mio nome con quello di una troia non è immotivatamente!”.
Aveva dimenticato, il ragazzo, quanta violenza repressa celasse il piccolo corpo di quella.
“È inutile che ti scaldi in questo modo” fece poi, cercando di ventilare la situazione. Andò verso la cucina e prese uno straccio, col quale cominciò a tamponare il muro.
Ma fare finta che Sapphire non esistesse non estingueva minimamente il problema.
“Allora?!” urlò poi. “Perché mi hai chiamata così?!”.
“Ma che ne so?!” perse le staffe lui, lanciandole lo straccio sul volto.
Quella lo evitò rapida e aggrottò ancor di più le sopracciglia. “Certo che lo sai!”.
“Non litighiamo per queste stronzate! Yvonne non ha alcuna valenza per me!”.
“E io che certezza potrei averne?!” urlò ancora.
Il ragazzo si bloccò, nuovamente. La situazione gli era decisamente sfuggita di mano e ora manteneva tra le dita una granata senza sicura, con gli occhi blu e i piedi nudi che battevano sul pavimento. “In che senso?” domandò, dopo una lieve pausa.
“Sei lontano, Ruby! Io come posso fare per stare un po’ più tranquilla, sapendoti a tre metri da una che vuole saltarti addosso?!”.
La guardò negli occhi, in quegli acquitrini blu da cui colavano lacrime salate, che le baciavano le guance e che scendevano lente verso il mento.
“Yvonne non… non vuole saltarmi addosso…”.
“Ma hai visto come ti guarda?! Tu le piaci!”.
Le braccia gli caddero lungo i fianchi. Doveva trovare il coraggio di smentire con convinzione, cercando di non tradire l’effettiva realtà dei fatti.
Abbassò lo sguardo. Odiava mentire.
“Non è così, Sapph… E non dovresti neppure farmi questi discorsi… dovresti fidarti di me a prescindere da ogni cosa”.
Gli occhi della donna si spalancarono e il fuoco che divampava in lei fu ben visibile dalle sue iridi; gli si gettò contro, colpendolo con un pugno leggero al petto.
“Io dovrei fidarmi di te a prescindere ma tu non dovresti farti vedere una volta ogni sei mesi! Da quando sei arrivato lì è la prima volta che torni a casa!”.
Lo afferrò poi per la camicia e aderì a lui, mostrando i canini.
“Tu non sai che cosa cazzo significhi amare una persona che ha improvvisamente cambiato vita!”.
“Io non ho cambiato te!” ribatté Ruby, dandole una manata per liberarsi dalla presa.
“Ma io non ne sono più certa!”.
Ruby posò le cose che aveva tra le mani e raccolse quelle di Sapphire. Le sue dita erano fredde.
“Io amo te e non potrei mai farti del male…”.
Non passò neppure un attimo che lei lo interruppe.
“Torna qui”.
I loro occhi erano collegati da un filo dorato, che partiva blu e terminava rosso.
“Ho delle responsabilità, lo sai… Appena finiranno le sfilate ci faremo una grossa vacanza e avrò più tempo per stare con te e pensare ai nuovi modelli e…”.
Fu lì che Sapphire non riuscì più a trattenersi. “Nuovi modelli?! Non credi di averne avuto abbastanza, con Unima?!”. Urlava con gli occhi spalancati, gesticolando vistosamente. Era furiosa.
“Sapph…”.
“Non ne hai avuto abbastanza coi tuoi giochetti e le tue stronzate?! Sono mesi che vivo col peso nel cuore perché non sei qui!”.
Li ha chiamati giochetti, pensò il ragazzo. La cosa lo fece innervosire e si unì all’altra, alzando la voce. “Perché diamine pensi che siano giochetti e stronzate?! Quello è il mio lavoro!”.
“Gli abiti li puoi fare anche qui a Hoenn!”.
“Ma lì ho un atelier! Ho un contratto! Ci sono troppe cose da fare!”.
“Beh, qui anche hai lasciato parecchie cose!” esclamò quella, col sorriso di sfida.
“Non posso lasciare Austropoli soltanto perché ti manco!”. Allargò le braccia e si voltò, raccogliendo la posata che era caduta. “Odio quando estremizzi ogni cosa…”.
“Io sono stanca! È questo il fatto! Devi scegliere tra me e l’atelier!”.
Ruby si voltò solo per un attimo, giusto per guardare i suoi occhi, prima che Sapphire lo afferrasse per la spalla e lo facesse voltare nuovamente.
Era predisposta naturalmente al litigio, lei, con quel carattere forte e sempre pronto a polemizzare per ciò che non le sembrava giusto.
“Non darmi le spalle!” aveva detto.
“Lasciami in pace!”.
“Perché non prendi minimamente in considerazione l’idea di poter trasferire il tuo lavoro qui?!” domandava la donna, allargando le braccia coi pugni stretti.
“Te l’ho già detto! Tu! Tu, piuttosto! Perché non vieni tu, a Unima?!”.
Vide gli occhi di Sapphire mutare; si mitigarono.
Ruby continuò, più calmo. “White ha parecchi agganci nel campo della ricerca… era una Dexholder… Lavoreresti con la Professoressa Aralia”.
Il fuoco divampò nuovamente. “Io non voglio andare lì! Sei tu che devi tornare a casa! E devi mettere quella fottuta testa a posto! Trovati un lavoro vero, per la prima volta nella tua vita!” urlò ancora, spintonandolo.
Ruby aggrottò la fronte. Fece nuovamente un passo avanti e strinse denti e le puntò il dito contro.
“Questo è un lavoro! E anche prima! Ho sempre lavorato!”.
Dopo quelle parole Sapphire rise di gusto. Si voltò verso la finestra, dove la pioggia aveva cominciato nuovamente a battere, forte. “Credi che vincere contest e cazzeggiare nelle tv locali fosse un lavoro?”.
Quelle parole gli facevano male. Si sentiva giudicato, per di più dalla persona che non avrebbe mai voluto vedere pararglisi contro.
Abbassò lo sguardo. Aveva perso lo scontro, come ogni volta che i due imbracciavano le armi con differenti vessilli.
“Io…”.
Era in evidente difficoltà.
Sapphire però non sembrava ancora sazia; aveva aperto quella scatola piena di risentimento ed emozioni nere e collose, che si era promessa di non prendere mai dalla soffitta dell’esistenza.
Quindi continuò a infierire sul corpo morente.
“Adesso invece fai lo stilista a Austropoli! Che divertimento!”.
“Sapph…”.
“Cielo! E poi ti chiedi perché non riesci a ottenere l’approvazione di tuo padre?! Perché sei sempre stato un coglione!”.
 
Un tuono aprì la volta in due. Il cielo s’era spaccato e tutto, bene e male, si stava riversando su di loro. Nonostante il tetto sulla testa, però, Ruby si sentiva in mezzo alla tempesta.
Solo il rumore della pioggia, e quello del lavandino aperto. I loro respiri non esistevano più.
 
Mio padre… si è permessa di mettere in mezzo mio padre…
Come ha potuto?
 
Ruby si era sempre sentito sbagliato. Aveva rovinato la vita dei suoi genitori, era bambino, ma li aveva costretti a vivere una vita che non meritavano, e portava i segni di quell’errore sulla pelle.
Era troppo esuberante. Cambiò.
Si diede una regolata.
Ma negli occhi di suo padre vedeva sempre l’insoddisfazione, e quell’aria di chi sapeva che non avrebbe mai potuto trovare fierezza.
Com’era stato possibile che Sapphire avesse strumentalizzato il più grande dramma della sua vita per poter avere ragione in una discussione?
Amore, odio. L’anello su quel tavolino, il cibo e quei succhiotti sul collo. Il vestito ancora nella valigia.
Tutto insieme, tutto mischiato.
 
Ma alla fine ogni cosa aveva il sapore della rabbia.
 
“Sparisci per sempre” sussurrò, spintonandola e facendola ricadere sulla sedia. Si mosse velocemente e salì al piano superiore. Sentì Sapphire alzarsi di colpo e cominciare a inseguirlo nel corridoio.
“Fuggi ancora?!” urlava, mentre lo vedeva divorare gli scalini due a due, lasciandoseli alle spalle.
“Vaffanculo” rispondeva quello.
“Sei appena arrivato! Già vai via!”.
Alzò lo sguardo, lui, voltandosi d’improvviso. La tempesta, quella che aveva dentro, stava per uscire.
Erano gli occhi della donna a infastidirlo di più: nonostante la reazione che lui stava avendo, nonostante la palese voglia di porre migliaia di chilometri tra loro, quella continuava a guardarlo con l’aria di chi non avrebbe lasciato feriti.
Tutta la voglia che aveva di urlarle contro morì lì. Non si meritava neppure le sue parole.
Entrò in camera e prese la valigia, con quel contenuto così prezioso, quindi si voltò e se la ritrovò davanti.
“Hai intenzione di andare via così?!”. La sua voce rimbombò nel silenzio della casa.
“Levati davanti, Sapphire”.
“Affronta le situazioni! Non fuggire!”.
“Non ne vale più la pena”.
A quelle parole fu la ragazza a sentirsi mancare il terreno sotto i piedi; tuttavia la sua reazione non differì molto dalle precedenti. Fu la violenza che fluiva nelle sue vene a spingerla a dargli un grosso schiaffo in viso.
Ruby non riusciva a credere a ciò che succedeva.
“Levati davanti!” disse, tirandola nella stanza e facendola letteralmente volare sul letto. Ebbe lo spazio necessario per correre giù, scendendo le scale, e sbattersi la porta alle spalle.
Non fu minimamente intimorito dal temporale, anzi: vi si gettò come se dovesse essere la pioggia a purificare la sua anima.
Abbandonò il vialetto di casa sua, prima di prendere il cellulare e gettarlo nello stagno lì accanto.
Quello non gli serviva più. E neppure l’anello, che aveva lasciato in bella vista sul tavolino del salotto, che Sapphire guardava distante ma sconvolta.

 

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Capitolo 13
*** 13. Tredici (XIII) ***


UNRAVEL ME.
ovvero risolvimi, nel senso di districami, sbrogliami.

UNA FRANTICSHIPPING (ma per finta) di Andy Black (ma lo sapevate).


“Alla fine quella rabbia la capisco.
Capisco il motivo per cui tu sia sparito, e anche perché hai deciso di volerti ergere al di sopra della cosa.
Ma davvero, durante tutto questo tempo, non ti sono mancata?
Davvero non hai sentito la necessità di vedermi? Di sentire la mia voce?”.
 
 
Unima, Austropoli, Hotel Continental, 12 Maggio 20XX
 
Carico.
Ma di rabbia.
 
Sbatté la porta con così tanta veemenza che il quadretto appeso accanto allo stipite destro, che raffigurava un bellissimo golfo tropicale, cadde dal chiodo.
Ruby non se ne accorse nemmeno, limitandosi a sollevare la valigia e a buttarla di peso sul letto.
“Cazzo…” disse, tra le interferenze. “Non ci posso credere…”.
Rimase poi immobile per un attimo, spaesato.
Cosa sarebbe successo da quel momento in poi nella sua vita?
Era rimasto sotto le macerie di un castello ormai crollato, che aveva costruito con impegno mattone dopo mattone, dal ponte all'ultimo merlo dell'ultima torre.
E si vedeva inerme, davanti alle mura crollate, con la paura di voltarsi, perché uno scenario simile lo avrebbe atterrito.
Mezza giornata in aereo passata a guardare il cielo azzurro diventare nero, a odiare la vita tra i denti e a ripetere nella mente quelle parole affilate come la mannaia che aveva reciso il cordone con l’altra metà di lui.
Decise di mordersi la lingua: doveva smetterla di guardarla in quel modo.
Era la metà marcia di lui.
Quella che fino a quel momento l’aveva affossato.
Quella che aveva impedito alla sua stella di brillare, semmai ne avesse posseduta una.
Sbuffò ma poi strinse i denti. Volse lo sguardo lontano dalla valigia, che aveva appena poggiato sul letto.
 
Lo sapeva.
 
Sapeva che stava per pugnalarsi con le proprie mani, facendo harakiri: quel vestito, dalla borsa, non voleva proprio prenderlo.
Perché gli ricordava quanto fosse vicino al paradiso, prima di sprofondare in quell’inferno così denso e poco nitido.
Ma lo fece lo stesso, prendendo una stampella e rendendola ossatura per quell’abito, che strinse tra le mani per un secondo di troppo.
 
Sarebbe sembrata una principessa, lì dentro.
La immaginava, col sorriso calmo e gli occhi che aveva mentre si trovava immersa nella natura, suo habitat.
Pensò poi che forse la donna avrebbe sofferto il distacco dalle foreste e dal mare pulito, e dal profumo dell’erba bagnata in favore di quello dei gas di scarico delle automobili di Austropoli.
Dal sole che s’insinuava tra le fronde delle palme e degli alti ebani di Forestopoli, e dalla jacaranda che fioriva ogni primavera, dove si erano rincontrati per la prima volta quando si erano rivisti, dopo anni.
Sapphire non era fatta per quella città. Già a Ciclamipoli le mancava l’aria.
Eppure quell’abito la mostrava beata.
Passava le dita attorno al pizzo leggero della scollatura, e immaginava il seno della ragazza. Il tessuto si stringeva, e avrebbe incontrato i suoi fianchi morbidi.
E sarebbe stata la donna più bella del mondo. E l’avrebbe reso felice.
 
Se soltanto non fosse stata così piena di veleno…
 
La rabbia sostituì la tristezza, per un breve attimo.
Gli parve di averla davanti, coi capelli bagnati e le cosce scoperte dalle gambe slargate dei pantaloncini azzurro e il fuoco negli occhi.
Lo stesso fuoco che aveva lui, negli occhi. In quegli occhi che ormai l’avevano proiettata proprio davanti a lui, in quel vestito.
 
“Perché?!”.
 
Aveva urlato con forza. Non lo faceva mai.
La voce dell’uomo rimbombò nella camera, dove il silenzio era disturbato soltanto dal lontano vociare in strada, e da qualche clacson in lontananza.
 
“Perché hai dovuto rovinare tutto?! Perché?!”.
 
Gettò il vestito sul letto, con foga, e poi urlò ancora, coi pugni stretti e col viso rivolto al soffitto.
Si sentiva un imperatore deposto, un re senza trono.
Gli mancava qualcosa che gli spettava di diritto e tutta la colpa veniva addossata a quell'abito, che prendeva il volto di Sapphire, con gli occhi di Sapphire e la bocca di Sapphire. Quasi lo sentiva rispondere, inveirgli contro che fosse uno stupido privilegiato.
 
Era solo disperazione, quella che gli fluiva nelle vene, come un fiume in piena.
No.
Disperazione e rabbia.
Era furioso con lei, e rivedere il suo volto in quel vestito lo fece sentire ancora una volta debole, ancora una volta vulnerabile ai fendenti che la sua mente, e la sua memoria, continuavano a lanciargli contro.
Il suo orgoglio sanguinava. Il suo cuore languiva.
 
“Come ti sei permessa, eh! Tirare in ballo mio padre per avere ragione in una tua stupidissima discussione!”.
Saltò sul letto, atterrando con le ginocchia sul morbido tessuto che aveva cucito per mesi, minuziosamente.
“Mio padre! Come se già non ci stessi male!” urlò, con le lacrime puntate agli occhi. “Come se tutta questa faccenda mi avesse fatto soltanto piacere! Meglio cazzeggiare ed essere felici come me, piuttosto che fare ciò che fa tuo padre, soltanto per fare piacere a lui! Tu, che sei tutto tranne che una studiosa! Nel fango, ti ho conosciuta!”.
E poi colpì l'abito con un pugno, proprio sulla spallina destra, condendo il tutto con un urlo.
“Nel fango!” ripeté. Una lacrima cadde, lasciando a malincuore le rime dei suoi occhi e terminando sul tessuto blu.
“E puzzavi di merda! Selvaggia che non sei altro! Se non mi avessi mai incontrata probabilmente saresti finita a vivere a Forestopoli, in mezzo alle scimmie! Sporca e puzzolente! Ti ho fatta diventare un essere umano, ti ho dato dei vestiti, ti ho protetta, ti ho amata! Io ti ho amata!”.
E tutta quella foga, quella rabbia che aveva caricato il suo cuore, lasciando che battesse come un martello pneumatico, sfumò verso l'alto.
S'accasciò lentamente sul letto, accanto all'abito. Stringeva la spallina nel pugno mentre affondava la faccia nel copriletto. Profumava di pulito.
“Io ti ho amata...” ripeté, mentre le lacrime fluivano rapide. “Ti ho amata con tutto me stesso, mentre la vita proseguiva e le scelte diventavano difficili... E io mi ritrovo a piangere come un... un deficiente...”.
La sentì. Salì di nuovo, rapidamente.
“Come un deficiente!”.
La sua voce rimbombò nelle quattro mura di quella prigione dorata. S'inginocchiò di nuovo, dando ancora una grande manata al materasso, immaginando la faccia di Sapphire al posto del cuscino.
Lo colpì due volte, con una violenza che pensava d'esser riuscito ad affogare anni prima.
“Come un deficiente mi sono lasciato traviare! E tu mi hai posto davanti a una scelta, dopo che per anni mi sono dovuto adattare alle scelte di mio padre, trasferendomi in un posto dove non c'è nulla, tranne che mare, e pazzi! Quando ho trovato ciò che mi piace hai trovato anche...”.
Altro colpo.
“Anche!”.
Di nuovo.
“Anche l'ardire di lamentarti! Io mi sono sempre sentito inadeguato! Solo qui a Unima sono riuscito ad essere me stesso e adesso vuoi levarmi anche questo?!”.
Afferrò l'abito per le spalline e lo strinse con rabbia.
Altre due lacrime attraversarono le ciglia e percorsero rapidamente il viso paonazzo del razzo.
“Anche questo, Sapph?! Vuoi levarmi anche questo?! Dopo tutto quello che ho dovuto subire?! Dopo tutte le volte che ho cercato la luce in quegli occhi?! Perché?! Cazzo, perché?!”.
E tirò con forza, strappando il vestito sul petto.
Lo guardò, rimanendo immobile.
“Ti odio, brutta stronza egoista! Ti odio!”.
Si alzò di fretta e appallottolò il vestito, lanciandolo nell’armadio. Poi sbatté le ante, pieno di rabbia. Avesse avuto la possibilità di spaccarle lo avrebbe fatto. Corse verso il comodino accanto al letto e spalancò il primo cassetto.
Lo scatolino di Xanax era lì, e attendeva soltanto che le sue mani lo prendessero.
Lo fece, strappò con foga la linguetta e staccò tre compresse dal blister.
Ansiolitici. Sedativi.
Ne staccò un’altra, poi rivide l’espressione di odio di Sapphire mentre lo aveva schiaffeggiato.
E ne staccò un’altra.
“Solo una stronza egoista…” sussurrò. Guardò le pillole e le buttò giù a fatica. Non ci volle molto prima che lo sguardo gli si appannasse.
Ebbe il tempo di muovere qualche passo distratto verso il centro della camera prima che le forze lo abbandonassero.
S’accasciò lento per terra, dapprima inginocchiandosi, puntellando le mani sulla moquette polverosa, ma poi sentì l’energia venire meno.
La spalla destra non resse più il suo peso, il braccio si piegò e lui rovinò per terra, con le lacrime sul viso e gli occhi semichiusi.
 
E si addormentò.
 
*
 
Bam – Bam.
 
Fu quel rumore a svegliarlo. Qualcuno bussava alla porta, ripetutamente.
“Ruby! Ouvrir! Je sais que tu es à l’intérieur!”.
La testa scoppiava ancora. Pulsavano, le tempie.
“Ruby!”.
Batté gli occhi un paio di volte ma non riusciva bene a mettere a fuoco ciò che vedeva. Poi si focalizzò lentamente su quegli stucchi intarsiati nella cornice del controsoffitto, e sul lampadario elegante, le cui luci erano dormienti.
Si chiedeva da quanto tempo stesse dormendo.
Ruby! Le voisin de la pièce vous a entendu! So che sei tornato!”.
Provò con tutto se stesso a trovare un motivo per non alzarsi da lì. Purtroppo non ne aveva.
Fece uno sforzo sovraumano e si piegò in due.
La gran parte del lavoro era stato fatto.
 
Bam – Bam.
 
”Ruby! Butto giù la porta!”.
Si chiese che intenzione avesse di fare, Yvonne, urlando in quel modo. La sua voce risuonava come un trapano ai lati della fronte. Avrebbe voluto urlarle di aspettare un attimo, che si sarebbe alzato da terra non appena avesse trovato la facoltà di farlo, ma la bocca era troppo impastata.
So che sei dentro! Il cellulare ha squillato per ore!”.
“Yv… onn…” fece, rimestando poi in bocca quel sapore metallico che provava ogni qualvolta dormisse troppo e male.
Aveva fame.
Apri questa dannata porta, Ruby! Per favore!”.
 
Aspetta.
 
Si accorse poi di non aver parlato.
Cercò di biascicare qualche parola ma la lingua non funzionava a dovere. Si voltò e poggiò la schiena all’armadio.
“Ruby, cazzo, aprì questa porta!”.
Fece forza sulle gambe, ma parvero non funzionare. “N… no…” sussurrò ancora, senza urlare a sufficienza. Yvonne non lo avrebbe mai sentito in quel modo.
Il suo cervello mandò molto lentamente il messaggio alle spalle di abbassarsi. Recepito il messaggio, strisciò per terra a fatica, fino a raggiungere la porta.
Sento i rumori, Ruby! Apri, ti prego! Je crains!”.
Ruby pensò al significato di quelle parole: aveva paura.
Ma lui stava bene. Aveva soltanto la testa pesante e la lingua secca e spaccata. E il sapore di sangue in bocca.
E tutto pareva muoversi lentamente.
Guardò la maniglia, mentre Yvonne continuava a battere i pugni sulla porta.
 
Bam – Bam.
 
Doveva solo alzare la mano.
 
Forza…
 
Aveva bisogno di aiuto, anche se stava bene. La sua testa gli mandava segnali contrastanti. Sapeva che il fatto di non riuscire a stare in piedi fosse un problema ma in fondo sentiva una sensazione di piacere diffusa a tutti gli arti.
La sua mente era al caldo mentre fuori imperversava la tempesta.
La mano saliva lenta verso l’ottone della maniglia e intanto si chiedeva i motivi di quella sua condizione, così insolita.
Cosa gli era successo?
“Ruby!”.
Le dita carezzarono la maniglia e lentamente la brandirono, fino a quando la serratura non scattò.
Rotolò di lato, lui, prima che la porta si spalancasse sotto la spinta ricca di foga della ragazza di Kalos.
Lo sguardo di quello era ormai annebbiato. Percepì la presenza della ragazza, ne sentì il profumo, dolce come l’ambrosia.
“Ruby!”.
La sua voce era terribilmente preoccupata. Fu l’ultima cosa che sentì, prima che gli occhi si chiudessero e tutto ciò che prima era ovattato diventasse il buio.
 
 
Unima, Austropoli, West Memorial Hospital, poche ore dopo
 
Gli occhi di Ruby si riaprirono lentamente. Non sapeva da quanto tempo il fastidioso rumore intermittente dei macchinari del West Memorial stesse convivendo coi suoi pensieri ma voleva che terminasse. La testa ormai scoppiava.
“ Ruby... si sta svegliando”.
Era Yvonne, la donna che parlava accanto a lui. Quello girò lentamente il collo, col viso colmo di confusione e stanchezza, e la vide: gli occhi della donna erano grigi acquitrini pieni di stanchezza e speranza ritrovata. Le lacrime cadevano lungo il viso stanco ma il sorriso, quel sorriso limpido, riuscì a donare serenità al ragazzo.
“Fa’ vedere, levati davanti” aveva risposto qualcun altro, con tono sgarbato e prepotente.
 
Sapphire, pensò Ruby. Non voglio stare con lei. Non voglio che sia qui. Io non la voglio più vedere, Sapphire.
 
“... in diretta da Ebanopoli dove la Palestra è stata appena...”.
 
“E spegnete questa televisione! Ruby!” aveva urlato White, spostando di peso Yvonne.
 
Era White. Non Sapphire. Sapphire non è qui.  
 
Si sistemò e vide la Presidentessa mentre si sedeva al posto di Yvonne, su di una piccola sedia di plastica grigia.
“Signor Normanson, devi smetterla di finire in ospedale”.
White sorrise a sua volta e carezzò il viso dello stilista, saggiando con le dita la barba di un giorno che era cresciuta e che non aveva avuto l’opportunità di radere. Gli occhi grandi e blu erano vispi e i capelli erano perfettamente stirati. “O almeno, non venire sempre al West Memorial… è dall’altra parte della città”.
“Hai... ragione...” biascicò lui, parlando con difficoltà.
“Che diamine ti è saltato in mente?! Ma sai quello che fai?!” urlò ancora White, gesticolando vistosamente. “Io sto per sposarmi e tu hai intenzione di morire?!”.
Ruby sorrise e chiuse leggermente gli occhi.
“Auguri” disse, in un sospiro. Avrebbe voluto chiedergli cosa fosse cambiato nel suo rapporto, che lei stessa aveva descritto come parecchio difficoltoso, ma non ne aveva le forze.
“Mi preparerai un bel vestito? Verrà la creme di Austropoli, tutta gente con soldi e potere...” sorrise. “Sarà una pubblicità perfetta per l’atelier”.
Yvonne sospirò. “Forse non è il caso di parlare di lavoro, adesso, White”.
Quella si voltò e annuì.
“È vero, scusami”. E mentre lo guardava, steso in quel letto d’ospedale cercava in tutti i modi di demonizzare la paura che aveva provato quando qualche ora prima Yvonne l’aveva chiamata, terrorizzata.
 
“White! Sto portando Ruby all’ospedale!”.
“Di nuovo?!”.
“Ha ingoiato non so quante pillole di… di… Xanax”.
“È un ansiolitico! Lo prendo anche io! Corri lì, potrebbe essere pericolosissimo!”.
“Lo so, White!”.
 
E ricordava il terrore nella voce della sua modella. Quel terrore che in fondo aveva provato anche lei. Il suono del cellulare la distrasse dai suoi pensieri.
“Con permesso” fece, voltandosi e immettendosi nel corridoio, sparendo dalla vista di Ruby e Yvonne.
Quella riprese lentamente posto accanto a lui. Si guardarono in silenzio per quasi venti secondi, prima che il ragazzo abbassasse gli occhi e li nascondesse dietro la coperta delle palpebre.
“Che hai combinato?” chiese la donna, con una dolcezza quasi disarmante, in un sussurro.
Quando vide le lacrime attraversare le ciglia strette intuì che qualcosa nella sua proposta di matrimonio non fosse andata a dovere.
“Niente… ne parliamo poi…”.
“Ho avuto paura” ribatté subito lei. Ruby riaprì gli occhi e pulì le lacrime col dorso della mano. La vedeva nuovamente piccola e fragile, lei, che aveva calcato le passerella ed era diventata la più forte tra i giganti. “Ti chiamavo, ho sentito che eri tornato prima e avevo intuito che qualcosa non andava perché ho ascoltato il tuo… il tuo sfogo, ecco…”.
I suoi occhi si abbassarono. Ruby la lasciò lì e si sistemò supino, affondando la testa nel cuscino.
“Mi spiace aver urlato quelle cose…”.
Yvonne sospirò e tornò a puntare quei fari grigi su di lui. Gli afferrò la mano e abbozzò un mezzo sorriso.
“A me spiace che le cose con lei non siano andate come dovevano… Non so, ora, cosa sia successo, ma vederti felice era tutto ciò che volevo…”.
“Non sempre possiamo raggiungere la felicità, Yvonne…”.
“Lo so. Ma possiamo andarci vicini” sorrise ancora, portando la mano del ragazzo al cuore. Ruby lo sentiva battere forte. “Ho avuto paura che potessi morire… Perché hai provato a ucciderti?”.
Ruby tornò a guardarla. “Non ho provato a uccidermi… Ero un po’… upset, ecco”.
“Hai ingoiato mezzo blister di pillole, Ruby. Che avevi intenzione di fare?”.
Inizialmente si limitò a star zitto, lui. Poi parlò.
“Volevo solo stare bene”.
Yvonne sorrise amaramente. “Sono le persone che hai accanto a farti star bene. Le soddisfazioni sul lavoro, i tuoi abiti, le tue creazioni. La donna che ti ama. Non gli psicofarmaci”.
“Nessuna donna mi ama”.
Yvonne batté le palpebre due volte. “Una donna che ti ama c’è…”.
“Mi ha umiliato…” pianse silenzioso. “Dopo tutto quello che ho fatto per lei… Dopo tutti i sacrifici. Sono morto e rinato, per vederla sorridere. Giorno dopo giorno il mio unico scopo era fare di lei la mia regina. E le ho dato il mio cuore. Voleva di più”.
“Cosa voleva, Ruby? Cosa si può voler di più da un uomo come te?” chiese Yvonne, stringendogli ancora la mano.
“Voleva che lasciassi Unima. Che smettessi di cazzeggiare… perché per lei questo non è un lavoro serio. E ha tirato in ballo mio padre…”.
“Tuo padre?”.
“Non mi ha mai accettato. Ha sempre pensato che fossi un disadattato, debosciato… Un poco di buono. Scommetto che prima che conoscessi Sapphire ha pensato che fossi gay…”.
“Come se ci fosse qualcosa di male”.
“Mio padre è vecchio stampo”.
Yvonne abbassò lo sguardo. “Rimane tuo padre. E ti ama sicuramente”.
“Sento che non mi stima. Sento che non lo fa… Vorrebbe un figlio con la testa sulle spalle, più serio e con un lavoro vero”.
“Il tuo è un lavoro vero. E tu sei un ragazzo serissimo e pieno di bontà”.
La bionda gli strinse la mano, poi gli carezzò il volto.
“Io non dimentico che sei stato tu a convincermi a uscire dalla merda in cui vivevo, con Sergei, e la comune… Non dimentico che hai preso a schiaffi Marlon Merlin per me, e mi hai difeso ogni volta che questa città ha provato a sputarmi in faccia. Nonostante fossi rimasta nuda davanti a te tu non hai mai alzato un dito su di me”.
“Sei il mio lavoro” si giustificò subito lui. “Altrimenti non avrei potuto resistere”.
Yvonne sorrise, avvampando. “E io sono onorata di esserlo. Ma tu devi essere fiero di ciò che sei” fece, non riuscendo a celare quel marcatissimo accento francofono. “Hai lottato per perseguire i tuoi sogni e superato tutti gli ostacoli. Sei bravo. Sei buono”.
I due si guardarono per un attimo, lungo e intenso.
E nonostante Sapphire ancora bruciasse ardentemente nei suoi pensieri, dopo quelle parole a Ruby venne voglia di baciare Yvonne.
“Sei una delle persone più care che ho” continuò lei.
“Anche tu. E mi hai salvato la vita”.
Quella abbassò la testa, avvicinandosi al volto del ragazzo, e appoggiò la fronte contro la sua. Ruby riusciva a sentire il profumo della donna, così pungente e dolce. Le sue labbra erano a pochi centimetri ma i loro occhi ancora continuavano a tenersi per mano.
Stettero così per un minuto che durò un’ora. Lui pensava al fatto che forse Yvonne sarebbe stata la scelta migliore di vita, per lui: viveva ad Austropoli, lavorava nel suo stesso campo, vivevano nello stesso mondo.
Parlavano la stessa lingua.
Lei indossava una bellezza senza eguali, e la femminilità che esprimeva con ogni movimento e ogni parola era pura ispirazione per quell’uomo.
Ed era protettiva, nei suoi confronti, e la cosa cancellava quasi totalmente la solitudine in cui stava annegando.
Yvonne ovviamente non era Sapphire; non era quella scelta di vita presa da ragazzino e continuata a sostenere per paura di trovare il nulla, oltre il muro.
Sapphire non era certamente la donna più femminile del mondo, e il suo corpo non era quello delle modelle da copertina patinata: era bassina, coi fianchi piuttosto larghi, i seni grossi e un piccolo accenno di cellulite.
Yvonne era il sogno, esteticamente, mentre Sapphire era la più vera delle donne.
E il fatto che, in quel momento, a tiro di bacio ci fosse il sogno e non la verità lo confondeva, e contemporaneamente lo poneva davanti al dubbio.
 
Merito il meglio?
 
Non ebbe il tempo di rispondere a quel quesito che Yvonne staccò la fronte dalla sua, sorridendo stanca.
“Ti dimetteranno domattina…”.
“Avete telefonato Sapphire?” chiese lui.
La modella fece cenno di no con la testa. “Volevo avvertirla ma non ho trovato il tuo telefono e non conosco il suo numero”.
“Perché l’ho buttato via. Non voglio più sentirla”.
Yvonne abbassò lo sguardo per un secondo, per poi risollevarlo. Ruby continuò a parlare.
“Voglio che sparisca dalla mia vita. Domani cercherò un appartamento più vicino all’Atelier”.
“A-andrai via dall’hotel?” domandò, allungando la e finale.
“Sì. Non voglio che mi trovi”.
Yvonne era confusa ma si limitò a fare spallucce. “È la tua vita. Io ho bisogno di fare una doccia e di riposare, ma verrò a prenderti domani”.
“Sei gentile”.
“Ti lascio nelle mani di White”.
Si abbassò verso di lui e gli lasciò un morbido bacio sulle labbra, quindi si voltò e se ne andò.
 
