Il Profumo

di onmelancholyhill
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** Intermezzo ***
Capitolo 4: *** 3 ***
Capitolo 5: *** 4 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


Dovevo cominciare con il silenzio. Non mi avrebbero preso sul serio altrimenti. Non potevo però far loro capire quanto quel silenzio opprimesse tutta la nostra vita insieme. Non ci sarei riuscito, non ho mai brillato con le parole.
Potevo solo raccontare cosa era successo quella sera, e sperare che capissero che raccontando una sera, ne descrivevo cento, mille, duemila, tutte uguali. Speravo che potessero leggermi dentro mentre li guardavo negli occhi. Che riuscissero a sentirmi urlare. 

NON CAPITE CHE E’ SEMPRE COSI’? CAPITE COME DEVO VIVERE?

No. Dall’espressione del commissario, non è così. E’ un uomo sulla cinquantina, con baffi ben curati e capelli radi che tendono più al grigio che al nero. I suoi occhi brillano divertiti. Non mi giro per guardare quello che dovrebbe essere il segretario ma che in realtà è più un galoppino, che scrive dietro di me. So che è l’uomo davanti a me che devo convincere. E so che ho fallito.
Riesce comunque a mantenere la voce ferma per dirmi di aspettare un minuto. Quando chiude la porta dietro di sé e ci lascia soli, mi nascondo il volto tra le mani.
Come trasmettere ad una persona così quello che provo?

 

Ripenso a quello che gli ho raccontato.
Il tavolo apparecchiato per cena. Noi tre seduti a tavola, con nostro figlio al centro. I suoi occhi freddi. Non dice nulla, ma non ne ha bisogno. Non ne ha mai bisogno. Ho sempre sospettato che ormai le poche volte in cui mi rivolge la parola sia per abitudine, per svago, per noia. Come le persone che parlano al proprio cane pur sapendo di non essere capite.
Dopo, mentre sono in cucina a sciacquare i piatti prima di darli in pasto alla lavastoviglie, sento un movimento e so che è sulla porta.
“La pasta era scotta.”
Non rispondo. Per qualche lungo istante l’unico suono è quello dell’acqua che scorre nel lavello.
“Sapevo di non aver sposato un genio, cristo, ma è così difficile tenere d’occhio un fottutissimo orologio?”
Siamo sposati da dieci anni, e so bene che non devo rispondere. Aspetto in silenzio finché posso, poi mi volto. Non c’è più. Sospiro e finisco di sistemare la cucina.
E’ solo molto più tardi, quando siamo a letto, che ricevo la mia punizione. Sto per addormentarmi ormai. Siamo sdraiati dandoci le spalle, come al solito. Senza preavviso, nell’immobilità della notte, il suo piede scatta all’indietro e trova la mia schiena, sulle reni.
L’aria che esce di colpo dai miei polmoni fa un suono, sì, ma questo non vuol dire che io urli. Non devo urlare, mai. Quando, poco dopo, inizio a piangere silenziosamente, il suo respiro si è regolarizzato. Sta dormendo.

 

 La porta sbatte dietro di me e sono di nuovo nel presente. Il commissario si rimette a sedere dietro la scrivania. Ci fissiamo negli occhi per qualche momento, poi scuote la testa, con un sorriso amaro sulla bocca.
“Senta, non si può venire qui per questo genere di cose,” dice in tono sbrigativo. “Ciò che succede nella vostra casa-”
Alzo una mano e lo interrompo, non serve dica altro. Mi alzo e vado verso la porta.
Il commissario non si degna di proseguire dove l’avevo fermato. Non prova a convincermi a risedermi, non si alza e mi mette una mano sulla spalla con fare protettivo, scusandosi imbarazzato. Fa una sorta di sbuffo invece, come a dire ‘Ma guarda un po’’, e sono fuori in corridoio.
Mi guardano tutti. So che sembra paranoico da dire, ma è così. L’uomo che sta dietro il vetro all’ingresso, che mi ha indicato le sedie dove aspettare che il commissario si liberasse, ormai mezz’ora fa; quello che sta fumando fuori sulle scale; due che stanno chiacchierando sulla porta di un ufficio.
Persino il vecchietto che sta seduto ad aspettare il suo turno mi fissa.
Sono tutti divertiti. Non ci sono dubbi che il commissario, quando è uscito dall’ufficio, abbia aggiornato loro di che spasso stava avendo con me.
Sento il peso dei loro sguardi. Senza dire nulla mi avvio all’uscita e mentre esco sento ciò che dicono i loro occhi rimbombarmi nella testa.

