L'Ottavo Giorno

di Dobhran
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Buongiorno a tutti. Molto tempo è passato dall'ultima volta in cui ho scritto e pubblicato e mi auguro di essere migliorata almeno un po' da allora. Torno a postare qualcosa di mio nella speranza di poter combattere il famoso e fastidioso "blocco" che mi afflige da un po' e che mi porta a cadere quotidianamente vittima della procrastinazione. Ogni vostro eventuale commento, positivo o negativo, potrebbe essere fondamentale per farmi capire dove posso migliorare, poiché so che di strada da fare ne ho ancora moltissima. Dunque, se per caso vi capita di leggere, lasciate qualche commentino per dare nutrimento alla mia piccola e a volte sopita anima di scrittrice. Ve ne sarò grata. Per ora, buona lettura a tutti coloro che vorranno seguirmi. :) 
















L’OTTAVO GIORNO








Osservate le mie leggi e mettetele in pratica. Io sono il Signore che vi santifica. Chiunque maledirà suo padre e sua madre sia messo a morte: ha maledetto suo padre e sua madre; il suo sangue ricada sopra di lui.
Levitico, 20, 8-9.





1.




Sedevo al tavolo della cucina, masticando malvolentieri un insipido biscotto ai cereali e accompagnandolo di tanto in tanto con del succo d’arancia, giusto per dargli un po’ di vita. Il risultato fu addirittura peggiore, ma se non altro più facile da deglutire.
Mi focalizzai sui suoni abituali della casa per ignorare quelli estranei e molesti che stavano riuscendo a rovinarmi l’umore. Il ticchettio incessante dell’orologio affisso al muro scandiva la rapida corsa dei secondi, mentre da qualche parte all’esterno di casa mia, già da qualche ora gli uccellini facevano a gara a chi cantava più forte.
Buttai giù in fretta il resto della colazione e guardai mia madre di sfuggita da sopra la spalla, seduta al lungo tavolo di legno lucido e scuro che riempiva la sala da pranzo. A gambe strette, con le sole punte dei piedi che toccavano terra e adagiata sul bordo esterno della sedia, sembrava non aspettasse altro che qualcuno desse il via ad una gara di velocità. Persino il suo corpo parlava, involontario dispensatore di utili indizi sul suo stile di vita. L’impulso di spezzarle davanti al naso la penna che picchiettava senza sosta sull’agenda mi fece prudere le mani.
In casa mia l’importanza della comunicazione non verbale era enorme, se si trattava di dover interpretare ciò che passava nella strana mente di mia madre. Non accadeva spesso che avesse molto tempo libero da passare in casa, esclusa la notte, ma quando mi ronzava intorno era difficile che se ne stesse buona senza produrre un qualche tipo di rumore capace di logorare i nervi. Sembrava volesse assicurarsi che avessi notato la sua presenza. Aveva una capacità di irritarmi che poteva essere definita talentuosa, con i suoi sguardi, i sospiri e i movimenti del volto, sempre carichi di una forza espressiva che avevo imparato a cogliere con il passare degli anni.
In quel momento il suo viso era teso, lievemente contratto in una smorfia di disapprovazione per qualcosa che non conoscevo e che non volevo sapere. Le labbra erano strette in una linea rosa, la fronte pallida e priva di imperfezioni era solcata da una ruga quasi impercettibile, ma molto eloquente. Era visibilmente in pensiero per qualcosa che, senza alcun dubbio, riguardava il suo lavoro.
Sfogliò l’agenda, muovendo rumorosamente i fogli e riprese a picchiettare la penna, senza cogliere minimamente l’ostilità del mio sguardo. Passandole accanto gettai un’occhiata fuggevole ai fitti appunti che stava consultando con aria preoccupata. Da quella distanza non riuscii a comprendere nemmeno una parola, sebbene la sua grafia fosse molto curata, non era tuttavia difficile immaginare che stesse cercando di far quadrare i suoi appuntamenti di lavoro. Con tutte le cose che si ostinava a fare in una giornata, mi chiedevo come trovasse il tempo per nutrirsi, andare al bagno, o anche solo respirare con un po’ più d’intensità rispetto al solito.
Mi gettai di peso sul divano e accesi la TV, sebbene non fossi particolarmente interessata a ciò che il palinsesto delle sette e mezza di mattina potesse offrirmi. Anche volendo avrei fatto fatica a concentrarmi su qualcosa di serio, con lei che faceva casino con quella dannata penna.
Era proprio quello il suo metodo infallibile per far capire a chi le stava accanto che qualcosa non procedeva nel modo giusto, o meglio, che non stava andando tutto secondo i suoi calcoli. Qualcosa di estremamente raro, perché lei otteneva sempre ciò che voleva. Le manifestazioni della sua ansia erano molteplici, ma tutte altrettanto efficaci: se era in cucina, spostava pentole (totalmente a casaccio, dato che era parecchio tempo che non cucinava qualcosa di più impegnativo del pane tostato), oppure schiaffava qualcuna delle sue assurde riviste di economia o legge sul tavolo, come se pensasse di dover riempire i silenzi degli altri o il vuoto della casa con il chiasso della sua inquietudine.
Passai di canale in canale senza davvero prestare molta attenzione a nessuno dei programmi, e gettai un grido mentale di liberazione quando dalle mie spalle non giunsero più fastidiosi picchiettii. Senza voltarmi ascoltai mia madre alzarsi dalla sedia e percorrere a passi rapidi la casa, diretta verso l’armadio accanto alla porta d’ingresso. Ero sicura che stesse per indossare il soprabito panna e l’elegante borsetta in pelle dello stesso colore, in tinta con la maglia e in preciso contrasto con i pantaloni neri dal taglio morbido e le costose scarpe col tacco alto.
Distolsi lo sguardo dallo schermo, giusto per controllare se le mie intuizioni fossero azzeccate e sorrisi nel pensare a quanto fosse prevedibile quella donna. Mal interpretando il gesto, lei sorrise di rimando, sfilandosi i capelli biondi da sotto il colletto del soprabito. Assomigliò più a una smorfia che a qualcosa di gentile.
«Sarò fuori città, oggi. Ho un volo fra poco ed è possibile che stasera faccia tardi. Te la cavi?»
Possibile per lei significava sicuramente, così come te la cavi, voleva dire arrangiati, nutriti, intrattieniti da sola e non combinare guai.
«Posso farcela».
«Non lasciarmi nulla per cena, mangerò un boccone al volo».
Mi sentii in dovere di puntualizzare. «Esco anche io stasera, perciò potrei fare più tardi di te».
Poco ma sicuro. Io e i miei migliori amici lo avevamo pianificato almeno un mese prima e, come loro, anche io non stavo più nella pelle.
Mamma non disse nulla per parecchi secondi, tanto che dopo qualche istante cominciai a sospettare che non mi avesse nemmeno sentita. Mi sporsi oltre lo schienale del divano, un braccio appoggiato alla stoffa scura, per assicurarmi che lei fosse ancora presente, ma il suo viso era assorto in qualcosa che non riguardava sua figlia. Le dita sottili e pallide si muovevano rapidamente sulla tastiera del cellulare e subito dopo, notando il mio sguardo interrogativo, mi fece segno di tacere e si portò all’orecchio il ricevitore.
«Catherine, buongiorno» esordì con voce ferma, rivolgendosi a Catherine Dobson, la sua segretaria. Alla mente mi tornò il viso della giovane donna, dai lineamenti marcatamente orientali che mi avevano inizialmente messo in soggezione quando mamma ci aveva presentate. Quando però mi aveva regalato un sorriso dolce mi ero sentita in colpa per essermi fermata alla prima impressione e mi ero chiesta come fosse possibile che lei e mia madre respirassero la stessa aria.
«Confermi l’appuntamento con Seymour per questo pomeriggio?»
Durante la pausa che seguii mi parve quasi di sentire il rumore del cervello di mia madre muovere i suoi ingranaggi in un lavorio incessante, come se agissero ad una velocità maggiore rispetto agli altri esseri umani, e le risposte pronte di Catherine, la sua voce calma ma decisa, così distaccata quando si trattava di lavoro e così piacevolmente tinta di emotività nei rapporti personali.
Con orgoglio mi aveva raccontato che suo padre era californiano e sua madre giapponese e che lei si sentiva americana tanto quanto asiatica. Questo di lei mi era piaciuto molto, il perfetto connubio tra due culture apparentemente così diverse. Tutto in lei era armonia ed equilibrio, non solo ingannevole vanità, che invece ero solita leggere negli atteggiamenti di mia madre.
Mamma mormorò qualche parola di ringraziamento dopo una breve conversazione, poi mi rivolse uno sguardo indifferente.
«Hai detto qualcosa?» Fece, come se si fosse resa conto solo in quell’istante di non essere sola in casa, o come se si stesse lamentando di avere una mosca fastidiosa che le ronzava intorno.
«Ho detto che sarò fuori questa sera» mormorai, resistendo all’impulso di alzare gli occhi al cielo. Lei non disse nulla per qualche secondo, impegnata a riporre nella borsetta l’agenda e la penna, sapevo però che ci stava pensando su. Aveva certamente capito che non cera bisogno di chiedermi chi mi avrebbe accompagnata. Se gli esseri umani avessero potuto avere due ombre, i miei migliori amici, Louis e Jennifer, sarebbero state le mie. Dopo due interminabili secondi di riflessione e silenzio, alzò nuovamente lo sguardo su di me, con un’espressione severa.
«Non me ne hai parlato. Dove andate?»
«In un locale nuovo a qualche chilometro da qui. Niente di speciale» mentii.
Era vero che non era lontano, ma dire che non era niente di speciale era una sorta di bestemmia. Avevamo trovato i volantini con l’annuncio dell’apertura del Mephisto in un posticino dove andavamo spesso a farci un trancio di pizza, e la promessa di un posto a tema infernale ci aveva elettrizzato, scatenando la nostra fantasia. Non potendo chiedere in giro di che si trattava, dato che l’inaugurazione sarebbe stata solo quella sera, Louis aveva passato giorni e giorni fantasticando su ciò che avremmo trovato, facendoci venire il mal di testa.
«Che significa a pochi chilometri da qui? È un posto che conosco?» insistette mia madre.
«Non è un sofisticato ristorantino che dispensa caviale a prezzi esorbitanti a ricchi snob. Quindi no, direi di no. E poi, come ho detto, apre questa sera per la prima volta». Sperai notasse la frecciatina, ma il suo viso non fece una piega.
«Dove?»
«Perché tutte queste domande, ti ho già detto che è vicino. È a SoMa, comunque» mormorai, esasperata dalla sua intrusione illegittima. Passava la maggior parte del tempo fuori casa, perciò avrei gradito che si limitasse a dirmi Certo cara, vai pure e divertiti, senza questionare. Il mio obbiettivo per quella sera era di passare al meglio i miei primi giorni da persona libera. Completamente libera e diplomata da pochi giorni, e con nessuna preoccupazione se non quella di decidere come vivere il mio immediato futuro.
Le mie speranze furono infrante quando notai la piccola contrazione all’angolo della sua bocca non appena pronunciai il nome del distretto.
Idealmente San Francisco poteva essere divisa in un reticolo di tante piccole aree, dette distretti, ognuno con il proprio nome e per la maggior parte dei casi ognuna con la propria caratteristica o cultura. Parlando di San Francisco era impossibile ignorare il suo carattere multi etnico e di conseguenza era anche difficile tralasciare le sue stranezze.
SoMa era una di quelle. Il suo nome contratto stava per South of Market, ricalcato sulla forma abbreviata SoHo di South of Huston a New York City.
Sia alla luce del sole che verso sera, SoMa brulicava di attività di ogni sorta, un punto di incontro per turisti e abitanti del luogo. Non erano pochi gli svaghi culturali che poteva offrire, uno tra tanti, il San Francisco Museum of Modern Art, oppure il Cartoon Art Museum, dedicato ai cartoni animati e ai personaggi di animazione famosi. C’ero stata tante di quelle volte con papà che lo conoscevo quanto conoscevo casa mia.
Di notte non perdeva il suo fascino, ma la cultura lasciava maggior respiro al divertimenti, con locali di diverso genere, ristoranti, e nightclub.
«In tutta franchezza, Amber, non mi sembra una buona idea che tu frequenti quei posti». Finalmente mia madre mi espresse direttamente i suoi pensieri, anche se dall’espressione perplessa che aveva assunto appena nominatogli il distretto non mi era stato difficile prevederli.
«Perché no?»
«Perché non è una zona adatta a te e credo che i genitori di Jennifer e Louis sarebbero della mia stessa opinione. Sempre che i loro figli non si siano comportati come hai fatto tu con me, tenendomi all’oscuro di questa tua decisione».
«Loro lo sanno e non hanno nulla in contrario se stiamo tutti e tre assieme. Siamo in compagnia, non correremo alcun rischio! E come sarebbe a dire che non è una zona adatta a me? Mi credi così ingenua?» La mia voce era già tinta di irritazione, sebbene non fosse l’atteggiamento giusto da tenere con una persona come mia madre. Più mi dimostravo toccata sul vivo, più lei si convinceva del fatto che ero dalla parte del torto.
Scosse la testa con un sospiro esasperato che mi parve fuori luogo visto che stavamo affrontando quella conversazione solo da pochi minuti.
«Non fraintendere qualsiasi cosa ti dico, Amber, per favore. Sei una ragazza giovane e attraente e quelle sono zone della città in cui verso sera si trovano in giro persone poco raccomandabili».
Serrai i denti per combattere l’impulso di alzare la voce, cosa che avrebbe solamente peggiorato la situazione. «Te l’ho detto, siamo in tre».
«Non è una grande garanzia se la tua scorta è formata da Louis e Jennifer. Non sono esattamente due persone dall’aria minacciosa. Louis non farebbe paura a nessuno nemmeno sforzandosi e quella ragazza, non sa nemmeno da che parte giri la terra. Senza offesa».
Non l’avrei ammesso a voce alta, ma le sue parole avevano un fondo di verità. Nemmeno io, con il mio metro e cinquantatré d’altezza e il fisico gracile davo l’impressione di sapermi difendere.
«Siamo in una grande città, le persone sbagliate si possono incontrare ovunque, anche in un parco per bambini. Basta solo fare attenzione, dovresti fidarti un po’ più di tua figlia, non credi?» tentai di ribattere, con la rabbia che mi gettava fastidiose vampate al viso. Mamma si sistemò la borsetta sulla spalla con l’aria di una che aveva deciso di punto in bianco di troncare a metà la conversazione. Sapevo che stava per regalarmi una delle sue tante frasi fatte.
«Non è che non mi fido di te, non mi fido della gente che si trova per strada. Drogati, barboni e delinquenti d’ogni sorta» caricò ogni parola con una dose di disprezzo che mi parve eccessiva. Resistetti all’impulso di insultarla, nonostante le parole premessero sulla lingua per uscire e fare male. Detestavo il modo in cui metteva sullo stesso piano individui che lei riteneva inferiori ai suoi standard. Era probabile che nella categoria fossi inclusa anche io.
Lottai per mantenere la calma e ragionare lucidamente su come aggirare il discorso e volgerlo a mio favore, senza dover litigare. Tirai in ballo il diploma, le mie esigenze di svago e il desiderio di non deludere i miei amici, che contavano su di me per poter avere un’ottima serata, ma ogni mio tentativo di difesa a nulla valse contro il suo viso di marmo. Si spostò all’ingresso, accompagnata dal rumore dei tacchi di tanto in tanto attutiti dal tappeto e intenta, come faceva sempre, a osservare la sua immagine riflessa nello specchio appeso sulla parete accanto alla porta. Con le dita si sistemò alcuni ciuffi biondi che già erano perfetti così.
«Per favore» aggiunsi, sperando ardentemente di fare breccia nel suo cuore, sempre che ne avesse uno, sperduto da qualche parte nel petto.
«Niente discussioni, Amber. Ho già detto quello che penso e non amo ripetermi, perciò trova un’alternativa per passare la serata. E la prossima volta gradirei essere informata in anticipo sulle tue intenzioni, visto che fino a prova contraria sono tua madre. Di queste cose devi discutere prima con me».
Aveva detto bene, fino a prova contraria. Ne avevo a bizzeffe di prove che confutavano le sue convinzioni di essere la madre dell’anno, che altri avrebbero potuto confermare. Conosceva meglio il suo ufficio che casa sua e pretendeva di governare la mia vita?
Capii che andare avanti con quel discorso era autodistruttivo, perché difficilmente avrei resistito alla voglia di dirle in faccia molte cose che pensavo di lei e della sua maniacale fissa di controllare tutto e tutti. Strinsi i pugni e dalle labbra mi uscii un sospiro strozzato, mentre lei impugnava le chiavi della sua auto e nel mio animo si faceva strada la terribile ipotesi di mollare e dargliela vinta anche stavolta.
Il tappeto all’entrata fu tagliato da una lama di luce che penetrava dall’esterno, piccolo indizio di ciò che poteva offrire quella magnifica giornata di fine giugno. Mi salutò, promettendomi che mi avrebbe chiamata non appena avesse avuto un minuto di tempo libero, poi si chiuse la porta alle spalle, soffocando la luce del sole.
Con tutta probabilità non si sarebbe fatta sentire.
Rimasi in piedi, lottando contro la collera, contro il fallimento e l’impotenza dei miei diciotto anni rispetto alla sua autorità e al suo titolo immeritato di madre e tutrice.
Merda! Mi passai le mani sul viso, accalorato per la frustrazione. Non era nemmeno la prima volta che bazzicavo per South of Market dopo il tramonto e non mi era mai successo nulla. La cosa più tremenda che era capitata era stata quella volta che mi ero seduta su una gomma da masticare su un muretto e non ne voleva più sapere di togliersi dai miei pantaloni, perciò perché preoccuparsi tanto? Ero abituata a cavarmela da sola, proprio come lei voleva che facessi. Gestivo la casa e mi occupavo delle faccende domestiche anche senza di lei.
Con un moto di rabbia mi chinai, afferrai una delle mie ciabatte e la gettai con violenza contro la porta, immaginando di non avere ostacoli davanti a me e di colpire mia madre dritta sul quel faccino perfetto e glaciale. Mancai il bersaglio di quasi un metro e la mia umiliazione crebbe, facendomi sentire una vera idiota per quel gesto infantile. Di certo quella non era una vera dimostrazione di maturità.
Il rumore dell’apertura del garage interruppe i miei pensieri e insinuò nella mia mente un’idea. Tesi l’orecchio e rimasi in ascolto dell’auto di mamma che faceva manovra e si immetteva in 5th Avenue. La speranza rinacque in me mentre un proposito prendeva forma più definita nel mio cervello, dal lieve ed eccitante retrogusto di sfida.
Mi avvicinai all’entrata e tuffai le dita nel posacenere posto sul mobiletto accanto allo specchio. Nessuno in casa era fumatore o lo era mai stato, perciò da quando era stato acquistato quell’oggetto non aveva mai svolto il suo vero compito, un po’ come era accaduto per il maestoso tavolo nella sala da pranzo.
Con una stretta d’emozione allo stomaco, strinsi nella mano l’oggetto che avevo sperato di trovare, e come debole giustificazione, mi dissi che avrei preferito disobbedire a mia madre piuttosto che deludere le mie aspettative e quelle dei miei amici. Con qualche piccolo accorgimento lei non sarebbe venuta a saperlo e ad ogni modo, se proprio avesse voluto che facessi la brava, avrebbe dovuto almeno premurarsi di portare con se anche le chiavi dell’altra macchina.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


L’uomo che agirà con presunzione e senza ascoltare il sacerdote che sta là per servire il Signore tuo Dio, o il giudice, quest’uomo morirà.
Deuteronomio, 17,12.




2.




Per tutto il giorno mi godetti la familiare assenza di mia madre e la piacevole convinzione di essere stata più furba di lei, nonostante non avessi ancora avuto l’occasione di dimostrarglielo. Ogni volta che il senso di colpa sembrava avere il sopravvento, lo ricacciavo indietro ripensando a quanto alla mia età fosse normale avere qualche piccolo moto di ribellione nei confronti dell’autorità. A mia discolpa, mia madre era una vera strega, perciò non avevo nulla di cui sentirmi veramente responsabile. E poi era lei che mi chiedeva di cavarmela, perciò davo per scontato che uscire senza un vero e proprio benestare da parte sua rientrasse nella categoria dell’arrangiarsi.
Restare a casa da sola per me non era un problema. Fin da piccola ero stata forzata dalle ambizioni e dalle esigenze lavorative dei miei genitori. Entrambi nel ramo legale, avevano poche ore da dedicare alla cura della vita domestica, e se un tempo la cosa aveva dato segno di disturbarmi o dispiacermi ora non potevo che essere felice di gestire da sola la mia casa. La responsabilità di quelle mura non mi pesava, anzi, mi spronava alla cura dei miei spazi e mi assicurava che ero in grado di farcela anche senza grandi aiuti.
Louis spesso mi prendeva in giro perché non mi dispiaceva fare le pulizie e mi definiva una maniaca dell’ordine. Quale ragazza di diciotto anni sana di mente amava passare l’aspirapolvere e lavare i vetri? Per quanto insistessi nel ripetere che non si trattava di un’ossessione, non potevo dargli tutti i torti e non riuscivo a fare a meno di assicurarmi che tutto in casa mia fosse in condizioni adatte a renderla vivibile, per me e per qualsiasi eventuale ospite.
Un’altra mia passione che riguardava la sfera domestica era la cucina, ma in questo caso Louis non aveva nulla da ridire dato che lui era uno dei miei assaggiatori di fiducia.
Non lo consideravo un semplice interesse, bensì un amore trasmessomi dal sangue di mia nonna attraverso le vene di mio padre, saltando una generazione e colpendo solo me in famiglia, e alimentato dalla necessità di non morire di fame o non consumare troppo cibo spazzatura a causa della mancanza dei genitori per gran parte della giornata.
Mia madre non amava cucinare, non era molto brava e non aveva nemmeno il tempo per cimentarsi in piatti che richiedessero troppo tempo. Non aveva mai preparato qualcosa di disgustoso, immangiabile o portatore sano di intossicazioni, ma sembrava che tutta l’indifferenza che provava nei confronti del cibo si riversasse nei suoi piatti, perciò preferivo di gran lunga arrangiarmi anche in quella attività. Senza contare che era anche terribilmente sbadata. Soprattutto negli ultimi tempi, quando faceva tardi sul lavoro, non mangiava assieme a me. Pur senza esserne sicura potevo immaginare che tenesse in ufficio diversi menù di ristoranti take away. Non disprezzavo le ordinazioni a domicilio, ma ero quasi contraria al concetto di cucina semplicemente come mezzo per placare la fame e riempirsi lo stomaco. Vedevo una sorta di strana magia nella preparazione di un piatto, una scintilla di passione che si riversava inevitabilmente nel cibo, il segreto per raggiungere i sensi e il cuore dell’assaggiatore. Era un lento corteggiamento fatto di sapori, odori e combinazioni speciali, perciò fin da piccola mi ero data da fare per imparare la sottile e meravigliosa arte della buona tavola, dapprima semplicemente affascinata dai movimenti della nonna in cucina, poi sempre più decisa a partecipare in prima persona. Avevo appreso da lei tutto il possibile e aperto finalmente i libri di ricette in casa nostra, mai utilizzati se non per esperimenti finiti male. Ora erano davvero degni di definirsi ricettari, non più così intatti come lo erano stati al tempo dei tentativi di mia madre, ma pieni di annotazioni in matita ai lati della parole stampate, precisazioni da me scritte dopo esperimenti e verifiche, qualche macchia indefinita sulla carta e foglietti volanti infilati tra una pagina e l’altra, pronti a planare a terra ogni volta che estraevo un volume dalla mensola.
Nonna aveva il merito di avermi insegnato le basi, ma un ruolo fondamentale l’aveva giocato anche la mia curiosità di bambina e la determinazione a voler fare sempre meglio. Ciò che di lei più mi aveva colpito era la luce che scorgevo nei suoi occhi ogni volta che si sfiorava l’argomento cucina. La parola passione acquistava senso quando ricordavo il suo viso lievemente paffuto, dalla pelle costantemente profumata di saponetta e morbida come il velluto. E oltre all’aroma di pulito, ripensando a lei affioravano nella mente gli stessi odori che da piccola mi aveva insegnato a riconoscere e amare.
Quella mattina cercai una distrazione dietro ai fornelli, cucinando qualcosa di semplice ma che mi tenesse occupata la mente da pensieri che non riguardassero solo l’uscita di quella sera. Feci un salto al supermercato per prendere qualcosa di fresco e passai il tempo così, accompagnata dallo sfrigolio delle verdure e dall’aroma che la carne rilasciò nella cucina.
Quando fu il momento, salii elettrizzata le scale che portavano alle camere da letto e ai bagni che ad esse erano accostati. Quando in casa eravamo ancora in quattro era stato utile avere il proprio lavandino personale, una doccia tutta per sé, una vasca e uno spazio riservato dove poter mettere le proprie cose senza il rischio che qualcuno ci mettesse il naso o invadesse territori altrui. Ora che vivevo da sola con mia madre, c’era un bagno in più, completamente inutilizzato perché l’abitudine mi spingeva ad usare sempre e soltanto il mio.
Ero lì quando squillò il telefono, impegnata a depilarmi le gambe per la grande occasione. Non avevo bisogno di essere una sensitiva per indovinare chi fosse. Sapevo che prima o poi l’apparecchio avrebbe dato segni di vita, perciò lo avevo messo a portata di mano, accanto alla vasca, sul cesto dei panni sporchi. Sciacquai via la schiuma dalle mani e afferrare il telefono con le dita ancora bagnate, sgocciolando sulle piastrelle.
Il fattore scatenante della chiamata era stato un sms al mio migliore amico Louis, risalente a pochi minuti prima: Mia madre ha detto no per stasera. Una frase volutamente misera, senza particolari spiegazioni o scuse, per scatenare nel ragazzo la reazione che volevo e che mi esplose nell’orecchio non appena risposi alla chiamata.
«Cos’è ‘sta storia?» strillò Louis, la voce resa acuta dall’agitazione.
Con il telefono in precario equilibrio tra guancia e spalla, continuai l’operazione.
«Niente...» mormorai per tutta risposta, con una voce che volutamente tinsi di finta delusione. Dentro di me il mio stomaco si contrasse in un miscuglio di emozioni che comprendevano la gioia immensa di poter uscire con lui e Jenny e quel tocco di proibito che la disobbedienza a mia madre mi stava procurando.
«…è solo che mia madre si è voluta mettere in mezzo anche stavolta. Proprio non le va giù che vada in quel posto, dice che è pericoloso».
«Pericoloso? Andiamo in un locale, non a prendere a calci i tori».
Aprii il rubinetto quanto bastava perché un filo d’acqua scorresse nella vasca, e sciacquai il rasoio, contemplando il risultato. Una striscia di pelle liscia percorreva la mia gamba, interrompendo in verticale il candore della schiuma. Una piccola strada in mezzo alla neve.
Dato che tardavo a rispondere, Louis insistette con un che di lagnoso nella voce.
«Dai, Amber, non puoi farmi questo, sono settimane che programmiamo questa serata, non possiamo buttare tutto all’aria! Per di più mi avverti solo ora? Mi sono già preparato!»
Fui grata del fatto che una normale conversazione al telefono potesse celare la mia espressione, di certo troppo rivelatrice del divertimento che stavo provando. La voce lievemente stridula del ragazzo mi convinse a tacere ancora un secondo, per godermi appieno la sua vana frustrazione. Lo sentii sospirare profondamente nel ricevitore e mi scappò una mezza risata che nascosi con un colpo di tosse.
«Lo sai che diceva Orazio?» riprese dopo qualche istante di silenzio, facendomi alzare gli occhi al cielo. Tipico di Louis imbarcarsi in riflessioni filosofiche e adattarle come più gli piaceva. Pensai di interromperlo prima che procedesse con la predica, ma decisi di lasciarlo parlare, per vedere dove sarebbe andato a finire col discorso.
«Che diceva?» lo incalzai, pur sapendo che assecondarlo non era una buona idea. Era la stessa regola che valeva anche per i bambini capricciosi.
«Diceva di cogliere l’attimo, Amber. Carpe Diem
«Che buffo, credevo che alle lezioni di latino dormissi».
«Sì, ma ho visto L’attimo fuggente. Robin Williams mi ha insegnato molto».
«Non credo che la frase sia stata ideata in previsione di una serata di ballo scatenato e drink a basso costo» avvolsi entrambe le gambe in un asciugamano e stetti in silenzio, sorbendomi il mio migliore amico che teneva un’improbabile conferenza al telefono su come la vita fosse fatta per essere vissuta appieno.
«Che importa a cosa si riferiva? È un concetto perfettamente utilizzabile anche per la nostra situazione. È necessario rendere attuale ciò che è antico, togliere la polvere e le ragnatele dalle frasi di chi ci ha preceduto e renderle nostre, non credi?»
«Non so che dirti Louis, lo sai com’è fatta mia madre, ha le sue idee, le sue convinzioni. È difficile farle cambiare idea quando si intestardisce».
«Non vedo perché dovrebbe preoccuparsi, non si fida di me? Potrei proteggere sia te che Jenny ad occhi chiusi».
Stentavo a crederlo, ma non lo dissi ad alta voce per non ferire il suo ego di maschio. Non era un palestrato e non lo sarebbe mai stato. Amava dormire fino a tardi e non evitava di riempirsi di schifezze quando ne aveva l’occasione. Non era ciò che si definiva un salutista e il massimo di movimento che per lui valeva la pena di essere compiuto era muoversi come una biscia quando ascoltava il suo iPod. C’era da dire che aveva un gran senso del ritmo, era imbattibile sotto quel punto di vista, ma non credevo che bastasse per difendere due donzelle in pericolo. Se mai ce ne fosse stato bisogno, ed era il caso di sottolineare il se più volte, che avrebbe potuto fare contro qualche malintenzionato? Ondeggiare i fianchi a ritmo di musica?
«Louis…» tentai di inserirmi invano nel suo monologo.
«Te ne pentirai, ne sono certo! Resterai a casa tutta la sera a girarti e rigirarti i pollici, struggendoti nel pensiero di aver mandato a monte una serata perfetta, per colpa di stupide preoccupazioni…del tutto infondate tra l’altro!»
«Louis, calmati».
«E soprattutto, di aver gettato nel più tetro sconforto il tuo migliore amico, per non parlare di…»
«Louis, frena la lingua, tesoro».
Lo specchio sopra il lavandino mi restituì il riflesso della mia immagine. Gli occhi scuri ereditati da mio padre mi fissavano dalla superficie liscia, incorniciati dalla pelle chiara del viso e da capelli biondi tagliati abbastanza corti perché non arrivassero alle spalle, ma sufficientemente lunghi perché coprissero le orecchie. Di natura erano lisci, ma avrebbero avuto bisogno di un severo colpo di piastra per correggere l’aspetto arruffato che assumevano ogni volta che li lasciavo asciugare all’aria. Era difficile stabilire da quale dei miei genitori li avessi ereditati, dato che erano biondi entrambi, ma di certo, e c’era da dire anche grazie al cielo, assomigliavo più a papà, tranne nella grandezza della bocca, presa certamente da mia nonna e che giudicavo più un difetto che una caratteristica graziosa. Si diceva che le donne dalla bocca grande fossero mangiatrici di uomini e dato che come definizione non mi si addiceva per niente, mi domandavo il criterio con cui avesse operato madre natura su di me. Probabilmente non aveva tenuto conto delle leggende popolari.
«Che c’è?» fece Louis nel ricevitore, distogliendomi dalla mia immagine nello specchio e dai miei pensieri. Per quanto fosse divertente prendersi gioco del mio migliore amico, il suo nervosismo mi convinse a darci un taglio.
«Tu mi conosci, non è vero?» chiesi.
«Meglio di chiunque altro, perché?»
«Allora sentiamo, da quando in qua ascolto quello che dice mia madre
Caricai le ultime due parole con disprezzo, in attesa che il mio migliore amico facesse due più due. Il silenzio nel ricevitore era assoluto, probabilmente stava persino trattenendo il respiro. Dopo quella che mi parve un’eternità lo sentii sospirare.
«Mi stai mettendo in difficoltà, Amber. Stai cercando di dirmi che visto che non le dai mai ascolto era giunto il momento di farlo oppure che rimani coerente in quello che pensi di lei?»
«Secondo te, testone?» Louis trasse un profondo respiro che mi parve quasi tremulo, come se l’adrenalina gli stesse attraversando tutto il corpo. Non riuscii a trattenere una risatina.
«Quindi vuol dire che…»
«Ho promesso di portarti al Mephisto stasera e così farò, che a mia madre piaccia o no. Si sbaglia se crede che basti sbraitare un po’ per farsi rispettare». Lo sentii prendere fiato.
«Davvero? Allora era tutto uno scherzo? Oddio, mi hai fatto prendere un colpo! Amber, ma sei pazza?» gridò nel telefono, probabilmente stringendosi il petto con la mano, con fare drammatico. «Hai giocato lo stesso brutto tiro anche a Jenny?»
«Certo che no, eri tu il bersaglio principale della mia perfidia, lei è troppo diplomatica, l’avrebbe presa benissimo. L’ho detto solo a te perché sapevo che ti saresti seccato di più. E ci sei cascato con tutte le scarpe, sei peggio di un bambino».
«Ma che stronza!»
«Ehi, vacci piano!» Finsi un tono offeso, ma bastava il mio sorriso a smentirlo. «Chi è che ti scarrozza in giro, stasera?»
«Ho detto stronza?»
«Ho sentito benissimo».
«Scusa, mi sono confuso, intendevo dire che sei un vero angelo, amore mio. Ti voglio bene lo sai? Beh, certo che lo sai, ma te lo ripeto. Ti voglio bene!» la sua risata, unita all’epiteto, mi scaldò il cuore anche attraverso il ricevitore e il paio di chilometri che ci separavano. Profonda, ma con un che di infantile che metteva allegria, come se il fatto che fosse già da un po’ entrato nella vita adulta non contasse nulla e non potesse cancellare l’inguaribile bambinone che giaceva nascosto da qualche parte dentro di lui. Conoscendolo stava saltando sul letto o qualcosa di simile, posseduto dal suo stesso entusiasmo. L’avevo visto ancora parlare al telefono ed era uno spettacolo imperdibile. Aveva la tendenza a camminare qua e là come una mucca al pascolo, ovunque si trovasse in quel momento. Se si trovava in camera, come immaginavo, era probabile che stesse percorrendo a lunghi passi la stanza e facendo su e giù dal letto.
«Non vedo l’ora di farmi due salti in pista, gli esami mi hanno prosciugato» continuò lui, il solito esagerato.
«Vacci piano, Tony Manero, la pazienza non è mai stata il tuo forte. Passo a prendervi alle otto in punto sotto casa di Jennifer. Fatti trovare pronto, bello e profumato».
«Nessun problema, io sono sempre bello, non c’è bisogno che mi sforzi. E anche voi ragazze, sarete splendide. Faremo un ingresso teatrale nel locale più fico di tutta San Francisco. A stasera, tesoro!» Mi schioccò un sonoro bacio nel ricevitore, con tanto entusiasmo che mi parve quasi di sentire le sue labbra sulla guancia, poi riattaccò, prima che potessi rispondere al saluto.
Uno dei maggiori pregi di Louis era la sua capacità totalmente disinteressata di farmi sentire bella in qualunque occasione in qualsiasi condizione mi trovassi, e lo stesso faceva con Jennifer. Era magnifico il suo modo di considerarci sempre speciali, qualcosa che mi gratificava e mi metteva a mio agio. Jennifer non era una grande amante dell’esuberanza, ma avevo l’impressione che quella di Louis fosse per lei fondamentale. Era familiare, confortevole anche per una come lei, così schiva e poco incline alle smancerie.
La mia bocca troppo grande sulla superficie riflettente dello specchio mostrò un sorriso enorme che esprimeva alla perfezione il mio entusiasmo.
Tutto stava andando alla grande e il prosieguo della serata sarebbe stato ancora meglio, non avevo dubbi al riguardo. E per quanto riguardava mia madre, che se ne stesse pure nel suo ufficio spazioso e più accogliente di casa sua, a rivoltare scartoffie assieme al misterioso Mr. Seymour, chiunque egli fosse.
Utilizzai tutto il tempo che mi rimaneva fino all’ora dell’appuntamento per finire di prepararmi, per sistemarmi i capelli e per pensare al trucco. I miei movimenti furono accompagnati dallo stereo acceso e dal cd che inserii per farmi da sottofondo. Essere sola in casa comportava un silenzio che certe volte era rilassante, ma che dopo un po’ trovavo snervante, perciò feci avanti e indietro dalla camera al bagno seguita costantemente da accordi di chitarra e dalla voce familiare di Van Morrison che intonava una canzone dopo l’altra.
Mi stirai i capelli, con il vapore della piastra che si alzava ad ogni passata, e nonostante sapessi che fosse più sicuro restare fermi durante l’uso dell’eyeliner, non riuscii ad impedirmi di tenere il ritmo con il piede nudo sul tappetino del bagno, sulle note di Brown Eyed Girl.
Fissai il mio viso e come una bambina intenta a rimirarsi dopo aver provato i trucchi di mamma, tentai qualche smorfia e diversi sorrisi, come se stessi cercando il migliore da sfoderare appena varcata la soglia del Mephisto. Decisi di lasciare intatta la bocca, abbastanza rosea senza che ci dovessi applicare rossetti o lucidalabbra.
Lanciai un’ultima occhiata allo specchio.
«You my brown eyed girl…» canticchiai, e dopo smorfie e linguacce, l’ultimo sorriso che lo specchio mi restituì fu un sorriso sincero.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***





Disse allora il Signore: «C’è il grido di Sodoma e Gomorra che è troppo grande, e c’è il loro peccato che è molto grave! Voglio scendere e vedere se proprio hanno fatto il male di cui mi è giunto il grido, oppure no; lo voglio sapere!»
Genesi, 18, 20-21.


3.


Riflettendo a lungo sulla mia vita sentimentale ero giunta a conclusione che c’era qualcosa di sbagliato in me. O perlomeno, nella mia capacità di giudizio.
Ero un disastro nelle questioni amorose, sceglievo sempre il ragazzo sbagliato e per quanto tutte le volte mi consolassi dicendomi che non dipendeva da me, in realtà sapevo che sotto sotto era colpa mia. Ero io che sceglievo chi frequentare, ero io che cercavo qualcosa di serio, perciò le spiegazioni potevano essere due: o la sfortuna mi perseguitava, oppure i miei gusti mi imponevano di innamorarmi sempre e solo di personaggi bizzarri, discutibili o inadatti a me. E non avevo attenuanti nemmeno se tiravo in campo la scusa dell’ignoranza, perché la fama dei ragazzi con cui ero stata avrebbe dovuto scoraggiarmi dal ronzare loro intorno.
Il mio primo fidanzato era stato Arthur, noto per essere una testa calda. Era gentile con me, ma sempre sulla difensiva, perciò alla prima provocazione alzava le mani. Da quel punto di vista non mi aveva mai sfiorato con un dito, ma un giorno sì e uno no rimaneva coinvolto in qualche rissa o scazzottata.
Ben invece mi aveva conquistata facendomi leggere le sue poesie, profonde e allucinate. Poi avevo scoperto che l’ispirazione non gli veniva da paesaggi tetri ma dagli acidi. Pazienza.
Non erano cattivi ragazzi e io questo l’avevo capito, ma dopo un po’ di tempo passato con Arthur e con Ben, mi ero resa conto che i loro problemi erano più grandi di me, ben oltre le mie possibilità e stavano cominciando a schiacciarmi come macigni che consapevolmente mi ero caricata sulle spalle. Non ero nemmeno sicura di averli mai amati davvero.
Anche Louis si era rivelato una scelta sbagliata, ma con lui era diverso. Ero innamorata di lui praticamente da quando avevo memoria, da quando all’asilo giocavamo insieme e condividevamo risate e ginocchia sbucciate. Eravamo cresciuti insieme, avevamo imparato a fidarci l’uno dell’altra e a conoscerci, nei nostri pregi e nei nostri difetti. Per questo ad un certo punto della mia vita avevo dato per scontato che prima o poi avremmo finito per stare insieme. Stupidamente avevo programmato tutto nei minimi dettagli. A ripensarci era sorprendete la precisione con cui avevo messo insieme i miei progetti per il futuro insieme a Louis.
Ci saremmo sposati a venticinque anni, nella Saint Cecilia Church secondo il rito cattolico, perché sebbene entrambi non fossimo credenti, io adoravo i matrimoni tradizionali. Nella mia mente la fantasia era estremamente dettagliata: le splendide navate decorate a fiori bianchi, le vecchie pitture sulle pareti e le facce felici dei presenti.
Lui, bello e sorridente, nel suo elegante completo scuro, mi avrebbe aspettato all’altare visibilmente sulle spine e appena giunta al suo fianco mi avrebbe guardato con la coda dell’occhio e sussurrato a denti stretti, Cavolo, sei uno schianto! facendomi sciogliere per l’emozione e guadagnandosi un’occhiataccia severa da parte del prete.
All’epoca nella mia mente non c’era spazio per nulla che non fosse la felicità assoluta della mia nuova vita con lui, una casa accogliente dove crescere gatti, cani e bambini, un grande giardino dove correre spensierati.
Nella mia visione utopistica anche mia madre sarebbe stata capace di commuoversi durante le nozze, e la luna di miele non si sarebbe svolta in una località esotica, bensì a Disneyland, con una prima notte di nozze tutta passata a mangiare caramelle e tirarci i cuscini dell’hotel a cinque stelle. Un cliché dietro l’altro, insomma.
Tutto perfetto, tutto meraviglioso, in uno scenario da favola e con l’uomo dei miei sogni.
Per questo ci ero rimasta così male quando mi aveva confessato di essere gay.
Ricordavo ogni istante di quella rivelazione di molti anni prima, ogni parola si era impressa nella mia memoria come un marchio fatto di umiliazione e imbarazzo. Imbarazzo per me e, immagino, imbarazzo per lui.
Era stato stranamente silenzioso e sulle spine per tutto il giorno, talmente fuori dal suo solito essere da rendere evidente che qualcosa non andava. Quella sera aveva chiesto di vederci in una zona tranquilla per fare due chiacchiere, Jennifer aveva optato per il parco. E lì, tra un giro in altalena e qualche silenzio di troppo, ci aveva raccontato tutto, il viso basso, pallido come un cencio e con gli occhi lucidi. Ci aveva impiegato un tempo incredibilmente lungo per trovare il coraggio di guardarci negli occhi, ma quando aveva cominciato a parlare non lo aveva fermato più nessuno e secondo dopo secondo la mia nausea era cresciuta, man mano che l’immagine di noi due di fronte all’altare si sgretolava. La consapevolezza di essermi umiliata da sola con sentimenti non corrisposti non mi aveva mai lasciata del tutto, ma in quel momento era stato come se ogni pezzo del puzzle si fosse sistemato da solo e io e Jenny lo avevamo stritolato in un abbraccio che parlava da solo. Era il mio Louis, il nostro Louis, e per nulla al mondo sarebbe cambiato qualcosa dopo la sua rivelazione. L'istinto di protezione era subentrato alla tristezza e mi ero ripromessa di non farlo mai sentire fuori posto. Nessuno doveva sentirsi in imbarazzo nel confessare la propria vera natura. Nessuno, tanto meno qualcuno che ormai amavo non come un partner, ma come un fratello.
Avvicinandomi al luogo dell'appuntamento, dopo aver “preso in prestito” l'Audi di mamma con un misto di eccitazione per il piccolo crimine giovanile che stavo compiendo, vidi Louis camminare su e giù lungo il marciapiede di Palm Avenue, palesemente in fibrillazione, con Jennifer che lo fissava come se avesse accanto un indemoniato.
Lei era in piedi, immobile e paziente, ben consapevole che l’agitazione non mi avrebbe fatto giungere più in fretta, mentre lui continuava ad alzarsi, passeggiare e sedersi sull’idrante bianco a lato del marciapiede.
Quando mi fermai accanto a loro non feci nemmeno in tempo a rendermene conto e il ragazzo era già saltato in macchina con una velocità fulminea, occupando il posto davanti come una première dame. Jennifer con la solita calma e l’innato spirito di adattamento, si sistemò dietro, lanciandomi uno sguardo sereno attraverso lo specchietto retrovisore. Nonostante la pacatezza potei facilmente riconoscere sul suo viso i sintomi dell’entusiasmo quando mi rivolse il suo saluto con tutta calma. Louis invece me lo strillò nell’orecchio, quasi fracassandomi un timpano. Non riuscì a stare fermo nemmeno sul sedile, controllando che la frangia fosse in ordine nello specchietto, armeggiando con la radio e tenendo il ritmo con la testa. Fece per cantare, ma gli tappai la bocca con la mano, prima del disastro.
«Per carità, taci, o farai spiaggiare qualche balena». Jennifer ridacchiò dietro di me.
«Sei crudele! per come ti sei comportata questo pomeriggio dovresti permettermi di fare persino un tour!» replicò il ragazzo, fingendosi offeso, ma faticando in realtà a restare serio.
Distolsi solo per un istante solo gli occhi dalla strada, per puntarli nello specchietto retrovisore che mi regalò l’immagine di una Jennifer tranquilla, ma attenta alla conversazione. Lo capii dalle labbra dipinte di rosso lievemente increspate in una smorfia divertita e dall’occhiata eloquente che mi lanciò a sua volta. I suoi occhi grandi e scuri, abbastanza sporgenti da donarle un’aria un po’ svampita, erano truccati pesantemente di nero, in perfetto stile dark, anche se sapevo che aveva un cuore di pasta frolla.
«Pensa che ha chiamato anche a me per lamentarsi» sorrise la ragazza, guadagnandosi da Louis un’occhiataccia.
«Primo…» chiarì lui alzando il dito indice per tenere il conto di ogni argomentazione.
«...non mi sono lamentato, era una semplice constatazione, e secondo, come accade tutte le volte che apro bocca ho ragione! Non voglio essere patetico, ma siamo giovani, abbiamo appena finito la scuola, l’estate è tutta nostra e ce la dobbiamo godere! Non voglio rimpianti, le cose brutte possono accadere tutti i giorni in tanti modi, cadendo dalle scale di casa, soffocati da una nocciolina o spiaccicati contro il parabrezza di una macchina…»
Avevo ascoltato la sua tiritera con la considerazione che meritava, come il discorso di un ragazzo che trattava con eccessiva serietà una semplice uscita tra amici, ma quando pronunciò le ultime parole ebbe la mia completa attenzione e nello stesso istante un silenzio gelido calò nell’abitacolo, lasciandomi per un secondo senza fiato. Si trattava di una sensazione familiare, ma ancora difficile da gestire. Strinsi le mani attorno al volante, deglutendo per scacciare l'improvviso nodo in gola e la sensazione di nausea. Respirai a fondo, mantenni gli occhi sulla strada, contando i battiti del mio cuore, divenuti rapidi e impetuosi. Nessuno fiatò, ma percepii il loro sguardo su di me, la loro compassione premermi addosso come qualcosa di corporeo e angosciante.
Louis fece il possibile per attirare la mia attenzione con il viso di secondo in secondo sempre più serio.
Deglutii, tentando di farmi spuntare sulle labbra un sorriso più rilassato possibile, ma mi riuscii solo qualcosa di palesemente falso perché con la coda dell’occhio, vidi Louis scuotere la testa.
«Amber, mi dispiace» mormorò, visibilmente mortificato. Con la coda dell’occhio lo vidi scambiarsi fuggevoli occhiate con Jennifer, come per cercare soccorso o per scusarsi anche con lei per aver richiamato alla memoria qualcosa che non doveva essere nemmeno sfiorato col pensiero.
Mi schiarii la voce, nel tentativo di ribattere e tranquillizzarlo, ma dovetti farlo più volte prima che qualche parola, seppur strozzata, riuscisse ad uscirmi di gola.
«Nessun problema».
«Sono stato un idiota, scusami. Non intendevo, Amber, mi dispiace» ripeté, ma più insisteva, più i ricordi tornavano ad affollarmi la mente, pungendo dolorosamente come aghi conficcati nel cuore, come lame affilate a cui mai mi sarei abituata.
«Ti prego Louis, lascia perdere. Sto bene, davvero. E comunque hai ragione, la vita è troppo breve per tutti perciò dimentichiamo questa conversazione e pensiamo solo a divertirci insieme».
Nel riflesso dello specchietto retrovisore il viso di Jennifer parve distendersi, sebbene continuasse a guardarmi con aria guardinga. Louis si sistemò meglio sul sedile come se muoversi troppo potesse scatenare una mia terribile reazione.
Mettendo forzatamente da parte ogni cattivo pensiero, ogni ricordo doloroso, svoltai in Mason St. in cui si notava quanto il divario tra quella zona e quelle in cui io e i miei amici abitavamo fosse enorme e ormai palese. Qualche piccolo albero qua e là ancora tingeva di verde alcuni punti ai lati delle strade, ma erano molto più simili a piccoli cespugli ben tosati di una ricca e sofisticata villa. Il risultato della lotta tra natura e industrializzazione ormai pendeva dalla parte della città.
A SoMa, trovai parcheggio solo per un colpo di fortuna sfacciato, accanto a un distributore quasi deserto, ma la nostra eccitazione lo rendeva incantevole quanto lo spazio privato della carrozza regale.
Come un fulmine Louis si gettò fuori dall’auto senza aspettare nessuno, colto dalla sua tipica iperattività, mentre io calzavo il cambio di scarpe. Accompagnata dal rumore dei tacchi sull’asfalto raggiunsi i miei amici, mentre Louis ci stringeva a se. Indossava una maglietta verde acceso che gli rendeva impossibile l’eventuale tentativo di passare inosservato, con una scritta racchiusa in una cornicetta rettangolare che dava l’impressione di essere stampata sul suo petto alla bell’e meglio, in una perfetta imitazione di un marchio di fabbrica: Party Animal.
Nessuna altra scritta avrebbe potuto riassumere meglio il suo carattere socievole.
Era abbinata a dei jeans lievemente consumati sulle cosce e a delle scarpe nere dai lacci verdi intonati alla maglietta.
«Wow, sei davvero un gran fico questa sera» gli sussurrai sorridendo, rassicurata dalla sensazione della pelle del suo braccio contro la nuca. Era parecchio più alto di me, perciò avevo la sua spalla che mi sfiorava l’orecchio ad ogni nostro movimento.
«Potrei dire la stessa cosa di voi. Sono accompagnato da due splendide ragazze, cosa potrebbe mai desiderare di più un uomo?»
Attraversando a piedi un distributore di benzina, lanciai un’occhiata divertita a Jennifer, sicura che avesse capito esattamente cosa quello sguardo significasse. Non precisai a voce che quel che Louis avrebbe potuto avere di più in quel momento erano due accompagnatori al posto di due accompagnatrici.
La ragazza ricambiò la stessa mia occhiata d’intesa. Volutamente semplice e spontanea come al solito, ma non per questo meno affascinante, portava dei pantaloni neri attillati, che mettevano il risalto la sua corporatura piuttosto esile, ma slanciata, infilati sotto degli anfibi e retti da una cintura borchiata che scintillava sotto la luce dei lampioni e dei negozi.
Sulla maglietta nera, ma tinta di rosso sulle spalle, mostrava quasi con orgoglio l’immagine di una donna angelo dall’aria triste. Il trucco era pesante su occhi e labbra, spiccando sull’incarnato pallido come una macchia di colore gettata su una tela. Sul lobo di una delle orecchie notai una rosellina color argento che capii essere solo una clip applicata momentaneamente. Jenny non aveva i buchi alle orecchie, da piccola i suoi ci avevano provato, ma anche per loro era stato impossibile convincerla e tenerla ferma. Probabilmente quello fu l’unico moto di vera ribellione mai nato dall’animo buono della mia amica.
Dopo quel trauma non aveva più voluto sentir parlare di aghi e affini, detestava l’idea che qualcosa le penetrasse la pelle, odiava la vista del sangue e si copriva gli occhi tutte le volte che guardavamo insieme Grey’s Anatomy. Lei stessa non avrebbe mai fatto male ad una mosca.
Poco prima dell’incrocio con 10th St. un capannello di gente assiepata davanti ad un’insegna luminosa a caratteri gotici di un rosso brillante attirò il nostro sguardo, come prova che eravamo giunti a destinazione. L’emozione di Louis parve attraversargli il braccio e invadere anche me.
«Ci siamo» mormorò, trattenendosi a stento dal saltellare e costringendo il suo corpo, a volte ingovernabile, a camminare con decenza.
Di tanto in tanto le mie braccia venivano percorse da brividi che non sapevo se attribuire all’euforia o alla serata particolarmente fresca.
Il clima ambiguo di San Francisco riusciva a trarre in inganno chiunque, soprattutto i turisti che a fine giugno si aspettavano sempre di imbattersi in un caldo torrido da autentica estate californiana. Difficilmente però le temperature giornaliere superavano i venti gradi, merito della fresca brezza marina.
Il Mephisto nasceva al piano terra di un grande palazzone blu scuro, più alto di quasi tutti gli altri nella zona, con grandi vetrate verso i piani alti e porte ad archi come entrate principali.
Raggiungemmo uno di quelle in pochi passi. L’insegna era circondata da un alone di luce vermiglia, abbastanza intenso perché ne fosse illuminata anche parte della strada e i volti delle persone riunite all’esterno. Seguita dagli altri, attraversai la cortina di fumo di sigaretta che ci si parò di fronte come un sipario. Un buttafuori di quasi un metro e novanta mi squadrò da capo a piedi, con la schiena posata contro la parete e un accenno di sogghigno.
«C’è qualche problema?» chiesi di rimando, domandandomi se avessi qualcosa di strano in faccia. Forse il trucco era sbavato, o i capelli erano in disordine, ma ne dubitavo. Quei decisi colpi di piastra prima di uscire avrebbero potuto lisciare un arbusto spinoso.
Le enormi spalle del ragazzo sussultarono quando il sorriso si trasformò in una grossa risata, e a lui si unì una bionda che riusciva solo con la sua presenza ad attirare gli sguardi di tutti i presenti maschi. Louis escluso ovviamente. Il vestito nero che indossava era tanto attillato che era impossibile che sotto portasse qualcos’altro, e questa era l’idea che probabilmente faceva impazzire tutti gli uomini che le ronzavano intorno.
«Nessun problema bambolina, stavo solo cercando di capire se avessi il diploma dell’asilo» rispose quello.
Lanciai uno sguardo oltre il suo corpo massiccio e intravidi la porta di legno pesante del locale, sovrastata da un’insegna molto simile a quella all’esterno. La soglia era a pochi metri da noi, seducente.
Decisamente non era la sera giusta per fare la difficile e mostrarsi permalosa.
Tornai a rivolgere la mia attenzione al giovane uomo di fronte a me. Non aveva l’aria molto minacciosa, nonostante si potesse notare la linea dei muscoli sotto la canottiera nera che metteva in mostra braccia massicce. Il suo viso era bello, con un accenno di pizzetto che gli dava un non so che di malizioso. I capelli neri erano tagliati corti e gli occhi verdi erano fermi su di me, in attesa di una risposta. Gli regalai uno dei miei sorrisi migliori e accondiscendenti, poi con un cenno indicai il suo fisico possente.
«Mai fermarsi alle apparenze. Scommetto che tu nei ritagli di tempo lavori all’uncinetto, e magari dormi anche con un coniglietto di pezza».
Un lampo di denti bianchi quando il suo sorriso si fece più ampio.
«Si chiama Norman ed è il mio migliore amico» rispose, continuando a ridacchiare, poi da perfetto gentiluomo ci indicò la porta con un gesto elegante che non sembrava accordarsi bene con l’aspetto che ore di palestra gli avevano donato.
Mi stupii del fatto che non ci chiese di mostrargli un documento di identificazione per assicurarsi che fossimo maggiorenni, ma forse la mia audacia lo aveva convinto del fatto che non ero una bambina.
Dalla strada superammo l’arco di pietra che sovrastava il portone in legno. Aveva tutta l’aria di una raffinata cornice scelta appositamente per presentare al meglio la bellezza di un quadro famoso.
Alle mie spalle, oltre l’incrocio con 10th St. intravidi la sagoma bianca della St. Joseph Church. Mi sembrava una cosa curiosa che un locale come quello, che a tutto invitata fuorché alla preghiera, fosse stato costruito proprio vicino a un edificio religioso, sebbene fuori uso da un po’ di tempo. C’era una sottile ironia in quella situazione, ma la vita era tutta fatta di contrari. Luce e buio, vita e morte…bene e male.
La bionda mi fece un piccolo cenno verso la porta d’entrata, invitandomi a varcare la soglia e ad abbandonare ogni pensiero estraneo. Poi sorrise, e la splendida cornice delle sue labbra tinte di rosso mise in mostra una corona di denti bianchissimi e perfetti.
«Benvenuti al Mephisto».