 
Unima, Austropoli, Hotel Continental
 
Trascinava la testa, Yvonne, da un lato all’altro del poggiatesta del vecchio taxi con cui stava ritornando in albergo. Poco dopo esser saltata sulla Ford Crown Victoria, che col suo giallo acceso tagliava in due il grigiore notturno di Austropoli, qualche goccia di pioggia cominciò a bussare gentile sul parabrezza, per poi insistere con tenacia, fino a quando la donna non riuscì più a distinguere l’acqua che cadeva sul tettuccio della macchina dal rumore dei suoi pensieri.
Era stanca, lei. Aveva voglia di riempire la vasca della sua camera con acqua calda, stringere tra le mani un calice da svuotare e mettere sulla faccia la costosissima crema che aveva deciso di regalarsi il giorno prima.
L’aveva acquistata in una piccola erboristeria tra la sedicesima e Samuel Oak Street e il commesso, un giovane ragazzo dai lunghi capelli scuri e dal grembiule verde scuro coi costoni intrecciati sulle spalline, aveva detto che era un toccasana per le pelli stressate dai cosmetici.
Come la sua.
Se ne sarebbe spalmata un po’ in viso e poi si sarebbe immersa in un fine giornata liquido e ristoratore, al sapore di vino rosso.
“Sono diciotto e settantatré” aveva detto il tassista, la cui voce non andò oltre il risultare un cupo e timido sottofondo all’orchestra di quel tempo grigio.
Yvonne aveva aperto la borsetta, cercato un biglietto da venti e sospirato, stanca. Lo poggiò sul sediolino, aprendo la porta e uscendo.
“Tenga il resto” disse, prima di sbattere con forse troppa violenza la portiera.
Il taxi si avviò di fretta verso la prossima cliente, qualche metro più avanti, e la modella si gettò tranquilla e bagnata sotto il tendone dell’hotel.
“Buonasera, signorina” fece Alfred, il facchino appena ventenne che quella sera era di turno fuori la porta automatica girevole del Continental. Ogni volta che gli passava davanti, Yvonne percepiva il suo sguardo squadrarle il fondoschiena.
Lo fanno i sessantenni, non vedo perché non debba farlo lui. Almeno ha la giustifica degli ormoni in subbuglio, pensava. Ma non quella volta.
Quella volta non gliene importava nulla del fatto che Alfred le guardasse il derrière, voleva soltanto tornarsene in camera.
Gli fece un cenno con la mano e proseguì, arrivando fino all’ascensore senza mai voltare lo sguardo, né a destra né a sinistra.
Premette il pulsante di chiamata e rimase lì ad aspettare.
Giocò col bracciale d’argento che portava attorno al polso. Lo faceva sempre quando non sapeva cosa fare.
Con la testa vagò, fece voli pindarici indefiniti fino a tornare a quel bacio dato a Ruby, prima di lasciarlo solo in quel letto d’ospedale. Pensò che forse non avrebbe dovuto tornare a casa e lasciarlo alle cure un po’ troppo newyorkesi di White.
Forse aveva bisogno di più cure, di più premura.
Forse avrebbe dovuto tornare indietro.
 
A che pro, però?
 
Stare così vicina all’uomo che amava e sapere di non poterlo avere non avrebbe fatto altro che male, al suo cuore.
 
Ma i suoi occhi...
 
Nei suoi occhi vedeva il mare. E lì, in quel momento, poco meno di un’ora prima, sentiva che lui volesse continuare a tenerla vicina, fronte contro fronte, mentre i loro pensieri fluivano attraverso gli sguardi e quei respiri, pesanti e trascinati.
Forse anche Ruby si era convinto ad amarla, dopo aver scoperto la vera faccia di Sapphire.
Una campanella la ridestò. L’ascensore era arrivato al piano.
Vi entrò e senza neppure controllare se qualcun altro arrivasse premette il tasto del piano.
Le porte si chiusero davanti ai suoi occhi e lei si era ritrovata in silenzio, sola.
 
Ancora sola.
 
Forse quei pensieri non erano il modo migliore per cominciare la fine della sua pesante giornata, in cui il cuore le era balzato su per la gola più di una volta.
E di certo, quando le port0e si riaprirono, quello che vide non si poté definire un atterraggio morbido.
 
“APRI QUESTA PORTA, RUBY! SO CHE SEI QUI DENTRO!”.
 
Rumorosa ma piccola, e con la forza di una mandria di tori, Sapphire era pura dinamite; batteva i pugni contro la porta della stanza, con tenacia e dedizione.
Il segnale sonoro dell’ascensore tradì la presenza d’Yvonne: la ragazza di Hoenn si voltò e spalancò gli occhi.
Furono cinque secondi di panico, in cui due donne sconvolte e palesemente avversarie s’incontravano l’una davanti all’altra.
“Sapphire...” fece la bionda, immobile davanti alla porta dell’ascensore.
“Dov’è Ruby?!”.
E cominciò in lei una delle battaglie più dure che potesse combattere. Impugnava nella mano destra la spada della verità e in quella sinistra quella degli ideali.
Avrebbe dovuto infierire il colpo mortale, forse, mentendo ma seguendo il percorso che si era prefissata, i suoi ideali. Sapphire non avrebbe saputo mai dove cercare Ruby.
Di certo non sarebbe mai andata all’ospedale.
Alla fine, certo, sarebbe andata in Atelier o da White, che avrebbe sicuramente indirizzato la bella dagli occhi blu dal suo ex uomo ma ci sarebbe voluto almeno un giorno.
E in un giorno tutto sarebbe potuto accadere; per esempio, Ruby avrebbe potuto decidere di stare con Yvonne e di cancellare la sua vecchia e deludente vita, iniziandone un’altra lì a Unima, dove avrebbero raggiunto la pace dei sensi.
Oppure avrebbe dovuto dire la verità, che Sapphire meritava di sapere dato che il ragazzo che stava chiamando incessantemente era stato SUO per anni e ancora anni. L’avrebbe appena ferita con qualche colpo inferto da una spada che era sicura non avrebbe potuto abbatterla. Con ogni probabilità l’avrebbe spintonata via, avrebbe aspettato senz’alcuna pazienza l’ascensore e una volta in strada avrebbe cominciato a correre in direzione dell’ospedale senza neppure sapere che questo distasse quindici minuti di taxi.
Una volta arrivata da Ruby, stanca e sudata, avrebbe sicuramente fatto in modo di riprendersi il suo uomo. E a Yvonne non sarebbe rimasto che il rimpianto di un futuro perso, ritrovato e nuovamente sfuggitole dalle mani, oltre che a una spada che non avrebbe mai saputo usare.
“Yvonne!”.
La bionda era immobile e in silenzio, persa nel mondo che aveva tra la fronte e la nuca, ma la rabbia con cui poi Sapphire le si avventò contro la fece ridestare.
“Dove cazzo è Ruby?!”.
 
Cosa devo fare?
 
“Avete telefonato Sapphire?”.
“Volevo avvertirla ma non ho trovato il tuo telefono e non conosco il suo numero”.
“Perché l’ho buttato via. Non voglio più sentirla”.
 
“Non lo so, Sapphire. Non lo vedo dalla sua partenza”.
Alle orecchie della Ricercatrice, quelle parole risuonarono come l’ultimo rintocco.
Rallentò la sua carica, fermandosi a un metro o poco più dall’altra. Si voltò, confusa, quasi distrutta. Gli occhi erano pieni di lacrime.
“Ho... Io ho fatto una stupidaggine, Yvonne...”.
 
Lo so.
 
“Cosa è successo?”
Il suo volto non rivelava la consapevolezza di una verità che stava negando di conoscere. Rimase granitica a fissare il viso di Sapphire mutare, cadere in una disperazione calda e liquida.
“I-io non lo so. Eravamo a casa, abbiamo fatto l’amore e poi... e poi tu!” le urlò contro, puntandola con l’indice la cui unghia era stata mangiucchiata sulla sommità. “Tu!”.
“Cosa, io?!” esclamò l’altra.
“Tu ti sei messa di mezzo!”.
S’avvicinò minacciosa, Sapphire, spingendola con forza contro il muro. La borsetta di Yvonne cadde dalla spalla e rotolò per terra, accanto all’ascensore.
“Non toccarmi! Io non c’ero, lì a Hoenn!”.
“Lui ti ha difesa! E io... uff... Sono una stupida!” urlò, perdendosi in un pianto disperato. Le gambe non la sostennero più, e si piegarono verso l’interno.
Sapphire s’inginocchiò davanti a lei.
“Era lì per me! Con un anello! Ed era l’uomo più perfetto che potessi mai trovare!”.
 
Cosa c’entro io?
 
“Sapphire... io... cosa c’entro, io?”.
La guardava, Yvonne, ripiegata su se stessa, chiusa nello scudo delle sue braccia e con la testa bassa, in preda alla crisi di pianto peggiore che una donna innamorata potesse mai avere.
Fissava il trucco sciolto, che dagli occhi era passato sulle mani, e i capelli che non seguivano alcun ordine preciso.
Davanti aveva una donna distrutta.
“Io ti temo!” urlò, ancora con la testa bassa. “E ho paura che tu possa prenderti il mio uomo! E io che sono lontana non potrò fare nulla per evitare che ciò succeda!”.
 
Lo sa anche lei...
 
“E Ruby... ha litigato con te?”.
“No!” esclamò quella, alzando il viso e rimettendosi lentamente in piedi. Yvonne aderiva ancora con la schiena al muro, immobile. “No, Ruby è rimasto in silenzio... Ho fatto tutto io, perché sono una cretina!”.
“Perché?”.
“Perché l’ho posto davanti a una scelta”.
“E ha scelto se stesso”.
“No. L’ho costretto io a scegliere se stesso... Perché sono stata la persona peggiore che avrebbe potuto avere accanto. Io... i-io non l’ho sostenuto. E l’ho mortificato”.
 
La questione di suo padre...
 
“Sono stata inqualificabile, imperdonabile e... e... e non contenta, vedendo che se ne stesse andando d-da m-me, ho c-cominc... ciato a...”.
Pianse di nuovo.
Yvonne la guardava come ipnotizzata.
“A?”.
“L’ho colpito! L’ho preso a schiaffi e lui è andato via!”.
 
Cielo...
 
“E ora non so dov’è! Potrebbe aver fatto qualche cazzata, Yvonne! Dobbiamo trovarlo!”.
 
Devo dirle che so tutto?
 
Destra o sinistra? Ideali o verità?
“S-se vuoi puoi... puoi aspettarlo nella mia suite...”.
Gli occhi di Sapphire si riempirono di luce, per un singolo momento.
“Grazie, Yvonne! Grazie mille!” pianse, saltandole addosso e stringendola in un abbraccio carico d’ansia.
“Non ringraziarmi...”
 
No. Non farlo.

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Capitolo 14
*** 14. Quattordici (XIV) ***


UNRAVEL ME.
ovvero risolvimi, nel senso di districami, sbrogliami.

UNA FRANTICSHIPPING (ma per finta) di Andy Black (ma lo sapevate).


“Che poi ripenso a lei e a come mi ha preso per il culo… Forse è questo che mi fa sentire più stupida di quello che in realtà sono…”.

Unima, Austropoli, Hotel Continental, 13 Maggio 20XX

Il mattino arrivò dopo di lei, quel giorno.
Yvonne non riuscì a chiudere occhio. E non perché Sapphire l’avesse infastidita; aveva allungato una sola volta la gamba e si erano toccate ma nient’altro.
Non aveva russato né parlato nel sonno. Probabilmente era rimasta con gli occhi aperti per tutta la notte, aveva sospirato e riflettuto su quanto stupida fosse stata, girata dall’altra parte.
Guardò l’orario sul cellulare, erano le sette e mezza. Forse sarebbe stato meglio uscire di casa.
Sì, avrebbe fatto un po’ di jogging e si sarebbe liberata dal peso di ciò che stava succedendo.
Magari sarebbe passata da Ruby e l’avrebbe avvertito che Sapphire, la donna che aveva amato fino a due giorni prima, aveva condiviso il letto con lei.
Si scoprì delicatamente e passò da stesa a seduta. Si alzò rapida e sgambettò verso il bagno, dove scomparve oltre la porta, nascondendosi dagli occhi di Sapphire che intanto la fissavano.
Pensò che Yvonne fosse la donna più bella del mondo, e quasi giustificava Ruby per la sua confusione.
Perché lei sapeva che Ruby fosse confuso. Sapeva che una donna del genere avrebbe avuto tranquillamente la facoltà di cambiare il mondo con un sorriso.
Col suo sorriso, Yvonne, aveva cambiato il mondo di Sapphire, che poca dimestichezza aveva con le cose delicate, e Ruby, per quanto fosse forte, si stagliava da solo come una rosa cresciuta nel deserto.
Si rese conto di non poter dare colpa a Yvonne della fine che aveva fatto; né poteva a Ruby.
Non aveva alcuna prova dell’ipotetica relazione che vi era tra la donna che la stava ospitando e il suo uomo e il modo in cui l’aveva trattato, a mente fredda, risultò assolutamente ingiustificato.
Perché la gelosia non era una giustificazione. La paura di perdere una persona non poteva essere il catalizzatore a muovere l’amore che si provava per essa.
Sapphire non aveva praticamente mai avuto rivali. Fino a quando Ruby viveva a Hoenn non vi erano mai state donne che avevano minato alla loro relazione (se si levava qualche timido tentativo da parte di Rossella, o forse di quella squinternata di Lyris, ma quella pareva più una paranoia di Sapphire che altro), e Yvonne risultava essere il primo tentativo del mondo di strapparle via il fidanzato.
Il quasi marito.
Sbuffò, sedendosi sul materasso e incrociando le gambe. Allungò le mani e stese le dita.
Mancava un anello, quell’anello, a decorarle.
E la rabbia cominciò a salire rapida, fino a esplodere.

“PER QUALE MOTIVO SONO FATTA IN QUESTO MODO?!”

La sua voce rimbombò in tutta la stanza, con prepotenza.
Il rumore dell’acqua, che fluiva dal lavandino, non accennò a fermarsi.
E meno male… pensò. Non aveva voglia di affrontare con quella donna il suo dramma.
*

Sapphire aveva urlato con forza.
Yvonne quasi percepiva la frustrazione di quella donna, la sentiva sulla pelle. Finì di darsi una sciacquata e uscì fuori, indossando il reggiseno sportivo e un paio di slip.
Nonostante fosse maggio, ad Austropoli non faceva ancora caldissimo; sentiva i morsi del freddo aggredire il corpo tonico.
Lo stesso corpo che Sapphire guardava allibita.
Yvonne era davvero troppo bella per potersi permettere una competizione. Ruby avrebbe scelto sicuramente lei, con quei lunghi capelli biondi e il viso grazioso, col seno alto e duro, le cosce toniche e infinite e quel suo essere magnetica, che portava con sé la capacità di attrarre tutti gli sguardi altrui al suo sorriso.
“Io esco. Tu puoi... puoi fare ciò che vuoi... dormi ancora, o fatti un bel bagno caldo. O mangia... bevi”.
Gli occhi blu di Sapphire la irrorarono d’una luce strana. Yvonne si sentì in soggezione.
“Ruby è tornato?”.
“Non lo so, sono stata qui con te tutto il...”.
“No” interruppe lei. “Intendo dire... Ruby ha mai messo piede qui a Unima?”.

Non merita tutto questo. Soffre.

“Non lo so, Sapphire. Io sto lavorando con White braccio a braccio e...”.
“Se andassi da White mi direbbe lo stesso?”.

Ancora quello sguardo. Pareva sapesse, ma che aspettasse fossero le parole di Yvonne a confermare il misfatto.

“Credo di sì”.
“Credi di sì?”.
“Sì. Credo che ti direbbe lo stesso”.
“White potrebbe aver incontrato Ruby?”.
Doveva argomentare. “Ho provato a chiamarlo spesso, negli scorsi giorni, ma non mi ha mai risposto. White è la sua socia. Forse lo ha sentito”.

Se chiama White scopre tutto...

Sapphire storse le labbra e sbuffò, lasciandosi cadere sul letto.
“Ti ringrazio per avermi ospitata, Yvonne”.
“Vado... vado a correre” riprese quella. Non infilò neppure le scarpe, le prese tra le mani e uscì in corridoio, chiudendosi la porta alle spalle. La situazione stava degenerando.

Maledetto il giorno in cui ho deciso di mentire.

Si mosse verso l’ascensore, con le Nike tra le mani e il codino attorno al polso.
Chiamò poi l’ascensore, sperando che arrivasse il prima possibile; temeva che Sapphire aprisse la porta e la vedesse lì. Calzò le scarpe nell’atrio, legò i capelli e s’immise nell’aria fresca del mattino di Austropoli.
Doveva andare in ospedale. Avrebbe cominciato a correre e, qualche isolato dopo, sarebbe salita su di uno di quei taxi gialli di cui tanto stava abusando in quel periodo.

Dalla finestra della stanza, Sapphire vide la donna che la ospitava sfilare oltre la sua vista, fino a che voltò l’angolo.
Era nella tana del lupo. Sorrise, pensandoci. Sorrise amaramente.
Come si era trovata in quella dannata situazione?

Alla ricerca di Ruby... pensò, voltandosi e incrociando le braccia. Aveva fame, e addebitare sul conto di Yvonne tutto ciò che avrebbe mangiato dal frigobar cominciava a sembrare la via migliore per riequilibrare il cosmo. Prese un tramezzino e una diet-coke, cercando d’ammazzare la fame che si portava dietro da più di ventiquattro ore.
“Insalata russa e gamberetti...” sussurrò a se stessa, aprendo la lattina con l’altra mano. Pensò, tra un morso e l’altro, che non era mai stata il tipo di persona che si arrendeva.
Lei imbracciava il gladio e scendeva nell’arena, lottando con tutta se stessa.
La sua tempra e la sua tenacia le imponevano di andare a riprendersi ciò che si era persa per strada, ma la domanda giusta era: come?
Come avrebbe potuto riprendersi Ruby dalle mani di Yvonne?
“Perché è chiaro che Ruby sia nelle tue mani... Ypsey...” disse, muovendo qualche timido passo sulla moquette dell’albergo. Si avvicinò al letto e si sedette, proprio dove quella aveva dormito. Il suo cassetto era davanti a lei.
Non seppe mai cosa la spinse ad afferrare la maniglia e tirare indietro il primo cassetto, ma quando lo fece rimase a fissare per qualche secondo il nido di mutandine merlettate bianche, nere e celesti. Il profumo dei delicati di quella donna era dolce.
Afferrò coi denti il sandwich, per liberare la mano che afferrò una brasiliana, quella celeste. Saggiò sotto le dita il merletto e si perse per un momento nei suoi pensieri: anche lei ne possedeva una simile. La comprò per un’occasione speciale, non ricordava se il ventitreesimo o il ventiquattresimo compleanno del ragazzo, a Verdeazzupoli, assieme a una camicetta dello stesso colore, semitrasparente, che lasciava intravedere i tre nei sul seno destro.
Non ci volle molto prima che il ragazzo gliela strappasse di dosso.
Fu il sesso più bello che avesse mai fatto, fino a quel momento.
Riguardò le mutandine, prima che l’angoscia attanagliasse di nuovo il suo stomaco; lasciò cadere la brasiliana e la immaginò sul sedere di Yvonne. Certamente non avrebbe fatto lo stesso effetto, addosso a lei. Affondò le mani sporche di maionese nel cassetto e spostò gli intimi, fino a toccare il fondo di legno.
Fino a toccare qualcosa.
Incuriosita, poggiò il sandwich sul comodino e prese un sorso di cola, prima di gettare lo sguardo verso le mani: accanto a tanga striminziti e reggiseni delicati vi era un mazzetto di fotografie.
Aggrottò la fronte, Sapphire. Afferrò veloce le fotografie e si poggiò allo schienale del letto.
“Polaroid…” sussurrò, rimuovendo l’elastico in gomma verde che le teneva bloccate.

Pareva che Yvonne ci tenesse tanto.

La prima polaroid la mostrava stesa in un campo di tulipani. Il cielo alle sue spalle era terso e il prato sotto di lei la reggeva con forza, come se pesasse poco più di una piuma. Tutto era perfetto, attorno a quella ragazza di poco più di diciassette anni, col vento che le scompigliava i capelli, spostati sugli occhi. Solo il sorriso, con quella perfetta dentatura, risaltava sul suo volto.
I vestiti, stretti addosso a quel corpo di donna inconsapevole, seguivano i capelli e la direzione del vento, come anche i fiori.
Yvonne era una ragazza felice, in mezzo alle montagne.

La seconda polaroid la mostrava più piccola, con indosso un cappello rosa assai carino, abbinato alla gonnellina a balze che indossava. Era accanto ad altri ragazzi della sua età, avranno avuto tutti tra i tredici e i quindici anni. Lei era l’unica che non fissava la camera: col volto solido, guardava l’amico che aveva sulla destra, dai capelli neri, che dava le spalle al fotografo.
Pareva aver detto qualcosa a Yvonne pochi secondi prima che l’immagine fosse impressa sulla carta fotografica.

La terza polaroid la mostrava non molti anni prima.
Ormai era grande, la bella bionda, e stringeva in un abbraccio una donna più grande, dai corti capelli castani con cui mostrava una certa somiglianza. Probabilmente era sua madre.
Entrambe, con lo stesso sguardo, sorridevano cordiali.

La quarta polaroid era una foto artistica, che mostrava un’ombra che oscurava il sole.
Era un’Aeroallenatrice, Yvonne, che con braccia e gambe spalancate sfruttava l’attrito per planare assieme a un Pokémon.
Sapphire non riuscì a intendere che specie fosse, quella.
Fu la foto che le piacque di più.

Sfogliò quasi tutte le fotografie, prima d’imbattersi in quella che la fece totalmente trasalire.
Era l’immagine d’Yvonne che baciava un ragazzo, probabilmente lo stesso di prima.
Sapphire s’avvicinò ancor di più alla foto, riuscendo quasi a compenetrarsi nel momento magico che la ragazza di Kalos stava vivendo in quel momento.
Ma una cosa la lasciò sconvolta: il ragazzo, dai capelli neri e fluenti e dagli occhi dal taglio sottile, chiari. Lui era identico a Ruby.

“Chi è questo, adesso?” sbuffò.
Forse era per la somiglianza del suo uomo col ragazzo misterioso della fotografia che Sapphire fu riempita di inquietudine.

L’uomo che cerca Yvonne è uguale a quello che aveva da ragazzina…

Sospirò, prese l’ultimo sorso della diet coke e si rese conto di aver perso fin troppo tempo.
Doveva cercare Ruby.
Sarebbe passata dall’Atelier.

Unima, Austropoli, West Memorial Hospital

Il pavimento di linoleum dell’ospedale non era in gran forma.
Dopo anni d’onorato servizio, la superficie protettiva aveva cominciato a mostrare i primi segni di cedimento e in alcuni punti stava cominciando a venir fuori la vecchia mattonellatura.
Comprensibile. Quello era il primo ospedale di Austropoli. Quei corridoio erano percorsi ogni giorno da migliaia di piedi.
Anche quelli di Yvonne, che ormai si stava abituando a quelle luci bianche e ai volti spaesati delle persone che sostavano contro i muri.
Superò un uomo che parlava accoratamente al cellulare di quanto qualcosa fosse totalmente senza alcun senso, di come lui non avesse fatto nulla di male con Shawna,e di come lei non fosse minimamente paragonabile alla persona con cui parlava.
Sì, pensò, come no... Gli uomini sono naturalmente portati al tradimento.
Tradire la fiducia... Anche omettere la verità è tradimento?

Era arrivata davanti alla porta, e i dubbi attanagliavano la sua mente.
Valeva la pena macchiarsi l’anima di pece per tenere il cuore intatto?
Ruby valeva l’inferno in cui stava per incatenarsi?
Fu il fremito che le squassò il petto a rispondere per lei: lo amava. Con tutta se stessa.

Doveva mentire, prima a se stessa e poi agli altri.
Doveva farlo per il suo futuro. Per l’amore che provava per Ruby.
Per allontanare l’assalto di Sapphire.

Entrò nella stanza del ragazzo, dove sembrava che il caos di tutto il mondo non potesse attecchire: lì tutto era silenzioso, se si levava il rumore dei macchinari di monitoraggio cardiaco.
Ruby dormiva, steso sul fianco e col braccio destro allungato, quello attaccato al lavaggio.
White era sveglia e digitava qualcosa al cellulare. Alzò gli occhi di colpo quando Yvonne esordì, manifestandosi.
“Buongiorno a tutti”.
“Dorme” riprese lei. “Non mi sono mossa un attimo da qui”.
L’altra sorrise. “Avrei fatto lo stesso. Sei stanca?”.
“Mah, ho dormito un quarto d’ora e poi mi sono svegliata... Lui ha fatto una sola tirata... E ora se permetti esco a fare una telefonata, che mi stanno dando problemi in ufficio...”.
Doveva evitare che tornasse lì. Sapphire l’avrebbe intercettata.
“Sarai stanca...” fece, mentre la vedeva alzarsi e avviarsi verso il corridoio.
“Non ho tempo per dormire”.
“Devi dormire”.
Poi entrambe si resero conto di aver parlato a volume fin troppo alto.
Ruby si voltò, aprendo leggermente gli occhi e mostrando al mondo quelle iridi rosse e profonde, incastonate nel volto provato.
“Ciao Ypsey... Ciao White”.
La sua voce era roca, i capelli del tutto spettinati e la cicatrice che aveva sulla fronte ben visibile.
“Buongiorno, Ruby. Vado un attimo a fare una telefonata” tagliò l’ultima, voltandosi.
Yvonne si limitò a sorridergli dolcemente, mentre il cuore veniva spremuto dall’angoscia che tutto andasse storto. Il rumore dei passi di White si faceva sempre più lontano, prima che sparisse del tutto.
“Come stai?” domandò la bionda, sedendosi accanto a lui e prendendo tra le mani la sua, quella col lavaggio. Ruby la guardò dritta negli occhi e sorrise a sua volta, prima che l’espressione del suo volto mutasse nuovamente, distorcendosi e mutando. Prese a piangere, silenziosamente.
“Mi spiace...” fece, stringendo la mano e le palpebre.
Yvonne ebbe un sussulto al cuore. Gli si avvicinò e gli baciò la guancia.
“Non devi dispiacerti di nulla, Ruby... Stai soffrendo per... per delle ingiustizie...”.
“Non volevo che ti trovassi in quella situazione... Io... sono stato un irresponsabile...”.
“Devi soltanto ritrovare le giuste motivazioni. Sapphire non...”.
“Non nominarla. Ti prego”.
La cosa la rincuorò leggermente. “Scusami... Quando ti dimettono?”.
“Domani”.
“Devi andare via dall’albergo” rincarò lei. “Comincia daccapo e continua con la tua vita qui, a Unima”.
La guardò negli occhi, Ruby, senza mai riuscire a leggere le reali intenzioni della donna. Vedeva soltanto un’insensata paura, unita a una premurosità senza precedenti. “Hai ragione. Dovrò tornare a prendere la roba dalle valigie e...”.
“Manda Whiteley, già oggi. Io e White andremo a bloccare l’appartamento nel palazzo dell’atelier, quello che abbiamo visto l’altro giorno”.
Il ragazzo sorrise, tra le lacrime, facendo cenno di no con la testa.
“White ha tanto da fare... Non posso chiederle una cosa del genere”.
“È la tua socia. Ci tiene a te. È suo interesse”.
Quelle parole risultarono così vere da convincerlo. “Proverò a chiederglielo…”.
“Tu devi solo rilassarti. Chiamerò Whiteley e le dirò di passare in serata in albergo, a racimolare le tue cose, dopo aver ottenuto la certezza che l’appartamento sia tuo...”.
“Whiteley però...” sbuffò il ragazzo. “Okay, è la mia assistente ma... Non voglio chiederle cose del genere. Non potresti andare tu oggi pomeriggio?”.

Se entrassi nella stanza di Ruby e Sapphire mi vedesse probabilmente dovrei fuggire gettandomi dalle finestre.

“Io no... Ho...”.
Sbuffò. Era stanca di tutte quelle bugie. “Io ho un appuntamento”.
Ruby inarcò le sopracciglia. “Okay”.
“Sì, niente di che... roba di lavoro. Con una donna”.
“Tu non hai l’esclusiva con noi?”.

Merd.

“Sì, ma si parlava di altre cose. Non ti preoccupare. Pensa a guarire, tu”.
“Andrai via?” domandò ancora Ruby, preoccupato. “Perché mi spiacerebbe molto…”. Fece parecchia fatica a passare da steso a seduto, ma Yvonne lo aiutò, stringendogli le mani e guardando che il lavaggio non gli fuggisse dal braccio.
“Non preoccuparti” gli ripeté.
“Non ti nascondo che mi sentirei perso, adesso, senza di te”.
La modella sorrise ancora, con dolcezza. Gli si avvicinò e gli baciò la fronte.
“Io sarò qui”.
E poi si guardarono, entrambi sorridenti, come se non si trovassero in quell’ospedale ma al mare, e le onde bagnassero loro i piedi.
E il sole baciasse loro i visi, tanto da costringerli a socchiudere le palpebre. Probabilmente lei avrebbe alzato la mano sulla fronte, per poter vedere meglio il ragazzo che aveva di fronte.
“Grazie” rispose Ruby.
Annuì, Yvonne, semplicemente. Come per dire non preoccuparti, non devi ringraziarmi. Come per dire è un piacere stare qui con te, in riva al mare, col sole a baciarci il viso.
Poco dopo White entrò in camera con rinnovata determinazione. Il trucco sul suo volto era quasi svanito ma i lineamenti non ne uscirono stravolti, risultando comunque delicati, se non più morbidi.
Il trucco la invecchiava.
“Devo tornare in ufficio, c’è una conferenza da organizzare”.
Yvonne guardò Ruby. Lui annuì.
“Ehm... In realtà avrei bisogno di te”.
White, che intanto si stava voltando con già lo spolverino e la borsa tra le mani, si fermò.
Fece per riavvitarsi su se stessa e guardò il degente.
“Che succede?”.
“Io ho bisogno che tu e Yvonne andiate nel palazzo dell’atelier, organizziate in mattinata un appuntamento per... per l’appartamento libero al piano superiore e lo blocchiate”.
La Presidentessa rimase in silenzio e guardò sospettosa la coppia stilista/modella. Batté le ciglia un paio di volte, sospirò.
“Ora?”.
Ruby annuì, sorridendo in quel modo gentile che faceva impazzire Yvonne. E Sapphire.
“Ci andrei io, ma muovermi col lavaggio per Austropoli credo sia scomodo. Puoi fare questo per me?”.
“Posso fare tutto ciò che vuoi...” fece, avvicinandosi ancora a lui. “Ma prima spiegami perché. Insomma... al Continental sei servito e riverito... È successo qualcosa di male?”.
“No io...”.
“Perché l’agenzia è cliente del Continental da anni e non possono permettersi di sbagliare qualcosa con noi...”.
“No, loro sono sempre stati perfetti. Semplicemente voglio una casa, e non una stanza d’albergo. E siccome c’è quella...” guardò Yvonne, che annuì. “... quella nel palazzo dell’atelier, pensavo fosse il caso di cogliere l’occasione...”.
White rimase interdetta, per poi annuire.
“Non possiamo andarci nel pomeriggio?”.
“Io non ci sono, nel pomeriggio” s’inserì Yvonne.
“Vorrei che la vedeste assieme. Siete le persone più vicine che ho qui e mi fido delle vostre impressioni”.
“La conferenza può aspettare per Ruby, vero?” rincarò la modella, sedendosi accanto a lui.
E forse furono quelle parole a far capitolare la Presidentessa. Annuì e si voltò.
“Andiamo” fece, sparendo oltre l’uscio.
Yvonne sorrise. “Vengo. A dopo” sussurrò al ragazzo, baciandolo sulla guancia e carezzandogli la coscia, prima di seguirla.

Unima, Austropoli, Dodicesima Strada e Labour Street

Quando Sapphire abbandonò l’albergo, immergendosi nella quotidianità caotica di quella città, sentì un vero e proprio bisogno di accelerare.
Voleva che quella situazione durasse il meno possibile, voleva trovare Ruby e spiegargli che era stata una stupida a trattarlo in quel modo, che lui fosse l’uomo della sua vita e che niente e nessuno si sarebbe potuto opporre al loro amore.
Perché lei lo amava con tutta la forza che aveva in corpo.
Calpestò il marciapiede con dei primi passi così poco abituati che quasi non sapeva più se stesse camminando sul cemento o su dei chiodi arrugginiti.
Stare a Ciclamipoli per pochi giorni la riempiva di malessere, nonostante fosse una città poco inquinata e immersa nella natura.
Austropoli, in tal senso, rappresentava l’esatto opposto.
Non voleva che Ruby fosse lì. Voleva poter affondare i piedi nell’erba e respirare l’aria pulita dei boschi poco lontani dalla sua casa.
Ma poi ci pensava e capiva che quello fosse il palcoscenico migliore per un uomo come il suo.
Alti palazzi, rumore, attenzione su più e più cose, pilotate e studiate. Il buono, il brutto e il cattivo in un solo posto.
Il bello faticava a vederlo, nelle facce schive della gente che correva senza mai alzare i piedi da terra, che andava di fretta e che non si preoccupava del fatto che lei fosse confusa.
Lì non conosceva nessuno e la cosa non le piaceva.
Il semaforo pedonale non dava il via libera e i taxi sembravano gareggiare tra di loro, correndo come frecce verso un obiettivo, forse tutti lo stesso. Diventavano indemoniati quando la lampadina rossa toccava quella gialla, prima di spegnersi totalmente, e infine morivano, quando il pedonale dava il via libera a tutti quelli in attesa da un capo all’altro delle strisce.
Prese due spallate in sette metri, la bella dagli occhi azzurri.
“Hey!” aveva protestato.
“Va a farti fottere, lumaca” le aveva risposto una settantenne arzilla, sparendo nella folla.
Sbuffò e proseguì, allontanandosi dalla strada e raggiungendo uno di quei mostri gialli in stato di riposo.
TAXI, aveva scritto sulla testa.
Si abbassò, affacciandosi nell’abitacolo dove un grasso uomo dalla barba lunga e dalla testa lucida la fissò, nascosto da un paio di doppi occhiali da sole.
“Scusi… io…”.
“Non farmi perdere tempo. Devi salire?” domandò quello, con voce baritonale.
Gentile.
“Sì…”.
“E allora fallo, e pure in fretta”.
Sapphire aggrottò le sopracciglia e diede un’occhiataccia all’uomo. “Fanculo!”.
Fece per voltarsi e andare via, quando sentì l’altro chiamarla.
“Sali, forza! Scusami se ti ho messo fretta! Ti faccio un prezzo di cortesia!”.
La ragazza si voltò e lo vide sporgersi verso la portiera passeggero, spalancandola.
“Lei è un idiota!” esclamò, sedendosi e sbattendola.
“Turista?” chiese quello, accendendo il tassametro.
“Sì”.
“Noi di Austropoli siamo un po’… ecco…”.
“Maleducati! E sempre di fretta! Non vi è mai venuta voglia di aiutare il prossimo?!”.
La voce della ragazzina rimbalzò nell’intero abitacolo, facendo sorridere dolcemente quel pessimo esemplare d’umano.
“Qui il prossimo al massimo lo inculiamo… Dove ti porto?”.
“Non lo so”.
L’uomo la fissò per qualche secondo e poi sospirò. “Qualcuno dall’alto vuole punirmi, oggi”.
Sapphire lasciò passare l’affermazione e abbassò lo sguardo. “White. So solo il suo nome… organizza eventi, gestisce modelle…”.
“Se non fossi una persona onesta la porterei nel posto sbagliato, mi farei pagare la corsa e scapperei via”.
“Non parli, non riesco a pensare” ribatté quella, alzando la mano verso di lui e sbuffando. “Agenzia di qualcosa”.
“Black and White Agency, sulla Second…”.
“Sì!” esclamò Sapphire. “Quella! Devo andare negli uffici e parlare con lei!”.
L’uomo mise in moto e s’immise con arroganza sulla corsia; l’auto che lo seguiva rispose suonando il clacson e lui reagì alzando il dito medio.
“Impara a guidare, coglione…”.
“Siete tutti troppo incazzati” osservò la donna, portando le mani sulle ginocchia. “Non vivete male?”.
“Questa è Austropoli… Come ti chiami?”.
“Sapphire”.
“Uh, Sapphire. Che nome esotico... Da dove vieni, di preciso?”.
“Hoenn…”.
Il taxi virò sulla quattordicesima e s’immise in un flusso di traffico che durava chilometri. Il pilota sbuffò e alzò gli occhi al cielo.
“Ma porca puttana…”.
“Faccio prima a piedi…”.
“No, arrivati allo svincolo per la sessantaquattresima andremo di là…”.