 

Se un uomo non sa tenere a bada la propria moglie, che razza di uomo è?

 

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Capitolo 2
*** 2 ***


Quando entro in casa lei mi aspetta all’ingresso.
“Dove sei stato?”
“A comprare il latte.”
Non sono mai stato bravo a mentirle e alzo la busta di plastica bianca contenente la bottiglia di latte come se fosse uno scudo. Per un momento riesco a non vedere i suoi occhi.
“Ci hai messo due ore. Piantala con le cazzate. Dove sei stato?”
Non è colpa mia se ormai anche al commissariato c’è la fila, penso.
Con fare casuale si è avvicinata.
“Vabbe’, ho fatto anche un giro, qual è il problema?”
Siamo uno davanti all’altra adesso. I suoi bellissimi occhi blu sono fissi nei miei. Non riesco a reggere lo sguardo a lungo, e li abbasso. Fulminea, mi prende il braccio e me lo gira dietro la schiena.
“Daaaai, a me lo puoi dire dove sei stato,” dice come se stessimo giocando, ridendo. Con uno strattone ed una spinta in avanti mi fa mettere in ginocchio.
“Dove sei stato? Dove? Andrea? Andreeeeaaa… DOVE SEI STATO?”
Il braccio mi fa malissimo ora. Il tono allegro con cui pronuncia il mio nome mi da i brividi.
Sono con la schiena piegata in avanti adesso e lei è sopra di me. I suoi lunghi capelli biondi si riversano sulla mia testa e l’odore del suo profumo, lo stesso da anni, mi riempie il naso.
Sto cedendo e apro la bocca per dirle dove sono stato, per provare a farla ragionare, per farle capire che l’ho fatto perché questo non è più vivere, perdio, e come per magia le parole che escono non sono quelle che avevo in mente.
“Alla Snai! Sono andato alla Snai a scommettere sulla partita di stasera, va bene?!”
Se c’è una cosa che ha sempre odiato sono le scommesse, anche se mi sono sempre limitato ad una schedina ogni tanto, quando mi sentivo di poterci prendere.
La bugia non è di qualità migliore della precedente, ma l’aver ammesso di aver fatto qualcosa di proibito la calma.
L’avermi fatto confessare la fa tornare l’elemento dominante.
“Ti ho sempre detto che le scommesse sono da pezzenti,” mi sussurra suadente. Poi mi libera il braccio. Non faccio in tempo ad afferrarmi il polso, ansimando per il dolore, che con una ginocchiata precisa mi colpisce alla base della schiena, sull’osso sacro. Crollo a faccia in giù nel tappeto e vengo lasciato solo.
E se questo è stato il prezzo da pagare per aver provato a cambiare le cose, non mi pento di un secondo passato davanti a quella testa di cazzo del commissario.

Quando dopo qualche minuto mi alzo il dolore è ancora forte. In qualche modo riesco a raggiungere la poltrona in salotto e chiudo gli occhi. Devo riprendermi per quando Marco tornerà da scuola quindi decido di concedermi un attimo di pace. Quando chiudo gli occhi mi trovo a ripensare a tutti gli anni in cui io e Sara siamo stati insieme. Se qualcuno mi chiedesse in questo momento quando questo è cominciato, non saprei rispondergli. Gli potrei confermare che no, la donna che mi ha appena aggredito all’ingresso di casa mia non è la stessa persona che ho sposato. 

