In Un'Altra Vita

di Nat_Matryoshka
(/viewuser.php?uid=39154)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Capitolo 1
 



“The only rule of travel is: don’t come back the way you went. Come back changed.”
- Anne Carson
 
 




Si erano appena lasciati alle spalle il cartello blu che indicava la stazione di Venezia Mestre, e la mente di Rey era già impegnata a fantasticare.

Il naso schiacciato contro il vetro come una bambina curiosa, guardava le luci della città passarle davanti agli occhi e svanire nella notte, lucciole fatte di vetro troppo lente per riuscire a star dietro al treno in corsa. Accanto a lei, Ben ascoltava musica e guardava davanti a sé senza concentrare lo sguardo su un punto in particolare, mentre Luke controllava la posizione dell’albergo sul depliant che aveva infilato in una rivista. Nessuno dei due sembrava colpito dall’idea che presto la laguna sarebbe entrata nel loro campo visivo, e che il treno su cui viaggiavano si sarebbe fermato in una città così piena di storia e fascino come Venezia. Ma Luke era così, pensò sorridendo Rey: a volte sembrava così immerso nel suo mondo da dimenticarsi completamente di quello esterno, quasi non esistesse. E Ben… capire cosa pensasse e provasse a volte era un mistero. E come tutti i misteri, per risolverlo serviva una mente curiosa.

Venezia si avvicinava: osservando bene nell’oscurità, poteva vedere l’acqua del mare tremare appena in lontananza, la distesa interrotta ogni tanto da un gabbiano che si posava. Gli altri passeggeri si alzavano, prendevano le giacche e indossavano di nuovo sciarpe e cappelli, preparandosi al freddo di febbraio. Anche Luke aveva fatto loro cenno di prepararsi, perché lo aiutassero a scaricare dallo scompartimento sopra le loro teste la borsa con la macchina fotografica e i loro computer. Solo Ben poteva farlo, tra loro tre era decisamente il più alto. Lei intanto continuava a sognare.
Quando Luke le aveva parlato di quel viaggio, una settimana prima, era seduto nel suo studio. Era una bella giornata invernale, e lui sorrideva come qualcuno che avesse appena ricevuto la migliore delle notizie. “Andiamo in Italia la settimana prossima”, le aveva detto per salutarla. “Ho un contatto che può procurarci un buon albergo, vuole che scriviamo un reportage per il Carnevale di Venezia.” Le aveva rivolto un altro sorriso senza trattenersi, poi aveva aggiunto: “Ti piace l’idea?”
“Conosci già la risposta.” A Rey brillavano gli occhi. Una volta tornata a casa, aveva iniziato immediatamente a fare le valige, e una settimana dopo era in aereo e poi sul treno, in attesa di iniziare quell’avventura. La sua prima, vera avventura da reporter all’estero assieme a Luke Skywalker, il suo mentore, l’uomo che le stava insegnando tutto della sua professione.

E Ben. Era il loro fotografo, ed era in grado di cogliere la bellezza delle cose anche con un solo scatto. Non gli piaceva allestire mostre dei suoi lavori, ma un giorno aveva sfidato la riservatezza per partecipare ad un concorso indetto dall’università, ed era stato in quell’occasione che Rey aveva avuto modo di ammirare il modo delicato in cui giocava con le luci, la sua passione per le stelle e i paesaggi dominati dalla natura. C’era poesia in quelle foto, ma anche solitudine e tristezza, e una punta minuscola di speranza che si affacciava sullo sfondo. Lei gli aveva fatto i complimenti personalmente per quelle fotografie, e da lì avevano iniziato a fare conoscenza e a parlare di libri e arte, due passioni che sembravano condividere. Solo mesi dopo aveva scoperto che Ben Solo era il nipote di Luke, il giornalista a cui i suoi parenti l’avevano presentata, e che ogni tanto lavorava come fotografo per lo zio.
Come si diceva di solito? Il mondo è piccolo. Davvero piccolo e pieno di sorprese, se due persone che avevano tentato di stabilire un rapporto in passato si ritrovavano tempo dopo, messe a contatto da un’occasione unica come quel viaggio.

Oltrepassarono tutti assieme l’ingresso della stazione di Santa Lucia: a tre gradini di distanza, il mare abbracciava la città in modo così particolare da non sembrare nemmeno reale. L’acqua passava oltre i marciapiedi, si infilava nelle strade e lambiva case ed edifici, diventando parte integrante di quella città sospesa in un’atmosfera magica. Era sera, ma la sagoma della chiesa di Santa Lucia era ben visibile, e dava il benvenuto ai viaggiatori con la sua grande cupola. Luke spinse il trolley verso l’imbarco del vaporetto, poco lontano, una richiesta muta di essere seguito. Ben si guardava intorno stringendo appena gli occhi, come faceva sempre quando un soggetto interessante colpiva la sua attenzione. Rey gli sfiorò la mano senza dire nulla, e per un attimo si godette la sua sorpresa, quel momento in cui le loro dita rimanevano vicine senza che nulla potesse dividerle, né un’emozione improvvisa, né una voce esterna. Fino a che entrambi non ricordarono di dover seguire Luke all’imbarco, e la consapevolezza di doversi sbrigare spezzò l’incantesimo.
L’imbarco per il traghetto era come una pensilina per il bus, ma serviva a condurre i passeggeri direttamente alla barca-autobus. A quell’ora e in quella stagione non c’erano molti turisti a bordo – giusto qualche pendolare e un paio di donne francesi che parlottavano strofinandosi le mani – per cui la traversata fu tranquilla, accompagnata dal mare calmo. Rey continuava a scrutare la città illuminata dai lampioni, le braccia poggiate sul parapetto dell’imbarcazione, incapace di rilassarsi e restare seduta. C’erano troppe novità attorno a lei, troppe meraviglie da scoprire: conosceva Venezia solo tramite i documentari e i racconti degli amici che l’avevano visitata, e ora che si trovava su quel battello, accarezzata dalla brezza notturna, non riusciva a credere ai propri occhi. Sarebbe rimasta anche tutta la notte a guardarsi intorno, ma Luke le toccò gentilmente il braccio qualche minuto dopo: erano arrivati alla loro fermata. L’albergo e la cena li aspettavano.

Le vie di Venezia – calli, le chiamavano, nome che alla ragazza sembrò molto musicale – erano strette e pavimentate in pietra, circondate da ogni lato da porte e finestre di case che davano sulla strada. Brulicavano di vita anche a quell’ora della sera, e ogni tanto qualcuno si affacciava alla finestra, o ritirava dei panni stesi ad asciugare. C’erano piante nei vasi, gerani non ancora spuntati o piccoli arbusti sempreverdi che rallegravano il legno scuro delle imposte. Attraversarono vicoli accompagnati dal suono monotono delle ruote dei trolley sul pavimento di pietra, si lasciarono alle spalle calli e palazzi antichi fino a ritrovarsi, una decina di minuti dopo, in un cortile circondato da case da ogni lato. Al centro, svettava una costruzione a tre piani dipinta di rosa antico, con un’insegna di ferro battuto decorata da ghirigori che ne indicava il nome: “La Colombina”. Doveva essere una vista bellissima di giorno, rifletté Rey, col sole che giocava tra le foglie degli alberi regalando nuove tonalità alla pietra che toccavano.
Anche di notte l’edificio aveva un aspetto accogliente, illuminato com’era da luci dietro le finestre del pianterreno. Il mare cantava da ogni lato, scorreva attraverso i canali con la sua voce gorgogliante, passava sotto a piccoli ponti di pietra rossa, come quello poco lontano dall’edificio, e i lampioni proiettavano globi dorati sulla superficie liquida. La ragazza inspirò profondamente: l’aria profumava di inverno, quell’odore inconfondibile di freddo e legno bruciato che impregnava tutti gli inverni che aveva vissuto. Era buono, pizzicava il naso e portava con sé novità, sorprese. La metteva di buonumore, tanto che attraversò la soglia dell’albergo quasi saltellando, meravigliata da tutto ciò che aveva intorno. Ben la precedeva in silenzio, Luke era già entrato.

L’interno dell’albergo era arredato con cura, un misto di antico e moderno che si adattava benissimo allo spirito della città. La ragazza posò la valigia su di una morbida moquette blu scuro decorata da stelle e rimase in attesa che Luke terminasse di registrarsi al banco del check-in, dove un ragazzo biondo esaminava le loro carte di identità trascrivendone i numeri al computer. Alcuni ospiti leggevano il giornale su poltrone di pelle marrone chiaro, un paio di bambini seguivano i genitori lungo un corridoio che portava con ogni probabilità alla sala dove si consumavano i pasti. Ben, in piedi davanti a lei, aveva preso una brochure da uno degli espositori sul banco del check-in e la osservava sfogliandone le pagine: “Murano, Burano e le altre isole della laguna”, c’era scritto sulla copertina. Rey fece mente locale, provando a collegare quei nomi alle ricerche fatte prima di partire, e ricordò di aver letto che Murano era famosa per il suo vetro decorato e Burano per i merletti ricamati a mano. Chiuse gli occhi, e l’immagine di un intero abito di merletti bianchi, delicati come petali di fiore, si stampò prepotentemente dietro le sue palpebre. Non faceva parte di qualcosa che aveva già letto in precedenza, ne era abbastanza sicura: la ragazza che lo indossava sorrideva timidamente, il volto talmente brillante nella luce del sole da non poterne riconoscere i lineamenti. Fissava il mare, e muoveva il busto avanti e indietro come farebbe qualcuno impaziente e spaventato per l’avventura che si sta apprestando a vivere. Scuoteva la chioma folta, decorata da un fiore rosso, e sorrideva ancora. Poi allungava una mano, e aveva dita minute e affusolate, così minute che…

Luke e Ben si mossero contemporaneamente verso di lei, facendo svanire il sogno ad occhi aperti come una bolla di sapone. Rey scosse la testa per riprendersi, sgranando gli occhi. Che strano… era stata una fantasia vivida, reale. Così tanto che si stupì di non vedere la ragazza accanto a sé una volta girato lo sguardo, ma c’erano solo i suoi compagni di viaggio e il receptionist. Luke parlava al telefono con qualcuno mentre rimetteva a posto la carta d’identità.

“Si, siamo arrivati ora. Il viaggio è stato molto tranquillo”. Teneva il cellulare bloccato contro la spalla mentre apriva il portafoglio e lasciava una mancia alla ragazza che si era appena offerta di aiutarli coi bagagli. “Albergo La Colombina, si. È proprio quello che ci avevi consigliato tu, quartiere Santa Maria della Salute. Molto carino, abbiamo appena finito il check-in… e abbiamo una gran fame.” Si fece scappare una risatina. “Oh no, non preoccuparti Maz… la cucina non è ancora aperta, c’è addirittura tempo per rinfrescarci prima di scendere a cena. Possiamo vederci domattina in Piazza San Marco, se avrai ancora voglia di vederci. Alloggi lì, vero? Perfetto… perfetto, allora.” Posò la borsa sulla valigia. “Ci vediamo domani. Buona serata, Maz. Sei sempre meravigliosamente premurosa.”

Chiuse la conversazione e si rivolse ad entrambi gli allievi, gli occhi pieni di un’eccitazione sottile che Rey aveva imparato a conoscere solo col tempo.

“Era Maz, il mio contatto. Una vecchia amica che si assicurava che fossimo arrivati sani e salvi… e che ci aspetta domattina per la colazione in Piazza San Marco.”
Rey quasi saltò sul posto, trattenendo a stento l’entusiasmo. “Una giornalista? È lei che ti ha chiesto di scrivere il servizio?”
“Più o meno” Luke guidò il gruppetto verso le scale, assieme alla ragazza delle valige che li aspettava per condurli alle stanze. “È una personalità qui a Venezia, la frequenta da tantissimi anni… e ha visto molti più Carnevali nella sua vita di quanto le piaccia ammettere. Se c’è qualcuno a cui chiedere per scrivere un servizio su Venezia, quella è Maz Kanata.”
“L’ho già sentita nominare” Ben corrugò la fronte, cercando di ripescare un’immagine tra i suoi ricordi a cui abbinare quel nome. “Non è quella conoscente di mio padre, la donna con gli occhiali? Piccola, occhi grandi… è la proprietaria di un ristorante, o una cosa del genere.”
“Esatto. Maz è sicuramente una donna dalle mille risorse.” Luke si fece lasciare tre tessere magnetiche dalla ragazza, una per ciascuno di loro.
“Allora… numeri 26, 27 e 28. Siamo tutti sulla stessa fila, tre singole. I letti sembrano comodi, da quanto ho potuto constatare su internet… e abbiamo minifrigo e televisore. Si preannuncia un bel soggiorno. Rey, per te va bene la 28?”

La ragazza afferrò la scheda e spinse la valigia davanti alla porta. “Ben, per te allora la 27. Io prendo la 26… e, se volete scusarmi, vado subito a posare i bagagli e a cambiarmi. Ci rivediamo nella hall per cenare tra… mezz’ora?”
“Aggiudicato.” Il ragazzo gli rivolse un cenno di assenso con la testa, lo sguardo su Luke che entrava nella stanza e si chiudeva la porta alle spalle. Rimasero lui e Rey in piedi nel corridoio, nel silenzio della sera che si faceva notte.

“Letti singoli, eh? Peccato… quasi speravo si fossero sbagliati e ci avessero dato un matrimoniale ciascuno. Almeno saremmo stati belli larghi!” sbuffò Rey, con tanta convinzione da far ridacchiare anche Ben di rimando. “Non mi piacciono le stanze singole, però. Meno male che le vostre non sono lontane...”
“Potrei offrirti un posto nella mia, se ti va.” Ben spinse con gentilezza il trolley di Rey verso la sua stanza, aiutandola ad aprire la porta con la chiave magnetica che, come al solito, aveva bisogno di qualche tentativo prima di entrare nella serratura. “Solo che ti toccherebbe dormire per terra, temo… a meno di non farti procurare una brandina da un inserviente. O di prepararti una cuccia nella cabina armadio.”
“Quella non sarebbe una cattiva idea.” Rey fece la stessa cosa per Ben, ricambiando il favore con la tessera magnetica. Lasciò scivolare la carta nella mano del giovane, sfiorandola quel tanto che bastava per prendersi un po’ del suo calore e sentire che era felice come lei, che quell’avventura lo entusiasmava anche se aveva un modo molto diverso dal suo di mostrare le emozioni. Emanava un tepore gentile, forse un po’ timido, ma diverso dal freddo pieno di tristezza del Ben Solo col quale si era scontrata tempo prima.
“Grazie. E, Rey… sai che se hai bisogno di qualcosa puoi bussare in ogni momento, vero?”
“Me ne ricorderò.” Probabilmente era arrossita, ma sperò che la debole luce delle lampade la aiutasse a nasconderlo. “Penso che seguirò l’esempio di Luke… ci vediamo direttamente a cena?”

Una domanda che non aveva bisogno di conferme, ma era sempre piacevole sentirne una dalla sua voce. “D’accordo. A dopo, allora.”

Lo guardò entrare nella sua stanza in silenzio, così come aveva fatto il loro maestro poco prima, e chiudersi la porta alle spalle con un piccolo scatto. Rey accese la luce della sua stanza e lasciò vagare lo sguardo sul letto, le finestre con le tapparelle già abbassate, la scrivania in legno su cui era appoggiata una piccola televisione e che ospitava il minifrigo, l’appendiabiti che aspettava la sua giacca verde militare, la porta del bagno accostata. Sembrava accogliente e il letto non era nemmeno piccolo come immaginava, e profumava di lavanda e deodorante per ambienti al mughetto.  Lasciò la sua valigia a terra a fianco all’appendiabiti e, dopo essersi tolta il giacchetto e averlo lanciato senza tante cerimonie, si distese a pancia in su sul materasso. Era davvero comodo.
Se avesse appoggiato l’orecchio alla parete probabilmente avrebbe potuto sentire Ben che sistemava i vestiti nell’armadio o che iniziava ad esplorare la stanza, aprendo i cassetti, il rubinetto del lavandino, l’anta del minifrigo. Averlo così vicino la faceva fremere, quasi potesse leggergli nel pensiero e accompagnarlo anche mentre erano separati da quel muro: era passato tanto tempo da quando si erano trovati vicini per più di qualche ora. Quando aveva scoperto che Luke voleva proprio lui come fotografo per accompagnarli in quel viaggio, un brivido le aveva percorso la schiena, riempiendole lo stomaco di quelle famose farfalle di cui parlavano tutti. Sfiorò la parete e chiuse gli occhi, provando a visualizzare il calore che aveva percepito poco prima toccandolo, quasi fosse un’aura che impregnava qualunque luogo in cui lui si trovava. Ben era silenzioso e pieno di pensieri, tranquillo come il vento che entrava dalle finestre in primavera, ma che può trasformarsi in burrasca in qualunque momento, senza preavviso… e quando succede, è meglio stargli alla larga. Le tempeste sono imprevedibili, distruggono qualunque cosa si frapponga fra di loro e il resto del mondo, corrono senza fermarsi come se non provassero alcuna stanchezza. Lui riusciva ad essere vento primaverile e tempesta, rifletté Rey. Ormai conosceva entrambi gli aspetti della sua personalità.

