Nove Peccati

di aleerika
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***



Capitolo 1
*** I ***


Infinite sono le strade verso la distruzione,
unica è la strada verso la redenzione.

 

21 Dicembre, ore 02:54

 

È una di quelle notti che smuovono la città, imprigionate nel pungente effluvio del sale marino e nel gioco di chiaroscuro dei lampioni che, come lucciole, elargiscono all’atmosfera un non so che di speciale.
Tipico delle notti invernali di Arcadia Bay, il clima rigido avvolge la mia malandata berlina che, dopo ore di viaggio, mi ha portata a destinazione.
Non mettevo piede sulle sue strade da ormai nove anni, e le cose erano parecchio cambiate, non solo in città.
Al mio arrivo una sensazione non tanto di paura, quanto di angoscia, pervase le mie viscere.
La mia permanenza non sarebbe durata poco, ed il solo pensiero di rientrare nelle meccaniche di un ghetto che non era più mio, e che con molta probabilità mi avrebbe subito ripudiata, di certo non risollevava il mio stato d’animo.
Me ne ero andata senza spiegazioni, come una vigliaccata incapace di affrontare gli eventi insidiosi della propria vita.
E fu così che, in pochi istanti, ricordai della veduta sul mare a pochi passi da quella che era la casa dove abitavo.
A quei tempi mi dirigevo in piena notte a guardare, stesa su di una panchina, le migliaia di stelle che lambivano il firmamento.
Scaricavo così tutte le mie ansie, timori, che a confronto della vastità sul sommo del mio capo,  non erano nulla.

Parcheggiai, scesi dall’auto e strinsi le braccia fra di loro, sul petto, per non disperdere quel poco di calore che mi era rimasto in corpo nonostante il giaccone indossato.
La voglia di fumare una sigaretta era tanta, così ne accessi una ed aspirai un tiro, per poi espirarlo e vedere il fumo dissolversi nel buio della notte con una celerità disarmante.
Spensi la cicca e la buttai nel primo cestino vicino, come da brava cittadina.
Poco lontano vidi, nel nero della notte, una luce che, ad intermittenza, si accendeva e spegneva.
Avanzai di qualche passo e notai che si trattava di un’insegna di un bar che non avevo mai visto.
Sicuramente venne inaugurato nel mio periodo di lontananza.
In una serata così fredda, un bel bicchiere di rum mi avrebbe riscaldata per bene.

Erano le tre di notte passate, e veder entrare in un locale, a quell’ora, una donna, non era così usuale. 
Presi posto vicino al bancone ed ordinai ciò che avevo deciso poco prima.
Gli sguardi indiscreti degli uomini brilli seduti ai tavoli mi stavano divorando, soprattutto quelli di un ragazzo intorno alla trentina dai capelli lunghi e biondo cenere, dagli occhi castani tendenti al verde e dal viso quasi angelico che, nel suo caso, era sporcato dalla poca barba incolta.
Impegnata nel bere il mio drink, il ragazzo si avvicinò per sedersi alla mia sinistra e chiese al cameriere di ordinarne due identici al mio, e di servire il secondo proprio a me.
Lo guardai con non poca indifferenza , con lo sguardo di qualcuno che, inconsciamente, sa chi ha di fronte.

«Mi sa che questa sera qualcuno ha voglia di parlare.» - dissi come ad istigarlo. 
Avevo una voglia insana di scoprire la sua reazione.

«Probabile.» rispose con serietà - «Sai com’è,» - aggiunse, «vedere a quest’ora, in un locale del genere, una donna, non è comune.»

Prese il drink servito dal cameriere, con una calma inaudita, e ne bevve un sorso impercettibile, servito solo a bagnare le sue labbra rosee.

«C’è sempre una prima volta, non crede?»- risposi con malizia alla sua provocazione, sorseggiando qualche goccia insieme a lui.
«In questa città è difficile trovare e provare qualcosa di nuovo.» - aggiunse, come rassegnato, mentre fissava il bicchiere poggiato sul bancone.

Rimasi basita per qualche istante. 
La sua non fu un’affermazione fatta a caso.
Quell’uomo mi incuteva angoscia, mi stava lentamente, e con astuzia, catapultando nel mio passato. 
Mi conosceva, ma io non riconoscevo lui, o, forse, non volevo ricordarlo.

