Occhi di Fiume di Amantea (/viewuser.php?uid=830056)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte I ***
Capitolo 2: *** Parte II ***
Capitolo 3: *** Parte III ***
Capitolo 1 *** Parte I ***
Occhi di fiume
OCCHI DI FIUME
Lo
seppe.
Lo seppe prima di tutti gli altri.
La gola gli si riempì di acido liquido, e dovette correre in
bagno, le mani premute contro la bocca.
La moglie gli gridò dietro qualcosa, mentre la sedia
rovinava in
terra con uno stridìo sordo, ammutoliti i figli con
le posate a
mezz'asta mentre il padre arrancava, a gambe molli.
Si sentì male tutta la notte.
Dopo una settimana, o poco meno, il fiume restituì un corpo.
Fu un pescatore a trovarlo.
Il corpo si era incastrato tra le canne fitte di un'ansa, dove l'acqua
stagnava
in cerchi di alghe verdi e fisse, un che di bianco, che affiorava
sghembo dalla superficie, incoronato da una massa di capelli
fluttuante e scura.
Quei capelli lui
glieli accarezzava lentamente.
Ne respirava l'odore, trattenendoli tra le dita mentre la baciava piano
sulle labbra, prima dell'amore.
Li raccoglieva nel palmo e glieli arrotolava su un lato del collo, a
scoprire la linea dolce dell'orecchio e del viso.
Viso di bambina.
- Hai letto... povera ragazza! -.
La donna sospirò, slacciandosi la cintura del cappotto. Si
lisciò i capelli con una mano, sistemandone una ciocca dietro
l'orecchio, cercando poi il pacchetto sulla
mensola, dietro i barattoli del caffé e dello zucchero.
Aprì il cassetto, il primo, frugando tra i coltelli.
Sfregò l'accendino, trattenendo la sigaretta tra le labbra.
Chiuse gli occhi alla boccata profonda, assaporando il gusto
tra
la lingua e il palato, quasi che ancora ne percepisse l'agro e il
forte, come la prima volta che aveva fumato nel garage di un'amica, a
sera,
tra gli scatoloni di un imminente trasloco, che l'avrebbero separata
per sempre dalla sua innocenza.
Poi si voltò, le braccia conserte, la schiena appoggiata al
ripiano lucido della cucina.
- Beh, non dici nulla? Potrebbe essere tua figlia -.
L'uomo sentì di nuovo la nausea chiudergli lo stomaco.
Si tormentò la barba, facendo finta di leggere le pagine
aperte del giornale, ben spianato sul tavolo.
Non vedeva niente, in verità. Le righe nere e fitte erano
mute.
La foto in bianco e nero faceva immaginare dentro al sacco un corpo, a
riva. Intorno uomini in divisa,
sanitari per i rilievi, qualche giornalista. Nome e
cognome, l'età, un epitaffio scarno, di routine.
Non l'avrebbero mai guardata come la guardava lui.
Mai conosciuta come la conosceva lui. Non avrebbero mai potuto
immaginare il sapore della sua bocca, il colore dei suoi occhi al
pomeriggio tardo, quando si vestivano di fuoco e poi di luce. Quando
sorridevano
senza che le labbra neppure si increspassero. Quando si schiudevano e
poi si serravano, nel piacere.
- La conoscevi? -, insisté la moglie. - Forse Maurizio la
conosce. Dicono che frequentasse
l'università. Le sue compagne ne hanno denunciato la
scomparsa
dieci giorni fa, così c'è scritto. Che brutta
fine! -.
Spense la sigaretta nel lavello. - Oggi non vai da Paolo? -.
L'uomo alzò lo sguardo per la prima volta. Sembrò
non
aver udito neanche una parola. Incontrò il volto serrato
della
moglie, gli occhi truccati di grigio e rimmel nero, le
labbra disegnate dal rossetto.
Era bella e distante. Di quella distanza che si insinua talvolta negli
anni come
un confine sottile, e poi diventa voragine, senza una vera
ragione.
- Non ci siamo sentiti - rispose, invece. - Credo avesse da fare. Ma
uscirò comunque
-. Gettò un'altra occhiata rapida alla pagina, distogliendo
veloce lo sguardo da quel sacco nero sbilenco e informe.
- Sì, ti farà bene. Sei pallido. Non ti sei
ancora
ripreso da quel malessere... non ti ho mai visto stare male in quel
modo -.
Un sorriso gli si cucì sul viso: - Sarà che
invecchio -.
Gli uscì una risata sommessa, che la moglie non colse: -
Vado a togliermi il cappotto -, annuì.
E lui rimase solo.
- No, tu non puoi invecchiare -, gli aveva detto un giorno, - Non
più di così -.
Gli aveva riso in faccia, gustandosi l'espressione corrucciata di lui,
arrovesciando la testa all'indietro, quasi sguaiatamente, per poi
tornare a strusciarsi contro la sua spalla.
- Senti un po', piccola-, l'aveva apostrofata, calcando la voce, bassa,
su
quell'epiteto, girandosi su di lei, e afferrandole
i polsi sottili e fragili tra le dita grandi, troppo grandi per uno
come lui. Sapeva di pesarle un po' addosso. Sapeva che
le piaceva. Sapeva che le piaceva ritrovarsi così, indifesa.
Sua.
Senza una vera ragione.
Camminò lentamente lungo il ponte.
Dicembre era alle porte, il selciato aveva un'eco di ghiaccio sottile
sotto
alle suole. La balaustra di marmo scopriva l'altra sponda tra i pieni e
i vuoti, la si intravvedeva appena tra le colonnine panciute,
come certi paesaggi rallentati dal finestrino di un treno. Sotto
scorreva il fiume terreo e rumoroso, qualcosa d'indistinto vorticava
nella
corrente. I platani del viale erano sentinelle sbiancate delle poche
foglie ancora rimaste attaccate. Con tenacia, quasi.
Lei non l'aveva avuta, quella tenacia, forse.
Un brivido gli corse lungo le ossa. Si strinse nel cappotto, le mani
buttate nelle tasche.
Non aveva mai saputo spiegarsi come succedeva, ma tant'è, la
sentiva.
Un attimo prima che il telefono squillasse, o che comparisse in fondo
alla via. Sentiva che avrebbe chiamato, che sarebbe apparsa. E quella
sera a tavola aveva annaspato quasi stesse per affogare. Mentre lei, in
quel momento, forse, per davvero...
Il giornale non spiegava come. Quando moriamo diventiamo tutti uomini
e donne ordinari.
E lei era una ragazza normale, di famiglia normale, che faceva
cose normali.
La firma dell'articolo si era
tenuta sul vago. Si attendeva l'esito di indagini ulteriori. Il corpo nudo di una giovane donna
scatena dubbi, ipotesi, insinua scenari macabri.
Gli parve di svenire. Si avvicinò alla balaustra, si resse
forte con le mani, il busto inclinato in avanti.
Osservò ancora la forza del fiume incresparsi in superficie.
