Racconti Nonsense

di Kiron_River
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Pausa caffè ***
Capitolo 2: *** Mettere in ordine ***
Capitolo 3: *** Come a Trieste ***



Capitolo 1
*** Pausa caffè ***


Ciao gente! Spero che abbiate passato delle buone vacanze tra Natale e Capodanno, io devo ancora riprendermi completamente dai pranzi e le cene, quindi per il momento mi permetto di ripiegare su un vecchio racconto che avevo scritto un paio d'anni fa e che per tutto questo tempo è rimasto chiuso in un cassetto: il primo racconto Nonsense. Ho giusto modificato il nome del protagonista per renderlo più attinente agli altri già apparsi a queste latitudini; chi sa dirmi in che modo? XD

  Griffith stava comodamente prendendosi il suo ormai abitudinario caffè delle 17:36; lui diceva che era delle 17:30, ma impiegava sempre 6 minuti a percorrere la strada che lo portava al suo bar di fiducia.
Il giornale del giorno riportava la notizia di uno strano avvistamento di uno strano essere dalle parti dei colli, che dalle descrizioni dei testimoni sembrava uscito da un fumetto americano di scarsa qualità.
Una volta finito il suo caffè, Griffith andò al bancone, da cui il barista Pierre, suo vecchio conoscente, si era momentaneamente assentato.
A Griffith venne quasi voglia di prendersi anche un pasticcino, ma, un po' per l'attenzione che aveva per la propria forma fisica, che nonostante l'età era ancora discreta, un po' perché gli seccava interrompere Pierre da qualunque cosa stesse facendo per farsi servire, preferì rinunciare.
Così lasciò su ciò che restava del bancone gli 80 centesimi del caffè, rimise a posto la cravatta, recuperò la giacca dall'attaccapanni, recuperò la sua ventiquattr'ore e lasciò il bar salutando Pierre, che intanto era steso a terra con la testa fracassata, coperto dal bancone.
Una volta uscito dal bar, Griffith tirò un profondo respiro, inalando l'aria di distruzione e disperazione che gli offriva qual giorno la sua amata città, mista all'odore di legno bruciato e polvere di calcinacci degli edifici circostanti.
Prima di incamminarsi verso la sua ditta, Griffith si accovacciò a terra per raccogliere una moneta, evitando nel mentre una trave volante che gli passò a pochi centimetri dalla testa, schiantandosi contro la porta del bar, quindi riprese i suoi 6 minuti di camminata per raggiungere la ditta, camminando su quel che rimaneva del marciapiede costellato di pezzi di cemento distrutto e cadaveri di persone con i corpi sventrati da enormi artigli.
Svoltato l'angolo dietro cui stava la sua ditta, Griffith evitò una macchina lanciata nella sua direzione, e quando si trovò davanti all'edificio che ospitava la sua attività, lo vide quasi completamente distrutto, e con una specie di grosso mostro peloso, dotato di criniera e artigli che stava vanificando due settimane di lavori per la riparazione del tetto.
<< Mi scusi! >> Lo chiamò Griffith leggermente contrariato dal comportamento di quella cosa << Se ha qualche problema, potrebbe venire qui, che lo risolviamo senza mettere in mezzo le proprietà altrui >>.
La bestia si voltò nella sua direzione, mostrando la sua faccia e rivelando la gamba di un dipendente tra le fauci; dipendente che peraltro Griffith notò starsi contorcendo dal dolore poco più avanti.
Il mostro spiccò un balzo, di quattro metri di altezza, lanciandosi contro Griffith con gli artigli in avanti pronti per inserirsi nelle carni dell'imprenditore.
Griffith, capito che non se la sarebbero cavata a parole, fece a sua volta un balzo in direzione delle creatura, molto più veloce e diretto rispetto a quello di chi gli stava di fronte, e con la precisione chirurgica di un ex campione provinciale di pugilato, gli stampò la ventiquattr'ore rinforzata al titanio dritta nel fianco destro, all'altezza della terza costola, con un gancio destro fenomenale.
Dopo l'impatto, il mostro si schiantò sul marciapiede travolgendo il dipendente, che senza l'ausilio della gamba non era riuscito a evitare la bestia, mentre Griffith scattò nella sua direzione appena toccò terra.
Giacché il suo avversario era ancora confuso per la botta, l'imprenditore lo colpì al mento con un calcio, per poi utilizzare di nuovo la ventiquattr'ore come arma contundente contro il collo della bestia, rompendoglielo.
Finita la battaglia, Griffith si ricompose, controllò che il suo dipendente fosse ancora vivo (non lo era), e si voltò verso l'edificio della sua ditta, sperando che l'assicurazione potesse pagare tutti i danni.

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Capitolo 2
*** Mettere in ordine ***


Ciao gente! Spero abbiate passato un buon Natale. Vi faccio i miei più cari auguri e vi do il bentornato a queste latitudini con una nuova serie, stavolta dedicata a dei racconti oneshot di vario genere in cui, come ho spiegato nell'introduzione, Niente verrà mai spiegato. Situazioni, personaggi, storie e dettagli di tutto quello che succede nel mondo di Nonsense può avere come non avere un perché, nessuno gliene chiederà conto all'interno della storia, e chi lo farà si sentirà rispondere semplicemente "perché si" o "perché no", nei casi meno volgari. Spero che questi scleri senza un filo logico della mia fantasia fomentata da cartoni animati, fumetti, film e battute scadenti possa farvi strappare un sorriso e che possiate affezionarvi quanto l'ho fatto io a alcuni dei personaggi ricorrenti, a cominciare dal gruppo di teste calde protagonisti di questa storia.
PS: In greco "mettere in ordine" si dice Tesei Se Taxe