All’epoca vivevo ancora con i miei andando da un part-time all’altro dopo la maturità. Ero riuscito a pubblicare un romanzo in una piccola casa editrice con una manovra che qualche aspirante scrittore saprà essere un mezzo suicidio economico. Servirà a mettere un piede nella porta, mi dissi, e infatti mi facilitò le cose quando scrissi e riuscii a vendere il mio secondo. E’ più facile se sul curriculum puoi mostrare di aver pubblicato qualcosa in passato, anche se hai dovuto pagare per farlo.
Inoltre a differenza del primo, era oggettivamente un bel libro e meritava di essere pubblicato, per quanto difficile la cosa sia per uno scrittore emergente. Ma grazie a quel timido tentativo che venne venduto principalmente ai miei parenti, ci riuscii e ne sono orgoglioso.
Quel libro mi consentì di ottenere una certa indipendenza economica dai miei genitori e li convinse a farmi iscrivere alla facoltà di lettere.
Sara aveva la mia età e stava facendo una sorta di specialistica quando cominciai a frequentare il primo anno. La vidi per la prima volta quando ci fece una lezione di scrittura creativa, e non mi serve il rancore di questi dieci anni di matrimonio per dire che fu una delle peggiori lezioni a cui abbia mai assistito. Però mi dissi, che diavolo!, era veramente carina e indossava sempre quel suo profumo fantastico. Con una scusa la avvicinai e cominciammo a parlare. Poi a uscire. Quando a 25 anni finalmente mi laureai, con la convinzione di aver buttato tre anni della mia vita, ci sposammo. In quell’epoca lei aveva già cominciato ad insegnare alle superiori, per la felicità dei suoi alunni.
E con lei impegnata a scuola, io avrei finalmente avuto tutto il tempo che volevo per scrivere il mio terzo romanzo, quello che ero sicuro mi avrebbe lanciato nel mondo della letteratura. 

Gli appuntamenti nel mio studio dopo cena per vedere quanto scritto durante il giorno erano iniziati come una cosa giocosa. Quando mi dissi che non bisognerebbe far leggere a nessuno quello che si scrive prima di aver finito, ci pensai su e scrollai le spalle. Dopotutto, era mia moglie e non era certo estranea al processo che mi divertivo a chiamare crafting. All’inizio era contenta di quello che scrivevo. Poi cominciò a fare degli appunti qua e là, con tono quasi distratto, e come darle torto? Quella frase suonava veramente male, e quel passaggio in fondo era veramente inutile. Aveva ragione lei, no? Poi dagli appunti si passò alle correzioni, e non ci mise molto per farmi sentire come sono sicuro faccia sentire i suoi studenti. Se chiudo gli occhi vedo ancora i suoi tratti di penna rossa che commentano o cancellano alcuni passaggi di quello che avevo scritto ogni giorno.
Col passare del tempo, invece di venire del mio studio, ero io ad essere convocato nel salotto, la produzione giornaliera in mano, come un bambino che deve mostrare alla mamma l’ultimo disegno fatto con i nuovi pastelli che gli sono stati regalati.
Da 4-5, scritte con impegno e dedizione nell’arco di tutta la giornata, le pagine diventarono un paio, per arrivare poi a mezza facciata buttata giù prima di pranzo.
Alla fine, smisi di scrivere del tutto e mi trovai un lavoro come autista part-time per un’azienda locale. Le poco più di 250 pagine del mio romanzo, quasi tutte segnate in rosso, sono finite in un cassetto della mia scrivania

Un anno dopo nacque Marco e cominciammo a litigare praticamente sempre.  Quando avevo 27 anni, durante una lite, mi spinse giù dalle scale condominiali e mi ruppi una gamba.
Da allora, mi dico che la lascio fare per il bene di Marco. Aveva solo due anni, e non doveva crescere in una famiglia a metà.

 

 La verità è che la lascio fare perché sono un debole.

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Capitolo 3
*** Intermezzo ***


Dalla scrivania di Antonio Ferri, Commissario dell’Arma dei Carabinieri.

Signor Andrea Merli,
a nome dell’Arma ci tengo a farle le mie scuse per come è stato trattato ieri pomeriggio nel mio ufficio. Dopo averne parlato con mia moglie ho capito che il mio comportamento non è stato professionale e sono mortificato. 
Purtroppo in merito a quanto mi ha detto le confermo che non è possibile per noi un intervento. Capisco che si senta oppresso dal suo matrimonio, ma quello che mi ha raccontato non sconfina i termini della classica discussione di coppia. 

Se dovesse avere bisogno, le posso consigliare di visitare diversi siti che offrono numeri verdi o consulenza matrimoniale. Penso che lei ne abbia davvero bisogno.

In fede,
Antonio Ferri.


La lettera era stata appoggiata con noncuranza sul tavolino accanto alla poltrona in salotto. Anche dopo essere stata letta una volta sola, tenuta in mano per meno di un minuto, un dolce profumo già la impregnava. 