Sorrise tra sé e si versò un bicchiere d’acqua: chi aveva rifatto la stanza le aveva lasciato una bottiglia piena nel minifrigo come benvenuto. Ben lo sapeva, che non le piaceva dormire da sola… Rey glielo aveva detto tempo prima, col solito tono scherzoso che usava quando l’ironia la aiutava a fare amicizia. E lui aveva riso e l’aveva stuzzicata: vorrà dire che dormirai nella mia stanza quando ci capiterà di viaggiare assieme. Era raro che fosse così spiritoso, e la luce che gli brillava negli occhi che era meravigliosa. Faceva sentire bene, Rey l’aveva conservata nell’anima come un regalo inaspettato, stampandosi nella memoria il suo sguardo, quelle piccole scintille dorate che gli riempivano gli occhi scuri, gli angoli della bocca sollevati. I suoi capelli non le erano mai sembrati tanto morbidi quando li aveva accarezzati, facendo scivolare le dita tra le ciocche spesse, piccoli ricci ribelli che diventavano ancora più folti dietro alle orecchie. Va bene. Sei pronto a beccarti un sacco di calci ogni notte? aveva risposto, avevano riso ancora insieme e per un attimo era stata tentata di baciarlo. Si era chiesta che sapore potessero avere le sue labbra, così piene, morbide come quelle di un ragazzino. L’aveva fissato negli occhi, accarezzandogli ancora i capelli mentre il tempo si fermava, ma non era successo nulla… o forse era stata lei a fermare tutto, a non osare quel passo in più per paura di metterlo a disagio. Ricordava solo di aver appoggiato la fronte a quella di Ben e di aver inspirato a lungo, talmente felice di quella vicinanza da non desiderare altro. Lui era lì, respirava con lei e sembrava aver dimenticato, almeno per un attimo, quello che le aveva ripetuto giorni prima, quando la rabbia impregnava ogni suo discorso e continuava a lottare contro se stesso con l’energia di chi non riesce a venire a patti con la propria esistenza.

“Perché continui a provarci, Rey? Lo sai che non posso cambiare. Faccio del male a chi mi circonda, e non smetterò mai di farlo, neanche se lo desiderassi. Ho fatto del male a mio padre. Ho fatto soffrire mia madre. Perché vuoi essere la prossima a tutti i costi?”

Respinse quel ricordo triste con un movimento involontario della testa e si versò un altro bicchiere d’acqua. Non doveva riportarlo alla mente, non ora che si era ripromessa di lasciarsi alle spalle tutti i loro conflitti, quelle liti che le avevano riempito il cuore di stanchezza. Ben aveva bisogno di ricominciare, e anche lei. Magari proprio tra i canali e le meraviglie di Venezia, durante un viaggio inaspettato. Suonava come un buon piano.
Aprì la valigia e la distese sul letto, poi si voltò a prendere il telecomando e accese la televisione, in cerca di un canale che trasmettesse musica. Le era rimasto un po’ di tempo per rinfrescarsi e cambiarsi prima di cena, e aveva tutta l’intenzione di utilizzarlo al meglio.
 

 





***

Questa storia è nata grazie a quel progetto meraviglioso che è la Reylo Fanfiction Anthology: quest'anno ho avuto l'onore di farne parte, e di poter scrivere questa storia ispirata dal tema del 2017, ossia le feste e celebrazioni. La mia, come avrete ormai capito, è il Carnevale di Venezia, e aver portato un pezzo della mia cultura in un fandom che per me rapprsenta tutto è stata una gioia immensa.
Se ne avete voglia, supportate sia me che le altre meravigliose scrittrici su AO3: troverete tra le migliori autrici del fandom Reylo e di Star Wars in generale. Questo è il link al primo capitolo della mia storia in inglese (http://archiveofourown.org/works/12176103/chapters/27638682), questa la masterlist dell'iniziativa (
http://archiveofourown.org/collections/Celebrate_the_Waking)

Grazie per aver letto fin qui :3

Rey

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Capitolo 2
 
 


“Venice never quite seems real,
but rather an ornate film set suspendend on the water.”
- Frida Giannini
 
 
 




Sabato mattina.

A Londra, avrebbe significato svegliarsi tardi e ciondolare per un po’ in pigiama, con una tazza di caffellatte in mano e la tranquillità di poter rimandare al pomeriggio qualunque lavoro avesse dovuto svolgere. Inviare un messaggio a Poe o Paige, chiedergli di vedersi da qualche parte per la sera. Oppure sedersi semplicemente in poltrona con un libro o le parole crociate, per svagare un po’ la mente prima di iniziare la giornata. Le piaceva prendersela comoda, il sabato.
Quando era in viaggio, invece, non era in grado di svegliarsi dopo le sette e mezzo del mattino. Nemmeno se puntava la sveglia più tardi, nemmeno se Luke le aveva assicurato che avevano appuntamento con la loro ospite alle nove: non riusciva a restarsene tranquilla a letto a riprendersi dal viaggio, non con un’intera città fatta d’acqua e di storie ad aspettarla fuori dalla finestra.

Si alzò e, prima ancora di vestirsi, aveva già sollevato la tapparella per guardare fuori: si preannunciava una bella giornata, luminosa e fredda. Il mare splendeva, il sole si rifletteva sulle foglie dei pochi alberi sempreverdi rimasti e giocava col verde delle loro chiome proprio come Rey aveva immaginato la sera prima, tutto sembrava risplendere di una propria gioia vivace, piena di energia. La ragazza si fece la doccia, poi si vestì canticchiando e afferrò la borsa. Ci aveva infilato un quaderno nuovo di zecca, pronto per essere inaugurato con interviste, pensieri, racconti. Nuove storie.
Ben e Luke la raggiunsero poco dopo. Nessuno dei due lo diceva, ma probabilmente non erano riusciti a restarsene a letto  proprio come lei. Ben aveva sistemato al collo la macchina fotografica, Luke scriveva velocemente messaggi, uno a Maz per avvisarla del loro arrivo e uno a Leia, la sua sorella gemella e madre di Ben, per dirle che erano giunti sani e salvi e si apprestavano a visitare la città. Il receptionist li salutò con un cenno della mano mentre varcavano la soglia dell’albergo e si gettavano di nuovo nei vicoli della città, verso la fermata del vaporetto che li avrebbe portati a Piazza San Marco. C’erano decisamente più turisti rispetto alla sera prima, gente che sciamava fuori dai bar e dalle residenze, donne con passeggini e semplici pendolari che lavoravano a Venezia, tanto che dovettero attendere una seconda imbarcazione dopo che la prima era partita carica di passeggeri. Non c’era fretta: Rey aveva tutta l’intenzione di imprimersi nella memoria ogni singolo angolo della città, dalle rientranze nel muro abitate solo dai piccioni alle case più lontane, che sparivano oltre i canali e i vicoletti della laguna.

Finalmente il vaporetto si staccò placidamente dal molo, e i palazzi iniziarono a venirgli incontro. La ragazza si mosse in fretta verso il parapetto e vi si appoggiò con i gomiti, sporgendosi quel tanto che bastava per poter guardare bene. Se la sera prima aveva visto il lato più misterioso di una Venezia immersa nell’oscurità, la luce del giorno svelava dei colori che mai avrebbe immaginato di notare sulle facciate dei palazzi e delle case.  Rimase a bocca aperta mentre scivolavano sull’acqua e costeggiavano alberghi e musei, approdi dove le gondole restavano legate ai pali di legno colorato, ristoranti-bar in cui i turisti facevano colazione su piccoli moli sospesi sull’acqua. Sembrava tutto parte di un sogno, eppure era sveglia e non riusciva a decidere dove volgere lo sguardo per accogliere quello che la città le offriva.
Percepì Ben che le si avvicinava e si spostò appena per fargli spazio, lasciando che anche lui si sporgesse per guardare meglio. Aprì l’obiettivo della macchina fotografica e scattò un paio di volte, poi rimise il tappo al suo posto. Rey osservava le sue dita con attenzione, stupendosi ancora una volta di quanto fossero lunghe ed affusolate.

Eleganti, come lui.

“Ti sei mai chiesta chi possa aver abitato quei palazzi in tutti questi secoli?”
La voce scura di Ben la riscosse dalle sue fantasie ad occhi aperti come aveva fatto la sera prima. Sembrava immerso in una riflessione, quasi avesse dato voce ai suoi pensieri senza accorgersene mentre giocherellava con il laccio della macchina fotografica. Rey osservò una facciata col suo balcone di pietra scolpita, le imposte chiuse a nascondere vite che ancora non conoscevano.

“Si, lo faccio spesso” confessò, sicura che in qualche modo lui l’avrebbe capita. “Mi piace immaginare come trascorrevano le loro giornate, come fosse la vita quando non esistevano né telefoni né internet a riempirla. Chi abitava in quel palazzo laggiù? Nobili, credo… non mi sembrano case per gente comune. Come si divertivano, in cosa speravano quando guardavano il cielo? Sarebbe interessante saperlo, ma forse è più bello provare a immaginarlo da soli.”

“Già.” Ben muoveva le dita impercettibilmente, sembravano danzare sulla fiancata metallica della nave. “Qualcuno mi ha detto che Venezia è come un caleidoscopio: è difficile staccare gli occhi da quello che vedi per concentrarti sulla tua vita, una volta che ti sei immerso nelle sue strade. Non ci avevo mai pensato, ma l’impressione che ho avuto è esattamente questa.”

“È così irreale e bello. L’acqua, le costruzioni… ogni cosa. Il fatto stesso che esista una città simile, e che continui ad esistere fino ad oggi, è una specie di miracolo.”

Rey sentiva accanto al viso il respiro del ragazzo, gentile e regolare. Era sereno, e quella consapevolezza le fece stringere il cuore per la gioia. Più sereno di quanto non l’avesse mai visto in tutti gli anni in cui lo conosceva. Lo seguì con una punta di felicità in più e, assieme a Luke, attraversò la pensilina della fermata di San Marco. Erano arrivati. La piazza li aspettava poco lontana, preceduta dal campanile che svettava sopra di loro: il tetto verde e acuminato, il corpo slanciato coperto di mattoni rossi che lo rendeva visibile già da distanza. Una volta entrati nella piazza vera e propria, rimasero per un attimo fermi a contemplare la meraviglia della basilica davanti a loro, con le sue sculture che sembravano toccare il cielo, le cupole tonde, l’oro e il blu dei mosaici. I turisti iniziavano a spargersi lungo tutto il perimetro per scattare fotografie o mettersi in fila per visitarne l’interno, accompagnati in ogni loro azione da stormi di piccioni che svolazzavano e beccavano le briciole scappate dalla colazione di qualche passante. Ce n’erano tantissimi, grigi neri e bianchi, e non sembravano affatto intimiditi dall’affollarsi della gente. Luke sorrise guardandoli. “Quando eravamo bambini, i miei genitori ci portarono in Italia per una vacanza di un paio di settimane… e ricordo benissimo che io e Leia abbiamo provato subito a dare da mangiare ai piccioni, ovviamente con ottimi risultati: più o meno tutti quelli presenti sulla piazza si sono lanciati verso di noi” ridacchiò sotto i baffi mentre controllava il nome esatto dell’albergo dove li attendeva Maz. “Adesso è vietato, devono pensarci da soli a trovarsi da mangiare… non che non fossero in grado di farlo anche prima. Dovrei mandare una foto a tua madre, Ben. Abbiamo dei bei ricordi legati a questa città, a Maz… peccato che non abbia potuto prendersi una vacanza dal lavoro per qualche giorno. Si sarebbe divertita di sicuro.”
 

*
 


L’albergo dove alloggiava Maz Kanata era totalmente diverso dal loro, piccolo e informale ma molto confortevole: già la porta d’ingresso con i vetri istoriati a disegni di fiori ne era una prova evidente. La hall era tutto uno sfavillare di porcellane raffinate, tappeti rossi, legni dorati e poltrone dalla foggia settecentesca, col personale vestito di verde scuro che accoglieva clienti dall’aria molto facoltosa, carichi di valige e buste di boutique famose. Per la prima volta da quando quel viaggio era iniziato, Rey si sentì intimidita dal lusso che la circondava: sapeva che nessuno avrebbe fatto caso a lei e che un abbigliamento elegante sarebbe stato fuori luogo per visitare musei, ma gettò comunque qualche occhiata preoccupata alle scarpe da ginnastica nere e al parka col collo di pelliccia finta che indossava, che contrastavano decisamente con l’aspetto del locale. Luke, però, era determinato a raggiungere la loro ospite e li condusse avanti, verso una grande sala oltre un corridoio punteggiato da quadri dall’aria antica, ognuno in una cornice dorata riccamente intagliata. I tavolini neri erano disseminati un po’ ovunque, circondati da sedie bianche imbottite e pattugliati da camerieri che portavano cibo e bevande su vassoi d’argento. In fondo alla sala, vicino ad una delle finestre che davano sul mare, era seduta una donna bassa, dalla pelle scura e dai capelli neri molto corti, nascosti sotto ad un fazzoletto arancione. Appena vide Luke avvicinarsi gli fece un cenno con la mano e lo accolse con un sorriso enorme e scintillante, che appariva troppo grande per quel viso minuscolo.

“Maz! Come te la passi, mia cara? Venezia ti ha catturata un’altra volta?”

Luke le prese una mano e la strinse con affetto. La donna indossava degli occhiali con la montatura di metallo argentato, lenti tonde che le ingrandivano ulteriormente gli occhi già grandi e scuri. Non era giovane, notò Rey, ma sembrava possedere il vigore di qualcuno che ha speso al meglio ogni anno della propria vita, senza sprecarne nessuno.

“Luke, ragazzo… quanto tempo. L’ultima volta che ti ho visto non avevi nemmeno i capelli grigi!” rise sommessamente e spostò una sedia per farlo accomodare. “Bella barba, ti sta bene” soggiunse, prima di spostare lo sguardo su Ben, che svettava dietro allo zio. “E chi abbiamo qui? Ben! Anche se ultimamente ho avuto modo di frequentare solo tuo padre, è impossibile non riconoscerti. Come stai? Spero che anche tua madre se la passi bene.”

“Come al solito.” Ben scrollò le spalle, quasi non avesse molta voglia di parlare di questioni familiari, Rey se ne accorse al volo dal modo in cui si muoveva. Sedette vicino allo zio, ma non prima di aver spostato un’altra sedia perché la ragazza potesse accomodarsi.

“E questa splendida ragazza?” chiese la donna, rivolgendosi a Luke. “La tua apprendista?”

“Si, sono un’aspirante giornalista. Mi chiamo Rey” la ragazza precedette l’uomo, abbassando appena gli occhi per l’imbarazzo. Non sapeva mai come comportarsi quando qualcuno le faceva un complimento inaspettato. Luke le venne in aiuto. “È la mia validissima allieva… senza di lei ricorderei la metà delle cose che devo fare, e poi sa preparare un tè straordinario. L’ho portata assieme a Ben per farla diventare pratica del mestiere.”

“Hai fatto benissimo. Rey, eh?” Maz la scrutò attentamente da dietro le lenti dei suoi occhiali. “Hai anche un bel nome. Molto regale, mi piace.”

Una volta che si furono tutti accomodati attorno al tavolo, Maz chiamò il cameriere perché portasse loro la colazione: avrebbe pagato lei per i suoi ospiti, nonostante Luke insistesse per fare a metà. in pochi minuti, un uomo in livrea tornò con un vassoio carico di svariate brioche e biscotti, oltre ad una teiera e una caffettiera, entrambe piene. C’era anche la marmellata e le uova fritte con la pancetta. Era parecchio tempo che Rey non vedeva così tanta varietà di alimenti per la colazione, così si versò una bella tazza di caffè e rimase un attimo a riflettere su quale brioche assaggiare per prima. Sembrava tutto assolutamente delizioso.

“È da tanto che non mangio dolci per colazione” dichiarò Ben, versandosi anche lui una tazza di caffè e scegliendo un pasticcino alla crema dal vassoio. “E poi così buoni.” Rey annuì, prendendo un biscotto alla marmellata con un angolo ricoperto di cioccolato.

“Felice che vi stiate ambientando.” Maz sorrise, un sorriso che toccava anche gli occhi. “Siete arrivati ieri, Luke mi ha detto che progettate di restare per tutta la durata del Carnevale. Oggi è sabato… per cui avete tutto il tempo che volete per visitare qualche museo e rilassarvi. Da domani a martedì ci sarà da divertirsi, per quanto riguarda gli eventi.”

“Non vedo l’ora!” Rey non riuscì a trattenere l’entusiasmo. Si pulì la bocca velocemente, sperando di non aver sporcato tutto attorno a sé, poi riprese. “Di visitare la città e vedere tutto il resto, intendo. Per ora abbiamo solo attraversato il Canal Grande col vaporetto… ed era meraviglioso. Quanti musei ci sono?”

“Molti più di quanto immagini, mia cara. Temo non riuscirete a vederli tutti… ma se volete posso passarvi una cartina, così potrete orientarvi. Ci sono dei posti meravigliosi che vale assolutamente la pena di visitare, e altri che purtroppo sono nel pieno dell’attività in altri momenti del’anno, come il Lido. Una volta dovreste venire alla fine di agosto… sono certa che il Festival del Cinema vi piacerebbe.”

Il Festival del Cinema… i pensieri della ragazza andarono subito a Paige, e ai suoi occhi che si illuminavano quando discutevano sull’argomento. Doveva assolutamente inviarle delle foto di tutto ciò che stava vedendo, lei, Poe e Finn ne sarebbero stati sicuramente felici.

“Sarebbe perfetto, Maz. Hai un posto da consigliarci in particolare?” chiese Luke, versandosi altro caffè. Sembrava apprezzarlo particolarmente. Maz mosse la mano, come a voler scacciare una mosca invisibile. “Ah, Venezia è tutta meravigliosa… faccio prima a consegnarvi direttamente la cartina, ci sono dei luoghi sottolineati che ho visitato spesso. Se volete vedere un palazzo e una collezione davvero straordinari, però, vi consiglio il Guggenheim… ho dei bei ricordi legati a quel luogo, e non è lontano dal vostro albergo. Intanto che siete qui a San Marco, però, dovreste visitare il Palazzo Ducale. Vi aiuterà ad entrare nello spirito giusto, in vista del Ballo di martedì.”

“Ballo?” Ben alzò un sopracciglio, in un misto di curiosità e scetticismo.