Wells si svegliò di soprassalto, sudando freddo. Aveva fatto di nuovo quel sogno.
“Wells. Stavolta hai vinto?” sbadigliò P.jackson.
“No, ma c’ero più vicino”
“Si… come la settimana scorsa” rispose ancora P.jackson ributtandosi a terra per continuare a dormire.
“Ti dico che ogni volta ci sono più vicino” ribatté convinto Wells rivolgendo al compagno lo sguardo più minaccioso che le sue sopracciglia, da tempo paralizzate, gli consentivano di fare.
“Piuttosto, alzati e sveglia Lubit, siamo quasi arrivati”
P.jackson si limitò a voltarsi rimanendo disteso a terra.
“Come lo sai? Siamo al buio”
“Perché sono più intelligente di te. Ora sveglia Lubit, tra poco vengono a prenderci”
P.jackson sbuffò. Al contrario del suo caposquadra lui nel sonno tende a dormire.
Comunque sia, gli ordini di Wells si discutono al massimo due volte, e appena svegliato P.jackson non ha nessuna voglia di discutere con nessuno, quindi caricò la gamba destra e sferrò un calcio.
Vuoto.
Di nuovo un calcio.
Vuoto anche stavolta.
Terzo calcio, e P.jackson colpì la parete di metallo dell’aereo facendosi un male cane al piede.
Dopo tre Padre Nostro e un Atto Di Speranza, P.jackson sferrò un altro calcio e stavolta riuscì a colpire il terzo e ultimo membro del loro sgangherato gruppo.
“Lubit, sveglia” lo intimò P.jackson “Wells dice che tra poco si scende”
Dal compagno non venne risposta.
“Lubit! Andiamo, svegliati!” incalzava P.jackson continuando a calciare contro l’amico.
Dopo una mezza dozzina di calci, P.jackson si accorse che qualcosa non andava; neanche Lubit poteva rimanere a dormire dopo aver preso tutte quelle botte e un inquietante sospetto cominciò a farsi spazio nella sua mente.
P.jackson si portò in avanti, almeno quanto le catene che lo bloccavano al lato nell’aereo glielo consentivano, quindi con un piede cercò di raggiungere Lubit. Trovato il corpo del compagno, cominciò a tentoni a esplorarne la fisionomia, passando dal braccio al petto, poi alla spalla, la coscia, il collo e infine la faccia.
Tastando con il piede la faccia dell’altro non ottenne nessuna reazione, ne un minimo movimento muscolare. Solo il gelo della sua pelle irrigidita.
P.jackson deglutì.
“Ehm… W - Wells”
“Che c’è?” gli rispose Wells, che stava cercando di ricordare i movimenti della sua partita di quella notte.
“C’è un problema…” dichiarò P.jackson.
“Che tipo di problema?” chiese ancora Wells infastidito.
“Mi sa che Lubit è morto…”
Wells si lasciò cadere le braccia a terra. Beh, si fa per dire, le sue braccia erano incatenate al di sopra della sua testa.
“Come morto? Come è successo?”
“E che ne so. Sarà stato il solito attacco cardiaco, gliene viene uno ogni mezz’ora”
“Appunto per questo dovevi stare attento che non accadesse. Non ti avevo detto di monitorare il battito cardiaco?”
“Facile a dirsi, provaci a usare un misuratore di battiti al buio”
“Tu ci riesci!”
“Certo che ci riesco, ma al contrario di te ogni tanto devo dormire, ho lasciato tutto a Lubit e mi sono addormentato”
“Ho a che fare con due idioti…” concluse Wells sbattendo la nuca contro la parete metallica.
“Il lavoro lo facciamo lo stesso?”
“Certo che lo facciamo. Ci inventeremo qualcosa”
“Beh, almeno stavolta non è tutta tutta colpa mia” ghignò P.jackson.
Solo qualche secondo dopo l’aereo atterrò e, tempo pochi minuti, le manovre erano terminate e il portellone si aprì.
La luce intensa che proveniva dall’esterno abbagliò P.jackson, che fu costretto a chiudere gli occhi e voltarsi dall’altra parte mentre Wells non ne risentì affatto, e comunque sia non avrebbe potuto ne chiudere gli occhi per evidenti limiti fisici, ne voltarsi, visto che era mummificato fino al collo in una cassa di metallo.
Dal portellone entrarono sei soldati vestiti con l’uniforme azzurra e nera mentre altro dieci stavano fuori con i fucili puntati pronti a far fuoco.
I soldati che erano entrati nel vano dell’aereo usarono le chiavi dei lucchetti per staccare P.jackson e Wells dalla parte e metterli in piedi, quindi si avvicinarono al cadavere di Lubit e cominciarono a sbraitare tra loro nella loro lingua.
Anche Wells e P.jackson si voltarono verso il fu loro compagno e gli occhi di entrambi furono attirati dall’apparecchio che quello teneva in mano.
In quel momento P.jackson fu sollevato che Wells fosse impossibilitato a muoversi, altrimenti lo avrebbe ridotto a un colabrodo: aveva confuso l’apparecchio di misurazione del battito cardiaco con il teaser.
L’aereo che trasportava Wells, P.jackson e Lubit era atterrato in una base militare di mercenari ai margini di un deserto.
Il personale della base era composto esclusivamente da soldati al soldo del Colonnello Cole, che aveva ordinato la cattura dei tre soggetti per le continue interferenze alle operazioni del suo esercito.
Come avessero potuto tre squilibrati tener testa a un intero esercito era tutt’ora un mistero per il colonnello, che tuttavia non aveva voluto correre rischi e aveva dato l’ordine di catturarli per giustiziarli in pubblico.
Il trio si era arreso senza opporre resistenza e durante il trasferimento tutto era stato preparato per una bella esecuzione pubblica in pompa magna al centro della base. Tutto sarebbe stato ripreso dalle telecamere e visto in tutto il mondo. Non si doveva scherzare con il Colonnello Cole e i suoi uomini.
Il colonnello finì di farsi la barba e uscì dall’edificio adibito a tenda degli ufficiali che aveva occupato.
Nel verso opposto avanzavano alcuni dei suoi uomini trascinando i due prigionieri ancora incatenati. Il colonnello, un uomo massiccio, dalle spalle larghe e il fisico scultoreo, alto più di un metro e ottanta e con i capelli a spazzola. Insomma, era uno stereotipo su gambe.
“Te come la vedi?” chiese P.jackson.
“Nera” rispose Wells “Per te quanto meno”
P.jackson capì al volo che il capo non gliela avrebbe fatta passare liscia per lo scambio dell’aereo.
Il colonnello Cole li squadrò dall’alto in basso, quindi si rivolse ai suoi uomini.
“Cosa avevano con se?”
“Non molto, signore. Un teaser nascosto chissà dove che abbiamo rinvenuto nell’aereo e una valigetta chiusa che sembra impossibile da aprire”
Il colonnello ascoltò distrattamente le parole del suo sottoposto e passo la sua attenzione sui due prigionieri.
Il più giovane (P.jackson) doveva avere meno di 20 anni, aveva la faccia larga, gli occhi enormi e scuri, un accenno appena di pizzetto sul viso e un fisico asciutto e non particolarmente prestante. L’altro (Wells) era chiaramente più vecchio, anche se non avrebbe saputo indovinare di quanto dato che i tratti neutri del viso, una parte del corpo che emergeva dalla bara metallica in cui era stato chiuso, non permettevano di definirne un’età approssimativa. Aveva inoltre dei tratti abbastanza comuni, uno di quei volti che non ti capiterebbe di riconoscere se visto due volte, completamente sbarbato e con i capelli leggermente più scuri dell’altro portati piatti sulla testa a formare un sottile caschetto.
La prima impressione era quella di due spiantati.
“Quindi siete voi quei pazzoidi che continuano a mettersi in mezzo ai miei affari” tuonò il colonnello  avvicinandosi ai due dalla bassa scalinata che precedeva la tenda dell’ufficiale.
Il colonnello mise mano al suo palmare e scrollò su una lista di annotazioni che poi girò verso i suoi prigionieri.
“Avete cominciato con una rissa con i miei uomini in un bar, poi la cosa è degenerata: Interferenze con le operazioni armi in pugno, sabotaggio di mezzi di trasporto e furto degli stessi, senza contare lo stato di shock in cui sono tornati i soldati che ho mandato a prendervi la prima volta”
“Te l’avevo detto che l’elettroshock era un po’ esagerato” bisbigliò P.jackson all’indirizzo del proprio compagno.
“Ehi, non dare la colpa a me” replicò Wells “è Lubit che ha insistito per le informazioni”
“Ti approfitti di lui perché è muto …”
La conversazione sarebbe continuata se il colonnello, sentendosi ignorato, non avesse colpito Timjackson con un potente montante destro facendolo volare di un paio di un metro e mezzo all’indietro schiena a terra.
“Non credo abbiate capito che siete miei prigionieri” ruggì di nuovo il militare mentre i suoi uomini intorno sorridevano e annuivano “Ma in fondo non mi interessa. Tra due ore entrambi avrete fatto la fine del vostro amico sull’aereo, che ve ne rendiate conto o meno”
Detto questo il colonnello fece qualche passo indietro dando le spalle ai due mentre P.jackson veniva fatto rialzare.
“Portate entrambi al centro della base, l’esecuzione sarà anticipata” ordinò ai suoi uomini.
Quelli risposero in coro con un “Sissignore!” e portarono via i due prigionieri.
“Spero che almeno il magnete tu lo abbia messo nel posto giusto” fece Wells.
“Dico, mi hai preso per un idiota?” ribatté P.jackson mentre cercava di evitare di sanguinare dal labbro aperto dal pugno di Cole “Certo che l’ho messo al posto giusto, quando sarà il momento tutto andrà bene”
“Non chiedermi mai più di non prenderti per un idiota, soprattutto dopo aver ammazzato un tuo compagno scambiando un teaser per la macchina di monitoraggio dei battiti cardiaci”
“E che è colpa mia se mi hanno fatti identici? Mettitici te a cercare qualcosa in quella valigetta, poi ne riparliamo”
“Devo ricordarti che sei in questa squadra esclusivamente in virtù di quella valigetta?”
“Fottiti, Wells”

