Il fantasma del diario

di Avaenly
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Keira ***
Capitolo 2: *** Il Nonno ***
Capitolo 3: *** Il diario ***



Capitolo 1
*** Keira ***


1

KEIRA

 

Mi chiamo Keira Hutchinson-Graham. Sono laureata in Letteratura Inglese e autrice di un paio di romanzi che hanno goduto di più di due ristampe ognuno, ho sposato un uomo meraviglioso e sono la madre di tre bellissimi bambini. Ma prima di tutto questo, prima del diario, prima di lui, all’epoca in cui si svolge la storia che sto per raccontarvi, ero solo Keira di Glennhill, una diciannovenne senza la benché minima speranza per il futuro. 
Vivevo ancora con la mia famiglia e non sembravo particolarmente intenzionata a lasciare il cosiddetto “nido”. La verità è che non sapevo che farmene della mia vita. Non avevo alcun talento, nessuna predilezione per una qualche disciplina che non fosse il trascorrere la giornata a leggere o guardare serie televisive in streaming; di fatti, avevo solo il mio stropicciato diploma di fine liceo, nascosto tra un romanzo di Jojo Moyes e un manuale dal titolo tanto stupido quanto rivelatore (qualcosa del tipo: “Come non essere un completo fallimento e dimostrare alla tua famiglia che qualcosa dovrai pur valere”). 
Avevo l’impressione di essere in trappola. Ma non era a causa dei miei genitori, o dei miei fratelli e sorelle. Insomma, non era colpa loro se non facevo nulla delle mie giornate, era solo mia. Sì, mi ero intrappolata da sola. E mi sembrava che i miei non facessero nulla per aiutarmi. Forse era questo che cercavo disperatamente, tutti quei pomeriggi seduta di fronte alla mia scrivania a fissare il vuoto: che i miei si accorgessero di me e mi dessero una mano. Ma cos’avrebbero potuto fare? Dopotutto, avevano il ristorante da gestire, oltre alla crisi adolescenziale di mio fratello Dean e ai capricci infantili delle gemelle Lucy e Kathy, che allora avevano appena nove anni. A confronto, la mia piccola crisi d’identità pre-ventennale o che so io era uno scherzo. Uno scherzo maledettamente ben riuscito, quantomeno. Se fossi andata a consultare una chiromante o un indovino, per farmi leggere la mano, o le foglie di tè, all’epoca mi avrebbe sicuramente predetto qualcosa del genere: «Condurrai un'esistenza lunga e monotona, chiusa nella tua stanza in casa dei tuoi genitori. Vedrai tuo fratello e le tue sorelle costruirsi una vita mentre tu starai ancora a chiederti se ti piace di più Jon Snow o Steve Harrington, e quando finalmente arriverai alla conclusione che Jon Snow è senza ombra di dubbio più figo di chiunque altro, i tuoi genitori moriranno e tu ti ritroverai a gestire il ristorante e la vecchia casa di famiglia da sola, finché non morirai a tua volta, sepolta dai debiti e dalle bottiglie di vodka vuote». E io ci avrei creduto! Avrei pagato il maledetto cartomante di turno e me ne sarei tornata a letto a compiere il mio triste destino. Se non fosse che la mia vita prese una svolta del tutto inaspettata, intorno a novembre del 2017. Non saprei proprio dirvi il giorno, anche se sono piuttosto certa che fosse un mercoledì. Sì, il destino mi sorrise un mercoledì di pioggia, senza che nemmeno me ne accorgessi. A dire il vero non mi sarei accorta di granché, la testa infilata sotto il cuscino pur di non dover stare a sentire le urla mattutine di Dean, che non trovava da nessuna parte la sua maglietta dei Metallica… 

 

