Le Cronache del Servallo - la Furiosa guerra degli Dei di Servallo Curioso (/viewuser.php?uid=57725)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dopo tanto tempo ***
Capitolo 2: *** La notte del tempio ***
Capitolo 3: *** Incontri inaspettati ***
Capitolo 4: *** Trasformazione ***
Capitolo 5: *** Il dio indifferente ***
Capitolo 6: *** Il piano perfetto ***
Capitolo 7: *** L'inferno alle porte del paradiso ***
Capitolo 8: *** Distruzione e conoscenza ***
Capitolo 9: *** Una corsa frenetica ***
Capitolo 10: *** Superstiti e Vittime ***
Capitolo 11: *** Preparativi ***
Capitolo 12: *** Partenza ***
Capitolo 13: *** Risultati utili ***
Capitolo 14: *** La città delle bambole ***
Capitolo 15: *** La dea enigmatica ***
Capitolo 16: *** Il figlio che supera gli altri ***
Capitolo 17: *** La furia nelle vene ***
Capitolo 18: *** Viaggi ***
Capitolo 19: *** Il margine della sicurezza ***
Capitolo 20: *** L'ibrido Perfetto ***
Capitolo 21: *** La forza della disperazione ***
Capitolo 22: *** Te lo Prometto! ***
Capitolo 23: *** Il primo passo verso la battaglia ***
Capitolo 24: *** Come bravi fratelli ***
Capitolo 25: *** Il corridoio delle anime ***
Capitolo 26: *** Fate silenzio, prego ***
Capitolo 27: *** In memoria dei morti ***
Capitolo 1 *** Dopo tanto tempo ***
Servallo:
La
furiosa guerra
degli Dei
Act.1
– La casta divina
Al principio, quando il mondo degli
uomini si reggeva su un equilibrio precario, l'entità
chiamata
Padre plasmò delle creature capaci di mantenere l'ordine.
Queste presero il nome di Dei. Ognuna delle
identità, create
per fini differenti, si sarebbe occupata di governare il continente
preservandolo dalla distruzione. Ma, siccome sto qui a scrivere la
loro fine, non furono in grado di portare a termine quel compito.
Io sono l'archivista, l'unico che ha le
capacità di narrare tutta la storia nei suoi più
segreti dettagli. Quando il Padre mi creò, lo fece con la
chiara intenzione di rendermi un curioso che passa la sua esistenza
ad accumulare informazioni sulla realtà. Un dio capace di
osservare paziente lo scorrere degli eventi.
Evidentemente fallì: io amavo
muovermi, sognavo di vivere le avventure che sentivo ed ero troppo
curioso per passare la mia vita dietro una scrivania. È per
questo che mi ritrovo ora a scrivere una storia ormai conclusa, in
netto ritardo rispetto al momento in cui è successa.
Io sono l'archivista, io ho il diritto e il dovere di fare ciò
Capitolo
1
– Dopo tanto tempo.
Sono nato con un compito e devo
decidermi a rispettarlo. Non posso decidere così liberamente
come la gente crede.
Essere una divinità è forse più
complicato che vivere una vita di stenti.
Era tanto che non
uscivo dalle immense sale del Palazzo.
Mi trovavo in uno spazio
grande e pieno d'aria solo da pochi minuti e già mi sentivo
catapultato in un'altra realtà che non vedevo da tempo.
Onestamente non sapevo neppure il nome di quel santuario. Non mi ero
informato. Per me era solo importante essere lì.
Non
riuscivo davvero a ricordare quanto tempo fosse passato dall'ultima
volta che avevo affrontato uno scontro. Mio padre mi aveva sempre
detto che ero stato creato per tenere in ordine le carte, giocare con
i documenti e badare alle parole stampate. Io mi occupavo
dell'archivi: dagli eventi del passato remoto alle ultime vicende;
ogni notizia passava attraverso me e io dovevo osservarla.
Nient'altro.
Eppure non volevo che gli uomini mi ricordassero
così. Già vedevo le loro facce mentre con
ilarità
pronunciavano in mio nome, facendomi sfottere persino dai loro
piccoli figli tenuti in braccio dalle madri. No, non volevo, ma
così
era. Se la fortuna fosse girata dalla mia parte, non si sarebbero
ricordati affatto di me, tanto meglio.
Ora però ero lì.
Nelle rovine di un santuario da poco eretto. Intorno a me l'aria
nebbiosa della montagna. Con le sue rocce spoglie, ripide e
scivolose. Con la neve e il freddo.
Avevo pregato Revery di
trovarmi un compito emozionante. Lei e il suo sottoposto non erano
sembrati contrari fin dall'inizio, però dovevano pensarci.
Non
si trattava di uno strappo alla regola, dissi per convincerli, dovevo
solo sgranchirmi un po' prima che il mio corpo diventasse gobbo per
il lavoro.
“Senti, c'è una cosa piuttosto
semplice”.
Revery mi disse di Lorissy e di ciò che aveva trovato.
Il
suo sottoposto era un marcantonio dai contorni spigolosi e dai rasati
capelli rossicci. Il rossiccio era un colore che non mi era mai
piaciuto, ero contento che se li fosse tagliati. Si vedevano appena,
timidi e in gruppo, che crescevano di nuovo sulla testa di quel
ragazzo incredibilmente alto e robusto. Non era un dio, poteva
vantare solo dei compiti importanti, delle conoscenze tra le caste
divine e dei poteri donatili dalla stessa Revery per premiarlo della
sua fedeltà. Si diceva che, quando era tutto umano, quel
Lorissy fosse un valoroso ma giusto combattente. Aveva messo al
servizio degli dei i suoi poteri e combatteva i demoni e le creature
maligne, benché le sue forze umane fossero appena necessarie
per farlo sopravvivere, porgeva, inoltre, sempre i propri onori agli
dei, soprattutto a quella Dea che ora lo aveva al suo capezzale.
Sentita la storia reputai
pazzi
entrambi: lui perché aveva affrontato senza timore cose che
non riusciva a comprendere e lei perché lo aveva ritenuto
degno di poteri divini. Ora capivo un po' meglio.
Brava la mia
divinità, affiancarsi a un bel figliolo del genere, davvero
brava. Avere desideri così maliziosi nei confronti di un
guerriero umano, però, infangavano la divina essenza di cui
era fatta. Ma chi sono io per additarla?
Tornando all'affare,
Lorissy, il suo affabile sottoposto, aveva trovato un piccolo demone
ed entrambi erano convinti che io potessi svolgere quella piccola
missione al posto loro.
“Ti servirà a sgranchirti”
disse Revery ridacchiando.
Con un gesto della mano, troppo sottile
per i miei gusti, mi indicò il luogo. L'immagine del tempio
apparve in una pozza vicino a lei. Anche se semplicemente riflessa in
uno specchio d'acqua alle porte del regno divino, quell'immagine, mi
donò abbastanza informazioni per andare con sicurezza senza
perdermi in inutili spiegazioni. Grazie ai miei occhi, anche una
piccola increspatura nell'acqua era sufficiente a fornirmi precise
indicazioni.
Lei ancheggiò voltandosi e dandomi le spalle.
Mi mostrò un'ultima volta la sua figura fisicamente gracile
e
piccola, troppo per sembrare la dea predisposta a proteggere
l'ingresso al mondo divino, ma era solo un'illusione. Lei era forte,
lo sapevo bene.
Stavo tentando di evitare i colpi più
potenti. Tenendomi così a distanza non potevo sperare di
ucciderlo con facilità ma almeno avevo salvo il mio corpo.
Quel 'piccolo' demone trovato da Lorissy, era cresciuto molto
velocemente e ora aveva preso le sembianze di un'enorme scimmia a tre
teste. Tre odiose teste di scimmia, che urlano, sputano lingue a
forma di serpente e urlano, più forte.
Lo svantaggio di
essere una divinità da ufficio e archivio è
quello di
non avere una di quelle armi magiche che fanno sempre impallidire i
nemici, o sospirare le fedeli. Potevo combattere solo con la mia
magia divina, che era abbastanza per tenerlo a bada ma non possedeva
capacità sceniche, fantastiche e segrete. Per questo dovevo
combattere usando dei vecchi fogli di carta, riempiti di scritte
ormai inutili. Erano, comunque, fogli speciali, intrisi del mio
potere. Avevano assunto una strana forma, simile a quella di un
uccello e volavano furiosi attorno al bersaglio.
Avevano assunto
quella forma ed erano vivi e dai bordi affilati come spade. Volavano
attorno al corpo della scimmia-cerbero senza però
allontanarsi
troppo da me. Era la mia magia, dopotutto, a tenerli in vita.
Facevano giri veloci e turbinavano sul corpo del mostro tagliando,
ferendolo e lacerandolo. Ma erano attacchi troppo leggeri per
ucciderlo o metterlo in seria difficoltà.
Se solo avessi
avuto una di quelle armi speciali.
Il mostro sbraitava e cercava
di prendermi ma io mi dileguavo velocemente dopo ogni individuazione.
Almeno i riflessi e l'agilità li avevo sviluppati.
Ormai però mi
stavo stancando:
tutta questa attività fisica non la potevo reggere, non ci
ero
abituato. Il grande Padre aveva detto che i poteri divini derivano
dall'essenza stessa di una divinità. Al momento della
nascita,
il seme divino conferisce dei doni ed essi non posso cambiare in
nessun modo durante il tempo. Mi aveva spiegato, anche, che alcuni
dei vengono a conoscenza dei loro poteri un po' alla volta
perché
posseggono abilità assopite. Inizialmente ci avevo creduto
molto in questa storia. Quando lavoravo negli archivi del grande
Palazzo speravo sempre di scoprire, un giorno, di avere un potere che
faceva impallidire le bolle di Chube o l'anello di Revery, invece
adesso mi rendo conto che io sono proprio inferiore agli
altri.
Mentre i miei uccelli lavoravano duramente decisi di
mettere in pratica un altro dei trucchi che avevo imparato tra le
carte dell'archivio. Richiamai a me decine di altri inutili documenti
ed essi si unirono tra loro, compattando i pallidi o ingialliti
fogli, fino a formare un lungo giavellotto solido fermo e sospeso
davanti a me.
Lo afferrai sicuro e feci qualche passo in avanti,
dandomi la spinta necessaria a lanciarlo. No, non ero portato per la
lotta ma ero pur sempre un dio, questi giochetti umani per me erano
uno scherzo.
Non fu la precisione a stupirmi ma la forza con la
quale si conficcò nella spalla sinistra del robusto
mostro.
Uno non era bastato, forse avevo bisogno di altri
giavellotti.
Evitai le sue tre lingue serpentine pronte a
vendicare l'offesa con uno scatto laterale e dopo essermi fermato ne
creai altri tre. Di carta ne avevo pressoché infinita e
potevo
sprecarmi al tiro al bersaglio.
Ne scagliai uno e dopo pensai che
mancava di forza, dopo il secondo pensai che era meglio lasciare
perdere quella bestia e al terzo ritrovai la speranza di
vincere.
Quattro lance conficcate nel corpo non erano bastate a
ucciderlo, data anche la scarsa profondità delle ferite, ma
avevo un piano di riserva. Anzi, era il piano principale fin
dall'inizio.
Battendo tra loro i palmi delle mani lasciai che le
mie armi perdessero consistenza, tornando semplici documenti sparsi,
fogli dalle antiche scritte, che si andarono ad appoggiare sulla
pelle della scimmia.
Il demone non capiva più cosa stava
accadendo e io ero soddisfatto di ciò. Finalmente, pensai,
non
dovrò più evitare i suoi attacchi.
Attesi che gran
parte della carta fosse aderita al corpo demoniaco e battei una
seconda volta le mani tra loro, con maggiore forza, gridando un poco.
Volevo dare enfasi al momento.
Questa volta i fogli, uno dopo
l'altro, esplosero rilasciando la mia energia. Tutte le parti del
corpo della scimmia dalle molte teste furono coinvolte nelle varie
esplosioni.
Piegai appena le ginocchia, lasciandole imprecare
verso la mia figura divina per lo sforzo mentre il mostro cadeva a
terra rilasciando la sua energia purpurea come una nuvola di gas. Il
suo corpo si sciolse, rivelando il seme originale dal quale era nato.
Ogni volta guardavo questi semi
affascinato. Sembravano piccole pietre ovali, né dure
né
morbide: erano malleabili e dal color rosso o viola. L'ultima volta
che ne avevo presa in mano una era successo molto tempo addietro,
durante un mio viaggio quando ero appena nato, e come quella volta la
distrussi.
Potevo finalmente posare il mio sedere su qualcosa
di solito, che lo reggesse o sperare di stendermi per alleviare le
pene. Avevo usato troppa energia, ero stanco e fuori dalla forma
tipica nella quale ci si aspetta di vedere un dio. Il mio ruolo non
era quello, lo sapevo benissimo, ma era veramente umiliante.
Ero
debole e questo mi faceva sentire ancora più debole. Sempre
di
più, in un circolo di pensieri dove non si tocca mai il
fondo.
Non durò per sempre.
Dal nulla, letteralmente, comparve la
sagoma della cuoca. Mi si avvicinò rassicurandomi.
“Sei
stato molto bravo, tutto il tempo passato tra i libri ti ha insegnato
qualcosa” disse.
Io annuii con il capo rialzandomi dal masso. Mi
porse una sacca di seta che conteneva chissà quale pietanza.
“Un tempo neppure potevi ambire a fare spettacoli del
genere”.
Era
troppo gentile e lo comprendevo molto bene. Ma lei credeva nelle sue
parole così come credeva nella grazia divina. In qualsiasi
momento mi dava conforto.
I miei capelli color corvo erano sempre
ordine ma il mio sguardo smeraldino inizialmente vivo era ora stanco,
sfinito. Lei invece, che si occupava del cibo per gli dei, aveva una
lunga chioma mossa e cremisi che avvolgeva il corpo esile e dalla
quale sbucavano due occhi azzurri e grandi.
“Sei venuta a vedere
se ci riuscivo?”
Lei mi guardò piegando leggermente la
testa di lato e rispose in maniera sarcastica. La sua slanciata
sagoma si mosse un po' per guardarsi intorno.“Ovvio! Revery
mi ha
detto che eri andato da un demone. Ho pensato che il tuo nome e il
termine 'Demone' nella stessa frase non fossero di buon
auspicio”.
“Grazie, molto gentile” risposi. Non ero proprio
in vena di battute. Già muovere la bocca per articolare
poche
parole mi sembrava uno sforzo enorme, figuriamoci se dovevo compiere
espressioni complesse.
Lei però si offese del mio scarso
senso dell'umorismo.
“Insomma. Sei nato così, per un
ruolo, e non puoi pretendere di essere bravo in altri”.
Giusto, che
potevo pretendere?
Ciò che mi faceva più arrabbiare,
con rispetto per il Grande Padre, era proprio il mio essere.
Perché
far nascere lei, Katyana dea dei dolci, così amante della
cucina e Revery, dea della vigilanza, così vigile e attenta,
mentre io, dio segretario, dovevo possedere un'indole così
avventurosa che si trovava all'opposto del mio ruolo. Se il Grande
Padre ci aveva creato così un motivo doveva pur esserci,
eppure mi sfuggiva quale.
Voleva forse tormentarmi per
l'eternità?
Dopo aver mangiato quella focaccia così
buona e portatrice di tranquillità e energia, tornai al
Palazzo.
Camminavo tra i corridoio sapendo di dovermi rinchiudere
di nuovo dentro le mie stanze per tornare a essere una semplice
segretaria.
Ma mentre percorrevo il più lungo corridoio
dell'ala est feci un incontro inaspettato, o quasi. Appoggiata con i
gomiti sul davanzale di una delle finestre c'era Chube. Guardava
fuori, al di là dei vetri lucidi e puliti. Dalla serie di
vetrate si poteva osservare la base del Palazzo, i suoi dintorni e i
giardini, ma uno sguardo divino poteva arrivare più in
là,
fino al mondo umano.
Lei stava sicuramente osservando quel mondo:
ne rimaneva sempre affascinata. Stranamente affascinata dagli
uomini.
Il suo compito era quello di tenere il Palazzo in ordine.
Un po' come una domestica divina, ma di sicuro non era considerabile
tale. Tra tutti era forse la preferita degli umani, sia
perché
rappresentava anche l'innocenza e la forza d'animo, sia
perché
poteva mantenere calme le acque durante un viaggio in nave.
La
tenevamo tutti in gran considerazione ed era una delle presenze
più
importanti.
I suoi lunghi capelli neri erano mossi solo sulle
punte, a metà schiena, e in quel momento li aveva spostati
dietro le orecchie affinché non la infastidissero mentre
scrutava. Il sottile corpo era appena curvo per la posizione ed era
coperto da un vestito intero, fatto di fiori e colori caldi, che
terminava con una gonna spiegazzata fino alle ginocchia.
Si voltò
verso di me poco prima che la raggiungessi, senza neppure il tempo di
chiamarla. Sorrise e mi venne incontro, con il suo passo
leggero.
“Ham! Sei tornato finalmente!” disse. Era felice,
sorrideva, ma rimaneva sempre molto composta; quasi per la classe che
aveva innata.
Io mi ero appena ripreso, le energie dovevano ancora
ristabilirsi completamente, ma apparivo un po' meno sconvolto
rispetto agli attimi successivi alla battaglia.
“Salve. Mi stavi
aspettando?” chiesi.
Lei scosse la testa lasciando che i capelli
le dondolassero appena. “No, però eravamo
impazienti di
vederti tornare. Revery mi ha detto che eri andato a caccia di un
demone”.
“Revery parla sempre troppo” la interruppi
mostrando un finto broncio che non resse a lungo.
Lei rise un
poco, portandosi una mano davanti alla bocca per educazione.
“Lei
era un po' dubbiosa sulla tua riuscita, ma io lo sapevo fin
dall'inizio che avresti vinto”. Le informazioni circolavano
velocemente.
“Revery come fa a sapere che ho vinto?” chiesi.
Se glielo aveva detto qualcuno era stata sempre la guardiana.
Lei
scosse di nuovo il capo, mentre la sua pelle pallida risaltava in
contrasto con la luce che entrava dai vetri. “Non me lo ha
detto
lei. Questo l'ho pensato io. Se sei tornato vuol dire che hai
finito”
rispose e rendendo il suo tono un po' più grave, imitando il
mio timbro, aggiunse “Si finisce sempre un lavoro, dopo
averlo
iniziato”.
Era vero. Quella era una delle frasi che dicevo più
spesso e anche stavolta si era rivelata vera. Al di là della
scarsa considerazione che avevo di me e sulle improbabili
possibilità
di vittoria: io non me ne sarei andato senza aver finito il mio
compito anche a costo di rimanerci secco. Lei mi conosceva abbastanza
bene per dirlo.
“Hai ragione, ma non è stata una vittoria
così entusiasmante. Io non sono portato per certe
cose”.
“Ehi,
un dio non deve sminuire la sua grandezza. Le tue abilità
sono
al pari degli altri. Non devi pensare però di poterle usare
come loro, tu devi svilupparle in maniera personale, pensarle
dimenticando come lo facciamo noi” si fermò per
prendere
respiro abbassando il capo, quando lo rialzò mi
fissò
dritto negli occhi. “Ora vai, il Grande Padre potrebbe
punirti se
non torni a lavoro”.
Disse con un tono tranquillo, gioioso. Non
sembrava volermi mettere fretta.
“Si è arrabbiato per
questo?” domandai leggermente preoccupato. Che lo sapesse, lo
avevo
dato per certo fin dal momento in cui ero uscito dal Palazzo; lui sa
sempre tutto. Mi stupì, però, l'espressione con
cui lei
mi aveva avvertito.
“No. Ha ben altro a cui pensare. Nulla di
grave, penso, ma è pur sempre altro”.
Annuii e la salutai
in maniera affettuosa, poi, senza alcuna fretta, mi diressi verso le
stanze a me predisposte.
C'era una nuova notizia che andava
archiviata: Ham aveva sconfitto un demone scimmia.
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Capitolo 2 *** La notte del tempio ***
Capitolo
2 – La notte
del tempio
Era
scesa la notte e l'unica luce proveniva dalle sale inferiori del
tempio di Porcias.
Quel
santuario emanava una luce debole di candele in profondità.
Era il ritrovo dei fedeli del peccato, così chiamati, che di
notte si riunivano per svolgere il Kō.
Tra
tutti i riti religiosi, quello, era il più estremo.
Arrivava
al limite della decenza divina. I fedeli si riunivano e chiamavano la
loro dea più amata, Manius, che giungeva tra di loro facendo
iniziare il rituale. Il Kō si svolgeva sempre lontano dagli occhi
indiscreti, sia umani che divini. I fedeli della dea sapevano di
dover scegliere luoghi nascosti o protetti dalla sua sacra
benedizione. Una sola volta riuscii a scorgere uno di questi riti,
dalle vetrate del Palazzo. Dovetti far arrivare il mio sguardo molto
lontano, in un luogo talmente segreto da rendere perfino agli dei
difficile l'accesso. Non appena ebbi la possibilità di
osservare cosa stava avvenendo al suo interno subito ritirai l'occhio
per lo stupore. Ero sconvolto, la mia giovane grazia divina non era
pronta a simili visioni.
Quelli
non erano riti: erano giochi perversi dei più disparati,
anche
se, a quanto si dice, gran parte delle volte si limitassero a orgie
dove la dea si mescolava agli uomini di ogni terra.
Io
non avevo mai conosciuto quella dea, l'avevo solo vista più
volte nel Palazzo e ogni volta mi lanciava delle strane occhiate,
come se immaginasse chissà che cosa con me a fare da
protagonista. Lei era la dea di tutto ciò: della perversione
e
delle passioni carnali e forse dell'amore in ogni sua possibile
forma. Quando il grande padre la creo pensò proprio a questo
ruolo. Un ruolo adatto all'inclinazione degli umani, per liberare i
propri istinti e dedicarsi alla carne.
Lei,
per assecondare la sua posizione, possedeva il potere di mutare,
cambiare aspetto. Il suo volto e il suo corpo potevano trasformarsi
in qualsiasi momento e, ascoltando quanto dicevano i più, in
qualsiasi cosa. Non era però dedita alla guerra e questo
potere lo usava solo per mutarsi in uomo, o in donna, secondo le
occasioni. Però nelle varie occasioni in cui incontrava gli
dei, il suo aspetto era sempre il solito.
Appariva
come una donna giovane e bella, dal fisico asciutto, quasi atletico,
e la pelle rosea. I capelli erano lunghi e lisci, di un castano
brillante, mentre gli occhi di tinta scura mutavano in continuazione.
Inoltre era sempre vestita da uomo. Portava stretti pantaloni di
pelle, nera soprattutto, e camicie immacolate sbottonate in
più
punti. Personalmente non posso dire con certezza che questo fosse il
suo aspetto originale e neppure se fosse il suo genere, se mai sia
nata con un aspetto e un genere. Posso assicurare che io l'ho vista
quasi sempre in questo modo o comunque, l'ho sempre vista con quello
sguardo perverso che scruta ogni cosa.
Durante
i rituali, che si dividevano secondo il sesso delle persone presenti,
lei mutava in continuazione il suo aspetto.
In
quel momento si era appena scelta un partner con per continuare da
soli, lasciando il gruppo restante a continuare il gioco di gruppo,
quando i suoi occhi si mossero immediatamente individuando qualcosa
in uno degli angoli della stanza. La pelle si fece fredda e ruvida e
tutto il suo corpo s'irrigidì; poi l'attacco.
Il
braccio destro scattò verso quel punto, cercando il
bersaglio
tra le decine di corpi presenti. Da robusto arto umano dalla pelle
chiara si trasformò in serpente dalle tinte smeraldine.
Questo
saettò giungendo senza fallo alla vittima.
Il
panico si creò nella sala di pietra illuminata appena dalle
torce e ornata da mille tappeti e pellicce per evitare il freddo
contatto tra la pelle e le pareti o il pavimento. Le persone
schizzarono agli angoli, lontani da tutti, sia da quel serpente che
si era mosso fulmineamente tra loro sia dal corpo probabilmente
colpito. Urla, grida, lacrime e sguardi terrorizzati. Perfino quella
donna, che si trovava sotto il corpo della dea, era immobile e
incredula.
Manius
ritirò il braccio e riacquistò, alzandosi,
l'aspetto
tipico con cui era facile incontrarla, quello con il quale era
ricordata sulle statue. Il suo corpo nudo era illuminato appena ma la
sua voce risuonò chiara tra quelle mura.
“Come
osi arrivare fin qui, profanando uno dei riti in mio onore?”
era
irritata e furiosa, quello sguardo sempre leggero e malizioso era ora
carico di rabbia.
La
figura allora si alzò, distinguendosi dall'ammasso di corpi
che continuava a muoversi per allontanarsi. La luce era poca e i suoi
contorni erano sfuocati. Si poteva dire che forse era una donna.
Mentre rispondeva provò a coprirsi usando una delle pellicce
che si trovavano a terra. “Hai un occhio attento. Pensavo di
potermi introdurre liberamente in questi... 'riti', ma a quanto pare
mi hai scoperto subito” rise un poco rivelando un tono acuto
e
spiacevole.
La
dea perse una parte della sua rabbia acquisendo un tono meno duro ma
ugualmente serio. “Puzzi. Certi odori saltano subito al naso.
Non
ho bisogno degli occhi, basta seguire la tua scia”.
“Hai
anche un bel coraggio a dire questo” disse offesa quella
figura.
“Forse il tuo naso ci ha fatto l'abitudine ma questa stanza
non è
certo un giardino di rose”.
“Chiudi
quella bocca!” esclamò Manius interrompendola.
“Forse il
tuo naso ci ha fatto l'abitudine ma è il tuo alito a puzzare
tanto, Raffaella”. La dea sapeva già che il rito
era ormai
rovinato. Dopo un evento del genere le era passata la voglia di
continuare. “Adesso vattene”
Gli
uomini e le donne presenti nella sala sbiancarono e tentarono di
nascondersi, muovendosi in massa alle spalle della divinità.
“Non
sei molto gentile e comunque non posso andarmene: sono qui per
parlarti”
“Non
ho parole da spendere per te”
La
sagoma soffiò scaldandosi per il tono della padrona di casa.
“Aspetta che io abbia finito, prima di agitarti tanto. Sono
solo
poche parole”.
Maonis
mi venne a svegliare prima che il sole sorgesse. Potevo dire che
fosse ancora notte e il silenzio del Palazzo mi convinse di
ciò.
La
sua sagoma pelosa illuminata da una lanterna mi fece spaventare.
“Il
Grande Padre ti sta aspettando” mi disse solamente prima di
mettersi a raccogliere i vari fogli e tomi sparsi a terra per
ammucchiarli in un unico punto.
Se
dovevo scrivere un riassunto delle vicende di Maonis mi sarei
limitato a scrivere una storia dal titolo: “Il gatto grasso
che
imparò a parlare”. Alla fine era realmente
così.
Era
semplicemente un gatto troppo largo e lento per la sua specie, dal
pelo nero e gli occhi cristallini. Sulla punta delle zampe aveva poi
delle nuvole di bianco, sembravano degli schizzi di tintura sul pelo.
Era una divinità anche lui ma nessuno se ne ricordava.
Ricopriva il trono degli eccessi, però, ormai gli umani
avevano preso l'abitudine di confondere questo ruolo con quelli
già
posseduti da Manius e arrivarono a dimenticarlo.
Maonis
era comunque vivo e in pieno possesso dei suoi poteri. Era dispettoso
e si mostrava agli uomini come un gatto affamato, smilzo e
malridotto. Premiava chi si prendeva cura di lui e invece puniva chi
lo allontanava, lo ignorava o sbeffeggiava. Alla fine, credo,
possedesse dei poteri che andavano ben oltre il suo compito.
Rimaneva
alla fine sempre un gatto, ruffiano e pigro, e passava gran parte del
giorno a dormire nel Palazzo, soprattutto nelle mie stanze. Amava
adagiarsi tra le pergamene e i libri rimanendo a farmi compagnia
durante il lavoro. Io e lui eravamo in ottimi rapporti.
Quella
notte mi ero addormentato sulla scrivania, usando un vecchio tomo
ricoperto di pelliccia come cucino.
Se
il Grande Padre voleva la mia presenza era per qualcosa di
importante, forse voleva punirmi per il giorno precedente. Corsi tra
le sale ancora mezzo addormentato e forse sbagliai strada
più
volte. Alla fine, comunque, giunsi davanti all'enorme cancello dalle
porte celesti e piene di gemme incastonate, ognuna con un diverso
colore brillante.
Il
portone di apri da solo, lasciandomi entrare in una sala circolare.
C'era un'aria strana, che inebriava la mia essenza. L'esistenza
stessa di noi dei era confusa da quell'aria. La stanza era molto
piccola, rotonda e decorata con figure divine sulla pietra. Sulla
sinistra, subito dopo essere entrati c'era una sagoma. Era un
cavallo, bello e perfetto, il cui corpo posteriore diventava quello
di un serpente. Si ergeva sulla grande coda pronto a spaventare i
nemici. Era il Servallo.
Alla
destra, invece, c'era una sagoma diversa. Era un serpente, con le
fauci spalancate e pronte a divorare una preda. Il suo corpo, circa a
metà, si trasformava in una figura equina. Possedeva il
corpo
posteriore di un cavallo mentre busto e testa erano di serpente. Era
il Servallo.
Nessuno
poteva dire con certezza quale fosse la sua reale rappresentazione,
noi sapevamo solo che il Servallo era nato dall'unione impura di un
cavallo con una serpe. Come fosse il figlio era un mistero anche per
noi divinità. Solo il nostro Grande Padre poteva saperlo e
sospettavamo tacitamente tutti che lui stesso fosse il figlio di tale
unione, custode di tutti i segreti del mondo.
Il
pavimento era concavo, a formare una mezza sfera riempita d'acqua. Al
centro c'era una piattaforma rialzata sulla quale dovevamo ogni volta
salire.
Come
al solito lo feci, cercando di bagnarmi il meno possibile. Appena fui
sopra quell'altare, l'aria nebbiosa del santuario, si chiuse attorno
a me raggiungendo lo spiraglio più profondo del mio spirito.
“Hamuhamu”
sospirò una voce. Quella parola risuonò nella mia
mente.
Lui
parlava con i suoi figli in maniere sempre diverse, per assecondare
la loro natura. A Manius parlava tramite delle sensazioni, a Katyana
tramite dei sapori e a me sembrava di leggere delle parole scritte,
non che esse ci fossero veramente, ovvio.
Quello
con cui mi aveva chiamato era il mio nome ancestrale, che usavamo
solamente nelle occasioni solenni.
Non
risposi: quel richiamo serviva a fare in modo che entrassi in
contatto con lui.
“Devi
fare un piacere a me e ai tuoi fratelli” continuò.
Io, a
quel punto, mi rilassai, abbandonando l'agitazione iniziale. Ero
sollevato dal sapere che non mi aveva chiamato per la mia lotta
contro il demone.
“Ditemi,
Grande Padre”
“Sta
per accadere qualcosa. Devi abbandonare le tue stanze e
sopravvivere”.
“Perché
questo, Grande Padre? Non riesco a capire”.
Attesi
alcuni interminabili secondi la sua risposta.
“Devi
essere testimone degli eventi, Hamuhamu. Tu devi poter tornare e
scrivere tutto ciò che hai visto”.
“Sta
per scoppiare una guerra, Grande Padre?”.
“Non
posso prevederlo, Hamuhamu. Neppure io posso vedere quello che
accadrà con certezza. Il destino è mutevole.
C'è
un desiderio di vendetta, un antico rancore, che ha covato a lungo
nel cuore del suo portatore e ora vuole risvegliarsi”.
Rimasi
confuso. Non capivo cosa sarebbe potuto accadere. Forse stava per
nascere un'altra inutile grande guerra tra gli uomini, cosa che io
ogni volta dovevo osservare e descrivere con minuzia per gli archivi
del Palazzo divino.
Mentre
pensavo a queste cose, a capo chino, lui continuò:
“Stai
attento, Hamuhamu”.
A
questo punto interruppe la nostra conversazione. Quando riaprii gli
occhi, chiusi un attimo prima, mi trovai davanti alle porte di
cristallo. Fuori dalla stanza circolare, con il portone ben chiuso.
Nessuno poteva entrare senza essere chiamato.
Il
Grande Padre non era né onnipotente né
onnisciente,
questo era certo. Lui era solo una creatura ancestrale, saggia e
potente. Aveva creato noi dei, con i suoi poteri, per tenere sotto
controllo il mondo affinché non cadesse nell'oblio del caos.
Rimasi
paralizzato. Se un desiderio così grande stava per
risvegliarsi, una cosa che lui non riusciva a controllare o
prevedere, doveva trattarsi di qualcosa di grande e grave allo stesso
tempo. Per un istante pensai che non solo gli uomini ne fossero
coinvolti ma subito allontanai quell'idea.
Chi
mai poteva puntare a noi dei?
Non
avvertii nessuno, non ce n'era bisogno. Se il pericolo avesse
riguardato gli altri allora il Grande Padre stesso li avrebbe
chiamati. Io dovevo solo stare attento, ora. Scrutare l'orizzonte e
informarmi su ogni cosa.
Corsi
immediatamente verso le porte del Palazzo. La mia sagoma scivolava
tra corridoi e saloni come se fosse una brezza leggera entrata da
qualche apertura. Mi fermai solamente dopo aver superato il varco.
Il
Palazzo divino, dalla facciata di pietra bianca si trovava su una
montagna di roccia chiara, tinta di un grigio omogeneo. L'intera
reggia era retta nel cielo dalla divina essenza stessa del Grande
Padre e protetta da alcune leggere barriere. Non era raro, comunque,
che alcuni demoni lo raggiungessero, approdando al molo di pietra.
Il
molo era la parte più bassa del castello. Era un lungo
braccio
di pietra che conduceva a una strada in ripida salita, tra scalinate
e piccoli santuari, alla fine della quale stava il Palazzo. Lo si
poteva raggiungere usando dei portali magici o dei varchi casuali
creati dalle distorsioni residue dopo un incantesimo di immane
potenza. Qualsiasi strada, comunque, avrebbe condotto solo al molo di
pietra; la stessa magia del Grande Padre rendeva quello l'unico
approdo.
Dopo
il molo c'era una lunga scalinata che seguiva inizialmente una linea
retta e poi cambiava muovendosi appoggiata alle pareti rocciose. Dopo
di essa c'era uno spiazzo, coperto di fiori e erba. Lì stava
sempre Revery, colei che era incaricata di fare da guardiana e
custode del regno divino. Nessuno poteva passare senza aver avuto il
suo consenso.
Stava
sempre appoggiata con la schiena a qualche colonna lucida e coperta
di edera, oppure seduta ai piedi del grande e vecchio melo che stava
ai margini del giardino. Sorrideva inizialmente chiedendo una
presentazione agli estranei.
Io
arrivai sulla cima dell'ultima scalinata, quella che portava alle
porte del Palazzo dal quale ero appena uscito. Con una certa fretta
raccolsi cinque sassolini da terra. Li strinsi con forza tra le mie
mani infondendovi la mia energia affinché questi si
trasformassero nei miei informatori. Quando aprii i palmi avevano
assunto delle perfette forme sferiche, di diverse grandezze e
iniziavano a mutarsi nella creatura finale. Cinque occhi.
Cinque
bulbi oculati di colore azzurro che si sollevarono in aria e
iniziarono a muoversi freneticamente. Erano appena diventati le mie
spie.
Il
Grande Padre mi aveva fatto questo dono. Mi aveva concesso la
facoltà
di avere occhi sempre vigili al mio servizio, nel verso senso del
termine. Li avrei mandati nel mondo degli uomini a guardare dall'alto
ogni cosa. Qualsiasi informazione raccolta si sarebbe aggiunta
direttamente alla mia memoria. Seguendo un mio gesto, con il quale
indicai ai miei tesori il mondo sottostante, i cinque osservatori
scattarono verso il basso, sparendo presto dalla mia vista.
Pensai
che forse nemmeno la guardiana si sarebbe accorta del loro passaggio.
Ora
erano diretti in cinque luoghi diversi per guardare, nascosti, ogni
cosa e poi spostarsi altrove. Si sarebbero fermati in alto, nel
cielo, non tanto in alto da sfiorare le nubi ma neppure così
bassi da farsi vedere dalle sentinelle delle torri. Loro sarebbero
restati a metà e avrebbero monitorato tutto.
Dopo
averli lasciati andare sorrisi. Ora nulla poteva accadere senza che
io me ne accorgessi.
Nel
frattempo al tempio di Porcias le cose sembravano essere alla svolta
finale.
La
notte stava perdendo le sue tinte nere, segno che si approssimava il
sorgere del sole.
Il
tempio era avvolto in uno strano silenzio. I fedeli erano tutti
rimasti all'interno, protetti dalla benedizione di Manius. La dea,
invece, aveva condotto il combattimento al fine di portare la propria
avversaria all'esterno. Non voleva che i suoi servitori si
danneggiassero in quello stupido scontro.
Facendosi
inseguire, e lanciando rapide offese, aveva portato Raffaella nello
spiazzo davanti al santuario.
Porcias
si trovava in una radura ricoperta d'erba giallastra. Era piccolo e
dalla base esagonale, sulla quale poi si sviluppava per una decina di
metri d'altezza. Il grosso del complesso era sotterraneo, nelle sale
adibite ai riti. La dea non ha mai richiesto dello sfarzo o delle
decorazioni particolari, voleva solo essere in un luogo nascosto e
riservato. C'erano le luci provenienti da qualche cittadina poco
lontana, dalla quale venivano i fedeli, che si stava svegliando.
Manius
sospirò. Quell'avversaria si era dimostrata coriacea e
furba,
e lei, che non amava il combattimento, era stata costretta a lottare
troppo. Il suo braccio destro era diventato una frusta nera, sulla
cui estremità era montata una punta, che ora sferzava l'aria
nel vano tentativo di ferire quell'intrusa. Quando anche quella serie
di colpi terminò, Raffaella poté finalmente
fermarsi.
Guardandola
adesso non sembrava più una donna. Il volto era spigoloso e
chiaramente maschile, e il trucco pesante stava venendo via a causa
del sudore. Anche il suo corpo, incredibilmente magro, assomigliava a
quello di un uomo, comunque lei voleva che si usasse il femminile nei
suoi riguardi. La pelliccia che aveva preso ora era legata intorno
alla vita, per avere un minimo di decenza.
Raffaella
era stata la dea del fallimento. Le persone si rivolgevano a lei
affinché non portasse alla rovina i loro progetti. Alla
fine,
impazzì e, indifferentemente dai doni e dalle preghiere, si
divertiva a distruggere qualsiasi cosa. Fu questo il motivo che
portò
il Grande Padre a cacciarla dal Palazzo. Io non riuscii a conoscerla
ma non ho mai avuto nessun interesse nei suoi confronti.
Ora
era in piedi, visibilmente stancata dallo scontro, ma con poche
ferite.
Manius
sembrava ancora carica di energie, immobile anche mentre la lunga
frusta tornava a essere un semplice braccio. Aveva addosso il
completo classico con il quale veniva alle riunioni divine,
magicamente apparso sulle sue carni in qualche momento della lotta.
La
dea era stupita di quanta forza potesse possedere un
non-più-dio,
cacciato dal pantheon. Alla fine, pensò, l'essenza divina
continua a permeare il corpo rendendolo comunque potente. Non era al
pari di un dio, se ne accorgeva, e se solo lei non avesse odiato
così
tanto il sangue e la lotta a questo punto la sua nemica sarebbe
già
caduta priva di vita in qualche punto del campo.
Durante
lo scontro però avevano parlato, o meglio, la
non-più-dea,
era riuscita a dire ciò che voleva alla divinità
protettrice del tempio.
“La
tua proposta non mi interessa” esclamò come fosse
una
risposta scontata. La sua avversaria sembrò comunque
sorpresa.
“Peccato,
spero comunque di essere la benvenuta nei tuoi templi e
nei...” il
tono di Raffaella di fece più malizioso e provocante
“...tuoi
riti”.
Manius
non si mosse, solo la sua bocca acquistò un'espressione
contrariata, quasi disgustata. “Tu non sei mai stata la
benvenuta e
mai lo sarai!”
“Peccato...
tanto vale morire!” esclamò lanciandosi in
un'ultima carica,
facilmente prevedibile, verso la dea. Questa non si fece sorprendere
né pensò troppo alla sua reazione: il suo braccio
si
portò in avanti in affondo trasformandosi in una lunga e
resistente lancia che incontrò presto le carni della nemica
in
corsa. L'asta era lunga almeno cinque metri ma la dea teneva
sollevato il braccio trasformato senza alcuna difficoltà,
anche mentre il corpo di Raffaella scivolava lungo l'asse di legno
verso Manius.
Ormai
aveva vinto, in modo anche troppo facile. Uno scontro così
arduo terminato in tale maniera? La dea si dimostrò
sospettosa
e furba rimanendo fuori dal santuario a scrutare, aspettandosi una
trappola. Il tempo passava ma non accadeva niente. Lei lanciava le
occhiate a quel corpo morto immobile e attorno a sé,
scrutando
l'erba mossa dal vento.
Era
tutto talmente tranquillo che si convinse che non doveva trattarsi di
una trappola.
Manius
era comunque agitata, scossa fin nella più piccola piega
della
sua anima. Si accorse che era qualcosa di strano, troppo strano.
Ne
avrebbe parlato con il Grande Padre.
Quando
arrivò il mattino, con quel grande sole che compariva
all'improvviso, Manius era già nella stanza circolare.
Il
suo corpo era avvolto dalla nebbia e sentiva i messaggi del Grande
Padre direttamente sulla pelle, come emozioni che invadevano il suo
corpo. Forse comunque lui comunicava con la voce come a tutti,
eravamo noi a 'sentirlo' in maniere differenti. Stavano parlando da
qualche minuto e già si erano detti molte cose.
“Amai,
capisco quello che mi dici. Ho sentito dentro il tuo animo questa
preoccupazione”.
“Possibile
che una divinità decaduta possegga tutto questo
potere?”
domandò lei.
“La
stessa essenza divina che permea una divinità è
sede
del potere. Anche se viene privata del titolo e della benedizione,
una dea è sempre una dea”.
“Credo
che sarebbe opportuno stanarla e chiarire i conti”. Anche se
la
cosa la riguardava poco, o solo in parte, Manius, rispettava tutti i
compiti divini tra cui anche il mantenimento della pace tra i mondi.
“Credevo
che tu l'avessi uccisa”
Lei
rimase un po' stupita, quasi si aspettasse un'altra reazione.
“Si,
Grande Padre, ma sono convinta che fosse solo un corpo posseduto dal
suo spirito”.
“Ah!”
sospirò il Grande Padre, allo stesso modo di un vecchio dopo
che gli viene ricordata una cosa che già sapeva.
“Avevo
letto anche questo nel tuo animo”.
----
Ringrazio per le
recensioni ricevute.
Ringrazio
Kanako91 per le correzioni e i complimenti. Sono sempre stato
un po' poco attento a questi particolari ^o^ è un bene che
qualcuno lo faccia notare.
Ringrazio anche
Land of Dreams per aver inserito la storia tra le
seguite ^o^
E ringrazio Cleo92 per
i complimenti.
|
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Capitolo 3 *** Incontri inaspettati ***
Capitolo
3 – Incontri
inaspettati
Era
passato un intero giorno, ma i miei occhi non avevano scorto nulla di
realmente interessante.
Il
fatto che il Grande Padre mi avesse dato quel compito mi portava a
essere irrequieto e sempre in movimento. Era ormai il primo
pomeriggio, quasi l'ora di pranzare e io continuavo a girare errando
tra le sale del Palazzo. Tenevo vivo il legame con gli osservatori ma
era tutto inutile. Fu in quel momento, passando nel solito lungo
corridoio a est, che la incontrai.
Quella
dea stava camminando nella direzione contraria alla mia e me ne
accorsi solo poco prima di passarle accanto. In quel momento alzai
gli occhi e la fissai. Non sapevo come mi fosse preso, forse la
sorpresa, mi portò a fermarmi seguendola con lo sguardo.
Manius non ne fu molto felice.
Pure
lei si fermò, “Cosa cerchi, ragazzino?”
mi chiese. Io non
sapevo proprio come rispondere.
Anche
se i miei rapporti con altri dei erano stati rari, e ne conoscevo
davvero pochi, nessuno si era rivolto a me (un dio!) con quel tono.
Sospirai
lanciando uno sguardo fuori dalla vetrata, al di là del
giardino. Un po' per vedere ciò che stava accendo nel mondo
umano un po' per non incrociare il suo sguardo perverso. “Non
voglio nulla da te, Manius” risposi con tono tranquillo,
benché
mi seccasse un simile affronto.
Lei
scosse il capo, finalmente voltandosi. “Non ti ho chiesto
cosa vuoi
da me, Ham. È normale che al passaggio di una dea del mio
calibro tu rimanga incantato” sorrise e io non capii se fosse
una
battuta “Ti ho chiesto cosa cerchi. Stai vagando come un cane
randagio per il Palazzo”.
Rimasi
in silenzio qualche secondo. Cosa potevo risponderle? Che cercavo un
evento? Una risposta così non era degna neppure di essere
pronunciata.
“Allora?”
mi domandò giocando con le dita con la lunga collana di
perle
che teneva al collo.
Mi
girai lentamente, guardando sempre verso il mondo al di là
del
giardino.
“Sto
scrutando il mondo”.
Lei
subito ribatté: “E questo ti crea così
tanta
agitazione?”.
“No,
è solo che il Grande Padre mi ha detto che sarebbe accaduto
qualcosa”.
“Che
cosa?” in un attimo, le sue dita scivolarono via dalla
collana
lasciandola libera. “Cosa accadrà?”
Io
scossi la testa alzando lo sguardo. “Non lo so. Mi ha detto
che
accadrà qualcosa di strano, qualcosa che riguarda un antico
rancore. Neppure lui sapeva prevedere con certezza lo scorrere degli
eventi”. Davanti a lei, in quel momento, mi ero
improvvisamente
sciolto, lasciando che le parole uscissero liberamente dalla mia
bocca. “Io ho inviato degli osservatori ma non riesco a stare
fermo, potrebbe accadere da un momento all'altro, qualsiasi cosa
sia”.
Lei
non mi lasciò finire. Ciò che volevo dire fu
stroncato
da un solo dito. Il suo indice sinistro si posò sulle mie
labbra zittendole. “Non stare in attesa” mi disse
con una voce
molto più femminile del solito “se aspetti non
accadrà
mai. Rilassati ma stai in guardia, l'importante è che non ti
colga di sorpresa, hai capito? Nel frattempo puoi anche dedicarti ad
altro e non sei costretto a girovagare come un'anima in pena, cosa
che non ti dona”.
Quel
'che non ti dona' risuonò un po' nelle mie orecchie. Avevo
capito tutto ciò che aveva detto e in fin dei conti aveva
ragione, ma non volevo assolutamente pensare a cosa mi donasse
secondo la sua perversa visione delle cose. In quel momento quel
pensiero riempì la mia testa.
“Quindi
vai a divertirti. Anzi, se ti va puoi anche passare a partecipare a
qualche rito nei miei templi, sai?”. Mi ammiccò in
maniera
sarcastica, sapeva meglio di me la mia risposta.
Io
scossi il capo e mi aiutai con le mani a far arrivare il messaggio.
Non se ne parlava proprio. “No, grazie”, sorrisi in
maniera
imbarazzata. Solo il pensiero mi rendeva agitato.
“Vabbè,
se ti va sai dove trovarci. Ci vediamo, ragazzino!” io non
risposi
e la sua sagoma scivolò lungo il salone sparendo tra i
giochi
di luce che filtravano dalle vetrate.
Manius
a quel puntò capì che i suoi sospetti erano
fondati.
Alla fine Raffaella non era stata un caso e la sua proposta iniziava
ad avere un senso. Doveva subito parlarne con qualche
divinità
di cui si fidava.
Io
rimasi lì, a guardare all'esterno. Sapevo di dover seguire i
suoi consigli, eppure non ci riuscivo. Persino il mio sangue sembrava
volermi lasciare questo chiaro messaggio: sta per accadere qualcosa.
Per quanto mi agitassi le cose non sarebbero cambiate, tanto valeva
distrarmi finché non fosse accaduto.
A
mia insaputa, la cosa più interessante della giornata stava
invece accadendo poco distante da me, alle porte del regno divino.
Un
demone abbastanza potente e coraggioso, o folle, aveva osato
profanare il suolo sacro. Aveva l'aspetto di un vecchio, avvolto in
una raffinato mantello nero dai bordi rossi. La poca pelle visibile
era di un colore candido, troppo.
Revery
si alzò dalla sua comoda posizione sotto il melo chiedendo
una
presentazione. L'ospite non rispose. Lei allora lo domandò
più
forte: “Vogliate presentarvi o l'accesso vi sarà
negato”.
Lui
sorrise, sotto quel cappuccio. “Sono un viaggiatore
solitario”.
Sembra
che l'essenza stessa dei demoni fosse desiderosa di ricevere morte
per mano divina, altrimenti non si spiega perché gran parte
dei membri di questa razza si recasse alle porte del regno per
entrare, oppure andasse a profanare i tempi. Avevano come la morbosa
voglia di essere annientati da un dio, come se fosse l'unica cosa a
poterli redimere.
“Demone
che bussi alla mia porta, vattene prima che decida di
punirti”.
“Tu
non puoi uccidermi”. Lo dicevano tutti, anche un attimo prima
di
venire schiacciati da un'enorme pressa. Erano davvero folli, questi
demoni.
L'anello
divino che teneva al dito indice della mano destra iniziò a
vibrare. Quella era l'arma di Revery; l'arma capace di controllare il
vento. Con un gesto distratto puntò il demone scagliando la
sua offensiva: un qualcosa di invisibile che di solito creava enormi
buchi nel corpo della vittima, una cosa molto simile a dei proiettili
di sola aria.
In
quel caso, quel qualcosa, si infranse contro un qualcos'altro
altrettanto invisibile, senza che il vecchio si muovesse.
Probabilmente una barriera talmente forte da resistere all'assalto di
un dio.
L'impatto
creò solo un leggero movimento d'aria che fece dondolare i
fiori del giardino.
A
quel punto la dea si accorse che quel demone aveva qualcosa di
diverso. Era più forte, stranamente forte. Anche se
può
sembrare una sciocchezza, il solo resistere a quel gesto distratto
era un'impresa da eroi, non da corpi posseduti.
“Capisci
cosa intendo?”
Con
quel sorriso innocente, Revery, evitò di rispondere. Si
spostò
i capelli color cenere dietro alle orecchie e si sistemò i
piccoli occhiali sul naso. “Una barriera è uno
scherzo.
Chissà se resisterai a questo!”
esclamò.
“Smettila!”
la interruppe la figura.
La
dea si stizzì. Come osava quella bestia rivolgersi a lei con
tanta confidenza? Ciò che Revery non notò era
quella
voce femminile, che aveva contrassegnato la frase. La donna alla fine
si abbassò il cappuccio, stupendo forse la sua
interlocutrice.
Aveva un volto infantile, liscio e dagli occhi allegri di un vivace
color oro. La bocca sorrideva mettendo in evidenza gli zigomi alti;
tutt'intorno c'erano boccoli castani che dondolavano in
continuazione. Adesso non sembrava più un demone.
Revery,
per uccidere un nemico di tale calibro, avrebbe dovuto usare la sua
piena forza e non solo un quinto di essa, come aveva fatto fin'ora.
Si
morse il labbro inferiore senza però farsi troppo male, la
guardiana, sorridendo appena alla fine.
“Ora
capisco perché i miei attacchi a prova di demone non ti
avevano ferita, Elian”.
Elian,
l'intrusa, ricambiò il ghigno. “Attacchi a prova
di demone?
Credevo fossero mosse per sopperire al caldo, non avrei mai pensato
che le tue magie fossero così scarse”. Un gioco di
provocazioni che avrebbero portato ben presto Revery sulla strada
della rabbia accecante. Per ora si tratteneva, stringendo appena i
pugni e rimanendo immobile.
“Sono
venuta per parlare con il Grande Padre. Questa volta dovrà
accontentare le mie richieste”.
Revery
inarcò le sopracciglia. “Altrimenti?”
chiese infine.
Elian
sorrise, come per prendersi gioco di lei, e rispose:
“Perché
altrimenti mi arrabbio”.
Elian
era una divinità malvagia. Non bisogna inquadrarla come una
padrona di demoni o qualcosa del genere, lei era solo ostile agli
uomini e nel pantheon non era l'unica. Il suo compito era quello di
regolare la vita delle donne, modificandone lo sviluppo o i cicli, e
poi controllarne la gravidanza. Era però così
dispettosa e sadica causare nelle vittime che attiravano la sua
collera le peggiori cose. Si divertiva a influire sui cicli in
maniera molto negativa, poteva far iniziare gravidanze fasulle o,
peggio ancora, far nascere bambini morti. Il Grande Padre sopportava
la presenza di una tale dea, ma l'aveva cacciata dal Palazzo e questo
lei non sera riuscita ad accettarlo.
Si
presentava spesso chiedendo udienze che terminavano sempre con
un'ulteriore cacciata dal regno divino, anche se il più
delle
volte neppure avvenivano.
Revery
aveva avuto molte volte a che fare con lei ma si era stupita, siccome
ormai era moltissimo tempo che non compariva più ed era
arrivata a pensare che Elian avesse gettato la spugna.
Il
suono di passi sorprese entrambe. Gli dei hanno percezioni fuori dal
comune ma si stupirono si sentire che qualcuno si era avvicinato
tanto senza farsi scoprire. Elian guardò al di là
della
guardiana, sgranando gli occhi, puntando la scalinata che conduceva
alla strada per il Palazzo, Revery si voltò un poco,
visibilmente sorpresa.
Con
delle scarpette rosse, molto graziose, la dea delle bolle le stava
raggiungendo tenendo in mano un vassoio con tazzine e una brocca
decorate tutti con il medesimo disegno di fiori rosa sulla ceramica
bianca. Il vestito era sempre lo stesso, quel completo sbracciato che
terminava con una svolazzante gonna. I suoi capelli, questa volta,
erano anche sulle spalle e finivano inevitabilmente sul suo petto
poco sviluppato. Si fermò raggiunto il giardino, sorrise
innocentemente e le invitò entrambe con voce gentile:
“Vi ho
portato qualcosa da bere. È quasi ora di pranzo e il sole
è
molto alto. Penso che questa bevanda possa rinfrescare
entrambe”.
Diceva
tutto come se la cosa la riguardasse appena, senza sguardi ostili ma
solo uno strano entusiasmo.
Le
altre due si ripresero lentamente, continuando a domandarsi come
fosse giunta fin lì senza fare rumore.
Siccome
nessuno osava parlare, Chube giunse fino a un tavolino di pietra
posto all'ombra del porticato, dove la dea era solita mangiare o
leggere, e vi posò il vassoio. Il giardino di Revery era
molto
grazioso, oltre alla parte con i fiori e il melo possedeva, nella
parte destra arrivando dal molo
un porticato sorretto da alcune colonne bianche e posato a un alta
parete rocciosa grigia e liscia. Quando il sole era troppo forte e
neppure il melo poteva fare qualcosa, la dea si sedeva lì,
oppure lo usava per leggere o rilassarsi.
“Elian,
il Grande Padre non ti darà udienza” aggiunse poi
come se
fosse una cosa naturale o uno pettegolezzo. Se Chube aveva detto una
cosa simile significava che era vera. Probabilmente il Grande Padre
si era accorto di lei e aveva già inviato una risposta.
L'intrusa
sospirò più volte, trattenendo la rabbia ma
acquisendo
un'espressione comunque carica d'ira. Si rilassò di colpo,
assumendo un tono sarcastico.
“Tsè.
Dovrà ascoltarmi, prima o poi. Tornerò fra
qualche
giorno”.
Revery
le apparve davanti, come se fosse una sfida. “Sarà
tutto
inutile”.
“Speralo,
mia cara”. Rispose l'altra. Detto ciò si
voltò di
scatto e prese la strada che l'avrebbe condotta al mondo umano, senza
nessun saluto o gesto particolare.
Chube
scosse la testa chiamandola a gran voce: “Non vuoi una tazza
di
tè?” Ma Elian era già sparita altrove.
Io
mi ero diretto verso le stanze di Katyana. Gli dei non provano fame,
se non dopo un lungo digiuno, ma l'appetito li coglie tutti nella
stessa maniera.
Come
se manovrato da un perfetto orologio, il mio corpo, all'ora
stabilità
iniziò a brontolare costringendomi a cercare cibo.
La
dea dei dolci aveva una serie di stanze candide, nella parte ovest
del Palazzo. C'erano la sua camera, il suo salotto e l'unica cucina
di tutto il regno divino. Possedeva anche un grande terrazzo, dove
c'era un giardino segreto. Lì lei coltivava qualsiasi tipo
di
pianta che desse frutti utili, qualsiasi. Io l'avevo sempre creduto
un giardino infinito ma lei mi contraddiceva ogni volta.
Quel
giorno arrivai alle cucine dal grande arco che dava sul corridoio
ovest, chiamandola. Lei era lì, in quella stanza, mentre
sfornava qualche cosa. I miei occhi lo fissarono mentre mi rispondeva
in qualche modo cordiale.
“Sembra
buono” commentai avvicinandomi. Aveva l'aspetto di una torta
dal
colore tra il giallo e il marrone, con pezzi di frutta giallastra
ovunque sulla sua superficie, il tutto tenuto in una teglia rossa e
logora.
“Giù
gli occhi e le mani, Ham. Questo è per oggi”. Non
c'erano
mai ricorrenze, anche perché nessuno sapeva con esattezza
quando fossero nati gli dei. Lei preparava semplicemente ogni giorno
qualcosa, perché amava farlo, e ce lo serviva. Se era per
oggi
non potevo contraddirla.
“E
per ora che cosa c'è?”
Lei
sorrise, sapevo già che cosa significava. Mi avrebbe parlato
di qualcosa di nuovo, originale, o che aveva provato per la prima
volta. Aveva sempre quell'aria sognante mentre diceva quelle cose.
“Ho
provato una nuova ricetta. Devi provarla”.
“Che
cos'è?”.
“Tu
mangiala. Poi scoprirai”. Ridacchiò.
Il
mattino seguente, alla buon'ora, mi risvegliai nel mio studio. Non
ricordavo bene come ci fossi arrivato ma avevo chiara in mente
l'immagine di me che passava la sua serata a scrutare l'orizzonte,
ciò che stava al di là del giardino.
Tutto
era tinto di uno strano bianco. Non era puro e lo si poteva ben
notare, sembrava voler essere azzurro ma lo accennava appena.
Scesi
dal letto ancora per metà addormentato, Maonis giunse
silenzioso ai piedi del letto.
“Non
preoccuparti così tanto, dovresti rilassarti e
aspettare”.
Appena
sveglio non sono molto cordiale, neppure con gli animali divini.
“Non
sei la prima persona che lo dice, tanto lo sai benissimo che non
farò
altrimenti”.
Lui
sbadigliò mostrandomi la sua grande bocca e poi
saltò
sul letto cercando un angolo morbido. Io andai a vestirmi.
Quando
tornai nella mia camera da letto, ampia e con molti libri sparsi a
terra, trovai una visione ben diversa da quella che mi sarei
aspettato. A terrà c'era Maonis che chiedeva spiegazione e
sul
mio letto stava Manius, nel vano tentativo di zittire il gatto.
Sobbalzai
per la sorpresa. “Cosa ci fai? Come sei entrata?”
Lei
ghignò. “Ero qui anche prima, non mi hai
visto?”
Iniziai
ad avere uno strano sospetto che si confermò con la
successiva
esclamazione di Maonis.
“Questa
tizia mi ruba l'aspetto!” era pur sempre un gatto e ci teneva
alla
sua unicità. Dunque costei si era introdotta nella mia
stanza
fingendosi un altro dio. Con cui avevo anche parlato.
“Tu
volevi spiarlo” sospirò il micio rotolandosi a
terra con
fare indifferente.