Un sapore indefinito gli salì alle labbra.
Nascose il volto sotto al cappello e proseguì.
La sera che l'aveva conosciuta stava rientrando da una cena di lavoro.
Non aveva voglia di rincasare troppo presto, e aveva fatto un giro
diverso dal solito, con l'auto, più lungo.
Era la fine di febbraio, e il freddo mordeva forte. Aveva nevicato in
quei giorni e dove non era stato sciolto dal sale il bianco si adagiava
ancora ordinatamente.
D'improvviso gli balenarono due figure lungo la via. Sbracciavano, poi
si ritiravano, spingendosi l'un l'altra. Parevano due marionette
malferme.
Rallentò, accostò. Erano due ragazze, troppo poco
vestite
per quel freddo. Si aggrappavano ridendo una alle braccia dell'altra, i
clacson le salutavano in scie rumorose.
Non rifletté molto.
- Vi serve aiuto? -, aveva tirato giù il finestrino e si era
sporto un po' perché udissero la sua voce. - Vi serve aiuto?
-,
aveva ripetuto, la voce più alta.
Una delle due gli era comparsa quasi addosso, la testa bruna
infilata per metà dentro: - Fammi vincere una scommessa -,
gli
disse. - Dammi cento euro -.
- Cosa!? -.
- Cento euro. Vedi laggiù? Quell'auto ferma dopo la curva,
tra
gli alberi? -, spiegò la ragazza, volgendo un poco gli
occhi,
perché l'uomo inseguisse il suo sguardo, nel buio
rischiarato dai
lampioni, tra le sagome dei platani del viale. - I nostri amici
aspettano di vedere cosa siamo capaci di fare. Cento euro, questo il
patto, da uno che passa con la macchina, e senza neanche farci toccare.
Altrimenti ci avranno loro, tutta la notte, e gratis
-.
Aveva sorriso in un modo così disarmante che l'uomo
aveva pensato a uno scherzo da goliardi ubriachi.
- E non vi rendete conto di quanto sia pericoloso questo gioco? Che
qualche sconosciuto potrebbe caricarvi in macchina per davvero? -.
La ragazza non sembrò molto impressionata. Restò
a
guardarlo con le belle labbra schiuse in un'espressione sospesa, e
rincarò: - Allora, me le dai cento euro? Così ce
ne
andiamo a casa? Inizio ad avere un po' freddo... -.
L'uomo si era raddrizzato sul sedile e aveva ingranato la
marcia: - Togli la testa da lì, che me ne vado -.
- No! -, uggiolò lei. Allungò una mano e gli
serrò
il braccio, il collo piegato tra le spalle. - Ti prego -, lo aveva
implorato.
Si era fatta improvvisamente seria, e gli occhi le sierano scuriti in una
tinta indefinita.
- Ti prego -, ripeté. - Prestameli soltanto. Uno come te ce
li ha in
tasca, lo so. Li conosco i tipi come te -. Tirò su con il
naso,
il freddo le stava salendo rapido lungo la pelle, e sembrava ci fosse
anche
altro in quei brividi, un che di frammisto alla paura e all'urgenza. -
Te li
restituisco. Dimmi dove abiti e te li restituisco. Anzi no, porti la
fede -, si era corretta. - Meglio di no. Vieni tu a riprenderteli a casa
mia -.
Lo vide esitare, scuotere la testa deciso: - Voi siete matte, e io
più
di voi che vi sto ad ascoltare -.
Tacque, per quello che alla ragazza sembrò un
tempo lunghissimo.
Poi dalla tasca estrasse il
portafoglio, e da quello i soldi.
Vide gli occhi della ragazza brillare di luce viva e calda.
- Via degli Abruzzi 5... vieni a riprenderteli -.
La ragazza scivolò via dal finestrino, aveva preso per mano
l'amica ed era corsa verso l'auto che aveva indicato poco prima.
L'uomo si dette dello stupido una decina di volte. Poi
affondò sul pedale e le gomme gemettero, quasi slittando.
Imprecò a denti stretti. Non
lo faceva mai.
Aprì la porta senza fare rumore.
C'era odore di cucinato, quello buono, della domenica. E i soliti
tramestii familiari, di quando erano tutti a casa.
Vide senza bisogno di guardare la moglie indaffarata intorno al forno e
le stoviglie, il figlio grande sdraiato sul divano perso nel
cellulare ascoltando la televisione, e la figlia in camera, intenta a
parlare con le amiche fingendo di leggere qualcosa. Nessuno si accorse
del suo rientro. Da piccoli i figli gli si sarebbero gettati al collo,
ma adesso... adesso Maurizio era più alto di lui, e Agata lo
abbracciava solo per le ricorrenze, o se aveva da strappargli un
consenso
sfidando il diniego della madre.
Si tolse il cappotto, entrò nella sala. Chiese, senza
riflettere: - Conoscevi quella ragazza... ? Quella del fiume? -.
Il figlio girò gli occhi e la testa tutta: - Ah, sei tu
pà -. Si risistemò sul divano, il braccio flesso
dietro
la nuca. - Brutta storia, quella. Non frequentava molto
l'università. Qualche lezione, ogni tanto, la biblioteca...
-.
L'uomo annuì. Rimase in piedi, gli occhi alla tenda
illuminata
dal sole d'inverno di un giorno quasi a metà. - Tua madre
era
preoccupata fosse una tua amica -.
- Amica? Boh, domani vado in facoltà, sentirò
cosa si dice in giro -.
La voce della madre irruppe per richiamarli a tavola. Persino Agata,
chiusa nella sua stanza, la udì.
Era rimasto a guardare l'edificio di sotto in su per una buona mezz'ora.
Una palazzina anonima tra palazzine anonime, ornate di piccole siepi e
cancelli di ferro dipinti di bianco.
Erano passati diversi giorni dall'incontro assurdo di quella sera. E in
realtà non gli interessava molto il denaro. Forse voleva
solo verificare quanto fosse
stato raggirato, cosa di cui era altamente convinto.
Al numero civico 5, il cancellino era socchiuso. La strada era deserta,
lo spinse. La ragazza avrebbe potuto benissimo essere
fuori, ovunque. O abitare altrove. C'erano sei campanelli a sinistra
dell'ingresso, sotto al portico. Stava per suonare all'unico in bianco,
senza cognome, quando
una signora uscì. Era una donna minuta, di un'età
indefinibile, ma certo anziana, nonostante il piglio nervoso con cui
aveva varcato la soglia. Si squadrarono sorpresi per alcuni istanti.
- Sto cercando una studentessa, amica di mia figlia, non so bene a
quale piano... -.
- Sara? -.
- Sì, Sara... moretta -, rischiò.
- Abita al secondo piano. La porta senza nomi. Lei mi pare un uomo
dabbene, le ricordi per favore che sono due mesi che non mi paga
l'affitto! -, sottolineò, avviandosi lungo il vialetto, le
gambe
veloci e magre sui tacchetti incerti di un paio di scarpe nerissime,
che spiccavano sulle calze chiare e il soprabito color cammello. -
Forse a lei, che è padre della sua amica, darà
ascolto.