«Cosa intende dire?» - gli chiesi per fugare ogni mia incertezza.

Prima di rispondermi spostò, per pochi secondi, il suo sguardo dietro il bancone del bar, per poi posarlo sul mio polso destro, che avevo leggermente esposto per mantenere in mano il drink.

«Scommetto che quella piccola spirale nasconde un significato.» - disse riferendosi al tatuaggio che avevo marchiato sulla pelle.
«È un koru.» - risposi, cercando di eludere la sua domanda.
Feci quel tatuaggio qualche anno prima, con l’intento di marchiare sulla mia pelle qualcosa che non sarebbe andato più via, come il pensiero ormai fisso nella mia mente verso la persona a cui avevo inconsciamente dedicato quella piccola opera d’arte.
Il koru è una spirale che indica rinascita, ed io speravo di averne una tutta mia, prima o poi.
Non pensavo che il ragazzo conoscesse il significato del tatuaggio, ma lo intuii quando chiuse per un istante gli occhi, scosse leggermente la testa e mostrò un ghigno divertito alla mia risposta, uno di quelli che si fanno quando conosci perfettamente chi o cosa hai di fronte.

«La rinascita nel posto da dove si è fuggiti... È proprio vero che Arcadia Bay è la città dell’eterno ritorno.»

Non ci fu risposta più gelida per me.
Aprii i meandri della mia mente con una velocità disarmante.

Come avevo fatto a non riconoscerlo?

«W-Warren.» - affermai disarmata, balbettando il suo nome.

Warren. 
Non avevo riconosciuto Warren, una delle persone più presenti della mia vita, prima che andassi via.
E’ stata una dei pochi esseri umani consenzienti ad avvicinarsi a me ai tempi del liceo.
Condividevamo le stesse ore di chimica e scienze, e non poche volte ho invertito gli ingredienti di alcune pozioni per farlo sbagliare e vederlo imprecare contro il risultato finale.
Riusciva ad andare oltre il caratterino complicato che avevo, che mi rendeva incapace di istaurare dei rapporti umani in generale, figuriamoci quelli duraturi.
Ma lui era diverso, mi capiva, mi comprendeva, e non mi sono mai chiesta il perché.
La cosa ci faceva stare bene a vicenda, e questo ci bastava.
Ma non è bastato a mantenere i contatti con lui.
Sono stata patetica, è vero, ma ognuno ha le sue spiegazioni, come ho provato a fargli capire.

«Senti, io...» 
Provai a giustificare il mio comportamento, a giustificare la mia vita, ma Warren mi interruppe senza scrupoli.

«Nonostante ami le parole, Max, e tu lo sai, certe volte preferisco loro il silenzio. Possono portare a giustificazioni di circostanza o, peggio, a bugie volontarie.»

Mi limitai ad accennare con la testa alle sue affermazioni, stringendo fra i denti il labbro inferiore, colorato dal rosso vivo del rossetto che mai avevo messo prima.
Chiusi gli occhi come a voler dimenticare quel momento di strazio e vergogna.
Dopo un imbarazzante momento di silenzio, Warren si alzò dallo sgabello.

«Il lavoro mi attende presto domani mattina.» - disse pagando i cocktail ed avviandosi verso l’uscita del locale.
«Aspetta.»
Trovai il coraggio di parlargli un’ultima volta prima che uscisse dalla porta.
Ascoltando le mie parole tentennò per poi fermarsi sull’uscio.
Aspettava, con le spalle rivolte verso di me, una mia qualunque mossa.

«Dimmi che mi perdonerai... Prima o poi.» - completai la frase tentennando.
Una sensazione di vuoto si fece pesante sul mio petto.
Sapevo che sarei andata a toccare un tasto dolente. 
Non potevo chiedere il suo perdono così, da un momento all’altro, come se nulla fosse mai accaduto.
Il mio fu un comportamento da vera egoista. 
E da vera egoista meritavo la sua eloquente risposta, data dal suo andarsene via senza nemmeno voltarsi indietro, senza nemmeno guardarmi una volta, un’ultima volta.
Come biasimarlo.

Certe volte le parole sono futili come la luce artificiale accesa in pieno giorno - pensai. 