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Come un gregge agli inferi sono destinati, scenderanno senz’altro nel sepolcro e la loro gloria è votata alla rovina, gli inferi saranno la loro abitazione.
Salmi, 49,15.


4.


Un bagliore di luce rossa si intravedeva già in cima alla scalinata che portava al piano di sotto, abbastanza larga perché ci potessero passare frotte di persone, ma tanto affollata da farmi intuire che i clienti già a quell’ora non fossero pochi.
Ogni scalino era reso visibile grazie a strisce led flessibili applicate ad ogni spigolo superiore, di un rosso acceso che era chiaramente il colore dominante.
Allungai il collo oltre le tante teste di sconosciuti, colpita dalla presenza di un viso familiare, poi con l’avvicinarsi della persona che avevo individuato, ogni traccia di entusiasmo sparì lasciandomi solo con un vago senso di fastidio, simile alla sensazione di una stretta di mano sudata. Con l’unica differenza che per scacciare il disgusto che provavo per Kurt Neason non bastava asciugarsi i palmi sui jeans.
Ci fu accanto in cima alla scalinata prima che potessi avere il tempo di avvertire i miei amici della sua presenza e con la solita aria da sbruffone urtò violentemente Louis con la spalla, fingendo che fosse stato un incidente.
Sorressi il mio amico afferrandolo per il gomito quasi d’impulso, come se credessi che non fosse in grado davvero di difendersi. Forse lo sottovalutavo o forse ero talmente abituata a proteggerlo o a credere di doverlo fare, che avevo sviluppato una sorta di istinto materno.
Louis tacque, mentre Kurt sghignazzava assieme al suo migliore amico Larry. Entrambi erano stati nostri compagni di scuola, due dei tanti che ero sollevata di non dover più vedere così spesso.
«Sai, dovresti proprio toglierti di torno, Castro!» esclamò Kurt con un disprezzo tale nella voce che mi fece prudere quasi le mani dalla voglia di prenderlo a schiaffi.
Castro. Il solito soprannome idiota e crudele che quasi ogni giorno a scuola erano soliti rivolgere a Louis, facendolo ribollire di rabbia e arrossire per l’umiliazione. Anche in quel momento, sebbene la tinta cremisi dell’illuminazione ci avvolgesse come un velo, lo vidi contrarre con forza i pugni. Castro era noto come il quartiere della città con la maggior concentrazione di omosessuali, diventato cuore della comunità gay di San Francisco attorno agli anni sessanta. Per quanto fossero stati fatti notevoli passi avanti nel riconoscimento dei diritti, il ricordo dell’uccisione di Harvey Milk, politico gay attivo nel movimento di liberazione omosessuale, era fresco e bruciante come una ferita esposta.
Cercai qualcosa di tagliente da dire contro i loro pregiudizi e del loro dannatissimo ego maschile. Forse credevano di essere più virili comportandosi da caproni insensibili, ma reputavo Louis centomila volte più uomo di quanto loro potessero mai essere.
«Giri davvero con la feccia, Hale. Un finocchio senza palle e una sottospecie di cadavere da compagnia» aggiunse il ragazzo, facendo un cenno del capo in direzione di Jennifer la cui pelle appariva mortalmente pallida in contrasto con il nero e il rosso sangue del trucco. La mia amica si strinse nelle spalle con una risatina, totalmente indifferente alle offese. Un meraviglioso pregio di Jennifer era quello di dare alle parole il peso che meritavano. Sapeva quando era giusto accettare un complimento oppure una critica da me e da Louis, ma si lasciava scivolare via ingiurie e provocazioni come se fossero meno consistenti di una brezza leggera sulla pelle. Vederla così impassibile mi diede una certa fiducia. Sorrisi a mia volta rivolta a quella faccia da schiaffi di Kurt, mostrandomi totalmente sicura di me stessa. «E con chi dovrei uscire? Accetto consigli». I suoi occhi verdi si posarono su di me.
«Con noi. Molla gli sfigati» intervenne Larry con un ghigno.
«Due fessi che a stento riescono a leggere una lista della spesa? No, grazie, ho anche io una dignità». Prima che rispondessero o che pensassero a qualche nuovo insulto da rivolgerci, afferrai entrambi i miei amici per il braccio e li trascinai con me, desiderosa di allontanarmi da chiunque potesse rovinarci la serata.
In fondo alla scala cercai lo sguardo di Louis. I suoi occhi nocciola incontrarono i miei e lui annuì con un piccolo cenno del capo, assicurandomi che aveva già messo da parte le offese.
Le viscere del Mephisto si aprirono di fronte a noi offrendosi come qualcosa di delizioso e a lungo atteso. Frugai con lo sguardo ogni centimetro, partendo dai singolari appendiabiti sui lati destro e sinistro dell’atrio, subito prima del corridoio immerso nel fumo. Braccia modellate nella pietra spuntavano dalle pareti, come se diverse persone fossero state sommerse da una colata di cemento e cercassero di liberarsi o di ottenere soccorso in un ultimo disperato sforzo, allungate verso di noi e contratte in una rappresentazione tanto fedele che con un solo sguardo si poteva immaginare la sofferenza dell’essere al quale appartenevano. Alcune avevano le dite tese in avanti, come per sfiorare i passanti, altre verso l’alto come per rivolgere una preghiera a qualche essere celeste e misericordioso, che a quanto pare non aveva la minima intenzione di porre fine al supplizio. Per la maggior parte erano coperte dagli abiti leggeri di altri clienti, ma quei pochi arti visibili sapevano racchiudere con efficacia lo spirito del locale, ancora prima che ci addentrassimo nel suo cuore.
Louis non attese oltre e si gettò nel corridoio, desideroso come tutti noi di vedere di più di quel macabro incanto.
L’ingresso era strutturato in modo che sembrasse suddiviso in tre sezioni della stessa lunghezza, ognuna di esse incorniciate da un arco di marmo grezzo e malamente lavorato, come a riprodurre l’architettura di un palazzo molto antico, ma ancora pregno di tutto il fascino originario.
Le piccole colonne su cui l’arco poggiava erano percorse dal corpo in rilievo di un serpente o di un drago, privo di dettagli come molti bassorilievi medievali che avevo visto sui libri di storia dell’arte.
Entrambi i capitelli raffiguravano due scheletri in piedi, reggenti una lancia che si incrociava verso il basso con quella dell’altro. Aguzzai la vista e mi avvicinai alla figura per coglierne i particolari, malgrado la fretta di Louis.
Osservando con attenzione il punto in cui le lance si conficcavano, vidi un essere alato pressato a terra e trafitto dalle armi dei due scheletri. Mi ricordò l’angelo caduto e triste che Jennifer aveva stampato sulla maglietta, accasciato al suolo e consapevole di non avere speranze.
Il mio sguardo si spostò verso l’alto, percorrendo il corpo incurvato dell’arco, fino alla sua chiave di volta, che ospitava una nuova raffigurazione: un essere grottesco e dal visto sformato addentava il minuscolo e indifeso corpo di un neonato.
Appena superato l’arco, sulla parete di destra e su quella di sinistra c’erano due specchi piuttosto grandi che coprivano i lati di quella sezione di corridoio, posto uno di fronte all’altro.
Colto il mio riflesso in uno di quelli, il mio cuore perse un battito. C’era un diavolo grigio accanto a me, talmente vicino che sembrava quasi abbracciarmi. Sapevo che non poteva essere reale, ma scioccamente mi guardai intorno, come per assicurarmi che in quel luogo così estraneo al mondo comune non fosse davvero possibile trovarsi vicino a una figura simile.
Mi avvicinai per guardare meglio. Non era semplicemente disegnata. Sembrava fosse all’interno del vetro riflettente, intrappolato nelle profondità di quella superficie lucida…e io con lui.
Come se non bastasse, la particolare posizione degli specchi, uno esattamente di fronte all’altro, creava un gioco interminabile di riflessi, con la mia immagine che si ripeteva all’infinito braccata dal demone dal ghigno inquietante teso verso il mio viso.
Presa com’ero da quella meraviglia sussultai quando l’immagine di Jennifer si unì alla mia all’interno di quella prigione infernale.
«Questo specchio è una forza, potrei metterne un paio anche in camera mia. Sembra di essere in trappola, imprigionati per sempre negli inferi» commentò pensierosa, alzando la voce per farsi sentire sopra la musica. Conoscendola avrebbe davvero potuto mettere in atto la bizzarra idea di crearsi un effetto simile nella sua stanza.
Louis sorrideva guardandosi intorno come un bambino piccolo in una chiesa riccamente decorata.
Il suo sguardo si spostò verso l’alto e sul suo volto comparve un’espressione tanto estasiata che mi spinse a raggiungerlo al centro del corridoio e alzare anche io gli occhi al soffitto. Sentii formicolarmi lo stomaco e non era una cosa che mi succedeva spesso quando contemplavo un’opera d’arte al museo. Attribuì l’eccessiva emozione al fatto che l’atmosfera era completamente diversa da quella di una mostra culturale.
Il brivido del proibito.
L’ambiente raffigurato sulla parete era chiaramente infernale, impressione suggerita dalle fiamme che comparivano dietro ai corpi dei dannati. Una miriade di figure nude e magre, maschili e femminili, sembravano volteggiare nell’aria tendendo le braccia per raggiungersi l’uno con l’altro e proteggersi dai ripetuti attacchi dei diavoli.
Questi, uno brandendo una mazza, l’altro con un ferro uncinato, un altro ancora usando le unghie contro una delle sue vittime, tormentavano le anime dannate, che in balia dei loro aguzzini mostravano visi contratti per la paura e il dolore.
Mi soffermai su un particolare: un demone dalla pelle scura, quasi verdastra, stringeva con gli artigli arcuati del piede la gola di una donna dai capelli rossi, che tentava invano di difendersi. La quantità dei dettagli e la bellezza dell’immagine mi lasciarono a bocca aperta, mentre Jennifer già seguiva l’amico all’interno della sezione seguente.
Molte altre persone meravigliate come lo eravamo noi ci camminavano accanto, alcune uscendo, altre entrando per la prima volta in quel corridoio così particolare. Eravamo in tanti, ma chissà come mi sentivo una testimone privilegiata di quel fascino tenebroso, come se i dipinti fossero rivolti a me soltanto e mi parlassero in una lingua arcana, ma a me nota, e in un intimo sussurro che rivelava i prodigi del lato oscuro.
Una ragazza si strinse al braccio del suo accompagnatore squittendo come un topolino e indicando vari dettagli dei dipinti, altri ridacchiarono e si spintonarono già resi impazienti e ingovernabili dall’aria carica di elettrica eccitazione.
Un altro arco introduceva quella parte del corridoio, con altri specchi e nuove immagini dipinte sulla volta. Draghi, serpenti, diavoli, dannati, lamenti di dolore dipinti su visi scarni e contratti con una maestria tale che nel cervello, oltre alla musica, mi sembrava di udire davvero le grida strazianti di ognuno di quei poveri esseri castigati.
Ogni centimetro di parete era una riserva di particolari incredibili. La seconda volta ospitava un cavallo talmente magro che le costole si intravedevano sotto la pelle grigia. Le zampe erano sottili, tanto da farmi chiedere come potessero reggere la notevole mole della bestia e il collo, solitamente muscoloso e possente, era scarno così come il muso allungato e asciutto. Gli occhi erano affossati nelle orbite e sembravano non vedere nulla di ciò che aveva attorno a sé: né i vivi spaventati dal suo passaggio, né i corpi morti tra i quali galoppava.
In groppa al cavallo mi colpì il suo bizzarro e inquietante fantino: uno scheletro aggrappato con una mano ossuta ad una ciocca di criniera dell’animale. L’altra l’agitava in alto come in un macabro saluto al regno dei mortali, mentre sul viso ormai senza carne né pelle si apriva un ghigno che non prometteva nulla di buono. Qualcosa lo divertiva, il potere che esercitava sul mondo dei viventi, la consapevolezza di stringere la loro esistenza tra quelle dita nodose e secche.
Non ero certa di come, ma quel tipo di immagini mi erano vagamente familiari, forse viste in qualche libro di scuola o in uno dei tanti documentari in TV.
Raggiunsi la terza e ultima sezione del corridoio, mentre la musica si faceva sempre più intensa e picchiante man mano che i nostri passi ci portavano verso il bancone che già si intravedeva in parte.
Osservai la mia figura in un nuovo specchio attraversare lingue di fuoco e centinaia di mani protese in una disperata quanto inutile richiesta d’aiuto. Al di sotto della liscia superficie riflettente usciva del vapore denso che dapprima mi coprì i piedi, per poi avvolgermi quasi fino al busto.
Una calca di persone si dimenava come indemoniata in pista, a ritmo della musica che ormai sentivo chiaramente anche io. Un misto di hardcore e techno, a volte martellante come una tachicardia, in altri momenti più moderato per non annoiare nessuno. Da quella distanza riuscii a scorgere la particolare disposizione delle diverse zone del locale.
Il bancone si trovava in posizione sopraelevata rispetto alla pista, raggiungibile tramite scalette in metallo. In questo modo la clientela in attesa di bere poteva osservare la folla danzante dall’alto in basso.
Per l’ultima volta i nostri sguardi si mossero all’unisono verso l’altro, carichi di aspettativa per la volta della terza sezione.
Un uomo dai capelli lunghi, chiaramente Cristo, veniva abbracciato da dietro da un diavolo nudo, dall’aspetto molto umano non fosse per le corna rosse che gli spuntavano dalla testa calva e per gli occhi demoniaci. Si sporgeva verso Gesù come per baciarlo, ma sussurrandogli in realtà qualcosa nell’orecchio. Il suo viso sembrava promettere il mondo intero.
Chiunque conoscesse la storia sapeva come andava a finire: Cristo non aveva mai ceduto alle lusinghe del diavolo e a nessuna delle sue tentazioni, ma l’esito non era importante per quella rappresentazione. Tutto in quel luogo era tentazione, divertimento senza conseguenze, uno spazio staccato dal mondo di tutti i giorni e da tutti i suoi problemi, come se ci trovassimo in un’altra dimensione. Una dimensione che mi piaceva ogni secondo di più.
La nebbia continuò a lambirmi i fianchi mentre raggiungevo Louis e Jennifer che aspettavano il loro turno accanto ad un leggio reggente un grosso libro rilegato in pelle rossa, aperto e contenente le firme e i commenti di chi si era già fatto un’idea sulla serata.
«È un po’ presto per dare un parere, non credi?» rimproverai bonariamente Louis, che già stava scribacchiando senza esitazione sulla pagina.
«Smettila di fare la guastafeste e firma. Sarà uno sballo senza dubbio».
Con un sorriso aspettai che Jennifer terminasse di scrivere la sua opinione, con tanto di faccina sorridente accanto alla sua firma, poi convinta dalla fiducia del ragazzo presi la penna che Jenny mi porgeva e scrissi qualche complimento. La mia mancanza di fantasia mi limitò a qualche banale osservazione sui dipinti e l’atmosfera, ma ero certa di essere stata sincera e la penna parve percepire quali fossero i miei sentimenti. Scivolò velocemente sulle ruvide pagine e l’inchiostro rosso spiccò sul bianco come uno schizzo si sangue sulla neve.
L’ultimo arco, che introduceva al cuore del Mephisto, portava incisa a caratteri gotici una frase misteriosa sulla parte superiore: In girum imus noctem et consumimur igni.
Al bancone in pietra grigia, sistemato in modo che formasse una sorta di quadrato irregolare, c’era già una notevole ressa, ma per nostra fortuna pochi decidevano di accamparsi lì a bere, preferendo invece la comodità di alcuni divanetti posti ai lati della stanza, sovrastati da altre sezioni rialzate e altri salottini. Ai quattro angoli della pista da ballo erano sistemate altrettante gabbie verticali, dentro le quali in movimenti sinuosi danzavano ballerini di entrambi i sessi, abbastanza sensuali da attirare lo sguardo, ma mai volgari.
Riuscimmo a trovare un paio di posti. Louis si comportò da gentiluomo e lasciò che fossimo noi ragazze ad accomodarci sugli unici sgabelli rimasti, decidendo di restare in piedi al mio fianco.
Nonostante la gente fosse già molta, era piacevolmente fresco. Mi ero aspettata una calca asfissiante, temperature claustrofobie e l’aria viziata dei locali sovraffollati, invece mi sentivo perfettamente a mio agio.
«Salve, qualcosa da bere? Vi porto il menù?» Una voce attirò la nostra attenzione, con un che di melodioso nel timbro, nonostante lo sforzo per sovrastare il fragore della musica. Alzai gli occhi verso il viso del cameriere che ci aveva subito raggiunti e l’azzurro limpido dei suoi occhi ricambiò il mio sguardo. Indossava dei cornetti luminosi che avrebbero reso me ridicola, ma che non intaccavano minimamente il suo bell’aspetto.
Ci sorrise tenendo fra le mani tre menù dalla copertina nera, che lasciò cadere sul bancone senza nemmeno attendere che io rispondessi alla domanda.
La nebbia che ci aveva accolto in corridoio si era lievemente diradata ma sorse anche da dietro al bancone cingendo i fianchi del ragazzo e facendo capolino dalla pietra. Mi chiesi come riuscisse a vedere dove metteva i piedi, ma la cosa non sembrava disturbare nessuno dei camerieri, che si affaccendavano qua e là con disinvoltura.
Louis si sporse un poco, posò i gomiti sul bancone e sorrise.
«Grazie!» esclamò, senza togliere un secondo gli occhi di dosso al ragazzo.
«Non c’è di che, quando avete deciso cosa prendere non esitate a chiamarmi».
«Per qualsiasi cosa?»
Evitai di guardare il mio amico con aria scandalizzata, ma il tono allusivo non mi sfuggì affatto. Una delle armi preferite di Louis, totalmente impalpabile, ma tagliente come la più affilata delle lame era la malizia, che sapeva maneggiare con maestria. In realtà era solo un modo come un altro per nascondere la sua insicurezza e proteggersi dalle sue conseguenze.
Come se si fosse accorto solo in quell’istante della presenza di Louis, il cameriere gli regalò uno sguardo che avrebbe fatto stramazzare qualsiasi ragazza con un po’ di buon gusto e sorrise con labbra carnose che incorniciavano denti bianchissimi.
«Certo. Qualsiasi cosa». Continuò a guardare Louis finché non si voltò e tornò al suo lavoro, avvicinandosi prontamente ad altri clienti in attesa di ordinare e dandosi da fare per spinare birra, portare bicchieri di qua e di là, e versare ghiaccio tritato e ingredienti nel lucido shaker.
Il mio migliore amico lo pedinò con lo sguardo in modo tanto intenso che solo una mia gomitata sulla spalla riuscì a distoglierlo. Jennifer si sporse verso di lui con finta aria di rimprovero, in equilibrio sull’alto sgabello, e indicò con un cenno del capo il cameriere.
«Siamo qui da nemmeno cinque minuti e già ti metti a fare il cascamorto con il primo ragazzo che incontriamo?»
«Se il primo ragazzo che incontriamo è uno schianto assoluto, allora sì! Stasera è la volta buona che rimorchio».
«Non mi è sembrato indifferente a te» notai per stuzzicarlo, ma augurandomi davvero che stavolta andasse tutto come lui sperava. Di sicuro, se lo meritava.
Louis picchiettò le dita sulla pietra dell’ampio bancone, seguendo il ritmo della musica. I fari rossi si alternavano a lampi repentini di luci stroboscopiche che gettavano ombre e bagliori sul viso dei presenti. Totalmente incapace di scollare lo sguardo dal corpo del cameriere, come rapito da una forza magnetica più salda della sua volontà, Louis se ne stava stranamente in silenzio, ma dopo qualche istante sbatté i palmi sul bancone e sorrise.
«Bene, sono pronto ad ordinare».
Accanto a me Jennifer, che sfogliava il menù senza commentare e rapita dall’infinità di drink tra cui scegliere, alzò la testa con aria confusa.
«Ma non l’hai nemmeno guardato!»
«Credimi, l’ho guardato tanto da consumarlo, ora lo voglio qui entro dieci secondi o scavalco il bancone e me lo vado a prendere io». Soffocammo una risatina.
«Louis, mi riferivo al menù» precisò Jenny scuotendo la testa.
«Oh…già». Il mio amico prese a sfogliare distrattamente le pagine plastificate, come se lo avesse notato solo in quel momento, indizio del fatto che avrebbe ordinato anche un bicchiere di acqua putrida pur di avere il giovane cameriere accanto.
«Un Mephisto senza alcun dubbio!» esclamò, soddisfatto della sua scelta, poi lo vidi rigettare un’occhiata incerta alla lista e aggrottare la fronte. «O forse un Red Devil, o…»
«…O un etto e mezzo di Decisione?» lo rimbeccai, guadagnandomi una linguaccia da parte sua. Era così piacevolmente semplice prendersi gioco di lui, e ogni sua espressione non sembrava cambiata dall’asilo, quando tra di noi nascevano sani battibecchi per cavalli a dondolo e ruoli da assumere durante i giochi. Già allora preferiva fingersi mia sorella, o mia madre, mentre io dovevo fare la parte del marito che rincasava dopo una lunga giornata di lavoro. Mi presentava davanti al naso un bellissimo e profumato piatto di spaghetti immaginari e bicchieri di latte in realtà vuoti. Mi stirava il grembiulino, che nella nostra immaginazione era un elegante completo da uomo d’affari, con un ferro da stiro in plastica che non sarebbe stato in grado di togliere le pieghe nemmeno da una foglia. Lo lasciavo fare, sapendo quanto fosse testardo, ma avrei sempre preferito che i ruoli si invertissero. Anche allora non avevo occhi per nessun altro.
Jennifer invece aveva iniziato a fare parte delle nostre vite solo in seconda elementare. Si era trasferita da Santa Rosa con il padre, la madre e i due fratelli più piccoli. La primogenita, Grace, in un primo momento li aveva seguiti ancora quindicenne. Ora aveva ventisei anni e ed era tornata nel paese natale dove viveva con il marito.
Non avrei mai potuto dimenticare il giorno in cui Jenny entrò dalla porta della classe, i capelli acconciati nello stesso taglio di ora, forse di qualche centimetro più lunghi, neri e lucidi. Il suo sguardo era spaventato, mi aveva fatto venire in mente il cagnolino randagio che una volta avevo notato in Financial District quando papà mi aveva portato con sé sul posto di lavoro. La stessa testa bassa, intenta a scrutare ogni dettaglio di ciò che accadeva di fronte e accanto a sé, come per avvistare e prevenire qualsiasi tipo di pericolo.
La maestra ci aveva presentato la nuova arrivata, ripetendo un paio di volte che dovevamo essere gentili e amichevoli, poi le aveva detto di prendere una sedia e di mettersi dove preferiva, finché non l’avessero dotata di un banco come tutti gli altri.
L’entusiasmo dei nostri compagni era stato grande, troppo grande e soffocante per un essere piccolo come Jenny. Si era manifestato con interrogatori e offerte d’amicizia sincere, ma forse troppo espansive per una come lei. Timidamente e in silenzio aveva preso la sedia offertale dalla maestra e, quasi a fatica sotto il peso considerevole, aveva ignorato ogni richiesta degli altri bambini, per mettersi proprio vicino a me, che ero rimasta in silenzio e avevo rispettato la sua riservatezza.
In seguito quella era rimasta la sua postazione.
Louis, contrariamente alla sua indole, aveva fatto lo stesso. Discreto e paziente in un primo momento, affettuoso e vivace quando era ormai certo di essersi guadagnato la fiducia della ragazzina.
«Provi invidia perché la prima conquista della serata spetta a me, a differenza del solito. Attenta, è un peccato capitale» sbottò il mio amico continuando a lanciare occhiate di apprezzamento in direzione del barista. Mi domandavo come fosse possibile che a quel povero ragazzo non fischiassero le orecchie.
«Siamo nel posto giusto per i peccati, tanto vale approfittarne» risposi. Nel frattempo una cameriera si accorse di noi, tanto prosperosa che avrebbe potuto portare i bicchieri direttamente sul seno senza rischiare di rovesciare nulla. Il petto sembrava volerle schizzare fuori dalla scollatura della maglietta nera attillata.
Si mosse nella nostra direzione e io con la coda dell’occhio vidi un’espressione di pura delusione sul volto di Louis e le sue labbra articolare un Oh no amareggiato.
Qualche istante dopo però il cameriere di prima si accorse della sua mossa, le posò una mano sulla spalla e chinandosi su di lei per sussurrarle qualcosa si affrettò per prendere il suo posto. In due secondi era già di fronte a noi, con quel sorriso smagliante e gli occhi brillanti.
Il sollievo di Louis era palese.
«Pronti per ordinare, o sono arrivato troppo presto?»
«Sei arrivato proprio nel momento giusto. Un tempismo perfetto direi» lo rassicurò prontamente Louis, fissandolo come se davanti a sé ci fosse stato un budino al crème caramel e faticando a stare fermo sul posto. Se fosse stato possibile avrebbe scodinzolato.
«A me un Luxury» fece timidamente Jennifer, come se si sentisse ridicola per la sua stessa scelta.
Il cameriere lanciò uno sguardo di intesa al mio amico. «Strano, credevo che fossi più tu un tipo da Luxury».
Il led rosso non era abbastanza forte per coprire l’imbarazzo di Louis, che sopraffatto abbassò lo sguardo e fece un sorrisetto goffo.
«Opto per un Dr. Faust» pigolò, impacciato. Fu poi il mio turno di sostenere lo sguardo del ragazzo.
«E per te invece?»
Scossi la testa con aria mortificata. «Io ho il compito ingrato di dover portare a casa sani e salvi questi due, perciò va bene una cola». Avevo sfogliato per più di una volta il menù, incuriosita dalla vastità della scelta. Qualcuno di quei drink particolari mi aveva intrigato, ma conoscevo i miei limiti.
«Peccato. L’alcol è un ottimo lubrificante sociale» commentò il cameriere, allontanandosi da noi per dirigersi verso lo scaffale delle bottiglie, che illuminato anch’esso da faretti rossi sembrava emanare luce propria.
Osservai la gente in pista a ballare, la musica martellante era totalmente priva di testo, ma bastava per attirare sempre più persone a muoversi a ritmo delle sue vibrazioni.
Spinsi il mio sguardo oltre la folla di corpi, fino al punto in cui un altro arco decorato segnava l’inizio di una nuova sezione del locale, che ospitava altri divanetti, un grande schermo al plasma con qualche partita in diretta e tavoli da gioco.
Aguzzai la vista e spostai lievemente la testa in modo da ottenere una buona visuale, attraverso la sala gremita di gente. Poi il mio cuore perse un battito e il respiro parve morirmi in gola, non appena lo vidi.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Ciao! Intanto vorrei ringraziare quelli che hanno voluto visualizzare e leggere. So che la storia può sembrare finora piuttosto lenta, ma questo si spiega con il fatto che è piuttosto lunga e ci vuole il tempo per introdurre con calma gli eventi. Vi prometto che la svolta è alle porte e dopo di essa entreremo nella vicenda vera e propria. Spero che qualcuno trovi il tempo di continuare a leggere e di lasciare un commento. Mi farebbe davvero un enorme favore. A presto!









Come la siccità e il calore assorbono l’acqua delle nevi, così fanno gli inferi con il peccatore.

Giobbe, 24,19.






5.






Era chino su un tavolo da biliardo, la schiena arcuata e i muscoli in tensione sotto una maglietta nera aderente. Gli occhi, di un colore che da quella distanza mi era difficile scorgere, erano fissi e concentrati sulla pallina, e il braccio teso dalla pelle chiara era pronto a scattare in avanti fino a far cozzare l’estremità della stecca contro la sfera. Una sigaretta spenta gli pendeva dalle labbra, pericolosamente in equilibrio mentre lui scrutava ogni dettaglio davanti a sé per valutare la situazione.
Si prese ancora qualche istante per calcolare il tiro, vidi la sua schiena tendersi in un respiro profondo e la fronte aggrottarsi lievemente. Poi, proprio come avevo immaginato, la stecca venne spinta in avanti e mi parve quasi di udire l’impatto tra le sfere. Le immaginai mentre entravano in buca una ad una.
«Accidenti…». Il commento mi sfuggì involontariamente dalle labbra come se la mia mente avesse perso ogni filtro ogni mio pensiero scivolasse fuori dalla bocca senza argini. Fui grata di non aver espresso altri giudizi.
«Niente male!» si intromise Jennifer, attratta dalla mia esclamazione e seguendo la direzione del mio sguardo. Louis fece lo stesso, ma si divertì a farmi notare che il suo uomo era più bello. Certo, non potevo negare che il cameriere fosse molto attraente, ma sapevo a chi dei due avrei dato la palma d’oro.
Il ragazzo attese il suo turno, poi sferrò un altro tiro vincente, sorrise stringendo la stecca tra le mani come un bastone al quale appoggiarsi e il suo sguardo vagò nel locale fino a sfiorarmi.
Non potei essere certa che mi stesse davvero guardando, perché d’istinto abbassai lo sguardo sul bancone. Il grigio della pietra era tutto ciò che la mia vista avrebbe potuto sopportare, mentre le guance mi andavano in fiamme e il cuore faceva le capriole.
Un brivido freddo mi percorse la spina dorsale, diffondendosi lungo le braccia e facendomi venire la pelle d’oca mentre immaginavo i suoi occhi su di me, tanto intensi da potermi frugare la mente.
Solo quando il coraggio sembrò tornare dal luogo sicuro nel quale si era rintanato, osai alzare lo sguardo per controllare la situazione.
Gettò la stecca ad un compagno che la prese al volo, salutò gli amici e poi si avvicinò a noi, a me, con un incedere elegante e accattivante, che come un magnete mi impedì di distogliere ancora lo sguardo.
«Ehi, sta venendo qui!» notò il mio amico. «Ci avrei giurato che facevi colpo anche stasera».
«Oh, piantala!» lo rimproverai, sentendo lo stomaco contratto. «Non ti ci mettere pure tu, per favore, sono già abbastanza in imbarazzo».
«La mia era solo una considerazione, e tu faresti bene a trovare qualcosa di interessante da dire».
Qualcosa da dire? E cosa? Ciao, sei uno schianto, ti spiace se ti salto addosso? A proposito, mi chiamo Amber.
«Ok, un respiro profondo» mormorai, rivolta solo a me stessa. Mi imposi di guardare solamente davanti a me, tentando di concentrarmi sul via vai dei camerieri oltre il bancone, ma riuscii a resistere solo pochi secondi senza guardare il ragazzo, poi la mia forza di volontà si infranse come il cristallo più delicato.
Mi sarebbe piaciuto conoscere sua madre per farle sapere che aveva davvero fatto un ottimo lavoro con le proporzioni. I fianchi stretti si muovevano con lui, mentre diminuiva sempre più la distanza tra noi. Quando fu a qualche metro distolse lo sguardo da me e prese posto all’altro lato del bancone, a qualche metro da noi.
Ad un suo cenno della mano una cameriera lo raggiunse con un menù.
Una vampata di imbarazzo mi tinse le guance, mentre la mia mente ormai in tilt ripeteva insulti alla mia intelligenza.
Una stupida, non sapevo come altro definirmi. Abbassai lo sguardo sul bancone mentre la vergogna bruciava amaramente.
«Che figuraccia» dissi, mentre il viso di Louis si piegava in una smorfia di disappunto.
«Avrei giurato che stesse venendo qui da te».
«Mi sta guardando?» Jennifer scosse la testa infrangendo ogni speranza, ma allo stesso tempo dandomi una buona notizia. L’umiliazione avrebbe raggiunto picchi inimmaginabili se lui mi avesse fissato con aria di scherno.
Un’ottima distrazione mi fu offerta dall’arrivo delle nostre ordinazioni. Strinsi la mano attorno al vetro gelido del bicchiere. La condensa mi bagnò le dita e io fui quasi tentata di posarmelo sulle guance per alleviare il bruciore della vergogna. Mi sentivo tanto accalorata che probabilmente la cola sarebbe evaporata.
Ne sorseggiai un po’, mentre Jennifer armeggiava con la cannuccia, immersa in un liquido rosa che ben esprimeva il nome assegnatogli. Louis invece stringeva una bevanda di un verde acceso, molto simile alla sua maglietta. Sembrava fosse stata prelevata direttamente da un pianeta alieno.
«Ti sei persa lo spettacolo del cameriere con lo shaker. Mi sa che mi sono preso un mezzo infarto, non ho mai visto nulla di altrettanto sexy» disse quando l’oggetto della conversazione fu a debita distanza. Ascoltai le sue parole distrattamente perché la mia attenzione era ancora quasi del tutto rivolta al ragazzo misterioso seduto a poca distanza da noi.
Jennifer ridacchiò. «A quando le nozze?»
«Direi che mi servono un paio di notti per conoscerlo bene, poi potrei anche iniziare a pensare a qualcosa di ufficiale». Louis bevve una lunga sorsata del suo drink e sorrise come un bambino davanti ai doni natalizi.
«Sei amorevolmente sfacciato» gli dissi. «Almeno a te sta andando bene. Vorrei sprofondare».
«Dovresti andare da lui» mormorò Jennifer, pragmatica. «Forse crede di aver già fatto la prima mossa e aspetta solo che tu continui. È un po’ come il gioco degli scacchi, si muove a turno e ora tocca a te». Era una frase più lunga di ciò che mi aspettassi da lei, perciò ritrovai un briciolo di coraggio e tornai a guardare il giovane. Teneva lo sguardo basso e giocherellava con la sigaretta in attesa della sua ordinazione. Era probabile che la cameriera avesse fatto la civetta con lui, protendendosi e mettendo in mostra le sue forme. E lui come si era comportato? Era assurdo essere gelosa di un ragazzo che ancora non conoscevo, ma speravo che non avesse apprezzato la merce. Avevo come l’impressione che non fosse come gli altri, che ci fosse qualcosa di particolare in lui, nella serietà che leggevo nei suoi occhi e nel suo viso. Stringendo il bicchiere in una mano e picchiettando le unghie sul bancone, valutai il da farsi.
Restare al mio posto o andare? Mi sembrava una decisione ardua quando il dubbio amletico. Essere o non essere? Morire, dormire…forse era la mia occasione di cogliere i consigli di Louis e approfittare di ciò che la vita mi offriva. Cogliere la palla al balzo e vivere la serata senza troppi pensieri, senza timidezza. Se fossi rimasta me ne sarei di certo pentita, ma cosa avrei detto appena arrivata da lui? Deglutendo mi parve di avere un enorme rospo in gola.
«Non so che fare!» esclamai, appoggiando il capo sui palmi delle mani. Uno dei due era piacevolmente fresco e umido per aver stretto il bicchiere bagnato di condensa.
Louis mi rivolse uno sguardo comprensivo e si sporse verso di me. Il profumo del suo dopobarba era familiare e confortante.
«Amber, fossi in te non mi lascerei scappare per nulla al mondo una preda del genere» fece, convinto.
«Lo so, ho notato il tuo modo delicato e discreto di approcciarti».
«Ricorda la nostra conversazione al telefono di questo pomeriggio. Non puoi ignorare questa occasione e non credo che lui rifiuterà uno schianto come te».
«Certo, come no». Pensai alla mia bocca troppo grande. Non è che andando lì e sorridendogli avrebbe pensato che volessi divorarlo? Uno sguardo severo da parte di entrambi i miei amici mi convinse ad abbandonare ogni reticenza.
«D’accordo» feci, dopo aver incamerato aria e aver tirato il più lungo sospiro della mia vita. «Vado».
Bevvi una generosa sorsata di cola, per impedire alla mia lingua di attorcigliarsi come un serpente appena iniziato a parlare, poi scesi dallo sgabello, pregando perché tutto andasse bene e non cadessi lunga distesa a terra. Non ero mai stata particolarmente timida, ma in quell’istante iniziai a temere cose assurde, mentre mi avvicinavo a passi lenti verso quel bel ragazzo. Avevo una paura terribile di non gestire i tacchi alti, di cadere di fronte a lui e mettere così fine alla mia dignità, di avere qualcosa incastrato tra i denti pur sapendo che non poteva essere perché avevo passato quasi tutto il pomeriggio a fissarmi allo specchio.
Per tutto il tragitto dal mio posto al suo, che mi parve durare un’eternità, fui sul punto di lasciar perdere, voltarmi e ritornare sui miei passi. Ormai però la decisione era stata presa e nonostante i palmi sudati, il cuore a mille e la sensazione di dover svenire da un momento all’altro, mi trovai in pochi secondi accanto a lui.
Troppo tardi mi resi conto di non aver pensato a come iniziare l’eventuale conversazione. Rimasi a fissarlo per qualche istante, ammutolita come se in un attimo il mio cervello si fosse resettato e nell’hard disk della mia scatola cranica fosse rimasto solo il gioco del Pinball, attivo e con le palline impazzite che rimbalzavano senza sosta sulle pareti del teschio.
Anche pronunciare qualche parola di circostanza mi parve una cosa impensabile.
«Ehi…» mormorai, pensando subito dopo che non era stata l’entrata giusta, che forse avrei dovuto correggermi, oppure tornare indietro nel tempo e ricominciare daccapo. Valutai persino la possibilità di correggere la parola con un colpo di tosse e andarmene. O perché no, magari sorridere in maniera amichevole e dire Ops, scusa, ti ho scambiato per un vecchio amico. Addio.
Dall’alto del suo posto lui si riscosse dai suoi pensieri. La mia scarsa altezza non lo aveva di certo aiutato a notarmi, mi sentivo una formica al suo cospetto. Troneggiava su di me facendomi sentire intimidita.
Reggeva la sigaretta tra le dita della mano sinistra, mentre la destra era appoggiata sulla coscia e non appena mi fissò, il mio cuore già abbastanza imbizzarrito fece qualche balzo. Il suo viso era ancora serio e sperai che dicesse in fretta qualcosa. L’imbarazzo e l’attesa stavano per uccidermi.
Le mie richieste furono presto ascoltate, perché lui mi regalò un sorriso ampio e bambinesco, ma non per questo meno affascinante, e un’ondata di sollievo mi colpi lasciandomi spiazzata per qualche istante. «Ehi a te, ciao».
Ero troppo bassa per poter tentare qualsiasi approccio, perciò gli indicai lo sgabello accanto al suo e senza esitazione mi diede subito una mano a salire. Non ce ne sarebbe stato bisogno, ma desideravo sfiorarlo e quella fu l’occasione buona. Le sue dita erano calde, asciutte e la sua presa era forte mentre mi issavo grazie a lui sulla sedia. La sensazione della sua pelle a contatto con la mia fu quasi bruciante, elettrica, e mi fece desiderare di non allontanarmi mai.
Finalmente vicina potei di persona appurare che i suoi occhi erano di uno splendido, magnetico verde acqua. Sul mento e sul labbro superiore intravidi l’ombra di una barba di qualche giorno che creava un piacevole contrasto con ciò che di infantile c’era in lui. Il suo sguardo, per esempio: attento, sincero, incuriosito dalla mia presenza.
Come dargli torto? Una ragazza che si avvicinava a lui senza motivo, con niente di intelligente da dire se non Ehi!
«Io…beh…» biascicai. Davvero un ottimo inizio. Dirgli il motivo per cui ero lì o aggirare il problema? Buona la seconda.
«Mi chiamo Amber». Tesi la mano verso di lui, che la strinse con un entusiasmo che mi rassicurò. Il mio cuore fece qualche piroetta, esultante. Ancora quella sensazione di calore mi formicolò sulla pelle, le mie budella si contorsero quando il suo sorriso si fece più ampio. Avrei voluto tenergli stretta la mano in eterno.
«Io sono Simon, è un piacere conoscerti. Che cosa ti porta qui Amber?»
Eccola, la domanda fatale. Sentii il calore salire alle guance, distolsi lo sguardo e inspirai profondamente per prendere tempo. Ma la mia mente parve non volerlo sfruttare a dovere, completamente in balia delle onde dell’emozione e dell’imbarazzo e un ronzio di sottofondo, quasi più forte della musica, mi suggerì che il mio cervello era in tilt.
«Oh…veramente…» Mi schiarii la gola e lottai contro l’impulso infantile di indicare qualcosa alle sue spalle e approfittare della sua distrazione per fuggire via. Mi resi conto che la mia mano era ancora stretta nella sua, piacevolmente morbida. Con il pollice mi accarezzò la pelle e un brivido caldo annullò del tutto l’operato della mente.
«D’accordo sono qui perché volevo attaccare bottone con te, lo ammetto. Non sapevo che fare, ti ho visto al biliardo…a proposito, bel tiro…poi sei arrivato e mi sono decisa. E allora…eccomi qui». Più che parlare sbrodolai una frase dietro l’altra come se nessuno da piccola mi avesse insegnato ad articolare bene.
Lui scoppiò in una risata fragorosa che gli illuminò gli occhi verdi e mi fece sciogliere come il burro al sole, non sapevo se per la vergogna o per l’effetto che riusciva ad avere su di me. Da quanto non mi sentivo così? Come una ragazzina in balia della prima cotta.
«Mi piace la tua sincerità e ti ringrazio. Ad ogni modo…» si sporse lievemente verso di me, facendomi annegare nel verde dei suoi occhi. Da così vicino riuscii a percepire il profumo del suo respiro. «Io parlavo del locale. Vedo tanta gente che è venuta qui semplicemente per divertirsi, fare qualche salto in pista, godersi un paio di drink, flirtare un po’. Tu sei qui solo per questo o eri incuriosita dall’ambiente?»
Era troppo vicino perché riuscissi a pensare lucidamente. Mi scostai appena e sorrisi, abbandonando il viso contro il palmo della mano. La mia fronte era fresca ma mi sentivo il viso in fiamme.
«Bene, ho fatto una figuraccia».
«Ma no, figurati».
«Direi che sono qui perché io e i miei amici eravamo curiosi, ci capita di andare in locali carini ma molto banali quindi non potevamo farci scappare il famoso Mephisto. Abbiamo visto volantini praticamente in ogni angolo della città». Con il pollice indicai dietro le mie spalle Louis e Jennifer, che ovviamente non si stavano perdendo un solo secondo della nostra conversazione, sebbene il fragore coprisse le nostre voci. Non appena accennai a loro salutarono entrambi con la mano alzata e un sorrisino. Simon rispose con un cenno e un’espressione divertita.
«Simpatici…ti piace il biliardo?»
«Sono una frana. Tu sei bravo con la tua stecca» mormorai, pentendomi subito dopo della frase non appena mi sentii avvampare. Il suo sguardo assunse una scintilla di malizia che non mi sfuggii.
«Oddio, qualcuno mi fermi, sto facendo una gaffe dietro l’altra! Credimi, di solito non succede…per lo meno non a così breve distanza una dall’altra». Non sapevo se ridere o andare a nascondermi in qualche angolo buio, ma Simon scosse la testa con un’aria tranquilla che mi mise a mio agio.
«Non ti preoccupare, Amber. Lasciamo perdere il biliardo. Quindi il Mephisto è all’altezza delle tue aspettative?»
Gli fui grata per la disinvoltura con cui cambiò discorso per correre in mio aiuto.
«Molto di più. Tutto è perfetto, curato nei minimi dettagli, una meraviglia».
«Il sottofondo letterario e artistico affascina tanto anche me. Il Faust è una delle mie opere preferite».
«Goethe, giusto? Credo di averla trattata a scuola, ma temo di non saper dire altro». Esattamente come qualche istante prima la sua espressione mi rassicurò.
«Goethe è stato uno dei tanti a farsi affascinare dalla figura dell’enigmatico dottor Faust. Ne hanno trattato anche Lessing, Marlowe, Mann e Valery e tutt’ora è un personaggio vivo e attuale. L’essere umano insaziabile, bramoso di conoscenza, sempre teso a un ideale di sapienza irraggiungibile se non attraverso un patto con il diavolo: Mefistofele». Pendevo dalle sue labbra, ascoltando in silenzio la sua voce lievemente roca e molto attraente.
«Mefistofele si offre di servirlo per ventiquattro anni in tutto per farlo giungere alla conoscenza assoluta tanto agognata. Ma il prezzo è alto».
«La sua anima?» mormorai, sperando di averci azzeccato e di essermi guadagnata qualche punto. Il suo sorriso fu una conferma.
«Esattamente. Ho i gusti dei gatti coi topi».
Lo fissai in silenzio. Avevo capito bene o era parso solo a me che parlasse di topi? Forse la musica assordante aveva coperto parte delle sue parole impedendomi di comprenderle correttamente.
«Come scusa?» mormorai, e la mia perplessità lo fece divertire ancora di più.
«Perdonami, sto facendo il sapientone, ma è più forte di me con questi argomenti. In un dialogo tra Mefistofele e Dio, quest’ultimo dice Finché colui vivrà nel mondo, fino allora non ti sia vietato nulla. In pratica lo lascia libero di attrarre Faust nelle sue grinfie dato che Dio non ha il pieno controllo su un essere umano ancora in vita. Mefistofele sembra esserne felice perché ribatte così: Mai di morti m’è piaciuto occuparmi. Preferisco le guance piene e fresche. Non ci sto, per cadaveri. Ho i gusti dei gatti coi topi».
«Una frase bizzarra». Un ragazzo bizzarro semmai. Era così che conquistava le ragazze? Snocciolando frasi colte tratte dalle opere letterarie? Accidenti, con me stava funzionando alla grande.
«Sta semplicemente a significare che il diavolo ama tormentare gli esseri umani, giocarci mentre sono ancora vivi come fanno i gatti con le loro prede. È un’immagine che rende perfettamente l’idea della lotta impari tra mortali e forze del male. Gli uomini cascano sempre nella rete degli adulatori e scelgono volontariamente la loro sorte. Secondo le rappresentazioni ormai molto diffuse, Mefistofele è dotato di un libro rosso sul quale gli esseri umani che decidono di fare un patto con lui firmano e così vendono la loro anima».
Automaticamente ricordai il grosso tomo alla fine del corridoio e l’entusiasmo con il quale io e i miei amici avevamo firmato. Simon parve leggermi nel pensiero perché annuì.
«Esatto, è proprio il libro a cui stai pensando. Ogni ospite di questo locale ha ceduto senza esserne costretto una parte della sua anima quando è entrato qui, semplicemente attratto da una serata di divertimenti, da un piacere mondano. In fondo siamo nella bocca dell’Inferno!» Il suo entusiasmo era contagioso. Indicò le sporgenze di pietra che già avevo notato agli angoli del bancone, simili a grosse stalagmiti e stalattiti, poi capii che non erano niente del genere. Erano zanne!
«Moltissime rappresentazioni artistiche a partire dal Medioevo raffigurano l’Inferno all’interno delle fauci spalancate di Lucifero, una gola dove i dannati bruciano per l’eternità. Dante ne è un esempio, il suo Lucifero ha tre bocche, ognuna intenta a masticare un peccatore, ma non peccatori qualsiasi. Uomini che si sono macchiati del crimine del tradimento, l’affronto più grave che un uomo possa fare nei confronti dei suoi simili, ma soprattutto di Dio. E cos’è la vendita della propria anima a Mefistofele se non un tremendo tradimento della propria fede?» spiegò, con quella voce bassa, virile e magnetica. Era un piacere sentirlo parlare e non scollai un secondo gli occhi dal suo viso, mentre mi parlava dei tre peccatori che Dante aveva posto tra le zanne del diavolo: Cassio, Bruto e Giuda.
Così ogni elemento di quel locale assunse un nuovo significato per me, che prima di quel momento non ne avevo saputo quasi niente. Simon chiarì il senso della frase alla fine del corridoio: In girum imus noctem e consumimur igni, frase attribuibile ai demoni, eternamente consumati dal fuoco metaforico del peccato e quello fisico, tremendamente bruciante della loro condanna. Il significato era intensificato dal fatto che la frase fosse palindroma.
«Insomma, mi pare di capire che sei un vero appassionato di questi argomenti» dissi dopo un po’.
«Spero di non averti annoiata».
«Al contrario, è affascinante sentirtene parlare».
«Mi piace notare come la letteratura nella sua finzione possa comunque rispecchiare fedelmente la realtà. Gli umani sono estremamente deboli, avvezzi al peccato, pronti a rinnegare qualsiasi loro valore per avere di più. Il potere e il mistero affascinano chiunque, sono così facili da portare sulla cattiva strada. Si dice che Faust sia esistito veramente, ma credo che non sia importante, perché incarna alla perfezione la natura dei mortali, la brama di conoscenza e dell’ignoto, l’estrema e pericolosa curiosità».
Mi guardò quasi con aria di rimprovero, come se si riferisse al fatto che avessi ammesso di essere lì proprio per curiosità. Sì, ero colpevole.
La cameriera prosperosa nel frattempo era tornata e gli posò di fronte un grande bicchiere colmo quasi fino all’orlo di un liquido rosso. Con un cenno, Simon attirò la sua attenzione.
«Scusami, potresti portarne un altro per la signorina?»
«Oh, no, non posso» Mi affrettai a dire. «Devo guidare».
«Non ti farà male, te lo assicuro. Andiamo». Lo sguardo del ragazzo era convincente, il sorriso tutto rivolto a me, come se la cameriera di colpo fosse scomparsa in una nube di polvere magica. Rispettò il mio silenzio per qualche secondo, poi si sporse ancora verso di me e posò la mano sulla mia.
«Fidati di me, è solo un drink. Non ti toglierà la lucidità, inoltre da qui alla fine della serata farai in tempo a smaltirlo.»
Non accennai al fatto che non potevo restare a lungo perché la mia madre megera e dispotica non doveva sapere che avevo trasgredito i suoi ordini.
«Veramente io…» Tentai di replicare, ma le sue dita in un tocco leggero e delicato si mossero verso il polso, dandomi i brividi ad ogni millimetro di pelle che sfioravano. Mi sembrava quasi di avere le vertigini e se non si fosse allontanato almeno un po’ sarei di certo crollata dalla sedia gambe all’aria. Allo stesso tempo tuttavia non volevo che smettesse, come se allontanare quella mano significasse anche togliere all’aria ogni traccia di ossigeno.
«D’accordo.» Mi arresi. «Ma solo uno, non potrei bene nemmeno questo».
Quando la cameriera tornò con la mia ordinazione strinsi le dita attorno al bicchiere e lo alzai per un brindisi, ma Simon fissava con un sogghigno un punto oltre alle mie spalle.
«Ehi, tutto a posto? Che stai guardando?»
Si riscosse, mentre io mi voltavo per indagare. Osservai i divanetti, ma non vidi altro che un mucchio di persone intente a chiacchierare, sorridere e bere. Altre erano in piedi a ballare sul posto, ma non scorsi nulla che potesse essere l’oggetto dell’attenzione di Simon.
«Niente di particolare, ho solo visto un amico. Tutto qui» spiegò lui. Alzò il bicchiere, lasciando una traccia di condensa sul bancone.
«Alla conoscenza, al peccato e alla curiosità» dichiarò. I bicchieri tintinnarono al momento del brindisi, durante il quale il contatto visivo tra di noi non si infranse nemmeno per un secondo. Il mio stomaco restò stretto nella morsa dell’euforia e a stento mi opposi all’impulso di mostrare ai miei amici i pollici alzati in segno di trionfo.
Ero seduta al bancone di un posto fantastico, brindando assieme a uno sconosciuto bellissimo, con uno sguardo che avrebbe potuto fermarmi il cuore da un momento all’altro e il fisico asciutto da modello. Non poteva andare meglio di così.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***





Essi non si addormentano se non hanno fatto il male, svanisce il loro sonno se non han fatto inciampare. Essi mangiano il pane dell’empietà e bevono il vino dei violenti.
Proverbi, 4,16-17.