Ci mise quarantacinque minuti, ma alla fine Sapphire riuscì ad arrivare fuori l’alto palazzo.
“Sarebbero trentaquattro dollari, ma dammene venti. E scusami per prima”.
La ragazza aprì lo zaino e diede una banconota all’uomo, quindi lo richiuse e uscì sulla macchina. Il taxi sfrecciò via alla velocità della luce, lasciandola davanti l’alto palazzo.
Alzò il volto, coprendo con la mano gli occhi baciati dal sole.
La grande insegna B&W MODELING AGENCY svettava sull’intera Austropoli, guardandola dall’alto verso il basso. Le persone che percorrevano il marciapiede per l‘intera sua lunghezza parevano minuscole formiche, se messe a confronto. Non aveva mai visto, a Hoenn, un edificio così alto. Pensò che all’interno vi fossero moltissime persone.
Salì gli scalini, col cuore che cominciò a battere forte, fino a quando non entrò, attraverso la porta automatica girevole.
Entrò e la prima cosa che sentì fu una folata d’aria fresca sul viso, come quelle che la colpivano quando raggiungeva il faro sud di Verdeazzupoli.
Ma non c’era l’odore del mare, tutt’intorno a lei. Il profumo che la investì era dolciastro e piacevole, a tratti stucchevole.
“Buongiorno” le disse una sorridentissima giovane in tenuta da hostess azzurra.
“Pan Am…” sussurrò sottovoce. Scrutò velocemente la figura della moretta dalle grosse labbra e ne lesse il nome. “Ciao Jessica”.
“Benvenuta alla sede di Austropoli della Black and White Agency…” aveva invece detto un’altra, alle sue spalle. E non riuscì a nascondere la sorpresa quando sulla targhetta che aveva sul seno lesse il nome Kimberly.
Ricordò.
“Grazie…” fece, squadrandola col volto granitico e gli occhi ben aperti.
Ruby lavorava con Yvonne e altri animali che poco si allontanavano da quell’ideale della donna perfetta, irrealizzabile e falso che era penetrato nell’immaginario comune.
Ruby le vedeva tutte nude.
Ruby le svestiva e le toccava.
Sapphire stava per prendere la testa di Kimberly tra le mani, per sbatterla contro il pilastro su cui quella poggiava.
“Posso aiutarla in qualche modo?”.
La voce della donna era limpida e gioviale. Il suo viso pieno di luce.
Forse era più bella di Yvonne, pensò, per poi ritrattare subito dopo.
“Cerco… White”.
Lei annuì.
“La Presidentessa White, certo. Ha un appuntamento?”.
Il vuoto dopo quella domanda risucchiò Sapphire, che lasciò sedimentare quelle parole, fino a quando la testa di Kimberly, riccioluta e fulva, non si mosse, come a ribadire la domanda.
“Ehm… no. Ma siamo amiche di vecchia data. Dexholder entrambe, sa… Pokédex…”.
“Sapphire Birch, vero?” chiese quella. “La fidanzata di Ruby”.

Non più. Mi ha lasciata perché sono il corrispettivo femminile di un coglione.

“Sì…”.
“Si accomodi sulle nostre comodissime poltroncine, parlerò con la reception per vedere se può riceverla al momento. Posso offrirle qualcosa di fresco?”.
“Sto a posto così, grazie. Aspetto qui”.
La vide camminare con compostezza ed eleganza fino al banco sulla sinistra, sfilando per una folla immaginaria che l’avrebbe senz’altro applaudita. Si fermò a parlare per qualche secondo, annuì e poi riferì qualcosa. Infine tornò indietro, facendo un cenno di saluto a un uomo in giacca e cravatta che la salutava.
“La Presidentessa non è ancora arrivata in ufficio; ha avvertito che stamattina non sarebbe passata in ufficio per questioni di affari. Se vuole può lasciarle un messaggio, glielo faremo recapitare”.
“No, no” sbuffò Sapphire, portando le mani ai fianchi e abbassando la testa. “No. In realtà cercavo lei perché starei cercando Ruby…”.
La cosa lasciò Kimberly leggermente sorpresa, e a ragione. Insomma, era il suo fidanzato e non riusciva a trovarlo, la cosa era strana.
“Il telefono… non risponde” cercò di giustificare lei. “E non è tornato in camera, nell’albergo dove pernotta”.
“Oh. Okay… Beh, ha provato a contattare Yvonne Gabena? Lei è la top model dell’Atelier”.
Ecco l’idea.
“L’Atelier! Brava!” esclamò Sapphire, sorridendo e stringendo entrambe le mani alla donna che aveva davanti. “Dov’è?”.
“Sulla Main…” rispose l’altra, confusa.
“Grazie!” disse, sfrecciando indietro e tornando alla porta girevole.

Unima, Austropoli, Main Street, Appartamento 19C

“Perfetto, invii il contratto di locazione allo studio del mio avvocato” fece White, stringendo la mano a Tyler Bossman, l’agente immobiliare dai denti più scintillanti di tutta la città.
Era sicuramente il più noto, dato che il suo volto era stampato su decine di cartelloni piantati sull’intero lungomare.
Capelli castani tirati all’indietro, laccati, volto solido e sorriso delle migliori occasioni tatuato sul viso.
Sembrava possedesse un intero guardaroba con lo stesso abito, uno per ogni giorno della settimana. Ruby probabilmente si sarebbe soffermato sulla sua cravatta, una Marinella blu con righe argentate.
“Sono sicuro che il signor Normanson potrà apprezzare ognuna delle preziose rifiniture che il precedente inquilino ha personalmente voluto fossero installate.
Yvonne alzò il mento, con le punte dei capelli che le carezzarono le natiche.
“È meraviglioso. Sono sicuro che Ruby sarà felice di stare qui”.
White annuì, stanca e risoluta. Voleva che quella storia finisse velocemente, voleva bere qualcosa di pesante, ingoiare due o tre compresse e dormire con la mascherina abbassata sul volto.
“Sarà il mio legale a gestire la questione, ha già avuto disposizione di versare la caparra per bloccare l’appartamento.
Tyler Bossman sorrise e strinse la mano alle ragazze, accompagnandole gentilmente alla porta.
“Credo che non ci saranno problemi. Prendetevi il tempo che vi serve e, appena possibile, mi faccia girare la distinta di versamento dalla sua banca”.
Aprì la porta, le due uscirono fuori e si avviarono all’ascensore.
“Spero che a Ruby vada bene...” disse tra i denti la Presidentessa. “Sinceramente non so come aiutarlo se non sostenerlo con queste piccole cose ma non posso lasciare l’ufficio ogni volta che va all’ospedale...”.
“Già siamo a due...” sospirò Yvonne, prenotando l’ascensore. “Io cercherò di stargli quanto più vicina possibile... Soprattutto ora che Sapphire non c’è più”.
White voltò testa e la fissò, seria. “Che intenzioni hai?” domandò, dopo aver lasciato che il silenzio si prendesse la scena per qualche secondo.
“In-intenzioni?! Che intenzioni dovrei avere, scusa?! Ruby stava per morire e...”.
“Ruby adesso è single e tu hai più di una volta espresso il tuo apprezzamento per quello che è il tuo capo. Ti rendi conto del conflitto d’interessi che andresti a creare?”.
Yvonne abbassò la testa, giusto per un attimo. “Io non ho fatto ancora nulla”.
“Per quanto mi riguarda puoi fare quel che vuoi, te lo ripeto” disse l’altra, portando la mano destra alla fronte e stropicciandosi gli occhi. Sbadigliò, con garbo infinito. “... Ma non devi rovinare nulla. Non devi guastare nulla. Ruby è come una macchina che estrae oro da una montagna di merda e tu sei il suo strumento. Vi voglio un bene dell’anima ma questi sono affari... Le stronzate alla Friends lasciamole in stanza, sulla via cavo”.
Yvonne rimase spiazzata. Se White avesse saputo le reali intenzioni che serpeggiavano nella testa della sua modella, con ogni probabilità avrebbe costretto Tyler Bossman a uscire nuovamente dalla casa che Ruby avrebbe acquistato, per capire chi stesse urlando come una forsennata.
“Va bene”.
“Chiama Whiteley per vedere se ha finito. Poi dovrò andare necessariamente in ufficio”.
E la cosa non andava bene.
“Dovresti andare a riposare”.
“Chi dorme non piglia pesci”. L’ascensore spalancò le proprie porte davanti a loro. “Chiama Whiteley”.
Era costretta ad affidare la propria sorte nelle mani del fato. Doveva sperare che Sapphire fosse già stata nella sede dell’agenzia o che fosse stata così stupida da non essere andata a cercare White per chiedere informazioni.
La pesantezza la colse più forte di prima, quando si mise nei panni della contendente: la immaginava a girovagare senza una meta ben precisa in una città che non era la sua, col dispiacere in corpo che le erodeva gli organi dall’interno e la paura di non riuscire a riparare al suo errore.
Rimasero in silenzio fino a quando non uscirono in strada.
Se avesse atteso trenta secondi in più avrebbe incrociato Sapphire, che tenace, avrebbe spinto per salire fin su in atelier, per ricevere dagli stilisti alle scrivanie la notizia che effettivamente no, Ruby non era mai stato in Atelier, in quei giorni.

“È a Hoenn dalla sua donna...”.
“Sono io la sua donna...”.

Sconforto. La flebile speranza che Sapphire covava aveva rotto il guscio ed era volata via, senza che lei se ne accorgesse.
*

La folla scorreva confusa lungo Main Street. C’era rumore, per strada.
“Whiteley... Sono Yvonne”.
“Hey, ciao Ypsey. Sono in camera di Ruby, come mi hai chiesto sto…”.
“Okay, va bene, lo so, grazie. Solo… cerca di far… di far presto e…”.

Sbuffò, la bionda.
Era stanca.
“Ypsey?” domandò la donna, con quella vocina metallica che lo stesso riusciva a esprimere infinita dolcezza.
“Sì, Whiteley. Cerca di far presto e non dar confidenza a nessuno… Ruby non dovrebbe possedere altro che vestiti e poco altro. Porta tutto in Atelier e aspettiamo che si riprenda”.
Certo Yvonne”.

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Capitolo 15
*** 15. Quindici (XV) ***


UNRAVEL ME.
ovvero risolvimi, nel senso di districami, sbrogliami.

UNA FRANTICSHIPPING (ma per finta) di Andy Black (ma lo sapevate).

Unima, Austropoli, West Memorial Hospital, 13 Maggio 20XX
 
Yvonne…”.
Il cuore della modella prese a battere a spron battente quando la voce di Sapphire entrò nella sua testa. Aveva paura.
“Oh… Sapphire?”.
Sì, alla reception mi hanno dato il tuo numero, ho detto che eri mia amica…”.
 
Già. Scusa, “amica”.
 
“Hai… h-hai fatto bene” disse, poggiando la testa alla parete del corridoio. Girò la testa quando la rotella del carrello che portava il cibo ai degenti cigolò, proprio accanto a lei. L’infermiera che lo spingeva rimase a fissarla per qualche secondo, dopo che, diversi minuti prima, le aveva già intimato di lasciare il reparto.
 
“L’orario delle visite è finito”.
“Vado via subito, saluto il mio amico ed esco”.
 
“Dove sei, adesso?” aveva domandato quella, con la voce turbata.
Passò qualche secondo, che Yvonne sfruttò malamente, cercando di trovare la forza per mentire ancora.
“Sono con… con delle amiche. Ruby?”.
Non lo so” tagliò netta la ragazza di Albanova. Passò qualche secondo, in cui la sentì piangere sommessamente. “Non l’ho trovato, Yvonne. Sono…” respiro poi. “Sono andata da White, ma lei non c’era, era fuori. Neppure in Atelier lo hanno visto e io… Cazzo!” urlò, lasciandosi andare alle sue emozioni. “Io non so che fare! Sono chiusa fuori la porta della sua stanza, cercando di non addormentarmi, per lo sconforto, e sperando che appaia all’improvviso dalla porta dell’ascensore! Ma cosa cazzo dovrei fare?! Arrendermi e lasciar perdere?!”.
A Yvonne mancò il fiato. Sapphire piangeva, cercava l’uomo che era a tre metri da lei e soffriva perché non lo trovava. Non era nella sua natura essere così meschina. Odiava ciò che stava facendo.
Non lo so, Sapphire. Io… io non so che dirti. Ma credo che…”.
Che cosa credi? Sai dov’è?! Ti prego, aiutami! Sto vivendo con la consapevolezza di essere stata una stronza e voglio porre rimedio! Non ce la faccio più a sopportare questo peso sullo stomaco!”.
“No… Non so dov’è”.
Che cosa dovrei fare, allora!” gridò forte l’altra, costringendola a staccare il cellulare dall’orecchio.
“Stanotte non tornerò… telefonerò alla reception e dirò loro di farti entrare in camera. Se domani mattina non lo troverai in camera vai a Ponentopoli e torna a casa tua”.
E lasciare che tutto finisca così?! Yvonne, io lo amo!”.
La bionda sorrise amaramente, più silenziosamente possibile. Avrebbe voluto ribatterle a tono che anche per lei era lo stesso.
“Lo so. Ma sono già tre giorni che manca e… e forse è andato via. E quindi dovresti provare a staccare da questa situazione, lasciargli un messaggio che potrebbe leggere nel caso tornasse, col tuo recapito e…”.
Lo ricorda, il mio numero. Sa qual è. Non l’ho mai cambiato”.
“Immagino…” sospirò.
Non voglio andare via”.
“Puoi farlo, oppure no. Non credo sia una cosa che devo dirti io, ma combattere una guerra ormai persa… Tu non puoi farcela”.
 
Per un secondo rivide in slow-motion la scena appena vissuta; non riusciva a credere di esser riuscita a pronunciare quelle parole a una ragazza in lacrime, che soffriva per amore.
E non come aveva sofferto lei, per amore, quando Ruby le aveva detto che tra di loro non sarebbe mai nato nulla, dato che avrebbe sposato Sapphire.
No.
Quella della ragazza dagli occhi blu era una sofferenza viscerale, scaturita dall’aver perso qualcosa che credevi sarebbe rimasto tuo per sempre, nonostante tutto.
Nonostante tutti.
La sentiva piangere, dall’altra parte della cornetta, e continuò ad ascoltare, rispettando un religioso silenzio, fino a quando quella non attaccò.
 
Anche Yvonne stava piangendo.
Era stata una stronza. Si odiava per quello che aveva fatto a Sapphire.
Si sentiva colpevolissima, lì, nel corridoio di quell’ospedale, con la faccia contro il muro e il cellulare ancora attaccato all’orecchio, nonostante il time-out del display lo avesse fatto spegnere.
Immobile e stanca, impaurita dalla situazione.
Se Ruby avesse scoperto quella situazione non le avrebbe più parlato. Se lo avesse fatto Sapphire con ogni probabilità l’avrebbe riempita di calci nello stomaco.
Però lei non riusciva più a vivere in quel modo, e Ruby era diventato un premio per tutte le sue sofferenze.
Nella sua mente ripercorreva tutte le fasi della propria vita da quando aveva messo piede a Unima, e mai, ma proprio mai, aveva vissuto dei momenti belli come quelli che aveva passato con Ruby.
A partire dalla scortesia della gente, così differente da quella di Kalos, fino ad arrivare agli uomini che non andavano oltre l’apparenza, oltre le gambe e il reggiseno.
Uomini che non l’avevano mai guardata negli occhi e che miravano al centro del bersaglio cercando di colpirlo da sei chilometri di distanza.
Yvonne era una donna bella e sola.
Bastava soltanto starle vicini per vincere il primo premio.
E il primo a farlo fu Sergei.
Sorrise amaramente, pensando agli abusi che subì da quell’uomo di merda. Una volta la picchiò, la piegò e la violò.
Sentiva ancora il dolore quando passava le mani tremanti sui lividi.
Yvonne sognava soltanto l’America.
 
Questa aveva la faccia di Ruby.
 
Un uomo delicato come lei, forte come lei, con la stessa tenacia che aveva avuto quando aveva raccolto il coraggio a due mani e aveva lasciato il passato alle spalle, sperando di realizzare un futuro migliore.
Quell’uomo non voleva nulla da lei. Anzi, combatteva contro se stesso perché voleva starci assieme e non poteva.
Un uomo che sapeva cosa Yvonne offrisse, che non la considerava alla stregua di una bambola, e che la rendeva più bella ogni volta che s’incontravano.
Si sentiva valorizzata, lei.
Capiva perché Sapphire stava lottando con le unghie e con i denti per non perderlo.
E lei, Yvonne, che aveva sofferto abbastanza, aveva capito che Ruby fosse il lasciapassare per realizzare la vita che le spettava.
Perché, nonostante tutto, lei era una dei buoni.
E i buoni vincono sempre.
Quindi fanculo Sapphire, Ruby era l’unica persona che le aveva teso la mano senza nascondere una pistola dietro la schiena. E Yvonne l’avrebbe afferrata, quella mano.
E non l’avrebbe lasciata per nulla al mondo.
 
Respirò e annuì, pulendo coi polsi le lacrime dal viso, indossò il sorriso della domenica e rientrò nella camera di Ruby.
Lui stava meglio. Era seduto, con le gambe incrociate e l’attenzione fissa sul cellulare.
Quando la percepì vicina alzò gli occhi e le sorrise.
“Sei qui”.
Yvonne annuì, senza riuscire a nascondere il turbamento che aveva spaccato in due il suo animo.
“Cos’è successo?”.
Doveva continuare a mentire. Doveva portarsi dietro quel fardello per sempre, prima di capire che non fosse la cosa giusta da fare.
E quindi decise di dire la verità. La sua.
“Ho passato l’intera giornata con la paura di perderti”.
Gli occhi rossi di Ruby si abbassarono per un momento, deviarono dalla traiettoria che li faceva incontrare con quelli della bella per poi fissare le mani.
Posò il cellulare e sospirò.
“Mi spiace”.
“Anche a me. Ma la supereremo”.
Il ragazzo la guardò, sorridendo solo col lembo destro della bocca. Poi allargò le braccia e sospirò.
“Vieni qui”.
Non se lo fece ripetere due volte, Yvonne, che impattò con delicato vigore contro il suo petto e s’inebriò del suo profumo.
Dalla sua bocca caddero dolci parole.
“Ho avuto paura di non poter più sentire il tuo odore...”.
“Io sono qui”.
Yvonne alzò gli occhi, quelli di Ruby erano lì a fissarla. Le sue labbra erano a pochi centimetri.
“Stanotte starò qui con te”.
Il ragazzo fece cenno di no. “Ma figurati... Sto benissimo. Potrei già tornare in camera, se i dottori mi lasciassero andare...”.
“E in quel caso dovresti venire in camera mia, dato che tu non dormi più al Continental...”.
Aveva omesso, la bionda, di dire che avrebbero entrambi dovuto condividere il letto con Sapphire.
“Già... Sono andato via dall’hotel, dimenticavo. White ha detto che la casa è bellissima”.
“Lo è” sorrise dolcemente Yvonne, carezzando il viso spinoso del ragazzo. “E devi raderti”. Lo fissò negli occhi. “Stasera ti rado”.
“Non ti piacciono gli uomini barbuti?” domandò l’altro, sorridendo.
“Assolutamente no. Abolirei ogni pelo del corpo dal naso in giù”.
Quello rimase stupito.
“Ti facevo tipo da baffi anni settanta”.
Oui, Magnum P.I., au revoir...” sfotté quella, portandosi l’indice sopra le labbra. “Ti starebbero male”.
“Boh. Difficilmente qualcosa mi sta male” ribatté quello, inarcando il sopracciglio.
Sorrisero ancora, parlarono per qualche minuto, poi lui si adombrò.
Yvonne sapeva che c’era Sapphire, nei suoi pensieri.
 
 
Unima, Austropoli, Hotel Continental, 14 Maggio 20XX
 
Lacrime e occhi chiusi, poi aperti, sospiri.
E poi girarsi tra le lenzuola, a destra e a sinistra. Avere caldo e scoprirsi, ma maggio era caldo solo quando hai caldo e quindi un’ora dopo le coperte erano nuovamente poggiate sul suo corpo.
Si sentiva minuscola, nel letto di Yvonne.
Sapphire lo sentiva. Lì tutto sapeva di lei. Vagamente anche di lui.
Scacciò i brutti pensieri e si voltò per un’ultima, ennesima volta; il sole era sorto senz’avvertirla.
Eppure era stata ad aspettarlo per quasi tutta la notte, con la sensazione di chi avesse appena perso l’occasione della vita nella testa e quel vuoto inspiegabile ed incolmabile nello stomaco, in cui lei cadeva ogni volta che si affacciava dentro se stessa, per capire cosa le stesse accadendo.
Mancava un pezzo di lei, lo sapeva.
Lo sentiva.
I sospiri sostituivano le parole, e le labbra schiuse lasciavano fuoriuscire il veleno che stava covando, e che l’aveva trasformata in un guscio moribondo pieno di un liquido nero, denso e molto freddo.
Soffriva.
Se solo avesse avuto la forza per affrontare quella situazione sarebbe andata a ripararsi in un posto sicuro.
Per riposare e lucidare le ossa. Per prepararsi ai nuovi giorni senza lui.
Ma non riusciva ad allontanare quei pensieri così neri, e grigi, e rossi come il sangue e le rose quando fiorivano. Tutto circolava nella sua testa così velocemente da non riuscire più a uscire da quell’acquitrino, in cui era affondata fino alle ginocchia.
In cui continuava a scendere.
Sospirò ancora. Una lacrima stanca si poggiò sul cuscino candido di Yvonne.
Il suo profumo pervadeva tutta la stanza. Era dolce, troppo dolce.
Allungò la mano verso l’altra parte del letto, dove aveva preso l’altro cuscino e lo aveva cinto con le cosce.
Dove una volta qualcun altro avrebbe dovuto poggiare la testa c’era soltanto la camicetta da notte di Yvonne, semitrasparente, stropicciata.
Anche quella volta, la presenza ingombrante della principessa d’oltralpe la limitava, la braccava sul bordo del letto.
Sei solo la camicetta di una puttana…, pensò, spingendola con la mano destra e facendola finire per terra.
Solo lei su quel letto, quel giorno.
Solo lei.
Sul comodino di Yvonne non c’era nient’altro che l’abatjour spento. Oltre vi era la finestra spalancata, dalla quale entrava l’aria primaverile frizzantina e le voci urlanti di chi passeggiava sui marciapiedi di Austropoli.
In sottofondo le auto si muovevano. Qualcuna suonava il clacson. Urla, battibecchi.
 
Cosa cazzo urlate a fare…
 
Lì non era come Hoenn.
Lì non ci si aiutava a vicenda. Lì ti rubavano l’orologio.
Austropoli era stata la sua rovina e le doleva ammetterlo. Forse avrebbe dovuto prendere il mondo di Ruby per mano e accompagnarlo nelle peripezie della grande mela, lasciando indietro i suoi sogni, le sue necessità.
Dimenticando il suo nome, il suo volto.
Diventando un’altra persona.
Ruby aveva totalmente dimenticato della natura e degli alberi che col vento picchiavano sulla finestra. Aveva dimenticato delle piogge brevi e dell’odore dell’erba che saliva.
Aveva dimenticato le tempeste quando in inverno bastava un bicchiere di vino e il camino acceso per trasformare una serata qualunque in una in cui lei amava lui e lui amava lei.
In cui la notte diventava giorno e il giorno, quello vero, cominciava troppo presto, e maturavano entrambi l’idea che andare a dormire così tardi era una pessima idea.
Ruby aveva azzerato le proprie esperienza e aveva deciso di ripartire da zero.
E lei non apparteneva alla nuova vita, fatta di eventi mondani e impegni lavorativi in cui lei non riusciva a farsi strada.
Non aveva nulla in comune col nuovo Ruby.
Yvonne invece, che viveva nel suo stesso mondo, non aveva avuto problemi a entrare nella sua vita.
 
Ruby aveva dimenticato tutto. Aveva dimenticato lei e il mare.
Aveva dimenticato di averla lasciate in riva, quando il vento soffiava e la tempesta non era molto lontana.
Lei era ancora lì. Bloccata a osservare il ciclo delle onde, che si avvicinavano a lei e poi si allontanavano di colpo.
Sarebbe stato meglio se il mondo avesse rallentato.
Sarebbe stato meglio se avesse dimenticato tutto ciò che sapeva, perché non avrebbe avuto paura di restare da sola contro la tempesta, e non si sarebbe immersa nelle acque buie e profonde che aveva di fronte, passando ciò che rimaneva della sua vita a cercare di recuperare ciò che aveva perso.
 
Invano.

Sospirò.
Aveva passato metà della notte a bussare alla stanza di Ruby, con la gente che la guardava in silenzio e passava oltre.
Aveva deciso di andare a riposarsi da Yvonne quando s’era accorta di aver perso le forze, svegliatasi non molto distante dall’alba con la schiena contro la porta e le gambe piegate.
Con le ciglia incollate dal mascara sciolto e le guance sporche di polvere e lacrime.
 
Sapphire Birch… Non hai più dignità.
 
Lo pensava, se lo ripeteva incessantemente, e intanto la testa scoppiava.
Si alzò lentamente, stanca di tutta quella storia. Sentiva una fiammella divampare nel suo animo, col nervosismo che aumentava sempre di più.
Allo specchio, il grosso specchio che aveva raggiunto, vedeva lo spettro di una donna forte.
Un tempo.
Una settimana prima era la regina del mondo, la figura immobile che aveva davanti. Una settimana prima non esisteva quel coltello che le aveva bucato il petto e che non aveva il coraggio di rimuovere.
Sbuffò. Era difficile per lei combattere con certe consapevolezze e capire che, effettivamente, avrebbe dovuto andare a recuperare la palla in fondo alla rete.
Eppure le sembrava che tutto stesse andando per il meglio, che la difesa tenesse e che tutto fosse sotto controllo.
Stava gestendo tutto per il meglio, nonostante la distanza dall’uomo che amava, e la sua vicinanza con la donna più bella del mondo.
Nonostante l’effettivo disinteresse di Ruby che era aumentato giorno dopo giorno, costruendo un muro che lei, quel giorno, non sapeva come scavalcare e dietro il quale lui si era nascosto, perché sostanzialmente si era accorto che non era Sapphire che voleva al suo fianco.
No.
Sapphire era una zotica. Una sporca ragazzina vestita di fango e foglie che viveva come la scema del villaggio in un posto dimenticato dal padreterno.
Ruby ambiva a ben altro. Ruby ambiva a donne alte e bionde, con qualità fisiche che lei poteva vedersi addosso solo nei sogni, con una classe che non avrebbe acquisito neppure con impegno e lavoro decennale e con una grazia innata.
Senza il seno cadente. Senza le smagliature sul culo.
Ruby ambiva a vivere in un hotel, tutto spesato. Ambiva all’Atelier nella zona più in della città.
Ambiva a leggere il suo nome sulle schiene di tutte le donne più famose che avessero mai calcato una passerella.
Ambiva ad alzare loro le zip degli abiti che le accompagnavano verso il successo.
Ambiva all’ambrosia che avrebbe bevuto al tavolo degli dei.
Era di un’altra razza, di un altro livello.
Cosa doveva farsene, lui, di quella ragazza svampita e spettinata che fissava il proprio riflesso allo specchio, quasi sperando di non essere ciò che vedeva.
Abbassò per un attimo lo sguardo, lei. Si guardò le mani.
C’erano ancora tracce dello smalto, prima che lo levasse tutto coi denti. Nervosismo, lo faceva sempre.
“Cazzo…” sbuffò, sentendo la pressione aumentare sempre di più nel suo petto.
Forse aveva ragione la stronza: aveva perso.
Forse non c’era davvero speranza.
Ma niente le vietava di prendere una boccata di coraggio e riprovare per l’ennesima volta a se stessa di aver fatto davvero il massimo per vincere la partita.
Camminò lenta verso il bagno, passando da uno specchio all’altro. Si spogliò ed entrò sotto il getto bollente della doccia.
Quando ebbe finito di lavarsi si rese conto che la resa dei conti fosse più vicina di quanto immaginasse, e si ritrovò di nuovo davanti allo specchio, con la trousse di Yvonne tra le mani. Cercò di truccarsi come meglio poteva. Le mani tremavano e sostanzialmente non era mai stata bravissima a fare quelle cose, ma a Ruby le donne non piacevano sporche di fango e quindi passò il rossetto rosso sulle labbra screpolate e allungò le ciglia col mascara.
Riuscì quasi a partorire un sorriso quando aprì l’armadio della donna, cercando qualcosa che potesse fare al caso suo.
A Ruby non andavano bene, le donne vestite di foglie. No, Ruby voleva le giarrettiere, le gonne a balze, le camicette.
I boccoli.
Pazientemente cercò qualcosa della sua taglia, trovando poco o niente ma adattandosi.
Si guardò.
Non si riconobbe.
A Ruby però piacevano così, le donne. Come Yvonne.
Si mosse a piedi scalzi verso la porta, col cuore che batteva forte e la mente che si proiettava a quando la sua mano avrebbe bussato più e più volte contro la porta accanto, che si sarebbe aperta mostrando lo sguardo sorpreso di Ruby.
 
“Che ci fai qui? E come ti sei conciata?”.
“Ho capito i miei errori… Voglio essere la donna di cui sarai fiero per il resto della vita. Sposami…”
 
E si sarebbe anche inginocchiata, se solo non fossero avesse passato minuti interi sullo zerbino dell’uomo che amava.
Davanti a una porta chiusa.
Sospirò, le labbra cominciarono a tremare: lei era bella, pronta, preparata per lui.
E quello non si degnava neppure di guardarla, per un attimo.
Forse non c’era, forse non voleva aprire, ma si era appena resa conto di doversi voltare, per l’ennesima volta quel giorno, e di andare a raccogliere un altro pallone dalla sua rete.
E il timer segnava il novantesimo.
Le lacrime sul volto avevano un sapore così strano. Nere di trucco, del tutto contrastanti col sorriso divertito che vestiva in quel momento.
Ritornò sui suoi passi, prima i talloni e poi le punte dei piedi, e si lasciò chiudere lentamente la porta alle spalle.
Aveva perso Ruby. Aveva perso la partita.
Aveva perso la dignità e la fierezza di essere se stessa, dipingendo il proprio volto a immagine e somiglianza di qualcosa che non sarebbe mai voluto diventare.
Tornò in bagno e sospirò, gettando acqua in faccia e sporcando quella tela che era il suo viso.
Non sciacquò il lavandino, non alzò i panni da terra, quelli che aveva smontato da dosso.
Legò soltanto i capelli con un elastico e rimise i suoi vestiti, quindi guardò lo scrittoio.
C’erano carta e penna.
 
So di aver perso.
Di aver perso te, di aver perso questa guerra subdola in cui sono stata condotta.
Forse da te, o da quell’altra. Ma ora no, non m’interessa.
Sono arrabbiata con me stessa.
Perché ti ho permesso di entrare nella mia vita, come giusto che fosse, e di farti andare via.
E poi ce l’ho con te, perché hai permesso a me di diventare, anche se per poco, qualcos’altro.
Forse è vero che non sono la persona che ti meriti.
Forse non indosserò mai una taglia quaranta, o quei bikini che tanto ti piacciono, e che a Yvonne starebbe sicuramente benissimo.
Però una cosa te la voglio dire, Normanson.
Sei uno stronzo.
Sei felice adesso? Mi hai preso qualcosa e non so più che fare, e ce l’ho con te.
E non ti faccio neppure la morale, sul “volevamo, potendo”, sul fatto che forse tante coppie hanno vissuto ciò che stiamo vivendo noi adesso, e su quante donne, donne stupide, abbiano inseguito i propri uomini da tutt’altra parte, dove non c’è vita, la loro.
Non voglio farti notare COSE, non voglio puntare il dito contro di lei. Voglio che tu sappia che ora ho capito che sei un eccesso.
Un lusso che non mi posso più permettere.
Probabilmente è meglio adesso, che tra vent’anni, quando non mi sentirò più la tua metà, nella mia metà del letto.
Forse un giorno capirai ciò che provo. Forse un giorno capirai ciò che ho fatto.
Ci penserai e ti ripeterai che sì, forse era meglio così.
Ma ti resterà un dubbio, un frastuono nella testa. Sarebbe stata la stessa, la tua vita, con me accanto?
Forse hai fatto prima di me a capire, che è finita la stagione del TI AMO, e dei tremori di voce quando ci sentivamo, dopo una giornata lontani.
È finita la stagione del sesso per telefono, di quell’amplesso lontano e veloce. Di te, che eri la mia religione. Spero fosse altrettanto per te.
Un giorno lo capirai.
Ma ora no, lo so bene. Ora avrai da farti i cazzi che volevi, le commissioni che dovevi.
Io sono chiusa in una scatola, e il sole qui non sorge, e la mia mente e costretta in una morsa, dove mi dai ogni volta il colpo di grazia.
Amore… perché nonostante tutto sei questo per me: un sole nascente. Ora sei luce artificiale.
Ma non stare a preoccuparti per me, sono una persona troppo piccola per non vivermi il resto delle verità.
E imparare a sopportarle… tra caffè, brioche calde… docce, scarpe.
Da questo nero ricaverò dei colori.
Forse un giorno ti ricrederai, e capirai che io esisto, a prescindere da te, e ‘sti cazzi, AMORE, quel giorno sarò nel letto, di qualcuno che si sa ancora commuovere”.
 