Ma io ero lì per cambiare le cose, ed avrei fatto di tutto pur di riuscirci.
L’alba era però vicina, così come la macchina che mi avrebbe portata nel mio nuovo  appartamento in città.
La proprietaria di casa lasciò le chiavi sotto lo zerbino, nascondiglio perfetto ed inusuale per nascondere qualcosa ad occhi indiscreti.
Raccolsi il tesoro nascosto ed aprii la porta che mi accolse dritta nell’ampio atrio.
Comperai la casa senza visitarla, fidandomi delle poche foto postate in rete e della proprietaria che me l’ha venduta, una donna sulla settantina che conoscevo da prima di andare via.
Vedova del marito che le ha lasciato in eredità l’intera palazzina che ha messo in affitto, ad eccezione della casa dove viveva, non aveva parenti su cui contare, nemmeno sul figlio, che si faceva vivo solo per riscuotere la sua parte d’affitto. 
Ricordo quando, qualche volta, la vedevo sedere su una sedia fuori al palazzo a sorvegliare la zona, come se fosse un poliziotto in azione.
Non avevo mai visto una donna della sua età comportarsi in quel modo in città.
Scaccio via i ricordi del passato per concentrarmi sul presente, sulle modeste quattro mura che mi avrebbero ospitata per un po’ di tempo.
Mi dirigo subito in camera da letto senza nemmeno guardarla con attenzione.
Era avvolta dalle luci di un cielo quasi del tutto sveglio, che emanava dei fiochi fasci di luce che si insinuavano tra gli spazi vuoti della tenda che copriva una piccola finestra di fronte al letto.
Si intravedevano l’armadio ed una scrivania di legno, che sicuramente sarebbe stata utile per il mio lavoro.
Dopo una veloce rinfrescata, fissai la sveglia sul telefono e mi rintanai tra le coperte del letto, capaci di farmi addormentare in poco tempo e di coprirmi dal freddo del mondo esterno.

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Capitolo 2
*** II ***


22 Dicembre, ore 06:05
 

Il silenzio, che dominava la stanza, venne improvvisamente rotto dalla sveglia del telefono che qualche ora prima avevo attivato per svegliarmi.
Le palpebre facevano fatica ad aprirsi, il letto era caldo ed avevo poche ore di sonno addosso, ma non potevo tardare al primo giorno di lavoro.
Prima di ritornare in città mi organizzai in modo da non lasciare nulla al caso, affittando la casa e chiedendo il trasferimento di lavoro nella centrale di polizia “Blackwell Station”.
Tre anni fa non immaginavo nemmeno di voler fare un lavoro del genere, ma ho sempre voluto aiutare il prossimo e denunciare una qualunque ingiustizia, e mi sono resa conto, non troppo tardi, che questo lavoro è sempre stato nel mio destino.

Spensi la sveglia e mi alzai dal letto più stanca di quanto immaginassi.
Con la luce del sole gli elementi presenti nella stanza in cui mi risvegliai si fecero più chiari: le pareti erano di un grigio molto chiaro, così come la moquette sul pavimento.
Il letto era rivestito con un piumone bianco ed era affiancato, alla sua sinistra, da un comodino dello stesso colore, e non mi meravigliai nel vederci qualche nitido segno di usura.
Dopotutto si trattava di una casa già arredata.
A qualche passo, alla sua sinistra, una bellissima parete finestrata dava sull’ampio balcone da dove si intravedeva una sedia molto elegante.
Di fronte, invece, vi era una scrivania molto piccola in legno e subito affianco una porta che dava sul bagno, dove entrai per fare uno shampoo veloce.

Appena finito, presi dalla valigia il phone che asciugò in poco tempo il caschetto marrone che avevo in testa, mentre la spazzola mi ordinò la frangia.
Mi vestii velocemente con le prime cose capitate sotto mano, con una maglia rosa ed un semplicissimo jeans azzurro.
Per non sentire freddo, aggiunsi al mio outfit una felpa beige che rimasi aperta.
Ma avevo bisogno di qualcosa di più elegante, visto il mio “comodo” look, così cercai di migliorare di poco la situazione stendendo sulla palpebra fissa e sulla piega dell’occhio un ombretto scuro che esaltava i miei occhi azzurri e le lentiggini che quasi invadevano per intero le mie guance. 
Finita di truccarmi presi la borsa e scesi alla ricerca di un bar dove poter fare colazione, visto che non avevo ancora fatto la spesa.