Solo pochi minuti dopo, Wells e P.jackson furono portati in un piazzale che qualcuno aveva adibito a teatro romano con delle impalcature di legno disposte tutte introno.
Wells fu liberato dalla bara che lo rinchiudeva da due soldati che poi se ne tornarono sugli spalti mentre molti altri delle truppe di Cole puntavano contro i due i propri fucili.
“Ancora sicuro che andrà tutto bene?” chiese P.jackson titubante.
“Hai mai visto un mio piano fallire?” chiese in risposta Wells.
“Neanche sono sicuro di poterli definire ‘piani’”
“Uomini! Questi prigionieri ci hanno messo i bastoni fra le ruote per settimane e adesso finalmente sono stati catturati!” Urlò il colonnello dall’alto del suo palco d’onore.
“Quando senti la parola ‘termometro’ attiva il magnete” sussurrò Wells.
P.jackson si voltò sbalordito verso il suo compagno.
“Perché diavolo qualcuno dovrebbe dire ‘termometro’ in questo momento?!” ribatté P.jackson.
“Tu fallo e basta” tagliò corto Wells e si tenne concentrato verso il colonnello che intanto continuava a blaterare.
“… Nessuno ci aveva mai importunato come questa squadra di sbandati, ma adesso le cose stanno per cambiare. Perché noi, uomini, che siamo stati forgiati da questo deserto, abbiamo tutto ciò che serve per dominare ed essere rispettati, e lo faremo con la forza delle nostre armi e dei nostri cuori …”
“Wells, seriamente, chi pronuncerebbe la parola ‘termometro’ in un discorso del genere?” chiese ancora P.jackson poco convinto.
“Zitto o ti perdi l’attimo. Dopo dobbiamo agire rapidamente” rispose laconico Wells senza distogliere gli occhi dal colonnello.
“… Quindi, senza ulteriore indugio; uomini! Attendete il mio segnale e sparate contro i condannati!” concluse il generale.
P.jackson già se la faceva sotto.
“Puntare!”
Perché vado ancora dietro a questo pazzoide? Si chiedeva P.jackson.
“Termometro … !”
Cosa?
“P.jackson, ora!” gridò Wells.
Dopo un mezzo attimo di smarrimento, P.jackson si batté la mano sul polso sinistro attivando il super-magnete che aveva impiantato nel palmo collegato alla sua valigetta.
Immediatamente, l’oggetto schizzò via dalle mani del soldato che la stava portando nell’archivio, fracassò il cranio a un altro paio di soldati durante il tragitto a mezz’aria e sfondò il muro portante dell’edificio che fungeva da archivio facendolo crollare, quindi si applicò alla mano di P.jackson, che ne estrasse velocemente un marchingegno appena prima che il colonnello ordinasse il “Freddo!”.
P.jackson attivò il congegno e lo protese davanti a lui sorridendo.
Improvvisamente ogni cosa intorno al ragazzo si congelò nella propria posizione. Gli scoppi dei fucili si interruppero a metà, i proiettili fischianti arrestarono la propria corsa a pochi centimetri dai corpi di P.jackson e Wells, e persino il colonnello smise di urlare all’istante.
P.jackson si guardò intorno confuso, poi si avvicinò il congegno alla faccia per esaminarlo meglio e si accorse con disappunto che aveva di nuovo confuso la barriera energetica con la macchina di blocco temporale.
Beh, mal di poco, tanto l’effetto più o meno era lo stesso.
Deviati i proiettili, e reindirizzati contro altri soldati, P.jackson estrasse dalla sua valigetta l’ingombrante palizzata al plasma con cui circondò se stesso e il compagno, poi, prima che si scaricasse, spense il congegno per il blocco del tempo.
Con il tempo che riprendeva a scorrere, i soldati si videro decimati dai loro stessi proiettili e anche il colonnello rimase intontito.
L’unico a non sembrare sorpreso della cosa era Wells, ma solo per il solito problema alle sopracciglia.
“Hai di nuovo … ?”
“Si, ho sbagliato macchina, non è il caso di farne una tragedia”
“Vabbé, ormai. Bazuka, prego” chiese Wells e subito P.jackson mise mano all’interno della sua valigetta rossa e estrasse l’enorme bazuka che il capo aveva richiesto.
Sotto gli occhi attoniti degli altri presenti, Wells caricò l’arma mentre i proiettili dei soldati si infrangevano inutilmente sulla barriera plasmatica, quindi il giovane si cominciò a sparare colpi tutto intorno facendo saltare un po’ alla volta l’intero piazzale e devastando i corpi dei soldati tra i fuochi delle esplosioni.
Il colonnello, infuriato, ordinò che si mettesse mano all’arma segreta, quindi sollevò una mano e per mezzo di qualche potere riuscì ad animare le armi dei suoi soldati deceduti facendole continuare a sparare.
“Questo scherzo era messo in conto?” chiese P.jackson rovistando nella valigetta.
“Ovviamente”
“Ottimo, perché sto pensando che questa volta moriamo tutti e due”
“Positività, P.jackson” detto questo Wells sparò l’ultimo colpo del suo bazuka contro un folto gruppo di quelle armi controllate mentalmente dal colonnello facendole a pezzi.
La situazione restava critica: le barriere di P.jackson non avrebbero retto in eterno e Wells non sembrava interessato al fatto che entrambi avrebbero di li a poco fatto una bruttissima fine.
Il colonnello Cole era ormai inviperito. Alzando entrambe le mani fece alzare in volo le armi da lui controllate e sparò da sopra le barriere. I proiettili vennero intercettati da Wells che usò il bazuka scarico come scudo, mentre P.jackson estraeva dalla valigetta una 44 Magnum e un moschetto francese originale del ‘700.