Lei
sbuffò stendendosi sul mio letto. “Tsè,
figurati. Se
devo vedere quelle cose, tanto vale che lo chiedo ai miei fedeli.
Mica sono una segretaria”.
Forse
per il fatto che mi ero appena svegliato, oppure per la provocazione
che mi aveva appena lanciato, io risposi in maniera indispettita.
“Certo, tu sei una ...”
“Bada
alle tue parole, ragazzino!” esclamò
interrompendomi.
Effettivamente me ne sarei pentito amaramente nel caso avessi
terminato la frase. Provai così a tranquillizzarmi e pensare
a
qualche domanda meno rischiosa.
“Perché
sei qui?”
“Sono
venuta a darti delle informazioni. Eri tanto agitato che ho pensato
fosse giusto informarti”.
“Cosa
sai?”
Lei
sorrise perversamente, cambiando posizione e sedendosi infine sulla
parte finale del materasso. Maonis stava ormai riposando, appisolato
a terra.
“Beh,
sono successe varie cose: innanzitutto Raffaella, spero tu sappia chi
è, mi ha assalito durante un rituale” nel dire
questo la sua
espressione muto, come se scoppiasse di rabbia. Il suo intervento
forse l'aveva infastidita un poco. “Secondo, ieri Elian ha
bussato
alle porte del paradiso, desidera tornare armata fino ai
denti”
ridacchiò.
Mi
grattai la nuca pensieroso. “Come sai queste cose?”
“Dovrei
essere cieca, sorda e stupida per non accorgermi di una fallita che
si intrufola in un Kō”.
“No,
la seconda cosa” insistei.
Lei
rise ancora, lasciandosi di nuovo cadere a corpo morto sul letto.
“Vedi,
ragazzino, basterebbe guardarsi intorno piuttosto che agitarsi
tanto. Sono notizie che riecheggiano con forza tra le sale del
Palazzo”. Aveva perfettamente ragione, se fossi stato
più
presente sarei anche potuto intervenire. Ora però come
affrontare le due cose.
“Adesso
devi solo scegliere: scovare la fallita che gioca con le marionette
oppure scoprire le intenzioni della dea caduta”. Era un bel
problema. Perché sono accaduti entrambi i fatti? Mi chiesi.
Se
solo avessi qualche indizio in più. 'Desiderio di vendetta',
entrambe le apparizioni ne avevano il sapore. Erano tutte e due
presenze scacciate dal paradiso.
Ringraziai
la dea delle informazioni, nel modo più educato possibile
sparendo poi tra le altre stanze del Palazzo. Lasciandola
lì,
da sola in camera mia.
Stavo
camminando per un corridoio centrale, circondato da porte e drappi su
entrambi i lati, quando la sagoma di Lorissy mi venne contro. Non era
sudato, né visibilmente agitato, pensai che comunque aveva
fatto un lungo percorso correndo per raggiungermi. Nel momento in cui
quel corpo immenso e forte mi si parò davanti ebbi un
brivido
che scomparve nel giro di alcuni secondi.
“Hamuhamu”
sospirò. Benché fosse stato pronunciato da una
voce
tanto grave mi sembrò che fosse il miglior suono del mondo.
Non per sembrare incredibilmente stupido, ma chiunque avesse
pronunciato quella parola, fosse anche stato un demone, io l'avrei
apprezzato e mi sarei sentito pervaso da una strana eccitazione. Gli
uomini, nel rivolgersi alle divinità usando sempre i loro
nomi
antichi, ma tra le caste divine questo non avviene mai; quindi
sentire un mio simile, o quasi, trattarmi con tanto riguardo non
potevo che sentirmi gioioso poiché rappresentava il rispetto
provato nei miei confronti.
“Dimmi,
Lorissy”. Io non volevo concedergli un simile lusso,
soprattutto
perché avrebbe sminuito la mia divina essenza agli occhi di
un
mezzo dio.
“Santus
Porkias mi
ha detto di chiamarla, ha una cosa da dirle” quel nome tanto
strano
non era altro che l'arcano di Revery.
“Se
riguarda l'apparizione di Elian ringraziala per la premura, ma sono
già al corrente dei fatti”. Risposi con modo
gentile.
Lui
però era molto insistente, come se avesse l'intenzione di
trascinarmi a forza. “Si tratta anche di altro. La mia
padrona ha
un compito da assegnarle”. Concluse.
Adesso
sì che ero interessato. Dovevo subito seguirlo fino a lei.
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Oh, Kanako91, mi
fa molto piacere (forse immagini quanto sia gratificante) che trovi le
mie idee
interessanti e originali. Il tuo appunto sul pezzo del santuario e gli
occhi di Ham mi ha colpito e forse mettendola in quel modo potevo
sviluppare la storia in modo diverso (dico così
perchè in realtà a scrivere sono già
alla fine del primo atto °o°) Beh, come si deduce da
questo capitolo: Ham in realtà non lo sa dell'intervento di
Raffaella. I rituali sono svolti in luoghi talmente protetti
o segreti che anche gli occhi del dio faticano a trovare. Il fatto che
si metta a narrare cose che non conosce può essere
giustificato in più modi (per esempio: essendo la storia al
passato, può essere che lui stia narrando questa guerra una
volta finita e dunque si sia informato sui fatti delle altre
divinità; è un archivista dopo tutto xD); spero
di non aver deluso o confuso le tue idee.
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Capitolo 4 *** Trasformazione ***
Capitolo
4 – Trasformazione
“Devo
chiederti un favore”. Sospirò appena mi vide
vicino.
Io
sorrisi anche se non avevo idea di cosa si trattasse. “Dimmi,
Revery”.
“Elian
ieri è venuta a farmi visita e ha promesso che sarebbe
tornata. Credo nasconda qualcosa e che questa sua lunga assenza negli
ultimi tempi sia giustificata da un segreto pericoloso. Vorrei che tu
andassi a cercare, vorrei che tu scoprissi il più possibile
prima che ritorni, svelando in caso il suo piano segreto”. Il
termine 'piano segreto' faceva molto cattivo dei racconti, ma in quel
momento non ci pensai. Mi confuse però il fatto che mi
volesse
mandare a 'cercare' qualcosa di imprecisato.
Senza
accettare o rifiutare domandai: “Perché non invii
Lorissy?”.
Avevo
una grande stima di Revery ma in quel momento, maliziosamente mi
venne da pensare alla risposta “Perché non vorrei
che il mio
passatempo da letto si rovinasse”, invece ciò che
disse ebbe
un senso.
“Lorissy
da solo non può fronteggiare una dea del calibro di Elian,
se
mai fosse scoperto, e non possiede neppure le tue doti di ricerca. Ti
accompagnerà, comunque”.
Mossi
la mia mano in aria, facendole capire che quella compagnia non era
molto gradita. “Da solo posso più che
cavarmela”.
“Due
sono meglio di uno”. Rispose lei con estrema
rapidità. Mi
sembrò che questa frase la tenesse in serbo dall'inizio,
dopo
aver previsto le mie risposte. Non potei che acconsentire: mentre i
miei osservatori concentravano le energie su Raffaella, provando a
stanarla., io di persona mi sarei recato nel mondo a cercare l'altra.
Un affare interessante, così da tenere sott'occhio entrambe.
Prima di andarmene nelle mie stanze, per prendere il necessario per
partire, posi un ultimo quesito: “Sei così
preoccupata?
Pensi che sia davvero necessario? Secondo me è una burla
come
sempre”.
Lei
scosse la testa chinandola. “No. Questa volta era il suo
spirito a
mandare chiari messaggi e ci sono troppe coincidenze. Se poi ti
accorgi che non è nulla tanto meglio”.
Rialzò il
volto verso di me sorridendo in modo gentile. Il suo era l'unico
volto a cambiare espressione così rapidamente, passando dal
cortese all'aggressivo, dal triste al gioioso.
Se
dovevamo partire pensai che fosse meglio evitare rogne cercando un
travestimento appropriato. Anche se lui era un semi-dio e io un dio
segretario, entrambi avevamo fama tra gli uomini. Non potevamo
nascondere i nostri volti per sempre e neppure stare distanti dalle
città o i villaggi, per cui mi rivolsi all'unica persona che
poteva aiutarmi.
"Che proposta buffa". commentò
Manius quando sentì le mie parole. "E pensate davvero che
io possa trasformarvi?". Lorissy sembrava avere dei dubbi ma io
ne ero certo.
"Sì, puoi. Te ne prego, trasformaci in
quel che vuoi ma cambia il nostro aspetto".
Lei ghignò,
con aria perversa. "Posso anche mutarvi in una scimmia e un
pettine?".
"No. Qualunque cosa, purché umana".
risposi leggermente scocciato. non volevo inimicarmi quella dea,
siccome era l'unica possibilità di salvezza, ma quel suo
umorismo inappropriato mi infastidì.
"D'accordo".
sospirò.
Io pensavo ci volesse condurre in qualche stanza
per compiere alcuni strani riti o che ci avrebbe consegnato una
pozione da bere invece, con mio stupore, le bastò posare la
sua candida e liscia mano sui nostri volti per dare inizio alla
trasformazione. Più tardi venni a sapere che non era
comunque
libera di mutare chiunque, differentemente da come si poteva pensare
vedendo quella scena. Il suo potere aveva effetto solo sugli spiriti
che accettavano la sua scelta, quindi mai e poi mai sarebbe riuscita
a trasformare in lombrichi i suoi nemici.
Toccò prima
Lorissy, accarezzandone i contorni della bocca in maniera maliziosa.
Quando scostò le dita, mutò prima il corpo e poi
la
faccia. Il fisico però cambiò di poco,
sembrò
solo che i suoi muscoli diventassero ancora più precisi e
scolpiti rispetto a come lo erano prima, perché a Manius
piacevano in questo modo, mentre il volto si fece meno squadrato e
perfino in mento sembrò più rotondeggiante. Gli
occhi
si assottigliarono diventando azzurri e la chioma si fece un poco
più
lunga e nera. La dea cambiò anche la sua pelle rendendola
stranamente olivastra, mentre si tingeva il volto di un perverso
sorriso. Io preferivo la versione originale.
Quando toccò a
me, la dea, posò la sua mano sulla mia fronte dando inizio
al
medesimo rituale. Avvenne però qualcosa di strano: sentivo
il
mio corpo mutare in maniera disordinata, come se anche lei fosse
indecisa su cosa farne di me; alla fine iniziai a sentire le forme
delinearsi con chiarezza: ma erano forme che non mi piacevano.
Non
ci misi molto a capire che si trattava di seni e dell'acquisizione di
un nuovo sesso. Il volto si fece più ovale, liscio e con una
lunga chioma bionda. Gli occhi rimasero gli stessi, del colore verde
smeraldo di sempre. Quando tutto finì ebbi da protestare,
giustamente.
"Manius! Mi hai trasformato in una donna!"
esclamai ma lei non sembrò curarsene. Con un volto
soddisfatto
rispose:
"Una graziosa fanciulla vergine e suo fratello
maggiore, un ragazzo bello e dall'aspetto più che virile".
Non mi piacquero quelle descrizioni, nulla di più offensivo.
Quando vide il mio volto corrugato continuò: "Non ti
preoccupare, non voglio offendere la tua divina essenza.
così
vi maschererete meglio tra le genti". Fratello e sorella? Io e
Lorissy non avevamo nulla in comune, come poteva pensare a un
fratello e una sorella?
"Perché io non posso fare
l'uomo e lui la donna?". domandai ingenuamente. Lei rise di
gusto, come se nella sua mente fossero comparse chissà quali
fantasie.
"Ma secondo te uno come Lorissy può fare la
graziosa fanciulla?" sicuramente pensava anche il contrario: io
non potevo ricoprire il ruolo di lui. "Non pensi, Lorissy?"
chiese infine. Lui non rispose, arrossì appena e
guardò
a terra. non voleva certo mettersi contro una delle due
divinità
con delle parole sbagliate. Lei, vedendolo in difficoltà
continuò. "Non pensi, allora?".
Decisi che era
meglio se il discorso prendesse un'altra piega e parlai: "Manius,
tornando ad affari più seri: c'è qualcosa che
dobbiamo
sapere su questi corpi, prima di partire?".
Lei mosse la sua
testa in un gesto affermativo e ci spiegò quel che dobbiamo
sapere. "Sono frutto della mia magia e un campo di anti-magia
potrebbe annullare questa illusione. Inoltre vi è proibito
usare i vostri poteri, la magia che scaturisce da voi interferirebbe
con la mia". Ci pensò un po' ma non aveva nient'altro da
dire e concluse con: "Questo è quanto".
Io però
non potevo accettarlo. "Quindi significa che non potrò
consultare i miei osservatori?".
Lei sembrò
rifletterci ma convenne che la loro magia, legata direttamente alla
mia mente, non era un pericolo ma che era meglio lasciare la loro
consultazione a qualcun altro. Ci spiegò che nel caso in cui
avessimo ripreso i nostri aspetti, mai più avremmo
riacquisto
le forme del travestimento se non con un altro incantesimo di Manius,
cosa che non avrebbe avuto molta voglia di fare, suggerì.
Prima
di partire, dunque, lasciai il compito a Maonis che tanto avrebbe
dormito tutta la giornata, lo pregai di occuparsene e
accettò.
Ero
intenzionato a sparire prima che qualcuno potesse vedermi ma giunto
nei pressi del giardino una sagoma mi si parò davanti. Il
volto di Revery si sconvolse al solo pensiero che qualche estraneo
era entrato e stava uscendo senza che lei se ne fosse accorta ma
bastò un'occhiata per capire chi fossimo realmente. Tra gli
dei fratelli, cosa che non valeva per quelli cacciati dal pantheon,
c'è un legame particolare. Qualsiasi sia l'aspetto basta uno
sguardo per sentire l'animo dell'altro, animo che lei colse. Non
commentò l'aspetto di Lorissy, anche se ero sicuro che a lei
piacesse nella sua forma originaria, mentre riguardo a me disse solo
che ero 'una graziosa fanciulla' e che Manius aveva buon gusto, tutto
aggiungendo che era la sua reale impressione e non voleva offendermi.
In
un lampo me ne andai di lì prima che qualcun altro mi
facesse
notare il cambio di sesso.
Giungemmo
in una radura, poco distanti da una città arroccata sulla
montagna.
Pensandoci:
non avevo la più pallida idea di dove cercare ma sicuramente
avrei escogitato qualcosa, per non mettermi in cattiva luce davanti
al mio compagno. Prima però di partire ci tenni a precisare
due cose.
“Lorissy,
da questo momento il tuo nome è Nemp, mentre il mio diventa
Aezia. Capito?”
Lui
annuì con il capo pronto ad ascoltare la seconda cosa che
dovevo dirgli. Rispetto alla precedente questa era la più
seria e imbarazzante, senza escludere che sminuiva la mia stessa
essenza divina.
“Visto
che occupi il ruolo di fratello maggiore e io in questo corpo sono
impossibilitato a difendermi, toccherà a te proteggermi in
ogni situazione entrando il più possibile nella
parte”. Gli
spiegai che in pubblico poteva toccarmi senza aver timore della mia
collera o parlarmi come se io fossi veramente sua sorella minore, con
tutto ciò che ne conseguiva. Lui sembrò capire e
compiacersi all'idea di poterlo fare ma non diedi molto peso a
questo.
“Secondo
gli scritti: Elian ha sempre trovato rifugio nelle aspre montagne a
nord, oppure nel fortino in rovina di Knossa”. Erano
più
pensieri tra me e me, piuttosto che informazioni da smerciare con
Lorissy, ma lui intervenne.
“Non
conosco Knossa”.
Io
sorrisi, rendendomi conto che non ero da solo.
“Knossa
era una fortezza, a vederla sembra quasi una scatola da quanto
è
compatta e precisa. Si trova nelle ai piedi delle montagne aspre.
Durante una delle tante guerre fu assediato e distrutto. La struttura
resistette ma il suo interno si era trasformato in un cimitero. Il
capitano che conquistò il fortino però inveiva
spesso
contro gli dei e bestemmiava frequentemente, così il Grande
padre decise di punirlo trasformando il forte in una casa di spettri.
Gli stessi morti che un tempo lo abitavano ora hanno la
possibilità
di infestarlo, è per questo che nessuno lo abita
né si
avvicina”. Terminata la spiegazione, che sembrava averlo
affascinato, io ripresi fiato e sorrisi cercando di assumere l'aria
più serena possibile.
“Dunque
ci dirigiamo là”. Commentò.
Io
scossi leggermente la testa. “La direzione è
quella, ma non
possiamo certo entrare se non vogliamo rivelare la nostra presenza,
dobbiamo solo cercare informazioni utili” conclusi. Lui si
trovò
d'accordo con me.
Decidemmo
insieme di dirigerci verso un villaggio vicino, qualcosa di cui
ignoravo il nome, e cercare una locanda dove dormire.
Appena
entrati mi diressi velocemente verso la signora abbastanza vissuta
che stava dietro al bancone ma dovetti fermarmi. Se una donzella
è
accompagnata da un uomo, visibilmente più anziano di lei,
è
norma che vada lui a parlare con gli estranei. Era una delle
piccolezze che regolavano la vita degli umani, cose che però
dovevo ricordarmi per non attirare l'attenzione. Tornai sui miei
passi e lo sussurrai a Lorissy, il quale mi accompagnò dalla
donna. Ero allibito dagli sguardi che il corpo creato da Manius
attirava, come se tutti pensassero la medesima cosa.
“Vorremmo
una camera per la notte” disse.
Quella
signora era abbastanza paffuta e sembrava stranamente incuriosita da
me.
“Oh,
è tanto che non vedo una donzella così
graziosa”
commentò con un grande sorriso. Io feci finta di essere
lusingato portandomi una mano sulla guancia che non voleva arrossire.
“È la sua giovane sposa, signore?”
domandò poi.
Lorissy
rise, la sola idea era ridicola. “No, signora. Questa
è mia
sorella Aezia”.
“Da
dove provenite?” continuò. Sembrava affamata delle
risposte.
Lui
sospirò un poco, io allora mi feci avanti posando le mani
sul
bancone di legno. “Siamo in viaggio da alcuni giorni.
Proveniamo da
Sborch, un paesino sulla costa, ci siamo messi in viaggio per
ritrovare il maggiore dei nostri fratelli che sembra vivere al di
là
delle montagne”. Ovviamente non esisteva nessun paese con
quel nome
ma la signora ci credette ugualmente, forse consapevole della sua
ignoranza.
La
donna rabbrividì prendendomi una mano. Sentivo la sua
vecchia
pelle rugosa e ruvida che toccava la mia. Pensai che da giovane era
come tutte quelle ragazze che vedevo scivolare attorno a me con
brocche di quale liquore da servire ai tavoli. Mentre io ragionavo su
cose così sciocche lei mi riprese: “Fate
attenzione, vi ci
vorrà molta fortuna se volete passare! Si dice che una dea,
anche se io penso sia solo una strega, abiti nei pressi delle
montagne. Fate un giro più largo, ve ne prego”.
Era una
donna simpatica, dopotutto. Stava prendendo molto a cuore la nostra
situazione. Tornammo poi sul discorso della stanza e ci disse il
prezzo. La signora, dopo aver ricevuto una piccola quantità
di
monete, ci diede la chiave e le indicazioni per trovare la stanza e
decidemmo di salire.
“Hamuhamu,
cosa pensi di fare adesso?”
“Dormire”.
Risposi schiettamente. Anche se avessimo chiesto a tutti i presenti
nella locanda, nessuno poteva saperne nulla, quindi decisi che prima
giungevamo nei pressi di Elian meglio sarebbe stato.
Lui
rimase imbambolato ma non fece molte storie.
Quella
stanza nella quale entrammo aveva due piccoli, scoprii più
tardi che erano anche scomodi, letti agli antipodi della stanza. Il
resto era vuoto se non fosse stato per un tavolino e una piccola
cassettiera logora. Rimasi inorridito dalle condizioni del posto,
l'odore che proveniva da quella stanza era il peggiore che avessi mai
sentito e chissà per quale motivo.
Se
volevamo spiare Elian dovevamo fingerci anonimi viandanti e,
solitamente, quest'ultimi non sono ricchi. Pensai che sarebbe stato
meglio passare tutta la mia vita a contare le lettere di un libro,
piuttosto che dormire lì.
Passai
la notte peggiore della mia vita. Inizialmente non riuscivo ad
addormentarmi in quel luogo dal ribrezzo che sentivo, ma alla fine
crollai in quel malefico letto. Al risveglio mi sembrò di
aver
dormito su un mucchio di pietre smussate. Lorissy invece si
appisolò
senza problemi.
Avevo
portato con me un solo vestito, per il viaggio, è una veste
molto leggera per la notte presa da Chube. Differentemente dal mio
compagno che prima di dormire si era semplicemente spogliato e
gettato sul letto. Quella mutazione di Manius era peggio di una
maledizione, molte cose mi erano precluse e altre erano interdette.
Giurai
di fargliela pagare in qualche modo al mio ritorno.
Mi
resi ancor più consapevole di ciò, quando: dopo
aver
svegliato il semi dio, ero in procinto di vestirmi. Un attimo priva
di lasciar cadere quella veste lilla a terra, mi resi conto che lui
non poteva stare lì né tanto meno guardarmi.
Benché
il corpo non fosse mio mi creava estremo imbarazzo.
Lo
feci preparare per primo e poi lo mandai fuori dalla camera mentre
finivo di sistemarmi.
Io
non avevo chissà quale abito. Sicuramente non mi sarei mai
messo una di quelle scomode vesti femminili, così indossai
un
completo del tutto uguale a quello della dea che mi aveva
trasformato.
Lorissy
invece portava una specie di maglia crema con corte maniche e dei
pantaloni di un marrone sbiadito. Ai piedi grossi stivali che non
cambiava chissà da quanto.
Mancava
ancora un paio d'ore all'alba e mi ero svegliato solo grazie
all'orologio interno divino. Il villaggio sembrava ancora assopito
sotto le calde braccia del sonno e decidemmo che era giusto partire.
Essendo dei ci prendemmo anche la libertà di rubare un
cavallo, dal brutto manto scuro, per velocizzare il nostro passo. Un
giorno avremmo premiato quella gente per il dono che avevamo
ricevuto, o meglio, che ci eravamo presi. Le montagne svettavano
all'orizzonte e probabilmente avremmo incontrato un altro villaggio
prima di giungere nella grande radura arida, dove sorgeva la
fortezza.
Io
non avevo ancora nessuna idea su come agire.
----
Per
Cleo92: eh si, aggiorno in fretta perché
sono avanti con la storia. Ho deciso di postare con
regolarità un capitolo al giorno dopo averlo riletto,
siccome io in questo momento sto scrivendo l'uncidesimo.
Per Kanako91: ecco, perché sono quasi
tutte donne?
Mmm... vorrei darti una spiegazione razionale ma non
c'è.
Quando ho ideato il pantheon mi è venuto naturale inserire
molti personaggi femminili, non so neppure io il motivo.Quando sono
andato poi a buttare giù le idee della storia questa mia
idea 'alternativa' mi ha offerto molti spunti e ho deciso di
lasciarla. ^o^
Per l'organizzazione della storia io pensavo di dividerla
in tre atti
(inizio, svolgimento e fine xD). Per ora non c'è un numero
di capitoli deciso, anche se ho già delle idee sulla
lunghezza complessiva una volta terminata. Il primo atto
terminerà, anzi, è terminato ufficialmente con il
decimo capitolo e il secondo dovrebbe concludersi al venticinquesimo,
ma è tutto ancora da decidere.
Per qualsiasi altra curiosità chiedi
pure, anzi, chiunque
voglia chiedere
chieda pure xD A me fa sempre piacere rispondere ^^
|
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Capitolo 5 *** Il dio indifferente ***
Capitolo
5 – Il dio indifferente
Il
Viaggio è sempre qualcosa di fantastico. In quell'occasione
potei ammirare meglio gli ambienti che per anni avevo guardato
dall'alto del Palazzo, oltre che entrare in confidenza con qualcuno
che avevo sempre considerato inferiore ma che mi guardava con gli
occhi di chi riesce solo ad ammirare ogni cosa.
Le
praterie erano vaste: c'erano pochi alberi lungo la nostra strada
battuta. Sembrava un enorme prato di erba secca, anche se quell'erba
era tutt'altro che secca. Quella era Jalin: un'erba speciale che
possedeva per qualche ragione quel colorito.
Il
giallo sembrava aver preso possesso di tutto ciò che si
poteva
vedere, dai tetti, ai campi; perfino i profili dei monti sembravano
assumere quella tinta così particolare. Pensai che alla
fine,
dopo tutta questa trafila di eventi, io ci sarei tornato.
Ciò
che ammiravo era solo la valle di Ardaterra, ma rispetto alle volte
passate acquisiva qualcosa di meraviglioso.
Manius
o Lorissy, probabilmente, non sentivano più tutte queste
sensazioni, perché loro erano dei sempre in viaggio,
abituati
a ogni posto. Il mio cuore invece era meravigliato dalla stranezza e
dalla bellezza delle terre sotto le montagne.
Il
mio cuore: il cuore di un dio.
Per
tutta la mattina eravamo andati di negozio in negozio, di fucina in
fucina, di fattoria in fattoria cercando di accumulare informazioni.
Il risultato era: niente.
Nessuno
sapeva di Elian e l'unica cosa che scoprii, da una vecchia
chiacchierona, è che le erbe gialle sono un ottimo rimedio
per
i disturbi intestinali. Scarso bottino.
Visitai
anche le bettole, ma solo perché sapevo che Lorissy mi
avrebbe
protetto, e mi stupii della quantità di gente ubriaca che
potevo trovare anche prima del mezzodì. Loro avrebbero
spifferato qualcosa ma era incredibilmente difficile e umiliante
avvicinarmi. Dovevo fare la giovane ragazza indifesa e ingenua per
riuscire a cavare un ragno dal buco anche se quel ruolo lo sentii
tremendamente imbarazzante.
Il
mio compagno entrava prima di me, sistemandosi in un angolo isolato,
così da potermi poi tenere d'occhio e intervenire da bravo
cavaliere.
Quei
luoghi erano comunque disgustosi. Lui era sempre circondato da
fanciulle vogliose, che mai avevano visto un giovane tanto aitante,
mentre io ero in mezzo a uomini ormai vissuti e puzzolenti che non
avevano mai le informazioni che mi servivano.
Pensammo,
dopo l'ennesimo fiasco, di avvicinarci ancora di più a
Knossa,
speranzosi di qualche risultato nei villaggi al confine.
Stava
calando la sera per una seconda volta dalla mia partenza dal Palazzo.
Avevamo
in mente l'idea di recarci in una locanda per passare una nuova notte
e impiegare il terzo giorno per porre delle domande a giro, in
maniera disinteressata. La cosa però, sembrò
sfuggirci
di mano.
Per
tutto il giorno avevamo galoppato su quel cavallo particolarmente
resistente e io avevo fatto il ruolo della donzella in
difficoltà.
Quel ruolo iniziava a piacermi, lasciarmi viziare così era
terribilmente piacevole. Durante il tragitto incontrammo solo alcune
piccole case che formavano una fattoria di modeste dimensioni. Dopo
esserci fermati, cercammo una persona che potesse esserci utile.
Trovammo una donna che portava una grande cesta coperta da un pezzo
di stoffa. Le chiedemmo dove si trovava il villaggi più
vicino, continuando verso nord e lei ci invitò in casa. Da
quelle parti le persone sono molto accoglienti e sveglie. Mentre ci
offriva dell'acqua per rinvigorirci ci disse che negli ultimi tempi
giravano molte presenze oscure e le persone avevano molta paura. Ci
spiegò anche che costoro però avevano qualcosa di
minaccioso che traspirava dalla pelle, nulla di visibile
però.
La signora, che si era seduta vicino a me, mi portò una mano
sulla spalla e mi disse che persino gli uomini sentivano il male che
usciva da quelle bestie ed era per questo che di noi non aveva
dubitato per nulla: noi non avevamo quest'aura. Mentre parlava pensai
che anche Lorissy avesse capito di cosa si trattava: la dea Elian o i
suoi sottoposti. Per una qualche fortuna il sesto senso degli uomini
reagiva davanti a quell'energia così insopportabile. La
donna
non aveva nulla da offrirci, eppure provò a darci qualcosa
ma
rifiutammo. Pensai che anche lei si meritava un premio per la sua
gentilezza.
Quando
uscimmo incrociammo un'altra sagoma, avvolta in un mantello
verdastro. Sembrava un giovane ma non riuscivo a intravederne il
volto. La signora che ci aveva accompagnato fino alla soglia sorrise
incrociando lo sguardo con il tipo. “Un altro
viaggiatore”
sussurrò.
Lui
si fermò davanti a noi, individuandoci come compagni. Se
anche
lui era in viaggio, avevamo qualcosa in comunque e lui lo
capì.
Non
ci parlò, rimanendo immobile e attendendo di essere ricevuto
dalla donna.
Ce
ne andammo, incrociando per strada altre persone che venivano verso
le case. Noi ci limitammo a sorridere e abbassare lo sguardo. Fu in
quel momento che pensai che gli uomini avevano qualcosa di grande;
forse la signora aveva riconosciuto anche noi con quello sguardo
scuro e scrutatore.
Mentre
tornavamo sulla via principale incrociammo un uomo dalla mantella
verdastra. Era appiedato e dal cappuccio pesante scendevano ciocche
colorate e di color castano.
Ci
salutò con la mano e pensai che fosse un viandante;
ricambiai
appena.
Giungemmo
infine alla città indicataci dalla signora. Ci aveva
assicurato che era l'ultima sul nostro cammino.
Stavamo
camminando in un lungo viale trafficato, ma c'era un individuo
sospetto. Stava appostato sopra un carro abbandonato, ergendosi
dall'ammasso di persone che passava sotto di lui. Aveva un lungo
mantello scuro, molto povero di particolari, che sventolava lasciando
intravedere il corpo.
Maglia,
pantaloni, stivali. Nulla che potesse insospettire nessuno. Neanche
il suo volto, un ovale perfetto punteggiato di lentiggini e ricoperto
da una peluria scura, barba e capelli, aveva nulla di terrificante.
Ma io sentivo in lui qualcosa di strano e Lorissy con me la stessa
cosa. Era quella la sensazione che ci aveva spiegato la signora, ma
la folla era troppo distratta.
Scrutava
la folla in cerca della sua preda o del bersaglio e parve
individuarlo proprio quando i suoi occhi caddero su di noi.
“Ah!
Una divinità. Che onore!” esclamò
facendo fermare
tutti coloro che stavano passeggiando. Gli sguardi erano soprattutto
confusi, nessuno capiva il significato di quella frase. Urlava con lo
sguardo fisso. “Mostrati a questa povera gente, che vergogna
hai?
Perché ti mascheri?” continuava a dire. Il nostro
travestimento era quindi fallito.
Lorissy
era sul punto di scattare, pronto alla lotta ma lo trattenni
afferrandogli il polso. Forse era ubriaco o pazzo. Sicuramente
qualcuno sarebbe andato a portarlo via, pensai. Invece nulla,
continuava a urlare, inveire contro gli dei e fissarci. Non poteva
cadere dopo un solo giorno, non era possibile.
Quell'uomo
aprì il palmo e in esso fece comparire una specie di sfera
infuocata. Un potere molto comune tra i maghi di secondo ordine,
nulla di sconvolgente. Ora noi eravamo però privi di difese.
“Facciamo
un gioco: per ogni minuto che passa senza che ti riveli, io uccido un
passante”.
Per
la prima volta volse lo sguardo altrove e capii che aveva solo
percepito la nostra presenza, senza capire dove si trovasse
né
chi fosse. Era un punto in più per noi, ma sicuramente non
potevamo permettere a degli innocenti di finirci in mezzo.
Elian
non era una stupida. Intorno al suo covo aveva piazzato dei maghi con
il dono di sentire la nostra aura, così da potersi accorgere
del nostro arrivo. Non capivo però perché costui
voleva
anche sapere quale divinità si fosse avvicinata. Sembrava
anche dell'intenzione di affrontarla, cosa che sarebbe stata una
follia per qualsiasi divinità. Stavo sudando, cosa
assolutamente strana per un dio. Stringevo il polso di Lorissy con
forza, senza che lui obiettasse. Mi guardava, attendendo una risposta
ma non l'avrebbe ricevuta, non da me.
Un
attimo prima che il mago lanciasse la sfera verso la folla impaurita
chiamò un'ultima volta. “Fatti vedere
dio!”.
Si
possono dire molte cose degli dei, ma non che fossero tutti molto
coraggiosi o che cercassero di proteggere gli uomini a tutti i costi.
Io non ero così, assolutamente. Continuavo a trattenere
Lorissy mentre il mago minacciava quella povera gente. Se mi fossi
mostrato tutto il piano sarebbe saltato e le nostre
possibilità
di infiltrarci sarebbero diventate nulle, se invece fossi rimasto
immobile sarebbe morto qualche innocente. Ero indeciso: fallire la
missione o lasciare che qualche uomo morisse?
“Perché
urli tanto?” domandò qualcuno.
Il
mago si tinse di rosso, era più che furioso mentre cercava
colui che aveva parlato. Quella voce era stata tranquilla e pungente,
come se volesse renderlo ridicolo alla folla. Io la riconobbi e mi
sentii ancora più confuso.
Lasciando
cadere il mantello il dio fece la sua comparsa, era alle nostre
spalle e per avanzare ci fece strada passando tra me e Lorissy. Lo
vidi scivolare tra noi, con un passo tranquillo, degno di un dio.
La
sua presenza, poi, era accentuata dall'abbigliamento.
Le
vesti divine, quelle più raffinate, di solito non vengono
indossate da noi dei. Avere una corazza o meno è del tutto
indifferente. Quei vestiti così raffinati servono solo per
fare impressione. Lui però portava quel completo come se
fosse
uno straccio, con il passo distratto.
Con
mia grande sorpresa, Arone era nella stessa strada dove ci trovavamo
noi, e ci era appena passato affianco.
Indossava
una veste verde lunga e ben visibile, coperta e stretta da una
corazza platino con rifiniture dorate che faceva risaltare l'abito
sottostante. L'armatura era piccola e leggera, ma copriva gran parte
del suo corpo. Il busto era rifinito con decorazioni che sembravano
dei cuori rovesciati i cui bordi erano irti di spine, colorati d'oro,
e che creavano un disegno a catena lungo la parte frontale della
corazza. Questo disegno partiva dal volto d'oro incastonato nel petto
dell'armatura. Un volto femminile circondato da vari disegni
simmetrici. Il centrale della corazza terminava all'altezza della
vita, lasciando intravedere la veste verde che cadeva sui lati e
sulle cosce. Gambe e braccia erano coperte da quest'armatura che le
rendeva libere e all'apparenza snelle, senza ingombro. Le decorazioni
della parte destra erano differenti da quella sinistra, e il
particolare più evidente era la testa di leone posta sulla
spalla sinistra, tutta tinta d'oro.
Non
possedeva elmo, ma lasciava cadere i suoi appena mossi capelli
verdastri sulla schiena e in parte sul petto dell'armatura. Anche lo
sguardo era del colore delle chiome degli alberi, un colore
momentaneo. Tutto era decorato da un mantello, lungo e del medesimo
colore della veste, un verde scuro e brillante.
Arone
era la divinità dei colori e delle combinazioni assurde.
Aveva
una vasta schiera di fedeli ovunque, in quanto lui, oltre a questo,
era anche un amante della pace e della quiete dei prati fioriti.
Ovunque
andasse lui cercava comunque di nascondersi dal chiasso per cercare
la tranquillità di un bosco o di una campagna,
perciò
inizialmente non capii come fosse finito lì, nella strada
più
trafficata di quel borgo. Sorrideva.
Io
avevo avuto l'onore di incontrarlo poche volte e ogni volta lui mi
aveva degnato di scarse attenzioni. Si diceva che fosse interessato
più al vero colore dell'animo delle cose, rispetto
all'aspetto
stesso, e che il suo sguardo cercasse in continuazione qualcosa di
magnifico. Gli altri dei, così pieni di sé, non
suscitavano il minimo interesse in lui.
“Finalmente”
ringhiò quel mago, inconsapevole di essere già
morto.
La folla fuggì, allontanandosi il più possibile
dal
mago e dal dio. Noi facemmo lo stesso per non farci notare troppo.
Questa volta l'avevamo scampata. “Ora ti punirò
per esserti
avvicinato alle terre della somma Elian!” gridò
ancora.
Pensai che fosse molto sicuro di sé per dire quelle cose.
Percepivo chiaramente il divario tra lui e il dio.
Arone
sospirò, continuando a guardarsi intorno. Disse una sola
parola sussurrata senza che nessuno riuscisse a sentirlo:
“rosso”.
In un attimo, seguendo gli ordini di quel termine, tutta la sua
veste, il suo mantello, gli occhi e i capelli cambiarono colore
tingendosi di diverse tonalità di rosso.
Qualcosa
di magnifico, come una farfalla che muta le sue tinte sotto il sole.
Rimasi incantato, lasciando andare Lorissy ormai immobile accanto a
me.
Il
dio sembrò sollevarsi appena e scivolò verso il
suo
nemico con estrema velocità.
Accadde
tutto in rapidi secondi. Il mago provò a fuggire cercando
uno
scontro a distanza; il dio invece gli si era parato davanti. Un
attimo e poi la fiamma. L'intero corpo del servitore di Elian si era
ricoperto di fiamme e pochi attimi dopo cadeva a terra fumante e
carbonizzato, privo della vita.
Era
stato tutto molto veloce. Non che mi aspettassi di più ma
volevo vedere Arone in azione. Nel Palazzo si diceva da sempre che
era il più spettacolare tra gli dei.
Lui
scese a terra, saltando giù da quel piano, e sorrise ancora.
Non sembrava essere neppure toccato da ciò che aveva appena
fatto, ma con una voce molto graziosa disse alla gente davanti a lui:
“Mi scuso per il disturbo”. Camminò poi
verso di noi.
Pensai che era solo una coincidenza e gli sorrisi appena per fingere
di essere la ragazzina estasiata dallo spettacolo e per sperare che
capisse qualcosa. Sbandierare davanti a tutti la nostra
identità
sarebbe stato come scoprirsi davanti al mago, dunque speravo che lui
se ne accorgesse senza dire nulla. Invece, l'unica cosa che fece, fu
fermarsi un attimo e guardarmi con uno strano sguardo. Certo: aveva
sempre quell'aria annoiata e distratta di chi cerca sempre il
significato, ma in quel momento sembrò aver colto quella
sfumatura con gioia. Sembrò aver trovato il senso e anch'io
avevo riconosciuto la sua sagoma avvolta, di nuovo, nel mantello.
Capii
che lui aveva capito ma non si curò di me e passò
oltre. Aveva i suoi motivi e io avevo i miei che mi impedivano di
chiedergli direttamente il perché. Il 'perché' se
ne
andasse senza aiutarci.
Abbassai
il capo in silenzio, un poco deluso dalla sua reazione.
Fino
a quel momento avevo pensato che tutti gli dei aiutano gli altri dei
ma sicuramente mi sbagliavo. Gli dei sono come gli uomini, solo
più
potenti e viziati. Sbagliano come gli uomini, amano come gli uomini e
odiano come gli uomini. Se tutto questo mi fosse stato più
chiaro, solo un po', forse avrei compreso molte più cose di
quante realmente ne capissi.
Passò
un altro giorno.
Con
Lorissy pensammo che quel travestimento si stava dimostrando
obsoleto. Non potevamo combattere e non avevamo con noi neppure delle
buone armi, senza contare che l'unico dio che avevamo incrociato ci
aveva bellamente ignorato. Elian aveva creato una rete di guardie
attorno al suo 'regno', che altro non era che una terra arida senza
vita e ciò ci rendeva difficile avvicinarci. Avevamo intanto
scoperto questo, ma dovevamo saperne di più, entrando nel
suo
covo.
Sorrisi,
mentre ripensavo a tutto ciò osservando il sole che
lentamente
si faceva strada nel cielo scuro. L'alba era sempre un grande
spettacolo.
I
miei passi risuonarono nel tempio.
Ogni
città ne ha almeno uno e questo era dedicato all'intero
pantheon anche se venivano messi in risalto gli dei più
utili
al borgo. Appena entrato, però, mi sentii sperduto: non
avevo
mai messo piede in un luogo simile.
Mi
avvicinai ai vari idoli posti in differenti punti del grande salone,
ogni statua era fornita di un altare per le varie offerte.
Guardandomi attorno decisi di rivolgermi all'unica divinità
che sicuramente mi avrebbe ascoltato. Erano molte le
divinità
che probabilmente mi avrebbero fornito l'aiuto necessario, ma solo
una mi avrebbe dato soccorso subito.
Mi
avvicinai all'altare di Chube, osservando la sua statua sorridente e
dall'aria innocente e graziosa. Sospirai più volte. Non
avevo
la più pallida idea di come si pregasse. Alla fine iniziai a
biascicare le parole con cui la imploravo di entrare in contatto con
me.
“Come
sei impacciata” sbottò una sacerdotessa che mi era
apparsa
accanto. Aveva l'aria di una donna sulla quarantina, ma ne dimostrava
molti di meno. La veste sacerdotale, lunga e colorata di rosso,
copriva ogni parte del suo corpo. Solo il suo volto era libero da
quella morsa di stoffa.
I
capelli erano neri, come i miei, e cadevano sui lati della faccia
divisi da una riga perfetta. Davano l'idea di essere lunghissimi, ma
osservandola meglio notai che arrivavano appena a metà della
sua schiena. “Non sai proprio come si prega”
continuò. La
cosa non mi faceva affatto piacere, né tanto meno mi
sembrava
educato che una servitrice divina trattasse così i fedeli.
Mi
si chinò affianco, siccome mi ero inginocchiato all'altare
di
pietra, continuando: “Forse è per questo che gli
dei non
hanno mai ascoltato le tue suppliche”.
“Come
può dire una cosa simile! Cosa ne vuole sapere lei della mia
vita?” risposi. La mia voce doveva essere stata troppo alta
perché
la sentii riecheggiare con forza tra le colonne e le guglie.
“Mi
scuso se le sono sembrava offensiva, ma ha proprio l'aria di una
ragazza disperata”.
Io
non dissi nulla. Se lo diceva doveva essere vero.
“Ora
seguimi: urli troppo, c'è un luogo del santuario dove
potrò
insegnarti come si compie una preghiera”. Benché
fosse
scortese, sembrava davvero intenzionata ad aiutarmi. Annuii con la
testa e la ringraziai facendomi guidare fino a una stanza nascosta,
accessibile a pochi.
Avevamo
sceso delle scale e pensai fosse una specie di magazzino dove
andavano gli oggetti vecchi. Per un attimo ebbi paura che volesse
farmi del male. Pensai che fosse una maga di Elian che si era accorta
della mia presenza.
Invece,
appena giungemmo in una stanza ben illuminata, fece un profondo
inchino. Una cosa che non avevo mai visto: la sua veste si allargo
tutta, formando un enorme cerchio, mentre il suo corpo arrivava a
toccare terra: tutto per del rispetto.
“Cosa
sta facendo?” domandai. Forse mi aveva riconosciuto, ma
sarebbe
stato ugualmente un problema. Mi finsi il più stupito
possibile.
“Mi
scuso della scortesia, signorina” rispose rialzandosi. Il
solo
fatto che mi avesse chiamato in quel modo mi assicurava ancora la
sicurezza dell'anonimato. “Ho dovuto inscenare quella
ramanzina per
nascondere il mio gesto agli occhi dei maghi”.
“Maghi?”
“Il
santuario, come la città, si è riempita di maghi
servitrici di Elian. Che il Grande Padre ci salvi dalla sua
violenza”
sembrava supplicare il cielo con quelle parole.
“Perché
mi ha portata qui, sacerdotessa?”
Lei
sorrise appena. “Un uomo è entrato ieri in questo
tempio.
Inizialmente pensavo fosse un semplice viaggiatore che si era
perduto, infatti rimaneva incappucciato nella sua mantella verde e
immobile vicino all'ingresso. Quando mi avvicinai per sentire di
poter essere d'aiuto lui mi guardò con degli occhi
strani”.
Mentre diceva questo inizio, con le sue mani gracili, a cercare tra
le varie scatole e pergamene. “Quello sguardo aveva qualcosa
di
sovrannaturale e come se non bastasse mi consegnò delle
cose.
Prima di andarsene mi fece promettere di assicurarmi di consegnare
questi oggetti ad una ragazza bionda un po' impacciata e a un bruno
alto e robusto. Credo che la descrizione, senza offesa, sia veritiera
riguardo a lei, signorina”.
Bionda
e impacciata? Come poteva permettersi quell'uomo, che più
tardi identificai con Arone, a dire cose del genere?
“Il
mio compagno si trova alla locanda, sono uscita soltanto io per
venire a pregare, non mi aspettavo nulla del genere”
commentai ed
era la pura verità. Che un dio mi regalasse qualcosa per
aiutarmi nel viaggio era l'ultima cosa che mi sarei aspettato.
Le
chiesi come avesse capito che ero io la ragazza descritta dall'uomo e
lei mi rispose che aveva sentito anche una descrizione del mio
vestito.
“Non
vorrei essere offensiva: ma lei è l'unica ragazza in tutta
la
regione con i pantaloni”.
Io
ci risi un poco e anche lei lo trovò molto divertente. Per
una
volta mi sentii più tranquillo.
Aveva
finito di cercare ed estrasse due oggetti dalla forma allungata
avvolti in rotoli di pelle.
“Oggetti
del genere non possono stare nel tempio” disse “ma
questi sono
speciali, benedetti da un dio e quindi hanno il diritto di rimanere
in suolo sacro. Chiunque voi siate, usateli per riportare la
tranquillità in questa terra” mi pregò.
Srotolandoli,
ancora nel sotterraneo, mi accorsi che erano una spada dalla lama
larga e rossastra e una lama più corta, che di poco superava
il semplice pugnale. Quest'ultimo aveva una guardia e un'elsa verdi e
decorati con alcuni semplici disegni. Sembrava anche che il metallo
fosse stato lavorato male perché aveva delle imperfezioni
nel
filo. Ringraziai. Anche se avevo quella forma sentivo l'energia
magica sprigionata dagli oggetti.
“Sono
armi di Kodunai” mi disse dopo alcuni attimi di silenzio. Io
mi ero
perso a cercare le imperfezioni del pugnale e quella frase mi colse
di sorpresa. Kodunai era una divinità nascosta nei meandri
della terra. Nessuno la vedeva e nessuno la pregava, perché
lei non ascoltava nessuno.
Si
dice che fosse un uomo, ma nessuno ne è sicuro. Passa la sua
vita a creare armi di fattura divina e poi nascondere nei vari luoghi
del mondo, senza nessun divertimento o scopo preciso. Crea e continua
a creare. Probabilmente lo farà per sempre.
“Il
signore me le ha consegnate e io le consegno a voi”
“Capisco”
continuai. Quelle armi avevano un potere ben maggiore
all'immaginazione. Si dice che un'arma di Kodunai sia capace di
uccidere un dio con un solo fendente.
Stavo
pensando a questo quando lei si inchinò di nuovo, ancora
più
profondamente però. “Non c'è dubbio che
chi mi ha
consegnato quelle armi sia una divinità o un suo intimo
servitore: quindi se anche voi siete una divinità vi imploro
di salvarci”.
Se
fossi stato un servitore di Elian e Arone fosse stato un mago oscuro,
la sacerdotessa a questo punto sarebbe già morta. Lei
però
aveva una strana aura e una speciale luce negli occhi. Mi piaceva
tutto ciò.
Sorrisi
e mi inchinai a mia volta, spingendola a rialzarsi. “Lei
è
stata molto gentile, sacerdotessa. Vorrei solo sapere il suo
nome”
“Mi
chiamo Nima”.
“Sacerdotessa
Nima: io la ringrazio per quello che ha fatto”. Mi inchinai
ancora,
questa volta per dimostrare la mia riconoscenza. Una volta tornato
nel regno divino anche Nima avrebbe ricevuto una ricompensa per i
suoi gesti.
-----
Ho
inserito una piccola particina al primo capitolo ^o^ Credo che per ora
basti a risolvere qualche incomprensione poi con il testo senza
rivelare nulla xD Avevo anche intenzione, dal prossimo capitolo magari,
di inserire una piccola finestra informativa sui vari dei comparsi
fin'ora (magari un paio a capitolo) con poche informazioni essenziali
*O*
Ringrazio le
mie tre, uniche per ora, recensioniste (ma esiste?) che mi hanno dato
un grande aiuto xD
Kanako, per me
è un po' come chiedere a una donna quanti anni ha xD
Comunque ci ho messo una settimana per abbozzare gli eventi della trama
fino al decimo capitolo e 16 giorni precisi per scrivere poi la
vesrsione definitiva (speriamo) dei famosi dieci.
Land of
Dreams: Due
bestie differenti che si chiamano entrambe Servallo? °°
<---
eh si xD Come dice subito dopo, non si conosce il reale aspetto.
L'unica informazione è che il Servallo è il
figlio di serpente e cavallo xD
E Cleo, mi fa
piacere che ti ha divertito xD Ha divertito anche me xD
|
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Capitolo 6 *** Il piano perfetto ***
Capitolo
6 – Il piano perfetto
Il
quarto giorno rimasi con Nima affinché mi fornisse tutte le
informazioni che aveva.
Scoprii
che i maghi di Elian formavano una rete attorno al fortino, ma
dubitai che quella fosse la vera sede della dea. Ci avvertì
di
stare attenti perché nelle radure prima della fortezza non
c'erano ripari ma solo erba alta. I maghi erano ben visibili,
immobili in alcuni punti della pianura a svolgere il loro compito di
sentinelle.
Nel
sentirla parlare in questo modo mi ricordai degli osservatori e di
ciò che in quel tempo avevano accumulato. Lanciai
un'occhiata
distratta verso l'alto, come se ciò servisse a apprendere
ogni
cosa dai miei occhi spioni. Pensai che Maonis stava sicuramente
dormendo nelle mie stanze, sempre pronto a segnalare un problema.
Il
nostro scopo, in quel momento, era acquisire informazioni riguardo i
piani di Elian e ciò che accadeva dietro il forte. Nima mi
fu
davvero molto utile in quel senso.
Il
borgo di Markentel, dove ci trovavamo in quel momento, era l'ultimo
centro abitato prima della radura e di Knossa. La sacerdotessa ci
disse che le sentinelle della dea arrivavano fino a queste vie, per
perlustrarle. Lei non sapeva altro e quindi pensammo di dirigerci
nella strada principale per raccogliere informazioni.
Lei
ci fermò sulla soglia affermando che quella era la cosa
più
rischiosa e il metodo più facile per destare sospetto, e
aveva
ragione! Così propose una cosa inaspettata: la migliore e la
peggiore idea possibile.
“Potrei
creare un fantoccio”.
Io
e il mio compagno rimanemmo immobili a pensare.
Un
fantoccio è un oggetto nel quale viene infusa una piccola
parte di energia affinché inizi a emanare un'aura. Nelle
accademie di magia i fantocci sono usati per affinare le
abilità
dei maghi di individuare i nemici. I maestri sono soliti nascondere
dei fantocci in luoghi in cui siano difficili da ritrovare, come un
gomitolo in un grande mercato cittadino o un sassolino nel bosco, per
poi inviare i loro allievi a ritrovarli. L'unica cosa che rende
questi oggetti rintracciabili è l'aura che emanano, anche se
non sono realmente magici; gli studenti devono dunque fare ricorso
alla loro percezione per individuarne la posizione precisa.
Allo
stesso modo, i fantocci, sono utilizzati da un mago esperto durante
le battaglie. Quando si nasconde crea moltissime aure fittizie
così
che il mago o stregone nemico non riesca a trovarlo e rimanga
confuso.
In
quel momento sembrò una lama pericolosamente affilata e
immobile sopra le nostre teste.
Se
un servitore di Elian si fosse mosso per la città sarebbe
sicuramente riuscito a percepire l'aura del fantoccio ma a quel punto
poteva fare due cose: poteva andare a cercare colui che emanava
quell'energia cadendo nella nostra trappola o dare l'allarme e
tornare dalla dea rovinando le nostre possibilità.
“Non
è una cosa facile” provai a dire. Nima
però era
desiderosa di aiutarci, per qualche ragione a me sconosciuta, e
sembrò veramente intenzionata ad attuare questo piano.
Mi
riprese subito: “Certo: potrebbe allarmarlo ma c'è
una buona
probabilità che venga a cercarlo. Anzi, ne sono quasi
sicura”
si passò una mano tra i lucidi capelli e
continuò,
“Sono maghi inesperti, fuggiti dalle accademie e entrati tra
le sue
losche file. Coloro che vengono mandati qua, nelle regioni
più
esterne, hanno pochissima esperienza e sono così curiosi o
vogliosi di usare la magia che andranno di sicuro in cerca della
fonte da cui proviene l'energia”.
“Sperando
in una battaglia in cui sfoderare le loro scarse
abilità”
aggiunse Lorissy.
Io
scossi la testa ma capii che era l'unica possibilità che
avevamo, nonché l'unica idea.
Accettai,
aiutando la ragazza a preparare un fantoccio. Io non potevo emettere
un'aura finché tenevo quel travestimento, cosa che avrei
fatto
ancora a lungo per non farmi riconoscere.
Il
piano era incredibilmente semplice. Avremmo creato un fantoccio e
avremmo pregato gli dei, parole di Nima, per far filare tutto liscio
come l'olio.
Era
ovvio fin dall'inizio che il fantoccio non sarebbe stato creato
all'interno del tempio, per non destare maggiori sospetti e per non
offendere le divinità con un gesto tanto meschino, ma in un
luogo più anonimo. Scegliemmo sotto suggerimento della
sacerdotessa il retrobottega di una fucina.
Dovevamo
agire velocemente, senza perdere ulteriori giorni, e quindi subito
dopo l'idea geniale ci mettemmo al lavoro.
Trovammo
il luogo dove avremmo teso la trappola e preparammo il fantoccio
applicando delle pergamene, sulle quali vi erano scritte formule
magiche di Nima, a una cesta impagliata. Io mi sedetti alla fine del
vicolo nel quale si trovava il retro della fucina e mi coprii con un
mantello vecchio e puzzolente trovato lì vicino. Presi con
me
il cesto, poiché appena arrivato il mago pensasse che fossi
io
l'emanatore dell'energia. Lorissy si nascose invece in un angolo
oscuro, sotto dei teli e delle scatole vecchie, pronto ad assalire il
malcapitato alle spalle.
Dopo
aver sistemato tutto aspettammo nelle nostre posizioni. Poteva
passare anche un intero giorno senza nessuno ma la ragazza del
santuario ci aveva assicurato che la città pullulava di
queste
spie infime.
Passò
solo un'ora scarsa prima che qualcuno si affacciasse nel vicolo.
Aveva dei lunghi capelli rossi che cadevano davanti agli occhi scuri.
La pelle era pallida e indossava un lungo abito nero, simile a una
mantella. Avanzava con passo indeciso. Aveva l'espressione di una
persona sicura di sé, ma procedeva con circospezione e una
dose di curiosità. Io ne sentivo solo i passi mentre si
avvicinava.
Pensai
che fosse una persona abbastanza sveglia.
“Ehi
tu!” esclamò fermandosi all'imboccatura della
strada. Era
dannatamente troppo lontano da Lorissy. “Parlo con
te!” continuò.
Avevamo adescato un mago, questo era certo, ma se non si fosse
avvicinato ancora il piano sarebbe fallito.
Inizialmente
feci finta di nulla ma poi pensai a un modo per attirarlo a me.
Voltai appena la testa, mantenendo il volto all'oscuro, e fingendo
una voce anziana dissi: “C'è qualcuno
là dietro?”
Il
mago soffiò. “Chi sei?”
domandò scaldandosi.
Io
feci finta di non sentire. “Come dici?” il mio tono
di voce
femminile tradiva leggermente la parte che mi ero scelto
“Ormai
sono vecchio... avvicinati giovane altrimenti non riuscirò a
sentirti”
Lui
invece urlò più forte. Nera veramente sveglio,
sopra la
media di quei maghi. “Ti ho chiesto chi sei,
vecchio!”
“Non
capisco. Te ne prego avvicinati ancora un po'”. Per
enfatizzare la
mia vecchiaia tossii e caddi a terra dalla panca sulla quale mi ero
seduto. “Sono vecchio” continuavo a ripetere. In
realtà
tremavo dal terrore di fallire. Un brivido di panico si fece strada
lungo la mia schiena.
Lui
sembrò essersi convinto e fece alcuni passi in avanti, verso
di me. Con la coda dell'occhio lo osservavo approfittando del
cappuccio e della penombra per non farmi vedere. Ancora uno, pensavo,
ancora un passo.
Poi
un'ombra scivolò fuori dalle casse e si abbatté
sul
mago con furia. Chiusi gli occhi per un istante e sentii un tonfo
sordo. Riaprendoli notai il corpo del ragazzo steso a terra.
Lorissy
l'aveva colpito con una piccola tavola di legno e per un attimo
pensai che il giovane fosse morto. Il semi dio aveva attaccato con
molta forza.
Lasciai
cadere il mantello a terra scrollandomi la sensazione di sporco che
aveva quella veste.
Il
mio volto si rilassò e potei sospirare soddisfatto. Tutto
era
andato per il meglio; il peggio era passato.
Il
passaggio successivo fu una sciocchezza in confronto a quello che
avevamo appena fatto.
Tramite
delle corde e un sigillo bloccammo mani e gambe della nostra vittima
inibendo la sua energia magica. Nima ci aveva raggiunto per
l'occasione, portandoci il sigillo inibitore prima che la nostra
fonte di informazioni si svegliasse.
Con
una striscia di stoffa impedimmo che potesse anche urlare e
aspettammo.
Io
ero la divinità che si occupava dell'archivio. Io acquisivo
informazioni in continuazione e avevo molti mezzi per farlo. Non
dovevo certo ricorrere alla violenza o alla tortura, ma dovetti
mettere fine al travestimento.
Feci
scivolare una mano sulla fronte del mago, mentre la sacerdotessa
sullo sfondo ci chiedeva come avremmo agito adesso. Lo toccai,
scostando i capelli e sentendone la pelle fredda e sudata. Lui ormai
si era svegliato e mi fissava intimorito.
In
un solo istante il mio corpo cambiò ancora. La pulzella
indifesa che ero stato fino a quel momento scomparve lasciando il
posto a Ham, la divinità che ero in realtà. Potei
sentire di nuovo la libertà del mio potere e anche il
terrore
che apparve sul volto del mago davanti a me.
Nima
era impallidita e si era inchinata chiedendo perdono per tutte le
volte che si era rivolta a me con tono confidenziale, per quando era
stata scortese e maleducata. Io le risposi che aveva già
chiesto scusa per tutto ciò e quindi non ce n'era bisogno
una
seconda volta.
Quello
era uno spettacolino inutile, mi dissi, fatto dagli uomini per farsi
amici gli dei.
Era
impressionata dal mio aspetto e lo fu ancora di più dopo la
magia.
“Cosa
sta organizzando Elian?” chiesi. Non occorreva che il mago
rispondesse, essendo anche impedito dal bavaglio, ma doveva solo
pensarci. La risposta comparve nella sua mente e la mia mano la
catturò illuminandosi di una fioca luce bianca.
Scoprire
dagli oggetti è molto più facile: loro non
provano
emozioni. In quel momento la paura e l'agitazione del ragazzo
confusero le idee e impiegai più tempo per acquisire le
informazioni giuste.
Alla
fine, però, allontanai la mano da quel giovane,
asciugandomela
con uno straccio. Era stata una pesca molto poco producente, mi
aspettavo qualcosa di meglio, ma non potevo lamentarmi.
“Elian
ha usato la magia e i semi del male per creare qualcosa che va oltre
al semplice mago. Vuole partorire dei combattenti pari agli dei e ha
infoltito le sue file con questi esperimenti. Non sono venuto a
conoscenza, comunque, di quali siano i risultati veri e propri
né
se muoverà battaglia al Palazzo. È solo una
sentinella
alla fine della gerarchia, è già tanto se conosce
questo”. Il mio commento non mosse Lorissy che comprese
sospirando,
Nima invece fu colpita.