Con la macchina passai davanti al bar dove solo poche ore prima avevo trascorso un paio d’ore in una inaspettata compagnia.
Non avevo intenzione di incontrare Warren e sentirmi ancora in soggezione, così da lontano scrutai la zona per capire se fosse lì, seduto ai tavoli di fuori od a quelli di dentro.
Per fortuna non c’era, così entrai e presi posto vicino al bancone, nonostante ci fossero dei tavoli liberi.
Molta gente gustava la sua colazione seduta, altra, invece, comprava un cornetto a volo e lo portava via per mangiarlo altrove.
C’era un via vai continuo di gente che non mi sarei mai aspettata.

Un cameriere mi si avvicinò per prendere l’ordire e mi fece trovare, pochi minuti dopo, un caffè macchiato ed un cornetto al cioccolato bianco, che ho sempre preferito a quello al cioccolato al latte.
Mentre gustavo la mia bevanda mi guardavo attorno; cercavo di scrutare, tra i tanti volti, qualcuno che potesse essermi familiare, proprio come quello di Rose, la mia vecchia vicina di casa, oppure quello di Lucas, un mio compagno delle medie.
Tutti volti che riconobbi al volo, tutti volti che contavano poco nella mia precedente vita.
Non fu il minimo cambiamento delle loro membra a farmeli riconoscere, ma il menefreghismo che provavo nei loro confronti.
Erano persone completamente estranee di cui mi importava nulla, compreso il loro giudizio.
Forse per questo non riconobbi Warren, di lui mi interessava e temevo una qualunque reazione, positiva o negativa.

Lasciai la mancia sul bancone e mi trasportai verso la macchina che mi diresse dritta verso la sede di lavoro, dove arrivai in anticipo nonostante il traffico intenso delle strade di Arcadia Bay.
Una città piccola, ma sempre affollata.

Avrei lavorato in una centrale moderna dove subito mi persi.
C’erano troppi uffici a disposizione ed il mio senso dell’orientamento non ha mai funzionato bene in situazioni del genere.
Colsi l’occasione per chiedere l’aiuto della guardia Madsen, così come riportava il suo cartellino di riconoscimento, che però si dimostrò restio ad aiutarmi ed indicarmi la strada verso l’ufficio dove il tenente mi aspettava in visita. 
Il suo sguardo era corrucciato, ed il suo labbro superiore coperto da baffi molto folti.
Mi dava l’impressione di una persona molto seria, che non si faceva abbindolare da niente e nessuno.
Con grande sorpresa mi condusse a destinazione facendomi percorrere diverse rampe di scale.

Entrata nell’ufficio del tenente, la prima impressione non fu del tutto positiva.
Varcata la porta un penetrante olezzo di tabacco pervase le mie narici oltre ad impregnare i miei vestiti.
Innumerevoli scartoffie erano sparse in ogni dove, così come i poster polizieschi mezzi scollati dal muro.
Un vecchio computer fisso era poggiato sulla scrivania mentre la stampante era in bilico su una sedia usata come mobiletto provvisorio.
Od il mio superiore amava vivere nel disordine, od aveva poco tempo anche per chiamare qualcuno che potesse sistemare per lui.
Quel posto era troppo in disordine per essere occupato da una figura così importante.

«Benvenuta alla Blackwell Station signorina Caufield, lieto di averla in centrale.» intervenne l’uomo allungando la sua mano verso la mia in segno di saluto.
«Il piacere è il mio tenente Wells.»
Volevo sembrare il più garbata possibile.

«Le regole le conosce, ed è inutile ricordarle che la prima è rispettare e far rispettare la legge.»
«Sono qui per questo.» gli risposi con fare autoritario.
«Ha già conosciuto il suo nuovo compagno di squadra?»
«A dire il vero no, tenente Wells.»

Senza dire nulla, l’uomo alzò la cornetta del telefono e chiese l’immediata presenza in ufficio del mio compagno di squadra.
Speravo si trattasse di una donna, mi sarei sentita di più a mio agio.
Quando la porta dell’ufficio si aprii non potevo credere ai miei occhi.
Warren Graham.
Inevitabilmente sul mio e sul suo viso si celarono sguardi stupefatti, accompagnati da un’improvvisa paralisi mandibolare.

«Avete già fatto conoscenza?» - domandò Wells incuriosito dalle nostre reazioni.