Armi in pugno, i due risposero al fuoco, ma con risultati modesti, giusto qualche ferito grave (avete presente i danni che fa una 44 Magnum?) e qualche morto circostanziale causato dai colpi fortunati del moschetto che solo in mano a uno come Wells poteva diventare un’arma utile in un contesto del genere.
“Wells, non ho più molto tempo per controllare la valigetta, come ce la caviamo?” chiese P.jackson.
“Ce la caviamo, stai tranquillo” rispose Wells freddando al contempo un sottufficiale con un colpo di moschetto partito circa 30° più a sinistra del bersaglio.
“Non hai idea di quanto sono sollevato” rispose sarcastico P.jackson.
“Resistiamo altri 27 secondi e ce la caviamo”
P.jackson tacque e continuò a sparare con la sua Magnum.
I successivi 21 secondi furono un inferno. Proiettili che fischiavano in ogni direzione, il colonnello che urlava ordini mentre i soldati di muovevano in maniera disordinata nel piazzale, un’oca che era passata in mezzo al campo di battaglia schivando miracolosamente tutti i colpi, Wells che continuava a colpire a morte gente con un’arma che neanche chi l’aveva inventata ci aveva mai messo a segno un colpo, e come ciliegina sulla torta P.jackson che si era visto per tre volte nel giro di quattro secondi un proiettile a cinque centimetri dalla testa … tutte e tre le volte nello stesso punto.
“Wells, che diavolo deve succedere tra 6 secondi? Non ci tengo a passare la serata del derby in ospedale”
Wells non rispose per tutti e sei i secondi, poi smise di sparare e spostò una parte della barriera in modo da chiudere un lato rimasto scoperto dopo che l’ennesimo proiettile vagante l’aveva fatta smettere di funzionare, quindi si accovacciò imponendo a P.jackson di fare lo stesso tirandolo per un braccio.
Una palla di cannone piovve sull’area circostante distruggendo completamente le impalcature di legno ancora in piedi e mietendo diverse vittime tra i soldati. Un secondo colpo centrò il palco del colonnello, che per salvarsi dovette annullare il suo controllo sulle armi in volo e saltare giù dal palco atterrando in piedi come un felino.
Un terzo colpo colpì e uccise l’ultimo folto gruppo di soldati e il colonnello si voltò verso la torretta settentrionale della base dove era piazzato il vecchio cannone di cui aveva riconosciuto i proiettili. Lassù vi intravide una figura nel fumo: una figura imponente, come se fosse un gigante su sulla cima della torre.
Quella figura fu avvolta dal fumo e scomparve, ma subito si sentì un rumore di mattoni che franano e come una meteora qualcosa piombò dal cielo schiacciando tue dei luogotenenti del colonnello direttamente alle sue spalle.
Il colonnello Cole si voltò cauto e si trovo davanti a un uomo gigantesco, alto più di due metri, dalle spalle anche più larghe delle sue e i muscoli possenti montante una testa forse un po’ troppo piccola con i capelli scuri tagliati cortissimi e il volto furioso. Unica nota che stonava con il tutto erano quelle ridicole orecchie a sventola.
Distratto per un secondo da quel dettaglio, il colonnello venne colpito a un poderoso pugno del gigante che lo sparò dritto per decine di metri contro il primo muro ancora in piedi che finì di fracassargli il cranio.
Gli ultimi soldati rimasti erano più che confusi da tutta quella confusione e vennero rapidamente sterminati da P.jackson che aveva finalmente trovato il suo smolecolarizzatore tascabile nella valigetta.
“Lubit, ben svegliato” esordì Wells “Sappi che sei arrivato in ritardo”
Il gigantesco superuomo cominciò pian piano a rimpicciolirsi, i suoi muscoli a sgonfiarsi fino a risultare un uomo normale, alto un metro e settantacinque e piuttosto esile, solo la testa non modificò la sua misura, ma risultando adesso proporzionata col resto del corpo, escluse le orecchie a sventola, ancora troppo grandi.
Lubit, fresco di resurrezione, mimò il proprio disappunto al capo che annuì.
“Vero, mi sono di nuovo dimenticato di contare i due secondi della trasformazione, colpa mia” rispose Wells.
Lubit si voltò poi verso P.jackson che gli sorrise avvicinandosi a braccia larghe per u abbraccio, ma rimediando solo un altro montante al mento che lo fece saltare di un metro e mezzo prima di riatterrare di sedere a terra.
“Ohi …” esclamò con disappunto il ragazzo dopo un attimo di riflessione.
“Questo era per la teaserata dell’aereo” tradusse Wells dai gesti di Lubit “e sappi che gli devi ancora una pizza per quello”
“E va bene, ho fatto una cazzata!” sbottò P.jackson rialzandosi “Appena torniamo a casa offro un giro di pizza e birra a Lubit e un succo di more a Wells. A proposito, hai trovato quel ‘come schifo hai detto che si chiama’?” chiese poi rivolto a Wells.
“Il Tesesitaxesatore? No, è andato distrutto nel macello” rispose Wells.
P.jackson non ci poteva credere.
“Quindi ci siamo quasi fatti ammazzare più volte per niente.
Lubit cominciò a gesticolare con le bracci attirando l’attenzione degli altri due e Wells annuì.
“Che ha detto?” chiese P.jackson.
“Che in magazzino c'è del gelato” rispose Wells.
“Io alle more!” esclamò il ragazzo.