6.




Louis e Jennifer stanchi di aspettarmi si lanciarono in pista a ballare dopo circa un quarto d’ora. In realtà fu Louis ad insistere, dato che la mia amica non andava matta per il ballo e per nessuna attività che la esponesse troppo agli sguardi della gente. Perciò i suoi passi furono appena accennati, timidi ed esitanti come se non fosse del tutto sicura della stabilità del pavimento. Al contrario Louis si muoveva come se nella vita non avesse fatto altro, con disinvoltura e un grande senso del ritmo.
Rimasi per qualche secondo ad osservarlo muovere i fianchi e alzare di tanto in tanto le braccia, felice e perfettamente a suo ago in mezzo alla folla che si dimenava attorno a lui.
Io ero riluttante a lasciare il bancone. Parlare con Simon non mi stancava mai, non sembrava conoscere esagerazione, ponderava ogni frase e ciascuna parola dava l’impressione di essere collocata nel discorso con precisa consapevolezza. Esponeva le sue idee in modo naturale, spontaneo e rilassato. Cosa ancora più importante, nulla di ciò che disse o fece mi parve noioso.
Mi era capitato ancora di parlare con ragazzi che vomitavano parole senza uno scopo preciso, come se sentissero il dovere di riempire ogni pausa disponibile. Con Simon era diverso.
Ero arrivata quasi al punto di restare in silenzio solo per lasciare che fosse lui a rivolgermi i suoi pensieri, ma spesso insisteva per coinvolgermi nelle sue riflessioni.
Sapeva tantissime cose, parlammo di tutto e per il tempo che trascorsi accanto a lui il contatto visivo fu una componente fondamentale. Non mi lasciai sfuggire nessun particolare di lui, come se nulla del suo corpo o del suo atteggiamento meritasse di essere ignorato o sprecato. Notai i particolari del suo volto, i denti bianchi e perfetti, i lineamenti che sembravano scolpiti nel marmo e l’accenno di barba che gli donava un aspetto virile e seducente. I capelli neri erano lievemente alzati sulla fronte e quest’ultima si increspava negli istanti in cui la conversazione prendeva una piega che sembrava interessargli particolarmente. Quando accadeva mi sentivo svenire e mi consideravo una privilegiata, come se per qualche merito che non conoscevo solo a me lui volesse rivolgere quel particolare sguardo e quel sorriso perfetto.
La pelle delle braccia che spuntava dal tessuto nero della maglietta era quasi bianca, solcata da una vena che gli percorreva il bicipite fino al polso.
Ad ogni sorriso gli occhi verdi assumevano una forma che gli addolciva il viso facendolo assomigliare ad un bambino. Un bambino che giocava a fare il grande, stringendo tra le dita la sigaretta e giocandoci in continuazione.
«Insomma, fumi» mormorai ad un certo punto, vedendolo che si passava la sigaretta da un dito all’altro facendola girare sulle nocche. Una sorta di tic che trovavo seducente.
«Lo confesso, ti infastidisce?»
Forse scossi la testa troppo in fretta e con troppa foga per risultare sincera, ma lui non diede segno di averlo notato.
«Bisogna pur concedersi qualche vizio, no?» lo giustificai, conquistandomi una smorfia di apprezzamento che regalò una nuova ondata di tachicardia.
Lui si portò alla bocca la bottiglia di birra che aveva ordinato poco prima, dopo aver terminato il drink e bevve una lunga sorsata. Nonostante la mia riluttanza aveva insistito perché ne prendessi una anche io e come la prima volta era riuscito a smuovere la mia testardaggine. Sperai di smaltire in fretta gli effetti dell’alcol che già si stavano facendo sentire. Non volevo mettermi al volante con la mente non del tutto lucida, ma la presenza del ragazzo annullava il mio senso critico.
Di tanto in tanto mi sfiorava la mano con le dita e il sangue mi ribolliva nelle vene ogni volta che la sua pelle entrava in contatto con la mia, come se ogni cellula di quel punto e ogni nervo fossero divenuta di colpo ipersensibili. Sperai che non leggesse quel desiderio nei miei occhi, ma morivo dalla voglia di sporgermi in avanti e baciarlo.
«Quando hai detto No, non posso devo guidare ho davvero pensato che fossi una puritana ossessionata dalle regole, tutta casa e chiesa».
L’espressione da lui usata mi fece ridere. La mia risata aveva un suono insolito che attribuii all’effetto dell’alcol. Mi doleva ammetterlo ma stavo facendo la civetta con lui.
«Se lo fossi non sarei qui. Hai pensato male, soprattutto riguardo alla chiesa. Non c’è molto feeling tra me e la religione» confessai.
«Non mi dire…come mai? Se mi è lecito chiedere».
Mi strinsi nelle spalle. «Non so che ne pensi tu, non vorrei offenderti nel caso tu fossi un devoto, ma ritengo che la religione sia solo una grande ipocrisia». Ottenni la sua completa attenzione. Con il pollice disegnò cerchi sulla mia pelle, e come ogni volta che lo faceva il mio cervello andò in corto circuito. Ero desiderosa di confessare ogni singolo pensiero che mi sfiorava la mente, ogni segreto.
Incrociai le dita con le sue e gli strinsi di più la mano, lasciandomi involontariamente sfuggire dalle labbra un sospiro.
«No, non sono un devoto. Abbiamo qualcosa in comune, perché credo di pensarla come te. Ed ecco svelato il motivo della tua presenza qui: hai scelto il lato oscuro».
«La nostra presenza qui» precisai. «Voglio solo divertirmi, non credo nel lato buono né in quello cattivo della religione. Credo solo negli uomini e nelle loro capacità. Il resto è solo ipocrisia da quattro soldi, e per quanto riguarda le regole…sono qui contro il parere di mia madre, perciò immagino che da questo punto di vista siamo d’accordo. Qualche violazione di tanto in tanto è terapeutica».
Trassi un profondo respiro, poi presi un sorso di birra. Non ero ubriaca, ma sentivo formicolare l’alcol nelle membra, nelle dita e negli arti. Percepivo una lieve pesantezza agli occhi e lo stomaco perennemente pungolato da scariche di emozione. Mi sentivo leggera, piacevolmente annebbiata ed euforica e la mente di tanto in tanto insisteva a procedere da sola, senza freni.
«Ma basta parlare di me o ti annoierò a morte. Fra poco crollerai sul bancone privo di sensi. Parlami di te».
«Oh…» Lui si strinse nelle spalle e scosse la testa. «Non sono d’accordo con quanto hai appena detto. Ti trovo molto interessante, è bello parlare con te».
«Ti ringrazio». Evitai di dirgli quando io trovassi interessante lui, tanto valeva crollargli fra le braccia. Di rado mi capitavano ragazzi così sinceri con me, ma che non sembrassero solamente arroganti o finti latin lover. Era difficile concentrarsi su qualcosa che non fossero i suoi occhi, perciò, incapace di fare altro, rimasi a fissarlo in silenzio.
«Cosa vuoi sapere?» si arrese finalmente. «Hai una vasta gamma di argomenti tra cui scegliere, ma non garantisco che tu possa trovare qualcosa di affascinante».
Tutto di te mi affascina, sciocco.
Sperai di averlo solamente pensato. Se avessi davvero perso il controllo di me stessa fino a quel punto era un guaio.
«Che mi dici delle tue passioni, che cosa ti piace?»
«La vita, semplicemente la vita. I piaceri che essa può dare, le uscite con gli amici, il divertimento, il buon cibo…»
«Davvero? Io adoro cucinare!»
«Una coincidenza interessante, qualche volta potresti cucinare qualcosa per me, ti lascio la scelta».
L’idea di averlo in cucina che mi ronzava intorno mentre nelle pentole sfrigolava qualcosa per lui mi fece contrarre lo stomaco. Sorrisi e lo scrutai attentamente.
«Ti ci vedrei bene con un piatto a base di pesce. Ma potrei sbagliarmi».
«Adoro il pesce. Hai buon occhio».
«Hai anche detto che ti piacciono i topi, ma non so se voglio cucinarteli, quelli».
Rise alla battuta e per me fu un sollievo. Temevo di essere stata sciocca, invece i suoi occhi si illuminarono, chiaro segno di aveva trovato quella stupidaggine almeno un po’ divertente.
«È vero, l’ho detto, ma solo se sono vivi» precisò, con un tono di voce che mandò brividi lungo le mie braccia. Sperai che non notasse la mia pelle d’oca ma mio malgrado non potei nemmeno riprendere la giusta concentrazione, affascinata dalle sue ultime parole. Non erano state pronunciate a caso, mi sembrava davvero che stesse giocando con me come un gatto con il topo. Lentamente, con interesse, girando attorno alla preda, scrutando e ponderando ogni mossa. Il suo sguardo era attento, fisso su di me come se non aspettasse altro che il momento propizio per sferrare un nuovo colpo, pronunciare un’altra frase che sommata alle altre mi avrebbe fatta crollare tra le sue braccia. C’ero già molto vicina.
Pensai a cos’altro avrei potuto chiedere, per lo meno per cambiare discorso e allontanare da me quei pensieri. C’erano un’infinità di cose che non sapevo di lui e che volevo scoprire, ma dovevo andarci piano con le domande, per non farlo sembrare un interrogatorio.
«E invece quali sono le cose che detesti?»
«I limiti, credo» rispose prontamente, come se fosse una risposta fornita più di una volta o come se ne fosse talmente convinto da non avere il minimo bisogno di esitare in inutili riflessioni. «Non mi piace che qualcuno mi dica cosa devo fare e come devo vivere la mia vita. Sono abbastanza grande per poter decidere da solo».
Mi chiesi quanti anni avesse, non doveva superare i venticinque. Ad ogni modo odiava i limiti…interessante. Per quanto fossi legata alla mia casa, anche io detestavo le imposizioni di mia madre, le sue pretese di controllare i miei comportamenti e la mia vita. Era una donna piena di controsensi, voleva esercitare una forma di controllo su sua figlia, ma allo stesso tempo pretendeva che stessi per conto mio, buona buona a gestire la casa.
«Vivi solo?» Aggrottò la fronte e parve rifletterci su, poi sospirò e si strinse nelle spalle. I suoi occhi erano meno allegri, come se avessi toccato un tasto dolente.
«Ho abbandonato la casa dei miei qualche anno fa, quando hanno divorziato».
«Mi dispiace» mormorai, con un tuffo al cuore e intimidita dalla sua risposta. Era quasi inquietante notare la quantità di particolari che ci accomunavano.
«Sono cose che capitano, in fondo era da tanto che non andavano più d’accordo. Ormai la situazione era degenerata a tal punto che non volevo restare a vivere con nessuno dei due. Ad ogni modo era giunto il momento di gestire i miei spazi».
«Non sai quanto ti capisco, si crede sempre che una coppia possa durare in eterno, che l’amore guarisca ogni dissapore, ma si finisce per illudersi…e soffrire di più».
«Sembra che tu parli per esperienza» fece, guardandomi di sottecchi. «Una storia finita male?»
Ridacchia. «Oh, più di una, ma non stavo parlando di me. Tecnicamente i miei sono ancora sposati, ma non vivono più insieme da un po'. Io sto da mia madre, ma lavora così tanto che è come se vivessi da sola. Per carità, tanto meglio, è una vera serpe».
Riuscii a strappargli un sorriso. «Abbiamo già parecchie cose in comune».
«Probabilmente sono solo coincidenze. Se mi alzassi e iniziassi a chiedere ai presenti quanti di loro hanno genitori separati, divorziati o sul piede di guerra raccoglierei una maggioranza schiacciante».
Ero convinta delle mie parole, ma anche d’accordo con le sue. Mi sentivo così vicina a lui: gusti simili, situazioni familiari praticamente identiche. Per non parlare di quella sensazione che non mi aveva mollato un secondo da quando ero con lui, quel formicolio che mi percorreva la pelle, simile alla convinzione di aver finalmente trovato ciò che cercavo da tempo.
Lui annuì riflessivo. Il suo sguardo ferito mi strinse il cuore in una morsa di compassione. Gli strinsi più saldamente la mano per fargli sapere che ero lì e capivo ciò che provava. Tentai un altro approccio.
«Hai fratelli o sorelle? È una situazione più facile da affrontare se non si è figli unici».
Avevo creduto di deviare un po’ il discorso, ma lo sentii irrigidirsi.
«Lascia perdere. È complicato anche questo» rispose a denti stretti.
«Mi dispiace, hai litigato anche con loro? Puoi parlarmene se vuoi…»
Scosse la testa come se volesse scacciare a forza un brutto pensiero. Il suo linguaggio fisico fu molto più eloquente delle parole che non volle pronunciare. Vidi la sua mano stringersi attorno alla bottiglia con forza, mentre lentamente sfilò l’altra dalla mia presa, posandola sulla coscia e stringendola a pugno con tanta forza che le nocche divennero bianche.
«Che cos’hai? Ho detto qualcosa di sbagliato?» Avevo l’impressione di aver commesso un errore terribile. Il suo sguardo si fece sempre più elusivo e serio, ogni briciolo di ilarità era svanita nel nulla, nascosta nel verde acqua dei suoi occhi e celata sotto un’espressione ferita che mi strinse il cuore in una morsa di rammarico. La sua mascella si contrasse, deglutì più volte poi scosse la testa.
«No, non hai detto nulla di male. Solo…non ne voglio parlare. Scusami un secondo…»
Lo vidi scivolare giù dalla sedia senza che potessi fare nulla per evitarlo, darmi la schiena e allontanarsi a lunghi passi. Rimasi lì, al bancone, sola e in silenzio e con la mente in subbuglio, mentre Simon veniva inghiottito dalla folla in pista, reggendo la birra per il collo della bottiglia.
Mi passai le mani sul volto dandomi mentalmente della stupida. Che motivo c’era per insistere? Perché diavolo avevo voluto immischiarmi nelle sue questioni familiari? Forse il rapporto con il fratello o la sorella erano tanto conflittuali che non ne voleva discutere, tanto meno con una sconosciuta come me. Era stato così bello chiacchierare in maniera spensierata, perché volersi infilare in una via complicata come quella della famiglia? Io per prima avrei dovuto capire che era qualcosa di troppo delicato per parlarne in un locale come il Mephisto durante il primo incontro.
Quando rialzai il viso, frugando con gli occhi tra la calca impegnata nelle danze, incontrai lo sguardo di Louis che mi fece sprofondare ancora di più nell’umiliazione.
Il mio amico ballava sul posto, ma la sua espressione era fin troppo chiara. Mormorò qualcosa nella mia direzione con un’aria interrogativa che mi aiutò a capire al volo: che cavolo è successo?
Risposi con una scrollata di spalle e scossi la testa. Sebbene avessi intuito che era tutta colpa mia, avrei preferito almeno sapere se Simon stava bene e soprattutto scusarmi.
Sarebbe tornato? Mi sentivo sciocca ad aspettarlo lì, e se avesse deciso che ne aveva avuto abbastanza di me?
Jennifer mi osservava senza dire nulla, incamerando informazioni solo grazie alla situazione. Era visibilmente a disagio mentre approfittava della situazione per smettere di ballare.
Louis assunse un cipiglio di rimprovero e io non potei negare che avesse ragione. Quanto ero stata con Simon, un quarto d’ora? Venti minuti al massimo? Eppure anche in così poco tempo ero riuscita a fare più danni che nelle mie altre relazioni finite male.
Però potevo rimediare. Presi coraggio e mi calai dallo sgabello con prudenza per non crollare a causa della letale combinazione di tacchi alti e alcol nel sangue.
Non potevo essere sicura di dove si fosse cacciato il ragazzo, ma decisi di fare un tentativo. Mi lisciai il vestito, più un gesto nervoso che una necessità, raggiunsi i miei amici per chiarire la situazione e poi mi gettai anche io in mezzo alla folla, scendendo la scaletta con passo malfermo. Faticando per uscire indenne dai corpi in movimento, dalla loro disattenzione per il mio passaggio e dalla foga della gente che mi urtava senza alcun riguardo, la mia attenzione fu carpita da una scritta gialla che segnalava la toilette.
Feci un profondo respiro, poi aprii la porta del bagno ed entrai.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***





Un grazie di cuore ad AnonymousA per aver recensito! Ecco il nuovo capitolo :)




Occhi alteri, lingua bugiarda, mani che versano sangue innocente; cuore che ordisce trame malvagie, piedi solleciti a correre al male…
Proverbi, 6,17-18.






7.




Il completo candore della stanza fu quasi uno shock per la vista dopo la luce rossastra del Mephisto. Ai lati della stanza c’erano le tazze nascoste da pannelli separatori bianchi, mentre qualche metro davanti alla soglia un lungo specchio da parete sormontava una fila di lavandini immacolati.
Simon mi dava la schiena, chino su di essi. Non riuscivo a vedere il suo volto, ma era chiaro che fosse piuttosto sconvolto perché anche dalla mia posizione notai il tremito del suo corpo e il respiro affannoso, come dopo una lunga corsa.
Eravamo solo noi due ed ero certa che se si fosse trattato di una toilette per signore sarebbe stato molto differente. Lo stereotipo secondo il quale le donne andavano a rinfrescarsi insieme era piuttosto attendibile perciò non osavo immaginare com’era la ressa nel bagno accanto.
«Simon…» mormorai, temendo quasi di attirare la sua attenzione, incerta a proposito della reazione che avrei potuto scatenare. Sentire il mio tono di voce tornato alla normalità fu strano, era insolito non dover più gridare per sovrastare il volume della musica. Quel luogo era un’isola di tranquillità all’interno di un locale che tutto era fuorché pace, perciò mi godetti quell’istante di silenzio. La musica era quasi inesistente, solo un rimbombo in sottofondo.
Lui parve non avermi nemmeno notato. Stringeva le mani attorno al lavandino, come se non contasse su nessun altro sostegno per non crollare a terra.
Accennai qualche passo verso di lui e come risposta a quel gesto alzò il viso e i suoi occhi nel riflesso incontrarono i miei. Era una mia impressione o erano colmi di lacrime?
«Senti, lo so che sono stata indiscreta e mi dispiace molto. Non sono affari miei, scusami per aver insistito. Di solito non sono un’impicciona, ti chiedo scusa».
Il suo sguardo era duro, sofferente, ma non sembrava davvero in collera con me. Respirava a scatti, a fatica e mi chiesi se fosse solo il nervosismo a provocargli quella reazione o se avesse anche problemi fisici.
«Sono stata maleducata» continuai, sperando che dicesse finalmente qualcosa. Si limitò a scuotere la testa, ma l’ambiguità del gesto non mi aiutò a capire che cosa intendesse davvero comunicare. Era in collera per ciò che avevo fatto o mi stava dicendo che non era colpa mia? Non potevo esserne sicura finché non gli avessi sentito pronunciare qualche parola.
La porta si aprì di colpo dietro di me e dall’uscio fece capolino il viso pallido e spruzzato di lentiggini di un ragazzo, ignaro della situazione. Ancora prima che potesse muovere qualche passo, come una furia Simon si voltò e gli puntò l’indice contro, con aria aggressiva.
«Fuori! Fuori di qui!» gridò, lo sguardo truce puntato sul malcapitato, che sbiancò ancora di più e prontamente alzò le mani in segno di resa.
«Ehi, calma! Che ti prende?»
«Ho detto fuori!» Il tono di Simon non ammetteva repliche, così diverso da qualche istante prima, quando avevamo chiacchierato del più e del meno. Avevo pensato che fosse basso e seducente, molto virile. Ora vi leggevo un sottofondo di paura come se da un momento all’altro le parole si dovessero trasformare in grida di terrore.
«Esco, stai tranquillo». Il ragazzo fece qualche passo indietro come se avesse una pistola puntata in faccia. Mentalmente lo ringraziai per non essersela presa e per non aver interpretato la reazione di Simon come un’offesa personale o un tentativo di piantare grane. D’altra parte, che avrebbe potuto fare se così fosse stato? Minuto com’era non avrebbe potuto tenere testa al fisico più sviluppato di Simon.
«Scusaci, risolviamo in un attimo, ok?» mi giustificai, cercando di infondergli fiducia con un sorriso, ma lui non diede segno di avere problemi al riguardo. Mi lanciò un’occhiata tra il rassegnato e il confuso, poi tornò in silenzio da dove era venuto.
Simon si passò il dorso della mano sugli occhi e sospirò. «Cristo, scusa, non so che mi è preso».
La sua voce era intrisa di dolore e disagio e quando abbassò il braccio i miei sospetti trovarono fondamento: stava piangendo. Con il respiro spezzato e un colpo di tosse si chinò su se stesso e posò le mani sulle ginocchia. Tentò di respirare normalmente, ma notai che il suo viso era imperlato di sudore e si portava spesso la mano al petto.
«Senti dolore al torace?» chiesi, in un sussurro che fu più un’affermazione che una vera domanda. Anche prima che annuisse riuscii a capire quale fosse il problema. Tossì di nuovo, poi scosse la testa.
«Non capisco cosa c'è di sbagliato in me» singhiozzò. Azzardai qualche passo nella sua direzione, ma con cautela, proprio come mi sarei comportata con un animale ferito e spaventato.
«È la prima volta che ti capita?» Scosse la testa, passandosi una mano sulla fronte per asciugarla dal sudore. Aveva l’aria di poter svenire da un momento all’altro.
«Palpitazioni, nausea, sensazione di non poter respirare?» Altro cenno affermativo, come previsto.
«Tranquillo, è solo un attacco di panico. Non cercare di controllarlo o evitarlo, è meglio che faccia il suo corso. Convinciti non solo che passerà, ma che sta già passando. Respira in modo regolare, non incamerare troppa aria o andrai in iperventilazione».
Lo osservai compiere quelle semplici operazioni, gratificata nel vedere che si fidava di me quanto bastava per darmi ascolto. Con gli occhi ancora sbarrati si massaggiò il petto dolente e iniziò lentamente a contare quando gli consigliai di farlo.
Restammo qualche lungo minuto in silenzio, in attesa che l’attacco finisse. Quando il suo respirò tornò regolare e negli occhi non si lesse più il terrore di pochi istanti prima, si scusò, con aria visibilmente mortificata.
«Non ti preoccupare, in fondo è colpa mia, no? Ho scatenato qualcosa di terribile senza saperlo» mormorai. Un’ondata di sollievo mi colpì come uno schiaffo quando lo vidi scuotere la testa. Sapevo che la questione era tutt’altro che risolta, una cosa da poco non poteva certamente scatenare un attacco di panico, ma la convinzione che non fosse arrabbiato con me mi fece sentire un po’ meglio. Tentai qualche parola per rassicurarlo.
«Non c’è niente di cui vergognarsi, sono cose che capitano. Ti capisco».
«No, non credo che tu possa davvero farlo, ma ti ringrazio».
«Vuoi parlarne?» Non volevo insistere, sapendo che proprio così avevo scatenato la sua reazione. Ma ormai era diverso da quando eravamo al bancone. Era per fuggire da quell’attacco ed evitare di mostrarmi la sua debolezza che mi aveva lasciato sola per rifugiarsi in quel bagno, ma ormai non c’era più niente da nascondere.
Sbuffò e tirò su con il naso, un gesto che non mi parve affatto grossolano. Mi ero aspettata che in lui tutto fosse perfetto, ma vederlo cedere alle sue emozioni non fece altro che dimostrarmi che era umano e fragile. Sembrava un bambino dopo ore di pianto, ancora scosso dai singulti e incapace di placarli.
«Che situazione di merda!» esclamò di punto in bianco, dando sfogo alla collera. Non fu tanto il tono rabbioso a spaventarmi quanto il gesto che seguì. Con un rapido movimento, sempre stringendo saldamente la bottiglia, la sbatté con forza sul lavello, mandandola in pezzi e facendo risuonare nella stanza un rumore di vetro infranto. Alcuni cocci caddero ai suoi piedi, altri li sentii scivolare nel lavabo, mentre la birra colava lungo la ceramica.
Nemmeno mi accorsi che al pari del ragazzo entrato poco prima anche io avevo portato le mani avanti in un gesto istintivo di auto-protezione. Lui si ripiegò ancora su se stesso, gettando a terra il collo della bottiglia, unico pezzo reduce dalla sua furia, e chinandosi sul lavandino in un pianto silenzioso. La sua schiena tremava e sobbalzava per i singhiozzi e il mio cuore fu solleticato dalla compassione. Odiavo pensare di essere stata io a causare sia l’attacco di panico che il suo dolore.
Mossi ancora qualche passo verso di lui, senza curarmi del suo sfogo e sperando che all’esterno del bagno nessuno avesse sentito rumori sospetti. Tesi l’orecchio per valutare la situazione, ma nessuno entrò e la musica continuava a pulsare in lontananza. Tutto normale.
«Scusami» biascicò lui dopo qualche istante. «Mi sto comportando come un dannato poppante.»
«Ma no, che dici?» mi lasciai sfuggire una risatina nervosa, avvicinandomi ancora un po’, indecisa se essere spaventata o solo preoccupata per il suo comportamento. I miei tacchi risuonarono sul pavimento, mentre osservavo i danni compiuti. I cocci in fin dei conti non erano tanti, qualche pezzo di vetro scuro qua e là. Il lavello non dava segni di essersi rovinato.
«Quando si parla di mio fratello è sempre così. Per quanto mi sforzi di non pensarci e fare finta che non sia successo niente» spiegò. «La mia reazione è sempre la stessa. Do di matto».
«A quanto pare tenerti tutto dentro non ti fa bene. Sono una perfetta sconosciuta, lo so, e non devi parlarmene se non vuoi, ma assicurati di farlo con qualcuno.»
«È morto». La secchezza dell’affermazione mi lasciò spiazzata e in silenzio e anche se non era di me che si parlava, il cuore mi parve sprofondare in un mare gelato. Fui tentata di chiedere di ripetere, ma rimasi zitta, in ascolto del rumore prodotto dal respiro di entrambi. Il mio avevo assunto un ritmo diverso ora che sapevo il motivo del turbamento del ragazzo e per quanto mi sforzassi di rimanere impassibile, o al massimo mostrarmi dispiaciuta per la sua perdita, non riuscii a sbarrare le porte al dolore.
Inevitabilmente il pensiero andò all'anno precedente, a quella notizia sussurrata dalle labbra di mia madre, al suo tono gelido e alla corsa forsennata in ospedale. La speranza, strenua fino all’ultimo, che tutto potesse andare liscio, che tornasse alla normalità, perché quello non poteva davvero accadere a noi. A qualcun altro sì, ma non a noi…non a me. E poi quella mazzata in pieno petto, il cuore che si strappava a metà, il respiro mozzato in gola e il desiderio di sprofondare, morire, annientarmi completamente per non ritornare mai più al presente.
«Mi dispiace» bisbigliai, un debole sussurro a stento scivolato fuori dalle labbra. Due parole che avevo sentito così tanto nei giorni seguenti a ciò che era accaduto, che ne conoscevo a memoria la cadenza come una ninna nanna cantata troppe volte e ormai vecchia.
Senza che lo spronassi, Simon parlo da sé. «Un incidente automobilistico sei mesi fa. Era poco più grande di me»
Avrei voluto dire ancora che mi dispiaceva, ma la voce mi si spense in gola non appena tentai di prendere parola.
«Non riesco a smettere di pensare a lui e ogni volta mi sento morire. Perciò scusami se ho reagito in malo modo, sia prima al bancone sia poco fa».
Si voltò di nuovo, il viso pallido rigato di lacrime, gli occhi che brillavano ancora di più e di un colore divenuto splendido. Il suo sguardo profondamente ferito e l’orda dei ricordi mi fecero pizzicare gli angoli degli occhi. Mi schiarii la voce.
«Ho detto che ti capisco non per pronunciare qualche parola di circostanza, ma perché posso davvero comprendere cosa provi. Ti sembrerà una coincidenza inquietante, ma...anche io ho perso mio fratello». Dirlo, pronunciarlo ad alta voce, fu come ammettere a me stessa che era successo davvero. Non ne parlavo quasi mai con nessuno, anche se tutti sapevano che l’altro figlio di David e Patricia Hale era morto. Non era mia intenzione negarlo, ma era normale evitare ciò che ci faceva soffrire.
Simon mi guardò, soppesando le mie parole, quasi dubitando della veridicità della mia affermazione, come se avessi potuto mentire su una questione così delicata. Sostenni il suo sguardo, pesante come un macigno, finché non lo sentii sbuffare.
«Perfetto, adesso sì che mi sento un imbecille. Un ragazzone come me che piange e tu che te ne stai lì, composta. Pare che io non riesca a tenere a freno le mie emozioni» si lamentò, con un mezzo sorriso, come per sdrammatizzare e piegare quella situazione spiacevole in una battuta di spirito.
«Sono le emozioni che ci ricordano che siamo vivi».
Annuì pensieroso, poi abbassò lo sguardo. «Com’è successo?»
«Investito da un furgone mentre andava in bici. Si potrebbe chiamare incidente, ma il conducente è passato col rosso. Evidentemente aveva parecchia fretta».
La freddezza con la quale le parole uscirono dalle mie labbra stupì anche me. La voce era tremante, ma presente. Evitai di menzionare l’odio che avevo provato per quell’uomo appena avevo saputo che era stato lui a causare la morte della persona più importante della mia vita. Non ne andavo fiera, ma se lo avessi incontrato per la strada, cosa impossibile perché era in carcere, l’avrei ucciso con le mie mani.
«Anche a me dispiace per tuo fratello» dichiarò Simon in un sussurro. «Mi perdoni per prima?»
«Non credo che tu abbia mai avuto nulla da farti perdonare. Come ho già detto sono io che devo chiedere scusa per essere stata poco delicata. Di solito ho molto più tatto, ma l’alcol mi ha fatto varcare qualche confine vietato, perciò facciamo così: lasciamo perdere tutto e torniamocene di là, ok?»
Non ero sicura che potesse funzionare davvero. Avevamo aperto troppi armadi e gli scheletri erano balzati fuori a ricordarci questioni che dovevamo fronteggiare prima o poi, ma ero intenzionata a provarci. Forse una passeggiata all’aria aperta lo avrebbe aiutato a riprendersi dalle conseguenze fisiche del suo dolore.
Di nuovo un breve cenno del capo da parte sua. Osai qualche altro passo nella sua direzione e lui fece lo stesso, scrutandomi con quegli occhi verdi non più solo seducenti e ammalianti, ma anche pieni di emozioni. Dapprima la sua mano mi sfiorò una guancia, poi si chinò verso di me e posò la fronte contro la mia tempia, piegando la schiena per abbassarsi verso di me. La sua pelle era fresca e lievemente umida, mentre contro la guancia sentii la sua barba pungermi la pelle e il tocco bagnato delle sue lacrime.
«Non ti sembra incredibile? Abbiamo tante cose in comune, quelle belle e quelle dolorose» mormorò. Il suo respiro mi solleticò il mento, causandomi una stretta allo stomaco per la vicinanza di quel ragazzo che ritenevo magnifico. Le parole mi rimasero incastrate in gola, perciò mi limitai ad annuire.
«Sembra quasi qualcosa di soprannaturale».
«Se ci credessi direi che è destino» riuscii finalmente ad affermare, con un sorriso. Feci per aggiungere altro, per chiarire che non c’era nulla di strano in quelle coincidenze, semmai erano una piacevole sorpresa, ma interruppe ogni tentativo posando le labbra sulle mie. Ci misi qualche secondo a realizzare che mi stava baciando e che non era solo un sogno ad occhi aperti generato dal contatto. Mi posò una mano alla base della schiena, in un tocco sicuro che mi fece sentire sorretta, come se potesse leggere nei miei pensieri e vedervi il timore di essere sopraffatta dalle emozioni e crollare a terra. Aspettai a mettergli le braccia attorno al collo, seguendo invece i suoi movimenti e lasciandolo fare. La sua bocca sapeva ancora di birra, le sue labbra erano morbide in piacevole contrasto con l’accenno di barba che sfregava contro la mia pelle. La sensazione provata poco prima al bancone, quando mi aveva sfiorato più volte la mano, mi invase il corpo centuplicata in un palpito indescrivibile. Ogni cellula del mio corpo sembrava soggiogata.
Quando decise di interrompere il contatto cambiò posizione, abbracciandomi da dietro e affondando il viso contro la mia spalla. Posò un bacio leggero sulla mia gola, come per ascoltare il pulsare del mio sangue sotto la pelle. Il contatto mi fece rabbrividire dalla punta dei piedi a quella dei capelli. Tutte le sue difese parvero infine crollare come un fragile castello di carte e ricominciò a singhiozzare stretto a me, un braccio avvolto attorno alle mie spalle.
«Ehi, è tutto ok» mi trovai a sussurrare, posandogli la mano sul braccio che mi avvolgeva, accarezzandogli la pelle e tentando di consolarlo come meglio potevo. Deglutii e mi sforzai di non piangere, di non lasciarmi sopraffare. Conoscere il motivo per cui stava così male rievocava in me tristi ricordi a cui non volevo pensare. Già in macchina con i miei amici avevo rischiato il crollo solo per un’allusione innocente di Louis, non potevo cedere di nuovo.
Ma lì, assieme a lui, sembrava più facile abbandonarmi alle mie vere emozioni. Eravamo soli ed eravamo insieme, uniti dallo stesso lutto anche se per due persone diverse.
Alzò il viso e percepii le sue labbra a pochi centimetri dal mio orecchio. «Davvero non ti sembra strano che due persone come me e te abbiano così tante cose in comune?»
Scossi la testa, senza capire perché quella questione lo incuriosisse così tanto.
«Gli esseri umani sono così…prevedibili» disse ancora. Aggrottai la fronte, pronta a chiedergli di che stesse parlando, ma fu allora che provai una sensazione strana, come una consapevolezza improvvisa, un segnale di pericolo.
«Perdonami, davvero…» disse tra quelli che fino a qualche istante prima mi erano parsi singhiozzi addolorati. Ora capii che stava ridendo. «Niente di personale, credimi, è solo un piccolo regalo per il mio amico».
Per la prima volta da quando si era avvicinato azzardai osai alzare lo sguardo e fissare la nostra immagine riflessa. Ciò che lessi nei suoi occhi mi fece rabbrividire, ma fu lo scintillio del coccio di vetro che reggeva in mano a farmi gelare il sangue nelle vene.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Avvertimento: sebbene io abbia già indicato che il rating della storia non è esattamente quello adatto a dei bambini, mi sembra doveroso menzionare la presenza di scene violente e di un po' di sangue in questo capitolo. Giusto un po'...
Colgo anche l'occasione per ringraziare AnonymousA e Mivi28. Grazie davvero di cuore per aver lasciato un commentino. Spero che il capitolo, seppure un po' breve, non vi deluda. :) Buona lettura!












Gli empi, invece, secondo i loro progetti, riceveranno il castigo, essi che non si sono presi cura del giusto e si sono allontanati dal Signore.
Sapienza 3,10.







8.




Il suo movimento fu così fulmineo che la mia mente non riuscii ad elaborare il tutto e quel lampo di dolore alla gola mi parve insensato, senza un’origine precisa.
D’istinto cercai di evitare l’attacco, ma il braccio di Simon mi stringeva il busto immobilizzandolo, e ogni mio tentativo risultò vano.
Sebbene il colpo fosse stato quasi impercettibile, sentii ogni istante di quando il coccio di bottiglia fu strappato via dalla ferita. Qualcosa di caldo mi scivolò lungo il petto, dentro la scollatura del vestito, e per quanto quel pensiero mi sembrasse inutile, mi stupì la temperatura del mio stesso sangue. Il respiro mi si spezzò in gola.
Simon sciolse la sua stretta e crollai a terra, mentre la forza defluiva velocemente dagli arti, e nel mio campo visivo il bianco intenso delle mattonelle fu guastato dal rosso del sangue che zampillava.
Mi portai una mano alla gola e percepii con orrore i lembi della ferita lasciar sgorgare il sangue come una diga distrutta.
«Te l’ho detto, piccola, ho i gusti dei gatti coi topi e tu sei un adorabile animaletto con cui giocare. Tutti voi lo siete». La voce di Simon era un sussurro intriso di un piacere perverso. Era chiaro che quella visione lo divertiva molto. Non capii che cosa intendesse per voi, ma non mi importava, non volevo ascoltarlo. Volevo gridare, chiedergli che cosa avesse fatto e soprattutto perché, ma le parole non ne volevano sapere di uscire dalle labbra e ad ogni respiro mancato la bocca si riempiva di sangue.
«Adesso resta lì e lascia che ti guardi morire».
Sentii le forze abbandonarmi più velocemente di quanto mi sarei mai aspettata, come se in ogni millilitro di sangue fosse contenuta la mia energia. Non sarebbe stata una cattiva idea abbandonare la testa contro il pavimento fresco e chiudere gli occhi aspettando che finisse, ma l’istinto ebbe la meglio.
Alzati e scappa. Esci di qui, chiedi aiuto.
Feci forza sulle mani e riuscii chissà come a tirarmi faticosamente in piedi, a gettarmi contro la porta e spingermi fuori, armeggiando con la maniglia di metallo divenuta improvvisamente scivolosa, le mani premute contro la ferita. Alle mie spalle, Simon gridò qualcosa con voce sprezzante.
Il passaggio dal bagno all’esterno fu uno shock, la musica mi assalì come una forza fisica e il cervello parve rimbombare all’interno della scatola cranica. Le orecchie ronzavano in sottofondo e ad ogni battito del cuore il palmo della mia mano incontrava il pulsare frenetico del sangue. Le luci stroboscopiche mi circondarono rendendo il mondo attorno a me un frammento d’incubo, composto di lampi bianchi e rossi incessanti, e persone accanto a me che sembravano muoversi a scatti come in preda alle convulsioni.
Sentii le forze venire meno, le membra intorpidite e gli arti deboli. Riuscii a coprire una distanza minima, poi le gambe cedettero a metà della scaletta che dava sulla pista da ballo. Sentii la caviglia piegarsi sotto il mio peso e crollai faccia a terra. Con le mani strette sulla ferita mi fu impossibile attutire la caduta e impedirmi di picchiare la fronte contro il duro pavimento.
Decine di piedi attorno a me erano ancora in movimento quando, malgrado la musica, udii uno strillo.
Ciò che seguì furono immagini, lampi di oblio e coscienza. Qualcuno gridò di chiamare un’ambulanza, qualcun altro chiese se ci fosse un medico tra i presenti. Poi, tra le centinaia di voci, distinsi il mio nome.
Tra la calca riuscii a individuare chiaramente solo il volto di Jennifer, china su di me, sull’orlo del panico, pallida come una morta e con i grandi occhi scuri sbarrati per lo shock. Riconobbi la sua mano fresca premere sulla gola, mentre io non sapevo nemmeno più che fine avessero fatto le mie. Non avevo più la sensibilità degli arti.
Le sue labbra si mossero, ma non ne uscì alcun suono, solo il suo viso carico d’angoscia mi suggerì che stava pronunciando qualsiasi cosa che potesse aiutarmi a restare lucida e sveglia. I lati del mio campo visivo ormai erano appannati, come se stessi guardando in un oblò molto piccolo e in una dimensione in cui tutto era distorto. La musica ancora picchiava incessantemente nella mia testa, ma come potevo sentirla se attorno a me si presentava un mondo muto?
Dopo qualche istante capii che si trattava del mio stesso cuore che rimbombava nelle orecchie.
Qualcosa cambiò: una voce si fece largo tra un battito e l’altro. Percepii una mano che mi sollevava la testa e un’altra che allontanava con decisione quella di Jennifer, per intervenire sull’emorragia. Nella confusione della mia vista, occhi celesti ricambiarono il mio sguardo.
«Andrà tutto bene, devi fidarti di me» mormorò una voce, così distinta che mi sembrò di percepirla solo nella mia mente. La presa sulla ferita era salda. Qualcuno mi strinse con forza la mano, le dita scivolose per il sangue.
I polmoni mi bruciavano per la mancanza d’aria e qualcosa mi colava dalla bocca e dal naso, gorgogliando ad ogni tentativo di respirare.
Gli occhi del ragazzo misterioso guardavano solo me, tralasciando la ferita, stranamente confortanti. Un lampo di speranza nel bel mezzo di quell’inferno di volti spaventati.
«Non ti preoccupare, ora passerà, te lo prometto. Devi solo respirare. Coraggio, respira».
Disse, con una naturalezza e una tranquillità che mi parvero impossibili in un momento tale. Riuscivo solo a pensare Non posso, non ci riesco.
Le palpebre divennero troppo pesanti perché riuscissi a sostenerle ancora a lungo, desideravo solo lasciarmi andare e fidarmi ciecamente di quello sconosciuto.
Il bruciore alla gola e ai polmoni era insostenibile, ma feci un ultimo tentativo. Come se si sciogliesse un enorme blocco di ghiaccio nel mio petto l’aria riempii i polmoni e il sollievo mi invase. Incamerai ossigeno finché mi fu possibile, mentre attorno a me il buio calava lentamente come un sipario. La testa ancora pulsava e il corpo sembrava appartenere a qualcun altro, ma ogni traccia di dolore o fatica era svanita completamente.
«Bene» disse ancora il ragazzo, con un ampio sorriso rassicurante. Fu l’ultima cosa che vidi, prima di abbandonare la testa contro il suo palmo e chiudere del tutto gli occhi.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Ringrazio AnonymousA e Mivi28 per i commenti al capitolo precedente! Grazie di cuore. Ancora un po' di pazienza e scoprirete chi è il ragazzo misterioso che ha salvato Amber!









Perché costringermi a vedere l’iniquità e a dover guardare l’oppressione? Rapina e violenza stanno davanti a me; c’è rissa e la discordia prevale! La legge di certo si affievolisce e scompare per sempre la giustizia. Perché l’empio domina il giusto la giustizia si perverte.
Abacuc, 1, 3-4.






9.




Christopher era famoso per il suo innato ottimismo. Non importava quanto fosse nera la situazione, lui vi avrebbe trovato almeno un insegnamento importante. Conoscendolo avrebbe saputo vedere il lato positivo della sua stessa morte. Avrebbe detto che quella disgrazia poteva essere utile a riunire la nostra famiglia, ma si sarebbe sbagliato di grosso. Fu dopo la sua morte che il nostro mondo, già piuttosto fragile, finì di crollare.
Avevo accolto la notizia della separazione dei nostri genitori come qualcosa di già noto, senza stupirmene più di tanto. La mancanza di comunicazione nel loro rapporto lo aveva reso indifeso, come una cinta muraria già piena di brecce e ormai perduta di fronte all’assedio. Non potevo dare la colpa di tutto a mio fratello, lui era solo stata la proverbiale goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Christopher era sempre stato l’anello saldo della nostra catena e la sua mancanza aveva fatto capitolare tutto.
Tra i pochi momenti di vera lucidità al funerale, ricordavo di aver visto i nostri genitori fisicamente vicini, ma emotivamente distanti. Evitavano di toccarsi o anche solo di guardarsi, come se tutto fosse stato causato da una colpa dell’altro o come se non avessero mai condiviso nulla nella loro vita, nemmeno il dolore per quel figlio ormai perduto.
Si erano limitati ad ascoltare le condoglianze dei presenti, ringraziando con i volti tesi. Papà aveva continuato a piangere in silenzio, mia madre invece aveva mostrato il solito cipiglio freddo da donna di ghiaccio, insensibile a tutto.
Il mio sguardo aveva abbracciato più volte tutto il prato e ogni punto del cimitero, fra le decine di persone presenti, alla ricerca dell’unica che davvero avrei voluto presente. Non avevo fatto altro che chiedermi perché tutta quella gente fosse lì con noi, perché avessero deciso di condividere il nostro dolore, anche se molti di loro non avevano conosciuto Chris come lo conoscevo io. Loro non sapevano che mio fratello borbottava nel sonno, che si lavava i denti canticchiando, che si commuoveva guardando i documentari della BBC per la bellezza straordinaria della musica che accompagnava ogni scena. E loro non avrebbero dovuto vivere senza tutte quelle cose.
Perché si ostinavano ad avvicinarsi a me e con i loro sguardi feriti suscitare nel mio animo una sofferenza maggiore? Che me ne facevo della loro solidarietà, sapendo che ognuno di loro alla fine della funzione sarebbe tornato alla propria vita, conservando le parole del prete solo come una bella predica e un bel ricordo di un ragazzo qualunque?
A me cosa restava? Due genitori che rinnegavano ciò che avevano costruito insieme, che non si guardavano nemmeno più in faccia e non osavano rivolgersi la parola. Una stanza vuota accanto alla mia, priva dei rumori della presenza di Christopher nella mia vita, del pizzicare delle sue dita sulle corde della chitarra, della sua voce e dei passi lungo il corridoio tra le nostre camere.
Eppure avevo stretto i denti, accettato il dispiacere degli sconosciuti, grata solo degli abbracci dei miei migliori amici.
«Siamo tutti qui per lui…» avevo mormorato con gli occhi fissi sulla lucida bara di legno cosparsa di fiori. «Ma lui non c’è».
Per tutto il tempo della funzione mi era sembrato di vederlo cantare assieme al resto del coro, i suoi occhi gentili che mi fissavano e il perenne sorriso sulle labbra. Per quanto poetica fosse quell’immagine, mi aveva generato un moto di nausea che mi aveva fatto desiderare di scappare via da lì, ignorare la messa, tornare a casa e chiudere gli occhi. Abbandonarmi sul letto e sperare che il sonno avesse la meglio, salvandomi da quella giornata d’inferno.
Ovviamente non l’avevo fatto.
Era sempre stato Chris a farmi compagnia quando i nostri genitori erano assenti, rapiti alla famiglia da un lavoro che richiedeva troppo tempo, a consolarmi quando qualcosa andava storto, ad ascoltare i miei sfoghi e ad assorbire nella felpa tutte le mie lacrime adolescenziali.
Sorrideva e trovava sempre parole di conforto quando mi dilungavo in monologhi carichi di preoccupazione sui miei fidanzati pieni di problemi, a strapparmi risate sincere anche quando non avevo voglia di farlo, a prendere la chitarra e cantare, sapendo quanto amassi la sua voce, anche se gli ripetevo in continuazione che la musica che ascoltava era da vecchi.
Avevo detto tante cose che non pensavo, per esempio che detestavo il suo ottimismo e la sua devozione. Trovava gioia in ogni giornata e da vero cristiano riteneva che ci fosse un senso anche in qualcosa di marcio.
Ma allora perché il furgone aveva superato il semaforo rosso proprio nell’istante esatto in cui Chris attraversava la strada in bicicletta? Che razza di disegno divino avrebbe mai potuto essere?
Ero atea da molto prima che ciò succedesse, ma quell’evento aveva rafforzato la mia convinzione che non ci fosse nessun Dio, nessuna forza imperscrutabile che governava le nostre vite. Quale Dio avrebbe lasciato che accadessero cose del genere, soprattutto ad un figlio così fedele? Pensare che esistesse avrebbe significato sostenere che non ci amava, perché in un secondo la vita di Chris era finita e la mia famiglia era andata in sfacelo.
Una famiglia che non riusciva a restare unita nemmeno quando la seconda figlia aveva rischiato di rimetterci la pelle.
Nella stanza d’ospedale si sentivano solo le voci astiose dei miei genitori, impegnati nell’ennesimo battibecco. La mia sicurezza personale e ciò che era accaduto al Mephisto erano il tema della discussione, ma in realtà era solo un pretesto per ricordarsi l’un l’altro il motivo per cui non vivevano più assieme.
«Non sto facendo nessun terzo grado. Non dire a me come devo parlare a mia figlia, David!» esclamò mia madre, lanciandomi uno sguardo glaciale. Io mi sistemai meglio sul letto, sentendomi improvvisamente piccola e impotente e non sapendo chi ringraziare per non aver ereditato il freddo azzurro dei suoi occhi. Probabilmente un qualche miscuglio di geni che mi aveva regalato occhi scuri e dolci come quelli di papà. Nemmeno per un istante lasciai la sua mano calda e grande, felice che fosse seduto accanto a me.
Era stato un sollievo vederlo varcare per primo la porta della mia stanza, poco dopo il mio risveglio, mentre mamma era arrivata qualche ora più tardi, con il volto teso e uno sguardo duro come il marmo. Ero sicura che volesse prendermi a ceffoni, furiosa per aver dovuto lasciare il lavoro e saltare sul primo aereo. Me la immaginai mentre, dopo la chiamata della polizia, guardava i colleghi con aria imbarazzata dicendo scusate, le solite scocciature, mia figlia stava per morire. Vorrei restare ma...
«Come sarebbe a dire? L’hai attaccata appena hai messo piede in questa stanza, dalle un po’ di respiro!» si difese mio padre, o meglio, difese me. Gli fui grata per quel tentativo, ma non feci in tempo a rivolgergli uno sguardo riconoscente che mia madre già era partita in quarta con la sua obiezione.
«Perché cerchi sempre di difenderla?»
«Perché non è il momento giusto per rimproverarla. Non ora!»
«So perfettamente cosa stai cercando di fare!»
La tensione all’interno della stanza era palpabile, mi formicolò addosso come una cappa di elettricità. Avevo vaghi ricordi di ciò che era successo, momenti di buio alternati a veloci lampi blu e rossi che poi avevo intuito essere appartenuti ai lampeggianti dell’ambulanza e della polizia. Nella testa mi risuonava ancora il rimbombo della musica e voci concitate.
La mia mente era restia a ricostruire il tutto, ma non era stato solo un sogno e molti elementi mi impedivano di ignorare gli eventi. La fronte mi doleva nel punto in cui l’avevo sbattuta contro il pavimento e un tubicino trasparente portava sangue da una sacca appesa accanto a me al mio braccio per reintegrare ciò che avevo perso a causa dell’emorragia.
In fondo alla gola sentivo ancora il sapore del sangue, ne avevo sotto le unghie e tra i capelli, probabilmente il busto non era da meno, e avevo paura a parlare troppo forte o a tossire, come se potessero da un momento all’altro saltare via tutti i punti e lasciarmi ancora in un lago di sangue.
Louis e Jennifer erano rimasti con me tutto il tempo, ancora prima che mi svegliassi, e mi avevano poi raccontato ogni cosa che mi ero persa nei momenti di incoscienza, ancora pallidi in volto e con lo sguardo spaventato. Ero grata ad entrambi: Louis era uscito tempestivamente dal Mephisto per chiamare il 911, mentre Jennifer aveva fatto di tutto per non lasciarmi morire dissanguata. Conoscendo le sue paure e sapendo come si sentiva male non appena vedeva una goccia di sangue, la consideravo una vera eroina.
Un risvolto positivo era che Kurt si era vomitato sulle scarpe. Pivello.
Il resto lo ricordavo perfettamente, per esempio i miei tentativi di allontanarmi il più possibile dal mio aggressore, il bruciore ai polmoni causato dall’impossibilità di respirare, la sensazione sgradevole del sangue che usciva a fiotti.
Secondo i medici la questione era molto diversa da come la conoscevo io. Mi avevano ripetuto più di una volta che ero stata fortunata, che la ferita era stata molto superficiale e che mi sbagliavo a proposito della velocità con cui avevo sentito il sangue uscire dal taglio, perché se si fosse davvero trattato di un’emorragia arteriosa sarebbe stato impossibile per me sopravvivere. In una decina di secondi sarei morta certamente.
Certo, la logica con cui mi avevano spiegato le loro obiezioni non faceva una piega, ma perché allora i miei ricordi erano diversi? Mi sembrava impossibile che fossero bastati otto punti di sutura per rimediare al problema, e anche Louis e Jenny avevano confermato la mia versione dei fatti.
Quando papà era arrivato, con i capelli arruffati e una maglietta spiegazzata pescata chissà dove, Jennifer mi aveva abbracciato, Louis mi aveva dato un bacio sulla fronte ed entrambi mi avevano salutato e promesso di venirmi a trovare l’indomani. Quando poi avevo visto lo sguardo che mia madre aveva rivolto al marito appena aveva posato gli occhi su di lui, avevo capito che uno scontro era inevitabile.
«Che cosa intendi dire? Che cosa starei cercando di fare, sentiamo?» La mano di papà strinse la mia con più forza, non ero sicura se lo facesse per darmi sicurezza o se per trarla da me.
«Reciti la parte del padre perfetto, del grande amico, la difendi senza esitazione».
«Sono solo felice che sia viva, per ora ti deve bastare».
«Lo vedi? Fai passare me come la cattiva della situazione!»
«Non è quello che ho detto…» mormorò mio padre con una scrollata di spalle. Io evitai di guardare entrambi troppo a lungo, soprattutto mamma. All’inizio avevo tentato di mantenere un certo contegno, perfino di mostrarmi sprezzante, ma ogni sicurezza era crollata sotto le sferzate del suo sguardo colmo di rimprovero.
Sospirò, passandosi una mano sulla fronte. Aveva l’aria stanca, non sapevo se attribuirlo al volo o al fastidio di aver perso tempo.
«Spero almeno che tu abbia imparato la lezione» mormorò rivolta a me, con voce pacata ma severa. Prima che papà potesse difendermi di nuovo, lei lo interruppe. «Ha disobbedito ad un ordine di sua madre, ha dato confidenza ad un perfetto sconosciuto. Armato, per di più!»
«Beh, se avessi saputo che mi avrebbe ficcato un coccio di vetro in gola non gli avrei dato retta, non credi?» Feci, sulla difensiva. «Non potevo saperlo».
«Invece sì, ti avevo avvertita che SoMa è una zona pericolosa della città. Lo dicono tutti, ma tu devi sempre fare di testa tua».
«Forse perché sono abituata ad arrangiarmi!»
«Non cercare di rifilarmi scuse assurde o dare la colpa a me per quant’è successo, signorina. Sai perfettamente cosa intendo, se ti dico di non fare una cosa è perché so di cosa sto parlando!»
Evitai di rispondere anche se parole taglienti mi premevano contro le labbra, desiderose di uscire. Se davvero voleva mostrarmi preoccupata o interessata alla mia salute doveva sforzarsi un po’ di più per dimostrarlo. Papà attirò la mia attenzione con un lungo sospiro e le sue labbra sottili si piegarono in un sorriso dolce. I suoi occhi color cioccolato mi rincuorarono e ogni traccia di tensione e rabbia scivolò via dal mio corpo come tracce di fango lavate via dalla pioggia. Con le dita mi scostò alcuni ciuffi dalla fronte.
«Ora non ti preoccupare di nulla, d’accordo piccola? L’importante è che tu stia bene, senza gravi conseguenze. Ci hai fatto prendere un bello spavento!» L’uso del plurale poteva far pensare che si riferisse a lui e mia madre, ma i miei genitori non erano più un noi da un pezzo, perciò non poteva che riferirsi a lui e Trudy. Nella stanza la tensione raggiunse il picco massimo, come prova del fatto che anche a mamma l’allusione non era sfuggita.
Papà frequentava una ragazza più giovane di una decina d’anni. Stavano insieme da poco più di un mese e io la trovavo adorabile, anche se mia madre mi fulminava con lo sguardo ogni volta che parlavo di lei in termini positivi. A dire il vero sembrava odiare qualsiasi cosa rendesse felice gli altri, ma Trudy era tabù in modo particolare, perciò avevo smesso di nominarla in sua presenza. In quel momento non mi importò nulla. Trudy era splendida e dimostrava molto meno dei suoi trentaquattro anni. Pelle delicata e chiara, viso dolce da bambina e un sorriso contagioso. Aveva capelli rossi che spesso le invidiavo e belle labbra carnose. Cosa più importante, aveva un gran senso dell’umorismo, un’allegria inguaribile e una gentilezza che me l’aveva fatta piacere dal primo istante in cui l’avevo vista. Era maestra d’asilo e anche se non l’avevo mai vista all’opera sapevo che grazie al suo carattere se la cavava sempre alla grande con i bambini.
Il fatto che papà stesse parlando di lei a quell’ora significava che si trovavano insieme quando aveva ricevuto la chiamata che lo informava dell’aggressione. Sapevo che dopo che era andato via di casa si era trovato un piccolo appartamento vicino al posto di lavoro, ma ero anche convinta che la maggior parte delle notti le passasse da lei.
Non era difficile capire come avesse fatto Trudy ad innamorarsi di lui, l’avevo sempre considerato bello come un principe delle fiabe e altrettanto coraggioso e gentile.
Il suo aspetto era confortante per natura, sempre in ordine, ben rasato e ben vestito, ma lontano dall’essere snob. I capelli biondi erano tagliati non troppo corti e pettinati all’indietro, il viso era serio durante il lavoro, ma si addolciva spesso grazie alle fossette che si formavano nelle guance non appena abbozzava un sorriso. Quella sul mento gli donava un’aria affascinante che probabilmente aveva fatto breccia in molti cuori.
Erano le stesse caratteristiche che avevano fatto sciogliere anche mia madre, più di vent’anni prima e mi sembrava davvero impensabile l’idea che ogni sentimento d’amore o d’affetto da parte di lei fosse stato ormai soffocato e messo definitivamente a tacere.
Papà aveva l’abitudine di prendere ogni sua frecciatina, critica o insulto con una naturalezza estrema, forse abituato dal suo lavoro o magari solo rassegnato alla cosa. Era avvocato divorzista, perciò ne vedeva di cotte e di crude per quanto riguardava i rapporti umani. Giorno dopo giorno esaminava casi, ascoltava lamentele, scrutava scartoffie ed elargiva consigli su come affrontare il problema di separazioni e divorzi. Era un paradosso che proprio lui avesse dovuto abbandonare la propria casa e continuare a cercare compromessi per gestire una moglie mostruosa.
«Come sta Trudy?» gli chiesi, ignorando lo sguardo astioso di mia madre che pesava su di me. Papà si illuminò non appena sentì il nome dell’amata.
«Sta bene, ma si è molto preoccupata per te. Devo ancora metterla al corrente delle tue condizioni, ma sono certo che domani verrà a farti visita».
Un lieve bussare interruppe la conversazione e mi fece distogliere gli occhi da quelli di mio padre. La porta si socchiuse, poi si aprii del tutto lasciando intravedere il sorriso dell’infermiera di turno e i volti di due perfetti sconosciuti. Appena misero piede nella stanza estrassero i distintivi e distrussero ogni mio dubbio.
Uno dei due poliziotti era una donna, alta e slanciata, con i capelli neri ondulati e occhi scuri dall’aria severa. Prese parola per prima, dandomi l’impressione che fosse sempre lei a condurre il gioco.
«Signorina Hale, salve. Sono il detective Angela Collins e lui è il mio collega, il detective Andrès Sanchez».
Il suo accompagnatore, un ispanico dal viso giovane e più basso di lei, mi fece un cenno di saluto con aria cordiale. Non mi ero mai trovata di fronte a due poliziotti prima d’allora, non ero mai stata fermata in auto e non avevo mai rivolto la parola a qualcuno di altrettanto autorevole, perciò non fui certamente stupita di sentire una lieve fitta di nervosismo allo stomaco. Non sapevo come comportarmi, alzarmi e salutare in modo adeguato o restarmene ferma e attendere le loro parole?
Parvero leggermi nel pensiero perché si avvicinarono entrambi per regalarmi una vigorosa stretta di mano, senza costringermi a fare la prima mossa. Si presentarono anche ai miei genitori, poi spiegarono il motivo della loro presenza.
«Siamo qui per farle qualche domanda se non le dispiace. Abbiamo atteso che potesse riprendersi e calmasi un po’, ora se la sente di scambiare con noi qualche parola?»
Annuii timidamente, scambiando un’occhiatina con papà.
«Vuoi che resti?» chiese lui preoccupato.
«Non preoccuparti, posso cavarmela».
«Sei sicura? Allora aspetterò fuori, voglio telefonare a Trudy per farle sapere che stai bene, poi posso rimanere».
«Cosa? Tutta la notte?» Mi sembrava ingiusto farlo restare lì inutilmente. Adoravo la sua presenza, ma aveva l’aria stanca, era giusto che andasse a dormire. «Tranquillo papà, non c’è bisogno che mi fai la guardia, so già che dormirò come un sasso».
Il suo viso lasciò trapelare il dubbio. «Ne sei sicura, tesoro?»
«Al cento per cento. Salutami Trudy e dille che ho la pellaccia dura» lo rassicurai, facendolo ridacchiare. Si sporse verso di me e mi posò un bacio leggero sui capelli, mentre io inspiravo il suo profumo di pulito. Sebbene ci vedessimo spesso mi mancava ogni giorno di più e tutte le volte che ci incontravamo e incrociavo il suo sguardo colmo d’affetto mi rendevo conto di quando fosse triste non averlo più a casa.
«Allora tornerò domani. Buona notte. Arrivederci Trish.» rivolse un breve cenno a mia madre. L’uso del diminutivo mi fece capire che lui non portava rancore nei confronti della moglie. Strinse la mano ai due detective, ringraziandoli per il loro lavoro, e se ne andò.
«Esco anche io, così potete parlare tranquillamente» si intromise mia madre, alzandosi dalla sedia e imitando papà. «Sarò qui fuori se hai bisogno, d’accordo?» Disse stancamente. Mi limitai a un cenno d’assenso, più preoccupata di ciò che la presenza della polizia avrebbe provocato: il dover ricordare a me stessa tutto quello che era successo nel bagno. Di conseguenza il pensiero andò all’unica persona a cui non volevo ripensare.
Simon.
Solo il suo nome mi mise i brividi. Perché aveva cercato di uccidermi e con quali intenzioni? Più ci riflettevo e più lontana mi sentivo dal capirlo. Se solo lo avessi provocato in qualche modo avrei giustificato uno scatto d’ira, ma non si era trattato di un raptus e a parte il momento di rabbia in cui aveva rotto la bottiglia sul lavandino, non avevo colto segnali di minaccia.
E poi mi tormentava ciò che aveva detto, che l’aggressione era un regalo ad un suo amico, ma di chi parlava? Della stessa persona che aveva detto di aver visto quando eravamo al bancone?
Se mi aveva ferito per compiacerlo allora dovevo considerarmi protagonista di una macabra scommessa?
Era assurdo e l’idea di essere interrogata da quei due mi metteva in soggezione. Feci un profondo sospiro e mi stampai un sorriso in faccia.
«Chiedete pure».