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Capitolo 2
*** Il Nonno ***


2

IL NONNO
 


«MAMMAAAAAA! DOVE CAZZO HAI MESSO LA MIA MAGLIAAAA?!»
Grugnii, rigirandomi nel letto e schiacciandomi il cuscino sulle orecchie, cercando disperatamente di riprendere il filo del mio sogno e maledicendo il giorno in cui qualcuno aveva deciso che la mia stanza e l’unico bagno della casa avrebbero avuto una parete in comune. 
«SI PUÒ SAPERE DA QUANDO IN QUA TI RIVOLGI IN QUESTO MODO A TUA MADRE?» gli rispose urlando Papà, che visibilmente nutriva nei confronti del mio sonno e dei miei nervi lo stesso interesse che poteva avere per la riproduzione delle formiche rosse dell’Uzbekistan. 
Subito dopo, ci si mise anche la Mamma. «Non lo so, Dean, prova a guardare nell’armadio!»
«Ma hai sentito come si è rivolto a te, scusa?» 
«NON C’È NEL CAZZO DI ARMADIO
«OH MA CHI TI CREDI DI ESSERE?!»
«Mamma, Kathy mi ha rubato una scarpa!» piagnucolò Lucy. 
«KATHERINE! RIDAI LA SCARPA A TUA SORELLA
«UFFAAAA! IO NON LA VOLEVO NEANCHE UNA SORELLA, POI!» strillò Kathy.
Sbuffai, mentre sentivo un’ondata di frustrazione salirmi alla testa. «SONO LE SETTE DEL MATTINO, CAZZO
«MODERA IL LINGUAGGIO!» sbraitò Papà.
«MAMMAAAAAAAA!» chiamò di nuovo Dean, che era ancora alla ricerca della maglietta perduta.
A quel punto la Mamma si mise a strillare. Un acuto e potente “AAAAAH!” che di solito precedeva il classico: «Se qualcuno dice ancora una volta “Mamma” lo uccido.» Al che, solitamente, il simpatico di turno (solitamente Dean) esclamava “Madre!”. E a quel punto poteva finire soltanto in due modi: o scoppiavamo tutti a ridere o ci arrabbiavamo ancora di più. Quella mattina optammo tutti per la seconda opzione.
Mentre Lucy e Kathy si allacciavano le scarpe, Dean si ammirava allo specchio nell’ingresso e i miei genitori cercavano ovunque le chiavi dell’auto e si assicuravano che gli zaini delle gemelle fossero riempiti con i libri giusti, finalmente mi decisi ad alzarmi dal letto, poiché di riaddormentarmi non ne ero mai stata capace.
«Keira!» mi chiamò la Mamma dal piano di sotto, non appena mi allacciai il reggiseno. «Devi farmi un favore.»
Sbuffai leggermente, infilandomi un maglione e affacciandomi dalle scale senza badare ai capelli sottili che galleggiavano intorno alla mia testa elettrizzati dalla lana. «Che c’è?»
«Papà deve andare subito al ristorante per un problema alla caldaia…» iniziò la Mamma, che aveva la fastidiosa abitudine di girare sempre intorno al nocciolo della questione, condendo le sue richieste e i suoi racconti con un sacco di dettagli a mio avviso estremamente superflui. «Io devo accompagnare tuo fratello e le tue sorelle a scuola - e siamo già in ritardo, tra l’altro. Quindi Papà non ha tempo di passare dal Nonno stamattina. Puoi andare tu?»
Il Nonno era l’unico parente di più di sessant’anni che mi fosse rimasto. Era il padre di mio padre, un vecchietto di nome Philipp Hutchinson dall’accento irlandese così strascicato che a volte nemmeno capivo il senso delle sue frasi. O forse era colpa dell’Alzheimer.
Papà faceva visita al Nonno quasi tutti i giorni da quando lo avevamo spedito nella “Casa di Riposo del Salice Sorridente”, ormai quasi sei mesi prima. Il povero vecchio non avrebbe mai voluto lasciare casa sua, e Papà si sentiva in colpa per averlo confinato in quella specie di albergo per ottantenni squinternati e dimenticati dalle loro famiglie. Ma non ebbe altra scelta: cercò di gestire da solo la malattia del Nonno finché lui non provò a strangolarlo, perso in uno dei suoi ricordi più tormentati. Negli ultimi tempi era convinto di avere di nuovo vent’anni e di essere lo scapolo più ricco e turbolento di tutta Glennhill. Per fortuna le mura del “Salice Sorridente” gli impedivano di andarsene a zonzo per la cittadina fino alle due di notte facendo a botte nei pub con qualche scozzese.
Insomma, questo era mio Nonno (il più delle volte): un ventenne mezzo pazzo e scorbutico nel corpo raggrinzito di un settantenne ancora più pazzo e scorbutico. E, sinceramente, non avevo particolarmente voglia di imbattermi in una delle molteplici versioni di Philipp Hutchinson, quella mattina. Ma quella di mia madre non sembrava esattamente una richiesta… bensì un ordine, o forse persino una minaccia. Perciò decisi di non lanciarmi nel solito monologo polemico e le risposi che «Okay, Ma’», sarei andata a trovare il vecchio Phil nel suo ospizio a due o tre isolati da casa nostra. Dopotutto, non avevo nulla di meglio da fare.