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Capitolo 3
*** Come a Trieste ***


Ciao gente! Torno a farmi sentire dopo un sacco di tempo con un altro racconto Nonsense, ancora una volta incentrato sul trio di sfortunati amici Lubit, Wells e P.Jackson, che durante il loro lavoro si sono imbattuti (di nuovo) in qualche pasticcio che il mondo di Nonsense ha preparato sulla loro strada. 
 

“Siamo ancora appesi?”
Questa è una di quelle domande che in qualsiasi situazione non fanno mai pensare a niente di buono.
In effetti Wells e Lubit erano veramente appesi a testa in giù al soffitto di una vecchia chiesa sconsacrata di epoca rinascimentale, solo che Lubit poteva guardarsi intorno, mentre a Wells era stato messo un cappuccio in testa per evitare che vedesse troppo oltre.
Lubit sbatté una volta i denti, cosa che equivaleva ad un “si”, e continuò a osservare senza possibilità di riferire al compagno di scorribande.
“Giuro che se P.Jackson non arriva in tempo è la volta buona che lo licenzio” continuava a parlare Wells “Ah, Lubit, sembra anche a te che la situazione sia familiare?”
Lubit batté un no (due battiti di denti).
“Dici? A me sembra molto simile a quella volta a Trieste”
Oltre il suo cappuccio nero, la setta di adoratori di chissà quale antica divinità mesopotamica giravano per la chiesa armeggiando con i loro computer installati per l’occasione, ingombrati da quell’inguardabile tunica verde pisello con cappuccio a punta di colore rosso che andava contro ogni gusto estetico mai propagandato dal genere umano in tutta la sua ultra millenaria storia. Quantomeno però l’arredamento della chiesa riutilizzata come laboratorio era carino. Faceva molto covo degli scienziati pazzi dei cartoni animati degli anni ‘90.
Dal poco che era riuscito a capire Wells, i tizi incappucciati avevano intenzione di combinare un antico rito pagano con le ultime tecnologie per poter rievocare un demone che avrebbe distrutto l’umanità così come la conosciamo permettendo a loro di diventare l’unica classe dirigente del mondo. Del fatto che il demone avrebbe potuto non essere d’accordo se ne sarebbero presumibilmente occupati in seguito.
Mentre uno degli accoliti era impegnato ad armeggiare con dei cavi di collegamento, un rumore di motore molto pesante turbò lo sferragliare dei preparativi nella chiesa.
L’accolito tese l’orecchio per sentire da che parte veniva quel rumore. Sembrava avvicinarsi dall’esterno propri verso la loro posizione…
Neanche il tempo di capirne di più che un gigantesco monster truck con il muso rinforzato sfondò il muro con un violento frontale, facendo crollare tutta la parte di parete che stava tra i due pilastri e schiacciando i computer che stavano dall’altra parte e lo stesso accolito.
Mentre i cocci di pietra della chiesa cadevano sul veicolo infliggendogli danni irrisori, lo stesso derapò violentemente in circolo al centro dell’edificio, facendo piazza pulita di tutto e tutti introno ai due ragazzi appesi al soffitto, che, per loro conto, non mossero un muscolo.
Il monster truck si fermò di scatto e dal finestrino del guidatore spuntò la testa di P.Jackson.
“Ehi, ragazzi, che sono quelle facce appese?” scherzò il giovane.
“Dinne un’altra come questa e sei licenziato” rispose Wells da dietro il cappuccio.
“Eddai, fammi divertire un po’ almeno, mi sembra di esservi venuto a salvare”
In quel momento Lubit fece la sua trasformazione e ingrandì enormemente la sua massa muscolare all’istante, che superò la pressione delle corde spezzandole. Fatto questo tolse il cappuccio a Wells e liberò anche lui.
“Non montarti la testa, P.Jackson, ci serviva soltanto un passaggio. Grazie Lubit” continuò Wells rimettendosi in piedi con la testa che girava ancora per il lungo periodo a testa in giù.
I due salirono rapidamente in macchina mentre dietro di loro gli accoliti in verde si stavano armando di tutto punto per riprendersi i prigionieri.
P.Jackson rimise in moto e dopo un’altra derapata furono fuori dalla chiesa con gli accoliti che gli sparavano contro con degli M-16.
“P.Jackson, due domande: dove hai trovato il moster truck, e soprattutto, come mai ci hai lasciati li per due giorni prima di venire a prenderci?” chiese Wells accomodato sul sedile anteriore mentre controllava negli specchietti.
“Il monster truck era nella valigetta” spiegò P.Jackson “ed era smontato, i due giorni mi sono serviti per costruirlo”
“Quanto deve fare schifo una valigetta magica per metterti a disposizione un monster truck da smontare?!”
“Ehi, intanto ce l’abbiamo, non ti lamentare!”
Attimo di pausa.
“Non ti sembra di vivere un déjà vu?” chiese P.Jackson.
“Si, è davvero troppo simile a quando eravamo a Trieste” rispose Wells.
Neanche il tempo di dirlo che il motore della macchina cominciò a tossire. Dopo poco il monster truck sobbalzò in maniera innaturale, fece ancora pochi metri e si fermò.