Io non so più come fare con queste giovani! -.
L'uomo si richiuse il portone alle spalle. Salì
lentamente
le scale. La testa si stava svuotando di ogni pensiero mentre qualcosa
nel petto accelerava.
Suonò. Attese.
Osservò lo zerbino, e poi certi segni sul
muro. Si perse nella trama irregolare del legno lucido, striato di
chiaro, della porta. Non sapeva neanche se era lei. Sara.
Suonò di nuovo. Attese.
Dette uno sguardo al piccolo ballatoio e
alla porta che spiccava poco distante, con la targa del cognome in
corsivo ben impressa nell'ovale dorato. Illeggibile da quella
distanza.
Suonò. Fece per andarsene, ma il legno si schiuse.
- Chi è? -. Aveva il catenaccio tirato. Uscì solo
la voce.
Chi era!? L'uomo che gli aveva dato cento euro venerdì sera,
ecco
chi era. Il tipo pazzo che si era fermato mosso a pietà da
due
ragazze infreddolite.
- Sono quello dei soldi. Il tipo della macchina -.
Sperò che la descrizione fosse sufficiente. Che quella fosse
stata l'unica volta in cui quelle ragazze avevano fatto una scommessa
così deficiente, di notte, per strada. E che di notte, per
strada, mezze svestite, proprio non ci stessero mai.
La ragazza riaccostò, la sentì armeggiare con la
catenella, e riaprire.
- Non pensavo che saresti venuto -.
Lasciò che entrasse. Che lo investisse il disordine dei
libri sparsi
su una specie di divano-letto aperto e sfatto, degli indumenti gettati
da una parte, delle scarpe tirate in un angolo. Che osservasse le tazze
sporche, in bella vista sul ripiano della
cucina, e il secchio dell'immondizia quasi colmo. Che
valutasse senza neanche muovere la testa, ma solo abbracciando tutto
con un sol sguardo, la sua vita racchiusa in quelle due stanze.
Soltanto alla fine i suoi occhi si posarono su di lei.
La notte non le aveva reso giustizia.
Era bella e fresca, di quella bellezza semplice che hanno le ragazze
alla sua età. Se ne stava appoggiata a una parete, con le
braccia conserte, scostante.
- Mi hai detto tu di venire a riprendermi i miei soldi -, la
informò, pacatamente.
- Sì, l'ho detto -. Si passò le mani tra i
capelli, quasi
stesse cercando di ricordare qualcosa. Il maglione troppo aderente, a
quel gesto, le scoprì la pancia, sui jeans troppo bassi.
Sospirò, poi finse di cercare qualcosa tra i libri buttati
sul
letto. Ne uscì un portafoglio, di quelli colorati, con mille
cerniere, da donna. La ragazza lo apri, frugò.
- Non ce li ho più, mi spiace -. Lo disse con noncuranza.
Con un tono che non ammetteva repliche, frettoloso, come se l'uomo non
fosse più lì, in piedi, chiuso nel giaccone, e il
cappello, ma altrove, molto distante da lì.
Poi qualcosa sembrò scuoterla, sorrise: - Però ti
posso fare un caffè, se vuoi. Lo vuoi? -.
- Agata, fai tu il caffé? -.
Agata sorrise al padre. Da qualche anno era il suo compito, a fine
pranzo della domenica. Le piaceva aspettare che il caffé
uscisse
dalla moka, scegliere le tazzine, la zuccheriera, i cucchiaini,
allestire il vassoio, e portarlo a tavola. Le piaceva quel momento in
cui da sola in cucina preparava tutto, dosando la polvere, e l'acqua.
- Pà, dopo mi accompagni in centro? Mi aspetta Luisa -.
Il padre annuì, accompagnare la figlia, e poi andarla
a riprendere, era una consuetudine che si era instaurata sin dai tempi
della terza media, e continuava anche allora che la ragazza stava
finendo il liceo. Non sarebbe durata ancora a lungo. Ma Agata era
così. Ancora bambina rispetto alla maggiorparte delle sue
compagne. Maurizio invece usciva da solo, la sera, e tornava tardi. Ma
i maschi sono così. Crescono prima, a volte, ed è
un attimo lasciarseli sfuggire, soprattutto se iniziano ad avere il
loro giro di amiche.
L'uomo li osservò ancora un poco, sorseggiando il
caffé.
Sorrise, ascoltando i loro discorsi, quelle battute rapide che si
scambiavano, quasi vivessero su due pianeti distinti e ogni tanto
entrassero in collisione, per puro caso.
Osservò anche la madre, l'aria distratta con cui stava
raccogliendo i piatti dalla tavola, i pensieri affissi
chissà dove.
E poi provò a percepire se stesso, in quel quadro.
Da mesi non ne faceva più parte.
Recitava il suo ruolo, imparato a perfezione in anni e anni di
praticantato matrimoniale, tanto che nessuno lo avrebbe detto diverso.
Socchiuse gli occhi, finse di vedersi dal di fuori.
Vide un uomo di mezza età, i capelli non più del
tutto bruni, la barba brizzolata, il maglione sulla camicia, e sotto a
quella il torace, e più sotto ancora il cuore che pulsava, e
che rallentava, e si perdeva, e il desiderio snidato che risaliva come
una macchia di inchiostro, e si spandeva, si spandeva e lo uccideva, lo
uccideva lentamente.
Il desiderio di lei, di Sara, di lei che non era più, di lei
che si era ammazzata, di lei con quei suoi occhi enormi e tristi, che
lo divoravano da dentro lentamente, inesorabilmente, occhi di donna.
Occhi di fiume.
______________
Grazie a chi leggerà e seguirà la mia storia.
Sarà divisa in due o tre parti, è già
scritta, ma devo decidere come presentarla :)
Grazie a chi lascerà il suo commento, e a chi
resterà in silenzio.
Amantea
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Parte II ***
Occhi di fiume
OCCHI DI FIUME
Accettò il caffè.
Accettò senza immaginare.
Accettò senza poter prevedere le mani rapide che gli
avrebbero slacciato il cappotto e tirata via la maglia.
Accettò senza poter impedire di ritrovarsela addosso, su
quel
letto sfatto e ingombro, urgente e decisa, come una scadenza fissata da
tempo, prendersi tutto quello che voleva, senza nessuna tenerezza.
Quando alla fine si alzò, nuda, non gli rivolse neanche una
parola. Afferrò il maglione e lo infilò.
Frugò nel
cassetto del comodino, trovò una sigaretta e un accendino,
lo usò, chiudendosi alle spalle la porta del
bagno.
L'uomo capì immediatamente cosa fare. Non c'era bisogno che
si dicessero alcunché.
Quando la ragazza uscì, la stanza era vuota. Se n'era
andato.