- SPAZIO AUTRICE -

Ciao! Grazie per essere arrivato/a fin qui, chiunque tu sia spero che la mia storia ti stia piacendo, per il momento. I capitoli sono estremamenti brevi,  lo so, ma ho deciso di non sforzarmi a scrivere troppo e di pubblicare qualcosa ogni volta che, per così dire, concludevo un argomento o era tempo di cambiare scena e ambientazione. Questo perché ho tendenza a non finire mai le storie che inizio a scrivere (per svariati motivi), perciò stavolta ho deciso di incastrarmi da sola, ah-ah! Scrivo un po' e, tac!, pubblico subito, senza rimuginarci troppo.
Anche perché questa storia la scrivo un po' per allenamento, un po' per noia. Così, per distrarmi un po'. Non per niente molti elementi si ispirano alla mia stessa vita. Esempio: la famiglia di Keira. Da quando ho finito il liceo e iniziato le lezioni in accademia dormo un sacco alla mattina... o almeno ci provo. Insomma, non è sempre facile con due sorelle e un fratello sempre in piedi alle sette giusto giusto per spaccarmi i timpani. Quindi, sì, possiamo dire che questa storia è un po' il riflesso della mia vita. Con un tocco di magia in più.
Ok, bando alle ciance. Fammi sapere cosa ne pensi finora, ti prego! So che non c'è molto su cui basarsi per scrivere una recensione, ma mi piacerebbe sapere se sei curioso/a di sapere come continua, tutto qua.
Grazie ancora per aver letto! A presto!
 

 

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Capitolo 3
*** Il diario ***


3
 
IL DIARIO


 

Sopportavo poco le visite a mio nonno. Ogni volta avevo l’impressione che l’uomo a cui tenevo compagnia fosse un completo estraneo, e che mio nonno, di fatti, fosse già morto. Se gli facesse piacere ricevere visite, io non lo sapevo. Ciò che era certo, però, era che andarlo a trovare mi metteva addosso un’angoscia incontenibile. Mi faceva soffrire vederlo sparire a poco a poco dal mondo, sotto i miei occhi. Tornare indietro nel tempo con la mente, dimenticando chi era stato nell’ultima metà della sua vita. Seduta su una poltrona in un angolo della stanza troppo illuminata, mi sembrava di sentire i suoi neuroni andare in frantumi, uno ad uno, mentre sedeva agitato sul bordo del piccolo letto bianco. Restammo in silenzio per una buona mezz'ora, finché lui non cominciò a parlare.
«Lei è mia, è solo mia… non sua!» ripeté il Nonno per l’ennesima volta, guardando con rancore un punto invisibile del pavimento in linoleum della stanza numero 37.
«Lui non può… lui…»
Sospirai. Avevo imparato che non serviva a nulla fargli domande sul suo borbottio senza senso, perciò mi limitai a gettargli un’occhiata prima di tornarmene a fissare lo schermo del mio cellulare.
«NON TI VOGLIO PIÙ SENTIRE! SPARISCI DALLA MIA TESTA!» Il Nonno si mise in piedi e scaraventò contro la parete un oggetto che non gli avevo notato fra le mani fino a quel momento. Un libro, che si aprì sul pavimento rivelando una moltitudine di pagine ingiallite percorse da una calligrafia leggermente inclinata. Mi alzai per raccoglierlo, quando lo sguardo del Nonno incrociò il mio per la prima volta da mesi. Mi guardava, anzi, mi vedeva. E avevo come l’impressione che vedesse proprio me, e non un qualche fantasma del suo passato. Per una frazione di secondo, lui sapeva chi ero.
«Prendilo! Portalo via di qui, non voglio più vederlo, non voglio più sentirlo! Levamelo di torno!»
«Che cos’è?» chiesi, prendendo fra le mani il libro dalla copertina flessibile di un rosso ormai spento.
Un’ombra velò lo sguardo umido del Nonno. «Lui non me la porterà via.»
Gettai un’occhiata alla prima pagina e capii all’istante di cosa si trattasse. Era il diario di mia nonna, c’era scritto a belle lettere corsive. 
Skye Talbot, 1962
Mi chiesi cosa ci potesse essere di tanto spaventoso in quel diario da fare in modo che il Nonno mi pregasse di portarglielo via. Ma quel pensiero mi sfiorò solo per un attimo, prima che arrivassi alla conclusione che persino l’Alzheimer non potesse cancellare l’amore per la sua defunta moglie. Probabilmente il Nonno sapeva che era morta. E non riusciva a sopportare il suo ricordo, o qualcosa del genere.
Il Nonno scoppiò a ridere all’improvviso. «Andato! Se n’è andato! Ah ah!»
«Chi, Nonno?»
«Lui! Lei è… lei è solo mia adesso!»
Abbassai lo sguardo, sospirando. Era inutile, non aveva alcun senso.
«Ho fame» mormorò piano il Nonno. «Tu ce li hai dei biscotti, Sarah?»
Sarah era la sorella del Nonno. Era morta dieci anni prima.
«Nonno, io non sono Sarah» dissi, con una calma che nascondeva a malapena tutta la mia tristezza e il mio risentimento. «Sono Keira.»
«Mh» borbottò lui. «E tu non hai dei biscotti al cioccolato, vero?»

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