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***



Rieccomi, con un nuovo capitolo. Ringrazio ancora AnonymousA e Mivi28 per le belle parole lasciate nelle recensioni. Voi mi allietate la giornata! :) 






Guai ai cuori timidi e alle mani rilassate, al peccatore che cammina su due sentieri. Guai al cuore meschino che non crede, perché non avrà protezione.

Siracide, 2, 12-13.











10.











Il detective Collins indicò le sedie che si erano liberate dopo l’uscita dei miei genitori.
«Possiamo accomodarci?»
«Prego, fate pure». Lei si sistemò accanto a me, dove poco prima era seduto papà e finalmente il suo viso, in apparenza duro, si aprì in un sorriso che riuscì a donarmi un certo sollievo. Non c’era tensione sul suo volto, solo una luce di concentrazione negli occhi castani che mi rincuorò e mi fece istintivamente sentire in buone mani.
«Per prima cosa ci tenevo a dirle che sono felice di sapere che sta bene. Di certo non è nostra intenzione sconvolgerla parlando di questa faccenda, ma è necessario per poter venire a capo della questione. Lei immagina che stiamo cercando di trovare la persona che le ha fatto questo, perciò se potesse fornirci alcuni particolari sarebbe molto più facile». La formalità delle sue parole mi intimidì, ma mi schiarii la voce e accennai un sorrisino.
«Ecco, preferirei che mi deste del tu…e che mi chiamaste Amber. Mi sentirei più a mio agio».
«D’accordo, Amber, puoi raccontare com’è andata? Cerca di essere più dettagliata possibile, per favore».
Distolsi lo sguardo, puntandolo sulle mie mani, intrecciate in grembo e posate sulle lenzuola azzurre. Tutto il resto della stanza richiamava quella tinta tenue che aveva lo scopo di infondere ai pazienti pace e tranquillità. Non sapevo come sentirmi al riguardo. I ricordi lo facevano apparire scioccante come un verde acido. Quella tonalità mi aveva circondata in attesa che Chris fosse operato e che i medici ci mettessero al corrente delle sue condizioni. Vedermi di nuovo immersa in essa provocò in me una sorta di strano déjà-vu, come se fossi tornata improvvisamente indietro nel tempo, al due aprile dell'anno prima...
«Amber?» L’intervento di Collins mi riportò alla realtà.
«Mi scusi, ero soprappensiero…devo cominciare dal principio?»
«Sarebbe utile. Un paio di agenti sul posto stanno interrogando i presenti, ma la tua testimonianza, come puoi immaginare, è fondamentale». La detective accavallò le lunghe gambe fasciate dai pantaloni neri, e mi guardò fissa in attesa del mio racconto. La sua voce era lievemente bassa, graffiante, ma riusciva comunque a comunicare una certa femminilità. A prima vista sembrava una donna forte e avevo l’impressione che i suoi colleghi la stimassero e che ne fossero al contempo anche un po’ intimiditi.
Cominciai a parlare, dapprima dubitando dell’efficacia del mio racconto, poi sempre più convinta. Le parole cominciarono ad avere volontà propria e a scivolarmi fuori dalle labbra con naturalezza e spontaneità. Avevo creduto di sentirmi spaventata di fronte a due poliziotti così autorevoli, ma parlare con loro fu meno fastidioso del previsto. Avrei potuto parlare per ore di come tutti e tre fossimo rimasti a bocca aperta nel contemplare le meraviglie del locale, le pitture sulle pareti e quegli specchi suggestivi. Il fumo che si innalzava dal pavimento, il rosso dominante, la sensazione di essere in un luogo proibito e affascinante. Ma era Simon l’oggetto del loro interesse e le circostanze che mi avevano portata a cadere nella sua trappola.
Quando accennai al fatto che non ero stata autorizzata da mia madre ad uscire, il detective Sanchez alzò la testa dal blocco per gli appunti che reggeva in grembo e su cui dall’inizio dell’interrogatorio stava freneticamente scrivendo.
«Per quale motivo sua madre non ha voluto che uscisse?» chiese. Era la prima volta quella sera che udivo la sua voce, molto giovanile, gentile e pacata, ma incalzante. Sapevo che fare domande e valutare ogni singola parola faceva parte del loro lavoro, perciò cercai di non dare peso all’insistenza che notai nella voce di entrambi. Era notte anche per loro e li aspettava ancora un duro lavoro.
«Mia madre è un po’ prevenuta, crede che in South of Market girino tipi poco raccomandabili, che la zona sia pericolosa e che io non sappia cavarmela da sola. È una specie di maniaca del controllo, credeva che potesse succedermi qualcosa di brutto».
«Cosa che effettivamente è successa» commentò Collins con un mezzo sorriso.
«Beh sì, ma lì per lì non aveva motivo di sospettare nulla. L’aggressione è stato un caso, sarebbe potuta accadere ovunque e a chiunque» mi difesi, sapendo in cuor mio che la donna aveva ragione. Se solo avessi dato ascolto a mia madre non sarebbe successo nulla di grave, ma ammetterlo era troppo fastidioso.
«Avete litigato?»
«Non proprio, ho cercato di far valere le mie ragioni, ma come sempre lei non mi ha dato ascolto ed è uscita per andare al lavoro. Programmavo di tornare a casa prima che lei rientrasse».
Sanchez lanciò un’occhiata alla collega. Qualcosa mi suggerì che avessero intuito la situazione.
«Mi sembra di capire dalle tue parole che tra voi non c’è un buon rapporto» tentò lui.
«Credete che sia stata lei ad architettare il tutto? Non ci avevo pensato, ma a dire il vero molte cose sarebbero più chiare se fosse lei il mandante del tentato omicidio».
Collins ridacchiò, riuscendo evidentemente a prendere la mia battuta come tale. Sanchez per sicurezza annotò pure quello sul notes.
«Veniamo all’aggressore. Come si è avvicinato a te?»
«In nessun modo, sono stata io ad andare da lui. Era seduto al bancone, poco distante da dove stavamo io e i miei amici».
Sanchez alzò lo sguardo dal notes e la donna corrugò la fronte. I suoi occhi scuri assunsero un’aria incuriosita.
«Davvero? Avremmo giurato che fosse accaduto esattamente il contrario».
«Che importanza ha?» chiesi, stringendomi nelle spalle. Credevano che una ragazza come me non potesse fare il primo passo?
«Ne ha molta. La sua azione violenta mi fa pensare ad una premeditazione, a meno che tu non l’abbia provocato in modo grave. La premeditazione comporta fin dal principio l’intenzione di avvicinarti». Ogni parola aveva una logica, ed era proprio ciò a cui avevo pensato io. Non ero stata io a scatenare la sua ira, probabilmente fin dal principio aveva avuto l'intenzione di farmi del male.
Feci un profondo sospiro. Pensare a Simon mi lasciava senza parole, con la mente in subbuglio nel tentativo di risolvere i miei dubbi e di comprendere il motivo di tutto ciò che aveva fatto. Descrissi ai detective il momento in cui l’avevo individuato al tavolo da biliardo, il fatto che l’avessi fin da subito ritenuto uno schianto e il desiderio di conoscerlo. Raccontai la nostra lunga chiacchierata, soffermandomi in particolare sull’entusiasmo del ragazzo a proposito dell’arredamento del locale.
«Sembrava molto interessato a tutto ciò che riguardava il Mephisto. Era a conoscenza delle spiegazioni di molti elementi, come per esempio la forma del bancone, le scritte, i dipinti…e sapeva diverse cose a proposito del Faust di Goethe. Mi è parso molto affascinato…»
«Come se avesse per lui un significato particolare?»
Annuii pensierosa. «Proprio così. Quando abbiamo iniziato a chiacchierare tutto è andato a meraviglia, poi il discorso si è fatto più teso perché abbiamo nominato le nostre famiglie. I suoi sono divorziati, i miei separati…»
Di nuovo le parole uscirono dalla gola senza sforzi, descrivendo le reazioni esagerate di Simon, la fuga in bagno, i gesti e la confessione della fine dei nostri fratelli. Di come mi ero sentita bene all’idea di non essere la sola a soffrire di un lutto simile. Dannazione, se solo fossi stata più assennata non sarei stata lì in un letto d’ospedale immersa in un interrogatorio di polizia. Avrei dovuto essere più timida e restare con i miei amici, lasciare che Simon stesse per conto suo a sorseggiare in solitudine il suo drink e ordinare tutte le birre che voleva.
A proposito di questo, evitai con cura di nominare ai due poliziotti il fatto che avevo bevuto degli alcolici senza poterlo fare. Era irrilevante in quel momento, ma non volevo ramanzine da parte di sconosciuti, per quanto qualificati fossero. Bastava il mio senso di colpa a rimproverarmi per aver trasgredito una legge ben precisa. E se quella sera fossi uscita di strada con Louis e Jennifer a bordo? In fondo era bastato qualche sorso per farmi sentire decisamente meno lucida.
Fu Sanchez a farmi tornare con i piedi per terra, con gentilezza, ma anche con una dose di determinazione nella voce che mi diede la spinta giusta ad abbandonare i se e a concentrarmi sulla concretezza degli eventi. Quando con il racconto giunsi all’aggressione vera e propria confessai agli agenti le mie impressioni e le riflessioni fatte poco prima.
«Si stava divertendo e sembrava che la situazione gli piacesse molto, rideva per il fatto che io credevo che avessimo molte cose in comune. Ora che ci penso su, sono certa che quello che mi ha raccontato di sé no fosse vero…almeno non tutto».
«Credi che abbia mentito sulla sua famiglia? Per quale motivo?» Collins sembrava scettica.
«Perché ho pensato che lui si sentisse proprio come mi sento io. Ma non riesco a capire com’è possibile che lui sapesse della mia situazione…è stato lui a parlarmi per primo della sua famiglia, per questo gli ho creduto subito».
«Credi che ti conoscesse già?»
«Non l’ho mai visto prima, lo giuro». Ne ero convinta, poi una stretta allo stomaco mi ricordò che cosa Simon aveva detto prima di ferirmi. Un regalo per un amico. Lo ripetei ai due detective, aggiungendo i riferimenti al Faust. Tutto sembrava assurdo, come se stessi raccontando una barzelletta o un aneddoto altrettanto ridicolo, ma qualcosa doveva pur significare.
Collins si stava mostrando molto interessata alle mie parole e la cosa mi fece uno strano effetto. Era un po’ che non mi accadeva di essere ascoltata davvero, dalla prima all’ultima parola che pronunciavo. Certo faceva parte del suo lavoro, ma era comunque molto gratificante. Allo stesso modo Sanchez dimostrava di apprezzare il mio discorso semplicemente scrivendo come un forsennato sul suo notes. La punta della penna raschiava sulla carta mentre si spostava velocemente da sinistra a destra, dando vita ad appunti su appunti, particolari che io non avevo notato e ai quali non avevo dato il giusto peso.
«Tutto questo ci potrebbe far pensare che il movente sia legato al satanismo, ma all’inizio eravamo convinti di poterlo escludere».
Aggrottai la fronte. «No, ne dubito. Insomma…non sono un’esperta di crimini, ma sbaglio o nei film i satanisti agiscono in maniera un po’ meno plateale? Comunque eseguono dei riti, o roba simile, ma se penso alla magia nera mi vengono in mente boschi o ruderi, non un locale pieno di gente» spiegai. La donna annuì riflessiva, scostandosi un ricciolo dal volto.
«Sono d’accordo con te, Amber, ma sento che c’è qualcosa che ci sfugge, qualcosa che è legato al suo interesse per gli scenari infernali. Ti ha nominato il Faust per un motivo ben preciso».
Mi schiarii la voce e i punti alla gola pizzicarono come se desiderassero attirare la mia attenzione e sbeffeggiarmi, rimproverarmi per aver dato confidenza a Simon. Quasi per istinto avvicinai una mano alla gola e sfiorai con le dita il grande cerotto che mi copriva il taglio. Ignorai la sensazione e scossi la testa.
«Sono stata una stupida, non avrei dovuto dare confidenza a nessuno. Avreste tutti i buoni motivi per farmi una ramanzina».
Sanchez mi rivolse un ampio sorriso. «Non ti devi difendere da noi, non ti stiamo accusando di nulla, né rimproverando. Il nostro lavoro consiste solo nel capire ed esaminare le dinamiche dei fatti e, credimi, la maggior parte delle persone aggredite conosce il suo aggressore, o per lo meno ha deciso di fidarsi di lui...o lei. Non sei la prima né sarai l’ultima ad aver dato retta alla persona sbagliata».
Annuii non molto convinta. Per quanto Sanchez fosse gentile, almeno per quella sera ero in dovere di sentirmi un’idiota, sconsiderata e incosciente. Collins continuò con le domande.
«D’accordo. Visto che tu sei l’unica ad esserci stata così vicino, per quanto ne sappiamo, ricordi qualche segno particolare, magari una cicatrice, qualcosa che potrebbe darci una mano per eventuali identificazioni?»
Scossi la testa, senza bisogno di sforzarmi troppo per pensare. Il volto di Simon danzava nella mia mente e non se ne sarebbe andato per un bel po’ di tempo. Mi era parso perfetto, senza alcuna imperfezione.
«Nessuna cicatrice e nessun piercing. Niente di niente. Non ho nemmeno notato dei tatuaggi visibili».
«Credi di poterlo descrivere in maniera molto particolareggiata? Domani vorremmo farti parlare con un nostro disegnatore».
«Ci impiegherò un po’ a dimenticarmi la sua faccia».
La detective Collins si alzò in piedi e si lisciò pantaloni e giacca, anche se tutto era in ordine.
«Ci vedremo ancora e quando quel momento arriverà mi auguro che la polizia abbia fatto grandi passi avanti nel caso. Dato che mi hai nominato un misterioso amico di questo Simon cercheremo qualche complice tra le persone che frequenta regolarmente, dato che secondo me quella frase ha un significato particolare. Non sarà facile, ma faremo del nostro meglio». Mi rivolse un sorriso incoraggiante e mi ringraziò per la disponibilità.
«Riposa» intervenne Sanchez, alzandosi e stringendomi la mano con entusiasmo. Ci congedammo e non appena furono usciti, mamma fece capolino dall’uscio della stanza per chiedermi se tutto fosse a posto. La liquidai con qualche rapida parola e aspettai che mi lasciasse sola.
Un’infermiera venne ad assicurarsi che stessi bene e a darmi la buona notte. Spense la luce della stanza e io rimasi sola con quella dell’abat-jour accanto al letto.
Dopo una mezz’ora rimasta con lo sguardo fisso al soffitto, scivolai fuori dalle lenzuola. Un piede dopo l’altro, zoppicando lievemente per la caviglia indolenzita, raggiunsi le grandi finestre.
Il General Hospital era un edificio piuttosto alto che sembrava avere ai suoi piedi l’intera città. Il mio sguardo vagò dai sottili grattacieli che si vedevano in lontananza, fino al Golden Gate Bridge. Il suo profilo rosso era uno dei panorami più frequenti sulle alture della città, inconfondibile e famoso in tutto il mondo. Mi piaceva guardarlo e pensare che il colore rosso un tempo era stato pensato come provvisorio. Erano stati gli abitanti di San Francisco a preferire che rimanesse così, sebbene dovesse essere frequentemente ridipinto. Un applauso ai coraggiosi che arrivavano fino in cima con vernice e pennello, fino ad un’altezza di oltre duecentoventi metri. Era meglio evitare di riflettere sul fatto che il Golden Gate Bridge fosse la scelta privilegiata per gli aspiranti suicidi della città, sospeso com’era a ottanta metri dal livello del mare.
Abbassando lo sguardo sulla piazzetta di ingresso dell’ospedale, notai il grande cuore variopinto posto proprio davanti all’entrata dell’edificio e fu allora, all’improvviso, che la consapevolezza di ciò che a cui ero scampata mi crollò addosso con violenza pari ad una secchiata di acqua gelida. Sarei potuta davvero morire quella sera.
Riflettendo su ciò che la mia scomparsa avrebbe potuto provocare ai miei cari, ogni boccata d’aria mi sembrò incredibilmente preziosa e guardai il panorama come se prima d’allora non l’avessi apprezzato al meglio.
Rimasi lì alla finestra finché il silenzio non divenne insopportabile. Recuperai l’iPod dalla borsetta dove era rimasto per tutta la sera, socchiusi la finestra per permettere alla brezza notturna di accarezzarmi il volto, e passai un tempo indefinito immobile a godermi la musica e la visione della mia città, brulicante e viva a qualsiasi ora.
Le note mi calmarono, la voce familiare di Van Morrison mi fece sentire cullata e protetta anche se tutte le volte mi ricordava mio fratello.
Guardai il cielo, scuro e punteggiato di stelle. Se per caso Christopher aveva avuto qualche istante di coscienza prima di morire, aveva riflettuto anche lui sul vuoto che avrebbe lasciato nella mia vita? Aveva capito che stava per lasciarmi o aveva sperato fino all’ultimo che potesse andare tutto bene? Conoscendolo avrebbe trovato un motivo per sorridere anche allora, mentre io dopo tutto quel tempo ancora non riuscivo a cavarne nulla di buono.
In fondo cosa poteva esserci di bello nella morte? Il ricongiungimento con Dio era una balla, non c’era nulla al di là della vita e io volevo odiare Chris per avermi sempre raccontato fiducioso storie sulla salvezza eterna, sul paradiso, sull’amore che Dio aveva per noi. Avrei voluto detestarlo per avermi lasciata solo ad affrontare il terribile silenzio di casa nostra e la freddezza di nostra madre.
Avrei voluto odiarlo, ma non ci sarei mai riuscita.

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Grazie mille ad AnonymousA per essere passata anche questa volta per un commentino. Chissà se il ragazzo misterioso farà nuovamente un'apparizione nella vita di Amber. :) Buona lettura, e mi raccomando, se la storia vi piace, ma anche se non vi piace, lasciatemi il vostro parere. Per me è molto importante sapere cosa ne pensate e avere modo di correggere errori, imprecisioni o cattive abitudini di scrittura.












Un empio messaggero porta alla disgrazia, un messaggero fedele invece è un rimedio.
Proverbi, 13, 17.







11.


Le cose dette a papà per rincuorarlo si rivelarono per ciò che erano davvero: una menzogna, a me stessa prima che a lui. Mi svegliai tre o quattro volte durante la notte, con il cuore che batteva a mille e la sensazione che il buio potesse improvvisamente chiudersi attorno a me e inghiottirmi.
Non riuscii ad abbandonare quella brutta sensazione di disagio, paura e impotenza che mi attanagliò le viscere e mi impedii di dormire come avrei voluto. Ogni volta che mi svegliai di soprassalto e non riuscii a riprendere sonno, fu la musica a tenermi compagnia e a cullarmi finché i miei nervi non furono abbastanza rilassati per abbandonare nuovamente le difese.
Mi addormentai tardi e la mattina seguente mi svegliai molto presto. Rimasi a guardare il cielo fuori dalla finestra schiarirsi alle prime luci dell’alba, riflettendo sul paradosso che uno dei momenti migliori della giornata fosse anche il meno vissuto da gran parte della gente.
La mia immagine riflessa nello specchio del bagno fu con me terribilmente sincera, pallida e visibilmente esausta. Avevo i capelli incrostati di sangue e anche alcune zone del viso, dove la prima sommaria pulizia non era stata abbastanza efficace. Un livido si faceva strada su metà della fronte, ancora limitato ad un rosa pallido. Non trovai il coraggio di liberare dal cerotto quella porzione di pelle in cui si apriva il taglio, forse perché avrebbe richiamato alla mente ricordi che non desideravo più rivivere o rimproveri che già avevo sentito dalla bocca di mia madre e da quella della mia coscienza.
Stephanie, l’infermiera di quel turno, riuscii a tenermi la mente occupata regalandomi due chiacchiere e qualche risata. Forse era abituata ad essere gentile e disponibile con tutti, ma mi fece piacere sapere che la mia salute la interessava. La sua solarità la rendeva totalmente diversa da mia madre, che di tanto in tanto faceva capolino dalla soglia per controllare che tutto fosse in ordine.
Restava poco assieme a me, probabilmente indotta a scappare via dalla fastidiosa mancanza di solida conversazione tra noi. Non erano molte le cose da dire, da un po’ non ci esercitavamo nel rapporto madre e figlia, e dovevo confessare di sentirmi sollevata tutte le volte che usciva dalla stanza per andare a prendersi un caffè o a vagare chissà dove nell’ospedale.
Una vera boccata d’aria fresca fu Trudy, che come promesso venne a trovarmi quella mattina assieme a papà. Non c’era davvero bisogno dato che a pranzo sarei tornata a casa, ma apprezzai comunque il gesto e l’entusiasmo che riempì la stanza appena varcò la soglia.
Con quel viso giovane dalla pelle perfetta e liscia e la straordinaria energia, sembrava una bambina. Giusto per riempire i silenzi lasciati da mia madre ci dilungammo in chiacchiere senza importanza. L’argomento più serio che toccammo furono le mie scarse idee a proposito del college che avrei frequentato dopo l’estate, e il suo lavoro. Mi raccontò ridendo delle disavventure all’asilo, di come uno dei bambini si fosse infilato nel naso una piccola zebra dello zoo giocattolo. Che fossero troppo vivaci e quasi ingestibili, oppure tranquilli, per lei tutti erano un’ispirazione, un'incredibile fonte di energia e intelligenza. La ammiravo per la sua forza d’animo, e la consideravo un modello, per l’amore che metteva in ogni cosa.
Papà era in tenuta sportiva, ma riusciva ad esprimere eleganza anche così vestito. Da qualche settimana andava a correre nel week-end e nei momenti liberi dopo che un suo collega di soli cinquantatré anni aveva avuto un infarto. Fortunatamente non era stato letale, ma l’accumulo di stress poteva essere pericoloso per uomini di quel mestiere, sempre sovraccaricati di impegni e responsabilità.
Quando lui e Trudy se ne andarono, con l’accordo che presto ci saremmo rivisti, Jeff Thompson, il disegnatore della polizia di San Francisco, un uomo alto e quasi del tutto senza capelli, prese posto accanto a me. Lo accompagnava il detective Collins che lì per lì mi parve autorevole e intimidatoria come la sera prima, ma che mi fece sentire subito a mio agio quando mi salutò calorosamente con un ampio sorriso sul volto.
Ascoltarono entrambi le mie parole con molta attenzione e Jeff tradusse ogni mia descrizione in tratti di matita, ora leggeri, ora pesanti, sul blocco da disegno che teneva sulle ginocchia.
Accolse con una smorfia divertita il mio commento iniziale su Simon (decisamente un gran pezzo di ragazzo), poi quando ebbe finito lo schizzo voltò il disegno verso di me e mi trovai spiazzata dalla precisione con cui aveva riprodotto ciò che avevo detto.
Dal candore del foglio gli occhi di Simon mi scrutavano come aveva insistentemente fatto la sera prima al Mephisto, con la stessa luce d’interesse nello sguardo. Il naso, le labbra, i capelli…tutto era perfetto e magnifico, un’opera d’arte, data la bellezza del soggetto.
Certo, era impossibile ricreare artificialmente tutto il suo fascino e il magnetismo del suo sorriso, la sola immagine era inevitabilmente incompleta senza la possibilità di poter ascoltare nuovamente il suono basso e cadenzato della sua voce. Ciò non toglieva che Jeff aveva fatto davvero un ottimo lavoro.
«Più o meno ci siamo» feci, ringraziando l’esperto e congedandomi da lui e Angela Collins. La donna prima di andar via si avvicinò a me e mi porse un piccolo cartoncino bianco, il suo biglietto da visita, facendomi promettere di chiamarla se ci fossero stati problemi o se mi fosse venuto in mente qualcosa di utile per le indagini. A sua voltami assicurò che mi avrebbe tenuta aggiornata sul caso.
Dopo di loro in camera mia fu una vero e proprio via vai di persone, tra infermiere, dottori, qualche parente e gli amici. Quando Louis e Jennifer passarono a trovarmi, mi sentii al settimo cielo.
«Tesoro, hai un aspetto orribile» commentò Louis con una risata, donandomi un abbraccio stritolante.
«Molto carino, non sono queste le parole da rivolgere ad una donzella ricoverata in ospedale».
«Beh, ma è vero». Si strinse nelle spalle con aria divertita e seguendo la direzione del suo sguardo vidi che aveva già notato il telecomando del lettino. La sera prima non lo aveva nemmeno considerato, scosso com’era dagli avvenimenti, ma un Louis tornato alla normalità poteva essere pericoloso. Scommettevo che non sarebbero passati molti minuti prima che iniziasse a giocarci.
Jennifer lo guardò in malo modo, forse per la sincerità fuori luogo o forse perché anche lei aveva notato ciò che avevo notato io. Si sedette ai bordi del letto e mi sorrise.
«Come stai, hai dormito bene?»
«Per niente, non ho quasi chiuso occhio». Il suo sguardo si posò sulla mia gola e la vidi abbassare gli occhi, a disagio. Le presi la mano e le sorrisi.
«Credo che tu debba ricevere un premio per il coraggio, sei stata la più tempestiva ieri sera. Senza di te non so cosa sarebbe successo» le dissi, per infonderle un po’ di sicurezza.
«Avevo davvero paura di sbagliare qualcosa e peggiorare la situazione» confessò. «Non sono molto brava con queste cose, strano che non sia crollata a terra svenuta».
«Si chiama sangue freddo, e tu hai dato prova di averne da vendere».
«Non dirlo, o stavolta sviene sul serio» scherzò Louis. «Beh, ma a me niente premio? Sono stato io a correre fuori a chiamare i soccorsi, non è che sono rimasto impalato a guardare» proseguì, facendo l’offeso.
Con uno sbuffo tirai fuori da sotto il cuscino il telecomando che avevo tentato inutilmente di nascondere con piccole spinte del gomito.
«Ecco, giocaci, ma evita di farmi volare fuori dalla finestra, d’accordo?»
Il suo sorriso enorme mi scaldò il cuore. Mentre il ragazzo mi alzava e abbassava le gambe e mi modificava in continuazione lo schienale del lettino, approfittammo del momento insieme per scambiare qualche parola. Io raccontai di come l’aveva presa mia madre, sperando che da un momento all’altro non entrasse nella stanza per rimproverare anche loro di non avermi impedito di trasgredire i suoi divini ordini. Jennifer disse che quella mattina sua sorella aveva chiamato per invitare lei e tutto il resto della famiglia a passare qualche giorno da loro a Santa Rosa e Louis mi dimostrò che aveva trovato qualcosa di positivo nella serata al Mephisto, parlando in continuazione del barista dei suoi sogni. Ci mancava poco che dagli occhi gli spuntassero fuori tanti cuoricini svolazzanti.
«Per ora sono solo riuscito a scoprire che si chiama Jude e credo che sia single perché mi ha dato il suo numero di cellulare per aggiornarlo sulla tua salute».
«Molto premuroso da parte sua». Affermai, scambiando un’occhiata di intesa con Jennifer che resisteva per non ridere o per non stuzzicare con affetto l’amico. Era palesemente cotto.
«Sì, lo credo anche io, anche se credo l’abbia fatto solo per tenersi in contatto con me».
«Ma davvero?»
«Non so esattamente per che squadra giochi, ma credo di piacergli».
«Beh di certo non gioca per la nostra, non ti toglieva gli occhi di dosso» feci, causando un lieve, adorabile, rossore sulle sue guance. «A quanto pare sono io quella che punta sempre al ragazzo sbagliato».
Simon
L’ennesima cattiva scelta. A questo punto dovevo accettare il fatto che ero io il problema: avevo una capacità di giudizio completamente fallimentare.
«Se solo gli metto le mani addosso lo riduco in poltiglia, quel tizio. Spero che poi veniate a trovarmi in carcere». Mormorò Jennifer stringendo i pugni che teneva in grembo con una forza che stonava sul suo esile corpo.
«Tesoro, con quell’aria dolce che ti ritrovi nessuno sospetterebbe di te…saresti il killer perfetto!» Louis le diede una pacca sul ginocchio. «Pensaci, avresti un futuro».
Un lieve bussare alla porta ci fece zittire. Speravo non fosse ancora mia madre, cosa probabile dato che avevo visto solo pochi istanti prima l’infermiera. Restai di stucco quando entrò l’ultima persona al mondo che mi aspettavo di vedere.
Riconobbi l’intensità dei suoi occhi appena il suo viso fece capolino dalla porta e senza saperne bene il motivo, mi sentii un po’ in imbarazzo. Forse era per il fatto che mi ero fidata completamente di lui senza nemmeno conoscerlo, accogliendo la sua voce come l’unica ancora di salvezza nella confusione totale del Mephisto.
Era diverso da come la mia mente lo rievocava, il suo viso tra i miei ricordi era impreciso e offuscato, non avrei saputo descriverlo perfettamente nemmeno sforzandomi, ma ricordavo la sensazione di pace provata quando mi aveva posato le mani sulla gola per arrestare l’emorragia, e il modo in cui aveva cercato di calmarmi.
Louis smise di giocare con il telecomando del lettino, catturato dal nuovo e inaspettato visitatore, mentre mi affrettavo a trovare qualcosa di brillante da dire senza sembrare sciocca o patetica.
«Salve, Amber. Come ti senti?» La voce era esattamente come l’avevo udita, così cristallina e rassicurante, l’unica che nel caos mi aveva riportato alla tregua che desideravo.
Allargai le braccia e sorrisi, cercando di non risultare impacciata anche nei gesti più elementari. «Sono viva».
«Forse non ti ricordi…»
«Mi ricordo eccome, grazie per essermi stato vicino, e per essere stato veloce nel soccorrermi».
Non sorrise, ma i suoi occhi mi espressero una cordialità che rispose al posto suo. Con un cenno del capo salutò anche gli altri presenti e indicò Jennifer, che si fece di colpo piccola piccola.
«Sei stata brava, nessun altro tra i presenti ha avuto il coraggio di aiutarla, sei una buona amica». Vidi la ragazza arrossire come un peperone e mormorare un dovere a bassa voce, per allontanare in fretta da sé le attenzioni…attenzioni che Louis prepotentemente richiamò su di sé.
«A quanto pare nessuno si ricorda del ragazzo che è scattato come un centometrista a chiamare aiuto» commentò fingendosi amareggiato, ma sorridendo sotto i baffi.
«Avete entrambi avuto una parte importante» lo rassicurò lo sconosciuto. Mentre i suoi occhi celesti erano puntati sul ragazzo, ne approfittai per dare una sbirciatina ai suoi morbidi lineamenti.
Non immaginavo fosse così giovane. La pelle del suo viso era perfettamente liscia e chiara, senza alcun segno di barba. Avevo creduto che fosse un uomo o un ragazzo più grande, un medico o uno studente di medicina non più alle prime armi, invece mi trovavo di fronte ad un ragazzo della mia età, più o meno.
I suoi capelli erano castani, lunghi circa quattro o cinque centimetri, alzati sulla testa, ma dall’aria ordinata. Le sopracciglia scure erano una cornice perfetta per la limpidezza dei suoi occhi. Quando il suo sguardo tornò a posarsi su di me, gli indicai la sedia libera.
«Perché non ti accomodi, mi farebbe piacere se restassi un po’ a chiacchierare» gli proposi, ma lui scosse la testa e finalmente mi rivolse un sorriso.
«Ti ringrazio, ma ho delle questioni da sbrigare ed è meglio che lo faccia presto, non posso restare. Mi scuso per la visita molto breve, dovevo solo assicurarmi di persona che stessi bene».
«I medici hanno detto che sono stata molto fortunata e che la ferita non era particolarmente grave. Ma ancora grazie per l’assistenza».
Annuì, pensieroso. Nelle sue parole avevo notato una strana affettazione, come se riflettesse bene su ogni termine prima di usarlo. Nonostante la freschezza del suo aspetto avevo la strana e inspiegabile sensazione che fosse più vecchio delle apparenze.
«Sì è vero, se la ferita fosse stata più profonda di certo saresti morta in pochi secondi. Ringraziamo il cielo per questo». Accettai la sua frase come un modo di dire qualsiasi, senza osare questionare.
«E per quanto riguarda il tuo ringraziamento, lo accetto, ma non sentirti in debito con me».
«Chissà…magari ti offro un caffè» proposi. Era in minimo che potessi fare.
«Dubito che ci vedremo ancora, Amber, ma è stato un piacere conoscerti…ed è stato bello anche incontrare voi» dichiarò, rivolto a Louis e Jennifer. Il suo tono poi di fece più serio «A questo proposito, già che tiriamo in ballo gli amici...non si tratta di un rimprovero, ma di un consiglio. Faresti bene a scegliere con più cura le persone da frequentare».
Senza attendere una risposta si avviò nuovamente verso la porta. «Addio» mormorò, e uscii in fretta, come in fretta era entrato due volte nella mia vita. Un’apparizione fugace, quasi impercettibile se solo le sue parole non avessero fatto nascere in me più d’un dubbio.
«Ehi, ma parlava di noi?» la voce di Louis infranse le mie riflessioni, ma individuò alla perfezione la natura dei miei pensieri.
«Non credo…»
«Che tipo strano» Jennifer guardava la porta come se da una secondo all’altro rispuntasse il ragazzo.
«Carino» commentò Louis, pragmatico. Io concordavo su entrambe le cose, ma la mia attenzione era tutta carpita da quella frase. Non potei fare a meno di pensare che si riferisse a Simon.
Impossibile che lo conoscesse, di tutte le persone che nel locale potevano soccorrermi, era improbabile che io trovassi proprio quella che conosceva bene il mio aggressore, ma era invece possibile che si riferisse a lui in modo generico. Come dargli torto? Davvero avrei dovuto evitare di attaccare bottone con il primo ragazzo carino che mi attraeva.
Ad ogni modo, mi resi conto che al mio misterioso salvatore non avevo nemmeno chiesto il nome.
Durante il resto della giornata evitai di rimuginare sull’incontro bizzarro della mattina. All’ora di pranzo ero già fuori dall’ospedale, dopo aver salutato e ringraziato Stephanie e aver raccattato le mie cose.
Allontanandomi dal General Hospital abbracciai con lo sguardo la massiccia struttura e salii sulla Mercedes di mia madre. Per la maggior parte del tragitto verso casa lei fu silenziosa, a parte qualche frase di circostanza gettata lì senza particolare convinzione giusto per tentare di avviare un discorso che però non ebbe luogo.
L’unica frase in cui mise particolare enfasi fu quella a proposito della gentilezza di Catherine, che era andata a recuperare la mia macchina a SoMa, e per quanto non volessi ammetterlo, riuscì a farmi sentire un po’ in colpa.
La giornata era splendida, il cielo ospitava un azzurro intenso che suscitava allegria e un senso di immediata pace. Nessuna nuvola disturbava la continuità di quella meravigliosa distesa di colore.
Gli alberi mi sembrarono più verdi e l’aria che mi sfiorava dolcemente la guancia attraverso il finestrino, scompigliandomi i capelli e frusciandomi nell’orecchio, era più fresca e piacevole del solito. A ogni semaforo il brusio di San Francisco, la sua vitalità e varietà, e il suono dei Cable Car mi allietarono come non mai.
Fu stranamente bello rivedere la via dove abitavo e la porta verde chiaro di casa mia, come se fossi appena tornata da un viaggio durato anni e la visione del luogo in cui ero cresciuta suscitasse in me nostalgia. Notai ogni particolare, che solo il pomeriggio del giorno prima avevo ritenuto superfluo: gli scalini che introducevano all’uscio, ornati di gerani, il corrimano bianco, i cespugli agli angoli della casa e la piccola lampadina che pendeva all’entrata intrappolata in una lanterna. Non mi ero mai sentita tanto a casa.
Papà mi chiamò più tardi per sapere com’era stato il rientro e parlammo per una mezz’ora del più e del meno, mentre mamma era sul tavolo del salotto a controllare delle scartoffie di cui non conoscevo la natura. Sentii Trudy che gridava per salutarmi da chissà quale stanza.
Il confronto con ciò che rimandavo da ore giunse quella sera. Dentro la doccia mi godetti il getto dell’acqua calda sulla pelle, osservando ai miei piedi l’acqua lievemente tinta di rosa a causa del sangue che scivolava via dai capelli.
Poi, avvolta in un accappatoio, mi posizionai davanti allo specchio e per cambiare la benda alla ferita i miei occhi non poterono evitare di controllare i segni che il vetro tagliente avevano lasciato su di me.
A partire da qualche centimetro sotto il mento, fino alla porzione di pelle accanto all’orecchio si apriva uno squarcio di circa una decina di centimetri, tenuto insieme da una cucitura di filo scuro che mi ricordò orribilmente il modo con cui si attaccavano insieme due miseri lembi di cuoio, e sebbene sapessi in cuor mio che in fondo non era così male, che i medici avevano fatto un lavoro più accurato possibile e che presto sarebbe rimasto solo un segno leggero, non potevo impedire alla mia mente di evocare macabre similitudini. Mi sentivo una bambola di pezza o un personaggio di un film dell’orrore, con la bocca tenuta chiusa dal fil di ferro.
Ripensandoci in quel momento le parole del ragazzo sconosciuto che mi aveva salvata avevano maggiore senso. Quella sarebbe stata la cicatrice indelebile della mia ingenuità.

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***








Buongiorno! Mi scuso per il tremendo ritardo, è stato un periodo piuttosto particolare, l'epilogo di cinque meravigliosi, stancanti, spaventosi e "rivelatori" anni di studio che si sono conclusi, finalmente, con un diploma di laurea, che di tanto in tanto ancora guardo con diffidenza. Non riesco a credere che questo momento sia arrivato, e francamente, ci si sente un po' vuoti dopo tutto questo tempo di studio e tempo libero praticamente inesistente. Per coloro che ancora vorranno leggermi anche dopo questo ritardo, grazie per la vostra pazienza!
Come al solito, ringrazio Mivi28 e AnonymousA per avermi lasciato due paroline di incoraggiamento. Grazie mille! :)











Ecco io mando un angelo davanti a te, per vegliare su di te nel cammino e farti entrare nel luogo che ho preparato. Sii attento davanti a lui, ascolta la sua voce, non ribellarti a lui, perché non sopporterà la vostra trasgressione, poiché il mio nome è in lui. Se tu ascolti la sua voce e farai tutto quello che dirò, sarò nemico dei tuoi nemici e avversario dei tuoi avversari.
Esodo, 23, 20-22.







12.