 

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Capitolo 4
*** 3 ***


Alla fine il dolore alle spalle diventa lancinante e mi accorgo che sto ancora fissando la lettera, le buste della spesa in mano. E’ passata una settimana dal mio incontro con il commissario ed ero convinto di averla fatta franca. 
Tentativo inutile, ma almeno te la sei cavata con poco, mi ero detto.
E’ proprio quando pensi di essere al sicuro che dovresti iniziare a guardarti le spalle. Il mio pensiero va subito a Marco. Immagino dovrei essere fiero di me stesso. Nonostante tutti i discorsi sulla mia debolezza d’animo, ho pensato prima a lui che a me. Ma è mattina, e lui è a scuola. La casa è tutta per noi. Poso le buste della spesa a terra e guardo la porta che si apre sul corridoio. So dove mi sta aspettando. L’ironia della cosa non mi sfugge. Prima uscivo dallo studio titubante per farle leggere qualcosa che avevo scritto; ora ci stavo andando per rispondere di qualcosa che qualcuno aveva scritto a me. 
Questa volta non me la caverò con qualche segno rosso sui miei fogli.

 

La scia del suo profumo mi accompagna per tutto il corridoio, facendomi pensare più alla ragazza che era che alla donna che è diventata. La porta è socchiusa. Deglutisco ed entro. Ero convinto che si sarebbe messa dietro alla porta, pronta ad aggredirmi nell’istante in cui avessi messo piede nella stanza, ma mi do dello stupido. Non è da lei. Eccola infatti seduta dietro la mia scrivania, la schiena leggermente inclinata all’indietro, le braccia appoggiate indolenti sui braccioli, un’espressione di leggero divertimento sul viso.
Non le do la soddisfazione di parlare per primo, di provare a giustificarmi. Riesco addirittura a guardarla negli occhi.
“Sai, non pensavo potessi avere le palle per fare una cosa del genere. Avrei pagato per vedere la faccia che hanno fatto in centrale quando hai detto come ti sentissi… com’era? Oppresso! Ti senti oppresso da questo matrimonio Andrea?”
Quando arriva a pronunciare il mio nome lo fa quasi con dolcezza. Forse ne potremo parlare. Forse non è troppo tardi. 
“Beh, le cos-”
Oppresso!,” urla e afferra il blocco di plexiglass con una miniatura del Colosseo dentro che funge da fermacarte e me lo tira addosso. Se mi avesse colpito sulla tempia…, penso. Se mi avesse preso l’occhio…, ribatto. Mi prende in piena fronte e fa un male d’inferno e il sangue mi va negli occhi. Mi porto le mani al viso e mentre sto urlando dal dolore vengo spinto all’indietro e atterro di schiena per terra. Dev’essersi alzata mentre urlavo perché non l’ho sentita muoversi e lo shock della caduta improvvisa è quasi peggio del dolore alla testa. Quasi. Sono riuscito a pulirmi gli occhi in qualche modo, li strizzo e bruciano e un calcio mi arriva alle costole.

Oppresso? Oppresso? continua a gridare, il dolore è forte e quando un altro calcio arriva la mia mano parte e non so come grazie grazie grazie le riesco ad afferrare la caviglia, non so cosa fare ma mi basta averla presa che per lo slancio del calcio almeno credo casca a terra, sento il thud e la sento imprecare e penso solo ad alzarmi in piedi. Gattoni è quello che riesco a fare ma va bene, mi avvio per il corridoio che solo qualche istante prima avevo percorso spaventato ma non sapevo a cosa andavo incontro oh no se l’avessi saputo avrei preso la macchina sarei andato a scuola da Marco e via dai miei genitori ma ora conta solo continuare a muovermi e sperare che abbia battuto la testa. Ma la caduta dev’essere stata una cosa da niente perché la sento camminare dietro di me e provo ad alzarmi di nuovo ma credo di avere qualche costola rotta e mentre sto a quattro zampe cercando di raggiungere il salotto sono un bersaglio perfetto per un altro calcio che mi prende nella bocca dello stomaco e mi lascia senza fiato. Mi accascio su un fianco e la vedo  che in piedi che si appoggia con la schiena al muro davanti a me. Siamo sui due lati opposti del corridoio e per un istante ci guardiamo negli occhi riprendendo fiato. Il tempo sembra tornare normale per un istante, ho tempo di pensare e guardandola negli occhi mi chiedo come avessi potuto essere così cieco, non vedo odio, disgusto o disprezzo ma semplice, sana follia.
Qual è l’aspetto della follia? L’aspetto della donna con cui hai vissuto per anni che cerca di ucciderti. L’aspetto di una persona mentre sta prendendo fiato sapendo che appena si riprende potrà finire l’opera.
E io che avevo sperato le cose si potessero risolvere. 