C'erano dei soldi, sul comodino, sotto alla lampada, e un pezzo di
carta, scritto a matita: "Per l'affitto". Sul retro, un poco storto, un
numero di cellulare.
Non si aspettava quella chiamata.
Era a lavoro, in ufficio. Il collega Paolo era appena rientrato dalla
riunione con gli architetti e l'impresario.
- La prossima volta vai tu,
Damiano, perchè io proprio non li reggo -,
sbuffò,
gettando sul tavolo gli incartamenti di una mattinata di incontri,
mentre il telefono aveva iniziato a vibrare cupo sulla scrivania.
Paolo lo vide esitare. - Beh, perchè non rispondi? - lo
incalzò.
L'altro rispose con un mezzo sorriso di circostanza: - No, non
è importante. Richiamerà. Adesso raccontami come
è andata -.
Per pranzo Damiano disse di avere un impegno. La telefonata di
prima, doveva vedere una persona. Paolo non chiese nulla. Lo
conosceva da troppo tempo per fare domande. E poi si sarebbero rivisti
in ufficio, tra neanche un'ora.
L'amica di Sara lo aspettava, come d'accordo, fuori dal piccolo
Bistrot.
Era la ragazza di quella sera lungo la strada, di notte. Era anche la
ragazza con cui Sara divideva l'appartamento dell'anziana affittuaria.
Aveva il viso ancora segnato dal lutto, la pelle tesa.
- Ciao Elisa -.
- Ciao, Dami. Non ho molta fame, ma qui si sta al caldo e si
può parlare -.
Aveva parlato velocemente, le mani nervose nascoste nell'incavo delle
braccia.
L'uomo annuì, le aprì la porta. La scelta cadde
su un
piccolo
tavolo ad angolo. Una cameriera aveva già appoggiato due
menu sorridendo.
Damiano sorrise a sua volta, porgendone uno alla ragazza, sapendo
bene che non erano lì per consumare alcunché.
- Hai letto il giornale di oggi? -, la sentì esordire,
sganciandosi la zip della giacca.
- Solo di sfuggita -.
La
ragazza si guardò
intorno. Era pieno di gente, avrebbero potuto parlare senza che nessuno
si accorgesse di loro. Ne sembrò rincuorata, e
proseguì.
- Tu devi dirmi che ci faceva
Sara in quel fiume,
perché io non
me ne faccio ancora una ragione -. Lo fissò
con occhi
improvvisamente liquidi, senza tuttavia liberare neanche una lacrima.
Le labbra erano un'unica
linea di matita rosso scuro, tanto erano tirate nello sforzo
di
controllare l'emozione che sembrava voler spazzare via quel
viso
da un
momento all'altro.
Il fiume... il giornale titolava a caratteri grossi come
lividi che i
vestiti della ragazza non erano stati ritrovati. Che non c'erano ancora
cause certe per quel decesso. Che gli inquirenti non escludevano
nessuna
ipotesi. Nessuna.
Giornalisti con la bava alla bocca aggrappati a un fatto di cronaca
terribile come non accadeva da anni in quella tranquilla
città di provincia.
- Non era stata con me quella domenica. Non ci eravamo visti. Non come
al solito -.
Elisa sprofondò la fronte tra le mani.
- C'è una cosa che non ho mai sopportato di te -,
annunciò, quando il volto riemerse dalle dita che lo avevano
nascosto fino a qualche istante prima, - ed è questa tua
calma
del cazzo -.
L'uomo non si scompose.
- Sì, proprio questa. Questo tuo restare impassibile,
solido,
come se nulla ti sfiorasse, mai. Te ne vai in giro con questa tua bella
faccia perbene, e intanto Sara è morta.
Tu te la scopavi di brutto, e lei è morta. Forse l'amavi,
forse
no, e lei è morta
-. La voce incrinata in un crescendo drammatico, senza cedere.
- Elisa... -.
La ragazza gli rovesciò addosso uno sguardo denso come la
pece.
- Elisa... io non c'entro con la sua... con... -.
Non riuscì a finire la frase, perché la ragazza
si era alzata dal
tavolo e se n'era andata. Non avrebbe proprio potuto udire
quelle parole. Non
da lui.
L'uomo restò qualche minuto in silenzio, fissando il posto
vuoto
di fronte, la sedia rimasta di traverso, la tovaglia increspata
nell'angolo in cui Elisa aveva puntato la mano per sollevarsi di scatto.
Questo tuo restare
impassibile, solido, come se nulla ti sfiorasse mai.
Si sporse con il busto per raddrizzare la sedia. Lisciò con
una
mano la tovaglia a quadrettini bianchi e blu, tirandola leggermente
dall'angolo opposto. Prese il menu, lo apri.
Te ne vai in giro con questa tua bella
faccia perbene, e intanto Sara è morta.
Fece finta di leggere la lista
di portate e prezzi, in un bel carattere corsivo, sulla carta spessa,
color ghiaccio.
Forse l'amavi, forse
no, e lei è morta.
Fece un cenno alla cameriera,
quando si accorse che guardava nella sua direzione, con quel bel viso
solare e il grembiulino bianco. E ordinò.
- Come fai a essere sempre così calmo? -, gli aveva chiesto
Sara una volta.
- Io non sono un tipo calmo -, aveva ribattuto Damiano sorridendo. -
Cosa te lo fa credere? -.
- Quello che vedo. Potrebbe venirti addosso una montagna e tu non ti
sposteresti di un centimetro -.
- Beh, allora, più che essere un tipo calmo,
sarei un tipo
idiota -.
La ragazza era scoppiata a ridere. Rideva ancora, mentre lui aveva
iniziato ad accarezzarle il viso, con le nocche.
- Mi piace quando mi accarezzi così -.
- Così come? -.
- Così come se avessi paura di farmi male. Così,
come se
fossi una cosa preziosa-.
- Lo sei -.
Lo pensava veramente.
- Tu sei
preziosa. Neanche te
ne accorgi di quanto sei bella. Della forza che hai. Dell'entusiasmo
che trasmetti con quel modo tuo di guardare le cose, o di come splendi
tutta
quando qualcosa che ti appassiona -.
La ragazza aveva continuato a guardarlo, l'aria un po' sospettosa, o
semplicemente incredula, come chi sta ascoltando una storia
che
non gli appartiene.
Gliel'aveva un po' abbozzata, la sua vita complicata. A pezzi, a
sguardi, a mezze
frasi, buttate là, come sassi contro un vetro,
a fare
rumore,
impressionarlo. E invece lui era rimasto. Ed era tornato, ogni
volta. Ogni volta aveva ascoltato, accolto, ciò che lei
tirava
fuori, quasi a caso, come da un cappello magico rotto. Si era
lasciato colpire da quei sassi, ma non frantumare, mai.
- Non c'è niente di così terribile che non si
possa sistemare -, le diceva.
Neanche un padre alcolizzato che per poco non aveva mandato all'altro
mondo sua madre.
Neanche un fratello perduto lungo la vita, o i soldi che non c'erano
mai.