Partimmo
l'alba del quinto giorno, salutando Nima e ringraziandola per i suoi
servigi. Promise di mantenere il segreto e mi fornì un
bellissimo mantello di seta azzurra con decorazioni dorate e un
talismano che nascondesse, per una giornata al massimo, la mia
energia divina.
Le
armi che ci aveva donato Arone non ci erano servite, ma potevano
rivelarsi utili più avanti. Galoppammo su due bei cavalli
dal
pelo corto e lucido che la sacerdotessa ci aveva fatto trovare fuori
dalla locanda e scivolammo lungo la valle. Dalla mente del mago avevo
rubato anche le informazioni riguardanti i turni e le zone protette.
Il
pattugliamento era organizzato in modo da coprire le varie aree della
prateria in maniera uguale ma le sentinelle si muovevano all'interno
della loro zona lasciando dei corridoi liberi. La pianura era
vastissima, dunque non potevano tenerla sotto controllo tutta in
contemporanea. Ovviamente se fossimo stati privi di queste
informazioni ci saremmo imbattuti in qualche mago, ma seguendo un
percorso particolare, che scivolava tra le varie aree, giungemmo al
forte nel pomeriggio.
Il
sole aveva appena iniziato a calare e noi scendemmo da cavallo
scivolando tra l'erba. Ci sembrò tutto stranamente
silenzioso
poiché pensavamo che Knossa fosse sorvegliata in maniera
maggiore rispetto alla valle. Vedendo il silenzio e la strada libera
pensai che Elian reputasse il suo sistema intricato di sentinelle
talmente efficace da non richiedere protezione al nucleo del suo
'regno'.
Il
fortino aveva qualcosa di magico e antico. Era perfettamente
quadrato, come un piccolo scrigno che racchiude centinaia di segreti.
Nei tempi remoti tutta la valle attorno al forte era colma di
villaggi che lo rifornivano di cibo e altre vettovaglie, ora invece
era tutto aspro e desolato.
L'erba
gialla copriva ogni pezzetto di terra. Era erba innaturale, quella,
apparsa dopo la maledizione della fortezza.
Le
pareti erano alte e il soffitto era sigillato da un enorme tetto a
cupola, tenuto in piedi in qualche modo che ignoro tutt'ora.
Possedeva quattro torri di guardia ormai logorate dal tempo e
dismesse, e piccole feritoie lungo tutto il secondo e terzo piano.
Ci
impiegammo più di un'ora, però, per trovare una
via di
entrata. I portoni del cancello erano chiusi e non sembravano esserci
altre vie d'accesso. Oltre a questo, nei rari momenti in cui
disattivavo il potere del talismano e usavo la mia energia, non
riuscivo a percepire aure rilevanti dal forte. C'erano delle presente
deboli, pallide e nient'altro. Sembrava una trappola o un inganno.
Tremai
all'idea che tutta quella fatica si rivelasse infine inutile.
Dopo
un po', Lorissy mi propose di usare la sua forza divina per aprire un
varco nelle mura. Io lo feci desistere poiché un gesto del
genere avrebbe prodotto troppo rumore e danni. Pensai invece di
entrare dalla torre est, dopo averla vista.
Il
fortino era fatto in modo che le quattro torri puntassero quattro
direzioni differenti, così si erano create la torre nord, la
torre ovest, la torre sud e la torre est.
Provenendo
da sud-ovest e proseguendo per nord-est, come avevamo fatto noi, si
incontrava subito il portone maestoso di legno e metallo. Da
lì
si potevano vedere la torre sud e la torre ovest, mentre quasi sul
lato opposto c'era la torre est. Quando ci passammo sotto potei
notare che era quella nelle peggiori condizioni. L'assedio che aveva
subito la fortezza aveva lasciato ben pochi segni ma quello era il
più evidente: il tetto della torre era crollato e pensai che
ci fosse un varco per passare.
Dovevamo
arrivare così in alto, ma tramite i miei poteri non era
un'impresa impossibile.
Feci
allontanare Lorissy e evocai una grande nuvola di fogli, intrisi
della mia maglia. Questi formarono un cucino compatto sul quale
montare che ci avrebbe condotto in cielo, levitando.
Il
mio compagno era dubbioso credendo che la carta non potesse reggerlo
ma io lo rassicurai.
“Più
cose scopro... più informazioni acquisisco, Lorissy,
più
la mia magia diventa forte e la mia carta adattabile alle
più
disparate esigenze”.
Lui
si convinse, ancora titubante, e insieme giungemmo lassù a
svariate decine di metri da terra.
Scendemmo
sulle macerie della torre, muovendoci verso la scalinata ancora
parzialmente visibile.
La
nuvola di carta svanì tornando a essere solo energia magica.
Scendemmo
lungo tutta la torre e con un po' d'astuzia e un tocco di fortuna
riuscimmo a muoverci senza incontrare nessuno. Non vedevo cadaveri,
né gli spettri tanto famosi e tutto sembrava in ordine; fu
questo a rendermi ancora più sospetto.
Scivolammo
senza trovare nessuno ma per sicurezza, continuavo a fare capolino
dietro ogni angolo per stare certo che la strada fosse vuota,
finché
giungemmo in un lungo corridoio.
Dovevamo
aver camminato a lungo, ritrovandoci nel centro del forte. Il
corridoio era contornato da due file parallele di colonne decorate
appena; tra di loro passava un lungo tappeto di seta rossa e c'erano
svariati stendardi e tele dello stesso colore appesi ovunque. Parte
della luce proveniva da delle fessure poste sul soffitto, ma
avvicinandosi il tramonto, gran parte dell'illuminazione era data
dalle fiaccole magiche poste ovunque.
“Forse
siamo vicini alla sala del trono” suggerii al mio compagno e,
infatti, poco dopo il corridoio si allargò fino a
trasformarsi
in una grande stanza dalla base rettangolare. Pensai che un tempo ci
fosse una porta, per regolare l'afflusso della gente in quella parte
della struttura, ma ora corridoio e sala erano collegati
direttamente.
Il
trono di pietra stava sul fondo, pulito ma con gli evidenti segni del
tempo e della guerra passata, mentre tutt'intorno stavano statue e
decorazioni varie salvatesi dalla furia dell'assedio. Era tutto molto
silenzioso: troppo.
Sospirai
preoccupato vedendo tutto così tenuto, come se fosse
utilizzato ancora come reggia e non percependo nessuno spirito.
Lorissy aveva invece un'aria sbalordita dalle decorazioni e
dall'antico sfarzo che possedeva ancora la stanza, così che
avanzò noncurante con gli occhi distratti.
Il
talismano aveva ormai perso potere ma decisi di tenerlo ugualmente
siccome lo trovavo esteticamente grazioso: era una perla rosa
incastonata dalla forma sferica; il tutto era abbracciato da un
anello metallico legato ad un filo, per formare il ciondolo.
Improvvisamente
la luce sembrò mancare per un attimo e dall'alto arrivarono
due fiammelle azzurre che rapide si abbatterono su di me e il mio
aiutante.
Lui
era troppo distratto per accorgersi di quella magia improvvisa, che
ruppe il silenzio e la pace del salone, così difesi entrambi
creando due piccoli scudi, formati da ammassi di fogli che si
frapposero alle due fiamme. Durò un istante e la mia difesa
resistette appena a quei colpi.
“Cosa...?”
provò a chiedere Lorissy ma io lo interruppi.
“Stai
attento. Era una trappola”. Lo dissi senza stupore. Avevo
quasi
sperato fin dall'inizio che lo fosse, come un bambino che aspetta il
gioco meritato.
Finalmente
un po' d'azione.
I
battiti del mio cuore aumentarono mentre provavo a guardare le pareti
e il soffitto, cercando il mio nemico. Lassù la luce
arrivava
appena, mentre noi eravamo ben visibili.
Non
notai alcuna sagoma e provai uno strano senso di sconforto, quasi una
paura. Il semi dio intanto aveva perso il suo aspetto riprendendo la
forma originale.
Ero
confuso da quella cosa. Il castello era vuoto e anche come trappola
mi sembrò un po' poco. Era un po' come un mago solitario che
ci aveva attaccato per noia.
Solo
più tardi capii quel silenzio. Solo dopo venni a conoscenza
del motivo per cui il fortino era vuoto.
----------
Ham,
Il dio segretario della conoscenza (HamuHamu)
Ham
bada a descrivere gli eventi più importanti e amministrare
l'archivio
di tutte le conoscenze accumulate nel tempo. Passa le giornate nello
studio a scrivere e studiare i documenti.
Revery, la dea guerriera che protegge le porte del regno divino
(Santus Porkias)
La
Dea guerriera tiene d'occhio le porte del paradiso divino e combatte
tramite il fedele anello magico. Nulla sfugge al suo occhio e
amministra anche la giustizia e le dispute tra dei.
----
I
Can Die now.
Dopo gli
errori dell capitolo precedente posso anche smettere di scrivere
ç,ç Che vergogna. E pensare che l'avevo
ricontrollato!
Come ho
ricontrollato questo xD Ho evitato di andare avanti per rileggerlo
stamani e stasera xD Speriamo bene! ^o^
Kanako, si sono al capitolo 4 xD
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Capitolo 7 *** L'inferno alle porte del paradiso ***
Capitolo
7 – L'inferno alle porte del paradiso
Era
il quarto giorno dalla mia partenza.
Il
Palazzo viveva nella tranquillità che lo caratterizzava.
Nessuno si era più presentato alle porte del regno divino e
Revery iniziava a pentirsi di aver mandato Lorissy e me in una
missione dettata solo da un presentimento.
In
una stanza candida, sfarzosa e con ampie tende bianche, stavano Chube
e Katyana. Erano sedute attorno a un piccolo tavolo circolare che
sembrava fatto di cristallo e decorato con disegni d'oro colato.
Stavano assaporando una qualche bevanda fumante dentro piccole
tazzine deliziose, colorate di azzurro e verde con disegni floreali.
Erano
una di fronte all'altra, sorridenti e spensierate. Ormai il
mezzodì
era superato e loro erano pratiche di questi momenti in cui provavano
una qualche nuovo di succo o tè.
Per
un attimo il volto della divinità cuoca si fece cupo mentre
posava la sua piccola tazza ormai vuota.
“Cosa
ti preoccupa?” domandò Chube. Aveva assunto dei
tratti
maturi sul volto e anche se il suo corpo non era molto formoso
sembrava una donna fatta e finita. L'altra, che si apprestava a
rispondere, aveva legato la chioma in due trecce che cadevano sul
petto e aveva un volto molto più bambinesco.
“Ho
uno strano presentimento”. La mora si mosse un i capelli, per
donare un po' di volume in più, mentre ascoltava quella
frase.
Sapeva che Katyana avrebbe continuato a parlare senza aver bisogno di
essere incoraggiata e così fu. “Oggi mentre
preparavo una
torta ho avuto dei problemi con l'impasto. Dopo aver lasciato
lievitare la forma ho notato che era piena di grumi. Non mi capita
mai: è un cattivo presagio”.
“Mi
dispiace” commentò la dea delle bolle sorseggiando
ancora
quella bevanda. Nel presentargliela, Katyana, era stata un po' vaga,
solo dopo averla assaggiata le aveva spiegato in cosa consistesse.
Con una voce orgogliosa la dea spiegò:
“È un infuso
di erbe, solo che ho voluto inserire anche del succo di Mele
provenienti dalle colline dell'est”. L'altra era rimasta
molto
colpita dal sapore dolce della bevanda e dal vivo colore giallo.
Chube, ovviamente, ignorava la differenza tra le pregiate e rare mele
dell'est e quelle dell'ovest, ma fece finta di comprendere e di
gustare una prelibatezza.
Ora
però quel succo passava in secondo piano.
“Ham
e Lorissy sono andati in missione”.
Katyana
annuii con la testa. “Lo so. Cosa avrà in testa
quello
zuccone! Lui non è tagliato per fare la spia. Con quel
compagno poi...”.
Chube
si lasciò sfuggire un sorriso innocente e divertito.
“Pensi
che Lorissy non sia così abile?”
domandò poi.
La
rossa arrossì appena. “Non volevo dire questo;
è solo
che non mi sembra nemmeno lui tagliato per fare la spia. Ham almeno
può fingere, ma Lorissy...” provò a
trattenersi ma
non ci riuscì, in compenso allungò il collo verso
Chube
e sussurrò “... è rozzo”.
La
mora sorrise di nuovo. “Anche tu a volte lo sei”
commentò
scherzosa. L'altra però sembrò imbronciarsi un
poco e
così, Chube, cambiò il tono del discorso:
“Comunque
sicuramente porteranno a termine questo compito. Sono bravi
entrambi”.
Katyana
sbuffò. “Sono bravi entrambi, ma nei loro compiti!
Non
dovrebbero improvvisarsi informatori”.
“Revery
ha chiesto loro un favore. Sai come sono fatti”.
“Tsè.
Uomini! Ham non dice mai di no e l'altro... beh, non mi sorprenderei
se al suo ritorno si sposasse con la sua dea protettrice”
commentò.
In realtà, fin dall'arrivo di Lorissy, la sua presenza
l'aveva
infastidita. Non credeva possibile che il loro rapporto così
impuro potesse continuare nel Palazzo senza l'intervento del Grande
Padre. Forse, c'era anche un pizzico di gelosia.
Chube
aveva perso interesse. Il suo sguardo vagava perso nel liquido dolce
della brocca che aveva davanti. Ci mise qualche interminabile secondo
per rispondere. “Però, Ham, aveva bisogno di un
po'
d'azione. Non è sicuramente una missione rischiosa, anzi, si
rivelerà solo una passeggiata molto probabilmente.
Servirà
solo a fargli prendere una boccata d'aria”.
“Su
questo hai ragione... però...”
Katyana
stava per continuare quando Chube la interruppe: “Ho sentito
che
hanno richiesto un incantesimo di Manius per non farsi riconoscere.
Ham è stato trasformato in una donna”.
“Ben
gli sta'” esclamò di risposta Katyana e dopo pochi
secondi
iniziarono a ridere entrambe.
Nel
frattempo, durante il tardo pomeriggio, era giunta al Palazzo anche
un'altra divinità. Era quasi un mese che non tornava su
suolo
sacro, siccome era partita per fare un viaggio verso le terre ai
confini est per cercare nuove opere da leggere. Era Krost, la dea
delle parole scritte. Per lei ogni avventura può diventare
storia e ogni storia può diventare avventura. Viaggiava in
continuazione in cerca di nuovi trattati, romanzi, biografie o anche
semplici racconti.
Io
e lei avevamo un buon rapporto, entrambi sempre circondati da pagine
e fogli, solo che lei vagava nel mondo per trovarli e io invece
ammuffivo nelle mie stanze.
Krost
era una donna dalle forme morbide e corporatura in carne, a dispetto
dei fisici asciutti di tutto il pantheon, e possedeva un volto sempre
sorridente e paffuto. La chioma riccia e castana cadeva sul suo corpo
danzando a ogni movimento.
Aveva
un ottimo rapporto anche con Manius, poiché tra le sue opere
preferite figuravano i racconti erotici o trattati su
quell'argomento. Spesso la stessa dea della passione scriveva
qualcosa che la intrattenesse durante i lunghi viaggi per terra e per
mare di Krost e quest'ultima ne rimaneva sempre soddisfatta.
Era
tornata per riposarsi alcuni giorni, dopo aver fatto scorta di nuovi
resoconti e racconti esotici sulle selvagge e misteriose terre
dell'estremo est. Sorrideva soddisfatta mentre scivolava per i
corridoi.
Durante
la sua avanzata trionfante incrociò Maonis, che era
stranamente uscito dalle sue stanze.
“Ciao,
Maonis! Come va?” chiese perennemente allegra.
“Krost,
qual buon vento. Hai fatto un piacevole viaggio mi auguro. Qui tutto
scorre quieto ma se cerchi Ham, mi dispiace, non è in
casa”.
Il gatto sorrise sotto i baffi, passando ronfante tra le gambe della
dea.
Lei
si inginocchiò per accarezzarlo. “Come dici? Dove
può
essere mai il mio caro amico?” il suo sguardo andò
al
soffitto. Era una delle sue caratteristiche: quando parlava, tendeva
a distogliere lo sguardo puntando il cielo.
“La
guardiana delle porte del paradiso lo ha mandato in missione assieme
a Lorissy, il suo schiavetto. Sembra che ultimamente si siano
risvegliati antichi rancori che hanno scosso leggermente il pantheon,
ma secondo me sono preoccupazioni inutili. Fuochi di paglia”.
Maonis
non le mandava certo a dire a nessuno. Giustificandosi con la sua
natura felina era schietto e meschino nei confronti di chi non gli
andava a genio.
“Dimmi
tutto, mio caro” sospirò lei lievemente
preoccupata.
Fu
così che spiegò alla divinità che
aveva davanti
gli eventi accaduti, come il ritorno di Raffaella o il giurar
battaglia di Elian e questa sembrò capire. I suoi occhi
fissarono il micio.
“Spero
non sia davvero nulla di grave” commentò levando
gli occhi
alla volta.
Si
alzò, ma prima di congedarsi dal compagno animale disse
un'ultima cosa, forse riferita più a sé stessa
che a
Maonis. “I momenti che odio di più di una guerra
sono la
quiete prima della battaglia e il silenzio che segue. Se deve
accadere qualcosa che accada alla svelta”. Tornò
sui suoi
passi.
Decise
di dirigersi verso le stanze che le appartenevano, per riposarsi.
All'alba
del quinto giorno dalla mia partenza, l'aria tremava in maniera
innaturale.
Sembrò
che il clima di calma respirato fino al giorno prima fosse solo un
ricordo. Tutte le divinità si svegliarono confuse, turbate.
I
loro sensi erano all'erta anche se nulla accadeva realmente.
Era
forse un'illusione ma tutti si mossero attenti.
Revery
era posata alla sua solita postazione. Il Grande Padre le aveva dato
un dono particolare: lei non doveva infatti dormire. Quella in cui
cadeva era una trance dalla quale era pronta a svegliarsi in
qualsiasi momento.
Annusava
l'aria. Gli altri reagivano solo inconsciamente a quegli stimoli ma
lei invece ci ragionava sopra: ricordando tutte le volte che quel
sentore aveva appestato le stanze del Palazzo. Come sempre,
pensò,
gli uomini si daranno battaglia. Era sempre così: quell'aria
pungente preannunciava sempre una battaglia. Gli dei chiamavano senso
divino quello che permetteva loro di sentire quella presenza
impalpabile, anche se in realtà erano le volontà
di
sangue e di violenza a sprigionare quell'energia che arrivava persino
nel Palazzo.
Camminò
fino a sporgersi da un parapetto che chiudeva il giardino su un
fianco. Da quella posizione lanciò più volte gli
occhi
nel mondo ma non notò nulla di strano. Le solite cose,
solite
schermaglie.
Fu
all'arrivo del pomeriggio inoltrato, quando il sole iniziava a farsi
evidentemente basso all'orizzonte ma non abbastanza da far cessare la
luce, che la battaglia ebbe inizio. Revery, che si era assopita nella
noia del suo compito, si scosse scostandosi dal muro al quale era
appoggiata con uno scatto. Balzò fino all'ingresso del
giardino.
Sentì
quell'aria farsi sempre più opprimente, come se avvolgesse
il
suo corpo in una bolla e sgranò gli occhi. Puntava la
scalinata d'ingresso e sentiva i passi, le aure; sentiva l'arrivo di
varie presenze.
Aspettava
agitandosi. La mano destra tremava appena e sulla fronte scesero
alcune gocce di sudore freddo.
Si
maledì stringendo i denti: la sua esperienza e la sua
abilità
le fecero subito capire che sarebbe stato meglio avvertire tutti fin
dall'inizio di quell'odore di guerra che aleggiava; ora era troppo
tardi.
In
un istante tutto le fu chiaro. Appena vide la sagoma di Elian
affacciarsi dalla rapida scalinata, seguita da infinite ombre, Revery
colse subito il significato del presagio.
Gli
uomini non si sarebbero dati battaglia quel giorno, perché
spettava agli dei affrontare uno scontro ancor peggiore.
Deglutì
provando a contare le sagome. Troppe: forse un centinaio.
Continuavano a uscire dal tunnel, salendo le scale con finta calma,
seguendo la loro dea.
La
guardiana si scosse un'ultima volta, assumendo un aspetto sicuro e
parandosi davanti a quella folla minacciosa. Non avevano ancora
sguainato le armi e i loro volti erano pacati sotto i cappucci neri,
ma emanavano un'energia sinistra.
“Fermati”
esclamò portandosi una mano sulla fronte. Con un gesto poco
delicato si spostò la corta chioma cenere dietro le orecchie
perfette. “Vuoi dare una festa, Elian?”
Quell'atteggiamento
sembrò fare presa sulle ombre che tremarono un poco. La dea
del ciclo fece segno di tranquillizzarsi.
“Sì:
una festa rumorosa. Vuoi unirti a noi?” domandò
sorridendo
appena, mostrando però una cosa che apparve molto simile a
un
ghigno diabolico. Si scagliarono sguardi rancorosi per alcuni istanti
e l'aria parve incendiarsi. Quel momento fu interrotto solo da
un'azione di Elian, che stanca di aspettare, fece un passo oltre la
soglia delle scale, intenzionata a far partire il suo folle assalto.
Revery
fece scattare la sua mano insieme al braccio al suo seguito. L'anello
vibrò e il suo movimento stava a significare che la dea
doveva
placare la sua avanzata.
“Torna
da dove sei arrivata insieme ai tuoi compagni. Questo suolo non
può
essere calpestato da creature come te”.
“Allora
scacciami come sai fare solo tu. I miei servitori fremono dalla
voglia di vedere la tua forza”.
Pensandoci
adesso, dubito che i suoi servitori fossero davvero contenti di
vedere l'ira della guardiana siccome rischiavano la loro stessa vita,
ma Revery non ci pensò.
“Li
accontento subito”.
Un
attimo prima del suo attacco, quella folla di mantelli tremò
e
salto in avanti in un'offensiva totale e disorganizzata. Alla dea
bastò un solo gesto debole per frenare la loro corsa. Si
creò
una corrente, simile a un muro invalicabile, che respinse tutti
quegli uomini facendoli cadere sparpagliati sulla scalinata.
Gli
occhi della dea andarono ai pochi che riuscirono a cadere in
equilibrio e che scattarono di nuovo come se la loro vita dipendesse
da quello. Il resto delle ombre si rialzò ognuno seguendo il
proprio ritmo, scagliando un secondo assalto.
Per
una seconda volta si creo un muro, poi un'altra volta ancora e
ancora. Per quanto forte spingesse quegli adepti demoniaci sembravano
decisi a superarla, continuando a correre anche a costo di cadere
altre mille volte rovinosamente al suolo.
Elian
si era fatta indietro, circondata da quattro figure di diversa
stazza. Non interveniva poiché aspettava che la furia dei
suoi
maghi riuscisse a fare una breccia. Bastava che uno mago superasse
quel muro di vento per fare in modo che la dea dovesse curarsi di
inseguirlo, lasciando gli altri liberi di proseguire.
Era
sicura di questo, Elian, perché sapeva quanto fosse fedele
al
proprio compito l'altra dea.
Dopo
il quarto muro d'aria, Revery, volle approfittare di un attimo di
quiete per scagliare un colpo ben più pericoloso.
Schioccò
le dita e in un secondo centinaia di proiettili magici si scagliarono
verso quel branco di ombre. Erano partiti tutti dal corpo della dea o
dall'area subito nei pressi di essa ed erano in realtà delle
sfere di vento manipolate dalla magia. Ogni sfera vorticava su se
stessa a gran velocità e si muoveva come una freccia
impazzita
seguendo una traiettoria imprevedibile e rapida.
Quello
stormo di attacchi creò una serie di fischi cui
susseguì
il fragore dell'impatto e delle urla.
La
dea aveva scagliato le sue sfere di vento alla cieca, indirizzandoli
comunque tutti nella zona dove si trovava quel gruppo di invasori.
Sul suo volto apparve un sorriso vedendo l'assalto riuscito e molti
di quei corpi riversi a terra, agonizzanti o morti.
Non
fu una gloria di lunga durata, comunque. Altri erano sopravvissuti e
si scagliarono nuovamente all'attacco. Ancora e ancora. Era un fiume
di corpi che avanzava verso la dea. In battaglia li avrebbe
certamente abbattuti tutti, ma in quel momento non riusciva a tenere
tutte quelle sagome a bada.
Dopo
alcuni assalti falliti fu una di quelle sagome a farsi avanti in
maniera indipendente. Era rapida, molto di più delle altre e
ciò stava a significare che era anche più forte.
Grazie
alla velocità acquisita, arrivata davanti alla dea,
riuscì
a scagliare un pugno abbastanza forte da spingerla a terra. Il suono
dell'impatto era stato spaventoso ma Revery era riuscita a difendersi
efficacemente.
“Non
sarà un guerriero corrotto a uccidermi!”
esclamò. Si
accorse solo in quell'istante di essere caduta con il sedere a terra.
Per alzarsi sarebbe bastato un attimo me in quello stesso lasso di
tempo i suoi nemici sarebbero passati.
Sopra
di lei apparve un'altra sagoma avvolta dalla mantella.
Riuscì
a vedere il suo volto tinto di scuro e dai capelli castani molto
corti. Gli occhi erano iniettati di sangue e persino il suo sorriso
aveva qualcosa di sinistro.
Fu
una distrazione inutile quella di lasciarsi atterrare in quel modo ma
quei nemici non le avevano dato il tempo di attaccare efficacemente:
tenendola occupata per tutto il tempo dello scontro.
La
nuova figura scagliò su di lei una sfera infuocata dallo
scarso potere ma che all'impatto rilasciò un'esplosione di
fiamme che atterrò del tutto la divinità.
Rimase
stesa al suolo con gli occhi rivolti al cielo.
Per
la prima volta in tutta la sua esistenza aveva fallito. Il fiume di
corpi passò oltre con veloci balzi e scatti improvvisi.
Nessuno osava attaccarla, o forse nessuno la notava più.
Avrebbe
voluto morire lì piuttosto che rialzarsi e dover accettare
quella sconfitta, per quanto misera e giustificata. Il suo onore era
andato in frantumi e pensò che anche la sua
credibilità
lo fosse.
Era
stata troppo sicura di sé e ora doveva pentirsene.
Però
non pianse e non lasciò neppure che la disperazione
offuscasse
la sua mente.
Si
rialzò di scatto e con gli occhi ancora lucidi
lanciò
una folata di vento con una potenza tale da danneggiare perfino
l'ingresso del giardino e la soglia delle scale.
Coloro
che non erano ancora passati dovevano vedersela con la furia
smisurata di Revery che adesso si scagliava in una serie di assalti.
I
getti d'aria con i quali sbaragliò quelle file, uccidendo
gran
parte dei maghi e scagliandone altri al di sotto del molo, erano di
una potenza impressionante. Le mattonelle del piano, i gradini delle
scale e perfino la roccia grigia del castello venivano scalfiti e
danneggiati.
La
dea volle usare il potere del suo anello fino al limite pur di
redimersi.
Elian
era già passata oltre, e le sue quattro sentinelle anche.
Sapeva
che la dea era forte, forse anche per lei, ma sapeva anche che la sua
potenza si sarebbe mostrata solo nella lotta individuale, contro un
solo o pochi nemici. Aveva previsto la sua riuscita sperando proprio
in questo: nell'assalto spavaldo e incosciente dei suoi maghi. Il
piano di attaccarla in gruppo, di continuò, si era rivelato
vincente.
La
diga era stata distrutta e il fiume era riuscito a passare.
Cosa
le importava delle vittime che contavano le sue file: gran parte di
quella gente erano illusi dalla dea, dotati di poteri maligni che non
erano in grado di utilizzare e lanciati nella battaglia con il solo
scopo di essere sacrificati.
Ma
mentre si compiaceva di questo, percorrendo di corsa l'ultimo tratto
prima del Palazzo, sentì un grido.
Era
un urlo che riecheggiò con forza in ogni luogo della
fortezza
divina partendo dal giardino, attraversando ogni fessura e spiffero.
La guardiana aveva lanciato il suo segnale: il castello era invaso.
-----------
Katyana,
la dea dei dolci e delle cose dolcificate (Switty-kitty)
Cuoca
dell'intero pantheon, lei si occupa della creazione di nuovi e
sofisticati cibi da proporre ai compagni. Lei è anche la
patrona di
tutte quelle storie mielose che garbano solo a lei.
Chube, la divinità delle bolle e della schiuma (Chube-Chan)
Lei
è colei che tiene pulito il regno divino e si occupa di
alleviare le
pene altrui. I suoi poteri sono appunto legati alle bolle e alla
schiuma. Combatte solo se necessario e non si arrabbia mai.
---------
Non
ho molto da dire.
Kanako, ho
iniziato il 5 xD
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Capitolo 8 *** Distruzione e conoscenza ***
Capitolo
8 – Distruzione e conoscenza
Scrutavo
verso l'alto mentre il mio compagno correva verso di me.
Quando
mi fu vicino chinò appena il capo. Non disse nulla
né
fece alcun segno. Per me era sufficiente che si facesse da parte.
In
quel momento mi sentivo abbastanza forte da tenere sotto controllo
tutta la situazione.
All'improvviso
una voce proveniente dal soffitto mi sorprese.
“È
già tutto terminato?” chiese. Era un timbro a me
sconosciuto; rauco e fastidioso.
La
sagoma che ci aveva attaccato si trovava davvero lassù. Nel
soffitto della stanza, solo che non riuscivo a vederla. La sua voce
riecheggiò più volte fino a disperdersi e
ciò
non mi aiutò a capire dove si trovasse di preciso.
“Allora?”
chiese poi insistente.
Fermai
Lorissy prima che aprisse bocca: lui non era certo un tipo adatto a
dialogare.
“Di
cosa stai parlando?” domandai senza perdere la calma.
Lui
bisbigliò qualcosa che non capii, probabilmente
un'imprecazione. e poi continuò: “Tu non sei un
dio? Eppure
emani un'aura simile alla somma Elian”.
“Non
paragonarmi a lei!”
“Ehi,
calmati: era solo un'osservazione. Comunque tu vieni dal Palazzo, no?
Dovresti sapere di cosa sto parlando”. Quella sagoma rimase
poi in
silenzio per qualche attimo “Allora: è
già tutto
finito?”
Strinsi
i pugni concentrandomi. Se c'era qualche mago lassù, dovevo
per forza percepirlo.
Parlavo
solo per perdere tempo, ma la sua aura era inesistente.
“Lo
sapevo: è stata una cosa da pazzi, hanno già
finito”.
“Cosa
succede al Palazzo?” chiese Lorissy facendosi avanti.
L'ombra
rise. “Come? Aspettate un attimo....” rise ancora,
con sempre più
gusto, come se godesse all'idea che noi fossimo ignari di
ciò.
“...Non sapete nulla?”.
Sbuffai
e appoggiai la mia schiena al semi dio. Guardai per un'ultima volta
il soffitto ma non ce ne fu bisogno: quell'ombra si gettò
davanti a noi, piazzandosi davanti all'ingresso del corridoio dal
quale eravamo passati, come se non volesse farci andare via.
“Che
succede al Palazzo? Dimmelo!” dissi con tono minaccioso.
Ci
misi poco a inquadrarlo: occhi scuri e grandi, pelle pallida quasi
cadaverica e capelli crespi e di un colore simile alla pece. Il suo
corpo era magro, troppo magro; per un attimo mi parve che la pelle
nuda del busto potesse sparire sotto le ossa ben visibili a ogni
respiro.
Ciò
che però mi fece strabuzzare gli occhi erano le otto braccia
di strana natura che mostrava con orgoglio. Fuoriuscivano dalla sua
schiena, proprio in una posizione vicina a quella delle due reali;
possedevano uno strano colore che sfumava dal viola al rosso e
avevano l'aspetto di arti scarnificati. A prima vista sembrava pelle
viva, muscolo puro lasciato scoperto ma poi ci si accorgeva che era
carne putrida e maledetta.
Le
usava come gambe, perfino, data la loro lunghezza. A occhio e croce
pensai che fossero almeno due metri, o abbastanza da non far lui
toccare terra con i piedi.
La
sua frase spinosa fece breccia dentro di me ancora di più
del
suo inusuale aspetto. Con un ghigno malefico, tipico solo di un
servitore di Elian,mi rispose.
“Il
Palazzo è morto”.
Un
brivido mi attraversò la schiena. I nostri due volti
rimasero
paralizzati. Morto, mi ripetei, per quale motivo? Mi convinsi che
quel pazzo stesse solo mentendo. Ma ora le cose iniziavano a farsi
chiare, comprensibili.
Lui
dondolò muovendosi su quelle lunghe e anormali braccia
demoniache. Avanzò verso di noi un poco sospirando eccitato.
“Elian è partita oggi pomeriggio, ora penso sia
tutto
finito”.
Di
pomeriggio: mentre io e il semi dio stavamo provando a entrare.
Eravamo talmente euforici per la prossima riuscita del piano che non
abbiamo fatto caso ai nostri sensi. L'aria puzzava di battaglia fin
dalla mattina, però, nessuno aveva dato peso a quel segno.
Ora
capivo perché Knossa era vuota, lo capii in un lungo attimo
abbracciato dallo sconforto: Elian era partita e con sé il
suo
esercito. Ciò che prima si trovava qui ora calpestava la
terra
divina.
Con
una leggera gomitata attirai l'attenzione di Lorissy. Lo guardai
serio in volto mentre dentro di me crollava ogni speranza: alla fine
avevamo fallito.
“Dobbiamo
tornare a Palazzo”. Sospirai.
Lui
annuii pienamente d'accordo ma lo sconosciuto scosse la testa.
“Ora
siete miei ospiti; perché non giochiamo un po'?”
“Non
abbiamo tempo” risposi ma lui ci si parò davanti
camminando
ancora su due di quelle braccia e parandoci la strada con le restanti
sei.
“Non
accetterò un rifiuto” sorrise.
Dopo
un solo istante, il suo corpo su bersagliato da centinaia di lame di
carta e colpito da un violento pugno. Il risultato fu che il
servitore di Elian si ritrovò scagliato indietro di parecchi
metri e cadde violentemente a terra mentre una moltitudine di fogli
prima affilati come coltelli tornava ad assumere la consistenza
originaria.
“Se
l'esercito della strega era di questo livello il Palazzo è
ancora intero: anzi, Non saranno riusciti neppure a superare il
giardino” commentò Lorissy mentre sgranchiva le
dita usate
nell'attacco.
Quella
bestia però si rialzò ridendo malignamente.
Il
suo corpo era ricoperto da un'aura purpurea e maleodorante. Capii
immediatamente di cosa si trattava: quello era il seme demoniaco.
Elian doveva aver giocato in maniera veramente strana in quel fortino
per riuscire a impiantare il seme di un demone all'interno di un mago
umano.
La
cosa mi ripugnò, ma in quel momento non potevo distrarmi.
Quella creatura ormai non più umana rimarginò le
ferite
mentre i miei fogli, uno dopo l'altro, cadevano danzando al suolo
privi di vita. Persino il pugno di Lorissy sembrò non aver
sortito nessun effetto.
“Un
dio scartina e un mezzo-dio. Dreni non si farà sconfiggere
da
questi due!” gridò rialzandosi sulle sue svariate
braccia
come per mostrare la grandezza che lo contraddistingueva.
Rise
subito dopo con quella sua voce veramente fastidiosa.
Lorissy
mi guardò con aria confusa e io provai a spiegare brevemente
la situazione.
“Questo
qui non è un semplice mago. È probabile che la
sua dea
l'abbia fornito di particolari poteri”. Non c'era molto da
comprendere, pensai sospirando.
Lui
soffiò prima di lanciarsi in una seconda offensiva barbara.
Corse
semplicemente verso quell'adepto della dea del ciclo e provò
a
colpirlo con un altro pugno, questa volta più forte a causa
della spinta che si era dato. Dreni dondolò un poco
indietreggiando appena e da quattro delle sei braccia libere
scagliò
altrettante sfere di natura oscura dirette verso il mio compagno.
Sembravano
seguire traiettorie del tutto irregolari quando alla fine
convogliarono tutte sul corpo di Lorissy. Non posso dire con certezza
quanto grave fosse il danno subito, so solo che l'impatto fu
abbastanza potente da farlo cadere a terra parecchi metri indietro.
Era quasi tornato accanto a me dalla spinta ricevuta.
Si
rialzò ma io fermai un'altra possibile iniziativa.
“Sei
indubbiamente forte e avrai anche dei poteri segreti che ti ha donato
Revery ma questo nemico ti pareggia” deglutii prima di
continuare
la frase amareggiato “O forse ti supera”.
Mi
doleva ammetterlo ma quel Dreni emanava un'energia corrotta e
malvagia ma allo stesso tempo ampia e pericolosamente potente. Non
potevo sapere fin dove si era spinta con i suoi esperimenti e quindi
pensai che fosse meglio studiarne un po' i limiti le
capacità
con qualche attacco mirato a tale scopo.
Provai
con dei colpi che con precisione seguivano il suo corpo con
l'intenzione di colpirlo, con gli assalti da più direzioni,
perfino con attacchi ad area e trappole improvvisate. Il semi dio
provò a supportarmi ma aveva capacità ben
più
limitate delle mie. La mia carta era plasmabile e adattabile a
qualsiasi scopo e strategia mentre lui poteva solo contare su quella
forza sovrumana.
Il
mago corrotto sopravvisse indenne a tutti i miei attacchi. Dove non
riuscì a pararli, riuscì a guarire le ferite
ricevute.
Mi
prese uno strano senso di sconforto quando pensai che Elian avesse
con sé altre creature di quel calibro. Il Palazzo era in
pericolo. Forse il mio arrivo non sarebbe servito a nulla ma dovevo
sperare. Mi dissi che il Palazzo aveva combattenti che superavano di
gran lunga me o il mio accompagnatore e dunque, di sicuro, sapevano
come affrontare la situazione.
Gridai
mentre facevo qualche passo in avanti, verso il mostro. Gridai,
mentre un turbine di fogli si alzava attorno a me verso il cielo. Era
un muro tagliente e impenetrabile: io ero isolato e protetto standone
dentro. Per un attimo mi sentii sicuro, ma tutto svanì in
pochi istanti. Fermai quel vortice lasciando che tutte le mie armi
dondolassero verso al suolo. Era stato uno sfogo, non un attacco e
Dreni lo capì. Ero riuscito comunque a disperdere armi in
tutta la stanza, lui non colse questa sfumatura.
Lorissy
era fermo, da una parte, forse a pensare. Sapeva che in quel momento
io ero il protagonista e non doveva intervenire, soprattutto
perché
i miei attacchi lo mettevano a rischio.
Era
immobile vicino a me, ghignante e sicuro di sopravvivere contro di
noi. Mi chiesi come poteva un uomo mostrare tanta sicurezza davanti a
un dio: una creatura superiore, dalle origini ignote. Mi parve come
una spavalda formica che voleva affrontare l'elefante a testa alta:
una formica terribilmente forte, dovetti ammettere.
Non
potevo perdere altro tempo. Non potevo.
Mentre
il mio braccio scivolava per indicare il loro bersaglio, la mia
fedele carta scattò come formidabili lame. I fogli si
piegarono a formare tanti pugnali.
Tagliarono
l'aria sibilando e andarono verso quel folle. Vorticarono, feroci,
attorno alle sue maledette braccia. Gira, gira, gira. Un girotondo di
carta.
Lui
granò gli occhi.
No
caro mio, pensai soddisfatto ignorando il rigolo di sudore che cadeva
dalla mia fronte, non lo farai anche stavolta! L'avevo incastrato.
Notai
la sua espressione cambiare dopo il primo assalto; dopo che
saltò
via il primo dei tanti arti demoniaci. No, mio caro, continuavo a
ringhiare dentro la mia testa.
I
miei fogli, gli stessi che prima erano state lame, ora erano
diventati fazzoletti che fasciarono la ferita rilasciando la mia
energia superiore e cicatrizzando il taglio. Finché
rimanevano
quelli, lui non avrebbe rigenerato quel dannato braccio!
Goduria
e fatica.
Vederlo
finalmente cedere dopo un'ora di interminabile lotta era qualcosa che
riempiva il mio corpo di una strana eccitazione. C'era anche quella
dannata fatica, a impedirmi di sentire appieno la gioia che mi
scorreva nel sangue.
Controllare
una serie di attacchi così precisi era qualcosa di troppo
grande anche per me.
Dovevo
indirizzare alcuni fogli taglienti ai suoi arti e altri a tamponarli.
Il corpo vero era intoccabile, ovviamente. Avevo capito che quelle
braccia emanavano l'aura tanto temuta, stessa aura che ricopriva il
corpo di Dreni come uno scudo di metallo.
Lorissy
era fermo accanto a me, non aveva un ruolo: io non avevo programmato
un suo intervento.
Tagliai
anche il secondo, tamponato.
Tagliai
il terzo, all'altezza del gomito e non più a quella della
spalla, tamponato.
Tagliai
anche il quarto e il quinto, tamponandoli con l'energia rimanente.
Poi
il buio iniziò a prendersi il suo spazio all'interno della
mia
visuale. Sbattei più volte le palpebre.
Come
un pugnale che mi trafiggeva il petto, la consapevolezza di aver
raggiunto il limite mi uccise. In un istante, un solo istante,:sentii
la terra sparire sotto i miei piedi e vidi il mio corpo sprofondare.
Mancavano
tre braccia, ma io ero sfinito e pur di mantenere quell'incanto
attivo mi piegai sulle ginocchia grondante di sudore.
A
Lorissy bastò una mia occhiata priva di forze per capire
cosa
doveva fare: approfittare del momento ovviamente.
Arrivò
davanti al mago in un attimo e in un attimo lo colpì con
forza, facendolo traballare stordito.
Dreni
non era stupido: l'avevo capito fin dall'inizio e avevo anche che
riusciva ad adattarsi a qualsiasi situazione. Così: con tre
sole braccia rimanenti, le tre più in basso, riprese la
lotta.
Mentre
si faceva dentro di me il verme della consapevolezza, una
consapevolezza molesta e fastidiosa, lo scontro tra i due faceva
tremare l'aria.
Violenti
pugni e calci che si scontravano con emissioni di energia oscura e
mortale.
Lanciai
uno sguardo alla situazione, come se fossi in grado di permettermelo,
aggiungerei.
La
mia vista lesse qualcosa. Al di là delle luci improvvise,
delle urla e di quel fastidioso odore di fumo che stava impestando la
stanza, c'era qualcosa che mi parve indecifrabile.
Un
punto debole, forse, o una caratteristica comune a tutti.
Il
mio attacco era finito e fu come respirare l'aria fresca di un prato
in fiore. Dovevo solo tenere quella carta appiccicata sul suo lurido
corpo, niente di più. In realtà: era una cosa
veramente
faticosa, ma nulla in confronto a ciò che avevo appena
affrontato.
Dopo
un ultimo bagliore Lorissy si allontanò definitivamente.
Lanciava continuamente occhiate a me, in ginocchio al suolo, e il suo
nemico, ferito e indebolito dalla mia tattica. Lo leggevo nei suoi
occhi, era confuso.
Cosa
doveva fare?
Avrei
pagato per poter rispondere. Anche io, un dio, mi chiedevo la
medesima cosa.
Poi
gli ultimi tasselli del mio piano furono sistemati, le ultime idee e
la speranza di arrivare al Palazzo mi donarono un ultimo lampo di
energia.
“Dannato
dio!” bestemmiò Dreni “Questi stupidi
talismani bruciano!”
imprecò varie parole incomprensibili e continuò
“Ti
faccio fuori se non me li levi immediatamente!”. Era vero,
tutto
vero.
Con
un piccolo sforzò mi assalì con una semplice
sfera
magica. Un globo nero che si diresse verso di me velocemente. Era
umiliante essere bersagliato da un attacco così scarso, ma
in
quel momento bastava a uccidermi.
L'energia
che mi inondò per un secondo mi permise di muovermi,
scivolare
sui fogli dispersi su tutto il terreno, evitando quell'attacco. Allo
stesso modo, prima che quell'ispirazione finisse, lanciai un'altra
raffica di lame contro tutto il corpo del mio nemico.
Era
come trattenere il respiro troppo al lungo, mi mancava l'aria e la
forza di spingermi oltre.
Combattevo
contro l'idea di abbandonare tutto e cadere in un sonno ristoratore,
un'idea così sublime e morbida che sembrava la via migliore.
Vincere
e perdere. Erano cose del tutto secondarie. Lasciarmi andare al
sonno, era l'unica possibilità.
Corrugai
la fronte: sapevo che non potevo mollare adesso, non adesso.
Con
quella raffica, disperata, pensai davvero di mettere fine alla lotta:
ma fallii. Dreni lanciò un grido seguito dall'immagine della
sua aura che si allarga all'improvviso, creando una raffica di vento
capace di tenere a bada il mio attacco, di respingerlo perfino. Da
dove trovasse tutta questa forza lo ignoro. Aveva superato il mio
essere divinità, questo era ovvio.
Dallo
stormo di fogli però apparve un corpo e le mie convinzioni
si
rivelarono esatte.
La
sagoma atletica e perfetta di Lorissy, con il suo grande torace,
emerse tra le lame senza vita che avevo lanciato, avventandosi contro
il mago. Avevo imparato molto presto cosa era il 'periodo vuoto'.
Da
bambino, innocente ma già sui tomi antichi, lo chiesi al
Grande Padre.
“Perché
non possiamo lanciare magie a ripetizione?” chiesi
ingenuamente.
Lui
mi inondò di una piacevole sensazione, come la risata di un
vecchio, e disse: “Lanciare incantesimi è come
soffiare
forte: non puoi soffiare per sempre e tra un soffio e l'altro occorre
inspirare”.
“Vale
anche per le divinità?”
“Nessuno
è escluso” concluse.
Il
respiro, tra una magia e l'altra era il periodo vuoto, un tempo
brevissimo nel quale non potevi lanciare nessun incanto o
manifestazione innaturale.
Era
un tempo veramente breve, quasi come quello che ci si impiega a
inspirare, ma in quel momento si protrasse abbastanza al lungo da
permettere al mio compagno di scagliare l'ultima offensiva.
Un
fendente argentato che si conficcò nel corpo del mago
tagliandolo a metà.
Sangue,
uno strano verso, sudore. Lorissy rimase qualche secondo immobile
mentre io mi eclissavo. Non avevo la forza di chiedere aiuto e lui se
ne accorse troppo tardi. Dopo alcuni secondi di meritato riposo si
voltò per cercarmi.
Non
so come fossi in quel momento ma lui sbarrò gli occhi
terrorizzato.
Avevamo
vinto?
Non
potevo rispondermi. Il buio che era stato fino a quel momento una
cornice si fece strada annebbiandomi la visuale. Sospirai e
finalmente mi abbandonai a quel sonno.
Solo
il rumore di passi lontani che non mi appartenevano più.
Non
avevo più problemi, ora.
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Capitolo 9 *** Una corsa frenetica ***
Capitolo
9 – Una corsa frenetica.
Un
rombo dopo l'altro, la successione delle urla e le scintille che si
accendevano ormai in tutta la strada prima della porta.
Il
Palazzo stava subendo un grave colpo.
Tutte
le divinità presenti stavano agendo contro quello sciame
color
nero che, frenetico, si agitava lungo tutta la scalinata e le rocce
grigie.
Ormai
la cosa sembrava protrarsi a lungo e non c'era dubbio che alcuni
fossero riusciti a penetrare all'interno della struttura. Chube era
riuscita a contarne quattro in tutto, ma lei adesso aveva altro da
fare.
Da
quando Revery si era allontanata dal giardino, scivolando dietro alla
dea Elian, toccava a Chube e Manius, le due in quel momento presenti,
difendere il portone.
La
dea della passione aveva i suoi trucchi e con incredibile
velocità
e grazia cambiava il suo aspetto. Si muoveva sinuosa tra i maghi come
un felino gigante, poi si alzò in volo come drago e infine
divenne una splendida donna le cui braccia erano però lunghe
catene ricoperte di lame e spine.
Chube,
invece, teneva fisso lo sguardo e colpiva. Bolla dopo bolla.
In
un attimo creava una serie di bolle di sapone di differente
grandezza, poi, schioccando le dita, le faceva scoppiare. Il fragore
dell'esplosione risuonava ovunque e la sua forza bastava a
distruggere ampie porzioni di dura roccia, assieme a qualche mago.
La
dea delle bolle non si arrabbiava mai, o mai nessuno l'aveva vista
arrabbiarsi. Rimaneva pacata, con il suo sguardo pensieroso e maturo,
anche durante il più aspro conflitto.
Qualche
spavaldo adepto di Elian aveva provato ad aggirare il castello,
saltando o arrampicandosi fino al grande tetto con lo scopo di
trovare un accesso.
La
parte superiore del Palazzo era formata da un semplice tetto
spiovente dalla base rettangolare. Si sviluppava in lunghezza
coprendo con le sue tegole turchesi tutte le stanze e i corridoio di
quella struttura. Poi c'erano delle torri, principalmente
ornamentali, con tetti conici e fiabeschi.
Coloro
che arrivavano fin lì incontravano Maonis avvolto dalle
fiamme
e pronto ad affondare i suoi artigli incandescenti in qualsiasi
assalitore ostile. Era piccolo e pochi si ricordavano di lui, quindi:
insieme alla sorprendente velocità del dio felino, c'era il
fattore sorpresa di questi adepti un po' ignoranti.
All'interno,
tra i corridoi, si sentiva il rumore delle spade che si scontrano,
tra scintille e energie astiose.
Nel
corridoio ovest, illuminati da un sole che tardava a calare, Katyana
aveva fermato uno dei più furbi: un topolino che si era
spinto
troppo oltre. Né il sofisticato pavimento dalla tinta rosea
e
uniforme, né le pareti bianche decorate con colonne e
vetrate
erano imbrattate di sangue. Neppure i drappi sul lato est avevano
assorbito tra le loro pieghe una goccia di quel liquido rosso.
La
dea doveva ammettere che quell'uomo era forte. Lei, dea dei dolci,
era molto brava sia con la magia sia con le armi. La grande mannaia
incantata che impugnava sembrava ridere, gioire, a ogni movimento
perfetto della divinità.
Aveva
iniziato lanciando dei pugnali di splendida fattura che, con grande
dispiacere, avevano mancato il bersaglio. “Troppo
rapido” aveva
sospirato.
Poi
lo aveva tenuto a bada con la magia, senza che lui si degnasse di
presentarsi o mostrarsi interessato. Sembrava che l'intruso volesse
solo superarla senza curarsene troppo.
Katyana
aveva lanciato i suoi attacchi con il miele, un'arma fin troppo
pericolosa secondo lei, e con altre cibarie a sua disposizione.
Il
risultato era stato perdere tempo. Quel piccolo topo aveva una
tecnica perfetta: l'unione di forza e rapidità. La sua
lancia
affondava in continuazione avvicinandosi pericolosamente al
bersaglio: e se non riusciva a colpirla tornava alla posizione
iniziale, come un serpente dopo lo scatto.
Lei
non aveva mai visto di buon occhio le lance e adesso iniziava perfino
a provare qualcosa simile all'odio nei loro confronti.
Erano
molto più temibili di quanto la gente pensasse.
Un
giorno: mentre assaporavano dei biscotti salati raffreddati appena,
Revery le aveva raccontato qualcosa su quell'arma. Lei non ricordava
come erano entrati nell'argomento ma la guardiana uscì con
questa spiegazione: “La lancia è tra le peggiori
avversarie
se usata a dovere, sai? La gente pensa che l'affondo di lancia sia
evitabile con nulla e che una volta lanciato il primo assalto il
lanciere diventi indifeso; nulla di più falso. Vedi,
Katyana:
evitare una lancia è difficilissimo. Se provi a correre in
cerchio attorno a lui, il lanciere, prevederà le tue mosse e
riuscirà a colpirti. Se invece fai degli scatti rapidi e
imprevedibili: il lanciere lancerà l'affondo quando, alla
fine
di uno scatto, freni e ti prepari a farne un altro. La lancia ci
mette pochissimo a raggiungerti ed è insidiosa. Se entri nel
suo raggio d'azione, basta solo un secondo di immobilità, e
come un serpente saetterà verso di te
trafiggendoti”.
A
Katyana non era sembrato educato parlare di armi durante una merenda
così sfiziosa ma l'ascoltò attentamente.
Ora
quelle nozioni le erano tornate utili.
La
lancia sembrava davvero un serpente pronto ad attaccare e lei si
guardava bene dall'avvicinarsi troppo. Sapeva bene, comunque, che
indietreggiando avrebbe lasciato la strada libera a quell'essere.
Fissò
per l'ennesima volta il volto di quel nemico.
Aveva
dei riccioli rossi, come i suoi, che cadevano attorno alla testa
piccola e allungata. Il naso era troppo grande ma gli occhi
possedevano una bellissima tinta chiara, tra il verde e il giallo.
Il
mantello l'aveva lasciato cadere all'inizio dello scontro con le
armi, un attimo prima di far comparire quella dannata lancia dal
nulla.
Aveva
scoperto un fisico gracile, coperto da dei pantaloni di pelle
eccessivamente stretti e una maglia sbracciata bianca. Un completo
semplice. Dopotutto era la sua abilità a renderlo spaventoso
non il suo aspetto.
La
dea deglutì prima dell'ennesimo attacco: uno scatto in
avanti
e la lama tenuta verticale parallela al volto. Poi il sibilare della
lancia, un balzo all'indietro e il respiro che diventa sempre
più
affannoso.
Non
aveva idee, non aveva più trucchi.
Quella
lancia aveva perforato i suoi getti mielosi con incredibile
facilità,
eppure era così semplice: una punta di metallo legata sopra
un
asta lunga e ben levigata dal colore chiaro. Anche la mannaia della
divinità era di fattura semplice, ma lei non se n'era mai
curata. Lo sfarzo lo lasciava ad altri personaggi del Palazzo.
Quel
giorno non aveva voluto mettersi i soliti abiti interi, con le lunghe
gonne svolazzanti e i disegni di frutta o fiori. Dopo averne provato
uno bianco, la cui gonna era ricamati con rosei fiori di pesco,
decise di sistemarsi in maniera differente. Aveva percepito qualcosa
nell'aria e si sentiva stranamente bloccata e impacciata con quegli
abiti. Aveva messo una camicetta color crema e un paio di pantaloni
che arrivavano appena sotto le ginocchia, di un vivo marrone. Questi
ultimi gli erano stati regalati da Chube, tempo addietro, ma era
sempre stata restia dall'indossarli.
Nessuno
tanto al Palazzo si sconvolgeva nel vedere una donna in pantaloni.
Il
suono dello stivale nero che impattava pesantemente al suolo era il
segnale di un nuovo affondo.
Socchiudendo
gli occhi indietreggiò ancora una volta.
Sapeva
di dover pensare a qualcosa pur di sconfiggerlo ma la sua mente era
vuota.
Zero
idee, zero opzioni.
In
un salone poco distante, inizialmente ideato come sala da ballo ma
mai usato, si stava consumando un'altra battaglia.
Differentemente
dal salone ovest, il pavimento della stanza era coperto da una
quantità inimmaginabile di sangue. Krost non era una dea
portata alla lotta e questo lo sapeva molto bene. Con me non
condivideva quindi solo la passione per le letture e i viaggi.
Il
suo avversario aveva uno strano ghigno malefico stampato sul volto.
Le
ciocche ricciole e nere creavano una cornice spinosa attorno a quel
volto incredibilmente aggressivo. Lo sguardo tinto di rosso e
circondato da ciglia molto lunghe. Labbra, sottili e rosee come la
pelle.
Indossava
solo dei pantaloni neri di pelle e una canotta sbracciata del
medesimo colore.
La
donna in nero, la voleva chiamare Krost e se mai avesse
scritto
una storia al riguardo l'avrebbe davvero soprannominata
così.
L'unica cosa veramente pericolosa era la falce: una semplice lama a
mezzaluna piazzata su un'asta di legno duro.
La
dea era coperta di ferite, con lo sguardo stordito e apparentemente
priva di idee su come agire.
“Cos'hai,
dea: senti la morte ormai prossima?” chiese con tono di
sfida.
Krost
non si scompose.
“Non
mi arrenderò!” esclamò.
“Tsè.
Puoi attaccarmi tutte le volte che vuoi, ma la tua pancia e i tuoi
pugni non posso spaventarmi” commentò perfida
l'intrusa.
Inizialmente non ottenne risposta e perciò
imbracciò
l'arma, che aveva distrattamente posato sulle spalle, brandendola
minacciosa. Un colpo finale, pensò sicura, e poi
potrà
vantarsi di aver ucciso una dea. L'idea la faceva già
eccitare, ma tutto fu stroncato da una frase della moribonda.
Sembrava
reggersi appena sulle gambe e aveva ancora la forza per parlare. Ine,
l'adepta di Elian, dovette ammettere che erano fatti di pasta dura
gli dei.
“Per..
perché siete qui?” chiese.
Ine
sbuffò: non era tipa da spiegazioni. “Un attacco,
no? Cosa
c'è da sapere?”
“Voi...
avete... scatenato... l'inferno... solo...” quella dea
procedeva
troppo lentamente.
“Sì”
la interruppe l'intrusa “Noi abbiamo scatenato l'inferno solo
per
questo. Per dimostrarvi che anche noi uomini possiamo competere con
gli dei!” esclamò, senza accorgersene.
“Elian
crede in noi. Ha detto che un mondo governato da uomini è
migliore di quello governato da dei. Lei vuole donarci il potere per
comandare su questo modo: giudicarlo, amministrarlo. Senza dover
dipendere da voi, umani montati, e alla vostra misericordia”.
Krost
non credette alle parole che aveva sentito. Uomini montati? Con quale
coraggio una traditrice dei suoi simili chiamava una
divinità
in questo modo?
La
risposta giunse quasi subito, giusto il tempo per notare lo sguardo
offeso sul volto della dea.
“Ah,
giusto. Voi siete ancora sotto la campana di vetro”
commentò
con un filo di disgusto “Nati dei e morti da dei. Beh, credo
fareste meglio a chiedere la verità al vostro amato
padre”.
“Non
sai dirmi altro?” sembrò che improvvisamente la
dea si fosse
ripresa.
“Cosa?”
“Non
hai altre informazioni? Insomma; la tua convinzione mi sembra
così
ingenua da farmi ridere” continuò. Le gambe
avevano smesso
di tremare, la voce era tornata forte e persino il corpo tornava ad
assumere una posizione eretta.
Tutta
una finta, una stupida trappola. Era troppo tardi per capirlo.
Le
ferite di Krost si rimarginarono in pochi istanti e la sua pelle
ritornò pulita e candida liberandosi del sangue. Quel sangue
che aveva coperto il suolo del salone come una macchia cremisi e che
ora diventava scuro.
Ine
sgranò gli occhi: davanti a sé si apriva un lago
nero
seppia, come un baratro che conduce all'inferno, come un'enorme
goccia di inchiostro. Era una trappola sì, una trappola
molto
semplice.
La
dea sbuffò massaggiandosi il dorso del collo indolenzito.
“Ascoltami
bene, donna in nero: sei molto bella ma le tue
abilità
sono veramente deludenti; sei veloce, certo, ma non basta per
renderti un'avversaria temibile”. L'espressione di Krost era
incredibilmente rilassata mentre diceva quelle cose. “E poi,
mia
cara, se credi davvero che una divinità meschina come Elian
faccia queste cose per gli uomini... beh, come dire: sei
un'illusa”.
Schioccò
le dita con gusto facendo sì che da quel mare di inchiostro
si
alzasse una punta, un corno, diretto verso la giovane.
Fu
un attimo e quell'enorme cono nero e improvvisamente solido
passò
il busto di Ine da parte a parte, lasciandola sbalordita.