“Ballo, si. Un ballo in maschera. Ne organizzano tantissimi ogni anno, ma si dà il caso che io conosca la donna dietro ad uno di questi e che le abbia parlato del vostro lavoro, per cui… siete ufficialmente invitati. Oh, ma non siete obbligati a ballare, ovviamente” aggiunse con noncuranza, notando gli sguardi piuttosto dubbiosi di Ben e Luke. “Se volete potete anche solo osservare l’evento, l’importante è che abbiate un abito adatto. Pensavo fosse una bella occasione per immergervi totalmente nell’atmosfera del Carnevale… e poi ci sono tanti negozi che noleggiano costumi. Sono sicura che vi divertirete.”

“Perché no? Se è già stato tutto organizzato, suppongo sia il caso di prendere la palla al balzo.” Luke le sembrava molto più rilassato all’idea di non dover ballare per forza, notò Rey. Effettivamente, il maestro non pareva essere mai stato un tipo festaiolo. “Se per voi ragazzi va bene, allora più tardi penseremo anche a questo. Prima di tutto, però, godiamoci il nostro giro per musei.”

“E i vestiti?” azzardò Rey.

“Quelli potete tranquillamente noleggiarli, come vi ho già detto durante il Carnevale c’è solo l’imbarazzo della scelta. In realtà potreste anche comprarne uno, se voleste…” la donna ridacchiò, intingendo una brioche di pasta sfoglia nella tazza di tè “ma dubito vi entrerebbe in valigia. Non potete nemmeno immaginare che genere di travestimenti sfarzosi si vedano in giro in questo periodo!”
Maz era davvero piena di risorse, rifletté Rey. Ben aveva annuito, silenzioso e pensieroso come sempre, mentre il resto del tavolo terminava la colazione. Era difficile capire cosa gli passasse per la mente, e se l’idea della festa lo spaventasse o, piuttosto, lo incuriosisse.
 

 
*
 


La visita al Palazzo Ducale aveva riempito Rey di meraviglia.

Avevano passeggiato lungo le sale affrescate, una piccola radiolina all’orecchio che faceva da guida, la testa rivolta in alto per cogliere ogni dettaglio dei soffitti incorniciati in oro, affrescati come le pareti. Ora quel luogo era usato come museo, ma la bellezza degli arredi e dei pavimenti in marmo era perfettamente conservata e parlava di un’epoca di splendori. In una sala immensa, con sedili di legno scuro affiancati al muro, gli antichi governanti della città prendevano le loro decisioni, forse si erano tenute anche cerimonie importanti, banchetti. Non era difficile immaginarli chiudendo gli occhi. Anche Ben le sembrava interessato, a giudicare dagli sguardi curiosi che lanciava in giro, l’orecchio teso ad ascoltare l’audio guida che spiegava la storia millenaria della città. Non aveva scattato fotografie: probabilmente stava fissando quelle immagini nella mente, in attesa di poter schizzare qualche dettaglio degli interni sul suo quaderno dei disegni.

Una volta ammirati gli esterni del Palazzo, erano usciti per prendere una boccata d’aria e il vaporetto per la Collezione Peggy Guggenheim, il secondo luogo che Maz gli aveva raccomandato. Non era lontano dal loro albergo, ed era ospitato in uno dei più bei palazzi che la ragazza avesse mai visto in vita sua. Bianco di pietra, nero per le inferriate elaborate alle finestre, si apriva sulla laguna splendente per il sole pomeridiano, che inondava le sale di una luce d’oro preziosa, mista al blu pallido del riverbero del mare. L’ingresso era preceduto da un giardino pieno di sculture e un gazebo di pietra bianca, sormontato da alberi carichi di foglie, aspettava i turisti che terminavano il giro del museo. Maz aveva detto di essere legata con affetto a quel posto, e Rey non faticò a capire perché: vi si respirava un’atmosfera magica, rilassata eppure piena di vita, quasi elettrica, quella che dovevano aver respirato gli artisti le cui opere erano ospitate all’interno.

Avevano ammirato tutto con la curiosità dei bambini, tanto che perfino Luke le era sembrato entusiasta di quanto stavano guardando. Ad un certo punto era rimasto in disparte ad ammirare alcune sculture e Rey si era ritrovata sola a girovagare per opere d’arte, finché non si era fermata davanti ad alcuni Magritte, a riflettere sul perché l’artista avesse voluto rappresentare una casa nel buio della sera, rischiarata da un lampione, quando oltre le cime degli alberi il cielo era azzurro chiaro e solcato da nubi come in pieno giorno. Le piaceva il Surrealismo, e anche farsi domande sulle opere e trarne delle conclusioni personali. Decise che avrebbe scritto un piccolo articolo sul museo, sperando che Luke accettasse di inserirlo in una qualche rubrica del giornale.

A visita terminata, si sedette sulla panchina di pietra sotto al gazebo. Gli altri visitatori osservavano le sculture, passeggiavano con le mani dietro la schiena rivolgendo occhiate in giro. C’erano una biga con due cavalli, una piccola figura dalle gambe lunghe e magre che trascinava un teschio di toro. Panchine in pietra dai piedi scolpiti, alcune parte della collezione, altre no, Chissà quanta gente aveva provato a sedersi su alcune di quelle panchine, senza pensare che non erano parte dell’arredamento del giardino… rise e allungò le gambe davanti a sé, lasciando che il sole di febbraio le riscaldasse. Mancava ancora un’ora o poco più al tramonto, eppure la luce già iniziava a scarseggiare e il freddo le si attaccava alle ossa come un animale dispettoso che mordeva senza tregua. Pensò  a come dovesse essere visitare quel luogo in estate, con la brezza marina e il sole delle sei che rendeva la pelle tiepida e intorpidita, la consapevolezza di avere qualche altra ora prima del buio. Era così immersa nei suoi pensieri da non accorgersi dell’arrivo di Ben.

“Era da tanto che non mi capitava di visitare un museo. Almeno da quando abitavo a New York… e mi sono trasferito tre anni fa.”

“A chi lo dici” sospirò la ragazza, strofinando le mani tra loro. Come al solito si era scordata i guanti in valigia. “L’ultima volta che sono stata ad una mostra era l’anno scorso… e ho dovuto pregare Rose e Paige per mesi, avevano sempre da fare. Questa collezione è bellissima.”

“Già. Avevo già visto il Guggenheim di New York, anni fa… c’ero andato con mio padre, forse è stata l’ultima gita che abbiamo fatto insieme prima che rompesse del tutto con mia madre. Mi aveva colpito, ma questo… ha una sua atmosfera. Penso sia impossibile provarla a replicare da qualche altra parte del mondo.”

Rey percepì rassegnazione, una punta di tristezza malinconica nella sua voce, ma non rabbia, né rancore. Quei sentimenti dovevano essersene andati da tempo, o magari era diventato bravo a dissimularli. Tentò una domanda, un po’ titubante.

“Ben…” Lui si girò, stupito dal suono del suo nome. “Sei ancora arrabbiato con i tuoi genitori? Per il passato, voglio dire.”
Lui restò in silenzio per un attimo, un secondo in cui Rey si chiese se non gli avesse posto la più sbagliata delle domande. Quando rispose, però, non le sembrava ostile o arrabbiato.

“No, ormai non più.” Era deluso. “La rabbia è un sentimento che mi ha accompagnato durante tutta l’adolescenza… mi sentivo tradito, odiavo il fatto che avessero trascorso gran parte della loro vita come una coppia felice prima che nascessi io. Litigavano quando ero bambino, litigavano quando gli raccontavo i miei problemi a scuola, mio padre spariva per lavoro, trascorreva più tempo fuori che a casa, si faceva vedere solo quando si sentiva abbastanza in colpa da mettere da parte il suo desiderio di indipendenza. Dopo anni di rabbia e risentimento, però, non puoi più farti distruggere il fegato dal dolore… allora ho provato a renderli orgogliosi di me a tutti i costi, a far capire a mio padre quanto si sbagliasse, e cosa si stesse perdendo. Non ha funzionato comunque. Perché continuare ad autodistruggermi, quindi? Che senso aveva?”

Il Ben pieno di furia cieca, costretto da se stesso ad intraprendere un percorso che non sentiva proprio era ancora vicino a lei, poteva sentirlo. Nonostante stesse lottando con tutte le sue forze contro quella parte distruttiva, quel lato che per tanti anni l’aveva mosso come un burattino legato ad un filo. Respirava ancora insieme al ragazzo pieno di dubbi, pungeva il suo cuore quando prendeva una pausa dalle proprie insicurezze e provava a sentirsi diverso, a cambiare. Eppure qualcosa in lui era profondamente cambiato rispetto ad anni prima, ne era sicura.

“Forse non posso capire del tutto quello che dici… non ho mai avuto rapporti diretti con la mia famiglia, ma capisco cosa significhi lasciare andar via la rabbia.” Rey si strinse nel giubbotto, spostando le mani sulla superficie di pietra della panchina. “C’è stato un periodo in cui ho lottato disperatamente per capire chi ero davvero. E ci ho messo mesi, anni a venirne fuori… finché un giorno ho semplicemente capito che ero cresciuta, e che tutto ciò che avevo affrontato fino a quel momento era servito a farmi diventare la persona che si guardava allo specchio, odiandosi ogni giorno un po’ di meno. Non sono completa, sono tutto meno che completa e totalmente soddisfatta di me, ma ci sto arrivando. Sto cercando la mia strada, ma nel frattempo ne ho fatta abbastanza. Se sei qui a pensare a ciò che eri un tempo, significa che sei davvero cambiato.”

Fece scivolare le dita verso quelle di Ben, e con sua grande sorpresa sentì la mano del ragazzo chiudersi delicatamente sulla sua. Era caldo, e le fece ricordare l’ultima volta in cui si erano sfiorati in quel modo, quando l’aveva aiutato a portare via le sue fotografie dopo la mostra. Emanava una tranquillità quasi introversa. Una richiesta muta di affetto che probabilmente nemmeno lui sapeva di mandare. 

“Eppure, è sempre lì.” Amarezza, sempre quella punta di tristezza che impregnava ogni sillaba.    “La rabbia. Quando perdo il controllo, sento di non essere più io e ho paura. Vorrei essermi scrollato di dosso quel lato, ma riesce sempre a venir fuori… non voglio che succeda. Non voglio farti del male, né che tu veda quello che ero. Non te lo meriti.”

Rey strinse la presa sulle sue dita. Sentì che qualcuno o qualcosa, forse una voce gentile che aveva dimenticato da anni, le suggerivano quelle parole con cui provare a consolarlo.

“Non mi farai del male… stai diventando forte, Ben.” Sorrise, sperando di far sorridere anche lui. “Questi sono i tuoi primi passi.”
Chinò la testa e la posò sulla spalla di Ben. Socchiuse gli occhi e restò ferma in quell’attimo che sperò durasse il più possibile, a respirare senza pensare a nulla, solo al sole pigro di febbraio che continuava a scaldarla e disegnare ombre sulle sculture del giardino, tra i cespugli e l’edera sui muri. Dopo un attimo, sentì che anche lui si rilassava.
 

 
*
 


Stavano tornando in albergo: il loro tour di visite era terminata con la Galleria d’Arte Contemporanea di Ca’Pesaro, poi la stanchezza generale aveva portato Luke a scegliere di chiudere lì la giornata da turisti: avrebbero avuto qualche altro giorno per andare in giro. Si erano quindi infilati nel primo vaporetto disponibile, tutti piuttosto affamati e desiderosi di rilassarsi un po’ in albergo. Seduti sui sedili della barca, lasciarono che il moto morbido delle onde li cullasse fino alla meta: Luke e Ben, davanti a lei, discutevano delle foto scattate quel giorno e di quali sarebbe stato meglio includere nell’articolo sul Carnevale. Rey appoggiò la testa al finestrino, lasciando viaggiare lo sguardo sulla superficie del mare, che da oro diventava sempre più scura come la notte, un velluto morbido che sarebbe presto stato screziato da stelle e lampioni. Pensava al pomeriggio appena trascorso, alle opere che aveva avuto la fortuna di ammirare, a Maz che sorrideva come una ragazzina, una scintilla di giovinezza nel corpo di una donna dall’età indefinita. Alle storie che tratteneva nella mente e che sperava di poter lasciare andare sulla carta, a Venezia, alla sua bellezza e alle onde che cantavano sotto di lei e la cullavano quando veniva l’ora di andare a letto… pensava e fissava il mare e le case fuori dal finestrino, ascoltando la canzone dei flutti, quando la ragazza misteriosa riapparve oltre le sue palpebre.

Questa volta si muoveva correndo per le vie della città, ma non indossava l’abito di merletti leggerissimi che l’aveva coperta durante la sua ultima apparizione: era vestita di grigio e beige, ai piedi portava stivaletti legati con delle cinghie, un cestino di vimini al braccio carico di chissà quale merce, forse viveri per sé e la famiglia, o ciò che vendeva per vivere. Venezia era caotica e piena di gente, i nobili nelle loro livree coloratissime e sfarzose, qualche mendicante che cercava di non farsi notare: c’erano gondole e barche ovunque, il brusio percorreva le folle e l’aria fremeva come se si stesse preparando qualcosa di grande. La ragazza continuava a correre, apparentemente senza meta, leggera quasi fosse trasportata dal vento, felice. Attraversava vicoli, ponti, cortili, fino a fermarsi in una grande piazza: San Marco, la sagoma della basilica era impossibile da non notare. Vicino all’acqua, dove la pietra dei pavimenti incontrava il mare, una grande folla era in attesa di qualcosa, tra spinte e persone che si mettevano in punta di piedi per vedere meglio in lontananza. Stavano arrivando delle imbarcazioni, e quella che guidava la flotta era riccamente ornata da tessuti preziosi e aveva due stemmi dipinti sulle fiancate. Un gondola di grandi dimensioni, segno del prestigio del possessore. Qualche principe, sicuramente.

“Sono iniziati i festeggiamenti per il Carnevale!”

La ragazza si voltò: aveva occhi castani screziati di verde, come il legno venato dal muschio dei boschi sui monti, non lontano da Venezia. Non aveva mai visto le gondole delle famiglie nobili posarsi sul molo così da vicino, né le dame e i signori scendervi e formare un corteo di mantelli e stole, cappelli piumati e collane di perle, diretto verso il centro della piazza. Dalla prima gondola erano scesi due paggi, che si erano disposti ai lati dell’imbarcazione: uno di loro tendeva il braccio ad una dama che stava scendendo, una donna dai capelli striati di grigio legati in una crocchia, non giovanissima e bella come una regina da libro di fiabe. E dietro di lei, una figura imponente iniziava ad alzarsi, sovrastando di molto il servitore. Un giovane dai capelli neri, mossi e folti. La ragazza ebbe un fremito. Era lui…

Il vaporetto si fermò, permettendo ai passeggeri di alzarsi e lasciare l’imbarcazione per raggiungere la loro destinazione: Salute. Erano arrivati. Rey scosse la testa bruscamente, e quel sogno ad occhi aperti sparì come una bolla di sapone scoppiata da un bambino impaziente. Rimaneva solo quella sensazione bizzarra di aver vissuto la vita di un altro attraverso i propri occhi, una specie di malinconia che non riusciva a spiegarsi in nessun modo.
 

 
*
 

Dopo cena – che era stata più piacevole del solito, forse per merito del menu a base di pesce e dell’allegria che sembrava aver preso Luke e contagiato in parte anche Ben – era salita in camera, troppo stanca per dedicarsi a qualunque attività che non fossero la lettura, o le parole crociate. Lei e Ben avevano salito le scale insieme, parlando del cibo, scambiandosi chiacchiere rilassate che, finalmente, portavano con loro tranquillità. Si erano salutati per la buonanotte e Rey non era riuscita a trattenersi dal baciarlo sulla guancia, quasi all’angolo della bocca, tanto vicino da potersi riempire le narici del suo profumo. Se n’era pentita quasi immediatamente, temendo di metterlo a disagio, ma quando si era allontanata lui le aveva rivolto un piccolo sorriso in cui abitavano tante emozioni diverse, tranne il fastidio. Ognuno si era ritirato nella propria stanza, e Rey aveva avuto tempo per riflettere su quel momento, riviverlo altre diecimila volte nella sua testa.

Si era distesa a letto solo dopo aver appuntato le esperienze della giornata sul suo blocco. Aveva quindi provato ad aprire il libro che aveva portato con sé per leggerne almeno un capitolo, ma dopo averlo lasciato cadere a terra in un attacco di sonno pensò che sarebbe stato meglio posarlo e spegnere la luce. Era troppo stanca, ma leggere le piaceva così tanto che non avrebbe mai ceduto volontariamente…
Il sonno arrivò prima che potesse accorgersene.

Piazza San Marco brillava nel sole: la folla si era diradata, ma il corteo di nobili era appena passato per ritirarsi all’interno del grande palazzo bianco che guardava il mare. La vita dei curiosi era tornata ai suoi ritmi normali, i valletti avevano accompagnato i loro signori mentre i gondolieri le sistemavano in attesa del viaggio successivo. La ragazza restava in piedi, il mare alle spalle, e osservava il Palazzo Ducale con lo sguardo pieno di desiderio di chi darebbe tutto pur di poterlo anche solo guardare più da vicino.

Una voce che la chiamava la costrinse a voltarsi e a tornare sui suoi passi. In un battito di ciglia raggiunse una donna vestita con abiti simili ai suoi, che la aspettava all’interno di un negozio pieno di pezzi di macchinari e polvere, stracci e pile di oggetti appena riparati che attendevano i clienti. Non la rimproverò: sorrise e le indicò il banco dove era solita lavorare, come ad invitarla a riprendere ciò che doveva fare e risollevarsi da quelle fantasticherie. La ragazza sospirò e si rimise al lavoro, strofinando un meccanismo per ripulirlo dal grasso. Smettere di sognare, però, era impossibile.