E così le raccontava della depressione in cui era caduta la
moglie dopo la prima gravidanza. Di quel neonato che non dormiva mai,
del latte che non riusciva a saziarlo né a crescerlo a
sufficienza, delle nottate a vegliare il
piccolo e poi la madre, in lacrime. Di come la sentisse lontana,
assente, spersa in qualche baratro da cui non riusciva a risalire. Di
come lavorasse da casa pur di
stare loro vicino, e di come, a un certo punto, avessero intravisto
l'uscita da quel tunnel
infinito. Ne portava appuntato addosso l'orgoglio, quasi fosse una
mostrina al valor militare. Lentamente,
sottolineava, che in queste cose ci vuole tempo e pazienza,
come in battaglia, ma la vittoria sul buio si era fatta via via
più reale, la paura si era allontanata, si era fatta
piccola, gestibile, e poi infine fosse scomparsa.
Le era stato a fianco, l'aveva sostenuta, era stato
presente. Non si era arreso, lui. Neanche di fronte alle ricadute, che,
dicevano, erano normali in casi del genere.
E così intendeva fare con lei. Non aveva nulla da temere.
Nulla.
Il destino aveva voluto che quella sera incontrasse quelle due
ragazze lungo la strada. Al destino ci credeva.
Doveva esistere un perché per tutto ciò che
accadeva
nella vita.
In fondo, quando credi, ciò in cui credi diventa vero.
- Oggi in Facoltà è venuta la polizia -.
Maurizio continuò a masticare con gusto la pasta che la
madre
gli aveva messo nel piatto. Infilò con la forchetta quei
rigatoni che colavano sugo da ogni parte, abbassando la testa
per non
sporcarsi, l'altro gomito ben poggiato sul tavolo, e poi
alzò
gli occhi verso il padre, che la pasta, di sera, non la mangiava mai.
- Mh -. Damiano non riuscì a dire altro.
- Credo per acquisire dei dati su quella ragazza e fare qualche domanda
-.
- E
perché direttamente in Facoltà e non in
Questura? -.
Maurizio rimase con la forchetta sospesa tra il piatto e la bocca.
- E io che ne so? -
Il padre sorrise.
- Sei tu l'esperto di tutti quei serial polizieschi, no? -,
svicolò con stile.
- Già. Tu sei fermo all'ispettore Colombo, invece -,
ridacchiò.
- Non era un ispettore. Era un tenente.
Ce lo avrei proprio visto capitare all'Università a fare
domande, vi sareste divertiti. Ma oggigiorno... -.
- Magari hanno avuto una soffiata -, proseguì il ragazzo
raschiando il fondo della ceramica, fino a farlo tornare bianco.
- Su cosa ... ? -
- Sulla droga che circola all'Università -.
- Voglio che tu sia onesto con me. Non chiedo molto, voglio
che tu sia onesto con me -.
Erano andati a fare un passeggiata lungo l'argine, a primavera. Non
c'era quasi nessuno a quell'ora. Un paio di biciclette li superò,
da un
cestino sbucò un cagnolino scuro, il muso dritto. Sara lo
seguì con lo sguardo, mormorò qualcosa.
Il verde era fresco, rinnovato dalle prime piogge tiepide. Se
l'occhio si spingeva tutto intorno poteva abbracciare la periferia
della città, e il cielo sgombro, appeso, là
sopra. Poche
nuvole sfilacciate e mobili, trafitte dal
vento, parevano
attraversate da una incerta, umana inquietudine.
- Sì -, mormorò l'uomo.
Lei allungò il passo, sembrò scrutare
l'orizzonte, o forse era semplicemente altrove, inafferrabile a quel
punto.
Il fiume scorreva al suo posto, nell'incredibile prodigio di sembrare
fermo.
- Tu non sei nata qui -, le disse. - Eppure hai qualcosa di questo
fiume e di questo paesaggio -. Quel qualcosa di indecifrabile che hanno
le cose quando stanno ferme troppo a lungo.
- Devi essere onesto con me -, ripeté.
- Sì -, ripeté con lei.
Non chiese altro.
Gli parve che sorridesse. Che per un istante quei grandi occhi verdi si
fondessero con la tinta dei campi, che frusciassero, al pari delle
canne smosse, una melodia d'altri mondi.
Forse era solo il suo cuore di uomo. Il suo cuore che batteva un ritmo
non solo suo, non del tutto suo. Come se avesse rubato qualcosa a un
altro petto, di nascosto, e nel silenzio li si potesse sentire ancora,
entrambi.
La ragazza gli s'accostò d'un tratto. Gli sollevò
una manica, si nascose nel suo abbraccio.
- Tienimi qui -.
- Ti tengo -, sorrise, anche se qualcosa di scuro gli
attraversò gli occhi. - Non ti lascio andare da nessuna
parte senza di me -.
Fu appena un soffio: -Sì -. Mentiva.
***********
Grazie di cuore a chi c'è, legge, commenta, segue,
preferisce, ricorda... Grazie di cuore a chi in silenzio mi accompagna.
Un abbraccio
Amantea
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Parte III ***
Occhi di fiume
OCCHI DI FIUME
E invece se ne andava.
Spariva, ogni tanto. Per giorni non si faceva sentire.
Damiano avvertiva un vuoto nello stomaco, un capogiro, e senza sapere
nulla intuiva che qualcosa stava succedendo, e non era qualcosa di
bello. Allora la cercava, si attaccava al telefono, e la chiamava. A
volte, per decine di volte, squillava a vuoto, per risultare infine
fissamente spento. E lui insisteva, insisteva, serrando le mascelle
fino a farsi male ai denti, gli occhi buttati su quello schermo che non
gli dava alcun conforto.
Poi Sara tornava. Gli mandava un messaggio, poche sillabe in fila che
non spiegavano nulla. "Sono a casa", "Vieni".
L'uomo inventava una scusa, usciva con una calma improbabile, il
sorriso appeso a mezz'asta. Una scusa che la moglie accettava come si
accetta qualcosa che accade e non si comprende, ma tant'è.
Con il cuore impazzito volava da lei.
Se Elisa era in casa li lasciava soli. Lo squadrava (sì, li
sentiva addosso quegli occhi che lo squadravano) e toglieva il
disturbo, lasciando poche raccomandazioni silenziose, e un bacio sulla
guancia di Sara.
Damiano si gettava sul viso della ragazza, lo raccoglieva tra i palmi,
lo accarezzava.
"Stai bene?". Scrutava in quegli occhi senza fondo, nel pallore che gli
zigomi sfilati gli rimandavano, nella magrezza malcelata da una maglia
sempre più larga.
Non vedeva. Non riusciva a vedere.
Non riusciva a sopportare la deriva lenta che trascinava Sara lontano,
in un luogo dove lui non poteva raggiungerla.
Una grotta di vento e ombre che rimandava all'infinito un'eco distratta
e spenta.
"Stai bene?".
Ma lui non capiva. Non riusciva a capire.
Non era il sesso.