Accettai passivamente l’idea che mia madre si era fatta del mio piccolo problema. Decise di trattarmi come se mi trovassi in una lunga e complicata convalescenza e io, già segretamente d’accordo con lei sul fatto che mi ero ficcata in quel guaio da sola, feci di tutto pur di compiacerla e non darle occasione di lamentarsi. Di rimando il giorno dopo restò costantemente in casa, non capivo se per preoccupazione o per mancanza di fiducia.
Ero abituata ad averla intorno la domenica, ma non ero mai arrivata a quei livelli di prudenza da parte sua. Fu curioso vederla affaccendarsi per evitare a me le solite mansioni casalinghe, ma quando entrambe capimmo che gli effetti della sua scarsa preparazione domestica potevano essere devastanti, riuscii a convincerla che un lieve sfregio alla gola non poteva di certo tenermi a letto tutto il giorno. Quando riprese il suo solito lavoro dietro carte e appuntamenti vari ne fui quasi sollevata, considerandolo un ritorno alla normale routine.
Quanto a me, ebbi più impegni di quello che avrei voluto. La mattina presto, per ammazzare la noia, mi misi a cucinare. Louis e Jennifer non si accontentarono della visita in ospedale e si fermarono da me un paio d’ore a fare due chiacchiere. Fu nuovamente toccato l’argomento Jude, che a quanto pareva già s’era fatto premurosamente sentire per conoscere le mie condizioni, con grande gioia del mio migliore amico.
Una telefonata di papà annotò magicamente un secondo compito sulla mia agenda invisibile, perciò, promettendo a mia madre, divenuta stranamente premurosa, che avrei fatto attenzione a tutti i serial killer che potevano esserci in giro sulle strade di San Francisco, passai parte del pomeriggio con Trudy e papà nella casa di lei. Non ci ero mai stata prima d’allora, anche se lei mi aveva spesso detto che ero la benvenuta quando preferivo, e lo trovai un appartamento molto grazioso, perfetto per una giovane donna come lei. Non troppo grande, sobrio ma molto personalizzato. La convivenza dei due piccioncini ancora non era ufficiale, ma poco ci mancava.
Seduta sul divano in salotto fui accolta dai coinquilini della ragazza, tre enormi gatti che ancor prima di conoscermi bene sfregarono i loro testoni contro le mie gambe, facendo le fusa. Fu gratificante sapere che a Spooky, Foggy e Moody stavo simpatica, anche se Spooky, con il suo inquietante sorriso senza tre denti e la non trascurabile mole mi bloccò quasi il sangue alle gambe, quando si accoccolò su di me per qualche dovuta carezza.
Mia madre non aveva mai accettato animali in casa, né gatti, né cani, né altri esseri animati che esigessero attenzioni e producessero rumori. Da piccola io e mio fratello avevamo avuto il permesso di tenere solo un pesce rosso per ciascuno, e io mi ero presa cura di lui fino al giorno della sua morte. Quando era deceduto avevo pianto così tanto che mamma si era spazientita e aveva categoricamente proibito altri ospiti non umani in casa, mentre Chris mi aveva stretto la mano durante le esequie funebri accanto alla tazza del water.
La convalescenza da Trudy ebbe i suoi vantaggi, perché non accettò un no come risposta quando mi offrì una generosa scodella di gelato al caramello e nocciola.
Quando tornai, stranamente, non trovai mia madre nello stesso posto in cui l’avevo lasciata. Solitamente restava china sulle carte per ore e ore senza degnarmi di sguardi o frasi che superassero le cinque parole, ma quella volta ad accogliere il mio rientro furono delle voci. Mamma stava chiacchierando con qualcuno in giardino. La raggiunsi dalla porta della cucina che dava direttamente su di esso, e la trovai accomodata con il suo inaspettato ospite attorno al tavolino di metallo che fungeva da salottino esterno. Quando lui alzò lo sguardo su di me, nella mia mente si rincorsero in una danza veloce stupore e disagio.
«Sei tornata, ciao. Questo ragazzo ha chiesto di te, ha detto di conoscerti, così l’ho fatto entrare» spiegò mamma senza che le chiedessi nulla. Il mio giovane soccorritore si alzò in piedi e chinò la testa in un segno di saluto che mi parve quasi eccessivo.
«Buongiorno, Amber, vedo che stai meglio» mormorò. «Ne sono lieto».
Anche nella scelta delle parole mi parve insolito, ricercato e affettato. Prima di poter rispondere, l’immagine di lui che si inchinava in uno dei salotti inglesi tipici dei romanzi della Austen mi comparve nella mente e mi fece sorridere.
«Grazie, sei gentile» mormorai. Mamma lo fissava in silenzio e io faticai per interpretare il suo sguardo. Non capii se lo stava squadrando per carpirne le intenzioni o se semplicemente stesse ammirando il suo bel viso.
«Mi ha raccontato di come vi siete incontrati la prima volta, non me ne avevi parlato» disse ad un certo punto.
Notai un sottofondo di rimprovero nella sua voce, ma evitai una risposta tagliente. Non gliene avevo accennato perché non volevo più nominare la serata al Mephisto in sua presenza.
«Me ne sarò scordata» mi giustificai, con un’alzata di spalle. Lei si diede uno schiaffetto sulla gamba come per decretare la fine della conversazione, e si alzò.
«Ad ogni modo, vi lascio da soli. È stato un piacere conoscerti, Samuel».
Samuel. Quel nome danzò sulle labbra di mia madre e suscitò in me una strana vergogna, come se mi pentissi di non averlo chiesto prima al suo proprietario. Un nome innocente che si accordava al suo viso e alla purezza degli occhi.
Il silenzio calò su di noi non appena fummo da soli. La giornata era un incanto e rendeva giustizia al giardino, al verde della sua erba tenera e al tocco di colore donato dai cespugli fioriti.
«Insomma…» mormorai ad un certo punto, frugando nella mente alla ricerca di qualcosa di sensato da dire, di un argomento di conversazione brillante o di domande intelligenti da rivolgere al ragazzo.
«Che cosa ti porta qui?» Temendo di suonare troppo scortese aggiunsi dell’altro per correggermi. «Hai detto che non ci saremmo più rivisti».
Sorrise e annuì. «Ho detto quella frase perché lo pensavo davvero, ma alcune cose sono cambiate, perciò eccomi qui».
Mi sembrava da ficcanaso chiedergli spiegazioni, forse doveva partire e alcuni recenti avvenimenti lo avevano trattenuto a San Francisco. In ogni caso non erano affari miei.
«Beh, mi fa piacere rivederti, forse è buffo ma ti vedo come un supereroe che mi ha soccorsa in un momento critico. Ti va un tè? O dell’acqua?»
«Sei molto gentile a chiedermelo, ma niente, ti ringrazio. Non bevo».
Ridacchiai, pensando che fosse una battuta, ma la sua serietà mi spiazzò. «Non era mia intenzione offrirti del Rum, o della Vodka…»
«Non bevo…liquidi in generale» precisò, con viso sereno, tanto sereno da farmi accettare quella risposta come qualcosa di normale, sebbene pensassi che fosse davvero bizzarro come tipo.
«Senti, Amber, vorrei essere più delicato e arrivare a toccare certi argomenti con calma, ma la situazione mi spinge a dover essere sincero con te fin dal principio». La gravità della sua voce e lo sguardo pesante che mi rivolse non mi piacquero molto.
«Ti devo delle spiegazioni». Improvvisamente ricordai la frase da lui detta all’ospedale, quando aveva fatto riferimento alle persone che frequentavo. Qual era il motivo di quelle parole, e soprattutto, era giusto che ci vedessi un’allusione a Simon?
«Che intendi dire?» chiesi in un sussurro. Credevo di fare conversazione con lui, ma l’atmosfera tra noi cambiò, divenendo di colpo più tesa.
«Vorrei essere sicuro che questo resti un dialogo privato tra me e te» lo sguardo indicò la porta della cucina, aperta a rivelare uno scorcio della stanza. Bramosa di saperne di più in fretta, corsi ad accostarla, poi mi accomodai accanto a lui. Ci volle un po’ perché cominciasse a parlare. Le sue frasi furono palesemente controllate e pensate, come se cercasse il modo migliore per comunicarmi qualcosa di difficile.
«Io non ero in quel locale per caso. Conosco il ragazzo che ti ha aggredita» la sua voce rimase sospesa nel silenzio, ma la mia reazione fu diversa da come la immaginai. In realtà già sospettavo che mi avrebbe fatto una confessione del genere.
«Siete amici?» Calcai sul termine volontariamente, ricordando ciò che Simon aveva detto…era lui la persona che voleva compiacere facendomi del male?
«Non esattamente, i rapporti tra noi non sono mai stati amichevoli. So che tipo è, per essere sintetici non sarei mai andato al Mephisto se lui non fosse stato lì».
«Perché?»
«Solamente per tenerlo d’occhio. Non sai di cosa potrebbe essere capace».
Indicai la fasciatura che mi copriva la gola. «Invece credo di sì».
«Sa fare di peggio. Credimi, io non sono come lui, non associarmi alla sua persona. Sono qui per scusarmi, perché in parte quello che ti è successo è colpa mia. Non ti saresti dovuta avvicinare a lui, sapeva che lo osservavo. Ha solo voluto sfidarmi apertamente facendoti del male».
Alzai le mani in segno di resa. «No, ti prego, fermati. Aspetta, mi stai dicendo che ha fatto quel che ha fatto solo per te?» Annuì con aria grave, mentre il mio cervello lottava per ragionare e per trarre un senso da quelle parole, e se il senso era inesistente, volevo almeno riordinare le informazioni appena ricevute.
«Ma perché proprio io?»
«Sei stata tu ad andare da lui, ha visto che lo fissavo quando ha smesso di giocare a biliardo e presumo che volesse…come dire, dimostrarmi che può sempre fare ciò che vuole. Tu non hai nessun significato per lui, sei solo una delle tante persone presenti in quel locale e che ha deciso di farsi avanti. Probabilmente non ti avrebbe fatto del male se non fossi stato presente».
Mi passai le mani sul volto, sentendomi davvero sciocca. Avevo creduto che Simon stesse fissando me, prima di decidere di andare da lui, invece…era Samuel che guardava. Rialzai lo sguardo su di lui.
«E sapevi che avrebbe reagito così?»
«Non con certezza. Quando si è allontanato dal bancone speravo che se ne fosse andato, ma tu l’hai seguito. Allora non sapevo cosa fare, temevo che intervenire e raggiungervi equivalesse a sfidarlo a mia volta, non volevo rischiare. Sa essere molto malvagio, ma non mi aspettavo che facesse un gesto tanto eclatante in un locale così affollato». Mi osservò attentamente, mentre io restavo in silenzio immagazzinando quelle notizie. Tutto mi parve un po’ più chiaro a pensarci bene. Ecco chi stava osservando nel momento del brindisi, sempre Samuel, anche se io non avevo notato nulla, ed ecco ancora a chi si riferiva quando aveva parlato di questo amico a cui voleva dedicare la mia morte. Guarda caso il responsabile inconsapevole degli eventi era il ragazzo che mi aveva salvato la vita. Feci un profondo sospiro.
«Lui ha…qualche problema?» Azzardai.
«Che cosa intendi esattamente per problema
Mi scappò una risatina lievemente isterica. «Beh, non è normale che una persona tenti di fare fuori qualcuno senza un valido motivo, non ti pare?»
«Lui non è una persona normale, ma non è pazzo, se è questo che pensi. Sadico, vendicativo e incurante delle regole, sì, ma non pazzo. Ha agito per ferirmi e sfidarmi, ma sono sicuro che è soprattutto il compiacimento che lo spinge a comportarsi così. Mi spiace che tu sia stata coinvolta».
Annuii, soprappensiero. «Ho capito, ma questo non cambia il fatto che mi hai aiutato, quindi non devi sentirti responsabile. Non è stata davvero colpa tua. Se conosci Simon allora di certo avrai delle informazioni su di lui, ne hai parlato con la polizia?»
Scosse la testa, guardando a terra, come se preferisse contare i fili d’erba piuttosto che affrontare quell’argomento. «Mi hanno fatto delle domande, come a tutti gli altri, ma non so nulla di utile per le indagini, e soprattutto nulla che possa essere raccontato alla polizia».
Sentivo che ci stavamo addentrando in un’altra zona di turbolenza, guidati dalle sue parole allusive, ma non osai chiedere cosa intendesse dire. Ci pensò da solo a chiarire le sue intenzioni.
«Il discorso appena affrontato era la parte più facile per te, temo».
«Qualche altra brutta confessione?»
Finalmente mi regalò il primo vero, ampio sorriso. I suoi denti erano perfetti e bianchi, il suo volto parve illuminarsi tutto per quel gesto e io mi sentii lievemente più al sicuro.
«Oh, non è affatto brutto ciò che ti sto per dire, tutt’altro. Ma non sarà facile per te credere alle mie parole e accettarle, così come molti prima di te sono stati scettici per paura o testardaggine».
Un rumore alle mie spalle, quasi impercettibile, interruppe il suo discorso e lo costrinse ad interrompere il contatto visivo con me. Quei suoi occhi azzurri erano vortici in cui non era tanto difficile perdersi.
Mamma comparve dalla cucina con la torta di mandorle fatta quella mattina, una bottiglia di succo di frutta e due bicchieri stretti tra gomito e fianco. Rivolse a Samuel un sorriso smagliante, posando tutto sul tavolino davanti a noi in una strana imitazione della perfetta donna di casa e amorevole ospite.
«Ecco qui, non starete mica a bocca asciutta?» domandò, con un’aria cordiale terribilmente falsa. Sperai che non avesse origliato la conversazione avuta poco prima, anche se la sua serenità suggeriva il contrario, e le rivolsi un’occhiataccia per aver interrotto il nuovo curioso discorso intrapreso dal ragazzo. Da sotto il piatto su cui stava la torta, rivelò due piattini piccoli su cui servì il dolce.
«Grazie signora, sembra una torta fatta in casa» fece Samuel, educato.
«Oh, l’ha fatta Amber, io non sarei capace di bollire un uovo». Come darle torto. Se avesse tentato di cuocere una torta, presa com’era dalle sue cose, di sicuro l’avrebbe dimenticata nel forno per ore.
Approfittai dell’istante in cui porgeva il piattino al ragazzo per meditare su alcune cose. Che cosa voleva dirmi ancora di così importante? Dopo avermi parlato di Simon e dei loro cattivi rapporti, cosa poteva esserci di più serio? Aspettai che mamma si allontanasse e sparisse dalla vista, poi lo incalzai.
«Allora…stavi dicendo?» La torta rimase intatta davanti a lui, così come il di succo di frutta.
«Ci sarebbero così tante cose da dire, ti prometto che prima o poi ci prenderemo il tempo per approfondirle. Oggi mi limiterò alle nozioni basilari».
Ero consapevole che lo stavo fissando attentamente, carica di aspettativa, pronta a qualche altra confessione. Forse era ancora Simon il protagonista di quella conversazione, forse voleva farmi sapere qualcosa di importante a proposito di ciò che era successo. Nessun’altra questione avrebbe richiesto tanta concentrazione o gravità.
«Io sono un Mal’ak.» Disse, senza aggiungere nient’altro, sebbene lo guardassi in attesa di spiegazioni più approfondite. Rimase in silenzio come se quella parola, totalmente incomprensibile e sconosciuta per me, potesse fornire da sola i dati necessari a capire tutto.
«Mi spiace, non so di che si tratta. Cos’è una specie di setta…un popolo?»
«È una parola ebraica. Solo tra il terzo e il secondo secolo avanti Cristo questo termine fu sostituito, quando i traduttori greci si occuparono della Bibbia ebraica. Significa inviato o messaggero. Un messaggero divino».
«Non sarai mica un prete?» Forse colse il disprezzo nel mio tono di voce, perché aggrottò la fronte pallida e scosse la testa.
«No, non si tratta di questo. Quando la Bibbia fu tradotta in latino, la cosiddetta Vulgata, sai come fu definito il Mal’ak?» Scossi la testa, senza capire bene dove volesse andare a parare con quella curiosa chiacchierata sulla Bibbia. «Angelus. È ciò che sono».
«Un Angelo…» Ripetei. Quella parola in bocca a me suonò decisamente ridicola, ma il viso di lui rimase impassibile, incapace di mostrare un particolare qualsiasi che potesse farmi capire che si trattava solo di uno scherzo. Certo, era ovvio che mi stesse prendendo in giro, non poteva essere altrimenti.
«Ah, davvero? E le ali dove le hai lasciate? Ti manca pure l’aureola e una musichetta celestiale che ti accompagni» lo presi in giro. «Se intendi dire che sei stato un angelo ad aiutarmi allora te lo concedo, te ne sono grata».
«Questo è un utilizzo improprio del termine, lo sai bene. Ti giuro che non mi sto prendendo gioco di te, sto dicendo la verità e anche se ancora non te ne sei resa conto o non lo vuoi accettare, lo sai anche tu. Sai benissimo che i medici hanno visto solo una parte di ciò che ti è stato fatto, ti hanno ritenuta fortunata a cavartela con un taglio poco grave, ma ci sono dei testimoni che potrebbero confermare ciò che dico. Stavi morendo dissanguata, Amber, nessuno avrebbe potuto salvarti in quelle condizioni…nessuno tranne me».
Scossi la testa, ma i pensieri erano annebbiati dai dubbi. Era proprio così, entrambi pensavamo che il giudizio dei dottori fosse inesatto, ma questo non significava per forza che solo il suo intervento avesse potuto salvarmi la vita, perché ammetterlo significava credere che fosse davvero…
Solo la parola mi faceva ridere, sicura che fosse solo uno scherzo di cattivo gusto. Soffocai i dubbi con una smorfia di disappunto.
«D’accordo, è stato divertente, ora basta, ho capito che è uno scherzo. Perché invece non mi parli un po’ di te, intendo davvero di te. Non ti ho mai visto da queste parti, non abiti in zona vero?»
«No». La risposta fu categorica, seguita da un lungo silenzio e da uno sguardo limpido che pesava su di me come un macigno. Lo sostenni per qualche istante, cercando nel suo volto qualche segno di debolezza, una crepa nella maschera usata per quella recita, ma riflettendoci bene e osservando con attenzione la sua espressione impassibile, capii che era fermamente convinto di ciò che aveva detto.
«Andiamo, non puoi davvero aspettarti che io creda ad una cosa simile!»
«Perché non dovresti? Io non so mentire, perciò puoi fidarti delle mie parole» fece tranquillamente.
«Conosco abbastanza gli esseri umani per capire che tutti quanto sanno mentire».
«Hai detto bene: gli esseri umani».
Trassi un profondo sospiro, scuotendo la testa, indecisa se essere divertita o disturbata dalla fermezza che leggevo nel suo viso. «Adesso capisco perché tu e Simon vi conoscete…andavate dallo stesso psichiatra per caso? Lui un pazzo assassino e tu uno squilibrato che crede di essere un messaggero divino!»
Con le mani unite si sporse in avanti senza staccare un secondo gli occhi dai miei. Non parve minimamente offeso. E pensare che qualche istante prima l’unica cosa che volevo fare era ringraziarlo a dovere per avermi tolto da una situazione critica, ora volevo trovarmi ovunque tranne che lì. Non volevo cacciarlo da casa mia, mi sembrava contrario ai miei principi di ospite, ma mi sentivo a disagio.
«Per favore, Amber, lascia che ti spieghi. Quando avrò finito capirai molte cose, il mio ruolo e quello di Simon in questa faccenda».
Forse stava mentendo o forse era davvero pazzo e convinto di essere un Angelo, ma se sapeva qualcosa su Simon non era meglio ascoltare ciò che aveva da dire e poi immagazzinare tutto? Potevo trarne informazioni utili alla polizia, dati che forse lui non considerava rilevanti, ma che potevano invece esserlo. Mi meravigliai quando mi scoprii pronta a starmene buona, in silenzio e in ascolto.
«Le Sacre Scritture non sono molto chiare a proposito di noi, ci nominano in diversi passi, ma non c’è mai una perfetta descrizione degli Angeli, soprattutto sulla nostra personalità. Se tu hai letto la Bibbia certamente ricorderai molte menzioni a esseri celesti che servono Dio nel suo operato, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento».
Ricordare? Tutto ciò che sapevo di quel testo erano le lezioni di catechesi, il resto era per sentito dire e non avevo idea a quali scritti facesse riferimento.
«Ma non importa la precisione, o la mancanza di essa, nel descrive gli Angeli, ciò che risulta simile in ogni testo è il loro ruolo. Sono presentati come il tramite tra Dio e l’uomo, i messaggeri incaricati di un ministero, di una missione a Suo nome. Se non mi credi sappi che la Chiesa venera degli Angeli come santi, il 29 settembre è la festa degli Arcangeli, il 2 ottobre la festa degli Angeli custodi».
«E tu sei un Angelo custode?» L’interruzione lo colse alla sprovvista, si schiarì la voce.
«In realtà…non esistono veri e propri Angeli custodi, molte persone credono che qualunque cosa facciano siano sempre vegliati da una figura celeste che li protegge, ma non è così. Noi Angeli viviamo sulla terra, ma proteggere tutti gli esseri umani non è la nostra mansione, non è possibile per noi farlo. Tralasciata questa piccola imprecisione, è chiaro che ormai la figura degli Angeli è entrata nell’immaginario collettivo…»
«…come figure mitologiche! Non credo agli Angeli più di quanto crederei a Pegaso o ai folletti».
«Ma credi in Dio…» La mia espressione fu rivelatoria, perché lo vidi sgranare gli occhi ancora prima che pronunciassi la fatidica frase che lo indignò.
«Spiacente di deluderti, sono atea, perciò puoi insistere all’infinito sulla questione, ma non potrei mai crederti davvero».
«Atea!?» ripeté quella parola come se si fosse trattato di una terribile bestemmia.
«Non credo in Dio».
«Lo so che cosa significa, tuttavia ciò non mi impedisce di esserne stupefatto. È assurdo non credere all’essere che ha creato tutto! Ogni cosa che vedi è nata da lui, dal suo amore! La tua vita è un suo dono!» Era così infervorato che mi dispiaceva quasi pensare che fosse uno svitato. Scosse la testa infiammato dall’entusiasmo di un bambino, e allargò le braccia come per avvolgere tutto ciò che ci circondava.
«Da dove credi che sia venuto tutto questo? Guarda gli alberi, l’erba su cui teniamo i piedi, tutto quanto!»
«Qualcuno lo chiama Big Bang» dichiarai stringendomi nelle spalle con aria di sufficienza.
«Farò finta di non aver sentito…cosa sei. Nonostante il tuo problema, immagino tu abbia già sentito parlare delle schiere angeliche». Ci riflettei su. Non sapevo quasi nulla di religione, se c’era una domanda in proposito in qualche quiz televisivo per me era quasi possibile indovinare, ma quei termini mi parvero familiari. «Forse sì…c’entrano qualcosa i Cherubini?»
Gli occhi del ragazzo si illuminarono e il sorriso che mi regalò contribuì in parte a sciogliere la tensione che si era creata. Sembrava così convinto delle sue parole, che non me la sentivo di prendermela eccessivamente con lui. Alle medie conoscevo un ragazzo che era convinto di essere capace di leggere nella mente delle persone e passava le ore di lezione a fissare tutti a occhi stretti. Era probabile che con Samuel fosse lo stesso, forse soffriva di qualche disagio mentale di cui non avrei dovuto ridere. Mi sentii un po’ in colpa per averlo fatto fino a quel momento.
«Esatto!» Esclamò, distogliendomi dai miei rimorsi. «Dopotutto non sei così digiuna di materia religiosa. Dio è definito Adonay Tsebayoth, che in ebraico significa Signore delle schiere. Il Medioevo ha maturato una gerarchia angelica molto precisa, anche se le fonti sono state per lungo tempo contrastanti, formata da Cherubini, Serafini, Troni, Dominazioni, Virtù, Potestà, Arcangeli e Angeli. In realtà è un ordine fissato da uomini, perciò impreciso, basti pensare che i Cherubini e Serafini sono figure della mitologia mesopotamica, i primi dalla figura ibrida tra uomo e toro, con le ali, i secondi probabilmente derivati dall’immagine di un serpente alato che sputa fuoco. L’iconografia posteriore associa i Cherubini ad angioletti bambini, simili a Cupido e i serafini a esseri luminosi con sei ali. Tuttavia un ordine angelico esiste anche se molto più semplice: Arcangeli e Angeli. Sono questi i messaggeri che Dio ha scelto per la sua missione. Fungono da mediazione tra il mondo degli esseri umani e quello celeste». Di nuovo un sorriso smagliante. «Hai capito ora?»
Annuii in silenzio, continuando a sentirmi molto scettica al riguardo, ma incapace di dirglielo in modo esplicito. Per evitare commenti afferrai il bicchiere e deglutii una lunga sorsata di succo. Certo, la spiegazione era stata molto precisa, per quanto io potessi saperne, ma era come descrivermi il mondo della fate. Interessante, ma palesemente fantasioso.
«Ancora non mi credi, vero?»
«Si vede così tanto?» chiesi in un sussurro. Lo sguardo di Samuel si abbassò sulla torta.
«Forse ho capito come convincerti». Lo scatto in avanti che fece mi colse di sorpresa e il sangue mi si gelò nelle vene quando in mano gli vidi il lungo coltello che mamma aveva portato assieme al dolce. Era uno di quelli appartenenti al set di cinque coltelli da cucina infilati nel ceppo in legno che tenevo sul bancone, accanto al frigorifero, un pensiero irrilevante in quel momento, ma rifletterci su significava anche riconoscere che erano tra gli utensili da cucina che più utilizzavo per cucinare, e ciò significava che la lama veniva frequentemente affilata. D’istinto scivolai via dalla sedia velocemente, indietreggiando.
«Aspetta, che fai? Che ti salta in mente?» dissi, con voce tremante, indecisa tra varie opzioni. Restare lì e aspettare una sua mossa, schizzare via verso l’interno della casa o mettermi a strillare per attirare l’attenzione di mia madre o dei vicini? Non riuscivo a muovere un muscolo, né a decidermi a gridare. Ero paralizzata.
Il ragazzo teneva saldamente l’arma in mano, come se qualunque decisione avesse preso fosse ormai sicura nella sua mente ed inevitabile.
«Non preoccuparti. Tu non mi credi, sei ancora scettica e questo è l’unico modo per provarti che ciò che dico è vero.»
Questo tizio è completamente pazzo, fai qualcosa! Mi avvertì nuovamente la vocina nella mia testa. Attribuii quello zelo alla mia coscienza, incapace di etichettare in altro modo il conflitto che si stava scatenando nella mia testa.
Guardalo bene, regge un coltello lungo una ventina di centimetri ed è dannatamente calmo!
Era vero, il viso di Samuel era impassibile, sereno come se non stesse accadendo nulla di grave.
«Per favore…» sussurrai, rimproverandomi mentalmente perché non stavo gridando, ma le parole uscirono dalle mie labbra a fatica come se l’adrenalina fosse una mano forte che premeva sulla mia gola. Inoltre ero terrorizzata all’idea che alzando troppo la voce o facendo qualche mossa azzardata lui potesse fraintendere le mie intenzioni e aggredirmi. Mi mossi lentamente di lato, ma non avevo scappatoie se non la cucina.
Era stato un errore farlo entrare in casa. Perché, perché sempre io attiravo gli squinternati?
«…Mettilo giù».
«Voglio solo che mi credi» affermò. Poi fece una cosa che non mi sarei aspettata, ma che nuovamente mi fece schizzare il cuore in gola. Avevo creduto da quando aveva preso quell’arma che fosse intenzionato di farmi del male, anche se il motivo mi sfuggiva, perciò non ero preparata all’eventualità che vidi realizzarsi di fronte ai miei occhi.
Di punto in bianco, sempre con quell’espressione pacifica sul volto e lo sguardo imperscrutabile, rivolse la lama verso di sé, con la punta pericolosamente vicina alla stoffa della maglietta grigia e allo stomaco. Senza nessuna esitazione tese le braccia in modo che il colpo assumesse la giusta forza.
«No!» gridai, e senza che la mia mente lo avesse programmato, percepii il mio corpo gettarsi spontaneamente in avanti, verso il ragazzo. Fu questione di un paio di secondi, durante i quali, ne ero certa, trattenni il respiro e abbandonai ogni pensiero. Con le dita gli afferrai saldamente i polsi, un istante prima che la lama potesse penetrare la stoffa e la carne. Samuel non oppose la minima resistenza e io riuscii a frenare l’impeto. Rimase per qualche istante fermo a guardarmi, senza dire nulla, mentre io respiravo affannosamente come se avessi corso per chilometri. Il cuore batteva come un pazzo nel petto. Dopo qualche istante Samuel sorrise con aspetto del tutto bonario e posò il coltello esattamente dove l’aveva preso.
Dei passi pesanti e rapidi alle mie spalle mi fecero capire che mamma era accorsa.
«Che cosa succede?» chiese preoccupata, facendo capolino dalla cucina. Samuel sorrise e scosse la testa. «Niente di grave signora, è tutto a posto».
«Ho sentito gridare».
Io evitavo di guardarla in faccia, consapevole del colorito spettrale del mio viso e degli occhi che probabilmente erano schizzati fuori dalle orbite per lo spavento. Deglutii più volte, poi mi voltai e le regalai il sorriso più rassicurante che mi riuscii in quel momento.
«Un’ape mi ha attaccata. È tutto a posto».
Mamma inarcò un sopracciglio perfettamente curato. «Tutto questo trambusto per un’ape?»
«Scusa». Non capivo perché non volessi dirle che Samuel, il caro Samuel con l’aria tranquilla e gli occhi splendidi, aveva cercato di sventrarsi come un pesce nel nostro giardino. Perché lo stavo proteggendo anche dopo ciò che era quasi successo?
Senza fare altre domande la donna tornò dentro e io mi sentii libera di respirare a fondo per darmi una calmata.
Appena in tempo. Ancora un secondo e avresti raccolto budella dal pavimento.
«Credo che sia il momento che tu vada» mormorai, sentendo le gambe trasformarsi in gelatina a causa dell’adrenalina che defluiva dai miei arti, lasciandomi sola con quella sgradevole sensazione di spossatezza. Non questionò, si limitò ad annuire comprensivo. Capiva che mi aveva fatto quasi venire un infarto?
Lo accompagnai alla porta, lui rivolse i dovuti saluti e ringraziamenti a mia madre, che lo invitò a tornare anche se avrei voluto tapparle la bocca e dirle che quel tizio non si sarebbe mai più avvicinato a casa nostra.
Quando fu sulla scaletta fuori casa, mi chiusi la porta alle spalle per avere ancora un attimo di privacy.
«Non farlo mai più!» esclamai, categorica.
«Non temere» rispose il ragazzo, come se non stessimo affatto parlando di qualcosa di serio, bensì di un’amabile pic-nic al parco. «Non stavo rischiando nulla, non posso farmi alcun male. È questo che volevo farti vedere…affinché mi credessi».
«Beh, non farlo più…per favore». Abbassò lo sguardo, assomigliando d’un tratto ad un cucciolo smarrito.
«Scusa, era un’azione fatta in buona fede…»
Scrollai la testa indignata. In buona fede? Chi si ammazzerebbe in buona fede?
«Sei fuori di testa…» mormorai.
«Forse sono stato un po’ azzardato». Avrei voluto picchiarlo. Azzardato era un eufemismo, ma i miei pensieri da quel momento in poi era meglio tenerli a bada.
«Promettimi che non tenterai più di fare una cosa del genere. Né per dimostrare qualcosa, né per altri motivi».
I suoi occhi erano grandi, azzurri e sinceri. «Hai la mia parola.» Mi concedette. Non sapevo quanto potesse valere, ma decisi che poteva bastarmi.
Scese silenziosamente i gradini che lo separavano dalla strada. Dopo qualche metro si voltò e chinò il capo con educazione. «Grazie per l’ospitalità». Prima che se ne andasse fui io a fermarlo ancora per un istante.
«Aspetta, ho ancora una domanda. Perché sei venuto da me a dirmi tutte quelle cose?»
Si guardò intorno assicurandosi che nessuno prestasse attenzione a noi. Il figlio dei miei vicini di casa, un ragazzino di nome Mitchell, gli passò accanto con lo skate senza degnare di uno sguardo nessuno dei due.
«Vedi, Amber, in quanto elementi di mediazione tra il divino e l’umano, noi Angeli siamo simili a voi, ma possediamo dei poteri. Sono molto deboli, più che altro una traccia di capacità maggiori, con questo io ti ho salvato la vita. Ho fermato l’emorragia in corso e ti ho permesso di tornare a respirare. Ti ho guarito in parte, per questo la ferita ai medici è sembrata meno profonda di quello che fosse in realtà. Te lo assicuro non saresti sopravvissuta se non fossi intervenuto, ma non avrei dovuto farlo».
«Perché?»
«Ordini. Noi non possiamo metterci in mezzo. Supervisioniamo, ci limitiamo a ispezionare il vostro mondo e a riferire a chi sta più in alto di noi, ma ci è severamente vietato utilizzare quei poteri».
«Allora perché l’hai fatto?»
Fece un cenno verso di me. «Non potevo permettere che un’innocente morisse di fronte ai miei occhi, soprattutto sapendo che in fondo è tutta colpa mia. Simon sapeva che non potevo intervenire, anche per questo mi ha sfidato. È stato più forte di me, e ora che ho trasgredito gli ordini devo pagarne le conseguenze».
Il suo tono era così serio che, sebbene sapessi che stava dicendo un sacco di cavolate, mi sentii rabbrividire. «Ogni azione ha delle ripercussioni, Amber. La mia comporta il fatto che ho dovuto raccontarti la verità, affinché tu sia pronta a qualsiasi evenienza. Sebbene di solito ci teniamo alla larga dai problemi degli umani, mi è stato concesso di avvertirti, ma non posso metterti in guardia senza che tu sappia in qualche guaio ti sei cacciata dando confidenza ad uno come lui. Ha fatto ciò che voleva fare per il suo divertimento, ma tu sei ancora viva e questo lui non se l’aspettava».
Deglutii, riconoscendo come paura quella sensazione formicolante allo stomaco. «Credi che tenterà ancora di farmi del male?» chiesi.
«Non lo so, ma certamente ha deciso molto tempo fa da che parte stare. So che ancora non mi credi, ma quelli come Simon una volta erano come me…anch’essi Angeli. Ora non lo sono più».
Probabilmente la mia espressione lo fermò prima che andasse oltre. «Non importa, per oggi basta così con le spiegazioni. Promettimi che starai attenta e lontana dal Mephisto. Tutti coloro che ci lavorano sono esattamente come Simon benché si siano comportati come persone normali» mi avvertì. Mi era difficile prenderlo sul serio ricordando la disponibilità di tutti i camerieri. Non potevano essere accomunati a un assassino.
«Per il momento ti chiedo un po’ di discrezione. Tu meriti di sapere la verità, ormai è una questione che ti riguarda, ma ti chiedo per cortesia di tenere per te ciò che ti ho detto».
«Ma certo» gli assicurai, evitando di aggiungere che chiunque avesse sentito quella storia mi avrebbe creduto fuori di testa.
«Ci vedremo di nuovo, è una promessa» dichiarò.
Semmai una minaccia. Intervenne la mia coscienza e io non potei darle del tutto torto.
«A proposito» ancora si interruppe prima di andare via. «Il mio vero nome non è Samuel. È Hadas. È ebraico e significa Nuovo. La prossima volta ti racconterò il resto».
Lo guardai allontanarsi, pensando che non volevo che ci fosse una prossima volta. Volevo che lui e le sue stronzate religiose da quattro soldi sparissero definitivamente dalla mia vita. Ma quando rientrai in casa mi resi conto che non era davvero così. Sospirai e posai la schiena contro la porta, chiudendo gli occhi e sentendomi stanca e ancora fiacca dopo lo shock del tentato suicidio.
In che guaio mi sono cacciata?


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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***






Il tuo fasto è disceso negli inferi, come la musica delle tue arpe. Sotto di te si stendono le larve, i vermi sono la tua coperta. Come sei caduto dal cielo, astro del mattino, figlio dell'aurora! Come fosti precipitato a terra, tu che aggredivi tutte le nazioni!

Isaia, 14, 11-12.












13.








Rimasi immobile con la schiena posata contro la porta per un tempo indefinibile, paralizzata dal timore che Samuel, Hadas, o qualunque fosse il suo vero nome, cambiasse idea e decidesse di sfondare la porta. Un pensiero piuttosto paranoico, ma visti i recenti avvenimenti non potevo essere certa che tutto fosse risolto dopo il tentato suicidio in buona fede.
In quegli istanti fui, ovviamente, attratta dall'idea di chiamare la polizia e raccontare l’accaduto all’agente Collins, ma poi la mia mente mi distolse da quel proposito, convincendomi del fatto che Samuel non era davvero pericoloso e aveva promesso di non tentare mai più un gesto così avventato.
Potevo fidarmi della parola di un pazzo?
Ancora in dubbio, mi staccai dalla porta e decisi di tornare in cucina, dove trovai mia madre che sbucciava e tagliava una mela in pezzetti regolari. Quando alzò lo sguardo su di me capii che stavolta non me la sarei cavata fingendo di stare bene.
«Sei un po’ pallida, è successo qualcosa?» chiese.
«Sono solo un po’ stanca».
«Potrei preparare io la cena stasera, dovresti riposare di più».
«Riposare più di così significa morire, mamma» mi difesi, anche se dovevo ammettere che non aveva tutti i torti. Negli ultimi giorni avevo avuto fin troppe emozioni forti, con tanti saluti alla mia presunta convalescenza. «Non preoccuparti per me e, per carità, lascia perdere la cucina, l’ultima volta che ci hai provato hai quasi dato fuoco alla casa. Regola numero due, non si lasciano le presine accanto al gas».
Era un secolo che non la vedevo ridere, perciò la visione del bianco perfetto dei suoi denti e del suo sguardo divertito mi lasciò spiazzata. «D’accordo, Julia Child, a te la cucina. Qual era la regola numero uno?»
«Le uova non si cucinano nel microonde».
«Ricevuto».
Preparare la cena fu più rilassante di quanto mamma credesse, lì nel mio angolo di perfezione ogni cosa era al suo posto ed era regolata da un ordine ben definito. Sapevo che l’aggiunta di un dato ingrediente o l’adesione a un certo procedimento avrebbero portato ad un risultato preciso. Non c’erano brutte sorprese nella cucina, se si sapeva come gestire ogni cosa, e la soddisfazione finale era l’unico obbiettivo da perseguire ancora prima dell’ottenimento di qualcosa di commestibile.
Quando ero ancora molto inesperta seguivo i libri di cucina in maniera maniacale, terrorizzata all’idea di sbagliare qualcosa e rovinare tutto. Poi avevo capito che saper cucinare significava anche dare prova di una certa fantasia e avere occhio per le dosi. A parte quando mi cimentavo in qualche nuova ricetta, non avevo più bisogno di consultare i libri.
Quando lo sfrigolare del cibo e gli aromi di ogni ingrediente riempirono la cucina mi sentii finalmente a mio agio e a casa, con il vapore delle pentole che mi riscaldavano il viso ogni volta che controllavo la cottura, e il colore dorato della carne che mi metteva di buon umore.
Mamma fu stranamente loquace durante la cena, nel tentativo di coinvolgermi in una conversazione a cui non ero molto abituata. Durante la settimana era a casa così raramente che la domenica, quando non lavorava, il silenzio regnava sovrano, a parte l’intervento di qualche frase di circostanza.
Quella sera volle sapere com’era andata da papà, com’era la casa in cui viveva quella ragazza, e come si era svolta la conversazione tra me e Samuel. Attribuii il tutto non tanto alla sua curiosità, quanto al tentativo di apparire educata e darmi l’impressione che almeno qualche particolare della mia vita le interessava. Risposi distrattamente alle prime due domande, alla terza il cuore prese a battere più veloce, al ricordo del coltello così vicino al ventre di Samuel da sfiorarne la maglietta. C’era mancato davvero un soffio.
«Sembra un ragazzo ben educato» commentò mia madre, infilandosi in bocca un pezzo di bistecca e aspettando qualche mia precisazione. Ammisi che era un tipo particolare, ma molto gentile, poi le fui mentalmente grata quando cambiò argomento e mi parlò del suo lavoro.
Le sue parole non lasciarono traccia nella mia mente, tutta presa da altri pensieri, come per esempio ogni ammissione fatta da Samuel quel pomeriggio e l’assurdità del suo racconto. Non capivo cosa c’era di sbagliato in lui, non riuscivo a distinguere tra menzogna e pazzia, ma ero più incline ad accettare la seconda ipotesi. Non aveva dato segni di raccontare balle, oppure sapeva mentire davvero benissimo. Personalmente ero quasi certa che per qualche motivo lui fosse davvero convinto di tutte le cose che aveva detto.
In silenzio e con la mente in subbuglio, sparecchiai e misi in ordine la cucina, poi congedai mia madre con la scusa della stanchezza e mi rifugiai in camera mia prima di quanto fossi solita fare.
Il rapporto con la mia stanza da sempre era singolare, oscillante tra l’odio e l’attaccamento. C’erano giorni in cui mi sembrava un bene prezioso, una tana dove potermi rifugiare e un giaciglio su cui stendermi senza dover temere che qualcuno facesse domande sul mio stato d’animo. Potevo piangere, ridere o cantare senza essere disturbata. Altre volte invece non potevo impedirmi di detestarla per il semplice fatto che non riuscivo a sentirla davvero mia.
Avevo sempre invidiato a Christopher questa differenza tra noi. Tutto in camera sua rispecchiava alla perfezione la sua personalità e le sue passioni. Poster alle pareti richiamavano i suoi eclettici gusti musicali e cinematografici, bandierine e mascotte rappresentavano la sua preferenza per la squadra di baseball dei San Francisco Giants, passione che condividevamo, e l’amore per il college che frequentava a Stanford.
L’ultima volta che la mia stanza si era potuta definire personalizzata era ancora piena di peluche e il letto era coperto dalla trapunta di barbie. Ora mi limitavo ad appendere qualche foto di me, dei miei amici e di Chris accanto alla scrivania. Quando vi entrai, mi accontentai del fatto che aveva un letto dove potermi rifugiare a riflettere, e un pc con il quale aiutarmi a farlo. Aprii il laptop e fissa la home page del motore di ricerca, indecisa su come cominciare. La lineetta verticale nel punto di inserimento lampeggiava come facendomi l’occhiolino, in attesa dei miei dubbi.
Angeli fu il primo lemma che digitai, desiderosa di scoprire se ciò che Samuel aveva affermato era frutto di ricerche o solamente della sua sfrenata immaginazione. Ottenni più di nove milioni di risultati, la maggior parte rimandanti a consigli su come evocare al meglio i propri Angeli protettori, su come pregarli per ottenere buoni risultati nella vita e su come trovare il nome del proprio Angelo custode. Con un po’ di selezione riuscii a trovare documenti più inerenti a questioni di teologia e, esposte in un modo o nell’altro, le informazioni che recuperai mi sembrarono simili a ciò che mi aveva raccontato Samuel. Le analisi etimologiche erano le stesse fatte anche da lui, aveva ragione sulle feste degli Arcangeli e degli Angeli custodi, sul significato di Mal’ak e di Adonay tseba’ot.
La ricerca sui cherubini mi rimandò all’iconografia tradizionale rappresentante fanciulli alati dall’aria pensierosa e pacifica, quella sui serafini a figure adulte con tre paia di ali. Approfondii le mie conoscenze sugli ordini angelici, provenienti dalla tradizione di Dionigi l’Areopagita che divideva gli esseri celesti in tre ordini. Il primo formato da Troni, coloro che vivevano accanto al trono di Dio, in cielo, i Cherubini e i Serafini. Il secondo era rappresentato da Potestà, Dominazioni e Virtù, il terzo da Angeli, Arcangeli, Principati. Se era una tradizione così universalmente accettata, perché Samuel l’aveva smentita?
Cambiando parola chiave in Arcangelo, tra i nomi che lessi riconobbi quelli famosi di Gabriele, Michele e Raffaele, e altri che non avevo mai sentito nominare in vita mia. C’erano così tante tradizioni discordanti da mandare in confusione chiunque. Secondo alcuni gli Arcangeli erano solo tre, secondo altri sette, altri ancora affermavano di conoscerne nove.
Sospirai. Erano troppe cose, una miriade di informazioni che nemmeno in una settimana avrei potuto assimilare in modo soddisfacente. Per comodità spostai la pagina sulle immagini, e una sfilza di icone mi sfilarono davanti allo sguardo. Figure alate e maestose.
Vestito con una lorica celeste e un mantello rosso, uno degli Arcangeli più famosi teneva incatenato un uomo a terra e con il braccio destro in tensione, sembrava sul punto di colpirlo con una spada. Sempre rappresentato vestito di azzurro e rosso, Michele era il più delle volte impegnato in una strenua lotta contro il male, contro draghi o serpenti contorti, a volte armato di spada a volte di lancia, a volte con un’armatura completa di scudo, altre volte senza alcuna protezione.
Gabriele appariva ovunque come un essere particolarmente delicato, femmineo, dalla pelle molto chiara, quasi sempre nell’atto di indicare qualcosa, con Maria accanto o da solo, e reggente un giglio candido tra le braccia o in mano. Raffaele compariva molto meno, e quasi mai gli altri Arcangeli.
L’oscurità quasi totale della stanza si annullava solo nel punto dove l’illuminazione dello schermo creava un bozzolo di luce chiara attorno a me. Il computer stava cominciando a scaldarmi le gambe su cui posava.
Un dettaglio dell’Arcangelo Michele mi rimandò ad un’altra immagine: Giudizio Universale o Trittico di Danzica, Memling. I miei occhi colsero gli elementi familiari, posandosi sulla parte alla mia destra e sentii il cuore battermi più forte nel petto. I dannati tormentati e i diavoli tra le fiamme erano gli stessi che avevo visto al Mephisto, in ogni minimo dettaglio, con le loro inquietanti espressioni di dolore. Ricordai la meraviglia di fronte a quello splendore artistico e ne rimasi quasi delusa, vista la piega presa poi dagli eventi. Il nervosismo mi pizzicò le budella, nel pensare a quanto sembrasse ironica tutta quella situazione. Tutto sembrava riportarmi con il pensiero ai miei errori, come se non meritassi di lasciar perdere.
Dei colpetti alla porta mi fecero trasalire e il cuore mi schizzò in gola in un istante. Attesi un secondo di riprendermi dallo spavento, tanto da non suscitare sospetti in mia madre. Abbassai con un secco scatto lo schermo, rapita dai tratti e dai colori brillanti di quegli affreschi.
«Avanti…» Il suo viso oscurato fece capolino dalla porta. Reggeva qualcosa di fumante tra le mani e io mi chiesi cosa diamine avesse bruciato stavolta.
«Ho preparato una tisana, ne vuoi una tazza?» chiese. «Senza dare fuoco a nulla» aggiunse con una smorfia divertita, come se le mie perplessità mi si fossero stampate in fronte.
«Grazie». Mi porse la tazza calda e sorseggiai cautamente il liquido caldo che subito parve sistemarmi il formicolio allo stomaco causato da un’ansia che non sapevo spiegare. Pensavo che lei si congedasse, invece rimase a fissarmi per qualche istante e trasse a sé la sedia accanto alla scrivania. Si sedette e si schiarì la voce. Anche nella penombra riuscivo a scorgere la tensione del volto e la piccola ruga che si formava tra le sopracciglia chiare perfettamente curate, ogni volta che era in pensiero per qualcosa. Stavo per domandarle quale fosse il problema, ma mi interruppe, iniziando a parlare.
«Senti Amber, io mi stavo chiedendo una cosa…» Il tono di voce era basso, confidenziale e sperai che non volesse rivangare la storia di Simon. «…fra qualche giorno è il quattro luglio e…pensavo che…magari potremmo fare qualcosa. Tra noi, intendo. Insieme».
La parola insieme suonò quasi strana, forse nemmeno lei credeva più al suo significato. Non aveva più molto senso da quando papà se n’era andato. Avevo sempre passato il pranzo del quattro luglio con mamma, papà e Chris. Poi io e Chris trascorrevamo il pomeriggio con i rispettivi amici e la sera si andava tutti quanti a vedere i fuochi d’artificio in qualche luogo strategico in città. Adesso che Chris non c’era più, non avevo nemmeno pensato al fatto che la routine del giorno dell’indipendenza fosse infranta. Sapevo solo con quali persone volevo trascorrere la festa e mamma non figurava tra queste.
«Avevo in mente di fare qualcosa con Louis e Jenny» risposi semplicemente. Pensare di passare quella festività così allegra con una persona con la quale a stento riuscivo a portare avanti una conversazione, non mi entusiasmava per niente.
«Avete già in mente qualcosa di preciso?»
«Non ancora».
Il suo disagio era evidente. Mi chiesi che fine avesse fatto l’avvocato di successo con la sua capacità di persuasione e il carisma. Annaspava nelle sue stesse parole. «Allora ascolta…abbiamo un bel giardino, non è enorme ma qui in città si può considerare abbastanza spazioso. Potremmo organizzare un pranzo, e tu puoi invitare chiunque desideri».
Aggrottai la fronte, guardandola di traverso. «Sai che divertimento, io, i miei amici e mia madre. Non ti sembra un po’…beh, non ti suona un po’ strano?»
Abbassò lo sguardo e annuì. Poi mi fece un sorriso tirato e si alzò in piedi. «Hai ragione, sei grande ormai, è meglio se passi la giornata con i tuoi amici a divertirti» Si voltò e fece per aprire la porta, quando dal fondo del mio cuore la coscienza, con la sua vocina maligna, mi paragonò alla regina cattiva delle favole.
Sapevo di avere ragione, ero davvero convinta che i miei amici sarebbero stati intimiditi dalla presenza di mia madre, avrebbero fatto di tutto per trattenersi dal parlare di cose stupide e Louis avrebbe fatto il possibile per apparire meno gay del solito, anche se mamma conosceva i suoi gusti. Non volevo che si limitassero. Ma mi sentivo un mostro per aver smorzato il suo entusiasmo così insolito.
«Mamma aspetta». Si fermò con la mano a pochi centimetri dalla maniglia, in attesa delle mie parole. «Ho un’idea migliore. Potremmo fare questo pranzo, io invito Louis e Jenny e tu inviti chi vuoi, magari qualche collega, o qualche tuo amico».
Se ne hai.
La speranza sul suo volto la fece sembrare molto più giovane dei suoi anni e io mi sentii un po’ più sollevata. Quella sera avevo fatto la mia buona azione, potevo andare in pace.
«Dici davvero?»
«Perché no? Se inviti qualcuno con cui puoi parlare almeno ti diverti anche tu».
E non ci stai con il fiato sul collo.
Ci rifletté su per qualche secondo. «Vuoi invitare papà?»
Non riuscivo a credere alle mie orecchie. Che cosa aveva messo in quella tisana per renderla così docile e accomodante? «Sicuramente farà qualcosa assieme a Trudy».
«Possono venire insieme…se a te fa piacere». L’aggiunta mi fece intuire che lei invece non avrebbe fatto i salti di gioia. Però, se solo avesse avuto l’occasione di conoscerla come la conoscevo io magari le sarebbe piaciuta…o forse no, ma quella sera mia madre era in vena di concessioni, potevo approfittarne. Volevo che papà venisse e non l’avrebbe fatto senza la ragazza.
«Domani telefono e chiedo se a loro va di venire».
Si portò i capelli dietro l’orecchio e sorrise, soddisfatta. «Bene. Tanto per fare qualcosa insieme».
«Certo».
Mi augurò la buonanotte e sparì, lasciandomi sola con il lieve ronzare del computer accanto a me. Il comportamento di mamma era inusuale, da attribuire sicuramente a ciò che mi era successo. Avevo il sospetto che temesse che mi cacciassi di nuovo nei guai e frequentassi gente poco affidabile. Un pranzo in famiglia, se così la si poteva chiamare, era il modo migliore per tenermi d’occhio.
Riaprii il portatile e decisi di concedermi un’ultima ricerca, ricordando ciò che Samuel mi aveva detto di Simon. Ancora non riuscivo a capire come potessero quei due conoscersi, mi sembrava assurdo che fossero accomunati. Il ragazzo mi aveva confessato che Simon un tempo era come lui, perciò un Angelo non più tale.
Nella barra della ricerca web scrissi Angeli ribelli. Colsi nel segno: gli Angeli ribelli o Angeli caduti, erano gli Angeli che avevano deciso di tradire Dio proprio come aveva fatto Satana. Della medesima natura degli Angeli, avevano però un diverso atteggiamento nei confronti di Dio, si opponevano a lui, ai suoi ordini e al bene. Demoni.
Trovai altre immagini presenti sulle pareti del locale, scheletri e rappresentazioni della morte, lo stesso diavolo rosso che sussurrava quasi seducente all’orecchio di Gesù in Predica dell’Anticristo di Luca Signorelli. Bocche infernali spalancate, fauci simili a quelle del bancone del Mephisto, tra le quali in certi casi si scorgevano voragini colme di fiamme, sguardi carichi di malvagità e Satana spesso rappresentato nella sua caduta dal cielo.
Posai la testa sul cuscino, sentendomi spossata. Fissare lo schermo del computer mi aveva appesantito gli occhi, così come già mi sentivo intorpidite le membra.
Come bilancio della serata, avevo dimostrato che Samuel sapeva molto sull’argomento, ma questo non significava che dovevo crederci davvero. Feci un profondo respiro e mi concessi di chiudere gli occhi solo per un istante, poi avrei potuto cercare qualcos’altro.
Quando li riaprii ogni traccia di buio era sparito, scacciato dal sorgere del sole. Il display della mia sveglia digitale segnava già le otto, suggerendomi che mi ero addormentata. Il computer giaceva semi aperto a terra, finito lì probabilmente perché mi ero mossa nel sonno. Per fortuna il tappeto morbido aveva attutito la caduta, ma la batteria si era esaurita. Mandai mentalmente a quel paese le ricerche, mi stiracchiai e scesi per la colazione.
L’unica traccia di mamma era un biglietto sul frigorifero che mi augurava un buon giorno e mi consigliava di riposare. La conversazione della sera prima probabilmente l’aveva fatta svegliare di buon umore.
Malgrado i suoi avvertimenti non me la sentii di poltrire tutto il giorno, ma non avevo nemmeno molta voglia di pulire casa. Dopo colazione mi vestii con una tuta da ginnastica e decisi che mi avrebbe fatto bene un po’ di attività fisica per sbloccare le articolazioni che sentivo indolenzite dopo essermi addormentata in una postura poco comoda la sera prima.
A San Francisco il Golden Gate Park non era l’unica zona verde ottimale per lo sport, ma era il parco che preferivo, il più spazioso, ricco di attività diverse e comodamente vicino a casa mia. Era stupefacente pensare che in origine non fosse altro che un insieme di mucchi sabbiosi, trasformati a fine ottocento in un capolavoro di spazi verdi e svariate attrazioni. Io non ero molto interessata ai piccoli musei all’interno, anche se il Japanese Tea Garden con l’armonia creata da stagni, fiori e pagode mi era piaciuto molto quando l’avevo visitato. Amavo semplicemente passare del tempo circondata dalla natura, difficile trovare in città.
Da casa mia bastavano pochi minuti a piedi, perciò lo raggiunsi in fretta, aspettai che i muscoli fossero sufficientemente caldi, poi cominciai a correre. Le gambe rigide mi diedero dapprima l’impressione di aver iniziato un movimento innaturale, non spontaneo, ma bastarono pochi minuti perché la musica che gli auricolari rovesciavano nelle mie orecchie desse ritmo al moto delle mie gambe, coordinando i passi e il bilanciamento esercitato dalle braccia.
Guardai davanti a me, gli occhi fissi sulla stradina battuta inghiottita dal prato e dagli alberi. Il verde mi sfilava di fianco come se ci nuotassi attraverso, l’odore dell’asfalto e dello smog era diminuito, scacciato dal profumo dei pini, dell’erba e della resina fresca.
Nella pista ciclabile accanto a me, di tanto in tanto qualche macchia indefinita sfrecciava pedalando, ma tutto ciò su cui la mia mente voleva concentrarsi era la cadenza della musica e quella del mio corpo. Non sentivo i rumori, potevo solo immaginare il tonfo dei miei passi sul sentiero e il loro scricchiolare nei punti in cui la ghiaia diveniva più frequente. Lentamente la tensione che sentivo nei muscoli e negli arti parve sciogliersi, assieme il blocco fastidioso di pensieri che mi ostruiva la mente.
Lavorai sulla respirazione, inspirando ed espirando ad un ritmo regolare e sentendomi ogni secondo un po’ meglio. Fu più facile pensare lucidamente in quelle condizioni di pace, in quella zona verde e protetta. Non ero mai stata una patita dello sport e dell’attività fisica, ma correre mi sembrava l’esercizio migliore quando le cose si facevano incasinate.
Continuai per una buona mezz’ora, fino a sentire il sudore incollarmi la maglietta alla pelle, le guance accaldate e i muscoli delle gambe formicolanti. Il cuore batteva veloce nel petto, ma ad un ritmo ben modulato, e la serenità che sentivo addosso sembrava non poter essere scalfita in nessun modo, almeno fino a quando da una macchia di cespugli un’ombra non saltò fuori sul sentiero proprio davanti a me.

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


E vi fu guerra in cielo: Michele con i suoi angeli ingaggiò battaglia con il dragone; e questo combatté insieme ai suoi angeli; ma non prevalsero: il loro posto non si trovò più nel cielo. Fu infatti scacciato il grande dragone, il serpente antico, quello che è chiamato diavolo e Satana; colui che inganna tutta la terra fu precipitato sulla terra e con lui furono precipitati anche i suoi angeli.
Apocalisse, 12, 7-9.











14.