“Ancora non ti sei tolta quell’idea dalla testa?” la donna bionda, che in qualche modo sembrava essere un suo superiore, stava spazzando il negozio. La brunetta scosse la testa, facendo finire un ciuffo esattamente vicino agli occhi e trovandosi costretta a spostarlo con un gesto della testa.
“Come potrei? I miei genitori potrebbero essere tra quei nobili, lo sai. Vivo in strada da quando ero una bambina e non ho mai saputo nulla di loro, né del perché mi abbiano abbandonata… e se fossero lì? Se in qualche modo mi aspettassero? Non lo posso sapere, Agnese. Per questo devo continuare a cercarli ovunque… anche in alto, alle feste dei nobili. Il ballo è aperto al popolo, basta avere un vestito con cui andarci.”
“E noi non ne abbiamo uno. A meno che non consideri un abito da festa quello con cui esci la domenica, che è pieno di toppe” sospirò la bionda, raccogliendo la polvere per gettarla in un secchio. La ragazza del sogno scosse la testa, delusa, e si rimise a pulire il meccanismo. Nel negozio non si sentivano altro che il rumore prodotto dallo straccio che sfregava e dalla scopa che raschiava il pavimento, finché Agnese non terminò di lavorare, raccogliendo i capelli in una crocchia per spostarli dal viso. Lasciò la scopa per recarsi nel retrobottega, poi tornò con un una serie di panni piegati, che depositò in un angolo pulito del banco. L’altra ragazza sporse la testa in avanti per vedere di cosa si trattasse.

“Però” Agnese aveva assunto un tono da chi sa esattamente come risolvere una situazione “niente ti vieta di prenderne in prestito uno, specie se si tratta di un abito della tua misura. L’altro giorno ho trovato questo nel baule di mia madre… e ti ho pensata subito. Sono merletti di Burano autentici, è antico. Provalo!”
La ragazza non riusciva a credere ai suoi occhi. Sfiorò il mucchio di stracci con reverenza, spostandolo per rivelare un meraviglioso abito bianco con piccoli fiori ricamati ovunque nel merletto e una delicatissima cinta di fiori rossi, morbida, che cadeva delicatamente sui fianchi. Lo alzò con attenzione perché non si sporcasse e il bell’abito seguì il movimento della sua mano, mentre Agnese sorrideva soddisfatta.

“Sei sicura? È troppo bello, io… non posso accettare. Lo rovinerei, non…”
“Oh, non dire sciocchezze. Sono sicura che ti starà benissimo, mia madre aveva più o meno la tua taglia quando era più giovane, e se non dovesse starti posso comunque stringerlo un po’. Vuoi andare a quel ballo o no?”
“Certo che voglio!” si affrettò a rispondere l’altra. “È solo che…”
“È solo che non devi preoccuparti. Pensa piuttosto a provarlo per vedere se ti entra, me lo restituirai dopo la festa.”

La ragazza bruna non rispose. Si rigirò quell’abito tra le dita come se non riuscisse a credere a tanta meraviglia, poi lo rimise al suo posto, coprendolo nuovamente con gli stracci in cui era avvolto. Rivolse un’occhiata piena di gratitudine all’amica, sussurrò un “grazie” e l’attimo dopo si ritrovò a correre fuori, a sfogare la propria gioia passando rapidamente per calli e piazzette, incapace di trattenere l’entusiasmo che provava. Ora le sarebbe servita una maschera per coprire il viso, ma non riusciva ancora a credere a quanto era appena successo: aveva un abito. Un abito vero, un vestito elegante per varcare la soglia del Palazzo e ballare, divertirsi, cercare tracce della sua famiglia. E guardare da vicino quel ragazzo che chiamavano il Principe, il giovane dai capelli neri e dall’espressione malinconica che era sceso dalla gondola quella mattina e che aveva visto muoversi per la città molte altre volte, accompagnato dalla sua scorta di valletti e nobili. Sarebbe stata anche lei come loro, per una sera, e forse avrebbe scoperto qualcosa su se stessa.

Salì su un muretto per guardare l’orizzonte, spingendo lo sguardo il più lontano possibile. Le barche si muovevano pigramente nella laguna, il sole invernale rendeva tiepida e brillante l’acqua, quasi fosse ricoperta delle stesse piccole gemme che ornavano gli abiti delle signore. Socchiuse gli occhi e lasciò che la brezza la accarezzasse: a quella stessa ora, qualche giorno dopo, avrebbe salutato Agnese per correre a casa a prepararsi per la festa. Sorrise di nuovo.

Nello stesso momento, una ragazza inglese dai capelli scuri aprì gli occhi nel suo letto in un albergo di Venezia, sollecitata dal suono prolungato che veniva dalla sveglia del telefono. 








***

Ed eccoci anche al secondo capitolo. Chiedo scusa per i tempi biblici di pubblicazione, ma il lavoro e la vita quotidiana spesso e volentieri si mettono in mezzo e mi tengono lontana dalla scrittura più di quanto vorrei Se avete voglia di sostenermi con un cuoricino, qui trovate la storia in inglese su AO3!

Spero che anche questo capitolo sia di vostro gradimento :3

Rey




 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo III ***


Capitolo 3
 
 




“A realist, in Venice, would become a romantic
by mere faithfulness to what he saw before him.”
- Arthur Symons
 
 
 



“Hai caricato la macchina fotografica, vero Ben?”
“Certo che l’ho caricata.” Il ragazzo sbuffò, ma controllò se aveva portato con sé anche la batteria di riserva nella taschina della borsa dove riponeva la macchina. Detestava venir meno ai suoi doveri, soprattutto se si trattava di dimostrare quanto valesse. “La carico sempre prima di scattare. Non ci tengo a ripetere esperienze passate con le batterie scariche, grazie.”
“Meno male.” Luke alzò la testa per cercare un punto imprecisato nel cielo, poi tornò a rivolgersi al nipote. “Non hai dormito granché, eh? Hai l’aria assonnata… per questo chiedevo. Problemi con il letto?”

Effettivamente quella mattina Ben non faceva altro che strofinarsi gli occhi, notò Rey. Maz si era raccomandata perché la raggiungessero a Piazza San Marco prima delle dieci e mezzo, così da aspettare con tutta calma l’inizio dello spettacolo senza doversi muovere tra la calca: infatti la piazza si era riempita in pochissimo tempo di gente in costume, adulti e bambini, turisti, curiosi. Intorno a loro era tutto un muoversi di cappelli, abiti stravaganti e maschere, tanto che Rey continuava ad alzarsi in punta di piedi per lanciare occhiate in giro. Ben sbadigliò nuovamente.

“No, il letto è comodo. Ho solo fatto degli strani sogni che mi hanno svegliato spesso, tutto qui.”

Sogni. Rey pensò per un attimo alla ragazza veneziana che desiderava trovare la sua famiglia, al vestito di merletti che avrebbe indossato al ballo di Carnevale e che sembrava così reale, quasi avesse potuto toccarlo davvero.  Si era svegliata con la stessa sensazione del pomeriggio precedente, come se si fosse lasciata alle spalle un ricordo del passato, immagini che la sua mente già conosceva e che le aveva riproposto di notte, quando sarebbe stata più propensa a lasciarsi trascinare dal loro flusso. Chissà se a Ben era capitata la stessa cosa, se era stato preda di un sogno talmente intenso da non farlo riposare normalmente…
Si riscosse dai suoi pensieri, girandosi verso Luke: era quasi mezzogiorno. Maz lo stava tirando per una manica per indicargli l’arrivo di un corteo di persone mascherate, capeggiato da una ragazza riccamente vestita di blu, l’Aquila che avrebbe eseguito il Volo che tutta la piazza si preparava ad ammirare. Da quanto aveva spiegato Maz, ogni anno veniva tirata su una struttura di cavi metallici che attraversava la piazza e che avrebbe portato la ragazza letteralmente a volare sopra le loro teste, per poi atterrare sul palco di legno davanti alla basilica. Quella cerimonia si teneva la domenica di Carnevale: era solo l’inizio di una lunga serie di balli, feste ed eventi che si susseguivano fino alla sera di Martedì Grasso, l’ultimo giorno di festa prima delle Ceneri. Ben si voltò nella direzione indicata dalla donna, la macchina pronta, ogni traccia di stanchezza svanita mentre regolava lo zoom per immortalare l’Aquila, che presto sarebbe arrivata sulla cima del campanile.

“Peccato che siate arrivati solo venerdì… domenica scorsa c’è stato il Volo dell’Angelo, che segna l’inizio vero e proprio del Carnevale. Anche quello è un evento da vedere” sentenziò Maz, alzando la testa il più possibile per guardare la ragazza che si preparava a venir assicurata ai cavi. Ben scattava con attenzione, spostando l’obiettivo per catturare anche qualche immagine della piazza. Era rilassato, Rey lo percepiva: si sentiva nel suo elemento ed emanava una tranquillità che riusciva a mettere anche lei a suo agio. Era pieno di passione, desiderava mostrare quanto significasse per lui la fotografia, ma in qualche modo riusciva a trattenere la foga rabbiosa che avrebbe potuto destabilizzarlo. Per un attimo si chiese se quella nuova calma non fosse nata proprio durante le loro giornate veneziane, mentre respiravano vicini, mentre vivevano le stesse esperienze con occhi nuovi.

“Eccola!” Luke puntò il dito verso l’alto, dove l’Aquila stava iniziando la discesa lungo il cavo. L’abito era lungo e decorato da strisce di tulle che si muovevano delicate al vento, dando l’impressione di un piumaggio. Rey fissò affascinata la ragazza che scendeva lentamente, muovendo le braccia come se avesse potuto davvero spiccare il volo, e invidiò la sua tranquillità nel penzolare a metri e metri dal suolo senza mostrare ansia né disagio. Sembrava senza peso, una bizzarra creatura da favola che salutava la folla dall’alto, piccola come un uccello, appesa al filo che quasi scompariva sotto alla moltitudine di veli e nastri. In un paio di minuti completò il suo volo, atterrando sul palco di legno a poca distanza dal punto in cui si erano sistemati, accolta da un applauso fragoroso e dal lancio di coriandoli azzurri da tutte le direzioni.

“Bene… posso ufficialmente darvi il benvenuto alla vostra settimana di Carnevale veneziano!” esclamò Maz, assestando una piccola pacca amichevole sulla schiena di Luke. Si erano già accordati per pranzare insieme: nel pomeriggio avrebbero visitato le isole della laguna e poi, se fossero arrivati in tempo, un altro museo o due. La folla iniziava a muoversi in tutte le direzioni, la magia del volo era finita assieme all’inchino dell’Aquila e a quello del corteo mascherato che l’aveva accompagnata. Ben, accanto a lei, continuava a scattare fotografie al cielo sereno.
 

*
 
 

“Hai mai visto delle case rosa, blu, gialle? Scommetto di no. Così come scommetto che queste foto ti piaceranno un sacco. Un bacio.”

Aveva appena inviato un messaggio a Poe, assieme ad una foto scattata a Burano: una casa dipinta di rosa, le imposte di legno bianco splendente, un portavaso appeso sotto alla finestra contenente un arbusto sempreverde che tendeva le foglie al sole del primo pomeriggio. Sulla piccola isola ogni casa era dipinta di un colore acceso, illuminando le strade anche quando le nuvole coprivano il sole. Non c’era l’ombra di un automobile per le strade e il silenzio avvolgeva i vicoli solitari, abitati giusto da qualche gatto o dai gabbiani che si posavano per cercare avanzi da mangiare. Il rumore delle onde riempiva ogni angolo, lo faceva vivere di suoni diversi, forti e vivi.
Poe avrebbe adorato quell’atmosfera.

Rey si sedette su una panchina di fronte al mare, chiudendo gli occhi per godersi un raggio di sole che filtrava tra i rami di un albero. Maz non lo aveva ammesso apertamente, ma la mattinata trascorsa in piedi a San Marco l’aveva stancata, ragion per cui sul traghetto per le isole erano saliti solo lei, Luke e Ben, accompagnati ovviamente dalla macchina fotografica del ragazzo. Lei era rimasta in albergo a farsi un riposino, consigliandogli di visitare tutte e tre le isole (c’erano anche Murano, l’isola del vetro, e Torcello, la più piccola) e di tornare in tempo per dare un’occhiata al Museo di Storia Naturale, che a sua detta meritava decisamente una visita. Appena approdati si erano sparsi per le piccole vie che circondavano la piazza principale, Luke perso in uno dei suoi tour in solitaria, Ben impegnato a cercare qualche scorcio suggestivo da aggiungere all’elenco delle fotografie. All’ora di pranzo alcune nuvole passeggere avevano coperto il sole e fatto cadere qualche goccia di pioggia, ma era durata poco: i sottili filamenti di nuvole bianche e beige che intervallavano il cielo non promettevano altra acqua, e il sole aveva presto riguadagnato il posto che gli spettava.
Ben passeggiava poco lontano da lei, ogni tanto scattava, camminava con le mani in tasca e la mente a spasso tra chissà quali pensieri. Un gatto bianco e nero era spuntato da un vicoletto e trotterellava nella piazza col solito passo frettoloso dei gatti: la ragazza vide poggiare Ben poggiare un ginocchio a terra per chiamare l’animale, che si fermò a fissarlo sospettoso, i baffi tesi. Non sembrava fidarsi completamente dell’umano che gli tendeva una mano, finché non fece un paio di passetti verso il giovane e lo annusò, permettendogli di toccargli appena la schiena. Concesso quell’incredibile onore all’umano si allontanò di nuovo per i fatti suoi. Ben abbassò la testa e sorrise, un sorriso piccolo e incredulo, come un bambino felice per una nuova scoperta.
Rey lo sentì avvicinarsi, e un attimo dopo era seduto sulla sua stessa panchina, i raggi del sole che scaldavano i suoi capelli facendoli brillare. Si piegò in avanti, le braccia poggiate sulle gambe, e la ragazza pensò che fosse il momento giusto per parlare.

“Ti senti meglio, ora?”
“Decisamente si. Il pranzo e la gita in traghetto mi hanno fatto bene.” Spostò un sassolino col piede, spingendolo nella terra. “Mi capita spesso di non dormire granché… generalmente è per colpa del letto, o perché ho mangiato troppo la sera precedente. Ma questa volta… non so, era diverso.”

Il cielo era sgombro, tranne per un angolo in cui un gregge di nuvolette bianche faceva gruppo. Gli uccellini si erano rimessi a cantare, e l’aria che si spargeva per le strade profumava di pioggia, di mare e erba bagnata. Alle volte, pensò Rey, il cielo sereno dopo la pioggia era ancora più bello.

“Hai mai fatto un sogno così reale da portarti a pensarci per ore?” esordì Ben, e non si capiva se stesse parlando a se stesso o a lei. Nel dubbio Rey ascoltava, pendeva dalle sue labbra senza interromperlo. “Un sogno che sembra una parte della tua vita, ma che è anche diverso, con altri protagonisti, altre storie. Cammini nel sogno e sai di non essere tu a farlo, ma la persona che vedi è così simile a te da fartene dubitare. Nel sogno ti trovi esattamente nella città in cui ti muovi da sveglio, parli con la gente in una lingua che non è la tua, vivi un’altra vita… fino a che non ti svegli, e la realtà ti sembra strana, non è nemmeno più realtà alla fine. Ti confonde. Mi sono svegliato e non sapevo quale fosse la verità, per questo non riuscivo più ad addormentarmi.”

La ragazza con l’abito di merletti gira su se stessa davanti ad un grande specchio dalla cornice di legno, sorridendo felice. Si lega i capelli in un solo nodo in cima alla testa, il resto lo lascia sciolto sulla schiena. Ha una maschera ornata da ghirigori bianchi sul fondo beige, la aspetta sul letto, spicca nella penombra della stanza. Venezia è in festa! Carnevale è ovunque! Chissà se i suoi genitori saranno là. Chissà se il Principe Solo ballerà con lei.

, avrebbe voluto rispondere Rey. Certo che mi è capitato di fare questi sogni, sono già due giorni che immagini del genere si impongono nella mia mente e non vogliono lasciarla. Ma come avrebbe potuto concentrare tutto in una manciata di frasi, fargli capire che i loro sogni erano così incredibilmente simili da far dubitare di una semplice coincidenza?

Ad ogni modo, avvertiva il bisogno disperato di dirglielo, dirgli qualunque cosa affinché capisse.

“Sì. Mi è successo più volte da quando sono qui… ed è esattamente come dici tu: non riesco a distinguere la realtà dalla fantasia. Mi sembra di vivere un frammento del mio passato anche se non sono io la protagonista dei miei sogni, ed è meraviglioso e spaventoso allo stesso tempo.”
Restarono entrambi in silenzio, a godersi il suono di quella frase lasciata cadere, delle onde del mare che riempivano la pausa. Rey non riusciva a smettere di fissare il sole che giocava coi capelli di Ben. Anche se restava in silenzio, sentiva che solo lui, in quel momento, poteva comprenderla in pieno. Quei sogni sembravano farli avvicinare come nemmeno l’arte o la fotografia avevano fatto fino a quel momento. Lui gli prese la mano, fece scivolare le dita lunghe e sottili su quelle più piccole di lei e le strinse appena, come a cercare una conferma. Erano tiepide, non pesavano.

“Dei sogni condivisi… sembra la trama di un romanzo.”

La risatina di lei fece tremare l’aria del pomeriggio. Era felice, e non avrebbe saputo dire perché.
 



*
 



Il Museo di Storia Naturale era una specie di meravigliosa sala giochi scientifica.