Le lacrime bagnavano quel foglio maledetto. Tracce di mascara bucavano colpivano il bianco e lo facevano soffrire, riempiendolo, sporcandolo, celando alcune lettere.
Non tutte, qualcosa era rimasto comprensibile.
Sospirò e si guardò per un’ultima, ennesima volta allo specchio; doveva andare via.
 
“Puoi farlo, oppure no. Non credo sia una cosa che devo dirti io, ma combattere una guerra ormai persa… Tu non puoi farcela”.
 
Yvonne aveva ragione.
Aprì la porta, la chiuse con delicatezza e s’incamminò verso l’ascensore.
Ma prima di andare via si fermò di nuovo davanti alla porta di Ruby.
Poggiò delicatamente la mano sulla superfice che aveva sorretto il suo sonno stentato, quella notte, quindi sorrise debolmente.
Si abbassò e spinse il biglietto sotto la porta del ragazzo.
Quindi lasciò Austropoli per sempre.
Ormai aveva perso.


 
Angolo Autore.
Salve e grazie a tutti i lettori e recensori di questa storia.
Mi sembrava giusto menzionare i titoli delle canzoni che hanno ispirato parte di questo capitolo;
La prima è Closedloop di Elliot Moss, mentre la seconda è Traccia 2, una slam-poetry di Ghemon. Quando era ancora Ghemon.
Grazie ancora.

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Capitolo 16
*** 16. Sedici - XVI ***


UNRAVEL ME.
ovvero risolvimi, nel senso di districami, sbrogliami.

UNA FRANTICSHIPPING (ma per finta) di Andy Black (ma lo sapevate).
 
 
 
“E credimi, oggi è solo silenzio.
Perché non saprei più che dirti, se non che forse hai perso la tua occasione per vivere la felicità come la intendo io.
Non come la intendi tu, sia ben chiaro.
Ma mi hai dato la forza per andare avanti, e cercare altro, nella vita.
Cercare qualcuno che mi meritasse davvero.
Tanto è sempre questione di tempo. Tempo che passa, tempo che abbiamo perso. Tempo.”.
 
 
Unima, Austropoli, Main Street, Casa di Ruby (Appartamento 19-C), 15 Luglio 20XX
 
Baby it hit so hard, I'm holding on to my chest… Maybe you left your mark, reminding me to forget…”
 
Aveva aperto il rubinetto del lavandino, Ruby, quello di casa sua.
Miscelatore a cascata. Bello da vedere.
L’acqua cadeva e lui la vedeva. Bagnava la lama del suo rasoio da barbiere prima di terminare nello scarico.
Alzò gli occhi verso lo specchio, vedendo lo spettro di quello che era sei mesi prima: volto smagrito e capelli leggermente più lunghi. Gli occhi erano più scavati nel viso, sembravano rubini incastonati in una pallida roccia.
La schiuma da barba era ben stesa sul viso, e lui cantava.

“It doesn't matter where you are, you can keep my regret… 'Cause baby I got these scars, reminding me to forget…”.
 
Whiteley aveva cantato un paio di volte quella canzone il giorno prima, in atelier, e a lui era venuta la curiosità di ascoltarla.
Miguel e Kygo. Gli pareva che quel musicista suonasse sempre la stessa canzone.
Però gli piacevano le parole.
Miguel era un bravissimo cantante. Ricordava un video musicale, non ricordava se fosse quello di Sure Thing o quello di Adorn, dove il cantante indossava il paio di occhiali più brutto che avesse mai visto in vita sua.
Il rasoio si poggiò leggero sulla pelle del ragazzo.
Una passata, nella mente ancora le parole della canzone.

Reminding me, I got these scars, get your love. Keep reminding me, ooh, to forget your love.
 
Gli sembrava che parlasse di lui, quella canzone.
Che parlasse di qualcosa che aveva deciso di chiudere in un baule incatenato e lanciato sul fondo del mare.
Nonostante tutto il dolore che aveva provato, quel baule conteneva pur sempre un tesoro.
Sapphire ancora nella sua testa, e ormai erano passati quasi due mesi da quando aveva voltato pagina.
Rase la guancia destra molto bene, tanto fu che, contropelo, non riuscì a sentire il minimo accenno di quella barba così ispida.
Sospirò, doveva abbandonare quei pensieri.
Ma quella canzone era troppo bella. Troppo azzeccata per quella situazione.
 
You left your mark…
 
E cantarla, automaticamente, lo riportava al punto zero.
Aveva lasciato Sapphire.
Abbassò lo sguardò verso l’acqua che continuava a fluire dal lavandino, sciacquò la lama e rimase a fissare se stesso, il suo riflesso, che pareva dirgli qualcosa, usando i soli occhi.
 
Okay, e allora? Hai lasciato Sapphire, è stata una stronza. Ma ora possiamo avanzare, per favore? Possiamo andare avanti? Perché, personalmente, ne ho le palle piene.
Stasera abbiamo QUEL matrimonio, QUELLO MOLTO IMPORTANTE, e tu non puoi portare con te quella faccia di cazzo che hai indosso.
 
Annuì.
Nuova vita, nuova casa, nuovo lavoro.
Fanculo il vecchio mondo, quello sarebbe dovuto essere un nuovo Ruby.
E poi, metà faccia rasata e metà sporca di schiuma, uscì dal bagno che aveva in camera, sentendo la il cellulare cantare Call Me Maybe.
Era Yvonne; gli aveva sottratto il cellulare una sera di qualche settimana prima e l’aveva impostata come suoneria personale.
Si controllò con un’occhiata veloce allo specchio, perché generalmente Yvonne non chiamava, videochiamava. Forse con metà faccia sporca di schiuma e il solo asciugamano attorno alla vita non era del tutto presentabile ma aveva imparato a non avere vergogna della bionda, in quelle occasioni.
Rispose, scivolando col dito sullo schermo.
Il volto della ragazza apparve schiacciato contro la videocamera.
“Oddio…” fece, allontanandolo subito. Ruby sorrise.
“Scusami, ma non mi chiami in un buon momento…”.
Hai fascino, mon amis… Avevo un piccolo dubbio”.
“Su cosa?”.
La telecamera di quella si spostò verso il letto, dove due vestiti, uno celeste e uno beige, erano stesi.
Quale scelgo?”.
Il ragazzo sospirò. “Che ne so, mica faccio lo stilista...”.
Stupide! Aidez-moi!”.
Ruby sorrise ancora e fece cenno di no con la testa. “Quello beige. E non perché sia un mio vestito, ma perché quando lo provasti avesti l’effetto wow su di me.
Yvonne spostò la videocamera sul suo volto, mostrandola con già i capelli fatti, arricciati in preziosissimi boccoli dorati, ed entrambe le sopracciglia alzate.
Effetto Wow?”.
“Eri parecchio bella, con quello. Risaltava le tue forme e t’illuminava il volto”.
Se non fossi gay ti dovrei sposare, per tutti i complimenti che mi fai…” sorrise.
“Seh, proprio… Piuttosto, a che ora pensi di arrivare lì?”.
In ritardo, évident...”.
“Cerca di non perderti la sposa”.
Non arriverò in ritardo, Ruby”.
Allora occuperò due posti, così ti siedi accanto a me”.
Quella sorrise. “Hai bisogno di un’accompagnatrice di livello, stasera?”.
Ruby annuì divertito. “Saresti un’accompagnatrice abbastanza costosa”.
Oh, ovviamente, mon cher! La più costosa di tutte. Ma ne varrebbe la pena”.
Non ebbe il coraggio di confermare; la salutò in silenzio e attaccò, lanciando il telefono sul letto e tornando in bagno. Allo specchio ancora la sua figura.
Metà faccia rasata e metà piena di schiuma.
 
Incompleta.
 
E se c’era di positivo che Carly Rae Jepsen aveva totalmente sostituito Miguel in quella litania mentale che si riproponeva ciclicamente tra un respiro e l’altro, dovette ammettere a se stesso che Yvonne quella sera rasentasse la perfezione.
Ma ne varrebbe la pena, aveva detto. Lui lo avrebbe confermato urlandolo con tutta la forza che aveva nel petto.
Quasi gli saltò in mente, poco prima di tirare giù una striscia di schiuma dalla sua guancia, che fosse tornato single dopo anni.
E che Yvonne stravedesse per lui.
Ebbe un fremito, un sussulto che gli mosse di poco la mano.
Si era tagliato leggermente sul volto.
“Cazzo…” sbuffò.
Sciacquò il viso e poggiò un pezzo di carta sulla ferita.
Ripensò a quell’idea malsana e ricordò le parole di White.
 
Non si caga dove si mangia. Yvonne è lavoro. Scopati il resto di Austropoli e dintorni ma lascia stare le mie ragazze. E Whiteley, please”.
“Lei è una ragazzina!”.
“Appunto. Lascia che prenda le telefonate e nient’altro”.
 
Poi l’aveva vista ammiccare e aveva risposto a una telefonata.
Venti minuti dopo era pronto.
Il cellulare tra le mani, la scarpa lucida che rifletteva il sole impietoso di quel luglio a cento gradi e la voglia di levare la giacca e darle fuoco.
Con quel caldo non ci sarebbe voluto molto.
Le strade cominciavano a esser leggermente più vuote: gli impiegati dei vari uffici andavano in ferie, portando con loro famiglie formate da mogli annoiate e figli avviati sulla pessima strada, verso mete esotiche o più semplicemente verso le zone di Unima dove la natura non era ancora stata sconfitta; difatti, la gran parte degli abitanti di Austropoli non era originaria del posto ma veniva convogliata nella capitale commerciale della regione dal bisogno di un lavoro di livello.
Del resto era una metropoli, quella. Sullo stesso marciapiede s’incontravano le stelle dell’hockey e del basket e gente del calibro di Marv il barbone.
Ruby lo aveva conosciuto qualche mese prima, col caldo che cominciava a premere, e gli aveva comprato una bottiglia d’acqua fresca.
Da quel giorno, Marv lo salutava ogni volta che lo vedeva passare. Si ricordava di lui, ed era difficile, considerato che viveva sul marciapiede più calcato di tutta Unima.
Di tanto in tanto lui gli dava qualche moneta. Non tutti i giorni.
Quel giorno Marv non c’era, e una strana sensazione gli pervase lo stomaco; quando però vide passare un taxi dimenticò tutto e agitò la mano libera.
“Si fermi! Taxi!” urlò, vedendolo accostarsi accanto a lui. Aprì la portiera, ammaccata giusto in mezzo, e si sistemò su quei sediolini infeltriti.
“Dove andare?” domandò Aziz, che quel giorno guidava la yellow cab targata 7C8a. Era la solita Ford Crown Victoria, ma sembrava che fosse uscita da poco dall’autolavaggio.
“Dobbiamo andare al molo 16”.
Quello annuì, guardandolo attraverso lo specchietto retrovisore con espressivissimi occhi verdi.
“Isola di Libertà?”.
“Liberty Island, sì” annuì Ruby, alzando il cellulare e scattandosi un selfie.
Lo inviò a Yvonne e tornò a guardare avanti.
Una Cadillac bianca entrava sulla 4th Avenue mentre il semaforo diventava giallo.
Lui invece proseguì e sette minuti dopo il tassametro segnava dodici Pokédollari. Lui pagò quindici e ne lasciò tre di mancia, scendendo sulla piattaforma in legno che finiva dritta in mezzo al mare.
Non c’erano onde ma una brezza leggera scompigliava i capelli ai numerosi presenti sul molo. Il vociare s’accavallava coi sussurri del mare blu.
Liberty Island era un’ombra poco lontana a largo della baia di Austropoli; gl’invitati al matrimonio, tutti ben vestiti, eleganti e impomatati, aspettavano l’attracco del Syracuse, un vecchio battello rimesso a nuovo.
Non era molto lontano dal molo, sputava una nuvola grigiastra dalla ciminiera che andava a pittare la tela celeste del cielo.
Ruby camminava lentamente. Gli occhiali da sole nascondevano il suo sguardo carminio, che rimbalzava di volto in volto, analizzando rapidamente gli outfit di tutti gli invitati.
Deformazione professionale, forse.
Si fermò accanto a Kimberly, salutandola con un cenno del capo, poi prese il cellulare.
 
 
Mi sa che Marv è morto. Il battello sta per attraccare... Dove diamine sei, Yv? 11:05
 
No! Che ne sai?! Hai percorso la stessa strada che fai ogni giorno? Non è possibile! 11.08
 
 Meglio. Marv è troppo attraente per White. Ma dove cavolo sei? Sono qui da un casino di tempo! 11.09Già! Magari è lo sposo 11.09
Niente da fare, ho visto Black in una storia di Instagram e ha ancora tutti i denti in bocca 11.09
 
 
Alzò gli occhi, vedendola sorridere dolcemente.
In quel momento, lo stilista stava combattendo una lotta contro se stesso per convincersi di non andare da lei e baciarla, davanti a tutti, creando scalpore e mettendo in secondo piano il grande evento.
No, doveva essere forte.
 
“Non si caga dove si mangia”.
 
 
Comunque meglio così, Marv è troppo attraente per White. Ma dove cavolo sei? Sono qui da un casino di tempo! 11.09
 
 
Decise quindi di avvicinarsi a lei, alle spalle, e di cingerla lentamente.
Quella sobbalzò, voltandosi subito e rilassandosi non appena poggiò lo sguardo sul ragazzo.
“Stronzo… Mi hai fatta spaventare. Dov’eri?”.
“Lì”.
Lei fece un passo indietro e squadrò il ragazzo, indossando un sorriso compiaciuto sul volto.
“Sei uno schianto, Normanson”.
Lui ringraziò gentilmente con un cenno del capo e la prese per mano, facendole fare una piroetta.
“E tu sei un sogno”.
Lei si fermò, poggiando le mani sulle spalle del ragazzo, felice.
“Grazie. Il tuo vestito è meraviglioso”.
“Sei tu che lo rendi tale” fece, sistemandole l’orlo poco sopra al seno.
La gente guardava, parlava, ma loro sembravano essere totalmente isolati dal resto delle persone che, impaziente, aspettava che il traghetto attraccasse.
 
Venti minuti dopo erano a bordo. Il Syracuse si muoveva lento, scivolando sul mare della baia in direzione di Liberty Island. Yvonne sorrideva, mentre il vento le spettinava i capelli davanti al volto, appoggiata alla balaustra sul ponte di poppa. Qualcuno aveva graffiato la ringhiera con una chiave o qualcosa di simile, scrivendo FUCK TRUMP, FUCK THE WALL, VATO 4 LIFE.
“Che significa Vato?” domandò quella, avvicinandosi a lui.
Quello non sembrò assai interessato a risponderle, limitandosi a fare spallucce e a sistemarle i capelli sfuggiti dalla crocchia.
“Non lo sai?” domandò ancora.
“No. Non so tutto”.
Quella sorrise e annuì. “Vero. Tu non sai quasi nulla, a dire il vero”.
Frecciatina bella e buona, lui si limitò a sbuffare e a fare cenno di no con la testa.
“Che succede?” domandò lei, invitandolo a sedersi su di una panca, la cui vernice era stata mangiata dalla salsedine.
“Sapphire…”.
Lei spalancò gli occhi, per un istante, quindi abbassò lo sguardo.
“L’hai sentita?”.
“No… Non l’ho sentita, no. È che è dura lasciarsi alle spalle una storia del genere, per me”.
“Lo sarebbe per chiunque, Ruby…”.
Lo fece sorridere. “Adoro quando mi chiami usando quell’accento…”.
“Est-ce que ça vous fait rire mon français?”.
“Non mi fa ridere il tuo francese… rido per il modo in cui dici Ruby, in francese. Come se dicessi Rubì. Mi diverte”.
Lei inarcò un sopracciglio, accompagnandolo con un sorriso a mezza bocca.
Ruby! Ruby! Rubyrubyrubyruby!”.
“Smettila ora” ridacchiò l’altro.
“Se può farti stare meglio, allora continuerò a chiamarti così…”.
 
Lui non se ne accorse, ma Sapphire era sparita. Era bastato che Yvonne lo chiamasse per nome.
Se ne rese conto al momento dello sbarco a Liberty Island.
Quella non era altro che un grosso scoglio al centro della baia di Austropoli. Molto grosso.
Al centro di essa vi era un alto faro, che per l’occasione era stato rimesso a nuovo per la celebrazione.
Sulla sinistra, un piccolo altare bianco era protetto da un arco di meravigliosi fiori bianchi.
Un lungo tappeto bianco si stendeva per quasi cinquanta metri, accompagnando gli invitati al matrimonio verso le sedie.
C’erano molte sedie.
C’erano molti invitati.
Il vento soffiava leggero, il mare era leggermente più impetuoso che ad Austropoli ma non infastidiva.
“Permesso” disse l’uomo dal colletto bianco che li scavalcò velocemente. Aveva poco più di sessant’anni, ma la tunica talare aderiva sul suo corpo asciutto.
Pochi capelli in testa, tutti perlopiù bianchi, qualcuno biondo.
“Forse siamo arrivati troppo presto” osservò Yvonne. Ruby però fece cenno di no: aveva appena guardato l’orologio.
“Siamo in perfetto orario”.
Due ragazze, che avevano poco meno di vent’anni, cominciarono a spargere qui e lì petali di rose bianche, mentre le persone, incuriosite e meravigliate dalla bellezza della location, si mettevano a sedere.
C’era profumo di mare, lì. C’era profumo di fiori.
Yvonne sbuffò e diede un leggero colpetto al braccio di Ruby.
Quello, che al contrario aspettava pazientemente, si voltò verso di lei.
“Che vuoi?”.
“Pensavo al matrimonio”.
Quello levò gli occhiali da sole e la vide sorridere, avvampando.
“Non guardarmi così!”.
“A che pensavi?”.
“Che è inutile”.
Ruby rise di gusto. “Sei la donna più romantica che abbia mai conosciuto”.
“Stupido! È che non c’è alcun bisogno di una cosa così pomposa per giurarsi amore eterno”.
“Lo fai davanti ad Arceus. È un sacramento”.
“Io non credo in Arceus” ribatté l’altra. “Io credo nel caso, che fa conoscere due presone… me e te, per esempio… e le fa innamorare”.
I suoi occhi si riempirono di luce, prima che sfuggissero alla morsa dello sguardo di Ruby. Avvampò e si mordicchiò il labbro inferiore.
“Me e te?”.
“Per esempio” sorrise ancora, facendo innamorare chiunque riuscisse a vederla.
Anche Ruby si vestì di un sorriso sommesso, quasi nascosto dall’espressione semiseria che manteneva sul volto.
Avrebbe voluto baciarla, in quel momento, ma la faccia di Sapphire ancora appariva come un grosso stop davanti ai suoi occhi.
Eppure lei glielo stava chiedendo senza parlare; sentiva la scintilla partire dagli occhi rossi del ragazzo, che terminava dritta nei suoi, e si era disposta di fronte a lui, stringendogli la mano.
Quasi come se gli stesse dicendo vieni. Vieni e prendimi.
Yvonne però non era stupida: capiva. Capiva che ci fosse ancora il nome della sua vecchia donna sulla barriera mentale che si stava imponendo.
Eppure che cos’era, quel bacio? Il classico apostrofo rosa?
Oppure una via di fuga da quella condizione?
Non lo sapeva, Ruby. Si limitò a girarsi dall’altra parte, a infilare nuovamente gli occhiali e a guardare un ragazzo snello e atletico, dai capelli neri e corti e dallo sguardo minuscolo, nascosto dietro un paio di doppie lenti, che si avviava verso il posto riservato ai testimoni, sulle prime panche.
“Quello è Komor” fece lei. “Un amico d’infanzia di White. Me ne parlò qualche volta e vidi una foto a casa sua”.
“Sei stata a casa di White?” domandò Ruby, curioso.
“Sì, qualche volta. Abbiamo un buon rapporto”.
“È il testimone di Black?” chiese ancora l’altro, cambiando discorso. La vide fare spallucce, allungando il collo per fissarlo meglio.
“Non è male…”.
Ruby si voltò verso di lei, guardandola sorridere civettuola. Era infastidito dalla cosa. Ancora doveva rendersi conto di esser geloso della modella che aveva accanto.
“È un bell’uomo… ma accanto a te ho sempre visto un altro tipo di persona”.
Yvonne lo guardò silenziosa, fissandolo per qualche istante.
“E che tipo di uomo vedresti accanto a me?”.
“Mah… un tipo più… alto? Più prestante?”.
“Come lo sposo?”.
Lo indicò con un gesto della testa, la bionda, facendo girare Ruby.
Black camminava al centro del tappeto, sorridendo e salutando i propri conoscenti con rapidi cenni e strette di mano sfuggenti.
“Lui è alto e prestante” continuò Yvonne, fissandolo l’uomo chiuso nel suo gessato nero. La cravatta era ben stretta attorno al collo, tutti i bottoni erano chiusi saldamente. Era un uomo bellissimo, dalla pelle dorata e dai capelli castani, mossi e lunghi fino alle spalle. Gli occhi, di un bellissimo color nocciola, gli splendevano sul viso.
“Lui è il marito del nostro capo”.
“Non ancora…” ridacchiò ancora Yvonne, vedendo una sua collega, seduta alla panca davanti, voltarsi scioccata.
“Mi stai dando fastidio…” proseguì lo stilista, vedendola continuare a sorridere.
Non cambiò espressione, la bella di Kalos, rimanendo impassibile. “Sei geloso?”.
“Smettila”.
Si era bruciato la copertura, e la cosa gli dava fastidio. La sentiva ridere dall’altra parte della barriera, mentre lui ancora non riusciva a comprendere perché dicesse quelle cose.
Anche Ruby avrebbe potuto dirle che vedeva in continuazione bellissime donne, quasi sempre nude, ma non glielo faceva pesare.
Poi si rese conto che Yvonne avesse ragione. Era davvero geloso.
 
Merda…
 
Non era un mistero che gli piacesse Yvonne. Il mistero era che ne fosse geloso.
Qualche minuto dopo l’organo a canne, nascosto da un sobrio separé bianco, cominciò a suonare la marcia nuziale.
“Eccola!” esclamò Yvonne, sorridente.
 
White era meravigliosa, nel suo vestito da sposa.
Il lungo velo veniva portato da una bambina bionda, dai grandi occhi azzurri, e da una donna, che le somigliava tantissimo; bionda anche lei, occhi azzurri anche lei, indossava un abito color pesca che non nascondeva qualche rotondità in eccesso.
“Quella è Belle… la sua migliore amica” aggiunse.
“Non conoscevo nulla del passato di White, a quanto pare”.
Yvonne fece segno di no con la testa. “Non biasimarti. Non ne parla mai…”.
“Come se avesse qualcosa da nascondere”.
“Come se quelle persone fossero legate a qualcosa di doloroso e sbagliato”.
La sposa continuava a camminare, sorridente ed emozionata, salutava con la mano destra tutti gli invitati, indugiando su Ruby e Yvonne.
Comme c’est beau!” esclamò lei, che si stava commuovendo. Agitò le mani davanti agli occhi e respirò profondamente, cercando di calmarsi “Dieu, si je pleure l’astuce est fondue…”.
Ruby ridacchiò.
“Appunto… non piangere”.
“Ma guardala!”. Allungò poi la mano verso di lei, vedendola avanzare felice in direzione del suo uomo, altrettanto felice, altrettanto sorridente. “È meravigliosa!”.
“È vero…” sussurrò Ruby, con una vena malinconica nella voce.
White raggiunse quello che qualche minuto dopo diventò suo marito. Il vento aveva alzato i petali di rosa che avevano cominciato a turbinare lungo tutta Liberty Island, trasformandola in un’isola bianca.
 
Si scambiarono i fatidici , si baciarono, Belle pianse e Yvonne pure, cercando di nascondere lo sguardo dietro le mani smaltate.
“Hey…” le disse Ruby, sorpreso da quella sua reazione. “Non eri quella che credeva che il matrimonio fosse inutile?”.
Tais-toi, scem…”.
“Va bene” sorrise Ruby. “Starò zitto…”.
 
White sorrideva.
Era raggiante tra le braccia di Black, che la stringeva con vigore e ripercorreva al contrario il lungo tappeto bianco sul quale avevano camminato da persone libere, l’ultima volta.
Yvonne s’era calmata. Aveva stretto il braccio di Ruby e sorrideva, ingentilita dalla vista di un amore realizzato.
Camminarono tutti verso il faro.
L’enorme struttura era stata illuminata integralmente e le pareti interne erano ricoperte da grossi drappi di tulle bianco.
Yvonne e Ruby erano al tavolo coi testimoni di nozze.
Komor si accomodò accanto a Yvonne, serio, quasi cupo. Yvonne lo guardava e Ruby guardava Yvonne.
“Salve” lo salutò lei. Gli tese la mano. “Yvonne Gabena. Sono una delle modelle di White”. L’altro la guardò, inarcando un sottilissimo sopracciglio e sorridendo con distaccata gentilezza.
“Salve. Sono Komor, un amico d’infanzia di Black”.
Quella diede totalmente le spalle allo stilista, che assisteva contrariato alla scena.
“Anche tu sei un grande Allenatore?”.
“Io sono un professore”.
Quella spalancò gli occhi. “Vraiment?! Où?”.
L’espressione che indossò il ragazzo fece sorridere Ruby.
“Ehm… Io non parlo il francese”.
“Ti chiede dove lavori…” s’inserì quello dagli occhi rossi, che poi vide Belle e la piccola Beatrix accanto a loro. Salutò con un cenno del capo la donna e sorrise alla piccola, tornando a guardare in cagnesco Komor, seppur nascosto dall’esile figura di Yvonne.
Quello si aggiustò il colletto della camicia e rispose.
“Alisopoli”.
“Oh, non ci sono mai stata”. Si voltò rapida verso Ruby. “Ci sono mai stata?”.
“Cosa dovrei saperne io?”.
Quella ridacchiò, per un breve attimo. “Ti ho fatto soltanto una domanda, Ruby…”.
Il ragazzo roteò gli occhi verso l’alto e sospirò, alzando la testa e cercando di vedere oltre il piccolo palchetto circolare al centro del vasto atrio.
“È un paesino molto piccolo…” le rispose Komor, vedendo poi la ragazza annuire e poggiare una mano sul suo braccio.
“Piccolo?”.
“Sì. Estremo oriente di Unima. Lì tira sempre un piacevole vento d’aliseo”.
 
Ruby non lo sopportava.
Hai davanti la donna più bella del mondo e le parli dell’aliseo…
 
Beatrix cominciò a urlare, il vociare della folla aumentava sempre di più, fino a quando la sua insofferenza non lo portò ad alzarsi.
Yvonne lo vide andar via ma non gli diede molto peso, continuando a parlare con Komor, e la cosa infastidì Ruby non poco.
Era geloso di lei, era ufficiale. Tuttavia sapeva che innamorarsi di quella donna non fosse una buona idea.
No.
Sbuffò; non era mai stato tanto pieno di dubbi come in quel momento.
Guardava la gente divertirsi e si chiedeva come mai non potesse indossare lui stesso quel sorriso disinteressato, quasi stanco e annoiato che tutti portavano sul viso.
Era forse Sapphire la ragione?
Perché non riusciva ad abbandonare il peso che quella donna gli aveva gettato sulla coscienza?
 
Prese il cellulare, guardando la tastiera.
Erano passate settimane intere senza che l’orgoglio gli permettesse di telefonarle.
Ora era lì, davanti al mare, con tutti che si divertivano e Yvonne che faceva la stronza con Komor.
White era poco lontana, scattava delle fotografie con Black sulla costiera.
Quell’uomo era strano: esprimeva una sensazione di libertà estrema a ogni sguardo che lanciava in giro.
E nonostante tutto aveva deciso di perdere la propria libertà e di rimetterla alle volontà di sua moglie. E viceversa, certo.
Non sapeva come interpretare l’idea, in quel momento, eppure poco più di un mese prima era decisissimo a lanciarsi in quel vuoto fatto di routine e sesso coniugale.
Di spese da gestire e liti inutili.
Di calda familiarità e freddo odio/amore, che inizialmente è amore e che rimane, dopo anni, soltanto lo stelo di un fiore dilaniato dalla tempesta, che aveva perso tutti i suoi petali.
Si voltò, guardando Yvonne. Poi abbassò lo sguardo sulla tastiera.
Doveva chiamarla?
 
 
 
 
 
No.
 
Rimise il cellulare nella tasca e sospirò, appoggiandosi alle balaustre, e rimase lì a fissare il mare per venti minuti buoni, prima che gli sposi salissero dalla scogliera e gli si avvicinassero.
White sorrideva raggiante. Sul suo viso le gote erano arrossate, come quelle di una bambina.
“Oi, stilista…” fece, cingendogli il collo e baciandogli la guancia. Gli lasciò il segno del rossetto.
“Il tuo abito è fantastico, Rù. Grazie. Grazie, davvero” continuò quella, che mai era stata così bella agli occhi del suo socio. Black aspettava in silenzio alle spalle della Presidentessa, che intanto sbuffò.
“Fa davvero caldo, oggi”.
“I capelli” osservò Ruby.
Quella spalancò gli occhi. “Cos’hanno che non va, i capelli?”.
Sorrise, lo stilista. Le si avvicinò e le sistemò la crocchia.
“Ora va bene. Complimenti e auguri per tutto”.
Quella si limitò a sorridere e ad abbassare la testa, in segno di ringraziamento. “Noi entriamo”.
“Salve” si limitò a commentare Black, sorridendo gentilmente e seguendo sua moglie.
 
Poi guardò Yvonne. Si era voltata a guardarlo e sorrideva.
Tornò a parlare con Komor, trascinando uno sguardo lascivo.
Ruby aveva capito.
 