 

Il suono dei nostri respiri affannati riempie il silenzio della casa. Non voglio rompere questo momento di pace e piano piano riesco a mettermi a sedere. Lei sorride e si avvicina, temo altri calci ma forse non è abbastanza per lei, sono una delusione anche in questo, non riesco neanche a impegnarla nel farmi del male. Mi afferra la maglia e prova a tirarmi su. Sono troppo pesante per lei, ma mi impegno e reprimo il dolore delle costole probabilmente rotte e riesco ad alzarmi. Non sono molto lucido ma capisco che ha appena commesso un errore. Sarò una persona mite, che ha mangiato merda per anni elogiandone il gusto e chiedendo anche il bis, ma sono comunque più alto di lei di un palmo. Mi da uno schiaffo e la mia testa urta il muro dietro di me, ma non abbastanza forte da impedirmi di metterle le mani intorno alla gola e di buttarmi a terra sopra di lei. E siamo a due volte che riesco a buttarla giù, ma con me che le atterro sullo stomaco la musica è diversa. Butta fuori il fiato e mi guarda disorientata, continuo a stringere e le sbatto la testa per terra. Non voglio ucciderla non voglio e vedo del sangue sul pavimento e lei che chiude gli occhi e mi fermo. Mi serve tutta la mia forza di volontà per rimettermi in piedi, le braccia incrociate sul petto come potessero in qualche modo alleviare il dolore. Barcollo verso il salotto, girandomi di tanto in tanto per controllare che sia ancora in terra. Il suo seno si alza e sia abbassa lentamente. E’ ancora viva.
Non mi hai reso peggiore di te. Almeno in questo hai fallito. 
Apro la porta di casa e il fresco del pianerottolo è rinvigorente. Chiamo l’ascensore, ci entro dentro e premo il pulsante con la grande T sopra.
Poi perdo conoscenza.






L'ultimo capitolo sarà pubblicato il 17 Febbraio

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Capitolo 5
*** 4 ***


Nella mia ingenuità avevo pensato che la mia musa sarebbe tornata. Come se una cosa come la musa esista. Forse i grandi scrittori ce l’hanno, o forse ne parlano per poter avere qualcosa da dire quando fanno i tour promozionali dei loro nuovi best sellers. Sara è stata portata via sei mesi fa ormai, ma si potrebbe dire che non se n’è mai andata. E’ nella schermata bianca di Pages che non ne vuole sapere di riempirsi. Avevo letto da qualche parte di uno scrittore che quando gli chiesero come facesse a scrivere romanzi così lunghi, rispose “Una parola alla volta.” Probabilmente si sentiva simpatico. Ma ogni frase che scrivo sembra più ridicola della precedente. E’ come se Sara stesse fissando lo schermo insieme a me, pronta a giudicarmi come un tredicenne alle prese con un saggio su Manzoni.
No, la mia carriera di scrittore è finita. 

Non che mi lamenti alla fine. Chi scrive per riempirsi il portafoglio non è un granché come scrittore. Ridendo al cliché della cosa, provai a chiedere un posto come insegnante di italiano al liceo della mia città, ma non ci troviamo in un romanzo di Stephen King. Scrittore fallito che insegna inglese in un liceo sperduto del Maine. Mi accontento di ripetizioni anche se i soldi non bastano mai. I miei genitori mandano qualcosa ogni tanto ma stiamo scavando nei nostri risparmi e prima o poi la cosa andrà affrontata in maniera più decisa. Quando mi hanno offerto di andare a vivere con loro ho ringraziato ma ho detto no. Marco ha perso sua madre, non volevo perdesse anche i suoi amici spostandosi a mezzo paese di distanza. 

Sbuffo infastidito. Normalmente riesco a buttare giù qualcosa, giusto per orgoglio. Tre-quattro righe una più brutta dell’altra. So che non pubblicherò mai un altro libro, ma scrivere fa parte di me. Oggi nulla. Fisso il cursore che lampeggia sentendomi a disagio. Può essere la mancanza di sonno che mi ha afflitto negli ultimi sei mesi. Guardo l’orologio, 11:34. Marco non esce da scuola prima dell’una. Imprecando sottovoce abbasso lo schermo del portatile e mi alzo. Da quando Sara non c’è più mi sono abituato a percorrere il corridoio con gli occhi semichiusi, cercando di dimenticare le urla, il dolore, il sangue. Ma questo rituale oggi non aiuta. Mi bastano una decina di passi al buio per essere in sala, li ho contati. Ma appena esco dallo studio, e abbasso le palpebre, il terrore mi stringe lo stomaco.  E’ come se lei fosse lì accanto a me. Corro verso la sala, il cuore che batte forte in petto. Ottimo, mi mancava la paranoia. Riprenditi cristo.