Erano mesi, forse anni che Rey non si divertiva in quel modo, come una bambina entusiasta che accoglie ogni novità con gli occhi spalancati. Avevano gironzolato attraverso le sale dedicate alla preistoria toccando tutti le riproduzioni di fossili realizzate apposta per i visitatori, passandoseli di mano in mano pieni di stupore. Si erano persi ad osservare le informazioni dedicate a piante ed animali in via di estinzione, ad ammirare la fontana piena di ninfee che illuminava tutto il giardino sul retro del palazzo. E, arrivati alla fine, avevano ascoltato il verso delle balene tramite le grosse cuffie che permettevano di immergersi nel fondo del mare, come se quei giganti gentili stessero cantando le loro canzoni solo per gli spettatori umani. Anche a Ben brillavano gli occhi, e Luke sembrava così felice, così a suo agio che né lei né il compagno erano riusciti a stargli dietro.
Conclusero la visita con una cioccolata calda con panna in un piccolo bar della zona universitaria. Mancavano un paio d’ore alla chiusura dei musei, tempo che utilizzarono per un’altra visita a quello del Settecento Veneziano, un palazzo che sembrava uscito da un’altra epoca. Una volta varcata la soglia, la sensazione di essere tornata nel suo sogno afferrò Rey e non la lasciò per tutta la durata della visita: c’era vita in quei mobili, una vita passata affascinante fatta di feste, di eleganza, ma anche di lavoro e del desiderio di esplorare ciò che si trovava al di là dell’orizzonte, oltre la laguna. Terre lontane, meravigliose. Passeggiavano tra le pareti affrescate e le cornici scolpite osservando lacche e porcellane, e la ragazza dai lunghi capelli scuri continuava a provare il suo abito davanti allo specchio, danzava con se stessa e immaginava il ballo, probabilmente sognava il giovane che aveva già visto altre volte. Rey distolse lo sguardo da uno splendido mobile laccato per osservare Ben, poco lontano da lei, che ogni tanto socchiudeva gli occhi e inspirava. Chissà se stava pensando anche lui al suo sogno. La rivelazione di poco prima non l’aveva stupita quanto avrebbe immaginato: forse perché sentiva di essere collegata a lui, in qualche modo, e quel viaggio gli stava dando altri motivi per crederlo.

Nella sua mente, donne dagli abiti sfarzosi ballavano, abitavano quelle stanze ridendo e chiamandosi, si affacciavano al balcone sospirando. La musica non smetteva di suonare, guidava i suoi passi, la accompagnò fuori in un profumo di cipria e tessuti delicati, mentre le sue gambe accennavano un passo di danza. Il vaporetto li aspettava per portarli all’albergo, verso la cena e Maz, che li stava aspettando davanti alla chiesa di Santa Maria della Salute. Era calata la sera, e ancora dovevano decidere quali luoghi visitare il giorno dopo e, soprattutto, dove noleggiare gli abiti che avrebbero indossato al ballo di Carnevale. Luke non le sembrava ancora del tutto convinto, Ben era imperscrutabile come al solito, ma dentro di sé – una parte molto nascosta, segreta e piuttosto inaspettata – Rey era felice di partecipare.
 


*
 


Quella sera andò a letto con la tranquillità di chi aspetta qualcosa che sa per certo di veder arrivare. Spense la luce con le immagini del museo che ancora la accompagnavano, le risate di Luke che le riempivano il cuore, insieme allo sguardo di Ben dopo che il gatto bianco e nero si era lasciato accarezzare da lui. Chiuse gli occhi e il sonno la venne a prendere poco dopo, trasportandola come faceva il vaporetto ogni giorno, portando qualcosa con sé come un’onda che bagna all’infinito la stessa spiaggia, ma ogni volta con acqua diversa.

La ragazza indossava il vestito prestatole da Agnese, ed era bella come una regina. Se qualcuno dei clienti della bottega si fosse visto passare accanto quella creatura vestita di bianco, una maschera finemente decorata posata sul viso, non avrebbe mai riconosciuto in lei l’aiutante di bottega che trascorreva le giornate a riparare ingranaggi e ripulire il pavimento del negozio dal grasso e dai trucioli di legno.
Camminava a piccoli passi, diretta verso il Palazzo: le balaustre e le finestre erano tutte un punteggiare di candele e lanterne, qualche gentiluomo si affacciava alla finestra, molti altri arrivavano dal mare e dai canali sulle loro gondole, accompagnati dalle dame. C’era anche qualche membro del popolo, si riconoscevano dagli abiti più modesti e dalle maschere semplici che coprivano i volti, completamente bianche. Era una fortuna che tra i suoi averi ci fosse quella bella maschera, probabilmente un ricordo che le era rimasto dei suoi genitori…
La ragazza procedeva verso l’entrata e, come si aspettava, nessuno la fermò. Una guardia all’ingresso della sala rispose al suo inchino e la lasciò entrare: i balli in maschera erano un’occasione perfetta per far incontrare lo strato più basso della società con quello più alto, e nessuno aveva da ridire se dei semplici domestici partecipavano alle danze. La sala grande del Palazzo era piena di risate e movimento, ma da quella distanza non riusciva a riconoscere nessuno. Sarebbe dovuta entrare per capire se il Principe fosse veramente tra loro.
Ed ecco che la musica riprendeva a suonare, e le voci e le risate aumentavano di volume, facendola sentire sempre più piccola e insicura. Doveva farsi coraggio, come avrebbe fatto altrimenti a trovare i suoi genitori? Magari erano nascosti nella schiera di gentiluomini e dame, ignari della sua presenza. Forse accanto a loro c’era il Principe Solo, gentile e malinconico, i bei ricci scuri sparsi sotto al cappello piumato. Voleva guardarlo ancora una volta, restare in silenzio vicino a lui senza disturbarlo e osservare le sue dita lunghe che si spostavano un ciuffo dagli occhi, le labbra piene socchiuse. L’aveva visto solo di sfuggita qualche volta, mentre scendeva dalla gondola della sua famiglia e durante alcune celebrazioni pubbliche, ma quella sera… non c’era migliore occasione del ballo di Carnevale per ammirare quanto di più lontano c’era da lei, dalla sua vita. Anche solo condividere la stessa stanza con lui le sarebbe bastato.
Proprio mentre muoveva qualche passo verso l’interno della sala, affascinata dal tavolo delle cibarie che scintillava nell’angolo più lontano, una mano le sfiorò la spalla, facendola voltare. Il viso di un giovane la osservava da dietro la maschera nera arabescata di grigio e rosso, due minuscoli rubini incastonati sotto all’occhio destro come lacrime scarlatte.
“Avete bisogno di aiuto, signorina?”
La ragazza trasalì, riconoscendo lo sguardo di quegli occhi marroni, caldi nonostante l’inquietudine che solitamente emanavano. Lo riconobbe immediatamente, sarebbe stato impossibile confondersi.

Davanti a lei c’era il Principe in persona.

 
 
 
 
 




***

Avete già visto Episodio VIII? Io sono riuscita a vederlo al day one e mi ha emozionata incredibilmente: non faccio spoiler, ma è veramente eccezionale. E mi ha spinta a rimettermi a pubblicare e scrivere, per cui vi beccate un nuovo aggiornamento e le mie scuse per averci messo tanto ;_; Se avete voglia di lasciarmi un piccolo kudos per incoraggiarmi un po', qui la trovate in inglese su AO3!

Grazie per la pazienza con la quale mi seguite, lettori :3
Rey

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


Capitolo 4
 
 





“Il mondo è un’alchimia di corpi e luci senza nome
e la paura poi diventa amore.”
- Lost in the weekend, Cesare Cremonini
 
 
 





Le sue mani erano coperte da un paio di guanti neri come l’abito che indossava, pelle morbida e liscia che avvolgeva un involucro altrettanto morbido, ma bianco come la neve. I capelli che tanto l’avevano colpita quando lo osservava da lontano erano mossi come piccole onde, arruffati sulle punte e piegati con delicatezza sul collo, i ricci ribelli di un bambino dagli occhi adulti. Le aveva rivolto un inchino come se avesse avuto davanti una nobildonna qualunque e non una ragazza dei vicoli, nervosa e poco incline a seguire l’etichetta. Poi le aveva chiesto se le piaceva la festa, se desiderava ballare, e per quanto la ragazza non avesse mai mosso un passo di danza in vita sua aveva accettato prima ancora di potersene accorgere.

“Scusate se vi ho spaventata prima… eravate lì, sola, e qualcosa mi ha spinto verso di voi. Anche io mi sento smarrito durante eventi del genere, anche se ormai mi sto abituando, ma avevate il mio stesso identico sguardo di qualche anno fa.”
“Non mi avete spaventata. Ero solo… confusa. Non frequento quasi mai le feste” si giustificò, ma per quanto non si fidasse mai di chi non conosceva sentiva che non aveva da temere nulla da quell’uomo. Era immerso in un’oscurità personale ma inoffensiva, che non si attaccava a ciò che lo circondava, come la notte che lascia il posto alle stelle.

Seguire i suoi passi non era difficile: il Principe si muoveva con la grazia studiata di chi è stato abituato fin da piccolo a farlo. I nobili intorno a loro volteggiavano, un gruppo di uomini vestiti come lui lo osservavano da un lato della sala, senza perderlo un attimo di vista. Erano sei, e anche i loro volti erano coperti da maschere che impedivano di vederne i volti e la sommità delle teste.
“I miei Cavalieri” spiegò il giovane, notando lo sguardo della ragazza. “Non mi perdono un attimo di vista… come se potesse succedermi qualcosa qui, durante una festa”. Rise brevemente mentre continuava a condurre, il peso della mano sul fianco della ragazza. I capelli sciolti di lei arrivavano quasi a toccargli le dita, ma lui non ne sembrava infastidito. La risata non gli aveva toccato gli occhi, quelli erano rimasti seri come li aveva sempre visti.
Ballarono per due volte, un tempo che alla ragazza sembrò brevissimo: quasi non sentiva più le gambe, né il tocco gentile del Principe sul suo corpo, il suo respiro che le sfiorava appena la pelle. La musica terminò poco dopo per lasciar tempo ai ballerini di riposare un momento. Il Principe le rivolse un nuovo inchino e si allontanò per raggiungere la terrazza: non l’aveva invitata esplicitamente, ma rimase fermo quell’attimo che bastava a farle capire che un po’ di compagnia non gli sarebbe dispiaciuta. La ragazza si avviò insieme a lui in un frusciare di vesti, l’abito che si muoveva come le piume di una colomba.
 


*
 

Maz li aveva portati in un negozio completamente stipato di abiti, busti, gonne, cappelli, giacche e maschere  in ogni angolo perché scegliessero degli abiti da noleggiare per il ballo della sera successiva. Non era stato un processo semplice, ma dopo un tempo che poteva andare dalla mezz’ora alle due ore ne erano usciti ciascuno con un abito adatto all’occasione, che avrebbero dovuto restituire mercoledì, prima della partenza.
Rey aveva osservato a lungo il suo prima di posarlo nell’armadio, avvolto nel cellophane trasparente per non impolverarlo: le sembrava incredibile che un tipo come lei potesse avere l’occasione di indossare una meraviglia simile. Il vestito, di un bel grigio perla, aveva una gonna ampia e gonfia e un busto ricamato di piccole perle, che si spingevano anche sullo scollo e intorno alle spalle. La gonna era formata da tanti strati di veli e crinoline cuciti assieme, e le maniche lunghe erano bordate da una serie di merletti che le rendevano più sontuose. La donna al negozio le aveva anche lasciato un diadema di perline bianche che scendevano in fili perché lo mettesse tra i capelli, e una maschera bianca con dei sottili rametti d’oro dipinti completava il travestimento.     Le sarebbe stato bene, o si sarebbe sentita a disagio vestita in quel modo, come ad interpretare un ruolo che non era il suo? Non lo sapeva. Il desiderio di provare, di sentirsi per un giorno diversa dalla Rey che ogni giorno si guardava allo specchio e non si era mai preoccupata di questioni come l’eleganza e le feste, era troppo forte…
Si ritrovò seduta sul letto senza nemmeno accorgersene. Quei giorni con Ben sembravano essere andati meglio di quando avrebbe mai potuto immaginare. Sorrideva, scattava fotografie, era rilassato, così tanto da sembrare una persona totalmente diversa da quella che conosceva. Era forse un segno? Una specie di presagio positivo che avrebbe aperto la strada a qualcosa di nuovo, un segnale per farle abbassare la guardia e aprire il cuore perché ormai lui aveva aperto il suo? Poteva crederci davvero, senza avere paura di sbagliare, senza sbilanciarsi? Se fosse caduta ancora avrebbe sopportato il dolore di un nuovo passo falso, o stavolta avrebbe rinunciato per sempre?
Le dita nervose tamburellavano sul copriletto. Rey si lasciò andare distesa, l’unghia dell’altro pollice che tracciava segni sull’osso del fianco scoperto dalla maglia, tormentandolo. Quel gesto le fece tornare alla mente le mani di Ben, i suoi polpastrelli attenti, la premura che metteva nello sfiorarla. Quasi avesse paura di romperla, come una scultura troppo preziosa per essere maneggiata senza guanti. Il modo in cui le aveva sfiorato la mano qualche giorno prima, al Guggenheim. La desolazione nel ricordare il suo passato, che veniva fuori con tristezza dalle sue labbra ma che le aveva confidato senza fermarsi un attimo, come se in cuor suo sapesse che solo Rey avrebbe potuto capirlo.  Alla fine, non faceva anche lei la stessa cosa? Affidargli piccoli pezzi della sua anima, sicura che solo con lui sarebbero stati al sicuro?

C’era stato un momento tra loro che aveva quasi paura a rivivere con la mente, un attimo così fuori dal tempo e immobile da restare bloccato nella cassaforte dei suoi ricordi più belli come una gemma che brilla così tanto da provocare soggezione. Erano nella sua stanza, non impersonale come quella di un albergo ma bianca allo stesso modo, il nero era solo su alcuni dei poster, sull’armadio, sulla cornice che ospitava un gruppo di foto che aveva scattato tempo prima. Avevano bevuto? Non lo ricordava, ma Ben le sembrava più fragile e allo stesso tempo più furioso, come se stesse lasciando andare tutto insieme quello che provava da anni, da un’eternità intera. Non ricordava come né perché, cosa avesse fatto iniziare quell’attimo, la scintilla, ma ricordava che si erano avvicinati abbastanza perché lui le posasse le mani sulle guance e la baciasse. All’inizio l’aveva fatto con foga, senza controllare particolarmente i movimenti, con la fame la rabbia il desiderio di chi finalmente può esprimere quello che prova senza venire ostacolato. E, con sua grande sorpresa, Rey aveva risposto al bacio con la stessa foga, dopo un minuto di sgomento e l’impaccio iniziale. Forse l’aveva sempre desiderato ma non si era sentita in diritto di farlo. Aveva sentito le labbra di lui toccare le sue e poi lasciarle andare, sostituite dai denti, un piccolo morso al labbro inferiore e la sua lingua che esplorava gentilmente l’interno della sua bocca, Ben che non voleva lasciarla andare e la stringeva a sé sempre di più, sempre di più.
Si accorse appena di accarezzarsi la pancia sovrappensiero mentre riportava alla mente quel ricordo. I loro gesti erano goffi ma pieni di una passione acerba, e intensa. Ben era rimasto fermo mentre lei faceva correre le mani sulla sua t-shirt, la sondava delicatamente e infine la alzava per invitarlo a toglierla. Era come se una forza fuori da lei glielo stesse ordinando, e probabilmente era la stessa forza che portava Ben ad accarezzarle la schiena, a sbottonarle la camicetta bottone dopo bottone per incontrare il reggiseno verde e i suoi piccoli seni soffici, nascosti dal pizzo dell’indumento intimo. Anche quello era finito sul pavimento. Si erano guardati, entrambi senza maglietta, e nessuno aveva trovato imbarazzo negli occhi dell’altro. Rey l’aveva aiutato a sfilare i pantaloni, li aveva visti scivolare per terra con un suono morbido e raggiungere il resto dei suoi vestiti, mentre anche lei sfilava i suoi jeans e restava a guardarlo, gesti lenti e misurati che sembravano parte di un rito che stavano sperimentando entrambi per la prima volta. Quando solo due pezzi di stoffa erano rimasti a coprirli, Ben l’aveva stretta tra le braccia.

Erano quasi nudi, in piedi al centro di una stanza che aveva ancora tanti segreti da rivelare a Rey e che aveva raccolto tutto quello che Ben Solo potesse affidarle. Nel silenzio che le martellava le orecchie, si era sentita prigioniera di un’intimità così nuova che la rassicurava e la spaventava insieme. Le braccia di Ben la stringevano, i seni di Rey premevano contro la pelle del suo torace. Poteva sentirlo fremere in quella stretta, un piccolo sospiro di… sollievo? che lo pervadeva e faceva fremere anche lei. Una mano di lui l’aveva accarezzata dolcemente tra le gambe, sfiorando il suo sesso già bagnato, facendola scuotere dal desiderio. Perché lo desiderava, ormai se ne rendeva conto, lo avrebbe divorato e allo stesso tempo si sarebbe lasciata divorare, e tutto ciò che voleva era che continuasse ad accarezzarla, a spingere quelle dita ancora più in profondità, sfiorarla e cedere ogni parte di se stesso e accettare quello che lei voleva cedergli. Ma non sarebbe bastata una sola notte…
Aveva sentito la sua erezione premere contro la sua coscia, protetta dal tessuto dei suoi boxer, e aveva trattenuto il respiro. Era stata lei a cominciare un nuovo bacio, ad affondare le dita nei suoi capelli e ad approfondirlo perché percepisse il suo bisogno. Ben aveva risposto, si era lasciato condurre… ma non erano andati avanti. Avevano condiviso quella nudità gentile nel tepore dell’estate che avanzava, scaldati dai raggi del sole che entravano dalle stecche della tapparella abbassata per metà, mentre Ben le sfiorava la pancia, un capezzolo e poi l’altro, i fianchi, le labbra con dita esitanti. Si era fermato su ogni parte del suo viso, l’aveva venerato, memorizzato nelle sue dita. Aveva scolpito le labbra solo toccandole. La paura di rovinare tutto era troppa per lasciarsi andare davvero.

“Rey”, aveva sussurrato. Il suo nome col tono di una preghiera le aveva fatto venire la pelle d’oca. Eppure Ben aveva accettato le sue attenzioni, quel piccolo bacio che gli aveva lasciato sulla guancia giorni prima, abbastanza vicino alle labbra perché sembrasse una promessa. Significava davvero qualcosa? O era lei ad immaginare tutto senza frenarsi?