Wells girò lo sguardo verso P.Jackson che tentava inutilmente di rimettere in moto il mezzo.
“Per favore, dimmi che c’erano le istruzioni per montare questo coso”
“Probabilmente si” rispose P.Jackson “Ma sai che casino c’è in quella valigetta, non le ho trovate, e poi dovevo fare presto per venire a prendervi” cercava di scusarsi.
“Sempre più come a Trieste...” commentò il capo, e scese dal mezzo.
Anche P.Jackson scese, costatando la desolazione che lo circondava in quella cittadina fantasma.
P.Jackson aprì il cruscotto da cui uscì una lunga fumata violacea che non prometteva nulla di buono.
Wells si affacciò al parabrezza aperto e costatò che tutto quanto era fuori posto. Il motore era nel punto sbagliato, la cisterna dell’olio dei freni era al posto della batteria, tutti i cavi erano attaccati un po’ a casaccio, e c’era il peluche di un armadillo incastrato in basso. Insomma, era un miracolo che la macchina li avesse portati fino a li.
“Rassegnati, P.Jackson, quella del meccanico non è proprio la tua strada” commentò Wells.
Un rumore di motori si sollevò all’orizzonte.
“Meglio toglierci da qui prima che quel Ku Klux Klan degli ancora più poveri torni a prenderci” Wells si guardò intorno “Non possiamo allontanarci, dovremo nasconderci in una delle case abbandonate. Anche se ci trovassero, potremmo avere copertura in uno scontro”
P.Jackson recuperò la sua valigetta dalla macchina, e, con Lubit al fianco, seguì i passi di Wells, che si diresse verso un alto palazzo di cui rimanevano nient’altro che i pilastri in cemento armato.
I tre si arrampicarono fino in cima al palazzo e da lassù assistettero all’entrata nella città fantasma dei membri della setta. Gli incappucciati si avvicinarono al monster truck di P.Jackson armi in pugno e lo crivellarono alla ceca di proiettili, per accorgersi solo in un secondo momento che il mezzo era vuoto.
Dal loro nascondiglio, Wells, Lubit e P.Jackson osservavano alcuni dei loro nemici ispezionare la macchina.
“Ti immagini se andasse proprio come a Trieste?” chiese sottovoce P.Jackson.
Wells lo ricacciò indietro con un gesto della mano.
“Ma dai. Sarebbe troppo ironico …” Wells non aveva ancora finito di pronunciare la frase che uno degli incappucciati aveva toccato l’armadillo nel cruscotto e di colpo il monster truck esplose scagliando sui malcapitati adepti una pioggia letale di cocci di carrozzeria e pezzi di motore, uccidendone una dozzina abbondante.
Wells rimase in silenzio per qualche secondo, poi si voltò verso P.Jackson che a fatica tratteneva le risate.
“Non una parola” ordinò il capo, e P.Jackson fece “ok” alzando il pollice.
Mentre P.Jackson smetteva di ridere, sentì la mano di Lubit che gli stringeva la spalla. Si voltò per controllare e vide l’amico stringersi il petto.
P.Jackson sgranò gli occhi e sussurrò: “No, Lubit, ti prego non ora, non ...”
Niente da fare. Lubit ebbe uno dei suoi attacchi cardiaci e un secondo dopo lasciò la spalla di P.Jackson cadendo nel vuoto giù dal palazzo sfracellandosi a terra morto stecchito.
Il rumore del tonfo attirò l’attenzione della setta di incappucciati dal pessimo gusto estetico, immediatamente individuarono anche P.Jackson, che si era sporto per riacchiappare il cadavere dell’amico.
In una frazione di secondo, gli adepti si mobilitarono nella loro direzione e in tempo zero i pilastri furono circondati, con i nemici che tenevano i mitragliatori puntati verso l’alto.
Wells e P.Jackson alzarono le mani.
“Esattamente ...” disse P.Jackson.
“… Come a Trieste” concluse sbuffando Wells.
I due vennero fatti scendere e catturati di nuovo, quindi gli incappucciati caricarono il duo nel bagagliaio di un hammer legandoli per bene e ripartirono lasciando a se stesso il cadavere del povero Lubit.
Il guidatore dell’hammer ricevette una chiamata via radio. Era il capo.
“La chiesa-laboratorio è inutilizzabile, eccellenza” fece rapporto l’accolito “Ci dirigiamo verso una delle basi secondarie?”
“No” rispose l’altro “Tornate al quartier generale. Il progetto è troppo importante per lasciarlo a delle basi con apparecchiature non adeguate. Sovrintenderò personalmente il rito, a costo di doverci rimettere la vita personalmente” pronunciò queste ultime parole con fare solenne commuovendo il suo sottoposto.
“Certo, eccellenza” rispose l’accolito immerso nelle sue lacrime “Che la forza degli antichi e dei futuri ci guidi” e chiuse la comunicazione.
“Abbiamo a che fare con un branco di imbecilli” commentò P.Jackson, al quale nessuno aveva avuto il buon senso di togliere la valigetta.
“Che dici, Wells, prendo la bomba elettromagnetica e ce la filiamo?”
“Bomba elettromagnetica … è quella rotonda, con una finestrella verde in tutto e per tutto simile alla bomba a idrogeno?”
“Si, quella”
“Preferisco vivere, P.Jackson”