Per quanto fosse un’azione esagerata, la prima cosa che mi riuscì spontanea fu strillare, causando più stupore nel mio presunto aggressore che in me. Da un albero lì vicino un gruppo di tortore si alzò in volo con un frullare d’ali. Con un gesto stizzito mi strappai gli auricolari e il mondo ritornò al suo normale e banale tono. All’immagine delle tortore in fuga si unì il brontolio gutturale dei loro lamenti.
«Cristo santo!» esclamai. «Sei forse impazzito?»
«Non imprecare, per cortesia». La voce di Samuel era esattamente come la ricordavo, pacata e tranquilla, l’esempio perfetto dell’equilibrio interiore in un individuo che mi sembrava tutt’altro che a posto con la testa.
«E tu non farmi venire un colpo ogni volta che ci incontriamo. È seccante!» Non parve turbato dalla mia reazione, solo incuriosito dal fatto che un gesto minimo come la sua comparsa avesse avuto delle conseguenze su di me.
«Ti ho spaventata?»
«Per la seconda volta direi». Con una mano posata sul petto riuscii a sentire i battiti furiosi del mio cuore, così diversi dalla cadenza che avevo raggiunto in corsa.
«Credo che tu non abbia tutte le rotelle a posto» rincarai la dose. «Non si sbuca dai cespugli così come se nulla fosse».
Mi rivolse un sorriso conciliante, un blando e inusuale tentativo di scusa. «Sono mortificato, la prossima volta mi annuncerò in modo diverso. Non è mia intenzione causarti ansia».
«Dovrai lavorarci un po’ su allora». Con uno sbuffo arrotolai gli auricolari e infilai l’iPod nella tasca della tuta. Poi gli gettai un’occhiata in tralice, sentendo un dubbio serpeggiare nel cervello.
«Come mi hai trovato?» Quel sospetto prese di colpo forma facendomi sgranare gli occhi. «Mi hai pedinata?»
«I dizionari illustrano il termine Pedinare come seguire una persona a debita distanza senza farsi notare per spiarne le azioni. Mi sembra una connotazione abbastanza negativa e non è il mio caso. Non posso però negare di tenerti d’occhio, spero che tu non la prenda come una minaccia, perché non lo è affatto».
La sua ingenuità era spiazzante, dopo che una persona che lui aveva confessato di conoscere aveva tentato di togliermi dal mondo e dopo aver appreso che lui mi seguiva, come potevo non sentirmi intimorita? Cercai nel suo viso tracce di menzogna o di un particolare qualsiasi che gridasse alla mia ragione di stare in guardia. Potevo aspettarmi di tutto da lui dopo il gesto plateale e autolesionista del giorno prima, ma oltre ogni previsione mi sembrò estremamente sincero e comunque, nel caso avessi avuto bisogno di aiuto, nella tasca riuscivo a sentire il peso familiare del cellulare. Avrei potuto prontamente afferrarlo e chiamare qualcuno, o al massimo scagliarglielo in fronte e fuggire. Di nuovo mi meravigliai del colore intenso dei suoi occhi, del suo viso delicato e infantile e di quell’espressione a metà tra l’assorto e il sereno.
Feci un sospiro d’assenso, concedendogli così un frammento della mia fiducia. Restava da vedere se fosse ben riposta o se il mio istinto si fosse di nuovo incamminato verso il disastro.
Il suo sguardo limpido si posò sul foulard che prima di uscire di casa avevo avvolto alla gola per proteggermi da sguardi indiscreti. Con un cerotto ingombrante sul taglio mi sentivo osservata, anche se probabilmente era solo una mia impressione.
«Come ti senti?» chiese.
«Come se mi trovassi di colpo sotto i riflettori e avessi un enorme rospo sulla faccia. Tutti fanno finta di nulla, ma mi guardano in modo strano. Immagino che siano gli effetti collaterali della convalescenza».
«Si preoccupano per te» fu la sua spiegazione.
«Oppure se ne sentono costretti, scommetto che mia madre non vede l’ora di tornare alla normalità, ora come ora mi ronza intorno, ma di solito non fa così».
«È tua madre, è normale che si comporti così, proprio come ha fatto all’ospedale».
Senza che me ne fossi accorta avevamo cominciato a camminare, muovendoci lungo la pista in terra battuta, in mezzo alle enormi macchie verdi degli alberi. Per qualche secondo lo guardai senza capire che cosa intendesse. Che io ricordassi, all’ospedale mamma si era limitata a lanciarmi sguardi di ghiaccio e a minacciarmi mentalmente di non fare più una cosa del genere. Nessun abbraccio, nessun evidente segno di amore materno, se non intense ondate di rimprovero. Samuel mi fornì chiarimenti senza che dovessi chiedere alcunché esplicitamente. «È rimasta tutta la notte».
«No, ho dormito da sola».
«Ma è restata in ospedale». Mi sembrò estremamente difficile credergli, ma perché avrebbe dovuto mentire? Certo, mamma non era il tipo da veglia notturna e non mi aveva detto che sarebbe restata lì. Perché mai? Ricordavo solo che dopo aver parlato con i detective era venuta a darmi la buonanotte e io non l’avevo più vista fino al mattino dopo. Non mi aveva chiesto se avessi la necessità di averla lì, ma a pensarci bene sapevo cosa le avrei risposto se mi avesse rivolto quella domanda. Dopo aver detto a papà che poteva tornare a casa, di certo non era proprio lei la persona che avrei voluto avere accanto.
«Immagino che non mi abbia detto nulla perché sapeva che le avrei chiesto di andare via. Ma tu come lo sai? Avevi già cominciato a pedinarmi da allora?» Il suo sorriso si fece più ampio, ma senza dare davvero l’impressione di trovare divertenti le mie parole.
«Lo ripeto, non ti sto pedinando. Ero lì per questioni di sicurezza».
Feci un sospiro, sentendo dentro di me nascere la frustrazione e il timore che Samuel ricominciasse i suoi deliri su Dio e gli Angeli e la preoccupazione era maggiore sapendo che era proprio quello che voleva fare.
«Non hai idea di cosa sia capace di fare il ragazzo che tu conosci come Simon. Non ama che qualcuno gli metta i bastoni tra le ruote. Dubitavo che si presentasse all’ospedale per tentare qualche gesto clamoroso, ma non è un tipo da sottovalutare».
«Lui sarebbe un Demone vero? Un Angelo che si è ribellato a Dio».
Il suo sorriso confermò la mia ipotesi ancora prima che fosse la sua voce a farlo. «Qualcuno ha studiato, vedo» disse, facendomi ridacchiare.
«La tecnologia è utile a volte, mi sono voluta informare su alcune cose».
«In realtà noi Angeli non li chiamiamo Demoni, bensì Caduti, per rammentare a noi stessi non ciò che hanno guadagnato, bensì ciò che hanno perso a causa del loro gesto. Per un motivo o per l’altro hanno deciso di trasgredire le regole e di allontanarsi volontariamente dal loro creatore, condannandosi per sempre ad una vita di peccato e di dissolutezza, ad una vita eterna senza la possibilità di rivedere la luce».
Per quanto farfugliasse cose senza senso per me, il suo tono di voce e lo sguardo divenuto di colpo serio mi misero i brividi. Cambiai velocemente discorso. «Perciò lui non si chiama davvero Simon?»
Attese che una donna ci superasse spingendo una carrozzina. Quando fu abbastanza lontana e il rumore lento delle ruote sui sassolini si affievolì sensibilmente, Samuel ricominciò a parlare.
«Simon è solo un nome fittizio, il nome che lui ha scelto per sé. Tutti noi ne abbiamo uno, a volte ha un significato particolare, altre volte ci attira semplicemente per il suono che produce».
«Perché ti sei dovuto scegliere un nome fittizio?» In realtà credevo che non ci fosse nessun nome fittizio, ma me lo tenni per me.
«Hadas è un nome un po’ troppo particolare per un abitante di San Francisco di aspetto caucasico. Quando vivevo in Italia mi chiamavo Samuele». Individuò una panchina poco più avanti e mi invitò a sedersi accanto a lui. La sua frase generò in me una scossa di curiosità.
«Sei stato in Italia?»
«Sono nato in Italia» precisò. «Nel quattordicesimo secolo».
Giusto, dimenticavo che stavo parlando con un Angelo immortale. Sorvolai sull’affermazione e proseguii con il discorso principale. «Quindi come si chiama Simon in realtà?»
«Hazaq. Significa forte. Solitamente i Caduti ricevono automaticamente un nome diverso quando vengono dannati, un appellativo che esprime la loro natura in negativo, ma in questo caso l’attributo è valido anche per le caratteristiche attuali di Hazaq. Come Angelo era forte, come Caduto è violento».
«E io ne so qualcosa». Annuì in silenzio, osservando un passerotto zampettare poco distante dai nostri piedi, in cerca di qualcosa da becchettare. Dopo un momento di assoluta immobilità, si riscosse dai suoi misteriosi pensieri e mi guardò.
«Non sono qui per caso. Ho promesso di raccontarti tutto e credo che il modo migliore per spiegarti alcune cose sia cominciare dal principio, l’origine della nostra specie, se così vogliamo chiamarla, e quella degli oppositori. Te la senti di ascoltarmi?» Ricambiai lo sguardo, indecisa sul da farsi. Avevo di fronte un ragazzo chiaramente disturbato, un fanatico cristiano che avrebbe dovuto starmi antipatico solo per la sua ossessione religiosa. In realtà la sua presenza lì non mi dispiaceva come avrebbe dovuto. Mi trovai ad annuire.
Il passerotto saltellò verso di lui, arrivando a pochi centimetri dalle sue scarpe, guardandolo con i lucidi occhietti neri e muovendo a scatti la testolina piumata. Samuel sorrise nuovamente, guardandolo con una dolcezza che si addiceva perfettamente al suo aspetto fanciullesco, poi cominciò il suo racconto.
«In principio Dio creò gli Arcangeli, sette entità perfette. La loro potenza non eguagliava quella del loro Signore, ma superava quella di qualunque essere mai creato in seguito. Essi possedevano nomi che suggerivano la loro vicinanza a Dio, Michaèl, Gabrièl, Raphaèl, Urièl, Raguèl, Zerachièl, Remièl, ed erano dotati ognuno di una propria caratteristica. Dio li creò perché lo aiutassero durante la Creazione. Creò il cielo e la terra, donò la luce al mondo e la separò dalle tenebre. Divise la terra asciutta dalla superficie delle acque e portò alla vita le sue prime creature, vegetali e animali».
«Queste cose le so già, sono minestra scaldata, a parte la nascita degli Arcangeli, della quale non ho mai sentito parlare. Sicuro di non esserti inventato di sana pianta questa versione?» Mi lanciò un’occhiata spazientita, ma quando capii che non aveva la minima intenzione di rispondere alle mie accuse, lo lasciai proseguire nella spiegazione.
«Decise che ciò che aveva realizzato aveva bisogno di una guida, perciò creò l’uomo e lo pose a capo di tutto, affiancato da una compagna. Soddisfatto del suo operato, consacrò il settimo giorno come giorno di riposo, ignaro di aver compiuto il più grave degli errori. Convinto dell’assoluta fedeltà dei suoi Arcangeli, li aveva dotati del libero arbitrio, potere decisionale di cui uno di loro abusò. Helèl, invidioso dell’enorme potere del Signore e desideroso di liberarsi dal suo giogo, decise di ribellarsi, negando il dominio di Dio e tentando di usurpare il suo trono. Cercò appoggio presso i suoi compagni Arcangeli, lusingandoli e promettendo loro una vita di potere, liberi dal dominio del loro Creatore, ma nessuno lo seguì. Dio cacciò Helèl dal regno dei cieli, bandendolo per sempre, e lo fece precipitare nel centro della Terra, un luogo oscuro, privo della gloriosa luce del Signore. Helèl assunse da allora il nome di Satana, l’Oppositore. Esso fu sostituito dal nuovo Arcangelo, Urièl, e ai sette esseri fu tolto per sempre il libero arbitrio per impedire altre ribellioni. Non pago del suo gesto, Satana sfidò nuovamente il Signore e dalla sua materia corrotta creò sette servi, a immagine e somiglianza degli Arcangeli, i Diavoli. Grazie ad essi gettò i primi semi di discordia tra i figli di Dio. Sotto forma di Serpente, uno dei Diavoli ingannò la donna e spinse lei e il compagno a mangiare del frutto proibito, proveniente dall’Albero della Conoscenza del Bene e del Male, macchiandoli del peccato originale e causandone la cacciata dal Paradiso Terrestre. I Diavoli occuparono la terra, conducendo una vita di dissolutezze in nome del loro signore, Satana, e molti esseri umani seguirono il loro peccaminoso esempio. Con il passare dei secoli il mondo divenne covo del male, e Dio capì che gli uomini si stavano allontanando sempre più dal Suo Nome. Solo uno di loro era giusto e retto, buono con il prossimo e devoto a Dio. Il suo nome era Noè, e fu scelto da Dio per ripopolare la terra dopo il Diluvio che avrebbe mandato sull’umanità per cancellarne il peccato».
Feci un profondo sospiro. «Ti prego, la favoletta dell’arca di Noè no, risparmiamela».
«Sai, dovresti davvero imparare cos’è la pazienza». Mi rimproverò bonariamente lui, con un cipiglio degno di un maestrino severo. «Il diluvio ebbe anche un altro scopo. Resosi conto che anche con l’aiuto degli Arcangeli non poteva più tenere d’occhio tutti gli umani, compì una nuova creazione. Dalla sostanza incontaminata dei sette servi trasse nuovi esseri, meno potenti e meno puri, ma più numerosi. Essi avevano involucro umano per meglio mescolarsi alla gente, la loro sfera di influenza era la Terra e lì erano destinati a vivere, senza poter mai frequentare le Sfere Celesti. Gli Arcangeli allo stesso tempo non necessitavano di frequentare i luoghi dei mortali, grazie alla sovrintendenza dei nuovi esseri. Dato il loro straordinario numero, Dio non poté negare loro il libero arbitrio. I Diavoli non risparmiarono nemmeno loro nel loro progetto di corruzione. Molti Angeli restarono sulla retta via, ma con il passare del tempo alcuni cedettero alle adulazioni delle forze oscure, stanchi di condurre una vita al servizio di qualcun altro o per il desiderio di prender parte ai piaceri della vita umana. Compirono la loro ribellione, sebbene sapessero a cosa sarebbero andati incontro. Da Angeli divennero Caduti, esseri che avevano ottenuto ciò che volevano, ma dannati in eterno senza possibilità di redenzione».
La sua voce era così diversa da quella di Simon, senza la minima traccia di seduzione, ma ugualmente magnetica, capace di risucchiare la mia attenzione e farmi dimenticare il presente. Leggermente più acuta, come se oscillasse tra infanzia ed età adulta senza poter decidere da che parte stare definitivamente. Sebbene mi sembrassero storielle senza senso, non potevo ignorare la scossa di attrazione che provai per quel racconto. Attorno a me ogni rumore sembrava attutito, come se nel mondo esistessimo solo io e Samuel, avvolti in un bozzolo ovattato. Preso dal racconto il suo tono aveva assunto una sfumatura quasi euforica nei momenti di lode agli Arcangeli o a Dio, e una di amarezza nei frangenti più cupi di ribellione e peccato. Non importava che le sue parole fossero vere o solo un mucchio di sciocchezze, non avevo dubbi sulla seconda opzione, sentivo solo che i miei occhi faticavano a staccarsi dall’espressione spontanea che gli leggevo in viso.
Avevo raccolto le ginocchia contro il petto e anche se la posizione non era tra le più comode su quella dura panchina in mezzo al parco, mi sentivo come una bambina piccola intenta ad ascoltare con curiosità sempre crescente le fiabe della buona notte di fronte al calore di un caminetto acceso. L’unica differenza stava nel fatto che le avventura narrate non erano quelle di una ragazza dalla mantellina rossa minacciata in un bosco dal lupo cattivo, né quella di una splendida principessa caduta in un sonno profondo a causa di un incantesimo, bensì storie di creazione e ribellione. In entrambi i casi si toccavano argomenti di pura fantasia, ma per quanto non mi piacesse riconoscerlo, dovevo ammettere almeno con me stessa che celavano un certo fascino.
Samuel era seduto accanto a me con una compostezza se non irreale, quantomeno esagerata, con le mani posate sulle ginocchia, apparentemente immobile se non per lo sguardo intento a seguire ogni minimo movimento del passerotto che nel frattempo si era fatto sempre più vicino. La mia mente era affollata di domande, ma temevo che anche solo una parola potesse far volare via quella creaturina. Con mia grande meraviglia pochi secondi dopo andò a posarsi sul bracciolo di ferro della panchina, incredibilmente vicino al ragazzo e con l’attenzione tutta rivolta al suo viso.
«Sembra che tu gli piaccia» feci in un cauto sussurro.
«È una femmina. Vedi il marrone della schiena e il colore chiaro del ventre? È un segno inconfondibile. Ad ogni modo sa che non le farei mai alcun male, si fida». Il suo tono non lasciava spazio a dubbi, tra le sue parole si era insinuata una non troppo ben celata allusione al mio atteggiamento scettico nei confronti delle sue convinzioni.
Decisi di tornare al motivo principale per cui eravamo lì e di tralasciare il fatto che a quanto sembrava era anche un esperto ornitologo.
«Metto le mani avanti nel dire che non ho mai letto la Bibbia, almeno non per intero, ma conosco abbastanza bene il racconto della Genesi per avere l’impressione che c’è qualcosa che non va in ciò che mi hai detto. Non ho mai sentito parlare di questo Ottavo Giorno, e se è davvero così importante perché gli scritti ufficiali non dovrebbero tenerne conto?» Annuì in silenzio, come per ammettere che tutto sommato la mia domanda aveva una logica. Lui che accoglieva i miei dubbi come qualcosa di ragionevole era un paradosso, dato che avevo a che fare con qualcuno che a stento riconosceva la realtà in cui viveva.
«La Bibbia è stata scritta da uomini perciò, come tutto ciò che è umano, è imperfetta. Mancano molti elementi fondamentali per una ricostruzione realistica della storia divina. Arcangeli e Angeli, con tutte le conseguenze della loro creazione, sono figure basilari, ma non bisogna biasimare nessuno per il fatto che siano nominati molto poco. La concentrazione maggiore è nell’Apocalisse di San Giovanni, ma il ruolo dei servi del Signore è molto più importante di ciò che viene testimoniato».
«Ma perché allora sono così accantonati rispetto ad altre figure bibliche?»
«Per lo stesso motivo per cui molti esseri umani non credono tuttora nella nostra esistenza. La nostra vita sulla terra è avvolta dalla segretezza, quasi nessuno sa che esistiamo. Pensa agli episodi biblici in cui gli Angeli appaiono, sono certo che conosci qualche esempio. In quel caso le Sacre Scritture ne tengono conto perché gli Angeli o gli Arcangeli in questione si sono volontariamente manifestati in una situazione molto speciale».
«Parli dell’Annunciazione?»
«L’Annunciazione è l’avvenimento più noto anche tra i non credenti o tra i fedeli di altre religioni, un passo meraviglioso della storia umana. Ma ce ne sono molti altri in cui agli uomini vengono date delle indicazioni tramite apparizioni o semplici voci. Ad esempio un Angelo si manifestò a Mosè nel roveto ardente e Raphaèl accompagnò il viaggio di Tobia e gli insegnò a trasformare in medicinale le viscere di un pericoloso pesce».
Non riuscii a trattenermi dall’alzare gli occhi al cielo e voltarmi di scatto verso di lui, abbastanza bruscamente da far volare via il passerotto con un movimento stizzito. «Non dirmi che ci credi davvero? Sono solo delle favolette per abbindolare la gente!»
Mi gettò uno sguardo che sembrava quasi dire: Ma quanto sei testarda! E sospirò, fissandomi con una pazienza simile a quella delle maestrine d’asilo di fronte ad un bambino problematico.
«Per secoli ci si domanda quale debba essere il giusto atteggiamento quando si affrontano i testi biblici, molti credono che il loro significato sia letterale, altri ne analizzano la componente simbolica. Io non ho assistito di persona agli avvenimenti narrati, ma credo in essi, soprattutto per quanto riguarda il ruolo degli Arcangeli. E pur ammettendo che siano…» fece una smorfia di disappunto nel pronunciare quella parola. «…Favolette, come le definisci tu, il loro significato non cambia, il messaggio di fondo è sempre qualcosa di edificante o un monito».
Decisi di lasciar perdere, quasi intimorita dal fervore di cui la sua voce si era tinta. Ricordai il giorno prima e il suo tentativo di farsi del male e ammonii me stessa per l’ennesima volta di andarci piano con quel ragazzo. La cautela d’ora in avanti sarebbe stata la mia compagna fedele negli attimi in cui lui mi era accanto.
«D’accordo» ammisi alla fine, con un sospiro rassegnato, passando mentalmente in rassegna le altre domande da rivolgergli. «Hai parlato dell’Annunciazione. So che è stato Gabriele a manifestarsi a Maria, ma tu hai detto che gli Arcangeli non avevano bisogno di frequentare la terra grazie alla presenza degli Angeli, che dovevano sorvegliare gli umani».
«Ho anche detto che quegli episodi sono molto speciali. Una notizia come quella che riguarda la nascita di Gesù Cristo, di colui che avrebbe salvato l’intera umanità, non poteva certamente essere affidata ad un semplice Angelo. Così come tutti gli altri passi biblici in cui esseri umani scelti dal Signore per la loro costanza sono entrati a contatto con gli Arcangeli. È difficile che gli Angeli si occupino di questioni così delicate, noi ci limitiamo a sorvegliare e a riferire agli Arcangeli, che a loro volta sono in contatto con il nostro Creatore. Noi abbiamo i nostri limiti, possiamo riportare gli eventi principali».
«Un po’ come un giornale locale».
Il suo volto accolse un sorriso divertito. «Esatto, a grandi linee si può descrivere il nostro lavoro in questi termini. Solo Dio può conoscere tutto ciò che accade nel mondo, solo lui può venire a conoscenza dei pensieri e dei sentimenti delle sue creature umane, ma non può occuparsi di tutto quanto contemporaneamente. Perciò noi siamo i suoi inviati speciali».
A sentirne parlare da lui sembrava che gli Angeli non fossero nulla di così particolare, per lo meno se messi in confronto con gli Arcangeli. Che fine avevano fatto le credenze di esseri lucenti dalle ali immacolate? Quando espressi a Samuel le mie perplessità, lui allargò le braccia. «Siamo esattamente come ci mostriamo, senza ali, senza aureola e senza poteri grandiosi se non alcuni residui che derivano dal fatto che siamo stati concepiti dalla sostanza degli Arcangeli. Loro possiedono una forza enorme in confronto a noi, ma fare dei paragoni è assurdo, in ogni caso ci è vietato utilizzare questi poteri. Nel nostro caso qualsiasi cosa che possa comportare una presa di posizione forte è da considerarsi trasgressione».
«È per questo che non avresti dovuto aiutarmi…» suggerii, prima che lo dicesse lui.
«Immagino che tu sia pentito» mormorai, senza poter nascondere una certa amarezza. Era la seconda volta che sottolineava il fatto che salvarmi era stato un problema per lui. Il suo sguardo si posò su di me e vi lessi una tale gentilezza che mi sentii quasi in imbarazzo.
«Non rimpiango affatto di averti tolta dai guai, come potevo lasciarti morire? Ciò però non cambia il fatto che non ho mantenuto una promessa di cui tutti gli Angeli devono tenere conto dal momento della loro nascita. Quanto alla mia, ti ho detto che sono nato nel quattordicesimo secolo, precisamente il 9 luglio 1346. Sono stato creato per sostituire un Angelo appena ribellatosi: Hazaq».
«Simon». Il nome del ragazzo mi uscii dalle labbra in un soffio, un sussurro quasi impronunciabile che se espresso ad alta voce avrebbe potuto materializzare davanti a me il mio personale uomo nero. Samuel confermò.
«Non conosco i motivi della sua dannazione, so solo che ha fatto qualcosa di grave che ha scatenato la decisione di punirlo. Io ho preso il suo posto, cosa che ha scatenato in lui una gelosia che non comprendo e una sorta di strano atteggiamento nei miei confronti. Mi seguiva in ogni luogo in cui andavo, anche quando tra un posto e l’altro c’erano centinaia di chilometri, come se fosse ossessionato da me o come se volesse tormentarmi con la sua presenza. Quando ci incrociavamo, occasioni sicuramente non casuali, mi ripeteva in continuazione che prima o poi avrei fatto la sua stessa fine, che ribellarsi sarebbe stato inevitabile per tutti noi…e la cosa giusta da fare. Ma un giorno ha smesso, come se nulla fosse. Immagino che semplicemente si sia stufato di un gioco che non avrebbe portato a nulla, finché qualche mese fa non l’ho visto in questa città. Era stupito quanto me, il che mi ha fatto pensare che il nostro incontro fosse stato solo un caso. Quando ho saputo dell’apertura del Mephisto ho sospettato che ci fosse lo zampino dei Demoni e così ho partecipato all’inaugurazione. Credo sia stato così che lui ha deciso di dare una svolta alle sue minacce e tu ci sei finita in mezzo». Scosse la testa con un sospiro. «La sua malvagità cresce di giorno in giorno per sua stessa natura. In quanto Caduto, la sua anima dannata è sottoposta a infinite tentazioni a cui solo un vero pentito può rinunciare. So per certo che lui ama questa sua nuova vita più della precedente, è diventato arrogante, prepotente, e io non potevo permettere che tu morissi a causa sua».
Avvolsi le mie ginocchia con le braccia, posandovi il mento e riflettendo sulle sue parole. Sembrava che conoscesse Simon piuttosto bene, per quanto le sue teorie fossero improponibili. Arrogante era l’attributo che più mi colpiva di lui, un aggettivo che mi confermava che aveva davvero brandito quel coccio solo per puro divertimento e per fare un dispetto a Samuel. A quella parte del racconto credevo, non avevo alcun dubbio al riguardo, ma mi chiedevo quale reale questione avesse scatenato il conflitto tra loro.
«Ho corso dei rischi a causa della mia stessa imprudenza, perciò in parte devo ammettere che mi merito ciò che è successo. Non dovevo dargli tutta quella confidenza, tutti quanti da piccoli imparano che non si parla agli sconosciuti» ammisi, con tono per metà divertito, per metà amareggiato dalla incontestabile verità delle mie parole. Un soffio di vento fresco ci scivolò sulla pelle facendomi rabbrividire e scuotendo le fronde degli alberi. Rimisi a posto un impertinente ciuffo di capelli sfuggitomi davanti al viso.
«I Demoni sono dei maestri nell’arte di circuire gli esseri umani, perciò non è tutta colpa tua. Sono insidiatori per natura, seducenti, persuasivi. Conservano parte dei poteri che possedevano quand’erano Angeli, senza doversi trattenere dall’usarli. Il contatto fisico in particolar modo è la loro arma principale e la più semplice da usare per…come posso dire…irretire le loro vittime». La sua dichiarazione fece galoppare il mio battito cardiaco e la mente istintivamente tornò agli istanti fatidici del mio primo incontro con Simon.
Ricordavo molto bene come mi ero sentita nello stringergli la mano, poi quel piacevole intorpidimento dei sensi durante il contatto tra la mia pelle e la sua. Prima di poter fare qualcosa per evitarlo, mi sentii avvampare per la vergogna quando la memoria si soffermò su un immagine ben precisa, l’istante di maggior vicinanza nel bagno degli uomini.
«Non devi sentirti in imbarazzo con me, conosco l’effetto di Simon sugli umani, soprattutto sulle donne. Come la maggior parte dei predatori, adesca chi vuole, è possibile resistere, ma se mi permetti la considerazione, voi non siete molto portati per opporvi alle lusinghe».
Ero ammutolita, ascoltavo le sue parole solo con una parte della mia mente, dato che il resto della concentrazione era tutta dedicata a rievocare frammenti di ricordi di quella sera. Il modo con cui mi aveva convinta a bere dell’alcol anche se non volevo farlo, lo sguardo accattivante mentre mi parlava di come adorasse giocare con i topi allo stesso modo dei gatti. Come faceva Samuel a sapere quanto Simon mi aveva attratta?
Il ragazzo continuò a parlare, stupendomi ogni secondo di più di quanto fosse ben informato sugli eventi. «Gli è bastato un tocco per sbirciare nel tuo cuore e leggervi tutte le tue paure, le tue sofferenze. Così ti ha preso in giro a proposito del divorzio dei suoi genitori e della morte del fratello, perché voleva solo apparire debole e bisognoso di conforto ai tuoi ingenui occhi. Voleva prima di tutto esserti amico, fare in modo che ti fidassi di lui, che sentissi una forte affinità e che credessi di avere in comune la perdita di qualcuno di importante».
L’aria improvvisamente mi venne a mancare e il cuore, già stuzzicato dall’incredibile precisione delle sue parole, partì di nuovo al galoppo. Mi resi conto di aver trattenuto il fiato per qualche istante solamente quando espirai e il mio respiro divenne affannoso. «Come fai a…»
«Te l’ho detto, Amber, i Caduti hanno mantenuto i poteri degli Angeli, ma li usano soprattutto per azioni non proprio corrette. Così come lui ha toccato te e ne ha tratto informazioni, anche io, quando ti ho posato le mani sulla gola per aiutarti ho visto ciò che era successo. Mi spiace per questo, so di aver superato un confine che non avrei dovuto varcare e ho infranto la tua privacy. Non avevo il diritto di farlo, ma dovevo sapere». Il suo viso sembrava estremamente serio e sincero e per quanto il suo sguardo su di me fosse diventato pesante, non riuscivo a togliergli gli occhi di dosso. Volevo mantenere il contatto visivo e cercare anche un solo minuscolo segno di cedimento. Nulla.
Deglutii un paio di volte, la gola divenuta di colpo arida, e ispirai a fondo una boccata d’aria fresca per impedire al mio cervello di andare in corto circuito. Dovevo mantenere la lucidità per poter distinguere il vero dal falso, l’unico modo per sopportare la presenza di una persona bizzarra come Samuel senza perdere la pazienza.
D’accordo, dovevo ammetterlo, quel ragazzo era bravo con le parole. Non era certo un mistero che mio fratello fosse morto in modo violento, era stato per qualche giorno su tutti i giornali locali, sui necrologi appesi alle bacheche, sulle notizie affisse fuori dalle edicole, chiunque poteva averlo scoperto così o per sentito dire, e ciò valeva anche per Samuel e soprattutto per Simon. Come avevo detto, le coppie separate o divorziate erano frequenti, Simon aveva probabilmente solo tirato ad indovinare e ci aveva azzeccato, e Samuel aveva capito tutto quando mi era venuto a trovare in ospedale e non appena aveva visto la mia condizione familiare.
Per quanto riguardava la storia, piuttosto esagerata, della seduzione del presunto Demone…beh, c’era sicuramente un trucco. Samuel non poteva aver scoperto tutto solo toccandomi la gola, ma era possibile che avesse solamente fatto delle ipotesi basate su logici ragionamenti. Non c’era nulla di soprannaturale nel fatto che un ragazzo bello come Simon mi avesse attratto e che io mi fossi lasciata abbindolare dal suo sorriso smagliante. Gli istinti e i sentimenti umani erano la spiegazione migliore per quel genere di sensazioni. Le mie riflessioni erano esatte, lo sapevo, ma non riuscii a scacciare il freddo che mi era penetrato nelle ossa, sebbene la giornata fosse piacevolmente tiepida.
Rimasi in silenzio per qualche istante ancora, muovendo lo sguardo da una macchina all’altra al di là del sentiero, sul nastro d’asfalto a lato del parco. Quando lentamente riuscii a tornare al viso cordiale di Samuel, mi resi conto che non volevo ribattere. Non sarebbe servito a nulla comunicargli le mie sensazioni, se non ad ottenere da lui altra fastidiosa insistenza. Non mi piaceva il fatto che per la seconda volta qualcuno usasse la morte di mio fratello come pretesto per rifilarmi un mucchio di stronzate, ma sospettavo che lui non si rendesse conto dell’assurdità di ogni sua singola affermazione. L’unico modo per liberarsi di un pazzo era dargli corda.
«Spero di non averti fatto finire nei guai, per il fatto di avermi salvato il culo». La trivialità gli fece storcere il naso, un gesto che stonava con la perenne compostezza dei suoi movimenti, ma mi fece la cortesia di non correggermi.
«Sono stato ammonito, ma perdonato. Tu non hai colpe, sei stata coinvolta in qualcosa di più grande di quanto immagini».
«Dovrei proprio tornare a casa» dissi, esacerbata dal suo tono profetico. Mi alzai in piedi con cautela, per permettere alle mie gambe di tornare a muoversi normalmente dopo l’intorpidimento che si era diffuso negli arti per la posizione assunta. Con un cenno educato lui mi imitò, affiancandomi appena ricominciai a camminare dalla parte opposta.
«Ti accompagno» fece, servizievole e con un’espressione tanto amichevole e cordiale che non ebbi cuore di rifiutare la proposta.

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


Sta l'empio in agguato del giusto e cerca il modo di farlo morire. Ma in suo potere non lo lascia il Signore, né permette la sua condanna in giudizio.
Salmi 54, 4-5.







15.







Camminando in silenzio per tutto il tragitto, io immersa in pensieri che avrei voluto cacciare dalla mia mente e lui intento a fissare ogni dettaglio della strada, giungemmo in fretta di fronte a casa mia. Non vedevo l’ora di varcare quella soglia ed entrare in cucina, l’unico luogo che in quel momento potesse darmi delle certezze.
«Eccoci arrivati». La mia voce, dopo essere stata a lungo trattenuta, suonò strana anche a me, quasi gracchiante, come se non mi appartenesse. Mi voltai verso di lui, con l’urgenza di congedarmi e tornare in un luogo sicuro dove riordinare con calma i miei pensieri o, ancora meglio, decidere di non farlo.
Quando però i miei occhi incontrarono i suoi, così tersi, di nuovo non potei fare a meno di notare quanto il suo viso sembrasse lontano anni luce dall’essere minaccioso. Sembrava non essere stato concepito per ospitare rabbia o qualsiasi altro intenso sentimento negativo. Mi fissò aspettando con educazione che fossi io a spezzare il silenzio che si era formato tra noi come qualcosa di tangibile ed estremamente difficile da infrangere.
Finalmente mi decisi a farlo. «Grazie per…» mi interruppi prima di dire la favola e corressi subito la direzione che stavano prendendo le mie parole. «…per il racconto».
«Non c’è di che, da sola non saresti mai venuta a conoscenza della verità, le fonti ufficiali sono importanti, ma non sufficienti. Grazie a te per avermi ascoltato». Mi sorrise con gentilezza, causando nuovamente lotte furibonde tra i miei sentimenti, così terribilmente contrastanti. Era chiaro che fosse un pazzo fanatico, colto da un fervore religioso che mi dava il voltastomaco, ma lì, in piedi con quell’aria serena e tranquilla…non riuscivo a vedere in lui qualcosa di pericoloso, né ad odiarlo come avrei dovuto dopo avermi riempito la testa di sciocchezze e fatto schizzare il cuore in gola in casa mia.
«Allora…ci vediamo» mormorai, cercando qualcosa di più intelligente da dire, ma ritrovandomi con la mente sgombra di idee.
«Sì. A presto». Con un cenno di saluto fece per allontanarsi, poi ricordai improvvisamente i discorsi di mia madre della sera prima. «Che cosa fai per la festa del quattro luglio?» domandai, intimidita senza sapere nemmeno il perché.
«Non ho mai festeggiato».
«Io e mia madre abbiamo pensato…beh, lei ha pensato…di organizzare una grigliata nel nostro giardino. Non saremo in molti, conto di invitare anche i miei amici, già li hai conosciuti. Ti andrebbe di venire?»
Il suo sguardo, anche se in modo poco evidente, celava stupore, come se nemmeno lui credesse che lo invitassi spontaneamente. Forse da parte mia era un modo per mettermi nei guai da sola, dato che grigliata e pranzo andavano a braccetto con forchette e coltelli, oggetti appuntiti a cui era meglio che Samuel non si avvicinasse.
«Promettendomi di non spaventare gli invitati con strane storie sui Demoni» aggiunsi. Le sue labbra si arricciarono, segno che aveva colto la battuta, ma scosse la testa.
«Ti ringrazio, Amber, sono lusingato, ma non credo sia una buona idea. Sarebbe piuttosto strano per i tuoi amici vedere uno degli invitati non toccare né acqua, né cibo».
Ah giusto…ancora la storia della creatura divina lontana dai piaceri mondani.
«D’accordo, ho capito che intendi. Passa una buona giornata allora, spero tu non sia da solo».
«Nessun pericolo, c’è Dahlia con me».
«Dahlia?»
«La ragazza con cui vivo».
Oh. Conviveva con una ragazza. Per qualche secondo mi sentii quasi indispettita per il fatto che non mi avesse detto nulla, ma poi mi rimproverai tra me e me. Non erano affari miei, perché mai avrebbe dovuto dirmelo? In fondo, aveva a cuore soltanto di comunicarmi il suo destino di sovrintendente divino sulla terra e i suoi scontri con l’Angelo Caduto Simon. Sperai che il mio viso non mostrasse troppa sorpresa.
«È anche lei…un…Angelo?» Detta da me la parola Angelo suonò ancora più ridicola che in bocca a lui.
«Una cosa del genere». Si infilò le mani in tasca, mi regalò un cenno del capo a mo’ di saluto, fece dietro front e lo vidi sparire in fondo alla strada.

Chiamare papà fu l’idea migliore che mi balenò in mente per non soffermarmi troppo a riflettere sugli argomenti toccati quel pomeriggio. Quando rispose al cellulare la sua voce riuscii a scacciare il disagio che mi sentivo addosso, la consapevolezza che qualcosa non stesse andando per il verso giusto, la stessa di quando guardavo Samuel negli occhi e mi domandavo se qualcuno fosse in casa dietro quello sguardo limpido e gentile. Che cosa gli passava nella testa? La sua follia, per quanto educata, mi lasciava spiazzata, non tanto perché pensavo celasse una minaccia, bensì perché mi era difficile anticipare le sue mosse. Ogni volta che pensavo di aver sentito abbastanza stronzate, ecco che se ne usciva con storie bizzarre. La stessa nascita della sua presunta razza era assurda, il racconto di un Dio che se la prende con il genere umano e decide di spazzare via ogni forma di vita con un diluvio evitato solo a pochi eletti. Non ci avevo mai creduto e sentirlo tirare in campo con serietà provocava in me l’istintiva voglia di ridere, ma i miei sentimenti spontanei erano frenati dal dubbio di come avrebbe reagito il ragazzo.
Era una situazione più strana di quelle a cui ero abituata, ed era tutto dire dato che non avevo certamente degli amici del tutto dentro gli schemi. Louis era un uragano umano, tanto socievole ed estroverso da mettermi spesso in imbarazzo, mentre la piccola, delicata Jennifer, così apparentemente fragile, ascoltava metalcore a tutto volume ed era affascinata da tutto ciò che c’entrava con la morte…tranne la vista del sangue, ovviamente.
Samuel avrebbe potuto semplicemente essere una delle tante altre conoscenze stravaganti. L’idea non mi sarebbe dispiaciuta, tutto sommato era bello parlare con lui. Avrei avuto voglia di sentirgli raccontare qualcosa di sé, della sua vita, la sua vera vita, i suoi sogni, la musica che amava ascoltare, i programmi preferiti alla tv. Ma qualcosa mi diceva che non sarei mai riuscita ad avere con lui una conversazione normale.
Il tono di papà era intriso di un entusiasmo fanciullesco, che riuscii a contagiarmi almeno finché non mi domandò cosa facessi per la festa del 4 luglio. Il mio intento era invitarlo a pranzo, ma mi anticipò chiedendo a me di unirmi a lui e Trudy per un pic-nic al lago.
La delusione fu un pugno nello stomaco, abbastanza intensa da farmi sfiorare l’idea di mentire a mia madre e di dirle che non potevo partecipare al pranzo, che Louis e Jennifer in realtà avevano in mente altro e sgattaiolare via di nascosto per trascorrere la giornata con papà e la sua ragazza. Sarebbe stato molto meglio che avere mamma che mi ronzava intorno per correggermi su cose che in realtà non sapeva come gestire, ad esempio la cottura della carne, i condimenti, la disposizione delle posate.
Ma poi a frenare i miei propositi, tutt’altro che onorevoli, comparve il ricordo della sera prima, dell’imbarazzo che avevo scorto sul volto della donna nel chiedermi di passare insieme la festività. Non accadeva spesso che proponesse qualcosa del genere ed erano mesi ormai che non facevamo attività interessanti insieme. Aveva anche modificato la sua idea iniziale e deciso di invitare anche i miei amici e papà, per quanto la loro presenza nella stessa stanza generasse automaticamente un po’ di tensione. Tutto sommato, era stata piuttosto disponibile e mi sembrava una violazione morale raccontare una balla e piantarla in asso con il suo entusiasmo.
Perciò, malgrado sentissi già la mancanza di papà, rifiutai l’offerta e lo salutai, augurando a lui e a Trudy di divertirsi e di godersi la vista del lago anche per me. Non avrei potuto passare da loro nemmeno il pomeriggio seguente, dato che sarebbero andati in un centro benessere per qualche giorno fuori città. Con Trudy papà era diventato una persona decisamente più rilassata.
Mamma mi chiamò poco dopo per avvertirmi, come spesso accadeva, che avrebbe mangiato qualcosa in ufficio, perciò cenai sola, immersa in un silenzio totale, quasi ipnotizzante. Quando rientrò in casa mi trovò in cucina, seduta direttamente sul tavolo con una gamba penzoloni e una piegata sotto al sedere. Da qualche minuto avevo perso la sensibilità, ma non me ne curavo. Avrei avuto il tempo di pentirmi di quella posizione al momento di tornare a muovere gli arti. Sulle gambe avevo posato un libro di cucina, con l’intento di prendere spunto su come il menù avrebbe potuto articolarsi. Altri due giacevano aperti accanto a me, già consultati.
Avevo compiuto due errori a proposito del pranzo e di mia madre.
Il primo fu quello di aver creduto che il suo entusiasmo si sarebbe smorzato con l’avvicinarsi del fatidico giorno, ma così non fu. Appena fece capolino dalla porta della cucina il suo sorriso smentii ogni mio sospetto. Quando il tempo di posare la borsetta e già era accanto a me, interessata a ciò che stavo cercando tra i ricettari. Mi porse un foglio fitto della sua elegante scrittura. Il testo era organizzato su due colonne, una dedicata ai possibili ospiti, l’altra ad un menù abbastanza elaborato da farmi capire che quel giorno i suoi pensieri non avevano compreso solo facoltosi clienti e liti tra società, sebbene mi fosse difficile figurarmela chiusa in ufficio e intenta ad organizzare il pranzo del quattro luglio.
Per quanto concerneva la varietà delle pietanze, non avevo obiezioni. Erano tutte buone idee e facilmente realizzabili. Una rapida letta alla lista degli invitati bastò per darmi un’idea di quali persone dovessi accogliere. Oltre ai miei immancabili amici, ero lieta di sapere che sarebbe venuta anche Catherine. Ricordavo vagamente il volto di un tale Tim Fisher, un collega più anziano di mamma, mentre non avevo la minima idea di chi fosse l’ultimo ospite, Leroy Spencer. Evitai di storcere il naso di fronte a mia madre, ma sebbene mi avesse assicurato che era simpatico, il nome creò istintivamente nella mia testa l’immagine di un uomo di mezz’età, all’inizio di un’inevitabile calvizie e ingessato in un completo elegante. L’emblema umano della noia, tuttavia non questionai sulla scelta dei partecipanti. Se mamma avesse avuto qualcuno con cui parlare di contratti, almeno io e i miei amici avremmo potuto avere un po’ di privacy per una conversazione più rilassata.
Il secondo errore fu essere certa che mamma non avrebbe alzato un dito per aiutarmi con la preparazione. I
l giorno dopo un biglietto sul frigorifero annunciava che nella pausa pranzo o di ritorno dal lavoro avrebbe pensato lei a fare la spesa per procurarsi tutto l’occorrente. Quella sera la vidi entrare in casa carica di borse e pacchetti contenenti di tutto, e arrancare verso la cucina con uno sguardo determinato e soddisfatto.
Sebbene non la lasciassi avvicinare troppo ai fornelli, insistette per darmi una mano almeno nelle cose più elementari. La sera del tre luglio metà del menù era già pronto e riposto in frigo a riposare per la grande giornata che ci aspettava.
Dei rumori indefiniti mi svegliarono il mattino seguente. Mi alzai in fretta temendo che mamma stesse mettendo pericolosamente mano a ciò che avevo cucinato, ma la trovai in giardino impegnata nella disposizione di un paio di tavoli pieghevoli e nel trasporto di piatti e bicchieri dalla cucina. Con mia enorme sorpresa indossava qualcosa che non le vedevo mettersi addosso da così tanto tempo, che mi ero scordata che aspetto avesse senza i soliti eleganti abiti da lavoro. Un paio di jeans le fasciavano le gambe magre e una semplice maglietta la faceva sembrare più giovane di quanto fosse. Sul petto aveva stampata la scritta I love San Francisco in un acceso rosso. L’ultima volta che gliela avevo vista indosso portavo ancora l’apparecchio ai denti. Blu, rosso e bianco, i colori della nostra bandiera e gli stessi che facevano parte della tradizione del quattro luglio.
Riuscì a tagliare le verdure per la grigliata e una grossa pianta di lattuga senza rimetterci un dito e con un certo orgoglio mi assicurò che avrebbe pensato lei ai drink.
Alla comparsa dei primi invitati tutto era pronto a parte la carne, e le verdure già poste a sfrigolare sul barbecue. Zucchine, melanzane e peperoni per cominciare, poi la tradizione prevedeva un’abbondante grigliata di carne, hot dog, uova, insalate, salse e un mucchio di altre cose in grado di rovinare la linea all’istante.
Appena i volti allegri di Louis e Jennifer spuntarono dalla porta della cucina, ebbi il tempo per un fugace abbraccio, prima che si gettassero come dei lupi affamati sul piatto delle pizzette. In una decina di minuti loro due da soli riuscirono a spazzolarle tutte. Di Louis ormai non mi stupivo più, ma la forza dell’abitudine tendeva a risultare fallimentare con Jenny, tanto che ancora mi meravigliavo di come un individuo minuto come lei potesse avere un appetito così bestiale.
Proprio come avevo immaginato, si crearono due gruppi ben distinti che solo di tanto in tanto si mescolarono per qualche parola: gli adulti da una parte a parlare per lo più di lavoro, finanza, economia, e ogni sorta di cose noiose, e i quasi-adulti dall’altra, capitanati da Louis che come al solito non ci pensò due volte a catturare su di sé l’attenzione. Era difficile non notarlo, con i pantaloni rossi e la maglietta con la stampa dell’orso Yoghi, secondo lui perfetta per esaltare il patriottismo, dato che la bandiera della California ritraeva proprio un orso.
Avevo capito che qualcosa bolliva in pentola non appena avevo notato le guance tinte lievemente di rosa per l’emozione, gli occhi lucenti e il sorriso ancora più ampio del solito.
«Vi rendete conto? Abbiamo passato al telefono quasi un quarto d’ora!» esclamò, raggiante, riferendosi ovviamente al suo barista preferito. Per quante volte lo nominò mi parve che Jude fosse lì con noi, con la sua seducente presenza. Se messo in confronto a tutto il tempo dedicato alle nostre conversazioni telefoniche, quel quarto d’ora poteva sembrare irrilevante, ma dal suo tono di voce e dal viso radioso, capii che per lui era un risultato grandioso.
«Ha detto che dopo l’incidente c’è stato un po’ di trambusto al locale. La polizia ha interrogato tutti più di una volta e ancora gironzola da quelle parti».
Con uno sbuffo lo guardai di sottecchi. «Incidente? Chiamarlo così mi sembra un tantino riduttivo» mormorai, mentre la mia mano correva senza poterla controllare al foulard che anche quel giorno mi avvolgeva la gola. Dopo averlo usato per la corsa al parco mi ero accorta che tenerlo era più facile di dover ignorare gli sguardi di chi mi passava accanto, o fornire spiegazioni. Tutti i presenti sapevano che ero stata in ospedale, preferivo risparmiare ai miei ospiti un disagio altrimenti inevitabile. Un utile tocco di stile.
«Sai cosa intendevo» fece il ragazzo. «Pare che quello che è successo comunque non abbia danneggiato il locale. Anzi, Jude ha detto che dopo i primi giorni di chiusura, la polizia li ha autorizzati a riaprire e la clientela è addirittura raddoppiata!»
Jennifer si infilò in bocca una mangiata di patatine e masticò rumorosamente. Poi sorrise. «Non posso dare loro torto, in un’ambientazione come quella del Mephisto una persona quasi uccisa in bagno è una cosa fichissima!»
Il sorriso le morì sulle labbra un secondo dopo aver pronunciato quelle parole e il suo sguardo precipitò verso il basso. «Ora che ci penso suonava peggio di quello che intendevo. È ovviamente orribile che sia successa una cosa del genere. Mi dispiace, Amber» si scusò in un soffio di voce.
Mio malgrado mi scoprii a ridacchiare. Le avvolsi le spalle in un abbozzo di abbraccio, automaticamente sentendo dentro di me crescere l’affetto che provavo per quella strana ragazza. «Non preoccuparti, resti sempre e comunque la mia piccola amica macabra preferita» . L’appellativo sembrò piacerle, perché i suoi occhi grandi e scuri tornarono a rasserenarsi.
«Lieta di sapere che grazie a me gli affari vanno alla grande» continuai. Louis annuì felice come un bambino la mattina di Natale.
«E non è finita qui» aggiunse.
«Non dirmelo, non hanno nemmeno ripulito il sangue e fanno pagare una quota extra per chi vuole visitare il bagno degli uomini? Fa molto splatter» suggerii.
«No…» Il ragazzo trattenne il fiato, poi fece un sospiro profondo e tremulo e parve sputare le parole che seguirono come se trattenerle fosse divenuto doloroso. «Mi ha chiesto di vederci ancora. Non è fantastico?»
Era molto più che fantastico, era meraviglioso. Mi complimentai con lui, abbracciandolo stretto e pensando che dopo tanto tempo finalmente qualche ragazzo si era accorto di che persona favolosa fosse Louis. Certo un po’ esuberante, rumoroso, invadente a volte, ma unico. Jenny partecipò con un grugnito di apprezzamento, impossibilitata a dire qualcosa di più articolato a causa di metà uovo farcito di cui si era riempita la bocca. Poi, con un’eleganza insolita per quell’esagerata manifestazione di fame, si pulì con classe la bocca sul tovagliolino di carta, lasciando lo stampo del rossetto, come prova che Jennifer la locusta famelica era passata di lì.
«Lo hai conquistato, Louis» dissi, guardando il mio migliore amico con fierezza.
Qualcuno si schiarii la voce alle mie spalle, catturando la mia attenzione. Quando mi voltai mi trovai a guardare da sotto in su un giovane uomo che non avevo mai visto in vita mia. I capelli brizzolati potevano trarre in inganno a proposito della sua età, ma il viso privo di rughe e ancora morbido come quello di un ragazzo mi suggerì con non aveva raggiunto i quaranta. Aveva labbra sottili e occhi grigi dal taglio lievemente affilato. Sopracciglia scure incorniciavano uno sguardo intelligente e attento, fisso su di me.
«Amber, presumo». La domanda fu puramente retorica, spazzata via da un suo sorriso. Non era propriamente bello, lontano dai tratti perfetti di un modello, tuttavia era attraente e possedeva un fascino di cui molti begli uomini erano privi. Prima che dicessi qualcosa o che potessi almeno annuire, mi tese la mano. Una stretta salda mi parlò di lui come di un uomo sicuro di sé e carismatico. «Leroy. Sono un collega di tua madre, lei mi ha parlato molto di te».
Ne dubitavo, ma gli concessi quella bugia nata certamente dalla gentilezza, troppo intenta a fissarlo per questionare. Avevo capito bene? Leroy? Quel Leroy, che solo qualche giorno prima avevo catalogato come avvocato di mezz’età, semi-calvo, flaccido e ingessato? Non avevo di fronte nulla di ciò che avevo previsto e quasi non riuscivo a crederci, come se ritenessi le mie idee più affidabili dei sensi. Il suo aspetto era tutt’altro che insignificante e non era affatto ingessato. Indossava una t-shirt totalmente inadatta ad un prestigioso studio legale, con la bandiera degli stati uniti stampata sulla stoffa a colori intensi. Parte delle stelle si perdevano nella curva della spalla sinistra.
Quando ritrovai la facoltà di emettere suoni mormorai un piacere piuttosto flebile.
«Hai fatto davvero un ottimo lavoro qui, vedo. Se il pranzo si prospetta buono tanto quanto lo suggerisce l’aspetto, allora temo che a fine giornata faticherò ad alzarmi dalla sedia».
«Mamma mi ha dato una mano».
«Trish? Improbabile. Lei stessa mi ha detto di essere un completo fallimento ai fornelli, se non avessi avuto la sua parola che fossi tu a cucinare, non credo sarei venuto qui oggi». Era una critica o semplice manifestazione di umorismo? Qualsiasi cosa fosse sorrisi.
«Ha solo preparato l’ambientazione e i drink. Non dovrebbe esserci nulla di tossico…credo. Spero che il pranzo sia di suo gradimento».
Annuì, camminando in direzione di Tim e Catherine, ma si voltò un’ultima volta nella mia direzione. «Lo spero proprio, con un ristoratore in famiglia ho gusti piuttosto difficili. Henry mi ha abituato bene».
Appena distolse da noi il suo sguardo magnetico, Louis si avvicinò a me sussurrandomi in un orecchio. «Ho capito bene? Leroy è il fratello di Henry Spencer? A mio padre non basterebbe una settimana di stipendio per permettersi una cena nel suo ristorante».
Attraente, giovane, con il senso dell’umorismo e fratello di uno dei più noti ristoratori non solo in Civic Centre, ma in tutta San Francisco. I colleghi di mamma erano meno noiosi di quanto pensassi.

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


Un doveroso ringraziamento va a Fallen99 per avermi regalato un commento e allietato la giornata. Grazie per la recensione lusinghiera! :D Ora entriamo nel vivo dell'azione. Da questo momento in poi di calma ce ne sarà poca. Spero vi piaccia!




Allora il Signore Dio disse al serpente: «Perché hai fatto questo, maledetto sii tu fra tutto il bestiame e tra tutti gli animali della campagna: sul tuo ventre dovrai camminare e polvere dovrai mangiare per tutti i giorni della tua vita. Ed io porrò un’ostilità tra te e la donna e tra la tua stirpe e la sua stirpe: essa ti schiaccerà la testa e tu la assalirai al tallone».

Genesi, 3, 14-15.







16.