Si alzò e si spostò i capelli dal viso, poi chiuse l’armadio e scese al piano di sotto: Maz li aspettava per trascorrere con loro il pomeriggio. Voleva portarli a bere qualcosa in un locale che si affacciava direttamente sul Canal Grande e il pensiero di potersi godere altro sole e la vista del mare bastava da solo a farla sentire meglio.
 


*
 

Un gabbiano si era tuffato nell’acqua della laguna veloce come un missile, per uscirne poco dopo con un pesce nel becco. Consumato lo spuntino rapidamente, l’animale rimase a galleggiare tranquillo sull’acqua, le ali ripiegate lungo i fianchi. Rey lo osservava dalla balconata del bar, in silenzio, fermando temporaneamente il flusso dei pensieri che non l’aveva abbandonata nemmeno durante la pausa caffè con Maz.
Ben era rimasto dentro, a finire il suo macchiato insieme a Luke. Lei era uscita un attimo a prendere una boccata d’aria: certe volte era impossibile restarsene ferma nello stesso posto per più di cinque minuti, soprattutto quando la sua mente non ne voleva sapere di starsene tranquilla. Per fortuna non tirava vento e, per quanto il cielo si fosse leggermente annuvolato rispetto ai giorni precedenti, la pioggia non sembrava voler turbare le loro giornate.
Fissò l’acqua e il suo colore in costante cambiamento, che passava dal verde al blu cupo nelle zone d’ombra, per poi tornare al verde acqua sotto al sole. Chissà dove abitava la ragazza del suo sogno, in quale epoca era vissuta. E il suo Principe, il ragazzo a cui era finalmente riuscita ad avvicinarsi, al ballo? Venezia li legava tutti, come le trame di un tessuto più grande. Socchiuse gli occhi…  e non sentì Maz avvicinarsi.

“Hai l’aria di chi vuole stare sulle proprie per affrontare qualcosa che lo affligge… o sbaglio?”

La donna sorrideva avvolta in uno scialle pesante e ricamato. Non invase i suoi spazi, rimase semplicemente accanto a lei ad osservarla come se volesse assicurarsi che tutto andava bene. Rey voltò piano la testa per guardarla e le sorrise a sua volta.

“Più o meno… ho tanti pensieri. Li avevo anche prima, ma questo viaggio…”

Non proseguì. Maz scosse appena la testa come per dimostrarle che aveva capito. “Ti ha portato qualcosa che non ti aspettavi. Nuovi orizzonti, idee… sogni, magari? Più strani del solito?”

La ragazza la fissò per un attimo, sbalordita. Aveva già avuto l’impressione che la donna sapesse molto più di quanto esprimeva a parole, e quel tono rilassato, la tranquillità con cui aveva pronunciato l’ultima frase confermavano quel sospetto. Sorrideva in maniera enigmatica, una sfinge dai grandi occhiali e dalla pelle bruna che le ispirava fiducia. Profumava di antico, emanava una saggezza che era la stessa dei luoghi silenziosi e pieni di storia, le grandi cattedrali che osservavano gli uomini e ne conoscevano i segreti e i desideri.

“Ho fatto dei sogni, in questi giorni. È da quando sono arrivata qui che non faccio altro che sognare” confessò Rey. “La prima volta è stato un flash, ho visto una ragazza vestita di bianco che osservava il sole… ho pensato ad una fantasticheria troppo vivida, mi capita di farne.” Si lasciò scappare un piccolo sorriso.
“Ma dalla notte successiva sono diventati sogni veri e propri… e ho visto ancora questa ragazza, ha partecipato ad un ballo in maschera e ha incontrato un ragazzo, un giovane malinconico che lei chiama il Principe. Era come se… percepissi le sue emozioni, e potevo capirla anche se non parlava la mia lingua. Come è possibile? Nei sogni succedono cose assurde, è vero… ma sono così reali che a volte nemmeno mi sembrano sogni. Forse significa qualcosa per me, vuole dirmi qualcosa, guidarmi? Non lo so. E ogni sera aspetto con ansia di viverne uno nuovo.”

“Immaginavo si trattasse di qualcosa di simile. Venezia ha questo potere, dopotutto… non sei la prima a cui succede e non sarai nemmeno l’ultima. È normale che persone sensibili come te ne vengano influenzate” Maz pulì le lenti con una pezzuola e si rimise gli occhiali sul naso. “Me ne sono accorta, sai? Hai una luce dentro, qualcosa che appare ogni volta che parli, che ti muovi. Sei gentile, e non te ne vergogni. Sei curiosa come una bambina, ma hai la saggezza di un’adulta, di qualcuno che ne ha passate tante e ha imparato qualcosa da tutto e da tutti. Non ti conosco bene, bambina… purtroppo ti ho sotto gli occhi solo da qualche giorno, ma mi è bastato per capire perché Ben sia così attratto da te.”

Rey pendeva dalle sue labbra: quell’ultima frase la fece restare per un attimo a bocca aperta. Faticò a trovare una risposta adatta, mentre i pensieri e i ricordi le frullavano in testa come impazziti.   Ben le aveva detto di no, di lasciar perdere. Avrebbe sofferto come suo padre e sua madre, lui non la meritava ed era troppo impegnato ad inseguire i suoi demoni per aver cura di qualcuno.  Ben l’aveva baciata, aveva accarezzato il suo seno come si sfiora la corolla di un fiore. Ogni volta che provava a farlo ridere arricciava le labbra e stringeva gli occhi, sembrava felice, ma qualcosa ancora lo tormentava. Si portava un compito gravoso sulle spalle: rendere orgogliosa la sua famiglia, dimostrare la sua grandezza, perché valeva anche lui come suo nonno e li avrebbe fatti commuovere tutti, tremare il mondo intero… ma a fine giornata, si accorgeva di essere solo un ragazzo. E la sua frustrazione bruciava.  
Ben era ancora quel bambino triste che aspettava che suo padre tornasse a casa e lo prendesse in braccio per ascoltare le sue storie, e non riusciva a lasciarselo alle spalle. Avrebbe voluto abbracciarlo, ma come fare se lui non glielo permetteva? Durante il loro ultimo scontro lui le aveva detto di andarsene, l’aveva pregata di farlo e dopo che era uscita dalla stanza, sconfitta, aveva tirato un pugno contro il muro con rabbia. Un attimo dopo l’aveva sentito piangere.
Ben, che aveva stretto le sue dita due pomeriggi prima, al Guggenheim…

“Ben? A-attratto da me?”. Ripeterlo ad alta voce lo rendeva più concreto, in qualche modo.
“Ma certo. Non te ne eri accorta?” Maz sorrise ancora, appoggiandosi alla ringhiera di ferro che separava l’esterno del locale dal mare. “Si vede che ti sta cercando e aspetta un tuo segno, anche se magari è lui il primo a non rendersene conto… ma conosco bene quel ragazzo, così come ormai so leggere da anni nel cuore dei suoi genitori. E dal modo in cui gli si illuminano gli occhi quando è con te, capisco che tiene alla tua presenza. Forse le cose tra voi non sono sempre andate bene, ma se siete qui… se quei sogni ti stanno raggiungendo, significa qualcosa. Possono guidarti. Aiutarti.”
“Hai mai fatto un sogno così reale da portarti a pensarci per ore?” le aveva chiesto Ben il giorno prima. Se nulla accadeva per caso, allora le sue parole erano più di una semplice confidenza. E se i loro sogni fossero stati in qualche modo collegati? Provò ad esporre la sua teoria a Maz, e la donna annuì con convinzione.
“È come se le vostre menti fossero collegate su un livello profondo, lontano dalla vostra comprensione. Quando siete svegli provate piano a riavvicinarvi, un passo dopo l’altro, quando dormite non controllate la ragione e siete avvolti da qualcosa che riporta le vostre anime a toccarsi. Sono stati dati molti nomi a questo fenomeno, negli anni, c’è chi ci crede e chi lo ritiene impossibile. Io credo che una forza più grande ci unisca tutti, e porti alcuni individui predestinati ad intrecciare una relazione che va al di là dello spazio, del tempo, di ciò che consideriamo possibile. La ragazza e il Principe potrebbero anche essere solo due fantasmi portati dalla magia nascosta di Venezia… ma se fossero qualcosa di più, invece? Se le vostre vite si fossero davvero intrecciate in passato, in un luogo e un tempo lontano dal vostro presente?”
Come aveva fatto a non pensarci prima? Non si era riconosciuta in quella ragazza che correva per Venezia – non nell’aspetto, almeno – ma la tristezza del giovane, quegli occhi sempre in ombra, il suo restarsene in disparte erano così familiari…
“In un’altra vita…” scandì lentamente la ragazza, quasi avesse timore di dire qualcosa di sbagliato.
“ ‘In un’altra vita’, già. Tra l’altro è anche il nome di uno dei miei pezzi preferiti al piano” tradusse rapidamente in italiano Maz. “Tutto è possibile, bambina… ma i sogni restano sogni finché non ti svegli e li rendi reali, lo ha detto qualcuno di cui non ricordo il nome. Ora sta a te decidere se ascoltarli o lasciar perdere. A volte dopo tante cadute si ottiene finalmente qualcosa, non credi?”

Le strinse la mano gentilmente e le lanciò un’altra occhiata saggia e affettuosa, lasciando Rey sola coi suoi pensieri, in piedi a guardare il mare e le sue onde piccole e tranquille.
 


*
 


Ben aveva bisogno di lei. La chiamava, tratteneva i sentimenti come se avesse paura della loro forza e dell’effetto che avrebbero potuto avere sulla sua vita. Debolezze. L’uomo per cui lavorava pretendeva il massimo da lui e, se da una parte lo gratificava, dall’altra lo aveva portato progressivamente ad allontanarsi dalla sua famiglia. Luke ne soffriva, ma faceva finta di nulla… almeno ora, in passato avevano discusso molto, Rey ricordava lo sguardo stanco del suo mentore e i gesti frettolosi, lui che la congedava dopo nemmeno un’ora di lavoro per ritirarsi a pensare. Ma Ben proseguiva testardamente lungo la sua strada, non ascoltava nessuno: voleva diventare grande, Snoke glielo aveva promesso e lui si attaccava a quella promessa come se ne andasse della sua intera vita. Ogni giorno sembrava più stanco e più lontano dal suo obiettivo, ma non gli importava.

Da quanto tempo aveva iniziato a lasciarsi alle spalle quell’involucro vuoto? Snoke non doveva più esercitare un controllo così forte su di lui, eppure quel distacco faticoso gli aveva segnato l’anima nel profondo, Rey ne era sicura. Sembrava essere tornato quel bambino fragile che lei non aveva mai conosciuto ma che era stato il piccolo Ben Solo, con una famiglia che lo amava troppo per comprenderlo davvero. Stava cambiando. Cambiavano entrambi, crescevano.
 


*
 


Venezia scintillava nella luce delle candele: c’erano lanterne ovunque. Grandi, piccole, dipinte, candele di cera profumata, grandi lampadari di vetro disseminati di piccole fiammelle calde e luminose. Fuori, in strada, e nella vastità della sala. Eppure il Principe era stanco di esserne circondato, voleva ritirarsi per un attimo nell’oscurità accogliente della notte, e la terrazza era l’unico luogo che l’avrebbe accolto senza fare domande.
Si appoggiò alla balaustra di pietra bianca, baciata dalla luna. La ragazza lo raggiunse, ammirando come quella luce perlacea si riflettesse sulla superficie nera del mare, facendola brillare in più punti come se la stesse accendendo. Le capitava spesso di girare per la città di notte, ma non l’aveva mai vista così luminosa, così splendida.
“Sapete cosa si dice di Venezia?” il giovane si rivolgeva a lei e a forse anche a se stesso. Nella semi oscurità, i rubini sulla sua maschera sembravano quasi gocce di sangue cristallizzate dal freddo. “Che sia come un caleidoscopio: è difficile staccare gli occhi da quello che si vede per concentrarsi sulla propria vita, una volta che ci si è immersi nelle sue strade. Vivo qui da quando ero un bambino, eppure non mi sento mai tanto libero come quando sono da solo, sotto la luna.”
La ragazza si voltò verso di lui e gli sfiorò il viso con dita esitanti. Non voleva che se ne andasse, che si ritraesse, ma allo stesso tempo non poteva resistere. Lui non oppose resistenza, le sembrava quasi fremere di gioia, come se non avesse ricevuto attenzioni di quel genere da ormai troppo tempo. Erano legati da qualcosa che li teneva fermi sul posto, immobili, come due magneti che non possono far altro che attirarsi. Guardò le sue labbra arricciarsi appena, l’abbozzo di un sorriso rischiarare quel viso bianchissimo come neve e stanco, estenuato da qualcosa che nemmeno lui comprendeva.
Chissà se era stata la sua solitudine a portargli l’appellativo di “Principe Solo”, il principe solitario, o se era un nomignolo che aveva scelto per sé. Le prese la mano e se la portò alle labbra con delicatezza, sfiorando le nocche come se avesse paura di romperle solo soffiandoci sopra. Le toccò piano, quasi a volerle studiare, tratteneva il respiro e una nuvoletta leggera di vapore le solleticava la pelle, riscaldandola. All’interno, l’orchestra continuava a suonare, il ballo ricominciava.
“Voi siete come me” sussurrò il Principe, con voce roca. “E io sono come voi. Ci apparteniamo senza saperlo.” Non aggiunse altro. Rimase fermo, la mano della ragazza stretta nella sua, senza dire nulla. Lei non rispose, non ce n’era bisogno: la sua mente giocava con una serie d’immagini. Vedeva la storia del ragazzo, e qualcosa dentro di lei la invitava a lasciarlo raccontare in silenzio, senza interromperlo. Erano le loro anime a parlarsi.
                                                                                                        
Rey si svegliò con il cuore in bilico tra la serenità e una sensazione di urgenza, quasi avesse da fare qualcosa e dovesse assolutamente farla per tempo.
 








***

Ed ecco anche il quarto capitolo.
Quando, parlando con le admin dell'Anthology, ho scoperto che sarebbe stato possibile utilizzare il Carnevale di Venezia come festività a cui abbinare una storia Reylo, ho saltato di gioia: è una delle mie città preferite in assoluto, e trascorrere anche solo qualche ora a passeggiare tra calli e ponti mi rende profondamente felice. Spero di essere riuscita a trasmettere il mio amore per la coppia, e quello per la città, anche a voi lettori.

Qui trovate il link alla storia in inglese: come sempre, se aveste voglia di lasciarmi un cuoricino per incoraggiarmi, ne sarei contentissima ;W; <3

Vi abbraccio forte e... buone feste a tutti!
Rey

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo V ***


Capitolo 5
 
 



“Now that you've seen what I'm really like,
can you still bear to look at me?”
- 1984, George Orwell
 
 




Martedì Grasso.

Venezia si svegliava ogni anno sommersa da una pioggia di coriandoli: che ci fosse il sole o che piovesse, nessuno avrebbe rinunciato a sfilare per le vie della città indossando il proprio abito migliore. Dai bambini per mano ai genitori agli anziani, tutti sembravano volersi divertire. Si vedevano abiti straordinari, vere e proprie opere d’arte in movimento sotto forma di costumi e gondole, maschere dipinte nelle forme più strane, lune e soli,  animali sorridenti, visi bianchi, rosa, blu,verdi. Le epoche più disparate si confondevano tra loro, dame in costumi ottocenteschi camminavano a braccetto con signori in abiti usciti direttamente dal Seicento, seguiti da bambini e bambine infilati in vestiti più moderni, appena acquistati al centro commerciale più vicino. Per un giorno intero la città si trasformava in qualcosa di totalmente diverso, diventava un mondo fatto di colori e tessuti preziosi, porcellana e sorrisi enigmatici.

Era meravigliosa.

Rey si svegliò con l’immagine della giovane e del Principe impressa nella sua mente: le loro mani che si sfioravano, quell’attrazione che li legava tanto profondamente da ricordarle fin troppo il rapporto che univa lei e Ben. In un’altra vita, le aveva detto Maz. Le loro anime si erano già incontrate in passato, Venezia le aveva solo conservate per poi restituirgliele e aiutarli a riallacciare quella connessione che credevano di aver perduto.  E ora erano arrivati al culmine, all’evento che sembrava legare entrambe le esperienze, la loro e quella dei due giovani veneziani: il ballo di Carnevale. Il tessuto iniziava a mostrare un disegno preciso, ed erano le loro decisioni a tracciarlo.
Gettò un’occhiata al suo vestito nell’armadio prima di scendere a fare colazione: era lì ad aspettarla, meraviglioso e spaventoso al tempo stesso. Non sapeva ballare, ma non era quello a preoccuparla, quanto piuttosto l’idea che qualcosa sarebbe successo quella sera, se lo sentiva. E lei non avrebbe fatto altro che seguire i suoi sensi e quel filo invisibile che li legava e sembrava stringerli con tutte le sue forze senza lasciarli andare.
 


*
 


Il ballo si sarebbe tenuto in un palazzo storico non distante da Piazza San Marco, una splendida residenza d’epoca usata come albergo ma che, nel periodo del Carnevale, tornava direttamente ai fasti del Settecento e ospitava feste a tema ed altri eventi simili. Maz aveva passato a tutti loro dei cartoncini con l’invito ufficiale, tutti vergati in una calligrafia impeccabile con l’ inchiostro nero: l’organizzatrice li convocava per le otto in punto, specificando che subito dopo le prime danze sarebbe stato allestito un buffet. Dopo l’iniziale scetticismo, Luke le sembrava decisamente più curioso e bendisposto.