La
dea sospirò leggermente delusa: “Se mai
scriverò una
storia su di te, o su quest'incontro, mi premurerò di
renderti
più potente, d'accordo?”.
Non
ottenne nessuna risposta e nella stanza scese il silenzio.
Prima
di uscire, però, sentì il rumore della corsa, i
sospiri
degli inseguitori e degli inseguiti.
Capì
che non c'era tempo per ripulire il salone: doveva tornare a lottare.
Katyana
aveva finalmente terminato l'incontro. A lei il sangue non piaceva
molto, anzi, ogni volta che lo vedeva aveva gli incubi e non riusciva
a cucinare bene per la settimana successiva.
Lei
era una tipa impulsiva, semplice e educata, sicuramente non violenta
o guerrafondaia.
Aveva
chiuso gli occhi al suo avversario e si era rilassata un attimo, con
lo sguardo perso. Ora però era il momento di ripartire,
rapidi, per salvare il Palazzo.
Aveva
provato un ultimo disperato assalto contro quella lancia, la dea dei
dolci. Era stata una corsa più rapida possibile verso il
giovane guerriero che aveva davanti. La grande mannaia sempre
parallela al volto, gli occhi puntati sul bersaglio e poi lo scatto
di quella famelica lancia.
Questa
volta aveva agito d'istinto, lasciandosi andare a ciò che il
suo corpo voleva fare.
Usò
la spada per deviare la traiettoria dell'arma, con un colpetto che le
permise di far passare la lancia lungo il suo fianco destro.
La
spada fu una guida per l'arma nemica e per lei ora bastava seguire
l'asta, come se fosse una strada per il tesoro. Sembrava facile da
come l'aveva pensato ma fare un'azione del genere era tra le mosse
più difficili che potesse immaginare.
Un
passo: un altro passo ed era giunta davanti a lui. Dopo un colpo,
nessun urlo né un'imprecazione. Solo il tonfo sordo del
corpo
sul pavimento e la sagoma della dea eretta, in piedi accanto al
giovane riverso a terra.
Sangue,
troppo sangue per cucinare ancora. Non sarebbe riuscita a dormire per
almeno un mese: ne era certa.
Krost
aveva seguito quei passi finché il suono non era terminato.
Sapeva che c'era qualcuno fermo nel corridoio principale e a lei
bastava solo girare l'angolo per vederlo.
Il
corridoio centrale del Palazzo era il più grande di tutta la
struttura. Tutte le altre stanze, strade o corridoi minori, davano
sbocco su quell'immensa via.
Krost
si trovava proprio in uno di questi vicoli interni della reggia, un
corridoio più piccolo su cui si affacciavano stanze minori e
che conduceva fino al grande corridoio Est.
Sospirava,
cercando di capire cosa dicessero le presenze ferme. Bisbigli,
sussurri. Nulla che lei potesse comprendere.
Poi
un grido, una voce che riconobbe: Revery.
Senza
pensarci due volte uscì dal suo sicuro nascondiglio
facendosi
avanti.
La
dea era ferma, al centro dell'ampia strada, immobilizzata da
centinaia di fili appena visibili. La dea viaggiatrice delle storie
vedeva il solco che creavano stringendo attorno al gracile corpo
della guardiana, creando ferite sempre più profonde, e li
riconosceva di sfuggita grazie alla luce che per un attimo si
rifletteva su di loro.
Tremò.
Davanti a Revery c'era un uomo, che portava una piccola coda dove
aveva legato i capelli neri troppo lunghi e un completo già
visto.
La
solita maglia, i soliti pantaloni di pelle: sembrò che tutti
gli invasori portassero un'uniforme di colore nero.
La
dea della vigilanza non era riuscita a fare niente, a quanto pare,
contro l'infida tecnica del ragazzo e Krost non aveva la minima idea
di come fare. Le cose però accaddero molto velocemente,
senza
che la dea dovesse pensarci troppo sopra. Il giovane assassino
l'aveva scorta ma era preoccupato da qualcos'altro. Qualcosa che
rapida si abbatté su di lui.
Le
azioni si susseguirono troppo velocemente per essere scorte con
chiarezza, infatti: prima i fili lasciarono la presa, tagliati da
qualcosa; poi la pesante mannaia si mosse ferendo alla spalla il
giovane con un fendente e infine un altro rapido attacco che non
permise all'intruso di reagire.
Con
un affondo, Katyana, aveva sistemato anche questo nemico.
Avrebbe
anche rinunciato al sonno se era per salvare una sua sorella dalla
morte.
Il
corpo di Revery cadde a terra, ormai stremato da quella tecnica tanto
perfida e dolorosa. Tutto il suo corpo portava le ferite inferte dal
servitore di Elian e lei era esausta.
“Con
tutta probabilità quei fili erano intrisi di veleno, o
conducevano l'energia magica del bastardo fino a lei”
commentò
Krost attirando l'attenzione della cuoca.
Katyana
non disse nulla: perfino la sua predica sul linguaggio consono a un
dio in quel momento aveva perso importanza.
Aiutò
la dea della scrittura e delle storie a caricarsi il magro corpo
della guardiana sulle spalle sperando affinché si
riprendesse.
Poi
un sospirò: l'ultima frase di colei che credeva avere
più
colpe. Con un filo di voce, Revery disse: “La maledetta...
vuole la
sala circolare”. Chiuse gli occhi infine mentre nuovi passi
frettolosi presero a riecheggiare per tutto il Palazzo.
Manius
era grata a Chube dell'aiuto che le aveva dato con la sua magia e
rimanevano pochi invasori da abbattere ormai. Il sole aveva preso a
calare all'orizzonte sintomo che giungeva la sera e la notte.
I
superstiti dell'assalto erano duri a morire: reagivano con prontezza
e riuscivano a lanciare offensive pericolose. La dea era cosciente
del fatto che: se non fosse stata già così stanca
quelli sarebbero stati solo degli insetti fastidiosi. Ora erano
però
soldati d'élite da non sottovalutare.
Era
giunta anche un'altra divinità in loro soccorso: Nelunis; la
dea della battaglia e delle cose infiammabili.
Aveva
un temperamento ribelle e sanguigno e non rispettava tutti gli dei
allo stesso modo: aveva scelto lei quali fossero quelli meritevoli di
rispetto e quali no e per questo non era simpatica a tutti.
Per
una qualche coincidenza, anch'essa stava tornando al Palazzo e giunse
subito dopo lo scoppio dell'attacco. Aveva lasciato Revery libera di
inseguire la dea nemica occupandosi dell'ingresso e quando il fiume
si era prosciugato era corsa verso il portone.
Era
una ragazzina minuta, leggermente più bassa rispetto alle
altre divinità e la sua carnagione era dorata. La cosa che
amava più di sé, dopo gli occhi scuri ma tendenti
al
rosso, erano i lunghi capelli castani che lasciava sciolti lungo la
schiena.
Il
suo corpo, reso dalle battaglie una perfetta macchina da guerra, era
ricoperto da una semi armatura a piastre leggera. La parte inferiore
si limitava a un para stinchi e stivali a piastre, lasciando scoperti
i pantaloni di pelle bianca. Quella corazza del dio fabbro aveva
decorazioni che ricordavano le ali degli uccelli e brilla sempre di
una tinta argentea che la rende un lavoro troppo raffinato per essere
stato fatto da semplici umani.
Con
sé teneva il piccolo scudo, quasi buckler, che le lasciava
libera la mano e una spada semplice e sempre lucida che era costretta
a portare foderata lungo la schiena a causa della sua lunghezza, o
della limitata statura di lei.
Nella
battaglia non si era risparmiata: ogni suo fendente aveva rilasciato
voraci lingue di fuoco che cercavano le proprie vittime prima di
esaurirsi e il fedele scudo l'aveva protetta da magie e armi senza
sporcarsi.
Una
piccola furia con un potere immenso.
Io
avevo avuto pochi contatti con lei e mi aveva sempre trattato con
simpatia, come se fossi una figura divertente, ma com'era venuta
spariva e non riuscivo mai a instaurare un vero rapporto. Era sempre
in viaggio, per arruolarsi in qualche esercito e dare battaglia o
scontrarsi per conto proprio contro bestie feroci.
Fu
lei ad accogliere Lorissy, quando arrivò al giardino al
calar
del sole.
Mi
portava in braccio, usando tutte le sue forze, mentre io riaprivo
lentamente gli occhi.
Non
potevo avere risveglio peggiore: il Palazzo era messo a ferro e
fuoco. Benché le perdite fossero state nulle, per il
momento,
la struttura aveva i chiari segni dell'assedio. Uno spettacolo
raccapricciante, ai miei occhi, che metteva in ombra il mare di corpi
che si protraeva fino al portone.
Tremai
e il mio compagno mi posò a terra, sotto il melo ancora
intatto.
La
sua chioma dondolava scossa dal lieve vento, ignara di tutto. Era un
essere fortunato a non soffrire le pene di noi divinità o
degli uomini.
Volevo
addormentarmi ancora, per dimenticare di nuovo tutto.
“Non
andrai oltre!” esclamò Revery spalancando le
braccia.
Si
era destata nell'ultimo tratto di strada, sgusciando via dalle
braccia di Krost e sparendo tra l'intricato complesso di corridoi e
stanze.
Sapeva
di dover fare presto, di dover essere veloce. Forzando le sue gambe a
non cedere, la dea si era mossa fino a giungere davanti alla sala
circolare.
Dava
le spalle all'immenso portone, fissando quella figura snella e
aggressiva che aveva davanti.
Elian
sbuffò impaziente. “Non costringermi a ucciderti,
guardiana!” sputò verso quest'ultima, ormai priva
di energie
sufficienti per combattere.
“Fatti
da parte e fammi entrare” urlò feroce poi
allungando il
proprio braccio verso la ragazza, per spingerla su un lato
così
che non ingombrasse la strada.
Revery
però si mosse appena, resistendo a quel gesto.
Lo
sguardo vuoto cadde lentamente verso il pavimento. “Ho detto
che
non passerai” sospirò con un filo di voce.
Katyana
e Krost stavano giungendo in quel momento, ma davanti a loro si
parò
un ragazzino. Aveva dei cortissimi capelli neri, che mostravano
appena i riccioli. Il volto era magro, allungato e dipinto con un
ghigno maligno. Gli occhi dorati saettavano agitati, come se dovesse
carpire ogni cosa.
La
pelle era di un vivo color ebano, tinta che la cuoca non aveva mai
visto.
Krost
sembrava non essere sorpresa ma si fermò ugualmente: se era
lì
era sicuramente un adepto della dea del ciclo, quindi un nemico da
temere.
Le
due sorelle si scambiarono un'occhiata fugace prima che la dea dei
dolci partisse con il suo attacco: un fendente in corsa. Qualcosa di
semplice solo per scoprire le capacità dell'uomo.
Il
tonfo del metallo che batte contro altro metallo. Stupore.
Benché
la mannaia fosse caduta sulla spalla del giovane con una forza tale
da portare via il braccio, quest'ultimo era immobile e soprattutto
incolume. Con un dito si grattava il fianco del naso mentre la sua
espressione mutò da malefica a infastidita. Rimase fermo e
con
quel volto anche al secondo attacco, e al terzo e a tutti quelli che
seguirono.
L'arma
incantata batteva su qualcosa di altrettanto resistente rendendo
l'assalto vano.
Era
forse una magia? La dea rimasta indietro non riusciva a capire: in
tutti i suoi viaggi non aveva mai visto nulla di simile. Quel ragazzo
dalla figura smilza non pronunciava formule, ne faceva gesti con le
mani che indicassero un incantesimo. Non possedeva neppure una
qualche armatura magica sotto le vesti, perché a ogni colpo
la
tunica ornamentale che indossava si era squarciata lasciando scoperti
lembi di pelle intatti.
Dopo
l'ultimo attacco, la lunga veste nera ornata da decorazioni rosse e
dorate dell'invasore era irrimediabilmente rovinata.
“Avete
finito?” domandò disinteressato.
Le
due non risposero. Dovevano passare quell'ultimo ostacolo per
raggiungere Elian.
Questa
divinità, intanto, continuava a guardare il corpo di Revery,
che andava lentamente cadendo al suolo. La guardiana si era
appoggiata a una delle colonne ornamentali del portone pur di
rimanere in piedi.
Non
aveva mai avuto molta pazienta e ora, che era davanti allo scrigno
contenente tutti i tesori da lei desiderati, ne aveva ancora di meno.
Soffiò un'ultima volta avanzando minacciosa.
Poi
il suono di un campanello e la dea si fermò.
Tremò e
socchiuse gli occhi sperando in un'illusione dovuta all'eccitazione.
Invece
c'era davvero qualcun altro: una donna, snella e vestita di bianco.
Aveva
una veste che terminava in una corta gonna formata da due strati
sovrapposti, entrambi ondulati da sembrare quasi increspati. La veste
sbracciata, che lasciava vedere una generosa scollatura, andava poi a
stringersi all'altezza della vita, aderendo alla pelle. Le sue
braccia erano coperte da strisce di tessuto, del medesimo colore
candido del resto. Essi erano legati sotto la spalla da dei lacci,
formando deliziosi nodi, e terminavano con ampie maniche di pizzo.
Le
gambe erano scoperte e indossava solo due stivali eleganti e
immacolati che giungevano fino al ginocchio.
La
pelle era candida e il suo viso era avvolto da una lucente e lunga
chioma castana, leggermente ondulata, con dei riflessi biondi. La
cosa che più colpiva di lei, però, era il volto:
sopra
gli occhi portava una raffinata maschera simile a una farfalla rosea,
le cui ali spuntavano ai lati della faccia perfettamente ovale.
Una
presenza angelica e demoniaca allo stesso tempo. La figlia
prediletta, dicevano tutti.
Portava
in mano un piccolo bastone cerimoniale terminante con una campana in
miniatura.
A
ogni passo quest'ultima suonava.
Elian
deglutì con forza, indietreggiando. Quella nuova dea veniva
da
uno dei due corridoi laterali, che si incontravano davanti al
portone.
La
sua voce severa risuonò vigorosa tra le pareti di quel
tratto
di strada.
“Elian:
non hai il diritto di stare qui!” esordì
minacciosa. L'altra
però parve capire. Digrignò i denti furiosa.
C'era
quasi, mancava così poco alla soluzione, alla vittoria.
Sakroi,
la dea dei principi divini, era sempre stata lì: vicino alla
sala circolare. Lei non si mostrava mai, né aveva grandi
contatti con gli uomini. Badava al rispetto del Grande Padre e
predicava cose che pochi stavano ormai ad ascoltare.
Elian
era spaventata. Non che il potere di questa dea appena arrivata fosse
incredibile, ma lei era stanca e Sakroi fresca di riposo. Non c'era
possibilità di battaglia.
“Tu
profani dei luoghi sacri, traditrice” continuò
suonando con
forza la sua campanella.
Da
quell'oggetto si propagò una brezza violenta che
colpì
solamente Elian, lanciandola molti metri indietro senza che potesse
reagire.
Il
corpo della dea si scontrò contro il giovane moro ancora
fermo
davanti a Krost e Katyana.
Sakroi
avanzò con tranquillità, sapendo che la sua
nemica era
priva delle forze necessarie per combattere. La maschera ne copriva
completamente gli occhi: si diceva che fosse cieca fin dalla nascita
e avesse sviluppato un altro modo per percepire il mondo.
Passo
dopo passo giunse fino ai due che si stavano rialzando.
“Sei
una bastarda” ringhiò il giovane ma prima che
potesse
scattare la sua protettrice lo fermò.
“Dobbiamo
ritirarci” soffiò imbarazzata. Il suo assalto era
fallito.
L'attacco da lei studiato si era scontrato con una muraglia troppo
grande. “Abbiamo fatto la nostra parte”
continuò.
Il
suo servitore era già sparito.
In
un istante, dopo che Sakroi fece vibrare per la seconda volta il suo
scettro, il giovane era stato scagliato via. Talmente lontano e con
talmente tanta forza da aver attraversato il vuoto corridoio centrale
cadendo come un sacco di sassi davanti all'ingresso della struttura.
Un
attimo dopo, anche la dea che aveva scatenato tutto quell'inferno fu
da lui. A terra, dolorante. Benché il giovane possedesse
ancora molte energie non potevano più combattere: erano
circondati da dei furiosi.
Afferrandolo
per un polso lo avvertì. Dovevano fuggire.
Un
balzo, una breve corsa e poi il salto nel vuoto. Giù
attraversando le nubi.
Sparirono
sotto il palazzo.
Erano
stati due fulmini a scappare.
“Li
hai fatti fuggire!” gridò Sakroi giungendo al
portone. Lì,
sulla soglia c'era Arone, di un vivo color blu, in tutte le sue
sfumature.
“Non
è il benvenuto che mi aspettavo” rispose
sorridendo. Lui non
era il tipo da alterarsi per un rimprovero di così poco
conto.
“Ti
sono passati accanto e tu non hai fatto nulla”
continuò la
dea.
Intanto
anche Krost e Katyana avevano percorso tutto il corridoi ormai
stanche per vedere la fine degli invasori, la prima aveva anche
caricato sulle proprie spalle la guardiana pur di non lasciarla sola.
Alle spalle del dio, invece, arrivava Lorissy e Nelunis; poco
più
giù stavano Manius e Chube accanto a me seduto sulla pietra.
Avevo provato a salire, per giungere alla struttura ma ero troppo
debole.
La
due divinità mi avevano portato in un piccolo balcone,
facendomi sedere su una sedia bianca e all'apparenza di cristallo,
salvatasi dalla battaglia furiosa.
“Non
li ho visti” sorrise di nuovo il dio dei colori.
Con
un balzo anche Maonis giunse nello spiazzo davanti all'ingresso.
Sakroi
sembrò colorarsi di rosso, ma anziché esplodere
in una
discussione furiosa, sospirò un “Finiamola
qui” e tornò
nel Palazzo, con passo tranquillo.
Era
calata ormai la sera e forse quella notte di quiete mi avrebbe fatto
recuperare abbastanza energie. Non parlai, non ne avevo la forza, ma
provai a sorridere prima di sprofondare nelle tenebre del sonno.
--------
Manius, la dea delle perversioni e
del peccato carnale. (AmaiMirai)
La dea Manius la si può trovare sempre in luoghi malfamati,
dove si svolgono riti poco puri e orgiastici. Ama tramutarsi in un
aitante ragazzo con cui compiere i gesti da lei tanto amati.
Raffaella,
la divinità fallita del fallimento (Foolishy)
Raffaella era la divinità del fallimento, ed è
fallita. Inoltre si pensa che fosse un uomo e non si capisce bene
perché non volesse ammetterlo. Alla fine è stata
cacciata dal pantheon per la sua inutilità.
------
Rispondiamo a Kanako.
Manius e Arone sono apparsi, Raffaella apparirà xD Comunque
Dreni è morto per un colpo di spada, la stessa spada
ovviamente che ha donato Arone al gruppo xD
Per la questione: è
passata veramente un'ora? Lì c'erano solo Ham,
un mago ormai morto e Lorissy, dunque occorre fidarci dell'archivista.
Soprattutto perché lui lo dice come dato di fatto, non come
impressione personale ^^
Per la cosa del bianco e nero sono perfettamente d'accordo con te. Solo
che questa storia è narrata in prima persona e guarda caso
colui che narra e in una delle due parti, quindi è lui
stesso a vedere la netta divisione (Noi siamo i buoni, Elian
è la cattiva). xD Ma tutto può caambiare. Muah!
Manca un capitolo e termina il primo atto *O* Gioite xD
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Capitolo 10 *** Superstiti e Vittime ***
Capitolo
10 – Superstiti e vittime
Mi
svegliò la luce. Le finestre della stanza lasciavano entrare
troppa luce, pensai alzando la testa.
Riconobbi
la stanza candida ma stranamente ordinata. Il mio primo pensiero fu:
che lo studio nel quale dormivo era stato ordinato da qualcuno
durante la notte.
Avevo
varie sale a mia disposizione, gran parte delle quali ricolme di
libri già letti e studiati, ma ne preferivo solo una: e non
era quella. Io avevo spostato il letto nello studio con la grande
scrivania, così da dovermi spostare il meno possibile per
lavorare e studiare. Anche il tempo di attraversare una sala
è
troppo se si deve ordinare e archiviare qualsiasi cosa.
La
stanza dove mi trovavo però era troppo esposta alla luce.
Mentre
mi rendevo conto di essere sveglio, sbadigliando un'ultima volta,
vidi sul letto Maonis.
Aveva
una posa elegante: si era accomodato allungandosi senza sembrare un
comune gatto. I suoi occhi mi fissavano e accennò un
sorriso.
“Ben
tornato in questo mondo, Ham, il regno dei sogni è stato
piacevole?” chiese vivace.
Ero
stranamente intontito e mi misi a fissare un punto senza motivo. Dopo
una lunga dormita questa era la mia solita reazione.
“Su,
gatto. È passata una sola notte, non fare tutte queste
scene”.
Provai
ad alzarmi ma non riuscii a fare altro che sedermi sul bordo del
materasso, con le gambe penzoloni.
“Quattro”
mi corresse lui.
“Quattro
cosa?”
“Quattro
notti”
Sgranai
gli occhi. “Così tanto?”
Lui
si alzò e mi si avvicinò, strusciandosi contro la
mia
schiena. A volte pensavo che il suo corpo agisse in modo a
sé
stante mentre la mente elaborava parole. “Eri stanco. Tu non
devi
combattere, lo sai. Quel combattimento contro il mago ti ha fatto
arrivare al limite!”
“Come
lo sai?” che sciocco che ero. In quattro intere giornate, di
sicuro, tutto il Palazzo era venuto a sapere del mio combattimento.
“Lascia perdere” continuai, impedendo una qualsiasi
risposta.
“Devo
dirti delle cose. Ti tuoi osservatori hanno accumulato una
quantità
di notizie non indifferente”.
Io
però lo ignorai. Mi alzai ignorando il dolore alla testa
dovuto a quel gesto troppo rapido e mi diressi verso un tavolino in
legno chiaro. “Questi sono dei Torii?” chiesi
osservando
estasiato quei piccoli doni.
Il
gatto sbuffò, mostrandosi indignato perché non lo
stavo
ad ascoltare, ma mi rispose ugualmente. “Si. Si sono tutti
preoccupati”.
I
Torii erano oggetti preziosi. Come da buon studioso, sapevo
che il termine in origine significava 'lacrima della terra'.
Nell'antichità erano infatti gioielli 'poveri'
poiché
fabbricati con argilla o metalli di scarso valore. Ciò che
li
rendeva speciali, secondo le credenze, era il rituale secondo il
quale il creatore dell'oggetto doveva versare almeno una sua lacrima
durante la fabbricazione dello stesso. La lacrima serviva a rendere
il gioiello prezioso e a benedirlo con le buone volontà di
chi
lo aveva prodotto.
L'usanza
alla fine mutò: era chi regalava il Torii a dover
versare una sua lacrima sull'oggetto così da proteggere
colui
che lo riceveva, inoltre esso non era obbligatoriamente un gioiello,
ma qualsiasi oggetto. I sacerdoti e i credenti facevano Torii
alle persone malate o a quelle che partivano per un lungo viaggio e
si legge anche di alcuni Torii prodotti dagli dei e regalati
agli uomini.
Tutte
le mie divinità più amiche dovevano essersi
preoccupate
molto, per aver perso del tempo prezioso a confezionarne uno.
“Chi
me li ha portati?” chiesi con lo sguardo sognante.
Lui
saltò giù da letto, attraversò la
stanza, e
salto su una delle quattro sede impagliate vicino al tavolino.
Alzandosi sulle zampe posteriori, infine, arrivò mi
indicò
un bracciale formato da dei fili rossi e gialli, intrecciati
abilmente gli uni con gli altri. Una cosa semplice ma veramente
bella. “Questo è di Chube”
sospirò passando a un
altro oggetto.
Quest'ultimo
era così lontano da costringerlo a saltare sul tavolo per
raggiungerlo. Era una piccola pietra legata a un filo grigio
così
da formare una collana. La pietra aveva una forma ovale e allungata,
benché irregolare e scheggiata su un lato. Era fredda al
tatto, incolore e trasparente.
“Questa
pietra te l'ha portata Manius”. C'era poi un sacchetto che
emanava
un buonissimo odore di pane e erbe, vicino al quale si trovava una
pietra di una tinta verdastra e opaca; la forma era cubica,
benché
smussata sugli angoli e non perfetta, siccome era stata madre natura
a fabbricarla e non un artigiano. “È di Katyana
vero?”
Il
Gatto annuii con la testa.
Dietro
al tavolo, sotto la finestra, era posato il pugnale sacro che avevo
ricevuto dalla sacerdotessa, ma la cosa non era importante.
Maonis
mi avvicinò poi un talismano di argilla laccata che aveva le
sembianze di un volto animale.
Era
impreciso e esteticamente brutto ma sorrisi, notando che per la prima
volta gli occhi del felino cercavano di sfuggire ai miei.
“Questo
me lo ha fatto il mio gattaccio preferito?” esclamai
afferrandolo.
Lo presi in collo, stringendolo a me. Non sembrò gradire,
inizialmente, tirando fuori gli artigli e divincolandosi. Smise quasi
subito, però, quasi a ricordarsi che ero reduce da una
situazione critica.
Me
lo concesse, per quella volta.
“Ti
adoro, Maonis” commentai.
Mi
presentò poi il Torii di Krost: una penna piccola e
perfetta, di chissà quale uccello, completamente bianca e
adatta a scrivere. Infine toccò a un mazzolino di fiori,
dalle
varie tinte, legati insieme con un fiocco rosso.
“Ah”
sbottò il micio tornando libero sul piano del tavolo
“Questo
è di una sacerdotessa. Mi sembra che si trovi in qualche
tempio minore attorno a Knossa. Sono andato a prenderlo
personalmente” sospirò.
Io
rimasi imbambolato. Accanto ai fiori c'era il talismano che avevo
ricevuto in regalo durante il viaggio in quella regione.
“Si
chiama Nima?” chiesi.
“Cosa
vuoi che ne sappia” rispose lui fingendo disinteresse. I
regali
umani non avevano un vero valore, secondo lui, ma sapevo che lo
diceva solo perché era ancora rancoroso verso quella razza
che
lo aveva dimenticato. “Poco prima di fare una messa in onore
di
tutto il Palazzo si è recata a un piccolo altare e ti ha
rivolto una preghiera e regalato questo. Diceva di averti sognato
ferito mentre camminavi verso una fortezza in fiamme”.
Nima
aveva davvero fatto questo? Mi chiesi. Era sorprendente: una donna
aveva percepito il mio stato. Allora era vero che gli uomini
instaurano un legame invisibile con il dio che incontrano, mi dissi.
“Come
fai a sapere tutto questo?”
“Osservatori”
rispose “I tuoi”
I
fiori avevano un significato ben preciso.
Mentre
lui scherzava sullo spavento della giovane una volta scoperto che i
fiori erano scomparsi, io pensavo alla gentilezza e alla premura con
la quale erano stati confezionati.
Quei
fiori si sarebbero seccati, sarebbero presto morti: come a
significare l'effimera esistenza umana e lo scarso aiuto che
può
dare la benedizione di una donna a un dio. Erano però solo
cose secondarie: quel regalo era forse il più prezioso. Una
sacerdotessa aveva sognato me, un dio che gli uomini mettono in
secondo piano.
Fu
un'emozione incredibile.
“C'è
anche il dono di Lorissy”. La voce di Maonis mi
risvegliò
dai miei pensieri.
Avvolto
in un panno color della notte c'era un pugnale semplice ma lucido e
brillante. Una cosa splendida ma per me inutile. Era riposto in un
fodero di cuoio decorato appena con alcuni disegni geometrici.
Mentre
lo estraevo e ne guardavo la perfetta sagoma il gatto
continuò:
“Ha detto che il fodero è il suo Torii mentre il
pugnale è da parte di Revery. Sono cosciente che li ha
confezionati entrambi lui ma ha avuto un bel pensiero”. Il
fodero,
colui che si limita a contenere l'arma, era il semi dio, l'arma
così
bella e lucente era la dea.
“Perché
sei sicuro? Non può averlo fatto lei?” domandai
indignato.
Il
felino scosse la testa.
“Revery
è messa peggio di te. Tu non lo sai, ma ha combattuto molto
duramente esaurendo tutte le proprie forze. Era ferita e priva di
energie quando abbiamo iniziato a curarla ed è ancora in
pessime condizioni”.
Questa
informazione mi colpì con forza, facendomi indietreggiare.
Alla fine, la battaglia era stata veramente dura per tutti. Questa
cruda realtà mi infastidì.
Maonis
mi riprese alla svelta. “Se stai meglio puoi andarla a
trovare, è
nelle sue stanze”.
“Vado
subito!” esclamai correndo verso la porta.
Con
uno scatto degno della sua razza l'animale mi si parò
davanti.
“Prima
vestiti” soffiò.
Oggettivamente:
non era educato presentarmi in pigiama.
Camminai
a passo svelto verso le stanze della guardiana. Non le aveva mai
usate, che io ricordi, poiché viveva perennemente al
giardino.
Non ero nelle condizioni di correre, cosa che avrei però
fatto
volentieri, e attraversai di fretta il corridoio Est, sempre
così
maestoso.
Il
Palazzo era il corpo del Grande Padre, a quanto dicevano gli scritti,
dunque i danni riportati su di esso arrivavano direttamente all'anima
del mio creatore. Nei giorni successivi all'assalto, però,
si
erano tutti dati da fare per ricostruire le parti danneggiate e
donare alla struttura il suo aspetto splendido e solenne.
Sui
lati del Palazzo c'erano due giardini, uno cui si accedeva dal
corridoio Est e uno cui si accedeva dal corridoio Ovest. Erano curati
e belli, incastonati tra le pareti della dimora divina su tre lati.
Neppure gli invasori erano arrivati lì.
Da
una delle ampie finestre vidi una figura cara, la cui pelle
abbronzata risplendeva al sole.
Uscii
subito in quello spazio fatto di erba curata e aiuole soleggiate.
“Valanz!”
esclamai.
Lei
si voltò verso di me con un'aria terribilmente seria.
Il
suo caschetto corvino dondolò un poco dopo il gesto rapido
della portatrice e lo sguardo nero si concentrò su di me.
“Ciao,
Ham” rispose con scarso entusiasmo.
Rapidamente
ne scorsi il motivo.
La
sua figura aveva perso quella perfezione divina: le mancava il
braccio sinistro.
Il
busto era fasciato e coperto da una vestaglia leggera, che rendeva
ben visibile quella menomazione. Dopo avermi appena sorriso mi
raccontò della battaglia, di come aveva combattuto pur non
essendo capace a farlo e dei danni subiti.
Mi
sentii incredibilmente triste e debole. La mia missione doveva
evitare quello ma si era rivelata un fallimento.
Lei
era la dea dei rimpianti e degli eventi passati. La nostalgia, la
malinconia e la gioia che scaturiscono dai ricordi sono sotto sua
amministrazione. In realtà, tutte queste cose vengono da
sé,
ma lei dovrebbe occuparsi di lenire le depressioni e impedire agli
esseri umani di incamminarsi verso un baratro pericoloso.
Lei
si occupa anche dei rimpianti, in particolare quelli dei morti. Lei
guida le anime in pena alla quiete distraendole con la sua melodia e
i suoi racconti o risolvendo le loro questioni in sospeso.
“Non
è possibile curarla, Ham” continuò
“Neppure un dio
può fare questo”.
Sentivo
la sua disperazione quasi palpabile. Pregai affinché lei
stessa non prendesse quella via che precludeva agli uomini pur di
salvarli.
“Non
c'è modo di recuperarlo?”
“Dovresti
saperlo” rispose.
In
effetti in tutta la mia memoria non figurava neppure una volta una
divinità che rigenerava un arto amputato. Mi venne in mente
Dreni, quel mago con le otto braccia che guarivano in continuazione,
e mi chiesi se fosse possibile attuare una cosa simile su di lei.
Mentre
rimuginavo su quello, cambiai discorso raccontandole di quando Manius
mi aveva trasformato in donna. Le dissi molte cose e aggiunsi anche
particolari inesistenti pur di farla divertire e sembrai riuscirci.
Ridacchiando,
con lo sguardo un po' più vivo, mi accompagnò
fino alla
guardiana.
Era
stesa nel letto, immobile e serena. Sembrava fingere ed essere pronta
ad alzarsi in qualsiasi momento. Invece era caduta in un sonno
profondo, dovuto alle ferite e alla stanchezza.
Lorissy
era seduto al suo capezzale, con lo sguardo perso. L'inquietudine che
traspirava dal suo volto sembrava vagamente palpabile e,
avvicinandomi, appoggiai la mia mano sulla sua forte spalla per
fargli sentire la mia comprensione. Capivo la sua preoccupazione,
anche io, pur nascondendolo, ero in pensiero per una delle mie
sorelle.
Miun
mi salutò con una smorfia alla quale ricambiai in silenzio.
Lei era la dea dai perfetti boccoli castani, lo scarso appetito e gli
occhiali dalla montatura rettangolare che le davano un'aria
affascinante. I suoi occhi azzurri sembravano scoprire i segreti di
ogni cosa.
Lei
era vestita in una lunga veste bianca, dalle ampie maniche,
poiché
diceva che la aiutava nel suo compito: la cura.
Miun
era la divinità delle allusioni e della guarigione, anche se
in comune queste due cose non avevano nulla. Lei incontrava spesso i
guaritori, alchimisti o sacerdoti, per discutere su nuovi metodi
curativi e altre cose simili. La sua essenza, la sua energia,
sembrava essere stata creata con lo scopo di mantenere la vita. Le
bastava imporre le mani su un corpo per trasmettere la sua magia di
guarigione che faceva sparire le ferite o distruggeva i veleni. Anche
lei, comunque, aveva dei limiti come tutti noi. Le sue conoscenze e
abilità non potevano curare all'istante tutto
così come
non riportavano in vita i morti.
“È
in uno stato di sonno molto particolare, nulla può
svegliarla
adesso” mi sussurrò avvicinandosi. “Ha
sforzato il suo
spirito e lo ha portato ben oltre la soglia normale. Non mi vengono
in mente metodi certi per curarla, soprattutto perché
è
una cosa rara se non unica. Sto però adattando una strategia
medica comune, che ripristina le sue funzioni fisiche, mentre cerco
un modo per richiamarne lo spirito”.
Io
rimasi in silenzio. Mi era difficile capire quello che aveva detto.
Poi
chiesi: “Ma non è uno stato simile a quello in cui
ero io?”
Miun
scosse immediatamente la testa. “Assolutamente. Io non ho
neppure
fatto niente per te, poiché era quasi scontato che ti
riprendessi dopo del riposo prolungato. Per lei è diverso:
il
suo spirito si è esaurito e non conosco modo di farlo
rinascere”. Tutto mi fu chiaro.
Aveva
usato davvero così tanto le sue energie, la dea? Oppure era
stato un maleficio di Elian?
Non
sapevo darmi pace. Le parole della guaritrice divina significavano
chiaramente una cosa: un corpo privo di spirito è come una
pianta. Non si muove, non parla, non mangia.
Anche
un dio può ridursi così miseramente.
Strinsi
i pugni e dopo aver consegnato il mio Torii,
un fiore di carta reso resistente come il metallo, me ne andai pronto
a ripartire velocemente.
Decisi
che dopo aver ringraziato Nima, con qualche dono, mi sarei dedicato
alla ricerca di un metodo per guarire Revery. Mi convinsi che a Miun
era sfuggito qualcosa, che magari era all'oscuro di quale arte
miracolosa di alcune tribù orientali o del deserto.
Illudendomi
continuavo a camminare, pronto a tornare nelle mie stanze.
Appena
entrai nel mio studio incontrai Chube.
Mi
abbracciò in maniera innaturale, troppo affettuosa per il
suo
solito modo contenuto, e poi intavolò una conversazione
leggera e piacevole.
Solo
alla fine si ricordò del motivo per cui era venuta, oltre
che
per accertarsi del mio stato ovviamente.
“Il
Grande Padre vuole parlarti. Ha aspettato che ti riprendessi, ma ora
ti vuole”.
Io
deglutii infastidito. Non immaginavo cosa volesse il Grande Padre
adesso.: forse voleva chiedermi di stillare un resoconto degli eventi
o fare ricerche negli archivi riguardo qualche argomento. Ero
confuso.
Avevo
deciso di andarci subito e prima di uscire la ragazza mi
fermò.
“Se
devi ripartire, per favore, prima di andartene saluta tutti. Eravamo
in pensiero”. Io sorrisi imbarazzato. Molte
divinità si
erano preoccupate per me.
“Non
preoccuparti, perché dovrei partire? In tutti questi anni
non
mi ha mai assegnato cose del genere”.
Pensai
alla pace che era tornata, anche se a caro prezzo. L'inquietudine del
Grande Padre doveva essere sparita, mi dissi per rilassarmi.
Ancora
una volta dovevo attraversare quel portone decorato e farmi avvolgere
dalla nebbia.
“Sono
sopravvissuto” dissi.
La
nebbia mi aveva ormai avvolto completamente.
La
sua voce era stanza, provata da quell'evento appena vissuto.
“No.
Non ancora. C'è ancora qualcosa che rende il futuro
incerto”
Mentre
le parole si formavano davanti a me avevo la strana sensazione di
aver già vissuto quel momento. Sospirai, chiedendomi cosa
volesse dire con quelle parole e poi cosa volesse dirmi di
importante.
“Stai
molto attento, Hamuhamu”. Continuò. Tra ogni
parola
c'erano molti punti di sospensione, come se gli mancasse il respiro
ogni volta. “Ho un compito da affidarti”
“Volete
che io scriva un resoconto della battaglia?” osai dire.
Lui
rimase qualche attimo in silenzio, come se ci pensasse sopra, per poi
riprendere: “Non ancora. Voglio che tu cerchi i tuoi
fratelli,
quelli sulla terra. Devi chiamarli.” una breve pausa
“Voglio che
siano qui riuniti al più presto: devo parlare a tutti voi,
miei figli prediletti”.
Non
era un compito difficile: cercare gli dei sulla terra. Molte
divinità
viaggiavano e quindi dovevo solamente cercarle e portarle con me.
Certo: forse alcuni fratelli erano difficili da rintracciare ma
sarebbe stata questione di pochi giorni.
“C'è
qualcosa che vi preoccupa?” domandai.
“Mi
duole dirlo, Hamuhamu, ma ciò che ha fatto una delle
tue sorelle mi ha ferito profondamente. La mia energia si è
indebolita e tempo per la salvezza di questo mondo”.
“Perfino?”
domandai. In realtà lo dissi stupefatto e in modo
irrispettoso. Mi venne talmente spontaneo che non ci pensai neppure.
“Bunkis
Condomis ha condotto esperimenti
offensivi verso di voi, creando uomini dall'animo impuro. Inoltre
punta a Lui”. Quel nome era semplicemente l'arcano di Elian e
quando davanti a me comparve quel 'Lui' compresi perfettamente
ciò
di cui stava parlando: il Servallo.
“Elian
non è comunque in grado di trovare quella
creatura” risposi
socchiudendo gli occhi.
Mi
sentivo leggero, libero, come se quella nebbia mi entrasse nei
polmoni trascinando fuori lo spirito.
“Hamuhamu,
il suo animo ormai si è allontanato troppo. Non so fin dove
può spingersi. Potrebbe anche aver scoperto cose che noi
ignoriamo, grazie le sue ricerche oscure. Fai presto, Hamuhamu,
raduna tutti”.
“Farò
come mi avete chiesto”.
Prima
di lasciarmi, però, il Grande Padre mi comunicò
altre
cose.
“Per
questa missione verrai affiancato da un'altra divinità. Tu
sei
molto abile e le tue conoscenze sono molto preziose, perciò
non voglio
esporti: ho deciso per te un accompagnatore”.
Chiuse
così la conversazione. Come al solito riaprii gli occhi
davanti alla stanza.
Perché
io? Ero ancora una dannata segretaria che cerca i clienti del capo.
Battei
un debole pugno contro il muro, dimostrando la mia rabbia.
Dovevo
salvare Revery, dovevo cercarne una cura; dovevo stare vicino a
Valanz e fare ricerche anche per rigenerare il suo braccio. Avevo
cose molto più importanti per la testa.
Non
riuscivo ancora a capire: se ero così importante
perché
non aveva dato questo compito a qualcun altro? Qualcuno con compiti
meno importanti, senza impegni.
Dovetti
rassegnarmi. Anche se era stato detto con un tono pacato quello era
un ordine.
Il
lavoro è sempre lavoro.
Aveva
ragione Chube. Sarebbe stato meglio salutare tutti e trovare questo
accompagnatore.
----
Finalmente
è terminato questo primo atto, ma nel prossimo ci saranno
più botte, più colpi di scena e pasticcini gratis
per tutti ^o^
Kanako: mmm...
il potere di Krost è leggermente diverso: deriva dalle
ispirazioni e non dalle informazioni (come in parte il potere di Ham).
-------
Ed ecco la
solita bacheca degli dei:
Sakroi, la dea conservatrice dei
sacri valori da snobbare (Matrim Monium)
Lei
è la predicatrice del paradiso. Sta a giro per le terre a
portare la
giusta parola che porti le persone sulla strada della decenza. E'
legata alle vecchie tradizioni e a sacri valori in cui crede solo lei.
Lorissy, il semi-dio guardiano.
(Gattin scindi)
Lorissy
era solo un servitore degli dei che in seguito alla prova della sua
fedeltà è diventato un essere quasi divino,
dotato di poteri. Si occupa
di sorvegliare i luoghi sacri e aiutare Revery.
|
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Capitolo 11 *** Preparativi ***
Act.2
–La furiosa guerra degli Dei
“Infine
eccola: la guerra.
Riesco
ancora a rivivere alla perfezione quei momenti. È quasi
triste
e malinconico intingere questa penna bianca donatami con affetto per
descrivere tali eventi”.
Capitolo
11 – Preparativi
Avevo
una missione ma non era la mia priorità: pensai dunque che
con
la scusa della convalescenza avrei potuto perdere tempo tra i libri
dell'archivio. Alla fine mi ero appena svegliato dopo quattro giorni
di sonno, avevo toccato il limite e fatto una cosa impensabile fino a
quel momento: meritavo del riposo.
Tornato
nelle mie stanze pregai Maonis di andarmi a chiamare Katyana. Lui
sbuffò e protestò con forza. “Io sono
un dio! Mica
posso fare questi lavori! La prossima volta che farai? Mi chiederai
di pulirti le unghie?” era discorsi da gatto e mentre li
faceva,
dondolando, andava a svolgere la mansione che gli avevo assegnato.
Protestava
sempre ma alla fine era un amico gentile e disponibile.
Katyana
mi raggiunse velocemente. Entrò sorridendo, mentre finiva di
legarsi i capelli in due trecce che cadevano ai lati del viso. Aveva
un completo molto grazioso, simile a quelli di Chube. La gonna era
abbastanza corta e ondulata mentre sopra c'era una camicetta con
enormi bottoni e maniche corte. Tutto di un delizioso color crema e
vaniglia.
Mi
venne fame solo a vederla.
“Così
devi già ripartire” commentò lei dopo
che le dissi
della mia missione. “Ultimamente non ci sei mai, sembra che
tu
abbia cambiato mestiere” scherzò. “Da
archivista a...
viaggiatore solitario!”
Io
scossi la testa ridendo. “Neppure io capisco. Il Grande Padre
è
molto strano”.
“Beh,
se vuole riunire tutti penso che abbia le sue ragioni. Forse
dichiarerà finalmente guerra a quella strega di
Elian”.
“Forse.
Ma nessuno sa nulla di lei? Ha assalito il castello ed è
sparita. Possibile che non si possa scovare e annientare
definitivamente?” ero confuso. Io avrei agito in questa
maniera.
“Appunto”
rispose lei agitando un dito per aria “... è
sparita”.
Sospirò, raccontandomi quelle cose che in quattro giorni non
avevo potuto vivere.
Venni
a sapere che Sakroi aveva dialogato a lungo con il Grande Padre dopo
la battaglia. Lei voleva attaccare Knossa, distruggere Elian ma lui
la frenava ogni volta. Sapeva che un'azione tanto esplicita avrebbe
fatto tremare gli uomini, queste fragili creature. Vedere gli dei in
guerra avrebbe sicuramente danneggiato la fiducia che pongono in noi.
Quella
dea era forse più ferma e antica dei valori che proteggeva.
Le
sue prediche mi sembravano obsolete e agiva sempre guidata da qualche
'ragione divina' che però non comprendevo. La convinzione
che
metteva nelle sue prediche, però, era al pari un'armata
imbattibile. Ti travolgeva ricordando i tempi antichi e gloriosi,
quelli con la rettitudine, la pace e cose del genere.
Non
aveva mandato giù ancora il bisticcio con Arone e riversava
la
sua ira in proposte folli di battaglie o assedi contro la base della
divinità del ciclo. Nei momenti di lucidità,
però,
quando non si faceva trasportare dalle sue stesse parole, capiva che
Elian non era più a Knossa.
Non
era così stupida, quella traditrice, da rimanere nella
stessa
base dopo aver scoperto le sue carte.
Aveva
un'altra casa: ma dove?
Ascoltai
interessato i discorsi di Katyana e appena ne ebbi la
possibilità
feci la domanda che mi stava tormentando.
“Cosa
si può fare per dimostrarsi grato a un fedele?”
Lo
sguardo della dea si fermò su di me e attraversò
tre
fasi: confusione, spavento e quell'aria di chi ha capito tutto.
Sapevo
che lei mi avrebbe detto qualcosa di utile, come Chube. Altri mi
avrebbero fatto demordere, perché è normale
essere
adorati, mentre loro due erano stranamente affidabili e in linea con
i miei pensieri.
“È
quella sacerdotessa, vero?” domandò avvicinandosi
a me, come
se la conversazione fosse diventata segreta “Ho visto il suo Torii,
è stata molto gentile”.
“Te
l'ha detto Maonis” commentai.
“Sai...”.Lei
mi lanciò un'occhiata astuta e rispose con finta aria da
esperta nel settore: “...è solo un gatto:
è stato
facile farlo parlare”.
Io
sorrisi appena alla sua imitazione dell'inquisitore o della spia e
continuai. “Sono cosciente che non dovrei farlo...”
“Ma
che dici?” mi interruppe afferrandomi le mani “Lei
ha creato il
legame e tu dovresti essere terribilmente gioioso di questo”.
Era
vero, lei aveva creato il famoso legame mistico tra dio e uomo. Tutta
la storia ricorda molteplici casi di 'legami', soprattutto creati tra
uomini e divinità viaggiatrici, ma per me era una
rarità.
C'erano stati altre due saggi, vecchi e radicati nelle loro posizioni
di prestigio, che avevano detto di aver creato con me un legame ma io
non me n'ero mai reso conto, né ricordavo di aver fatto loro
delle visite. Nima era invece la prima con la quale si era instaurato
questo filo invisibile. Si dice che l'essere umano nei sogni riesca a
capire la condizione del dio così da poterla esprimere ai
fedeli. Tutti coloro che scoprivano di aver acquisito
quest'affinità
finivano per diventare sacerdoti Dorati, cioè di rango
speciale. Erano il diretto portavoce delle divinità o coloro
che si occupavano di soddisfare e pregare per i problemi del divino
protettore.
“Potresti
regalarle un Torii che dimostri la tua protezione nei suoi riguardi.
Di solito funziona così”. L'usanza comune era
veramente
quella, ma io non potevo conoscerla essendomi così poco
interessato alla cosa.
Ero
pensieroso però: non sapevo cosa fabbricare.
Lei
mi lasciò le mani. Eravamo stati fino a quel momento seduti
sul letto, uno affianco all'altra, ma lei si alzò
dirigendosi
alla finestra. “Gli dei, soprattutto al primo legame, donano
qualcosa di personale”.
“Tipo
dei panni sporchi?” chiesi scherzando.
“Ovvio.
Su, dammi la tua maglia che gliela portiamo!” rispose lei
già
sorridente.
Scoppiammo
in una grassa risata che mi fece dimenticare tutta la preoccupazione
di quel giorno.
Come
nel sonno tutti i problemi sparirono per poi ripresentarsi
successivamente.
“Seriamente
parlando” iniziò avvicinandosi di nuovo a me
“Puoi darle
un pennellino, un libro o una delle penne che usi da più
tempo”.
Annuii
convinto.
Prima
di salutarci, lasciando che ognuno tornasse ai propri lavori, lei si
raccomandò con me di fare attenzione e di non ridurmi come
l'ultima volta. Sembrava rilassata, come se quella battaglia non
l'avesse colpita profondamente.
Il
pomeriggio stava volgendo al termine e Sakroi tornava nelle sue
stanze dall'aspetto elegante e sfarzoso.
Vicino
alla soglia però la aspettava il clown, colui che appariva
di
rado e solo per disturbare.
Non
possedeva volto, ma solo una maschera bianca teatrale sulla quale
stampava le espressioni. La veste era quella di un giullare, compresi
stivali con campanelle e grande cappello. Aveva una tinta rossa e
arancione quel giorno.
La
dea lo ignorò, ma non appena fu abbastanza vicina, fu lui a
farsi avanti.
“Brutta
battaglia” ghignò.
Fermandosi
lei gli lanciò un'occhiata sprezzante. “Una
battaglia dove
tu non ti sei fatto vedere”.
“Ero
distratto, me ne scuso”.
Sakroi
scosse il capo: si chiedeva come certi individui potessero vivere al
Palazzo. Jester, il dio degli scherzi, della finzione e del
tradimento eraun tipo poco raccomandabile ma che non aveva mai
combinato guai.
“C'entri
qualcosa?”
“Mi
offende se sospetta di me, cara divinità” rispose
lui con un
leggero inchino. Ogni suo gesto era portato al limite, come se
volesse sforzare al massimo qualsiasi movimento, esasperandolo.
“Rispondimi”.
“Ovvio
che no, Sakroi. Non potrei mai complottare contro il Palazzo. Mi
crede forse un traditore”.
“Sai
benissimo quel che penso di te”.
“Oggi
è più scortese del solito”. La maschera
era felice,
eccitata forse. “Ha controllato bene il suolo sacro? Ci sono
forse
spie?”
“Non
ce ne sono, ovviamente. Elian è una pazza e
morirà
annientata dalla sua stessa sete di potere. Con lei, tutti i suoi
aiutanti”.
Il
Clown si avvicinò alla dea che però si
guardò
bene dal lasciarsi toccare.
“Mi
piace questa sua determinazione, divina Sakroi; ma lei sa bene che
non cerca il potere la nostra nemica”.
La
dea sgranò gli occhi e fece cenno di tacere.
“È solo
una pazza” commentò.
“E
Raffaella? Manius è stata contattata”.
“Hanno
combattuto a Porcias, anche se non so quale delle due è
più
indegna del titolo di dea”.
Jester
ghignò: quello era pane per i suoi denti.
“C'è stata
anche una proposta” sospirò, come se gli fosse
sfuggito
dalle labbra.
“Come
dici?”
“Nulla”.
Rise, sapendo che ormai aveva gettato la sua esca. “Era un
pensiero”.
Sakroi
non fece in tempo a dire nient'altro. Il clown scomparì come
era apparso, scivolando dentro la parete con qualche incanto.
L'indomani
avrebbe chiarito la cosa.
La
notte passò con incredibile rapidità. Avevo
bisogno di
altri giorni di riposo e lo notai quella sera, quando mi addormentai
di colpo lasciandomi alle spalle quelle preoccupazioni.
L'indomani
mattina qualcuno bussò alla mia porta. Inizialmente finsi di
non sentirlo, arrotolandomi nelle lenzuola candide, ma dovetti cedere
infine.
Strabuzzai
gli occhi quando aprii la porta.
“Nelunis!
Che cosa ci fai qui?” mi chiesi per quale assurdo motivo era
venuta
a trovarmi.
Lei
accennò un ghigno con il quale, forse, si scusava di avermi
svegliato e mi rispose con voce decisa: “Sono venuta ad
avvertirti
che appena tu sarai pronto, partiremo per la missione”.
Non
indossava la solita corazza ma una veste di un colore smeraldo
brillante. Era di una stoffa pregiata, lungo e decorato con ricami di
vario genere.
“Sei
tu il mio accompagnatore?”
“Sì”
rispose lanciando un'occhiata allo studio nel quale dormivo.
Scossi
la testa: ero ancora per metà addormentato, inoltre il
giorno
prima ero talmente stanco che non mi ero cambiato.
“Credevo
che tu ti saresti occupata del giardino, finché Revery non
fosse ripresa” dissi.
Si
voltò verso di me, appoggiando il tomo sulle armi che aveva
preso dalla libreria. “No. Il giardino sarà
sorvegliato da
Lorissy e Maonis. Quel gatto è l'unico con il sonno simile a
quello della dea” rispose tornando a scrutare i vari tomi in
disordine.
“Mi
sono stupita anch'io” continuò mentre, afferrando
dei
vestiti puliti, mi avvicinavo alla stanza da bagno per prepararmi.
“Sono due divinità con grande potenziale ma non
valgono
quanto Revery; io poi sono l'unica presente, invece, a competere con
lei in termini di forza. Mi sono dunque insospettita: è come
se il Grande Padre pensasse che la protezione del Palazzo sarebbe
potuta passare in secondo piano. Reputa forse più importante
proteggere te, Ham?” mi chiese.
Rimasi
quasi intimorito. “Secondo me: reputa più
importante portare
a termine questa missione” suggerii uscendo dal bagno. Per la
prima
volta da quando era arrivata incrociai il suo sguardo. I suoi occhi
sembravano pronti a scrutare la mia anima, carichi di un'esperienza
inimmaginabile, temprati da infinite battaglie.
“Eppure
c'è qualcosa che non mi torna” sputò.
Non potei fare
nient'altro che abbassare lo sguardo tentando di salvare il mio
spirito da quella fiamma ardente che stava ora osservando le varie
copertine.
Aveva
ragione, lo ammisi sbuffando, la cosa non aveva alcun senso. Il
Grande Padre aveva forse sospettato che Elian non sarebbe tornata
tanto presto ad assediare il Palazzo e che Maonis e Lorissy fossero
più che sufficienti, ma inviare me e Nelunis aveva qualcosa
di
strano.
Io
sarei potuto essere di grande aiuto all'interno della struttura e la
dea che era con me sarebbe bastata per sostituire, da sola, il gatto
e il mezzo dio. Anzi: Maonis e Lorissy sarebbero potuti andare al
posto nostro a compiere quella missione; perché no?
Iniziavo
a non capirci più nulla.
C'erano
molte divinità che non tornavano sul suolo sacro da anni,
avendo trovato dimore nelle terre umane; mentre di altre non si
sapeva più nulla. Capito questo: dovetti ammettere che era
qualcosa di molto impegnativo richiamarle al Palazzo.
La
dea della battaglia se ne era andata dicendomi che dovevo rimettermi
il più velocemente possibile per iniziare questo dannato
compito e indicandomi il primo nome.
“Inizieremo
dalla burattinaia; sappiamo qualcosa su dove si trova se non
sbaglio”
concluse.
Io
non l'avevo mai vista e mi ero quasi dimenticato di lei. Kinsis, la
dea burattinaia che manipola gli uomini e incrina i loro rapporti:
una divinità forse troppo dispettosa ma dall'indole
pacifica.
Prima
di tutto, però, dovevo fare due cose.
Dopo
aver chiesto informazioni a Chube su dove si trovasse, arrivai fino
al giardino sul fianco ovest, vedendolo appoggiato al muretto di
pietra bianca. Arone aveva i capelli di un rilassante color crema
mentre la veste era tinta di arancio e marrone. Non indossava
più
l'armatura e aveva scoperto la veste che teneva al di sotto.
Scrutava
l'orizzonte, forse osservando il mondo degli uomini.
“Divino
Arone” iniziai.
Si
voltò sorpreso del mio arrivo. “Ham! Scusami, ma
ero
talmente preso dalla mia osservazione che non ti avevo sentito
avvicinarti”. Mi sorrise con gentilezza.
Non
avevo una gran confidenza con lui, anzi, quella era la prima volta
che parlavamo e perciò fui molto rispettoso e formale.
“Ti
devo ringraziare per i doni che ci hai offerto” dissi facendo
un
leggero inchino. “Vorrei però farti una
domanda”.
“Chiedimi
quello che vuoi” rispose senza dar peso ai ringraziamenti.
“Cosa
ci facevi da quelle parti?”
Il
suo volto mutò all'improvviso. L'espressione serena si
trasformò in un volto pensante e impreparato a quel quesito.
“Ero semplicemente da quelle parti. Nulla di
programmato”
sospirò.
Io
però non gli credetti. Amava la quiete delle foreste, non il
brusio della via principale delle città.
Perché
mai recarsi in una regione così aspra senza un motivo?
Ci
scambiammo uno sguardo e lui comprese ciò che pensavo.
Improvvisamente
scoppiò in una fragorosa risata, come per voler dimenticare
la
sua bugia.
“Non
ti si può nascondere nulla, eh? Sei proprio un piccolo dio
sveglio” esclamò tornando tranquillo. Con una mano
mi diede
alcune leggere pacche sulla spalla, avvicinandosi a me.
“Ebbene:
diciamo che, forse, avevo interesse a essere da quelle
parti”.
“Non
vorrei sembrarti scortese, ma che tipo di interesse avevi?”
Lui
fece una smorfia, indeciso se rispondermi o meno.
“Non
sei scortese, piccolo Ham, ma non è nulla di così
importante. Mettiamola così: avevo da sbrigare una faccenda
ma
voi l'avete svolta per me”.
Con
un ultima pacca gentile si allontanò con l'intenzione di
chiudere quel dialogo.
Era
un tipo molto strano, pensai.
Chissà
a cosa si riferiva. Sicuramente aveva a che fare con Elian e la
fortezza, anzi: probabilmente riguardava proprio l'esplorazione del
forte; avendo capito qual'era la nostra missione aveva lasciato a noi
il compito, dandoci un equipaggiamento più adatto.
Doveva
essere proprio così, mi rassicurai.
In
realtà, fosse stata un'occasione normale, ci avrei
rimuginato
sopra a lungo; ma in quel momento avevo fin troppe preoccupazioni per
curarmi di lui e dei suoi interessi.
Ora
mi mancava solo una cosa da fare.
Avvertii
Nelunis della mia partenza, rassicurandola poiché sarei
tornato al più presto.
Differentemente
dalla volta precedente, essendo in pieno possesso dei poteri divini,
ci misi molto poco a raggiungere il tempio di Markentel.
Arrivai
al tempio avvolto da una mantella che coprisse il mio corpo e il mio
volto. Silenziosamente la raggiunsi.
La
sfiorai, accarezzando la morbida stoffa della sua tunica, e le
indicai un luogo tranquillo e isolato del santuario.
Era
una piccola cappella priva di idoli e di utilizzo.
Riconobbi
nel suo sguardo la stessa espressione stupita della prima volta.
“Sacerdotessa
Nima: questo è per lei”.
Con
un rapido gesto le mostrai un piccolo pennello. Aveva un aspetto
logoro e troppo comune per sembrare l'artefatto di un dio, eppure
quello era stato il mio miglior pennello per molti anni.
“Accetta
questo dono!” le ordinai senza voler sembrare minaccioso.
Dopo
l'inchino annuì con la testa, lasciando che i lunghi capelli
neri le scivolassero sul volto.
“Sono
lieta che voi mi riteniate degna di un simile dono”.
Troppe
frasi inutili, toni formali solo per costrizione. Era una commedia
odiosa.
“È
il mio ringraziamento per la sua premura nei miei confronti”.
Continuai. “Adesso se vuole potrà portare la mia
parola nel
mondo”.
Lei
distolse lo sguardo per un secondo, mentre riceveva tra le mani
quell'oggetto tanto prezioso quanto potente.
Mi
avvicinai di un passo, lasciando cadere la mantella a terra.
“C'è
qualcosa che la turba?”.
Mi
avvicinai ancora, prendendole le mani mentre le consegnavo il dono.