*
 
Menù di pesce, ottimo, unito a un tavolo dove una bambina piangeva imperterrita. Yvonne, la sua accompagnatrice, di fatto non lo accompagnava.
Qualche foto, il calore e l’apprezzamento per la location, e poi la cerimonia che tirava tardi, almeno fino a quando il cielo non fosse diventato blu, e le prime stelle si fossero affacciate alla finestra.
Ascoltava disinteressato le chiacchiere futili della modella e del professore, aspettando che quel tripudio dell’autocelebrazione dell’amore terminasse, e che il battello li riportasse sulla terraferma.
Doveva soltanto avere pazienza.
Yvonne parlava di Kalos e della sua infanzia; stava dicendo a quel perfetto sconosciuto tutti gli affari suoi, e la cosa lo infastidiva non poco.
C’era davvero bisogno di fare tutte quelle public relation, per una scopata col testimone di nozze?
Secondo lui no.
Anche perché Yvonne avrebbe potuto levarsi lo sfizio in un quarto d’ora, chiusa nel bagno di quel faro.
Stava pensando ancora a Sapphire quando poi Belle gli poggiò una mano sul braccio.
Si voltò lentamente, lui, guardando per un attimo Beatrix addormentata tra le sue braccia.
“Che succede?” le domandò.
Quella rimase un attimo in silenzio, per poi sorridere gentile, come suo consueto.
“No, nulla. È che non ho ancora avuto l’opportunità di presentarmi… Mia figlia oggi ha fatto gli straordinari e poi è crollata, sfinita…”.
“Ha due polmoni notevoli, la bimba”.
Quella sorrise. Era carina, seppure un po' troppo in carne per i suoi gusti.
“Lo so, mi spiace… Komor e… Yvonne, giusto? Loro stanno parlando da quando ci siamo seduti, e non sono sembrati infastiditi molto dalle sue grida…”.
Ruby inarcò un sopracciglio. “Oh, ma non sono infastidito da tua figlia. Io sono infastidito in generale”.
Belle sorrise ancora, passando la mano destra tra i capelli. Abbassò per un attimo lo sguardo e sospirò, raddrizzando la forchetta e il coltello e ponendoli perfettamente paralleli.
“Apprezzo molto i tuoi vestiti, sai?”.
“Ti ringrazio davvero tanto”.
“Vorrei avere la capacità che hai tu di immaginare certe cose e realizzarle… Sei un artista, in fin dei conti”.
L’altro avvampò.
“Non faccio nulla che non mi venga naturale”. Alzò poi la mano e la poggiò su quella di Yvonne, interrompendola ma senza rivolgerle la parola. “Poi, con lei accanto è tutto più semplice. Pare che gli abiti le si poggino automaticamente addosso…”.
Quella aveva sentito.
Guardava Komor, che aspettava che lei terminasse la frase che aveva cominciato, tuttavia non vi riusciva.
Si voltò e guardò Ruby, voltato dall’altra parte.
Lui vide Belle distogliere lo sguardo, e capì che Yvonne lo stesse fissando. Ritrasse quindi la mano dal suo polso e incrociò le braccia.
“Ci sono tante modelle, in atelier, e per molti questo è un paradiso… Il fatto è che voi donne siete complicate, e questo mondo è come una graticola. Sono fortunato perché, tranne questa bionda qui, non ho prime donne che sfilino per me. Sono tutte gentili e…”.
Qu'est-ce que cela signifie Primadonna?”.
Ruby si bloccò e si voltò. Le parlò in francese.
Écoutez-vous ce que je dis pendant que vous parlez au professeur?”.
Je vous entends, comme vous parlez de moi!”.
“Je parle de mes modèles, et vous en faites partie, c'est tout”.
Lo sguardo di Yvonne era appuntito. Poi annuì e prese Komor per mano.
“Usciamo un po’ fuori… Qui l’aria è pesante”.
“Certo” rispose lui.
La vide sculettare via fino all’ingresso. Ruby l’accompagnò con lo sguardo e un sorriso amaro.
“Scusami se mi permetto…” s’inserì Belle. “Ma quella è la tua ex?”.
Rise, lui. “No. La mia ex probabilmente adesso è su un albero a mangiare banane”.
“Oh… No, perché mi sembri piccato da... Komor. In più siete gelosi l’uno dell’altra e sembra quasi che stia facendo di tutto per farti innervosire”.
“Yvonne è così”.
“Così come?”.
“Stronza” fece, alzandosi in piedi. “Con permesso”.
Uscì fuori e si guardò intorno, cercando la figura esile e sottile della donna che l’aveva accompagnato lì, trovando però soltanto Black, con un bicchiere di spumante e lo sguardo perso nel mare scuro.
Lui gli sorrise, con un cenno della testa. “Ruby, vero?” domandò.
Gli porse la mano, lo stilista la strinse e gli sorrise educatamente.
“Prima non ci siamo presentati, hai ragione”.
“White parla sempre di te. Ti ho visto spesso in televisione”.
Bevette un sorso di champagne e poggiò il bicchiere sulla balaustra, conscio che, pochi secondi dopo, un cameriere con la divisa bianca e la cravatta nera lo avrebbe rimosso e portato via.
La palla passò a Ruby.
“Di te invece conosco veramente poco… Quando siamo in ufficio, White è telegrafica su ciò che non riguarda il lavoro…”.
“Ah, beh, è così fin da quando era una ragazzina, credimi… La testa per gli affari e l’attitudine al lavoro…”. Sorrise poi, mostrando la dentatura perfetta. “È incredibile come abbia scelto di starmi accanto… siamo agli antipodi, io e lei”.
Sapphire bussava di nuovo alla sua mente.
“Beh, non sempre bisogna essere la stessa persona in due corpi diversi, per provare le stesse emozioni”.
“No, non lo metto in dubbio… Ma quando ero piccolo non avrei mai pensato di stare con una donna così importante…”.
“Oh, beh, se ti può consolare non avrei mai pensato che un uomo le resistesse accanto così a lungo senza impazzire, quindi meriti una medaglia al valore”.
Risero entrambi, e poi si creò quel silenzio imbarazzante che entrambi s’impegnarono a riempire con le parole.
“Nonostante tutto, White è una donna meravigliosa… Ha i suoi difetti, come tutti, ma è in grado di amarmi come mai nessuno è stato in grado di fare…”.
Ruby si affacciò alla balaustra, guardando il mare scuro.
“Come vi siete conosciuti?”.
“Ero un ragazzino. Avevo forse tredici, quattordici anni… Lei già gestiva la sua società, e un giorno, non ricordo neppure dove fossi a esser sincero, le distrussi un set pubblicitario… Da allora non le staccai gli occhi di dosso…”.
“E come hai finito per girare il mondo? Insomma, se l’amavi da allora non dovette esser semplice prendere la decisione di andar via”.
“Il suo lavoro era qui ma io ero saturo di Unima… Certo, è una regione varia, piena di tutto, si va da un eccesso all’altro senza molti problemi. Ci sono mari e montagne, campi aperti e metropoli… C’è la Lega… Ma poi, una volta che l’hai girata tutta, ti rendi conto che al di fuori, lontano da qui, ci sono altre cose da vedere, altre persone da conoscere… Altre cose da fare”.
“Sei un viaggiatore”.
“Esattamente. Non riesco a stare tanto tempo fermo in un punto. Ho bisogno del cambiamento. Della novità…”.
“Un tempo anche io ho fatto un viaggio, sai? Proprio come uno dei tuoi… Certo, non mi allontanai come facesti tu ma sostanzialmente stetti 80 giorni lontano da casa… E non ho mai avuto la voglia di tornarci”.
Fece ridere Black.
“Ti capisco. Ma sai, poi tutto cambia, a un certo punto”.
Ruby annuì e, sulla scogliera, vide Yvonne e Komor che continuavano a parlare. Da lontano, si sentiva il rumore del battello a vapore, pronto a riaccompagnare gli invitati a casa.
“E White ha sempre accettato la tua distanza?”.
“No. Mai. Abbiamo avuto molti problemi ma alla fine ho deciso di cedere io, per non perderla”.
Sapphire bussava ancora alla sua mente.
“E l’hai sposata”.
“Sì, ma non devi pensare che io sia stato costretto. Ormai ho quasi trent’anni, ho visto tante cose nella mia vita e posso dirti che avere una moglie e occuparmi della mia casa, in questo momento, può diventare una nuova sfida. Il fatto è che ho sempre avuto accanto una donna speciale, e non me ne sono mai accorto. Io e mia moglie abbiamo fatto pochissime cose insieme, e non sai quanto io mi stia pentendo di questa cosa”.
Sapphire sparì dalla mente di Ruby. Ormai guardava Yvonne, lui.
“Però…” continuò “… sono cosciente di aver chiuso un capitolo della mia vita. Non servirebbe a nulla rimuginare sul mio passato e su quello che sono… renderebbe sterile la mia capacità di vivere il mio presente e costruire il mio futuro…”.
Yvonne bussò alla sua mente.
“Hai ragione…”.
“Io sono del parere che le opportunità debbano essere colte non appena si presentino… Sono sempre stato molto sanguigno, ho sempre pensato poco alle conseguenze, a ciò che facevo, ma posso garantirti che trovare una persona che ti appaghi e che ti faccia sorridere è l’obiettivo di una vita intera. Non contano i soldi, non contano le ambizioni. Contano solo i sogni. E se i tuoi sogni vedono accanto a te una persona come White, non devi fare altro che metterti in mezzo a una strada e aspettare che lei, col suo modo di fare, t’investa. Semplice”.
Ruby rise. “Metafora appropriata”. Poi tornò serio.
“Quella Yvonne… la ragazza che sta parlando col mio amico Komor… che tipo è?”.
Ruby si voltò a guardare lo sposo.
“La ragazza più sbagliata che c’è, per Komor”.
Black s’accigliò. “Perché?”.
“Perché sono innamorato di lei dal primo momento che l’ho vista”.
Il battello attraccò e la gente cominciò a scendere, mentre i due rimanevano immobili. Quello dagli occhi rossi distolse lo sguardo, poggiandolo poi su di lei.
Non si accorse del sorriso divertito dell’altro.
“Beh… È arrivata l’ora di tornare a casa. Spero d’incontrarti più spesso, ora che sei qui ad Austropoli”.
“Senz’altro” concluse l’altro, dandogli una pacca sulla spalla e raggiungendo White, che lo cercava con lo sguardo vicino alla scalinata.
 
Forse era la prima volta che lo ammetteva a qualcuno, Ruby.
Era innamorato di Yvonne e il fatto che Sapphire lo marcasse a uomo in quel modo, anche se non fosse più parte della sua vita, stava per rovinare tutto.
Doveva parlare con lei.
Raggiunse di corsa la scogliera ma la sua accompagnatrice e il professore non c’erano.
Si guardò intorno, impanicato.
Non possono essere andati a chiudersi in bagno proprio ora… Il battello è qui, dobbiamo tornare a casa!
Il buio mangiava ciò che le luci del faro non riuscivano a illuminare e nulla era davvero ben visibile, lì. Neppure le persone.
“Yvonne!” la chiamò. Nessuno rispondeva.
Il cuore batteva forte e il rimorso per non aver subito fatto capire a Komor che quella fosse la donna della sua vita lo stava lentamente consumando da dentro. Girava la testa a destra e a sinistra, compulsivamente, a intervalli rapidi di qualche secondo, cercando di capire dove si trovasse la donna, prima che qualcuno gli si avvicinasse e gli poggiasse la mano sulla spalla.
“Yv!” esclamò, voltandosi. “Oh… sei tu, Kim…”.
Quella sorrise a mezza bocca. “Non ho mai visto una persona così felice di vedermi…”.
“Cercavo Yvonne”.
“Lo so. È già a bordo”.
Gli occhi del ragazzo s’illuminarono.
“Grazie!”
Scattò come una gazzella, saltando sul moletto e scavalcando la fila, fino a quando non si trovò all’interno del battello.
C’era confusione, lì. C’era gente.
L’ansia continuava a fare il suo dovere e intanto le paranoie lo tormentavano.
Non può scegliere quel professore!
Si avvicinò al bar, muovendo qualche passo. I suoi occhi analizzavano decine di volti, capendo però che nessuna di quelle persone avesse un vestito come il suo.
Insomma, erano poche le donne con un vestito beige, quella sera.
E si concentrò su di loro.
Erano tre, su quasi cento, in tutta la parte interna della nave; aveva controllato al bancone del bar e tra le poltroncine della sala interna, fuori alle balconate laterali e persino nel bagno delle donne, dove la fila era diventata considerevole. Tuttavia, lì Yvonne non c’era.
Forse è andata fuori...
Salì rapidamente le scale, spintonando una donna dal lungo vestito rosso (poco sobrio in un’occasione come quella) e arrivò sul ponte di prua.
Ma lì non c’era davvero nessuno, se non due donne che si baciavano dolcemente.
Non indugiò su di loro e guardò il corridoio laterale sinistro, vedendolo pieno di gente.
White stava salutando la folla dal molo.
Beh, l’avrebbe rivista l’indomani, non si sarebbe offesa se non si fosse affacciato a dire ciao a lei e a suo marito.
Attraversò la folla, cercando il vestito beige che gli avrebbe dato la sicurezza che, effettivamente, Yvonne fosse lì.
Ne trovò uno, ma apparteneva a un’anziana donna che agitava un fazzoletto in lacrime.
Dove diamine sei, Yv…
Rimaneva solo il ponte di poppa, dove erano seduti all’andata.
Lo raggiunse col fiatone, guardandosi attorno con la testa che girava.
E poi la vide.
Seduta al loro posto, con le braccia conserte sulla pancia e la pochette appoggiata sul sedile accanto a lei, a occupare il posto.
Guardava il faro con un sorriso malinconico.
Lui le si avvicinò, da dietro. Le poggiò una mano sulla spalla e sospirò.
“Ti ho cercata… dappertutto…” fece, ansimando.
Quella alzò lo sguardò e gli sorrise.
E quando succedeva, quando il sorriso le fioriva in viso, era primavera.
“Sono tornata qui. Pensavo volessi parlare con Belle tutta la sera e non volevo disturbarti”.
“Adesso ti ammazzo” fece, alzando la borsa e sedendosi.
“Ehm… è occupato”.
Gli occhi di Ruby si spalancarono, gettandosi in quelli di ghiaccio di Yvonne.
Il cuore batteva forte.
 
Sta tornando a casa con Komor.
 
Non riusciva a crederci. Il volto di Yvonne era così gelido da fargli intendere quanto fosse sgradito seduto lì, dove sarebbe dovuto esserci un altro uomo.
“… Mi spiace. Mi alzo subito, scusami…”.
Quella lo vide ripoggiare la borsa e camminare lentamente verso la balaustra.
 
FUCK TRUMP, FUCK THE WALL, VATO 4 LIFE.
 
Vi si poggiò sopra, vedendo il mare sotto di lui diventare mano a mano più scuro.
Il faro si allontanava.
“Guarda che scherzavo” sentì sorridere l’altra. Si voltò rapido, trovandola con la borsetta tra le mani. “Ti sei incupito…”.
“Già”.
Yvonne si alzò e gli si avvicinò, prendendogli la mano. “Tutto bene?”.
Ruby rimase in silenzio. Sospirava, o forse ancora ansimava, lei non lo sapeva.
Abbassò la vista e vide l’incisione sulla ringhiera.
“Komor mi ha spiegato che significa Vato”.
“So che significa Vato” le rispose rapido.
“Mi vuoi dire cosa c’è che non va?”.
Il ragazzo sorrise a mezza bocca, la parte che lei non riusciva a vedere, quindi si voltò. “No. Perché non lo so”.
Guardò le labbra di Yvonne schiudersi leggermente, assumendo quell’espressione confusa che lui adorava. “Non capisco”.
“Lo so, che non capisci. Neppure io capisco”.
Tornò a guardare dritto, mentre Liberty Island tornava a essere una luce intermittente al centro della baia di Austropoli.
“Sembra che tutto debba andare male, nella vita. Non riesco a esser sicuro più di niente…”.
“So che è un momento difficile per te ma io e gli altri ti siamo tutti vicino”.
“Non è questo, quello che intendo” le rispose, rude.
“Ti ho fatto qualcosa?” domandò, spostandogli il viso in modo da poterlo guardare negli occhi. “Perché nel caso non era mia intenzione… Non ti farei mai del ma…”.
“No, non sei tu. Sono io. Ce l’ho con me”.
Yvonne sbatté le palpebre per qualche secondo, abbassando lo sguardo in cerca di un’illuminazione, che tardò ad arrivare.
“In che senso?”.
 
Sbottò.
 
“Nel senso che non sono pronto! Io non sono pronto a gestire le cose! E l’universo non può aspettare me, che prenda coraggio! Ho fatto tardi con Sapphire e ho sbagliato anche con te!”.
Yvonne fece cenno di no a una persona alle spalle di Ruby, facendo cenno di andarsene e lasciarli stare; lui neanche se ne accorse.
“Eppure ho sempre cercato di essere una persona onesta! Di combattere tutti… tutti gli istinti che… che mi avrebbero trasformato in un animale, ecco! Perché quando mi convinco ad affondare il colpo, l’universo mi leva il piatto davanti?!”.
“Uff…”. Yvonne si limitò a sbuffare, stringendo Ruby in un abbraccio. Sentiva il suo profumo, pungente. Le piaceva.
Lo percepiva avvinghiarsi alla sua esile struttura, arrampicandovisi come se la nave stesse affondando.
 
Ha bisogno di una mano. Lui è solo… Proprio come me.

*
 
Mezz’ora dopo il battello sbarcò al molo 16. Tutti si disposero educatamente in fila per scendere, mentre dagli altoparlanti una voce meccanica ringraziava i passeggeri per aver scelto la Syracuse.
Le mani di Ruby scivolavano sulla ringhiera bianca, impregnata di quella salsedine che gli aveva graffiato il viso per tutta la durata del viaggio.
Seguiva un’assonnata Yvonne, che camminava lentamente, sperando che le gambe rimanessero dritte su quei tacchi che parevano assottigliarsi dopo ogni passo.
“Ciao, Yvonne” salutò Komor, da lontano. Non guardò neppure il gesto stanco che la modella gli rivolse, con la mano.
“Devo levarmi queste scarpe…” sussurrò la ragazza. “Dividiamo il taxi?”.
Ruby si limitò ad annuire.
Un quarto d’ora dopo erano in silenzio, l’uno accanto all’altra, su di un sedile posteriore diretto verso la casa del ragazzo, più vicina rispetto alla stanza d’albergo.
Gli America cantavano A horse with no name attraverso la vecchia radio col mangiacassette della yellow cab, mentre il viale del lungomare stava per terminare.
La donna si lasciò lentamente andare, appoggiando la testa sulla spalla di Ruby.
“Je suis fatigué...”.
“Anche io”.
Passò un secondo, in cui entrambi riempirono i polmoni e il tassista voltò l’angolo verso la Main. Erano quasi arrivati.
Ruby…” lo chiamò poi Yvonne.
E quando il ragazzo si voltò si voltò verso di lei, così vicina com’era, se la ritrovò a pochi centimetri dal volto.
Lei lo baciò subito, con una rapida delicatezza.
Appoggiò le labbra alle sue, carezzò la sua lingua e ne assaporò il gusto.
Ruby sapeva di buono, lei sapeva di paradiso.
Lui, che del resto l’aveva sempre allontanata dopo aver assaggiato un po’ dei suoi baci, non osò più rifiutarsi quel privilegio: si voltò verso di lei, carezzandole il viso e poi il collo. Sentiva le carni bollenti della donna aderire sul suo corpo.
 
Arrivarono e i due neppure se ne accorsero. Sedici dollari e sessantacinque, pagò lui, lei glieli avrebbe restituiti, lui avrebbe rifiutato, ma questo soltanto l’indomani.
In quel momento non ci pensavano.
Scesero entrambi dal taxi e si baciarono nuovamente, mentre lei cercava d’infilare la scarpa destra più aggraziatamente possibile senza però riuscire a fermare quell’impeto che li travolgeva.
“Aspetta…” fece lei, con Ruby che le baciava il collo, il volto, le labbra. “La scarpa”.
“Aspetta tu…”.
Si baciarono, ancora e ancora, con passione e una scarpa tra le mani della bionda. Furono cinque minuti meravigliosi, in cui Ruby tentava disperatamente di catturare Yvonne nella sua morsa, che cercava un momento per sistemarsi.
Alla fine ci riuscì, lei.
Altro bacio, quindi lui le sussurrò all’orecchio una frase che la fece rabbrividire.
 
“Sali da me…”.

Puro piacere.
 
“Credevo non me lo avresti mai chiesto…”.

Sorrisero entrambi, correndo per quella strada ancora affollata, dove giovani dalle belle speranze s’alternavano a vecchi tromboni, chi fidanzati con bionde dai vestiti troppo corti, chi sposati con donne liftate dai seni posticci. Due minuti dopo erano davanti al palazzo.
Lei lo baciò ancora, lui cercava d’infilare la chiave nella serratura, senza riuscirci, e ci provò ben quattro volte prima che fosse costretto a distogliere lo sguardo dallo spettacolo che stava salendo con lui, a casa sua.
L’ascensore fu il vero preambolo del letto, dove la donna aveva sbottonato già metà della camicia di Ruby e dove lui le aveva sciolto i capelli.
Passarono venti secondi nell’attesa frenetica che le porte dell’ascensore si aprissero, dopodiché si ritrovarono nell’atrio della casa dello stilista, al buio.
“Sul divano…” ansimava Yvonne, tirandolo per mano e trovando la sua resistenza.
“Andiamo a letto”.
“Sì”.
Levò le scarpe, lei, tirandogli via la giacca e poi gettandosi ancora su di lui; lo baciava, mentre liberava gli ultimi bottoni della camicia, sentendo infine Ruby ribellarsi e girarla con vigore su se stessa.
Le alzò i capelli e aderì con fame alla sua schiena. Lo sentiva, lei, attraverso il tessuto del vestito, che fremeva. Sentiva le sue mani tastarle il corpo e fermarsi sul seno destro, stringendolo, mentre la zip del vestito andava giù; lei sgusciò fuori da quel bozzolo come una splendida farfalla, col reggiseno stretto e la brasiliana abbinata.
Ruby la prese in braccio, continuando a baciarla, stringendo le natiche tra le mani e affondando poi il volto tra i seni, prima di raggiungere l’alcova e gettarla sul letto.
Si spogliò, lui, poi le divelle gli ultimi stracci da dosso ed entrò in lei.

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Capitolo 17
*** 17. Diciassette (XVII) pt.1 ***


 
UNRAVEL ME.
ovvero risolvimi, nel senso di districami, sbrogliami.

UNA FRANTICSHIPPING (ma per finta) di Andy Black (ma lo sapevate).

 
“Tanto è sempre questione di tempo. Tempo che passa, tempo che abbiamo perso. Tempo.”.
 
 
Unima, Austropoli, Main Street, Casa di Ruby (Appartamento 19-C), 16 Luglio 20XX
 
Una sottilissima lingua di vento baciò le gambe di Yvonne, scoperte.
Il suo corpo era bollente, perché era luglio e il sole in quel periodo si stava impegnando troppo. L’aria fresca quasi la fece rabbrividire.
Produsse un leggerissimo gemito, unito a un tremore tanto flebile quanto visibile.
Irrigidì i muscoli e allungò le gambe.
Yvonne Gabena aveva dato il buongiorno al mondo in quel modo.
Nuda, lei, coi capelli spettinati e il trucco metà sul volto e metà sul cuscino.
Eppure era ancora la donna più bella del mondo.
Gli occhi, quei grigi acquitrini, si aprirono lentamente. Riconobbe di non essere nella sua stanza d’albergo, il profumo che aleggiava non era lo stesso e la luce che inondava la camera era assolutamente un’altra.
Era da Ruby.
Ricordò rapidamente poi sorrise, allungando la mano verso destra.
Le natiche del ragazzo erano scoperte.
Si sporse e lo vide, nel suo riposo statuario: le dava la schiena, dove erano delineati perfettamente tutti i muscoli. I capelli neri, arruffati, poggiavano sul cuscino che lui stringeva tra le braccia.
Tutto a un tratto i ricordi le balzarono rapidi davanti agli occhi, con lei che l’aveva baciato nell’ascensore e lui che aveva deciso di abbattere tutte le difese che aveva posto prima della sua rottura con Sapphire, baciandola nell’ascensore e poi in casa, prendendola in braccio e spogliandola.
Fecero l’amore.
E fu la cosa più bella che quella avesse mai provato.
L’aveva baciata tutta, dalla testa ai piedi, le aveva accarezzato e massaggiato l’intero corpo.
L’aveva amata con delicato vigore e aveva adorato il suo sorriso compiaciuto quando quella si era abbandonata al piacere provocato dalla loro unione.
Durò tutta la notte, con lui che la plasmava sotto i suoi colpi, e lei che si scioglieva ogni volta che quell’estasi meravigliosa raggiungeva la sua mente.
Non voleva svegliarlo.
Avrebbe fatto meglio a preparargli la colazione; una volta riuscita ad acciuffarlo non avrebbe dovuto lasciarselo scappare per nulla al mondo.
 
Non passò molto prima che Ruby aprisse gli occhi.
Al contrario d’Yvonne lui sapeva bene dove si trovasse.
Ciò che non sapeva era dove fosse la donna che aveva rapito i suoi occhi, la sera prima.
Si alzò, andando in bagno e sbrigando le rapide pratiche mattutine, indossò poi un paio di boxer neri e una maglietta intima dello stesso colore e si diresse verso la cucina.
Lì, una statua dai capelli dorati e la maglietta troppo corta per coprirle le natiche era piegata in avanti a guardare qualcosa all’interno del forno.
“Buongiorno…” sorrise Ruby. Era in paradiso.
Quella si voltò rapida, alzandosi e sorprendendo l’uomo con cui aveva condiviso il letto a guardarle il sedere. Come se non l’avesse visto altre volte, per altro.
“Oh, ciao Ruby…”.
“Che fai già sveglia?”.
Arrossì violentemente, lei. “Ho preparato le madeleine… Ma non sembra che siano venute très bien…”.
Il ragazzo inarcò le sopracciglia e le si avvicinò, baciandole dolcemente le labbra.
“Saranno sicuramente deliziose”.
 
Non lo erano.
Ma Yvonne non era una cuoca, era una modella, e a Ruby era bastato vederla in cucina, sporca di farina e coi capelli legati per innamorarsene ancora, nuovamente.
Mangiarono, riordinarono la cucina e la stanza, condivisero la doccia e fecero nuovamente l’amore.
 
*
 
 
Unima, Austropoli, B&W Agency, Ufficio di White, 21 Luglio 20XX
 
“Sì, Ruby, aspetta un momento…”.
Il condizionatore gettava aria ghiacciata, emettendo un fastidiosissimo ronzio.
Necessario, tuttavia. Il caldo fagocitava tutto, stendendosi come un velo impietoso, che non guardava in faccia a nessuno.
White camminava lentamente sulla moquette color antracite e spalancò gli occhi. L’interlocutore doveva averla stupita.
“Cosa diamine stai dicendo?! Logicamente abbiamo prenotato il salone per primi!”.
“Mi siedo” disse il ragazzo, conscio che la Presidentessa non lo stesse ascoltando. Si accomodò sulla poltroncina e rimase in attesa di quella che doveva essere probabilmente una sentenza, dato che quel mattino Whiteley lo aveva stoppato non appena aveva messo piede in atelier.
“Ti ha chiamato White, prima. Dice che devi andare da lei prima di subito”.
Il taxi fu rapido e ormai non lo facevano neppure aspettare più, in sala d’attesa. Salutava con un cenno del capo le ragazze e andava avanti.
Lo squalo con la fede nuziale in bella vista camminava spazientita, sbuffando e portando una mano alla fronte, dove i lunghi capelli castani le coprivano la fronte.
“Senti, fermati un attimo. Hai capito con chi stai parlando? Hai presente chi sono io? Non dovrei neppure essere io a telefonarti! La prossima settimana abbiamo la settima sfilata di Ruby Normanson e con questi presupposti la vedrai col cannocchiale! Altro che alta classe! Farò sfilare le mie modelle per strada piuttosto che portarle in quel cesso di salone!”.
Il ragazzo rimase interdetto, vedendo White inarcare un sopracciglio.
“Non m’interessa più. Buona giornata”.
Attaccò la telefonata e gettò il cellulare sul divanetto.
“Ma vaffanculo…” sbuffò nuovamente, andando verso il socio. Spostò la poltroncina accanto a quella del ragazzo e vi si sedette accanto.
“Allora…” sospirò, puntellando i gomiti sulle ginocchia e affondando la testa tra le mani. “Mi serve una vacanza…”.
“Quando partirai per la luna di miele?”.
“Sabato prossimo, ma non è questo il punto”.
Il silenzio calò pesante su di loro. Ruby puntò i suoi occhi rossi in quelli di White.
“Cosa succede?” chiese.
La Presidentessa rispose senza troppi giri di parole.
“Ti stai scopando Yvonne?”.
Il ragazzo batté un paio di volte le palpebre e sospirò, rimanendo muto.
Fu l’altra a storcere le labbra e a rovesciare la testa indietro.
“Oh, dannazione, ci mancava soltanto questa…”.
“White, io e Yvonne siamo…”.
“Lo so cosa siete! Lo siete da mesi, ormai! Speravo però che foste più professionali di così!”.
La voce squillante della donna rimbombò nell’intero ufficio.
“Non urlare e calmati… Posso spiegare…”.
“Non c’è nulla da spiegare! Austropoli è una metropoli che pullula di qualsiasi tipo di donna e tu decidi di portarti a letto una tua modella!”.
“Io la amo, White!”.
“Lo so che la ami! Si vedeva! Però non è questo il punto!”.
“E qual è il punto?”.
L’altra sospirò nuovamente, nascondendo il viso dietro un reticolo di dita intrecciate.
Decise di alzarsi, e Ruby la seguì con lo sguardo.
“Io e te facciamo un lavoro particolare… e non lo facciamo per l’amore… o per la gloria. Tu lavori per la gloria?”.
“In che senso?”.
“No. La risposta è no. Tu lavori per i guadagni”.
“Ah, okay, sì…”.
“Se non guadagni non mangi, e se non mangi non sei in forze. E se non sei in forze non hai l’energia per portarti Yvonne a letto. Mi segui?”.
“Stai un tantino esagerando la cosa”.
“Se tu e Yvonne intraprendeste una relazione, e poi vi lasciaste, io perderei la migliore modella sulla piazza, Ruby. E questo perché non sei stato capace di tenerlo nei pantaloni”.
Il ragazzo abbassò la testa.
“Sai quanto mi costa Yvonne?”.
“No”.
“Perché non ti sei mai posto il problema di saperlo, Ruby. Lei mi costa quasi più di te. Il problema è che tu sei il vettore che i soldi me li fa guadagnare e Yvonne è un tuo strumento! È come se ti scopassi l’ago e il cotone! Ti scoperesti l’ago e il cotone, Ruby?”.
Il ragazzo sospirò. “No…”.
“Perfetto!” urlò l’altra, che intanto si avvicinò al divanetto dove aveva lanciato il cellulare e si era lasciata cadere sui morbidi cuscini. “E allora per quale dannatissimo motivo vuoi scoparti una tua modella?”.
“Io non me la scopo, White”.
“Tu la ami…” scimmiottò la Presidentessa. “Ma il concetto è lo stesso! Yvonne è il tuo lavoro, non il tuo passatempo”.
E fu lì che un moto d’orgoglio spinse Ruby ad alzarsi in piedi.
“Non è così…”.
White lo guardò. “Ho passato sei mesi della mia vita qui inseguendo la persona sbagliata, che era dall’altra parte del mondo… e mi ha deluso. Mi ha deluso profondamente, infliggendomi un duro colpo che nessun uomo si aspetterebbe dalla donna che ama. E poi c’è Yvonne, che da quando sono in questo schifo di città mi è sempre stata accanto, ed è sempre stata disponibile. Ed è bella… White, tu non la vedi quant’è bella? Ogni volta che vedo i suoi occhi il mio cuore diventa liquido e non… non so più che dire. E poi mi bacia e tutto diventa confuso, e quando arriva la notte vuole che io la ami. E niente nella mia vita, niente! Proprio niente, è mai stato così semplice, per me… Perché ora come ora non riuscirei a vedere nessun altro accanto a me, che non abbia la sua voce dolce e il suo profumo delicato”.
White rimase a fissarlo in silenzio, e Ruby dovette attendere quasi un minuto, guardandola dritto in quei pozzi azzurri, prima che abbassasse la testa, sconfitta.
“Vai via. E fai funzionare le cose… Tu è Yvonne siete la nostra più grande risorsa. Non rompere questo giocattolo”.
Ruby annuì, si voltò e se ne andò.
 
*
 
 
Unima, Austropoli, Main Street, 28 luglio 20XX
 
“Siamo per strada… Questa cosa è un tantino bizarre…”.
“Lo so, Yv, neppure io condivido ma la cosa ci sta portando un casino di pubblicità… Voltati un momento”.
Nascosti da un grosso panel pubblicitario con sopra la faccia di Yvonne, Ruby stava sistemando meglio il vestito addosso alla modella.
Era un semplice ed elegante tubino a fantasia floreale, con un grosso fiocco sulla schiena.
“Benissimo” fece, voltandosi e guardando Kimberly indossare le scarpe.
“Mi sta bene il vestito?” domandò Yvonne.
“L’ho disegnato pensando a come ti sarebbe stato, piccola. Questo come tutti gli altri. Se ci fossero venti versioni di te, con ogni probabilità sarei ricco già da un pezzo”.
Yvonne sorrise e si avvicinò all’orecchio dell’uomo. “Saresti con ogni probabilità l’uomo più fortunato della Terra…” sussurrò tra i denti. Gli baciò una guancia e si allontanò.
La musica in sottofondo era come sempre alta e invadente, e non permetteva alle persone di parlare a un volume normale; le modelle però non sembravano minimamente disturbate dalla cosa.
Erano ormai abituate alla folla. Ma quella non s’accalcava sui marciapiedi, spingendo sulle transenne per poter toccare quelle bellissime ninfe avvolte in abiti preziosi quanto i materiali che li componevano.
La gente era affacciata dai palazzi, chi infastidito dalla musica, chi strabiliato dalla bellezza degli abiti, chi da quella delle modelle.
 
La settima sfilata, White l’aveva organizzata per strada. Proprio come aveva minacciato di fare.
Aveva bloccato la Main Street di Austropoli.
Tanto è pedonale…” aveva ribattuto, al timido tentativo di Ruby di farle cambiare idea.
Non ci sarebbe mai riuscito.
Aveva ottenuto immediatamente i permessi dal comune, per quella cosa.
Sì, i marciapiedi saranno liberi. La gente potrà camminare tranquillamente alla destra e alla sinistra della passerella…”.
Hai pensato proprio a tutto, vero?”.
“Sì. Hai disegnato qualche abito nuovo?”.
“Li ho anche confezionati, White”.
 
Fu la superstar della sfilata, quella sera.
Tutti non ebbero occhi che per lei. E a fine evento tutti chiamarono a gran voce lo stilista, che si presentò accanto a lei e a White, salutando il pubblico.
Yvonne lo baciò davanti al mondo, con le telecamere che puntavano su di lui.
Tornarono a casa, fecero l’amore e si svegliarono direttamente l’indomani, più leggeri e sorridenti.
 
*
 
 
Unima, Spiraria, 22 agosto 20XX
 
Il mare era calmo. Il sole batteva ma una leggera brezza riusciva ad alleggerire gli animi più accaldati presenti su quella spiaggia.
Yvonne indossava un monokini celeste, che risaltava tanto sulla sua pelle dorata. Quella aveva levato i grossi occhialoni da sole neri e il cappello a tesa larga beige, correndo faticosamente verso la battigia, dove la sabbia non scottava.
Ruby sorrise, qualche metro più indietro; le pareva una bambina.
“Bon Dieu! L'eau est très froide!” urlò, sotto gli occhi incuriositi dei presenti. “Vieni!”.
Il ragazzo sorrise, vedendola tendere una mano in sua direzione, nonostante fosse a più di venti metri di distanza da lei.
“Un momento! Un momento…” fece, levando la maglietta e appendendola sotto il loro ombrellone.
Levò gli occhiali e avanzò, dapprima lentamente, poi i piedi cominciarono a bruciare e quella che doveva essere una camminata lenta e posata divenne una corsa sgraziata in piena regola.
Yvonne rideva.
Ruby affondò i piedi nell’acqua, che da lontano pareva turchese, diventando trasparente non appena vi fu vicino. La sabbia era chiara e piccoli pesciolini nuotavano accanto alle dita smaltate di Yvonne.
“Ti prego, non schizzarmi… è freddissima”.
Il ragazzo si limitò a sorridere e a caricarla in spalla, facendola urlare, e cominciò a camminare robotico in avanti, fino a quando l’acqua non gli arrivò all’ombelico.
“Piano! Fai piano!” urlò ancora lei, e dopo qualche secondo entrambi s’immersero nell’oceano congelato.
Sott’acqua, i capelli della ragazza si muovevano sinuosi. Quando uscì si ordinarono educatamente lungo la sua schiena.
Tu es un connard!”.
Ruby riemerse pochi secondi dopo, con l’acqua salata che gli baciava le labbra. Riaprì gli occhi e sorrise alla donna, che gli si avvinghiò addosso.
“Mi hai chiamato stronzo…” sussurrò lui.
“… è la verità…”.
Rimasero entrambi in silenzio, avvolti dal vociare lontano dei bambini e dal sottofondo soffice delle onde del mare.
“Sei davvero bellissima” disse quello, puntando gli occhi rubini sul volto della ragazza di Kalos. Quella abbassò leggermente lo sguardo, catturando qualche goccia che ballava sulla sua bocca.
“Anche tu”.
Strinse con vigore la schiena di Ruby, lei, avvicinandosi al suo viso e poggiando le labbra sulle sue.
Le loro lingue ballarono una danza lenta e sinuosa, culminando in uno sguardo tormentato e voglioso.
“Io ti amo…” sussurrò lei, affondando il viso nel suo collo.
 
I loro cuori presero a battere all’unisono.
 
“Anche io”.
 
Quella sorrise, stretta tra le sue braccia e sorretta dall’oceano.
Yvonne aveva assaggiato il paradiso.
 