I fuochi d’artificio venivano sparati a nord di Pier 39 alle nove e mezza in punto della sera, dopo un’intera giornata dedicata alle celebrazioni. La musica era la principale protagonista dell’evento, soprattutto nelle sue varie sfumature jazz e blues. Amante com’era di quel genere di musica, Chris spesso passava tutto il pomeriggio con gli amici al molo e più di una volta aveva accompagnato gli artisti di strada con qualche giro di chitarra e con la sua splendida voce, mentre io guardavo lui con ammirazione e orgoglio. Era nato per la musica, ce l’aveva nel sangue sebbene sapesse che un futuro in quel mondo fosse troppo incerto per lui. Non aveva bisogno di un palco o di contratti musicali, ogni giorno scendeva le scale dalla camera al salotto con una nuova canzone sulle labbra, cantando a voce alta fin quasi ad infastidirmi per l’eccesso di felicità che si portava addosso come un abito.
Quella sera evitammo gli spettacoli che non concernessero i fuochi, ma sapevo che una parte di Chris avrebbe accompagnato i miei passi in ogni istante sul pavimento in legno del pontile.
Pier 39 era un centro commerciale e turistico che spuntava come un’appendice a lato di Fisherman’s Warf, l’area portuale della città. Il fatto che pullulasse di negozi e attrazioni, e che la vista potesse spaziare fino a raggiungere Alcatraz e il Golden Gate Bridge, la rendeva zona appetibile per i visitatori. I bambini adoravano il fatto che sui pontili durante il giorno si vedessero famiglie di leoni marini per nulla infastiditi dalla presenza umana.
Dopo diverse ore passate a mangiare e spilluzzicare, a bere, a chiacchierare e a fare a gara a chi riusciva a centrare un bicchiere sputando i semi del cocomero (il flaccido e ingessato Leroy fu il primo a proporsi), arrivammo lì con solo un quarto d’ora di anticipo, quando già la gente formava una ressa su tutto il molo.
Qualche cantante intonava ancora le ultime note, mentre le barche ormeggiate quasi non si riuscivano a scorgere con tutta la gente in attesa di vedere le prime scintille in cielo. Solo qualche corda e gli alberi svettavano come punti di riferimento inghiottiti dal cupo blu del cielo.
Louis non riusciva a stare fermo nemmeno per cinque secondi, visibilmente in fibrillazione per lo spettacolo pirotecnico, canticchiando con voce stridula le prime strofe di Fireworks, di Katy Perry. Per intrattenerlo e soprattutto per far cessare i suoi gorgheggi durante l’attesa io, lui e Jennifer decidemmo di permetterci un giro sulla giostra in fondo al molo, nonostante fossimo circondati da bambini e fossimo i più anziani a salirci. Evitai di sgridare Louis quando quasi si mise a litigare con una bambina di sei anni per il possesso di un cavallo particolarmente bello, limitandomi a gettargli un’occhiataccia piuttosto chiara, che lo rimise subito in riga.
Uno accanto all’altro poi, passeggiammo lungo tutto il molo, guidati dall’odore di fritto, di pesce e dalla luce dei lampioni, stesa sul pavimento come un velo di un tenue giallo.
Osservai in silenzio le coppie camminare a braccetto, gruppi di ragazzini che ridacchiavano certamente per qualche sciocchezza, come facevo sempre io con i miei amici, tornati improvvisamente bambini davanti al venditore di zucchero filato, che a detta di quanto la folla fosse punteggiata di nuvolette rosa, ebbe un discreto successo quella sera.
Cinque minuti dopo stringevamo anche noi tra le dita quelle delizie proibite e sebbene non avessimo affatto bisogno di assumere altri zuccheri dopo un’intera giornata circondati dal cibo, era troppo divertente guardare i miei amici lottare nel tentativo di dare morsi senza rimanere appiccicati, e faticare io stessa nell’impresa. Era impossibile mantenere un contegno in un contesto simile.
«Ero certo che ti avrei trovata qui». Una voce alle mie spalle mi fece sussultare. Mi voltai di scatto, troppo attratta dalla familiarità di quel tono per ricordarmi del fatto che un baffo di zucchero filato mi spuntava dalle labbra. Ma lo sguardo di Samuel non mostrò traccia di scherno. Mi indicò tranquillamente la bocca, enigmatico e imperscrutabile come sempre.
«Hai un po’ di zucchero lì. Jennifer, Louis, è un piacere incontrarvi ancora».
Mi pulii in fretta, guardandomi attorno, ma accanto a lui non vidi nessuno. Senza volerlo più di una volta dopo la sua confessione lo avevo immaginato assieme alla sua ragazza, cercando di figurarmi il suo aspetto e di capire come potesse stargli accanto nonostante la sua evidente devianza mentale. Senza fermarsi a questo dettaglio non era difficile trovare affascinante l’innocenza dipinta costantemente sul suo volto, ma se questa Dahlia avesse avuto un po’ di sale in zucca non si sarebbe fidata ciecamente di un tipo così.
«Sei solo?»
«Dahlia lavora al canile, è rimasta lì questa sera dato che i cani sono terrorizzati dal rumore dei fuochi d’artificio. Io ho pensato che fossi nei paraggi, quindi eccomi qui.»
Ero consapevole dello sguardo di Louis che pesava su di me, inquisitore e curioso, ma non fece in tempo a dire la sua perché un primo tuono in lontananza segnalò l’inizio dello spettacolo. Come se un incantesimo avesse colpito nello stesso istante tutti i presenti, non ci fu un solo sguardo che non scattò automaticamente al cielo, quando esso si illuminò di nuove stelle artificiali e colorate. La mia attenzione era frammentata in due, una parte diretta a quella meraviglia, l’altra convogliata nella persona che mi stava alle spalle. Averlo improvvisamente accanto mi riempiva ancora la mente di tutte le sciocchezze raccontatemi solo qualche pomeriggio prima al parco. Era ovvio che non ci credessi, ma era più forte di me, le sue parole mi seguivano ovunque.
«Lo sapevi che sono stati i monaci cinesi a inventare i primi fuochi d’artificio?» mormorò, a pochi centimetri dal mio orecchio. Prima che potessi rispondere si corresse.
«A dire il vero è più opportuno dire che inventarono la pirotecnica, creavano esplosivi mescolando tra loro diverse sostanze, poi usate principalmente a scopi bellici».
«L’ho sempre detto che non c’è da fidarsi degli uomini religiosi» lo provocai, la lui proseguì senza dar segno di aver colto quella sorta di offesa.
«Poi la tecnica fu appresa da altri popoli e si diffuse nel Medioevo nel resto del mondo, usato anche per le principali celebrazioni. Non ti sembra incredibile e magnifico che un’arma sia divenuta una forma d’arte tanto suggestiva?» I suoi occhi celesti erano fissi sull’oggetto della nostra conversazione, tanto tersi da accoglierne il riflesso. Riuscivo a scorgere i diversi colori nello specchio lucente delle sue iridi.
«Fammi indovinare. Quando sono stati inventati tu eri presente. Perché no, magari eri proprio tu uno di quei monaci. Avevi gli occhi a mandorla all’epoca?» Mi guardò con aria tanto tranquilla che mi sembrò quasi crudele prenderlo in giro. Di certo non lo meritava, ma avevo un dono naturale per il sarcasmo e con lui era estremamente facile usarlo.
«Come ho detto sono nato in quello che voi definite tardo Medioevo, quando la pirotecnica era una procedura già consolidata. So che seicento anni d’età potrebbero sembrarti un’eternità, ma il mio nome è la prova che non è così per gli Angeli».
«Hadas…nuovo. Ecco perché ti chiami così».
«Ogni Angelo che conosco mi considera l’ultimo arrivato, un novellino. Io non me la prendo, in fondo è la pura e semplice verità. Non mi stupirebbe se attribuissero i miei recenti errori ad una scarsa esperienza». Mi rivolse un sorriso confortante. «Ovviamente non è così. Sapevo ciò che stavo facendo, non è stata una semplice svista».
I fuochi d’artificio, da piccoli razzi di riscaldamento divennero sempre più grandi ed elaborati. Nel cielo scuro si aprirono ampi cerchi rossi, all’interno dei quali subito dopo lo spazio venne riempito da altri cerchi più piccoli di un bel blu elettrico. I colori dell’America, che quel giorno si ritrovavano un po’ ovunque. Accanto a quasi ogni negozio sventolava la nostra bandiera, mossa dal respiro di una leggera brezza marina. La sera era perfetta, il vento aveva spinto via le nuvole e ogni traccia di nebbia, come se Dio stesso lo avesse mosso affinché la vista non ne risultasse impedita.
Un secondo. Avevo davvero pensato che fosse opera del Signore? La vicinanza di un presunto Angelo mi stava danneggiando le cellule cerebrali.
«Anche Dahlia è così giovane?»
«Oh, non direi. Lei è una dei primi Mal’ak creati».
Aggrottai la fronte. «E non ti impressiona che la tua ragazza sia mostruosamente più vecchia di te?» Scherzai. Se solo la sua ammissione fosse stata realtà, la sua fidanzata doveva avere…l’età dell’arca di Noè, anno più, anno meno.
Fu il suo turno di gettarmi un’occhiata confusa. «Dahlia non è la mia ragazza, è escluso che un Angelo abbia un partner. Non siamo stati originati per procreare».
Rimasi in silenzio per qualche istante, mentre gli ultimi fuochi gettavano lampi di luce sulla folla, che di tanto in tanto mostrava il suo apprezzamento con qualche gridolino. I bambini erano i più coinvolti. Loro e Louis, naturalmente.
Non ero sicura di cosa pensassi delle sue parole, probabilmente ero sollevata che una ragazza non dovesse sorbirsi tutti i giorni le sue manie bibliche. A questo punto cominciavo a dubitare dell’esistenza di Dahlia, e a chiedermi quali altri cose potesse ancora inventarsi. Fui sul punto di chiederglielo, ma le mie parole fossero spezzate da qualcosa di pesante che sentii venirmi addosso. Un ragazzo più giovane di me e decisamente di fretta mi guardò mortificato. I suoi occhi si posarono sul mio seno, ma sapevo che non vi era nulla di provocatorio in quel gesto. Quando abbassai il mio sguardo capii la situazione: una generosa quantità di ketchup mi macchiava la maglia sul torace, e una manciata di patatine fritte giaceva ai miei piedi dopo lo scontro.
«Accidenti, mi dispiace un sacco!» esclamò il ragazzino. Accettai le scuse che mi rivolse ancora per qualche istante prima di riuscire a liberarmene. «Immagino di aver bisogno del bagno».
Samuel mi indicò una delle tavole calde e mi accompagnò, aspettandomi all’esterno mentre con uno sguardo compassionevole la proprietaria, una donnina minuta di almeno settant’anni, mi porgeva le chiavi.
Il bagno delle donne era uno stretto stanzino avvolto in un misto stantio di profumo e sigarette, e la pulizia non era delle migliori. Non osavo immaginare le condizioni del bagno degli uomini. Lo spazio era a malapena sufficiente per ospitare la tazza e un piccolo lavabo che un tempo doveva essere stato di un bianco brillante, ma che aveva detto addio alla sua originaria lucentezza. Lo specchio era un quadrato riflettente senza cornice, a meno che non si considerasse cornice la miriade di scritte volgari e disegnini osceni che lo attorniavano. Le soluzioni erano due, o dei ragazzini erano entrati fregandosene del cartello che indicava la toilette femminile, o il fatto che solo i maschi riempissero i muri di graffiti discutibili era solo un luogo comune.
Una volta mi era capitata l’occasione di scrivere qualcosa sulle pareti di una stazione, ma avevo dieci anni e nessun pensiero impuro mi era ancora passato per la testa. L’unico nome che riempiva i miei pensieri iniziava per L, lettera che avevo tracciato sul muro già generosamente decorato, circondato da un cuore sghembo. La settimana seguente era già sparito, coperto dalla pittura bianca degli addetti alla manutenzione.
Lessi solo un paio di scritte giusto per soddisfare la mia curiosità, poi valutai allo specchio l’entità del danno sulla mia maglietta. Non era una macchia enorme, ci sarebbe voluto ben più di un po’ d’acqua per liberarmene, ma decisi comunque di tentare il possibile per migliorare le condizioni di un indumento che avrei dovuto indossare per il resto della sera. Feci scivolare via dalla gola il foulard e mi sfilai la maglietta restando in reggiseno. Sulla pelle pallida del mio torace spiccava un alone rosso che lavai via con facilità. Quando mi dedicai alla maglietta fuori sul molo sentii i botti che annunciavano la fine dello spettacolo e gli applausi della folla. Sfregai con foga la stoffa e la traccia di ketchup impallidì sempre più. Volevo ottenere risultati migliori, ma il tremolio della luce sul soffitto mi rese il compito più difficile. Il neon ronzava e tossicchiava alternando istanti di buio e istanti di luce fredda tra le pareti sudice dello stanzino. Un rumore metallico improvviso mi fece sussultare e cadere la maglia. Mi guardai intorno in ascolto, quasi trattenendo il respiro per individuare la fonte del suono, che si ripeté una, due volte.
Sembrava provenire dal lavabo.
Mi avvicinai, senza riuscire a distogliere lo sguardo dal movimento sussultorio del tappo infilato nello scarico.
«Ma che diavolo…» C’era qualcosa di strano, qualcosa che spingeva contro il tappo per uscire, forse un insetto o qualcosa di altrettanto piccolo. Mi meravigliai della mia audacia, che spinta dalla curiosità mise a tacere ogni indecisione. Con la punta delle dita afferrai il tappo di metallo e tirai. Qualcosa luccicava all’interno, difficile da identificare a causa dei capricci dell’elettricità, ma un sibilo prolungato mi gelò il sangue e pochi istanti dopo la piccola testa e il corpo allungato di un serpente emersero dallo scarico.
Mi ritrassi di scatto fino alla porta, il respiro mozzato in gola e un desiderio intenso di fuggire di lì a gambe levate. Mi aggrappai alla maniglia ma la porta non si mosse di un centimetro, nemmeno quando insistetti, strattonando e mettendoci tutta la forza che possedevo. Il serpente strisciò con una lentezza estenuante sul bordo del lavandino, in un suggestivo contrasto tra il chiarore della ceramica e la tonalità marrone scuro delle scaglie. Si avvolse ai tubi e scese fino a terra, guardandomi con occhi piccoli e lucenti e puntando direttamente verso di me. Il suo corpo creava una esse perfetta e sinuosa che avrei potuto anche trovare affascinante, se la bocca del rettile non si fosse aperta a rivelare denti decisamente minacciosi.
Ritentai con la maniglia poi cambiai idea e prenderla a pugni mi parve la cosa migliore.
«Ehi!» gridai. «Aprite! Per favore, aprite la porta!» La colpii fino a che le mani non cominciarono a dolere, ma nemmeno gettandomi di peso contro di essa riuscii ad ottenere qualcosa.
«Aiuto! Samuel! Per favore, Samuel, apri la porta!» Doveva essere là fuori ad aspettarmi, aveva detto che sarebbe rimasto con me. Chiamai il suo nome così tante volte e a voce così alta che gli ultimi tentativi mi uscirono dalle labbra come un suono strozzato. Mi lasciai scivolare contro la porta, fredda a contatto con la pelle nuda della schiena. Il serpente non era a nemmeno mezzo metro da me, e oltre il bagno riuscii a percepire il motivo per cui le mie grida erano state ignorate. Centinaia di persone riunite al molo, come tradizione voleva, stavano intonando The Star-Spangled Banner, l’inno nazionale. Era impossibile farmi sentire in quella situazione, se solo fossi riuscita a stare lontano da quella bestia fino alla fine della canzone e degli applausi forse…
Il neon regalò alla stanza gli ultimi deboli bagliori, poi il buio inghiottì ogni cosa. Premetti il più possibile il mio corpo contro la porta, mentre il sibilo si faceva sempre più vicino, e mi rannicchiai raccogliendo le ginocchia contro il petto come se solo quello potesse proteggermi. Razionalmente sapevo che era un’illusione, ma non potevo fare nulla contro l’impulso di chiudermi a riccio e non permettere alla realtà di minacciarmi.
Sentii l’animale avvicinarsi, lo spazio disponibile era così scarso che non potevo fare altro che restare immobile, sperando che la mancanza di movimenti bruschi da parte mia bastasse a rassicurare il serpente. La mente macinava pensieri e domande. Che ci faceva quella cosa lì? Mi avrebbe fatto del male? Perché la porta non si apriva, dato che ero certa di non averla chiusa a chiave? La paura stava raggiungendo livelli tali che le risposte erano inaccessibili, pur sforzandomi di ragionare a mente lucida e di classificare quel dannato serpente. Velenoso o innocuo? Due parole fondamentali che mi ronzavano nelle orecchie come se qualcuno le avesse pronunciate ad alta voce solo qualche istante prima. Il buio non mi permetteva di scorgere nulla, la sottile lama di luce che spuntava da sotto la porta non rischiarava neppure un centimetro di pavimento, ma la mia immaginazione riuscii da sola a terrorizzarmi ancora di più. Gli occhi della mente si misero al lavoro per figurarsi il lucido corpo del serpente, il suo procedere fiacco a zig zag, la lingua schizzare fuori a saggiare l’aria. Tremavo, ma ero madida di sudore come nei peggiori pomeriggi di afa, i capelli mi erano scivolati sul viso e mi solleticavano la pelle, ma non avevo il coraggio di spostarli né di muovere un muscolo. Mi resi conto che avevo trattenuto il fiato quando il respiro mi uscì dalle labbra in una sorta di singhiozzo.
L’inno era alle ultime strofe, il boato di applausi confermò il suo termine e diede maggior forza alla mia decisione. Incamerai aria e con tutto il fiato e la voce che avevo in corpo mi misi a strillare.
«Samuel!» Accompagnai le grida con altri colpi alla porta, di nuovo fino a farmi male.
Nella totale oscurità non mi fu possibile vedere il corpo del rettile tendersi e la testa scattare in avanti fulminea, ma percepii ogni millimetro dei suoi denti conficcarsi nella mia caviglia. Gridai, attraversata da una scarica di dolore che mi lasciò senza fiato. Non sapevo a cosa paragonarlo, ma avrei scommesso che infilare la gamba nel fuoco non fosse tanto diverso. Mi mancò improvvisamente il sostegno dietro la schiena quando la porta si spalancò di colpo, rovesciando all’interno del bagno una valanga di luce. Braccia forti mi tirarono in piedi apparentemente senza il minimo sforzo, stringendomi con fare protettivo.
«Amber, che succede?» Faticavo a respirare regolarmente e a smettere di piagnucolare, i suoni che mi uscivano dalla bocca sembravano sfuggire al mio controllo.
«Stai bene?» Samuel mi fissava attentamente, mi sarei aspettata da lui un’espressione preoccupata, ma non era altro che serio. Sembrava immune a qualunque turbamento, ma lo stesso non si poteva dire della proprietaria della tavola calda, accorsa all’istante e banca come un lenzuolo a causa delle mie grida. Dietro di lei alcuni clienti si erano avvicinati con volti pieni d’apprensione.
«Un serpente. C’era un serpente nel bagno, mi ha morsa!» Rapida e pronta come un membro dei corpi speciali, la donna recuperò da chissà dove una scopa e la brandì aggressiva, mentre Samuel mi metteva a sedere e controllava il punto in cui sostenevo che il serpente mi avesse morso. Sottopelle riuscii a scorgere venature scure che si diramavano seguendo il corso dei capillari, ma fu questione di pochi secondi prima che sparissero senza lasciare traccia alcuna. Non faceva più nemmeno male.
«Sei sicura ti abbia davvero morsa?» Samuel mi fissava con aria diffidente, mentre le sue dita tiepide mi scorrevano sulla caviglia.
«Certo che sono sicura, non mi immagino le cose. Ci deve essere per forza il segno».
La signora uscii dal bagno scuotendo la testa. «Non ho visto serpenti. Cara, sei sicura di averlo visto?» Ecco che ci si metteva anche lei.
«Sì, l’ho visto chiaramente. È uscito dallo scarico del lavandino e poi mi si è avvicinato. La porta non si apriva finché non siete arrivati voi». Mi sentivo circondata dal sospetto, ma sapevo cosa avevo visto.
«Non ci sono tracce di morso, Amber, te lo assicuro».
«Era qui!»
«Non c’è niente».
«Posso aiutare?» Un uomo di mezz’età si fece avanti e si inginocchiò accanto a me osservando la presunta ferita. «Sono un medico, vi ho sentito parlare di un serpente. È stata morsa, signorina?» Annuii in silenzio, solo per sentirmi dire poco dopo anche da lui che mi ero immaginata tutto. Samuel mi strinse il braccio con gentilezza, ma con decisione, mentre avevo il buon gusto di rivestirmi e di sentirmi in imbarazzo. Controllai più di una volta che la donna dicesse il vero e che nel bagno non ci fossero ospiti indesiderati.
Poco a poco l’interesse che avevo suscitato nei presenti andò scemando, finché a fissarmi non rimasero solo in tre, la padrona del locale, il medico e Samuel. Sul suo volto era difficile scovare tracce di qualche emozione, ma la serietà del suo sguardo non faceva presagire nulla di buono.
«Vieni, Amber, usciamo» mormorò, ringraziando brevemente la signora e scusandosi da parte mia, come se avessi dato spettacolo senza motivo e con maleducazione. In pochi secondi fummo di nuovo all’aria aperta.
«Dobbiamo parlare».
«Samuel, te lo giuro quel serpente c’era davvero, l’ho visto! E mi ha morsa, dannazione come potrei inventarmi una storia del genere? Non avrei motivo!»
«Lo so, lo so. Non preoccuparti, ti credo sulla presenza del serpente e persino a proposito del morso. Non ti sei inventata nulla».
«Allora forse è il caso di andare all’ospedale. Non mi fa male, però…non vorrei ignorarlo, con quelle bestie non si scherza».
«Non ne avrai bisogno, lascia fuori gli umani».
Chiusi gli occhi respirai a fondo, cercando dentro di me le parole giuste per rivolgermi al tizio che avevo di fronte, senza permettere alla rabbia di esprimersi al posto mio.
«Hai dieci secondi per raccontarmi cos’hai in mente e convincermi ad ascoltarti ancora. Scegli bene le tue parole». C’era una sfumatura quasi impercettibile di minaccia nella mia voce, un ultimatum a cui non avrei concesso sconti. Due bambini passarono correndo proprio in mezzo a noi, ma senza spezzare il legame che ci univa, senza interrompere il contatto tra la sua mano e il mio braccio. Il tocco di Samuel era tiepido e saldo, ma qualcosa in me stava smettendo di considerare benevola la sua espressione e di considerare sereno quello sguardo. Forse era una pazzia che già avevo scorto, ma che poteva essere più dannosa del previsto. Le risate, le voci e le grida del pubblico sul molo ci facevano da sottofondo musicale, riempiendo l’attesa e accompagnando la mia tensione.
«La spiegazione più ovvia, quella a cui ho pensato fin da quando ti ho tirata fuori da quel bagno, è che Hazaq c’entri qualcosa… no, aspetta prima di rifiutare questa teoria, ne sono quasi sicuro».
«Oh, povera me, io che pensavo che la spiegazione più semplice fosse che un serpente è risalito lungo le tubature. Come ho potuto spingermi fino a questa idiozia?»
Non prestò particolare attenzione al mio aspro sarcasmo, scuotendo la testa con un’aria quasi allucinata. Così impassibile il più delle volte, era inquietante vederlo quasi turbato.
«So che c’è la possibilità non tanto remota che Hazaq tenti di fare qualcosa per ovviare al problema che…beh, che sei sopravvissuta. Perché allora non agire in modo così pittoresco? Lo conosco molto bene, sono nato in seguito alla sua diserzione, perciò non posso anticipare le sue mosse, ma in parte posso comprenderle. Il serpente mi sembra un gesto degno di lui».
«Tic tac, i dieci secondi sono già passati» mormorai, usando l’insolenza per proteggermi dalla paura che quelle parole suscitarono in me. Sapevo che non c’era da preoccuparsi, dato che erano chiaramente tutte balle, ma sentir parlare ancora di Simon e di me in quei termini mi rendeva ansiosa. Mi faceva rievocare momenti a cui non volevo più pensare, ma che continuavano a circuirmi come squali attorno ad una preda ferita. Metaforicamente parlando, stavo sanguinando in una vasca piena di predatori.
«Come simbolo cristiano è fortemente negativo. È l’opposto degli Arcangeli, non può innalzarsi al cielo, condannato per l’eternità a strisciare sulla terra. Non dimentichiamo inoltre che è stato lui a tentare Eva, e dal momento in cui l’ha fatto ha condannato se stesso a questa natura. Dopo quell’episodio Dio ha maledetto il serpente, prevedendo l’inimicizia tra la sua stirpe e quella della donna. Lei gli schiaccerà la testa e lui…»
«Le morderà il calcagno, lo so. Ma ti rendi conto di quello che dici? È solo una citazione biblica».
«Come ho già detto, un simbolo».
«Stai cercando di rifilarmi l’ipotesi che Simon si sia trasformato magicamente in una serpe per farmi del male? Sembra davvero molto realistico».
«Non saprei come, per quanto ne so i Demoni non sono in grado di farlo, ma ha senso. Il serpente è solo uno strumento come un altro per spaventarti. I nemici di Dio sono anche quelli che conoscono meglio la sua parola, perciò non c’è da stupirsi che lui abbia usato quel particolare tipo di animale per avvicinarsi a te. Adora i riferimenti biblici, è come un gioco di abilità per lui. Oltre a questo, temo che ci sia dell’altro e che non si sia trattato solo di una minaccia, ha un significato più profondo, ma ora come ora non lo so con certezza. Nella migliore delle ipotesi ha annullato la distanza fra voi in qualche modo».
Non ero certa di cosa intendesse, enigmatico come al solito, ma ne avevo abbastanza. Con uno strattone liberai il braccio dalla sua stretta, e gli puntai l’indice contro.
«Adesso apri bene le orecchie, ragazzo-angelo. Non so con esattezza a quanto ammonta la gravità del tuo problema, ma è chiaro che ne hai uno e che devi farci qualcosa. Sono stanca delle tue stronzate!» Aggrottò la fronte, visibilmente infastidito dal linguaggio. «Fai come credi, continua pure a vivere nel tuo mondo fatato, a pensare di chiamarti Hadas il Nuovo, di essere un fottuto Angelo e tutte le assurdità che vuoi, ma stammi lontano!»
«Credevo che avessi cominciato a convincerti» fece, in un sussurro che poteva significare allo stesso tempo sia calma che tristezza. In realtà era difficile leggere le sue espressioni facciali. Cominciavo a pensare che lui e mia madre sotto questo punto di vista non fossero troppo diversi, così fanaticamente controllati nei loro comportamenti, freddi e lontani da me anni luce.
«I pazzi vanno assecondati, lo sanno tutti, ma ora sono stanca di farlo. Vorrei essere di nuovo sincera. L’unico ad essere convinto di quello che dici sei tu e ciò non lo rende necessariamente vero. Se stai cercando di impedirmi di consultare un medico solo perché credi che il morso sia qualcosa di simbolico, allora non è di Simon che mi devo preoccupare, ma di te». Lo spinsi via quando cercò di riavvicinarsi a me e trattenermi. «Non mi toccare! Non sto scherzando Samuel, Hadas, o come diavolo ti chiami, ti ringrazio per avermi tolta dai guai ma ora esci dalla mia vita e stai lontano da me o chiamo la polizia».
Il suo non era esattamente uno sguardo ferito, ma il suo silenzio per poco non mi fece sentire in colpa per il trattamento poco gentile che gli avevo riservato. Con un sospiro mi costrinsi ad essere coerente con me stessa, a lanciargli un’ultima occhiata colma di determinazione e ad allontanarmi da lui senza dire altro. Per lo meno distogliere lo sguardo fu utile per non dover più vedere occhiate meste o tentativi di pacificare i toni. Non tentò più di fermarmi.
A passo svelto riuscii a raggiungere i miei amici, intenti ad osservare meravigliati uno spettacolo di giochi di prestigio proprio a due passi dall’acqua. Prendere Louis a braccetto e sentire la stabilità del suo corpo contro il mio fu come tornare improvvisamente a pensare con maggiore lucidità e ciò fu un giovamento per i miei propositi. Pensare di andare da un dottore mi parve sciocco e cominciai seriamente a credere più alle parole della donna della tavola calda e del presunto dottore, che a ciò che io stessa avevo visto. Mi muovevo senza sforzi, la caviglia non presentava i fori dei denti dove avrebbero dovuto esserci e non c’era la minima traccia di dolore se non il ricordo della fitta iniziale. Era stato così intenso e bruciante che quasi ero pronta a scommettere di averlo solo immaginato.
Quasi.
La mente poteva giocare brutti scherzi, giusto? Addirittura simulare reazioni corporee precise, perciò niente impediva che fosse successa la stessa a cosa anche a me. Già una persona competente mi aveva assicurato che era tutto a posto, ora mi sentivo stupida per essermi preoccupata così tanto. La prova del nove erano i segnali che il mio corpo mi lanciava, o meglio, la loro assenza. Con del veleno il circolo non avrei dovuto sentirmi uno straccio?
La spiegazione migliore era che avevo davvero visto l’animale, ma quando la luce era saltata la mia mente spaventata aveva fatto gli straordinari, inducendomi a credere che mi avesse attaccata, quando invece si era infilato nello scarico ed era tornato da dov’era venuto. Non sapevo spiegare bene il dolore, ma era più saggio pensare che avessi immaginato anche quello.
Con quell’osservazione confortante riuscii finalmente a godermi la serata come l’avevo programmata, o quasi. Non parlai a nessuno di quello che era successo e di Samuel non c’era più traccia. Avergli detto ciò che pensavo era stato salutare per me, come liberarsi di un peso inutile nel petto. Era stato certamente meglio così per entrambi.
Leroy fu così gentile da riaccompagnarci a casa con la sua auto, lasciando prima i miei amici in Palme Ave., poi portando me e mia madre proprio di fronte alla porta di casa. Mi salutò con un ampio sorriso e i complimenti per il successo riscosso dal mio pranzo, cosa che gonfiò il mio orgoglio a dismisura. Cercai di non dare a vedere quando quel commento mi avesse compiaciuta e mi mascherai di modestia quando lo ringraziai, salendo le scale e infilando la chiave nella toppa.
Quando gettai un’ultima occhiata all’auto, l’ultima cosa che vidi fu la mano di mamma indugiare qualche istante di troppo sull’avambraccio dell’uomo, una risatina insolita sfuggirle dalle labbra e qualche parola di buona notte, poi la grande macchina bianca sparì silenziosamente dal vialetto.

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


Flutti mortali mi circondarono, torrenti esiziali mi travolsero, mi avvolsero vincoli infernali, mi avvinsero lacci di morte.
Salmi, 18, 5-6.




17.




Paradossalmente, fu il silenzio a svegliarmi. Anche in un quartiere tranquillo come quello, il respiro della città era impossibile da frenare. L’usuale sottofondo di auto, motorini, guaiti di cani e lotte furiose tra gatti rivali non mancava mai.
Spalancai gli occhi nella penombra della mia stanza, consapevole che ci fosse qualcosa di diverso in quella notte, qualcosa di…disumano. Una parola semplice, comparsa dal nulla nella mia mente senza che l’avessi evocata di proposito. Ma sembrava dannatamente appropriata.
Tesi l’orecchio, in una quiete perfino angosciante, alla ricerca di qualsiasi cosa potesse indicarmi il motivo della mia inquietudine. Eppure a prima vista tutto era al posto giusto, la debole luce dei lampioni in strada e quella pallida, lattea della luna penetravano nella stanza dalle finestre, come tutte le altre sere in cui non serravo le persiane. Tingendo gli interni della camera aiutava la vista a scorgere almeno il profilo degli oggetti: la sedia, una pila di libri sulla scrivania e il portatile proprio lì accanto.
Sbattei per un paio di volte le palpebre per mettere a fuoco il più possibile, ma proprio quando stavo per convincermi che la brutta sensazione che mi aveva destata era solo una debole impressione, il mio sguardo fu catturato da una chiazza scura sul tessuto bianco ed etereo della tenda, come il fantasma di un film dell’orrore da quattro soldi.
Ci misi qualche secondo prima che il cervello riuscisse a realizzare che si trattava di un ombra. Mi voltai di scatto verso la mia destra, trattenendo a stento un grido e alzando le mani in un patetico tentativo di difendermi.
Il viso che mi trovai ad osservare era più serio del solito, e lo sguardo imperscrutabile era fisso su di me. Avrei dovuto sentirmi come minimo indignata per la sua presenza, totalmente illegittima, invece fu quasi un sollievo trovarmelo di fronte.
«Samuel...che ci fai in camera mia?» Non rispose, ma con un cenno del capo indicò la porta della stanza e all’improvviso, dal nulla totale di quell’innaturale silenzio, come se ad un suo gesto fosse corrisposta una precisa conseguenza, da lì parve provenire un sottofondo agghiacciante…erano urla quelle che sentivo al di là di essa?
«Che cos’è?» Chiesi di nuovo, ma come alla prima domanda, anche a questa non seguì nulla se non un sorriso enigmatico. Quasi complice, sebbene non sapessi a cosa potesse riferirsi. Di nuovo un cenno, poi il ragazzo mi porse la mano, che strinsi senza questionare. Scivolai fuori dalle lenzuola senza chiedere dove mi volesse portare, immaginando, anzi sapendo che a tempo debito lui mi avrebbe svelato tutto.
Afferrò la maniglia con gesti lenti e controllati, e la sua stretta attorno alle mie dita si fece più salda. Confortante.
«Qualsiasi cosa tu veda, non temere. Sono qui e non ti lascerò» disse finalmente. Aprì la porta e i suoni che poco prima mi erano giunti indistinti, ora erano ben chiari. Non mi ero immaginata nulla e non avevo frainteso. Grida, urla, schiamazzi e pianti.
Ma da dove proveniva un rumore tanto raccapricciante?
Davanti a me si presentò una lunga scalinata, tanto lunga che mi fu difficile individuarne la fine, ma era ben illuminata da file di torce rudimentali affisse a parenti in pietra. Mi ricordò gli accessi ai sotterranei di qualche antico castello, stanze segrete colme di tesori nascosti o, a giudicare da ciò che sentivo, luoghi da incubo dove vittime ignote venivano sottoposte a indicibili torture.
Samuel mi fece strada, in silenzio e con lo sguardo concentrato e fisso davanti a sé. Come accadeva spesso in sua compagnia, mi interrogai su quale fosse il suo stato d’animo e la natura dei suoi pensieri. Avrei dato ben più di un penny per conoscerli e risolvere il mistero che avvolgeva quello strano ragazzo.
Mi schiarii la gola e quel tentativo di trovare le parole giuste riecheggiò tra le fredde pareti, aggiungendosi agli strilli e alle altre voci.
«Forse dovrei chiederti scusa…» mormorai. «Sì, per come mi sono comportata stasera». Era davvero successo solo quella sera? Mi sembravano secoli. «Sono stata brusca e mi dispiace. Ero un po’…tesa e spaventata».
Scosse la testa. «Non è colpa tua. Sono stato poco chiaro fin dal principio, poco incisivo e poco convincente. È normale non credere, ma ora sarà tutto diverso. Sono certo che riuscirò a mostrarti la verità una volta per tutte». Non sapevo perché, ma la serietà con cui pronunciò quelle parole riuscii a convincermi che avrebbe davvero fatto tutto il possibile per rendere veri i suoi racconti.
Ogni passo sui quei gradini visibilmente consumati dal tempo fu accompagnato dal suo rimbombo immediato, ogni gradino ci avvicinò a ciò che ci attendeva alla fine della scalinata, finché essa non terminò in un prolungamento circolare dei gradini. Libero dai limiti imposti dalle strette mura che mi avevano affiancato poco prima, il mio sguardo ebbe la possibilità di spaziare. Rimasi senza fiato. Un’enorme sala si apriva davanti a noi in una lucida distesa di marmo. Il pavimento richiamava i motivi di una scacchiera, con un’alternanza di bianchi e neri seducente alla vista.
La nostra scala era solo una delle molte che portavano direttamente al pavimento, in tutto ne contai sette, identiche a quella che io e Samuel avevamo sceso, sormontate dall’imponenza e dall’eleganza di altrettanti archi ogivali. Al culmine di ogni ogiva, poco sopra il punto in cui le linee dell’arco si univano, degli altorilievi sembravano quasi etichettare ogni scala, ognuno diverso dall’altro. Non c’erano finestre, vetrate o rosoni a donare un po’ di luce naturale all’ambiente, solo altre fiaccole e tante, tantissime candele poste a terra intorno a noi o su candelabri di ogni stile e forma, semplici o con i bracci intrecciati. Ne derivava un chiarore soffuso e suggestivo che disegnava ombre su ogni particolare dell’architettura.
«È meraviglioso» sussurrai, sapendo tuttavia che quel solo aggettivo era troppo debole per riassumere lo splendore del luogo. «Ma dove ci troviamo?»
«Credo che a questo punto tu lo abbia capito» rispose Samuel, continuando ad indossare quella maschera enigmatica che non l’aveva lasciato per un solo istante mentre mi aveva accompagnata lì.
«Il Paradiso?» Si limitò a guardarmi e a farmi gentilmente segno di proseguire avanti a lui. Scesi gli ultimi gradini, notando che i rumori si erano fatti sempre più distinti. Non era una voce singola quella che avevo udito in camera, ma appartenente a tante persone, unite in un unico grottesco ululato. Un inquietante coro di cui tuttavia non conoscevo la provenienza. E oltre a quello…i miei occhi ben attenti a dove mettevo i piedi su quei gradini consunti, si posarono su un particolare che notai solo in quel momento e che era distribuito sul bianco sporco del marmo in gocce che formavano una traccia sottile e incostante.
Sangue.
Diedi un lieve strattone alla mano di Samuel per attirare la sua attenzione. «Come mai c’è del sangue su questi gradini? E chi sono queste persone? Perché strillano?» Mi guardò di sottecchi, come se la risposta fosse più che scontata.
«Non penserai sul serio che chi è destinato a scendere queste scale lo faccia docilmente…o sì?» Un brivido mi corse lungo la spina dorsale e la consapevolezza si fece strada nella mia mente insinuandosi come una serpe tra i miei pensieri. Non mi sentivo più tanto a mio agio dopo l’affermazione del ragazzo e sebbene continuassi a pensare che attorno a me fosse tutta una meraviglia, qualcosa di sinistro era andato ad intaccare l’equilibrio formale e l’armonia delle strutture.
«Non è il Paradiso, vero? È l’Inferno…»
«Molto brava, Amber. Vedo che cominci a comprendere come stanno le cose. Ora vieni con me». I suoi passi rimbalzarono in un’eco tra pareti e colonne marmoree, accompagnati subito dal suono dei miei. Mi sforzai di non seguire con lo sguardo l’inquietante tracciato del sangue.
Giunti alle estremità del pavimento a scacchiera, un tremito percorse il marmo producendo un boato così potente da scuotermi le viscere. Afferrai il braccio di Samuel con tutte le mie forze e mi sforzai di non crollare, mentre delle venature scalfivano la superficie opaca del suolo, scheggiando ogni riquadro e spezzando a metà quell’alternarsi poetico di bianco e nero, come ghiaccio troppo sottile sottoposto ad un eccessivo peso. Dal centro fino a pochi passi da noi, il pavimento cedette e si aprì un’enorme voragine. In pochi secondi il rimbombo cessò e senza più alcun ostacolo ad attutirle, le grida mi giunsero più intense e terrificanti che mai.
«Guarda» ordinò Samuel. Scossi la testa, sentendo il sudore cominciare ad imperlarmi la fronte, ma sedotta dalla mia curiosità non potei impedire al mio corpo di sporgersi abbastanza per cogliere ciò che lo squarcio nel terreno celava.
Solo un’occhiata. Dovevo vedere.
Diavoli, ovunque. Diavoli dalle forme più strane, uno più spaventoso dell’altro, dai vari colori. Pelli scure, nere, rosse e grigiastre, peli, scaglie, zanne.
Tutti in un fremito d’entusiasmo brandivano lance, forconi, lunghi ferri uncinati e tra risate sguaiate e un baccano che quasi mi costrinse a tapparmi le orecchie, ghermivano corpi nudi, ferivano con le unghie, deridevano, pungolavano, sputando e minacciando.Vidi un uomo dilaniato cercare di scappare invano dal suo inseguitore, una giovane donna sfigurata da un Diavolo raggrinzito che premeva sul suo viso un ferro rovente, e centinaia di altre vittime di quella malvagia frenesia.
Chiusi gli occhi. Mi sembrava troppo e assurdo. Volevo solo andare via, ma non riscrivo a muovere un muscolo, come se il desiderio di guardare meglio vincesse ogni altro sentimento di ribrezzo e panico. Rimasi immobile, congelata dal terrore, mentre la mia mente continuava a volersi ribellare a quella scena.
«Terrificante, non è vero?» Tornare a fissare Samuel fu una benedizione, un temporaneo rifugio dall’orrore. Le sue iridi celesti erano rese ancora più brillanti dalle brutture che ci circondavano.
«È orribile vedere fin dove gli uomini si possano spingere». Commentò, con lo sguardo perso in quella visione raccapricciante.
«So cosa stai pensando» fece ancora prima che potessi anche solo aprire la bocca. «Sei spaventata da ciò che i Diavoli stanno facendo, ti sembra crudele e brutale, ma è colpa degli uomini. È sempre stato così». Allargò le braccia come per indicare tutto ciò che quella voragine conteneva. La mia mente era piena d’orrore ma nonostante questo i miei occhi non si staccavano dalla scena di tortura poco sotto di noi.
«Ecco il frutto del peccato. Ecco il castigo eterno». La sua voce aveva un che di solenne, di imprescindibile come se avesse appena confessato una verità assoluta. Non batteva ciglio di fronte a quelle immagini, sembrava quasi sforzarsi di fissare la scena senza distogliere lo sguardo.
«Non c’è nulla che si possa fare? Nemmeno tu?» chiesi in un filo di voce. Avrei voluto aggiungere nemmeno tu che sei un Angelo? ma mi sarebbe sembrata ancora una frase assurda, sebbene la verità mi si fosse presentata casualmente davanti agli occhi. Gli rivolsi uno sguardo colmo di supplica e sentii la frustrazione crescere quando lo vidi scuotere la testa.
«Hanno scelto» sentenziò.
A distogliere la mia attenzione fu un grido improvviso, acuto e angosciante. Dalla scalinata accanto a quella dove ci trovavamo, un corpo massiccio dalle fattezze solo lontanamente umane e seminudo come una sorta di orrendo gladiatore degli inferi, scendeva i gradini stringendo una pesante catena che si era posato in spalla come un curioso bagaglio. Incatenata alla sua estremità vidi la figura snella di una ragazza, che gridava e lottava con tutte le forze per evitare la sua sorte. Con le mani si aggrappò ad ogni scalino che trovava, ma non poté nulla contro la forza bruta del suo carceriere, che la trascinava sempre più in basso.
«Aiuto!» Non appena mi scoprii a fissarla tese una mano nella nostra direzione, come se potesse afferrarsi anche a me e assicurarsi la salvezza. «Ti prego, aiutami!» Per un secondo parve riuscire nel suo intento, ma la delusione fu ancora più amara quando con uno strattone, l’uomo, o meglio la bestia, la trascinò sul pavimento.
«No, no! Per favore, non farlo!» Con una sorta di ringhio, l’essere ignorò le sue suppliche, l’afferrò per le caviglie e la scaraventò giù, godendosi gli strilli prolungati e penosi che seguirono. Non ci tenevo a scoprire come i Diavoli si stessero divertendo con lei, perciò cambiai soggetto. Tra il sangue versato e la carne viva esposta a causa dei colpi crudeli di quei seviziatori, mi catturò un’immagine se possibile peggiore. Una donna tentò di tenere a sé il bambino appena nato, ma uno dei suoi aguzzini glielo strappò dalle mani e iniziò a divorarlo, dilaniandolo con i denti.
Mi passai le mani sugli occhi, scoprendo di tremare. Chi avrebbe mai potuto scegliere di vivere una simile esistenza? Chi mai avrebbe desiderato una punizione tanto straziante? Dov’erano Dio e la sua clemenza?
«Portami via di qui…» mormorai, implorante. «Ti prego».
«Devi vedere, devi capire qual è il destino di chi infrange le regole». La voce di Samuel mi parve diversa, più bassa di tono, più melliflua e seducente. Qualcosa mi sembrò famigliare in quell’inflessione carezzevole. «Ma non sei qui solo perché volevo convincerti, cara piccola Amber».
Tolsi le mani e incontrai uno sguardo ben diverso da quello di Samuel: occhi verdi, con una luce di follia che ricordavo bene. Il respiro si spezzò in gola e mi sentii quasi sfuggire un grido per il turbamento. Simon.
La mia mente era annebbiata per lo shock, le parole non trovarono via d’uscita. Ancor prima che tentassi di pensare a qualcosa, le mani del ragazzo scattarono in avanti e in meno di un secondo mi trovai sospesa nel vuoto, con la schiena all’indietro proprio sopra i Diavoli. Mi affannai per mantenere la presa sullo sperone con i piedi, ma già sapevo che non sarei resistita a lungo. La sola cosa che mi impediva di cadere di sotto, erano le dita di Simon strette attorno alla stoffa della canottiera.
«Fermati! Fermati! Ti prego, non farlo!»
«Ah no? Non dovrei?» Il suo viso era tranquillo, solo un sorriso gli increspava le labbra. Sentivo il vuoto sotto di me, vampate di calore che mi lambivano la schiena semi scoperta e le grida eccitate dei Diavoli. Non avrei dovuto guardare giù, ma voltai la testa e il mio sguardo raggiunse uno dei mostri nel vallone. Rideva e mi fissava come se non vedesse l’ora di avermi tra gli artigli. Brandiva una lunga lancia che puntò verso di me, reggendola con due mani. Sebbene non riuscisse a raggiungermi, sapevo che cosa avrebbe significato cadere. Non avrei potuto evitare di rimanere infilzata.
«No! Per favore!» Le lacrime iniziarono a riempirmi gli occhi e a rotolare lungo le guance. I singhiozzi mi squassavano il petto, mentre con le mani tentavo di restare ancorata a lui, stringendogli i polsi. Il sudore mi impediva di mantenere una presa salda.
«Pensi di essere capitata qui per puro caso?» chiese Simon con uno sguardo folle. Uno sguardo che solo qualche giorno prima mi aveva quasi fatto cadere ai suoi piedi e che ora riusciva solo a riempirmi di terrore. «Sei qui per una ragione…per i tuoi peccati».
«Non ho fatto niente!»
«Tu sei una peccatrice, come tutte le anime qua sotto e come me. Hai rinnegato il Signore, e lo hai fatto volontariamente. Perciò meriti una punizione adeguata. Ogni anima che arriva all’Inferno viene giudicata in base agli errori che ha commesso e percorre la scala riservata al peccato che in vita l’ha guidata. I percorsi sono rappresentati dagli altorilievi nella pietra. Sette scale, sette peccati, sette punizioni. Ti sei presa il disturbo di osservare bene quale immagine rappresenta la tua via?» Colsi il suggerimento. L’altorilievo rappresentava una donna velata, con il viso rivolto al cielo e le mani alzate, strette a pugno.
«Superbia, mia cara. Tu sei una superba. Sai che cosa vuol dire?» Non mi lasciò il tempo di rispondere, ma anche provandoci non sarebbe uscita una sola parola dalle mie labbra. Tremavo così tanto che mi sentivo le gambe deboli, ma non avevo il coraggio di cedere per paura che ciò significasse cadere di sotto e firmare la mia condanna a morte.
«Significa che sei una ragazzina altezzosa e gonfia di orgoglio, che ha deciso da sola che l’unico Dio degno di governarla non è altro che se stessa. Mi sbaglio?» Scossi la testa, la gola stretta per il pianto. Non volevo morire, e se fossi sopravvissuta, cosa improbabile, non volevo finire tra i Diavoli.
«Perché mi fai questo?» riuscii finalmente a dire, dopo aver incamerato aria sufficiente a poter articolare suoni. Il ragazzo si strinse nelle spalle.
«Te l’ho già detto, non è nulla di personale, hai fatto tutto da sola. Sei tu che hai deciso di ergerti a giudice della tua vita e così hai scelto la condanna adatta a te. Di solito apprezzo chi sa ribellarsi con stile al suo Dio, ma ciò non significa che non possa divertirmi un po’ con te. Questo è solo l’inizio del tuo incubo». Qualcosa di gelido si strinse attorno alla mia caviglia, una massiccia catena simile a quella che avevo visto trascinare l’altra peccatrice.
«Io non ti ho fatto niente!» ripetei, tentando di convincerlo. «Ti scongiuro. Adesso ci credo, ci credo!» Mi trasse verso di se, allontanandomi dal vuoto e riempiendo il mio cuore di speranza. Il suo respiro sapeva di morte, un odore che mi spezzò il fiato in gola, così diverso dal profumo che mi aveva attratta la prima volta che lo avevo incontrato. Quando il suo viso fu a pochi centimetri dal mio, fece un profondo sospiro.
«Dillo in modo esatto, per cortesia. A cos’è che credi?»
«A Dio! Credo in Dio e a tutto il resto, lo giuro. Ma ora tirami su!»
Scosse la testa divertito. «No, tu menti».
«Ho detto che te lo giuro…per favore». La mia voce era sottile, ma ero certa che mi avesse sentita anche in tutto quel fracasso.
Fece un altro profondo sospiro e annuì. «D’accordo, mi hai convinto. Sono felice che tu ti sia decisa a credere». Le mie lacrime si trasformarono in sollievo, seccandosi sulle guance per le ondate di calore che mi lambivano la pelle. Simon parve issarmi sullo sperone, poi mi regalò nuovamente quel suo sorriso ammaliante. Negli occhi scorsi qualcosa di profondamente malvagio e capii ancora prima che parlasse di nuovo. Le sue labbra mi sfiorarono l’orecchio. «Questo però non cambia nulla…»
Con una lentezza quasi estenuante, le sue dita si aprirono una dopo l’altra e io mi sentii scivolare giù. Percepii con orrore il vuoto sotto di me, l’aria che mi sibilava nelle orecchie, le risate dei Diavoli. Scioccamente mulinai le braccia in aria, come se potessi di colpo realizzare di avere le ali e potermi salvare, ma continuai a cadere mentre lo sperone si allontanava, assieme a Simon che fissava la scena con le labbra increspate in un sorriso soddisfatto.
Non potei fare altro che attendere e lo strattone giunse, violento, doloroso. Ogni fibra del mio corpo parve gridare e io, frastornata, non fui in grado di mettere subito a fuoco ciò che mi attorniava. Mi stupii che le mie gambe non si fossero staccate di netto per lo strappo a fine catena, come una bambola di pezza contesa a forza tra due bambine, ma il sollievo durò poco. Attesi di smettere di oscillare, con i volti deformati dei Diavoli che mi sfilavano capovolti davanti agli occhi e i corpi dei dannati come macabro preannuncio di ciò che mi aspettava. Le orecchie mi ronzavano talmente forte che mi era difficile anche solo pensare o temere per la mia vita. Ero come annebbiata e non sapevo se considerarlo un vantaggio o una sciocca imprudenza da parte mia.
Stavo quasi per abituarmi al dolore acuto alle giunture e al calore delle fiamme che mi lambiva il viso, quando nel mio campo visivo tra le lacrime causate dal fumo acre, comparve il viso disumano dello stesso Diavolo che avevo visto sulla sommità della spaccatura, quando ancora le centinaia, migliaia di persone nella voragine erano solo vittime e io la privilegiata al sicuro. Ero diventata una di loro.
«Perdona la mia sbadataggine». La voce di Simon era lontana, difficile da collocare in tutta quella confusione, ma mi immaginavo il suo volto insolente e arrogante rivolto verso di me, con un barlume cinico negli occhi. «Ho dimenticato di accennarti in che cosa consiste la tua punizione, cara Amber. Ho detto che sarai dannata tra i superbi, e che cosa fa di preciso il superbo nel suo peccare? Alza gli occhi verso il cielo in aria di sfida, proprio come hai visto nell’altorilievo. Appesa come un salame come potrai farlo?» La sua risata mi fece rabbrividire fin nelle ossa e il Diavolo si avvicinò lentamente. Quando fu sotto di me, brandì la lancia e l’avvicinò al mio viso sfiorandomi con la punta. Il freddo del metallo sembrava quasi irreale in quella gola di fiamme.
«Ma questo non sarà sufficiente, lo puoi immaginare anche da sola. Facciamo in modo che quei begli occhi nocciola non siano più veicolo di alterigia». Gli strilli mi avvolgevano con in un manto tangibile, talmente acuti che non riuscivo a capire se fossero solo grida estranee o se stessi supplicando anche io assieme ai dannati.
Il Diavolo mi regalò un sorriso mellifluo e colmo di promesse cruente, mentre la punta metallica seguiva il contorno della mia gola, del mento e del naso, avvicinandosi a un occhio.
«No…ti prego, per favore…no…» Il mondo si offuscò, annegato nelle lacrime che mi velarono gli occhi, e la voce si spezzò nella gola stretta in una morsa gelida di terrore. Avrei voluto tenere gli occhi chiusi, ma riuscii solo a tenerli spalancati e a seguire con lo sguardo i movimenti lenti della lancia, come se non potessi distogliere l’attenzione dalla mia fine ormai vicina. Quando cominciai a credere o a sperare che il Diavolo si fosse dimenticato del suo compito, lo vidi stringere la lancia come per prendere meglio la mira e la punta scattare verso il mio viso, finché non rimase altro che oscurità e dolore.