«Ho avuto il piacere di parlare col detective Caufield poche ore fa, senza immaginare che saremmo diventati nuovi compagni di squadra.» rispose con una calma inaudita.
Dietro la risposta di Warren lessi un pizzico di velata ironia a cui non potevo controbattere.

«Che ne dici di farle fare un giro perlustrativo? Così la signorina si orienta un po’.» 
All’ordine del tenente Warren agì, con lieve disagio.
Riuscivo a captare la sua inquietudine al solo pensiero di dover lavorare con me.

«Prego signorina Caufield, prima lei.» - disse aprendo la porta dell’ufficio ed indicando la via d’uscita, come un vero galantuomo.

Chiusa la porta dietro di noi Warren non si fece attendere, disse tutto ciò che gli ronzava per la testa in quel momento.
«Questo è un posto di lavoro, e come tale non voglio che la nostra vita privata venga fuori. Attieniti al tuo mestiere, e basta.»
Non poteva essere più diretto.

«Va be...» 
Prima che potessi completare la frase, mi interruppe.

«Non voglio sapere niente di te e di questi nove anni. Mi interessa solo lavorare, quindi ti farò vedere il posto e subito dopo, visto che sei una novellina, ti farò guidare. Hai la patente, giusto?»
Sembrava si fosse preparato ore ed ore prima il suo discorso.
Parlava come se fosse una macchinetta impazzita.

«Sì.»
Era stato più che chiaro. 
Non voleva avere contatti con me, non voleva parlarmi se non di lavoro, ed io non potevo controbattere, o meglio, non volevo.

«Allora prendi.» - disse lanciandomi le chiavi della macchina. 
Per fortuna i miei riflessi furono pronti e le presi a volo.

Dopo il giro perlustrativo ci dirigemmo in una macchina che non aveva nessun logo della polizia. Forse eravamo sotto copertura e forse la macchina era di Warren, ma ero troppo imbarazzata per chiederglielo, ed ero strabiliata dalla decisione di farmi guidare quella che molto probabilmente era la sua vettura.
Controllati gli specchietti, messa la cintura e regolato il sediolino, girai la chiave nell’interruttore e, sotto le sue indicazioni, guidai fino a dov’era da lui richiesto.
Il tragitto in macchina fu davvero silenzioso, gli unici rumori a farmi compagnia furono quelli degli altri veicoli in strada.

Arrivammo in una piccola piazza che ricordavo completamente diversa.
Era stata ristrutturata ed era popolata da più individui rispetto al passato.
Warren sembrava quasi impacciato, cercava di coprirsi il più possibile col berretto che aveva in testa, come a nascondersi da qualcuno, forse da chi spiava.

«Lo vedi quel ragazzo?» - disse rompendo l’imbarazzane silenzio che si era creato fra di noi. Lo indicò senza farsi notare.
Prima di parlare strinsi gli occhi come per mettere a fuoco l’obiettivo, e notai un ragazzo dalla carnagione scura mentre scambiava qualche parola con un suo amico.
«Ma è...»
«Sì, è Drew.»
Ormai si era abituato a concludere le frasi al mio posto.
«Lavora per Nathan Prescott che, come ben sai,» - aggiunse, - «è un figlio di papà, il papà più potente della città.»

Abbozzai un sorriso al sentire la sua rima.
«Immagino sia implicato in qualche affare bello grosso.» - gli risposi seria.
«Spaccio di droga e prostituzione. Non può rischiare di metterci la faccia, così ha qualche scagnozzo che fa il lavoro sporco al suo posto, proprio in questa piazza.»
«E Drew è uno di loro.»
«Già,» - rispose rassegnato. - «ma non posso fare nulla.»
«Come mai? Il potere dei Prescott è troppo alto per intervenire?»