Come se dire a chi sta male di riprendersi abbia mai funzionato. Me lo dico anche da solo, quanto posso star messo male? La casa è immersa nel silenzio, tutto è al suo posto. Ma qualcosa non va. Ho buttato una buona parte della mia adolescenza guardando a ripetizione Star Wars e se uno di quei personaggi fosse qui direbbe I feel a disturbance in the Force. Ma questa è la vita vera, e sembra tutto apposto. Forse è questo che si prova ad avere una crisi di panico. 

Mi siedo sul divano e prendo il telecomando in mano. Fisso lo schermo nero del televisore, senza nessun particolare desiderio vedere qualcosa. Prendo un respiro profondo e lo accendo. Mi distrarrà un po’, è solo una crisi di panico. Sono passati sei mesi ma è normale è accaduto proprio qui è normale sentirsi così anche un dottore te lo direbbe stai calmo. 

E’ il TG1 e il presentatore sta parlando degli ultimi risultati del campionato. Non mi interessano particolarmente, da quando non faccio più le schedine non seguo più le partite. Un vizio innocuo, qualche euro al mese, solo quando era sicuro. Ma a lei non andava bene. Non le andava mai bene niente. Il senso di disagio aumenta. Lo sguardo mi cade sulle scritte in sovrimpressione sul bordo basso dello schermo. Il TG è in chiusura e i titoli delle notizie annunciate prima che accendessi lo schermo scorrono davanti ai miei occhi.

TRANI: DUE GIORNI FA EVASIONE DAL CARCERE FEMMINILE. AMMINISTRAZIONE AMMETTE INSABBIAMENTO. TRE LATITANTI.

Per un attimo tutto si ferma e ho tutto il tempo di ammirare l’accuratezza della frase avere il cuore in gola. Deglutisco.
E’ lei è lei è lei è lei
Ho le mani che tremano, ma riesco a spegnere il televisore. Il silenzio torna padrone dell’appartamento. Non sono paranoico, non sto avendo un attacco di panico. Sono fottutamente terrorizzato. 

Il senso di disagio mi colpisce più forte di prima. E ora capisco cos’è. 

E’ il suo profumo che aleggia indolente nell’aria.

E quando una mano mi afferra la spalla sinistra e sento il freddo della lama sulla gola, sono sollevato. Finalmente è finita.




E siamo arrivati al nostro epilogo. Forse il finale vi lascerà l'amaro in bocca, forse speravate in un lieto fine. Sinceramente ci speravo anche io, ma quando la storia ti porta da qualche parte è difficile farle cambiare direzione. Andrea è una persona fragile e non ci si riprende facilmente da una vita di abusi fisici e psicologici.
Se ne avesse avuta l'occasione avrebbe lottato? Secondo me sì, come ha lottato nel capitolo precedente. In un certo senso Andrea non si è mai arreso, ha semplicemente accettato la fine quando questa era ormai inevitabile. Ma anche qui, questa è solo la mia interpretazione. Non avrei potuto immaginare un finale diverso, ma questo non vuol dire che io pretenda di sapere cosa pensassero, nel profondo, i personaggi. Magari avrete un'idea diversa, e non sarebbe meno corretta della mia. 
E questo ovviamente non vuol dire che la mia personale opinione è che non ci si possa mai riprendere dopo abusi del genere. E' questa storia che è andata così, che mi ha portato a scoprire la vita di Andrea e  Sara. Come si erano conosciuti, come hanno vissuto, come sono arrivati alla fine. Ho dovuto fare delle scelte mentre scrivevo, ma guardando indietro ai 9 mesi che ci ho messo per farlo (sono lento, lo so) mi rendo conto che non fossero poi così libere, come scelte.
Spero vi sia piaciuta e aspetto di sentire le vostre opinioni nelle recensioni, che come sempre mi fanno un immenso piacere. 

Alla prossima storia!
- Alessandro

 

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