Il resto della giornata trascorse tranquillamente, immerso in una sorta di anticipazione elettrica e serena allo stesso tempo: il pranzo, una visita al Giardini della Biennale per trascorrere qualche ora all’aria aperta, poi il ritorno all’albergo per prepararsi. Era seduta nuovamente sui sedili di plastica del vaporetto, ma questa volta Ben era accanto a lei e poggiava le mani sulle ginocchia, le sue dita sottili che sembravano troppo grandi per quelle ginocchia magre, quasi sproporzionate. Il sole invernale faceva capolino dal finestrino, le sfiorava i capelli come se volesse prendersi cura di lei e Rey sentiva Ben respirare, vivere. Ce la stava facendo, stava vincendo la battaglia contro se stesso, era coraggioso. Il suo principale non avrebbe potuto più dire nulla, Snoke non aveva potere sul ragazzo fragile che si affidava a chiunque gli promettesse attenzioni, cura. Rey gli strinse una mano piano, e dopo un attimo sentì che Ben la ricambiava come era già successo più volte durante quel viaggio, le puntava addosso gli occhi scuri e pieni di sentimenti non confessati, paure che lo cullavano fino a che non si addormentava. Le sorrise, e non lasciò la stretta finché il vaporetto non toccò il molo di Salute.
Indossò quell’abito da sogno come una sfida, allacciandolo con attenzione per non rovinarlo, si sciolse i capelli dalla solita acconciatura arruffata in cui li pettinava di solito e vi appoggiò il fermaglio con le perle, che li accompagnava come se fosse stato disegnato apposta per lei. Indossò le scarpe. Si guardò allo specchio, e la Rey che le sorrise di rimando era nuova, quasi una sconosciuta. Quando fissò la maschera sul viso, quella sensazione di sorpresa ed estraneità aumentò, ma non la faceva sentire a disagio. Piuttosto, la intrigava come l’inizio di una nuova avventura. Scese al piano di sotto per cercare Luke e Ben, e li trovò esattamente dove le avevano promesso di trovarsi: nella hall, appoggiati al muro nell’area delle poltrone, entrambi vestiti di tutto punto. Luke indossava un abito dai toni simili a quelli del suo, un misto di beige e panna molto sobrio con una bella giacca ricamata in più punti e un paio di pantaloni lunghi fino al ginocchio. Si era già calcato in testa il cappello nero che faceva parte del travestimento e il mantello di panno, ugualmente nero, che lo copriva del tutto. Ben era vicino a lui, le spalle al muro come se non volesse farsi notare… solo quando si avvicinò per salutarla Rey poté finalmente vedere bene il vestito che aveva scelto per sé.

Il nero era il colore che gli donava di più: per quanto all’apparenza potesse sembrare una scelta malinconica, indossato da lui acquistava la dolcezza della notte, il mistero delle ore più buie ma anche più tranquille. E lui sapeva bene quanto gli donasse, quanto la sua pelle brillasse come la luna, facendo risaltare i capelli scuri e mossi, la delicatezza delle labbra, i nei che gli coprivano le guance come una costellazione. Indossava una giacca lunga e semplice, decorata solo sulle spalle da ricami argentati molto elaborati, ma la bella foggia della camicia bianca che spuntava al di sotto e all’altezza dei polsi, la piega morbida che prendevano i pantaloni di velluto intorno al ginocchio rendevano il costume meraviglioso. Era la prima volta che lo vedeva con addosso dei pantaloni di foggia antica e calze bianche abbinate, ma quell’accostamento non gli stava affatto male, anzi. Anche le scarpe con un leggero tacco e la fibbia argentata aggiungevano un bel dettaglio all’insieme. Aveva pettinato i capelli, e stringeva in mano la maschera bianca con una timidezza che le fece quasi tenerezza. Larva, l’aveva chiamata la donna del negozio, e gli aveva detto che era una delle più usate anticamente durante il periodo del Carnevale. La maschera si indossava assieme al cappello e al mantello nero che aveva preso Luke, ma Ben aveva rifiutato il cappello: la maschera e il mantello lo avrebbero coperto a sufficienza, aveva detto. Il tono sembrava scherzoso, solo Rey poteva trovarci quell’abitudine a confondersi con la folla, nascondere il viso e la testa perché nessuno vedesse chi fosse davvero. Era la sua difesa principale.

Luke si fece avanti con un sorriso e si levò il cappello per salutarla. “Buonasera, signora maschera!” esclamò in un italiano piuttosto buono, tutto allegro: si era fatto insegnare da Maz quell’espressione di saluto e non vedeva l’ora di sfoderarla per fare pratica. “Allora, siete pronti per vivere la serata clou dei festeggiamenti? Forza, ci stanno aspettando a San Marco… cerchiamo di essere in ritardo quel tanto che basta per risultare solo affascinanti.”
Rey non poté fare a meno di sorridere. Con la coda dell’occhio si accorse che anche Ben la imitava.
 

 
*
 


Arrivarono al palazzo e una Maz vestita di blu e bianco li accolse sulla soglia, felice di vederli tutti in tiro. Sia Ben che Luke le baciarono la mano, Rey si inchinò e varcarono in quattro la porta della sala dove era ospitato il ballo.

Una volta dentro, la sensazione di essere precipitati in un’altra epoca si fece sentire come non mai: la stanza era disseminata di invitati in costume. Erano una replica in piccolo dell’allegria e del colore che aveva riempito le strade per tutto il giorno, impressi nelle voci e nei gesti di donne e uomini mascherati. Una piccola orchestra suonava non lontano dalle grandi finestre, e un buffet molto ricco aspettava i ballerini che terminavano di danzare all’altro capo della stanza. Alcune coppie avevano smesso di ballare, altri invitati chiacchieravano all’esterno, in terrazza, o sui divanetti sistemati nell’ingresso, appartati rispetto alla sala da ballo. Maz, che aveva già capito che a Luke non andava granchè di ballare, lo trascinò con sé per presentargli l’organizzatrice. Rey e Ben rimasero soli ad osservare la festa, un po’ impacciati come se non facessero davvero parte di quell’insieme così colorato e chiassoso. Prima che Rey potesse farsi avanti, fu Ben a inchinarsi appena e porgerle il braccio.

“Mi concederebbe un ballo, signora maschera?”

Un attimo dopo, l’orchestra suonava un valzer e Rey cercava di tirare su l’orlo del vestito quel tanto che le sarebbe bastato per non calpestarlo. Ben aveva calcato la sua maschera sul viso, ma attraverso il bianco dell’oggetto spuntavano gli occhi scuri, caldi, familiari. Le prese una mano con le dita guantate e le posò l’altra sul fianco per condurla.

“Sai ballare?” gli sussurrò Rey. Non aveva idea di come muoversi: non aveva mai ballato in vita sua, ma qualcosa nella gentilezza dei gesti di lui la tranquillizzava. Forse avrebbe dovuto davvero rilassarsi e seguire l’istinto, affinché fosse solo quello a guidarla, invece della mente. Cedette al suo tocco e provò a imitare i passi del ragazzo, guardando solo di sottecchi i piedi di entrambi per memorizzarne il movimento. Non era facile, ma era decisamente piacevole. Giro dopo giro, iniziò a prenderci la mano.

“Dove hai imparato?” chiese, curiosa.  La mano di Ben le abbracciava il fianco facendole scendere un brivido lungo la schiena, ma quell’intimità non le dispiaceva affatto.

Era diversa e allo stesso tempo simile a quella che avevano già sperimentato nella sua stanza: nonostante fossero vestiti e circondati da una folla di persone, percepiva lo stesso fremito, la trepidazione di vivere qualcosa di unico che non riusciva a spiegare nemmeno a se stessa. Le piaceva sentirsi stringere da Ben, che la reggeva come se avesse paura di vederla sparire nella folla. Le piaceva il suo respiro che le solleticava l’orecchio. Amava averlo così vicino, e sapere che stava parlando con lei, ballando con lei, che le stava offrendo un nuovo lato di sé perché potesse scoprirlo pian piano. Si sentì improvvisamente privilegiata e avrebbe voluto dirlo a tutti, gioire con qualcuno per essere riuscita a farlo sorridere e sentire a suo agio nei confronti del mondo… ma nessuno avrebbe capito davvero, probabilmente. Ben le rispose dopo un attimo.

“Da mia madre. Quando ero bambino, le piaceva insegnarmi… lei e mia nonna non perdevano occasione” sorrise appena, forse ripensando ad entrambe le donne. “Così ho imparato da tutte e due, anche se non ho mai avuto occasione per esercitarmi. Non sono un granché, ma dubito che qualcuno se ne accorgerà.”

“Invece te la cavi bene. Sicuramente meglio di me!” Rey rise, incoraggiandolo. “E il vestito ti sta benissimo.”

“Anche a te” sussurrò lui. L’orchestra aveva finito e attaccò un nuovo pezzo. I ballerini si salutavano con un inchino, alcuni cambiavano partner, i due giovani nemmeno se ne accorsero: rimasero vicini, uno di fronte all’altra, a riprendere fiato in attesa di ricominciare. Questa volta era un ballo più lento: la ragazza gli poggiò la testa sul petto, e sentì Ben stringerla di nuovo, questa volta alla vita, con la stessa cura di prima. Aveva un buon profumo. Gli batteva il cuore con forza, poteva sentirlo agitarsi attraverso le costole la pelle e gli strati di stoffa fino al suo orecchio, un suono ritmico, confrontante.

Le danze ricominciavano: l’orchestra aveva riattaccato a suonare. Il Principe era rientrato, lei l’aveva seguito e ora ballavano di nuovo insieme. Senza che se ne accorgessero, i nobili attorno a loro si erano fatti da parte, lasciando che il Principe Solo e la bella sconosciuta vestita di bianco conquistassero il centro della sala. Era incredibile come si sentisse a suo agio nonostante non avesse mai ballato in vita sua, il ragazzo la guidava perfettamente e la faceva sentire leggera come se potesse volare. L’aveva stretta per la vita, tirata a sé, spinta in avanti. Una giravolta, poi altri due passi, la sua gonna che si allargava e fluttuava come le ali di un uccellino felice. Poi aveva sollevato la giovane, e dalla folla era partito un mormorio di sorpresa. Qualcuno applaudiva. La donna che aveva accompagnato il Principe giorni prima durante il viaggio in gondola, vestita di viola e dal portamento regale, li guardava sorridendo.
La ragazza lo guardò negli occhi oltre la maschera, e per la prima volta riuscì a vedervi una scintilla diversa: sembrava felice, come se fosse riuscito a lasciarsi alle spalle ciò che lo affliggeva, almeno in parte. Uno sguardo limpido. Gli angoli della bocca del ragazzo si sollevarono.

Rey alzò gli occhi e ritrovò lo sguardo di quel giovane in quelli di Ben. Era lui.
Improvvisamente sentì di volergli dire tutto, raccontargli ogni dettaglio di quei sogni uno dopo l’altro, senza fermarsi nemmeno un attimo a riposare la voce. Voleva colmare quel silenzio che li aveva divisi per mesi, cancellare i giorni in cui aveva aspettato un suo messaggio e non gli aveva scritto per dispetto, perché se avesse avuto davvero bisogno di lei l’avrebbe chiamata e cercata. Tornare indietro nel tempo e aspettare fuori dalla porta che si sfogasse, per tornare poi dentro e tendergli una mano perché capisse di non essere solo, invece di correre via e scacciare le lacrime con rabbia. Aveva sofferto, avevano sofferto entrambi, ma quella lontananza non aveva fatto altro che rafforzare in lei il desiderio di capirlo, di riscrivere il loro rapporto tutto da capo, per quanto all’epoca lo negasse. Doveva solo lasciargli i suoi spazi, come aveva fatto in passato. E se Ben non avesse più voluto avvicinarsi a lei?
“Grazie” mormorò, senza accorgersene. Quel sussurro non gli sfuggì.
“Per cosa?”
“Per essere qui.” La confessione le bruciava le labbra. Sentiva che era il momento giusto per lasciarla uscire, o se la sarebbe portata dentro per sempre. Ben non disse nulla, ma strinse la presa sulla sua vita.

L’orchestra continuava a suonare, il cuore del ragazzo batteva sotto il suo orecchio e la cullava come una melodia. Ormai non contava più nemmeno i passi, la danza la trasportava e annullava ogni altro pensiero, finché  le luci calde della stanza e l’oro delle cornici non iniziarono a confondersi. Era diventata la ragazza del sogno, e la folla attorno a lei applaudiva il Principe e la sua accompagnatrice che, imbarazzata, non sapeva se inchinarsi o meno. Entrambe erano circondate da un pubblico mascherato, entrambe avevano appena terminato di danzare tra le braccia di un giovane vestito di nero che custodiva in sé demoni troppo grandi per sconfiggerli da solo.
Il pezzo terminò. Ben lasciò la presa dalla sua vita, sii inchinò da perfetto gentiluomo e le prese una mano. Rey si inchinò a sua volta, e dallo sguardo di lui capì che non gli sarebbe dispiaciuto guardare la città dalla terrazza.
 

 

*
 

La terrazza si affacciava direttamente sul Canal Grande e lo dominava dall’alto, permettendo allo sguardo di spingersi ovunque: si vedevano le calli in lontananza, le barche che solcavano l’acqua e le gondole dei turisti che si godevano un giro serale, piccole come giocattoli. Le case erano illuminate, così come i ristoranti e i bar. Anche Piazza San Marco doveva essere meravigliosa, piena di luci e di canti. Quel quadro notturno di colori le sarebbe rimasto nel cuore per sempre.
Ben si appoggiò alla balaustra di pietra, togliendosi la maschera bianca: ora che erano da soli non aveva più bisogno di nascondere il volto. La posò accanto a sé e per un attimo ritornò il ragazzo che l’aveva accompagnata durante tutte quelle giornate di visita, silenzioso e tranquillo, sempre pronto a trasformare i suoi sogni e le idee che lo animavano in fotografie. Il Principe Solo aveva solamente cambiato abito, e il peso che portava addosso diminuiva sempre di più.

Anche Rey si tolse la maschera. Aveva bisogno di essere totalmente se stessa per affrontare quel momento: la ragazza del sogno l’aveva aiutata conducendola fin lì, ma ora toccava a lei. Ben era accanto a lei, reale, fragile. Sembrava così forte, alto, adulto, ma era solo l’ennesima maschera che aveva indossato perché non potessero fargli del male come in passato, perché il piccolo Ben fosse protetto. Perché chi lo circondava capisse che Kylo Ren – il nome d’arte che aveva scelto, quello con cui firmava molti dei suoi lavori – andava temuto, rispettato. Una delle poche persone ad aver accarezzato ogni sua debolezza era stata lei.
Non riuscì a parlare: nelle sue intenzioni avrebbe dovuto attaccare con una frase che attirasse la sua attenzione e spiegargli come quei giorni erano stati speciali per lei, ma una volta vicina sentì che tutto ciò che avrebbe voluto dire si ingarbugliava nella sua bocca senza formare frasi di senso compiuto. Allungò una mano per prendere quella di lui e si stupì ancora una volta di quanto la sua sembrasse minuscola, insignificante tra quelle dita, così lunghe e forti. Aveva il potere di spezzarlo, di colpire esattamente quella parte più vulnerabile che le aveva mostrato più volte in quei giorni: sarebbe bastata una parola sbagliata per distruggere un equilibrio miracoloso, la loro connessione ristabilita. Perfino Luke e Maz se l’erano lasciato sfuggire: sei più forte di Ben. Forse l’hai sempre saputo. Ora capisco perché è attratto da te. Si vede che ti sta cercando e aspetta un tuo segno. Ma non voleva farlo. Voleva solo stringerlo e dirgli che potevano aver discusso in passato e perso la voglia di rivedersi, ma stavano superando tutto, e stare vicini era stato come scusarsi senza bisogno di dirlo a parole. Non era lei ad aver bisogno di essere salvata, si era già salvata da sola durante tutti quegli anni in cui si era sentita perduta… ma avrebbe potuto aiutare lui. Salvarlo. Una principessa che all’occorrenza si trasforma in un principe azzurro.

In un attimo, Ben la strinse a sé. Rey non poté far altro che allargare le braccia e cingerlo, inspirando con forza il suo profumo familiare di casa, di abiti puliti e di lavanda, più quello sconosciuto che impregnava gli abiti che indossava. La ragazza sentì che le posava la testa nell’incavo del collo e si rilassava, un altro di quei pesi che gli gravavano sull’anima si allontanava. Si rilassò anche lei. Chi avrebbe potuto disturbarli lì fuori?
Venezia li avvolgeva nel suo silenzio. La musica dell’orchestra arrivava attutita, come un sogno lontano, dai contorni indefiniti.

Fu Ben ad iniziare a parlare, e la sua voce era come un sussurro, come quella di Rey poco prima.

“Si rivedranno, alla fine? La ragazza e il Principe Solo?”
Il sogno li avvolgeva entrambi, abbracciandoli come una coperta fatta di nuvole. Se anche le fosse servita una prova del fatto che le loro menti avevano condiviso le stesse immagini, inseguendosi notte dopo notte, ora l’aveva. Rey sorrise e alzò la testa per guardarlo negli occhi, e il tono saggio che accompagnava la sua voce era nuovo anche per lei.

“Io credo di si. Penso che abbiano ancora tanto da dirsi, tante cose da vivere. Lui ha bisogno di lei, voleva baciarla mentre ballavano ma allo stesso tempo ha capito che non sarebbe stato il momento adatto… sono così simili, anche se forse ancora non lo sanno.” Inspirò il suo profumo, lasciò che la inebriasse. “E lei vuole sapere di più su di lui, scoprire il mistero che nasconde. Penso che si siano incontrati ancora, e che abbiano danzato insieme tante altre volte.”

“Può darsi.” Ben sorrise. Posò il mento sulla testa di Rey e rimase fermo, a stringerla gentilmente tra le braccia. Dopo un po’ tentò con una nuova domanda, come un bambino curioso che desidera assolutamente conoscere la fine di una storia che gli è stata raccontata. “Lei troverà mai i suoi genitori?”
“No, ma non si arrenderà comunque.” Non sapeva bene chi le desse quella certezza, ma dentro di sé sapeva che quella era la risposta giusta. “Deve dimostrare al mondo quanto valga… e imparare chi è davvero. La strada è ancora lunga.” Approfondì l’abbraccio e dopo un po’ non seppe se stava parlando di se stessa o della ragazza del sogno. Sentì Ben sorridere, anche senza guardarlo. E l’attimo successivo ascoltò solo il cuore e nient’altro, quella richiesta insistente di seguire l’istinto e fare la cosa giusta al momento giusto: si staccò dolcemente da lui per poterlo guardare di nuovo negli occhi. E proprio mentre non se lo aspettava, mentre erano tesi entrambi ad aspettare quello che sarebbe successo dopo, si tese in avanti e premette con forza le labbra contro le sue per baciarlo, con un’urgenza e una foga che non ricordava di aver mai posseduto. Il primo bacio dopo quel pomeriggio d’estate.