All'inizio ci aveva quasi creduto che fosse quello, il punto.
La prima volta che con disperazione si era gettata tra le sue
braccia, prendendo ciò che voleva, e lasciandolo
svuotato e colmo al contempo -colmo di lei e svuotato di ogni
ragionevole certezza- aveva pensato che sarebbe finita lì.
Una voglia levata, una sbandata, un accadimento irrazionale.
Ma Sara non cercava quello da lui. Diceva di avere una specie di
fidanzato, un ragazzo che frequentava l'università, e con
cui usciva. Uno con cui farsi vedere al bar, o nei cortili della
Facoltà, nei quarti d'ora accademici. Uno con cui litigare e
fare scenare nell'androne sotto casa, e poi fare pace, altrettanto
furiosamente, contro un muro in penombra, in qualche vicolo. Uno a cui
il sesso non bastava mai.
Devi essere onesto con me.
Sono sposato, lo sai...
Non importa. Sei un uomo perbene.
C'era sempre la stessa muta domanda negli occhi della ragazza, dopo che
avevano fatto l'amore. Lei rimaneva immobile, il respiro spezzato,
sotto di lui, e lo guardava. Una domanda che Damiano sfiorava appena.
Non riusciva a collocarla, a coglierla. La sentiva, come un presagio,
ma non trovava le parole.
Non le trovò in tempo. Fu come non averle trovate mai.
La telefonata della Questura lo colse di sorpresa.
Era a lavoro, seduto su uno sgabello al piano inclinato dei progetti,
assieme a Paolo. L'amico lo vide impallidire, rispondere a monosillabi
impacciati.
Aspettò che gli spiegasse qualcosa, invece Damiano taceva,
ottusamente, cercando di mettere il telefono nella tasca della giacca,
senza riuscirci. Tremava un poco.
- Beh? -, dovette sollecitare, la voce brusca suo malgrado. - Vuoi
spiegarmi che succede? -.
Damiano provò a guardare il foglio dispiegato sotto ai suoi
occhi, le linee sottili blu e rosse si incrociarono senza
pietà, divennero spirali liberty senza senso alcuno.
- Era l'Ispettore capo della Questura -.
Silenzio.
Un ostinato, indicibile silenzio.
- E allora? -.
- E allora devo recarmi a colloquio con lui... lei... con l'Ispettore
capo... si chiama Luisa Berretti .
Silenzio.
Ancora, denso e agre come fumo.
- E che vuole da te? Non per quel cantiere, vero... -,
mormorò allarmato Paolo. - Non abbiamo
responsabilità lì, abbiamo messo tutto in mano
agli avvocati e ... -
- No no, il cantiere non c'entra nulla, stai tranquillo. E'... una
faccenda personale -.
- Personale? -. Paolo esitò. Scrutò l'amico, il
pallore che non era ancora svanito dal suo volto, né dalle
mani insolitamente nervose.
- Se hai fatto qualche cazzata voglio saperlo. Come amico: pretendo di
saperlo -.
- No, niente cazzate Paolo -. Con un gesto Damiano si era affrettato a
cancellare quella parola molesta dal breve spazio che li divideva,
quasi a scacciare un insetto.
Ma gli occhi dell'amico insistevano. Scrutavano senza sosta le linee
incerte della fronte, sembravano osservare ogni pelo della barba, ogni
sbaffo di grigio tra i capelli. Pensò che gli dicesse
qualcosa del tipo A
cinquant'anni che cazzo hai combinato, Dami?, e invece ne
uscì appena un: - Allora, me lo dici o no? -.
Se non ne avesse parlato sarebbe rimasto senza fiato, come quella sera
a casa. Strozzato dal suo stesso rimorso.
- E' per quella ragazza... Quella del fiume -.
Paolo tacque. Ascoltava.
- La conoscevo... Non sto a raccontarti come, ma la conoscevo.
Poiché le circostanze della morte sono, a quanto mi risulta,
ancora piuttosto misteriose, cercano di interrogare quanta
più gente la conoscesse... Così ho capito io... -.
Paolo si strofinò energicamente la fronte con le dita,
socchiudendo gli occhi. Gli uscì solo un mugugno poco
convinto.
- Tutto qui? -, chiese infine.
- Sì... -.
- Puoi essere in qualche modo coinvolto in quella vicenda? -.
Paolo non riuscì a trattenere quella domanda. Gli
sfuggì dalle labbra come un ringhio. Non si capì
bene se era la preoccupazione per l'amico, per il loro Studio
associato, o per entrambe le cose.
Damiano lasciò che la domanda scivolasse via, senza
ribattere alcunché.
- E quando hai l'appuntamento? -.
Stavolta rispose. Era una domanda pacifica, e lecita.
- Domattina, alle 11. Una chiacchierata informale, non
si preoccupi, mi
ha detto -.
Non gli chiedeva mai soldi. Ricordava da solo la data di scadenza
dell'affitto, e qualcosa in più gliela comprava lui. Una
felpa, un libro di testo, per non riempire la casa di fotocopie da
rilegare, ché i fogli si perdevano e poi non tornavano
più al loro posto. Era come aiutare un'amica in
difficoltà, una persona cui si vuole bene. Damiano non aveva
mai detto di no a chi in passato gli aveva chiesto aiuto. Era una sua
debolezza, non resisteva. Arrivava fin dove poteva, ma aiutava. Si dice
che l'amore può quel che non possono i soldi: cercava di
metterci entrambi, che a volte i soldi servono davvero e l'amore non
basta. Almeno, questo era quello che aveva sperimentato, nella sua vita.
Non lasciava tracce da lei. Non c'erano biglietti. A parte il primo,
che forse lei aveva buttato, dopo aver memorizzato il numero, o forse
no.
Se avevano trovato il cellulare di Sara, c'era tutta la loro storia
là dentro.
Se l'Ispettore capo Berretti aveva già ascoltato Elisa,
allora sapeva già tutto.
Non si preoccupi.
Lungo il tragitto verso la
Questura cercò invano di organizzare una linea
difensiva.
Non riusciva a staccare la mente dai figli, dalla moglie e dall'amico
-nonché socio- Paolo.
Purché non trapelasse nulla da quelle mura sarebbe stato
pure disposto a raccontare ogni cosa. Ogni cosa che potesse seppur
lontanamente servire a dare un senso alla morte di Sara, se mai la
morte ha un senso.
L'Ispettore capo Berretti lo aspettava seduta alla sua scrivania. Un
piano completamente ricolmo di carte e certelline, tanto che il legno
non si vedeva più. Un portatile era aperto in un angolo,
l'unico sgombro da incartamenti. Un portapenne in ceramica con la
scritta "Saluti da Ischia" -un isolotto verdeggiante immerso in onde
blu, dipinto a mano- resisteva sbilenco su un faldone stracolmo.
Damiano lo osservò qualche istante, prima che la donna si
alzasse in piedi per stringergli la mano. Una stretta energica quando
rapida.