Lo stesso buio che mi aveva allarmata, divenne una sorta di liberazione, quando aprii gli occhi in un’oscurità meno pesante e opprimente rispetto a quella del sogno.
Era un buio familiare, affettivo. Finalmente riuscivo a scorgere ciò che prima mi era stato negato, il profilo dell’armadio, della sedia e della scrivania, la cornice della finestra e della tenda, con la luce opalescente della luna, le ombre scure del comodino e dell’abat-jour.
Il silenzio della notte era scandito solo dal mio respiro affannoso. Dalle labbra senza controllo mi sfuggirono dei singhiozzi che tentai di celare coprendomi la bocca con una mano. Sapevo di aver strillato nel sonno, riuscivo a sentire nelle orecchie il grido che avevo gettato a causa dell’incubo. Il dolore percepito era cessato, ma la paura mi era rimasta incollata alla pelle come una sostanza tossica. Mi passai una mano sul viso, come per scacciare il ricordo angosciante della lancia che mi trapassava un occhio. Per un attimo fui terrorizzata all’idea di ritratte la mano macchiata di sangue, ma sulle dita brillava solo un velo di sudore.
Strinsi le ginocchia attorno al petto, nel tentativo di ritrovare un certo contegno, di infondermi coraggio e calmare il mio corpo scosso dai tremiti e dai singulti. Le guance già bagnate di lacrime accolsero nuovamente il pianto, il cuore rimbombava nella testa e sbatteva nel petto come una furia, mentre nella mente riecheggiavano le parole di Simon, il suo timbro di voce vellutato e seducente e lo schiamazzo inquietante dei Diavoli.
Con la mano ancora premuta sulla bocca e le spalle che tremavano, senza potervi porre rimedio continuai a singhiozzare, per quanto continuassi a rassicurarmi e a ripetermi che era stato solo un brutto sogno, immagini durate un attimo e senza alcun peso. Una menzogna dell’immaginazione.
La mente gettò un nuovo allarme. Spalancai gli occhi in ascolto di alcuni tonfi in lontananza. Tesi l’orecchio. Dopo qualche secondo i rumori si ripeterono e il cuore mi schizzò in gola, quando realizzai che si trattava di passi, lenti e ritmati lungo le scale di legno che conducevano al piano di sopra. Alla mia camera.
Il corpo reagì molto prima di poter riflettere sulla cosa, mi tuffai sotto le lenzuola, stringendole sopra la testa come quando da bambina ero terrorizzata dai mostri celati nel buio. Avvolsi la stoffa nelle mani, stringendo convulsamente nel tentativo di creare una protezione da qualsiasi eventuale pericolo.
I passi si avvicinarono, il legno non riuscì ad attutirli. Serrai con forza gli occhi, come se non vedere significasse diventare invulnerabile. Quando capii che i rumori si erano spostati nel corridoio, il caldo sotto le lenzuola era diventato soffocante e io ero in un bagno di sudore. Sentii la porta della camera aprirsi, i passi avvicinarsi.
È qui. Non puoi scappare.
I capelli erano incollati al viso, alla fronte, le lacrime bagnavano la stoffa del cuscino e le dita mi dolevano per la forza con cui mi ostinavo inutilmente a stringere a me le coperte. Dentro di me speravo ardentemente che fosse un altro incubo o che in realtà io non mi fossi davvero svegliata dal primo, ma sapevo in cuor mio che era solo un’altra vana illusione.
Iniziai a tremare quando il peso di un corpo si posò sul materasso e opposi in silenzio resistenza, quando qualcuno tentò di sottrarmi le coperte dalle dita, riuscendoci solo qualche secondo dopo.
Qualcuno o qualcosa.
Rimasi immobile, raggelata e irrigidita dalla paura. Anche se fossi scappata, dove potevo nascondermi? Non avevo scampo. Davanti agli occhi mi danzava l’immagine del Diavolo che mi aveva infilzata nel sogno, il suo sguardo colmo di malignità, i denti aguzzi e marci che mi sorridevano quasi con malizia.
Avrei forse dovuto lottare, ma la mano che si posò sulla mia testa sembrava tutt’altro che minacciosa. Dita fresche mi allontanarono i capelli umidi dalla fronte imperlata di sudore e io riconobbi il profumo di mia madre. La sentii salire sul letto con tutto il corpo, sebbene stringessi ancora le palpebre come se gli occhi rifiutassero la realtà che mi circondava.
«Amber?» sussurrò, nel buio. «Stai dormendo?»
Non volevo rispondere, ma il mio respiro irregolare avrebbe potuto tradirmi. Deglutii e tentai di inspirare ed espirare profondamente come se fossi immersa nel sonno. Senza aver ricevuto risposta, si sistemò sul letto avvicinandosi a me. Sentii il suo braccio posarsi sul cuscino sopra la mia testa e l’altra mano accarezzarmi il volto con un tocco leggero che ormai avevo dimenticato. Quando tempo era passato da quando mi era stata così vicina? Quand’era l’ultima volta che ricordavo di aver ricevuto il suo affetto? Abbastanza perché mi convincessi che il contatto con me fosse divenuto per lei fastidioso.
Il suo tocco fresco fu un sollievo dopo le vampate di calore e paura che mi avevano aggredita sotto le coperte. Mi accarezzò la fronte, gli zigomi, le guance, come se stesse contemplando ogni tratto del mio volto. Asciugò le lacrime con il dorso della mano, in gesti lenti che mi cullarono come nella litania di una ninna nanna. Poi interruppe il contatto, scivolò via dal letto e si alzò in piedi. I suoi passi, così come con terrore li avevo uditi avvicinarsi, si allontanarono e la porta si richiuse con un lieve scatto.
Rimasi sola, sentendomi sciocca per la sensazione di panico che mi aveva inutilmente attanagliato le membra poco prima e domandandomi se ciò che era appena accaduto fosse reale o un altro frammento di sogno.

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 ***


Gli animali terrestri, i volatili, i serpenti, gli animali marini, sono stati e vengono domanti dall'uomo. Ma nessun uomo può domare la lingua: essa è un male che non dà tregua, è piena di veleno mortale. Con essa noi lodiamo Dio, Signore e Padre, e, sempre con essa, malediciamo gli uomini, che sono stati fatti a somiglianza di Dio. Dalla medesima bocca viene fuori benedizione e maledizione. No fratelli miei, le cose non devono andare così. Può forse la stessa sorgente far zampillare dalla stessa apertura il dolce e l’amaro?

Giacomo, 3, 7-11.







18.




Il motivo per cui la sera preferivo non serrare le persiane era che il sorgere del sole mi aiutava a sfuggire dalla morsa del sonno con la delicatezza della sua luce e del suo graduale infiltrarsi tra la stoffa bianca delle tende. Volevo che fosse qualcosa di naturale a svegliarmi e non un meccanismo elettronico, tranne nei casi in cui era proprio necessario.
Quella mattina rimpiansi la mia decisione, quando la luce del giorno mi ferì gli occhi peggiorando il mal di testa con cui mi svegliai. Ad ogni battito del mio cuore il rimbombo si proiettava dentro alla scatola cranica, lasciandomi intontita e con un dolore costante e diffuso fino ai denti. Ero abituata a saltare fuori dal letto pochi minuti dopo il risveglio, ma quel lieve malessere mi impedì di farlo. Rimasi sotto le coperte a fissare il soffitto, almeno finché al piano di sotto non udii la porta di casa chiudersi dietro alle spalle di mia madre.
Volevo attendere che partisse per andare al lavoro prima di affrontare di nuovo la lucidità del mondo, forse perché non avevo voglia di parlare con lei o forse perché semplicemente non volevo parlare con nessuno. Mi turbava l’idea di dover rendere conto degli avvenimenti della sera prima. Sapevo che mi aveva udita gridare e senz’altro mi avrebbe rivolto mille domande sul motivo per cui avevo avuto una notte agitata. Ancora non trovavo la forza di affrontare l’argomento con qualcun altro che non fossi io, perché nella mia mente già era in corso un’accesa diatriba, un litigio psichico che non risparmiava colpi né ingiurie.
Dopo un tempo che mi parve interminabile mi feci coraggio e scesi di sotto a preparare la colazione, tesa, fiacca ed irritabile come dopo una sbornia e ancora più indispettita nel rendermi conto che era soprattutto verso di me che rivolgevo le mie ostilità.
L’incubo di quella notte e ciò che ne era derivato, il mio pavido rannicchiarmi sotto le coperte come la più patetica delle poppanti, il sudore freddo sulla pelle, l’immagine dei Demoni che mi era danzata davanti agli occhi come un miraggio per qualche minuto dopo il brusco risveglio, contribuiva a farmi sentire estremamente ridicola. Non avevo mai sognato nulla di simile, nulla di così vivido e preciso ed era tutta colpa mia e della mia sciocca preoccupazione a proposito di Samuel. Anzi no, era colpa sua. Era lui che insisteva a volermi coinvolgere nella sua pazzia e alla fine, sebbene non fosse stato in grado di convincermi, ce l’aveva fatta a darmi il tormento con pensieri assurdi. Brutto stronzo di uno psicopatico.
Nella sicurezza della mia solitudine vagai da una stanza all’altra senza sapere davvero che cosa stessi facendo. Sfidai testardamente e con arroganza il mal di testa, pulii la casa, feci due lavatrici e stesi il bucato con la mente chissà dove e la voglia bruciante di prendere a calci qualcuno. Di solito non era facile irritarmi, riuscivo a mantenere la calma anche nei momenti più critici, ma quando mi si guastava l’umore era difficile ristabilire l’equilibrio originario. Avrei dovuto chiedere a Jenny qualche consiglio utile su come non lasciarsi trascinare troppo dal nervosismo, lei era una maga in quel settore.
Persino l’assenza di dolore o di segni visibili a causa del morso del serpente contribuì a inasprire il mio umore. La sola idea che Samuel avesse avuto ragione a impedirmi di consultare un medico mi faceva venire voglia di prendermi a schiaffi.
Il tempo massimo in cui riuscii a resistere di fronte al televisore fu di un mezz’ora, non di più, a fissare senza entusiasmo programmi che non avevo motivo di guardare. L’ultima opzione fu quella di uscire di casa, confidando nella speranza o nell’illusione che una boccata d’aria fresca mi avrebbe aiutata a smaltire i cattivi pensieri come una sostanza tossica espulsa dalla pelle, e forse a far dileguare il fastidioso mal di testa che cominciava a farsi sentire. Mi vestii in fretta, infilai in tasca un paio di biscotti secchi e l’iPod, e uscii di casa, pregustando il momento in cui avrei iniziato a correre nel parco e ogni preoccupazione sarebbe scivolata via dalla mente. Sempre che di preoccupazione si potesse parlare. Era quasi imbarazzante essere così scossa da un semplice sogno, ma per quanto fosse dura da ammettere, era proprio così.
Il parco era particolarmente affollato quella mattina, probabilmente per via della piacevolezza della giornata. Il tempo invogliava a lasciare l’intimità della propria casa per potersi ritrovare in mezzo alla natura, per quanto poco isolata dal resto della città. Corsi fino a sentire i muscoli bruciare e il sudore bagnarmi la fronte e la schiena, nella speranza di espellere con esso anche quel senso di spossatezza e di malattia. Poi mi lasciai cadere su una panchina senza aver ottenuto grandi risultati. Inspirai a fondo per recuperare il fiato divenuto corto per la fatica, prima di rendermi conto che, per assurdo, mi ero proprio seduta sulla panchina che pochi giorni prima aveva accolto me, Samuel e i nostri discorsi.
Sembrava passato un secolo, ma ricordavo bene quanto l’avevo guardato storto per tutte quelle idiozie. Ed ora eccomi lì, seduta proprio sulla stessa panchina, nello stesso punto del parco. Quasi mi aspettai di vederlo sbucare fuori dal primo cespuglio, di nuovo, con un sorriso pacifico stampato sul volto e la solita tranquillità di chi era certo di essere dalla parte della ragione.
Soffocai quel po’ di senso di colpa che mi punzecchiava il cuore e misi del tutto a tacere i miei dubbi. Si era meritato il mio atteggiamento e le mie critiche, ero riuscita ad ascoltare i suoi deliri mentali per un tempo maggiore rispetto al necessario ed era giunto il momento di finirla, soprattutto dopo ciò che era accaduto alla festa del quattro luglio. Vedermi così spaventata per il serpente, che fosse reale o meno, avrebbe dovuto fargli avere un atteggiamento più concreto, invece aveva liquidato il tutto come un'insidia di Hazaq. Era un segnale piuttosto eloquente del fatto che anche Samuel era una minaccia per me, che non importava ciò che sarebbe successo, non avrebbe mai preso seriamente nessun evento che mi riguardava e non avrebbe considerato mai nulla con lucidità.
A proposito di minacce, dov’era finito Simon? Davvero mi vedeva come una partita giocata solo a metà? Come una sfida da cogliere e affrontare fino alla fine? Non ero molto convinta. Aveva la polizia alle calcagna, non poteva esporsi senza rischiare di essere catturato o visto da qualche testimone. Il fatto che ancora nessuno l’avesse avvistato mi faceva pensare che qualche amico lo proteggesse. Speravo ardentemente di non sbagliarmi a proposito delle sue intenzioni, mi aggrappavo alla convinzione che non mi stesse più dando la caccia, perché se mi fossi lasciata persuadere anche solo per un istante dalla possibilità che mi tenesse d’occhio in attesa del momento buono per colpire, la paura avrebbe avuto il sopravvento. Non dovevo permettere che una cosa del genere accadesse, dovevo aver fiducia nelle forze dell’ordine e nel fatto che ero una persona insignificante per Simon. Che cosa avrebbe guadagnato nell’uccidermi, se non una soddisfazione personale per aver concluso il lavoro iniziato al Mephisto? Il semplice orgoglio non era sufficiente per affrontare la polizia, addestrata ad acchiappare i criminali più incalliti.
Infilai le dita in tasca e afferrai i biscotti, osservando i passerotti zampettare allegramente accanto ai miei piedi. Certo non osarono avvicinarsi più di quanto avessero fatto con Samuel, ma in qualche modo capirono che tra le mani avevo qualcosa di interessante. Mi concessi qualche istante per osservare le loro reazioni quando misi bene in mostra il cibo e per essere certa di avere la loro completa attenzione. Uno di loro fece qualche saltello, puntando verso di me i suoi occhietti completamente neri e muovendo a scatti la testolina.
«Esatto, un biscotto» mormorai. «Un gustoso biscotto secco ai cereali. Una delizia».
La mia voce non li fece volare via, la promessa di qualcosa da mettere sotto il becco era più forte di qualsiasi timore. Il più ardito si fece ancora un po’ più vicino e io lo premiai sbriciolando nel pugno il primo biscotto e lanciandogli qualche briciola.
Lanciai i restanti pezzetti e osservai con interesse la loro gara a chi faceva prima a raggiungere ogni frammento di biscotto, poi mi alzai e ritornai sui miei passi.
La breve uscita non aveva sortito l’effetto sperato e se qualcosa avevo ottenuto, non era durato a lungo. La sgradevole sensazione di freddo e stanchezza non era cessata, in più una punta di dolore alla nuca aveva promosso il disagio psichico a disagio fisico. Un salto di qualità che non avevo richiesto e a cui avrei fatto volentieri a meno.
Quando rientrai in casa la spia della segreteria telefonica all’ingresso mi segnalò un nuovo messaggio. Premetti qualche pulsante e come per magia la voce di Louis riempii l’atrio. Capii subito che la sua chiamata aveva uno scopo dal modo in cui elaborò un affettato ed innaturale preambolo. Non era raro che mi chiedesse come me la passassi, ma nelle sue parole c’era qualcosa di stonato e troppo artificioso per uno come lui. Quando lo richiamai misi subito in chiaro che non avevo bisogno di tanti giri di parole per capire che c’era sotto qualcosa di losco.
«Taglia corto, ragazzo. Che cosa vuoi?» domandai, forse in modo un po’ troppo brusco, ma la calma quel giorno non era il mio forte. Un lungo sospiro da parte sua confermò i miei sospetti.
«Jude ha richiamato».
«Davvero? È fantastico, avete fatto un’altra lunga chiacchierata?»
«Sì, è un tipo in gamba, mi trovo bene a parlare con lui…ma non è questo il motivo per cui ho telefonato». Attesi in silenzio qualche chiarimento, senza sapere bene il motivo per cui uno strano e cattivo presentimento mi punzecchiasse lo stomaco.
«Mi ha invitato a passare una serata con lui al Mephisto». Era impossibile non notare l’entusiasmo nella sua voce, un sentimento quasi tangibile anche attraverso il ricevitore.
«Accidenti, è una cosa seria, spero che tu gli abbia detto di sì».
«Certo, vado volentieri, ma…»
«Ma cosa, Louis, che cosa non mi stai dicendo?»
«Ho bisogno che tu venga con me».
In automatico la mia mente ricreò immagini familiari di quella prima sera nel nuovo locale e un senso di claustrofobia insolito mi serrò la gola. Ogni cosa che mi era parsa un tocco di classe lì dentro oramai era solo un dettaglio che andava ad aggiungersi alla disastrosa piega presa dagli eventi. «No Louis, non se ne parla».
«Ma Amber, per favore! Ti prego, prima ascoltami. So che cosa rappresenta per te quel locale, e lo capisco, avrei chiesto a Jenny di accompagnarmi ma lo sai che è fuori città». Ah, giusto, Jenny era andata a trovare sua sorella a Santa Rosa. Non poteva scegliere un momento peggiore per lasciarmi da sola col nostro amico.
«Allora posticipa l’appuntamento».
«Non posso, mi ha chiesto di passare domani sera. È già tanto che mi abbia chiamato, non voglio sfidare la sorte. E se poi crede che faccio il difficile e cambia idea?»
Sai che mi importa. Fui tentata di rispondere, ma la ragione frenò le mie parole prima che potessero uscirmi dalle mie labbra e ferire. Certo che mi importava, era Louis, era il mio migliore amico da praticamente tutta la vita. Era ovvio che volevo vederlo felice, ma…
«Come puoi chiedermi di tornare? Io non... ecco, non so come potrebbe essere la mia reazione appena metterò piede al Mephisto. Non mi piace l’idea di tornarci, Louis».
«Lo so…non ti sentiresti a tuo agio nemmeno in mia compagnia? Ti prometto che rimarrò con te, se hai bisogno ti resterò attaccato come un fungo».
«Bella immagine, poetica. Ti ricordo che sei tu ad aver bisogno di me, non viceversa, altrimenti non avresti chiamato. Hai pensato all’ipotesi che Simon potrebbe essere lì da quelle parti?»
«Scherzi vero? Se fosse lì Jude avrebbe senz’altro chiamato la polizia. Sono tutti sconvolti per quello che ti è successo».
Alzai gli occhi al cielo. «Come no, sbaglio o grazie a me gli affari vanno alla grande?»
«È solo una conseguenza, Jude è molto dispiaciuto. Vedrai che ti farà sentire a casa, è un ragazzo molto carino…mi piace, Amber, e mi faresti un favore se mi accompagnassi. Non posso andare da solo, mio padre non mi lascerà la macchina e francamente un taxi mi verrebbe a costare buona parte del contenuto del mio modesto portafogli». Trassi un profondo sospiro, lottando contro la voglia di inveire contro di lui. Non potevo farlo, gli volevo bene, ma non volevo andare.
«Mia madre darà di matto quando lo saprà» tentai di giustificarmi. Era una scusa, ma solo a metà, perché non osavo immaginare quale sarebbe stata la reazione della donna. Già la prima volta senza sapere come sarebbe andata a finire aveva sbraitato che non era posto per una ragazzina come me, ora era folle pensare che mi desse la sua benedizione.
«E tu non dirglielo».
«La fai facile tu».
«Lo è. Digli che vieni a casa mia e che facciamo una serata cinema io e te. Se ti chiede spiegazioni digli che guardiamo, mmh…ma che ne so? Inventati il titolo di un film a caso, ma vedi di conoscerlo, così se ti chiede com’è stato puoi dargli qualche informazione sulla trama».
«Dannazione, hai pensato proprio a tutto, vero?»
«Ho una mente criminale, tesoro, lo sai». Mio malgrado un sorriso mi spuntò sulle labbra. La sua invadenza mi infastidiva, ma paradossalmente riusciva anche a divertirmi. Era sempre il mio Louis e io sapevo di non aver scampo.
«D’accordo, ma solo per questa volta. La prossima volta che ti chiede di incontrarvi ci vai da solo».
«Grazie! Vedrai che ci divertiamo, è pur sempre un locale da urlo».
Sì, da urlo. Nel senso che mi sarei messa a urlare appena varcata la soglia?
«Scrivi sull’agenda che ti devo un favore» continuò il ragazzo. Da lì non riuscivo a vedere il suo sorriso, ma sapevo che era largo da un’orecchia all’altra.
Ridacchiai. «La mia agenda è zeppa dei tuoi debiti, se non fosse per te non avrei mai cominciato ad usarla».
Cominciai a pentirmi della mia decisione dal momento in cui riattaccai. Non avrei dovuto accettare, ma era difficile negare un favore a Louis. Era come dire di no ad un bambino di fronte alla bancarella dello zucchero filato, perciò era inutile rimproverarmi, sapendo che già dalla sua prima supplica ero destinata a cedere.
Il resto della giornata trascorse lentamente e senza particolare significato per me. La cosa più costruttiva fu progettare la cena, ma mamma avrebbe mangiato in ufficio quindi solamente per me non era un grande sforzo cucinare.
Mi ero aspettata da un momento all’altro che Samuel suonasse alla porta, rispuntando dal nulla dopo la mia scenata della sera prima, ma non si fece vedere. Di lui non ci fu traccia nemmeno il giorno dopo, sebbene la mia aspettativa fosse ancora più alta. Certo, non avrei saputo cosa dirgli ed era escluso che ritirassi le critiche che gli avevo rivolto.
Cominciai a prepararmi solo mezz’ora prima di uscire, distrattamente e di mala voglia. Il fatto che mettessi poco entusiasmo in un’azione così importante per la maggior parte delle donne, la diceva lunga. Non andai nemmeno oltre ad una maglietta e ad un paio di jeans per ricordare a me stessa che non ero costretta a farmelo piacere per forza. L’abbigliamento sobrio aveva anche un secondo scopo, quello di passare inosservata di fronte agli occhi di mia madre, rientrata a casa da poco e seduta sul divano. Il suo mamma-radar si attivò all’istante e la spinse ad alzarsi e venirmi incontro.
«Dove hai detto che vai?» mormorò. Indossava degli occhiali che le davano un’aria ancora più inquietante, da severa professoressa universitaria.
«Veramente non ho detto niente». Mi sistemai il foulard giusto per ottenere qualche istante per riflettere e per scegliere un film da rifilare come scusa, ma nella mente spuntarono solo titoli troppo scontati o abbastanza vecchi da far sembrare un’assurdità tutta la faccenda della serata cinema. Era buffo come al momento del bisogno la memoria andasse in tilt e si rifiutasse di guardarmi le spalle. Rimasi in silenzio non avendo trovato nulla di originale da dire.
Qualcosa di diverso dall’imbarazzo si fece strada tra i miei pensieri, scacciando ogni traccia di patetica preoccupazione. Non avrebbe dovuto essere così difficile rifilare a mia madre qualche stupidaggine su ciò che volevo fare quella sera, anzi, potevo dire ciò che preferivo. In più dopo la convalescenza (nome che lei usava e che io aborrivo, ma che funzionava per farsi compatire quando era necessario) mi avrebbe permesso di andare quasi dove volevo. Quel quasi aveva una nome preciso, un nome dalle sfumature vermiglie e che cominciava con la M.
Ma… era quello che volevo fare? Dovevo davvero inventarmi una stupida balla solo perché temevo il giudizio di mia madre? E quando mai?
«Louis mi ha chiesto di accompagnarlo in un posto» dissi brevemente e senza particolare entusiasmo. «Non farò tardi». La vidi annuire e rivolgermi un sorriso più spontaneo e affabile del solito.
«D’accordo, dove andate di bello?» Ci siamo. Pensai. Vai con il terzo grado. Cercai di liquidare la questione con un gesto stizzito della mano, ma il suo sguardo non ebbe il minimo cedimento. Avrebbe potuto lavorare in polizia e specializzarsi nell’interrogare i sospetti. Mi sentivo sotto torchio, messa alle strette, e proprio come un animale in trappola cominciai a innervosirmi.
«Al Mephisto, d’accordo? Ma è una cosa che interessa a Louis, io non faccio altro che accompagnarlo. Non farò tardi». I suoi occhi lampeggiarono di un principio di collera e di spalancarono. Prima che dicesse qualsiasi cosa la anticipai.
«Per l’amor del cielo, non cominciare, so benissimo come la pensi e non ho bisogno di sentire la tua opinione. Te lo ripeto, non ci andrei se non me l’avesse chiesto Louis, ha bisogno di un passaggio e di compagnia. Non vorrai mica che ci vada da solo?» La sua voce suonò risentita proprio come l’avevo immaginata e la sua prevedibilità mi spazientì.
«Devi esseri davvero bevuta il cervello se pensi che ti lascerò andare» esclamò. Espressioni come bevuta il cervello non rientravano nel suo solito frasario, da quello capii che era davvero incavolata. Avevo una pessima notizia per lei: anche io cominciavo ad esserlo.
«Sì, forse è così» risposi con aria di sfida. «Perché è esattamente quello che farò».
«Non ti basta quello che è successo l’ultima volta che hai fatto di testa tua? Ho lasciato perdere il colpo di testa di qualche giorno fa, ma te l’avevo detto che disobbedire non porta mai a niente di buono. Vuoi che accada qualcosa di peggiore?»
«Cosa dovrebbe succedere? Quell’imbecille è ricercato dalla polizia, non sono tutti criminali a SoMa, a differenza di quello che pensi tu».
«Te l’ho detto chiaramente che non mi piace che frequenti quel quartiere, né da sola, né con i tuoi amici. La madre di Louis gli permette di andare dove vuole?»
Frenai un grido di frustrazione, ma dalle labbra uscì comunque un suono strozzato di stizza. «Che tu ci creda o no, non tutti i genitori sono psicopatici e morbosi come te».
Si tolse gli occhiali e li gettò sul divano, piantando le mani lungo i fianchi come una guardia reale. Era una posa che conoscevo bene e che le si addiceva alla perfezione. Scosse la testa con aria quasi rassegnata.
«Mi sto solo preoccupando per te, nient’altro» Mormorò.
«No! Mi stai addosso! Mi programmi la vita e pretendi che faccia come dici tu, eppure passi la maggior parte del tuo tempo fuori casa. Tu. Non. Mi. Conosci». Esclamai, scandendo bene ogni parola affinché fosse chiara. La rabbia mi stava montando dentro come un fiume in piena, pronto a varcare con violenza i limiti imposti dagli argini e la testa pulsava terribilmente. La pensavo come lei, per quanto ciò mi infastidisse, ma non aveva il diritto di trattarmi come una ragazzina ingenua incapace di scegliere per se stessa.
«Ti prego, Amber, non tirare in campo il mio lavoro. Sai perfettamente che non mi impedisce di avere a cuore la tua salute e di volere il meglio per te».
Annuii con un mezzo sorriso. «Certo, questo è quello che mi vuoi far credere». Mi infilai il copri spalle, feci un sospiro per calmare i nervi e mi voltai per il secondo round. Non avrei ceduto e non avrei fatto ancora le cose di nascosto. Sottili rughe le increspavano la fronte e le guance erano accaldate dalla discussione.
«Ho diciotto anni e so badare a me stessa. È per questo che mi tieni con te, giusto? Sono come un canarino, mi basta un po’ di mangime e pochissime attenzioni!»
Un sospiro da parte sua mi fece comprendere che stava ancora cercando di mantenere la calma. «Non dire sciocchezze…»
«Ci vediamo più tardi, o domattina».
La congedai. Feci per incamminarmi verso la porta, ma lei mi trattenne afferrandomi il braccio. «Ascoltami bene signorina, impara ad obbedire a tua madre. Tu non ci andrai, punto e basta!»
Ed eccolo quel fiume di rabbia, tanto violento da farmi gridare.
«Non puoi fare la parte della madre perfetta quando ti pare!» esclamai, gelida. «Lascia che ti confessi una cosa. Come genitore fai pena, l’unico motivo per cui ti sopporto è che ti vedo solo per un paio di ore al giorno».
Diglielo. Una voce nella mia testa prese a calci gli ultimi residui di buon senso. Dille tutto quello che pensi. Se lo merita.
Rimase in silenzio e sciolse la presa dal mio braccio come se fosse rimasta di colpo scottata.
«Adesso che c’è quel belloccio, Leroy, scommetto che le ore in ufficio ti sembreranno una gioia in confronto a casa tua, vero? Ti ho vista fare la smorfiosa ieri sera, non è un po’ troppo giovane per te? Mi correggo, non è un po’ troppo giovane considerando quanto critichi papà per essersi messo con Trudy?»
«È solo un collega!»
«Come ti pare». Feci qualche passo verso di lei. «Non mi importa di te e a te non importa di me, quindi perché ti scaldi tanto per questa serata?» Ancora. Feriscila ancora. È così che deve andare, lei non ti ama. Non ti vuole bene.
«Ma che sciocchezze sono queste? Certo che mi importa di te, sei mia figlia!»
«Certo, quando ti fa comodo!» Mi scoprii a voler alzare ancora di più la voce, come avevo visto fare a lei e a papà quando litigavano. Vinceva chi urlava di più, giusto?
«Anzi…» Aggiunsi. «…scommetto che potrebbe essere un bene per te se mi fanno fuori. Una bella liberazione, così potrai togliere anche le mie foto da questa casa e dimenticarmi, proprio come hai fatto con Chris».
Chiusi gli occhi, aspettandomi da un momento all’altro il rumore di uno schiaffo e il conseguente dolore bruciante al viso, ma non vi fu nulla. Quando li riaprii l’espressione di mia madre mi fece desiderare di non aver mai pronunciato quella frase. Ogni traccia della precedente autorità era scomparsa dal suo volto, che parve sgretolarsi come un dipinto ormai usurato dai secoli. All’improvviso mi parve estremamente vecchia.
Rimase immobile, non fosse per il respiro, più rapido rispetto a prima. Il colore era defluito in fretta dalle sue guance, lasciandola in un pallore quasi malsano. Deglutii un paio di volte, come in preda ad una nausea improvvisa e il suo sguardo, fino a poco prima determinato e intenzionato a non lasciarmi nemmeno per un istante, cedette di fronte alla mia rabbia e alla violenza delle ultime parole, di cui già mi pentivo. La voce che mi aveva spronato a liberarmi da quel peso sparì vigliaccamente, lasciandomi solo col ricordo di lei e con l’onere di affrontare le conseguenze. Nei pochi secondi di silenzio che seguirono, cercai le parole per rimediare, ma la mia mente annaspava come in un pantano di senso di colpa e collera.
Mamma non attese le mie mosse, le mani le scivolarono via dai fianchi, si schiarì la voce e mi superò senza dire niente. Qualche istante dopo sentii la porta della sua stanza chiudersi lentamente. Mi passai le mani sul volto, mentre il mio respiro si regolarizzava dopo lo sfogo che non aveva contribuito a calmarmi. Dopo quel breve istante di giustizia privata sentivo ancora ogni muscolo in tensione.
Raggiunsi la stanza di mia madre e tesi l’orecchio, in ascolto. Nessun rumore faceva pensare che dentro ci fosse qualcuno. Alzai la mano per bussare, quando il cellulare vibrò nella tasca, avvertendomi del ritardo.
Dove sei???!!!
L’abbondanza dell’interpunzione era tipica di Louis, soprattutto di un Louis impaziente. Mandai mentalmente al diavolo la donna, uscii di casa di corsa quasi per paura di cambiare idea e salii in macchina, scacciando ogni tentativo del mio cuore di dirmi che stavo commettendo un altro errore.

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Capitolo 19
*** Capitolo 19 ***


«Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe»
Matteo, 10, 16.






19.





Sbattei la porta di casa con tanta violenza che metà vicinato probabilmente riuscii a sentirla e feci altrettanto con quella della macchina, come se produrre più rumore possibile mi aiutasse a tenere a bada i pensieri. Presi a pugni il volante fino a sentirmi ridicola, e quando mi lasciai andare contro il sedile la negatività tornò ad insinuarsi lenta ed infida nella mia mente. Mi sentivo infantile a permettere alle lacrime di avere la meglio, perciò frenai il pianto e mi concentrai sul mio respiro fino a rendere lui e il battito cardiaco perfettamente regolari.
Ero riuscita a farmi rovinare ancora l’umore da quella donna, avevo giurato che non sarebbe più successo, che avrei sempre avuto la meglio, invece anche quella volta la lotta mi aveva lasciata con l’amaro in bocca e due tipi diversi di dolore ad intrecciarsi in una danza pericolosa per darmi il tormento, fino a non permettermi più di distinguere tra la collera nei confronti di mia madre e la nostalgia bruciante per mio fratello.
Lei aveva condannato Christopher all’oblio e io mi ero ripromessa di non perdonarle questo affronto. La prima notte senza di lui era stata durissima, una veglia infinita, ma nulla in confronto all’amara scoperta fatta il mattino seguente.
Ogni foto di Chris era scomparsa, la felpa che fino al giorno prima era appesa accanto alla porta d’ingresso era stata eliminata, le sue scarpe, così come ogni più piccola traccia della sua esistenza, erano state rimosse. Tutto tolto di mezzo, come gli effetti personali di un appestato.
L’istinto mi aveva suggerito di affrontare mia madre, ma non avevo neppure avuto il bisogno di chiedere spiegazioni per quel gesto. Il gelo e la negazione che le avevo letto negli occhi avevano parlato chiaro e mi avevano fatto capire che non avrebbe accettato discussioni. Ancora non sapevo con certezza il perché quelle foto erano svanite, ma bastava il solo pensiero per stringermi lo stomaco in una morsa di risentimento e per farmi ribollire il sangue nelle vene. Ogni volta che un torto mi spingeva a litigare con lei o ad avere una discussione, quel ricordo mi sfiorava il cuore e l’odio mi annebbiava la vista.
Che razza di madre era? Come poteva fingere che Chris non fosse mai venuto al mondo? Come poteva ignorare l’esistenza di un ragazzo che era stato il collante della nostra famiglia? Ogni pasto, dal momento della sua morte in avanti, era stato un concentrato di silenzio e pensieri inespressi, fino alla rottura definitiva del matrimonio dei miei. Non potevo biasimare papà per averla lasciata, dato che a stento la sopportavo io quand’era in casa.
In un’infinità di occasioni mi ero chiesta quando finalmente sarei stata in grado di prendere il coraggio a due mani per sputarle addosso tutto il veleno che i suoi comportamenti mi avevano fatto crescere nell’animo.
Ora che mi ero sfogata non ero certa di esserne soddisfatta. Un nuovo tarlo mi rodeva i pensieri, non mi ero aspettata da parte della donna una tale reazione. Fino a quel momento l’avevo vista come una dama di ferro capace di resistere a qualsiasi emozione, invece per la prima volta avevo scorto autentico dolore nel suo sguardo. Avevo passato così tanto tempo a vederla come un pezzo di ghiaccio che la consapevolezza improvvisa che anche lei fosse umana mi aveva sconvolta. Non avrei potuto sentirmi l’animo così in subbuglio nemmeno se avesse confermato le mie accuse.
Non farti intenerire. Mormorò una voce dentro di me. Lei è il tuo nemico, non merita comprensione, né perdono, né gentilezza. Dovresti odiarla.
Sì, avevo tutto il diritto di provare rancore nei confronti di mia madre.
Ci impiegai qualche minuto a trovare la forza di accendere il motore dell’auto, confortata dal buio del garage e da quel bozzolo di silenzio in cui avrei voluto accoccolarmi per tutta la sera. Un nuovo sms di Louis mi persuase che era il momento di ritornare alla realtà e di scacciare con forza quei cattivi pensieri, e mi spronò a partire.
Quando il ragazzo saltò sul sedile del passeggero accanto a me, nemmeno il suo sorriso enorme riuscii a contagiarmi e ogni tentativo di distrarlo dal mio cattivo umore fu vano. Evidentemente mi si leggeva in fronte che qualcosa non andava, perché dopo un piccolo monologo su quanto fosse felice di vedere ancora Jude, Louis iniziò ad indagare.
«Accidenti che muso lungo. Attenta che potrebbe infilartisi tra i pedali dell’auto». Riuscì a strapparmi un sorriso e quando si sporse verso di me per osservare la mia reazione, un’ondata di profumo mi fece tossicchiare.
«Buona la tua acqua di colonia, ma non era necessario farcisi la doccia».
«Dicono che acchiappa un sacco. Dai, dimmi che succede». Si allacciò la cintura di sicurezza ancor prima che potessi intimargli di farlo, segno inequivocabile di quanto si sforzasse di compiacermi. Gli raccontai tutto tralasciando il dettaglio di me che uscivo di testa e che accusavo mia madre di essere un genitore degenere, e da parte del mio amico ottenni una pacca sul ginocchio e un tono comprensivo.
«Se vuoi un parere da parte dello zio Louis, prima di tutto non dovevi sprecare così la balla della serata cinema, e in secondo luogo non preoccuparti, anche la prima volta la strega ha ringhiato, ma nulla di più. Ti ha perdonata, giusto? Non ti ha nemmeno messa in punizione, fosse mia madre mi avrebbe fatto il sedere a strisce».
«Non mi ha ammazzata perché ci è quasi riuscito qualcun altro, ma non pensare che non mi abbia fatto pesare il mio colpo di testa. Non oso immaginare quanto mi rinfaccerà questa litigata…e non ho usato la scusa del film perché non voglio dare spiegazioni. L’unica a poter decidere per me sono io». Mi ricordai di lei che si rifugiava in camera e della mestizia con cui non aveva reagito ai miei insulti. No…non mi avrebbe rinfacciato un bel niente, forse non mi avrebbe più rivolto la parola. Una stretta allo stomaco confermò i miei sospetti: non ero fiera del mio comportamento.
Rallentai e mi fermai al primo semaforo rosso, guardandomi intorno mentre Louis iniziava un nuovo discorso e si dilungava sui suoi progetti per il futuro. Non era la prima volta che ne parlavamo, ma le novità erano poche. Come capitava spesso con le questioni serie, le frasi erano sempre le stesse. Suo padre voleva che andasse a lavorare, la madre sperava che potesse studiare e diventare qualcuno di importante e Louis si trovava tra l’incudine e il martello, nella totale incapacità di scegliere. Non era facile entrare in un’università prestigiosa senza snocciolare una quantità di soldi non indifferente, o senza ottenere una borsa di studio, e sapevo che forse i genitori di Louis non volevano affrontare una spesa del genere. Le possibilità di studio erano altre, ovviamente, ma la titubanza del ragazzo non aiutava a dare una svolta alla questione.
Una donna anziana ed ingobbita all’altro lato della strada gettò nel cassonetto un sacchetto dell’immondizia e tornò barcollando all’ingresso della sua casa. I suoi occhi si posarono per un istante su di me e le sue labbra formarono una parola che attraverso i rumori della città e il finestrino mi giunse muta. Superba.
Dietro di me qualcuno si attaccò al clacson. Sobbalzai sul sedile e ripartii, notando che il semaforo era verde. Rivolsi un’altra occhiata alla donna, ma feci in tempo solo a scorgere la sua gonna scura sparire in casa.
«Tutto bene, Amber? Sei piuttosto distratta stasera, pensi ancora a tua madre?» Louis mi fissava preoccupato. I suoi capelli anche nella penombra della sera apparivano perfettamente in ordine e il viso era come sempre liscio e in naturale armonia con la fanciullezza dei suoi occhi. Mi sentii in colpa per aver ignorato le sue parole.
Con un sospiro etichettai la vecchia come una pazza che parlava da sola e mi rimproverai per la mia debolezza. Ora mancava solo che cominciassi a immaginare le cose. Quel sogno mi aveva davvero sconvolto le idee.
Mi giustificai dando la colpa ad un gatto che aveva attirato la mia attenzione e proseguii in silenzio il viaggio, finché non riuscii a trovare parcheggio. Da lì riuscii a scorgere la luna nelle ultime fasi della crescita e l’insegna cremisi del Mephisto.
Come mi era stato raccontato, la clientela era cresciuta dall’ultima volta che ero stata lì, la si vedeva assiepata sotto l’insegna, fumando, saltellando distrattamente sul posto per scaldarsi o anche solo prendendo una boccata d’aria in attesa di rientrare e immergersi nuovamente nel ritmo sfiancante della musica. Come un gruppo di avvoltoi in pausa dopo una scorpacciata, ma non ancora del tutto appagati e perciò pronti a rigettare ben presto i becchi affilati nella carcassa. Il paragone mi fece rabbrividire, o forse era l’aria fresca del mare a formarmi la pelle d’oca sulle braccia.
Riconobbi subito il buttafuori che avevo conosciuto l’altra volta e la ragazza bionda che a quanto pareva non gli si scollava di dosso nemmeno per un istante. Quando mi vide, il rossetto rosso sangue si aprì a rivelare un sorriso smagliante. Dalle labbra le uscì uno sbuffo di fumo, poi ne prese un’altra boccata aspirando la sigaretta e facendo brillare la punta.
«Sei tornata. Che piacevole sorpresa» mormorò, e ad ogni parola il fumo sfuggiva dalla sua bocca in piccole volute. «Il Mephisto fa quest’effetto a molte persone. Può capitare qualsiasi cosa, ma è difficile toglierselo dalla testa. È…inebriante». Con un cenno della testa si rivolte a Louis. «Jude ti aspetta di sotto, è impegnato al bancone, ma ha detto che sei un cliente d’eccezione. Questa sera è tutta vostra, ragazzi».
Ancheggiando andò verso la porta d’entrata, facendo risuonare i tacchi sul pavimento, e ce la tenne aperta in attesa che facessimo il nostro ingresso. Il suo sguardo pesantemente incorniciato dal trucco nero si spostò da me a Louis con fare quasi divertito.
Ringraziammo e scendemmo le familiari scale. Superammo le mani di pietra e il lungo corridoio decorato ad arte. I miei occhi, come mossi da volontà indipendente dal resto del corpo, si posarono sul dipinto che tra tutti gli altri più mi aveva attratta e sconvolta. La miriade di dannati straziati dai demoni. Ormai dopo l’incubo di quella notte mi sembrava quasi di sentirli strillare e chiedere aiuto, di percepire il loro stesso dolore, di essere diventata una di loro.
Nebbia e musica ci guidarono fino al bancone e Jude, non appena ci avvistò, aggirò il tavolo in pietra e corse verso di noi, baciandoci con affetto su entrambe le guance e facendo arrossire Louis fino alle scarpe.
«Sono davvero felice che tu sia qui» esclamò. «Amber, è un piacere vedere anche te.» Mi posò la mano sulla spalla e si fece più vicino, per sovrastare il volume del brano.
«L’ultima volta non ho abbiamo avuto occasione di parlare molto quindi…beh, ti chiedo scusa per quello che è successo. È terribile quando qualcosa di tanto violento accade senza che nessuno possa evitarlo. Sono felice che tu stia bene».
«Grazie, sei molto gentile». Louis mi guardò con il sorriso negli occhi e un’espressione che sembrava sussurrare: Te l’avevo detto che era adorabile.
Il ragazzo ci fece segno di avvicinarci al bancone. «Prego, questa serata siete miei ospiti, potete avere tutto ciò che volete». Fece una smorfia maliziosa che regalò tutta al mio amico.
Rivestì in fretta i panni del perfetto e servizievole cameriere e noi occupammo due posti liberi per miracolo. Di tanto in tanto aiutava i suoi colleghi a servire il resto della clientela, ma non aveva mentito. Era come se sulle magliette io e Louis avessimo scritto Vip e che avessimo la priorità su tutto. C’era un che di gratificante nell’avere così tanta importanza ed ero felice per Louis nel constatare che Jude non gli toglieva gli occhi di dosso.
Dopo la prima volta e il colloquio con la polizia, mi sentivo in colpa ad assumere di nuovo alcolici con Louis sotto la mia responsabilità, perciò mi accontentai di una bibita analcolica e osservai divertita Louis approfittare della gentilezza del barista per scroccargli un paio di drink. Jude ci assicurò che offriva la casa.
Un agente di polizia chiaramente incaricato di sorvegliare il locale dopo l’incidente, era seduto ai divanetti chiacchierando con due ragazze poco vestite. Mi chiesi se la loro presenza lo distraesse, ma la risposta mi fu subito chiara, vedendo i suoi occhi da pesce lesso. Gli uomini erano pur sempre uomini, anche con una divisa addosso.
Addio alla sicurezza. Pensai. E io dovrei fidarmi della polizia? Scommetto che agenti del genere non riuscirebbero ad acciuffare Simon nemmeno se camminasse loro di fronte.
Per quanto fossi convinta che quelle preoccupazioni fossero ben fondate, mi sforzai di non farmi rovinare la serata da ulteriori angosce. Era tutto a posto, non sarebbe successo nulla di male. Non una seconda volta.
Dopo una mezz’ora Jude lasciò il timone ad una collega e trascinò con se Louis a giocare a biliardo anche se era negato per quel genere di attività. Rimasi a guardarlo per un tempo che mi parve interminabile, aggrappata al mio drink. Era tipico di Louis essere elettrizzato per qualsiasi cosa, ma l’espressione che gli lessi nel volto era di pura gioia e più intensa del solito, anche quando avrebbe dovuto mantenere una certa concentrazione per guadagnare punti al gioco. Jude era gentile e paziente, di tanto in tanto gli posava una mano sulla schiena o sulla spalla con fare premuroso, facendomi provare una stratta al cuore ogni volta che notavo sul viso del mio migliore amico la reazione a quei gesti. Mi interrogai un paio di volte se quello che provavo era gelosia, ma avevo guardato con diffidenza le ragazze che lo trovavano carino così tante volte che ormai sapevo riconoscerne i sintomi o escluderli.
Ero sinceramente felice per lui, con un retrogusto amaro di nostalgia come se quella serata rappresentasse una svolta fondamentale da una fase all’altra delle nostre vite. Mi sentivo malinconica come una madre che si rendeva conto che il proprio figlio era cresciuto e che presto se ne sarebbe andato. Patetico, ma vero.
«Chiedo scusa» una voce soave, quasi incerta, distolse la mia attenzione dall’ultimo tiro di Louis, impedendomi di vedere il risultato. Quando mi voltai incontrai il giovane viso di una ragazza e il suo sorriso appena accennato. Con dita lunghe e sottili indicò la sedia lasciata libera dal mio amico.
«Questo posto è occupato?» Scossi la testa, in silenzio, guardandola di sfuggita, ma notando subito in lei qualcosa di familiare, senza tuttavia riuscire a collocarla con precisione nella memoria. Un ragazzo ben piazzato dai capelli biondi e tirati all’indietro con una passata di gel mormorò un ringraziamento e salì sullo sgabello con un movimento fluido, aiutando poi elegantemente la ragazza a sederglisi in grembo. A quanto pareva, l’unica a non riuscire ad adagiarsi con classe su quegli alti trespoli ero io.
Ritornai a Louis e alla sua nuova carriera come giocatore di biliardo, tenendo il ritmo della musica con le dita sulla pietra del bancone, ma l’immagine della ragazza era come un’interferenza fastidiosa nella mia mente. Un paio di volte sbirciai il suo profilo, le sue guance rosee e le sue labbra in movimento, impegnate in una concitata conversazione. L’entusiasmo sembrava quello tipico di chi si era lasciato conquistare dallo stile particolare del Mephisto.
Quando interruppe la chiacchierata con il biondo per ordinare da bere, si accorse del mio sguardo fisso su di sé e mi sorrise. «Qualcosa non va?» chiese, con gentilezza. Ebbi il buon senso di mostrarmi imbarazzata per quell’invadenza da parte mia.
«Scusami, non vorrei sembrarti una maniaca». Lei ridacchiò, un suono di campanelle nell’inferno di quella confusione. «Non temere, di maniaci ne ho incontrati tanti e tu non ne hai l’aspetto. Temevo di avere qualcosa in faccia». Si passò una mano pallida sulla guancia, come per scacciare un baffo di sugo dopo una scorpacciata di spaghetti.
«No, affatto. Il tuo aspetto mi è familiare, ci siamo già incontrate?»
«Io non ti ho mai vista, ma forse tu hai visto me» spiegò, un istante prima che il ragazzo intervenisse nel discorso.
«Lei è una modella».
«Oh, io pensavo più che altro ad una compagna dell’asilo o delle elementari, ma ecco spiegato il mistero. Probabilmente ti ho visto su qualche rivista, sempre che tu sia quel tipo di modella».
Si strinse nelle spalle. «Sono versatile, ho fatto un po’ di tutto».
Annuii poco convinta, ancora intenta a collocare da qualche parte quei suoi capelli lunghi fino alla vita, di un rosso tendente al castano. Mi sembrava di aver visto cento volte quegli occhi tanto scuri da sembrare pozzi neri e il tocco rosa sulle guance. O forse era la sua espressione vissuta, quasi antica a trarmi in inganno. Una rivista patinata o cartelloni pubblicitari non erano i mezzi migliori per la diffusione di una bellezza così insolita. Il ragazzo accanto a lei non aveva occhi che per lei.
Me ne stetti in disparte, a tratti incapace per vicinanza a ignorare brandelli della conversazione tra i due e a tratti catturata dal riflesso delle luci stroboscopiche e dei corpi danzanti sulle bottiglie di liquore dietro il bancone. I camerieri indossavano ancora i cornetti luminosi, come piccoli diavoli da quattro soldi, piuttosto ridicoli tutto sommato, ma se non altro erano utili per individuare i baristi nella penombra delle fauci di Lucifero.
Dopo qualche minuto cominciai ad annoiarmi, dopo aver cercato in tutta la sala qualche particolare degno della mia attenzione. In pista le mosse divennero subito troppo ripetitive, il poliziotto aveva smesso di interessarmi dal momento stesso in cui avevo capito che dopo le birre e i cocktail che si era scolato non sarebbe stato in grado di distinguere il sedere di un orso dalla sua stessa madre. Una delle due ragazze che gli stavano addosso aveva il mento proprio sulla spalla di lui e sembrava pendere dalle sue parole.
Louis cominciò la seconda partita, lanciandomi uno sguardo esultante e facendo ciao ciao con la mano. Mi sentivo la mamma paziente in attesa che il figlioletto scendesse dalle giostre.
È la sua serata. Mi dissi. Non devi divertirti per forza.
Era così. La prima volta che avevo messo piede lì dentro mi ero detta che non avevo mai visto un locale altrettanto favoloso e che mai avrei provato pari entusiasmo per un altro luogo. Ero convinta che nessuno avrebbe mai potuto convincermi del contrario, ma ogni minuto che passava perdeva sempre più fascino ai miei occhi, sebbene non fosse cambiato nulla.
«Non sembri particolarmente felice di essere qui. Non ti piace?» La ragazza si era sporta verso di me e mi fissava con occhi profondi e inintelligibili, stringendo tra le mani un calice di vino rosso che faceva roteare distrattamente. «Io adoro questo posto».
«Piace anche a me, sono solo un po’ pensierosa».
«Qualcosa ti affligge, mia cara?»
«Niente di serio. Sto guardando il mio amico giocare, laggiù. Diciamo che sono la sua accompagnatrice». Il biondo attese che finissi la coca cola, poi mi rivolse un ampio sorriso. «Ti unisci a noi per un po’ di vino?»
«Servizio taxi, stasera. Non posso bere alcol, ma grazie».
«Dannate regole» commentò, senza insistere troppo. Era incredibile quanto quella conversazione assomigliasse a quella tenuta con Simon, ma quella volta ero ben intenzionata a non trasgredire le regole. Se per uno scherzo del destino mi avesse fermato la polizia per un controllo, quella sera, dovevo essere pura e immacolata come un angelo, altrimenti sì che mia madre mi avrebbe appesa al muro.
Con una stretta allo stomaco il ricordo di lei che fuggiva da me mi fece ricadere nel senso di colpa. Era ancora in camera? Aveva provato a chiamarmi? Lì dentro non c’era campo, mi ripromisi di controllare appena uscita. Non che avessi intenzione di parlare con lei, ma volevo sapere se aveva giocato tutte le sue carte per convincermi a non andare.
«Non ci siamo presentati». La ragazza mi tese la mano. «Mi chiamo Mary Elizabeth, e lui è Kevin, il mio compagno. Ma tu puoi anche chiamarmi Ofelia, ormai è un soprannome che usano tutti i miei amici. Buffo, ma sono conosciuta più con questo appellativo che con il mio vero nome, papà non sarebbe contento dopo tutti gli sforzi per trovarne uno». Avvicinò il calice al naso minuto e inspirò profondamente, poi ne prese un piccolo sorso e sorrise. «Delizioso».
«Perché ti chiamano Ofelia?» chiesi, curiosamente.
«Un artista lo ha scelto come soprannome per me, qualche anno fa. È un personaggio che lo affascinava molto, ne era quasi ossessionato».
«Era?»
«È morto».
«Povero John» sentenziò Kevin. Poi scoppiò a ridere, seguito a ruota da lei, senza che ne comprendessi bene il motivo. Immaginai che mi stessero prendendo amichevolmente in giro, ma il senso di quella battuta a dire il vero, non mi era chiaro. Comportamento tipico degli amanti, crearsi un mondo di riferimenti tutto loro. Mi schiarii la voce, un poco a disagio.
«Beh, Ofelia è un bel nome. Evocativo» mi trovai a dire semplicemente, facendo saltellare i rimasugli di ghiaccio nel bicchiere. Mary Elizabeth, o Ofelia, vuotò il calice e alzò il dito per farsene portare un altro. Al suo gesto un cameriere si mosse alla svelta per soddisfare la richiesta, come se nel locale ci fosse solo lei. Il fascino poteva essere utile anche per quello.
«È la prima volta che vieni qui…come hai detto che ti chiami?»
«Amber. No, sono stata qui un po’ di tempo fa…» fui sul punto di dire che la prima volta non era andata molto bene, ma mi trattenni. Non avevo bisogno dei loro occhi fissi sul foulard. «Ma è difficile apprezzarlo in una sola uscita».
Kevin batté una mano sul bancone. «Concordo!» Esclamò. «San Francisco offre molto, ma il Mephisto era quello che ci voleva. Dico, avete visto i dipinti?»
«E gli specchi?» fece Ofelia, quasi completando i pensieri del suo ragazzo.
«L’esempio perfetto della bellezza estetica».
«Ho sentito di qualche prete che ha protestato».
Feci uno sbuffo e mi strinsi nelle spalle. «Quando mai loro non protestano per qualcosa che non sia uscito dalle loro divine bocche?»
«Già, come se potesse succedere qualcosa di male a divertirsi un po’. Se il locale avesse a che fare con angioletti puri e santi nessuno ci metterebbe piede. Sai che noia!» Kevin strinse la ragazza un po’ più a sé, posandole la guancia sul braccio, ma fissando me.
«Beh, in effetti qualcosa è successo» disse con fare cospiratorio. «Ho sentito che circa una settimana fa è avvenuto un incidente nei bagni».
Abbassai lo sguardo, sperando che il mio viso divenisse d’improvviso imperscrutabile. Feci finta di nulla e mi schiarii la voce. «Davvero?»
Ofelia annuì con un sorrisino. «Una ragazza è stata aggredita, dicono con un coccio di bottiglia. Un modo piuttosto rozzo per fare del male a qualcuno».
«E sporco» aggiunse il biondo. «C’era sangue ovunque, mi stupisce che non sia morta».
Ofelia mi fissò con gli occhi che brillavano. «Mi stupisce maggiormente che Hazaq non abbia finito il lavoro».
Alle sue parole mi sentii mancare. Mi afferrai al tavolo per non crollare dalla sedia e inspirai a fondo. La testa mi ronzava e quel nome riecheggiò tra i miei pensieri come uno sparo.
«Come hai detto scusa?» Avevo capito male, dovevo per forza aver capito male. Mi sporsi verso i due e ripetei la domanda, alzando la voce. Kevin non rispose, impegnato a ridacchiare contro il fianco della giovane, ma lei mantenne una certa serietà, non fosse per un sorriso malvagio che le increspava le labbra rosate.
Allungò una mano verso di me, sfiorandomi la fronte con la punta delle dita. Quel semplice contatto bastò a raggelarmi, aggiunto alla delizia che le leggevo negli occhi.
«Hai capito bene. Non ha finito il lavoro, ma le ha aperto un bel sorriso nella gola…pardon, ti ha aperto un bel sorriso nella gola, Amber Hale, e io non vedo l’ora di vedere la fine di questo giochetto».


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