*
 
 
Unima, Austropoli, Main Street, Casa di Ruby (Appartamento 19-C), 12 Ottobre 20XX
 
L’aria era diventata ormai molto più fredda, nella regione della libertà.
I corpi scoperti e accalorati venivano nascosti da panni più pesanti, che deformavano l’aspetto della gente ma che la proteggeva dai forti venti che venivano dal mare.
La salsedine tagliava la faccia, in inverno, quando si camminava sul lungomare.
Il giorno prima, Yvonne e Ruby erano andati a passeggiare nella zona portuale, dove i palazzi non riuscivano ad arrivare e dove il rumore delle onde che sbattevano contro le banchine avevano il potere di allontanarti dal mondo, anche solo per un istante.
Lui l’aveva stretta in un forte abbraccio, lei sorrideva, lui era felice di essere lì.
“Mangiamo qualcosa?” domandò lei.
“Grassona…”.
L’altra sbuffò e si avvicinò al carretto verde sulla sinistra, dove un vecchietto dalla salopette di jeans che si faceva chiamare Sammy Sam (al secolo Samuel Samson), vendeva pannocchie bollite.
“Me ne dia due” sorrise Ruby, mettendo mani al portafogli e vedendo Yvonne stopparlo.
No. Queste le offro io”.
Ruby rimase fermo, mentre vedeva la modella aprire la piccola borsetta e tirare fuori i tre dollari che il re della pannocchia (così c’era scritto sul suo carretto) aveva chiesto per le due spighe.
Mangiarono, tenendosi per mano.
Lei si sporcò, ma tant’era, si sporcava sempre.
Arrivati verso la punta sud, dove un grande veliero nero era ormeggiato e ballava sotto l’incedere delle onde aggressive di quel pomeriggio, lei lo tirò a una panchina.
Si sedettero e lei lo guardò, sorridente.
Je suis tres…”.
“Yv… Usa la mia lingua”.
Excuse-moi… Sono molto felice di essere qui con te…”.
Si stava impegnando, la ragazza, a non usare più il francese. Ruby di tanto in tanto l’aiutava.
“Anche io, mia piccola baguette…”.
Quella inarcò il sopracciglio destro e arricciò il naso, facendo ridere il ragazzo.
“Non sono una baguette”.
“Non parlare francese”.
“Non è francese! Baguette è baguette!”.
“Lo hai fatto di nuovo…”.
“È un soprannome orribile!”.
“Probabile…” sorrise lui, affondando la faccia nella spiga. “Ma è così. Come dovevo chiamarti? Madeleine?”.
“No, per carità!” esclamò. “Avevo una compagna di classe che si chiamava così, e la odiavo. E anche lei odiava me!” fece, mangiando a sua volta. “Era così… antipatica…” continuava, masticando il mais. “E poi mi tirava i capelli. Era soltanto gelosa di me”.
“Beh, non è stata l’ultima…” sorrise l’altro.
Quella lo guardò, confusa.
“È un complimento?”.
L’altro rise di gusto. “Ovviamente. Vuol dire che t’invidiano”.
“Oh, grazie mon petit croissant…”.
Parla la mia lingua…” sbuffò l’altro. Quella sorrise e poi si baciarono. Finirono per tornare a casa subito dopo.
Cenarono leggero, levarono quei panni grigi, come quella giornata uggiosa e finirono sfiniti nell’abbraccio reciproco, trovando il corpo caldo che tanto bramavano e che finiva per completarli.
E Yvonne toccava le stelle, quando lui la riempiva, si muoveva su di lei e la faceva danzare ai suoi ritmi, facendola sentire liquida come acqua che scivolava tra le dita.
S’addormentarono, lui prima, lei dopo.
Ma poi lei si alzò, e quando tornò sentì Ruby lamentarsi.
Sognava.
Sognava qualcosa.
No.
Sognava qualcuno.
“No… Sapphire…” bofonchiava, con le labbra baciate dalle prime coperte invernali, nonostante quell’autunno possessivo stentava a lasciare il passo ai freddi più pungenti.
Ma nella testa della donna c’era solo un nome.
Solo un dubbio.
“Merd”.
 
*
 
 
Unima, Austropoli, Main Street, Casa di Ruby (Appartamento 19-C), 15 Ottobre 20XX
 
“Tieni”.
Pioveva.
L’acqua batteva sulle grandi finestrate, mentre il vento spingeva qui e lì foglie rossastre e giallastre.
Yvonne alzò lo sguardo, illuminato dal fuoco del camino, non appena sentì la voce del suo uomo chiamarla. Lui le porse una tazza di cioccolata calda, fumante, che lei accolse e poggiò sul petto.
Merci…”.
“Non in francese…”.
Uff…”.
Il fuoco scoppiettò, lasciando che qualche scintilla salisse verso l’alto e sparisse oltre il comignolo.
Incessante, la pioggia aumentò d’intensità. Gli schizzi che battevano sui pavimenti del terrazzo rimbalzavano sui vetri e davano alla città un aspetto malinconico e buio.
Tutto, nell’appartamento di Ruby, si stava nascondendo nelle ombre. Soltanto il fuoco combatteva come l’ultimo soldato, a illuminare l’ambiente.
E gli occhi di Yvonne, che risplendevano.
“È un paio di giorni che ti sento strana… È successo qualcosa con le altre modelle?” domandò Ruby, accomodandosi accanto a lei e stendendo sulle loro gambe un caldo plaid a rombi celesti.
“Nessun problema, con le ragazze”.
“Sicura? Ho sentito che qualcuna si stia lamentando… Credono che ti dia gli abiti migliori perché vieni a letto con me”.
“Hanno ragione” annuì l’altra, sorridendo leggermente, tornando poi a indossare l’espressione seria, quasi persa a ogni movimento sinuoso delle fiamme. “Ma non è questo. Ho una bocca e so rispondere a queste stronzate…”.
Ruby inarcò le sopracciglia. Yvonne non era mai sboccata.
“Sicura che non c’è nulla di cui tu mi voglia parlare?”.
Quella annuì, affondando poi le labbra nella cioccolata bollente. “Sì” fece. “Vai tranquillo”.
Lui annuì, ipnotizzato come l’altra dallo spettacolo rosso davanti ai suoi occhi, e cinse la donna con un braccio dietro al collo.
“Sei sicura?”.
“Hai sognato Sapphire” fece lei. “Un paio di giorni fa, quando abbiamo mangiato la spiga. Siamo tornati a casa e abbiamo fatto l’amore. E tu hai sognato Sapphire…”.
Il ragazzo dagli occhi rossi sospirò.
“A dire il vero non ricordo…”.
L’altra sbuffò e poi sorrise, lungi dall’essere divertita.
“Sei gelosa?” chiese l’altro, col piglio di chi voleva sdrammatizzare. L’altra però lo bruciò con lo sguardo, riflettendo le fiamme che nascevano dal camino e che le illuminavano lo sguardo.
“Non sono gelosa. Ma ho paura”.
Ruby inarcò un sopracciglio.
“Paura? Di che cosa?”.
Yvonne sospirò e si alzò in piedi, poggiando la tazza piena di cioccolata sul bordo del tavolino. Poi si voltò verso il suo ragazzo.
“Siete stati assieme per vent’anni, forse di più… è giusto che lei sia ancora nei tuoi pensieri, fino a poco tempo fa non ero che lavoro, per te… ci può stare. Ma se è così io voglio saperlo”.
Gli occhi del ragazzo diventavano sempre accesi ogni secondo che passava. La pioggia continuava a battere.
“Io non penso a Sapphire”.
L’altra fece rapidamente cenno di no con la testa.
“Tu l’hai sognata. Tu hai pronunciato il suo nome” ribatté Yvonne, alzando leggermente la voce e cominciando a gesticolare. “Ed eri contrariato con lei. Aveva fatto qualcosa che ti dispiaceva…”.
“Yv, cambiamo discorso, per favore. Non posso… spiegarti, al momento, ma è complicato… Sto vivendo questa storia alla giornata”.
“Alla giornata?!” esclamò l’altra. “Io e te condividiamo un loft, Ruby! Stiamo assieme, abbiamo una relazione e se c’è un problema è giusto che tu mi dica tutto!”.
Il ragazzo sbuffò e girò la testa dall’altra parte. Gli appartamenti del palazzo di fronte erano tutti illuminati.
“Non so che dirti, Yv. Era un sogno. Io sto con te, ora. Sapphire fa parte del passato”.
“Io ho soltanto paura che un giorno tu mi abbandonerai, perché vorrai tornare con lei!”.
“Non ho alcuna intenzione di farlo”.
“E anche allora non ti fermerò! Ma ti prego: se lo sai, adesso, dimmelo. Perché ho già sofferto tanto e non voglio che succeda più…”.
Una lacrima adornò come un gioiello il viso della bella. Ruby si alzò in piedi e la prese per mano, tirandola a sé e stringendola in un abbraccio accogliente.
Si guardarono, loro. Gli occhi dell’una negli occhi dell’altro.
“Non ho intenzione di perderti. Sei il treno che passa soltanto una volta, nella vita”.
Lei chiuse leggermente gli occhi, poggiando la testa contro il petto dell’uomo. Sentiva il cuore battere e il suo profumo, pungente ed elegante, entrarle nelle narici.
“Io ho paura di perderti…”.
“Non mi perderai”.
“Sei la cosa migliore che mi sia mai capitata e non voglio perderti”.
“Ho detto che non mi perderai”.
 
*
 
 
Unima, Austropoli, Charity Avenue, 16 Ottobre 20XX
 
"No, ma parla, che ti ascolto...".
"Non mi ascolti per niente...".
"Hai proprio ragione. Aspetta un minuto".
Le Loboutin della Presidentessa battevano rapide sul marciapiede elegante di una delle zone più in dell'Austropoli residenziale.
Lì non c'erano cartacce che svolazzavano nel vento autunnale o crepe nel cemento che si riempivano d'acqua.
Lì c'erano gli alberi, accerchiati da deliziose aiuole circoscritte a ogni angolo.
Le foglie erano quasi tutte per terra. I rami erano praticamente nudi.
"Sì, aspetto..." disse Ruby, vedendo White allontanarsi per un attimo e attaccarsi al cellulare. Probabilmente un giorno avrebbe pagato l'aver abusato di tale diavoleria ma doveva ammettere che era soltanto grazie a quella che era schifosamente ricca e potente.
La guardava, nel suo cappottino a quadri grigio e nero, seduta sul cofano di una vecchia Lincoln. Blaterava qualcosa riguardo uno spot che sarebbe finito in televisione con protagonista Aloé.
Ruby neppure li sentiva più, quei discorsi. Si limitava a fare bene il suo lavoro, per poi tornare a casa e aspettare Yvonne che ritornasse dalle sue commissioni.
Ultimamente era spesso fuori. La discussione del giorno prima l'aveva fatta uscire dal proprio nido di silenzio, ma era diverso tempo che si comportava in maniera strana.
Per via di Sapphire, poi...
Non aveva molto senso. Lui aveva deciso di cancellare Sapphire.
Di cancellare la sua vecchia vita.
Eppure era bloccato a metà su di una scaletta tra il cielo e il baratro, con la paura di scendere e di salire.
Non stava davvero pensando a Sapphire. Cioè, la stava sognando, ma sognare qualcuno che ti è stato accanto per anni forse era normale.
Insomma, sognava ancora gli esaminatori scolastici il giorno del diploma.
No, non sognava di esser nudo.
Sognava di non saper nulla, e la cosa era disagevole. La viveva come un'onta, lui, che era sempre stato il migliore della classe.
"Va beh, sono con Ruby Normanson a Charity Avenue, ci sentiamo dopo per i dettagli tecnici... l'importante è aver stabilito quelli economici".
White si avvicinò, riponendo il cellulare nella borsetta e sorridendo con sguardo pulito all'uomo.
"Eccomi. Ora sono tutta tua. Mi volevi parlare d'Yvonne?".
Il ragazzo riprese a camminare.
Era combattuto. White era stata ben chiara:
 
Non rompere il giocattolo.
 
Ma la sua donna era triste e sinceramente non aveva voglia di prediche.
Sbuffò; tutta quella compagnia femminile stava cominciando a diventare un peso.
"No, lascia perdere, ho risolto. Ma dove diamine siamo?".
"A Charity Avenue, l'ho detto prima" fece quella, riprendendo a camminare energica.
Ruby sbuffò.
"Questo lo avevo capito. Intendo dire, che ci facciamo qui?".
"Volevo portarti a vedere casa mia".
Il ragazzo spalancò gli occhi.
"Tu hai una casa?".
White lo guardò torva, sbuffando. "Non dormo in ufficio, nonostante abbia la vista migliore di Austropoli".
Percorsero l'intera strada, altri tre minuti di passeggio, costellati di chiacchiere di circostanza.
"Ma Yvonne sa che tu vivi qui?".
"Sì, c'è stata qualche mese fa. Mi ha accompagnato prima del matrimonio".
"E da quanto abiti qui?! Non sapevo che avessi una casa in un quartiere così raffinato...".
White aveva sbuffato, portandosi i capelli dietro le spalle.
"Credevi che dormissi nel Southside?".
Ruby sorrise.
"No, nel Southside no. Ma credevo che non abitassi lontano dalle... mie zone, ecco...".
Quella replicò al sorriso e annuì.
"Le tue zone… Abbiamo dimenticato che sei un forestiero?".
Avevano voltato l'angolo, verso Rainbow Street, e una schiera di casette dai tetti color magenta gli si presentò davanti agli occhi.
Tutte uguali, quelle, tutte gemelle. Avevano dei deliziosi steccati bianchi a delimitare i piccoli giardinetti, con l’erba rigogliosa che avrebbe finito per seccarsi dopo le prime nevicate.
La terza casa aveva gli infissi bianchi. Forse era l’unica, in tutta il quartiere, a non averle abbinate al colore del tetto.
“Qui?” domandò lui. Vide l’altra annuire e il piccolo cancelletto.
Camminarono sul viottolo mattonellato, sorpassando la piccola cassetta della posta, dalla quale White prese un paio di buste da lettera candide.
“Black non è ancora uscito di casa…” sussurrò tra i denti. Frugò nella borsa, davanti alla porta, cercando le chiavi. Quando le trovò poggiò la borsa tra le mani di Ruby e le infilò nella serratura. “O forse non le ha viste, come suo solito…”.
L’ingranaggio scattò e l’ingresso della piccola villetta a schiera diede loro il benvenuto, con quell’aria di pulito e malva che si tuffò sui loro volti e gli riempì di freschezza i polmoni.
“Ti facevo tipa da maniero…” faceva l’altro, cedendo la Micheal Kors alla legittima proprietaria e guardandosi intorno. I suoi occhi rubini rimbalzavano da un lato all’altro dell’ampio salotto, arredato con gusto.
“Anche io. Ma questo quartiere è il mio feticismo. Black!” urlò poi, in direzione della tromba delle scale.
“È in casa?”.
“È un po’ qui e un po’ lì, come sempre… Stava meditando di fare richiesta per diventare Capopalestra…”.
“Ce l’hai fatta…” sorrise il ragazzo, a mezza bocca. “L’hai catturato, il tuo uomo…”.
“Il mio lavoro m’impone di stare ad Austropoli. E lui ha già girato abbastanza…”.
Per un attimo a Ruby sovvennero le parole di Sapphire, il giorno del litigio.
 
Credi che vincere contest e cazzeggiare nelle tv locali fosse un lavoro?
 
Snaturarsi per amore era la via della felicità, forse.
Black si era rassegnata, aveva appeso il Pokédex al chiodo e aveva deciso di dedicarsi alle cose belle che sua moglie non era riuscita a offrirgli per via della distanza, in tutti quegli anni.
Non che rimpiangesse la sua scelta di vita, ma Ruby non sapeva se la cosa migliore da fare fosse effettivamente cedere o lasciare che a cedere fosse l’altro.
La testa gli diceva che era più semplice adottare il cuore di Yvonne nella sua vita e vivere un’esistenza fatta su misura per lui, in cui lei fosse inclusa pienamente; il suo cuore, però, gli diceva che aveva buttato nel cesso vent’anni con una donna che alla fine dei conti non aveva fatto altro che disprezzarlo perché lui fosse fatto in quel modo.
Alla faccia dell’accettazione del prossimo.
Provò a immaginare Sapphire ad Austropoli; con ogni probabilità sarebbe finista per impazzire e arrampicarsi sui lampioni di Portrose Place.
“Eccomi tesoro, sto scendendo…” faceva Black, saltando rapidamente da un gradino all’altro. I piedi nudi dell’uomo battevano sul marmo di Carrara.
White si voltò e levò il cappotto, sbuffando.
“Speriamo sia presentabile…”.
Quello si presentò, per tutta risposta, in tuta e felpa grigia. Sportivo.
“Oh, Ruby!” esclamò, sorridente. Aveva i capelli totalmente spettinati.
I due si strinsero la mano ma il primo pensiero dello stilista fu che la figura che si era trovato davanti assomigliasse al lontano parente dell’uomo in completo che aveva sposato qualche mese prima il suo capo.
“Ciao, Black. Come va?”.
“Benissimo” sorrise ancora l’altro, muovendosi rapido verso sua moglie e baciandola con passione. Dopo un paio di secondi quello le prese il cappotto da mano e lo appese.
“Vi preparo un drink. Come mai sei passato a trovarci?” domandò l’uomo, avanzando rapido verso il salotto.
“Dovevamo parlare di lavoro” s’inserì White. “Tu non sei uscito?”.
Il divano vecchio stile era comodo e i termosifoni tenevano al caldo. Dietro a un piccolo angolo bar, Black stava versando degli alcolici in uno shaker.
“No. Sono rimasto a fare un po’ di allenamento qui in casa… Margarita va bene a tutti?”.
“Più che bene, grazie” annuì Ruby.
White lo guardò, corrucciando lo sguardo.
“Ma tutto bene?”.
Quella strega percepiva ogni cosa.
“Sì, tutto bene. Cominciamo?” chiese l’altro.
La vide annuire e quindi aprì sulle sue ginocchia, lo stilista, la cartellina che aveva con sé. Poggiò tra le mani della donna diversi bozzetti d’abiti da confezionare.
La donna li scorreva lentamente, saggiandone con lo sguardo ogni minimo dettaglio.
“Questo qui mi sembra strano” fece, mettendo il foglio da parte.
“Attenta alla china, che sporchi il divano”.
“Non sia mai” aggiunse ironicamente Black, dalle retrovie, avvicinandosi un minuto dopo reggendo un vassoio coi drink.
White prese il suo Martini glass senza distogliere gli occhi dai modelli.
“Bello questo…”
Ruby annuiva, con le sopracciglia arcuate e il cuore che batteva. Aveva meno ansia del primo giorno, certo, ma ogni volta che sottoponeva alla sua socia i suoi lavori pareva che il tempo scorresse più lentamente.
Black gli si accomodò accanto, affondando nel divano e guardando l’orologio.
Pareva annoiarsi.
Guardava Ruby, con la testa bassa e le mani incrociate sulle ginocchia.
“Tu allenavi, giusto?”.
Sia l’ospite che sua moglie alzarono lo sguardo ma perse l’attenzione della prima, che riabbassò gli occhi sul disegno di una gonna lunga a fantasia geometrica.
“Beh, non proprio. Ho partecipato a vare gare, però”.
“Gare?” domandò lui. “Vieni da Hoenn, giusto?”.
Ruby annuì.
“Sono il corrispettivo dei contest, più o meno… Non ho allenato davvero, ma mi sono ritrovato con Pokémon belli cresciuti…”.
“Bene. La Lega di Hoenn mi hanno detto non essere la più semplice di tutte”.
Lui fece spallucce. “Conosco bene i Superquattro di Iridopoli, ma non posso dirti di averli mai fronteggiati”.
“Sono stato a Hoenn sei anni fa, io”.
“Andate a giocare fuori” fece White, facendo cenno con la mano di allontanarsi.
“Non volevo disturbarti, tesoro. Andiamo” disse poi al ragazzo, alzandosi in piedi.
Gli fece strada su di un pregiatissimo parquet Wengè-Panga e poi oltre, salendo quelle fantastiche scale marmoree, adornate da un corrimano di ferro battuto.
Arrivati al piano superiore, l’uomo lo fece entrare all’interno di uno studiolo, probabilmente dove White portava il lavoro dall’ufficio. Si limitò ad aprire il balconcino e a uscire fuori.
“Andiamo qui fuori… Non ci sentirà”.
Ruby aggrottò la fronte. “In che senso?”.
“Si vede che non va tutto bene, Ruby…”.
Il ragazzo spalancò gli occhi, vedendo l’altro appoggiarsi alla ringhiera che dava sulla strada. Una coppia camminava stringendosi la mano.
“Come, si vede?”.
Lo raggiunse, lo vide sorridere.
“Non so che cosa succeda quando ti passa qualcosa per la testa, ma ti si legge in faccia. Sei come… contrito” disse quello facendo una strana smorfia.
L’altro fece spallucce e sospirò.
“Ho avuto una brutta discussione con Yvonne”.
“Oh. La top model…”.
“Già”.
“Komor mi ha detto che è parecchio sofisticata, come ragazza”.
Ruby sorrise.
“Beh… Non è proprio l’esempio della ragazza sempliciotta, ecco…”.
“Ce l’ha palesemente con te per averle rubato il sogno di una vita, sappilo” sfotté l’altro.
“Mi scuserà, immagino”.
“Penso debba farlo per forza. Dicevi?”.
Una macchina passò davanti a loro. Dai finestrini chiusi riuscivano a sentire Corcovado in una salsa deliziosamente jazzata.
“Dicevo che mi ha sentito mentre pronunciavo il nome della mia ex fidanzata”.
Black batté le sopracciglia un paio di volte e storse il muso.
“Non puoi pronunciare il nome della tua ex?”.
“Non se dormo, intanto”.
“Oh”.
Risero leggermente, entrambi.
“Hai sognato la tua ex?” domandò Black, bevendo il margarita.
“Credo di sì, a questo punto… Non che io ricordi, insomma”.
“Si è ingelosita”.
“Parecchio. Il fatto è che è la prima volta che ci si presenta un… problema, sai, uno più serio. Abbiamo discusso per una marea di cose ma…”.
“Ma sostanzialmente erano tutte stronzate”.
“Tutte stronzate, sì. Ma questa volta no. Questa volta il discorso era serio, e lei era…”.
Gli occhi di Ruby si spalancarono all’improvviso; sentiva nel petto il cuore battere con vigore.
“Com’era?”.
“Incazzata. Lei era incazzata”.
Black sorrise e annuì. “Beh, mi pare accurata, come descrizione”.
Lo stilista sorrise gentilmente, ma poi fece cenno di no con la testa. “Il problema è che era palesemente tirata… cioè, non voleva che qualcosa d’importante si mettesse di mezzo tra me e lei”.
“Lei tiene a te” annuì l’altro. “Quando la inquadrano lo si vede in maniera chiara. Sembra aver trovato un tesoro”.
“E anche io, stanne certo”.
Si depositò uno strato di silenzio tra i due. Il ragazzo con la cicatrice si grattò la clavicola e alzò la testa verso il cielo, dove il giorno veniva lentamente intriso di quel buio avido, che inghiottiva la città.
“Sta di fatto che hai sognato la tua ex. Come si chiamava?”.
“Sapphire” rispose prontamente. “Ma potrebbe non esser successo. Non ricordo”.
Black rise, quasi schernendo Ruby.
“Cosa?” domandò quest’ultimo.
L’altro bevette un altro sorso dalla coppetta e poi rispose.
“Fai di tutto per giustificare la situazione. Tuttavia non riesci a definirla. Perché ti senti in questo modo?”.
“Perché non voglio che Yvonne stia così per via di Sapphire”.
“Benissimo. E allora devi dimostrare a Yvonne che Sapphire non fa più parte della tua vita. Sai come fare una cosa del genere?”.
Lui rimase un po’ a pensarci ma poi annuì.

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Capitolo 18
*** 17. Diciassette (XVII) pt. 2 + Epilogo ***



UNRAVEL ME.
ovvero risolvimi, nel senso di districami, sbrogliami.

UNA FRANTICSHIPPING (ma per finta) di Andy Black (ma lo sapevate).



Unima, Austropoli, Chelsea Market, 17 Ottobre 20XX

“Sono a Chelsea, Whiteley. Sto facendo la spesa”.
Ruby doveva farsi largo tra centinaia di persone, quella mattina, e farlo con le mani occupate e il cellulare tra la spalla e l’orecchio destro non rendeva l’impresa più semplice.
La spesa per quella cosa? Yvonne tornerà direttamente stasera, da quanto so”.
“Sì, mia cara assistente, la spesa per quella cosa. In Atelier fila tutto liscio?”.
“Come l’olio. Oggi cerca di divertirti. Ti meriti un giorno di pausa”.
“Grazie. Se necessiti di qualcosa di pratico chiama me. Altrimenti rompi pure…”.
Rompo le scatole a White, ricevuto…”.
“Bravissima” fece l’altro, attaccando. Lasciò che il cellulare cadesse nella busta con le lunghe baguette profumate, ancora calde di forno, e si guardò intorno.
Doveva cercare la bancarella del pesce, lì, su quel lungo viale alberato e gremito di gente.
Non sapeva, tra quei pioppi ingialliti d’autunno, dove potesse essere.
Si limitava a camminare, coi palazzi a destra e a sinistra il mare che si vedeva tra i vicoli.
Sentiva le persone parlare.

“Non è così che intendevo fare la cosa, Jen…”.
                                             
“Dove cazzo si è cacciato adesso?!”.

“Ciao amore. Ho comprato il profumo che ti…”.

“Hai sentito cosa sta succedendo a Johto?”.

Poi una bella ragazza dai capelli biondi, che camminava con la stessa busta di baguette di Ruby stretta sul petto, gli si avvicinò silenziosamente. Parlava al cellulare ma sul volto mostrava i chiari segni che qualcosa non andasse.
“Ehy… ehy, Chris… Ti prego, scusami. Scusami se ti ho attaccato il telefono in faccia, stamattina, ma… ma ti prego, ora rispondi. Ho sbagliato a non parlare, prima… è che ero arrabbiata. Ti prego. Parliamone… Tu sei la mia persona. Discutiamone, delle cose. Non ha senso così…”.
Ruby la guardò meglio, stretta in quel cappottino azzurro, coi capelli legati in una coda bassa, aurea e gli occhi verdi compressi in un’espressione contratta.
Qualche lentiggine sulle guance, aveva poco più di vent’anni.
“La gente fugge…” sussurrò a se stesso, attraversando poi la strada e andando verso il marciapiede sinistro.
Un uomo vendeva gli hot-dog, lì, con un lungo grembiule sporco di salsa rossa. Probabilmente ketchup, ma Ruby non gli si fermò davanti e continuò nella lenta ma piacevole processione.
Lì c’erano tante, tante persone.
Pensò che qualcuno si potesse perdere soltanto in un luogo del genere, dove a nessuno importava niente del prossimo. Tutti troppo concentrati su se stessi per accorgersi di una ragazza con le lentiggini che aveva imparato dai propri errori.
Le grandi città e i loro lati negativi.
Sentiva l’odore del pesce. Qualcuno si stava allontanando dal marciapiede destro con una busta di plastica che conteneva un San Pietro freschissimo.
Si avvicinò e si mise in fila, dietro a uno stempiato ottantenne. Teneva l’Eco di Austropoli arrotolato sotto al braccio e manteneva una busta con una grossa pigna d’uva verde.
Aspettò circa tre minuti, poco di più forse, che impiegò nel guardare la pescivendola e suo marito servire la gente.
Entrambi belli in carne, lei aveva dei vaporosissimi capelli rossi, ricci. Un doppio paio di occhiali nascondevano lo sguardo luminoso.
Genuina, indossava una salopette di jeans e dei lunghi guanti di gomma. Lily, si chiamava, o almeno così c’era scritto sulla sua targhetta, e sorrideva sempre.
Il marito invece era decisamente più serio, attento ai conti e ai soldi che gli circolavano tra le mani.
Stessa mise della donna, ma pochi capelli sulla testa, e un paio di profondi occhi azzurri che spaccavano in due il suo viso.
Quando toccò a lui prese uno scorfano, una gallinella, un pesce prete, dei pescetti e vari gamberi e cicale. E poi prese un grosso San Pietro da più di un chilo e mezzo.
Ringraziò, pagò, e tornò a casa.

La pioggia aveva ripreso a battere fitta.
Quell’autunno non lasciava tregua.
Yvonne era stretta nel suo cappotto di pelle beige, e correva sui marciapiedi deserti spazzati da quel temporale furibondo che batteva in diagonale, sotto il soffio lamentoso del vento.
Indugiò qualche bagnatissimo secondo davanti alla serratura del portone di casa, cercando d’infilare la chiave nella serratura, riuscendoci solo alla fine.
Il cancello d’ingresso cigolò, quando si aprì. Lei ormai era abituata a quel rumore così fastidioso.
Era stata una giornata molto pesante, quella. I photoshooting con Tracy Meyer erano sempre stati lunghi e tortuosi, dato che sceglieva sistematicamente set naturali impervi ed era mosso da una vena perfezionistica fuori dalla norma.
Aveva scattato più di trecento fotografie, avrebbe dovuto incontrarlo la settimana dopo per selezionarne alcune e fare una prima scrematura.
Aveva indossato Gucci per tutta la giornata e bramava il momento in cui avrebbe infilato i suoi pantaloncini larghi e la canottiera col bordo slabbrato.
Era quasi comica la cosa, ci pensava mentre aspettava l’ascensore.
E poi voleva levare il reggiseno. Anzi, pensandoci lo avrebbe fatto proprio nell’ascensore, e se avesse incontrato qualcuno, beh, pazienza, si sarebbe rifatto gli occhi.
Le porte le si aprirono davanti e la luce la investì; gli occhi bruciarono, all’inizio fu costretta a chiuderli, per poi riaprirli.
La sua figura, sfatta e bagnata, le apparve davanti.
Selezionò il tasto del piano sul tastierino dell’ascensore, senza neppure guardarlo; continuava a fissare il suo sguardo.
Stanco.
Guardò anche le labbra, ed era così provata da non riuscire neppure a serrarle. Erano schiuse, il respiro vi passava galeotto attraverso e fuggiva via, per poi schiantarsi contro gli specchi e appannarli.
Voleva un bagno caldo e voleva che non ci fosse nessuno in casa.
Se ne rese conto quasi con sgomento e tirò fuori un respiro colmo d’ansia, mentre una goccia d’acqua abbandonò i capelli e le cadde sulle spalle.
La situazione con Sapphire, e Ruby che la sognava, non la rendeva molto felice. Cercava di valutare tutte le possibili situazioni, tutte le scappatoie, ma la verità era che non sapeva come affrontare quella cosa.
Il freddo la ricopriva interamente e finì per stringersi nelle spalle prima di potersi rendere conto del fatto che, nonostante Ruby l’avesse rassicurata più e più volte, continuava ad avere dubbi sulla sua parola.
Non era chiaro.
Non era normale.

Ou peut-être, oui...

Rivalutò i suoi pensieri.
Dopo anni e anni passati accanto a una persona non sarebbero di certo bastati poco meno di sei mesi per relegarla nel dimenticatoio.

E poi i sogni funzionano in maniera strana…

Doveva aprirsi di nuovo a quell’uomo, che tanto l’amava. Lui l’aveva percepita quella freddezza e forse non la meritava.

Sans peut-être. Il ne le mérite pas.

Le porte dell’ascensore si aprirono un’eternità di secondi dopo, leggere.
Mosse passi bagnati verso la porta di casa e cercò inutilmente di asciugare le suole, infilando poi la chiave nella serratura.
Ma la porta si aprì da sola.

Ruby è in casa. Il l'ouvrit.

Lo sguardo del ragazzo s’illuminò non appena la vide.
Lui era ben pettinato, chiuso in un elegante abito Armani, grigio, ma aveva levato la giacca. La camicia era azzurra, i polsini erano risvoltati, le maniche alzate fino agli avambracci.
Le scarpe erano lucide.
Lei, a confronto, pareva aver passato un brutto quarto d’ora.
“Amour…” gli disse quella, sorridendo gentilmente. Lui la baciò e le diede una mano a sfilare il soprabito.
“Com’è andata la giornata?” domandò l’altro, sovrastando con la voce il contrabbasso di Charles Mingus, che suonava in diffusione per tutta la casa.
Quella sorrise, riconoscendo il caldo tepore di casa sua. Sfilò i boots dai piedi e tirò indietro i capelli.
Mon Dieu… je suis vexé…”.
Ruby sorrise e la baciò di nuovo. “Ti ho vista, giù, mentre venivi da lontano. Ti ho preparato un bel bagno caldo…”.
Lei spalancò gli occhi.
“Sei l’uomo dei sogni. Vieni con me?”.
Quello sorrise e, lentamente, fece cenno di no. “Sto cucinando, Yv…”.
“E che stai cucinando?” chiese, avanzando verso la cucina, prima che quello la bloccasse.
Na-nna-nna-nnà, ferma lì, piccola baguette… È una sorpresa…”.
Quella sorrise e inalò il dolce profumo che fuoriusciva dalle pentole. “Mhm… Che buono!”.
“Vai a scaldarti un po’. Tra venti minuti è a tavola”.
Quella annuì, sorridente e bagnata, baciò l’uomo e si voltò, sparendo nel corridoio buio.
Aprì la porta del bagno, dove mille piccole candele erano state accese, e dove altrettanti petali di rosa formavano un morbido tappeto.
L’acqua nella vasca era calda, e schiuma bianca e profumata ne ricopriva la superfice.
Si spogliò con dolce lentezza, divisa a metà tra lo stupore e la paura di poter rovinare tutto con un gesto inconsulto.
Via i pantaloni, via le calze fradice. Pensò che probabilmente avesse lasciato le pedate d’acqua, dopo che ebbe levato gli stivaletti.
Levò anche il maglioncino di filo, nero, che aveva indossato per una buona parte della giornata, quindi via gli slip e, finalmente, anche il reggiseno.
Nuda e congelata, lei.
Quando immerse il piede in quell’acqua che emetteva vapore, un brivido la percorse lungo la bianca schiena. Il suo corpo seguì subito dopo.
S’immerse tutta, per pochi secondi, lasciando che il caldo la conquistasse e la facesse sua.
E quando riemerse, rimase vari minuti a fissare le fiammelle delle candele che danzavano sinuose, ognuna la propria danza.

Ruby aveva urlato già un paio di volte che il cibo fosse pronto a tavola, ma Yvonne non era ancora uscita dal bagno.
Dal canto suo, lei s’era addormentata sfinita, immersa nella bellissima vasca da bagno riempita di pace. La voce del suo uomo la ridestò ma rimase comunque in bagno per diversi minuti, cercando di asciugare la lunga chioma.
Non ce la fece, ovviamente, e avvolse un lungo telo blu attorno alla testa, sgambettando in slip fuori, verso la camera.
Già immaginava di vedersi con addosso la lunga felpa col cappuccio e i pantacollant bucati tra le gambe, ma quando accese la luce poté vedere un bellissimo tubino rosso, semitrasparente sul seno e sui fianchi, oltre che sull’ombelico.
Corto quanto bastava.
E accanto un paio di morbide pantofole rosa.
Ruby la sentì ridere. Capì che aveva capito.