Prima di rispondermi sbuffò, come scocciato dalla situazione.
«Sto lavorando a questo caso da ormai quattro anni, da solo. Non mi hanno permesso di aprirlo ufficialmente, ma se solo riuscissi a trovare delle prove che lo possano incriminare, potrei presentarle in questura e cambiare le cose, forse. Almeno spero.»
«Allora come fai ad essere sicuro che Nathan è a capo di tutto?» - chiesi interessata. Leggevo la convinzione nei suoi occhi, ma era poco per incolpare una persona, anche se aveva seri problemi di instabilità mentale.
«Ogni edificio sorto da tre anni a questa parte, così come la ristrutturazione di questa piazza, sono a suo nome.»
«I Prescott se lo possono permettere.»
«Nathan no.»
Alla sua affermazione, mi chiese di parcheggiare la macchina in un posto lontano da occhi indiscreti, così da poter cacciare dalla tasca del giubbotto alcune foto.
«Sono riuscito ad entrare nel sistema protetto della centrale, gestito dal solo tenente. Ho trovato queste cartelle nascoste.» 
Mi porse le foto fatte.
Da queste si leggeva che il padre di Nathan, a causa della instabilità del figlio, lo aveva privato di ogni bene familiare, a partire dai soldi fino ad arrivare alla possibilità di diventare, in futuro, il capo dell’impresa di famiglia.
Era una situazione davvero assurda.
«Come fa Wells ad avere queste informazioni?» 
Mi sorse spontaneo da chiedere. Si trattava di atti privati di competenza lontana da quella poliziesca.

«Prima che questa storia venisse fuori, Nathan fu colto in fragrante mentre molestava una ragazza che aveva drogato poco prima. Ed il padre, per toglierlo dai guai, ingaggiò i migliori avvocati per patteggiare una pena di poco conto: servizi sociali per un mese.»
«E questo documento come è arrivato nelle mani del tenente?»
«Diciamo che ha “ufficializzato” le volontà del signor Prescott.» - disse mimando delle virgolette con l’indice ed il medio di entrambe mani.
«Io solo una cosa non capisco.» interruppi.
«Perché ne ho parlato con te?»
«Sei più perspicace di come ricordavo.»
«Ho bisogno di qualcuno che mi appoggi, e so quanto tu odi Nathan.»

Non che lo odiassi per davvero, ma sin dai tempi del liceo si è sempre dimostrato uno sbruffone, incoraggiato dalla sua situazione familiare.

«Ma tu odi me.»
Le parole uscirono fuori spontanee, non le avevo nemmeno pensate.

«So che dal punto di vista lavorativo mi posso fidare di te.» 
Cercò di eludere le mie parole.

«Non mi hai risposta.» 
«Il lavoro è un’altra cosa Maxine.»
«Max, mai Maxine.»
Sapeva quanto odiassi essere chiamata col mio nome per intero, ma lo fece come a sottolineare, ancora una volta, il suo totale distacco dalla Max fuori dal lavoro.

«Lo so.»
Accennai un sorriso.

«Mi aiuterai?» disse quasi implorando.
«Certo.»

Aiutare un detective in un caso nemmeno aperto.
Che bella mossa, Max - pensai fra me e me.
Non mi sarei mai perdonata un mancato aiuto nei suoi confronti.

Nel bel mezzo della nostra conversazione, il cellulare di Warren suonò.
Mentre parlava a telefono sentivo una voce profonda urlargli contro, probabilmente avevano scoperto che il mio compagno di squadra non aveva utilizzato la vettura di servizio.
Le sue gote iniziarono a farsi leggermente più rosee per l’imbarazzo poiché si rese conto della figura che stava facendo.
Liquidò la ramanzina di chi era all’altro capo del telefono e si fece dire cosa in andava.

«Una donna sulla sessantina è stata derubata nel suo appartamento.»
Spostò la mano verso la sirena provvisoria che aveva nella sua auto, quella che usava nei casi in cui era sotto copertura.
Me la porse e la poggiai, già accesa, sul tettuccio della macchina.
In pochi secondi diedi gas e partimmo veloci per aiutare la donna.

«Grazie.»

Mi disse grazie e non potevo crederci.
Per un secondo aveva messo da parte tutto il risentimento che provava verso di me, ed io ne ero più che contenta, da rispondergli con un sorriso sincero e privo di ogni dolore.
Finalmente mi sentii un po’ di più a casa.