Ci volle un istante, un solo attimo per leggere nella sua mente la
risposta. Lei però mi sorprese, rispondendomi di sua
volontà;
anche se già sapevo tutto.
“Le
persone si sono spaventate. I sacerdoti predicano la caduta del
Palazzo; i Dorati, poi, affermano di aver perduto il filo che li
legava al dio e lo credono distrutto. Tutti pensano che sia accaduto
qualcosa: qualcosa che porterà le divinità alla
rovina”.
Lei
non voleva assolutamente alzare lo sguardo e io le lasciai le piccole
mani affusolate, che ormai stringevano quel prezioso Torii.
“Tu
lo credi?” chiesi. Non mi accorsi di aver cambiato tono,
parlandole
in tono informale e confidenziale.
“Io
avevo temuto per voi, ma adesso so che non vi è accaduto
nulla. Dirò nelle mie messe che gli dei non stanno
precipitando nel caos”.
“Questo
è un momento molto difficile: gli dei stanno affrontando una
guerra. Prega per la nostra vittoria, prega il Grande Padre o il
Servallo!” esclamai.
Dare
informazioni di questo tipo a una donna umana era forse una lama che
si rivolgeva contro di me e divenni consapevole che presto mi si
sarebbe rivoltata contro.
Me
ne andai dopo i suoi ringraziamenti, sparendo in un turbine di carta
come ero apparso.
Anche
gli uomini dovevano capire cosa stava accadendo.
-----
Per Kanako che ho scoperto anche essere sul forum.
No, non devi invidiarmi più! Sto scrivendo il capitolo
dodici ma ho dei problemini con lo sviluppo della storia e
probabilmente ci metterò più tempo del previsto
xD
La musica? Io l'ascolto sempre ma solo perché mi
infastidisce il silenzio. Quando scrivo mi immergo nel racconto e i
suoi diventano poi del tutto secondari. Comunque metto sempre delle
musiche in lingue straniere (come il giapponese) così che la
comprensione del testo non mi distragga xD
---
Krost, la dea dei
racconti e della letteratura. (Pervin Litteratur)
Lei è la divinità che ispira e giudica le opere
degli scrittori. Ama tutte quelle letture porche al limite della
decenza e protegge tutti coloro che narrano storie.
Arone, il dio dei colori
(Rosbluver)
Arone è la divinità dei colori e della pace. LUi
ama i luoghi tranquilli e i prati fioriti. Si dice che sia il
più forte e il più spettacolare degli dei nella
lotta.
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Capitolo 12 *** Partenza ***
Capitolo
12 – Partenza
Manius
sapeva che Sakroi non era una presenza amichevole, soprattutto quando
si avvicinava lentamente in cerca del momento giusto per iniziare un
dialogo inutile.
Quella
volta decise di precederla: “Cosa vuoi da me?”
domandò
acida scorgendo lo stupore sul volto dell'altra.
“Maleducata
come sempre. Ti consiglierei di adottare un tono più
cordiale
quando parli con una divinità, indifferentemente che tu lo
sia
o meno”.
“E
io ti consiglierei di andartene così come sei venuta prima
di
aprire bocca un'altra volta: indifferentemente che tu lo voglia o
meno”.
Erano
scambi taglienti che testimoniavano un rapporto difficile.
Una
era la divinità delle passioni carnali, del piacere e del
peccato; l'altra era la dea dei sacri valori della rettitudine,
purezza e rigore. Erano due entità opposte che non trovavano
accordo.
Sakroi
strinse lo scettro che impugnava: come poteva una presenza tanto
blasfema essere considerata una dea al pari degli altri? Era
veramente insopportabile, pensò.
“Ho
saputo che tu e Raffaella avete parlato”.
Continuò.
Erano
sulla scalinata d'ingresso, che portava ancora le cicatrici della
battaglia.
La
dea delle passioni si era seduta sui gradini a pensare: rifletteva su
cose differenti e del tutto personali. L'altra era in piedi, davanti
a lei, come per voler dimostrare la sua superiorità.
“Abbiamo
solo combattuto” rispose scocciata quest'ultima, sbuffando.
“Ti
pregherei di non mentire quando parli con me”.
“E
io ti pregherei di non parlare affatto” rispose prontamente
Manius
continuando “Comunque non è affar tuo”.
“Raffaella
è una nemica del Grande Padre. Qualsiasi contatto con lei
è
affare mio e di tutto il pantheon”.
“Interessante”
sbottò l'altra priva di qualsiasi interesse.
“Divina
Manius! Rispondimi!” esclamò perdendo la sua
calma. Sakroi
ormai stringeva lo scettro con tanta forza che sembrava volerlo
spezzare.
La
donna dai capelli scuri si alzò rapidamente, fissando
l'altra
in modo sprezzante.
“Non
osare darmi degli ordini!”
“Altrimenti,
mia 'dea'?” Sakroi dimostrò tutto il suo disprezzo
in questa
frase. Pronunciò in maniera quasi offensiva le parole che si
era scelta. Aspettava solo una buona scusa per poter ferire quella
divinità tanto volgare.
Prima
che qualsiasi risposta potesse uscire dalla bocca della dea delle
passioni un'altra ragazza entrò in scena. Aveva un vestito
sbracciato completamente bianco che terminava con una corta gonna.
Portava un vassoio con delle tazzine da tè.
“Ne
volete?” chiese Chube interrompendo volontariamente quel
confronto.
“Non
adesso” rispose Sakroi “Stavo per
andarmene” continuò
risalendo la scalinata con passo sicuro.
Manius
si lasciò scappare un sorriso che mostrò
solamente alla
mora che era appena arrivata.
“Io
lo prendo volentieri”.
Io
e Nelunis eravamo già in viaggio.
Avevo
salutato tutti coloro cui tenevo maggiormente, fermandomi a lungo
nella stanza di Revery.
Con
la mia guardia scivolavamo attraverso le vie della città,
cercando di percepire una qualche energia.
Avevamo
delle mantelle e la divinità al mio fianco si era spogliata
della visibile corazza per mantenere l'anonimato.
Ci
trovavamo in un'ampia regione collinare, all'interno della
città
di Borghenas. Quella regione, sotto il possente regno dell'ovest, non
dimostrava un grande fervore religioso e sembrava troppo impegnata
nella sua alchimia per poter pensare agli dei.
Era
un regno ricco e potente, ben difeso e che esercitava pressione sui
vicini.
Nelunis
e me ci trovammo una locanda, dove prenotare due camere singole.
Al
sentire di questa pretesa l'uomo al di là dello scuro
bancone
era scoppiato in una fragorosa risata.
“Problemi
di coppia, eh?” esclamò. “Anche io a
volte litigo con mia
moglie ma alla fine si risolve tutto; rilassatevi e riappacificatevi
presto”.
Non
saprei dire se quel commento era scaturito dalle nostre arie
così
distaccate, sia con gli estranei sia tra noi due, o per l'aspetto
giovane e fresco che avevamo, ma fu fastidioso per entrambi.
Con
un gesto fermai Nelunis prima che lo contraddicesse, le spiegai che
era uno sconosciuto che avremmo visto per una sera: non era
importante ciò che pensava. Lei ringhiò per un
secondo,
come una bestia messa alle strette, prima di tranquillizzarsi.
Mi
ero appena appisolato anche se non era molto tardi, quando sentii
bussare con forza alla mia porta.
Pensai
fosse la dea che aveva qualche richiesta o protesta da fare. Neppure
a me andava a genio di dormire in un luogo del genere: ma per
mantenere l'anonimato arrivavo a fare questo e altro.
Quando
spalancai la porta mi ritrovai invece davanti a un ragazzino
impaurito che entrò di corsa senza darmi il tempo di
parlare.
Chiusi
la porta alle mie spalle rapidamente cercando quel giovane.
“La
prego” esclamò cercando di nascondersi in un
angolo spoglio
della stanza. “La prego, farò qualsiasi
cosa” implorò.
Rimasi
confuso. Cosa voleva un bambino nella mia stanza?
Era
accaduto tutto troppo velocemente. Mi era sembrato una saetta che
scivolò oltre il mio corpo, lasciando un acre odore che
credetti ruggine. Mi avvicinai per vederlo meglio. Occhi azzurri,
capelli castani e volto rotondo coperto di lentiggini: sembrava
proprio un comune ragazzino appena entrato nell'adolescenza.
Rimanemmo
immobili per alcuni secondi. Lui parlò solo quando mi vide
avvicinarmi alla porta, con la chiara intenzione di chiamare il
locandiere.
“La
prego mi faccia rimanere qui!”
Io
mi voltai sorpreso. Stavano accadendo molte cose strane.
“Come
ti chiami?”
“Niel”
“Quanti
anni hai?”
“Dodici”.
“Perché
sei qui?”
Lui
scoppiò di nuovo in quella cantilena supplichevole e
insopportabile.
“La
prego, farò qualsiasi cosa! Le prometto che se mi
farà
restare qui per una notte farò tutto quello che
vorrà”.
Blaterò altre suppliche che evitai di ascoltare mentre
chiudevo a chiave la mia stanza.
“Perché
dovrei farlo?”
“La
prego, io...”
“Dimmelo!”
esclamai interrompendolo.
Si
era anche prostrato al suolo per convincermi o farmi pietà.
Alzò
il capo cercando il mio sguardo che era rivolto alla finestra chiusa.
Iniziavo ad avere caldo o semplicemente quell'aroma era troppo
intenso.
“Avanti:
parla” continuai.
“Mi
stanno cercando” singhiozzò. Ci mancava solo che
iniziasse a
piangere.
“Sei
un criminale?”
Lui
sembrò non capire inizialmente, così pensai di
cambiare
domanda. “Perché ti cercano?”
Si
alzò, con lo sguardo lucido a causa delle lacrime che
stavano
per iniziare a scendere su quel volto infantile. Io ho sempre odiato
i bambini; in particolare quelli che piangono.
“La
mia famiglia mi ha venduto a dei maghi della capitale”.
Mi
appoggiai alla piccola finestra dopo averla aperta.
“Perché
mai?”
“Dicono
che io ho il dono magico”. Dunque un futuro mago impartito da
anni
di studi, pensai.
Mi
voltai verso di lui, lasciando che la brezza della notte accarezzasse
la pelle nuda della mia schiena. “Non vuoi diventare un
mago?”
“Non
lo sarei diventato” rispose imbronciandosi.
“Volevano uccidermi”.
“Che
sia la verità?” domandai provocatorio. In quel
momento mi
apparve come un gioco per dissipare la noia della lunga notte
autunnale. Volevo punzecchiare quell'anima sofferente.
Che
cosa sadica: tipica di un dio.
“Certo!”
rispose schiettamente. “I maghi della capitale prendono dei
bambini
e li usano negli esperimenti che compiono”. Lo osservai
più
attentamente: era veramente convinto di ciò che diceva. Con
una storia come quelle anch'io avrei avuto paura.
“Che
esperimenti?” domandai. Anche la favola di un bambino
suscitava in
me un desiderio di scoperta.
“Alchimia”
rispose stringendosi alle ginocchia per nascondere le lacrime.
“L'arma segreta di questo paese”.
Io
risi e ciò lo offese.
Decisi
allora di avvicinarmi a lui. Quando gli fui davanti mi piegai sulle
ginocchia per essere alla sua altezza.
“Una
storia interessante, moccioso”.
“Non
chiamarmi così” sbottò alzandosi
improvvisamente.
“Non
agitarti tanto, sai?Dopotutto il tuo destino è nelle mie
mani.
Dimmi però qualcosa di più”.
Ammisi
che l'odore che emanava non era ruggine, ma qualcos'altro. Forse
sangue o qualcosa di simile. Era qualcosa di rosso, ne ero sicuro: se
quell'odore avesse mai acquisito un colore sarebbe stato il rosso.
Era
qualcosa che mi attirava, un profumo che istigava la mia
curiosità
a indagare. Mi avvicinai ancora, rendendomi conto che era davvero
piccolo poiché mi arrivava con la testa al petto.
Non
volevo terrorizzarlo dunque mi fermai lasciandogli un minimo spazio
dove muoversi.
“Usano
delle pietre rosse” iniziò. Subito quel colore
invase la mia
mente. “Le sciolgono e le fanno bere ai bambini”.
“Tu
come fai a saperlo?” domandai inarcando un sopracciglio.
“Ero
lì!”
“E
loro ti hanno lasciato andare?”
Non
rispose, distolse lo sguardo perdendo quello spirito impetuoso
posseduto fino a quel momento.
“Sei
fuggito? Come ci sei riuscito?” chiesi fingendo interesse.
Far
parlare quel bambino si rivelò molto semplice.
“Un
bambino è impazzito. Ha iniziato a urlare e sputare sangue,
poi si contorceva e tutti i maghi sono andati a osservarlo da vicino.
Io allora me ne sono andato”.
Soffiai.
“Devono essere maghi molto distratti per lasciarsi scappare
un
bambinetto”.
Improvvisamente
si riprese. “Deve credermi! Quel ragazzo sembrava essersi
trasformato in un mostro! Si era scatenato il caos”. Pensai
che non
c'era alcun dubbio che quella fosse una bugia, raccontata da qualcuno
scappato dall'orfanotrofio o dalla famiglia.
Mi
avvicinai ancora. Se la sua storia non era interessante, lo era
quell'odore. Il suo sguardo si focalizzò su di me,
spaventato,
quando mi vide avvicinarmi sempre di più fino a costringerlo
tra le pareti.
In
quel momento persi la mia lucidità per qualche attimo. Era
impensabile che io non riconoscessi un odore del genere. La risposta
si nascondeva dentro di me, ero a un passo dal ricordarla.
Provai
ad afferrarlo ma iniziò a dibattersi. Mi toccò
afferrarlo alle spalle, dopo una breve e inutile lotta, avvolgendo il
suo corpicino con il braccio sinistro e posando la mia mano destra
sulla sua fronte.
La
luce fioca che emanai era il segno che provavo a leggere dentro di
lui. Un bambino è molto facile da osservare.
Continuava
ad agitarsi e lessi le sue paure. Pensò che fossi una
persona
cattiva, che voleva approfittare di lui, pensò alla morte,
ricordò quel bambino impazzito. Io volevo arrivare
più
a fondo, volevo scavare dentro il suo spirito per trovare l'origine
di quel profumo.
Era
di origine innaturale, forse solo le divinità lo
percepivano.
Sembrava magico, come un'aura.
Vidi
alla fine qualcosa di ripugnante, come un grumo di sangue e organi.
Chiusi gli occhi per sopportare la nausea di quella cosa.
Era
un seme. Lo stesso che nascondeva il corpo di Dreni e i soldati di
Elian.
Lo
lasciai andare; infastidito dalle sue urla e dai colpi che dava alla
porta cercando di uscire inutilmente. Faceva troppo rumore.
“Smettila, attiri l'attenzione!” esclamai facendolo
paralizzare.
Alla fine era meglio per lui non farsi notare.
“Non
voglio farti del male, bambino. C'era solo una cosa che volevo
vedere”.
Rimase
per alcuni lunghi attimi in silenzio, trovando poi il coraggio di
parlare. Sentii il mio stomaco scuotersi, forse per il rimorso di
averlo fatto spaventare tanto.
Gli
lanciai un sorriso gentile, pur di farlo tranquillizzare.
“Lei
è un mago, signore?”
“Una
specie” risposi. Con i bambini non c'era certo paura di
venire
scoperti. Loro conoscevano solo Chube, Katyana o il Grande Padre.
“Mi
aiuterà?” implorò ancora rimanendo
immobile alla
porta di vecchio legno.
Mi
gettai sul letto, senza degnarlo di uno sguardo.
Dovevo
rifletterci.
Un
bambino con il seme demoniaco: una bella scoperta. Così i
maghi-alchimisti del regno dell'ovest facevano esperimenti con
oggetti proibiti. Ben presto avrebbero ricevuto visite importanti e
maledizioni secolari per questo.
La
cosa che mi incuriosì di più fu che un bambino
potesse
sopravvivere a tale esperienza. Non c'erano documenti che riportavano
esperimenti del genere ma potevo tranquillamente immaginare che
l'essenza demoniaca combattesse per avere il dominio sul corpo che la
ospitava. Un mago o un guerriero adulto poteva contrapporsi,
dimostrando magari una grande forza di volontà, ma un
giovane
come lui era totalmente indifeso a quel genere di assalti interni.
Il
suo compagno impazzito era sicuramente stato posseduto completamente.
La sua coscienza era stata divorata dal mostro che portava nell'animo
mutandosi in belva.
Era
tutto talmente interessante che non potei fare a meno di pensarci in
continuazione.
“Mi
aiuterà?” domandò ancora riportandomi
alla realtà.
“Forse”
risposi ammiccando. Studiandolo forse avrei capito qualcosa di
più
sull'esercito nemico e magari anche una cura per Valanz e Revery,
anche se non ci credevo neppure. “Però dovrai
stare in
silenzio e non disturbarci”.
“Siete
in tanti?”
“Siamo
in due”.
“Siete
dei viaggiatori?”
“Una
specie”.
Anche
io parlavo troppo.
Si
stese infine sul pavimento vicino a me, addormentandosi. Lo guardai a
lungo, mentre rimuginavo su quella scoperta.
“Cosa
ti salta in mente?” urlò Nelunis il mattino
seguente, appena
le accennai la possibile ipotesi di portare il giovane con noi, anche
se solo per sfruttarlo.
“Non
urlare” le intimai facendole notare l'ora e la sala della
locanda
deserta. “Non vorrai svegliare qualcuno”.
Era
appena passata l'alba. La locanda viveva una calma innaturale.
Mi
afferrò per un polso con forza e mi trascinò
fuori.
Niel mi lanciò un'occhiata confusa ma lo rassicurai
sorridendo. Si toccò di nuovo la pancia dolorante, siccome
quella mattina, scendendo dal letto, lo avevo calpestato.
“Babbo
e mamma parlano un secondo” disse lei al giovane.
Appena
fummo fuori mi afferrò per il colletto della maglia
attaccandomi alla parete di mattoni. Non ero eccessivamente
spaventato: lei non avrebbe alzato un dito contro di me, ma era
evidentemente contrariata. Molto contrariata.
Si
avvicinò e sentii il suo fiato sul viso. “Ham, sei
impazzito
forse? Non possiamo portarci un bambino con noi!”.
“Ma
ascoltami...”
“Capisco
che non fai molte missioni e l'aria aperta e l'odore dell'erba nei
campi ti eccita ma non puoi comportanti in questo modo”.
“Che
stai dicendo?” domandai preoccupato. Cos'è che mi
eccitava?
“Avrai
letto sicuramente moltissime storie sulle compagnie in viaggio ma non
sarà così, chiaro?Abbiamo una missione da
compiere,
caro il mio scribacchino, e non possiamo portarci dietro dei bagagli
inutili”. Bella considerazione che aveva degli uomini.
Continuò
a borbottare tenendomi in quella posizione per alcuni minuti. Era
stranamente inquietante.
“Non
è un bambino normale” le sussurrai.
“Certo:
è un burattino che sogna di diventare umano!”
esclamò
lasciandomi andare e allontanandosi di alcuni passi.
“No.
Dentro di lui c'è qualcosa che può esserci utile.
C'è
un seme”.
Il
suo sguardo si cambiò. La fiamma furiosa si
assopì
appena lasciando spazio a una curiosità velata.
“Come dici?”
“Un
seme demoniaco. Dice che i maghi della capitale svolgono degli
esperimenti strani. Dice anche che ... ”.
“È
solo un bambino!” mi interruppe lei. “Non gli
crederai, spero”
mi domandò piegandosi leggermente in avanti con le braccia
conserte.
Sbuffai.
“Credo in quel che leggo. Il suo animo non può
mentire”.
Sembrò calmarsi a quelle parole. Le era sfuggito il
particolare che io avevo questo potere. “In ogni caso, anche
se
fosse una balla colossale, lui ha un seme o qualcosa di simile
piantato nel corpo. Voglio studiarlo così potrò
forse
capire anche come è riuscita Elian a creare un esercito di
tale potenza”.
Si
convinse dopo altre frasi e risposte inacidite dal suo atteggiamento.
La sua rabbia scemò improvvisamente quando raggiungemmo un
accordo.
“Te
ne occupi te. Non voglio sentire richieste o nient'altro. È
a
tuo carico!” sbottò prima di rientrare.
“Perfetto”.
Risposi.
Entrando
vedemmo Niel seduto al bancone, che si serviva da solo dell'acqua.
Appena
mi avvicinai iniziò a fissarmi per attirare la mia
attenzione.
Arrivò perfino a tirarmi per una manica.
“Cosa
vuoi?” chiesi esasperato.
Socchiuse
gli occhi storcendo la bocca, forse per l'imbarazzo. “Mi
porterete
con voi?”
“Sì.
Ma solo per un breve tratto. Non affezionarti”.
Lui
sorrise in maniera innocente. “Grazie”
sussurrò abbassando
il capo.
Io
risposi arruffando i suoi corti capelli. Fu uno strano gesto, da
parte mia.
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Capitolo 13 *** Risultati utili ***
Capitolo
13 – Risultati utili
I
giorni seguenti furono i più faticosi che avessi mai
vissuto.
All'alba
e nelle ore subito successive al magro pranzo mi collegavo a un
osservatore che avevo creato e lasciato nelle mie stanze, e che avevo
munito di due pinze di carta, così da poter consultare gli
archivi. Cercavo ulteriori informazioni della dea.
Durante
il pomeriggio io e Nelunis ci dividevamo per raccogliere informazioni
nel mercato o nelle botteghe.
Io
parlavo, discutevo e mi fingevo un cercatore di tesori che aveva
appreso il lavoro, insieme alle storie da raccontare, dalla sua
antica famiglia. Riuscivo sempre a raggiungere il mio obiettivo
blaterando a proposito di alcuni artefatti posseduti da Kinsis. Non
esisteva nulla del genere nella realtà, ma mi bastava per
sapere cosa conoscevano della dea. Nelunis cercava di imitare una
ragazza pettegola e discuteva con le donne del mercato o nelle
piazze. Diceva che aveva un giovane marito patito di
antichità
e che perdeva il suo tempo dietro le leggende di Kinsis. Poche donne
sapevano chi fosse ma tutte raccontavano qualcosa che avevano sentito
dai loro mariti.
Erano
due ruoli che non ci spettavano.
Durante
la cena discutevamo a proposito di ciò che avevamo scoperto,
provando a distinguere ciò che era vero dalle voci e dalle
leggende. A fine della giornata, però, erano ben poche le
cose
realmente utili.
La
sera ognuno tornava nelle proprie stanze, continuando a ragionare. Io
mi stendevo fissando il soffitto che un tempo era stato bianco,
tentando di mettere insieme i vari pezzi.
Durante
però qualsiasi fase, Niel faceva la sua comparsa.
Arrivai
a pensare che quel seme demoniaco gli avesse conferito il dono di
parlare in ogni momento di qualsiasi cosa.
Raccontava
cose che non mi toccavano nemmeno, distraendomi durante la ricerca
mattutina e la sera. Durante la cena parlava molto poco, anzi:
restava in silenzio. Nelunis sembrava avere uno strano effetto
intimorente sul piccolo.
Mio
malgrado scoprii qualcosa di più su di lui.
Mi
disse che proveniva da una famiglia di fabbri, specializzati da
generazioni nella fabbricazione di armature. “Per colpa di
Elian”,
così disse dopo forse averlo sentito dire dalla madre, erano
dodici fratelli.
Lui
era il terzo nato ma non spiccava per forza e abilità con il
martello. Per ovviare al problema del mantenimento di un figlio
inutile, in modo molto triste e combattuto, i suoi genitori decisero
di accordarsi con degli alchimisti del re. Si diceva che cercassero
famiglie povere con troppi figli solo per poterne approfittare. La
famiglia vendette lui e altri due fratelli, che però furono
subito separati. Per alcune settimane lo avevano tenuto in una specie
di prigione, facendogli bere una strana sostanza preparatoria al
demone. La descrisse come un liquido verde che sapeva di scaglie di
pesce.
Non
riuscivo a ricordare nulla del genere.
Era
abbastanza grande da ingerire il seme, così aveva sentito
dire
da uno di quei maghi, e lo condussero in un ritrovo sotterraneo con
altri ragazzini. Mi spiegò il rituale ricordando molti
dettagli. Mi descrisse i disegni sul terreno, le tuniche degli
uomini, persino il volto di alcuni compagni.
Alla
fine fuggì, approfittando del caos creato dalla possessione.
Era stata una fuga difficile, poiché per un tratto quei
maghi
lo fecero inseguire da alcuni balordi. Mi assicurò di aver
faticato molto per uscire da quei cunicoli sotterranei, probabilmente
una cripta, ma alla fine c'era riuscito.
La
perdita di un bambino, comprato per pochi soldi è un male
minore, ma un bambino che possedeva un tale segreto era una cosa
troppo preziosa. Aveva corso a lungo, cercando di notte un
nascondiglio e un aiuto.
Mi
spiegò che a quell'ora erano aperte solo le locande e i
bordelli.
Il
resto della storia la conoscevo già. Con schiettezza e privo
del tatto necessario spiegai a Niel che si era come gettato in bocca
allo squalo, scampando solo per fortuna. Ogni volta che incrociavo il
suo sguardo sentivo la gratitudine che provava nei nostri confronti.
Non voleva tornare dalla sua famiglia ma non aveva altri progetti.
Ero
stranamente triste quando ripensavo a quell'evento: una famiglia che
cede uno dei figli, ma mi convinsi che in quella regione era una
pratica molto comune tra le fasce povere.
Finita
la storia della sua breve e intensa vita si prodigò per
trovarci dei nomi. Noi non volevamo dirgli i nostri e non avevamo mai
né la voglia né il tempo per inventarne alcuni,
così
trovò un soprannome per ciascuno di noi.
Io
ero Georg e l'altra dea era Inae. La sera che mi disse questa trovata
dialogammo un poco, poiché Inae, gli spiegai, somigliava
molto
alla parola Inande, traducibile
con virile e mascolino. Lui si mise a ridere e anch'io accennai una
risata sincera.
Chiusi
la conversazione suggerendogli di non dirlo a Nelunis, chiamandola
semplicemente 'Signora'.
Niel
non era portato per le armi o per il lavoro pesante, dato il suo
fisico gracile. In guerra, per via dell'indole ingenua e
fondamentalmente buona, non sarebbe sopravvissuto a lungo. Possedeva
comunque un'incredibile acume, che emerse alcuni giorni dopo averlo
preso con noi.
Una
sera stavo rimuginando a proposito delle informazioni che avevamo
trovato.
“Mi
avevano suggerito un vecchio magazzino nei pressi di una miniera poco
fuori città, ma non c'era nulla. Nessuna traccia della
presenza di Kinsis” mi disse Nelunis.
“Eppure
si trova nella parte meridionale di questa regione, secondo gli
scritti. È vero che è passato molto tempo ma
è
l'unica traccia che abbiamo”.
Il
ragazzo stava mangiando una fetta di pane, incuriosito. Noi eravamo
già sazi. Quella sera mangiammo solo una minestra.
“Forse
si trova in un'altra città” suggerì.
Quella dove ci
trovavamo era una grande cittadina, la più vasta tra quelle
a
sud del regno. Cambiare città significava ricominciare tutto
da capo. “Le leggende che hai raccolto e le tue elaborazioni
ci
hanno condotto qui, ma sono comunque dati molto vecchi e
imprecisi”.
“Forse
si trova nella capitale” disse, interrompendo la nostra
discussione.
Nelunis
gli lanciò un'occhiata astiosa. Io non ero così
aggressivo. “Perché dovrebbe trovarsi
là?”
domandai.
Prima
di rispondere ingoiò anche l'ultima parte di mollica.
“Perché
una divinità attira l'attenzione, nella capitale
può
nascondersi”.
“Può
nascondersi ovunque, moccioso!” esclamò la dea
inacidita da
quell'intromissione.
Lui
alzò la testa guardando me che ricambiai con un sorriso. Non
voleva proprio incrociare gli occhi di lei. “Ama le grotte o
i
cunicoli, giusto?” chiese in modo retorico. Gli avevo detto
questa
cosa alcune sere prima, dopo alcune domande fastidiose. “La
capitale ha una fitta rete di sotterranei, soprattutto il
castello”.
“Fai
silenzio cosa ne vuoi sapere, ci sono rovine e segrete ovunque in
questa regione!” continuò Nelunis. Lo
intimorì
battendo con forza una mano sul tavolo. Niel si zittì,
chinando il capo. Lo fissai per alcuni secondi, ignorando le parole
della mia compagna. Si era chiuso nella sua tristezza, non era una
cosa giusta.
Accarezzai
la sua mano destra, posata sul tavolo, incitandolo a continuare.
Pensai che sicuramente non ci sarebbe stato di nessun aiuto ma almeno
si liberava di quel silenzio lugubre, dove ricordava tutte le cose
che aveva dovuto passare. Nella sua mente erano incubi: non era raro
che la notte si svegliasse in preda a visioni dove compariva il quel
ragazzo posseduto.
Lui
mi lanciò un'occhiata confusa. Non era sicuro se parlare o
meno.
Alla
fine disse ciò che pensava, sussurrando intimorito.
“Io
penso che si trovi nella capitale perché c'è
un'ampia
rete di sotterranei disponibili e così può
vendere le
sue bambole”.
Le
bambole. Non avevo mai pensato a questo vizio come un indizio utile.
Nelunis
cambiò bersaglio: i suoi occhi presero a fissare me
infuriati.
Chinai il capo in segno di scuse, forse mi ero lasciato scappare
troppe informazioni. Kinsis era la dea burattinaia e aveva il vizio
di fabbricare bambole, ottime bambole che poi vendeva sotto falsi
nomi solo per sentirsi lodare per la bravura nel confezionare quelle
opere d'arte e per accumulare ricchezze.
“In
questa regione solo la capitale è rinomata per fabbricare
ottime bambole di pezza o giocattoli in legno. Ora, mettiamo che
Kinsis si fosse insediata in una parte qualsiasi del regno, avrebbe
venduto le sue creazioni, sbaglio?” mi chiese.
“Esatto”.
“Non
pensate che l'attenzione si sarebbe focalizzata allora nel borgo dove
vendeva questi oggetti? Insomma un venditore di bambole fuori dalla
capitale è inusuale, poi se sono opere perfette lo
è
ancora di più. Si sarebbe sparsa la voce e tutti si
sarebbero
catapultati in questo luogo”.
Sentendolo,
senza poterci ragionare sopra, mi trovai d'accordo con lui. Non
faceva una piega.
“Invece
non è successo nulla del genere. Non c'è notizia
di
bambole vendute fuori dalla capitale, o meglio: non c'è
notizia di ottime bambole vendute fuori dalla capitale”
commentai.
Volevo rassicurarlo, non doveva temere.
La
sua presenza stava diventando piacevole.
“Invece
nella capitale, la dea non solo ha un nascondiglio ma ha anche un
mercato fiorente dove vendere la sua merce senza dare nell'occhio,
giusto?” terminava gran parte delle sue frasi con un
interrogatorio, come se volesse delle conferme a ogni passo.
Nelunis
socchiuse gli occhi. “Non è una certezza, ma
sembra essere
un ragionamento logico”.
“Ed
è l'unica idea che abbiamo” conclusi io.
Per
la prima volta un uomo, per di più così giovane e
inesperto, mi aveva suggerito qualcosa , risolvendo momentaneamente i
nostri problemi.
Dopo
cena tornammo nelle camere con un'aria meno grave e più
spensierata.
Mi
sistemai sul letto, guardando Niel affacciarsi alla finestra.
Entrava
un'aria gelida.
“Signor
Georg” chiamò.
“Cosa
c'è?”
“Lei
è un mago vero?”
Feci
una smorfia. “Sì”. Ormai doveva credere
a quella storia,
altrimenti potevano nascere in lui dei sospetti.
“Può
curarmi?”
La
domanda mi spiazzò. Curarlo? Pensai che intendesse aiutarlo
a
liberarsi del seme. Forse anche lui si era accorto che era qualcosa
di oscuro e dannoso. Era probabile che ne soffrisse anche, in
segreto, poiché gli provocava dei dolori.
“Io
non ne sono capace” risposi stringendo i pugni.
Improvvisamente
apparvero i volti di Revery e Valanz e ricordai la promessa che mi
ero fatto. Studiando quel ragazzo avrei scoperto qualcosa, forse, per
salvare le mie due compagne. Dovevo portarlo con me finché
non
ci fossi riuscito, ma sicuramente non avevo idee per liberarlo da
ciò
che ormai si era insediato nel suo giovane spirito.
Lui
venne ai piedi del letto, inginocchiandosi. “La prego; mi
aiuti.
Non voglio diventare un mostro”.
In
effetti, poiché era passata già una settimana, mi
convinsi che non c'erano più rischi. Era riuscito ad
assorbire
quel seme con efficacia, forse senza poterne godere degli effetti ma
dissolvendolo.
Mi
spostai, sedendomi sul bordo. “Smettila di piagnucolare. Non
diventerai un mostro, sei un bambino forte”. Ormai sembrava
essersi
abituato ai termini con i quali lo chiamavo, che sminuivano sempre la
sua piccola età.
Quella
frase sembrò colpirlo particolarmente. Mi
ringraziò
sistemandosi a terra, per dormire.
Forse
non aveva mai ricevuto un complimento del genere.
La
mattina seguente approfondii la questione 'ragazzino' con la dea.
“Nelunis,
lo terrò con me fino a che non avrò scoperto
qualcosa
di più sul seme”.
Lei
annuì. Era più infastidita dal vestito lungo e
roseo
che indossava che dalle mie parole.
“Va
bene. Basta che non mi crei problemi” commentò.
Le
feci notare che ci era stato utile ma lei liquidò la
faccenda
con una coincidenza irripetibile.
Discutemmo
un po' riguardo altri argomenti, come il viaggio o la ricerca di una
sistemazione giunti nella capitale, Mire, ma lei se ne uscì
alla fine con una frase che mi spiazzò.
“Quel
ragazzino stravede per te”.
Interruppe
la mia frase riguardo ai giorni di viaggio che ci sarebbero serviti.
Alzai lo sguardo verso di lei pronto a scoppiare a ridere. Lei era
invece seria.
“In
questi giorni non ha fatto altro che starti attaccato, ascoltare
entusiasta le tue parole, imitare i tuoi gesti. Con me non ha neppure
mai parlato”.
Sbuffai.
“Tu lo disprezzi! Ed è evidente la cosa”.
“Lascia
perdere. Io di queste cose me ne intendo: ho vissuto molte battaglie
e negli eserciti ci sono sempre gli 'ammiratori' che inseguono il
cavaliere o l'eroe di turno. Ormai riesco a riconoscerli. Quel Niel
pende dalle tue labbra; trattalo con cura”.
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Capitolo 14 *** La città delle bambole ***
Capitolo
14 – La città delle bambole
Mire
apparve alla nostra vista dopo due giorni di viaggio.
Nelunis
era riuscita a trovare due cavalli, anche se ignoro come abbia fatto,
perciò il viaggio fu particolarmente rapido.
Più
ci avvicinavamo, però, più Niel s'incupiva. Io e
lui
cavalcavamo un destriero dal pelo chiaro e dal temperamento
tranquillo. Lui sedeva davanti a me, mentre dietro c'erano alcune
vettovaglie. Nelunis era molto più avanti di noi. Il suo
cavallo era tinto come il nostro ma aveva una speciale luce negli
occhi. Era rapido e aggraziato.
Nel
pomeriggio del secondo giorno volli capire come mai
quell'atteggiamento.
Anche
se lo conoscevo da poco non mi era sfuggito il particolare che Niel
parlasse molto, così gli domandai perché quel
silenzio.
Lui
continuò a fissare la strada davanti a sé, con
aria
preoccupata. “Nella capitale ci sono i Maghi. Mi stanno
cercando”.
“Figurati.
I maghi della capitale neppure sanno della tua esistenza”
ridacchiai per rassicurarlo. La mia frase non sembrò avere
l'effetto desiderato.
“Sicuramente
quegli stregoni hanno avvertito anche i loro compagni della
capitale”.
“Senti
Niel, quei maghi hanno fallito miseramente lasciandosi scappare un
ragazzino: pensi davvero che darebbero questa notizia alla capitale,
umiliandosi e rischiando delle punizioni?”. Volli convincermi
che
era così: avevamo fin troppi problemi per occuparci anche di
qualche stregone del re che ci dava la caccia. In caso si fossero
presentati, comunque, mi sarei occupato personalmente della loro
eliminazione. In questa maniera mettevo al sicuro Niel e gli facevo
capire che non si devono fare esperimenti che offendono gli dei.
Lui
mi diede ragione, rilassandosi nell'ultimo tratto di strada. C'era
sempre una parte di lui che tremava, indifferentemente da
ciò
che facevo o dicevo per rassicurarlo.
La
città si mostrò a noi in tutta la sua
magnificenza.
Si
strutturava in una cittadella fortificata, circondata da dei
quartieri ricchi chiusi nelle alte mura bianche e decorate. Fuori
stavano tutte le altre case, senza protezione alcuna. La gente che
viveva fuori dalle mura era molta, forse più di quella della
città vera e propria, e aveva creato una ragnatela di strade
e
nuovi quartieri dove la vita scorreva più o meno tranquilla.
Io
avevo letto molte cose riguardo alle fortificazioni di Mira ma ammisi
che erano qualcosa di splendido. Niel ne rimase incantato, anche se
sembrava saperne abbastanza di quel posto.
La
muraglia era altissima e la si poteva vedere da molto lontano. Quella
cinta circolare aveva protetto la città dalle orde dei
demoni,
uomini e creature bestiali per quattro lunghi secoli.
Smettemmo
di galoppare, acquistando un'andatura più tranquilla, giunti
alle prime case. Più si proseguiva verso le mura
più le
case intorno a noi aumentavano diventando alla fine una foresta
intricata e sconosciuta.
Il
sole era prossimo al tramonto, per cui pensammo fosse meglio
sistemarci.
La
locanda ci mise a disposizione due stanze: una singola e una
matrimoniale. Ci fu una dura battaglia per i posti.
Nelunis
voleva il letto più grande ma io e Niel non potevamo stare
in
una singola; lei, però, non voleva condividere il letto
né
con me né con Niel.
Alla
fine le toccò andare nella camera singola, mentre noi due
prendemmo la matrimoniale. Non mi andava a genio dormire insieme a un
uomo ma per quella volta mi toccò buttare giù il
boccone amaro senza lamentarmi.
Il
ragazzo per tutta la sera continuò a fissare le mura,
sporgendosi dalla finestrella. Durante la notte si ricoprivano delle
luci delle sentinelle, rendendole ancora più suggestive.
“Non
c'eri mai stato?” domandai sistemandomi su quel giaciglio
comodo.
“No”.
“Eppure
mi era sembrato che tu la conoscessi bene”.
Lui
scosse la testa, venendo verso il letto. “Di Mira conosco
solo i
sotterranei, anzi: so solo che esistono. Mio padre me ne parlava
molto, siccome una parte di quei cunicoli è adibita come
magazzino per corazze e armi”.
“Tuo
padre sapeva molte cose”. Commentai stupito.
“Anche
io conosco molte cose”.
“Davvero?”
La
sicurezza con cui aveva esclamato la precedente frase scemò.
“Insomma, conosco alcune cose...”
sospirò. “Ma non così
tante. Un giorno conoscerò tutte le cose di questo
mondo!”
gli tornò la sicurezza e gli occhi brillarono di una strana
luce sognante.
Capivo
perfettamente quel che provava. Sete di conoscenza o semplice
curiosità: anch'io provavo le medesime cose.
Pensai
che forse non eravamo così diversi.
Il
giorno successivo lo passai per orientarmi nella capitale. Rispetto
alla vecchia città quello era un labirinto di vie e
botteghe.
Mi ci volle un pomeriggio intero per imparare qualche strada di
riferimento ed esplorarlo in gran parte.
Niel
mi seguiva, incuriosito e ormai partecipe delle nostre uscite.
Nelunis mi disse che avrebbe cercato un modo per entrare oltre la
barriera che proteggeva gelosamente i quartieri alti di Mira.
Inizialmente dovevo fare io quel lavoro ma convenni che una bella
ragazza con molte monete può fare tutto.
Quella
sera discutemmo a proposito dei nostri risultati.
Ci
eravamo chiusi nella camera matrimoniale ed eravamo seduti sul letto.
Davanti a me e Nelunis stava la cartina della città.
Niel
era vicino a me, che ci guardava interessato.
“Possiamo
entrare” iniziò Nelunis. “Sono riuscita
a convincere un
soldato”
Rimasi
in silenzio attendendo un'ulteriore spiegazione, ma lei si aspettava
una domanda. Con un cenno le feci capire di andare avanti.
“Aveva
appena terminato il turno: è un membro della guardia. Ho
dovuto faticare un po' ma alla fine l'ho convinto a farmi entrare: ho
detto che siamo degli aspiranti storici, che vogliono vedere le
meraviglie della città bianca e altre
sciocchezze”.
Le
lanciai un'occhiata che lasciava trasparire il mio disappunto.
“Storici?”.
Lui
mi fece segno di tacere. “Domani pomeriggio, dopo il
mezzodì,
potremmo entrare da un passaggio secondario. Ho dovuto sborsare fino
a dieci monete d'oro!”
Era
una cifra molto alta.
A
quel punto parlai delle mie scoperte. “La rete sotterranea
è
situata su due piani. Il piano inferiore attraversa tutta la
città
ed è una rete fognaria; il piano superiore passa solo sotto
la
città alta e alcune parti sono usate da magazzino mentre
altre
sono abbandonate”. Le indicai un punto sulla mappa. Con il
dito
tracciai un cerchio che comprese la parte settentrionale dei
sotterranei. “Io penso possa trovarsi qui. Noi ci troviamo
nella
parte sud della città, ma attraversare la città
alta è
questione di un'oretta al massimo”.
“Facciamo
due” mi interruppe lei.
“In
ogni modo raggiungeremo quella zona da qui” suggerii puntando
un
tratto lungo le mura. “C'è un ingresso per i
sotterranei
credo sorvegliato da alcune guardie. Tanto ce ne sbarazzeremo
velocemente”.
Con
un'occhiata feci capire a Nelunis che 'sbarazzarsene' non significava
obbligatoriamente ucciderli. Lei mi sorrise sarcastica. Era un piano
semplice poiché contavamo su dei mezzi magici per risolvere
gran parte dei problemi.
La
mattina successiva sembrava non voler mai passare. L'ansia e
l'eccitazione per la nostra azione del pomeriggio mi mettevano in
agitazione impedendomi una buona concentrazione.
Per
distrarmi portai Niel a fare una passeggiata per alcune strade.
Rimaneva incantato a guardare le varie botteghe e la merce che
esponevano.
Gli
chiesi se volesse acquistare qualcosa ma mi fece segno di non voler
nulla. Ci era già molto grato per averlo portato con noi e
non
voleva pesare in maniera maggiore. Ero però cosciente del
suo
reale desiderio.
Giunse
infine l'ora di andare. Mangiammo velocemente una focaccia
particolarmente buona, per gli standard umani, e ci preparammo.
Dissi
a Niel di rimanere chiuso nella stanza, senza aprire a nessuno o
uscire. Dovevo essere certo che non si cacciasse in qualche guaio.
Nelunis
si era cercata una guardia piuttosto giovane e stupida, così
da poterla manipolare a suo piacimento. Con i capelli legati in una
lunga treccia e un po' di trucco: da dea era passata ad anonima
donzella.
Il
soldato ci aspettava a una porta quasi invisibile, nascosta molto
bene da alcune case. Era coperto da una pesante armatura a placche e
il suo volto era terribilmente rovinato. Aveva dei corti capelli
biondo cenere, il suo volto era ovale e con una grande mascella
squadrata. Aveva circa venticinque anni: eppure sembrava
terribilmente vecchio, come se ne possedesse almeno venti di
più.
Lo
sguardo era vuoto, come se assente e il suo tono troppo grave e
lento.
Ci
accompagnò all'interno, fissando in maniera fastidiosa il
corpo della dea, che fingeva di non essersene accorta. In una
situazione normale, la guardia sarebbe già stata uccisa ma
adesso ci serviva vivo.
“Così
siete degli storici” iniziò per rompere il
silenzio.
“Sì.
Vogliamo scoprire qualcosa di più su questa città
tanto
famosa” sospirai. Nelunis mi assecondò.
Gli
si avvicinò guardandolo con i suoi grandi occhi di fuoco.
Avrebbe anche finto pur di raggiungere il suo obiettivo; gli uomini
poi erano particolarmente facili da fregare.
Lui
era un colosso rispetto alla statura della dea, ma questo non
impedì
che lei gli accarezzasse una spalla ricoperta di metallo, sorridendo.
“Io e mio fratello siamo alla ricerca di segreti. Non
è che
sapresti dirci qualcosa di 'interessante'?”.
Non
avrebbe fatto niente oltre a quello. Aveva raggiunto il limite.
Lui
le sorrise. Il rumore della corazza era ripetitivo e noioso.
“Dicono
che ci siano dei sotterranei, per esempio...”
“Mi
state chiedendo troppo!” esclamò.
“Per
favore, non so cosa darei per vedere quei cunicoli”
continuò
la ragazza tirandolo all'interno della sua trappola.
Prima
di arrivare fin lì però ci disse che doveva
spogliarsi
della corazza troppo ingombrante.
Era
stato molto semplice giungere fin lì: il soldato, il cui
nome
era Rond, ci fece passare in alcune strade poco trafficate, dove la
gente di quei quartieri ci notò appena. Quella era l'ora
più
calda dove le sentinelle oziano annoiate e le persone rimangono nelle
loro case per riposarsi dopo il pranzo.
Ci
sembrava troppo facile.
L'uomo
ci mise pochi minuti a liberarsi di quella ferraglia di scarsa
qualità, rimanendo vestito con una maglia rossastra e dei
pantaloni di stoffa.
Dopo
mezz'ora finalmente giungemmo all'ingresso. Era situato in un piccolo
giardino abbandonato, provvisto di un sentiero in brecciato che lo
attraversava completamente. Le porte non erano neppure sigillate,
segno che l'accesso era libero.
Scendemmo
delle scale ripide ritrovandoci all'ingresso di un corridoio lungo e
interamente di pietra.
Lui
afferrò una torcia magica, formata da un bastone sormontato
da
una pietra lucente. Dopo averla strofinata appena quella gemma
iniziò
a brillare con forza, illuminando gran parte di quella strada che
puzzava di chiuso e acqua stagnante.
Camminammo
a lungo e persi la cognizione del tempo passato. Era tutto
così
buio e noioso.
Improvvisamente
incontrammo delle sbarre che ci bloccavano il cammino. Avevamo
esplorato alcune stanze vuote e girato a lungo tra i vicoli,
probabilmente perdendoci.
Rondo
provò più volte ad abbandonarmi in qualche vicolo
per
restare solo con la dea, ma lei lo impediva attirando la mia
attenzione.
“Il
giro turistico è finito. Torniamo indietro”.
Sbottò
grattandosi la testa.
“Non
possiamo proseguire?” domando Nelunis lanciandoli un'occhiata
ammiccante.
“Ho
già disobbedito portandovi qui, non posso fare
altro” era
scocciato per aver fallito con la ragazza e probabilmente aveva perso
interesse nei suoi confronti.
“Non
puoi, o non vuoi?” chiesi inarcando un sopracciglio.
Nelunis
si lasciò scappare una risata.
“Non
posso e non voglio, sia chiaro. Per quello che mi avete dato
è
già troppo quello che ho fatto”.
Brontolò
avvicinandosi minaccioso. “Adesso andiamocene, vi
riaccompagno
fuori dalle mura”.
“Non
abbiamo ancora finito” sbottò la dea sciogliendosi
la
treccia.
Io
rimasi nascosto nella mantella guardando gli eventi accadere senza
intervenire.
“Non
mi costringere a...” La frase del biondo si interruppe quando
alla
sua gola fu puntato un pugnale. Lui lo aveva tenuto nella cintura fin
dall'inizio, non si capacitava di come quella donna glielo avesse
rubato e ora glielo stesse rivoltando contro.
“Taci!”
esclamò Nelunis uccidendolo. Un taglio netto, del sangue.
Forse aveva esagerato.
Prima
che potessi replicare mi spiegò. “Non dire nulla.
Ha osato
troppo! Non mi dispiace che tra i soldati qualcuno fantastichi su di
me, ma questo era una cosa indecente. Ci mancava solo che mi
bloccasse a un muro dicendomi: facciamo...”
“Ho
capito” la bloccai indicando le sbarre.
“Queste?”
“Non
sono un problema” mi rispose. In un istante dal pugnale
scaturirono
lingue di fuoco che abbattendosi sul vecchio metallo lo distrussero,
con la stessa potenza di un martello da guerra o un ariete da
sfondamento.
Mi
lanciò un'occhiata compiaciuta, mentre attraversava quel
varco
che adesso puzzava di fumo.
“Dove
ci troviamo?” domandò dopo pochi passi.
“Secondo
la mappa ci troviamo vicino a un cunicolo più largo.
Seguendolo in direzione nord-est raggiungeremo la parte che ritengo
sospetta”. Mi stavo limitando a pensare. Nella mia mente la
mappa
era chiara e memorizzata alla perfezione. Ero un archivista che
doveva poter ricordare ogni cosa e una piccola cartina era una
sciocchezza per me.
“Perfetto.
Troviamo questa 'strada per il tesoro'” mi disse seria. Dopo
aver
eliminato la guardia la dea si era appropriata del fodero per quel
pugnale, che adesso teneva alla cintura. Armatura e armi erano nel
Palazzo, al sicuro.
Camminammo
a lungo, senza trovare nulla di utile. Erano forse passate ore:
durante le quali correvamo dietro a percezioni errate e inutili
rumori.
Ci
trovavamo in uno stretto cunicolo vuoto. La torcia che avevo perso in
prestito dal cadavere illuminava le strette pareti dandoli una
spiacevole sensazione. Ci misi un po' per rendermi conto di dove
eravamo.
Nell'ultimo
tratto avevo seguito Nelunis che si era limitata a intimarmi di non
fare domande, girando a vuoto tra i vari corridoi. Adesso si era
fermata e si avvicinò a me molto lentamente.
Alla
nostra sinistra stava un'altra strada mentre poco più avanti
ce n'era un'altra che svoltava a destra.
“C'è
qualcuno che ci guarda” mi disse afferrandomi per un braccio.
“Chi?”
“Ora
lo vedrai. Crede di essere al sicuro il bastardo”
ghignò.
“Lancia la torcia nel cunicolo accanto a te.
Veloce!” lo feci
senza obiettare.
La
strada in precedenza buia si illuminava al passaggio della gemma e
per un attimo rese visibile il colui che si nascondeva nell'ombra.
Non riuscii a riconoscerlo subito ma mi apparve come qualcosa di non
umano.
Rendendosi
conto di essere stato scoperto scattò verso di noi. La dea
mi
scansò e con un fendente infuocato tagliò il suo
corpo
in due parti. Quando queste caddero a terra potei capire cos'era: una
marionetta. Il corpo di quel nemico era interamente fatto di legno,
articolato e dalle sembianze antropomorfe. Il suo volto aveva una
faccia scolpita quasi inquietante e le braccia terminavano con due
pericolose lame.
Emanava
una presenza magica che non ero riuscito a scorgere, forse
poiché
ero troppo preso dai miei pensieri. Pensai si trattasse di un'anima
chiusa in quel corpo, così da muoverlo. Quella pratica era
tipica della dea, Kinsis; solo lei riusciva a sigillare e manovrare
gli spiriti. Finalmente avevamo una certezza.
“Come
hai fatto a scoprirlo?” domandai.
“Abilità
ed esperienza. Poi c'era anche la flebile aura che emanava il suo
corpo. Mi deludi, sai?”
“ero
distratto, perdonami”.
“Sei
stato fortunato. La distrazione porta alla morte gran parte delle
volte”.
Il
suo spirito battagliero la portava a paragonare tutto a una guerra,
così si comportava e parlava di conseguenza.
Chiunque
fosse giunto fin lì non sarebbe andato oltre, ucciso da quel
burattino agguerrito, ma noi due eravamo molto più capaci e
resistenti di un semplice umano curioso.
Entrammo
in quella via, recuperando la torcia e ci apparve una scala che
scendeva in profondità.
“Allora?”
mi chiese risvegliandomi. Ero rimasto imbambolato davanti al primo
gradino.
Sussultai.
“Nella mappa non c'era”.
“Ottimo.
Allora è qui” mi rispose lei passandomi avanti.
Scese
i gradini velocemente e chiamò il mio nome con forza
affinché
la seguissi.
Capii
che Kinsis ce lo aveva permesso, di giungere fin lì,
accogliendoci nel migliore dei modi possibili.
|
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Capitolo 15 *** La dea enigmatica ***
Capitolo
15 – La dea enigmatica
“Ben
arrivati” ci disse appena messo piede in un grande salone
scarsamente illuminato.
Avevamo
camminato relativamente poco, circondati da burattini e marionette
privi di vita e riversi a terra in pose scomposte.
Il
salone ne era pieno. Sulle pareti, per terra o appesi al soffitto
c'erano le bambole amate da Kinsis. Tutte diverse: alcune con aspetto
aggressivo e armate, altre con l'aria docile e l'aspetto grazioso.
Ero intimorito da una simile armata di legno e allo stesso tempo
ammiravo ogni dettaglio di quelle opere.
Leggere
di loro non era come vederle.
Sul
fondo della stanza stava una donna dai corti capelli castani, di una
tonalità molto scura, che lavorava su qualche nuovo modello
seduta alla sua scrivania. Intorno a lei regnava il disordine:
attrezzi, pergamene e parti di burattino stavano ovunque.
Si
voltò solo dopo alcuni secondi, posando sul tavolo di
vecchio
legno la sua lente per i lavori di precisione.
Era
una donna minuta e sola.
“Cosa
vi porta fino a me?” domandò.
Nelunis
si fermò raggiunto il centro della stanza, io la imitai.
“Dobbiamo
chiederti di seguirci, fino al Palazzo: il Grande padre ti
vuole”.
Le
due dee si scambiarono degli sguardi astiosi. Kinsis però
decise di dedicare a me le sue attenzioni, ignorando le parole della
ragazza dalla pelle dorata.
Mi
osservò accuratamente senza lasciarsi sfuggire un
particolare.
Lei era una tipa precisa.
Prima
di parlare fece una smorfia. “Tu sei quasi uguale
all'originale”
sospirò.
“Un
bel lavoro, non c'è che dire: lui però era molto
più
sveglio e bello”. Sbuffò. “Forse
però tu sei ancora
giovane”.
Confusione.
Cosa aveva detto? Di cosa parlava?
Nelunis
non sembrava confusa come lo ero io. Lei non si interessò
neppure al senso di quelle parole. “Kinsis, verrai con
noi?”
Lei
le lanciò un sorrisetto forzato. “Ovviamente no.
Mi sono
allontanata da quel posto da quando è successo, non
tornerò
ora”.
“Successo
cosa?” domandai facendomi avanti.
Lei
sembrò compatirmi. Era in qualche modo attratta dalla mia
figura e provava pena per il mio animo. “Se solo avessi il
tempo
potrei raccontartelo; ahimè il tempo non c'è:
devo
finire queste bambole”.
Nelunis
mise mano sul pugnale senza sfoderarlo. “Kinsis, non
costringermi a
usare la forza”.
“Costringerti?
Tu godi nel farlo; ti hanno creata così, dopotutto. Sei la
giovane donzella dal carattere infuocato”. Era
così calma da
destare molti sospetti. Aveva la situazione sotto controllo o il
tempo passato tra quelle bambole le aveva donato una pazienza e una
calma fuori dal comune?
La
dea al mio fianco si fece avanti facendomi segno di indietreggiare.
Sbuffò provocata in modo così esplicito.
Kinsis
continuò, rivolgendosi nuovamente a me. “Mi fido
di te, così
come ho sempre fatto”. Non riuscivo a seguirla: se quello era
il
nostro primo incontro come poteva essersi già fidata di me?
“Dimmi,
Ham, qual'è il ricordo più vecchio che
possiedi?”.
Mi
sorprese. Iniziai ad andare a ritroso nel tempo: anni, decenni, forse
un secolo. Poi terminarono. Non avevo mai fatto una cosa del genere.
Nelunis sembrava insofferente.
“Un
giorno nuvolo: sono nel mio studio che sto per studiare il primo
libro preso dall'archivio. Il primo in assoluto”.
Lei
sorrise: mi stava conducendo verso una risposta che inconsciamente
attendevo.
“Sai
perché non puoi andare più indietro di
così?”
“Ero
troppo piccolo, non ho una chiara memoria dei primi anni della mia
esistenza”. Adesso era ovvia la risposta: lei mi aveva
incontrato
quando ero appena nato e avevamo fatto qualcosa che l'aveva portata a
fidarsi di me. Una nostalgica, pensai.
“Sbagliato”.
Rispose facendo oscillare il dito indice della mano sinistra. Avevo
dato la risposta errata.
Il
pugnale scivolò fuori dal fodero ricoprendosi di fiamme. La
mano della dea guerriera lo strinse con vigore. “Smettila
adesso!
Non provare a manipolare la mente di Ham con le tue parole”.
Lei
non si stupì, anzi iniziò a ridere soddisfatta.
“Perché
non fai silenzio, soldatino? Sto discutendo con qualcuno che ha
subito fin troppe...”Si interruppe lasciandomi immobile.
In
un secondo le lingue di fuoco si abbatterono su di lei che si
salvò
solo scartando di lato con velocità.
“Ho
degli ordini da rispettare” commentò la dea con il
pugnale
per giustificare il suo attacco. “Vuoi venire o no? Ti
preannuncio
che una risposta negativa sarà presa come un affronto alla
stessa divinità che ci ha creato”.
“Per
favore fai silenzio?” rispose in modo seccato la burattinaia.
“So
perfettamente che tu sei una che deve mantenere l'ordine, anche
usando mezzi poco educati”. Si porto una mano sulla bocca
riflettendo. Poi continuò: “Tornando a noi, Ham:
tu non puoi
ricordare nulla prima di quel giorno, semplicemente perché
non
esistevi”.
La
cosa mi colpì ma non mi sconvolse. Forse ero nato
adolescente,
senza dover passare la fase dell'indifeso bambino, ma era un male
minore. Fu ciò che disse dopo a far vacillare le mie
sicurezze.
Il
suo sguardo si fece amichevole mentre la dea socchiudeva gli occhi
grigi. “O per meglio dire: prima di quel giorno c'era un
altro”.
Vuoto
e silenzio. Il mio cuore batteva all'impazzata. Un altro: un
archivista che non ero io. Dov'era?che fine aveva fatto? La mia testa
era piena di domande che non riuscii a pronunciare. Non era il
turbamento a far tremare le mie gambe o impastarmi la lingua, no: era
la curiosità. Volevo, anzi: pretendevo di sapere la
risposta.
Tutto
ciò non fu possibile: Nelunis aveva scagliato un altro
attacco. La sua spada fatta di fuoco attraversò il corpo
della
divinità rompendolo. In quel momento mi accorsi che era al
pari di tutti gli articoli esposti: una marionetta.
L'oscurità
mi aveva confuso, non ero riuscito a delineare bene la sua sagoma
dandomi l'immagine di una donna che non c'era. Un siparietto ben
montato; degno di questa dea.
“Non
credere alle sue parole, Ham! Lei vive mettendo dubbi nei cuori
altrui” mi rassicurò.
“Conosco
le caratteristiche di questa dea” risposi, ma il dubbio era
già
dentro di me.
In
silenzio stava strisciando attraverso il mio corpo, come un verme
sotto le carni.
La
mia attenzione fu però attratta dal movimento che notavo
nella
penombra: tutte le bambole si muovevano, animate.
Ci
attaccarono tutte, senza risparmiare i loro colpi.
Erano
soldati perfetti: morivano solo se ne distruggevi il capo Non era
importante quante braccia gli avevi tagliato, o quante gambe, o se
gli avevi fatto saltare la testa dal collo: la bambola continuava a
cercarti. Un incubo di pelle bianche e sguardi vitrei.