- Benvenuto signor Crespi. Prego! -. Indicò una sedia in
pelle. Damiano si sedette.
In un altro punto del luminoso ufficio, un appuntato, seduto ad un
computer, ricopiava dei fogli.
La donna intuì il suo disagio: - Non facciamo verbali oggi,
non si preoccupi. E' solo una chiacchierata, come le avevo
già anticipato telefonicamente -.
Sistemò gli occhiali e ravvivò i capelli folti
con una mano, prima di prendere una cartellina dal mucchio che aveva di
fronte. La scelse con cura, riponendo nella pila una che non era quella
giusta, di colore celeste.
Damiano non vide cosa c'era scritto. C'erano diversi fogli stampati
all'interno, e una foto. Pregò che non fosse una di quelle foto. Ma
l'Ispettore non disse e non mostrò nulla.
- Dunque Lei conosceva Sara Manganelli.
Gli occhi si sollevarono fino a entrare nei suoi.
- Sì -.
La voce uscì un poco incerta, ma uscì.
- Bella ragazza dicono. La sua compagna di appartamento mi ha
portato una foto che le ritrae insieme ad un compleanno. Sembrava
felice -.
La donna sospirò, ruotando la testa assieme alla foto che,
con pollice e indice, aveva fatto ruotare a sua volta all'interno della
cartellina.
Damiano non disse nulla. Cercava di trovare un filo nella matassa dei
pensieri che gli si accalcavano nella testa, e non lo trovava. Non lo
trovava neanche tra le parole dell'ispettore, e questa
incapacità di aggrapparsi a qualcosa lo faceva sentire
alquanto spaesato.
- C'è qualche motivo particolare per cui pagasse loro la
retta dell'affitto? -.
La donna sollevò di nuovo gli occhi, e di nuovo
puntò dritto ai suoi, entrandoci con decisione.
Damiano alzò un sopracciglio. Non si aspettava una domanda
così diretta.
- C'era qualche legame di parentela fra voi, o tra lei e la signorina
Elisa Ciacci? La coinquilina di Sara, intendo? -.
- No, nessuna parentela. Nessuna, no -.
L'Ispettore lasciò la cartellina sul tavolo e
lasciò che lo sguardo vagasse per alcuni punti imprecisati
della stanza. Intanto le sue labbra si increspavano in minuscole
smorfie, quasi vagliassero e scartassero possibili risposte.
- Le avevano chiesto aiuto? Le signorine erano in difficoltà
economiche? Riceveva qualcosa in cambio per questa, regolare, dazione
di denaro? -.
La donna tornò di scatto sulla cartellina, girò
alcuni fogli, scorse alcune righe, fino al punto che le interessava,
che lesse con intonazione impeccabile: - "Il signor Damiano ci ha lasciato
i soldi dell'affitto per quasi otto mesi. Dico quasi perché
l'ottavo mese scade a giorni" (è già
scaduto in realtà, la settimana scorsa), ecc. ecc. -.
Terminò la lettura e gli lanciò la domanda
diretta:
- Ha provveduto a versare anche questo mese la quota dell'affitto alla
signorina Elisa Ciacci? -.
Damiano restò come inebetito. Se ne era completamente
dimenticato, di quella scadenza. Sara non c'era più, lui non
era più tornato in quell'appartamento. L'ultima volta che
aveva visto Elisa, alla panineria, non era stato un incontro felice e
non l'aveva più sentita da allora.
- Me ne sono dimenticato, in verità... Sa, la morte di Sara,
ha lasciato tutti talmente frastornati! Me ne sono dimenticato -.
Abbassò gli occhi. Desiderò essere altrove. Per
l'ultima volta, magari in quella stanza, o lungo l'argine, con Sara al
suo fianco, viva e bella come qualche settimana prima. Viva.
- Signor Crespi... Mi corregga se sbaglio: lei è un libero
professionista piuttosto stimato in città. Ha famiglia, due
figli, d'età con Sara o quasi -.
Agata era molto più piccola, ma non disse nulla. Non era
importante.
- Non crediamo che lei abbia una qualche responsabilità in
questa faccenda. Mi creda. Non è indagato, non è
neanche sotto Inquisizione-, sorrise. - Non sarebbe neanche il primo
uomo sposato che ha una relazione con una ragazza più
giovane, non è un reato neanche questo -. Sorrise di nuovo.
Forse lo scopo era cercare di stemperare l'atmosfera che il volto
pallido di Damiano tradiva pesantemente.
- Lei lasciava quasi il doppio dei soldi che servivano effettivamente
per l'appartamento. Lo sapeva questo? Se lo scopo era pagare l'affitto
alle ragazze, per motivi che ignoriamo e che al momento non
sono rilevanti, ma che deduco fossero in relazione
più alla signorina Sara che alla signorina Elisa,
è giusto e doveroso che lei sappia che le venivano estorti
più soldi del dovuto -.
La parola estorti
gli si conficcò nel petto come una lama.
- La signorina Manganelli la ricattava in qualche modo? Minacciava di
rivelare qualcosa a sua moglie? -.
Un movente? Damiano sbiancò ancora di
più. Non
si preoccupi.
- Volevo solo aiutarla. Una mano per gli studi... Sara era sola qui in
città, non aveva parenti cui appoggiarsi o chiedere aiuto.
Almeno così mi ha sempre detto -.
- Un aiuto disinteressato, diciamo -, chiosò l'Ispettore.
- Quindi è lecito supporre che lei tenesse a questa ragazza.
Avesse a cuore i suoi studi, se non altro, che per una ragazza che
frequenta l'Università sono un po' tutto il suo mondo -.
Damiano annuì.
- E' anche plausibile dedurrre che foste in una certa, diciamo,
confidenza? -.
L'Ispettore gettò di nuovo gli occhi sulla cartellina,
sollevando di poco gli occhiali, per leggere al di sotto di essi.
- "Il signor Crespi
frequentava talvolta il nostro appartamento, per un caffè o
due chiacchiere, in mia presenza o anche in presenza di Sara soltanto". E'
sempre la Ciacci che parla. A domanda se si fidasse del signor Crespi
tanto da lasciarlo solo nell'appartamento con Sara, la Ciacci risponde:
"Sì, mi
fidavo, si era sempre comportato bene con noi" -.
Sudore ghiacciato scivolò lungo il collo, insinuandosi al di
sotto del colletto ben inamidato della camicia.
L'Ispettore sistemò di nuovo gli occhiali sul naso, e
alzò le spalle.
- Quindi, le ripeto, signor Crespi: è plausibile dedurre che
lei e la signorina Sara foste in confidenza? Abbastanza da poter
restare soli a parlare? -.
Damiano annuì di nuovo, silenziosamente, con la testa.
- Se dunque lei era in confidenza con Sara, come attestato anche
dall'Elisa Ciacci, non è entrato in contatto con nessun
elemento che potrebbe aiutarci nelle indagini? Ci pensi su, signor
Crespi... -.