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Capitolo 3
*** III ***


La giornata di lavoro assieme a Warren fu davvero stancante.
Aiutare signore in pericolo e tracciare nuove piste in un caso nemmeno aperto prosciuga l’intera giornata a disposizione.
Ma riuscii a trovare, nel tardo pomeriggio, un momento da dedicare a me stessa.
Sembrerà strano ma fare la spesa mi rilassava particolarmente.
Facendo un giro per la città trovai un piccolo supermercato dove fare i miei acquisti, visto che quello che ricordavo era stato chiuso.
Comperai tutto ciò che potesse essere giusto per una dieta equilibrata, tra carne bianca, verdure e frutta, ma diedi spazio anche a qualche eccezione, come una bottiglia di whisky ed un paio di pacchi di merendine da portare a lavoro nel caso avessi avuto fame.
Posai il tutto in una busta e tornai a casa, dove finalmente potevo cucinare qualcosa e cenare in compagnia della televisione.
Sarebbe stato difficile abituarmi a vivere questa parte della giornata in solitaria, visto che da quando sono andata via di casa ho sempre condiviso l’appartamento con un paio di coinquiline.
Ma se non si affrontano nuove situazioni, mai si cresce.
Lasciai alla lavastoviglie il compito di lavare i piatti e le posate utilizzate, visto che dovevo sprecare ulteriori energie per sistemare il contenuto delle mie valige fra i mobili e gli armadi della casa.
Ci misi un paio di ore ma il risultato fu soddisfacente.

Il divano nella camera da pranzo mi richiamava verso di lui come fa un pifferaio col suo serpente, ma il sonno, nonostante fosse molto, non faceva riposare le mie membra.
Così indossai il cappotto più pesante che avevo nell’armadio e scesi per fare un giro.
Il clima continuava ad essere rigido come il giorno precedente, e non mi sarei meravigliata se da lì a poco avessi preso l’influenza.
Lasciai che i piedi mi trascinassero verso una destinazione a me cara, la spiaggia di Arcadia Bay, la spiaggia che aveva visto più feste che bagnanti.
Ricordo ancora i canti delle balene che ogni tanto capitava si spiaggiassero, perdendo ogni contatto con la famiglia di origine.
Mi immedesimavo nella loro sofferenza.

 23 Dicembre, ore 01:54
 

Le scarpe col tacco che indossavo non erano le più comode per camminare sulla sabbia umida per il freddo, così le tolsi e le poggiai momentaneamente in borsa, fregandomene dei granelli di sabbia che sarebbero finiti al suo interno.
La notte, oltre al freddo, era dominata da un buio alquanto intenso, squarciato però dalla lontana luce di un focolare acceso, che mi permise di vedere una sagoma sedutagli vicina, riscaldata dal suo calore.
Cercai di avvicinarmi il più vicino, imbattendomi in una cappa formata dal forte odore di tabacco e di birra.
Ma un improvviso e pesante groppo si formò in gola.
In quella nube riuscii a riconoscere il suo profumo, invariato nel tempo.
La sagoma mi dava le spalle, ma sapevo si trattasse di quella sagoma.
Cercai di trovare un modo per avvicinarmi senza spaventarla ed inevitabilmente farla fuggire via.
Dovevo ponderare bene le mie parole ed i miei movimenti.
Non potevo allontanare di nuovo la mia migliore amica, dopo che un qualunque dio, o forse il karma, me l’aveva ripresentata sotto forma di regalo natalizio.

«Ed io pensavo che il tuo vizio del fumo fosse passeggero.» 
Una frase idiota per attaccare bottone, ma la dissi con dolcezza, sedendomi al suo fianco.
Chloe si voltò verso le labbra che avevano proferito parola, per metterle a fuoco e riconoscerle.
Si ritrovò, davanti ai suoi occhi più cristallini del ghiaccio, due labbra inaspettate: le mie.
Di scatto, più rapida di un felino, balzò in piedi dinanzi a me, spaventata e forse irritata dalla mia presenza.

«Caulfield.»
Il mio cognome fu l’unica parola che riuscì a pronunciare.
Non ebbe nemmeno la fermezza di chiamarmi per nome, l’unico che fino a pochi anni fa era capace di liberarla dalla morsa della straziante quotidianità che era obbligata a vivere.

«Non immaginavo di trovarti qui.» le dissi alzandomi e fissandola dritta negli occhi, dove vedevo riflesse solo stanze vuote, private di ogni certezza.
Non lo immaginavo perché lo sapevo.
Era il nostro rifugio nei periodi bui, e speravo che lo fosse stato per lei anche durante la mia lontananza.