Finito
quella lotta tornammo alla locanda. Io non avevo ferite, Nelunis
neppure. Il corpo l'aveva bruciato per precauzione e io mi ponevo
ancora domande.
Rimuginai
sulla complicità tra Kinsis e il re reggente, alleati negli
esperimenti con il seme demoniaco, e su ciò che aveva detto:
nessun documento riportava l'esistenza di un precedente archivista.
Avevo
comprato, sulla via del ritorno, un libro a Niel. Era un tomo
abbastanza ingombrante che raccontava la storia del continente. Lui
ne fu felicissimo e mi ringraziò per tutta la giornata
seguente. Nelunis era tornata quella di sempre: sanguigna e concreta.
Io non riuscivo a prendere sonno. Non capivo come lei potesse essere
tanto tranquilla.
Una
sera bussai alla sua porta e lei aprì facendomi entrare.
“Cosa
succede?” mi chiese scocciata per l'intrusione.
“Quei
discorsi erano tutte sciocchezze vero? Tu sai benissimo
perché
ti è stato assegnato il compito di starmi vicino. Tu non
devi
badare a me, ma a quello che faccio”.
Lei
rimase sbalordita. Per una manciata di secondi non si mosse,
paralizzata.
Finalmente
si decise a rispondermi portandosi una mano tra i capelli.
“Ham, io
ho un compito: proteggerti. Non so davvero perché il Grande
Padre mi abbia dato questa missione, ma io voglio portarla a
termine”.
“Perché
non hai lasciato finire Kinsis?”
Lei
sembrò contrariata. “Alla fine ci è
riuscita, ce l'ha
fatta a suscitare in te qualche domanda priva di logica. Lascia
stare, Ham, ho solo evitato che stuzzicasse la tua curiosità
oltre. È una bugiarda, fidati di me”.
Mi
accontentai di quello. Probabilmente ci ero cascato come un pesce
dentro la rete. Era una trappola per far vacillare le mie sicurezze.
Nelunis
doveva tornare al Palazzo a dare la notizia del rifiuto di Kinsis,
tornando per la successiva ricerca.
La
sera precedente chiesi consiglio a Niel; lui aveva già
finito
il libro e mi stava tormentando con domande assurde. Non mi aspettavo
una risposta, ma speravo di tenerlo occupato a lungo. Volli adattare
la cosa a lui e a ciò che poteva e doveva sapere.
“Niel,
ascoltami” lo chiamai attirando la sua attenzione.
“Immagina una
terra brulla”. Lui annuì. “Ora immagina
il primo uomo e
immagina la prima casa. L'uomo trova la casa e vi entra; la abita e
vive tranquillamente. Pensi sia possibile
che qualcun altro prima di lui abbia abitato in quella casa?”
Lui
ci pensò un attimo e pensai di essermi liberato di quella
cantilena, decise però di rispondere. Sembrava aver capito
la
soluzione e mi stupì.
“È
un indovinello?”
“Sì.
Tu pensaci e non parlare finché non troverai la
risposta”.
Che idea malsana che avevo avuto, pensai, fare una domanda del genere
a un bambino. Almeno riuscivo a respirare un po' di pace.
“Sì,
che ci credo” esclamò dopo un quarto d'ora buono
dalla
domanda. Era rimasto concentrato per tutto il tempo. Io mi ero steso
nel frattempo sul mio lato di letto, cercando di dormire.
“Credi
cosa?”
“Che
ci sia stato un altro uomo prima di lui”.
Improvvisamente
mi ricordai quel quesito. “Davvero? E perché
mai?”
Lui
acquistò un'espressione soddisfatta e io gli diedi una pacca
sulla spalla per premiarlo. Naturalmente immaginavo che dicesse
chissà quale assurdità, ma rimasi in silenzio ad
ascoltare. Ma mentre sentivo le sue parole anch'io capii la risposta.
“Tu
hai detto che l'uomo ha trovato la casa... dunque è logico
che
ci sia stato qualcuno prima di lui”.
Sgranai
gli occhi: ora era chiaro.
“Quindi
quella casa la deve aver costruita qualcuno, che è venuto
prima dell'uomo”.
Lui
sorrise sornione vedendo il mio stupore. Fraintese, intuendo che ero
così sconvolto poiché non mi aspettavo che lui
riuscisse a risolvere l'enigma, la realtà era ben altra.
“Hai
ragione” commentai.
Arruffai
i suoi capelli con affetto.
La
mia mente si era ormai fissata sulla nuova domanda. Questa aveva
preso il sopravvento sulle altre annientandole.
Dentro
la mia testa suonava ormai chiara e di fondamentale importanza. Lo
avevo sempre dato per scontato rimanendo attaccato alle parole di
quei testi. Fossilizzato sulle definizioni e gli atti descritti.
Ma
chi aveva scritto quei libri? Chi aveva documentato tutto
ciò?
Caos.
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Capitolo 16 *** Il figlio che supera gli altri ***
Capitolo
16 – Il figlio che supera gli altri
Rimasi
in silenzio a lungo, mentre rapidi attraversavamo le pianure verso le
foreste a sud.
Niel
aveva capito perfettamente il mio stato, pur non comprendendone il
motivo, ed evitava di parlarmi; Nelunis sembrava interessata solo
alla missione.
In
una sola giornata andò e tornò dal Palazzo
riferendomi
che il nostro prossimo obiettivo era la coppia degli innamorati.
L'amore
e la morte erano cose sconosciute alla maggioranza degli dei.
Così
presi dalla loro esistenza e dai loro lavori non trovavamo mai il
tempo di instaurare un sentimento così importante, allo
stesso
modo nessuno riusciva a ucciderli. La vecchiaia era una cosa che
avevo visto solo negli uomini, mentre non c'era stata arma capace di
eliminare una divinità.
In
questo caso c'era un'eccezione: una grande eccezione.
Gli
innamorati erano Gribio e Diena. La loro natura così opposta
era stata quella che li aveva uniti.
Gribio
era un dio minore e i suoi poteri riguardavano principalmente il
'grasso' inteso come l'accumulo di chili in eccesso nelle persone
oziose. Diena era invece colei che manipolava le malattie relative al
cibo e soprattutto i disturbi alimentari come l'anoressia.
Uno
trasformava in palloncini e l'altra li bucava facendoli sgonfiare. Un
duo bizzarro.
Si
sapeva precisamente dove si trovassero. La loro dimora era nella
Foresta Bianca antica dimora degli elfi.
In
quella foresta stava anche la città di Arakartya, descritta
come un insieme di maestose strutture ricoperte di edera e di altre
piante, ma gli dei amavano amoreggiare in una zona più
distante, vicino al letto del fiume Ara che attraversava la regione.
Il
mio silenzio era dovuto al turbamento e alla ricerca. Mentre
cavalcavamo, infatti, io collegavo parzialmente la mia testa
all'osservatore cercando qualche informazione utile su un precedente
archivista. Nessuna risposta.
“Cosa
la turba?” domandò Niel nel pomeriggio del terzo
giorno.
Io
scossi il capo, tornando a quella realtà. “Nulla,
goditi il
paesaggio” la mia risposta non fu convincente ma
obbedì. I
suoi occhi scivolarono sulla valle brulla andandosi a fissare sui
monti all'orizzonte.
La
catena montuosa svicolava alla nostra sinistra mostrando cime sempre
più grandi.
“Quella
è Quera?” domandò.
Io
sorrisi compiaciuto delle lezioni apprese da quel libro.
“Bravo”.
Arruffai i suoi capelli.
Ormai
lo facevo sempre per stimolarlo e premiarlo del suo comportamento.
Era una macchina assetata di conoscenza che continuava a stupirmi.
“Ha
mai visto la città?”.
Aveva
esitato a lungo, indeciso, ma infine me lo aveva chiesto. La sua
domanda poteva sembrare generica: quale città? Io
però
capii all'istante. Querashotire, letteralmente 'il cuore di Quera'.
Era un luogo leggendario. Nessuno l'aveva mai realmente vista e chi
affermava di averla scoperta poi non aveva delle prove per
dimostrarlo.
Eppure
mi aveva sempre affascinato. Avevo sempre sognato di cercarla, senza
mai provarci.
I
testi la descrivevano come una città sotterranea bellissima.
Le pareti erano murate di bianco e decorate con disegni e racconti
incisi; le sale colme di tesori e stendardi e le biblioteche piene di
testi segreti e ormai perduti. Molti libri, provenienti dai
più
disparati paesi, la descrivevano minuziosamente trovandosi concordi
sui particolari. Era questo che la rendeva magica: la testimonianza
delle genti più disparate che la conoscevano tutte nel
medesimo modo.
I
manoscritti erano di origini e periodi differenti e mi ero sempre
chiesto come era possibile questa coincidenza.
Querashotire
diramava i suoi corridoi, sale e scalinare, sotto quattro mondi: il
Re, che da il nome alla catena; il Guardiano; il Protettore; e il
Custode. Ovviamente non c'era nessun monte con quei nomi nella catena
e quindi le ricerche si erano complicate. La città era
strutturata su quattro piani, in alcuni testi perfino sei, che
giungevano fino alle profondità più nascoste.
Nascondeva
segreti e conoscenze di ogni dove, possedendo anche molti tesori
antichi. Possedeva anche due particolari attrattive. La prima era la
Tomba degli Eroi, descritta come un pozzo senza fondo al centro della
città. L'altra era la Torre, la leggendaria struttura che
usciva dal fianco del Re e toccava altezze impensabili; alcuni
azzardano a raccontare che dalla cima si potesse vedere tutto il
continente e che ci volessero mesi per raggiungerla.
Un
luogo particolare e carico di leggende che la vedevano da
protagonista.
“No,
non esiste nessuna città”.
Lui
soffiò contrariato. La mia risposta lo aveva deluso.
“Io la
troverò! Voglio cercarla!”.
Mi
fece segno di cambiare rotta, dirigendosi verso i monti.
“Smettila,
Niel, abbiamo un'altra missione adesso”.
Si
zittì sbuffando insofferente.
Passarono
solo pochi minuti prima di un'altra domanda, la quale mi
spiazzò
completamente. Ultimamente molte cose riuscivano a farlo, come se la
mia mente fosse disabituata alle notizie, anche improvvise che avevo
sopportato per decenni.
“Signor
Georg”
“Sì?”
“Lei
è una divinità per caso?”.
Strabuzzai
gli occhi.
“Cosa
te lo fa pensare?”.
Lui
scosse il capo, vergognandosi moltissimo per quel quesito.
“Nulla,
lasci perdere era una sciocchezza”. Non era però
intenzionato a fare silenzio. “Qualche giorno fa mi ha detto
che i
demoni odiano gli dei”, sì eravamo entrati
nell'argomento
per puro caso. “È difficile da dire...
ma...”.
“Non
avere paura, Niel”.
“Ecco:
io non vorrei offenderla ne attirare le sue ire con ciò che
sto per dire”.
“Sciocco,
mi sono mai arrabbiato con te?” mi lasciai sfuggire una
risata.
Lui
sembrò tranquillizzarsi e sciogliersi un poco.
“Insomma,
quella cosa che è dentro di me... sì, ha capito,
no?
Vede: quello mi dice di odiarla”.
“Come?”
ero sorpreso da questa affermazione. Il seme trasmetteva emozioni al
ragazzo in maniera così chiara? Non lo credevo possibile.
“Io
non la odio, signore. Io le sono infinitamente grato per quello che
ha fatto, ma quella cosa non la pensa come me. Mi dice chiaramente
che devo odiarla. Poiché le ho sentito dire che è
qualcosa di demoniaco ho pensato che lei doveva avere qualcosa di
divino per attirare a sé questo sentimento così
forte.
Tutto qui”.
“Tutto
qui?” esclamai continuando a seguire la strada per i boschi.
Lui
si strinse al collo dell'animale. “Non volevo farla
arrabbiare, mi
scusi”.
Dovetti
cambiare tono, quello era poco adatto. Non ero arrabbiato, veramente,
ero solo colpito da quanta perspicacia avesse compreso quella cosa e
con quanta naturalezza il seme trasmettesse sentimenti.
“Non
lo sono, però dovevi dirmelo fin dall'inizio che il seme ti
parlava”.
“Avevo
paura”.
“Di
cosa?”.
“Che
lei si arrabbiasse”.
Sorrisi
senza che lui lo vedesse. “Che sciocchezza” dissi
con finta
durezza.
Fino
a quel momento avevo scoperto poche cose riguardo al seme e
all'effetto che aveva sul giovane. Una sola cosa ero riuscito a
osservare: le sue ferite guarivano molto velocemente.
Aveva
giocato con il pugnale di Nelunis, una sera, ferendosi al palmo della
mano. Uscì un'infinità di sangue, forse troppo.
Fasciammo la ferita ma la mattina dopo si era già
rimarginata
completamente. I resoconti della battaglia però non avevano
tracciato questo potere tra gli adepti e arrivai a pensare che ogni
seme reagisse in modo diverso.
Al
quinto giorno ci inoltrammo nel bosco. Più avanzavamo
più
gli alberi creavano un'intricata e fitta rete dove era difficile
passare.
Ci
eravamo fermati, incrociando una familiare figura sul nostro cammino.
Ci aveva guardato stupito e aveva deciso di arrestare il passo. Stava
camminando tra i boschi in maniera così tranquilla che ci
sembrò quasi un caso.
“Ehilà!
Cosa ci fate qui?” domandò allegro.
“Siamo
qui per cercare gli innamorati” risposi in modo serio.
“Davvero?
Anch'io stavo andando da loro, proseguiamo insieme?”.
Quella
figura, vestita con una lunga camicia bianca e dei bermuda del
medesimo colore, era Crever, il gemello di Revery. Come lei aveva dei
capelli biondo cenere e li aveva tagliati in un caschetto improbabile
e impreciso.
Ci
sorrise, come se per lui fossimo amici.
“Cosa
vai a fare da loro?” domandò Nelunis trattenendo
il cavallo.
Crever emanava un'aura strana, che intimoriva gli animali.
“Una
proposta, sai: per la guerra. Avevamo una mezza idea di raggruppare i
fratelli smarriti e altri mal voluti, per assalire il Palazzo; ma
Elian ci ha preceduti” si arrabbiò pensando alla
dea. “Fa
sempre di testa sua quella, è insopportabile!”
tornò
tranquillo. Cambiava espressione ed emozioni con la stessa
velocità
della gemella. “Stavo dicendo? ... ah, ecco: lei ci ha
preceduti e
noi quindi abbiamo deciso di velocizzare la chiamata alle armi e
attaccare la vostra dolce casa prima che si sia ripresa del tutto.
Degli uomini, per quanto pompati, non possono minacciare le
divinità;
ma altri dei sì”.
Una
spiegazione logica per una cosa che sospettavo. L'incontro di Manius
con Raffaella forse era motivato dalla proposta.
Crever
era stato cacciato dopo il tentato omicidio di Revery. Loro due
proteggevano l'ingresso, ma lui veniva sempre messo in ombra dalla
sorella. La odiava e volle prendersi una rivincita provando a
ucciderla in un caldo giorno estivo.
Ovviamente
perse, poiché le sue capacità le erano inferiori,
e
fuggì attirandosi le maledizioni del Grande Padre.
“Vedete:
noi reietti, non-più-dei, vogliamo un posto che ci spetta di
diritto e abbiamo deciso di vendicarci attaccandovi. Chiaro,
no?”
la schiera dei cacciati era abbastanza lunga da trasformarsi in un
pericolo se decidevano di unirsi.
“Anzi,
già che ci siamo: che ne pensate di unirvi a noi? Insomma
quattro braccia in più fanno sempre comodo; potete portare
con
voi anche il bambino se volete” concluse indicando Niel
sorridente.
Quest'ultimo
era confuso. Se l'altra volta ero riuscito a distrarlo con altri
discorsi questa volta il messaggio gli era arrivato chiaro.
Sì,
siamo dei.
Nelunis
scese da cavallo con un balzo, sfoderando il pugnale.
“Non
ci uniremo a te”
“Vuoi
uccidermi?” chiese fingendosi spaventato.
“Ovvio.
Saputo questo non posso certo lasciare in vita un attentatore al
Palazzo” esclamò gettandosi contro di lui. L'uomo
raccolse
con estrema calma un ramo da terra e questo si mutò in
spada,
semplice ma lucente. Con questa respinse ogni assalto senza fatica.
La sua destrezza con le armi raggiungeva quasi quello della gemella,
superando Nelunis.
“Deduco
che non volete neppure proseguire con me” disse sbadigliando,
dopo
aver disarmato la sua nemica.
La
dea si riprese da quella sconfitta. Afferrò il pugnale e
attaccò nuovamente, questa volta combinando la sua
abilità
con la lama a lingue infuocate.
Io
assistevo a quegli attacchi senza fare nulla. Il rumore del ferro che
batteva era fastidioso e preferivo ammirare quel fuoco magico, che
non bruciava gli alberi o la terra che colpiva, poiché aveva
un unico obiettivo. Colpo dopo colpo lo scontro sembrò farsi
sempre più duro.
Lui
usava solo la spada, limitandosi a respingere o evitare gli attacchi;
lei invece usava tutte le sue tecniche per colpirlo almeno una volta.
Tutta fatica sprecata.
Anzi:
Crever sembrava riuscire sempre meglio a resistere ai vari assalti,
davanti a una dea sempre più disperata per l'umiliazione.
Distratto
da quei pensieri non mi accorsi di un pugnale che giungeva verso di
me. Crever lo aveva lanciato dopo aver respinto l'ennesimo assalto
della sua avversaria. Non era stato scagliato per uccidermi e
sfiorò
una mia guancia conficcandosi il tronco di un albero alle mie spalle.
“Tu
non ti unisci a noi?” domandò.
Io
scossi il capo sorridendo di riflesso, per rispondere alla sua aria
così serena e rilassata. “No, non sono un tipo da
combattimento”.
Mentre
parlava con me, grazie a una serie di mosse, era riuscito ad
atterrare Nelunis, puntandole la lama al suo collo. Guardava me,
pensieroso. “Su, dai. Vengo a prenderti allora!”
Mai
glielo avrei permesso. Non volevo iniziare uno scontro che neppure la
divinità guerriera era riuscita a sostenere e non potevo
permettere che Niel diventasse una sua vittima.
“Scappa!”
gridò lei.
Tirai
le redini del cavallo e fuggii. Non me lo sarei fatto ripetere due
volte.
Mi
si strinse il cuore all'idea di lasciare la ragazza lì, ma
lei
non se ne curò. L'attimo di distrazione del dio, che si era
perso a guardarci corre via, le fu sufficiente per riprendersi e
attaccare nuovamente. Crever sembrava però interessato a noi
e
rispose con poca convinzione a quella raffica di fuoco e ferro,
decidendo infine di correrci dietro.
Rispetto
al passato era migliorato molto, forse superando la sua gemella.
Mi
spaventava e spaventava anche Nelunis. La sua aria spensierata,
infantile e sadica lo rendevano ancora più pericoloso.
Il
cavallo era troppo lento per lui che riusciva a starci dietro anche
mentre evitava gli attacchi. Nelunis cercava di tenere testa
all'inseguimento, bloccandogli la strada o assalendolo senza
riuscirci.
Ciò
che ci salvò fu l'intervento degli innamorati.
Sentii
le loro energie avvicinarsi rapidamente e piombarono addosso a Crever
con forza. Caddero dalle alte chiome con la stessa rapidità
e
forza di un peso di due quintali, creando grandi crateri nella terra.
Il loro potere era anche questo: quello di cambiare peso
ogniqualvolta lo volessero, mantenendo quei fisici snelli e perfetti.
Il
nemico evitò per un pelo il loro intervento senza fermare la
sua corsa.
Iniziarono
entrambi a inseguirlo. Nelunis si fermò esausta, fidandosi
di
quei due.
Lo
raggiunsero e ingaggiarono una lotta furiosa. Neppure loro
riuscivano a pareggiare quel Crever ma lo impegnarono abbastanza a
lungo da permettermi di andarmene.
La
foresta sparì dietro di me: ero tornato nella pianura
correndo
verso i monti. Vero Quera senza rendermene conto. Mi rendevo solo
conto di aver messo in salvo me e il mio compagno. Loro lo avrebbero
battuto, pensai.
Il
cavallo non era più abbastanza, scivolai via in una nuvola
di
carta insieme a quel ragazzo, lasciando il destriero solo a galoppare
nella valle. Ci alzammo in volo dove nessuno potesse raggiungerci.
Lui
ormai aveva smesso di provare a capire quello che stava accadendo
attorno a lui.
“Signor
Georg, allora avevo ragione”.
“Chiamami
Ham”
Lui
deglutì più volte, mentre lo stringevo con forza
guidando quella nuvola. “Divino Ham, io avevo
indovinato”.
Non
volevo trasmettergli quella sensazione di pericolo che avevo provato.
Finsi un'espressione rilassata e risposi. “Sì, sei
molto
sveglio”.
“Grazie”
mi disse arrossendo.
Io
non ero solo un dio, ero Ham, il dio della conoscenza e degli
archivi. Il manoscritto che gli avevo donato conteneva anche una
sezione per le divinità principali e per qualche motivo
figuravo anch'io.
Con
mia grande sorpresa e imbarazzo mi ero ritrovato a parlargli di me
stesso, fingendomi poco informato riguardo la mia stessa figura. Era
stata un'esperienza bizzarra che però lo aveva colpito
molto.
Mi
aveva detto. “Un dio che può conoscere qualsiasi
cosa è
il migliore” lo aveva affermato con sicurezza, quella tipica
dei
bambini e degli adolescenti. Ne era convinto e mi fece molto piacere
sentirglielo dire. Avevo iniziato a guardarlo diversamente da quel
giorno e lui ora aveva iniziato a guardare diversamente me.
Non
parlò ma si lasciò abbracciare. Chiuse gli occhi
e
provò a dimenticare tutte quelle emozioni e scoperte che lo
avevano colpito. Così come io facevo con i problemi. Pensava
alla gioia che aveva provato, a ciò che avrebbe voluto
chiedermi. Desiderò anche di diventare il mio più
fedele assistente, dandosi poi dello stupido per un pensiero tanto
azzardato.
Sentire
i pensieri di Niel mi aveva distratto, abbastanza da farmi
allontanare troppo.
Fermai
quella nube scivolando verso il basso senza però toccare
terra.
“Ci
siamo allontanati troppo” dissi rompendo il silenzio.
“Tu
scenderai qui, io torno indietro. Sei al sicuro tra questi monti,
Niel, non muoverti fino al mio ritorno”.
La
nuvola compatta di fogli si fermò all'altezza di un dirupo,
lasciando la possibilità al ragazzo di scendere.
Mi
lanciò un'occhiata spaventata. “Non voglio
lasciarvi
andare”.
Lo
spinsi gentilmente a terra. “Sono un dio dopotutto. Mica
posso
morire per così poco!”.
Allontanandomi,
sul mio cuscino di carta mi raccomandai di nuovo di non muoversi.
Era
un dio rinnegato, non poteva certo affrontare quattro nemici
contemporaneamente.
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Capitolo 17 *** La furia nelle vene ***
Capitolo
17 – La furia nelle vene
Abbandonai
Niel in quella zona deserta, protetto dalle rocce che creavano un
riparo sicuro.
Lo
avevo lasciato con un Torii, che altro non era che un semplice fiore
di carta, ed ero tornato indietro. La suggestione che aveva creato in
lui il Torii lo rassicurava abbastanza, e rassicurava anche me.
Scivolai
tornando sui miei passi il più rapidamente finché
non
vidi i tre.
Nelunis
non c'era, forse si era fermata per riprendersi, mentre Diena e
Gribio lottavano con tutte le loro forze contro Crever.
Erano
usciti dal bosco, segno che lui continuava a inseguirmi con buoni
risultati. Adesso quella corsa sarebbe finita.
Mi
avventai su di lui rendendo lame tutti i fogli che mi avevano fatto
volare. Un turbine che cadde su di lui colpendolo in pieno. Per un
istante sperai di aver vinto, colpendolo di sorpresa magari. Chi
poteva resistere a quell'attacco?
Poi
il suo corpo uscì illeso con un balzo e mi ritrovai davanti
alla realtà. Ero debole.
I
due combinarono un nuovo attacco per colpirlo. Salirono in cielo come
se fossero foglie alzate dal vento e caddero con la forza di una
meteora. Piombarono al suolo troppo rapidi per essere visti, almeno
per me. Crever non sembrava avere questo problema.
Mentre
si mangiava le unghie della mano sinistra evitò entrambi i
proiettili umani, finendomi davanti. Mi sorrise senza lasciar
trasparire nessun emozione astiosa o intento violento.
“Ham,
alla fine ti ho preso”
“Sono
venuto io da te” risposi tentando di nascondere la paura.
La
sua lama si avvicinò a me, ma dovette ritirarsi per evitare
due nuovi attacchi.
“Mi
state stancando” esclamò. Fino a quel momento
aveva
continuato a evitare senza reagire, riuscendo senza fatica a
resistere a qualsiasi tentativo di offesa, ma ora sembrava
intenzionato a mettere fine alla lotta. Evitata l'ennesima tecnica
attaccò entrambi con rapidità e scioltezza.
Diena
fu ferita da un fendente distratto che le ferì la spalla
mentre Gribio fu colpito con un affondo sulla gamba, passandola da
parte a parte. Colpì volontariamente non mortali, portati in
maniera indifferente ma precisa.
Il
dolore fu tale da lasciarli immobili, l'uno vicino all'altro.
Mi
guardarono dispiaciuti ma feci capire loro che non dovevano
sforzarsi.
“Finalmente”
sospirò tornando verso di me.
Leccava
con gusto il filo della spada, pulendola dal sangue divino.
“Sai”
iniziò “Si dice che il sangue di un dio sia
miracoloso per
gli uomini; ma io non ci credo... e sai perché?”
Io
scossi il capo indietreggiando appena. Mi terrorizzava quel suo modo
così tranquillo e divertito.
“Perché
allora anche il sangue dei demoni dovrebbe fare qualcosa agli uomini.
È così per caso? no. Ecco perché anche
questa è
una balla”.
Io
sospirai. Ora non dovevo più solo perdere tempo, dovevo far
tacere la mia curiosità.
“Odi
così tanto gli dei da paragonarli ai demoni? Anche tu sei un
dio, ricordi?”
Lui
scoppiò a ridere, come se la mia risposta fosse una battuta
di
spirito. “Certo che lo ricordo! Lo dico perché
è
così, mio caro studioso”.
Adesso
ero confuso.
“I
tuoi libri non lo dicono forse? Gli dei e i demoni sono fratelli
molto intimi”.
“Bestemmie!”
esclamò Gribio alle sue spalle in uno scatto d'ira.
Lui
si girò appena, ricordandogli cosa era appena successo.
“Tu
vuoi proprio morire oggi, eh?”
“Lascialo
stare; parla con me” mi intromisi. “Questa cosa mi
incuriosisce”
Lui
ridacchiò di nuovo. “Certo: tu sei il curiosone
del gruppo.
Cosa vuoi sapere di preciso?”
“Voglio
sapere come fai a dire che siamo imparentati”.
Lui
abbassò lo sguardo. “Con cosa credi sia fatto il
nostro
cuore?”
Silenzio.
Proprio quei battiti che ora sentivo chiaramente avevano qualcosa di
demoniaco? No, no! Erano solo bestemmie di un reietto.
Poi
un boato: dal bosco uscì un dragone fatto di solo fuoco che
andò ad abbattersi come una freccia su Crever, cogliendolo
si
sorpresa. Sentii le fiamme davanti a me, che mi accarezzavano
lasciandomi addosso un piacevole calore privo di
aggressività.
Vidi il corpo del dio sparire dentro quel fuoco per poi riapparire
alla fine: nudo.
Il
fuoco aveva distrutto le sue vesti, ma per qualche ragione il corpo
era intatto. La pelle liscia e candida, i muscoli ben delineati, il
sorriso eccitato. Crever era vivo e minimamente colpito da quella
magia. Chi l'aveva scagliata, invece, era molto provata. Nelunis si
affacciò tra la boscaglia, cadendo al suolo priva di
ulteriori
energie.
“Ops.
Sono nudo” commentò. “Non è
molto carino, no? Penso
che andrò a cercare dei vestiti per coprirmi, voi
aspettatemi
mi raccomando”. Come se tutto quello fosse un siparietto
comico, si
allontanò di corsa. “La prossima volta devo
portarmi un
ricambio, non posso interrompere un gioco per una sciocchezza
così!”
Lo
vidi chiamare a sé il cavallo, montarci con un salto e
sparire
dentro la boscaglia. Forse lo intuiva chiaramente, o forse ci credeva
davvero interessati al suo gioco: in ogni modo noi non eravamo molto
d'accordo con la sua idea. Dovevamo scappare.
Diena
era riuscita ad alzarsi, assicurandomi che la sua ferita non era
così
grave.
Dissi
loro di aspettare, almeno un po' e riprendersi. Io avevo un'altra
questione da risolvere.
“Dove
sei?” esclamai preoccupato.
Era
calata ormai la sera.
Scesi
il più velocemente possibile, attraversando le nubi e la
coltre di tenebre che circondava la catena ma al mio arrivo non
ritrovai più nessuno. Niel era scomparso.
La
cosa che mi preoccupava era l'aura oscura che permeava la zona, come
una traccia. Se fosse stato un demone, Niel, sarebbe stato senz'altro
ucciso. Non potevo neppure pensarlo.
Mi
convinsi che il ragazzino era vivo, essendosi ben nascosto. L'idea
che i demoni sentono l'odore di carne umana anche da chilometri la
misi da parte, convincendomi fosse un'esagerazione. Volevo poter
stare tranquillo immaginandomi quel ragazzino nascosto da qualche
parte, pronto a saltare fuori al mio richiamo.
Non
fu così.
Apparve
invece la sagoma ben chiara di un mostro, uno di quelli antropomorfi
e ingannevoli. Aveva il corpo fatto di tendini e muscoli scoperti,
colorati di scuro e ben sviluppati. La testa possedeva due orecchie
grandi come quelle dei pipistrelli, mentre gli occhi erano
inesistenti.
Conoscevo
quel tipo di creatura: era un demone cieco della notte, una bestia
che si nutre di carcasse e prede facili. L'immagine di un giovane
corpo straziate apparve nelle mia mente con forza, impegnandosi per
non sparire.
La
bocca del mostro, ripiena di canini puntuti, era incorniciata da un
alone di sangue. Anche le zampe artigliate erano macchiate di quel
liquido cremisi ormai secco.
Deglutii.
Non potevo crederci. L'avevo lasciato lì, da solo, in una
zona
pullulante di belve. Ero stato uno stupido.
Era
rimasto ad aspettarmi sicuro della mia riuscita, speranzoso anche
quando quella creatura affondava i denti nella sua pelle e dilaniava
le sue carni. Credeva in me, mentre io non c'ero.
Ero
un fallimento anche come protettore.
Notai
appena il braccio mancante alla belva, forse perduto durante uno
scontro con i suoi simili per qualche cadavere, e gli trafissi la
testa con alcune lame. Troppe lame, un numero esagerato per una
creatura così debole.
Poi
la sua voce mi raggiunse. La mia preoccupazione svanì, era
salvo e io potevo liberarmi di qualsiasi senso di colpa.
Inizialmente
non capii da dove provenisse la voce: era vicina, terribilmente
vicina a me, ma di lui nessuna traccia. Infine apparve, facendo
capolino da una cavità tra le rocce abbastanza grande da
contenerlo ma troppo piccola per quei mostri. Sorrisi avvicinandomi a
lui.
“Divino
Ham, è successa una cosa stranissima!”
esclamò. Io lo
ignorai, ciò che mi balzò all'occhio erano le
ferite
che ne ricoprivano il corpo. Il suo corpo era ricoperto da macchie
rosse e lacerazioni rimarginate in modo innaturale. Era tutto
così
strano.
“Quei
mostri mi hanno attaccato” continuò indicando il
corpo della
belva che avevo ucciso. Il corpo di quel demone si stava sciogliendo
in una nuvola porpora lasciando solo la gemma a terra.
“Senti
dolore da qualche parte?” domandai iniziando a toccare quei
punti
doveva aveva subito gli artigli e le zanne dei nemici. Sentiva dolore
e strizzava gli occhi al contatto, eppure tutte erano perfettamente
cicatrizzate.
“No,
divino Ham. Il sangue...”
“Sì,
sei sporco di sangue ma non preoccuparti prenderemo dei vestiti
nuovi” lo rassicurai.
“No”
rispose con un filo di voce. “Il sangue è
impazzito”.
Mi
ero abbassato per controllare le ferite sulle gambe, in particolar
modo un taglio verticale molto lungo che divideva in due
metà
perfette il polpaccio sinistro. Senza rendermene conto mi ero
inginocchiato a un mortale, ma poco mi importava.
Alzai
lo sguardo verso di lui. “Cosa dici?” domandai
incredulo.
“Mi
avevano attaccato e io non potevo fare nulla. Mi facevano
male”
spiegò toccandosi varie cicatrici. Gli occhi di Niel si
fecero
lucidi e decisi di rialzarmi per ascoltare attentamente la sua
storia. “Poi si sono allontanati di poco ma io continuavo a
perdere
sangue, tantissimo”.
Guardandomi
attorno potevo vedere il segno che aveva lasciato sul terreno. Era
una macchia enorme, molto più grande di quanto si potesse
immaginare.
C'era
qualcosa di strano in quel ragazzo e nel modo con cui reagiva alle
ferite, lo avevo notato tempo addietro, ma quella quantità
di
sangue era maggiore a tutto quello che avevo in corpo.
Sembrava
che quattro vitelli, o forse cinque, fossero stati dissanguati sopra
quelle rocce per tingere la terra.
“Dopo
cosa è successo?” domandai.
Lui
mi lanciò un'occhiata confusa. “Poi il sangue
è
impazzito. Si è mosso e li ha uccisi”.
Non
poteva essere vero. “Il tuo sangue ha fatto tutto da
solo?”
“Sì”.
Non
ci impiegai molto a capire di chi fosse il merito o colpa di
ciò.
Dopotutto lui aveva il cuore di un demone impiantato nell'anima.
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Capitolo 18 *** Viaggi ***
Capitolo 18
– Viaggi
Ero in un
luogo che non conoscevo.
Respiravo
un'aria fresca, frizzante, ma mi trovavo al chiuso, centinaia
di metri sottoterra.
Mi trovavo in
una stanza di pietra, le cui pareti erano decorate da infiniti disegni
che narravano diverse storie.
Il mio corpo
era seduto su una panca di pietra attaccata alla parete liscia.
Mi guardavo
intorno aspettando qualcosa.
Avevo voglia
di alzarmi ma sapevo che facendolo avrei rovinato tutto. Volevo
esplorare quel luogo, incuriosito dalle colonne e i corridoi che
proseguivano in varie direzioni. Vicino a me c'era anche una scalinata
molto larga e ripida che conduceva chissà dove.
Poi apparve,
accanto a me, la figura di una donna alta ma troppo magra. Giovane il
cui volto era però segnato da rughe profonde. Si
passò una mano tra i corti capelli castani e arruffati prima
di parlare.
“Come
mai ti ostini a portarti a presso quel bambino? Lo esponi ai pericoli,
Ham”. Riconobbi quella voce, la ricordai. Erano passati pochi
giorni da quando l'avevo sentita l'ultima volta.
“Kinsis...
dove siamo?”
“Nella
tua testa, o forse nel tuo spirito. Non saprei: siamo dentro di te da
qualche parte”.
Le emozioni
erano lontane, lo stupore non fu chiaro e distinto ma sfuocato.
“Come?”
“Siamo
dentro di te, Ham. Ti chiedo ospitalità per un po', non
voglio rubarti troppo tempo e attenzioni”.
“Non
capisco”.
“Io
non vivo più da nessuna parte, Ham. Il mio corpo si
è consumato molto tempo fa. Eppure il mio spirito, quello
che permeava nelle marionette, ha continuavo a vivere aspettando il tuo
arrivo”.
“Come
mai sei morta?”
“Avevo
perso la voglia di resistere. Ero delusa e confusa e mi isolai in un
luogo fin troppo triste” mi spiegò allargando le
braccia, come a significare che quello era il luogo nel quale si era
rinchiusa. “Poi lentamente mi sono svuotata di tutto,
finché non ho smesso di esistere come corpo. Ora vivo dentro
tutti quei burattini, ma non per molto”.
“Perché?”
“Le
marionette sono fragili e perdono l'energia con il passare del tempo.
Ovviamente in questi anni o fatto in modo che le marionette creassero
altre marionette e tramite dei rituali o rinvigorito l'energia al loro
interno, ma è solo un temporeggiare. Il regno dell'ovest mi
ha ospitato con piacere. Io davo loro delle informazioni sui demoni e i
semi, così che potessero fare quegli esperimenti, e loro
davano a me ospitalità e riservatezza”.
“Tu
hai incitato quegli esperimenti?”
“Non
più di tanto. Capiscimi, Ham, avevo bisogno di un luogo dove
aspettare e ciò che io potevo dire loro erano le basi e
delle sciocchezze del tutto inutili. Adesso però posso dire
di aver risolto molti dei miei problemi. Ci sei tu”.
Alzai lo
sguardo al soffitto, grigio e uniforme. “Continuo a non
capire. Chi era il mio predecessore?”
Lei sorrise,
forse era divertita poiché non l'avevo capito.
“Era Ham, un Ham poco diverso da te. È nato
insieme a tutti gli altri ma è morto. Non è
l'unico, sai? Molti dei sono morti”.
Ero
consapevole che alcune divinità erano state uccise dai
fratelli o da altri eventi. Ma nessun tomo parlava di un precedente
archivista. Io ero l'unico fino a quel giorno.
“Morto?”
“Sì.
Appena morto il Grande Padre ne ha creato un altro. Uguale a lui, con
la stessa voce e la stessa indole. Però....”.
“Che
cosa?” mi voltai verso di lei. Sembrava triste.
“Però
non è una copia perfetta. Il Padre voleva fare in modo che
nessuno si accorgesse della differente, che nessuno ne scoprisse la
morte, e così fu. Ma lui non era riuscito a creare di nuovo
Ham: aveva fatto un nuovo Ham. Tu sei leggermente diverso dal
precedente”.
Presi a
fissarla con tono interrogativo. La curiosità non
trasparì molto. “In cosa precisamente siamo
diversi?”.
Lei mi
lanciò un sorriso, come se potesse equilibrare le sue
parole. “Lui era molto più bello e tu sei
incredibilmente stupido”.
Sgranai gli
occhi e socchiusi la bocca per lo stupore. Aveva veramente detto una
cosa del genere? Ero veramente offeso e in contemporanea sorpreso.
“Non
fraintendermi” mi consolò distogliendo lo sguardo
dal mio volto. “Sei una persona molto studiosa, ma non hai
l'acume dell'originale”.
Perfetto, mi
dissi. Avevo scoperto non solo di essere un sostituto ma perfino un
cattivo esemplare. Non sapevo più cosa chiedere confuso da
quei pensieri. Lei era sicuramente propensa a parlarmi di qualsiasi
cosa, risolvendo le mie curiosità, ma in quel momento non
riuscivo ad articolare verbo.
Per questo
motivo mi afferrò una mano, dopo aver accarezzato il mio
braccio partendo dalla spalla.
“Ham...
devi sopravvivere a questa guerra”.
Io le lanciai
un'occhiata distratta. “Non sei la prima che me lo
dice”.
Lei
sospirò. Mi sarebbe piaciuto vederla curiosa per una volta,
sentirle chiede “Chi altro te lo ha detto?” ma
invece rimase a lungo in silenzio, annuendo con la testa. Possedeva un
quiete innaturale, forse acquisita con gli anni o con la fine.
Mi feci
coraggio, sconfiggendo il turbamento iniziale. Alla fine in quel luogo
sembrava molto facile liberarsi delle emozioni indesiderate.
“Di cosa è morto Ham?”
Lei si fece
seria. “Si è eclissato, forse, in una scenica
esplosione di luce. Non ha resistito al suo stesso potere o si
è completato. Non ne so molto; non ero con lui. Sono
consapevole della sua morte perché le nostre anime erano
collegate. Lo percepii perfettamente, il corpo che scompariva
annientato dalla sua stessa energia”. Erano amanti, lo capii,
ma non commentai questa cosa.
Mi
guardò come se si aspettasse una qualche reazione. Io rimasi
imbambolato a immaginare la scena.
Riprese la
parola, destandomi da quel sogno.
“Sai,
Ham, lui era riuscito a scoprire ciò che di più
segreto c'è a questo mondo: il Servallo”.
Si chiuse una
porta da qualche parte; ne sentii il tonfo sordo.
Il Servallo,
la creatura perfetta nata da un'unione peccaminosa. Conosceva tutte le
risposte, tutte le verità e qualche leggenda dice che
conoscesse anche il futuro. Se il precedente me era riuscito a scoprire
una cosa che persino il Grande Padre reputa un mistero sicuramente era
una divinità molto abile. Improvvisamente compresi il
perché della sua fine. Se è vero che la mia, e
quindi anche la sua, energia deriva dalle informazioni acquisite:
allora la scoperta di tutto l'immaginabile e non solo porterebbe un
sovraccarico insopportabile anche per il corpo di un dio.
Poi mi
svegliai.
Ero steso nel
mio letto, con le lenzuola pulite e ancora fresche.
Il sole si era
alzato da poco.
Quel sogno mi
aveva lasciato turbato, ma tutte le cose successe negli ultimi tempi mi
avevano preparato a qualsiasi imprevisto.
Erano passati
due giorni dall'attacco di Crever e quello stesso pomeriggio il Grande
Padre ci avrebbe parlato. Era un riunione del tutto speciale.
Nelunis si era
ripresa alla svelta e le ferite dei due innamorati erano solo delle
ferite rimarginate pronte a sparire. Revery continuava a vivere in
quello stato comatoso, priva ormai del suo spirito.
Avevo portato
Niel da Nima, affinché se ne curasse durante la mia assenza.
Era diventato troppo importante per lasciarlo andare. Dovevo studiare
il suo sangue, così speciale, poiché forse mi
avrebbe aiutato a curare Valanz o a risvegliare l'essenza della
guardiana.
Avevo
accennato alla sacerdotessa della sua natura e mi ero premurato
affinché fosse trattato con cura e fosse iniziato alla
teoria della magia, poiché speravo che ci fosse utile per
renderlo cosciente dei suoi poteri e magari in grado di controllarli.
Scesi dal
letto e mi preparai con calma. Avevo molte cose che mi passavano per la
testa ma ormai ero riuscito a dare a ciascuna il proprio ordine. Lo
stato di Revery, la disperazione di Valanz, il seme di Niel, la guerra
contro i reietti, la fuga di Elian e il mio predecessore.
Avevo
già programmato i miei giorni dopo la riunione. Sarei stato
con Niel a studiarne il sangue, chiedendo aiuto anche a Miun. Poi avrei
cercato di ritrovare Kinsis dentro di me. Anzi, dovevo incontrare
l'unica divinità in grado di aiutarmi.
Uscii dalle
mie stanze con fare tranquillo e incrociai subito Katyana.
Teneva in mano
un pacco di stoffa bianca contenente una crostata. Mi sorrise gioiosa.
“Ham,
dove vai?” mi domandò.
“Da
nessuna parte; pensavo di prendere una boccata d'aria”.
Risposi. L'aria si era fatta leggera e familiare. Il Palazzo mi
trasmetteva sempre questa strana sensazione.
I raggi del
sole che filtravano dalle vetrate del corridoio creavano un gioco di
luci e ombre veramente fantastico. Mi persi nel guardarlo.
“Perfetto.
Allora andiamo e gustiamoci questa delizia! Devi raccontarmi tutto del
tuo viaggio”.
Mi
afferrò sottobraccio e mi guidò verso l'uscita.
Non era intenzionata a stare nei giardini laterali ma desiderava lo
spiazzo all'ingresso.
Ci sedemmo
intorno a un tavolo trasparente, all'apparenza di ghiaccio, sul quale
lei posò quel dolce.
Mentre apriva
la confezione iniziò a fare le sue domande:
“Allora? Com'è andata?”
Io lanciai uno
sguardo verso il basso, sperando di scorgere Maonis o Lorissy,
inutilmente.
“Kinsis
è fuggita e Crever ci ha attaccati. È diventato
molto forte”.
Pensavo a
tutt'altro, rispondendo il minimo necessario.
“Davvero?
E dove l'avete incontrato?”
“Nel
Bosco Bianco”
I libri
dell'archivio li aveva scritti tutti l'originale Ham. Aveva fatto un
ottimo lavoro.
“E
dimmi: Nelunis ha farfugliato qualcosa riguardo a un
ragazzino...”.
Ma non capivo
perché non mi avesse scritto qualcosa riguardo al Servallo.
Senza dimenticare che il Grande Padre mi ha detto che forse anche Elian
si è avvicinata a lui. I suoi servitori, insieme alle
divinità alleate di Raffaella, sembrano saperne molto
più di me.
Non
è che hai abbordato un bambino per qualche gioco
perverso?” continuò lei iniziando ad affettare
quella crostata di more. Il coltello affondava nella marmellata
distraendomi appena.
Forse, mi
ritrovai a pensare, il vecchio Ham non voleva che altri seguissero le
sue orme. Non poteva però essere geloso della sua scoperta,
io non lo sarei stato, e neppure poteva aver nascosto le informazioni,
poiché era morto prima di riuscirci.
Dunque c'erano
due possibilità: o non aveva scritto nulla; o qualcuno si
era premurato di far sparire il materiale.
“Ham,
mi stai ascoltando?” domandò Katyana facendomi
tornare alla realtà.
Soffiava una
fredda brezza che preannunciava l'inverno. Forse la ragazza aveva
parlato al lungo mentre io ragionavo.
“C'è
qualcosa che ti turba?”
Forse era
giusto confessare del vecchio Ham e di Kinsis.
“Ohi,
sei ancora tra noi?” sospirò ironica muovendo una
mano davanti ai miei occhi.
O forse non
era la persona giusta.
Ci pensai
ancora, facendole perdere tempo. Inizialmente divertita si fece seria
mentre attendeva una mia reazione. Si concentrò sul mio
volto impassibile e dallo sguardo vuoto.
Finalmente mi
decisi.
“Katyana”
iniziai facendole comparire una strana smorfia sul volto, mentre
finalmente mi porgeva una fetta di dolce. “Sono successe
molte più cose di quante immagini. Forse è meglio
se ti metti comoda e mi ascolti....”.
Lei sarebbe
stata solo una spalla. Non poteva avere colpe, pensai.
Non era
informata della mia morte e rinascita e non avrebbe mai fatto nulla di
sbagliato nei miei confronti.
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Capitolo 19 *** Il margine della sicurezza ***
Capitolo
19 – Il margine della sicurezza
Eravamo
tutti seduti attorno a un grande tavolo circolare, posto nella
più
grande sala del Palazzo. Al centro del tavolo si trovava una gemma
azzurra e luminosa.
“Non
possiamo che chiamarla Guerra” sospirò la voce del
Grande
Padre a tutti noi.
C'erano
molte più divinità di quante ne immaginassi.
Intorno
alla tavola di pietra riconobbi divinità di cui non
ricordavo
l'esistenza.
C'erano
tutti, perfino Lorissy in vece di Revery e il Jester. Era
un'occasione rara e preziosa. Una famiglia riunita.
Sakroi
trattenne la sua ira durante il discorso, nel quale intimava di
stanare Elian e ucciderla. Secondo lei la distruzione di questa dea
sarebbe stata un deterrente abbastanza forte per gli altri nemici,
intimoriti forse, che ci avrebbe dato il tempo di prepararci a
un'offensiva migliore.
Non
tutti erano d'accordo e alcuni lo erano solo in parte.
Io
non ritenevo Sakroi una divinità amica, ma lei non mi aveva
mai mancato di rispetto. I nostri incontri erano stati pochi e molto
formali, durante i quali era rimasta fredda e diretta nel riferirmi
ordini superiori o nel farmi delle richieste di ricerca. Lei era una
tipa all'antica anche per noi divinità: impassibile, ferma
nelle sue posizioni, seria; ma con un temperamento poco paziente e
irritabile con facilità.
Il
Grande Padre interruppe quelle discussioni con un ordine secco.
“Vorrei dare la parola a Hamuhamu, affinché ci
esponga i
risultati della sua ricerca”.
Tutti
i presenti si voltarono verso di me, attendendo. Improvvisamente mi
sentii in soggezione e esitai a parlare. Durante quei due giorni il
Grande Padre mi aveva convocato più volte chiedendomi varie
cose, soprattutto ricerche nell'archivio, e avevo lavorato duramente
per assecondarle tutte.
Come
per supportarmi, la pietra si illuminò e concluse:
“Parla,
Hamuhamu, dicci cosa sai di Elian e i suoi figli”.
Io
deglutii prima di parlare, tentando di sostenere il peso di tutti
quegli occhi.
“Coloro
che hanno assalito il palazzo sono dei maghi umani che hanno ricevuto
la benedizione della dea e un seme demoniaco. Elian ha sperimentato a
lungo il metodo di unione di spirito e cuore di demone riuscendo alla
fine a creare entità nuove e potenti, capaci di pareggiare
alcune forze divine”. Al suono di queste parole Sakroi
intervenne.
“Bestemmie!
Nessun uomo può pareggiare le forze divine!”.
Calò il
silenzio.
Non
sapevo davvero cosa rispondere e neppure se fosse stato meglio farlo
o tacere. Fu Manius però a parlare risolvendo la situazione.
“Sei
forse cieca, Sakroi? L'assedio ne è stato una prova
evidente.
Elian si è spinta oltre al limite e ha partorito bestie
incredibilmente forti, molti di noi hanno combattuto per difendere il
palazzo e hanno saggiato il loro potere”.
L'altra
sbuffò. “Eravamo impreparati”
sospirò, aggiungendo
quasi con tono meschino “...ma solo le divinità
inferiori
potevano avere dei problemi contro esseri del genere”.
“Come
se tu ne sapessi qualcosa! Sei rimasta in disparte per tutta la
durata della lotta!”
La
situazione iniziava a farsi pericolosa. Alla mia destra sedeva
Katyana, che continuava a lanciarmi occhiate rassicuranti con le
quali provava a calmarmi e alla sinistra stava Lorissy, nuovo da
un'esperienza del genere.
Era
molto più preoccupato di me e per questo motivo gli afferrai
per un attimo la mano, tenuta penzoloni sotto il tavolo, e gli
sorrisi. Non doveva aver paura di una cosa del genere, né
confondersi eccessivamente: ricopriva un ruolo importante.
“Smettetela,
vi prego!”. Esclamò Arone, di un verde spento,
quasi giallo,
che lo colorava da capo a piedi. “Non siamo qui per
bisticciare.
Sarei invece contento di ascoltare cos'altro Ham ha da dirci, non
vorreste anche voi?”.
Le
due si zittirono nel medesimo momento, rivolgendomi un'occhiata.
Manius mi ammiccò, come per assicurarmi la sua protezione da
altre interruzioni, Sakroi cercava invano di placare la sua rabbia.
“Ho
calcolato e osservato che l'esercito a disposizione di Elian
è
stato completamente azzerato, eccezion fatta per un unico uomo che
è
rimasto al suo fianco. Non sono riuscito a rintracciarle, mi
dispiace, né ha trovare le loro tracce ma ho comunque
scoperto
che il Regno dell'Ovest conduce in segreto esperimenti del medesimo
tipo, contrari al rispetto divino. È probabile che Elian sia
andata in quelle terre per cercare alleanza e aiuto”.
“Era
Kinsis che appoggiava quel regno, non Elian. Il Regno ha già
una dea che lo protegge non ne vuole un'altra e la traditrice lo
sa”.
Sbottò Sakroi rimanendo immobile, con il volto rivolto verso
di me, anche se non poteva vedermi.
“Kinsis
è morta” risposi immediatamente, scatenando una
serie di
reazioni sconvolte o stupite.
“Come
fai a dirlo? Per quello che ne so avete solo trovato una sua
copia!”
continuò la dea.
Soffiai
appena un attimo prima di rispondere, pensando che ci trovasse
qualche perverso piacere nel contraddire gli altri. “Quella
marionetta era il contenitore dell'energia della dea: il corpo e lo
spirito della stessa sono spariti tempo fa”.
Sakroi
si lasciò sfuggire una smorfia, che attirò la mia
attenzione. Si morse il labbro senza eccessiva forza, come se lo
sapesse già da tempo o come se un suo sospetto fosse stato
dimostrato come realtà.
“Quali
prove hai, Ham, per dimostrarlo?”
“Io...
io ne sono sicuro...” non avevo risposte possibili. Non
potevo
certo dire che si era insediata dentro di me con le sue ultime forze
e mi parlava durante la notte. Sarebbe stata una pazzia.
“Perché
ne sei sicuro?” continuò allungandosi verso di me,
che ero
all'estremità opposta del tavolo.
Gli
sguardi si rivolsero su di me ancora una volta e mio mi guardai
attorno perplesso.
Katyana
fece cadere una mano sulla mia coscia, stringendo appena per farmi
sentire la sua vicinanza e il suo appoggio. Lo stesso fece il mezzo
dio, procurandomi però un leggero imbarazzo e dolore.
Manius
aveva socchiuso gli occhi e faceva dondolare la testa per sgranchire
il collo; Arone mi fissava incuriosito; Chube era serena e mi
trasmetteva in qualche modo un senso di pace e protezione che
proveniva anche dall'aria rilassata di Krost, che però
dimostrava molto interesse per la conversazione. Anche Nelunis mi
guardò, accennando a un sorrisetto gentile.
Io
però non sapevo cosa dire.
“Allora?
Non saranno supposizioni, spero! Non siamo qui per fare chiacchiere
inutili su pensieri propri privi di fondamento!”
Di
tutta risposta intervenne nuovamente la dea delle passioni, con un
ordine molto esplicito.
“Ma
taci una buona volta!”
Sakroi
si voltò verso di lei sorpresa da tanta schiettezza.
“Come
osi?!”
“Se
Ham dice che ne è sicuro avrà le sue ragioni. Non
puoi
insinuare il dubbio in tutti noi solo per la tua voglia di polemica e
discussione. Io credo in lui e in ciò che dice, siamo tutti
costretti a farlo poiché è il Grande Padre stesso
che
si fida di nostro fratello. Dovresti saperlo, cara Sakroi, non
è
un tipo che parla a caso, differentemente da altri” le
lanciò
un'occhiata di sfida. “Studia le sue parole con cura e non
affermerebbe nulla se non ne fosse certo, lo pensate tutti credo.
Dunque perché attaccarlo in questo modo? Puoi anche dubitare
di lui, ma fallo in silenzio, lasciandoci proseguire e giungere a una
soluzione”.
Arone
intervenne, impedendo alla divinità cieca di ribattere in
preda alla furia. “Grande Padre, lei crede a questa
affermazione?”
La
pietra si illuminò pronta a rispondere. Quel dio era sempre
abbastanza diretto e i suoi toni non sempre sembravano adatti alla
situazione in cui si trovava. “Hamuhamu, il tuo spirito non
ha
vacillato, dunque sono certo che tu credi in ciò che hai
detto, e io con te”.
“Vi
ringrazio, Grande padre” risposi chinando la testa per
rispetto.
Improvvisamente
mi sentii sollevato.
“Forse
qualcuno dovrebbe andare nel regno dell'Ovest ha scoprire
ciò
che sta accadendo, però penseremo alla loro punizione
più
tardi, quando tutto sarà finito. Ora ci sono altri miei
figli
che gridano vendetta...” continuò.
“Raffaella
e Crever sono alleati e con loro gli altri reietti... loro sono dei
come noi, ma il loro potere è cresciuto molto”
aggiunse
Nelunis prendendo per la prima volta parola.
“Non
ho avuto modo di studiarne il sangue” sospirò Miun
tenendosi
la testa con le mani “ma sospetto che anche loro si siano
spinti
oltre il confine, mischiando al loro sangue gemme demoniache o anime
umane. Ho chiesto a mio fratello Ham di cercare negli archivi altri
simili eventi ma non c'è nessun precedente”.
“Sarebbe
opportuno, allora attaccali adesso prima che sia troppo
tardi”
esclamò Sakroi, dopo aver stemperato la furia e aver
acquisito
una certa calma.
“Sono
però molto potenti. Nelunis, Gribio, Diena e Ham non sono
riusciti a fermare Crever, che era da solo” rispose Katyana
fissando la gemma azzurra, non volendo incontrare gli occhi di
nessuno. “Forse dovremmo trovare un modo per indebolire loro
e
aumentare il potere nostro”.
“Non
è mai successo, che un dio incrementasse la sua forza
così
rapidamente. Non c'è magia capace di farlo, né
pozione”. Intervenni tranquillo. “Però
esiste il modo per
indebolire un dio”.
Miun
mi supportò. “Vero: con una zona vuota o un
circolo rituale.
Potrei anche cercare di distillare una pozione debilitante”.
“Impegneresti
troppo tempo” la interruppe Manius.
“Allora
la soluzione è solo una...” sussurrò
Sakroi
compiaciuta.
Durò
altre due interminabili ore. Alla fine la maggioranza dei presenti fu
d'accordo con la cattura di Elian, o la sua distruzione, come monito.
Nel frattempo non saremmo andati alla ricerca di coloro che
complottavano verso il Palazzo punendoli per le loro azioni.
Era
una cosa che non accettavo, la trovavo stupida, ma mi adeguai. Il
consiglio aveva votato e dovevo rispettare la scelta.
Fermai
comunque Miun, mentre si allontanava dalla sala per tornare da
Revery.
“Ham,
cosa succede?” mi domandò vedendomi piuttosto
agitato. Non
era una cosa facile quella che stavo per dirle.
“Io
devo chiederti un piacere. È importante”.
Mi
sorrise sorpresa dalla richiesta. “Dimmi”.
“Ecco...
vorrei che tu studiassi il sangue di una persona”.
Sgranò
gli occhi. Avevo parlato il più piano possibile anche se
eravamo isolati in quel momento. Il sangue di Niel era speciale, un
qualcosa di nuovo rispetto ai risultati ottenuti da Elian, lo
compresi. Per questo volevo che lo studiasse, forse scoprendo un modo
per guarire Valanz.
“Ma
Ham!”
“Ti
prego. È una cosa molto importante. Si tratta di un sangue
speciale, frutto dell'unione di un seme demoniaco con un
uomo”.
Lei
si rilassò, scuotendo la testa. “Ho già
studiato il
sangue frutto di quell'unione, dopo l'assedio”.
“No.
Questo è diverso” continuai. “Sembra che
il seme si sia
unito alla perfezione con il corpo”.
Le
porsi una fiala di vetro, riempita di un liquido rosso.
Il
giorno stesso che avevo ritrovato Niel sulle montagne avevo raccolto
quella dose. Il sangue non si era indurito, rimanendo liquido e dando
più volte segno di essere vivo, vibrando con molta forza.
Lei
prese quell'oggetto guardandolo con circospezione.
“Va
bene. Ci metterò un giorno”.
Buio,
silenzio e odore di chiuso. Forse era una catacomba.
“Siamo
dentro il mio spirito?” chiesi.
Kinsis
annuì. “Sì. Mi sono fatta un po' di
spazio nella tua
essenza, per il momento”.
“Te
ne andrai allora?”
“Mi
consumerò dopo aver terminato l'energia magica con la quale
ti
ho colpito”.
“Mi
puoi insegnare come fare?”
“Cosa?”
“Entrare
nello spirito degli esseri”.
“Non
è una cosa facile... ma ho capito dove vuoi andare a parare.
Non sono sicura del risultato”.
“Provare
non costa nulla”.
“Non
è così, in questo caso. Se fallisci
muori”.
Sospirai.
“Possiamo
fare una passeggiata?”
Era
giunto il pomeriggio.
La
giornata era passata molto rapidamente, tra ricerche e resoconti
degli ultimi avvenimenti. Ero carico di compiti.