Wells e P.Jackson rimasero nello scomodo bagagliaio per un paio d’ore, adoperandosi nel mentre per liberarsi dalle funi.
Sentirono l’hammer frenare bruscamente e ripartire pochi istanti dopo, per poi fermarsi di nuovo.
Con un’occhiata tra loro Wells e P.Jackson capirono di essere arrivati, quindi misero via i bicchieri di macedonia e si rimisero le funi addosso fingendo di essere ancora legati.
Il bagagliaio si aprì.
“Ehi, voi due, è ora di scendere” Disse loro uno degli accoliti dal cappuccio verde provando a fare la voce autoritaria, ma fallendo miseramente.
P.Jackson e Wells vennero strattonati ad uscire, senza che nessuno si accorgesse che non erano più legati da un pezzo e vennero portati in fondo a un enorme ambiente grigio che sembrava un hangar, varcarono una piccola porta di metallo e percorsero un lungo corridoio delle pareti metallizzate completamente vuoto. Evidentemente gli adepti della setta erano tutti riuniti per il rito.
In fondo al corridoio percorso nel più assoluto silenzio si spalancò un’altra piccola porta metallica, che dava su una sala allestita esattamente come la chiesa-laboratorio, ma molto più in grande. Solito spazio vuoto in mezzo alla stanza, stessi computer e macchine addossati alle pareti. L’unica cosa diversa era un ampio piedistallo metallico dagli spigoli appuntiti da cui un uomo alto a occhio e croce sei metri / sei metri e mezzo controllava la situazione dal suo trono, anch’esso metallico, estremamente minimale e privo di decorazioni e dagli spigoli appuntiti.
A P.Jackson quasi scappò una risata.
“P.Jackson, per favore …” Commentò Wells buttando gli occhi al cielo.
“Ma dai, anche il trono è lo stesso di Trieste” sussurrò P.Jackson sghignazzando.
“Appunto, vorrei ricordarti come è finita a Trieste …” ribatté di nuovo Wells.
“Chi sono questi?” Tuonò il capo della setta contro i suoi uomini.
“Intrusi, eccellenza. Hanno fatto irruzione nella base e l’hanno resa inagibile” rispose l’accolito.
“A questo proposito, temo ci sia stato un malinteso …” provò a spiegare Wells, quand'ecco che un colpo di calcio di fucile dritto alla testa lo intimò al silenzio.
“Gli intrusi non sono ammissibili durante un rito sacro di questa levatura” dichiarò di nuovo l’imponente capo della setta “Ma in questo momento possono tornarci utili. Il potente demone ha bisogno di un sacrificio per essere richiamato in questo mondo, e noi abbiamo l’opportunità di dargliene due”
Il viso del capo era coperto da un elmo che gli copriva gran parte del viso, ma sia P.Jackson che Wells capirono che stava sorridendo.
“Legateli! E preparate le macchine, il rito comincerà a breve”
P.Jackson guardò Wells.
“E ora?” chiese il giovane.
“Non ho la minima intenzione di finire come a Trieste!”
Wells si alzò di scatto e con un calcio rotante passò sopra la testa di P.Jackson e colpì col tallone l’accolito che lo teneva abbattendolo. Quindi stordì con un uno-due al volto quello dietro di lui mentre P.Jackson prendeva dalla valigetta un’arma puntandola contro il capo.
In pochissimi secondi, tutta la setta dei cappucci verdi si era radunata intorno al piedistallo del trono con le armi in pugno, ma P.Jackson sentiva di avere il coltello dalla parte del manico.
“Fermi tutti. Ho una pistola al tecnezio puntata contro il vostro capo, e non vi conviene fare nulla che possa farmi premere il grilletto”
Gli uomini della setta si guardarono l’un l’altro, per la maggior parte chiedendosi cosa fosse una pistola al tecnezio, ma il capo li richiamò all’ordine.
“Colpiteli, miei fedeli, il rito non può fermarsi per la mia morte!”
Gli accoliti esitarono e P.Jackson decise di sparare un colpo a vuoto per chiarire che faceva sul serio, quindi puntò la pistola verso il pavimento e …
Plut.