Pochi minuti dopo si presentò davanti a lui, stretta nell’elegante abitino, che camminava con le pantofole pelose e l’asciugamano tra i capelli.
Lui la vide e sorrise, portando le mani ai fianchi, poggiato al frigorifero.
Yvonne sorrise, allargando le braccia come per dire guardami, e poi annuì. “Ho dovuto cambiare asciugamani, nei capelli. Non si abbinava…”.
Ruby sorrise e le si avvicinò, stringendola con vigore e affondando le mani nei suoi fianchi.
“Come sempre, riesci a valorizzare qualsiasi cosa produca”.
Lei arrossì, baciandolo.
“Ho fame”.
L’altro sorrise ancora.
“Sì, è tutto pronto. Aspettavo te”.
“Che si mangia?” domandò lei, che fu presa per mano e portata nella sala da pranzo, dove una grande tavole era imbandita con fiori e candele. Sulla sinistra il seau a glace conteneva una bottiglia di Sauvignon, da stappare ancora.
“Qualcosa di buono…” rispose l’altro, spostandole la sedia e facendola accomodare. “E ora attendi un minuto…”.
Sparì, lui, e Yvonne rimase lì, sorridente e felice a guardare il fuoco del camino che riscaldava i cuori e l’ambiente. Ella Fitzgerald e Louis Armstrong cantavano Summertime, mentre i rumori dalla cucina precedettero l’arrivo del suo uomo, con una grossa padella tra le mani e un mestolo che ne spuntava fuori.
“Oh! Cos’è!” fece lei, fremente.
Ruby amava quegli occhi entusiasti.
Bouill… Bou… Bouil… è più facile cucinarlo che dire come si chiami, questo piatto…”.
E l’entusiasmo della bella bionda si trasformò in sorpresa.
Fu strano, perché da socchiusi, i suoi occhi dapprima si spalancarono. Poco dopo però le sopracciglia s’inarcarono, andando sempre più a stringersi.
Anche le iridi, chiare e colorate dal fuoco del camino, s’incupirono, bagnandosi di lacrime calde e salate.
Ma il suo sorriso avrebbe potuto fermare una guerra.
Bouillabaisse…” disse.
“Non la reputavo una parola così commovente…”.
Quella esplose in una risata, fragorosa.
“Tu hai cucinato per me la Bouillabaisse?”.
“Sì. E ti dirò una cosa: non cucinerò mai più nulla di europeo; maki e zuppe per il resto della mia vita. E la pizza di Alfredo alla domenica”.
Altro sorriso.
“Mangiamo?” chiese Ruby, vedendola annuire.
Le piazzò il piatto vuoto davanti, con i croutons e i pescetti. Aggiunse il San Pietro e poi il caldo e saporitissimo guazzetto.
Yvonne lo divorò.

Certo, non era come quello che preparava sua nonna.
Lei non aveva tutti quei soldi per comprare quei pesci così costosi, si arrangiava con quello che il nonno riusciva a pescare.
Ma era lo stesso delizioso. E lo sarebbe stato comunque, dato che le mani che l’avevano preparato appartenevano allo stesso uomo che la guardava con splendida ammirazione, nonostante avesse i capelli bagnati e fosse totalmente struccata.

“Perché?” domandò Yvonne, una volta finito di mangiare.
Ruby si alzò e racimolò piatti e posate da lavare. Lasciò soltanto i grossi calici davanti a lei.
“Perché te lo meriti. Sento che non sto facendo abbastanza per te…”.
Lei rimase in silenzio. Lo spettro di Sapphire s’era diradato, forse, ma sapeva che la reazione di qualche giorno prima, quella freddezza che non riusciva a nascondere, fosse la principale responsabile di quella serata magnifica.
“Tu sei meraviglioso…”.
“E anche tu” ribatté lui, circumnavigando il tavolo e sedendosi accanto a lei. “Ed è proprio per questo che non voglio perderti. Che voglio continuare ad averti tra i piedi per tutta la mia vita, vestita come la più bella delle donne nonostante l’asciugamano e le pantofole…”.
Quella sorrise, divertita. Però arrossì, e la cosa fece sorridere anche Ruby, che non credeva che una donna del genere potesse arrossire ancora.
“Non mi perderai. Io… L’altro giorno…”.
“Lo so, Yv. Mi spiace tantissimo averti fatta preoccupare, credimi. Ma non sarà per colpa di Sapphire, se la nostra magia finirà…”.
L’asciugamano si sfaldò all’improvviso, cadendo per terra e rivelandole la chioma, che coi capelli bagnati sembrava parecchio più scura.
“Il phon sai dov’è. Vai in bagno, prima che ti venga qualche accidente…”.
“Quello che volevo dire è che non importa quello che mi dirai tu, o qualsiasi uomo sulla faccia della Terra… Potranno anche definirmi la donna più bella del mondo, Ruby, ma la verità è che non potrò mai competere con lei, nella tua vita. Non la sostituirò, non riuscirò mai a farlo. Non posso cancellarla dalla tua testa, posso soltanto superarla…”.
“E lo farai”.
Oui… ma tu potresti sempre voltarti indietro, e guardarla. Lei ha sempre fatto parte della tua vita…”.
Il silenzio si sedimentò tra di loro, per un piccolo istante. Il fuoco del camino scoppiettava e Yvonne si alzò in piedi, avvicinandosi di più a lui. Gli carezzò il volto, morbido e rasato da poche ore. Profumava di dopobarba.
“Lei è per te una cicatrice. Non andrà mai via dalla tua vita e tu non potrai mai allontanarla. Riuscirai a non guardare mai indietro?”.
La mano della donna carezzò proprio la cicatrice, che aveva sulla fronte.
Si guardarono, poi, per quasi dieci secondi.

Ruby schiudeva le labbra,
Yvonne pure,
Ruby batteva gli occhi,
Yvonne sospirava,
Ruby si alzò in piedi,
Yvonne lo guardò negli occhi.  
Si baciarono.

E lo fecero così passionalmente da sentire il cuore dell’altro battere nel proprio petto. Forse quella crisi non se la sarebbero mai dovuta meritare, loro, che si cibavano dei rispettivi respiri.
Lui la strinse, lei cinse le braccia attorno al suo collo.
E i cuori continuavano a battere.
Si staccarono giusto per un momento, entrambi sovraccaricati da tutta quella tensione.
Yvonne mordicchiava le labbra di Ruby. Lui ansimava. Voleva prenderla in quel momento.
“Non guarderò indietro, se la strada che devo fare sei tu”.

I vestiti caddero velocemente, lui la stese sul tavolo e i calici pieni caddero, uno si spaccò, riversarono entrambi il vino sulla tovaglia.
Fecero l’amore.
Stettero bene.
Lui le asciugò i capelli e l’accompagnò a letto, stanca e stremata. La raggiunse, poi, dopo aver fumato un’ultima, più che necessaria sigaretta.


Unima, Austropoli, Main Street, Casa di Ruby (Appartamento 19-C), 20 Ottobre 20XX

Quello era probabilmente l’autunno più piovoso che Unima avesse visto negli ultimi cinquant’anni.
Certo, a Ruby la pioggia non faceva più effetto.
Quella sera aveva lavorato fino a tardi. Da quando l’Atelier era nello stesso palazzo di casa sua non si rendeva più conto del momento in cui il sole si tuffava oltre gli alti palazzi. Poco dopo i lampioni si erano accesi e gli uomini d’affari sui marciapiedi venivano sostituiti mano a mano da giovani troppo poveri per le vetrine e ricchi troppo vecchi per quella città.
Lo stilista teneva la testa bassa sui cataloghi e sui campionari, sui bozzetti, fino a quando Whiteley non salutava e spegneva le luci.
Lui rimaneva lì, a leggere e cucire, e disegnare.
Quando riusciva a entrare in quella spirale di concentrazione e buona musica neppure quel bisogno di fumarsi una sigaretta lo smuoveva dal suo ruolo.
Che poi se lo ripeteva, mentalmente: Ruby Normanson, stilista.
“Con un atelier...” faceva.
Esauriva la voglia, esauriva le idee, forse era la stanchezza eccessiva o la voglia di provare la Camel Light che aveva rubato a Jenny, una delle sue collaboratrici, fatto stava che a fine serata si rendeva conto di essere in orario borderline per la cena, che Yvonne saltava quasi ogni volta, limitandosi a mangiucchiare una dadolata di verdure miste, col buon proposito di lasciare integro il pacco di marshmellow nell’anta in alto dell’ultimo pensile, nascosto dietro i cereali integrali.
Si ritrovava quasi sempre davanti alla grande finestrata, oltre la scrivania del suo ufficio, guardando per strada, prima che l’accendino illuminasse il suo volto e bruciasse la punta della Camel.
Tirava nei polmoni fumo sporco, lo ributtava fuori ma percepiva che qualcosa fosse rimasto lì, nel suo corpo, e bruciava, ma poco importava. Guardava la scrivania, e i manichini vestiti con quei modelli che ore prima erano solo disegni, prima ancora solo idee.
E poi diventavano stoffa. E poi Yvonne li indossava, e li trasformava in qualcosa che tutte le donne volevano.
Spegneva la sigaretta e buttava il mozzicone oltre la finestra, poi camminava lentamente verso l’ascensore e tornava a casa.
E quindi sì, si ritrovava lì, troppo tardi per cenare, troppo presto per andare a dormire, o per prepararsi per uscire. Uscire dove, poi? Con quel tempo così umorale.
Ruby amava l’autunno, ma Yvonne l’odiava. Quando sentì la porta aprirsi alzò leggermente la testa, dal divano sul quale era appollaiata.
L’uomo raggiunse il salotto, buttò le chiavi sul tavolino e la vide lì, coi capelli legati, una scodella con una carota e un sedano a cubetti e un libro nella mano sinistra.
“Cinquanta sfumature di grigio?” domandò quello, sorridendo.
“Buonasera. E no, ho decisamente più buon gusto di quello che credi...”.
Il titolo era in francese. Ruby non riuscì a leggere quale fosse, prima che lei lo poggiasse sul divano.
Era strana.
Mangiò un boccone e rimase a fissarlo, seria.
Lui le si avvicinò e la baciò. Lei si staccò subito.
“Yv...” sussurrò l’altro.
Quella lo fissò, con lo sguardo vuoto.
“Che c’è?”.
“È successo qualcosa?”.
Gli occhi di Yvonne si abbassarono subito.
“Cioè... Sei triste, amore. Cosa stai pensando?”.
Non rispondeva. Rimase col capo chino e riprese il libro, riaprendolo. Passarono pochi secondi, lei voltò pagina e sentì Ruby sospirare. Non lo guardò.
“Yvonne” riprese lui, sedendole accanto. Le poggiò una mano sulla coscia, per poi trascinarla sul braccio e infine sul collo. Quella si ritrasse.
“Yv...”.
Ruby riportò la mano in giù, congiungendola con l’altra sua sorella.
“Va tutto bene” fece quella. Il ragazzo vide una lacrima, una perla luminosa, scivolarle lentamente sul viso.
“Perché menti?” ribatté quello, spostando lo sguardo rubino e tuffandolo nella tempesta che quella aveva in volto.
“Non mento! Ruby, non sto mentendo! Sto bene!”.
La situazione era paradossale.
Il ragazzo cominciò a pensare a tutto ciò che era successo nelle ultime ore, giorni, mesi, che avrebbe potuto scatenare tale reazione nella donna, ma non riusciva a capirne i motivi.
“So che in questi giorni sto facendo piuttosto tardi ma c’è la sfilata, la decima, e vorrei che tutto fosse perfetto…”.
“Non è per quello…” ribatté lei, tra i denti.
“Allora qualcosa c’è”.
“Niente, Ruby…”.
“Pensavo che dopo la cena dell’altra sera fosse tutto a posto…”.
Lei sbuffò, passò una mano tra i capelli e lo guardò, sfatta.
“Lasciami in pace”.
Fu lì che il ragazzo rimase spiazzato, in silenzio.
“Cosa diamine sta succedendo?” domandò, con calma proverbiale. Di fronte però trovò un muro.
Un muro che gli crollò addosso.
“Lasciami in pace!” urlò Yvonne, lanciandogli il libro contro e alzandosi.
Sbatté forte la porta della stanza da letto.


Unima, Austropoli, B&W Agency, Ufficio di White, 21 ottobre 20XX


“Vai, continua… ti ascolto…”.
Pioveva.
“Se vuoi aspetto che finisci”.
“Già, mentivo, non ascolto mai, mentre lavoro. ‘Spetta ‘n momento…” faceva White, che col grosso tablet tra le mani stava selezionando delle fotografie da sottoporre ad alcuni dei suoi collaboratori.
“Questa… questa e… questa. Perfetto. Tyler, sei lì. Tyler?” domandava, guardando il vuoto mentre premeva l’auricolare all’orecchio. “Va bene, non farmi aspettare e fammi sapere. So che non ci dovrebbero essere problemi ma devi fare sessanta telefonate, parlare col comune e con l’hotel”.
Yvonne non faceva altro che guardarsi intorno, quando era nell’ufficio di White. Le piaceva il gusto con cui aveva arredato l’ambiente, coi colori freddi a regnare e i piccoli particolari dalle tinte sgargianti a rapire lo sguardo.
Lì tutto era il meglio: il miglior whiskey era su tavolini di cristallo che costavano quanto delle automobili. Morbidi divani poggiavano su preziosissime moquette.
E la tecnologia era eccelsa. Lì tutto era all’avanguardia, velocissimo.
White si era immersa in un ambiente molto efficiente.
“Sì, lo so che non ci saranno problemi ma questo me lo devono dire gli organi competenti e voglio una carta firmata dal Papa in cui verrà specificato che nessuno mi romperà le palle durante la sfilata. Compris?”.
Yvonne spalancò gli occhi e sorrise.
“Compris, perfetto. Seduta davanti a me ho qui Yvonne Gabena e già l’ho ignorata abbastanza. Chiamami tra dieci minuti”.
Premette un tasto sull’auricolare e lo levò, allontanandolo dalla vista.
“Odio il telefono. Che dicevi?”.
Alzò gli occhi azzurri verso una più che divertita Yvonne, che aspettava a braccia conserte e gambe incrociate sulla poltroncina.
“Non so come fai” fece invece l’altra. “Ci vuole un’organizzazione tremenda per fare questo lavoro”.
White sorrise a mezza bocca e sospirò. “Vuoi un drink?”.
Yvonne guardò l’orologio e inarcò le sopracciglia. “No, non bevo prima di mezzogiorno”.
“E sbagli” ribatté l’altra, alzandosi e prendendo un bicchierino dal mobile. Si avvicinò poi al tavolino col whiskey e se ne versò un po’.
“Forse è così” sorrise l’altra, vedendola tornare al suo posto.
Quella sorseggiò quel liquido ambrato e poggiò il bicchiere di cristallo sulla scrivania. “Comunque non faccio nulla di che… Non serve tutta quest’organizzazione per portare avanti la baracca… Basta incutere paura nei tuoi sottoposti e far capire loro che sai benissimo come farli diventare ricchi, e ti seguiranno per sempre”.
Yvonne rise. “Non ti credo”.
“Infatti, fai bene. Se non ci fossi io questo posto collasserebbe su se stesso”.
Risero entrambe, White buttò giù l’alcol che le era rimasto e quindi sospirò. “Che cosa ti porta qui, piccola baguette?”.
La bionda inarcò le sopracciglia, quindi le aggrottò. “Ruby?”.
“È un soprannome troppo adatto. Bionda, secca e lunga. Ottima per la colazione…”.
Arrossì violentemente, quella di Kalos. “Ti ha detto anche delle madeleine…”.
La Presidentessa annuì. “Cosa vuoi che ti dica… è il mio socio. Mi dice molte cose. Comunque?”.
“Comunque cosa?”.
“Comunque perché sei qui?”.
Yvonne annuì e tirò fuori aria grigiastra d’angoscia dai polmoni, che White non poté vedere.
“Ieri… io e Ruby abbiamo avuto una brutta lite”.
White spalancò gli occhi e schiuse la bocca. Si alzò immediatamente in piedi e poggiò i palmi incandescenti delle mani sulla scrivania.
“Non dirmi che vi siete lasciati, Yvonne! Che diamine ti salta in mente?! Vi avevo avvertito di stare quieti e di non combinare disastri! Come farete a lavorare assieme, adesso?!”.
“Non ci siamo lasciati… e a dire il vero lui ieri non ha detto nulla. Ho fatto tutto io”.
White espirò ansia.
“Che cazzo significa?”.
Yvonne ridacchiò leggermente e portò le mani sulle ginocchia accavallate Tornò subito seria.
“Significa che gli ho urlato contro e me ne sono andata via”.
“Perché?!”.
“Uff, non lo so. E pensare che qualche giorno fa abbiamo passato una serata meravigliosa…”
La Presidentessa rimase a guardarla, confusa. E confusa come lei, si accomodò, prima di prendere tra le mani il cellulare, che vibrò.
“Ah sì?” fece, cominciando a digitare velocemente qualcosa sul tastierino. Le sue unghie smaltate volavano sul Blackberry consumato dal lavoro. Gli occhi celesti rimbalzavano nervosi tra la figura della modella che aveva davanti e il suo lavoro, che stringeva avidamente tra le mani.
E Yvonne lo sapeva. Tuttavia continuava a parlare come se quella fosse realmente interessata.
“Non lo so. Lui è tremendamente dolce, l’altra volta pioveva e…”
 “Piove anche oggi”.
“Ero a fare quel servizio fotografico con Tracy Meyer…”.
White alzò gli occhi. “Sì, lo so. Tra un mese sarai su Vogue. Di nuovo”.
La modella la vide sorridere sorniona. Era come se fosse fiera di averle dato tutta quella notorietà.
“Sì, okay. Mi sono bagnata tutta, ieri, perché il taxi non passa su Main Street e…”.
“È pedonale”.
“Non avevo l’ombrello” ribatté l’altra.
“Male”.
“Sono arrivata… humide… a casa”.
White sorrise. Posò poi il cellulare e la guardò negli occhi. “Continua”.
“Lui…” abbassò lo sguardo, Yvonne. “Mi ha preparato il bagno caldo, e il mio piatto preferito… con i croutons… e poi abbiamo fatto l’amore”. Il sorriso sul suo viso fu tagliato di netto dall’espressione triste che la modella aveva in volto.
“Hai avuto anche il coraggio di urlargli contro?”.
“Lui è perfetto, White… Ma pensa ancora a Sapphire. Può tranquillamente dirmi il contrario ma so che è così…”.
L’altra si bloccò. E forse fu la prima volta, quel giorno, che Yvonne la vide non intenta a fare altro. Abbassò gli occhi sul bicchiere, vuoto, e sospirò. La castana riprese il cellulare e carezzò delicatamente lo schermo.
“Ti ha detto qualcosa?” chiese poi.
“No. Ora lo chiedo io a te: ti ha detto qualcosa?”.
Fece cenno di no.
“Niente di niente…”.
Yvonne sbuffò e passò una mano tra i capelli. White poté vedere lo smarrimento nel suo sguardo, fissandola mentre ripassava con gli occhi tutto ciò che aveva davanti: dalla grande vetrata alla scrivania di cristallo su cui era poggiata la sua borsa, passando per il volto di White, per poi tornarci infine.
“Sei sicura? Cioè, sei davvero sicura che non abbia detto nulla riguardo a Sapphire?”.
La donna al di là della scrivania fece spallucce, quindi sospirò.
“A me non ha detto nulla, ma era qui l’altro giorno… e posso assicurarti che ti ama. Sai bene che ho provato a dissuadervi dall’idea di stare assieme, sono sincera, per me siete prima lavoro e poi persone, e vorrei che per tutti fosse così. Ma non posso impedire a un uomo che ti guarda con quegli occhi di amarti. Sarebbe cattivo”.
Yvonne sorrise, quasi rincuorata da quelle parole.
“Inoltre non ci riusciresti…” fece.
White annuì e poi indicò la porta con lo sguardo.
“Ho un appuntamento, tra cinque minuti. Non sbattere la porta”.
“Va bene...” annuì l’altra.
“E non fare cazzate”.


Unima, Austropoli, Main Street, Casa di Ruby (Appartamento 19-C), 23 ottobre 20XX

Quello era uno di quei giorni in cui l’atelier di Ruby sembrava una stazione ferroviaria. Per ogni persona che varcava la porta dell’ufficio dello stilista vi era un altro che lo lasciava con una precisa mansione da fare.
“Il giorno della sfilata si avvicina! Dobbiamo fare presto e cercare di stare dietro al confezionamento degli abiti!” urlava White, con le maniche della camicetta bianca alzate all’avambraccio e i pantaloni bianchi che le stringevano le cosce.
Si voltava in continuazione, per cercare lo sguardo di Ruby, che era tuttavia sempre impegnato sulle sue modelle, tutte in fila, con gli abiti da indossare.
“Lei è la terza” fece lo stilista, afferrando Kendra, una magrissima ventenne che veniva da Sinnoh, e spingendola con delicatezza avanti, verso Whiteley. Quest’ultima prendeva appunti sulla grossa cartellina che aveva davanti al volto. Aiutò Kendra a svestirsi e poi guardò la porta.
Yvonne era appena entrata, indossando un grosso cappotto di panno nero. Era ben chiusa, lì dentro, si riuscivano a vedere a malapena i grossi stivali neri che battevano sul pavimento, che rifletteva le calde luci dell’atelier.
White le si avvicinò e le baciò la guancia. “Ciao, escargot. Sei in ritardo”.
Il volto di Yvonne era corrucciato.
“Sai che les escargot sono lumache?”.
“Hai fatto tardi, altrimenti ti avrei chiamato tacchinella. Vai a prepararti” fece, dandole una pacca sul sedere.
Quella camminò lentamente, quasi sfilò lungo il piccolo corridoio formato dalle scrivanie, quindi entrò nell’ufficio.
Non vedeva Ruby dalla litigata. Stava dormendo nell’ufficio, probabilmente.
Si erano tuttavia sentiti, tramite messaggi, ma non riusciva a capire se fosse effettivamente nervoso. Fatto stava che la situazione che si era creata tra di loro non si era risolta ancora, e Yvonne ancora vedeva l’immagine di Sapphire riflessa nello sguardo di Ruby.
Ruby invece vedeva una stronza umorale.
Bonjour” fece, levando il grosso cappotto e gettandolo sulla scrivania dello stilista.
“Ciao” le sorrise Whiteley, cordialmente, andando poi a riporlo sull’appendiabiti.
“Sei arrivata...” rispose Ruby, alcalino. “Finalmente”.
“Mi stavano intervistando. Lo avresti saputo se...” levò poi il maglioncino di filo a collo alto. “... se avessi fatto una telefonata...”.
“Whiteley, Faye è la quinta”.
“Apertura e chiusura a Yvonne, giusto?”.
La guardò, che sfilava gli stivali. “Sì. E anche il nono. August non lavora più con noi”.
“Oh, okay...” faceva quella, annotando tutto sul suo foglio.

E provarono tanti vestiti.
Passarono dodici ore, in cui fu stabilita la corretta organizzazione della serata.
Le modelle erano andate via subito dopo gli stilisti.
Poi toccò a Whiteley.
“Ci vediamo domani...” fece Ruby, senza neppure guardarla. Stava ponendo gli ultimi punti sull’abito di chiusura della sfilata. Yvonne era davanti a lui, con le gambe strette e le braccia allargate.
“Sono stanca...” sbuffò lei. “Stai attento con quell’ago...”.
White era seduta alla scrivania, coi gomiti puntellati e le mani ad afferrare le guance. Era in uno di quei rari momenti in cui si preoccupava più della pettinatura che aveva piuttosto che del cellulare.
“Non ti ho mai punta, Yvonne...”.
“Potresti sempre cominciare...”.
White sbuffò. “Smettetela di litigare... sembrate dei ragazzini...”.
“Oh, ma lei lo è...” fece quello, stringendo un punto e tenendo stretta la donna sul fianco destro. Le dita toccavano il tessuto ma il calore della donna lo attraversava.
Crétin”.
Ruby sorrise e la punzecchiò con l’ago sul braccio, quindi la sentì urlare. Scese rapida dal piccolo sgabello e spinse per terra Ruby, che cominciò a ridere divertito.
“Tu me fais mal! Connard!”.
Ti ha chiamato stronzo?” domandò White, alzandosi.
Ruby annuì, sospirò e posò ago e filo sulla scrivania.
“Vai?” domandò poi alla Presidentessa.
“Sì. Domani c’è parecchio da fare. Voi non fate tardi”.
“Tranquilla. Ordiniamo qui e andiamo a dormire”.

E così fecero. Montagne di abiti furono inseriti nei foderi di plastica, pronti per essere stirati prima della sfilata.
Lo fecero nel totale silenzio. Almeno prima che la stanchezza li cogliesse, così, impreparati.
Lui poggiato alla scrivania, davanti, con la mano destra al cellulare e la sinistra nella tasca, mentre Yvonne inseriva uno a uno gli abiti nel grosso guardaroba di legno massiccio alle spalle della scrivania di Whiteley, e mentre lo faceva sentiva lo stilista ridacchiare.
“Cosa ridi?”.
“Chi l’avrebbe mai detto che la grande Yvonne Gabena sarebbe finita per mettere in ordine il mio atelier?”.
E poi successe qualcosa che non sarebbe dovuta succedere: sul volto di Yvonne, sporcato da una smorfia infastidita per la battuta che aveva appena ascoltato, sbocciò una sorpresa mista a curiosità.
Le sopracciglia s’aggrottarono, la mano che era stesa sul fianco si allungò e afferrò un abito.
Ruby sentiva l’aria diventare improvvisamente elettrica; tra le mani di Yvonne c’era il vestito che aveva cucito per Sapphire.
Improvvisamente si chiese per quale motivo non lo avesse buttato via ma, mentre cercava una risposta razionale, capì che non sarebbe mai stato in grado di farlo.
Teneva a quel vestito. Inconsciamente teneva al ricordo che quel tessuto blu gli evocava.
“E questo?” domandò Yvonne, sollevando la gruccia e tirando fuori dal guardaroba l’abito. “Non me l’avevi mai fatto vedere. È per la nuova collezione?”.
E non sapeva neppure, Ruby, perché diamine non fosse stato in grado di dire una bugia, in quella circostanza.
“No. È un abito vecchio”.
Sul volto della donna non vi fu alcuna incrinatura. Levò il vestito dalla protezione di plastica trasparente e lo poggiò addosso, inclinandosi indietro.
“Mi va corto... è forse per qualcun’altra?”.
“Già”.
“Kimberly?” chiese, aprendo poi la zip e levando le scarpe. “Non lascerò che indossi questa meraviglia...”.
“No. Non è Kim”.
Yvonne levò rapidamente anche il maglione, rimanendo in reggiseno.
“Poi è largo sulle coppe. Che forme strane...”.
Ruby sospirò. “Sono le forme di una donna normale”.
“Nessuna di noi potrebbe indoss...”.
Gli occhi di quella si spalancarono. Il respiro aumentava d’intensità, il motore girava più forte ma il silenzio era tagliato a intermittenza soltanto dal ticchettio del Tissot che Ruby portava al polso.
Il volto di Yvonne si spostò lentamente, fino a quando incontrò il suo sguardo.
“Ti prego...” sussurrò lui. “Non lo mettere...”.
Cuori che battevano, il vestito cadde per terra.
“Sapphire?”.
Il ragazzo rimase in silenzio. Guardava l’abito.
“Sapphire...” sorrise poi. “Tu hai conservato un vestito che hai... che hai confezionato per Sapphire...”.
“Non so perché abbia voluto conservarlo...”.
“Lo so io” ribatté l’altra, abbassandosi e riprendendo il maglione. Lo indossò rapida, prese gli stivali tra le mani e fece per uscire, previo fermarsi davanti alla porta dell’ufficio.
Si limitò a voltarsi, con gli occhi colmi di lacrime. Il labbro inferiore era leggermente esposto, l’espressione contrita costrinse quasi con la forza il pianto a scendere.
Fece cenno di no con la testa, lei, finendo per girarsi e camminare lentamente verso l’ascensore.
Sparì oltre quelle porte automatiche di freddo acciaio, pochi secondi dopo, lasciando da solo Ruby nella sua creazione, davanti alla sua creazione.
Come uno stronzo.


Unima, Austropoli,03 Novembre 20XX

Le folate di vento sferzavano le strade eleganti del lungomare di Austropoli. Le persone sui marciapiedi erano strette nei propri cappotti.
C’era chi stringeva guinzagli lunghi e meno lunghi, e chi si limitava a passeggiare col sottofondo del mare arrabbiato sulla destra.
O sulla sinistra. Dipendeva da quale parte della strada camminavano.
Ruby si trovava da quella del mare.
Passeggiava lentamente, e intanto il suo sguardo si perdeva in quel punto indefinito dove il blu marino si fondeva col cielo, diventando un tutt’uno.
Forse era vero.
Forse, quando chi fuggiva camminava sulle onde, poteva raggiungere quel posto magico dove tutto era nulla.
Dove le nuvole erano onde salate.
Si chiedeva, Ruby, perché pensasse quelle cose.
Sul marciapiede dove camminava vi erano ancora carte di caramelle e residui dell’Halloween appena passato. Le sue Trussardi dalle punte lucide calpestavano il cemento, evitando attentamente le intersezioni tra mattonella e mattonella.
Lo faceva sempre.
All’improvviso rivide lo sguardo di Yvonne che lanciava lame infuocate in sua direzione.
Lo ferì, col suo silenzio, ma lui sapeva che fosse soltanto autodifesa.
Era uno stronzo.
Era stato uno stronzo anche dopo, quando raccolse da terra l’abito di Sapphire e si sedette davanti alla macchina da cucire.
Quella notte lo finì. Lo infilò nuovamente nel guardaroba e tornò a casa.
Era vuota, quando aprì la porta.
Yvonne non rispose al cellulare fino al mattino dopo, e donò al suo uomo una notte agitata come il mare di quegli undici giorni dopo. Ricordava di non essersi mai girato tante volte da un lato all’altro del letto.
Da una parte c’era l’armadio, con l’anta mezza aperta e l’angoscia che lo fissava nel buio, dall’altra c’era la paura che il vuoto lasciato da Yvonne quella notte non fosse mai più sostituito dal suo corpo.
La chiamò almeno venti volte. Rispose alle dieci.

“Yv...”.
“...”.
“Yvonne”.
“Ruby”.
“Dove sei?”.
“A Sciroccopoli. Sto lavorando”.
“Lavori?”.
“Sì”.
“Stai bene?”.
“Sì”.
“... Okay...”.
“... Devo andare”.
“Ti prego, ascoltami...”.
“No”.
La telefonata s’interruppe lì.

Non la vide per tre giorni. Lei tornò a casa quando lui era via, prese qualcosa dall’armadio e tornò sui suoi passi. Ruby non si sarebbe mai accorto di lei se solo non avesse riconosciuto il suo odore, una volta che, come sempre a tarda notte, ebbe varcato la soglia della sua abitazione.
Il giorno dopo decise di tornare tre ore prima a casa. Lasciò che fosse Whiteley a chiudere bottega.
Quando infilò le chiavi nella toppa, armeggiando qualche secondo di troppo senza riuscire a trovare il buco della serratura, sentì la maniglia abbassarsi da sola e l’ingranaggio scattare.
Lei era davanti a lui.
Ruby aveva sentito il cuore battere. Accarezzò l’idea di saltarle addosso, sbatterla al muro e baciarla con forza ma dovette scontrarsi con lo sguardo d’acciaio che indossava.
“Vado via subito” fece poi, voltandosi e andando verso il salotto.
“Non ce n’è bisogno”.
Seguì la scia di profumo emanata dai capelli biondi, legati in una coda di cavallo alta. Oltre il tramezzo che li divideva, il camino scoppiettava e illuminava l’ambiente, macchiato di luce qua e là da un paio di lampade al led.
Quando la raggiunse, lei era già seduta sul divano. Infilava le scarpe da ginnastica, senza calzini.
“Non c’è alcun bisogno che tu vada via” riprese il ragazzo, stringendo i pugni.
“Ho da fare” ribatté quella, afferrando il calice che aveva davanti e buttando giù ciò che rimaneva del bicchiere mezzo pieno di Pinot.
O forse era mezzo vuoto.
Si alzò e lo dribblò velocemente, arrivando fin quasi alla porta.
Poi una mano si appoggiò sulla porta e l’altra venne trattenuta. Trattenuta da un’altra mano.
“Non ce n’è bisogno”.
Si voltò, Yvonne, guardandolo negli occhi.
“Devo andare”.
“Non ce n’è bisogno”.
Yvonne strappò la mano dalla presa, abbassò la serratura e sbatté la porta alle sue spalle.
Davanti a lui.