La
porta si spalancò ed entrò Miun con una certa
agitazione.
“Ham!”
mi chiamò. Alzai la testa oltre la barricata di tomi
rispondendo con forza.
“Ho
esaminato quel sangue” iniziò. “Non ho
riso”. Era
arrabbiata, probabilmente.
“Non
capisco”.
“Uno
scherzo di pessimo gusto e del tutto fuori luogo!”
continuò
mantenendo però la calma.
“Ma
non ti ho fatto nessuno scherzo. Spiegati meglio!”
“Quel
sangue non è né umano né demoniaco,
anzi: non
possiede tracce di entrambi”.
“Ne
sei sicura? Eppure è il sangue di Niel...” volevo
convincerla che non stavo scherzando. Perché avrei dovuto?.
Lei
sembrò placarsi, credermi. “Non è
possibile che sia
il sangue di questo 'Niel', forse hai raccolto quello di Nelunis o
degli altri credendolo il suo o forse... ”.
Non peso alle sue parole, ero troppo preso dalle
mie congetture.
“Impossibile! Erano in due luoghi diversi”.
“Ma
non è sangue umano e neppure demoniaco”
iniziò a
dimostrare un certo turbamento.
“Forse
è diventato qualcosa di nuovo: che si distingue da demoni e
uomini...” suggerii distratto dai miei pensieri. Non riuscivo
davvero a capire la sua preoccupazione. Doveva essere curiosa, di
scoprire una nuova creatura: soddisfatta, impaziente di continuare.
“Ham!”
esclamò attirando nuovamente la mia attenzione.
“Quel sangue
è Brillante”.
No,
pensai subito, la traduzione non rendeva merito all'espressione
originale. Nell'antica lingua arcana di diceva
Brinia o Dies. Ora
però quei due termini, con significati completamente
diversi,
si erano uniti in una sola parola 'brillante'.
Sussultai
e lei capì che ero stato sincero.
Un
brivido mi corse lungo la schiena. Non avevo parole.
Brinia:
luminoso, che risplende.
Dies:
di origine divina.
No,
mi dissi, quel sangue non ha mai luccicato.
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Capitolo 20 *** L'ibrido Perfetto ***
Capitolo 20
– L'ibrido perfetto
“Perfetto”.
“Perfetto”
mi rispose Kinsis ripetendo il mio tono di finta soddisfazione. Dovevo
essere contento di aver capito il segreto del sangue di Niel ed essermi
avvicinato alla verità, ma non lo ero. Ero ancora
dannatamente confuso perché mi si presentavano delle nuove
domande cui non potevo rispondere.
“Quindi
Niel è un dio”.
Lui scosse la
testa. “No, non lo è. Condividete il sangue, non
il titolo...”
“Non
capisco”.
“Lo
vedo. Tu ora hai fatto un passo in avanti e ti spaventa la
strada che ti si presenta. Vacilla il tuo cuore e indebolisce
il corpo e la mente”.
“Com'è
possibile questo? Abbiamo il medesimo sangue, capisci? Io, te e Niel
siamo fratelli”.
“Tu
sei fermo in un punto e ammiri il paesaggio, ma se provassi anche per
un solo istante a spostarti, vedresti qualcosa di nuovo”.
“Cosa
intendi?”
“Tu
non puoi capire finché non abbandonerai alcuni
pregiudizi”. Sospiro, intenta a farmi capire. “Niel
non è un dio”.
“Allora
perché nel suo corpo scorre il sangue di un dio?”
“Ha
il tuo stesso sangue, ha il mio stesso sangue, ma non per questo ha il
sangue di un dio”.
Non riuscivo a
seguire i suoi ragionamenti. Ero stordito e per la prima volta
un'emozione trasparì chiara dal mio volto: turbamento.
“Lui è l'unione di un demone e un uomo, capisci?
La potenza distruttrice, impareggiabile e primordiale di un demone che
si fonde con una mente superiore, capace di controllarla. È
qualcosa di sbalorditivo e raro, Ham”.
“Sì,
ma...”
“Ma
tu pensi che sia diventato un dio, e ti chiedi forse se l'origine di
tutti gli dei sia da ricollegare a questo: un corpo umano e un cuore
demoniaco”.
Aveva capito
perfettamente i miei dubbi, benché io stesso cercassi di
sopprimere quelle insinuazioni dentro la mia testa. Non c'era logica,
non era vero. “Appunto. Io non so cosa
rispondermi”. Le dissi.
Le mi sorrise
serena. “La risposta è: sì. Noi siamo
fatti della stessa materia di entrambi”.
“Com'è
possibile?”
“Che
domanda sciocca. Chi conosce il segreto può svolgere il
rituale alla perfezione e creare qualcosa di superiore, di migliore che
possa dominare entrambi”.
Calò
il silenzio per lunghi istanti.
“Chi
è che ha creato noi?”
“A
chi lo stai domandando, Ham?”
La risposta
era ovvia: il Grande Padre. Lui ci aveva creati per proteggere il
mondo, impedendo al caos di regnare. Ero sorpreso da questa storia,
confuso. Ero figlio di due razze che credevo inferiori, eppure potevo
manipolare entrambe. Ero un eletto, un risultato perfetto di un'unione
peccaminosa.
Il Servallo.
L'unione di due razze distinte era diventato l'essere patrono di ogni
verità.
Il serpente,
simbolo della meschinità, e il cavallo, simboleggiante il
valore. Si erano uniti in un unica creatura che compensava i difetti e
sommava i pregi di entrambe.
Era tutta una
metafora, pensai, che rappresentava noi stesse divinità. Che
sciocchezza. Ero quasi deluso da quella soluzione.
“Ma
Niel?”
“Niel
è un caso, un imprevisto. È l'eccezione che
conferma la regola, si dice così se non sbaglio”
sospirò “Dopotutto tutti gli esperimenti di Elian
e me a cosa servivano? Se non a creare nuovi prototipi di
dei?” Non mi fece rispondere, continuando. “Abbiamo
entrambe fallito, ma quel ragazzino è la prova che
l'esperimento può funzionare, non sarebbe la prima
volta”.
“Cosa
intendi?”
“Dico
che non è il primo né l'ultimo”.
“Chi
altro è nato per caso?”
“Che
domanda sciocca, Ham. Chi vuoi che sia nato da un caso? L'unico senza
creatore”.
Il Grande
Padre dunque, era frutto di un esperimento, una coincidenza. Il destino
imprevedibile lo aveva creato. “È successo in un
tempo troppo lontano per ricordare. Lui poi ha creato noi con i suoi
poteri, impareggiabili perfino se paragonati a quelli dei suoi
figli”. Allora forse esisteva, quella creatura. Era
il primo dei tanti, il nostro unico Padre.
“Così
poteva proteggere uomini e demoni?” commentai meravigliato.
“Stupido,
Ham. Ci ha creato per fare quello che ogni cattivo dei racconti vuole:
dominare il mondo. Solo che in un modo sottile e mascherato”.
Non sembravano
sciocchezze. Era decisa e non percepivo menzogne nelle sue parole o nel
suo spirito. Ero comunque costernato.
“Ma
tu come sai tutto ciò?” chiesi per far cadere quel
castello di informazioni che aveva costruito.
“Me
lo disse Ham, prima di morire”.
Rimasi qualche
secondo perplesso. Mi chiesi come fosse riuscito a scoprirlo: in quale
maniera aveva trovato queste informazioni. Improvvisamente
però capii una cosa:
“Com'è
morto, in realtà Ham?”
Non era stata
la sua energia a distruggerlo, ne ero certo. Era sopravvissuto per
raccontarlo e questo era la prova di cui avevo bisogno.
Lei
sembrò colpita dalla deduzione.
“Ucciso”.
“Il
Grande Padre lo ha ucciso?”
Si era
avvicinato troppo al sole ed era rimasto bruciato, una triste fine.
“No”.
“Come
dici?”.
“È
stato ucciso da qualcun altro”.
“Da
chi?”
“Non
lo so”.
Era davvero
questa la verità?
Poi tutto si
fece buio. Pensai che quella era stata l'ultima volta.
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Capitolo 21 *** La forza della disperazione ***
Capitolo
21 – La forza della
disperazione
La
stanza di Miellana sembrava essere stata creata con l'intenzione di
ostentare la sua ricchezza.
La
donna era stesa su un grande materasso posato al suolo, circondata di
cuscini e lenzuola ricamate da rinomati sarti. Lei non era una dea,
non lo era mai stata.
Miellana
era troppo matura anche per quello.
Era
nata con il corpo e il sangue degli dei, ma il suo spirito era di una
bassezza e volgarità che offendeva perfino Manius. Lei se ne
andò di sua spontanea volontà dal Pantheon,
poiché
era “Troppo Matura” per stare con degli esseri
così
infantili, a suo dire.
Io
avevo sempre pensato che fosse pazza. Per lei l'unico esempio da
seguire, l'unica persona da ascoltare, era se stessa. L'unico essere
cosciente e che non peccasse di immaturità.
Ormai
nessuno la considerava più, ma lei si era autoproclamata
divinità della saggezza, era infatti abbastanza matura per
farlo.
Era
al centro della stanza, con i suoi lunghi capelli castani sparsi a
formare una corona attorno alla testa posata al morbido letto.
Percepì Crever, ma non si mosse. Intorno a lei alcuni eletti
che inneggiavano alla gloria della padrona, ma con la stessa
velocità
con la quale arrivavano in quelle stanze se ne andavano cacciati dopo
averla contraddetta.
“Domani
attaccheremo il Palazzo” sospirò.
Lei
alzò la testa e lentamente il suo busto assunse una
posizione
eretta. Tutti si voltarono verso l'intruso. “Somma
Miellana”
chiamavano in coro.
“Perché?”
chiese con voce atona.
“Perché
così abbiamo deciso”.
“Io
non sono d'accordo” rispose alzando lo sguardo indispettita.
“Io
sono matura, dovreste ascoltarmi quando vi dico che non è il
momento giusto. Vi immaginavo cresciuti e responsabili,
invece...”.
Lei già lo sapeva.
Era
fin dall'inizio che rimandava la data dell'attacco o battibeccava tra
le scelte dei gruppo, con scuse sempre più banali, o modi
maleducati.
Crever
non era però il tipo da assecondare le bizze di una bambina
montata. Loro avrebbero attaccato al tramonto dell'indomani, punto.
Nessuna discussione.
Facendo
perno sul suo tallone sinistro si voltò con una rapida
piroetta, pronto a uscire.
“Ne
abbiamo già discusso. Ci vedremo alla base”. Era
sulla
soglia di quella stanza sotterranea, nascosta in una torrida capitale
dell'est, un altro passo e ne sarebbe uscito.
“Allora
non verrò. Non combatterò al fianco di persone
che non
mi ascoltano” sbraito facendo sghignazzare i presenti.
Lei
non poté vederlo, ma anche lui rise eccitato. Non aspettava
altro.
Quella
Miellana non gli era mai stata simpatica.
“Lo
devo prendere come un tradimento?”
Lei
era incredibilmente sicura di sé. Si era sempre atteggiata
da
grande regina e ormai era convinta della sua superiorità.
“Fai
come ti pare, l'importante è che sparisci dalla mia vista.
Mi
disturbi”.
Non
un'altra parola ma uno schizzo rosso che tracciò una linea
imprecisa sulla parete.
La
testa della dea volò; Crever aveva appena perso la pazienza.
“Smettila
immediatamente!” esclamai colpendolo con un sonoro schiaffo.
Se
solo lo avesse voluto, però, sarebbe stato capace di
appendermi alla parete. Era stato un gesto avventato.
Lorissy
rimase immobile, sorpreso, confuso e disperato.
Chiunque
poteva leggere sul suo volto la tristezza della perdita di Revery,,
eppure non avrei mai immaginato che arrivasse a tanto.
Mi
guardò con occhi tristi, prima di calare lo sguardo e
toccarsi
la guancia appena dolorante.
Voleva
fare il rituale, voleva recuperarla.
“Hamuhamu,
la prego... me lo lasci fare”.
“Non
permetterò che tu muoia per un simile tentativo”.
Dovevo
essere io a farlo, dopo la sconfitta di Raffaella e compari. Il
rituale per risvegliare la guardiana era ancora in fase di
progettazione.
Ne
avevo discusso con Kinsis e poi avevo parlato di questa
opportunità
con Katyana, infine, avevo segnato alcune idee su una pergamena
dimenticata sulla scrivania. Era una cosa difficile, che richiedeva
un cerchio, un evocatore e qualcuno che si impegnasse ad affrontare
il viaggio. Un'impresa ardua: quella di entrare nel corpo di un
individuo per cerarne l'animo. Io però lo volevo fare
ugualmente, per mia sorella, per il pantheon. Potevo perdermi nei
meandri della sua mente, scomparendo per sempre, o riuscire a
risvegliarla.
Un
sacrificio che avrei fatto volentieri.
“Lei
e Switty-kitty ne stavate discutendo e ho pensato che avrei potuto
provare io. Mi lasci correre questo rischio, Hamuhamu, la
prego”.
Lui
però era venuto a scoprirlo. Aveva sentito questo discorso
per
caso, mentre io ne discutevo con la dea dei dolci e si era
intrufolato nelle mie stanze per trovare qualcosa. Con i miei appunti
aveva messo a punto un rituale rozzo, nel vano tentativo di riportare
in vita l'amata. Una cosa stupida, date le sue scarse conoscenze e
abilità magiche, unite alla precarietà del rito.
Non
volevo perdere un alleato nell'imminente guerra, non volevo vederlo
morire. Io ne ero certo.
Era
ancora in ginocchio ed era sul punto di finire un enorme cerchio di
gesso bianco segnato a terra. L'inizio del complesso sigillo per
incanalare l'energia.
“Lorissy
tu non sei capace di fare tutto ciò. È un rito
troppo
complesso! Rischi la morte”.
“Anche
lei la rischierebbe”
“Ma
per te è quasi certa”.
Mi
implorò ancora, come un cucciolo bastonato. In lui stava
accadendo qualcosa che non capivo.
Forse,
pensai, sarebbe comunque morto entrando nel tunnel del tormento.
Una
voce mi chiamò, proveniva dalle mie spalle.
Chube
era venuta a prendermi, poiché doveva riferirmi delle
informazioni. Spalancò la porta che avevo lasciato socchiusa
e
fece capolino sorridente. Benché lei non mostrasse mai
rabbia
o preoccupazione, io riuscivo a distinguere i suoi vari sorrisi o le
diverse smorfie.
Ora
c'era una novità.
“Avete
trovato Elian?” chiesi allontanandomi dall'uomo e dirigendomi
verso
l'entrata.
“No
ma ci siamo vicini. C'è un'altra cosa che devi sapere:
Miellana è morta”.
Mi
spiegò che Nelunis si era recata da lei stamani, per
eliminarla poiché era in combutta con i traditori, ma aveva
trovato il suo corpo decapitato insieme a molti altri cadaveri. Un
regolamento tra fratelli. Raffaella e Crever non scherzavano dunque.
Ebbi uno strano presentimento, un'impressione o un'idea che mi
stordì.
La
seguii di fretta attraverso i corridoi lasciando Lorissy da solo
nell'ala che fungeva da ospedale. Con lui: il corpo di Revery e le
ricerche.
Un
errore che avrei pagato caro.
In
una grande sala, usata forse per la prima volta, c'era Sakroi,
affiancata da Nelunis e Arone.
Chube
mi accompagnò fino al centro, dove il gruppo stava
discutendo.
Avevano
chiamato me poiché dovevo archiviare anche questa notizia o
utilizzarla per trovare una nuova soluzione.
Rimasi
in silenzio, fino a quando uno di loro non mi rivolse la parola.
“Miellana
è morta, Ham” sospirò Sakroi.
“Mi
è già stato detto da Chube. C'è un
motivo
preciso per cui mi avete fatto chiamare?”
Arone
sospirò, spostandosi una lunga ciocca azzurra dietro
l'orecchio. “Sì. Speravamo che tu potessi darci un
chiarimento su quest'evento”.
“Non
capisco”.
“Pensavamo
che forse con le ricerche che avevi fatto potevi fornirci una
spiegazione logica. Non capiamo perché uccidere un
alleato”.
Io
non ci pensai molto. “Miellana non è mai descritta
come una
presenza piacevole. Forse è stata vittima delle sue stesse
provocazioni”.
Sakroi
sorrise. “Lo abbiamo pensato anche noi ma ci sembrava molto
strano.
Comunque non preoccuparti, grazie comunque...” mi fece cenno
di
andare ma io non obbedii. Dopo alcuni secondi proposi un'altra
versione: “Forse volevano il suo sangue”.
Nelunis
sembrò appoggiare questa ipotesi. Si passò una
mano
sulla bocca, come per nascondere lo stupore. “È
vero!
Potrebbero aver voluto il sangue di questa dea per potenziare i loro
poteri...”
“Menzogne”
commentò secca Sakroi. “Non è che una
leggenda, e tu,
studioso degli archivi, dovresti saperlo meglio di noi”.
“Secondo
me funziona eccome” risposi. “Il sangue perfetto
è come un
elisir”. Potevo fermarmi lì, ma non ce la feci.
Volevo
continuare e dimostrare a tutti loro che ne sapevo di più.
“I
demoni aumentano il loro potere divorando altri simili, ma sono gli
unici capaci di bere quel veleno acido che scorre nel loro corpo.
Quando però questo sangue si unisce a quello umano, si crea
una specie di equilibrio: esso rimane ancora portatore del potere, ma
perde quelle qualità venefiche”.
Nelunis
non sembrò capire, Arone mi lanciò un'occhiata
confusa,
ma Sakroi rimase sbalordita. Stupita che anch'io fossi riuscito a
capire il segreto.
“Ham!”
esclamò.
“Cosa?”
“Stai
insinuando una tale assurdità?”
“Ho
ricevuto un aiuto” mi limitai a rispondere. “Tu
però lo
sapevi, vero?”
Lei
sembrò capire. “Ecco perché eri tanto
sicuro degli
affari di Kinsis, è stata lei a dirti tutto questo. Che dea
fasulla”.
“Hai
del coraggio per dirle una cosa del genere. Tu ci hai mentito per
tutto questo tempo”.
Lei
trattenne la sua rabbia. “Arone, Nelunis. Vi prego,
lasciateci
soli”.
Non
volevo che se ne andassero, eppure in quel momento non feci nulla per
impedirlo.
Aspettò
che uscissero, ascoltando i loro passi allontanarsi. Poi volse il
capo verso di me e sospirò.
“Tu
sai anche del tuo predecessore, vero?”
Io
deglutii intimorito da quel tono. “Sì”.
“Il
nostro sommo Padre ti ha creato una seconda volta sperando che tu non
ti addentrassi più in certe conoscenze”.
“Perché?
Perché sarei stato ucciso?”
“Non
è quello, Ham!” sbottò zittendomi.
“Tu capisci cosa
potrebbe succedere se questa cosa fosse scoperta?”
“Io
non ci vedo nulla di sconvolgente”.
“Noi
siamo gli dei, i supremi dominatori del mondo, non i figli di due
razze inferiori, nati da un incidente”. Si calmò
all'improvviso. “Ti prego comunque di non dire a nessuno
tutto
ciò”.
“Altrimenti
verrei ucciso?”. Era stata lei, sì: lei. Le
lanciai
un'occhiata tagliente, che forse riuscì solo a percepire. La
sua risposta era però rammaricata, forse triste.
“Mi
offende sentirmi incolpata di una cosa tanto brutale, Ham”.
Poi si
voltò, prese a camminare e in breve tempo fu sulla soglia,
pronta a sparire.
Il
mio istinto mi guidava verso l'unica che sapeva tutto ciò
che
gli altri non dovevano scoprire. L'assassino era lei, non c'era
nessun dubbio. Mi convinsi che il Grande Padre aveva creato un
secondo me ignaro di chi fosse il dio le cui mani erano sporche di
sangue, oppure non voleva scatenare il caos e l'aveva punita.
Certo,
una voce esclamò nella mia testa, l'ha accecata per questo!
Altrimenti
perché farlo? Perché privare un dio della vista?
Non
c'era altra spiegazione.
Ma
in fondo, sapevo che non ce n'era la certezza.
Tornando
indietro incontrai Katyana e con lei decisi di recarmi da Nima e
Niel. Volevo trasportarli in un posto sicuro, lontano dai possibili
rifugi di Elian e i suoi alleati.
Dovevo
però accertarmi di una cosa. Avevo lasciato Lorissy da solo
e
me ne ricordai troppo tardi. Quando tornai in quella stanca il suo
corpo era riverso a terra, privo di sensi.
Miun
era già lì e mi lanciò un'occhiata
preoccupata.
“Ne sai qualcosa?”
Strinsi
i pugni, era anche colpa mia. “Quello stupido!”
Lei
mi porse i fogli. “Li hai scritti tu?”
“Sì.
Ma li ha rubati dal mio studio. Sono incompleti... è una
follia”. La donna scosse la testa, rassegnata a quella scelta
azzardata. Riacquistai un tono calmo, rilassandomi. Anche io non
potevo che accettare il fatto. Arrivai al gesso caduto a terra e
iniziai a rifinire quel rozzo sigillo tracciato a terra. Il cerchio
impreciso, i simboli runici errati: erano tutte cose che dovevo
correggere per supportarlo.
Katyana
si avvicinò al corpo dell'uomo e lo stese a terra, con le
braccia lungo i fianchi, le gambe chiuse e la schiena dritta. Aveva
avuto un buon intuito, capì quello che volevo fare.
“Che
cosa fate?” domandò il medico.
“Non
conosco metodo per riportarlo indietro, non credo ne esista uno.
Posso però aiutarlo sistemando alcune parti del rito:
così
avrà più possibilità”.
Miun
si sistemò gli occhiali e sbuffò.
“Posso aiutarvi?”
Non
aspettavo altro. Con un unico movimento mi rialzai e tirai su anche
la dea dei dolci. “Sì, sarebbe molto gentile. Sei
molto più
abile di noi con queste cose...”
Lei
sembrò delusa, avevo detto qualcosa di scontato e i suoi
occhi
me lo fecero capire molto chiaramente. Mi strappò il gesso
dalle mani e commentò: “Non fare il ruffiano, Ham.
Vai a
sbrigare le tue faccende, ci penso io a lui e a Revery”.
Sbottò
qualcos'altro anche mentre stavamo uscendo, protestava o si lamentava
di questo lavoro ma non le diedi peso. Io e la mia compagna dovevamo
andare a incontrare il giovane dal sangue divino.
Poco
dopo la nostra partenza in quella stanza si affacciò
qualcuno
che io avevo lasciato in disparte, poiché troppe erano le
cose
che mi riempivano la testa.
Miun
la guardò sorpresa. “Che cosa ci fai
qui?”
Lei
sospirò spostandosi con l'unica mano i corti capelli corvini
che erano caduti sugli occhi. “Ho sentito una vibrazione
negativa.
Qui c'è qualcuno di disperato”. Non si smentiva.
Era una dea
che riusciva a sentire le persone in difficoltà anche a
miglia
di distanza.
Il
medico le si avvicinò, intenzionata a rimandarla nelle
proprie
stanze a riposare. “ Non te ne preoccupare”.
Il
volto privo di emozioni di Valanz si illuminò per un
istante.
Immediatamente si rivolse verso Lorissy. “Ah, è
lui allora.
Si è spinto fino a questo punto, poveretto. Ormai
è
certa la sua morte, ha intrapreso un cammino troppo
difficile”
farneticava apatica da sola, ignorando Miun.
Allungò
la mano inginocchiandosi davanti al giovane e toccandone il petto
riuscì a sentire i dolori del suo spirito. Si
concentrò
per aiutarlo e tutto il suo corpo iniziò a illuminarsi di
una
flebile aura bianca.
“Cosa
fai?” chiese l'altra dea che ormai aveva rinunciato a
capirla.
“Do
una mano” rispose. Per la prima volta il suo volto assunse
un'espressione, accennando una risata. Miun non colse la battuta e
rimase immobile, soprappensiero.
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Capitolo 22 *** Te lo Prometto! ***
Capitolo
22 – Te lo prometto!
Niel
era seduto nel cortile esterno, che guardava i raggi del sole che
attraversavano la chioma spoglia di quell'albero vecchio. L'inverno
era alle porte.
Improvvisamente
si ricordò di una filastrocca, riguardante quella stagione,
ma
non riuscì a canticchiarla.
“Niel,
non mi stai ascoltando vero?”
Lui
tornò alla realtà, incrociando lo sguardo
spazientito
della sacerdotessa. Dall'arrivo di quel giovane al tempio, Nima
stessa si era occupata della sua preparazione, rispettando fedelmente
gli ordini del dio. I giorni passavano tra lezioni di pura teoria. Il
ragazzino si annoiava e forse non aveva così tanti torti.
“Oh!”
disse imbarazzato. “Mi scusi, Sacerdotessa Nima.
Cercherò di
stare più attento”.
Lei
in parte lo capiva. La magia era qualcosa di incredibilmente noioso
all'inizio: formule, flussi, studi che davano delle basi da cui
partite. Erano argomenti che stufavano perfino lei, che doveva solo
leggere.
“Io
capisco che non sono cose divertenti, ma dovresti sforzarti per
impararle. Prima apprendi tutto questo, prima puoi fare pratica e
controllare il tuo potere”.
Lui
scosse la testa, poiché non era d'accordo con tutto
ciò
che aveva detto. Provò a giustificarsi gesticolando un poco,
come era sua abitudine. Lui era curioso, assetato di conoscenza: per
quanto un argomento fosse noioso non poteva ignorarlo.
“No,
Sacerdotessa Nima, non è quello. A me piace questa cosa
della
magia, è solo che oggi...” non terminò
la frase, non
sapeva come terminarla. Cosa c'era di diverso? Neppure lui poteva
dirlo con certezza. Sapeva solo che c'era.
“Non
ti senti bene?” domandò premurosa chiudendo il
grande tomo
che aveva davanti. IL ragazzo scosse di nuovo il capo. Prima di
rispondere si guardò attorno: la panca sulla quale erano
seduti, l'albero privo di foglie, il pavimento del cortile. Tutto era
uguale al solito. Poi lanciò un'occhiata al cielo
perché
si sentiva comunque strano.
“Ho
un presentimento” sospirò tornando a fissare la
sua
interlocutrice.
“Che
tipo di presentimento?”
“No,
mi scusi. Non è un vero presentimento... io non so come
spiegarlo. Sento che c'è qualcosa, ma non so
cosa”.
Lei
si interrogò su quale potesse essere la causa del suo stato.
Giunse poi a una semplice conclusione. “Forse percepisci
un'aura”.
“Come
dice?”
“Un'aura
magica, l'energia di qualcuno. È più che
probabile che
tu abbia sviluppato questa capacità inconsciamente e ora sei
stordito. Forse c'è un mago in città
o...”
“Un
dio” continuò una voce alle loro spalle.
Si
voltarono entrambi, scattando in piedi intimoriti. Nessuno dei due la
riconobbe. Una voce femminile e potente.
“Chi
è là?” domandò Nima
stringendo a sé il
ragazzo. Con le ampie maniche rosse e dorate della veste lo avvolse,
come un uccello che apre le sue ali per proteggere le uova.
La
sagoma uscì allo scoperto. Masticava qualcosa, la dea.
“Dovresti
inchinarti, davanti a una divinità”. Rimasero
immobili.
“davanti a me, poi, la somma Raffaella!” entrambi
però non
avevano mai visto quella dea. Una dea che sembrava in tutto e per
tutto un uomo, se non per la veste femminile.
Sotto
il mento spigoloso stava una camicetta nera, le cui lunghe maniche e
il colletto erano decorati con ricami di pizzo. Portava anche una
gonna estremamente corta, del medesimo colore e ricamo. Le scarpette,
dai bassi tacchi, ostentavano un fiocco viola di grandi dimensioni
sulla parte frontale.
Nima
fece un cenno d'inchino con il capo, poiché era pur sempre
una
dea, ma non si prostrò a lei, anzi: le lanciò
un'occhiata forte, decisa a non cedere. Raffaella avanzo e
levò
una mano, con la chiara intenzione di colpirla. La sacerdotessa
allora si allontanò da Niel, coprendolo con il suo corpo e
permettendogli una fuga. Lui però non si mosse.
“...donna,
trovo offensivo il tuo comportamento” uno schiaffo a cui Nima
non
reagì. “Ora spostati e avrai salva la vita. Non
sei tu che
mi interessi”. Gli occhi della dea cercarono il ragazzo,
trovandolo
qualche metro più in là, mentre indietreggiava
lentamente.
Sembrò
disgustata dal suo aspetto e dall'aura che emanava. “E
così
saresti tu colui che ha il sangue di un dio, eh? È fin
troppo
facile averti, ma non posso lamentarmi; il tuo sangue mi
aiuterà
molto, dovresti esserne fiero”.
Con
un gesto rapido scansò la ragazza dai lunghi capelli neri,
che
però tornò subito a intralciare l'avanzata della
divinità. Nima non era intenzionata a cedere Niel tanto
facilmente, aveva ricevuto l'ordine di proteggerlo e così
avrebbe fatto.
“Cerchi
la morte, donna?”
Lei
deglutì, mentre le parole le si strozzavano in gola. Le
divinità, soprattutto se hanno intenzioni offensive, emanano
un qualcosa che cattura ogni creatura, facendola tremare fin dentro
le ossa. La ragazza lo percepiva chiaramente, ma non cedette.
Raffaella
levò ancora la mano, questa volta con la ferma intenzione di
staccarle la testa dal collo con un solo colpo, ma si fermò.
Fiutò l'aria fredda e, dopo un primo timore, sorrise
divertita.
Uno
scatto ed evitò la mannaia di Katyana, che con un veloce
fendente spaccò la terra davanti a Nima. Un altro secondo e
Raffaella sarebbe stata tagliata in due.
La
sacerdotessa era confusa. La dea dei dolci non sembrava essere una
nemica, anzi, l'aveva appena salvata. Provò a inchinarsi ma
lei la fermò. “vattene!”
esclamò spingendola
affinché si allontanasse. La ragazza capì e fece
un
cenno del capo. Io arrivai in quel momento, con maggiore calma.
Katyana,
appena sentita la presenza ostile della nemica, si era fiondata sul
cortile lasciandomi da solo su quella nuvola di fogli. Atterrai e mi
rivolsi alla sacerdotessa e a Niel con un saluto rassicurante.
“Divino
Ham, mi dispiace di avervi recato disturbo”. In quel momento
pensai
che gli uomini si sentivano troppo protagonisti. Lei pensava
seriamente che fossi giunto apposta per salvarla, anche se era frutto
di una mera coincidenza. In quel momento però non la
contraddissi.
“Niel
sta bene?”
“Sì”
rispose con un inchino.
“E
tu?”
Lei
arrossì appena. “Non vi preoccupate”. Si
toccò la
guancia arrossata, ricordando il dolore provato nel colpo.
Sospirai.
“Nascondetevi ora, lasciate fare a noi”.
“Come
ordinate, divino Ham”. Dopo un nuovo inchino si
allontanò
prendendo con sé il ragazzo e insieme entrarono nel tempio.
Lo
salutai con un gesto prima che sparisse e lui ne fu felice.
Alle
mie spalle però mi sorprese la voce di Raffaella, pronta a
contrattaccare.
“Non
so se sono sfortunata, ad aver perso una preda facile, o fortunata,
per avere a disposizione due succulenti bocconi”.
Katyana
si era fatta seria e combattiva. Non c'era più neppure
l'ombra
della cuoca impacciata. “Considerati sfortunata, Raffaella.
Oggi
sarà il giorno della tua morte”. Lei non era una
che amava
la lotta, lo avevo sempre saputo, ma in quel momento sembrò
la
più feroce delle combattenti. Era pronta a dare il meglio di
sé pur di vincere contro la dea del fallimento. Ora che
l'aveva trovata non l'avrebbe certo lasciata fuggire.
“Tu
dici, cuoca?” rispose sprezzante prima di evitare un nuovo
colpo di
spada.
“Sì,
io dico” replicò l'attaccante scagliando
l'ennesimo attacco
che però riuscì a incontrare la tenera carne
divina per
un breve tratto. Allontanandosi dalla sua nemica, Raffaella, si
curò
appena del graffio che le percorreva la spalla ed esso si
rimarginò
in pochi attimi.
Si
fermò allora, aspettando il nuovo assalto che non
tardò
ad arrivare. Un nuovo fendente, rapido, si abbatté su di lei
tranciando di netto il braccio destro, all'altezza della spalla. La
dea dei dolci sapeva che era meglio rendere inoffensivo un nemico
piuttosto che ucciderlo e per gli dei non era differente.
Ciò
che la stupì, anzi spaventò, fu la
rapidità con
cui l'arto si rigenerò. Incredula fece appena in tempo a
vedere l'arto tagliato cadere a terra prima che quello nuovo la
colpisse con un poderoso pugno. Riatterò alcuni metri
più
in là, rimettendosi subito in equilibrio.
Io
osservavo la cosa sapendo alla perfezione quali fossero i poteri di
Raffaella. Si diceva avesse divorato mille anime umane e, grazie a
queste, riuscisse a rigenerarsi senza problemi o spreco di energie.
In breve: aveva altri novecentonovantanove braccia destre da poter
usare, mille busti, mille paia di gambe e mille braccia sinistre. Non
ero a conoscenza, nel dettaglio, di come funzionasse quel potere ma a
lei bastava avere un corpo sano inglobato da qualche parte per
utilizzarne una parte e sopravvivere.
Era
ripugnante e terribile.
Dopo
altri assalti privi di risultato, il vigore iniziale della mia
compagna sembrò svanire.
Con
un balzo giunse fino a me, ad almeno sette metri di distanza dalla
donna intenta a rigenerare entrambe le gambe tagliatele di netto.
“Ham...”
mi chiamò con voce tremante.
“Non
spaventarti. Lei ha divorato molte anime ed è capace di
utilizzare la loro forza per rimarginare le ferite o riparare i danni
più gravi. Se continuiamo ad attaccarla
finirà...”.
“È
una parola!” mi interruppe lei ansimante. “Non si
limita a
incassare i colpi, lei reagisce! Non posso continuare all'infinito ad
attaccare senza stancarmi” aveva perfettamente ragione.
La
dea del fallimento scattò in avanti e le barriere di fogli
sembravano inutili davanti alla sua furia. Le ferite dei pugnali di
carta sparivano con la stessa velocità con cui erano state
inflitte.
Per
distrarla manipolai la carta a formare una grande spada mossa da una
grande mano. Era qualcosa senza la minima praticità ma lei
ne
sembrò intimorita, poiché le dimensioni e la sua
forma
le davano un certo effetto. Mossi questo ammasso contro di lei, in
una serie di lenti e distruttivi attacchi.
Lei
evitò i primi con facilità, ma la portata e la
potenza
dei colpi riusciva a intimorirla abbastanza da impedirne
l'avvicinamento. Non le ci volle molto, comunque, per intuire la
traiettoria dei colpi così da iniziare una rapida avanzata
verso me e Katyana. Il cortile del tempio era ormai distrutto e la
gente osservava intimorita quella battaglia. A lungo gli uomini
avrebbero narrato dello scontro nel cortile di Markentel tra
Raffaella, Katyana e Ham; anche se alcune versioni vedevano noi due
affrontare il re dei demoni o un mostro molto potente.
Ormai
era troppo vicina e, lasciando che la mia grande arma si scomponesse
in centinaia di fogli leggeri, creai uno scudo per proteggermi dal
suo colpo. Stavamo solo prendendo tempo.
Come
se non fosse abbastanza: le sue mani si erano equipaggiate con lunghe
unghie che avevano una resistenza e affilatura pari ai pugnali
più
pregiati. Con essi attraversava ogni difesa e rendeva vano ogni
assalto.
Katyana
avanzò rinvigorita dalla pausa e ingaggiò una
furiosa
lotta con la spada. Il rumore dei colpi e il caos che si era
scatenato non mi permisero di capire chi avesse la meglio su chi, o
più semplicemente, se la dea dei dolci stava bene. Accadde
però, dopo poco, che una strana creatura infuocata piombasse
su di lei, affiancata da una donna dagli splendidi capelli appena
mossi.
Si
affiancarono a Katyana e con pochi colpi ben assestati fecero
ritirare Raffaella di gran fretta. La nemica si fermò per
rimarginare le ferite appena ricevute dai due dei freschi di riposo
ma non ne ebbe il tempo. Una nuova carica di Maonis e una successiva
combinazione di Manius ridussero in brandelli il suo corpo, lasciando
che la testa sola si sforzasse per rigenerare il corpo.
“Katyana!”
esclamò Manius e questa si gettò di nuovo subito
nella
mischia colpendo più volte Raffaella prima che si
riprendesse
completamente.
La
dea delle passioni in un istante mi fu accanto. “Ham, scusa
l'intrusione ma c'ero prima io. Quella bastarda mi deve un
Rituale!”
esclamò. “Comunque sono qui anche per un altro
motivo. È
stato scoperto il covo di Elian, recatici immediatamente!”
capii
che stava accadendo qualcosa di grosso. Il pantheon era in agitazione
e ormai il Palazzo doveva essere quasi del tutto deserto. Gran parte
degli dei era sulle tracce della dea del ciclo.
“Come
mai devo andare?” le chiesi confuso.
Lei
mi guardò ammiccando. “Katyana mi ha detto un po'
di cose e
la voce della tua discussione con Sakroi ormai riecheggia per tutto
il suolo sacro. Fidati, arriva da Elian alla svelta, forse
può
aiutarti!”
La
dea dei dolci era stata molto ingenua a raccontarlo a lei, e forse ad
altri. Le avevo detto di mantenere il segreto ma sicuramente si era
prodigata per aiutarmi chiedendo a tutti coloro che le sembravano
adatti. Una mossa azzardata e che sicuramente mi avrebbe creato degli
ostacoli in futuro.
“Dove
si trova?” chiesi prima che tornasse a occuparsi della
nemica.
Lei
mi guardò, rimproverandosi di non avermelo detto
immediatamente.
“Nella
terra del nord, a Strobught!” con un scatto mi
lasciò solo
avventandosi contro quel corpo che sembrava non voler morire.
Io
evocai una nuvola e vi salii.
“Ham,
mi faccia venire con lei!” gridò Niel apparendo
all'improvviso.
CI
pensai alcuni secondi e il tempo era troppo prezioso per sprecarlo in
inutili discussioni o ragionamenti. Lì sarebbe stato al
sicuro.
“No.
Rimani qui con Nima. È pericoloso!.
“È
pericoloso anche restare qui!” replicò lui con
forza. “La
prego!”
Io
sospirai evitando di spazientirmi per la sua cocciutaggine.
“Niel,
tu devi sopravvivere a tutti i costi. Sei molto più
importante
di ciò che credi”.
Nima
arrivò in quel momento afferrandolo decisa a fermare la sua
corsa per raggiungermi. Lui era a terra e io mi stavo alzando a
mezz'aria. Dovevo andare.
“Se
ci riuscissi, Ham... lei...”
“Mh?”
non capivo cosa volesse dire. Iniziò a piangere cercando
comunque di trattenersi. Dopo il secondo singhiozzo
continuò.
Non posso dimenticare ciò che disse quel giorno.
“Se
ci riuscissi, Ham, lei resterà con me?”
Il
fragore dei colpi. La paura della morte.
Quei
nemici erano troppo forti anche per noi, lo capii solo in
quell'istante.
La
polvere si era alzata alta nel cielo, coprendo in parte il forte sole
del pomeriggio e tutto assumeva un nuovo significato.
“Te
lo prometto”.
Scivolai
via verso il nord. Quanto tempo avrei impiegato? Due ore? Tre?
Avvolgendomi
di carta divenni un proiettile rapidissimo che sfrecciava attraverso
le nubi. Nessun uccello o freccia pareggiava la mia
rapidità.
“Te
lo prometto” ripetei ormai da solo.
Ricordai
anche le parole del Grande Padre: “Devi
sopravvivere”. Chissà
se sarei riuscito a soddisfare entrambi o li avrei delusi.
Confusione.
Ci
misi davvero poco, ma utilizzai molta energia. In meno di due ore
riuscii a sentire le presenze degli altri insieme al freddo pungente
di quella zona. Mancava poco, mancava davvero poco alla tana di
Elian: Strobught, la fortezza incastonata nel monte.
Non
capii immediatamente perché avesse scelto quella costruzione
antica, ormai in rovina, ma ne fui felice. Anche se quello sarebbe
stato il luogo della battaglia io ero estasiato dall'idea di
percorrere i saloni più segreti scavati all'interno del
monte,
oppure, di correre nella grande piazza al centro della cittadella
esterna.
Era
maestosa, enorme e simbolo di un'era ormai terminata. Cosa
desideravano di più i miei occhi se non riconoscere i
dettagli
di ogni roccia e pezzo di granito, appartenuti a una civiltà
antica e
scomparsa?.
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Capitolo 23 *** Il primo passo verso la battaglia ***
Capitolo
23
– Il primo passo verso la battaglia
Quando
arrivai su uno dei fianchi esterni della struttura si apriva
un'immensa voragine. Un segno dell'ultima battaglia di quel popolo:
quando re Morv aveva opposto una feroce resistenza alle truppe
dell'ovest. Una battaglia epocale. L'ultimo baluardo dell'alleanza
tra uomini ed elfi, caduto dopo un mese di assedio.
A
terra, nella neve, due sagome stese a terra. Chiusi gli occhi
implorante.
Si
trovavano al di fuori della fortezza, nella piccola valle circondata
dai monti.
A
Krost non era andata a genio l'idea di far parte di quella missione:
lei era portata per altro. Nelunis l'aveva trascinata con
sé,
indicandola come la più adatta a quella situazione.
Al
suo arrivo, dopo un'ora di interminabile viaggio, però aveva
capito che il suo compito era solo di fare da 'esca' per il cane da
guardia della dea. Arrivati alla fortezza le due si erano divise.
Nelunis
si era mossa con agilità, nascondendosi e cercando un modo
di
entrare molto furtivo, l'altra aveva iniziato a chiamare a gran voce
Elian, a sbraitare e agitarsi, solo per attirare su di sé
gli
sguardi.
Così
fu e dopo pochi minuti era apparso il bruno dalla pelle
impenetrabile, colui che durante l'attacco al Palazzo aveva
intralciato la strada a lei e a Katyana. Si era scordata di lui e
solo in quel momento si compiacque della missione.
Dopo
una lunga battaglia, però, lei iniziava a pentirsi. Sandol,
l'uomo che aveva davanti, sembrava fatto di dura pietra oppure
resistente metallo. Qualsiasi colpo era pressoché inutile.
Dardi, getti, spade o bestie fatte di inchiostro non lo avevano
neppure graffiato. Lui, invece, aveva tempestato ilo corpo della dea
con calci e pugni potenti come colpi di spranga. Krost si era
accasciata a terra, approfittando di una pausa del suo nemico.
A
terra un'enorme chiazza di quel liquido nero che macchiava la neve.
Neve.
Per una qualche magia antica, in quella gola tra i monti era sempre
inverno. Un soffice manto bianco la ricopriva anche durante l'estate.
Ansimava
e sentiva i rigoli di sudore mischiarsi al sangue che sputava
dolorante. Si toccò il ventre molle. Quante costole mi
sarò
rotta? Pensò. Quante ossa sono in frantumi, quanti organi
sani
rimangono?
Non
aveva mai provato una simile sensazione, eppure, aveva preparato una
strategia. Inizialmente la credeva geniale, ma infine l'aveva trovata
un po' banale. In caso ci avesse scritto una storia sopra di sicuro
avrebbe cambiato quella parte.
Lui
ne era ignaro, ma durante la lotta il suo corpo si era macchiato di
sangue nero. Gli ultimi attacchi erano stati quasi ed esclusivamente
getti d'inchiostro, sudore e sangue mirati al volto e lui si faceva
colpire, cosciente di uscirne immune. Stupido, pensava la dea
lanciandogli occhiate ostili. Sandol aveva respirato e bevuto
quell'inchiostro, una volta si era perfino pulito il volto con il
dorso della mano e lo aveva leccato come monito della sua potenza,
altre volte aveva sputato via quel liquido come si fa dopo un sorso
di acqua salata.
Ormai
la dea doveva solo aspettare che quel sangue fosse entrato in circolo
per mettere fine al combattimento. Un infido veleno.
Durante
la lotta aveva pensato a lungo. Mentre subita la violenza del suo
nemico aveva viaggiato con la propria mente immaginando uno scontro
diverso. Dove lei vinceva e lui rimaneva estasiato dalla sua potenza,
ammirandola e scoprendosi innamorato solo al momento della morte.
Non
era andata in questo modo ma lei l'avrebbe scritta un giorno. Quando
tutto questo fosse finito, quando la guerra fosse diventata solo un
ricordo da evitare durante le riunioni con i fratelli. Era una gran
sognatrice.
Ora
sentiva però una gran voglia di risposarsi. Avrebbe pensato
a
tutto una volta risvegliatasi da un lungo e sano sonno.
Si
gettò a terra con il volto rivolto al cielo plumbeo e chiuse
con forza i pugni. Era il segnale. In un solo istante quella
microscopica quantità di sangue nero all'interno di Sandol
si
agitò, tremò, si trasformò con
l'intento di
ucciderlo. Lui urlò e cadde al suolo, mentre qualcosa
sminuzzava, divorava e lacerava le sue carni dall'interno.
“Che
cosa inverosimile” sussurrò la dea impossibilitata
a godersi
la scena. Sentiva solo i lamenti di qualcuno che aveva dimenticato
cos'era il dolore e che adesso lo riscopriva in maniera spiacevole.
Un'ultima volta.
Si
promise di leggere romanzi dedicati all'armonia, all'amore e non alla
guerra e alla sofferenza, almeno per un po'. Ora che aveva provato
sulla sua pelle tutto ciò era convinta di poterne fare a
meno
a lungo. Non era come se l'era immaginato, lo scontro mortale tra due
potenti nemici.
Tutto
era terribilmente sporco e doloroso.
Neppure
io l'avevo sognata così: la guerra.
Appena
atterrai, volatilizzando quella nube di fogli dietro di me, mi
diressi verso di lei.
Krost
aveva gli occhi socchiusi e respirava debole. Poco più in
là,
Sandol faceva degli strani rumori, grida sommesse, urla di dolore
deboli.
“Krost!”
urlai gettandomi accanto a lei e sentendo le gambe e le mani gelarsi
al contatto con la neve macchiata di nero. “Krost!”
Lei
sospirò. “Ham, ho un'ispirazione per una
storia”.
“Non
parlare” le ordinai. “Stai immobile e non fare
sforzi inutili.
Ora ti porto al Palazzo e ....”
Un
fragore.
Un
tonfo sordo mi bloccò.
Voltandomi
vidi una torre di guardia crollare lontana e la polvere alzarsi. Due
dee stavano affrontando una lotta, non dovevo dimenticarlo. Attirato
da ciò abbandonai Krost lì, nel silenzio dello
spazio
bianco.
Evocai
un'altra nuvola di fogli per arrivare in alto, alla cittadella e da
lì seguii i rumori.
Elian
però fu troppo rapida. Mi sorprese affacciato dalla muraglia
più alta mentre osservavo lo scontro sotto di me. Erano due
furie.
Nelunis
evocava fiamme di forme e dimensioni differenti, Elian rispondeva con
sfere di pura energia di morte, capace di assorbire vita dalle cose
che toccava.
Dietro
di loro lasciavano una scia di distruzione. Una mezz'ora e di
Strobught sarebbero rimaste solo le macerie.
La
sfera distrusse quella frazione di parete, ma io riuscii a evitare il
colpo scivolando di lato. Volgendo lo sguardo la vidi arrivare alle
mie spalle e mi decisi a correre rapido lungo la cinta. I suoi colpi
facevano tremare la terra sotto i miei piedi, mentre Nelunis ci
raggiungeva.
La
lotta tra divinità guerriere è qualcosa di
spettacolare. Spiccano balzi innaturali, quasi magici, e colpiscono
con la forza di decine di uomini.
La
dea della battaglia intervenne, tenendo occupata Elian lasciandomi il
tempo per fuggire.
Senza
perdere attimi preziosi mi lanciai di sotto, atterrano nella piazza
della cittadella avvolto da un cuscino di fogli. Credetti di essere
salvo, ma improvvisamente un ammasso di energia purpurea
colpì
il suolo a pochi metri da me, creando un'immensa esplosione.
Elian
aveva scagliato Nelunis già dalla fortezza, usando un
energetico. Il volo era stato grande eppure la dea, con il corpo
conficcato nella neve, sembrava intatta. La nostra nemica
però
mi aveva bloccato in una nuvola di polvere, impedendomi di fare
qualsiasi mossa. Sentii i suoi passi, poi una mano mi
afferrò
per il collo. Con una forza spaventosa mi lanciò contro una
parete.
L'impatto
fu incredibilmente doloroso. Il muro contro cui mi schiantai era
quello della cinta muraria e resistette incolume. Cadi a terra e
sentii un fitto dolore provenire dalla mia schiena.
Ero
però ancora impegnato a cercare di capire cosa fosse quando
Elian si avventò nuovamente su di me. Riuscì ad
atterrarmi con facilità e solo a quel punto la sua
espressione
cambiò. Capii che voleva dirmi qualcosa. Qualcosa di
importante.
Sospirò
e fuggì rapida evitando un preciso colpo di spada di
Nelunis,
che si accertò immediatamente del mio stato.
Le
risposi distratto, pensieroso.
Quella
donna dagli occhi dorati e i boccoli castani non era la stessa che
aveva assalito il Palazzo. Era: sciupata. Il suo volto non era
più
vivace e giovane ma incredibilmente stanco e preoccupato. Il corpo di
Elian era lento, come se non le importasse. Mi sembrò
rassegnata alla sconfitta, desiderosa della morte.
Si
scambiarono un'altra serie di colpi ma, prima che Nelunis avesse
l'opportunità di assestare un affondo mortale, intervenni
con
un vortice di fogli. La raffica fermò dea guerriera,
oscurandone la visuale, e io riuscii ad avvicinarmi a Elian,
immobile. Mi aveva lanciato delle occhiate rapide, durante lo
scontro, come se mi stesse chiamando.
Appena
le fui davanti sussurrò un'unica, chiara parola.
“Uccidimi”.
Mi spiazzò.
Approfittando
della mia immobilità, Elian, mi sferrò un
poderoso
calcio scagliandomi contro la solida corazza di Nelunis alle mie
spalle.
I
fogli ormai erano tutti caduti per terra e la battaglia poteva
continuare.
Intervenni
altre due volte, stordito.
La
prima volta avvenne per un caso fortuito. Mentre ero preso dai miei
pensieri la vidi venirmi incontro. Era di schiena, intenta a parare e
respingere gli attacchi di Nelunis, troppo indaffarata per accorgersi
di me. La colsi alla sprovvista con un fiume di spade di carta, che
però riuscì a evitare con prontezza non appena se
ne
accorse. Fece un grande balzo con il quale passò sopra la
serie di fogli e me, arrivandomi alle spalle. Lì lo
ripeté
di nuovo. “Uccidimi, Ham!”. Aspettava quel momento,
aspettava la
sua morte.
La
terza volta decisi crearmi l'occasione giusta per colpirla. Mi resi
conto che per evitare i colpi, quando era in difficoltà,
utilizzava dei salti agili, saettando da una parte all'altra delle
mura o delle città. Nelunis la inseguiva, rallentata ma non
appesantita dalla corazza, poiché doveva ingaggiare un
combattimento corpo a corpo. Io invece rimanevo sulla muraglia,
seguendo i suoi movimenti con lo sguardo e lanciandole contro lunghe
scie di fogli affilati.
Quella
volta spiccò un balzo veramente imponente. Dal centro della
cittadella si ritrovò al di fuori delle mura di cinta che
racchiudevano la stessa, sopra la città. Sotto di lei,
decine
e decine di metri di vuoto. Prima che potesse atterrare e allungare
quell'inutile scontro, io la travolsi con quello che era un vortice
di carta bianca. I fogli le si attaccarono al corpo, bloccandola e
avvolgendola come in un bozzolo da quale usciva solo la testa.
Controllando i fogli feci sì che la dea, tenuta immobile, si
avvicinasse a me.
In
pochi secondi fummo uno davanti all'altra. Lei sospesa in aria a
circa un metro dalla cinta, mentre io ero al sicuro sulla cinta,
poggiato contro il parapetto. Lei non perse occasione per dirmelo
un'altra volta. “Perché aspetti, Ham?
Uccidimi!”. Io feci
scivolare le mie mani sul merlo decorato e logoro mentre preparavo
una risposta.
“Perché
io? C'è Nelunis che ci sta provando da una mezz'ora
buona!”
sbottai lanciando un'occhiata alla città sottostante. La dea
delle cose infiammabili sarebbe riuscita a raggiungerci molto
velocemente; non c'era tempo da perdere.
“Sei
l'archivista, Ham. Uccidendomi acquisirai la mia conoscenza... vorrei
che tu scrivessi la mia storia, sai?”
“Cosa
diavolo stai dicendo?” me ne accorsi solo in quel momento:
Elian
era cambiata. Aveva accettato la sua fine ormai da tempo, forse dopo
il fallimento dell'assalto.
“Uccidimi!”.
Alle
sue spalle apparve Nelunis che preparava la sua spada infuocata a un
potente fendente.
Non
avevo scelta, né tempo per pensare. Dovevo essere
più
rapido della mia stessa alleata.
“Muori!”
esclamai trasformando gli stessi fogli che la immobilizzavano in lame
taglienti. Vorticarono lacerando ogni lembo del suo corpo, separando
con forza la testa dal collo. Nelunis interruppe la sua magia,
lasciando che la spada fendesse l'aria.
Era
arrivata lassù saltando sulla parete e usandola come
appoggio,
cose che erano incredibili perfino per una divinità. Si
aggrappò al merlo con una mano, issandosi sulla cinta.
Provò
a parlarmi ma la mia mente era altrove.
Nella
mia mente si erano insinuate informazioni nuove, strane. Ora
conoscevo alla perfezione la storia di Elian, avevo i suoi ricordi, i
suoi pensieri. Imparai in un solo attimo come si riusciva a
impiantare il seme demoniaco in un uomo e conoscevo anche tutte le
informazioni accumulate sull'argomento. Conobbi il suo sogno
così
ingenuo da sembrare umano: cioè annientare gli dei e mettere
al loro posto uomini dotati del seme, affinché formassero
una
forza capace di mantenere l'equilibrio e la giustizia nel mondo.
Ma
cosa più importante, vidi Ham: colui che ero stato, il dio
di
cui ero il rimpiazzo. Appariva poche volte nei suoi ricordi, sintomo
che poco mi conosceva, ma nutriva una grande stima nei miei
confronti. Mi somigliava in tutto, o per meglio dire, io gli ero
identico. Eppure nelle sue mosse c'era una sicurezza che io non
avevo, possedeva perfino un fascino che non avevo mai acquistato. Era
una divinità forte, importante. Io potevo essere la sua
ombra,
non una copia.
Conobbi
l'odio di Elian nei confronti di Sakroi, che aveva fatto pressioni
affinché fosse cacciata e la sua ammirazione per Manius e
Chube. Capii che aveva avuto perfino un'infatuazione per Arone, il
dio dei colori. Sentii i suoi rimorsi per tutte le cattiverie che
continuava a commettere, “colpa della mia indole”
diceva, oppure
“mi hanno creato così”. Giustificazioni
che lei sapeva
come false. Se solo ci avesse provato, forse, sarebbe riuscita a
smettere. Eppure il sadismo era diventata una droga.
La
sofferenza l'alimentava come l'acqua a un arbusto, ne fu assuefatta
finché non ideò questo piano.
Iniziò
a chiedere udienza al Grande Padre, sicura di convincerlo a creare un
mondo nuovo, ma dopo i vari rifiuti del Palazzo pensò di
ottenere con la forza quell'incontro.
Dopo
aver instaurato quel regno governato da un'élite di giusti,
lei sarebbe morta. Mi spaventò questa sua decisione, che
forte
apparve nella mia mente. Lei non sarebbe riuscita a cambiare, non
sarebbe mai stata un buon giudice o guardiano dell'ordine:
così
sarebbe morta. Forse si sarebbe fatta uccidere dagli stessi cavalieri
della pace, o come Kinsis si sarebbe consumata.
Era
una vera stupida, a pensare una cosa del genere.
Era
stata molto abile, a farmi arrivare lì. Aveva contattato
Manius durante un rituale, usando Sandol, e le aveva consegnato
questo messaggio. La dea delle passioni manteneva le promesse e
accettò quella richiesta tanto assurda. In più
aveva
messo a punto questo incantesimo, incredibilmente utile, con il quale
trasferire tutti i propri pensieri al proprio assassino.
Tutto
questo però lo capii in un breve secondo.
“Ham,
tutto bene?” mi chiese Nelunis.
In
realtà dovevo essere io a chiederle una cosa del genere,
vedendone il volto affaticato e il respiro veloce.
“Sì”
risposi. Lanciando un'ultima occhiata giù dalla cinta scorsi
una piccola macchia nella neve e ricordai.
“Corri
a Palazzo e chiama Miun!” esclamai scuotendola appena.
“Krost è
molto ferita!” era così. L'inchiostro e il sangue
erano una
cosa sola: una chiazza color pece che tingeva il bianco della terra.
“Lei
lanciò uno sguardo preoccupato verso la dea della scrittura
e
capì. “Torno subito!” ignorò
la stanchezza e la
fatica, tutto per salvare una sorella.
Provai
un gran rispetto nei suoi confronti.
Lanciando
un debole urlo il suo corpo fu avvolto da un effimero vortice di
fiamme che sparì in un istante: lei era già
scivolata
via. Era un incantesimo di alto livello, impegnativo, che creava una
specie di teletrasporto verso il molo del Palazzo. Molti di noi ne
conoscevano uno.
Quando
arrivai a terra, Krost sorrideva con gli occhi chiusi, dopo aver
immaginato chissà quale nuova storia; un'ultima volta.
Dentro
di me si creò un vuoto, qualcosa che mi spaventò.
Lei
non sarebbe tornata, non avrei più potuto parlarci,
scherzarci, vedere il suo tic degli occhi.
Sembrava
dormire su un tappeto nero, pronta a svegliarsi in qualsiasi momento.
Ciò non sarebbe accaduto, mai più.
La
morte mi sembrò come una caduta. Per dirla da romanzetto,
che
lei leggeva con emozione: è una caduta nella lunga strada
che
è la vita; nell'immediato non senti molto, ma non appena
riprendi il cammino ne senti il dolore. Ecco: era proprio
così.
Me ne rendevo conto. Quella era la punta di uno scoglio che avrei
affrontato più avanti, nei giorni futuri.
Piansi
come non facevo da moltissimo tempo. Ricordai cosa si provava quando
con le lacrime scivolano via i problemi e le preoccupazioni. Fu
qualcosa di potente, molto di più della magia, che
riuscì
a riportare la quiete dentro di me.
Piansi
per Krost, per il vecchio Ham, per Elian, per Valanz, per Revery e
per tutti gli altri che avrebbero sofferto durante la guerra,
perché
sapevo che anche altri sarebbero probabilmente morti. E faceva male.
Mi
scaricai, appoggiando il volto al suo grembo.
Alla
fine tornai l'archivista. Con gli occhi rossi posai una mano su
entrambi i corpi come costretto da ciò che era il mio
lavoro.
Acquisii
tutte le loro informazioni, i ricordi e le idee. Un corpo morto
è
molto più facile da violare e se il decesso è
recente
tutti i pensieri sono nitidi e distinti.
Alla
fine sarei tornato al Palazzo, avrei chiarito i conti con il mio
assassino e avrei messo fine a questo stupido conflitto. Avevo
deciso.
Nelunis
era appena arrivata al molo. Il vortice di fiamme durò un
secondo, facendola comparire su quel pontile di pietra dura, unico
accesso al regno divino. Fu una cosa rapida.
Sentì
immediatamente una fitta e strizzò gli occhi. Le ci vollero
alcuni attimi per capire che era una spada di fattura sacra,
fabbricata da Kodunai, che le aveva attraversato il petto.