Dopo un altro attimo immobile e perfetto, sentì che Ben avvolgeva il suo viso con entrambe le mani e rispondeva al bacio.

Il tempo si annullò come succedeva sempre quando erano insieme, quando un secondo durava un’ora e viceversa, e ogni cosa intorno diventava parte del paesaggio, confondendosi col resto. Ben era lì con lei, le accarezzava il viso, mordeva il labbro inferiore per poi esplorare gentilmente l’interno della sua bocca con la lingua, spostava le mani dal viso per cingerle le spalle, la schiena, accarezzare il suo corpo come se volesse conoscerlo da capo, quasi avesse paura di vederla scomparire in un soffio come la ragazza del sogno, come il ragazzo che gli prestava il corpo durante la notte e che la mattina dopo spariva di nuovo.  E lei rispondeva a quel bacio con tutta l’urgenza che aveva, desiderosa di dimostrargli qualcosa, di parlare senza parole. Si erano scambiati le parti rispetto a qualche tempo prima: ora era lei a dimostrargli il proprio bisogno, a volerlo divorare. Ben rispondeva con dolcezza, una gentilezza che traeva forza dalla sua necessità di averla vicina. Si bilanciavano, si erano sempre bilanciati quando erano insieme e due valevano più di uno solo. Quando lei scalpitava, lui rispondeva con la calma. Quando era lui a fremere di rabbia, di un’energia che lo faceva tremare come se l’interno del suo corpo fosse fuoco e fiamme vive, lei gli prendeva la mano per tranquillizzarlo. Equilibrio.

Le mani di Rey indugiarono sul suo abito, stringevano la stoffa come se avesse voluto strapparla. Se solo fossero stati soli, nella loro stanza o comunque in albergo… quasi avesse percepito i suoi pensieri, anche Ben la strinse con più forza, scendendo a baciarle con vigore il mento, poi salendo di nuovo verso gli angoli della bocca, le guance, ogni centimetro del suo viso che riusciva a raggiungere. Sentiva di non riuscire a mantenere il controllo a lungo, e che nemmeno lui ce l’avrebbe fatta: avevano troppe cose in sospeso da confessare, troppi sentimenti racchiusi che avevano trovato finalmente il modo di scappare fuori, troppe frasi non dette che diventavano baci, sussurri, parole trasformate in qualcos’altro, qualcosa di meraviglioso. Ben lasciò scappare un gemito, e Rey pensò di non aver mai sentito la sua voce così tenera, indifesa. Era così vicina a cedere, così vicina che…

Un suono rimbombante si sparse nell’aria, così forte da farli bloccare sul posto. Un fiore d’oro si allargò nel cielo e precipitò nel mare sotto di loro, seguito da un altro fiore, questa volta rosso. Poi un terzo, verde. Uno scoppio e uno sboccio, una primavera in anticipo arrivata a toccare il cielo. Fuochi artificiali.
Rey guardò negli occhi Ben, lui la guardò a sua volta e scoppiarono a ridere entrambi. Non c’era bisogno di tante parole: i loro gesti parlavano da soli.
I fuochi d’artificio continuavano a illuminare il cielo, splendidi e luminosi. Scoppiavano, lo facevano brillare come una cascata di lustrini lanciati da un gigante e si spegnevano subito, tuffandosi nell’acqua, si susseguivano correndo come impazziti, salutati dalla folla festante che li osservava quasi fossero enormi stelle cadenti.
Chissà se si potevano esprimere i desideri guardando i fuochi d’artificio, pensò la ragazza… e senza indugiare, chiuse gli occhi e chiese che Ben potesse essere felice, e che riuscisse a trovare se stesso come stava facendo anche lei.

Quando portò di nuovo gli occhi sul viso di lui, gli ultimi fuochi si facevano avanti per essere ammirati. Una di quelle stelle d’oro gli riempiva gli occhi di luce. Tra il susseguirsi di scoppi e grida, Ben le prese di nuovo il viso tra le mani e la baciò. Con ancora più calma stavolta, come se avessero avuto tutto il tempo del mondo davanti a loro, mentre l’acqua della laguna diventava d’oro e il Carnevale salutava la città, in una sera d’inverno che prometteva di diventare presto primavera.
 
 
 
 







***

Ed ecco anche il quinto capitolo, l'ultimo prima dell'epilogo finale che ho immaginato. La mia ispirazione è piuttosto capricciosa, per cui ogni volta che mi capita di terminare una long-fiction senza stancarmi a metà o perdere le idee che avevo delineato all'inizio, ne sono sempre assolutamente felice. E spero davvero che il risultato finale possa piacere anche a voi!
Come al solito, se aveste voglia di lasciarmi un cuoricino di incoraggiamento, qui trovate la storia in inglese. Non dimenticate di fare un salto sulle raccolte dell'Anthology se vi va, ci sono un sacco di storie e di bravissime autrici che meritano il vostro amore!


Rey

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Epilogo ***


Epilogo
 
 





“Venice is eternity itself.”
-  Joseph Brodsky
 
 
 



 
La mattina delle Ceneri, Venezia sembrava una città completamente diversa dal giorno precedente. In piedi sul ponte del traghetto, coperti da sciarpe e cappelli, i turisti osservavano la città spogliarsi della livrea colorata che aveva indossato fino alle prime ore del giorno e tornare all’abito di sempre, meno stravagante ma altrettanto meraviglioso. Tra loro c’erano anche Rey, Ben e Luke.

Rey guardava i palazzi scivolare accanto al traghetto, immobili e quasi sorridenti nonostante il cielo nuvoloso del mattino. La città sembrava meno popolata rispetto al giorno precedente, come se assieme alla fine del Carnevale se ne fosse andata anche quella magia sottile che l’aveva riportata al passato per qualche settimana: le maschere tornavano a dormire nei negozi, la donna a cui avevano restituito i vestiti li aveva salutati augurando loro di tornare l’anno successivo. La bottega in cui aveva lavorato la ragazza vestita di bianco doveva essere cambiata nei secoli, ma il suo spirito ancora la impregnava, e ogni Carnevale tornava a vivere e a riempire le calli del suo passo allegro, del desiderio di esplorare ogni angolo del mondo. Forse da qualche parte c’era un quadro che la raffigurava assieme al Principe Solo, vicini, in abiti da festa, sui visi il sorriso un po’ austero che era proprio dei soggetti ritratti.
Ben le si avvicinò. Suo zio era impegnato in una telefonata con Maz, che li aveva salutati poco prima che si imbarcassero per raggiungere di nuovo la stazione, carichi di valige come quando erano arrivati. La donna era dispiaciuta quanto loro di vederli partire: li aveva abbracciati tutti a lungo, anche Ben, e aveva accettato con un sorriso enigmatico l’invito di Luke di “farsi vedere ogni tanto a Londra, magari anche in estate”. Quando era venuto il momento di Rey, le aveva preso una mano guardandola negli occhi, e la ragazza aveva sentito lo sguardo della donna arrivarle nell’anima. “Buona fortuna, bambina. Hai fatto tanta strada per arrivare fin qui… e ne è valsa la pena. Lo vedo dal tuo sguardo.” La ragazza si era abbassata per abbracciarla e Maz le aveva sussurrato all’orecchio quel saluto, per poi guardarli trascinare le valige mentre agitava la mano, un puntino blu che diventava sempre più piccolo man mano che si allontanavano. Quelle giornate erano state così straordinariamente bizzarre e magnifiche che già le mancavano, così come le mancava la voce della loro accompagnatrice. Chissà se avrebbe lasciato subito la città per tornare negli Stati Uniti, o se si sarebbe trattenuta ancora un po’ a Venezia…

“Sembra incredibile che siano già passati cinque giorni da quando siamo arrivati. Iniziavo ad abituarmi ai ritmi della città.”
Rey si voltò per accoglierlo nel suo campo visivo e gli fece spazio perché potessero osservare la città vicini. La notte era passata, ma aveva mantenuto intatto quanto era accaduto tra loro la sera prima: quella mattina si erano salutati senza imbarazzo, e tutti gli sguardi che si erano lanciati parlavano di qualcosa di diverso tra loro. Ben doveva avere tanti pesi di cui liberarsi, pensò, ma la maggior parte cadevano da soli, ed erano andati via in quei giorni. Quelli che ancora restavano attaccati al suo cuore solo il tempo avrebbe potuto eliminarli.

“Già… mi mancherà Venezia. Avrei voluto vedere tutti i musei…”
“Possiamo sempre tornarci. Sempre se avrai voglia di visitarla con me… e di sorbirti le mie fotografie” sorrise, chinando appena la testa come faceva sempre quando osava troppo e mascherava quanto aveva appena detto con l’ironia. Per tutta risposta la ragazza gli appoggiò la testa sul petto.
“Grazie ancora per quello che hai fatto, Rey. Non è da tutti, e non ti spettava.” Era passato qualche minuto, e Ben restava vicino a lei, cercava il suo corpo per assicurarsi che fosse davvero lì e le sfiorava la pelle della mano con un dito esitante.
“Perché mi dovresti ringraziare? Non ho fatto nulla di speciale.”
“Chiunque se ne sarebbe andato, mi avrebbe evitato e sarebbe stato giusto… ma tu hai continuato a provare, non ti sei arresa.” Parlava in fretta, quasi non riuscisse a sincronizzare le parole e i pensieri. “È più di quanto chiunque abbia mai fatto per me. E sicuramente più di quanto meritassi.”
“Tu meriti questo ed altro, Ben Solo.” La ragazza diede le spalle al mare, così da poterlo guardare fisso negli occhi e posargli le mani sugli avambracci. “Hai lottato, hai perso, ma ora stai vincendo. Non devi contare solo su se stesso, l’hai fatto fin da bambino. Lascia che pensiamo un po’ noi a te… io, tua madre, tuo zio. Forse anche tuo padre. Ti vuole ancora bene in fondo, non è capace a dimostrarlo ma io credo te ne voglia. Magari siete troppo simili e troppo diversi allo stesso tempo. Ma non odiarti così, non farti del male.”

Lui scosse la testa, non per negare quello che aveva detto, quanto piuttosto per distogliere lo sguardo da quegli occhi limpidi, troppo gentili ed ingenui. Non era un’ingenuità disarmata quella di Rey: era la purezza di chi sa benissimo cosa comporti avere un cuore gentile, ma che sceglie comunque di conservarlo. Aspettò che si sistemasse nuovamente accanto a lui, poi inspirò e prese a raccontare, come se il bisogno di far venire fuori le parole fosse troppo forte per poterlo trattenere. Perfino per lui, che non amava particolarmente raccontare di sé.

“Aspettavo l’ira come si aspetta la pioggia quando fa troppo caldo. Ero così, una volta… i pugni chiusi, stringevo i denti mentre il mio corpo tremava e la rabbia iniziava a farsi strada. E poi, quando esplodeva, lasciavo che distruggesse tutto attraverso me. Un incendio alimentato dalla benzina delle risatine dei miei compagni di scuola, quegli sguardi pieni di ironia e di cattiveria, verso la mia faccia o la mia vita, o entrambe le cose. Se da bambino il bersaglio delle loro parole era il mio viso, le mie orecchie, da adulto hanno iniziato a prendersela con la mia famiglia. Un paio di bulli mi perseguitavano quando avevo tredici anni: non c’era giorno in cui non chiamassero ladro mio padre, in cui non mi lanciassero frecciatine sul fatto che i miei genitori erano separati e alle ricorrenze scolastiche c’era quasi sempre solo mia madre. A volte nemmeno lei.”

Rey lo ascoltava senza parlare.

“Lasciai che mi insultassero, mantenni il controllo stringendo i pugni con tanta forza da farmi male ai palmi delle mani… ma io per primo sapevo che non sarebbe stato sempre così, che prima o poi i miei sentimenti avrebbero avuto la meglio” proseguì Ben. Quasi non riprendeva fiato tra una frase e l’altra. “Finché non è arrivato il giorno in cui la rabbia mi ha divorato totalmente, e ogni centimetro del mio corpo era fiamme e lava, odio e frustrazione. Distruzione. Furia. Ecco la tempesta, avevo sentito i tuoni in lontananza, la accoglievo urlando, la pregavo di aiutarmi a distruggere, distruggere tutto. Ho colpito il loro capo in faccia con un pugno, poi nello stomaco. L’ho atterrato. L’ho riempito di pugni e testate perché smettesse, volevo cancellargli dalla bocca gli insulti verso di me, verso mia madre, mio padre. Continuavo a picchiarlo e a passare dalla parte del torto, finché non sono crollato: mi hanno sospeso. Anzi, hanno sospeso entrambi, ma qualcosa in me si era rotto. Troppa rabbia resta dentro, lascia cenere bollente nel corpo e non si spegne mai per davvero. Col tempo ho capito che ero stato provocato oltre il limite, ma avrei potuto fare un milione di altre cose invece di cedere all’ira e picchiarlo… eppure quel sentimento l’avevo invocato io, e ora chiedeva il suo prezzo. Non mi sono più avvicinato a nulla, a nessuno. Distacco completo. Solo così avrei potuto sentire meno dolore, ignorare la chiamata oscura che mi accarezzava il viso, seducente. Non sopportavo l’idea di poter fare del male a chiunque mi stesse a cuore solo perché non ero riuscito a lasciarmi alle spalle completamente il ragazzino rabbioso che ero. Fino a te, Rey.”

Terminò e riprese fiato. Erano quasi arrivati: poco dopo il treno li avrebbe riportati alle loro vite, ma qualcosa era cambiato irrimediabilmente. In meglio, stavolta.

“Ti avevano provocato” sussurrò la ragazza. Gli prese una mano. “L’hai detto anche tu. Non è facile reagire con calma quando ci si sente messi con le spalle al muro… avrei fatto anche io la stessa cosa. Ma hai capito che non era giusto… non sei più quello di un tempo. Quell’adolescente  pieno di rabbia non ha più potere su di te. Lascialo andare.”
“Posso provare” le rispose Ben in un soffio, e poi sorrise senza aggiungere altro. Le baciò le nocche, sfiorandole con le labbra che tremavano appena.
Rimasero fermi per un attimo in quella posizione, vicini come due piante cresciute insieme coi rami intrecciati e i tronchi che si toccano, sostenendosi a vicenda. Restarono in piedi, gli occhi fermi sui palazzi e sul mare che li affiancavano finché il vaporetto non si fermò di fronte alla stazione di Santa Lucia, e Luke li superò per scaricare le valige.

Rey socchiuse e riaprì gli occhi, e lasciò che il pulviscolo d’oro portato da un raggio di sole le accarezzasse il viso. Poi seguì Ben e Luke verso la stazione, il trolley verde che la accompagnava quasi correndo.



La ragazza osservava il ponte sotto ai suoi piedi, senza riuscire a credere ai suoi occhi: sarebbe partita per un viaggio. E non un viaggio qualsiasi, ma un vera e propria traversata verso terre lontane! Le Americhe, la Via della Seta, l’Oriente e i suoi misteri, ma anche mete europee - più vicine, ma non meno affascinanti – si aprirono davanti a lei, confondendola. Dovette appoggiarsi ad uno dei parapetti per non cadere preda delle vertigini. Lì accanto, il Principe Solo la guardò preoccupato, afferrandola per controllare che stesse bene. Un sorriso della ragazza lo confortò, e la prese gentilmente per un braccio perché occupassero il posto che spettava ad entrambi sul ponte di comando. La “Principessa di Alderaan” sarebbe partita poco dopo, diretta verso una meta che ancora lei non conosceva, ma che sarebbe stato meraviglioso scoprire man mano che il viaggio andava avanti. Cosa aveva detto la madre del Principe, la bella donna vestita di viola che l’aveva subito presa a benvolere? “Mio figlio ha bisogno di qualcuno che lo aiuti a scoprire che può dare tanto al mondo. Magari qualcuno che ami viaggiare.” E poi l’aveva guardata. Le brillavano gli occhi di gioia.
La nave si staccò dal molo lentamente, salutata da una grande folla. La ragazza si voltò per guardare Venezia che si allontanava, sempre più piccola, sempre più simile ad un gruppo di casine intagliate nel legno e regalate ad un bambino. Si inchinò per salutarla, e le lacrime che le scendevano dagli occhi erano un po’ malinconiche e un po’ felici.

Il Principe Solo le prese la mano.










***
E anche questa mia breve long-fic è terminata.
Non mi capita spesso di riuscire a terminare una storia a capitoli assistita pienamente dall'ispirazione, per cui potete considerare questa storia una specie di piccolo miracolo: sarà che potrei scrivere anche duecento Reylo senza stancarmi, sarà che ho amato descrivere Venezia e la gioia che mi porta visitarla, sarà anche che la colonna sonora adatta non mi è mancata... ma sono davvero felice di essere riuscita ad arrivare fin qui. E' stato un piccolo traguardo, e non ce l'avrei mai fatta senza il sostegno e l'affetto della mia bae Ailisea , delle mod della Reylo Fanfiction Anthology e di tutti voi lettori. Se anche solo un po' del mio amore per i personaggi e per le atmosfere sognanti di Venezia è riuscito ad arrivare fino a voi e ad emozionarvi un po', allora significa che ho raggiunto il mio obiettivo.
Se, come al solito, voleste lasciarmi un cuoricino, qui trovate la storia in inglese. Andate a distribuire amore anche alle altre autrici, lo meritano tantissimo!

Grazie ancora per il vostro sostegno :3
Rey

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3709315