«Va via.» 
Aspirò un tiro di sigaretta che poi espirò, trasformandosi in una nube di fumo le circondò il capo.
Buttò via la cicca sulla sabbia e la calpestò sotto il suo stivale destro per spegnarla.
Immaginavo fosse la fine che avrebbe voluto fare di me.
Non potevo non guardare impietosa il rancore di quel gesto.
La fiamma generata dal focolare era l’unica luce in una distesa di nero, che si rifletteva negli occhi di Chloe come a volerne fare uscire ogni fantasma nascosto.

«Ma se ti ho appena ritrovata.»

Il suo corpo si intorpidì, e non fu per il freddo della notte.
Spalancò di poco gli occhi e poi sogghignò.

«Quindi vorresti far finta che questi nove anni non siano mai esistiti?»
I muscoli del collo e della mandibola si contrassero, ed un tono di ironia prese il sopravvento nell’ultima parte della frase detta.
Serrò i pugni e buttò fuori tutta la rabbia repressa nei lunghi anni in cui non ebbe nemmeno l’occasione di ribadirmi quanto fossi stata vergognosa nei suoi confronti.

«Mi sei mancata Chloe.»
Chiusi gli occhi nel dirlo, forse per paura di vedere la sua reazione.
Fui spedita nel parlare, come quando vuoi toglierti dalla coscienza un macigno troppo pesante.
Spalancai gli occhi alla percezione di una focosa scarica di energia dritta sulla mia guancia destra.
Non mi mossi dalla mia posizione, sopportando in silenzio il riverbero delle mie azioni.

«Sei una stronza.»

Alle sue parole abbassai il volto verso la sabbia, strinsi fra i denti l’interno destro del mio labbro inferiore ed inspirai profondamente.
Una calda goccia di stilla salata cadde senza timore dalla fonte che l’aveva generata.
Aprii gli occhi e sotto i suoi, che assumono il colore del cielo in pieno tempo di neve quando aridi di sentimento puro e ricolmi di odio, presi dal portafoglio la polaroid che avevo scattato tredici anni prima.
Si trattava del primo scatto della macchina fotografica che continuo ad usare e che avevo comprato assieme a lei in una calda giornata di estate per gioco.
Non mi sarei mai aspettata che potesse diventare il mio giocattolo preferito.
Fissai la fotografia che avevo fra le mani come ad imprimerla nella mente, per non dimenticare mai il momento in cui la scattai, e la poggiai sulla sabbia ormai umida per il freddo della notte.

«Spero tu possa accettare il mio regalo di Natale, in anticipo.»

Me ne andai via con la consapevolezza che non l’avrei rivista facilmente, e con la speranza che mi chiedesse di rimanere con lei per parlare tutta la notte della vita trascorsa in questi nove maledetti anni, ma ero lo stesso contenta di quei pochi minuti in sua compagnia, che mi riportarono a vivere con la libertà di chi aveva espiato metà delle sue colpe, delle sue pene.

Amai Chloe con una intensità inaudita.
Non ho mai amato nessun altro tanto quanto lei, ma il mio era un amore diverso, non quello che propinano nei film o nelle canzoni.
Amare significa tenere così tanto ad una persona da preferire la sua incolumità alla propria, ed io avrei messo mille volte la sua vita prima della mia, senza alcuna esitazione.
Il mio era non era un amore nato dallo schiocco delle saette di Cupido, ma un amore nato dal volere della dea Mitra, che ha visto in me e nella ragazza dagli occhi glaciali i soggetti ideali per il suo esperimento.
Non credo in nessuna figura divina, me se un giorno cambiassi idea, sarei devota proprio a Mitra.
Ho sprecato il suo dono per troppo tempo.
Sono stata un disastro con Chloe.
Certe volte si sbaglia, certe volte ci si perde, altre capita di far scorrere il tempo rimanendo inermi, ma conta rialzarsi, conta saper chiedere scusa.
Ed io ho trovato il coraggio di guardare negli occhi il mio suicidio e di riportarlo fra il regno dei vivi.
Da questo primo, ennesimo incontro avuto con lei portai dietro ogni particolare, dalla suo chioma colorata con un azzurro chiaro ai suoi stivali neri alti fino a metà stinco, particolari che l’hanno cambiata e resa più forte di quello che già era.

Presi le scarpe dalla borsa e le rimisi ai piedi per tornare a casa e bere un goccio di whisky comprato nel pomeriggio.
Mi servì a riscaldarmi in una notte che aveva regalato qualcosa in più del freddo intenso.

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