Davanti
a lei Crever, di spalle. Le aveva lanciato un affondo da quella
posizione scomoda, con forza tale da romperne la corazza e ferirne il
corpo. Che stupida, si disse, che morte idiota.
Lui
non si voltò ma si sgranchì il collo.
Era
giunta nell'attimo sbagliato, Nelunis, lo stesso del traditore. Un
secondo più tardi e forse sarebbe riuscita a ingaggiare un
combattimento, un attimo prima e gli avrebbe parato la strada.
Invece, maledendo il fato, era accaduto in quel modo.
Lui
era appena giunto e lei gli apparve alle spalle, ignara. Il dio
scagliò il suo attacco troppo rapidamente per lasciarle un
margine di reazione.
“Una
bella giornata, non trovi?” le chiese lui ironico.
Quando
la lama scivolò fuori dalla dea essa era consapevole della
propria sconfitta.
La
battaglia iniziata nella Foresta Bianca era terminata in quella
maniera, decretando il più forte. Colui che sarebbe
sopravvissuto.
Lei
aveva sempre creduto alla legge del più forte, la brutale
regola della natura, e per quello accettò la morte come
punizione della sua debolezza.
Che
cosa sciocca, continuò a ripetersi Nelunis, mentre il corpo
perdeva di peso e la mente si abbandonava a un improvviso sonno.
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Capitolo 24 *** Come bravi fratelli ***
Capitolo
24 – Come bravi fratelli
Si
lanciarono un occhiata sicura, mentre davanti a loro la situazione
andava cambiando.
La
perversa, la cuoca e il gatto si ritrovarono ben presto a combattere
contro qualcosa che di umano aveva ben poco.
Gambe,
braccia, busti e volti. Raffaella si era trasformata in un'intricata
rete di arti che la reggevano in piedi, formando una piccola cupola
dalla quale svettava una testa di donna. Non amava quella forma, non
adorava materializzare tutte le anime possedute, ma la stavano
mettendo in difficoltà.
Da
quella foresta di carne fuoriuscirono tre teste che rigettarono
braccia, dalle quali uscirono altre braccia, che a sua volta
evocarono altre braccia. Come tre fruste si avventarono sugli dei,
che rapidi evitarono l'attacco avanzando.
Una
cosa disgustosa, un essere ripugnante. I tre la pensavano allo stesso
modo e così Nima, che si stringeva a Niel dentro il tempio.
Osservavano attraverso una finestrella, certi di essere al sicuro.
Per
quanto Katyana tagliasse, la nemica si rigenerava; per quanto Manius
o Maonis lacerassero quella carne si rimarginava troppo velocemente.
Era stato uno spreco di forze inutili. Avevano macellato il suo
corpo, sperando che la sola testa di Raffaella fosse un pericolo di
poco conto. Avevano però dovuto scontrarsi con quel potere
maledettamente infido, che permetteva alla dea del fallimento di
rinascere anche dal più piccolo lembo di pelle.
“Tagliamole
la testa!” ordinò Manius trasformandosi in una
grossa bestia
dorata. Era in tutto e per tutto uno scorpione gigantesco, con due
paia di chele e una lunga cosa munita di lama all'estremità
equipaggiata in questo modo riuscì a farsi strada tra le
armi
di carne che le venivano lanciate contro. Lunghe catene di braccia
cadevano su di lei come frecce e lunghe catene di gambe le piombavano
addosso come martelli. Gli strumenti dell'animale, per tagliare o
schiacciare, uniti alla corazza coriacea sul dorso avevano
trasformato Manius in una macchina da guerra. Eppure il suo scopo era
quello di prendere tempo, attirando l'attenzione della nemica.
L'idea
era buona. Benché la testa potesse rigenerare il corpo,
usando
le anime rimanenti, sarebbe stata separata da quell'ammasso di corpi
e arti. Perdere quell'imponente e ripugnante corpo sarebbe stato come
eliminare decine di spiriti in un colpo solo.
Maonis
con l'agilità tipica di un felino, arrivò rapido
sulla
cima della cupola trovandovi il volto di Raffaella, che faceva da
punto di origine per tutto. Con i suoi ardigli incandescenti
lanciò
un attacco capace di lacerare anche una corazza, ma quel colpo non
incontrò nessuna testa. La dea aveva ritirato il capo,
facendolo sparire, come 'inglobato' dalla cupola stessa. Sicuramente
ora andava a comparire da un'altra parte, di quell'intricata rete.
“È
fuggita!” esclamò il gatto balzando via, verso la
base.
“Poco
male” rispose Katyana alle sue spalle. Mentre il suo alleato
assaltava il volto mascolino di quella divinità lei era
scattata in alto, caricando un fendente. Atterrò appena,
posando le punte degli stivali a una gamba tesa, e fece cadere con
forza la spada contro la carne pallida del mostro.
Per
la forza impressa e un piccolo potenziamento magico, quel fendente,
fu capace di tagliare a metà l'intero corpo, lasciando che
le
due parti cadessero a terra come il guscio di un uovo rotto.
Il
tonfo alzò un mare di polvere, distruggendo quel poco che
rimaneva del cortile.
L'intera
città ormai stava scappando, spaventata. Solo pochi folli, o
coraggiosi, erano rimasti a guardare da una debita distanza.
La
voce di quello scontro si stava spargendo rapidamente,
cosicché
tutto il regno in meno di una giornata fosse in stato d'allarme. Gli
dei erano in guerra e gli uomini temevano ciò.
Manius
riacquistò la sua forma umana, coprendosi con una camicia
chiara e pantaloni di pelle, trasformando le proprie mani in lame
affilate.
I
tre dei rimasero per un attimo fermi, guardando le due parti attorno
a loro. Dovevano scoprire quale delle due era viva, in quale
metà
si nascondeva Raffaella. Per farlo attesero un attacco.
Dal
groviglio di arti che improvvisamente aveva ripreso vita,
fuoriuscirono lunghe braccia artigliate e serpentine, incredibilmente
rapide.
Dopo
di loro è il nuovo corpo della dea a fare capolino. Niente
più
forme e corpi inutili, solo il suo. Il corpo nudo di una donna
incredibilmente magra e le sue braccia, diventate così lunga
da sembrare fruste vive. In cuor suo sa che per quanto il suo spirito
sia forte non potrà continuare per sempre. Deve uccidere i
tre
adesso, rubarne l'anima come magra consolazione per quelle perdute e
bere il sangue del ragazzo.
Lui
l'aveva informata, lui le aveva detto che c'era qualcuno con il loro
stesso potere, vicino all'arida piana che ospitava Knossa. Lei come
sempre si era fidata ma stranamente aveva incontrato un imprevisto.
Per un attimo pensò che era stata una trappola, un piano ben
congegnato. Lei era stata usata come esca per allontanare delle
presenze dal Palazzo.
E
sia, si disse. Se lui aveva architettato questo lei
sarebbe
stata al gioco. Alla fine erano alleati, quasi amanti. Il mondo si
sarebbe piegato al loro volere.
Katyana
e Maonis si erano avvicinate troppo. Dal suo busto uscirono delle
ulteriori braccia serpentine, che presero in pieno il corpo della
cuoca ed evitando il felino per un soffio. Fu un impatto terribile,
che sbalzò la dea vittima alcuni metri indietro, spuntante
sangue.
Raffaella
approfittò dell'occasione, munendo di affilate unghie quei
nuovi arti e li scagliò contro la dea a terra.
Sangue
e gemiti.
Katyana
strinse i denti, mentre il suo corpo venne trafitto da una serie di
punte feroci e Raffaella fece lo stesso, quando senti il freddo
metallo di Manius attraversarle il petto. La dea del fallimento
chiuse gli occhi, sopportando il dolore e reagendo prontamente a quel
colpo. Dalla sua schiena uscirono altre braccia, tutte munite di
artigli, che tempestarono il corpo della perversa.
Raffaella
ritirò tutti quegli arti in eccesso, ansimando stanca e
nuda.
Manius
vacillò, sul punto di cadere a terra, ma restò in
equilibrio. Katyana si rialzò, scagliando maledizione a
chiunque, mentre tentava di sopportare il dolore. Maonis le
atterrò
accanto, pronto a riprendere lo scontro.
Quanta
fatica.
Aveva
quasi finito di salire le scale, quando su di lui si avventò
Miun. Evitò con facilità il colpo e
ricambiò
ferendola alla spalla. La dea della medicina non aveva mai combattuto
in vita sua, ma quasi per istinto, aveva imbracciato le sue armi e si
era gettata contro l'invasore.
L'ingresso
sembrava deserto, neppure il vento aveva il coraggio di soffiare.
“Anche
tu?” sospirò Crever stringendo la mano attorno
all'impugnatura della spada, mentre l'altra era nella tasca dei
pantaloni, a riposo.
Miun
attaccò di nuovo, questa volta lanciando i suoi aghi neri e
intrisi di veleno. “Ti fermerò con
questi!” trovò
il coraggio di esclamare. Crever li evitò tutti e la
colpì
nuovamente con la propria, lama. Questa volta il colpo era stato
decisivo, nel ventre. Lei sputò sangue.
Il
dio pensò che fosse quasi uno spreco, uccidere tutti questi
dei: soprattutto, così velocemente.
Prima
Nelunis, al molo, così forte e decisa. Poi c'erano stati
Gribio e Diena, apparsi lungo la scalinata. Anche loro, così
teneri, avevano terminato la battaglia iniziata alla Foresta Bianca.
I loro corpi ora riposavano sulla fredda pietra, riposti a un lato
della scala. Infine Miun, la grande esperta di medicine.
“Dov'è
Revery?” chiese.
L'altra
non alzò lo sguardo ma si limitò a rispondergli,
con un
filo di voce. “Lei non è più con noi da
molto. Sei
arrivato tardi”. Lui soffiò spazientito.
Tirò fuori
spada dal corpo della dea e la colpì di nuovo. Avrebbe
potuto
decapitarla, ma non era nei suoi metodi. Meno sangue versava meglio
sarebbe stato, inoltre i corpi interi erano più facili da
trasportare e migliori all'aspetto. Questa volta l'affondo la
colpì
all'altezza del cuore, deciso e violento.
Lui
sembrò incupirsi per un attimo, mentre riponeva il corpo di
Miun su un lato, così che non ingombrasse l'ingresso.
Qualcuno
però aveva assistito alla scena nascosto dietro il portone.
Lei lo fissò uscendo, stordita dal suo risveglio. Lui
reagì
rapido, mettendosi in una posizione di guardia. Gli bastò
scorgerla per rilassarsi, quasi sollevato.
“Ci
crederesti se ti dico che Miun mi aveva appena assicurato che eri
morta?” le disse accennando un sorriso.
Revery
mosse dei timidi passi verso di lui, mostrando il suo corpo coperto
da una corta camicia da notte lilla, e la spada che impugnava. I suoi
occhi si concentrarono su Crever. “Forse è
così”
rispose. “Sono rimasta a lungo in un letto. Ho i muscoli
intorpiditi”.
“In
un letto? Sonno o cose porche?” accennò lui
ironizzando.
“Credo
sia stata una specie di morte, fratello. Ero perduta in uno spazio
infinito, priva della voglia di muovermi o cercare un'uscita. Ero
sola”.
Lui
distolse lo sguardo, perlustrando l'area attorno a sé.
“Ma
ora sei sveglia”.
Lei
annui triste. “Qualcuno mi ha richiamato indietro.
È una
cosa triste, no?”. Si ricordò il risveglio, quando
la luce
l'aveva colta di sorpresa irritandola. Si era ritrovata a terra,
stesa vicino ad altri corpi. Dopo essersi ripresa aveva sistemato
Lorissy e Valanz l'uno accanto a l'altro e li aveva coperti con il
lenzuolo bianco del suo letto, posto nell'angolo sotto la finestra.
Si era stupita del silenzio, un silenzio preoccupante per il Palazzo
ed era uscita da quella sala.
Aveva
sentito un brusio provenire dalla parte più interna, ma lei
non ne era attratta. Scivolò rapida verso l'uscita,
afferrando
una delle raffinate spade appese lungo il corridoio centrale. Era
tanto che non ne impugnava una, ne aveva perfino dimenticato il peso.
“Abbastanza”
scherzò lui.
Lorissy
e Valanz l'avevano raggiunta, chiamata e svegliata, ma i loro spiriti
non erano riusciti a tornare indietro. Ma forse lo sapevano entrambi,
anzi, lo avevano sperato.
“Ora
dobbiamo combattere. Tu non puoi passare”.
La
riconobbe, finalmente. Si era presentata come una ragazzina esile e
confusa, ma ora era tornata la donna che ricordava: forte e decisa.
Una vera guardiana, colei che morirebbe piuttosto che fallire.
Lui
le si avventò contro, rimanendo però deluso dopo
il
secondo attacco.
Le
possibilità era due: o lui era diventato incredibilmente
forte, o Revery si era indebolita. Aveva già acquisito il
vantaggio, lei indietreggiava e sembrava sul punto di cedere.
Si
fermò. “Cosa ti succede?” le chiese
preoccupato.
“Credo
di aver perso i miei poteri” disse atona. La cosa non la
toccava
minimamente, non più. Dopo il suo risveglio si era sentita
vuota, perduta. Il suo compagno era morto, insieme a chissà
quanti fratelli. Se le emozioni avessero invaso nuovamente il suo
spirito sarebbe crollata.
Lui
sgranò gli occhi.
“Brutta
storia”.
“Combatterò
ugualmente” lo rassicurò, ma Crever era scontento.
Contrario
a quella scelta.
“Non
è leale, capisci?” ribatté. Lei
sembrò
stupirsi.
“Da
quando ti importa della lealtà?”
“Mi
offendi, sorella. Io non sono scorretto, sai? E poi questo è
uno scontro speciale, dev'essere tutto perfetto”. Si
guardò
attorno, trovando infine la soluzione ai suoi problemi. Il suo volto
si illuminò e Revery sembrò non capire.
Si
gettò verso quegli aghi neri sparsi al suolo, intrisi di
veleno. Miun aveva detto qualcosa a riguardo. Ottimo.
Con
decisione ne prese uno e se lo piantò nella spalla,
estraendolo solo dopo alcuni secondi. Ripeté l'operazione
altre due volte, strizzando ogni volta gli occhi come un bambino
durante una puntura.
Attese
alcuni attimi, ma non sentì nulla nel suo corpo cambiare.
La
gemella aveva finalmente compreso i gesti di Crever ma era perplessa.
“Proviamo,
dai” esordì lui, afferrando nuovamente la spada e
gettandosi
nella lotta.
Lei
reagì, trovandosi questa volta contro qualcuno al suo pari.
Era però rimasta colpita dalla determinazione e dalle azioni
di Crever.
I
colpi di spada risuonarono con forza nei corridoi, distraendo appena
Chube.
Era
ferma, con la sua figura magra e slanciata, coperta da un vestito
rosso semplice ma elegante.
Fece
dondolare un poco la testa, così da allontanare i capelli
neri
dal viso.
“Non
passerai” esclamò.
Colui
che le stava davanti sorrise. “Questa non è una
tipica frase
di Revery?”
Lei
annuì. “Sì. In realtà sono
lei travestita”.
Non c'era divertimento sul suo volto, lei non amava la battaglia.
Sporcare gli interni del Palazzo con il sangue di un fratello sarebbe
stato un oltraggio, oltre che un lavoro in più per lei in
seguito: per pulire.
Eppure
nella sua testa lo sapeva chiaramente cosa sarebbe successo. Due
enormi forze che si scontravano.
O
vivi o muori.
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Capitolo 25 *** Il corridoio delle anime ***
Capitolo
25 – Il corridoio delle anime
Persi
tempo, tempo prezioso.
Trasportai
i corpi di Krost, Sandol ed Elian all'interno delle rovine,
sistemandoli con rispetto.
Alla
fine tornai all'esterno, disturbato da un vento freddo che si era
appena alzato. Mi osservai la mano destra dolorante. Scrutare
entrambi, rubarne ogni informazione, mi era costato molto tempo e un
crampo.
“Quanto
ci ho messo? Mezz'ora?” mi domandai camminando sulla cinta.
Non
c'erano altri attimi da buttare: in un turbine di carta anche la mia
sagoma sparì, diretta al molo.
Katyana
cadde a terra, ansimante. Manius arrancò fino a un grande
blocco di muretto rimasto miracolosamente intatto e Maonis spense le
sue fiamme stanco.
C'erano
macerie e sangue ovunque, ma ciò che più
importava era
averla sconfitta.
Laggiù,
vicino a un'ala del tempio crollata, c'era ciò che rimaneva
di
Raffaella: una testa. Dopo due ore di battaglia le anime erano finite
e lei aveva ceduto alle tentazioni della morte.
Un
tempo troppo lungo anche per delle divinità.
Nima
e Niel uscirono di corsa dal loro nascondiglio, al di là
della
strada e si avvicinarono ai tre. Durante la battaglia il tempio aveva
rischiato troppe volte di essere distrutto e una parte di esso era
ridotta in macerie, dunque i due umani avevano deciso di
allontanarsi.
La
sacerdotessa corse il più rapidamente possibile, ingombrata
dalla lunga veste, e il ragazzino scattò rapidissimo.
“Tutto
bene?” domandò Niel appena arrivato vicino a
Manius,
rivolgendosi però a tutto il gruppo.
Di
risposta ottenne due sguardi vuoti e un lamento. Forse non andava
così bene.
La
cuoca riportava più di una ferita, che unite allo sforzo
appena fatto, la fecero crollare a terra in uno stato pietoso. Manius
e Maonis avevano subito meno danni, ma sentivano di non poter fare un
altro passo senza cadere rovinosamente al suolo. All'arrivo della
sacerdotessa, però, l'aria si fece più
tranquilla. Una
brezza gelida accarezzò gli dei, alleviando le loro
sofferenze.
“Che
disgrazia!” esclamò. La prima cosa che fece fu
sistemare il
corpo di Katyana in posizione supina. Recitando una breve formula,
poi, attinse a tutte le scarse conoscenze di magia curativa per
curarla.
Una
flebile luce verdastra illuminò i palmi della donna mentre
toccava il petto della dea. Toccare una divinità non era
concesso, si disse, ma in quel caso probabilmente non rischiava
nessuna punizione.
Mentre
si impegnava a rinvigorire lo spirito della giovane si rivolse agli
altri due. “Divini, io non sono al vostro livello ma posso
provare
ad alleviare le vostre pene in qualche maniera, se me ne date la
possibilità”.
Maonis
si avvicinò a Niel, ignorandola senza però
riuscire a
fare molto. Manius aprì più volte la bocca, senza
però
riuscire a parlare. Così si concentrò,
respirò
con forza e rispose: “Ora abbiamo solo bisogno di un lungo
riposo,
queste ferite sono di poco conto”. Era evidente che non
sarebbero
riusciti a tornare a Palazzo prima di una lunga dormita e qualche
buona mistura di erbe.
La
dea perversa si chiese che cosa stava accendo agli altri, ma il suo
sguardo preoccupato tornò normale incrociando quello cupo di
Maonis. Lui aveva dei sensi molto più sviluppati, lui aveva
percezioni differenti.
“Cosa
succede?” chiese senza la forza di allarmarsi.
Il
gatto volse il capo, sfinito.
“Una
cosa grave. Sento qualcosa di negativo che avvolge il
Palazzo”.
I
due però non riuscirono a continuare, anzi, non ne ebbero la
forza. Fu Niel a prendere parola.
“Potete
bere il mio sangue”.
Quell'affermazione
riuscì a toccare tutti i presenti. Rimasero anche stupiti di
ciò che aveva appena fatto: usando una pietra scheggiata si
era procurato un taglio lungo il palmo della mano sinistra.
Era
stato deciso, sicuro e freddo nel fare ciò. Il silenzio
divenne il padrone della scena, finché Nima, turbata, non
rispose con forza: “Ma cosa dici Niel, sei forse
impazzito?”
Lui
si voltò, ormai quest'idea lo aveva convinto. Il sangue
stava
ormai cadendo come un piccolo fiume, senza nessun controllo.
“Lo
voleva bere quella donna, no? È probabile che, se ne dono
una
piccola parte a tutti, possiate riprendervi alla svelta e andare a
vedere che succede”. Anche lui aveva il medesimo
presentimento.
Niel
vibrava in modo strano, come prima che arrivasse Raffaella. La stessa
sacerdotessa, in quel momento, si accorse di sentirsi triste, per
qualcosa che non comprendeva.
Forse
era colpa del legame. Forse era una cosa importante.
La
dea delle passioni afferrò per il polso il ragazzo, in un
ultimo impeto di forza e si portò alla bocca il palmo,
leccandone il sangue. Lo gustò inorridita e piegata dalla
fatica, senza sentire nessun effetto.
Manius
sbuffò. “Lascia stare, ragazzino. Questa
è una magra
consolazione, ci vorrebbe tutto il tuo sangue per ridarci le energie ed
potrebbe anche essere una perdita di tempo. Alla fine il micio qui
ha solo un presentimento” al suono di quel nome il dio
sembrò
adirarsi. La stanchezza però non gli permise di mantenere
quell'espressione a lungo e lasciò perdere.
“No!
Anch'io sento qualcosa che non va. E lei, Nima, non percepisce
qualcosa di strano che non riesce a spiegarsi?”
La
donna non seppe se confessare la sua preoccupazione o fare finta di
nulla, così ci pensò.
“Sì,
c'è un senso di disperazione, di vuoto. Sono apparsi
all'improvviso. Ma ciò che dice la divina Manius
è la
verità: è meglio per loro riposarsi che bere il
tuo
sangue, potrebbe privarti delle forze vitali”.
“Ma
voi, dei, non sentite qualcosa? Possibile che non percepiate
quest'energia negativa?”
Maonis
si girò, mostrando la grande pancia al cielo ormai scuro.
Sospirò: non aveva davvero voglia di parlare, né
ne
possedeva la forza. “Siamo solo stanchi” rispose.
Niel
però non poteva lasciare che le cose andassero in questo
modo.
“Vi
prego! Succhiatemi via quanta energia volete ma andate a vedere... io
non voglio che a Ham succeda qualcosa”.
La
sacerdotessa si fermò, resistendo a quel brivido che le
scese
lungo la schiena. Alla fine il ragazzo aveva a cuore solo
l'archivista, del resto della casta non gliene importava nulla.
Manius però sorrise, quasi compiaciuta di quel sentimento
così
forte che il ragazzo e la donna provavano.
“Tu
ti preoccupi troppo. Dopotutto, Ham è un'edizione
speciale”.
Le
spade sembravano attrarsi a vicenda.
Ogniqualvolta
Crever lanciava un attacco, di qualsiasi genere, sua sorella riusciva
a deviarlo o respingerlo e ogniqualvolta Revery lanciava un attacco,
di qualsiasi genere, suo fratello riusciva a respingerlo o deviarlo.
Era
troppo uguali per sorprendersi o sopraffare l'altro.
Loro
erano cresciuti insieme, nel giardino.
Fin
dalla notte dei tempi Crever e Revery avevano giocato sotto il melo,
fatto la guardia e ucciso demoni. Si erano allenati insieme ed
entrambi conoscevano le stesse tecniche con le armi. Pure di
esperienza i due si assomigliavano.
Non
c'era attacco che non venisse riconosciuto, né una mossa
imprevedibile.
Sarebbe
diventata quindi una prova di resistenza, tra chi dei due fosse
durato di più.
Un
nuovo gioco per Crever, una pericolosa sfida per Revery.
Il
suono delle armi risuonò in tutto il palazzo inizialmente,
poi
si disperse nel cielo sopra il cortile esterno e la salinata. Nella
loro lotta si mossero molto, cambiando le posizioni, invertendo i
ruoli e cercando uno spiraglio nelle difese del nemico.
Poi
un passo sbagliato, la distrazione di un attimo e Revery
assaggiò
di nuovo il dolore. Si portò una mano alla spalla appena
ferita, sicura che il gemello non avrebbe osato di nuovo. Si
scambiarono un occhiata furiosa rimanendo immobili, pronti a
ricominciare la battaglia al minimo movimento.
Forse
il suo corpo era troppo debole, pensò lei,o forse era stato
un
caso.
Potevano
continuare a danzare.
Ero
in terribile ritardo sugli eventi.
Arrivato
al molo mi paralizzai inorridito dalla visione.
Nelunis
morta, stesa sulla lastra di pietra fredda. Gli occhi aperti e la
testa rivolta di lato, verso il vuoto. Il cielo si era tinto di scuro
e il sole lasciava posto alla notte.
Silenzio.
Sentii
il fragore delle spade, lassù: lontano da me.
Tutto
si confuse e sbiadì, come una macchia che viene lavata via
con
forza. Non avevo altre lacrime, Krost me le aveva portate via tutte.
Non piansi quindi, ma mi accovacciai al suo fianco.
Nelunis
era una guerriera, colei che comanda il fuoco e i ritmi della guerra,
com'era possibile che fosse morta così?
La
mia mano scivolò sul suo volto. Avrei letto le sue memorie,
le
avrei fatte mie. Se il Grande Padre mi aveva ordinato di sopravvivere
allora io lo avrei fatto, conservando dentro di me i suoi sogni, i
suoi ricordi e le sue idee. Così come avevo fatto per Elian
e
Krost prima di lei.
Un
nuovo spiraglio di vuoto. Quanti fratelli avrei perso ancora?
La
pietra scivolò via e mi sentii sprofondare nel vuoto. La
potevo toccare, ma non riuscivo a percepirla più.
Un
mese prima io non avrei nemmeno pensato tutto questo. Stavo seduto
nel mio studio a catalogare gli eventi mentre il resto della casta
viveva la sua routine. Katyana preparava dei dolci e Chube la
intratteneva con qualche chiacchiera di poco conto. Revery si
annoiava, nel giardino, aspettando un qualche invasore che provava a
valicare il regno divino; insieme a lei Lorissy che le lanciava
occhiate che celavano un certo affetto a cui lei ricambiava discreta.
Poco più in là Sakroi predicava l'ordine e Maonis
dormiva sulla scrivania. Sulla terra invece Manius si godeva un altro
uomo, o un'altra donna e Arone rifletteva nel silenzio del bosco.
Infine Nelunis combatteva una stupida guerra e Krost vagava per i
regni leggendo romanzi sognante.
Perché
invece tutto era cambiato? I loro corpi immobili mi ricordarono
ciò
che avevo per lungo tempo letto nei resoconti ma che credevo lontana:
la morte.
Rimasi
fermo, a lungo, svuotando la testa della dea. Compresi le sue
motivazioni, compiansi il suo essere schietta e violenta, forse feci
mia anche un po' della sua rabbia immotivata. L'avevano creata
così,
dopotutto. Allora ricordai anche il vecchio Ham, colui che era venuto
prima di me. Il dio che era stato ucciso ma di cui nessuno sapeva
nulla. Morto e rinato in un solo giorno, ero stato proprio un bravo
rimpiazzo per tutti questi anni.
Forse ciò che traspariva dal volto di
Kinsis nei miei sogni era la
rassegnazione al dolore o semplicemente ciò che rimane di
una
persona consumata dallo stesso. Lei aveva perso il suo amato Ham, io
avevo perso tre sorelle in un solo giorno. Per quanto sadico fosse
questo pensiero io ero certo che qualcun altro sarebbe caduto.
Dopo
averla letta, avvolsi Nelunis in un bozzolo di fogli e carta
trasportandola in un luogo più tranquillo. Procedetti con
passo lento, a ritmo dei colpi di spada che continuavano a suonare
forti nell'ingresso.
La
lasciai nel giardino, sotto il vecchio melo e proseguii.
Quando
lungo la strada incrociai anche i corpi di Gribio e Diena, i fratelli
innamorati, non potei che trarre un lungo respiro. Tutto troppo
velocemente, mi stavo maledettamente abituando.
Volevo
piangere, disperarmi, ma non ci riuscii.
Decisi
che avrei sofferto alla fine di tutto, davanti a un panorama
suggestivo. Davanti magari a un mare invernale o una radura immensa.
Mi sarei lasciato andare lì, forse per giorni, lasciando che
le emozioni mi travolgessero come onde potenti.
Ma
non era ora e non era qui. Non nel bel mezzo di una guerra.
Mi
chinai su di loro per compiere quel rituale che tutto a un tratto mi
sembrò noioso e stupido. Quanto tempo avrei perso ancora per
conoscere le loro menti?
Chissà
cosa avrei fatto se non fossi morto quella volta. Chissà se
il
dio Ham che era stato prima di me si sarebbe comportato in questo
modo.
No,
mi risposi. Lui era forte, perfino Elian lo ricordava come un essere
rispettabile e rispettoso.
Io
alla fine ero solo una copia.
Salii
l'ultimo gradino e mi ritrovai all'ingresso.
Lì
mi aspettava Revery, in ginocchio, che teneva in braccio Crever.
Avevano
combattuto ferocemente fino alla fine. Entrambi i corpi portavano
chiari i segni della battaglia. Crever però aveva ceduto,
dopo
essere calato pesantemente sulla sorella. Era stato quel veleno, alla
fine lo aveva indebolito più del previsto permettendo a
Revery
di infliggere il colpo mortale..
Crever
lo aveva intuito fin dall'inizio: quello non sarebbe stato un
incontro leale.
Chissà
perché riuscì ad accettarlo, anzi, lo decise lui
stesso. Come altri, come una macabra moda, aveva preso il cammino che
conduce alla morte. Di sua spontanea volontà.
Era
davvero un pazzo.
La
dea mi guardò e sorrise, mentre io mi preoccupai del rigolo
che le usciva dalla bocca.
“Revery!”
gridai correndo verso di lei.
Quando
le fui vicino vidi il corpo di Miun riverso da una parte.
Ciò
mi colpì, senza però distrarmi dalla sorella che
si era
risvegliata. Lei annuì, come per farmi capire di aver
sentito
e attese alcuni secondi prima di rispondere.
“Miun
è morta” sospirò.
“È stato Crever”.
Ero
riuscito a capirlo perfettamente, mi parve anche ovvio, ma non glielo
feci notare. Feci una smorfia contenta, perché per la prima
volta non vedevo qualcuno morire ma rinascere. Ero quasi felice, ma
tutto ciò che era accaduto non mi permise di far attecchire
quella scintilla. C'era molto sangue attorno a loro due e mi accorsi
che la veste bianca della dea ne era macchiata sul ventre. Pensai
fosse perché lì aveva stretto a sé il
fratello,
ma forse non era così.
“Sta
succedendo qualcosa, Ham. C'è qualcuno che sta combattendo,
va
dentro!” iniziò indicando il Palazzo.
“Mi dispiace ma sono
molto stanca, non ce la faccio ad andare a controllare”. Lo
disse
sfiancata, con gli occhi socchiusi, come un bambino che prova a
resistere inutilmente al sonno.
Stanca?
Revery non è mai stanca, mi dissi. Lei avrebbe difeso il
Palazzo a costo della vita.
Inizialmente
sospettai che l'aver ucciso il proprio gemello l'avesse stordita ma
infine capii. La sua espressione poi era un chiaro monito del suo
stato.
Mi
aveva gentilmente chiesto di lasciarla sola, per morire senza sentire
intorno a sé urla, lacrime o frasi fatte. Una ragazza forte.
L'occhiata che mi lanciò dopo mi impietosì. Mi
stava
implorando. Era stato troppo anche per lei. Ero quasi commosso
dall'aura che emanava. Una flebile energia che avrebbe resistito
finché non me ne fossi andato, per poi spegnersi come la
fiammella di una candela ormai consumata.
“Non
preoccuparti, Revery. Hai lavorato duramente per tutti questi anni,
se ti prendi una pausa nessuno si arrabbierà”
rimasi al suo
gioco, dirigendomi verso la porta.
“Grazie”
riuscì a dire con un filo di voce. Stava forse piangendo.
Eppure
io avevo altro da dire. Tutto ciò era maledettamente
assurdo.
“Sopravvivi” mi aveva detto il Grande Padre, ma
come poteva
ordinarmelo? Con che coraggio mi chiedeva di sopravvivere ai miei
fratelli? Mi chiesi per quale motivo dovevo farlo: forse per narrare
il futuro, documentarlo.
Ma
quale futuro può chiedere tutti questi sacrifici?
Allora
le parole mi si strozzarono in gola. Mi immobilizzai dopo alcuni
passi, sotto l'alto soffitto del Palazzo. Strinsi i pugni, mi morsi
il labbro inferiore con forza e ricominciai a piangere. Poche lacrime
questa volta: una manciata.
Sperai
che morisse, volevo gridarlo affinché tutti potessero
sentirmi, anche sulla terra. Volevo che chiunque si sentisse in parte
coinvolto, nel suo piccolo colpevole.
“Muori
Revery!” avevo voglia di dirle. “Muori senza
preoccupazioni”.
Perché dannarsi del nostro giudizio? Che motivo stupido per
sopravvivere.
Tanto
valeva allora morire tranquilla e scoprire cosa c'è al di
là.
Neppure un dio ne era certo.
Incontrare
forse Nelunis, Krost, Elian e tutti gli altri, oppure sparire per
sempre. Qualsiasi soluzione era meglio del dolore.
E
dentro di me la pregai, affinché mi portasse con
sé.
Ovunque fossi finito avrei abbandonato volentieri tutto ciò.
Se fossi morto non avrei avuto avuto responsabilità, dolore
e
colpe.
Ripresi
a camminare lungo quel corridoio dai colori chiari, illuminato dalle
pietre lucenti appese lungo le pareti. Fuori ormai era calata la
notte.
Iniziai
a correre finché non vidi i muri distrutti, le mattonelle
rivoltate e macerie.
Uno
scontro si era già consumato, portandosi con sé
una
grande ala del Palazzo. Ero sconcertato.
Per
qualche strana ragione la struttura continuava a reggersi in piedi,
anche se quello che un tempo era stato il lato Ovest ormai era un
mucchio di rovine.
Vidi
anche l'autrice di tutto ciò: Chube. A terra, schiacciata al
suolo.
Il
vestito era strappato in troppi punti, lasciandola semi nuda alla
brezza pungente che entrava dal varco creatosi nella lotta. Era
però
viva.
Respirava
regolarmente ed emanava energia. Era stata sfinita, sconfitta ma era
sopravvissuta.
“semplicemente
svenuta” commentai sentendomi sollevato.
Cercai
tra quelle macerie qualcosa che la potesse coprire e infine raccolsi
un grosso lembo di tenda, che trascinai fino a lei. Gettandolo sopra
la sua figura esile pensai a cosa poteva essere successo. Ovviamente
una battaglia, cruenta, ma contro chi? Chube era una
divinità
molto forte e se era stata costretta ad abbattere una parte della sua
casa sicuramente anche il suo nemico lo era.
La
dea possedeva un potere terrificante, quindi chiunque l'avesse
sconfitta era di grande abilità.
Facendo
un calcolo gli invasori erano finiti, Crever, Raffaella ed Elian. Non
c'era dubbio che colui che ora aggrediva i miei fratelli era un nuovo
traditore. Il capo di tutto, l'infiltrato della casta.
Lo
avevo temuto fin dall'inizio, Elian lo aveva sospettato a lungo. I
pensieri della dea del ciclo mi avevano rivelato quest'ipotesi, cui
non avevo dato peso.
Dunque
l'attacco al Palazzo era stato guidato da qualcuno che conosceva le
nostre mosse. Qualcuno che sapeva della spedizione contro Elian e che
aveva usato Raffaella come esca. Non capii comunque, l'incontro
contro la dea fallita era stato un caso fortuito, o forse era giocato
a suo favore.
Certo:
il traditore aveva pensato di far uccidere Niel da Raffaella,
così
da attirarci da lei. Il fatto che io e Katyana avessimo interrotto
ciò era comunque girato a suo favore, senza rovinare il
piano.
Dovevo
arrivarci subito, mi dissi, altrimenti come avevano fatto Maonis e
Manius a saperlo? Era stato il traditore ad avvertirli, a mandarli
dalla dea.
Meno
presenze c'erano a Palazzo più velocemente sarebbe arrivato
al
Grande Padre.
Ripresi
a correre, verso il nuovo nemico, verso l'assassino del vecchio Ham,
verso la verità.
Sentii
la sua voce provenire dalla fine del corridoio. Era Sakroi il mio
bersaglio.
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Capitolo 26 *** Fate silenzio, prego ***
Capitolo
26 – Fate silenzio, prego.
Arrivai
infine notando Sakroi e Jester.
Non
si accorsero di me, erano troppo impegnati a fare altro: combattere.
Il
dio chiese pietà, proteggendosi il volto con le mani, ma lei
non lo ascoltò. Lo scettro cadde violentemente contro
Jester,
con una forza esagerata.
Quanto
tempo era che Sakroi aspettava quel momento?
Il
corpo mascherato di lui cadde su un lato, immobile. Il cranio era
stato probabilmente fracassato dall'impatto.
Tremai
inorridito, spaventato da tanta freddezza. Pensai che con Ham lei
avesse usato la stessa mossa, la stessa espressione seria e adirata.
Nessun rimorso.
Per
levarmi quei pensieri dalla testa avanzai, senza ragionare sulle
conseguenze.
Ero
nel corridoio centrale: davanti a me lei e oltre la stanza circolare.
“Sakroi!”
gridai con forza. Lei non si voltò, rimase immobile. Sarebbe
stato inutile, comunque, poiché era cieca. Ciò
che mi
stupì fu il suo volto, puntato verso la propria destra, come
un cane che ha sentito la preda.
Stava
indicando qualcuno, lo stava scrutando. Chiunque fosse si trovava nel
corridoio perpendicolare a quello centrale, la stessa strada che
conduceva a quello occidentale. Se mi fossi affacciato all'incrocio
delle strade l'avrei visto.
Lei
volse tutto il corpo in quella direzione, ignorandomi.
I
suoi capelli lunghi dondolarono un poco accarezzandole le spalle. Non
avevo tempo da perdere, era lei la mia nemica. Dovevo salvare
chiunque si trovasse lì.
Non
mi mossi, però, poiché si scambiarono delle
battute
interessanti. Serpentine e rapide riuscirono a paralizzarmi.
Percepii
in lei qualcosa di nuovo. Era come se possedesse una innaturale calma
acquisita all'improvviso. La rabbia, la furia era tutta stata
incanalata in una direzione completamente diversa.
Non
doveva distrarsi.
Il
dio che non riuscivo a vedere disse: “Sakroi, colei che
difende
strenuamente il Grande Padre. Temeraria come sempre. Perché
non ti fai da parte e mi lasci passare?”. Lo riconobbi.
“Folle.
Prenderò la tua vita come pegno di tutto questo”.
Era stata
fredda, distaccata e decisa.
Impulsivamente
scattai in avanti, avvicinandomi alla dea.
Ora
potevo dire di essere confuso.
Arone
mi sorrise e mi salutò gentilmente, come se la faccenda lo
toccasse appena.
Dentro
la mia testa si creò nuovamente il disordine.
“Ciao,
Ham. Cosa fai da queste parti?”
Cosa
diavolo stava succedendo?
Perché
dentro di me, improvvisamente, una sicurezza venne meno?
“Fatti
da parte archivista. Questa è una faccenda che tu puoi solo
osservare”. Suonò improvvisamente quella piccola
campana che
portava sullo scettro spingendomi di lato. Colui che però
sembrò dover subire la spinta maggiore fu proprio Arone. Il
pavimento davanti a lui si frantumò preannunciando il
movimento d'aria ma il dio non si scostò.
Un
sospiro. Un'onda di colore grigio creò qualcosa di simile a
uno scudo che lo protesse dall'attacco. Alla fine quella tinta
tornò
liquida, accumulandosi ai piedi della divinità e assumendo
un
diverso colorito: rosso, così come tutto il corpo di Arone.
Era
davvero interessante la sua tecnica.
Ammirai
altri attacchi di Sakroi, che lanciava inutili onde utili a
distruggere parte del corridoio, senza neppure sfiorare il dio. Lui
si accarezzava i capelli e sistemava la sua corazza in una maniera
che provocò l'impeto di Sakroi. Benché si
contenesse,
riuscii perfettamente a percepire la furia che il suo spirito stava
liberando.
Prima
che lo scettro vibrasse ancora, però, Arone
schioccò le
sottili dita. Quel grumo gelatinoso di tintura ai suoi piedi, che
fino a quel momento si era limitato a difenderlo, si mosse verso la
dea.
Rapido
come una freccia si schiantò ai piedi di Sakroi, esplodendo
in
una pioggia di goccioline turchesi.
Il
suono della campana, le gocce che si trasformano in proiettili e
schizzano verso di lei da ogni direzione, lo scudo di sola aria che
si espando attorno a lei, difendendola.
Tutto
era veloce: come nella migliore delle esibizioni.
Non
colsi tutti i loro movimenti, ma mi stupii. Due divinità
come
loro non erano solite muoversi durante un combattimento.
Chi
era il mio nemico?
Un
tonfo. Il corpo di Sakroi sbattuto contro una parete.
Scivolò
a terra priva di sensi, ora lui la aveva in pugno. Era pronto a fare
la mossa decisiva, ma mi costrinsi a interromperlo.
“Fermo!”
urlai attirando la sua attenzione.
Fino
a quel momento mi aveva ignorato. Il suo volto si indirizzò
verso di me.
“Ham.
Cosa c'è?”. Mi chiesi se davvero mi aveva posto
quella
domanda.
Con
fare tranquillo abbandonò il suo giocattolo e
iniziò a
passeggiare verso di me.
“Voglio
che tu la lasci stare”.
“Ma
lei mi ha attaccato, hai visto?”
“Tu
hai architettato tutto questo” riuscii a balbettare.
Lui
per rispondermi allungò il proprio braccio verso di me. Sul
suo volto si impresse un ghigno compiaciuto.
“Leggi”. Io obbedii.
Afferrai
il suo polso e mi ritrovai sommerso da pensieri. Non capii
perché
Arone mi avesse aperto così la sua mente, ma successivamente
mi fu chiaro. Leggendo dentro di lui trovai la risposta: il gusto di
sapere. È giusto che tutti sappiano quello che sta
accadendo,
anche se devono morire.
Così
la pensava lui.
Lessi
moltissime cose anche parti che avrei evitato. Il metodo con cui
aveva convinto Raffaella a unirsi a lui era stato spregevole:
poiché
l'aveva ammaliata e illusa. Anche Elian era stata vittima del suo
fascino, ma presto era diventata troppo ribelle per poter essere
controllata completamente.
Lessi
il perché di questa guerra: la quiete.
Lui
era un amante della tranquillità e il pantheon era
un'accozzaglia di volti, ruoli e caratteri che creavano un gran caos.
Lui voleva riportare l'ordine. Certo: aveva anche dei piani di
dominio, ma alla fine credo che avrebbe lasciato il mondo a se stesso
crogiolandosi nel silenzio di un Palazzo ormai deserto. Nei suoi
progetti c'era anche quello di bere il nostro sangue, il sangue di
tutti gli dei per acquisire il potere completo.
L'onnipotenza
che in origine era stata divisa tra noi figli.
Infine
vidi Ham e la sua morte. Colto di sorpresa, all'improvviso.
Era
stato un caso.
La
mia fronte si corrugò quando lo capii e il ghigno di Arone
si
fece più grande.
Ham
era morto per puro caso. Il dio dei colori non aveva in mente una
vittima fissa, desiderava solo il sangue di un dio affinché
incrementasse la sua forza ergendolo sopra gli altri fratelli. Il
primo che aveva incontrato: l'archivista.
E
Sakroi? Lei si era tolta gli occhi, colpevoli di aver visto quella
disgrazia, donandoli al Grande Padre come ingrediente per la mia
creazione. Non era intervenuta perché troppo debole e Arone
ne
era consapevole e contento. La dea non aveva detto a nessuno di
ciò
poiché non aveva prove reali e temeva per la sicurezza di
tutti. Aveva rimuginato a lungo su una possibile vendetta progettando
lo sterminio di tutti i possibili alleati.
Privo
di essi lui non avrebbe mai agito, per quanto forte. Sarebbe rimasto
nel silenzio dei boschi per l'eternità.
Strinsi
la presa attorno al suo braccio ma lui reagì con uno sguardo
provocatorio.
“Cosa
fai, Ham?”
“Tu
mi hai ucciso”
“Tecnicamente
non ho ucciso te: ma colui che c'era prima”. La sua pacatezza
era
irritante. “Ora lasciami. Non voglio ucciderti una seconda
volta”.
Si staccò da me, tornando verso Sakroi.
Io
lo seguii rapido, bloccandogli la strada. “Cosa vorresti
dire?”
“Che
ti lascerò vivere. Sai, non voglio averti sulla coscienza
due
volte, sai? Nessun rancore spero”. Terminò ironico
arruffandomi i capelli. Bloccai la sua mano prima che si allontanasse
e questa volta non ero assolutamente intenzionato a lasciarla.
“Sei
un pazzo”.
“Non
è gentile, Ham. Lasciami adesso” ordinò
seccato.
Io
non risposi quella volta, agii. Con un veloce gesto della mano
sinistra, quella libera, gli lanciai contro un turbine di lame. Era
troppo vicino e con una mano bloccata; io poi ero stato davvero
troppo veloce.
Invece
a un certo punto mi ritrovai ad afferrare il vuoto: lui era scivolato
via. Quando il vortice finì lo vidi ad almeno quattro metri
di
distanza mentre capii che fino a quel momento avevo afferrato della
pittura.
“Non
costringermi, Ham. Non vorrei...”. Non avrei ascoltato una
parola
di più.
Una
nuova raffica, questa volta più vasta affinché
non
potesse neppure scappare.
Mi
facevano male le gambe.
Il
combattimento sembrava aver preso una piega inaspettata.
Arone
riuscì a evitare qualsiasi attacco io avessi mosso contro di
lui. Un portento, un maestro.
Ciò
che mi stupì fu la sua controffensiva. Si muoveva pochissimo
e
le sue dita si limitavano a dondolare indirizzando i fiumi di tempera
contro di me. Non c'era dubbio che si sforzasse al minimo, ma io
dovevo usare tutte le energie che possedevo per evitare i suoi
attacchi.
Simile
al potere di Krost, che però utilizzava solamente il nero e
il
proprio sangue, Arone evocava un liquido denso, capace di cambiare
colore secondo l'ispirazione e la tattica.
Rosso,
se voleva imitare il calore delle fiamme, blu se invece imitava il
potere del ghiaccio. Viola e verde se era sua intenzione avvelenare e
giallo o marrone per la forza della terra.
Getti
multicolori, proiettili e altre manipolazioni mi avevano messo alle
strette.
Alla
fine riuscì a catturarmi.
Quella
strana sostanza divenne una colla capace di bloccare i miei arti. Mi
aveva spinto verso una parete e lì riuscì a
paralizzarmi.
Ero
stanco ma ancora furioso nei confronti di quel nemico.
Lui
si avvicinò a me, sistemandosi la chioma affinché
non
ne coprisse il delicato volto.
Era
tinto di arancione e d'oro. Sembrò una bestia magnifica,
quasi
sacra, che emerge dall'oscurità.
“Non
era mia intenzione ucciderti, sai?”
“Tu
cosa vuoi?”
Lui
sbuffò. “Non hai letto dentro di me? Voglio
annientare
questo caos, riportare un po' di ordine. Il Grande Padre mi
darà
una mano. Uccidendolo acquisirò un potere tale da poter
controllare ogni cosa”.
“Arone,
sei il cattivo più banale che conosco”.
“Quanti
ne hai conosciuti, Ham?”
“Abbastanza”.
“Ma
non scherzare. Sei l'archivista, tu non esci dal tuo studio per nulla
al mondo”.
“Appunto.
Quante cose credi che io abbia visto dal mio studio?”
La
mia voce acquisì un tono strano.
“Non
importa” sospirò. “Adesso ti
ucciderò, va bene?”
“No
che non va bene!” esclamai contrariato. Se solo avessi
posseduto
una forza maggiore sarei riuscito a distruggere quei legacci che mi
incatenavano al muro. Lui però mi ignorò.
Arrivò
fino a me e posò una mano sul mio petto.
“Sai:
hai proprio ragione. Tu mi puoi essere davvero utile”. Non
riuscii
a intendere le sue parole.
In
ogni modo non mi sarei mai schierato dalla sua parte. “Per
questo
motivo farò una cosa speciale, una che ho imparato dal
vecchio
Ham”.
Provai
a ricordare ciò che avevo scoperto dentro di lui. Aveva
forse
acquisito il potere di leggere le cose? No, impossibile. Forse
però
aveva affinato una cosa simile.
“Non
ho tempo per spiegare” commentò afferrandomi il
volto. Così
lo lessi.
Non
avevo bisogno delle mani per farlo, non obbligatoriamente. Dal suo
palmo raccolsi le informazioni utili.
Avrebbe
usato qualcosa di simile alla magia di Raffaella, assorbendo la mia
anima e portando con sé le informazioni che racchiudo, come
Elian nel momento della sua morte. Per dirla nella sua maniera:
avrebbe assorbito i colori della mia anima sommandoli ai suoi. Sarei
stato annientato.
Nessuno
spargimento di sangue, solo la mia anima che viene divorata.
“Buon
addio!” salutò ironico prima di mettere in atto
quell'incantesimo.
Posò
entrambi i palmi su di me ed essi si illuminarono.
Divenne
tutto buio per un solo attimo.
I
rumori si ovattarono. Il mio corpo scivolò dalla parete,
impattando il suolo sotto di sé.
Le
cose si facevano distanti, senza che io potessi raggiungerle.
Intanto
Arone sistemava Sakroi, che era inerme al suolo. Si era appena
svegliata ma non riuscì a rialzarsi poiché una
pioggia
di giavellotti scuri martoriò il suo corpo.
Lo
maledì e morì.
Silenzio.
Arone
andò alla sala circolate ed essa si aprì.
Perché
il Grande Padre lo ha permesso?
Devo
sopravvivere, provai a dirmi, ma perfino i miei pensieri erano
distanti. Non riconoscevo il luogo, né la mia direzione.
Infine
mi svegliai. Il chiaro dei corridoi mi accecò la vista per
un
istante.
In
quell'incantesimo qualcosa doveva aver fallito.
Ero
confuso, ogni rumore riecheggiava nelle mie orecchie con incredibile
forza. Aiutandomi con le mani mi rialzai.
Ancora
non capivo cosa fosse successo. Eppure era perfetta quella magia, ma
mia anima doveva essere stata divorata. Un paio di passi verso di
lui.
Arone
si voltò disturbato dal suono dei passi. Quando si accorse
della mia figura, così vicina, sul suo volto apparve lo
stupore. Mi piacque quell'espressione così sincera e
naturale,
potente e rapida che tinse il viso del dio. Quell'incantesimo lo
aveva stancato tantissimo, eppure lui qualcosa aveva divorato.
Se
ne sarebbe accorto altrimenti.
Se
non era stata la mia anima a essere assorbita, quale era stata?
Infine capii. Uno scherzo ingegnoso, dissi dentro di me. Ormai non
c'era più nessuno ad ascoltarmi. La burattinaia era
scivolata
via, illudendo il mio avversario.
Il
resto accadde in una manciata di secondi.
Bestemmiò
allungando le mani verso di me. Io feci lo stesso.
Era
troppo lento però e io avevo capito troppe cose. Il mio
potere
si era alimentato di informazioni.
Tutte
le cose apprese in quell'ultimo giorno andarono a potenziare il mio
attacco.
Non
lanciai nessuna raffica sparsa ma un colpo ben preciso.
Un
turbinio di fogli affilati si concentrò davanti a lui,
attorno
alle sue braccia. Un attimo dopo lo sentii urlare. Non appena i fogli
svanirono vidi l'esito del mio colpo. Una mutilazione crudele,
partorita dalla rabbia e da uno spirito vendicativo.
I
suoi arti caddero a terra.
Un
altro attimo e un secondo turbinio ne avvolse il viso.
La
sua testa scivolò via, mettendo fine a quelle urla
fastidiose.
Mi
dissi che era finita, ma sapevo che non era così.
Mi
lasciai andare. Sofferenza e lacrime, stanchezza e sonno mi avrebbero
accompagnato.
Nel
sonno capii molte cose.
Il
Grande Padre era morto. Come Kinsis, si era mutato in energia e
spostato all'interno di un oggetto. Il suo potere era diminuito nel
tempo. Il fatto stesso di aver scoperto la formula per creare un dio
aveva rubato le sue forze vitali.
Lui
non era il Servallo, almeno non quello che avevamo immaginato. Era
stato un caso, l'unione fortuita di due forze, che aveva generato il
primo ibrido. A metà tra uomo e demone.
Aveva
avuto dei sogni come tutti, ma era troppo vecchio. Abra Herlif.
Un
nome così umano per una creatura cui avevamo votato la
nostra
vita. In fondo era nostro padre.
Quella
volta rimasi da solo nella cripta, senza più nessuno a
consolarmi, all'interno della mia testa.
La
guerra era stata vinta. Il nemico era stato battuto. Un motivo
così
stupido e folle aveva innescato tutto ciò, consumandosi in
brevissimo tempo.
Ma
a che prezzo?
|
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Capitolo 27 *** In memoria dei morti ***
Act.3
– L'epilogo degli Intoccabili
“Ma
se voi ci pensate bene: tutto ciò non ha senso.
Perché
allora sono morti i miei fratelli?”
Capitolo
27 – In memoria dei morti
Quel
giorno mi risvegliò Chube.
Mi
accompagnò, forzandomi, da tutti i cadaveri. Secondo lei era
giusto che io acquistassi le loro memorie prima che fosse tardi per
farlo. Io mi ribellai per la stanchezza, ma sapevo che aveva ragione.
Finito
quel lavoro dormii per quattro giorni.
Avevo
bisogno di mettere in ordine tutto ciò che sapevo, abituarmi
a
quella nuova condizione.
Avevo
accumulato una conoscenza così vasta che mi sentivo diverso,
cambiato. Molto più potente e forte, molto più
simile a
Ham.
In
cinque erano sopravvissuti; solo in cinque: Katyana, Manius, Maonis,
Chube e me.
Con
rispetto e addolorati bruciammo tutti quei corpi. Nessuna tomba per
un dio, solo cenere che viaggia nel cielo verso una terra distante.
Ci sembrò la cosa più giusta.
Ci
riunimmo un'ultima volta nella grande stanza dove si era tenuto il
consiglio. Manius sorrise vedendola priva di tetto, Katyana la
rimproverò. Insieme a noi c'era anche Niel e Nima. Ormai
quello non era più un luogo sacro. Non aveva senso
riservarlo
a un pantheon che aveva smesso di esistere.
Discutemmo
a lungo su cosa sarebbe dovuto accadere.
Ormai
non aveva neppure senso rimanere delle divinità.
Alla
fine trovammo un accordo. Gli dei avrebbero smesso di esistere.
Nessuno di noi si sarebbe più professato come tale. Gli
esseri
umani, mutevoli, ci avrebbero presto dimenticato.
Ci
saremmo divisi, mascherandoci in quel mondo così vasto e
prendendo strade differenti.
“Ci
rivedremo fra cento anni nelle rovine di Knossa” esordii
prima
della fine dell'incontro.
“E
cosa ci diremo?” soffiò Manius sarcastica.
“Insomma, se ci
dimettiamo da divinità non dobbiamo più
interessarci a
questo mondo, no?”
“No”.
Rispose Chube tranquilla, mentre posava la sua tazza fumante di
tè.
“Noi abbiamo ancora molte responsabilità. Fino a
che sarò
in vita voglio badare a questo mondo”.
“Allora
perché smettiamo si essere divinità? Non
è la
stessa cosa?” sbottò la dea delle passioni.
Maonis
saltò sul tavolo per attirare l'attenzione di tutti.
“Io non
ho il coraggio di professarmi dio dopo tutto questo; inoltre se
rimaniamo anonimi possiamo agire meglio”. Io rimasi in
silenzio.
Non capivo granché i loro pensieri.
“Un
gatto che parla non sarà mai anonimo” intervenne
Niel
attirando su si sé l'ira di un felino infuocato. Maonis
lanciò
un'occhiata irritata, l'altro sembrò spaventarsi.
“Non
importa ciò che faremo” sospirai.
“Riunirci servirà
per rivederci, salutarci, sapere cosa abbiamo fatto in questo lungo
periodo”. La mia affermazione sembrò mettere tutti
d'accordo.
Annuirono.
“Ham”
iniziò Katyana, rimasta in silenzio per l'intera seduta.
“Tu
devi fare attenzione. Hai un onere da portare, qualcosa che noi non
possiamo capire. Possiedi tutti i nostri fratelli, o almeno le loro
memorie dentro di te. Non dico di parlare di loro alle genti ma solo
di sopravvivere”.
Abbassai
lo sguardo. Quanta gente me lo aveva detto negli ultimi tempi?
“Sopravvivi
per tutti loro”.
La
seduta si sciolse.
Ce
ne andammo, lasciando che il Palazzo crollasse privo ormai di
energia. Scivolò verso il suolo, inabissandosi al largo
delle
coste occidentali.
Noi
ci lasciammo.
Cento
anni sono tanti, anche per me. Non c'è stato dio morto di
vecchiaia, dunque saremmo giunti a quell'età senza
preoccupazioni, ma avrei dovuto trovare qualcosa da fare.
Niel
rimase con me e la sacerdotessa pure.
Prima
di partire per un ultimo viaggio compii un rituale che era apparso
nella mia mente. Non posso dire con certezza chi era stato a
insegnarmelo ma posso sospettare Miun o il Grande Padre. Ci dirigemmo
sulle montagne di Quera, in una grotta accogliente e sicura.
Una
formula, un sigillo e il nostro sangue.
Così
anche lei sarebbe riuscita a superare cento anni senza invecchiare.
La lasciammo al suo villaggio, così che narrasse dell'ultima
rovinosa guerra che aveva ucciso tutti gli dei. Sarebbe stata
abbastanza abile da non far scatenare il panico, inventandosi
qualcosa di convincente. Da lì la notizia si sarebbe
espansa,
giungendo ovunque nel continente.
Voci
diverse, versioni contrastanti avrebbero fatto cadere il Palazzo e i
suoi abitanti nell'oblio.
Io
e il ragazzo partimmo. Io ora volevo solo mettermi in pari con il
lavoro arretrato.
Cento
anni sarebbero bastati per scrivere tutto ciò che avevo
appreso?
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Così
termina.
Deludente,
ve?
Comunque
ci metterò nuovamente le mani sopra per sistemarlo in alcuni
punti. Devo rattopparlo.
Credo
che tornerò su questa storia tra un mese, o forse due,
così
che sia più facile evidenziare oggettivamente gli
strafalcioni.
Ringrazio
Kanako91,
che ha seguito questa storia fedelmente aiutandomi con il proprio
betaggio spietato. .
Ayame,
che si è fermata al capitolo 3 (?), ma noi la apprezziamo
comunque X°D.
J.J.Blanche87,
che ha aggiunto la storia tra le seguite.
Manny,
che mi ha ispirato un personaggio e mi ha sopportato nei miei scleri.
Sakuraenn,
che ancora deve arrivare alla fine ma ce la farà xD
Writer92,
che non ha letto la storia ma mi ha aiutato durante un blocco per la
parte finale.
Targul,
che l'ha aggiunta tra le preferite, e mi auguro anche letta xD
Inoltre
ringrazio tutti coloro che hanno letto, provato a leggere o
semplicemente aperto questa storia. Che vi sia piaciuta o meno vi
ringrazio perché arrivare alla fine è stata per
me una
cosa impegnativa.
Non
posso fare a meno di ringraziare Katy che l'ha letta anche senza
essere membra di questo sito e che mi ha minacciato se facevo morire
i suoi personaggi preferiti (oltre che insinuare che Lorissy
è
gay ùwù).
Un
saluto a tutti coloro che, nel bene o nel male, mi hanno ispirato per
questa accozzaglia di parole che dovrebbero avere un senso.
Se
volete aggiornamenti, commentare o farmi una visita mi trovate nel
mio blog, oppure cliccando sul mio nome sui su Efp
ùOù
Bye
bye.
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