Sentiva ancora il tonfo sordo, Ruby, e invece era davanti al mare.
“Ti sto aspettando da un’ora”.
White scendeva da un taxi in corsa. Poggiò una banconota da dieci sul sediolino e chiuse la porta.
“Sei appena scesa, ti ho vista...”.
La donna sistemò la voluminosa pashmina bordeaux attorno al collo e si esibì in un lieve inchino davanti all’uomo.
Poggiò per un attimo lo sguardo addosso all’uomo dalle mandibole serrate e dallo sguardo spento, quindi portò le mani ai fianchi.
“Tra i due, quello con la vita sentimentale disastrosa pensavo sarei stata sempre io...”.
“Non vuole parlarmi” disse poi, voltandosi e poggiandosi alle balaustre. Il mare ruggiva davanti ai suoi occhi, inghiottito improvvisamente da grosse nuvole nere che si avvicinavano da ovest.
“E perché?”.
“Perché ha trovato un vestito che avevo confezionato per Sapphire”.
White inarcò le sopracciglia, e poi sorrise leggermente.
“E tu le hai detto che era per Sapphire, giusto?”.
“Sono un coglione...”.
“Uno gigante”.
“Un coglione gigante”.
White gli diede una pacca sulla spalla e si avvicinò a lui, affacciandosi sulla distesa furibonda.
“Le ho parlato, stamattina...”.
Lui si voltò immediatamente, fissandola negli occhi.
“Dove?”.
“Da me. Mi è venuta a trovare”.
Ci fu un momento di silenzio tra i due. “Ti ha detto dove sta dormendo?”.
“Da una delle nostre modelle. Non ricordo quale, sinceramente” fece, sbuffando. “Dobbiamo andare”.
Si voltarono e attraversarono la strada. Il Continental era davanti a loro, maestoso nella sua monumentalità.
“Nostalgia?” sorrise White.
“Neanche un po’...”.
La porta scorrevole automatizzata si fermò non appena loro le si pararono davanti. Ruby inalò quell’aria così fresca e profumata che gli aveva dato il bentornato a casa per mesi e mesi, ricordando il numero preciso di passi che lo avrebbero avvicinati all’ascensore.
Otto.
Come i mesi che aveva passato lontano da casa sua.
Sentiva una leggera mano d’angoscia stringergli lo stomaco. Voleva Yvonne, in quel momento, e quell’insana impazienza non faceva altro che impedirgli di concentrarsi su tutto ciò che Yvonne comportava per White.
“Lavoro. Siamo qui per lavoro...” diceva la Presidentessa al concierge. “Avevo un appuntamento per oggi, per la situazione della sfilata sul terrazzo”.
Inarcò il sopracciglio sinistro, Marcel. Era un uomo del tutto rigido e impettito, sempre ben vestito e pettinato. La cravatta era ben annodata al collo e pareva conferirgli quell’espressione perennemente contrita. Poi vide Ruby e cambiò totalmente la fisionomia del volto, cercando di rimanere serio e non distrarsi.
“Io non sono informato su nessuna sfilata per il terrazzo...”.
White ruotò gli occhi e sbuffò, voltandosi verso Ruby. “Vieni qui”.
Lo stilista le si avvicinò e sorrise cordiale, stringendo la mano all’uomo dietro il bancone dalla superficie di marmo.
“Salve, Marcel”.
“Signor Normanson” rispose lui, congiungendo le proprie mani coperte da guanti di velluto bianco attorno a quella del ragazzo dagli occhi rossi. “Sono felice di vederla”.
“Anche io Marcel”.
“Dovrei darle una...”.
“La smettiamo con questi convenevoli?” interruppe White, battendo una mano sul bancone. “La sfilata è di questo signore qui, dopo vi bacerete con trasporto. Posso parlare con Mary?”.
“Uh, mi scusi. Le chiamo subito la direttrice Holloway” rispose quello, voltandosi e sparendo oltre una porta chiusa.
White e Ruby rimasero in silenzio ad ascoltare la gradevole musica d’ambiente davanti all’enorme bacheca delle chiavi, dagl’inserti dorati e la grossa effige centrale con la ci stilizzata al suo centro.
Lo stilista guardò la socia e sospirò.
“Baciarci con trasporto?”.
“Ora che sei su piazza...” fece spallucce la Presidentessa, ridacchiando.
“Non sono su piazza! Chi ti ha detto che sono su piazza?!” esclamò quello, voltandosi verso di lei. “Yvonne ha detto che adesso sono su piazza?!”.
White rise. “Stai calmo...”.
“Che diamine significa stai calmo?! Cosa ti ha detto?!”.
“Ti stavo solo prendendo in giro... calmati, ho detto...” disse infine, prima che Marcel uscisse dalla porta, seguito da Mary Holloway, una minuta donnicciola dal caschetto biondo e le rughe d’espressione fin troppo marcate. Indossava un foulard molto sottile, rosso, annodato al collo.
“Salve, White” fece quella, sorridendo cordiale. “Come ho appena finito di spiegare a Marcel, siamo più che pronti a mostrarvi il terrazzo”.
“Mi perdoni per l’inconveniente” s’inserì il concierge, stringendo tra le mani una busta da lettere. Gli occhi di Ruby si poggiarono sulle sue mani guantate, che la stringevano con gentilezza.
“Andiamo” faceva White, dando una pacca sulla spalla a Ruby e seguendo Mary Holloway verso gli ascensori.
“Sbrighiamoci” fece la direttrice, avanzando rapida. “Tra poco comincerà a piovere”.
E anche Ruby cominciò a camminare, prima che la voce di Marcel lo facesse voltare.
“Signor Normanson...”.
Ruby lo guardò negli occhi mentre, compunto, quello rimaneva in piedi dietro al bancone.
“Da quando è andato via non abbiamo più avuto l’occasione di parlare... Ecco”.
Gli porse poi la busta da lettera. Ruby l’afferrò e la guardò: sulla superficie opaca e candida vi era un’impronta di scarpa da donna.
“È mia?”.
“Era nella sua stanza quando l’abbiamo pulita, dopo che l’ha lasciata...”.
Il cuore di Ruby saltò un battito. La curiosità di aprirla faceva a cazzotti con la voce di White, che lo chiamava.
“Grazie” fece, voltandosi.
“Ruby! Stiamo aspettando te!” urlò invece la Presidentessa, già nell’ascensore assieme alla direttrice dell’albergo.
Le mani fremevano. Con gli occhi guardò il salotto con le poltroncine azzurre, sulla destra, poco lontane dalle due donne.
Doveva lavorare.
“Ehm...”.
“Ruby! Forza!”.
No, la lettera sembrava chiamarlo a voce più alta.
“White... Ti raggiungo tra poco”.
La Presidentessa gli mostrò il dito medio, quindi premette un tasto sul tastierino dell’ascensore e vi sparì oltre le porte.
Era finalmente solo, con la sua lettera.
Mentre avanzava verso i divanetti si sentiva come un ragazzino che aveva appena scoperto la pornografia, e che stava per accingersi in bagno con una vecchia copia di Playboy trovata in uno scatolone.

Era solo.
La musica non lo disturbava e la busta da lettere era tra le sue mani.
La aprì con delicatezza e ne tirò fuori un biglietto, piegato a metà.
Era curioso, lui.
La prima cosa che notò furono le macchie scure di mascara sparse qua e là sulla carta graffiata dalla punta della biro.
La seconda cosa che notò fu che il suo cuore cominciò a battere con una velocità immane non appena riconobbe quella grafia sguaiata e frettolosa.
Gli occhi si spostarono in alto, verso l’apice del foglio, mentre la bocca si asciugò immediatamente.
“Sapphire...”.

E lesse. Lesse tutto.
Lesse di come lei si sentisse affranta, per averlo perso.
Lesse di come si sentisse condotta in quella che sembrava essere una guerra subdola. Ruby non capiva cosa intendesse.
Parlava di quell’altra, Sapphire. Si chiedeva se fosse Yvonne.
L’ansia che prese a colpirlo forte nello stomaco.
Percepiva un vuoto, lui, che non provava da tempo, mentre allontanava per un attimo lo sguardo da quel foglio di carta sporco che pesava tonnellate.
Inconsciamente aveva l’impulso di allontanare quella lettera e uscire fuori, per cominciare a correre, nonostante dovesse ancora scorrere gli occhi su tutta la confessione fatta dalla donna che aveva condiviso la vita con lui per troppo, troppo tempo.
Continuò però a leggere di come lei si fosse pentita, col tempo, di averlo fatto entrare nella sua vita.
Era ancor più pentita però di averlo fatto andare via.
Ce l’aveva con se stessa, ma anche con lui: lo aveva accusato di averla cambiata.
Gli occhi vermigli del ragazzo si poggiarono su di una frase sbiadita da quelle che dovevano essere le sue lacrime.
La ripeté.
“Forse è vero che non sono la persona che ti meriti...”.
Ne era stato così sicuro, fino a un’ora prima. Ma il leggere le sue parole equivaleva di nuovo a starla a sentire, e avrebbe mentito a se stesso se avesse affermato che lei non gli fosse mancata, almeno un po’.
Si chiedeva quando, la ragazza di Hoenn, fosse entrata in quell’albergo, prima che il suo sguardo si poggiasse nuovamente sulla lettera che accarezzava con le dita affusolate.
Lesse delle sue insicurezze, e della consapevolezza che quella non sarebbe mai arrivata ad assomigliare a Yvonne. L’aveva addirittura citata.
Poi lo aveva chiamato per cognome, come faceva quando, per giocare, lei lo provocava.
Subito dopo gli aveva dato dello stronzo.
Neanche sapeva perché ma la sua parte razionale faceva muro e ripercorreva gli ultimi sei mesi della sua vita, chiedendosi per quale motivo lo additasse a quel modo: non aveva mai fatto nulla di scorretto, non si era mai comportato in maniera neppure lontanamente fedifraga.
Anzi.
Agli attacchi d’Yvonne, lui s’era sempre opposto, combattendo anche contro l’impulso di saltarle addosso e possederla.
Ciò che era successo tra lui e la bionda era nato diverse settimane il taglio netto che le loro vite avevano subito.
Si era riscoperto innamorato e aveva colto l’occasione.
Quindi perché era uno stronzo?
Continuò a leggere.
Lei si sentiva incompleta, senza di lui, cercando di fargli capire che neppure fosse interessata a tornare con lui. Tutte le coppie litigavano, chiunque avrebbe potuto prendersi una pausa.
Loro no. Avevano messo un punto, e Sapphire aveva sottolineato che seguirlo a Unima sarebbe stato il più grande errore che avrebbe mai potuto commettere.
La sua vita non era lì.
Sapphire apparteneva alla torrida Hoenn.
E poi ancora parlava di Yvonne, probabilmente. Come se la colpevolizzasse della loro rottura.
Si fermò nuovamente, stanco, lasciando cadere la lettera sulle gambe.
Sentiva l’ansia che White gli stava trasmettendo, dall’ascensore o magari già sulla grossa terrazza, ma la cosa che più gli premeva era continuare.
Però prese un po’ di respiro.
Fremeva.
Avrebbe voluto chiamarla, il suo numero lo conosceva a memoria, anche se non s’arrischiava mai neppure a digitarlo.
Abbassò solo lo sguardo; il foglio, sporco e spiegazzato, risultava lo stesso leggibile, senza che lui lo prendesse con le mani.
“Voglio che tu sappia che ora ho capito che sei un eccesso…” lesse.
Non capiva.
Eccesso in che senso? Eccesso in che modo?
Sapphire continuava a parlare di lui, spiegando più a se stessa che all’interlocutore immaginario davanti a cui era seduta quando piangeva e scriveva quella lettera piena di sbavature di mascara, e cancellature che, se proprio quella cosa sarebbe dovuta succedere, beh, forse era meglio fosse successa in quel momento, e non vent’anni dopo, passati a chiedersi se le scelte fatte fossero state giuste quando, di notte, lui sarebbe diventato un estraneo nel loro stesso letto.
E quindi la domanda che gli pose.
“Sarebbe stata la stessa, la tua vita, con me… con me accanto…” lesse, cercando di grattare via il trucco sciolto.
Fece cenno di no con la testa.
Ancora Yvonne, nella sua mente, a scacciare ogni pensiero inerente a Sapphire. Aveva amato lei, poi aveva imparato a farlo con Yvonne.
Si chiedeva se fosse possibile amare due persone contemporaneamente.
“In stile pizza e lasagna” pensò. “Due cibi, amo entrambi. Ma… con le persone non funziona così…”.
Zittì la sua voce interiore, capendo che le persone, a differenza di ciò che mangiava, provassero emozioni.
Continuò a leggere, dato che voleva finirla lì, e scorse rapidamente lo sguardo su ciò che Sapphire voleva fargli capire: era finita.
Con quella lettera lei si era finalmente convinta a lasciarlo libero, e a fargli vivere la propria vita, tra nastrini e merletti.
Tra il lavoro con Yvonne e le notti passate a cercare il suo calore.
Gli fece capire che la cosa l’aveva uccisa, e il solo pensarlo accanto alla bella di  Kalos non faceva altro che affondare quella lama sempre più in fondo. Però poi gli diceva che conosceva la propria vita e sapeva che, anche quella volta, avrebbe saputo come rialzarsi e trasformarlo, da vecchio demone che imperversava nella sua vita, a una fievole stella lontana in un cielo pieno di opportunità.
Quasi si augurava che lui si pentisse delle sue scelte, mettendo però per iscritto che, in ogni caso, non avrebbe mai più pronunciato il suo nome.

La lettera gli cadde dalle mani.
Il cuore batteva e una grande domanda non riusciva a trovare la via delle parole: quando l’aveva scritta?
Si alzò in piedi e camminò lentamente, molto lentamente, verso il banco dove Marcel attendeva quasi immobile. Quando lo vide indossò un sorriso parecchio cordiale.
“Signor Normanson” annuì con la testa, come a fargli capire che avrebbe ascoltato e accolto qualsiasi sua richiesta.
“Marcel…” ribatté l’altro, visibilmente scosso, poggiando le mani sudaticce sul bancone. Stringevano la lettera.
“Come posso aiutarla?”.
“Quando è venuta qui, la signora Sapphire Birch?”.
Quello cambiò espressione, muovendo rapidamente gli occhi a destra e a sinistra, per fare mente locale. Si spostò verso la destra, dove un grosso monitor illuminava una pila di fogli con luce bianca.
“Controllo subito”.
Ruby lo vide sedersi su di una poltroncina nera, dal rivestimento di pelle appena cambiato, che ancora odorava di nuovo. Spostò il mouse e seguì il cursore con lo sguardo, per poi guardare l’altro.
“Mi ripete il nome?”.
“Birch”.
“Birch” ripeté Marcel.
“Sapphire. Sapphire Birch”.
Le dita digitarono lentamente il nome della donna, per poi premere con vigore il tasto d’invio.
Ruby guardava la sua espressione. Appuntì il viso, concentrato sullo schermo.
“No” fu poi l’esito. “La signora Sapphire Birch non ha mai prenotato una camera a suo nome. Ci sono soltanto dei pernottamenti in camere già piazzate”.
“Sì” annuì l’altro, alzando per un attimo gli occhi, cercando di richiamare alla mente le immagini di sé e di Sapphire che condividevano il letto e un’unione carnale per una delle ultime volte. “È venuta qui nel periodo di aprile, era con me”.
Marcel attese un attimo e si avvicinò leggermente allo schermo, per poi annuire.
“Sì. Ha ragione. Sette aprile, Ruby Normanson. E poi dodici maggio, Yvonne Gabena”.
Gli occhi dello stilista si spalancarono.
Involontariamente le sue dita strinsero con vigore la lettera, accartocciandola.
“C-che cosa?!”.
“Dodici maggio. Ha pernottato con Yvonne Gabena”.
“E non mi ha detto niente?!” domandò.
Lo sguardo di Marcel era confuso.
Rimase confuso anche dopo, quando il ragazzo si voltò agitato, lasciando il Continental alle sue spalle.

Yvonne era stesa sul letto.
I capelli erano sparsi a raggiera sul materasso dalle lenzuola sfatte.
Il silenzio era tale in quella casa vuota che l’orologio nella camera accanto pareva fosse davanti a lei, con quel ticchettio frastornante che scandiva, tra un movimento di lancetta e l’altro, il concetto universale di tempo.
Il tempo era ciò che si creava tra il tic e il tac, un attimo d’infinito, che poi finiva, e la riportava indietro. Poggiò una mano sulla pancia e sospirò.
La sua mente era bloccata in quel loop, in cui i suoi dubbi continuavano a imperniarsi attorno alla figura dell’uomo che le aveva dato un’opportunità.
Si stiracchiò e fece cenno di no con la testa.
Sapeva bene che non si sarebbe risolto nulla, con Ruby, se fosse fuggita in continuazione.
Le mancava averlo accanto e il modo in cui si sentiva quando lui la stringeva.
Forse era davvero arrivato il momento di finirla con quella storia.
Forse era il momento di cominciare a lavorare seriamente per il futuro.
Prese coraggio e si alzò, infilò un paio di pantaloni beige e una felpa nera, col cappuccio. Si guardò allo specchio meno di quello che avrebbe dovuto, coi capelli spettinati e il trucco della sera prima sugli occhi, ormai sbiadito.
Doveva salire in atelier. Si premurò di prendere la borsa, quella era importante, andò in salotto e infilò le scarpe.
Il cuore batteva.
Cercò le chiavi per un minuto, puntualmente le lasciava sempre nelle tasche del cappotto, quindi si avvicinò alla porta, dove stava l’appendiabiti.
Ma quando afferrò le chiavi, nella profonda tasca del soprabito, il meccanismo della porta scattò, facendola aprire.
Ruby era davanti a lei.
Ruby...” sussurrò Yvonne, col cuore che esplodeva. “Devo parlarti...”.
La faccia del ragazzo era granitica, solida come quella di una statua. Le labbra erano serrate e lo sguardo seminascosto dalle palpebre pesanti.
Fece un passo avanti e chiuse la porta, con insolita delicatezza.
L’orologio ticchettava.
Yvonne vide che non lo guardava neppure negli occhi. Stringeva tra le mani un pezzo di carta.
“Anche io”.
Avanzò verso il salotto, dove la luce fioca della piantana riempiva d’ombra tutto ciò che fosse oltre il cono giallo.
La donna lo seguì lentamente, vedendolo andare verso la finestra e fermandosi a guardare la gente che camminava per strada.
“Ecco... io credo che dovremmo fermarci un momento e parlare della cosa... Guardami, per favore”.
Ruby si voltò.
Aveva le lacrime in volto.

“Mi hai mentito”.

Le parole di Ruby le arrivarono dritte sul volto, come un rovescio.
Ruby...”.
“Non parlarmi con quella voce del cazzo! Mi hai riempito di bugie!” urlò lui.
Yvonne spalancò gli occhi, aggrottando le sopracciglia. Aveva il volto dipinto di paura.
“I-io...”.
“Cos’è questo?!” riprese l’uomo, lanciandole contro il foglio di carta appallottolato.
Rimbalzò sul suo petto, ricadendo sul divano.
Yvonne lo guardava, non comprendendo.
“Allora?!” gridò nuovamente. La voce rimbombò nell’intero appartamento, colpendola con aggressività e costringendola a chiudere gli occhi. “Che cos’è questo?!”.
“Non lo so!” rispose Yvonne a tono.
“Non lo sai?!”.
Ruby allargò le braccia e poi le sbatté sui fianchi, incredulo.
“Quello che mi fa più ridere è il coraggio che hai avuto! Ma cosa credevi, che non l’avrei mai scoperto?!”.
“Ma io non so di che stai parlando!”.
Quell’urlo si espanse di contro, raggiungendo Ruby e sedimentandosi lentamente all’interno della sua testa.
La rabbia che gli montava nel corpo esplose, costringendolo a gettarsi contro di lei con furia immane. Yvonne vide come il volto dell’uomo si modificasse, trasformandolo da tranquillo e sorridente fidanzato in una versione troppo simile alle bestie a cui era abituata.
Quelli che l’avevano lasciata coi lividi sul corpo.
Urlò Yvonne, quando lui le afferrò entrambi i polsi.

Durò solo un istante.

Ruby si bloccò, vedendo il volto terrorizzato della donna che aveva avanti. Indossava una maschera di lacrime e trucco sciolto.
Lasciò i polsi della donna, provando pena per lei.
“Non farmi del male…” piangeva lei.
Una stanchezza doppia e solida gli pervase le vene. Aveva voglia di addormentarsi e di risvegliarsi quando quell’incubo sarebbe finito.
“Io non mi sognerei mai di farti del male, Yvonne! Tu invece lo hai fatto!”.
La sua voce rimbombò ancora in tutto l’appartamento. Si sedette sul divano, composto, raccogliendo la lettera da terra.
I loro respiri erano pesanti, si sostituivano alle lancette dell’orologio e si passavano quel globulo d’ansia che nessuno dei due riusciva a trattenere.
Ruby aprì la lettera, tutta spiegazzata, e la buttò tra le mani di Yvonne.
“Lei era qui! È stata da te!”.
Yvonne poggiò gli occhi su quella grafia poco elegante e sporcata da lacrime sporche e disperate. Subito dopo ingoiò una manciata di chiodi e li mandò giù.
Stava succedendo.
“Questa cos’è?” domandò, cercando di calmarsi.
“Leggila!”.

E lo fece. Impiegando forse un po’ troppo tempo, emozionandosi a sua volta e sentendosi colpevole di ciò che aveva fatto, negando a Sapphire d’incontrare l’uomo che amava, che Yvonne amava a sua volta.
Era davvero una persona così cattiva per aver scelto se stessa, per la prima volta nella sua vita?
Finì di leggere quelle parole struggenti. Per quei tre minuti, in cui aveva passato e ripassato con lo sguardo sulla scrittura di Sapphire, immersa nel totale silenzio, distorto soltanto dai rumori del suo pianto.
“Allora?!” ringhiò Ruby. “Mi devi una spiegazione!”.
La vergogna la ricoprì interamente.
“I-io…”.
“Tu cosa?!”.
“Io non volevo perderti!”.
“Tu non mi avevi! Come avresti potuto perdere qualcosa che non ti apparteneva?!”.
Yvonne sospirò, con le mani che tremavano. La lettera cadde per terra, ai loro piedi.
“Tu… non hai idea di quello che ho provato quando, quella sera, venisti da me a dirmi che tra di noi non ci sarebbe mai potuto essere niente…”.
Il silenzio era ripiombato tra di loro.
Yvonne non riusciva a guardarlo negli occhi. Aveva congiunto le mani sulle gambe, abbassando il volto.
“Non hai idea di cosa ha significato per me quel momento… Nessun uomo è mai stato gentile con me come lo eri tu”.
“Io ero gentile con te perché sono sempre gentile, Yvonne. Non è mai stata una mia responsabilità, la gente che frequentavi prima di conoscermi”.
“Ma ti vuoi mettere nei miei panni?!” urlò. “Mi hai vista praticamente nuda dal primo momento e l’unica cosa a cui pensavi era che stessi bene!”.
“Eri il mio lavoro!”.
“E poi cos’è successo?! Hai fatto l’amore con il tuo lavoro, poi?!”.
Ruby annuì, massaggiandosi le tempie, chiudendo gli occhi e sospirando.
“Sei la donna più bella del mondo, Yvonne… Perché non avrei dovuto far l’amore con te?”.
“E allora perché tutti questi problemi?”.
“Perché io sono innamorato di te ma tu mi hai preso in giro dal primo momento!”.
“Io non ti ho mai preso in giro! Io ti ho amato con tutta me stessa!” urlò di contro lei.
La donna stringeva forte i pugni.
Ruby si alzò in piedi, col cuore che batteva. Le dava le spalle, con la grossa finestra davanti al volto. I palazzi di fronte formavano un muro omogeneo che copriva la vista.
“Che cosa è successo?”.
Yvonne piangeva. Gemeva, tirava su col naso, stretta nella grossa felpa.
“Ti prego… Non ti arrabbiare”.
“Dimmi cos’è successo!” si voltò rapido Ruby, con gli occhi spalancati.
“Calmati!” piangeva l’altra.
Sospirò, il ragazzo. Capiva che non fosse il modo migliore per parlare con la donna, quello.
“Scusami. Vai pure…”.
“Non arrabbiarti…”.
“Non mi arrabbio” ribatté lui, guardando il volto mortificato e impaurito. “Ma vai…”.
“È successo quando ti ho… quando ti ho portato in ospedale… per le pillole”.
Lui annuì, portando nuovamente le mani ai fianchi. Sentiva sotto le dita il tessuto del maglioncino e, ancor più sotto, le costole; stava dimagrendo eccessivamente. Sentiva la sua voce rimbombare per l’intero salone, la vedeva piangere.
“Fu una giornata orribile… Ho avuto veramente tanta paura di non vederti mai più. Ho avuto paura che morissi…”.
“Continua…” ringhiò l’altro, cercando di contenere la furia.
“Tornai in albergo quando White riuscì ad arrivare in ospedale, e quando l’ascensore si aprì vidi Sapphire che batteva i pugni sulla tua porta…”.
“E lì decidesti di non dirle nulla”.
Yvonne abbassò gli occhi.
“So che è sbagliato… Mi spiace tanto. Ma non volevo perderti”.
Ruby la fissò con occhi vacui.
“Ma alla fine mi perdi”.
Yvonne spalancò gli occhi e scattò in piedi.
“Che vuoi fare?!”.
Il ragazzo avanzò verso la porta, lentamente e con la testa bassa. Poi si fermò.
Si voltò.
Guardava la donna che aveva di fronte; sembrava minuscola.
“Ti prego…” faceva quella, piangendo.
Lui le stava piantando un coltello nel petto, nella sua mente. Poi le si avvicinò e le strappò la lettera dalle mani.
“Questa non ti appartiene”.
Mise le mani in tasca e prese le chiavi di casa. Tintinnarono sotto il suo tocco.
“E questo posto non appartiene a me…”.
Le lasciò cadere per terra, poi si voltò nuovamente e uscì dalla porta.
“No! Ruby!” corse Yvonne verso di lui, ma era ormai sparito oltre le porte dell’ascensore.
Le lacrime sul volto, la disperazione nel cuore e quella debolezza che le frustava la schiena.
La mano sul ventre.
Il test di gravidanza, positivo, all’interno della borsetta.
Rimase tuttavia immobile, a godersi quell’immensa malinconia.
Ruby…”.


EPILOGO

Hoenn, Albanova, 27 dicembre 20XX

Quando l’aereo atterrò a Ciclamipoli, una strana malinconia gli pervase il corpo.
Lì non avrebbe mai nevicato.
Il cielo sarebbe stato lo stesso coperto da una coltre nera di nubi, ma oltre a una furibonda tempesta della durata di pochi minuti sapeva che lì non avrebbe mai nevicato.
Uscì dall’aeroporto, camminando ad ampi passi verso il parcheggio dei taxi.
Pioveva, ovviamente. Non gli interessava, camminava tra gli sguardi della gente che lo aveva riconosciuto, mentre si stringeva nel soprabito.
Batteva radente, l’acqua.
Pioveva, ma gli mancava la neve, ed era strano, perché aveva combattuto contro tutto e tutti per abbandonare Unima.
Non aveva presenziato all’ultima sfilata, non sapeva neppure come fosse andato.
Non aveva rinnovato il contratto con White.
Non aveva sentito più lei né Yvonne. Del resto aveva gettato, per la seconda volta quell’anno, il cellulare, per rendersi irreperibile.
Non la sentiva da un mese, non aveva voluto avere più nulla a che fare con lei, dopo il loro ultimo incontro.
Bugiarda, lei. Codardo, lui.
Aveva finito per fuggire dalle sue responsabilità, scoprire che la sua nuova casa fosse in realtà piena di demoni. Viaggiò in lungo e in largo, visito luoghi e conobbe persone ma nascose quel dramma che aveva vissuto.
Fino a quando non fu pronto a tornare dove era partito.
Salì sul taxi poco prima che il temporale finisse. Questo era guidato da una donna ben piazzata, dai lunghi capelli ricci, biondi, e dai profondi occhi azzurri. Le grosse guance rendevano le iridi due piccoli puntini.
Mangiava un kebab avvolto nella stagnola. Masticava a bocca aperta.
Genuina, lei.
“Dove la porto?” chiese, con voce baritonale. Continuò a guardare il suo pranzo, con occhi goduriosi.
Non l’aveva riconosciuto. La cosa lo rincuorò.
“Albanova”.
Catturò la sua attenzione; lo fissò dal retrovisore, giusto un secondo, prima di accendere l’auto e spostare lo sguardo verso la strada. Posò il cibo sul sediolino accanto.
“Singolare. Non accompagno molta gente in quel piccolo paesino”.
“Ci vive mia madre”.
Lei annuì e fece manovra. Uscì dal parcheggio e svoltò sulla strada principale di Ciclamipoli.
Gli occhi di Ruby si persero sulla struttura della Palestra di Walter.
“Non vive a Hoenn?” domandò quella.
Ruby lasciò che la domanda si poggiasse delicata nella sua mente, prima di rispondere.
“No. Abito a Kalos”.
“Oh! Parla francese, allora”.
Il ragazzo sbuffò. “Assolutamente. Se permette riposerei un po’...”.
“Oh, ma prego... Volevo solo fare due chiacchiere...”.
“Sono stanco... Il volo è stato lungo...”.
“Certo...”.

E così si addormentò.
Non seppe mai realmente quanto dormì; di tanto in tanto apriva gli occhi, disturbato dalle urla della tassista, pilota aggressiva che aveva la spiccata tendenza a mandare tutti a quel paese.
Sostanzialmente riposò.
Passarono quattro ore prima che la donna lo svegliasse.
“Siamo arrivati... Ho fermato il tassametro...”.
“Duecento Pokédollari?”.
“Facciamo centottanta...”.
Ruby pagò e ringraziò, prima di scendere dall’auto.
Albanova era nuovamente davanti a lui. Poggiò i piedi nell’erba umida.
Aveva piovuto da poco anche lì.
L’odore della natura gli pervadeva i polmoni, e il silenzio era rotto soltanto dai primi cinguettii dei Pokémon dagli alberi.
Le case erano rimaste immobili ai propri posti. Stesse napoletane azzurre, stesse tegole blu, stessi vialetti perfettamente stesi tra tappeti d’erba ben pettinati.
Le siepi delle case erano cresciute tutte alla stessa altezza, educatamente. Due ragazzini in impermeabile saltavano nelle pozzanghere.
Non li conosceva, eppure non mancava da Albanova da così tanto tempo.
Sentì la tassista sgasare e allontanarsi. Si voltò a guardare la grossa nuvola di fumo che la vecchia marmitta di quella Toyota aveva sbuffato via, poi prese a camminare.
Casa sua era davanti a lui.
Percorse il vialetto e vide il giardino ben curato, con grossi alberi da frutto appena piantati carichi di cedri e arance.
Sapphire non amava curarsi delle piante. Era cambiata, nel tempo.
Salì il piccolo scalino davanti alla porta e abbassò il volto; l’ansia lo stava divorando.
Sentì della musica in casa. Sapphire cantava con voce stonata.
Ruby sorrise.
Fu incoraggiato da quella cosa. Batté le nocche sul legno della porta e sospirò.
Passò un minuto.
Ma qualcosa non andava.

No.

La musica non c’era.
Non c’era alcuna donna che cantava, dietro quella porta.
Si voltò: il giardino era pieno d’erbacce e il sentiero era sporco di terreno.
La pubblicità riempiva la cassetta della posta.

Era solo immaginazione.
Aveva bussato a quella porta ma nessuno aveva aperto.
I bambini alle sue spalle non c’erano più.
Quando mise le mani nelle tasche, cercando le chiavi di quella casa, l’alluminio del blister di antidepressivi si accartocciò. Era stanco.
Infilò la chiave nella serratura e girò.

E quello che trovò davanti non era altro che l’espressione di ciò che aveva dentro.

Una casa buia, piena di cose polverose.
Ma vuota.
Nessuno la abitava, nessuno la colorava.

Nessuno era sul divano, coi piedi sullo schienale e la testa sui sedili, le mani a penzoloni dai braccioli e il Nintendo accanto ai calzini, gettati a casaccio sul tappeto.
Nessuno lasciava montagne di vestiti davanti la porta del bagno, né finiva per addormentarsi sul letto seminuda, quando fuori faceva troppo freddo.
E quando faceva troppo, troppo freddo, nessuno rubava più le coperte.

Nessuno urlava.
Nessuno parlava.
Niente e nessuno. Quel posto era inabitato.
Il respiro di Ruby era pesante e frammentato. Gli occhi erano pesanti, le gambe non si muovevano quando la testa dava un ordine.
“Sapphire...”.
Il nome della donna rimbombò per tutto il salone buio.
L’ansia lo colse. Si guardò attorno, cercando di cogliere qualsiasi rumore che rivelasse la sua presenza.
“Sapphire!” urlò poi. “Sapphire! Sapphire! Cazzo, Sapphire!” sbraitava lui, cominciando a colpire il muro che aveva accanto.
L’ansia diventò angoscia.
Non era lì. L’aveva persa davvero?
Si lasciò cadere sul divano, con le lacrime agli occhi e la voglia matta di svegliarsi da quell’incubo. E poi la vide.
Una lettera, piegata a metà, sul tavolino di cristallo che aveva davanti.
Le mani tremanti l’afferrarono con lentezza.
“Sapphire...” sussurrò, aprendo il foglio.
E ne lesse le parole.

“È passato ormai un po’ di tempo da quando hai lasciato Albanova, Ru’… Qui il tempo scorre assai lento. E non è per via di questa pioggia leggera, che non accenna minimamente a finire; sai che è il periodo, questo, in cui passiamo più tempo in casa che fuori. Dicembre a Hoenn è così, ma non te lo devo spiegare, anche se manchi da casa da quasi un anno…”

FIN.
OPPURE  NO?










Benvenuti nel mio angolo autore.
Ho finalmente concluso questa storia. Una long che probabilmente era più una necessità che mera voglia di stendere su di un foglio bianco i miei pensieri.
La mia intera produzione è costellata di storie dal tono decisamente più avventuroso e meno sentimentale.
Unravel Me è stata la prima vera svolta della mia serie; in parte perché ero decisamente stanco di ammazzare e distruggere, in parte perché sto crescendo e certe trame cominciano a starmi un po’ strette.
E quindi siamo arrivati fin qui. Lettore che mi ha seguito per tutto questo tempo, grazie.
Grazie perché non t’interessa se sono un pesaculo esagerato e non riguardo il capitolo.
Non t’interessa se la regolarità con il quale ho cominciato i miei lavori è soltanto un ricordo relegato a tempi migliori.
Non t’interessa niente se non cosa succede nei capitoli. Gli ultimi sono un po’ più lunghetti.
Non dovrebbe interessarti neppure questo. Anzi.
Grazie.

E ora?
E ora nulla.
The Sinner’s Recall deve vedere una fine.
Dopodiché sarà l’ora dei fantomatici filler di fine serie e infine andremo avanti con Courage.
Furor, l’ho annunciata tipo nel 1986.
Giuro che ci sto lavorando.
E poi mi chiederete... perché hai scritto OPPURE NO?
Perché Unravel Me è finita, ma le vicende narrate in questo universo non lo sono affatto.
Inoltre ho lasciato dei personaggi a metà, e questo non è da me. Yvonne è incinta e White e furibonda.
E Sapphire... Beh, Sapphire non saprete dov’è andata finché non uscirà Fallin’, il continuo di questa storia.
Chissà quando.
Avevate capito, vero, che le parti in corsivo all’inizio di ogni capitolo compongono la lettera che scrive Sapphire alla fine? Vero?
Leggete, che vi fa bene.

Sempre vostro (quando voglio)

Andy Black.

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