La donna incrociò le braccia, le mani ben in vista
nell'incavo dei gomiti, le dita aperte.
- Una motivazione per un suicidio? Una motivazione per un'aggressione?
Personaggi poco raccomandabili nella vita della ragazza? Lei, da
adulto, avrebbe potuto individuarli facilmente, se frequentava
quell'appartamento. Spesso le vittime non si rendono conto di avere
intorno il loro stesso carnefice -.
Damiano era rimasto silenzioso. Cercava di raccogliere frammenti, idee,
indizi, ma tutto vorticava nel buio più fitto.
- Vuole qualche giorno per pensarci? -.
L'Ispettore si piegò verso un cassetto, ne trasse un
biglietto, trascrisse un paio di righe, in una calligrafia minuta e
squadrata.
- Mi chiami, se le viene in mente qualcosa -.
Solo quando la donna si alzò in piedi Damiano
capì che poteva andarsene. Che era finita lì,
quella chiacchierata.
Non si preoccupi.
Si alzò stringendo il biglietto tra le mani,
salutò movendo il capo e le spalle.
La luce piena del mattino lo accecò. Si accorse che il fiato
gli mancava. L'aveva trattenuto per tutto il tempo che aveva impiegato
ad uscire dal lungo corridoio, prendere l'ascensore, tornare a piano
terra, salutare la guardia all'ingresso, involarsi all'uscita.
Respirò.
Sentì tutto il petto bruciare. Chissà se anche
per i neonati è così. Il primo respiro. Se
fa così male, e per quello si piange. Aveva gli occhi umidi.
Se li asciugò, affrettando i passi, verso l'auto lasciata
nel parcheggio.
Alle spalle, l'edificio maestoso di mattoni e vetro lo lasciava andare.
Non del tutto indifferente. Un piccolo riverbero balenò
velocemente dietro a una vetrata, al terzo piano. Come il riflesso che
fanno gli occhiali, se colpiti dal sole.
Damiano camminava lungo l'argine, le mani buttate in tasca.
Osservava il paesaggio che assomigliava così tanto a Sara,
quando lo percorrevano insieme.
- A cosa pensi papà? -
Agata gli si strinse al braccio. Guardò in un punto di verde
distante, poi tornò ad affiggere il musetto sul braccio del
padre.
- Che puoi dirmi tutto quello che ti passa per la testa, o che ti
succede. Tutto. Sempre. Questo penso -, rispose.
Lo disse con il sorriso, stringendole le mani che si affacciavano dalla
stoffa del cappotto.
- Va bene papà. Ma proprio tutto? -.
- Tutto -.
- E prometti che non ti arrabbierai mai? -.
- Certo, mai -.
Agata sembrò rincuorata. Sospirò, poi
balzò in avanti allungando il passo.
- Voglio arrivare a quel canneto laggiù. Dai vieni
papà! -.
Damiano si riempì il petto dell'odore del fiume.
Osservò le giunchiglie gialle occhieggiare dalle erbe
più alte. Erano belle.
Era passato quasi un anno ormai. Un anno da quella maledetta sera.
Non aveva più richiamato l'Ispettore capo Berretti. Ma
qualche tempo dopo era stata lei a ricontattarlo.
- Credo sia giusto che lei sappia come sono andate le cose -, gli aveva
detto.
Era stata quasi una cortesia, un atto non dovuto. I giornali ne
avrebbero data notizia scarna, archiviando il caso.
Quella sera Sara non era sola al fiume. C'erano altre persone con
lei.
Uno di questi era stato arrestato e aveva vuotato il sacco. Non aveva retto a lungo alla pressione
degli interrogatori. A casa
sua erano stati rinvenute delle cose appartenute a Sara, qualcuno aveva
testimoniato che i due ragazzi uscivano insieme, si frequentavano. E dopo di lui erano state arrestate
altre persone, colte in flagranza di reato, beccati con la droga
proprio vicino all'Università, dove spacciavano senza
ritegno alcuno agli studenti. Anche a Sara.
Quella sera dunque Sara non era sola. Aveva con sé i soldi,
per quella che sarebbe stata l'ultima dose. Così gli aveva
detto, a quel ragazzo che frequentava e che la riforniva. Che
sarebbe stata l'ultima volta, che ne voleva uscire. Che qualcuno
l'avrebbe aiutata, o che si sarebbe fatta aiutare. Che non ne poteva
più di quella merda che le ingoiava le viscere e il cuore.
Che lei voleva essere felice, lui crepasse pure. Le frasi non erano
ricostruibili con esattezza. Il verbale dell'interrogatorio era stato
convulso, frammentato, impreciso, ma i fatti erano stati ricostruiti,
collimavano con i tempi, con i risultati delle analisi sul corpo di
Sara. Era morta per annegamento, quando era già priva di
sensi.
Quell'ultima volta le era stata letale.
Si era spogliata, aveva avuto un rapporto sessuale con il fidanzato,
nascosti nella vegetazione lungo il fiume, poi si erano drogati
insieme. Un malore, lei era caduta nell'acqua, o scivolata, la dinamica
non era chiara. Erano troppo vicini alle sponde, troppo incoscienti per
rendersi conto del pericolo. Non era più emersa. Altri
spacciatori erano accorsi in aiuto del compagno, avevano portato via il
ragazzo e i vestiti di lei. Fuggiti in fretta, forse sperando che il
tutto sembrasse un suicidio, una povera drogata disgraziata che l'aveva
fatta finita. La
droga spappola tutto. Si mangia l'esistenza, e con essa il cervello.
Damiano aveva ascoltato in silenzio.
Non aveva capito. Non aveva voluto capire.
Lo sguardo vuoto e infinito di Sara, le sue domande inesplose, il suo
bisogno di lui.
Non aveva visto. Non aveva voluto vedere.
Quegli occhi immensi di fiume che chiedevano aiuto. Che imploravano
un'altra possibilità.
- Papà, vieni?? -.
Agata stava gridando smuovendo le braccia. Lo chiamava a sé.
Damiano si asciugò gli occhi. Forse era stato il vento, o
forse certi giochi di luce sull'increspatura del fiume. Gli parve di
vedere qualcosa, in mezzo alle onde.
Si strofinò il volto, fermò il groppo che gli
chiudeva la gola.
- Arrivo!-.
Occhi di ragazza. Occhi
di fiume.
***********
Grazie di cuore a chi è rimasto, a chi è arrivato
fin qui, a chi ha letto e commentato, o letto in silenzio,
seguito, preferito,
ricordato...
Ho esitato a pubblicare l'epilogo. Ho atteso. Perchè nel
frattempo è successo qualcosa di terribile che è
andato oltre il racconto e l'immaginazione, per quanto io cerchi di
essere realista nelle mie narrazioni (come se guardassi un film, e ve
lo raccontassi, sperando di trasmettervi le stesse immagini ed
emozioni).
E' morta davvero una ragazza. Si chiamava Pamela.
Mi fermo qui.
Amantea
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=3728142
|