Plut?
Nel silenzio creatosi nella sala, P.Jackson si voltò e vide che dalla sua pistola era uscita uno uno strano rivolo di una sostanza melmosa e trasparente che si era adagiata pesantemente a terra.
Sotto gli occhi inespressivi di Wells, P.Jackson osservò la punta della sua pistola. La toccò con un dito e dette un’occhiata alla sostanza che ne restava.
“Ah, vedi dove era finita la colla a caldo” osservò P.Jackson.
Wells rispose con un facepalm.
“Fuoco!” Ordinò il capo della setta senza alzarsi dal suo trono, e tutti gli adepti iniziarono a sparare con quello che avevano in mano: pistole, mitra, fucili a pompa, spara-chiodi e pinzatrici semi automatiche.
Con un gesto fulmineo, Wells afferrò la pistola spara-colla di P.Jackson e con dei colpi precisi riuscì a intercettare a mezz’aria i colpi potenzialmente pericolosi facendo cadere a terra i proiettili.
I due soci corsero ripararsi dietro il trono da cui il capo non sembrava intenzionato a schiodarsi.
“Ma come si fa a scambiare la pistola al tecnezio con la colla a caldo?!” esclamò Wells esasperato.
“Più che altro sono curioso di sapere come Lubit abbia saldato i pezzi del suo modellino” rispose P.Jackson rovistando nella valigetta.
“Tira fuori qualcosa di utile prima che ti incolli le labbra per sempre!”
P.Jackson continuò a rovistare nella valigetta fino ad estrarne una piccola sfera nera con un pulsante rosso sopra.
“Credo che questa sia una granata” disse il giovane mentre un proiettile di fucile gli sfiorava un orecchio.
“Non sono per niente tranquillo” ribatté Wells.
P.Jackson schiacciò il bottone e lanciò la sfera alle sue spalle sperando che succedesse qualcosa.
In effetti qualcosa successe: la sfera si aprì, ma dal suo interno si creò un piccolo buco nero che risucchiò rapidamente prima i proiettili vaganti, poi le armi degli accoliti della setta, poi gli accoliti stessi ingrandendosi di volta in volta.
Wells non ci poteva credere.
“Una bomba-buco nero … Avevi nella valigetta un’altra, maledettissima bomba-buco nero”
“Vedi tu” rispose P.Jackson “E io che pensavo di averle a Trieste”
Il buco nero stava assumendo dimensioni preoccupanti, ed era il caso di tagliare la corda.
P.Jackson estrasse dalla valigetta qualcosa che sembrava un bazuka, che passò a Wells.
Per loro fortuna si trattava veramente di un bazuka, e Wells lo utilizzò per fare una braccia in una muro che dava sull’esterno … più precisamente su uno strapiombo di 18 m e 46 cm sugli scogli appuntiti, e solo in un secondo momento sul mare.
“Ma una volta che vada bene no?!” Esclamò P.Jackson.
Wells si voltò verso l’interno, vedendo il capo della setta venire risucchiato nel buco nero con trono annesso. Doveva rendergli merito della tenacia, quantomeno.
“La vedo male, socio” Commentò Wells.
P.Jackson fece una smorfia di disappunto, poi però l’illuminazione.
“Wells, fino a ora abbiamo detto che tutto è andato esattamente come a Trieste, vero?”
“Si, perché?”
Senza aggiungere altro P.Jackson prese sotto braccio l’amico e saltò nello strapiombo.
L’urlo di Wells li accompagnò per tutto il tempo della caduta libera da 18,46 m di altezza, ma, a differenza di Trieste, stavolta non fu traumatizzato abbastanza da svenire a mezz’aria.
Giusto un attimo prima che i due impattassero contro gli scogli appuntiti, un motoscafo saltò proprio sopra di essi, prendendo al volo il duo che atterrò sul morbido di un gommone appositamente aperto.
A Wells quasi si riattivarono le sopracciglia per lo spavento, mentre P.Jackson si rialzò subito e andò a dare una pacca sulla spalla a Lubit, che guidava il motoscafo.
“E questo che significa?” Gridò Wells cercando di sovrastare il rumore del motoscafo e della base che si stava sgretolando sopra di loro.
P.Jackson rispose: “Te a questo punto eri svenuto, ma è così che è andata veramente a Trieste” e aggiunse una sonora risata.

Appena furono a distanza di sicurezza P.Jackson prese dalla valigetta un congegno dall’aspetto di un palmare piuttosto ingombrante. Lo passò a Wells che, attivandolo, cancellò il buco nero che stava ormai assumendo dimensioni preoccupanti.
“Il caro, vecchio, commutatore di realtà relativa. Gran bella invenzione” dichiarò Wells soddisfatto”
“Ottimo” esclamò P.Jackson “Anche stavolta ce la siamo …”
Non riuscì a finire la frase con un gancio destro di Wells lo colpì in piano viso facendolo crollare sul retro del motoscafo.
“Questo è per il volo” gli gridò contro Wells.
Gesticolando Lubit chiese al suo capo se avessero completato la consegna.
“la cassa di bulloni gliel’ho lasciata sotto la porta della chiesa” rispose Wells “La firma l’ho presa da un foglio che era nel bagagliaio dell’hammer. Ce la faremo bastare”

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